L'estetica musicale del Novecento. Tendenze e problemi 8843039431, 9788843039432

È necessario parlare della musica oppure è sufficiente suonarla o ascoltarla? Il volume cerca di rispondere a questa dom

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L'estetica musicale del Novecento. Tendenze e problemi
 8843039431, 9788843039432

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STUDI SUPERIORI

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IL PENSIERO MUSICALE

Serie diretta da Fabrizio Della Seta

I lettori che desiderano informazioni sui volumi pubblicati dalla casa editrice possono rivolgersi direttamente a: Carocci editore Corso Vittorio Emanuele II, 229 00186 Roma, telefono 06 l 42 81 84 17, fax 06 l 42 74 79 31

Visitateci sul nostro sito Internet: http://www.carocci.it

Michela Garda

L'estetica musicale del Novecento Tendenze e problemi

Carocci editore

Questo volume fa parte della serie "Il pensiero musicale" diretta da Fabrizio Della Seta. Volumi usciti: Fabrizio Della Seta, Beethoven: Sinfonia Eroica. Una guida Stefano La Via, Poesia per musica e musica per poesia: dai trovatori a Paolo Conte Giorgio Pagannone, W A. Mozart: concerto per pianoforte e orchestra K 491 in Do minore Nella stessa serie sono in preparazione: Angela Ida De Benedictis, Musica e tecnica: produzione e riproduzione del suono nel xx secolo Massimiliano Locanto, l Stravinskij: La sagra della primavera. Una guida Cecilia Panti, La filosofia della musica nel Medioevo e nell'Umanesimo Paolo Russo, H. Berlioz: Symphonie Fantastique. Una guida Gloria Staffieri, L 'opera italiana. Una guida

l a ristampa, dicembre 2014 l a edizione, giugno 2007 ©copyright

2007 by Carocci editore S.p.A.,

ISBN

Roma

978-88-430-3943-2

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

Introduzione

9

r.

Musica e linguaggio

13

r.r.

I .2 . I .3 . I .4. I .5 .

Il linguaggio musicale: metafora o equivalenza? Modelli antagonisti Somiglianze, differenze, asimmetrie Filosofie del simbolo, semiologia e semiotica Musica e trascendimento del linguaggio

13 15 20 26 40

2.

Senso e significato nella musica

45

2.I. 2 .2 . 2.3. 2 .4. 2 .5 . 2 .6. 2 .7 .

Tra senso e non senso lneffabilità, trascendenza, allegoria Dialettica del senso Senso, forma, sentimento Musica e mondo: topoi, gesti, tropi Pratiche, ideologie, decostruzioni Coda

45 52 66 68 76 78 84



L'opera d'arte musicale

87

3·I . 3 .2 . 3·3·

Pratiche musicali e teorie estetiche L'opera d'arte tra fenomenologia e d ermeneutica Dall' ontologia dell'opera d'arte alla teoria e alla storia della ricezione

87 92

7

94

97

3 . 8. 3·9·

Questioni di antologia Il concetto di "opera " nel canone disciplinare musicologico La fedeltà all'autore L'opera, il testo tra fedeltà e conflitto delle interpret azioni L'opera tra arte e antiarte Coda



La musica e il tempo

129

4·!. 4.2. 4·3· 4·4·

Tempo e temporalità Tropi della caducità L'ordine del tempo La musica, laboratorio speculativo per l'indagine filosofica sulla temporalità La sconfitta del tempo Il tempo e il dominio: utopie del superamento Multiversum musicale

129 133 1 36

Riferimenti bibliografici

157

Indice dei nomi

179

3·4· 3·5· 3 .6. 3·7·

4·5· 4.6. 4·7·

8

1 05 1 07 1 15 121 126

139 1 45 15 1 153

Introduzione

Nel corso del xx secolo il discorso sulla musica si è notevolmente ampliato: la presenza della musicologia nelle università italiane, euro­ pee e statunitensi è aumentata e si è consolidata in maniera sorpren­ dente, la teoria musicale e l'etnomusicologia hanno sollevato nuovi problemi e riflessioni; mentre la musicologia storica e la filologia mu­ sicale hanno perso il ruolo centrale all'interno della disciplina e la teoria musicale si è emancipata in misura via via maggiore dal ruolo di introduzione e tecnica della composizione per affrontare problemi di carattere più generale. In questa trasformazione la musicologia ha elaborato un confronto produttivo con molte tendenze filosofiche (la fenomenologia, l'ermeneutica, il marxismo, la dialettica negativa, il decostruzionismo e il poststrutturalismo) e con discipline specifiche come la linguistica, la semiotica e la semiologia, la teoria dell'informa­ zione. I compositori stessi, soprattutto nella seconda metà del secolo scorso, hanno alimentato la discussione e la riformulazione del di­ scorso intorno alla musica con riflessioni di poetica estremamente in­ cisive. Una rassegna di pensieri sulla musica formulati nel Novecento sarebbe dunque impossibile per mole, ma soprattutto insensata per­ ché risulterebbe staccata dal fulcro della discussione e dai problemi tecnici specifici che vengono sollevati. N el profilo della musicologia sistematica, disegnato da Guido Adler alla fine dell'Ottocento e ride­ finito nella seconda metà del Novecento da Albert Welleck e da Carl Dahlhaus, l'estetica musicale risulta una branca della musicologia si­ stematica. Questa concezione coglie la collocazione topografico-disci­ plinare ideale, ma oggi risulta necessario ridefinirne i confini e i com­ piti in maniera più fluida e sfumata. Innanzi tutto l'estetica musicale rappresenta una forma di discorso sulla musica. Come in tutte le arti, infatti, anche per la musica la di­ mensione verbale è ineludibile, in quanto essa rappresenta il medium universale in cui si articola, in una forma intersoggettiva e comunica­ bile, la riflessione, sia essa pensata come una riflessione metalingui9

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

stica oppure ermeneutica, culturale, storica. È inevitabile usare le pa­ role per parlare di musica. Non per questo il discorso sulla musica è estraneo a essa, superfluo o irrilevante. Esso rappresenta piuttosto il legame che la musica intrattiene con la sfera della cultura in senso ampio. Questo ambito è qualcosa di più del semplice contesto in cui si colloca l'opera d'arte musicale, che si può mettere tra parentesi in un'analisi musicale immanente. Il discorso sulla musica dice che cosa significa quest'arte per chi la compone, per chi la esegue e per chi l'ascolta in un orizzonte storico determinato. Questo discorso è sem­ pre un discorso sul senso, anche quando è attivato per dire che que­ sto senso non esiste al di fuori della concreta articolazione dell'opera musicale, come nella posizione sostenuta da tutta una corrente cosid­ detta formalista che fa capo ad Hanslick e che sfocia in diverse posi­ zioni dello strutturalismo musicale. Come spero risulterà chiaro dalla trattazione che segue, l'estetica musicale illustra i discorsi sulla musica sulla base di competenze tec­ niche storicamente organizzate. Questi discorsi si articolano in testi di tipologie differenti (saggi musicologici, testi filosofici, manifesti di poetica, sistemi di teoria musicale, trattati di composizione) che sono in dialogo con orizzonti filosofici (Borio, 2 005 ) e con indagini disci­ plinari specifiche, come - per fare solo alcuni esempi - la linguistica, l'antropologia, i cultura! studies. In questo senso l'estetica musicale si presenta come l'indagine di una rete discorsiva i cui nodi mettono in relazione campi diversi. Anche la filosofia della musica è un interlocu­ tore dell'estetica musicale, ma non un suo sinonimo più blasonato. L'oggetto è lo stesso, ma le prospettive sono sensibilmente diverse perché si parte da differenti punti di vista: la filosofia della musica scaturisce da riflessioni filosofiche generali e cerca di definire la musi­ ca in quanto oggetto particolarmente rilevante per le sue tesi; l'esteti­ ca musicale prende le mosse, invece, dal parlare della musica e sulla musica per proseguire verso un'analisi delle ragioni e delle passioni di questi discorsi al loro interno e rispetto alle loro posizioni nel sistema più vasto della cultura. Anche in questa prospettiva dare conto dell'estetica musicale del Novecento sarebbe un compito enorme, che travalicherebbe il senso di questo volumetto, il quale si prefigge il compito più modesto di un'introduzione ai temi, alle prospettive e alle discussioni principali del secolo scorso. Per questo si è scelto di isolare quattro punti pro­ spettici, abbastanza ampi da formare dei campi concettuali, intorno a cui si irraggiano discussioni rilevanti e punti di snodo semantico. I quattro campi (linguaggio, senso, opera, tempo) coincidono con temi classici dell'estetica musicale che nel Novecento hanno coagulato l'inIO

INTRODUZIONE

teresse di rappresentanti di posizioni filosofiche e di esperienze com­ positive ed estetiche molto differenti. L'ordine dell'esposizione tiene conto dei legami di parentela tra i campi presi in esame. I primi due campi - "linguaggio, e "senso e significato , - sono strettamente lega­ ti, come lo sono " opera , e "tempo , . Nella prima coppia il primo ter­ mine illustra i tentativi di descrivere la musica in termini di linguag­ gio, ovvero si concentra sul "significante , , lasciando opaco il proces­ so di significazione; il secondo sposta l'accento sul problema della si­ gnificazione; " opera , e " tempo , si aprono su due orizzonti diversi, che definirei come il tempo interno e quello esterno, ovvero storico, dell'opera. La controversa categoria di " opera d'arte musicale, , inol­ tre, costituisce una sorta di fulcro intorno al quale ruotano le altre ricognizioni. A parte gli occasionali richiami alla varietà e molteplicità delle culture musicali, questo libro verte intorno a problemi e discus­ sioni che riguardano la tradizione musicale occidentale colta alla qua­ le l'estetica musicale, almeno fino a oggi, è indissolubilmente legata. Se si concede questo paragone, finora l'estetica musicale è stata domi­ nata da soggetti parlanti una sola lingua musicale. L'apertura dell'o­ rizzonte estetico alla molteplicità delle " culture, musicali sarà un compito ineludibile per una musicologia che in questo secolo, a diffe­ renza dei casi isolati del secolo precedente (del quale si tratta in que­ sto libro) , parla correntemente più lingue verbali e soprattutto musi­ cali. Molti lettori lamenteranno la mancanza di una collocazione stori­ ca della materia. La scelta di mettere in primo piano i problemi e le argomentazioni rispetto all'offrire un panorama storico è stata dettata dalla disponibilità di ogni forma di ausilio (dai dizionari musicali, fi­ losofici ecc. a Internet) . Chi legge può in brevissimo tempo e con poca fatica ottenere molte più informazioni di quante se ne potrebbe­ ro fornire qui in breve e a detrimento della semplicità dell' esposizio­ ne. Neppure si è voluto dare spazio a tutte le voci: l'esaustività sa­ rebbe andata a scapito della perspicuità. L'intento di questo libro, in­ fatti, è di mostrare alcuni percorsi e connessioni suggeriti da singole questioni e problemi e non di costituire una sintesi enciclopedica. I temi trattati in questo libro sono stati oggetto di svariati corsi e se­ minari tenuti negli ultimi quattro anni presso la facoltà di Musicolo­ gia dell'Università di Pavia con sede in Cremona. Le domande e le perplessità degli studenti sono state il punto di partenza per molte delle riflessioni in esso contenute. La stesura di questo volume è stata possibile grazie alla splendida biblioteca e alla pace meditativa del Music Departement della Princeton University, presso il quale sono II

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

stata accolta come visiting /ellow nel semestre estivo del 2006. Desi­ dero ringraziare in particolare Fabrizio Della Seta per aver sostenuto questo progetto, Scott Burnham per la sua accoglienza a Princeton e Harry Powers al quale va un riconoscente ricordo; gli amici Gianma­ rio Borio, Serena Facci, Michele Girardi, Stefano La Via e Michal Grover-Friedlander per i suggerimenti, gli stimoli e le correzioni; Al­ bino Consoli e Annalisa Ferretti per il sostegno della loro cordiale amicizia; Edoardo per aver reso possibile il nostro soggiorno america­ no; Alessandro e Dora per aver sopportato con pazienza e compren­ sione le mie assenze in questi anni. Questa piccola fatica è dedicata alla memoria di mio padre.

Il terzo capitolo riprende e amplia due articoli da me pubblicati in precedenza: Fedeltà all'opera e conflitto delle interpretazioni in Musica e interpretazione. Soggettività e conoscenza nell'esecuzione musicale a cura di Luigi Attademo, Trauben, Torino 2002 , pp. 45 -57 e L'opera d'arte musicale nel Novecento, in Storia dei concetti musicali, a cura di Gianmario Borio e Carlo Gentili, Carocci, Roma 2 007 , n, pp. 2 95 - 3 1 6 . I l quarto capitolo consiste a sua volta in una rielaborazione d i u n saggio già pubblicato nel primo volume della stessa opera: Teorie del tempo musicale nella modernità, pp. 32 1 -42 .

12

I

Musica

e

linguaggio

I. I

Il linguaggio musicale: metafora o equivalenza? Quando si parla di musica è difficile evitare di paragonarla implicita­ mente o esplicitamente al linguaggio. Questo paragone, di solito , im­ plica due presupposti: la musica esprime qualcosa che noi compren­ diamo e che supponiamo anche altri comprendano. Descrivere la mu­ sica come un linguaggio è una metafora di cui è difficile fare a meno: fa parte della nostra vita quotidiana e lo stesso discorso musicologico sarebbe impensabile senza di essa (Lakoff, Johnson, 1 982 ) . Sebbene negli ultimi decenni il legame tra musica e immagine sia forse assai più pervasivo di quanto non sia il legame tra musica e parola, non è ancora stata sviluppata in maniera sistematica una teoria del rapporto tra questi due ambiti della comunicazione e dell'espressione artistica. Nel Novecento, invece, il confronto tra musica e linguaggio è balzato in primo piano in parallelo alla centralità dello studio del linguaggio nelle altre discipline, dalla filosofia alla linguistica, alla semiologia e all'antropologia. La questione intorno alla natura linguistica della mu­ sica ha una lunga tradizione alle spalle. Fin dal Medioevo la parola cantata ha suggerito l'analogia tra musica e poesia; la grammatica e la retorica hanno offerto, dal canto loro, una terminologia e un sistema flessibile in grado di descrivere le parti, le forme e gli usi del linguag­ gio verbale che è facilmente traslabile alla musica adattata alla poesia (Bielitz , 1 977; Powers, 1 980, pp. 48-5 1 ; Harran, 1 986) . L'efficacia dell'impiego di categorie grammaticali per descrivere e analizzare la musica è stata riconosciuta soprattutto nel Settecento, ovvero in una fase della storia della musica in cui la musica strumentale si è emanci­ pata dalla musica vocale, ereditandone però la struttura significativa grazie all'analogia strutturale con la lingua. La lunga familiarità con la parola cantata ha - per così dire - lasciato in eredità la disposizione 13

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

alla significazione, testimoniata da un'analoga articolazione tra i due mezzi espressivi. Molti compositori e teorici musicali settecenteschi (da Mattheson, 1 954, a Koch, 1 969) hanno descritto e fornito una "teoria " della musica proprio in base all'analogia con il linguaggio: essa sarebbe un " discorso sonoro" ( Tonrede, Klangrede) articolato come il discorso verbale e come questo segmentato in semifrasi, frasi e periodi. La descrizione della musica in termini grammaticali e retorici ha fornito nel Settecento una forma di concettualizzazione dell'analogia tra musica e linguaggio, frutto di un divenire storico; molto spesso, tuttavia, il problema è stato affrontato secondo una prospettiva " filo­ genetica " , ossia riportando la questione circa le differenze tra musica e linguaggio verbale, inteso soprattutto come linguaggio poetico, a quella dell'origine di quest'ultimo: musica e poesia risultano così frut­ to di una separazione traumatica, di una sorta di catastrofe individua­ t a, di volta in volta, nell'oblio dell'originaria unione di musica, parola e danza nella cultura greca (un re/rain ostinato in tutta la musica­ grafia sette-ottocentesca) , oppure in una progressiva separazione e raffreddamento di un'unità originaria di parola e musica intensamen­ te espressiva e idiolettica (Rousseau, 1989; su questo argomento cfr. Thomas, 1 995 e Zimmermann, 1995 ) . Una prospettiva analoga so­ pravvive nel Novecento nella riflessione di Thrasybulos Georgiades, le cui osservazioni fenomenologiche e storiche su differenze e affinità tra musica e linguaggio partono dalla constatazione di un momento di frattura che ha comportato una drammatica perdita. L'unità tra parola, musica e gesto propria della mousikè greca custodiva la con­ sanguineità di significante e significato caratteristici della cultura gre­ ca. «Il greco», scrive Georgiades, «doveva aver l'impressione che non fosse l'uomo a nominare le cose, ma che fossero sostanzialmente le cose stesse a manifestarsi nel loro suono» (Georgiades, 1 95 8 , pp. 42 -5 , in particolare p. 42 ) . La musica occidentale nascerebbe - nella prospettiva di Georgiades - dalla frattura incolmabile tra significato e significante, dalla scoperta dell'ulteriorità del significato che si mani­ festa ben presto all'interno della cultura greca postomerica. Quando, negli anni sessanta del Novecento , lo strutturalismo co­ minciò a diffondersi in tutte le discipline, l'idea di poter indagare scientificamente la natura linguistica della musica apparve un campo di indagini fertilissimo e nuovo. Certo i sostenitori di questo pro­ getto - da Lévi-Strauss in poi - non erano del tutto consapevoli che l'evidenza da dimostrare (ossia il carattere linguistico della musica) in primo luogo vantava una tradizione ininterrotta (da Koch a Rie­ mann, per indicare soltanto la tradizione moderna) di " traslazione"

I.

MlJSICA E LINGlJAGGIO

di termini e concetti grammaticali (semifrase, frase, periodo) in am­ bito musicale; in secondo luogo, la musica che prendevano in esa­ me, quella della tradizione classica occidentale, si era formata in simbiosi con la parola poetica e questo rapporto di consanguineità con il linguaggio l'aveva marcata e predisposta a una significazione di tipo paralinguistico. Tuttavia questo progetto si proponeva di in­ dagare un livello strutturale più profondo rispetto a quello della grammatica e della sintassi. Per questo il suggerimento iniziale di Lévi-Strauss, che aveva paragonato la struttura del linguaggio musi­ cale alla struttura del mito (Lévi-Strauss, 1990 ) , si sviluppò nei ten­ tativi di creare una semiologia della musica e una semiotica della musica, come parti speciali della semiologia e della semiotica gene­ rali, e nelle grammatiche generative del discorso musicale di deriva­ zione chomskiana.

1. 2

Modelli antagonisti Nel Novecento il rapporto tra la musica e il linguaggio è stato ana­ lizzato da prospettive diverse, anche se in maniera meno sistematica e da parte di comunità di studiosi meno compatte e coese (anche dal punto di vista istituzionale) di quanto è accaduto in ambito semiolo­ gico e semiotico. Abbiamo detto che paragonare la musica al linguag­ gio verbale è una metafora attraverso la quale si cerca di spiegare perché, quando si ascolta una musica, la si vuole "comprendere" e si presuppone che anche altri la comprendano. Nella cultura occidenta­ le, infatti, la musica è diventata anche un mezzo per esprimere un "pensiero" o un"'idea" . In effetti, il bisogno di descrivere la musica in termini di linguaggio si radica nell'idea di musica autonoma, eman­ cipata dalla parola poetica. Dire che la musica è una sorta di linguag­ gio, in senso metaforico, significa appellarsi a una sorta di " parente­ la " tra la musica e il linguaggio che comporta una serie di tratti ana­ loghi, ma anche inevitabili differenze. Prima di addentrarci in una "mappatura" delle analogie e differenze riconosciute nel Novecento, è opportuno individuare a quali diversi livelli e secondo quali opzioni è stata analizzata questa parentela. Qui di seguito ne individueremo quattro. La più diffusa e la più vetusta formulazione dell'analogia tra mu­ sica e linguaggio è quella che definisce la musica come il linguaggio universale delle emozioni. Questo topos, che si può far risalire a De­ scartes e a Mersenne (Campa, 200 1, p. 2oo), conobbe nel Settecento

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

alcune varianti. La più importante è quella che si ritrova in Du Bos e in Rousseau, secondo i quali la musica è segno «naturale delle passio­ ni» (Du Bos, I 990, p. I 3 6; cfr. anche Rousseau, I 989, pp. 87 e 90) , mentre il linguaggio è segno " arbitrario " , ossia convenzionale. La mu­ sica sarebbe dunque in grado di comunicare universalmente e imme­ diatamente le emozioni umane, in quanto segno naturale, ossia dotata di qualche grado di somiglianza con le emozioni che la suscitano (per esempio è simile all'intonazione della voce affetta da un'emozione) oppure in quanto segno impresso da un'emozione; usando l'attuale terminologia semiotica si potrebbe dire che la musica comprende sol­ tanto "segni iconici" o "indici " , ovvero "segni motivati" per usare un termine di Barthes. Nel topos della musica come linguaggio universale delle emozioni, la metafora linguistica insiste soprattutto sulla comu­ nicabilità delle espressioni, ma esclude ogni corrispondenza tra musi­ ca e linguaggio verbale di tipo referenziale o discorsivo. Al di fuori della teoria del segno naturale il topos sopravvive in Hegel, il quale sostiene che la musica è in grado di dare espressione a tutti i "senti­ menti particolari" in tutte le loro sfumature (Hegel, I 97 2, p. I 007 ) . A ricordare la storicità di questo topos è intervenuto Nietzsche in un memorabile aforisma: in sé e per sé la musica non è così piena di significati per la nostra interiori­ tà, né così profondamente eccitante, da poter essere considerata come il lin­ guaggio immediato del sentimento; ma la sua antichissima unione con la poe­ sia ha messo tanto simbolismo nel movimento ritmico, nella forza e nella de­ bolezza della tonalità, che noi adesso immaginiamo che essa parli direttamen­ te all'interiorità e provenga dall'interiorità (Nietzsche, 1965, pp. 147-8) .

Infine questo topos riecheggia nell'ultimo decennio del secolo scorso come ovvietà del linguaggio ordinario che richiede un' argomentazio­ ne filosofica, per esempio, in Peter Kivy e, con qualche differenza, in Roger Scruton (Kivy, I 98o; Scruton, I 997 , pp. I 7 I -2 I o) . Nel Novecento - come si è anticipato nel PAR. r. I - il problema della somiglianza tra musica e linguaggio è stato affrontato soprattut­ to nell'ambito della classificazione e dell'analisi dei sistemi simbolici e lo sforzo analitico e concettuale è stato particolarmente imponente nei tentativi di descrivere la musica come sistema di segni: è il caso della semiologia musicale (Ruwet, I 975 , I 983 ; Nattiez, I 975 , I 978, I 99oa, per citare soltanto i pionieri di questa impresa) , della semioti­ ca musicale (Lidov, I 999, 2005 ; Monelle, I 992 ; Tarasti, I 994) , delle grammatiche generative (Lerdahl, J ackendoff, I 983 e, per certi rispet­ ti, Baroni, Dalmonte, J acoboni, I 999) e dei sistemi simbolici descritti I6

I.

MlJSICA E LINGlJAGGIO

da Goodman ( r 998 ) . Questo tipo di analisi ha in parte derubricato a discipline specifiche alcuni temi tradizionali dell'estetica e della filoso­ fia, sollevando così resistenze e discussioni nell'ambito tanto della musicologia quanto dell'etnomusicologia, soprattutto a causa della pretesa di far valere anche nella ricerca musicologia e nella riflessione estetica criteri di carattere scientifico. Nell'estetica musicale tedesca in particolare, la relazione tra musi­ ca e linguaggio è stata affrontata da un punto di vista differente ri­ spetto a quello della tradizione semiotica in senso ampio e a quello della filosofia delle forme simboliche; suono musicale e parola sono stati interpretati, infatti, come due forme autonome e differenti di ar­ ticolazione del pensiero umano. Gli studiosi che affrontano il proble­ ma da questo punto di vista sono eredi della tradizione ottocentesca, meno interessata (almeno nell'ambito dell'estetica musicale) al proble­ ma dell'origine del linguaggio e della natura del segno, ma impegnata a difendere la musica sinfonica e cameristica, ossia la cosiddetta musi­ ca assoluta, come espressione eminente dell'arte e del pensiero umano (Dahlhaus, r 988; sulla concezione del carattere linguistico e della lo­ gica musicale nell'Ottocento, cfr. Dahlhaus, 1 984, pp. 3 03 - r r ) . Ben­ ché uscite dalla penna di un convinto antiromantico, le lezioni di estetica hegeliane rappresentano un precedente importante. Secondo questo filosofo, musica e linguaggio verbale presentano almeno una caratteristica comune in quanto sono entrambe manifestazioni sonore; ma nella musica il suono è fondamentale, nella parola è secondario: è il mero supporto di un segno (Hegel, 1 97 2 , p. r oo2 ) . Per questo la musica è aggettivazione dell'interiorità, in quanto espressione dei sen­ timenti dell'animo, ma non raggiunge lo stesso grado di aggettivazio­ ne dello spirito proprio della poesia, che grazie alla mediazione del segno si sottrae all'immediatezza del sensibile (ivi, p. r oo3 ) . La musi­ ca, dunque, si rivolge a una sfera dell'interiorità umana comunicabile e intersoggettiva, ma inferiore a quella propria del pensiero; per He­ gel essa non è in grado di " creare un mondo " . Il fatto che Hegel non parli di segno naturale è importante perché il suo obiettivo è sottrar­ re quest'arte al dominio dell'espressione incontrollata, allo sfogo preestetico dell'animo, quello che egli chiamava con disprezzo l' «ah! e l'oh! dell'animo» (ivi, p. r oo7 ) . La musica si serve di materiali sen­ sibili, il suono e il tempo, mediati però da un processo di raziona­ lizzazione. Secondo Hegel, infatti, il tempo musicale non è continuo e liscio come il tempo ordinario, ma è tempo misurato e suddiviso in battute, scolpito nel ritmo, così come il suono è suddiviso in intervalli proporzionali e ordinato dalle leggi dell'armonia. Hegel è il capostipi­ te di coloro che intendono la musica come logos in quanto materia

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

sensibile resa disponibile allo spirito grazie a un processo di raziona­ lizzazione (Eggebrecht, 1 9 87a) . A Hanslick, invece, va ascritta una mossa più impegnativa, ovvero quella di aver posto la questione della musica come "pensiero'' . In un passo molto citato, Hanslick sposta il problema della natura lingui­ stica della musica dal livello grammaticale-sintattico a quello logico «Nella musica c'è senso e logica, ma "musicali , : essa è una lingua che parliamo e comprendiamo, ma che non siamo in grado di tradurre» (Hanslick, 1 945 , p. 8 7 ) . Cari Dahlhaus ha rintracciato in questa posizione l'ascendenza della concezione del linguaggio di Wilhelm von Humboldt, secondo il quale lo "spirito, della lingua si manifesta nella sua forma. In que­ sto senso le «forme costituite da suoni» sono «spirito che si plasma interiormente» (Dahlhaus, 1 9 88, pp. 120- 1 ) . Il concetto di "logica musicale, nelle prime occorrenze settecentesche di Koch, Forkel e Herder non si distingue in maniera definita e consapevole dal concet­ to di "grammatica , e viene usato in accezione ampiamente metaforica (Dahlhaus, 200 1 , pp. 766-73 ) ; da Hanslick in poi, risponde all'esigen­ za di ascrivere alla musica quella coerenza e comprensibilità che è propria del pensiero. Non si tratta tuttavia di un concetto univoco: la definizione proposta da Riemann, basata su una terminologia dialetti­ ca (tesi, antitesi e sintesi) mutuata più da Fichte che da H egel, mira a delineare una teoria della successione motivata di accordi nel tempo (Riemann, 1 967 , pp. 1 -2 2 ; Mooney, 2ooo ) . Benché Riemann abbia ri­ nunciato nei suoi scritti successivi al riferimento alla dialettica (secon­ do Dahlhaus senza motivare perché la teoria funzionale dell'armonia dovrebbe valere a questo punto come una logica; Dahlhaus, 2002 , pp. 498-9) , il presupposto di una logica musicale diventa irrinunciabi­ le nella tradizione che va da Schonberg ad Adorno. I manoscritti schonberghiani dedicati alla presentazione dell'idea musicale e alla lo­ gica che sta alla base dei procedimenti compositivi sono il tentativo, rimasto allo stato di abbozzo, di affrontare quello che oggi si chiame­ rebbe il " carattere linguistico, della musica partendo dalle proprietà generali del pensiero umano, ovvero coerenza e comprensibilità (Schonberg, 1 995 ) . La definizione della logica musicale, tuttavia, si ri­ vela come il postulato di un'esigenza, piuttosto che un'acquisizione, soprattutto negli scritti adorniani. In uno dei frammenti dedicati al progetto di un libro su Beethoven, Adorno ripensa in questi termini il concetto di "logica , hanslickiano: il gioco con forme logiche come tali, quelle della posizione, dell'identità, del­ la somiglianza, della contraddizione, del tutto, della parte, e la concrezione

r8

I.

MlJSICA E LINGlJAGGIO

della musica è essenzialmente la forza con cui queste forme si esprimono nel materiale, cioè nei suoni (Adorno, 2oo r , p. r 8) .

Tuttavia tra l a musica e l a logica si coglie una differenza, uno scarto, o, con le parole di Adorno, una " soglia" che non si individua al li­ vello degli elementi logici bensì nella loro sintesi specificamente logica, cioè nel giudizio. La musica non conosce il giudizio, ma una sintesi di altro [tipo] , una sintesi che si co­ struisce puramente a partire dalla costellazione, non dalla predicazione, sub­ ordinazione, sussunzione dei suoi elementi [ .. . ] Musica è la logica della sintesi priva di giudizio (ivi, pp. r 8 -9 ) .

La soglia che separa la logica musicale dalla logica del linguaggio ver­ bale non ne indebolisce tuttavia il concetto; al contrario la costituisce come «tentativo di revocare la logica giudicante» (ibid. ) . Le tre posizioni precedenti rilevano somiglianze o differenze tra musica e linguaggio, rispettivamente tra tipi di segni (naturali o con­ venzionali), tra sistemi di segni e tra forme logiche diverse. Tuttavia, si può prospettare il rapporto tra musica e linguaggio verbale secon­ do una relazione di contiguità e non soltanto secondo quella di somi­ glianza. Quest'ultima prospettiva analizza aspetti differenti di una supposta natura comune (logica o linguistica che sia) ; la prima pren­ de in esame gli eventuali punti di contatto tra i due mezzi espressivi, soprattutto in situazioni in cui essi si trovano a interagire. Sebbene la ricerca sistematica su questo aspetto della relazione tra musica e lin­ guaggio sia pressoché inesistente (a parte il breve saggio di Harweg, 1 97 1 ) , la musicologia storica ha indagato la relazione tra musica e pa­ rola intonata, seguendo il processo attraverso il quale le strutture me­ triche e poetiche e quelle musicali si sono adattate reciprocamente nel corso della storia della musica occidentale e le forme poetiche hanno influenzato quelle musicali (l'esempio più sistematico, proprio perché pensato per un uso didattico è quello offerto da Di.irr, 1 9 9 4; sull'influenza delle forme poetiche su quelle musicali, cfr. per esem­ pio Powers, r 96 r e La Via, 2 oo6) . Non va dimenticato, tuttavia, che nel secondo Novecento i compositori hanno consapevolmente affron­ tato e messo in discussione l'alleanza tra parole e musica in due di­ verse direzioni. N ella musica seriale e postseriale si è manifestata una tendenza all'emancipazione della musica dal modello offerto dalla pa­ rola. Questa tendenza si muove in direzione opposta alla somiglianza con la lingua, inclusa la capacità di " creare un mondo " e rivolgersi alla totalità della dimensione umana, che ha caratterizzato la musica

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occidentale da Beethoven in poi culminando nella prosa musicale del­ le composizioni atonali (Schnebel, 1 99 3 , p. 3 3 ; Wellmer, 2004, p. 8o) . Nell'ambito della stessa musica vocale, alcune opere (Le marteau sans maitre, 1 9 54, di Boulez; Gesang der ]unglinge, 1 9 55-56 , di Stockhau­ sen; Il canto sospeso, 1 9 58, di Nono; Thema. Omaggio a ]oyce, 1 9 58, e Vz5age, 1 9 6 1 , di Berio; Glossolalie, 1 9 59 -60, di Schnebel; Aventures, 1 962 , e Nouvelles Aventures, 1 96 5, di Ligeti, per citare soltanto alcu­ ni esempi storici) hanno rovesciato il rapporto con la parola. Per usa­ re le parole di un protagonista di questa stagione, la musica vocale ha indagato la possibilità di «esplorare e assorbire musicalmente l'intera faccia del linguaggio» scorporando la dimensione fonetica della paro­ la da quella linguistica (Berio, 2 oo6, p. 41 ; Kogler, 2 003 ) .

1. 3

Somiglianze, differenze, asimmetrie La ricerca di una definizione precisa e non soltanto metaforica del carattere linguistico della musica ha condotto gli studiosi a soffermar­ si anche sulle inevitabili e apparentemente ovvie differenze che di­ stinguono la musica dal linguaggio verbale. Mostrando la trama delle differenze risulta più facile isolare l'ambito ristretto in cui trovare una zona di intersezione tra l'insieme delle manifestazioni musicali e quel­ lo delle manifestazioni linguistiche, mentre insistere sulla ricerca di analogie suggerisce un modello binario (musica linguaggio, oppure musica -:t linguaggio) che minaccia di indebolire ogni serio tentativo di confronto. In realtà, piuttosto che di differenze, si dovrebbe parla­ re di asimmetrie che comportano ogni volta una riformulazione delle condizioni di partenza del confronto. La prima riguarda la diversa "natura linguistica" di musica e lin­ guaggio. Le lingue naturali (ovvero quelle parlate dagli uomini, oppo­ ste quindi ai linguaggi formalizzati) sembrano appartenere (pur te­ nendo conto della diversa complessità che distingue, per esempio, la grammatica delle lingue bantu da quella delle principali lingue euro­ pee) allo stesso ordine di complessità; ma questo non è vero per tutti i sistemi musicali (Ruwet, 1 9 83 , p. 1 9 ) . Inoltre questi differiscono non soltanto per l'ordine, ma anche per il genere di complessità, basti pensare alle differenze che corrono tra un'antifona gregoriana e una polifonia complessa, come quella del gamelan giavanese o quella delle messe e dei mottetti propri della musica europea del XVI secolo. Qualsiasi sistema che preveda brani multivocali o polifonici, infatti, esibisce un livello di complessità sconosciuto alla lingua verbale. Ogni =

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metodologia mediata dalla linguistica, dunque, non è in grado di ren­ dere conto di questo livello (Powers, 1 9 80, pp. 3 8 -9) . Per quanto possa sembrare ovvio e banale, inoltre, vi è una sostanziale differenza tra le forme di apprendimento delle lingue naturali e quelle dei si­ sterni musicali. Ciascun membro normale di una comunità linguistica raggiunge la padronanza del suo codice linguistico (che comprende una struttura fonologica e una grammatica) verso l'età di quattro o cinque anni; più o meno alla stessa età è in grado di apprendere an­ che il codice musicale (che comprende la scala e lo schema ritmico) , anche s e questa competenza viene acquisita soltanto d a alcuni mem­ bri della comunità a causa della diversità della funzione svolta e della diversa incidenza della musica nelle diverse società (Springer, 1 97 1 ) . Tuttavia si può acquisire relativamente in fretta una competenza lin­ guistica "passiva " di sistemi musicali estranei alla propria cultura di appartenenza, come dimostra l'attuale circolazione di tali sistemi. È probabile che questo tipo di accessibilità della musica rispetto al lin­ guaggio verbale vada fatta risalire a un legame più immediato con la sfera del corpo e con le reazioni neurologiche; come dice Lidov, al di qua del suo statuto di segno la musica è anche un'azione sul e del corpo (Lidov, 200 5, p. 1 45) . Il diverso carattere e ordine di complessità riguardano tanto le di­ verse "lingue musicali" impiegate e comprese oggi nel mondo quanto i sistemi musicali che si sono avvicendati nel corso della storia. Que­ sto tratto dei sistemi musicali può funzionare da ragionevole deter­ rente nei confronti di una ricerca troppo disinvolta di universali mu­ sicali, ma soprattutto aiuta a ricordare che quando si parla del ca­ rattere linguistico della musica ci si riferisce in realtà a un sistema musicale preciso (il sistema tonale) e anche a una " cultura musicale" specifica (per esempio, la musica strumentale "pura" della tradizione ottocentesca, oppure la tradizione vocale operistica) . La ricerca etno­ musicologica ha offerto importanti correttivi per lo studio del caratte­ re linguistico della musica, suggerendo, tra l'altro, di sostituire il mo­ dello binario derivato dalla linguistica strutturale con un modello de­ rivato dalla linguistica comparata. Il rapporto tra musica e linguaggio, infatti, varia da cultura a cultura. Vi sono musiche, come quella tradi­ zionale indiana, che sono più vicine all'idea che abbiamo del linguag­ gio come produzione estemporanea di un discorso e di un enunciato in base a un sistema di regole, rispetto ad altre, per esempio la co­ siddetta musica pura occidentale (List, 1 963 ; Powers, 1 9 80, p. 55) . Vi è ancora una questione, collegata alla differenza tra sistemi musicali e lingue naturali, che è stata sollevata dall'impiego della do­ decafonia e della serialità. I sistemi musicali, infatti, sembrano am21

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mettere l'intervento diretto e consapevole del compositore anche a li­ vello del sistema linguistico e non soltanto a quello dell'idioletto; que­ sto è vero per le imprese " rivoluzionarie" , come la dodecafonia schonberghiana, che rappresenta un sistema ideato da un singolo compositore e giustificato poi come un'inevitabile trasformazione sto­ rica (Schonberg, 1 97 5; Webern, 1 989), ma è altrettanto vero per altre fasi storiche, come l'ars antiqua, la monodia seicentesca, la tonalità allargata di Hindemith (sebbene il compositore fosse convinto di comporre secondo regole fondate sulla natura della musica) . Il lin­ guaggio parlato o scritto, invece, pur ammettendo quante si voglia deroghe alla struttura del linguaggio poetico, che non comportano però cambiamenti nell'assetto linguistico "normale" , conosce sì cam­ biamenti dovuti all'uso, comprese la morte e la nascita delle lingue, ma questi cambiamenti sono assai più lenti e in una buona misura "impersonali " . Lévi-Strauss, nella sua critica alla musica seriale, manifesta l a con­ vinzione che la struttura del linguaggio musicale, come di ogni lin­ guaggio, sia inaccessibile al parlante, che in caso contrario non sa­ rebbe in grado di parlare; la pretesa di "inventare" un nuovo sistema musicale gli appariva assurda come quella di inventare un nuovo lin­ guaggio verbale (come ha dimostrato il mancato funzionamento del­ l'esperanto) . Il linguaggio musicale tonale si sarebbe formato, secon­ do l'antropologo, attraverso una sorta di selezione naturale di suoni già disposti alla significazione: Ma rimane pur sempre vero che, al pari di qualsiasi sistema fonologico, ogni sistema modale o tonale (e anche politonale e atonale) si basa su proprietà fisiologiche e fisiche: esso ne conserva alcune fra tutte quelle che sono di­ sponibili in numero probabilmente illimitato, e sfrutta le opposizioni e le combinazioni alle quali queste proprietà si prestano per elaborare un codice atto a discriminare delle significazioni (Lévi-Strauss, 1 990, p. 40) .

Questa concezione rivela un pregiudizio basato sulla funzione comu­ nicativa del linguaggio verbale. È vero infatti che nella comunicazione linguistica è necessario, da parte del parlante, possedere un controllo ampiamente inconsapevole della struttura della lingua e, da parte del ricevente, disporre di un codice stabile. In musica, invece, le compe­ tenze dell'ascoltatore e quelle richieste dalla musica sono state in per­ fetto equilibrio soltanto in pochissime epoche (per esempio nella mu­ sica sette-ottocentesca) . In ogni caso, almeno per quanto riguarda la musica d'arte dell'Occidente, l'atto del comporre comporta interventi anche al livello del codice e non soltanto a quello dell'enunciato; a 22

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questo consegue, come ha dimostrato la storia delle avanguardie, la difficoltà di comprendere e accettare musiche basate su sistemi nuovi. Lidov offre una spiegazione plausibile di questa palese asimmetria, ri­ conducendola a un rapporto inverso tra gli elementi minimi e le unità estese: nel linguaggio verbale gli elementi minimi sono arbitrari, men­ tre in musica sono governati da regole; viceversa le unità estese di tipo verbale sono governate da regole sintattiche, mentre in musica sono uniche e irriducibili (Lidov, 2 005 , p. r r ) . Tuttavia, se si esce dall'orizzonte linguistico e semiotico, questa asimmetria si indeboli­ sce. Gli interventi a livello del codice si riscontrano in tutta quanta l'arte moderna e in particolare nelle opere di avanguardia; in esse la funzione estetica tende a prevaricare la funzione comunicativa, e que­ sto vale non soltanto per la musica ma anche per la pittura e la poe­ sia. La storia delle arti nella cultura occidentale moderna sarebbe in­ concepibile senza quella progressiva erosione del codice a favore del­ la novità estetica operata dall'avanguardia. Anche in questo caso o, meglio, soprattutto in questo caso è inevitabile constatare che quando si parla di "musica" questa etichetta va inevitabilmente delimitata in senso locale e temporale. Come ammoniva Umberto Eco, nel suo commento alla critica di Lévi-Strauss al linguaggio seriale, non esiste un sistema dei sistemi in grado di render conto degli universali del pensiero umano (Eco, r 9 8o, pp. 3 1 1 e 3 1 3 ) . La tendenza all'individualizzazione che si manifesta nella musica del Novecento (Wellmer, 2004, pp. 8 8 -98) conferma a sua volta l'a­ simmetria già rilevata: poiché la musica non ha funzione comunicati­ va, tende di per se stessa ad abbattere la distinzione tra stile e lin­ guaggio. In particolari momenti storici i cambiamenti hanno intaccato il codice del sistema dando luogo a una trasformazione più profonda di quella costituita da un mutamento di stile. Questo aspetto è molto rilevante ed è stato sottolineato da due studiosi provenienti da tra di­ zioni filosofiche differenti come Mikel Dufrenne e Albrecht Wellmer. Non è un caso che entrambi cerchino di indebolire la supposta rela­ zione tra musica e linguaggio proprio a partire da questo punto. Per Wellmer l'asimmetria tra musica e linguaggio persiste anche quando si paragoni la tendenza all'individualizzazione del linguaggio musicale all'analogo fenomeno riscontrabile nella letteratura, per esempio in Kafka, in J oyce o in Beckett. Secondo Wellmer i compositori, per esempio Webern, a differenza degli scrittori non partono da un lin­ guaggio comune e condiviso, che ha una propria grammatica, sintassi e semantica. La lingua verbale, inoltre, sopravvive agli interventi poe­ tici e costituisce ogni volta una base di partenza per nuovi esperi­ menti (ivi, p. 89) . Forse questo argomento può non convincere fino 23

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in fondo coloro che sostengono che un linguaggio comune e condivi­ so esiste ed è descrivibile in termini di grammatica generativa. Tutta­ via l'asimmetria è innegabile ed è accettata anche dai musicologi che oggi si riconoscono nell'eredità chomskiana, che ammettono regole «generalmente riconosciute e accettate da compositori, esecutori e ascoltatori appartenenti a una determinata epoca e società», ovvero regole storiche e non universali (Baroni, Dalmonte, J acoboni, 1 9 9 9 , p. XI). La posizione di Dufrenne (critica nei confronti dell'equazione arte linguaggio) mette in luce un ulteriore importante elemento, ovvero la posteriorità del codice musicale rispetto al momento della creazione. Questo lo distingue dal linguaggio verbale, che preesiste invece al codice (come suggerisce in altri termini Wellmer) , e sposta inevitabilmente il fuoco del problema dalla dimensione universale del linguaggio a quella singolare dell'opera: =

C'è bensì, se si vuole, in ogni momento della cultura, un certo stato del codi­ ce musicale al quale il musicista è stato iniziato nel suo tirocinio. Il musicista non può ignorare le note o gli intervalli già dati, come non può ignorare i loro significati, che esistono per l'orecchio dell'ascoltatore e per il suo. Egli vi si riferisce implicitamente, si appoggia a essi. Ma questo codice non è una lingua: è storico molto più radicalmente della lingua, e assai meno costritti­ vo, e ogni musicista, non appena è se stesso, gli è infedele. La storia della musica, così accelerata ai nostri giorni, è un seguito di avventure e di con­ quiste che non cessa di mandare in frantumi il campo sonoro. E questa sto­ ria resta aperta. C'è forse una grammatica universale come suggerisce Jakob­ son , ma non c'è un'unica armonica universale (Dufrenne, 1 989, p. 45 ) . L a musica è solamente nelle musiche, che sono sempre realtà singolari. S e è necessario proseguire il parallelo fra musica e lingua, bisognerebbe farlo in ogni caso, confrontando quest'ultima con l'opera musicale: ogni opera riven­ dica per sé l'autonomia di una lingua. Ma senza che sia possibile la traduzio­ ne dell'una nell'altra, giacché non esiste, fra esse, quel denominatore comune che crea il significato: ogni opera significa solo se stessa (ivi, p. 46) . Il compito del musicologo è in tal caso di mettere in rilievo la creatività del musicista - di modo che la lingua musicale non è mai altro che la ricaduta di questo gesto creativo - e la singolarità dell'opera - di modo che questa lin­ gua, che è istituita solo a cose fatte, non funziona mai come lingua (ivi, p. 48) .

Se si passa dal confronto tra due supposti sistemi linguistici alle fun­ zioni che essi assolvono in una data cultura, viene in luce infine un'ultima importante asimmetria. Di rado, infatti, la musica assume una funzione comunicativa nel senso del linguaggio ordinario, se si

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prescinde da alcuni casi ben noti all'etnomusicologia (l'uso dei tam­ buri e dei fischi proprio di alcune culture africane) e da quello più vicino a noi dei segnali militari. Nella nostra e in molte altre culture l'arte dei suoni è specializzata nella cosiddetta funzione poetica o estetica; il linguaggio verbale invece dispone di entrambe le funzioni. Il paragone tra musica e linguaggio, che aveva un senso soprattutto nell'ambito della comparazione tra le varie arti, diventa sfuocato nel momento in cui ci si interroga sulla funzione linguistica dell'arte in generale. Quando si paragona un brano musicale a una composizione letteraria, infatti, si opera un paragone tra un " enunciato " musicale e un enunciato verbale e si cerca di descriverne la struttura, per esem­ pio impiegando gli strumenti della retorica oppure della grammatica generativa. Nel momento, però, in cui si confronta un'opera musicale con un'opera d'arte che impiega altri segni, siano essi colori, gesti o parole, la differenza tra musica ed enunciato verbale sfuma e l'asim­ metria con la parola scompare: anche l'opera letteraria si serve del linguaggio verbale come materiale e il suo significato travalica il puro piano referenziale o denotativo. L'asimmetria ricompare soltanto nel momento in cui si riconosce con Benveniste (ma è un'opinione condi­ visa, pur in altri termini, dalla tradizione ermeneutica) che «la lingua è l'interpretante di tutti gli altri sistemi, linguistici e non-linguistici» (Benveniste, 1 985 , p. 76) , perché la lingua mette simultaneamente in gioco due sistemi gerarchici di significanza: l'uno semiotico (concate­ nazione di segni) , l'altro semantico. Per questo grazie alla lingua è possibile tenere discorsi significanti sulla significanza, mentre questa proprietà manca in genere altrove. Questa asimmetria è alla radice di posizioni differenti sulla relazione tra arte e linguaggio verbale. La prima è quella della "semiologia linguistica " , la linea Benveniste-Bar­ thes, che sostiene che qualsiasi sistema di segni è linguistico in quan­ to interpretabile attraverso il linguaggio; la posizione per così dire op­ posta è quella di Dufrenne ( r 989), che dà priorità e autonomia a cia­ scun mezzo a prescindere dal discorso che si forma intorno a esso (per questa interpretazione cfr. Cornetti, Morizot, Pouivet, 2 ooo, p . 5 5 ) . Una posizione intermedia è rappresentata d a Goodman, che pur non negando la potenza della "virtù formativa del linguaggio" sostie­ ne che anche le raffigurazioni pittoriche, in quanto sistemi simbolici esercitano a loro volta un effetto analogo sul mondo , e quindi sul linguaggio. La parola non fa il mondo e neppure i quadri, ma la parola e i quadri con­ tribuiscono alla loro propria costituzione, e a quella del mondo, così come noi li conosciamo (Goodman, 1 998, p. 8 3 ) .

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Non va però dimenticata una quarta posizione, sostenuta da Adorno nella Teoria estetica ( 1 975 ) , che individua nell'arte in generale la ca­ pacità di articolare un senso, dunque una funzione linguistica, alter­ nativo al linguaggio portavoce della cattiva identità fra concetto e realtà (cfr. PAR. r .5 ) .

1.4

Filosofie del simbolo, semiologia e semiotica Il discorso circa le arti e le forme della cultura (miti, riti, costumi ecc.) nel Novecento ruota intorno a una questione centrale, indipen­ dentemente dal fatto che si ricorra al termine "simbolo , o "segno , : com'è possibile l'articolazione del senso? Il paragone con il linguag­ gio verbale, che è il mezzo più efficiente per la produzione e la co­ municazione del senso, s'impone da sé, ma il modo in cui la que­ stione viene impostata determina in larga misura il risultato, ossia la capacità minore o maggiore di chiarire il processo di significazione. La centralità delle teorie del simbolo, scaturite dall'impulso della filo­ sofia delle forme simboliche di Cassirer (Langer, 1 965 , 1 972 ) , è stata ben presto oscurata dal predominio assunto dalle discipline semiolo­ giche e semiotiche; con semiologia ci si riferisce allo studio dei segni che fa capo per gran parte a Saussure e alla tradizione della lingui­ stica diffusa soprattutto in Francia; per semiotica, invece, s'intende la ricerca scaturita dagli studi di Peirce e di Morris - pur tenendo conto che i due termini sono talvolta impiegati come sinonimi. Negli anni sessanta e settanta del Novecento, infatti, con alle spalle le ricerche dei " padri fondatori , (Peirce, Saussure, Morris, Hjelmslev) , la ricerca semiologia si è concentrata sull'applicazione dei concetti generali ai singoli domini, mettendo al centro il rapporto tra la lingua e gli altri sistemi di segni. L'assunzione della linguistica come modello e metodologia della semiologia ha fornito un impulso grandissimo non soltanto allo stu­ dio della musica intesa come sistema di segni, ma soprattutto ha of­ ferto la possibilità di confrontare musica e linguaggio verbale a un livello epistemologicamente fondato e non soltanto metaforico, come era stato fatto fino a quel momento. Per la prima volta si tentò di affrontare un tema classico dell'estetica musicale con gli strumenti di una disciplina specifica, pretendendo di riformularlo secondo criteri a essa adeguati, ossia attraverso argomentazioni e passaggi verificabili e falsificabili. J e an -Jacques N attiez, che oltre a essere stato assieme a

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Ruwet uno dei pionieri della semiologia musicale è oggi un acuto te­ stimone storico della delicata fase fondativa (Nattiez, I 99oa) , ha illu­ strato con estrema chiarezza come nell'ambito del progetto di una "semiologia generale" si sia sviluppato il progetto di una semiologia comparata che si basa sull'impiego di modelli linguistici per l'analisi di domini che esulano dall'ambito della parola. Il punto di partenza è stato l'interpretazione del progetto semiologico di Saussure, che ap­ pare in questo rispetto piuttosto ambiguo. Alcuni passi del Corso di linguistica generale, infatti, suggeriscono l'idea che la linguistica e la lingua vadano considerati una parte speciale di un più ampio pro­ getto semiologico; altri invece sembrano incoraggiare la ricerca a ri­ servare alla linguistica la funzione di modello eminente. Ecco a con­ fronto due passi citati molto di frequente su cui si sono divisi gli ere­ di del pensiero di Saussure: Il compito del linguista è di definire ciò che fa della lingua un sistema spe­ ciale nell'insieme dei fatti semiologici [ . . ] . Il problema linguistico è anzitutto semiologico [ . . . ] . Ma noi pensiamo che considerando i riti, i costumi ecc. come segni, tali fatti appariranno in un'altra luce e si sentirà allora il bisogno di raggrupparli nella semiologia e di spiegarli con le leggi di questa scienza (Saussure, 2oo r , pp. 26-7 ) . .

I n questo senso l a linguistica può diventare il modello generale d i ogni se­ miologia, anche se la lingua non è che un sistema particolare (ivi, p. 86) .

In effetti questo studioso sembra dibattersi qui in una sorta di circolo vizioso tra la semiologia e la linguistica, rivendicando il primato ora dell'una ora dell'altra disciplina. Coloro che erano interessati al pro­ getto di una semiologia generale (per esempio, Mounin, I 970, dal quale prese le mosse lo stesso Nattiez) sfruttarono l'elemento fonda­ mentale di quest'ambiguità, ossia la possibilità di porre semiologia e linguistica in una relazione produttiva dal punto di vista metodologi­ co, tenendone però distinti gli oggetti, ovvero la lingua dagli altri si­ stemi di segni; in altre parole, la linguistica sarebbe un ausilio alla costruzione della semiologia, perché circoscrive questa disciplina ai si­ stemi di segni arbitrari di cui il linguaggio rappresenta il prototipo perfetto (N attiez, I 99oa, p. 5 7 ) . Questo progetto si definì in stretta opposizione alla semiologia di Barthes degli anni sessanta, che conce­ deva invece un carattere linguistico a qualsiasi segno , fondandosi sul presupposto che ciascuno viene interpretato da un linguaggio " secon­ do " che riveste appunto la funzione di "interpretante universale" (Barthes , I 966) .

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Senza addentrarsi nella selva delle problematiche interne al pro­ getto di costituzione di una semiologia generale (per un'introduzione cfr. Nattiez, 1 99oa e Monelle, 1 992 ) , si può tuttavia cercare di foca­ lizzare meglio il livello di rigore metodologico raggiunto nel confron­ to tra musica e linguaggio verbale. Il progetto di una semiologia ge­ nerale integrata a livello metodologico con la linguistica ha comporta­ to un'importazione massiccia di concetti e metodi dalla linguistica e una loro messa al vaglio in vista di un progetto semiologico. Esso ha awiato inoltre una classificazione delle diverse specie di segni che, parallelamente allo sviluppo delle teorie semiotiche, aveva assunto proporzioni difficili da controllare. Questa classificazione è stata un compito assunto dalla semiologia in tutte le sue declinazioni, generali o speciali, durante gli anni settanta e gran parte degli ottanta; su que­ sto obiettivo si sono concentrati anche gran parte degli sforzi della semiotica e della semiologia musicale. Nattiez ha offerto una sorta di tavola dei concetti importati dalla linguistica (Nattiez, 1 99oa, p. 44) . Si tratta di concetti ambigui - come ha riconosciuto egli stesso - ma cruciali per il progetto comparatistica. Essi comprendono: a) le gran­ di dicotomie saussuriane (interno/esterno; langue/parole; significato/ significante; sincronia/diacronia) ; b) i concetti operativi della lingui­ stica (la commutazione, le opposizioni fonologiche, le regole generati­ ve e trasformazionali e la distinzione tra sintagma e paradigma) ; infi­ ne c) una definizione o, meglio, una delimitazione delle caratteristiche del linguaggio umano (secondo la classificazione di Mounin, 1 970) che comprende la funzione comunicativa, il carattere arbitrario e di­ screto del segno linguistico, l'aspetto semantico e lineare del linguag­ gio e il criterio della doppia articolazione (per una definizione di que­ sti termini cfr. Barthes, 1 966) . È soprattutto questo terzo gruppo a essere rilevante per il confronto tra musica e linguaggio, perché indi­ vidua i criteri in grado di discriminare la lingua verbale dagli altri sistemi di segni che si chiamano linguaggi soltanto in senso metafori­ co. In particolare l'ultimo criterio, quello della doppia articolazione, (formulato per la prima volta in Martin et, r 949 ) , consente di definire il linguaggio verbale in maniera univoca. Soltanto le lingue naturali, infatti, risultano costituite da due livelli di articolazione: la prima ri­ guarda le unità minime fornite di significato (i monemi, owero le pa­ role) ; la seconda riguarda invece le unità distintive sprowiste di si­ gnificato (i fonemi) . La prima articolazione (che assolve la funzione della significazione) è fondata sulla seconda e il loro nesso è di tipo arbitrario, owero non motivato. La fase comparativa della semiologia generale risulta quindi già vincolata dal criterio della doppia articola­ zione; in effetti il suo obiettivo non è quello di determinare se un

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sistema di segni sia linguistico oppure no, ma di far emergere quali aspetti di un determinato dominio siano suscettibili di un approccio linguistico. Per Nattiez, dunque, la semiologia comparata ha lo scopo di si­ tuare un determinato sistema nella " topografia " generale della semio­ logia e rappresenta una nuova base di classificazione delle belle arti (Nattiez, 1 99oa, p. 43 ) . Tuttavia non bisogna dimenticare che i mag­ giori contributi di N attiez sono animati dal proposito esplicito di do­ tare la musicologia di basi metodologiche sode e inattaccabili, grazie alla reinterpretazione della musicologia sistematica tramite l'ausilio di concetti mutuati dalla semiologia generale, approfonditi e applicati alla musica grazie alle proprie ricerche (Nattiez, 1 975 , 1 978, 1 989). Il punto di partenza offertogli da Mounin è integrato, inoltre, da due apporti: uno teorico, derivato da Zelig Harris, e uno tecnico, ovvero l'analisi paradigmatica sviluppata da Ruwet. L'approccio di Harris alla linguistica aveva spostato il fuoco della ricerca dal problema della pertinenza, intorno a cui vertono le ricerche di tipo fonologico della Scuola di Praga, a quello della ripetizione. Alla base del metodo lin­ guistico, infatti, egli aveva posto il processo di individuazione e classi­ ficazione delle unità minime in base a criteri di sostituibilità e ripeti­ zione che risultano del tutto immanenti e non necessitano quindi del ricorso al concetto di senso (Harris, 1 95 r ; Monelle, 1 992 , pp. 4 1 -3 ) . Dunque, il modello linguistico fonda l a possibilità di un confronto tra musica e linguaggio verbale, poiché in entrambe è rilevabile la presenza di ripetizioni, sebbene le unità ripetute siano di natura di­ versa. Mentre dal punto di vista estetico la ripetizione è stata vista talvolta come una peculiarità della musica, senza tuttavia andare oltre la segnalazione della sua ovvia presenza e fascino ( Kivy, 1 993) oppure cercando di paragonarla ai procedimenti logici astratti (Seeger, r 96o) , la semiologia ha individuato nella ripetizione un tratto comune a lin­ guaggio verbale e musica in quanto in entrambi essa riveste una fun­ zione articolatoria. Repertori diversi hanno suggerito tuttavia modi diversi di affrontare il fenomeno della ripetizione. Lidov ( r 979) ha tentato di descrivere la funzione formativa della ripetizione nella dop­ pia articolazione di motivo e frase nella musica tonale; ma il tentativo più sofisticato di saggiare la funzione della ripetizione in musica è sta­ to quello di Ruwet ( r 9 83 ) nella ormai notissima analisi del Geisserlied del xvr secolo "Maria muoter reinu mait " . Alle spalle della «macchi­ na per reperire le identità elementari», come l'ha battezzata Ruwet (ivi, p. 9 8 ) , si trova la tavola d'analisi del mito di Lévi-Strauss ( r 966, p. 240) . Questa è organizzata secondo due assi: l'asse verticale, deno­ minato "paradigmatico" , raggruppa in colonne i ricorsi di tratti simili 29

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(i mitemi) la multipla occorrenza di parricidi e fratricidi per esem­ pio nel mito di Edipo - ed è quindi organizzato secondo la somi­ glianza; quello orizzontale, o "sintagmatico" , percorre l'ordine narra­ tivo degli avvenimenti e quindi segue l'ordine della contiguità. Sulla scorta di questo modello, la macchina di Ruwet mette "in partitura" i segmenti ottenuti dall'analisi ricorsi va, individuando via via livelli suc­ cessivi di ripetizione all'interno di frammenti più ampi. La "macchi­ na " analitica di Ruwet suscitò molte critiche. In primo luogo fu nota­ to che criteri diversi di segmentazione conducono anche a risultati differenti (Arom, 1 969 ) ; in secondo luogo venne messo in discussione il criterio della uguale lunghezza dei segmenti (Nattiez, 1 975 ) . La di­ fesa di Ruwet si attestò sull'intento tecnico e non analitico della mac­ china, che era stata pensata come una sorta di procedura di controllo per l'analisi condotta in modo più rapido e intuitivo. Lo stesso auto­ re, del resto, in capo a pochi anni assunse una posizione molto critica riguardo al suo progetto, orientandosi verso il modello chomskiano. Tuttavia l'analisi paradigmatica venne assunta e rivista da Nattiez , in­ tegrata però nell'edificio tripartito della semiologia (secondo il mo­ dello ripreso da Molino, I 97 5 ) , in cui i livelli poietico (quello relativo alle condizioni di produzione) , neutro ed estesico (quello relativo alla fruizione) costituiscono momenti distinti benché integrati (Nattiez, 1 97 5 , pp. 5 0-62 ; 1 97 8 , p. 4; 1 9 89, pp. 8- 1 2 , 2 2 - 4) . U n momento cruciale d i questo modello tripartito è il discusso concetto di "livello neutro " . Nattiez ha messo in luce il carattere arti­ ficiale di questo livello, che si può considerare autonomo soltanto mettendo tra parentesi gli altri due, ai quali è legato dialetticamente. Esso costituisce il terreno per un'analisi immanente, ovvero un'analisi in grado di far emergere ciò che le analisi del livello poietico o estesi­ co trascurano (Nattiez, 1 975 , p. 5 5 ) . Nella sua prima formulazione N attiez sottolineava la necessità dell'analisi del livello neutro appel­ landosi al principio di immanenza del segno di Hjemslev, secondo il quale il segno sfugge sempre in una certa misura alla volontà indivi­ duale e sociale ed è dotato dunque di una dimensione autonoma (ivi, p. 66) . Sebbene l'autore ricordi sempre che anche il livello dell'imma­ nenza sia costantemente impregnato di dimensione poietica ed estesi­ ca, egli riconosce come un compito della semiologia distinguere i tre poli della tripartizione. È interessante notare come la dimensione "puramente musicale" , autonoma e non referenziale, venga recupera­ ta in questo progetto riconoscendole una dimensione linguistica, inve­ ce che contrapposta a essa come nell'estetica classica e nel discorso musicologico corrente. -

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Il progetto di N attiez, che rappresenta il fronte delle ricerche in ambito semiologico e semiotico mirato - come si è visto - a un con­ fronto specifico tra il linguaggio verbale e il linguaggio musicale, ha come termine di confronto il primo progetto di analisi strutturale del­ la musica formulato da Lévi-Strauss ai due estremi della quadrilogia delle Mitologie: l'Ouverture di Il crudo e il cotto (Lévi-Strauss, 1990) e il Finale di L'uomo nudo ( 1 99 8 ) . Molti concetti definiti e riformulati da N attiez nel corso di una decina d'anni nell'ambito delle discussio­ ni interne alla comunità semiotica hanno rappresentato il grado forse più sofisticato di confronto tra musica e linguaggio attuato con i mez­ zi della semiologia di tradizione linguistica. Le critiche sono state co­ munque moltissime, a partire dallo stesso Ruwet ( 1 975 ) , impegnato nei primi anni settanta a difendere un approccio al linguaggio ispirato alle grammatiche generative, e tutte centrate sul diverso ordine di complessità proprio della musica e sulla disparità tra la complessità dei mezzi impiegati e la pochezza dei risultati raggiunti. Non è tutta­ via possibile qui inoltrarsi nella selva delle discussioni intorno al sen­ so delle imprese semiologiche e semiotiche che, nel corso degli anni settanta e ottanta, si sono moltiplicate in una serie di tendenze e me­ todologie eterogenee e di luoghi istituzionali in Europa e nei paesi di lingua inglese (per una ricognizione dello stato dell'arte intorno agli anni novanta cfr. Nattiez, 1 99oa, p. 1 86-2 3 1 ; sugli sviluppi della se­ miotica musicale Tarasti, 2 002 ) . Il tentativo più coerente di indagare l a natura linguistica della musica è stato affrontato dagli studiosi di ispirazione chomskiana. Il principio generale che informava il progetto originario di Chomsky era quello di definire una grammatica come un numero finito di rego­ le in base alle quali fosse possibile descrivere un numero infinito di enunciati accettabili. In ambito musicale, a parte le applicazioni nel campo etnomusicologico, il progetto più sistematico e innovativo è stato quello intrapreso dal filosofo del linguaggio Ray J ackendoff e dal compositore Fred Lerdahl (Lerdahl, Jackendoff, 1 983 ) , che ap­ profondiscono la tendenza manifestata da Chomsky, a partire dalla metà degli anni sessanta, di considerare i problemi linguistici come un aspetto della psicologia cognitiva. L'intento dei due autori è ri­ volto a una formalizzazione della teoria musicale cominciando dalla competenza " inconscia dell'ascoltatore " . Essi presuppongono un " ascoltatore competente " (ma non per questo musicista) in grado di organizzare e rendere coerenti le strutture sonore percepite, quindi di identificare un brano ascoltato per la prima volta come esempio di un idioma e di riconoscere le formulazioni scorrette (ivi, p. 3 ) . Passare dallo studio del linguaggio a quello della musica comporta lo spo-

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stamento del fuoco dell'indagine sull'ascoltatore piuttosto che sul produttore, in quanto la musica è in gran parte priva della funzione comunicativa che si attribuisce invece alle lingue naturali e comporta altresì una delimitazione del campo di indagine a un idioma storico (per esempio quello della musica tonale) e non al linguaggio tout court. Rimane, però, l'esigenza di passare a un livello di indagine più generale: Un idioma musicale di qualsiasi complessità richiede una considerevole raffi­ natezza per essere compreso appieno e gli ascoltatori cresciuti in una cultura musicale non la trasferiscono automaticamente in altre culture musicali. Poi­ ché la conoscenza che ognuno possiede di uno stile musicale è in grande misura inconscia, la maggior parte di essa non si può trasmettere per mezzo di istruzione diretta. Per cui ci si può chiedere con buone ragioni quale sia la fonte di questa competenza dell'ascoltatore. In quale misura essa è appre­ sa e in quale misura è dovuta a una capacità innata o a una capacità co­ gnitiva generale? Una teoria formale degli idiomi musicali renderà possibile ipotesi sostanziali riguardo quegli aspetti della comprensione musicale che sono innati; gli aspetti innati si riveleranno come i principi universali della grammatica musicale (ivi, p. 4) .

I più recenti sviluppi di questo filone di indagini hanno approfondito alcuni aspetti del modello proposto da Lerdahl e J ackendoff, introdu­ cendo innanzitutto la distinzione tra regole di produzione e regole di comprensione (Baroni, Dalmonte, Jacoboni, 1 999) . Questa distinzione è irrilevante nell'ottica chomskiana, in quanto le regole grammaticali vengono impiegate indifferentemente per la produzione e la com­ prensione delle frasi, mentre nella teoria di Lerdahl e J ackendoff essa risulta appiattita sul polo dell'ascoltatore. Inoltre il modello cognitivo risulta ampliato dall'ulteriore differenziazione tra regole strutturali e procedure di applicazione. Tuttavia, indipendentemente dalle proce­ dure di applicazione utilizzate, gli autori sostengono che sia le operazioni d'ascolto sia quelle di composizione si basano su un sapere unico, comune e condiviso: ascoltatori e compositori dello stesso genere di musica possiedono le stesso patrimonio di regole strutturali (ivi, p. 1 3 ) .

S u questo patrimonio comune d i regole si fonda il loro concetto di "grammatica" , che a sua volta si distingue in competenza strutturale, molto spesso di natura intuitiva, e grammatica in senso stretto, che consiste «nell'esplicitazione concettuale della competenza grammati­ cale» (ibid.) . Questo tipo di grammatica, che si deduce dall'analisi minuziosa di un repertorio ben delimitato (la prima parte del libro si 32

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riferisce al corpus delle arie di Legrenzi e comprende una descrizione del programma informatico LEGRE, che seguendo le regole grammati­ cali è in grado di generare arie "in stile " legrenziano; la seconda parte è dedicata a una verifica di alcune regole messe a confronto con un certo numero di repertori melodici), conferma il fatto che la gramma­ tica musicale è desumibile a posteriori non tanto dalla costruzione di singoli enunciati, ma da un repertorio che coincide, almeno fino al Novecento, a un corpus di opere appartenente a un genere e a un autore. Il livello massimo di generalizzazione sembra essere quindi lo stile individuale e del genere musicale. Anche se indagini ulteriori possono far emergere altri livelli possibili di generalizzazione, è inne­ gabile che quel patrimonio comune di regole si trova in equilibrio precario e finisce per venir superato storicamente. L'esplicitazione concettuale delle regole dello stile si dimostra in grado di individuare la struttura razionale sottesa al funzionamento del meccanismo larga­ mente intuitivo e inconsapevole della produzione e della comprensio­ ne. L 'indagine grammaticale, d'altra parte, ha una funzione analoga a un fermo-immagine: descrive come uno stato qualcosa che è in realtà in continuo movimento. Questa duplicità (che viene fra l'altro affron­ tata, se pur in altri termini, dagli stessi autori: ivi, p. 3 3 ) segnala in termini estremamente concreti e minuziosamente descrittivi come si possa parlare di grammatica musicale soltanto in contesti storici ben delimitati, allo scopo di esplicitare i requisiti minimi della comunica­ zione in tutti quei repertori, generi e stili che li hanno presupposti. Per concludere, va osservato che il predominio del modello offer­ to dalla linguistica nelle ricerche degli anni settanta-ottanta, insisten­ do sul problema della segmentazione, ha lasciato in ombra molti aspetti, comuni a musica e linguaggio verbale, che non possono esse­ re affrontati attraverso lo studio sistematico delle strutture articolato­ rie. Paradossalmente gli sforzi della semiologia (a prescindere dal fat­ to che molti autori - come Nattiez ed Eco - sono stati attenti ascolta­ tori e interpreti della musica d'avanguardia) risultano indifferenti sia all'allontanamento della musica dal modello del linguaggio, soprattut­ to nella musica seriale e postseriale, sia a quello che più sopra abbia­ mo chiamato la tendenza all'individualizzazione del linguaggio musi­ cale nel Novecento. David Lidov (200 5) , che è stato un esponente del ripensamento della semiotica dopo la stasi degli anni novanta, ha proposto un rove­ sciamento dei termini nel confronto tra musica e linguaggio, chieden­ dosi se il linguaggio verbale non sia (talvolta) una musica, ovvero quanto musicale sia il linguaggio. Si tratta in parte di una provocazio33

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ne, dal momento che l'autore si occupa soltanto della musica. Egli propone, tuttavia, due elementi teorici nuovi rispetto all'impostazione "linguistica, del confronto tra musica e linguaggio. Il primo è la dia­ de articolazione-inflessione. Questi due livelli sono comuni a musica e parola, ma il primo coglie l'aspetto discontinuo del linguaggio che è passibile di segmentazione e suddivisione in unità discrete; il secondo coglie invece l'aspetto continuo e indivisibile comune tanto al lin­ guaggio parlato (l'inflessione della voce) quanto all'esecuzione musi­ cale (si pensi all'importanza del fraseggio nell'esecuzione musicale) . Si tratta in realtà di una mossa delicata perché l'ambito di analisi viene dislocato dalla struttura, fissata grazie alla scrittura, alla dimensione performativa, dimensione che comporta un'altra fondamentale asim­ metria tra la parola e la musica e tra culture musicali diverse: in effet­ ti la parola detta ha un carattere di immediatezza ed estemporaneità e una funzione sociale che la musica eseguita (ma non improvvisata) non possiede nella nostra società (Powers, 1 980, pp. 42-6) . Lidov cri­ tica la linguistica moderna, proprio perché ignora quegli aspetti del linguaggio che non si possono affrontare se non in termini di artico­ lazioni sistematiche. Essa si fonderebbe sostanzialmente su due pre­ giudizi: la priorità del testo scritto e la superiorità della funzione refe­ renziale del linguaggio, unico tra i sistemi di segni a possedere questo tratto: Le funzioni referenziali che possono essere assolte dalla scrittura e che sono pertanto assicurate dalle articolazioni sistematiche rivendicano con forza la loro priorità. Nondimeno considerare questa speciale capacità come l'essenza del linguaggio, alla maniera di Saussure, è indifendibile dal punto di vista logico e nasconde la densità, la prevalenza e l'importanza umana di altre fun­ zioni espressive del linguaggio e quindi ostacola senza necessità il confronto tra musica e linguaggio (Lidov, 2 005 , p. 9).

La revisione del paradigma semiologico promossa da Lidov, tuttavia, mira a smarcare il confronto tra musica e linguaggio dal punto di vi­ sta della priorità del linguaggio comunicativo e referenziale per ripo­ sizionarlo su una prospettiva più modulata in cui la distanza tra musi­ ca e linguaggio è differente in relazione ai vari livelli e alle funzioni prese in esame. Il termine "simbolo , , di per sé polisemico date le multiformi tra­ dizioni filosofiche che ne hanno preso in esame la natura, si può in­ tendere nel senso generale di qualcosa che sta per qualcos' altro. Quando lo si impiega nell'ambito della descrizione delle arti e delle loro eventuali somiglianze e differenze, ci si imbatte immediatamente 34

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in due questioni delicate e complesse: la referenzialità da una parte e il problema dell'interpretazione dall'altra. Anche se il problema del­ l'interpretazione è centrale nell'estetica, per affrontare la questione della somiglianza o differenza tra i diversi sistemi di simboli non è necessario mettere subito in campo il problema della semiosi, ma si può partire dallo studio del funzionamento dei simboli, ossia dal modo in cui essi "stanno " per qualcos'altro. È questo il punto di par­ tenza di Nelson Goodman nella sua opera dedicata ai "linguaggi del­ le arti" . Sebbene il termine "simbolo" sia impiegato spesso come ter­ mine tecnico, all'interno della classificazione dei segni nella semiotica, per distinguerlo da altre forme di segni cosiddetti " motivati " come indici e icone, in quest'opera esso è usato in senso opaco e compren­ de lettere, parole, testi, dipinti, diagrammi. Il termine "linguaggio " , utilizzato nel titolo, v a inteso piuttosto nell'accezione d i "sistema di simboli " , tanto è vero che l'intento di Goodman è controbilanciare lo sviluppo della linguistica strutturale con uno studio dei sistemi sim­ bolici non verbali allo scopo di «cogliere in modo abbastanza com­ prensivo i modi e gli strumenti del riferimento, e il loro uso vario e pervasivo nelle operazioni intellettuali» (Goodman, 1 99 8 , p. 5 ) . Il pri­ mo livello di indagine comprende una descrizione analitica delle fun­ zioni simboliche principali, ovvero rappresentazione, descrizione ed espressione. A questo livello di analisi le funzioni simboliche non ap­ paiono influenzate nella loro sostanza dalla differenza del medium uti­ lizzato, sebbene fin dall'inizio venga stabilita una distinzione tra rap­ presentazione, riferita a un simbolo pittorico, e descrizione, riferita a un simbolo verbale. Mentre le argomentazioni tradizionali intorno al riferimento collegano simbolo e oggetto rappresentato in termini di copia, imitazione e rispecchiamento (un paradigma estetico che com­ porta la primari età della pittura) , Goodman nega che esista un rap­ porto di somiglianza tra simbolo e oggetto rappresentato. La rappre­ sentazione sarebbe invece un modo di classificare gli oggetti grazie all'uso di "etichette" ; essa è quindi sostanzialmente diversa da una copia, ma funziona allo stesso modo in cui, in una descrizione, si at­ tribuisce un predicato a un oggetto: Le rappresentazioni sono dunque figure che funzionano pressoché allo stesso modo delle descrizioni. Esattamente come gli oggetti sono classificati per mezzo di, o sotto, varie etichette verbali, così anche gli oggetti sono classifi­ cati da o sotto varie etichette pittoriche. E le etichette medesime, verbali o pittoriche, sono a loro volta classificate sotto etichette, verbali o non-verbali (ivi, p. 34) .

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La rappresentazione non implica alcuna rassomiglianza tra simbolo e oggetto rappresentato, neppure in pittura, perché non è possibile co­ gliere il reale con un sguardo ingenuo: Quando si pone al lavoro, l'occhio è sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni, vecchie e nuove, che gli vengono dall'orecchio, dal naso, dalla lingua, dalle dita, dal cuore e dal cervello [ . . . ] . Non solo come, ma ciò che vede è regolato da bisogni e presunzioni. Esso seleziona, respinge, organizza, discrimina, associa, classifica, analizza, costruisce (ivi, pp. 14-5 ) .

L a classificazione implica pertanto sempre delle scelte e una sorta di costruzione dell'oggetto: Il riferimento a un oggetto è una condizione necessaria per la sua raffigura­ zione o descrizione, ma per nessuna delle due alcun grado di somiglianza è condizione necessaria o sufficiente. Sia la raffigurazione che la descrizione prendono parte alla formazione e alla caratterizzazione del mondo; ed intera­ giscono l'una con l'altra e, insieme, con la percezione e con la conoscenza (ivi, p. 42 ) .

Sia l a rappresentazione pittorica sia l a descrizione risultano così sus­ sunte sotto la categoria della denotazione, sebbene esistano anche rappresentazioni con denotazioni nulle ed estensioni nulle, ossia figu­ re che non rappresentano oggetti esistenti ma immaginari, come le figure di unicorni. I simboli non si limitano soltanto a denotare, ma anche a esprimere. Ora, mentre la rappresentazione comporta la de­ notazione, l'espressione comporta il possesso metaforico e non lette­ rale di una proprietà. Un quadro che esprime tristezza possiede meta­ foricamente questa qualità. Questa concezione intransitiva dell'espres­ sione sgombra il campo da un bel po' di problemi e di confusioni, e risponde negativamente a questioni di questo tipo: se un'opera debba esprimere i sentimenti dell'autore oppure se il suo fine sia quello di suscitare sentimenti nell'ascoltatore (questioni spesso dibattute nel corso della storia dell'estetica) . Ora la differenza fra l'espressione e la denotazione risulta chiara soprattutto dalla direzione del riferimento: la rappresentazione infatti denota qualcosa, mentre l'espressione viene denotata da qualcosa. Un'opera d'arte può riferirsi a un oggetto, ma allo stesso tempo possedere metaforicamente una proprietà (la tristez­ za in un quadro triste, per esempio) . Anche nel secondo caso vi è un riferimento, ma esso, per così dire, sale da ciò che è denotato al sim­ bolo e non discende invece dal simbolo al denotato; la tristezza viene attribuita al quadro come un predicato (pittorico e non verbale) :

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Denotare è riferirsi a, ma essere denotati non è necessariamente riferirsi a qualche cosa. E tuttavia l'espressione, come la rappresentazione, è una forma di simbolizzazione; e un quadro deve stare per, simbolizzare, riferirsi a ciò che esprime (ivi, pp. 5 2 - 3 ) .

Per comprendere la nozione di "possesso metaforico " bisogna seguire un ulteriore passo dell'argomentazione che conduce a sussumere l'e­ spressione nella modalità più ampia dell'esemplificazione: Un oggetto che è denotato, letteralmente o metaforicamente, da un predica­ to, e si riferisce a tale predicato e alla proprietà corrispondente, possiamo dire che esemplifica quel predicato o quella proprietà (ivi, p. 5 3 ) .

L'illustrazione più concreta è il campione di stoffa del sarto che "esemplifica" alcune proprietà perché le possiede: il tipo di tessuto, il colore, la qualità ruvida o liscia della superficie, la resistenza ecc., pur non possedendone altre, per esempio la forma o la grandezza. L'e­ semplificazione comporta il possesso di alcune proprietà più il riferi­ mento; inoltre, come risulta evidente dall'esempio del campione di stoffa, non sempre l'esemplificazione è un'espressione, mentre ogni espressione è una forma di esemplificazione. Il punto cruciale è il se­ guente: mentre si può denotare qualsiasi oggetto (ovvero i simboli si possono riferire a qualsiasi oggetto reale o immaginario che sia) , si possono esemplificare soltanto le etichette (che rappresentano " classi" di oggetti o, in altre parole, sono modi per classificare gli oggetti) . Qui sembra rispuntare l'asimmetria tra i sistemi verbali e quelli non verbali, perché sorge spontanea una domanda: si possono esemplifica­ re soltanto i nomi e dunque l'esemplificazione emerge soltanto in conseguenza dello sviluppo del linguaggio? La posizione di Goodman a questo proposito è motivata dalla convinzione che non esistano se­ gni naturali: simboli pittorici, gesti, costrutti sonori funzionano allo stesso modo dei predicati nel sistema linguistico. Sotto questo aspetto i sistemi simbolici linguistici e non linguistici sono equivalenti e tutti in grado di funzionare secondo le modalità base del riferimento. In che cosa si distinguono, allora, i sistemi simbolici non verbali da quelli verbali? La diversità va individuata, secondo Goodman, nella radicale differenza insita nelle loro "iscrizioni" , potremmo dire nella loro forma e sostanza di segni. La pittura, la musica e la letteratura si distinguono in quanto la prima è un'arte autografica, ovvero ammette soltanto originali e non copie (che vengono considerate falsi) , mentre la musica e la letteratura sono arti allografiche, in cui la differenza fra copia e originale è, invece, insignificante anche se non lo è per i col37

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lezionisti di manoscritti, che li considerano alla stregua di altri oggetti collezionabili artistici e non, come dipinti, porcellane, scatole di fiam­ miferi. Per essi il valore estetico è uno dei valori fra altri, per esem­ pio la rarità dell'oggetto; nel dominio dell'arte, invece è ovviamente prioritario. Le arti allografiche possiedono un sistema che consente di " controllare " l'esatta equivalenza della copia all'originale, che si basa sulla natura del sistema di scrittura a loro proprio e che Goodman definisce con il termine di "sistema notazionale" . A un primo livello la letteratura provvede un esempio evidente: è possibile sempre con­ trollare l'esatta corrispondenza di una sequenza di lettere, spazi e se­ gni di punteggiatura per stabilire se si tratti di una copia corretta del­ l' originale, ovvero se esista una «identità di compitazione» (ivi, p. I 04) . Si può controllare la corrispondenza tra un originale e una co­ pia laddove i sistemi simbolici siano notazionali. Goodman enumera una serie di requisiti teorici che vanno soddisfatti affinché un sistema possa essere definito notazionale. Non tutti i sistemi notazionali, tut­ tavia, soddisfano contemporaneamente tutti i requisiti; la violazione dell'uno o dell'altro di questi requisiti contribuisce a definire i vari tipi di sistemi. Alla base di un sistema simbolico vi è uno schema simbolico che consiste di caratteri, ovvero di classi di segni, e iscrizio­ ni, ovvero di istanze o esemplari. I requisiti sintattici presumono che: a) ogni iscrizione sia riferibile a un carattere indipendentemente dal­ la realizzazione materiale; un esempio è offerto dalle lettere dell'alfa­ beto, che rimangono le stesse pur variando considerevolmente (gran­ di, piccole, corsive, maiuscole, minuscole ecc.) ; b ) i caratteri siano disgiunti, ovvero che un carattere sia discreto e distinguibile dagli altri; c) che i caratteri siano finitamente differenziati: le lettere dell' alfabe­ to italiano sono 2 I , per esempio, e pur nella difficoltà materiale di distinguerle una dall'altra, il numero di alternative è finito; allo stesso modo le frazioni espresse in numeri arabi presentano un numero fini­ tamente differenziato di caratteri anche se le quantità che rappresen­ tano sono infinite. I requisiti semantici ripetono a un altro livello gli stessi principi, ovvero mancanza di ambiguità, disgiunzione e differenziazione finita. In complesso, i requisiti sono cinque: indifferenza di carattere, di­ sgiunzione semantica e sintattica, differenziazione finita semantica e sintattica. Come si è visto, non tutti i sistemi soddisfano tutti e cin­ que i requisiti semantici e sintattici: le lingue naturali, per esempio, non soddisfano il criterio semantico della non-ambiguità; ma la scrit­ tura alfabetica consente di controllare la corrispondenza di copia e

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originale. La musica ha sviluppato nel corso dei secoli un sistema no­ razionale: non tutti gli aspetti di una partitura sono notazionali, ma gli elementi essenziali ( altezza e durata) lo sono e soddisfano tutti e cinque i requisiti richiesti. Dunque è possibile controllare la corri­ spondenza tra partitura ed esecuzione: Dal momento che l'unico requisito di un esemplare genuino dell'opera è una completa congruenza con lo spartito, l'esecuzione più piatta priva di errori materiali conta appunto come un esemplare siffatto, a differenza dell'esecu­ zione più brillante che abbia una sola nota (ivi, p. I 62 ; sulla critica di questa concezione e del concetto di sistema notazionale cfr. Boretz, 1 970) .

Tuttavia la differenza tra i sistemi simbolici non si risolve, secondo Goodman, nella diversa maniera di costituirsi come opera o nell'esse­ re alcuni di essi articolati dal punto di vista sintattico (linguaggio ver­ bale e musica, per esempio) e altri no, come la pittura, ma dipende dalla maggiore o minore densità dei sistemi. Un sistema è denso se viola la regola della differenziazione finita, cioè quando tra due ca­ ratteri è possibile trovarne infiniti altri intermedi. Un tradizionale ter­ mometro formato da un'asticella di mercurio è un esempio di sistema denso, perché fra due tacche è possibile trovare infiniti valori inter­ medi. Rappresentazione pittorica e descrizione verbale differiscono proprio sotto questo rispetto, perché la pittura rappresenta un siste­ ma denso e il linguaggio verbale no; il che per Goodman non signifi­ ca che la differenza consista nel fatto che la pittura non è un linguag­ gio articolato. Quel che conta sono le relazioni dei simboli all'interno di ciascun sistema simbolico. Dopo aver fatto un lungo cammino al di fuori dei territori dell'estetica tenendo sempre sott' occhio la molte­ plicità dei sistemi simbolici sviluppati dall'uomo (dalle partiture, ai dipinti, dai termometri ai contatori, dalle mappe ai diagrammi) , Goodman compie il passo che riconduce alcuni sistemi simbolici al­ l' arte: la densità, articolata in densità sin tattica e semantica e correlata con la saturazione sintattica, viene addotta, se non come prova, alme­ no come sintomo della sfera estetica: Tutti questi tre tratti esigono la massima sensibilità di discriminazione. La densità sintattica e semantica richiede un 'attenzione indefinita per determina­ re il carattere e il referente, una volta dato un segno del sistema; e la satura­ zione sintattica relativa in un sistema sintatticamente denso richiede uno sforzo di discriminazione analogo, per così dire, su più dimensioni. L'impos­ sibilità di determinazione finita può portare con sé la suggestione dell'ineffa­ bilità tanto frequentemente rivendicata al fatto estetico, o a esso imputata. Ma la densità, lungi dall'essere misteriosa e vaga, è esplicitamente definita; e

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sorge dal bisogno insoddisfatto di precisione assoluta, e al contempo lo so­ stiene (Goodman, 1 998, pp. 2 1 7-8).

Goodman si awale di un apparato argomentativo tecnico e teorico i cui risultati, spesso, sono lontani dall'uso comune, ma è convinto che in questo caso (come in altri) «la pratica corrente [ . . . ] conduce al di­ sastro per la teoria» (ivi, p. ro7 n) . Si sia disposti o meno ad accetta­ re i suoi risultati, alla sua teoria va ascritto il merito di aver ricono­ sciuto un modo di funzionamento dei simboli intrinsecamente dispo­ sto a un uso estetico. L'estetico, a sua volta, viene ricondotto a un modo di costruire il mondo, non radicalmente diverso da quello della scienza, la quale si awale allo stesso modo di sistemi simbolici.

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Musica e trascendimento del linguaggio Nel paragrafo precedente sono stati illustrati tre diversi modi di ana­ lizzare le differenze tra i sistemi di segni: l'impiego di metodi tratti dalla linguistica e applicati alla semiologia comparata e in particolare alla musicologia, praticato da Nattiez; l'indagine sulla dimensione continua della musica, trascurata nel modello linguistico in cui domi­ na il criterio della discontinuità, proposto da Lidov; la ridefinizione teorica dei sistemi simbolici in base ai requisiti degli schemi notazio­ nali di Goodman. Tutte queste posizioni, comunque, anche quando resistono a concedere, in maniera più o meno esplicita o attenuata, una certa preminenza del linguaggio verbale, non implicano mai una critica a un determinato sistema di segni. Nella tradizione dell'estetica musicale tedesca a partire da Wack­ enroder, Tieck, Novalis, Hoffmann e poi soprattutto in Schopen­ hauer, la musica ha invece rappresentato un mezzo potente per espri­ mere istanze trascendenti inaccessibili al linguaggio verbale. Nella ri­ cezione di Schopenhauer da parte di Nietzsche questa tradizione è stata collegata a una radicale critica del linguaggio verbale, concettua­ le e logocentrico, responsabile della forzata equiparazione del non­ identico che sta alla base del pensiero scientifico. La critica del lin­ guaggio nietzschiana e l'idea di un potenziamento estetico insito nella musica intesa come alternativa al linguaggio concettuale hanno lascia­ to un'impronta profonda nella filosofia del Novecento (Bayerl, 2002 ) , tanto in Ernst Bloch e in Theodor W. Adorno, quanto in autori quali Barthes, Lyotard e Deleuze. Questo tema sposta il fuoco dell'indagine sui problemi del senso e del significato della musica che si affronte-

I . MUSICA E LINGUAGGIO

ranno nel prossimo capitolo . Un breve scritto su musica e linguaggio di Adorno (Adorno, 1 978), invece, merita di essere considerato in questo contesto perché, pur in anticipo di almeno dieci anni rispetto alle discussioni intorno alle analogie e alle differenze tra sistemi di segni verbali e non verbali, affronta la questione della somiglianza/ differenza tra musica e linguaggio verbale dislocandola progressiva­ mente al livello superiore, ovvero al problema del potenziale lingui­ stico dell'arte in generale, in quanto luogo dell'articolazione di un senso esautorato dal linguaggio della ragione strumentale. La dialetti­ ca tra musica e linguaggio si mette in moto nel testo in questione attraverso un meccanismo di slittamento tra letterale e metaforico; vi sono alcuni punti di contatto tra musica e linguaggio, ma ciò che sug­ gerisce di essere interpretato come una somiglianza letterale va invece capovolto in una relazione metaforica: La musica è simile al linguaggio. Espressioni come idioma musicale, inflessio­ ne [ Ton/al{J non sono metafore. Ma la musica non è il linguaggio. La sua somiglianza con la lingua conduce verso l'interiorità, ma porta anche nel vago. Chi considera la musica come linguaggio in senso letterale erra. Essa è simile al linguaggio in quanto successione temporale di suoni arti­ colati [ Tane] , che sono più che semplici suoni [Laute] . Essi dicono qualcosa, spesso qualcosa di umano. E lo dicono in maniera tanto più impressionante quanto più la musica è elevata. La successione dei suoni è affine alla logica: vi è il giusto e lo sbagliato. Ma ciò che vien detto non si può separare dalla musica. Essa non costituisce un sistema di segni. La somiglianza con il linguaggio va dal tutto, dal complesso organizzato di suoni significanti giù fino al singolo elemento sonoro [Laut] , al suono [ Ton] come soglia che lo separa dalla mera esistenza, dal puro significante. La musica è analoga al discorso e pertanto simile al linguaggio, non soltanto come complesso organizzato di suoni, bensì nella maniera della sua concreta struttura. La teoria tradizionale delle forme musicali parla di frasi, semifrasi, periodo, interpunzione; domanda, esclamazione, inciso; dappertutto si trova­ no frasi secondarie, le voci si alzano e si abbassano e in tutto ciò si manifesta il gesto musicale che è tratto dalla voce che parla. Quando Beethoven pre­ scrive di eseguire una bagattella dall'op. 33 " con espressione parlante" , egli sottolinea qui, riflettendo , un momento che è sempre presente nella musica (ivi, p. 25 1 ) . Rispetto al linguaggio significante [meinende Sprache] la musica appartiene a un ordine completamente diverso. In esso risiede il suo aspetto teologico. Ciò che essa dice è, in quanto apparenza, al contempo determinato e occul­ to. La sua idea è la figura del nome divino. Essa è preghiera demitologizzata, liberata dalla magia dell'effetto [Einwirken] , tentativo ancorché vano di no­ minare il nome stesso e non di comunicare significati (ivi, p. 2 5 2 ) .

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

La posizione di Adorno si può definire a partire dal rifiuto di conce­ dere alla musica lo statuto di sistema di segni. Solo tenendo conto di questo presupposto è possibile comprendere la relazione dialettica tra musica e linguaggio verbale. Vi sono innanzitutto due aspetti della musica che la avvicinano alla lingua: la segmentazione in semifrasi, frasi, periodi, e la mimesi della voce. A questi due elementi si può ascrivere l'espressività della musica, la sua dimensione eminentemente umana (che va intesa qui in opposizione alla concezione metafisico­ platonica per cui la musica esprimerebbe rapporti aritmetici e quindi rappresenterebbe un modello di mondo) . La capacità di "parlare" della musica è al contempo resa possibile dalla razionalità che si ma­ nifesta nel suo nesso logico. È interessante notare come converga qui la lunga e tormentata riflessione adorniana volta a «determinare in modo decisivo il rapporto tra la musica e la logica concettuale» (Adorno, 2oo r , p. r 8 ) . L'elemento decisivo, tuttavia, a differenza del­ le ipotesi formulate negli appunti raccolti per il progetto su Beetho­ ven (ivi, pp. 1 7-45 ) , è rappresentato dal sistema tonale. Esso fornisce l'equivalente dei concetti. Le frequenti occorrenze di accordi usati con la medesima funzione, le cadenze, l'uso di formule melodiche ri­ correnti, pur non essendo concetti in senso proprio, sono paragonati da Adorno ai "concetti primitivi" , ovvero quelli che sono presupposti dalle definizioni ma che non sono a loro volta passibili di definizione. Sebbene sembrino naturali, la tonalità e i significati connessi alle sue formule ricorrenti sono in realtà il risultato di una sedimentazione storica, che è diventata una sorta di seconda natura. Proprio questo fatto spiega quanto sia difficile prendere congedo dalla tonalità e al contempo la necessità di questo congedo proclamato dalla nuova mu­ sica, la quale si rivolta contro la reificazione del linguaggio tonale e la sua riduzione a stereotipo. Il rapporto tra musica e linguaggio, dun­ que, non si può dedurre da una natura invariante della musica, astratta dalla storia e dai rapporti sociali. Esso si è costituito assieme al consolidamento del sistema tonale e al momento in cui Adorno scrive, ovvero alla luce delle tendenze della musica seriale, «è diventa­ to problematico» (Adorno, 1 978, p. 25 2 ) . L a posizione di Adorno sembra presupporre l a necessità di una relazione, ma non ovviamente di un'assimilazione tra musica e lin­ guaggio, relazione che è, tuttavia, inevitabilmente parziale. La musica, infatti, appartiene a un altro ordine rispetto alla "lingua significante" ( meinende Sprache) , termine con il quale Adorno intende tanto il lin­ guaggio ordinario quanto il linguaggio filosofico nella loro funzione comunicativa. Secondo Adorno la musica possiede il potere di riman­ dare a quel senso utopico che egli non ammette si possa articolare in

I . MlJSICA E LINGlJAGGIO

senso positivo. È questo il significato del riferimento all'aspetto "teo­ logico " della musica, al tentativo di "nominare il nome di Dio " . Non per questo Adorno concede alla musica la qualità di significare l'i­ neffabile, il trascendente, il mistero. Il rapporto tra la musica e l'in­ tenzionalità è interrotto e intermittente, a differenza di quanto accade nel linguaggio comunicativo: Essere musicale significa innervare le intenzioni che balenano, senza perdersi in esse, ma emarginandole. Così la musica si costituisce come struttura (ivi, p. 2 5 3 ) .

I n conclusione si può affermare che il carattere linguistico della musi­ ca, benché reso possibile da alcune affinità con la lingua, va inteso come articolazione di un senso che trascende le condizioni di parten­ za. Esso risulta dalla configurazione dell'opera, ovvero dalla riuscita del caso particolare, e non dalle premesse di un sistema. Questo è altrettanto vero per tutte le arti, come argomenta la Teoria estetica. Le opere "parlano" , infatti, non grazie al carattere linguistico del pro­ prio medium, bensì in virtù della loro articolazione interna che le configura come "enigma" e tour de force. La parola è chiamata a for­ mulare la risposta taciuta all'enigma costituito dall'opera d'arte nella forma dell'interpretazione. Soltanto nella dimensione interpretativa, dunque, si rivela l'intermedialità insita in ogni mezzo artistico che esi­ ge l'intervento della lingua. Ogni intervento ermeneutico, sia esso in­ terpretazione, commento o critica, è destinato a scontrarsi con la resi­ stenza delle opere a cedere il loro senso nascosto. A sua volta l'inter­ pretazione è efficace soltanto nella relazione dialettica che lo lega al­ l'arte: Il fine dell'opera d'arte è la determinatezza dell'indeterminato. Le opere sono in sé consone allo scopo, e senza scopo positivo al di là della loro com­ plessione; ma il loro carattere finalistico si legittima quale figura della rispo­ sta all'enigma. Tramite l'organizzazione le opere divengono più di quel che sono. In dibattiti assai recenti soprattutto sulle arti figurative è divenuto rile­ vante il concetto di écriture, di certo stimolato dai fogli di Klee, che si avvici­ nano a un sottile scribacchio. Come un riflettore, quella categoria dell'arte moderna getta luce su cose passate; tutte le opere d'arte sono scritture, e non solamente quelle che si presentano come tali, geroglifizzanti, per le quali il codice andò perduto e a costituire il cui contributo contribuisce non da ultimo quella mancanza. Solo come scrittura le opere d'arte sono linguaggio. Se nessuna opera è mai giudizio, qualsiasi opera però racchiude in sé mo­ menti che derivano dal giudizio: giusto e sbagliato, vero e falso. Ma la rispo­ sta taciuta e determinata delle opere d'arte non si manifesta nell'interpreta-

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' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

zione d'un colpo come una nuova immediatezza, bensì solo passando attra­ verso tutte le mediazioni, quelle della disciplina delle opere come del pensie­ ro, della @osofia. Il carattere di enigma soprawive all'interpretazione che ot­ tiene la risposta (Adorno, 1 975 , p. 179).

La mappa di identità e differenze, contiguità e distanze, emerse dal confronto tra musica e linguaggio tentato nel Novecento, ha messo in evidenza due orizzonti che inevitabilmente si incrociano e si configu­ rano in un rapporto di tensione: quello della dimensione linguistica e comunicativa, che appartiene alla dimensione sociale, e quello dell'o­ pera, che tende invece all'individualità e all'idiomatico. Nell'ultimo decennio del Novecento, tramontata la centralità della linguistica e della semiologia, le neuroscienze hanno spostato il fuoco dell'indagi­ ne al problema della specializzazione cerebrale e dell'autonomia della musica rispetto al linguaggio (per una introduzione ricca di indicazio­ ni bibliografiche cfr. Schon, Akiva-Kabiri, Vecchi, 2007 ; inoltre Pe­ retz, 2 002 e Mithen, 2005 ) . Lo strano intreccio tra musica e linguag­ gio, tuttavia, rimane una sfida anche per la filosofia impegnata sul fronte del funzionamento della mente, del pensiero e delle facoltà espressive e comunicative umane.

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2

Senso e significato nella mus1ca

2. I

Tra

senso e non senso

Chiedersi che senso abbia, oppure quale sia il significato di una com­ posizione musicale, un quadro, una poesia o una pièce teatrale è di­ ventato una reazione comune nel Novecento, quando la tensione tra le attese basate sulle norme del genere e dello stile e le eccezioni a esse si è enormemente intensificata rispetto al secolo precedente, so­ prattutto in concomitanza con l'affermazione delle avanguardie stori­ che. Per Susanne Langer ciò è dovuto soprattuto a fattori sociali: Vi è oggi una forte tendenza a trattare l'arte come un fenomeno significante piuttosto che come esperienza di piacere, gratificazione dei sensi, e ciò è pro­ babilmente dovuto al libero uso di dissonanze e del cosiddetto "brutto" da parte dei maggiori artisti contemporanei in ogni campo: letteratura, musica, arti plastiche. La cosa può anche dipendere, in qualche misura, dalla rimar­ cabile indifferenza ai valori artistici delle masse in educate. N elle epoche pas­ sate, tali masse non avevano accesso a grandi opere d'arte: musica, pittura e persino libri erano piaceri da ricchi: si poteva supporre che il povero e il volgare avrebbero goduto dell'arte se avessero potuto prendere contatto con essa. Ma oggi che ognuno sa leggere, può visitare musei e ascoltare grande musica, almeno alla radio, il giudizio delle masse su tutto ciò non è un piace­ re direttamente sensuoso; che se lo fosse eserciterebbe un richiamo - come lo esercitano la pasticceria o gli alcolici - per il gusto ineducato tanto quanto per quello coltivato. Tutto ciò, e in più l'intrinseca sgradevolezza di molta arte contemporanea, renderebbe naturalmente debole qualsiasi teoria che trattasse l'arte come puro piacere (Langer, 1 972 , pp. 26 8-9) .

I due fattori individuati da Langer, la disponibilità dell'arte per tutte le classi sociali e il declino del bello e del piacevole nell'arte moder­ na, colgono un momento in cui l'esperienza estetica è stata sfidata nella maniera più ardita a rinunciare all'elemento del piacere, che al45

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

meno fino a Kant era considerato intrinseco a ogni apprezzamento dell'arte. Il disorientamento provocato dalle cosiddette «arti non più belle» (J auss, 1 96 8 ) , tuttavia, non fa che rafforzare e rendere più ur­ gente il bisogno di collocare l'esperienza e l'esistenza dell'arte all'in­ terno di un contesto significativo. È questo anche il tema intorno a cui ruota tutta l'estetica di Adorno, che parte dalla crisi del senso nelle forme artistiche d'avanguardia per proiettare questo problema su tutta l'arte moderna, da Goethe a Beckett (Adorno, 1 975 , pp. 1 84, 2 1 8-2 3 ) . In effetti, dal momento in cui l'arte, e l a musica in particolare, si è emancipata da qualsiasi funzione, sia essa sociale, religiosa, morale o educativa, e si è dichiarata autonoma è necessario che le si ricono­ sca un senso in generale in quanto arte e che sia attribuito un si­ gnificato in particolare alle singole opere, sia che le si accolga con piacere oppure con difficoltà e talvolta persino con riluttanza. Questo vale in modo particolare per la musica strumentale, la cosiddetta "musica pura " , emancipatasi intorno alla fine del XVIII secolo dalla poesia, che l'aveva vincolata al dominio del significato verbale nei se­ coli precedenti. La domanda sul senso e sul significato è dunque inscritta nel co­ dice genetico stesso della musica moderna e l'estetica è, in un certo senso, il suo scomodo contraltare. L'estetica filosofica, infatti, ha dato un enorme peso al significato metafisico della musica e il compito dell'estetica musicale è stato spesso definito nel quadro disciplinare della musicologia sistematica col duplice intento di individuare il si­ gnificato ultimo della musica in quanto arte e fornire un'interpreta­ zione delle singole composizioni musicali (Welleck, 1 9 87, p. 7 ) . L a questione del senso e del significato, tuttavia, non gode di buona accoglienza nel mondo della musica, a differenza di quanto av­ viene per le altre arti, se si prescinde dalla comune e comprensibile irritazione degli artisti nei confronti dei critici. Gli ascoltatori invece, a partire dall'inizio dell'Ottocento, sembrano assetati di significati, come dimostra la fortuna delle guide e delle note introduttive ai con­ certi. Ci si trova di fronte così a un contesto circolare: da una parte la domanda sul senso sembra partire dal sospetto o dalla paura di una latenza del senso stesso dell'arte in generale e del significato delle singole composizioni; dall'altra i candidati ufficiali a rispondere a queste domande, l'estetica musicale e soprattutto le interpretazioni delle opere, sono spesso guardati con sospetto dai musicisti e con sufficienza da molti musicologi. Ma non basta la frequenza del termi­ ne "significato " nei titoli delle indagini musicali, né l'enfasi con cui il

2.

SEI'\SO E SIGI'\IFICATO NELLA MUSICA

significato assente viene invocato a spiegare la centralità della que­ stione nel discorso sulla musica del Novecento. Il termine "significato " , inoltre, è altamente polisemico e la sua natura è una delle questioni più studiate dalla filosofia del linguaggio del secolo scorso, soprattutto in relazione al linguaggio verbale, che è lo strumento di significazione più usato ed efficiente. Pur senza ad­ dentrarsi in questioni tecniche e filosofiche specifiche, è importante cominciare proprio dall'uso di questo termine per addentrarsi poi nel dibattito musicologico ed estetico. Una delle accezioni del termine "significato " è quella che allude all'intenzione di chi pronuncia un enunciato. La reazione più comune a un brano di musica che appare al primo ascolto incomprensibile è infatti chiedersi che cosa avrà voluto dire l'autore. Ma l'intenzione spesso non coincide con il senso dell'enunciato stesso, anche nella lingua parlata, che di solito sembra più chiara e più precisa della mu­ sica. La fallacia di identificare intenzione e significato è stata messa in evidenza, fra gli altri, da Ogden e Richards con un gioco di parole che funziona bene in inglese e un po' meno in italiano, lingua che dispone di un maggior numero di sinonimi per "significare" e "si­ gnificato " : "we very often mean what we don't mean " ; che, perdendo tutta l'ironia dell'espressione originale, è stato tradotto così: «spessis­ simo intendiamo quel che non intendiamo» (Ogden, Richards, 1 966, p . 2 1 9 ) . Questo gioco di parole mette in evidenza sul piano logico la discrasia tra il senso di un enunciato e l'intenzione di chi lo pronun­ cia. Una situazione simile si verifica quando si scambia il significato di una composizione per l'intenzione dell'autore, slittando così da una fallacia logica a una cattiva interpretazione estetica, la quale è stata definita appunto "intentional fallacy'' , ovvero l'errore di identifi­ care il significato di un'opera con l'intenzione dell'autore (Beardsley, Winsatt, 1 976; Cone, 1 974) . Vi è un'ulteriore accezione del termine "significato" , a sua volta dotata di varie sfumature, che consente di focalizzare una serie di problemi al centro della discussione intorno al significato della musi­ ca. Spesso con tale termine si intende la relazione di qualche entità particolare rispetto a un qualsiasi sistema di riferimento. In termini così generali si tratta di un'accezione abbastanza imprecisa; Ogden e Richards lamentano il fatto che si parla in un senso «troppo vago per essere di qualche utilità a chi parla» (Ogden, Richards, 1 966, p. 2 2 2 ) e , considerata l a loro scarsa considerazione per l e discussioni incon­ cludenti, non si tratta di un complimento. In effetti questa accezione illustra una relazione tra un particolare e un sistema che può risultare molto vaga oppure molto stringente a secondo del grado di forma47

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

lizzazione con cui è rappresentato il sistema di riferimento. Un pas­ saggio di una dimostrazione matematica ha un suo "significato " in re­ lazione al complesso di cui fa parte; così la teoria dei giochi di Nash, per esempio, ha un suo significato per lo studio dell'economia. In nessuno di questi due casi il significato è vago o irrilevante; il primo caso è più convincente rispetto al secondo, il quale può essere conte­ stato da teorie più avanzate nell'ambito dell'economia. In ambito mu­ sicale si usa correntemente il termine "significato " nella prima acce­ zione, per esempio quando si parla del significato di un accordo in un determinato passaggio (in questo caso il "sistema" è il brano mu­ sicale) oppure in una determinata epoca (in questo caso il " sistema" è l'insieme di regole che determinano la grammatica e la sintassi musi­ cale di un periodo, lo stile e i singoli idiomi compositivi) . Ma spesso usiamo il termine "significato" per indicare una relazione con un si­ stema che non è omogeneo a quello del particolare preso in esame ed è molto più distante da quanto lo sia la teoria del giochi di N ash dall'economia. Diciamo per esempio che un determinato brano di musica ha un significato storico; con quest'espressione intendiamo il rapporto tra quel brano e una serie di valori e norme estetiche con una certa presupposta "tendenza" storica. Dall'Ottocento in poi, soprattutto nell'ambito del discorso musi­ cologico del secolo scorso, si è imposta la norma che sia legittimo parlare di significato musicale soltanto in relazione al sistema di segni musicali; in altre parole, in questo campo è ammesso soltanto il si­ gnificato musicale "immanente " . La stessa descrizione storica della musica, la storia della genesi e della ricezione di una composizione, la relazione di un'opera o di un corpus di opere con lo stile e le norme dell'epoca in cui è stata creata sono perlopiù considerati come conte­ sto rilevante per dischiudere l'accesso alla comprensione dell'opera, ma estranei al suo significato più profondo. In termini generali, moltissimi esponenti della musicologia, intesa come disciplina accademica, hanno opposto resistenza alla legittima­ zione di altri sensi del significato musicale (simbolico, espressivo, so­ ciale) che sono invece al centro di aree di indagine molto attive nella filosofia della musica, nell'estetica musicale e nella storia della cultura e delle idee del Novecento. È facile individuare in Hanslick il capostipite dei difensori del si­ gnificato musicale immanente e nella musicologia orientata all'analisi formale delle opere "il braccio secolare" di questa concezione. Se si prova a rileggere i passi canonici in cui Hanslick descrive il "signifi­ cato puramente musicale" (Hanslick, 1 945 , pp. 82 - r 1 7 ) tuttavia, si ri­ cava l'impressione che esso abbia una natura precisa e al contempo

2.

SEI'\SO E SIGI'\IFICATO NELLA MUSICA

abbastanza sfuggente: esso infatti è determinato dalla "forma" che as­ sumono i suoni in una composizione musicale; è di natura "logica" , m a di una logica musicale e non discorsiva. I n altre parole, il signifi­ cato "puramente musicale" resiste all'interpretazione verbale, perché è di natura diversa. Il linguaggio verbale è formato da frasi che han­ no il compito di denotare un significato, articolando un riferimento a qualcosa di esterno, per quanto obliquo, complesso e problematico possa essere questo processo. Il "riferimento " , almeno per coloro che si attengono a una definizione immanente del significato musicale, non è possibile nel caso della musica. Roger Scruton ha offerto una definizione di "significato puramen­ te musicale " parafrasando la definizione di Frege, secondo la quale il significato di una frase è ciò che si comprende quando la si com­ prende. Dunque per Scruton una teoria del significato musicale è una teoria di ciò che noi comprendiamo quando comprendiamo ciò che ascoltiamo («a theory of musical meaning is a theory of what we un­ derstand when we bear with understanding», Scruton, 1 993 , p. 1 94; cfr. anche Scruton, 1 997 , p. 1 69). La teoria del significato, tuttavia, non si ferma qui per Scruton, perché essa deve mostrare in che modo il significato possegga un valore estetico; questo a sua volta implica una difesa del carattere espressivo della musica e del concetto di "metafora" , che costituisce una sorta di ponte tra il dominio musicale e il mondo della cultura e dell'interiorità umana. Il significato musica­ le riverbera echi, ma non va oltre se stesso e non ha neppure bisogno di parole per essere definito: esso riposa in se stesso. È rilevante sottolineare che, all'origine, il concetto di " significato puramente musicale " appare un vuoto da riempire, anche se la sua comprensione viene considerata, in un certo senso, presupposta e na­ turale. Colmare questo vuoto, definire i modi in cui si articola il si­ gnificato musicale immanente, è stato uno dei compiti più importanti della teoria musicale e della musicologia dalla metà dell'Ottocento a oggi e definirlo in termini tecnici significherebbe ripercorrere i modi in cui la teoria musicale, a partire da Adolf Bernhard Marx e da Hu­ go Riemann fino a Heinrich Schenker e alla tradizione teorica da lui fondata, ha pensato i suoi modi di articolazione e costituirebbe un libro a se stante. Tuttavia tra la dimensione tecnica e quella più propriamente teo­ rica e speculativa rimane aperto uno spazio. Il progetto di Schonberg di «estrarre una logica musicale dai fatti della tecnica musicale» (Schonberg, 1 995 , p. 90) rappresenta al tempo stesso la consapevo­ lezza di questo scarto e il tentativo, rimasto comunque allo stadio di frammento, di passare dal dominio della tecnica a una teoria musicale 49

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

onnicomprensiva in grado di costituire un'estetica musicale radicata nelle leggi della logica umana e realizzata però interamente nel mezzo musicale. L' «idea musicale», secondo Schonberg, dipende per la sua realizzazione «dalle leggi della logica, della coerenza e della compren­ sibilità» modulate dalle esigenze estetiche di «varietà, cambiamento, ricchezza, profondità e bellezza» (un termine che Schonberg accom­ pagna nei suoi frammenti da prudenti o scettici punti interrogativi) e dalle esigenze umane «dell'etica [della bellezza] del sentimento, della persuasività, dell'insolito e della novità» (ivi, p. 1 03 ) . Nonostante l'in­ sistenza sugli aspetti "logici" insiti nell'idea musicale rappresentata dalla totalità di una composizione, Schonberg sottolinea la differenza specifica del significato musicale rispetto a quello scientifico. L'arte si distingue dalla scienza non soltanto perché si limita al caratteristico, all'appropriato, ma proprio come l'aforisma, grazie a un certo squili­ brio di elementi contrastanti che solleva dalla necessità di esaminare i dettagli, produce «l'effetto di una rivelazione»: Rispetto ai metodi onnicomprensivi di rappresentazione scientifica l'arte pre­ senta un vantaggio: non ha bisogno di menzionare i fatti insignificanti e privi di interesse. Nondimeno, l'arte presenta anche uno svantaggio: mentre la scienza non soltanto trae le proprie conclusioni, ma costringe anche il ricer­ catore a condividerle, l'arte lascia aperto un vasto campo per l'osservatore: egli può trarre da sé le conclusioni, può credere o dubitare, può diventare entusiasta o rimanere indifferente. L 'arte intende soltanto stimolare, risveglia­ re interesse, indicare, rappresentare, formare (ivi, p. r 1 5 ) .

Nella prospettiva d i Schonberg, il significato musicale, dotato d i una salda coerenza interna, è una risposta alle esigenze estetiche ed etiche umane ed è caratterizzato da una forza di persuasività che dipende sia dalla mano dell'artista sia dalla disposizione dell'ascoltatore ad ac­ coglierle. Anche nella versione più speculativa, sebbene frammentaria, della teoria del significato musicale immanente, quindi, esso si pre­ senta con caratteristiche che lo definiscono più come una formazione precaria e instabile che come un saldo e dimostrabile possesso. Il lavoro compiuto dall'analisi e dalla teoria non è immediatamen­ te necessario per comprendere il significato di un brano musicale, an­ che se esso rappresenta il sapere presupposto che, mediato dai pro­ cessi educativi, sta alle spalle di ogni ascolto apparentemente inge­ nuo. Quando si dice che si comprende un brano musicale, molto spesso si intende proprio questo: " averci fatto l'orecchio" (Rosen, 1 995 , p. 1 6 ) . Questa familiarità, tuttavia, è soltanto un sintomo della presenza del significato, ma non è il significato stesso. Dal punto di

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SEI'\SO E SIGI'\IFICATO NELLA MUSICA

vista dell'ascoltatore, quella salda roccia protetta dall'autorevolezza di una disciplina accademica appare più che mai incerta; il significato musicale si rivela sfuggente: «La musica - asserisce Rosen - oscilla sempre sull'orlo del non significante, del nonsenso» (ibid. ) . Il carattere sfuggente del significato musicale è stato spesso spie­ gato con due argomenti: la mancanza di riferimenti al mondo e l'im­ possibilità di tradurlo in parole. Il primo è stato rinforzato in maniera decisiva dalla concezione strutturalista del linguaggio. Lo stesso Lévi­ Strauss riconduce lo statuto paradossale della musica, al contempo intelligibile e intraducibile, alla sua differenza specifica dalla poesia: Si avrebbe infatti torto a invocare la poesia per affermare che essa solleva un problema dello stesso ordine. N on tutti sono poeti, ma la poesia utilizza come veicolo un bene comune, che è il linguaggio articolato. Essa si accon­ tenta di promulgare per il suo impiego certe costrizioni particolari. Vicever­ sa, la musica si serve di un veicolo che le appartiene in proprio, e che, fuori di essa, non è suscettibile di un uso generale (Lévi-Strauss, 1 9 90, p. 36).

La mancanza della dimensione comunicativa e referenziale del lin­ guaggio musicale si rovescia così in una superiorità della musica, che, non diversamente dalla concezione romantica, si trova investita di po­ tenzialità superiori (che Lévi-Strauss chiama enfaticamente «il supre­ mo mistero delle scienze dell'uomo» e «la chiave del loro progresso», ibid.) . Forse le cose non stanno veramente in questi termini. Basta prendere in considerazione la funzione del linguaggio e non la sua struttura, infatti, per riconoscere che la funzione poetica tende a n eu­ tralizzare la dimensione pragmatica del linguaggio. Da questo punto di vista lo statuto della poesia si awicina molto a quello della musica. Alla stessa conclusione si può giungere anche per un'altra via, che è quella percorsa da Monelle, sulla scorta del concetto di " testo " pro­ posto da Ricoeur. Il correlato del riferimento, infatti, nel caso dei te­ sti letterari non è mai, in effetti, il mondo reale, bensì quello interno all'opera. L'interpretazione del significato è compito dell'ermeneutica, dunque, e non della semantica. Vista da questa prospettiva la lettera­ tura non evoca il mondo reale più di quanto non lo faccia la musica e, almeno in quanto testo letterario, prescinde dalla pragmatica (Mo­ nelle, 2ooo, p. r 3 ) . L o stesso vale per l'intraducibilità della musica, una proprietà molto spesso chiamata in causa dai formalisti. La poesia e la lettera­ tura, infatti, si possano parafrasare; mentre della musica si può parla­ re soltanto attraverso l'artificio retorico dell' ek/raszs (owero descrive­ re con parole ciò che non si può esibire come un oggetto della perce-

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

zione; Kramer, 2 002 , p . r 6 ) . Tuttavia, è difficile sostenere che la para­ frasi sia un modo di rendere conto del significato di un testo. Al mas­ simo può essere un mezzo per facilitarne la comprensione e accertarsi del suo significato letterale. Dal punto di vista argomentativo è difficile, come si è visto, di­ fendere uno statuto speciale della musica rispetto alle altre arti. Biso­ gna riconoscere, tuttavia, che essa ha assunto una funzione esemplare nella cultura occidentale a partire dal momento della sua emancipa­ zione dal linguaggio poetico, funzione esemplare enfatizzata dall'este­ tica musicale, d'altro canto, che si è basata soprattutto sulla musica strumentale. La musica è stata considerata " assoluta " , anche perché sciolta da ogni rapporto con il mondo mediato o perlomeno ricorda­ to dal linguaggio verbale o da quello delle arti visive, almeno per tut­ ta la lunghissima stagione figurativa, ma soprattutto in quanto arte autonoma per eccellenza, protetta da un diaframma invisibile da tutto quanto sta al di fuori di essa, al quale tuttavia inevitabilmente non fa che rimandare.

2 .2

lneffabilità, trascendenza, allegoria Only your notes are pure contraption Only your song is an absolute gift

I due versi citati sono un esempio di omaggio tributato da un poeta (Auden, 1 976, p. 1 2 5 ) a un compositore (Britten) . Essi ci possono aiutare a mettere i piedi per terra dopo una serie di argomentazioni troppo astratte. La musica di fatto è più pura della poesia, tanto che la si considera spesso ineffabile ( anche se il suo " significato " non è di tipo qualitativamente diverso) , perché solleva il compositore da ogni riferimento al mondo comunque implicito anche nel "mondo dell'o­ pera poetica" . Per dirlo con una battuta, in musica non ci sono riferi­ menti a persone e cose né reali né immaginarie. Può succedere che talvolta questi riferimenti esistano, come per esempio nel programma segreto del Kammerkonzert di Alban Berg, come sostiene Floros ( r 987 ) , ma è facile metterli tra parentesi perché non compaiono nel testo. Per tenerne conto bisogna essere, appunto, a conoscenza del programma segreto. Fino alla metà del Settecento, questa proprietà della musica era considerata una mancanza e lo stesso valeva ancora per Hegel. L'e­ mancipazione della musica strumentale è stata accompagnata da una 52

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riflessione teorica sulla musica che ha reso plausibile l'idea di un suo significato autonomo. In altre parole si è accreditata una concezione formalistica di quest'arte. Lydia Goehr ha osservato che contempora­ neamente a questa tendenza se ne è affermata un'altra indirizzata a una concezione trascendente della musica (Goehr, 1 998, p. 1 3 ) . In al­ tre parole lo spazio vuoto aperto dal significato puramente musicale è stato rapidamente occupato da un investimento di senso e la musica è stata interpretata come mezzo per rivelare una verità metafisica non altrimenti accessibile. L'estetica letteraria romantica (Hoffmann, No­ valis, Schlegel) e in particolare Schopenhauer hanno investito la musi­ ca della missione di esprimere un contenuto metafisico, inaccessibile al linguaggio verbale e a quello figurativo. Nel sistema schopenhaue­ riano quest'arte diventa una concorrente della filosofia stessa, sussi­ diaria e superiore allo stesso tempo. Essa coglie, infatti, ciò che la metafisica non può articolare, ovvero la volontà; al contempo, il di­ scorso filosofico intorno alla musica articola " per analogia" ciò che non può essere detto con i mezzi ordinari (ivi, p. 1 9 ) . La differenza tra parola e musica tuttavia non può essere soppressa e l'identità di coscienza e di mondo è possibile soltanto nella dimensione onirica ed estetica. È quanto ammette Schopenhauer in un famoso passo ripreso da Wagner: Chi mi abbia seguito e fatto suo il mio modo di pensare, si accorgerà che non è poi un paradosso ciò che ora soggiungo. Io ritengo che se si riuscisse di dare della musica una spiegazione completa, esatta e penetrante nei parti­ colari; se riuscissimo, cioè, a riprodurre per via di concetti quanto la musica esprime, avremmo insieme ottenuto, per via di concetti, anche una soddi­ sfacente riproduzione o spiegazione del mondo, che sarebbe la vera filosofia [ . . . ] . D'altra parte, non dimentichiamo che il mondo come rappresentazione, quando lo si contempli da solo, quando cioè ci si svincoli dalla volontà e ci si limiti alla sua pura visione è la cosa più rasserenante, è l'unico aspetto innocente della vita [ . . ] . Se il mondo come rappresentazione non è che vo­ lontà divenuta visibile, l'arte è precisamente tale visibilità resa più chiara; è la camera obscura che rende più distinti gli oggetti, e permette di abbracciarli meglio e con una sola occhiata; è lo spettacolo nello spettacolo, la scena nel­ la scena (come nell'Amleto) (Schopenhauer, 2ooo, pp. 3 82 , 3 85 ) . .

Anche dopo il tramonto dei grandi sistemi filosofici, alla musica è sta­ ta riconosciuta la facoltà di istituire una sorta di riferimento obliquo al senso assente che sta al centro del travagliato pensiero postmetafisi­ co novecentesco. È stato Nietzsche a rendere possibile questo passag­ gio di campo: tanto nella versione dionisiaca, quanto in quella elusi­ va, sfuggente, sensuale e sessuata dei frammenti postumi e degli scrit53

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ti su Wagner la musica è assunta come cifra ed espressione della la­ tenza del senso, grazie alla sua alterità rispetto alla ragione discorsiva (Nietzsche, 1 992a, 1 992b; Goehr, 200 1 , p. 6o2 ) . Tutta la filosofia del Novecento è costellata d a infinite variazioni su questo tema. Questo re/rain ha rinfocolato la diffidenza del mondo della musica (musicisti, musicologi, ascoltatori) nei confronti dell'e­ stetica musicale, facendola apparire una disciplina apparentemente impegnata a dislocare il significato locale e immanente della musica (un significato che conferisce senso alla dedizione professionale degli addetti ai lavori) in domini astratti e fumosi. La rilevanza filosofica della musica, tuttavia, mette in luce la cen­ tralità di questa arte all'interno della cultura occidentale del Nove­ cento. La musica europea dell'Otto e Novecento - e quella che da essa si è sviluppata negli altri continenti - non soltanto ha elaborato un sistema significativo in grado di concorrere con la logica verbale, ma è anche stata assunta globalmente di volta in volta come metafora e allegoria di una condizione del pensiero. Ciò non significa che la musica occidentale degli ultimi tre secoli abbia assunto un ruolo esemplare rispetto alle altre musiche, bensì che è questo il segno di­ stintivo della sua parabola e il senso che la riflessione filosofica ha tratto da essa. Schopenhauer e Nietzsche sono i due punti di riferimento centrali per l'estetica musicale novecentesca di carattere filosofico. L'eredità di questi filosofi ha comportato una convergenza tra estetica musicale e critica della cultura che caratterizza in maniera spiccata questo am­ bito di studi. Questo aspetto emerge in maniera particolare nella ri­ formulazione in senso utopico della concezione schopenhaueriana della musica attuata da Ernst Bloch nella sua prima e visionaria opera Lo spirito dell'utopia (Bloch, 2004), grande progetto di "metafisica soggettiva" e "fenomenologia della coscienza utopica " in cui le figure della redenzione utopica soggettiva e oggettiva si manifestano nella coscienza umana (Garda, 1 9 84 ; Migliaccio, 1 995 ; Matassi, 200 1 ) . Per questo filosofo la qualità trascendente della musica è colta a partire dalla sua intimità con la soggettività utopica. L'intimità della musica con il soggetto è la traccia del rapporto tra la coscienza uma­ na e l'utopico latente nella regione del non-ancora-conscio. La storia della musica pertanto è una storia di «stati geniali dell'lo» (Bloch, 2 004, p. 66) incarnati dai grandi musicisti che concretizzano in una forma la loro capacità di annunciare e profetizzare la dimensione uta­ piea, ovvero il compimento dell'umano nella sua identità redenta. Nel linguaggio visionario ed espressionista del giovane Bloch la profezia della musica è tesa a diventare 54

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sigillo che annuncia, il mistero del Noi che comincia a diventare identico [ . . . ] salto verso l'Io e la verità, verso la forza-sigillo e l'espressione, verso l'idio­ gramma dell'interiorità disvelata, della fig ura della vita, della figura dell'umani­ tà (ivi, pp. 1 48-9) .

Nello scarto tra la forma e il contenuto utopico sta la spiegazione della resistenza della musica al linguaggio. Anche la «parola buona, quella carica di valore poetico» capitola, secondo Bloch (ivi, p. 1 43 ) , d i fronte al suono. I l suono infatti «non " parla" ancora, nessuno può comprenderlo a fondo malgrado la sua assoluta chiarezza; è un caldo balbettio come di bimbo» (ivi, p. 1 2 3 ) . Sfondandolo temporalmente in senso utopico, Bloch ripropone il paradosso schopenhaueriano, se­ condo il quale se si potesse riprodurre per via di concetti quanto la musica esprime, si otterrebbe per via di concetti anche una soddi­ sfacente riproduzione o spiegazione del mondo, che sarebbe la vera filosofia: Oggi ancora caldo balbettio, un giorno la musica sarà partecipe del suo lin ­ guaggio in una determinatezza espressiva sempre maggiore: essa va alla paro­ la che unica ci libera, che in ogni attimo vissuto trema con noi come segreto omnia ubique: nel loro ultimo musica e filosofia tendono solo all'articolazione di questo mistero fondamentale, di questa domanda che è a un tempo pros­ sima e ultima in tutto. [ . ] Così finalmente comincia a risuonare l'attimo vis­ suto, raccolto in se stesso, sbocciato, rimasto in sospeso per la camera più segreta: ed ecco si volgono i tempi, e alla musica, miracolosa e trasparente arte che supera il sepolcro e la fine di questo mondo, riesce a dare la prima disposizione dell'immagine divina, di nominare tutto diversamente il nome di Dio, quel nome insieme perduto e non mai ritrovato (ivi, p. 1 98) . .

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La tradizione del pensiero mistico e della teologia negativa è stata un punto di riferimento per quella parte della cultura francese impegna­ ta nel progetto di un indebolimento della centralità del soggetto. Al centro dei testi estetico-musicali di Vladimir J ankélévitch si staglia una tappa della storia della soggettività che saggia la linea di confine che la separa dal di fuori in abbaglianti sconfinamenti e in accorte ritirate. La scelta di questo filosofo di votarsi a un repertorio sostan­ zialmente francese e russo, che si estende tra l'ultimo decennio del­ l'Ottocento e il terzo del Novecento, si inscrive in uno spazio lontano dalla logica della soggettività dialettica. I nomi ricorrenti (Debussy, Ravel, Satie, Mompou, Séverac, Albéniz, Fauré, ma anche i grandi Liszt e Chopin; oltre ai maestri della musica russa compresi Proko­ f'ev, S ostakovic, Khacaturjan) rivelano un repertorio idiosincratico e sdegnoso della tradizione austro-tedesca, repertorio degno di un 55

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grande dilettante, aristocraticamente appartato dalla febbrile contem­ poraneità musicale che di volta in volta in Francia porta il nome di Leibowitz, Messiaen e Boulez. Proprio questa scelta partigiana (intesa anche come presa di distanza nei confronti di una cultura compro­ messa a suo parere con la barbarie dell'olocausto) rivela un'estraneità militante all'imperativo assoluto dell'interiorizzazione manifestata, se­ condo il filosofo francese, dalla musica a partire dalla fine del Sette­ cento: da Beethoven a Schonberg e alle avanguardie. La filosofia della musica di J ankélévitch è tesa a scorgere e deli­ neare un'esperienza estetica che si delinea nella musica e tramite essa conduce la soggettività ai confini " dell'onnipresenza universale " a to­ gliere se stessa, a sottrarsi nel dire. Si tratta di una ricerca, dunque, che segna una tappa nella storia della soggettività moderna e al con­ tempo implica una scelta che si rivela al contempo estetica ed etica. Essa è frutto di una sovrana idiosincrasia che sceglie il bello riflesso nel piacere dell'ascolto e dell'interpretazione, inchiodato al gesto del musicofilo che sceglie ciò che ama, suonandolo e amandolo e facen­ dolo amare in un gesto ripetuto all'infinito. Etica è la presa di partito per una musica che incarna le virtù, anch'esse sommamente inattuali, della modestia, del pudore, della discrezione, della sobrietà, della fru­ galità espressiva. Dagli scritti musicali di J ankélévitch affiora inoltre una dimensio­ ne più profonda, in cui il livello degli autori e delle opere sfuma, dove i pronomi personali e i confini delle composizioni perdono indi­ vidualità e mostrano l'accesso a una dimensione esoterica e misteriosa all'interno della quale le stesse opere appaiono come tasselli in una infinita rete di rimandi, cifre, allusioni. L'individualità stessa delle opere è precaria, fissurata, isolata in frammenti, in sonorità e infles­ sioni singole: attraverso di esse la musica parla. Per questo J ankélé­ vitch ama passare da un'opera all'altra, in un'incessante catena asso­ ciativa. Non è soltanto l"' organo per i bei brani" a guidarlo (come Adorno chiamava, con una certo altezzoso disprezzo, la capacità pre­ critica di cogliere un bel passaggio senza conoscerne le mediazioni con la totalità dell'opera, residuo del gusto aristocratico per il bello) , m a la costante dislocazione dell'enigma: La realtà musicale è costantemente altrove, come i paesaggi evocati in Ga­ briel Fauré da un'espressione evasiva e amfibolica: questa geografia pneuma­ tica, in cui l'alibi senza tregua stempera e annebbia l'avvistamento univoco dei luoghi, rende sfumata e sfuggente ogni localizzazione (Jankélévitch, 1 985 , p. 1 42 ) .

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Gli interstizi sonori e le fessure che si aprono nelle opere si affaccia­ no su una dimensione altra, su un " fuori " in cui non vi sono indivi­ dualità né vita né spazio né tempo. La musica imprime un taglio nel silenzio - ma appunto perciò essa ha biso­ gno del silenzio stesso come la vita della morte [ . . . ]. La vita, in tutto simile all'opera d'arte, è una costruzione animata e limitata, che si staglia nell'infini­ to della morte; e la musica, in tutto simile alla vita, è una costruzione melo­ diosa, una durata incantata, un'assai effimera avventura, un breve incontro che, circoscritto fra un inizio e una fine, si isola nell'immensità del non-esse­ re (ivi, p. r 8o) .

L'isolamento, tuttavia, è interrotto perché nell'arte (e nella musica in particolare) il diaframma tra essere e non-essere, tra spazio e ubiqui­ tà, tra tempo e eternità si rivela permeabile fino a far evaporare la differenza tra essere e nulla, suono e silenzio. Le opere musicali sono porose: Non vi è dunque più un qui e un là vi è solamente la presenza assente, senza alternative né esclusioni, vi è l'eterno vai e vieni della musica, del vento e delle nuvole. Come il pianissimo sonoro permette alla musica di trascendere la disgiunzione di piano e forte, altrettanto l' onnipresenza trascende l'alterna­ tiva di vicino e lontano. Un non so che, anche un non so dove, non so quan­ do; tutte le localizzazioni diventano artificiali; le categorie in generale sono caduche e la contraddizione stessa non ha più senso (Jankélévitch , 19 83 , p. 69) .

La musica migliore, sembra affermare J ankélévitch, è quella in grado di smorzare, sfumare e attutire quella traccia che istituisce la diffe­ renza stessa tra dentro e fuori, soggettivo e oggettivo, essere e morte. Al limite è quella in grado di abdicare alla sua natura di segno. Tutti coloro che nel Novecento attribuiscono alla musica la capa­ cità di riferirsi a quanto è inattingibile al pensiero, sia attraverso le figure negative della litote, dell'allusione e dell'approssimazione, come J ankélévitch, sia attraverso le figure anticipatorie dell'utopia, come Bloch, si muovono sul sottilissimo crinale che separa il pensiero me­ tafisica dal suo superamento, tra la speranza in una pienezza di senso e la constatazione della sua assenza. La reticenza del linguaggio musi­ cale, a cavallo tra il pudore del non-detto e l'annuncio dell'indicibile, sembra offrire inconsapevolmente l'occasione per l' affabulazione filo­ sofica nei terreni che superano i limiti della razionalità. Il fatto che nel Novecento il discorso non si limiti alle presunte proprietà o fa57

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coltà della musica in generale come nel secolo precedente, ma che ogni pensatore si awalga di un canone personale di autori e di opere è un sintomo importante: r estetica musicale cessa di rappresentare r articolazione analogica di un discorso metafisico e al contempo si individuano singoli esempi in cui il potere significante della musica è attivo come tropo, figura, metafora di una effettiva, benché utopica o evanescente, presenza del senso. Tuttavia alla base di questa prolifica attività interpretativa vi è la fiducia in una criptica e misteriosa intimi­ tà tra significante e significato, incarnata in un certo numero di esem­ pi eminenti, e ordinati secondo una teleologia utopica in Bloch e in una geografia esoterica in J ankélévitch. Formalismo e metafisica della musica, seppure nelle forme sofi­ sticate e svuotate da ogni riferimento diretto a un possibile potere rivelativo dell'arte, rappresentano due vie alternative alla comprensio­ ne del rapporto tra significante e significato musicale. La prima sotto­ mette questo rapporto a un interdetto, ammettendo soltanto il discor­ so sul significante; la seconda travalica il segno per poter alludere al significato. Per accedere alla critica più radicale della pretesa filosofica di in­ vestire la musica del potere di trascendere i limiti del linguaggio è necessario fare riferimento a un testo che sta alle spalle dell'estetica romantica: il Saggio sull'origine del linguaggio di Rousseau. Si tratta di un testo scritto tra il 1754 e il 1 763 e pubblicato soltanto nella se­ conda metà del secolo successivo, ma che ha ottenuto un'indiscussa cittadinanza nel Novecento grazie al commento di Derrida ( 1 969, pp. 1 6 1 -354) e ai metacommenti fioriti successivamente (de Man, 1 983b; Lyotard, 1 99 8 ) . L a centralità d i questo testo per l'estetica musicale deriva dal fat­ ,, to che in esso si articola il "sogno di una forma espressiva, costituita da parola e musica, che narra l'innocente e irripetibile origine del lin­ guaggio non segnata dunque dalla differenza classificatoria che co­ struisce il segno linguistico in quanto tale. Esso disloca dunque in una genealogia ipotetica il mito fondativo dell'estetica operistica: in principio non vi è la musica antica caratterizzata dall'unione di musi­ ca, poesia e danza e al presente la necessità di restaurarla; la parola viva e musicale, che Rousseau ha elevato al di sopra della scrittura, «è la parola quale dovrebbe essere o, piuttosto, quale avrebbe dovuto es­ sere» (Derrida, 1 969, p. 1 63 ) . Dove si colloca l a musica tra questa origine ipotetica e l a cata­ strofe costituita dalla scrittura che spossessa tanto il linguaggio quan­ to la melodia dell'intensità espressiva originaria? Il testo di Rousseau

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racconta come il perfezionamento storico della lingua e della musica si rivela - alla luce di quanto avrebbe dovuto essere - un processo di decadenza: Man mano che la lingua si perfezionava, la melodia, imponendosi nuove re­ gole, perdette insensibilmente l'antica energia, e il calcolo degli intervalli si sostituì alla delicatezza delle inflessioni (Rousseau, 1 989, p. 99, cit. in Derri­ da, 1 969, p. 228).

Derrida legge Rousseau contro lo stesso Rousseau. Ciò che si aggiun­ ge nel corso della storia è una fatale "sostituzione supplementare" ov­ vero, secondo Derrida, qualcosa che «interviene o si insinua al posto di, se riempie è come si riempie un vuoto» (ivi, pp. 1 67 - 8 ) . Ciò che si aggiunge nel perfezionamento della melodia, ovvero il computo degli intervalli, non è qualcosa che si aggiunge, deviandolo, a qualcosa di preesistente, ma è un «accessorio originario ed accidente essenziale»: Questa fenditura non è una fenditura tra le altre. Essa è la fenditura; la ne­ cessità dell'intervallo, la dura legge della spaziatura. Ha potuto mettere in pericolo il canto proprio per il fatto di esservi iscritta fin dalla nascita e nella sua essenza. La spaziatura non è l'accidente del canto. O piuttosto, in quan­ to accidente e accessorio, caduta e supplemento, è anche ciò senza cui, lette­ ralmente, il canto non avrebbe avuto luogo [. .. ]. Pur dicendo [ . . . ] che la spa­ ziatura assicura la possibilità della parola e del canto, Rousseau vorrebbe pensare lo spazio come un semplice fuori attraverso cui sopraggiungono la malattia e la morte in genere, e in particolare quelle della parola cantata. Vorrebbe fare come se "la finezza delle inflessioni" e " dell'accento orale" non si prestassero già e da sempre alla spazializzazione, alla geometrizzazio­ ne, alla grammaticalizzazione, alla regolarizzazione, alla prescrizione. Alla ra­ gione. Poiché vorrebbe cancellare questo già da sempre, determina la spazia­ tura come un evento e come un evento catastrofico (ivi, pp. 229-30) .

Vogliamo trarre qui soltanto conseguenze locali, ovvero estetico-musi­ cali, di un discorso filosofico molto più ampio e gravido di conse­ guenze ben più vaste. Nel commento di Derrida la consustanzialità originaria, "materna" e naturale, di voce di parola e voce di suono, invocata e desiderata da Rousseau, si capovolge nel riconoscimento dell'appartenenza di entrambe al regime della "scrittura" . Le pretese filosofiche di contrabbandare la musica al di fuori e al di sopra del linguaggio si fermano qui. Si fermano qui, ma la musica non cessa, anche in territori post­ moderni, a sollecitare il conferimento di un ruolo esemplare tra le arti. Paul de Man ha riletto contro pelo il commento a Rousseau di 59

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Derrida con l'intenzione di riscattare Rousseau dall'accusa di voler negare ciò che invece avrebbe dovuto invece riconoscere. Prendendo le mosse dall'analisi del cap . XVI del Saggio di Rousseau (Sulla dz//e­ renza tra colori e suoni) de Man osserva che la musica è detta superiore alla pittura nonostante e addirittura a causa della sua man­ canza di sostanza. Con rimarchevole preveggenza, Rousseau descrive la musi­ ca come un puro sistema di relazioni che in nessun punto dipende dall'asser­ zione sostantiva di una presenza, sia essa intesa come sensazione o come co­ scienza. [ . . . ] La musica non è ridotta a un sistema di relazioni perché funzio­ na come una mera struttura sonora indipendentemente dal significato, o per­ ché è in grado di oscurare il significato seducendo i sensi. Non vi è alcun vacillamento in Rousseau riguardo allo statuto semiotico e non sensibile del segno. La musica diventa struttura, perché è vuota all'interno, perché signifi­ ca la negazione di ogni presenza (de Man , 1 9 83b, pp. 1 27-8).

La musica (intesa come sistema di segni) esibisce al contempo il prin­ cipio di non-coincidenza: A differenza della sensazione stabile e sincronica della " pittura" la musica non può fermarsi mai neppure per un attimo nella stabilità della sua propria esistenza: essa deve ripetere fermamente se stessa in un movimento che è costretto a rimanere infinito. [ .. .] Esso è determinato dalla natura del segno come significante, dalla natura della musica come linguaggio. Il modello ripe­ titivo che ne risulta è il fondamento della temporalità [ . . . ] da una parte, la musica è condannata a esistere sempre come un momento, come un intento continuamente frustrato vero il significato; dall'altra parte proprio questa fru­ strazione la previene dal rimanere all'interno del momento. I segni musicali non sono mai in grado di coincidere: le loro dinamiche sono sempre orienta­ te verso il futuro della loro ripetizione, verso la consonanza della loro si­ multaneità [ . . . ] . La musica è il modello diacronico della non-coincidenza al­ l'interno dell'attimo (ivi, p. 1 29).

In altre parole: la musica è l'allegoria di ogni allegoria, il modello concreto del differimento del senso nel tempo. Anche per gli altri pensatori della cosiddetta " differenza" la musi­ ca, benché inevitabilmente realizzata nella forma dell'"iscrizione ", co­ stituisce un modello tanto per l'arte (Lyotard, 2 00 1 ) quanto per la filosofia (Deleuze, Guattari, 1 996-97 ) . Il progetto di Lyotard di ri­ scrittura della modernità (riscrittura in senso freudiano come compito infinito che non prevede una riconciliazione finale tra conscio e in­ conscio; Lyotard, 2 00 1 , pp. 43-56) comporta un'attenzione speciale 6o

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per la dimensione sublime dell'arte, ovvero per l'irrappresentabile che tiene in scacco il soggetto. Questo progetto conduce Lyotard a com­ piere un movimento spiraliforme che ritorna, per poi allontanarsene, ai due grandi pensatori della modernità, Adorno e soprattutto Bloch. L'arte, la pittura e la musica in particolare sono i luoghi in cui è pos­ sibile l'accadere di un evento che si sottrae alla modalità del pensiero cognitivo. Il tema kantiano del sublime è ripensato alla luce della produzione e della poetica del pittore americano Barnett Newman: il momento sublime è l'avvento di ciò che è, che accade e accadendo solleva dal terrore burkiano del nulla, dell'assenza e della morte. L' ar­ te è la sofferenza del lasciar accadere, che paralizza la mente e invali­ da il pensiero logico. Lyotard coglie nelle brevi storie raccontate da Bloch in Tracce (Bloch, 1 994) la presenza del "non-iscrivibile " , così come coglie nell'interesse "micrologico " di Adorno una consonanza con il suo pensiero. In Bloch, tuttavia, l'irrappresentabile è la traccia della presenza etica e spirituale dell'innominabile, del contenuto uta­ pico suggellato dal divieto dell'immagine. Per Lyotard ciò che non è inscrivibile e che quindi si sottrae a ogni ripetizione, invece, non è l'assoluto utopicamente inconoscibile bensì la materia, l'orizzonte inu­ mano di un universo immateriale. Egli concepisce infatti la materia al contempo come energia e mente, come un orizzonte in cui l'uomo non è al centro, né come origine né come risultato, ma come un ele­ mento di trasformazione che, per mezzo delle tecno-scienze, dell'arte, dello sviluppo economico, delle culture e della nuove forme di me­ morizzazione da esse rese possibili, costituisce un supplemento della complessità dell'universo (Lyotard , 200 1 , pp. 68-9 ) . L a musica, a differenza della pittura, tematizza i l problema della ripetizione che sta alla base di ogni struttura di riconoscimento e dunque di pensiero logico: Ora, ogni organizzazione, ogni forma sia spaziale che temporale, implica la sua ripetizione, attuale e possibile. Poiché essa è la fissazione di uno stato della materia attraverso la durata, questa fissazione esige la ricorrenza dell'or­ ganizzazione degli elementi materiali (ivi, p. 1 97).

La composizione delle forme musicali si basa sulla variazione e sulla trasformazione di queste forme e il piacere musicale dipende dalla percezione di queste differenze: contemporaneamente, lo spirito gioisce dello stesso attraverso l'altro, e s'in­ canta per la diversità che accetta l'identità. L'acustica è finalizzata alla cono-

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scenza, la musica a un certo tipo di piacere. Sono due "generi " di discorso, o due "facoltà" diverse (ivi, p. 1 9 8).

Nel caso dell'acustica l'identità nella ripetizione è letterale, nel caso del piacere estetico è analogica: ciò che si ripete in musica non può essere mai antologicamente identico. Lyotard chiama il primo tipo di ripetizione " cognitiva " e la seconda "estetica" ; quest'ultima apre un'antologia dell'essere come non-essere. Fin qui la posizione di Lyo­ tard coincide grosso modo con quella di de Man. Egli va però più in là, in quanto riconosce sia nel timbro musicale sia nel colore della pittura una dimensione che sfugge alla determinazione del concetto perché è assolutamente singolare. Questa singolarità, che costituisce anche l'unicità di ogni esecuzione musicale, resiste persino alla sua archiviazione in diversi supporti materiali che renderebbe possibile una ripetizione e un confronto: Ma ciò che il confronto non può stabilire è che tale sfumatura, nella sua attualità, nel qui e ora d'allora, possa esercitare su questo spirito (e non su un altro) non solamente l'effetto di un piacere formale, che è tutt'altra cosa, ma il segno di una perdita. Infatti, la natura pura del suono, la sua sfumatu­ ra, se riesce a giungere al soggetto, lo fa al prezzo di sorpassare, o di "sotto passare" , la sua capacità sintetica. Questa sarebbe una definizione (negativa certo) della materia: ciò che frantuma lo spirito. Voglio dire: questa materia così tenue, tanto da essere come immateriale, se non è ripetibile, non lo è perché essendo sottomesso alla presa che da essa viene, lo spirito è privato, spogliato della sua facoltà sia estetica che intellettiva di legarla, associarla, mi piacerebbe dire intrecciarla, a suo modo, e, dunque, in una maniera o nell'al­ tra (metafisica o antologica) , di ripeterla (ivi, p. 2 0 1 ) .

Ciò che è inteso con il nome di nuance finisce col ricadere in una sorta di teologia negativa della materia immateriale, in quanto sfugge allo specchio del soggetto e anche alla sua più elementare capacità di sintesi:

È ciò che non si iscrive, è ciò che la scrittura, anche quella musicale, ricerca. La scrittura [écriture] - vorrei torcerne il valore del prefisso e- per compren­ dervi qualcosa come un " raschiamento " - è l'antico senso della radice sci- al di fuori di, al di fuori di ogni supporto, al di fuori di ogni dispositivo di risonanza e di reiterazione, di ogni concetto e di ogni forma preiscritta [ . . . ] . Questo segno non sarà, se è il caso, che un contrassegno. S o bene che non è sempre così, per lo spirito che lega i tempi a loro stessi e a se stesso, fa­ cendosi supporto a ogni iscrizione. No, non sarebbe che fiamma, l'enigma

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della fiamma stessa. Essa mostra il suo supporto distruggendolo. Smentisce la sua forma. Sfugge alla propria somiglianza con se stessa (ivi, pp. 204-05 ) .

L a dicotomia kantiana tra bello e sublime è reinterpretata d a Lyotard riconoscendo alla musica (ma anche alle arti in generale, soprattutto alla pittura) un dominio estetico della forma e del piacere (bello) e uno che trascende la coscienza stessa e l'ambito del significato (su­ blime) per farsi puro evento, e che storicamente coincide con l'avan­ guardia da Debussy a Boulez, Cage, Nono, via Webern e Varèse, con il jazz e la musica elettronica (ivi, pp. r 84-5 ) . Il triangolo autore/com­ positore, opera e ascoltatore, come struttura intersoggettiva esplode nella descrizione di Lyotard: creare è un rivolgersi alla «segreta re­ cettività al timbro sonoro» (ivi, p. r 8 5 ) , all'immaterialità della mate­ ria. L'arte tuttavia richiede di essere percepita e questo può avvenire soltanto alla condizione che la mente sia in uno stato pronto ad ac­ coglierla: Bisogna dunque suggerire che ci sarebbe uno stato dello spirito in preda alla "presenza" (una presenza che non è per nulla presente nel senso di un qui ed ora, cioè come designano i deittici della presentazione) , uno stato dello spirito senza spirito, che è richiesto dallo spirito non tanto affinché la mate­ ria sia percepita, né data né afferrata, ma perché ci sia un qualcosa. E dico materia per designare ciò che c'é, questo quod, perché questa presenza nel­ l' assenza dello spirito attivo non è altro che timbro, tono, sfumatura nell'una o nell'altra disposizione della sensibilità [ . . . ] qualità singolare, incomparabile - indimenticabile e immediatamente dimenticato [ . . . ] . Tutti questi termini sono scambiabili. Designano tutti l'evento di una passione, di un patire al quale lo spirito non sarà stato preparato, che avrà smantellato, e di cui non conserva che il sentimento, angoscia e giubilo, di un debito oscuro (ivi, pp. ! 83 -4) .

In pochi altri passi il pathos della singolarità raggiunge un'intensità quasi mistica come in questo. Questa temperatura espressiva non deve tuttavia far dimenticare che l'arte è in grado di " rilasciare" , " dar luogo " , "lasciar accadere " la singolarità dell'evento soltanto a prezzo di se stessa. L'intreccio inestricabile di singolarità e ripetizione e l'implicita duplicità della musica costituisce anche il fulcro del capitolo centrale di Mille piani di Deleuze e Guattari, dedicato appunto al ritornello (Deleuze, Guattari, 1 996-97, III , pp. 5 -7 7 ) . Sebbene molti temi siano comuni a Lyotard, in quest'opera, che precede dal punto di vista cronologico i saggi raccolti in L'inumano, la musica riveste una fun­ zione strutturale in quanto offre un modello per il nuovo procedi-

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mento filosofico proposto come critica radicale al pensiero rappre­ sentativo. È impossibile offrire qui una sintesi dei punti principali del pensiero "nomadico " e della complessa, insolita e controintuitiva terminologia impiegata dai due studiosi, la cui interpretazione è tut­ tora controversa (Bogue, 2003 ; Buchanan, Swiboda, 2004; Prieto, 2 005 ) . In termini essenziali, la musica esemplifica in maniera concre­ ta la potenzialità del pensiero di passare da un piano all'altro del mondo senza rimanere bloccati nelle griglie del pensiero rappresenta­ tivo. A differenza di Lyotard, che individua il potenziale di resistenza al pensiero cognitivo nella musica d'avanguardia, Deleuze e Guattari colgono nell'intero panorama della storia della musica, dalla polifonia medioevale al serialismo, la potenzialità propria della musica che per­ mette di spezzare le connessioni abituali e creare nuovi " piani di coe­ renza " . L'interpretazione della storia della musica in termini di pro­ gressiva emancipazione, proposta in molte poetiche dell'avanguardia dalla Scuola di Vienna a Boulez, viene qui reinterpretata come l'illu­ strazione concreta della maniera in cui la musica è in grado di tra­ sformare e riscrivere via via i codici in cui il pensiero si cristallizza in regole, diventa "molare " nella terminologia di Mille piani. La musica può forzare i piani della logica concettuale gerarchizzata e gerarchiz­ zante quando si accorda ai processi di " divenire" : «divenire-donna, divenire-bambino, divenire-animale» (Deleuze, Guattari, I 996-97, n, pp. 1 64, 243 ) . Con tali espressioni gli autori non intendono affatto un cambiamento di identità o un processo di imitazione, bensì l'assu­ mere uno stato instabile e metamorfico, incerto e sfuggente, comun­ que resistente e altro rispetto alle entità codificate dalla società e or­ dinate in senso gerarchico: uomo/donna, adulto/bambino, razionale/ animale (Bogue, 2 003 , pp. 34-5 ) . La musica, si può dire, è in grado di operare decodificazioni e ricodificazioni o, nei termini degli auto­ ri, territorializzare e deterritorializzare. Questo doppio movimento, fluido, è sintetizzato da Deleuze e Guattari nell'idea di re/rain musi­ cale, ovvero di ripetizione: non diciamo affatto che il ritornello è l'origine della musica o che la musi­ ca nasce con esso. Non si sa bene quando nasce la musica. Il ritornello sa­ rebbe piuttosto un mezzo di impedire, di scongiurare la musica o di farne a meno. Ma la musica esiste perché anche il ritornello esiste, perché la mu­ sica si impadronisce del ritornello, se ne impossessa come di un contenuto in una forma di espressione, perché fa blocco con esso per trascinarlo al­ trove [ . . ] la musica è l'operazione attiva, creatrice che consiste nel deterri­ torializzare il ritornello. Mentre il ritornello è essenzialmente territoriale, .

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territorializzante o riterritorializzante, la musica ne fa un contenuto deterri­ torializzato per una forma d'espressione deterritorializzante (Deleuze , Guat­ tari, 1 996-97 , n, p. 245 ) .

Questo passo è molto interessante perché rivela come l a musica possa funzionare da modello per il pensiero non rappresentativo: esso de­ scrive in primo luogo la necessità di neutralizzare la questione dell'o­ rigine o del telos della musica; in secondo luogo inscena, all'interno della musica stessa, una dialettica interna che non conosce sintesi tra due principi, tra re/rain e musica, oppure in altre parole tra ripetizio­ ne e singolarità. Questa dialettica testimonia la realtà di un'attività creativa (e quindi annuncia anche la possibilità di un pensiero a essa analogo) mobile, fluida, in grado di porre e togliere se stessa, il cui senso è resistere alla formazione di un significato stabile, definitivo e quindi in grado di generare strutture gerarchiche di potere. La musica, intesa come principio creativo che resiste al pensiero rappresentativo e alla coscienza stessa del soggetto è singolare e " al­ tra " e non tollera la ripetizione come non lo tollerano né la materia né la morte. Per questo la morte è il contenuto di molte composizio­ ni musicali; ogni deterritorializzazione creativa, infatti, comporta il pericolo di volgere verso la distruzione e l'abolizione (ivi, p. 243 ) ; al contempo il potere "molecolare " della musica di attraversare i piani dell'irrigidimento del senso «ci dà necessariamente il gusto di morire, non morire di felicità, ma con felicità spegnersi» (ibid.) . Gli autori citati finora costituiscono un esempio eloquente della capacità del pensiero filosofico di contrabbandare la musica nel pro­ prio dominio e di servirsene come modello per una logica alternativa al pensiero discorsivo, all'interno del quale, in quanto filosofi, essi sono costretti a esprimersi. Vi è tuttavia ancora un punto di vista, eccentrico rispetto a quelli illustrati finora, da cui guardare la signifi­ canza della musica come scarto rispetto ai significati della ragione di­ scorsiva ed è quello della struttura pulsionale del corpo. La «grana della voce» descritta in uno dei più famosi saggi di Barthes (Barthes, 2 00 1 , pp. 2 5 7 -66) rappresenta uno dei poli dell'opposizione binaria (mutuata da Julia Kristeva) tra fenotesto e genotesto: il primo codice comprende le leggi del genere musicale, le forme codificate dell'orna­ mentazione, l'idioletto del compositore, ovvero tutto ciò che è al ser­ vizio della comunicazione; il secondo è costituito dal volume della voce che canta e che parla. La grana della voce è espressione del cor­ po, non del singolo musicista, ma del corpo come dimensione che si sottrae e resiste alla comunicazione e con il quale l'ascoltatore instau­ ra un rapporto singolare ed erotico.

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2.3

Dialettica del senso Nei due paragrafi precedenti sono state prese in esame due posizioni opposte: il formalismo e la filosofia della musica. Esse sono separate da una sorta di confine concettuale al di qua o al di là del quale am­ mettono la formazione del senso. Se si volesse trovare un termine me­ dio tra queste due posizioni, si potrebbe indicare il nome di Adorno. Questa scelta va tuttavia considerata soltanto in senso molto astratto, altrimenti risulterebbe del tutto fuorviante, in primo luogo perché Adorno non aveva affatto in mente di mediare tra posizioni diverse. Il motivo della scelta risiede nel fatto che la sua filosofia della musica è saldamente integrata al suo progetto filosofico e alla critica della società. Questo significa che per Adorno la ricerca del senso della musica è un compito che comporta l'integrazione di campi diversi, analisi musicale, sociologia, filosofia; un compito che peraltro è stori­ camente determinato dall'oscurarsi del senso nell'arte e nella società contemporanea. Si può utilizzare come punto di accesso al problema del senso e del significato musicale in Adorno il passo citato in con­ elusione al capitolo precedente. Come si ricorderà, Adorno sostiene in quel punto che «solo passando attraverso tutte le mediazioni, quel­ le della disciplina delle opere come del pensiero, della filosofia» è possibile cogliere la risposta alla domanda che costituisce il senso di un'opera. La catena delle mediazioni va dunque dalla dimensione im­ manente, "linguistica " , dell'opera a una dimensione esterna, nella for­ ma di commento, critica e di estetica filosofica. Il paradosso di Scho­ penhauer (se si riuscisse a riprodurre per via di concetti quanto la musica esprime, si otterrebbe per via di concetti una soddisfacente riproduzione o spiegazione del mondo, che sarebbe la vera filosofia, cfr. in/ra, p. 5 3 ) risulta rovesciato in una dialettica tra " ragione inter­ pretante" e arte che dà il primato a quest'ultima. Se è vero infatti che l'arte ha bisogno della riflessione filosofica ovvero del pensiero artico­ lato in forma linguistica per dispiegare il suo «contenuto di verità» (Adorno, 1 975 , p. 1 93 ) , l'arte esercita nei confronti del pensiero stes­ so una resistenza che la preserva dall'essere ricondotta al dominio della ragion strumentale: «Il carattere di enigma sopravvive all'inter­ pretazione che ottiene la risposta» (ivi, p. 1 7 9 ) . Il contenuto d i verità a cui rimanda il carattere di enigma dell'arte non è, come si è visto, un significato compiuto e definibile, perché nell'arte «è vera una cosa che non c'è»; essa «è apparenza di ciò che non ha apparenza» (ivi, pp. 1 88-9) . La richiesta dell'arte di essere compresa lascia il soggetto fruitore in una condizione ambigua, in bi66

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lico tra senso e non senso; Adorno la descrive con una serie di figure (enigma, fuoco d'artificio, trascendenza interrotta, promessa di felicità che non viene mantenuta) che colgono il frustrante movimento della dialettica negativa: Le opere parlano come le fate nelle favole: tu vuoi l'incondizionato, ti sia concesso, però irriconoscibile. Non velato è il vero della conoscenza discorsi­ va, in compenso però essa non lo possiede, la conoscenza che è arte lo ha ma come un qualcosa di a lei incommensurabile (ivi, p. 1 8 1 ) .

L a morale d i questo fulminante apologo è u n riassunto della dialetti­ ca dell'Illuminismo: l'arte è diventata enigma, perché mostra ciò che è stato dimenticato nell'indurimento dell'esistente, una verità che è stata obliata nel dominio della logica dell'identità. Il carattere di enigma dell'opera d'arte presuppone un altro mo­ mento dialettico, quello tra espressione e costruzione, mimesi e razio­ nalità. Da un lato l'arte è intimamente legata alla dimensione umana che precede lo spirito (in senso hegeliano) , che si manifesta nell'ani­ male, nel matto e nel clown. Questa dimensione tuttavia non è ciò che si rivela o si esprime nell'arte. Essa è piuttosto «ciò al cui contat­ to lo spirito si accende» (ivi, p. 1 70) . Tra mimesi e razionalità come tra espressione e costruzione vi è una relazione dialettica che blocca nella figura della negazione determinata la conciliazione tra i due ele­ menti. È questa la condizione storica dell'arte moderna: nell'arte moderna è stato fecondo ciò che si è risolto in uno dei due estremi, non ciò che ha mediato [ . . . ]. La dialettica di quei momenti eguaglia la dia­ lettica logica in questo, che l'altro si realizza solo nell'uno, non in mezzo. La costruzione non è un correttivo dell'espressione né è quel che l'assicura dan­ dole obbiettivazione bensì deve quasi comporsi, senza pianificazione, dagli impulsi mimetici; è qui la superiorità dell' Erwartung di Schonberg su tante cose che di essa fecero un principio (ivi, pp. 64-5 ) .

L a questione del senso della musica (e dell'arte in generale) per Adorno è inscindibile dalla sua storicità. Nel mondo amministrato il senso dell'arte sta nel comunicare l'incomunicabile. L'arte moderna dunque è declinata secondo la categoria del sublime kantiano: Il materiale - secondo la formulazione di Benjamin, soprattutto la lingua diviene spoglio, nudamente visibile [ . . . ] . La dottrina kantiana del sentimento del sublime descrive dawero bene un'arte che trema tutta mentre sospende se stessa a vantaggio del contenuto di verità che non è apparenza, senza tuttavia, in quanto arte, cancellare il proprio carattere di apparenza (ivi, pp. 278-9) .

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L'estetica del sublime è il punto di contatto tra l'estetica della mo­ dernità di Adorno e il progetto estetico di Lyotard. Tra l'incomunica­ bile e l'irrappresentabile, tuttavia, corre tutta la distanza che distingue un progetto estetico che comporta come orizzonte e fine della storia la realizzazione della natura e dell'umanità (Adorno) da uno che pro­ spetta lo sfondamento della coscienza tout court e non soltanto della coscienza reificata (Lyotard) . Per quest'ultimo il senso è un evento che si sottrae tanto al controllo dell'artista o del compositore quanto alla soggettività riflettente del fruitore; per Adorno la possibilità del senso passa attraverso «il lavoro di configurazione» che dura fintanto che «non è rimasto niente di morto, niente di informe» ossia attra­ verso i momenti della tecnica e dell'articolazione (ivi, pp. 270- r , 3 00-3 6 ) . Questa concezione, che molto deve alla poetica e alla tecnica compositiva di Schonberg (cfr. anche ivi, p. 208 - r r ) , comporta non soltanto il "lavoro " del compositore, ma anche il "lavoro " dell'inter­ pretazione, che deve tenere conto di tutte le mediazioni che intercor­ rono tra la dimensione immanente dell'arte e la sua concettualizzazio­ ne. Rispetto agli standard istituiti dall'analisi musicale nel Novecento, gli scritti musicologici di Adorno possono apparire insufficienti. Tut­ tavia egli delinea un compito dell'estetica che comporta una critica tanto al formalismo quanto all'astrattezza della riflessione estetica pura: L'estetica non deve trafugare i concetti, come se fosse in balia del suo ogget­ to. A lei sta di liberare i concetti dalla loro esteriorità alla sostanza obbiettiva dell'opera e portarli all'interno di essa. Se lo è mai da qualche parte, la co­ niazione hegeliana del movimento del concetto è al suo luogo nell'estetica. L 'interazione di universale e particolare, che nelle opere d'arte awiene in­ consciamente e che l'estetica deve innalzare alla coscienza, è ciò che vera­ mente costringe a una concezione dialettica dell'arte (ivi, p. 257).

2 .4

Senso, forma, sentimento Le posizioni analizzate nei due paragrafi precedenti si definiscono in base all'opposizione e alla possibile mediazione tra senso immanente e senso trascendente, sia esso un senso utopico oppure assente e op­ posto alla ragione discorsiva. Nell'ambito dell'estetica angloamerica­ na, invece, la discussione si è concentrata soprattutto sulla questione del contenuto espressivo. È un vecchio luogo comune l'idea che il senso della musica consista nel potenziale espressivo di quest'arte, 68

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come s1 e visto già nel CAP . 1 . Contro questo concezione Hanslick aveva eretto il bastione del formalismo, pretendendo con questo che la musica fosse una dimensione analoga al pensiero e non di natura estranea a esso come lo sono i sentimenti. Tuttavia il convincimento che la musica esprima e susciti sentimenti che vengono colti allo stes­ so modo da ciascun ascoltatore è testimoniato dall'esperienza comune e nessun argomento formalista è in grado di scuoterlo. Il punto pro­ blematico della posizione che gli anglosassoni chiamano "espressioni­ sta" (senza alcun riferimento al movimento storico dell'espressioni­ smo) è la difficoltà di conciliare l'idea dell'espressione con la com­ plessità formale della cosiddetta musica assoluta. Susanne Langer ha inaugurato negli anni quaranta la ricerca su una forma di espressività che si distingue sia dal soggettivismo espressivo della cosiddetta este­ tica dello Sturm und Drang (Eggebrecht, 1 9 87a, pp. 69 - 1 06), sia dalla versione di Schopenhauer e Wagner, ovvero l'idea che la musica esprima i sentimenti in generale e non quelli particolari di un indivi­ duo. Langer affronta il problema dell'espressione all'interno di una teoria delle forme simboliche che comprende il pensiero concettuale, i riti e l'arte. Ogni tipo di simbolo, sia esso matematico, linguistico o artistico, comporta, secondo Langer, un modo diverso di significazio­ ne. Quello proprio della musica (e non del linguaggio verbale) è di tipo analogico e si basa sull'isomorfismo tra la forma dei sentimenti umani e la forma musicale (Langer, 1 972 , pp. 290- 3 ) . Questa argo­ mentazione dovette apparire, non solo all'autrice, molto potente, in quanto indicava una via di uscita dall' autoreferenzialità del significato musicale immanente. In secondo luogo, anche se l'autrice non ne era consapevole, la critica musicale faceva (e fa tuttora) un grande uso implicito della corrispondenza morfologica tra forme musicali e for­ me dei sentimenti. Tuttavia in conclusione del capitolo dedicato al significato della musica l'autrice offre una definizione del simbolo musicale che insiste con forza sull' autoreferenzialità: Ciò che è vero del linguaggio verbale è essenziale nella musica; musica che venga inventata mentre la mente del compositore è fissa a ciò che si deve esprimere probabilmente non sarà musica: sarà un idioma limitato quanto lo è una lingua artificiale, ma anche meno atta al successo: perché la musica, al suo meglio, benché sia chiaramente una /orma simbolica è un simbolo inconsu­ mato. L'articolazione è la sua vita; non l'asserzione; l'espressività lo è, non l'espressione. La vera funzione del significato che richiede contenuti perma­ nenti non è adempiuta, dato che mai si compie esplicitamente l'assegnazione a ogni forma di uno piuttosto che un altro possibile significato. Perciò la musica è "forma significante" (ivi, p. 307) .

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Il termine "espressività" significa, in questo contesto, un'espressione senza contenuto. Ma come può esistere un'espressione senza contenu­ to? Qui sembra che l'argomentazione dell'autrice ritorni al punto di partenza, a una dichiarazione di formalismo, vagamente corretta con il criterio della somiglianza analogica tra forme musicali e forme del sentimento. Questa posizione sarà approfondita da Leonard Meyer, di cui si parlerà tra poco, con una serie di argomentazioni che spo­ stano il fuoco della discussione dal campo filosofico a quello musi­ cologico. Per restare in area filosofica, il problema dell'espressione è stato affrontato da Nelson Goodman. Si ricorderà dal capitolo precedente la sua definizione di espressione come possesso metaforico di una proprietà (cfr. CAP. I , pp. 36-7) . L'argomentazione di Goodman richie­ de una particolare attenzione perché il concetto di " espressione " vie­ ne definito da due punti di vista; da una parte l'autore dichiara che un'opera "esprime" qualcosa, in quanto possiede, in senso letterale o metaforico, una proprietà; dall'altra sostiene che un predicato è appli­ cabile a un oggetto in quanto è posseduto realmente da esso. In altre parole l'ascoltatore può definire una musica triste perché essa possie­ de questa proprietà, tuttavia per dire questo applica il predicato triste alla musica non in senso letterale, bensì metaforico. La differenza tra l'applicazione letterale e quella metaforica è data dal fatto che la me­ tafora comporta un elemento di novità, un'inaspettata applicazione di un'etichetta, tramite il trasferimento di uno schema, ovvero un grup­ po di concetti che formano una sorta di famiglia, da un dominio a un altro. La definizione di espressione di Goodman ha suscitato moltissi­ me critiche, scaturite in primo luogo dalla difficoltà di accettare la distinzione tra applicazione letterale e metaforica (Treitler, 1 997, pp. 3 6-4 1 ; Davies, 1 994, p. 1 2 5 ) . Al contempo, però, ha contribuito ad alimentare l'interesse in ambito musicologico per i tentativi di defini­ re il significato della musica attraverso il meccanismo metaforico, ten­ tativi che si sono sviluppati a partire dagli anni sessanta e si sono intensificati soprattutto nell'ultimo decennio (Ferguson, 1 96o; New­ comb, 1 984; Guck, 1 997 ; Scruton, 1 997; Treitler, 1 997 ; Spitzer, 2 004 ) . L a distinzione tra proprietà letterali e metaforiche, in effetti, non contribuisce a spiegare il potenziale espressivo dell'arte e in particola­ re quello della musica. Da una posizione formalista è facile resistere all'idea dell'applicazione metaforica, dicendo che il trasferimento è il­ legittimo: il discorso sulla musica si serve di metafore, ma esse non sono proprietà reali della musica. Dal punto di vista dell'" espressioni­ sta " ci si può chiedere che cosa aggiunga la distinzione tra letterale e

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metaforico, dal momento che entrambe sono reali e che, viceversa, molte proprietà letterali (per esempio l'altezza di un suono) sono in realtà metaforiche. Il meccanismo del trasferimento, in effetti, rimane un punto problematico, tanto è vero che Goodman lo affronta of­ frendo una soluzione che convince soltanto in parte: Chiedersi perché i predicati si applicano, come effettivamente fanno, metafo­ ricamente equivale a chiedersi perché essi si applicano come effettivamente fanno, letteralmente. E se in nessuno dei due casi abbiamo una buona rispo­ sta, è forse perché la questione non è reale. In ogni modo, la spiegazione generale del perché le cose hanno le proprietà, letterali e metaforiche, che di fatto hanno - del perché le cose sono come sono - è un compito che prefe­ risco lasciare al cosmologo (Goodman, 1 998, p. 74) .

Nessuno studioso di estetica o di semiotica si accontenterebbe di la­ sciare al cosmologo quello che è invece di propria competenza. È giusto lasciare da parte, per ora, le difficoltà connesse alla defi­ nizione di "espressione " , per ricordare che Goodman ha gettato le basi per un concetto di " espressione " alternativo a quello romantico, che si potrebbe definire, citando Scruton ( I 997, p. I 5 9 ) , «espressione intransitiva». L'intransitività dell'espressione è uno dei caposaldi del­ l' " espressionismo " anglosassone, anche per coloro che come Kivy ( I 98o , pp. I 2-7 ; che fa però riferimento a Tormey, I 97 I ) partono da una posizione antologica opposta al nominalismo di Goodman. Non bisogna tuttavia dimenticare che l'espressione non detiene affatto il primato nei quattro tipi diversi di riferimento (espressione, esemplifi­ cazione, rappresentazione e descrizione) analizzati da Goodman. Il senso dell'arte è modulato a seconda dell'importanza relativa di que­ ste forme di riferimento all'interno delle arti, dell'artista e della singo­ la opera: in La mer di Debussy, per esempio, predomina la denota­ zione; nelle Variazioni Goldberg di Bach predomina l'esemplificazione formale o decorativa e nella Quarta sinfonia di Charles Ives l'espres­ sione (Goodman, I 99 8 , pp. 86-7 ) Tutte le forme di riferimento, in­ fatti, sono modi per comprendere il mondo. È questo, secondo Goodman, il senso profondo del mondo dell'arte, non dissimile in questo aspetto generale da quello della scienza (Goodman, I 97 8 ) . Dal punto d i vista specifico dell'estetica musicale e della musico­ logia il problema centrale rimane quello di trovare una mediazione tra la dimensione immanente e formale e quella del riferimento al mondo della vita, inteso non tanto come mondo naturale, ma piutto­ sto come la sfera delle idee e degli stati emozionali. Leonard Meyer ha elaborato un sistema - più volte modificato, ma sempre basato su.

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gli stessi presupposti - che distingue due sfere, l'una preposta alla produzione di significati specificamente musicali, che Meyer chiama "inclusivi, , l'altra volta alla produzione di significati referenziali. Il contributo di Meyer consiste nell'aver interpretato il significato "in­ clusivo , , ovvero quello che abbiamo chiamato fin qui significato "im­ manente, , partendo dal presupposto che gli stessi processi psicologici che stanno alla base di ogni risposta affettiva siano anche applicabili alla musica. In generale le emozioni scaturiscono dalla smentita di un'attesa. Per analogia (Cumming, 1 99 ! ) ciò accade anche nella musi­ ca; lo studio di Meyer si concentra sui meccanismi attraverso i quali i diversi stili della musica tonale articolano la produzione del senso come risposta affettiva a meccanismi di attesa bloccata. Gran parte del primo studio di Meyer ( 1 992) è dedicata alla definizione di si­ gnificato inclusivo contestualmente alla conciliazione tra la posizione degli " assolutisti, , ovvero coloro che sostengono che il significato del­ la musica assoluta è priva di ogni riferimento al mondo extramusicale ed è principalmente di tipo intellettuale, e quella degli " espressionisti ,, assolutisti , che sostengono al contrario che queste stesse relazioni sono in grado di suscitare sentimenti ed emozioni negli ascoltatori motivate dalle strategie stilistiche e formali delle composizioni (Meyer, 1 992 , pp. 1 -2 ) . Tuttavia lo stesso Meyer è consapevole della differenza tra espe­ rienze affettive «che risultano dalla diretta interazione tra una serie di stimoli musicali e l'individuo in grado di comprendere lo stile di una composizione» ed esperienze affettive che sorgono attraverso «la me­ diazione della connotazione consapevole oppure dei processi di rap­ presentazioni inconsapevoli» (ivi, p. 3 2 7 ). Questi processi sono intui­ tivamente inoppugnabili e come tali esibiti da musicisti e musicofili come semplici dati di fatto; tuttavia non per questo la teoria deve rinunciare a offrire una legittimazione in quanto tali processi sono elementi oggettivi della significazione musicale. Per spiegare come un ascoltatore competente risponde alla musica mettendola in relazione con il mondo affettivo, Meyer ricorre all"' associazione per contigui­ tà, , già impiegata dai teorici settecenteschi, e alla nozione di "isomor­ ,, ,, fismo dinamico , che in seguito chiamerà " associazione cinestetica (Meyer, 1 973 , p. 242 ) , ossia l'assimilazione di un moto musicale a un'immagine o a un concetto che rappresenta una forma di moto analoga. L'impiego di associazioni contigue mostra la rilevanza cultu­ rale della musica e la sua capacità di riferirsi all'insieme di simboli e mitologie elaborate da una determinata società; l'isomorfismo dinami­ co, invece, rimanda soprattutto agli ambiti affettivi dell'esperienza .

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Gli stessi problemi affrontati da Langer e Meyer sono al centro dell'ampia ricerca e sistematizzazione compiuta da Wilson Coker. I punti di riferimento teorici, però, sono molto diversi: la semiotica di Morris, il pragmatismo di Mead e la logica generale. Come nei suoi predecessori, anche la concezione del significato di Coker è sostan­ zialmente dicotomica; egli parla infatti di "significato congenerico " e "significato extragenerico " , sostanzialmente nel senso in cui Meyer parla di significato inclusivo e significato extramusicale, ma la base di partenza per trovare un punto di tangenza tra le due dimensioni è data dal concetto di "segno iconico" nell'accezione di Morris e di Peirce. Nella trattazione di Coker, il segno iconico è caratterizzato da una somiglianza con l'oggetto rappresentato. Questa relazione di so­ miglianza tuttavia è limitata a un certo numero di caratteri significanti che vengono esibiti nel segno. Un esempio di segno iconico, per esempio, è la pianta di un appartamento; essa non " assomiglia" al­ l' appartamento nell'accezione che si dà a questo termine nel linguag­ gio quotidiano, ma esibisce alcuni tratti significanti (muri, aperture, spazi) comuni al segno (la mappa) e all'oggetto rappresentato (l' ap­ partamento) . L'elenco dei segni iconici che Coker fornisce mette bene in rilievo che la categoria semiotica di "segno iconico " com­ prende tipologie molto diverse: i disegni, la pittura rappresentativa, le fotografie, i geroglifici per esempio, ma anche le formule matemati­ che, i diagrammi e le metafore letterarie. Le formule matematiche e i diagrammi sono esempi rilevanti perché mostrano la funzione pecu­ liare del segno iconico di significare relazioni esibendole; la metafora, d'altro canto, viene considerata segno iconico in quanto comprende un parallelismo di qualità e relazioni sia nel segno che è il veicolo della significazione sia nell'oggetto significato. Il concetto di "segno iconico " si rivela funzionale all'interno della complessa e articolata costruzione di Coker. Esso sta alla base del significato congenerico in quanto rende possibile il riferimento di un elemento di un'opera (sia esso una relazione, una qualità o il valore di un gesto musicale) a un altro elemento analogo all'interno della stessa opera, di un altro mo­ vimento e di un'altra opera. Questi tipi di relazioni sono definiti a loro volta con i termini di intra/luenti, ovvero relazioni all'interno di uno stesso brano, e inter/luenti, ovvero relazioni tra brani diversi. Partendo da questa base concettuale, Coker è in grado di definire quello che chiamiamo il significato musicale immanente in termini di relazioni logiche, ovvero di sintassi logica delle strutture musicali orientata temporalmente, in quanto i riferimenti intrafluenti sono de­ terminati dalla dimensione temporale e spaziale dei segni. Questi pos­ sono essere infatti predittivi, retrodittivi o giustadditivi (Coker, 1 972 , 73

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pp. 4 e 65 ) e orientano l'attenzione dell'ascoltatore nelle rispettive di­ rezioni spazio-temporali. La coerenza di un brano musicale è garanti­ ta anche dai segni indessicali, ovvero gli indici, e dai segni logici. Gli indici rivestono la funzione di indicare; il pronome dimostrativo " questo" è appunto un indice. Coker illustra la funzione dell'indice musicale partendo dalla definizione di Morris, ovvero come un segno che attrae l'attenzione e la dirige, indicando la posizione di un ogget­ to nello spazio e nel tempo (ivi, p. 8 9 ) . Indici musicali sono, per esempio, i suoni chiave di una melodia, quello d'inizio e quello finale, il suono più acuto, gli intervalli più dissonanti e quelli assolutamente consonanti e così via. La funzione e la forza degli indici consiste so­ prattutto nel delineare la struttura e nell'integrare i gesti di una com­ posizione. Come per i segni iconici, anche per il raggruppamento de­ gli indici valgono alcuni principi logici (identità, equivalenza, somi­ glianza, contrasto e diversità, contiguità), cognitivi (la legge della pre­ gnanza e della buona continuazione) ed estetici (semplicità, regolarità, simmetria, direzione teleologica) . I segni logici invece rivestono la funzione di indicare le relazioni tra i vari segni e tra i vari raggruppa­ menti sintattici, indicando quindi congiunzione, disgiunzione, interse­ zione, inclusione, implicazione e inferenza. Non va dimenticato che questa complessa costruzione si articola a sua volta in due livelli inte­ grati: quello dell'esperienza diretta, sensibile di prima mano ( '' by ac­ quaintance " ) e la conoscenza riflessa. L'esperienza estetica attraverso la quale si coglie il senso della musica è radicata nella conoscenza diretta, che non richiede la mediazione della conoscenza intellettuale come nel caso del ritmo ma si realizza nella comprensione e nella ri­ sposta individuale alla complessa struttura logica della musica. La filosofia dell'atto di Mead consente a Coker di parlare di si­ gnificato extragenerico come il risultato tra l'interazione di ascoltatore e musica; esso emerge quando l'ascoltatore risponde a un gesto musicale o a un gruppo di pro­ prietà musicali in quanto significano qualcosa al di fuori dell'opera vera e propria o a qualche altra opera nello stesso medium. L'opera musicale come un tutto o come una parte di esso si può interpretare come riferimento a indicazione, caratterizzazione o connessione con - oggetti non musicali come atteggiamenti, pensieri affettivi e stati cenativi, oggetti fisici ed eventi o pro­ prietà di questi oggetti. La musica può disporre l'interprete a rispondere nei modi che di solito occorrono quando è stimolato da oggetti non-musicali (ivi, p. 147 ) .

Ora il motivo per cui la risposta dell'ascoltatore è motivata e non semplicemente soggettiva e idiosincratica risiede nel fatto che 74

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il significato musicale extragenerico è in gran parte possibile in quanto gli elementi musicali e le configurazioni dei gesti che lo costituiscono possono funzionare come segni iconici. Come sappiamo, la peculiarità semantica dei segni iconici è che essi possono significare qualsiasi cosa a cui assomigliano. Così la base del significato extragenerico consiste nelle proprietà inerenti del gesto musicale che esibisce similarità: la musica può significare qualsiasi cosa assomigli sufficientemente per suscitare una risposta nell'interprete appro­ priata a quell'oggetto estrinseco (ibid.).

In che senso il significato congenerico può funzionare globalmente come segno iconico di un complesso di aspetti del mondo? È a que­ sto punto che diventa centrale il concetto di "metafora " che, come si ricorderà, era stato inserito nel catalogo apparentemente eterogeneo dei segni iconici. La metafora, nell'accezione assunta da Coker, è un'icona che collega due oggetti distinti portatori di tratti qualitativi e strutturali simili (ivi, p. 1 5 2 ) . In questo senso la musica è una meta­ fora in cui la dimensione primaria è congenerica e la dimensione se­ condaria è extragenerica. È interessante osservare che qui non si par­ la di " trasferimento " da un dominio all'altro, ma di relazione tra due dimensioni, ovvero di una forma di riferimento che si articola in ma­ niera diversa (iconica, appunto) rispetto al riferimento linguistico. Naturalmente per funzionare la metafora deve essere ben fatta, ovve­ ro deve risultare da una selezione pregnante di proprietà tramite l'en­ fatizzazione di alcune e la soppressione di altre. Coker non nasconde che l'intenzionalità dell'autore ha un ruolo fondamentale nel processo di significazione e nella scelta delle strategie più efficaci (ivi, pp. 149-50) . Ma alla fine del processo compositivo, tuttavia, ciò che conta è il complesso di gesti musicali che costituisce l'opera. La dimensione congenerica, dunque, è la parte essenziale della metafora, perché i mezzi che la musica possiede per costituire una metafora sono pro­ prietà musicali intessute in un complesso di riferimenti interni, orga­ nizzato in maniera coerente, tale da sostenere la funzione pragmatica, semantica e sintattica; ma il senso della musica non è puramente mu­ sicale, bensì sociale, ovvero si realizza nel suo riferimento alla dimen­ sione extramusicale del mondo della vita. Quali sono i tratti comuni tra la dimensione congenerica e quella extragenerica? Movimento, tensione, conflitto, direzionalità - per ricordare soltanto alcuni dei tratti che possono essere comuni alla dimensione primaria e a quella secondaria - sono " universali " fondati nell'isomorfismo fisiologico delle nostre sensazioni: la stessa qualità o relazione può essere espres­ sa in un mezzo sonoro o visivo ed essere percepita da sensi diversi, ma in maniera tale da essere definita con lo stesso nome. 75

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La concezione della metafora di Coker riporta la musica al mon­ do della comunicazione intersoggettiva e al suo innegabile legame col mondo della vita, dei sentimenti, dei pensieri. Essa segna una tappa molto importante nella storia della negoziazione del senso tra la di­ mensione puramente musicale e quella extramusicale per due motivi. Da una parte restituisce all'ascoltatore la fiducia nelle proprie risposte all'ascolto, siano esse semplicemente affettive oppure riflessive, in quanto motivate dalla struttura segnica della musica, anche se non so­ stenute e legittimate da un'analisi specialistica; ciò significa, in con­ creto, infrangere l'imperativo formalistico dell'ascolto come pura " contemplazione" . D'altra parte la correlazione tra dimensione conge­ nerica ed extragenerica che si manifesta nel riferimento metaforico le­ gittima la rottura dell'isolamento nel dominio della musica "pura" del discorso musicologico, aprendolo al contesto della rilevanza sociale e culturale di quest'arte.

2.5

Musica e mondo: topoi, gesti, tropi Uno degli aspetti che accomuna la maggior parte degli studiosi di cui si è trattato nel paragrafo precedente è l'insistenza sul carattere uni­ versale delle proprietà e delle qualità esibite dalla musica, riconosciu­ te e riconoscibili grazie a forme di isomorfismo tra dimensione forma­ le e strutture percettive, cognitive e affettive dell'uomo. Questa con­ cezione approfondisce notevolmente sul versante semiotico e musico­ logico la posizione già sostenuta da Schopenhauer, ovvero che la mu­ sica sia in grado di esprimere i sentimenti in generale ma non questo o quel sentimento particolare, senza tuttavia andare molto al di là di essa. Questo contraddice in gran parte la nostra esperienza musicale, in quanto tutta la storia della musica moderna, dal Seicento a oggi, ha distillato una capacità finissima nel differenziare le sfumature di sentimenti, stati d'animo e condizioni psichiche, e lo stesso si potreb­ be dire di molte altre culture musicali. Non solo: la comune espe­ rienza musicale riconosce una serie di associazioni e riferimenti extra­ musicali e culturali ignorati dai contributi teorici che si basano sui principi dell'analogia tra il mondo delle forme musicali e la dimensio­ ne emozionale e psicologica. La questione del rapporto tra significato immanente ( congenerico) ed extramusicale, inoltre, risulta viziata alla base dal fatto che le con­ dizioni del rapporto cambiano nel corso della storia e hanno un peso diverso a seconda dei compositori, un fatto su cui ha richiamato l'a t-

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tenzione Goodman, meno preoccupato, rispetto ai pensatori prove­ nienti dalle discipline musicologiche, di cercare delle legittimazioni o delle deroghe alla concezione formalistica che sta alla base della fon­ dazione della musicologia come disciplina accademica. È stato grazie all'approfondita conoscenza e consuetudine con il repertorio dell'età cosiddetta classica che, a partire dagli anni ottanta, l'attenzione di un gruppo di studiosi (Ratner, I 98o; Allanbrook, I 983 , I 992 ; Agawu, I 99 I , I 999; Caplin, 2 005 ; Hatten, I 994, 2 004; Monelle, 2ooo, 2oo6; Noske, I 993 ; Sisman, I 993 ; Tarasti, I 994) si è concentrata su una forma di significazione locale, ma al contempo as­ sai eloquente, definita con il termine retorico di topoi, owero proce­ dimenti musicali che sollecitano riferimenti a stili storici, generi musi­ cali e significati espressivi (Hatten, 2004, p. 2 ) . Tanto il termine topos quanto la sua funzione derivano dalle figure della tradizione retorico­ musicale seicentesca. La rilevanza di questi segni referenziali e retori­ ci nell'equilibrio tra strategie compositive e competenze degli ascolta­ tori nella cosiddetta età classica è stata messa in rilievo per la prima volta intorno agli anni ottanta da storici della musica (Ratner, I 98o; Allanbrook, I 983 ; Levy, I 98 I ) ; in seguito la semiotica ha fornito stru­ menti concettuali efficaci per sostanziare la ricerca volta soprattutto a interessi storici e musicologi con una fondazione teorica. L'indagine sui topoi del linguaggio musicale classico (linguaggio in senso metafo­ rico) è un «successo della moderna musicologia» (Caplin, 2005 , p. I I 3 ) non soltanto perché costituisce un campo di ricerca coerente e condiviso da un nutrito gruppo di studiosi; soprattutto, esso intreccia strettamente problemi estetici e indagine musicologica, in un circolo virtuoso di apporti reciproci, focalizzati però su un repertorio e un contesto stilisti co specifico, ossia l'età classica. Quando i musicologi parlano di topoi si riferiscono comunque a funzioni referenziali diverse da quelle individuate dalla retorica tradi­ zionale. Innanzitutto essi vengono considerati segni, caratterizzati da un significante, ossia da un certo costrutto musicale costituito da tutte le dimensioni del suono (melodia, armonia, metro, ritmo) e non sol­ tanto da un figura melodica superficiale, e da un significato che viene designato da etichette convenzionali, tratte per lo più dalla storiogra­ fia del XVIII secolo (Sturm und Drang, fanfare, stile dotto, stile canta­ bile, pastorale, recitativo ecc.; Agawu, I 99 I , p. 49 ) . Essi si dispongo­ no quindi a cavallo dell'opposizione congenerico/extragenerico e ri­ propongono il problema del loro rapporto. Il modello teorico propo­ sto da Agawu mira a un rapporto fluido e reciproco tra la semiosi introversiva e la semiosi estroversiva ( due termini mutuati da J akob­ son, I 97 I ) , che corrispondono grosso modo alla coppia di termini 77

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congenerico/extragenerico di Coker. Il topos della " fanfara" , per esempio, è presentato per mezzo di una particolare configurazione di note e il suo effetto si può altrettanto descrivere in termini puramen­ te musicali; ma non vi è nessuna relazione tra la configurazione musi­ cale e l'etichetta con cui la si designa (in questo senso tale relazione è arbitraria nel senso saussuriano del termine) . La semiosi introversiva e quella estroversiva procedono verso direzioni opposte: verso la struttura profonda in senso schenkeriano la prima e verso il livello superficiale la seconda. Soltanto nella zona centrale le due direzioni si sovrappongono e si integrano reciprocamente. Agawu chiama il rap­ porto reciproco tra il livello superficiale e quello strutturale "gioco " dei segni. Il significato o, se si vuole, l'espressione è quanto scaturisce da questo (Agawu, 1 99 1 , pp. 24-5 ) . La semiosi estroversiva non ha come riferimento il "mondo " , né quello esteriore delle cose e degli eventi né quello interiore delle emozioni e delle condizioni psichiche. Essa è il risultato piuttosto di una stipulazione di senso tra le oppor­ tunità stilistiche di un'epoca e le risposte di un pubblico competente che comprende un processo di apprendimento. Esso è convenzionale anche se è storicamente sedimentato. Tuttavia il potenziale di riferi­ mento dei topoi, come insiste Agawu, rimane suggestivo , ma non esaustivo e forma «le nostre risposte alla musica classica, senza ne­ cessariamente determinarne i limiti» (ivi, p. 34) . Può sembrare a questo punto che da qualunque parte si affronti il problema del significato musicale si ritorni a un significato indistinto e suggestivo, comprensibile, ma sfuggente. Ed è inevitabile supporre che le parole dispongano di un contenuto semantico più preciso. Le cose non stanno proprio così. Monelle offre una postilla preziosa, partendo da Ricoeur: il mondo a cui si riferiscono i testi, siano essi letterari o musicali, non è il mondo dei sensi a cui si riferisce la se­ mantica ma il "mondo dell'opera " : il suo significato è intratestuale, cioè si riferisce a un mondo costituito dal testo stesso, ovvero è un'u­ nità culturale (Monelle, 2 ooo, pp. 1 2-3 ) .

2.6

Pratiche, ideologie, decostruzioni Proviamo a fermare per un attimo il carosello delle voci e torniamo al problema da cui si era partiti: la promessa del senso che la musica sembra mantenere e tradire al tempo stesso, come le profferte d'amo­ re di un amante sfuggente. È questo il senso dell'ineffabilità di que­ st'arte, il suo senso " ottuso " (Barthes, 200 1 ) , la sua "opacità " (Burn-

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ham, 1 997). Essa sembra esibire una struttura porosa che rende plau­ sibile un transito indiscriminato del senso, ma al contempo resiste alla sua definizione in termini discorsivi. Nei paragrafi precedenti ab­ biamo illustrato tre posizioni: r . l'interpretazione filosofica della di­ mensione ineffabile della musica; 2 . la dialettica negativa tra costru­ zione ed espressione, senso e mimesi, unità e singolarità; 3 · la nego­ ziazione del senso tra la dimensione congenerica ed extragenerica al­ l'interno di una comunità di studiosi che sono stati definiti efficace­ mente neohanslickiani (Cook, 2002 ) . L a musicologia angloamericana degli anni novanta h a riposizionato la linea di divisione all'interno del dibattito intorno al senso e al si­ gnificato della musica, tra coloro che pensano che il significato musica­ le sia in misura preponderante determinato e fissato dalla dimensione congenerica e coloro che sostengono che sia prevalentemente di n atu­ ra sociale o culturale. Con una formulazione molto generale si può dire che il dibattito ripropone in termini estetici la contrapposizione tra nominalismo e realismo (Borio, 2005 ) : gli uni pensano che il si­ gnificato sia determinato in misura prevalente dalla dimensione forma­ le; gli altri che dipenda in gran parte dall'apporto dell'interpretazione dell'ascoltatore. In questo senso riaffiorano, in un contesto diverso , le stesse preoccupazioni che erano state sollevate circa un decennio pri­ ma dalla cosiddetta teoria della ricezione (Dahlhaus, r 98o; Borio, Gar­ da, 1 989; Danuser, Krummacher, 1 99 1 ) . L'enfasi sul momento della ricezione suggerisce che gran parte del processo di significazione ha luogo nella dimensione interpretativa, determinata almeno in una certa misura dall'orizzonte storico culturale. In effetti il compito teorico del­ la teoria della ricezione è stata quella di elaborare tanto un concetto di "intenzione dell'opera" sufficientemente forte da costituire un punto di mediazione tra la dimensione produttiva e quella interpretativa, quanto la nozione di " punti di indeterminazione " , ossia di aspetti o zone che rimangono indeterminate nella partitura (ad esempio il tem­ po, il fraseggio ecc.) e che debbono essere determinati nella realizza­ zione musicale, ma anche mentale e discorsiva dell'interprete. Gli attacchi all'imposizione autoritaria di un significato "puramen­ te musicale " sancito dalla teoria musicale (in gran parte improntata alla tradizione schenkeriana) avanzati dalla cosiddetta New Musicolo­ gy degli anni novanta (nuova musicologia nel senso di una contrappo­ sizione intenzionale con la vecchia musicologia, dominata dalla distin­ zione tra musicologia storica, di stampo positivista, e teoria della mu­ sica) si muovono in un orizzonte completamente diverso e ripropon­ gono con forza la questione del rapporto tra struttura musicale e struttura sociale, un rapporto che era stato al centro della filosofia 79

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

della musica di Adorno. Anche se, proprio per questo motivo, studio­ si come Susan McClary sono stati definiti "neoadorniani" (Cook, 2 002 , p. 1 76), questa etichetta può creare qualche confusione. Anche per Adorno, infatti, l'arte è in tutto e per tutto un "fatto sociale" , ma il senso dell'arte risulta dalla dialettica tra la dimensione mimetica e formale (a cui appartiene anche il materiale determinato socialmente) . Per McClary, invece, il senso è in primo luogo una costruzione socia­ le. Le relazioni tra la musica e la cultura non vanno individuate al livello della semiosi consapevole, bensì nei "tropi culturali dominan­ ti" (McClary, 2ooo, p. 66) che si inserivano e agiscono nella struttura musicale. Sintetizzando, si può dire che la cultura forma per i propri fini le tecniche musicali e che queste a loro volta confermano e con­ solidano le rappresentazioni sociali dominanti. Il panorama della New Musicology è in realtà molto più variegato di quanto lasci intendere l'etichetta di " costruzionismo " , ovvero l'idea che non ci sia una base obiettiva del significato, ma che esso sia il risultato di costruzione sociali; spesso le posizioni sono più sfumate rispetto a quella di McClary, che ha lasciato un'impronta indelebile per aver sfondato la tradizionale separazione tra dominio musicale autonomo e società a partire dalla lettura femminista del linguaggio tonale, interpretato tanto come conseguenza quanto come agente nel­ la perpetuazione delle convenzioni di genere (McClary, 1 99 1 ) . Nel caso di Lawrence Kramer (Kramer, 1 990, 1 995 , 2002) il lavoro di de­ mistificazione è molto sottile e attento a conservare tutta la fragilità e il fascino del modo in cui la musica si rivolge all'ascoltatore, che egli definisce come «l'arte di azzerare le distanze», (Kramer, 2 002 , p. 2 ) . Il «contestualismo non riduzionista» ( ivi, p. 5 ) di questa posizione in­ dividua lo spazio della formazione del senso in due peculiari qualità del mezzo musicale. La prima è il lato passivo della musica, la di­ sponibilità a ricevere l'impronta - e quindi a essere diretta e control­ lata - dal mondo esterno, dalle cose - siano esse rappresentazioni come parole, immagini, movimento, narrazione, oppure azioni, come mangiare, bere, il sesso e perfino la morte - a cui la musica si me­ scola come un ottimo additivo; la seconda proprietà è la capacità di rimanere intatta come «musica, musica pura, ineffabilmente presente al senso e alla memoria» (ivi, ?· 4) quando si sottraggano a essa le impronte impresse dalle cose. E importante qui osservare che la di­ mensione "musicale pura" emerge per sottrazione: è un resto, un avanzo, ma non una sostanza su cui si fonda il complesso processo della signifìcazione. L'idea sottesa a questa ricerca è che la musica sia una forma di coinvolgimento nel tessuto delle relazioni psicologiche, sociali e culturali piuttosto che una forma di distacco contemplativo. Bo

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In essa e attraverso di essa vengono negoziati modi e modelli di sog­ gettività individuale. Un esempio, fra i molti proposti da Kramer, è la storia di quello che in termini continentali si chiamerebbe la storia della ricezione della Sonata " al chiaro di luna " . Quel che racconta Kramer, tuttavia, non è la storia dell"' opera" , ma un breve eppure significativo episodio sia nella storia del significato musicale sia in quella della sessualità, la creazione di un significato sociale attraverso l'interazione di due dimensioni: «Le due storie si incontrano perché con questa sonata ascrivere il significato alla musica è diventato un mezzo per ascrivere la sessualità ai corpi, e viceversa, qualcosa reso possibile dal comprendere un certo tipo di musica e un certo tipo di corpi» (ivi, p. 2 9 ) . Interpretazioni d i questo tipo, oltre a segnalare lo slittamento di ambito in cui si investiga il significato e il senso della musica dall'e­ stetica e dalla musicologia ai cosiddetti cultura! studies, manifestano un mutamento della natura dell'esperienza musicale negli ultimi de­ cenni, dovuta in gran parte alla disponibilità continua e all' onnipre­ senza della musica resa possibile dalla tecnologia. Grazie a questa ri­ voluzione la musica è diventata, più che in ogni altra epoca, un " ad­ ditivo " indispensabile alla vita quotidiana, un'aggiunta che, oltre a in­ tensificare le esperienze a cui l'ascolto della musica si accompagna, contribuisce alla formazione dell'identità e dello spazio sociale abitato dall'ascoltatore. Rispetto a questo tipo di ascolto al contempo perva­ sivo e distratto, l'ascolto contemplativo è diventato un'attività che in termini commerciali si potrebbe definire " di nicchia" , coltivata da un gruppo ristretto di amatori (che a loro volta si definiscono socialmen­ te e culturalmente anche attraverso questa pratica) . In qualche modo, i cultura! studies hanno colto il fatto che questo tipo di funzione so­ ciale e culturale è stata assolta dalla musica almeno fin dall'inizio del­ l'Ottocento. Da questo punto di vista la posizione cosiddetta "neo­ hanslickiana " appare una mistificazione in quanto nega un dato di fatto: «il radicamento della musica nelle condizioni di vita e di pen­ siero, che la musica riflette, intensifica e in parte contribuisce a crea­ re» (ivi, p. 5 ) . Vi è un altro aspetto, anch'esso legato all'attualità, che h a stimola­ to la riflessione sul significato musicale: la funzione della musica nei cosiddetti mixed media, ovvero il cinema, la televisione, gli spot pub­ blicitari. La riflessione di Nicholas Cook sul significato musicale è partita proprio dallo studio dell'emergenza di un significato composi­ to dal convergere di media diversi nel film e negli spot pubblicitari (Cook, 1 99 8 ) . L'esempio preferito di Cook ( 1 998, pp. 4-8 e 2 002 , p. 8r

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r 8o) è lo spot pubblicitario per la Citroen zx r 6v accompagnato da estratti dall'Ouverture delle Nozze di Figaro di Mozart : Ascoltato in questo contesto, gli attributi espressivi e la qualità energetica della musica di Mozart [ . . . ] si raccolgono intorno all'automobile e le trasferi­ scono le qualità di potenza, di verve e di grazia associate a essa e al tempo stesso la arricchiscono con connotazioni di prestigio e di cultura alta [. . ] la musica - per così dire - individua le qualità dell'automobile e al contempo si può dire che la velocità della Citroen interpreti la musica. Emerge così un significato composito che non è immanente né all'ouverture né all'automobi­ le (Cook, 2 002 , p. r 8o) . .

Cook mette a frutto l'esperienza acquisita analizzando i mixed media per formulare una teoria di un significato negoziato ed emergente che, nell'intenzione dell'autore, dovrebbe evitare l'opposizione tra la posizione formalista (o neohanslickiana) e quella " costruzionista , , al quale l'autore rimprovera l'arbitrarietà delle interpretazioni. Il punto centrale della sua critica ai neohanslickiani è che la musica non è mai sola, perché è sempre recepita all'interno di un contesto discorsivo, attraverso l'interazione di musica e interprete, testo e contesto. La musica non ha dunque un senso specifico. Fin qui l'argomentazione non differisce molto dalle formulazioni più radicali della teoria della ricezione, né dalle forme più caute di costruzionismo, come quella di Kramer. Cook, però , concede alla musica un potenziale dal quale un significato specifico può emergere in circostanze precise: la musica in­ fatti (come aveva fatto notare Hanslick) non è in grado di esprimere emozioni, ma soltanto sfumature prive di emozioni e grazie a questo «può permettersi sentimenti di amore, grazia, prestigio desiderio» (ivi, pp. r 8o- r ) . Cook però non si ferma qui, perché vuole riscattare la teoria della negoziazione del senso dalla critica che a questo punto ognuno possa attribuire alla musica il significato che preferisce. Per andare oltre questa posizione Cook ricalca (consapevolmente) argo­ mentazioni già avanzate in precedenza; in primo luogo sostiene che la pluralità dei significati della musica va dedotta dalla storia della rice­ zione di un'opera (un argomento sostenuto con maggior forza teorica da lngarden, da J auss e Iser e ripensato dalla musicologia tedesca ne­ gli anni ottanta) ; in secondo luogo, per spiegare come si produce il senso ricorre a sua volta alla teoria della metafora (Lakoff, J ohnson, r 982 ) . Il modello impiegato da Cook (Turner, Fauconnier, 1 995 ) pre­ suppone la presenza di attributi in comune tra i vari media in que­ stione (per esempio tra musica e immagine) , in assenza dei quali non sarebbe possibile un'interazione tra essi e uno spazio in cui si combi-

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nano gli attributi di ciascun medium e permettono così l'emergenza di un nuovo significato. Qui è importante rilevare quanto viene omes­ so dall'originale teoria di Turner e Fauconnier, ovvero che le metafo­ re sono fondate in uno schema corporeo; accettare questo presuppo­ sto significherebbe ritornare a posizioni analoghe a quelle già viste nel paragrafo precedente, con il risultato di fissare il significato a un terreno stabile, sia esso lo schema corporeo oppure il segno iconico nella versione di Coker (e questo è vero per tutte quelle teorie che Cook definisce, sulla scorta di Kivy, 1 980, p. 77, "teorie del profilo " contour theories e che in precedenza abbiamo invece identificato con l'impiego dell'isomorfismo) . Il meccanismo metaforico a cui pen­ sa Cook non si basa né sul trasferimento da un dominio a un altro (Goodman), né sul segno iconico (Coker) , ma su un'integrazione tra due domini in uno spazio misto (blended space) dalla quale emerge il significato. Vi è dunque un significato in potenza, ma in quanto tale percepibile anche se indefinito, ed è rappresentato dalla nuance, dalla sfumatura; e vi è un significato in atto formulato in parole e impiega­ to per la comunicazione. Questo è il livello dell'interpretazione che in maniera suggestiva Cook attribuisce alla «compulsione a rivelare un segreto» (Cook, 1 99 8 , p. 2 6 8 ; 2002 , p. 1 8 1 ) . La nuance è uno di mol­ ti termini che sono stati usati per definire l'ineffabile U ankélévitch ne fa - l'abbiamo visto - il punto di partenza per la sua " metafisica del­ l' assenza" ) . Proprio da questo concetto è partito uno dei tentativi di demistificazione dell'idea di "ineffabile " basato su un principio co­ gnitivista: non possiamo rendere conto verbalmente delle sfumature perché possiamo percepire esattamente e trattenere nella memoria la loro esatta gradazione, di qui la tendenza ad attribuirvi un significato speciale, inattingibile e superiore (Raffman, 1 99 3 ) . L a riabilitazione della nuance d a parte d i Cook s i basa invece su uno studio della cultura materiale, nella quale è possibile cogliere le qualità di certi artefatti che sono invece invisibili per chi non appar­ tiene alla stessa cultura, anche se sono inestricabilmente parte di que­ gli oggetti (Cook, 2002 , p. 1 7 8 ) . Cogliere la presenza incoativa del senso è un'esperienza preriflessiva, ma non preculturale. La nuance è il lato molle della musica che paradossalmente è in grado di esercita­ re il massimo di resistenza all'articolazione verbale. È evidente il pun­ to di contatto tra la teoria della nuance di Cook e il poststrutturali­ smo francese, il cui orizzonte implicito è innegabile nella sua posizio­ ne. Qui la forza di resistenza del suono, il suo senso " ottuso " è im­ piegato per salire in qualche modo sulle spalle del costruzionismo stesso, che ha negato tanto la possibilità di un accesso immediato alla musica (pur con delle differenze) quanto la legittimità di una teoria -

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intesa a indagare la dimensione immanente della musica. L'idea so­ stenuta da Cook che le opere musicali siano un aggregato instabile di significazione potenziale (una definizione che forse sarebbe piaciuta ad Adorno) ha comunque un obiettivo politico: delegittimare l'autori­ tà con cui il discorso musicologico presenta interpretazioni di opere attraverso le pratiche analitiche consuete allo stesso modo in cui sma­ schera la pretesa (altrettanto autoritaria) di McClary di affermare un'interpretazione (la propria) .

2 .7

Coda Gran parte del sapere accademico è definito dalla mappa delle disci­ pline in cui si organizza. Da questa struttura dipende in gran parte il tipo di domande che ci si pone e di conseguenza anche delle risposte. La musicologia è diventata quell'insieme di discipline che conoscia­ mo, ossia discipline storico-filologiche e discipline teoriche (anche se con articolazioni e accenti leggermente diversi tra l'Europa e i paesi anglosassoni, in particolare gli Stati Uniti) , soprattutto grazie alla se­ parazione dalle altre arti e all'insistenza sulla sua dimensione autono­ ma. Per poter godere dei risultati della collaborazione di una comuni­ tà di studiosi, della strutturazione di un metodo e anche del controllo esercitato da essa, un campo di studio deve "essere disciplinato " , os­ sia trasformarsi in una " disciplina" con un oggetto di studio definito, certi metodi e certi criteri di controllo . Tuttavia, dal momento che l'universo non è diviso in dipartimenti (come diceva Whitehead e Ki­ vy ama ripetere, 1 9 80, p. 1 7 ) , talvolta è necessaria una certa "indisci­ plina" per poter vedere un oggetto di studio da un'altra prospettiva. Ciò può provocare rivolgimenti nelle discipline con defezioni, apo­ stasie, fondazioni di nuovi dipartimenti, talvolta per amore dell'ogget­ to, talvolta per amor proprio. Da un certo punto di vista la discussio­ ne che si è illustrata nei paragrafi precedenti si può raccontare pro­ prio così, come una battaglia per legittimare o delegittimare il con­ trollo del significato musicale, che abbiamo visto migrare per vari am­ biti, filosofico, musicologico, e infine quello dei cosiddetti cultura! studies. È questo, ma non è solo questo. In estetica il problema del­ l' autorità con cui si pronuncia un giudizio è centrale, anzi Kant lo considera in un certo senso il problema dell'estetica. Secondo Kant, quando si formula un giudizio estetico infatti lo si fa " come se" fosse universalmente valido, ossia come se valesse per tutti. Il giudizio este­ tico si arroga in un certo senso un'autorità che non ha perché non lo

2.

SEI'\SO E SIGI'\IFICATO NELLA MUSICA

può dimostrare, nondimeno senza questa pretesa di universalità sa­ rebbe un semplice giudizio di gusto (Cavell, 1 969 , p. 94) . Ciò vale in una certa misura anche per la teoria del significato. Ogni interpreta­ zione pretende di essere vera e condivisa, altrimenti non sarebbe un'interpretazione, ma una semplice opinione o impressione. Nessuna interpretazione d'altra parte può arrogarsi un primato in virtù dell' os­ servanza di certe procedure, perché nel campo dell'estetica nessun si­ gnificato può essere dimostrato (come accade invece in alcune aree del pensiero scientifico) . Ma un'interpretazione può offrire buone ra­ gioni per essere accettata e condivisa ( almeno dai più, anche se ogni interpretazione pretende di essere condivisa da tutti) e quindi diven­ tare un'interpretazione autorevole. Ogni interpretazione del significa­ to comporta un'analisi linguistica, ossia dei mezzi con cui il significa­ to viene articolato. Il problema del significato rimanda a sua volta al problema del linguaggio e viceversa. Il rimando a una dimensione lin­ guistica non significa che il significato debba o possa essere completa­ mente tradotto in parole. E questo vale tanto per la musica quanto per qualsiasi arte. Il linguaggio dell'arte, come hanno messo in luce tanto Adorno quanto il poststrutturalismo, trascende la dimensione pragmatica e semantica del linguaggio verbale. Un'ultima osservazione: l'autentica linea di divisione in questo campo oggi non passa fra realisti e nominalisti, ovvero fra coloro che pensano che il significato dipenda dall'opera e coloro che pensano dipenda dagli ascoltatori. Essa separa piuttosto chi crede che esista un'esperienza estetica dotata di un suo particolare, elusivo ma al con­ tempo incisivo significato, che ha a che fare con il mondo della vita e con coloro che lo abitano, da chi sostiene che l'arte sia una dimensio­ ne della comunicazione sociale attraverso la quale vengono mediati modelli di comportamento e forme di soggettività, fungendo in parte da regolatore sociale e in parte da mezzo di autoidentificazione.

3

L'opera d'arte musicale

3·!

Pratiche musicali e teorie estetiche È difficile concepire un discorso estetico sulla musica senza presup­ porre il concetto di " opera d'arte musicale" . Nel corso del Novecen­ to l'opera è stata pensata come correlato del senso, indebolendo, come si vedrà più avanti, il primato dell'intenzione dell'autore. Una teoria forte dell'opera costituisce, inoltre, il fondamento della musico­ logia come disciplina autonoma che si occupa in primo luogo di ope­ re e di corpus di opere, indagandone la genesi, la struttura formale e la ricezione. Nel mondo moderno, già nei secoli precedenti ma so­ prattutto nel Novecento, l'opera appartiene al mondo della vita so­ prattutto come merce. L'ambiguità tra opera e merce ha finito per soverchiare gli esperimenti dell'avanguardia e della musica sperimen­ tale di saggiarne i limiti e di invalidarla per restituire all'arte il sapore dell'unicità dell'evento. Nel mondo globalizzato l'arte nella sua con­ cretizzazione di merce esercita una concorrenza aggressiva nei con­ fronti delle pratiche in uso in altre culture. Questa pervasività del concetto di " opera" offre una buona o c ca­ sione al senso comune per poter continuare a parlare di "opera" come di un oggetto concreto. La definizione più semplice ed esatta di ciò che si intende generalmente per opera la si può leggere in un pas­ so di Kivy (che parte però dal linguaggio ordinario per analizzare lo statuto ontologico dell'opera d'arte): Potrà non valere per le improwisazioni e potrà non valere per certi generi di musica elettronica. Potrà non essere vero quando non esiste un sistema di notazione. Ma per la maggior parte della più apprezzata arte musicale occi­ dentale a partire dallo sviluppo di una notazione musicale sofisticata, sembra essere vero il fatto che esistano opere d'arte musicali e che sia altrettanto vero che ne esistano esecuzioni. In termini presistematici, nel linguaggio quo-

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

tidiano si distingue tra l'opera e l'esecuzione avvenuta un tal giorno, in tal luogo, esecuzione che avviene sulla base di un sistema di prescrizioni chia­ mate partitura (Kivy, 1 99 3 , p. 59).

Come nel caso del significato musicale anche il concetto di " opera d'arte " è un concetto " emergente" . Kivy sostiene che si può parlare di opera a partire dallo sviluppo della notazione. Il problema, tutta­ via, è controverso. Innanzitutto vi è una discrasia tra l'impiego e la consapevolezza del concetto di "opera d'arte musicale" nei discorsi intorno alla musica da parte di musicisti e compositori e la definizio­ ne teorica dell'estetica filosofica. Lydia Goehr ( r 992) ha indicato l'e­ mergenza del concetto di " opera d'arte musicale" intorno al r 8oo, in­ dicando una serie di motivazioni: a) la formazione di un repertorio; b) il cambiamento di status sociale del compositore; c) la separazione tra artista e società; d) l'istituzionalizzazione della fruizione nella for­ ma del concerto; e) l'affermazione del copyright, che sancisce il prin­ cipio secondo cui i compositori sono i proprietari dell'opera e ne de­ terminano la sua forma permanente. Da queste trasformazioni, che av­ vengono in gran parte al livello della prassi sociale, deriverebbero tre principi fondamentali per il futuro della concezione dell'opera, an­ ch'essi peraltro in bilico tra estetica e prassi sociale: il primo è il prin­ cipio estetico e giuridico dell'originalità; il secondo è quello dell'in­ tangibilità dell'opera, per cui una volta licenziata e stampata, dopo un'accurata correzione delle bozze da parte del compositore, nessun altro può intervenire; il terzo è il principio di separabilità: rispetto alle pratiche precedenti per cui erano i compositori stessi a eseguire o a far eseguire sotto il proprio controllo la propria musica (pensiamo alle esecuzioni delle opere di Handel con il compositore al clavicem­ balo e così via) , si afferma una progressiva separazione fisica e tempo­ rale tra compositore ed esecutore. All'affermazione dell'opera come entità autonoma e separata dalla sua esecuzione farebbe da contralta­ re il paradigma estetico della musica assoluta, che comporta l'emanci­ pazione della musica dalla parola e la legittimazione della sua capaci­ tà autonoma di produzione di senso. Questo quadro compatto e sistematico coglie aspetti cruciali del­ l' enfatizzazione dell'indipendenza dell'opera nell'Ottocento, pur con qualche generalizzazione indebita: nel caso dei pianisti virtuosi del­ l'Ottocento come Chopin e Liszt, la separazione dell'opera dal virtuo­ so non era così immediata, né, nel caso di Chopin, la creazione di opere autonome così distinta dalla pratica dell'improvvisazione e di aderenza al genere (Rink, 2oo r ) . Tuttavia nel periodo che va dal Quattrocento all'Ottocento (Strohm, 2 ooo; Goehr, 2 ooob; Calella, 88



1 ' L OPERA D ARTE MUSICALE

2 007 ; Carone, 2007) compositori e musicisti manifestano l'attitudine a considerare la musica scritta come il prodotto di un'individualità eminente e ad attribuirle un valore speciale rispetto all'evento effime­ ro dell'esecuzione. Se ci si sposta sul versante teorico, balza agli occhi la lentezza e la diffidenza con cui la teoria ha elaborato la pratica. La musicologia tedesca (Dahlhaus, 1 967 , p. 2o; Loesch, 2oo r , p. 2 ) ha considerato come capostipite del discorso sull'opera d'arte musicale la distinzione di Listenius del 1 549 tra musica pratica, owero la musica come atti­ vità, e musica poetica, che comporta la produzione di un'opera che dura dopo la morte dell'autore. Questa genealogia, tuttavia, è stata di recente criticata con forza come proiezione indebita di categorie otto­ centesche da von Loesch (2oo r ) . L'emancipazione della musica stru­ mentale e la metafisica della musica romantica hanno contribuito sen­ za dubbio a enfatizzare il concetto di " opera musicale" al quale face­ va riferimento il mondo della musica - musicisti, committenti, editori, conoscitori e appassionati -, ma non ha scalzato il sospetto dell'esteti­ ca filosofica nei confronti della musica. Commisurata al criterio di opera come prodotto stabile e permanente che fin dall'antichità era considerato caratteristica distintiva dell'arte e dell'artigianato, una composizione musicale può sembrare effimera e transitoria. Quello che in una recente terminologia si chiamerebbe il carattere performa­ tivo della musica viene scambiato per una insufficienza rispetto ai re­ quisiti dell'opera. Tuttavia ha ragione Cari Dahlhaus nel ribadire che il concetto di " opera d'arte musicale " è una categoria precaria (Dahl­ haus, 2005 a, p. 2 1 8) . Il carattere performativo è più essenziale alla musica rispetto ad altre arti: per apprezzare il Don Giovanni ben po­ chi si sdraiano sul divano per leggere la partitura (come sosteneva di fare Brahms con una battuta sarcastica nei confronti di un direttore d'orchestra non amato) ; mentre si può godere la lettura dell'Amleto tanto quanto la sua rappresentazione a teatro. Vi è tuttavia una ragio­ ne storica per cui la categoria di " opera musicale " , come fa notare Dahlhaus, è centrale: la storia della musica europea è stata la storia di una progressiva aggettivazione. È stata l'elaborazione della forma come dimensione autonoma, insieme all'impiego e allo sviluppo di una forma sofisticata ed efficiente di notazione, a costituire la condi­ zione di possibilità dell'opera d'arte musicale. Paradossalmente, l'og­ gettività di una composizione si rivela quando essa è risuonata tutta intera, quindi nel momento in cui, dal punto di vista percettivo, è svanita. Il brano, però, è conservato nella memoria e in essa costituito e riconosciuto come forma. È dunque nella distanza che la musica si oggettiva come opera (Dahlhaus, 2005 a, pp. 2 r 8-9 ) . Proprio per que-

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

sto è rilevante l'istituzione concertistica: l'ascolto distaccato e concen­ trato che il concerto richiede e rende possibile è correlato a un gene­ re compositivo che si basa sull'architettura formale. Questa presuppo­ ne una suddivisione perspicua di parti diverse organizzate e ricorrenti e una logica musicale basata sullo sviluppo di temi e motivi che, per essere colti come parti di una forma dotata di coerenza, esigono un ascolto distaccato dal punto di vista estetico, ma al contempo attivo, in grado di trattenere nella memoria ogni parte e ricostruire la forma in quanto tale. Le culture che si basano sull'esecuzione richiedereb­ bero, invece, una maggior concentrazione sulle singole azioni e quin­ di sui singoli momenti piuttosto che sul tutto (Dahlhaus, 20o5b, pp. 2 3 2 -3 ) . L a categoria di " opera " cui fa riferimento Dahlhaus h a comunque alle spalle le riflessioni dell'estetica filosofica intorno al concetto di "opera musicale " elaborate soprattutto nell'ambito della fenomenolo­ gia, dell'ermeneutica e della dialettica adorniana, come si spiegherà meglio nei prossimi paragrafi. Come si è detto all'inizio, l'estetica filo­ sofica sette-ottocentesca non ha tematizzato il concetto di " opera " se non per metterlo in dubbio, come nel caso di Hegel, che insiste so­ prattutto sulla transitorietà del suono e sulla profonda debolezza di questo mezzo che non è in grado di dar luogo a rappresentazioni spi­ rituali (Hegel, 1 972 , pp. 992-5 ) . Nondimeno Hegel mette in luce per la prima volta un terzo aspetto che definisce l'opera d'arte musicale e che, in termini moder­ ni, si direbbe il suo carattere performativo: l'opera d'arte musicale ha bisogno per durare «di un'esecuzione sempre ripetuta» (ivi, p. 1 0 1 5 ) . Questa particolare natura dell'opera d'arte musicale presuppone, dunque, l'intervento di una figura mediatrice, che è quella dell'esecu­ tore. Per Hegel, il quale pensa che la musica si rivolga soltanto alla dimensione dell'interiorità e non a quella superiore dello spirito, la funzione dell'esecutore è un po' diversa da quella che oggi si ricono­ sce all'interprete: egli è piuttosto un "vivificatore " dell'opera; la sua azione, in quanto soggetto vivente, consiste nel trasferire la propria interiorità nella musica. Nell'ottica del confronto tra le arti a cui va ascritta anche l'estetica hegeliana - embricato inoltre con le tappe della storia dell'arte - sopravvive la riserva, propria dell'estetica mo­ derna, nei confronti di un tipo di opera d'arte che non è prodotto immediato dell'attività del genio, ma ha bisogno di delegare ad altri fasi di lavoro subordinato (Pudelek, 2ooo, p. 546) . L'affermazione di Hegel, tuttavia, non si riferisce soltanto al co­ siddetto carattere performativo della musica. L'idea che quest'arte ab­ bia bisogno di un'esecuzione " sempre ripetuta " insiste sulla sua natu-



1 ' L OPERA D ARTE MUSICALE

ra fugace e transitoria. L"'impermanenza " dei suoni, tuttavia, è tale in relazione al pubblico in generale piuttosto che al singolo ascoltatore. Le opere d'arte letterarie, infatti, sono disponibili nelle biblioteche e le opere d'arte figurative nelle gallerie e nelle pinacoteche. Una volta eseguite, le composizioni musicali scompaiono dalla memoria colletti­ va a meno che non vengano riproposte continuamente. È questo il senso di due affermazioni molto simili, entrambe risalenti alla prima metà dell'Ottocento. La prima, del r 8 o 2 , è di Forkel, l'autore di una delle prime storie della musica e di una biografia di Bach: «Il mezzo più efficace per preservare un'opera musicale, mantendone il vigore è eseguirla di fronte a un pubblico numeroso». La seconda è il pro­ getto di istituire una sorta di assemblea per scegliere le opere migliori nel campo della musica religiosa, drammatica e sinfonica, progetto formulato da Liszt nel r 8 3 5 . Le opere scelte andrebbero eseguite ogni giorno per un mese intero al Louvre, una volta acquistate dal governo e pubblicate a sue spese (entrambe le testimonianze sono ci­ tate in Goehr, 1 992, p. 205 ) . Secondo Goehr sarebbe la difficoltà di costituire e custodire un canone delle opere migliori per il pubblico di non musicisti a inficiare il carattere di opera delle composizioni musicali. La creazione di un repertorio all'interno dell'istituzione con­ certistica e operistica, creato nei decenni immediatamente successivi, risponde, fra l'altro, all'esigenza di assicurare alle opere musicali una durevolezza e una presenza analoga a quelle delle altre arti. L'insistenza di Hegel sulla mancanza di una sussistenza oggettiva e duratura delle opere musicali rispetto agli edifici, alle statue e ai quadri non deve fare perdere di vista il fatto che la nozione generale di " opera d'arte " hegeliana, come apparenza sensibile dell'idea, è in gran parte svincolata dall'idea della presenza oggettiva e concreta. Quantunque l'arte sia un oggetto fra gli oggetti e, nel linguaggio del­ l'estetica settecentesca, un oggetto naturale bello non differisca a tut­ ta prima da un bell'oggetto d'arte, ciò che distingue il primo, per esempio le piume variopinte degli uccelli o il loro canto, da un'opera d'arte è il riferimento al fruitore: «l'opera d'arte non è per sé così naturale: è invece essenzialmente una domanda, un'apostrofe rivolta a un cuore che vi risponde, un appello indirizzato all'animo e allo spiri­ to» (Hegel, 1 972, p. 84) . Il modello dell'opera è dunque la rappre­ sentazione. L'opera è un mondo chiuso, come manifestazione dell'i­ deale, ma per quanto possa formare «un mondo in sé concordante e conchiuso, essa tuttavia, come oggetto reale, singolo, non è per sé, ma per noi, per un pubblico che guarda e gode l'opera d'arte» (ivi, p. 2 96) . Questa definizione hegeliana può servire da introduzione alla

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

concezione moderna dell'opera d'arte intesa soprattutto come appello all'ascoltatore che trascende la concreta presenza dell'oggetto d'arte.

3 ·2

L'opera d'arte tra fenomenologia ed ermeneutica Ancora per Hegel il carattere distintivo dell'arte emerge nel confron­ to con gli oggetti della natura. Nel Novecento, tuttavia, il senso delle opere si oscura. L'enigmaticità delle opere sfida la riflessione filosofi­ ca a rendere conto di oggetti che pretendono di costituire un ponte tra domini opposti e lontanissimi: quello delle nude cose e quello del­ la verità e del senso. È questo l'orizzonte in cui si articolano le ri­ flessioni di due eminenti allievi di Husserl, Martin Heidegger e Ro­ man lngarden, intorno al concetto di " opera d'arte" in generale, di "opera poetica" e "musicale" in particolare. Entrambi iniziarono le loro ricerche intorno a questo tema negli anni trenta per poi giungere assai più tardi a una formulazione definitiva (Heidegger, 1 968; lngar­ den, 1 989b) . La riflessione di Heidegger sull'origine dell'opera d'arte muove proprio dalla concretezza delle opere, dal loro carattere di " cose " . L'elemento discriminante tra il concetto di " opera " derivata dalla con­ cezione classica dell'arte (le opere come artefatti, prodotti dell'abilità e dell'ingegno) e quello moderno risiede nella constatazione che le cose nel mondo sociale sono anzitutto merci. Soltanto in quanto tali sono disponibili ( almeno potenzialmente) ovunque e per tutti. Da questo punto di vista tutte le opere si equivalgono: Un quadro, ad esempio quello di Van Gogh che rappresenta un paio di scarpe da contadino, passa da un 'esposizione a un'altra. Le opere sono spe­ dite come il carbone della Ruhr e il legname della Selva Nera. Durante la guerra gli inni di Holderlin erano impacchettati negli zaini accanto agli og­ getti da pulizia. I quartetti di Beethoven sono disposti nei magazzini della casa editrice come le patate in cantina (Heidegger, 1 968, p. 5 ) .

S i potrebbe aggiungere che ciò che nella vita economica e sociale è merce, per gli storici dell'arte, della musica, della letteratura è docu­ mento: identificabile, attribuibile, analizzabile, interpretabile, conser­ vabile. Di fronte alla massa incombente degli oggetti d'arte la rifles­ sione ha compiuto una duplice mossa: in primo luogo ha riconosciuto l'opera in quanto cosa, prodotto, merce, nell'ordine degli oggetti 92



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mondani; in secondo luogo ha cercato di definirne la dimensione estetica nel comune riferimento delle opere d'arte a un senso. Hei­ degger ha individuato quel qual cos'altro " al di sopra e al di là della cosalità" nell'idea di messa in opera della verità e ha descritto l'opera come luogo dell"' apertura" , dello " svelamento " della verità dell'ente (Gentili, 2007 ) . L'evento accade in una peculiare relazione triangolare che lega (per la prima volta nella storia del concetto di "opera d'arte" se si vuoi trascurare il fugace accenno di Hegel al carattere di appello dell'opera) il creatore e il fruitore in un nesso indissolubile con l'o­ pera: All'esser opera dell'opera appartengono coessenzialmente tanto coloro che la fanno quanto coloro che la salvaguardano. Ma è l'opera stessa a rendere pos­ sibili coloro che la fanno e a richiedere, quanto alla sua stessa essenza, colo­ ro che la salvaguardano. Che l'arte sia l'origine dell'opera significa che essa fa sorgere nella loro essenza quelli che sono a essa coessenziali: i facenti e i salvaguardanti (Heidegger, 1 968, p. 5 5 ) .

La necessità d i salvaguardare l'opera o, nella terminologia dell'erme­ neutica gadameriana, di interpretarla è un assunto che sembra appia­ nare l'alterità apparente dell'opera musicale, la quale sola - come os­ servava già Hegel - avrebbe bisogno di "essere vivificata " , rispetto alle altre arti. La dimensione che trascende la " cosalità " dell'arte neu­ tralizza la questione delle differenze sia tra il grado di presenza ogget­ tiva sia tra i modi di presentarsi ai nostri sensi che si manifesta nei prodotti delle singole arti. In realtà il tema della distinzione tra le arti ritorna in maniera assai più insidiosa, per ribadire il verdetto nei con­ fronti della incapacità della musica di articolare compiutamente un senso, ovvero di costituire un "mondo " . Per Heidegger l'opera poeti­ ca ha una posizione eminente rispetto all'architettura, alla scultura e alla musica. Questo dipende dalla sua consustanzialità con il linguag­ gio, inteso non tanto nel senso di "interpretante universale " ricono­ sciutogli dalla linguistica, bensì nel senso eminente di mezzo attra­ verso il quale la verità si rivela: Esso non si limita a trasmettere in parole e frasi ciò che è già rivelato o nascosto, ma, per prima cosa, porta all'Aperto l'ente in quanto ente [. . . ] . Il linguaggio, nominando l'ente, per la prima volta lo fa accedere alla parola e all'apparizione (ivi, p. 57).

Anche l'ermeneutica di Gadamer ribadisce la primarietà del linguag­ gio verbale, quando afferma che 93

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

La comprensione di ciò che è tramandato nel linguaggio possiede, rispetto a ogni altro tipo di trasmissione storica, una peculiare posizione di privilegio. Ciò che è trasmesso nel linguaggio può bensì essere inferiore, in immedia­ tezza intuitiva, ad altre cose, come per esempio ai monumenti delle arti figu­ rative. Ma la sua mancanza di immediatezza non è un difetto; in questa ap­ parente mancanza, nella astratta estraneità di ogni "testo" si esprime la preli­ minare appartenenza di ogni fatto linguistico alla comprensione ( Gadamer, 1 9 83 , p. 448).

Sebbene la musica rimanga nell'orizzonte di Gadamer sotto il livello del linguaggio (in tarda età egli dirà che la musica esemplifica un aspetto del comprendere che è «l'andare insieme, seguire l'altro», Ga­ damer, 2 002 , p. 6 r ) , egli ha approfondito l'analisi delle arti performa­ tive come la poesia e la musica. Non soltanto infatti ha legittimato l'esecuzione come interpretazione riproduttiva (Gadamer, 1 983 , p. 3 6 r ) , ma ha anche individuato un'operazione della coscienza estetica che definisce «differenziazione estetica» ovvero «quell'astrazione che sceglie solo in riferimento alla qualità estetica come tale». Grazie a questa operazione è possibile distinguere l'originale, sia esso una poe­ sia o una composizione musicale, dalla sua riproduzione e ciò in modo che sia l'originale in rapporto alla riproduzione, sia la riprodu­ zione presa per sé, distinta dall'originale o da altre possibili esecuzioni, pos­ sono essere intesi come il momento estetico essenziale. La coscienza estetica ha un carattere sovrano, costituito da questa sua facoltà di operare la diffe­ renziazione e di poter vedere tutto "esteticamente" (ivi, p. r 1 5 ) .

3·3

Dall'antologia dell'opera d'arte alla teoria e alla storia della ricezione Chiedersi che cosa è un'opera d'arte e in che cosa un'opera d'arte musicale differisce, per esempio, da una poesia, da una statua, da un dipinto o da un edificio definisce un ambito, l' ontologia dell'opera d'arte, distinto da quello che privilegia l'indagine della dimensione estetica come evento e come esperienza. Le questioni antologiche in­ teressano tanto chi si occupa di arte, quanto chi si occupa di antolo­ gia in senso più ampio, perché le opere d'arte sono " cose " di difficile definizione. In particolare le opere d'arte musicali sembrano porre più problemi rispetto alle opere di altri generi artistici. L'opera musi­ cale non coincide, infatti, né con la partitura né con le singole esecu­ zioni. Qual è dunque la sua natura? Come si concilia la molteplicità 94



1 ' L OPERA D ARTE MUSICALE

delle esecuzioni con le caratteristiche di singolarità e identità che sembrano invece proprie delle opere visive e letterarie? La musica sembra fornire un modello concreto della questione intorno alla mol­ teplicità delle interpretazioni, problema che ha tormentato la cultura filosofica a partire dagli anni sessanta circa. Roman Ingarden, filosofo polacco allievo di Husserl, ha elaborato un'analisi accurata del problema dell'identità dell'opera musicale a partire dalla definizione di oggetti puramente intenzionali. Essi esi­ stono e sono dotati di attributi grazie a un atto di coscienza intenzio­ nale. Le opere d'arte sono create da un artista; non esistono in ma­ niera autonoma come gli altri enti, sono eteronomi dal punto di vista ontico. A parte la terminologia, fin qui non v'è nulla che contraddica o aggiunga qualcosa all'idea che le opere d'arte sono prodotte e di­ pendono da un autore. Tuttavia l'intenzionalità artistica non dà luogo a oggetti perfettamente determinati come nel caso degli oggetti reali. L'opera d'arte musicale, dice Ingarden, nasce da atti psicofisici creati­ vi dell'autore che si realizzano sotto forma di istruzioni scritte per l'e­ secutore che costituiscono la partitura: Il fatto che esistano nell'opera musicale lacune o punti di indeterminatezza di tal genere è ragione sufficiente per considerare l'opera musicale delineata dalla partitura come un oggetto puramente intenzionale, che ha l'origine del proprio sorgere negli atti creativi dell'autore, e il proprio fondamento antico immediatamente nella partitura (lngarden , 1 989b, p. 204) .

Come abbiamo visto, Gadamer aveva supposto un'operazione della coscienza, la differenziazione estetica, in grado di distinguere l'origi­ nale dalle sue riproduzioni. Le cose non sono però così semplici. In­ nanzitutto, come sostiene Goodman ( 1 99 8 ) , ci sono arti " autografi­ che" definibili in base alla disponibilità di un originale che ne sanci­ sce il valore, come accade nelle arti figurative tradizionali, e arti " allo­ grafiche" , che non dipendono da un originale individuato dalla mano dell'autore, come la poesia, la letteratura e la musica. Se si possiede, mettiamo per ipotesi, l'autografo della sinfonia Pastorale di Beetho­ ven, si ha in mano un documento storico di grandissimo valore anche antiquario. Questo non significa che si disponga dell'opera originale. Nel caso delle opere d'arte musicali, messa la parti tura da un lato e le esecuzioni dall'altro è assai difficile dire dove si possa cercare e trova­ re l'opera. La proposta di Ingarden è che l'opera vada intesa come un «oggetto estetico intersoggettivo» (Ingarden, r 989b, p. 209 ) , ovve­ ro come il risultato dell'incontro tra l'intenzionalità dell'autore e la percezione estetica degli ascoltatori: 95

' L ESTETICA MUSICALE DEL �OVECE�TO

il costituirsi dell'opera come oggetto estetico intersoggettivo richiede che sia l'autore sia i singoli ascoltatori compiano certi particolari atti psicofisici ai quali si dà il nome di vissuto estetico o - se si vuole - di percezione estetica (ibid. ) .

Una volta inscritta l'opera al centro della relazione tra autore e ascol­ tatore, rimane aperta la questione dell'identità dell'oggetto estetico in­ tersoggettivo. Secondo Ingarden, si può considerare opera musicale tanto lo schema delineato dalla partitura, quanto la moltitudine di possibilità delineate dai punti di indeterminatezza che caratterizzano la partitura stessa (ivi, p. 2 3 9 ) . Esistono dunque una classe di esecu­ zioni corrette, ovvero congruenti allo schema prescrittivo delineato dalla partitura, e un ventaglio di possibilità aperte dalla presenza di punti di indeterminatezza che non è possibile prevedere fin dall'ini­ zio. Può anche darsi, sostiene Ingarden, che l'autore, componendo la sua opera, avesse in mente soltanto alcune di queste possibilità. Per il filosofo polacco, dunque, l'opera ha una natura intenzionale che si concretizza nell'ambito della dimensione storica. La natura dell'opera musicale tuttavia manifesta un aspetto paradossale. Se l'opera d'arte si concretizza in esecuzioni storiche che realizzano di volta in volta possibilità implicite sì nella partitura, ma non prevedibili, da un pun­ to di vista filosofico il problema dell'identità dell'opera appare liqui­ dato: «non si può parlare di un unico oggetto, che nello svolgersi del tempo storico subisce certe trasformazioni per effetto del cambiamen­ to di sempre nuove concezioni storiche». Tuttavia nella normale vita di tutti i giorni si è costretti a considerare l'opera d'arte musicale come identica, perché questo oggetto dura nel tempo e si modifica lentamente: «in tal caso torna a porsi il problema dei limiti di tale mutevolezza, limiti che sono indispensabili affinché l'opera così con­ cepita si conservi identica» (ivi, pp. 240- I ) . Il limite che Ingarden pone al proliferare delle interpretazioni è, da una parte e in senso implicito, la partitura, che contiene un numero più o meno ampio di possibilità di concretizzazioni; dall'altra il "valore estetico " delle rea­ lizzazioni stesse. Da questa concezione risulta una sorta di doppio re­ gime concettuale: se all'occhio del filosofo l'opera può apparire una costruzione culturale dotata di chances più o meno numerose di vive­ re più a lungo, ovvero di essere eseguita e ascoltata più volte in epo­ che diverse, per il musicista, il musicologo o il dilettante il principio di identità dell'opera assume una funzione regolati va. Soltanto con la teoria della ricezione letteraria e poi musicale, che recepì e appro­ fondì i presupposti mutuati tanto dalla posizione di Ingarden quanto dall'ermeneutica di Gadamer, divennero evidenti le reali conseguenze



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di queste teoria, in primo luogo il dilagare in ambito estetico del pro­ blema filosofico del conflitto delle interpretazioni e l'indebolimento del principio esecutivo della fedeltà all'opera (Borio, Garda, 1 98 9 ) . Il consolidarsi della musicologia come disciplina autonoma, le sue pre­ tese di uniformarsi ai requisiti epistemologici delle discipline scientifi­ che presupponevano una concezione forte, oggettiva del carattere di opera. Tuttavia, anche per i musicologi che provenivano dalla tradi­ zione delle scienze dello spirito e che condividevano questa imposta­ zione, le conseguenze di un indebolimento del concetto di identità dell'opera parvero preoccupanti. In un capitolo dei Fondamenti di storiografia musicale dedicato a esaminare la legittimità e la praticabi­ lità della storia della ricezione, Cari Dahlhaus ( 1 980, pp. 1 95 -7) cercò un punto saldo nell'apparente deriva delle interpretazioni. L'istituzio­ nalizzazione del polo dell'ascoltatore deputato alla concretizzazione dell'opera sembrava portare dritto al paradosso che esistessero, per esempio, tante N one sinfonie quante le teste degli ascoltatori. Egli propose allora l'idea di un point de la per/ection , di un kairòs della ricezione, ovvero di un punto di ineguagliabile valore estetico, accer­ tabile attraverso l'analisi della storia della ricezione in relazione all'a­ nalisi della partitura: una soluzione ingegnosa per dare un senso alla molteplicità storica e per garantire il doppio compito del musicologo consistente nell'esercizio dell'analisi e nella formulazione di giudizi estetici.

3 ·4

Questioni di antologia A partire dalla fine degli anni sessanta moltissimi studiosi radicati nel­ la tradizione dell'estetica analitica angloamericana si sono misurati (e scontrati) con le difficoltà poste dal concetto di " opera d'arte musica­ le" . La natura di queste indagini, tuttavia, è molto differente da quel­ le cosiddette continentali e dalla stessa antologia di Ingarden. Innan­ zitutto, esse cercano di uniformarsi agli standard di rigore logico e argomentativi propri del discorso scientifico, facendo uso molto spes­ so di tecnicismi e formalizzazioni che sembrano eterogenei rispetto all'oggetto preso in esame. Gli studiosi europei, invece, tendono a impiegare un linguaggio allusivo, metaforico e talvolta addirittura poetico, nel parlare di opere d'arte, lasciando riemergere nel discorso sull'arte quell'ambiguità di senso che caratterizza l'arte stessa. In se­ condo luogo l'antologia di tradizione analitica si colloca in un ambito che sta tra l'antologia generale (dalla quale mutua moltissime argo97

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mentazioni e posizioni) e l'estetica, con una grande inclinazione a pri­ vilegiare problemi e soluzioni sviluppati nella prima piuttosto che nel­ la seconda. L'impressione che l'antologia dell'opera d'arte sia una provincia della filosofia piuttosto che un territorio dell'estetica è raf­ forzata dall'apparente indifferenza di molti (anche se non tutti) stu­ diosi di quest'area nei confronti delle tendenze dell'arte contempora­ nea, proprio in un'epoca e in un paese in cui gli artisti, da John C age agli esponenti di Fluxus, si adoperavano a mettere in questione il concetto di " opera" e a misurarsi con quello di "evento" (Gennaro, Borio, 2 00 7 ; Baxmann, I 995 ; Barthelmes, Osterwold, I 996) . È evi­ dente che chi sceglie come campo di studio l'antologia non condivide il principio che a costituire un punto di riferimento siano i progetti, le opere, le tendenze manifestate di volta in volta dagli artisti. Tutta­ via le indagini di Goodman e tutta una serie di problemi classici del­ l' antologia dell'arte, per esempio quello della relazione tra originale e copia, sono scaturiti da famosi casi di falso senza originale (per esem­ pio il caso van Meegeren/Vermeer) che provocarono un vero terre­ moto nel mondo dell'arte e rappresentarono un enigma per la co­ scienza estetica. La stessa necessità di definire la natura dell'opera d'arte, per quanto astratta e fine a se stessa possa apparire a molti studiosi di estetica, reca l'eco (talvolta molto tenue, ma esplicita per esempio in Margolis, I 977) delle questioni poste dai ready-made di Duchamp, da opere come Erased De Kooning Drawing di Rauschen­ berg (Currie, I 989) e dalle composizioni "non notazionali" (Good­ man, I 968) di John Cage. È vero, tuttavia, che per la maggior parte degli studiosi l'antologia dell'opera d'arte indaga la natura di quegli oggetti che sono considerati opere nell'ambito della tradizione colta occidentale. Infine, una delle obiezioni mosse alla concezione antolo­ gica da una studiosa formatasi in questo ambito culturale (Goehr, I 992 ) si basa sulla convinzione che gli ontologi eludano la questione della storicità del concetto stesso di " opera d'arte" , che secondo Goehr si sarebbe affermato soltanto a partire dall'inizio dell'Ottocen­ to. Il concetto regolativo di " opera d'arte " , come si è visto, sarebbe sorto soltanto nel momento in cui, pressappoco con Beethoven, una serie di pratiche avrebbero reso possibile pensare l'opera come un'en­ tità separabile dal proprio autore, intangibile una volta licenziata per la stampa, unica e originale. Sebbene l'indagine di Goehr abbia intac­ cato la disinvoltura con cui gli ontologi parlavano di opera d'arte come se fosse un fenomeno naturale e non storico, le sue tesi sono state criticate da più parti. Per gli storici della musica, l'idea che il concetto di "opera d'arte musicale " emerga all'improvviso soltanto nell'Ottocento è smentito da un gran numero di testimonianze stori-



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che. Inoltre risulta insostenibile che un concetto possa sopraggiunge­ re per così dire post /estum rispetto a una pratica, perché presuppor­ rebbe una polarità inaccettabile tra pratica e riflessione. Una contro­ biezione a questa critica proviene dal campo antologico: storicamente emergente non sarebbe il concetto di " opera d'arte " , bensì le opere d'arte stesse, che nel corso di svariati secoli della storia occidentale avrebbero acquisito proprietà che sono diventate costitutive (Davies, 2 002 , p. 1 75 ) . Soprattutto fra gli studiosi che si allineano sul fronte cosiddetto contestualistico (owero coloro che, pur secondo prospetti­ ve leggermente diverse, sostengono il ruolo chiave dei processi di produzione dell'opera e del loro radicamento nel terreno culturale e sociale per una corretta identificazione e fruizione estetica delle opere d'arte) , la dimensione storica delle opere d'arte risulta un dato acqui­ sito, sebbene questa convinzione abbia meno rilevanza rispetto alla tradizione continentale che tende, invece, a enfatizzare la dimensione storica e interpretativa rispetto al dato fenomenico. Partire dalla constatazione del senso comune, educato dal gusto, che esistono opere d'arte e cercare di definirle può sembrare tautolo­ gico da un punto di vista strettamente estetico, dal momento che per riconoscerle come tali bisognerebbe possederne perlomeno un con­ cetto definibile e questo sembra essere invece l'obiettivo dell'impresa antologica. Nondimeno, le opere d'arte esistono, vengono immagazzi­ nate, vendute e acquistate, regalate, rubate e falsificate, commentate, ascoltate, lette e contemplate e sarebbe insensato negare la constata­ zione del buon senso che esse esistono alla stregua di ogni altro og­ getto del nostro mondo. Se le si guarda attraverso la lente curva della storia, le opere d'arte (musicali o no) sembrano svanire in un caleido­ scopio di interpretazioni; se le si osserva nell'affaccendato mondo del­ l' arte, della musica o della letteratura, sorge quasi spontanea la do­ manda di rito dell'antologia su quale materia, forma e modo di esi­ stenza esse abbiano. Che cosa sono dunque le opere musicali? Sono oggetti fisici, spiri­ tuali o ideali oppure non esistono né come oggetti concreti né come idee private (che esistono, per esempio, nella mente dei compositori) e neppure sono oggetti puramente ideali quali i numeri? Le posizioni in proposito sono assai varie e ricalcano quelle dell'antologia classica sul problema degli universali (realismo integrale o moderato, nomina­ lismo, idealismo; per una presentazione schematica delle diverse posi­ zioni in senso critico cfr. Goehr, 1 992 ; Davies, 2 002 , pp. r 7o- r ) . Il senso dell'impresa antologica, tuttavia, non si coglie nel definire i fronti su cui si attestano le diverse posizioni, owero i confini del di­ battito interno, ma nel rilevare i problemi che vengono affrontati, in 99

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particolare quelli dell'intenzionalità, quello dell'identità dell'opera e delle proprietà estetiche. Distinguere tra un oggetto e un artefatto mette in campo la nozio­ ne di "intenzionalità" di chi lo produce e di chi lo utilizza (Pouivet, 1 999) ; per le opere d'arte, quando si parla di intenzionalità ci si rife­ risce a una famiglia di proprietà (linguistiche, semiotiche, simboliche, tradizionali, ecc.; Margolis, 1 998) che in un'accezione ampia possia­ mo dire si riferiscono al "senso " dell'opera e che Margolis, in un'ac­ cezione più prudente, definisce come attributi significativi dal punto di vista culturale. Nell'ontologia di lngarden l'intenzionalità funziona all'interno di un modello in cui compositore, esecutore e fruitore concorrono alla concretizzazione di un senso storico. Nel corso di un trentennio, invece, l' ontologia angloamericana ha scandagliato un gran numero di possibilità di definire nella maniera più economica e rigorosa le proprietà intenzionali, cercando in molti casi di definire le opere facendo a meno del concetto stesso di "intenzionalità" (Good­ man, 1 99 8 ) , in altri casi riabilitando addirittura il concetto di "inten­ zione autoriale" (Levinson, 1 990; Currie, 1 989), ma sempre cercando la soluzione all'interno delle opzioni ontologiche classiche, ovvero in­ dagando lo "stato logico" delle opere. Anche nelle posizioni cosiddet­ te " contestualistiche" non entra in campo quell'ambito «dello spazio collettivo della cultura umana» in cui si articola il discorso dell'esteti­ ca continentale e che, dal punto di vista del rigore logico, non è ac­ cettabile in una prospettiva analitica (Margolis, 1 998, p. 3 9 1 ) . L'inda­ gine analitica che si è misurata più a fondo con il problema dell'in­ tenzionalità in un arco di tempo che copre più di vent'anni è stata quella di Margolis ( 1 974, 1 977, 1995 , 1 99 8 ) . La posizione di Margolis ( 1 974) si basa sull'equiparazione tra " opere d'arte" e "persone " e de­ finisce le opere d'arte «fisicamente incarnate e culturalmente emer­ genti». Questa definizione, senza rinunciare al rigore argomentativo, evita il riduzionismo di molte indagini analitiche proprio perché radi­ ca il concetto di "intenzionalità" nella dimensione culturale. Non è dunque un caso che Margolis, ritornando sui vecchi temi negli anni novanta, si sia dimostrato sensibile al problema delle interpretazioni culturali. Nella versione rinnovata della sua teoria ( 1 995 , 1 998) le proprietà intenzionali risultano incarnate nelle proprietà fisiche e sono pertanto intrinsecamente interpreta bili e oggettivamente legitti­ mabili. Esse risultano però suscettibili di cambiamento a opera delle interpretazioni correnti nelle pratiche culturali. Questa precisazione manifesta nell' ontologia dell'opera quell'apertura alla dimensione sto­ rica, intersoggettiva e sovraindividuale che Margolis individua come un tratto distintivo della filosofia continentale nei concetti di Lebens100



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/ormen in Wittgenstein, di "tradizione " in Gadamer e di " episteme" in Foucault. Con la pretesa di far valere una "logica relativistica" (Margolis, 1 998, p. 3 9 3 ) , sembra superata la contrapposizione tra l' ontologia e l'estetica. Si tratta però soltanto di un caso isolato, per­ ché il discorso dell' ontologia procede sui suoi binari indipendente­ mente dalle apostasie dei singoli. Un punto chiave dell' ontologia dell'opera d'arte è la relazione tra type e token , introdotta da Peirce ( 1 960, p. 42 3 ) e applicata all'anto­ logia dell'opera d'arte per la prima volta da Wollheim ( 1 96 8 ) . Si trat­ ta di una relazione cruciale, perché conduce al cuore delle contro­ versie intorno al problema dell'identità dell'opera, della distinzione tra opere, copie e repliche e delle proprietà intenzionali. L'originale distinzione di Peirce riguardava le parole. Il termine " è " in italiano, terza persona singolare del verbo essere, è uno ed è pertanto un type; gli "è" stampati in questa pagina sono tokens, owero esemplari del type. Per Peirce il type, in quanto tale, non esiste; nel momento in cui la terminologia typeltoken viene applicata a un ambito diverso da quello originale, il problema degli universali risorge con tutta la sua eredità di argomentazioni, posizioni e contrapposizioni. Tra le opere d'arte, soprattutto quelle musicali sembrano prestarsi benissimo a questo tipo di distinzione. Si può considerare l'opera come un type e le esecuzioni come suoi tokens. Wollheim ( 1 968, p. 96) propone due alternative: tanto le esecuzioni quanto le partiture possono essere considerate token del type che chiamiamo opera. In una delle prime lucidissime critiche alla fortunata distinzione, anche se limitata alla sola pars destruens, Harrison ( 1 975 ) insinuava il sospetto che nell'idea di typeltokens dimorasse comunque un fondo di platonismo e riven­ dicava la necessità di definire meglio il concetto di type. Gran parte della discussione dalla metà degli anni settanta alla metà degli anni ottanta è stata dominata dai tentativi di ridefinire e riformulare questa distinzione. Le opere, in quanto types, risultano così di volta in volta definite come «universali non predicabili» (Wolterstorff, 1 98o) ; come entità introdotte euristicamente per collegare particolari durante l' ese­ cuzione di un'opera o per attribuire un'esecuzione a un'opera preci­ sa, quindi sempre tokens-ofa-type (Margolis, 1 977; 1 9 80, cap. Iv) ; come "particolari astratti" (Webster, 1 974) owero individui che non hanno un'esistenza spazio-temporale distinta. La posizione opposta è rappresentata da Goodman, per il quale «un'opera è la classe di tutte le esecuzioni congruenti con un carattere» (Goodman, 1 998, p. 1 82 ) . Questa definizione si basa sulla rigorosa definizione d i una partitura come sistema notazionale, owero un sistema dotato delle seguenti proprietà: non ambiguità, disgiunzione e differenziazione logica e sin101

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tattica (ivi, p. I I 3 - 3 8 ) . Grazie a questi criteri è possibile verificare la congruenza tra i segni presenti nella partitura e i suoni prodotti du­ rante un'esecuzione esattamente allo stesso modo in cui è possibile controllare l'equivalenza tra originale e copia di un manoscritto attra­ verso la compitazione. Tuttavia, le conseguenze di questa teoria van­ no contro il senso musicale comune e nessuno condividerebbe l' as­ sunto che un'esecuzione piatta, ma senza errori valga come " esem­ plare genuino dell'opera" , mentre un'esecuzione brillante con un solo errore no. Di questo fatto Goodman era perfettamente consapevole, ma - come in altri ambiti - non riteneva necessario che le definizioni teoriche e le espressioni del linguaggio quotidiano dovessero per for­ za andare d'accordo (ivi, p. I 63 ) . Inoltre, tutta l'impostazione di que­ sto filosofo mette volutamente tra parentesi i problemi classici dell'e­ stetica, primo fra tutti la questione della valutazione di opere ed ese­ cuzioni, delimitando rigorosamente il campo alle definizioni logiche. Anche fra gli ontologi, comunque, non mancarono le voci critiche ri­ guardo alle conseguenze controintuitive di questa definizione, per esempio che una composizione musicale mai eseguita sia da conside­ rarsi un'opera (Webster, I974) ; oppure riguardo al concetto stesso di " classe" che risulta, ai fini della definizione di opera d'arte, altrettan­ to vago di quello di type (Harrison, I 97 5 ) . Nella discussione ontologica emergono problemi che appartengo­ no tanto all'estetica quanto alle teorie delle singole arti; in primo luo­ go quello della relazione tra autore e opera; in secondo luogo quello della relazione tra le proprietà fisiche dell'opera e quelle cosiddette "interpretative" o " estetiche" (Walsh, I 974; Sclafani, I 975 ; Margolis, I 977 ) . Verso la fine degli anni ottanta la discussione sulla relazione type-tokens riguadagna attualità grazie alle argomentazioni di Gregory Currie ( I 989). Questo studioso definisce le opere d'arte come action types. Anche le azioni e gli eventi sono ripetibili e quindi ogni ripeti­ zione si può considerare un token di un'azione, o di un evento, attua­ ta da un individuo in un determinato tempo e che costituisce pertan­ to un type (Currie, I 989, pp. 66-7 ). Currie amplia la definizione di action type aggiungendo due elementi identificativi: la struttura e quello che chiama heuristic path (ivi, p. 7 8 ) . L'evento " Beethoven compose la sonata Hammerklavier" possiede, secondo l'argomenta­ zione dell'autore, tre elementi distintivi che vengono specificati dal tempo in cui è avvenuto l'evento compositivo: r . Beethoven; 2 . la struttura sonora dell'opera; 3 . il cammino euristico intrapreso da Beethoven che lo porta a scoprire la struttura sonora dell'opera. Sen­ za addentrarsi nella complessa e meticolosa argomentazione di Cur­ rie, va rilevato qui che questa teoria mira a destituire di fondamento I02



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l'argomento della cosiddetta intentional fallacy sostenuta da Beardsley e Winsatt ( 1 976), ovvero l'errore di credere che vi sia qualcosa di rilevante nelle intenzioni dell'autore. Si profila così un tratto emer­ gente nell'antologia dell'arte definito, come si è già visto, " contestua­ lismo " , che mira a individuare nell'intenzione dell'autore, variamente definito, e nella storia e genesi dell'opera il criterio dell'identità del­ l'opera e l'origine delle proprietà estetiche (oltre Currie, 1 989, 1 99 1 cfr. anche Levinson, 1 990; Davies, 1 99 9 ) . Si tratta di teorie che la­ sciano trapelare una netta reazione alle derive interpretative della cul­ tura degli anni settanta-ottanta e tentano di offrire un solido fonda­ mento antologico a posizioni tradizionali sostenute nell'ambito della storia e della teoria delle arti. A partire dalla fine degli anni ottanta, ritorna al centro della di­ scussione la distinzione tra arti " allografiche " e arti " autografiche " proposta da Goodman. In ambito antologico, la distinzione tra arti "singolari" , ovvero quelle che non ammettono copie, e " multiple " , che invece prevedono diversi esemplari - statue in bronzo, testi, ese­ cuzioni musicali -, ripropone in una prospettiva diversa il tradiziona­ le problema della distinzione fra le arti. Nella teoria delle belle arti sette-ottocentesca, le arti si distinguevano in base a diversi principi: il materiale, la maggiore o minore capacità di imitare la natura, la mag­ giore o minore capacità espressiva, le qualità linguistiche. Se si para­ gonano invece le opere in quanto fenomeni concreti, l'aspetto della singolarità e della molteplicità risulta decisivo perché, se accortamen­ te indagato e descritto, promette di rivelare aspetti decisivi del rap­ porto tra la presenza concreta dell'opera e quella estetica, ovvero tra proprietà fenomeniche e proprietà interpretative o estetiche. A quan­ to pare la musica costituisce una sorta di esemplificazione concreta del quesito centrale dell'antologia dell'opera: che cos'è l'opera e come possiamo identificare le repliche corrette da quelle che non lo sono, dal momento che possediamo partiture e assistiamo a esecuzio­ ni? Nel mondo musicale, tuttavia, il problema centrale è rappresenta­ to dalla decodificazione storicamente fedele della parti tura e/o dalla valutazione estetica delle interpretazioni, piuttosto che dall'identità dell'opera in quanto tale. Nel caso delle opere pittoriche, invece, è cruciale quale sia la differenza tra originale e copia, dal momento che una copia, se non dichiarata come tale, rappresenta appunto un falso. Si tratta di un problema al contempo pratico e teorico, rilevante tan­ to per il sovrintendente di un museo quanto per il filosofo. Tuttavia è difficile dimostrare in termini rigorosamente logici la singolarità delle opere pittoriche e la relazione tra originale e copia se non si fa riferi­ mento a una pratica storica, come concederà lo stesso Goodman ri10 3

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flettendo a posteriori sul problema della singolarità della pittura ( 1 97 2 , p. 1 3 6) . Come si è visto, questo studioso ha risolto brillante­ mente (nonostante la ridda di conseguenze controintuitive che sono state tratte da questo argomento , tra gli altri da Webster, 1 97 1 ; Bo­ retz, 1 970; Currie, 1 9 89, p. r r o) il problema di definire in termini logici l'identità tra edizione e opera letteraria e quello tra partitura e opera, come identità di compitazione tra manoscritto ed edizione, e congruenza tra spartito ed esecuzione sulla base del sistema notazio­ nale proprio della scrittura musicale tradizionale. Gli argomenti per dimostrare la natura autografica di molti aspetti delle arti figurative, invece, sono assi più deboli e convincono soltanto coloro che sono già persuasi in partenza. L'argomento in sostanza, è il seguente: an­ che se non riesco a distinguere l'originale da una copia, in futuro for­ se potrò acquisire la capacità di farlo; quindi tra due quadri, il fatto che uno sia un originale e l'altro una copia costituisce già di per sé una differenza estetica (Goodman, 1 99 8 , p. 96). La distinzione tra opere singole e opere multiple è stata messa in questione in particola­ re da Currie ( r 989; cfr. inoltre Zemach, 1 992) sulla base di un argo­ mento controfattuale: ammettiamo che esista una macchina capace di duplicare esattamente la Monna Lisa di Leonardo nella struttura mo­ lecolare stessa; la copia risulterebbe indistinguibile dall'originale. Ciò conduce alla conclusione che tutte le opere d'arte sono multiple, per­ lomeno in linea di principio. Currie è perfettamente consapevole che la sua tesi ignora la pratica di considerare la pittura come un'arte sin­ golare (Currie, 1 989, pp. 86-97 ) ; tuttavia, egli concede che esiste una fondamentale differenza fra le arti visive e tutte le altre. Nella valuta­ zione estetica è decisivo il modo attraverso cui l'artista produce l' ope­ ra, sia essa una tela dipinta, un testo o una partitura. N el caso del dipinto, allora, ciò che decide del valore dell'opera è l'interazione concreta dell'artista con il mezzo impiegato . Nel caso della letteratura o della musica, invece, il modo in cui l'artista arriva a scrivere il testo o a notare la partitura non incide sulla valutazione; anche una corre­ zione dell'ortografia o della scrittura musicale risulta del tutto legitti­ ma (nei limiti - specifica Currie - della presunta intenzione dell'auto­ re; ivi, p. 9 1 ) . Tuttavia - ed è questo il punto cruciale - non vi è nulla di esteticamente rilevante nell'originale che non sia riconoscibile in una copia corretta (ivi, pp. 97- 8 ) . L'argomentazione di Currie è molto affilata, ma altrettanto poco convincente di quella di Good­ man. L'abitudine a considerare la pittura un'arte singolare si rivela molto resistente ai tentativi di spiegazione razionale. Si può ipotizzare che quello che gli ontologi cercano di definire in termini logici corri­ sponda a quanto Benjamin chiamava " aura " (Benjamin, 1 966) , owero



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il bagliore del valore unico di un'opera realizza bile grazie a eccezio­ nali e singolari capacità tecniche e artistiche. Sebbene anche Benja­ min avesse in mente soprattutto la trasformazione delle arti figurative sotto la spinta delle nuove tecniche della fotografia e del cinema, egli aveva osservato che il "valore espositivo" dell'arte era condiviso an­ che dalla musica. Tuttavia la perdita dell'aura viene analizzata da Benjamin in una prospettiva sociologica e storica e messa in relazione con la nascita dell'arte di massa. La riproducibilità tecnica dell'arte ha indebolito il primato dell'originale, anche se è rimasto intatto al­ l'interno di quel circuito di valori sociali che Dickie ha chiamato il mondo dell'arte. Paradossalmente Currie ha colto, senza avvedersene, la superfluità del concetto di " originale " al di fuori delle pratiche so­ ciali e culturali correnti. Non a caso, la discussione successiva ha la­ sciato in secondo piano la disputa sulla legittimità della concezione asimmetrica delle arti per dedicarsi a un compito meno ardito: catalo­ gare e definire le diverse forme in cui si manifestano le cosiddette opere d'arte molteplici, tra cui le arti performative come la musica, e aprire l'indagine alla natura ontologica dell'arte di massa (Davies, 2 00 1 , 2002 ; Thom, 1 993 ; Carroll, 1 99 8 ; Fisher, 1 998; Godlovitch, 1 99 8 ) . In molti di questi contributi la peculiarità e il rigore della ter­ minologia analitica e della tecnica argomentativa risultano indeboliti a favore di terminologia e problemi presi a prestito dalla teoria della letteratura e dalla musicologia. Il problema dell'identità delle opere d'arte musicali, per far soltanto un esempio, lascia il posto a una più vaga esigenza di "presentazione fedele" dell'opera, che si caratterizza soprattutto in termini di competenza storica ed esecutiva, ammetten­ do per la prima volta che «ambiguità e incompletezza non costitui­ scono aspetti sovversivi dell'opera d'arte» (Davies, 2002 , p. 1 63 ) .

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Il concetto di " opera" nel canone disciplinare musicologico Una delle conseguenze della cosiddetta crisi dell'opera d'arte è stata un incremento della riflessione intorno alla nozione stessa di "opera" e di " opera d'arte musicale" in particolare, nozione alla quale non si era dedicata attenzione nell'estetica musicale dell'Ottocento e della prima metà del Novecento. Verso la fine degli anni settanta, il con­ cetto di "opera d'arte" è al centro di moltissime discussioni mosse dalla necessità di legittimare, definire e delimitare una nozione che appariva messa in questione in maniera radicale dalla sperimentazione 105

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artlstlca. In particolare tre trattazioni sistematiche degli anni ottanta si presentano come un baluardo contro le concezioni relativistiche dell'opera musicale dei decenni precedenti (Wiora, 1 98 3 , 2ooo; Sei­ del, 1 986) . Ben lungi dall'essere una risposta ai problemi estetico-filo­ sofici e compositivi sollevati dalla crisi dell'opera, queste ampie tratta­ zioni presentano un'immagine fedele della concezione di " opera d' ar­ te musicale" sulla quale si fonda la disciplina musicologica a partire dall'Ottocento. Wiora prende le mosse in primo luogo dalla contrad­ dizione che si manifesta tra l'efficacia raggiunta dalle tecniche di ri­ producibilità del suono e le tendenze compositive che, negli anni set­ tanta, privilegiavano l'improvvisazione collettiva. Egli considera però questa tendenza storicamente conclusa e liquidata. La sua ridefinizio­ ne del concetto di " opera d'arte " , dunque, consiste in una descrizio­ ne dei modi di esistenza delle opere d'arte musicali e dei suoi passi­ bili contenuti (Wiora, 1 9 83 ) . La posizione di Seidel ( 1 986) è molto più articolata, pur partendo dagli stessi presupposti. Egli prende le mosse da una definizione storicizzata del concetto di " opera d'arte" , limitando l a sua rilevanza a un periodo relativamente breve - gli ulti­ mi duecento anni di storia. Inoltre considera l'opera d'arte musicale come una delle possibili forme di creatività musicale: l'altra è quella di considerare la musica come energheia e non come ergo n, ossia come forza, energia, potenza che si manifesta negli effetti di quest' ar­ te tanto sul corpo quanto sull'animo dell'uomo. I requisiti dell'opera d'arte musicale evidenziati da Sei del si possono ridurre a un semplice schema. Un'opera d'arte musicale per essere considerata tale, egli so­ stiene: deve essere scritta; deve avere un autore; deve essere caratterizzata dalla duplicità di notazione e interpretazione compositiva; deve avere una struttura polivocale; deve essere unica e irripetibile; deve avere un inizio e una fine: essere dunque chiusa e intangibile; deve presupporre una cultura dell'ascolto; deve essere suscettibile di edizione, analisi e interpretazione. È abbastanza interessante notare che i criteri indicati da Seidel non differiscono in maniera sostanziale da quelli individuati, senza dubbio in maniera più sintetica, da Lydia Goehr ( 1 992 ) , ossia origi­ nalità, intangibilità e separabilità. Criteri di tal genere, tuttavia, sono di carattere esclusivo, perché mirano a definire attentamente ciò che non va considerato opera d'arte musicale e quindi va escluso dai con­ fini della disciplina. Non ci vuole molta perspicacia infatti per accor106



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gersi che gran parte della produzione delle avanguardie musicali e della musica sperimentale a partire dagli anni settanta non soddisfa questi requisiti. La definizione di Seidel è quindi normativa e implici­ tamente prescrittiva. La storicità dell'opera d'arte, inoltre, è ammessa per quanto concerne la sua origine (è un concetto "emergente" di­ rebbero i filosofi analitici), ma una volta attestata culturalmente non ammette più trasformazioni o declino. I requisiti riguardano natural­ mente la definizione di " opera musicale" , perché la sua qualità esteti­ ca è tacitamente presupposta nella specificazione " d'arte " . Che si am­ metta o meno la vitalità di questo concetto oppure, con Dahlhaus (2 oo 5 b ) , lo si limiti a un fossile del passato impiegabile al massimo in un'accezione regolati va, i criteri elencati sopra mettono in evidenza soltanto quegli aspetti dell'opera d'arte musicale che nel corso dei se­ coli hanno reso possibile un'aggettivazione analoga soprattutto alla letteratura, ma anche alle altre arti che hanno reso paradigmatico il concetto di opus, ovvero la scultura, la pittura e l'architettura. Il concetto di " opera" entra a far parte della semiologia musicale di N attiez grazie alla contaminazione dell'antologia di Ingarden col modello semiologico tripartito di Molino. In questa versione l'opera appare una rete di relazioni semiologiche tra autore e fruitore, ga­ rantite dall'esistenza di un "livello neutro" che Nattiez definisce e ri­ finisce a varie riprese (Nattiez, 1975 , pp. 5 0- 1 , 5 4-5 , 75 ; 1 978, p. 4; 1 989, p. 5 6 , qui il livello neutro viene definito come «oggetto mate­ riale, la traccia sulla carta dell'opera letteraria o musicale»), ma che in sostanza risulta l'ambito in cui si esercita l'analisi musicale. La neu­ tralità di questo ambito immanente all'opera risulta definita soltanto in negativo, come il territorio che non è di pertinenza poietica o este­ sica e in cui, pertanto, si esercita l'analisi musicale. Per quanto indefi­ nito possa apparire il dominio del livello neutro, sia che si applichino i criteri rigorosi dell'antologia analitica sia che si tenga conto del principio del circolo ermeneutico, esso appare un elemento impre­ scindibile tanto della teoria dell'opera quanto della musicologia.

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La fedeltà all' autore Il dilemma in cui si dibatte l'antologia dell'opera è in una certa misu­ ra irrisolvibile: per analizzare lo statuto antologico dell'opera in quan­ to tale, bisognerebbe liquidare l'autore, ma - come si è visto - la ne­ cessità di partire dall'autore per parlare dell'opera si ripresenta pun­ tualmente nel momento in cui si deve spiegare la natura delle pro107

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prietà dell'opera. La stessa tensione tra autore e opera non è tuttavia soltanto un problema teorico; in concreto, la si ritrova anche nel con­ flitto tra i due principi che regolano la prassi postottocentesca: l'in­ tangibilità e la separabilità dell'opera. Il principio dell'intangibilità ri­ badisce il primato dell'intenzione autoriale, perlomeno per quel che riguarda la dimensione testuale dell'opera; quello della separabilità pone le condizioni per sciogliere l'opera dal legame con il proprio creatore. Infatti, dal momento che la partitura ha bisogno di essere eseguita, la responsabilità dell'opera passa all'interprete e l'autore, al­ meno in parte, deve rinunciare a sorvegliare la propria opera. Non c'è da stupirsi che il secondo principio sia stato talvolta accettato controvoglia da quei compositori che avrebbero voluto esercitare un controllo totale e rinunciare a un intermediario. Nel Novecento non mancano gli esempi di insofferenza da parte dei compositori nei con­ fronti degli esecutori: Ives si rammaricava con candido stupore che la musica non potesse uscire dall'uomo con la stessa facilità con cui vi entra, senza cioè doversi fare strada tra toraci, tubi, viti, legno e otto­ ni. Altrettanto interessante è notare come nella prima metà del Nove­ cento, ben prima dell'affermarsi della musica elettronica, quella che era allora un'utopia avesse stimolato la fantasia di molti compositori: Varèse non faceva mistero di voler fare un giorno a meno degli ese­ cutori grazie ai progressi della tecnica. Ernst Krenek sognava un an­ cora più utopico connubio di libertà assoluta e chiara e significativa articolazione. Per lui una musica prodotta meccanicamente su una traccia senza dover ricorrere a un'esecuzione avrebbe significato la fine dell'epoca in cui la musica veniva identificata con la letteratura. Le tracce sonore avrebbero avuto lo stesso statuto dei dipinti appesi alle pareti. Ritorneremo su questa singolare utopia nel prossimo para­ grafo; va notato che questa prospettiva non era dettata dalla insoffe­ renza nei confronti degli esecutori (al contrario, Kfenek pensava che l'interprete garantisse la libertà umana che si esprime nell'interpreta­ zione soggettiva) , ma dal sogno di liberare il compositore dalle inevi­ tabili ambiguità della partitura (Krenek, 1 93 9 , p. 240; per altri esem­ pi - Stravinskij, Babbit - cfr. Taruskin, 1 995 , p. 42 ) . I casi, assai più numerosi, di collaborazione tra compositore ed esecutore, soprattutto nella musica di avanguardia (si pensi alla decisione di Schonberg di affidare le proprie esecuzioni soltanto al "Verein fiir musikalische Pri­ vatauffiihrungen " e al suo rapporto di fiducia con Rudolf Kolisch; alla stretta collaborazione tra Maderna, Severino Gazzelloni e Lothar Faber; all'inseparabile connubio tra Luigi Nono e il regista del suono Alvise Vidolin) testimoniano che, soprattutto nei momenti di rinnova­ mento del linguaggio musicale, è necessaria una sorta di passaggio di 108



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testimone tra il compositore e l'esecutore, grazie al quale si inaugura una tradizione esecutiva. In quanto arte performativa la musica mette in luce con molta concretezza, già al livello dell'interpretazione esecutiva, ciò che per le altre arti emerge al livello dell'interpretazione del significato, ovvero il conflitto tra intenzione dell'autore e la cosiddetta "intenzione dell'o­ pera" , conflitto che - come abbiamo più volte accennato - ha co­ stituito un problema teorico assai spinoso nella seconda metà del No­ vecento. La centralità dell'intenzione autoriale (intesa tanto come di­ segno dell'opera nella mente dell'autore quanto come suggestione e occasione della creazione) nell'interpretazione di un testo letterario è stata messa in discussione per la prima volta da Beardsley e Winsatt, a partire proprio dalla constatazione della separabilità dell'opera dal suo autore: La poesia non appartiene né al critico né all'autore (è separata dall'autore dalla nascita; essa se ne va per il mondo e travalica le intenzioni che l'autore ha riguardo a essa o il suo controllo) . Essa appartiene al pubblico. È incar­ nata nel linguaggio, dunque è possesso peculiare del pubblico; riguarda l'es­ sere umano ed è quindi oggetto di pubblica conoscenza. Ciò che si dice ri­ guardo alla poesia è soggetto allo stesso scrutinio di un enunciato in lingui­ stica o in psicologia generale (Beardsley, Winsatt, 1 976, p. 3 ) .

Per questo, benché «l'intelletto che disegna e immagina» sia una cau­ sa dell'opera, il progetto o l'orientamento dell'autore non è né dispo­ nibile né auspicabile «come standard per giudicare il successo di un'opera letteraria» (ivi, p. I ) . Questo argomento risulta acquisito tanto dalla teoria della letteratura quanto dalla musicologia. La feno­ menologia di Ingarden e la teoria della ricezione hanno contribuito ad approfondire lo iato tra l'autore e l'opera mettendo in rilievo la distanza tra l'orizzonte temporale della creazione e quello dell'inter­ pretazione. È la distanza storica che rende inevitabile la separazione tra l'autore e le concretizzazioni diverse della sua opera. Il modello antologico basato sulla relazione typeltokens prescinde dalla dimen­ sione storica. È inevitabile, quindi, che si ripresenti con forza il riferi­ mento all'autore. Anche la distinzione rigorosamente tracciata da Beardsley, Winsatt (ivi, p. 6) tra critica letteraria e psicologia dell' au­ tore è stata sviluppata in ambito musicologico tanto nell'accurata di­ stinzione tra il compositore e le "persone" , ovvero i soggetti fittizi e musicali che animano le composizioni (Cone, 1 974) , quanto nella ri­ proposizione della distinzione tra soggetto biografico e soggetto este­ tico (Dahlhaus, 1 990, pp. 1 3 -54) . In musicologia, inoltre, la distinzio1 09

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ne tra la sfera dell'autore e quella dell'opera corrisponde anche a una sorta di " divisione del lavoro" e di distinzione di campi di indagine. L'autore è l'istanza centrale nella ricostruzione della genesi dell'opera e del contesto della sua creazione; la partitura è l'oggetto dell'indagi­ ne analitica che mira alla ricostruzione dell'intenzione dell'opera. La storia della ricezione ricostruisce i modi in cui la critica ha recepito l'opera nel corso del tempo, a partire dalla sua prima esecuzione. Questo modello tripartito e le pratiche interpretative che si appellano a esso si basano sulla possibilità di mettere tra parentesi, di volta in volta, una delle tre istanze, come risulterà chiaro anche dall'aggiorna­ mento di questo modello da parte di Nattiez. La separazione di campi a cui abbiamo fatto cenno sopra, tutta­ via, non è così perentoria. Anche nell'analisi della partitura l'intenzio­ ne dell'autore, ricavabile per esempio dallo studio degli schizzi, ha una sua rilevanza. Tuttavia, anche nell'interpretazione di questi docu­ menti, la loro significanza emerge soltanto all'interno di un circolo interpretativo. Quanto alle dichiarazioni di intenti del compositore, espresse a parole in programmi, saggi, lettere, sebbene costituiscano un elemento di cui sarebbe insensato non tener conto, richiedono tuttavia una certa cautela. A differenza dell'ambito giuridico, in cui la presenza o assenza dell'intenzione aggrava o limita la responsabilità, nell'ambito estetico le cose stanno in modo diverso: ciò che interessa è ciò che l'opera dice o meglio ancora è. Se si ha bisogno di cono­ scere l'intenzione dell'autore per " capire " l'opera, sorge il sospetto che l'opera non sia riuscita. Queste considerazioni non devono però oscurare un fatto essen­ ziale: anche se si può mettere tra parentesi l'autore, nondimeno, il riferimento a esso è un elemento essenziale della cultura moderna tanto quanto il riconoscimento della paternità. A farlo osservare è sta­ to proprio Foucault, uno dei sostenitori più autorevoli della cosiddet­ ta "morte dell'autore " (Foucault, 1 97 1 ) . L'autore, infatti, rappresenta l'indizio principale per decifrare il tessuto di rimandi all'oeuvre del­ l' artista stesso e al repertorio del suo tempo, presenti nel testo. Per questo le opere anonime pretendono di essere identificate. Non va dimenticato, tuttavia, che questa affermazione ha un senso peculiare in quanto viene pronunciata dopo che gli argomenti contro la figura dell'autore sono stati consumati. Altrimenti richiamarsi all'autore fini­ sce per essere un appello a un'autorità in discutibile che spunta le armi della critica: come ha osservato Taruskin, il valore estetico di un'opera varia a seconda dell'autore a cui viene attribuita (Taruskin, 1 995 , p. 6 8 ) . I lO



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L'enfatizzazione del principio della separabilità da parte del co­ siddetto New Criticism (la cui impronta, soprattutto nella musicologia statunitense, è stata assai rilevante) è radicato nella reazione all' ecces­ so di biografismo, alla confusione tra arte e vita propria dell'estetica romantica; il poststrutturalismo, invece, ha colto la dimensione sovra­ personale della creazione artistica che trascende il controllo del singo­ lo (Burke, I 992 ) . Tuttavia negli ultimi vent'anni del Novecento l'ap­ pello all'intenzione dell'autore è stato riaffermato tanto in ambito ese­ cutivo quanto in ambito musicologico, anche se a partire da motiva­ zioni molto diverse. La fedeltà all'intenzione dell'autore è stata una delle istanze sotto­ lineate con più forza dai sostenitori della interpretazione storicamente fedele della cosiddetta early music. Il termine " fedeltà " esprime, in questo contesto culturale, il senso di responsabilità che grava sull'arti­ sta e al tempo stesso conferisce alla sua esecuzione il marchio dell' au­ tenticità. In questo senso, il compito dell'interprete è pensato come un "servizio" , un esercizio di umiltà nei confronti di un'autorità: l'au­ torità dell'autore. Questi musicisti si contrappongono a coloro che ri­ vendicano la libertà dell'interprete e che cercano di sostituire la pro­ pria autorità a quella dell'autore, appellandosi alla fedeltà all'opera, che implica, invece, un vincolo impersonale, oltre che una personale concezione dell'arte che non deve necessariamente coincidere con quella dell'autore. N eli' acceso dibattito intorno al problema della pre­ tesa autenticità dell'esecuzione storicamente fedele, la questione del­ l' " autorità dell'autore " ha costituto uno dei punti centrali (Kivy, I 995 , pp. I48-87; Taruskin, I 995 , pp. 202 - I 8 ) . Gli argomenti solleva­ ti contro la religione (o ideologia) della fedeltà all'autore vertono sul problema della distanza storica e sulla differenza tra opera e partitu­ ra: la difficoltà di stabilire esattamente la pretesa intenzione dell'auto­ re, molte volte confusa con la prassi generale dell'epoca o con la for­ ma assunta dall'opera nella prima esecuzione, si basa sulla differenza tra partitura e opera (come aveva messo in evidenza Ingarden) e sulla differenza tra le condizioni storiche degli strumenti e della tecnica esecutiva al tempo della composizione e le possibilità di oggi. L'unico argomento filosofico a sostegno del primato dell'intenzione dell'auto­ re non può essere che di carattere etico, come ha dimostrato Kivy ( I 993 , pp. 95 - I I 6 ) . Attenersi all'intenzione dell'autore non sarebbe altro che una forma di condivisibile rispetto per i defunti che non possono seguire le peripezie della propria creatura artistica dopo la morte. Si tratta evidentemente di un argomento paradossale: la reve­ renza per l'autore è sintomo di un culto del passato che eccede le motivazioni stesse dello storicismo da cui ha avuto origine e che, III

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svuotato del suo significato antico, ossia di tramite tra la parola divi­ na e quella umana, è abbassato a marchio di qualità per il mercato dell'arte. Nel Novecento del resto, anche quando sono disponibili registra­ zioni di esecuzioni effettuate dal compositore (come nel caso di Bar­ ték, per esempio) esse risultano più un ostacolo che una chiarificazio­ ne per l'interprete: sebbene sia difficile non tenerne conto, sarebbe impensabile ripetere all'infinito la stessa interpretazione (Urmson, 1 993 , p. r 6 3 ) . Il ruolo dell'autore e quello dell'interprete inoltre ri­ sultano separati anche quando sono esercitati dalla stessa persona. La pluralità delle esecuzioni o delle "versioni " di un'opera (come le defi­ nisce Kivy, per sottolineare quanto esse siano assimilabili più alla tec­ nica dell'arrangiamento che alla resa fedele di un'ideale) è un'esigen­ za connaturata alla musica come arte performativa. Tuttavia, la con­ temporanea disponibilità di un gran numero di versioni è un fatto nuovo che risale al secolo scorso e che soltanto negli ultimi trent'anni ha assunto proporzioni tali da cambiare la percezione collettiva del­ l' esecuzione da evento effimero a oggetto permanente da custodire e archiviare, almeno fino all'obsolescenza del supporto tecnologico. La rigida separazione tra soggetto biografico e soggetto estetico è stata messa in questione da molti esponenti della cosiddetta New Mu­ sicology statunitense, in particolare da coloro che hanno preso le mosse dai gender e dai queer studies (Brett, Wood, Thomas, r 994) . Per chi, come Susan McClary, è partito dall'abbattimento della rigida separazione tra la dimensione puramente musicale e la sessualità, il soggetto biografico non sta fuori dall'opera, ma al contrario parla di sé e della propria condizione attraverso la musica. Questo non vale per ogni compositore e per ogni epoca, ma è altamente plausibile per l'Ottocento, un'epoca in cui l'arte era intesa soprattutto come autoe­ spressione (McClary, 1 994, p. 226). L'indagine biografica intorno alla vera o presunta omosessualità di compositori come Handel, Schubert, Britten ha dato origine a una discussione accesa e intensissima che ha in parte coinciso con l' outing musicologico dei queer, gay e lesbian studies. Il presupposto che la musica sia uno dei luoghi culturali in cui si attua la costruzione della soggettività ha comportato il riavvici­ namento di soggetto biografico ed estetico (in opposizione a uno dei punti fermi della musicologia tradizionale) . L'intervento di McClary a proposito della presunta omosessualità di Schubert mira a rilevare nella musica di questo compositore strutture narrative che si oppon­ gono a quelle consuete, delineate secondo la concezione maschile do­ minante e che «partecipano a formare le nozioni di gender, desiderio, piacere e potere nella cultura del XIX secolo» (ivi, p. 2 2 8 ) . L'opacità I I2



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del significato musicale di cui si è parlato nel capitolo precedente ha in questa prospettiva la funzione di custodire un segreto che è inteso soltanto da chi ha orecchie per sentire, ma che può essere ignorato dagli altri. Come afferma con onestà McClary, «senza le pubblicazio­ ni di Solomon [I 9 8 I , I 9 89] non avrei inquadrato questo progetto in termini di sessualità per sé, perché non credo che si possa ricono­ scere l'orientamento sessuale di un compositore (o il gender o l'ap­ partenenza etnica) soltanto ascoltando la musica» (ivi, p. 206). Allo stesso modo la studiosa ammette che si possono interpretare le strate­ gie narrative di Schubert in termini culturali anziché personali (ivi, p. 2 2 6 ) . La musica rivela e al contempo protegge una perturbante inti­ mità con la sfera sessuale. La decisione di tematizzarla o escluderla dal discorso critico è pertanto una decisione culturale e politica, ma anche estetica perché, a seconda della posizione assunta, rimette in gioco o dichiara fuori gioco una dimensione cruciale dell'esperienza umana. La convergenza di biografia ed esegesi proclamata da molti espo­ nenti della New Musicology (McClary, Philipp Brett, Gary Thomas) può interessare tanto il pubblico eterosessuale quanto quello omoses­ suale. È evidente che l'investimento politico, culturale ed esistenziale è assai maggiore per questo ultimo gruppo; tuttavia questa posizione rivela un aspetto importante della rilevanza " umana" dell'autore che molto spesso viene scambiato e confuso con altre manifestazioni " di culto " alimentate dall'industria delle biografie dei grandi artisti. Quanto conta la persona dell'autore, con il suo bagaglio di espe­ rienze esistenziali e intellettuali, il suo impegno e la sua dedizione nella produzione di un'opera? Quanto contano e fino a che punto rimangono iscritte nella musica le malattie fisiche e mentali dei com­ positori, in un periodo di storia della musica i cui protagonisti (Beet­ hoven, Schumann, Mendelssohn, Maderna, Nono) sono stati soprat­ tutto «dei grandi malati, mal curati?» (Morelli, 2002 ) . Quanto è ne­ cessario conoscere sulla vita dei compositori viventi e come vanno va­ lutate queste informazioni (Cross, 2004)? Tutte queste domande ac­ quistano un'urgenza speciale se messe a confronto con la sovraesposi­ zione della convergenza tra arte e vita da parte degli esponenti delle arti figurative contemporanee. Sebbene nel caso dei compositori la persona e il corpo dell'artista non siano coinvolti ed esibiti in manie­ ra così radicale nel processo di messa in scena dell'opera come nel caso degli artisti figurativi, la domanda intorno a quanto conta l'auto­ re per l'opera e per la ricezione torna a imporsi con insistenza. Se facciamo un passo indietro dal punto di vista storico e ritornia­ m o a un momento della discussione sulla intentional /allacy, troviamo I I3

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un'angolazione interessante da cui affrontare il problema della rile­ vanza dell'autore. Il momento è quello cruciale delle discussioni sul­ l' arte d'avanguardia, intorno agli anni sessanta. Chiunque, allora, si trovasse davanti a un'opera che travalicava le categorie estetiche tra­ dizionali aveva sulle labbra la stessa domanda: " Ma questa è arte? " . L a situazione talvolta non è molto diversa neppure oggi. Stanley Ca­ veli ha osservato che le cosiddette opere d'avanguardia impongono una scelta radicale: essere considerate arte oppure essere rifiutate. Gli oggetti d'arte, inoltre, esigono una forma di attenzione speciale; essi non soltanto ci interessano e assorbono, ci commuovono; non soltanto ci coinvolgono, ci preoccupiamo di essi e ce ne prendiamo cura; li trattiamo in una maniera speciale, li investiamo di un valore - e ce la prendiamo con essi con lo stesso tipo di sdegno e oltraggio che di solito si riserva soltanto alle persone. Essi significano qualcosa per noi; non nella stessa maniera di un enunciato, ma al modo in cui le persone ci parlano. Gli artisti dedicano le loro vite e talvolta le sacrificano, per produrre tali oggetti e in modo tale che abbiano tali conseguenze; non pensiamo, però, che siano pazzi a far questo. N oi ci awiciniamo a questi oggetti non soltanto perché sono interessanti in se stessi, ma perché sentiamo che sono stati fatti da qualcuno; è proprio per questo che, nel parlare di essi, usiamo categorie come intenzione, stile perso­ nale, sentimento, disonestà, autorità, inventiva, profondità, falsità e così via. La categoria di intenzione è ineludibile (o eludibile con le stesse conseguen­ ze) sia quando parliamo di oggetti d'arte sia quando ci riferiamo a ciò che gli esseri umani dicono e pensano: senza di essa non comprenderemmo che cosa sono. In una parola gli oggetti d'arte non sono opere della natura, ma dell'arte (owero sono atti, che comportano talento e capacità) . Con un'ecce­ zione: il concetto di intenzione non funziona, come altrove, in termini di giu­ stificazione. N oi seguiamo il procedere di un brano alla stessa maniera in cui seguiamo ciò che qualcuno sta facendo o sta dicendo [ . . ]. Le opere d'arte non esprimono una particolare intenzione (come fanno invece gli enunciati) , n é raggiungono particolari obiettivi (come nel caso delle abilità tecniche o delle azioni morali) , ma, si potrebbe dire, celebrano il fatto che gli uomini possono volere le loro vite (o, se si vuole, che sono liberi di scegliere) e che le loro azioni sono coerenti ed efficaci nel panorama dell'indifferenza della natura e della determinatezza della società. Questo è quello che credo Kant avesse visto quando sostiene che le opere d'arte rappresentano una finalità senza scopo (Cavell, 1969, p. 1 9 8). .

La domanda radicale suscitata da ogni opera d'avanguardia getta una luce retrospettiva su tutta quanta l'arte moderna e ridirige lo sguardo sull'autore. Il fatto che l'arte e la musica in particolare consentano di separare l'autore dall'opera e di metterlo tra parentesi non significa che l'autore sia soltanto una causa indifferente dell'opera. L'autore si



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intrude nell'opera, come la figura del padre nell'esistenza di un figlio. Quanto pesi la sua impronta e quanto essa conti per l'interpretazione è una decisione correlata a un'inevitabile domanda: quanto pesa e per chi? Senza il punto di vista dell'ascoltatore, incarnato nel musicologo o nello storico della cultura o semplicemente nell'ascoltatore informa­ to, l'imperativo dell'intentional fallacy e la sua rigida separazione tra critica e biografia suona oggi vuoto. Quali siano i mezzi più idonei per farlo forzando il "senso ottuso " della musica, però, lo può dimo­ strare soltanto un'interpretazione riuscita.

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L'opera, il testo tra fedeltà e conflitto delle interpretazioni Il più delle volte per "fedeltà all'opera" non si intende altro che fe­ deltà alle intenzioni del compositore quali sono espresse nella partitu­ ra. Tuttavia nel corso dell'Ottocento e del Novecento l'opera in quanto tale ha assunto il significato di correlato della " dimensione puramente musicale" , per usare un termine posthanslickiano. L'ap­ pello alla fedeltà all'opera può essere inteso sia come limite alla libera creatività dell'interprete sia come difesa della propria esecuzione da parte dell'esecutore medesimo, grazie alla sostanziale ambiguità del­ l' espressione. È stato spesso osservato che direttori così diversi come Toscanini e Furtwangler amavano sbandierare la loro " fedeltà all'ope­ ra" . Questa espressione, soprattutto il sostantivo astratto " fedeltà" , ci ricorda che noi (e qui sarebbe meglio sciogliere il pronome "noi" con un'etichetta più precisa, per esempio "il pubblico e gli addetti ai la­ vori della musica occidentale degli ultimi tre secoli " ) trattiamo le ope­ re d'arte come oggetti speciali che vanno rispettati. Cavell (nella cita­ zione alla fine del paragrafo precedente) ha fornito una spiegazione kantiana di questo culto per gli oggetti d'arte assimilandolo alla cura e alla considerazione che si ha per le persone e in particolare per ciò che dicono. Nell'espressione "fedeltà all'opera" però risuonano altri armonici che ci sono familiari dall'interpretazione in chiave metafisica e trascendente della musica inaugurata dal romanticismo. Nella cultura angloamericana il culto dell'opera ha suscitato negli ultimi quindici-vent'anni lo stesso senso di ribellione e di risentimen­ to del concetto di " ambito puramente musicale" ; l'opera d'arte auto­ noma sarebbe un'astrazione pseudomeccanicistica o pseudorganicisti­ ca imposta dai mandarini del modernismo (da Stravinskij e Schon­ berg a Milton Babbitt, compresi tutti i rappresentati dei dipartimenti 1 15

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di Music Theory) e spogliata da ogni interesse per gli effetti sul pub­ blico e la rilevanza umana dell'opera (Taruskin, 1 995 , p. 74) . È ve­ rissimo che l'espressione "fedeltà all'opera" è ambigua e pertanto di­ sponibile ad appropriazioni ideologiche di ogni sorta. È altrettanto vero, però, che in Europa, soprattutto in seguito alla fortuna della cosiddetta "Scuola di Costanza" Q" auss, Iser, Stierle) , alla ricezione dell'ermeneutica gadameriana e all'enfatizzazione del concetto di " te­ sto " da parte dello strutturalismo e poststrutturalismo, ha avuto luo­ go un approfondimento del problema della fedeltà all'opera, ovvero del rapporto tra partitura e interprete. Uno dei nodi intorno a cui questo dibattito si è articolato è stata la questione se la partitura vada considerata alla stessa stregua di un testo letterario. Porsi questa do­ manda rimette immediatamente in gioco una serie di problemi spino­ si circa il carattere linguistico o meno della musica e la natura del significato musicale, problemi che si era cercato di domare analizzan­ doli separatamente. Inoltre si è costretti a ragionare di musica avendo come punto di riferimento mentale la letteratura, che in termini gene­ rali non è un'arte performativa; tuttavia lo è il teatro e lo è la poesia, perlomeno in certi contesti: nelle letture d'autore, per esempio, il poeta fa sentire la propria voce, da cui la sua poesia si distacca, anzi si è già distaccata, nel diventare testo, un testo che può essere letto a bocca chiusa da chiunque in una qualunque circostanza oppure de­ clamato da attori, cosa che accade ormai molto di rado. Per affrontare questo problema si può partire proprio da un esem­ pio che abbiamo già fatto: la maggior parte delle persone non leggono una partitura sdraiati sul divano, ma si legge l'Amleto, la Divina Com­ media o le poesie di Kavafis comodamente seduti in poltrona. Natu­ ralmente si può sottilizzare su questi stili diversi di lettura, ed è giusto farlo prima di scambiare un'abitudine per un dato fenomenologico. È vero, infatti, che la lettura silenziosa è stata un'acquisizione recente, resa possibile dalla separazione grafica tra le parole (Saenger, r 997 ) . Tuttavia, non ci sono, almeno per adesso, indizi che lasciano intrave­ dere una diffusione della lettura silenziosa della musica come auspica­ va Rudolf Kolisch in aperta polemica con la regressione dell'ascolto nella cultura di massa ( r 98 3 , pp. 9- 14). L'utopia che animava Kolisch era basata sull'idea che la partitura costituisse un testo musicale para­ gonabile in tutto e per tutto a quello letterario, e che la lettura si­ lenziosa costituisse un momento antecedente e non conseguente all'e­ secuzione. In altre parole, il significato immanente alla musica emerge­ rebbe nell'atto della lettura e l'esecuzione corrisponderebbe a una sua espressione. La posizione di Kolisch rappresenta nella maniera più r r6



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chiara l'idea di un testo musicale completo in se stesso e legittimato dal carattere linguistico (Sprachiihnlichkeit) della musica, riconosciuto dalla tradizione della Scuola di Vienna e dallo stesso Adorno. In tut­ t' altro contesto terminologico e argomentativo, anche la posizione di Goodman concede alla partitura uno status diverso da quello di sem­ plice raccolta di istruzioni per l'esecutore, grazie alla dimostrazione del carattere notazionale della scrittura musicale. La posizione opposta a quella rappresentata da Kolisch e da Goodman, pur da prospettive e con professionalità diverse, si può individuare in Trasybulos Georgia­ cles, che considera la scrittura musicale una prescrizione (Anweisung) per la produzione di suoni, come un semplice "invito al fare " (Geor­ giades, I 977, p. I I I ) . Il compositore avrebbe, infatti, a disposizione soltanto alcune relazioni possibili tra i suoni e le durate, owero tra elementi, mentre lo scrittore disporrebbe di parole le cui relazioni con il mondo sono in un certo senso già preformate. Senza tornare ad affrontare i problemi relativi alle relazioni tra musica e linguaggio verbale, possiamo osservare che la netta linea di demarcazione che si profila tra queste due posizioni anziché chiarire la questione la rende più oscura. I sostenitori del carattere testuale della parti tura concepiscono, implicitamente, la musica come un pen­ siero che viene correttamente notato nella partitura e che come tale va decifrato e interpretato; chi nega il carattere di testo si ricollega all'idea di musica come "fare" e come evento. La lingua tedesca, pro­ diga di nomi composti, viene in soccorso con due parole, Notentext e Klangtext, che sciolgono in una diade il livello del segno e quello del suono (Danuser, I 99 8 , pp . 40 e 43 ) . Si tratta però di etichette di tipo metaforico: ancora non è chiaro che cosa sia un testo musicale né quale sia lo statuto del testo sonoro. Un punto di vista rilevante si deve a un rappresentante della co­ siddetta Scuola di Costanza, Karlheinz Stierle ( I 99 8 ) , che svincola la questione della differenza tra testo poetico e testo musicale dalla falsa opposizione illustrata precedentemente, basata sulla distinzione tra arti performative e arti linguistiche. Dal punto di vista della tradizio­ ne fenomenologico-ermeneutica tutte le arti, in certo senso, sono arti performative: esse hanno bisogno di essere ricostruite nella mente del fruitore. La comprensione estetica si differenzia pertanto dalla com­ prensione di un enunciato linguistico, in quanto implica il contributo della memoria e una sua speciale "economia " . In questo senso l' ope­ ra, tanto quella poetica quanto quella musicale, è un oggetto tempo­ rale nel senso husserliano (cfr. PAR. 4.4) . La conseguenza di questo presupposto è che I I7

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il testo, in quanto scrittura, e la partitura costituiscono rispettivamente per la poesia e la musica le condizioni essenziali per il loro carattere di opera, sen­ za per questo coincidere con esso (ivi, p. 9).

La tensione tra unicità e riproducibilità, caratteristiche di musica e poesia, che determina l'opera è implicita nella funzione del testo che è al contempo «origine dell'opera e a sua volta è già sempre ripetizio­ ne dell'origine» (ibid.) . Stierle impiega il termine "matrice " per defi­ nire la particolare funzione del testo di dar luogo a ripetute realizza­ zioni dell'opera: Soltanto nella realizzazione il tempo per così dire congelato del testo e della partitura diventa vivo in quanto si impadronisce del tempo reale in quanto tempo dell'opera inteso come oggetto temporale (ibid.) .

L'idea del testo come matrice, già presente in altri termini in Ingar­ den, appiana la distinzione cruciale tra poesia e musica. Tuttavia l'a­ simmetria tra la lettura silenziosa di un testo e la lettura "virtuale" della parti tura si ripresenta. L'esecuzione è un momento essenziale dell'opera musicale e non si riduce alla resa della sua struttura astrat­ ta e virtuale. In questo senso, il testo musicale (a differenza di quello poetico) assume anche una funzione pragmatica il cui scopo è la rea­ lizzazione musicale concreta, ovvero la "presenza" musicale. Il testo letterario è, invece, al contempo presenza e assenza, per la diversa temporalità che lo contraddistingue, una temporalità che non scaturi­ sce direttamente dalla sequenza dei suoni e delle sillabe che lo com­ pongono (come invece succede con le note) , ma dai riferimenti se­ mantici che appartengono alla struttura linguistica. Inoltre il testo scritto costituisce un distacco dalla voce come presenza reale che rap­ presenta l'Io che sta all'origine del testo (ivi, p. 1 3 ) . Sul rapporto tra testo e voce, tuttavia, l a musica sembra avere qualcosa da dire, poiché se la vera "voce " dell'autore nella musica cosiddetta colta non si fa ormai più udire (ma questo non vale, si sa, per le " altre" musiche, basti pensare ai " cantautori " a solo titolo di esempio) , la musica vocale vive di "voci " . L'idea di "voce" sviluppata nell'ambito degli studi sull'opera e in particolare da Carolyn Abbate ( 1 99 ! ) va in senso opposto alla tendenza verso la "testualizzazzione della musica " ( alimentata dalla preoccupazione del confronto tra le arti e dall'esigenza di concedere alla musica lo statuto di " pensiero" e di "veicolo delle idee " al pari delle arti delle parola) e rimette in gio­ co la forza sensuale e fisica esercitata dall'attuale presenza del suono sull'ascoltatore. Con un'abile dislocazione in ambito musicale della fiI I8



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gura retorica della prosopopea, grazie alla quale si può far "udire " la voce di una persona assente o immaginaria, Abbate interpreta le voci della musica prodotte attraverso i corpi degli esecutori come espres­ sione delle multiformi persone che sono i soggetti immaginari della musica, al limite del multiforme soggetto della musica (ivi, pp. 1 3 -5 ) . L a figura inquietante di un corpo immaginario e multicentrico, fatto di labbra e di gole da cui sgorgano le voci della musica, privo dell'au­ torità centrale rappresentata dal soggetto compositivo, è una potente rappresentazione di un aspetto della musica, senza dubbio represso dal pensiero critico, e al tempo stesso dà voce e autorità a una moda­ lità di ascolto diffusa nel pubblico di appassionati musicofili dell' ope­ ra in musica (anche se Abbate lo estende a tutta quanta la musica, compresa quella strumentale) . Equiparare l a musica a un testo comporta senza dubbio l a repres­ sione della forza seduttiva e persuasiva del suono ancora operante nella musica, ma obliata nella civiltà della scrittura, anche se efficace nel linguaggio parlato. Tuttavia, indagare le condizioni in cui si può parlare di testo musicale ha un'importanza che va al di là di una moda o della sudditanza della musicologia rispetto alle scienze lette­ rarie. Considerare la partitura come un testo (come awiene perlopiù in ambito musicologico) comporta dunque una serie di conseguenze. Innanzitutto questa mossa rimette in gioco il problema dell'Io che sta all'origine del testo e dell'Io che parla, come un narratore, o come un Io lirico all'interno della dimensione musicale (che è il problema af­ frontato da Con e e da Dahlhaus e in particolare dal narrativismo) . In secondo luogo significa tributare ai testi musicali la stessa cura e lo stesso rispetto che si ha per i testi propriamente detti: Un testo letterario è in genere oggetto di ripetuto scrutinio e attenzione. È custodito e protetto per mezzo dei canoni culturali e dei contesti perché tra­ duce in parole valori significativi per i membri di una comunità culturale. All'interno e intorno ad un testo vien data concreta realizzazione ad inve­ stimenti culturali di vasta portata; tra gli individui e gli oggetti testuali hanno luogo contatti continui e ripetuti (Berio, r998, p. 6).

La natura del testo musicale, invece, non permette di instaurare con esso un simile rapporto personale diffuso con il testo. Esso conserva la caratteristica esclusiva che possedeva la scrittura nei secoli passati: il suo accesso è riservato a un'élite di musicisti e studiosi e di ascolta­ tori colti (la cui tipologia sociale, fra l'altro, sta scomparendo) . L'e­ sclusività della scrittura musicale (owero l'impossibilità, per i più, di sdraiarsi sul divano e leggere una parti tura) spiega in parte l'aura di 1 19

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sacralità che avvolge tanto i testi musicali quanto i loro interpreti. Il motivo decisivo è, però, un altro. Una delle accezioni classiche del termine " testo" o, se si vuole, una tappa fondamentale della storia di questo concetto, infatti, lo designa come l'opposto di "glossa " , " com­ mento" . Un testo è perciò quanto è degno di essere commentato in ambito teologico (la Bibbia) o giuridico. L'ingresso del termine "te­ sto " nell'ambito dell'estetica dell'opera segnala la conversione dell'au­ torità che deriva dal contesto teologico o istituzionale in dignità este­ tica (Stierle, 1 99 8 , p. 14) . Accordare alla partitura un carattere testua­ le comporta l'accoglienza della musica nell'ambito della cultura alta e, al contempo, il difficile negoziato con il senso ottuso di quest'arte che richiede e al contempo resiste al commento in parole. Il sodalizio tra la musicologia e la filologia ha assicurato al testo musicale gli stessi standard invalsi per secoli nella tradizione filologi­ co-letteraria. Il concetto gadameriano di "interpretazione riprodutti­ va" consente di illuminare meglio quella zona di creatività, intelligen­ za e libertà che sono richieste all'esecutore, il quale non è un esecuto­ re testamentario (fedele o infedele al mandato del defunto, come ac­ cade) , ma appunto un interprete. Questo comporta il fatto che il sen­ so è nelle mani dell'interprete, che ne è in un certo senso il responsa­ bile; il fruitore (anche se, oltre ai professionisti, soltanto l'ascoltatore competente è in grado di farlo) può ritornare all'opera attraverso l'a­ nalisi della partitura e valutare la fedeltà dell'esecuzione. Tuttavia, se nella concezione tradizionale l'autore era garante di un senso e la fe­ deltà un vincolo indissolubile, quantunque spesso mancato, l'interpre­ tazione dell'opera appare affidata a un'entità incerta e di difficile defi­ nizione. Se si considera la partitura come un testo, ovvero come un testo dotato di dignità estetica, il concetto giuridico e teologico di " applicazione " viene in aiuto nel difficile compito della realizzazione sia nell'interpretazione riproduttiva sia in quella verbale: Tanto nell'ermeneutica giuridica quanto in quella teologica è essenziale la ten­ sione che si stabilisce tra il testo - sia esso quello della legge o della rivelazio­ ne - e il senso che assume la sua applicazione nel concreto momento dell'in­ terpretazione, per esempio nel giudizio del tribunale o nella predicazione. Una legge non si dà come oggetto di una interpretazione storica, ma deve concretarsi nella sua validità giuridica attraverso l'interpretazione. Parimenti, un testo della rivelazione religiosa non vuole essere inteso come puro docu­ mento storico, ma deve essere compreso in modo da esercitare la sua forza salvatrice. Ciò implica in entrambi i casi che il testo, sia esso la legge o la rivelazione divina, per esser compreso in modo adeguato, cioè conformemen­ te al modo in cui esso si presenta, deve venir compreso in ogni momento, 120



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ossia in ogni situazione concreta, in maniera nuova e diversa. Comprendere significa sempre, necessariamente, applicare (Gadamer, 1 98 3 , pp. 35 9-60) .

Eseguire un'opera significa, dunque, applicare l'interpretazione del testo al caso concreto di un'esecuzione determinata qui e ora. La nozione di " fedeltà all'opera" risulta gravata dalla necessità di curare la tradizione, dalla responsabilità del tramandare un patrimo­ nio di per sé significante. La teoria della ricezione letteraria, soprat­ tutto nella formulazione di Hans Robert J auss, ha affrontato più volte il problema del rapporto con il classico, da un lato criticando il tradi­ zionalismo di Gadamer, dall'altro erigendo un vero e proprio argine nei confronti del trionfo dell'infedeltà all'opera, ridotta a semplice pretesto per le esigenze del soggetto. Proprio dagli esperimenti musicali del secondo dopoguerra è emerso un aspetto radicalmente nuovo della fedeltà all'opera: essa rappresenta non soltanto un vincolo con il passato, ma anche un'a­ pertura nei confronti del futuro. Intorno al 1 960 Boulez invitava a difendere «il potenziale di incognita racchiuso in un capolavoro» e a non confondere «il valore dell'opera o la sua novità immediata con il suo potere di fertilizzare» (Boulez, 1 97 9 ) . Certo Boulez aveva in men­ te a quell'epoca le analisi delle composizioni weberniane realizzate dai compositori seriali in vista dei nuovi sviluppi della tecnica com­ positiva, ma far balenare il futuro nelle composizioni del passato è stato un compito condiviso anche dagli esecutori, da Glenn Gould allo stesso Boulez.

3·8

L'opera tra arte e antiarte Al centro di ogni teoria dell'opera d'arte vi è la necessità di connette­ re due elementi eterogenei, ovvero un fenomeno concreto (nelle arti plastiche) oppure un testo verbale o notazionale e un'eccedenza, chia­ miamola di senso, di espressione, di effetto. Nella differenza tra il che cosa è un oggetto e come appare sembra essere racchiuso l'enigma dell'opera d'arte, enigma che il progetto antologico ha cercato di for­ zare senza impiegare la categoria di " apparenza" . Nella trentina di pagine dedicate alla teoria dell'opera d'arte nella sua Teoria estetica Adorno ( 1 975 , pp. 250-83 ) ha compiuto un ardito tour de force: pri­ vare l'opera d'arte del suo attributo più potente, la durata; salvame altri, tradizionali quanto irrinunciabili, come l'intensità, la riuscita e la 121

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profondità; accogliere come elemento costitutivo dell'opera d'arte il suo opposto, ovvero la disartizzazione dell'arte. Stabilità, ossia identità, e permanenza nel tempo, ossia durevolez­ za, sono due proprietà fondamentali dell'opera d'arte che la teoria dell'opera spesso ha dato per scontate. L'idea di " durata delle opere " appare ad Adorno «modellata su categorie di possesso ed è borghese­ mente effimera; a vari periodi e a grosse produzioni fu estranea» (ivi, p. 2 5 2 ) . La negazione della durata comporta per il filosofo franco­ fortese tanto l'idea dell'emergenza (principio che, come si è visto, è condiviso sia dagli ontologi sia dai musicologi) quanto quella della ca­ ducità, ma non tanto nel senso dell'inevitabile degrado del suo aspet­ to fenomenico. È la natura intimamente temporale dell'opera d'arte a esporla al tempo: all'interno dell'opera, il tempo si manifesta come carattere processuale, come ricerca dell'identico e del non identico, come posizione polemica a priori nei confronti dell'esistente; al suo esterno il tempo si incide nell'opera, come avevano intuito Baudelaire e Rimbaud, attraverso la forza penetrante della moda: «La moda è una delle figure attraverso le quali il movimento storico incide sul "sensorium " e attraverso di esso sulle opere d'arte, e precisamente in tratti minimi, per lo più celati a se stessi» (ivi, p. 2 5 3 ) . L'insistenza sul carattere effimero dell'opera, sulla sua inevitabile esposizione al tempo comporta l'accoglimento nella Werkiisthetik di tutte quelle espressioni artistiche che a essa resistono, negando la configurazione stabile dell'opera:

È pensabile che oggi forse sono necessarie opere che brucino se stesse trami­ te il loro nucleo temporale, che abbandonino la propria vita all'attimo della manifestazione della verità e scompaiano senza lasciar traccia, senza che ciò le sminuisca in un modo qualunque. La "noblesse" di un tale comportamen­ to non sarebbe indegna dell'arte dopo che il suo lato nobile decadde a posa e ideologia (ivi, p. 252). Le opere elettroniche di Stockhausen, che non sono notate ma che vengono realizzate una volta per tutte in un materiale degradabile, appaiono ad Adorno un gesto grandioso «come concezione di un'arte di grandi pretese che tuttavia sarebbe pronta a buttarsi via» (ivi, p. 253). L a concezione temporale delle opere mette a fuoco l a posizione di Adorno nei confronti tanto dell'ermeneutica quanto della teoria della ricezione: ciò che muta nel tempo infatti non sono, secondo il filosofo, le interpretazioni storiche di un senso eminente né i diversi 122



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orizzonti della ricezione. L'elemento temporale è immanente alle ope­ re e dipende dalla loro legge formale: l'avvicendamento dei loro strati uno dopo l'altro, imprevedibile nell'attimo in cui le opere si manifestano; la determinazione di tale mutamento attraverso la loro legge formale, che viene allo scoperto e così si frammentizza; l'indu­ rirsi delle opere divenute trasparenti, il loro invecchiare, il loro ammutolire. Alla fine il loro sviluppo è tutt'uno col loro decadimento (ivi, p. 254; ma cfr. anche pp. 275 -6) .

La storia - dice Adorno (ivi, pp. 272-3 ) - e Immanente alle opere, non è un destino esterno e neppure una valutazione mutevole. Il rap­ porto dell'opera d'arte con la storia è piuttosto di natura dialettica. Le opere non si adeguano alla storia, arrivando al momento giusto secondo un intramontabile modello storiografico. Esse rappresentano l'obbiettivazione di una retta coscienza e in questo consiste il loro contenuto di verità. Ora, per retta coscienza Adorno intende «da quando sorse il potenziale della libertà, la più progredita coscienza che si possa avere delle contraddizioni entro l'orizzonte della loro possibile conciliazione» (ivi, p. 2 72 ) . Il concetto di "emergenza " assu­ me qui un'accezione più definita, poiché si aggiunge all'idea della na­ scita storica di una pratica precisa, quella di una sua dipendenza dal progetto storico della modernità, inteso come progetto di emancipa­ zione. Al contempo, proprio la nozione di "materiale musicale " , ma­ turata nel confronto con le opere d'arte musicali, consente di cogliere il rapporto tra l'opera e la situazione storico-sociale. Ma la critica produttiva della " coscienza più progredita" , quella che rende conto del "progresso " rappresentato da un'opera, non è un atto consapevo­ le e intenzionale: «il contenuto di verità delle opere d'arte è sto rio­ grafia inconscia, solidale con quel che fino ad oggi è sempre di nuovo soccombente» (ibid.) . Quale sia il ruolo dell'autore nella teoria dell'opera rimane dun­ que ambiguo. La concezione dialettica di Adorno indebolisce in parte il concetto di " opera" , lo si è visto, negandone la durata, la perma­ nenza, la stessa sostanzialità; tuttavia esso risulta enormemente enfa­ tizzato dal nesso che lo lega alla storia e alla dimensione sociale, un nesso potente perché interpretato come istanza critica e non soltanto come ineliminabile a priori. Sebbene l'opera sia descritta in termini precari, sempre sul punto di ammutolire, essa assume nella teoria di Adorno un'autonomia inaudita. La dualità che ha impegnato gli onto­ logi per un trentennio, ovvero la coesistenza di una dimensione feno123

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menica e di una a essa trascendente, è pienamente accettata da Ador­ no e concettualizzata in termini di energia: Nell'arte la distinzione tra la cosa fatta e la sua genesi, il fare, è energica: le opere d'arte sono ciò che è fatto, e che è divenuto più che semplicemente fatto [. .. ] . Il risultato del processo , così come lo stesso processo in stasi, è l'opera d'arte. Essa è ciò che la metafisica razionalistica al suo culmine pro­ clamò al principio del mondo: è monade, contemporaneamente centro di forza " res " (ivi, pp. 254-5 ) .

L'opera è il risultato di un processo prevalentemente inconscio e a buon diritto l'esperienza estetica trascura la genesi dell'opera. Tutta­ via l'intenzionalità dell'autore rispunta nei saggi critici adorniani dedi­ cati alla musica in maniera che sarebbe più corretto definire ambigua piuttosto che dialettica. Un quadro lo si vede diversamente se si co­ nosce il nome dell'autore, osserva Adorno, e anche se l'arte non è la conseguenza necessaria della sua genesi, i suoi presupposti sono ineli­ minabili. Questa ambiguità concettuale si riflette nei giudizi storici: se le opere " riuscite " appaiono spesso il frutto di una complessa dialetti­ ca che si articola al livello dell'immanenza (come le opere di Bruck­ ner, che possono aver mirato alla restaurazione teologica ma parte ci­ pano del contenuto di verità perché, facendo proprie le scoperte ar­ moniche e di strumentazione del proprio tempo, hanno rovesciato la pretesa di eternità in un'affermazione di modernità) , agli artisti ven­ gono invece ascritte le colpe della mancanza di una coscienza pro­ gredita; è il caso di Strauss e di Monet che «hanno perso in qualità allorché, apparentemente contenti di se stessi e del conquistato, per­ sero la forza di dare innervazione storica e di appropriarsi di materia­ li più progrediti» (ivi, p. 2 7 3 ) . Questa ambiguità si scioglie tuttavia proprio in un ambito cruciale, che è quello dell'esecuzione e dell'in­ terpretazione. Rispetto alla resa di un'opera musicale o drammatica Adorno riconosce che si tratta di un compito infinito per principio, ma egli blocca la deriva interpretativa e la potenziale conflittualità tra l'intenzione dell'autore e quella dell'interprete; il compito di quest'ul­ timo consisterebbe piuttosto nel restituire l'opera nella sua dimensio­ ne irrisolta: «Eseguire correttamente un dramma o un brano musicale significa formularlo correttamente come problema, in modo tale che vengano riconosciute le esigenze inconciliabili che esso pone all'inter­ prete» (ivi, p. 264). Il carattere processuale delle opere d'arte che si definisce come mediazione inconscia tra particolare e universale tra­ scende dunque le soggettività dell'autore e dell'esecutore. L'oggettivi124



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tà immanente del processo ha tuttavia bisogno di essere portata alla coscienza e in questo consiste il compito dell'estetica: «L'interazione di universale e particolare, che nelle opere d'arte avviene inconscia­ mente e che l'estetica deve innalzare alla coscienza, è ciò che vera­ mente costringe a una concezione dialettica dell'arte» (ivi, p. 2 5 7 ) . Il compito dell'estetica dunque è liberare i concetti che nell'opera sono prigionieri di un'esteriorità: «Le opere d'arte organizzano il non orga­ nizzato. Esse parlano per lui e gli fanno violenza; seguendo la loro costituzione di artefatto, collidono con essa» (ivi, p. 26 ! ) . L'intenzio­ nalità dell'opera non coincide dunque con l'intenzione dell'autore, che ne costituisce soltanto un presupposto, l'innesco di un processo autonomo e sovraindividuale. Neppure è dotata di una sorta di inten­ zionalità propria. Essa sembra caratterizzata piuttosto da una sorta di cecità e di mutismo, da un meno piuttosto che da un più. Ciò la ac­ comuna alle manifestazioni "basse" , estranee alla pretese dello spirito, come il circo, il fuoco d'artificio, il feticcio. Il lavoro dell'estetica con­ sisterebbe proprio nel mettere in movimento il concetto bloccato, nel cogliere lo spirito che nelle opere d'arte non è aggiuntivo, «bensì è posto dalla loro struttura» (ibid.) . A differenza dei vari progetti ontologici che mirano a separare l' ontologia dall'estetica, per Adorno la teoria dell'opera è innervata profondamente nella teoria estetica. L'opera d'arte è per antonoma­ sia opera di rango e implica i concetti di " riuscita " , di "intensità" e di " profondità" , proprietà queste che vanno intese alla luce dei concetti centrali dell'estetica ovvero " contenuto di verità " , " caratte­ re di enigma " , " apparenza " . Vi è infine ancora una caratteristica che sta a cavallo tra l'ambito della teoria dell'opera e quello dell'e­ stetica: l'articolazione. Questo concetto, che legittima il diritto di cittadinanza della tecnica nell'ambito estetico, ha una funzione chia­ ve nella teoria adorniana . L'articolazione, dice Adorno, è la salvezza del molteplice nell'uno (ivi, p. 2 7 1 ) e garantisce le opere dal diveni­ re indifferenziate, monotone, sempre la stessa cosa. Il grande tenta­ tivo adorniano di articolare un'estetica modernistica giungendo a iscrivere in essa anche tutte le forme di arte d'avanguardia che ten­ dono a saggiarne e talvolta a sfondarne i confini si dispiega con particolare efficacia proprio nella teoria dell'opera. Questa salva, grazie alla sua ardita struttura dialettica, l'eredità più pesante e tra­ dizionale dell'estetica classica, ovvero il rango, l'eminenza, la qualità dell'opera. Al contempo la tutela da ogni pretesa di possesso. La sua esposizione al tempo e il carattere di enigma negano la possibi­ lità che essa divenga quel "possesso interiore " celebrato da Hegel. 125

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La resistenza al possesso e alla definizione sono proprietà che defi­ niscono l'opera come irriducibilità al dominio.

3 ·9

Coda È giusto chiedersi in conclusione a questo capitolo se il concetto di "opera musicale " sia oggi ancora potente e dominante, almeno come ideale regolativo. Alcuni aspetti risultano definitivamente erosi, e non soltanto perché se ne sono appropriati con efficienza le strategie di marketing. Il fatto che la grande stagione del rock non sfugga al fe­ nomeno della canonizzazione e la sua fama si affidi non soltanto agli eventi live ma anche alla registrazione su supporti stabili (long playing, CD, video ecc.) dimostra l'efficacia tanto delle strategie di vendita, quanto del concetto di "opera" nel processo di istituziona­ lizzazione e addomesticamento della dimensione eversiva dell'arte. L'idea tradizionale di " opera " , inoltre, sembra essersi dissolta assieme alla classe sociale, la Bildungsburgertum, ovvero la borghesia colta che ne ha coltivato l'intimo possesso e ne ha conservato la tradizione per un breve ciclo di generazioni. L'opera musicale oggi si può configura­ re tutt'al più come un reticolo di interpretazioni che trovano riscon­ tro nell'infinita rete discorsiva delle comunità di ascoltatori, comunità in linea di principio non !imitabile, ma di fatto limitata da identità di cultura e di gusto. L'avanguardia e la musica sperimentale hanno sfi­ dato i confini e la tenuta dell'idea di " opera " lasciando in gran parte intatte le pratiche sociali che si basano su di essa. Piuttosto nell'ambi­ to dell'estetica, delle poetiche e della sperimentazione artistica si è consolidata una tendenza alla neutralizzazione dei confini tra le arti. Non si tratta soltanto del fenomeno colto per la prima volta da Ador­ no dello «sfrangiamento tra le arti» (Adorno, 1 979, p. r 69 ) . Una del­ le tendenze più creative dell'arte cosiddetta sperimentale è stata pro­ prio la messa fuori gioco dei confini tra le arti. La definizione più pregnante del rapporto tra le arti sperimentato dagli esponenti di Fluxus è quella data da Dick Higgins (2oo r ) nel r 966: «non una semplice sovrapposizione di media diversi ma qualcosa che cade fra i diversi media». Le poetiche multimediali si aprono verso un territorio dove i confini tra opera ed evento sfumano e si oscurano a vicenda (Gennaro, Borio, 2007) dando luogo a generi (happenings, perfor­ mance art, scultura cinetica, teatro elettronico ecc.) non classificabili secondo le distinzioni tradizionali. L'opera multimediale o interme­ diale ha in parte trasformato la percezione delle opere d'arte, il cui 126



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significato non risulta iscritto nella dimensione immanente, bensì sca­ turisce dall'incontro tra i diversi media mutando così retrospettiva­ mente l'interpretazione delle opere precedenti alla fase tecnologica (Cook, 1 99 8 ) . Allo stesso modo ne è risultato un indebolimento della concezione autoriale unica ed egemonica (con lo stesso effetto feed­ back nell'interpretazione delle opere del passato) . Questi sviluppi cir­ coscrivono il " territorio " culturale dell'opera d'arte musicale a due secoli di storia e a un punto di riferimento senza il quale diventa dif­ ficile dialogare con il passato.

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La musica e il tempo

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Tempo e temporalità Una certa aura metafisica awolge il tema "musica e tempo" , come se la musica potesse offrire una risposta intuitiva alla questione della n a­ tura del tempo che tanto affatica la filosofia e la fisica. L'ombra lunga della metafisica della musica sembra proiettarsi su una questione che in realtà ha origine storica dalla discussione intorno alla gerarchia delle belle arti. La distinzione tra arti temporali e arti spaziali, inau­ gurata dal Laocoonte di Lessing (I 99 I ) , viene consolidata da Hegel e ritorna nell'estetica francese del Novecento sulla scorta della distin­ zione tra le arti di Souriau ( I 9 8 8 ) . La musica, inoltre, ha costituito per l a filosofia del Novecento una sorta di modello concreto per lo studio filosofico dell'interiori­ tà e della cosiddetta coscienza temporale. Infine, nella seconda me­ tà del Novecento la musica è diventata un laboratorio per la costru­ zione di modalità temporali non accessibili al senso comune che guida la mente nell'esperienza quotidiana, ma oggetto delle teorie scientifiche dei più svariati campi: dalla biologia, alla fisiologia, alla fisica. La peculiare natura del tempo musicale, in grado di control­ lare e organizzare un segmento di tempo ordinario e di tempo psi­ cologico (il tempo della durata di un evento musicale e della sua percezione) , ha favorito l'idea che attraverso di esso possano mani­ festarsi sensibilmente sostanze o strutture che trascendono il tempo stesso. Il rapporto tra tempo e musica non va tuttavia appiattito sull' am­ bito dei criteri di classificazione delle arti e tanto meno sulla funzione che la musica ha avuto nella esemplificazione della coscienza del tem­ po e nella progettazione di modelli temporali controintuitivi. Il rap­ porto tra tempo e musica è assai complesso, proprio perché consiste I29

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in una relazione tra due concetti la cui definizione è problematica. Quale sia la natura del tempo e in che cosa consista la sostanza tem­ porale della musica rimangono questioni aperte. Per affrontare questo tema affascinante e complesso sono quindi necessarie alcune distin­ zioni (come ci suggerisce Monelle, 2ooo, pp. 8 1 - 1 14) . La prima di­ stinzione rilevante è quella tra tempo e temporalità. La semiologia of­ fre una distinzione schematica: il primo è un dato naturale, il secon­ do culturale. Dire che il tempo è un dato naturale, tuttavia, è assai fuorviante; da punti di osservazione diversi il tempo è di volta in vol­ ta una costruzione sociale, una condizione biologica, uno dei più affa­ scinanti problemi della fisica e della filosofia (Dorato, 2 007; Kristeva, 1 987 ; Landes, 1 984; Gurvitch, 1 95 8 ; Ruggiu, 1 997, 1 998). Nel prossi­ mo paragrafo cercheremo di indicare qualche accezione del termine "tempo " a cui si farà riferimento in questo capitolo; per " temporali­ tà" invece si intenderà soprattutto le rappresentazioni del tempo al­ l'interno della coscienza. Vi è una seconda distinzione di piani di cui occorre tener conto e che corrisponde, grosso modo, alla distinzione tra il significante e il significato. Vi è una temporalità propria del segno, che si riferi­ sce al modo in cui esso è strutturato nel tempo, e una che appar­ tiene al contenuto, ovvero al tempo significato dai segni. Detto con la terminologia di Hjelmslev, il piano dell'espressione e quello del contenuto non sono conformi (Monelle, 2 ooo, pp. 82-3 ) . La musica e il linguaggio verbale, considerati come sistemi di segni, sono arti­ colati nel tempo: i segni si susseguono e si ripetono e sono articola­ ti in senso temporale dalle relazioni sintattiche. La linguistica musi­ cale ha illustrato con chiarezza la dimensione temporale della sin­ tassi musicale (Cooper, Meyer, 1 96o; Lerdahl, Jackendoff, 1 9 83 ) . L e strutture sintattiche della musica ( attacchi, progressioni, chiusu­ re, fraseggi) , tuttavia, vengono spesso ascoltate e interpretate come "indici " e quindi dislocati dal livello sintattico a quello semantico. La semanticizzazione della sintassi è stata una delle strategie alla base tanto delle teorie cosiddette "isomorfiche" (cfr. PAR . 2 .4) quanto di quelle derivate dalla moderna fenomenologia (Clifton, 1 9 8 3 ; Kramer, 1 99 8 , 2002 ) . L'analisi linguistica della dimensione temporale del linguaggio può fornire ulteriori stimoli alla riflessione sul peculiare tipo di rapporto che la musica intrattiene con il tempo. É mile Benveniste ( 1 9 85 ) ha formulato una memorabile analisi del " tempo linguistico " che permette di comprendere il radicamento dell'atto linguistico nel mondo . Dal tempo fisico e dal suo correlato psichico, la durata 1 30

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interiore, Benveniste distingue il " tempo cronico '' . Questo non è altro che il ben noto tempo del calendario. Qualsiasi calendario presuppone tre condizioni essenziali: parte da un " momento assia­ le , che indica un avvenimento reputato importante (la fondazione di Roma, la nascita di Cristo ecc . ) , condizione questa, detta " stati­ va, ; comporta due termini opposti rispetto all'asse di riferimento (prima/dopo) , che è la condizione " direttiva , ; infine, la condizione misurativa presuppone un certo numero di unità di misura per de­ nominare gli intervalli costanti fra le ricorrenze dei fenomeni co­ smici (giorno, mese, anno; i vi, p. 87 ) . Il tempo cronico, scandito secondo suddivisioni costanti, costituisce la condizione necessaria per la vita sociale e anche per la vita psichica. Quest'ultimo aspetto è molto importante, perché mette in evidenza che il rapporto tra tempo individuale e tempo collettivo, per quanto possa sembrare una necessità collegata all'accordo degli uomini fra loro nel lavoro e nel riposo e nei vari obblighi sociali, è uno dei fondamenti della soggettività stessa: Il nostro tempo vissuto scorre senza fine e senza ritorno, lo sperimentiamo normalmente. Noi non ritroviamo mai la nostra infanzia, né lo ieri così pros­ simo, né l'istante immediatamente fuggito. La nostra vita ha tuttavia dei pun­ ti di riferimento che noi situiamo con esattezza in una scala riconosciuta da tutti e ai quali connettiamo il nostro passato immediato o lontano [ . ] . Il sistema obbedisce a necessità interne che sono costrittive. L'asse di riferi­ mento non può essere spostato poiché è connotato da qualcosa che è real­ mente accaduto nel mondo e non da una convenzione revocabile. Gli inter­ valli sono costanti da un parte e dall'altra dell'asse. Infine il computo degli intervalli è fisso e immutabile. Se non fosse fisso saremmo persi in un tempo erratico e l'intero nostro universo mentale se ne andrebbe alla deriva. Se non fosse immutabile, se gli anni si scambiassero con i giorni o se ciascuno li contasse a modo proprio, non sarebbe più possibile tenere un discorso sen­ sato su alcunché e la storia intera parlerebbe il linguaggio della follia (ivi, pp. 86 e 88) . ..

Il tempo linguistico ha il suo centro "generatore e assiale, nel pre­ sente in cui il locutore parla. Il presente linguistico rende possibili le opposizioni temporali, dunque ieri e domani, ma sempre e soltanto partendo dal presente. Da questa osservazione fondamentale Benveni­ ste deduce tre corollari. Il primo discende direttamene da quanto ab­ biamo appena detto, cioè che il solo tempo inerente alla lingua è il presente assiale del discorso e che questo presente è implicito. Il se­ condo amplia l'orizzonte dall'enunciato del locutore alla situazione

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comunicativa intersoggettiva. Il presente linguistico diventa presente intersoggettivo, in quanto la temporalità del locutore, benché letteralmente estranea e inaccessibile al ricevitore, è identificata da costui nella temporalità che informa la sua pro­ pria parole, allorché egli diventa a sua volta locutore. L'uno e l'altro si trova­ no accordati sulla medesima lunghezza d'onda. Il tempo del discorso non viene riportato alle divisioni del tempo cronico né viene rinchiuso in una soggettività solipsistica. Esso funziona come fattore d'intersoggettività e pro­ prio quella che dovrebbe essere la sua caratteristica impersonale lo rende on­ nipersonale. Solo la condizione d'intersoggettività permette la comunicazione linguistica (ivi, p. 9 3 ) .

Il terzo corollario, infine, riguarda la possibilità di rendere intelligibili i riferimenti interni al discorso collegandoli a un punto preciso delle coordinate spazio-temporali (ivi, p. 94) . Il discorso scritto, infatti, rende necessaria la corrispondenza con una suddivisione del tempo cronico, sia essa una data reale o fittizia, per ancorare il tempo lingui­ stico al tempo cronico oppure al tempo immaginario. Queste caratte­ ristiche del tempo linguistico sono, a ragione, considerate da Benve­ niste il cardine dell'esperienza umana: L'intersoggettività ha così la sua temporalità, i suoi termini, le sue dimensio­ ni. È in quest 'ambito che si riflette nella lingua l'esperienza di una relazione primordiale, costante, indefinitamente reversibile fra il parlante e il suo part­ ner. In ultima analisi, è sempre nell'atto di parole [ovvero di discorso detto, individuale] presente in un processo di scambio che rinvia l'esperienza uma­ na inscritta nel linguaggio (ivi, p. 9 5 ) .

L'analisi d i Benveniste, tanto ovvia quanto illuminante, offre l a possi­ bilità di osservare alcuni aspetti del rapporto tra musica e tempo che sono evidenti, ma che non si notano. In primo luogo la musica non dispone di operatori che effettuino la trasposizione al tempo cronico e neppure di operatori che consentano di indicare la prima persona, colui che parla o che canta. La musica è legata al presente in quanto accade nel presente (quando è eseguita) , nel senso di un evento. La sua estemporaneità, quindi, assomiglia solo superficialmente a quella della parola detta. L'impossibilità di riferirsi al presente e alla storia, tuttavia, spiega la sua extraterritorialità rispetto al tempo e alla storia e la sua funzione di modello temporale che resiste all'ordine ontologi­ co e sociale del tempo. Per questo, nelle metafore filosofiche cui si è prestata la musica, quest'arte è stata alternativamente cifra dell' effime­ ro e sigillo dell'eternità.

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LA MUSICA E IL TEMPO

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Tropi della caducità Le arti performative intrattengono un duplice rapporto con il tempo: in quanto opere d'arte durano nel tempo e le loro tracce (partiture o registrazioni) sono oggetti tra gli altri oggetti del mondo; in quanto esecuzioni hanno luogo nel tempo e cessano di esistere con la con­ clusione dell'atto che le fa risuonare. Le discussioni del capitolo pre­ cedente hanno messo a fuoco gli ambiti in cui la performatività co­ stituisce un tratto distintivo rilevante della musica rispetto alle altre arti e quelli in cui invece non è discriminante. La musica moderna occidentale partecipa del carattere di opera e di quello di evento che si realizza in un "fare" . Dal carattere effimero dell'esecuzione musica­ le è scaturito un tropo letterario e filosofico assai influente nella cul­ tura occidentale, secondo il quale la musica, considerata come me­ dium artistico e non come questa o quella concreta composizione, co­ stituisce in se stessa una sorta di allegoria della caducità e costituisce pertanto una figura della morte. L'umanista tedesco Adamo da Fulda ha fornito una definizione lapidaria di questo tropo: «Nam musica est etiam philosophia, meditatio mortis continua» (Adamo da Fulda, 1 963 , p. 3 3 5 ) . Si può collocare quest'austera definizione che si richia­ ma all'ars moriendi quattrocentesca tra le testimonianze di una ten­ denza a concepire la musica come un'arte caduca, effimera; essa sa suscitare negli ascoltatori una meditazione sulla condizione umana, ma non è in grado di costituire un'opera stabile e durevole al pari dei capolavori delle altre arti. Leonardo utilizzò lo stesso argomento nel suo Trattato sulla pittura, una delle prime trattazioni della teoria delle arti sorelle, in un classico paragone fra le arti: Ma la pittura eccelle e signoreggia la musica perché essa non muore imme­ diate dopo la sua creazione, come fa la sventurata musica, anzi, resta in esse­ re, e ti si dimostra in vita quel che in fatto è una sola superficie (Farago, 1 992, p. 240) .

Queste testimonianze toccano, senza dubbio, corde sensibili nell'ani­ mo del lettore moderno. In particolare, lo struggimento suscitato dal­ la "sventurata musica" deriverebbe da una sorta di autocombustione dell'elemento sonoro. Quest'arte diventa metafora della dissipazione, del venir meno, esperiti dall'uomo insieme allo scorrere del tempo e assurge così a simbolo concreto della caducità della bellezza. La mu­ sica, considerata in generale come arte, rappresenterebbe insomma il più dolce e struggente memento mori. Se si guarda la metafora in 133

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controluce, tuttavia, emerge che l'argomento della caducità è sempre funzionale a un discorso gerarchico; attraverso di esso la musica trova collocazione su gradi diversi all'interno della gerarchia delle arti: al di sotto della pittura, secondo l'artista Leonardo; accanto alla filosofia, al vertice delle arti liberali, secondo il compositore e musico Adamo da Fulda. Il tropo della caducità della musica ritorna con una valenza parti­ colare nei teorici della differenza. Come si è visto nel secondo capito­ lo (PAR. 2 .2 ) , per Paul de Man la musica offre il modello diacronico della non-coincidenza all'interno dell'attimo (de Man, 1 983a, p. 1 2 9 ) . I n altre parole l a musica sarebbe l'allegoria d i ogni allegoria, i l mo­ dello concreto del differimento del senso nel tempo, la negazione del­ l'inattingibilità della presenza. Attraverso l'allegoria della musica de Man illustra come il tempo sia l'origine oscura della differenza, l'a­ bisso che ingoia il principio d'identità. Il potente tropo della caducità oscura l'altra faccia del tempo mu­ sicale, ovvero l'emergenza del suono e la sua reale presenza. Si può descrivere la musica come una metafora o, se si vuole, come un'alle­ goria della morte proprio perché la musica, intesa come medium, mima uno degli aspetti della vita: l'accadere, il passare dal non-esse­ re-ancora all'essere e al non-essere-più. Ancora una volta il discorso riconduce al problema della gerarchia delle arti come al luogo in cui si può trovare una traccia di un'altra interpretazione figurale del rap­ porto con il tempo. Nel primo dei Kritische Wiilder, Herder, sulla scorta del Laocoonte di Lessing, delinea una classificazione delle belle arti in cui compare la definizione di " arti temporali, : La pittura agisce nello spazio per mezzo di una rappresentazione artificiale di esso. La musica e tutte le arti energetiche agiscono non soltanto nella suc­ cessione del tempo, ma per mezzo di un succedersi artificiale di suoni nel tempo. Non si potrebbe ricondurre anche l'essenza della poesia a un concet­ to generale simile, poiché essa agisce sull'anima per mezzo di segni arbitrari owero per mezzo del significato delle parole? A questo mezzo che rende possibile l'efficacia della poesia vogliamo dare il nome di forza [Kra/t] ; come nella metafisica spazio, tempo, forza rappresentano i tre concetti principali, così ognuna delle scienze matematiche si lascia ricondurre a uno di questi concetti. Nella teoria delle belle arti si può dire in analogia: le arti che pro­ ducono opere agiscono nello spazio; le arti " energetiche" agiscono nella suc­ cessione del tempo; le scienze belle, o piuttosto l'unica scienza bella, owero la poesia, agisce per mezzo della forza (Herder, 1 994, III , p. 1 37).

In questa classificazione emerge innanzitutto una distinzione tra arti che producono opere (ergon) e arti energetiche. La parola energheia 1 34

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LA MUSICA E IL TEMPO

su cui si basa questa distinzione viene tradotta, nei testi coevi a quel­ lo di Herder, con Tiitigkeit, " attività, fare, azione" . Questo passo di Herder è stato letto da Dahlhaus ( 1 967 , p. 1 9 ) come una testimo­ nianza dello statuto problematico del concetto di "opera musicale" nell'estetica filosofica: l'arte dei suoni sarebbe stata concepita da Ber­ der e da Hegel fino a Trasybulos Georgiades piuttosto come un'atti­ vità, oggi diremmo una pratica, e per questo contrapposta alle arti che invece consistono in opere durevoli. La contrapposizione tra ope­ ra (ergon) e attività (energheia, che andrebbe intesa nel senso inglese di performance) suggerita da Dahlhaus risulta però fuorviante, in quanto la classificazione di Herder si basa su un'estetica dell'effetto e non dell'opera. Le arti plastiche producono oggetti, la cui qualità rile­ vante nella definizione è di occupare spazio e non quella di durare nel tempo; musica e poesia agiscono invece come forze di tipo diffe­ rente. La distinzione tra energheia e Kra/t (forza) riecheggia la diade aristotelica dynamis/energheia e risponde alla necessità di tripartizione sistematica (spazio, tempo, forza) . Il termine energheia comprende l'accezione del fare, ma implica anche l'idea di un effetto che diventa attuale attraverso il tempo. La temporalità della musica è la condizio­ ne della sua effettualità. La posizione di Herder, tuttavia, rappresenta un'eccezione in un panorama filosofico dominato dall'ossessione per la permanenza e la stabilità incarnata nel segno che permane, rispetto al suono che svani­ sce. Per Hegel, l'arte in generale rappresenta l'unico autentico argine al lavoro di distruzione del tempo, alla sua attività negativa, alla " fu­ ria del dileguare" che domina il mondo della natura (Hegel, 1972 , pp. 1 86-7) . A sostenere questi argini sono chiamate, però, le arti figu­ rative e soprattutto la poesia. La musica non può assolvere questo compito, per due motivi: per la sua natura performativa e per la sua incapacità di esprimere e rappresentare immediatamente lo spirito per lo spirito (ivi, p. 1 074) , capacità invece propria della poesia. Que­ sti due punti sono, a ben vedere, intimamente collegati. Infatti, se si considerano le modalità di fruizione, anche il dramma andrebbe an­ noverato tra quelle che oggi si chiamano arti performative. Hegel, però, precisa che nel dramma si può distinguere il "lato poetico " di un'opera drammatica «indipendentemente dal fatto che questa debba essere messa in scena per l'intuizione immediata» (ivi, p. 1296). Que­ sta distinzione, invece, non è possibile nella musica. L'opera d'arte musicale, infatti, a causa della sua esistenza solo momentanea, ha bi­ sogno di essere ripetuta. Il genere di " rianimazione " di cui la musica necessita è del tutto peculiare in quanto «l'estrinsecazione deve anche immediatamente offrirsi come comunicazione di un soggetto vivente, 1 35

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nella quale questo trasferisce tutta la propria interiorità» (ivi, p. 1 0 1 5 ) . Questa dimensione soggettiva inchioda la musica a un'interio­ rità muta e indeterminata che ne spiega da un lato l'efficacia espressi­ va e la potenza nel suscitare le emozioni, ma dall'altra le preclude l'accesso al livello superiore dello spirito: «Il potere peculiare della musica è una potenza elementare, cioè risiede nell'elemento del suo­ no, in cui l'arte qui si muove» (ivi, p. 1 0 1 1 ) . Tuttavia proprio Hegel è il primo a rilevare che il cruciale rap­ porto tra la musica e il tempo non si esaurisce nel carattere perfor­ mativo. Esso si delinea, piuttosto, come individuazione di un legame astratto, ma fondante, con l'autocoscienza dell'Io che è essa stessa tempo: «L'Io è nel tempo e il tempo è l'essere del soggetto stesso» (ivi, p. 1 0 1 3 ) . Da questo punto in avanti la musica si offre come mo­ dello per l'indagine della coscienza del tempo e nel tempo. Il tempo della filosofia e il tempo della musica si incrociano in un incontro che segna la speculazione estetico-musicale e filosofica del Novecento in maniera decisiva.

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L 'ordine del tempo Fino alla seconda metà circa dell'Ottocento tanto i teorici musicali quanto i filosofi che hanno contribuito alla definizione dell'estetica musicale (con due eccezioni di cui si parlerà tra poco) non si sono occupati di definire il tempo musicale. Nessuno del resto, a meno che non si occupi di filosofia o di fisica, si preoccupa di definire o tema­ tizzare il tempo, ma è impegnato a misurarlo e a suddividerlo per ordinare e regolare le proprie attività personali (ogni cosa a suo tem­ po) e per sincronizzarsi con i suoi simili e arrivare in tempo nelle occasioni di lavoro e di svago comuni (Landes, 1 984) . Anche il musi­ cista si preoccupa del tempo in maniera analoga. Quando suona può far a meno dell'orologio, perché non ha bisogno di arrivare in tempo, ma di andare a tempo e per far questo ci sono sistemi di riferimento legati in gran parte alla fisiologia e alla neurologia umana (Epstein, 1 99 8 ) . Dal Settecento in poi chi suona si può affidare anche a uno strumento meccanico: il metronomo. Il tempo musicale, tuttavia, ha una natura diversa dal tempo ordinario. Esso è tempo strutturato, composto (Dahlhaus, Eggebrecht, 1 98 8 , p. 1 3 8) . A interessare i musi­ cisti e i teorici della musica sono innanzitutto gli elementi che regola­ no la composizione del tempo musicale e la sua riproduzione: ritmo, metro, battuta, tempo (nel senso musicale del termine, che nei paesi

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anglosassoni e tedeschi viene distinto dal termine generale time o Zeit con il termine neolatino tempo) . È comprensibile, dunque, che i teo­ rici si preoccupino di definire in primo luogo questi termini. Tra quelli elencati, almeno uno non compare nei trattati prima del Sei­ cento: quello di "battuta" . Anche un filosofo come Descartes, che pure h a affrontato il pro­ blema del tempo nell'ambito della sua riflessione filosofica (Ruggiu, I 997, pp. I I 3 -2o), non si sofferma a definire il tempo nel suo Com­ pendium musicae; egli tratta invece il ritmo e le proporzioni che lo fondano e lo rendono percepibile. Queste pagine sono ricordate da Besseler in poi ( I 99 3 , pp. 49-5 0) come la prima definizione teorica della battuta quale sistema di suddivisione distinta dai gruppi mensu­ rali. Il filosofo osserva che la battuta è nata dall'esigenza di ordinare i suoni nella nostra immaginazione segnandoli «con una percussione della mano, grazie alla quale possiamo cogliere tutte le parti di cui si compone la melodia e godere dei rapporti proporzionali su cui deb­ bono poggiare» (Descartes, I 990, p. 75 ) . Egli descrive dunque la bat­ tuta come una sorta di ordine empirico costituito da accenti impressi alla musica; esso renderebbe possibile la comprensione della sua complessità ritmica grazie all'effetto che gli accenti della battuta han­ no sul corpo: Pochi tuttavia osservano come l'orecchio percepisca questa misura o battuta in una musica cantata polifonicamente e per diminuzione. E questo awiene secondo me realizzando una maggiore intensità della voce nella musica voca­ le o uno sforzato nell'esecuzione strumentale, conseguendo in tal modo che all'inizio di ogni battuta il suono risulti emesso più distintamente. È questo un accorgimento comunemente osservato dai cantanti e dagli strumentisti so­ prattutto in quelle composizioni al cui ritmo si eseguono pantomime e si bal­ la. In tal caso viene osservata la norma di distinguere ogni battuta della mu­ sica con particolari movimenti del corpo. Ed è la musica che ci spinge a farlo: è infatti accertato che il suono scuote ogni corpo da ogni lato, come si nota nelle campane, e nel tuono: ma questo è materia dei fisici (ibid.).

L'oggetto dell'attenzione del filosofo non è quindi il tempo musicale, bensì la peculiare maniera di misurarlo dei musicisti, legata alla fisio­ logia umana. Questo testo focalizza la nostra attenzione sulla rivolu­ zione nella concezione della temporalità musicale introdotta dalla pratica e dalla nozione di "battuta " (quest'ultima formulata a poste­ riori) . Le pagine citate suggeriscono che lo schema della battuta, nato nella musica da ballo grazie alla sua peculiare unione tra accenti e movimenti del corpo, sia dilagato in tutta la pratica musicale in con­ seguenza all'impiego di ritmi musicali sempre più complessi. 137

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L'uso della suddivisione in battute ha avuto un'incidenza enorme sulla concezione della temporalità musicale nella musica occidentale, marcandone la tendenza all'organizzazione lineare. È stato Hegel a mettere per la prima volta in relazione, fra i mezzi di espressione mu­ sicale, tempo (nel senso filosofico del termine) , battuta e ritmo. Il tempo è ciò che caratterizza la musica rispetto alle altre arti: «la mu­ sica non assume il movimento rispetto a questa spazialità [come la scultura e la pittura] , e quindi a lei resta, per dar forma, solo il tem­ po in cui rientra la vibrazione del corpo» (Hegel, 1 97 2 , p. r o r 9) . An­ che per questo filosofo la battuta ha una funzione ordinatrice, tutta­ via questa funzione è individuata a un livello speculativo, anziché em­ pirico-pratico. Nell'estetica hegeliana, infatti, si chiama in causa il tempo concepito come "esteriorità negativa " , come scorrere uniforme e durata indifferenziata (ivi, p. ro2o). La composizione musicale con­ siste per Hegel proprio in una determinazione del tempo attraverso una regola e una misura. Tuttavia i suoni, una volta stabilita la loro diversa durata, costituirebbero a loro volta una "molteplicità arbitra­ ria" se mancasse un più generale schema ordinato re che risulta corre­ lato all'Io, costituito appunto dalla battuta: le diverse parti del tempo sono legate in un 'unità in cui l'io fa per sé la sua identità con sé. Poiché l'io qui offre solo la base come Io astratto, questa eguaglianza con sé si può mostrare operante, in rapporto al procedere conti­ nuo del tempo e dei suoni, soltanto come un'eguaglianza essa stessa astratta, cioè come la ripetizione unz/orme della medesima unità temporale. In base a questo principio la battuta nella sua determinatezza semplice consiste solo nel fissare una determinata unità di tempo come regola e misura sia per l'in­ terruzione marcata della successione temporale fin qui indifferenziata, che per la durata egualmente arbitraria di singoli suoni, che vengono ora riuniti in un'unità determinata; e consiste pure nel far sì che questa misura tempo­ rale si rinnovi sempre in astratta uniformità (ivi, pp. ro2 r -2).

Soltanto il ritmo arreca alla battuta «l'animazione vera» (ivi, p. r 024) . In queste pagine emergono per la prima volta alcuni elementi desti­ nati a impegnare la riflessione soprattutto nel Novecento: la duplicità di tempo assoluto, oggettivo, e tempo musicale, caratterizzati entram­ bi da un'attività negativa, per cui ogni punto temporale viene supera­ to dal successivo; l'idea di linearità temporale; la consustanzialità tra tempo e musica (ivi, p. r oo 9 ) . L e osservazioni di Hegel sulla natura della battuta come strumen­ to artificiale atto a ordinare il tempo possono servire a chiarire la curiosa coincidenza messa in luce a metà del secolo scorso, ossia la contemporanea diffusione della misurazione del tempo per mezzo di

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LA MUSICA E IL TEMPO

orologi meccan1c1 e l'affermarsi della scansione mensurale ( Gurlitt, 1 95 5 ) . In entrambi i casi si è verificato l'impiego di unità discrete per misurare il tempo a loro volta suddivisibili in sottoparti. Crono­ metria e suddivisione in battute offrono due semplici e infallibili mezzi per sincronizzarsi e consentono, ciascuna a suo modo, di usare il tempo nella maniera più razionale. La complessità della scrittura musicale moderna non sarebbe possibile senza i punti di riferimento offerti dalla suddivisione in battute. Al contempo, sia il tempo ordi­ nario misurato dall'orologio sia il tempo musicale suddiviso in battu­ te evocano l'immagine di un fluire inesorabile al quale non ci si può sottrarre. La natura essenziale del tempo cronometrico con il suo in­ cessante ticchettio sembra essere quella di dissociare il tempo dagli accadimenti umani (Landes, 1 984, p. 2 0 ) . L'Occidente ha tratto il massimo profitto dalla privatizzazione e dall'imposizione di una di­ sciplina del tempo, sicché esso è diventato uno degli strumenti e del­ le variabili più importanti della produzione, sia dal punto di vista sociale sia individuale (ivi) . La musica a sua volta si è fatta sede di una progettualità temporale capace di sfuggire alla tirannia del tem­ po intesa non tanto come esposizione dell'uomo alla vecchiaia e alla morte, quanto come ordine temporale imposto da condizioni sia an­ tologiche sia sociali. Questo tema ricorre in molti pensatori del No­ vecento da Brelet alla Langer fino ad Adorno (cfr. PARR. 4·5-4·6). Questo stato di cose dipende in gran parte dalla scoperta della " con­ ducibilità temporale della musica" (l'espressione è stata adattata da una felice metafora di Souvtchinsky, 1 9 3 9 ) . È la suddivisione in ba t­ tute a costituire un simulacro dell'astratto scorrere del tempo, del di­ venire temporale dentro il quale e contro il quale si articola il tempo musicale vero e proprio.

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La musica, laboratorio speculativo per l'indagine filosofica sulla temporalità Tra la fine dell'Ottocento e il primo Novecento, negli scritti di Berg­ son e di Husserl, si delineano due analisi filosofiche della temporalità che prendono a modello la musica, in particolare la melodia, per de­ finire in termini filosofici l'esperienza temporale. In filosofia il nesso tra musica e tempo non è una novità e risale - com'è noto - ad Ago­ stino. Eccezionale è piuttosto la portata di queste riflessioni sull'este­ tica musicale, sulla musicologia e sul pensiero compositivo del Nove­ cento. Bergson ha avuto un'influenza notevole soprattutto in Francia. 139

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Negli Stati Uniti gli scritti husserliani sul tempo hanno ispirato nume­ rose ricerche musicologiche, a partire dagli anni settanta. In Italia, in­ vece, sono stati uno dei punti di riferimento per la filosofia della mu­ sica di Giovanni Piana (Maniates, I 966; Chatterjee, I 97 I ; Green, I 982 , I 9 84; Clifton, I 983 ; Lockhhead, I 986; Piana, I 99 I ) . L'analisi della temporalità di Bergson è elaborata, nel suo nucleo centrale, nella dissertazione dottorale del I 896 (Bergson, I 986). Il problema principale di questo studio, quello della libertà e la rifles­ sione intorno al tempo, è volto a smentire i presupposti del determi­ nismo, a partire da una distinzione radicale tra tempo e spazio. Dura­ ta ed estensione, successione e simultaneità, qualità e quantità, che nella nostra esperienza ordinaria sono indissolubilmente intrecciate, risultano distinte in un'attenta analisi dei dati di coscienza condotta attraverso una forma di introspezione dell'interiorità umana. L'indagi­ ne di Bergson riguarda la definizione degli stati psichici o dati di co­ scienza (quali i sentimenti profondi, i sentimenti estetici e quelli mo­ rali) in termini qualitativi e non quantitativi. Uno sforzo muscolare è misurabile, ma un sentimento profondo non lo è; è possibile soltanto rilevarne la maggiore o minore intensità, ossia una differenza qualita­ tiva. Anche le sensazioni trasmesse dai sensi dell'udito o della vista hanno la stessa natura, benché il modo con cui le elaboriamo tenda a confonderci. Tanto l'intensità quanto l'altezza del suono non sono al­ tro che sensazioni qualitative indefinibili; l'interpretazione quantitati­ va che se ne dà risulta esclusivamente dal ricordo dello sforzo mu­ scolare impiegato per ottenere un suono forte percuotendo un ogget­ to e dallo sforzo muscolare delle nostre corde vocali per raggiungere l'acuto. Le rappresentazioni quantitative di maggior o minor intensità e di acuto e grave non sono che successioni di semplici dati di co­ scienza qualitativi (ivi, pp. 27-9 ) . Gli stati di coscienza si distinguono nell'analisi introspettiva, ma nella vita psichica concreta costituiscono una molteplicità di tipo particolare che Bergson definisce con il ter­ mine " durata" (durée) . Il passo decisivo dell'argomentazione consiste nella distinzione tra la molteplicità di tipo quantitativo, costituita dal numero, e quella invece puramente qualitativa, propria degli stati di coscienza. La numerazione costituisce il mezzo per concepire un nu­ mero come una molteplicità racchiusa in un'unità; essa presuppone quindi una rappresentazione di oggetti nello spazio. È vero che con­ tando si ha l'impressione che l'operazione awenga nel tempo, perché si numerano i singoli istanti; in realtà si sono contati i singoli mo­ menti della durata come dei punti nello spazio. Infatti, sostiene Berg­ son, nel tempo si può percepire una semplice successione, ma non una somma:

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Perché se una somma viene ottenuta attraverso la considerazione successiva dei diversi termini, è inoltre necessario che ognuno di questi termini sussi­ sta allorché si passa al seguente e che attenda, per così dire, di venire ag­ giunto agli altri: ma come potrebbe attendere se non fosse che un istante della durata? E dove attenderebbe se non lo localizzassimo nello spazio? (i vi, p. 47 ) .

Dunque, esistono due specie d i molteplicità: gli oggetti materiali sono localizzati nello spazio e si possono contare; gli stati puramente affet­ tivi dell'animo e le rappresentazioni sensibili diverse da quelle della vista e del tatto si possono contare, invece, soltanto grazie a un pro­ cesso di raffigurazione simbolica. Ora, la percezione dei suoni rap­ presenta il caso più evidente della doppia appartenenza al dominio del tempo e a quello dello spazio: in quanto dati immediati della co­ scienza appartengono al primo, ma nel momento in cui se ne fa una rappresentazione simbolica li si proietta in quello dello spazio. L'e­ sempio di Bergson è il seguente: se ascolto i suoni di una campana posso contarli allineandoli in uno spazio ideale, ma delle due cose l'una: o trattengo ciascuna di queste sensazioni successive per organizzarle insieme alle altre in un gruppo che mi ricorda un'aria o un rit­ mo noto, e in questo caso non conto i suoni, ma mi limito a raccogliere l'im­ pressione per così dire qualitativa che il loro numero produce in me; oppure mi propongo esplicitamente di contarli, e allora sarà necessario che io li dis­ soci e che questa dissociazione venga effettuata in un ambito omogeneo in cui i suoni, svuotati delle loro qualità, vuoti in un certo senso, lascino tracce sempre uguali del loro passaggio (ivi, p. 5 r ) .

Si delineano così due dimensioni: quella omogenea dello spazio e quella disomogenea delle qualità sensibili. Il tempo, quando è rap­ presentato come mezzo definito e omogeneo, non è altro che il fanta­ sma dello spazio che ossessiona la coscienza riflessa (ivi, p. 5 8 ) . Il fa­ moso concetto di " durata " scaturisce proprio da questa distinzione. La durata pura è la successione degli stati di coscienza «quando il nostro io si lascia vivere»; è la sostanza della vita interiore che fluisce senza interruzione ricordandosi degli stati anteriori, organizzandoli assieme al presente «come avviene quando ci ricordiamo le note di una melodia fuse, per così dire insieme» (ivi, p. 5 9 ) . Il tempo pertan­ to è irreversibile; se s'ipotizza una reversibilità dell'ordine di succes­ sione della durata, non si fa che compiere l'operazione surrettizia di spazializzare il tempo in uno spazio immaginario; per stabilire un or­ dine bisognerebbe, infatti, distinguere e confrontare i termini di una successione, ossia proiettarli nello spazio come simultanei:

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L'idea di una serie reversibile nella durata, o anche semplicemente di un certo ordine di successione nel tempo, implica dunque di per sé la rappre­ sentazione dello spazio e non può essere utilizzata per definire il tempo (ivi, p. 6o) .

L a centralità del pensiero d i Bergson nell'estetica musicale e nel pen­ siero compositivo novecentesco non si spiegherebbe se si riducesse la riflessione bergsoniana all'impiego della musica come modello per comprendere l'organizzazione dei dati coscienzali in una durata che è la " stoffa " della nostra vita interiore (Goisi, 1 997, p. 2 85 ) . L'inte­ resse di Bergson consiste invece nell'aver approfondito il tema della consustanzialità tra tempo e coscienza, già annunciato da Hegel, per mezzo di un'analisi dell'interiorità volta a ridefinire con attenzione la distinzione tra interno ed esterno, spazio e tempo, successione e si­ multaneità. L'elemento più rilevante per chi avrebbe affrontato in se­ guito i problemi dell'estetica musicale a partire dalla riflessione berg­ soniana (per esempio Gisèle Brelet) è l'implicita giustificazione del senso interiore della durata. Essa è pensata sì come una dimensione segnata dalla transitorietà di un continuo divenire, ma risulta im­ prontata tuttavia dalla ricchezza sorgiva propria della concezione creativa e libera della temporalità bergsoniana. Le pagine di Bergson, inoltre, suggeriscono al lettore che le interpreta a posteriori cono­ scendone gli esiti successivi, che la musica è in grado di integrare due ordini di realtà: quella temporale, interiore, privata, modulata dalle qualità intensive e soggettive, e quella esteriore che - diceva Bergson - «concepita con chiarezza dall'intelligenza umana ci per­ mette di effettuare distinzioni nette, di contare, di astrarre e forse anche di parlare» (Bergson, 1 9 86, p. 5 7 ) . È immediato proiettare quest'integrazione sul doppio statuto della musica: quello della musi­ ca scritta in partitura, ossia organizzata nella dimensione numerica e spazializzata, grazie alla quale soltanto essa si può conservare, ma so­ prattutto pensare, comporre ed eseguire; quella della musica sonante il cui significato si dipana nella durata e come durata, e colora l'inte­ riorità umana con la sua tonalità psichica. Gli interpreti del pensiero bergsoniano hanno più volte rimarcato che il dualismo interiorità/esteriorità rimanda a una netta distinzione tra tempo privato e tempo pubblico (Goisi, 1 997, p. 2 85 ) quale emer­ ge dalle accurate analisi della differenza tra il tempo misurabile degli orologi e la durata pura; tra la vita esterna e sociale e l'esistenza inte­ riore e individuale. La musica, implicitamente presente nella trattazio­ ne di Bergson, diventerà per i lettori del filosofo specchio e palestra della soggettività colta occidentale e sede privilegiata di una dimen-

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sione temporale separata dal tempo ordinario scandito dall'orologio, il cui dominio risulta così limitato all'ambito della scienza e della vita sociale. Come un'implicita " discussione " con Bergson si possono conside­ rare le ricerche condotte da Husserl fra il 1 905 e il 1 9 1 7 sulla feno­ menologia della coscienza interna del tempo; soltanto da questa pro­ spettiva parziale si ricorderanno qui alcuni elementi di questa teoria che rappresenta una delle pietre miliari della riflessione filosofica sul tempo nel Novecento. Da Agostino in poi il suono è l'esempio privilegiato per affrontare l'enigma del tempo. Anche Bergson, si è visto, impiega la melodia per illustrare come i dati psichici risultino organizzati nella coscienza in una durata intensiva alla stessa maniera in cui si integrano i singoli dati percettivo-sonori in una sequenza melodica. Dal momento che si tratta di un'analogia, il riferimento alla melodia rimane puramente esteriore e l'indagine si articola come introspezione della dimensione coscienziale. L'indagine fenomenologica di Husserl si pone, invece, trasversalmente alla separazione tra interno ed esterno, poiché prende come oggetto di analisi «i vissuti nei quali qualcosa di temporale ap­ pare» (Husserl, 1 98 1 , p. 45 ) . Husserl mette tra parentesi tutto quanto è presupposto dalle convinzioni correnti in quanto dati non fenome­ nologici: dunque, sia il tempo obiettivo (quello che appare scorrere fuori noi, altrimenti definito come tempo mondano o reale) sia il tempo della natura descritto dalle scienze naturali e quello psicologi­ co oggetto della psicologia scientifica. Dati fenomenologici sono inve­ ce i vissuti temporali astratti dal loro essere empirico, ossia considera­ ti come parti integranti «del mondo delle cose e dei soggetti psicolo­ gici per quanto riguarda la loro genesi e i loro effetti», e analizzati in quanto «realtà intesa, intuita, pensata concettualmente» (ivi, p. 48) . L a realtà, le cose, il mondo sono conoscibili in quanto si offrono alla __ coscienza che li coglie in un atto intenzionale. E questo il concetto chiave della fenomenologia, che nell'ambito della ricerca sul tempo sposta l'asse d'indagine dalla dimensione isolata della coscienza inter­ na a quello di una possibile solidarietà tra realtà intesa e coscienza. L'affondo teorico più rilevante delle riflessioni di Husserl è la de­ scrizione della modalità attraverso cui il tempo si offre alla coscienza e la costituisce, affondo condotto attraverso un affinamento sottilissi­ mo dell'analisi agostiniana. L'emergenza, in questo contesto, del con­ cetto di " oggetto temporale " offre la premessa teorica fondamentale per una fenomenologia della musica, intesa questa come fenomeno marcato dalla sua natura temporale e inseparabile dalla coscienza che lo costituisce. Per oggetti temporali in senso specifico s'intendono -

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secondo Husserl - «oggetti che, oltre a essere delle unità nel tempo, contengano anche in sé l'estensione temporale» (ivi, p. 5 9 ) . Oggetti temporali di questo tipo ve ne sono tantissimi: la maggior parte delle cose del mondo percepito che restano immutate e durano, e i pro­ cessi fisici di mutamento e alterazione. Il suono, però, rappresenta l'e­ sempio paradigmatico, in quanto esibisce come sua qualità primaria il tempo. L'obiettivo di Husserl non è la misura del parametro "tem­ po" , bensì il modo in cui si costituisce l'oggetto sonoro all'interno della coscienza. Il punto di partenza ricalca quello agostiniano, ovve­ ro il passaggio dal dato sonoro alla successione di suoni nella melodia o di sillabe nel verso e altrettanto viene ripercorsa la teoria della di­ stentio animi esposta nei capitoli 27 e 28 dell'xr libro delle Confessio­ ni. La mossa decisiva di Husserl è a quel punto ritornare all'esempio del singolo suono e verificare che l'aporia del tempo non è affatto superata. È vero, infatti, che tramite l'integrazione di ricordo e " aspettazione antemirante " (vorblickende Erwartung) si spiega l'ap­ prensione della melodia come un tutto unitario, ma non ci si può fer­ mare a questa affermazione, secondo Husserl, perché anche quando si percepisce il suono singolo «quando attacca lo odo come un"'ora " , mentre continua a risuonare h a però un"' ora " sempre nuovo, e quel­ lo che via via precede si muta in un "passato "» (ivi, p. 6o) . L'analisi "più profonda" che intraprende il filosofo ripercorre la strada traccia­ ta da Agostino verso l'interiorità e la memoria, ma risulta suddivisa in due momenti: la memoria primaria o ritenzione e la memoria secon­ daria o memoria vera e propria. La temporalità del suono singolo si articola in durata grazie alla ritenzione che trattiene il suono nel suo sprofondare nel passato e costituisce l'unità del processo. La memoria " breve" della ritenzione, che è coscienza dell'appena stato, spiega la costituzione all'interno della coscienza di un oggetto temporale attra­ verso una sorta di effetto prospettico: I punti della durata temporale si allontanano per la mia coscienza, in modo analogo a quello in cui si allontanano per la mia coscienza i punti dell'ogget­ to fermo nello spazio, quando "io" mi allontano. L'oggetto conserva il suo luogo, e così il suono il suo tempo: nessun punto del tempo si sposta, ma fugge nelle lontananze della coscienza e la distanza dall"' ora" originante di­ venta sempre maggiore. Il suono stesso è il medesimo, ma il suono "nel modo come" appare è sempre diverso (ivi, p. 6 1 ) .

L'integrazione d i ritenzione, percezione e aspettazione antemirante modifica la concezione della durata come incessante trapasso . La ri­ tenzione dà forma e profondità agli oggetti temporali, li costituisce

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all'interno della coscienza e li rende disponibili alla memoria; questa facoltà può ripresentarli alla coscienza in piena libertà, perché è un «libero percorrere [ . . . ] più rapidamente o più lentamente, più chiara­ mente ed esplicitamente o più confusamente, fulmineamente e in un colpo solo o per passi articolati ecc.» (ivi, p. 8o) . Le conseguenze di questa concezione sulla riflessione intorno al tempo musicale sono evidenti. Essa ha dato l'avvio a un'analisi intesa a cogliere le modalità attraverso le quali la musica si costituisce nella coscienza come ogget­ to temporale. Per seguire la traccia dello studio di Clifton (il musico­ logo che si è ispirato forse con più aderenza a Husserl) , analizzare dal punto di vista fenomenologico la forma temporale di una compo­ sizione musicale significa descrivere come essa inizi e come finisca; come si articoli in una durata continua oppure attraverso contrasti e interruzioni, e come gli oggetti temporali possano risultare da forme sofisticate di esperienza, quali l'intersezione (temporal intercutting) di due modalità temporali diverse, la durata e la sospensione, oppure la sovrapposizione di strati temporali diversi (Clifton, 1 983 , pp. 5 0- 1 3 6 ) . L'eredità fenomenologica h a dischiuso una serie d'indagini in ambito musicologico sul tempo musicale culminate nelle innovative ricerche di Jonathan Kramer ( 1 988, 2002) volte a indagare forme diverse di esperienze temporali (tempo lineare e non-lineare, multidirezionato, verticale, moment-time) esplorate e descritte avvalendosi anche dei progressi della ricerca psicologica, antropologica, compositiva e anali­ tico-musicale tra gli anni sessanta e ottanta. Alla base di queste ricer­ che vi è un presupposto che va fatto risalire in gran parte all' espe­ rienza fenomenologica, ossia la concezione del tempo come relazione tra soggetto e oggetto.

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La sconfitta del tempo Nel Novecento il problema del tempo musicale si profila come uno dei punti centrali dell'estetica musicale e delle poetiche compositive. Tempo musicale e tempo ordinario, tempo privato o semipubblico il primo , tempo sociale il secondo, si fronteggiano come due dimensio­ ni contrapposte. Troviamo una formulazione di questa opposizione all'inizio degli anni venti, in un saggio di Basil de Sélincourt, citato in seguito da Susanne Langer: «La musica è una delle forme della dura­ ta; essa sospende il tempo e si offre come ordinario sostituto ed equi­ valente di questo» (Langer, 1 965 , p. 1 3 0) . Il pensiero del Novecento non insegue, tuttavia, soltanto la facile figura del tempo musicale

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come luogo di fuga dal tempo assoluto (anche se questo tema verrà poi spesso ripreso molte volte e in p articolar modo da Brelet) . Il nodo intorno a cui si stringe la discussione sulla temporalità musicale è la tensione tra struttura e durata. Proprio su questo fronte si gioca - tra l'altro - la possibilità di comporre l'opposizione tra l'aspetto transitorio della musica e la sua capacità di configurarsi in opera, op­ posizione che aveva costituito un ostacolo nella definizione di opera d'arte musicale fino a Ottocento inoltrato. Il concetto stesso di " for­ ma temporale" che si afferma - variamente declinata - in molte ri­ flessioni sul tempo musicale del Novecento individua la possibilità di infliggere una sconfitta al tempo musicale nella dimensione estetica o perlomeno di anticipare la redenzione dal dominio dispotico del tem­ po ordinario. Anche Pierre Souvtchinsky, pensatore russo naturalizzato francese dopo la rivoluzione, nel suo saggio dedicato alla musica dell'amico Stravinskij parte dal rapporto tra tempo " ordinario" e tempo musica­ le (Souvtchinsky, 1 93 9 ) . Egli prende le mosse dall'esperienza comune che distingue in maniera indubitabile il tempo psicologico, dunque soggettivo, dal tempo oggettivo; questo sembra scorrere in maniera del tutto indipendente dalla volontà e dal controllo del soggetto e pertanto viene designato come tempo ontologico. Souvtchinsky non affronta il problema di come si possa definire il tempo ontologico dal punto di vista filosofico e scientifico. Egli riferisce questa nozione al­ l' ambito del senso comune che coglie lo scorrere del tempo come un dato oggettivo, anche di fronte agli argomenti contrari avanzati nel corso della storia della filosofia e della scienza. L'intuizione dello stu­ dioso russo coglie la duplicità della relazione che s'instaura tra musi­ ca e tempo: l'arte dei suoni si sviluppa, infatti «sia al di fuori delle categorie del tempo psicologico sia contemporaneamente a esse, cosa che permette di considerare l'esperienza musicale come una delle for­ me più pure dell'esperienza del tempo» (ivi, p. 3 1 2 ) . La musica, pro­ prio perché partecipa dei due poli del tempo, quello soggettivo e quello oggettivo (o supposto tale) , dispone del tempo come materiale; attraverso di esso, in quanto creazione umana, articola un'esperienza temporale. Dalle due forme di esperienza discende una distinzione di tipologie musical-temporali, ovvero tra la musica " cronometrica " e quella " cronoametrica" . La prima si distingue per l'assenza di riflessi psicologici ed emotivi, per l'equilibrio, l'ordine dinamico e lo svilup­ po normale e graduato e suscita una reazione psichi ca di " calma di­ namica " e di soddisfazione. Quella cronoametrica è di natura essen­ zialmente psicologica, è una

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notazione secondaria di impulsi emotivi primari, di stati e di progetti dell'au­ tore. In questa musica i centri d'attrazione e di gravità sono, insomma, di­ slocati. Non si trovano affatto nell'istante sonoro, né nel dato musicale, ma sono sempre anteposti o posposti rompendo così con il corso normale del tempo musicale e distruggendo la predominanza dell'" istante musicale" (ivi, p. 3 1 3 ) .

L e premesse estetiche d i questa distinzione risultano tanto p1u evi­ denti se si esaminano gli esempi. Il canto popolare, il canto gregoria­ no, Bach, Haydn, Mozart, molti passi di Verdi, ma soprattutto la mu­ sica di Stravinskij sono esempi concreti di musica cronometrica, men­ tre Wagner è l'interprete per eccellenza della musica cronoametrica. Questa succinta filosofia del tempo musicale ha avuto una vasta for­ tuna attraverso Gisèle Brelet, ma soprattutto attraverso la Poetica mu­ sicale di Stravinskij (di cui Souvtchinsky fu anche insostituibile ghost writer) , che riassume in una famosa pagina la distinzione dell'amico (Stravinskij , 1 983 , pp. 1 0-2 ) . Oltre alla formulazione in chiave temporale dell'oggettivismo anti­ romantico, va fatto risalire a Souvtchinsky un secondo principio fon­ damentale per la speculazione estico-musicale del Novecento e di Gi­ sèle Brelet in particolare: il principio della " conducibilità " del tempo attraverso la musica: A tutti coloro che rimproverano a Stravinskij l'assenza del principio emotivo - afferma Souvtchinsky - si potrà ribattere una sola cosa: costoro devono ascoltare la musica con un orecchio che percepisce la musica come sonorità, ma anche come musica nel tempo. Ciò significa, per parafrasare Wagner, che si può «sentire il tempo». [ . . . ] Soltanto questa musica può costituire un pon­ te che ci unisce all'essere nel quale viviamo, ma che nello stesso tempo è distinto da noi (Souvtchinsky, 1 9 39, p. 320).

L'essenza della musica, il suo senso ontologico consiste dunque nel­ la capacità di rappresentare il tempo, organizzandolo, sul piano estetico: Il tempo può essere organizzato: tradotto in aspetti e qualità infinite che sono quelle del suono ascoltato, della sua durata, del suo trascorrere - e in questo consiste il senso antologico dell'arte musicale (ivi, p. 3 1 9) .

Sarebbe riduttivo leggere la monumentale ricerca di Gisèle Brelet ( 1 949) come un commento e un approfondimento di queste intuizio­ ni. La riflessione estetica francese risente senza dubbio della sollecita­ zione della ricerca compositiva sul parametro tempo, così intensa tra

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Debussy e Stravinskij , e di cui Souvtchinsky si rivela un sismografo sensibilissimo e profetico, senza dubbio grazie anche alla frequenta­ zione dell'amico Stravinskij . N on si possono, tuttavia, capire i due tomi di Brelet sul tempo musicale se non li si colloca al centro di una trama culturale complessa che comprende Hegel, di cui è stata atten­ ta studiosa, il concetto di " durata" bergsoniano, l'estetica comparati­ va di Souriau, i problemi lasciati aperti dal formalismo hanslickiano e i risultati delle indagini mosse nell'ambito della psicologia sperimen­ tale. L'estetica comparativa di Souriau ( I 988) aveva rivoluzionato la di­ stinzione, affermatasi nell'estetica moderna, tra arti dello spazio e arti del tempo con la semplice osservazione che il tempo ha un ruolo nel­ la costituzione dell'esperienza estetica in tutte le arti, comprese quelle plastiche. La ricerca di Brelet è volta, invece, a rilegittimare questa distinzione per farne il fondamento di un'estetica musicale, in grado di integrare il vuoto di senso lasciato aperto dal formalismo hanslic­ kiano. Brelet ritorna perciò sulla differenza tra la dimensione tempo­ rale della percezione estetica in tutte le arti e la specifica esperienza temporale che si articola nel corso dell'ascolto musicale. Nell'opera plastica il tempo della percezione e della realizzazione dell'opera in un'esperienza unitaria è indeterminato e soggettivo; lo sguardo infatti può vagare libero, indugiare e ritornare al punto di partenza senza che l'opera imponga una velocità a questo processo. Il tempo della pittura è «segreto e discreto» (Brelet, I 949, r, p. 7 ) . Il tempo musica­ le invece è «costrittivo e dominatore», perché l'opera musicale pre­ scrive la propria velocità, il proprio tempo in senso musicale, tempo al quale l'ascoltatore non si può sottrarre (ivi, p. I o) . Il tempo musicale inoltre è irreversibile. Già Souriau aveva dovu­ to concedere che esiste una differenza ineliminabile tra l'arabesco fi­ gurativo e quello melodico: la melodia non ha ritorno su di sé, in altri termini è irreversibile. Egli, però, aveva creduto di poter consi­ derare questa differenza come un aspetto secondario legato allo status di arte performativa, proprio della musica. Brelet non accetta questo punto con una argomentazione precisa, che si avvale dei risultati del­ le ricerche nel campo della fisiologia e della psicologia e dimostra che il principio di simmetria alla base dell'analogia tra le forme spaziali e quelle temporali si basa su un fraintendimento. La lettura di un testo architettonico, dice l'autrice (ivi, p. I I ) , è reversibile: le forme archi­ tettoniche impressionano la retina secondo una successione nel tempo e questa successione è sempre controllabile per mezzo di una succes­ sione inversa. Nella musica invece si verifica un curioso sdoppiamen­ to: nella musica scritta è possibile controllare la forma retrograda di

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un tema che obbedisce ai principi di una simmetria rigorosa, ma al­ l' ascolto la retrogradazione produce un effetto distorto come in uno specchio, perché se è vero che ascoltiamo il motivo alla rovescia, lo sentiamo ancora una volta nel tempo, ossia secondo una modalità ir­ reversibile. Altrettanto irreversibile è l'apparente simmetria del ritmo, come ha dimostrato Ernst Mach, ma basterebbe ritornare all'analisi della differenza tra esperienza temporale e spaziale di Bergson per convincersi che in musica la duplicità di notazione ed esecuzione consente la coesistenza di due principi strutturali che agiscono in ma­ niera opposta: quello della simmetria che si può manifestare in quegli aspetti della composizione che comportano l'inevitabile riferimento alla partitura (una sorta di musica per gli occhi) e quello della durata che modifica profondamente la forma. Secondo Brelet, parlare dunque di un'analogia strutturale tra for­ me spaziali e forme temporali è scorretto, e perlopiù porta a un oblio del senso della musica che è connesso a sentimenti suscitati dalla so­ stanza temporale della forma. Lo dimostra il significato della ripresa del tema che non si esaurisce nel riproporsi di un segmento già noto, ma consiste nel ritorno di un'entità separata dalla sua prima appari­ zione da una porzione di tempo vissuto interiore. Brelet coglie inoltre la connessione tra l'ordine temporale e l'or­ dine delle altezze. L 'intimo intreccio tra il parametro dell'altezza e quello della durata è ed era un fenomeno noto dell'acustica: sotto la soglia di frequenza dei r 6 Hz non si sente un suono determinato, bensì semplici impulsi ritmici periodici. Il fatto che sotto una certa soglia la configurazione dell'altezza impallidisca e lasci percepire sol­ tanto una microarticolazione temporale suggerisce che anche nella dimensione macroscopica del tempo, propria della forma musicale, tempo e altezza interagiscano. L'impiego di altezze, e dunque di in­ tervalli e di armonie, permette di «rendere concreto il tempo», come dice Hegel, ovvero, con le parole di Eggebrecht, di " comporlo " . La teoria musicale ottocentesca ha studiato la connessione tra le pro­ porzioni ritmiche e le equivalenti proporzioni tra i valori delle fre­ quenze (Rotharmel, r 963 , pp. 6 r -9 ) , ma soprattutto è importante ri­ cordare come teorici quali Moritz Hauptmann, Hugo Riemann, Frie­ drich Neumann, hanno analizzato il tempo musicale in connessione con le funzioni armoniche (ivi, pp. 3 0-42 ) . Senza fare riferimento a questo filone della teoria musicale (che probabilmente neppure co­ nosceva) , Brelet trae delle conseguenze estetiche da un problema do­ tato di risvolti teorico-compositivi di grande portata soprattutto nel Novecento:

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Nella musica il pensiero si esercita in una duplice forma: essa scopre l'ordine propriamente sonoro della sonorità - l'ordine delle altezze - ma anche l'ordi­ ne temporale di questa sonorità, ordine più importante ancora di quello delle altezze, che da solo non sarebbe in grado di generare l'opera musicale. E la forma dinamica e temporale prevale sulla forma armonica e statica che non può fondarsi in se stessa, al di fuori di un suo riferimento a una durata che le permetterà, temporalizzandosi, di creare un processo sonoro in cui risiede l'essere stesso della musica (Brelet, 1949, I, p. 29).

Dall'analisi della natura della temporalità musicale Brelet si sposta al livello superiore del suo significato estetico. La studiosa intende dare un senso all'intuizione rimasta vuota nel pensiero hanslickiano, secon­ do la quale il piacere estetico che scaturisce dall'ascolto musicale de­ riverebbe dalla previsione e dall'attesa. Il processo di creazione musi­ cale, inoltre, è concepito come un'ascesi dalla durata psicologica al tempo musicale, ascesi di cui l'opera conserva una traccia: Tutta la musica vivente si fonda allo stesso tempo sull'esperienza temporale propria del suo creatore e su una concezione del tempo intimamente legata a questa esperienza [ . . . ] . La musica è una speculazione sul tempo inseparabile da un 'esperienza del tempo vissuto. Essa è perciò l'unione di due poli anti­ nomici dell'essere [ . . . ] . Il tempo musicale non è dunque la durata psicologi­ ca, tanto meno il tempo astratto della scienza o il tempo fisico degli orologi: incarnato nel concreto, esso manifesta l'essenza metafisica del tempo che la nostra vita temporale quotidiana al contempo rivela e dissimula. Perché è facile riconoscere che i differenti temi che il tempo musicale esprime sono gli stessi temi che espresse dalle sue origini la più profonda speculazione filo­ sofica (ivi, pp. 3 5 , 37 ) .

L'affermazione perentoria di Brelet che l'opera musicale è una filoso­ fia incarnata nel sensibile, immediatamente disponibile a chi la vuole vivere ed esperire (ivi, p. r 6) , può ricordare il vecchio adagio tanto caro ai filosofi: musica est enim philosophia. La sua filosofia infatti prosegue l'impegno dell'estetica tradizionale a cercare nell'arte la con­ cretizzazione di idee filosofiche. Al contempo, essa è interprete consa­ pevole e presaga della centralità del tempo nelle ricerche compositive contemporanee, del ruolo di modello di temporalità che esse si arro­ gano. La filosofia del tempo musicale di Brelet distingue in maniera de­ finitiva tra il tempo musicale e gli altri ordini di temporalità; altresì essa rende pensabile una peculiare convergenza tra tempo e interiori­ tà, coscienza del tempo e suo significato. In questa concezione, la musica rappresenta il pensiero del tempo nel doppio senso del geniti-

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vo soggettivo e oggettivo, ma anche il dominio in cui la creat1v1ta umana può infliggere una sconfitta al tempo e spaziare in una dimen­ sione che, proprio perché è fatta di tempo, può neutralizzarne la for­ za costrittiva e necessitante. Questo superamento del tempo avviene a due livelli: il primo è quello del raggiungimento della pienezza del­ l"'ora , nel godimento estetico, il secondo è quello della manifestazio­ ne della sostanza metafisica del tempo all'interno della dimensione umana e finita (ivi, p. 37 ) . Nella prospettiva strutturalista, il rifiuto di Cronos è una pratica che attraversa tutte le discipline (Nattiez, 2 004) . In ambito musicale ,, la nozione di "struttura acquisisce una forza in grado di declassare a metafora, pur mantenendolo vivo, il tema dell'essenza metafisica del tempo musicale. Secondo Lévi-Strauss, infatti, la struttura che si svi­ luppa nel tempo, una volta dispiegata, cancella la sua natura caduca e si trasforma in una totalità sincronica e in sé conchiusa; diventa eterna: L'ascolto dell'opera musicale, in forza dell'organizzazione interna di quest'ul­ tima, ha quindi immobilizzato il tempo che passa; come un panno sollevato dal vento, l'ha ripreso e ripiegato. Cosicché ascoltando la musica e mentre l'ascoltiamo, noi accediamo a una specie di immortalità (Lévi-Strauss, 1 99 0 , pp. 3 2 - 3 ) .

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Il tempo e il dominio: utopie del superamento Si è visto che nel corso del Novecento l'estetica musicale ha tessuto la speranza di poter sfuggire al tempo, spezzare il suo dominio alme­ no in senso psicologico e accedere nell'ascolto a una sorta di immor­ talità. Tan to nella filosofia della speranza di Ernst Bloch quanto nella dialettica negativa di Adorno il tema del tempo musicale è intima­ mente collegato a quello della protesta più radicale, quella contro la morte stessa (Adorno, 2 004 , p. 1 5 3 ) . Sul tema del tempo la distinzio­ ne tra una posizione apertamente metafisica (ad esempio quella di Brelet) e quella dialettica di Adorno è davvero sottilissima, ma decisi­ va. Anche per il filosofo francofortese la musica reca inscritto un rife­ rimento diretto a una dimensione altra rispetto all'esistente. In uno scritto del 1 963 , Stravinskij. Un 'immagine dialettica (Adorno, 2004, pp. 149-7 4), lo definisce «il momento trascendente della musica», momento che le è profondamente connaturato con il suo «impegno a

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procedere, a diventare qualcosa di nuovo, a svilupparsi». Esso consi­ ste nella proprietà [della musica] di divenire in ogni attimo e di essere altra da quan­ to è, di rinviare al di là di se stessa. [ . . . ] Come la musica non può garantire l'esistenza dell'altro, così il suono non può dispensarsi dal prometterla. La libertà è per essa una necessità immanente. Questa è la sua essenza dialettica (ivi, pp. 1 5 3 -4) .

La musica promette quindi la sconfitta del tempo, senza poterla man­ tenere, sconfitta alla quale quest'arte è legata in una complessa dia­ lettica di ripetizione e irripetibilità, statica e dinamica. Il carattere doppio del tempo musicale scaturisce dalla sua natura dialettica, ma si manifesta però storicamente nel diverso rapporto con il tempo sti­ pulato dai compositori nel medium della forma, da Beethoven a Schonberg e a Stravinskij . In un fulminante appunto del 1 95 1 -5 2 che egli stesso definisce "estremamente importante" , Adorno sottolinea che il tempo musicale non è un dato antologico, bensì un problema compositivo ed estetico; esso nasce nel momento in cui Beethoven ri­ esce a rovesciare il rapporto di dominio inscritto nel tempo attraverso la categoria del lavoro: " metafisica del galante" , divertimento: il passatempo. Questa era un'esigenza feudale. La borghesia l'ha ripresa e trasformata. Il tempo viene davvero am­ mazzato dal lavoro. In questo senso Beethoven costringe il tempo che scorre senza significato a prendere servizio. Per mezzo del lavoro esso viene ancora una volta dominato. Ciò che nella realtà è menzogna, nell'ideologia è verità. Estremamente importante, approfondire (Adorno, 2 00 1 , p. 1 3 ) .

D a Beethoven in poi il tempo è uno dei parametri essenziali, s e non quello decisivo, nella determinazione della forma. Il "lavoro" del tem­ po si articola come costante e irresolubile mediazione tra gli opposti di struttura e durata, statica e dinamica. Nella storia della musica, a partire da Beethoven, questa tensione appare integrata sostanzialmen­ te in due tipologie stilistico-temporali: "sinfonico-intensiva" ed "epi­ co-estensiva" . La prima mira all'estrema concentrazione del tempo ed è la tipologia sinfonica e classica per eccellenza. Nella Sonata a Kreut­ zer, esempio paradigmatico di questo stile, dice Adorno «ogni simul­ taneità è immensamente semplice, lapidaria - la densità è nel dispie­ gamento nel tempo. Procede così rapidamente che ciò che si sussegue sembra simultaneo» (ivi, p. r o9 ) . La tipologia estensiva, invece, tende a esprimere la quiete per mezzo del movimento (ivi, p. r 3 o ) ; la musi-

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ca " se la prende comoda " e intrattiene un rapporto "geometrico " an­ ziché " dinamico " con il tempo. Queste due tipologie dominano, si intrecciano alla storia delle forme e delle tecniche musicali dal Bee­ thoven classico fino a quello tardo e fungono poi (nel loro nucleo concettuale, perché la terminologia non è impiegata in Filosofia della musica moderna) da spina dorsale sottocutanea alla storica opposizio­ ne tra Schonberg e Stravinskij (Adorno, 1 975 , pp. 6 1 -3 , 1 74-5 , 1 83 -6 ) .

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Multiversum musicale Quanto Adorno ha definito in termini di " essenza dialettica della mu­ sica" è radicato nell'esperienza musicale e compositiva moderna da Beethoven in poi, ovvero nella stessa tradizione in cui il filosofo è stato educato ed è vissuto. Averne dichiarato l'origine storica e indi­ cato l'orientamento verso una progressiva disintegrazione del modello intensivo, basato sullo sviluppo, basterebbe di per sé a dileguare i so­ spetti di quanti vedono un'ipostatizzazione della temporalità europea direzionata e organica, segnata dal predominio del modello dello svi­ luppo (Piana, 1 992 , pp. 3 5 -8 , 5 1 ) . Non basta però a tacitare coloro che colgono una sfumatura prescrittiva e in fondo parametafisica nel­ la tendenza di Adorno a ipostatizzare una sorta di natura della musi­ ca identificabile nell' «impegno a procedere, a diventare qualcosa di nuovo, a svilupparsi» (Klein, in Klein, Kiem, Ette, 2 ooo, pp. 98- 1 07 ) . Tuttavia nella Teoria estetica ( 1 970) Adorno si dimostra in grado di salire sulle proprie spalle, grazie anche all'intensa vicinanza alla vita musicale degli anni cinquanta e sessanta, resa possibile dalla sua atti­ vità di docente presso i Ferienkurse di Darmstadt: Certamente, a lungo si è sostenuto che la musica deve organizzare sensata­ mente la successione infratemporale dei suoi awenimenti: far seguire un av­ venimento dall'altro in un modo che tanto poco permetta il capovolgimento quanto poco lo permette il tempo stesso. Ma la necessità di quella successio­ ne temporale in quanto adeguata al tempo non fu mai letterale, bensì fittizia, fu partecipazione al carattere di apparenza dell'arte. Oggi la musica si ribella contro l'ordinamento temporale tradizionale; in ogni caso la trattazione del tempo musicale lascia spazio a soluzioni ampiamente divergenti. Per quanto problematico resti se la musica possa sottrarsi alla sua invariante temporale, altrettanto certamente questa, una volta fatta oggetto di riflessione, diventa momento invece che dato a priori (Adorno, 1 975 , pp. 34-5 ) .

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Alle spalle della ribellione all'ordinamento temporale tradizionale si trova senza dubbio il magistero di Olivier Messiaen tra il conservato­ rio di Parigi e gli Internationalen Ferienkursen /ur Neue Musik di Darmstadt negli anni che vanno dal 1 948 al 1 95 3 (Borio, 2 ooo, pp. 320- 1 ) , concentrato nel primo volume del monumentale Traité de rythme, de couleur, et d'ornithologie ( 1 949-92 ) . L'orizzonte filosofico di Messiaen spazia da Tommaso d'Aquino (dal quale eredita l'opposi­ zione tra tempo ed eternità) a Bergson. Tuttavia è la scienza contem­ poranea, in particolare la biologia e la teoria della relatività, a sugge­ rire al compositore la relatività del tempo intesa tanto nel senso spe­ cifico dimostrato da Einstein quanto nel senso intuitivo della com­ presenza e sovrapposizione di tempi diversi (tempo dei corpi astrali, tempo geologico, tempo atomico, tempo umano fisiologico e psicolo­ gico) . Da Bergson, invece, egli acquisisce la distinzione tra " durata vissuta" , concreta, eterogenea, qualitativa e soggettiva, e " tempo strutturato" , astratto, omogeneo, misura bile e oggettivo. Dal concetto di " durata vissuta" Messiaen, sulla scorta del filosofo-divulgatore Ar­ mand Cuvillier, trae due leggi di percezione del tempo presente e passato . Nel presente, quanto più il tempo è saturo di avvenimenti, tanto più sembra breve; viceversa, sembra lungo quando è privo di eventi. Il passato, al contrario, sembra tanto più lungo quanto più è ricco di eventi, mentre un tempo vuoto sembra breve. Da queste leg­ gi generali, il compositore, sulla scorta questa volta dei due " filosofi­ musicologi " Brelet e Souris, deduce un corollario relativo al tempo musicale che definisce come legge del rapporto tra attacco e durata: date due durate uguali, un suono breve seguito da una pausa sembra più lungo di un suono tenuto. Il tempo musicale, dunque, possiede, secondo Messiaen, una propria elasticità, una dimensione "organica" indipendente dalla scansione metronomica. In altre parole, la " durata musicale" varia proporzionalmente all'attacco, alla dinamica, al regi­ stro e al timbro e grazie al controllo di questa "temporalità organica" alla musica e alla conoscenza delle leggi della percezione musicale, il compositore è in grado di dar forma a modelli temporali complessi (Pustijnac, 2007, p. 349 ) . Vi è infine u n altro argomento cruciale da affrontare che s i svi­ luppa sullo stretto crinale che distingue e unisce estetica e tecnica compositiva: la riflessione sul rapporto tra la continuità virtuale del tempo e la discontinuità del tempo " composto " . Il problema si impo­ ne in quanto, con l'abbandono della griglia metrica e accentuativa espressa nella battuta, i criteri di strutturazione del tempo vengono rimessi in discussione. Il tempo strutturato, nella formulazione di Messiaen, è infatti «misurabile, numerato - relativo ai fenomeni che 154

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servono a misurarlo: se questi fenomeni cambiano, la nostra struttura­ zione dei tempi cambia con essi» (Messiaen, 1 949-92 , p. 1 2 ) . Pierre Boulez ha affrontato questo problema mettendo al centro il concetto di "taglio" . Il continuum, infatti, è in sé un concetto limite tanto nel campo delle altezze (lo spazio) quanto in quello del tempo ed è pen­ sabile soltanto in relazione con la possibilità di tagliare lo spazio secondo certe leggi; la dialettica tra continuo e discontinuo passa dunque attraverso la nozione di taglio; arriverei persino a dire che il continuum è questa possibilità stessa perché contiene insieme il continuo e il discontinuo. Il taglio, se si vuole, cambia il conti­ nuum di segno. Più il taglio diverrà sottile, tendendo verso un epsilon della percezione, più si tenderà verso il continuum propriamente detto, essendo questi un limite, non soltanto fisico, ma prima di tutto fisiologico (Boulez, 1 9 7 9 , p. 83).

I tagli nel tempo danno ongtne a due categorie di tempo musicale che Boulez chiama prima " tempo pulsato " e "tempo amorfo " , per poi sostituirvi i due termini usati nel campo delle altezze " tempo striato " e " tempo liscio " (ivi, pp. 87 - 8 ) . Il tempo pulsato è analogo al tempo cronometrico in quanto tutte le durate sono orientate dalla pulsazione dell'unità minima, ovvero il minimo comune multiplo di tutti i valori utilizzati; soltanto in esso è possibile operare variazioni di velocità ovvero creare un rallentamento o un'accelerazione: l'indice di velocità consiste nella relazione tra tempo cronometrico e numero di pulsazioni. Il tempo amorfo invece si estende in una porzione del tempo cronometrico, ma si riferisce a esso soltanto in maniera globa­ le: esso si configura come un campo " occupato " da eventi sonori di durata proporzionale o meno, con maggiore o minore densità. L' op­ posizione di pulsato e amorfo diventa intuitiva se la si paragona allo spazio come fa Boulez: Disponiamo sopra una linea di riferimento, una superficie perfettamente li­ scia e una superficie striata, regolarmente o irregolarmente, poco importa; spostiamo questa superficie liscia ideale, non potremo renderei conto né del­ la velocità né del senso del suo spostamento, poiché l'occhio non trova alcun punto di riferimento al quale attaccarsi; con la superficie striata, al contrario, lo spostamento apparirà subito nella sua velocità e nel suo senso. Il tempo amorfo è paragonabile alla superficie liscia, il tempo pulsato alla superficie striata (ibid. ) .

L'analisi concettuale e tecnica dell'opposizione tra tempo liscio e tempo striato contribuisce a illuminare l'altra opposizione, quella tra tempo lineare e non-lineare spesso usata per classificare tipologie mu155

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sical-temporali che si sono manifestate nella musica del Novecento (Borio, 2ooo; Kramer, 2002 ) . Nella categoria di "tempo amorfo " , inoltre, si profila tanto quella «nuova morfologia del tempo musicale» descritta da Stockhausen nei suoi saggi dedicati al tempo ( r 963a, r 963b) e concretizzata in opere quali Zeitmasse ( r 956), Gesang der ]unglinge ( r 95 5 -5 6) e Gruppen ( r 95 5 -5 7 ) , quanto un ampliamento dell'esperienza temporale verso la multidimensionalità e la verticaliz­ zazione. A questo punto il discorso estetico cede il passo alla critica, all'elaborazione di poetiche e alle partiture (quanto alle poetiche cfr. Boulez, 1 979; Ferneyhough, 1 995 ; Grisey, r 982; Ligeti, r 96o; Stock­ hausen, r 963a, r 963b; Xenakis, r98 2 ; Zimmermann, 1 974; su questo argomento Pustijanac, 2 007 ). Il percorso della musica nel secondo Novecento si è allontanato, così, dalle certezze che metafisici, struttu­ ralisti e storici dialettici volevano prescrivergli e si è configurato come laboratorio per l'esplorazione di dimensioni temporali controintuitive dischiuse tanto dalla ricerca scientifica e teorica quanto da percorsi artistici ed esistenziali che mettono in discussione i criteri condivisi della società borghese e i caposaldi dell'estetica tradizionale.

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Introduction to the Philosophy o/ Music, ed. by Philip A. Alperson, Ha­ ven Publications, New York 1 987, pp. 1 0 1 -29. XENAKIS IANNIS ( 1 963 ) , Musiques /ormelles, in "Revue musicale" , 2 5 3 - 2 5 4 , numero monografico. ID. ( 1 982) , Musica, architettura, trad. it. di Letizia Lionello et al. , Spirali, Mi­ lano (ed. or. Musique, architecture, Castermann, Paris 1 976). ID. ( 1 988), Domande sul tempo e sullo spazio, in Xenakis, a cura di Enzo Restagno, EDT, Torino, pp. 273 -80. ZEMACH EDDY ( 1 986) , No Identification without Evaluation, in "British Jour­ nal of Aesthetics " , 26, pp. 2 3 9 -5 r . ID. ( 1 992) , Types: Essays in Metaphysics, Brill, Leiden. ZIMMERMANN BERND ALOIS ( 1 974) , Intervall und Zeit. Au/siitze und Schrz/ten zum Werk, hrsg. von Christof Bitter, Schott, Mainz. ZIMMERMANN CHRISTINE ( 1 995 ) , Unmittelbarkeit: Theorien uber den Ursprung der Musik und der Sprache in der Asthetik des I8. ]ahrhunderts, Lang, Frankfurt a.M. -New York. ZUCKERKANDL VICTOR ( 1 95 6) , Sound and Symbol. Music and the External World, transl. from the German by Willard R. Trask and Norbert Gu­ terman, 1 : Pantheon Books, New York; n: Man and the Musician, Prince­ ton University Press, Princeton.

1 77

Indice dei nom1

Abbate Carolyn, I I 8 -9 Adamo da Fulda, I 3 3 -4 Adler Guido, 9 Adorno Theodor W. , I 8-9, 2 5 , 40- 3 , 6 I , 66-8, 8o, 8 4 , I I 7, I 2 I -6, I 39, I 5 I -3 Agawu Kofi, 77-8 Agostino, I 39, I43-4 Akiva-Kabiri Lilach, 44 Albéniz Isaac, 5 5 Allanbrook Wye J amison, 7 7 Arom Simha, 30 Auden Wystan H., 5 2

Babbit Milton , Io8, I I 5 Bach Johann Sebastian, 7 I , 9 I , I47 Baroni Mario, I 6 , 24, 3 2 Barthelmes Barbara, 9 8 Barthes Roland, I6, 25 , 2 7 - 8 , 4 0 , 65 , 78 Bart6k Béla, I I 2 Baudelaire Charles, I 2 2 Baxmann Inge, 98 Bayerl Sabine, 40 Beardsley Monroe C. , 47, I03 , I 09 Beckett Samuel, 2 3 , 46 Beethoven Ludwig van, I 8 , 20, 4 I -2 , 5 6 , 92 , 95 , 98, I02 , I I 3 , I 5 2-3 Benjamin Walter, 67 , I 04-5 Benveniste Émile, 25, I 30-2 Bergson Henri, I 3 9-43 , I49, I54 Berio Luciano, 20, I I9

Besseler Heinrich, I 3 7 Bielitz Mathias, I 3 Bloch Ernst, 40, 54-5 , 57-8, 6 I , Bogue Ronald, 64 Boretz Benjamin , 39, I04 Borio Gianmario, 79, 97-8, I26, I56 Boulez Pierre, 2 0 , 56, 63 -4, I 5 5 -6 Brahms J ohannes, 89 Brelet Gisèle, I 3 9 , I42 , I46-5 I , Brett Philipp, I I 2 -3 Britten Benjamin , 5 2 , I I 2 Bruckner Anton, I 2 4 Buchanan Ian, 64 Burke Sean , I I I Burnham Scott, I 2

Cage John, 63, 9 8 Calella Michele, 8 9 Campa Cecilia, I 5 Caplin William E. , 77 Carone Angela, 88 Carroll Noel, I 05 Cassirer Ernst , 2 6 Cavell Stanley, 85 , I I4-5 Chatterjee Madhumita, I40 Chopin Frédérich, 5 5 , 88 Clifton Thomas, I 30, I4o, I45 Coker Wilson , 73 -6, 78, 83 Cornetti Jean-Pierre, 2 5 Cone Edward T. , 47 , I 09, I I9

1 79

I5 I

I 54, I2 I,

I 54

' L ESTETICA MUSICALE DEL :-.JOVECE:-.JTO

Frege Gottlob, 49 Furtwangler Wilhelm, 1 15

Cook Nicholas, 79-84, 1 2 7 , 1 5 7 Cooper Grosvenor V., 1 3 0 Cross Jonathan, r r 3 Cumming Naomi, 72 Currie Gregory, 98, roo, ro2 -5 Cuvillier Armand, 154

Dahlhaus Cari, 9, 1 7 -8, 79, 89-90, 971 104, 1 09, I 19, I 3 5 -6 Dalmonte Rossana, r 6 , 24, 3 2 D an user Hermann , 7 8, r r 7 Davies David, 1 03 Davies Stephen, 70, 99, 1 05 Debussy Claude, 55 , 63 , 7 1 , 148 Deleuze Gilles, 40, 6o, 63 -5 de Man Paul, 5 7 , 5 9-60, 62 , 1 34 Derrida J acques, 5 8-6o Descartes Réne, 1 5 , 1 3 7 Dickie George, 1 05 Dorato Mauro, r 3 0 Du Bos Charles, r 6 Duchamp Marcel, 9 8 Dufrenne Mikel, 2 3 -5

Eco Umberto, 2 3 , 3 3 Eggebrecht Hans Heinrich r 8 , 69, 1 3 6, 149 Einstein Albert, 154 Epstein David, 136 Ette Wolfram, r 53

Faber Lothar, r o8 Farago Claire ]., 1 3 3 Fauconnier Gilles, 82-3 Fauré Gabriel, 5 5 -6 Ferguson Donald, 70 Ferneyhough Brian, 1 5 6 Fisher J oh n Andrew, r o5 Floros Constantin, 5 2 Forkel Johann Nikolaus, r 8, 9 r Foucault Michel, ror , r ro

Gadamer Hans-Georg, 93-6, r o r , !2! Garda Michela, 54, 79, 97 Gazzelloni Severino, ro8 Gennaro Sara, 98, 1 2 6 Gentili Carlo, 1 2 , 93 Georgiades Thrasybulos, 14, r 17, 1 35 Godlovitch Stan, 105 Goehr Lydia, 1 2 , 5 3 -4, 88, 9 1 , 98-9, ro6 Goethe Johann Wolfgang von, 46 Goisi Giuseppe, 142 Goodman Nelson, 17, 2 5 , 3 5 , 37-40, 70- 1 , 77, 83 , 95 , 98, 1 00-4, I 1 7 Gould Glenn , 1 2 r Green David B., 140 Grisey Gèrard, 1 5 6 Guattari Felix, 6o, 63 -5 Guck Marion A. , 70 Gurlitt Willibald , 1 3 9 Gurvitch Georges, r 3 0

Handel Georg Friedrich, 88, r r 2 Hanslick Eduard, ro, r 8 , 48, 69, 82 Harran Don, r 3 Harris Zelig, 29 Harrison Nigel, ror-2 Harweg Roland, r 9 Hatten Robert, 77 Hauptmann Moritz, 149 Hegel Georg Wilhelm Friedrich, r 6-8, 52, 90-3 , 1 2 5 , 129, 1 35-6, 1 3 8, 142 , 148-9 Heidegger Martin, 92-3 Herder Johann Gottfried, r8, 1 34-5 Higgins Dick, r 2 6 Hindemith Paul, 22 Hjelmslev Louis, 30 Hoffmann E. T. A., 40, 53

r 8o

I :-.J DICE DEI NOMI

Holderlin Friedrich, 92 Humboldt Wilhelm von, I 8 Husserl Edmund, 92, 95 , I 39, I43 -4

Ingarden Roman, 82 , 92 , 95 -7, Ioo, I 07, I 09, I I I , I I 8 Iser Wolfgang, 82 Ives Charles, 7I, Io8

Jackendoff Ray, I6, 3 I -2 , I 30 Jacoboni Carlo, 32 J akobson Roman, 24, 77 Jankélévitch Vladimir, 5 5 -8, 83 Jauss Hans Robert, 82, I I6, I 2 I Johnson Mark, I 3 , 82 Joyce James, 20, 23

Kafka Franz, 2 3 Kavafis Constantinos, I I 6 Khacaturjan Aram Il'ic, 5 5 Kiem Eckehard, I 5 3 Kivy Peter, I6, 29, 7 I , 83-4, 87-8, I I I -2 Klein Richard, I 5 3 Koch Heinrich Christoph , I4, I 8 Kogler Susanne, 2 0 Kolisch Rudolf, Io8, I I 6-7 Kramer Jonathan D., I 3 o, I45 , I 5 6 Kramer Lawrence, 5 2 , 8o- I Kfenek Ernst, Io8 Kristeva Julia, 65 , I 30 Krummacher Friedhelm, 78

Lakoff George, I3, 82 Landes David S., I 3o, I 3 6, I 3 9 Langer Susanne K., 26, 45 , 69, 7 3 , I 3 9, I45 La Via Stefano, I 9 Leibowitz René, 5 6 Leonardo d a Vinci, I 04, I 3 3 -4 Lerdahl Fred, I 7 , 3 I -2 , I 30

Lessing Gotthold Ephraim, I29, I 34 Levinson Jerrold, Ioo, I03 Lévi-Strauss Claude, I4-5 , 2 2 -3 , 29, 3I, 5I, I5I Lidov David, I 6 , 2 I , 2 3 , 2 9 , 3 3 , 34, 40 Ligeti Gyorgy, 2o Liszt Franz, 5 5 , 88, 9 I Loesch Heinz von , 8 9 Lyotard Jean-François, 40, 5 8 , 6o- I , 63-4, 68

Mach Ernst, I49 Maderna Bruno, Io8, I I 3 Maniates Maria Rika, I40 Margolis Joseph, 98, Ioo-2 Martinet André, 28 Marx Adolf Bernhard, 9 , 49 Mattheson J oh an n, I 2 McClary Susan , 8o, I I 2 - 3 Mead George Herbert, 7 3 -4 Meegeren Han van , 98 Mendelssohn Bartholdy Felix, I I 3 Mersenne Marin, I5 Messiaen Olivier, 56, I 54-5 Meyer Leonard, 70-3, I 3 0 Molino Jean, 3 0 , I 07 Mompou Frederic, 55 Monelle Raymond, I6, 2 8-9, 5 I , 77-8, I 30 Monet Claude, I 24 Mooney Kevin, I 8 Morelli Giovanni, I I 3 Morizot J acques, 2 5 Morris Charles, 26, 7 3 -4 Mounin Georges, 27-9 Mozart Wolfgang Amadeus, 82, I47, I 57

Nattiez Jean-Jacques, I6, 26-3 I , 3 3 , 40, I 07 , I I O, I 5 I Neumann Friedrich, I49 Newcomb Anthony, 70

r8r

' L ESTETICA MUSICALE DEL :-.JOVECE:-.JTO

Newmann Barnett, 6 1 Nietzsche Friedrich, r 6 , 40, 5 3 -4 Nono Luigi, 20, 63 , ro8, 1 1 3 Noske Frits, 77 Novalis (Georg Friedrich von Har­ denberg) , 40, 5 3

Ogden Charles Ray, 47 Osterwold Matthias, 98

Peirce Charles Sanders, 26, 7 3 , I O I Peretz Isabelle, 44 Piana Giovanni, 1 40, 1 5 3 Pouivet Roger, 2 5 , I oo Powers Harold, 1 3 , 1 9 , 2 1 , 34 Prieto Eric, 64 Prokof' ev Sergej Sergeevic, 5 5 Pudelek Jan-Peter, 9 0 Pustijanac Ingrid, 5 6

Ratner Leonard, 7 7 , I 5 7 Rauschenberg Robert, 99 Ravel Maurice, 55 Richards Ivor Armstrong, 47 Ricoeur Paul, 5 I , 78 Riemann Hugo, 14, 18, 49, 1 49 Rimbaud Arthur, 1 22 Rink John, 88 Rosen Charles, 5 0- I Rotharmel Marion, I49 Rousseau Jean-Jacques, 14, r6, 5 8 -6o Ruggiu Luigi, 1 29, 1 3 7 Ruwet Nicholas, r6, 2 0 , 27, 29-3 I

Saenger Paul, I 1 6 S ati e Erik, 5 5 Saussure Ferdinand de, 26 -7, 3 4 Schenker Heinrich, 4 9 , 78-9 Schlegel Friedrich, 5 3 Schnebel Dieter, 2 0

Schon Daniele, 44 Schonberg Arnold, I 8, 2 2 , 49-50, 56, 67-8, 108, I I 5 , I 5 2 - 3 Schopenhauer Arthur, 4 0 , 5 3 -4, 66, 69, 76 Schubert Franz, I 1 2 -3 Schumann Robert, I I 3 Sclafani Richard J., 1 02 Scruton Roger, r6, 70- 1 Seidel Wilhelm, I o6-7 Sélincourt Basil de, 1 45 Séverac Déodat de, 55 Sisman Elaine R. , 77 § olomon Maynard, I I 3 Sostakovic Dmitrij Dmitrevic, 5 5 Souriau Étienne, 1 29, 148 Sauris André, 154 Souvtchinsky Pierre, I 39, 146-8 Spitzer Michael, 70 Springer Georg, 2 I Stierle Karlheinz, I 1 6-8, 1 2 0 Stockhausen Karlheinz, 2 0 , 1 2 2 , 1 5 6 Strauss Richard, I 2 4 Stravinskij Igor, ro8, I I 5 , I46-8, 1 5 1 -3 Swiboda Marcel, 64

Tarasti Eero, I 6, 3 I , 77 Taruskin Richard, ro8, I I O- I , I I 6 Thomas Dowing A. , I4 Thomas Gary, I 1 2 -3 Tieck Ludwig, 40 Tommaso d'Aquino, 1 5 4 Tormey Alan, 7 1 Toscanini Arturo, I I 5 Treitler Leo, 70 Turner Mark, 82-3

Urmson James Opi, I I 2

V an Gogh Vincent, 92 Varèse Edgar, 63 , ro8 1 82

I�DICE DEI NOMI

Verdi Giuseppe, I46 Vermeer Jan , 98 Vidolin Alvise, I o8

Wackenroder Wilhelm Heinrich , 40 Wagner Richard, 5 3 -4, 69, I47 Walsh Dorothy, I o8 Webern Anton , 2 2 - 3 , 63 , I 2 I Webster William E. , I O I -2 , I 04 Welleck Albert, 9, 46 Wellmer Albrecht, 20, 2 3 -4 Whitehead Alfred N orth , 84 Winsatt William K., 47, I 03 , I 09

Wiora Walter, Io6 Wittgenstein Ludwig, IOI Wollheim Richard, I o I Wolterstorff Nicholas, I O I Wood Elisabeth, I I 2 , I59

Xenakis Iannis, I 56

Zemach Eddy, I 04 Zimmermann Bern Alois, I 56 Zimmermann Christine, I4

I�DICE DEI NOMI

Verdi Giuseppe, I46 Vermeer Jan , 98 Vidolin Alvise, I o8

Wackenroder Wilhelm Heinrich , 40 Wagner Richard, 5 3 -4, 69, I47 Walsh Dorothy, I o8 Webern Anton , 2 2 - 3 , 63 , I 2 I Webster William E. , I O I -2 , I 04 Welleck Albert, 9, 46 Wellmer Albrecht, 20, 2 3 -4 Whitehead Alfred N orth , 84 Winsatt William K., 47, I 03 , I 09

Wiora Walter, Io6 Wittgenstein Ludwig, IOI Wollheim Richard, I o I Wolterstorff Nicholas, I O I Wood Elisabeth, I I 2 , I59

Xenakis Iannis, I 56

Zemach Eddy, I 04 Zimmermann Bern Alois, I 56 Zimmermann Christine, I4

I�DICE DEI NOMI

Verdi Giuseppe, I46 Vermeer Jan , 98 Vidolin Alvise, I o8

Wackenroder Wilhelm Heinrich , 40 Wagner Richard, 5 3 -4, 69, I47 Walsh Dorothy, I o8 Webern Anton , 2 2 - 3 , 63 , I 2 I Webster William E. , I O I -2 , I 04 Welleck Albert, 9, 46 Wellmer Albrecht, 20, 2 3 -4 Whitehead Alfred N orth , 84 Winsatt William K., 47, I 03 , I 09

Wiora Walter, Io6 Wittgenstein Ludwig, IOI Wollheim Richard, I o I Wolterstorff Nicholas, I O I Wood Elisabeth, I I 2 , I59

Xenakis Iannis, I 56

Zemach Eddy, I 04 Zimmermann Bern Alois, I 56 Zimmermann Christine, I4

I�DICE DEI NOMI

Verdi Giuseppe, I46 Vermeer Jan , 98 Vidolin Alvise, I o8

Wackenroder Wilhelm Heinrich , 40 Wagner Richard, 5 3 -4, 69, I47 Walsh Dorothy, I o8 Webern Anton , 2 2 - 3 , 63 , I 2 I Webster William E. , I O I -2 , I 04 Welleck Albert, 9, 46 Wellmer Albrecht, 20, 2 3 -4 Whitehead Alfred N orth , 84 Winsatt William K., 47, I 03 , I 09

Wiora Walter, Io6 Wittgenstein Ludwig, IOI Wollheim Richard, I o I Wolterstorff Nicholas, I O I Wood Elisabeth, I I 2 , I59

Xenakis Iannis, I 56

Zemach Eddy, I 04 Zimmermann Bern Alois, I 56 Zimmermann Christine, I4

I�DICE DEI NOMI

Verdi Giuseppe, I46 Vermeer Jan , 98 Vidolin Alvise, I o8

Wackenroder Wilhelm Heinrich , 40 Wagner Richard, 5 3 -4, 69, I47 Walsh Dorothy, I o8 Webern Anton , 2 2 - 3 , 63 , I 2 I Webster William E. , I O I -2 , I 04 Welleck Albert, 9, 46 Wellmer Albrecht, 20, 2 3 -4 Whitehead Alfred N orth , 84 Winsatt William K., 47, I 03 , I 09

Wiora Walter, Io6 Wittgenstein Ludwig, IOI Wollheim Richard, I o I Wolterstorff Nicholas, I O I Wood Elisabeth, I I 2 , I59

Xenakis Iannis, I 56

Zemach Eddy, I 04 Zimmermann Bern Alois, I 56 Zimmermann Christine, I4

I�DICE DEI NOMI

Verdi Giuseppe, I46 Vermeer Jan , 98 Vidolin Alvise, I o8

Wackenroder Wilhelm Heinrich , 40 Wagner Richard, 5 3 -4, 69, I47 Walsh Dorothy, I o8 Webern Anton , 2 2 - 3 , 63 , I 2 I Webster William E. , I O I -2 , I 04 Welleck Albert, 9, 46 Wellmer Albrecht, 20, 2 3 -4 Whitehead Alfred N orth , 84 Winsatt William K., 47, I 03 , I 09

Wiora Walter, Io6 Wittgenstein Ludwig, IOI Wollheim Richard, I o I Wolterstorff Nicholas, I O I Wood Elisabeth, I I 2 , I59

Xenakis Iannis, I 56

Zemach Eddy, I 04 Zimmermann Bern Alois, I 56 Zimmermann Christine, I4

I�DICE DEI NOMI

Verdi Giuseppe, I46 Vermeer Jan , 98 Vidolin Alvise, I o8

Wackenroder Wilhelm Heinrich , 40 Wagner Richard, 5 3 -4, 69, I47 Walsh Dorothy, I o8 Webern Anton , 2 2 - 3 , 63 , I 2 I Webster William E. , I O I -2 , I 04 Welleck Albert, 9, 46 Wellmer Albrecht, 20, 2 3 -4 Whitehead Alfred N orth , 84 Winsatt William K., 47, I 03 , I 09

Wiora Walter, Io6 Wittgenstein Ludwig, IOI Wollheim Richard, I o I Wolterstorff Nicholas, I O I Wood Elisabeth, I I 2 , I59

Xenakis Iannis, I 56

Zemach Eddy, I 04 Zimmermann Bern Alois, I 56 Zimmermann Christine, I4