Filosofia e cristianesimo nell'Italia del Novecento 8888812369, 9788888812366

Nella prima parte del volume (*Lineamenti generali*) viene analizzata sotto un profilo storico-critico l’interpretazione

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Filosofia e cristianesimo nell'Italia del Novecento
 8888812369, 9788888812366

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Tommaso Valentini Presentazione di Armando Rigobello

VOCI DELLA POLITICA

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A nonna Caterina In memoriam

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Ringraziamenti

Desidero ringraziare tre docenti che con i loro preziosi suggerimenti hanno notevolmente contribuito alla realizzazione del presente volume. In primis il Prof. Armando Rigobello che ha voluto farmi l’onore di scrivere una Presentazione. Ebbi la fortuna di conoscere il Prof. Rigobello nell’ottobre del 1998, quando frequentavo i corsi di filosofia all’Università Lumsa di Roma: da allora ho continuato a seguire i suoi insegnamenti frutto di profonde riflessioni e ricchi di humanitas naturaliter christiana. Il dialogo con Rigobello mi ha soprattutto reso attento alle tematiche personalistiche ed ermeneutiche che in questo volume trovano particolare spazio nell’analisi del pensiero di Luigi Stefanini, uno dei suoi maestri nell’Ateneo di Padova. Un sentito ringraziamento va al Prof. Marco Ivaldo, che ha seguito le mie ricerche sul pensiero classico tedesco durante gli anni del mio dottorato presso l’Università del Salento ed in Germania presso la LudwigMaximilians Univeristät (Monaco di Baviera). Frutto di tali ricerche è un mio volume dal titolo I fondamenti della libertà in J.G. Fichte (Editori Riuniti University Press, Roma 2012). Il confronto con il Prof. Ivaldo mi ha soprattutto reso sensibile all’ermeneutica di Luigi Pareyson e alla prospettiva di Alberto Caracciolo, uno dei suoi maestri all’Università di Genova. Desidero, inoltre, esprimere vivi sentimenti di riconoscenza e di stima verso il Prof. Paolo Armellini che mi ha fatto scoprire la ricchezza del pensiero di Augusto Del Noce, facendomi così approfondire il rosminianesimo della filosofia italiana del Novecento. Il Prof. Armellini possiede una ricchissima biblioteca personale composta di volumi talvolta anche molto rari ed ormai pressoché irreperibili: lo ringrazio molto anche per avermi messo a disposizione alcuni importanti testi di filosofi italiani del primo Novecento. 7

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«Fides, si non cogitatur, nulla est»1 «Il Cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo»2. «Il Cristianesimo, per sé, preso alla sua sorgente, è una fede religiosa, non è una filosofia (per i filosofi era una stoltezza, un assurdo […]). Ma è una fede religiosa che impegna a una posizone anche filosofica in quanto, per lo meno, non ne ammette una contraria. In questo il Cristianesimo è diverso da tutte le altre religioni: [esso] distingue fede e ragione, ma, pur essendo una fede, esige la presenza anche della ragione, della filosofia»3. «Il problema dell’esperienza religiosa non è il problema metafisico di Dio, come invece suppone chi ancora si chiede se Dio debba o non debba concepirsi come sostanza o causa o come altro che sia. Questo è, se mai, il «Dio dei filosofi», al quale potrà essere - o meglio, essere stata - interessata la filosofia, ma che non riguarda certo la religione. Il Dio della religione è altra cosa: è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio vivente e vivificante, è un Dio al quale si dà del tu e che si prega, un Dio a cui si dice con trepidazione miserere mei e con disperazione ne sileas, a cui ci si rivolge domandando angosciati quare me repulisti? E supplicando con timore e tremore ne averte facies tuam a me, a cui nell’ora suprema ci si affida esclamando in manus tuas commendo spiritum meum e implorando in te, Domine, speravi: non confundar in aeternum»4. 1

AGOSTINO D’IPPONA, De Praedestinatione Sanctorum, I, 2, 5. B. CROCE, Perché non possiamo non dirci «cristiani», «La Critica», 1942; articolo ripubblicato in IDEM, Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari 1945, e successivamente dall’Editrice La Locusta, Vicenza 1966, 19943, pp. 5-27. 3 A. CARLINI, Per la fondazione di una metafisica critica, «Giornale di Metafisica», 4-5, 1947; testo riedito in IDEM, Che cos’è la metafisica? Polemiche e ricostruzione, Sansoni, Firenze 1962, pp. 7-17, p. 10. 4 L. PAREYSON, L’esperienza religiosa e la filosofia, in IDEM, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, pp. 85-149, p. 85. 2

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Indice

Ringraziamenti……………………………………………………… 7 Indice……………………………………………………………….11 Presentazione di Armando Rigobello………………………………17 Introduzione……………………………………………………….. 21 Prologo teoretico: metodologia della ricerca storiografica ed istanze speculative…………………………………………………………. 25 Lineamenti generali Pístis e lógos: la ragione interrogata dalla fede. Filosofia e Weltanschauung ebraico-cristiana nell’Italia del Novecento Capitolo I Il modello di una “ratio fide illustrata”: l’Aeterni Patris, il neotomismo e la neoscolastica……………………………………43 1. I capisaldi speculativi della posizione aristotelico-tomista 2. Vincenzo Buzzetti e la rinascita del tomismo nella cultura italiana dell’Ottocento 3. «Vetera novis augere et perficere»: l’Aeterni Patris e la diffusione del tomismo 4. Agostino Gemelli e la neoscolastica dell’Università Cattolica di Milano: una rinnovata gigantomachía perì tês ousías Capitolo II Interpretazioni del cristianesimo nell’idealismo italiano………73 1. Indirizzi filosofici del secondo Ottocento e sviluppi dell’idealismo 2. Benedetto Croce: l’interpretazione storicistica del cristianesimo

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3. «Il mio cattolicismo»: il problema teologico nell’attualismo di Giovanni Gentile 4. La dissoluzione dell’attualismo: dallo «spiritualismo cristiano» alla «sinistra gentiliana» (Ugo Spirito e Guido Calogero) 5. Varisco e Carabellese: soluzioni idealistiche del rapporto tra immanenza e trascendenza 6. Piero Martinetti: dall’«idealismo trascendente» alla riscoperta del «Gesù storico» Capitolo III Fermenti intellettuali d’inizio Novecento…….……………...…125 1. Forme di vitalismo e di pessimismo (Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi) 2. Giovanni Papini: un intellettuale inquieto alla ricerca della verità 3. L’esigenza di una riforma della chiesa: Ernesto Buonaiuti e il modernismo Capitolo IV Filosofie della politica ed engagement chrétien……………...…151 1. Marxismo e cristianesimo 1.1. Marxismo e cattolicesimo: la posizione critica di Antonio Gramsci 1.2. Felice Balbo e l’«inveramento cristiano del marxismo» 1.3. Marxismo e cristianesimo sono compatibili? Le diverse tesi di Augusto Del Noce e Italo Mancini 2. Democrazia e cristianesimo 2.1. Pietro Pavan: «La democrazia e le sue ragioni» 2.2. Liberalismo, democrazia e cristianesimo in Luigi Sturzo 2.3. Luigi Stefanini: la democrazia come “personalismo sociale”

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Capitolo V Il Movimento di Gallarate e le due anime della metafisica italiana: il paradigma neoclassico e lo spiritualismo……..……201 1. È possibile una “filosofia cristiana”? Le ripercussioni dei dibattiti francesi sulla cultura italiana 2. Bontadini: la ripresa metafisica classica e il problema della “deellenizzazione del cristianesimo” 3. Figure e problemi dello “spiritualismo italiano” 4. «Veritas mater temporis»: idealismo e platonismo in Augusto Guzzo 5. Armando Carlini: «la vita dello spirito» e l’«esistenzializzazione del trascendentale» 6. Michele Federico Sciacca: «interiorità oggettiva», «filosofia dell’integralità» e rosminianesimo Capitolo VI Ermeneutica della condizione umana, secolarizzazione e nichilismo………………………………………………………...271 1. I caratteri dell’esistenzialismo italiano e le due correnti (laica e cristiana) 2. Enrico Castelli: dall’«esistenzialismo teologico» alla «critica della demitizzazione» 3. Alberto Caracciolo: dal «nichilismo metodico» all’affermazione della trascendenza 4. Il “male in Dio”: l’ermeneutica dell’esperienza religiosa in Luigi Pareyson 5. L’«età ermeneutica della ragione»: interpretazioni italiane di H.-G. Gadamer e di P. Ricoeur 6. Gianni Vattimo: «il pensiero debole come l’unica filosofia cristiana pensabile»

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Percosi di approfondimento Studio I Filippo Masci e il neokantismo italiano……………………...…341 1. Dalla prima ricezione di Kant in Italia al neokantismo 1.1. I primi studi kantiani in Italia: fraintendimenti e critiche 1.2. Il “ritorno a Kant“ del secondo Ottocento: confronto con le scienze sperimentali e “dinamicizzazione degli a prori” 1.3. Caratteri peculiari del “neokantismo italiano” 2. Filippo Masci, il “Cassirer italiano” 2.1. Cenni biografici 2.2. “Con Kant, oltre Kant”: un nuovo sistema della filosofia 2.3. Le critiche al positivismo e all’idealismo: una rinnovata configurazione dei rapporti tra natura e spirito 2.4. Virtuosità del pragmatismo: congedo dagli assoluti e complessità del reale 2.5. Una nuova tavola delle categorie 2.6. Allargare gli orizzonti della razionalità: una “filosofia dei limiti” aperta all’ulteriorità Studio II Il personalismo di Luigi Stefanini: un’ermeneutica filosofica ante litteram. (Un possibile confronto con Paul Ricoeur)…...………385 1. Il personalismo di Stefanini come ermeneutica filosofica ante litteram 2. Stefanini e Paul Ricoeur: la comune ispirazione personalistica e cristiana 3. Analisi dell’interiorità ed approcci concreti al mistero dell’essere 4. Ermeneutica dell’identità personale e valore ontologico dell’attestazione in Soi-même comme un autre 5. Il linguaggio: atto dello spirito ed organo dell’essere interiore 6. Creatività linguistica ed immaginazione produttiva 7. La metafora viva come “innovazione semantica” e “donazione di senso”. 14

8. Conclusione: due fecondi itinerari di ricerca Studio III Modernità, secolarizzazione e politica in Augusto Del Noce….437 1. L’itinerario intellettuale e l’impegno politico 2. Il problema della modernità: la genesi dell’ateismo (da Cartesio a Nietzsche) 3. L’«altro volto della modernità»: la linea dell’ontologismo (da Cartesio a Rosmini) 4. Il confronto con l’esistenzialismo religioso e le filosofie della libertà 5. Le origini filosofiche dei totalitarismi del Novecento ed il fenomeno della secolarizzazione 6. Risorgimento, antiperfettismo politico e democrazia. Valutazioni critiche Appendice I Esistenza e libertà: maestri e compagni di strada di Augusto Del Noce…………………………………………………………….... 491 1. I maestri di Del Noce: uno sguardo sulla filosofia torinese del primo Novecento 2. Il confronto con Jules Lequier e l’esistenzialismo francese 3. Concupiscentia irresistibilis: Del Noce lettore ed interprete di Lev Šestov Appendice II Augusto Del Noce: il Risorgimento come “rivoluzione liberale” e “restaurazione creatrice” ………………………………………517 1. Il Risorgimento, una categoria filosofico-politica da riscoprire e valorizzare 15

2. Le critiche alle concezioni del Risorgimento di Croce e di Gentile 3. Il Risorgimento come «restaurazione di valori»: una possibile riappropriazione del pensiero di Rosmini Studio IV Dal “tomismo essenziale” alla critica della modernità. La prospettiva filosofica di Cornelio Fabro………………..………537 1. Un itinerario di studi ad mentem Sancti Thomae 2. Cenni biografici 3. La novità della metafisica tomistica: l’actus essendi e l’idea di partecipazione ontologica 4. L’immanentismo della filosofia moderna 5. “Ripartire da Kierkegaard“: i fondamenti ontologici della libertà 6. Conclusioni e rilievi critici Studio V Per un “razionalismo della contingenza”. Epistemologia e fede religiosa in Dario Antiseri………………………………….……571 1. Anti-fondazionismo e recupero della contingenza 2. Un itinerario filosofico “contro l’abuso della ragione” 3. Una vexata quaestio: la teoria unificata del metodo 4. “Delimitare il dicibile per proteggere l’ineffabile”: una possibile apertura allo spazio della fede 5. L’opzione di fondo tra l’assurdo e la speranza 6. Fideismo ed irrazionalismo? Un possibile accostamento con la teologia dialettica di Karl Barth 7. In difesa del “pensiero debole” 8. Conclusioni e rilievi critici Riferimenti bibliografici………………………………….…..…613 Avvertenza………………………………….………………..….. 625 Indice dei nomi……………………………………………..…… 627 16

Presentazione

Non sono frequenti gli studi sulla filosofia religiosa nell’Italia del Novecento che non si risolvano in polemiche o in valutazioni troppo legate alla contingenza, opportuno quindi il volume di Tommaso Valentini che situa il discorso in un orizzonte storico e ne certifica aspetti significativi nella figura di alcuni pensatori. Vorremmo

premettere

alcune

considerazioni

sul

piano

storiografico. Le premesse più lontane vanno forse colte in una considerazione di Gioberti, il quale alla fine del suo impegno politico osservava che, fallito il “neoguelfismo”, si prospettava un “rinnovamento”. É il momento in cui la filosofia cristiana si pone il problema della sua identità. Gioberti sceglie l’esilio; il Rosmini cerca di dar vita ad un nuovo ontologismo in cui il pensiero di san Tommaso potesse sussumere alcune esigenze kantiane; Manzoni, in fraterno e rigoroso dialogo con Rosmini, delineava una nuova figura di presenza cristiana. Non intendiamo andare oltre queste premesse lontane ma in cui si matura una nuova forma di riflessione filosofica cristiana. La ricerca di Valentini giunge nel cuore delle vicende della filosofia cristiana nell’affrontare il multiforme fervore speculativo sorto dopo la fine del primo conflitto mondiale e soprattutto nel secondo dopoguerra. All’indomani della fine del secondo conflitto, 17

va ricordata l’istituzione Centro Studi Filosofici Cristiani di Gallarate in cui si incontravano su vari temi “filosofi tomisti” e “filosofi spiritualisti”. È significativo che dopo alcuni decenni fu tolta la dizione “Cristiani” e il Centro si denominò semplicemente: Centro Studi Filosofici di Gallarate. La mutata denominazione obbediva ad un doppio motivo. Dopo i primi anni vennero invitati ai convegni pensatori italiani che non essendo di appartenenza cattolica potevano aprire un dialogo più articolato. Il caso più noto fu quello della costante frequentazione di Ugo Spirito. Successivamente il Centro si aprì anche agli stranieri: ricordiamo tra gli altri Romano Guardini, Hans-Georg Gadamer, Karl Löwith. Segnalerei anche che la diversa provenienza speculativa degli spiritualisti cristiani, definizione, l’osserva anche il Valentini, generica e insufficiente. Una presenza molto attiva fin dall’inizio fu ad esempio Luigi Stefanini che proveniva da studi platonici e patristici e giungeva al personalismo attraverso l’”imaginismo” linguistico-speculativo, mentre nella tradizione filosofica italiana trovava le sue radici in Gioberti. Vorremmo chiudere questa breve presentazione riassumendo con due considerazioni, una storiografica e una speculativa, l’apporto di questo libro al tema della relazione tra pensiero cristiano e filosofia italiana del XX secolo. Nella seconda parte del saggio, passando ad individuare pensatori cristiani del Novecento, Valentini sottolinea il notevole rilievo che può assumere l’espressione “allargamento della ragione”. Allargare la ragione è già un’apertura ad una pluralità di orizzonti, è una ricerca orientata che spinge il termine ragione verso 18

il termine razionalità e ciò sembra rendere la ragione più duttile, più aperta al confronto. Pensando alla considerazione di Gioberti, la varietà di approcci alla ragione allargata si configura in prospettive anche molto diverse tra loro. Ci sembra che i diversi contesti in cui si articolano le prospettive arricchiscano la ricerca senza tuttavia interrompere possibili convergenze: sono prospettive che in ultima istanza testimoniano un impegno speculativo richiedente una risposta che costantemente eccede la domanda. Le più diverse teorie che ciascun pensatore elabora sembrano muoversi in un ambito finale aperto: un già, non ancora, una prossimità che costantemente richiede un’ulteriorità. Nell’Ottocento si è aperta una frattura nel pensiero cristiano e precisamente cattolico con la fine del “risorgimento” e l’avvento del “rinnovamento”, per usare i termini di Gioberti. Nel secolo successivo, su di un piano ben diverso, assistiamo ad una frattura che investe la natura stessa della razionalità. L’accennata riduzione della denominazione del Centro Sudi di Gallarate è il sintomo del formarsi di una diversa sensibilità. Il volume di Valentini analizza sul piano storiografico tali mutamenti di sensibilità e allo stesso tempo propone, sulla base degli autori presi in considerazione, delle possibili vie per un rinnovato dialogo tra filosofia e Weltanschauung ebraico-cristiana. Armando Rigobello

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Introduzione

Il volume si divide in due parti, distinte ma strettamente connesse. Nella prima parte (Lineamenti generali) viene analizzata sotto un profilo storico-critico l’interpretazione del cristianesimo data dalle più significative correnti filosofiche del Novecento italiano: dal neotomismo all’idealismo, dall’esistenzialismo alle più recenti temperie speculative, come l’ermeneutica ed il “pensiero debole”. Pagine di approfondimento vengono dedicate anche al rapporto tra cristianesimo e politica, così come viene preso in esame sia da autori di tendenza marxista che liberale. In tal modo viene effettuato un excursus che mette in luce il contributo originale di alcune posizioni filosofiche tipicamente italiane e che, allo stesso tempo, evidenzia la fecondità di domande che il messaggio ebraico-cristiano ha per il lógos umano. La seconda parte del libro (Percorsi di approfondimento) è costituita da cinque saggi sul rapporto tra fides et ratio così com’esso è stato tematizzato in autori e contesti ricchi di intuizioni originali ma che talvolta non hanno trovato adeguati spazi nelle ricostruzioni storiografiche. In particolare ci siamo soffermati sul kantismo di Filippo Masci, sul personalismo di Luigi Stefanini letto come “ermeneutica filosofica” ante litteram, sul “tomismo essenziale” di Cornelio Fabro, sull’ontologismo di Augusto Del Noce, sull’epistemologia di Dario Antiseri. Tali indagini storiografiche prendono le mosse dell’idea giobertiana della poligonìa del cristianesimo, contraddistinto da una pluralià di confessioni, liturgie e spiritualità. In particolare, Vincenzo Gioberti parlava di una «poligonia del Cattolicismo» per la quale «vi sono tanti cattolicismi quanti gli spiriti umani formanti una sola

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Chiesa»5. Il cristianesimo e, potremmo dire, la stessa confessione cattolica che in Italia è prevalente non costituisce una religio “ad una sola dimensione” ma è un complesso di spiritualità in grado di dar vita a molteplici ermeneutiche della condizione umana, a molteplici metodologie che, pur con differenti accentuazioni, tendono ad ampliare gli orizzonti della ragione umana. La Weltanschauung ebraico-cristiana fa intravvedere alla ragione i suoi limiti costitutivi ma, allo stesso tempo, apre ad essa dimensioni di senso e di ulteriorità, altrimenti inattingibili6.

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V. GIOBERTI, Della riforma cattolica della chiesa: frammenti, a cura di G. Massari, Tipografia dei classici italiani, Napoli 1861, § 101; l’opera è stata ristampata presso i tipi di Nabu Press 2012. 6 Nel testo utilizziamo spesso l’espressione “rivelazione ebraico-cristiana”, con la sua connessa visione del mondo, per sottolineare le fondamentali radici giudaiche del cristianesimo: è ormai opinione largamente diffusa tra teologi e biblisti che per comprendere in profondità la spiritualità cristiana, le sue formulazioni concettuali e gli stessi discorsi del “Gesù storico” (i lógoi toû Christoû) è sempre necessario riferirsi all’ebraismo veterotestamentario incentrato sulla Legge ed i Profeti (la Thorà ed i Nevìm), nonché all’apocalittica giudaica dell’età ellenistica. Il cristianesimo si nutre della concettulità ebraica - basti pensare al tema dell’ettesa messianica - e, in quanche modo, universalizza l’ebraismo stesso rendendolo fruibile alle genti di «ogni tribù, stirpe, popolo e nazione» (Apocalisse 5,9). A tal proposito ci è parso estremamente significativo che papa Pio XI nel settebre 1938, in pieno sviluppo del regime nazista, ad un gruppo di pellegrini provenienti dal Belgio disse: «Attraverso il Cristo e nel Cristo noi siamo la discendenza spirituale di Abramo. […] Noi cristiani siamo tutti spiritualmente dei semiti»: tale fatto emblematico viene ricordato da Raissa Maritain nel suo volume Les grandes amitiés (Brouwer, Paris 1955). Cfr. R. MARITAIN, I grandi amici, tr. it. di I. Spanu De Zolt, Postfazione di P. Viotto, Vita e Pensiero, Milano 19912, p. 107. Sulle radici semitiche del cristianesimo e sul giudeo-cristianesimo dei primi secoli la bibliografia è orami cospicua, perciò ci limitiamo a segnalare alcune opere di riferimento: A. LOISY, La naissance du christianisme, Nourry, Paris 1933; tr. it. di P. Serini, Le origini del cristianesimo, Il Saggiatore, Milano 1964; C. THOMA, Die theologischen Beziehungen zwischen Christentum und Judentum, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1982; R.

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Ci piace ricordare che l’idea della poligonìa del cristianesimo è stata bene espressa anche da Giuseppe Lazzati. A suo parere «il pluralismo nell’unità è l’insegna della vera cultura cristiana»7. Egli si pone la seria questione: «Sarà, dunque quella cattolica una cultura monolitica? Che, per essere unitaria, non ammette differenziazioni?». Lazzati risponde giustamente in tal modo: «Se osserviamo, lungo l’arco dei secoli, i fatti in cui si concreta la storia della cultura cristiana non possiamo non notare, al di là delle differenze etnologiche che in essa risaltano, la varietà dei tipi che in essa esistono. Sono nomi ben noti quelli che primi vengono alla mente: Giustino, Agostino, Tommaso d’Aquino, Ignazio di Loyola, Rosmini, Newman, sono senza dubbio tutti cattolici; ma altrettanto senza dubbio, differenti nel loro concreto approccio al mondo. […] Sarebbe rendere un ben cattivo servizio a queste personalità e alla loro opera il ricondurle tutte a una posizione unica: non solamente ciò risulterebbe irreale, ma si serebbe distrutto un bene insostituibile, si sarebbe impoverito il mondo cattolico così ricco nella sua varietà. In verità la cultura [e quindi la stessa filosofia] è elaborata da ogni persona nello sforzo di vedere l’immagine totale del mondo attraverso i propri occhi, attraverso il proprio tipico [assolutamente unico ed irripetibile] modo di vedere»8. Si comprende, quindi, come la comune ispirazione cristiana abbia potuto produrre una pluralità di indirizzi filosofici e culturali: questo emerge chiaramente se si pensa ai differenti orientamenti della stessa filosofia italiana del Novecento, in particolare ai dibattiti tra i sostenitori della metafisica classica e gli autori più attenti alla dimensione dell’interiorità umana. CALIMANI, Gesù ebreo, Rusconi, Milano 1995; G. THEIßEN, Der historische Jesus, Ruprecht, Göttingen 20114. Sulla visione del cristianesimo come “ebraismo universalizzato” non vanno, inoltre, dimenticate le fondamentali riflessioni del rabbino di Livorno Elia Benamozegh (1823-1900): si veda in particolare E. BENAMOZEGH, Morale ebraica e morale cristiana, [edizione originale in francese 1867], Introduzione di A. Guetta, Marietti, Genova 19972. 7 G. LAZZATI, Pensare per agire, in AA.VV., Cristianesimo e cultura, Vita e Pensiero, Milano 1976, pp. 5-15, p. 14 8 Ibidem, pp. 14-15.

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A tal proposito basti ricordare la disputa che ebbero Francesco Olgiati ed Armando Carlini tra il 1931 e il 1933. In un convegno tenutosi nel 1986 a Saint-Vincent sul tema “Dove va la filosofia italiana?”, Lucio Colletti ha sottolineato che «da oltre un secolo, la filosofia italiana è una provincia del Reich filosofico tedesco»9. Il giudizio di Colletti ha di certo le sue giuste motivazioni: i filosofi italiani, a partire dal neoidealismo di fine Ottocento, si sono ampiamente richiamati alle espressioni filosofiche d’oltralpe. Tuttavia ci pare che anche in Italia, soprattutto nel corso del Novecento, ci siano state notevoli figure che non si sono limitate ad una ricezione passiva delle filosofie europee o americane, ma che hanno elaborato delle prospettive di notevole originalità. Ci pare poi che tale originalità dei filosofi italiani emerga particolarmente quando si prendono in considerazione le loro differenti interpretazioni del cristianesimo e dello stesso rapporto tra fides et ratio. Nel presente volume ci proponiamo, quindi, di mettere in luce quella che già Pantaleo Carabellese nel 1938 rivendicava come «originalità speculativa» della filosofia italiana10.

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L. COLLETTI, Il Reich filosofico, in J. JACOBELLI (a cura di), Dove va la filosofia italiana?, Laterza, Roma-Bari 1986, p. 39. 10 P. CARABELLESE, L’idealismo italiano. Saggio storico-critico, Edizioni Italiane, Roma 1938; seconda edizione 1946.

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Prologo teoretico: metodologia della ricerca storiografica ed istanze speculative

Il presente volume cerca di qualificarsi sia come contributo di carattere storiografico che teoretico. Le indagini storico-filologiche sulla filosofia italiana del Novecento non possono certamente essere esaustive: tali analisi meriterebbero ben altri spazi che quelli concessi dalle presenti pagine. Tuttavia abbiamo cercato di delineare dei possibili percorsi storiografici suscettibili di ulteriori approfondimenti. Il volume nasce, quindi, anche dall’esigenza di proporre una ricerca teoretica basata sulla storiografia filosofica, un’esigenza che, del resto, è tipica del contesto speculativo italiano. Ci soffermiamo ora brevemente sul rapporto, per noi essenziale, tra la filosofia e la sua storia. Siamo, infatti, dell’opinione che delineare la “storia della filosofia” sia già filosofare, sia già un prender posizione, volenti o meno, su indirizzi di pensiero e prospettive etico-politiche. Condiviamo in larga misura la concezione espressa da Eugenio Garin, secondo la quale la speculazione filosofica nasce e si sviluppa sempre all’interno di un determinato contesto storico-politico da alizzare scientificamente attraverso documenti e testimonianze: in quest’ottica la filosofia è innanzitutto concepita come “sapere storico”, come chiarificazione di idee sorte in stretta relazione con particolari circostanze crono-topiche11. Garin, con i sui studi sull’umanesimo e sulla filosofia italiana, ci ha dato modelli esemplari di tali indagini12. Ci pare che anche la posizione storicistica di Hegel, tolta dal suo involucro metafisico-dialettico, conservi ancora degli elementi validi e da riscoprire. Secondo Hegel la filosofia è «il 11

Cfr. E. GARIN, La filosofia come sapere storico, Laterza, Roma-Bari 1990. 12 Cfr. ad esempio E. GARIN, Storia della filosofia italiana, 3 voll., Einaudi, Torino 1966; IDEM, Intellettuali italiani del XX secolo, Editori Riuniti, Roma 1974, 19872.

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proprio tempo colto in pensieri (ihre Zeit in Gedanken erfaßt)»13: inoltre, per comprendere più a fondo l’atmosfera speculativa della propria epoca - sottolinea sempre Hegel (ma ancora prima di lui il nostro Vico e nel Novecento il nostro Croce) - è sempre necessario riferirsi al passato, agli autori ed ai contesti che ci hanno preceduto e che hanno formato il nostro spirito, sia direttamente che indirettamente. Conserva quindi degli elementi di validità la posizione degli storicisti che comprendono il presente e la Stimmung filosofica in esso dominante partendo dal passato, dalle varie tappe teoretiche che lo spirito umano ha effettuato nella storia. Tale posizione viene da Hegel così espressa: «La storia della filosofia mostra che le filosofie, che sembrano diverse, sono una medesima filosofia in diversi gradi di svolgimento […]. La filosofia attuale, che è ultima nel tempo, è il risultato di tutte le precendeti […]; essa è perciò la più sviluppata, ricca e concreta»14. Come è noto, la posizione hegeliana si sviluppa intorno alla nozione di Aufhebung, che significa letteralmente “superare-conservando”: la storia dell’umanità coincide con la graduale auto-comprensione che lo Spirito fa di se stesso nel tempo. Nella storia dello Spirito nulla viene perduto: ma ogni momento storico-teoretico viene ricompresoconservato e quindi inverato-superato nel successivo. La nostra posizione è certamente lontana da quella hegeliana, soprattutto nella misura in cui questa conduce ad una forma di immanentismo e di storicismo assoluto15. Tuttavia ci pare che la filosofia, quando vuole essere autentica comprensione della realtà, 13

G.W.F. HEGEL, Grudlinien der Philosophie des Rechts, Nicolaischen Buchandlung, Berlin 1821, p. XXI; tr. it. V. Cicero, Lineamenti di filosofia del diritto, Rusconi, Milano 1996, p. 61 14 IDEM, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Oswald Verlag, Heidelberg 1830, § 13; tr. it. di V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Rusconi, Milano 1996, p. 119. 15 Condividiamo l’idea di Luigi Pareyson secondo la quale la filosofia contemporanea è in gran parte caratterizzata dalla dissoluzione e dall’oltrepassamento dell’hegelismo. A tal proposito cfr. L. PAREYSON, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Prefazione di G. Vattimo, Postfazione di G. Riconda, Einaudi, Torino 2000.

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non può esimersi anche dall’indagine sulla sua storia: quest’ultima è sempre essenziale per comprendere la temperie filosofica che genera il nostro mondo. A tal proposito, ci pare molto equilibrata e feconda la prospettiva elaborata da Augusto Del Noce. A suo giudizio «la storia della filosofia come problema sembra essere la riformulazione presente del dubbio metodico»16. Ciò non significa solo che lo studio della storia della filosofia è necessio per comprendere più a fondo il presente in tutte le sue dimensioni (sociali, politiche ed artistiche), ma significa soprattutto che da come si interpreta il passato della filosofia dipende anche il suo presente e persino le sue istanze future. Del Noce rilegge quindi la modernità filosofica scorgendo in essa delle virtuosità sottese, dei fiumi carsici che la ricerca storiografica ha poco investigato e che invece possono rivelarsi ricchi di profondità speculativa anche per il tempo presente: come è noto, tale è la linea di pensiero franco-italiana (da lui definita ontologismo) che si origina in Cartesio, conosce i suoi sviluppi in Malebranche ed in Vico, per trovare poi la sua piena espressione nella Teosofia di Rosmini, in Giovanni Maria Bertini e nel Novecento in Carlo Mazzantini. Questa linea di pensiero moderno da riscoprire e valorizzare è in grado di opporsi all’immanentismo (che si origina in Cartesio per trovare compimento in Hegel e nel suo oppositore Nietzsche) e difende le istanze metafisiche della filosofia stessa: in particolare, nella linea franco-italiana i guadagni teoretici della metafisica classica sono ripresi e sviluppati all’interno della fondamentale svolta antropologica che ha caratterizzato la modernità17. Quello di Del Noce è quindi per noi un modello di storiografia filosofica da seguire e da promuovere: esso è ricco di impegno teoretico e sa di non doversi mai risolvere nella ricostruzione, seppur 16

A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964, 2010 II edizione con una Postfazione di M. Cacciari, p. 14. 17 A tal proposito cfr. M. BORGHESI, Riflessioni sull’ontologismo in Augusto Del Noce, in U. MURATORE (a cura di), Da Cartesio a Hegel o da Cartesio a Rosmini?, Sodalitas, Stresa 1997, pp. 67-84; P. ARMELLINI, Razionalità e storia in Augusto Del Noce, Aracne, Roma 1999; M. BORGHESI, Augusto Del Noce. La legittimazione critica del moderno, Marietti, Genova 2011.

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rigorosa e dettagliata, di ambienti, figure e contesti. Si tratta di un paradigma che cerca di non scadere in arcadica erudizione o in aristocratici preziosismi: esso tenta piuttosto di analizzare ed interpretare il passato cercando le risposte alle problematiche speculative, politiche e morali del tempo presente. Quella che cerchiamo di proporre nelle seguenti pagine è, dunque, una storiografia filosofica che non indietreggia innanzi alle sfide della teoresi: sappiamo bene che “non esiste uno sguardo da nessun luogo” e anche la scelta nell’idagine di determinate figure e momenti storici presuppone sempre un’opzione di fondo, una precoprensione ideologica, sia essa esplicitata o meno. Siamo quindi lontani dal mito weberiano di un’assoluta “avalutatività delle scienze” (Wertfreiheit der Wissenschaften): soprattutto per quando concerne la ricerca storiografica è nostra convinzione che questa difficilemente possa prescindere da una pregiudiziale ideologica, sia anch’essa lo sforzo di una totale neutralità ed oggettività della ricerca stessa. Non esiste infatti una ricerca storiografica che sia “acherotipa” (non fatta da mani d’uomo) e che ci restituisca una visione di fatti, idee e circostanze assolutamente oggettiva. La consapevolezza di un’ineludibile “pregiudiziale ideologica” non deve però mai esimere una seria attività storiografica da un vaglio critico delle fonti che tenga presente la possibile molteplicità delle interpretazioni e, spesso, “il conflitto stesso delle possibili interpretazioni”. Queste ultime considerazioni ci danno lo spunto per indicare alunee idee di fondo che hanno stimolato la stesura di questo libro. Innanzi tutto il problema del rapporto tra la ragione e la fede: esso è presente sin dal titolo e costituisce il filo rosso delle nostre indagini sugli gli autori ed i contesti presi in esame. Ci pare che per il filosofo, anche dal punto di vista biografico ed esistenziale, il momento dell’incontro e del confronto critico con la fede religiosa della tradizione sia un qualcosa di ineludibile, dal quale non ci si possa sottrarre. Un esempio paradigmatico di tale incontro con la fede ci è offerto da Agostino d’Ippona nel IV libro delle Cofessioni; la morte prematura dell’amico fu per lui una “scossa maieutica” in grado di generare nuove domande sul senso della vita: «factus eram ipse mihi magna quaestio» - così egli afferma -, «sono divenuto un 28

grande enigma a me stesso». Agostino dalla radicale messa in discussione delle sue certezze approdò al cristianesimo come chiave ermeneutica della condizione umana. A tal proposito sono memorabili le pagine in cui egli paragona la vita cristiana alla traversata di un mare tempestoso con il legno salvifico della Croce stretto tra le braccia: «che cosa ha fatto Cristo? Ha preparato il legno con cui potessimo attraversare il mare. Infatti, nessuno può attraversare il mare di questo secolo, se non è portato dalla croce di Cristo. A questa croce potrà stringersi, talvolta, anche con gli occhi malati. E chi non riesce a vedere dove deve andare, non si stacchi dalla croce, e la croce lo porterà»18. Nel contesto filosofico italiano il percorso esistenziale di Agostino ha sovente esercitato un grande fascino ed è stato fatto oggetto di approfonditi studi da parte di autori dal differente orientamento ideologico: basti pensare ai testi di Giovanni Papini, Amato Masnovo, Augusto Guzzo, Michele Federico Sciacca, Alberto Pincherle o a quelli più recenti di Luigi Alici19. Lo stesso itinerario esistenziale di Papini richiama direttamente quello di Sant’Agostino incentrato sull’evento decisivo della conversione: nel 1921, dopo anni di profonde riflessioni, l’intellettuale fiorentino annuncia la sua conversione religiosa pubblicando la Storia di Cristo e successivamente confrontandosi in maniera diretta con la vita di Agostino. Sia che la si accetti sia che la si neghi radicalmente, come è legittimo, la fede religiosa difficilmente lascia indifferenti: a tal propostio ci piace ricordare che 18

AGOSTINO D’IPPONA, Commento al Vangelo di Giovanni, II, 2; tr. it. di G. Reale in IDEM, Amore assoluto e «terza navigazione». Commento alla Prima Lettera di Giovanni. Commento al Vangelo di Giovanni, Rusconi, Milano 1994, p. 54. 19 Cfr. G. PAPINI, Sant’Agostino, Vallecchi, Firenze 1929; A. MASNOVO, S. Agostino, La Scuola, Brescia 1946; A. GUZZO, Agostino dal «Contra Academicos» al «De vera religione», Vallecchi, Firenze 1925; ristampato in IDEM, Agostino e Tommaso, Edizioni di Filosofia, Torino 1958; M.F. SCIACCA, S. Agostino, Morcelliana, Brescia 1949; A. PINCHERLE, Sant’Agostino d’Ippona. Vescovo e teologo, Laterza, Bari 1930 (l’opera è stata ristampata anche del 2000 sempre presso i tipi Laterza); L. ALICI, L’altro nell’io. In dialogo con sant’Agostino, Città Nuova, Roma 1999.

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anche molti esponenti del marxismo italiano hanno mostrato una spiccata sensibilità per le tematiche religiose. Si pensi non solo all’esperienza dei catto-comunisti come Franco Rodano e Felice Balbo ma anche ad un insigne esponente della cultura laica e marxista come Antonio Banfi: le sue pagine sulla figura di Cristo ci paiono ricche di pathos, profonde ed equilibrate20. Come nota anche Kant, solo chi non ha senso morale può rimanere del tutto indifferente alla proposta di senso offerta da una “divina rivelazione” (göttliche Offenbarung)21. Tuttavia, nonostante molti scorgono oggi un diffuso ritorno dell’interesse per la religione, soprattutto per la preoccupazione destata in Occidente dall’Islam più integralista, ci pare che viviamo in un clima di sostanziale indifferenza. Tale indifferenza per il sacro viene definita da Augusto Del Noce anche come “irreligiosità naturale”: essa è un atteggiamento tipico dell’età secolarizzata dove quasi tutto ruota attorno all’efficienza tecnica e le problematiche dell’esistenza, con le gradi questioni etiche ed escatologiche ad esse connesse, vengono pressoché celate, rimosse, non ampiamente prese in considerazione. Si pensi alla rimozione della sofferenza, della vecchiaia e soprattutto dell’idea della morte che caratterizza tanta parte del mondo 20

Cfr. A. RIGOBELLO, La persona di Cristo in uno scritto di Antonio Banfi del 1928, in «Istituto Antonio Banfi - Annali», 2, 1988, pp. 45-64. 21 Ecco le celebri parole con le quali Kant ci parla della fede religiosa fondata sulle esigenze della morale: «Poiché la prescrizione morale è massima mia (la ragione comanda infatti che essa deve essere tale), io crederò immancabilmente nell’esistenza di Dio e in una vita futura, e sono sicuro che niente può far scuotere questa fede, poiché così sarebbero rovesciati i miei stessi princìpi morali, ai quali non posso rinunciare senza essere ai miei stessi occhi degno di disprezzo. […] La sola difficoltà che qui si incontra, che qui si incontra è che questa fede razionale si fonda sul presupposto di sentimenti morali. Se noi ce ne dipartiamo, ed incontriamo un uomo che, rispetto alle leggi morali, fosse del tutto indifferente, la questione sollevata dalla ragione diventa semplicemente un problema per la speculazione e [….] non si hanno più argomenti contro lo scetticismo più ostinato» (I. KANT, Kritik der reiner Vernunft, J.F. Hartknoch, Riga 1781, 17872, B WWWW ; tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, riveduta da V. Mathieu, Laterza, Bari 1971, pp. 627-628)

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capitalistico occidentale. A tal proposito ha fatto opportune considerazioni anche Philippe Ariès: «nel XIX secolo la morte era dappertutto presente: cortei funebri, abiti da lutto, estensione dei cimiteri e della loro superficie, visite e pellegrinaggi alle tombe, culto della memoria. […] Questo eloquente scenario di morte si è dissolto nell’epoca nostra, e la morte è divenuta l’innominabile. Ormai tutto avviene come se né io, né tu, né quelli che mi sono cari, fossimo più mortali»22. Le pagine del presente volume vorrebbero mettere in evidenza tutta la ricchezza di senso che la spiritualità ebraico-critiana ha offerto e può offrire anche all’uomo di oggi per le gradi tematiche che lo coinvolgono. Ci pare che la visione del giudaico-cristiana contenga uno scrigno di valori in grado di dar senso all’esistenza anche nell’ora “più triste e più sola”: si ricordino le pagine di Isaia sul servo sofferente e soprattutto la narrazione dei Vangeli sul Gesù nel Getsémani. Si comprende, quindi, come la Weltanschauung ebraico-cristiana è e può divenire una “riserva di speranza” soprattutto per l’homo patiens, per l’uomo che si trova tra le sofferenze dell’anima e del corpo, le quali altrimenti resterebbero “inutili” e “senza senso”: chi non ricorda il romanzo La peste di Albert Camus e soprattutto le domande che si pone il medico Bernard Rieux sul dramma della morte degli innocenti colpiti dal morbo? Ci pare che una visione della vita esclusivamente materialistica ed edonistica indietreggi innanzi alla “questione del senso”, fingendo quasi che tale questione non esista o che sia fuori luogo tematizzarla: condividiamo molti aspetti dell’«erotica solare» proposta dal francese Michel Onfray, ma onestamente ci chiediamo

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P. ARIÈS, Essais sur l’histoire de la mort en occident du moyen âge à nos jours, Seuil, Paris 1975; tr. it. di S. Vigezzi, Storia della morte in Occidente dal Medioevo ai giorni nostri, Rizzoli, Milano 1978, p. 84). A Philippe Ariès fa eco Jean Baudrillard, il quale afferma: «Al giorno d’oggi non è normale essere morti… Essere morti è un anomalia impensabile, rispetto alla quale tutte le altre sono inoffensive. La morte è una delinquenza, una devianza incurabile» (J. BAUDRILLARD, L’Échange symbolique et la mort, éd. Gallimard, Paris, 1976; tr. it. di G. Mancuso, Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano 20074, p. 139).

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se questa prospettiva renda conto dell’uomo nella complessità delle sue dimensioni e delle sue istanze23. Penso che la concezione della vita ebraico-cristiana dia all’uomo una dimensione teleologica ed escatologica, di cui altrimenti resterebbe privo, come nel caso di Giovanni Drogo, protagonista de Il deserto dei Tartari24 o di tanti personaggi presenti nei romanzi di Italo Svevo ed Alberto Moravia. Senza una prospettiva di ulteriorità tutto il nostro agire rimarrebbe ancorato alla “miseria della finitudine”: basti pensare alle pagine drammatiche dei Pensieri di Pascal sulla condizione tristissima ed inesorabile de l’homme sans Dieu. È anche a partire da queste amare considerazioni che Pascal argomenta a favore del pari metafisico, della scommessa sull’esistenza di Dio. Come Pascal, anche noi siamo convinti che solo la prospettiva di un’ulteriorità possa condurre ad una vita in cui si sperimenti gioia vera, profonda e duratura: pensiamo anche alla belle pagine in cui Manzoni descrive lo stato d’animo dell’Innominato dopo la sua conversione. A mio parere uno degli argomenti per una rinnovata apologetica della fede abramitica può essere preso ancora da Pascal: il cristianesimo sa render conto con estremo realismo della miseria e della grandezza dell’uomo. Consente di elevarlo alla sublimità della sua origine divina, come avviene nei grandi mistici, ma, allo stesso tempo, sa renderlo ben consapevole della sua naturale inclinazione al male, del suo essere creatura finita e fragile, conseguenza del peccato originale (lo status naturae lapsae). Ci soffermiamo ora brevemente sulla concezione del rapporto tra fides et ratio che sta sullo sfondo del volume e che ne ha animato la stesura. Siamo convinti che tra l’ambito della fede e quello della ragione sussistano diversità radicali di metodi e di contenuti: tuttavia la filosofia, anche quando questa è rigorosamente elaborata iuxta propria principia, può trarre ampio giovamento dall’ambito della 23

Cfr. M. ONFRAY, Théorie du corps amoreux. Pour une érotique solaire, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris 2000; tr. it. di G. De Paola, Teoria del corpo amoroso. Per un’erotica solare, Fazi Editore, Roma 2006. 24 Cfr. D. BUZZATI, Il deserto dei Tartari, Rizzoli, Milano 1940; presso i tipi di Mondadori il romanzo ha avuto numerose ristampe.

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fede. Tra la ragione filosofica e la fede religiosa può quindi sussistere una “concordia non discordante”, una concordia non discors, come direbbe Tommaso d’Aquino. Ed è lo stesso Aquinate a porre giustamente in rilievo che la fede nei contenuti della rivelazione è da intendere come un perfezionamento della natura umana, di per sé incapace di giungere a penetrare sola ratione i misteri insondabili di Dio: «fides non destruit rationem, sed excedit eam et perficit»25, la fede non distrugge la ragione nelle sue potenzialità, ma la sorpassa e la perfeziona, rendendoci in grado di gettare uno sguardo nella sfera ineffabile delle realtà metafisiche. Tuttavia, a scanso di equivoci, cerchiamo di chiarire il modello di ragione da noi proposto ed in grado di allargare gli orizzonti verso l’ulteriorità. Non si tratta tanto del paradigma classico di ragione, quello elaborato in particolate da Aristotele e San Tommaso: ci pare che difficilmente possa essere difeso dopo le serrate critiche del pensiero moderno (Hume, Kant, Nietzsche). Ci riferiamo piuttosto al paradigma kantiano di ragione: alla via antiqua della dimostrazione nell’esistenza di Dio (una via ad mentem sancti Thomae ) preferiamo la via moderna, cioè quella proposta da Kant, Jacobi, Kierkegaard e prima ancora da Pascal, la quale si fonda sull’esprit de finesse, utilizza ragioni di carattere antropologico-esistenziale e finisce col proporre un “salto mortale” nel totalmente Altro26. Cerchiamo ora di chiarire quest’importante 25

TOMMASO D’AQUINO, De Veritate, q. 14, a. 10, ad. 9. Prima ancora di Kierkegaard fu Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) ad usare l’espressione “salto morale” per designare l’atto di fede. Marco Ivaldo ha fatto giustamente notare che anche il “salto mortale” di cui parla Jacobi non è da interpretare come un qualcosa di totalmente irrazionale: «il “salto mortale” è un’azione che si presenta “sensata” - anche se ciò non significa che essa non costituisca una scelta rischiosa - quando si persegue il principio dello spinozismo (cioè del determinismo naturalistico) fino alle sue estreme conseguenze e se ne misura la insostenibilità rispetto alla esigenza, che è incancellabile nell’uomo, di ammettere una volontà libera. [...] Il “salto mortale” è un atto della libertà, che si realizza sulla base di una consapevolezza critica alla cui maturazione hanno agito insieme volontà ed intelletto, e che apre a una percezione effettiva della profondità della realtà, quella profondità che i sistemi del “razionalismo” [e tra questi in particolare 26

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elemento della nostra posizione, facendo soprattutto riferimento a Kant. Come è noto, Kant, seguendo l’empirismo inglese e le tendenze antimetafisiche dell’illuminsimo, è stato uno tra i più profondi teorici dei limiti della ragione umana: del resto anche in Italia la lettura di Kant come “filosofo dei limiti epistemologici della conoscenza” è stata fatta oggetto di ampi e dettagliati studi27. Però ricordiamo che in Kant la ragione teoretica, seppur limitata alla conoscenza scientifica del solo ambito fenomenico, non abdica all’esigenza del trascendimento, anzi - come sottolineano anche Friedrich Paulsen, Agostino Gemelli ed Italo Mancini - l’impulso verso la trascendenza costituisce l’anima stessa della filosofia kantiana28: «dalle rovine della Dialettica» - così Gemelli - «sorge irrequieto e fremente l’anelito a Dio e al mondo intelligibile; i limiti importi al sapere fanno sentire con più forza la necessità di oltrepassarli in qualche modo»29. In Kant la metafisica, dichiarata inconoscibile in sede teoretica, acquista una sua nuova legittimità in sede pratica, divendendo oggetto di quella che egli definisce una “fede morale” (moralischer Glaube). È quindi tramite la “ragion pratica” (praktische Vernunft) che l’uomo può tornare a “toccare il cielo della metafisica”. Facendo ricorso al modello kantiano della ragion pratica ci pare che la nostra prospettiva eviti gli eccessi irrazionalistici del fideismo di Tertulliano e dei suoi epigoni: il cosiddetto credo quia lo spinozismo e l’idealismo] non possono attingere» (M. IVALDO, Introduzione a Jacobi, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 70). 27 Cfr. A. RIGOBELLO, I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano 1963; A. GENTILE, Ai confini della ragione. La nozione di «limite» nelle filosofia trascendentale di Kant, Studium, Roma 2003; A.M. JACOBELLI ISOLDI, La dignità del limite: saggi kantiani, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. 28 Cfr. F. PAULSEN, Immanuel Kant: Sein Leben und Seine Lehre, [edizione originale 1904], Kessinger, Whitefish (Montana) 2010; A. GEMELLI, Il nostro punto di vista nello studio della filosofia di Emanuele Kant, in Aa. Vv., Immanuel Kant (1724-1924), Vita e Pensiero, Milano 1924; I. MANCINI, Kant e la teologia, Cittadella editrice, Assisi 1975. 29 A. GEMELLI, Il nostro punto di vista nello studio della filosofia di Emanuele Kant, cit., p. 14.

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absurdum. Sulla scorta del pensiero kantiano intendiamo, dunque, proporre un “allargamento dei confini della ragione” che rifugga le semplificazioni del fideismo: il nostro paradigma è definibile come intellecus quaerens fidem. La nostra ermeneutica del pensiero kantiano trova ampie convergenze con quella proposta da Michele Federico Sciacca, uno dei più acuti esponenti del cosiddetto “spiritualismo italiano”. Sciacca ha ben sottolineato che l’esigenza più profonda di Kant è stata quella di elaborare una “metafisica della volontà” incentrata sulla ragion pratica, sulle istanze morali più profonde dell’uomo: «Kant […] con la critica della metafisica nella Ragion pura ha reso un grande servizio alla metafisica vera. Infatti, ha liquidato la metafisica naturalistica e formalistica, non la metafisica; anzi ha reso possibile - e Kant ne ebbe la consapevolezza - la sua fondazione. […] Kant ha dimostrato che del problema di Dio non ci sono dimostrazioni razionali impostate dal modo da lui criticato, non che Dio non esiste. […] Kant ha dunque intravisto la possibilità della metafisica della volontà»30. Siamo d’accordo con Sciacca quando egli difende il valore epistemologico della ragion pratica, le cui certezze metafisiche non sono di carattere irrazionale: «forse l’attività pratica non è anch’essa pensiero e non ha pure un valore teoretico? Si vuol dire che valore teoretico l’abbiano solo la conoscenza matematica e quella fisica? Dio non è un teorema, né un fenomeno; è Intelligenza agente, Volontà creatrice, Azione, che è Pensiero»31. Secondo Sciacca la via di accesso speculativo alla metafisica è resa possibile dall’esperienza interiore, rivelatrice di una presenza divina che la trascende e che la fonda: si tratta di una presenza che - così Agostino - è «interior inimo meo et superior summo meo»32. A questo punto però il filosofo italiano dichiara con onestà intellettuale di dover andare “con Kant, oltre Kant”: per 30

M.F. SCIACCA, Come si pone oggi il problema della trascendenza di Dio, Relazione tenuta a Parigi nel Congresso internazionale del 1937 edita in IDEM, Dall’attualismo allo spiritualismo critico, Marzorati, Milano 1961, pp. 442-448, p. 443. 31 Ibidem, p. 447. 32 AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, III, 6.

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l’affermazione di una metafisica dell’interiorità basata sulla ragion pratica «il kantismo è da superare proprio in nome dell’esigenza più profonda di Kant»33. E così egli argomenta: «Kant considera il problema di Dio e gli altri della metafisica come pure esigenze della volontà morale. Su questo punto non l’accetto, perché i problemi metafisici s’incentrano nel fondo della coscienza morale non come esigenze, ma come atti, cioè come doveri; dunque, ne riconosco l’oggettività e la necessità razionale. Pertanto non li pongo in termini fideistici di cieca credenza irrazionale, ma di pensiero e precisamente di pensiero pratico: non credenza, ma convincimento, certezza inconfutabile»34. Anche la via moderna alla metafisica ha, dunque, le “sue ragioni”, le sue intrinseche motivazioni fondate sul kantiano primato del pratico e sull’esigenza di un senso totale dell’esistere: a tal proposito Pascal afferma che nell’atto di fede «l’ultimo passo della ragione consiste nel riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano»35 e che «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende (Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point)»36. L’opzione radicale per la fede religiosa non è allora un qualcosa di totalmente assurdo ed irrazionale, non implica un completo abdicare all’uso della ragione: del resto lo stesso Pascal afferma che c’è un’intrinseca logica della fede, una logique de la foi, che però solo il cuore (le coeur) - con le sue esigenze morali - può comprendere e non l’intelletto. Quello da noi proposta è un modello di razionalità fecondato dall’agápe: si tratta di una razionalità che, dopo aver 33

M.F. SCIACCA, Come si pone oggi il problema della trascendenza di Dio, cit., p. 443. 34 Ibidem, p. 447. 35 B. PASCAL, Pensées, 267 (secondo la numerazione di L. Brunschvicg, Hachette, Paris 1897). 36 Ibidem, 277. In maniera simile a Pascal anche il mistico Angelus Silesius afferma che «solo l’amore raggiunge presto il Signore, la ragione e lo spirito fanno lunghe anticamere (Die Liebe geht zu Gott unangesagt hinhein, Verstand und hoher Witz muß lang’ im Vorhof sein)» (A. SILESIUS, Cherubinischer Wandersmann, [edizione originale 1674], Reclam, Stuttgart 1983, p. 47).

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riconosciuto i propri limiti, è disposta ad allargare i propri orizzonti verso la trascendenza, a porsi in ascolto di una possibile parola di salvezza. Ci pare allora che il “cuore” di cui parla Pascal e la “fede morale” di Kant possano essere interpretati come un uso “alternativo” della ragione: si tratta di un uso “affettivo” della ragione in relazione alle esigenze esistenziali di senso e compimento, alle esigenze che spingono l’uomo angosciato e sofferente ad optare per la speranza piuttosto che per l’assurdo. Tale paradigma di ragione ha qualche affinità anche con quello descritto da Martha Nussbaum ne L’intelligenza delle emozioni37. Il clima filosofico oggi dominante è generalmente caratterizzato dal “pensiero debole”, da un diffuso scetticismo nei confronti delle capacità costruttive della ragione umana e soprattutto dal prevalere di indagini ermeneutiche ed analitiche. Oggi l’attività filosofica viene intesa, in larga misura, come interpretazione di testi e contesti storici (ermeneutica) o come “analisi” dei diversi contenuti proposizionali offerti dai singoli saperi (filosofia analitica). Tuttavia, a nostro parere, la filosofia se vuol tornare ad assumere un ruolo decisivo anche nella vita della pólis non può rinunciare a porsi le domandi fondamentali di carattere metafisico, dando ad esse delle adeguate risposte tramite argomentazioni razionali. La ricerca di “metafisica essenzializzata”, “umile ed aperta al novum”38, ci pare dunque che sia necessaria per fornire utilissilimi orientamenti anche nei confronti delle problematiche che concernono l’etica, la politica e più in generale tutte le vicende dell’esistenza umana. Basti pensare a quanto sia importante una riflessione sulla “metafisica della persona”

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Cfr. M.C. NUSSBAUM, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 2001; tr. it. di S. Scognamiglio, L’intelligenza delle emozioni, a cura di G. Giorgini, Il Mulino, Bologna 2004. 38 Sulle differenze fondamentali tra le metafisiche totalizzanti (e quindi violente) e una metafica umile, non-violenta cfr. A. RIGOBELLO, Metafisiche violente e metafisica non violenta, in IDEM, Prossimità e ulteriorità. Una ricerca ontologica per una filosofia prima, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, pp. 95-106.

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anche per dare necessari orientamenti alle problematiche poste dalla bioetica e dalle attuali potenzialità tecnologiche. La filosofia è e rimane ricerca dal carattere aperto, inesauribile, ma non può esimersi dal suo compito fondamentale e costruttivo: l’indagine dell’essere nei suoi princìpi primi e fondanti. L’indagine speculativa è chiamata, quindi, a recuperare la concezione platonica ed aristotelica della filosofia come «gigantomachía perì tês ousías»39, come “lotta” per la comprensione dell’essere e dei suoi princìpi primi. Ci pare che oggi gran parte delle riflessioni filosofiche siano o di carattere estetizzante o comunque “ad orizzonti abbassati”, spesso chiuse entro gli angusti confini di ricerche storiografiche filologicamente corrette ma fini a se stesse e con poco pathos speculativo. Ci pare che oggi sia più che mai necessaria la ricerca di un’originale “metafisica essenzializzata”, una “metafisica della trascendeza” che non sia mera ripetizione di vecchi sistemi ma che sappia interagire proficuamente con il mondo contemporaneo. Quella da noi proposta è una “metafisica della trascendenza” per la quale l’essere, colto nella sua genesi, fonda l’esperienza ma allo stesso tempo la trascende. Tale metafisica esclude qualsiasi deriva totalizzante e rimane aperta ad una concezione della verità poliedrica e sinfonica. La stessa verità, quando è pensata in profondità, pollachós léghetai, “può esser detta in molti modi” e da differenti punti di vista. A nostro giudizio il “pensiero debole” di Gianni Vattimo e dei suoi epigoni può fungere da “scossa maietica” per una rinnovata costruzione della ragione in grado di saper nuovamente allargare i suoi orizzonti verso la metafisica e la trascendenza: il momento scettico e nichilistico, vissuto in profondità anche nella cultura italiana, può essere propedeutico ad una nuova costruzione concettuale che possa vivificare lo spirito verso gli ideali eterni del vero, del giusto e del bene. L’«addio alla verità» teorizzato recentemente da Vattimo40 non può che fungere da stimolo per la ricerca di un ulteriore e più fecondo paradigma di ragione che possa indirizzarci nuovamente - non certo al possesso - ma alla visione 39 40

PLATONE, Sofista, 246 a Cfr. G. VATTIMO, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009.

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illuminante di una verità che ci supera, ci precede e ci fonda. Occorre quindi “risematizzare la ragione”, dare ad essa nuovi e più pregnanti significati. In tale opera di risemantizzazione un contributo fondamentale può venire anche dal cristianesimo che è una “religione del Lógos”, nel quale la fede ed i suoi misteri si pongnono sempre come compimento (Vollendung ed Aufhebung direbbe Hegel) ma mai come antitesi della ragione umana. Ci pare, quindi, che l’ermeneutica del cristianesimo proposta dal teologo Joseph Ratzinger abbia dei fecondi elementi di verità. Egli sottolinea che «il cristianesimo, fin da principio, ha compreso se stesso come la religione del Lógos, come la religione secondo ragione. Non ha individuato i suoi precursori in primo luogo in altre religioni, ma in quell’illuminismo filosofico che ha sgombrato la strada delle tradizioni per volgersi alla ricerca della verità e verso il bene […]. [Il cristianesimo] ha sempre definito gli uomini, tutti gli uomini senza distinzione, creature di Dio e immagine di Dio, proclamandone in termini di principio, seppure nei limiti imprescindibili degli ordinamenti sociali, la stessa dignità. In questo senso l’illuminismo è di origine cristiana ed è nato non a caso proprio ed esclusivamente nell’ambito della fede cristiana. […] È stato ed è merito dell’illuminismo aver riproposto [i] valori originali del cristianesimo e aver ridato alla ragione la sua propria voce. Il Concilio Vaticano II, nella costituzione sulla Chiesa ed il mondo contemporaneo [la Gaudium et spes] ha nuovamente evidenziato questa profonda corrispondenza tra cristianesimo ed illuminismo, cercando di arrivare ad una vera conciliazione tra Chiesa e modernità»41. Quella che opera all’interno della spiritualità ebraico-cristiana è una «fede che proviene dal Lógos, dalla Ragione Creatrice, e che perciò è anche aperta a tutto ciò che è veramente razionale»42. A tal riguardo si pensi alla teologia di Filone

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J. RATZINGER, L’europa nella crisi delle culture, [discorso tenuto dall’allora Card. Ratzinger a Subiaco il 1 aprile 2005], Introduzione di M. Pera, Cantagalli, Siena 2005, p. 26. 42 Ibidem, p. 27.

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Alessandrino o al Prologo del Vangelo di Giovanni, così come è stato commentato anche da Antonio Rosmini43. Non condividiamo la posizione di Vattimo, di Dario Antiseri e di tutti coloro che vedono nella “fine della metafisica” una chance in più per creare nuovi spazi alla fede religiosa. Se la ragione umana prende definitivamente congedo dalla metafisica, dichiarandola fabula, “scandalo e follia” per un “sano intelletto”, si tarpano le ali anche ad ogni proposta di ulteriorità di tipo religioso e spirituale: diviene possibile (e razionalmente giustificato) concepire il mondo solo nella dimensione nichilistica. Di conseguenza, la stessa fede in una possibile rivelazione divina viene confinata nell’ambito privato delle scelte estetiche ed emotive, perdendo qualsiasi credibilità sul piano della ragione. Ci sembra che le posizioni di Vattimo e di Antiseri conducano quasi ad una teoria della “doppia verità”: da una parte la verità incontrovertibile della ragione (immanentismo e nichilismo), dall’altra la Verità attestata per fede. Si tratta di due verità antitetiche e che si contraddicono vicendevolmente. La ragione, invece, può portare un contributo fondamentale alla fede: 43

Cfr. A. ROSMINI, Introduzione al Vangelo secondo Giovanni, [scritta nel 1849], a cura di S.F. Tadini, Città Nuova, Roma 2009. Nella cultura italiana contemporanea è ampiamente diffusa l’interpretazione del cristianesimo a partire dalla kénosis, dall’abbassamento di Dio al piano umano. Questo lo ha fatto emergere soprattutto Gianni Vattimo a partire dalla Lettera di Filippesi di San Paolo. Tuttavia ci pare che, oltre la kénosis, l’altro elemento fondamentale per una più correta ermeneutica del cristianesimo sia l’anakephaláiosis, delineata nella Lettera agli Efesini. Se la kénosis indica il momento dell’incarnazione e della morte in croce, l’anakephaláiosis indica il momento finale della storia della salvezza, «il disegno cioè di ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra» (Lettera agli Efesini, 1,10). La theologia crucis della kénosis trova così il suo compimento nella theologia gloriae, nella ricapitolazione finale di tutta la storia umana in Cristo. Il momento finale e glorioso della ricapitolazione dona pienezza di senso a tutta la storia umana: in essa la drammatica presenza del male non è che un elemento transitorio e perituro. Tra i primi a mettere in luce quest’aspetto fondamentale della “teologia della storia” è stato Ireneo di Lione (130-202 circa) nell’Adversus haereses.

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essa può condurre a credere che “le cose di questo mondo non sono poi tutto” (l’espressione è di Wittgenstein). La ragione non può certamente produrre una sorta di “dimostrazione” della fede: essa non è di certo in grado di dimostrare la fede con gli strumenti della logica, tuttavia può aprirle la strada mettendo in evidenza che tra gli enti e l’Essere originario sussiste una radicale “differenza ontologica”. In altri termini: argomentando sola ratione, possiamo giungere a considerare legittima e giustificata la possibilità della trascendenza dell’Essere originario rispetto al mondo. Siamo d’accordo con Leonardo Messinese nell’affermare che «il “Dio della metafisica” [cioè l’Essere infinito ed originario] è ciò che dà alla fede religiosa dell’uomo anche il conforto della ragione»44. Di Messinese e di Luigi Pareyson condividiamo l’idea che tra il “Dio della metafisica” e il “Dio della fede biblica” sussistono radicali diversità: tuttavia siamo anche dell’opinione che v’è una rilevante “continuità nella differenza”. La metafisica, quando s’innalza sino alle soglie della trascendenza divina, è «la gloria dell’attività pensante dell’uomo»45 e rimane, comunque, il maggior conforto che la ragione, operando iuxta propria principia, possa dare alla fede religiosa. Vogliamo fare un’ultima considerazione sui risvolti etico-politici di una “metafisica della trascendenza”. Vattimo e con lui molti altri autori hanno dichiarato di rifiutare la metafisica poiché, tra le altre accuse, essa finirebbe anche per legittimare forme politiche di conservatorismo e di tradizionalismo. I metafisici sarebbero quindi dei “reazionari”, dei “conservatori” spesso legati a governi di destra o comunque estremamente moderati: questa considerazione può avere di certo anche dei puntuali riscontri sul piano storico. È un fatto indubitabile. Tuttavia ci pare che la metafisica, nella misura in cui propone e fonda nella loro trascendenza gli ideali di giustizia e di bene, abbia in sé una notevolissima portata rivoluzionaria che spinge al cambiamento sociale. La metafisica contiene in sé i germi di un pensiero rivoluzionario e progressista, tutto proteso alla realizzazione storica di quegli ideali di giustizia sociale e di bene comune che ha 44 45

L. MESSINESE, Metafisica, Edizioni ETS, Pisa 2012, p. 158. Ibidem, p. 155

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legittimato come veri ed eterni (kath’autò). Questo elemento rivoluzionario lo ha ben sottolineato anche Gustavo Bontadini. Siamo d’accordo con lui nell’affermare che «la metafisica - ossia la concezione dell’essere come stabilità - contrariamente alla superficiale apparenza, non è orientata ed orientante in senso conservatore»46. Tutt’altro: la metafisica, teorizzando la presenza di un Essere che è somma bontà e somma gisutizia, fornisce le basi per possibili cambiamenti storici e persino per rivoluzioni politiche in nome dei valori eterni del bene comune e della giustizia. Si comprende allora che «la metafisica non è in contrasto con l’esigenza della innovazione storica e, al limite, della Rivoluzione»47.

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G. BONTADINI, Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1975 , p. 140. 47 Ibidem, p. 145.

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Lineamenti generali Lógos e pístis: la ragione interrogata dalla fede. Filosofia e Weltanschauung ebraico-cristiana nell’Italia del Novecento

Capitolo I Il modello di una “ratio fide illustrata”: l’Aeterni Patris, il neotomismo e la neoscolastica

Nel 1323 Giovanni XXII canonizzò Tommaso d’Aquino: da allora in maniera sempre più crescente, malgrado i contrasti, il pensiero dell’Aquinate divenne un punto di riferimento fondamentale ed ufficiale per la teologia e la dottrina della Chiesa cattolica. Nel corso della modernità una significativa rinascenza del tomismo fu operata dai domenicani, tra questi Franscesco dei Silvestri detto il Ferrarese (1478-1528) e Tommaso de Vio detto il Cajetano (14681534) - e soprattutto dai gesuiti all’indomani del Concilio di Trento: com’è noto, tale ripresa del pensiero dell’Angelico dottore trovò in Pedro de Fonseca (1528-1599) e in Francisco Suárez (1548-1617) alcune tra le sue più compiute espressioni. De Fonseca promosse nell’Università di Coimbra in Portogallo il primo corso di filosofia tomistica, detto cursus coinbricensis, con lo scopo di “correggere” Aristotele con S. Tommaso. Un simile atteggiamento intellettuale fu tentuto da Suárez nei sui corsi a Roma presso il Collegio Romano, l’università dei gesuiti: quest’ultimo tuttavia si distacca in numerosi

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punti dall’originario pensiero tommasiano, essendo influenzato dallo scotismo e persino dal nominalismo48. Nel Seicento e nel Settecento lo studio nelle scuole cattoliche era caratterizzato da una generale inclinazione all’eclettismo che esuvala da un’attenta conoscenza filologica dell’Aquinate e tentava piuttosto di conciliare le acquisizioni della philosophia perennis con le prospettive allora in voga: il cartesianesimo, l’ontologismo di Malebranche, la monadologia di Leibniz, l’empirismo di Locke, il sensismo di Condillac e sul finire del Settecento il criticismo kantiano. Ancora nei primi decenni dell’Ottocento, commenta Cornelio Fabro, «le stesse scuole cattoliche non seguivano una direzione dottrinale precisa; in Italia poi la comparsa del rosminianesimo e dell’ontologismo giobertiano nella seconda metà del secolo XIX lungi dal portare una chiarificazione aumentò lo smarrimento fin nei seminari e nelle congregazioni religiose. La confusione delle idee aveva raggiunto punte estreme e qualcosa bisognava fare per uscire dal marasma. È noto che almeno verso la metà del Settecento gli stessi domenicani sentirono il bisogno di un ritorno ad una fedeltà più intima alle dottrine del loro grande Confratello. […] Anche le altre famiglie religiose come i Barnabiti, i Carmelitani, i Minimi, i Signori della Missione o Lazzaristi avevano deciso un risoluto ritorno alle dottrine tomiste. Ma la dottrina a cui in effetti si tornava, più che al tomismo originario, risaliva ad abili forme di eclettismo, la cui forma più costruttiva e frequente era quella di un’abile sintesi di Sant’Agostino e di San Tommaso»49. Solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento si può parlare di una vera e propria rinascita del tomismo che sarà poi ufficialmente sancita ed auspicata dal magistero: prima da Papa Leone XIII con l’enciclica Aeterni Patris (4 agosto 1879) e poi da Pio X con l’enciclica Pascendi (8 settembre 1907) . Nelle sue ricostruzioni storiografiche Cornelio Fabro ha correttamente distinto tre fasi della 48

A tal proposito cfr. C. FABRO, Neotomismo e Suarezismo, Divus Thomas, Piacenza 1941; C. GIACON, La seconda scolastica, III voll., Bocca Edizioni, Milano 1947-1950. 49 C. FABRO, Il neotomismo in Italia, «Rivista di filosofia neoscolastica», 75, 1963, p. 171.

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rinascenza tomista, articolandole intorno all’enciclica Aeterni Patris: 1) la preparazione o il cammino prima dell’enciclica; 2) l’attuazione immediata dell’enciclica: 3) la ricerca di un compimento del programma dell’enciclica stessa, attuato tramite solide sistemazioni teoretiche50. Prima di descrivere queste tre fasi cerchiamo di chiarire il significato speculativo dei termini “neotomismo” e “neoscolastica”, delineando i contenuti delle principali dottrine difese. Per neotomismo si intende comunemente «la corrente filosofica che implica il ritorno alla dottrina di S. Tommaso d’Aquino in opposizione al pensiero moderno (nei suoi vari aspetti: razionalismo, empirismo, criticismo, hegelismo, positivismo, sensismo, ecc.), di fronte al quale assume un atteggiamento di condanna. Si tratta, sostanzialmente, di quella che è chiamata anche la “terza Scolastica” (intendendosi per “prima” la medievale e per “seconda” quella del periodo della Riforma cattolica)»51. Giorgio Giannini sottolinea che per neoscolastica «si intende la stessa corrente filosofica, non in quanto però è vista unicamente in opposizione al pensiero moderno, ma in quanto assume nei suoi riguardi un atteggiamento di confronto costruttivo, di inveramento e di recupero»52. Altro atteggiamento fondamentale della forma mentis neoscolastica è quello di una sostanziale apertura verso altri grandi dottori della Chiesa come Agostino, Anselmo d’Aosta, Bonaventura da Bagnoregio e Duns Scoto: possiamo quindi dire che «la neoscolastica, a differenza del neotomismo, si apre verso la linea platonico-agostiniana, o quanto meno non rimane esclusivamente legata alla linea aristotelicotomista»53. In ogni caso, sia in relazione al neotomismo che alla neoscolastica possiamo parlare di un paradigma di “ragione illuminata dalla fede”, di una ratio fide illustrata che consente alla ragione stessa di aprirsi - con solidità d’argomenti - ad una dimensione metafisica e trascendente. Notiamo che in questa 50

Cfr. C. FABRO, Il neotomismo in Italia, cit. G. GIANNINI, Il neotomismo, in Grande Antologia Filosofica, a cura di M.F. Sciacca, Marzorati, Milano 1977, Vol. XXVII, p. 256. 52 Ibidem. 53 Ibidem. 51

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prospettiva alla filosofia viene affidato un ruolo “forte” e “fondativo”: essa tramite l’autonomia dei suoi procedimenti è in grado di fornire alla fede ebraico-cristiana un suo saldo fondamento razionale. Per i neotomisti l’uomo tramite il lumen naturale della ragione riesce ad arrivare a quei princìpi primi e generalissimi che la fede rivelata poi chiarifica ed approfondisce. 1. I capisaldi speculativi della posizione aristotelico-tomista Il contenuto dottrinale del neotomismo può essere indicato con l’espressione “filosofia aristotelico-tomista”: tuttavia tale espressione nel corso del Novecento, grazie ad un sempre maggiore approfondimento dell’autentico pensiero dell’Aquinate a partire dai testi, è stato considerato un ibridismo. Come ha ben sottolineato Cornelio Fabro, il pensiero di Tommaso d’Aquino, pur partendo dall’epistemologia aristotelica, presenta elementi di originalità che lo distanziano nettamente dalla posizione dello Stagirita54: tra questi elementi vi sono sicuramente le nozioni di esse ut actus e di creatio ex nihilo da parte di Dio (Ipsum esse subsistens) che si comprendo solo all’interno di una Weltanschauung ebraico-cristiana, sconosciuta ad Aristotele. Tuttavia tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento l’espressione “filosofia aritotelico-tomista” indica la posizione aristotelica, ripresa e corretta da S. Tommaso, soprattutto per ciò che concerne la metafisica dell’atto e della potenza, nelle sue applicazioni al mondo, all’uomo e a Dio. Un elemento di fondo che caratterizza tutti i neotomisti è la difesa del realismo gnoseologico: in opposione alle posizione cartesiana, kantiana ed idealistica viene riaffermato la nozione di conoscenza come adeaquatio intellecus nostri ad rem: «il primo confronto dell’ente con l’intelletto si ha perché l’ente corrisponda all’intelletto. Tale corrispondenza viene chiamata adeguazione della cosa 54

Cfr. C. FABRO, Introduzione a San Tommaso. La metafisica tomistica & il pensiero moderno, Ares, Milano 19972. Cfr. anche C. GIACON, Le grandi tesi del tomismo, Marzorati, Milano 1948.

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all’intelletto. E in ciò coniste formalemte la verità»55. Il primum cognitum non è il cogito, l’autointuizione del sé (l’itellektuelle Anschauung di cui ad esempio parla J.G. Fichte) ma l’essere in sé stesso. Per i tomisti «ens est illud quod primum cadit in conceptione humana»56. In tale prospettiva la conoscenza umana viene concepita come un processo di astrazione che si origina nell’oggettività delle cose esteriori. Il primo gradino della conoscenza è quindi la sensazione: solo quest’ultima fornisce all’intelletto i suoi possibili contenuti. Si ricordi a tal propostio il celebre adagio: nihil est in intellectu quod prius non fuerit in sensu. I contunuti delle percezioni sensibili vengono subito raccolti dalle facoltà della memoria e dalla cogitativa: a quest’ultima spetta la formazione del phantasma, cioè della rappresentazione concreta dalla quale l’intelletto astrae e nella quale comprende l’essere delle cose materiali; si tratta della dottrina della conversio ad phantasmata. A partire da questi presupposti gnoseologici i neotomisti accusarono il pensiero moderno (da Cartesio a Kant e all’idealismo trascendentale) di aver assolutizzato la soggettività umana e di aver perso di vista l’oggettività dell’essere, unico vero e saldo punto di partenza di ogni itinerario conoscitivo. La filosofia moderna viene quindi percepita come una generale “dimenticanza dell’essere” (Vergessenheit des Seins direbbe Heidegger) a favore di una “ragione pura” assolutizzata ed autoreferenziale: nella modernità il pensiero umano rimane vittima di una curvatio in se ipsum, perde il suo rapporto fondamentale con l’oggettività dell’essere, cadendo di conseguenza in derive scettiche e nichilistiche. In netta opposizone al trascendentalismo moderno, i neotomisti propongono una generale rivalutazione del significato classico dei trascendentali, ovvero di quelle che la scolastica medievale aveva identificato come le sei caratteristiche universali di ogni ente: omne ens est res, aliquid, unum, verum, bonum e pulchrum. Rifiutando in toto il dubbio cartesiano e gli esiti scettici dell’empirisimo moderno, i neotomisti furono fautori di un “ottimismo conoscitivo”, fondato sul fatto che 55 56

TOMMASO D’AQUINO, De veritate, q. I, art. 1. TOMMASO D’AQUINO, In Boeth. De Trinitate I, 3 ad 3.

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ogni ente è portatore di certezza conoscitiva e di bontà ontologica poiché è creato direttamente da Dio, summum Bonum. Il realismo conoscitivo è strettamente legato alla difesa della metafisica di matrice aristotelica e ad una concezione “forte” della ragione: quest’ultima sarebbe in grado di determinare i praeambula fidei, i presupposti stessi della fede cristiana: in primis l’esistenza di un principio primo del mondo e l’immortalità dell’anima umana. A partire dal principio di causa come realtà insita nelle cose stesse, secondo i tomisti la ragione umana può arrivare a dedurre la necessaria presenza di una causa incausata, di un principio primo di ordine, finalità e bellezza che stia a fondamento dell’universo. A tale causa prima la fede religiosa dà il nome di Dio: id quod dicimus Deum. Si comprende allora come nell’ambito del tomismo la filosofia assuma un ruolo propedeutico ed ancillare nei confronti della teologia: la ragione filosofica è ancilla theologiae, essa “serve” alla teologia rivelata poiché con le sue rigorose argomentazioni è in grado di affermare i princìpi stessi della fede. Tra teologia naturale (cioè quella che si serve della sola ragione) e teologia rivelata (cioè che argomenta a partire dalla rivelazione contenuta nelle Sacre Scritture) v’è un rapporto di continuità e di reciproca collaborazione: sono entrambi strumenti efficaci per arrivare a Dio. Nella prospettiva tomista tra la fede e la ragione v’è una una concordia non discors, una “concordia non discordante”. Tale principio è stato riaffermato anche nell’incipit dell’enciclica di Giovanni Paolo II Fides set ratio: «la fede e la ragione sono le due ali tramite le quali l’uomo può giungere alla contemplazione della verità». In opposizione a tanta parte dell’agnosticismo moderno che negava con radicalità la conoscibilità di Dio e dei suoi attributi a parte hominis, i neotomisti riaffermano il valole fondamentale dell’analogia, ciò di una possibile conoscenza delle caratteristiche generali dell’essere supremo “secundum analogiam”, a partire cioè dagli aspetti positivi dell’essere creato. Quella dell’analogia è una dottrina di origine biblica e che in San Tommaso ha trovato una compiuta elaborazione, sorta come correzione ed ampliamento dell’ontologia aristotelica: la dottrina dell’analogia rivendica la conoscibilità di Dio a partire dalle cose create, «per ea quae facta 48

sunt»: del resto, già il libro della Sapienza (XIII, 5) affermava che «attraverso la grandezza e la bellezza delle creature si può conoscere per proporzione [analógos, nella traduzione greca dei Settanta] colui che ne è il creatore». Il ricorso all’analogia da una parte rende possibile una certa predicabilità degli attributi di Dio, dall’altra salvaguarda la trascendenza di Dio stesso, ovvero l’alterità del suo essere (infinito) nei confronti dell’essere degli enti creati e finiti (che hanno l’essere solo per partecipationem). Criticando il meccanicismo moderno i neotomisti difendono una concezione della realtà ilemorfica, organicistica e finalistica. Riproponendo un linguaggio aristotelico, tutti gli enti vengono considerati come un sínolo, cioè un unione, di materia (hýle) e forma (eîdos/morphé) e la stessa costituzione dell’uomo viene concepita come un’unione sostanziale di forma e materia, cioè di anima e corpo. La dottrina dell’anima forma corporis «è una delle più importanti applicazioni dell’ilemorfismo all’antropologia filosofica, che consente tuttavia di salvaguardare la peculiarità dell’uomo come unico soggetto vivente-sensitivo-intellettivo per la decisa affermazione della spiritualità dell’anima. Il neotomismo insiste con forza su questa dottrina per confutare tutte le posizioni del pensiero moderno che assumono un atteggiamento negativo circa la unione sostanziale tra anima e corpo: la separazione cartesiana tra estensione [la materia come res extensa] e il pensiero [la res cogitans], che conduce all’occasionalismo [di Malebranche]; il parallelismo psicofisico spinoziano; l’armonia prestabilità leibniziana»57 e soprattutto il dualismo kantiano di fenomeno e noumeno, che conduce a considerare l’anima come un quid postulabile per fede ma non conoscibile tramite la ragione. In ambito morale i neotomisti ripresero e difesero la nozione di sinderesi: essa è la scintilla della coscienza con la quale l’uomo intuisce con evidenza i princìpi primi dell’ordine morale, il bene e il male58. La sinderesi viene definita dall’Aquinate come l’intellectus 57

G. GIANNINI, Il neotomismo, cit., p. 267. Ricordiamo che il termine sinderesi fu introdotto nella speculazione cristiana da San Girolamo e deriva dal greco syntéresis, cioè coscieza morale, ciò che in tedesco viene indicato con la parola Gewissen (coscienza 58

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primorum principiorum, il naturale iudicatorium, la ratio naturalis, la scintilla animae e la scintilla conscientiae. In maniera simile a quanto avviene in ambito teoretico per il principio di identità e di non contraddizione, così avviene nel campo pratico grazie alla sinderesi: l’intelletto è naturaliter in grado di acquisire dei princìpi morali universali e certissimi. Se la volontà, a causa del peccato originale, può sbagliare, la sinderesi della coscienza non può tuttavia sbagliare: «la legge naturale - afferma San Tommaso - non può cancellarsi in nessun modo dal cuore dell’uomo nella sua formulazione astratta»59. La sinderesi è quindi l’organo conoscitivo della legge naturale, fondata a sua volta nella legge eterna. Quest’ultima (lex aeterna) non è altro che l’ordine stesso dell’universo voluto da Dio; in questa prospettiva, la legge naturale è oggettiva in quanto si fonda sulla legge divina ed eterna e costituisce l’insieme dei princìpi morali, universali e generali, che l’uomo conosce per mezzo della luce naturale della ragione, ovvero della sinderesi. Possiamo dire quindi che la sinderesi sia un’impressione in noi della luce divina, per la quale possiamo discernere il bene ed il male; essa è il principio di conoscibilità di valori morali oggettivi ed ontologicamente fondati. In ultima analisi, la sinderesi è la condizione di possibilità conoscitiva dello stesso diritto naturale, al quale deve ispirarsi ogni lex humana in civitate posita. 2. Vincenzo Buzzetti e la rinascita del tomismo nella cultura italiana dell’Ottocento I contenuti dell’enciclica Aeterni patris furono preparati da un vasto movimento italiano ed europeo fautore di una ripresa del pensiero di Tommaso da opporre agli esiti materialistici, panteistici o atei del pensiero moderno. Amato Masnovo nelle sue ricerche sulle morale), distinta da Bewusstsein (coscienza conoscitiva). Cfr. SAN GIROLAMO, Commentarium in Ezechielem, I, cap. I, in J.-P. MIGNE, Patrologiae Cursus Completus. Series II: [Patres] Ecclesiae Latinae, Parisiis 1844-1974, Vol. XXV, col. 22. 59 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, Ia-IIa, p. 94m art. 6.

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origini di tale ripresa del tomismo nella cultura italiana dell’Ottocento individua in Vincenzo Buzzetti (1777-1824) una figura di centrale importanza60. Di tale parere è anche Eugenio Garin, il quale vede nell’opera di Bozzetti l’inizio di un movimento d’idee che sarà ampiamente sviluppato dalla cultura cattolica del secondo Ottocento e nei primi decenni del Novecento: la ripresa del tomismo - sottolinea giustamente Garin - era in funzione anti-illuminista e tentava di contrastare le filosofie di Rosmini e di Gioberti, che cercavo di conciliare in una superiore sintesi le istanze del pensiero moderno con le acquisizioni della filosofia cristiana (di Agostino e di Tommaso): «non che il Settecento avesse ignorato San Tommaso; ma i trattati di un Gian Giacomo Leti, di un Ferdinando Maria Secco, di un G.A. Ferrari [e di un Salvatore Roselli] non erano che semplici esposizioni. Ora invece [con Buzzetti e la sua scuola] ci si serve del tomismo per una doppia critica: contro i residui dell’illuminismo e contro le posizioni rosminiane e giobertiane, in cui si riaffermava pur nell’ambito di una restaurazione cattolica il pensiero moderno»61. A partire dalle ricerche storiografiche di Masnovo moltri altri studiosi hanno sottolineato il ruolo decivivo che Bozzetti ha esercitato nella rinascenza tomistica in Italia: intorno alla sua figura si è quasi creata la leggenda aurea di un autodidatta nello studio della Summa Theologiae. Paolo Dezza, seguendo Masnovo, afferma che Buzzetti «con l’unica sorte del suo ingegno, senza influsso esterno di guide e di maestri, si è orientato verso San Tommaso e ha scritto quei trattati di filosofia ove il sistema filosofico aristotelico-tomista balza innanzi agli occhi così sicuro, organico e chiaro»62. In realtà studi più recenti sulla formazione intellettuale e sulla vita del Buzzetti hanno messo in evidenza che il suo tomismo costituisce una ripresa dell’opera di 60

A. MASNOVO, Il Neo-Tomismo in Italia. Origini e prime vicende, Vita e Pensiero, Milano 1923. A tal propostito si vedano anche P. Pirri, Intorno alle origini del rinnovamento tomista in Italia, «La Civiltà Cattolica», 79/4, 1928, pp. 215-229. 61 E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Einaudi, Torino 1966, Vol. III, p. 1220. 62 P. DEZZA, Alle origini del Neotomismo, Bocca Editori, Milano 1940, p. 19.

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Salvatore Roselli (1722-1784), che con la sua fortunata opera Summa Philosophica (1777; 1783 seconda edizione aumentata) può essere considerato come uno degli antesignani del neotomismo63: a tal proposito basti pensare che lo stesso Cornelio Fabro (1911-1995) ricorda di essersi formato sul sopracitato manuale «del Roselli, fonte principale di quello dello Zigliara e del neo-tomismo»64. Oltre che dal Roselli, l’impulso ad approfondire il pensiero di San Tommaso giuse al Bozzetti anche dal gesuita spagnolo Balthasar Masdeu (1741-1820): questi dovette lasciare la Spagna dopo lo scoglimento dei gesuiti e dal 1806 al 1812 soggiornò ed insegnò a Piacenza presso il Collegio San Pietro. È quindi anche dai contatti piacentini con il Masdeu che Buzzetti sarebbe stato incitato nello studio più approfondito dell’Aquinate. 63

È in particolare a partire dagli studi di G.F. Rossi sul tomismo professato al collegio Alberoni di Piacenza che si è sfatata l’idea di un Buzzetti autodidatta nello studio dell’Aquinate: egli infatti sulla base di cospicui documenti ha dimostrato che i Lazzaristi fin dall’inizio della loro attività in Italia (1632) insegnavo filosofia seguendo un’impostazione aristotelicotomista. Egli quindi sostiene che il Buzzetti non fu l’iniziatore bensì il “diffusore” del neotomismo piacentino. Cfr. G.F. ROSSI, La filosofia nel collegio Alberoni e il neotomismo, Collegio Alberoni, Piacenza 1959-1961; IDEM, La neoscolastica italiana dalle sue prime manifestazioni all’enciclica «Aeterni Patris», in E. CORETH – W.M. NEIDL – G. PFLIGERDORFFER (a cura di), La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, Edizione italiana a cura di G. Mura e G. Penzo, Città Nuova, Roma 1995, Vol. II, pp. 105-153; H.M. SCHMIDINGER, La disputa sugli inizi della neoscolastica italiana, in E. CORETH - W.M. NEIDL - G. PFLIGERDORFFER (a cura di), La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, cit., Vol. II, pp. 93-104. A tal proposito si vedano anche A. LIVI, Il ritorno alla studio di S. Tommaso prima e dopo l’«Aeterni Patris», «Scripta theologica», 11, 1979, pp. 599-618; V. ROLANDETTI, Da Buzzetti (1777-1824) all’«Aeterni Patris», in L’enciclica «Aeterni Patris». Significato e preparazione, Atti dell’VII Congresso Tomistico Internazionale, LEV, Città del Vaticano 1981, Vol. II, pp. 219247. 64 C. FABRO, Appunti di un itinerario. Versione integrale delle tre stesure con parti inedite, , Edivi, Roma 2011, p. 31 [la stesura di questi scritti autobiografici venne effettuata nel 1980].

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Il Buzzetti studiò al Collegio Alberoni di Piacenza, tenuto dai Padri Lazzaristi e successivamente insegnò nel seminario della città fino al 1824, anno della sua morte prematura a 47 anni. La sua opera principale, ripresa e portata a compimento dal suo successore Angelo Testa, si intitola Institutiones Philosophicae iuxta Thomae et Aristotelis inconcussa dogmata: essa venne considerata «il manifesto del ritorno alla tradizione medievale, in particolare a San Tommaso»65 e come tale fu riedita dal Masnovo nel 1940-1941. Lo scritto è composto da tre ampie parti che rivelano su saldo impianto sistematico: Logica et metaphysica generalis; Psychologia; Cosmologia et ethica. Il Buzzetti ha esposto le teorie dell’Aquinate ponendole a confronto con quelle moderne formulate da Cartesio, Locke, Condillac e dagli illuministi come Genovesi e Beccaria. Tuttavia, come era tipico dell’ambiente culturale neotomista, venivano quasi del tutto escusi dalla trattazione i progressi moderni delle scienze naturali. Tra il 1823 e il 1824 Buzzetti diede alle stampe anche un trattato dal titolo De religione nel quale viene criticato il tradizionalismo di Lamennais, autore con il quale tenne anche un carteggio. Al seminario di Piacenza il Buzzetti ebbe come allievi i fraelli Domenico e Serafino Sordi, che entrarono poi tra i gesuiti. Serafino Sordi (1793-1865) fu uno tra i più notevoli esponenti del neotomismo ottocentesco: egli lascio due significavi trattati inediti, Ontologia e Theologia naturalis, pubblicati rispettivamente da Paolo Dezza nel 1941 e nel 1945. Sono inoltre di particolare importanza storiografica gli scritti del Sordi in cui vengono discusse le posizioni di Rosmini e di Gioberti: Lettere intorno al Nuovo saggio sull’origine delle idee dell’abate Antonio Rosmini-Serbati (Modena 1843); I primi elementi del sistema di V. Gioberti dialogizzati (Bergamo, 1849); I misteri di Demofilo (Torino 1850). Serafino Sordi ed i suoi confratelli gesuiti Matteo Liberatore (1810-1892) e Giovanni Maria Cornoldi (1822-1892) mossero durissime critiche 65

F.G. BRAMBILLA, Il neotomismo tra restaurazione e rinnovamento, in G. ANGELINI – G. COLOMBO – M. VERGOTTINI (a cura di), Storia della Teologia, Vol. IV, Età moderna, Piemme, Casale Monferrato 2001, pp. 399-490, p. 409.

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alle filosofie di Rosmini e di Gioberti, accusandole di essere panteistiche e di argomentare in maniera confusa e fideistica. Secondo il Cornoldi la Teosofia di Rosmini, una delle sue opere metafisiche più complesse, nasceva da una radicale confusione tra il lógos filosofico e la teologia rivelata: il Roveretano, quando nell’opera sviluppa un’”ontologia triadica” argomenterebbe a partire dai dati della fede cristiana (dal dogma triniatio) e non dalla ragione ixta propria principia66. Inoltre sia per il Cornoldi che per il Liberatore il giobertismo non era che «un prettissimo panteismo. Né esso per avventura discende dalle parole, le quali a rigor di sentenza sono panteistiche, e ti ricordano ora Spinoza, ora Fichte, ora Schelling, ora Hegel, e sembrano rinnovellarti l’antichissima dottrina vedantica; ma [il panteismo] segue direttamente dagli stessi princìpi fondamentali su cui tutto il sistema si appoggia»67. Nella rinascita ottocentesca degli studi tomistici ebbero sicuramente un ruolo fondamentale i gesuiti: furono soprattutto questi a preparare l’humus culturale favorevole all’enciclica Aeterni Patris. Oltre ai già menzionati Serafino e Domenico Sordi, al Liberatore e al Cornoldi, vanno anche ricordati per la loro opera intellettuale il padre Luigi Taparelli d’Azeglio (1793-1862), difensore del diritto naturale tommasiano contro il giusrazionalismo moderno e il positivismo giuridico68, il Cardinal Tommaso Maria Zigliara (1833-1893) che fu il primo curatore dell’Edizione Leonina delle opere di San Tommaso, e Giuseppe Pecci, fratello di Leone XIII. Alla diffusione del tomismo contribuirono anche alcune significative riviste ed accademie. Gaetano Sanseverino (1811-1865) 66

Cfr. G.M. CORNOLDI, Il rosminianismo sintesi dell’ontologismo e del panteismo, Roma 1881. A tal proposito cfr. anche L. MALUSA, Neotomismo e intransigentismo cattolico. Il contributo di Giovanni Maria Cornoldi per la rinascita del tomismo, Istituto di Propaganda Libraria, Milano 1986. 67 M. LIBERATORE, Della conoscenza intellettuale, 1857-1858, [il passo citato viene riportato in E. GARIN, Storia della filosofia italiana, cit., Vol. III, p. 1221]. 68 Cfr. L. TAPARELLI D’AZEGLIO, Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto, Palermo 1840-1843.

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a Napoli diede vita nel 1840 alla rivista “Scienza e fede” e nel 1846 istituì, sempre nella capitale partonopea, l’Accademia di Filosofia Tomistica, impresa che assai lodata anche da Pio IX69. Del Sanseverino sono certamente da menzionare anche i sette cospicui volumi (editi dal 1862) della Philosophia cristiana cum antiqua et nova comparata: grazie a quest’opera e al suo insegnamento nel Liceo arcivescovile di Napoli, il Sanseverino formò una vera e propria “scuola tomistica”70. Tra i suoi discepoli possiamo ricordare Salvatore Calvanese (1830-1916), Giuseppe Prisco (1833-1923), che po divenne cardinale di Napoli, Salvatore Talamo (1844-1932), che fu uno degli ispiratori dell’enciclica Aeterni Patris71, e Nunzio Signoriello (1820-1899); a quest’ultimo si deve la pubblicazione di un’opera che costituisce il compendio di quella del maestro e che conobbe una larghissima diffusione nei seminari di tutt’Europa: gli Elementa philosophiae christianae, editi in tre volumi tra il 1864 e il 1870. Ancora a Napoli nel 1849 il gesuita Carlo Maria Curci (18101891) fondò «La Civiltà Cattolica», rivista espressamente voluta da Pio IX per la difesa della sacra docrina: la rivista, la cui redazione fu successivamente trasferita a Roma, fu uno dei maggiori organi culturali per la diffusione del tomismo e delle idee ecclesiastiche in campo socio-politico; basti pensare nei primi anni del Novecento i 69

A tal proposito si veda A. PIOLANTI, Pio IX e la rinascita del tomismo, LEV, Città del Vaticano 1974. 70 Cfr. P. ORLANDO, Il neotomismo a Napoli e Gaetano Sanseverino, «Asprenas», 9, 1962, pp. 277-303; IDEM, Il tomismo a Napoli nel secolo XIX. La scuola del Sanseverino, I: Fonti e documenti, Roma 1968; C. LIBERTINI, Il Sanseverino e le origini del neotomismo in Italia, «Aquinas», 8/3, 1965, pp. 77-106. 71 Di Salvatore Talamo è da ricordare un volume nel quale si confronta con gli sviluppi delle scienze naturali: Il rinnovamento del pensiero tomistico e la scienza moderna (Roma 1927). Dal 1880 fino alla morte fu segretario dell’Accademia romana di S. Tommaso; inoltre nel 1893 fondò insieme con Giuseppe Toniolo la «Rivista internazionale di scienze sociali e di discipline ausiliarie»; questa promosse per più di trent’anni il riformismo cattolico in campo sociale. L’impegno intellettuale ed etico-politico del Talamo fu molto apprezzato anche da Giovanni Gentile: cfr. G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messina 1921, Vol. III, pp. 161-165.

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collaboratori de «La Civiltà Cattolica» si adopararono a contrastare il modernismo, a criticare l’idealismo neohegeliano e tutti gli indirizzi di pensiero immanentistici e riduttivi nei confornti della religione. Il Curci fu colui che, così Gioberti, personificava il “gesuita moderno”: egli intendeva la scolastica come baluardo contro la filosofia moderna e con questo spirito fece l’importante traduzione italiana dell’opera di Joseph Kleugten Die Philosophie der Vorzeit verteidigt, edita in due volumi a Münster nel 1860-63. Il titolo della traduzione italiana è La filosofia antica esposta e difesa: con quest’opera il Kleugten, un altro dei grandi ispiratori dell’enciclica Aeterni Patris, intendeva mettere in luce la perenne vitalità del pensiero tommasiano, opponendosi ai tentativi intrapresi in Germania dall’Hermes, dal Günther e dal Frohschammer di conciliare il cattolicesimo con le filosofie di Kant, di Hegel e di Schelling. Di particolare importanza culturale per la diffusione del tomismo nell’Italia settentrionale fu l’Istituto Filosofico Aloisianum di Gallarate, tantuto dai gesuiti: in esso va ricordata l’opera di Giuseppe Mauri (1849-1923), il cui insegnamento si riconnetteva a quello del Cornoldi, di Massimiliano Anselmi, di Serafino Sordi e quindi dello stesso Bozzetti. Tuttavia per il rilancio del tomismo che fece da background all’Aeterni Patris furono decisivi anche alcuni centri culturali di Roma: tra questi in particolare il Collegio Romano che nel 1824 Leone XII affidò ai padri gesuiti e che ebbe come primo rettore il gia menzionato padre Taparelli d’Azeglio72.

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Sulla Ratio studiorum e le caratteristiche dell’Istituto si veda P. PIRRI, L’Università Gregoriana del Collegio Romano dal 1824 al 1924, in L’Università Gregoriana del Collegio Romano nel primo secolo della restituzione 1553 – 1824 – 1924, Roma 1924, pp. 1-14; G. FILOGRASSI, Teologia e filosofia nel Collegio Romano dal 1824 ad oggi, «Gregorianum», 35, 1954, pp. 512-540. Uno sguardo d’insieme sulla diffusione del tomismo nell’Italia dell’Ottocento viene dato da H.M. SCHMIDINGER, Centri tomistici a Roma, Napoli, Perugia, in E. CORETH W.M. NEIDL - G. PFLIGERDORFFER (a cura di), La filosofia cristiana, cit., pp. 154-177.

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3. «Vetera novis augere et perficere»: l’Aeterni Patris e la diffusione del tomismo Il 20 febbraio 1878 saliva al trono di Pietro Gioacchino Pecci col nome di Leone XIII. Già il suo precedessore Pio IX aveva dimostrato un’acuta sensibilità per il rilancio del pensiero tomistico, tuttavia fu solo con Papa Pecci che tale programma fu espresso organicamente ed ufficialmente in importanti documenti come l’Aeterni Patris e l’Epistula Encyclica ad Episcopos et clerum in Gallis in qua praesetim de educatione cleri, promulagata l’8 settembre 1899. La finalità di tali documenti fu quella di assicurare l’unità del pensiero filosofico-teologico all’interno della chiesa, al fine di contrastare con più fermezza la secolarizzazione (che nella Germania di Bismark aveva preso il nome di Kulturkampf) e le derive scettiche del pensiero moderno: inoltre tali encicliche, compresa la Rerum novarum per la “questione sociale”, rappresentarono un punto di forza della politica leonina tesa ad affermare la supremazia della chiesa sullo Stato, mediante la tesi del “potere indiretto”73. Il programma politico e culturale di Leone XIII viene bene espresso dal motto scelto per il suo pontificato: «vetera novis augere et perficere», portare a compimento e migliorare le cose antiche tramite le nuove. È in quest’ottica che il tomismo viene individuato come la filosofia della chiesa da promuovere, da rinverdire e da aggiornare tramite il confronto critico con pensiero moderno. Nel programma leonino la filosofia ad mentem sancti Thomae costituì «quel principio di unità culturale e politica, attorno al papato, inteso come rimedio

73

Una volta perso il potere temporale, i pontefici - da Leone XIII in poi cercarono di ridare alla chiesa un forte “potere indiretto” sui governi europei, rendedola una salda guida morale e spirituale. L’idea di “potere indiretto” della chiesa viene presentata con efficacia nel volume di P. THIBAULT, Savoir et pouvoir. Philosophie tomiste et politique cléricale au XIX siècle, Les Presses de l’Université Laval, Québec 1972. Cfr. anche G. PERINI, Tomismo e «potere clericale». Una ricerca sul significato e la funzione storica della filosofia tomista, «», 78, 1975, pp. 94-127.

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alla dispersione e ai guasti della modernità»74. In tal senso possiamo dire che l’enciclica Aeterni Patris e i successivi documenti ad essa correlati si pongano sulla scia di quel radicale anti-modernismo che ha caratterizzato il cattolicesimo dell’Ottocento: si tratta di una concezione della modernità come “cumulo di errori”, errori iniziati in teologia con Lutero e in filosofia con Cartesio75. Nei paragrafi introduttivi dell’Aeterni Patris viene osservato che «“con la filosofia e la vanità ingannatrice” (Lettera ai Colossesi 2, 8), le menti dei fedeli sono tratte in inganno e che si corrompe in essi la purezza della fede»76. È a partire da queste preoccupazioni pastorali che Leone XIII avverte l’esigenza di dedicare un’apposita enciclica «agli studi filosofici, perché corrispondano convenientemente al bene della fede e alla dignità delle scienze umane»77. In particolare nel documento viene affermato che i mali morali e politici della società hanno precise origini ideologiche: queste, in gran parte, si sono originate nella modernità e prendono il nome di illuminismo, di materialismo, di secolarizzazione e di scetticismo nei confronti del divino. La preoccupazione principale del Papa nasce dal fatto che anche all’interno della chiesa ci sono molti che avendo «messo in disparte il patrimonio dell’antica sapienza, [hanno voluto] piuttosto tentare cose nuove che aumentare e perfezionare con le nuove le antiche»78. Alla filosofia l’enciclica affida tre grandi compiti, tracciando le linee di un saldo programma speculativo. 1) «In primo luogo la filosofia, se rettamente usata dagli intellettuali, serve in certo modo a spianare e a preparare la strada alla vera fede, e a preparare 74

F.G. BRAMBILLA, Il neotomismo tra restaurazione e rinnovamento, in G. ANGELINI – G. COLOMBO – M. VERGOTTINI (a cura di), Storia della Teologia, cit., p. 400. 75 Tale critica agli “errori filosofici della modernità” verrà ripresa, con nuove argomentazioni, anche da Jacques Maritain, in particolare nei suoi primi scritti: l’Anti-moderne e I tre riformatori. 76 LEONE XIII, Aeterni Patris, in Enchiridion delle encicliche, Vol. III, n. 50. 77 Ibidem. 78 Ibidem, n. 96.

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convenientemente gli animi dei suoi alunni a ricevere la rivelazione»79. Compito primario della filosofia è quello di provare i praeambula fidei, l’esistenza di Dio e la credibilità razionale della rivelazione. In quest’ottica la filosofia è chiamata a dimostrare l’intrinseca razionalità dell’atto di fede: quest’atto non richiederebbe nessun sacirificio dell’intelletto ma sarebbe il naturale coronamento di un percoso argomentativo. 2) In secondo luogo, la filosofia servirebbe a conferire carattere scientifico alla teologia: «Posti questi solidissimi fondamenti [i praeambula fidei], si richiede un continuo e molteplice uso della filosofia, affinchè la sacra teologia assuma e rivesta natura, forma e carattere di vera scienza. Infatti in questa disciplina, nobilissima fra tutte le altre, è sommamente necessario che le molte e diverse parti delle celesti discipline si colleghino come in un sol corpo, di modo che, messe ordinatamente al loro posto e dedotte dai loro princìpi, stiano tra di loro in bella e stretta armonia; e finalmente che tutte e singole siano confermate con propri inconfutabili argomenti»80. Con queste espressioni si precisa la concezione tomistica della philosophia ancilla theologiae: il lógos umano ha il compito fondamentale di costruire un articolato sistema di verità a partire dai molteplici contenuti delle Sacre Scriutture e dalla tradizione storica della chiesa. La filosofia è quindi chiamata ad edificare una “logique de la foi” a partire dalla Scriptura e dalla Traditio. 3) Il terzo compito fondamentale della razionalità è quello dell’apologetica: proteggere le verità di fede confutando tutte le possibili obiezioni. «Tocca infatti alla filosofia difendere con la massima cura le verità rivelate e opporsi a coloro che ardiscono confutarle. E per questo motivo che è gran vanto della filosofia essere considerata propugnacolo della fede e fermo baluardo della religione»81. Questi tre compiti, afferma Leone XIII, furono copiuti da tutti i grandi dottori della chiesa, come Sant’Agostino e San Bonaventura. Tuttavia, egli aggiunge, in San Tommaso troviamo un modello 79

Ibidem, n. 54. Ibidem, n. 60. 81 Ibidem, n. 62. 80

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insuperabile. Ecco le sue parole: «Ma fra tutti i dottori scolastici emerge di gran lunga come guida e maestro Tommaso d’Aquino. Egli, come nota il Cardianle Gaetano [Tommaso de Vio], “tenne in somma considerazione gli antichi sacri dottori, per questo raggiuse in certo qual modo la conoscenza di tutti”. Tommaso raccolse le loro dottrine come membra dello stesso corpo sparse qua e là e ne compose un insieme organico, le dispose con ordine meraviglioso e le accrebbe con grandi aggiunte così da meritare di essere considerato eccellente presidio e gloria della chiesa cattolica. […] Non esiste argomento filosofico che egli non abbia trattato con acutezza e solidità: egli disputò in modo tale delle leggi della dialettica, di Dio e delle sostanze incorporee, dell’uomo e delle altre cose sensibili, degli atti umani e dei loro princìpi da non lasciare a desiderare né una copiosa messe di questioni, né un conveniente ordinamento delle parti, né un metodo eccellente di procedere, né solidità di princìpi o forza d’argomenti, né chiarezza o proprietà nell’esporre, né facilità di spiegare qualunque più astrusa materia […]. Inoltre distinse accuratamente, come si conviene, la ragione dalla fede; ma stringendo l’una all’altra in amichevole consorzio, conservò interi i diritti di entrambe e intatta la loro dignità. Ne conseguì che la ragione, portata da S. Tommaso al sommo della sua grandezza, quasi dispera di salire più in alto e la fede difficilmente può ripromettersi dalla ragione aiuti maggiori e più potenti di quelli che ormai, grazie a S. Tommaso, ha ottenuto»82. Il sottolitolo dell’encliclica leonina ci indica chiaramente la finalità stessa del documento: De philosophia christiana ad mentem Sancti Thomae Aquinatis in scholis catholicis instauranda. Come abbiamo guà accenntato in precedenza, un nuovo significativo incitamento alla diffusione della scolatica ed in particolare del tomismo venne anche dal successione di Leone XIII, ovvero da Papa Pio X con la bolla Lamentabili (3 luglio 1907) e soprattutto con l’enciclica Pascendi (8 settembre 1907): in questi documenti la scolastica veniva indicata come l’armanentario concettuale più valido per opporsi al modernismo, cioè a quella corrente di pensiero cattolico incline a 82

Ibidem, n. 83-86.

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recepire le inclinazioni e le trasformazioni della modernità. Tali impulsi della Santa Sede per la difesa della scolastica favorirono la nascita di nuove istituzioni ecclesiastiche ed università: nel 1875 a Parigi fu fondato l’Institut catholique e nel 1893 Antonin Sertillanges e Pierre Mandonnet diedero inizio alla Revue thomiste; nel 1894 fu fondato in Belgio l’Institut Supérieur de Philosophie di Lovanio, contemporaneamente alla Revue néoscholastique; numerose isitituzioni sorsero anche in Spagna, in Canada, e persino degli Stati Uniti dove si diede vita anche a riviste come «New Scholasticism» (dal 1927) e «The Thomist» (dal 1939). Le università pontificie di Roma (la Gregoriana, l’Angelicum e la Lateranense) diedero vita ad un movimento di idee definito come “tomismo romano”; i suoi maggiori rappresentanti (tutti ecclesiastici) furono Michele De Maria, Matteo Liberatore, Camillo Mazzella, Vincenzo Remer, Louis Billot, Salvatore Talamo, Francesco Satolli e Guido Matiussi. Questi autori elaborarono i princìpi del tomismo in forma sistematica, quasi prescindendo dalla genesi storica del pensiero tommasiano e non prendendo in dovuta considerazione neanche le altre prospettive del pensiero medievale. Adriano Bausola ha ben messo in evidenza le differenze fondamentali tra questo tipo di “tomismo romano” e la successiva “neoscolastica milanese” (favorita presso l’Universtà cattolica di Milano fondata da Padre Gemelli nel 1921): i “tomisti romani”, egli sottolinea, possedevano una «scarsa conoscenza del pensiero moderno, raramente letto nelle sue fonti dirette, e perciò criticato spesso ignorando i suoi veri caratteri e le esigenze da cui era sorto. L’atteggiamento della neoscolastica milanese fu diverso. Si era compreso che, perché si potesse stabilire un dialogo tra vecchia filosofia e nuova cultura, occorrevano alcune condizioni che, talora erano venute meno, presso i tomisti “romani”: bisognava partire dalla cultura e dalla scienza conporanea, vissute dall’interno (e perciò anzitutto sul serio conosciute) per affrontare i problemi da esse sollevate, con lo strumento degli antichi princìpi; bisognava confrontare le convinzioni cosmologiche ed antropologiche tomistiche in funzione delle nuove prospettive scientifiche»83. 83

A. BAUSOLA, La cultura cattolica e il neoidealismo, in P. DI GIOVANNI (a cura di), Il neoidealismo italiano, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 155-167,

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Prima di analizzare le caratteristiche della “neoscolastica milanese” ci soffermiamo brevemente su una delle figure più rappresentative del “tomismo romano”, il gesuita Guido Matiussi (1852-1925). Questi si laureò in fisica alla Sorbona e successivamente divenne docente di teologia dogmatica all’Università Gregoriana di Roma. Fu incaricato da papa Pio X di redigere una sintesi di dottrine tomiste che fossero una guida sicura per gli studi filosofici dei seminari e soprattutto un antidoto al modernismo, che - come vedremo più avanti - in quegli anni si stava diffondendo84. Nel 1917 Monsignor Matiussi pubblicò a Roma Le XXIV tesi della filosofia di S. Tommaso: esse ebbero ampia diffusione nel mondo cattolico e ne determinarono un’accentuata chiusura in sé stesso85. Difendendo un tomismo dogmatico ed atemporale, che prescindeva completamente dalle problematiche storiche, il Matiussi condannava in toto la modernità filosofica e i suoi princìpi soggettivistici e storicistici. Tale condanna veniva espressa in maniera emblematica anche in un precedente ed ormai celebre volume dal titolo Il veleno kantiano (Monza 1907). Secondo Matiussi «sebbene Kant non voglia passare né per scettico né per idealista, la sua filosofia conduce “inevitabilmente” a un “universale scetticismo”». Diversamente da quanto sostengono i fautori del metodo dell’immanenza (i modernisti Blondel, Laberthonnière ed in Italia Ernesto Buonaiuti), seguendo il pensiero kantiano non sarebbe possibile alcuna apologetica del cristianesimo: «con la bontà della vita e del cuore» - osservava Matiussi criticando il kantiano primato del pratico seguito dai modernisti - «non è possibile ristorare il rovinato edificio della conoscenza». Matiussi è perentorio nell’affemare che il pensiero kantiano è veleno poiché «rimane tronco alla radice l’ordine conoscitivo»: il criticismo trascendentale del filosofo tedesco proibisce il realismo e il possesso di ogni certa p. 160. 84 Di Guido Matiussi è anche Il giuramento antimodernista, Bergamo 1909. 85 Cfr. G. MATIUSSI, Le XXIV Tesi della filosofia di san Tommaso d’Aquino approvate dalla S. Congregazioen degli Studi, Università Gregoriana, Roma 1917. Un nuovo catalogo di 24 tesi fu proposto pochi anni dopo dal domenicano Edouard Hugon (Les vingtquatre thèses thomistes, Paris 1927).

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verità sull’essere oggettivo: «tutto rimane instabile e incerto»; inoltre egli dissolve la morale rendendola autonoma dalla rivelazione religiosa e fa dipendere ogni dovere dall’arbitrio del singolo. Le critiche di Matiussi rivolte a Kant non fanno che rinnovare quelle mosse dal gesuita Benedikt Stattler (1728-1797) verso la fine del Settecento86: divulgano l’immagine falsata di un filosofo scettico, idealista e soggettivita, il cui sistema, insieme all’hegeliano, non è che la sintesi compiuta di tutti gli “errori della modernità”. 4. Agostino Gemelli e la neoscolastica dell’Università Cattolica di Milano: una rinnovata gigantomachía perì tês ousías Agostino Gemelli (1878-1959) ci restituisce un’immagine di Kant un po’ diversa da quella del Matiussi: egli riconosce infatti che «anche in Kant constatiamo le affermazioni di quella “filosofia perenne” che permea, voluta o non voluta la speculazione di ogni tempo»87. Le critiche di Gemelli si appuntano, come prevedibile, sulla gnoseologia kantiana: tuttavia il giudizio complessivo sul pensatore di Königsberg non è del tutto negativo come quello di Matussi. Il Padre Gemelli riconosce infatti che l’impulso verso la trascendenza costituisce l’anima della filosofia kantiana, la quale non abdica del tutto innanzi alla problematica metafisica: «dalle rovine della Dialettica [nella Critica della ragion pura] sorge irrequieto e fremente l’anelito a Dio e al mondo intelligibile; i limiti imposti al sapere fanno sentire con più forza la necessità di oltrepassarli in qualunque modo»88. Opponendosi allo agnosticismo kantiano in relazione alla metafisica e recuperando il realismo conoscitivo di matrice aristotelica, Gemelli ribadisce: «per noi è la ragione teoretica prima che la pratica che guida l’uomo dal mundus sensibilis al mundus intelligibilis, dal mondo dei fenomeni al mondo dei 86

Cfr. B. STATTLER, Anti-Kant, Joseph Leutner, München 1788. A. GEMELLI, Il nostro punto di vista nello studio della filosofia di Emanuele Kant, in AA. VV., Immanuel Kant (1724-1924), Vita e Pensiero, Milano 1924, p. 10. 88 Ibidem, p. 14. 87

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noumeni; le idee della ragione sono, già nel campo della ragion pura, non soltanto regolative, ma “reali”, nel senso che ad esse corrisponde una realtà oggettiva»89. Quanto detto implica che «Dio, l’immortalità, la libertà appartengono come conquiste definitive alla ragione ragionata, che sale colla guida del principio di ragione sufficiente dal fenomeno al noumeno»90. Secondo Gemelli la filosofia di Kant e le altri grandi proposte speculative del pensiero moderno vanno assimilate in ciò che di vero contengono; il criterio per giudicare la validità o meno di ogni prospettiva filosofica sarà quello di verificarla con la philosophia perennis elaborata nel modello aristotelico-tomista: «superiamo Kant colla filosofia perenne, integrando e correggendo il suo pensiero col pensiero che da Platone a da Aristotele, attraverso S. Agostino e S. Tommaso, viene fino a Kant e oltrepassa Kant»91. È questo un atteggiamento di pensiero che ha caratterizzato insigni filosofi dell’Università Cattolica di Milano, fondata da Padre Gemelli nel 1921 e divenuta sin dall’inizio uno dei centri filosofici italiani più attivi nel rilancio della scolastica e della cosidetta “filosofia perenne”92. 89

Ibidem, p. 11. Ibidem, p. 15. 91 Ibidem, p. 17. 92 Nel 1919 Padre Agostino Gemelli insieme ad intellettuali e collaboratori come Ludovico Necchi, Francesco Olgiati, Armida Barelli ed Ernesto Lombardo concretizzò il proposito di fondare in tempi brevi un’università cattolica che esercitasse un importante ruolo nella cultura italiana ed europea. Il suo modello fu quello dell’Università di Lovanio. Nel febbraio 1920 fu costituito l’Istituto Giuseppe Toniolo di Studi Superiori, ente fondatore e garante dell’Università Cattolica, che ottenne il 24 giugno dello stesso anno il decreto di approvazione, firmato da Benedetto Croce, allora ministro della Pubblica istruzione, proprio mentre papa Benedetto XV avallava l’Università sotto il profilo ecclesiastico, segnando così un «vittorioso punto di arrivo per il movimento cattolico, anzi, per l’intera comunità ecclesiale italiana». Il 7 dicembre 1921 fu inaugurata ufficialmente a Milano la nascita del nuovo Ateneo. Sulle vicende della fondazione e sulla vita accademica dell’Ateneo milanese cfr. AA. VV., Uomini e fatti dell’Università Cattolica, Antenore, Padova 1984; AA. VV., Per una storia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Settantacinque 90

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Seguendo le indicazioni storiografiche di Italo Mancini, distinguiamo due fasi, o meglio ancora due generazioni, della neoscolastica milanese, certamente in stretta continuità ma con delle differenti sfumature ed accentuazioni speculative. La prima fase inaugurata da Padre Gemelli «risulta di natura piuttosto apologetica con nel cuore il gran problema, più strategico che filosofico, delle forme di conciliazione del tomismo con il pensiero moderno; del tomismo visto come la forma più matura e insuperabile di filosofia perenne, un Gemeingut, come riteneva anche il medievalista Maurice De Wulf»93. Gli esponenti di questa prima generazione provenivano dal mondo ecclesiastico e furono in particolare il francescano Emilio Chiocchetti (1880-1951) e Francesco Olgiati (1886-1962) ed Amato Masnovo (1880-1955). Un discorso a parte merita la posizioni di Giuseppe Zamboni (1875-1950), il quale dopo dodici anni di docenza all’Università Cattolica fu costretto ad abbandonare l’insegnamento in quell’ateneo per motivi ideologici: attraverso lo studio di Kant, Rosmini e Brentano egli sostenne una “gnoseologia pura” che, secondo i suoi critici, faceva troppe concessioni al soggettivismo moderno94. Alla seconda fase/generazione, che caratterizza soprattutto il secondo dopoguerra, appartengono invece Umberto Antonio Padovani (1894-1968) e Gustavo Bontadini (1903anni di vita nella Chiesa e nella società italiana, Vita e Pensiero, Milano 1997; M. BOCCI - S. ZANINELLI, Agostino Gemelli, rettore e francescano: Chiesa, regime, democrazia, Morcelliana, Brescia 2003. 93 I. MANCINI, La neoscolastica durante gli anni del fascismo, in O. POMPEO FARACOVI (a cura di), Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, Belforte, Livorno 1985, pp. 263-291, p. 263. 94 Secondo Michele Federico Sciacca lo Zamboni fu «la mente più speculativa del neotomismo italiano» (M.F. SCIACCA, La filosofia oggi, Vol. II, Marzorati, Milano 1958, p. 301). Tra le sue pubblicazioni sono da ricordare Sistemi di gnoseologi e di morale, 1930; La persona umana, 1941. Cfr. anche F.L. MARCOLUNGO, Il contributo di G. Zamboni al rinnovamento della metafisica classica, in E. AGAZZI (a cura di), Il pensiero cristiano nella filosofia italiana del Nocevento, Milella, Lecce 1980, pp. 171-178. Sulle tristi vecende del “caso Zamboni” si vedano i documenti presenti in S. DE GUIDI (a cura di), Autobiografia etica di Giuseppe Zamboni, Dehoniane, Bologna 1982.

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1990). Gli esponenti di questa seconda fase hanno una formazione in ambienti laici, mostrano notevoli aperture nei confronti delle filosofie moderne ed amano definire la loro posizione non tanto come neoscolastica ma come “neoclassica”, per sottolineare che il loro discorso sarebbe valido erga omnes proprio perché saldamente fondato sul modello di ragione elaborato nel mondo greco classico. In linea di continuità con questo secondo orientamento sono anche le notevoli figure di Sovia Vanni Rovighi e di Virgilio Melchiorre. Ci soffermiamo ora sulle caratterische della prima generazione di questi intellettuali milanesi cominciando da Padre Gemelli, instancabile promotore di tante attività che favorirono il rilancio della neoscolastica in Italia, non ultima la fondazione nel 1909 della “Rivista di Filosofia Neoscolastica”. Della seconda fase avremo modo di parlare più avanti in relazione al Movimento di Gallarate e ai numerosi dibattiti in esso svoltisi tra filosofi d’impostazione “neoclassica” e filosofi di impostazione “spiritualistica”. Padre Agostino Gemelli - al secolo Edoardo - si laureò in medicina del 1902 sotto la guida di Camillo Golgi (premio Nobel nel 1906) e successivamente pubblicò saggi di istologia e fisiopatologia. La forma mentis del medico avvicinò il giovane Gemelli al positivismo. Il Giovedì Santo del 1903 la sua vita conobbe una svolta decisiva: si convertì al cattolicesimo e decise di entrare nell’Ordine dei frati minori francescani. Egli, quindi, pur difendendo il tomismo, fu molto legato anche alla produzione intellettuale della scuola francescana: tra i suoi auotori preferiti c’erano sicuramente Duns Scoto e San Bonavenura. Tale sensibilità francescana determinò nel Gemelli un’apertura nei confronti delle problematiche moderne e l’esigenza di porsi in dialogo costruttivo con l’idealismo, che in quegli anni trovava nuovi e valenti sostenitori in Benedetto Croce e Giovanni Gentile. Inoltre una carattestica del Gemelli fu il suo costante interesse per le scienze naturali, anche questo in linea di continuità con la tradizione francescana medievale (basti pensare alla figura di Ruggero Bacone): all’Università Cattolica egli organizzò un istituto di psicologia sperimentale e tra le sue pubblicazioni vi sono numerosi scritti anche di psicologia giudiziaria e di criminologia. Si ricordino: Le dottrine moderne della delinquenza (1908), Nuovi 66

metodi e orizzonti della psicologia sperimentale (1926), La personalità del delinquente nei suoi fondamenti biologici e psicologici (1946). In tale opera di promozione dei saperi sperimentali il Gemelli seguì anche le istanze scientifiche (ma antipositivistiche) promosse dall’Università di Lovanio. Antonio Gramsci ha parlato di un «carattere eminentemente pratico dell’attività di Padre Gemelle e di un suo agnosticismo filosofico»95: tale carattere pratico viene bonariamente rilevato anche da Bontadini, per il quale «Gemelli non era filosofo e del filosofo non aveva il temperamento». Tuttavia, seppur non “filosofo di professione”, ci pare che nel Gemelli siano chiaramente presenti alcune fondamentali indicazioni di carattere teoretico che hanno poi trovato adeguati approfondimenti nel suo cenacolo culturale (in Chiocchetti, in Olgiati, in Masnovo) e, più in generale, negli esponenti della neoscolastica italiana. Ci pare emblematica la definizione stessa che di “neoscolastica” data da Gemelli: «Col nome di filosofia neoscolastica s’intende propriamente la restaurazione del pensiero medievale nell’ambito della civiltà moderna, considerando il pensiero medievale non come espressione transitoria di una civiltà, ma, quanto alla sostanza, come definitiva conquista della ragione umana nel campo della metafisica, conquista maturata attraverso la speculazione greca e il Cristianesimo e avente per caratteristiche generali il realismo e il teismo»96. È inoltre con tali parole che in una prolusione tenuta a Napoli il 5 maggio 1924 il Padre Gemelli esprime la sua esigenza di un’autentica riconsiderazione speculativa della scolastica medievale e soprattutto del pensiero tommasiano: «pare a noi che lo stesso principio di razionalità della storia vieti di tagliare il corso della storia in due e di condannarne uno. Come è inconcepibile che la storia si sia svolta razionalmente solo fino al secolo XIII, così è inammissibile che la razionalità si inizi con Descartes o con la Rinascenza italiana. Nella sua evoluzione perenne, la storia ha un’unità dinamica, la quale è un altare su cui nulla si sacrifica alla 95

A. GRAMSCI, Quaderni, p. 1208. Il testo viene riportato e commentato in M.F. SCIACCA, La filosofia oggi, Vol. II, cit., p. 299. 96

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morte, ma dove tutto si coordina armonicamente nell’organicità del reale e nella continuità di sviluppo. […]. Insomma, tra il san Tommaso dei ripetitori, che l’hanno mummificato, e il san Tommaso dei carnefici, che vorrebbero trucidarlo, pare a noi che ci sia posto per il san Tommaso di coloro che nello sviluppo della cultura credono al programma enunciato da Marsilio Ficino: a bono in bonum»97. Tale “legge della razionalità del reale” espressa da Gemelli viene ripresa ed ulteriormente specificata da Francesco Olgiati come “legge di assimilazione”: «la nostra neoscolastica» afferma l’Olgiati - «deve possedere questa caratteristica: non già di strisciare accanto ai sistemi contemporanei, ma di assimilare e incorporare nel suo organismo, e di vivificare col suo spirito, ogni e qualsiasi altro vero che la mente umana, dal secolo XIII in poi, è riuscita ad investigare e a scoprire»98. Seguendo tale “legge dell’assimilazione” l’Olgiati intende mettere in luce l’«anima di verità» insita in ogni sistema filosofico, sia esso di carattere empiristico che idealistico. È con questo spirito dialogico ed “assimilativo” che egli si volge allo studio del pensiero moderno e contemporaneo. Prendendo spunto da Henri Bergson, secondo il quale ogni prospettiva filosofica nasce e si alimenta da un’intuizione metafisica originaria, anche l’Olgiati rileva che all’origine di ogni sistema v’è sempre una «metafisica iniziale», un’«anima», ossia una concezione generale della realtà, magari talvolta anche non esplicitata, che illumina il sistema in tutte le sue parti99. Esempio di tali “anime ispiratrici” sono l’idea in Platone, il sínolo in Aristotele, il cogito in Cartesio, il trascendentale (con la connessa sintesi a priori) in Kant. La preoccupazione teoretica e storiografica di Olgiati è, quindi, duplice: in primis egli mette in rilievo la “metafisica” soggiacente ad ogni prospettiva e, in un secondo momento, cerca di 97

A. GEMELLI, Il mio contributo alla filosofia neoscolastica, Vita e Pensiero, Milano 19322 (la prima edizione risale al 1927), pp. 8-9. 98 Ibidem, p. 25. In questo testo Gemelli si confronta anche con l’Olgiati, cofondatore dell’Università Cattolica, suo stimato amico e collaboratore. 99 Uno degli scritti giovanili di Olgiati è dedicato a Bergson e al confronti con le problematiche speculative dell’intuizionismo e del vitalismo: cfr. F. OLGIATI, La filosofia di Enrico Bergson, Bocca Editori, Torino 1914.

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vagliare criticamente tutti gli elementi del sistema che possono essere ripresi anche in qualla che egli considera la “filosofia perenne”, ovvero il realismo di derivazione aristotelica. Nella storia del pensiero occidentale Olgiati individua tre macrocateorie speculative: il realismo, il fenomentismo e l’attualismo. Per il realismo, come è noto, il primum cognitum è l’ente e quest’ultimo è sinolo, cioè unione di forma e materia: in opposizione al trascendentalismo kantiano e a ogni forma di idealismo, l’Olgiati ribadisce sempre nei suoi scritti che il concetto di ente è oggetto di un’evidenza immediata ed originaria: a suo parere «l’essere o lo afferra subito o non si afferrerà mai» (A proposito di realismo, 1937), come è il caso dell’idealismo gentiliano che assolutizza l’attività del puro pensiero intuente se stesso. Olgiati prende le distanze da tutte quelle filosofie che dimenticano la realtà oggettiva dell’essere: queste si focalizzano esclusivamente sul soggetto al fine di studiare le possibilità ed i limiti della conoscenza: egli critica, quindi, sia il fenomenismo che l’attualismo poiché comportano un’ineludibile Vergessenheit des Seins (l’espressione è di Heidegger), una “dimenticanza dell’essere”. Per l’idealismo, ed in particolar modo per la sua forma più radicalizzata che è l’attulismo gentiliano, la realtà arriva ad identificarsi con la stessa soggettività trascendentale, cioè con il luogo dove avviene la sintesi tra oggetto e atto di conoscenza. Molto più variegate sono invece le forme che può prendere il fenomenismo, dove si scambia l’essere oggettivo con ciò che “appare” (in greco phainetai) nell’arco della coscienza: declinazioni del fenomenismo sono l’empirismo (tutto incentrato sull’apparire sensibile), il razionalismo (dove la conoscenza presuppone anche le idee innate, come nel caso di Leibniz) e il vitalismo (dove l’oggetto dell’apparire è il vissuto coscienziale, l’Erlebnis di cui parla anche Wilhelm Dilthey). L’intento di Olgiati e dei suoi colleghi milanesi fu quello di una rinnovata «gigantomachía perì tês ousías» (Platone, Sofista, 246a): fu una “battaglia intellettuale” contro i fraintendimenti del pensiero moderno per il ritorno ad una comprensione integrale dell’essere e

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dei suoi princìpi primi100. Contro ogni forma di idealismo e di trascendentalismo à la Kant, l’Olgiati sostiene che la nozione di essere è prima e fondante e che gli stessi princìpi derminanti la conoscenza sono ben fondati supra rationem entis, cioè nell’oggettività dell’essere. Questi elementi speculativi saranno da noi successivamente ripresi ed approfonditi parlando della disputa tra Olgiati-Carlini ed immergendoci quindi nei dibattiti tra metafisici classici e spiritualisti svoltisi nei Convegni di Gallarate. Ci preme ora sottolineare che il realismo ontologico difeso da Olgiati e dagli altri esponenti dell’ateneo milanese fu la base speculativa dalla quale Amato Masnovo, maestro di Bontadini e di Vanni Rovighi, impostò il problema di Dio e dei rapporti tra filosofia e cristianesimo. Secondo Masnovo la filosofia, per divenire penetrazione razionale delle realtà metafisiche, deve sapersi innalzare con solidità d’argomenti al pricipio primo, id quod dicimus Deum. In una filosofia coerente e rigorosa Dio non può mai costituire un’idea a priori del soggetto ma un principio dedotto per via logica dalla realtà empirica: «In filosofia» - amava dire Masnovo - «Dio si trova per la prima volta come predicato e non come soggetto». Nel suo ragionamento Masnovo parte dalla constatazione del divenire inesorabile degli enti: egli tuttavia constata che sotto un profilo logico il divenire non può spiegare se stesso e deve di necessità rimandare ad un principio originario. Nella sua dimostrazione egli si richiama al principio tomista dell’omne quod movetur ab alio movetur, inteso come principio secondo cui ciò che diviene non ha il sé la ragione del suo divenire. Quindi, affinchè gli enti divenienti non siano contraddittori, occorre necessariter postulare l’eistenza di un ente assolutamente indiveniente che sia “principio di ragion sufficiente” di tutta la realtà. Ecco allora che la filosofia raggiunge una conoscenza razionale (ma sempre parziale!) di Dio. Tale posizione viene chiaramente esposta nel suo volume del 1941 La filosofia verso la religione. In esso viene affermato che la filosofia ci 100

Tra le opere fondamentali di Francesco Olgiati sono da ricordare Neoscolastica, idealismo, spiritualismo (scritta in collaborazione con Armando Carlini), Vita e Pensiero, Milano 1933; Il realismo, 1936; I fondamenti della filosofia classica, Milano 1950.

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può condurre al principio primo del reale e consente di spingerci con l’ausilio della sola ragione - alle soglie di una possibile divina rivelazione: si tratta di una filosofia «tendenzialmente» e non «costituzionalmente cristiana». Per il Nostro una “filosofia tendenzialmente cristiana” propone un modello di ragione che sa riconoscere i suoi limiti costitutivi e che, perciò, sa aprirsi alla possibilità della Rivelazione. Secondo Masnovo la filosofia, nella misura in cui è realismo metafisico, arriva a darci “le condizioni di possibilità” dell’atto di fede religiosa, che in sé stesso rimane però una scelta vissuta nell’intimo del cuore. Masnovo cercò quindi di far risaltare le possibili affinità tra Tommaso ed Agostino, cercando in una “armonia agostiniano-tomistica” una mediazione tra la metafisica classica e le esigenze di carattere esistenziale101. Nella prima generazione di intellettuali milanesi si distinse il francescano Emilio Chiocchetti per i suoi studi sul pensiero di Giambattista Vico e sull’idealismo italiano, che lo resero particolarmente sensibile al tema della storia come organico sviluppo dello spirito102. Da giovane Chiocchetti ebbe l’opportunità di perfezionare i suoi studi presso l’Università di Lovanio ed in Germania: ebbe così occasione di confrontarsi direttamente con i grandi sistemi dell’idealismo tedesco e di apprezzare il loro tentativo di edificare “filosofie della liberta” (si pensi a J.G. Fichte) fondate sull’assoluto ed in grado di opporsi al materialismo con solidità d’argomenti. Richiamandosi alla concezione rosminisna del “sintetismo universale”, il Chiocchetti fu portato a riprendere il “contenuto di verità” di ogni prospettiva per condurlo ad una rinnovata sintesi: egli, ad esempio, studiò l’idealismo di Giovanni Gentile sottolineando il valore fondamentale delle sue critiche al positivismo scientista103. Tuttavia l’idealismo di Croce e Gentile, nonostante sporadiche valutazioni positive di alcuni elementi, fu il 101

Cfr. IDEM, S. Agostino e S. Tommaso. Concordanze e sviluppi, Vita e Pensiero, Milano 1942. 102 Cfr. E. CHIOCCHETTI, La filosofia di G.B. Vico, Vita e Pensiero, Milano 1935. 103 Cfr. E. CHIOCCHETTI, La filosofia di G. Gentile, Vita e Pensiero, Milano 1922.

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generale bersaglio polemico della neoscolastica milanese: l’idealismo venne condannato dallo stesso Chiocchetti come una “metafisica della mente” che dissolveva la trascendenza di Dio nell’atto del puro pensiero (Gentile) o nella storicità dello spirito (Croce).

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Capitolo II Interpretazioni del cristianesimo nell’idealismo italiano

1. Indirizzi filosofici dell’idealismo

del

secondo

Ottocento e

sviluppi

Nella prima metà dell’Ottocento con le metafisiche di Gioberti e di Rosmini la filosofia italiana raggiunge delle alte vette speculative: la Protologia di Gioberti e la Teosofia di Rosmini sono due opere fondamentali che costruiscono articolati sistemi in grado di opporsi all’immanenstismo hegeliano cercando una sostanziale conciliazione tra la filosofia e le verità della fede cristiana. La “filosofia italiana del Risorgimento” trova così - anche secondo Michele Federico Sciacca che a sua volta riprende le tesi del maestro Giovanni Gentile104 - due vigorose sintesi speculative in grado di comprendere il reale nella sua interezza (sullo stile di Hegel): si tratta però di sistemi che tentano chiaramente di preservare la trascendenza del Dio cristiano. Il secondo Ottocento ci pare caratterizzato in Italia, così come nel resto dell’Europa, da un prevalere di differenti indirizzi filosofici che, seppur presentano singole figure di notevole interesse, non hanno dato luogo a grandi costruzioni concettuali. Contemporamente agli sviluppi del positivismo di cui uno dei maggiori esponenti fu Robertò Ardigò (1828-1920), si ebbe in Italia una prosecuzione dello spiritualismo che aveva caratterizzato la filosofia risorgimentale e che aveva degli esiti generalmente favorevoli alla fede cristiana. Tale posizione è rappresentata da Terenzio Mamiani della Rovere (17991885) di cui ricordiamo Confessioni di un metafisico (1865), da Fracesco Acri (1834-1913), traduttore in italiano dei dialoghi di 104

Cfr. M.F. SCIACCA, La filosofia nell’età del Risorgimento, Editrice Vallardi, Milano 1948.

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Platone, e da Francesco Bonatelli (1830-1911): quest’ultimo fu professore all’Università di Padova e il suo insegnamento costituiva l’alternativa spiritualistica al positivistismo di Ardigò. Il pensiero di Bonatelli è oggetto oggi di un rinnovato interesse: in una delle sue opere principali La coscienza e il meccanismo interiore (1872), egli affronta il problema del rapporto tra libertà e necessità all’interno della coscienza, giungendo ad una “filosofia della mente” in grado di conciliare determinismo e libertà, seppur in maniera complessa e problematica105. Nella corrente ottocentesca dei cosiddetti “spiritualisti cattolici” ha un notevole rilievo teoretico la figura di Giovanni Maria Bertini (1818-1876), professore all’Università di Torino ed autore di tre importanti opere: Idea di una filosofia della vita (1850), Dialoghi sulla questione religiosa (1860) e Storia critica delle prove metafisiche di una realtà soprasensibile (1865-66). Augusto Del Noce lo definì «il maggiore filosofo dell’Italia settentrionale dopo la morte di Rosmini»106. Da giovane il Bertini ebbe modo di conoscere Luigi Ornato (1787-1842) uno studioso di Platone che durante un lungo soggiorno in Francia studiò a fondo il pensiero di Rousseau e di Friedrich Heinrich Jacobi: tramite l’influenza di Ornato e degli autori a lui cari, il Bertini elaborò un’interessante “filosofia della vita” nella quale la ragione veniva definita non solo in relazione alla logica ma anche alle esigenze vitalistiche ed esistenziali: in maniera simile a Jacobi anche il Bertini sottolineò che la ragione (in tedesco Vernunft) trarrebbe le sue capacità deduttive anche dal variegato mondo del percepire 105

A tal proposito cfr. D. POGGI, La coscienza e il meccanesimo interiore. Francesco Bonatelli, Roberto Ardigò e Giuseppe Zamboni, Poligrafo, Padova 2002. 106 A. DEL NOCE, Juvalta e Mazzantini, in A. RIZZA (a cura di), La filosofia di Carlo Mazzantini, Studium, Roma 1985, p. 122. Pregevoli studi su questa figura sono quelli di G. GENTILE, Giovanni Maria Bertini e l’influsso di Jacobi in Italia, in IDEM, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messina 1917: nuova edizione, Le Lettere, Firenze 1958, Vol. I, pp. 139214; F. DE SARLO, Il razionalismo di Giovanni Maria Bertini, Zoagli, Genova 1925; R. VIORA, Il pensiero di Giovanni Maria Bertini, Centro Stampa, Cavallermaggiore 1998.

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(vernehmen). Secondo Jacobi l’etimo stesso di Vernunft deriverebbe da vernehmen, rivelando così l’originaria connessione della ragione con il “mondo della vita”, fondato sulle percezioni sensoriali107. Sempre attraverso Jacobi il Bertini accentua le potenzialità cognitive dell’intuizione - la Ahnung di cui parla il filosofo tedesco -, ed in particolare dell’«intuito dell’infinito reale»: egli approda ad uno spiritualismo teistico partendo dal concetto dall’intuizione dell’infinito presente nel cogito e declinando così il cogito (l’io penso) in un cogitor (in un “essere pensato da”). L’idea di infinito è sempre presente alla mente e, secondo il Bertini, implicherebbe la realtà stessa del suo oggetto: ci pare che in tale prospettiva l’argomento ontologico di Anselmo a favore dell’esistenza di Dio venga riproposto sulla base della filosofia moderna di matrice cartesiana (la terza delle Meditazioni metafisiche di Cartesio). Il confronto con la modernità filosofica spinse Bertini, soprattutto nella sua maturità, a distaccarsi all’ortodossia cattolica; tale distacco non fu esente anche da motivazioni etico-politiche: il Bertini, come altri intellettuali cattolici dell’Ottocento, difese il nascente Stato liberale dall’intransigentismo della gerarchia ecclesiastica. Bertini fu quindi assertore dell’autonomia di giudizio da qualsiasi autorità terrena, anche in materia religiosa: solo Dio è assoluto, tutto il resto è relativo, e la stessa chiesa con i suoi dogmi è una costruzione storica e, in quando storica, semper reformanda. Ci pare che nella posizione di Bertini troviamo anticipati molti motivi che saranno poi sviluppati da Ernesto Buonaiuti e dagli altri modernisti di inizio Novecento. Come tipico del modernismo Bertini difende il primato assoluto della coscienza individuale, l’unica vox Dei in grado di orientarci nelle 107

Secondo Jacobi «la radice della ragione (Vernunft) è vernehmen, percepire. La ragione pura è un percepire che è, in prima istanza, un autopercepire: ciò significa che la ragione pura opera a partire dalla percezione di sé stessa e del mondo sensoriale» (F.H. JACOBI, Lettera a Fichte, marzo 1799, il testo è riportato in J.G. FICHTE, Gesamtausgabe der Bayerische Akademie der Wissenschaften, a cura di R. Lauth et alii, Frommann-Holzboog, Stuttgart – Bad Cannstatt, serie III, vol. 3, p. 233 [tr. it. nostra]). Sul pensiero del filosofo tedesco cfr. A. ACERBI, Il sistema di Jacobi. Ragione, esistenza, persona, Olms, Hildesheim 2010.

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scelte etico-religiose: a suo parere v’è quindi una «religione del cuore innata in ciascun uomo». Bertini sottolinea che l’uomo tramite l’organo dell’intuizione giunge ad essere naturaliter religiosus e si predispone con libertà d’animo all’accoglienza del messaggio cristiano nelle pluralità delle sue possibili ermeneutiche. Nel periodo del Risorgimento e soprattutto dopo la costituzione del regno d’Italia si sviluppo a Napoli un orientamento filosofico di importanza europea e che caratterizzò per quasi un secolo la filosofia italiana: esso fu determinato da una ripresa del pensiero di Hegel e viene comunemente definito come neohegelismo o “idealismo napoletano”. I maggiori esponenti di tale indirizzo idealistico furono Francesco De Sanctis (1818-1883) per quanto rigurada gli aspetti estetici e letterari, e Bertrando Spaventa (1817-1883) per gli studi storiografici e teoretici. Tramite il richiamo alle salde strutture della dialettica hegeliana e la rivendicazione di un primato costitutivo dello spirito sulla natura, l’idealismo, soprattutto nella cultura italiana, prevalse gradualmente sul positivismo e sulle altre tendenze filosofiche, divendendo sempre più egemone nei primi decenni del Novecento con le rielaborazioni di Benedetto Croce (1866-1952) e di Giovanni Gentile (1875-1944). Tale egemonia idealistica diede agli studi filosofici italiani un carattere prevalentemente umanistico e storiografico, forse quel carattere che conservano tutt’ora, nonostante la pur rivelante odierna attenzione per le problematiche scientifiche ed epistemologiche. Inoltre, almeno fino agli anni Cinquanta, l’idealismo determinò non solo le ricerche filosofiche ma influì profondamente anche sugli altri campi del sapere come la critica letteraria, la storiografia e le altre scienze umanistiche. Ci soffermiamo ora su alcuni caratteri speculativi dell’idealismo e su alcune figure italiane di rilievo per cercare poi di mettere in luce il complesso rapporto che gli esponenti dell’idealismo ebbero con il problema teologico e segnatamente con la religiosità cristiana. «Col nuovo idealismo» - sottolinea Luigi Stefanini autore anch’esso di un singolare volume dal titolo Idealismo cristiano (1931) - «è ribadita l’origine spirituale di ogni realtà empiricamente determinata; è ristabilito il primato del pensiero, o dell’ideale, o ciò che si determina nella chiarezza della nostra intimità cosciente. Però 76

il pensiero, a cui il nuovo idealismo assegna il primato, è esso stesso pratica: non è il pensiero che, fisso in schemi irreformabili, contempla immobile il suo oggetto, alla maniera del vecchio intellettualismo, ma il pensiero che si fa nel dinamismo della storia»108. In una concezione idealistica la realtà nella sua interezza viene compresa come sviluppo di un principio originario e fondante, al quale i filosofi hanno dato di volta in vota diversi nomi: Idea, Ragione, Concetto, Spirito, Io assoluto, l’Assoluto, Identità assoluta di Spirito e Natura, l’Incondizionato, e persino Dio (anche se nelle posizioni idealistiche si tratta nella maggior parte dei casi di un Dio immanentizzato e comunque diverso dal Dio personale e trascendente della tradizione biblica)109. È noto come a Napoli alla fine dell’Ottocento i giovani filosofi idealisti venivano bonariamente designati col nome di “begriffi”: Begriff in tedesco significa infatti concetto e quest’ultimo, già secondo J.G. Fichte ed Hegel, definisce il grado più alto della conoscenza filosofica, cioè l’intellezione del reale nella sua genesi costitutiva. Fichte è chiaro nell’affermare che «il concetto è il fondamento del mondo (der Begriff ist Grund der Welt)»110. Inoltre, ed è questo uno degli elementi teoretici fondamentali, gli idealisti criticarono i positivisti di assolutizzare la realtà oggettiva, con la conseguenza di fermare la loro indagine ai “fatti bruti”: come affermarono gli idealisti italiani, anche sulla scorta di Fichte, il “fatto in sé e per sé” non esisite e non può esser pensato se non come “fatto della coscienza” (Tatsache des Bewußtseins). In altre parole: non c’è oggetto senza soggetto (kein Objeckt ohne Subjeckt). Per gli idealisti analizzare il “mondo dei fatti” significa analizzare il mondo della soggettività trascendentale in cui essi si vivificano e, per così dire, “vengono all’essere”: si tratta 108

L. STEFANINI, Storia della filosofia, Società Editrice Internazionale, Torino 1954, p. 323. 109 Sul rapporto tra filosofia e religione nell’idealismo italiano cfr. P. DE LUCIA, L’istanza metempirica del filosofare. Metafisica e religione nel pensiero degli hegeliani d’Italia, Prefazione di L. Malusa, Accademia Ligure di Scienze e Lettere, Genova 2005. 110 J.G. FICHTE, Gesamtausgabe der Bayerische Akademie der Wissenschaften, cit., serie II, vol. 13, p. 307; è l’opera Sittenlehre del 1812.

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del “mondo della coscienza” e del “puro pensiero”, ovvero la “sfera dello spirito”, il tema d’indagine da essi privilegiato. Nei confronti del cristianesimo e più in generale del problema teologico gli idealisti mostrano, in genere, un notevole interesse: tuttavia le loro posizioni rimangono prevalentemente chiuse nei confronti della trascendenza religiosa e il cristianesimo stesso viene valorizzato come esperienza etica foriera di valori condivisi e costruttivi. In larga misura, si tratta di un cristianesimo secolarizzato e privato, quindi, del suo implicito contenuto metafisico. Da quanto fin qui detto si comprende come in Italia la cultura idealistica ebbe un carattere laico: inoltre, richiamandosi direttamente ad Hegel essa forniva le basi ideologiche per una concezione etica ed allo stesso tempo laica dello Stato. Gli idealisti napoletani si impegnarono nel dare una coscienza nazionale al nuovo Stato italiano sorto nel 1861: essi, come afferma Bertrando Spaventa, cercarono di costruire le basi culturali per «un’Italia che abbia il suo degno posto nella vita comune delle moderne nazioni»111. Questo progetto ricevette il plauso della nuova classe dirigente del Regno d’Italia, la cosiddetta “Destra storica”, che era ancora impegnata nel risolvere la “questione romana” e nel delineare con chiarezza gli ambiti e i rispettivi compiti della chiesa (cattolica) e dello Stato. Possiamo dire, quindi, che l’idealismo rappresentò l’autocoscienza filosofica del nuovo Regno d’Italia, i cui dirigenti erano prevalentemente di orientamento laico e liberale. Tra gli esponenti dell’idealismo napoletano dell’Ottocento è da ricordare Augusto Vera (1813-1885), che fu interprete Hegel nel senso della “destra hegeliana”, cercando cioè di conciliare la sua filosofia con il cristianesimo112. Molto più originale è la figura già

111

B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, [l’edizione postuma fu curata da G. Gentile e pubblicata nel 1908 ], a cura di B. Widmar, Marzioli Editore, Roma 1955, p. 202. 112 A tal proposito cfr. G. OLDRINI, Gli hegeliani di Napoli: Augusto Vera e la corrente ortodossa, Feltrinelli, Milano 1964; C. CESA, Augusto Vera e la filosofia della storia, Guida, Napoli 1991. Un’antologia sulle diverse forme di idealismo italiano è quella di A. GUZZO – A. PLEBE (a cura di), Gli

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menzionata di Betrando Spaventa, la cui tesi della circolazione della filosofia tra l’Italia e l’Europa ebbe ampia fortuna fino a divenire un vero e proprio topos storiografico, ripreso ad ampliato dallo stesso Giovanni Gentile. Nell’opera edita postuma da Gentile con il titolo La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, Spaventa presenta gli esponenti italiani del naturalismo rinascimentale come anticipatori della filosfia moderna europea: a suo parere Bernardino Telesio, Tommaso Campanella e Giordano Bruno sarebbero stati precursori rispettivamente di Francis Bacon, René Descartes e Baruch Spinoza. A causa della controriforma cattolica, che con il ripristino dell’inquisizione ostacolava le nuove espressioni di pensiero, la filosofia rinascimentale sarebbe emigrata, per così dire, dall’Italia nei più liberi e progrediti paesi d’Europa come la Francia e la Germania, dando i suoi frutti più maturi con Kant ed Hegel. Poi, secondo Spaventa, nella prima metà dell’Ottocento la filosofia europea, ed in particolare quella tedesca, sarebbe tornata in Italia ad opera di Pasquale Galluppi, Antonio Rosmini e Vincenco Gioberti: in questi due ultimi autori egli vide l’equivalente italiano rispettivamente di Kant e di Hegel113. Spaventa ebbe anche alcuni significativi allievi che si distinsero soprattutto per la studio di Kant: tra questi ricordiamo Francesco Fiorentino (1834-1884), Felice Tocco (1845-1911) e Donato Jaja (1839-1914). Quest’ultimo fu scolaro di Spaventa a Napoli e poi professore a Pisa, dove ebbe come allievo alla Scuola Normale il giovane Giovanni Gentile114.

hegeliani d’Italia. Vera – Spaventa – Jaja – Maturi – Gentile, Società Editrice Internazionale, Torino 1953. 113 Sul pensiero di Spaventa e le sue tesi storiografiche si vedano R. BORTOT, L’hegelismo di Bertrando Spaventa, Olschki, Firenze 1968; T. SERRA, Bertrando Spaventa: etica e politica, Bulzoni, Roma 1974; P. DI GIOVANNI, Kant ed Hegel in Italia. Alle origini del neoidealismo, Laterza, Roma 1996; E. GARIN, Bertrando Spaventa, Bibliopolis, Napoli 2007. 114 Sulla prospettiva di Jaja cfr. A. CRISTALLINI, Il pensiero filosofico di Donato Jaja, Cedam, Padova 1970; P. DE LUCIA, Donato Jaja e il significato teoretico e storico della filosofia rosminiana, «Filosofia oggi»,

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2. Benedetto cristianesimo

Croce:

l’interpretazione

storicistica

del

In Benedetto Croce troviamo un’altissima considerazione del cristianesimo considerato come una vera e propria rivoluzione spirituale dell’umanità. Tuttavia tale valutazione positiva non deve dar luogo a facili fraintendimenti: la prospettiva crociana rimane sempre una forma di storicismo e di immanentismo in cui i contenuti del cristianesimo vengono interpretati come forme storiche della vita dello spirito nel suo organico sviluppo. Per meglio comprendere le raffinate analisi di Croce sul valore dell’evento cristiano dobbiamo prima chiarire i presupposti filosofici del nostro autore. Alla formazione intellettuale di Croce contribuirono in maniera decisiva Francesco De Sanctis ed Antonio Labriola, di cui seguì i corsi all’università di Roma. Del primo riprese l’idea che l’arte sarebbe considerare come espressione autonoma dello spirito, cioè non riducibile ad altre attività spirituali, come invece voleva Hegel. Attraverso l’insegnamento di Labriola si accostò invece al marxismo115: Croce criticò ampiamente il marxismo ma da esso fu sensibilizzato nel sottolineare l’importanza dell’economia, che nella maturità considerò come una forma auotonoma della vita spirituale, capovolgendo la tesi marxiana del rapporto tra struttura (l’economia) e sovrastruttura (il mondo dello spirito con le sue produzioni). Come vedremo, dall’idealismo hegeliano e dal marxismo egli riprese anche l’idea che la storia umana sia storia del graduale sviluppo della libertà. Con Croce siamo quindi innanzi ad una rielaborazione della dialettica di Hegel: egli recide il “ramo secco” dell’hegeliana filosofia della natura (Naturphilosophie) e alla dialettica degli opposti fondata sul concetto - tipicamente hegeliano - di Aufhebung (superare gli opposti per portarli ad una sintesi superiore) 25/3 (2002), pp. 339-373; A. SCISCI, Donato Jaja (1839-1914): la vita e il pensiero, Parnaso, Foggia 2009. 115 Testimonianza del giovanile interesse di Croce per l’economia e per il marxismo sono la serie di saggi pubblicati nel 1900 con il titolo Materialismo storico ed economia marxistica.

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sostituisce una “dialettica dei distinti”. Croce concepisce l’attività dello spirito umano come un processo di distinzione: egli individua quattro ambiti all’interno dei quali lo spirito opera in piena auonomia e perseguendo diverse finalità. Questi ambiti sono l’estetica (che ha come oggetto il bello), la logica (che ha come oggetto il vero), l’economia (che ha come oggetto l’utile) e l’etica (che ha come oggetto il bene). La vita dello spirito umano si caratterizza come circolazione all’interno di questi quattro distinti e, in qualche modo, si risolve tutta all’interno dei distinti stessi. Nella dialettica crociana viene quindi dissolto il problema che tanto tormentò gli idealisti tedeschi, ovvero il problema metafisico del cominciamento (Anfang), la questione concernente la genesi dello spirito (Ursprung des Geistes)116. È questo, forse, uno dei deficit più evidenti dell’indagine crociana: il porsi la questione dell’origine delo spirito avrebbe infatti spinto l’autore a considerazioni di carattere metafisico che de facto sono poco presenti nei suoi scritti. Secondo Croce ogni distinta attività dello spirito è cominciamento a sé stessa, opera in piena autonomia con le sue proprie leggi, e soprattutto si risolve compiutamente all’interno del processo storico: in questa prospettiva non c’è alcun principio metastorico (come un Dio trascendente e provvidenziale) che guida l’attività dello spirito nel corso della sua storia: «l’uomo, lo spirito umano» - afferma il Nostro - non uscirà mai da questo circolo (o corso e ricorso vichiano), da questo circolo che è la vita»117. È quindi evidente che con Croce siamo all’interno di uno storicismo assoluto, dove tutto è comprensibile e spiegabile (religioni, guerre, ideologie, ecc.) come momento necessario di un 116

Per Hegel il problema del cominciamento (Anfang) ha un significato metafisico fondamentale: cercando di risolverlo nella Scienza della Logica egli indende perseguire quella fondazione radicale della verità-certezza dell’intero (das Ganze) che né la prospettiva aristotelica né il soggettivismo moderno (dal cogito cartesiano all’Ich denke überhaupt di Kant) erano riusciti a soddisfare. 117 B. CROCE, Agli amici che cercano il «trascendente», parte finale della redazione edita nel 1945 di Contributo ad una critica di me stesso, successivamente pubblicato in IDEM, Etica e politica, Laterza, Bari 1967, pp. 378-384, p. 379.

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unico grande processo della storia. Possiamo dire, quindi, che in tale forma di storicismo le grandi questioni metafisiche vengano dissolte o comunque non prese in esame come veri e propri problemi speculativi: la filosofia - osserva Croce - «non può essere necessariamente altro che il momento metodologico della storiografia: dilucidazione delle categorie costitutive dei giudizi storici ossia dei concetti direttivi dell’interpretazione storica»118. In tale ottica l’indagine teoretica consiste (e si risolve) nell’analisi della vita dello spirito nella storia e la filosofia diviene tout court metodologia della ricerca storiografica. Il giudizio di Michele Federico Sciacca sulla concezione crociana della filosofia è alquanto severo ma contiene elementi di verità: «la sua [di Croce] sistemazione è senz’anima filosofica perché senza spirito metafisico. L’idealismo assoluto del Croce è, in fondo, una forma di positivismo assoluto, privo di quel che veramente filosofico vi era nel positivismo stesso. Non scolaro del Vico e dello Hegel, come egli dice, ma del Voltaire – quello popolare e superficiale – dello Hume e prima ancora di Marx, non ha mai avuto interessi filosofici veri e propri, ma di storico; interessi “mondani”, mentre la filosofia è scienza delle cose umane e divine»119. Le critiche di Sciacca sono particolarmente dure poiché rivolte anche contro l’ironia crociana nei confronti dei discorsi filosofici sulla metafisica, sui problemi di Dio e dell’immortalità dell’anima. Tuttavia Croce nella sua autobiografia intellettuale (Contributo ad una critica di me stesso) confessa di essere stato per ben due volte profondamente turbato da preoccupazioni metafisiche: nella prima giovinezza al dissolversi della fede cristiana e intorno ai trent’anni quando rifiutò il marxismo quale “religione della libertà”, tutta tesa surrettiziamente a relizzare il regno di Dio nella storia umana. Ecco le parole dell’autore: «Anch’io ho cercato e ho lottato col trascendente e ho sofferto crisi necessarie, segnatamente in due 118

B. CROCE, Teoria e storia delle storiografia, Laterza, Bari 1917; a cura di G. Galasso, Adelphi, Milano 1989, p. 167 (si tratta dell’incipit del saggio dal titolo Filosofia e metodologia). 119 M.F. SCIACCA, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Marzorati, Milano 1968, pp. 72-73.

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momenti della mia vita. […] Il primo ebbe luogo tra l’adolescenza e la giovinezza, per il dissolversi in me della vecchia fede e il maturarsi della nuova; e dopo non breve tempo di tristezza e smarrimento venne superato dalla chiaroveggenza critica invincibile che tutto il pensiero moderno appresta e rende naturale in quel rapporto. Il secondo accadde intorno ai trant’anni, quando il trascendente mi si ripresentò avvolto in forma terrena e laica, che ne celava l’interna contraddizione con un’apparenza storicistica di carattere filosofico e dialettico; e prese forma di una generosa radicale liberazione dal male, dall’ingiustizia e dall’irrazionalità mercè di un nuovo mondo da costruire che sarebbe stato l’unico, il vero “regno della libertà”, dopo tanto secolare affanno di servitù. Ma le dottrine di Marx non ressero alla critica coscienziosa e spregiudicata a cui fui a passo passo condotto e costretto; e quel suo regno egualitario e comunistico mi si dimostrò incapace di realtà storica, e quasi meno fondato, direi, della Città del sole, che il Campanella ideava non come cominciamento di una storia ma come pausa innanzi alla fine del mondo, da lui profetata imminente. Invero, un mondo di egualità è sinomino della morte del mondo»120. L’autobiografia intellettuale si chiude con una confessio fidei immanentistica che però, ad onor del vero, non è solo una serena dichiarazione di ateismo ma rivela anche l’intimo avvertimento di un’ulteriore possibile ricerca: «Perciò i miei cari amici, ansiosi ricercatori di “trascendenze”, - così di quella delle religioni rivelate come delle illuministiche, anch’esse e a lor modo non pensate ma rivelate, - mi vorrano scusare se non mi unisco al loro coro e mi tengo stretto alla virtù che “immane” in noi e mi serbo assoluto immanentista. Può darsi che in questa virtù si possegga un Dio che ci dirige e ci comanda, un Dio che s’invoca dal fondo del cuore intensamente e che è più soccorrevole all’uomo del Dio o dell’idea trascendente»121. Analizziamo ora più a fondo l’interpretazione crociana del fenomeno religioso e soprattutto del cristianesimo. A tal proposito Sciacca ha fatto giustamente notare che la prospettiva di Croce 120 121

B. CROCE, Agli amici che cercano il «trascendente», cit., pp. 378-379. Ibidem, pp. 383-384.

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mostra notevolissime affinità con quella del francese Léon Brunschvigs, espressa in maniera emblematica nell’opera Le progrès de la conscience dans la philosophie occidentale (Alcan, Paris 1927)122. Per entrambi le religioni sono “miti” forgiati dalla facoltà dell’immaginazione e valgono a soddisfare bisogni pratici ed empirici: ci pare che siamo innanzi ad una critica della religione che trova i trova i suoi precursori in Hume, in Voltaire e soprattutto in Feuerbach, secondo il quale la religione nasce dall’immaginazione (Einbildungskraft) e le elaborazioni teologiche non sono altro che articolate costruzioni mentali nate dal desiderio umano di giustizia, benessere ed eternità123. Dunque, come tutte le religioni, anche il cristianesimo racchiude in sè una serie di “miti”, elaborati soprattutto nel corso dei primi secoli, quando si cercò di dar forma dogmatica e liturgica alla “nuova religione” sorta dall’ebraismo. Secondo Croce appartengono al mondo di queste elaborazioni mitologiche le nozioni di «regno di Dio, resurrezione dei morti, battesimo per prepararvisi124, espiazione e redenzione che toglie i peccati degli eletti al nuovo regno, grazia e predestinazione, e via dicendo»; tali nozioni «passarono laboriosamente da miti più corpulenti ad altri più fini e trasparenti di verità»125. Dunque secondo Croce - così commenta questi passi anche Rocco Pezzimenti - «tutto l’apparato trascendente del cristianesimo, che poi per chi crede ne costituisce

122

Cfr. M.F. SCIACCA, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, cit., pp. 74-76. 123 Sulla risoluzione antropologica della religione in Ludwig Feuerbach cfr. G. SEVERINO, Origine e figure del processo teogonico in Feuerbach, Mursia, Milano 1972; U. PERONE, Teologia ed esperienza religiosa in Feuerbach, Mursia, Milano 1972. 124 Qui Croce fa riferimento all’antica liturgia cattolica dove al momento del battesimo il celebrante chiedeva al padrino: «Fides, quid tibi praestat? (Cosa ti dona la fede?)» e il padrino rispondeva: «vitam aeternam». 125 B. CROCE, Perché non possiamo non dirci «cristiani», «La Critica. Rivista di Letteratura, Storia, Filosofia», LX, (IV della Quarta serie), Napoli 1942, p. 291.

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l’essenza, è pura mitologia»126. Ci pare che la considerazione della religione come mitologia accomuni la posizione di Croce anche a quella del suo contemporaneo Ernst Cassirer: del resto i due intellettuali si conoscevano e nelle loro opere si soffermavano nell’analizzare le rispettive posizioni127. Cassirer e Croce sottolineano, seppur con diverse sfumature, che la produzione mitologica è una funzione trascendentale dello spirito umano: in particolare per il filosofo tedesco la religione è un’espressione simbolica tramite la quale l’uomo diviene Sinngeber, cioè conferisce un senso all’esistenza e alla realtà nella sua interezza. Nel 1942 Croce pubblicò nella rivista «La Critica» il celebre articolo, ancor oggi molto citato e commentato, dal titolo Perché non possiamo non dirci «cristiani». Qui Croce sottolinea il ruolo eccezionale e rivoluzionario svolto dal cristianesimo nella cultura occidentale: «il Cristianesimo è stata la più grande rivoluzione che l’umanità abbia mai compiuta: così grande, così comprensiva e profonda, così feconda di conseguenze, così inaspettata e irresistibile nel suo attuarsi, che non meraviglia che sia apparso o possa ancora apparire un miracolo, una rivelazione dall’alto, un diretto intervento di Dio nelle cose umane, che da lui hanno ricevuto legge e indirizzo affatto nuovo»128. La rivoluzione concettuale operata dal diffondersi

126

R. PEZZIMENTI, «Cristiani» o «post-cristiani»?, in IDEM, Politica e religione. La secolarizzazione nella modernità, Città Nuova, Roma 2004, p. 230. 127 A tal proposito si veda B. HENRY, Cassirer e Croce. Un possibile confronto, «Archivio di storia della cultura», 1993, pp. 115-137. Nel luglio 1942 Croce - per conforntarsi più in profondità con la posizione di Cassirer - richiese alla Biblioteca del Senato due opere fondamentali dell’autore tedesco: il Substanzbegriff e la Philosophie der Symbolischen Formen. Cfr. G. SPADOLINI (a cura di), Il Carteggio di Benedetto Croce con la Biblioteca del Senato: 1910-1952, Senato della Repubblica, Roma 2002, pp. 402-403 e p. 420. Notiamo che nel primo volume della Filosofia delle forme simboliche Cassirer dedica delle interessanti pagine anche all’Estetica crociana. 128 B. CROCE, Perché non possiamo non dirci «cristiani», «La Critica», 1942; articolo ripubblicato in IDEM, Discorsi di varia filosofia, Laterza, Bari

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della nuova religione nel mondo tardo-antico produsse effetti di vastissima portata: anche le rivoluzioni della modernità (culturali e politiche) - rileva Croce - sono in rapporto di dipendenza con il cristianesimo: «tutte le altre rivoluzioni, tutte le maggiori scoperte che segnano epoche nella storia umana, non sostengono il suo confronto, parendo rispetto a lei particolari e limitate. Tutte, non escluse quelle che la Grecia fece della poesia, dell’arte, della filosofia, della libertà politica, e Roma del diritto: per non parlare delle più remote della scrittura, della matematica, della scienza astronomica, della medicina e di quanto altro si deve all’Oriente e all’Egitto. E le rivoluzioni e le scoperte che seguirono nei tempi moderni, in quanto non furono particolari e limitate al modo delle loro precendenti antiche, ma investirono anche l’uomo, l’anima stessa dell’uomo, non si possono pensare senza la rivoluzione cristiana, in relazione di dipendenza da lei, a cui spetta il primato perché l’impulso originario fu e perdura il suo»129. Tuttavia il tono celebrativo dello scritto non deve trarci in inganno: non si tratta di un’adesione di Croce al cristianesimo ma di una generosa valutazione del suo ruolo sul piano storico e culturale. In Croce rimaniamo sempre all’interno di una visione storicistica della religione: da essa viene espunto qualsiasi elemento di soprannaturale e di trascendenza. Tuttavia bisogna notare che per Croce il cristianismo è stato e rimane un momento imprescindibile dello sviluppo razionale e valoriale dell’umanità. A suo parere razionalità e cristianesimo coincidono: i valori portati dalla “rivoluzione cristiana” continuano a vivificare la “storia ideale eterna” dell’umanità. Croce è, quindi, totalmente contrario a qualsiasi interpretazione irrazionalistica o fondamentalistica del cristianesimo; esso è religio portatrice di logos: «Razionali dobbiamo mantenerci e vivere perché cristiani, e profondamente cristiani perché razionali […]; cristianesimo e

1945, e successivamente dall’Editrice La Locusta, Vicenza 1966, 19943, pp. 5-27, p. 5-6. 129 Ibidem, p. 6.

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razionalità, se anche ora sembri il contrario, non possono essere mai sorpassati e antiquati».130 Come abbiamo già accennato, secondo il filosofo italiano tutta la storia dello spirito umano è “storia della libertà”, cioè è il progressivo ma inarrestabile dispiegamemento della libertà in tutte le sue forme: lo spirito nella sua essenza è libertà - das Wesen des Geistes ist Freiheit, come sosteneva anche Hegel - e tende in maniera sempre maggiore alla sua piena comprensione e realizzazione; si comprende allora come la libertà sia l’eterna formatice della storia, il tema che unifica e spiega tutti i fatti (lotte, guerre, rivoluzioni). Come abbiamo già accennato, in tali considerazioni Croce si richiama esplicitamente ad Hegel, il quale sottolinea il ruolo decisivo che il cristianesimo ha avuto nello sviluppo della libertà nella storia: mentre nel mondo orientale antico la libertà era privilegio esclusivo del sovrano e nella Grecia classica era privilegio di molti ma non di tutti (si pensi ai meteci e agli schiavi), con il cristianesimo - sostiene Hegel - la libertà diventa la caratteristica fondamentale di ogni uomo; in quanto imago Dei l’uomo nella sua interiorità è partecipe della libertà stessa dell’assoluto131. Croce riprende, quindi, da Hegel l’idea che con la democrazia greca la libertà si dispiega nella sua dimensione esteriore e politica, mentre con l’avvento del 130

B. CROCE, Considerazioni sul problema morale del nostro tempo, «Quaderni della Critica», I, 1945, p. 15. 131 «In Oriente» - afferma Hegel - «è libero uno solo; nel mondo greco slo alcuni sono liberi. […] con il cristianesimo il soggetto è pensato come libero: nella religione cristiana l’uomo in quanto uomo è destinato alla beatitudine eterna, è oggetto delle grazia divina, dell’interessamento divino; in tal modo ciascuno è per sé un soggetto e possiede per sé un valore assoluto ed infinito» (G.W.F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie [Wintersemester 1825/26], Einleitung, Berlin; hrsg. von K.L. Michelet, Verlag von Dunckler und Humblot, Berlin 1833-1836; tr. it. di R. Bordoli, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 56). Con la democrazia greca - sottolinea Hegel - inizia il “mondo della libertà” (die Welt der Freiheit): si tratta però della libertà nella dimensione esteriore e politica. Solo con il cristianesimo la libertà trova un approfondimento sul piano teologico divenendo la nota costitutiva della coscienza umana.

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cristianesimo la libertà si completa divenendo la caratteristica fondamentale dell’interiorità umana. «La rivoluzione cristiana» osserva Croce - «operò nel centro dell’anima, nella coscienza morale, e, conferendo risalto all’intimo e al proprio di tale coscienza, quasi parve che le acquistasse una nuova virtù, una nuova qualità spirituale, che fino allora era mancata all’umanità»132. Si comprende allora perché il cristianesimo sia stato, secondo Croce, la più grande rivoluzione spirituale dell’Occidente: esso ha fatto comprendere il valore assoluto della libertà dell’uomo ed ha diffuso quei valori di uguaglianza e fraternità che, seppur in veste secolarizzata, saranno alla base delle rivoluzioni politiche e culturali del mondo moderno. Il cristianesimo, dunque, non appare come un qualcosa che interrompe il divenire storico con l’irruzione di una forza trascendente: «la rivoluzione cristiana» - osserva Croce - «fu un processo storico», che non ha nulla di misterioso e di trascendente. La filosofia idealistica, continua Croce, non è che la piena comprensione sul piano concettuale di ciò che il cristianesimo ci ha fatto conoscere nella storia in forme mitiche e fabulatorie. Ecco allora come l’idealismo viene concepito come l’erede stesso dei valori cristiani: «e il Dio cristiano è ancora il nostro, e le nostre affinate filosofie lo chiamano Spirito, che sempre ci supera e sempre è in noi stessi»133. A tal proposito è stato correttamente fatto notare che il giudizio di Croce sul cristianesimo «rimane idealistico e storicistico: egli coglie nel cristianesimo un semplice fenomento storico seppur eccezionale, una figura non una rivelazione, una figura in quale modo mitica di una precisa consapevolezza idealitica, un’autocoscienza critica di cui la verità cristiana è immagine»134. Ci pare che il giudizio di Croce sul cristianesimo sia in piana continuità con quello hegeliano: «nella religione [cristiana] e nella filosofia v’è un unico contenuto sostanziale: solo le figure rispettive sono

132

B. CROCE, Perché non possiamo non dirci «cristiani», cit., p. 8. Ibidem, p. 23. 134 A. RIGOBELLO, Storia come pensiero e come azione in Croce, Collana «Dialogo di Filosofia», n. 12 (Univerità Lateranese), Herder, Roma 1996, pp. 215-229, p. 227. 133

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diverse»135: «il contenuto della religione cristiana» continua Hegel «è far conoscere Dio come Spirito (Gott als Geist). Il compito della filosofia consiste nel cogliere ciò che alla religione è dato in forma di rappresentazione [mitica], nel suo proprio elemento, cioè nel Concetto. […] Il Concetto e la Libertà (der Begriff und die Freiheit) sono l’oggetto e l’anima della Filosofia»136. La filosofia, soprattutto quella idealistica, è quindi superiore al cristianesimo in quanto esprime gli stessi contenuti in forma pienamente razionale, senza far più riferimento ai miti. Richiamandosi ad Hegel, Croce presenta il suo idealismo assoluto come l’erede secolarizzato della scoperta cristiana della libertà fondata sull’autonomia dello spirito137. Ci paiono significative le parole con le quali Augusto Del Noce riassume la posizione di Croce: essa è «vivere senza religione trascendente, ma immettendo il senso del divino nell’azione storica dell’uomo, così che ogni suo atto assuma un significato religioso e non ci sia una parte profana della sua vita distinta dalla parte religiosa»138. Quella di Croce è quindi una religione del divino immanentizzato e storicizzato. Una serena compostezza emerge dalle pagine in cui Croce ci parla da laico del tema platonico e cristiano dell’immortalità dell’anima: 135

G.W.F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, cit., p. 39. G.W.F. HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften im Grundrisse, Oswald Verlag, Heidelberg 1830, § 384; tr. it. di V. Cicero, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Rusconi, Milano 1996, p. 641. 137 Un ulteriore scritto nel quale Croce torna sul rapporto tra idealismo e cristianesimo è il seguente: Filosofia e religione, «Quaderni dell Critica», 11, 1948, pp. 12-18. Sull’ermeneutica crociana del fenomento religioso e del cristianesimo si vedano F. GHERA, Croce e il cristianesimo, Scandaliato, Enna 1943; A. FAGGIOTTO, Il cristianesimo di Benedetto Croce, Guido, Lecce 1943; A. CARACCIOLO, L’estetica e la religione di Benedetto Croce, Paideia, Arona 1958; F.P. CASAVOLA, Croce e la religione, «Studium», 99, maggio-giugno 2003, pp. 328-331; G. BRESCIA, Croce e il cristianesimo, «Quaderni dell’Istituto Acton», 9, 2003 [Rubbettino, Soveria Mannelli]. 138 A. DEL NOCE, Croce e il pensiero religioso, «Il Veltro», IV, 1966, pp. 310, p. 3; il testo è stato riprodorro anche in IDEM, L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970, pp. 239-251. 136

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egli, come è prevedibile dalle premesse del suo pensiero, non crede nella vita eterna promessa dalle religioni ed è scettico nei confronti del cristianesimo come “farmaco dell’immortalità”. «Che cosa è la nostra vita» - egli si domanda - «se non appunto un “correre alla morte”, alla morte dell’individualità?»139. Tuttavia, nonostante la mancanza di una fede nell’aldilà, Croce non cede alle facili lusinghe di considerazioni nichilistiche sulla futilità del vivere: in questo egli recupera la lezione dei classici greci e latini e con l’equilibro del dotto riprende l’adagio oraziano del «non omnis moriar»140. La vita eterna, nota Croce, consiste nell’aver vissuto pienamente quella terrena e nel valore assoluto che le nostre azioni hanno suscitato: in ogni nostro gesto v’è infatti un qualcosa che eternamente permane. Si tratta dell’unica forma di immortalità razionalmente concepibile. La filosofia sarebbe, quindi, in grado di dimostrare che «ogni nostro atto, appena compiuto, si stacca da noi e vive vita immortale, e noi stessi (i quali realmente non siamo che il processo dei nostri atti) siamo immortali, perché aver vissuto è vivere sempre. Pensiero che, mi sembra,» - così l’autore - «consola più di quello delle religioni»141. Tale sereno equilibrio innanzi al dramma della morte lo ritroviamo anche nel De senectute del laico Norberto Bobbio142: sia in Croce che in Bobbio siamo innanzi a due autori che con estema onestà intellettuale ci parlano del possibile significato della vita al di là di facili consolazioni religiose. 3. «Il mio cattolicismo»: il problema teologico nell’attualismo di Giovanni Gentile Se Croce risolve il problema della religione e del cristianesimo in senso storicistico, molto più complessa e, per certi aspetti, anche più profonda ci pare la posizione di Giovanni Gentile. In una conferenza 139

B. CROCE, Frammenti di etica, in IDEM, Etica e politica, cit., p. 25. ORAZIO, Odi, III, 30, 6. 141 B. CROCE, Frammenti di etica, in IDEM, Etica e politica, cit., p. 23. 142 Cfr. N. BOBBIO, De senectute e altri scritti autobiografici, a cura di P. Polito, Prefazione di G. Zagrebelsky, Einaudi, Torino 2006. 140

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tenuta nell’Università di Firenze il 9 febbraio del 1943, egli afferma: «se domandate a me quale sia la mia religione, io vi dico in tutta sincerità che io mi sento, e perciò credo di essere non solo cristiano, ma cattolico»143. Per poter comprendere a pieno, e senza facili equivoci, in che senso Gentile dichiara di essere cattolico occorre chiarire il nucleo speculativo della sua prospettiva. Anche Gentile, così come Croce, propose la sua filosofia come una “riforma della dialettica hegelina”: tale è il titolo anche di uno dei suoi più noti volumi144. Dunque anche con Gentile siamo all’interno di una filosofia dello spirito di stampo chiaramente idealistico. Come è noto, egli critica la dialettica dei distinti elaborata da Croce: secondo il Nostro non esistono attività dello spirito tra loro distinte, poiché tali distinzioni (in arte, logica, economia ed etica) sono soltanto empiriche e non concernono l’attività assoluta dello spirito, che è unica ed indistinta. Lo spirito viene così identificato da Gentile con l’Io trascendentale: quest’ultimo costituisce un’assolutazione in senso metafisico dell’«io penso» kantiano e viene ad essere il fondamento sia degli «io empirici» (i singoli uomini) che del mondo oggettivo. Questo Io trascendentale, o Atto del pensare, crea il proprio oggetto nell’atto in cui lo pensa, e nel pensarlo crea anche se stesso come atto del pensare, cioè pone se stesso come autóctisi (autocreazione). Al di fuori del puro pensiero non vi sarebbe quindi nessuna realtà di per sé sussistente: il puropensiero-in-atto è l’assoluto. Alla dialettica hegeliana suddivisa nei tre momenti dell’Idea in sé, dell’Idea fuori di sé e dell’Idea che ritorna in sé, Gentile sostituisce i tre momenti del cogitans (pensiero pensante, cioè l’autocoscienza), il cogitatum (il pensiero pensato, cioè l’oggetto) e il cogitare (cioè l’attività trascendentale propria dello spirito): l’assoluto intrascendibile è, quindi, il puro cogitare insostanziale, l’Atto puro. Ecco perché la filosofia gentialiana viene solitamente definita anche come attualismo: al di fuori dell’atto del 143

G. GENTILE, La mia religione, in IDEM, Discorsi di religione, [editi per la prima volta nel 1920], in IDEM, La religione, Sansoni, Firenze 1965, pp. 279-456, p. 407. 144 Cfr. G. GENTILE, La riforma della dialettica hegeliana, Principato, Messina 1913; IV edizione: Sansoni, Firenze 1975.

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pensiero (non certamente del singolo “io empirico” ma dell’Io trascendentale che è l’insieme di tutti gli individui) non sussiste alcuna realtà oggettiva. Seguendo Hegel anche Gentile individua tre forme nelle quali lo spirito si manifesta nella sua assolutezza: l’arte, la religione e la filosofia. L’arte è la pura soggettività, cioè il momento in cui lo spirito si esprime nella sua immediatezza attraverso il sentimento; la religione è la pura oggettività, cioè il momento il cui lo spirito si concepisce come puro oggetto (Dio), privo di qualsiasi relazione con se stesso; la filosofia è la sintesi di momento soggettivo ed oggettivo: è nella filosofia che lo spirito riconosce se stesso nell’oggetto e gli elementi artistici e religiosi vengono razionalmente compresi nel concetto (il Begriff ci cui parla anche Hegel). La filosofia costituisce quindi il vertice del sapere: essa è piena comprensione di quell’assoluto (lo spirito/l’Io trascendentale) che l’arte e la religione ci fanno solamente intuire: «la filosofia» - osserva Gentile - «deve perciò contenere la religione: deve dare la coscienza all’uomo di questa immanente necessità della religione che essa stessa contiene, o della presenza di Dio nella vita concreta dello spirito»145. Secondo il Gentile, a differenza di Croce, la religione è un momento essenziale del processo dialettico dello spirito: tuttavia il Dio della religione - osserva il Nostro - non è che un’oggettività astratta. La filosofia ci fa comprendere che Dio non è che una forma dell’Io trascendentale: in tal senso, possiamo dire che l’attualismo gentiliano sia una sorta di “monismo assoluto” dove non c’è posto per il Dio biblico, cioè per il Dio della trascendenza. «Quando l’uomo si piega adorando Dio, si piega dinanzi alla creazione della sua fantasia»: «chi non si accontenta di questo Dio [cioè dello spirto umano come Io trascendentale]» - così Gentile nei Discorsi di Religione - «vada pure a caccia delle ombre al di là dal cielo stellato o nei recessi inaccessibili del proprio animo»146. Gentile chiarisce il significato del suo attualismo tramite il “metodo dell’immanenza”: esso «consiste nel concetto della 145

G. GENTILE, Discorsi di religione, [editi per la prima volta nel 1920], in IDEM, La religione, Sansoni, Firenze 1965, pp. 279-456, p. 351. 146 Ibidem, p. 420.

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concretezza assoluta del reale nell’atto del pensiero o nella storia: atto che si trascende quando si comincia a porre qualche cosa (Dio, natura, legge logica, legge morale, realtà storica dell’insieme dei fatti, categorie spirituali e psichiche di là dall’attualità della coscienza) che non sia lo stesso Io come posizione di sé, o come Kant diceva, l’Io penso. Il metodo dell’immanenza è il punto di vista e la legge dell’idealismo attuale; e non ha a che vedere perciò col metodo omonimo di quella filosofia dell’azione [qui Gentile fa riferimento a Maurice Blondel], che crede di poter muovere bensì dall’atto spirituale, ma nel supposto che la realtà sia fuori di esso»147. Quando l’uomo raggiunge il punto di vista trascendentale, ovvero la vita dello spirito, egli si rende conto che tutto è immanente alla sua coscienza: sia la realtà extra-soggettiva (l’oggetto come pensiero pensato) sia il Dio della trascendenza religisa: «l’uomo che scopre in sé Dio, in certo modo quindi lo crea, non è l’uomo naturale, ma l’uomo che è spirito, entrato già nel regno dello spirito, ond’è uomo ma è anche Dio»148. Ci pare che la posizione di Gentile richiami in profondità quella di Johann Gottlieb Fichte, nella quale Dio stesso viene identificato come l’assoluto che vive nell’immanenza della coscienza trascendentale: sia per Fichte che per Gentile al di fuori dell’assoluto - declinato come Io puro (das reine Ich), volontà pura (der reine Wille), luce originaria della coscienza (urspüngliches Licht des Bewußtseins), esse in mero actu e regno dello spirito (Reich des Geistes) - non sussiste alcuna autonoma realtà149. Inoltre, sia per Fichte che per Gentile la morte rappresenta il momento necessario in cui l’individualità singola si dissolve nell’eternità dell’assoluto: la morte dell’io empirico, cioè della singola persona, costituisce un dissolvimento della personalità nell’Io trascendentale. In tali prospettive idealistiche si hanno certamente delle derive di averroismo: l’anima viene concepita non come suppositum metafisico ma come semplice funzione del pensiero e come tale, post 147

G. GENTILE, Il metodo dell’immanenza, [comunicazione tenuta alla Biblioteca filosofica di Palermo il 16 dicembre 1912], ora edita in IDEM, La riforma della dialettica hegeliana, cit.., pp. 196-232, p. 232. 148 G. GENTILE, Discorsi di religione, cit., p. 422. 149 G. GENTILE, La mia religione, cit., p. 406.

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mortem, viene riassorbita nella ragione universale, in quello che Averroè definiva l’intelletto unico comune a tutti gli uomini150. Il cristianesimo viene quindi accettato da Gentile come «religione dello spirito»: esso, come abbiamo già detto, ci rivela in forma mitica quei contenuti che la filosofia chiarisce razionalmente, depurandoli della loro veste mitologica. Nella religione crisitna - ribadisce Gentile - «Dio è spirito; ma è spirito in quanto l’uomo è spirito; e Dio e uomo nella realtà dello spirito sono due e sono uno: sicchè l’uomo è veramente uomo soltanto nella sua unità con Dio: pensiero divino e divina volontà»151. Con Gentile ci troviamo di fronte ad una sorta di “mistica razionale” fondata sul valore assoluto dell’Atto di pensiero e nella quale l’itinerium mentis in Deum viene fatto coincidere con la piena consapevolezza, tutta umana, di appartenere ad un regno dello spirito fondante le singole individalutà storiche. Si tratta di una théiosis laica: la comprensione dell’attualismo porta alla consapevolezza che nella dimensione trascendentale dello spirito noi singoli esseri umani vivimus, movemur atque sumus. A partire da questi presupposti speculativi possiamo capire il senso dell’adesione di Gentile non solo al cristianesimo ma, più specificatamente, al cattolicesimo. Egli afferma senza esitare: «io sono cristiano. Sono cristiano perché credo nella religione dello spirito. Ma voglio subito aggiungere, a scanso di equivoci: io sono cattolico. E non da oggi; sia anche questo ben chiaro. Cattolico a rigore, sono dal giugno del 1875, ossia da quando sono al mondo»152. In questa sua professio fidei l’autore si richiama alla poligonìa del cattolicesimo teorizzata da Vincenzo Gioberti, per il quale «vi sono tanti cattolicismi quanti gli spiriti umani formanti una chiesa sola»153. Gentile è quindi lontano dal «cattolicismo della chiesa cattolica» con il suo sistema dogmatico e la sua gerarchia: «istituti e dogmi non sono obbiettivamente esistenti e operanti fuori dalla mente e 150

A tal proposito cfr. V. SORGE, Averroismo, Guida, Napoli 2007. G. GENTILE, La mia religione, cit., p. 408. 152 Ibidem, p. 406. 153 V. GIOBERTI, Della riforma cattolica della chiesa: frammenti, a cura di G. Massari, Tipografia dei classici italiani, Napoli 1861, § 101; l’opera è stata ristampata presso i tipi di Nabu Press 2012. 151

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dell’animo del credente; essi in interiore homine sono accettati ed intesi com’è possibile a ciascuno intederli, colla propria testa, liberamente»154. Con queste dichiarazioni Gentile è consapevole di porsi al di fuori della rigida dogmatica cattolica: tuttavia a lui non interessa il cattolicesimo storico con tutto il suo apparato istituzionale ma la “chiesa invisibile”, quella formata da tutti gli uomini di buona volontà che vivino nell’autenticità la dimensione dello spirito. Solo la “chiesa invisibile”, quella che già Kant chiamava unsichtbare Kirche, è il vero “corpo mistico”: tutto il resto (dogmi, riti, simboli) non è che una costruzione tutta storica ed umana. Differentemente da Croce, per Gentile il momento religioso è di fondamentale importanza in quanto propedeutico alla sua stessa filosofia attualistica: ecco perché quando nel 1922 divenne ministro della pubblica istruzione, grazie all’appoggio del fascismo, egli rimise il Crocefisso nelle scuole. Per i fanciulli l’educazione cattolica rappresentava ai suoi occhi una sorta di introduzione, seppur in forma mitologica, al mondo dello spirito, che poi la mente più matura avrebbe compreso in una dimensione puramente filosofica e razionale. Tuttavia Gentile fu critico nei confronti del regime fascista, quando con i Patti lateranensi del 1929 fu affidato agli ecclesiastici l’insegnamento obbligatorio della religione cattolica nelle scuole medie: il cattolicesimo diveniva in tal modo una religione di Stato dagli angusti confini intellettuali155. Giovanni Gentile è stato oggetto di numerosi studi e contrastanti interpretazioni, sia in relazione agli aspetti filosofici sia a quelli politici, come la sua adesione al fascismo. Di particolare interesse ci pare l’ermeneutica proposta da Augusto Del Noce: egli individua in 154 155

Sulla pedagogia gentiliana della religione cfr. L. AMBROSOLI, Libertà e religione nella riforma Gentile, Firenze 1980; Aa. Vv., Giovanni Gentile e l’educazione degli italiani, «Nuova secondaria», 7, 1989 (volume interamente dedicato a Gentile). Sugli sviluppi etici ed educativi dell’idealismo di Gentile cfr. anche M. SIGNORE, Impegno etico e formazione dell’uomo nel pensiero gentiliano, Editrice Salentina, Galatina 1972.

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Gentile un’originale convivenza di elementi di attivismo marxista accanto a quelli del pensiero di Gioberti: nell’attualismo viene quindi vista una singolare «coincidenza tra marxismo dissociato, come filosofia della prassi, da materialismo, e giobertismo [dissociato], come filosofia della creazione, da platonismo e ontologismo»156. Il pensiero gentiliano - sottolinea Del Noce - si origina quindi da una sintesi di attivismo marxista e di giobertiana filosofia della creazione, privata però dell’elemento teistico e trascendente. Del resto, per comprendere l’attualismo come sintesi originale di marxismo e di giobertinismo basti pensare ai titoli di due importanti opere giovanili: Rosmini e Gioberti (Pisa, 1898) e La filosofia di Marx (Pisa, 1899): quest’ultima ricette anche una recensione molto positiva da parte dello stesso Lenin che la considerò come una delle migliori monografie sul pensiero teoretico di Marx157. Del Noce scorge giustamente nel pensiero di Gentile un’immanentizzazione della teologia cristiana, nella quale il divino viene completamente ridotto all’attività della coscienza umana: come abbiamo sottolineato in precedenza, nell’attualismo gentiliano non v’è nessun altro Dio all’infuori dello spirito umano e delle sue molteplici produzioni. Tuttavia - rileva Del Noce - la particolarità di Gentile è che egli differentemente da positivisti e marxisti - non si oppone alla religione e nemmeno al cattolicesimo: anzi, egli propone il suo pensiero come la “vera religione”, come l’inveramento stesso del cattolicesimo158. 156

A. DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1990 [opera edita postuma], p. 93. Cfr. anche IDEM, Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVII, 2, 1968, pp. 163-215. 157 Cfr. LENIN, Karl Marx, articolo pubblicato nel Dizionario Enciclopedico russo Granat, VII, 1915. 158 Sulla filosofia della religione e l’interpretazione gentiliana del cristianesimo cfr. E. BUONAIUTI, Immanentismo idealistico ed esperienza religiosa, «Rivista trimestrale di studi di filosofia e religione», 1, 1920, pp. 77-86; 3, pp. 303-312; R. MURRI, La religione nell’idealismo attuale di Giovanni Gentile, «Nuova Antologia», 1922, n. 1205; M. CORDOVANI, Cattolicesimo e idealismo, Vita e Pensiero, Milano 1928; A. BRUERS, Il cattolicesimo e Giovanni Gentile, Edizioni Stella, Roma 1943; P.

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4. La dissoluzione dell’attualismo: dallo «spiritualismo cristiano» alla «sinistra gentiliana» (Ugo Spirito e Guido Calogero) Anche per la sua stretta connessione con l’attivismo fascista il pensiero di Gentile ebbe in Italia una vasta diffusione: esso fu tuttavia anche oggetto di rigorose critiche, sia da parte degli intellettuali che difendevano la metafisica aristotelica sia da parte di alcuni stessi discepoli del Gentile come Michele Federico Sciacca, Felice Battaglia e Armando Carlini. Questi tre autori operarono una correzione dell’attualismo in senso spiritualistico e teistico, coniugando l’esigenza idealistica del primato della coscienza con la trascendenza cristiana. La storiografia filosofica definisce spesso tali autori come la “destra gentiliana”: essi ebbero avvertirono, infatti, l’esigenza di coinugare la filosofia con la fede cristiana, come era tipico della cosiddetta “destra hegeliana” dell’Ottocento. Ci occuperemo di queste prospettive in maniera più analitica parlando dei dibattiti svoltisi nel secondo dopoguerra presso il Centro Studi Filosofici di Gallarate tra i cosiddetti “spiritualisti cristiani” e i metafisici classici, provenienti soprattutto dall’Univeristà cattolica di Milano e dall’Università di Padova. Una considerazione a parte merita la cosiddetta “sinistra gentiliana” rappresentata da Guido Calogero (1904 - 1986) e da Ugo Spirito (1896-1979), entrambi allievi di Gentile ma poi dissidenti nei confronti del maestro. Ci soffermiamo in primo luogo su Spirito che fece un percorso intellettuale “dall’attualismo al problematicismo”,

CARABELLESE, Cattolicità dell’Attualismo, «Giornale critico della filosofia italiana», 1-2, 1947, ora in P. DI GIOVANNI (a cura di), Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, vol. XII, Sansoni, Firenze 1967, pp. 127-144 ; U. SPIRITO, La religione di Giovanni Gentile, in IDEM, Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze 1969, pp. 95-124; A. CARACCIOLO, La religione nel pensiero di Giovanni Gentile, in P. DI GIOVANNI (a cura di), Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, cit., pp. 5-42; C. VIGNA, Sul concetto gentiliano di religione, «Rivista di filosofia neoscolastica», 6, 1969, pp. 723-727; P. DE LUCIA, Italianità e cattolicesimo in Giovanni Gentile, «Filosofia oggi», 3-4, 34, 2011, pp. 331-339.

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come emerge dal titolo stesso di una delle sue ultime opere159. Da giovane egli si avvicinò al positivismo scorgendo in esso un metodo certo per la conoscenza scientifica del reale; dal Gentile apprese però a denunciare i limiti del positivismo che assolutizzava i fatti oggettivi escludendo dalla considerazione filosofica la vita dello spirito umano. Nel 1937 Spirito pubblica un libro (La vita come ricerca)160 che segnò un distacco anche dall’attualismo gentiliano, considerato ormai come un sistema metafisico-dogmatico che pretende di spiegare il reale nella sua interezza (sia la realtà della natura che quella dello spirito). Egli avverte quindi l’intrinseca contraddittorietà di tutte le tesi della metafisica occidentale (attualismo compreso) in quanto esse pretendono illusoriamente di poter comprendere il tutto. Spirito definisce così la sua posizione con il termine di “problematicismo”161 ed argomenta a favore di un’«assoluta antinomicità» di ogni rigida dottrina filosofica. Egli rifiuta perciò l’idea dialettica (quella hegelo-marxista) che prendente di determinare in maniera scientifica le leggi della storia; e rifiuta anche l’idea gentiliana del “pensiero pensante” come una possibile sintesi assoluta del reale. La filosofia - sottolinea Spirito - in quanto prodotto di una razionalità umana sempre fallibile non può mai giungere ad una comprensione del reale nella sua totalità, né tramite la nozione di dialettica né tramite quella di una sintesi assoluta. Secondo Spirito «nell’antinomicità, nel dramma di contraddizioni fondamentalmente insolubili sta la sostanza della vita e del pensiero. A ogni affermazione se ne oppone un’altra equivalente, e non ci sono criteri per decidere quale è la vera. Perciò nessun problema scientifico o filosofico può avere una soluzione definitiva, e non 159

Cfr. U. SPIRITO, Dall’attualismo al problematicismo, Sansoni, Firenze 1976. 160 U. SPIRITO, La vita come ricerca, Sansoni, Firenze 1937; una nuova edizione: Prefazione di F. Perfetti e Introduzione di H.A. Cavallera, Luni Editrice, Milano-Trento 2000. 161 La caratteristica del problematicismo - osserva Spirito - «è l’intrinseca incapacità a porsi il criterio stesso della ricerca» (U. SPIRITO, L’attualismo di Gentile e il problematicismo, in AA. VV., La filosofia contemporanea in Italia, I, Arethusa, Asti-Roma 1958, p. 84).

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resta altro che trascorrere costantemente da dilemma a dilemma, senza mai risolverli. L’eterno errare “problematico” è dovuto al fatto che qualsiasi decisione, qualsiasi teoria, hanno inevitabilmente il carattere di un “mito” dogmatico»162. A parere di Spirito la storia della metafisica occidentale non è che il susseguirsi di una serie di “mitologie” che hanno preteso di comprendere i princìpi del mondo, pronendosi come definitive ed esaustive. Certo è, sostiene Spirito, che «carattere di “mito” lo ha lo stesso problematicismo, ma la scelta deve andare a suo favore, in quanto, rinunciando al monopolio sulla verità delle sue affermazioni e riconscendone la natura problematica [nonché ipotetica], è la meno dogmatica tra tutte le concezioni»163. In questo rifiuto di Spirito di ogni metafisica dogmatica e di ogni sintesi dialettica scorgiamo anche delle significative analogie con la posizione di Theodor W. Adorno espressa nel volume Dialettica negativa164: sia per Spirito che per Adorno la complessità del reale ed i drammi della storia - si pensi agli eventi drammatici delle guerre mondiali - non possono essere né compresi né spiegati da alcuna mitologia filosofica o disegno unitario di senso. Spirito sottolinea che l’unica via percorribile a parte hominis è quella di restare in una posizione ipotetica: la nostra comprensione del reale è e rimane sempre ipotetica e problematica; essa riconosce che il mondo, nonostante i nostri sforzi di dargli un senso, continua a starci davanti come «inadeguatezza, limitatezza, sofferenza»165. Spirito definisce la sua prospettiva anche con i termini di “onnicentrismo” (nel reale non v’è

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S.A. EFIROV, Problematicismo e onnicentrismo. Ugo Spirito, in IDEM, La filosofia borghese italiana del XX secolo, tr. it. di M.T. Veggetti, Sansoni, Firenze 1970, pp. 82-101, p. 83. 163 S.A. EFIROV, Problematicismo e onnicentrismo. Ugo Spirito, cit. 164 Cfr. T.W. ADORNO, Negative Dialektik, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1966; tr. it. di P. Lauro, a cura di S. Petrucciani, Dialettica negativa, Einaudi, Torino 2004. 165 U. SPIRITO - G. CALOGERO, Ideale del dialogo o ideale della scienza?, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1966, p. 90.

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un centro metafisico ed assoluto di riferimento166) e di “ipotetismo”: la filosofia diviene vera scienza - afferma l’autore - «solo quando le sue affermazioni aquistano la consapevolezza della loro ipoteticità»167. Tuttavia la posizione di Spirito non sfocia in un facile scetticismo, come si potrebbe desumere dalle sue premesse teoretiche: essa ammette invece l’esistenza della verità che pone in moto la stessa esigenza umana della sua ricerca: «se cerchiamo di comprendere è perché ammettiamo implicitamente che ciò che è reale è razionale»168. Ecco allora che egli recupera il concetto platonico di filosofia come sképsis, cioè come ricerca infinita in cui la verità, che pur esiste, non può essere mai essere in pieno possesso dell’uomo169. Partendo da queste premesse si compende anche la posizione di Spirito in relazione alla questione religiosa: «quello che la scienza rinnega» - egli dichiara - «non è Dio, ma il falso dio delle religioni e delle metafisiche, che pretendono di conoscerlo e di definirlo»170. Il Dio della fede religiosa è ineffabile e sfugge ad ogni umana concettuliazzazione: qui Spirito recupera argomenti tipici della “teologia negativa”, la quale dichiara Dio come totaliter alter rispetto alle cose terrene e alle idee stesse dell’uomo. Spirito, soprattutto nell’ultima fase della sua produzione, accentua il 166

A parere di Spirito il suo “onnicentrismo” rappresenta la prosecuzione e il compimento di una tradizione scientifica che va da Copernico a Giordano Bruno e che si basa sull’idea di un’infinita pluralità dei mondi. Inotre, sottolinea Spirito, come Copernico e Bruno hanno demolito il geocentrismo, così la sua concezione onnicentrista infierisce colpi decisivi all’antropocentrismo, all’egocentrismo e alle metafisiche iperrazionalistiche, dando l’avvio ad una nuova “rivoluzione copernicana”. L’onnicentrismo rappresenta per Spirito una “rivoluzione copernicana” che riguarda sia la teoresi filosofica che l’etica. A tal proposito cfr. S. FELLI, Il problematicismo onnicentrico in Ugo Spirito, Pontificia Università Lateranense, Roma 1972. 167 U. SPIRITO, Dal mito alla scienza, Sansoni, Firenze 1966, p. 29. 168 U. SPIRITO, La vita come amore, Firenze 1953, p. 226. 169 Cfr. U. SPIRITO, La vita come ricerca, Sansoni, Firenze 1937; IDEM, La vita come amore, Sansoni, Firenze 1953. 170 U. SPIRITO, Dal mito alla scienza, cit., p. 60

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riconoscimento dei limiti della ragione umana: la constatazione dell’umana limitatezza gli apre nuove possibilità per il mistero religioso. Questa possibile apertura del pensiero di Spirito verso la trascendenza ebraico-cristiana è stata particolarmente sottolineata da Pietro Faggiotto: «in questo riconoscimento della povertà, dei limiti ristretti dell’intelletto umano e del mistero che lo sopravanza, in quest’ansia di colmare con una più alta esperienza di vita la propria deficienza; in tutto questo, al di là di ogni paradosso e di ogni accentuazione polemica, è il motivo più vero della filosofia di Spirito»171. Se il giovane Spirito (da positivista e poi gentiliano) negava il valore della religione considerandola un residuo mitologico, la sua posizione più matura sottolinea i limiti della ragione umana e si apre al mistero religioso: testimonianza di questo radicale cambiamento di prospettiva è il suo ultimo scritto, edito postumo, e recante il significativo titolo Ho trovato Dio172. Ci pare che la prospettiva di Spirito abbia delle singolari affinità con l’epistemologia di Dario Antiseri, con il “pensiero debole” di Gianni Vattimo e persino ancuni aspetti del post-modernismo di Jean-François Lyotard173: si tratta di prospettive filosofiche che, seppur nate in differenti contesti, convergono nel comune riconoscimento dei limiti della ragione umana e della fallacia di ogni metafisica che pretende di essere omni-comprensiva. Spirito, Antiseri e Vattimo si dimostrano, inoltre, concordi nel proporre forme di anti-intellettualismo che consentono l’apertura di nuovi 171

P. FAGGIOTTO, Esperienza e metafisica. Saggi sulla filosofia italiana contemporanea, Liviana, Padova 1959, pp. 127-128. 172 Cfr. U. SPIRITO, Ho trovato Dio, con un saggio introduttivo di Antonio Russo e una testimonianza di Cornelio Fabro, Fondazione Ugo Spirito, Roma 1989. 173 In maniera simile a Lyotard anche Spirito propone un oltrepassamento dei miti costitutivi della modernità, rifiutando di inquadrare la realtà in un disegno concettuale che la interpreti e la giustifichi nella sua integralità: in particolare, ci pare che la critica di Spirito alle mitologie filosofiche (il positivismo, l’idealismo, il marxismo, ecc.) trovi delle significative convergenze con la teoria delle metanarrazioni (metarécits) elaborata da Lyotard. A tal proposito cfr. J.-F. LYOTARD, La condition postmoderne. Rapport sur le savoir, Minuit, Paris 1979.

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spazi per la fede religiosa ed in particolare per il Dio trascendente della fede ebraico-cristiana. Dal 1951 Spirito fu professore ordinario alla Sapienza di Roma e memorabili sono rimasti i suoi pomeriggi di discussione tenuti per tre ore ogni giovedì: non esisteva per lui una parola definitiva, ma la ricerca della verità doveva essere portata sempre ulteriormente avanti. In questo senso vanno interpretate le sue riflessioni che spaziavano dai campi della speculazione filosofica, al giuridico, al sociale fino all’economico e naturalmente al religioso174. Come abbiamo già evidenziato, il problematicismo nasce come capovolgimento dell’attualismo gentiliano: esso costituisce la più completa avversione allo spirito di sistema dove tutti gli elementi del reale vengono riassunti in proposizioni speculative fisse ed astratte. Tuttavia, come sottolinea lo stesso Spirito, il problematicismo nasce sì dalla contestazione dell’attualismo ma nella consapevolezza dell’altissimo valore speculativo di tale prospettiva teoretica. Ecco le parole con le quali Spirito, ormai anziano, dichiara ancora il suo debito nei confronti di Gentile: «il rapporto speculativo con il mio maestro [qui si riferisce chiaramente a Gentile] risale all’inizio del suo corso romano, nel 1918, e da allora è continuato senza interruzioni fino ad oggi. Si può dire che tutta la mia attività scientifica è legata a lui, direttamente o indirettamente. […] Ma la mia situazione nei confronti del Gentile […] non è stata uniforme, ed è anzi stata contrassegnata da un movimento speculativo che è andato dalla più ortodossa apologetica alle più radicali riserve. […] La trasformazione, naturalmente è avvenuta per gradi, ma la sua fase centrale e rivoluzionaria è segnata principalmente dal volume su La vita come ricerca del 1937, contro il quale il Gentile prese posizione in maniera drastica […]. Nasceva con esso il problematicismo e aveva inizio il capovolgimento. Ma esso non significava l’abbandono, perchè le nuove esigenze scaturivano dallo stesso attualismo e volevano rispondere alle stesse domande»175. Ecco infine le parole con le quali Spirito dimostra la sua ammirazione per 174

A tal proposito cfr. U. SPIRITO, Cristianesimo e comunismo, Sansoni, Firenze 1958. 175 U. SPIRITO, Dall’attualismo al problematicismo, cit., p. 7-8.

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il valore speculativo dell’opera gentiliana: «si può capovolgere il Gentile, ma non lo si può eliminare. Egli rappresenta il classico del nostro secolo, e cioè il punto di partenza della problematica dell’avvenire. Dalla sua opera occorre prendere le mosse per tornare a impostare questioni che sono il presupposto di una rivoluzione essenziale. […] Non si può non avvertire l’impossibilità di evitare le risposte alle domande avanzate dal Gentile. Si può consentire o dissentire, ma di là bisogna passare»176. Motivi simili a quelli del “problematicismo” di Spirito li troviamo in Guido Calogero, anch’esso allievo di Gentile e dal 1951 docente all’Univeristà di Roma La Sapienza. In maniera simile a Spirito egli rifiuta la metafisica idealistica ed avverte l’esigenza di una trasformazione della dialettica in “dialogica” o in “dialogismo”. Calogero ha elaborato un’interessante “filosofia del dialogo” che presenta motivi di estremo interesse anche per le problematiche del mondo contemporaneo: si pensi agli attuali dibattiti su un possibile dialogo tra le culture e le religioni. Per comprendere la calogeriana “filosofia del dialogo” è necessario chiarirne ancuni presupposti speculativi. Il pensiero di Calogero prende le mosse da una radicale critica della gnoseologia, sia del modello aristotelico che idealistico, al fine di dare un primato fondamentale all’etica e alla pragmatica, cioè agli usi del linguaggio: «nel secolo demiottavo» - egli scrive - «[con Hume e Kant] morì la metafisica, nel ventesimo muore la gnoseologia»177. Ci pare che con queste dichiarazioni il pensiero di Calogero si inscriva ampiamente nella “svolta linguistica” (linguistic turn) che ha caratterizzato tanta parte della filosofia del secondo Novecento, sia di quella europea che di quella americana: il linguaggio e le sue funzionalità comunicative 176

Ibidem, p. 8. Sul problematicismo di Spirito cfr. A. RUSSO, Ugo Spirito: dal positivismo all’antiscienza, Guerini, Milano 1999; G. DESSÌ, Ugo Spirito. Filosofia e rivoluzione, Luni Editrice, Milano 1999; L. DI STEFANO, Il messaggio di Ugo Spirito, Edizioni EVA, Venafro 2004; D. BRESCHI, Spirito del Novecento: il secolo di Ugo Spirito dal fascismo alla contestazione, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010. 177 G. CALOGERO, La conclusione della filosofia del conoscere, [prima edizione: Firenze 1939], Firenze 1960, p. 239.

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(la cosiddetta pragmatica) diventano al centro dell’indagine filosofica. Secondo Calogero il rapporto dell’io con l’essere oggettivo e con gli altri soggetti è sempre linguisticamente mediato: il linguaggio è, così come sosteneva anche Wilhelm von Humboldt, «l’organo dell’essere interiore»: esso è l’unico mezzo reale che l’uomo possiede per gettare un ponte verso l’alterità, sia che si tratta di oggetti che di persone. Dalla dissoluzione dell’attualismo gentiliano Calogero elabora quindi una filosofia dell’homo loquens in cui la soggettività viene considerata nella sua concretezza esistenziale e pragmatica: dall’Io trascendentale di Gentile passiamo all’io inteso come volontà empirica, immerso nel varipinto mondo dei suoi vissuti e delle sue esigenze pratiche; «adesso [ovvero dopo la critica all’idealismo] prevale il compito positivo» - afferma Calogero - «di concentrare lo sguardo sull’effettiva natura dell’io»178. La filosofia di Calogero è orientata in senso soggettivistico (si parla di una invalicabilità gnoseologica dell’io) ma teorizza ampiamente il tema del riconoscimento intersoggettivo (Anerkennung), tipico della filosofia classica tedesca. Tuttavia, differentemete dalla trattazione di Fichte o in Hegel, nel filosofo italiano il riconoscimento dell’alterità non è un percorso di tipo gnoseologico ma pragmatico: ci accorgiamo che nel mondo c’è «chi ci somiglia nella possibilità di soffrire»179. Ecco allora che nasce l’istanza del dialogo con l’alterità che ha come finalità non quella utilitaristica della persuasione ma quella etica della comprensione. L’autentico dialogo con l’altro si realizza solo grazie alla bona voluntas di una comprensione che intende ripettare l’altro nella sua diversità. Nelle opere di Calogero troviamo delle profonde riflessioni sui fondamenti della tolleranza e del rispetto: «non posso volere che tutti abbiano pari opportunità di far valere le proprie preferenze»; e più avanti afferma: «Perché al dialogo si arrivi occorre che non soltanto si “tollerino” e si “ammettano” le altrui visioni delle cose, ma che si avverta per esse una sincera curiosità. Occorre che si abbia interesse a capire i mondi 178

G. CALOGERO, Lezioni di filosofia (Vol. I, Logica, Vol. II, Etica, Vol. III, Estetica), Torino 1946-48; ristampa Torino 1960, Vol. II, p. 1. 179 Ibidem, p. 130.

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mentali altrui allo stesso modo che si desidera che gli altri cerchino di capire il nostro»180. In Calogero troviamo dei nobili ideali di “tolleranza attiva” e pacifismo che sono molto vicini anche a quelli di Aldo Capitini: possiamo scorgere in essi una tonalità evangelica e francescana181. Tuttavia la filosofia del dialogo di Calogero è stata resa oggetto anche di critiche. Spirito, seppur vicino alla posizione di Calogero, gli rimproverava di non calare abbastanza il dialogo nella dimensione concreta della storia e della prassi: secondo Spirito il dialogo teorizzato da Calogero rimarrebbe astratto trasformandosi, di conseguenza, in una sorta di “mito sovrastorico”182. Antimo Negri, giudicando da un’ottica marxista, rimprovera invece la posizione di Calogero di conservatorismo e di “superficiale irenismo”: a parere di Negri tale “filosofia del dialogo” ha un carattere «rassicurante», esorta le persone alla convivenza e alla stima reciproca senza considerare le differenze sociali e le contraddizioni che esistono tra di loro ed esorta anzi a dimenticarle. Per Negri il dialogismo di Calogero conduce al disimpegno politico, all’abbandono della “lotta di classe”, divendendo una filosofia funzionale all’ideologia borghese. La filosofia di Calogero - sottolinea Negri - «agisce come ideologia conservatrice ad oltranza, in forza del pregiudizio tenace, che la contraddistingue, contro la possibilità, ogni possibilità, di trasformare il mondo degli uomini»183. 180

G. CALOGERO, Filosofia del dialogo, Edizioni di Comunità, Milano 1962, p. 94. 181 Cfr. G. CALOGERO, Aldo Capitini e la «religione aperta», in IDEM, Difesa del liberalsocialismo ed altri saggi, a cura di M. Schiavone e D. Cofrancesco, Marzorati, Milano 1972, pp. 311-331. Sui risvolti politici della filosofia di Calogero si veda D. BRESCHI, Dal liberalismo alla liberaldemocrazia: il pensiero politico di Guido Calogero, «Il Pensiero Politico», XXXV, 2/2002, pp. 212-233. 182 Cfr. U. SPIRITO - G. CALOGERO, Ideale del dialogo o ideale della scienza?, cit. 183 Ibidem, p. 140. Sul pensiero di Calogero si vedano D. SCOLERI, Moralisti italiani del nostro tempo, Carmelo Leo, Raggio Calabria 1950; G. SASSO, Filosofia e idealismo, Vol. III, Bibliopolis, Napoli 1997, pp. 127-450; M. MUSTÈ, Guido Calogero: Ritratti critici di contemporanei, Olschki, Firenze

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Pur condividendo ampiamente il pensiero di Calogero, ci pare che un rilievo critico vada fatto al suo eccessivo abdicare nei confronti della verità: la ricerca della verità è, infatti, il presuposto stesso del dialogo, venendo meno il quale il dialogo si abbassa ad un pacifico conversare. Calogero, invece, ammette quasi come “dogma” della sua posizione l’impossibilità costitutiva di trovare o anche solo di arrivare a presagire una qualsiasi verità fondante e di carattere metafisico. 5. Varisco e Carabellese: soluzioni idealistiche del rapporto tra immanenza e trascendenza Contemporaneamente alle elaborazioni di Croce e Gentile si svilupparono in Italia altre forme di idealismo sovente anche aperte nei confronti della metafisica e della trascendenza cristiana. Ci riferiamo in particolare alle posizioni di Bernardino Varisco (18501933) e Piero Martinetti (1872-1943), di cui però ci occuperemo in maniera più specifica nel successivo paragrafo. Anche Pantaleo Carabellese (1879-1948), allievo del Varisco, si inscrive in questa temperie filosofica, ma nel suo idealismo, come vedremo, il rapporto tra immanenza e trascendenza rimane problematico o comunque, ci pare, non del tutto risolto con chiarezza. Ciò che accomuna Varisco, Martinetti e Carabellese sono essenzialmente due fattori: la loro critica alle unilateralità del positivismo e dell’attualismo. Del positivismo essi non accettano l’arrestarsi del pensiero alla mera considerazione del “fatto bruto ed oggettivo”: il fatto, essi sottolineano, vive sempre all’interno di una coscienza soggettiva che la filosofia non può escludere dalla considerazione. Dell’attualismo gentiliano essi criticano, invece, la completa risoluzione dell’essere nel pensiero, con la conseguente assolutizzazione dell’ego trascendentale. La critica al positivismo viene bene espressa da Varisco fin dall’opera del 1901 Scienza e opinioni: in essa viene messo in rilievo 2000; M. DURST, Guido Calogero. Dialogo, educazione, democrazia, Seam, Formello (RM) 2002.

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che la verità del reale non è solo data dai fatti di cui ci parla la scienza («ciò che consta») ma anche dalle nostre “opinioni” o meglio dai nostri “atti di coscienza” («ciò che non consta»). Se ci si ferma alla considerazione dei fatti, come avviene nel positivismo, si ha una comprensione della realtà solo parziale: Varisco ammette quindi un certo valore conoscitivo anche alla realtà “sentita”, cioè al mondo delle opinioni, al mondo dello spirituale in cui predomina il sentimento. Egli riconosce, quindi, i limiti della scienza e distinguendo il mondo dei fatti positivi dal regno dei valori spirituali, manifesta massimo interesse anche per quest’ultimo. Tutte le sue opere successive, da I massimi problemi (1910) al volume postumo Dall’uomo a Dio (1939) sono un tentativo sempre più intensificato di allargare gli orizzonti della ragione umana verso l’ultriorità, sino a giungere alle “soglie dell’assoluto”. Il pensiero di Varisco presenta interessanti elementi speculativi. Come abbiamo già accennato, egli propone una teoria della conoscenza basata sulla inscindibilità di soggetto ed oggetto, entrando in conflitto sia con l’assolutizzaizione positivista dell’oggetto, sia con l’assolutizzazione idealistica del soggetto. Ci pare inoltre interessante il suo recupero della nozione rosminiana dell’essere: i singoli individui trovano la loro unità ed il loro fondamento in un essere assoluto che nello sviluppo delle opere di Varisco assume sempre di più i tratti del Dio cristiano. Negli ultimi anni di vita egli tematizzò chiaramente l’esistenza di Dio come unica possibile soluzione al problema dell’uno e dei molti. La molteplicità dei singoli io empirici, che leibnizianamente rispecchiano in sé la realtà tutta, a suo parere, può trovare una fondamentale unità su di un piano propriamente ontologico e metafisico. «Il concetto di essere» sottolinea Varisco - «si trasforma in quello tradizionale di Dio»184. Ci troviamo innanzi ad una forma di ontologismo teistico che ricorda certamente la posizione di Nicolas Malebranche e la Teosofia di Rosmini185. 184

B. VARISCO, I massimi problemi, Libreria Editrice Milanese, Milano 1910; a cura di G. Alliney, La Nuova Italia, Firenze 1941, p. 195. 185 Sulla rielaborazione dell’idealismo in Varisco si vedano U. SPIRITO, L’idealismo italiano e i suoi critici, Le Monnier, Firenze 1930; T. MORETTI-

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È inoltre importante sottolineare che in Varisco l’essere, pur essendo il fondamento delle singole coscienze empiriche e del mondo fenomenico, non ri risove in essi ma li trascende: quindi egli chiarisce ulteriormente che, in ultma analisi, l’Essere in sé si identifica con Dio: «L’Essere, che è comune a tutte le distinte realtà fenomeniche, o di cui ciascuna realtà fenomenica è una determinazione; che è l’unità del mondo fenomenico; e che, nel pensiero di ciascun soggetto singolo (pensiero più o meno chiaramente avvertito, ma essenziale al soggetto singolo) è un concetto indeterminatissimo; - quel medesimo Essere ha un’esistenza in sé. Un’esistenza in sé: indipendente dai soggetti singoli, che sono essenziali nell’accadere, al mondo fenomenico; non però estranea ai soggetti singoli, perché ogni soggetto singolo, come unità secondaria del mondo fenomenico, implica necessariamente il pensiero dell’Essere, che ne è un costitutivo essenziale. L’Essere, allora, è, nel senso più vivo della parola e senza equivoci, Dio»186. Nel suo volume Conosci te stesso (1912) egli rileva poi che a partire dall’identificazione dell’Essere in sé con Dio si può tornare a teorizzare la presenza di un’intrinseca finalità sia nel mondo della natura (fenomenico) che in quello dello spirito (le singole persone); l’idealismo di Varisco arriva quindi a proporre una “teodicea filosofica” (una sorta di “provvidenza laica”) che concepisce il reale come un ordine teleologico in cui nulla accade senza che ci sia una finalità prestabilità, un télos di ordine metafisico: «L’esistenza di Dio COSTANZI, Il problema dell’uno e dei molti nel pensiero di B. Varisco, Perrella, Roma 1940; P. CARABELLESE, La filosofia di B. Varisco, in IDEM, L’idealismo italiano. Saggio storico-critico, Edizioni Italiane, Roma 19462, pp. 241-264; G. CALOGERO, La filosofia di B. Varisco, G. D’Anna, Messina-Firenze 1950; R. CRIPPA, Di B. Varisco filosofo e cristiano, «Giornale di metafisica», 1950; M.M. OLIVETTI, Varisco e il teismo, in M FERRARI (a cura di), Bernardino Varisco e la cultura filosofica italiana tra positivismo e idealismo, Fondazione Morcelli-Repossi, Chiari 1985, pp. 279-295; B. MINOZZI, Il problema della persona in Bernardino Varisco, in V. MELCHIORRE (a cura di), L’idea della persona, Vita e Pensiero, Milano 1996, pp. 239-260. 186 B. VARISCO, Conosci te stesso, Libreria Editrice Milanese 1912; edizione a cura di G. Alliney, La Nuova Italia, Firenze 1936, p. 209.

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toglie ogni dubbio sulla finalità del mondo fenomenico. Non cerchiamo di rappresentarci con chiarezza questa finalità [quello di Varisco non è un panlogismo che intende spiegare tutto con la ragione, ma lascia spazio al senso del mistero religioso]; una cosa è certa, e possiamo accontentarcene: l’uomo, che sacritifichi se stesso all’ordine universale, non si sacrifica invano»187. Alla scuola di Varisco si formò Pantaleo Carabellese, una figura che anche i suoi contemporanei ritennero di notevole valore sia sul piano della storiografia filosofica che su quello della speculazione: nel 1944 fu chiamato a sostituire Giovanni Gentile nella cattedra di filosofia teoretica dell’Università di Roma. Carabellese si accostò alla filosofia studiando Rosmini: risale al 1906 la sua tesi di laurea dal titolo La teoria della percezione intellettiva in A. Rosmini. Un’impronta rosminiana è chiaramente percepibile i tutti gli sviluppi della sua prospettiva, da lui stesso definita come “ontologismo critico”: “ontologismo” in quanto il problema fondamentale che essa di pone è quello dell’essere, “critico” in quanto, richiamandosi a Kant, non considera l’essere come posto in maniera oggettiva di fronte all’attività razionale, ma come ciò che costituisce la sostanza stessa del pensiero, la sua genesi. Il principio fondamentale del suo ontologismo è questo «l’essere è l’essere della coscienza»188 e tale essere coincide con Dio. Ciò significa che la coscienza del singolo individuo partecipa dell’essere assoluto di Dio che, a sua volta, è il fondamento oggettivo del reale; tale prospettiva viene ampiamente delineata in uno dei suoi più impegnativi volumi: Il problema teologico come filosofia189. Il pensiero di Carabellese prende le mosse dalla critica a Gentile e più in generale all’idealisti tedeschi, accusati di aver assolutizzato la soggettività trascendentale (logicismo) e, di conseguenza, di aver dimenticato l’essere concreto ed oggettivo: a questo proposito la critica di Carabellese all’idealismo mostra anche delle affinità con 187

Ibidem, p. 210. P. CARABELLESE, L’idealismo italiano. Saggio storico-critico, Edizioni Italiane, Roma 19462, p. XII. 189 Cfr. P. CARABELLESE, Il problema teologico come filosofia, Tipografia del Senato, Roma 1931; a cura di E. Mirri, ESI, Napoli 19942.

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quella di Heidegger, volta a recuperare il senso orginario dell’essere. Uno dei punti saldi della posizione di Carabellese è la considerazione del valore imprescindibile della coscienza concreta: è solo nella coscienza del singolo uomo che convivono sia il lato oggettivo della rappresentazione (ciò che Fichte chiamava non-Io e Gentile “pensiero pensato”) e sia il lato soggettivo (ciò che Fichte chiamava Io/autocoscienza/intuizione intellettuale e Gentile definiva invece come “pensiero pensante”). Secondo Carabellese la coscienza del singolo costituisce una unità-di-disgiunzione il cui l’essere e il puro pensiero si implicano a vicenda: «Chi sa sa qualche cosa; non è eliminabile il “qualche cosa”, come non è eliminabile il “chi” del sapere. Perciò, in generale, il sapere è un mio-sapere-l’essere»190. La coscienza è quindi, letteralmente, un cum-scire, un “saper insieme”, una conoscenza concomitante del lato oggettivo e di quello soggettivo della rappresentazione che vive nella mente. Egli critica quindi sia il realismo dei neoscolastici che considerano l’oggetto come una realtà esterna alla coscienza, sia l’idealismo soggettivistico che ne fa un’opposizione alla coscienza, un “non-io” che sussiste solo in quanto posto dall’io. Per comprendere la prospettiva di Carabellese è di fondamentale importanza sottolineare la sua critica alla tradizione antropocentrica della modernità, che egli definisce come “tolemaismo”, in quanto pone l’uomo al centro della realtà. L’uomo - egli argomenta - è fondato e non è fondamento. Egli si pone quindi agli antipodi del cogito cartesiano e dei suoi triofi idealistici: il cogito (l’io penso) viene declinato nella forma di cogitor a Deo, un esser-pensato-daDio. Dio, definito anche come l’«Idea oggettiva», l’ «Oggetto puro» e l’«Essere in sé», viene presupposto come il fondamento della coscienza empirica e come la garanzia dell’oggettività delle nostre rappresentazioni. Dal punto di vista gnoseologico possiamo dire che quello di Carabellese sia un “realismo superiore” nel quale Dio è la “pura oggettività dell’Essere”, il fondamento certo delle nostre possibilità conoscitive: «L’Idea [ovvero Dio], lungi dall’essere soggettiva, è il solo fondamentale Oggetto puro che ci possa mai 190

P. CARABELLESE, Il mio ontologismo, «Giornale critico della filosofia italiana», 6/IV, 1936.

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essere e che ci sia mai stato»191. «L’idealismo» - così come lo intende Carabellese - «insieme con l’oggettività, riconquista l’essere, che esso aveva smarrito nella deformazione soggettivistica, e ricompone, in tale essere della coscienza, la soggettività con l’oggettività pura che la sostenta»192. A questo proposito Carabellese riprende la prova ontologica di Sant’Anselmo interprendola come l’Essere in sé che si prensenta alla coscienza umana sotto la forma dell’Idea (id quo maius cogitari nequit), divendendo la garanzia dell’oggettività conoscitiva. Secondo Carabellese la filosofia è, allo stesso tempo, metafisica e teologia: la domanda metafisica sulla genesi dell’essere non può che trovare una risposta dal carattere teologico. Carabellese sottolinea che il cristianesimo contiene in sé i princìpi della sua posizione idealitica ma che esprime ancora il suo nucleo speculativo facendo appello alla fede e non alla ragione: egli propone quindi la sua prospettiva come un inveramento - sul piano filosofico - dei princìpi teologici portati dalla nuova religione. L’avvento del cristianesimo - afferma Carabellese - fu «la più profonda rivoluzione spirituale che la storia ricordi […]. Una concezione nuova della vita e dell’essere in breve conquistò le coscienze e invase il pensiero: i soggetti umani trovarono sé capaci di certezza. Essi con questa loro capacità confermavano da una parte l’idealità del vero essere in sé (mondo intelligibile); ma si ritrovarono dall’altra in rapporto con un altro Soggetto, il Soggetto infinito, che, creandoli come Lui, aveva dato loro tale capacità. La certezza dei soggetti (fede) rese superfluo il problema della verità come problema»193. Di particolare interesse ci pare la critica avavanta da Carabellese al celebre volume di Lucien Laberthonnière Idealismo greco e realismo cristiano194; egli critica la nozione stessa di “realismo cristiano” come una sorta di ossimoro e non accetta la contrapposizione fatta da Laberthonnière tra il 191

P. CARABELLESE, L’idealismo italiano. Saggio storico-critico, p. XI. P. CARABELLESE, L’idealismo italiano. Saggio storico-critico, cit., p. XI. 193 Ibidem, p. 2. 194 Cfr. L. LABERTHONNIÈRE, Le réalisme chrétien et l’idéalisme grec, Lethielleux, Paris 1904; tr. it. a cura di G. Bonafede, Il realismo cristiano e l’idealismo greco, Minerva Italica, Bergamo 1970. 192

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pensiero greco antico e quello cristiano, ovvero tra la scoperta platonica del mondo intelligibile e la fede in un Dio che è somma bontà e trascendenza. Il cristianesimo, a parere di Carabellese, costituisce una ripresa e una trasfigurazione stessa dell’idealismo greco, in particolare di quello platonico e neoplatonico: «Perciò» egli scrive - «io non dico col Laberthonnière “Idealismo greco e realismo cristiano”. Il Cristianesimo non è concepibile nella sua scoperta dei soggetti spirtuali, se non si suppone, almeno implicita, la scoperta greca della idealità (e quindi della spiritualità) dell’essere oggettivo»195. Plotino ed Agostino - continua il Nostro - «ci fanno sentire il bisogno della loro fusione: nel pensiero greco non sentesi l’esigenza della soggettività come esistenza; nel pensiero cristiano non sentesi l’esigenza dell’oggettività come idealità»196. Carabellese propone il suo “ontologismo critico” come la più matura consapevolezza sul piano concettuale dei guadagni speculativi sia del mondo greco (la scoperta dell’Idea) sia di quello cristiano (l’esigenza che l’Idea si incarni nella coscienza concreta e nella storia). Secondo Carabellese la scolastica medievale ha travisato tutti i guadagni filosofici portati dal cristianesimo: essa si è persa in una «duplice trascendenza: restano distinti tra loro, e sempre di là dalla coscienza certa dei soggetti, il regno di Dio e il mondo naturale, Diospirito e universo-materia. A questo punto non ritroviamo più l’intima certezza nostra, ma siamo soltanto dinanzi ad una duplice esteriore verità. Si intende, quindi,» - continua l’autore - «come e perché questa sublime certezza [cioè il cristianesimo], indubitabile sia nella sua esaltazione mistica che nella sua razionale dimostrazione, si sia esaurita organizzando l’umanità a chiesa universale e creando una dottrina che la sistematizza»197. Di particolare interesse è l’interpretazione data dal Carabellese della filosofia italiana, e in particolare di quella linea di pensiero che si origina nel rinascimento per culminare in Rosmini. Tale ermeneutica storiografica riprende certamente alcune intuizioni di 195

P. CARABELLESE, L’idealismo italiano. Saggio storico-critico, cit., p. 3 [in nota]. 196 Ibidem, p. 2. 197 Ibidem, p. 4.

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Spaventa, situandosi, inoltre, nel clima di esaltazione della patria tipico del fascismo e della ricostruzione postbellica: tuttavia presenta degli elementi di notevole originalità. «La conquista di tutta la filosofia moderna (immanenza dell’Oggetto vero nei soggetti certi)» - sottolinea Carabellese - «è dovuta nelle sue origini all’Italia, e nell’Italia soltanto si è mantenuta immune da quella deformazione soggettivistica [caratteristica dell’idealismo tedesco, nonché di Croce e Gentile]»198. L’«originalità speculativa italiana» viene scorta soprattutto nella costante “fedeltà al concreto”, alla natura e alla storia. Anche quando si innalza alle vette della più alta metafisica, come è il caso di Rosmini, lo spirito filosofico italiano non dimentica mai la concretezza oggettiva della realtà, anche se si tratta dell’Essere di sé (cioè Dio); le grandi filosofie europee (da Cartesio ad Hegel) hanno invece pressochè obliato il concreto per perdersi nel pelago di un “logicismo trascendentale”: «ci pare che l’Italia abbia una sua originalità (concretezza e non schietta gnoseologia: Galilei, Bruno, Vico, di fronte rispettivamente a Bacone, Cusano, Cartesio). Cechiamo di dimostrare» - afferma l’autore - «che certamente l’idealismo storico italiano ha una sua originalità (oggettività più che soggettività: Rinascimento di fronte alla Riforma; Rosmini di fronte a Fichte e Hegel)»199. Queste tesi storiografiche sono volte anche a sceditare la “via errata” che la filosofia ha preso in Croce e in Gentile: questi ultimi hanno condotto la speculazione «ad un soggettivismo che è falso, e, lungi dall’attuare, rinnega l’idealismo italiano»200. Naturalmente Carabellese pone la sua posizione come la più fedele continuità ed il compimento stesso dell’idealismo italiano. Ci pare però significativo che egli veda in Rosmini, seppur critica talune astrattezze dell sua ontologia, «il lume della filosofia italiana del Risorgimento»201, colui che ha saputo elaborare un sistema in grado di rispondere con saldezza di argomenti sia a Kant che ad Hegel.

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Ibidem, p. 7. Ibidem, p. VIII. 200 Ibidem. 201 Ibidem, p. 152. 199

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Carabellese compie un percorso teoretico “da Cartesio ad Rosmini”, come emerge anche dal titolo di una sua opera202. Tuttavia egli di Rosmini apprezza la fedeltà al contreto dimostrata anche nella metafisica ma respinge «il concetto di Dio come Persona […], concetto che viene ad aggiungersi con l’intento di soddisfare quella esigenza della trascendenza, che si crede propria della religione»203. Dunque quella di Carabellese è una prospettiva che sembra propendere per l’immanentismo: egli, pur valorizzando molto il cristianesimo, si adoperò sempre per la difesa di una «concezione di Dio come Oggetto puro, immanente alla coscienza dei singoli»204. Michele Federico Sciacca definì tale prospettiva come una «religione dell’Oggetto immanente»205. 6. Piero Martinetti: dall’«idealismo trascendente» alla riscoperta del «Gesù storico» In Piero Martinetti troviamo una forma di «idealismo trascendente», come lui stesso lo definisce, che partendo dal confronto critico con Kant giunge ad un’originale concezione della “funzione religiosa della filosofia”206. Dopo aver messo in luce alcuni elementi fondamentali della sua posizione, analizziamo la sua 202

Cfr. P. CARABELLESE, Da Cartesio a Rosmini: fondazione storica dell’ontologismo critico, Sansoni, Firenze 1946. 203 P. CARABELLESE, L’idealismo italiano. Saggio storico-critico, cit., p. 156. 204 Ibidem, p. 156. 205 M.F. SCIACCA, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, cit., p. 105. Sul pensiero di Carabellese si vedano: G. SEMERARI, La sabbia e la roccia: l’ontologia critica di Pantaleo Carabellese, Dedalo, Bari 1982; L. CIMMINO, Carabellese: il problema dell’esistenza di Dio, Studium, Roma 1983; F. VALORI, Il problema dell’io in Pantaleo Carabellese, ESI, Napoli 1996; B. MORABITO, Metafisica e teologia in Pantaleo Carabellese, Falzea, Reggio Calabria 2001. 206 Cfr. P. MARTINETTI, La funzione religiosa della filosofia. Saggi e discorsi, edizione postuma a cura di L. Pareyson, Armando, Roma 1972.

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interpretazione del cristianesimo basata sulla riscoperta del “Gesù storico”. Martinetti compì i suoi studi a Torino, dove si laureò con una tesi sul pensiero indiano, poi pubblicata nel 1896 con il titolo Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana207. Carlo Mazzantini ha giustamente sottolineato l’importanza di questo interesse giovanile di Martinetti per la cultura orientale: questa gli fu da stimolo per la sua successiva critica ai limiti dell’iper-razionalismo che ha caratterizzato l’Occidente e soprattutto molti aspetti della modernità filosofica208. In questa sua critica Martinetti si richiama anche a Schopenhauer, altro autore intensamente letto insieme a Kant e agli idealisti tedeschi. Possiamo dire che dalla cultura orientale egli apprese ad indirizzare lo sguardo filosofico verso l’ulteriorità, aprendo la filosofia stessa a considerazioni di ordine religioso. Guardando all’Oriente Martinetti recupera il valore filosofico della religione, un valore che veniva messo fortemente in discussione nella modernità occidentale e soprattutto dagli illuministi, i quali scindevano nettamente il piano religioso (mitico) da quello filosofico (razionale) : «In generale» - egli afferma - «i filosofi moderni hanno troppo semplificato la difficoltà col porre l’idea filosofica e l’idea tradizionale del divino sopra due piani diversi in modo che non venissero ad incontrarsi: con ciò essi hanno in realtà tolto all’elemento teologico, storico, ogni valore»209. La posizione speculativa di Martinetti prende le mosse da una critica al razionalismo moderno e soprattutto al positivismo, il quale non sarebbe in grado di sollevarsi al di sopra dell’«opinione volgare 207

Cfr. P. MARTINETTI, Il sistema Sankhya. Studio sulla filosofia indiana, Lattes, Torino 1896. Il Samkhya è il più antico sistema filosofico dell’India prebuddhista: si veda, ad esempio, M. ELIADE, Storia delle credenze e delle idee reliose, Sansoni, Firenze 1980, Vol. II, pp. 140 ss. 208 Cfr. C. MAZZANTINI, Piero Martinetti e l’oriente, «Filosofia», XIV, 1963, pp. 819-820. Cfr. anche C. CONIO, Piero Martinetti tra oriente e occidente, «Rivista di filosofia neoscolastica», 4/69, 1977, pp. 1977. 209 Si tratta di uno scritto in cui Martinetti commemora la figura di Emilio Morselli: il testo martinettiano è contenuto in E. MORSELLI, La nostra inquietudine e altri scritti, Garzanti, Milano 1941, p. 5.

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che considera la metafisica come una costruzione antiscientifica, come un sistema aprioristico di deduzioni arbitrarie»210. Secondo il Nostro, invece, la filosofia diviene metafisica - corretta e giustificabile - quando essa si sofferma a considerare il dato fondamentale della coscienza. La verità prima della metafisica è l’esistenza dell’io come coscienza rappresentativa: «la coscienza comprende quindi in un tutto indivisibile l’io e il mondo. La nostra rappresentazione non è una semplice immagine intrasubiettiva della realtà; ma è la realtà stessa con tutte le sue determinazioni concrete, l’essere e il mondo»211. La coscienza umana ha quindi un carattere essenzialmente sintetico: essa compone la sintesi compiuta di elementi soggettivi (gli apriori dello spirito) e di elementi oggettivi (la natura)212. La realtà tutta è costituita da un complesso di sintesi psichiche di soggetto e di oggetto. Se nei singoli individui la coscienza è limitata e condizionata dalle situazioni cronotopiche, Martinetti ammette l’esistenza di una “coscienza in sé”, di una coscienza assoluta che fonda le coscienze empiriche e che, in ultima analisi, corrisponde a Dio. Possiamo scorgere in Martinetti, come del resto anche in Varisco, un chiaro influsso di Leibniz, che pone Dio come monade somma. In particolare Martinetti sottolinea che Dio, in quanto coscienza in sé, è l’omnitudo realitatis, cioè soggettività ed oggettività assoluta. L’esteriorità ,dunque, è tale solo per la mia coscienza empirica e particolare, non per la coscienza in sé: «un 210

P. MARTINETTI, Introduzione alla metafisica, Vol. I, Teoria della conoscenza, Bona, Torino 1902-1904; Marietti, Genova 19873, p. 16. 211 Ibidem. 212 Da quanto detto emerge il notevole influsso che la gnoseologia di Leibniz e di Kant hanno esercitato su Martinetti: egli, tuttavia, diversamente da Kant non considera gli apriori come funzioni trascendentali fisse ed immutabili (le 12 categorie dell’intelletto): «Tutte le forme dell’intuizione e del pensiero, che Kant assume come fattori trascendentali dell’esperienza, come forme immobili, rigide, e distinte, per l’origine, dal contenuto empirico, sono invece profondamente connaturate con questo: esse sono unità interiori e viventi, che si sono lentamente svolte nella vita della specie, come ha mostrato la psicologia evoluzionista» (P. MARTINETTI, Prolegomeni di Kant, con commento, Bocca Editori, Torino 1913; 19262, p. 256).

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essere al di fuori della coscienza [in sé] è insostenibile nel modo più assoluto»213. A partire da questi presupposti gnoseologici Martinetti può affermare che «il nostro sapere è un atto di unione mistica col logos eterno, che è il fondamento assoluto della nostra natura»214. Si comprende, quindi, come il Nostro rivendichi l’essenza religiosa della filosofia stessa: la filosofia partendo dall’analisi della coscienza umana si innalza alle vette della metafisica e qui non può non incontrare il problema di Dio. Ma di quale Dio si tratta? A tal proposito la sua posizione diviene assai complessa e problematica. Il Dio di cui parla Martinetti ha i tratti dell’Uno di Plotino e della Sostanza di Spinoza: è una presenza divina che non è Persona ma Ragione vivente ed infinita. L’autocoscienza umana non è che una “manifestazione empirica” (Fichte direbbe Erscheinung) di questa Ragione che è un’Unità trascendente alla quale la conoscenza e anzi l’intero universo si dirigono senza poterla mai adeguare. Sussiste quindi uno iato incolmabile tra la coscieza umana e l’assoluto; la coscienza è immagine, schema e manifestazione sempre parziale e limitata dell’assoluto: ecco perché Martinetti può definite la sua prospettiva come un «idealismo trascendente»; Dio è nelle coscienze umane ma allo stesso tempo le trascende e le supera infinitamente, non risolvendosi mai in esse. Un aspetto interessante di Martinetti è la critica alla comprensione hegeliana della filosofia come Aufhebung della religione, come suo superamento ed inveramento. Secondo Martinetti non è la filosofia che supera la religione ma, viceversa, è la filosofia che divendendo ricerca sulla genesi della coscienza umana si trasfigura in meditazione dal carattere religioso. La vita religiosa - egli rimarca «inizia quando lo spirito, per la perfezione delle sue attività inferiori si apre all’intuizione dell’unita reale ed assoluta». In sede filosofica non di danno quindi dimostrazioni dell’esistenza di Dio: quest’ultima è solo il guadagno di un’attestazione, di un’intima testimonianza, o meglio di un atto a priori tramite il quale l’uomo diventa consapevole della sua origine: «L’esistenza di Dio è perciò ben posta nello spirito 213 214

P. MARTINETTI, Introduzione alla metafisica, cit., p. 149. Ibidem, p. 473.

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per un atto a priori; ma non per una dimostrazione logica, bensì per una preparazione spirituale che rende poi possibile questo atto»215. Martinetti sottolinea che l’intuizione religiosa è la forma più alta e più pura che la conoscenza umana possa raggiungere: «Se noi chiamiamo ragione l’attività dello spirito che dall’esperienza si eleva alle intuizioni più alte secondo un processo universalmente valido e necessario, poi possiamo dire che l’intuizione religiosa a priori è l’atto più alto della ragione»216. Egli ribadisce inoltre che «la vita religiosa è una vita più vasta nella quale confluiscono, oltre all’intuizione morale, anche intuizioni di carattere estetico e logico»217. Si comprende allora che, diversamente da quanto sostevano Hegel e Gentile, l’intuizione religiosa sia l’atto pià alto della ragione, la “visione dell’orginario” che spinge l’uomo ai suoi confini gnoseologici intrascendibili: essa consiste nel cogliere «presenza di noi in Dio»218. In Martinetti siamo all’interno di una “mistica della ragione”. La ragione spinta ai suoi limiti estremi si trova innanzi ad il mistero ineffabile dell’assoluto e non può trasformarsi che in meditazione. Secondo Martinetti occorre, quindi, liberarsi da un concetto ristretto di ragione, come facoltà logica e raziocinante: egli, ed è questo forse l’aspetto che rende la sua proposta attuale e suggestiva, è convinto che la ragione riscoprendo le sue potenzialità simboliche ed intuitive può arrivare al oltrepassare se stessa, giungendo alle soglie dell’assoluto219. Dal medico e teologo luterano Albert Schweitzer egli riprende e commenta tale formula

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P. MARTINETTI, La religione, in IDEM, Ragione e fede, Einaudi, Torino 1942, p. 266. 216 Ibidem. 217 Ibidem, pp. 353-354. 218 Ibidem, p. 266. 219 Notiamo che uno tra i primi a valorizzare la riflessione di Martinetti sul valore simbolico della ragione fu Luigi Stefanini in Imaginismo come problema filosofico, Vol. I, Cedam, Padova 1936, pp. 45-50.

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emblematica: «se il pensiero razionale va fino in fondo, arriva a un irrazionale che è razionalmente necessario»220. Cerchiamo ora di analizzare la concezione martinettiana della religione e del cristianesimo. Come abbiamo accenntato, il Nostro rifiuta la hegeliana «morte» della religione nella filosofia, arrivando a sostenere un necessario primato del momento religioso su quello filosofico, o meglio di una “funzione religiosa della filosofia stessa” . Tuttavia la forma religiosa di cui parla Martinetti non è quella dei culti storici e tradizionali delle chiese istituzionalizzate: essa nasce da una necessaria purificazione di ogni elemento sensibile, mitologico e superstizioso. A suo parere occorre «eliminare ogni ambiguità circa l’elemento tradizionale ed immaginativo e riconoscere che solo la religione spirituale [a partire] da una compenetrazione con la filosofia, cioè con la ragione, può trarre una più profonda comprensione di se stessa e un criterio per la sua direzione verso forme di spiritualità più alte»221. In queste sue considerazioni Martinetti è chiaramente influenzato dal Kant autore della Religione entro i limiti della sola ragione: in Kant egli scorge l’iniziatore dell’idealismo critico e trascendente foriero di un necessario “illuminsimo religioso”222. Martinetti ripudia quindi ogni “chiesa visibile” poiché dogmatica, intrisa di potere politico e deviante nei confronti di una corretta spiritualità: egli si richiama allora alla “chiesa invisibile”, identificata con la ragione universale e con il kantiano “regno dei fini” (Reich der Zwecke). I profeti di questa “chiesa invisibile” sono stati tutti quei geni religiosi che hanno criticato la sterilità farisaica dei culti 220

L’espressione di Schweitzer viene citata e commetata in P. MARTINETTI, Ragione e fede, cit., p. 56. 221 P. MARTINETTI, La filosofia religiosa di G. Tyrrel, in Ragione e fede, cit., pp. 135-169, p. 169. 222 In Martinetti troviamo un’interpretazione metafisica e religiosa di Kant che suscitò molte perplessità e critiche tra i suoi contemporanei: cfr. P. MARTINETTI, Kant, Bocca Editori, Milano 1943; P. PRINI, L’interpretazione metafisica del kantismo e il “Kant” di Piero Martinetti, «Giornale di metafisica», I, 1946, pp. 506-510; M. FERRARI, L’interpretazione martinettiana di Kant e di Hegel, «Rivista di filosofia», 3, 1993, pp. 445-52.

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tradizionali indicando una via di purificazione spirituale: questi sono stati Buddha, Cristo, Giamblico e nel cristianesimo soprattutto gli eretici, tra i quali Martinetti predilige Marcione. Nel 1934 Martinetti dà alle stampe un importante e controverso volume: Gesù Cristo e il cristianesimo223. La finalità principale dell’autore è «la costituzione di un fondamento speculativo della vita religiosa»224. Il volume venne subito inserito nell’Index librorum prohibitorum della chiesa cattolica e la conseguenza di questa condanna fu l’immediato sequestro imposto dall’autorità fascista225: ricordiamo, inoltre, che Martinetti era dichiaratamente antifascista e che nel 1931 fu costretto ad abbandonare l’insegnamento all’Università di Milano per non aver giurato fedeltà al regime. È quindi con ampia libertà intellettuale che nella sua villa di Castellamonte potette dedicarsi agli studi sulle origini del cristianesimo e sulla enigmatica figura del «Gesù storico». A causa 223

P. MARTINETTI, Gesù Cristo e il cristianesimo, Edizioni della “Rivista di filosofia”, Milano 1934; l’opera ebbe due edizioni postume, la prima nel primo volume delle mai realizzate Opere complete (Denti, Milano 1949), la seconda a cura di Giacomo Zanga (Il Saggiatore, Milano 1964). L’intenzione originaria di Martinetti era quella di pubblicare il volume per la casa editrice Laterza: ne sono testimonianza i suoi contatti epistolari nell’estate del 1933 con Giovanni Laterza e con Benedetto Croce. A causa di una mancata intesa sulle condizioni economiche imposte dall’editore, il libro ebbe però altra destinazione. Dal carteggio emerge il grande apprezzamento di Croce per quest’opera, che consigliò di pubblicarla con il sottotitolo Perché non possiamo non dirci cristiani (poi divenuto il titolo stesso del celebre discorso di Croce). Notiamo che nell’ultima parte del volume di Martinetti compare un paragrafo dal titolo “Possiamo ancora noi essere cristiani?”. Su tali vicende cfr. A. VIGORELLI (a cura di), Carteggio Martinetti-Croce (1907-1934), «Rivista di storia della filosofia», XLVIII, 1993, pp. 777-790, p. 790; D. COLI, Laterza e la cultura europea, Il Mulino, Bologna 1983 , p. 201. 224 P. MARTINETTI, Gesù Cristo e il cristianesimo, p. 485. 225 Le circostanze del sequestro sono narrate da Martinetti in una lettera alla sorella Teresa dell’agosto 1934, edita in Appendice a A. VIGORELLI, Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, Mondadori, Milano 1998, p. 402.

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del sequestro l’opera non ebbe vasta risonanza, tuttavia ebbe una discreta circolazione clandestina favorita anche dalla sua traduzione in francese226. L’opera di divide in sei capitoli dedicati rispettivamente a «L’ambiente cristiano», «Le fonti», «Gesù», «La chiesa cristiana», «La tradizione cristiana», «La possibilità attuale del cristianesimo». Da essa emerge una profonda erudizione storico-filologica: Martinetti mostra di conoscere bene gli scritti sulla storia del cristianesimo primitivo di Reimarus, Herder, David Friedrich Strauß, Ernest Rénan e soprattutto di condividere molte prese di posizione dei modernisti come Alfred Loisy, George Tyrrel ed Ernesto Buonaiuti. Inoltre da Ernst Troeltsch egli riprese l’idea che una corretta comprensione del cristianesimo non costituisce solo un’esigenza di tipo storiografico: si tratta invece di un’esigenza di ordine filosofico che investe l’esistenza tutta, mettendola talvolta radicalmente in questione227. Secondo Martinetti «ciò che diciamo “cristianesimo” […] è semplicemente il nome collettivo d’una molteplicità di chiese che hanno fatto di Gesù una personalità divina»228. Le indagini sul «Gesù storico», soprattutto dopo i ritrovamenti dei rotoli del Mar Morto avvenuta a Qumran nel 1947, hanno fatto notevoli progressi e, per certi aspetti hanno reso consolidate se non superate alcune intuizioni di Martinetti: tuttavia il libro presenta ancora interessanti valutazioni di carattere storico e concettuale. Innanzitutto egli richiama l’attenzione sulle origini ebraiche del «Gesù storico»: per questo egli privilegia i tre Vangeli 226

Cfr. P. MARTINETTI, Jesus Christ et le Chrsitianisme, Bocca Editori, Paris 1942. 227 A tal proposito cfr. E. TROELTSCH, Die Bedeutung der Geschichtlichkeit Jesu für den Glauben, Mohr, Tübingen 1911. Quest’opera di Troeltsch viene richiata da Martinetti in Gesù Cristo e il cristianesimo, cit., p. 528. 228 P. MARTINETTI, Gesù Cristo e il cristianesimo, cit., p. 349. Anche a Martinetti potrebbero essere attribuite le parole e le preoccupazioni stesse del teologo Hans Küng: «Il Gesù della storia non coincide con l’immagine di Cristo espressa dalla dogmatica tradizionale» (H. KÜNG, Christ sein, Piper, München 1974; tr. it. di G. Re e M. Beck, Essere cristiani, CDE, Milano 1988, p. 168).

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sinottici, considerando invece il Vangelo di Giovanni come il frutto di un cristianesimo già “platonico ed ellenizzato” e perciò non più fedele alle origini giudaiche. Allo stesso modo egli prende le distanze anche da Paolo di Tarso, nelle cui lettere viene considerato il solo “Cristo metafisico e teologico” a discapito del “Gesù storico”, che del resto Paolo non conobbe mai personalmente. A parere di Martinetti, Gesù non considerò mai se stesso come il messia229 e tutti i fatti inerenti ai meracoli, nonché alla resurrezione non sarebbero altro che il frutto di leggende, o meglio ancora, della fede ingenua dei primi discepoli. L’intuizione essenziale del “Gesù storico” fu invece quella «dell’opposizione irriducibile tra il secolo presente e il regno di Dio»230: la sua istanza non fu quella di essere l’incarnazione di Dio nella storia quanto piuttosto quella di risvegliare il senso spirituale insito nell’uomo. Il “Gesù storico” di Martinetti è tutto terreno ed umano e tuttavia conserva dei tratti, per così dire, divini: fu una personalità eccezionale che cercò di indirizzare gli uomini del suo tempo verso la realizzazione del regno di Dio, cioè verso il compimento di una vita beata in diretto contatto con l’assoluto: «una sola è la verità: la negazione di questo mondo, la fede nel regno di Dio. Tutto il resto non è che preparazione e simbolo»231. Dal volume di Martinetti emerge una chiara presa di posizione intorno al cristianesimo: come è tipico anche di molti attuali storici e biblisti, egli pone una netta cesura tra la predicazione storica dell’uomo Gesù e il cristianesimo posteriore con il suo graduale sviluppo dogmatico, frutto dell’incontro che i primi fedeli ebbero con la cultura filosofica greca. La conoscenza del “Gesù storico”, cioè demitizzato e privato degli attributi divini, secondo Martinetti è di 229

A tal proposito Martinetti concorda pienamente con Riccardo Calimani: «Gesù non accetto mai di essere chiamato messia: lo rifiutò decisamente (Matteo 16,20; Luca 9, 20-21) o rispose in modo ambiguo: «Tu l’hai detto» (Matteo 26,64); Gesù si definì bar nasa o bar enosh, cioè figlio dell’uomo e mai figlio di Dio. Figlio dell’uomo è una definizione che trae origine dall’apocalittica giudaica» (R. CALIMANI, Gesù ebreo, Rusconi, Milano 1995, p. 355). 230 P. MARTINETTI, Gesù Cristo e il cristianesimo, cit., p. 133. 231 Ibidem, p. 158.

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fondamentale importanza: essa aiuta a purificare la fede dalle incrostazioni dogmatiche in cui le istituzioni ecclesiastiche l’hanno inviluppata. Accostarsi al cristianesimo delle origini ha quindi «la funzione di purificare e rinnovare la fede, sostituendo al simbolismo immaginativo un più alto simbolismo filosofico»232. L’incontro con «il Gesù della storia» aiuta la filosofia a recuperare un concetto di ragione simbolica, aperta alle esigenze della morale e capace di indirizzare nuovamente in suo sguardo verso la trascendenza, verso quello che Gesù chiamava il regno di Dio233. Martinetti fu uno dei pochi intellettuali italiani che operò al di fuori delle chiese ed in aperta opposizione sia al regime fascista sia alle forti ideologie di partito: «inviso a Dio e a li nemici sui», direbbe Dante, egli pagò la sua libertà di pensiero con un certo isolamento. Tra i suoi allievi vi fu però Antonio Banfi che valorizzò notevolmente la figura di Martinetti, inserendola, insieme ad Husserl e Simmel, tra i grandi «maestri di un pensiero che è ricerca, libertà infinita e profonda responsabilità»234. Norberto Bobbio ha inoltre parlato di un “martinettismo torinese”: egli ha messo in evidenza il fascino che la figura di Martinetti esercitò sui giovani intellettuali torinesi (Ludovico Geymonat, Augusto Del Noce e Luigi Pareyson), sia per le sue scelte politiche di opposizione al regime sia per il suo pensiero che prendeva in esame tematiche coinvolgenti come quelle della libertà, del male e della filosofia in rapporto con la religione235. 232

A. VIGORELLI, Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato, cit., p. 334. 233 Sul pensiero di Martinetti e il rapporto in esso istituito tra la ragione e la fede si vedano: G. DE RUGGERO, Ragione e fede nella concezione di Piero Martinetti, «Il Saggiatore», XV, 1943, pp. 11-18; G. COLOMBO, La filosofia come soteriologia: l’avventura spirituale e intellettuale di Piero Martinetti, Vita e Pensiero, Milano 2005. 234 A. BANFI, Prefazione del 1943 a IDEM, Filosofi contemporanei, a cura di R. Cantoni, Parenti, Firenze 1961. Sul pensiero filosofico di Banfi e la sua intepretazione del cristianesimo si vedano: 235 Cfr. N. BOBBIO, “Martinettismo” torinese, «Rivista di filosofia», dicembre 1993, pp. 329-339. Sull’influenza di Martinetti nella cultura torinese cfr. anche G. RICONDA, Torino 1950-1990: il pensiero religioso, «Annuario filosofico», 25, 2009, pp. 7-25.

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Capitolo III Fermenti intellettuali d’inizio Novecento

1. Forme di vitalismo e di pessimismo (Adriano Tilgher e Giuseppe Rensi) Nei primi decenni del Novecento in Italia vi fu un notevole fermento di idee sia in campo artistico (si pensi al futurismo) che in ambito strettamente filosofico. Come abbiamo messo in luce, la corrente dominante era certamente l’idealismo, soprattutto nelle formulazioni di Croce e Gentile. Non mancarono tuttavia dei singoli pensatori che dal recupero del mondo classico greco e dallo studio delle grandi filosofie europee (soprattutto Schopenhauer e Nietzsche) seppero trarre ispirazione per l’elaborazione di originali prospettive dal carattere vitalistico, spesso in aperto conflitto con le rigide strutture speculative della dialettica neohegeliana: ci riferiamo, in particolare, a Carlo Michelstaedter (1887-1910) in cui troviamo un’esistenzialismo ante litteram236, ad Adriano Tilgher (1887-1941) critico della ragione moderna e teorizzatore del relativismo etico237, e a Giuseppe Rensi (1871 - 1941) che elaborò una “filosofia dell’assurdo” in cui veniva messa in discussione qualsiasi visione della storia provvidenzialistica ed idealistica. Si tratta generalmente di filosofie dal carattere scettico e pessimistico secondo le quali, come afferma Rensi, «la realtà è irrazionale ed assurda e perciò incomprensibile. Scetticimo e pessimismo rampollano 236

Cfr. C. MICHELSTAEDTER, Dialogo della salute. E altri scritti sul senso dell’esistenza, [il Dialogo sulla salute è del 1910] a cura e con un saggio introduttivo di G. Brianese, Mimesis, Milano 2009. C. La Rocca, Nichilismo e retorica. Il pensiero di Carlo Michelstaedter, ETS, Pisa 1984. 237 Cfr. A. TILGHER, Critica dello storicismo, Guanda, Modena 1935; IDEM, Relativismi contemporanei, [prima edizione 1923], Bardi, Roma 19446. Sul confronto dell’autore con il cristianesimo si veda: A. TILGHER, Cristo e noi, Guanda, Modena 1934.

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spontaneamente dalla medesima radice [che per Rensi è l’avvertimento della realtà come regno del caos e dell’assurdo]»238. Nella cultura italiana queste prospettive dal carattere pessimistico trovano forse il loro più significativo antesignano in Giacomo Leopardi239. Ci è parso molto interessante l’accostamento fatto da Augusto Del Noce tra le posizioni di Rensi e di Tilgher. Esse rappresentano il momento nichilistico del pensiero italiano e il rovesciamento stesso dell’attualismo gentiliano. Rensi e Tilgher riprendono da Gentile il motivo attualistico (lo spirito come puro agire) ma lo capovolgono in individualismo che non conosce più il momento della sintesi trascendentale: i singoli individui si risolverebbero in puro agire fine a se stesso, non trovando più alcuna unità nello spirito assoluto, ormai infranto e delegittimato. Mentre Gentile «mira ad una filosofia che intende instaurare il valore universale dell’unità spirituale [l’Io trascendentale], ma cancellando gli elementi particolari ed egoistici»240, Rensi e soprattutto Tilgher capovolgono diametralmente questa prospettiva: «l’atto puro dello spirito» sottolinea Del Noce - «si spezza in infiniti centri di azione assolutamente equivalenti. L’attivismo assoluto conduce al relativismo, all’individualismo, all’anarchismo assololuti […], l’attivismo si capovolge in una monadologia di monadi […] senza né porte né finestre, che non comunicano perché è cancellata l’armonia prestabilita leibniziana»241. In opposizione all’attualismo gentiliano e 238

G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, Corbaccio, Milano 1937; Adelphi, Milano 19912, p. 13. 239 A tal proposito cfr. A. T ILGHER, La filosofia del Leopardi, Edizioni di Religio, Roma 1940; L. SANÒ, Le ragioni del nulla. Il pensiero tragico nella filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Città aperta, Troina (En) 2005. 240 P. ARMELLINI, Augusto Del Noce interprete di Tilgher e Rensi: la crisi del pessimismo, in G.F. LAMI (a cura di), La Tradizione in Augusto Del Noce, FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 77-91, p. 80. 241 A. DEL NOCE, Un interprete della cultura italiana tra le guerre, in G.F. LAMI (a cura di), Adriano Tilgher. Manifestazioni del centenario, Giuffrè, Milano 1992, p. 61. Sull’interpretazione delnocina di Rensi cfr. A. DEL NOCE, Giuseppe Rensi tra Leopardi e Pascal, ovvero l’autocritica

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ad ogni espressione di rigido idealismo Tilgher afferma che «lo spirito umano è dotato di plasticità infinita. Non vi è una Ragione unica per tutti, una ed intera in ciascuno, ma tante strutture mentali irriducibili fra loro, e che conducono a modi distinti ed irriducibili d’interpretare il mondo. La così detta Ragione non è che la somma delle opinioni medie e dei pregiudizi accreditati in un certo stadio della Cultura, è una risultante sociologica complessa e fluida, è la generalizzazione dell’empirismo quotidiano, la totalizzazione del sapere corrente, forza di conservazione e di arresto contro lo slancio dello spirito di critica e di libero esame»242. Ecco allora che in Tilgher, una volta spezzata l’unità della vita sul piano spirituale (l’unità trascendenale della Ragione di cui parlano gli idealisti), si infrange anche l’unità sul piano etico: non è più possibile giustificare la morale in connessione ad verità metafisica. Secondo Tilgher la vita si risolve in una pluralità di morali che si equivalgono e che non hanno nessun parametro normativo al di fuori di sé stesse. In particolare egli ne individua quattro che tra loro sono pressoché inconciliabile e non gerarchizzabili: v’è la morale o stile di vita dell’eroe, dell’asceta, del santo e del saggio243. Sia Rensi che Tilgher, seppur con differenti accentuazioni, riprendono il motivo nietzscheano dell’individuo come centro creativo di forze che opera in un universo privo di ogni riferimento metafisico, dove “il centro è ovunque e la circonferenza in nessun luogo”. I due autori si oppongono nettamente anche a tutte quelle forme di storicismo che tentano di giustificare i fatti, inquadrandoli dell’ateismo negativo, [edizione originale 1967], in IDEM, Filosofi dell’esistenza e della libertà, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano 1992, pp. 409-540. 242 A. TILGHER, Relativismi contemporanei, cit., pp. 59-60: queste riflessioni vengono fatte a commento del volume di Louis Rougier Les Paralogismes di Rationalisme (Paris 1920) che Tilgher apprezzò molto. Sulle critiche di Tilgher all’attualismo cfr. A. TILGHER, Lo spaccio del bestione trionfante. Stroncatura di G. Gentile. Un libro per filosofi e non filosofi, Gobetti, Torino 1925. 243 Cfr. A. TILGHER, Filosofia delle morali: studio sulle forze, le forme, gli stili della vita morale, Bardi, Roma 19432.

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in un disegno di senso dal carattere razionale. Richiamandosi al pensiero nietzschenao il Rensi afferma: «L’eterno ragno-ragione e l’eterna ragnatela di ragione non esistono affatto. […] La conseguenza inevitabile di questa eliminazione della necessità [razionale] è soltanto quella a cui è pervenuto Nietzsche. Le cose, per essa, ridiventano libere, danzano con capricciosa libertà ai piedi del caso»244. Se Tilgher propone una visione “casualistica” della vita e della storia che ha intonazioni pirandelliane245, in Rensi troviamo una rigorosa teorizzazione di un universo in cui vige il caso: una volta venuta meno la fede nelle grandi religioni storiche (che secondo Rensi si contraddicono e neutralizzano a vicenda) la storia non è che un susseguirsi di cause ed effetti sorretto dal caso246. Non essendoci un Dio provvidenziale - sostiene Rensi - «non c’è, adunque, nessuna predisposizione nelle cose. Ogni fatto si concatena con un altro causalmente, ma a caso: cioè senza che nessuno (nemmeno le stesse cose, se potessero pensare, nemmeno l’universo stesso, supposto cosciente, nemmeno un Dio) possa previamente stabilire»247. Le conclusioni di Rensi sono certamente pessimistiche: a suo parere «la storia, poiché non è che vita ed esplicazione di una realtà irrazionale, non può essere, e non è, che una serie di casi ossia di assurdi»248. Con Rensi e Tilgher ci troviamo di fronte a filosofie di intonazione pessimistica nate anche dalla crisi storica di cui furono espressione: crisi della ragione dialettica, crisi dell’idea ottocentesca di progresso e soprattutto crisi susciata dal dramma della prima 244

G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., p. 177. Cfr. A. TILGHER, Il casualismo critico: l’oggetto, il dato, il tempo, il caso, Bardi, Roma 1942. Quando Tilgher parla di casualismo paragona la vita ad una trama teatrale dove i rapporti di causa ed effetto (come ad esempio l’incontro fortuito di un personaggio) non sono che il prodotto di un mero caso: cfr. IDEM, La scena e la vita : nuovi studi sul teatro contemporaneo, Libreria di Scienze e Lettere, Roma 1925. 246 Cfr. G. RENSI, Le aporie della religione, Etna, Catania 1932, in particolare il capitolo VII, «Dio e il Caso». 247 G. RENSI, La filosofia dell’assurdo, cit., p. 172. 248 Ibidem, p. 167. Sui risvolti etico-politici della posizione di Rensi cfr. P. SERRA, Giuseppe Rensi. La rivolta coltro il reale, Città Aperta, TroinaRoma 2006. 245

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guerra mondiale. In particolare Tilgher rimase molto impressionato dalle riflessioni sulla storia contenute nel volume di Oswald Spengler Il tramondo dell’Occidente: di Spengler egli condivise le amare conclusioni sul destino inesorabile della società capitalistica (civiltà faustiana e dell’attività assoluta) destinata ad un tragico epilogo249. 249

Tilgher definisce la prospettiva di Spengler come uno «scetticismo storicistico» (A. TILGHER, Relativismi contemporanei, cit., p. 63) e mostra di condividere ampiamente le sue diagnosi pessimistiche sul destino della società capitalistica occidentale. Sviluppando un’intuizione già presente in Goethe, Spengler applica la biologia allo studio delle civiltà: le civiltà vengono considerate come degli organismi viventi soggette alle leggi naturali che ne determinano la nascita, lo sviluppo, il declino e la morte. Ciascuna civiltà costituisce un organismo in sé concluso, la cui evoluzione percorre, analogamente alla vita umana, quattro età: infanzia, giovinezza, maturità e vecchiaia. Nella sua morfologia della storia universale Spengler individua la presenza e l’avvicendarsi di otto grandi civiltà: la babilonese, l’egiziana, l’indiana, la cinese, l’amerinda, quella greco-romana (denominata “apollinea”) e quella dell’Occidente moderno (denominata “faustiana”). Ogni civiltà viene concepita come un organismo fornito di un proprio ciclo vitale che ha come esito finale sempre la decadenza ed il tramonto. Siamo quindi all’interno di un determinismo biologico-fatalistico: “biologico” dal momento che la civiltà è un organismo che ha segnato fin dall’inizio la proprio percorso (la propria forma di vita, morphé), “fatalistico” poiché tale percorso è espressione del destino (l’anánke dei Greci) che governa la realtà intera. Il periodo conclusivo di ogni civiltà viene individuato da Spengler come passaggio inesorabile dalla Kultur (traducibile come “civiltà”) alla Zivilisation (traducibile come “civiltà in declino”). «La Zivilisation (cioè la decadenza)» - afferma Spengler - «è l’inevitabile destino (das Schicksal) di una cultura. Lo stadio della decadenza è la conclusione: è il divenuto che segue al divenire, la morte che segue alla vita, l’irrigidimento che segue allo sviluppo. Questo stadio - il tramonto (Untergang) - costituisce una fine irrevocabile, ma sempre raggiunta di nuovo in virtù di un’interna necessità» (O. SPENGLER, Der Untergang des Abendlandes. Umrisse einer Morphologie der Weltgeschichte, 2 Voll., München 1918-22; a cura di J. Evola, Il tramonto dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della storia mondiale, Presentazione di S. Zecchi, Guanda, Parma 1991, p. 57). Per Spengler, come per Tilgher, la fase della “civiltà in declino” è determinata dallo

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2. Giovanni Papini: un intellettuale inquieto alla ricerca della verità Una vivace ed ironica opposizione sia all’idealismo che al positivismo fu fatta nei primi anni del Novecento da due intellettuali originali e contestatori: il fiorentino Giovanni Papini (1881-1956) e il perugino Giuseppe Prezzolini (1882-1982). Essi dal 1903 al 1907 furono gli animatori della rivista «Il Leonardo» che tra i suoi meriti ebbe quello di aprire la cultura italiana ad autori stranieri all’epoca poco noti. Soprattutto fece conoscere gli esponenti del pragmatismo americano: tra questi Charles Sanders Peirce, Ferdinand Schiller, William James. La rivista fu quindi il primi organo del cosiddetto “pragmatismo italiano”, un movimento d’idee che coinvolse, oltre Papini e Prezzolini, altri autori italiani come Giovanni Vailati (18631909) e Mario Calderoni (1879-1914). Mentre questi ultimi due si richiamarono a Peirce, dando al pragmatismo un significato epitemologico più marcato e certamente più fondato sotto il profilo metodologico, Papini e Prezzolini si richiamarono a James, declinando il pragmatismo in un senso meno rigoroso ed interpretandolo come una sorta di volontarismo: di James valorizzarono soprattutto la sua psicologia della vita religiosa fondata sulla “volontà di credere” (the Will to Believe)250. Comunque Vailati, Calderoni, Papini e Prezzolini condivisero l’idea di fondo che la filosofia dovesse verificare la verità delle idee con la loro utilità pratica, eliminando i dogmatismi scientisti del positivismo e le vuote speculazioni degli idealisti251. Possiamo dire che anche il spegnersi della vitalità creativa e dall’irrigidimento intellettuale: in Occidente questa fase conclusiva del ciclo vitalistico corrisponde al dominio sempre più invasivo della scienza e della tecnica, nonché all’utilizzo della tecnica stessa per l’autodistruzione dell’umanità. A questo proposito cfr. anche A. TILGHER, La crisi mondiale, Zanichelli, Bologna 1921. 250 Cfr. W. JAMES, The Will to Belive and Other Essays in Popular Philosophy, Longmans Green, New York 1904. 251 A tal proposito cfr. G. PAPINI, Pragmatismo, Libreria Editrice Milanese, Milano 1913.

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pragmatismo italiano, come altre espressioni ideologiche di inizio Novecento, fu una forma di attivismo e di vitalismo che indendeva rinnovare completamente la filosofia indirizzandola al primato della prassi nei confronti della contemplazione. In particolare «Papini e Prezzolini, svolgendo la loro prospettiva in opposizione diretta con il determinismo positivistico trapassavano di fatto dal rifiuto di leggi fisse ed immutabili della realtà […], alla proposta di un idealismo magico, per il quale l’uomo nella sua libertà, crea le cose stesse, essendo totalmente svincolato da ogni condizionamento e demiurgo senza limiti»252. Si comprende allora che il pragmatismo italiano fu movimento «tutt’altro che unitario, percorso da tendenze contrastanti, ricco di figure dissimili nei gusti e nei propositi». Tuttavia, come ha ben sottolineato Antonio Santucci, «lo spregiudicato irrazionalismo del “Leonardo” e di altre riviste d’avanguardia, lo sperimentalismo vociano [qui si riferisce alla rivista «La Voce» fodata da Prezzolini], i primi progetti di una filosofia analitica e scientifica, le inquietudini morali e religiose che mettevano in crisi la stabilità dell’Italia giolittiana, tutti questi fenomeni possono bene riportarsi all’esperienza pragmatista o almeno venirne illuminati»253. Ci occuperemo in particolare di Papini, la cui vicenda biografica, segnanta da un’inquieta ricera della verità, sfocierà con la conversione al cattolicesimo e darà luogo ad una rilettura dei temi fondamentali della spiritualità cristiana. Il primo libro scritto da Papini reca il significativo titolo: Il crepuscolo dei filosofi. Esso è teso a dimostrare con la veemenza della satira «la vanità, la vacuità e la ridicolaggine della filosofia»254, soprattutto di quella accademica ed idealistica, «cabala affannosa di segni attorno al nulla»255. Egli fa proprie tutte le istanze dell’antifilosofia e irride coloro che cercano affannosamente la verità o 252

A. BAUSOLA, La cultura cattolica e il neoidealismo, cit., p. 156. A. SANTUCCI, Il pragmatismo in Italia, Il Mulino, Bologna 1963, p. VIII. 254 G. PAPINI, Il crepuscolo dei filosofi, Società Editrice Lombarda, Milano 1906; VI edizione Vallecchi, Firenze 1942, p. 7. 255 G. PAPINI, Un uomo finito, Vallecchi, Firenze 1912; XII edizione Vallecchi, Firenze 1925, p. 177. 253

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l’assoluto tramite il logos e magari edificando articolati sistemi. L’atteggiamento del giovane scapigliato fiorentino è certamente scettico sia nei confronti delle ideologie che delle religioni: «Soprattutto» - egli afferma - «ho amato, tra quelli che pensano, i distruttori dei costumi, i conoscitori spregiudicati degli uomini, i disillusi eroici e tranquilli; quelli che grattano gli affreschi dell’idealismo per far vedere i buchi del calcinaccio»256. I suoi primi maestri furono quindi Montaigne, Diderot, Voltaire, Hippolyte Taine e, più in generale, tutti coloro che sono stati attenti «al paziente scovamento del concreto particolare»257. In un vivace pamphlet dal titolo Stroncature egli attacca con l’arma dell’ironia la cultura accademica dominante, soprattutto quella di stampo crociano. Memorabili sono le sue boutades contro Croce e Gentile che da Hegel hanno ripreso l’uso apoftegmatico della “frase a pendolo”: «tutto ciò che è reale è razionale, tutto ciò che è razionale è reale», «il concetto vale, perché è; ed è, perché vale» e così via258. Quest’atteggiamento del giovane Papini ricorda molto l’ironia di Kierkegaard e di Nietzsche contro il verbalismo e lo spirito sistematico della filosofia tedesca259: anche l’intellettuale fiorentino intende proporre una “gaia scienza” nutrita di intuizioni pragmatiche volte alla trasformazione della vita e del reale. Egli quindi critica le «vuote unità dei monismi» idealistici e propone una concezione pragmatica dell’attività intellettuale: «Attraverso la “volontà di credere” [qui si riferisce a James] tendevo alla “volontà di fare” […]. Fingevo di partire da un precetto di logica (pragmatismo), ma l’anima più segreta era assetata e invidiosa della divinità»260. Il giovane Papini si dichiava ateo. Tuttavia egli rimase un inquieto cercatore della verità e giunse a prendere nuovamente in 256

Ibidem, p. 126. Ibidem, p. 180. 258 Cfr. G. PAPINI, Stroncature, Vallecchi, Firenze 1916. 259 Ricordiamo che la rivista il «Leonardo» fu una delle prime a dare spazio al pensiero di Kierkegaard: nel 1907 fu pubblicato lo scritto kierkegaardiano Il più infelice. 260 G. PAPINI, Un uomo finito, cit., p. 116. 257

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considerazione la religione proprio grazie all’anti-filosofia, all’atteggiamento scettico nei confronti dell’idealismo e del positivismo La vera colpa di quelle filosofie era la loro pretesa assolutistica di spiegare il reale nella sua interezza, cercando di sostituirsi persino alla religione. Papini intuisce, quindi, che una filosofia radicalmente irreligiosa era quella di Hegel e dei suoi epigoni italiani: «La filosofia, aveva già osservato con maggiore spregiudicatezza il Croce, toglie ogni campo alla religione, perché le si sostituisce. Quale scienza dello spirito, essa guarda alla religione come ad un fenomeno, ad un fatto storico e transitorio, ad uno stato psichico superabile»261. Papini sottolinea quindi che l’essenza della religione non può essere fagocitata dalla filosofia. Egli quindi cerca di indagare quale sia la vera essenza della rivelazione religiosa ed arriva a concludere: «Che cos’è la rivelazione? È il mondo superiore il quale o direttamente, o per mezzo di alcuni uomini da lui ispirati o mandati, fa conoscer la verità o detta consigli. Non c’è niente, insomma, nella religione, che non si riduca a questa che si può veramente chiamare l’essenza, cioè la comunione con un mondo spirituale superiore»262. È interessante notare che Papini scriveva queste cose alcuni anni prima della sua conversione: come ha ben rilevato Pietro Prini, esse ci dimostrano che «proprio quella sua consapevolezza critica della irriducibilità del problema religioso al problema filosofico è stata all’origine del suo nuovo cammino alla ricerca di Dio»263.

261

Qui Papini si riferisce alle affermazioni di Croce contenute in Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, Laterza, Bari 1907, pp. 68 sg. 262 G. PAPINI, Un uomo finito, cit., p. 66. Le ricerche del giovane Papini sull’essenza della religione, seppur non condotte in forma sistematica, mostrano affinità con quelle di Rudolf Otto: cfr. R. OTTO, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, [prima edizione 1917], Beck, München 2004; tr. it. di E. Buonaiuti, Il sacro, SE, Milano 2009. 263 Cfr. P. PRINI, Giovanni Papini e la scoperta dell’uomo finito, in IDEM, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 19972, pp. 9-17, p. 14.

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Prima di giungere al sicuro lido della fede cristiana Papini attraverò le tempeste esistenziali dell’angoscia nichilistica: queste ci sono raccontate in maniera esemplare nel suo scritto autobiografico Un uomo finito (1912), dove egli giunge ad affermare: «Per me non c’è più nulla. Sono il nichilista perfetto. Non credo più in nulla […]. Sono l’ateo compiuto, definitivo, intero; l’atero che non si inginocchia neppure alle fedi laiche, razionali, filosofiche e umanitarie che hanno preso il posto delle fedi mitologiche antiche. So che nulla risulterà dai nostri sforzi; so che la fine del tutto è il nulla; so che la ricompensa di ogni opera sarà, alla fine dei secoli, nulla e poi nulla»264. La conquista della fede avvenne quindi come superamento del momento nichilistico, che egli ritenne sempre come una provvidenziale “scossa maieutica”: nell’angoscia più profonda e nella radicalità del domandare ebbe un’illuminazione improvvisa. Si comprende allora la comprensione solidale che Papini ebbe per tutti quegli autori, come Nietzsche, che attraversarono il momento del nichilismo, pur senza trovare una soluzione ai loro drammi. Egli rivendica la natura profondamente evangelica della tragica esperienza nietzscheana, che può senza dubbi paragonare alla propria: «L’Evangelo di Nietzsche» - scriveva - «merita di essere detto l’Evangelo dello Pseudo-Anticristo, e può condurre diritti, in tal modo inteso, all’originario e genuino Evangelo del Cristo»265. Come molti esponenti dell’esistenzialismo cristiano, anche Papini afferma che il conseguimento di una fede pura ed autentica lo si ottiene solo passando per l’abisso del dubbio e dell’angoscia: è per questo che egli, quasi paradossalmente, considera l’esperienza nichilistica di Nietzsche come una sorta di praeparatio evangelica, una vera propria introduzione alla fede. Egli arriva persino a dire che Nietzsche avrebbe un’anima naturaliter cristiana: «Tutto quello che sappiamo della vita e dell’animo di Nietzsche ci rivela che pochi furono, come nativa e naturale natura, più cristiani di lui. La sua vita 264

G. PAPINI, Un uomo finito, cit., p. 267. G. PAPINI, I quattro evangelisti dell’Ottocento, «L’Ultima», luglioagosto 1948. 265

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povera, semplice, quasi ascetica, lo fece più simile a un cercatore di Dio di tanti pasciuti e compiaciuti satrapi delle chiese»266. Ecco invece come Papini ci parla della sua “seconda nascita”, della riconquista della fede cristiana dopo l’esperienza del nichilismo: «Chi cerca la salvezza fuori dall’anima è un cieco guida di ciechi. V’è bensì una guida dove potremmo anche oggi trovare i princìpi di questa “seconda nascita” a cui dovremmo per forza tornare se non vogliamo morire nelle torture delle ultime disperazioni. È un piccolo volume, diviso in quattro libretti, che fu scritto diciannove secoli fa. Tutti lo conosciamo, molti lo leggono, nessuno lo segue. Si chiama l’Evangelo di Gesù Cristo»267. Dopo la conversione al cattolicesimo Papini nel 1921 diede alle stampe quella che Piero Gobetti definì «la più grande Storia di Cristo del mondo moderno»268. Nel Proemio l’autore ci indica le finalità dell’opera parlandoci anche della sua visione del cristianesimo come esperienza di un incontro vissuta nell’intimo e nella quotidianità: «Un libro vivo, intendo, che renda più vivo Cristo, il sempre vivente, con amorosa vivezza, agli occhi dei vivi. Che lo faccia sentir presente, d’una eterna presenza, ai presenti. Che lo raffiguri in tutta la sua vivente e presente grandezza - perenne e perciò anche attuale - a quelli che l’hanno vilipeso e rifiutato, a coloro che non lo amano perché non hanno mai veduto la sua vera faccia. Che manifesti quanto v’è di soprannaturale e simbolico nei suoi princìpi umani, nei suoi princìpi oscuri e popolari, e quanto di famigliare umanità, di popolare semplicità traluca anche nelle sue mansioni di liberatore celestiale, di suppliziato e risuscitato divino»269. 266

Ibidem. G. PAPINI, La scala di Giacobbe, Vallecchi, Firenze 1932, pp. 11 e 21. 268 Cfr. P. GOBETTI, Opera critica, I, Il Baretti, Torino 1927. 269 G. PAPINI, Storia di Cristo, Vallecchi, Firenze 1921. Ci pare che questi desiderata spirituali di Papini siano gli stessi che nel 1964 hanno spinto Pier Paolo Pasolini a girare il celebre film Il Vangelo secondo Matteo. Sul complesso rapporto di Pasolini con la sfera del sacro e del cristianesimo si veda il bel volume di G. CONTI CALABRESE, Pasolini e il sacro, Jaca Book, Milano 1994.

267

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Interessante ci pare anche l’interpretazione papiniana della figura di Cristo: lo vede come il vero rivoluzionario della storia, colui che ha realmente compiuto il “rovesciamento di tutti i valori” di cui parlava Nietzsche: «Il pià grande Rovesciatore» - egli afferma - «è Gesù. Il supremao Paradossista, il Capovolgitore radicale e senza paura. La sua grandezza sta qui. La sua eterna Novità e Gioventù. Il segreto del gravitare d’ogni gran cuore, presto o tardi, verso il suo Evangelo. Se Cristo ha sbagliato non ci resta che la negazione assoluta e universale e il volontario annulamento»270. L’alternativa fondamentale che all’uomo sì impone, sostiene Papini, è dunque solo quella di una scelta radicale tra Cristo e il nichilismo, tertium non datur: «O l’ateismo rigoroso e perfetto - non quello ipocrito e monco dei pusilli scettici di oggi - o la fede operante nel Cristo che salva e risuscita nell’Amore»271. L’esperienza della convesione diede inizio per Papini ad una vera e propria “seconda nascita”, come lui stesso la definì272: egli si impegnò in opere dal carattere poetico (Pane e vino, 1926), biografico (Sant’Agostino, 1929) e di impegno per l’unità delle chiese cristiane. Quest’ultimo aspetto ci pare di estrema attualità e ai suoi tempi interessò lo stesso futuro Papa Giovanni XXIII, che lesse attentamente alcuni scritti di Papini273. Ecco una nota papiniana contenuta nel Diario (24 settembre 1944) in cui si auspica la fine delle divisioni confessionali affinche i cristiani si ricostituiscano in un’unica chiesa, ut unum sint: «Il compito del Cristianesimo, nei prossimi anni, può essere immenso a patto però che diventi veramente “cattolico”; che sia finalmente tutto per tutti. Bisogna unire Settentrione (Riforma) e Mezzogiorno (Roma); Oriente (Russia) e Occidente (America ed Europa). Ma queste unioni non 270

G. PAPINI, Storia di Cristo, cit, p. 125. Ibidem. 272 Cfr. G. PAPINI, La seconda nascita, Vallecchi, Firenze 1958 [l’opera fu edita postuma per volere dello stesso autore]. 273 In particolare Papa Giovanni lesse lo scritto di Papini Lettere agli uomini di papa Celestino VI (Vallecchi, Firenze 1946), in cui emergeva l’esigenza di un rinnovamento della chiesa. A tal riguardo cfr. V. VETTORI, Giovanni Papini, Borla, Torino 1967, p. 8. 271

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saranno possibili senza integrazioni dottrinali e spirituali… Unità di tutti in Cristo»274. Papini nel suo percorso intellettuale ebbe luci ed ombre. Non possiamo celare, ad esempio, la sua convinta (e forse ingenua) adesione al fascismo in cui vide «l’ultima guerra per l’indipendenza spirituale italiana», il movimento politico che «ha ritrovato e restaurato i princìpi che ressero le nostre antiche repubbliche aristocratiche e le nostre signorie: autorità dello Stato e unità di comando»275. É stato giustamente scritto che «Papini giungeva al fascismo dal nazionalismo, su di una linea di evidente coerenza: non per calcolo dunque, ma per convinzione. Egli aveva per Mussolini un’ammirazione reale, condivisa in quegli anni da tanti»276. Il rapporto che ci fu tra gli esponenti della cultura (anche cattolica) e il fascismo è certamente complesso e non può essere affrontato in queste pagine: tuttavia ci pare corretta l’osservazione che in proposito fece Augusto del Noce: «il fascismo fu, sì, un errore, ma non certo un errore contro la cultura quanto piuttosto un errore della cultura»277. Sotto il profilo filosofico il pensiero di Papini ci pare che vada rivalutato: egli ci ha fornito una forma di pensare autobiografico che trova pochi altri esempi nella filosofia italiana, anche se talvola dimostra tratti eccessivamente funambolici e passionali. Possiamo dire che quella di Papini sia stata una forma “pragmatismo esistenziale” fondato sul primato del concreto ed aperto alla dimensione della trascendenza. Più problematica ed oscillante tra l’accettazione ed il rifiuto fu invece la posizione di Prezzolini nei confronti del cristianesimo: egli si confrontò ampiamente con l’amico Papini ma non giunse alle sue

274

G. PAPINI, Diario, Vallecchi, Firenze 1962. G. PAPINI, Italia mia, Vallecchi, Firenze 1939. 276 V. VETTORI, Giovanni Papini, cit., p. 108. 277 A. DEL NOCE, L’interpretazione transpolitica della storia contemporanea, IDEM, Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, cit., pp. 59-82, p. 69 [questo scritto delnociano fu edito per la prima volta nel 1982 per i tipi dell’editore Guida di Napoli]. 275

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stesse certe conclusioni278. Tuttavia anche in Prezzolini troviamo delle profonde riflessioni sul valore della fede, sia come esperienza ordinaria che come esperienza mistica. A suo parere, «non bisogna dare alla parola fede il significato straordinario e dogmatico che ordinariamente essa riceve; la fede non è l’accettazione di un catalogo di tesi; è una potenza vitale e polivalente. Tutto quello che si fa e si ottiene nell’esistenza è fondato sopra una fede. […] La fede» - egli continua - «è il sostegno della nostra vita quotidiana, intima ed assoluta. Non c’è bisogno di andare a cercarla lontano; è dentro di noi e ci accompagna e ci sostiene nelle più umili attività»279. Ecco altre suggestive parole espresse da Prezzolini nel suo testamento spirituale (Dio è un rischio), un libro scritto ad 86 anni che, come afferma egli stesso in versi «è un libro senza Dio/ che trova il posto a Dio/ per chiunque abbia un Dio/ che debba trovar un posto»: «la fede non si può insegnare. C’è o non c’è. È dentro di noi come parte del nostro destino, forse iscritta nei nostri “cromosomi” dove la nostra storia futura è segnata […]. Credere in Dio è quindi una fortuna. Tra i premi della vita, è il più grande. Nessuno ce lo può dare, salvo il Caso, per uno che non crede, o, per chi crede, Dio stesso. Non è un merito, non è un prodotto della ragione, è in contrasto con ogni esperienza»280. Prezzolini conclude quindi affermando: «Dio, impossibile alla logica, diventa possibile nella preghiera, che semplicemente è un atto di esperienza creativa. […] Nessuno sa come Dio accoglierà la sua preghiera, ma sa che non rimarrà immutato. Ogni sforzo di vita interiore ha un potere magico di rinnovamento e di scoperta. […] Per dimostrare l’esistenza di Dio non c’è altro mezzo che di evocarlo, di crearlo»281.

278

Si veda G. PAPINI, Storia di un’amicizia, 1900-1956/ Giovanni Papini, Giuseppe Prezzolini, 2 Voll., Vallecchi, Firenze 1966-1968. 279 G. PREZZOLINI, Dio è un rischio, Rusconi, Milano 1979, pp. 138-139. 280 Ibidem, pp. 140-141. 281 Ibidem, pp. 144-145.

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3. L’esigenza di una riforma della chiesa: Ernesto Buonaiuti e il modernismo Tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento all’interno della cultura cattolica si diffuse in tutta Europa un movimento d’idee definito con il nome di modernismo. Le sue principali istanze furono quelle di un profondo rinnovamento delle struttura dogmatiche ed istituzionali della chiesa a partire dalla riscoperta del cristianesimo delle origini. Il modernismo trova sicuramente i suoi antecedenti nella cultura storicistica del primo Ottocento e soprattutto nella scuola teologica di Tübingen di cui i maggiori esponenti furono Johann Sebastian Drey (1777-1851) e Johann Adam Möhler (1796-1838): il loro dinamismo intellettuale proveniva dall’utilizzo della filologia e del metodo storico per lo studio dei dogmi, dei concili e delle istituzioni ecclesiastiche. Paragonarono, quindi, la vita della chiesa a quella di un grande organismo guidato dallo Spirito divino (göttlicher Geist) nella sua costante evoluzione (Entwicklung). Essi furono generalmente convinti «dell’esistenza di una evoluzione permanente nella Chiesa»282 e iniziarono perciò puntuali ricerche storiche sia sul cristianesimo delle origini (Urchristentum) sia sulla nascita e lo sviluppo degli stessi dogmi: la cosiddetta Dogmengeschichte. Con acuto senso storico essi furono convinti che «l’evangelio non è una dottrina rigidamente fissata fin dall’inizio, ma un annuncio che si potenzia in grando sempre maggiore man mano che si diffonde tra i popoli e si radica nelle anime. Gli stessi apostoli non ne hanno esaurito l’intrinseca efficacia. Ciascuno di loro parla secondo il proprio sentimento e la propria cultura, di modo che le loro interpretazioni non formano ancora un definitivo sistema teologico. Paolo costruisce una dottrina della giustificazione; Giovanni parla un linguaggio tutto pervaso di mistico amore, e così via. La dottrina si sviluppa a seconda della necessità dei tempi»283. Sulla linea di queste 282

G. MARTINI, Il risveglio cattolico i Germania – la Scuola di Tubinga, in IDEM, Cattolicesimo e storicismo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1951, pp. 1-62, p. 34. 283 Ibidem, p. 26.

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ricerche si pose anche l’inglese John Henry Newman che nel 1845 pubblicò un’opera letta con attenzione anche dai modernisti italiani: Essay on the Development of Christian Doctrine. In essa Newman assunse il principio dello sviluppo storico della chiesa (e la garanzia della successione apostolica dei vescovi) come canone e prova della legittimità del cattolicesimo. Altri autori che influirono direttamente sulla formazione intellettuale dei modernisti italiani furono il teologo inglese George Tyrrel (1861-1909) e i francesi Maurice Blondel (1861-1949), Lucien Laberthonnière (1860-1932) e soprattutto Alfred Loisy (1857-1946). Lo storico Pietro Scoppola fa risalire la nascita del modernismo al 1902, anno in cui Loisy pubblicò a Parigi la controversa opera L’Évangile e l’Église: in essa l’autore metteva in dubbio la divinità di Cristo, il valore storico della resurrezione ed interpretava la nascita della chiesa istituzionale in relazione al progressivo spegnersi dell’originaria tensione escatologica284. A questo proposito affermava polemicamente Loisy: «Cristo annunciò il regno di Dio, ma poi venne fuori la Chiesa»285. Condividiamo le valutazioni fatte dallo storico francese Émile Poulat sulle origini del movimento modernista e le difficoltà interiori che avevano i giovani teologi nell’accostarsi in maniera scientifica allo studio del cristianesimo: «il modernismo nacque dal brutale incontro con le giovani scienze religiose che si erano formate, lontane dal controllo delle ortodossie e più spesso contro di esse, sulla base di un principio rivoluzionario: l’applicazione dei metodi positivi a un ordine di conoscenze, a tesi fino allora considerate fuori della loro competenza. L’iniziazione a questi metodi poneva all’intellettuale cattolico uno sconcertante dilemma: vedere in questa laicizzazione scientifica dell’universo religioso un’antinomia intrinseca e una colpevole profanazione, significava rifiutarsi a ogni lavoro concreto e porsi in condizioni di inferiorità; accettarne le 284

Cfr. P. SCOPPOLA, Crisi modernista e rinnovamento cattolico, Il Mulino, Bologna 1969. 285 A. LOISY, L’Évangile e l’Église, Picard, Paris 1902; 1935, p. 153. Sull’ermeneutica del cristianesimo in Loisy cfr. E. BUONAIUTI, Alfredo Loisy, Formiggini, Roma 1925; M. IVALDO, Religione e cristianesimo in Alfred Loisy, Le Monnier, Firenze 1977.

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regole sembrava introdurre il libero esame in una religione che l’escludeva e, più precisamente, moltiplicare all’infinito una serie di difficoltà che si rifiutavano ad ogni trattamento apologetico o autoritario»286. In Italia il modernismo si sviluppò soprattutto per opera Ernesto Buonaiuti (1881-1946), ma conobbe una dimensione politica negli scritti e nell’azione di Romolo Murri (1870-1944) e soprattutto una certa diffusione letteraria tramite Antonio Fogazzaro: quest’ultimo rimase molto colpito dall’opera di Alfred Loisy e nel 1902 pubblicò un romanzo (Il Santo) nel quale il protagonista compie un viaggio a Roma facendosi banditore di un necessario rinnovamento della chiesa. Veniamo ora al pensiero e alle tristi vicende inquisitorie del “caso Buonaiuti“, che ricordano molto quelle vissute da Galilei, Bruno e nell’Ottocento da Rosmini. Buonaiuti fu ordinato sacerdote nel 1903 e due anni dopo fondò e diresse la “Rivista storico-critica delle scienze teologiche” (1905-10). Nello scritto Pellegrino di Roma egli ci parla del suo itinerario spirituale e ci fa comprendere i motivi della sua insoffernenza per la scolastica insegnata dei seminari dopo l’enciclica Aeterni Patris: «In realtà, tutto il mio profondo desiderio di scienza si era avviticchiato all’insegnamento della scolastica, la quale era rappresentata come la più alta manifestazione della sapienza, come il non plus ultra della speculazione umana. Io trascorsi tre anni di contemplazioni metafisiche, senza mai incontrare nei miei maestri l’imbra di un’incertezza, nei miei libri l’accenno di una difficoltà, nel mio spirito il pungolo tormentoso di un dubbio»287. Ecco allora che le certezze del giovane Buonaiuti iniziarono ad essere incrinate: «Comunciai a dubitare di quei princìpi filosofici su cui si era svolta tutta la mia educazione, e lentamente smarii ogni fiducia nella saldezza dei postulati scolastici. Che schianto, amico 286

É. POULAT, Histoire, dogme et critique dans la crise moderniste, Casterman, Paris 1962; tr. it. di F. Rinaldini, Storia, dogma e critica nella crisi modernista, Prefazione di G. Verucci, Morcelliana, Brescia 1967, p. 2. 287 E. BUONAIUTI, Pellegrino di Roma: la generazione dell’esodo, Darsena, Roma 1945, p. 54; il testo è stato riedito con un Introduzione di G. Gaeta ed un Appendice di R. Morghen, Gaffi, Roma 2008.

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mio, fu per il mio spirito quel lento crollo di tutto l’edificio mentale, con tanto assidua fatica levato!»288. Buonaiuti avvertì, quindi, l’esigenza che anche la storia del cristianesimo e lo sviluppo dei dogmi dovesse essere reso oggetto di uno studio rigoroso e metodologicamente valido, cioè fondato su documenti autentici e non su florilegi dei Padri della chiesa o degli scolastici. Fu così che Buonaiuti si pose sulla linea delle ricerche di Loisy e degli altri modernisti dedicandosi allo studio del cristianesimo con metodo storico-critico. Nel 1907 insieme ad Umberto Fracassini egli scrisse il Programma dei modernisti (pubblicato anonimo), nel quale si annunciavano le finalità del movimento nonché il tipo di studi che si proponevano. In primo luogo si mise in evidenza la radicale diversità tra “il Cristo della fede” e il “Gesù della storia”, teologico e metafisico il primo, tutto umano e storico il secondo. I modernisti cercarono quindi di distaccare le ricerche teologiche dall’apparato metafisico della scolastica, fondato sulle prove razionali dell’esistenza di Dio: «A noi» - affermano - «non importa più di giungere a Dio attraverso le dimostrazioni della metafisica medievale o sulla testimonianza del miracolo o delle profezie: fatti questi che urtano anziché meravigliare la coscienza contemporanea. Noi segnaliamo altre capacità di conoscere il divino, noi troviamo in noi quel “senso illativo” di cui parlava Newman, col quale ci è dato afferrare, nel suo infallibile mistero, la presenza di energie superiori con le quali siamo in diretto contatto»289. Notiamo che i modernisti fecero proprie le posizioni di Newman e di Maurice Blondel. Quest’ultimo elaborò il cosidetto “metodo dell’immanenza”: l’esistenza di Dio non viene più provata partendo dalle cose esteriori (per ea quae facta sunt) ma dall’intimo della coscienza: la presenza del soprannaturale viene sperimentata nell’immanenza stessa dello spirito umano. Si tratta di un’attestazione e di una testimonianza

288

Ibidem, p. 55. E. BUONAIUTI - U. FRACASSINI, Programma dei modernisti: risposta all’enciclica di Pio X “Pascendi Dominici gregis”, [prima edizione anonima 1907], Bocca Editori, Torino 1911, p. 97. 289

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interiore290. I modernisti cercarono di rinnovare l’apologetica cattolica richiamandosi al primato della “ragion pratica” sostenuto Kant, nonché allo spiritualismo di Blondel. Naturalmente il “metodo dell’immanenza” e la prospettiva stessa di Blondel vennero severamente criticati dalle gerarchie cattoliche: giungere all’esistenza di Dio partendo esclusivamente dalla coscienza significava non considerare più Dio come una presenza oggettiva che si rivela nel creato e nella storia, ma come una sorta di idea presente nel soggetto umano, un’idea tra le molte possibili. Comprendiamo, quindi, uno dei motivi di fondo che condussero la chiesa ad accusare Blondel ed il modernismo di avere delle derive soggettivisiche che dissolvevano ab imis fundamentis le condizioni stesse di possibilità della rivelazione cristiana. In una lettera del gennaio 1942 al sacerdote milanese Don Luigi Bietti il Buonaiuti così esprime le sue critiche nei confronti della scolastica e del medievalismo difesi dalle istituzioni cattoliche: «È l’ora di rinunciare alle dimostrazioni razionali di Dio. Hanno generato l’illuminismo e l’ateismo. Dio non è motore immobile, ma padre, ininterrottamente generanteci. Senza la sua generazione in ogni istante noi precipiteremmo ipso facto nel nulla. Così ce lo ha rivelato Cristo. E la fede il lui è il principio di ogni gesto e di ogni idea»291. Tra le istanze più profonde di Buonaiuti e dei modernisti vi fu quindi quella di liberare l’essenza del cristianesimo dalle sovrastrutture (dottrinali ed istituzionali) per tornare alla genuina fede evangelica. Essi inoltre, pur dichiarando soprannaturale l’insegnamento del Gesù storico, considerarono la rivelazione di Dio 290

Sul “metodo dell’immanenza” per una rinnovata apologetica del cristianesimo cfr. M. BLONDEL, Lettre sur les exigences de la pensée contemporaine en matière d’apologétique et sur la méthode de la philosophie dans l’étude du problème religieux, Thevenot, Saint-Dizier 1896; G. COFFELE, Apologetica e teologia fondamentale: da Blondel a De Lubac, Studium, Roma 2004. 291 Parte di questa lettera è riportata e commentata in D. ANTISERI – S. TAGLIAGAMBE, Ernesto Buonaiuti: la distinzione tra il Critsto storico e il Cristo della fede, in IDEM, Storia della filosofia, Vol. 13, Filosofi italiani del Novecento, Bompiani, Milano 2008, pp. 712-723, p. 718.

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Padre come un processo che accompagna tutta la storia dell’uomo e che non si ferma alla sola predicazione di Gesù292. Ma uno degli elementi che maggiormente spinse le gerarchie cattoliche alla condanna dei modernisti e alla scomunica di Buonaiuti fu la loro volontà di rinnovare le strutture della chiesa in senso democratico. A loro parere la Chiesa aveva smarrito «la visione dei propri limiti e della sua vera e propria funzione, trasformandosi in un assolutismo incomparabile col sano governo religioso voluto da Cristo, in cui noi da schiavi siamo diventati liberi»293. A causa di tale assolutismo ecclesiastico - sottolineavano i modernisti - i fedeli avevano «perso ogni elementare senso di responsabilità e di dignità personale. Gli atti dell’autorità suprema, invece di trovare in essi l’ossequio di una sudditanza ragionevole e quindi giudicatrice, trovavano la dedizione incosciente degli irresponsabili»294. Veramente attuali suonano inoltre le accuse dei modernisti alla chiesa cattolica di compiere «opera di ritardo sul progresso della società»: agli inizi del Novecento, essi si riferivano chiaramente alla rivendicazione dello Stato pontificio e al rifiuto della separazione tra Stato e chiesa. I modernisti vedono come uno dei compiti fondamentali della chiesa avrebbe dovuto essere la promozione stessa della democrazia, sia all’interno delle sue strutture istituzionali che fuori: «La Chiesa» - essi affermano - «deve sentire la nostalgia di quelle correnti, ancora inconsapevolmente religiose, che alimentano l’ascensione della democrazia; e deve trovare la maniera di fondersi 292

Buonaiuti paragona «la vita dell’universo» al «poema dell’indigenza e dell’accattonaggio» pronto a ricevere la divina rivelazione: quest’ultima si dispiega nel creato e ancor più abbondantemente nella storia dell’uomo «il vivente per eccelenza, l’accattone per antonomasia e per definizione» (E. BUONAIUTI, Pellegrino di Roma: la generazione dell’esodo, cit., p. 178). Sulla concezione del cristianesimo in Buonaiuti cfr. D. GRASSO, Il cristianesimo di Ernesto Buonaiuti, Morcelliana, Brescia 1953; AA. VV., Ernesto Buonaiuti storico del cristianesimo, Istituto storico italiano per il Medio Evo, Roma 1978. 293 E. BUONAIUTI - U. FRACASSINI, Programma dei modernisti: risposta all’enciclica di Pio X “Pascendi Dominici gregis”, cit., p. 151. 294 Ibidem, p. 152.

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con questa, per darle la vera capacità del successo»295. In un saggio del 1908 (firmato con lo pseudonimo di P. Baldini) il Buonaiuti sottolinea che solo nella democrazia è possibile la piena realizzazione degli ideali evangelici: «La democrazia» - egli afferma - «è oggi la vera forma della religiosità, perché spera nell’elevazione dei più, nel loro successo imminente, e riposa nella certezza che un grande, per quanto anonimo, potere provvidenziale si nasconde nello spirito della collettività»296. Come abbiamo già accennato, con l’enciclica Pascendi (8 settembre 1907), compilata dal Padre Joseph Lemuis297, la chiesa condanna ufficialmente il modernismo, i cui esponenti come il gesuita Tyrrel e lo stesso Buonaiuti furono scomunicati e messi a tacere. Per il Buonaiuti si trattò di un vero e proprio «infanticidio»: l’enciclica fu «nella storia delle manifestazioni pubbliche del pontificato romano uno dei gesti, le cui ripercussioni sono state più vaste e rovinose»298. Essa ha troncato sul nascere uno dei movimenti che, liberato da alcune intemperanze, sarebbe potuto essere l’inizio di un rinnovamento profondo della cultura cattolica. L’atteggiamento delle gerarchie cattoliche nei confronti di Buonaiuti fu veramente duro, tanto da sfociare in veri e propri atti persecutori: «Se si contano le censure con le quali Buonaiuti fu colpito, se ne trovano una ventina. Più pesanti furono le quattro scomuniche»299: la prima nel 1907 con l’inserimento il Programma dei modernisti nell’Indice dei libri proibiti, una seconda 1921 (poi 295

E. BUONAIUTI, Lettere di un prete modernista, Libreria Editrice Romana, Roma 1908 (anche questo testo fu pubblicato anonimo); a cura di M. Niccoli, Universale di Roma, Roma 1948, p. XV. 296 E. BUONAIUTI (con lo pseudonimo di P. Baldini), La religiosità sencondo il pragmatismo, Roma 1908, p. 65. Il saggio viene commentato anche da G. SEMERARI, Modernismo e religiosità laica, in IDEM, Novecento filosofico italiano: situazioni e problemi, Guida, Napoli 1988, in particolare pp. 79-85. 297 Cfr. J. RIVIÈRE, Qui rédiegea l’encyclique Pascendi, «Bullettin de lettérature ecclésiastique», settembre 1946, pp. 143-161 298 E. BUONAIUTI, Pellegrino di Roma: la generazione dell’esodo, cit., p. 79. 299 D. ANTISERI – S. TAGLIAGAMBE, Ernesto Buonaiuti: la distinzione tra il Cristo storico e il Cristo della fede, cit, p. 714.

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condonata per intercessione del cardinal Gasparri), una terza 1925 con l’interdizione di indossare l’abito religioso ed infine una quarta nel 1926 che dichiarò Buonaiuti “nominatim excomunicatus et espresse vitandus”. Un ulteriore evento che addolorò profandemente il Nostro fu l’allontamento dalla cattedra di Storia del cristianesimo presso l’Università di Roma: nel 1931 egli si rifiutò di prestare giuramento di fedeltà al fascismo, dimostrando così (come pochissimi cattolici in quegli anni!) un forte ideale di coerenza con le proprie idee. Egli, quindi, privato dell’insegnamento pubblico, iniziò una sorta di “magistero randagio”, come egli lo definì: si trattò di un libero insegnamento itinerante attraverso conferenze e cicli di lezioni soprattutto in ambienti protestanti. Tuttavia queste tristi vicende non spensero l’attività di Buonaiuti che diede vita a cenacoli di spiritualità e che si impegnò nel far conoscere in Italia l’opera del fenomenologo della religione Rudolf Otto300. Inoltre nel 1942-43 diede alle stampe una grande Storia del cristianesimo che ebbe una discreta diffusione301. Una testimonianza della sua ricca umanità ci è offerta dal suo testamento spirituale, nel quale egli, pur criticandola, dimostra di sentirsi parte viva ed integrante della chiesa: «Un solo ideale ha sorretto costantemente la mia vita: rivendicare i genuini valori cristiani, contribuire alla loro trasfusione in quella nuova civiltà ecumenica di cui la mia sofferente generazione ha visto profilarsi all’orizzonte i primi chiarori crepuscolari. Posso aver sbagliato; ma non trovo, nella sostanza del mio insegnamento, materia a sconfessione o a ritrattazione. […] A tutti coloro - e sono purtroppo legione - che hanno ostacolato […] lo spiegamento della mia attività pubblica, perdono. Dio ha voluto che quello che fu, incipientemente chiamato Modernismo e che volle essere soltanto risurrezione di pure 300

Nel 1926 Buonaiuti tradusse in italiano l’opera di Rudolf Otto: Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und sein Verhältnis zum Rationalen, [prima edizione 1917], Beck, München 2004; Il sacro: l’irrazionale nella idea del divino e la sua relazione al razionale, Zanichelli, Bologna 1926; poi riedito presso i tipi di SE, Milano 2009. 301 Cfr. E. BUONAIUTI, Storia del cristianesimo, 3 Voll., Dall’Oglio Editrice, Milano 1942-1943.

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idealità evangeliche, incontrasse una delle più dure e sleali resistenze che movimenti spirituali abbiano mai incontrato. Forse è qui il segno infallibile del suo immancabile successo. […] In armonia con lo Spirito del mio grande fratello Giorgio Tyrrel desidero che siano incisi sulla mia tomba i simboli dell’eterno sacerdozio cristiano: il Calice e l’Ostia»302. Mentre i filosofi di ispirazione pragmatica come Papini e Prezzolini mostrarono un interesse e simpatia per la posizone dei modernisti, nette stroncature vennero invece da Croce e Gentile. Secondo Croce i modernisti non avevano alcuna «importanza speculativa»303 e, alla fine non gli sarebbe rimasta che un’alternativa: «o andare innanzi o tornare indietro. Ossia, o ricongiungersi, ritardatari, alle schiere dei pensatori non confessionali; o, dopo essersi dibattuti vanamente per qualche tempo, ricadere nel cattolicesimo tradizionale»304. Anche a parere di Gentile il modernismo non aveva senso. A suo parere infatti «la religione è la filosofia delle moltidini»305 ed è impossibile per il popolo elevarsi al di sopra della sfera del mito e della superstizione, come invece 302

Il “testamento spirituale” fu redatto da Buonauti nella notte tra il 18 e il 19 marzo 1946. Il testo è stato pubblicato e commentato in G.B. GUERRI, Eretico e profeta: Ernesto Buonaiuti, un prete contro la Chiesa, Mondadori, Milano 2001, p. 257. 303 B. CROCE, La mentalità massonica, gennaio 1911, in IDEM, Cultura e vita morale: intermezzi polemici, Laterza, Bari 1955, p. 148. 304 B. CROCE, Pagine sparse, Laterza, Bari 19602, pp. 383-387. È singolare poter notare che la posizione antimodernista di Croce ricevette l’elogio della «Civiltà cattolica», celebre rivista dei gesuiti: «Dice bene il Croce razionalista, col buon senso dell’antico cattolico. Un dogma tradotto in altra forma metafisica non è più lo stesso dogma» (Le contraddizioni di due avvocati del modernismo, «Civiltà cattolica», IV, 1907, p. 331). Nelle accuse al mdernismo - commenta con sarcasmo Pietro Prini - l’Italia assistette ad un «insolito spettacolo di solidarietà gesuitico-hegeliana» (P. PRINI, Il modernismo italiano: Ernesto Buonaiuti e la riforma incompiuta della filosofia cristiana, in IDEM, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 19972, pp. 18-33, p. 26). 305 G. GENTILE, Il modernismo e l’encliclica «Pascendi», [edizione originale 1908], in IDEM, La religione, Sansoni, Firenze 1965, p. 49.

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volevano i modernisti. Gentile si dimostra quindi contrario ad ogni cambiamento all’interno della stessa chiesa e afferma: «Il cattolicismo è quale deve essere: la sua forza è appunto in quell’equilibrio che non si mantiene se non a spese della pietà, da una parte, come dell’organizzazione sociale dall’altra: dell’intimità come dell’esteriorità, della libertà come dell’autonomia. Non c’è che fare: bisogna piegare il capo. Ribellarsi è da bambini che ancora non son capaci d’intendere la ferrea necessità della vita»306. Quella degli idealisti italiani innanzi al modernismo ci pare una liquidazione superficiale dovuta in gran parte ad un loro desiderio latente che il cattolicesimo non si rinnovasse sotto il profilo culturale: una chiesa arretrata ed ancorata al passato era infatti un più facile bersaglio polemico. A tal proposito anche Alberto Asor Rosa ha sostenuto che «negli idealisti impegnati nella conquista alle proprie tesi del ceto intellettuale italiano, agiva uno spirito concorrenziale di fronte al pericolo che i modernisti, recuperando i cattolici ad un’attività intellettuale qualificata, attraversassero la strada al loro disegno»307. Tra i motivi che concorsero al fallimento del modernismo Giuseppe Prezzolini ne ha individuato alcuni di partolare rilievo e verità storica: «competizioni interne, dissidi ideali, varietà di origine, debolezza di carattere di taluni, separazione dal popolo, complicazioni nella fede, ostilità dei filosofi, persecuzioni ecclesiastiche. […]. La chiesa lo disarmò, lo ruppe, lo dominò»308. 306

Ibidem. Secondo Gentile «l’enciclica Pascendi Dominici gregis è una magistrale esposizione e una critica magnifica dei princìpi filosofici di tutto il modernismo; e l’accusa di sfiguramento […] che l’enciclica avrebbe fatto di esso modernismo, è grido di paperi, come avrebbe detto il Carducci» (ibidem). 307 A. ASOR ROSA, La cultura, in Storia d’Italia, Vol. IV, Dall’Unità fino ad oggi, Einaudi, Torino 1975, p. 1219. 308 G. PREZZOLINI, La cultura italiana, Edizioni Corbaccio, Milano 1938, p. 120. Ulteriori valutazioni storiche sul fenomeno del modernismo vengono effettuate in A. BOTTI - R. CERRATO (a cura di), Il modernismo tra cristianità e secolarizzazione, QuattroVenti, Urbino, 2000 I. TOLOMIO, Dimenticare l’antimodernismo: filosofia e cultura censoria nell’età di Pio X, Cleup, Padova 2007; C. ARNOLD - G. VIAN (a cura di), La condanna del modernismo. Documenti, interpretazioni, conseguenze, Viella, Roma 2010.

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A nostro parere il modernismo è stato una delle “occasioni mancate” della cultura cattolica italiana. Tuttavia ci sembra che alcune fondamentali intuizioni dei modernisti, depurate della loro originaria carica polemica, siano sopravvissute ed abbiano fecondato la vita successiva della chiesa: del resto, il rinnovamento degli studi biblici, il ruolo dei laici nella chiesa, il dialogo interreigioso e la difesa della democrazia fondata sul valore della persona umana sono state alcune delle idee (moderniste) che hanno dato vita al Concilio Vaticano II (1962-1965).

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Capitolo IV Filosofie della politica ed engagement chrétien 1. Marxismo e cristianesimo Sotto il profilo speculativo il rapporto tra marxismo e cristianesimo è complesso e non può essere di certo affrontato in maniera esaustiva in queste pagine309. Cercheremo quindi di mettere in evidenza come tale rapporto è stato vissuto e teorizzato da alcuni insigni esponenti della cultura comunista italiana, soffermandoci in primo luogo su Antonio Gramsci (1891-1937), che fu certamente uno dei principali ispiratori idelogici del PCI (Partito Comunista Italiano) anche nel secondo dopoguerra. Dedicheremo poi alcune riflessioni all’esperienza della “sinistra cristiana” vissuta e teorizzata da Felice Balbo (1913-1964), il quale intese coniugare gli ideali evangelici con la rivoluzione politica. Ci soffermeremo infine sul grande problema di una possibile compatibilità tra marxismo e cristianesimo, così com’è stato affrontato da Augusto Del Noce (1910-1989) e da Don Italo Mancini (1925-1993): i due autori, pur partendo da una comune ispirazione cristiana, esprimo in maniera emblematica due posizioni antitetiche. 1.1. Marxismo e cattolicesimo: la posizione critica di Antonio Gramsci Già alla fine dell’Ottocento il marxismo in Italia ebbe degli originali sviluppi, soprattutto in direzione antipositivistica, con Antonio Labriola (1843-1904) e soprattutto con Rodolfo Mondolfo (1877-1976): quest’ultimo vide nel marxismo il punto di arrivo della tradizione di libertà, tolleranza ed uguaglianza sviluppata dal 309

A tal proposito si veda anche il capitolo Pensiero cristiano e marxismo [con scritti di M. Zanantoni, D. Bonifazi, S. Magaldi], in E. AGAZZI (a cura di), Il pensiero cristiano nella filosofia italiana del Nocevento, Milella, Lecce 1980, pp. 239-274.

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pensiero moderno. Mondolfo sottolineò soprattutto il lato umanistico del pensiero marxiano, interpretandolo come una “filosofia della prassi” dedita al miglioramento dell’uomo concreto e storico310. Anche in Antonio Gramsci troviamo una concezione del marxismo come “filosofia della prassi”: tuttavia Gramsci interpretò la umwälzende Paxis di Marx come una “prassi che rovescia”, cioè come una prassi radicalmente rivoluzionaria, foriera di un “ordine nuovo” nella storia. Non a caso nel 1919 insieme a Togliatti, Tasca e Terracini fondò un periodico dal titolo “L’Ordine Nuovo”. Non ci pare esagerato dire che le riflessioni di Gramsci trovino tutte il loro nucleo ispiratore nell’idea di rivoluzione: i suoi sforzi intellettuali furono tesi a considerare le concrete possibilità di instaurare in Italia l’egemonia marxista e la conseguente “società senza classi”. «Siamo un’organizzazione in lotta» - egli scrive il primo aprile 1925 «Studio e cultura non sono per noi altro che coscienza teorica dei nostri fini immediati e supremi, e del modo come potremo riuscire a tradurli in atto»311. Come è noto, il giovane Gramsci nel 1911 abbandonò la Sardegna per frequentare i corsi all’Università di Torino, dove ebbe occasione di assistere alle lezioni di Annibale Pastore su Marx. Nel 1915 interruppe gli studi per dedicarsi completamente alla politica nelle file del partito socialista. Egli però criticò più volte l’orientamento riformistico del partito e salutò con favore la rivoluzione russa del 1917. Tuttavia va sottolineato che Gramsci non gli risparmiò critiche ed arrivò ad affermare: «La rivoluzione dei bolschevichi è la rivoluzione contro il Capitale di Marx!» (Avanti! 1917). Infatti, a suo parere, essa ebbe luogo contro la tesi marxiana che prevedeva prima della dittatura del proletariato un’affermazione della borghesia capitalistica: invece la Russia era essenzialmente contadina e non conosceva i grandi sviluppi del capitalismo occidentale. Va inoltre messo in rilievo che Gramsci, dopo un viaggio in Russia nel 1925, si rese conto che quella di Stalin stava diventando una dittatura militare 310

Cfr. R. MONDOLFO, Umanesimo di Marx: studi filosofici (1908-1966), Introduzione di N. Bobbio, Einaudi, Torino 1968. 311 Antologia dal titolo 2000 pagine di Gramsci, 2 Voll., a cura di P. Ferrara e N. Gallo, Il Saggiatore, Milano 1964, pp. 771-772.

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che opprimeva il popolo, lasciandolo de facto in condizioni disumane così come lo era durante il regime zarista. Egli quindi non ebbe timori a denunciare i metodi totalitari di Stalin, mettendo inoltre in evidenza che il dittatore sovietico stava non creando una “società senza classi” ma un vero e proprio “capitalismo di Stato”. Veritas parit odium! La verità genera l’odio: per queste sue coraggiose denuncie Gramsci fu accusato dall’Urss di revisionismo e persino di “idealismo borghese”; notimo poi che egli, almeno filo alla destalinizzazione, ebbe difficoltà persino con qualche esponente dello stesso partito comunista italiano, all’epoca ampiamente filosovietico312. Per comprendere il rapporto di Gramsci con il cristianesimo ed in particolare con il cattolicesimo italiano occorre mettere in rilievo, in maniera preliminare, l’influsso che su di lui ebbe la posizione di Benedetto Croce. Tale influsso nella formazione giovanile viene ammesso dallo stesso Gramsci: «Nel febbraio del 1917 […] io scrissi come l’hegelismo era stato la premessa della filosofia della prassi del secolo XIX, alle origini della cività contemporanea, così la filosofia crociana poteva essere la premessa della ripresa della filosofia della prassi nei nostri giorni, nelle nostre generazioni. La questione era appena accennata, in una forma certo primitiva e certissimamente inadeguata poiché in quel tempo il concetto di unità di teoria e prassi, di filosofia e politica non era chiaro in me ed io ero tendenzialmente crociano»313. Gramsci riprese molti elementi dello storicismo 312

Su tali vicende cfr. A. ROSSI e G. VACCA, Gramsci tra Mussolini e Stalin, Fazi Editore, Roma 2007. Secondo Angelo Rossi e Giuseppe Vacca l’arresto di Gramsci nel 1926 da parte del governo fascista fu quasi una manna dal cielo per lo stalinismo: a parere dei due storici Gramsci «una volta libero avrebbe rappresentato un problema in più per Stalin» (ibidem, p. 12); allo stalinismo, infatti, Gramsci faceva più comodo come innocua icona e invitato fantasma ai congressi dell’Internazionale Comunista che come autorevole (e scomodo) dirigente in carne ed ossa. 313 A. GRAMSCI, Quaderni dal carcere, 4 Voll., a cura di V. Gerratana, Einaudi, Torino 1975, p. 1233. Armando Rigobello ha sottolineato con tali parole l’iflusso dello storicismo crociano su Gramsci: «L’opera filosofica di Gramsci è, in buona parte, una lettura di Croce fatta con preoccupazioni politiche diverse. Da Croce negli anni venti non si poteva prescindere, ed in

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crociano ma ne operò un rovesciamento: non è lo spirito che diviene nella storia bensì la materia, intesa quest’ultima come l’insieme delle forze di produzione che la filosofia della prassi analizza nel campo della dialettica. Tutto il pensiero di Gramsci si sviluppa intorno all’undicesima delle Tesi su Feuerbach nella quale Marx prende le distanze dalla filosofia meramente speculativa (quella idealistica e storicistica) per affermare la necessità di una filosofia della prassi: «fin’ora i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo: ora si tratta invece di trasformarlo (Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert, es kömmt drauf an, sie zu verändern)»314. Tale “trasformazione del mondo”, sottolinea Gramsci sulla scorta di Marx, deve necessariamente avvenire tramite una filosofia della prassi in grado di generare la rivoluzione politica che porti alla società comunista. Occorre dire però che l’influsso di Croce su Gramsci portò il giovane intellettuale a rifiutare alcuni aspetti della posizione marxista. Innanzitutto a rifiutare il marxismo dogmatico che sostiene l’esistenza di verità assolute: «Ogni verità creduta eterna ed assoluta» - afferma Gramsci - «ha avuto origini pratiche ed ha rappresentato un valore provvisorio (storicità di ogni concezione del mondo e della vita)»315. Lo storicismo crociano porta quindi Gramsci ad un certo relativismo di verità e valori. Egli ritiene inoltre che gli stessi scritti di Marx non vadano considerati come un tesoro sacro da Croce vi era pure la traccia significativa dell’incontro con Labriola […]. Gramsci non elabora una nuova filosofia, ma commenta quella crociana, privilegiandola nel confronto, polemizzando vivacemente con essa, ma con argomentazioni che accettano tuttavia lo stesso piano storicistico-dialettico inteso con analoghe preoccupazioni metodologiche» (A. RIGOBELLO, Antonio Gramsci, un crociano di sinistra, in «Humanitas», XXXII, 12, 1977, pp. 902-915, p. 914). 314 K. MARX, Tesi su Feuerbach, [scritte nel 1845 ma edite postume a cura di F. Engels nel 1888], in Opere complete, Riuniti, Roma 1972, Vol. V, p. 5. 315 A. GRAMSCI, Il materialimo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Editori Riuniti, Roma 1991, p. 120; si tratta della nuova edizione riveduta ed integrata sulla base dell’edizione critica dell’Istituto Gramsci a cura di V. Gerratana (Einaudi, Torino 1975).

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seguire acriticamente: «Marx non ha scritto una dottrinetta, non è un messia che abbia lasciato una filza di parabole gravide di imperativi categorici, di norme indiscutibili, assolute, fuori dalle categorie di tempo e di spazio. Unica norma, unico imperativo: proletari di tutto il mondo unitevi. Marx per noi è maestro, non pastore armato di vincastro»316. Un ulteriore fattore dal quale si evince il forte influsso crociano su Gramsci è la teorizzazione del rapporto tra struttura (Unterbau) e sovrastruttura (Überbau). Mentre secondo Marx la sovrastruttura (etica, religione, diritto e tutte le produzioni culturali dell’uomo) dipendono dalla struttura (l’economia e ed i mezzi di produzione), Gramsci rovescia tale rapporto, conferendo un alto valore al ruolo dello spirito umano (così come voleva Croce): la sovrastruttura, ovvero il mondo della cultura, non dipende completamente dalla struttura, anzi può perfino arrivare a modificarla e sovvertirla. Si comprende, quindi, il ruolo storico fondamentale che Gramsci affida alla cultura e agli intellettuali: questi ultimi sono chiamati ad istruire le grandi masse per renderle protagoniste della rivoluzione politica. Possiamo dire che Gramsci intenda operare un superamento dello storicismo di Croce tramite la filosofia della prassi indicata da Marx ed epurata dai suoi eccessi dogmatici. A suo parere l’idealismo crociano, seppur laico, è ancora però troppo legato alla teologia cristiana e ne rappresenta quasi una rielaborazione sul piano speculativo: «La filosofia della praxis» - egli afferma - «è la concezione storicistica della realtà, che si è liberata da ogni residuo di trascendenza e di teologia anche nella loro ultima incarnazione speculativa; lo storicismo idealistico crociano rimane ancora nella fase teologico-speculativa»317. Tuttavia va messo in rilievo che Gramsci considerò sempre la posizione di Croce come un punto essenziale di riferimento, anche per quel che riguarda l’atteggiamento da tendere nei confronti della religione e del cristianesimo: «La posizione di Croce verso la religione» - sostiene il Nostro - «è uno dei punti più importanti da analizzare per 316

A. GRAMSCI, Scritti giovanili, Einaudi, Torino 1958, p. 220. A. GRAMSCI, Il materialimo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 242. 317

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comprendere il significato storico del crocismo nella storia della cultura italiana»318. Se da Marx il giovane Gramsci riprende la concezione della religione come alienazione (Entfremdung) e come “oppio dei popoli”, da Croce egli riprende la visione del cristianesimo come mitologia per il popolo: si tratta di una mitologia dalla quale liberare il popolo gradualmente tramite l’istruzione e la diffusione della visione del mondo marxista. Secondo Gramsci per diffondere il marxismo in Italia era necessio imitare gli efficientissimi modelli di propaganda utilizzati dalla chiesa cattolica. Il marxismo doveva quindi riuscire a sostituirsi gradualmente al cattolicesimo, diventanto dominante nel mondo della cultura (egemonico culturale) e soprattutto riuscendo a conquistare gli animi di tutto il popolo: solo così in Italia sarebbe stato possibile realizzare la rivoluzione comunista. Gramsci, quindi, analizzò in profondità i meccanismi di persuasione tramite i quali la chiesa cattolica consolidò il suo potere temporale e spirituale. Soprattutto egli apprezzò molto la scelta strategica delle gerarchie cattoliche di non dividere mai la classe degli intellettuali da quella dei semplici: la chiesa fece in modo che la sua dottrina penetrasse in maniera capillare sia tra gli intellettuali (edificando scuole e collegi tenuti dai religiosi, si pensi a quelli dei gesuiti) sia tra il popolo ignorante (tramite il catechismo obbligatorio per il fanciulli319 e le prediche durante le funzioni religiose). In queste sue analisi di “strategia della comunicazione cattolica” Gramsci tenne ben presente la formula organizzativa che la chiesa romana aveva assunto dopo il concilio di Trento, quando rischiava che il protestantesimo si diffondesse anche in Italia. Secondo Gramsci la grande forza della chiesa, da imitare ed emulare, sta proprio nella sua capacità di propaganda ideologica: essa cerca di arrivare a tutti, “al ricco e al poverello”, non facendo alcuna distinzione di classe ed, anzi, cercando di privilegiare proprio i fanciulli, le donne e la massa dei contadini. Ecco in proposito alcune incisive affermazioni 318

Ibidem, p. 232. A tal riguardo è emblematico un noto motto del gesuiti, poi ripreso anche da Lenin per la diffusione della dottrina marxista: «Datermi un bambino che abbia meno di sette anni e quel bambino sarà mio per la vita». 319

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gramsciane: «La forza delle religioni e specialmente della Chiesa cattolica è consistita e consiste in ciò che esse sentono energicamente la necessità di dell’unione dottrinale di tutta la massa “religiosa” e lottano perché gli strati intellettualmente superiori non si stacchino da quelli inferiori. La Chiesa romana è stata sempre più tanace nella lotta per impedire che “ufficialmente” si formino due religioni, quella degli “intellettuali” e quella delle “anime semplici”»320. Questo è stato, secondo Gramsci, il grande il grande pregio della Chiesa, mentre nella storia d’Italia, ad esempio, nel periodo del Risorgimento, il popolo non ha potuto svolgere il suo ruolo da protagonista, poiché il Risorgimento non fu un movimento di massa. Un difetto però ha avuto anche l’azione della chiesa: quello di mantenere i simpliciores nell’ignoranza senza cercare di elevare il loro grado culturale: chi è senza istruzione, commenta Gramsci, è più facilmente manipolabile e dominabile. Ecco allora che il Nostro insime all’imitazione dell’azione di propaganda della chiesa indica anche un altro fondamentale compito per l’«intellettuale organico» al partito comunista: quello di creare il consenso ideologico delle masse degli umili tramite l’istruzione (ad esempio nelle “case del popolo” e nelle scuole di partito), affinchè esse dimentichino i miti religiosi del passato, acquistando la consapevolezza della loro possibile liberazione dai mali sociali che l’affliggono. «La posizione della filosofia della prassi» - scrive Gramsci - «è antitetica a quella cattolica: la filosofia della prassi non tende a mantenere i “semplici” nella loro filosofia primitiva del senso comune, ma invece a condurli a una concezione superiore della vita. Se [la filosofia della prassi marxista] afferma l’esigenza del contatto tra intellettuali e semplici non è per limitare l’attività scientifica e per mantenere una unità al basso livello delle masse, ma appunto per costruire un blocco intellettuale-morale che renda politicamente possibile un progresso intellettuale di massa e non solo di scarsi gruppi intellettuali»321. Possiamo dire che la meta storica alla quale tendono le riflessioni di Gramsci sia quella di una completa sostituzione del partito 320

A. GRAMSCI, Il materialimo storico e la filosofia di Benedetto Croce, cit., p. 9. 321 Ibidem, p. 13.

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comunista alla chiesa cattolica. Come è noto, richiamandosi alle strategie di conquista e conservazione del potere descritte da Machiavelli del Principe, egli auspica che il partito comunista diventi il “nuovo Principe” della politica italiana, in grado di sedurre le folle e dominare le coscienze sostituendosi in toto al cattolicesimo. Il partito comunista deve divenire la nuova chiesa e gli intellettuali marxisti devono invece essere i nuovi sacerdoti. Egli arriva persino a dire che «il Principe [cioè il partito comunista] prende il posto, nelle coscienze, della divinità e dell’imperativo categorico, diventa la base di un laicismo e di una completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume»322. Siamo innanzi ad una vera e propria divinizzazione del partito comunista e dei suoi apparati ideologici. La valutazione gramsciana del cattolicesimo si svolge sempre nell’ambito della logica marxista: si tratta di giudizi critici che colgono con estremo realismo il “tatticismo” escogitato dalla chiesa per la diffusione della sua dottrina. Tuttavia ci pare che Gramsci non comprenda in profondità né l’essenza del cattolicesimo né il senso del fenomeno religioso nella sua complessità. Ci pare però molto interessante il nesso che egli scorge tra la religione e l’utopia. La religione, a suo parere, è la più grande utopia che esprime l’esigenza di trascendenza insita nell’uomo: la liberazione dai vincoli del finito e l’intimo desiderio di vita eterna. A tal proposito egli scrive: «In questo senso (nel senso cioè di utopia come fattore storico) la religione è la più gigantesca utopia, cioè è la più gigantesca “metafisica” apparsa nella storia, poiché essa è il tentativo più grandioso di conciliare in forma mitologica le contraddizioni reali della vita storica. Essa afferma, invero, che l’uomo ha la stessa “natura”, che esiste l’uomo in generale, in quanto creato da Dio, figlio di Dio, perché fratello degli altri uomini, uguale agli altri uomini, libero fra gli altri e come gli altri uomini, e che tale egli si può concepire specchiandosi in Dio, “autocoscienza” dell’umanità,

322

A. GRAMSCI, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo stato moderno, Editori Riuniti, Roma 1996, p. 9.

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ma afferma anche che tutto ciò non è di questo mondo e per questo mondo, ma di un altro (utopico)»323. 1.2. Felice Balbo e l’«inveramento cristiano del marxismo» Sulla scorta della lezione gramsciana il PCI cercò, in qualche misura, di non dimostrare aperta ostilità nei confronti del cattolicesimo: del resto i dirigenti del partito sapevano bene che in Italia le masse contadine erano cattoliche e che si doveva, quindi, tentare di avvicinarle non ostacolando apertamente la loro fede. Questa esigenza trovò riscontro nel tentativo politico di Palmiro Togliatti (della “mano tesa”) e in quello di Enrico Berlinguer (del “compromesso storico”). Nel 1964 alla V Conferenza nazionale del PCI Togliatti, segretario del partito, mise chiaramente in evidenza una possibile convergenza tra i valori del cristianesimo e quelli del marxismo (inteso come “socialismo dal volto umano”): «La nostra concezione del socialismo» - egli affermò - «si basa anche sulla nozione di determinati valori: il valore della pace tra i popoli, della solidarietà e fraternità tra gli uomini – vale a dire che gli uomini non si uccidano tra loro, che non si sfruttino, e pertanto il rifiuto […] dello sfruttamento capitalista -, di ciò che noi chiamiamo in generale la emancipazione del lavoro da cui nasce una società di uomini veramente liberi e veramente uguali. Tutti questi sono valori socialisti. Ora, in una concezione cristiana esistono valori corrispondenti a questi, e ciò […] è profondamente sentito da una parte del mondo cattolico il quale comprende oggi che è necessario 323

Ibidem, p. 119. Saggi di critica sulla visione gramsciana della religione e del cattolicesimo sono quelli di G. DE ROSA, Gramsci e la questione cattolica, in F. FERRI (a cura di), Politica e storia in Gramsci, Editori Riuniti, Roma 1977, Vol. I, pp. 259-282; A. DEL NOCE, Il marxismo di Gramsci e la religione, «CRIS», IV, 35, febbraio 1977; C. VASALE, Politica e religione in A. Gramsci: l’ateodicea della secolarizzazione, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1979; R. VINCO, Antonio Gramsci: la religione e il mondo cattolico, Pontificia Università Lateranense, Roma 1982; T. LA ROCCA, Gramsci e la religione, Queriniana, Brescia 19912.

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organizzare una società su basi diverse, una società nella quale questi valori siano riconosciuti come fondamento della vita collettiva. È qui perciò che si propone il problema del confronto e del dialogo […]. A chi è cattolico convinto, a chi è convinto della dottrina, compresa la dottrina sociale dell Chiesa, non dobbiamo dire: vogliamo portarti al socialismo e pertanto abbandona quelle dottrine. Dobbiamo invece dirgli: quali sono i valori e che intendi realizzare quando parli di società cristiana? È questo il terreno sul quale alcuni comunisti si sentono attratti da visioni [cristiane del mondo]»324. Queste parole di Togliatti si inseriscono all’interno dell’annoso problema del rapporto tra marxismo e cattolicesimo, particolarmente sentito nella cultura italiana. Significativi episodi storici nei quali si cercò di dar vita ad una sintesi concreta tra di valori evangelici e prassi rivoluzionaria marxista furono quelli legati ai giovani cattolici di sinistra, i quali verso il 1940 diedero origine al «Partito cooperativista cristiano», evolutosi nel 1941 nel «Movimento dei comunisti cristiani» e successivamente nella «Sinistra giovanile cattolica»325. I fautori di tale rinnovamento politico del cattolicesimo 324

Il testo del discorso di Togliatti viene riportato e commentato da E. CARMONA, Dal messaggio originario dell’evangelo al confronto con la rivoluzione marxista, in AA. VV., Cristianesimo e marxismo, Mondadori, Milano 1969, pp. 17-63, pp. 51-52. Possibili convergenze tra socialismo e cristianesimo vengono chiaramente messe in rilievo anche nel X Congresso del Partito Comunista Italiano svoltosi nel 1962: «Si tratta di comprendere» - viene scritto in un documento - «come e perché l’aspirazione a una società socialista non solo può essere sperimentata da uomini che hanno una fede religiosa, ma anche che detta aspirazione può trovare in una autentica coscienza religiosa uno stimolo di fronte ai drammatici problemi del mondo contemporaneo» (ibidem, p. 51). 325 Sul variegato movimento di quella che possiamo chiamare “sinistra cristiana” (che ma che in realtà cambiò molti nomi ed ebbe al suo interno divergenti posizioni) si vedano M. COCCHI, La sinistra cristiana e la Resistenza, CEI, Roma-Milano 1966; L. BEDESCHI, Cattolici e comunisti. Dal socialismo cristiano ai cristiani marxisti, Feltrinelli, Milano 1974. Ricordiamo inoltre che nel 1941 Gerardo Bruni diede vita al “Movimento cristiano sociale” che si diffuse principalmente nel Lazio e in Toscana: il Movimento rifiutò l’interclassismo (che era sempre stato alla base

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furono, tra gli altri, Franco Rodano, Adriano Ossicini, Marisa Cinciari, Paolo Moruzzi e, non da ultimo, Felice Balbo. È proprio su quest’ultima figura che vogliamo soffermare la nostra attenzione. Balbo non fu solamente un uomo d’azione ma anche di vigoroso pensiero: nei suoi scritti troviamo riflessioni alternative a quelle di Gramsci e che ci permetteno di individuare le possibilita (teoretiche e pratiche) per una sintesi virtuosa tra marxismo e fede cristiana. Balbo naque nel 1913 a Torino (discendente in linea diretta dello storico piemontese Cesare Balbo) e nel 1933 si laureò in giurisprudenza sotto la valida guida di Gioele Solari. Ebbe quindi esperienze lavorative alla direzione della Fiat e nel 1940 durante la degenza da una grave malattia (gli venne diagnosticato il tifo) si diede alla rilettura dei Vangeli, riaccostandosi così alla fede. Come abbiamo già accennato, negli anni della guerra animò dei gruppi politici composti di cattolici che si accostarono agli ideali della prassi rivoluzionaria marxista per abbattere il nazi-fascismo e perseguire in tal modo ideali di giustizia sociale. Tuttavia nel dicembre 1945 un congresso straordinario pose fine attività della “sinistra cristiana”. Per Balbo fu la conclusione di un’esperienza - osserva Angelo Narducci - condotta con «grandi lacerazioni di coscienza»326. Gli anni successivi furono caratterizzati dal lavoro presso la casa editrice Einaudi e dal progetto di una rivista dal titolo “Cultura e realtà” nata dall’incontro di alcuni cattolici e di alcuni comunisti delusi dal partito dopo una sincera adesione al marxismo: della risvista escono dell’azione sociale dei cattolici) e, in maniera simile alla “sinistra cristiana” di Balbo, rivendicò l’autonomia nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche. Successivamente Gerardo Bruni fondò il Partito cristiano-sociale che si presentò alle elezioni politiche del 1946 ma ebbe vita breve. De Gasperi con la teoria dell’unità politica dei cattolici – all’interno della Democrazia cristiana - riuscì a fagocitare questi movimenti di “catto-comunisiti” nati durante la Resistenza. Cfr. C.F. CASULA, Cattolici-comunisti e sinistra cristiana (1938-1945), Il Mulino, Bologna 1976; N. ANTONETTI, L’ideologia della sinistra cristiana. I cattolici tra Chiesa e comunismo (1937-1945), FrancoAngeli, Milano 1976. 326 A. NARDUCCI, L’esperienza di Felice Balbo dalla Resistenza alla Terza Generazione, «Il Popolo», 5 febbraio 1964.

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solo quattro numeri (dal maggio-giugno 1950 al marzo 1951) ma alcuni articoli furono firmati da intellettuali come Italo Calvino, Giorgio Seriani Sebregondi, Natalia Ginzburg, Fedele D’Amico, Alberto Moravia, Augusto Del Noce e Cesare Pavese. Dopo il suicidio di quest’ultimo il gruppo formato da queste personalità si dissolve. Nel 1953 il Balbo prese parte al gruppo della cosiddetta “Terza Generazione” i cui componenti provenivano dall’ex “Sinistra cristiana” e da alcuni giovani dirigenti della Democrazia cristiana come Bartolo Ciccardini e Gianni Baget Bozzo327: tuttavia anche questo esperimento politicio fallì nel giro di pochi mesi e per lo stesso Balbo seguì un periodo di amarezza e delusione. Nel gennaio del 1956 grazie all’intervento in suo favore di Enrico Castelli, una tra i più originali filosofi di quegli anni, Balbo ottenne la libera docenza in filosofia morale presso la Facoltà di Magistero di Roma. I temi dei suoi corsi furono: “Proprietà privata e bene comune”, “Il problema dell’utopia in Karl Mannheim e Simone Weil”, “La crisi dei valori nelle riflessioni di Max Schleler”. Balbo si spense il 3 febbraio 1964: fece in tempo però a vedere l’apertura del Concilio Vaticano II e con estrema gioia riuscì a constatare che finalmente venivano legittimate molte prospettive per cui aveva sofferto e lavorato. La figura di Balbo ci pare che presenti aspetti molto interessanti, sicuramente da riscoprire e rivalutare. Egli seppe elaborare una metafisica volta al concreto della polis, facendo un percorso che dalla giovanile adesione al marxismo sfociò nel progetto (ancor oggi attuliassimo!) di un “sistema di economia umana” in cui si scorgono persino riflessi dell’ontologia tomista. Le principali opere dalle quali emerge tale percorso sono tre: L’uomo senza miti (1945), Il laboratorio dell’uomo (1946), Idee per una difesa dello sviluppo umano (1962). Ci soffermiamo ora sui principali motivi di ordine storico e pratico che portarono Balbo negli anni Quaranta ad abbracciare 327

Sulle vicende che portatono alla costituzione del gruppo “Terza Generazione” cfr. G. BAGET BOZZO, Il partito cristiano al potere. La D.C. di Degasperi e di Dossetti 1945-54, Vallecchi, Firenze 1974.

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l’ideale di un «inveramento cristiano del marxismo». Per comprendere tali motivi è necessario richiamarsi ai contenuti dell’opuscolo Il comunismo ed i cattolici nato dalle discussioni tra Felice Balbo, Franco Rodano, Adriano Ossicini, Antonio Tatò e Fedele d’Amico durante l’inverno del 1943-44: la prima stesura del documento fu fatta proprio da Balbo e fu stampata nel 1944328. Innanzitutto va messo in rilievo che le varie esperienze politiche che durante la seconda guerra mondiale sono generalmente indicate come “Sinistra cristiana” nascono come reazione al fascismo: tale reazione non intende limitarsi al solo campo morale, ma cerca di aquisire gli strumenti della lotta politica e della lotta armata per l’abbattimento della dittatura. Balbo è convinto che «la politica è gioco inserorabile di forze»329: la semplice denuncia dei mali sociali e del capitalismo, come avviene nella dottrina sociale della chiesa, non serve a nulla se non è supportata dalla volontà esplicità di cambiare (anche tramite la forza) l’assetto socio-economico. Balbo è dell’opinione che la «predicazione del cristianesimo» indichi i fini supremi ai quali tendere ma non entra nel merito del “come” poter raggiungere politicamente tali fini: «compito della religione» - egli afferma - «è quello di additare i fini morali dell’uomo, ossia gli ultimi fini della persona, ma la religione stessa è incompetente a determinare dogmaticamente se questi fini debbano raggiungersi attraverso la monarchia assoluta o quella costituzionale, la libertà politica o l’autocrazia, la libera concorrenza o il controllo economico, la socializzazione o meno dei mezzi di produzione, e via dicendo»330. Dunque alla base della “Sinistra cristiana” c’è una netta separazione tra i compiti della religione e quelli della politica: la religione indica le finalità ideali da raggiungere, spetta però alla politica realizzarle nella storia. Si comprende allora come Balbo e gli altri cattolici comunisti possano individuare in Marx il più valido 328

Lo scritto Il comunismo e i cattolici è stato ristampato alla fine del volume di L. BEDESCHI, La Sinistra Cristiana e il dialogo con i comunisti, cit. 329 F. BALBO (ET ALII), Il comunismo e i cattolici, in L. BEDESCHI, La Sinistra Cristiana e il dialogo con i comunisti, cit., p. 132. 330 Ibidem, p. 131.

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modello di azione politica volta alla trasformazione del reale: a loro parere l’unica soluzione politica valida (per abbattere il fascismo e perseguire la giustizia sociale) è «quella additata dal materialismo storico; perché essa sola si basa […] su una constatazione di fatto, sul riconoscimento della concatenazione di certi determinati fatti nel processo storico sociale»331. Essi quindi individuano in Marx «il Galileo della scienza politica», colui che con rigore argomentativo e soluzioni pratiche ha saputo indicare la strada perseguibile per ottenere nella storia un regno di giustizia e libertà332. Sulla scorta dell’approfondita ricostruzione storiografica di Luciano Bazzoli, possiamo dire che l’atteggiamento di Balbo nei confronti del marxismo conobbe due fasi: «la prima (che arriva fino al 1949-50) è contraddistinta da una valenza positiva nei confronti del marxismo, non però accettato nella sua totalità, ma nel suo aspetto di teoria politica rivoluzionaria e perciò criticato nella veste “metafisicistica” di ideologia totalizzante [che intende persino sostituirsi alla religione]. La seconda fase (dal 1949-50 alla morte) si manifesta nell’abbandono del tentativo di superare il “metafisicismo” del marxismo e nel rifiuto non solo della filosofia marxista ma anche della relativa prassi politica»333. Tuttavia ci pare che in Balbo non si possa parlare di un totale rifiuto del marxismo ma di una sua latente presenza anche nel secondo periodo: la stessa prospettiva di un’«economia umana» non è che una rielaborazione di temi marxiani

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Ibidem, p. 150. Augusto Del Noce che nei primi anni Quaranta fu molto vicino a Balbo e al movimento dei cottolici comunisti, per poi tuttavia distaccarsene completamente: fu lui ad aver coniato l’espressione di Marx come «il Galileo della politica» (A. DEL NOCE, Genesi e significato della prima sinistra cattolica italiana post-fascista, in G. ROSSINI, Modernismo, fascismo, comunismo, Il Mulino, Bologna 1972, p. 1065). Per il confronto critico di Del Noce con le posizioni di Balbo e della “Sinistra cristiana” cfr. A. DEL NOCE, Lineamenti della filosofia di Felice Balbo, in IDEM, Il Cattolico comunista, Rusconi, Milano 1981, pp. 192-212. 333 L. BAZZOLI, Felice Balbo: dal marxismo ad “economia umana”, Morcelliana, Brescia 1981, p. 33. 332

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in termini metafisici e cristiani, perciò depurati dal «metafisicismo»334. In questa sede ci occuperemo soprattutto della prima fase del confronto di Balbi con il marxismo, quella caratterizzata dall’esplicità volontà di conciliarlo con il cattolicesimo. Proprio tale conciliazione costituisce uno dei problemi teorici e pratici più difficili da risolvere per il Balbo ed i suoi collaboratori. Come è noto, il pensiero di Marx nasce da Feuerbach e da una radicale critica alla religione quale elemento mitologico da sopprimere e superare. La religione, come sottolineava anche Gramsci seguendo in questo Marx, si origina dal senso di ingiustizia e di oppressione in cui si trovano i deboli: essa non è che il “sospiro della creatura oppressa” e “l’anima di un mondo senza cuore”. Nella società comunista, stando all’ortodossia marxista, la realizzazione della giustizia e dell’ugualianza sociale eliminerà tutti i mali dell’uomo e, di conseguenza, nessuno avrà più necessità di rivolgere gli occhi al cielo chiedendo l’ausilio di un Dio (che è solo frutto della fantasia umana). Balbo meditò a lungo su queste posizioni ideologiche: sapeva bene che alcuni princìpi fondamentali del marxismo erano intrinsecamente atei e tuttavia cercò con vigore una possibile soluzione per “conciliare l’incoliabile”. Egli era dell’opinione che il liberalismo fosse troppo debole nei confronti delle dittature e blando nei temi di giustizia sociale: inoltre nell’Italia del primo Novecento, e lo vedremo quando successivamente parleremo di Luigi Sturzo, il liberalismo era essenzialmente sinonimo di crocianesimo e, quindi, di laicismo. Si comprende allora come per Balbo ed il suo gruppo l’adesione al marxismo rappresentasse l’unica via solida per opporsi al fascismo e perseguire ideali di uguaglianza sociale. A loro giudizio, inoltre, le istanze sociali del marxismo dovevano ridare linfa vitale allo stesso 334

Secondo Balbo «affermazione metafisicistica è quella qualunque affermazione che pretende racchiudere, nel giudizio che definisce il “reale”, qualche cosa di definitivo assolutamente, una formula universale, […]: la Cosa stessa perfettamente coincidente con la formula» (F. BALBO, Il laboratorio dell’uomo, [edizione originale Einaudi, Torino 1946] in Opere 1945-1964, Borinchieri, Torino 1966, pp. 105-200, p. 138).

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cattolicesimo italiano: dopo i Patti Lateranensi del 1929 la chiesa cattolica era scesa a compromesso con il fascismo (la cosiddetta “alleanza clerico-fascista”), divenendo ancor di più una forza reazionaria e conservatrice, con gli occhi nostagici rivolti al suo regale passato. Era il cattolicesimo delle fastose ma, forse, vuote cerimonie di Papa Pio XII, tanto solenne nel suo incedere quanto poco solerte nel contrastare le dittature nazi-fasciste335. Diversamente dai modernisti, Balbo e la “Sinistra cristiana” non intesero mettere in discussione l’assetto dogmatico-istituzionale della chiesa: questo lo rimarcarono bene anche nel loro manifesto programmatico336. Essi aspirarono però a rinnovare radicalmente il cattolicesimo che con il suo scrigno di valori morali poteva spingere realmente al cambiamento sociale e coinvolgere in questo le masse dei fedeli. Non esagera Del Noce a dire che Balbo ed il suo gruppo erano «comunisti perché cattolici»: «il cattolico impeganto politicamente […] se perfettamente e rigorosamente coerente e consapevole doveva essere comunista, anche se non poteva sperare di vincere immediatamente le più spiegabili resistenze psicologiche di altri cattolici»337. Una volta dimostrata la piena corrispondenza della proposta politica del comunismo con le tensioni morali del cristianesimo, Balbo ed i suoi giunsero a queste conclusioni: «Accettazione integrale del marxismo come filosofia dell’uomo con conseguente soppressione della lotta contro la Religione. In una parola, accettazione del materialismo storico, rifuto della 335

Il rapporto tra cattolicesimo e nazi-fascismo è stato oggetto di numerosi studi, nonché di aspre polemiche. Su tale vexata quaestio ci limitiamo a segnalare E. ROSSI, Il manganello e l’aspersorio, Laterza, Roma-Bari 1968; P. SCOPPOLA, La Chiesa e il fascismo: documenti e interpretazioni, Laterza, Roma-Bari 1971. Va però ricordato che Pio XI il 10 marzo 1937 emanò l’enciclica Mit brennender Sorge (Con viva preoccupazione) nella quale dichiarava che il nazionalsocialimo era una dottrina politica anti-cristiana, pagana e razzista: l’enciclica venne scritta in tedesco per facilitarne la diffusione nei paesi del Reich governati da Hitler. 336 Cfr. F. BALBO (ET ALII), Il comunismo e i cattolici, cit., p. 201. 337 A. DEL NOCE, Genesi e significato della prima sinistra cattolica italiana post-fascista, cit., p. 1040

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Weltanschauung del materialismo dialettico: accettazione della politica comunista, rifiuto della religione comunista»338. 1.3. Marxismo e cristianesimo sono compatibili? Le diverse tesi di Augusto Del Noce e Italo Mancini La forma di catto-comunismo difesa da Balbo e dai suoi collaboratori fu ampiamente criticata sia dalle gerarchie cattoliche339 che dallo stesso partito comunista, all’epoca apertamente filosovietico. Il 1 luglio del 1949 la Congregazione del Sant’Uffizio diede, inoltre, il colpo di grazia a questi laboratori politici cattocomunisti: venne emanato un decreto in cui si dichiarava che la chiesa prendeva esplicitamente le distanze dall’ideologia comunista poiché intrinsecamente materialistica, atea ed anticristiana; il documento è conosciuto a livello popolare come la “scomunica dei 338

F. BALBO (ET ALII), Il comunismo e i cattolici, cit., p. 192. Puntuali studi sul pensiero di Balbo e il movimento della “Sinistra cristiana” sono quelli di G. INVITTO, Le idee di Felice Balbo: una filosofia pragmatica dello sviluppo, Il Mulino, Bologna 1979; A. GROTTI, Saggio su Felice Balbo, Borighieri, Torino 1984; V. POSSENTI, Felice Balbo e la filosofia dell’essere, Vita e Pensiero, Milano 1984; IDEM, Fede e politica: Rodano e il “rodanismo”, «Per la filosofia», 12, 1988, pp. 54-66; N. RICCI, Cattolici e marxismo : filosofia e politica in Augusto Del Noce, Felice Balbo e Franco Rodano, FrancoAngeli, Milano 2008. 339 A tal riguardo facciamo mezione di due episodi. Fedele D’Amico, un collaboratore di Balbo, in uno dei suoi incontri con Il cardinal Alfredo Ottaviani vennè così ammonito: «Potete dire quel che volete, anche sulla divinità di Gesù Cristo, ma se nel più sperduto paese della Sicilia vi elleerete nelle elezioni con i comunisti, il giorno dopo vi farò arrivare la scomunica». In maniera simile, il cardinal Domenico Tardini affermò che «questi cristiani di sinistra non sono altro che propagandisti comunisti, molti dei quali fascisti camuffati, che il movimento è finanziato dal partito comunista e che il suo scopo è di fare in modo di istituire un governo comunista in Italia». Tali aneddoti sono raccontati - con chiari riferimenti alle fonti - nel volume di C. BREZZI, Il cattolicesimo politico in Italia nel ʼ900, Teti Editore, Milano 1979, p. 168.

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comunisti”340. Nel secondo dopoguerra la chiesa, com’era naturale, favorì lo sviluppo di un partito centrista e moderato come la Democrazia cristiana guidata da Alcide De Gasperi. Tra gli intellettuali cattolici fu soprattutto Augusto Del Noce a criticare gli “errori filosofici” di Balbo e del suo gruppo: li conobbe, li ammirò, ne condivise alcune posizioni ma poi, pur restando in rapporti di amicizia, li criticò duramente. Secondo Del Noce marxismo e cristianesimo si fondano du due ambiti concettuali irriducibili l’uomo all’altro: è quindi impossibile mantenere «il carattere rivoluzionario del marxismo ed il insieme il cristianesimo»341. Del Noce individua una serie di motivi speculativi e pratici. In primo luogo il fatto che l’ateismo sia una componente essenziale ed imprescindibile del marxismo: «il radicale ateismo» egli afferma - «è la sostanza e non già un accidente del

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Ricordiamo ancora prima di Pio XII anche il suo predecessore Pio XI condannò ufficialmente il comunismo: il 19 marzo 1937 promulgò un enciclica dal titolo Divini Redemptoris nella quale viene affermato che tale ideologia cela in sé una falsa idea di redenzione. Il «comunismo bolscevico», secondo il documento, «mira a capovolgere l’ordinamento sociale e a scalzare gli stessi fondamenti della civiltà cristiana»; esso «spoglia l’uomo della sua libertà, [...] toglie ogni dignità alla persona umana e ogni ritegno morale contro l’assalto degli stimoli ciechi». A tal riguardo cfr. É.M. GUERRY, Chiesa cattolica e comunismo ateo, Città Nuova, Roma 1962. 341 A. DEL NOCE, Genesi e significato della prima sinistra cattolica italiana post-fascista, cit., p. 1089. Numerosi sono i saggi delnociani dedicati al marxismo e ai suoi protagonisti, da Lenin a Stalin, da Togliatti a Gramsci e a Rodano. In queste pagine ci soffermiamo soprattutto sul confronto di Del Noce con Balbo dal quale emerge con chiarezza l’inconciliabilità del marxsimo con cristianesimo. Sull’interpretazione delnociana del marxismo cfr. in particolare A. DEL NOCE, La «non-filosofia» di Marx e il comunismo come realtà politica, [edizione originale 1946], in Idem, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964, pp. 213-266 [nuova edizione, Il Mulino, Bologna 2010, con una Postfazione di M. Cacciari]; P. ARMELLINI, Il confronto con il marxismo, IDEM, Razionalità e storia in Augusto Del Noce, Aracne, Roma 1999, pp. 155-187.

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marxismo»342. Un marxismo che non fosse ateo rinuncierebbe, infatti, alla stessa prassi rivoluzionaria: «l’eliminazione dell’ateismo» - tanto auspicata da Balbo - «include nel marxismo quella del momento rivoluzionario»343. Dall’altra parte, sottolinea Del Noce, una posizione cristiana anche in politica fa rimanere realisti, consapevoli che l’uomo è incline al male e che perciò è destinato al fallimento ogni tentativo di realizzare il perfetto nelle cose terrene. La fede cristiana, ribadisce Del Noce sulla scorta di Sant’Agostino e di Rosmini, è fondata sul peccato originale, sul fatto che l’uomo è bisognoso di redenzione e che tale redenzione (“i cieli nuovi e la terra nuova”) avverà solo alla fine dei tempi e non nella storia. A partire dall’ambito concettuale cristiano Del Noce critica, quindi, ogni forma di “perfettismo politico” che intende realizzare “la società perfetta” nella storia, magari utilizzando anche la forza e la violenza. Inoltre Del Noce critica Balbo anche sotto un profilo pratico: «nel caso di successo [del comunismo] si avrebbe una società che anziché “aprire” all’attenzione della verità religiosa la bloccherebbe nel modo più assoluto [e questo è de facto avvenuto nella Russia di Stalin]»344. Differenti considerazioni sul rapporto tra marxsimo e cristianesimo le troviamo in Italo Mancini, un sacerdote che si formò alla scuola di Gustavo Bontadini e che divenne poi professore di “filosofia della religione” e “filosofia del diritto” presso l’Università di Urbino. L’itinerario intellettuale di Mancini è complesso e mostra elementi di notevole originalità, sviluppandosi a partire dal confronto con diverse prospettive: dall’ontolologia classica, alla teologia dialettica di Karl Barth, dalla dialettica hegeliana al marxismo di Ernst Bloch345. 342

A. DEL NOCE, Genesi e significato della prima sinistra cattolica italiana post-fascista, cit., p. 1051. 343 Ibidem, p. 1090. 344 Ibidem. 345 Sull’itinerario filosofico di Mancini si vedano: Aa. Vv., Kerygma e prassi : filosofia e teologia in Italo Mancini, «Hermeneutica», 1995 [numero monografico dedicato al pensiero di Mancini]; G. CRINELLA (a cura di), Italo Mancini. Dalla teoresi classica alla modernità come

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Seguendo gli orientamenti di Ernst Bloch, Jürgen Moltmann e Karl Löwith, il Nostro interpreta il marxismo come erede della religione ebraico-cristiana346. Secondo Mancini «Marx intendeva risolvere non religiosamente i problemi che sono propri della religione. In questo senso si pone come erede. Korsch non ha avuto paura di parlare di una “religione dell’al di qua” […]»347. Diversamente dalla posizione di Del Noce che fa emergere una sostanziale incompatibilità tra marxismo e cristianesimo, Mancini sottolinea che Marx «ha pensato, voluto le stesse cose [del cristianesimo], anche se ne ha dato una soluzione capovolta, che non fa perno sulla grazia e sul fare di Dio, ma sull’uomo, perché la “la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso”»348. Partendo dalla “filosofia della speranza” elaborata da Bloch, egli propose l’ideale dell’«ottimismo militante» come «caratteristica fondamentale del filosofo»349. A suo parere in Marx troviamo «un

problema, Studium, Roma 2000;; M. PETRICOLA, Pensare Dio : il cristianesimo differente di Italo Mancini, Prefazione di C. Dotolo, Cittadella, Assisi 2011. 346 Cfr. ad esempio E. BLOCH, Religion im Erbe, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1959; tr. it. di F. Coppellotti, Ateismo nel cristianesimo: per la religione dell’Esodo e del Regno, Feltrinelli, Milano 1990. 347 I. MANCINI, Filosofia della religione, cit., p. 59. 348 Ibidem. Sul confronto critico di Mancini con marxismo si vedano: I. MANCINI, Religione e oppio: sulla portata ideologica dell’aforisma di Marx, «Archivio di filosofia», 1973, pp. 549-578; IDEM, Con quale comunismo, La Locusta, Vicenza 1976; I. MANCINI - S. NATOLI, Marx e la religione, Cappelli, Bologna 1984; AA. VV., La filosofia politica nel pensiero di Italo Mancini, Quattroventi, Urbino 1994; P. GRASSI, Italo Mancini: Bonhoeffer e i marxisti “eretici”, in A. CONCI - S. ZUCAL (a cura di), Dietrich Bonhoeffer: dalla debolezza di Dio alla responsabilità dell’uomo, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 387-398. 349 I. MANCINI, Che cosa fanno oggi i filosofi?, [testi di Norberto Bobbio, Umberto Cerroni, Umberto Eco, Giulio Giorello, Italo Mancini, Paolo Rossi, Emanuele Severino, Gianni Vattimo], Bompiani, Milano 1982, pp. 29-54, p. 34.

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abitatore eretico, ma non scismatico dell’area ebraico-cristiana»350 e nel marxismo «una soteriologia senza cristologia»351. Il marxismo quindi, soprattutto nell’interpretazione revisionista di Bloch, può trovare delle sostanziali convergenze con il cristianesimo e divenire così la spinta propulsiva per una “filosofia della prassi” che intenda incarnare il pensiero nella storia, cercando così di cambiare le condizioni economico-sociali delle classi più deboli. Condividiamo pienamente l’accezione positiva che Mancini conferisce al temine ideologia: quest’ultima non è da intendere esclusivamente come visione miope e totalizzante del reale (quasi un suo camuffamento), ma come progetto inteso a cambiare il mondo in termini di giustizia sociale, di libertà e di diritti. Ecco cosa egli afferma in uno scritto che ripercorre il suo itinerario di ricerche: «E [a partire dal confronto critico con Ernst Bloch] m’è venuta fuori una convinzione: la dignità delle ideologie. Ideologia, intendo, nel senso del maggio francese, come pensiero reso cogente per la prassi. Allora chiamerei ideologie quei progetti di avanzamento, di liberazione, di propulsione per i temi della realtà dell’uomo. Ebbene, ogni ideologia, in quanto progetto, non assolutamente veritativo, non solamente terreno, ma soltanto progetto dell’uomo, che s’incarna nella storia e intende incarnare il suo pensiero, ogni ideologia ha la sua dignità»352. Ci pare che in un’età come la nostra, caratterizzata in larga misura dalla “fine delle ideologie”353 e da un relativismo che rende politicamente indifferenti, la prospettiva di Mancini possa dare nuovi impulsi 350

I. MANCINI, Filosofia della religione, Marietti, Genova 19863, [I edizione 1967], p. 59. 351 Ibidem. 352 I. MANCINI, Che cosa fanno oggi i filosofi?, cit., p. 35. Il nesso tra ideologia, utopia e cristianesimo viene approfondito da Mancini nei volumi Con quale cristianesimo, Coines, Roma 1978; Teologia, ideologia, utopia, Queriniana, Brescia 1975; a cura di G. Ripanti, Morcelliana, Brescia 2011. 353 A tal proposito cfr. D. BELL, The End of Ideology: On the Exhaustion of Political Ideas in the Fifties, with “The Resumption of History in the New Century”, [edizione originale 1960] Harvard University Press, Harvard 2000; tr. it. di S. D’Amico, La fine dell’ideologia: il declino delle idee politiche dagli anni Cinquanta a oggi, SugarCo, Milano 1991.

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positivi: egli intende risemantizzare la nozione di ideologia, dando ad essa il singnificato positivo di “filosofia della prassi”, tutta protesa verso il cambiamento del mondo ed in grado, quindi, di conferire nuovamente all’agire umano la sua essenziale progettualità. A nostro giudizio il recupero di un’accezione positiva dell’ideologia potrebbe ridare anche all’uomo di oggi una rinnovata teleologia, un fondamentale impulso ottimistico all’agire in vista di essenziali finalità etico-sociali da perseguire. 2. Democrazia e cristianesimo La democrazia è certamente una conquista del mondo greco classico: com’è noto, le istituzioni democratiche furono il frutto di riforme politiche volute ad Atene da Solone, Clìstene e Pericle. Forme di vita che, sotto certi aspetti, possono essere definite democratiche le possiamo però scorgere anche nelle prime comunità cristiane di Gerusalemme. Gli Atti degli apostoli ci descrivono le caratteristiche di queste prime comunità che vivevano nell’uguaglianza e nella comunione dei beni: «Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere. […] Tutti coloro che erano diventati credenti stavano insieme e tenevano ogni cosa in comune; chi aveva proprietà e sostanze le vendeva e ne faceva parte a tutti, secondo il bisogno di ciascuno»354. Tuttavia né nell’Atene del V secolo a.C. né a Gerusalemme si trattò della democrazia nel senso moderno del termine: ad Atene erano escusi dalla vita politica le donne, i metéci e gli schiavi, mentre nelle prime comunità crisitane c’era solo una sorta di “egualitarismo economico” e non di “democrazia politica” (le decizioni venivano infatti prese dai leaders spirituali della comunità seguendo i princìpi di giustizia e carità). Il rapporto del cattolicesimo con la democrazia è complesso e presenta aspetti problematici, sia sotto il profilo storico che concettuale. Verso la fine dell’Ottocento Papa Leone XIII ribadì che 354

Atti degli Apostoli, 2, 42-45.

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la chiesa non impone alcuna forma di governo, ma che si riserva di giudicarle tutte e di enunciare per ognuna le condizioni di legittimità. Egli, inoltre, affermò che sono legittime tutte le forme di governo purchè «adatte a procurare il bene dei cittadini» e che, secondo gli insegnamenti della chiesa «non è vietato di preferire governi temperati di forma popolare, salva però la dottrina cattolica circa l’origine e l’uso del potere pubblico»355. Possiamo dire che un primo chiaro documento del magistero cattolico in favore della democrazia sia costituito dal celebre radiomessaggio di Pio XII tenuto la Vigilia del Natale 1944. Innanzi alle distruzioni della guerra e alle violenze dei regimi totalitari il Papa annuncia l’avvento dei regimi democratici come «un’aurora di speranza», di giustizia sociale e di pace tra le nazioni. Solo partendo dalla democrazia si poteva auspicare «un’era novella per il rinnovamento del mondo»356. Tuttavia il discorso di Pio XII non si limita ad un’esaltazione retorica dei pregi della democrazia, ma esamina in profondità le caratteristiche di una «sana democrazia», mettendo in guarda dalle sue possibili corruzioni. Commentiamo brevemente questo discorso poiché contiene profonde riflessioni ed in alcuni punti ci pare profondamente attuale. Innanzitutto viene sostento, in piena continutà con gli insegnamenti della dottrina sociale della chiesa, che in ogni regime politico la persona umana deve essere considerata sempre come «il soggetto, il fondamento ed il fine». Inoltre viene messa in rilievo la distinzione fondamentale che sussiste tra la “massa” ed il “popolo”. Tale distinzione veniva fatta già chiaramente da Rosmini357: tuttavia Pio XII non lo menziona, forse perché all’epoca il pensiero rosmininiano era ancora oggetto di sospetti ed accuse (soprattutto per il libro Delle cinque piaghe della Santa Chiesa). A suo parere «la 355

LEONE XIII, Enciclica Libertas, 20 giugno 1888. PIO XII, Radiomessaggio natalizio 1944; il testo è riportato in R. SPIAZZI, I documenti sociali della Chiesa, Vol. I, Dal 1864 al 1965, Massimo, Milano 1983-1988, pp. 498-515. 357 Cfr. A. ROSMINI, Filosofia della politica, [edizione originale 1839], a cura di M. D’Addio, Città Nuova, Roma 2003. 356

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massa è la nemica capitale delle vera democrazia e del suo ideale di libertà e di uguaglianza». Mentre il popolo è caratterizzato dalla saggezza nelle decisioni e dall’utilizzo della razionalità, la massa è irrazionale e soggetta alle passioni: essa può essere quindi «abilmente maneggiata ed usata». «Quale spettacolo offre uno Stato democratico lasciato all’arbitrio della massa!», commenta amareggiato Pio XII, ricordando – forse – che lo stesso Hitler andò al potere con il voto delle masse. Con l’oclocrazia, ovvero il governo sconsiderato delle masse, la stessa «libertà» – afferma Pio XII – «si trasforma in una pretensione tirannica di dare libero sfogo agli impulsi e agli appetiti umani a danno degli altri. L’uguaglianza degenera in un livellamento meccanico, in una uniformità monocroma». Interessanti ad attuali sono le parole del pontefice dedicate alle caratteristiche salienti che dovrebbero avere i governanti della res publica. Egli sottolinea che «la questione della elevatezza morale, della idoneità pratica, della capacità intellettuale dei deputati al parlamento, è per ogni popolo in regime democratico una questione di vita o di morte, di prosperità o di decadenza, di risanamento o di perpetuo malessere». Egli, quindi, mette in guardia da coloro che fanno «dell’attività politica «l’arena della loro ambizione, una corsa ai guadagni per se stessi, per la loro casta o per la loro classe». Ci preme mettere in luce che una parte del discorso è dedicata alla critica dello statalismo: è questo uno degli elementi salienti della dottrina cattolica in ambito politico. Pio XII mette in luce i pericoli sociali che provengono dall’assolutizzazione dello Stato, ovvero dal considerare la «legislazione dello Stato detentrice di un potere senza freni né limiti». Da una parte egli rivendica la priorità assoluta della persona sullo Stato, dall’altra rimarca giustamente i limiti del potere dello Stato e dei governanti. A questo proposito il pontefice s richiama implicitamente ad un’antica tradizione che affonda le sue radici in Agostino, in Giovanni di Salisbury, in Tommaso d’Aquino e nella scolastica spagnola del Cinque-Seicento: le leggi positive dello Stato devono essere rispettate solo se sono conformi alla legge divina. In altre parole: la lex divina è il fondamento della lex in civitate posita e quest’ultima trova solo nella lex divina la sua piena 174

garanzia di legittimità e di giustizia. «La maestà del diritto positivo umano» - ribadisce il Papa - «soltanto è inappellabile, se si conforma – o almeno non si oppone – all’ordine assoluto, stabilito dal Creatore e messo in una nuova luce dalla rivelazione del Vangelo». Qualora la democrazia - sia perchè goverano le masse sia perché governano tiranni - non rispetta la legge divina, si trasforma automaticamente in un sistema di assolutismo e di ingiustizia. Dunque, conclude il Papa, la legge divina e naturale è «il criterio col quale deve essere giudicato il valore morale di ogni legge particolare»358. Il documento di Pio XII sulla democrazia ebbe un’importanza decisiva nello sviluppo del pensiero politico italiano: possiamo dire che i suoi contenuti stiano alla base delle prospettive “democratiche e 358

A tal riguardo Pio XII si richiama a Tommaso d’Aquino: secondo l’angelico dottore le leggi umane che non hanno come fine il bene comune e contraddicono la legge naturale (e la legge divina che fonda quest’ultima) non devono essere osservate: «le leggi ingiuste non obbligano in coscienza. Tali leggi non devono in alcun modo essere osservate, poiché sta scritto: “bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini” (Atti 5,29)» (TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I-II, q. 92, art. 1). A partire da tali princìpi, anche San Tommaso - in maniera simile a Giovanni di Salisbury nel Policráticus (edito nel 1159) - giustifica il diritto di resistenza nei confronti del tiranno. «Non vi può essere diritto di obbedienza verso una persona [il tiranno] di cui è lecita, anzi lodevole, l’uccisione. […] Il dovere dell’obbedienza per il cristiano è conseguenza della derivazione dell’autorità da Dio: esso cessa con il venir meno di questa. […] Se l’autorità comanda una cosa ingiusta rispetto alla legge naturale e alla legge divina gli uomini non sono obbligati ad obbedirle, anzi devono disobbedirle, come fecero i santi martiri, che soffrirono la morte, pur di non obbedire agli empi comandi dei tiranni. Inoltre, anche quando il padrone esige prestazioni che il servo non è tenuto a fornirgli il suddito è sempre sciolto dal dovere di obbedienza»358. (TOMMASO D’AQUINO, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, Libro II, dist. II, q. 2, art. 2). Tali princìpi del diritto di resistenza nei confronti dell’autorità che non opera secondo giustizia saranno ampiamente ripresi nella modernità (ad esempio John Locke) e saranno anche alla base delle argomentazioni degli intellettuali cattolici tedeschi che si opposero al nazismo (ad esempio da Clemens August von Galen, vescovo di Münster e Michael von Faulhaber, arcivescovo di Monaco).

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cristiane” di autorevoli intellettuali impegnati nelle vicende politiche del secondo dopoguerra. Basti pensare alle profonde riflessioni di Alcide De Gasperi, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Giuseppe Lazzati ed Igino Giordani359. In questa sede vogliamo soprattutto mettere in luce gli effetti del discorso di Pio XII su Pietro Pavan (1903-1994), autore di un classico del pensiero politico, troppo spesso dimenticato o non preso in dovuta considerazione: si tratta del volume La democrazia e le sue ragioni edito nel 1958. 2.1. Pietro Pavan: «La democrazia e le sue ragioni» Pietro Pavan è stata una tra le figure più rilevanti del cattolicesimo sociale in Italia: fu infatti fondatore e cofondatore di vari movimenti non escusi quelli sindacali (ACLI, Coltivatori Diretti, UCID). Divenne consigliere di Alcide De Gasperi e fu chiamato da Papa Giovanni XXIII come peritus al Concilio Vaticano II: fu quindi il principale redattore dell’enciclica Pacem in terris. Si fece promotore delle Settimane Sociali dei cattolici d’Italia e nel 1985 Giovanni Paolo II gli conferì la porpora cardinalizia. Pavan nacque a Povegliano nel 1903. Si laureò in filosofia e teologia presso l’Università Gregoriana, divendendo quindi sacerdote; nel 1936 conseguì invece la laurea in scienze politiche presso l’Università di Padova. Nel luglio del 1943 prese parte ai 359

Su tali intellettuali impeganti nell’elaborazione di un pensiero politico cristiano e democratico ci limitiamo a segnalare: N. ANTONETTI, La Democrazia Cristiana negli anni di De Gasperi, in F. MALGERI (a cura di), Storia del movimento cattolico in Italia, vol. V, L’età di De Gasperi, Il Poligono, Roma 1981; V. PERI, La Pira Lazzati Dossetti: nel silenzio la speranza, Studium, Roma 1998; Aa. Vv., Passione per l’uomo e passione per Dio: Guala, Lazzati, La Pira, Dossetti testimoni del dialogo, Agami, Madonna dell’Olmo (CN) 2004; N. VALENTINI (a cura di), Cristianesimo e cultura politica: l’eredità di otto illustri testimoni, [compaiono saggi su De Gasperi, Dossetti, Sturzo, La Pira, Adriano Olivetti, Don Primo Mazzolari, Igino Giordani e María Zambrano], Edizioni Paoline, Milano 2006.

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lavori che portarono alla redazione del “Codice di Camaldoli”, il documento programmatico dove si indicarono le linee guida della politica sociale ed economica della Democrazia cristiana360. Nel documento troviamo una definizione dell’essenza e delle finalità dello Stato, nonché la teorizzazione della disobbedienza civile, che fa appello alla superiorità della legge divina e naturale nei confronti di qualsiasi legge umana, sempre fallibile e soggetta a revisione. «Fine dello Stato» - si legge nel Codice di Camaldoli - «è la promozione del bene comune, al quale possono partecipare tutti i cittadini in rispondenza alle loro attitudini e condizioni; bene che i singoli e le famiglie non sono in grado di attuare. […]». Qui si avverte l’eco delle definizione della politica data da Tommaso d’Aquino, definizione che ispirerà anche i successivi scritti di Pavan: «prudentia relata ad bonum commune vocatur politica (la politica è l’esercizio della saggezza pratica in direzione del bene comune)»361; tale bene comune deve costituire sempre la finalità fondamentale di ogni regime politico. Richiamandosi ad un principio contenuto negli Atti degli Apostoli - «bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini»362 -, nel Codice viene legittimata la disobbedienza civile: «Qualora lo Stato emani una legge ingiusta, i sudditi non sono tenuti a obbedire, ma possono essere tenuti ad attuare quanto la legge dispone per motivi superiori. Se l’oggetto della legge è immorale, cioè lede la dignità umana o è in aperto confitto con la legge di Dio, ciascuno è obbligato in coscienza a non obbedire». Ricordiamo che siamo nel 1943: l’Italia era in guerra e vigeva ancora la dittatura fascista. Inoltre il Codice si impegna anche in tema di giustiza sociale: in esso viene chiarito che «per ordinare la vita economica è necessario che si aggiunga alla legge della giustizia la legge della carità». Notiamo che tale “legge della carità” stia alla base anche dell’enciclica sociale di Benedetto XVI Caritas in veritate, emanata nel 2009. 360

Una recente edizione del testo è stata curata da S. Pezzotta, Il Codice di Camaldoli, Lavoro, Roma 2005. 361 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, q. 47, a. 10. 362 Atti degli Apostoli, 5, 29.

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Vedremo ora come alcuni concetti fondamentali espressi nel Codice sono stati ripresi ed approfonditi da Pavan nel suo volume La democrazia e le sue ragioni, un breve ma denso trattato sistematico sull’essenza ed i compiti dello Stato costituzionale e democratico post-totalitario. Lo scritto si apre con quello che giustamente Pavan considera l’elemento sostanziale della vita democratica dello Stato: il riconoscimento ai cittadini dei diritti politici, ovvero «la capacità giuridica di partecipare all’esercizio dei poteri pubblici»363. Egli inoltre rileva che i diritti politici, grazie alle conquiste della modernità, si affermano soppratutto in tre ambiti: 1) nell’opinione pubblica. Si tratta delle conquiste del liberalismo moderno e dell’illuminismo, la “libertà della penna” di cui parlava Kant e le libertà di opinione, di stampa e di satira politica. 2) In campo associativo: libertà di creare istituzioni o di dar vita ad associazioni o movimenti con finalità politiche. 3) nell’ambito dell’ordinamento statale: si tratta del diritto di essere elettore o candidato per le cariche pubbliche elettive di natura sia politica che amministrativa. Secondo Pavan tali diritti nei regimi democratici «non vengono considerati come una concessione dello Stato, ma come diritti che scaturiscono dalla stessa natura dell’uomo, e cioè come diritti naturali»364. Pavan sottolinea che i diritti hanno sempre come loro fondamento la persona umana. A questo proposito egli recupera la concezione rosminiana della persona come «diritto sussistente»365: la persona è la base di ogni diritto e tutte le leggi dello Stato devono essere funzionali alla salvaguardia e alla promozione etico-sociale degli individui. Rispetto allo Stato la nozione di persona umana costituisce un primum ontologico ed un primum finalistico. Egli elabora quindi una forma di “personalismo sociale” che trova la sua giustificazione speculativa in una considerazione metafisica dell’interiorità soggettiva: ci pare che tali istanze del pensiero sociale di Pavan 363

P. PAVAN, La democrazia e le sue ragioni, Studium, Roma 1958; Studio introduttivo di M. Toso, Studium, Roma 20032, p. 83. 364 Ibidem, p. 84. 365 A. ROSMINI, Filosofia del diritto, [edizione originale 1841-1845], a cura di R. Orecchia, Ed. Nazionale, Cedam, Padova 1967, vol. I, p. 192.

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emergono sin dallo scritto giovanile dal titolo Il valore trascendente della persona366. Tale prospettiva del valore assoluto della persona nei confronti dello Stato sarà ulteriormente chiarita quando parleremo di Luigi Stefanini e di Luigi Sturzo, nelle cui riflessioni l’antistatalismo e la correlata visione personalistica delle istituzioni diviengono ancora più marcati. Pavan critica la concezione contrattualistica ed astratta dello Stato formulata da molti filosofi moderni e basata su una concezione antropologica essenzialmente negativa: si pensi all’homo homini lupus di Thomas Hobbes. Egli, quindi, difende una concezione ottimistica della natura umana ed in questo si richiama alla concezione aristotelica e tommasiana dell’«homo homini naturaliter amicus»367: “ogni uomo è naturalmente amico dell’altro uomo” e questo comporta che lo Stato non nasce da un contratto artificiale e fittizio ma dall’unione naturale e spontanea delle persone. Lo Stato è perciò una creazione spontanea della natura intrinsecamente relazionale dell’uomo. Come affermavano anche i tomisti medievali: «Civitas est a natura inclinante et ratione perficiente»368. Come sostenuto nella Politica di Aristotele e ribadito da San Tommaso, lo Stato non è che lo sviluppo compiuto ed articolato di nuclei di famiglie che si riuniscono in villaggi: «Agli inizi della Storia» scrive Pavan - «si può ragionevolmente ritenere che ovunque si formava un abbozzo di Stato, il processo, nelle sue linee essenziali, fosse sempre lo stesso: più famiglie si uniscono tra loro a costituire la tribù o il villaggio; in seguito più villaggi si associano a formare la città; e più città a dar vita a maggiori formazioni politiche. Così già Cicerone sulle traccie di Aristotele, descriveva la formazione dello Stato»369.

366

Cfr. P. PAVAN, Il valore trascendente della persona, Editrice Trevigiana, Treviso 1939. 367 TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, II-II, 114, 1 ad 2. 368 PETRI DE ALVERNIA, Continuatio S. Thomae in Politicam a libro VII ad librum VIII, Libro VII, lect. 4 369 P. PAVAN, La democrazia e le sue ragioni, cit., p. 134. I passi ciceroniani ai quali Pavan si riferisce sono quelli del De Officiis, I, 17.

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Uno degli elementi di maggiore originalità della prospettiva di Pavan è la visione di una strettissima correlazione tra democrazia e cristianesimo. Egli sostiene che la stessa teologia paolina che fa derivare il potere da Dio - «omnis potestas a Deo»370 - può essere interpretata nel senso democratico di «omnis potestas a Deo per populum»: la fonte suprema del potere politico è Dio, ma spetta al popolo esercitarlo in maniera vicaria (vox populi, vox Dei). Egli sottolinea allora che «fra Democrazia e Cristianesimo non solo non vi è nessuna opposizione, ma sussiste una certa connaturalità: sia nel senso che è implicita nella visione cristiana della vita un’esigenza a metter capo nell’ordine temporale a regimi democratici quando gli ambienti storici siano arrivati a sufficiente maturità e lo suggeriscono; sia, e più ancora, nel senso che la Democrazia ha nel Cristianesimo la sua ispirazione più profonda e più vitale»371. Quest’ultimo punto viene argomentato in base a quattro motivi fondamentali: A) in primo luogo viene affermato che nel cristianesimo la persona umana, in quanto imago Dei, assurge ad un valore infinito. La persona è sempre un “fine in sé” e giammai un mezzo, poiché è «propter se quaesita in universo»372. B) In secondo luogo Pavan rileva che nel cristianesimo la nozione di comunità è vissuta come una fortissima unione spirituale delle persone: l’autentica comunità è piena comunione nella quale i membri sono “un cuor solo ed un’anima sola”. Grazie all’influsso cristianesimo la vita democratica non si svolge più all’insegna dell’individualismo egoistico ma dell’autentica comunità di persone, solidali le une con le altre. C) In terzo luogo Pavan sottolinea che un ulteriore contributo dato dal cristianesimo alla democrazia è nello sviluppo del metodo della persuasione: «Il Cristianesimo» - egli afferma - «la Verità non l’impone coattivamente, ma la propone in forma persuasiva, nella fiducia che la sua luce finisce per dissipare le ombre dell’errore e la sua attrattiva per vincere le resistenze nel fondo degli animi. E lungo 370

La forma letterale è la seguente: «Non c’è nessun potere che non derivi da Dio (non est enim potestas nisi a Deo)» (PAOLO DI TARSO, Epistola ai Romani, Capitolo XIII, 1-2). 371 P. PAVAN, La democrazia e le sue ragioni, cit., p. 119. 372 TOMMASO D’AQUINO, Contra Gentiles, lib. 3 cap. 112 n. 4.

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secoli e millenni, attraverso il metodo della persuasione, la visione cristiana della vita è penetrata negli uomini, si è diffusa tra i popoli, è divenuta principio vivificatore di civiltà. […] Episodi che si possono citare in contrario trovano la loro spiegazione o negli errori e nelle passioni a cui sono immancabilmente soggette singole persone o nelle speciali contingenze storiche. […] Similmente in democrazia si procede attraverso libere discussioni alla scopo di persuadere e non con mezzi coattivi a fine di costringere»373. Il metodo della persuasione visto come un elemento essenziale del cristianesimo e della sua storia ci pare che sia uno degli argomenti più deboli dell’argomentazione di Pavan; secoli e secoli di storia del cattolicesimo romano lo possono facilmente smentire: basti pensare a fatti come l’inquisizione, le monacazioni forzate, la soppressione degli eretici, le prediche coatte fatte puntualmente nei ghetti delle comunità ebraiche (anche a Roma), ecc. ecc. Il cristianesimo che ha presente Pavan è quello evangelico e francescano, quello che Papa Giovanni XXIII cercò di riedificare tramite il Concilio Vaticano II. D) Un quarto elemento decisivo che il cristianesimo ha dato alla forma mentis democratica è, secondo Pavan, la solidarietà per gli umili e le classi povere. Nella stessa preghiera del Magnificat c’è un versetto che dice «Deus deposuit potentes de sede ed esaltavi umiles». Il cristianesimo, sottolinea il Nostro, «ha avuto e continua ad avere profondi riflessi sociali; riflessi che si sono concretati e si concretano in un’ascesa degli umili verso condizioni migliori di vita. […] Similmente, nell’ordine temporale, la democrazia, quando è genuina e vitale, è o tende ad essere […] una convivenza in cui si attua o si tende ad attuare una comunione di beni economici, di servizi culturali, di valori spirituali»374. Sulla base dei quattro motivi sopra esposti Pavan può, quindi, sostenere che «fra Cristianesimo e Democrazia non vi è nessuna intrinseca opposizione; anzi la Democrazia trova la sua più profonda e vitale ispirazione nella visione cristiana della vita. Va inoltre aggiunto che i regimi democratici anche se riescono a costituirsi, è difficile e quasi impossibile che si consolidino e fioriscano se non si 373 374

P. PAVAN, La democrazia e le sue ragioni, cit., p. 222. Ibidem, p. 223.

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uniformano ai princìpi, ai metodi e allo spirito del Vangelo»375. Tale prospettiva di Pavan trova profonde convergenze anche con quella del francese Jacques Maritain espressa in particolare nel volume Christianisme et démocratie376. Maritain fu un punto di riferimento sempre fondamentale per la cultura cattolica democratica del Novecento: lo stesso Papa Paolo VI lo considerò un suo ispiratore e alla chiusura del Concilio Vaticano II gli consegnò simbolicamente il proprio messaggio agli intellettuali e agli uomini di scienza. Il contributo fondamentale che il cristianesimo ha dato e può dare alla democrazia e alle sue istituzioni è stato ampiamente messo in rilievo - seppur con differenti accentuazioni - anche da grandi esponenti della cultura giuridica italiana: tra essi possiamo menzionare Giuseppe Capograssi (1889-1956), Felice Battaglia (1902-1977) e Sergio Cotta (1920-2007). Nelle prossime pagine ci soffermiamo soprattutto sul “cattolicesimo liberale” di Don Luigi Sturzo e sul “personalismo sociale” di Luigi Stefanini: due intellettuali che, a nostro parere, hanno dato un contributo fondamentale alla cultura italiana ma che spesso non sono stati eccessivamente presi in considerazione.

375

Ibidem, p. 227. Sull’ispirazione cristiana del pensiero etico-politico di Pavan si vedano: F. BIFFI, Il cantico dell’uomo: introduzione al pensiero sociale del card. Pietro Pavan, Città Nuova, Roma 1990; R. GOLDIE, L’unità della famiglia umana. Il pensiero sociale del cardinale Pietro Pavan, Studium, Roma 2001; L.F. KAMBALU, La democrazia personalista nel pensiero del cardinale Pietro Pavan (1903-1994), Introduzione di M. Toso, Studium, Roma 2011. 376 Cfr. J. MARITAIN, Christianisme et démocratie, Éditions de la Maison Française, New York 1943; tr. it. di L. Frapiselli, Cristianesimo e democrazia, Seguito da Giorgio La Pira - Jacques Maritain, Dialogo per un’Europa cristiana all’epoca della Ricostruzione, a cura di J.-D. Durand, Passigli, Bagno a Ripoli (FI) 2007.

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2.2. Liberalismo, democrazia e cristianesimo in Luigi Sturzo «Se don Antonio Rosmini, in Italia, è la stella del pensiero liberale cattolico dell’Ottocento, don Luigi Sturzo è il maestro del pensiero liberale cattolico del Novecento»377. Luigi Sturzo nacque a Caltagirone (Sicilia) nel 1871; nel 1894 venne ordinato sacerdote e negli anni seguenti compì i suoi studi teologici all’Università Greogriana di Roma. La sua giovanile posizione politica si caratterizzò per l’”intransigentismo”: era l’atteggiamento tipico dei cattolici che rifiutavano la partecipazione alla vita politica dello Stato italiano, rimandendò così fedeli al Non expedit (1874) di Pio IX. Lo Stato italiano, guidato dalla monarchia sabauda, era nato con un atto di violenza nei confronti del Papa re ed era governato secondo i princìpi di un liberalismo essenzialmente laico: ai cattolici sembrava, quindi, impossibile e moralmente scorretto prendere parte alla vita parlamentare dell’Italia unita. Tuttavia il Sabato Santo del 1895 don Luigi Sturzo, nel corso della benedizione delle case in un quartiere al centro di Roma, si rese conto dell’estrema povertà in cui vivevano tante persone e maturò perciò la sua decisione di dedicarsi interamente alla questione sociale e alla politica. Egli quindi divenne «l’artefice della difficile transizione dei cattolici italiani dall’opposizione al consenso verso lo Stato liberale e all’impegno per la trasformazione democratica delle sue istituzioni»378. Il 18 gennaio 1919, dall’albergo Santa Chiara di Roma, Sturzo diffuse il celebre appello A tutti i liberi e forti, che divenne la magna charta del Partito Popolare Italiano. Già dall’appello emergono le linee di fondo della posizione di Sturzo, nonchè gli influssi che nell’elaborazione del suo pensiero hanno avuto le concezioni 377

D. ANTISERI, Il liberalismo cattolico italiano dal Risorgimento ai nostri giorni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 103. 378 N. ANTONETTI, Luigi Sturzo e la democrazia del Novecento, R.D. DI NUBILA (a cura di), Luigi Sturzo: maestro di libertà e testimone per gli “uomini liberi e forti”, Fondazione San Marino, San Marino 2009, pp. 4149, p. 41. Sul passaggio di Sturzo dall’intransigentismo all’impegno politico cfr. anche R. PEZZIMENTI, Dall’intransigenza alla laicità: don Sturzo e le influenze del pensiero cattolico francese, A. Gallina, Napoli 1984.

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economiche di Matteo Liberatore379, di Giuseppe Toniolo380 e le riflessioni stesse di Romolo Murri sul rapporto tra cristianesimo e la libertà381. L’appello è teso «ad attuare gli ideali di giustizia sociale […], a migliorare le condizioni generali del lavoro» e soprattutto a tuttelare le libertà politiche delle persone contro «uno stato accentratore, tendente a limitare e a regolare ogni potere organico e ogni attività

379

Nel 1900 al seminario di Caltagirone Sturzo commentò i Princìpi di economia politica di Matteo Liberatore, editi nel 1889: a partire da questo testo egli abbracciò l’idea per cui senza capitali cesserebbe quasi del tutto ogni produzione di ricchezza e i popoli continuerebbero a rimanere schiavi della miseria. 380 Già nel 1906 Sturzo pubblicò un insieme di saggi (Sintesi sociali) che si richiamavano alle concezioni economiche di Giuseppe Toniolo (18451918). Sul ricezione sturziana del pensiero economico di Toniolo e della filosofia rosminiana cfr. G. DE ROSA, Luigi Sturzo fra Toniolo e Rosmini, in AA. VV., Studi in onore di Feliciano Benvenuti, Mucchi, Modena 1996, pp. 671-683. 381 Cfr. R. MURRI, Libertà e Cristianesimo, [Discorso letto il 24 agosto 1902 nella Repubblica di S. Marino], Società di Cultura Editrice, Roma 1902. Rircodiamo che nel 1901 Romolo Murri (1870-1944) fu tra i promotori del movimento della Democrazia Cristiana Italiana e che da giovane ebbe stretti rapporti di amicizia con Sturzo. Quest’ultimo dichiarò in seguito: «Fu Murri a spingermi definitivamente verso la democrazia cristiana» (L. STURZO, Politica di questi anni: consensi e critiche, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1955, p. 133). Se Leone XIII guardò con favore l’opera politicosociale di Murri, così non accadde sotto il pontificato di Pio X: il Papa Sarto nel 1906 promulgò l’enciclica Pieni l’animo nella quale deplorò «lo spirito d’insubordinazione e d’indipendenza, che si manifesta qua e là in mezzo al clero» ed impose ai preti il divieto di partecipazione ad attività politiche non coordinate per via gerarchica. Sul rapporto tra Sturzo e Murri si veda L. BEDESCHI (a cura di), La corrispondenza inedita fra Sturzo e Murri (18981906), Il Mulino, Bologna 1972; E. GUCCIONE, Cattolici e democrazia: Ventura, Murri, Sturzo e le critiche di Gobetti, Palma, Palermo 1988; L. BEDESCHI, L’idea del partito nazionale tra i cattolici italiani: da Murri a Sturzo, QuattroVenti, Urbino 2006.

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civica e individuale»382. Sturzo rivendica la maturità civile del popolo italiano ed indica le quattro libertà necessarie che lo Stato gli deve pienamente restituire per il pieno sviluppo delle sue potenzialità: «libertà religiosa, non solo agli individui ma anche alla chiesa, per la esplicazione della sua missione spirituale nel mondo; libertà di insegnamento, senza monopoli statali; libertà alle organizzazioni di classe, senza preferenze e privilegi di classe; libertà comunale e locale secondo le gloriose tradizioni italiche»383. Differentemente dai marxisti quello di Sturzo non è un programma rivoluzionario ma riformistico: egli non intende abbattere le istituzioni dello Stato borghese ma di riformarle gradualmente per una sempre più efficace elevazione sociale degli umili: «Le necessarie e urgenti riforme nel campo della previdenza e della assistenza sociale, nella legislazione del lavoro, nella formazione e tutela della piccola proprietà, devono tendere alla elevazione delle classi lavoratrici»384. Piero Gobetti definì Sturzo come il «messianico del riformismo» e anche Antonio Gramsci condivise tale giudizio: sia Gobetti che Gramsci gli rimproverarono però di essere ancora troppo “borghese” non proponendo una politica che permettesse l’avvento delle masse alla guida dello Stato385. Sturzo fu critico sia dello Stato liberale guidato dalla monarchia sabauda che del fascismo e del marxismo. Egli accusò queste tre diverse forme politiche di stato-centrismo: uno «Stato panteista, pletorico, burocratico». Lo Stato liberale sorto dall’Unità d’Italia era, sul modello di quello francese, centralistico e governato da un’oligarchia liberale, ovvero da “dittature parlamentari” che si 382

L. STURZO, A tutti gli uomini liberi e forti, [Roma, 18 gennaio 1919], in E. AGA ROSSI, Dal Partito Popolare alla Democrazia Cristiana, Bologna 1969, pp. 92-95, p. 93. 383 Ibidem, p. 94. 384 Ibidem. 385 A tal riguardo cfr. P. GOBETTI, Luigi Sturzo, [in “La Rivoluzione Liberale”], 2-9 luglio 1922, in Opere complete di Piero Gobetti, Vol. I, Scritti politici, a cura di P. Spriano, Torino 1969, pp. 383-387; A. GRAMSCI, I cattolici italiani, [in “Avanti”, 22 dicembre 1918], in Scritti politici, Vol. I, a cura di P. Spriano, Riuniti, Roma 1973, pp. 224-228.

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perpetuarono da Depretis a Giolitti; il fascismo ebbe i caratteri di uno Stato etico, violento e totalitario, che indusse lo stesso Sturzo in esilio per oltre venti anni (prima a Londra, poi a Parigi ed infine a New York); anche il marxismo veniva duramente criticato, oltre che per l’ateismo e il materialismo, anche come forma di statalismo totalitario che a casua della sua economia pianificata soffocava ogni libera iniziativa dei singoli individui. Quella di Sturzo e del Partito Popolare (di cui fu segretario nazionale dal 1919 al 1923) fu quindi la proposta di una “terza via” alternativa sia al liberismo individualistico sia al collettivismo socialista. Va quindi sottolineato che in campo economico Sturzo fu sì un “liberista” ma un “liberista moderato” (e certamente non un berlusconiano ante litteram come alcuni politici di oggi vorrebbero far credere citando il sacerdote siciliano nei loro discorsi!). A tal proposito condividiamo le seguenti affermazioni di Nicola Antonetti: «quella di Sturzo non fu (né poteva essere per la coerenza del suo pensiero democratico) una posizione compiutamente liberista votata a restringere al massimo il ruolo dello Stato. Certo egli contestò più volte lo «Stato imprenditore» e «il dirigismo statale» (in sostanza, lo statalismo) ma ritenne sempre sempre necessario l’intervento integratore dello Stato in determinate situazioni economiche. Guardò, infatti, con favore l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno [voluta dal governo De Gasperi nel 1950], auspicando che si realizzassero, attraverso l’investimento di capitali pubblici, le infrastrutture necessarie per lo sviluppo delle imprese private»386. La prospettiva di Sturzo viene solitamente definita come una forma di liberal-cattolicesimo: «ci presentiamo nella vita politica» egli afferma - «con la nostra bandiera morale e sociale, ispirandoci ai

386

N. ANTONETTI, Luigi Sturzo e la democrazia del Novecento, cit., p. 48. Sul liberismo di Sturzo si veda anche D. ANTISERI, Cattolici a difesa del mercato, a cura di F. Felice, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 317409: nel volume di Antiseri viene anche commentata la posizione di Angelo Tosato, un esegeta biblico che cerca di rendere compatibile il cristianesimo con il liberalismo/liberismo, dichiarando riduttiva e semplificante un’interpretazione “pauperistica” del Vangelo (cfr. ibidem, pp. 665-712).

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saldi princìpi del cristianesimo»387. Tuttavia va sottolineato che Sturzo rivendicò sempre la laicità della politica ed una certa indipendenza d’azione nei confronti della stessa gerarchia cattolica. Il Partito Popolare non ebbe un carattere strettamente confessionale: il suo programma si rivolse infatti «a tutti gli uomini moralemente liberi e socialmente evoluti»388. Inoltre Sturzo nei suoi discorsi evitava di argomentare richiamandosi direttamente al magistero della chiesa e alle fonti bibliche: ci pare che quello sturziano costituisca una modello di “sana laicità” nato dal pieno rispetto (ed anzi da amore filiale!) nei confrornti della chiesa e che evita perciò di degenerare in forme di clericalismo che depauperano la stessa spiritualità cristiana. Di particolare interesse ci paiono le riflessioni di Sturzo sull’essenza e le finalità della democrazia. A suo parere: «La democrazia è un sistema politico e sociale che comprende l’intero popolo, organizzato su una base di libertà per il bene comune»389. Quella strurziana è una concezione della democrazia ricca di contenuti etici e sociali, basata sulle libertà dei singoli individui finalizzate al realizzazione del bonum commune. Egli accetta i princìpi della democrazia moderna, conquistati dalla rivoluzione inglese, da quella americana e da quella francese (sovranità popolare, divisione dei poteri, garanzia dei diritti della persona, ecc.), tuttavia ribadisce che tali princìpi devono essere fondati in una superiore visione etico-religiosa. Se la democrazia si distanzia dall’etica può dar luogo a forme di proceduralismo con esiti persino dittatoriali: Sturzo ha ben presente il caso della Germania, in cui Hitler andò al potere per “via democratica”. Nel dicembre 1952 il Presidente della Repubblica Luigi Einaudi nominò Sturzo senatore a vita: egli così, dopo gli anni dell’esilio e dei dibattiti sulla Democrazia cristiana di De Gasperi, riprese a partecipare attivamente all’attività del parlamento italiano. Anche nei 387

L. STURZO, A tutti gli uomini liberi e forti, cit., p. 95. Ibidem, p. 95. 389 L. STURZO, Lo spirito della democrazia, [edizione originale 1939], in Opere scelte di Luigi Sturzo, Vol. II, Stato, Parlamento e partiti, a cura di M. D’Addio, Laterza, Roma-Bari 1992, pp. 56-57. 388

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suoi ultimi anni di vita Sturzo ebbe il merito di indicare con lucidità sia i meriti che i vizi della democrazia italiana. Ci paiono ancora particolarmente attuali alcune sue riflessioni contenute in un articolo del 1959, l’anno della sua morte: in esso ci parla di tre «bestie enormi nemiche della democrazia». Queste tre bestie sono «lo statalismo, la partitocrazia e l’abuso del denaro pubblico; il primo va contro la libertà; la seconda contro l’egualianza; il terzo contro la giustizia. Ebbene, senza libertà, eguaglianza e giutizia» - egli afferma - «non esiste democrazia; la lotta principale è perciò da incentrarsi contro le tre bestie per impedirne il malfare ai seguaci e sostenitori»390. Come abbiamo già accennato, per statalismo Sturzo intende «uno Stato interventista, dirigista, despota spesso, in tutti i campi delle attività umane»391. Egli osserva giustamente che lo statalismo può essere economico, politico e culturale: quello economico ostacola il libero mercato e la libera iniziativa nelle produzioni, quello politico si oppone al regionalismo e al federalismo, quello culturale cerca di pianificare anche i programmi della scuola pubblica, rendendoli uniformi ma spesso lacunosi e mediocri. Sturzo afferma che «finchè la scuola in Italia non sarà libera, nemmeno gli italiani saranno liberi»392: a suo giudizio nel sistema scolastico italiano «manca la libertà; si vuole l’uniformità. Quella imposta da burocrati e sanzionata da politici»393. Il filo rosso che attraversa le opere di Sturzo è un antistatalismo denunciato in tutte le sue forme come uno dei mali supremi della stessa vita democratica. Una democrazia matura rende realmente liberi e responsabili i propri cittadini e non può essere, quindi, statalista. Per 390

L. STURZO, Tre «bestie» nemiche della democrazia, «Orizzonti», 21 giugno 1959, ora in IDEM, Politica di questi anni, a cura di C. Argeolas, Introduzione di G. De Rosa, Cangemi, Roma 19982, pp. 467 - 470, p. 467. 391 L. STURZO, La battaglia della libertà, «Il Giornale d’Italia» [18 dicembre 1957], in Idem, Politica di questi anni, cit., pp. 156-157, p. 156. 392 L. STURZO, La libertà della scuola, [l’articolo fu pubblicato nel luglio 1947], in IDEM, Difesa della scuola libera, a cura di D. Antiseri, Città Nuova, Roma 1995, p. 60. 393 L. STURZO, Opera Omnia, Edizioni Cinque Lune, Roma 1986, Vol. XII, p. 83.

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queste sue opinioni Sturzo ebbe divergenze e scontri anche all’interno della stessa Democrazia cristiana: egli, ed esempio, ebbe una polemica con Giogio La Pira, amato sindaco di Firenze e terziario domenicano. «La Pira» - afferma Sturzo - «crede che il problema da risolvere sarebbe quello di arrivare alla totalità del sistema finanziario in mano allo Stato. […] Questo io lo chiamo statalismo e contro questo dogma io voglio levare la mia voce senza stancarmi finchè il Signore mi darà fiato; perché sono convinto che in questo fatto si annidi l’errore di far dello Stato l’idolo: Moloch o Leviatano che sia»394. E altrove continua: «Io contesto a La Pira la sua concezione dello Stato moderno: egli scrisse la frase da me citata, che “l’economia moderna è essenzialmente di intervento statale”. Se le parole valgono per quel che suonano, quell’essenzialmente toglie allo Stato moderno la caratteristica dello Stato di diritto e lo definisce Stato totalitario […]. La mia difesa della libera iniziativa è basata sulla convinzione scientifica che l’economia di Stato non solo è antieconomica ma comprime la libertà e per giunta riesce meno utile, o più dannosa, secondo i casi, al benessere sociale»395. Sturzo rimase sempre dell’opinione che «lo statalismo non risolve mai i problemi economici e per di più impoverisce le risorse nazionali; complica le attività individuali, non solo nella vita materiale e negli affari, ma anche nella vita dello spirito»396. Ci paiono molto attuali anche le parole si Sturzo contro la partitocrazia: a suo parere «nella nostra democrazia si trovano residui fascisti e la causa principale di questo è l’intrusione nel Parlamento dei partiti che la fanno da padroni, riducendo i parlamentari delle due camere a pedine del gioco, a portavoce degli ordini, ad esecutori dei comandi dei capi, senza volontà propria né propria responsabilità»397. 394

L. STURZO, Statalista, La Pira?, «Giornale d’Italia», 13 maggio 1954. L. STURZO, Opera Omnia, cit., Vol. XIII, pp. 40. 396 IDEM, Opera Omnia, cit., Vol. XII, p. 325. 397 IDEM, Democrazia e responsabilità, «Il Giornale d’Italia», 5 giugno 1957, in IDEM, Politica di questi anni, cit., pp. 79-81, p. 81. Sulla concezione sturziana della funzione dei partiti politici si veda M. D’ADDIO, Democrazia e partiti in Luigi Sturzo, Marco, Lungro di Cosenza 2009. 395

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Per superare tale forma di partitocarazia egli propone di attuare anche in Italia il modello inglese del government by discussion, cioè l’idea di procedere nei processi legislativi attraverso il confronto/scontro di idee di un ceto parlamentare sciolto dai vincoli imposti dai partiti. Nella cultura italiana del Novecento Sturzo ebbe il merito di teorizzare e di difendere la libertà della persona in tutte le sue possibili forme: politica, economica e culturale. Egli incita a non aver «paura della libertà come fosse un salto nel buio» e conclude uno dei suoi ultimi discorsi dicendo: «È suonata l’ora della riscossa, riprendendo la battaglia per la libertà. La libertà che è valore dello spirito; la libertà che educa all’autodisciplina; la libertà che fa assumere le responsabilità individuali e sociali; la libertà fa correre i rischi; la liberttà che forma il cittadino, fortifica il cristiano e valorizza il lottatore per i più gradi sacrifici al bene comune»398. 2.3. Luigi Stefanini: la democrazia come “personalismo sociale” Il politologo Giovanni Sartori ha affermato che «dalla seconda guerra mondiale in poi, il termine “democrazia” abbraccia tutto: quanto più esso ha assunto un significato elogiativo universalmente riconosciuto, tanto più ha subito un’evaporazione concettuale diventando l’etichetta più indefinita del suo genere»399. Le riflessioni di Luigi Stefanini (1891-1956) sulla democrazia, seppur sviluppate all’indomani del secondo conflitto mondiale, conservano ancora oggi motivi di profondo interesse: esse ci aiutano a ridefinire con chiarezza la natura, i compiti e l’assiologia di un autentico politikós bíos incentrato sull’autogoverno del popolo. In opposizione alle 398

IDEM, La battaglia della libertà, cit., p. 157. Gli studi sul pensiero liberale di Sturzo sono ormai cospicui. Ci limitiamo pertanto a segnalare: G. DE ROSA, L’utopia di Luigi Sturzo, Morcelliana, Brescia 1972; F. MALGERI, Luigi Sturzo, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1993; G. CAMPANINI, Il pensiero politico di Luigi Sturzo, Sciascia, Caltanissetta 2001. 399 G. SARTORI, The Theory of Democraty Revisited, Chatham House, Chatham 1987, p. 25.

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concezioni della democrazia di tipo procedurale, formale o meramente utilitaristico (attualmente molto diffuse tra i politologi), le indagini del filosofo trevigiano tentano di dedurre i fondamenti speculativi della prassi democratica. Egli parla esplicitamente di un «significato metafisico della democrazia»400, qualificando questo regime come una forma di “personalismo sociale”. I fondamenti stefaniniani della democrazia sono da rinvenire nella sua teoria della persona, in quello che Vittorio Possenti ha più di recente definito come il “principio persona”401. In queste pagine non ci è possibile ripercorrere il complesso itinerario filosofico che ha portato Stefanini ad affermare, sul piano ontologico, il “primato della persona”. Ci limitiamo, quindi, ad indicare le tre tappe decisive che costituiscono il presupposto speculativo del suo “personalismo sociale”: l’«idealismo cristiano»402, l’«imaginismo»403 e la «metafisica della persona»404. Queste tre tappe si integrano a vicenda e scandiscono i risultati di un’indagine teoretica che Stefanini, sulla scia del pensiero platonico, definisce come scépsi, come ricerca dialogica e dialettica sempre aperta ad elementi di ulteriorità. 400

L. STEFANINI, Personalismo sociale, [la prima edizione del volume è del 1952], Introduzione di A. Rigobello, Studium, Roma 1979, p. 53. 401 A tal proposito cfr. V. POSSENTI, Il principio-persona, Armando, Roma 2006. 402 Si veda L. STEFANINI, Idealismo cristiano, R. Zannoni, Padova 1931. 403 Si veda IDEM, Imaginismo come problema filosofico, Cedam, Padova 1936. Stefanini ama scrivere imaginismo con una sola “m” richiamandosi alla corrispondente parola latina imago: in tal modo egli intende sottolineare la differenza tra il valore teologico dell’imagine (l’uomo come imago Dei) e il significato più comune di immaginazione quale frutto dell’attività fantastica. Per un approfondimento di tale tematica ci permettiamo di rinviare al nostro saggio Ermeneutica dell’imagine in Luigi Stefanini, in AA. VV., Edith Stein e Luigi Stefanini. Esperienza, persona, società, Prometheus, Milano 2004, pp. 337-355. 404 Si veda in particolare Idem, Metafisica della persona e altri saggi, Liviana, Padova 1950. Una cospicua monografia che descrive con estremo rigore filologico l’itinerario intellettuale di Stefanini è quella di Glori CAPPELLO, Luigi Stefanini dalle opere e dal carteggio del suo archivio, Fondazione Stefanini - Europrint Edizioni, Treviso 2006.

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L’enunciato col quale l’autore riassume e sintetizza la sua scépsi filosofica è il seguente: «L’essere è personale e tutto ciò che non è personale nell’essere rientra nella produttività della persona, come mezzo di manifestazione della persona e di comunicazione tra le persone»405. In questa formula speculativa («l’essere è personale») si possono scorgere echi di posizioni idealistiche, sia dell’idealismo trascendentale di J.G. Fichte (nel quale l’immaginazione produttiva dell’Io gioca un ruolo fondamentale) che dell’autòctisi gentiliana: tuttavia Stefanini critica con radicalità gli esiti immanentistici dell’idealismo, riaffermando con vigore la trascendenza e la personalità stessa del Dio cristiano. A nostro avviso, l’espressione «produttività della persona» è da intendere in duplice modo: è produttività del Dio personale che crea il reale ex nihilo, è produttività dell’uomo che con le sue potenzialità creative collabora all’opera stessa di Dio, secondo quanto sottolinea anche Vincenzo Gioberti (autore intensamente studiato da Stefanini)406. Così come in Paul Ricoeur, anche in Stefanini possiamo parlare di un’antropologia dell’homo capax, di una concezione antropologica fondata sulle facoltà creative della soggettività, in primis il linguaggio. L’ontologia della persona per il filosofo trevigiano non è il suppositum della tradizione tomista, ma è nucleo vivo e dinamica enérgheia, è produttività originaria che nella parola trova il luogo della sua espressione esteriore. Queste nostre brevi considerazioni di carattere antropologico non sono affatto estrinseche al discorso politico condotto da Stefanini: per il Nostro, infatti, la questione antropologica è preliminare e fondativa nei confronti della stessa vita democratica. I problemi e le difficoltà stesse della democrazia vanno affrontati chiarificando in primis la natura e le caratteristiche fondamentali della persona umana. È questo un aspetto del pensiero di Stefanini che può essere ripreso ed approfondito con fecondità di sviluppi. 405

IDEM, La mia prospettiva filosofica, a cura dell’Associazione Filosofica Trevigiana, Canova, Treviso 1996, p. 9. La mia prospettiva filosofica è il testo di una relazione tenuta da Stefanini a Padova in un ciclo di conferenze degli anni 1949-1950. 406 Cfr. l’ampia monografia: IDEM, Gioberti, Bocca Editori, Milano 1947.

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Nel 1952 Stefanini dà alle stampe Personalismo sociale, una summa del suo pensiero nella quale vengono sviluppati i risvolti propriamente politici delle sue riflessioni teoretiche: con quest’opera, in particolare, egli cerca di conferire solide basi speculative alla restaurata democrazia parlamentare, sottolineando il «primato della persona» su qualsiasi forma di statalismo e di collettivismo. Per il filosofo «la persona umana, come “fine in sé”, preordina ogni forma sociale, e i diritti della persona prevalgono su ogni dispositivo sociale e ne condizionano la legittimità»407. Ciò che rende autentica la democrazia non è solo il configurarsi come “governo del popolo” ma l’essere una forma politica che pone come suo fine il rispetto dei diritti della persona nella sua singolarità unica ed irripetibile. Il bonum commune - viene ribadito - «coincide con l’esercizio e la preservazione dei valori della persona»408. Il porre la dignitas personae come fine della prassi politica evita ogni forma di deriva totalitaria dello Stato409 o di «ipertrofia dello Stato».410 407

L. STEFANINI, Personalismo sociale, op. cit., p. 49. Ibidem. Come’è noto, la nozione di dignitas personae ha una lunga tradizione che affonda le sue radici nella cultura ebraico-cristiana e nella filosofia medievale. Possiamo dire che le stesse affermazioni di Kant sulla “dignità della persona” (Würdigkeit der Person) costituiscano una laicizzazione della prospettiva di San Tommaso secondo la quale la persona sarebbe sempre da considerare come “fine in sé” - Kant direbbe Zweck an sich - poiché essa è imago Dei, poiché essa è «a Deo propter se quaesita in universo» (TOMMASO D’AQUINO, Contra Gentiles, III, 112). 409 Notiamo che anche il giovane Norberto Bobbio negli anni Quaranta subì il fascino del personalismo e lo considerò una filosofia in grado di salvaguardare i diritti della persona in opposizione alle possibili ingerenze dello Stato autoritario. Ricordiamo che la sua prolusione del 1946 all’Università di Padova è dedicata a La persona e lo Stato: «l’uomo, in quanto diviene persona, sorpassa continuamente lo Stato, e quindi non può essere racchiuso integralmente nei limiti dello Stato, perché ne va della sua possibilità stessa di allargare gli orizzonti della propria umanità, di irrobustire la propria personalità morale che si perfeziona soltanto nella libertà incondizionata della coscienza» (N. BOBBIO, L’uomo e lo Stato, saggio riedito in IDEM, Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, Roma 1996, p. 83). Differentemente da Stefanini, Bobbio 408

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Uno dei meriti teorici della proposta di Stefanini, a nostro avviso, può essere individuato nel recupero del rapporto tra trascendenza e politica: la trascendenza, di cui la persona umana è emblematica espressione, evita la tentazione sempre insorgente di “sacralizzare la politica”. Nella prospettiva ebraico-cristiana solo Dio, trascendenza di cui l’uomo è imago, è l’Assoluto ed il Signore: tutto il resto è relativo, finito, transeunte e fallibile. In tale concezione religiosa anche il potere politico viene desacralizzato e relativizzato. A tal proposito Dario Antiseri, proponendo una forma di liberalismo aperto alla trascendenza cristiana, ha correttamente osservato: «con il messaggio cristiano aveva fatto irruzione nel mondo l’idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto. Lo Stato non è l’Assoluto: Káysar non è Kýrios. E con ciò il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità da parte di coscienze inviolabili, di persone “fatte ad immgine e somiglianza di Dio”»411. Nel sottolineare la necessita di un recupero del rapporto tra politica e trascendenza, Stefanini riprende motivi presenti nella Lettera a Diogneto e nel De civitate Dei di Agostino, riattualizzandoli a partire dal contesto storico del Novecento. Da questo punto di vista, le riflessioni di Stefanini mostrano notevoli convergenze con quelle di Jacques Maritain, Leo Strauss ed Erich ricerca una valenza laica del personalismo e si richiama alla tradizione kantiana. Talvolta non viene sufficientemente sottolineato che in Bobbio il personalismo è stato la matrice filosofica delle sue teorie sulla tolleranza e sul relativismo tollerante. In Verità e libertà (1960) egli afferma: «Che la verità sia personale significa in fin dei conti che la molteplicità delle verità è giustificata dalla molteplicità e irriducibilità delle persone. […] Il personalismo è il tentativo più radicale di prender atto della moltiplicazione all’infinito delle verità e insieme di rifiutare la soluzione scettica» (N. BOBBIO, Verità e libertà, in Idem, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1994, p. 64-65). 410 L. STEFANINI, Personalismo sociale, op. cit., p. 129. 411 D. ANTISERI, Il liberalismo cattolico italiano dal Risorgimento ai nostri giorni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 5.

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Voegelin: in maniera affine a questi autori, anche il filosofo trevigiano condanna gli esiti nefasti della “scienza politica moderna” fondata sulla nozione antropologica di “individualismo possessivo”412, ed auspica la nascita di una “nuova scienza politica” in grado di portare un rinnovato equilibrio tra etica e politica, ricostituendo anche il nesso classico (e platonico in particolare) tra verità e politica, tra paidéia e politéia. In maniera simile a Voegelin, Stefanini vede in Platone il paradigma di riferimento al quale orientarsi, un modello che teorizza il rapporto tra politica e verità dell’éthos, tra politica e visione utopica (soprattutto nella Repubblica); si tratta di un modello utopico ma che allo stesso tempo sa essere anche realistico e pragmatico. Quest’ultimo aspetto emerge soprattutto dalle Leggi (i Nómoi), l’ultima grande opera di Platone: «Non conosco dottrina politica che, come quella propostaci dall’antico filosofo, valga a distinguere accertamenti realistici e orientamenti deontologici, mettendo allo stesso tempo gli uni a profitto degli alti, senza remissione quietistica a condizione di fatto o un abbandono sterile a visioni utopistiche»413. Il “personalismo sociale” proposto da Stefanini viene concepito come “terza via” che riesca ad arginare le unilateralità del liberalismo e del marxismo. Quest’ultimo è da rifiutare poiché si fonda su una visione dell’uomo materialistica e ha dato origine a forme politiche totalitarie (si pensi allo stalinismo). Il liberalismo corre invece rischio di condurre ad una “democrazia formale”, ad una libertà priva di saldi indirizzi etici e all’economicismo. A questo 412

L’idea che la “scienza politica moderna” si origini da una visione dell’uomo negativa, caratterizzata da un radicale “individualismo possessivo”, viene bene espressa nel celebre volume di Crawford B. MACPHERSON, The Political Theory of Possessive Individualism: Hobbes to Locke, Oxford University Press, Oxford 1962; tr. it. di S. Borutti, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Prefazione di A. Negri, Isedi, Milano 1973. 413 L. STEFANINI, Personalismo sociale, op. cit., p. 117. Sull’interpretazione che Voegelin dà di Platone si veda N. Matteucci, Eric Voegelin e il ritorno a Platone, in IDEM, Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 115-132.

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proposito le riflessioni stefaniniane ci paiono estremamente attuali: «di fatto» - egli afferma - «la democrazia formale del liberalismo si risolve in una specie di economicismo [diremmo oggi di neoliberismo], a favore di una sola classe: quella che, detentrice della proprietà, mantiene il diritto di abusarne. Se la democrazia occidentale fosse tutta nella forma originaria del liberalismo, avrebbero ragione Lenin e Stalin di accusarla»414. Evitando anche «l’amalgama del liberalsocialismo» (proposto in quegli anni da Guido Calogero415), Stefanini afferma che la democrazia politica, per non essere un insieme di sterili procedure elettorali lontane dagli interessi concreti della persona, deve trasformarsi in “democrazia sociale”, provvedendo «ad una più equa distribuzione della ricchezza»416. A nostro avviso, la prospettiva di Stefanini anticipa e contiene in nuce intuizioni che ai nostri giorni sono state sviluppare da autori come Martha C. Nussbaum e Amartya Sen: una democrazia ha valore etico e si costituisce come “personalismo sociale” solo se è in grado di garantire ad ogni singola persona i beni necessari al pieno esercizio delle sue capacità, delle sue scelte di vita417. Ma il personalismo sociale di Stefanini è interessante non solo per i suoi sviluppi pratici ma anche per la riflessione teoretica e antropologica che lo fonda. Le basi speculative della democrazia sono da ricercare in particolare un’antropologia dell’interpersonalità. «La socialità» - afferma il Nostro - «è endogena alla persona»418. L’uomo è un essere bisognoso dell’alterità, è “figlio di penìa”, cioè dell’indigenza. L’alterità è nel cuore stesso dell’identità personale, la forma e allo stesso tempo la costituisce. Ecco allora la formula del personalismo sociale, che è lontano da qualsiasi forma riduttiva di psicologia sociale: «quando più discendo in me tanto più trovo gli 414

L. STEFANINI, Personalismo sociale, op. cit., p. 128. Cfr. G. CALOGERO, Difesa del liberalsocialismo, Atlantica, Roma 1945. 416 L. STEFANINI, Personalismo sociale, op. cit., p. 130. 417 A tal proposito si vedano M.C. NUSSBAUM, Giustizia sociale e dignità umana. Da individui a persone, Introduzione di C. Saraceno, Il Mulino, Bologna 2002; A. Sen, Etica ed economia, Prefazione di J.M. Letiche, Laterza, Roma-Bari 20097. 418 L. STEFANINI, Personalismo sociale, op. cit., p. 50. 415

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altri e quanto più mi apro agli altri tanto più approfondisco me stesso»419. L’identità personale ha sempre un’imprescindibile dimensione comunitaria, il cui modello teologico è la Trinità stessa, la perichóresis delle tre persone divine420. «Per ogni persona» afferma l’autore - «passa tutta la società»421; si tratta di una societas reperita in interiore homine: tuttavia in Stefanini siamo lontani dalla socialità originaria di cui parlava Giovanni Gentile, ovvero l’assorbimento dell’individuo empirico nell’unico spirito trascendentale. Particolarmente originale ci pare la similitudine fatta da Stefanini tra la democrazia e il “corpo mistico” della teologia paolina: il senso della comunità umana organizzata democraticamente è «l’organica partecipazione dei singoli alla vita totale». La pianta della vite - oltre a essere simbolo del corpo mistico («Io sono la vite e voi i miei tralci») - è anche l’emblema di ogni forma umana di consociazione. Nella vite il tronco si prolunga nei tralci fin quasi a confondersi con essi; lo Stato democratico è come la vite: in esso si ha una «compenetrazione delle anime nell’organismo che tutte le trascende, vivificandole»422. La dimensione comunitaria del pensiero di Stefanini - per alcuni aspetti notevolmente diverso da quello elaborato da Emmanuel Mounier423 - emerge anche dal valore che egli assegna alla famiglia e 419

Ibidem. Il Dio cristiano ha una dimensione interpersonale: è questa la grande differenza teologica con l’ebraismo e l’Islam che non hanno il concetto di “Dio uno e trino”. Ciò viene fatto acutamente notare da Stefanini: «bel so che sarei eretico se dicessi che la Trinità è una società. Ma certo, per quello che il mistero di sé concede al nostro intendere, s’intende che l’Unico né è solo rispetto agli esseri che può suscitare fuori di sé, né è solitudine nei recessi della sua indivisibile natura. La libera creazione segue ad un’interna generazione, per la quale l’essere è in quanto si manifesta e si dichiara a se medesimo, e questa auto manifestazione determina la consustanziale personalità della sapienza e dell’amore» (ibidem, p. 51) 421 Ibidem, p. 53. 422 Ibidem, p. 54. 423 Stefanini, pur avendo ammirazione per Mounier, è lontano dagli eccessi della “rivoluzione personalistica e comunitaria” teorizzata dal filosofo 420

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al senso della nazione. Sulla scorta della lezione ciceroniana, la famiglia viene vista come «principium urbis et quasi seminarium rei publicae» (De officiis, I, 17, 54), fondamento della società civile e quasi vivaio della vita pubblica. Tra i compiti primari della famiglia e dello Stato - sottolinea Stafanini - c’è sicuramente quello paidetico ed educativo. Lo Stato non dev’essere certamente “Stato etico”, tuttavia esso deve saper provvedere all’educazione etica dei cittadini. Tra i compiti fondamentali della scuola c’è quindi quello primario di una corretta educazione civica dei discenti: la scuola e con essa la famiglia devono soprattutto preparare i giovani ad una partecipazione responsabile alla vita democratica424. Il nesso inscindibile tra democrazia ed educazione ci pare anche il principale trait d’union tra le considerevoli riflessioni di John Dewey425 e quelle di Stefanini, le quali appaiono estremamente attuali in un tempo come il nostro in cui si avverte un’emergenza del problema educativo426. Nell’attuale contesto culturale sono molti a sottolineare che la democrazia è in crisi in quanto assillata da nuovi urgenti problemi francese, il quale giunge persino a svalutare la democrazia partecipativa, considerandola come un puro e sorpassato espediente tecnico. Stefanini giudica invece positivamente la democrazia parlamentare, avverte il valore fondamentale della mediazione istituzionale e rifiuta quindi le nuove esperienze di democrazia diretta proposte da Mounier, scorgendo in esse ambigue forme di radicalismo morale e di emotivismo. 424 Si veda L. STEFANINI, Personalismo educativo, Bocca Editori, Roma 1955. Cfr. anche L. CAIMI, Educazione e persona in Luigi Stafanini, La Scuola, Brescia 1985; A. RIGOBELLO, Rapporto persona-società in Luigi Stefanini, in Aa. Vv., Edith Stein e Luigi Stefanini. Esperienza, persona, società, Prometheus, Milano 2004, pp. 141-154. 425 A tal riguardo cfr. J. DEWEY, Democracy and Education: An Introduction to the Philosophy of Education, Macmillan, New York 1916; a cura di A. Granese, Democrazia e educazione, La Nuova Italia, Firenze 1992. 426 Su questo tema si veda V. BURZA (a cura di), Democrazia e nuova cittadinanza. Interpretazioni pedagogiche, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005; C.B. TORTOLICI, Il compito urgente dell’educazione, in S. SPIRI - T. VALENTINI (a cura di), Allargare gli orizzonti della razionalità. Prospettive per la filosofia, Editori Riuniti University Press, Roma 2010, pp. 513-518.

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causati non solo da fattori esterni ma anche di tipo endemico: è noto come oggi le democrazie occidentali assistano ad un calo generalizzato del numero dei votanti, all’anomìa sociale, all’indifferentismo, alla crisi dei partiti, a difficoltà istituzionali nel mantenere un vivo contatto con il corpo sociale. Accanto a problemi di ordine economico ed istituzionale, le moderne democrazie liberali hanno inoltre un’altra serie di difficoltà nel rispondere alle questioni “eticamente sensibili” come quelle che concernono la vita, la famiglia e i diritti umani427. Innanzi a queste sfide le riflessioni di Stefanini possono fornirci ancora oggi utili orientamenti fondati su di una fiducia metafisica nella dignità della persona umana: in tal senso possiamo dire che l’attualità della sua proposta sta tutta nell’averci indicato con efficacia i fondamenti prepolitici della democrazia. Ecco allora che le seguenti parole del filosofo ci infondono ottimismo e speranza, impegnandoci a migliorare quanto più possibile la nostra vita democratica che è “pegno e primizia” sempre da riscoprire e valorizzare: «L’ordinamento democratico del mondo politico è il più alto e il più ideale, ma è anche il più difficile e il più impegnativo. Esso è un paradigma, il quale pone compiti immani agli uomini che vivono in esso. La democrazia non dev’essere accolta con leggerezza, come un dono, ma come una prova, la più ardua per l’umanità presente»428. Per Stefanini la realizzazione di un’autentica democrazia è un compito etico, un ideale regolativo che deve guidare ogni scelta politica, è “un atto di fede che l’umanità fa su se stessa”. Concludiamo con quest’incisiva affermazione di Stefanini sul valore personalitico della democrazia: «La democrazia è l’ordine sociale politico più personale, in quanto è quello per il quale ognuno è giudice sul tutto: quello secondo il quale per ogni cittadino passa

427

Su tali tematiche la letteratura critica è molto vasta. Ci limitiamo pertanto a segnalare i contributi raccolti nei volumi di A. ABRUZZESE e V. SUSCA, Immaginari postdemocratici. Nuovi media, cyber cultura e forme di potere, Introduzione di E. Manca, FrancoAngeli, Milano 2006; V. POSSENTI (a cura di), Il futuro della democrazia, Mimesis, Milano 2011. 428 L. STEFANINI, Personalismo sociale, op. cit., pp. 4-5.

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tutta la città, per ogni suddito passa tutto lo Stato, per ogni coscienza passa tutta la legge, per ogni singola libertà passa tutta l’autorità»429.

429

Ibidem, p. 4.

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Capitolo V Il Movimento di Gallarate e le due anime della metafisica italiana: il paradigma neoclassico e lo spiritualismo

Nell’immediato secondo dopoguerra in Italia, come nel resto dell’Europa sconvolta e distrutta dagli eventi bellici, vi fu un generale desiderio di rinascita e di ricostruzione. Anche l’ambiente filosofico di ispirazione cristiana avvertì l’esigenza di rinnovamento e di dare nuovi impulsi positivi in campo teoretico ed etico-politico. Il gesuita Carlo Giacon (1900-1984), in collaborazione con altri cinque esponenti della filosofia italiana (Umberto Padovani, Michele Federico Sciacca, Luigi Stefanini, Augusto Guzzo e Felice Battaglia) fondò nel 1945 il Centro di Studi Filosofici [cristiani] di Gallarate: si trattava di un’associazione tra professori universitari che faceva capo all’Istituto Aloisianum di Gallarate (Varese), ossia alla Pontificia facoltà di filosofia dei Padri Gesuiti dell’Italia settentrionale. Ecco le parole con le quali Padre Giacon descrive la nascita e le caratteristiche del Movimento di Gallarate: «Un gruppo di professori universitari italiani di materie filosofiche, che riconoscono soltanto nel Cristianesimo la sorgente di redenzione e di salvezza per l’umanità, consapevoli della specialissima responsabilità che essi hanno di portare il proprio contributo per la rinascita e la ricostruzione della patria e per l’intesa e la concordia tra le nazioni, appena cessato il furore distruttivo della guerra, hanno convenuto di radunarsi annualmente in un amichevole e familiare convegno per conoscersi meglio e per rendere accessibile al mondo filosofico un pensiero che si apre agli ideali cristiani e dai medesimi rimane illuminato e confortato»430. 430

C. GIACON, I dieci convegni dal 1945 al 1954, Cedam, Padova 1955, [dalla Prefazione].

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I sei professori che diedero vita al Movimento di Gallarate fuorno animati dal desiderio di una necessaria “ricostruzione” della cultura italiana anche sul piano propriamente metafisico e religioso. Ecco come nell’Avvertenza al primo voume degli Atti dei convegni vengono raccontate le vicende che condussero i sei docenti all’organizzazione del Centro studi: «Si era nell’agosto del 1945. Il 25 aprile non era molto lontano e non erano state ancora attivate le principali comunicazioni ferroviarie. Il Prof. Padovani, a Gallarate, dove si trovava sfollato da Milano, in un amichevole colloquio col Padre Giacon, auspicò una sollecita riunione di professori universitari di metarie filosofiche, aderenti ad una concezione cristiana della vita, per favorire un indirizzo almeno non anticristiano all’immancabile rinascita degli studi filosofici del dopoguerra. Dopo una quindicina di giorni, a Padova, il Prof. Stefanini, senza conoscere affatto la proposta del Prof. Padovani, con parole del tutto simili, faceva al Padre Giacon la stessa proposta. Il felice incontro delle idee obbligò a pensare a una qualche concreta realizzazione. In un incontro a Pavia, il Padre Giacon raccolse dal Prof. Sciacca non solo piena adesione, ma fervore di propositi e conoscenza di iniziative già in atto. Un altro incontro ebbe luogo a Vallo, vicino a Torino, dove si trovava il Prof. Guzzo, affranto inesorabilmente per la perdita repentina dell’unica direttissima figlia. Il Padre Giacon trovò la più viva adesione, i più fervidi incoraggiamenti, i suggerimenti più utili e opportuni. Altrettanto ebbe a Bologna dal Prof. Battaglia. Tutti si era ben consapevoli che, nella crisi e nel crollo conseguiti alle due guerre mondiali, anche per la filosofia si manifestava, come unico terreno saldo, di fronte a tante rovine materiali e spirituali, il Cristianesimo»431. Il primo convegno si tenne dal 22 al 24 ottobre del 1945 e vi parteciparono professori provenienti soprattutto dagli atenei del nord Italia: nel paese c’erano infatti ancora i disagi di comunicazione 431

AA. VV., Il primo convegno, 22-24 ottobre 1945, Liviana, Padova 1951, p. 5. Al primo convegno parteciparono, oltre i sei docenti già menzionati, anche Fausto M. Bongioanni, Gustavo Bontadini, Enrico Castelli, Giuseppe Flores D’Arcais, Augusto Del Noce, Marino Gentile, Renato Lazzarini, Carlo Mazzantini, Luigi Pareyson e Raffaele Resta.

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causati dalla guerra. In quell’incontro il tema discusso fu “Orientamenti contemporanei della filosofia cristiana e della filosofia non cristiana”. Questo tema fu riproposto nel secondo Convegno del 1946 che vide una più ampia partecipazione di docenti ed ebbe come titolo “Cristianesimo e filosofia”. Gli argomenti trattati nei successivi dieci convegni annuali furono: Attualità filosofiche (1947); La ricostruzione metafisica (1948); La fondazione della morale (1949); Persona e società (1950); I fondamenti dell’estetica (1951); Il problema della storia (1952); Il problema della scienza (1953); Il problema pedagogico (1954); La fenomenologia (1955); Il problema del valore (1956)432. Giovanni Santinello individua due ampi periodi all’interno del Movimento di Gallarate, la cui attività continua proficua anche oggi. Come si evince anche dai titoli dei convegni annuali sopra riportati «il primo periodo è caratterizzato dall’esigenza della ricostruzione sistematica. Il pensiero cristiano si presenta articolato soltanto in due indirizzi, ciasuno ben compatto al proprio interno, in discussione vivace tra loro: in neotomismo o neoscolastica, che elabora quella che fu detta la metafisica dell’essere o metafisica neoclassica o, semplicemente, classica, da una parte; dall’altra l’indirizzo denominato spiritualismo, nome però ben presto rifiutato da coloro stessi che l’avavo proposto, e sostituito da altri»433. L’indirizzo spiritualistico veniva spesso accusato dai sostenitori della metafisica classica di essere “fideistico, esigenziale e postulatorio” e, quindi, 432

Sui temi e le relazioni dei successivi convegni si vedano: A. BABOLIN, Il Movimento di Gallarate, Patron, Bologna 1966; IDEM, Il movimento di Gallarate: i convegni dal 1966 al 1970, Prefazione di F. Battaglia, Editrice Gregoriana, Padova 1971; V. BORTOLIN, Tra ricerca filosofica e fede cristiana: il movimento di Gallarate, Editrice Gregoriana, Padova 1990; IDEM, Il Movimento di Gallarate, in E. CORETH – W.M. NEIDL – G. PFLIGERDORFFER (a cura di), La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, Edizione italiana a cura di G. Mura e G. Penzo, Città Nuova, Roma 1995, Vol. II, pp. 723-741. 433 G. SANTINELLO, Il pensiero cristiano nel secondo dopoguerra, in F. TESSITORE (a cura di), La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980, Guida, Napoli 1982, pp. 263-286, p. 267.

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intimistico, non rigorosamente fondato ed argomentato a partire dalle esigenze della morale e della fede cristiana. Lo spartiacque dei due periodi del Movimento di Gallarate, ma possiamo senz’altro dire di tutta la cultura cattolica, è costituito dal Concilio Vaticano II (1962-1965): dal Concilio la chiesa esce rinnovata e cerca di instaurare un nuovo e più fecondo dialogo con il mondo moderno. Tale apertura di idee e di vedute non poteva non avere conseguenze anche sulla ricerca filosofica di ispirazione cristiana. Mentre nei convegni di Gallarate dei primi anni «le discussioni furono in prevalenza interne, scarse le aperure esterne, che non fossero di energica opposizione al pensiero “laico” o, meglio, “laicistico”,» - sottolinea Santinello - «nel secondo periodo, invece, venne perdendosi la netta caratterizzazione dei due indirizzi; le articolazioni si sono fatte più complesse e varie, le problematiche si sono arricchite dell’apporto di molte relazioni, anche esterne alla primitiva compattezza dell’indirizzo cristiano. Si è venuto sfiorando, secondo il giudizio di alcuni, una vera crisi di identità»434. Inoltre, mentre il primo periodo del Movimento di Gallarate e dei suoi convegni è caratterizzato da un’istanza di sistematicità e di sintesi (il problema speculativo affrontato viene analizzato nelle sue singole parti e valutato in relazione alla philosophia perennis), nel secondo periodo si ha un approccio di carattere più ermeneutico e si evitano di dare giudizi definitivi sulle questioni affrontate; la forma mentis dei docenti di Gallarate è gradualmente mutata in relazione al quadro filosofico generale del secondo Novecento, sempre più avverso all’idea di sistema onnicomprensivo ed aperto invece all’approccio analitico ed ermeneutico, lontano dalle sintesi definitive. Comunque ci pare che ancora oggi, pur nel mutamento di sensibilità filosofiche, si possa ancora individuare all’interno del Movimento di Gallarare e della stessa filosofia cristiana la presenza di due atteggiamenti speculativi di fondo, magari non più antitetici come un tempo ma operanti in sinergia: il modello della metafisica classica, che potremmo definire neoellenistico per il suo riferimento all’ontologia aristotelica, ed un modello “spiritualistico” o, meglio 434

Ibidem.

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ancora, agostiniano e personalistico, incentrato sull’interiorità umana. Nel secondo dopoguerra esponenti italiani della metafisica classica possono essere considerati, tra gli altri, Gustavo Bontadini, Sovia Vanni Rovighi, Umberto Antonio Padovani, Virgilio Melchiorre, Cornelio Fabro, Marino Gentile ed il suo allievo Enrico Berti435. Tra i rappresentanti della cosiddetta corrente di carattere spiritualistico e personalistico possono invece essere menzionati Augusto Guzzo, Armando Carlini, Felice Battaglia, Renato Lazzarini, Michele Federico Sciacca, Luigi Pareyson, Luigi Stefanini ed il suo allievo Armando Rigobello. Una figura di notevole spessore speculativo che prese parte al Movimento di Gallarate fu anche Padre Giuseppe Bozzetti (1878-1956), un personalista che si richiamava alla posizione di Rosmini: nel 1950 gli fu affidata la relazione principale del convegno sul tema Persona e società. Il Movimento di Gallarate non si è limitato alla sola organizzazione di convegni annuali ma ha dato ulteriori validi contributi alla ricerca filosofica: ricordiamo la realizzazione dell’Encicpledia filosofica in sei volumi (presso Editore Sansoni) comprendente 7000 voci storiche e 5000 voci teoretiche, la promozione di prestigiose collane editoriali e dell’edizione italiana delle Opere di Romano Guardini. Pietro Prini da un giudizio molto positivo sulle istanze culturali che animarono gli incontri di Gallarate; egli sottolinea che «nel Movimento di Gallarate si è venuto manifestando un vero e proprio carattere dialogico, ossio non monodico, ma polifonico, del filosofare cristiano. La pluralità delle filosofie cristiane, ossia, nel senso giobertiano che già conosciamo, la poligonalità del loro cattolicesimo, è stato un esito positivo delle attività di ricerca e di discussione di questo “Centro”, che ha interrotto (ormai è da credere, definitivamente, anche per l’influenza del Concilio Vaticano II) la pretesa di privilegiare il tomismo come forma esemplare della 435

A tal proposito cfr. M. GENTILE, Come si pone il problema metafisico, Liviana, Padova 19652; G. GIANNINI (a cura di), La filosofia neoclassica, Marzorati, Milano 1975; P. FAGGIOTTO, La ripresa della metafisica classica, in E. AGAZZI (a cura di), Il pensiero critiano nella filosofia italiana del Nocecento, Milella, Lecce 1980, pp. 13-38.

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philosophia perennis nella cultura cristiana. A Gallarate questa “poligonalità” è stata un fermento dialettico fecondo, che ha visto scontrarsi, fin dall’inizio, i filosofi cattolici nelle alternative di fondo tra l’autonomia della ragione teorica o il primato della morale o addirittura la pura opzione di fede, per conseguenza, nella caratterizzazone della filosofia come intellettualistica o personalistica o volontarisitca»436. Prenderemo ora in esame i dibattiti sulla possibilità e la natura stessa di una “filosofia cristiana”: tali dibattiti si sono originati nella Francia degli anni Trenta ed hanno avuto in seguito notevoli riflessi sulla cultura italiana e, in particolare, sul Movimento di Gallarate. Ci occuperemo poi di come i due principali orientamenti della metafisica italiana (quello neoclassico e quello spiritualistico) abbiano concepito il rapporto tra la ragione e la fede, difendendo differenti approcci metodologici. 1. È possibile una “filosofia cristiana”? Le ripercussioni dei dibattiti francesi sulla cultura italiana Alla base del Movimento di Gallarate v’è l’idea che la filosofia possa trarre ampio giovamento dalla spiritualità cristiana. Non a caso i primi due incontri (sopra menzionati) ed un successivo convegno del 1977 (Il senso della filosofia cristiana, oggi) hanno avuto come tema quello di un possibile dialogo tra la ragione e la fede religiosa e cercarono di far emergere le condizioni di possibilità per una “filosofia cristiana”, un concetto tutt’altro che scontato ed oggetto perciò di accesi dibattiti. Al primo convegno riguardante “i concetti di filosofia cristiana e non cristiana” presero la parola come relatori Padovani, Stefanini, Lazzarini e Sciacca. Essi si richiamarono ampiamente ai dibattiti che caratterizzarono la cultura francese degli 436

P. PRINI, Il Movimento di Gallarate: la «querelle» tra metafisica dell’essere e umanesimo interiore, in IDEM, La filosofia cattolica italiana del Novecento, cit., pp. 159-162, p. 161. Prini ricorda anche alcuni rilievi critici ed ironici fatti da Antonio Banfi ai promotori del Movimento di Gallarate: lì definì “filosofi da collegio”

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anni Trenta, in cui vennero prese seriamente in esame le possibilià, i significati ed i limiti di una “philosophie chrétienne”. Ci soffermiamo brevemente su alcune posizioni emblematiche degli autori francesi per poi analizzare le prospettive dei filosofi italiani. Il 24 marzo 1928 Léon Brunschvicg presentò alla Société française de Philosophie il suo punto di vista già diffusamente argomentato nell’opera del 1927 Le Progrès de la conscience dans la philosophie occidentale: a suo parere la filosofia contemporanea doveva giungere a piena maturazione intellettuale dichiarando inaccettabili ed ingiustificate le “ontologie immaginarie” che, fino al secolo XVII, erano state il nucelo centrale della speculazione. Secondo il Brunschvicg dopo Cartesio il pensiero umano aveva fatto una virata antropologica e razionalistica che aveva avuto come conseguenza la completa negazione del soprannaturale e della stessa trascendenza di Dio: era ormai del tutto illusorio pensare ad un Dio “fabbricatore” del cielo e della terra. Alle “ontologie mitologiche” del pensiero antico e medievale egli cercò, quindi, di sostituire il culto di un “Dio interiore”, immanente al cogito e all’interiorità umana437. Le tesi di Brunschvicg suscitarono in Francia vivaci discussioni alle quali presero parte anche Maurice Blondel, Édouard Le Roy ed Étienne Gilson: i primi due accettarono le premesse cartesiane del discorso di Brunschvicg ma ne respinsero le conclusioni atee, dichiarando possibile l’emergere del soprannaturale dall’immanenza stessa dell’anima umana: Gilson, invece, sostenne che l’ateismo di Brunschvicg non era che la conseguenza del suo idealismo di origine cartesiana e propose quindi un ritorno al “realismo gnoseologico” della scolastica medievale, difendendo, quindi, anche la possibilità di una “filosofia cristiana”. Il 31 marzo del 1931 Gilson tenne una relazione alla Société française de Philosophie nella quale prese posizione contro l’idealismo immanentistico di Brunschvicg e giustificò la possibilità di una “philosophie chrétienne” partendo da considerazione storiche. 437

Cfr. L. BRUNSCHVICG. Le Progrès de la conscience dans la philosophie occidentale, Alcan, Paris 1927; IDEM, La querelle de l’athéisme, «Bulletin de la Société française de philosophie», 28, 1928, pp. 50-95.

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A parere di Gilson se si pensa alle elaborazioni concettuali della patristica e soprattutto della scolastica medievale diviene storicamente certo e documentabile il contributo che la rivelazione ebraico-cristiana ha dato alla filosofia: diviene allora legittimo affermare l’esistenza, almeno sul piano storico, di una “filosofia cristiana”. Dice Gilson: «Certo, bisogna tornare alla distinzione formale tra ordine filosofico e ordine teologico; ma questo si può fare conservando un senso alla nozione di filosofia cristiana? Sì, si può, a condizione di riportare il problema sul terreno della storia. Si tratta allora di sapere se il cristianesimo ha svolto un ruolo osservabile nella costituzione di certe filosofie. Se esistono dei sistemi filosofici, puramente razionali nei loro princìpi e nel loro metodo, la cui esistenza non si spiega senza l’esistenza della religione cristiana; le filosofie che vi si ricollegano meritano in nome di filosofie cristiane. Questa nozione, quindi, non corrisponde al concetto di un’essenza pura, bensì alla possibilità di una realtà storica complessa: quella di una Rivelazione generatrice di ragione. I due ordini restano distinti, ma il rapporto che li lega è intrinseco»438. L’esempio tipico di questa realtà per Gilson è la filosofia di Sant’Agostino: in essa è particolarmente evidente il fatto che i contenuti del cristianesimo abbiano dato nuova vitalità e finalità alla ragione umana. Si pensi ai notevoli contributi che hanno portato alla filosofia agostiniana - e non solo - nozioni di origine teologica come quelle di creazione ex nihilo, di persona come imago Dei, di peccato originale come caratteristica propria della natura umana. Secondo Gilson «Ciò che caratterizza il cristiano è la convinzione di una fecondità razionale della sua fede, una fecondità inesauribile. È proprio questo, se lo si intende bene, il senso del credo ut intelligam di Sant’Agostino e del fides quaerens intellectum di Sant’Anselmo: uno sforzo da parte del cristiano per ricavare delle conoscenze filosofiche dalla sua fede nella Rivelazione; per questo tali formule sono una pefetta definizione della filosofia cristiana»439. Quella della “filosofia cristiana” è, dunque, per Gilson un’aspirazione che la 438

É. GILSON, La notion de philosophie chrétienne, «Bulletin de la Société française de philosophie», 2, 1931, p. 39. 439 Ibidem, pp. 46-47.

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storia dimostra fondata e feconda: «Se ci sono state delle filosofie cioè dei sistemi di verità razionali - la cui esistenza non si spiega storicamente senza l’esistenza del cristianesimo, esse devono chiamarsi filosofie cristiane: sono filosofie perché sono razionali, e sono cristiane perché la razionalità che esse apportano non è stata concepita al di fuori del cristianesimo»440. Gilson parla, quindi, di un “rapporto intrinseco” tra cristianesimo e filosofia che è storicamente documentabile: «Affinchè il rapporto tra i due concetti di base (cristianesimo e filosofia) sia intrinseco, non basta che una filosofia sia compatibile con il cristianesimo: bisogna che il cristianesimo abbia svolto un ruolo attivo nella costituzione stessa di quella filosofia. Per esempio, in Platone e in Aristotele ci sono molti elementi compatibili con il cristianesimo, ma quei pensatori non hanno prodotto certamente una filosofia cristiana; e invece gli sviluppi posteriori prodotti da un Sant’Agostino e da un Sant’Tommaso non si possono spiegare senza in cristianesimo»441. Le filosofie cristiane, spiega Gilson, nascono dall’opera di filosofi che «considerano la rivelazione giudaico-cristiana come un aiuto moralmente necessario per la ragione filosofica»442. Egli sottolinea, quindi, che «il filosofo cristiano è un pensatore che, lungi dal credere per esimersi dal comprendere, è convinto di trovare nella fede che egli abbraccia un beneficio netto per la sua ragione»443 Gilson fu autore di numerose opere sul pensiero medievale nelle quali dimostrò con rigore filologico le sue tesi sul rapporto tra filosofia e cristianesimo: tra queste ricordiamo soprattutto L’esprit de 440

Ibidem, p. 47. Ibidem. 442 Ibidem, p. 48. Gilson nella sua opera giovanile Le thomisme (1919) interpreta la metafisica di San Tommaso come una “metafisica dell’Esodo”, una teoria filosofica chiaramente ispirata dai testi biblici; tale ermeneutica torna anche nelle opere più mature: «L’Ego sum dell’Esodo è proprio al posto giusto, nella Summa Teologica, prima di tutte le prove razionali e propriamente filosofiche dell’esistenza di Dio» (É. GILSON, Introduction à la philosophie chrétienne, Vrin, Paris 1960; tr. it. di A. Livi, Introduzione alla filosofia cristiana, Massimo, Milano 19862, p. 31). 443 É. GILSON, Préface, in Le thomisme, Vrin, Paris 19253. 441

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la philosophie médiévale nella quale egli ricostruisce l’animus con cui i primi cristiani si approcciarono alla filosofia: da Giustino Martire in poi - egli scrive - tutti sono convinti che «per il cristiano la sola ragione non basta alla ragione: e non soltanto nel II secolo alcuni filosofi alcuni filosofi che si sono convertiti al cristianesimo per vantaggio della stessa filosofia. Al fides quaerens intellectum di Sant’Anselmo e di Sant’Agostino corrisponde l’intellectus quaerens intellectum per fidem di Maine de Biran»444. Le tesi di Gilson trovarono vasta accoglienza ma anche numerose critiche: il Blondel gli rimproverò di limitarsi quasi esclusivamente al terreno storiografico senza precisare mai «se e come la speculazione razionale e gli apporti cristiani possano incontrarsi, coabitare, cooperare, senza confondersi». Dal canto suo Blondel partendo dal suo metodo dell’immanenza giustificò la possibilità teoretica non solo di una “filosofia cristiana” ma di una “filosofia cattolica”: propose uno stile di ricerca filosofica universale ed integrale, non “integralista” o strettamente confessionale, ma in grado di rispondere sia alle esigenze di credenti che dei non credenti, superando certi aspetti devianti della filosofia greca classica grazie agli influssi fecondi del messaggio evangelico445. 444

É. GILSON, L’esprit de la philosophie médiévale, Vrin, Paris 1932; tr. it. di P. Sartori Treves, Lo spirito della filosofia medioevale, Morcelliana, Brescia 19986, p. 42. 445 Ecco come Blondel spiega per quali ragioni preferisce definire la sua prospettiva filosofica come “cattolica” anzi come “cristiana”: «Contrairement à un prejugé courant, la conception protestante du christianisme ne comporte pas la même rigoureuse accointance philosophique que le catholicisme. Ce qui fait illusion, c’est que, faute d’y maintenir autant le caractère surnaturellement allogène et mortifiant de l’apport divin et transformant, les thèses mixtes risquent de perdre à la fois quelque chose de leur surnaturalisme et quelque chose de leur spontanéité naturelle. Nous avons vu comme Dechamps va droit à l’unité intégrale et au réalisme concret du fait catholique en son rapport avec le fait humain. Il ressort de tout ceci que l’alliance de mots “philosophie chrétienne” est moins précise et moins justifiable que l’expression “philosophie catholique”; car, outre que le Christ est tout autre chose que le maître éponyme d’une doctrine proprement philosophique, le terme catholique est

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È curioso, inoltre, notare che il Gilson non solo ricevette dure critiche da parte di un razionalita come Émile Bréhier446, ma anche da parte di religiosi domenicani e tomisti come i Padri Pierre Mandonnet e Gabriel Théry. Il Mandonnet sosteneva che nel medioevo il termine “filosofia” poteva applicarsi con rigore solo a San Tommaso, che distingueva adeguatamente e con rigore la fede dalla ragione: tutti gli altri autori cristiani, da Sant’Agostino a San Bonaventura avrebbero fatto solo teologia poiché si basavano esclusivamente sulla fede447. Padre Théry, discepolo del Mandonnet, si speinse ancora più in là, affermando che tutte le filosofie del medioevo - compresa quella di San Tommaso - non sono che delle théologies tronquées, prive di un valore razionale autonomo448. In maniera simile a Gilson argomenta però Jacques Maritain, che negli anni Trenta entrò nel vivo della querelle sulla nozione di “filosofia cristiana”. Maritain si richiama a San Tommaso nel à la fois plus compréhensif et plus restrictif, puisque d’une part, il s’applique à l’universalité des hommes de bonne fois qui participent à la grâce même innominée et à l’âme de l’invisible Eglise, et puisque d’autre part le catholicisme, ainsi que nous le montrions en discutant les critiques de M. Bréhier, réussit seul à spécifier ce qui est surnaturellement chrétien. D’où le soin avec lequel nous parlons de “philosophie catholique” plutôt que de philosophie chrètienne quand nous parlons en notre nom» (M. BLONDEL, Le problème de la philosophie catholique, Bloud & Gay, Paris 1932, p. 172). Cfr. anche IDEM, La philosophie et l’esprit chrétien, PUF, Paris 1944-46; tr. it. di M.F. Sciacca, La filosofia e lo spirito cristiano, La Scuola, Brescia 1950-52. La posizione di Blondel fu ampiamente discussa in Italia. Anche Luigi Stefanini ebbe un rapporto epistolare con Blondel e si confrontò con la sua proposta filosofica: a tal rigurado cfr. G. CAPPELLO, Maurice Blondel e Luigi Stefanini: corrispondenza inedita intorno alla possibilità di una “filosofia crsitiana”, «Antonianum», LXXXII, 3, 2007, pp. 449-477. 446 Cfr. É. BREHIER, Y-a-t-il une philosophie chrétienne?, «Revue de Métaphisique et de Morale», 38, 1931, pp. 133-162. 447 Cfr. P. MANDONNET, L’augustinisme bonaventurien, «Bulletin thomiste», 1926, pp. 48-54; 448 Sul confronto critico di Gilson con Padre Théry si veda É. Gilson, Le philosophe et la théologie,Vrin, Paris 1960, p. 106.

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sottolineare l’autonomia del sapere filosofico nei confronti della rivelazione religiosa: egli definisce, quindi, la filosofia come un perfectum opus rationis e sostiene che «nessun argomento derivato dalla fede si inserisce nella sua struttura»449. La speculazione razionale - egli sottolinea - «non è dipendente dalla fede cristiana né quanto al suo oggetto, né quanto ai suoi princìpi, né quanto ai suoi metodi»450. Tuttavia, seguendo l’argomentazione gilsoniana, Maritain afferma che sono un fatto storico certo gli «apporti oggettivi» che ha fede cristiana ha dato alla filosofia: anche egli pensa al concetto di creazione (sconosciuto al mondo greco classico), alle nozioni di libertà umana e di provvidenza e, non da ultima, all’idea di Dio come essere sussistente, idea già intuita da Aristotele ma non ampiamente tematizzata. Tali «apporti oggettivi», secondo Maritain, non elidono l’autonomia della ricerca filosofica: quest’ultima dal messaggio cristiano avrebbe ricevuto lo stimolo per elaborare quei contenuti che giacevano nascosti nel fondo della sue possibilità naturali. Per Maritain una filosofia cristiana è, dunque, possibile e giustificabile sia sotto il profilo storico che teoretico: egli afferma che tra ragione e fede occorre “distinguere per unire” (distinguer pour unir), differenziare i due diversi ambiti e metodologie di indagine per poi però riunificarli in un piano superiore che è quello della sapientia, della viva spiritualità dell’uomo451. Inoltre partendo da San Tommaso, egli ribadisce che i 449

J. MARITAIN, De la philosophie chrétienne, Desclée de Brouwer, Paris 1933, p. 643. 450 Ibidem, p. 644. 451 Cfr. J. MARITAIN, Distinguer pour unir ou Les degrés du savoir, Desclée de Brouwer, Paris 1932. A tal riguardo cfr. anche V. MELCHIORRE, L’idea di filosofia cristiana in Jacques Maritain, [edizione originale 1982], in IDEM, Figure del sapere, Vita e Pensiero, Milano 1994, pp. 181-212. Altri rilevanti autori francesi che si occuparono del concetto di “filosofia cristiana” furono R. JOLIVET, La philosophie chrétienne et la pensée contemporaine, Téqui, Paris 1932; M. NÉDONCELLE, Existe-t-il une philosophie chrétienne?, Fayard, Paris 1956; tr. it. di F. Binchi, Esiste una filosofia cristiana?, Edizioni Paoline, Catania 1957; A. NAUD, Le problème de la philosophie chrétienne. Éléments d’une solution thomiste, Faculté de Théologie, Montréal 1960; C. TRESMONTANT, Les idées maîtresses de la

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contenuti della fede non contraddicono la natura razionale dell’uomo, bensì la completano e la perfezionano: «fides supponit et perficit rationem». I dibattiti francesi sul concetto di “filosofia cristiana” hanno avuto novevoli ripercussioni sui primi convegni del Centro studi di Gallarate e più in generale nella cultura italiana del secondo Novecento: essi sono stati fatti oggetto di documentati studi. Si pensi, ad esempio, a quelli di Antonio Livi452. Analizziamo ora le posizioni più significative espresse dai docenti che parteciparono al I Convegno di Gallarate: essi presero in esame le possibilità e i limiti di una “filosofia cristiana”, concetto che lo stesso Martin Heidegger nel 1927 aveva dichiarato essere ossimorico ed autocontradditorio come quello di “ferro ligneo” (hölzernes Eisen) o di “circolo quadrato”453. métaphysique chrétienne, Seuil, Paris 1962; tr. it. di P. Inghilesi, Le idee fondamentali della metafisica cristiana, Morcelliana, Brescia 1963; IDEM, L’existence de la philosophie chrétienne, in AA. VV., Problèmes du christianisme, Seuil, Paris 1980, pp. 11-46. 452 Cfr. A. LIVI, Étienne Gilson (Filosofia cristiana e idea del limite critico), Ediciones Universidad de Navarra, Pamplona 1970; IDEM, Il cristianesimo nella filosofia. Il problema della filosofia cristiana nei suoi sviluppi e nelle sue prospettive attuali, Japadre, L’Aquila 1969; A. LIVI (a cura di), Il problema della filosofia cristiana, [testi di Blonel, Bréhier, Gilson, Maritain], Patron, Bologna 1974; A. LIVI (a cura di), Il problema storico della filosofia cristiana, in AA. VV., Storia e cristianesimo in J. Maritain, Massimo, Milano 1979, pp. 23-50. Studi italiani sulla filosofia cristiana sono anche quelli di L. BOGLIOLO, Il problema della filosofia cristiana, Morcelliana, Brescia 1959; C. GIACON, Intorno «alle condizioni di possibilità del filosofo cristiano», «Filosofia e Vita», 1965, pp. 331-343; L. BOGLIOLO, Filosofia cristiana: problema o dramma?, Civiltà, Brescia 1971; B. MONDIN, Umanesimo cristiano (Saggio sulle implicazioni culturali della fede), Paideia, Brescia 1980; V. MELCHIORRE, Tra fede cristiana e filosofia: una circolarità ermeneutica, in Idem, Dialettica del senso. Percorsi di fenomenologia ontologica, Vita e Pensiero, Milano 2002, pp. 163-187. 453 Cfr. M. HEIDEGGER, Phänomenologie und Theologie, in IDEM, Wegmarken, Klostermann, Frankfurt aM 1967.

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Secondo Umberto Antonio Padovani (1894-1967), «rigorosamente parlando non c’è una filosofia cristiana, come non c’è una matematica cristiana e una non cristiana: c’è la filosofia, costruzione razionale autonoma, che ha per scopo la scoperta delle verità di ordine razionale per la soluzione dei massimi problemi della vita. La filosofia non è vera perché è cristiana, ma è cristiana perché è vera. Ciò non ostante, la filosofia come tale, al termine delle sue speculazioni si trova dinanzi agli enigmi della vita reale e concreta, e, nell’impotenza di darne una soluzione puramente razionale, si apre a una rivelazione dall’alto; questa rivelazione, provata storicamente come vera, è la rivelazione cristiana, la quale con i due dogmi del peccato originale e della redenzione, chiarisce gli enigmi anzidetti». Padovani sottolinea che «la filosofia è cristiana non al suo inizio, ma alla sua fine, perché il suo problema impellente, il problema della vita, si risolve assolutamente solo col Cristianesimo, ossia coi dogmi del peccato originale e della redenzione per la croce, cui segue logicamente una morale ascetica»454. Padovani fu discepolo di Mons. Guido Matiussi e di Piero Martinetti: si comprende, quindi, la sua duplice anima filosofica, una fedele alla metafisica classica, l’altra attenta alle esigenze della vita e della storia. Egli cercò di epurare la metafisica aristotelico-tomistica dai suoi residui naturalistici e di svilupparla in relazione ai problemi concreti della storia, dell’esperienza umana e del male. Come emerge dai passi sopra riportati, secondo Padovani la filosofia non riesce da sola a risolvere il problema del senso della vita, anzi, di fronte ad esso, la razionalità acquista coscienza dei propri limiti: è da qui che si orgina la possibilità di un’adesione al cristianesimo. In particolare, avverte Padovani, è proprio la consapevolezza dei propri limiti costitutivi che apre la filosofìa alla dimensione della trascendenza e dell’escatologia cristiana. Se egli dichiara così impossibile una “filosofia della storia” à la Hegel, cioè «una visione unitaria, totale della storia da un punto di vista razionale», ritiene però possibile una “teologia della storia” secondo il modello agostiniano: «è possibile 454

Relazione di U.A. Padovani tenuta al I Convegno del Centro studi filosofici cristiani di Gallarate, Aa. Vv., Il primo convegno, 22-24 ottobre 1945, Liviana, Padova 1951.

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una visione unitaria e universale di essa della storia (non però scientifica, filosofica) dal punto di vista teologico, rivelato (teologia della storia), perché il piano della storia è di fatto soprannaturale: come ha mostrato Agostino nella Città di Dio»455. Padovani cerca quindi di giustificare un possibile esito cristiano del discorso filosofico coniugando il tomismo con le istanze di un pensiero esistenziale che si richiama ad Agostino, Pascal e Schopenhauer456. Al primo convegno di Gallarate prese la parola anche Renato Lazzarini (1891-1974), il quale evidenziò soprattutto la forma mentis naturaliter christiana di chi si predispone alla ricerca filosofica animato dall’intima esigenza della verità. A suo parere «è lo spirito della ricerca e non l’affermazione di alcune tesi che fa che una filosofia sia cristiana o non cristiana. Ed è cristiana quella filosofia che porge l’orecchio alle esigenze dello spirito umano, le quali postulano che la verità venga dall’assolutamente Altro. È cristiana quella filosofia che segue la via indigentiae, la quale, mettendo in luce la povertà del nostro spirito, traduce un’invocazione a una rivelazione soprannaturale. Sono filosofi cristiani S. Agostino, S. Bonaventura, Pascal». Secondo Lazzarini v’è una la filosofia 455

U.A. PADOVANI, Filosofia e teologia della storia, Morcelliana, Brescia 1953, p. 24. A tal riguardo si vedano anche La citta di Dio di s. Agostino: teologia e non filosofia della storia, «Rivista di filosofia neo-scolastica», gennaio 1931, pp. 220-263; IDEM, Storicismo teologico-agostiniano e storicismo filosofico-hegeliano, «Humanitas», 9, 1954, pp. 965-976. 456 Tra le opere fondamentali di Padovani compaiono alcune in cui è particolarmente sentito il problema del rapporto tra filosofia e cristianesimo; a tal proposito si vedano: Vincenzo Gioberti e il cattolicismo, Vita e Pensiero, Milano 1927; Idem, Il problema religioso nel pensiero occidentale, Marzorati, Milano 1951; Filosofia e religione, La Scuola, Brescia 1956; Metafisicia classica e pensiero moderno, Milano 1961. Cfr. anche A.M. MOSCHETTI, L’itinerario ascetico di Umberto A. Padovani, in IDEM, Cercatori dell’Assoluto. Maestri dell’Ateneo padovano, Maggioli, Rimini 1981, pp. 68-91; A. RIGOBELLO, La «filosofia della religione»: riflessione speculativa, teologia e storia in Padovani, in G. CRINELLA (a cura di), Umberto Antonio Padovani 1894-1967, Quattroventi, Urbino 2005, pp. 13-26.

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cristiana nasce dall’esigenza tutta uaman di salvezza e non dai freddi ragionamenti: «Qualcuno può affermare alcune tesi, come l’esistenza di Dio e la spiritualità e l’immortalità dell’anima, ed essere totalmente al di fuori di una filosofia cristiana; così fecero i deisti inglesi e francesi e in generali tutti gli assertori di una religione naturale; in costoro non appare nessun bisogno e nessuna indigenza; la natura e la religione sono soddisfatte di se stesse; ed escludono l’appello al Cristianesimo come manifestazione soprannaturale. Se la scienza e la filosofia sono di per sé ambigue, l’opzione, che realizza le esigenze di valore dello spirito umano, procurando la salvezza dell’uomo, rende cristiana la filosofia immanente in quell’opzione. […] L’opzione religiosa ha valore ontologico, perché è veramente creatrice di essere: colui che opta costituisce in sé un essere che prima non c’era. Soltanto una filosofia che porta alla salvezza è una filosofia cristiana»457. Quello di Lazzarini è un modello di “filosofare nella fede” che parte dalle esigenze dell’animo umano di senso e compiutezza. Egli da giovane si avvicinò alle posizioni di Ernesto Buonaiuti e di Maurice Blondel, facendo proprio il “metodo dell’immanenza”, cioè l’accettazione del principio moderno della soggettività del mondo dell’esperienza. La via suggerita da Lazzarini per l’adesione alla fede cristiana è quella dell’indigenza, ovvero dell’impossibilità che abbiamo di spiegare razionalemente il dolore, il male, la nostra stessa fragilità: «Se noi osserviamo senza alcun pregiudizio il fenomeno della vita» - egli avverte - «ciò che ci colpisce è il fatto del dolore e del male. L’imperfezione fisica e morale, la inadeguazione di sé a se medesimi, l’incapacità di realizzare la nostra infinita aspirazione di vivere: ecco il problema attorno a cui oscilla il nostro pensiero riflesso, ecco l’ostacolo cui urta la nostra quotidiana esistenza»458. Secondo Lazzarini la spiritualità cristiana può offrire una risposta a questi supremi appelli dell’anima umana smarrita nella consapevolezza della sua impotenza a colmare l’abisso che essa 457

Relazione di R. Lazzarini tenuta al I Convegno del Centro studi filosofici cristiani di Gallarate, Aa. Vv., Il primo convegno, 22-24 ottobre 1945, cit. 458 R. LAZZARINI, Saggio di una filosofia della salvezza, [prima edizione 1926], Patron, Bologna 19662, p. 216.

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scopre dentro di sé». Alla filosofia, egli sostiene, è affidato il compito di «preparare l’uomo ad accogliere e ad intendere questa risposta»459. La posizione di Lazzarini potrebbe essere definita come una forma di “esistenzialismo cristiano”, nella quale le riflessioni filosofiche sono chiamate ad essere dei “prolegomeni per l’adesione ad una fede salvifica”: discendendo nelle profondità oscure dell’animo umano la filosofia spinge l’uomo alla ricerca di una salvezza che da se stesso non può darsi. Il pensiero di Lazzarini ci offre una profonda “fenomenologia dell’esperienza religiosa”, fondata sull’intenzionalità di “salvezza eterna” insita nell’uomo460. La via indigentiae proposta da Lazzarini viene accettata anche da Luigi Stefanini. Tuttavia quest’ultimo sostiene che essa non basta e vada integrata con una via inventionis: «Ma anche a proposito di questa via indigenatiae, di cui si è parlato» - Stefanini commenta la relazione del collega tenuta al I primo convegno di Gallarate «sarebbe da soggiungere ch’essa non basta da sola ad aprire l’accesso ove non corra parallela ad una via inventionis. Non basta scavare un vuoto per ottenere il pieno con cui colmarlo; non basta sentire, con tutto l’esistenzialismo moderno, la “finitudine” umana perché si definiscano i caratteri del necessario compimento; non basta formulare il problema per avere diritto, senz’altra ricerca, alla soluzione»461. Stefanini ribadisce, quindi, la necessità di una pars 459

Ibidem. Di Lazzarini si veda anche Situazione umana e il senso della storia e del tempo, Milano 1960; Valore e religione nell’orizzonte esistenziale, Padova 1965; Le forme del sapere e il messaggio dell’intenzione, Padova 1972. Sulla filosofia come soteriologia cfr. G. GIANNI, Filosofia e salvezza nel pensiero di Renato Lazzarini, «Humanitas», 1966, pp. 993-998; G. GIANNINI, La salvezza nel pensiero di Renato Lazzarini, «Incontri Culturali», 1975, pp. 329-333. 460 Sulla filosofia come soteriologia ed analisi dell’esperienza religiosa cfr. F. POLATO, Metodo fenomenologico ed esperienza religiosa in Renato Lazzarini, Tipografia del Seminario, Padova 1965; G. GIANNI, Filosofia e salvezza nel pensiero di Renato Lazzarini, «Humanitas», 1966, pp. 993-998; G. GIANNINI, La salvezza nel pensiero di Renato Lazzarini, «Incontri Culturali», 1975, pp. 329-333. 461 Relazione di L. Stefanini tenuta al I Convegno del Centro studi filosofici cristiani di Gallarate, Aa. Vv., Il primo convegno, 22-24 ottobre 1945, cit.

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costruens del discorso filosofico che non può esimersi dalla responsabilità del pensare per affidarsi esclusivamente alla fede religiosa. Chiudiamo questa parte del discorso sul concetto di “filosofia cristiana” commentando la posizione di Michele Federico Sciacca (1908-1975), sulla quale ci soffermeremo in maniera più analitica anche nelle prossime pagine. Secondo Sciacca «il filosofo cristiano, come cristiano, non può prescindere dalla divinità di Gesù Cristo. Però anche in una filosofia che non accetti questa verità, si possono trovare elementi cristiani […]. Per esempio il senso spirituale della vita umana, il problema della storia, il concetto di libertà, quello d’immortalità dell’anima personale ecc.»462. Seguendo le tesi del Gilson anche Sciacca afferma che «si qualifica come cristiana una filosofia che accoglie e mette a profitto dottrine cristiane». Egli però mette in guardia dal «pericolo che, considerato come una “dottrina”m il Cristianesimo possa venire allineato alle altre, e dunque visto soltanto come qualcosa di razionale e naturale (così lo vide, per esempio, l’Illuminismo), e non come religione rivelata». Concordando con Lazzarini e Stefanini anche il Nostro sostiene che «può chiamarsi cristiana una filosofia che, riconosciuta l’inadeguatezza della conoscenza razionale, per le vie normali e razionali della filosofia stessa, si apre alla Rivelazione, senza che ciò importi rapporto necessario tra naturale e soprannaturale. In questo senso, ogni filosofia, anche quella che può sembrare la più lontana dal Cristianesimo, è almento tendenzialmente cristiana; non solo, ma è anche “cattolica” nel senso che è “universale” il desiderio necessario ma inefficace del pensiero di compiersi nell’unum necessarium. In ogni caso è sempre religiosa per il fatto che è ricerca autentica della verità»463. Si noti a tal riguardo la vicinanza di

462

Relazione di M.F. Sciacca tenuta al I Convegno del Centro studi filosofici cristiani di Gallarate, Aa. Vv., Il primo convegno, 22-24 ottobre 1945, cit.; il testo della relazione viene parzialmente riprodotto in M.F. SCIACCA, Il problema di Dio e della religione nella filosofia attuale, Marzorati, Milano 1968, pp. 184-185. 463 Ibidem, p. 185.

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Sciacca alla posizione di Blondel sull’universalismo di una philosophie catholique. «Si può infine chiamare cristiana» - continua Sciacca - «una filosofia della persona umana, dell’uomo concreto e integrale, consapevole che i problemi dell’uomo stesso possono trovare la loro soluzione solo nella Rivelazione». Egli ribadisce però la necessità di integrare una filosofia dell’interiorità con una filosofia della natura, un discorso cristiano perì anthrópou con una più ampia visione perì kósmou. Ecco perché Sciacca ama definire la sua prospettiva come una “filosofia dell’integralità”: essa cerca di tenere unita la considerazione dello spirito con quella della natura, interpretando entrambi alla luce della trascendenza cristiana. Egli osserva giustamente che «è necessario inserire il problema della persona in una visione più comprensiva, per evitare di limitare il Cristianesimo al problema uomo-Cristo, peccato-Grazia, come per esempio ha fatto Pascal. Non vi è solo l’uomo ma anche il mondo, non solo il FiglioCristo-Grazia, ma anche il Padre-Creatore-Provvidenza. Il senso creaturale del Dio-Padre non va affatto subordinato al senso redenzionale del Dio-Cristo, ma l’uno e l’altro vanno tenuti presenti perché entrambi essenziali al Cristianesimo. Così l’elemento, a volte cupo, del peccato e del male ritrova il suo equilibrio in quello sereno e gioioso della creazione e della provvidenza: il Mistero di Gesù di Pascal si completa nel Cantico delle creature di San Francesco»464. La prospettiva di Sciacca sulla “filosofia cristiana” trova così notevoli convergenze con quella di Gilson e di Maritain e mette in luce tutta la ricchezza che la spiritualità religiosa ha dato e può dare alla ricerca razionale: «Né Platone né Aristotele» - egli afferma «avrebbero avuto lo svolgimento, che di fatto hanno avuto, l’uno in Sant’Agostino e l’altro in San Tommaso, senza il Cristianesimo, il quale modificò e arrichì anche la problematica filosofica. Una filosofia cristiana vi è di fatto e di diritto; anzi ogni filosofia, che sia veramente tale, non può che essere cristiana. Si può ripetere con Vico (De constantia, P.I., c. 4): philosophum ex ipsius philosophiae officio oportet esse christianum»465. 464 465

Ibidem. Ibidem.

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2. Bontadini: la ripresa metafisica classica e il problema della “de-ellenizzazione del cristianesimo” L’itinerario di studi filosofici compiuto Gustavo Bontadini (19031990) può essere riassunto ricorrendo al titolo di suoi due volumi: “dall’attualismo al problematicismo” e “dal problematicismo alla metafisica”466. Da giovane egli si confronta criticamente con l’attualismo gentiliano e definisce come “problematicismo” le varie tedenze filosofiche che - per opposizione - ne sono derivate: esistenzialismo, neopositivismo, prassismo, quest’ultimo sia nella versione politica (il marxismo) che in quella scientifica (tecnicismo)467. Le questioni lasciate insolute dalle diverse forme di “problematicismo” (sorte dalla dissoluzione dell’attualismo), secondo Bontadini, aprirebbero nuovamente la strada ad un tipo di metafisica che aveva trovato le sue prime formulazioni in Grecia (a partire da Parmenide) e che per questo egli definisce “neoclassica”. Ripercorriamo il percorso che portò Bontadini alla necessaria 466

Cfr. G. BONTADINI, Dall’attualismo a problematicismo, La Scuola, Brescia 1946 [si ricordi che anche Ugo Spirito nel 1976 pubblicò un volume con lo stesso titolo: il confronto critico con l’attualismo di Giovanni Gentile è stato sentito come un compito necessario per tanti filosofi italiani del Novecento]; IDEM, Dal problematicismo alla metafisica, Marzorati, Milano 1952; Vita e Pensiero, Milano 19962. Riguardo al giudizio di Bontadini sulla poszione di Spirito cfr. G. BONTADINI, Ugo Spirito e la semplificazione del problematicismo, in IDEM, Dal problematicismo alla metafisica, cit. 467 Il problematicismo nasce quindi dalla dissoluzione dell’attualismo «e non si presenta soltanto come una componente e una corrente della filosofia dei nostri giorni, ma come estendente la sua forma anche alle altre componenti. C’è, perciò, un problematicismo particolare ed uno generale e diffuso» (G. BONTADINI, La metafisica nella filosofia contemporanea, in IDEM, Dal problematicismo alla metafisica, cit., p. 163). Sui vari volti filosofici del problematicismo cfr. anche L. MESSINESE, Il “problematicismo” della filosofia contemporanea, ovvero l’assenza della metafisica. Esistenzialismo, neopositivismo, prassismo, in IDEM, Il cielo della metafisica. Filosofia e storia della filosofia in Gustavo Bontadini, Prefazione di V. Melchiorre, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006, pp. 65-82.

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riaffermazione di una “metafisica dell’esperienza” in grado di portare nuovamente la filosofia verso una rigososa tematizzazione dell’essere e dei suoi fondamenti: solo tale matafisica, a suo parere, può fornire alcuni presupposti razionali per l’adesione alla fede religiosa ed evitare l’irrazionalismo derivante da una completa “deellenizzazione del cristianesimo”. Nel 1925 Bontadini si laurea in filosofia nella appena sorta Università Cattolica di Milano sotto la guida di Amato Masnovo, dal quale ereditò l’istanza di una fondazione metafisica del discorso filosofico. Il titolo della tesi, poi pubblicata nel 1928, fu: Il mio contributo ad una metafisica dall’esperienza. Da da quest’elaborato emergono i tratti di fondo della sua posizione: egli rimprovera all’attualismo gentiliano di porre tutta la realtà nella coscienza con la conseguenza di una radicale “perdita del mondo”, “dimenticanza della natura” (Naturvergessenheit) direbbe Schelling. A parere di Bontadini quella tra soggetto ed oggetto costituisce una unità-nelladifferenza e tale unità si realizza nella coscienza: il primum da cui si origina l’indagine filosofica non è l’essere in quanto tale né la coscienza intesa nella sua autonomia ontologica, ma è il presentarsi dei contenuti esperienziali alla coscienza, è, quindi, l’«unità dell’esperienza» come organizzazione razionale. Partendo da questa prospettiva Bontadini afferma che la metafisica dell’esperienza può risolvere tutte le aporie e le problematiche alle quali era andato incontro il pensiero moderno a partire da Cartesio in poi. L’ermeneutica bontadiniana della modernità filosofica è particolarmente interessante ed ha ancora oggi numerosi sostenitori, soprattutto tra coloro che si richiamano alla metafisica classica e a quella tomistica. Innanzi tutto egli interpreta il pensiero moderno come «gnoseologismo» per il prevalere in esso della domanda di ordine conoscitivo: si pensi al celebre interrogativo kantiano sulle possibilità e limiti della ragione umana: «che cosa posso conoscere? (Was darf ich wissen?)». «La filosofia moderna» egli afferma - «risulta gnoseologistica, intendendosi per gnoseologismo il predetto dominio del problema del conoscere. […] La gnoseologia fu la riserva di caccia del filosofo per quei tre secoli che vanno da Cartesio all’inizio di questo secolo, e […] fu il cespite 221

di un discorso che quando si è estinto, ha lasciato la filosofia priva di ogni portata deteriminante, ridotta ad una funzione meramente riflettente o lunare, quale si costata appunto nella situazione attuale. Nella quale si parla volentieri di fine della filosofia; ed il mestiere del filosofo ha assunto aspetti masochistici o dimissionari: si passa ostententatamente banco alla scienza, si aspetta dalla scienza chissà quale imbeccata»468. In maniera molto simile a Vincenzo La Via (1895-1982) egli afferma che l’idealismo e soprattutto l’attualismo gentiliano non sarebbe che il risultato finale del ciclo della filosofia moderna che si è originato nel cogito cartesiano e che ha una deriva immanentistica469. In particolare egli accusa il pensiero moderno (da Cartesio ad Hegel e a Gentile) di aver obliato il fondamento oggettivo dell’essere sul quale si basa la possibilità stessa della trascendenza: «il ciclo della filosofia moderna è un qualcosa che sta a sé, anche se i suoi inizi sono articolati alle tematiche dell’ultimo medioevo e del Rinascimento; qualcosa cioè, che si ritira in se stessa, strutturalmente. I ponti con la tradizione precedente sono tagliati - strutturalmente appunto - in quanto viene obliterato il 468

G. BONTADINI, La deviazione metafisica all’inizio della filosofia moderna, in IDEM, Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1975, 35-53, p. 36. Sul concetto di “gnoseologismo” come essenza della modernità filosofica cfr. IDEM, Indagini di struttura sul gnoseologismo moderno: I. Berkeley, Leibniz, Hume, Kant, La Scuola, Brescia 1952. 469 Vincenzo La Via fu allievo di Varisco e di Giovanni Gentile e dal 1940 titolare di Filosofia teoretica all’Università di Messina: egli studiò a fondo l’attualismo gentiliano ma poi lo criticò approdando a quello che egli definì un «realismo assoluto» apero all’esigenza di un «completamento religioso». A tal proposito cfr. V. LA VIA, La risoluzione dell’idealismo in assoluto realismo, Carlo Foce, Genova 1938; IDEM, Filosofia e religione, in IDEM, Idealismo e filosofia, G. D’Anna, Messina 1942, pp. 155-184; IDEM, La restaurazione rosminiana della filosofia, Spes, Milazzo 1966. Si vedano anche G. BONTADINI, La dottrina ontologica di Vincezo La Via, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica, 3-4, 1930; S. LO GIUDICE, I problemi dell’idealismo e del realismo nella prospettiva di Vincenzo La Via, Alfa, Messina 1996. La Via mise in evidenza concordanze e discordanze con la metafisica di Bontadini in V. LA VIA, La questione tra me e Gustavo Bontadini, «Teoresi», XXXIV, 1979, pp. 225-228.

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fondamento, che nel ciclo precedente sosteneva la tesi della “trascendenza”. È in questo rapporto - che è una rescissione di rapporto [con l’essere] - che deve essere misurata attentamente quella che chiamiamo la “deviazione metafisica”, riscontrabile agli inizi della filosofia moderna»470. In particolare Bontadini sostiene che il ciclo della filosofia moderna sarebbe costituito da due momenti, l’uno conseguente all’altro: il fenomenismo e l’idealismo. Il fenomenismo è stato inaugurato da Cartesio ed ha avuto la sua più compiuta teorizzazione in Kant; l’idealismo è stato invece sviluppato da J.G. Fichte ed ha conosciuto i suoi fasti in Germania con Hegel ed in Italia con Giovanni Gentile. Spieghiamo meglio cosa intende Bontadini per “fenomenismo”. Egli si richiama giustamente a Kant. Come è noto, secondo il filosofo di Königsberg “conoscere è rappresentare (Vorstellen)”: la coscienza si pone (stellt) innanzi a sé (vor) l’oggetto. Stando a Kant, la nostra conoscenza non riguarderebbe mai l’essere in sé ma i fenomeni, cioè quello che dell’essere appare nelle nostre rappresentazioni. Per la teoria fenomentistica noi non conosciamo mai le cose del mondo così come sono in sé (sicuti sunt) ma come esse appaiono alla nostra coscienza (sicuti apparent): una conseguenza del fenomentisimo potrebbe essere lo scetticismo, ovvero il dichiarare l’inconoscibilità scientifica degli oggetti di cui abbiamo esperienza (Mundus est fabula, come è scritto nel titolo del libro che he Cartesio tiene in mano nel celebre ritratto fatto da Jan Baptist Weenix nel 1647). Alle fine del Settecento Gottlob Ernst Schulze scrisse un volume dal titolo Aenesidemus nel quale metteva in rilievo tutte le possibili derive scettiche del critcisimo kantiano e quindi di una teoria fenomentisica della conoscenza: per superare la possibile deriva scettica del fenomenismo kantiano Johann Gottlieb Fichte elaborò nella “dottrina della scienza” (Wissenschaftslehre) una forma di “idealismo trascendenatale” che eliminava il concetto kantiano di “cosa in sé”, nonché i dualismi kantiani (fenomeno e noumeno, necessità e libertà, ecc.), e dando così all’uomo la garanzia 470

G. BONTADINI, La deviazione metafisica all’inizio della filosofia moderna, cit., pp. 37-38.

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epistemologica di ogni possibile conoscenza. L’assolutizzazione trascendentale dell’Io, sottolinea Bontadini, fu portata da Hegel alle estreme conseguenze immanentistiche nella sua “filosofia dello Spirito“. Ecco come viene delineato da Bontadini il rapporto tra fenomenismo e idealismo: «L’idealismo moderno (che ora distingueremo da quello contemporaneo [di G. Gentile]) si snoda a sua volta in due fasi, quella fenomenistica e quella più propriamente idealistica. La prima - che va da Cartesio a Kant compreso - trae la conseguenza del presupposto dualistico e “chiude il conoscere in sé stesso” (si conosce solo il fenomeno, non la cosa in sé); la seconda trae la conseguenza della conseguenza, che consiste nella negazione del presupposto di partenza (la cosa in sé come altro dal pensiero, non può essere ammessa)»471. Criticando, quindi, il fenomenismo e l’idealismo tipici del pensiero moderno il Bontadini riafferma il principio dell’«unità dell’esperienza» come la base per la ricostruzione metafisica della filosofia. In particolare, egli non accetta la nozione di esperienza (Erfahrung), così come l’intende Kant e gran parte del pensiero moderno: «illegittimo è il punto di partenza kantiano, precisamente in quanto questo punto di partenza, perché vi si assume immediatamente (proprio nel punto di partenza!) un concetto di esperienza il quale è bisognoso, nel migliore dei casi, di mediazione, di dimostrazione, di introduzione o come altrimenti si voglia dire». Bontadini rifiuta il concetto di esperienza come recezione (empirismo) e come costruzione (idealismo post-kantiano) e ribadisce che soltanto il concetto di esperienza come “presenza” può venir preso come punto di partenza, in quanto «immediatamente fondato e fondativo». Ci pare che la concezione dell’esperienza come presenza dell’oggetto all’interno della coscienza umana avvicini molto la posizione di Bontadini alla fenomenologia di Edmund

471

G. BONTADINI, Intorno all’essenza della filosofia contemporanea, «Rivista di filosofia neoscolastica», XXXIII, 1941, fasc. IV, pp. 490-514; il saggio è stato riedito in IDEM, Dall’attualismo al problematicismo, cit., p. 194.

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Husserl e soprattutto alla “fenomenologia realistica” di Edith Stein che ha dei fondamentali risvolti ontologici e teologici472. Secondo Bontadini sono due piloni su cui si fonda una possibile ricostruzione metafisica: l’«unità dell’esperienza» e il principio di non contraddizione, desiganto da Bontadini in senso ontologico come “principio di Parmenide”. A suo parere: «quello che possiamo chiamare, ad honorem, “principio di Parmenide” - l’essere non può essere originariamente limitato dal non-essere - […], è l’inveramento di quello che si deve considerare come il principio di Parmenide in senso proprio, storico»473. Partendo dall’assunto parmenideo che nega come contraddittoria l’esistenza del divenire (l’essere è e non può non essere; il divenire sarebbe sinonimo di non essere), Bontadini compie una ricerca di tipo genealogico, ovvero spinge il suo ragionamento fino all’origo dell’essere e di ciò che nell’esperienza constatiamo come divenire. A suo giudizio «il principio eleatico: “l’essere non può non essere, l’essere non può essere annulato, il divenire è contraddittorio”, passa in quest’altro enunciato: l’essere non può essere originariamente annullato, il divenire non può essere originario»474. Egli così sottolinea che «il

472

Cfr. in particolare E. HUSSERL, Erfahrung und Urteil: Untersuchungen Zur Genealogie Der Logik, [Redigiert und heruasgegeben von L. Landgrebe], Allen and Unwin, London 1939; Meiner Verlag, Hamburg 1999; E. STEIN, Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins, [scritto nel 1937], Herder Verlag, Freiburg i.B. 1950, 19863; tr. it. di L. Vigone, Presentazione di A. Ales Bello, Essere finite e essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, Città Nuova, Roma 1988. Sulla concezione bontadiniana dell’esperienza si veda anche S. MASCHIETTI, L’esperienza e i suoi fondamenti metafisici nel pensiero di G. Bontadini, «Annali dell’Istituto per gli Studi Storici», 15, 1998, pp. 545632. 473 G. BONTADINI, Conversazioni di metafisica, [edizione originale 1971], Introduzione di A. Bausola, Vita e Pensiero, Milano 1995, Vol. II, p. 194. 474 G. BONTADINI, Per una teoria del fondamento, [edizione originale 1973], in Idem, Metafisica e deellenizzazione, cit., p. 28. Sul tema bontadiniano del fondamento del divenire cfr. A. GNEMMI, La protologia nel pensiero di Gustavo Bontadini, Verifiche, Trento 1976; G. GOGGI, Dal

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divenire è possibile, ma solo per la potenza dell’Indivenibile [cioè di Dio]»475. In tal modo egli riformula il “princio di Parmenide” come “principio di creazione” dove il Creatore è la figura dell’originaria scaturigine dell’essere: «l’epifania della Verità» - egli scrive - «si ha nel principio di Creazione e soltanto con esso: Prima Veritas. Anteriormente a questo principio non si dà che la verità puramente formale del principio di non contraddizione. Il quale più che la verità, è il criterio di verità, la norma secondo cui determiniamo la verità come accertamento dell’essere»476. Molti hanno criticato tale passaggio da un uso logico del principio di non contraddizione ad un uso ontologico e soprattutto hanno criticato l’introduzione del “principio di creazione” all’interno di un rigoroso argomentare filosofico: effettivamente il “principio di creazione” ha de facto orgini bibliche e Bontadini lo utilizza come una sorta di deus ex machina per sanare le aporie della sua metafisica. L’ontologia di Bontadini si richiama esplicitamente alla tesi parmenidea dell’unità ed univocità dell’essere: questo gli ha attirato molti rilievi critici anche da parte degli arisotelici dell’Università di Padova (si pensi a Marino Gentile, Pietro Faggiotto ed Enrico Berti). Sulla scia dello Stagirita questi ultimi affermano che «l’essere si dice in molti modi (to òv léghetai pollakós)»477 e che ha in particolare quattro significati fondamentali in grando di spiegare anche la presenza del devenire. In particolare i padovani interpretano il divenire all’interno dell’essere come passaggio dalla potenza (dýnamis) all’atto (enérgheia/entelécheia): il seme è l’albero in potenza, l’albero è il seme in atto; la statua è l’atto che si trova in potenza nel blocco di marmo. Si tratta del significato dinamico dell’essere che attraversa tutti gli altri significati e le diverse categorie. Ogni cosa può essere, nel suo livello categoriale, in potenza o in atto. Il continuto passaggio di tutti gli enti dalla potenza all’atto rappresenta inoltre la traduzione in senso ontologico del diveniente all’immutabile. Studio sul pensiero di Gustavo Bontadini, Prefazione di E. Severino, Cafoscarina, Venezia 2003. 475 G. BONTADINI, Per una teoria del fondamento, cit., p. 28. 476 G. BONTADINI, Conversazioni di metafisica, cit., Vol. II, p. 193. 477 ARISTOTELE, Metafisica, 1003 a-b

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divenire biologico-naturale. Come Aristotele spiega nel XII libro della Metafisica, il divenire di tutte le cose trae la sua origine dall’atto primo (próte entelécheia) che è “motore immobile” ed è un Dio naturalisticamente inteso: «deve esserci qualcosa che muova senza essere mosso e che sia sostanza eterna ed atto. […] Dunque il primo motore muove come ciò che è amato (kinéi os erómenon), mentre tutte le altre cose si muovono essendo mosse. […] A tale principio - Dio - appartiene una vita perennemente continua ed eterna»478. La posizione di Bontadini sull’univocità dell’essere e sulla conseguente contraddittorietà (almeno apparente) del divenire è stata ripresa e portata alle sue più radicali conseguenze da uno dei suoi più originali allievi: Emanuele Severino. Nel 1964 Severino pubblicò un articolo che suscitò in Italia un vivo dibattito: Ritornare a Parmenide. Anche Heidegger lesse quest’articolo di Severino ed affermò: «Severino ha immobilizzato il mio Dasein»479. In questo scritto il filosofo italiano sostiene che l’esperienza non attesta il divenire, cioè l’andare nel nulla o l’uscire dal nulla, ma solo l’apparire e lo scomparire degli enti. Radicalizzando l’intuizione del maestro, Severino fonda sul principio di Parmenide l’eternità 478

ARISTOTELE, Metafisica, 1072 b. Sulle critiche alla metafisica di Bontadini da parte degli aristotelici padovani si vedano: M. GENTILE, I quattro gatti della metafisica e i polli di Renzo, «Rivista di Filosofia NeoScolastica», LXX, 1978, pp. 410-420; E. BERTI, Contraddittorietà, apparenza e problematicità del divenire, «Studium», LXXIV, 1978, pp. 809-819; P. FAGGIOTTO, L’essere come atto (Risposta a G. Bontadini), «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», LXXIV, 1982, pp. 109-115; E. BERTI, Problematicità e dialetticità della «metafisica classica», in IDEM, Le vie della ragione, Il Mulino, Bologna 1987, pp. 187-207. 479 Intervista fatta a Severino da Antonio Gnoli e pubblicata nel quotidiano «Repubblica» il 31 ottobre 2001 con il titolo “Severino: il mio scontro con la Chiesa Cattolica”. Sui dibattiti suscitati dalle posizioni di Bontadini e di Severino cfr. anche F. TUROLDO, Polemiche di metafisica. Quattro dibattiti su Dio, l’Essere e il Nulla, Prefazione di C. Vigna, Cafoscarina, Venezia 2001; U. REGINA, L’impossibile fede cristiana e gioia filosofica di Emanuele Severino, in IDEM, La soglia della fede. L’attuale domanda su Dio, Studium, Roma 2001, pp. 115-130.

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assoluta degli enti ed arriva a sostenere che il divenire non è che una convinzione, una fede condivisa da tutto l’Occidente, ma cionostante assolutamente irrazionale: il divenire sarebbe contrario alla legge del logos e non sarebbe altro che un’illusione della nostra esperienza480. Le concezioni teoretiche di Severino sono state ampiamente contestate e messe in discussione anche per le conseguenze che esse hanno per la fede cristiana: finiscono con il negare la trascendenza di Dio e la stessa immortalità dell’anima. Su tali tematiche teologiche Severino è entrato in aperta polemica con la chiesa cattolica481. 480

Cfr. E. SEVERINO, Ritornare a Parmenide, «Rivista di Filosofia NeoScolastica», 2, 1964, pp. 137-175; ora in IDEM, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 1982, pp. 19-61. Carlo Augusto Viano stigmatizza la figura di Severino come una «specie di Heidegger minore all’italiana» (C.A. VIANO, La filosofia italiana del Novecento, Il Mulino, Bologna 2005, p. 94), tuttavia osserva che «nonostante certe affinità di contenuto e di gusti filosofici, la filosofia dell’essere di Severino è diversa da quella di Heidegger, perché utilizza gli strumenti della scolastica, in primo luogo il principio di non contraddizione, mentra Heidegger ha sempre assegnato la metafisica alle forme di filosofia che hanno perso le tracce dell’essere. Ma sulla diagnosi del mondo moderno come prodotto del primato della tecnica c’è accordo tra la filosofia di Heidegger e quella di Severino» (ibidem, p. 97). Secondo Viano «l’originalità di Severino consisteva nel fatto che egli introduceva questo motivo [la tecnica come compiuta espressione del nichilismo occidentale] dentro la filosofia neoscolastica, violandone la misurata compostezza. La cosa produsse anche una rottura tra l’Università cattolica e Sevenino, che raggiunse un accordo per abbandonare l’ateneo in cui si era formato. In compenso la sua filosofia, semplice e ripetitiva, che offriva formule verbali ad effetto, destò interesse, soprattutto tra i dilettanti, anche perché nel grande coro che contestavano il sapere scientifico sembrava permettere di respingere a poco prezzo un sapere che non si era in grado di comprendere e praticare» (ibidem). In un costruttivo dialogo con la posizione ontologica di Severino entra, invece, Leonardo Messinese, il quale elabora una “metafisica della trascendenza” in grado di rispondere alle obiezioni severiniane: cfr. L. MESSINESE, L’apparire del mondo. Dialogo con Emanuele Severino sulla “struttura originaria” del sapere, Mimesis, Milano 2008. 481 A tal propostio cfr. E. SEVERINO, Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli, Milano 2001.

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Torniamo ora alla prospettiva di Bontandini occupandoci di una problatica affrontata dal filosofo a partire dagli anni Sessanta: la “deellenizzazione” del cristianesimo. La de-ellenizzazione è un fenomeno intellettuale che si è largamente diffuso nel secondo dopoguerra e che riguarda sia la filosofia che il cristianesimo: in generale esso implica un’atteggiamento di rottura con le tradizionali categorie del pensiero greco di cui si sono da sempre nutrite sia la teologia razionale (per la formulazione dei dogmi) che la stessa filosofia occidentale. Nella filosofia la de-ellenizzazione ha significato l’abbandono della metafisica classica, mentre nella teologia cattolica ha portato al rifiuto dell’approccio razionale, come ad esempio tutte le argomentazioni concernenti i praeambula fidei. Quella de-ellenizzata - afferma Bontadini - è una «filosofia che non pretende più di imporre all’uomo una certa immagine dell’essere - e dell’uomo stesso - ma mette l’uomo dinanzi alla responsabilità di scegliersi la propria immagine»482. Ad una filosofia de-ellenizzata corrisponde una fede cristiana che «non ha più una metafisica in avanscoperta»483. «In questo clima» - sottolinea Bontadini - «lo stesso pensiero religioso, la teologia, tematizza il suo rifiuto dell’approccio razionale, che vuol dire poi rifiuto di una tradizione che risale nei secoli, fino alle origini della filosofia greca. È il tema della deellenizzazione del cristianesimo. Deellenizzazione che riguarda non solo i ricordati praeambula, ma la stessa articolazione interna del discorso religioso»484. In particolare Bontadini prese in esame quattro esempi di deellenizzazione tipici del secondo Novecento: la prospettiva epistemologica del matematico Giovanni Melzi, il “pensiero debole” di Gianni Vattimo, le problematiche teologiche sollevate da Leslie Dewart e da Claude Tresmontant. Secondo Giovanni Melzi la scienza contemporanea «è diventata un mondo autosufficiente ed anche insofferente della tutela della 482

G. BONTADINI, Episodi della deellenizzazione, in IDEM, Metafisica e de ellenizzazione, cit., pp. 65-160, p. 66. 483 Ibidem. 484 Ibidem, p. 67.

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filosofia tradizionale»485 che pretende ancora di considerarsi come la regina scientiarum. Egli inoltre afferma che la fede cristiana può essere ancora plausibile solo se si sgancia da una teologia «appesantita di credenziali di razionalità»486. Con il canadese Leslie Dewart l’istanza della deellenizzazione entra all’interno dello stessa teologia cattolica: in Dewart «la metafisica classica non soltanto viene messa da parte, come cosa non più credibile, ma è additata come la radice di gran parte delle deficienze, degli attardamenti da cui il Cattolicesimo si starebbe felicemente liberando [dopo il Concilio Vaticano II]»487. Secondo l’autore canadese la scolastica dovrebbe considerarsi finita con l’illuminismo: «la Chiesa cattolica, restandole attaccata, ha compromesso per secoli l’intesa con la nuova civiltà, ed è rimasta un’«isola medievale», parlando un linguaggio divenuto incomprensibile al nuovo secolo»488. Bontadini accusa di fideismo e di irrazionalismo sia le posizioni di Melzi che quelle di Dewart: una fede che cerca di far a meno del supporto razionale finisce ineludibilmente per avere dei pericolosi esiti irrazionalistici e fondamentalisti. Bontadini afferma che la fede cristiana è e rimane un mistero: tuttavia il cristiano è legittimato dalle stesse Sacre Scritture a “render ragione (lógon didónai)” della fede che è in lui, a cercare cioè una possibile giustificazione della fede anche sul piano della razionalità. Il rischio di una fede totalmente disancorata dalla razionalità - avverte Bontadini - non porta novità neanche nella vita della Chiesa, ma solo emotivismo, nonché scelte pastorali dettate da un cieco fideismo. Interessanti sono anche le critiche che Bontadini rivolge a Gianni Vattimo, il quale accusa di conservatorismo sia la metafisica classica che la teologia che su di essa si appoggia. Secondo Bontadini «la metafisica - ossia la concezione dell’essere come stabilità 485

G. MELZI, Fede, religione e scienza, Paideia, Brescia 1968, p. 12. Ibidem, p. 23. 487 G. BONTADINI, Episodi della deellenizzazione, cit., p. 94. Il volume di Dewart analizzato e criticato da Bontadini è il seguente: L. DEWART, The Future of Belief, Herder, New York 1966; a cura di G. Riva, Il futuro della fede. Il teismo in un mondo divenuto adulto, Queriniana, Brescia 1968. 488 G. BONTADINI, Episodi della deellenizzazione, cit., p. 96. 486

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contrariamente alla superficiale apparenza, non è orientata ed orientante in senso conservatore»489. Tutt’altro: la metafisica, teorizzando la presenza di un Essere che è somma bontà e somma gisutizia, fornisce le basi per possibili cambiamenti storici e persino per rivoluzioni politiche in nome dei valori eterni di bene comune di giustizia sociale. Egli ribadisce, quindi, che «la metafisica non è in contrasto con l’esigenza della innovazione storica e, al limite, della Rivoluzione»490. In Claude Tresmontant il Bontadini scorge il fenomeno nuovo e, sotto certi aspetti, paradossale di un «tomismo deellenizzante»491. In un volume del 1972 dal titolo Les problèmes de l’athéisme, l’autore francese contrappone radicalmente il mondo culturale greco a quello ebraico ed arriva a sostenere che l’essenza del pensiero filosofico greco è atea. A suo parere «la filosofia greca, lungi dal fornire una qualsiasi base al teismo, è anzi la grande matrice dell’ateismo che, formulato nella stessa Grecia, s’è poi prolungato, almeno in una o in certe sue forme, in tutta la vicenda del pensiero occidentale»492. L’essenza del pensiero greco, secondo Tresmontant, è l’immanenstimo o il naturalismo, stando ai quali «il mondo è l’unico essere»: l’ateismo del mondo greco «fin dalle origini si presenta in due forme: quella crudelmente materialistica, proposta dagli atomisti presocratici, e quella animistica o ilozoistica, nata anch’essa nello stesso periodo e nello stesso ambiente»493. Inoltre egli scorge in Parmenide il vero inizio dell’ateismo occidentale: «Tutto il 489

Ibidem, p. 140. Ibidem, p. 145. All’epoca in cui scrisse queste pagine - negli anni Settanta - Bontadini non poteva di certo conoscere gli sviluppi che successivamente avrebbe avuto la posizione di Vattimo. Bontadini però nota che Vattimo è «una delle migliori intelligenze filosofiche della giovane generazione» (ibidem, p. 128) ed intuisce che il suo pensiero ha delle notevoli potenzialità: lo inserisce quindi nella «schiera dei deellenizzatori» (ibidem) e non gli risparmia serrate critiche per la maniera deformante in cui egli presenta la metafisica classica. 491 G. BONTADINI, Episodi della deellenizzazione, cit., pp. 146-147. 492 Ibidem, p. 147. 493 Ibidem. 490

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ragionamento di Parmenide» - secondo Tresmontant - «si fonda sul presupposto o sulla petizione di principio, che non c’è che una sola specie di essere: l’essere del mondo. L’ateismo, fino ad oggi, sarà fondato su questa stessa petizione di principio»494. All’ateismo intrinseco della filosofia greca il Tresmontant contrappone «la Dottrina ebraica della parola»495: si tratta della “parola creatrice” (in ebraico davár) con la quale Dio, secondo il racconto della Genesi, chiama all’essere le cose del mondo, facendole concretamente esistere. Un autentico tomismo, basato sulla concezione di Dio come Ipsum Esse Subsistens, può fondarsi solo sull’«ontologia ebraica» così come viene enunciata nel libro della Genesi e nell’Esodo (3, 14), dove Jawé definisce sé stesso come Essere (Eié asher Eié). Bontadini riprovera a Tresmontant alcune gravi imprecisioni storiografiche e soprattutto il considerare il pensiero di Parmenide come «il fondamento di tutto l’ateismo occidentale»496. Per il Bontadini è proprio partendo dal principio di Parmenide che si può giungere a teorizzare sola ratione il “principio di creazione”, che la base di tutto l’edificio concettuale della fede ebraico-cristiana. A suo parere «la deellenizzazione, se è giustificata nei confronti dei sistemi filosofici greci - e della correlativa visione della vita - che ancora erano privi del teorema di creazione, non lo è però nei confronti di quel Principio di Parmenide che, come ha provocato l’insorgere di quei sistemi, così apre il varco al trionfale irrompere della concezione creazionistica, in cui si placa l’aporia che affliggeva e schiacciava il pensiero greco».497 Si comprendono allora le conclusioni di Bontadini sul “tomismo deellenizzato” proposto dall’autore francese: «L’accanimento del Tresmontant contro Parmenide porta allo sradicamento della metafisica; […] codesto tomismo de ellenizzato, integralmente deellenizzato, equivale allo spegnimento dello stesso tomismo. Mentre il riconoscimento del 494

C. TRESMONTANT, Les problèmes de l’athéisme, Seuil, Paris 1972; tr.it., I problemi dell’ateismo, Edizioni Paoline, Roma 1973, p. 35. 495 Ibidem, p. 19. 496 G. BONTADINI, Episodi della deellenizzazione, cit., p. 148. 497 Ibidem, p. 156.

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Principio di Parmenide consente di rigorizzare le prove tomistiche, lasciando insieme via libera a quella giusta e necessaria opera deellenizzatrice, che consiste nel mettere da parte tutti quei sistemi antichi che non si erano potuti aprire alla concezione creazionsitica (all’”ontologia ebraica”!»498. 3. Figure e problemi dello “spiritualismo italiano” Il filosofo della scienza Giulio Preti (1911-1972) diede un giudizio molto negativo di quel movimento definito come “spiritualismo italiano”, sviluppotosi a partire dagli anni Trenta fino al secondo dopoguerra; egli accusò lo «spiritualismo di aver improvincialito la cultura nazionale, dando rilievo alla tematica astratta del realismo contro la filosofia idealistica e a una ricostruzione metafisica di tipo dogmatico e avulsa da ogni contatto con l’esperienza»499. Non condividiamo del tutto questo severo giudizio del Preti. Cerchiamo, quindi, di mettere in luce le caratteristiche salienti dello spiritualismo che, a nostro parere, ha dei motivi teoretici molto profondi e sicuramente da valorizzare. Innanzitutto diciamo che lo “spiritualismo italiano” non fu un movimento unitario ma comprese al suo interno una pluralità di approcci che trovarono il loro trait d’union in una filosofia dell’interiorità di carattere agostiniano: Sant’Agostino con la sua metafisica dell’interiorità umana fu un punto di riferimento fondamentale per tutti gli spiritualisti500. Il termine di “spiritualismo 498

Ibidem, oo. 159-160. G. PRETI, Lo spiritualismo cattolico, «Studi filosofici», VII, Febbraio 1946, pp. 41-64. 500 Adriano Bausola ha messo in luce un ulteriore motivo storico-politico del richiamo ad Agostino che ha caratterizzato la cultura italiana negli anni Quaranta: «Neoagostiniani possono essere considerati quei pensatori che, di fronte a una civiltà in declino (dopo la tragica frantumazione bellica dei valori), e nell’angosciata interrogazione sulla civiltà che l’avrebbe sostituita, pur avvertivano nella diffusa inquietudine sociale, culturale e civile, l’eco esistenziale […]; essi ritenevano che dall’analisi di questa crisi esistenziale 499

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cristiano” fu porposto da Sciacca all’inizio degli anni Quaranta ed era stato ampiamente utilizzato nel suo volume del 1945 per caratterizzare «l’ultima parola significativa della filosofia italiana, la corrente più viva, più diffusa e discussa»501. Tuttavia il termine di “spiritualismo” fu presto accantonato da quasi tutti gli autori che si richiamarono a tale impostazione agostiniana fondata sul primato dell’interiorità. Per designare la propria posizione Ausgusto Guzzo usò il termine di “idealismo” (ovviamente non nel senso di Croce e Gentile), Michele Federico Sciacca “filosofia dell’integralità”, Fecile Battaglia “filosofia del valore”, Stefanini “immaginismo” e successivamente “personalismo”, Luigi Pareyson “filosofia ontologica della persona”502. Inoltre uno degli elementi fondamentali che differenzia lo “spiritualismo italiano” da quello francese (di Bergson, Blondel, Lavelle, Le Senne, ecc.) fu il suo vicinissimo contatto con l’idelismo ed in particolare con l’attualismo gentiliano: del resto Sciacca e Carlini erano allievi diretti del Gentile e la loro prospettiva prese le mosse da un’autocritica dell’attualismo stesso. Gli spiritualisti italiani - sottolinea Armando Rigobello - «si maturarono entro la crisi dell’idealismo e in dialogo con le tematiche idealistiche riprese dal neo-idealismo. In Francia il ruolo dell’idealismo è stato marginale ed è piuttosto l’attenzione per le dinamiche psicologiche che si trasforma poi in meditazione speculativa. In Italia i caratteri [riscontrabili] nello spiritualismo di Carlini si ritrovano in altre figure e sociale, e dalla concretezza dell’uomo storico, si dovesse partire per tentare una nuova costruzione, come aveva fatto Sant’Agostino rispetto alla crisi dell’Impero romano […]. Un nuovo motivo – sotorico-epocale – si affiancava così a più antichi motivi filosofici (interioristici) per “rilanciare” l’agostinismo» (A. BAUSOLA, Neoscolastica e spiritualismo, in AA. VV., La filosofia italiana dal dopoguerra a oggi, pp. 273-354, p. 279). 501 M.F. SCIACCA, La filosofia, oggi, [prima edizione 1945], Marzorati, Milano 19583, p. 368. 502 Sull’impossibilità di scorgere un legame di scuola all’interno dello “spiritualismo italiano” si è soffermato anche V. SAINATI, Lo «spiritualismo cristiano» e la sua forma dinastica: Carlini-Guzzo-Sciacca, «Giornale di metafisica», 1955, pp. 248-282.

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di pensatori [a lui] contemporanei, da Guzzo a Sciacca, da Battaglia a Lazzarini, per non parlare di Stefanini e di Pareyson, in cui tuttavia l’accentuazione personalistica rivela uno spostarsi dell’orizzonte della riflessione»503. In particolare partendo dalle suggestioni dell’attualismo di Gentile, questi autori italiani, ognuno con un percorso autonomo ed originale, cercarono di affermare il primato dello spirito sulla materia, il primato della libertà sul determinismo naturalistico e soprattutto una possibile trascendenza all’interno dell’atto stesso del pensiero. Essi furono concordi nell’affermare che il pensiero umano non spiega compiutamente se stesso. Questi elementi li ha ben messi in luce anche Nunzio Incardona (1928-2003) che di Scicca fu anche discepolo: «Dal Carlini, al Guzzo, allo Stefanini e allo Sciacca, lo spiritualismo cristiano si è trovato in contatto, e non solo per contemporaneità ma anche per filiazione spirituale, con l’ultimo più serio sforzo speculativo dell’Idealismo: Giovanni Gentile ha talmente inciso nella storia filosofica di questi ultimi anni che non è possibile ignorarlo (né lo hanno ignorato i maggiori esponenti dello Spiritualismo italiano), non solo: ma ha anche espresso dal più profondo delle sue tormentate, appassionate e appassionanti meditazioni filosofiche, l’ansia e l’anelito di un Assoluto trascendente che la lettera di tutte le sue più significative opere filosofiche non è riuscita a rinchiudere nel circolo rigido dell’autosufficienza e dell’apriorismo assoluto dell’atto del pensare, legittimando perciò, nell’approfondimento del suo pensiero, il recupero di materiali che hanno determinato l’esigenza di una più decisa fondazione della primalità dello spirituale […] e di un Principio assoluto (trascendeza ed esistenza di Dio)»504. Lo spiritualismo italiano - continua Incardona - pur nella peculiarità individuale dei suoi fautori, è stato «un originale movimento di

503

A. RIGOBELLO, Spiritualismo, in P. ROSSI (a cura di), La filosofia, Utet, Torino , Vol. IV, pp. 485-511, p. 502. 504 N. INCARDONA, Problematica interna dello spritualismo cristiano, Bocca Editori, Milano 1952, pp. 10-11.

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pensiero cattolico che [ha certato di essere] indipendente dall’Idealismo e dalla Neoscolastica»505. Prima di analizzare alcune tra le prospettive più originali all’interno di tale temperie mettiamo in luce l’elemento speculativo condiviso, seppur in diverse forme, da tutti gli spiritualisti: la soggettività umana come incipit di ogni possibile discorso ontologico e metafisico. Non si può parlare direttamente dell’essere senza un riferimento preliminare alla coscienza soggettiva che lo conosce tramite il logos e lo esprime tramite la parola. Tutte le varie forme di spiritualismo trovano la loro unità nell’essere filosofie del cogito, figlie cioè dell’agostinismo, del cartesianesimo e di tutte le prospettive antropocentriche della modernità. Se la metafisica classica e tomistica prendeva le mosse dall’adagio «primum cognitum est ens», gli spiritualsiti sono concordi nell’affermare che il primum cognitum non è direttamente l’essere oggettivo ma gli atti della coscienza umana. Questa è una delle note speculative che differenzia lo spiritualismo dalla neoscolastica e che fu motivo di accesi dibattiti anche nel Centro studi filosofici di Gallarate. Una eco di tali dibattiti sul primato del cogito la possiamo trovare ancora nelle seguenti parole di Sovia Vanni Rovighi, la quale difende un’impostazione gnoselogica di tipo classsico: «Una persuasione abbastanza diffusa nella storia della filosofia è che la prima verità, immediatamente evidente e presupposta ad ogni altra, sia il cogito, l’io penso; ora mi sembra che le obiezioni mosse a questa tesi da 505

Ibidem, p. 12. Sulle idee guida dello spirtitualismo italiano si veda anche M.T. ANTONELLI, Il neospiritualismo italiano: Sciacca, Carlini, Guzzo, «Giornale di metafisica», 2, 1955, pp. 192-224; sugli aspetti teologici dello spiritualismo italiano cfr. anche G. FERRETTI, Tematiche teologiche emergenti in alcuni autori rappresentativi del cosiddetto «spiritualismo cristiano» italiano (Carlini, Sciacca, Guzzo), in AA. VV., La teologia italiana oggi, Morcelliana, Brescia 1980, pp. 307-355; A. RIZZACASA, Cristianesimo e cultura cristiana nel passaggio dal neoidealismo allo spiritualismo, in E. AGAZZI (a cura di), Il pensiero cristiano nella filosofia italiana del Nocevento, Milella, Lecce 1980, pp. 191-198; G. INVITTO, Spiritualismo, personalismo e tendenze esistenziali nel pensiero cristiano, in O. POMPEO FARACOVI (a cura di), Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, cit., pp. 293-327.

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Hume e nell’epoca contemporanea, da Mach, da Avenarius, da James e da altri siano pienamente valide. Non si ha intuizione del pensiero, del conoscere; si conoscono cose - qualunque siano poi queste cose -, si vedono colori, si odono suoni, si pensano numeri ecc., non si vede il vedere, non si ode l’udire e, immediatamente, non si pensa il pensare. La prima verità, implicita in ogni affermazione, non è il cogito, ma c’è qualche cosa [l’essere nella sua oggettività]»506. Michele Federico Sciacca rivendica invece la piena legittimità filosofica di quello che egli definisce “spiritualismo critico” e che si svuiluppa sulla base del pensiero agostiniano e correngendo in senso teistico l’antropocentrismo moderno. Egli afferma che «in Italia v’è una corrente di pensiero (all’interno della quale le differenze sono notevoli) che è impegnata: a) a recuperare i concetti d’interiorità o di spiritualità o di critica (le istanze fondamentali del pensiero moderno […]) nella linea dell’autocoscienza platonico-agostiniana; b) con lo scopo di fondare e di approfondirlo il problema della persona e con esso il quello della metafisica»507. In particolare Sciacca definisce il movimento spiritualistico italiano come una sorta di «neopatristica». Alcuni elementi fondamentali dell’antropologia teocentrica elaborata dai Padri della chiesa, a suo parere, possono essere ripresi per superare la crisi culturale di tanta parte del Novecento, una crisi etica e politica, oltreché speculativa: «Si noti come il pensiero patristico, cioè la prima elaborazione filosofica del Cristianesimo, culminante di S. Agostino, sia essenzialmente un’altropologia teocentrica, un umanesimo teistico (Dio e l’uomo; l’uomo e Dio) e come l’Umanesimo del secolo XV, in quel che si oppone alla scolastica aristotelica, si rifaccia alle fonti patristiche. Ogniqualvolta il problema dell’uomo si faccia presente, la Patristica, fondamento per una soluzione autentica di esso, diventa “attuale”. Pertanto a noi sembra (senza che ciò comporti irrigidimenti esclusivistici) che una soluzione crisitiana dei problemi del pensiero contemporaneo, che è essenzialmente “antropologico”, sia possibile nel senso, diciamo 506

S. VANNI ROVIGHI, Uomo e natura. Appunti per una antropologia filosofica, Vita e Pensiero, Milano 1980, p. 171. 507 M.F. SCIACCA, L’interiorità oggettiva, Marzorati, Milano 1960, p. 61.

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così, di una “neopatristica” che tenga conto del meglio della Scolastica e non nell’altro di una “neo-scolastica” rigidamente aristotelica»508. 4. «Veritas mater temporis»: idealismo e platonismo in Augusto Guzzo Ci soffermiamo ora su alcune tra le più significative figure dello spiritualismo partendo da Augusto Guzzo (1894-1986), il quale anche in omaggio a Sebastiano Maturi (1843-1917) - suo maestro all’Università di Napoli -, ha definito la sua posizione come “idealismo”: come vedremo subito, si tratta però di un idealismo umanistico ed incentrato sulla concretezza dell’esperienza personale. La posizione di Guzzo prende le mosse da un ripensamento critico 508

Ibidem, p. 47 [in nota]. Un forte richiamo ad Agostino con la connessa esigenza di un “filosofare nella fede” lo troviamo anche nel perugino Teodorico Moretti-Costanzi (1912-1995): il suo pensiero si sviluppa a partire da un confronto critico con la modernità (Spinoza e Schopenhauer) e con l’ontologia di Carabellese e di Heidegger, per approdare ad una sorta di “mistica speculativa”. La filosofia cristiana di Moretti-Costanzi è stata eleborata a latere dalle grandi correnti di pensiero ma non per questo è priva di motivi originali e di notevole interesse. Tra le sue opere principali sono da menzionare: T. MORETTI-COSTANZI, L’ascetica di Heidegger, Arte e Storia, Roma 1949; IDEM, La terrenità edenica del cristianesimo e la contaminazione spiritualistica, Patron, Bologna 1956; IDEM, Il senso dela storia, Alfa, Roma 1963; IDEM, La fede sapiente e il Cristo storico, Edizioni Sala francescana di cultura “P. Antonio Giorgi”, Assisi 1981; IDEM, La rivelazione filosofica, Edizioni Sala francescana di cultura “P. Antonio Giorgi”, Assisi 1982. La Fondazione Siro Moretti-Costanzi ha curato l’Opera omnia di Teodorico Moretti-Costanzi presso la casa editrice Armando di Roma; cfr. anche T. MORETTI-COSTANZI, Opere, a cura di E. Mirri – M. Moschini, Bompiani, Milano 2009; M. MOSCHINI, L’ascesi di coscienza e il cristianesimo-filosofia: Teodorico Moretti-Costanzi, Edizioni Sala francescana di cultura “P. Antonio Giorgi”, Assisi 1990; L. BOSCHERINI (a cura di), Teodorico Moretti-Costanzi: un mistico cristiano nella filosofia contemporanea, Cortona, Calosci 1995.

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dell’idealismo trascendentale: anche l’idealismo, a suo parere, «si trova in una situazione di fare metafisica, sebbene diversa, sia da quella tradizionale, sia da quella kantiana: una metafisica non dell’essere, né della forma a priori dell’esperienza, bensì una metafisica del pensiero»509. Quella dell’idealismo è perciò una “metafisica della mente” che ipostatizza la soggettività trascendentale rendendola oggettiva: anche la hegeliana «scienza della logica o dell’idea» - viene sostenuto - «ci pone sempre il trascendentale di fronte, come un oggetto»510. Guzzo critica ogni pretesa della metafisica di assolutizzare il suo oggetto, sia esso l’essere o il puro spirito: e da qui che deriva anche la «diffideneza guzziana per il termine “spiritualalismo”». Egli vuol evitare di «dare allo spirito gli stessi tratti oggettivi della “cosa in sé”»511. Guzzo critica le rigide strutture oggettivanti dell’idealismo e della metafisica classica partendo da una posizione platonico-agostiana: per la sua formazione intellettuale fu di fondamentale importanza lo studio di Agostino dal quale attinse l’idea della “inesauribilità della verità”. La verità in sé c’è, esiste, ma trascende le possibilità umane di impadronirsene: l’uomo si può solo approcciare ad essa e mai possederla compiutamente nel concetto. Tale idea della verità come un quid inesauribile ed oggetto di interpretazione personale fu ampiamente recepita dagli allievi di Guzzo all’Università di Torino: la ritroviamo, magari ampliata ed anche maggiormente elaborata, in Luigi Pareyson, in Vittorio Mathieu ed in Valerio Verra. Come abbiamo già accennato, nel suo primo periodo di ricerche il Guzzo studia attentamente il platonismo che insieme al cristianesimo rende viva ed attuale la posizione di Agostino d’Ippona. A suo parere «la vessatissima questione del platonismo di Agostino si presenta in una luce assai chiara quando si segua via via la formazione del pensiero agostiniano. Non ci sono elementi nuovi accanto ad 509

V. MATHIEU, La teoretica di Augusto Guzzo, in A. PLEBE (a cura di), Augusto Guzzo, Edizioni di Filosofia, Torino 19642, p. 126. 510 Ibidem. 511 Ibidem, p. 128. Sui carateeri peculiari dello spiritualismo di Guzzo cfr. F. ALESSIO, Studi sul neospiritualismo, Bocca Editori, Milano 1953, pp. 5588.

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elementi vecchi, sicchè si possa sceverare il frumento dal loglio; tutto il vecchio rivive, trasfigurato, nel nuovo: è il platonismo, è la fede in un mondo intelligibile, che diventa in Agostino cristianesimo e fede nell’altro mondo. Questa trasfigurazione dell’antico nel nuovo, della forma antica di pensiero e di cultura - filosofia e morale filosofica - nella forma nuova - religione e morale religiosa - non è opera personale di Sant’Agostino: è - per non nominare che due geni eponimi di quel grandioso e incomparabile movimento, di cui non c’è nulla, nella storia, che abbia più influito su tutto l’orientamento della vita umana - è opera di Paolo e del quarto Evangelista»512. Guzzo ha voluto conferire al suo pensiero più maturo un carattere sistematico: all’inizio degli anni Quaranta egli annuncia una sorta di summa in sei opere dal titolo generale L’uomo. Il primo dei sei volumi previsti si intitola L’io e la ragione e risale al 1947: qui egli tematizza il rapporto tra l’io personale e la ragione universale, specificando che la struttura trascendentale della ragione si esplica nella singolarità irripetibile e concreta dell’individuo. La ragione per potersi concretizzare ha bisogno necessariamente della corporeità dell’io, la base materiale di ogni possibile espressione spirituale. Come noteremo anche nel caso di Carlini, merito degli spiritualisti è anche di aver riscoperto il valore filosofico della concretezza individuale e della corporeità del singolo, temi che l’idealismo italiano non aveva ampiamente considerato. Nella sua prevista summa di sei parti il Guzzo nel 1955 dedicò un volume alla scienza: con molti puntuali esempi sostenne che l’inventio scientifica scaturisce dall’incontro tra le strutture logiche del soggetto e l’esperimento. Il volume è una testimonianza di una concezione “spiritualistica” dell’espitemologia tesa ad eccentuare

512

A. GUZZO, Agostino dal «Contra Academicos» al «De vera religione», Vallecchi, Firenze 1925; ristampato in IDEM, Agostino e Tommaso, Edizioni di Filosofia, Torino 1958, p. 4. Sul neoagostinismo di Guzzo e di M.F. Sciacca cfr. M. DAMONTE, La filosofia cristiana nella concezione di Guzzo e Sciacca, «Studi Sciacchiani», 2, 2000, pp. 134-140.

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l’elemento di creatività necessario nella ricerca513. Ci pare che tali analisi di Guzzo si avvicinino molto a quelle degli epistemologi francesi Émile Meyerson e Gaston Bachelard. Dal volume La scienza emerge anche quella che, come abbiamo già detto, è la concezione tipica della verità secondo Guzzo: alle derive storicistiche della veritas filia temporis egli contrappone, anche sulla base dell’espistemologia, la nozione di veritas mater temporis. La verità, in quanto oggetto di ricerca, è una funzione della coscienza: resta sullo sfondo di qualsiasi ricerca umana come un valore in sé inesauribile ed infinito. Anche Pareyson ha notato che il concetto platonico della veritas mater temporis «è uno cardini del pensiero di Guzzo, tant’è vero ch’è rimasto sostanzialmente immutato dai primi saggi in cui è stato teorizzato sino alla prima parte di Sic vos non vobis (2 voll., Napoli 1939-40), dove si parla del Valore infinito [la verità] che […] è atto che fonda la coscienza esigendone riconoscimento e interpretazione: atto del vero e del bene che chiedono al singolo uomo di pronunziarsi responsabilmente nella determinate e mutevoli situazioni»514. Nella sua progettata enciclopedia delle discipline filosofiche Guzzo dedica anche tre volumi rispettivamente alla morale, all’arte e alla religione. Quest’ultimo ci pare i particolare importanza: come emerge anche dal sottotilo, egli intende effettuare una “fenomenologia dell’esperienza religiosa”, un campo d’indagine che sarà poi ampiamente frequentato dal suo discepolo Pareyson. Guzzo non prende le distanze dalla metafisica classica e dai tomisti che intendono Dio come Essere sommo: egli accetta le loro conclusioni ma afferma che l’esperienza religiosa va al di là di qualsiasi rigida concettualità. Egli riprende, quindi, la tradizione 513

Sull’epistemologia di Guzzo cfr. P. FILIASI CARCANO, L’evoluzione della scienza e la concezione della natura nel pensiero di Augusto Guzzo, «Giornale critico della filosofia italiana», 3, 1958, pp. 510-540. 514 L. PAREYSON, L’etica di Augusto Guzzo, in A. PLEBE (a cura di), Augusto Guzzo, cit., pp. 76-116, p. 83. Cfr. anche A. GUZZO, «Veritas mater temporis», in IDEM, Agostino e il sistema della grazia, L’Erma, Torino 1930: scritti riediti in IDEM, Idealismo e cristianesimo, 2 voll., Loffredo, Napoli 1936.

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della teologia negativa che non intende qualificare l’assoluto con concetti umani e tratti dall’esperienza. Dio, sottolinea Guzzo, eccede l’ontologia, è “al di là dell’essere” (epekéina tes ousía, secondo le formule platoniche), è “al di là” delle nostre capacità cognitive. Come direbbe Jean Wahl l’unica possibile ontologia formulabile a proposito di Dio è l’«onologia dell’invocazione»: è la Verità stessa che viene incontro a noi e risponde al nostro appello. Guzzo però, differentemente da Pareyson e da Jean Wahl, non contrappone nettamente il “Dio dei filosofi” al “Dio della rivelazione biblica”: egli scorge invece una sorta di “continuità nell’eccedenza”. Il Dio al quale si può giungere tramite la sola ragione è ben poca cosa rispetto al Dio vivo e personale dell’esperienza religiosa del singolo. Secondo Guzzo «la coscienza religiosa può adottare per suo ciò che dice la filosofia […], ma non può la filosofia de Deo sostituire il Dio vivo nella coscienza religiosa. […] Quanto è detto di Dio nella teologia filosofica è tutto vero, ma è riconosciuto vero dall’esperienza religiosa che trova in Dio quello che la filosofia dice di Dio. La ragione dimostra quello che l’esperienza religiosa mostra: le dimostrazioni sono tutte esatte, visto che Dio è, ed è presente, sicchè “dimostrare” l’esistenza è confermare l’esperienza, non sostituirla»515. La posizione di Guzzo ci pare particolarmente interessante perché riesce a tenere uniti il rigore argomentativo della filosofia classica tedesca con le pascaliane raisons du coeur, giungendo così a pregevoli analisi sul significato filosofico dell’esperienza religiosa. 5. Armando Carlini: «la vita l’«esistenzializzazione del trascendentale»

dello

spirito»

e

La prospettiva di Armando Carlini è in larga misura caratterizzata dal tentavivo di superare l’attualismo gentiliano per riaffermare il valore dell’interiorità umana come trascendenza. Dall’idealismo egli riprende e rielabora sulla scorta di Agostino e Maurice Blondel il 515

A. GUZZO, La religione. Fenomenologia e filosofia dell’esperienza religiosa, Accademia delle Scienze, Torino 1964, pp. 115-116.

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principio dell’interiorità umana come incipit del discorso filosofico. Ecco alcune sue affermazioni che chiarificano le sue esigenze speculative: «Riconducendo (come io m’industrio di fare) l’idealismo alla sua originaria intuizione spirituale, al problema dell’interiorità, è pur possibile attraverso l’autocoscienza idealistica superare l’immanentismo e giungere al Trascendente. Se la via da me indicata non è ancora senza difficoltà, pure che una via in questa direzione abbia ad esserci ne fa testimonianza tutta la corrente mistica da Sant’Agostino in poi. E proprio perché l’ultimo idealismo [quello di Gentile], insediatosi nell’atto dell’autocoscienza, si vanta d’ispirazione cristiana, credo di aver ragione io di esigere ch’esso non dimentichi la sua più vera origine, ch’è nel problema dell’interiorità e del rapporto, con cui questo è sorto anche storicamente, non al mondo in primo luogo, ma a Dio: come problema, cioè, d’immanenza e insieme di trascendenza dentro l’atto stesso dell’autocoscienza»516. Cerchiamo ora di mettere in luce alcuni decisivi passaggi storiografici e teoretici della posizione di Carlini partendo anche dalla sua biografia. Carlini nacque a Napoli nel 1878 e studiò all’Università di Bologna laureandosi prima in lettere (sotto la guida di Giosuè Carducci) e poi in filosofia con Francesco Acri (1834-1913), un filosofo d’ispirazione rosminiana. I primi lavori storiografici del Carlini furono dedicati ad Aristotele, di cui nel 1928 tradusse la Metafisica, all’aetas cartesiana, all’empirismo inglese e successivamente a Giovanni Gentile517. Nel 1922 fu chiamato a sostituire il Gentile alla cattedra di Filosofia teoretica dell’Università di Pisa, fu rettore dal 1927 al 1935: il successo accademico di Carlini fu in gran parte dovuto anche alla sua decisa adesione al regime fascista, di cui egli fu sostenitore sin dal 1923. Dal 1934 al 1939 fu anche deputato. Sempre nel 1934 diede alle stampe uno scritto dal titolo Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini in cui egli 516

A. CARLINI, Il mito del realismo, Sansoni, Firenze 1936, p. 104. Cfr. A. CARLINI, La filosofia di G. Locke, 2 voll., Vallecchi, Firenze 1921; IDEM, Il problema di Cartesio, Laterza, Bari 1948; IDEM, Studi gentiliani, Sansoni, Firenze 1958. 517

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difende l’ideologia fascista per la sua concezione dello Stato come luogo istituzionale in cui si realizza pienamente la socialità umana; criticando Croce (liberale ed antifascista) il Carlini afferma: «quel filosofo [Croce] che spende la sua vita con meditazioni sulla storia non s’è ancora accorto che la storia non la fa l’individuo isolato con la sua astratta libertà, ma l’individuo organizzato nella società, e in primo luogo in quella forma più potente di società che è lo Stato fascisticamente inteso»518. A causa della sua convinta adesione al regime Carlini nel 1945 fu costretto a lasciare l’insegnamento universitario. In seguito egli cercò di prendere le distanze dal suo entusiamo per il fascismo e nel 1951 fece un pubblico mea culpa affermando: «I filosofi han sempre sofferto di ingenuità in questo campo [la politica], a cominciare da Platone che sperava nel “tiranno” siracusano per fondare la sua Repubblica, e sino a Hegel che esaltava con lo stesso animo il re di Prussa»519. In questa sede non possiamo entrare nel merito delle “ingenuità politiche” del Carlini, ci soffermiamo piuttosto sugli elementi teoretici più originali della sua prospettiva. È l’autore stesso ad indicarci tra tappe fondamentali della sua ricerca che hanno dato esito a tre suoi volumi: «empiristica, la prima; estetica, la seconda; problematica, la terza. Alla prima corrisponde La vita dello spirito [1921], scritta nel periodo dei miei studi lockiani; alla seconda, La religiosità nell’arte e nella filosofia [1934], in cui svolsi un’intuizione nascosta come in germe nello

518

A. CARLINI, Filosofia e religione nel pensiero di Mussolini, Istituto Nazionale Fascista di Cultura, Roma 1934, p. 34. Nello scritto viene valutato molto positivamente anche il Concordato del 1929: secondo Carlini «la conciliazione tra lo Stato e la Chiesa promossa da Mussolini ha un’importanza storica di gran lunga superiore (per lo meno è da augurare) a quella della Rivoluzione francese». Per un’interpetazione di questo volume nel suo contesto storico-politico si veda E. GARIN, Cronache di filosofia italiana, 1900-1960, Laterza, Roma-Bari 1997, vol. II, p. 415 e ss. 519 A. CARLINI, Alla ricerca di me stesso (Esame critico del mio pensiero), Sansoni, Firenze 1951, p. 105.

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scritto precendente520; alla terza Il mito del realismo [1936], nel quale passò in primo piano quel concetto della “contraddizione vivente”, che nel volume precedente era stato posto, ma non utilizzato abbastanza»521. Si comprende, quindi, il Nostro come prenda gradualmente le distanze sia dall’idealismo “umanistico e mondano” di Croce che dall’idealismo “teologizzante” di Gentile, sebbene a quest’ultimo il Carlini è rimasto certamente più legato. Come abbiamo già accennato, il filo rosso che lega le tre fasi dell’itinerario carliniano può essere scorto nell’interiorità come luogo dell’autotrascendimento. Il leit mitiv che accompagnato le sue riflessioni viene espresso nel Preludio a La vita dello spirito e permarrà sempre immutato: «Noi siamo a noi stessi e per noi stessi il problema primo e fondamentale. Tutti gli altri problemi, in tanto possono interessare noi e la nostra meditazione, in quanto fanno capo e si risolvono in questo, ch’è il problema proprio della filosofia»522. Da queste parole emerge anche la chiave di lettura con la quale il Carlini interpreta e valorizza il pensiero moderno, fecendo emergere da esso gli elementi decisivi per una corretta antropologia filosofica: dal sensus inditus di Tommaso Campanella che individua come una felice anticipazione del cogito cartesiano, all’empirisimo Locke e al sensimo di Condillac, dal trascendentale kantiano al “sentimento fondametale corporeo” di cui parla Rosmini. In particolare Carlini avverte l’esigenza di fuoriuscire dalle astrattezze dell’idealismo trascendentale per far immergere le sue 520

Secondo Carlini nella vita dello spirito l’arte rappresenta il momento più alto dell’attività creatrice: nelle produzioni artistiche l’uomo è in grado di «far parlare alla natura il linguaggio dello spirito». Inoltre, il desiderio che spinge l’uomo alla creatività ci rivela la sua intima istanza di trascendimento. Cfr. A. CARLINI, La religiosità dell’arte e della filosofia, Sansoni, Firenze 1934. 521 A. CARLINI, Esame critico del mio pensiero, in IDEM, La vita dello spirito, [prima edizione 1921], Sansoni, Firenze 19402,pp. 273-299, p. 276; si tratta della seconda edizione dell’opera riveduta e con un’appendice finale che costituice un’autobiografia intellettuale. 522 A. CARLINI, Esame critico del mio pensiero, cit., p. 274.

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riflessioni nel vivo dell’esistenza e del mondo dell’esperienza: egli propone, allora, una necessaria «esistenzializzazione del trascendentale». È con tali parole che egli ci descrive questo elemento decisivo della sua ricerca: «Il punto speculativamente più importante, raggiunto alla fine del secondo periodo della mia meditazione, è la trasformazione del concetto kantiano del trascendentale nel mio principio d’interiorità: cioè, come problema dell’esistenza di colui stesso che si pone il problema dell’esistenza o possibilità del mondo dell’esperienza»523. Secondo Carlini il trascendentale kantiano ed idealistico rimane inefficace per spiegare la complessità della vita dello spirito e dello stesso processo conoscitivo: nell’uomo, accanto alle pure punzioni logiche (gli apriori dell’intelletto), vi sono anche forme della sensibilità che non possono ridursi - come voleva Kant - alle intuizioni empiriche dello spazio e del tempo. La sfera della sensibilità umana, sottolinea Carlini, è molto più ricca e varipinta poiché si sostanzia del variegato mondo delle percezioni corporee. Ecco allora che Carlini corregge la posizione di Kant con quella di Condillac e di Rosmini, che misero in luce tutti i signficati fondamentali della sensibilità umana, partendo dal tema della corporeità. Già nella Vita dello Spirito il Carlini accetta la tesi del Trattato delle sensazioni di Condillac per il quale «il sentire è l’atto fondamentale della vita spirituale» ed è perciò «un processo interiore di formazione dell’individualità e personalità dell’io»524. Tuttavia, secondo Carlini, «la sensazione non è passività, come parve da principio al Condillac, e come pare a ognuno che al percepire presupponga il suo oggetto, ma attività che 523

Ibidem, p. 286. A tal riguardo si veda anche gli studi di P. NEPI, L’«esistenzializzazione» del trascendetale. Armando Carlini e la filosofia dell’esistenza, «Prosopon. Rivista semestrale di filosofia», 2, 1989, pp. 290312; M. BARALE, Trascendentalismo ed esistenzialismo nelle riflessioni di Armando Carlini sulla possibilità di una metafisica, «Teoria. Rivista di Filosofia fondata da Vittorio Sainati», 2, 2010, pp. 75-84: il numero della rivista costituisce un quaderno monografico interamente dedicato al pensiero di Carlini (vi compaiono articoli di C. Cesa, A. Fabris, L. Messinese, S. Bassi, S. Perfetti, D. Trafeli). 524 A. CARLINI, La vita dello spirito, p. 90.

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realizza l’oggetto come altro dal soggetto»525. Il “sentire originario” dell’io, ribadisce Carlini, nasce dall’avvertimento della propria corporeità. La corporeità è, inoltre, lo strumento necessario tramite il quale lo spirito entra in contatto con l’esteriorità. Ogni rapporto spirituale dell’uomo con il mondo è reso possibile dal medium necessario del proprio corpo, da quella che Edmund Husserl nelle Meditazioni cartesiane chiama “natura appartentiva (eigenheitliche Natur) o “sfera appartentiva” (Eigenheitssphäre). Ecco le parole di Carlini sul tema della corporeità quale intimo avvertimento dello spirito, che non sussiterebbe se non fosse incarnato nella dimensione fisica: «Se consideriamo il nostro corpo, non come un oggetto tra gli altri oggetti, e neppure come un corpo nostro a differenza di quello di altri, […] ma come il nostro [che in quanto tale ci appartiene], si può ben dire che noi sentiamo, prima di tutto il nostro corpo e, attraverso di esso, tutto il mondo esteriore. È quel sentimento fondamentale corporeo di cui parla il Rosmini, e quel senso della nostra esperienza passata che limita e governa la creatività del percepire presente. In esso confluisce tutta la storia dell’uomo in particolare, ma anche della generazione e della sensibilità umana in generale»526. Sulla scorta di Condillac e di Rosmini il Carlini afferma che il “sentire” è in primo luogo un “sentirsi”, un’avvertimeno della propria corporeità e del proprio io come “essere incarnato”. Tale nozione della corporeità come “sentirsi” (o “sentir di sentire”) è il vero trascendentale della soggettività, cioè la sua condizione universale: questo trascendentale ha un senso molto più originale, più vero e più attinente alla vita concreta che non «l’oscura presentazione kantiana di “forme [trascendentali] bell’e pronte” della nostra sensibilità [cioè lo spazio e il tempo]»527.

525

Ibidem, p. 91. A. CARLINI, Dalla vita dello spirito al realismo, Sansoni, Firenze 1959, p. 184 (il volume è una raccolta di saggi di Carlini curata dall’Università di Pisa per il suo 80° compleanno). 527 A. CARLINI, Lineamenti di una concezione realistica dello spirito umano, in M.F. SCIACCA (a cura di) , Filosofi italiani contemporanei, Marzorati, Como 19472, p. 242. 526

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Con questa sua valorizzazione speculativa della corporeità umana il Carlini ha anticipato tematiche tipiche dell’esistenzialismo francese: si pensi alla concezione dell’«uomo come essere incaranto» in Gabriel Marcel e alla «fenomenologia del corpo proprio» elaborata da Maurice Merleau-Ponty. Luigi Pareyson ha così interpretato il pensiero di Carlini come un’originale forma italiana di pre-esistenzialismo528. L’«esistenzializzazione del trascendentale» proposta da Carlini ha due fondamentali conseguenze: una - l’abbiamo già detto - in relazione alla riscoperta della corporeità, l’altra in relazione alla fondazione della trascendenza dello spirito umano. Questo secondo punto, secondo il Carlini, rappresenta la chiave di volta per correggere l’attualismo gentiliano in direzione della trascendenza. L’atto puro di cui parla Gentile - l’autóctisi - scaturisce da un’astratta identità del soggetto pensante, dalla dialettica di “pensiero pensante” e “pensiero pensato”: Carlini si pone il problema della genesi dell’atto ed afferma che la soluzione gentiliana rimane insoddisfacente. Il pensiero non può giustificare totalmente se stesso autoponendosi e, soprattutto, non può trovare in se stesso le ragioni del suo continuo desiderio di autotrascendersi, ciò che Cartesio identificava come “desiderio d’infinito”, «le désir que chacun a d’avoir toutes les perfections». Ecco allora che Carlini interpreta il cogito cartesiano, antesignano dell’autóctisi di Gentile, come un «cogitor a Deo»: Dio che è trascendenza assoluta e pura spiritualità è il fondamento stesso della vita dello spirito tipicamente umana. Carlini afferma che Dio è la condizione suprema di possibilità dello spirito umano ed è quindi l’unico e vero trascendentale: «Dio è il trascendentale dello stesso trascendentale umano: tale, cioè, che senza di esso neanche il principio spirituale dell’autocoscienza umana avrebbe esistenza e significato. Esso [Dio] è, dunque, il presupposto della spiritualità umana, così come questa è il presupposto del mondo dell’esperienza»529. 528

Cfr. L. PAREYSON, Preesitenzialismo di Armando Carlini, «Giornale critico della filosofia italiana», 4, 1941, pp. 226-246. 529 A. CARLINI, Esame critico del mio pensiero, cit., p. 287.

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Il punto fondamentale in cui Carlini si distacca da Gentile consiste nel porre una “differenza ontologica” - uno iatus, un gap tra la spiritualità umana e quella di Dio. Questo viene affermato chiaramente da Carlini in una relazione tenuta nel settembre del 1948 ad un convegno di Gallarate: «Io non potrei aderire più, oggi, a uno “spiritulalismo assoluto”, in cui vien fatta coincidere la spiritualità umana con quella divina. Dov’è il punto vero, concreto, della distinzione? A mio parere, non fonda tale distinzione, quale reclama la nostra coscienza religiosa, oltre quella filosofica, la riflessione per cui il rapporto fra persona umana e persona divina vien ridotto a quello tra finito e infinito, temporale ed eterno, imperfetto e perfetto, ecc. Questo tema fu già messo innanzi da Cartesio e svolto da Spinoza; ripreso dal Fichte e svolto dal Gentile, ecc. dove Dio diventa l’Io assoluto o trascendentale nella distinzione, puramente formale, dall’io così detto empirico. Per me, invece,» - sottolinea Carlini - «la distinzione è fondata sulla natura propria dell’uomo, nel quale è presente, per la concretezza della persona, anche la corporeità, che lo lega al mondo. E il problema del rapporto - come si dice comunemente - fra anima e corpo, ovvero – come io preferisco esprimermi – fra il senso dell’esistenza come interiorità di autocoscienza e l’esistenza come esteriorità, costituisce il problema fondamentale e il vero punto di partenza, non solo per la metafisica criticamente fondata [cioè fondata sulla soggettività umana], ma anche per la gistificazione razionale di una fede veramente cristiana»530. Secondo Carlini ogni dimostrazione dell’esistenza di Dio deve necessariamente passare per la vita dello spirito, per quel principio di interiorità che il Cristianesimo ha fatto conoscere alla filosofia pagana. In opposizione alle vie tomistiche che per dimostrare l’esistenza di Dio partono dall’esperienza extra-soggettiva, il Carlini afferma: «Dal mondo a Dio è impossibile passare immediatamente. Se Dio, infatti, è pura spiritualità, come arrivare a Lui da un mondo 530

Aa. Vv., Ricostruzione metafisica. Atti del IV Convegno di Studi filosofici cristiani tra professori universitari-Aloisianum-Gallarate, Liviana, Padova 1949, p. 97.

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in cui non appaia nessun’orma di spiritualità?»531. In tale posizione sono contenuti i termini fondamentali della disputa che il Carlini ebbe prima con Francesco Olgiati (dal 1933 al 1933) e successivamente con Gustavo Bontadini (anche tramite uno scambio epistolare)532. Nel 1933 il Carlini pubblicò sulla «Rivista di Filosofia Neoscolastica» un singolare articolo dal titolo Filosofi cristiani e teologi pagani: non senza ironia egli sostenne che i “filosofi cristiani” sono coloro che - come gli spiritualisti e i personalisti pongono all’inizio e al centro della speculazione l’interiorità umana (principio portato dal cristianesimo), mentre i “teologi pagani” sono gli scolastici che si richiamano al naturalismo del Dio aristotelico (il «ridicolo Dio dei filosofi» di cui parla anche Pascal). Secondo Carlini la metafisica dell’essere è di carattere cosmologico, arriva a concepire Dio come principio esplicativo del mondo naturale, ma non giunge a riconoscere l’auto-consapevolezza che l’essere ha di se stesso, ossia la coscienza, lo spirito e la personalità. Ad Olgiati e a Bontadini egli risponde che l’essere di cui parlano (extra-soggettivo e cosmologico) non è l’essere che ritorna su se stesso e che diviene autocoscienza spirituale e, dunque, libertà consapevole: rimane natura, meccanicismo e perciò non è predicabile di Dio. 531

Ibidem. Gli interventi del dibattito sono stati raccolti dai due autori in un volume: F. OLGIATI - A. CARLINI, Neo-scolastica, idealismo e spiritualismo, Vita e Pensiero, Milano 1933. A tal propostio cfr. anche L. MESSINESE, Pensiero e trascendenza. La disputa Carlini-Olgiati 1931-1933, QuattroVenti, Urbino 1990. Nel 1949 Olgiati riprese il dibattito con Carlini pubblicando due articoli: F. OLGIATI, Il concetto di metafisica e lo spiritualismo cristiano, «Rivista di filosofia neoscolastica», XLI, 1949, pp. 3-63; IDEM, La metafisica classica e le nuove correnti spiritualistiche, «Rivista di filosofia neoscolastica», XLI, 1949, pp. 401-443. Carlini gli rispose puntualmente: A. CARLINI, Nuova polemica con Olgiati, in IDEM, Che cos’è la metafisica? Polemiche e ricostruzione, Sansoni, Firenze 1962, pp. 19-75. Cfr. anche G. BONTADINI, Lo spiritualismo di Armando Carlini, «Rivista di filosofia neoscolastica», XXXI, 1939, pp. 263-293: ristampato anche in IDEM, Dall’attualismo al problematicismo, cit., pp. 49-98; U.A. PADOVANI, Armando Carlini e la metafisica classica, «Giornale di metafisica», XV, 1960, pp. 752-769. 532

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Per il Carlini il merito speculativo che va riconosciuto all’idealismo è quello di aver fatto emergere il valore imprescindibile dello spirito umano: l’unico ens realissimum dal quale può aver inizio ogni contatto cognitivo con il mondo e con Dio può essere solo lo spirito umano, la dimensione del cogito. A suo parere la realtà vera e fondante è quella dello spirito umano e non la materia, l’esteriorità, come vorrebbero Olgiati, Bontadini e gran parte dei neoscolastici. A Bondadini egli scrive con risolutezza: «sono cartesiano al cento per cento, codesta Neoscolastica è tutta una barbarie, che, svolgendo il lato peggiore del pensiero greco, è una manifesta degenerazione, la vera degenerazione dell’autentico pensiero medievale, considerato nel suo sforzo migliore, che fu quello, non di voler spiegare il mondo, ma di voler spiegare, al lume della nuova intuizione cristiana, il significato dell’esistenza dell’uomo nel mondo: ch’è un prolema esistenziale, non semplicemente logico-ontologico. Per me, Agostino, Tommaso, Bonaventura, Duns Scoto, Occam appartengono già al pensiero moderno, ch’è tutto sotto l’influsso del dogma cristiano»533. Carlini sottolinea che il grande merito del cristianesimo e soprattutto di Agostino è quello di aver portato al centro dell’attenzione filosofica il tema imprescindibile dell’interiorità umana. La veritas abita in interiore homine e non nell’esteriorità, come vorrebbero incece i tomisti e fautori della neoscolastica. A parere di Carlini «neanche Cartesio [con il cogito] era stato il primo ad aprire la strada: la strada fu aperta per la prima volta dal Cristianesimo. Tutta la filosofia moderna, anzi tutta la filosofia occidentale, dipende da quel punto: dalla problematicità cristiana portata nel mondo della cultura precendete, pagana. Prova: S. Agostino. Come intendere Cartesio senza Agostino e Anselmo? Non cercare la verità nel mondo dell’esteriorità: rientra in te stesso: lì troverai la verità. […] Ora, se l’uomo per il Cristianesimo è questa interiorità, il mondo, la realtà mondana, è un’esteriorità (non 533

A. CARLINI, Metafisica e antimetafisica (Lettera al prof. G. Bontadini), [apparsa nel «Giornale critico della filosofia italiana», luglio-settembre 1954], in IDEM, Che cos’è la metafisica? Polemiche e ricostruzione, cit., pp. 200-222, pp. 207-208.

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semplicemente un’esternità, ch’è concetto materiale): vuol dire: non sono lì ragioni prime e ultime della sua esistenza»534. Opponendosi all’atteggiamento razionalistico della neoscolastica, il Carlini ribadisce che «alla fede non ci sono peamboli: o, se mai, l’unico preambolo è un cuore puro e l’anima che cerca se stessa»535. Alle obiezioni di “fidesimo” e di “atteggimano postulatorio” avanzate da Olgiati e Bontadini, il Carlini risponde che solo il suo “spiritualismo” è in grado di fondare una metafisica critica capace di accogliere il postulato originario del cristianesimo e di sviluppare i guadagni speculativi del pensiero moderno. Tale posizione di Carlini viene largamente condivisa anche da Luigi Stefanini e da Michele Federico Sciacca. Tra i tre pensatori permangono, comunque, alcune rilevanti differenze, che essi stessi non mancarono di mettere in luce. Stefanini, rispondendo alle critiche mossegli da Carlini nel 1950, affermò che tra le loro due posizioni vi fosse una «discordia concors», una “discordia concordante”: «La meta è chiara e ci accomuna.» - gli disse - «Il metodo ci trova discordi»536. Stefanini 534

A. CARLINI, Per la fondazione di una metafisica critica, «Giornale di Metafisica», II, 4-5, 1947, ora in IDEM, Che cos’è la metafisica? Polemiche e ricostruzione, cit., pp. 7-17. Sulla prospettiva di Carlini circa il rapporto tra il cattolicesimo e la modernità filosofica cfr. A. CARLINI, Cattolicesimo e pensiero moderno, Morcelliana, Brescia 1953. 535 A. CARLINI, Esame critico del mio pensiero, cit., p. 295. Vittorio Sainati (1926-2003), un allievo del Carlini, ha messo in questione il moderno paeambulum fidei basato sul principio di interiorità, decomponendo la categoria stessa di interiorità teorizzata dal suo maestro: cfr. ; V. SAINATI, Aspetti e problemi dello spiritualismo di Armando Carlini, «Giornale critico della filosofia italiana», 1960, pp. 59-72; IDEM, La decomposizione della categoria dell’«interiorità» come categoria filosofica, in IDEM, Credere, oggi. Cristianesimo e teologia verso il Duemila, Carocci, Roma 1997 (terzo capitolo del volume). 536 L. STEFANINI, Discordia concors… (Risposta al prof. Carlini), «Giornale Critico della filosofia italiana», II, 1951, ora in A. CARLINI, Che cos’è la metafisica? Polemiche e ricostruzione, cit., pp. 88-98, p. 89. Nel 1950 Carlini scrisse un articolo sul pensiero di Stefanini mettendo in evidenza analogie e differenze con la sua posizione: l’articolo verteva in particolare sui tre volumi di Stefanini Metafisica dell’arte, Metafisica delle forme,

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condivide certamente l’istanza carliniana di una “riappropriazione critica della filosofia moderna”: «D’accordo con Carlini: la filosofia moderna si vive dall’interno, non la si ingnora, non la si rifiuta semplicisticamente [come fanno molti tomisti]. Rivivendola dall’interno, vi si trovano i germi che la rendono operosa sulle coscienze: vi si trovano i germi del Cristianesimo che la nostra coscienza critica deve liberare dagli imacci che la atrofizzano, per riportarli alla luce e ridarli alla fecondità»537. Ma il punto speculativo di maggiore differenza tra Carlini e Stefanini è nel recupero del trascendentale kantiano. Secondo quest’ultimo «sulla trascendentalità non si fonda la trascendenza». Stefanini prende le distnanza da una filosofia oggettistica che naufraga nel «pelago del trascendentale»538 che, a suo parere, rimane principio d’immanenza fagocitante le istanze metafisiche dell’uomo. Inoltre, - differentemente da Carlini Stefanini fa delle più ampie concessioni speculative al mondo dell’esteriorità, il presupposto di quella prospettiva che egli definisce come “imaginismo”. Secondo Stafanini le vie analogiche per giungere a Dio non si originano solo dall’interiorità ma anche dal mondo oggettivo che, in quanto creato, porta in sé il segno, l’imago e il vestigium del Creatore539. Stefanini si pone sulla linea di un umanesimo francescano nel quale la natura non viene più considerata caput mortuum, semplice momento di decadenza dello spirito, ma viene rivalutata come riflesso vivente di Dio che l’ha creata nella Parola. Carlini si trovò anche con Sciacca in una “discordante concordia”. È con tali parole che egli evidenza analogie e differenze tra le loro posizioni, che hanno in comune la loro origine nell’idealismo: «Quel Metafisica della persona. Carlini pubblicò anche il carteggio intrattenuto con Stefanini e Sciacca nel già citato Che cos’è la metafisica? Polemiche e ricostruzione, pp. 77-115. 537 Ibidem. 538 L. STEFANINI, Il dramma filosofico della Germania, [1938], Cedam, Padova 19482, p. 55. In questo passo Stefanini critica Husserl e tutte le prospettive che si richiamano ad un astratto trascendentalismo. 539 Cfr. L. STEFANINI, Imaginismo come problema filosofico, vol. I, Cedam, Milano 1936.

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che a lui garba, nel mio modo di filosofare» - afferma Carlini di Sciacca - «è il punto di partenza: non dal mondo, o dall’essere in generale, ma da noi stessi. Quello che non gli garba è la mia avversione (chimiamola così, ma non è parola esatta) alla Metafisica. Egli tiene molto a questo punto: che la filosofia è e dev’essere una metafisica. D’accordo, dunque, in questo con i filosofi scolastici. Tra me e loro egli ha scelto, così una posizione di mezzo: idealismo ma idealismo oggettivo, trascendente, mentre l’altro, quello da cui io provengo, è un idealismo soggettivo e immanente»540. Come analizzaremo tra breve, quella di Sciacca è una “filosofia dell’integralità” che ha cercato di fondare lo spirito umano sull’oggettività di un Essere che lo trascende: possiamo dire che in Sciacca, differentemente da Carlini, sia molto più marcato l’influsso di Rosmini e dell’ontologia tomistica dell’actus essendi. Chiudiamo queste nostre riflessioni sul pensiero di Carlini sofferandoci sulla sua ermeneutica del cristianesimo. Egli sottolinea giustamente che «il Cristianesimo, per sé, preso alla sua sorgente, è una fede religiosa, non è una filosofia (per i filosofi era una stoltezza, un assurdo […]). Ma è una fede religiosa che impegna a una posizone anche filosofica in quanto, per lo meno, non ne ammette una contraria. In questo il Cristianesimo è diverso da tutte le altre religioni: [esso] distingue fede e ragione, ma, pur essendo una fede, esige la presenza anche della ragione, della filosofia»541. Carlini prende le distanze dall’iper-razionalismo della neoscolatica ma, allo steso tempo, mette in luce tutta la “ragionevolezza del cristianesimo”, il suo non essere in netta antitesi con la ragione umana.

540

A. CARLINI, Incontri e scontri con Stefanini e Sciacca, [in «Giornale critico della filosofia italiana», 1950], ora in IDEM, Che cos’è la metafisica? Polemiche e ricostruzione, pp. 77-115, p. 93. Sciacca è entrato in discussione con la proposta di Carlini in: cfr. M.F. SCIACCA, Problemi dello spiritualismo di Armando Carlini, «Logos», 1937, pp. 104-120. 541 A. CARLINI, Per la fondazione di una metafisica critica, «Giornale di Metafisica», 4-5, 1947; testo riedito in IDEM, Che cos’è la metafisica? Polemiche e ricostruzione, cit., pp. 7-17, p. 10.

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Egli, inoltre, evidenzia la grande fecondità del cristianesimo sul piano etico-sociale. A suo parere si tratta di un messaggio di salvezza che spinge l’uomo alla realizzazione storica dei valori di giustizia e di bene. In tal senso ha una potentissima carica rivoluzionaria: «Il Cristianesimo, come religione positiva, supera infinitamente le altre religioni su questo terreno del mondo etico-sociale, perché, esso solo, dopo di aver rivelato all’uomo il presupposto trascendente della sua personalità, gli fa comando di tradurre i valori di questa nel mondo della socialità. Questo, infatti, è il Regno di Dio (del Dio cristiano, che nel dogma triniario già santifica assolutamente l’idea di socialità), che la volontà dell’uomo, illuminata e guidata dalla fede, deve instaurare in questo mondo»542. 6. Michele Federico Sciacca: «interiorità oggettiva», «filosofia dell’integralità» e rosminianesimo Anche la prospettiva di Sciacca (1908-1975), come quelle di Guzzo e Carlini, prende le mosse da una critica dell’attualismo gentiliano e si caratterizza per una marcata tonalità platonicoagostiniana: tuttavia, rispetto a Guzzo e a Carlini, in Sciacca troviamo un più deciso riferimento all’ontologia rosminiana che, a suo parere, riesce a conciliare le istanze della neoscolastica con quelle dello spiritualismo cristiano. Tramite la ripresa delle rigorose argomentazioni di Rosmini lo spiritualismo di Sciacca perde la sua facies volontaristica ed edificante per divenire una “filosofia dell’integralità” fondata sul concetto di “interiorità oggettiva”: si tratta di un’interiorità che rinviene in se stessa la presenza dell’Idea dell’Essere/Verità che la fonda e la trascende. Si comprende, quindi, 542

Relazione tanuta da Carlini presso Istituto di Studi Filosofici nel 1944: edita in AA. VV., Il problema della storia, Bocca Editori, Milano 1944, p. 172. Sul rapporto di Carlini con la fede cristiana cfr. A. CARLINI, Perché credo, [prima edizione 1950], Morcelliana, Brescia 19522; IDEM, Il mio fideismo, «Humanitas», XII, 1957, pp. 7-22; N. PASCOLO, Le «ragioni della fede» nell’ultimo Carlini, «Idee. Rivista di Filosofia», 19, 1992, pp. 125145.

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come al termine del suo lungo itinerario speculativo Sciacca abbia riscoperto il concetto di Dio come actus essendi formulato da Tommaso d’Aquino. Diversamente da tomisti come Étienne Gilson, Jacques Maritain e Cornelio Fabro, egli ritrova il nucleo fondante del pensiero tommasiano non per via ontologica (partendo dall’esteriorità) ma per via antropologica, partendo dall’interiorità e dall’Essere trascendente che la costituisce543. Ci soffermiamo ora su alcuni passaggi decisivi che hanno scandito l’itinerario speculativo di Sciacca, così come emergono anche dalla sua autobiografia dal titolo La clessidra: il mio itinerario a Cristo. Sciacca nacque a Giarre (Catania) nel 1908. Insofferente «della vita di provincia e dell’ambiente familiare»544 dopo gli studi liceali lasciò la Sicilia per iscriversi all’Università di Napoli. Qui li laureò con Antonio Aliotta discutendo una tesi su La filosofia di Tommaso Reid. Come ci suggerisce anche il titolo di una raccolta di saggi, il primo momento della speculazione di Sciacca può essere definito come un passaggio dall’«attualismo allo spiritualismo critico»545. Nella sua giovinezza egli aderì all’attualismo di Giovanni Gentile, nel quale scorgeva «il Fichte esplicito attraverso lo Hegel e perciò la compiutezza dell’idealismo»546. «Studente a Napoli» - egli ci confida nella sua autobiografia - «ero un gentiliano… […] [Gentile era] uomo di ricca e profonda umanità non priva di interessi religiosi. Era nato per la scuola, maestro nel senso più completo: alcune indimenticabili lezioni ascoltate a Roma, prima e dopo la laurea, mi diedero la misura della sua capacità formativa e dell’autenticità dell’uomo e del filosofo, mi affezionarono a lui per sempre»547. La filosofia di Gentile ha, dunque, costituito per Sciacca un termine 543

Cfr. M.F. SCIACCA, Prospettiva sulla metafisica di San Tommaso, Città Nuova, Roma 1975. 544 M.F. SCIACCA, La clessidra: il mio itinerario a Cristo, [edizione originale 1945], Marzorati, Milano 1963, p. 23. 545 Cfr. IDEM, Dall’attualismo allo spiritualismo critico (1931-1938), Marzorati, Milano 1961. 546 IDEM, La clessidra: il mio itinerario a Cristo, cit., p. 80. 547 Ibidem.

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costante di ispirazione e di approfondimento critico: è ponendosi la domanda genetica nei confronti dell’«atto puro» gentiliano che egli giungerà alla sua nozione di “interiorità oggettiva” in grando di fondare una rinnovata metafisica dell’essere. Molto severo fu invece il giudizio di Sciacca su Croce: «Una delusione» - egli afferma - «il mio primo incontro impegnativo con le opere filosofiche del Croce, al quale nocque la lettura simultanea della sua Logica e di quella di Hegel; scostante la lettura de La filosofia della pratica, negazione radicale della persona identificata con le sue “azioni”, per cui c’è il “fare umano” e non c’è l’uomo. Mi utava soprattutto la disinvoltura e la superficialità con cui egli con bello stile si sbriga di problemi complessi, quasi indegni dei suoi alti pensamenti. […] Nelle sue opere non trovai alcun approfondimento dei problemi dell’idealismo moderno, sfiorati o presi sotto gamba, ma una stretta parentela con la mentalità empiritistico-positivista fine Ottocento, propria di un uomo, che senza un solo problema veramente impegnativo dell’esistenza, giocata tutta sulla ricerca di una risposta, si sentiva la mente appagata e sgombra di ogni altra questione con un saggio sul Cuntu de li cunti e sul paesino di Montenerodomo, cose che lo interessavano di più degli “pseudoproblemi” dell’esistenza di Dio e dell’immortalità dell’anima. Qui la misura dell’uomo e del pensatore pago di “fare cultura”»548. 548

Ibidem, p. 79. Sciacca rimaneva deluso anche dall’antifascismo del Croce, che riteneva persino “funzionale” al regime: il fascismo utilizzava la sua tolleranza per Croce al fine di farsi maggione propaganda. Ecco le parole del filosofo siciliano: «Né mi entusiasmava il suo [di Croce] antifascismo, buon pretesto propagandisco del fascismo, facente a sua volta il gioco di Croce, che per vent’anni se n’è stato nella comoda posizione del “martire” protetto e quasi indisturbato. Mi sembrava infecondo anche il suo pensiero politico, una forma di liberalismo ottocentesco con forti assimilazioni marxiste, che si risolveva nell’apologia della politica giolittiana, senza alcuna sensiblità per i nuovi problemi e una prospettiva valida per risolverli. Una libertà adorata come Dio, la “religione della libertà”, anch0essa una forma di fanatismo, l’idolo di chi comodamente in pantofole redige “schede” e “postille”, molto saputo per aver risolto tutti i

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Nel 1934 Sciacca pubblicò un significativo saggio dal titolo La crisi dell’idealismo. Da esso emerge chiaramente la sua istanza di operare una «riforma in seno all’idealismo stesso»549, soprattutto nelle versioni di Hegel e di Gentile. A suo parere tali forme di idealismo rimangono immanentistiche e monistiche, una sorta di varianti più elaborate di naturalismo: «l’idealismo assoluto non si distingue da un positivismo assoluto e da altre forme di naturalismo»550. Egli sottolinea che «l’esigenza che stimola a superarlo – del concreto, dell’oggetto, del reale, dell’Essere – è sempre una, quella della trascendenza»551. Sciacca dichiara che l’atto del pensare, su cui Gentile aveva costruito tutta la sua filosofia, non è «che una vuota entità metafisica, senza soggetto ed oggetto»552. Secondo Sciacca occorre cercare una sintensi superiore, nella quale l’oggetto ed il soggetto - il mondo della natura e il mondo dello spirito – trovino una loro unificazione. In maniera simile a Carlini anche Sciacca accetta il punto di partenza dell’idealismo, ovvero l’interiorità umana e l’analisi della vita dello spirito. Tuttavia per Sciacca «l’idealismo deve convincersi che il pensiero non può esaurire l’essere e che la metafisica non può risolversi nella logica»553. Di particolare suggestione speculativa è l’esigenza, espressa nel già citato saggio, di un «a priori dell’a priori» che, in ultima analisi, è l’Essere stesso di Dio. Spieghiamo meglio questo punto fondamentale che contiene in nuce l’essenza più profonda della posizione teoretica di Sciacca. Sulla scorta di Kant e di Fichte egli sostiene che la conoscenza umana dell’esperienza si problemi solo perché, privo di sensibilità per i “grandi”, si è posto sempre i “piccoli”» (ibidem). 549 M.F. SCIACCA, La crisi dell’idealismo, «Ricerche filosofiche», 1934, ora in IDEM, Dall’attualismo allo spiritualismo critico (1931-1938), cit., pp. 103-117, p. 103. Sulla ricezione scicchiana del pensiero filosofico tipicamente italiano cfr. L. MALUSA, Sciacca e la “tradizione” del pensiero italiano, «Studi Sciacchiani», 1-2, 2006, pp. 5-16. 550 M.F. SCIACCA, La crisi dell’idealismo, cit., p. 115. 551 Ibidem, p. 103. 552 Ibidem. 553 Ibidem, p. 115.

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realizza per mezzo di forme logiche a priori (quelle che vengono definite come categorie dell’intelletto): tuttavia queste non bastano a definire tutto l’ambito dell’essere e soprattutto non rispondono alla domanda sulla genesi stessa del mondo dell’esperienza. «L’io che conosce» - osserva Sciacca - «non è lo stesso di quello che crea ed è tutta la realtà, come pretende il Fichte. Il punto morto dell’idealismo è il logismo assoluto»554. In altre parole: l’idealismo risolve nella logica il problema della metafisica dell’essere; in Fichte si tratta della logica trascendetale nella quale l’”Io puro” pone assolutamente se stesso come origine e fine del reale; in Hegel si tratta della logica definita dal processo dialettico dello Spirito che ingloba in sé tutto il reale (natura e storia dello spirito umano); in Gentile si tratta invece della logica come dialettica immanente di “pensiero pensante” e “pensiero pensato”, stando alla quale “non vi è nulla al di fuori del Pensiero”. Secondo Sciacca la realtà dell’essere non può risolversi negli a priori della logica, né nel puro pensiero: vi dev’essere qualcosa di ancora più originario che fonda gli stessi a priori e lo stesso pensiero umano. L’itinerario speculativo per scoprire questo quid parte dall’interiorità: quest’ultima «rimanda inevitabilmente ad un’Interiorità superiore, all’Essere spirituale, all’Autocoscienza assoluta, a Dio»555. Ciò significa che «Dio, interiorità infinita, è posto nella mia interiorità, non significa che è posto dalla mia interiorità; si ricadrebbe nell’immanenza assoluta. Se io non fossi interiorità non avrei nozione di Dio, non lo scoprirei in me, ma lo scopro come l’Essere che trascende l’esperienza, la mia coscienza»556. In questi passi si ha il senso profondo di cio che Sciacca in un momento ancora più maturo del suo pensiero cerca di definire come «interiorità oggettiva», un concetto che si sviluppa a partire dal dialogo con Agostino, Pascal, Blondel e soprattutto con Rosmini. Sciacca è un pensatore autenticamente metafisico. A suo parere “il problema metafisico si impone” a qualsiasi filosofo che cerchi di indagare la struttura genetica del reale. Tuttavia egli, come del resto 554

Ibidem. Ibidem, p. 116. 556 Ibidem. 555

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avevano già fatto Carlini e Guzzo, critica la neoscolastica nel suo tentativo di giungere ad una metafisica partendo dal mondo extrasoggettivo. Secondo Sciacca partendo dall’essere esteriore, come proponevano Olgiati, Bontadini e gli scolastici, «si arriva all’Universale astratto, al Pensiero del pensiero e non al Dio Autocoscienza, che è quello cristiano. D’altra parte, muovendo dall’essere, non si arriva al singolo, al quale interessa il problema di Dio, ma alla categoria di uomo, all’umanità in universale»557. Gli scolastici e i filosofi neoclassici facendo iniziare la loro indagine dagli enti del mondo «rimandano alla causa della loro esistenza, ma non a Dio come Autocoscienza assoluta»558. Quello a cui giungono gli scolastici al termine dei loro ragionamenti è solo un Dio naturalisticamente inteso e che non ha le caratteristiche del Dio cristiano, ovvero la trascendenza, la spiritualità, la personalità e la libera volontà. Analizziamo ora la struttura speculativa di uno dei saggi più densi e più profondi di Sciacca: si tratta del già citato scritto L’interiorità oggettiva, edito per la prima volta in francese nel 1952. In esso convergono le riflessioni più mature della sua posizione che aveva già definito come “spiritualismo critico” e che ora acquisisce i tratti di una “filosofia dell’integralità”. Fin dall’incipit dello scritto Sciacca afferma di porsi in continuità con la filosofia moderna che ha un carattere essenzialmente antropologico: in particolare si richiama all’autocoscienza (il sensus inditus) di Campanella, al cogito di Cartesio e al roseau pensant di Pascal. Egli individua in questi tre autori una chiara ispirazione agostiniana e sostiene che le loro posizioni possono essere riprese e rielaborate in alcuni aspetti fondamentali per «la delineazione di una nuova sintesi filosofica, in armonia con le verità del Cristianesimo»559.

557

Ibidem. Ibidem, p. 117. 559 M.F. SCIACCA, L’interiorità oggettiva, [edito per la prima volta il francese con il titolo L’intériorité objective, Bocca Editori, Milano 1952], Marzorati, Milano 1960, p. 51. 558

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Sulla scorta degli autori sopra menzionati ridefinisce il concetto di interiorità: afferma che essa non corrisponde alla semplice introspezione, né alla coscienza, né al puro pensiero. A suo parere «interiorità implica trascendenza, presenza di Qualcuno, che è in noi senza essere noi, per cui, come scrive Guglielmo di Saint-Thierry, nessuno è meno solo del solitario che medita nella sua cella. L’interiorità, invece, che finisce in se stessa, che sopprime l’agostiniano et trascende te ipsum, è fabbrica di illusioni ed è ancora immanentismo»560. È a questo punto dell’argomentazione che Sciacca si richiama alla posizione rosminiana espressa in maniera mirabile nel dialogo di Manzoni Dell’Invenzione. Il Manzoni amava definirsi come “discepolo” di Rosmini; in questo scritto traspone in maniera letteraria una delle intuizioni filosofiche fondamentali del Roveretano: la verità è un qualcosa di oggettivo che antecede ed oltrepassa la ricerca. L’uomo, quindi, scopre la verità - nel senso dell’etimo latino di invenire, cioè “scoprire, ritrovare” -: egli non è, quindi, l’artefice ed il costruttore della verità, ma il suo depositario e ricettacolo. La verità non è creata dal pensiero ma è una sorta di luce che orienta il pensiero stesso. Da qui emerge tutto il platonismo delle posizioni di Manzoni, di Rosmini e di Sciacca, i quali criticano quei sistemi moderni che «finiscono col fare della verità una cosa contingente e relativa, negandole esplicitamente i suoi attributi essenziali di universalità, d’eternità e di necessità, perché in effetto tali attributi non possono convenire a una cosa che sia stata prodotta»561. È a partire da questa prospettiva che Sciacca può 560

Ibidem, p. 62. A. MANZONI, Dell’Invenzione. Dialogo, a cura di P. Prini, Morcelliana, Brescia 1986, p. 165. Ricordiamo che Pietro Prini (1915-2008) è stato uno dei più originali allievi di Sciacca: il suo pensiero si ispira alla filosofia riflessiva di Gabriel Marcel per approdare ad un’ontologia critica dal carattere rosminiano. A tal proposito si vedano P. PRINI, Introduzione alla metafisica di Antonio Rosmini, Sodalitas, Domodossola - Milano 1955; IDEM, La metafisica del Rosmini, oggi, «Studium», 5, 1955, pp. 309-314; IDEM, Verso una nuova ontologia, Studium, Roma 1957; IDEM, Rosmini postumo: la conclusione della filosofia dell’essere, Armando Armando, 561

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affermate «l’interiorità come presenza della verità nella mente»562. Si tratta di un’«interiorità umile, che si nutre, ringraziando, della verità che la scalda, la feconda e l’illumina, costruisce l’esistenza nella consistenza dei valori, si esalta nell’ubbidienza alla norma e si adagia amorosa ai piedi dell’Essere»563. Nell’elaborare il concetto di «interiorità oggettiva» Sciacca si richiama esplicitamente a Rosmini, le cui riflessioni metafisiche gli paiono decisive per superare le impasses del kantismo e dell’idealismo trascendentale. Il giudizio conoscitivo di cui parla Kant - il giudizio sintetico a priori - deve necessariamente avere come sua origine e presupposto la presenza dell’essere (nella mente) che lo supera e lo fonda: altrimenti non avrebbe neanche alcuna reale portata ontologica. «Tale elemento oggettivo» - afferma Sciacca «(per il Rosmini è l’idea dell’Essere) va considerato come un costitutivo dell’uomo e cioè non solo idea madre delle altre idee, ma ancora uno degli elementi ontologici del soggetto umano nel senso che l’uomo è essere spirituale e pensante per la presenza dell’essere, esiste come pensante per l’intuito dell’essere»564. Recuperando questo punto fondamentale del pensiero rosminiano la prospettiva antropologica di Sciacca diviene un’”ontologia dell’essere interiore”: egli indaga la genesi dell’interiorità personale ed in essa vi trova l’essere ideale come fondamenento nell’infinito565. Di qui deriva Roma 1960; IDEM, Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile, Stidium, Roma 19682; IDEM, L’ambiguità dell’essere: intervista filosofica e altri saggi, Marietti, Genova 1989. 562 M.F. SCIACCA, L’interiorità oggettiva, cit., p. 62. 563 Ibidem. Sulla nozione sciocchina di “interiorità oggettiva come fondamento speculativo del personalismo cfr. A. RIGOBELLO, L’”interiorità oggettiva” e il personalismo, «Giornale di Metafisica», XXVII, 2005, pp. 575-594. 564 M.F. SCIACCA, L’interiorità oggettiva, cit., p. 62. 565 Quando Sciacca si richiama all’idea dell’essere - così come la intende Rosmini - non si rifescisce solo al Nuovo Saggio sulla origine delle idee (1830), dove il Roveretano espone per la prima volta con ampiezza la sua fondamentale intuzione speculativa. Per Sciacca fermarsi al Nuovo Saggio «è accontentarsi di una veduta parziale di Rosmini ed incorrere in una interpretazione errata. Il Rosmini in ogni sua opera ha approfondito e

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anche la categoria di “squilibrio” tramite la quale Sciacca delinea la sua antropologia filosofica: l’uomo vive all’insegna della finitudine ma la sua interiorità è radicata nell’infinito che lo spingea d un continuo oltrepassamento. L’uomo, egli osserva, «è un finito che partecipa dell’infinito e di un infinito inerente alla sua natura. A questo punto l’interiorità svela la sua profondità e la persona umana […] il suo “dramma esistenziale”, in quanto si tratta di adeguare la attività umana nella sua integralità a questo infinito che continuamente spinge l’uomo ad oltrepassarsi, a compiersi e a realizzarsi al livello normale dell’infinito di cui paretecipa»566. Nel 1956 Sciacca pubblica un volume dal titolo L’uomo, questo «squilibrato»: esso costituisce un Saggio sulla condizione umana, così il sottotitolo567. La categoria di “squilibrio ontologico” diviene una chiave ermeneutica della condizione umana. Già Jean-Paul Sartre, nel clima dell’esistenzialismo francese, aveva affermato che l’uomo è uno costitutivamente uno squilibrato: esso, sosteneva lo scrittore francese “è truccato per natura”, «progetta di essere Dio»568 ed agisce nel «desiderio di essere Dio»569, ma in realtà non è che un “Dio mancato”. L’indagine di Sciacca non si risolve, come quella di Sartre, nella mera constatazione fenomenologica, ma cerca di regrerire alla genesi stessa della strutturale sprorzione dell’uomo che gli genera “squilibrio” e “scompenso”. Lo squilibrio, sottolinea Sciacca, è l’esperienza stessa da cui emergono le radici metafisiche dell’interiorità umana: l’uomo è radicato nell’infinito e da esso sorge perfezionato la sua concezione dell’essere ideale, la cua teoria completa si trova nella Teosofia. L’idea dell’essere non va studiata solo nella ideologia, ma anche e soprattutto nell’ontologia» (ibidem, p. 63 [in nota]). A tal propostio cfr. E. PIGNOLONI, Genesi e sviluppo del rosminianesimo nel pensiero di Michele Federico Sciacca, Marzorati, Milano 1964-1967. 566 M.F. SCIACCA, L’interiorità oggettiva, cit., pp. 63-64. 567 Cfr. M.F. SCIACCA, L’uomo, questo squilibrato. Saggio sulla condizione umana, Bocca Editori, Roma 1956; Marzorati, Milano 19582. 568 J.-P. SARTRE, L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943; tr. it. di G. Del Bo, Revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Net, Milano 2002, p. 629. 569 Ibidem

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il suo continuo desiderio di oltrepassarsi, di superare i propri limiti: «L’uomo è sintesi di finito e d’infinito. Di qui lo squilibrio: l’Idea sopravanza l’esistenza e la pone come tensione all’Infinito che la trascende […]. Di qui l’inquitudine di quell’ “essere dialettico” per essenza, che è ciascun uomo - “dialettico” rispetto al mondo, ai suoi simili e a Dio»570. Lo “squilibrio” avverte Sciacca è una costante della condizione umana: l’esistenza si scopre radicata in un essere infinito, tenta di raggiungerlo con ogni sforzo ma questo le è costitutivamente impossibile: «Appunto perché l’esistenza integrale di ciascun essere, pur nella sua infinita e sempre nuova capacità di arricchirsi, non è mai tutta l’essenza dell’essenza dell’essere, ogni suo momento è sempre incerto, sempre provvisorio nella provvisorietà del suo essere: la contingenza nostra e l’inattuabilità totale dell’atto ontologico cancellano il prestigio del mondo e delle nostre opere in esso, mortificano la nostra intraprendenza e capacità di realizzazione; ma è proprio questa mortificazione che ci conferma la permanenza sostanziale del nostro esistere e del nostro essere inteso nella partecipazione dell’Essere. Coscienza, dunque, di sussistenza e consistenza e insieme di precarietà e svanimento»571. A questo proposito la prospettiva di Sciacca trova analogie con quella di Luigi Stefanini il quale individua nella vita dell’uomo la presenza di due atteggimenti diversi ma che possono coesistere: l’”inquietudine esistenziale” e la “tranquillità metafisica”, l’inquietudine che deriva dallo squilibrio interiore, la tranquillità che deriva dalla consapevolezza di sentirsi radicati nella trascendenza dell’Essere infinito572. La via tramite la quale Sciacca giunge all’ontologia passa per l’interiorità umana: è tornando in se stesso che il soggetto si scopre radicato nell’oggettività dell’essere. «Pensare, volere ecc.» robadisce il Nostro - «è pensare e volere nella e per la presenza 570

M.F. SCIACCA, Atto ed essere, M.F. SCIACCA, Atto ed essere, [edizione originale: Bocca Editori, Roma 1956], in Opere complete di Michele Federico Sciacca, Marzorati, Milano 1963, vol. V, p. 69. 571 Ibidem, p. 72. 572 L. STEFANINI, Inquietudine e tranquillità metafisica, Cedam, Padova 1937.

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dell’essere; coscienza di sé significa consapevolezza dell’esistente che io sono e non è uno stato soggettivo di portata puramente psicologica. Cioè: la coscienza di sé è oggettività nel senso che essa è coscienza di essere, è tutto l’io sono al piano della coscieza: il cogliersi che, come tale, è cogliersi radicati nell’essere»573. L’uomo è quindi una sintesi di finito e di infinito, di “essere finito” e di “essere eterno”, come direbbe anche Edith Stein574; è riflettendo su questa questa sintesi che Sciacca giunge ad una possibile affermazione delle radici metafisiche e teologiche della soggettività: «L’essere finito, a cui è presente l’infinito (possibile), è testimonianza di Dio ed ha dentro di sé, come costitutivi della sua essenza, gli elementi oggettivi, per provarne oggettivamente l’esistenza. L’interiorità oggettiva, come tale, è trascendenza, dialogo con Dio, che è in essa senza essere essa, e la fa essere e la trascende infinitamente. Dialogo con Dio, dicevamo, attraverso la verità che è il lume di ogni essere pensante e perciò anche dialogo degli enti pensanti tra loro nella comune veirtà che li illumina e nel comune impegno di disponibilità e di dono alla Verità in sé, di amore per Dio. Filosofare, da Platone in poi, è itinerario; e il filosofo, se tale, è itinerante»575. Criticando Carlini che cercava di giungere “dal trascendentale alla trascendenza” e distanziandosi dalle filosofie esigenzialistiche (come quella di Renato Lazzarini), Sciacca afferma che l’interiorità oggettiva «così approfondita non ha niente a che vedere con la trascendentalità (che resta una posizione speculativamente inferiore) né con l’esigenzialismo (perché essa non rileva l’esigenza della trascendenza), ma gli elementi che valgono a darne le “ragioni”)»576. È, quindi, tramite una riappropriazione dell’ontologia rosminana che Sciacca cerca di superare una forma di spiritualismo meramente 573

M.F. SCIACCA, L’interiorità oggettiva, cit., p. 64. Cfr. E. STEIN, Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins, [scritto nel 1937], Herder Verlag, Freiburg i.B. 1950, 19863; tr. it. di L. Vigone, Presentazione di A. Ales Bello, Essere finite e essere eterno. Per una elevazione al senso dell’essere, Città Nuova, Roma 1988. 575 Ibidem, p. 65. 576 Ibidem. 574

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esigenziale: in Rosmini egli rinviene un modello ben argomentato di antropologia filosofica con evidenti implicazioni sul piano metafisico e teologico. Se nella modernità, e soprattutto con Feuerbach, la teologia pareva risolversi tutta nell’antropologia (tutti i discorsi su Dio venivano considerati come una proiezione di desideri umani), ora Sciacca - richiamandosi a Rosmini - può sostenere che “l’antropologia implica intrinsecamente la teologia”: l’oggettività interiore ci conferma realmente che in interiore homine habitat Deus. La nozione sciacchiana di “oggettività interiore” è, dunque, la base del suo “idealismo oggettivo” e della sua “filosofia dell’integralità”, approfondita in scritti come Atto ed essere (1956), Morte e immortalità (1959), La libertà e il tempo (1965), Ontologia triadica e trinitaria (1972). «Pensiero ed essere» - sottolinea Sciacca - «non stanno l’uno di fronte all’altro, armati e divisi un una linea ben robusta, come se l’uno potesse pensare fuori dall’essere e questo starsene in sé, muto spettacolo»577. Pensiero ed essere si coappartengono e si integrano vicendevolmente: una “filosofia dell’integralità” sintetizza in un’unità superiore le istanze della filosofia classica e medievale (metafisicia dell’essere) con quelle del pensiero moderno (metafisica della mente, del puro pensiero). Nella sua “filosofia dell’integralità” Sciacca si riappropria del pensiero rosminiano - la teoria dell’essere ideale - e si avvicina alla metafisica di San Tommaso: nel 1975 dà alle stampe un saggio dal titolo Prospettiva sulla metafisica di San Tommaso nel quale afferma il primato dell’essere come atto e soprattutto rivendica la correttezza della “metafisica della partecipazione” proposa dall’Aquinate. L’actus essendi che è a fondamento della persona partecipa dell’essere infinito di Dio e su esso si fonda578. Sciacca giunge alla 577

M.F. SCIACCA, Atto ed essere, cit., p. 34. Sulla “filosofia dell’integralità” si vedano F. PETRINI, Filosofia dell’integralità. Saggio sul pensiero di Michele F. Sciacca, Edizioni Paoline, Roma 1961; A. CATURELLI, Michele Federico Sciacca: metafísica de la integralidad, Studio Editoriale di Cultura, Genova 1990-19912, 3 voll. 578 Cfr. M.F. SCIACCA, Prospettiva sulla metafisica di San Tommaso, cit. L’uscita di questo volume colpì tutti gli estimatori del pensiero di Sciacca che era rimasto sempre critico nei contronti dei neoscolastici e dei tomisti.

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metafisica tomistica tramite un percorso di carattere antropologico che si origina in Agostino per trovare il suo più fecondo nucleo ispiratore in Rosmini. Uno dei meriti di Sciacca e soprattutto dell’ultimo Sciacca è, dunque, quello di aver fatto interagire due tradizioni di pensiero cristiano che altrimenti sarebbero rimaste “l’un contro l’altra armata”: lo spiritualismo agostiniano e il neotomismo. A tal proposito egli afferma: «Se il neoagostinismo ha indotto il neotomismo a rinnovarsi e ad “agostinizzarsi”, quest’ultimo ha stimolato alcuni neoagostiniani a recuperare alcune tesi tomiste e a sviluppare gli aspetti più metafisici e speculativi dell’agostinismo, senza indulgere ad una tradizione di carattere più mistico che filosofico, a soluzioni volontaristiche, esigenzialistiche e magari ad una “filosofia edificante”»579. Sciacca fu autore di numerose opere dal carattere storiografico: ricordiamo i suoi lavori su S.Agostino (1938), su Platone (1967) su Il chisciottismo tragico di Unamuno (1971) su Il problema di Dio e della religione nella filosofia contemporanea (1943; IV edizione 1967). Nel 1947 egli fondò e diresse fino al 1975 il «Giornale di Tuttavia Giorgio Giannini mise in rilievo che già nella “filosofia dell’integralità” v’erano in nuce elementi dell’ontologia tommasiana che preludevano ad una possibile riconciliazione di Sciacca con San Tommaso: cfr. G. GIANNINI, La filosofia dell’integralita: il pensiero di M.F. Sciacca nei suoi momenti essenziali e nel suo fondamento ontologico-metafisico, Marzorati, Milano 1970. Anche Bontadini osservò compiaciuto che «il secondo [Sciacca] fu conquistato dalla metafisica» (G. BONTADINI, Dissensi – e consensi – sulla metafisica classica, «Rivista di filosofia neoscolastica», 1979, pp. 176-191, p. 186). 579 M.F. SCIACCA, La filosofia oggi, cit., p. 325. L’istanza di un rinnovato e più fruttuoso dialogo tra filosofia d’ispirazione agostiniana e il tomismo fu avvertito anche dal gesuita Carlo Giacon, autore di notevoli studi sulla “scolastica barocca” (cfr. C. GIACON, La seconda scolastica, III voll., Bocca Edizioni, Milano 1947-1950) ma anche di opere che tentavano una sintesi tra l’ontologia tommasiana e lo spiritualismo: cfr. C. GIACON, Interiorita e metafisica: Aristotele, Plotino, Agostino, Bonaventura, Tommaso, Rosmini, Zanichelli, Bologna 1964. Cfr. anche IDEM, L’oggettività in Antonio Rosmini, Silva, Milano 1960.

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Metafisica»; fu anche il direttore della prestigiosa collana Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine e della monumentale Grande Antologia Filosofica formata da 26 volumi usciti tra il 1964 e il 1978. Ma il contributo storiografico più significativo di Sciacca ci pare che possa essere individuato nella riscoperta del pensiero del Roveretano: non solo tramite opere come La filosofia morale di Antonio Rosmini (1938, II edizione 1968) e Interpretazioni rosminiane (1958), ma soprattutto grazie alla fondazione nel 1966 del Centro Internazionale di Studi Rosminiani di Stresa, ancora oggi molto attivo, e della «Rivista Rosminiana». Se la tradizione striografica idealistica di Rosmini aveva messo in luce soprattutto l’aspetto gnoseologico (Rosmini come il “Kant italiano”), Sciacca e la sua scuola favorirono un allargamento dell’indagine a tutta la produzione filosofica del Roveretano. Scrive a tal propostio Giovanni Santinello: «Si pensi al nuovo rilievo assunto dal motivo del sentimento fondamentale corporeo e dall’esigenza realistica che esso esprime nell’interpretazione della realtà spirituale umana; si pensi, di conseguenza, all’interesse per la psicologia e per l’antropologia rosminiane. È ben nota [a Sciacca] anche la diversa interpretazione della funzione e della natura dell’idea dell’essere, la quale, al di là delle relazioni intrattenute dal Rosmini con pensiero kantiano e con i moderni, viene riportata alla più antica fonte agostiniana: idea, dunque, nel senso più forte del termine: non forma e categoria, ma piuttosto lume e oggetto della mente»580. Ecco i motivi più profondi del rosminianesimo di Sciacca: «Appare evidente» - egli scrive - «come la filosofia del Rosmini rappresenti, in Italia, il compimento vigoroso ed originale di tutti i conati di oltrepassare il sensismo e l’empirismo, di approfondire e di soddisfare le esigenze del kantismo su di un piano diverso da quello del criticismo, di rinnovare il tradizionale spiritualismo platonicoagostiniano a contatto con lo spirito del pensiero moderno. […] Dopo quello di S. Tommaso, il rosminiano è il più completo ed originale sistema di filosofia cristiana. Il Rosmini ha sondato 580

G. SANTINELLO, Il pensiero cristiano nel secondo dopoguerra, cit., p. 277.

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l’umano pensiero ed ha trovato che esso è da Dio ed è fatto per tendere a Dio. Filosofia cristiana, dunque, di fatto e di diritto, come uso cristiano della ragione e come intrinseca vocazione del pensiero alla trascendenza, senza mescolanza o confusione del naturale e del soprannaturale»581. Dal 1947 fino all’anno della morte (1975) Sciacca insegnò Filosofia teoretica all’Università di Genova, avendo molti allievi che proseguirono le ispirazioni di fondo del suo pensiero: tra questi 581

M.F. SCIACCA, La filosofia nell’età del Risorgimento, Vallardi, Milano 1948, pp. 296-298. Sciacca fu uno dei maggiori esponenti di quel rosminianesimo cha ha profondamente caratterizzato la cultura italiana del Novecento, anche se spesso a latere della cultura ufficiale cattolica (a causa delle condanne ecclesiastiche che gravavano su Rosmini e il suo pensiero). A tal riguardo si veda . F. PERCIVALE, Michele Federico Sciacca e il Rosminianesimo, Sodalitas, Stresa 1987. Tra le figure di rosminiani più originali c’è sicuramente Padre Giuseppe Bozzetti (1878-1956): prima garibaldino poi ufficiale dell’esercito, si laureò a Torino in giurisprudenza. Da giovane rimase profondamente colpito dal concetto di persona che trovò leggendo gli scritti del Roveretano: «Fu una liberazione» - egli afferma «quando trovai nella Filosofia del diritto di Rosmini che la persona umana è il diritto sussistente. Notiamo bene: la persona non solo ha dei diritti ma essa è il diritto» (G. BOZZETTI, Il valore della persona, in Opere complete, a cura di M.F. Sciacca, Marzorati, Milano 1966, vol. III, p. 2924). Apparve dunque fondamentale al Bozzetti il concetto di persona come diritto sussistente, che gli rivelò il proprio esistere «come soggetto di tre esigenze fondamentali, inviolabili e inalienabili: la ricerca e il possesso della Verità, la libera adesione alla Legge morale con la conseguente formazione della coscienza, la consapevolezza di una destinazione eterna, oltre questa vita mortale» (ibidem, pp. 2924). Del 1909 è il volume di Bozzetti su Antonio Rosmini nell’aspetto estetico e letterario (ibidem, vol. I, pp. 63-217); nel 1940 diede alle stampe gli Sviluppi del pensiero rosminiano nella “Teosofia” (ibidem, vol. III, pp. 2795-2843). Altre figure di filosofi del Novecento di ispirazione rosminiana furono Giuseppe Morando, Carlo Caviglione e Dante Morando: a tal proposito si veda U. MURATORE, I rosminiani del XX secolo, in E. CORETH – W.M. NEIDL – G. PFLIGERDORFFER (a cura di), La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, pp. 703-723; P. ZOVATTO, Cultura cattolica rosminiana tra ‘800 e ‘900, Parnaso, Trieste 1999.

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ricordiamo Romeo Crippa, autore di saggi su L. Ollé-Laprune e M. Blondel; Maria Teresa Antonelli che era di chiaro orientamento platonico-rosminiano; Italo Bertoni interessato soprattutto alle problematiche dell’etica; Giuseppe Beschin, Maria Adelaide Raschini e Pier Paolo Ottonello582. Alla scuola di Sciacca si formarono anche Pietro Prini ed Alberto Caracciolo: di quest’ultimo ci occuperemo nelle prossime pagine del presente scritto. Un ultimo elemento che vogliamo sottolineare è la lucida adesione di Sciacca al cattolicesimo. Egli rivendicò sempre la sua piena libertà intellettuale: «“Laico”, non ho militato in nessuna associazione laicista, né coltivato potenti di nessuna specie; cattolico, non mi sono mai iscritto ad alcuna associazione confessionale e non ho fatto niente, a parte il dovuto ossequio come credente, per entrare nelle grazie, a volte redditizie anche in questo mondo, di Eccellenze e di Eminenze Illustrussime e Reverendissime. E così mi sono accontentato d’essere cattolico al di là e al fuori dei clericalismi ecclesiastici e laici, lontano dalle sacrestie e dalle logge, da tutti i luoghi nei quali, se il tornaconto c’è, ci si lambicca per condannare anche i santi o per benedire pure il diavolo, felice della provvidenziale ventura di aver incontrato Sacerdoti di sublime altezza spirituale e di fede pura nella più edificante umilà e santità di vita».583 582

M.A. Raschini e P.P. Ottonello hanno fondato il periodico «Studi Sciacchiani» (dal 1985) e hanno progettato una riedizione integrata delle Opere complete di Sciacca in 80 volumi; nel 1995 hanno diretto il Congresso internazionale Sciacca e la filosofia oggi (Leo S. Olschki, Firenze 1996, 2 voll.). Cfr. anche M.A. RASCHINI, Incontrare Sciacca, Marsilio, Venezia 1999; IDEM, La dialettica dell’integralità, Marsilio, Venezia 20002; P.P. OTTONELLO, Sciacca, la rinascita dell’Occidente, Marsilio, Venezia 1995; IDEM, Sciacca, l’anticonformismo costruttivo, Marsilio, Venezia 2000; dal 1995 ad oggi P.P. Ottonello è il curatore degli Atti dell’annuale «Cattedra Sciacca». 583 M.F. SCIACCA, La clessidra: il mio itinerario a Cristo, cit., p. 89. Sulla concezione sciacchiana della chiesa cattolica e della figura di Cristo si vedano: IDEM, L’ora di Cristo: posizioni nette contro compromessi equivoci, Edizioni Bocca, Roma-Milano 1954, poi L’Epos, Palermo 19923;

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Capitolo VI Ermeneutica della condizione umana, secolarizzazione e nichilismo

Nel secondo dopoguerra la filosofia italiana è caratterizzata dalla dissoluzione dell’idealismo e dal conseguente emergere di una pluralità di indirizzi ed atteggimenti, nati soprattutto in stretta relazione con le grandi correnti europee, spesso come loro ricezione critica: tra queste l’esistenzialismo, il personalismo, la fenomenologia e - a partire dagli anni Sessanta - lo strutturalismo e l’ermeneutica. In ambito di filosofia politica nell’Italia degli anni Sessanta e Settanta è dominante il marxismo nelle sue varie rielaborazioni e riadattamenti al “caso italiano”: si pensi, ad esempio, alle prospettive di Antonio Banfi (1886-1957) e della sua scuola, a Galvano Della Volpe (1895-1968), a Cesare Luporini (1909-1993) e a Lucio Colletti (1924-2001). In ambito epistemologico, invece, assistiamo ad una sempre più crescente attenzione della cultura italiana verso il neopositivismo, il pragmatismo americano, la filosofia analitica e gli sviluppi della logica formale: due significative voci dell’epistemologia italiana (dal carattere nettamente antimetafisico) le possiamo trovare in Ludovico Geymonat (1908-1991) ed in Giulio Preti (1911-1972). Nella nostra indagine ci soffermiamo soprattutto ad analizzare gli sviluppi che ha avuto l’esistenzialismo italiano come “ermeneutica della condizione umana” e come “interpretazione della religione” in un età di sempre più diffusa secolarizzazione e nichilismo: le principali figure che prendiamo in esame sono quelle di Enrico Castelli (1900-1977), Alberto Caracciolo (1918-1990), Luigi IDEM, La Chiesa e la civiltà moderna, Morcelliana, Brescia 1948, poi Marzorati, Milano 19692.

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Pareyson (1918-1991) e il suo allievo Gianni Vattimo (1936). Si tratta di quattro autori talvolta anche molto differenti gli uni dagli altri per metodologia d’indagine e sensibilità culturale: li unisce però il fatto di essersi ampiamente confrontati con l’ermeneutica della religione e con il cristianesimo, aderendo ad esso spesso in forme discutibili e problematiche (e forse proprio per questo, interessanti e degne d’attenzione). Prima di analizzare questre quattro diverse prospettive vogliamo indicare brevemente i caratteri di fondo dell’esistenzialismo italiano. Alla fine del capitolo prendiamo invece in esame le coordinate concettuali di quella che a partire dagli anni Sessanta-Settanta si è venuta sempre più definendo come “età ermeneutica della ragione” (l’espressione è del francese Jean Greisch584): ci soffermeremo quindi sull’interpretazione nichilistica dell’ermeneutica, sul “pensiero debole” e sulle argomentazioni di Vattimo per una rinnovata adesione al cristianesimo. Notiamo che nella seconda metà del Novecento anche la filosofia italiana diviene particolarmente sensibile ai fenomeni della secolarizzazione, della demitizzazione e del nichilismo. Basti pensare alle riflessioni di autori come Castelli, Del Noce, Pareyson, Vattimo, Severino, Massimo Cacciari e il singolare filosofo italiano riscoperto e valorizzato dallo stesso Cacciari: Andrea Emo (19011983)585. 584

Cfr. anche J. GREISCH, L’Âge herméneutique de la raison, Cerf, Paris 1985. 585 Andrea Emo fu un allievo di Giovanni Gentile nel periodo in cui questi insegnava all’Università di Roma. Non si lauerò, né pubblicò mai niente: tuttavia nei suoi diari troviamo delle profonde meditazioni sull’essere, l’esistenza e il nichilismo paragonabili, sotto molti aspetti, a quelle di Heidegger. Negli 1986 i manoscritti di Emo furono sottoposti a Massimo Cacciari che riconobbe in essi l’autore di un’originale filosofia. «Nessuna pagina dei Diari venne mai pubblicata da Andrea Emo in vita. Bisognerà aspettare la morte del filosofo, allorquando – siamo ormai all’inizio della prima metà degli anni ʼ80 – la moglie, venuta a scoprire l’armadio pieno di quaderni (sino ad allora a lei stessa ingoti), grazie all’interessamento di Ernesto Rubin de Cervin, ne fece leggere qualcuno a Massimo Cacciari, il quale rimase immediatamente colpito dallo stile, dall’intensità e dalla potenza di pensiero di quelle pagine. Fu proprio Massimo Cacciari che,

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Per secolarizzazione si intende la generale perdita di rilevanza sociale del fattore religioso, tipica del mondo moderno occidentale. Si tratta di un mondo caratterizzato, in larga misura, dallo scientismo, dalla tecnocrazia e da quello che Max Weber definiva come “disincanto” (Entzauberung der Welt). A tal proposito va anche ricordato il volume di Sabino Acquavia, edito nel 1961, nel quale il fenomeno della secolarizzazione è visto in stretta connessione con il processo di industrializzazione delle società tecnologiche: L’eclissi del sacro nella civiltà industriale586. Il significato di secolarizzazione si riconduce al termine latino saeculum (mondo): è quel fenomeno per il quale la società - nel suo complesso - non adotta più un comportamento sacrale, allontanandosi da schemi, usi e costumi tradizionali; questo fenomeno investe tutto il sistema dei valori occidentali, modificandoli e, con essi, trasformando anche le identità e le appartenenze. La secolarizzazione è così connessa alla scristianizzazione e alla “privatizzazione della religione”, fenomeni

d’accordo con la moglie e le figlie del filosofo, conferì a Massimo Donà e Romano Gasparotti, l’incarico di una prima recensio e di una prima indagine del vastissimo corpus emiano» (R. GASPAROTTI, Note, in A. EMO, Supremazia e maledizione. Diario filosofico 1973, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Cortina, Milano 1998, p. 187). Cfr. A. EMO, Il dio negativo. Scritti teoretici 1925-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1989; IDEM, Le voci delle Muse. Scritti sulla religione e sull’arte. 1918-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Marsilio, Venezia 1992; IDEM, Quaderni di metafisica. 1927-1981, a cura di M. Donà e R. Gasparotti, Prefazione di Massimo Cacciari, contributi di E. Ghezzi, G. Giorello, L. Sanò, C. Sini, V. Vitiello, F. Tomatis e A. Tagliapietra, Bompiani, Milano 2006; L. SANÒ, Un daimon solitario: il pensiero di Andrea Emo, Prefazione di U. Curi, La città del sole, Napoli 2001; A. FIORAVANTI, Andrea Emo: la scrittura in solitudine come itinerario verso il nulla, in I. POZZONI (a cura di), Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, Morolo (FR) 2011, pp. 176-207. 586 S. ACQUAVIVA, L’eclissi del sacro nella civiltà industriale, Introduzione di G. Le Bras, Edizioni di Comunità, Milano 1961.

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che sono sorti mondo moderno a partire dall’illuminismo del Settecento587. Ci sono però rilevanti tedenze nel pensiero contemporaneo che considerano la secolarizzazione come un necessario momento di purificazione per il cristianesimo stesso e, più in generale, per le religioni: perdendo il potere politico e la loro influenza sociale le religioni sono chiamate ad un ritorno all’autenticità del messaggio originario. Nel cattolicesimo tale dinamica ci sembra particolarmente evidente: una volta perso il potere temporale (con la presa di Porta Pia, 20 settembre 1870), la chiesa è gradualmente tornata ad occuparsi della dimensione spirituale, allontandansi dagli interessi mondani e cercando così di annunciare con rinnovato ardore i princìpi evangelici. Massimo Borghesi ha correttamente osservato che «nel concetto di secolarizzazione convergono due significati che scandiscono due momenti della modernità. Nel primo senso secolarizzazione indica il processo di privatizzazione della fede, di autonomia della morale dalla religione che si attua nella seconda metà del ʼ700. La morale non si fonda più sulla Rivelazione ma sulla ragione e, tuttavia, rimane “cristiana” nei suoi contenuti. Nel secondo senso secolarizzazione indica il transfert della nozione escatologica (ebraico-cristiana) di “Regno di Dio” in un contesto immanente, 587

Il termine saecularizatio era in precedenza usato nel diritto canonico per indicare il normale passaggio di un sacerdote appartenente a un ordine religioso al clero secolare, o una lecita destinazione di beni ecclesiastici a scopi mondani. Sul fenomeno della secolarizzazione nel mondo europeo e nella cultura italiana cfr. L. BELLOFIORE, Secolarizzazione, tecnocrazia, religione, Soc. Tip. Campo Marzio, Roma 1969; A. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970; AA. VV., La secolarizzazione in Italia, oggi, Città Nuova, Roma 1971; S. ACQUAVIVA – G. GUIZZARDI (a cura di), La secolarizzazione, Il Mulino, Bologna 1973; F. FERRAROTTI - R. CIPRIANI, Elementi per una teoria sociologica della secolarizzazione, in IDEM, Sociologia del fenomeno religioso, Bulzoni, Roma 1974, pp. 79-138; V. POSSENTI, Il cambiamento, i valori, la politica, in AA. VV., Culture e valori nel processo di secolarizzazione della società italiana, Clueb, Bologna 1988, pp. 35-46; D. MENOZZI, La Chiesa cattolica e la secolarizzazione, Torino, Einaudi 1993.

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“secolare”, che si carica di significato “religioso”. È la forma indagata da Karl Löwith e Jacob Taubes»588. In questo secondo senso la secolarizzazone è da intendersi come «immanentizzazione dell’éschaton, in cui la forma cristiana si tramuta in gnosi salvifica»589: le sue forme tipiche sono, quindi, il marxismo ed i totalitarismi del Novecento che hanno cercato la salvezza dell’uomo nella politica. Tuttavia a partire dagli anni Novanta, contemporaneamente al diffondersi della temperie post-moderna, si è iniziato a parlare di post-secolarizzazione e di de-secolarizzazione: tali fenomeni sarebbero connessi al generale “ritorno del sacro” che ha caratterizzato gli ultimi anni del Novecento590. Il sociologo Peter L. Berger ha parlato di un generale processo di “desecolarizzazione”591: questo è dovuto a causa del graduale riemergere delle religioni all’interno della sfera pubblica. Si pensi in particolare al ruolo politico che ha assunto l’Islam. A tal riguardo Giovanni Filoramo ha fatto notare: «quando oggi parliamo di religione nell’epoca della globalizzazione non ci viene più in mente prima di tutto la dimensione privata, ma il fatto che ritornano sulla scena dimensioni delle religioni che sembravano appartenente a un passato

588

M. BORGHESI, Secolarizzazione e nichilismo. Cristianesimo e cultura contemporanea, Cantagalli, Siena 2005, p. VI. Gli scritti ai quali Borghesi fa riferimento sono quelli di K. LÖWITH, Meaning in History, University of Chicago, Illinois 1949; tr. it. di F. Tedeschi Negri, Prefazione di P. Rossi, Significato e fine della storia, Net, Milano 2004; J. TAUBES, Abendländische Eschatologie, Matthes und Seitz, München 1991. 589 M. BORGHESI, Secolarizzazione e nichilismo. Cristianesimo e cultura contemporanea, cit., p. VII. 590 A tal proposito cfr. S. MARTELLI, La religione nella societa postmoderna: tra secolarizzazione e de-secolarizzazione, EDB, Bologna 1990; V. POSSENTI, Religione e laicità nelle società postsecolari, «Humanitas», 2, 2010, pp. 209-227. 591 Cfr. P.L. BERGER, The Desecularization of the World: Resurgent Religion and World Politics, W.B. Eerdmans, Washington 1999.

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che era destinato, secondo le teorie della secolarizzazione, definitivamente al tramonto»592. Del fenomeno della demitizzazione tipico della teologia contemporanea ci occuperemo soprattutto parlando di Enrico Castelli: quello della demitizzazione fu infatti uno dei temi più toccati dai Convegni internazionali organizzati da Castelli a Roma tra il 1961 e il 1977, anno della sua morte. Cerchiamo ora di far emergere alcuni tratti distintivi del complesso fenomeno del nichilismo: esso è anche alla base di quello che viene definito come “pensiero tragico” e scorre come un fiume carsico nella tradizione italiana; trova in suo punto di riferimento in Leopardi e nel Novecento si sviluppa in autori come Carlo Michelstaedter, Andrea Emo, Alberto Caracciolo, Luigi Pareyson e il suo allievo Sergio Givone593. Come in Francia ed in Germania, anche in Italia le riflessioni sul nichilismo sono strettamente connesse alla Nietzsche-Renaissance, il rinnovato interesse per gli studi su Friedrich Nietzsche che ha caratterizzato la seconda metà del Novecento594. Come è noto, Nietzsche è stato il profeta della “morte

592

G. FILORAMO, Le religioni di fronte alla sfida della globalizzazione, in G. FILORAMO - E. GENTILE - G. VATTIMO, Che cos’è la religione oggi?, ETS, Pisa 2005, p. 12. 593 Cfr. S. GIVONE, Disincanto del mondo e pensiero tragico, Il Saggiatore, Milano 1988; G. CANTARANO, Immagini del nulla. La filosofia italiana contemporanea, Mondadori, Milano 1998; G. GARELLI, Filosofie del tragico, Mondadori, Milano 2001. 594 Cfr. F. VERCELLONE, Il nichilismo nella filosofia italiana del dopoguerra, in IDEM, Introduzione a il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 19994, pp. 149-159. Sugli studi nietzscheani nella cultura italiana cfr. anche M.A. STEFANI, Nietzsche in Italia: rassegna bibliografica: 1893-1970, B. Carucci, Roma 1975; a partire dal 1967 Giorgio Colli e Mazzino Montinari pubblicano l’edizione critica delle opere di Nietzsche (Nietzsche Werke. Kritische Gesamtausgabe, De Gruyter, Berlin 1967 sg.): tale edizione esce quasi contemporaneamente anche in traduzione italiana presso l’editore Adelphi di Milano (Opere di Friedrich Nietzsche, 1964 sg.). Originali studi italiani sul pensiero nietzschano sono quelli di M. CACCIARI, Krisis: saggio sulla crisi del pensiero negativo da Nietzsche a Wittgenstein, Feltrinelli,

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di Dio” e colui che ha parlato del nichilismo come l’”ospite inquietante” che ha ha fatto il suo ingresso nella cultura occidentale moderna. «Ciò che io racconto» - afferma Nietzsche nei frammenti sulla Volontà di potenza - «è la storia dei prossimi due secoli. Io descrivo ciò che viene, ciò che non può fare a meno di venire: l’avvento del nichilismo. Questa storia può già ora essere raccontata; perché la necessità stessa è qui all’opera. Questo futuro parla già per mille segni, questo destino si annunzia dappertutto; per questa musica del futuro tutte le orecchie sono già in ascolto. Tutta la nostra cultura europea si muove in una torturante tensione che cresce da decenni in decenni, come protesa verso una catastrofe: irrequieta, violenta, precipitosa; simile ad una corrente che vuole giungere alla fine, che non riflette più ed ha paura di riflettere». Ecco come Nietzsche definisce il nichilismo: «manca il fine; manca la risposta al “perché?”; che cosa significa nichilismo? Che tutti i valori supremi si svalorizzano»595. In Nietzsche abbiamo, quindi, la teorizzazione di un nichilismo attivo sorto dalla virile consapevolezza del nihil in cui consistono tutti i valori della cultura tradizionale di matrice cristiana. Riflettendo sull’espressione nietzscheana “Dio è morto” (Gott ist tot), Martin Heidegger ha giustamente scritto: «L’espressione “Dio è morto” è la constatazione che questo nulla dilaga. “Nulla” significa qui: assenza di un mondo ultrasensibile e vincolante. Il nichilismo, “il più inquietante degli ospiti”, batte alla porta»596. A partire da Nietzsche, Heidegger giunge a «pensare il nichilismo come la “logica interna” della storia occidentale»597: egli, infatti, individua la fine della metafisica con l’avvento della tecnica, da lui interpretato in stretta relazione con l’avvento di un compiuto nichilismo. Milano 1976, 19838; G. VATTIMO, Il soggetto e la maschera. Nietzsche e il problema della liberazione, Bompiani, Milano 1974, 19993. 595 F. NIETZSCHE, La volontà di potenza, [raccolta postuma di frammenti effettuata nel 1901 e nel 1906], a cura di G. Brianese, Paravia, Torino 1989, p. 56. 596 M. HEIDEGGER, La sentenza di Nietzsche «Dio è morto», in IDEM, Sentieri interrotti, [edizione originale 1950], tr. it. di P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 191-246, p. 199. 597 Ibidem, p. 204.

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Nella filosofia italiana la ricezione del pensiero di Nietzsche si connette strettamente a quella del pensiero heideggeriano: questo emerge in Alberto Caracciolo, in Emanuele Severino598 ma soprattutto in Gianni Vattimo, secondo il quale «Nietzsche e Heidegger hanno modificato in modo sostanziale la nozione stessa di pensiero, per cui dopo di loro “pensare” assume un significato diverso da prima»599. Ad una metafisica monolitica, violenta e totalizzante si sostituisce così un pensiero della pluralità, della tolleranza e caratterizzato per la pietas nei confronti della condizione umana. In ambito etico-politico “pensare dopo Nietzsche e Heidegger” significa soprattutto liberazione dal peso oppressivo dei valori tradizionali e la costruzione di una polis quale autentica “convivialità delle differenze”600. 1. I caratteri dell’esistenzialismo italiano e le due correnti (laica e cristiana) L’esistenzialismo è stato un fenomeno culturale europeo che ha caratterizzato gran parte della prima metà del Novecento e l’immediato secondo dopoguerra, divenendo in taluni casi persino una “moda”: si pensi in Francia al pensiero di Jean-Paul Sartre e di Albert Camus o in Germania alle prospettiva di Karl Jaspers e soprattutto del “primo Heidegger“, quello di Essere e tempo (1927). Anche in Italia l’esistenzialismo ha avuto una discreta diffusione e delle sue proprie peculiarità, come ha ben messo in rilievo, tra gli altri, Antonio Santucci nel suo volume, ormai classico, sul tema: Esistenzialismo e filosofia italiana601. 598

Cfr. E. SEVERINO, Essenza del nichilismo, Adelphi, Milano 19822. G. VATTIMO, Le avventure della differenza. Che cosa significa pensare dopo Nietzsche e Heidegger, Garzanti, Milano 1980, 19882, p. 5. Cfr. anche 600 Si veda in particolare G. VATTIMO, Nichilismo ed emancipazione. Etica, politica, diritto, Garzanti, Milano 2003. 601 Cfr. A. SANTUCCI, Esistenzialismo e filosofia italiana, Il Mulino, Bologna 1959, 19672. Sulle caratteristiche dell’esistenzialismo italiano cfr. anche G. SEMERARI, L’esistenzialismo italiano, «Annali dell’Università di 599

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Tra le peculiarità dell’esistenzialismo italiano vi fu il suo rapporto critico con la fenomenologia di Edmund Husserl: mentre quasi tutti gli esistenzialisti d’oltralpe provenivano da studi fenomenologici (si ricordino gli scritti giovanili di Sartre e di Heidegger, discepolo di Husserl), in Italia il rapporto tra filosofi dell’esistenza e fenomenologia fu generalmente piuttosto conflittuale. Questo è in larga misura dovuto al fatto che nella nostra penisola le filosofie dell’esistenza sono nate dalla contestazione dell’idealismo crociano e gentiliano e che, di conseguenza, esse sono state avverse sia all’idea di dialettica sia alle astrattezze del trascendentalismo. Husserl con la sua fenomenologia eidetica e trascendentale veniva considerato come un autore ancora troppo legato all’idea di una ragione astratta e destoricizzata. Come sostiene anche Valerio Verra, «l’esistenzialismo italiano si è sviluppato in gran parte al di fuori della fenomenologia, se non in polemica con essa. […] In Italia il momento di maggiore fioritura e incidenza teorica della fenomenologia si è avuta negli anni Sessanta, quando ormai l’influenza dell’esistenzialismo o, quanto meno, la portata del dibattito esistenzialistico andava scemando»602. Una significativa eccezione è rappresentata da Enzo Paci (1911-1976), allievo di Antonio Banfi: dal maestro riprese l’interesse per il pensiero di Husserl, che contribuì a far conoscere in Italia. Merito di Enzo Paci è, inoltre, quello di aver fatto interagire la fenomenologia husserliana con le problematiche esistenziali e storicistiche: a tal proposito le sue opere più emblematiche sono Esistenzialismo e storicismo (1950); Dall’esistenzialismo al relazionismo (1957), Tempo e relazione intenzionale in Husserl (1960), Idee per una enciclopedia

Bari», vol. IV, 1958, pp. 99-138; G. CACCIATORE, La recezione italiana della Existenzphilosophie nel dopoguerra: problemi interpretativi e significati etico-politici, in Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli, XCV, 1984, Giannini Editore, Napoli, 1985, pp. 45-67. 602 V. VERRA, Esistenzialismo, fenomenologia, ermeneutica, nichilismo, in AA. VV., La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 355-424, p. 356.

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fenomenologica (1973)603. In Enzo Paci troviamo un apprezzamento per il rigore argomentativo degli scritti husserliani ma, allo stesso tempo, una critica del «disperato razionalismo husserliano»604: è da qui che deriva la sua esigenza di operare una sintesi tra la metodologia husserliana e le concrete problematiche dell’esistenza storica, tipiche della tradizione filosofica italiana (fin dall’umanesimo del Quattrocento e da G. Vico). In Italia si sono avute differenti valutazioni della temperie esistenzialistica che caratterizzava la cultura europea tra gli anni Trenta e gli anni Quaranta. Giudizi molto critici vennero da Norberto 603

Sul rapporto tra esistenzialismo e fenomenologia in Paci si vedano: A. VIGORELLI, L’esistenzialismo positivo di Enzo Paci: una biografia intellettuale, 1929-1950, Franco Angeli, Milano 1987; S. ZECCHI (a cura di), Vita e verità: interpretazione del pensiero di Enzo Paci, Bompiani, Milano 1991; G. CRINELLA (a cura di), Enzo Paci 1911-1976, Centro Studi Don Giuseppe Riganelli, Fabriano 2006. Uno tra i primi a far conoscere la fenomenologia in Italia fu anche Norberto Bobbio, con scritti come L’indirizzo fenomenologico della filosofia sociale e giuridica, Istituto giuridico della R. Università, Torino 1934; Husserl e la tendenza fenomenologica, «Rivista di Filosofia», 1, 1935; La fenomenologia secondo Max Scheler, «Rivista di Filosofia», 3, 1936. Un’occasione nella quale molta parte dell’intelligencija filosofica italiana tornò a riflettere sulla fenomenologia di Husserl fu data dal centenario della nascita del filosofo tedesco, nel 1959: in quell’occasione Enzo Paci promosse e curò un volume dal titolo Omaggio a Husserl, Il Saggiatore, Milano 1960; nel volume compaiono saggi di A. Banfi, S. Vanni Rovighi, G.D. Neri, E. Melandri, G. Semerari, L. Lugarini, G. Pedroli, E. Filippini, R, Pucci, G. Guzzoni. Sempre nel 1960 fu organizzato a Padova un convegno che intendeva essere, a un tempo, un bilancio della fenomenologia e dell’esistenzialismo; vi parteciparono come relatori Eugenio Garin, Enzo Paci e Pietro Prini: cfr. AA. VV., Bilancio della fenomenologia e dell’esistenzialsimo, Liviana, Padova 1960. Sul rapporto tra esistenzialismo e fenomenologia nella cultura italiana cfr. anche G. INVITTO (a cura di), Fenomenologia ed esistenzialismo in Italia, Adriatica Editrice Salentina, Lecce 1981. 604 A tal proposito cfr. E. PACI, Pensiero, esistenza e valore. Studi sul pensiero contemporaneo, Principato, Milano-Messina 1942; IDEM, La fenomenologia e il mondo della vita, in IDEM, La filosofia contemporanea, Garzanti, Milano 1957, pp. 166-203.

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Bobbio e da Benedetto Croce: seppur da due punti di vista differenti, essi furono concordi nel considerare l’esistenzialismo come una “filosofia del decadentismo”605, una stanca propaggine delle rivolte intellettuali avanguardistiche. Sia Bobbio, Croce e con loro gran parte dei filosofi idealisti videro nell’esistenzialismo un momento di crisi e di smarrimento della cultura europea, ormai disillusa dai grandi sistemi razionalistici, politicamente sconcertata dai totalitarismi e perciò incline a tematizzare gli aspetti più assurdi e irrazionali della vita umana606. Anche Carlo Antoni (1896-1959), crociano e fine germanista, pur riprendendo alcune tematiche tipicamente esistenzialistiche come la rivalutazione della singolarità individuale, valutò molto negativamente l’esistenzialismo della disperazione e le “dottrine del grido”: in particolare egli criticò le «squallide immagini» heideggeriane dell’angoscia (Angst) e dell’essere per la morte (zum-Tode-Sein) quali evocazioni della «tetra Germania medievale» e della «danza macabra»607. Nella cultura italiana sono stati molto problematici i rapporti tra esistenzialismo e idealismo/spiritualismo: da una parte ciò che accomuna gli esistenzialisti è la critica alla ragione astratta tiopica dell’idealismo (soprattutto di stampo hegeliano) per l’affermazione della singolarità irripetibile della persona umana (Kierkegaard versus Hegel), dall’altra, soprattutto nella cultura italiana, molte forme di esistenzialismo nascono all’interno dello spiritualismo, come “correzioni” dell’attualismo gentiliano. Quest’ultimo è, ed esempio, il caso di Armando Carlini. A tal riguardo Pareyson - in un momento di riflessione suoi giovanili studi - ha sottolineato tali difficoltà storiografiche e concettuali: «Lo studio dell’esistenzialismo mi si venne confondendo con quello dello spiritualismo, il che non 605

Cfr. N. BOBBIO, La filosofia del decadentismo, Chiantore, Torino 1944; B. CROCE, Una critica dell’esistenzialismo, «Quaderni della Critica», I, 1945, pp. 107-109; cfr. anche S. Cingari, Benedetto Croce e la crisi della civiltà europea, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. 606 Cfr. L. PAREYSON, L’esistenzialismo e l’idealismo italiano, in IDEM, Studi sull’esistenzialismo, Sansoni, Firenze 1943, 19502, pp. 285-311. 607 C. ANTONI, La restaurazione del diritto di natura, Pozza, Venezia 1959, pp. 208-209.

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giovava davvero alla precisa caratterizzazione di queste due correnti, già di per sé in quel momento [anni Quaranta] estremamente sfuggenti: fu così che […] mi indussi a parlare di un “preesistenzialismo” di Armando Carlini e che suggerì persino l’idea – che purtroppo ebbe un certo seguito – che in Italia la discussione di temi esistenzialistici era stata pervenuta e preparata dall’idealismo di stampo gentiliano»608. Tra coloro che interpretarono l’esistenzialismo italiano come una “continuazione” dell’attualismo di Gentile fu soprattutto Vito Antonio Bellezza. Egli prese le mosse dal giudizio di Nicola Abbagnano sull’esistenzialismo come «immanenza totale dell’essere alla soggettività»; a parere di Vito Antonio Bellezza «Abbagnano non s’accorge che questo che egli chiama esistenzialismo (anzi esistenzialismo “positivo”, per distinguerlo dalle forme negative dell’esistenzialismo contemporaneo, che sono quelle più divulgate) non è che l’attualismo di Giovanni Gentile. […] [Abbagnano e Gentile condividono] l’affermazione (non teoretica, ma pratica e teoretica insieme) del proprio essere (spirituale) nella negazione del non essere (ossia del proprio essere primitivo, naturale, imemdiato). Vale a dire, l’Io afferma, costituisce il proprio essere, negando, oltrepassando, superando, trascendendo o, come altrimenti voglia dirsi, il prorio essere immediato»609. A parte il caso di Abbagano sul quale si sofferma di Bellezza, possiamo dire che anche in Italia, come in Francia ed in Germania, l’esistenzialismo si sviluppi in netta 608

L. PAREYSON, Rettifiche sull’esistenzialismo, in Aa.Vv., Studi di filosofia in onore di Gustavo Bontadini, Vita e Pensiero, Milano 1975, vol. I., p. 231. 609 V.A. BELLEZZA, L’esistenzialismo positivo di Giovanni Gentile, Sansoni, Firenze 1954, pp. 5-6. Cfr. anche IDEM, Nota sull’esistenzialismo italiano, «Archivio di Filosofia», 1-2, 1946, pp. 143-162. Circa il dibattito italiano sul rapporto tra attualismo ed esistenzialismo si veda anche A. SANTUCCI, Esistenzialismo e filosofia italiana, cit., p. 179, il Santucci comemmenta anche gli inteventi che in tale dibattito fecero Uberto Scarpelli e Armando Vedaldi. Cfr. anche F. DE BARTOLOMEIS, Idealismo e esistenzialismo, Ricciardi, Napoli 1944; G. FORNERO, Sull’esistenzialismo positivo: Abbagnano e Gentile, «Rivista critica di storia della Filosofia», XXXV, n. 4, 1980, pp. 416-437; poi in appendice a B. MAIORCA (a cura di), L’esistenzialismo in Italia, Paravia, Torino 1993, pp. 489-510.

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opposizione sia alle tendenze idealistiche che considerano la ragione nella sua astratta universalità, sia alle filosofie trascendentali accusate spesso di dimenticare “la parte più intima e più fragile” della soggettività umana. Come nel resto d’Europa, anche in Italia possiamo trovare due correnti all’interno dell’esistenzialismo, una laica e l’altra di ispirazione cristiana. Alla tendenza più laica sono ascrivibili le figure del già citato Enzo Paci, di Nicola Abbagnano e di Pietro Piovani; alla tendenza teistica e più sensibile ai temi della fede cristiana sono invece ascrivibili le posizioni dei sopramenzionati Enrico Castelli e Luigi Pareyson, ma anche di filosofi del diritto come Giuseppe Capograssi e Sergio Cotta. La presenza di queste due tendenze all’interno del variegato fenomeno dell’esistenzialismo è stata ben messa in evidenza anche da Luigi Stefanini e, più di recente, da Cornelio Fabro e Pietro Prini610. Le prospettive di Castelli e di Pareyson saranno prese in esame dei prossimi capitoli; ora ci soffermeremo, quindi, brevemente sugli autori italiani di impostazione più laica ma nei quali non manca un confronto costruttivo con le problematiche concernenti la religione ed il cristianesimo. Nicola Abbagnano (1901-1990) ha esplicitamente definito la sua posizione come una forma di esistenzialismo: «Io penso» - egli afferma - «che nessuna filosofia debba sottrarsi ad una definizione che l’individui e che perciò il termine di esistenzialismo debba essere accettato da quanti considerano il filosofare connesso con l’esistenza stessa dell’uomo»611. Egli ha proposto un “esistenzialismo positivo” che si distanzia dalle tematiche negative ed annichilenti di tanta parte 610

Cfr. L. STEFANINI, Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico: esposizione e critica costruttiva, Cedam, Padova 1952; C. FABRO, Introduzione all’esistenzialismo, Vita e Pensiero, Milano 1943; IDEM, L’assoluto nell’esistenzialismo [edizione originale 1954, Edivi, Segni 20102; P. PRINI, L’ermeneutica dell’ambiguo nelle odierne filosofie italiane dell’esistenza, in IDEM, Storia dell’esistenzialismo, Studium, Roma 1989, 19912, pp. 251-314. 611 N. ABBAGNANO, Introduzione all’esistenzialismo, Bompiani, Milano 1942; Il Saggiatore 19784, p. 14.

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della filosofia degli anni Trenta e Quaranta: egli critica, quindi, la considerazione dell’esistenza come angoscia proposta da Heidegger (che si richiama a Kierkegaard), alla visione dell’”esistenza come naufragio” proposta da Jaspers e soprattutto al nichilismo di Sartre, per il quale tutte le possibilità umane sarebbero equivalenti. Abbagnano non è affatto d’accordo con la posizione sartriana per la quale «tutte le attività umane sono equivalenti […] e tutte sono votate per principio allo scacco»: in tale prospettiva «guidare i popoli o ubriacarsi in solitudine sono la medesima cosa»612. Abbagnano è consapevole del fatto che «l’esistenzialismo comprende posizioni diverse e, su certi punti, antagoniste»613. Egli difende però difende un’accezione positiva di esistenzialismo fondato sulla categoria di possibilità: parla allora di una «possibilità trascendentale»614 dell’esistenza che in Sartre e nelle altre concezioni nichilistiche rimarrebbe preclusa. Si tratta della «possibilità offerta all’uomo di realizzarsi come unità propria in un mondo ordinato e in una comunità che gli offra garanzie di solidarietà e di comprensione»615. Egli è giustamente del parere che l’esistenza umana non è solamente scacco, negatività, irrazionalità ed egoismo: l’uomo è libero di declinare la categoria di possibilità anche nel senso positivo di autorealizzazione del sé negli ideali di giustizia, di bene e di solidarietà con gli altri. Possiamo dire che quello di Abbagnano sia un esistenzialismo che favorisce una Zustimmung zur Welt, una “riappacificazione con se stessi, con gli altri e con il mondo” che ci circonda616. Armando Vedaldi ha correttamente messo in rilievo che 612

J.-P. SARTRE, L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris 1943; tr. it. di G. Del Bo, Revisione a cura di F. Fergnani e M. Lazzari, L’essere e il nulla. La condizione umana secondo l’esistenzialismo, Net, Milano 2002, p. 695. 613 N. ABBAGNANO, Introduzione all’esistenzialismo, cit., p. 14. 614 Ibidem, p. 15. 615 Ibidem. 616 Il primo volume di Abbagnano dal carattere esistenzialistico risale al 1939 e si intitola La struttura dell’esistenza: in esso sono contenuti gli elementi speculativi fondamentali che daranno vita alla raccolta di saggi Esistenzialismo positivo (1948) nei quali l’autore propone la sua originale

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«soltanto con l’opera dell’Abbagnano l’esistenzialismo italiano trova la sua formulazione ufficiale in una parola franca e suasiva, che supera le cupe brume della metafisica e della teologia tedesche, e al tempo stesso la brillante letteratura dei francesi, in una visione dell’esisrenza coraggiosa, virile e solida»617. L’esistenzialismo proposto e difeso da Abbagnano è una “filosofia positiva” fondata su un concetto di ragione apolinnea e costruttiva, lontana dai drammi sconvolgenti suscitati dal “sottosuolo dell’io”, dagli aspetti psicologici più cupi e traumatici della soggettività. Si comprende, quindi, come verso la fine degli anni Quaranta Abbagnano rivolga la sua attenzione al pragmatismo ottimistico dell’americano John Dewey, traducendo di quest’ultimo anche il volume Experience and nature (1929)618. Nel 1948 egli pubblicò, inoltre, un significativo saggio dal titolo Verso il nuovo illuminismo: John Dewey619. Le tematiche dell’esistenzialismo positivo vengono così integrate con la concezione della ragione strumentale proposta da Dewey, dando inizio al fenomento italiano prospettiva, criticando gli atteggimenti nichilistici della cultura europea. Sul pensiero dell’autore italiano si vedano: B. MIGLIO (a cura di), Nicola Abbagnano. Un itinerario filosofico, Premessa di P. Rossi e C.A. Viano, Il Mulino, Bologna, 2002 [contiene contributi di G. Cantillo, Pietro Rossi, A. La Vergata, A. Cantucci, C.A. Viano, L. Salvatori, S. Veca, G. Cambiano, G. Fioravanti, M. Mori, B. Miglio; testimonianze di N. Bobbio, F. Pivano, F. Ferrarotti, A. Visalberghi, F. Tatò, U. Eco, N. Langiulli, V. Zanone]; G. CANTILLO, Nicola Abbagnano: esistenzialismo positivo e la filosofia come saggezza, «Occasioni filosofiche - Quaderni di “Velia”», Ermes, Potenza 1991, pp. 15-35; S. PAOLINI MERLO, L’esistenza come struttura. Il pensiero di Nicola Abbagnano e l’esistenzialismo, Editoriale Scientifica, Napoli, 2009; C. CALTAGIRONE, Nicola Abbagnano, Lateran University Press, Roma 2012. 617 A. VEDALDI, Esistenzialismo, M.Lecce – Editore, Verona 1947, p. 143. 618 Cfr. J. DEWEY, Esperienza e natura, Introduzione e note di N. Abbagnano, Paravia, Torino 1948 (vi furono poi numerose altre riedizioni). 619 Cfr. N. ABBAGNANO, Verso il nuovo illuminismo: John Dewey, «Rivista di filosofia», XXXIX, 1948, pp. 313-325. Su Abbagnano lettore di Dewey cfr. B. MAIORCA, John Dewey filosofo illuminista. L’interpretazione laica di Nicola Abbagnano, «Agorá», IV, 2000, pp. 463-473.

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ed in particolare torinese - del neoilluminismo: «è il momento di ascesa, in Italia,» - commenta Verra - «di quel movimento che si è chiamato neoilluminismo e che si proponeva di rinnovare e riaffermare una cultura “laica” attenta alle metodologie delle scienze, senza però incorrere o rimanere irretita nella ingenuità di una concezione astratta e ottimistica della ragione, quale poteva aver caretterizzato e inceppato l’illuminismo del passato. È comprensibile che questo movimento guardasse con particolare attenzione a un filosofo come Dewey, in politica critico tanto delle forme totalitarie quanto di quelle individualistiche di società, e in filosofia rivolto a una forma di razionalità che non trasferisse meccanicamente i criteri di quantificazione e di esperienza delle scienze della natura in quelle dell’uomo, ma muovesse da un criterio più vasto e più duttile di intelligenza come capacità di controllare i metodi e i risultati del sapere in rapporto alla situazione problematica e precaria dell’uomo nella natura e nella società»620. L’esistenzialismo di Abbagnano diviene, quindi, una forma di neoilluminismo nel quale la ragione viene chiamata ad indagare le problematiche concrete dell’uomo nella società e nella storia. In quest’ottica va compresa anche la fondazione nel 1951 dei «Quaderni di sociologia»: Abbagnano, in collaborazione con il suo allievo Franco Ferrarotti, cercò in tal modo di allargare gli orizzonti della cultura italiana anche verso la sociologia di Max Weber e quella nordamericana.

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V. VERRA, Esistenzialismo, fenomenologia, ermeneutica, nichilismo, cit., p. 372. Sulla caratteristiche del “neoilluminismo italiano” cfr. G. SEMERARI, Il neoilluminismo filosofico italiano, «Belfagor», XXIII, 2, 1968, pp.16882; V.N. PASQUA, Il neoilluminismo di Nicola Abbagnano, «Filosofia e vita», IX, 1968, pp. 358-367; A. QUARTA, Nicola Abbagnano tra esistenzialismo e neoilluminismo, «Il Protagora», XXVIII-XXIX, 1988-89, pp. 3-30; M. FERRARI, Origini e motivi del neoilluminismo italiano tra il dopoguerra e gli anni cinquanta, «Rivista di storia della filosofia», XXXIX, 1984, fasc.III, pp. 531-548; fasc IV, pp.749-767; M. PASINI e D. ROLANDO (a cura di), Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia (1953-1962), Il Saggiatore, Milano 1991.

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Dal 1939 al 1971 Abbagnano insegnò Storia della filosofa all’Universitò di Torino: questi anni di docenza portarono i loro frutti nella notevole Storia della filosofia edita in 3 volumi tra il 1946 e il 1950 (in seguito più volte riedita ed ampliata). Questa storia del pensiero filosofico è interessante ed ha avuto notevoli apprezzamenti poiché abbandona i modelli storiografici idealistici e positivistici: i primi protesi a far emergere l’unità della filosofia vista come un unico ed organico sviluppo, i secondi attenti alla filologia e ai dettagli scientifici ma poco inclini a restituire le peculiarità spirituali dei singoli filosofi. In Abbagnano troviamo invece una storiografia dal carattere “esistenzialistico” che cerca di far emergere anche l’humanitas degli autori presi in esame, abbandonando l’idea idealistica e positivistica della filosofia come inarrestabile progresso: «Una filosofia del passato,» - così Abbagnano nella Prefazione dell’opera - «se è stata veramente filosofia, non è un errore abbandonato e morto, ma una forte perenne di insegnamento e di vita […]. In gni filosofia è incarnata e espressa la persona del filosofo, non soltanto in ciò che aveva di più suo, nella singolarità della sua esperienza di pensiero e di vita, ma nei suoi rapporti con gli altri e con il mondo in cui visse. […] Per la stessa ragione non avrà senso ricercare nella storia della filosofia un continuo progresso, la formazione graduale di un unico corpo di verità [una philosophia perennis], poiché nella filosofia non vi sono verità oggettive ed impersonali che possano sommarsi ed integrarsi un un corpo unico, ma persone che dialogano intorno al loro destino»621. Delle ultime considerazioni vanno fatte sul rapporto di Abbagnano con il cristianesimo. Egli fu e rimase uno dei punti di riferimento della cultura laica (neoilluminista): tuttavia in tarda età si accostò molto alla sensibilità cristiana, valutando, ad esempio, molto positivamente l’elezione al soglio pontificio di Giovanni Paolo II. 621

N. ABBAGNANO, Storia della filosofia, Utet, Torino 1946, Vol. I, pp. XV-XIX. Sulla storiografia filosofica di Abbaganno si veda G. FORNERO, Il concetto di storia della filosofia nella riflessione teorica e metodologica di Nicola Abbagnano, in G. CACCIATORE e G. CANTILLO (a cura di), Una filosofia dell’uomo, Atti del Convegno in memoria di Nicola Abbagnano, 11-13 Novembre 1992, Comune di Salerno, Salerno 1995, pp. 153-162.

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Grazie al Papa polacco egli scorgeva delle nuove possibilità per il cattolicesimo di entrare in un più fecondo dialogo con la modernità e con il mondo della scienza. In un volume divulgativo del 1985 Abbagnano dimostrò notevole entusiasmo per la decisione di Giovanni Paolo II di riesaminare con “piena obbiettività” il caso Galileo: a suo parere, da tale decisione si sono aperte nuove prospettive per un rinnovata collaborazione tra scienza e fede, ferme restando le notevoli diversità dei rispettivi ambiti: «Lo studio storico e obiettivo sul caso Galilei può segnare una data decisiva e chiudere un’epoca di interferenze e di scontri che non hanno portato alcun giovamento al genere umano. Potrà far scorgere a tutti che la religione non intende essere un ostacolo alla scienza, e incoraggiare la scienza a riconoscere il compito essenzialmente umano della religione»622. Secondo Abbagnano negli ultimi decenni del Novecento si è respirato un un clima in cui «la scienza ha cessato di pretendere di essere religione e la religione ha cessato di pretendere di essere scienza. La scienza si è riconosciuta per per quella che è, come uno strumento indispensabile all’uomo per sopravvivere e migliorare la sua vita, ma di cui l’uomo non può mai diventare lo strumento. La religione è ritornata alle origini e si è sempre meglio riconosciuta come la garanzia suprema delle norme che consentono all’uomo di convivere pacificamente e come l’aiuto soprannaturale che gli dà il coraggio e la speranza in tutte le vicende della vita»623. Abbagnano, quindi, è particolarmente attento anche al rapporto tra filosofia e religione: a suo parere, queste rappresentano due modalità diverse di realizzazione dell’esistente, «due vie che muovono da un’unica radice, divergono e si ricongiungono nel loro sviluppo finale»624. 622

N. ABBAGNANO, Scienza e religione alleate in difesa della libertà dell’uomo, in IDEM, La saggezza della vita, Rusconi, Milano 1985, pp. 136139, p. 139. 623 Ibidem, p. 139. 624 N. ABBAGNANO, Filosofia, religione, scienza, Taylor, Torino 1947, 19673, p. 73. Sul problema religioso in Abbagnano cfr. F. VERCELLINO, Il Problema di Dio e della religione in Nicola Abbagnano, Libreria Editrice della Pontificia Università Lateranense, Roma 1982; sulle vicende del

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Nella corrente italiana dell’esistenzialismo laico può essere inserita anche la figura di Pietro Piovani (1922-1980), allievo di Giuseppe Capograssi e per molti anni docente di filosofia morale all’Università di Napoli “Federico II”. Tra le sue opere di significative ricordiamo Normatività e società (1949), Il significato del principio di effettività (1953), La teodicea sociale di Rosmini (1956), Gisnaturalismo ed etica moderna (1961), Conoscenza storica e coscienza morale (1961), Oggettivazione etica e assenzialismo, edita postuma nel 1981. Fulvio Tessitore ha ben definito la prospettiva di Piovani come una forma di “esistenzialismo ripensato e di storicismo rinnovato”625. Il pensiero di Piovani si sviluppa all’indomani delle tragedie del secondo conflitto mondiale ed in esso si avverte l’emergere dei temi fondamentali dell’esistenza, della storia e del significato della presenza del male. La sua concezione antropologica è essenzialmente negativa: egli si sofferma soprattutto sulla “mortalità” come condizione imprescindibile della creatura umana. Ecco a tal proposito un passo emblematico sul timor mortis nel quale si avvertono anche chiare risonanze vichiane: «Nelle selve primigenie la terrificante lotta per l’esistenza è dominata dal terrore. Meno fornito di specifici mezzi di difesa, l’uomo si caratterizza come il più impaurito dei viventi. Atterrito più d’ogni altro, conosce il terrore: si forma e resiste con quest’atto di conoscenza. Nella confusione informe di viventi e morenti, capisce di essere il più esposto all’insidia dell’inesistenza incombente: la scoperta della morte è il primo atto di vita del soggetto umano, morente consapevole tra morenti inconsapevoli. La individuazione della morte si preannuncia come qualificante comprensione umana. Dominato dal terrore, particolarmente inetto, costituzionalmente “malato”, l’uomo si sente de-forme tra formati meglio compiuti. […] Troppo grande per essere mera impressione tra le impressioni, la paura si ipostatizza: non è vinta ma ingrandita; vince perché ritorno al cristianesimo dell’ultimo Abbagnano si è soffermato in maniera critica anche Pietro Rossi: P. ROSSI, L’ultimo Abbagnano e il preteso “incontro con Dio”, «Rivista di filosofia», XCI, 3, 2000, pp. 535-542. 625 Cfr. F. TESSITORE, Tra esistenzialismo e storicismo: la filosofia morale di Pietro Piovani, Morano, Napoli 1974.

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ingrandisce. Cessa d’essere qual è; si trascende. Terribilmente dominante com’è, diventa per l’uomo punto di riferimento del tutto: niente si sottrae al suo sovrano predominio. L’agguato dell’inesistenza domina la vita e l’uomo gli riconosce il diritto di sovrastare all’intera esistenza. L’avvertita terribilità prevalente diventa il tremendum. Compreso dall’uomo come incomprensibile, il terribile è stupendum: fonte e sintesi di tutte le meraviglie, che sono matrici di consocenza»626. L’unica verità certa per l’uomo è la sua condizione mortale, la morte come fonte della “grande paura”. Secondo Piovani tutta la storia dell’uomo non sarebbe altro che il tentativo di sottrarsi alla “grande paura”. Le civiltà che si sviluppano nella storia sarebbero sorte proprio come tentativi di sconfiggere il timor mortis, di dissimulare la sua presenza terrificante ed annichilente: «la storia» - avverte Piovani - «è, in buona parte, un sistema di trasformazione del terrore originario: per questo verso è un aleatorio processo di liberazione»627. La stessa religione non è che la creazione umana nata per sconfiggere il timore della morte: a tal riguardo Piovani riprende motivi tipici di Epicuro e di Lucrezio e dell’inglese David Hume, concordi nel sostenere che «primus in orbe deos fecit timor» (la paura ha generato gli dèi e le religioni). L’angoscia diviene quindi il sentimento più rivelativo, ciò che accomuna la situazione esistenziale di ogni uomo a quella del Cristo del Getsémani: «L’uomo “nevrotizzato” che ignora armonie e si riconosce nell’angoscia come idea dominante, vive sotto il segno dell’Anticristo, in attesa più o meno messianica del suo avvento, però, grazie all’angoscia, si risveglia nell’orto del Getsémani, vicino come non mai all’estrema solitudine addolorata del Cristo. Morto il Dio di tutte le cosmologie teologizzanti, nella comunanza sacrificale dell’agonia, il figlio dell’Uomo condannato all’infamia della Croce, indelebilmente segnato da essa, contrassegno di tutte le contraddizioni. Sulla traccia dell’indicazione di Pascal, l’angoisse sottintende una radicale transizione dal Dio al Cristo: mutamento che è troppo carico di futuro per essere compreso e sviluppato dalle 626

P. PIOVANI, Oggettivazione etica e assenzialismo, a cura di F. Tessitore, Morano, Napoli 1981, pp. 79-80. 627 Ibidem, p. 81.

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grosse e distratte confessioni religiose tradizionali»628. Per Piovani l’angoscia è l’unico sentiemento rivelativo dell’autentica condizione umana, una condizione che non può essere oggetto di teodicee filosofiche né di consolazioni religiose: «l’angoscia esenta il pensiero dal compito di conciliare e lo sfida a penetrare, con dialettica effettiva, l’inconciliabilità degli opposti, l’irriscattabilità del dolore dal mondo»629. Sotto il profilo ontologico la prospettiva di Piovani è particolarmente originale: in opposizione alla matafisica occidentale il cui tema fondamentale è l’essere - Heidegger direbbe la Seinsfrage -, egli afferma che il grande tema attuale della filosofia dovrebbe invece essere “l’assenza dell’essere”, il deesse, la radicale condizione di indigenza che caratterizza l’uomo ed il mondo stesso. Tale posizione viene definita da Piovani come “assenzialismo”: un radicale deficere caratterizza ogni singolo individuo. Si tratta dell’assenza di un saldo ubi consistam dove ancorare le proprie certezze etiche, ontologiche ed escatologiche. Secondo Piovani nel contesto contemporaneo «il tema primario della filosofia cessa di essere il quod est; diveta il quod deest»630. L’assenzialismo di Piovani ci spinge a riflessioni filosofiche situate all’”ombra del nichilismo”; la sua la tematizzazione dell’”assenza dell’essere” e dell’angoscia diviene, quindi, occasione per una radicale messa in discussione di tutte le nostre tradizionali certezze.

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Ibidem, p. 124. Ibidem. A tal proposito cfr. anche G. MORETTO, Pietro Piovani e l’etica della croce, «Giornale di Metafisica», 3/III, 1981, pp. 463-518. 630 V. VERRA (a cura di), La filosofia dal ʼ45 ad oggi, ERI, Torino 1976, p. 512. Sul pensiero di Piovani si vedano: G. CACCIATORE, Nichilismo attivo, storicità, futuro nella filosofia di Pietro Piovani, «Giornale critico della filosofia italiana», 53/2, 1984, pp. 218-259; G. LISSA, Anti-ontologismo e fondazione etica in Pietro Piovani, Giannini, Napoli 2001; A.M. NIEDDU, Normatività soggettività storicità: saggio sulla filosofia della morale di Pietro Piovani, Loffredo, Napoli 2001; A. PERRUCCI, L’etica della responsabilità. Saggio su Pietro Piovani, Liguori, Napoli 2007. 629

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2. Enrico Castelli: dall’«esistenzialismo teologico» alla «critica della demitizzazione» Una singolare figura nel panorama filosofico italiano è quella di Enrico Castelli Gattinara di Zubiena, nato a Torino nel 1900. Egli ha elaborato una forma di “esistenzialismo teologico” sorta dal confronto critico con il razionalismo moderno ed il suo esito ultimo, cioè l’attualismo gentiliano, interpretato come una sorta di “solipsismo”. Lo stile espositivo delle sue opere ha poco di convenzionale e di accademico, è spesso sperimentale e talvolta persino di difficile decifrazione. Alcuni titoli delle sue opere sono rivelativi di questi tratti: Introduzione alla vita normale (1935); Introduzione alla vita delle parole (1938); Preludio alla vita di un uomo qualunque (1941); Pensieri e giornate: diario intimo (1945; II edizione 1963); Il demoniaco nell’arte (1952); Il tempo invertebrato (1969); Il tempo inqualificabile (1975). Egli ha voluto anche consegnare i suoi pensieri in carte redatte di giorno in giorno e non destinate alla pubblicazioni: dall’ottobre 1923 all’agosto 1976 tenne un diario quasi giornaliero che si snoda per oltre 2800 pagine. Il Diario - come sottolinea nella Prefazione Marco Maria Olivetti, allievo di Castelli - «è un documento che consente di conoscere non solo aspetti inediti dell’opera, del pensiero e della personalità di Castelli, ma anche una quantità di fatti non irrilevanti di più di mezzo secolo di vita culturale, politica e civile italiana ed europea»631. Castelli, inoltre, sperimentò nuove forme del discorso filosofico scrivendo drammi filosofici (Filosofia e dramma: il demoniaco cambiamento di rotta, 1949) e soprattutto girando dei film sui significati speculativi dell’arte figurativa: Il demoniaco nell’arte, Il fiume della vita, Il giocoliere e il misantropo, La «Passione» di Memling, Le maschere e la vita, Il surrealismo e il sacro, tutti degli anni Cinquanta632.

631

M.M. OLIVETTI, Prefazione a E.CASTELLI, Diari, 4 voll., Cedam, Padova 1997. 632 Questi film nacquero anche dalla polemica con Sartre sulla possibilità di fare filosofia con il cinema: cfr. E. CASTELLI, Philosophie et cinéma. À

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Pietro Prini sottolinea giustamente il forte orientamento pascaliano di Castelli: a suo parere «senza dubbio, il Castelli è stato il più pascaliano degli esistenzialisti [italiani]. Il suo stile nervosamente impressionistico, ricco di Witze, di accostamenti e di contrapposizioni imprevedibili e perfino di boutades e di giochi di parole (uno stile lontano da quello degli accademici che non l’amavano [...]) è già in se stesso un paradosso, il primo dei paradossi in cui si muove e si costruisce il suo pensiero. È uno stile diaristico, frammentario, non sistematico (egli è stato il primo in Italia a proporre in un fascicolo del 1959 del suo «Archivio di Filosofia» la ricerca sul tema della diaristica filosofica e alcune delle sue opere sono redatte espliticamente in questa forma, come Pensieri e giornate, del 1945, L’indagine quotidiana, del 1956, ed altre»633. Dal 1940 al 1970 Castelli fu professore di Filosofia della religione presso l’Università di Roma; fu quindi direttore della rivista da lui fondata «Archivio di Filosofia» e curatore delle tre edizioni nazionali di Rosmini, di Gioberti e dei classici del pensiero italiano. Ma il merito culturale più rilevante di Castelli va sicuramente individuato nell’organizzazione, dal 1961 al 1977 - anno della sua morte -, dei «colloqui internazionali» sulla demitizzazione e l’ermeneutica634. Ai colloqui romani che ti tenevano annualmente parteciparono teologi, filosofi, storici ed intellettuali di fama internazionale: essi contribuirono notevolmente a far conoscere in Italia le nuove tendenze del pensiero d’oltralpe. Tra gli altri, vi presero parte: S. Breton, A. De Waelhens, G. Fessard, H. Gouhier, K. Kereny, E. Lévinas, J.B. Lotz, M. Nédoncelle, R. Panikkar, P. Ricoeur, X. Tillette, H.-G. Gadamer, M. van Overbeke, J. Daniélou, propos d’un film de J.-P. Sartre, «Revue Internationale de Filmologie», 1, 1948, pp. 121-130. 633 P. PRINI, L’esistenzialismo teologico di Enrico Castelli, in IDEM, La filosofia cattolica italiana del Novecento, cit., pp. 187-192, p. 189. 634 A tal proposito cfr. M.M. OLIVETTI, I convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), «Archivio di filosofia», 47/1, 1979: il fascicolo contiene gli Indici degli atti dei convegni romani sulla demitizzazione e l’ermeneutica (1961-1977), a cura di E. Valenziani, pp. VII-XXX.

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R. Klibansky, J. Lacan, W. Pannenberg, K. Rahner, J. Starobinsky, P. van Buren. Tra i partecipanti italiani sono da menzionare: S. Cotta, E. Grassi, R. Lazzarini, I. Mancini, V. Mathieu, P. Prini, E. Severino, U. Eco, G. Vattimo e V. Verra. Veniamo ora a tratteggiare i momenti salienti che hanno scandito l’itinerario intellettuale di Castelli. Egli si formò nell’ambiente torinese di inzio Novecento. Nelle sue carte ricorda che da fanciullo ascoltava le conversazioni dei parenti che parlavano di Cavour e di D’Azeglio, di Cesare Balbo e di Gioberti, «persone da loro più volte avvicinate, alcune amiche di famiglia, altre, i De Maistre, legate da vincoli di parentela»635. Ecco le parole con cui Castelli ricorda i suoi primi anni: «Antiche tradizioni, spirito di dovere e soprattutto religione hanno costituito il clima entro il quale si è svolta la mia infanzia. Soprattutto da parte materna, questo spirito religioso a sfondo giansenistico ha dominato tutta la mia giovinezza. Ricordo che non c’era che un’alternativa: dannazione o salvezza […]»636. Già da questi accenni emerge il senso tragico dell’esistenza che accompagnerà Castelli anche nelle opere della maturità. Al termine della Prima Guerra mondiale si iscrisse al corso di laurea in filosofia nell’Università di Roma, dove nel 1923 si addottorò sotto la guida di Bernardino Varisco. Il rapporto intellettuale con Varico fu di fondamentale importanza per il giovane Castelli, il quale - a sua volta - influenzò in senso teistico gli sviluppi dell’idealismo varischiano; a tal proposito Olivetti afferma che «più di un indizio induce a pensare che il giovane discepolo abbia contribuito, quanto meno, ad accentuare nel senso di un teismo pratico-vitalistico gli ultimi orientamenti intellettuali del vecchio maestro»637. Di Varisco il Castelli curerà in seguito gli scritti postumi Dall’uomo a Dio (1939) e Il pensiero vissuto (1944). 635

E. CASTELLI, Il tempo esaurito, Bocca Editori, Milano-Roma 19542, p.

29. 636 Ibidem, p. 27. 637 M.M. OLIVETTI, Enrico Castelli (1900-1977), in E. CORETH – W.M. NEIDL – G. PFLIGERDORFFER (a cura di), La filosofia cristiana nei secoli XIX e XX, Edizione italiana a cura di G. Mura e G. Penzo, Città Nuova, Roma 1995, Vol. II, pp. 677-689, p. 678.

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Ma all’Università di Roma il Nostro venne in contatto con Sante De Sanctis, uno dei primi docenti italiani di psicologia sperimentale, al quale si legò in rapporti di amicia e collaborazione638. Alla psicologia Castelli dedicò la sua prima pubblicazione: Il valore della psicologia sperimentale e la critica idealistica (1923). Le intuizioni speculative di questo scritto vennero poi ampiamente svolte nella sua prima rilevante opera di carattere teoretico: Filosofia della vita. Saggio di una critica dell’attualismo e di una teoria della pratica, edita nel 1924. Contro l’idea gentiliana del soggetto trascendentale egli sostiene che la filosofia deve considerare il valore imprescindibile della vita psichica individuale: si tratta della vita di una pluralità di soggetti irriducibili ad un unico - e de facto inesistente - soggetto trascendentale. Di Gentile egli critica soprattutto l’immanentismo che preclude la possibilità di un’autentica comprensione dell’elemento religioso. Tali critica ricorda di certo quella di Kierkegaard ad Hegel: «La religione» afferma Castelli - «per l’idealismo assoluto è un momento dell’eterno divenire dello spirito, e come momento dello spirito deve essere superata, sorpassata. Il Dio della religione è un puro ideale che svanisce nella coscienza del pensatore, perché è natura»639. Nel volume Filosofia della vita Castelli prende in esame anche il tema della libertà in Kant, Rosmini e Blondel: egli sottolinea così la necessaria trascendenza implicata nell’affermazione della libertà umana. A suo parere «lo spirito è la testimonianza eterna della 638

Alla scuola di Sante De Sanctis vi erano personalità come il penalista positivista Enrico Ferri e psicologi come Mario Ponzo e Ferruccio Banissoni, autore quest’ultimo nel 1926 di un’importante opera dal titolo La psicologia della volontà. Su De Sanctis si vedano: R. APPICCIAFUOCO, La psicologia sperimentale di Sante De Sanctis, Prefazione di F. Banissoni, Orsa Maggiore, Roma 1946; L. DE SANCTIS, La psicologia della conversione religiosa in Sante De Sanctis, Congedo, Galatina 1973; IDEM, Dinamismi psichici e psicologia religiosa: il contributo di Sante De Sanctis, Istituto di Pedagogia, Roma 1982; G. CIMINO e G.P. LOMBARDO (a cura di), Sante De Sanctis tra psicologia generale e psicologia applicata, Angeli, Milano 2004. 639 E. CASTELLI, Filosofia della vita. Saggio di una critica dell’attualismo e di una teoria della pratica, Signorelli Editore, Roma 1924, p. 122.

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esigenza del trascendente […]. L’ordine del nostro spirito include la coscienza di un Ordine Universale, trascendente la nostra coscienza stessa. Né la religione si dica è natura, è stasi, che l’esigenza del trascendente è la vita stessa dello spirito e il suo principio di ragion d’essere»640. Nell’opera egli mette in rilievo la dinamicità della vita dello spirito, il suo essere rivolta in direzione di un continuo autotrascendimento e soprattutto la dimensione agonica della stessa vita religiosa: «Il fenomeno religioso […] è un dramma interno, un dramma dello spirito, che nell’eterno contrasto tra i fini particolari ed il fine ultimo supremo (l’universale, Dio) cerca tutti i mezzi per annientare e annullare i primi, per raggiungere il secondo. Una lotta conto l’errore per l’esistenza vera e concreta»641. Marco Maria Olivetti ha correttamente fatto notare che nel pensiero di Castelli convergono diverse sollecitazioni culturali: «la già ricordata indagine della vita psichica nei suoi apsetti individuali e introspettivi, particolarmente attenta alla psicologia dell’azione e della volontà; la filosofia dell’azione blodeliana, raggiunta però soprattutto attraverso la mediazione di Laberthonnière, il cui influsso è invece forte e diretto642; l’istanza varischiana di un “pluralismo” dei soggetti; un’esigenza religiosa allo stesso tempo teistica e positiva (teistica, nella misura in cui una visione teistica preclude una risoluzione immanentistica dei soggetti plurimi nel soggetto trascendentale; positiva, nella misura in cui la stessa visione teistica è 640

Ibidem, pp. 121-123. Ibidem, p. 12. 642 Di Maurice Blondel il Castelli curò la traduzione italiana del breve scritto Le principe élémentaire d’une logique de la vie morale: cfr. M. BLONDEL, Principio di una logica della vita morale, Introduzione e tr. it. di E. Castelli, Signorelli, Roma 1931. Tuttavia Castelli prese le distanze dal “principio di immanenza” blodeliano e valorizzò piuttosto il pensiero di Lucien Laberthonnière, soprattutto per la sua chiara distinzione tra naturale e soprannaturale. A quest’ultimo dedicò anche una significativa monografia: cfr. E. CASTELLI, Laberthonnière, Edizioni Athena, Milano 1927. Si veda anche IDEM, Filosofia e apologetica, A. Marchesi, Roma 1929. Sul rapporto epistolare e speculativo tra Castelli e Blondel cfr. A. MEOLI, La corrispondenza Castelli-Blondel e la traduzione del Principe élémentaire, «Archivio di Filosofia», 71, 2003, pp. 459-488. 641

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solo derivatamente oggetto di ricostruzione teorica, trovando la sua radice e la sua validità originarie nell’esperienza vissuta, e vissuta perché ricevuta in una concreta esperienza di vita»643. Particolarmente suggestiva è l’interpretazione data da Castelli del pensiero moderno: dal cogito di Cartesio all’atto puro di Gentile egli scorge il progressivo accentuarsi dello gnoseolgismo e soprattutto del solipsismo. A suo giudizio «tutta la storia della filosofia moderna è la storia della corsa alla solitudine attraverso il terrore della solitudine stessa. Storia dei tentativi per instaurare una comunicazione oltre la parola rivelata»644. Egli individua tre tipi di solipsismo: il “solipsismo empirico”, chiaramente riscontrabile nelle posizioni di Berkeley e di Hume, il “solipsismo trascedentale”, esito tipico dell’idealismo post-kantiano, e il “solipsismo teologico” nel quale la realtà del “totalmente Altro” viene considerata un fastasma della nostra coscienza. Nell’empirismo la presenza dell’altro resta sempre un “mio percepito”: questo trova nell’esse est percipi di Berkeley la sua giustificazione teoretica (l’essere oggettivo delle cose e degli altri si risolve nella mia percezione sensoriale). Nell’idealismo (da Fichte a Gentile) la presenza dell’alterità viene dedotta da un atto stesso della coscienza: Castelli ricorda che già Friedrich Jacobi vide nell’idealismo di Fichte una forma di “egoismo speculativo” e di solipsismo teoretico645. La modernità filosofica viene, perciò, definita da Castelli come una “corsa alla solitudine”: in essa si ha perdita della realtà dell’altro che viene ridotto a oggetto, a mia esperienza. Un’ulteriore critica al razionalismo moderno viene mossa da Castelli alla spasmodica ricerca dell’obiettività: «La storia della filosofia moderna per buona parte è la storia di un’ossessione: l’obiettività. Storia di un’impresa disgraziata: spiegare razionalmente tutto»646. A suo parere il razionalismo moderno ha dimenticato di 643

M.M. OLIVETTI, Enrico Castelli (1900-1977), cit., p. 679. E. CASTELLI, I presupposti di una teologia della storia, Cedam, Padova 1968. 645 A tal proposto cfr. E. CASTELLI, Idealismo e solipsismo, Signorelli, Roma 1933. 646 E. CASTELLI, I presupposti di una teologia della storia, cit., p. 9-10. 644

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prendere in esame la parte più intima e più fragile della condizione umana, quella rivalutata incece dall’esistenzialismo di Kierkegaard e di molti filosofi del Novecento. Dalle critiche al razionalismo moderno Castelli fa emergere anche i caratteri fondamentali del suo “esistenzialismo teologico” e di quelli che egli definisce come i necessari “presupposti di una teologia della storia”. Ricordiamo che Esistenzialismo teologico è un’opera edita per la prima volta a Parigi nel 1948, mentre I presupposti di una teologia della storia è stata pubblicata nel 1952. Uno dei rilievi critici più profondi e veritieri fatti da Castelli ai razionalisti moderni è quello di aver dimenticato pressoché del tutto «la coscienza di una caduta iniziale»647: egli sostiene che «per il pensiero moderno è insensato parlare di un peccato d’origine; insensato invece è non parlarne; non esistono situazioni edeniche echeggiate»648. La modernità dimentica il concetto cristiano fondamentale di status naturae lapsae (lo stato di natura decaduta di cui parlano i Padri della chiesa) e si illude perciò che la natura umana sia intrinsecamente positiva, non inficiata radicalmente dal male: è per questa letale dimenticanza che nella modernità si è pensato di poter fare a meno della grazia divina, cercando di edificare paradisi in terra. Il “perfettismo politico” e l’utopismo sono “i figli” di tale dimenticaza: questo è uno degli elementi dell’ermeneutica del pensiero moderno di Castelli che fu più recepito da Augusto Del Noce, suo amico e collaboratore. Non a caso Del Noce dedicò a Castelli una delle sue opere più significative: Il problema dell’ateismo (1964). I due filosofi sono concordi nell’affermare che a causa della perdita della nozione di peccato originale «la storia del pensiero moderno può ben dirsi la storia di una scristianizzazione crescente»649. L’esistenzialismo di Castelli si origina da una presa di distanza dei miti della modernità (obiettivismo nella ricerca del vero, perfettismo politico ed utopismo) e dalla costatazione del fallimento dell’idealismo. Egli riconosce all’idealismo di inzio Novecento «il 647

Ibidem, p. 11. Ibidem, p. 13. 649 Ibidem, p. 11. 648

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merito di far morire il positivismo semplicistico e il realismo ingenuo»650, tuttavia giudica «fallimentaria la Weltanschauung dell’idealismo sotto due aspetti: l’aspetto politico e l’aspetto teologico. L’aspetto politico, perché l’idealismo, prima banditore di concezioni democratiche dello Stato, in defintiva ha fatto l’apologia dello stato di fatto come stato di diritto, giustificando l’autoritarismo più tirannico [il bersaglio polemico è certamente Giovanni Gentile]. Dal punto di vista teologico perché, quantunque tentativi di idealismo teologico siano stati fatti [è il caso di Varisco], questi tentativi sono stati ibridi, infecondi, ed hanno dominato le correnti immanentistiche sotto varie forme, da quella del positivismo assoluto (la filosofia del dato) a quella dell’attualismo»651. Castelli scorge nelle filosofie dell’esistenza delle nuove possibilità per il pensiero: l’esistenzialismo è certamente una «filosofia della crisi» ma è anche «indiscutibilmente un invito alla sincerità»652 e soprattutto può avere un esito teologico. Un aspetto dell’esistenzialismo che egli reputa costruttivo è il suo invito alla concretezza, la sua apologia del “senso comune”. Castelli si è sempre opposto alle astrazioni concettuali: il suo esistenzialismo è anche una filosofia del “senso comune” nella quale «la verità non coincide sempre del tutto con la dimostrabilità»653. Antonio Livi ha correttamente notato che «il pensiero di Enrico Castelli riprende i temi più caratteristici della filosofia di Vico, specialmente per quanto riguarda la dottrina del senso comune e la polemica contro il razionalismo e le sue pretese di certezza assoluta»654. 650

Ibidem, p. 17-18. Ibidem, p. 17. 652 Ibidem. 653 A. LIVI, Enrico Castelli e il senso comune, in IDEM, La filosofia e la sua storia, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1997, Vol. III, tomo II, pp. 975-979, p. 979. A tal proposito cfr. anche R. PETTENUZZO, Enrico Castelli: senso comune e demitizzazione, Leonardo da Vinci, Roma 2002. 654 Ibidem. Sulla nozione di “senso comune” in Castelli si veda anche E. CASTELLI, Commentario al senso comune, Bocca Editori, Milano 1940 [pubblicato con lo pseudonimo di Dario Reiter]. 651

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Ulteriori critiche alla modernità vengono svolte da Castelli nel volume del 1952 dal titolo Il demoniaco nell’arte: sulla scia di pensatori russi come Lev Šestov e a Vladimir Solov’ëv egli interpeta il razionalismo come una forma di concupiscentia irresistibilis che spinge alla sostituzione della fede con il sapere, illundendosi di dominare compiutamente il reale con gli strumenti del lógos. Una concupiscentia irresistibilis può essere scorta nel motto stesso di Francis Bacon, teorico della scienza moderna, per il quale “sapere è potere” (knowledge is power). Ma la particolarità di quest’opera di Castelli è che in essa egli analizza come tale concupiscentia irresistibilis sia stata espressa in forme pittoriche dagli artisti fiamminghi e tedeschi del XV e XVI secolo. Molti dipinti di quest’epoca hanno come tema il tremendum, il delirium e il demoniaco che caratterizzano il mondo moderno nella misura in questo “dimentica Dio”, risolvendosi in una aversio a Deo e una conversio ad creaturam655. La prospettiva di Castelli è caratterizzata da una profonda continuità. Tuttavia in essa è possibile scorgere la presenza di quattro fasi in cui vengono accentuati aspetti particolari della ricerca: «quella giovanile, già ricordata e qualificata da una produzione di natura più tradizionalmente accademica [si pensi al volume Filosofia della vita e alla monografia su Laberthonnière], quella diaristica, quella esistenzialistica [basti pensare al volume Esistenzialismo teologico656] e, l’ultima, quella demitizzante»657. 655

Cfr. E. CASTELLI, Il demoniaco nell’arte: il significato filosofico del demoniaco nell’arte, Cedam, Padova 1952; Introduzione di C. Bologna, Bollati Borighieri, Torino 2007. 656 Cfr. E. CASTELLI, Existentialisme théologique, Hermann, Paris 1948, 19662; edizione italiana con il titolo di Esistenzialismo teologico, Abete, Roma 1966. 657 M.M. OLIVETTI, Enrico Castelli (1900-1977), cit., p. 680. Sulle diverse fasi del pensiero dell’autore cfr. anche G. GIUSTOZZI, Enrico Castelli. Filosofia della vita ed ermeneutica della tecnica, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 2002. Una bibliografia completa di e su Castelli fino al 1979 è contenuta in AA. VV., Esistenza, mito ermeneutica. Scritti per Enrico Castelli, «Archivio di Filosofia», 1980, pp. 315-326.

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Ci occuperemo ora dell’ultima fase della produzione di Castelli, quella relativa alla “critica della demitizzazione”. Gli scritti di quest’ultimo periodo sono raccolti in un’opera dal titolo La critica della demitizzazione: essa è costituita dalle introduzioni che egli scriveva per i «colloqui» internazionali convocati annualmente - a partire dal 1961 - sulle problematiche teologiche ed ermeneutiche. Come è noto, colui tra i primi ha parlato dell’esigenza di una “demitizzazione” fu il teologo protestante Rudolf Bultmann nell’opera del 1941 Neues Testament und Mythologie658: in questo testo, con il quale si confronta criticamente anche Caselli, egli affermava l’esigenza di una “demitizzazione” (Entmythologisierung) del messaggio del Nuovo Testamento. Secondo Bultmann l’involucro mitologico di cui i racconti biblici sono ricoperti (parabole, visioni, miracoli, ecc.) è inessenziale rispetto al contenuto che essi vogliono trasmettere. Il lavoro teologico consiste, quindi, nel “demitologizzare”, cioè nel riconoscere ed esaminare gli aspetti mitologici della narrazione per far emergere da essi il contenuto autentico dell’annuncio (in greco kérygma). Bultmann al primo «colloquio» romano organizzato da Castelli inviò anche una relazione scritta nella quale ribadiva i princìpi della sua ermeneutica delle Sacre Scritture659. Castelli fu molto sensibile alle istanze espresse dal Bultmann ma criticò l’orientamento del teologo tedesco su un punto fondamentale: la sua messa in discussione della storicità degli accadimenti evangelici. Secondo Castelli: «In un certo senso, il torto della teologia bultmanniana demitizzante è di non aver compreso che il kerigma comporta l’essere dell’avvenimento; e l’eventuale analisi storica 658

Cfr. R. BULTMANN, Nuovo testamento e mitologia: il manifesto della demitizzazione, Saggio introduttivo di I. Mancini, Oltre Bultmann; tr. it. di L. Tosti e F. Bianco, Queriniana, Brescia 1973; 19906. Cfr. anche IDEM, Zum Problem der Entmythologisierung, in Kerygma und Mythos, Herbert Reich Evangelischer Verlag, Hamburg-Volksdorf 1952, Band II, pp. 179208. 659 A tal proposito si vedano gli atti del primo «colloquio»: Aa. Vv., Il problema della demitizzazione, «Archivio di Filosofia», XXIX, 1961, n. 12.

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dell’avvenimento non lede la Rivelazione, perché questa è la Rivelazione del messaggio e nello stesso tempo dell’avvenimento, cioè della storia. La Rivelazione (e non la storia) comporta un’evidenza, un’evidenza sui generis»660. Castelli difende quindi la storicità dell’annuncio evangelico: il kérygma va “demitologizzato” ma questo non comporta una miscredenza sulla sua reale storicità (si pensi al “fatto storico” della resurrezione di Cristo). Inoltre, per Castelli la demitizzazione non è solo un lavoro di ermeneutica richiesto al “teologo di professione”: il filosofo italiano sottolinea che la “demitizzazione” è una conseguenza naturale della civiltà della tecnica e della scienza, caratterizzata da quello che Max Weber chiamava il “disincanto del mondo”. Qualsiasi uomo di fede del mondo contemporaneo, quando legge ed ascolta i testi biblici, li “demitizza” naturalmente, persino senza volerlo. La demitizzazione è, quindi, per Castelli un invito a comprendere il mistero della fede cristiana nella sua originaria autenticità; la demitizzazione costituisce così un necessario momento di purificazione per la stessa fede. 3. Alberto Caracciolo: dal all’affermazione della trascendenza

«nichilismo

metodico»

In Alberto Caracciolo troviamo una seria presa in considerazione del nichilismo, interpretato non solo come elemento storico 660

E. CASTELLI, La critica della demitizzazione: ambiguità e fede, Cedam, Padova 1972, pp. 33-34. Sul problema della demitizzazione cfr. anche A. CARACCIOLO, Il problema della demitizzazione nel dialogo BultmannJaspers, «Giornale critico della filosofia italiana», XXXVI, 1957, pp. 300321; I. MANCINI, Saggio sulla demitizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1963; il saggio-prefazione di P. RICOEUR a R. BULTMANN, Jésus. Mythologie et démithologisation, Seuil, Paris 1968, pp. 9-28; A. CARACCIOLO, Ancora a proposito del problema della demitizzazione (Risposta a Franco Bianco), «Giornale critico della filosofia italiana», XLI, 1962, pp. 238-250; IDEM, Demitizzazione ed ecumenismo, «Terzoprogramma», III, 1970, pp. 24-38.

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imprescindibile del mondo contemporaneo, ma anche come “momento necessario” della stessa coscienza umana: egli parla di un «nichilismo metodico»661 come preludio per una rinnovata affermazione della trascendenza religiosa. Prima di soffermarci su questa fondamentale dinamica teoretica messa in evidenza da Caracciolo, ci soffermiamo brevemente su alcune tappe significative del suo itinerario di ricerca. Queste ci aiutano a comprendere le istanze fondamentali animano il suo pensiero. Egli nacque nel 1918 a S. Pietro di Morubio (provincia di Verona); rimase orfano a poco più di tre anni; fu quindi cresciuto dal padre Ferdinando, medico condotto della cittadina: «la scomparsa prematura della madre e le frequenti visite in compagnia del padre, ai pazienti, segnarono ulteriormente lo spirito già meditativo e introspettivo di Caracciolo»662. Un tema ricorrente anche nelle sue riflessioni mature fu quello del dolore umano e della sofferenza degli innocenti: in particolare le tematiche del malum mundi e del mysterium iniquitatis vennero analizzate sulla scorta delle riflessioni di Leopardi, di Dostoevskij, di Nietzsche e degli esistenzialisti come Jaspers, Sartre e Camus. Nel 1936 vinse una borsa di studio presso il prestigioso collegio Ghisleri di Pavia e si iscrisse quindi alla Facoltà di Lettere della stessa città lombarta. In quegli anni fu suo compagno di studi Teresio Olivelli, martire della Restistenza morto il 12 gennaio 1945 nel Lager di Hersbruck. Olivelli fu per il giovane 661

A. CARACCIOLO, Kant e il nichilismo contemporaneo, in IDEM, Pensiero contemporaneo e nichilismo, Guida, Napoli 1976, 7-35, p. 10. 662 A. DI CHIARA, Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa di Alberto Caracciolo, Il Melangolo, Genova 2001, p. 17. Ampie e dettagliate ricostruzioni del pensiero dell’autore italiano nelle sue tappe fondamentali sono anche quelle di G. MORETTO, Filosofia umana. Itinerario di Alberto Caracciolo, Morcelliana, Brescia 1992; P. RUMINELLI, Esistenza e Trascendenza. Una lettura del pensiero di Alberto Caracciolo, Abelardo, Roma 1995; D. VENTURELLI, Alberto Caracciolo: sentieri del suo filosofare, Il melangolo, Genova 2011. Cfr. anche C. VASOLI, Contemporaneità di un’autobiografia. L’itinerario etico-politico di A. Caracciolo, «Humanitas», 6, 1993, pp. 854-870.

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Caracciolo un modello di antifascismo e di impegno etico-politico congiunto alla preghiera: successivamente dedicò a questa figura anche una monografia663. All’Università di Pavia seguì le lezioni di storia della filosofia tenute da Adolfo Levi (1878-1948); tuttavia non si potè laureare sotto la sua guida poiché Levi nel 1938 dovette lasciare la cattedra a causa delle leggi raziali fasciste. L’insegnamento di Levi influì notevolmente sulla forma mentis del giovane Caracciolo: dal maestro studioso della sofistica e dello scetticismo antico apprese l’impossibilità costitutiva di raggiungere una certezza epistemologica assoluta. Per Levi ogni filosofia, se vuol essere sincera, non può non riconoscere la relatività di ogni proposizione, ivi comprese le proprie. Levi sottolinea che a questo tipo di scetticismo e di relativismo conduce tutta la parabola del pensiero moderno, soprattutto quello post-kantiano e post-hegeliano. Ma la posizione di Levi non si ferma al momento scettico: egli pone un primato assoluto del “pratico” sul “teoretico” e in questo si richiama esplicitamente al kantismo etico. Quella di Levi è, quindi, una posizione che potrebbe essere riassunta con la formula “pessimismo della ragione, ottimismo della volontà”664. Dal suo maestro di origine ebraica Caracciolo 663

Cfr. A. CARACCIOLO, Teresio Olivelli. Biografia di un martire, La Scuola, Brescia 1947. Secondo Caracciolo il fascismo fu un «ipertrofico nazionalismo di carattere materialistico» (A. CARACCIOLO, Il fascisimo. La radice del suo errore e l’intima necessità del suo disfacimento, «Il Ribelle», quaderno 3, Brescia 1944, pp. 2-15, p. 7, lo scritto fu pubblicato con la firma del solo nome “Alberto”); il fascismo - egli continua - distrusse l’humanitas per mezzo di una «istintiva idolatria dello stato nazione, come realtà a sé, staccata dalla concretezza dei suoi cittadini e come volontà di fisica potenza» (ibidem, p. 8). «La visione religiosa, l’educazione liberale, il rispetto per la persona e l’esigenza di raccoglimento e di poesia sono i motivi principali che tengono molto distante Caracciolo dal fascismo, come egli stesso testimonia nel 1947 nella sua Autobiografia di un giovane del tempo fascista» (A. DI CHIARA, Lo spazio della trascendenza. La prospettiva estetica ed etico-religiosa di Alberto Caracciolo, cit., p. 21). 664 Adolfo Levi fu auore di numerose opere sia dal carattere storiografico che teoretico. Tra queste ricordiamo La fantasia estetica (B. Seeber, Firenze 1913); Sceptica (Paravia, Torino 1921; a cura di A. Ravà, La Nuova Italia,

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apprese ad amare e a valorizzare il Kant che pone un primato della ragion pratica su quella teoretica: si tratta del primato della “fede morale” (moralischer Glaube) che sa gettare lo sguardo oltre i limiti della conoscenza umana, in direzione della trascendenza religiosa. Nel 1941 in un’aula del liceo “Ugo Foscolo” dove insegnava letteratura italiana e latina Caracciolo tenne una sua prima conferenza sul tema Che cosa la guerra deve suggerire a noi come uomini. In questa conferenza si può trovare già in nuce l’interesse per la questione morale che segnerà poi tutto il cammino dell’autore. Agli studenti liceali che vivevano gli anni della guerra egli ricorda che «dal seno dell’esigenza morale di costruire nasce la domanda di cosa si debba costruire; dall’esigenza morale nasce, in altre parole, il problema filosofico»665. Di fondamentale importanza nella formazione intellettuale di Caracciolo fu la borsa di studio vinta nel 1941 per condurre delle ricerche di estetica presso la Ludwig-Maximilians Universität di Monaco di Baviera. Il Nostro ebbe quindi opportunità anche di approfondire la conoscenza del tedesco: in seguito diede notevoli contributi alla cultura italiana traducendo, spesso in collaborazione

Firenze 19592); D. Hume e la critica del pensiero religioso, Il solco, Città di Castello 1923; Sulle interpretazioni immanentische della filosofia di Platone (Paravia, Torino 1924); La filosofia di Tommaso Hobbes (Albrighi – Segati, Roma 1929); Storia della filosofia romana (Sansoni, Firenze 1949). Sul pensiero di Levi cfr. G. ALLINEY, La filosofia di Adolfo Levi, «Archivio Storico della Filosofia italiana», 1934, pp. 307-333; M.F. SCIACCA, Il secolo XX, Bocca Edizioni, Milano 1947, pp. 529-533; P. NESSI, Il solipsismo di Adolfo Levi, Prefazione di D. Pesce, Capriolo e Massimino, Milano 1957; G. REALE, Un libro inedito di Adolfo Levi su Platone, «Rivista di Filosofia Neo-Scolastica», 62, 1970, pp. 321-333. Sul novevole influsso esercitato da Levi su Caracciolo cfr. D. VENTURELLI, Nichilismo, religione, eticità, in AA. VV., Filosofia-Religione-Poesia. In ricordo di Alberto Caracciolo, «Humanitas», XLVII, 2, 1992, pp. 225-252. 665 Tale conferenza è stata pubblicata postuma nella raccolta di A. CARACCIOLO, Politica e Autobiografia, a cura di G. Moretto, Morcelliana, Brescia 1993, pp. 55-65.

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con la moglie Maria Perotti, opere di Ernst Troeltsch, di Martin Heidegger, di Walter Friedrich Otto e di Albert Lang666. Nel 1951 Caracciolo ottine la cattedra di Estetica all’Università di Genova, dove inizia la sua carriera accademica, con studi che si allargheranno presto alla Filosofia teoretica e alla Filosofia della religione. Tra i suoi allievi vi sono stati Giovanni Moretto, Domenico Venturelli, Gerardo Cunico, Carlo Angelino e Marco Ivaldo, studiosi della filosofia classica tedesca e molto sensibili alle tematiche concernenti la filosofia della religione. Veniamo ora a delineare alcuni tratti fondamentali della posizione teoretica di Caracciolo. Come abbiamo già accennato in precedenza, egli prende in seria considerazione il fenomeno del nichilismo. A suo parere il nichilismo «ha assunto in questi ultimi decenni [si riferisce agli anni Settanta] una centralità sempre più evidente come termine interpretativo della dialettica intrinseca alla situazione ultima dell’uomo in quanto tale, come termine interpretativo della situazione storica dell’uomo contemporaneo. Nietzsche e Heidegger sono stati determinanti sotto l’uno e l’altro profilo. Sotto il segno del nichilismo Nietzsche poneva la sua e l’età ventura»667. Egli sottolinea che la domanda fondamentale da cui sorge la possibilità del nichilismo è quella classica, già posta da Leibniz e riportata in primo piano da Heidegger668: «perché l’essere piuttosto che il niente? È una 666

Si vedano ad esempio A. LANG, Introduzione alla filosofia della religione, tr. it. di A. Caracciolo (in collaborazione con M. Perotti Caracciolo), Morcelliana, Brescia 1959; E. TROELTSCH, L’assolutezza del cristianesimo e la storia delle religioni, tr. it. e Introduzione di A. Caracciolo, Morano, Napoli 1968; M. HEIDEGGER, In cammino verso il linguaggio, tr. it. di A. Caracciolo (in collaborazione con M. Perotti Caracciolo), Mursia, Milano 1973; W.F. OTTO, Theophania. Lo spirito della religione greca antica, tr. it. di A. Caracciolo (in collaborazione con M. Perotti Caracciolo), Il Melangolo, Genova 1983. 667 A. CARACCIOLO, Kant e il nichilismo contemporaneo, cit., p. 7. A tal proposito cfr. anche G. SEVERINO, La questione del nichilismo in Alberto Caracciolo, «Il pensiero», 1, 1998, pp. 37-58. 668 Cfr. M. HEIDEGGER, Was ist Metaphysik?, V. Klostermann, Frankfurt a.M. 19557, p. 21 e p. 42. Sull’interpretazione di Heidegger data dal filosofo italiano cfr. A. CARACCIOLO, Studi heideggeriani, Tilgher, Genova 1989.

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domanda esistentiva nel senso che nasce nella dimensione dell’Existenz, cioè della dimensione più radicale dell’uomo; è la domanda che è alla radice dell’invocazione religiosa, dell’interrogazione filosofica, della meditazione poetica»669. La possibilità del nichilismo, cioè dell’assenza totale del senso del mondo, si origina quando la ricerca speculativa si radicalizza divenendo domanda sulla genesi stessa del reale. Tale domanda ha delle necessarie implicazioni teologiche ed antropologiche, coinvolgendo anche la problematica della teodicea (unde malum?): diviene interrogativo sull’esistenza di Dio e sul senso ultimo della vita umana. Caracciolo compie una serie di raffinate indagini storiografiche sugli autori ed i contesti nei quali tale domanda è divenuta preminente: egli analizza i testi biblici (soffermandosi soprattutto sul libro di Giobbe) e analizza tutti quegli autori che hanno tematizzato “il possibile nulla di senso” come Leopardi, Jean Paul nel Discorso del Cristo morto ed i celebri passi della Gaia scienza dove Nietzsche annuncia la “morte di Dio”. Ma le riflessioni di Caraccio sul nichilismo non si limitano ad indagini storiografiche; egli parla di un “nichilismo metodico” come elemento fondamentale della vita della coscienza umana: tale elemento è in grado di determinare una dialettica che può portare all’affermazione della trascendenza religiosa, ovvero alla “pienezza di senso”. Secondo il Nostro «come Cartesio ha parlato di un dubbio metodico e l’ha riconosciuto come passaggio obbligato alla verità, così noi possiamo parlare di un nichilismo metodico, e possiamo, anzi dobbiamo, riconoscere la sua domanda radicale come la domanda presente in ogni possibile problema pratico e teoretico che si pone all’uomo nell’intero arco della sua esistenza. Non c’è religione, non filosofia, non arte-poiesi […] che si possa dire consapevole seria libera integralmente umana, se non ha dietro di sé e dentro di sé, l’esperienza della domanda radicale del nichilismo. Solo quando sia vittoria sulla “malattia mortale”, la vita è veramente vita»670. Caracciolo ribadisce giustamente che l’affermazione matura di un senso religioso della vita umana e del cosmo è possibile solo dopo 669 670

A. CARACCIOLO, Kant e il nichilismo contemporaneo, cit., p. 8. A. CARACCIOLO, Kant e il nichilismo contemporaneo, cit., p. 10.

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aver sofferto “il Venerdì Santo speculativo”; l’oltrepassamento del nichilismo, una Überwindug des Nihilismus, è inoltre possibile solo tramite un atto di libertà. Egli afferma che «il nichilismo metodico non è solo l’identificazione della domanda radicale, ma è il rinvenimento dello spazio trascendentale dio Dio, dell’orizzonte della fede (nel senso universale del termine), dell’orizzonte in cui si colloca il fondamento della libertà della fede»671. La fede religiosa, per Caracciolo, vive e si sostanzia del dubbio: una fede che non nasce dal dubbio e che non è consapevole di essere “senza garanzie” epistemologiche rimane superficiale e non riesce ad affrontare i drammi dell’esistenza: «la fede non è mai acquisto adialettico (la fede è fede solo come vittoria sul dubbio radicale e totale inteso come “malattia mortale”), né mai acquisto ultimamente definitivo, bensì un bene che si deve sempre riconquistare»672. Questo elemento del “dubitare” come aspetto fondamentale del pensiero di Caracciolo è stato attentamente messo in rilievo anche da Domenico Venturelli, uno dei suoi allievi: «è questo un lato del pensiero di Caracciolo» - egli afferma - «che mi colpì profondamente e che, sebbene fosse sovrastato in lui da una fiducia di fondo sempre vittoriosa, non può essere ignorato, a meno di smarrire la complessita e il tormento di questo pensatore. È questo un aspetto che lega il suo filosofare alla modernità e che si sposa d’altronde molto bene con la convizione sua, mutuata da Socrate e da Lessing, che non il possesso ma la ricerca del vero definisca la natura della filosofia, almeno di quella che, seguendo coerentemente il solco tracciato dal criticismo di Kant, […] comprende di non potersi svolgere nella forma di un rammodernato sapere metafisico, sì invece in quella di un interrogare radicale che nasce dall’esperienza tragica della sofferenza e del male e che serba, nell’epoca storica del compiuto nichilismo, un suo peculiare riferimento al cosmo e alla Trascendenza»673.

671

Ibidem, p. 12. Ibidem. 673 D. VENTURELLI, Alberto Caracciolo, «Rivista di Storia della Filosofia», 4, 2012. 672

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Una fede robusta si sviluppa a partire dall’esperienza di una possibile mancanza di senso, di una possibile “assenza di Dio”: su questo tema Caracciolo è entrato anche in un profondo dialogo con Pietro Piovani674. Sia Piovani che Caracciolo avvertono intimamente la sfida rappresentata dal nichilismo e già messa bene in luce da Leopardi. Quest’ultimo vede nell’essere dell’uomo e del cosmo un “essere per la morte” e così si esprime nel Cantico del gallo silvestre: «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obietto il morire […]. Ogni parte dell’universo si affetta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. […] Tempo verrà che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. […] Del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empiranno lo spazio immenso. Così questo arcano e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi»675. Tuttavia per Caracciolo il nichilismo non porta all’inerzia e alla passività, al rinchiudersi nel proprio intimo come sovente avviene in Leopardi o all’atteggiamento della Gelassenheit (l’abbandono) di cui parla anche Heidegger: il nichilismo - osserva Caracciolo - è «la struttura costitutiva del Menschsein»676, dell’essere uomo, è un trascendentale della considizione umana che apre nuovi possibili spazi per una più matura invocazione religiosa. Come afferma anche Karl Jaspers, autore letto ed amato dal Nostro677, «l’ultima questione è sapere se dal fondo delle tenebre un essere può brillare». Un’importante raccolta di scritti dal valore storiografico e teoretico risale al 1965 e reca come titolo La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza. Richiamandosi a Schleiermacher e a Rudolf Otto, Caracciolo sottolinea che il 674

A questo proposito cfr. A. CARACCIOLO, Assenzialismo e imperativo dell’eterno. Colloquio con Pietro Piovani, in A. MASULLO (a cura di), Difettività e fondamento, Guida, Napoli 1984, pp. 61-80. 675 Per l’ermeneutica leopardiana del Nostro si veda A. CARACCIOLO, Leopardi e il nichilismo, a cura di G. Moretto, Bompiani, Milano 1994. 676 A. CARACCIOLO, Kant e il nichilismo contemporaneo, cit., p. 14. 677 Cfr. A. CARACCIOLO, Studi jaspersiani, Marzorati, Milano 1958.

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momento religioso è una determinazione particolare delle coscienza, da considerare nella sua autonomia e perciò non riducibile al momento conoscitivo, a quello morale e a quello estetico. Caracciolo chiarisce, quindi, che «la filosofia della religione non ha […] come proprio oggetto una particolare religione, ma una determinazione particolare della coscienza»678. Egli, quindi, indaga le strutture trascendentali, cioè universali, che rendono possibile il darsi del fenomeno religioso. A tal proposito la sua analisi si ricollega a quella di Rudolf Otto: anche quest’ultimo rileva, infatti, che il senso del sacro - il numinoso - scaturisce dal Seelengrund di ogni uomo, dalla sfera più profonda e radicale della coscienza umana. Tuttavia Caracciolo non intende limitarsi, come Otto, ad una “fenomenologia della religione”, cioè ad una descrizione delle diverse forme in cui essa appare; egli intende piuttosto affrontare un’indagine filosofica dal carattere genetico e trascendentale, cercando di mettere in luce le condizioni apriori che rendono l’uomo animal religiosum679. A suo parere la religione, nella sua universalità, è un «colloquio orante con la Trascendenza»680. È interesante notare che per Caracciolo una filosofia della religione deve avere un carattere aconfessionale; essa non deve ridursi cioè all’apologetica di un determinato credo, e di conseguenza non deve escludere a priori «né che l’atteggiamento della fede sia un atteggiamento necessario e costitutivo dell’uomo; né che la verità […] sia attingibile solo nell’ambito della fede; né che la fede, per essere, necessiti di una 678

A. CARACCIOLO, La religione come struttura e come modo autonomo della coscienza, Marzorati, Milano 1965, p. 369; Introduzione di C. Angelino, Il melangolo, Genova 20002. Sull’ermeneutica del religioso proposta dal filosofo italiano cfr. anche R. CELADA BALLANTI, Mito, religione ed ermeneutica in Alberto Caracciolo, in D. VENTURELLI (a cura di), Mito, religione e storia, Il melangolo, Genova 2000, pp. 205-252. 679 A tal proposito cfr. anche A. CARACCIOLO, Il trascendentale religioso, in P. CHIARINI (a cura di), Il cacciatore di silenzi. Studi dedicati a Ferruccio Masini, Istituto Italiano di Studi Germanici, Roma 1998, pp. 91-116; M. IVALDO, Alberto Caracciolo filosofo trascendentale del religioso, «Criterio», 1992, pp. 241-247. 680 A. CARACCIOLO, Figure della religione e della chiesa liberale. Introduzione, Edizioni Universitarie, Genova 1966, p. 5.

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rivelazione; né che la rivelazione sia possibile; né che la rivelazione si sia storicamente attuata in una religione, o in più religioni, o in tutte le religioni degne del nome»681. Le riflessioni più mature di Caracciolo sui significati trascendentali del fenomeno religioso le troviamo in una raccolta di scitti del 1990, riedita poi per il ventennale della sua scomparsa: Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e di poetica. Nel saggio che dà il titolo all’intera raccolta egli evidenzia che è la presenza incombente del malum mundi a destare nella coscienza umana “l’imperativo dell’eterno”, l’esigenza innegabile del trascendimento. «È questo imperativo» - egli afferma - «che domina lo spazio del religioso e lo spazio dell’etico. […] Per tale imperativo, il trascendendimento intrinseco al religioso, non può essere diserzione dalla terra, ma è suprema fedeltà alla terra. È quell’imperativo che costringe l’uomo a chiedere perché il tempo non sia l’eterno, dal momento che solo l’eterno è assolutamente degno di essere. […]. Ma per quello stesso imperativo, il trascendimento, intrinseco al religioso, non può non essere anche problematizzazione e negazione di questo mondo, di questo tempo, nella sua struttura. Al di qua e oltre i peccata hominum c’è il peccatum mundi: quel peccato che a nessuna fantasia etica, per quanto ispirata e creativa, a nessun impegno operativo, per quanto alto e generoso, è dato distruggere entro l’orizzonte del tempo»682.

681

Ibidem, pp. 7-8. Caracciolo è anche autore di interessanti studi sulla filosofia della religione in Italia ed in Germania: A. CARACCIOLO, Il problema dell’essenza della religione nella filosofia italiana del secondo dopoguerra, in AA. VV., La storiografia nel mondo italiano e il quello tedesco, Atti del IV Convegno internazionale di studi italo-tedeschi, Merano 1963, pp. 85-115; IDEM, La filosofia della religione in Germania negli ultimi decenni, «Cultura e scuola», 1965, pp. 137-148. 682 A. CARACCIOLO, Nulla religioso e imperativo dell’eterno. Studi di etica e di poetica, Il nuovo melangolo, Genova 2011, p. 5. Il saggio Nulla religioso e imperativo dell’eterno fu edito per la prima volta in M. BALDINI – S. ZUCAL (a cura di), Le forme del silenzio e della parola, Morcelliana, Brescia 1990, pp. 31-42.

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Lo scandalo del male presente nella storia e nella stessa natura genera nell’uomo un senso di interiore ripulsa: si anima così una dialettica che lo spinge all’affermazione di un summum bonum anche contro ogni evidenza fattuale. È qui che possiamo ben individuare il kantismo etico che caratterizza la riflessione di Caracciolo: la realtà di Dio “sommo bene” deve esistere (es soll sein) e deve fondarsi sulla coscienza morale. Secondo Caracciolo anche Kant ha sondato le possibilità negative del nichilismo ma ha poi saputo riemergere da essere grazie ad un atto di fede morale. L’imperativo categorico kantiano, il du sollst (il “tu devi”) è un “imperativo dell’eterno” che postula pervicacemente l’esistenza stessa di Dio (es soll sein): «Proprio nell’obbedire al Sollen, l’uomo avverte il valore intrinseco all’esistere, esperisce che il mondo che chiede di essere è fondamentalmente degno di essere. L’avverte proprio in ciò che sembra testimoniare il contrario. Se è vero che il Sollen impone all’uomo di trasformare il mondo secondo un principio assoluto (il sommo bene) rispetto a cui esso mondo, in quanto esperibile e dominabile, non risulta mai strutturalmente capace; se il Sollen è pertanto testimonianza di un malum mundi non redimibile per buona volontà dell’uomo, ed è pertanto testimonianza del limite dell’uomo, esso è però ancora, proprio per questo, documento di una dignità infinita dell’uomo. Lo spazio e la richiesta, anzi l’impetativo, dell’assoluto sono in lui. […] L’azione del singolo s’inscrive così in una postulazione ecclesiale e cosmica. Nell’agire morale si dischiude il Glaube [la fede], il Vernunftgalube [la fede razionale di cui parla Kant]. Il Glaube risulta qualcosa di più originario e insieme di ulteriore rispetto all’agire»683. Caracciolo sottolinea che ogni uomo, sia credente o meno, è costituviamente aperto alla trascendenza: l’esperienza inopprimibile del “male radicale” che rinviene in se stesso, nella storia e nella natura genera nuovi spazi per l’invocazione religiosa, per l’invocazione di un senso ultimo che trascenda il mondo stesso. 683

A. CARACCIOLO, Kant e il nichilismo contemporaneo, cit., p. 27. Sull’interpretazione di Kant cfr. anche IDEM, Studi Kantiani, a cura di D. Venturelli, Edizioni Scientifiche, Napoli 1995.

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Caracciolo è stato un uomo di profonda fede cristiana ma non ha mai voluto identificarsi pienamente con una determinata confessione religiosa. A suo parere «il riconoscimento di quel lumen Dei presente nel singolo come il centro della vita religiosa comporta l’impossibilità di pensare presente nel mondo - comunque, in un momento qualsiasi - la religione in forma perfetta e assoluta»684. La religione è «un lumen Dei, presente in ciascun uomo in modo più o meno intenso, comunque diversificato»685: si tratta di un lumen che si rianima sia nel dramma delle situazioni-limite che negli atti di culto vissuti in comunità. Quella di Caracciolo è un’autentica fede cristiana vissuta nell’ecclesia universalis; condividiamo pienamente il suo giudizio secondo il quale «l’ecumenismo non è un imperativo provvisorio, ma un imperativo perenne»686. 4. Il “male in Dio”: l’ermeneutica dell’esperienza religiosa in Luigi Pareyson Luigi Pareyson va certamente riconosciuto come «uno dei pensatori italiani che più hanno segnato la filosofia italiana di questi ultimi decenni»687. Il suo pensiero affronta le questioni fondamentali della storiografia e della teoresi contemporanea, giungendo all’originale elaborazione di una “ontologia della libertà” e di 684

A. CARACCIOLO, Religione ed eticità: il cristianesimo nella ricerca della religione autentica, [relazione tenuta al Quarto convegno interanzionale “Il mondo di domani”, Perugia, 3-7 maggio 1967, poi pubblicata in P. PRINI (a cura di), Il cristianesimo nella società di domani, Abete, Roma 1968], in IDEM, Religione ed eticità, Il nuovo melangolo, Genova 19992, p. 87. 685 Ibidem, p. 88. 686 A. CARACCIOLO, Figure della religione e della chiesa liberale. Introduzione, cit., p. 99. Sulla figura di Cristo cfr. Idem, Cristologia e pensiero contemporaneo, in A. CERESA GASTALDO, Istituto di Filologia classica e medioevale, Genova 1982, pp. 51-67; circa l’opinione di Caracciolo sull’insegnamento della religione cattolica nella scuola cfr. IDEM, L’insegnamento della religione, «Paradigmi», 19, 1989, pp. 181-190. 687 G. VATTIMO, Ermeneutica e secolarizzazione. A proposito di L. Pareyson, «Aut-Aut», 213, 1986, p. 17.

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un’ermeneutica dell’esperienza religiosa che diviene interpretazione della condizione umana nella globalità dei suoi aspetti. In questo paragrafo ci soffermiamo sugli elementi più significativi dell’itineario intellettuale di Pareyson per giungere così ad analizzare quello che l’autore stesso definisce come il suo “discorso temerario”: la questione del «male in Dio»688. Pareyson è nato a Piasco (Cuneo) nel 1918 ed è stato allievo di Augusto Guzzo all’Università di Torino: Guzzo ha notevolmente influito sulla formazione intellettuale del giovane, favorendo soprattutto i suoi studi sull’esistenzialismo tedesco. A tal proposito Pareyson ricorda: «Sin dal mio primo anno di università egli [Guzzo] mi mise fra mano un libro di Jaspers, per il cui pensiero provai un così vivo sentimento di congenialità, che estesi la mia attenzione all’intero movimento»689. Il titolo della sua tesi, discussa nel 1936, è La filosofia dell’esistenza e Carlo Jaspers. Di Guzzo il giovane Pareyson condivise le critiche al panlogismo idealistico ed in particolare l’attenzione data alla singolarità dell’individuo come il luogo in cui la ragione universale si concretizza e si “personalizza”. Secondo lo stesso Pareyson il suo itinerario filosofico si suddivide in tre fasi690; da esse emerge però la continuità di un pensiero il cui

688

Cfr. L. PAREYSON, Un «discorso temerario»: il male in Dio, in IDEM, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Prefazione di G. Riconda e G. Vattimo, Einaudi, Torino 1995, pp. 235-292. 689 Cfr. L. PAREYSON, Filosofia e verità (intervista), «Studi cattolici», 193, 1977, p. 171. In Esistenza e persona (prima edizione 1950; Il melangolo, Genova 1985, p. 249) egli ci dice che si trattava del volume di Jaspers Vernunft und Existenz. Cfr. anche IDEM, Commemorazione di Augusto Guzzo, «Annuario Filosofico», 3, 1987, pp. 255-266. 690 Cfr. L. PAREYSON, Dal personalismo esistenziale all’ontologia della libertà, «Giornale di Metafisica», 6, 1984, pp. 283-314; il saggio è stato riedito anche in Idem, Esistenza e persona, [Taylor, Torino 1950]; Il melangolo, Genova 1985, 20027. Sull’itinerario speculativo del filosofo italiano si vedano F. RUSSO, Esistenza e libertà. Il pensiero di Luigi Pareyson, Armando, Roma 1993; F.P. CIGLIA, Ermeneutica e libertà: l’itinerario filosofico di Luigi Pareyson, Bulzoni, Roma 1995; A. DI CHIARA, L’iniziativa: il pensiero etico di Luigi Pareyson, Il melangolo,

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tema decisivo è stato l’interpretazione della condizione umana nella molteplicità dei suoi aspetti, compresi quelli del dolore e della sofferenza. La prima fase della sua ricerca si incentra sull’esistenzialismo e il suo punto d’arrivo è rappresentato dal volume del 1950 Esistenza e persona. La seconda fase si colloca nel triennio 1950-80 ed è caratterizzata sia da un attento studio dell’idealismo tedesco (Fichte e Schelling) che dall’interesse estetico: risale al 1954 la sua Estetica, teoria della formatività. A partire dai risultati teoretici di quest’opera egli svilupperà la sua concezione ermeneutica contenuta nel volume del 1971 Verità e interpretazione; la terza fase si colloca negli ultimi dieci anni della vita di Pareyson (morto nel 1991) ed è caratterizzata dallo sviluppo di una Ontologia della libertà in cui dominano le tematiche etico-religiose. Ricordiamo che il Nostro nel 1954 ottenne la cattedra di Estetica all’Università di Torino, per poi passare a tenere quella di Filosofia teoretica, al cui insegnamento affiancò per alcuni anni i corsi di filosofia morale. Egli ha avuto numerosi allievi che hanno proseguito le sue ricerche filosofiche, accentuando differenti aspetti e spesso allontanandosi notevolmente dal maestro (come è il caso di Gianni Vattimo e di Umberto Eco). Tra gli appartenenti alla “scuola torinese” raccolta intorno a Pareyson possiamo menzionare, tra gli altri, Valerio Verra, Giuseppe Riconda, Ugo Perone, Claudio Ciancio e Sergio Givone. Prendiamo ora in esame gli aspetti fondamentali delle tre fasi che scandiscono la ricerca di Pareyson: proprio per i princiìpi teoretici da cui è animata, tale ricerca non pretende mai di avere un carattere conclusivo e rimane aperta ad una concezione della verità come “inesauribilità infinita”. Come abbiamo già accennato, la formazione di Pareyson avviene nel clima dello “spiritualismo cristiano” del secondo dopoguerra. Egli si interessa dell’esistenzialismo interpretandolo come una variante delle “filosofie dello spirito”, una variante meno evanescente e più attenta alla dimensione concreta della persona, che è “corporeità” e “partecipazione all’essere”: «La filosofia Genova 1999; F. TOMATIS, Pareyson. Vita, filosofia, bibliografia, Morcelliana, Brescia 2003.

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dell’esistenza» - egli afferma - «quale appare dagli esistenzialisti tedeschi, francesi e russi, si inquadra nelle correnti filosofiche più nuove [siamo nel 1940], poiché muove dalle due esigenze fondamentali che si possono scorgere in gran parte della filosofia contemporanea: l’interesse religioso e l’assunto personalistico. Pare dunque che l’esistenzialismo sia una forma dello spiritualismo contemporaneo»691. Successivamente Pareyson ha preso le distanze da tale sua giovanile interpretazione storiografica; nelle sue Rettifiche sull’esistenzialismo leggiamo: «oggi mi risulta più che mai chiaro che esistenzialismo e spiritualismo non hanno mai nulla a che fare l’uno con l’altro»692. Nonostante la diversità delle varie forme di spiritualismo, ciò che le accomuna sono «l’istintivo eclettismo, il fondamentale intimismo e il tendenziale ottimismo: tre aspetti che non si accordano per nulla con l’esistenzialismo che, omogeneo com’è, non ha nulla di sincretistico […] e che per la dimensione ontologica che lo qualifica non ha niente di intimistico […] e che attento com’è alla tragicità della condizione umana e alla radicalità del male, non può venir a patti con alcuna forma di ottimismo, sia per il suo senso dell’irreducibile realtà del male, sia per il rischio permanente risultante dall’inoggettivabilità dell’essere»693. Sulla base dei suoi studi sull’esistenzialismo Pareyson giudica la temperie speculativa del Novecento come una graduale “dissoluzione ed oltrepassamento dell’hegelismo” e di ogni forma di pensiero razionalistico incline ad una “facile” teodicea. L’analisi jaspersiana delle situazioni-limite, l’analitica esistenziale di Heidegger e la “metodologia dell’inverificabile” di Marcel gli hanno mostrato che l’esistenza umana sfugge ad ogni disegno razionalistico di 691

L. PAREYSON, L’esistenzialismo soddisfa l’esigenza spiritualistica?, (il testo è un riassunto della conferenza tenuta dal Nostro ad un convegno promosso dall’Istituto di Studi Filosofici a Firenze, dal 21 al 25 ottobre 1940), Atti del XIV Congresso Nazionale di Filosofia, Bocca Editori, Milano 1941, p. 494. 692 L. PAREYSON, Rettifiche sull’esistenzialismo, in AA.VV., Studi di filosofia in onore di Gustavo Bontadini, Vita e Pensiero, Milano 1975, pp. 228-247, p. 232. 693 Ibidem.

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comprensione esaustiva. Anche negli anni Settanta egli ribadisce che «l’esistenzialismo è pur sempre la corrente più importante del pensiero contemporaneo; più precisamente la vera e propria “filosofia dell’esistenza”, quella di Heidegger, Jaspers e Gabriel Marcel che si rifà alla problematica della dissoluzione dell’hegelismo»694; a suo parere «rispetto al marxismo, l’esistenzialismo nettamente inteso è, al tempo stesso, la miglior chiave di interpretazione e l’alternativa più sicura; oltre che presentare un’assai maggiore apertura sia storica che teorica. Storicamente, di fronte al puro umanesimo e storicismo, esso non solo ha rinnovato con grande efficacia l’alternativa kierkegaardiana, ma è in grado di rinnovarne molte altre, portando alla rinascita e alla riscoperta di grandi filosofie del secolo scorso, come ad esempio il pensiero dell’ultimo Schelling e, in generale, tutto il romanticismo, la cui interpretazione è tutta da riscrivere»695. Occupandosi della variegata temperie filosofica dell’esistenzialismo Pareyson scopre anche il valore fondamentale di Kierkegaard e del teologo luterano Karl Barth, fautore della stessa Kierkegaard-Renaissance del primo Novecento. Se da Barth, come vedremo anche in seguito, Pareyson riprese la sua forte critica al “Dio della metafisica”, dal pensatore danese egli riprese alcuni fondamentali elementi: le sue critiche al sistema hegeliano, la natura soggettiva e personale della verità e la sua ermeneutica del cristianesimo: la lettura delle opere di Kierkegaard - ci testimonia Pareyson - «fu una profonda, sconvolgente, personalissima esperienza, come mi pareva ch’egli dovesse e volesse esser letto, e per di più egli, come scrittore essenzialmente religioso, presentava un’attualissima forma di cristianesimo»696. 694

L. PAREYSON in V. VERRA (a cura di), La filosofia dal ʼ45 ad oggi, ERI, Torino 1976, p. 496. 695 Ibidem. 696 L. PAREYSON, Esistenza e persona, cit., p. 248. Sul pensiero del teologo luterano Pareyson scrisse nel 1939 un saggio (L’esistenzialismo di Karl Barth) poi raccolto nel suo volume Studi sull’esistenzialismo (Sansoni, Firenze 1943; 19712), assieme alla conferenza del 1942 intitolata La dialettica della crisi in Karl Barth.

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Pareyson ha declinato la sua “filosofia della persona” in senso ontologico, giungendo ad elaborare una forma di “personalismo ontologico”. Nella persona umana egli ha scorto un rapporto fondamentale tra tra l’essere finito e l’essere infinito, tra «l’essere che siamo noi stessi» e «l’Essere in sé» che è Dio. La genesi insondabile dell’essere è nella trascendenza divina: è questo il motivo decisivo da cui nasce “l’ontologia dell’inesauribile” esposta dal Nostro in Verità e interpretazione. In opposizione ad ogni “scienza dell’essere” (elaborata, ad esempio, dai tomisti) egli rivendica il carattere inoggetivabile e sempre trascendente dell’essere: «Per la sua inoggettivabilità l’essere è inafferrabile come essere, e ogni tentativo di coglierlo e definirlo non ha altro esito che il suo arretramento. Questo fa sì che l’essere retroceda d continuo, e si dia solo sottraendosi, presente solo come ulteriore, e potente solo come nascosto, non come in una notte mistica, ove domina l’indistizione, ma come nell’inoggettivabilità, ove il discorso continua anche se cambia segno»697. Dell’essere, quindi, non si può dare alcuna definizione definitiva, ma sono possibili sono interpretazioni. Nella seconda fase delle sue ricerche Pareyson sottolinea che l’ontologia richiesa dal personalismo ha un carattere essenzialmente ermeneutico. A suo giudizio «il principio fondamentale» è «che della verità non c’è che interpretazione e che non c’è interpretazione che della verità»698. La tesi centrale della sua “ontologia dell’inesauribile” è che la verità a parte hominis si dia solo come interpretazione e che tale interpretazione è formulabile solo all’interno di una formulazione personale: «questo non significa però che la verità sfugge alle forme in cui la cogliamo, ma solo che non tutta la verità ci è data in esse: quel che incontriamo nell’interpretazione è una verità autetica, ma non definitiva, una verità sempre ulteriore, e tuttavia totalmente presente. È questo che Pareyson chiama “ontologia dell’inesauribile”, e contrappone al “misticismo dell’ineffabile”. Verità personale e ulteriorità della verità sono congiuntamente 697

L. PAREYSON, Dal personalismo esistenziale all’ontologia della libertà, cit., p. 295. 698 Ibidem, p. 298.

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possibili perché la persona è di fatto un’entità costitutivamente attraversata dall’essere (dall’assoluto, dal divino), e insieme costituita dal riferimento a sé»699. L’affermazione che la verità sia interpretazione personale non porta, quindi, il discorso ad una deriva scettica o relativistica, come invece accade in Gianni Vattimo: Pareyson ammette l’esistenza della verità nella sua assolutezza ma, allo stesso tempo, sostiene che la verità in sé rimane per l’uomo un quid di inoggettivabile e di inesauribile. Alla verità ci si può solo approcciare tramite interpretazione: il nostro rapporto con la verità dell’essere ha, di conseguenza, un carattere ermeneutico700. Va però notato che Pareyson quando parla della verità utilizza poco il termine di “ermeneutica” e preferisce quello di “interpretazione”, come emerge dal titolo stesso dell’opera del 1971 (Verità e interpretazione): egli vuole infatti prendere le distanze da come l’ermeneutica di Gadamer e più in generale dell’heideggerismo intende il rapporto con la verità. A tal proposito Franca D’Agostini ha osservato giustamente: «Il fatto che sullo sfondo della teoria pareysoniana dell’interpretazione si ponga l’ontologia della persona va considerato con attenzione, perché è proprio su questo punto che si colloca la divergenza di Pareyson dall’ontologia ermeneutica di Gadamer e dall’heideggerismo. Così come non approvava l’oblio heideggeriano della concretezza esistentiva (dell’uomo come vivente, carnale, psichicamente determinato), così Pareyson non condivide la deresponsabilizzazione dell’io nel processo interpretativo che si fa avanti in Gadamer, nella visione del soggetto sedotto e giocato dall’essere. Non è vero secondo Pareyson che la cosa, la verità, l’opera, “prendono” l’uomo e che l’uomo è “giocato” dalla verità o parlato dal linguaggio; piuttosto la verità, il testo, la cosa, l’opera sono “appelli”, ai quali l’uomo può liberamente

699

F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Prefazione di G. Vattimo, RaffaelloCortina, Milano 1997, p. 319. 700 Sul tema della verità nel filosofo italiano cfr. M.R. SCARCELLA, La decisione per la verità nella filosofia dell’interpretazione di Luigi Pareyson, «Idee. Rivista di Filosofia», XVII, 50/51, pp. 213-226.

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rispondere o non rispondere»701. La proposta ermeneutica di Pareyson ha un carattere personalistico e si radica nella tradizione umanistica tipicamente italiana dell’homo faber. Notiamo, inoltre, che negli anni Cinquanta Pareyson è giunto alla sua “filosofia dell’interpretazione” in maniera del tutto autonoma rispetto alle elaborazioni ermeneutiche di H.-G. Gadamer e di P. Ricoeur. È partendo dalle riflessioni sul valore dell’intepretazione in relazione alle opere d’arte che egli è arrivato ad “universalizzare” il metodo ermeneutico; l’essere e l’esistenza umana sono oggetto di possibili infinite interpretazioni - mai definitive e che non coglieranno mai in toto la pienezza di senso -, così come lo sono le produzioni artistiche. «La validità del concetto di interpretazione» egli scrive - «consegue nel campo estetico una conferma della validità ch’esso possiede in tutti i campi dell’attività dell’uomo e in ogni relazione umana»702. Negli anni Ottanta il Nostro approfondisce il rapporto tra la sfera dell’essere e quella della libertà, giungendo alla formulazione di quella che egli definisce come una “ontologia della libertà”. Tale approfondimento viene svolto sulla base dello studio di Kierkegaard ma anche e soprattutto di J.G. Fichte e dell’ultimo Schelling, il quale precede l’Hegel e, allo stesso tempo, lo supera703. Sulla scorta dell’idealismo trascendentale tedesco Pareyson compie una profonda indagine di carattere genetico e si pone nuovamente la questione del fondamento del reale: «È ora di passare più rigorosamente e austeramente a approfondire il fondamento, cioè a indagare 701

F. D’AGOSTINI, Analitici e continentali. Guida alla filosofia degli ultimi trent’anni, Prefazione di G. Vattimo, RaffaelloCortina, Milano 1997, p. 319. 702 L. PAREYSON, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971, p. 219. 703 Cfr. L. PAREYSON, Fichte. Il sistema della libertà, Edizioni di «Filosofia», Torino 1950; a cura di C. Ciancio, Mursia, Milano 20113; L. PAREYSON (a cura di), Schelling. Presentazione e antologia, Marietti, Torino 1975; L. PAREYSON (a cura di), Schellingiana rariora, Bottega d’Erasmo, Torino 1977; IDEM, Lo stupore della ragione in Schelling, in AA. VV., Romanticismo, esistenzialismo, ontologia della libertà, Mursia, Milano 1979, pp. 45-90.

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l’insondabile profondità e la scoscesa altezza di quello ch’è a parer mio, oggi, il tema esistenzialistico più fondamentale e genuino, o, se si vuole, l’eredità dell’esistenzialismo alla meditazione odierna: l’inseparabilità di essere e libertà»704. Con una profonda intuizione speculativa egli, parlando del fondamento, afferma la precedenza della libertà sull’essere: in Dio la libertà prece l’essere e lo fonda. L’essenza stessa di Dio è libertà creatrice: la libertà è l’originario, è l’inizio stesso dell’esistenza. In maniera simile al principio di Goethe «Im Anfang war die Tat (In principio era l’azione»705, Pareyson sostiene che “In principio era la libertà”. Ecco le sue parole, ricche di risonanze teologiche ed idealistiche: «La libertà è inizio primo, puro esordio, assoluto cominciamento. Si origina da sé: inzio della libertà è la libertà stessa. Essa non prosegue niente che la preceda, e nulla di ciò che la precede ne spiega l’avvento. È irruzione pura, repentina come un’esplosione, un lampo, il bagliore di un fulmine […]. È a questo carattere improvviso che si allude quando si parla del “nulla della libertà”. Dire che la libertà comincia da sé è la stessa cosa che dire ch’essa comincia dal nulla. L’istantaneità dell’inizio non si può pensare se non come uscita da un non essere. Ma l’espressione “il nulla della libertà” è significativa, perché pone la libertà in rapporto con una negatività proprio nell’atto e nel momento in cui essa si afferma»706. Questa prospettiva di Pareyson sulla libertà di Dio nasce dall’ermeneutica dell’esperienza cristiana e diviene l’affermazione problematica di una fondamentale “ambiguità” di tale originaria libertà: se Dio nella sua essenza è libertà e summum bonum – si chiede il Nostro – perché permette il male? Si Deus est unde malum? A questo punto il discorso di Pareyson assume i tratti di un “discorso temerario” che affronta il vincolo originario tra il problema del male e il problema di Dio. In opposizione a qualsiasi forma razionalistica di teodicea che finisce per negare come transeunte la presenza del 704

L. PAREYSON, Esistenza e persona, cit., p. 266. J.W. VON GOETHE, Faust I, verso 1237. 706 L. PAREYSON, Filosofia della libertà, [lezione di congedo tenuta all’Università di Torino il 27 ottobre 1988], in IDEM, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, cit., pp. 462-478, p. 470. 705

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male, o comunque la risolve in forma dialettica come fanno Hegel e Croce, egli afferma: «La presenza del negativo e l’esistenza di Dio non solo non sono incompatibili, ma anzi si richiamano a vicenda, né l’una è pensabile senza l’altra. Non c’è indizio più sicuro della divinità che la realtà stessa del male, e l’esperienza del male è il miglior accesso a Dio. Il male è impensabile senza Dio, ch’è il termine della trasgressione in cui esso consiste e il principio della redenzione di cui esso necessita. E inversamente quale incontro meno impervio e più accostevole a Dio che quello aperto dall’esperienza del negativo? Non è difficile riconoscere che se non ci fosse Dio il male non ci sarebbe, e che la stessa esistenza del male attesta la presenza di un Dio offeso e irato e di un Dio sofferente e redentore. E si può aggiungere che proprio in questa inseparabilità dell’esistenza di Dio e dell’esperienza del negativo consiste quello che si può chiamare il pensiero tragico»707. Quella di Dio è quindi una “libertà tragica”: è una libertà che consente il dolore e la sofferenza dell’uomo e del cosmo per riscattarli con un atto d’amore totale e gratuito. In particolare è il cristianesimo a presentarci un’immagine di Dio che è “tenerezza e sofferenza”: si tratta di un Dio incarnato nella condizione umana e che redime con la croce la sofferenze della stirpe di Adamo. La presenza del male nel mondo rimane certamente un enigma, ma essa, allo stesso tempo, è una possibile via che apre lo spazio all’invocazione religiosa. Il cristianesimo, sottolinea Pareyson, è religio universalis in grado di parlare ad ogni uomo poiché “rende conto” dello scandalo della sofferenza e soprattutto della “sofferenza degli innocenti”: Cristo stesso è la cifra dell’homo patiens che prende su di sè i dolori dell’umanità tutta portandola alla salvezza eterna. Con Pascal il Nostro afferma che «attraverso Cristo si conosce non solo Dio, bensì anche noi stessi e la nostra miseria».708 Ecco perché, secondo Pareyson, l’ermeneutica della fede cristiana ha un valore universale: essa ci rivela la condizione umana nella sua misera e nella sua grandezza. 707

L. PAREYSON, La filosofia e il problema del male, in IDEM, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, cit., pp. 151-234, p. 227. 708 Ibidem, p. 233.

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Ad una forma di “teologia naturale” accettabile dalla pura ragione Pareyson sostituisce una «cristologia per così dire laica, la quale come pensiero tragico sia in grado di coinvolgere tutti, credenti e non credenti», perché «unica ha da essere l’esperienza di Dio e della negatività, sia quella della sofferenza del redentore, sia quella del male della nostra umana miseria»709. Pareyson è radicale nel sostenere che «il dolore è il luogo della solidarietà fra Dio e l’uomo: solo nella sofferenza Dio e l’uomo possono congiungere i loro sforzi. È estremamente tragico che solo nel dolore Dio riesca a soccorrere l’uomo e l’uomo giunga e redimersi ed elevarsi a Dio. […] Questo principio è uno dei capisaldi del pensiero tragico: che fra l’uomo e Dio non ci sia collaborazione nella grazia se prima non c’è stata nella sofferenza; che senza il dolore il mondo appaia enigmatico e la vita assurda; che senza la sofferenza il male rimanga irredento e la gioia inaccessibile»710. Con il suo “discorso temerario” Pareyson cerca di “pensare Dio” all’indomani delle tragiche esperienze di Auschwitz e di Hiroshima, dopo le quali diviene impossibile sostenere ogni teodicea di carattere razionalistico. Solo nell’ottica del Dio cristiano il male acquista la sua tragica negatività e diviene una via stessa che condure l’uomo ad una possibile salvezza: il cristianesimo, infatti, è fondato sul “mistero della croce” ed con tale mistero che Dio accompagna l’uomo sulla terra. Il cristianesimo sostenuto da Pareyson «non è facile e comodo, come potrebbe esserlo quello abitudinario e tradizionale di chi si è conciliato con una totalità, o quello sentimentale e consolatorio delle anime belle, o quello eclettico e agevole dello spiritualismo»: si tratta di una fede lucida, disincantata e drammatica, che prende in seria considerazione i motivi del nichilismo e dell’ateismo. Quello di Pareyson è un “discorso scomodo e temerario” che finisce con

709

Ibidem. L. PAREYSON, Filosofia della libertà, cit., p. 478. Sul tema della sofferenza nell’autore italiano cfr. P. SGRECCIA, Il pensiero di Luigi Pareyson: una filosofia della libertà e della sofferenza, Vita e Pensiero, Milano 2006. 710

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l’affermare che «solo se Dio c’è, c’è il male, e di per sé il male indica Dio»711. Nelle sue riflessioni su questo tema così arduo Pareyson si fa accompagnare da Dostoevskij, nei cui romanzi filosofici sonda le profondità abissali del male ed affronta senza veli lo scandalo della sofferenza degli innocenti. In Dostoevskij egli scorge un modello di cristianesimo che passa attraverso “il crogiolo del dubbio” e che contempla in sé la possibilità del nichilismo: è solo questo tipo di cristianesimo che può parlare ancora all’uomo di oggi. Per Pareyson il romanziere russo «ha gettato sul male uno sguardo profondissimo e radicale, cui pochi altri possono stare alla pari. Il male non è per lui soltanto la fragilità e la debolezza dell’uomo, o l’incapacità umana di persistere nel bene, oppure la semplice ingoranza dal bene. Il male è l’instaurazione positiva di una realtà negativa, l’effetto di una deliberata volontà di male, la presenza di una forza demoniaca nel mondo umano»712. La grandezza di Dio e la sua sovrumana misericordia sta nel rendere l’uomo libero: Egli si apparta per rendere l’uomo responsabile delle sue scelte ed invia il Figlio per redimere con la croce le sue sofferenze. Tuttavia Pareyson sottolinea che «Dio non è per Dostoevskij l’oggetto di un affermazione che si possa accettare senza problemi, che assicuri a chi l’enuncia una pace definitiva e una stabile sicurezza»713. Dio - scrive il filosofo italiano interpretando il pensiero profondo di Dostoevskij - «attende l’uomo all’angolo della via, pronto a colpirlo nell’istante più inaspettato, ed è certo più vicino a chi dispera per averlo negato che a chi crede di possederlo per averlo sempre affermato»714. 711

Ibidem, p. 227. M. IVALDO, La libertà e Dio. Pareyson, Dostoevskij e il «crogiolo del dubbio», «Il Regno. Quindicinale di attualità e documenti», LVI, 1099, aprile 2011, pp. 243-248, p. 245. 713 Ibidem, p. 247. 714 L. PAREYSON, L’esperienza della libertà in Dostoevskij, «Filosofia», XXIX, gennaio 1978, pp. 1-16, p. 14. Tutti gli scritti del Nostro sul romanziere russo sono stati raccolti e pubblicati postumi: cfr. L. PAREYSON, Dostoevskij. Filosofia, romanzo ed esperienza religiosa, a cura di G. Riconda e G. Vattimo, Einaudi, Torino 1993. 712

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Da quanto detto si è compreso che il Dio di cui parla Pareyson non è il “Dio della metafisica” ma il “Dio dell’esperienza religiosa”, in grado di parlare ad ogni uomo, sia a chi lo prega che a chi lo nega. Secondo Pareyson «il problema dell’esperienza religiosa non è il problema metafisico di Dio, come invece suppone chi ancora si chiede se Dio debba o non debba concepirsi come sostanza o causa o come altro che sia. Questo è, se mai, il «Dio dei filosofi», al quale potrà essere - o meglio, essere stata - interessata la filosofia, ma che non riguarda certo la religione. Il Dio della religione è altra cosa: è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio vivente e vivificante, è un Dio al quale si dà del tu e che si prega, un Dio a cui si dice con trepidazione miserere mei e con disperazione ne sileas, a cui ci si rivolge domandando angosciati quare me repulisti? E supplicando con timore e tremore ne averte facies tuam a me, a cui nell’ora suprema ci si affida esclamando in manus tuas commendo spiritum meum e implorando in te, Domine, speravi: non confundar in aeternum»715. Pareyson rivolge, quindi, una severa critica alla scolastica e a tutte le metafisiche razionalisiche che cercano di dimostrare Dio; egli sottolinea giustamente: «É la sofferenza che mette in crisi ogni metafisica oggettivante e dimostrativa, ogni sistema sollecito soltanto d’una totalità armonica e conclusiva, ogni filosofia dell’essere unicamente preoccupata del fondamento»716. Chiudiamo queste pagine dedicate al filosofo italiano richiamando la fondamentale “opzione di fondo” che a suo parere definisce la nostra libertà ed è decisiva per l’orientamento stesso della nostra intera esistenza: «L’uomo è dunque posto di fronte ad un’opzione originaria e radicale: o l’essere o il nulla, o il pieno o il vuoto, o presenza o assenza, o salvezza o perdizione. In questa opzione non si tratta di riconoscere l’essere o non riconoscerlo, ma di essere o non essere: infatti […] il mio riconoscimento dell’essere non 715

L. PAREYSON, L’esperienza religiosa e la filosofia, in IDEM, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, cit., pp. 85-149, p. 85. 716 L. PAREYSON, Filosofia della libertà, cit., p. 478. A tal propostio cfr. anche IDEM, Se muore il Dio della filosofia (intervista a cura di C. Sbailò), «Il Sabato», anno XII, 34, 1989, pp. 58-63.

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è teorico, ma pratico, anzi metafisico, perché quando si tratta dell’essere, si tratta anche, e anzitutto, del mio essere. Alla radice della mia esistenza e della mia libertà sat dunque un’alternativa originaria in cui devo scegliere, ed è questa alternativa che decide del valore della mia vita e dà norma al mio operare»717. 5. L’«età ermeneutica della ragione»: interpretazioni italiane di H.-G. Gadamer e di P. Ricoeur Nel 1960 Hans Georg-Gadamer pubblica la sua opera principale dal titolo Verità e metodo. Lineamenti di un’ermeneutica filosofica: nel 1983 Gianni Vattimo cura la prima edizione italiana di quest’opera fondamentale718. Da allora l’ermeneutica - quale filosofia dell’interpretare e del comprendere (Verstehen) - si è ampiamente diffusa anche nella cultura italiana, divenendo una sorta di nuova koiné speculativa, soprattuto dopo il graduale affievolirsi delle stagioni dell’esistenzialismo e dello strutturalismo. Negli ultimi decenni del Novecento la filosofia italiana ed europea è stata quindi caratterizzata, in larga misura, da una concezione ermeneutica della ragione: è stato il francese Jean Greisch a parlare espressamente di un’«età ermeneutica della ragione»719 nella quale la verità viene spesso risolta e persino dissolta nel duttile gioco delle interpretazioni. 717

L. PAREYSON, Libertà e peccato nell’esistenzialismo, in IDEM, Esistenzialismo e Cristianesimo (Lezioni tenute al VI Convegno giovanile di Assisi), Pro Civitate Christiana, Assisi 1952, pp. 67-88, p. 87. 718 Cfr. H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode: Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, Mohr, Tübingen 1960; [la prima traduzione italiana – a cura di G. Vattimo - fu edita nel 1983], Verità e metodo, tr. it. di G. Vattimo e Introduzione di G. Reale, Bompiani, Milano 2000. 719 Cfr. anche J. GREISCH, L’Âge herméneutique de la raison, Cerf, Paris 1985. Cfr. anche F. BIANCO, L’ermeneutica in Italia dal 1945 ad oggi, in AA. VV., Filosofia italiana e filosofie straniere nel dopoguerra, Il Mulino, Bologna 1991, pp. 253-281. Due significative storie del pensiero ermeneutico scritte da autori italiani sono quelle di M. FERRARIS, Storia dell’ermeneutica, Bompiani, Milano 1988; F. BIANCO, Introduzione all’ermeneutica, Laterza, Roma-Bari 1998, 20074.

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È un’età nella quale si prende congedo da una nozione fondante di verità e dalle grandi costruzioni di senso univoche e totalizzanti, come ad esempio la dialettica hegelo-marxista. La principale affermazione speculativa che caratterizza Verità e metodo riguarda il nuovo rapporto istituito tra l’essere e il linguaggio. Secondo Gadamer «l’essere che può venir compreso è linguaggio (Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache)»720. Ciò significa che la compresione umana dell’essere passa sempre attraverso la necessaria mediazione del linguaggio ed è perciò una comprensione dal carattere storico ed ermeneutico. Tuttavia va ribadito che Gadamer non risolve completamente l’essere nel linguaggio; egli sottolinea piuttosto i limiti (le kantiane Grenzen) della nostra comprensione dell’essere: v’è un essere che è “al di là” ed è infinitamente ulteriore rispetto alle limitate condizioni umane del Verstehen linguistico. La posizione speculativa di Gadamer non comporta di per sè nè un assoluto “panlinguismo”, né un relativismo storicistico, né tantomeno il nichilismo. Tra le molte e differenti interpretazioni italiane del pensiero di Gadamer, tali elementi sono stati ben messi in rilievo da Giovanni Moretto e da Gaspare Mura: essi hanno correttamente sottolineato la fondamentale ispirazione platonico-agostiniana che anima l’ermeneutica gadameriana. Per il filosofo tedesco la nozione di verità ha i tratti di quella delineata nel Menone platonico: non ci sarebbe possibile cercare la verità se, come lo schiavo Menone, non ne avessimo in qualche modo una implicita conoscenza. La verità, quindi, emerge nel dialogo ma, allo stesso tempo, lo precede e lo fonda721. A parte hominis la verità rimane sempre un quid di inesauribile, di infinito e di trascendente. A tal 720

Ibidem, p. 964. Sulle differenti possibili interpretazioni di quest’affermazione gadameriana si veda D. DI CESARE (a cura di), L’essere, che può essere compreso, è linguaggio: omaggio a Hans-Georg Gadamer, Il Melangolo, Genova 2001. 721 Cfr. H.-G. GADAMER, Studi platonici, I e II, a cura di G. Moretto, Marietti, Genova 1983; cfr. anche G. MORETTO, La dimensione religiosa in Gadamer, Queriniana, Brescia 1997; G. REALE, La presenza di Platone in «Verità e Metodo» di Hans-Georg Gadamer, Introduzione a H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., pp. VI-XXIV.

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proposito Gaspare Mura ha fatto emergere l’importanza di una conversazione che ebbe nel 1986 con lo stesso Gadamer ad un convegno sul tema “Pensiero rosminiano e cultura contemporanea”. Rammemorando gli argomenti più importanti di tale dialogo Gaspare Mura afferma: «[…] Mi sentii incoraggiato a porre la domanda che finora avevo cercato di mascherare: quale il rapporto tra ermeneutica e verità? Gadamer mi sorprese ancora una volta con una dichiarazione inattesa: “io sono un platonico agostiniano”. E commentò questa affermazione chiarendo che poiché la verità è in noi ma anche al di sopra di noi, è la sua presenza a spingerci a ricercarla sempre di più, a suscitare la tensione ermeneutica a dialogare con tutti i cercatori della verità, ad ascendere in modo dialettico-ermeneutico verso il suo orizzonte infinito, perché, come scrive Agostino, “fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te” (Conf. I, 1). Gadamer, forse perché ci trovavamo in un clima “rosminiano”, insieme all’interpretazione della sua ermeneutica mi stava confidando la sua fede cristiana. Ho potuto allora comprendere molte affermazioni contenute in Verietà e metodo, altrimenti dimenticate o fraintese, ma che erano al centro del pensiero gadameriano e davano senso illuminativo a tutte le altre tesi. Al di là della controversa nozione gadameriana di Wirkungsgeschichtliches Bewusstsein (ovvero “coscienza della determinazione storica”, interpretata sovente nel senso del relativismo storico, è soprattutto la concezione gadameriana del linguaggio ad impedire un esito relativista all’ermeneutica gadameriana»722. Mura sostiene quindi che l’identità gadameriana di 722

G. MURA, Ermeneutica e verità in Hans-Georg Gadamer. Incontro con un maestro, «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», 21/1, 2012, pp. 163-170, pp. 168-169. Gaspare Mura ha anche messo in rilievo la complementarietà tra l’ermeneutica filosofica di Gadamer e l’ermeneutica metodologica del giurista Emilio Betti (1890-1968): a suo parere «le figure magistrali di Betti e di Gadamer escludono ogni parzialità e unilateralità nella ricerca del vero» (G. MURA, Saggio introduttivo: la “teoria ermeneutica” di Emilio Betti in E. BETTI, L’ermeneutica come metodica generale delle scienze dello spirito, a cura di G. Mura, Città Nuova, Roma 19902, p. 40). Il contributo del pensiero cristiano all’ermeneutica viene,

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essere e linguaggio ha il suo paradigma nel mistero cristiano della Trinità, così come è stato anche investigato da Sant’Agostino: la vox humana trova la sua origine nella trascendenza del Verbum divino (Verbum in sinu Trinitatis), il quale è Parola creatrice. È Gadamer stesso ad aver messo in luce tali ascendenze agostiniane dell’ermeneutica filosofica nella terza parte di Verità e metodo: commentando il De Trinitate di Agostino egli afferma che «la parola interna è lo specchio è l’immagine della parola divina (So ist dieses innere Wort der Spiegel und das Bild des göttlichen Wortes)»723. Tuttavia la ricezione italiana dell’ermeneutica non passa escusivamente attraverso Gadamer. In precedenza abbiamo ricordato il contribito di Luigi Pareyson ad una “filosofia dell’interpretazione” di carattere personalistico; ora mettiamo in evidenza le notevoli adesioni che in Italia ha suscitato il modello di “ermeneutica personalistica” proposto dal francese Paul Ricoeur: autori di rilevanti studi ricoeuriani e fautori essi stessi di una prospettiva ermeneutica sono stati, tra gli altri, Armando Rigobello, Domenico Jervolino, Francesca Brezzi e Daniella Iannotta724. Ricoeur propone un’ermeneutica dell’homo capax; partendo dal confronto critico con la filosofia riflessiva di Gabriel Marcel, con la fenomenologia di invece, ampiamente fatto emergere da Mura nell’ampio volume Ermeneutica e verità. Storia e problemi della filosofia dell’interpretazione, Città Nuova, Roma 1990. 723 H.-G. GADAMER, Verità e metodo, cit., p. 857. Sulle risonanze agostiane della posizione di Gadamer sul linguaggio cfr. G. RIPANTI, Essere e linguaggio: una lettura della terza parte di Verità e metodo di H.G. Gadamer, Quattro Venti, Urbino 2001. 724 Cfr. F. BREZZI, Filosofia e interpretazione: saggio sull’ermeneutica restauratrice di Paul Ricoeur, Il Mulino, Bologna 1969; A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Armando, Roma 1977, in particolare, p. 87 sg.; IDEM, L’apriori ermeneutico. Domanda di senso e condizione umana, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007; D. JERVOLINO, Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur, Prefazione di P. Ricoeur, Presentazione di Th.F. Geraets, Procaccini, Napoli 1984; D. IANNOTTA (a cura di), Paul Ricoeur in dialogo: etica, giustizia, convinzione, Effatà, Cantalupa 2008. Iannotta ha inoltre tradotto in italiano molte opere di Ricoeur.

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Husserl e con la psicoanalisi di Freud, egli cerca di far emergere “quel fondo d’essere” della persona sul quale si stagliano le sue capacità creative: gli atti linguistici, il poter narrarare, il poter imputare a sé stessi le proprie azioni, il poter promettere. Ricoeur propone così un’ermeneutica che giunge alle soglie di un’ontologia della persona: la possibilità dell’esistenza di un “fondo d’essere sul quale si staglia l’agire umano in tutte le sue espressioni” è sempre affermata tramite un atto d’attestazione soggettiva e di testimonianza interiore, giammai per mezzo di una rigorosa dimostrazione logica epistemologicamente fondante. L’indagine ricoeuriana è mossa dal “desiderio” di un’ontologia del soggetto ma è lontana dall’affermazione di qualsiasi risultato speculativo ultimo e definitivo. Possiamo dire che quello di Ricoeur rimanga un “pensiero incompiuto”; esso non ha come esito la fondazione della nozione di persona umana su di una dottrina come quella tomista del suppositum, ma rimane aperto ad itinerari di ricerca nei quali l’ontologia è la “terra promessa”: «come Mosé, il soggetto che parla e riflette può soltanto scorgerla prima di morire»725. Come Ricoeur sottolinea nell’ultimo studio di Sé come un altro, riflettendo su se stesso l’uomo scopre un “tripode dell’alterità”, cioè tre dimensioni in cui avvertiamo originariamente la presenza di un’alterità: il proprio corpo, l’alterità dell’altro e l’alterità di Dio. Tuttavia quando il discorso filosofico giunge a questo terzo tipo di alterità - la trascendenza divina - è costretto inevitabilemente ad arrestarsi per lasciare spazio alla meditazione di carattere religioso726. 725

P. RICOEUR, Existence et herméneutique, in IDEM, Le conflit des interprétations, Essais d’herméneutique, Seuil, Paris 1969; tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Prefazione di A. Rigobello, Esistenza e ermeneutica, in Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, 19993, pp. 17-37, p. 37. Ci permettiamo di rinviare anche al nostro saggio Paul Ricoeur. Ermeneutica dell’homo capax e ricerca di un’ontologia del soggetto, in T. VALENTINI (a cura di), Soggetto e persona nel pensiero francese del Novecento, Presentazione di A. Rigobello, Editori Riuniti University Press, Roma 2011, pp. 173-202. 726 Cfr. P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 19992

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Rigobello e Brezzi hanno particolarmente messo in rilievo due elementi fondamentali della proposta filosofica ricoauriana: la sua antropologia dal carattere non riduzionistico e il suo approccio ermeneutico alla fede cristiana. A parere di Ricoeur non vi può essere un’interpretazione univoca della codizione umana: quando si cerca di comprendere la natura umana non si può che generare un “conflitto delle interpretazioni”. La psicoanalisi freudiana, secondo il filosofo francese, non è che un’”archeologia del soggetto”, tendente ad interpretare l’uomo quasi esclusivamente in base ai traumi dell’infanzia e alle connesse pulsioni di éros e thánatos727. La psicoanalisi quale “archeologia del soggetto” non spiega, dunque, tutto l’uomo: per questo sono necessari una “teleologia del soggetto” ed anche una “escatologia del soggetto”. L’uomo può essere interpretato in base alle sue capacità di scegliere liberamente un ordine di beni (l’agire teleologico, cioè in vista di un fine) e persino in base alle sue capacità di orientare il senso dell’esistenza verso un éschaton, una dimensione ultraterrena e religiosa. Le tre dimensioni antropologiche (archeologia, teleologia ed escatologia) sono compresenti e rivelano la complessità dell’uomo. Francesca Brezzi ed altri autori hanno ampiamente valorizzato anche l’ermeneutica ricoeuriana della fede cristiana. Ricoeur è calvinista e pone una rigorosa demarcazione tra discorso filosofico e fede religiosa. Egli è, quindi, un raffinato interprete delle Sacre Scritture: da esse fa emergere quella che definisce una “simbolica del male”. La fede ebraico-cristiana si nutre di simboli che “danno a pensare” e che possono essere visti come interpretazioni della condizione umana nella sua miseria e nella sua grandezza728.

727

«La psicoanalisi ci propone una regressione verso l’arcaico» e per questo essa «ha il suo fondamento in una archeologia del soggetto» alla quale si oppone una «teleologia del soggetto» (P. RICOEUR, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, cit., pp. 35-36). 728 Cfr. F. BREZZI, Ricoeur. Interpretare la fede, Messaggero, Padova 1999.

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6. Gianni Vattimo: «il pensiero debole come l’unica filosofia cristiana pensabile» L’ermeneutica, soprattutto in Italia, è stata spesso recepita come una filosofia intrinsecamente storicistica, relativistica e persino nichilistica. Il principale fautore di tale identificazione tra ermeneutica e nichilismo è stato il torinese Gianni Vattimo, formatosi alla scuola di Pareyson: egli parla espressamente di una «vocazione nichilistica dell’ermeneutica»729 e a tal proposito si richiama anche a Gadamer. A suo parere il filosofo tedesco in Verità e metodo «partito esplicitamente dal problema della verità di quei saperi, come le scienze dello spirito, che non sono riducibili al metodo scientifico-positivo, finisce per costruire una teoria generale dell’interpretazione che la fa coincidere con ogni possibile esperienza umana del mondo. […] Non solo, per resare allo stesso titolo di Verità e metodo, si dà verità anche fuori dai confini del metodo scientifico-positivo; ma: non si dà esperienza di verità se non come atto interpretativo»730. Vattimo è partito dallo studio dell’ermeneutica romantica di Schleiermacher731 ma ha poi connesso la “filosofia dell’interpretare” con il prospettivismo di Nietzsche, secondo il quale «non ci sono fatti ma solo interpretazioni (Tatsache gibt es nicht, nur interpretationen)»732. Sulla scorta di Nietzsche, di Heidegger e di alcuni elementi dello stesso Gadamer, Vattimo ha definito la sua posizione come un “pensiero debole” caratterizzato da un sostanziale “addio alla verità”. L’espressione “pensiero debole” viene usata per la prima volta in una raccolta di saggi curata da Vattimo insieme a Pier Aldo Rovatti ed edita nel 1983 presso Feltrinelli. Tale espressione - ha ribadito più volte il Nostro - «significa non tanto, o 729

G. VATTIMO, Oltre l’interpretazione. Il significato dell’eremeneutica per la filosofia, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 16. 730 Ibidem, p. 7. 731 G. VATTIMO, Schleiermacher, filosofo dell’interpretazione, Mursia, Milano 1968. 732 F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-87, in Opere, tr. it. di S. Giammetta, vol. 8, tomo I, 1975, p. 299-300 (Frammento n. 7 [60].

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non principalmente, un’idea del pensiero più consapevole dei suoi limiti, che abbandona le pretese delle grandi visioni metafisiche globali, eccetera; ma soprattutto una teoria dell’indebolimento come carattere costitutivo dell’essere nell’epoca della fine della metafisica»733. Riflettendo sulle conseguenze dell’ontologia di Heidegger, egli afferma che «l’essere ha una vocazione nichilistica, che il ridursi, sottrarsi, indebolirsi è il tratto di esso che ci si dà nell’epoca della fine della metafisica e del divenire problematica dell’oggettività»734. Ecco, inoltre, in che senso Vattimo parla del “pensiero debole” come un “addio alla verità”: «La presa di congedo» - egli afferma «è dalla verità come rispecchiamento “oggettivo” di un “dato” che, per essere descritto adeguatamente, deve essere fissato come stabile, appunto come “dato”. […] Oggi, molto più chiaramente che in passato, la questione della verità è riconosciuta come una questione di interpretazione, di messa in opera di paradigmi che, a loro volta, non sono “obiettivi” (giacchè nessuno li verifica o falsifica, se non in base ad altri paradigmi…), ma sono una faccenda di condivisione sociale»735. Secondo Vattimo «la parabola della nozione di verità nel secolo ventesimo si configura come una transizione dalla verità alla “carità”»736. Cerchiamo si spiegare quest’ultimo punto che è decisivo per comprendere la prospettiva politica del filosofo torinese, ma anche e soprattutto quella religiosa: il suo singolare ritorno alla fede cristiana che ci è testimoniato nel volumetto Credere di credere, edito nel 1996. Per Vattimo una concezione della verità “forte, fondadiva ed obiettiva” avrebbe degli esiti assolutistici e violenti sia dal punto di vista politico che religioso. Chi si illude di possedere la verità “tutt’intera” intende anche imporla agli altri, diventa un fondamentalista totalitario: dalla storia dell’occidente potrebbero essere tratti moltissimi esempi di tali nefaste dinamiche (dal fenomeno cattolico dell’inquisizione al totalitarismo nazista che 733

G. VATTIMO, Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, Milano 1996, 19993, pp. 25-26. 734 Ibidem, p. 26. 735 G. VATTIMO, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009, pp. 13-15. 736 Ibidem, p. 16.

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pretendendo di conoscere la “vera natura dell’uomo” costruì campi di concentramento per annientare il diverso). L’abbandono di un paradigma obiettivistico di verità in favore di uno ermeneutico – sottolinea Vattimo – ha importantissime conseguenze sul piano eticopolitico: porta ad una “società aperta”, tollerante e rispettosa delle diversità, divendendo perciò il presupposto stesso della prassi democratica. «La conclusione a cui voglio giungere» - egli scrive «è che la verità come assoluta, corrispondenza oggettiva, intesa come ultima istanza e valore di base, è un pericolo più che un valore. Conduce alla repubblica dei filosofi, degli esperti, dei tecnici, e al limite allo Stato etico, che pretende di poter decidere quale sia il vero bene dei cittadini anche contro la loro opinione e le loro preferenze. Là dove la politica cerca la verità non ci può essere democrazia. Ma se si pensa la verità nei termini ermeneutici che molti filosofi del Novecento hanno proposto, la verità della politica sarà da cercare anzitutto nella costruzione di un consenso e di un’amicizia civile»737. La razionalità forte della metafisica occidentale va, quindi, demitizzata “in nome della carità e della tolleranza”. Secondo Vattimo il relativismo della verità e il declino della metafisica costituirebbero il presupposto stesso per una rinnovata adesione alla fede cristiana. Il cristianesimo non è la religione di un Dio onnipotente e trionfante ma di un Dio umile e crocifisso: è un Dio che si incarna assumendo la condizione umana nella sua precarietà ontologica e nella sua sofferenza. Partendo da San Paolo, egli interpreta il cristianesimo come religione della kénosis, dell’abbassamento dell’assoluto alla dimensione umana738. Inoltre, con San Giovanni egli ribadisce che l’essenza stessa di Dio è l’amore, la caritas, la misericordia più generosa ed accogliente: «chi non ama non conosce Dio, poiché Dio è amore (ho Theós agápe estín)»739. La concezione di Dio tipica del cristianesimo non ha nulla a che vedere con l’assoluto dei metafisici razionalisti, né con i dogmi dei teologi: «il Dio violento è in questa prospettiva il Dio della 737

Ibidem, p. 25. Sulla posizione politica dell’autore si veda anche G. VATTIMO, Ecce comu. Come si ri-diventa ciò che si era, Fazi, Roma 2007. 738 Cfr. PAOLO DI TARSO, Lettera ai Filippesi, 2,7. 739 Prima lettera di Giovanni 4, 8

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metafisica, quello che la metafisica ha chiamato anche lo ipsum esse subsistens, che riassume in sé in forma eminente tutti i caratteri dell’essere oggettivo come essa lo pensa. La dissoluzione della metafisica [proclamata da Nietzsche e da Heidegger] è anche la fine di questa immagine di Dio, la morte di Dio di cui ha parlato Nietzsche»740. L’ontologia debole, che pensa cioè l’essere come evento (Ereignis) nella dimensione storica e linguistica, può essere interpretata come una trascrizione filosofica del messaggio cristiano. La kénosis di Dio in Cristo, la sua incarnazione, ci propone un’immagine diversa da quella tradizionale: essa è «il segno che il Dio non violento e non assoluto dell’epoca post-metafisica ha come tratto distintivo quella stessa vocazione all’indebolimento di cui parla la filosofia di ispirazione heideggeriana»741. Al “pensiero debole”, all’ontologia della debolezza, corrisponde così «una sorta di teologia negativa che si accontenta di riconoscere che Dio non è nominabile adeguatamenente da nessuno dei nomi che possiamo dargli»742. Alla fine degli anni Novanta Vattimo si riavvicina alla fede cristiana: la sua posizione è quella di «credere di credere o anche: sperare di credere»743. Si tratta di un «ritrovamento nichilistico del cristianesimo»744, suscitato sia da alcuni eventi tragici (la morte di un suo compagno di vita) che dalla lettura di Sergio Quinzio e di René Girard. Di Quinzio lo interessarono «le sue analisi della storia della cività occidentale come prova del fallimento del cristianesimo»745, un 740

G. VATTIMO, Credere di credere. È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, cit., p. 30. 741 Ibidem, p. 31. 742 Ibidem, p. 33. 743 Ibidem, p. 97. 744 Ibidem, p. 30. 745 Ibidem, p. 32. Sergio Quinzio (1927-1996) fu un biblista che mise in evidenza il senso della “debolezza di Dio” di fronte all’urgenza di salvezza degli uomini. Egli tocca i temi nevralgici dell’assenza di Dio nel mondo e del mysterium iniquitatis ponendo così l’attenzione sul rapporto tra nichilismo e cristianesimo. A suo parere «il nichilismo è lo svelamento del senso della croce» (S. QUINZIO, La croce e il nulla, Adelphi, Milano 1984, p. 222). Altre significative opere di Quinzio sono Diario profetico, Guanda,

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fallimento causato dall’Olocausto e dai violenti totalitarismi politici del Novecento. Dell’antropologo Girard invece apprese come «si potessero legare strettamente indebolimento, secolarizzazione e cristianesimo»746. Partendo dalla teoria del capro espiatorio elaborata da Girard e dalla sua intepretazione del rapporto tra la violenza e il sacro, Vattimo torna a rileggere il significato della figura di Cristo: criticando Girard egli sostiene che «Gesù Cristo viene a smentire e non a compiere la sacralità e la necessità della vittima. Gesù è il primo grande desacralizzatore delle religioni naturali. Viene e fa vedere a tutti che non è vero che bisogna fare dei sacrifici. Anzi, Dio ci chiama amici»747. Vattimo sottolinea con energia - ed in vivace opposizione con le gerarchie cattoliche - che il «cristianesimo […] annulla tutti i dogmatismi»748. Il cristianesimo, sorto dall’insegnamento di Gesù, è un messaggio di liberazione e di emancipazione. La fede rende l’uomo libero, autentico ed autonomo nelle sue scelte; del resto lo stesso Gesù, contrapponendosi a sommi sacerdoti, scribi e farisei, rivendica una compiuta e responsabile autonomia etica: egli dice espressamente agli uomini che lo seguono: «E perché non giudicate da voi stessi ciò che è giusto? (tí dè kai aph’eautôn ou krínete tò díkaion;)» (Luca 12, 54). Secondo Vattimo «l’autenticità del Milano 1958; Cristianesimo dell’inizio e della fine, Adelphi, Milano 1967; Un Commento alla Bibbia, Adelphi, Milano, 1972 (II. ed. 1995); Silenzio di Dio, Mondadori, Milano 1982; Radici ebraiche del moderno, Adelphi, Milano 1991; La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano 1993. Sulla prospettiva dell’autore si vedano anche U. REGINA, La fede nel Dio di tenerezza di Quinzio, in IDEM, La soglia della fede. L’attuale domanda su Dio, Studium, Roma 2001, pp. 131-146; L. GRECCHI, La verità umana nel pensiero religioso di Sergio Quinzio, Petite Plaisance, Pistoia 2004; M. IRITANO, Teologia dell’ora nona. Il pensiero di Sergio Quinzio tra fede e filosofia, Città Aperta, Troina (EN) 2006; A. SCOTTINI, Sergio Quinzio: il profeta deluso, Prefazione di S. Zucal, Postfazione di A. Giannatiempo, Àncora, Milano 2006. 746 G. VATTIMO – P. PATERLINI, Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani, Aliberti, Reggio Emilia 2006, p. 180. 747 Ibidem, pp. 180-181. 748 Ibidem, p. 182.

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cristianesimo è il pensiero moderno-liberal-socialistademocratico»749. A partire di questi presupposti ermeneutici si può, quindi, comprendere che per Vattimo «il pensiero debole è l’unica filosofia cristiana sul mercato […] ed è anche l’unica filosofia cristiana pensabile»750. Come prevedibile, il “pensiero debole” e le posizioni espresse in Credere di credere hanno suscitato in Italia un acceso dibattuto e vivaci polemiche sia sul piano filosofico che teologico. Carlo Augusto Viano è entrato in polemica con gli aspetti teoretici del “pensiero debole” affermando la sua estraneità nei confronti di coloro che «sono compromessi con la crisi della ragione, la filosofia negativa, l’irrazionalismo»751 - i quali «utilizzano formule ad effetto e titoli efficaci»752 -, Vittorio Possenti e molti altri hanno invece criticato come superficiale l’adesione di Vattimo al cristianesimo. Secondo Possenti e i cattolici più conservatori quello di Vattimo sarebbe un cristianesimo “a suo uso e consumo”, nel quale verrebbe 749

Ibidem. Ibidem. A tal riguardo cfr. anche G. VATTIMO, La traccia della traccia, in J. DERRIDA - G. VATTIMO (a cura di), La religione, Laterza, Roma-Bari 1995, pp. 75-90; IDEM, Dopo la cristianità: per un cristianesimo non religioso, Garzanti, Milano 2002; IDEM, Nichilismo e religione: conversazione filosofica con Gianni Vattimo, Interventi di Federico Orlando e di Santiago Zabala, V. Casini, Roma 2005; G. VATTIMO - C. DOTOLO, Dio: la possibilità buona. Un colloquio sulla soglia tra filosotia e teologia, a cura di G. Giorgio, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009. Studi critici sul pensiero dell’autore italiano sono quelli di U. REGINA, Il «credere di credere» di Gianni Vattimo, in IDEM, La soglia della fede. L’attuale domanda su Dio, Studium, Roma 2001, pp. 89-98; D. MONACO, Gianni Vattimo: ontologia ermeneutica, cristianesimo e postmodernità, Postfazione di V. Vitiello, ETS, Pisa 2006; G. GIORGIO, Il pensiero di Gianni Vattimo: l’emancipazione dalla metafisica tra dialettica ed ermeneutica, Angeli, Milano 2006. 751 C.A. VIANO, Va’ pensiero. Debolezza e indeterminazione nel Pensiero debole, in IDEM, Va’ pensiero. Il carattere della filosofia italiana contemporanea, Einaudi, Torino 1985, pp. 3-22, p. 8. 752 Ibidem, p. 20. 750

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completamente sacrificato il contenuto di “verità” che la fede stessa comporta. Una caritas non fondata sulla verità (annunciata da Cristo) si ridurrebbe a sentimentalismo o a mero filantropismo. Per molti cattolici più tradizionalisti Vattimo “gioca al cristianesimo”, non rendendosi conto che la fede comporta sacrificio, ascesi e rinuncia753. A nostro parere la figura di Vattimo, pur con tutti i suoi limiti e le sue contraddizioni, rappresenta un modello di autenticità molto raro nella cultura filosofica italiana, anche tra quella cattolica. Dai suoi scritti emerge una profondità di pensiero e di critica che non può essere certo accusata di superficialità o di mero estetismo; egli ha affrontato con estrema lucidità e da “cristiano laico” le questioni fondamentali del nostro tempo, dai dibattiti sulla fine della metafisica, alle problematiche della bioetica e della politica754. Alcune conclusioni del suo “pensiero debole” non possono certamente essere accettate in maniera acritica, tuttavia la sua prospettiva non va banalizzata o persino messa in ridicolo, come talvolta è accaduto negli ambienti cattolici conservatori. Vattimo rappresenta il momento scettico e nichilisitico della cultura italiana contemporanea: un momento da superare ma anche da comprendere nelle sue istanze fondamentali. La genesi del suo pensiero può essere vista nell’esigenza di emancipazione, nella lotta per la liberazione dal peso delle strutture ideologiche ed istituzionali ereditate dalla tradizione. Tale esigenza di emancipazione, a nostro giudizio, va posta in stretta relazione con la sua serena e dichiarata omosessualità: la frattura innovativa e rivoluzionaria del suo pensiero deriva proprio dal suo essere gay, dall’appartenenza ad una minoranza che, anche in Italia, è stata sempre disprezzata ed emarginata755. Un antecedente di 753

Cfr. ad esempio V. POSSENTI, Vattimo: più che debole, pensiero facile, articolo pubblicato nel quotidiano «Avvenire» del 3 marzo 2012. 754 Cfr. G. VATTIMO, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989; 2007 (nuova edizione accresciuta); IDEM, La vita dell’altro: bioetica senza metafisica, Marco, Lungro di Cosenza 2006. 755 Ci hanno molto impressionato le testimonianze di alcuni anziani gay raccolte da Andrea Pini - che raccontano l’emarginazione sociale e gli atti di violenza subiti sia nell’Italia fascista che in quella democristiana (e comunista) del dopoguerra: cfr. A. PINI, Quando eravamo froci. Gli

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Vattimo nella cultura italiana potrebbe essere scorto in Pier Paolo Pasolini: in entrambi troviamo la scelta sofferta e drammatica del cristianesimo quale unica speranza per gli umili, gli gli emarginati e gli oppressi. Sia Vattimo che Pasolini alla fredda immanenza di un mondo “ad orizzonti abbassati” rispondono con un atto di fede nella trascendenza cristiana: ai loro occhi solo una fede vissuta nell’autenticità e lontana dal conformismo borghese può divenire una profonda esperienza di libertà. Certamente i due autori muovono forti critiche alla religione e al “cristianesimo istituzionalizzato”: tuttavia, seguendo Jean Grondin, possiamo dire che «non c’è niente di più religioso della critica alla religione»756.

omosessuali nell’Italia di una volta, Prefazione di N. Aspesi, Il Saggiatore, Milano 2011. 756 J. GRONDIN, La philosophie de la religion, PUF, Paris 2009; tr. it. di P. Crespi, Introduzione alla filosofia della religione, Queriniana, Brescia 2011, p. 39.

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Percorsi di approfondimento

Studio I Filippo Masci e il neokantismo italiano

«Il neokantismo italiano è dominato, nei suoi motivi teoretici, dal bisogno di superare la metafisica idealistica, troppo ostile al sapere scientifico, e di evitare l’angustia del positivismo filosofico che, disdegnando ogni apriorismo, sembrava compromettere la stabilità stessa dello spirito conoscitore e, di conseguenza, la possibilità stessa della scienza»757. «Nella funzione-forma consiste la natura propria del pensiero, e questa (se la conoscenza è possibile), deve essere parimenti lo scheletro della realtà. La filosofia, secondo questo punto di vista, è dunque scienza del pensiero (logica e gnoseologia), e scienza della realtà, cioè la realtà resa intelligibile, formata secondo le categorie del pensiero»758.

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F. SCHNEIDER, Dévepollement et évolution du néocriticisme, in Aa. Vv., Les grands courants de la pensée mondiale contemporaine. Tendences, Milano, Marzorati, 1961, Vol. I, pp. 1-57, p. 50. 758 F. MASCI, Pensiero e conoscenza, Torino, Bocca Editori, 1922, p. 96. D’ora in poi faremo riferimento a quest’opera (che costituisce quasi una summa del pensiero di Masci) con la sigla PC, seguita dal numero di pagina.

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Nel presente studio analizziamo il contributo originale dato da Filippo Masci alla filosofia italiana tra la fine dell’Ottocento ed i primi decenni del Novecento. Tra le esigenze teoretiche più rilevanti del pensiero di Masci scorgiamo sicuramente quella di superare la deriva materialistica del positivismo a lui contemporaneo e di edificare una nuova “filosofia dello spirito” fondata anche sui risultati delle scienze sperimentali. Tra i due eccessi di un positivismo materialistico e di un idealismo assoluto, il Nostro cerca una mediazione epistemologicamente valida e proponibile: in questa sua ricerca egli riprende, corregge ed amplia il pensiero kantiano, cercando di adeguarlo ai risultati della fisica, della biologia e, più in generale, delle scienze della natura. A nostro avviso, il pensiero di Masci merita di essere riscoperto e valorizzato poiché in esso troviamo dei significativi indirizzi teoretici che tentano di opporsi - con solide argomentazioni critiche - ad una concezione del reale naturalistica e deterministica: la sua è una “filosofia della libertà” fondata sul valore fondamentale dello spirito umano, che “eccede” i fatti bruti della natura e che è in grado di fondare un ordine imprescindibile di valori etici. Una delle finalità della nostra indagine è anche quella di limitare e rettificare il giudizio storiografico essenzialmente negativo dato da Giovanni Gentile - e da altri interpreti- sul fenomeno italiano del neokantismo759. Secondo Gentile «la posizione speculativa neokantiana, dal punto di vista teoretico, non sorpassa quella dei

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Eugenio Garin, ad esempio, riduce il contribuito dei neokantiani italiani al solo ambito storiografico negando un solido valore speculativo alle loro indagini teoretiche: «Chiusa la via alla metafisica, ridotta la morale nell’ambito di un dogmatismo religioso, l’unico campo in cui lo spirito potesse ritrovare la sua opera era la storia delle proprie costruzioni, di quel mondo degli uomini cui già Vico aveva rivolto lo sguardo» (E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Vol. III., Torino, Einaudi, 1966, p. 1214). Si noti inoltre che Nicola Abbagnano nella sua storia della filosofia pur dedicando notevole spazio al movimento europeo del neokantismo fa solo qualche rapido accenno al neokantismo italiano, evitandone un’accurata trattazione.

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positivisti»760: «il neokantismo […] è un indirizzo di pensiero, che non sta in primo piano nello svolgimento del pensiero filosofico, e non può per ciò, a rigore, occupare un posto nella definitiva forma della storia della filosofia: non rappresenta una nuova veduta, una categoria a sé, nel pensamento della realtà»761. Nel presente lavoro ci soffermiamo, in particolare, a considerare l’originale rilettura del kantismo data da Masci, situando tale ermeneutica nell’alveo della ricezione italiana del pensiero di Kant762. 1. Dalla prima ricezione di Kant in Italia al neokantismo 1.1. I primi studi kantiani in Italia: fraintendimenti e critiche Il pensiero di Kant nella cultura italiana del primo Ottocento conosce una notevole diffusione ma è generalmente frainteso nei suoi contenuti e fatto oggetto di forti critiche. Nei primi decenni del secolo si ebbe una conoscenza indiretta, frammentaria e spesso inesatta, attraverso esposizioni di scrittori francesi o imperfette traduzioni: tra queste ricordiamo in particolare la traduzione latina della Critica della ragion pura edita da Fredericus Gottlob Born a 760

G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Vol. III, I neokantiani e gli hegeliani, Nuova edizione riveduta da V.A. Bellezza, Firenze, Le Lettere, 2003, p. 3-4. 761 Ibidem, p. 4 762 Il Masci amava sottolineare che in Italia il confronto con il pensiero di Kant ha una consolidata tradizione alla quale egli stesso dichiara di ispirarsi: fin dai primi decenni dell’Ottocento lo studio della filosofia kantiana fu un’esigenza avvertita dai grandi intellettuali della nazione; fu quindi un’esigenza endogena e non un’imitazione di modelli stranieri: «Il neocriticismo italiano» - rileva il Nostro - «non è un’importazione straniera, ma ha una storia che lo riconnette direttamente alle origini della filosofia critica [di Kant] per via di Galluppi, del Colecchi, e segnatamente dello Spaventa» (F. MASCI, Dei principali indirizzi della filosofia contemporanea, “Rendiconto dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche di Napoli”, Fascicolo di dicembre 1897, p. 9).

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Lipsia763 nel 1796-98 e poi la traduzione italiana di Vicenzo Mantovani, che risale al 1820-22. Nei loro giudizi sul criticismo kantiano gli intellettuali italiani furono notevolmente influenzati dalla manualistica francese764: emblematico è, ad esempio, il caso di Pasquale Galluppi che nella sua esposizione del pensiero kantiano si richiama spesso alle ricostruzioni storiografiche di Destutt de Tracy e di Joseph Marie Degérando. Con quest’ultimo il Galluppi condivide un’interpretazione che vede nel pensiero di Kant un’ineludibile deriva dogmatica e scettica: «Il signor Degérando in Francia, che ha bene studiato la filosofia kantiana, ed i sistemi alemanni che in seguito ne son derivati, ha provato invincibilmente, che Kant ha incominciato dal più deciso dogmatismo, e terminato allo scetticismo più assoluto»765. Si parla di dogmatismo poiché Kant - secondo 763

Cfr. F.G. BORN, Opera ad philosophiam criticam, 4 voll., Schwickert, Leipzig, 1796-98; Photomechanical reprint 1969. Sulla prima ricezione del criticismo kantiano nella cultura italiana dell’Ottocento si vedano: K. WERNER, Kant in Italien, “Denkschrift der philosophischen-historischen Classe der koniglichen Akademie der Wissenschaft”, XXXI, 1881, pp. 286298; E. TROILO, Precorrimento e ripensamento italiano di Kant, “Atti e memorie della R. Accademia di Scienze Lettere ed Arti in Padova”, XLII, 1926, pp. 235-259; F. ZAMBELLONI, Le origini del kantismo in Italia, Marzorati, Milano 1972. 764 Tra i primi scritti in lingua francese sul pensiero kantiano ci sono quelli di C.F.D. VILLERS, Philosophie de Kant ou principes fondamentaux de la philosophie transcendentale, Metz, Collingnon, 1801; J. KINKER, Essai d’une exposition succincte de la Critique de la raison pure, Amsterdam, Changuion & Hengst, 1801. Sulla prima ricezione del pensiero kantiano in Francia si vedano F. AZOUVI - D. BOUREL, De Königsberg à Paris. La réception de Kant en France (1788-1804), Vrin, Paris 1991; A. BELLANTONE, La prima circolazione del pensiero di Kant in area francofona, “Rivista di storia della filosofia”, LXI, 4, 2006 (supplemento), pp. 45-52. 765 P. GALLUPPI, Lettere filosofiche, [edizione originale: Lettere filosofiche sulle vicende della filosofia, relativamente a’ principii della conoscenza umana da Cartesio insino a Kant inclusivamente, Pappalardo, Messina, 1827], a cura di F. Amerio, Brescia, La Scuola, 1941, p. 199. Il passo citato è tratto dalla XIV delle Lettere filosofiche dal significativo titolo Risultamento del criticismo; lo scritto di Degérando al quale Galluppi fa

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Galluppi (ma questa critica la ritroviamo anche in Masci766) assolutizza l’intelletto e le sue strutture trascendentali, rendendoli fissi, granitici ed immutabili: «Kant dommatizza partendo dall’esistenza della nostra intelligenza, e da fatti che la coscienza vede in questa intelligenza»767. Kant, ad avviso di Galluppi, non pone quindi l’intelletto e le categorie come semplici ipotesi da vagliare, ma considera queste realtà della mens come un fatto originario, “dogmatico”, cioè di per sé non ulteriormente deducibile e spiegabile768. riferimento è J.-M. DEGÉRANDO, Histoire comparée des systèmes de philosophie, relativement aux principes des connaissances humaines, 3 tomes, Paris, Henrichs, 1804. Questo di Degérando fu tra i testi principali sui quali i nostri filosofi del Risorgimento, fra cui Galluppi e Rosmini, attinsero la prima conoscenza del criticismo. 766 Cfr. CP, p. 110 e p. 253 ss. 767 P. GALLUPPI, Lettere filosofiche, cit., p. 200. 768 In effetti Kant afferma di far arrestare la ricerca filosofica innanzi alla spontaneità dell’intelletto e delle sue strutture trascendentali: l’«io penso» sarebbe «un atto della spontaneità originaria (Actus der Spontaneität)» (I. KANT, Critica della ragion pura, [edizione originale: Kritik der reinen Vernunft; la prima edizione è del 1781; la seconda edizione è del 1787], tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 19714, p. 132, B 131. D’ora in poi faremo riferimento alla Critica della ragion pura con la sigla KrV, seguita dal numero di pagina dell’edizione dell’AkademieAusgabe, con accanto quello dell’edizione italiana) da presupporre come fondamento trascendentale della conoscibilità dei fenomeni. Egli inoltre ci parla dello schematismo trascendentale - che è il cuore stesso del kantismo teoretico - come di «un’arte celata nel profondo dell’anima umana, il cui vero maneggio noi difficilmente strapperemo alla natura per esporlo scopertamente innanzi agli occhi» (KrV, A 141, B 180, p. 166). Tuttavia le critiche di Galluppi trascurano il fatto che Kant si sia sforzato di operare una “deduzione trascendentale delle categorie” e di tutte le strutture trascendentali della ragione, cioè di dare una “giustificazione”, una spiegazione della loro natura e della loro attività. Sull’interpretazione del criticismo kantiano data da Galluppi si vedano: F. PALHORIÈS, La théorie idéologique de Galluppi dans se rapports avec la philosophie de Kant, Paris, Alcan, 1909; R. D’AURIA, Il Galluppi interprete di Kant, Roma, Società Editrice Perrella, 1942; G. DI NAPOLI, Pasquale Galluppi e il

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Inoltre Galluppi - come molti suoi contemporanei ed in maniera simile allo stesso Masci - sottolinea che il criticismo avrebbe un’inevitabile deriva scettica che svalorizza tutti i suoi contenuti; il fatto che Kant consideri possibile la nostra conoscenza degli oggetti solo com’essi appaiono (sicuti apparent) e non come essi sono in realtà (sicuti sunt) conduce ad un radicale scetticismo conoscitivo: nell’impianto teoretico kantiano «la conoscenza non è che un nome vano, se essa non è la conoscenza di qualche cosa, di qualche oggetto in sé. Questi oggetti Kant [considerandoli delle inconoscibili “cose in sé”] ce li toglie successivamente, perché un oggetto è un niente se non è qualche cosa reale; e non vi ha mezzo fra il nulla e la realtà. La filosofia di Cartesio cominciava dal dubbio, e terminava al dommatismo; quella di Kant ha fatto precisamente tutto il contrario»769. Le critiche di Galluppi al criticismo, come quelle di Masci770, si incentrano intorno alla nozione di “cosa in sé” (Ding an sich), nozione contraddittoria e che incrinerebbe il valore stesso del processo conoscitivo rendendolo soggetto agli esiti scettici, dei quali lo stesso empirismo radicale di Hume era portatore. Il punto, invece, che del kantismo apprezzano e sviluppano sia Galluppi che Masci è quello dell’appercezione come fondamento della conoscenza: l’appercezione trascendentale è l’intuizione del sé come agente, è – così Galluppi – il «sentir di sentire», è la riflessione consapevole sugli atti della propria coscienza conoscitiva, la Selbstbeobachtung. La posizione gnoseologica di Galluppi e Masci si origina, dunque, da quell’aliquid inconcussum che è la coscienza, la realtà originaria dello spirito che nella riflessione osserva se stesso. La filosofia trova una salda fondazione epistemologica in quanto è riflessione oggettiva e verificabile sui «dati sperimentali della trascendentalismo tedesco, in Aa. Vv., Studi Galluppiani, Tropea, Rotary Club, 1979, pp. 34-54; D. VIRCILLO, Un filosofo calabrese interprete di Kant: Pasquale Galluppi, in Aa. Vv., La tradizione kantiana in Italia, Edizioni G.B.M., Messina, 1986, vol. II, pp. 669-687. 769 P. GALLUPPI, Lettere filosofiche, cit., p. 201. 770 Si veda in particolare il capitolo IV della parte II di PC dal titolo La cosa in sé. Critica della teoria di Kant. I limiti della conoscenza. L’inconoscibile (PC, pp. 134-163).

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coscienza»771. Entrambi concordano con Kant nel sottolineare che la coscienza non è una tabula rasa nella quale le impressioni sensibili fanno la loro apparizione (così come lo era per Locke e gli altri empiristi inglesi): la coscienza è Actus, è una attività spirituale originaria e costitutiva della stessa conoscenza. Merito di Kant è stato quello di «determinare ciò che vi ha di oggettivo, e ciò che vi ha di soggettivo nella nostra conoscenza. Gli empirici non ammettono altri elementi nella nostra conoscenza che gli oggettivi. Ma lo spirito umano è un agente»772. Galluppi e Masci sono tuttavia concordi nel criticare la visione kantiana della coscienza come «ordine a priori, […] ordine trascendentale»773: entrambi rimangono fedeli ad un sostanziale realismo gnoseologico che, pur ammettendo l’originarietà della coscienza, rifiuta ogni forma di rigido apriorismo per far immergere la coscienza stessa nel “mondo della vita”, nel mondo dell’esperienza. Come vedremo, nella sua concezione gnoseologica Masci tenta di ridefinire la sfera stessa dell’a priori dinamicizzandola e ponendola in stretto contatto con i dati empirici: in Masci il kantismo teoretico si coniuga con il pragmatismo e con una concezione della conoscenza che pone l’esperienza percettiva come fondamento dinamico degli a priori coscienziali. Possiamo dire che la ricezione del pensiero di Kant nella cultura italiana dell’Ottocento si caratterizzi per una generale critica al soggettivismo, al trascendentalismo e alla considerazione degli a priori come statiche formae mentis. In questa linea di critiche si 771

P. GALLUPPI, Lettere filosofiche, cit., p. 204. Ibidem, p. 209. Nelle loro osservazioni sulla natura contraddittoria della kantiana “cosa in sé” sia Galluppi che Masci si richiamano esplicitamente alle argomentazioni critiche contenute nel celebre Enesidemo di Gottlob Ernest Schulze. Cfr. G.E. SCHULZE, Aenesidemus oder über die Fundamente der von dem Herrn Professor Reinhold in Jena gelieferten Elementar-Philosophie. Nebst einer Vertheidigung des Skepticismus gegen die Anmassungen der Vernunftkritik, [testo edito nel 1792], tr. it e cura di A. Pupi, Enesidemo o dei Fondamenti della Filosofia elementare presentata dal Signor Professor Reinhold di Jena con una difesa dello Scetticismo contro le pretese della Critica della ragione, Roma-Bari, Laterza, 1971. 773 P. GALLUPPI, Lettere filosofiche, cit., p. 208. 772

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pongono, ad esempio, Francesco Soave774, Pasquale Borrelli775, Vincenzo De Grazia776 e Gian Domenico Romagnosi. Ci pare che le riflessioni di quest’ultimo trovino delle particolari affinità con quelle sviluppate dal Masci. Romagnosi è molto attento nei confronti dei fondamentali influssi che l’esperienza e l’ambiente sociale hanno nella mente dell’uomo. Come per Masci, anche per Romagnosi le categorie non sono concetti a priori ed assoluti: esse sono il risultato di un’induzione graduale ed analitica operata sull’esperienza. Le categorie non sono indipendenti dall’esperienza, ma hanno in questa le loro radici. La teoria trascendentale della conoscenza proposta da Kant - secondo Romagnosi - è vuota astrazione «che sta tra le nuvole e vi sta nuvolescamente. […] Vi sta con forme confuse, sfumate, […] e prive di valore pratico per le azioni umane»777. Tuttavia il Romagnosi, in maniera affine a Galluppi e al Masci, ammette che nell’attività intellettiva v’è un qualcosa di originario, indeducibile dai fatti empirici, e che si attiva dal contatto diretto con l’esperienza: egli

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Cfr. F. SOAVE, La filosofia di Kant esposta ed esaminata, Modena, Soliani, 1803 [seconda edizione: Venezia, Graziosi, 1804]. Una delle prime esposizioni critiche del pensiero kantiano fu edita nel 1817 in lingua latina anche da Cesare Baldinotti in un’appendice della sua opera Tentaminum Metaphysicorum libri tres, intitolata De Kantii philosophandi ratione et placitis. 775 Nei suoi Principii della genealogia del pensiero - opera in 3 volumi, edita nel 1825-29 - Borrelli insiste sul fatto che il pensiero sia attività dinamica messa in moto da un originario contatto con l’esperienza. 776 De Grazia, difendendo una posizione di realismo tomista, è particolarmente critico nei confronti del trascendentalismo kantiano dal quale si originano le astrazioni idealistiche che dimenticano il momento fondamentale dell’esperienza. Cfr. V. DE GRAZIA, Saggio sulla realtà della scienza umana, 4 voll., Napoli, Tipografia Flautina, 1839-42; IDEM, Discrosi sulla logica di Hegel e su la filosofia speculativa, Napoli, Tipografia De’Gemelli, 1850. 777 G.D. ROMAGNOSI, Esposizione storico-critica del kantismo e delle consecutive dottrine: è il testo della Recensione a P. GALLUPPI, Lettere filosofiche, cit., in “Biblioteca italiana”, Vol. L, 1828, pp. 163-185; Vol. LIII, 1829, pp. 180-199.

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chiama tali dinamiche forme dello spirito come “emissioni intime”, “suità psicologiche”, “fatture mentali”778. Nella storia della ricezione del pensiero kantiano in Italia la figura di Antonio Rosmini Serbati ha sicuramente un posto di primo piano. Egli tenta di conciliare le acquisizioni della modernità filosofica con quelle della filosofia cristiana di matrice agostiniana e tomista. Rosmini - il “Kant italiano” così lo definisce Bertrando Spaventa779 è tuttavia fortemente critico nei confronti della filosofia trascendentale moderna. Ecco alcune incisive parole con le quali il Roveretano stigmatizza la posizione kantiana, sintetizzando anche le varie critiche che in Italia erano state fatte da Borrelli, Galluppi e Romagnosi: «Il sistema di Kant è un sistema 1) scettico, perché la verità e la certezza soggettiva ch’egli ammette non è verità né certezza se non per abuso di parole [si tratta della critica nei confronti della inconoscibilità della “cosa in sé.]. 2) Idealistico, perché non ammettendo l’esistenza dei corpi che soggettivamente, come produzioni dell’istinto e delle forme innate dello spirito umano, non li ammette se non in apparenza, negando loro un’esistenza propria [qui Rosmini parrebbe quasi dimenticare che Kant nella Critica della ragion pura introduce un paragrafo dal titolo emblematico di Confutazione dell’idealismo]. 3) Ateo, perché se la ragione umana non può assicurarsi della verità assoluta ed oggettiva degli oggetti che le si presentano, non rimane più la possibilità di conoscere con certezza l’esistenza di Dio, divenendo anche Dio un’apparenza soggettiva; il che Kant stesso lo confessa apertamente facendo la critica a tutti gli argomenti recati dai filosofi per provare la divina esistenza e dimostrandoli tutti, come crede, inefficaci e inutili. [Dichiarando “ateo” il sistema kantiano, 778

Cfr. G.D. ROMAGNOSI, Della suprema economia dell’umano sapere in relazione alla mente sana [edizione originale 1828] in Opere filosofiche edite ed inedite, con annotazioni di A. De Giorgi, Milano, Perelli e Mariani Editori, 1842. 779 Cfr. B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, [Torino, Unione Tipografica-Editrice, 1860], a cura di B. Widmar, Roma, Marzioli Editore, 1955, p. 160.

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Rosmini non prende in considerazione il primato della ragion pratica sulla teoretica proposto nella Kritik der praktischen Vernunft: in quest’opera Kant afferma l’esistenza di Dio come un postulato della morale, al fine di garantire all’uomo virtuoso, almeno post mortem, l’aeterna beatitudo]780. 4) Panteistico, perché in questo sistema non rimanendo nulla eccetto lo spirito, che in virtù de’suoi istinti e delle sue forme produce ed affigura a sé stesso tutte le cose, ne viene che non esista se non una sostanza che è lo stesso soggetto umano, il quale porta tutto in sé stesso l’universo e lo stesso Dio; Dio diventa in tale sistema una modificazione dell’uomo. [Kant – come lui stesso sostiene esplicitamente nello scritto Was heißt sich im Denken orientieren?781 – è lontano da ogni forma di panteismo e di spinozismo: egli afferma che la sua è una filosofia dei limiti (Grenzen) della conoscenza, che pur dichiarando inconoscibili le 780

Nella cultura italiana dell’Ottocento fu molto diffusa l’immagine di Kant come “Robespierre della teologia”, come colui che con la sua filosofia “taglia la testa a Dio”. Anche il poeta Giosuè Carducci contribuì con i suoi versi alla diffusione di quest’immagine: «Decapitaro, Emmanuele Kant, Iddio,/ Massimiliano Robespierre, il re» (G. CARDUCCI, da Versaglia (nel LXXIX anniversario della Repubblica Francese), lirica edita sulla “Plebe“ di Lodi il 2 novembre 1871 e poi confluita nella raccolta Giambi ed epodi). La convinzione diffusa che il sistema kantiano fosse intrinsecamente scettico ed ateo comportò anche l’inserimento della Critica della ragion pura nell’Index librorum prohibitorum redatto dalla chiesa cattolica: questo avvenne ufficialmente l’11 giugno 1827, sotto il pontificato di Leone XII. A tal proposito cfr. I. TOLOMINO, Kant al tribunale della Chiesa di Roma, in “Rivista di Storia della filosofia”, 4, 2006 (supplemento), pp. 147-164. Uno dei meriti del neokantismo italiano – e di Filippo Masci in particolare – è sicuramente quello di aver approfondito la conoscenza filologica dei testi kantiani correggendo la falsa immagine di un Kant filosofo ateo e totalmente avverso ai valori religiosi. 781 Cfr. I. KANT, Was heißt sich im Denken orientieren?, in Gesammelte Schriften, Königlich Preussische Akademie der Wissenschaften, BerlinLeipzig, de Gruyter, 1902 ss., Vol. VIII, pp. 131-147; tr. it. di P. Dal Santo, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, a cura di F. Volpi, Milano, Adelphi, 1996.

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realtà metafisiche le rende però oggetto di una fede morale (moralischer Glaube)]. 5) Spiritualistico e materialistico ad un tempo, perché quello che si dice materia è nell’oggetto Uomo come una sua produzione e modificante sé stesso, onde lo spirito umano viene ad essere spirito e materia ad un tempo. [Quello dell’uomo come unità psico-fisica è una questione che negli scritti di Masci troverà un adeguato approfondimento che parte dal modello antropologico kantiano aggiornandolo e modificandolo sulla base dei nuovi apporti delle scienze biologiche e psicologiche]»782. Come si può buon notare, si tratta essenzialmente di critiche nate da radicali fraintendimenti ed incomprensioni dell’autentico pensiero kantiano, il quale di per sé – almeno a nostro avviso – non è né scettico, né idealistico, né ateo, né panteistico e tantomeno spiritualistico o materialistico. Condividiamo il giudizio di un kantista come Silvestro Marcucci per il quale «Rosmini […] non si cura non diciamo di approfondire ma neppure di cogliere certe 782

A. ROSMINI, Breve schizzo dei sistemi di filosofia moderna e del proprio sistema, [opera edita postuma], Introduzione, commento critico e note di A. Laudenzi, Napoli, Casa Editrice Federico & Ardia, 1967, pp. 63-65. Il rapporto Rosmini-Kant è certamente complesso ed è stato spesso oggetto di un “conflitto di interpretazioni”. Nel presente lavoro non ci è possibile ricostruire in maniera esauriente le vicende della ricezione rosminiana di Kant. Ci limitiamo pertanto a segnalare i seguenti scritti: G. GALLI, Kant e Rosmini, Città di Castello, Lapi, 1914; I. MANCINI, La «Critica della ragion pura» nella formazione di Antonio Rosmini, in La formazione di Antonio Rosmini nella cultura del suo tempo, (Atti del convegno promosso dal Comune di Rovereto e dall’lstituto di Scienze Religiose di Trento, 29-30 maggio 1986), Brescia, Morcelliana, 1988, pp. 131-204; M. KRIENKE (a cura di), Sulla ragione. Rosmini e la filosofia classica tedesca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008: nel volume compaiono, tra gli altri, interessanti contributi di F. De Giorgi (Il giovane Rosmini e la sua attenzione per la cultura tedesca e per Kant), G. Messina (La definizione dei giudizi analitici e sintetici nella “Critica della ragion pura” di Kant e nel “Nuovo Saggio” di Rosmini), U. Muratore (L’influsso di Kant sulla filosofia morale rosminiana), P.P. Ottonello (Kant e l’idealismo tedesco nella “Teosofia” e nel “Saggio storico sulle categorie”).

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fondamentali distinzioni kantiane quali appaiono nella prima Critica, come quella tra intuizione (sensibile) e concetto e tra concetto e idea. I suoi interessi filosofici e teologici lo portavano altrove; quindi non è stato un lettore attento e penetrante dei più importanti nodi teoretici e problematici che costituiscono la filosofia kantiana»783. Possiamo dire che la filosofia italiana della prima metà dell’Ottocento - tranne significative eccezioni784 - sia caratterizzata dallo sforzo tenace di “esorcizzare” Kant, di sottolineare le aporie del trascendentalismo kantiano al fine di ripristinare o il realismo di matrice aristotelica o uno spiritualismo di tipo platonico-agostiniano, come fece, ad esempio, Terenzio Mamiani. Tuttavia il confronto critico con Kant è presente in tutti i grandi pensatori italiani dell’Ottocento e costituisce quasi sempre uno dei principali capitoli delle loro opere di carattere teoretico: questo è certamente il caso di Galluppi, Romagnosi, Rosmini e Gioberti. Sulla prima ricezione di Kant in Italia ci pare emblematico questo giudizio di Franco Zambelloni: «Risulta accettabile la perentoria affermazione del Fiorentino che “la filosofia italiana di questo secolo si può dire che sia nata e 783

S. MARCUCCI, Guida alla lettura della “Critica della ragion pura” di Kant, Roma-Bari, Laterza, 1997, p. 153. 784 Tra le prime esposizioni italiane - filologicamente corrette - dei contenuti della Critica della ragion pura ci furono quelle di Ottavio Colecchi (17731847) e di Alfonso Testa (1784-1860), Nello scritto Sopra le quistioni le più importanti della filosofia (Napoli, A. Manuzio, 1843), Colecchi mostrando una buona conoscenza del criticismo tenta di difendere l’originario pensiero di Kant dalle critiche di Galluppi. Questo scritto del filosofo abruzzese per la chiarezza e l’equilibrio dei giudizi venne apprezzato anche dal Masci. Cfr. F. CICCHITTI-SURIANI, Ottavio Colecchi, filosofo e matematico abruzzese e i primordi del kantismo in Italia, L’Aquila, Tipografia Santini, 1890; P. ROMANO, Un antagonista del Galluppi: Ottavio Colecchi, “Archivio storico per la Calabria e la Lucania”, 1943, pp. 157-170. Di A. TESTA si veda l’opera Della Critica della Ragion pura di Kant, 3 Voll., Lugano-Piacenza 1843-1849. Sulla diffusione del kantismo nell’Italia settentrionale ad opera di Alfonso Testa cfr. L. CREDARO, Alfonso Testa e i primordi del kantismo in Italia, Catania, Francesco Battiato Editore, 1913.

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cresciuta sotto gli auspici di Kant, pur quanto sembra che se ne voglia risolutamente dipartire”. Ed è accettabile proprio nel senso che la filosofia italiana della prima metà del secolo XIX può ben sembrare, a chi la guardi sotto questo profilo, uno sforzo tenace, ostinato di esorcizzare Kant: in un primo tempo, con un rifiuto netto, radicale, appoggiato sullo scandalizzato timore e raggiunto con la facile ironia; poi sempre più meditato e sofferto, e bilanciato da parziali accettazioni».785 Tali “parziali accettazioni” saranno la linfa vitale del kantismo italiano del secondo Ottocento. 1.2. Il “ritorno a Kant“ del secondo Ottocento: confronto con le scienze sperimentali e “dinamicizzazione degli a priori” Uno dei grandi meriti del neokantismo tedesco (ma anche di quello italiano) della seconda metà del secolo XIX è stato sicuramente quello di diffondere una conoscenza del pensiero kantiano filologicamente corretta e più approfondita sotto il profilo storico. La Kant-Philologie è quindi alla base di quel diffuso “ritorno a Kant” che tenta di contrastare tanto la hýbris speculativa dell’idealismo hegeliano quanto i riduzionismi materialistici dei positivisti; è, dunque, su questo sfondo che vanno situate importanti opere storiografiche come quelle di Kuno Fischer (Kant’s Leben und die Grundlagen seiner Lehre, 1860), Otto Liebmann (Kant und die Epigonen, 1865) e Alois Riehl (Der philosophische Kritizismus, 3 voll., 1876, 1887, 1924). Cerchiamo ora di mettere brevemente in luce quali sono le peculiarità del “ritorno a Kant“ che caratterizza il pensiero europeo della seconda metà dell’Ottocento, quello tedesco in particolare (Otto Liebmann, Hermann von Helmholtz, Kuno Fischer, Alois Riehl e gli esponenti delle cosiddette Scuole di Marburgo e del Baden), ma anche quello francese (con Charles Renouvier), inglese (con Shandworth H. Hodgson e Robert Adamson) e quello italiano 785

F. ZAMBELLONI, Le origini del kantismo in Italia, cit., p. 371.

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(soprattutto con Carlo Cantoni, Francesco Fiorentino, Felice Tocco e Filippo Masci). In generale, la nascita del neokantismo europeo si comprende alla luce delle mutate condizioni dell’epoca: nel secondo Ottocento, come sottolinea con efficacia anche Mariano Campo, «c’era stato il crollo dei grandi sistemi idealistici, e si era diffuso il nuovo spirito scientifico. Sul discredito, soprattutto, della filosofia idealistica della natura si era accesa la luce della scienza. […] Lo spirito scientifico tendeva a informare la storia stessa, e investiva le provincie sino allora più refrattarie allo studio scientifico, gli stessi fenomeni psicologici e sociali della vita umana»786. Uno dei tratti peculiari che accomuna tutti gli autori che intendono aggiornare il pensiero kantiano è quello di confrontarsi con i risultati delle scienze sperimentali: essi si propongono di esaminare i fondamenti, i metodi e i limiti stessi delle scienze a loro contemporanee, cercando di restituire ad esse quei solidi fondamenti gnoseologici che solo la prospettiva trascendentale kantiana poteva garantire. L’esigenza fondamentale da cui si origina il “ritorno a Kant” è quindi quella di restituire attualità e valore alla gnoseologia kantiana, ponendola a fondamento della possibilità stessa della conoscenza scientifica. Le due opposte tendenze filosofiche alle quali i neokantiani si oppongono sono da una parte le metafisiche dello spirito idealistiche e dall’altra l’incipiente positivismo con le sue derive materialistiche e naturalistiche. Di contro al positivismo che affermava l’assolutezza originaria dei “fatti bruti”, i kantiani - e questo lo vedremo 786

M. CAMPO, Schizzo storico della esegesi e critica kantiana. Dal “ritorno a Kant“ alla fine dell’Ottocento, Varese, Editrice Magenta, 1959, pp, 3-4. Sul “ritorno a Kant” tipico della cultura europea del secondo Ottocento si vedano in particolare: H.L. OLLIG, Der Neukantianismus, Stuttgart, Verlag J.B. Metzler, 1979; K.C. KÖHNKE, Entstehung und Aufstieg des Neukantianismus. Die deutsche Universitätsphilosophie zwischen Idealismus und Positivismus, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1986; E.W. ORTH (Hrsg.): Neukantianismus: Perspektiven und Probleme, Würzburg, Königshausen & Neumann, 1994; M. FERRARI, Introduzione al neocriticismo, Roma-Bari, Laterza, 1997; M. HEINZ und C. KRIJNEN (Hrsg.), Kant im Neukantianismus. Fortschritt oder Rückschritt? Studien und Materialien zum Neukantianismus, Würzburg, Königshausen und Neumann, 2007.

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chiaramente in Filippo Masci - affermano il valore fondamentale che ha la soggettività trascendentale quale condizione di possibilità conoscitiva dei “fatti” stessi. In altre parole: non ci sarebbe “fatto” senza la coscienza che lo pensa con le sue strutture a priori. Uno degli intenti che caratterizza in generale il neokantismo è però quello di ridefinire la struttura stessa degli a priori della coscienza: in opposizione a Kant che teorizzava 12 categorie stabili ed immutabili, essi propongono una necessaria “dinamicizzazione degli a priori” in relazione ai nuovi risultati della psicologia e della fisiologia. Quest’aspetto lo ha ben messo in luce anche Massimo Ferrari: «Il filo rosso che percorre gran parte del dibattito filosofico tedesco [ma anche di quello italiano] può essere definito come un tentativo di “dinamicizzazione dell’a priori”. Si tratta di un progetto che si delinea innanzi tutto sul piano delle letture psicologiche e fisio-psicologiche dell’a priori, in sintonia con lo sviluppo delle indagini sulla “fisiologia degli organi di senso” e con i primi passi della psicologia scientifica, ma inserendosi in un più ampio quadro teso a confrontare o addirittura ad accorpare - come avviene con Wilhelm Wundt – le nuove frontiere della “scienza dell’anima” con l’eredità della psicologia kantiana»787. 1.3. Caratteri peculiari del “neokantismo italiano” Anche nella cultura italiana del secondo Ottocento assistiamo ad un significativo “ritorno a Kant“ che pur avendo delle caratteristiche prettamente nazionali mostra profonde affinità con il neocriticismo tedesco. Colui che per primo ha la piena consapevolezza di operare una rinascenza del pensiero kantiano in sintonia col neocriticismo tedesco è Carlo Cantoni, definito dai suoi contemporanei come «disciplinae kantianae interpres subtilissimus»788. La sua opera più

787

M. FERRARI, Categorie e a priori, Bologna, Il Mulino, 2003, p. 136. Cfr. E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Vol. III., Torino, Einaudi, 1966, p. 1214. 788

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cospicua si intitola Emanuele Kant789: in essa l’autore espone con chiarezza i princìpi gnoseologici della Critica della ragion pura ma rimprovera Kant di aver trascurato l’analisi psicologica. Ad avviso di Cantoni, così come di Masci e altri esponenti del neokantismo italiano, il filosofo di Königsberg avrebbe dimenticato «l’esame psicologico diretto e profondo di molte questioni che si collegano con il problema critico»790. A partire dal pensiero kantiano Cantoni difende un realismo critico nel quale l’a priori logico di Kant va integrato con un «a priori psicologico»791, al fine di evitare le astrazioni del criticismo e di connettere più direttamente gli a priori della mens con il mondo dell’esperienza. Quella di un Kant dimentico della natura psicologica della mente e delle stesse categorie è un’immagine critica che anche la filosofia tedesca contribuisce a diffondere in Italia e in Europa: basti pensare alle posizioni sul trascendentale di Friedrich Eduard Beneke, di Jakob Friedrich Fries e di Johann Friedrich Herbart. Tuttavia questo tipo di immagine critica nasce da un fraintendimento della filosofia kantiana e del valore stesso dell’indagine trascendentale. Si ricordi che nel § 16 della Critica della ragion pura Kant opera una netta distinzione tra l’«io trascendentale (transzendentales Ich)» e l’«io variopinto (vielfärbiges Ich)»792: quest’ultimo corrisponde all’io psicologico e mutevole che non dà stabile identità al soggetto in quanto sottoposto al dominio di passioni ed emozioni dell’anima. A nostro avviso, Kant non si è dimenticato della psicologia: egli, tra l’altro, è stato un attento lettore dei Philosophische Versuche di Johann Nicolaus

789

Cfr. C. CANTONI, Emanuele Kant, Milano, Brigala, 3 Voll., 1879-84. Sul kantismo di Cantoni si vedano: B. VARISCO, Carlo Cantoni e la teoria della conoscenza, in “Rivista di Filosofia”, 8, 1906, pp. 568-592; G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Vol. III, I neokantiani e gli hegeliani, cit., pp. 289-331; M.F. SCIACCA, Il criticismo realista di Carlo Cantoni, in Il pensiero moderno, Brescia, 1949, pp. 221-229. 790 Ibidem, Vol. I, 1879, p. 207. 791 Ibidem. 792 KrV, B 134; tr. it. p. 134.

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Tetens, un’opera sulla psicologia delle facoltà793. L’intento di Kant è quello di fornire alla conoscenza delle solide fondamenta epistemologiche che le garantissero certezza ed apoditticità: tali fondamenta vengono rinvenute nelle strutture trascendentali della soggettività, nelle forme pure, necessarie ed universali della razionalità che sole possono generare dei “giudizi sintetici a priori”, gli unici in grado di dar luogo ad una conoscenza certa e scientificamente fondata794. L’idea che il criticismo kantiano vada corretto in senso empiristico e psicologico viene ancor più accentuata da Francesco Fiorentino, per il quale gli a priori di Kant vanno spiegati in base a nozioni di associazione e di eredità. In questa prospettiva, il Fiorentino tenta di effettuare una sintesi tra il pensiero kantiano e l’evoluzionismo di Spencer: gli a priori verrebbero spiegati come il prodotto di un processo di formazione dell’esperienza nell’evoluzione della specie. Essi sarebbero quindi le leggi psicologiche nate dal graduale adattamento della razza umana al 793

A tal riguardo si veda H.-J. DE VLEESCHAUWER, La déduction transcendentale dans l’oeuvre de Kant, Anvers - Paris - La Haye 19341937. «L’immaginazione, la deduzione psicologica, la distinzione tra intelletto e ragione, sono tutti elementi che Kant deriva dalla psicologia del suo tempo. Ora crediamo che non sia azzardato determinare più precisamente questa influenza. Abbiamo già detto prima che bisogna ricercarla nei Philosophische Versuche sel Tetens » (IDEM, L’évolution de la pensée kantienne, Alcan, Paris 1939; tr. it. di A. Fadini, Laterza, RomaBari 1976, pp. 91-92). Il titolo completo della citata opera di J.N. Tetens (1736-1807) è Philosophische Versuche über die menschliche Natur und ihre Entwicklung, voll. 2, Leipzig 1777; una recente edizione italiana dell’opera è la seguente: J.N. TETENS, Saggi filosofici sulla natura umana e sul suo sviluppo, a cura di R. Ciafardone, Bompiani, Milano 2008. Un’approfondita conoscenza dell’opera di Tetens da parte di Kant è documentata anche da Hamann: quest’ultimo in una lettera ad Herder del 17 maggio 1779 afferma che i Philosophische Versuche di Tetens erano sempre sulla scrivania di Kant e venivano spesso consultati. 794 A questo proposito un saggio critico assai illuminante, nonostante i decenni trascorsi dalla sua stesura, è quello di G. MORPURGO-TAGLIABUE, Le strutture del trascendentale, Milano, Bocca Editori, 1951.

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mondo oggettivo795. Tuttavia questa sintesi di kantismo ed evoluzionismo proposta dal Fiorentino non è stata adeguatamente approfondita e sviluppata: questo viene sottolineato da numerosi interpreti796. Notiamo però che l’istanza di fondo da cui muove la posizione di Fiorentino è estremamente feconda e costituisce uno dei tratti peculiari del neokantismo italiano, ovvero il rifiuto dei due estremi filosofici rappresentati all’epoca dal positivismo (l’assolutizzazione dei fatti sperimentali) e dall’idealismo (l’assolutizzazione dello spirito). Tale atteggiamento di rifiuto dei due estremi lo troviamo chiaramente esposto nelle conclusioni della prolusione pisana su Positivismo e idealismo tenuta da Fiorentino

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A questo proposito cfr. F. FIORENTINO, Emmanuele Kant ed il mondo moderno, Niccolai, Firenze, 1865. Sulla ricezione del pensiero kantiano in Fiorentino cfr. G. GENTILE, Il neokantismo e Francesco Fiorentino, in IDEM, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Vol. III, cit., pp. 345; S. MANIERI, Francesco Fiorentino tra «ritorno a Kant» e studio del Rinascimento, in “Verifiche”, 30, 2001, pp. 299-332; 31, 2002, pp. 95-125. 796 Secondo Michele Federico Sciacca al pensiero del Fiorentino «non è facile assegnargli un posto, poiché fu di volta in volta acceso spaventiano, poi simpatizzante positivista e neokantiano, dando prova, oltre che di sensibilità ai vari movimenti, anche di una certa superficialità speculativa» (M.F. SCIACCA, Il pensiero italiano nell’età del Risorgimento, Milano, Marzorati, 1963, p. 453). Tale giudizio teso ad accentuare i rapidi e talvolta superficiali mutamenti di prospettiva del Fiorentino viene ripreso anche da Eugenio Garin (cfr. E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Vol. III., cit., p. 1216). Quest’ultimo nel sottolineare le oscillazioni speculative del Fiorentino si richiama anche ad una ricostruzione che lo stesso autore fece del suo cangiante itinerario culturale: «Io dunque comincia a studiare filosofia assai per tempo […] ed ebbi tra le mani la filosofia di Capocasale, e fui capocasaliano. Verso il 1847 mi riuscì ad avere in prestito una Logica del Galluppi […] e fui galluppiano, anche sfegatato: sono sempre stato così io, pieno di entusiasmo e di ardore. […] Appresso mi ebbi i Frammenti del Cousin: ed eccomi cousiniano per la pelle. Quando venni a Catanzaro avevo avute le opere del Gioberti l’anno prima, e figuratevi come mi entusiasmai per Gioberti» (si tratta di una memoria biografica del Fiorentino edita nel volume La filosofia contemporanea in Italia, Napoli, Morano, 1876, p. 148).

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all’Università di Pisa nel 1877: «L’idealismo può essere vuoto, il positivismo può essere cieco, se scompagnati l’uno dall’altro». Eugenio Garin, anche sulla scorta delle osservazioni critiche di Giovanni Gentile, sottolinea che i kantiani italiani ebbero degli evidenti limiti speculativi che non gli permisero di costruire dei grandi sistemi: essi, in genere, «limitavano il loro orizzonte alle questioni meramente gnoseologiche, non di rado facevano cadere anche queste sul piano della psicologia»: «di Kant non si era ripreso il motivo costruttore, quella metafisica del trascendentale, del soprasensibile immanente, che risultava con linee poderose nell’edificio delle tre critiche. Così da una lato ci si perdeva in un lavoro di esegesi filologica, mentre dall’altro non si sottolineava che il momento negativo della dialettica».797 Questo giudizio ha certamente una sua verità. Tuttavia osserviamo che nel neokantismo italiano ci furono anche delle espressioni filosofiche originali e costruttive come quella rappresentata da Filippo Masci. La posizione di quest’ultimo supera i limiti del positivismo, affermando, sulla scorta del pensiero kantiano, la realtà costitutiva ed il valore fondamentale dello spirito umano: tale posizione smentisce chiaramente anche il giudizio storiografico di Gentile secondo il quale «la filosofia neokantiana non poteva avere di filosofico se non la negazione o sospensione e interruzione dell’attività pienamente filosofica dello spirito»798. Inoltre, una delle caratteristiche peculiari del kantismo italiano, ben messa in evidenza anche da Bertrando Spaventa, è la lettura di Kant come continuatore di Vico, filosofo che riscopre il valore della storia umana come oggetto di scienza. Ad avviso di Spaventa la filosofia italiana trovò nel criticismo quella “metafisica della mente e dello spirito” che era implicita nella filosofia della storia elaborata da Vico ma che da esso non era stata compiutamente tematizzata799. 797

E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Vol. III., cit., p. 1214. G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Vol. III, I neokantiani e gli hegeliani, cit., p. 4. 799 A questo proposito si veda B. SPAVENTA, La filosofia italiana nelle sue relazioni con la filosofia europea, [lezioni edite postume a cura di G. Gentile, Bari, Laterza, 1908-1909], a cura di B. Widmar, Roma, Marzioli 798

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2. Filippo Masci, il “Cassirer italiano” 2.1. Cenni biografici Filippo Masci nasce a Francavilla al Mare (Chieti) nel 1844 e si laurea a Napoli in scienze giuridiche e amministrative. Durante gli anni della formazione le sue principali guide intellettuali sono Bertrando Spaventa e Francesco Fiorentino. Dal 1883 al 1885 insegna Filosofia morale all’Università di Padova. Frutto delle lezioni padovane è il volume dal titolo Coscienza, volontà e libertà800: è uno studio di “psicologia morale” la cui principale istanza è quella di salvaguardare l’originarietà della coscienza e la libertà del volere in opposizione ai riduzionismi materialistici e deterministici. Tale istanza permarrà anche negli anni del suo insegnamento di Filosofia teoretica a Napoli dal 1885 al 1919, dove però l’interesse principale è di carattere prevalentemente gnoseologico. Masci per alcuni anni è anche Rettore dell’Università di Napoli ed ha importanti incarichi politici: diviene membro del Consiglio Superiore dell’Istruzione Pubblica; nella XIX legislatura (1895-1897) viene eletto Deputato al Parlamento nel Collegio di

Editore, 1955, p. 136-137: «Vico esige una nuova metafisica, la metafisica della mente. E intanto la sua metafisica è la vecchia: quella dell’ente. Questa contraddizione - nuova e vecchia - è la oscurità di Vico. Questa esigenza di una nuova metafisica è la esigenza stessa che fa la filosofia europea nel secolo di Vico. […] Questa nuova esigenza è Kant». Cfr. anche IDEM, La filosofia di Kant e la sua relazione colla filosofia italiana, Torino, Unione Tipografica Editrice, 1860. 800 Cfr. F. MASCI, Coscienza, volontà e libertà. Studi di psicologia morale, Lanciano, Carabba, 1884. In questo volume Masci entra in polemica con il positivismo di Roberto Ardigò ed in particolare con la teoria dell’autonomia del volere esposta dall’Ardigò nello scritto Morale dei positivisti: cfr. ibidem, pp. 348-49. Negli anni seguenti vi fu un serrato dibattito tra Ardigò e Masci: si vedano R. ARDIGÒ, Le inesattezze del Prof. Masci, in “Rassegna critica”, maggio 1887; F. MASCI, Una risposta al Prof. Ardigò, “Rivista italiana di filosofia”, I, 1887, p. 180 ss.; IDEM, I sofismi del Prof. Ardigò, “Rivista italiana di filosofia”, II, 1887, p. 177 ss.

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Ortona e nel 1913 viene nominato Senatore del Regno d’Italia. Muore a Napoli nel 1922. L’opera principale di Masci nella quale sono raccolti e sintetizzati tutti i risultati delle sue precedenti ricerche si intitola Pensiero e conoscenza e risale al 1922. Questa è una sorta di summa del suo pensiero: in essa - come sottolinea lo stesso autore801 - si trovano raccolti in unità sistematica i disiecta membra dei suoi precedenti lavori filosofici: Le forme dell’intuizione (Chieti, Del Vecchio, 1881), Sulla natura logica delle conoscenze matematiche (“Filosofia delle scuole italiane”, Roma 1885), Sul senso del tempo (“Atti della Regia Accademia delle Scienze morali e politiche”, Napoli, 1890), Il materialismo psico-fisico e la dottrina del parallelismo in psicologia (“Atti dell’Accademia di Napoli”, Napoli 1901), Intellettualismo e pragmatismo (“Atti della Regia Accademia delle Scienze morali e politiche”, Napoli, 1911), La filosofia dei valori (“Atti della Regia Accademia dei Lincei”, Roma, 1912), Credenza e conoscenza (“Atti dell’Accademia di Napoli”, Napoli, 1920). 2.2. “Con Kant, oltre Kant”: un nuovo sistema della filosofia L’intento di Masci è quello di costituire un compiuto sistema di filosofia fondato su un radicale ripensamento del pensiero kantiano802. In questo senso possiamo definire Masci come “il 801

Cfr. PC, p. V. Gli scritti ed i volumi dedicati al pensiero di Masci non sono numerosi. Tra questi segnaliamo: G. GENTILE, Filippo Masci, in IDEM, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, vol. III, cit., pp. 77-105; F. DE SARLO, L’opera filosofica di Filippo Masci. Discorso commemorativo, L’Aquila 1926; G. ROSSI, Il pensiero filosofico di F. Masci, “Rivista Rosminiana”, XXIII, 1929; A. PIETRANGELI, Filippo Masci e il suo neocriticismo, Padova, Cedam, 1962; P. SALVUCCI, L’«idealismo critico» di Kant nella interpretazione di Carlo Cantoni, Felice Tocco e Filippo Masci, in Aa. Vv., La tradizione kantiana in Italia. Atti del convegno della Società filosofica italiana (Messina, 15-17 novembre 1984), Messina, Edizioni G.B.M, 1986, Vol. I, pp. 43-91; C. TATASCIORE (a cura di), Filippo Masci e la cultura del suo tempo a centocinquanta anni dalla nascita. 1844-1994, «Atti del 802

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Cassirer italiano”: egli condivide con Ernst Cassirer lo sforzo di rimuovere i punti deboli della posizione di Kant elaborando una nuova concezione degli a priori che sia più consona al mondo dinamico dello spirito e dei suoi elementi fondamentali (in particolare il linguaggio e la storia)803. Come Cassirer egli tenta inoltre di riconfigurare il rapporto tra la materia e lo spirito giungendo ad una posizione di equilibrio che vede nell’ampliamento della dimensione del trascendentale un suo fulcro dinamico. Il problema filosofico fondamentale posto dal Masci è quello di carattere gnoseologico: egli tenta una ridefinizione della conoscenza umana che costituisca una mediazione tra la posizione kantiana ed un radicale empirismo. In opposizione all’empirismo che ritiene la coscienza una tabula rasa ponendo il contenuto della conoscenza come dedotto integralmente dal contenuto dell’esperienza, egli, sulla scorta del pensiero kantiano, afferma che nella coscienza umana vi sono delle forme originarie e costitutive, ovvero le categorie. Masci critica però l’astrattezza e la fissità delle categorie kantiane

convegno nazionale. Chieti, 30 maggio – 1 giugno 1996», Napoli 1998; S. PAOLINI MERLO, Filippo Masci e la revisione del kantismo, «Notizie dalla Delfico», Pubblicazione della Biblioteca provinciale Melchiorre Delfico – Teramo, 2-3, 2000, pp. 7-11; A. DEREGIBUS, Monismo e neocriticismo nella filosofia di Filippo Masci, in “Filosofia oggi”, 24, 2001, pp. 263-302; 25, 2002, pp. 87-116, 221-264; L. GENTILE, Filippo Masci. Dal criticismo kantiano al monismo psicofisico, Chieti, Edizioni Nobus, 2003. 803 A tal proposito si veda in particolare l’ultima opera dell’autore: E. CASSIRER, An Essay on Man: An Introduction to a Philosophy of Human Culture, New Haven, Yale University Press, 1944; tr. it. Di C. d’Altavilla, Saggio sull’uomo. Una introduzione alla filosofia della cultura umana, Roma, Armando 20008. Sulla risemantizzazione del trascendentale in Cassirer ci permettiamo di rinviare anche al nostro saggio Filosofia del comprendere e dialogo tra le culture. La prospettiva di Wilhelm von Humboldt e la sua ripresa in Ernst Cassirer, in G. SCARAFILE – M. SIGNORE (a cura di), Libertà e dialogo tra le culture, Padova, Edizioni Messaggero, 2007, pp. 327-372.

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proponendo - in maniera simile a Cassirer e a Karl-Otto Apel804 un’originale ridefinizione ed ampliamento delle categorie stesse. Il pensiero di Masci va quindi compreso sulla base di un kantismo corretto e ripensato sulla base delle nuove cognizioni scientifiche, e psicologiche in particolare805. E lui stesso che ci elenca con chiarezza gli elementi problematici del pensiero kantiano che rigetta con decisione: «la distinzione di fenomeno e noumeno, l’a-priori come anteriore alla conoscenza, le antinomie, la cosa in sé, le forme dell’intuizione e le categorie come forme belle e fatte dell’intuizione e del pensiero, pronte a cogliere quanto vi cadrà dall’esperienza, come fossero reti solide apparecchiate d’avanzo».806 Secondo Masci «non vi è altro a-priori che lo spirito»807 e per realtà dello spirito egli intende le creazioni della libertà umana quali 804

Si veda in particolare K.-O. APEL, Transformation der Philosophie, Frankfurt a.M., Suhrkamp, 1973; tr. it. [parziale], Comunità e comunicazione, Introduzione di G. Vattimo, Torino, Rosenberg & Sellier, 1977. 805 Di notevole interesse sono ad esempio le sue riflessioni critiche sul valore dei numeri (interpretati come categorie dello spirito) e sulla teoria della relatività di Einstein: cfr. F. MASCI, Sulla teoria della relatività di Einstein, in PC, pp. 479-492. Si noti che anche nel kantiano Cassirer troviamo la fondamentale esigenza teoretica di un confronto critico con il paradigma scientifico proposto da Albert Einstein: si veda E. CASSIRER, Zur Einsteinschen Relativitätstheorie. Erkenntnistheoretische Betrachtungen, Berlin 1921; tr. it., Sulla teoria della relatività di Einstein, Firenze, La Nuova Italia, 1973. 806 PC, p. V. In particolare Masci critica il rigido dualismo delle facoltà teorizzato da Kant: si tratta del dualismo tra sensibilità (Sinnlichkeit) e intelletto (Verstand) che pone due fonti distinte e separate della conoscenza. Così come Hamann, Herder, Schiller, Goethe ed altri autori dell’aetas kantiana, anche in Masci troviamo una critica alla visione kantiana delle facoltà scisse e dilacerate e la proposta di una visione antropologica più organica ed armonica. Possiamo dire che tra gli intenti di Masci ci sia sicuramente quello di elaborare una concezione armonica ed unitaria dell’uomo e della natura stessa. Sul confronto critico del filosofo italiano con il criticismo di Kant cfr. anche F. MASCI, E. Kant, Napoli 1904; IDEM, Studi kantiani di Filippo Masci, Napoli 1912. 807 PC, p. V.

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la filosofia, la scienza, la religione, il diritto, il mondo dell’arte. Egli definisce la filosofia come «scienza del pensiero, e delle sue leggi e funzioni; e della realtà fin dove è possibile scorgere in essa pensiero e ragione. Quindi è Logica, Gnoseologia, Filosofia del diritto, della moralità, della religione, dell’arte, della scienza»808. In maniera simile a Cassirer, il Masci intende la filosofia come scienza tesa ad indagare i presupposti trascendentali del reale, le sue originarie condizioni di possibilità, ovvero le funzioni produttive del pensiero che rendono l’uomo Sinngeber, “donatore di senso”. La filosofia è quindi «scienza della realtà», ma si tratta della realtà colta nel suo nucleo sorgivo che è la soggettività trascendentale: la filosofia viene definita in tal senso come «scienza della realtà resa intelligibile, [ovvero] formata secondo le categorie del pensiero»809. 2.3. Le critiche al positivismo e all’idealismo: una rinnovata configurazione dei rapporti tra natura e spirito Cerchiamo ora di approfondire come il Masci giustifichi la sua concezione della filosofia tesa a salvaguardare la realtà dello spirito umano - l’unico vero a priori originario - in grado di conferire senso e significato al reale nella sua interezza. Egli rifiuta radicalmente ogni netta contrapposizione tra natura e spirito, critica perciò sia gli eccessi del positivismo materialistico che quelli dell’idealismo assoluto. Gli errori filosofici del positivismo, a suo avviso, sono almeno tre: 1) tale metodologia assolutizza i fatti empirici senza però andare alle loro condizioni di possibilità trascendentali, alle kantiane Bedingungen der Möglichkeit da rinvenire negli a priori soggettivi. Egli sottolinea quindi che il fatto bruto in sé e per sé non esiste senza un soggetto che lo pensa; anche i presunti “fatti oggettivi” di cui si occupano le scienze sperimentali sarebbero dei costrutti mentali dal carattere soggettivo e personale: «La conoscenza muove dai fatti; ma bisogna intendersi anche su quel 808 809

PC, p. 3. PC, p. 96.

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che è il fatto per la conoscenza. Non si potrebbe dir fatto l’esperienza bruta, anteriore ad ogni lavoro selettivo della mente, e identificare questo con il reale, perché esso è piuttosto un caos, la materia bruta di un cosmo, la stoffa di cui è fatto il reale. Quindi è il bisogno di ordinare questo caos, che è la prima giustificazione dei nostri procedimenti conoscitivi. Questi operano una prima analisi del fatto bruto, la quale tende a scevrare l’apparente dal reale; ed è solo il residuo di questa selezione, che è il fatto nel senso gnoseologico. Ora questo è essenzialmente un prodotto soggettivo e personale».810 Tuttavia la posizione gnoseologica di Masci non scade mai in un soggettivismo relativistico o dagli esiti scettici. Evidenziando che la conoscenza è un prodotto soggettivo e personale egli intende affermare che «il fatto di cui la conoscenza fa uso non è indipendente dalla nostra attività mentale [come pensavano alcuni positivisti], ma è in qualche modo una nostra costruzione»811. Il fatto è quindi essenzialmente un “costrutto mentale”. Chiariremo meglio meglio questa posizione parlando del fecondo confronto di Masci con il pragmatismo. 2) Il secondo fondamentale errore del positivismo viene individuato nell’assolutizzazione del metodo scientifico, elevato ad universale criterio di verità: «l’errore del positivismo consiste nel credere che il sistema ultimo del sapere si possa avere con gli stessi procedimenti della scienza, cioè formulando ipotesi causali, sperimentando e verificando, e che l’induzione astraente, che esso è costretto ad adoperare, sia un procedimento scientifico»812. 3) Lo scientismo tipico del positivismo ha una deriva meccanicistica e materialistica che nega la realtà stessa dei fatti spirituali, limitandosi alla mera considerazione epistemologica della realtà extra-soggettiva: «E il maggiore errore [del positivismo] è di limitare [il suo] procedimento di astrazione alle scienze della natura esteriore, e di riuscire quindi [a proporre] una teoria meccanica e 810

F. MASCI, Intellettualismo e pragmatismo, “Atti della Regia Accademia delle Scienze morali e politiche”, Napoli, Tipografia Sangiovanni, 1911, p. 8. 811 Ibidem. 812 PC, p. 3.

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materialistica, che è dissimulata soltanto dall’agnosticismo [cioè dalla “sospensione del giudizio teoretico” sulla validità delle realtà metafisiche, di tutto ciò che sfugge al principio di verificazione sperimentale]»813. Notiamo che tra il tardo Ottocento ed i primi anni del Novecento tali critiche ad una forma mentis positivistica vengono avanzate, seppur con differenti accentuazioni, non solo dai neokantiani ma anche dai tomisti, dagli spiritualisti e dagli idealisti. Masci non risparmia serrate critiche neanche all’idealismo ed in particolare alla forma assoluta che esso aveva raggiunto in Germania con Hegel, in Italia con Benedetto Croce e soprattutto con Giovanni Gentile. La posizione speculativa di Masci, a nostro avviso, può essere letta anche come il tentativo di arginare la deriva immanentistica dell’attualismo gentiliano: egli propone un’indagine filosofica in cui la coscienza umana non è chiusa all’immanenza di sé stessa e dei suoi atti ma è costitutivamente aperta all’alterità, a quell’alterità rappresentata sia dall’esperienza oggettiva (von unten) che dalla trascendenza religiosa (von oben). Masci tenta quindi di superare il “metodo di immanenza” teorizzato da Gentile secondo il quale «la concretezza assoluta del reale consiste nell’atto del pensiero o nella storia [che è il frutto della coscienza che riflette sui suoi atti]»814. Masci accusa l’idealismo di una radicale Naturvergessenheit, di una “dimenticanza della natura”: esso assolutizza la dimensione dello spirito fagocitando la fondamentale indipendenza della natura, la quale è una realtà da condiderare iuxta propria principia: «l’idealismo metafisico ha il difetto opposto del materialismo; cioè, mentre questo pretende di fare una meccanica dello spirito, l’idealismo fa una logica della natura e delle sue forze; cioè ambedue [idealismo e materialismo] applicano agli ordini più generali della realtà leggi che ripugnano alla loro qualità empirica»815. L’idealismo 813

Ibidem. G. GENTILE, Il metodo dell’immanenza, [Comunicazione tenuta alla Biblioteca filosofica di Palermo il 16 dicembre 1912], in IDEM, La riforma della dialettica hegeliana, [prima edizione: Messina, Principato, 1913], Firenze, Sansoni, 1975, p. 232. 815 PC, p. 2. 814

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metafisico si illude «si trovare nel pensiero un sistema oggettivo di idee, indipendente dall’esperienza».816 Secondo Masci, lo stesso sistema hegeliano che nella dialettica pretendeva di effettuare una sintesi tra spirito e natura rimane essenzialmente un sistema soggettivistico e disancorato dal momento fondamentale della natura oggettiva che è realtà a sé stante e non mera “decadenza” dello spirito: «La speculazione pura [scilicet l’idealismo assoluto] come superiore all’esperienza è in sostanza il pensiero soggettivo posto al di sopra dell’oggettivo; perciò Hegel non supera davvero il soggettivismo di Fichte»817. Uno dei principali intenti speculativi di Masci è quello di teorizzare un pensiero in cui natura e spirito siano di nuovo in armonia, senza gli eccessi dei due opposti monismi: il naturalismo positivistico e l’idealismo assoluto. Masci afferma con vigore che «l’esigenza della filosofia è l’unità»818 e che «la mente ripugna al dualismo»819. Ecco allora che il Nostro - in maniera simile a Schelling ma senza sconfinare in una metafisica dell’assoluto - pone una sostanziale continuità tra l’ordine della natura e quello dello spirito, una “continuità nella differenza”: «l’ordine della natura termina con quello che è il suo massimo prodotto, l’io, e da questo comincia l’ordine spirituale, che è pratico e contemplativo. […] L’ordine spirituale è l’ordine dei valori e dei fini»820. È questo uno dei punti più centrali ma certamente più problematici della prospettiva di Masci: egli pone una sorta di parallelismo e continuità 816

Ibidem. PC, p. 3. Masci critica quindi anche il real-idealismo (ovvero la posizione speculativa di J.G. Fichte) che «ammette una natura ideale dell’esperienza e della realtà che essa ci porge» (ibidem): in questa prospettiva «lo spirito, l’autocoscienza, è l’essenza della realtà, e la conoscenza filosofica è la dimostrazione di questa verità, che il sistema delle determinazioni spirituali (idee) è il sistema della realtà» (ibidem). Secondo Masci, il pensiero trascendentale deve limitarsi a conoscere la realtà oggettiva considerandola del tutto indipendente da esso e dall’ordine spirituale. 818 PC, p. 4. 819 Ibidem. 820 Ibidem. 817

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tra l’ordine naturale e quello spirituale, senza però argomentare con estremo rigore come dal determinismo del mondo naturale (il mondo-macchina sottoposto alle leggi della fisica) si possa passare al mondo spirituale caratterizzato dalla libertà. A nostro avviso, la spiegazione di questo divario insanabile tra natura e spirito, tra necessità e liberà è la crux - il “tallone d’Achille” - di ogni sistema filosofico che intende salvaguardare le autonomie dei due ordini senza sacrificare l’uno all’altro, senza cadere nel monismo materialistico o in quello idealistico821. La soluzione data da Masci si risolve in una sorta di “parallelismo psico-fisico” ove la realtà tutta viene concepita come unità psico-fisica, unità di spirito e materia. A questo proposito Luigi Gentile ha parlato giustamente di un “monismo psicofisico”822. A nostro avviso la posizione di Masci nasce da una fondamentale “fede nel primato del pratico”, da una fede nel valore della libertà che è l’essenza stesso dello spirito. Tale fede nel primato del pratico fa evitare ogni deriva deterministica e per essa il Masci è disposto ad abbandonare anche il rigore argomentativo: «che la realtà ultima sia la materia, o l’idea e la dialettica delle idee è indifferente. Quello che ha valore è l’esistenza spirituale, perché è in essa e per essa che l’essere giunge alla coscienza, ed è capace di conoscenza e di bene. Soppresso lo spirito, è soppresso ogni valore del mondo e in un certo senso anche l’essere del mondo; perché un mondo senza coscienza è come se non fosse».823 821

Sulla vexata quaestio del rapporto tra libertà e determinismo nella filosofia moderna e contemporanea segnaliamo l’ottima ricostruzione storiografica di M. MORI, Libertà, necessità, determinismo, Bologna, Il Mulino, 2001. 822 Cfr. L. GENTILE, Filippo Masci. Dal criticismo kantiano al monismo psicofisico, cit. Masci si rende conto che tale “monismo psicofisico” può essere interpretato come una forma di ilezoismo (di matrice aristotelica) o di panpsichismo (elaborato dai filosofi italiani del rinascimento): tuttavia egli rassicura che «non bisogna aver paura delle parole» (F. MASCI, Intellettualismo e pragmatismo, cit., p. 20). A questo proposito cfr. anche F. MASCI, Il materialismo psico-fisico e la dottrina del parallelismo in psicologia, “Atti dell’Accademia di Napoli”, Napoli, 1901. 823 PC, p. 5.

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In questi passi viene posto un primato dello spirito sulla materia derivante dal fatto che lo spirito umano è vita originaria, è compos sui ed è autocoscienza, mentre la materia è “morto essere” inconsapevole della propria esistenza. A nostro avviso, tali affermazioni di Masci a favore di un fondamentale primato dello spirito sulla materia richiamano da vicino due emblematiche posizioni espresse da Sant’Agostino e da Kant. Secondo il primo l’uomo è il vertice della creazione divina poiché solo in esso la creazione stessa si eleva ad autocoscienza: solo tramite l’uomo la natura creata diviene pienamente consapevole di se stessa: «initium […] ut esset homo creatus est»824, Dio creò l’uomo affinché il mondo avesse un inizio. In maniera simile, Kant nell’ultima parte della Critica del Giudizio afferma: «questa nostra terra, senza l’uomo, non sarebbe che un deserto, una landa oscura senza alcun significato»825. 2.4. Virtuosità del pragmatismo: congedo dagli assoluti e complessità del reale Notevole attenzione viene data da Masci al pragmatismo americano, in particolare alle posizioni di William James e di 824

AGOSTINO D’IPPONA, De civitate Dei, libro XII, 21, 548. Per Kant «l’uomo è lo scopo finale della creazione (der Mensch ist der Schöpfung Endzweck)» (I. KANT, Critica del Giudizio, [edizione originale del 1790], tr. it. di A. Gargiulo, Introduzione di P. D’Angelo, Roma-Bari, Laterza, 1994, p. 557). Ecco uno dei passi nei quali emerge chiaramente l’antropocentrismo kantiano, per il quale l’uomo è il fine stesso dell’ordine naturale poiché è unico tra i viventi ad elevarsi a piena razionalità ed autocoscienza: «Per il giudizio riflettente l’uomo può essere considerato non soltanto come un fine della natura, ma come lo scopo ultimo di essa sulla terra. […] L’uomo è l’unico essere sulla terra che possiede intelligenza e che può porsi volontariamente degli scopi, egli è in verità, il ben titolato signore della natura; e se la natura la si considera come un sistema teleologico, egli ne è per la sua destinazione (Bestimmung), lo scopo ultimo (der letze Zweck)» (ibidem, pp. 543-545). 825

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Ferdinand C.S. Schiller826. Masci non accetta in toto le teorie pragmatiche sulla conoscenza e sulla verità, tuttavia il confronto con esse risulta decisivo per la sua posizione teoretica: è anche dal fecondo studio del pragmatismo americano che egli amplia gli orizzonti del kantismo elaborando una concezione dinamica degli a priori che renda conto del carattere polimorfico dell’esperienza. Il confronto con il pragmatismo lo aiuta inoltre a chiarire il significato del suo “monismo psico-fisico” che rifiuta ogni ricorso alla superiore unità di spirito e materia nell’assoluto: quella di Masci è una prospettiva filosofica che rimane saldamente ancorata al punto di vista del finito e dell’esperienza concreta. Il Nostro contrappone nettamente l’intellettualismo al pragmatismo: con il primo viene intesa una dottrina della conoscenza che si serve delle sole facoltà teoretiche dello spirito, «senza subordinarle alle facoltà pratiche»827, mentre con pragmatismo viene intesa una filosofia che considera la verità come un “costrutto mentale” che scaturisce anche dall’uso delle facoltà pratiche e che, in ultima analisi fa dell’«utile […] il criterio del vero»828. Il pragmatismo - sottolinea Masci - è una filosofia in grado di farci comprendere che la verità non è mera astrazione logica, non è rappresentazione fedele e copia mentale (mímesis) di un mondo extra-soggettivo immutabile e fisso: «l’analisi intellettualistica della conoscenza [sia quella aristotelica che kantiana], ponendo in relazione soltanto la mente e l’oggetto, non coglie il vero procedimento della conoscenza»829. Sulla scorta della lezione dei pragmatisti, Masci sostiene che «la verità è una nostra fattura, è il prodotto di azioni umane sulla base dell’esperienza umana»830. La verità ha, dunque, un carattere soggettivo e personale: essa nasce dal rapporto originario tra la mente e la complessità del reale, che è vita 826

Di F.C.S. SCHILLER egli cita gli Studi sull’Umanismo, mentre di W. JAMES gli scritti Pragmatismo e Saggi pragmatistici: cfr. F. MASCI, Intellettualismo e pragmatismo, cit., p. 3. 827 Ibidem. 828 Ibidem, p. 7. 829 Ibidem, p. 9. 830 Ibidem.

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e movimento incessante. La verità nasce da un rapporto di interazione tra la mente e l’esperienza, che ha sempre caratteri proteiformi e cangianti. Considerare il reale come una “necessità oggettiva” è solo una nostra «comodità o un’abitudine mentale»831. A partire dai suoi studi sul pragmatismo, ci pare che il Masci giunga ad una visione del reale (e della stessa verità) che è estremamente attuale e che trova sintonie anche con le moderne teorie della complessità, come quella proposta, ad esempio, da Edgar Morin. Masci sottolinea che la realtà è complessa, è plastica e dinamica, poiché in essa vi è vita e perenne novità: «la realtà noi la dobbiamo considerare come plastica, e tanto più plastica quanto maggiore è su di essa il potere dell’intelligenza»832. In opposizione ad ogni fissismo e ad ogni forma di riduzionismo monistico [sia esso di tipo idealistico o materialistico], egli afferma che la realtà, proprio perché complessa e dinamica unità di spirito e materia, sfugge ad ogni rigida catalogazione: «Ci è nella realtà una spontaneità, per cui la vita, la libertà, sono quello che sono; e l’imprevedibile, il diverso sono nella natura non meno che nell’uomo. I sistemi monistici, materialistici o spiritualistici che siano, proseguono un’unità fittizia, cercano il semplice, la simmetria, l’ordine, a spese della realtà e della vita. Invece noi viviamo nel tempo, nel molteplice, nel finito, e non è possibile di prescinderne, di sbarazzarci delle forme di pensiero, che l’esperienza c’impone. L’assoluto è un’astrazione che non ci riguarda, e non ci interessa. Il mondo non è per noi un universo, ma un multiverso, un pluriverso».833 La realtà è quindi un pluriverso, è composta da “mille piani” che è impossibile comprendere in una sintesi unitaria così come pretendevano Hegel e gli idealisti: in questa sua concezione della complessità del reale il Masci, a nostro avviso, si avvicina

831

Ibidem, p. 21. Ibidem. 833 Ibidem, p. 23. 832

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notevolmente anche a posizioni ontologiche come quelle espresse dai francesi Gilles Deleuze e Félix Guattari834. 2.5. Una nuova tavola delle categorie Tra gli aspetti più originali del pensiero di Masci v’è, a nostro avviso, la sua riflessione sulle categorie, ovvero su quelle formae mentis che determinano il nostro rapporto con l’esperienza. In Pensiero e conoscenza, prima di esporre la sua concezione dell’apparato categoriale, egli fa un interessante exursus di carattere storico e teoretico. Nella storia della filosofia egli individua cinque teorie generali sulle categorie: queste sono «l’ontologica, la formale, la reale-idealistica, l’empirica, la trasformistica»835. Il Masci prende accuratamente in esame le cinque teorie sottolineando pregi e limiti di ognuna di esse. Egli sottolinea giustamente che il “padre” della riflessione sulla categorie è Aristotele, il quale adopera per primo la parola stessa di categoria (dal greco katà agoréuo, “dico di qualcosa o di qualcuno”), tradotta poi dai latini con praedicamentum. Aristotele, com’è noto elabora una teoria ontologica delle categorie: esse sono i generi sommi dell’essere (tò òv), le forme più generali e fondamentali del reale. Lo stagirita ne enumera dieci e le pone in relazione con le forme grammaticali e logiche del discorso: «sostanza, qualità, quantità, relazione, dove, quando, situazione, avere, fare, patire. Sono tratte rispettivamente dai sostantivi, dagli aggettivi, dai numerali, dalle proposizioni, congiunzioni, suffissi di casi, avverbi di 834

Cfr. in particolare G. DELEUZE – F. GUATTARI, Mille plateaux. Capitalisme et schizophrénie, Paris, Minuit, 1980. Una notevole differenza tra la posizione di Masci e quella di Deleuze-Guattari è che mentre il primo salvaguarda la realtà dello spirito e i suoi valori, i filosofi francesi propongono una Weltanschauung essenzialmente materialistica nella quale gli individui vengono considerati dei centri propulsivi ed energetici che operano in una realtà complessa, fatta di “mille piani” prospettici, ma priva di uno sfondo di riferimento dal carattere metafisico e teologico. 835 PC, p. 256.

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luogo, di tempo, dai verbi intransitivi, dal perfetto medio greco, dal verbo attivo e passivo»836. Masci, seguendo la novità teoretica rappresentata dal pensiero di Kant, critica la teoria aristotelica delle categorie come forme generali dell’essere: egli le considera piuttosto come forme generali del pensiero, come formae mentis e non come formae entis. In continuità con i risultati del criticismo trascendentale kantiano, egli afferma che le categorie sono «le forme dell’intelligibilità del reale; esprimono le relazioni più generali, nelle quali tutto ciò che è deve essere pensato perché sia conoscibile»837. In altre parole: sono le forme del pensiero, le funzioni originarie dell’intelletto, per le quali la realtà è intelligibile, è cioè concretamente conoscibile e raffigurabile: «Accettammo da Kant il concetto della forma, ma nel senso positivo e scientifico, accolto generalmente ora di funzione. Non ci è di assolutamente universale ed estendibile a tutta la realtà se non che la forma»838. Ecco allora la definizione di categoria proposta da Masci sulla base della prospettiva kantiana: «Per noi dunque la categoria è la funzione del pensiero nell’intendimento della realtà, una funzione essenzialmente oggettiva, rivolta alla realtà, perché è la costruzione intelligibile della

836

PC, p. 254. Una teoria ontologica delle categorie non viene individuata solamente in Aristotele ma anche in Spinoza: «La teoria ontologica intende le categorie come i concetti fondamentali della realtà, che sono ad un tempo necessità pel pensiero; quindi conchiude dal pensiero all’esistenza. Il modello della teoria ontologica è la teoria spinoziana» (PC, p. 256). In Spinoza l’ordine delle idee della mente umana si identifica con l’ordine stesso delle cose extrasoggettive: a tal proposito si ricordi l’adagio dell’Ethica «Ordo et connexio idearum idem est ac ordo et connexio rerum» (Ethica, II, pr. VII). Tuttavia Masci critica la teoria ontologica poiché essa a suo avviso «poggia su due errori fondamentali; ammette le idee innate o l’intuizione intellettuale, ammette la illazione dal concetto all’esistenza. Nell’ontologismo, come anche nel reale-idealismo, le categorie sono tutte le idee reali del sistema, per esempio, le due sostanze cartesiane, l’unica sostanza spinoziana, Dio per Malebranche, e le sostanze finite, le monadi leibniziane» (PC, pp. 256-257). 837 Ibidem. 838 PC, p. 258.

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realtà»839. Masci tuttavia, come abbiamo già accennato, critica il fissismo delle dodici categorie kantiane proponendo un ampliamento ed una dinamicizzazione stessa di tali forme a priori con cui la mente umana si rapporta al reale. Masci critica con radicalità anche la teoria “real-idealistica” delle categorie di cui il maggior rappresentante è Hegel: quest’ultimo «ha creduto che il sistema delle categorie si potesse costruire per una legge interna del pensiero, e che fosse insieme il sistema del pensiero e il sistema della realtà; nel linguaggio hegeliano, logicametafisica»840. Masci critica quindi l’astrattezza del sistema hegeliano che assolutizzando la dialettica dello spirito perde di vista il complesso mondo dell’esperienza oggettiva, da cui la mente trae i suoi apparati categoriali. Il real-idealismo - egli nota - ponendo una fondamentale identità tra il pensiero e l’essere finisce per non considerare il momento empirico; l’empirismo, al contrario, concependo la mente come tabula rasa, perde del tutto il mondo intelligibile, gli a priori della mente che possono render possibile l’atto conoscitivo: «l’errore del reale-idealismo è di credere che si possa fare a meno del primo momento (empirico), come l’errore dell’empirismo è l’opposto, la riduzione della conoscenza alla percezione sensitiva. L’oggetto non è nè il puro intelligibile, né il puro dato»841. Masci sottolinea che l’atto conoscitivo scaturisce sempre da una sintesi - una Verbindung direbbe Kant - tra le categorie a priori e le intuizioni sensibili. Una quarta teoria sulle categorie viene rinvenuta nell’empirismo: in Locke, in Hume e soprattutto in John Stuart Mill. In tale corrente filosofica «la categoria non è niente di primitivo e di fondamentale (tale è per la conoscenza solo la sensazione), ma il prodotto ultimo e più attenuato dell’astrazione»842. Per il Masci «poiché il puro empirismo è nominalista, la categoria è per esso il significato del nome più generale, e l’elenco delle categorie è l’elenco dei nomi più generali, coi quali possono essere denominate tutte le cose senza 839

Ibidem. PC, p. 255. 841 PC, p. 257. 842 PC, p. 256. 840

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lasciarne nessuna al di fuori»843. La teoria empirista (e nominalista) sottolinea Masci - mostra una sua intrinseca debolezza e non riesce a spiegare in toto il concreto atto conoscitivo, nel quale è evidente che il soggetto non è soltanto passività e ricettività nei confronti delle cose esteriori. L’empirismo avrebbe, dunque, alle sue spalle un materialismo e una visione riduttiva della soggettività, la quale come sottolineano anche i kantiani contemporanei di Masci - ha un suo proprio apparato a priori che è un qualcosa di originario e non il frutto di un’astrazione dall’esperienza: «La conoscenza non si spiega se il soggetto si ritiene come puramente passivo, perché, presa a rigore, la passività del soggetto è la negazione del pensare, dell’intendere, e fino della psichicità»844. Una forma radicalizzata di empirismo e di pragmatismo conduce alla quinta teoria sulle categorie definita dal Masci come “trasformistica”. Il principale esponente di tale teoria è il danese Harald Höffding con il suo volume del 1911 La pensée humaine, citato più volte da Masci nella traduzione francese845. Il Nostro sottolinea pregi e difetti di questa prospettiva che ha sicuramente degli aspetti originali, in quanto si contrappone nettamente a quell’intellettualismo statico che «ha dominato quasi tutta la storia della filosofia [una grande eccezione è l’idealismo con l’idea di dialettica, il pragmatismo americano e l’intuizionismo di Bergson]»846. Il grande merito della teoria trasformistica è che essa ci restituisce un’immagine della realtà come “generazione continua” e 843

Ibidem. PC, p. 261. Masci continua i suoi rilievi critici affermando che «la teoria empirica e nominalistica considera le categorie come astrazioni dell’esperienza, non come le condizioni dell’intelligibilità del reale. Il suo punto di vista nella teoria della conoscenza è quello della passività del soggetto rispetto all’azione delle cose esteriori. L’esperienza è la cosa fondamentale, le idee dell’intelligenza non sono che l’eco attenuata delle sensazioni. È facile mostrare che la teoria empirista nella gnoseologia si riconnette a una dottrina metafisica materialistica» (PC, p. 259). 845 Cfr. H. HÖFFDING, La pensée humaine; ses formes et ses problèmes, tr. d’après l’éd. danoise, par J. de Coussange, Avant-propos de M.E. Boutroux, Paris, Alcan, 1911. 846 PC, p. 262. 844

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“dinamismo collettivo” rifiutando gli “schemi fissi” tipici della posizione kantiana ma anche dell’epistemologia positivistica. «Quello che è caratteristico nel pensiero dell’Höffding» - sottolinea Masci - «è di proclamare l’originalità irriducibile della realtà, e insieme di mantenere l’unione dell’essere e del pensiero»847. In questa prospettiva, che ha delle profonde affinità con il pragmatismo di James e lo spiritualismo di Bergson (si pensi alla visione bergsoniana del principio della realtà come “evoluzione creatrice”), v’è una concezione delle categorie come forme vive e dinamiche. In tale prospettiva le categorie sono dedotte ed attinte dal cangiante mondo dell’esperienza che è vita e plasticità: «Il concetto non è uno schema fisso, poiché lo spirito che lo formola non si chiude in esso. Non sono i concetti ma è lo spirito che pensa. […] L’Höffding si propone di farci conoscere questo pensiero vivente, attivo, superiore alle categorie di una logica statica. Esso vuol mostrarci come il pensiero domina le categorie, le plasma lungo il cammino dell’esperienza, e può anche mutarle, abbandonare le antiche per le nuove, perché le categorie sono il prodotto del pensiero, che lavora sugli oggetti dell’esperienza, e di questi oggetti medesimi. Ed è possibile che l’esperienza, che non è mai completa, s’incontri in oggetti i quali esigono nuove attitudini, nuove forme di pensiero, e che il pensiero stesso muti le sue attitudini rispetto agli oggetti dell’esperienza, e rigetti le vecchie forme. Per Höffding il pensiero è cosa viva, non riducibile a schemi fissi».848 Si noti l’attualità che sotto il profilo speculativo conservano questi commenti di Masci alla posizione di Höffding: essi sono in piena sintonia anche con le moderne scienze cognitive che sovente propongono una visione plastica e dinamica della mente, una visione in cui ogni apparato categoriale viene spiegato in relazione all’ambiente naturale e sociale in cui l’individuo è inserito. Della posizione di Höffding il Masci condivide espressamente l’esigenza di oltrepassare la rigidità dell’apparato categoriale kantiano per proporre una teoria della mente che nasca dal vivo contatto con l’esperienza: «Quindi non si può fare un quadro stabile 847 848

PC, p. 263. PC, p. 263.

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e compito delle categorie [come aveva fatto Kant], come vogliono gli intellettualisti dommatici. Il pensiero non è un’eco, non è l’espressione astratta della trama immutabile delle cose [qui si può cogliere una critica ante litteram alla fenomenologia trascendentale di Husserl che intende cogliere l’eidos, l’universale dei fenomeni del mondo, di un mondo inteso come platonico “vestito di idee” (Ideenkleid)]; il pensiero è mescolanza alla vita delle cose, ed è progressivo con esse. Il suo divenire consiste nelle attitudini evolutive che il commercio con le cose, l’esperienza che fa di esse, e il progresso di queste generano in esso. La filosofia non deve, secondo l’Höffding, inabissare il razionale nel materiale, […] ma deve collegare la vita alla vita della realtà, perché il pensiero si forma dal commercio intimo della coscienza colla realtà.849 Tuttavia Masci mostra anche delle riserve nei confronti di Höffding e della sua teoria “trasformistica” delle categorie: in questa posizione la categoria viene quasi travolta ed annullata nella corrente continuamente mutabile dell’esperienza. La conoscenza stessa in questa radicale forma di empirismo verrebbe quasi annullata o impossibilitata: in un perpetuo flusso di coscienza non sarebbe più possibile nessuna reale sintesi conoscitiva. L’Höffding postula quindi «una coscienza riflessa senza nessuna qualità particolare, senza nessuna organizzazione determinata; il concetto di categoria come travolta dalla corrente […] dell’esperienza, la possibilità della conoscenza senza punti di riferiemento, cioè senza forme stabili, e la possibilità che, senza queste, la sintesi e l’analisi abbiano valore di conoscenza»850. Masci, pur condividendo con Höffding l’esigenza di una concezione dinamica delle categorie, vede nella sua posizione dei notevoli limiti epistemologici: «La categoria [nella prospettiva di Höffding] non è che l’increspatura superficiale della corrente della coscienza nell’esperienza; l’esperienza la crea, l’esperienza la cancella»851. Il filosofo italiano dichiara quindi incettabili le conclusioni teoretiche di Höffding, poiché in tale concezione «la conoscenza, se anche si potesse dire costituita, è una cinematografia, 849

PC, p. 264. PC, p. 265. 851 Ibidem. 850

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una lanterna magica, una successione di ombre sparenti, delle quali non si può dire che nessuna sia vera»852. In questa visione - sottolinea Masci - la coscienza stessa resterebbe scissa e frantumata, la soggettività non avrebbe più nè identità stabile nè solide garanzie epistemologiche: la prospettiva di Höffding, se presa nella sua radicalità, porterebbe agli stessi esiti di quella di David Hume, per il quale la mente è come un teatro dove le percezioni fanno la loro apparizione senza che vi sia un’identità nel tempo dei singoli stati di coscienza. L’io sarebbe all’insegna di una Zersplitterung, di una radicale frantumazione. Si comprende allora come «la teoria dell’Höffding è un vero e proprio nichilismo conoscitivo. Come ogni empirismo radicale, così anche quello dell’Höffding riesce [ha come esito], pur affermando il contrario, alla teoria lockiana [e humiana] della tabula rasa, perché la coscienza è immaginata come non avente nessuna natura determinata fuori dell’esperienza»853. Dopo aver messo in rilievo le carenze delle cinque teorie sulle categorie sopra menzionate - ma anche di altre prospettive filosofiche854 - Masci si propone di «determinare bene il concetto di categoria, per poterne poi formare un elenco»855. 852

Ibidem. PC, p. 267. Secondo il Masci la prospettiva di Höffding e di ogni radicale empirista ha degli innegabili esisti scettici e nichilistici: «se le forme [cioè le categorie] sono variabili, se sorgono e tramontano nell’orizzonte della coscienza, dov’è la conoscenza? Dov’è la verità?» (PC, p. 266). Se le categorie «sono forme transitorie, la sola conseguenza possibile è questa, che la conoscenza è sempre e irrimediabilmente una mera fantasmagoria, e che la verità è irraggiungibile» (ibidem). 854 Masci afferma che «l’intuizionismo del Bergson è agnostico, il meccanismo associativo è pregnostico, e il formalismo kantiano, che fa risultare la conoscenza dall’applicazione delle forme dell’intelligenza all’intuizione, è in contrasto con la psicologia, e non spiega come la conoscenza possa nascere da elementi che non la contengono, la categoria vuota e l’intelligenza cieca. Il pragmatismo che non ammette come costitutivo delle riflessione se non che l’interesse pratico, non bada che presto questo interesse si trasforma in quello dell’uso del pensiero per sé stesso, e della verità» (PC, p. 265). 855 PC, p. 267. 853

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Esponiamo ora la pars costruens del discorso sulle categorie portato avanti dal Masci. Innanzi tutto diciamo che egli in continuità con la tradizione kantiana afferma che le categorie sono i concetti generali tramite i quali il nostro pensiero è in grado di schematizzare il reale, cioè di determinarlo nella conoscenza conferendo ad esso senso e significato. Le categorie vengono quindi comprese all’interno di una teoria della formazione dell’esperienza, di una sorta di Lehre vom Bild: esse sono le forme del pensiero attive, originarie ed universali che ci consentono di ottenere un’immagine (Bild) del reale. Masci definisce la categoria come «una forma attiva [del pensiero] indirizzata a formare l’esperienza, non una forma fissa che lo spirito ha in sé prima di qualunque esperienza»856. Tra categoria ed esperienza extrasoggettiva vi è quindi un rapporto di reciproca determinazione. Quella di Masci è una posizione di “realismo trascendentale” nella quale il valore universale delle categorie non viene definito in maniera aprioristica ma nasce dal contatto concreto con l’esperienza: «Ma perché la categoria sia la forma mentale dell’esperienza […], essa dev’essere un concetto, che è la trama ideale di tutti i concetti determinati possibili. […] La categoria si estende quando si estende l’essere e quando si estende il pensiero. È una determinazione dell’essere perché è una determinazione del pensiero, e viceversa; cioè è la condizione generale della conoscibilità»857. Masci sottolinea che la sua posizione si distanzia da ogni astratta forma di idealismo e considera adeguatamente il mondo dell’esperienza che è Lebenswelt, “mondo della vita”: «Il carattere realistico della definizione da noi adottato vale a mettere in evidenza il carattere fondamentale di ogni categoria, di essere cioè rivolta essenzialmente alla realtà, di cui è il carattere intelligibile [cioè trascendentale]»858. Abbiamo già messo in rilievo che la prospettiva di Masci propone una concezione organica della realtà nella quale natura e spirito formano una sorta di continuum, una “continuità nella differenza”. Pur all’interno del suo “monismo psicofisico” egli individua 856

PC, p. 268. PC, pp. 368-369. 858 PC, p. 270. 857

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chiaramente due ordini di realtà, la natura e lo spirito, che danno luogo a due ordini di categorie, «quelle relative a tutta la realtà [materiale], quelle specifiche della realtà spirituale»859. Egli specifica che «la teoria della conoscenza si occupa soltanto delle prime, e per le seconde si limita soltanto a riconoscerne il valore e la funzione»860: a questo proposito Masci ripropone con diverse parole la distinzione kantiana tra costitutivo e regolativo, tra giudizio determinante e giudizio riflettente; il primo ci fornisce una conoscenza del reale che è universale e necessaria, il secondo una conoscenza di tipo simbolico, frutto di una nostra “riflessione” sui fenomeni già conosciuti. Tale “riflessione seconda” si origina dai nostri sentimenti di ordine, finalità, bellezza, e nasce da un’interpretazione del reale basata sui valori della nostra cultura. In complesso, sottolinea Masci, abbiamo tre ordini di categorie: le formali, le reali e le ideali. Esse formano il mondo nel suo insieme sotto forma, rispettivamente, della pensabilità, della realtà oggettiva e del valore: «nelle prime domina l’idea della pensabilità [del reale], nelle seconde l’idea di esistenza, nelle ultime l’idea di valore». Ciò significa che «il pensiero si può riferire alla realtà in uno di questi tre modi, o in quanto essa e pensabile, o in quanto è pensabile e reale, o in quanto è pensabile e reale ed ha un valore»861. Notiamo che Masci, sulla base di un kantismo corretto ed ampliato, costruisce un sistema di filosofia fondato su una nuova tavola delle categorie, una tavola che rende conto della complessità e dei mille piani di cui è costituito il reale. Ecco allora che sotto l’ambito della “pensabilità del reale” egli pone le categorie di unità e molteplicità, di identità e differenza. Nel gruppo delle categorie reali, che hanno cioè una corrispondenza ontologica nel mondo stesso (quasi una sorta di universali presenti in re), il filosofo pone categorie come la sostanza, la causa, il divenire, l’evoluzione, la totalità e la finalità. Nel terzo gruppo, quello delle categorie che riguardano il valore, egli individua due ambiti subordinati: «quello delle categorie pratiche (dello spirito pratico o dei valori pratici), cioè le categorie economiche, le giuridiche, le 859

Ibidem. Ibidem. 861 PC, p. 270. 860

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morali; e quello delle categorie contemplative, cioè le estetiche, le filosofiche, le religiose, che ricomprendono anche le pratiche, e collegano ambedue le sfere della realtà, la natura e lo spirito»862. Come abbiamo potuto constatare, le categorie in Masci abbracciano il reale nella sua interezza, sono le funzioni tramite le quali la mente abbraccia nel concetto tanto le realtà materiali quanto quelle spirituali. Notiamo inoltre che tale ampliamento e risemantizzazione delle categorie kantiane viene situato all’interno della distinzione epistemologica - sempre di derivazione kantiana tra il conoscere (wissen) e il pensare (denken). Tale distinzione speculativa viene ripresa nel titolo stesso dell’opera principale di Masci: Pensiero e conoscenza. La conoscenza scientifica, quella di carattere universale e necessario, è sempre limitata ai fenomeni e all’esperienza oggettiva: tuttavia le categorie proprie dell’ambito spirituale sanno gettare lo sguardo anche al di là dei limiti della conoscenza scientifica, permettendo di legittimare l’ambito del noumenico, ciò che Kant identificava come pensabile (denkbar) e postulabile ma non scientificamente conoscibile. Attribuendo un valore epistemologico anche alle categorie dello spirito - come ad esempio la finalità - Masci opera un significativo allargamento degli orizzonti della ragione. Attribuendo una precisa “funzione regolativa” alle categorie spirituali, egli propone un discorso speculativo che non preclude pregiudizialmente l’affermazione della metafisica e della trascendenza religiosa. 2.6. Allargare gli orizzonti della razionalità: una “filosofia dei limiti” aperta all’ulteriorità Masci costruisce un sistema della filosofia che rende conto del reale ex principiis mentis, a partire cioè dalle funzioni trascendentali della mente: le categorie. Sono queste che - come sottolinea in maniera simile anche Cassirer - rendo possibile una concezione del

862

PC, p. 271.

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mondo nella sua interezza, comprendente sia gli aspetti quantitativi e scientifici che quelli propriamente spirituali e valoriali. Lo “spirito di sistema” che pervade l’opera del Masci non sfocia in una chiusura totalizzante: contrariamente ad Hegel e all’hegelismo a lui contemporaneo (Croce e Gentile), egli non intende costruire un sistema che deduce il reale e la storia umana nella loro interezza. Quella di Masci è una filosofia che resta saldamente ancorata all’esperienza empirica e che resta perciò fedele ai limiti della conoscenza, alle Grenzen teoretiche di cui parla Kant. La sua è una “filosofia dei limiti” che tuttavia sa gettare lo sguardo anche verso l’ulteriorità e la trascendenza, oltre i limiti stessi della conoscenza scientifica. Egli afferma con raffinato esprit de finesse che le categorie proprie della dimensione spirituale come quelle di carattere etico e religioso, pur andando al di là della conoscenza scientifica, hanno per l’uomo un fondamentale valore orientativo. Esse costituiscono una sorta di ampliamento degli orizzonti stessi della ragione: «Una teoria della conoscenza, che voglia essere completa, non può trascurare quelle categorie [le spirituali], che pur non essendo universali e necessarie in senso assoluto, sono tali per adattare più completamente il pensiero alla realtà, e questa a quello»863. In Masci possiamo quindi rinvenire i presupposti di una filosofia ermeneutica: là dove si arrestano le possibilità conoscitive scientifiche, cioè quelle di carattere universale e necessario, subentra l’interpretazione, la capacità ermeneutica propria dello spirito umano in grado di comprendere il reale in termini simbolici, spirituali e religiosi. Per avere una visione del reale nella sua complessità non sono sufficienti le scienze sperimentali e le loro rispettive categorie epistemologiche, occorre affrontare quello che già Platone nel Fedone (114 d) definiva “il bel rischio dell’interpretazione” (kalòs o kíndynos). Quella di Masci è una prospettiva che, a nostro avviso, ha delle notevoli potenzialità teoretiche da riscoprire e valorizzare: si tratta di una filosofia antiriduzionistica che rimane ancorata “al punto di vista del finito” ma che sa ben vedere i limiti di visioni del mondo e 863

PC, p. 272.

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dell’uomo parziali e riduttive come quelle tipiche dello scientismo, del materialismo e di alcune forme di naturalismo. L’intento di Masci è quindi quello di salvaguardare anche i valori dello spirito e della libertà, valori profondamente radicati in una concezione religiosa del reale. La coscienza trascendentale di cui parla il filosofo non è chiusura nell’immanenza, non è l’autoctisi gentiliana, ma è possibile apertura alla trascendenza, anche alla trascendenza di carattere propriamente teistico e cristiano. Masci è tuttavia profondamente rispettoso della differenza tra ragione filosofica e fede religiosa. Egli si limita a proporre una filosofia che non sia pregiudizialmente chiusa innanzi alla dimensione religiosa dell’esistenza. In Masci troviamo perciò una prospettiva teoretica che considera legittima anche un’apertura al mistero, che lascia uno spazio anche al momento propriamente religioso della vita della coscienza: «La filosofia non può essere che la concezione unitaria dell’esperienza e non la può oltrepassare. Ma siccome l’esperienza non è mai né infinita né assoluta, così ci è un margine per la religione. Questa si appella ad un’esperienza superiore possibile, ma le rappresentazioni che ci dà di questa ricadono sempre nei limiti dell’esperienza finita. Come esigenza continua l’esperienza finita, di cui è estensione nell’infinito, e però non si può negarne la legittimità ideale. Ma non si potrebbe dare a nessuna delle sue figurazioni un valore ultraempirico salvochè per speculum et in aenigmate. L’ultima parola della religione deve essere mistero».864

864

PC, p. 441.

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Studio II Il personalismo di Luigi Stefanini: un’ermeneutica filosofica ante litteram. (Un possibile confronto con Paul Ricoeur)

1. Il personalismo di Stefanini come ermeneutica filosofica ante litteram La prospettiva filosofica di Luigi Stefanini è stata definita da recenti interpreti del suo pensiero come «personalismo della parola»865 e «personalismo ermeneutico»866. Certamente per la sua prematura scomparsa (16 gennaio 1956) Stefanini non ha potuto conoscere gli sviluppi che il pensiero del secondo novecento ha avuto nella svolta linguistica ed ermeneutica: tuttavia condividiamo le tesi di Stephane Oppes ed Armando Rigobello secondo le quali nella speculazione del filosofo trevigiano sono contenuti in nuce molti degli elementi caratterizzanti l’ermeneutica contemporanea. In particolare, il tipo di ermeneutica alla quale si può avvicinare la posizione di Stefanini, sia per affinità tematiche che per atteggiamento di ricerca, è a nostro avviso quella elaborata dal filosofo francese Paul Ricoeur, «un’ermeneutica inscritta in una intenzionalità ontologica e che trova nella persona la fonte dell’attività interpretativa»867. Un puntuale confronto tra Stefanini e Ricoeur intorno alle tematiche della ricerca ontologica e del linguaggio ci pare opportuno e fecondo anche al fine di poter chiaramente individuare in Stefanini la posizione di un’ermeneutica 865

S. OPPES, La filosofia della parola tra neohegelismo, neopositivismo e tradizione cristiana, in Aa. Vv., a cura di G. Crinella, Luigi Stefanini. Linguaggio, interpretazione, persona, Studium, Roma 2001, pp. 97-133, p. 132. 866 Ibidem. 867 A. RIGOBELLO, La storiografia come ermeneutica, in Aa.Vv., Luigi Stefanini. Linguaggio, interpretazione, persona, op. cit., pp. 1-11, p. 7.

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personalistica, un’ermeneutica filosofica ante litteram incentrata nella visione della persona umana quale fonte sorgiva dell’essere e della parola. La filosofia dell’interpretare e del comprendere (Verstehen) che si può scorgere nella posizione di Stefanini ed ancor più esplicitamente in Ricoeur è però lontana dagli esiti storicistici e nichilistici di tanta parte della riflessione ermeneutica contemporanea: molte delle attuali proposte di ermeneutica filosofica, prendendo le mosse da Nietzsche, dissolvono la nozione di verità in interpretazione ed in “gioco di metafore”, spesso negando anche la possibilità di un’ulteriorità di senso al di là dei limiti della conoscenza umana e dell’interpretazione stessa868. Sia Stefanini che Ricoeur sono quindi lontani da un’ermeneutica che si avvicini al “pensiero debole” di Gianni Vattimo o al decostruzionismo di Jacques Derrida. Non esiterei a definire Stefanini come “filosofo del comprendere e dell’interpretare”: il suo itinerario filosofico è caratterizzato dalla ricerca di comprensione della realtà umana nella sua integralità ed è fecondato da una raffinata “arte dell’interpretazione”. Di 868

Questa estraneità del personalismo di Stefanini alle derive nichilistiche dell’ermeneutica contemporanea è stata bene messa in rilievo sia da Rigobello che da Renato Pagotto: «Estranea al pensiero di Stefanini [..] è l’accezione di ermeneutica che dissolve ogni oggettività in una rete di interpretazioni, una concezione ad esito nichilistico che ha le sue radici in Nietzsche e, attraverso Heidegger, giunge a Gadamer, ove tuttavia l’esito nichilistico si dissolve in uno storicismo totale quanto problematico, descritto dal mutevole intreccio di orizzonti interpretativi» (A. RIGOBELLO, La storiografia come ermeneutica, in Aa. Vv., Luigi Stefanini. Linguaggio, interpretazione, persona, op. cit., p. 7); «Ebbi l’imprudenza di accettare l’osservazione di un relatore che, a Treviso, si espresse per uno Stefanini incline ad una filosofia debole. [..] Ora mi accorgo che quella distinzione [tra filosofie forti e deboli] accondiscendeva alla moda dominante di allora (la Verwindung, il superamento o oltrepassamento della metafisica, a favore del metodo ermeneutico), ma non poteva essere applicata a Stefanini. [..] Al fondamento metafisico, inteso radicalmente, nel senso precisato nella teoria della persona, Stefanini non ha mai rinunciato» (R. PAGOTTO, Linguaggio e interpretazione, in Aa. Vv., Luigi Stefanini. Linguaggio, interpretazione, persona, op. cit., pp. 87-96, p. 92).

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quest’ultima Stefanini ci ha consegnato due magistrali esempi nelle monografie dedicate a Platone e a Gioberti. Uno degli elementi che ha caratterizzato le nozioni dell’interpretare e del comprendere, rintracciabile sia in Stefanini che in Ricoeur ed anche in Luigi Pareyson, è quello della inesauribilità dell’interpretare e del comprendere stesso, dell’inesauribilità cioè della stessa ricerca filosofica: «i risultati delle altre scienze si possono riassumere in un manuale ch’è facile tramite del sapere; ma ad apprendere la scienza delle scienze non basta una vita intera»869. Per Stefanini non ricercano realmente la verità coloro che «non scorgono il mistero rinascente ai margini di ogni soluzione e di ogni conclusione»870. La filosofia viene perciò intesa da Stefanini nel senso platonico di scépsi, di “ricerca” della verità di cui si intuisce interiormente l’esistenza ma giammai la si possiede compiutamente nè è «mai possibile metterla in formule»871 o dedurla da teoremi logici. Quella di Stefanini è un’ermeneutica intesa come approssimazione ad una verità che ha il carattere esistenziale di “testimonianza interiore”: l’imperativo della scépsi è quello agostiniano del ritorno in sé stessi (in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas) ed il suo concreto esercizio lo si realizza, come direbbe Ricoeur, “nella prassi di tutta una vita”: «Non si pretenda, dunque, di rinchiudere la verità nel giro di poche frasi e di qualche definizione. Solo chi dedichi tutta l’esistenza alla ricerca coscienziosa e accumuli tutte le esperienze, accogliendo tutte le testimonianze del senso, della ragione, dell’intelletto, chi soprattutto con fervido amore, educhi in sé l’affinità con l’oggetto a cui tende incessantemente lo spirito nella sua ascesa ideale, costui soltanto potrà imperfettamente realizzare le sue aspirazioni su questa terra e prepararsi alla visione pienamente pacificatrice nell’altra vita»872. Quella di Stefanini è quindi un’ermeneutica intesa come sforzo per avvicinarsi alla comprensione dell’interiorità umana nella quale vi è traccia di una presenza che la 869

L. STEFANINI, Platone, vol. I, Cedam, Padova 19492, p. XXXII (la prima edizione del vol. I del Platone è del 1932, quella del vol. II risale al 1935). 870 Ibidem. 871 Ibidem, p. XXX. 872 Ibidem, p. XXXIII.

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precede e che la fonda, che è “più intima a noi di noi stessi e più superiore a noi di noi stessi”: si tratta dell’agostiniano «interior intimo meo et superior summo meo»873. In questa prospettiva anche la parola umana trova la sua fonte sorgiva in una concezione della persona come imago Dei e si fonda su di una metafisica dell’interiorità. Possiamo dire che l’ermeneutica praticata da Stefanini non è affatto una rinuncia alla metafisica: essa si qualifica come processo infinito ed inesauribile di ricerca della verità ed ha come suo télos ideale un’interpretazione della persona come essere (sum) radicato nella infinità della trascendenza divina (plaenitudo essendi in termini tomisti). Nella prospettiva ermeneutica di Stefanini la nozione di verità non si risolve quindi in un orizzonte storicistico: a parte hominis la ricerca della verità è inesauribile e trova il suo fondamento ultimo nella dimensione della trascendenza religiosa. La verità viene tratteggiata come «adaequatio ansiosamente cercata dall’uomo con un processo indefinito di approssimazione in cui consiste la perfettibilità della vita e del conoscere»874. Nelle pagine che seguono cerchiamo di mettere in luce le possibili analogie rintracciabili in Stefanini ed in Ricoeur sul modo stesso di intendere la ricerca della verità tramite le metodologie dell’ermeneutica. 2. Stefanini e Paul Ricoeur: la comune ispirazione personalistica e cristiana In Stefanini e Ricoeur, pur nella diversità dei contesti culturali in cui sono vissuti, si possono trovare dei comuni punti di riferimento che hanno svolto un ruolo decisivo nell’elaborazione del loro pensiero: Platone, Agostino, Pascal, Bergson e lo spiritualismo francese, il personalismo di Emmanuel Mounier sono state figure e 873

AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, III, 6, 11. L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, a cura dell’Associazione Filosofica Trevigiana, Canova, Treviso 1996, p. 28; La mia prospettiva filosofica è il testo di una relazione tenuta da Stefanini a Padova in un ciclo di conferenze degli anni 1949-1950. 874

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movimenti di idee con i quali entrambi i filosofi si sono ampiamente confrontati nella loro formulazione di una filosofia che tiene conto del fondamentale apporto del cristianesimo. Sia Ricoeur che Stefanini possono essere definiti come “filosofi cristiani”: la sapienza biblica ha costituito per entrambi un orizzonte di senso al quale potersi orientare pur nella sempre vigile consapevolezza di un’essenziale differenza di metodo tra ricerca speculativa e fede religiosa875. Possiamo dire che la spiritualità cristiana è stata per entrambi i pensatori un paradigma di riferimento che ha orientato le loro indagini ermeneutiche verso un tema, quello della persona e dell’interiorità del soggetto, che pur nella diversità dei contesti in cui è stato sviluppato, ha costituito il filo rosso delle loro ricerche filosofiche. Abbiamo parlato di diversità di contesti. Per meglio comprendere gli itinerari filosofici che hanno contraddistinto i due pensatori è bene rilevare le divergente essenziali del loro rispettivo Sitz im Leben (il “terreno originario” di idee) e dei contesti speculativi con i quali i due autori si sono confrontati. In Italia nella prima metà del novecento la filosofia dominante era essenzialmente di matrice idealistica: influenti erano soprattutto lo “storicismo assoluto” di Benedetto Croce e l’attualismo di Giovanni Gentile. Il problema di Stefanini fu quindi quello di cercare di elaborare un “idealismo cristiano” - tale è anche il titolo di una sua opera876 - nel quale, in netta opposizione ad un immanentismo fondato sulla trascendentalità interpersonale dell’attività dello spirito (Geist nel linguaggio 875

Testimonianza di un impegno intellettuale dei due pensatori anche sul piano religioso e teologico sono, ad esempio, i due seguenti volumi: L. STEFANINI, La Chiesa Cattolica, Principato, Milano 1944 (Morcelliana, Brescia 19522); P. RICOEUR – A. LACOCQUE, Penser la Bible, Seuil, Paris 1998. 876 Cfr. L. STEFANINI, Idealismo cristiano, R. Zannoni, Padova 1931. Un’ampia e puntuale ricostruzione dell’intero itinerario speculativo di Stefanini, considerato anche in relazione alla cultura filosofica italiana ed europea del Novecento, è contenuta nel volume di G. CAPPELLO, Luigi Stefanini. Dalle opere e dal carteggio del suo archivio, Libri della Fondazione Luigi Stefanini, Europrint Edizioni, Treviso 2006.

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hegeliano) tornasse ad essere presente la nozione di individuo e di persona. Il tentativo speculativo di Stefanini fu quindi quello di superare la chiusura immanentistica e storicistica dell’idealismo per affermare il valore della persona come singolarità individuale e come trascendenza. Differenti e molteplici sono le prospettive filosofiche dominanti con le quali si è confrontato Ricoeur: in Francia seppur c’è stato un ampio confronto con Hegel (si pensi ad Octave Hamelin, Jean Wahl, Jean Hyppolite ed Alexandre Kojève), l’idealismo non è mai stato dominante, ed il confronto diretto di Ricoeur è stato piuttosto con l’esistenzialismo di Gabriel Marcel e di Karl Jaspers, con la fenomenologia di Husserl, con Heidegger, con lo strutturalismo, con le ermeneutiche del sospetto (Marx, Nietzsche e Freud) e a partire dagli anni settanta con la filosofia del linguaggio analitica. Quella di Ricoeur è quindi una prospettiva ermeneutica nata da un serrato confronto critico con le principali correnti di pensiero che hanno attraversato il novecento: pur nella sostanziale fedeltà ad una tematica centrale – quella della soggettività – Ricoeur non si è mai sottratto a riesaminarla ed a vagliarne le sue condizioni di possibilità alla luce delle nuove istanze speculative che di volta in volta emergevano nel corso degli anni. Senza forzare i termini possiamo dire che anche Ricoeur sia stato il fautore di quella che Stefanini definisce come una reivindicatio nei confronti delle filosofie moderne e contemporanee: si tratta di una “rivendicazione” di tutto ciò che in esse vi potesse essere di accettabile e condivisibile877. Il rapporto critico di Ricoeur con le filosofie che 877

In un articolo del 1929 Stefanini ricorda che reivindicatio è termine giuridico usato dai primi pensatori cristiani nei confronti delle filosofie pagane: egli intende adottare tale termine per qualificare il suo rapporto nei confronti di quegli aspetti del pensiero moderno e contemporaneo, che più possono essere ripresi nella sua personale prospettiva filosofica. Cfr. L. STEFANINI, Reivindicatio, in «Convivium», I, 1929, pp. 86-100. Marino Gentile ha scritto che Stefanini con il termine reivindicatio voleva indicare questo: «rivendicazione di tutto ciò che vi poteva essere di accettabile nell’idealismo stesso e soprattutto in quel senso dell’interiorità, che appartiene al dominio della natura umana e alla storia della ricerca filosofica, ma solo col vivo nutrimento della tradizione cristiana ha potuto

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hanno attraversato il ‘900 non è però solo definibile tramite l’istanza speculativa di “rivendicazione” così com’essa è esplicitamente rintracciabile in Stefanini, ma può essere compreso anche come “metodo dell’integrazione”. Quest’ultimo è il metodo ermeneutico seguito dallo stesso pensatore trevigiano: esso consiste nel «mettere a confronto l’embrione originario con ogni successiva esperienza di pensiero e di vita, per saggiarne la sua resistenza e arricchirlo di ogni incisione fecondatrice»878. Quello che Stefanini definisce “metodo dell’integrazione” delinea, a nostro avviso, anche uno dei tratti peculiari dello stile ermeneutico di Ricoeur: l’atteggiamento speculativo del pensatore francese nei confronti di prospettive filosofiche ad esso lontane per metodo e finalità è sempre quello della ricerca di una possibile “integrazione”. Possiamo dire che l’ermeneutica riceuriana è permeata di una caritas interpretativa che lo spinge a non contrapporsi mai radicalmente ad un’indagine filosofica differente dalla sua: persino nei confronti di Heidegger (il pensatore del “dissolvimento” della soggettività umana nell’essere dal carattere impersonale), Ricoeur evita una contrapposizione radicale e cerca di vagliare quegli aspetti della riflessione del filosofo tedesco che più sono “integrabili” con la sua prospettiva di ricerca879. Il nucleo ideale originario da cui si sviluppano le indagini di Stefanini e di Ricoeur è, secondo noi, da ricercare nella comune istanza personalista: la nozione di persona costituisce per i due pensatori, seppur con diverse accentuazioni, un termine costante di riferimento e di orientamento. Possiamo rilevare tuttavia una differenza essenziale che caratterizza i due approcci filosofici incentrati attorno all’idea di persona: mentre in Stefanini è chiara la dare le sue espressioni più valide anche nell’ambito naturale e filosofico» (M. GENTILE, Luigi Stefanini, in «Studia Patavina», III/3 (1956), pp. 366367). 878 L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op. cit., p. 30. 879 A tal proposito si veda P. RICOEUR, Heidegger et la question du sujet, in IDEM, Le conflit des interprétations, Essais d’herméneutique, Seuil, Paris 1969; tr. it. di R. Balzarotti, F. Botturi, G. Colombo, Pref. di A. Rigobello, Heidegger e la questione del soggetto, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, Jaca Book, Milano 1977, 19993, pp. 239-250.

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definizione di una “ontologia della persona” («l’essere è persona o rientra nell’atto efficace della persona»880), in Ricoeur, come vedremo analizzando il decimo studio della sua opera Soi-même comme un autre, tale ontologia resta una “terra promessa” della sua ricerca, quasi un ideale regolativo che pur animando l’indagine teoretica non giunge mai ad una compiuta tematizzazione. Ciò che unisce Stefanini a Ricoeur, pur nella distanza anche cronologica che separa i due pensatori, è certamente il comune interesse per la figura di Emmanuel Mounier ed il movimento sorto attorno alla sua rivista Esprit: di Mounier condividono entrambi l’approccio esistenziale ai temi della persona, l’attenzione rivolta alle dinamiche dell’interiorità ed il suo impegno etico-politico; sia Stefanini che Ricoeur, a differenza di Mounier, si situano però all’interno di una consolidata tradizione accademica e pur avvertendo l’urgenza di un pensiero filosofico incentrato attorno alla nozione di persona si distanziano dall’eccessiva militanza che caratterizzò il movimento personalista. Entrambi non mancano tuttavia di sottolineare, seppur con diversi toni, il valore speculativo di una ricerca che faccia della persona umana la sua finalità ideale. È con tali parole, ad esempio, che Ricoeur si esprime negli anni ‘90 su questo concetto : «La persona resta, ancora oggi, il termine più adeguato per dare impulso a ricerche per le quali non sono adeguati [..] né il termine di coscienza, né quello di soggetto, né quello di individuo»881; «Se la persona ritorna, ciò accade perché essa resta il miglior candidato per sostenere le lotte giuridiche, politiche, economiche e sociali»882. Uno degli elementi che differenzia il personalismo di Stefanini da quello di Ricoeur lo si può individuare nella concezione stessa che essi hanno della persona: nel primo tale nozione si caratterizza per 880

L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op. cit., p. 27. P. RICOEUR, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. Approches de la personne [1990], Seuil, Paris 1992; tr. it. e cura di I. Bertoletti, Della persona, in IDEM, La persona, Morcelliana, Brescia 1997, pp. 37-71, p. 38. 882 IDEM, Lectures 2. La contrée des philosophes, sez. La personne (Meurt le personnalisme, revient la personne [1983]), tr. it., Muore il personalismo, ritorna la persona, in IDEM, La persona, op. cit., pp. 21-36, p. 27. 881

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una forte accezione ontologica e metafisica («l’essere è personale»883), nel secondo essa si pone in continuità con le definizioni etico-giuridiche date da Kant, per il quale la persona è un concetto della ragion pratica ed è soggetto umano degno di rispetto (Achtung), soggetto da considerare sempre come «fine in sé (Zweck an sich) e giammai come mezzo»884. 3. Analisi dell’interiorità ed approcci concreti al mistero dell’essere La tematica fondamentale delle ricerche sia di Stefanini che di Ricoeur può essere individuata nella soggettività. La domanda centrale che orienta le analisi filosofiche di entrambi i pensatori è 883

L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op. cit., p. 9. I. KANT, Grundlegung zur Metaphysik der Sitten [1785], in Kant’s gesammelte Schriften, Akademie-Ausgabe, Band IV, p. 429; tr. it. e cura di V. Mathieu, La fondazione della metafisica dei costumi, Rusconi, Milano 19882, p. 126. È con tali parole che Ricoeur commenta la caratterizzazione kantiana della persona facendo emergere il suo valore in relazione all’alterità: «Attraverso il rispetto la persona si trova immediatamente situata in un ambito di persone la cui alterità reciproca è rigorosamente fondata sulla loro irriducibilità, in qualsiasi caso, a dei mezzi; detto diversamente, la loro esistenza è la loro dignità, il loro valore non commerciale e che non ha prezzo. Quando ogni persona non soltanto mi appare, ma si pone in modo assoluto come fine in sé che limita le mie pretese di oggettivarla teoricamente e di utilizzarla praticamente, è allora che esiste nello stesso tempo per me e in sé. In breve, l’esistenza dell’altro è un’esistenza-valore» (P. RICOEUR, Sympathie et Respect. Phénoménologie et éthique de la seconde personne, in IDEM, A l’école de la phénoménologie, Vrin, Paris 1986, 20042, pp. 333-360; tr. it. e cura di F. Riva, Simpatia e rispetto. Fenomenologia ed etica della seconda persona, in E. LÉVINAS, G. MARCEL, P. RICOEUR, Il pensiero dell’altro, EdizioniLavoro, Roma 1999, pp. 13-38, pp. 27-28). Ricoeur tuttavia rimprovera a Kant la sua «diffidenza malinconica nei confronti dell’affettività» (ibidem, p. 28) e prende in considerazione anche le analisi fenomenologiche sulla soggettività umana svolte da Max Scheler (cfr. ibidem, p. 29 ss.). 884

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sicuramente «la questione del chi?»885: si tratta del tentativo di definire il valore di quell’identità dell’io che parla, narra, agisce nella storia ed è soggetto di imputazione morale. In Stefanini tale ricerca intorno alla soggettività umana è anzitutto ricerca di carattere ontologico: essa si caratterizza come tentativo di dare un solido fondamento speculativo a quel personalismo che in Mounier aveva soprattutto un carattere esigenziale e di engagement, di concreto impegno etico-politico. In Ricoeur la ricerca sulla soggettività è invece solo “intenzionalmente” di carattere ontologico: tale intenzionalità latente delle indagini ricoeuriane viene particolarmente alla luce nel decimo studio di Sé come un altro, che reca il significativo titolo “Verso quale ontologia?”. Tale studio non intende arrivare a conclusioni ultime e definitive sullo statuto ontologico dell’identità umana: esso, come sottolinea lo stesso autore, pur mirando «a far emergere le implicazioni ontologiche delle precedenti indagini poste sotto il titolo di un’ermeneutica del sé»886 ha un carattere decisamente «esplorativo»887 e problematico. Tentiamo ora di confrontare come la ricerca intorno al modo di essere dell’io sia stata sviluppata dai due autori: essi nonostante si situino in diversi contesti filosofici dimostrano, a nostro avviso, anche delle sorprendenti analogie nelle modalità di analisi e nell’argomentare stesso. La prospettiva filosofica di Stefanini si origina da una riflessione diretta dell’io su sé stesso e sulla sua propria attività: in continuità con la tradizione agostiniana e lo spiritualismo francese - si ricordi che il suo primo volume è su Maurice Blondel888 - egli afferma che «l’io è il fatto primordiale e centrale dell’esperienza»889, che «il punto di partenza di ogni dimostrazione è l’esperienza che io ho di

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P. RICOEUR, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990; tr. it. e cura di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 19992, p. 82. 886 Ibidem, p. 409. 887 Ibidem, p. 409. 888 L. STEFANINI, L’Azione. Saggio critico sulla filosofia di M. Blondel, Società Editrice «Dante Alighieri», Milano - Roma - Napoli 1915. 889 L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op. cit., p. 9.

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me stesso»890. Il classico adagio della gnoseologia scolastica secondo il quale “primum cognitum est ens” viene declinato da Stefanini in direzione “psicologica” ed introspettiva: l’essere che si intuisce prima di ogni altra cosa è quello che l’io esperisce originariamente in sé stesso: «non mi rendo competente sull’essere se non osservando quello che l’essere è in me stesso. Ogni mia elucubrazione sull’essere sarebbe o dogmatica – cioè fuori della mia esperienza personale – o astratta – cioè fuori della mia esperienza concreta – se io prescindessi dalla sperimentazione dell’essere in cui l’essere mi porge la possibilità col suo realizzarsi in me medesimo»891. L’intuizione primaria e fondante da cui si origina l’argomentazione filosofica stefaniniana è quella di una apprensione coscienziale dell’essere che l’io può esperire direttamente in sé stesso senza alcuna mediazione logica: l’essere intuito è perciò quello «reale e vivente [..] nella mia esperienza personale»892. Quella definita da Stefanini è certamente un’intuizione ontologica dal carattere esistenziale: essa, ad avviso dello stesso autore, è però paragonabile anche alla categoria dell’essere in Rosmini «purchè s’intenda non l’essere indeterminato e possibile»893. Per Stefanini l’essere 890

Ibidem. Ibidem, p. 11. 892 Ibidem, p. 17. 893 Ibidem, p. 17. Ci pare che l’intuizione originaria dell’essere come “interiore esperire” delineata da Stefanini trovi in particolare delle affinità con il “sentimento fondamentale corporeo” di cui parla Rosmini: per entrambi si tratta di una prima aurorale presa di coscienza del proprio interiore consistere nell’essere all’interno di un corpo vivente. Non sfuggono a Stefanini neanche delle possibili analogie tra la sua posizione di un’immediata presa di coscienza dell’essere nell’io empirico e la coscienza di una originaria natura appartentiva (eigenheitliche Natur) di cui parla Husserl nelle Meditazioni cartesiane, la presa di consapevolezza di un interiore situarsi all’interno di una corporeità vivente (Leib): «la percezione di me-stesso e precisamente del mio ego concreto» (L. STEFANINI, Il dramma filosofico della Germania, [1938], Cedam, Padova 19482, p. 49). Il giudizio complessivo di Stefanini sulla fenomenologia eidetica husserliana rimane tuttavia assai critico. Egli parla di «un’esigenza insoddisfatta che sta al fondo della fenomenologia» (ibidem, p. 16) ed individua tale 891

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interiormente esperito non è «un’idea indeterminata»894 né il suppositum della tradizione tomista, considerato come «una consistenza pietrosa sulle cui superfici [..] si incrostano delle secrezioni»895: ci sembra che Ricoeur potrebbe pienamente condividere tali critiche di Stefanini ad un concetto di ousía come immutabile sostanza; anche al Ricoeur di Sé come un altro, impegnato nella ricerca di un’ontologia dell’atto e della potenza, secondo noi, possono essere attribuite le parole con le quali il filosofo trevigiano critica la nozione di suppositum dell’ontologia aristotelico-tomista: per Stefanini tale «concetto deteriore di sostanza quale sostrato di manifestazioni superficiali e accidentali si presta al processo intenzionale dell’empirismo inglese e alla condanna pronunciata dal pensiero moderno»896. Secondo Stefanini occorre recuperare un concetto di sostanza che resista alle critiche ad esso rivolte nella modernità dai filosofi empiristi e dallo stesso Kant: Stefanini tenta quindi di difendere quello che definisce come un «concetto autentico di sostanza»897, ovvero «la persistenza dell’essere in sé, nel suo non esse in alio»898: tale nozione di sostanza «trova conferma inoppugnabile nel modo d’essere personale che di momento in momento sperimento in mè»899. L’essere che l’io sperimenta in sé stesso ha per Stefanini i caratteri di un’attività e conserva i tratti della dinamicità dell’essere come enérgheia definiti da Aristotele: «l’essere è in me un’attività che a sé ritorna dal proprio atto per possedersi sempre più intimamente e adeguatamente»900. L’essere della persona è inoltre “insoddisfatta esigenza” nel «bisogno dell’immediato» (ibidem): per Stefanini “l’andare alle cose in sé stesse” (zu den Sachen selbst) è un’istanza di Husserl che non ha trovato compimento: essa ha avuto infatti come esito un «naufragio nel pelago trascendentale» (ibidem, p. 55). 894 L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op. cit., p. 11. 895 Ibidem, p. 12. 896 Ibidem. 897 Ibidem. 898 Ibidem. 899 Ibidem. 900 Ibidem, p. 11.

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«nucleo ed energia insieme, [..] energia intrinseca al nucleo e nucleo intrinseco all’energia»901. Come vedremo in seguito, tale accezione dell’essere argomentata da Stefanini si avvicina notevolmente anche a quella cercata da Ricoeur: anche le indagini compiute da quest’ultimo tentano infatti di reperire un significato dell’essere come attività e potenzialità, “nucleo ed energia” nel linguaggio stefaniniano, che il soggetto coglie in sé stesso riflettendo sui propri atti creativi: la parola, l’azione e il racconto. Sotto il profilo gnoseologico Stefanini prende le distanze sia dal realismo che dall’idealismo, e sottolinea i possibili squilibri che entrambe le posizioni possono recare al rapporto tra il pensiero e l’essere: egli rileva che un realismo “dogmatico” corre il pericolo di tenere «il pensiero in sottordine come un’irradiazione o un epifenomeno o una sovrastruttura dell’essere»902, e che un idealismo “assoluto” possa trasformarsi in “logicismo” negante la trascendenza e tendente a far «sfiammare l’essere nella circolazione del pensiero su sé stesso»903. Nel sottolineare i pericoli dell’idealismo Stefanini ha chiaramente presenti gli esiti speculativi del neohegelismo crociano e dell’autóctisi gentiliana. La prospettiva filosofica di Stefanini si distingue per il tentativo di cercare una mediazione tra idealismo e realismo; si tratta di una proposta nata dall’esigenza di trovare una sintesi tra i due estremi di un “realismo ingenuo” e di un “idealismo assoluto”: Stefanini difende una concezione filosofica nella quale l’essere e il pensiero sono in rapporto di “consustanzialità”, ovvero imprescindibili l’uno dall’altro. È nell’interiorità della persona che l’autore individua il punto d’intersezione e di equilibrio di essere e pensiero: «io sono nel punto della consustanzialità dell’essere e del pensiero, perché sono la realtà vivente e concreta di un pensante [..]; non pensiero dell’essere, ma essere che viene a sé dal suo atto e ha perciò a sé intrinseco il pensiero, pensiero nell’essere: sono in una parola, persona»904. Tuttavia l’atto con cui la persona comprende se stessa come 901

Ibidem, p. 12. Ibidem, p. 11. 903 Ibidem. 904 Ibidem, p. 11-12. 902

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sussistente nell’essere, non è per Stefanini un atto dal carattere assoluto. A supporto delle sue tesi l’autore ricorda che l’atto umano non è actus essendi sufficiente a sé stesso ed evoca il báratros dell’empiría, l’ostacolo insopprimibile dell’esperienza: il filosofo evita perciò la chiusura immanentistica dell’attualismo gentiliano: «se contenessi me stesso risolutivamente nel mio atto, se fossi cioè atto puro, conterrei nel mio potere tutte le cose e non ci sarebbero limiti per me nell’esperienza»905. Stefanini sottolinea con incisività la “derivatività” dell’atto con cui l’uomo sussiste nell’essere: per il filosofo è, in ultima analisi, Dio stesso nella sua assolutezza (Ipsum esse subsistens nella terminologia tomista) che sostiene le creature nell’essere: «per quanto io sia incapace di sostenermi nell’essere con l’atto mio, io persisto ed insisto nell’essere, librato nella realtà dell’esistenza per virtù di un potere che è altro dal mio. Ad ogni istante se non cado dal nulla, io sperimento in me la creazione»906. Per Stefanini la persona rinviene in sé stessa la presenza di un atto assoluto che la sostiene e che è non può derivare dalla finitezza umana: si tratta di un atto originario che è causa sui e che ha il carattere della trascendenza. L’immanentismo dell’atto puro gentiliano è stato in tal modo superato nell’affermazione della trascendenza di un atto primo e creatore: «la trascendenza diventa la forma costitutiva del mio essere e quindi la categoria del mio pensiero [..]. Poiché è la mano di Dio che mi tocca, sorreggendomi, io non posso trarre alla luce colla mia parola le profondità del mio essere senza includervi qualche senso di quel Dio al quale in tal modo sono congiunto e che, si potrebbe dire, casualmente si prolunga in me»907. Nell’affermazione di Dio come fonte originaria dell’essere e garante della possibilità dell’esistenza stessa Stefanini si avvicina di certo anche ad argomentazioni tipiche della scolastica e del neotomismo del novecento: basti pensare agli esiti ultimi delle

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Ibidem, p. 23. Ibidem, p. 23. 907 Ibidem, pp. 22-23. 906

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posizioni di Jacques Maritain908 e della Edith Stein di Essere finito ed essere eterno, dove il Dio biblico che nell’Esodo definisce se stesso come “essere” viene considerato anche sotto il profilo filosofico la pienezza d’essere che “sorregge” la creazione e sta a fondamento dell’esistenza umana909. L’apprensione diretta dell’essere da parte di un’interiorità umana psicologicamente intesa è anche il presupposto dal quale Stefanini critica sia la filosofia trascendentale di Kant che la fenomenologia eidetica e trascendentale di Husserl: la coscienza trascendentalmente intesa finirebbe per essere una “rarefatta” mediazione tra il soggetto e l’esperienza empirica. Ad avviso di Stefanini «un’esigenza di intuizione intellettuale si trova in Kant, ed è ciò che avvicina i fenomenologi a Kant di quanto li allontana da Hegel, ma il kantismo non adempie poi l’esigenza ch’esso pone e si determina invece in una trascendentalità che media il dato con la forma e la forma con il dato, rendendoli entrambi impenetrabili. La cosa attende di rendersi veggente con l’applicazione categoriale, la categoria non sfugge alla propria inconsistenza se non colmandosi nel contenuto empirico, e l’oggetto del conoscere si nasconde dietro una fenomenicità ch’è mediazione d’un immediato che mai si consegue»910. Per Stefanini 908

Cfr. a tal proposito J. MARITAIN, Court traité de l’existence et de l’existant, Paul Hartmann, Paris 1947; tr. it. di L. Vigone, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, Morcelliana, Brescia 1998. 909 Cfr. E. STEIN, Endliches und ewiges Sein. Versuch eines Aufstiegs zum Sinn des Seins [1937], in Werke, II, Herder, Louvain-Freiburg i.Br. 1950; tr. it. di L. Vigone, revis. e Presentazione di A. Ales Bello, Città Nuova, Roma 1988. Sulle analogie tra il pensiero della Stein e quello di Stefanini cfr. R. PAGOTTO, Centralità della persona in Edith Stein e in Luigi Stefanini, in Aa. Vv., Edith Stein e Luigi Stefanini. Esperienza – Persona – Società, Atti del Convegno della Fondazione Luigi Stefanini. Treviso 18 – 19 gennaio 2002, Prometheus, Milano 2004, pp. 27-58. 910 L. STEFANINI, Il dramma filosofico della Germania, op. cit., p. 17. Stefanini avanza delle critiche anche al trascendentalismo della fenomenologia husserliana: «essa, con l’insuccesso della sua sistemazione, premunisce contro qualsiasi tentativo d’includere in uno schema trascendentale gli elementi più certi della nostra esperienza interna e della nostra coscienza degli uomini e delle cose» (ibidem, p. 54). Le riserve dello

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un paradigma di filosofia trascendentale finirebbe per chiudere il soggetto in sé stesso allontanandolo dalla concretezza dei vissuti della sua intima esperienza: «se si resta chiusi nello schema dell’io trascendentale e si fa dell’io nient’altro che la forma dei suoi contenuti empirici, inconsistente oltre la loro fenomenicità - ciò che, capovolgendo il senso dell’espressione kantiana, io chiamo l’illusione trascendentale - si misconosce un’attestazione limpida dell’esperienza psicologica e si perde irrimediabilmente il senso dello spirituale nella sua assolutezza»911. Il “trascendentale” ad avviso di Stefanini è quindi funzione che nella sua “astratta” universalità finisce per dissolvere l’io quale sostanza spirituale (esprit nel linguaggio di Mounier) ed interiorità psicologica: ciò che Kant nella Critica della ragion pura definisce «io variopinto (ich [..] vielfärbiges)»912 distinguendolo dalle strutture a priori della soggettività trascendentale. Possiamo rilevare che anche Ricoeur, con argomentazioni confrontabili con quelle dello Stefanini, mostra apertamente delle riserve nei confronti di una filosofia incentrata intorno alla nozione di “trascendentale”: il trascendentale, sia inteso kantianamente come plesso delle condizioni universali e a priori della conoscenza (Wissen) sia nel senso husserliano di universalità dei vissuti coscienziali (Erlebnisse) finisce per dimenticare “la parte più intima e più fragile di noi stessi”. Quella di Ricoeur è una critica al “trascendentale” che prende le mosse soprattutto da una concezione dell’homme faillible913 e, così come abbiamo rilevato Stefanini sono rivolte soprattutto al «dualismo di essere e coscienza» (ibidem, p. 61) creato dall’Husserl delle Idee per una fenomenologia pura e delle Meditazioni cartesiane: il filosofo trevigiano sostiene che per soddisfare l’”esigenza dell’immediato” (ovvero l’intuizione immediata dell’essenza degli oggetti che appaiono nell’arco della coscienza), la fenomenologia dovrebbe superare tale dualismo per una compiuta integrazione di essere e coscienza (cfr. ibidem). 911 L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op. cit., p. 14. 912 I. KANT, Kritik der reinen Vernunft, B 133. 913 Cfr. P. RICOEUR, L’homme faillible, in IDEM, Finitude et culpabilité, Montaigne, Paris 1960; tr. it. e cura di V. Melchiorre, L’uomo fallibile, in IDEM, Finitudine e colpa, Il Mulino, Bologna 1970, pp. 67-242. Un confronto critico con il trascendentalismo di Kant ed Husserl viene

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anche in Stefanini, da esigenze di carattere introspettivo ed esistenziale. La metodologia per giungere all’affermazione di un’ontologia del soggetto ricercata dallo Stefanini può essere definita come un “approccio concreto al mistero dell’essere”: la coscienza che riflette su se stessa e sui propri vissuti interiori si scopre situata in un essere dal carattere intimo e personale. Tale «penetrazione dell’io sul mistero dell’essere»914 di cui parla Stefanini non è raggiunta e determinata tramite un processo di astrazione conoscitiva come in Aristotele e San Tommaso bensì tramite un’intuizione interiore, una riflessione su sé stessi, sulla propria attività coscienziale: è quindi dalla concretezza del vissuto psicologico che Stefanini giunge ad affermazioni di carattere ontologico: «non mi rendo competente sull’essere se non osservando quello che l’essere è in me stesso»915. Questa via verso l’ontologia, a nostro avviso, mostra delle affinità con quella praticata da Gabriel Marcel: è quest’ultima infatti un’approche concrète au mystère de l’être, una ricerca che parte dalla concretezza dei vissuti quotidiani ed empirici, un’analisi del linguaggio usato nella quotidianità per descrivere la realtà e l’interiore esperire. Anche Ricoeur, allievo di Marcel, in alcune sue considerazioni si pone in continuità con la metodologia di analisi del maestro: l’istanza di un approccio concreto alla determinazione dell’essere interiore ci pare che emerge in particolare nella nozione ricoeuriana di “attestazione” e soprattutto in quello che egli definisce come «l’impegno ontologico dell’attestazione»916; l’attestazione «si oppone alla certezza rivendicata dal cogito»917 cartesiano e «definisce quella sorta di certezza alla quale può pretendere di

effettuato da Ricoeur nel saggio P. RICOEUR, Kant et Husserl, in IDEM, A l’école de la phénoménologie, op. cit. pp. 273-314; tr. it. di C. Liberti, Presentazione di M. Cristaldi, Kant e Husserl, in IDEM, Studi di fenomenologia, A.M. Sortino Editore, Messina 1977, pp. 296-328. 914 L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op. cit., p. 13. 915 Ibidem, p. 11. 916 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 411. 917 Ibidem, pp. 97-98.

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pervenire l’ermeneutica»918; è quindi «una sorta di credenza»919, «si avvicina alla testimonianza»920 ed in ultima analisi, «può definirsi come la sicurezza di essere sé stessi agenti e sofferenti»921. A partire anche dalle note peculiari della nozione di “attestazione”, si può rilevare che l’indagine ontologica ricoeuriana a differenza di quella di Stefanini ha un carattere sicuramente più “debole”: l’attestazione di cui parla Ricoeur, come analizzeremo più avanti, non ha di certo un carattere epistemologicamente fondante. Il discorso filosofico di Stefanini al contrario di quello ricoeuriano intende invece essere una proposta “fondativa” e la sua direzione di ricerca è chiaramente quella di un’ontologia e metafisica della persona. Ricoeur pur partendo dall’interiorità, in maniera simile a Stefanini, dall’io parlante ed agente, giunge però a degli esiti quantomeno indefiniti se non “aporetici”. Differentemente dalle solide affermazioni sul carattere dell’essere date dallo Stefanini, Ricoeur non propone mai delle definizioni ultime e risolutive. Quello del pensatore francese è un un itinerario speculativo – una “via lunga” come egli stesso la definisce922 – che giunge alle soglie dell’ontologia ma non arriva mai a conclusioni definitive sul suo carattere. 918

Ibidem, p. 97. Ibidem, p. 98. 920 Ibidem. 921 Ibidem, p. 99. 922 In Existence et herméneutique, scritto che apre il volume del 1969 Le conflit des interprétations, Ricoeur, confrontandosi con Heidegger, afferma che ci sono due diverse modalità per realizzare l’istanza teoretica che egli definisce come innesto dell’ermeneutica nella fenomenologia: da una parte c’è quella che egli chiama la “via corta” di una ontologia della comprensione alla maniera di Heidegger, dall’altra c’è la “via lunga” che egli si propone di seguire; quest’ultima costituisce il tentativo di ricollocare all’interno di una possibile ontologia tutti i problemi metodologici, epistemologici e critici che l’impostazione heideggeriana tende a “dissolvere” e a “perdere di vista” piuttosto che a “risolvere”. Ad avviso di Ricoeur, l’ontologia della comprensione effettuata da Heidegger, può essere definita come “via corta”, poiché essa, «rompendo con i dibattiti di metodo, si colloca immediatamente sul piano di un’ontologia dell’essere finito, per ritrovarvi il comprendere non più come un modo di conoscenza, ma come 919

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4. Ermeneutica dell’identità personale e valore ontologico dell’attestazione in Soi-même comme un autre Ci soffermiano ora a prendere in esame alcuni passaggi decisivi del volume del 1990 Soi-même comme un autre, opera che può un modo d’essere» (P. RICOEUR, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., pp. 17-37, p. 20). La “via lunga”, prospettata da Ricoeur, è invece quella di un’interpretazione e di una comprensione stessa dei segni, dei testi e delle azioni umane nella loro valenza ontologia e più propriamente in direzione di un’ontologia del soggetto. Ma l’ontologia in Ricoeur, diversamente dall’impostazione teoretica heideggeriana, è appunto un “desiderio”, una “terra promessa” che è possibile raggiungere solo dopo un lungo itinerario, una via che passa attraverso il “conflitto delle interpretazioni”, accettando la “sfida della semiologia” e delle scienze umane: «anche la via lunga che propongo io ambisce portare la riflessione al livello di una ontologia, ma lo farà per gradi, seguendo le richieste succesive della semantica» (ibidem), della psicoanalisi, della linguistica, della critica testuale e dell’insieme delle scienze umane, nella complessità di un “intreccio” di differenti metodologie d’indagine. Rispetto a quello di Heidegger, Ricoeur riconosce che si tratta di un “cammino più tortuoso e faticoso”, nel quale la domanda sull’essere (Seinsfrage) diviene la finalità ultima, il télos stesso dell’indagine ermeneutica. Possiamo dire che Heidegger ha avuto per Ricoeur la funzione essenziale di far “riorientare” la sua ricerca filosofica verso la problematica ontologica. L’intento dell’indagine ermeneutica ricoeuriana si dimostra tuttavia radicalmente opposto a quello di Heidegger: il télos, la finalità almeno intenzionale, dell’ampio intinerario di ricerca ricoeuriano non è affatto un dissolvimento della soggettività umana nella panica partecipazione all’essere, bensì la fondazione di un’ontologia del soggetto. La problematica da cui sono sorti gli approfonditi studi del filosofo francese sulla simbolica del male, sulla psicoanalisi, sul linguaggio, sulla semantica dell’azione, sul racconto e sui significati del “fare storia” hanno avuto sempre come scopo ultimo la chiarificazione del valore dell’identità umana: sono state ricerche incentrate sempre, in ultima analisi, sulla problematica antropologica, sull’identità dell’io che parla, narra e agisce nella storia.

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considerarsi quasi come una summa del pensiero di Ricoeur, e che costituisce il tentativo di rispondere all’interrogativo “chi sono io?”. È in essa che l’autore espone chiaramente il suo progetto di una “rinnovata filosofia del cogito”, spiega il valore teoretico della nozione di attestazione e pone in luce la sottesa intenzionalità ontologica della sua ermeneutica del sé, dell’identità personale. Nella Prefazione dell’opera l’autore dichiara di prendere le distanze da due opposte tendenze filosofiche della modernità nella presa in considerazione della soggettività, ovvero del cogito: una è quella dell’ambizione fondativa del cogito realizzata da Descartes e portata avanti da Kant ed Husserl nella filosofia trascendentale, l’altra è quella dell’anti-cogito e Nietzsche ne è il suo fautore insieme agli altri “maestri del sospetto”: Marx e Freud. Il cogito cartesiano, l’io penso (Ich denke) di Kant ed in generale tutta la filosofia trascendentale sono prospettive di fondazione filosofica nelle quali «la problematica del sé ne esce magnificata, ma a prezzo della perdita del suo rapporto con la persona di cui si parla, con l’iotu dell’interlocuzione, con l’identità di una persona storica, con il sé della responsabilità»923: si tratta di una soggettività “trascendentale” che ha certamente valore di fondamento speculativo ma che rischia di lasciar fuori da ogni considerazione filosofica ciò che a Ricoeur sta più a cuore, la concretezza empirica dell’io «parlante, agente, personaggio della narrazione, soggetto di imputazione morale»924. Ricoeur critica senza riserve anche le filosofie dell’anti-cogito che si ispirano a Nietzsche, considerato come «l’antagonista privilegiato di Cartesio»925: in esse l’io è visto come “gioco 923

P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 86. Non concordiamo del tutto con questo giudizio negativo di Ricoeur sul pensiero trascendentale: se si pensa ad esempio al modello di filosofia trascendentale elaborato da Johann Gottlieb Fichte questi rilievi critici di Ricoeur (l’estremo soggettivismo, la perdita del rapporto io-tu, la dimenticanza della persona nella sua concreta dimensione storica) non sarebbero validi. A tal proposito cfr. ad esempio R. LAUTH, Il pensiero trascendentale della libertà. Interpretazioni di Fichte, tr. e cura di M. Ivaldo, Guerini e Associati, Milano 1996. 924 Ibidem, p. 82. 925 Ibidem, p. 86.

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linguistico”, semplice metafora dietro la quale non v’è nulla di sostanziale. Nozioni filosofiche come quelle di soggettività e d’interiorità sono per Nietzsche solamente «un mobile esercizio di metafore, metonimie, antropomorfismi», sono concetti fittizi ed «illusioni di cui si è dimenticata la natura illusoria»926. Nietzsche opera quindi uno “smascheramento” ed una decostruzione stessa delle pretese fondative delle moderne filosofie del soggetto: egli spinge alle estreme conseguenze il dubbio cartesiano, dubitando della stessa certezza logica costituita dal cogito. Alla «verità sterile»927 delle filosofie fondate sul cogito, e al dubbio iperbolico di Nietzsche nei confronti della stessa certezza del cogito, Ricoeur contrappone il suo itinerario speculativo di un ermeneutica del sé, la quale «occupa un posto epistemico (e ontologico, come viene detto nel decimo studio [di Sé come un altro]) che si situa al di là di questa alternativa del cogito e dell’anticogito»928: in quest’approccio ermeneutico alla posizione immediata dell’io, tipica dell’argomentare cartesiano e più in generale delle filosofie del cogito, viene sostituita la “via lunga” di un’analisi sulla mediazione riflessiva del sé (Soi-même). Anche per ben comprendere il significato dello stesso titolo dell’opera Sé come un altro, occorre rilevare che l’uso filosofico fatto da Ricoeur del termine “sé” va al di là dei limiti grammaticali di «pronome riflessivo della terza persona (egli, ella, essi)»929 e assume una «valenza di riflessivo onnipersonale»930, così come accade anche nel titolo del noto volume di Michel Foucault del 1984 La cura di sé (Le souci de soi): il “sé”, sta quindi ad indicare il primato della mediazione riflessiva (cioè della réflexion dell’io su sé stesso a partire dai propri atti) nei 926

F. NIETZSCHE, Über Wahrheit und Lüge im aussermoralischen Sinne [1873], in Werke, Kritische Gesamtausgabe, hrsg. von G. Colli und M. Montanari, vol. III, testo II, Walter de Gruyter, Berlin - New York 1973; tr. it. di G. Colli, Verità e menzogna in senso extramorale, in Opere, vol. III, testo II, Adelphi, Milano 1980, p. 361. 927 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 85. 928 Ibidem, p. 92. 929 Ibidem, p. 75. 930 Ibidem, p. 76.

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confronti della posizione immediata del soggetto, così com’essa è espressa alla prima persona (“io”)931. Questo primato della mediazione riflessiva, a nostro avviso, è anche una delle caratteristiche che accomuna il pensiero di Ricoeur a quello di Stefanini: per entrambi un modello di tale approccio teoretico è costituito dalla filosofia riflessiva francese (philosophie réflexive) della quale Maine de Biran è stato l’ispiratore. Di centrale importanza per comprendere la prospettiva ricoeuriana è anche la chiarificazione terminologica che viene fatta del termine “identità” in relazione al significato latino di idem ed ipse: «l’identità intesa come idem, dispiega una gerarchia di significazioni [..] tra le quali la permanenza nel tempo costituisce il grado più elevato, cui si oppone il differente, inteso come mutevole, variabile»932. Al contrario, l’identità intesa nel senso di ipse «non implica alcuna asserzione circa un preteso nucleo immutabile della personalità»933: si tratta 931

A questo proposito Ricoeur afferma: «dire sé non significa dire io. L’io si pone [Cartesio] – o è deposto [Nietzsche]. Il sé è implicato come riflessivo in quelle operazioni la cui analisi precede il ritorno verso esso stesso» (ibidem, p. 94). Nell’ermeneutica del sé l’approccio di una filosofia di stile riflessivo si intreccia con l’approccio di tipo analitico: l’identità personale viene quindi studiata anche in connessione con le metodologie di ricerca tipiche dell’ambito filosofico anglo-americano. A tal proposito cfr. in particolare il quinto studio di Sé come un altro (“L’identità personale e l’identità narrativa”), nel quale la nozione d’identità personale viene considerata soprattutto in confronto critico con la prospettiva filosofica (“antimetafisica” e “riduzionistica”) di Derek Parfit, esposta nel seguente volume: D. PARFIT, Reasons and Persons, Oxford University Press, Oxford 1984; tr. it. di R. Rini, Ragioni e persone, Il Saggiatore, Milano 1989. Ad avviso di Parfit, la persona non è altro che il risultato della connessione psicologica delle sue esperienze: contrariamente a quanto sostiene Ricoeur, per il filosofo oxoniense, quando ci si interroga sulla persona, «ciò che conta» è soltanto la connessione psicologica tra diversi stati mentali ed è impossibile ricercare un’identità transtemporale (e tanto meno un fondamento ontologico del soggetto) come «un fatto ulteriore» (D. Parfit, Ragioni e persone, op. cit., p. 271). 932 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 77. 933 Ibidem.

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della nozione di identità-ipse (ipséité) con la quale viene indicato «un soggetto capace di designare se stesso come l’autore delle proprie parole e delle proprie azioni, un soggetto non sostanziale e non immutabile, ma nondimeno responsabile del suo dire e del suo fare»934. Possiamo dire che l’ermeneutica ricoeuriana dell’identità personale si origini proprio dalla presa in considerazione dell’ipséité, ovvero dal carattere riflessivo ed indiretto tramite il quale il soggetto comprende se stesso come agens. Ricoeur rileva inoltre che il “sé”, tema d’indagine della sua proposta ermeneutica, non ha mai un carattere solipsistico e monologico: il sé è sempre costituiva apertura dialogica verso l’alterità, e l’alterità, intesa nel senso di corporeità, estraneità e coscienza (Gewissen)935, è essa stessa parte integrante del sé. Come accentuato dallo stesso emblematico titolo dell’opera, il sé è “come” un altro, e l’altro «non va inteso come una semplice comparazione (soi-même semblable à un autre) ma, in modo più intrinseco, come un’implicazione (soi-même en tant qu’autre)»936: questo significa che per Ricoeur «l’alterità è nel cuore dello stesso»937, cioè dell’ipséité, e si configura come presenza costitutiva della soggettività, della stessa identità personale. Il “come” presente nel titolo è quindi da intendere nel senso di “in quanto”, e lo stesso titolo dell’opera potrebbe essere chiarificato con la seguente espressione: “me stesso in quanto un altro”; ciò significa che la presenza 934

P. RICOEUR, Réflexion faite. Autobiographie intellectuelle, Éd. Esprit, Paris 1995; tr. it. di D. Iannotta, Riflession fatta. Autobiografia intellettuale, Jaca Book, Milano 1998, p. 92. 935 Per Ricoeur l’alterità «appartiene alla costituzione ontologica dell’ipseità» (P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 431): egli sottolinea il carattere polisemico dell’alterità ed indica tre precise esperienze soggettive in cui si avverte intimamente la presenza di un’alterità a sé stessi: «l’esperienza del corpo proprio, o meglio della carne (chair)» (ibidem, p. 432), l’esperienza dell’incontro con «l’estraneo, nel senso preciso dell’altro da sé» (ibidem, p. 433), e «quella del rapporto di sé a se stessi che è la coscienza, nel senso di Gewissen più che di Bewusstsein» (ibidem). 936 D. IERVOLINO, Introduzione a Ricoeur, Morcelliana, Brescia 2003, p. 68. 937 Cfr. D. IANNOTTA, L’alterità nel cuore dello stesso, saggio introduttivo a P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., pp. 11-69.

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dell’alterità diviene elemento costitutivo e fondante della mia stessa identità personale. Prendiamo ora in considerazione la nozione di attestazione (attestation) che nell’argomentare di Ricoeur sul valore della soggettività gioca sicuramente un ruolo di primaria importanza. L’attestazione «definisce quella sorta di certezza alla quale può pretendere di pervenire l’ermeneutica, non soltanto rispetto alla esaltazione epistemica del cogito a partire da Cartesio, ma anche rispetto alla sua umiliazione in Nietzsche e i suoi successori»938. L’attestazione si oppone alla certezza logica ed epistemologica del cogito cartesiano e non è considerata da Ricoeur come un saldo criterio di verificazione di fatti oggettivi: l’autore non esita a rilevarne quindi una certa “faiblesse philosophique”, una sua ineludibile “debolezza epistemologica”: «l’attestazione si oppone, fondamentalmente, alla nozione di epistéme, di scienza, considerata quale sapere ultimo e autofondante»939, e si qualifica come una “certezza” alla quale può pervenire l’ermeneutica del sé ed una filosofia riflessiva, incentrata sulle dinamiche interiori della soggettività. Come abbiamo accennato in precedenza, si tratta perciò di una certezza dal carattere tutto intimo ed esistenziale: «l’attestazione può definirsi come la sicurezza di essere se stessi agenti e sofferenti. Questa sicurezza resta l’ultimo rimedio contro ogni sospetto»940. Seppur non epistemologicamente fondante, l’attestazione gode tuttavia della fiducia (fiance) incrollabile che il soggetto può dare alla testimonianza interiore (témoignage intérieure), alla voce della propria coscienza941, e Ricoeur ricorda a 938

P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 97. Ibidem, p. 97. L’attestazione scaturisce dall’affermazione “io credo-in”, ed avvicinandosi alla “testimonianza interiore” manifesta certamene una «debolezza [..] rispetto a qualsiasi pretesa di fondazione ultima» (Ivi, p. 98). 940 Ibidem, p. 99. 941 A tal proposito è lo stesso Ricoeur che sulla scorta delle riflessioni del suo maestro Jean Nabert paragona l’atto dell’attestazione a quello della testimonianza, intesa quest’ultima anche in senso propriamente religioso, come fede che l’uomo può dare «a quei segni contingenti che l’assoluto dà di sé nella storia» (P. RICOEUR, Parcours de la reconnaissance, Éd. Stock,

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tal proposito come il termine tedesco di “coscienza”, Gewissen «richiama la sua parentela semantica con la Gewissheit o certezza»942. L’attestazione è perciò un radicale “atto di fiducia” dell’uomo nei confronti di ciò che esso avverte ed esperimenta nel suo intimo: è solo sul fondamento di verità di questa testimonianza interiore, paragonabile alla voce del dáimon socratico, che per Ricoeur la sua «ermeneutica del sé può pretendere di tenersi ad eguale distanza dal cogito esaltato da Cartesio e dal cogito che Nietzsche dichiara decaduto»943. Possiamo dire che l’attestazione è la dinamica riflessiva tramite la quale il soggetto si rende certo e consapevole della propria identità personale, di sé stesso e delle sue potenzialità (puissances). A tal proposito Ricoeur rileva che l’attestazione è «confidenza (confiance) nel potere di dire, nel potere di fare, nel potere di riconoscersi quale personaggio di racconto, Paris 2004; tr. it. e cura di F. Polidori, Percorsi del riconoscimento. Tre studi, Raffaello Cortina, Milano 2005. p. 110). A nostro avviso, il valore epistemologico dell’attestazione quale “testimonianza” e “certezza soggettiva” può trovare delle analogie con il concetto di “fede” (Glaube) di cui parla Friedrich Heinrich Jacobi: possiamo dire che per quest’ultimo la fede, intesa in senso non solamente religioso ma anche in relazione ad una teoria della conoscenza, è come l’attestazione «una fiducia senza garanzia, [..] una confidenza più forte di ogni sospetto» (P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 99). Il Glaube è inoltre per Jacobi una “fede/fiducia nell’esistenza dell’io come essere libero e del mondo realisticamente inteso”, fondata su di un’”intuizione interiore” (Ahnung) avente un carattere conoscitivo: in Jacobi «la fede (Glaube) non è soltanto un principio teologico, ma anzitutto costituisce il fondamento della nostra convinzione della realtà e più precisamente della certezza di tutto ciò che non è suscettibile di rigorosa dimostrazione» (C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, vol. I, Studium, Roma 19692, p. 338). L’ontologia del soggetto per Ricoeur non è suscettibile di rigorosa dimostrazione e la si può affermare solo tramite un atto di “attestazione”: possiamo quindi dire che la certezza di una consistenza ontologica dell’uomo viene affermata dal filosofo francese solo tramite quest’atto di “testimonianza interiore” che, sotto il profilo epistemologico si avvicina molto di più al Glaube di Jacobi che non alla cogenza di una dimostrazione logica. 942 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 99. 943 Ibidem.

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infine nel potere di rispondere all’accusa con l’accusativo “eccomi!” – secondo un’espressione cara a Lévinas»944. L’attestazione è quindi la facoltà soggettiva in grado di far autodesignare il sé come autore dei propri atti, di tutte le capacità dell’homme capable, ed è quindi la sicurezza (assurance), la credibilità e la fiducia «che ciascuno ha di esistere come uno stesso, come ipseità»945. Prendiamo ora in considerazione quello che Ricoeur nel decimo studio di Soi-même comme un autre definisce come l’«impegno ontologico dell’attestazione»946. In questo decimo studio l’autore dichiara di voler far emergere le “implicazioni ontologiche” delle sue analisi sulla soggettività svolte sotto il titolo di un’ermeneutica del sé. Egli in queste pagine finali del volume cerca di rispondere alla questione speculativa di centrale importanza circa un possibile fondamento ontologico dell’identità personale: «Quale modo di essere è, dunque, quello del sé, quale sorta di ente o di entità esso è?»947. Per poter spingere il suo discorso filosofico sul soggetto a considerazioni di carattere ontologico Ricoeur ritiene essenziale e decisiva proprio la nozione di attestazione del sé: essa è quella “testimonianza interiore” in base alla quale il soggetto è in grado d’affermare con sicurezza l’esistenza di «un fondo d’essere, ad un tempo potente ed effettivo, sul quale si staglia l’agire umano»948, sul quale si fondano tutte quelle potenzialità che caratterizzano l’homme capable: il potere di agire, di narrare, di promettere e d’imputare anche a sé stesso i propri atti. L’attestazione di sé ha quindi per Ricoeur un fondamentale valore ontologico: essa è lo strumento interiore tramite il quale si può arrivare all’affermazione di 944

Ibidem, p. 99. Ibidem, p. 410. 946 Ibidem, p. 411. A tal proposito cfr. anche P. RICOEUR, L’attestation entre phénoménologie et ontologie, in Aa. Vv., a cura di J. Greisch e R. Kearney, Paul Ricoeur. Les métamorphoses de la raison herméneutique, Cerf, Paris 1991, pp. 381-403; O. MONGIN, Il concetto di attestazione, in Aa. Vv., a cura di A. Danese, L’io dell’altro. Confronto con Paul Ricoeur, Marietti, Genova 1993, pp. 33-48. 947 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 409. 948 Ibidem, p. 421. 945

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un’ontologia del soggetto. Il filosofo considera l’attestazione come la “garanzia di verità” che nella persona umana v’è “un fondo d’essere”, un nucleo ontologico originario e dinamico949, sul quale si fondano le potenzialità creative (puissances) dell’uomo. È da sottolineare che il particolare modo d’essere del soggetto che si può affermare tramite l’attestazione non è quello del suppositum della tradizione tomista950, ma è quello definito da Aristotele come enérgheia-dýnamis (come atto e come potenza), ed è un modo d’essere che il filosofo pone anche in relazione con il conatus di cui parla Spinoza. Per la sua elaborazione di un’ontologia del sè Ricoeur opera quindi una “riappropriazione” e possiamo dire un “rinnovamento” di nozioni tipiche di Spinoza e di Aristotele, d’un Aristotele letto secondo l’interpretazione di Heidegger: il filosofo francese è infatti convinto che «un’ontologia resta possibile ai nostri giorni, nella misura in cui le filosofie del passato restano aperte a delle reinterpretazioni e a delle riappropriazioni grazie ad un 949

L’attestazione in quanto fondata sulle concrete dinamiche dell’esperienza interiore del soggetto è una modalità per realizzare ciò che Gabriel Marcel, maestro di Ricoeur, amava definire come “approccio concreto al mistero dell’essere” (approche concrète au mystère de l’être). Esempio paradigmatico di tale approccio concreto alla problematica ontologica sono le lezioni del volume G. MARCEL, Le mystère de l’être, Aubier, Paris 1951; tr. it. di G. Bissaca, Il mistero dell’essere, Borla, Roma 1987. 950 Come ricorda Jacques Maritain «San Tommaso chiama “supposito”, suppositum, ciò che noi chiamiamo soggetto. [..] Il supposito è chi ha un’essenza, chi esercita l’esistenza e l’azione, - actiones sunt suppositorum - chi sussiste» (J. MARITAIN, Breve trattato dell’esistenza e dell’esistente, op. cit., p. 51). Il termine suppositum si ricollega a quello aristotelico di ypokéimenon e designa la nozione metafisica di sussistenza della persona. Possiamo dire che Ricoeur condividerebbe la critica all’ontologia tomista avanzata da Stefanini: anche quest’ultimo ponendo l’accento come avviene in Ricoeur sulla «produttività della persona» (L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op. cit. p. 11) e sull’interiorità come «nucleo ed energia» creativa (ibidem, p. 12) critica la dottrina del suppositum: «l’essere non è in me una consistenza pietrosa sulla cui superficie vadano incrostandosi delle secrezioni, dette accidenti o qualità» (ibidem).

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potenziale di senso lasciato inattivo. [..] Se non si potessero risvegliare queste risorse che i grandi sistemi del passato tendono a soffocare e a mascherare, non sarebbe possibile alcuna innovazione, e il pensiero presente non avrebbe altra scelta che fra la ripetizione e l’erranza»951. Ricoeur tenta quindi di riappropriarsi della nozione aristotelica di essere come potenza-atto (dýnamis-enérgheia), tenendo conto della lezione di Heidegger, che sottolinea il primato della potenza (dýnamis) sull’atto. In particolare Ricoeur si riferisce al corso universitario tenuto da Heidegger nel semestre estivo del 1931 avente come titolo Aristoteles, Metaphysik Θ 1-3, e come sottotitolo Vom Wesen und Wirklichkeit der Kraft (Sull’essenza e la realtà della forza): in questo corso, Heidegger indica l’essere secondo la dýnamis e l’enérgheia come il significato fondamentale dell’essere secondo Aristotele, significato al quale lo Stagirita arriva a partire dalla riflessione sul movimento (kínesis)952. L’accezione dell’essere come potenza e come atto è per Ricoeur di fondamentale importanza: è infatti su questo significato dell’essere che l’agire, e tutte le altre capacità del soggetto possono trovare il loro fondamento. La finalità dell’indagine ricoeuriana è di poter argomentare la possibilità di «un’ontologia dell’ipseità in termini di atto e di potenza»953, e a tal proposito l’attestazione nel suo valore ontologico rende possibile poter affermare questo: «se c’è un essere del sé, in altri termini se un’ontologia dell’ipseità è possibile, è in connessione con un fondo [di atto e di potenza], a partire da cui in sé può esser detto agente»954. L’ontologia ricercata da Ricoeur, per la giustificazione della possibilità di “un fondo d’essere sul quale si stagli l’agire umano”, è quindi un’ontologia dell’essere come potenza e come atto, contrapposta al significato dell’essere come sostanza: anche sulla scorta dell’interpretazione di Heidegger, il filosofo francese tenta di 951

P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 411. Cfr. M. HEIDEGGER, Aristoteles, Metaphysik IX, 1-3. Vom Wesen und Wirklichkeit der Kraft [Sommersemster 1931], in Gesamtaugabe, hrg. von H. Heidegger und F.-W. von Hermann, Vol. XXXIII, V. Klostermann, Frankfurt a.M. 1981. 953 P. RICOEUR, Sé come un altro, op. cit., p. 421. 954 Ibidem. 952

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«liberare l’ousía aristotelica dalle catene della tradizione scolastica nata dalla sua traduzione latina con substantia»955. Ricoeur non esita tuttavia a sottolineare le problematiche storiografiche e teoretiche lasciate aperte da questa sua “riappropriazione” dell’ontologia aristotelica al fine di stabilire una connessione tra «l’unità analogica dell’agire umano [..] ed una ontologia dell’atto e della potenza»956; nella sua indagine egli si rivolge quindi a Spinoza, e alla sua concezione del conatus quale “sforzo” (o anche “potenza”) «per perseverare nell’essere, che fa l’unità dell’uomo così come di ogni individuo»957: Ricoeur sottolinea che « Spinoza – di provenienza più giudaica che greca - è il solo ad aver saputo articolare il conatus su questo fondo di essere ad un tempo effettivo e potente, che egli chiama essentia actuosa»958. Quella che Ricoeur propone nel decimo studio di Soi-même comme un autre non è tuttavia un’«ontologia trionfante»959, bensì solo la traccia di un possibile itinerario speculativo che nella sua ricerca sul fondamento ontologico del soggetto non si è sottratto al “bel rischio” dell’interpretazione (kalòs o kíndynos secondo un’espressione del dialogo platonico Fedone 114 d). Il tentativo di “riappropriarsi” in maniera originale delle concezioni aritoteliche di dýnamis/enérgheia e del conatus spinoziano ha sicuramente costituito un percorso per avvicinarsi alla “terra promessa” di un’ontologia del soggetto. Va sottolineato che nel suo itinerario filosofico Ricoeur si è però sempre fermato “alle soglie dell’ontologia”: la possibilità dell’esistenza di un “fondo d’essere sul quale si staglia l’agire umano in tutte le sue espressioni” è sempre affermata tramite un atto d’attestazione soggettiva e di testimonianza interiore, giammai per mezzo di una rigorosa dimostrazione logica epistemologicamente fondante. L’indagine ricoeuriana è mossa dal “desiderio” di un’ontologia del soggetto ma è lontana 955

Ibidem, p. 418. Ibidem, p. 416. 957 Ibidem, p. 431. 958 Ibidem. 959 P. RICOEUR, Esistenza e ermeneutica, in IDEM, Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., p. 37. 956

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dall’affermazione di qualsiasi risultato speculativo ultimo e definitivo. Il pensiero di Ricoeur rimane quindi volutamente “incompiuto”: esso resta aperto ad itinerari di ricerca nei quali l’ontologia è la “terra promessa”: «come Mosé, il soggetto che parla e riflette può soltanto scorgerla prima di morire»960. 5. Il linguaggio: atto dello spirito ed organo dell’essere interiore Uno dei punti in cui la prospettiva filosofica di Stefanini trova notevoli convergenze ed affinità con quella di Ricoeur lo si può individuare nella concezione del linguaggio. In entrambi gli autori è presente un approccio “personalistico” alla trattazione di tematiche linguistiche e le loro riflessioni sul “mistero della parola” si aprono a considerazioni di carattere ontologico. Cerchiamo di mettere in luce e confrontare il metodo con cui i due pensatori hanno impostato la loro filosofia del linguaggio, notando come essi giungano talvolta anche a soluzioni analoghe. Stefanini non ha certamente conosciuto l’ampio sviluppo che le ricerche filosofiche sul linguaggio hanno avuto nella seconda metà del ‘900 dopo il cosiddetto linguistic turn: colpisce quindi l’interesse e la sensibilità che il filosofo trevigiano ha dimostrato per tale tematica. Prima di spingerci a definire il nucleo centrale della posizione stefaniniana sul linguaggio, ci pare essenziale rintracciare le fonti da cui l’autore ha attinto per la sua “ermeneutica della parola”. La riflessione di Stefanini sulla parola affonda le sue radici 960

Ibidem. Condividiamo le considerazioni di Paulin Sabuy Sabangu circa l’esito speculativo del decimo studio di Sé come un altro: «l’ontologia dell’attestazione in cui si risolve lo sforzo di sintesi dell’autore non vuol essere affatto un discorso fondativo ultimo. L’attestazione non è certezza epistemologica (Gewissheit) ma certezza morale (Gewissen)» (P. SABUY SABANGU, Al di là del Cogito il “Sé”, in «Acta Philosophica», 15/I, 2006, pp. 135-138, p. 138). A nostro avviso, tuttavia, la fondazione di un’ontologia del soggetto, pur se non compiutamente tematizzata ed argomentata rimane sempre per Ricoeur un “ideale regolativo” (potremmo dire un télos ideale) che anima e muove l’intera sua ricerca filosofica.

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nel pensiero antico e si nutre in particolare dell’originale apporto che alle problematiche del linguaggio hanno dato Platone, Filone d’Alessandria e soprattutto Agostino. È nel Cratilo di Platone che il filosofo, dopo la stagione della sofistica, ravvisa la prima organica trattazione dei principali problemi concernenti il linguaggio: la sua natura strumentale o convenzionale, il rapporto delle parole con la realtà empirica e sovrannaturale, il valore che nello studio dei significati delle parole rivestono le etimologie. Stefanini ricorda quindi l’importanza fondamentale della definizione del nome contenuta nel Cratilo, una definizione che inserendosi all’interno dell’impianto speculativo platonico diviene chiarificazione stessa della funzione conoscitiva che in esso può svolgere il linguaggio umano: «il nome è uno strumento che serve a discernere l’essenza (Ónoma [..] órganon kai diakritikón tés ousías»961: «i nomi sono quindi un’imitazione delle cose nelle lettere e nelle sillabe, come più tardi le cose sensibili appariranno a Platone imitazione dell’essenza ideale nella materia»962. Se il Cratilo è di centrale importanza nella storia della filosofia del linguaggio non lo è tanto per le soluzioni a cui giunge (resta infatti un dialogo “aporetico”) ma per la sua fondamentale Fragestellung, “la posizione del problema” che in esso si può rinvenire: Stefanini di questo si dimostra consapevole963 e si rivolge ad altri autori per cercare una più condivisibile ermeneutica della parola. È nel pensiero di ispirazione ebraico-cristiana, in Filone Alessandrino ed Agostino in particolare, che Stefanini trova una concezione della parola in relazione alla trascendenza divina di cui l’uomo è traccia e immagine vivente. In questa prospettiva il linguaggio umano si arricchisce di nuovi significati: esso non è più 961

PLATONE, Cratilo 388 b. L. STEFANINI, Platone, vol. I., cit., p. 141. 963 Per il filosofo «il Cratilo è un viluppo di motivi essenziali del platonismo, che s’intrecciano e s’annodano secondo il ritmo della discussione e le esigenze della scena. Se il critico agisce con sottile discernimento, avverte che da capo a fondo il filo del ragionamento non ha nessuna soluzione di continuità e che le argomentazioni varie e complesse sono fuse armonicamente nella struttura logica del dialogo» (STEFANINI, Platone, vol. I., cit., p. 146). 962

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solo fenomeno empirico ed accidentale ma affonda le sue radici nell’interiorità umana che è imago e vestigio dell’assoluto. Se in Filone d’Alessandria Stefanini scorge il significativo incontro ed il fecondo intreccio tra lógos greco e dabár ebraica, è soprattutto in Agostino che vede una filosofia del linguaggio in relazione alla dimensione personale dell’essere. Il Verbum di cui parla il dottore d’Ippona è l’origine delle voces, le singole lingue storicamente determinate: ciò significa che le lingue storiche, che a loro volta hanno nella facoltà universale del linguaggio la loro condizione di possibilità, trovano nella metafisica del Verbum una genesi ancora più profonda. Per Stefanini, Agostino ha avuto il grande merito di operare sul linguaggio umano una ricerca di tipo genetico: egli ha infatti cercato di mettere in luce il nesso essenziale tra creatività linguistica e metafisica dell’interiorità, andando ad indagare la genesi costitutiva del linguaggio umano (il suo Ursprung, per utilizzare un termine kantiano), la sua fondazione ultima. L’interiorità umana, luogo di un possibile trascendimento verso la dimensione metafisica e religiosa dell’extentio, si qualifica allo stesso tempo come il luogo dell’intima germinazione della parola. Stefanini condivide ed approfondisce questa posizione di Agostino secondo la quale il linguaggio umano, al di là di ogni sua considerazione meramente strumentalistica e comunicativa, trova la sua origine più profonda nella metafisica dell’interiorità. È questa sua fondazione ultima nella soggettività che garantisce alla parola la sua sempre rinnovabile vivezza creativa, la sua penetrante capacità espressiva. Stefanini, come dopo di lui Hans-Georg Gadamer e lo stesso Ricoeur964, individua in Agostino un pensatore che ha fatto della parola un elemento essenziale di riflessione: in particolare i tre autori contemporanei, seppur da diverse prospettive, mettono in luce il significato speculativo che nel De Trinitate aussume la “parola interiore”, il dialéghestai, “l’intimo dialogo dell’anima con se stessa”. Stefanini sarebbe quindi d’accordo con Gadamer che in Verità e metodo, scorgendo in Agostino una significativa eccezione all’oblio del linguaggio (Sprachvergessenheit) che ha caratterizzato 964

A tal proposito cfr. I. BOCHET, Augustin dans la pensée de Paul Ricoeur, Éditions Facultés Jésuites de Paris, Paris 2004.

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tanta parte della cultura filosofica occidentale, sottolinea l’originalità della sua riflessione sulla parola; il dottore d’Ippona rispetto alle concezioni del linguaggio tipiche della cultura greca e romana pone l’accento sul valore fondamentale del “dire interiore”, qualificandolo come possibilità di un intimo trascendimento: «la parola interna è così lo specchio e l’immagine della parola divina (Bild des göttlichen Wortes)»965; è solo a partire dalla riflessione sul “dire interiore” che per Stefanini, come per Ricoeur e Gadamer, si può comprendere «che il rapporto che c’è nell’uomo tra il pensiero e la parola corrisponde, pur con tutta la sua imperfezione, alla relazione divina all’interno della Trinità»966. È con tali parole che Stefanini individua in Agostino un imprescindibile contributo alla riflessione filosofica e teologica dell’occidente sul linguaggio: «se non ci fosse stato il De Trinitate di Agostino, non ci sarebbe stata la Scienza Nuova di Vico, né la linguistica di Humboldt, né l’Estetica di B. Croce»967. Per Stefanini, in Agostino è possibile rintracciare l’intuizione di alcune idee fondamentali che hanno caratterizzato la successiva filosofia del liguaggio: il rapporto imprescindibile tra la parola e l’interiorità, il 965

H.-G. GADAMER, Wahrheit und Methode. Grundzüge einer philosophischen Hermeneutik, in Gesammelte Werke, J.C.B. Mohr, Tübingen 1986, Vol. I; tr. it. a cura di G. Vattimo, Introd. di G. Reale, Verità e metodo, Bompiani, Milano 2000, p. 857. 966 Ibidem, p. 859. 967 L. STEFANINI, Estetica, Studium, Roma 1953, p. 68. Seppur il pensiero di Agostino rappresenta per Stefanini un importante punto di riferimento anche per l’elaborazione della sua personale prospettiva filosofica, si può notare che non esiste una vera e propria monografia del pensatore trevigiano su Agostino. Possiamo dire tuttavia che l’atteggiamento speculativo di Stefanini ha dei tratti tipicamente agostiniani e che lo “spirito” dell’agostinismo feconda tanta parte della sua produzione filosofica. Condividiamo il giudizio di Italo Sciuto secondo il quale «la qualità della presenza di Agostino in Stefanini è tale, da non richiedere un lavoro monografico. [..] Stefanini trova in Agostino la prospettiva fondamentale, uno sfondo, il pensiero essenziale» (I. SCIUTO, Presenza di Agostino nell’imaginismo di Luigi Stefanini, in Aa. Vv., a cura dell’Associazione Filosofica Trevigiana, Dialettica dell’immagine. Studi sull’imaginismo di Luigi Stefanini, Marietti, Genova 1991, pp. 99-110, p. 99).

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nesso tra creatività semantica ed intima germinazione delle voces, l’originarsi delle parole stesse dalle immagini. Possiamo dire che in Agostino sia Stefanini che Ricoeur trovano un paradigma di riflessione in cui il linguaggio viene considerato sempre in relazione alla soggettività umana, all’io che si esprime: entrambi gli autori nel loro comune richiamarsi alla lezione di Agostino, e come vedremo anche a quella di Wilhelm von Humboldt, rifiutano esplicitamente tutte quelle posizioni che considerano il linguaggio indipendentemente dall’io parlante, quasi fosse una realtà funzionante iuxta propria principia, secondo leggi proprie. Essi rifiutano quindi una riduzione “scientista” della parola umana e seppur con diverse accentuazioni, tentano di recuperare il nesso tra origine del linguaggio ed ontologia del soggetto. Diversamente da tanta parte della riflessione contemporanea sul linguaggio, Stefanini e Ricoeur, seppur con diverse metodologie d’indagine, si interrogano sullo statuto ontologico di quel “chi?” che è homo loquens, soggetto parlante. Stefanini afferma con estrema chiarezza l’esistenza di una stretta relazione tra parola ed essere personale: a tal proposito egli arriva a parlare di “consustanzialità” tra l’essere e la parola. Come rileveremo meglio più avanti, possiamo dire che anche per Ricoeur il rapporto tra essere personale e linguaggio costituisca un importante indirizzo di ricerca: è proprio l’assenza di questo fondamentale rapporto che Ricoeur critica sia allo strutturalismo linguistico che ad alcune derive della filosofia analitica anglo-americana. Per Stefanini «l’ontologia è una glottologia»968: ciò significa che ogni atto linguistico è una diretta manifestazione sensibile dell’essere della persona. La parola affonda le sue radici nell’ontologia della persona, nel suo dinamico fondo d’essere. Stefanini considera il linguaggio come l’espressione sensibile nella quale il sum dell’io si manifesta: è nell’atto della parola che l’essere soggettivo si rivela a se stesso. In altre parole: è tramite il linguaggio che l’essere personale diviene declarativum et manifestativum sui: «l’intima esperienza mi rivela che l’essere, nella sua natura personale, è

968

L. STEFANINI, La mia prospettiva filosofica, op.cit., p. 12.

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essenzialmente il suo manifestarsi e il suo dichiararsi a se stesso: Ens declarativum et manifestativum sui»969. Per Stefanini ogni proposizione del linguaggio deve necessariamente inerire ad un soggetto ed è il frutto di una singolarità irripetibile che si esprime. Egli sostiene: ogni qualvolta affermo qualche cosa riguardo agli oggetti della realtà empirica, «cioè formulo un giudizio, a questo giudizio è sempre sottinteso il giudizio primo che regge ogni convenienza esteriore: Io giudico che.. Non v’è predicato che inerisca al soggetto di un giudizio (subiecto inest praedicatum), se entrambi non ineriscono all’atto personale che li pone o li riconosce come inerenti. Questa mia esperienza della centralità dell’io si terrà in tutti coloro che dicono di sé io»970. L’io è quindi il fondamento ontologico di ogni atto linguistico: e quest’ultimo è a sua volta potenzialità creativa e produzione dello spirito, rivelazione dell’essere personale che in esso si manifesta. Nel sottolineare questa stretta relazione tra l’essere e la parola, Stefanini si richiama nei suoi scritti alla lezione di Wilhelm von Humboldt971: quest’ultimo può essere considerato il “padre” della linguistica contemporanea e costituisce un punto di riferimento anche per gli 969

IDEM, Platone, vol. I., op. cit., p. 12. IDEM, La mia prospettiva filosofica, op.cit., p. 10. 971 Cfr. ad esempio L. STEFANINI, Imaginismo come problema filosofico, vol. I, Cedam, Milano 1936, in particolare pp. 93-101. Di von Humboldt, Stefanini rielabora soprattutto la concezione del linguaggio come “organo formativo del pensiero” (bildendes Organ des Gedankens), e della lingua come enérgheia, come attività che si origina dalla creatività dello spirito umano: «come bene intese l’Humboldt, la lingua [..] non è opera, érgon, ma attività, enérgeia; è il lavoro eternamente ripetentesi dello spirito, per rendere il tono articolato capace dell’espressione del pensiero» (ibidem, p. 96). Possiamo dire che Stefanini riprenda anche quegli aspetti del pensiero di von Humboldt che si oppongono alla filosofia hegeliana e più in generale ad ogni idealismo assoluto: egli condivide ad esempio anche la critica di von Humboldt all’astratta universalità del Geist hegeliano e ritiene valido il tentativo humboldtiano di contrapporre alla filosofia dello “spirito assoluto” il valore insopprimibile dell’individualità e della creatività spirituale del singolo (cfr. ibidem, p. 98). 970

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studi di Ricoeur sulla metafora e sul rapporto tra immagine e parola. In Stefanini si può trovare un approfondimento della posizione di von Humboldt secondo la quale «il linguaggio è l’organo dell’essere interiore, è questo stesso essere, com’esso perviene via via alla conoscenza interiore e all’estrinsecazione (Die Sprache [..] ist das Organ des inneren Seyns, dies Seyn selbst, wie es nach und nach zur inneren Erkenntnis und zur Äusserung gelangt)»972. Stefanini interpreta quest’affermazione di von Humboldt in senso ontologico e metafisico, vedendo nel linguaggio la manifestazione stessa dell’essere personale. Possiamo dire inoltre che di von Humboldt, sia Stefanini che Ricoeur, riprendano con originalità anche la concezione dell’unione indissolubile di pensiero e linguaggio: per entrambi anche nell’intimo non c’è pensiero che si possa esprimere senza ricorso ad “immagini acustiche”, alla pronuncia di lettere e sillabe. Un’ulteriore fonte nell’approfondimento del rapporto tra ontologia e linguaggio è per Stefanini il pensiero di Vincenzo Gioberti, al quale, come abbiamo già accennato, nel 1947 viene dedicata un’ampia ed originale monografia. Per Gioberi l’essere è parola, poiché Dio stesso, che è pienezza d’essere (plaenitudo essendi) si rivela nella parola e coma parola. La creazione del mondo, come narra il Bereschít, il racconto della Genesi, avviene nella parola973 e l’essenza stessa di Dio è lógos, Verbum, cioè pensiero-parola ed essere allo stesso tempo, secondo quanto afferma 972

W. von HUMBOLDT, Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaues, in Gesammelte Schriften, Preussische Akademie der Wissenschaften, hrg. von A. Leitzmann et alii, Behr, Berlin 1903-1936 (rist. De Gruyter, Berlin 1967-68), VII, pp. 1-344, p. 14; tr. it. a cura di D. Di Cesare, La diversità delle lingue, Laterza, Bari-Roma, p. 9. Ricoeur afferma che quest’opera di von Humboldt «giganteggia nel XIX secolo; ad essa due pensatori contemporanei molto diversi si sono volentieri riferiti, il linguista Chomsky e il filosofo Heidegger» (P. RICOEUR, Philosophies du langage, in Encyclopaedia Universalis, vol. IX, 1971, pp. 771-781; tr. it. di D. Iervolino, Filosofie del linguaggio, in IDEM, Filosofia e linguaggio, Guerini e Associati, Milano 1994, pp. 21-79, p. 22). 973 Cfr. Gn 1, 3-31.

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anche il celebre Prologo di Giovanni: «In principio erat Verbum, et Verbum erat apud Deum, et Deus erat Verbum»974. A partire da questi presupposti teologici Gioberti propone un’originale concezione secondo la quale la parola è temmírio (dal greco tekmérion, segno, testimonianza), segno che rimanda oltre se stesso, all’Ente che ne è la fonte. Un ulteriore elemento da considerare è il seguente: per Gioberti l’uomo non è spettatore inerte della realtà ma in quanto imago Dei si qualifica anche come suo concreatore, e questo avviene anche tramite il linguaggio. L’uomo prolunga tramite le sue facoltà l’opera stessa di Dio; tale attività viene definita da Gioberti come metéssi, come partecipazione umana alla creazione divina. Di certo ci troviamo innanzi ad un cogitare cum assentione ai dati della rivelazione ebraico-cristiana. Tramite il confronto critico con Gioberti, Stefanini approfondisce i possibili esiti teologici della sua filosofia della parola: egli tuttavia mette in rilievo anche alcuni aspetti della posizione di Gioberti sul linguaggio, la cui validità teoretica non può essere sottovalutata a causa della sua originaria ispirazione religiosa. Uno degli elementi che Stefanini riprende da Gioberti è a nostro avviso quello della considerazione della parola umana come actus, come azione creativa tramite la quale il soggetto parlante produce nella realtà un qualcosa di nuovo e di inedito. Nella Protologia il Gioberti afferma ad esempio: «Chi dà primo nome a una cosa, quegli ne è l’autore e l’operatore»975; «dire è anche fare, onde la medesimezza di fari e fieri»976. Colpisce soprattutto l’attualità di quest’ultima affermazione: in essa può persino essere vista un’anticipazione della teoria degli atti linguistici proposta da John L. Austin977, John R. Searle, e ripresa anche da Ricoeur. 974

Gv, 1,1. V. GIOBERTI, Protologia, a cura di G. Bonafede, Istituto di Studi Filosofici, Edizione Nazionale, Roma-Milano 1983, vol. I, p. 263. 976 IDEM, Protologia, op. cit., vol. II, p. 216. 977 L’intuizione di Gioberti secondo la quale “dire è anche fare” trova in Austin e negli altri teorici degli speech acts più ampie e dettagliate argomentazioni: è sorprendente tuttavia che il titolo stesso della più nota opera di Austin trovi in affermazioni del Gioberti quasi una medesima 975

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Come abbiamo potuto constatare, la riflessione di Stefanini sul linguaggio prende le mosse soprattutto dal confronto con Platone, Agostino, von Humboldt e Gioberti: occorre tuttavia mettere in rilievo l’originalità della posizione di Stefanini a proposito del linguaggio. Nel filosofo trevigiano possiamo rinvenire l’originale formulazione di un “imaginismo linguistico”: in tal prospettiva la parola umana viene considerata come un atto dello spirito la cui creatività trova le sue inesauribili sorgenti nella facoltà immaginativa dell’uomo. L’opera nella quale l’autore espone più dettagliatamente questa sua prospettiva è del 1936 e si intitola Imaginismo come problema filosofico978. 6. Creatività linguistica ed immaginazione produttiva Sia Stefanini che Ricoeur pongono l’accento su una caratteristica fondamentale del linguaggio umano: la sua inesauribile creatività. Entrambi individuano nell’immaginazione (facultas fingendi) la facoltà fondamentale in grado di garantire alle espressioni linguistiche la possibilità di innovarsi, di produrre nuove Sinngebungen (il termine è tipico della fenomenologia di Husserl), nuove “donazioni di senso” alla realtà. Per Stefanini, e come in formulazione: cfr. J.L. AUSTIN, How to do things with words, Oxford University Press, Oxford 1962; tr. it. di M. Gentile e M. Sbisà, Introd. di A. Pieretti, Quando dire è fare, Marietti, Genova 1974. 978 Per una più approfondita analisi di quest’opera e della concezione stefaniniana dell’”imaginismo linguistico” ci permettiamo di rinviare al nostro studio: T. VALENTINI, Ermeneutica dell’imagine in Stefanini, in Aa. Vv., Edith Stein e Luigi Stefanini. Esperienza – Persona – Società, op. cit., pp. 337-355. In questo scritto abbiamo già ricordato che Stefanini propone l’uso dei termini imagine ed imaginismo con una sola “m” non solo per sottolineare la loro derivazione dalla parola latina imago ma anche per far emergere la particolarità del valore speculativo che egli attribuisce all’imagine: «intendiamo per imagine quello ch’è espressivo di altro da sé. Nella definizione è compreso il duplice rapporto di somiglianza e di alterità dell’imagine rispetto a ciò che essa vuole esprimere» (L. STEFANINI, Imaginismo come problema filosofico, op. cit., p. 14).

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seguito noteremo anche per Ricoeur, è l’immagine il luogo nel quale la parola ha la sua fonte sorgiva ed è proprio questa origine “iconica” della parola a garantire ad i soggetti parlanti la possibilità stessa di una loro inesauribile creatività linguistica. Tale creatività linguistica è ciò che ad avviso di Ricoeur rende anche possibile l’”innovazione semantica”, la costituzione di sempre nuove “significazioni” del reale. Stefanini e Ricoeur sottolineano quindi che la creatività linguistica del soggetto trova le sue sorgenti, le sue stesse condizioni di possibilità nell’immaginazione: non si tratta però dell’immaginazione dal carattere meramente riproduttivo, cioè quella facoltà mimentica che consente alle cose esteriori di essere “riprodotte” nella mente, bensì di un’immaginazione produttiva. Quella tra immaginazione riproduttiva e produttiva è una distinzione che entrambi gli autori riprendono da Kant: nella Critica della ragion pura all’immaginazione produttiva (produktive Einbildungskraft) è affidato il ruolo di produrre gli schemi trascendentali, i quali operano un’essenziale mediazione conoscitiva tra le intuizioni sensibili e le categorie dell’intelletto. Nel Critica del Giudizio Kant affida alla facoltà dell’immaginazione produttiva la costituzione di un libero schematismo, cioè di un “libero gioco delle facoltà” che consente al soggetto la formulazione dei giudizi estetici: di esprimersi ad esempio sulla bellezza o sublimità di quanto viene osservato. Possiamo dire che Stefanini e Ricoeur si pongano in linea di continuità con le ricerche kantiane sulle possibilità creative dell’immaginazione979 e che allo stesso tempo integrino la prospettiva kantiana con quella di von Humboldt: quest’ultimo, a partire dalla gnoseologia kantiana, elabora una teoria nella quale l’immaginazione produttiva viene posta in stretta relazione con la costituzione del linguaggio. Von Humboldt considera la parola come 979

A tal proposito si veda ad esempio: L. STEFANINI, Imaginismo come problema filosofico, op. cit. p. 53 ss.; P. RICOEUR, Imagination reproductive et imagination productive chez Kant, lezione tenuta il 3 gennaio 1974 presso il Centre de Recherches Phénoménologiques di Parigi; tr. it. di R. Messori, Immaginazione produttiva e immaginazione riproduttiva secondo Kant, in «Aesthetica Preprint», n. 66, 2002, pp. 47-50.

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rivestimento sonoro di quanto nell’immagine è rappresentato: egli tenta di andare alla genesi costitutiva del linguaggio è scorge nell’immagine (Bild) il luogo della sua più intima produzione. Sia Stefanbini che Ricoeur, proseguendo le indagini di Kant e soprattutto di von Humboldt, fanno emergere “il carattere tutto imaginistico del linguaggio” ed insistono sul valore fondamentale dell’immaginazione nella produzione del linguaggio metaforico e poetico. In questa prospettiva, ogni parola è impronta (Abdruck è il termine utilizzato da von Humboldt) di un’immagine e il linguaggio è considerato come una forma di conoscenza intuitiva che continuamente si rinnova. Per Stefanini il linguaggio ha quindi un ineliminabile «fattore poetico-creativo»980 che trova le sue origini nella facoltà dell’immaginazione produttiva: è quest’ultima in grado di garantire quell’essenziale «spinta innovatrice»981 che determina «la natura intuitivo-creativa del linguaggio»982: «il linguaggio non sta fermo in una posizione irreformabile, né s’innova capricciosamente sul labbro di ogni parlante: [..] esso si muove secondo una linea che mantiene la continuità tra i suoi vari stati successivi e contigui: vive, insomma, evolvendosi. Nel linguaggio vi è quindi una forza di propulsione, dipendente dalla sua natura intuitivo-creativa»983. Nella lingua convivono perciò “tradizione e innovazione”: in essa «ciò che si tramanda, s’innova»984. Il filosofo trevigiano considera l’esercicio del parlare come una «libera attività ricreatrice»985: egli rileva che questa possibilità di «un’innovazione perenne della vita espressiva»986 si origina «di volta in volta in quel principio fontale che è il vigore intuitivo e creativo del singolo»987. Facendo emergere le possibilità innovative della lingua, Stefanini critica la posizione 980

L. STEFANINI, Staticità e mobilità del linguaggio, in IDEM, Metafisica della forma e altri saggi, Liviana, Padova 1949, pp. 69-72, p. 69. 981 Ibidem. 982 Ibidem. 983 Ibidem. 984 Ibidem. 985 Ibidem, p. 71. 986 Ibidem. 987 Ibidem.

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dei cosiddetti “puristi”: essi sbagliano nel «voler arrestare la lingua nazionale in un momento perfetto del suo sviluppo, assunto come definitivo ed esemplare, rispondendo prima ad influenze razionalistico-cartesiane e, più tardi, intellettualistiche ed enciclopediche»988. Ciò che a nostro avviso accomuna le posizioni di Stefanini e di Ricoeur è la loro considerazione filosofica del linguaggio al di là dei suoi usi strumentalistici e referenziali (la Bedeutung di cui parla Frege989): essi sottolineando il contributo fondamentale dato agli atti linguistici dalla creatività del singolo individuo conferiscono al linguaggio poetico, metaforico ed allusivo un preciso valore anche in ambito speculativo. Il linguaggio poetico ad esempio viene considerato da entrambi i pensatori come “ridescrizione” della realtà in termini simbolici ed allusivi: in esso viene espressa una possibile “rifigurazione” del reale in ordine alla creatività del singolo, alle sue più intime istanzi morali ed ideali. Ci accingiamo ora ad approfondire la trattazione di queste tematiche da parte di Ricoeur. 7. La metafora viva come “innovazione semantica” e “donazione di senso”. Ricoeur elabora una filosofia del linguaggio a partire da alcune nozioni fondamentali della fenomenologia di Husserl. In particolare è in un saggio del 1967 dal titolo New developments in Phenomenology in France. The Phenomenology of language che Ricoeur argomenta la sua interpretazione della fenomenologia come «teoria del linguaggio generalizzato»990: l’intuizione dell’éidos, 988

Ibidem. Cfr. Il celebre saggio di G. FREGE, Über Sinn und Bedeutung, in «Zeitschrift für Philosophie und philosophische Kritik», n. 100, 1892; tr. it., Senso e denotazione, in Aa. Vv, a cura di A. Bonomi, La struttura logica del linguaggio, Bompiani, Milano 1973, pp. 9-32. 990 P. RICOEUR, New developments in Phenomenology in France. The Phenomenology of language, in «Social Research», n. 1, 1967, pp. 1-30; saggio originariamente scritto in inglese, e presentato anche nella successiva

989

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ovvero l’essenza universale (Wesen) dei fenomeni viene ricondotta alla Bedeutung, alla “significazione” di cui parla Frege, e la riduzione eidetica viene considerata come condizione stessa di possibilità della Bedeutung, ovvero come «il trascendentale della significazione»991, la nascita di un essere per la significazione; il senso del fenomeno, colto nella coscienza epochizzata, viene ad assume una specifica determinazione linguistica, e l’atto stesso della Sinngebung viene interpretato come un dare senso alla realtà tramite il linguaggio, organo essenziale di ogni mediazione conoscitiva tra il soggetto parlante e la realtà oggettiva: «il linguaggio è mediazione. È il medium, l’ “ambiente” nel quale e per il quale il soggetto si pone e il mondo si mostra»992. Anche l’intenzionalità (Intentionalität), la capacità costitutiva della coscienza trascendentale di riferirsi all’oggetto, di “tendere ad esso” nella rappresentazione conoscitiva, si caratterizzerebbe per un significato propriamente linguistico: il linguaggio viene identificato da Ricoeur come costitutiva mediazione della coscienza conoscitiva verso l’oggetto, come movimento intenzionale di riferimento (Bedeutung) tramite il quale il soggetto palante “si dirige” verso la realtà e coglie in essa il suo nucleo di senso. Seguendo anche le riflessioni di Merleau-Ponty, che sottolinea la posizione centrale assegnata da Husserl al linguaggio, Ricoeur afferma che la fenomenologia ha avuto il grande merito di eliminare una concezione meramente strumentalistica del linguaggio caratterizzandolo come creativa “costituzione di senso” da parte del soggetto parlante: il linguaggio, in prospettiva fenomenologica, in una fenomenologia tuttavia non più intesa come idealismo trascendentale, si qualificha come enérgheia interiore, come “organo creativo della coscienza” che porterebbe a compimento l’atto stesso della Sinngebung: «il raccolta di scritti Le conflit des interprétations con il seguente titolo: La question du sujet: le défi de la sémiologie, in Le conflit des interprétations, Seuil, Paris 1969, pp. 233-262; tr. it., La questione del soggetto: la sfida della semiologia, in Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., pp. 251-281, p. 262. 991 Ibidem, p. 276. 992 Ibidem, p. 271.

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linguaggio cessa di essere un’attività, una funzione, una operazione tra le altre e si identifica col mezzo significante totale, con il sistema dei segni gettati come una rete sul nostro campo di percezione, di azione, di vita. [..] La fenomenologia può persino rivendicare di essere la sola ad aprire lo spazio della significazione, e dunque del linguaggio, tematizzando per la prima volta l’attività intenzionale e significante del soggetto incarnato, che percepisce, agisce e parla»993. Ad avviso di Ricoeur, la validità speculativa di una filosofia del linguaggio fondata su alcune nozioni centrali della fenomenologia husserliana, quali la riduzione eidetica, l’intenzionalità della coscienza e la Sinngebung è da ricercare proprio nella salvaguardia del ruolo assegnato da questa prospettiva filosofica alla soggettività: in opposizione allo strutturalismo, secondo il quale la struttura linguistica sarebbe da considerare come un “trascendentale senza soggetto” e lo stesso sistema dei segni sarebbe articolato secondo autonome regole oggettive nelle quali i singoli parlanti non avrebbero che un ruolo passivo, la proposta teoretica di Ricoeur tende a rivalutare la creatività linguistica dei soggetti, la possibilità di innovazione semantica e di impegno ontologico da parte dei singoli parlanti. Tentando di far emergere «l’aspetto vivo, concreto, attuale del linguaggio»994, il filosofo nel ripercorrere la via lunga d’un’ermeneutica dei segni e dei simboli della cultura cerca di mostrare le strutture ontologiche del linguaggio, il radicarsi stesso delle capacità linguistiche nelle potenzialità creative della soggettività: «L’io sono è più fondamentale dell’io parlo. Bisogna dunque che la filosofia si metta in cammino verso l’io parlo a partire dalla posizione dell’io sono; [..] compito di un’antropologia filosofica è di mostrare in quali strutture ontiche il linguaggio

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Ibidem, p. 262. Riguardo quella che può essere definita come una “trasformazione” linguistica della fenomenologia, cfr. anche i contributi raccolti nel volume AA. VV., a cura di J. Greisch, Paul Ricoeur. L’herméneutique à l’école de la Phénoménologie, Beauschesne, Paris 1995. 994 P. RICOEUR, La questione del soggetto: la sfida della semiologia, in Il conflitto delle interpretazioni, op. cit., p. 274.

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avviene»995. La fenomenologia ricoeuriana della parola è ricca di risonanze ontologiche: in essa il linguaggio ritrova la sua originaria appartenenza all’esserci della soggettività concreta e diviene esso stesso segno vivo di un’interiorità creativa. La linguisticità (la Sprachlichkeit considerata da Heidegger come uno dei tratti costitutivi dell’essere stesso) è quindi per Ricoeur una delle dimensioni essenziali dell’uomo, dell’homme capable: l’uomo diverrebbe in grado di conferire alla realtà nuovi significati, una rinnovata Sinngebung proprio a partire dalle potenzialità creative dell’io, potenzialità che emergerebbero con forza dagli usi non ordinari del linguaggio, quali la produzione “immaginifica” di metafore, testi letterari e narrazioni. Nello scritto del 1975 La métaphore vive, Ricoeur propone un’originale interpretazione del linguaggio metaforico: esso producendo una nuova pertinenza predicativa farebbe scorgere nuovi significati del reale, ed è grazie ad esso che emergerebbe il fenomeno linguistico dell’innovazione semantica. Sin dal primo studio dell’opera, dedicato alla Poetica e alla Retorica di Aristotele, Ricoeur intende esplicitamente superare i limiti della definizione classica della metafora concepita come procedimento, tipico della léxis, di mera sostituzione di un nome, «trasferimento di un nome proprio di una cosa ad un’altra (onómatos allotríu epiforá), trasferimento che avviene o dal genere alla specie o dalla specie al genere, o da specie a specie, o per analogia»996, e propone una 995

Ibidem, p. 280. È la ricerca di una stretta relazione tra ontologia e linguaggio uno degli aspetti in cui ci si sembra che l’istanza filosofica di Ricoeur mostri delle significative analogie con quella di Stefanini. Riguardo le implicazioni ontologiche dell’ermeneutica ricoeuriana, cfr. A. RIGOBELLO, L’impegno ontologico. Prospettive attuali in Francia e riflessi nella filosofia italiana, Armando, Roma 1977, in particolare, p. 87 ss.; cfr. anche M. BUZZONI, Paul Ricoeur. Persona e ontologia, Studium, Roma 1988; F. BREZZI, Ricoeur. Interpretare la fede, Messaggero, Padova 1999, in particolare, pp. 163 ss.; F. TUROLDO, Verità del metodo. Indagini su Paul Ricoeur, Il Poligrafo, Padova 2000, in particolare p. 149 ss. 996 ARISTOTELE, Poetica 1457b 6-9; tr. it. a cura di D. Pesce, Rusconi, Milano 1995, p. 115 (trad. ital. in parte da noi modificata).

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concezione della metafora come fenomeno del discorso, della Rede, in grado di ridescivere e riconfigurare la realtà secondo nuovi significati e nuovi nessi semantici. Ricoeur si distanzia quindi da una visione della metafora come trópo, come figura del discorso a scopo puramente ornamentale, l’ornátus della tradizione retorica seicentesca, e propone una definizione della metafora come “poema in miniatura” nel quale «il discorso libera la capacità, propria a certe finzioni, di ridescrivere la realtà»997. Il fenomeno dell’innovazione semantica che caratterizza il linguaggio metaforico viene connesso in Ricoeur, come anche in Stefanini, alla capacità creativa dell’immaginazione produttiva, facoltà in grado di far emergere nuove pertinenze semantiche, di destabilizzare l’ordine categoriale nella costituzione di un effettivo «shock semantico»998: l’immaginazione dà al soggetto parlante la capacità di ravvicinare concetti appartenenti ad ambiti distanti e differenti, di far sviluppare quella che Ricoeur definisce come «potenzialità creativa del linguaggio (puissance créatrice du langage)», «capacità euristica della finzione (le pouvoir heuristique déployé par la fiction)»999. Tali potenzialità dell’immaginazione linguistica di cui parla Ricoeur trovano sul piano storiografico delle significative affinità sia con le nozioni di ingenium e fantasia, elaborate dal Vico, sia, come abbiamo già rilevato, con la concezione kantiana e fichtiana della produktive Einbildungskraft: l’originalità della proposta speculativa ricoeuriana consiste nell’aver sviluppato 997

P. RICOEUR, La métaphore vive, Seuil, Paris 1975; tr. it. di G. Grampa, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione, Jaca Book, Milano 19972, p. 5. 998 P. RICOEUR, L’imagination dans le discours et dans l’action, in Aa.Vv., Savoir, Faire, Espérer. Les limites de la raison, Publications des Facultés universitaires Saint-Louis, Bruxelles 1976, pp. 207-228; questo testo è poi confluito nella raccolta di scritti ricoeuriani: Du texte à l’action. Essais d’herméneutique II, Seuil, Paris 1986; tr. it. di G. Grampa, L’immaginazione nel discorso e nell’azione. Per una teoria generale dell’immaginazione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, Jaca Book, Milano 1994, pp. 205-227, p. 210. 999 P. RICOEUR, La metafora viva, op. cit., p. 5.

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nel linguaggio la capacità creativa dell’immaginazione, conferendo ad essa una precisa valenza ontologica, un nuovo valore di referenza semantica1000. Sottolineando l’iconicità, la natura tutta “immaginifica” del linguaggio metaforico, Ricoeur afferma che «l’immaginazione è l’appercezione, la visione improvvisa, di una nuova pertinenza predicativa»1001: il ruolo specifico dell’immaginazione nella produzione delle metafore è quindi quello di annullare la distanza logica tra campi semantici diversi, di far scorgere nuovi nessi di significato nell’interazione di concetti differenti, di far convivere l’è accanto al non-è, l’identico accanto al diverso, in un processo mai chiuso in sintesi consolidate dalla tradizione e dall’uso. La produzione di metafore è quindi un processo sempre aperto al novum, alla creazione di nuovi nessi attributivi in grado di significare la realtà nella sua complessità, nelle sue intime differenze irriducibili a qualsiasi tentativo di una comprensione ultima e definitiva: «l’immaginazione consiste nel vedere lo stesso nella differenza, nel “fare” il ravvicinamento. Perché vi sia metafora in effetti occorre che io continui a percepire l’incompatibilità letterale attraverso la nuova compatibilità semantica. [..] L’immaginazione è questo stadio dove la parentela genetica non è ancora passata alla pace del concetto, ma rimane nel conflitto della

1000

A questo proposito è anche da rilevare che Jean Greisch, uno tra i più raffinati interpreti del pensiero ricoeuriano, ha sottolineato che la maggior parte degli scritti del filosofo francese sarebbero caratterizzati dal tentativo di far emergere le implicazioni contenute nella dottrina kantiana dell’Einbildungskraft: cfr. J. GREISCH, Paul Ricoeur. L’itinérance du sens, Million, Grenoble 2001; cfr. anche P.S.A. ANDERSON, Ricoeur and Kant, Scholars Press, Atlanta 1993; J. EVANS, Paul Ricoeur’s hermeneutics of the imagination, Peter Lang, Frankfurt a.M. - New York 1995; M. PHILIBERT, Philosophical Imagination: Paul Ricoeur as the Singer of Ruins, in AA. VV. a cura di L.E. Hahn, The Philosophy of Paul Ricoeur, Open Court, Chicago 1995, pp. 127-137. 1001 P. RICOEUR, L’immaginazione nel discorso e nell’azione. Per una teoria generale dell’immaginazione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, op. cit., p. 210.

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prossimità e della distanza»1002. Possiamo rilevare che la concezione ricoeuriana della verità metaforica si situi all’interno di una “filosofia della differenza”: la produzione stessa di metafore andando al di là di un uso meramente ordinario ed oggettivistico del linguaggio garantirebbe la salvaguardia delle différences costitutive della realtà, dei “mille piani” prospettici in cui si articola la dinamicità del reale. Quest’ultima notazione può anche configurarsi come uno dei punti di incontro tra la proposta filosofica Ricoeur e le prospettive di Gilles Deleuze e Jacques Derrida, nelle quali largo spazio è dato alla nozione di différence/différance, seppur con diverse accentuazioni e finalità.1003 Sottolineando la forza creativa dell’ingenium del singolo parlante, Ricoeur giunge a parlare di un inedito schematismo dell’attribuzione metaforica nel quale si dispiega la forza euristica della metafora, la sua capacità di aprire nella realtà nuove dimensioni di significato: a questo proposito emerge anche il singolare statuto epistemologico della metafora, la sua effettiva capacità referenziale di significare la realtà in modo veritiero seppur analogico ed allusivo. La verità di cui è portatrice la metafora non è mai una verità oggettiva, verificabile, ma è sempre una “verità tensionale”, una “verità analogica e simbolica” che si esprime in un “vedere come”, in un “vedere altrimenti”: l’enunciato metaforico, tipico del linguaggio poetico e religioso, è anche capacità di ridescrivere i fenomeni in ordine al nostro sentimento morale, alla nostra esigenza etica di riconfigurare 1002

P. RICOEUR, Métaphore et image, lezione tenuta il 25 aprile 1974 presso il Centre de Recherches Phénoménologique di Parigi; tr. it. di R. Messori, Metafora e immagine, in IDEM, Cinque lezioni. Dal linguaggio all’immagine, in «Aesthetica Preprint», 66 (2002), pp. 57-63, p. 59. 1003 È da ricordare che il dibattito tra Ricoeur e Derrida si è originato proprio a partire dal tema della metafora e dall’interpretazione dei significati del linguaggio metaforico in Aristotele; cfr. il anche saggio di Derrida che contiene una risposta alle critiche ricoeuriane alla concezione della metafora espressa in Mythologie blanche: J. DERRIDA, Le retrait de la métaphore, in «Poésie», n. 7, 1978; IDEM, Il ritrarsi della metafora, in «Aut Aut», n. 220-221, 1987, pp. 9-34; cfr. anche A. CAZZULLO, La verità della parola. Ricerche sui fondamenti filosofici della metafora in Aristotele e nei contemporanei, Jaca Book, Milano 1987, in particolare pp. 159-221.

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l’ordine stabilito. In tal senso la verità analogica della metafora cela al suo interno una non sempre riconosciuta capacità critica e poietica: essa è capacità di produrre “impertinenza semantica” ed in essa è anche possibile vivere la sperimentazione di «idee nuove, valori nuovi, modi nuovi di essere al mondo»1004. La metafora ha quindi il potere di trasfigurare la realtà: essa è sospensione della referenza tipica del linguaggio ordinario e delle scienze, ci mostra le cose nel loro “essere come”, ed è tensione costitutiva verso un dover essere ideale: «La metafora è il processo retorico in forza del quale il discorso libera la capacità, propria a certe finzioni, di ridescrivere la realtà. [..] Da tale congiunzione tra finzione e ridescrizione ricaviamo la conclusione che il “luogo” della metafora, il suo luogo più intimo e radicale, non è né il nome, né la frase e nemmeno il discorso, bensì la copula del verbo essere. L’”è” metaforico significa, ad un tempo, “non è” ed “è come”. [..] È fondato il nostro parlare di verità metaforica, ma dando un senso “tensionale” al termine “verità”»1005. La riflessione ricoeuriana intorno al linguaggio metaforico della poesia ed anche della narrazione1006 si carica di un preciso impegno 1004

P. RICOEUR, L’immaginazione nel discorso e nell’azione. Per una teoria generale dell’immaginazione, in IDEM, Dal testo all’azione. Saggi di ermeneutica, op. cit., p. 212. 1005 IDEM, La metafora viva, op. cit., p. 5. Riguardo la concezione ricoeuriana della metafora ci limitiamo a segnalare i seguenti studi: A. RIGOBELLO, La “métaphore vive” nel pensiero di Paul Ricoeur, in «Simbolo, metafora, allegoria», 11, Liviana Editrice, Padova 1980, pp. 3647; D. JERVOLINO, Il cogito e l’ermeneutica. La questione del soggetto in Ricoeur, Procaccini, Napoli 1984 (II Ediz., Marietti, Genova 1993), in particolare pp. 141 ss.; H. STREIB, Hermeneutics of Metaphor, Symbol and Narrative in Faith Development Theory, Peter Lang, Bern-Frankfurt-New York 1991. 1006 Se in La métaphore vive Ricoeur si è spinto a parlare della possibilità di una “referenza metaforica”, ed ha individuato nel linguaggio poetico la presenza effettiva di un’innovazione semantica, nei tre volumi di Temps et récit analizza la possibilità di una riconfigurazione della realtà e dell’esperienza vissuta a partire dal racconto, dall’intreccio narrativo: le due opere vengono definite dallo stesso autore come “opere gemelle” ed in esse si realizza una “sintesi dell’eterogeneo”, un accostamento del fenomeno

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ontologico ed etico: è un linguaggio che apre ad una nuova visione delle cose rompendo i legami logici precostituiti, e che consente di far emergere nuovi ma latenti significati del reale; è una via linguistica per affermazioni di carattere ontologico. La particolare referenza della metafora viene dunque considerata nella sua “veemenza ontologica”, nella sua forza di dire e mostrare l’essere delle cose nelle sue più intime differenze. Attingendo la sua forza creativa dalla libera produttività dell’immaginazione, una pruduttività senza regole, la “libera schematizzazione” descritta da Kant nella Critica del Giudizio, la metafora supera la rigida classificazione logica della realtà e si immerge direttamente nella vivezza creativa del mondo della vita, la della metafora e della narrazione intorno alla produzione dell’innovazione semantica da parte del soggetto che parla, scrive e racconta. Se nel caso della metafora «l’innovazione consiste nella produzione di una nuova pertinenza semantica mediante una attribuzione impertinente, [..] con il racconto, l’innovazione semantica consiste nell’invenzione di un intrigo [..]. È questa sintesi dell’eterogeneo che avvicina racconto e metafora. In entrambi i casi qualcosa di nuovo – di non ancora detto, di inedito – sorge nel linguaggio: da un lato la metafora viva, cioè una nuova pertinenza nella predicazione, dall’altro un intrigo simulato, cioè una nuova congruenza nella connessione degli accadimenti» (P. RICOEUR, Temps et récit I, Seuil, Paris 1983; tr.. it. di G. Grampa, Tempo e racconto, Vol. I, Jaca Book, Milano 19942, pp. 7-8). Come nel caso della metafora anche nella narrazione la capacità di innovazione semantica è dovuta alle potenzialità dell’immaginazione produttiva: quest’ultima è infatti in grado di creare nuovi schematismi narrativi, nuovi intrecci e congruenze nella connessione degli accadimenti. Nel récit, l’immaginazione viene inoltre strettamente connessa alla riconfigurazione dell’esperienza del tempo, a quella che Ricoeur definisce come aporetica della temporalità: i racconti di finzione, dall’epopea al romanzo moderno, nei quali lo schematismo narrativo è generato dall’immaginazione, vengono dunque considerati come «una specie di laboratorio per esperienze del pensiero, nei quali l’immaginazione “prova” alcune soluzioni possibili per gli enigmi della temporalità» (P. RICOEUR, Mimesis, référence et refiguration dans Temps et récit, in «Études phénoménologiques», 6 (1990), pp. 29-40; tr. it., Mimesis, referenza e rifigurazione in Tempo e racconto, in IDEM, Filosofia e linguaggio, op. cit., pp. 187-199, p. 195).

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Lebenswelt di cui parla Husserl: nel suo specifico compito ontologico ed etico di “comprendere e ridescrivere la realtà”, la metafora si costituisce quindi come il tentativo ermeneutico di un’approccio concerto al mistero dell’essere, come l’istanza linguistica di significare la realtà nella molteplicità delle sue espressioni. La produzione umana di metafore si qualificha anche come il tentativo da parte dell’homme faillible di gettare lo sguardo al di là di confini conoscitivi rigidamente prestabiliti (le kantiane Grenzen) per aprire lo spazio ad un’ulteriorità di significato, ad una verità analogica mai compiutamente tematizzabile: la metafora di cui parla Ricoeur è espressione linguistica delle istanze di fondo di un pensiero simbolico ed allusivo, di un pensiero non costitutivamente precluso alla possibilità teoretica di un’ulteriorità metafisica e religiosa. 8. Conclusione: due fecondi itinerari di ricerca Gli itinerari di ricerca di Stefanini e di Ricoeur possono trovare degli interessanti punti di convergenza e di confronto. Come abbiamo potuto constatare, le affinità tra i due pensatori sono certamente profonde: seppur operanti in contesti storiografici assai differenti, essi mostrano per problematiche come quelle del linguaggio e dell’ontologia quasi una comune sensibilità d’indagine speculativa. In entrambi i filosofi si avverte la presenza di una forte ispirazione personalistica: possiamo dire che quest’ultima resti sullo sfondo anche delle loro considerazioni sul linguaggio e sullo statuto ontologico della soggettività umana. Se in Ricoeur è esplicita l’elaborazione di un’ermeneutica dell’individualità umana a partire dalle capacità (capacités) del singolo di parlare, di agire e di narrare e di riconoscersi come responsabile dei propri atti, ci sembra che anche in Stefanini si possa scorgere l’elaborazione ante litteram di una tale ermeneutica: un’ermenutica che come quella proposta da Ricoeur è lontana da ogni esito nichilistico e pone l’accento sulla creatività della persona, sulle sue capacità produttive, e tra quest’ultime c’è sicuramente il linguaggio. Una delle istanze di 434

fondo presente sia in Stefanini che in Ricoeur è quella di porre in luce l’emergere di un “fondo d’essere” della soggettività, sul quale si stagliano i suoi atti e le sue facoltà creative: si tratta di un’ermeneutica del soggetto che tenta di cogliere il nucleo ontologico e produttivo dell’individualità; questo “fondo d’essere” viene chiaramente definito da entrambi i filosofi come enérgheia, come una dinamica attività interiore che sta a fondamento di ogni espressione creativa dell’io. La novità del pensiero Stefaniniano, e ciò che resta anche di più vivo ed attuale è, secondo noi, il nesso imprescindibile posto dal filosofo tra essere, pensiero e linguaggio: come abbiamo detto, per Stefanini “l’ontologia è una glottologia” e il pensiero è inscindibilmente legato alla parola che lo esprime, che lo significa nel rivestimento sonoro: «la vita dei concetti resta indissolubilmente legata alla vita delle parole»1007. La consustanzialità tra esserepensiero e parola non significa tuttavia una risoluzione nichilistica dell’essere nel linguaggio1008, e nella storicità delle lingue. È questo anche uno degli elementi che accomuna Stefanini a Ricoeur: la presa di distanza da una deriva nichilistica della risoluzione dell’essere in parola, e della soggettività nella panica partecipazione all’essere, la Gelassenheit di cui parla Heidegger. Ci sembra che sia anche questo uno dei contributi che i due pensatori, seppur, in diverse stagioni del pensiero, hanno dato alla filosofia. Possiamo considerare sia Stefanini che Ricoeur due “maestri di pensiero”: i loro itinerari di ricerca ci paiono estremamente fecondi e stimolanti e possono suggerire anche degli ulteriori approfondimenti 1007

L. STEFANINI, Staticità e mobilità del linguaggio, in Metafisica della forma e altri saggi, op. cit., pp. 69-72, p. 71. 1008 Si pensi ad esempio alle interpretazioni nichilistiche di un possibile dissolvimento dell’essere nel linguaggio, emerse anche a partire dalle discussioni filosofiche sul significato dell’affermazione di Gadamer «l’essere che può essere compreso è linguaggio (Sein, das verstanden werden kann, ist Sprache)» (H.-G. GADAMER, Verità e metodo, op. cit., p. 965). A tal proposito cfr. D. DI CESARE (a cura di), “L’essere, che può essere compreso, è linguaggio”. Omaggio a Hans-Georg Gadamer, Il melangolo, Genova 2001.

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da svolgere nell’attuale contesto filosofico. Uno degli elementi che ha caratterizzato i loro scritti - ed è certamente esemplare - è, a nostro avviso, la realizzazione di un equilibrio tra l’apertura al confronto critico con le più diverse prospettive filosofiche ed il saper mantener fede ad una costante ispirazione di fondo, quella personalistica e cristiana.

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Studio III Modernità, secolarizzazione e politica in Augusto Del Noce

«L’attuale pluralità delle morali attesta, in ognuna di esse, una risposta implicita, positiva o no, al problema metafisico; il pari, per o contro Dio, si impone in ogni minimo atto della vita quotidiana»1009.

Scopo del presente scritto è ripercorrere l’itinerario intellettuale di Augusto Del Noce mettendo in luce il contributo speculativo che questa singolare figura ha dato alla filosofia italiana del Novecento. In primo luogo viene sottolineato che la ricerca di Del Noce prende le mosse da problemi di carattere storiografico: una radicale messa in questione della più consolidata concezione della modernità, comunemente intesa come quel percorso di pensiero che si origina in Cartesio e trova la sua più compiuta e definitiva espressione nell’immanentismo di Hegel (e nell’attualismo di Giovanni Gentile per la cultura italiana). È solo comprendendo la genesi dell’immanentismo moderno che - ad avviso di Del Noce - si possono scorgere le radici più profonde della secolarizzazione, del relativismo e del nichilismo che hanno caratterizzato tanta parte della cultura occidentale più vicina ai nostri giorni: nell’Ottocento Friedrich Nietzsche è stato per molti aspetti corifeo e profeta di questi esiti negativi della modernità. Nel nostro studio metteremo in evidenza anche i motivi per i quali Del Noce interpreta gli stessi totalitarismi del Novecento (fascismo, nazismo e marxismo 1009

A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964; IV edizione: Introduzione di N. Matteucci, Il Mulino, Bologna 1990, p. 12. Il volume è stato ristampato nel 2010 presso i tipi di Il Mulino: in quest’ultima edizione è presente anche una Postfazione di Massimo Cacciari intitolata Sulla critica della ragione ateistica.

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sovietico) come espressioni storico-politiche dell’ateismo moderno e della sempre più crescente secolarizzazione. In opposizione a questa concezione della modernità, il Nostro propone il recupero e la valorizzazione di un’”altra modernità”: si tratta di quella linea di pensiero religioso franco-italiano che si origina sempre in Cartesio, si sviluppa nell’ontologismo di Malebranche e nella filosofia della storia di Vico, per trovare poi la sua più elaborata sintesi nella cultura filosofico-politica del Risorgimento italiano, con Gioberti e soprattutto con Rosmini. Ad avviso di Del Noce è in particolare dalla ripresa di questa linea di pensiero (definita come “ontologismo”) che può emergere un vero rinnovamento - “Risorgimento” auspica il Nostro - della cultura italiana ed europea: quella di Del Noce si qualifica perciò come una proposta di “filosofia cristiana” che intende recuperare una concezione della natura e dell’uomo aperta alla trascendenza. L’intento di Del Noce è essenzialmente quello di un pensoso recupero della tradizione filosofica ebraico-cristiana in grado di saper dare valide risposte anche alle complesse problematiche del mondo contemporaneo: è in quest’ottica che si debbono leggere i numerosi interventi di Del Noce (anche in periodici e quotidiani) che vertono su questioni etico-politiche e su una ridefinizione stessa dei compiti e delle urgenze di un’autentica democrazia. 1. L’itinerario intellettuale e l’impegno politico Augusto Del Noce nacque a Pistoia l’11 agosto 1910. La madre, Rosalia Pratis, era savonese, discendente di una famiglia nobile savoiarda. Il padre era toscano ed era un generale dell’esercito. Dalla famiglia ricevette un’educazione cattolica, improntata ai valori tradizionali. Ecco le parole con le quali Del Noce rievoca gli anni della sua formazione e la sua giovanile vocazione filosofica: «la mia famiglia era decaduta e tendenzialmente orientata verso i valori del passato. Io quindi da un lato sentivo un attaccamento a tali valori, dall’altro avvertivo l’assenza di un loro fondamento. Questa è almeno una delle ragioni che mi portarono alla filosofia; sì, si può 438

dire che le mie origini non siano tanto gnoseologiche o metafisiche o epistemologiche, ma propriamente morali»1010. Allo scoppio della prima guerra mondiale la famiglia dovette trasferirsi a Torino ed il giovane Del Noce ebbe la fortuna di frequentare il Liceo classico “Massimo d’Azeglio”, dal quale uscirono anche altri intellettuali come Cesare Pavese, Alessandro Galante Garrone, Leone Ginzburg e non da ultimo Norberto Bobbio. Al Liceo Del Noce ebbe Umberto Cosmo come insegnante di letteratura italiana e latina. Cosmo - come il suo collega Augusto Monti - era apertamente antifascista e nel 1925 fu costretto dal regime ad abbandonare l’attività didattica e giornalistica. Il rapporto di Cosmo con Del Noce continuò anche durante e dopo l’Università. Del Noce rimase ammirato dal suo insegnamento e gli sarà sempre riconoscente: «con Cosmo» - afferma il Nostro - «ebbi un rapporto molto assiduo e affettuoso durante gli anni ʼ30. Lui era sfuggito da tutti per il suo antifascismo. Facevamo quasi tutte le sere una lunga passeggiata. La posizione politica e culturale di Cosmo era molto particolare, una sorta di socialismo umanitario, o, per meglio dire, un cristianesimo risolto in umanitarismo. Fu una figura che esercitò molto fascino su Gramsci ma anche su Tasca e Sraffa. Lo potremmo definire l’antecedente di una linea cha va fino al Capitini di Esperienze di vita religiosa»1011. Dal 1928 al ʼ32 Del Noce studiò filosofia all’Università di Torino. Frequentò le lezioni di Adolfo Faggi, Erminio Juvalta, Carlo Mazzantini, Annibale Pastore, Giovanni Vidari. Come abbiamo già accennato, le ragioni profonde dell’interesse di Del Noce per la filosofia furono essenzialmente di carattere morale ed esistenziale: 1010

A. DEL NOCE, Storia di un pensatore solitario. Intervista ad Augusto Del Noce di Massimo Borghesi e Lucio Brunelli, in Idem, Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, a cura di A. Mina, Introduzione di G. Riconda, Bur, Milano 2007, pp. 350-362, p. 350. Quest’intervista fu edita per la prima volta nella rivista «30 Giorni», nel fascicolo dell’aprile 1984. 1011 Il testo citato risale al 1978 ed è tratto da D. ANTISERI – S. TAGLIAGAMBE, Augusto Del Noce, in IDEM, Storia della filosofia. Filosofi italiani del Novecento, Bompiani, Milano 2008, vol. 13, pp. 504-517, p. 505.

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«posso dire che il mio, allora, era un problema essenzialmente morale. Cercavo cioè un orientamento rispetto ad un mondo che cangiava rapidamente e a un sistema di valori che non condividevo, che, per ragioni complesse, non mi piaceva. Insomma detto più semplicemente non mi trovavo bene nel mondo»1012. Nel ʼ32 si laureò con Adolfo Faggi scrivendo una tesi Sulla formazione della filosofia di Malebranche. Iniziarono quindi a delinearsi chiaramente i suoi interessi per il pensiero francese del Seicento nel quale scorgeva la genesi della modernità ed una valida chiave di lettura per comprendere ab imis fundamentis anche le problematiche filosofiche dibattute ai suoi tempi. In un curriculum vitae nel quale ripercorre il suo itinerario di studi, il Nostro ricorda che «le sue prime ricerche volsero sulla Querelle de la philosophie chrétienne, degli anni immediatamente successivi al 1930, e più precisamente nell’orizzonte storico della filosofia dell’azione [sviluppata da Maurice Blondel]; e portarono su Malebranche come primo tentativo nella filosofia francese moderna di una “filosofia cristiana per essenza e non per accidente”; quel che fu proprio il problema della filosofia dell’azione»1013. Gli studi del giovane Del Noce si orientarono verso il pensiero francese anche per sfuggire all’egemonia culturale che allora in Italia veniva esercitata dall’idealismo di Benedetto Croce e soprattutto di Giovanni Gentile; a questo proposito il Nostro ricorda: «all’epoca si assisteva in Italia a un dominio intellettuale della filosofia idealistica gentiliana, alla quale mi sentivo completamente estraneo. Non fu quindi un caso se diventai, potremmo dire, un allievo “privato” della Sorbona. Avendo scelto come argomento della tesi di laurea l’interpretazione religiosa di Cartesio, in particolare del pensiero di Malebranche, entrai in contatto con personalità come Remi Gouhier, autore di una 1012

A. DEL NOCE, Storia di un pensatore solitario. Intervista ad Augusto Del Noce di Massimo Borghesi e Lucio Brunelli, cit., p. 350. 1013 A. DEL NOCE, Curriculum, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, Sei, Torino 1996, pp. 183187, p. 184. Questo curriculum risale ai primi mesi del 1965: si tratta di un inedito ritrovato in casa Del Noce e pubblicato per la prima volta da Tommaso Dell’Era all’interno del volume sopra citato.

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bellissima storia filosofica del sentimento religioso in Francia, Étienne Gilson e Jean Laporte».1014 Tuttavia all’Università di Torino fu soprattutto Carlo Mazzantini che Del Noce riconobbe come suo vero e proprio maestro della ricerca filosofica1015. Da notare è che il giovane Del Noce lesse con interesse e partecipazione tutte le prime opere di Jacques Maritain, le quali contribuirono notevolmente alla sua formazione intellettuale: si pensi ai Tre riformatori, ad Antimoderno ed in particolare ad Umanesimo integrale, edito nel 1936. Tra l’altro Del Noce fu tra i primi a leggere in Italia Umanesimo integrale, che poi divenne un fondamentale punto di riferimento per tutta una generazione di intellettuali d’ispirazione cristiana. Quest’opera interessò il Nostro oltre per che per gli aspetti politici anche per la visione della storia della filosofia moderna ivi proposta. L’interpretazione delnociana del pensiero moderno e soprattutto del razionalismo di matrice cartesiana - seppur originale - mostra certamente delle affinità con quella di Maritain1016: va tuttavia sottolineato che il Nostro sin dalle sue prime opere cercò di elaborare una critica della modernità che non ricadesse però nell’”antimoderno” di Maritain. Nell’ambiente culturale torinese degli anni Trenta-Quaranta, nonostante la sua sincera amicizia con Ludovico Geymonat e Norberto Bobbio, Del Noce avvertì spesso e talvolta con rammarico di essere isolato. Il clima culturale torinese di quegli anni era certamente di impronta laica: le sue cifre costitutive erano soprattutto «il metodologismo del Bobbio, il nuovo positivismo del Geymonat, 1014

Ivi, p. 353. Sull’influenza filosofica di Mazzantini su Del Noce cfr. A. RIZZA, Mazzantini e Del Noce, in Aa. Vv., Augusto Del Noce. Il problema della modernità, Studium, Roma 1995, pp. 225-252; IDEM, Augusto Del Noce e l’eredità mazzantiniana, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 27-44. 1016 Sulla ricezione delnociana di Maritain si veda T. DELL’ERA, Augusto Del Noce e Jacques Maritain: libertà e liberalismo, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 61-87. 1015

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il nuovo realismo di Pavese»1017. Secondo la testimonianza del Nostro furono due i profondi motivi del suo isolamento: il cattolicesimo vissuto con autenticità e l’antifascismo dichiarato. In quegli anni - ricorda Del Noce - «l’antifascismo giovanile era un fenomeno molto esiguo, e questa minoranza esigua a Torino era mossa generalmente da una filosofia liberal-socialista che si ispirava alle idee di Piero Gobetti e all’azione del gruppo di “Giustizia e libertà”. Quella corrente di pensiero, cioè, che successivamente darà vita la Partito d’azione. […] Ero isolato in quanto cattolico. Gli intellettuali antifascisti vicini alle posizioni di “Giustizia e libertà” presentavano una grossa componente laicista, anticattolica. Pressoché tutti i miei compagni d’università antifascisti, da Leone Ginzburg a Norberto Bobbio, condividevano tale indirizzo liberalsocialista»1018. Ci dispiace dover sottolineare che Del Noce avvertì un profondo senso d’isolamento «anche nel mondo cattolico associativo del tempo». A suo avviso, infatti, «è difficile parlare

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A. DEL NOCE, Curriculum, cit., p. 183. Per comprendere la formazione del pensiero delnociano è fondamentale il suo inquadramento storico nella Torino degli anni Trenta-Quaranta. Nicola Matteucci, amico e collaboratore di Del Noce, ci dice che per il Nostro l’ambiente culturale torinese rimase sempre un punto di riferimento dal quale poter interpretare le vicende della filosofia italiana ed europea nel suo complesso. Matteucci parla di una «posizione eccezionale, forse eccessiva» di Torino: per Del Noce la città «rappresentò infatti in Italia il luogo in cui si formò quell’egemonia culturale data dall’alleanza tra il neomarxismo e il neoilluminismo» (N. MATTEUCCI, Augusto Del Noce e il problema della modernità, in IDEM, Filosofi politici contemporanei, Il Mulino, Bologna 2001, pp. 97-114, p. 101). 1018 A. DEL NOCE, Storia di un pensatore solitario. Intervista ad Augusto Del Noce di Massimo Borghesi e Lucio Brunelli, cit., p. 351. A Torino, nonostante il calore delle amicizie (con Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat, Leone Ginzburg, Cesare Pavese, Umberto Segre), Del Noce come egli stesso ci testimonia - «si trovava isolato per la sua posizione cattolica» (A. Del Noce, Curriculum, cit., p. 185). Del resto egli nota con rammarico che «a quel tempo, tra il 1930 e il 1945, un antifascismo cattolico mancava» (ibidem).

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dell’esistenza di una chiara posizione antifascista tra i giovani intellettuali cattolici degli anni Trenta»1019. Per Del Noce l’Università di Torino fu scarsa di riconoscimenti accademici: dopo la Laurea iniziò quindi ad insegnare presso gli istituti superiori (a Novi Ligure, nel 1937 ad Assisi e successivamente a Mondovì). L’anno in cui insegnò presso l’Istituto Magistrale “R. Bonghi” di Assisi gli diede occasione di stringere rapporti d’amicizia con Aldo Capitini, con il quale condivise gli ideali di un antifascismo pacifista. Ecco alcune parole espresse da Del Noce che ci fanno ben comprendere le caratteristiche della sua posizione antifascista e le sue considerazioni critiche nei confronti della Resistenza partigiana: «il mio antifascismo era stato profondamente influenzato dall’amicizia con il pacifista Aldo Capitini. Credo ancora che il primo Capitini, quello di Elementi dell’esperienza religiosa, rappresenti veramente il punto più alto dell’antifascismo italiano. Io avevo talmente legato l’idea di “antifascismo” a quella di “non violenza” che mi sembrava che la Resistenza, come era impostata dai comunisti, deformasse lo spirito più vero dell’antifascismo».1020 Dal 1936 al ‘41 Del Noce ebbe occasione di frequentare Piero Martinetti nella sua casa di Castellamonte. Grazie a Martinetti Del Noce pubblicò dei saggi sulla Rivista di filosofia: di particolare rilievo speculativo è il saggio del ʼ37 Osservazioni sul realismo e l’idealismo di Špir. Si tratta di un contributo sul pensiero del russo Afrikan Špir di cui Martinetti aveva curato nel 1913 un’edizione italiana di Saggi di filosofia critica. La figura di Martinetti esercitò sul giovane Del Noce un’importante influenza: ad esso «si sentiva vicino per l’aspetto dualistico-pessimistico che aveva allora assunto il suo pensiero e che le circostanze storiche del tempo, caratterizzate da un’avanzata apparentemente invincibile delle forze irrazionali, sembravano autorizzare»1021. 1019

A. DEL NOCE, Storia di un pensatore solitario. Intervista ad Augusto Del Noce di Massimo Borghesi e Lucio Brunelli, cit., pp. 351-352. 1020 Ivi, p. 355. 1021 A. DEL NOCE, Curriculum, cit., p. 186. L’idealismo di Piero Martinetti (1872-1943) si caratterizza per essere “critico”, “trascendente” e

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Dal 1940 al ʼ42, su proposta di Enrico Castelli, venne chiamato come collaboratore a Roma presso l’Istituto di Studi filosofici. A Roma Del Noce entrò in contatto anche con Franco Rodano e Felice Balbo: si avvicinò quindi al “catto-comunismo”, cioè a quel progetto ideologico che tentava di coniugare il cristianesimo con il marxismo. Tuttavia non aderì al Manifesto dei cattolici comunisti e presto si allontanò dal gruppo, pur continuando ad intrattenere una sentita amicizia sia con Rodano che con Balbo. Nel 1946 Del Noce pubblicò un ampio articolo nel quale chiarì la sua posizione filosofica innanzi al marxismo, affermando una sostanziale inconciliabilità tra antropologia cristiana e materialismo marxista: si tratta del celebre saggio - sul quale ci soffermeremo nelle successive pagine - La «non-filosofia» di Marx e il comunismo come realtà politica. Il confronto critico con il marxismo restò una costante anche della produzione più matura di Del Noce: gli darà occasione di scrivere volumi come Il problema politico dei cattolici (UICP, Roma 1967), L’eurocomunismo e l’Italia (Europa Informazioni, Roma 1976), Il suicidio della rivoluzione (Rusconi, Milano 1978), Il cattolico comunista (Rusconi, Milano 1981). Dopo aver insegnato alcuni anni al Liceo “G. Ferraris“ di Torino, Del Noce dal ʼ57 al ʼ61 prestò servizio a Bologna presso il Centro di Documentazione di Scienze religiose (oggi Istituto per le Scienze religiose), fondato da Giuseppe Dossetti. In quegli anni scrisse interventi sulle riviste «Cronache sociali» e su «Il Mulino». A Bologna stinse una duratura amicizia con Nicola Matteucci e con il “religioso”: si tratta di un filosofo che venne in larga misura emarginato dalla cultura dominante del primo Novecento sia per la sua opposizione al regime fascista sia per l’egemonia che negli stessi anni venivano ad avere le versioni dell’idealismo immanentistiche ed hegeliane (quelle di Croce e Gentile). Sulla figura e l’opera di Martinetti si veda la monografia di A. VIGORELLI, Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato. Con un’appendice di documenti inediti, Mondadori, Milano 1998. Sul rapporto di Del Noce con Martinetti cfr. A. PARIS, Augusto Del Noce e Piero Martinetti: un confronto sul significato della libertà, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 45-60.

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gruppo di intellettuali che si raccoglieva intorno alla rivista «Il Mulino»: tra questi sono da citare i nomi di Sergio Cotta e Gabrio Lombardi. Tuttavia nel 1974, in occasione del referendum sul divorzio, Del Noce si allontanò dalle idee più liberali e progressiste di Matteucci. Agli inizi degli anni Sessanta fu quest’ultimo però che incoraggiò Del Noce a pubblicare le sue opere maggiori sull’interpretazione della modernità: Il problema dell’ateismo (Il Mulino, Bologna 1964) e Riforma cattolica e filosofia moderna, di cui fu pubblicato solo il primo volume dal titolo Cartesio (Il Mulino, Bologna 1965). Nel 1963 ottenne il suo primo incarico di docenza presso l’Università di Trieste: nel ‘66 a Trieste vinse il concorso per la cattedra di Storia della filosofia moderna e contemporanea. La commissione giudicatrice era presieduta da Nicola Abbagnano. Nel 1970 si trasferì definitivamente a Roma dove insegnò prima Storia delle dottrine politiche e poi da ʼ74 Filosofia della politica presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università “La Sapienza”. Negli anni Settanta-Ottanta Del Noce intensificò la sua collaborazione a quotidiani come «Il Tempo» e «Il Giornale d’Italia», contribuì alla fondazione di riviste quali «L’Europa», «Prospettive nel mondo», «Il Sabato», «30Giorni», «Il Nuovo areopago», e diede alle stampe significativi volumi come L’epoca della secolarizzazione (Giuffrè, Milano 1970), Tramonto o eclissi dei valori tradizionali? (scritto con Ugo Spirito, Rusconi, Milano 1971), I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo (2 voll., Giuffrè, Milano 1972). Nel 1983 partecipò alle elezioni politiche candidandosi tra le fila del partito “Democrazia cristiana”: nonostante l’appoggio del “Movimento popolare” e di “Comunione e Liberazione”, risultò il primo dei non eletti. Tuttavia l’anno successivo riuscì ugualmente a diventare Senatore, subentrando al deceduto Aldo Sandulli. Ricoprì la carica di Membro della commissione della pubblica istruzione. Dopo esser diventato professore fuori ruolo contribuì in maniera decisiva alla formazione culturale del movimento cattolico “Comunione e Liberazione”, il quale gli fu molto vicino gli ultimi anni della sua vita. In un intervento al meeting di Rimini tenuto nell’agosto 1989 (pochi mesi prima della morte) Del Noce tracciò un 445

breve schizzo della novità rappresentata dal movimento di CL, novità che egli stesso avvertì come l’espressione pratica e storica del suo pensiero: «Comunione e Liberazione prende forma nel 1969, quindi negli anni della contestazione, e con la contestazione ha un rapporto: contesta l’esistente. […] CL ha contestato la «repubblica delle lettere» (uso un termine settecentesco) che ha ancora il reale dominio delle menti e che ha prodotto tutta l’opera di secolarizzazione e di scristianizzazione che è avvenuta in questo secondo dopoguerra. […] Un nuovo avversario del cristianesimo è cresciuto negli ultimi decenni: la forma di religione propria della società opulenta e consumistica. È un avversario più potente e pericoloso del comunismo. Occorreva una formazione nuova adatta a questa lotta, una sensibilità particolare capace di comunicare ai giovani. È la sensibilità di CL. […] Il movimento, nato per orientare i giovani nel mondo di oggi, non può non incontrare la politica, ma è in qualche modo metapolitico, e CL […] non mira affatto ad essere un partito; un partito deve preoccuparsi del risultato, il movimento invece si occupa della formazione morale e religiosa».1022 Del Noce si spense a Roma la notte tra il 29 e il 30 dicembre ʼ89, assistito dalle cure della moglie Angiola Maria. Tra le carte alle quali stava lavorando c’erano le bozze quasi ultimate di un volume su Giovanni Gentile e degli appunti per un libro sul pensiero politico di Dante, argomento dal quale traeva stimoli anche per interpretare la vita culturale contemporanea. Tra i suoi scritti postumi ricordiamo 1022

A. DEL NOCE, Occorreva una nuova sensibilità ed ecco il movimento di CL, discorso pronunciato al meeting di Rimini il 27 agosto 1989, edito in «Litterae Communionis, CL», febbraio 1990, ora in Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, cit., pp. 361-362. Le principali monografie che analizzano la genesi e gli sviluppi del pensiero delnociano in connessione con gli eventi biografici sono quelle di R. BUTTIGLIONE, Augusto Del Noce. Biografia di un pensiero, Piemme, Casale Monferrato 1991; P. SERRA, Augusto Del Noce. Metafisica e storia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1996; G.F. Lami, Introduzione ad Augusto Del Noce, Pellicani, Roma 1999; P. Armellini, Razionalità e storia in Augusto Del Noce, Aracne, Roma 1999; A, PARIS, Le radici della libertà. Per un’interpretazione del pensiero di Augusto Del Noce, Marietti, Genova 2008.

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Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea (Il Mulino, Bologna 1990), Da Cartesio a Rosmini (a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano 1991), Filosofi dell’esistenza e della libertà (a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano 1992). L’archivio del filosofo e la sua biblioteca sono custoditi a Savigliano (CN) dalla Fondazione Studi Augusto Del Noce, sorta nei primi anni Novanta, diretta prima da Guido Ramacciotti, poi da Francesco Mercadante, da Giuseppe Riconda, e oggi da Enzo Randone: dal 1996 la Fondazione pubblica ogni anno gli atti dei convegni delnociani. 2. Il problema della modernità: la genesi dell’ateismo (da Cartesio a Nietzsche) Secondo Del Noce è nell’età moderna che si trovano i germi delle crisi che hanno caratterizzato il Novecento, crisi di carattere filosofico ed etico-politico che hanno prodotto da una parte i regimi totalitari (fascismo, nazismo e comunismo sovietico), dall’altra - dal secondo Dopoguerra ai nostri giorni - una “società opulenta” caratterizzata da un’avanzata secolarizzazione e dal nichilismo. Del Noce accetta quindi la definizione hegeliana della filosofia come “comprensione concettuale del proprio tempo”1023: per esso «il compito che resta oggi al filosofo è quello della decifrazione di una crisi»1024. Uno dei temi centrali sui quali inizia a riflettere è quello della genesi storica dell’ateismo contemporaneo: egli nota - sulla scorta delle sue accurate indagini storico-concettuali - che l’ateismo affonda le sue radici nel cuore stesso della modernità. È dunque la modernità e le questioni storiografiche ad essa connesse l’oggetto 1023

Si ricordi come per Hegel la filosofia sia «il proprio tempo colto in pensieri (ihre Zeit in Gedanken erfaßt)» (G.W.F. HEGEL, Grudlinien der Philosophie des Rechts, Nicolaischen Buchandlung, Berlin 1821, p. XXI; tr. it. V. Cicero, Lineamenti di filosofia del diritto, Rusconi, Milano 1996, p. 61). 1024 A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964; IV edizione: Introduzione di N. Matteucci, Il Mulino, Bologna 1990, p. 11.

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principale degli esordi filosofici delnociani. La «questione prima» egli afferma - oggi non è più come per Cartesio «il problema della realtà del mondo esterno, ma il problema della storia della filosofia. La storia della filosofia come problema sembra quindi essere la formulazione presente del dubbio metodico»1025. Del Noce scorge nella secolarizzazione e nell’ateismo contemporanei gli esiti ultimi ed inevitabili del razionalismo moderno che ha certamente la sua origine nel pensiero cartesiano. Sulla scorta della lezione di Jean Laporte egli interpreta - forse in maniera troppo unilaterale - il razionalismo come negazione della trascendenza e come rifiuto quasi dogmatico del soprannaturale. Il razionalismo moderno viene visto inoltre come desiderio dell’uomo di essere completamente autonomo ed autosufficiente: esso è una forma di rinnovato pelagianesimo che elimina quasi del tutto il problema del male, del peccato e della colpa, ciò che i Padri della Chiesa definivano come status naturae lapsae, lo “stato di natura decaduta”. Ecco la definizione di razionalismo data da Laporte e che per Del Noce diventa un vero e proprio programma di ricerca storiografico: «il razionalista accetta la religione, purché si tratti di una religione razionale, traducente in un linguaggio simbolico le affermazioni della ragione, o limitantesi alla coscienza stessa che noi abbiamo della ragione, in quanto principio di comunione universale tra gli uomini. Egli rifiuta ogni trascendenza. Egli si chiude nell’immanenza, perché pensa che la ragione, la nostra ragione, non si appoggia su nulla di altro, che essa non ha bisogno di completarsi con nulla di altro, che essa non ha dunque a curarsi di alcun al di là. Egli si accomoderà, a rigore, con l’inconoscibile. Egli non tollererà mai il soprannaturale».1026 Il razionalismo moderno viene quindi interpretato da Del Noce come una chiusura nell’immanenza: esso è la genesi di quel graduale processo di “immanentizzazione” del reale che ha avuto il suo inizio

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Ivi, p. 14. J. LAPORTE, Le rationalisme de Descartes, Puf, Paris 1945, p. XIX. Il testo di Laporte che abbiamo riportato viene citato e commentato da Del Noce nel volume Il problema dell’ateismo, cit., pp. 17 ss. 1026

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in Cartesio e la sua più compiuta espressione nelle filosofie di Hegel e di Giovanni Gentile. Una consolidata visione storiografica - che risale allo stesso Hegel - scorge in Cartesio l’inizio della filosofia moderna ed in Hegel il suo esito ultimo1027: Del Noce accetta questo schema concettuale e lo utilizza come banco di prova per verificare la sua tesi circa la convergenza di razionalismo moderno ed espunzione del soprannaturale. Se il pensiero cartesiano apre ad una pluralità di 1027

Si ricordino le celebri pagine hegeliane sulle quali Del Noce riflette quando individua in Cartesio il “padre della modernità filosofica”: «Si giunge così alla filosofia moderna in senso stretto, che inizia con Cartesio. Qui possiamo dire d’essere a casa e, come il marinaio dopo un lungo errare, possiamo infine gridare “Terra!”. Cartesio segna un nuovo inizio in tutti i campi. Il pensare, il filosofare, il pensiero e la cultura moderna della ragione cominciano con lui. In questa nuova epoca il principio è il pensare, il pensare che prende le mosse da se medesimo. […] Ora il principio universale consiste nell’attenersi all’interiorità come tale, scartando la morta esteriorità e la nuda autorità» (G.W.F. Hegel, Vorlesungen über die Philosophie der Geschichte, [lezioni tenute a Berlino nel semestre invernale 1825-26 ed edite postume da K.L. Michelet nel 1833]; tr. it. a cura di R. Bordoli, Lezioni sulla storia della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2009, p. 468). Ad avviso di Del Noce la concezione hegeliana della storia della filosofia come processo che si origina in Cartesio e trova il suo compimento (Vollendung) in Hegel stesso è stata predominate anche il Italia ed ha notevolmente segnato le stesse prospettive teoretiche di tanta parte del pensiero italiano del Novecento: uno degli esiti più nefasti di quello che Del Noce scorge come un predominio della linea franco-tedesca (da Cartesio ad Hegel e Nietzsche) nella storiografia italiana è stato quello di far obliare l’ontologismo, cioè quella linea di pensiero franco-italiana che da Malebranche conduce fino a Gioberti e a Rosmini. A questo proposito osserva Del Noce - «si deve passare alla domanda se ci sia una filosofia moderna che il marxismo [e gran parte della cultura italiana] ha totalmente ignorato e che è del tutto irriducibile a quelle che essa ha considerato. L’ha ignorata anzitutto perché era stata ignorata da Hegel, che di un solo ontologista si é occupato nella sua storia della filosofia, Malebranche, e praticamente lo ha escluso dalla storia del pensiero col giudicarne la filosofia come un processo verso lo spinozismo, troncato da esigenze extrafilosofiche» (A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 574).

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prospettive che non escludono metodicamente la trascendenza religiosa, in Hegel abbiamo invece un’assoluta chiusura del divino nell’immanenza. Il Geist hegeliano, lo spirito che costituisce l’umanità nel suo sviluppo storico-dialettico, non è altro che il divino immanente. La posizione di Friedrich Nietzsche si oppone sotto molti aspetti a quella di Hegel, ma in realtà - per il Nostro - la continua e la porta anche alle sue estreme conseguenze: con Nietzsche si passa dal radicale immanentismo hegeliano ad un ateismo dichiarato e militante. Hegel e Nietzsche rappresentano quindi l’uno nella forma estrema del razionalismo l’altro nella forma dell’irrazionalismo e della “follia filosofica” «la grande cesura rappresentata dalla modernità»: in essa «alla trascendenza raffigurata come un “al di là” si sostituirebbe una trascendenza intramondana»1028. Del Noce interpreta quindi la modernità (da Cartesio ad Hegel e a Nietzsche) come «il periodo in cui si manifesta e si consuma il fenomeno dell’ateismo»1029. Ecco le parole con le quali il nostro autore scorge in Hegel (e nelle sue reviviscenze gentiliane) la posizione di un divino immanenente nel quale il cristianesimo stesso viene storicizzato e ridotto a filosofia, mentre in Nietzsche scorge la contestazione stessa del divino, la negazione dei valori cristiani ed un compiuto ateismo: «l’espunzione del soprannaturale può prendere varie forme. Mi limito qui ad accennare all’hegelismo per cui la filosofia moderna è la “filosofia cristiana”, il cristianesimo che si esprime nella forma di filosofia; e il passaggio nel successivo periodo “da Hegel a Nietzsche” al post- o all’anti-cristianesimo e il cui l’ateismo (inteso nel senso forte di scomparsa dello stesso problema di Dio) si sostituisce alla posizione del divino immanente

1028

A. DEL NOCE, L’idea di modernità, in Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, a cura di G. Riconda, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 33-58, p. 43. Il saggio citato fu edito per la prima volta in AA. VV., Modernità. Storia e valore di un’idea, Morcelliana, Brescia 1982, pp. 26-43. 1029 A. DEL NOCE, L’idea di modernità, in Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, cit., p. 37.

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(per l’Italia passaggio dalla cultura crociano-gentiliana al laicismo successivo)».1030 Se Hegel rappresenta la forma più sistematica e coerente di filosofia del “divino immanente”, il pensiero di Nietzsche appare agli occhi di Del Noce come la cifra stessa dell’età contemporanea, come il “profeta” della nostra età secolarizzata e di diffuso ateismo: con Nietzsche «dall’immanenza del divino si passa alla radicalità dell’ateismo; si pensa che non si tratti di inverare filosoficamente la religione, ma di constatare che, al modo delle divinità antiche, il Dio del monoteismo sta scomparendo senza lasciare traccia»1031. 1030

Ivi, p. 35. Ivi, p. 44. A nostro avviso, le analisi delnociane della genesi dell’ateismo moderno trovano singolari affinità con le ricostruzioni storiografiche proposte da Henri De Lubac (cfr. H. DE LUBAC, Il dramma dell’umanesimo ateo, [edizione originale 1944], Morcelliana, Brescia 1982) e da Cornelio Fabro (cfr. C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 1964). Tuttavia la prospettiva filosofica di Del Noce rispetto a quella di Fabro e piu in generale dei tomisti (compreso lo stesso Maritain) si contraddistingue per una fondamentale differenza: non condanna quasi in toto la modernità per riaffermare il valore delle posizioni tomiste, in primis il realismo gnoseologico e la “metafisica dell’essere”. Del Noce, pur parlando del valore imprescindibile della tradizione - egli valuta positivamente sia il pensiero originale di Sant’Agostino che quello di San Tommaso -, si dimostra però avverso a qualsiasi forma sterile di “antimoderno” e di “medievalismo cattolico”: per Del Noce la modernità è stato un grande processo filosofico dal quale è impossibile prescindere e che sarebbe assurdo considerare come un “cumulo di errori”. La modernità per Del Noce non è stata solo un processo irreversibile verso l’ateismo e il nichilismo: essa ha avuto delle virtualità sottese che occorre mettere in luce e valorizzare. Il “Risorgimento” della filosofia auspicato da Del Noce si configura quindi come riscoperta di un’altra modernità, quella di pensatori attenti alla tradizione storica e che propongono originali sintesi concettuali in grado coniugare la ragione con la fede cristiana: come avremo modo di constatare, si tratta di quella linea di pensiero che va “da Cartesio a Rosmini”, passando per Malebranche, Vico e Gioberti. Tra i tomisti, come noteremo anche nelle pagine successive, Del Noce stima moltissimo Étienne Gilson: è a partire dal “tomismo esistenziale” di Gilson che sarebbe infatti possibile riscoprire ed aggiornare le posizioni di Tommaso sulla 1031

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Tuttavia per Del Noce la modernità non è solo un processo che ha in sé i germi dell’ateismo contemporaneo1032: nello stesso Cartesio, iniziatore del pensiero moderno, ci sono delle virtualità che vanno correttamente messe in rilievo e che hanno dato origine a quella linea di pensiero tipicamente moderna definita come “ontologismo”. Del Noce individua quindi nell’«età che si sul chiamare moderna, il delinearsi di due irreducibili direzioni di pensiero, l’una da Cartesio a Nietzsche, l’altra da Cartesio a Rosmini, destinata questa seconda a raggiungere e ad affinare il pensiero metafisico tradizionale»1033.

scorta delle acquisizioni moderne: si tratta di una riscoperta dell’autentico pensiero tommasiano sulla base della prospettiva filosofica moderna di Antonio Rosmini. 1032 Per Del Noce due significative espressioni dell’ateismo del primo Novecento sono state “la filosofia dell’assurdo” di Giuseppe Rensi (sotto il profilo teoretico) ed il surrealismo di André Breton (sotto il profilo estetico): in Rensi il pensiero ateo di Schopenhauer e Nietzsche viene portato alle sue più lucide ed estreme conseguenze - l’affermazione dell’assurdità del reale -, mentre nel surrealismo viene proposta una “derealizzazione” stessa del mondo considerato ormai privo di qualsiasi fondamento metafisico. A tal proposito cfr. A. DEL NOCE, Interpretazione filosofica del surrealismo, in «Rivista di Estetica», I, X (1965), pp. 22-54; IDEM, Giuseppe Rensi tra Leopardi e Pascal, ovvero l’autocritica dell’ateismo negativo, in AA. VV., Giuseppe Rensi. Atti della giornata rensiana, Marzorati, Milano 1967, pp. 60-140 (il testo è stato riprodotto anche in Idem, Filosofi dell’esistenza e della libertà, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano 1992, pp. 409-540). Si veda anche P. ARMELLINI, Augusto Del Noce interprete di Tilgher e Rensi: la crisi del pessimismo, in G.F. LAMI (a cura di), Filosofi cattolici del Novecento. La Tradizione in Augusto Del Noce, FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 77-91. 1033 A. DEL NOCE, L’idea di modernità, cit., p. 37. Sulla complessa interpretazione delnociana della modernità si vedano in particolare M.M. Olivetti, Riforma cattolica e filosofia moderna nel pensiero di A. Del Noce, in «Archivio di filosofia», I (1969), pp. 153-187; C. CESA, A. Del Noce e il pensiero moderno, in «Giornale critico della filosofia italiana», LXXII (maggio-agosto 1993), pp. 185-211.

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3. L’«altro volto della modernità»: la linea dell’ontologismo (da Cartesio a Rosmini) Un elemento che ad avviso di Del Noce non è stato sufficientemente analizzato negli studi su Cartesio è il rapporto del pensatore francese con il libertinismo. Quest’ultimo viene solitamente interpretato come una moda intellettuale del Seicento, un fenomeno che investe più il costume che non la ricerca filosofica vera e propria. Al contrario, per Del Noce il libertinismo presenta degli aspetti di fondamentale importanza anche sotto il profilo speculativo: i quattro celebri autori del gruppo parigino La Tétrade (La Mothe le Vayer, Gabriel Naudé, Elia Diodati e Pierre Gassendi) teorizzarono raffinate forme di scetticismo, di relativismo e di morale anticristiana che sotto molti aspetti furono la prima chiara forma di ateismo moderno, nonché il preludio degli esiti materialistici del successivo illuminismo (si pensi in particolare a La Mettrie e a D’Holbach). Lo stesso decadentismo di fine Ottocento ed inizio Novecento viene interpretato come estrema propaggine del libertinismo francese del Seicento. Del Noce mette giustamente in rilievo che il vero avversario di Cartesio fu il pensiero libertino, il libertinage érudi che si dimostra scettico nei confronti di ogni verità prima e fondante e che esprime una concezione dell’uomo naturalistica ed edonistica1034. Non a caso Del Noce nel 1949 curò un’edizione italiana delle Meditazioni metafisiche di Cartesio: in esse, come sottolinea il Nostro anche nel primo volume di Riforma cattolica e filosofia moderna, emerge un Cartesio che in maniera simile agli scettici e ai libertini fa partire l’indagine filosofica dal dubbio ma che - differentemente da essi - al

1034

Una recente rivalutazione filosofica del libertinismo francese del Seicento è stata effettuata anche da Michel Onfray: si veda M. ONFRAY, Les libertins baroques, Grasset, Paris 2007 (tr. it. di G. De Paola, L’età dei libertini. Controstoria della filosofia, Vol. III, Fazi, Roma 2009). La prospettiva filosofica di Michel Onfray può essere definita come una forma di “materialismo edonistico”.

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dubbio non la fa arrestare1035. Il Cartesio valorizzato da Del Noce è perciò quello delle Meditationes, il cui argomentare è tutto finalizzato a fondare in maniera certa ed indubitabile una metafisica cristiana basata sull’idea di Dio e sull’immortalità dell’anima umana. A questo proposito emblematici sono la celebre epistola ai teologi della Sorbona - premessa da Cartesio all’edizione latina delle Meditazioni (1641) - ed il titolo stesso dell’opera: Meditationes de prima philosophia in qua Dei existentia et animae immortalitas demonstratur. Cartesio - ad avviso di Del Noce - è un pensatore che non si può interpretare in senso univoco e riduttivo: egli è certamente il fondatore del razionalismo moderno (con i suoi esiti nefasti) ma è allo stesso tempo anche un filosofo religioso che «inaugura la storia dell’ontologismo cristiano moderno»1036. Con Cartesio si originano due percorsi speculativi che scorreranno paralleli per tutto il corso della modernità: il razionalismo con i suoi esiti di idealismo assoluto e di immanentismo (Hegel) e l’ontologismo, cioè quella linea di pensiero che correggendo l’idealismo definisce l’uomo come imago Dei, come partecipazione all’essere in un orizzonte di mistero che non elimina la considerazione del male e della libertà. Tuttavia già nel razionalismo cartesiano Del Noce ravvisa la mancanza di alcuni elementi fondamentali per una comprensione integrale dell’uomo: questi sono essenzialmente il tema del peccato e della caduta, cioè la fragilità della condizione umana, ed il grande tema della storia. Del Noce sottolinea l’importanza che nell’impianto del pensiero cartesiano ha la terza delle Meditationes, quella dal carattere teologico che intende dimostrare l’esistenza di Dio a partire dall’idea innata di perfezione che è nell’uomo. A questo proposito Alberto Mina ha però giustamente osservato che «il ricorso all’interiorità per la scoperta dell’idea di Dio finisce per eliminare il tema del peccato e della caduta»1037, ciò che Kant secolarizzando il 1035

Cfr. A. DEL NOCE, Introduzione a R. Descartes, Meditazioni metafisiche, Cedam, Padova 1949. 1036 A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 471. 1037 A. MINA, L’ateismo come problema dell’età moderna, Introduzione a A. DEL NOCE, Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, cit., p. 49. Del Noce sottolinea che «se il razionalismo non può prendere forma che nel

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concetto biblico del peccato originale chiamerà “il male radicale nella natura umana” (das radikale Böse in der menschlichen Natur). In Cartesio è quindi presente un profondo ottimismo antropologico che trova la sua più consistente verifica sul piano epistemologico: l’uomo sarebbe capace di conoscere la verità ed i princìpi primi della metafisica stessa utilizzando esclusivamente le sue facoltà. Del Noce ha giustamente parlato di un’autosufficienza del soggetto cartesiano ed ha interpretato l’ottimismo gnoseologico cartesiano come una sorta di nuovo pelagianesimo, cioè come un tipo di pensiero che considerando l’uomo autosufficiente renderebbe pressoché superfluo il ruolo della grazia divina. Nella modernità, quindi, a partire dal razionalismo di matrice cartesiana, prevarrebbe un generale «atteggiamento di autosufficienza dell’uomo rispetto alla grazia (una sorta di nuovo pelagianesimo), per cui l’ascesi [intellettuale] dell’uomo [sarebbe] sufficiente a illuminarlo circa la verità»1038.

rifiuto dello status naturae lapsae, il tema primo che lo caratterizza deve essere cercato nel rifiuto della concezione biblica del peccato» (A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 23). Si noti che per dimostrare la sua tesi il Nostro prende in esame «i testi essenziali del razionalismo nei riguardi del peccato, per constarne la fondamentale identità» (ibidem): egli in particolare si confronta quindi con gli scritti di Spinoza e di Hegel. In Spinoza - afferma Del Noce - «il peccato originale è semplicemente del tutto soppresso, perché l’idea di Dio causa di tutto esclude che si possa parlare di “peccato”. La Scrittura ne parla perché si dirige al volgo ed è costretta a esprimersi more humano» (ibidem). In Hegel invece c’è una considerazione del peccato originale ma tale tema viene ripreso (e dissolto) all’interno del sistema: il male ed il negativo - “l’immane forza del negativo” - divengono in Hegel i momenti necessari e propulsivi dello stesso processo dialettico. Nella concezione hegeliana il male è quindi nella storia una presenza ineliminabile e persino necessaria. Del Noce rileva che Hegel «con questo rovesciamento iniziale dell’interpretazione del peccato iniziava un processo di pensiero che non poteva non portare alla formulazione dell’antitesi più radicale del cristianesimo: delle tante vie attraverso cui si può provare la continuità necessaria tra hegelismo e marxismo, questa è forse la più valida» (ivi, p. 25). 1038 Ibidem

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Un altro fondamentale elemento antropologico che la prospettiva cartesiana e razionalistica non considera adeguatamente è quello della storia. Del Noce a questo proposito parla di una sostanziale «anistoricità» del razionalismo cartesiano: si tratta di un’assoluta mancanza di riflessione sulla dimensione storica che caratterizza l’uomo, ciò che Martin Heidegger nel Novecento ha definito come la radicale “temporalità e storicità dell’esserci” (Zeitlichkeit und Geschichtlichkeit des Daseins). Ad avviso di Del Noce la grande lacuna cartesiana del problema della storia fu subito correttamente evidenziata e colmata da Giambattista Vico, il quale ha avuto il grande merito di introdurre nella modernità una filosofia della storia non rigorosamente circoscritta “entro la curva dei giorni” (ovvero nell’immanenza) ma aperta a considerazioni di ordine trascendente e metafisico: basti pensare ai concetti vichiani di provvidenza e di “eterogenesi dei fini”. È con Vico che si inizia quindi a delineare chiaramente quella che Del Noce individua come l’«altra modernità», quella caratterizzata dall’ontologismo: si tratta di una difesa della metafisica che pur non dimenticando la dimensione storica dello spirito umano tenta di ampliare e correggere il razionalismo ed il successivo idealismo trascendentale. Il filosofo è chiaro nell’affermale che «l’ontologismo dev’essere situato, nella storia del pensiero cristiano, come uno di quegli aspetti essenziali di quella rottura secentesca dell’agostinismo, che coincide (o meglio ne è la controparte) con l’inizio della filosofia moderna»1039. Cerchiamo ora di far luce su cosa Del Noce intenda precisamente quando parla di ontologismo. Nel 1956/57, insieme ad altre, scrisse anche la voce “ontologismo” per l’Enciclopedia filosofica curata dal Centro Studi di Gallarate: in essa vengono delineati i concetti e gli autori che hanno determinato la nozione moderna di ontologismo. In primis viene specificato che per ontologismo è da intendersi generalmente «la teoria secondo cui la conoscenza di Dio, per intuizione a priori (visione), è la condizione di possibilità di ogni

1039

A. DEL NOCE, Da Cartesio a Rosmini, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano 1991, p. 491.

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altra conoscenza»1040: si tratta di una visione-conoscenza degli enti che per la mente umana è possibile solo grazie alla sua costitutiva partecipazione con l’Essere divino. In questo senso, il termine ontologismo viene usato per la prima volta da Vincenzo Gioberti1041, ma la prima forma moderna di ontologismo - sottolinea Del Noce può essere già rinvenuta in Nicolas Malebranche. Per quest’ultimo la presenza di Dio è costitutiva del nostro stesso pensiero: «nous ne sommes jamais sans penser à l’Être»1042, rileva Malebranche. Tuttavia per il pensatore francese «ciò non vuol dire che tutti ne abbiamo coscienza riflessa: la presa di coscienza [della “visione delle cose in Dio”] esige un’attenzione pura e disinteressata»1043. A questo proposito Malebranche parla di una attention prière naturelle che può essere interpretata come una trasfigurazione religiosa del dubbio metodico cartesiano. Del Noce sottolinea con chiarezza che l’ontologismo - questa linea di pensiero inaugurata in Francia da Malebranche e poi proseguita in Italia con differenti accentuazioni da Vico, Gioberti e Rosmini - è dottrina che afferma una «certezza immediata di Dio» che è «di natura razionale» e che è «il fondamento di tutte le altre certezze»1044. Tale dottrina non è perciò da confondere né con il «misticismo filosofico (l’estasi di Plotino e la conoscenza di terzo genere di Spinoza [l’amor Dei intellectualis] che rappresentano il termine ultimo di una dialettica ascensiva) né con la tesi teologica della visone beatifica»1045. Nella voce 1040

A. DEL NOCE, Ontologismo, in Enciclopedia filosofica, Sansoni, Firenze 1968-69; nuova edizione: Bompiani, Milano 2006, Vol. VIII, pp. 81478153, p. 8147. La voce della nuova edizione dell’Enciclopedia è stata revisionata ed aggiornata nei riferimenti bibliografici da D. Sacchi. Le altre voci scritte da Del Noce per la prima edizione dell’Enciclopedia sono Descartes, Gassendi, Geulincx, Occasionalismo, Pascal, Renouvier. 1041 Cfr. V. GIOBERTI, Introduzione allo studio della filosofia, Meline, Bruxelles 1844, II, p. 63. 1042 N. Malebranche, Entretiens sur la métaphysique, [opera edita nel 1688], VIII, § 9; tr. it. di C. Crippa, Colloqui sulla metafisica, Zanichelli, Bologna 1963. 1043 A. DEL NOCE, Ontologismo, cit., p. 8147. 1044 Ibidem. 1045 Ibidem.

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dell’Enciclopedia filosofica vengono quindi individuate le forme di pensiero contro cui l’ontologismo non solo si differenzia ma si oppone: queste sono «il materialismo, il naturalismo (di cui sarebbe attenuata espressione il cosmologismo della scolastica aristotelica), l’agnosticismo e lo scetticismo gnoseologici in ogni loro aspetto, […] e il panteismo (almeno nel senso di una vanificazione dei soggetti finiti in un’unica sostanza [spinozismo] o in un unico soggetto [l’idealismo trascendentale come “spinozismo rovesciato”]»1046. Ricostruendo la genesi storica della dottrina, Del Noce ne individua la derivazione dal pensiero agostiniano, ma chiarisce che «non si può parlare di un vero e proprio ontologismo nella filosofia medievale. Esso viene costantemente considerato come un pericolo che si deve evitare perché porta a disconoscere la reale condizione umana e il suo stato di natura lapsa, per la confusione tra la nostra conoscenza di Dio in via e quella che potremmo avere in patria»1047. Possiamo dire che il grande pericolo dell’ontologismo sia quello del panteismo, cioè sia quello di una sostanziale identificazione (e confusione) tra il piano della mente umana e il piano trascendente della mente divina: non a caso numerosi tomisti accusarono di una possibile deriva panteistica sia l’ontologismo di Gioberti che quello di Rosmini. Secondo Del Noce il pensiero filosofico della modernità ha in sé delle virtualità da riscoprire e valorizzare sotto il profilo speculativo: in particolare merita un necessario approfondimento la linea francoitaliana dell’ontologismo moderno. Questa si origina in Francia con Malebranche, successivamente si sposta in Italia con le grandi figure di Vico, Gioberti e Rosmini, e sempre in Italia trova espressione nel pensiero di filosofi poco conosciuti ma certamente vigorosi sotto il profilo speculativo come Giovanni Maria Bertini1048 e nel Novecento 1046

Ibidem. Ivi, p. 8148. Le parole contenute tra le parentesi quadre sono state aggiunte da noi per chiarire il contenuto delle affermazioni delnociane. 1048 Il platonico Giovanni Maria Bertini (1818-1876) viene definito come «il maggiore filosofo dell’Italia settentrionale dopo la morte di Rosmini» (A. DEL NOCE, Juvalta e Mazzantini, in Aa. Vv., La filosofia di Carlo Mazzantini, Roma 1985, p. 122). Pregevoli studi su questa figura sono 1047

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il già ricordato Carlo Mazzantini. Ad avviso di Del Noce «la linea Cartesio-Rosmini-Bertini-Mazzantini poteva costituire l’alternativa reale a quella Cartesio-Hegel-Spaventa-Gentile la cui egemonia era stata causa dell’oblio dell’altra. Di quest’ultima il realista-tomista Mazzantini doveva costituire, nell’ambito del pensiero italiano contemporaneo, il punto più alto»1049. La pars costruens e propositiva del pensiero delnociano consiste quindi nella corretta riappropriazione storiografica e speculativa della linea franco-italiana dell’ontologismo, l’unica in grado di salvaguardare la trascendenza divina e di render possibile ancora oggi una “filosofia cristiana”. Cerchiamo ora di chiarire il rapporto - tutt’altro che scontato - che Del Noce istituisce tra la filosofia di Malebranche e le prospettive di Vico, Gioberti e Rosmini. Innanzitutto diciamo che per il Nostro merito di Malebranche è di aver riproposto nella modernità una filosofia di carattere platonico-agostiniano incentrata su una visione antropologica aperta alla trascendenza divina. È noto come per Malebranche le idee non vengono elaborate dalla mente umana per astrazione dagli oggetti corporei (così com’era tipico della concezione gnoseologica aristotelico-tomista): per il filosofo francese le idee sono contenute nella mente divina e l’uomo le intuisce in Dio stesso. Ecco allora perché Malebranche viene considerato come il “padre dell’ontologismo moderno”: egli afferma che la mente intuisce immediatamente l’Essere, cioè Dio, e mediante questa intuizione coglie in Dio stesso le idee degli oggetti sensibili. Con Malebranche siamo all’interno di una visione onto-teologica per

quelli di G. GENTILE, Giovanni Maria Bertini e l’influsso di Jacobi in Italia, in IDEM, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Messina 1917: nuova edizione, Le Lettere, Firenze 1958, Vol. I, pp. 139-214; C. MAZZANTINI, Filosofia perenne e personalità filosofiche, Cedam, Padova 1942; R. Viora, Il pensiero di Giovanni Maria Bertini, Centro Stampa, Cavallermaggiore 1998. 1049 M. BORGHESI, Riflessioni sull’ontologismo in Augusto Del Noce, in A. MURATORE (a cura di), Da Cartesio a Hegel o da Cartesio a Rosmini?, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 1997, pp. 67-84, p. 84.

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la quale «Dio è il mondo intelligibile e la sede degli spiriti»1050, cioè delle idee, e diviene perciò il mediatore stesso tra l’io ed il mondo esterno. Nonostante i suoi «gravissimi difetti» egli costituisce «il primo anello della rinascita moderna dell’agostinismo che continua con Vico, Gioberti, Rosmini»1051. A nostro avviso tra i contributi storiografici più originali di Del Noce c’è sicuramente quello di aver messo in evidenza il fondamentale rapporto speculativo tra Malebranche e la filosofia italiana a partire da Vico stesso. Alla storiografia filosofica predominate Del Noce rimprovera «la totale dimenticanza dell’influenza capitale di Malebranche nella formazione filosofica vichiana, e poi nella rosminiana e giobertiana, con la perdita dell’idea della continuità tra la filosofia francese e l’italiana, per cui il più autenticamente metafisico pensatore della tradizione francese, Malebranche, è stato continuato nella filosofia italiana piuttosto che nella francese; in breve, è caduto il silenzio su tutta la linea da Cartesio a Rosmini, con la conseguenza di non poter intendere adeguatamente lo stesso pensiero rosminiano».1052 Di notevole interesse è anche la rilettura delle fonti del pensiero giobertiano proposta da Del Noce: in Gioberti il passaggio dall’ontologismo statico dell’essenza a quello dinamico dell’atto creatore sarebbe stato reso possibile grazie ad una sintesi originale tra l’ontologismo di Malebranche ed il pensiero di Vico che ha sottolineato il carattere creativo e produttivo dell’interiorità umana. È quindi sulla scorta di Malebranche e Vico che Gioberti - secondo il Nostro - avrebbe concepito la conoscenza umana come una partecipazione costitutiva della mente all’atto creatore divino. In questa prospettiva il conoscere umano diviene una vera e propria “concreazione”. Ad avviso di Del Noce l’ontologismo di Gioberti va considerato iuxta propria principia e non può essere affatto interpretato - proprio per questa sua accentuazione dell’atto creativo 1050

N. MALEBRANCHE, De la recherche de la vérité, [opera edita tra il 1674 e il 1675], III, 2, VI. 1051 A. DEL NOCE, Riforma cattolica e filosofia moderna, Vol. I, Cartesio, Il Mulino, Bologna 1965, p. 500, nota 1. 1052 A. DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1990, p. 51.

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umano - come un precedente storico e quasi un preludio dell’attualismo di Gentile. Per il Nostro il Gentile nei suoi scritti sbaglia nel vedere in Gioberti un’anticipazione del suo pensiero: Del Noce sottolinea che il grande errore di Gentile è stato «quello di una totale immanentizzazione del pensiero religioso italiano del Risorgimento»1053. È tuttavia in Rosmini che il Nostro individua uno dei vertici della filosofia italiana, colui che ancor meglio di Gioberti ha saputo creare la più congruente sintesi nella quale le istanze del pensiero moderno vengono recepite in una sostanziale fedeltà alla tradizione cristiana sia agostiniana che tomista. La ricezione delnociana della filosofia di Rosmini è certamente complessa: si sviluppa sia sul piano speculativo che su quello etico-politico. In primo luogo Del Noce chiarisce che «nell’opera di Antonio Rosmini si deve vedere la più rigorosa critica dell’ontologismo che sia stata compiuta nella

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P. PRINI, Augusto Del Noce e la reinterpretazione teologica della filosofia moderna, in Idem, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 216-231. Possiamo affermare che Del Noce condivida la rilettura in senso spiritualistico e cristiano dell’opera di Gioberti effettuata da Luigi Stefanini: anche il personalista italiano Stefanini ha infatti accentuato le imprescindibili differenze teoretiche tra il pensiero di Gioberti e l’attualismo di Gentile. A questo proposito cfr. L. STEFANINI, Gioberti, Bocca, Milano 1947. Tuttavia è certo che Gentile concepiva la sua nozione di autoctisi - cioè di auto-creazione del pensiero umano - come un’immanentizzazione del pensiero di Gioberti, soprattutto di quegli aspetti che sottolineano la libera creatività e produttività dello spirito umano. Nell’attualismo di Gentile si può quindi scorgere una reviviscenza del pensiero di Gioberti tenendo però sempre presente che si tratta di un recupero parziale ed in direzione idealistica. Ecco un passo nel quale si avverte tutto il debito di Gentile nei confronti di Gioberti e del pensiero cristiano in generale (intesi però in senso immanentistico): «la prassi, come autoprassi dell’Io esattamente concepito, dell’Io creatore di tutto, cioè di sé stesso, è quel medesimo pensiero divino, che la teologia cristiana ben vide coincidere con la divina attività creatrice» (G. GENTILE, Sistema di logica come teoria del conoscere, Laterza, Bari 1922-23 [seconda edizione: la prima risale al 1917], Vol. II, pp. 243-244).

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tradizione agostiniana»1054: qui evidentemente il Nostro allude alle serrate critiche che Rosmini nella Teosofia rivolge all’ontologismo giobertiano anche a causa dei sui possibili fraintendimenti panteistici. Tuttavia Del Noce sottolinea con chiarezza che anche in Rosmini è possibile individuare una forma di ontologismo la quale si accorda ancor meglio che quella di Gioberti con “l’ortodossia filosofica del cattolicesimo”. In un saggio del 1967 dal titolo A proposito di una nuova edizione della «Teosofia» di Rosmini Del Noce indica nella Teosofia rosminiana «la più rigorosa forma di ontologismo, separato dal razionalismo» e allo stesso tempo «la più rigorosa critica dell’ontologismo, nel senso di posizione esposta al rovesciamento in razionalismo e in immanentismo»1055. La posizione di Rosmini supera dunque i limiti propri di Malebranche e di Gioberti e si presenta come «l’unico punto di partenza per una ricostruzione metafisica»1056 nell’età contemporanea. Solo il pensiero di Rosmini può quindi essere in grado di recuperare alla metafisica cristiana con solidità d’argomenti il terreno che le aveva sottratto l’attualismo gentiliano: per il Nostro «lo scacco dell’attualismo, come forma di pensiero metafisico, verifica esattamente la verità della Teosofia di Rosmini»1057. Del Noce rileva inoltre che la condanna dell’ontologismo espressa dai teologi del Concilio Vaticano I non tocca affatto la posizione di Rosmini: il Concilio avrebbe condannato non l’ontologismo tout court ma solo quella particolare forma che propone una diretta ed immediata intuizione di Dio come condizione di ogni conoscenza umana: è solo in quest’ultimo senso - ribadisce il Nostro - che l’ontologismo «fu condannato dal Vaticano I come posizione logicamente vicina al razionalismo e al panteismo, in

1054

A. DEL NOCE, Ontologismo, cit., p. 8147. A DEL NOCE, A proposito di una nuova edizione della «Teosofia» di Rosmini, in «Giornale di metafisica», 4/5 (1967); questo testo è stato interamente riportato anche nella raccolta postuma di scritti IDEM, Da Cartesio a Rosmini, cit., p. 550. 1056 Ivi, p. 541. 1057 Ivi, p. 542. 1055

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quanto affermante l’unità della ragione divina con l’umana»1058. Secondo Del Noce «diversamente da ciò che comunemente si pensa, è da osservare come i teologi del Vaticano I operino una distinzione condannando non l’ontologismo come tale, ma una sua particolare forma. Dobbiamo aggiungere che, dal punto di vista teoretico, la critica di tale forma era stata proprio uno degli obiettivi essenziali della Teosofia rosminiana»1059. Ad avviso di Del Noce l’operazione speculativa da compiere nell’attuale contesto filosofico è quella di un sostanziale recupero del pensiero rosminiano cercando di superare anche quell’opposizione neotomista che ne segnò inevitabilmente le sorti nella “cultura cattolica ufficiale”. A questo proposito c’è da dire che il Nostro guarda con estremo interesse al «tomismo esistenzialista»1060 del suo amico e corrispondente epistolare Étienne Gilson: è la forma di tomismo proposta da Gilson quella che renderebbe possibile un incontro ed una rinnovata sintesi tra il pensiero dell’Aquinate e quello di Rosmini. Differentemente da altri pensatori cattolici, Gilson - secondo Del Noce - è stato in grado di «restituire alla filosofia contemporanea il senso e l’attualità del tomismo»1061: è attraverso Gilson che il Nostro può perciò scorgere

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Ibidem Ibidem 1060 A. DEL NOCE, Riforma cattolica e filosofia moderna, cit., p. 256. 1061 Ibidem. Per Del Noce Gilson - anche meglio di Maritain e di altri tomisti - ha inaugurato nel Novecento «la linea di un processo di incontro tra una direzione della filosofia moderna e il tomismo»: questo è stato possibile poiché Gilson ha operato un sostanziale «mutamento [metodologico] della storia della filosofia ed una [fondamentale] critica di quel che normalmente si intende per neotomismo» (ibidem). Inoltre è grazie a Gilson che sarebbe possibile effettuare una rinnovata sintesi tra Rosmini e Tommaso d’Aquino in grado di opporsi con solidità all’attualismo di Gentile: anzi, per Del Noce «l’opera del tomista Gilson si situa nella storia della filosofia contemporanea esattamente dopo lo scacco dell’attualismo gentiliano» (A. DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, cit., pp. 102-103).

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la tanto auspicata «conciliazione con la tradizione (da Cartesio a Rosmini e oltre, appunto verso la riscoperta del tomismo)»1062. La riscoperta dell’ontologismo moderno e la ricerca di una sua possibile concordanza con le principali tesi del pensiero di Tommaso d’Aquino sono certamente tra i compiti più urgenti indicati da Del Noce per la filosofia contemporanea: solo un ontologismo in grado di fondersi con la tommasiana “filosofia dell’essere” potrebbe essere in grado di superare in una vigorosa sintesi ben argomentata sia l’attualismo di Gentile che il pensiero di Martin Heidegger. Quest’ultimo - osserva Del Noce - ha certamente avuto il merito di porre nuovamente al centro dell’indagine speculativa la “questione dell’essere” (la Seinsfrage) ma le soluzioni del suo pensiero non sono affatto soddisfacenti: è significativo che la prospettiva heideggeriana venga definita come «un ontologismo senza Dio»1063. La strada da percorrere in vista di un vero Risorgimento della “filosofia cristiana” è dunque quella di un “perfezionamento” dell’ontologismo moderno al quale - nota con favore Del Noce - si sta già orientando «il pensiero religioso contemporaneo in molte forme, per esempio, [con Gilson] nella linea che pone al centro della filosofia tomista la teoria della partecipazione»1064. Condividiamo il giudizio di Massimo Borghesi secondo il quale anche le affermazioni delnociane risalenti al periodo della piena maturità - come quelle sopra riportate - ci confermano che «il giovanile progetto di coniugare assieme Blondel e Tommaso, agostinismo e tomismo, non sia stato mai abbandonato da Del Noce. Esso si articola, nella fase matura, nella necessità di unire assieme Blondel, Rosmini, Tommaso, l’esistenzialismo

1062

A. DEL NOCE, La riscoperta del tomismo in Étienne Gilson e il suo significato presente, in Aa.Vv., Studi in onore di Gustavo Bontadini, Milano 1975, p. 470. Sul rapporto tra Del Noce e Gilson si veda anche il carteggio M. BORGHESI (a cura di), Caro collega ed amico. Lettere di Étienne Gilson ad Augusto Del Noce, Cantagalli, Siena 2008. 1063 A. DEL NOCE, Tesi su Feuerbach, in A. DEL NOCE - G.A. RIESTRA, Karl Marx: scritti giovanili, Japadre, L’Aquila 1975, p. 113. 1064 A. DEL NOCE, Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo, in «Giornale critico della filosofia italiana», 4, 45 (1964), pp. 508-556, p. 521.

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religioso richiedendo l’ontologismo e questi, a sua volta, il realismo gnoseologico»1065. 4. Il confronto con l’esistenzialismo religioso e le filosofie della libertà Una delle istanze di fondo della prospettiva di Del Noce è anche quella di cercare la «possibilità dell’accordo di filosofia dell’esistenza […] e ontologismo»1066: egli tenta quindi di recuperare - dando dei più saldi fondamenti metafisici - tutte quelle filosofie dell’esistenza moderne e contemporanee incentrate sul fenomeno della libertà. Questa prospettiva gli offre la possibilità di rileggere e valorizzare alcuni momenti significativi e non esaurientemente investigati della storia della filosofia moderna, in particolare di quella francese e di quella russa: la ricerca dei fondamenti ontologici e metafisici della libertà umana diviene la finalità ideale di queste indagini storiografiche delnociane. Il Nostro nota che già in Cartesio la libertà viene considerata come l’aspetto costitutivo della res cogitans: per il filosofo francese la libertà è una prerogativa esclusiva del cogito umano, essa è l’elemento che differenzia radicalmente lo spirito dalla materia (res extensa). Quest’ultima è rigidamente sottoposta alle leggi della fisica ed è perciò caratterizzata da un determinismo meccanicistico. Parlando del pensiero cartesiano Del Noce sottolinea come in esso la libertà gioca un ruolo tutt’altro che secondario: in Cartesio la libertà umana diviene il presupposto stesso del sistema nonché la condizione di possibilità del giudizio conoscitivo: «iudicium est opus voluntatis»1067 - afferma il filosofo francese - e la volontà non è altro

1065

M. BORGHESI, Riflessioni sull’ontologismo in Augusto Del Noce, cit., pp. 83-84. 1066 A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 22. 1067 R. DESCARTES, Oeuvres, éd. par C. Adam, P. Tannery, Cerf, Paris 18971913; Vrin, Paris 1964-1975, Vol. V, p. 159.

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che l’espressione di un’originaria libertà del soggetto1068. Del Noce ricorda inoltre come la libertà costituisca per Cartesio uno dei tre elementi mirabili dell’atto creativo divino: «tria mirabilia fecit Dominus: res ex nihilo, liberum arbitrium et Hominem Deum)»1069. In Cartesio l’interiorità umana è quindi abitata da una presenza misteriosa ed insondabile: il libero arbitrio. Individuando nella libertà uno degli aspetti più rilevanti del pensiero cartesiano - almeno del Cartesio “religioso”, Del Noce scorge una fondamentale continuità tra la prospettiva cartesiana e quella di Blaise Pascal. È questo uno degli aspetti più originali delle tesi delnociane sul pensiero moderno e che è in gran parte antitetico alle tesi storiografiche più diffuse1070. Per il Nostro «il rapporto tra Cartesio e Pascal non deve essere visto nell’opposizione, ma nella continuità, almeno di quell’aspetto fondamentale che è il ricorso all’interiorità

1068

Si noti che quest’accentuazione dell’elemento volontaristico della teoria cartesiana della conoscenza in questi ultimi anni è stata messa in rilevo anche da altri significativi studiosi di Cartesio: basti pensare alla proposta ermeneutica di Reinhard Lauth, il quale scorge in Cartesio una filosofia trascendentale ante litteram che ha aperto la strada sotto molti aspetti al pensiero di J.G. Fichte, incentrato sulla facoltà del volere come fonte da cui si origina l’atto conoscitivo. Lauth sottolinea che in Cartesio «la volontà costituisce essenzialmente, cioè in maniera immanente, il giudizio, sicchè, già in quello che si considera un procedimento esclusivamente teoretico, il volere assolve un ruolo co-producente. […] Cio significa che penser et voulouir sono all’opera sempre in unione sintetica nell’atto fondamentale del cogito» (R. LAUTH, Descartes. La concezione del sistema della filosofia, [edizione originale del 1998], tr. it. e cura di M. Ivaldo, Guerini e Associati, Milano 2000, p. 318). A tal proposito si veda anche M. Busca, La volontà cartesiana. Precedenti medievali e interpretazioni, Edusc, Roma 2005. 1069 R. DESCARTES, Cogitationes Privatae, in Oeuvres, cit., vol. X, p. 218 (tr. it. di A. Tilgher, a cura di E. Garin, Opere filosofiche, Laterza, RomaBari, Vol. I, p. 11). 1070 Sulle filosofie di Cartesio e Pascal come i due differenti inizi della modernità si veda ad esempio C. CIANCIO - U. PERONE, Cartesio o Pascal? Un dialogo sulla modernità, Rosenberg & Sellier, Torino 1995.

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nell’accezione agostiniana»1071: sia il pensiero cartesiano che quello pascaliano nascono in opposizione al libertinismo e allo scetticismo pirroniano. Entrambi sono inoltre filosofie incentrate sulla libertà soggettiva (si pensi al volo di Cartesio e al pari di Pascal) e sull’interiorità nel suo rapporto costitutivo con la trascendenza divina: si pensi alla terza delle Meditationes di Cartesio e all’antropologia pascaliana della sproporzione, secondo la quale proprio per le sue origini trascendenti - “l’homme passe infiniment l’homme”. Prendendo le mosse da un’intuizione di Lucien Goldmann, la posizione filosofica di Pascal viene definita da Del Noce come un “antiumanesimo”1072: per il Nostro l’ideale di Pascal è quello di prendere il più possibile le distanze da quell’umanesimo che «vuol significare “maîtrise de la nature”; l’idea dell’uomo che si fa padrone e possessore della natura, attraverso una tecnica […] che la nuova scienza rende possibile; che attraverso la medicina si rende padrone e possessore del proprio corpo; che, attraverso la morale e la conoscenza delle passioni, diventa padrone del proprio comportamento»1073. Per Del Noce, criticando queste forme di umanesimo, Pascal intende colpire anche quelle forme di ateismo che aveva già individuato come uno dei maggiori pericoli per la modernità: «critica dell’ateismo e critica dell’umanesimo sono in Pascal di fatto collegate»1074. Il pensiero di Pascal per Del Noce ha un carattere “profetico”: sorto nell’incipiente modernità esso ha saputo subito individuare i pericoli del moderno stesso, i suoi possibili esiti negativi (ateismo, libertinismo, secolarizzazione, relativismo) ed ha saputo però indicare nel pari, nella possibilità di 1071

A. MINA, L’ateismo come problema dell’età moderna, in A. Del Noce, Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, cit., p. 51. 1072 Nella sua interpretazione di Pascal Del Noce prende spunto da un breve ma densissimo testo di Goldmann: cfr. L. GOLDMANN, L’anti-humanisme de Pascal, in «Anais do Congresso Internacional de filosofia de Sãn Paulo» (9-15 agosto 1954), Sãn Paulo 1956, pp. 389-395. Sulle riflessioni delnociane a proposito delle tesi su Pascal presentate da Goldmann si veda A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., pp. 467-471. 1073 A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 470. 1074 Ivi, p. 468.

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una scommessa esistenziale pro o contro Dio, una valida via di salvezza. Dopo le filosofie di Cartesio e Pascal, il tema della costitutiva libertà del cogito - osserva Del Noce - diviene l’elemento portante sia del pensiero spiritualista francese (da Maine de Biran, a Boutroux, Blondel e Bergson), sia dell’esistenzialismo religioso di Jules Lequier che delle varie forme di personalismo e di philosophie de l’esprit. A Del Noce si deve certamente la riscoperta in Italia di Jules Lequier (1814-1862), un filosofo bretone la cui opera principale uscita postuma - e di cui il Nostro cura una traduzione italiana1075 - si intitola Recherche d’une première vérité. L’opera - sottolinea Del Noce in un’ampia Introduzione agli scritti di Lequier - presenta un’argomentazione di carattere cartesiano e richiama direttamente le Meditationes de prima philosophia: «Lequier è il più francese dei filosofi perché continua il genio nazionale del pensiero francese, Cartesio, respingendo ciò per cui è stato continuato, così nella filosofia classica tedesca come nell’empirismo inglese»1076. Come Cartesio anche Lequier cerca la fondazione di un sistema della verità: si tratta di una certezza aletica originaria scaturita dal superamento del dubbio e di ogni possibile posizione scettica. Lequier si pone quindi «alla ricerca di una verità nel cui riguardo sia impossibile concepire il minimo dubbio e che, una volta accolta dallo spirito, vi rimanga incrollabile»1077. Il dubbio di cui parla Lequier - come 1075

Cfr. J.-L. JULES LEQUIER, Opere, a cura di A. Del Noce, Postfazione di G. Riconda, Morcelliana, Brescia 2008 [prima edizione: Zanichelli, Bologna 1968]. 1076 A. DEL NOCE, Lequier e il momento tragico della filosofia francese. Introduzione, in J.-L. JULES LEQUIER, Opere, cit., pp. 3-119, p. 3: quest’ampio saggio posto da Del Noce come introduzione alle opere di Lequier tradotte in italiano è stato riprodotto anche in A. DEL NOCE, Filosofi dell’esistenza e della libertà, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano 1991. 1077 J. LEQUIER, Oeuvres complètes, publiées par Jean Grenier, Édition de la Baconnière, Neuchâtelle (Suisse) 1952, p. 22 [144]. D’ora in poi facciamo riferimento alle Oeuvres complètes curate da J. Grenier con la sigla OC. Accanto al numero di pagina di OC indichiamo anche il numero di pagina posto tra parentesi quadre - della traduzione italiana delle opere di Lequier

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quello cartesiano - ha un carattere metodico ed iperbolico. Esso è il mezzo per giungere al fondamento epistemico della verità: inoltre per essere efficace esso dev’essere radicale e deve avere un carattere universale: «giungere, ho detto» - afferma l’autore francese - «a una verità che mi sia impossibile di porre in dubbio: dunque, bisogna dubitare. Per vedere che cosa è incrollabile, bisogna scuotere tutto»1078. Tuttavia - differentemente dall’argomentazione cartesiana - la prima certezza non viene rinvenuta da Lequier nel cogito bensì nella libertà che precede e fonda lo stesso atto di pensiero1079. Il fondamento epistemologico - sottolinea Del Noce - per Lequier non è il cogito, l’atto di pensiero, ma la libertà: è solo in virtù di una decisione originaria che il soggetto inizia a riflettere sui propri atti cognitivi cercando di determinarne la genesi. Il cogito di cui parla Cartesio non è quindi l’evidenza originaria, il fundamentum inconcussum su cui si baserebbe l’edificio della conoscenza: al di là e prima ancora del cogito v’è la libertà, cioè il volere originario con edite da Augusto Del Noce. Laddove il numero posto tra parentesi quadre non compare significa che il testo di Lequier citato non è compreso tra quelli tradotti in italiano da Del Noce. 1078 OC, p. 24 [147]. 1079 Un aspetto interessante - messo particolarmente in evidenza da Augusto Del Noce - è che Lequier critica il cogito cartesiano e più in generale il razionalismo moderno poiché essi privilegiano il puro pensiero dimenticando quasi del tutto “la parte più intima e più fragile della soggettività umana”, quella concernente l’esistenza concreta ed i problemi delle scelte pratiche coinvolgenti il libero arbitrio. Lequier sottolinea quindi che il razionalismo di matrice cartesiana ha un deficit antropologico: esso concentrandosi esclusivamente sulla trascendentalità del pensiero finirebbe per lasciare da parte una considerazione integrale della natura umana nei suoi aspetti corporei, volitivi e teologici. Anche sulla scia di queste riflessioni lequieriane Del Noce afferma che il razionalismo moderno può essere accusato di aver eliminato ogni considerazione esistenziale dell’umano, ovvero le problematiche riguardanti la conflittualità del volere ed il male, ciò che la tradizione cristiana ha chiamato status naturae lapsae. A questo proposito Cfr. P. ARMELLINI, Del Noce lettore di Lequier, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 105-122.

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il quale l’uomo può mettere radicalmente in questione se stesso ed iniziare la ricerca filosofica. Per Lequier «il cogito non è che una verità seconda (une vérité seconde) e dedotta da un altro principio che resta da scoprire»1080: tale principio è la libertà. Potremmo dire “liber sum, ergo cogito”. La libertà è vista quindi come il presupposto della coscienza umana e come la stessa condizione di possibilità di ogni indagine speculativa: «il fatto che io cerco implica il fatto che io sono libero (je cherche implique le fait: je suis libre)»1081. Per Lequier «la prima verità, quella che non proviene da nessun’altra e che sarà il principio della scienza»1082 viene dunque trovata nella libertà. Da notare è che in Lequier il Nostro individua il modello di una filosofia cristiana dell’esistenza incentrata sulla libertà: in questo senso Del Noce accosta il pensiero lequieriano della liberà a quello di Dostoevkij e lo differenzia invece nettamente da quello del suo celebre contemporaneo spiritualista Maine de Biran. Differentemente da Biran, Lequier - osserva il Nostro - rimane fortemente scettico nei confronti della certezza della libertà fondata sulla testimonianza del senso intimo. La psicologia di Biran sembra a 1080

E. CALLOT, Critique de la première vérité, in Idem, Propos sur Jules Lequier, philosophe de la liberté. Réflexions sur sa vie et sur sa pensée, Éditions Marcel Rivière et Cie, Paris 1962, pp. 79-87, p. 80. 1081 OC, Descartes, p. 328. Secondo Lequier il cogito cartesiano è una pura certezza logica, un’«evidenza sterile, [...] oscura» (ivi, p. 329): un’autentica ricerca di carattere genetico non può arrestarsi innanzi all’evidenza del cogito ma deve scoprire «la legge di quest’operazione» (ibidem) da cui si originano il dubbio e lo stesso cogito. Lequier sottolinea che quest’operazione può essere solo il frutto del libero arbitrio. A questo proposito Paolo Pagani ha correttamente affermato che la stessa possibilità di dubitare è resa possibile solo dalla libertà originaria del soggetto: «dunque, con Cartesio, oltre Cartesio, nel segnalare che anche il dubbio può essere ricco di presupposti. […] Il dubbio, più precisamente, risulta un libero oscillare tra possibilità alternative (quelle cui allude l’etimo della parola [il quale si innesta sulle voci latine duo e duplum, che indicano appunto dualità]) - un oscillare nel quale si entra e dal quale si esce per libera decisione» (P. PAGANI, Libertà e non-contraddizione in Jules Lequier, FrancoAngeli, Milano 2000, p. 19). 1082 OC, p. 37 [156].

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Lequier un metodo sperimentale dagli incerti risultati: il “senso intimo” per quest’ultimo potrebbe essere infatti fonte di autoinganno ed autoillusione: «io sento che sono libero» - afferma il filosofo bretone - «può significare soltanto “io sento che credo di essere libero”. […] Questa credenza [nella libertà] testimonia dopo tutto l’assenza di certezza»1083. In netta opposizione alla psicologia sperimentale di Biran, Lequier afferma che «l’esistenza della libertà non è suscettibile di essere riconosciuta attraverso un’osservazione diretta»1084: «la libertà non può essere osservata, dunque non può essere uno di quei dati che fornisce direttamente l’esperienza; ma una volta constatata, una volta certa come “verità logica”, essa può essere verificata attraverso l’esperienza. […] Il sentimento interiore della nostra libertà non avrebbe efficacia se si riducesse ad un fenomeno di pura coscienza. […] Io sento che sono libero: dunque sono libero. Questa conclusione è vera senza che il ragionamento sia giusto»1085. Del Noce ha quindi correttamente fatto notare che tra Lequier e Biran rimane una profonda differenza: «Maine de Biran parla del 1083

OC, Le problème de la science, p. 54 [175]. OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, p. 349. Lequier - seppur non li cita mai espressamente - conosceva di sicuro alcuni rilevanti scritti di Biran: quando ad esempio nei frammenti sopra citati parla della “debolezza del sentimento intimo della libertà” egli ha chiaramente presente il modello di psicologia sperimentale proposto da Biran. Lequier critica con fermezza la giustificazione psicologica della libertà difesa da Biran: per Lequier la filosofia non deve servirsi di dimostrazioni tratte dalla psicologia che è una mera «arte di fare una collezione dei fatti della coscienza» (ivi, p. 339). Lequier mostra tuttavia di condividere ampiamente la rivalutazione biraniana della sfera della corporeità. A questo proposito egli afferma che «bisogna condannare l’abitudine di trascurare assolutamente il corpo, come se l’uomo non fosse composto di spirito e materia» (ibidem). 1085 OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, p. 352. Secondo Biran «tramite l’esperienza è impossibile constatare la necessità o la libertà» (ivi, p. 353): la posizione filosofica di Lequier si discosta nettamente da quella di Biran, tutta fondata sull’analisi dei “fatti interiori” e che proprio per questo Félix Ravaisson ha definito come una sorta di “positivismo spiritualista”. Cfr. F. RAVAISSON, Philosophie en France au XIXème siècle, Hachette, Paris 1867. 1084

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fatto primitivo, Lequier di una prima verità che non può essere constatata come un fatto»1086. Del Noce mostra di condividere la posizione di Lequier secondo la quale la libertà non è suscettibile di prove razionali né sperimentali: si avverte la sua presenza ma da quest’avvertimento non si evince una certezza irrefutabile. La libertà per Lequier - come per Del Noce - non è una certezza derivante dall’attestazione, dalla testimonianza interiore dei sensi: essa è invece l’oggetto di una fede originaria, di un pari metafisico, di una “scommessa” nel senso pascaliano del termine. È in questo senso che Lequier parla di un miracolo dell’atto libero (le miracle de l’acte): «in fondo che cos’è un miracolo? Un fatto di cui le leggi della natura sono impotenti a fornire la completa spiegazione. In questo senso gli atti liberi sono miracoli: miracoli al cui confronto tutti gli altri sono veramente poca cosa. Così la libertà, questa facoltà di essere quello che si vuole fra i diversi uomini possibili, che contiene nel suo seno la volontà dell’uomo è un mistero tanto impenetrabile quanto i misteri della fede […]. Ecco ciò che nessuna filosofia spiegherà mai».1087 Per Del Noce e Lequier la libertà umana rimane un enigma, un quid che non potrà mai essere compiutamente spiegato né dalla filosofia né dalle scienze. La presenza della libertà dev’essere dunque accettata come «un postulato»1088: si tratta di una di quelle «verità indimostrate o indimostrabili, che si ammettono come poste al di là di ogni contestazione»1089. Per i due pensatori è quindi un atto 1086

A. DEL NOCE, Lequier e il momento tragico della filosofia francese. Introduzione a J.-L. JULES LEQUIER, Opere, cit., p. 58. 1087 OC, Critique du critérium de l’évidence, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, pp. 383-384. 1088 OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, p. 350. 1089 Ibidem. A questo proposito è stato giustamente osservato che per Lequier «la filosofia può soltanto comprendere che la libertà è incomprensibile. L’atto libero è un atto non determinato, è l’atto di per sé, un miracolo, di cui le leggi della natura sono impotenti a fornire la completa spiegazione. La filosofia ciò non lo capirà mai. La libertà è un potere assoluto, è un primo cominciamento poiché segna una completa rottura con gli avvenimenti anteriori» (P. Armellini, Lequier. La solitudine di Dio, Studium, Roma 1998, p. 56).

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della libertà ad affermare la libertà stessa. Di Lequier il Nostro condivide profondamente anche la sua posizione religiosa ed in particolare il fatto la presenza del libero arbitrio sia da sostenere anche “al di là e contro ogni umana ragione” proprio perché si tratta di una presenza che fonda e legittima lo stesso atto di fede. Per Lequier - come per Del Noce - il libero arbitrio è infatti «il dogma fondamentale del cattolicesimo»1090: è solo grazie al libero arbitrio che l’uomo può essere veramente indipendente nei confronti di Dio, il quale si “apparta” di forte alla creatura, per lasciare intatti il suo agire autonomo, la sua responsabilità ed il suo libero atto di fede. La ricerca di un’”ontologia della libertà” viene perseguita da Del Noce anche a partire dal confronto con alcuni significativi pensatori religiosi di lingua russa: si pensi in particolare a Dostoevkij, Afrikan Špir, Lev Šestov, Vladimir Solov’ëv e Nicolaj Berdjaev. Come ha correttamente osservato Andrea Paris, questi filosofi russi hanno una notevole rilevanza soprattutto negli anni della formazione di Del Noce: le loro varie forme di esistenzialismo religioso gli offrono vari spunti di ricerca sui temi del libero arbitrio, della scelta e del male. Inoltre Del Noce si interessa per la cultura russa anche e soprattutto perché essa è capace di «fornire un punto di vista privilegiato sull’Occidente, al quale è legata per tramite della tradizione cristiana, ma divisa a motivo del diverso percorso compiuto nell’arco della modernità»1091. Di particolare interesse ci paiono le prefazioni scritte da Del Noce a due traduzioni italiane delle opere di Šestov: Il sapere e la libertà (1943) e Concupiscentia irresistibilis (1946): del pensatore russo Del Noce condivide e sviluppa la sua critica del razionalismo occidentale come filosofia che mirando alla comprensione dell’essere nella sua totalità - ad una comprensione di carattere “oggettivo e scientifico” - finisce poi per dimenticare l’individuo nella sua storicità e finitezza. 1090

OC, Préface de Charles Renouvier, p. 10 [133]. A. PARIS, Del Noce e la cultura filosofica russa, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», I/19 (2010), pp. 190-192, pp. 191-192. La raccolta di scritti che contiene tutti i più significativi contributi di Del Noce sul pensiero filosofico russo è quella postuma A. DEL NOCE, Filosofi dell’esistenza e della libertà, cit. 1091

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5. Le origini filosofiche dei totalitarismi del Novecento ed il fenomeno della secolarizzazione Per Del Noce i regimi totalitari sviluppatisi nel corso del Novecento - marxismo sovietico, fascismo e nazismo - sono una conseguenza sul piano storico-politico del razionalismo moderno, dell’ateismo e dello stesso processo di secolarizzazione. Con quest’ultimo Del Noce intende non solo la graduale perdita di rilevanza del sacro che caratterizzerebbe la cultura novecentesca in molteplici suoi aspetti quanto piuttosto un generale processo di trasferimento del sacro nel saeculum: Del Noce interpreta quindi i totalitarismi come tentativi (violenti e dagli esiti drammatici) di una «sacralizzazione della politica»1092. Per il Nostro è necessario comprendere la genesi dello stalinismo russo, del fascismo e del nazismo «in climi culturali impregnati di sacralità della politica e di teologia politica»1093. In quest’ottica i totalitarismi sono la compiuta espressione del razionalismo moderno che nega ogni legittimità alla religione e alla trascendenza: essi cercano quindi la salvezza religiosa nella stessa prassi politica proponendosi di edificare dei “paradisi in terra”. I totalitarismi sono perciò l’espressione di un perfettismo politico1094 che è sostanzialmente anticristiano poiché nega che la presenza del male sia costitutiva nella natura umana: il male non viene considerato come un qualcosa di intrinseco alla costituzione stessa dell’uomo ma come una «conseguenza della

1092

A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 297. Ibidem. Sui motivi delle critiche delnociane al totalitarismo cfr. anche G. DESSÌ, Del Noce critico del totalitarismo (1936-1957), in G. CECI - L. CEDRONI, Filosofia e democrazia in Augusto Del Noce, Cinque Lune, Roma 1993, pp. 65-94. 1094 Notiamo che Del Noce riprende la categoria di “perfettismo politico” elaborata da Rosmini: quest’ultimo definisce come perfettismo «quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane e che sacrifica il bene presente all’immaginata futura perfezione» (A. ROSMINI, Filosofia della politica, [edizione originale 1839], a cura di S. Cotta, Rusconi, Milano 1985, p. 137). 1093

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società»1095 e di determinate circostanze storiche. Negando l’antropologia cristiana incentrata sullo status naturae lapsae, i totalitarismi hanno preteso di eliminare il male dalla storia umana anche servendosi di mezzi violenti e spregiudicati. È inoltre importante sottolineare che Del Noce nella sua interpretazione dei fenomeni totalitari riprende e sviluppa intuizioni già presenti in scritti di Eric Voegelin, con il quale concorda sulla sua interpretazione filosofica della modernità: in particolare condivide con Voegelin l’idea che i totalitarismi siano forme moderne di gnosi, cioè di progetti politici che propongono una totale “autoredenzione dell’uomo” ed una “salvezza tutta storica e terrena” dimenticando la costitutiva finitezza dell’humanum1096. Veniamo ora al confronto di Del Noce con il marxismo: possiamo dire che si tratti di un confronto presente in tutte le fasi dell’itinerario intellettuale delnociano, dai primi anni di militanza antifascista e di avvicinamento ai cattolici comunisti fino al volume postumo su Giovanni Gentile, dove il Nostro interpreta il marxismo gramsciano come una filosofia della prassi rivoluzionaria più vicina all’attualismo di Gentile che non all’originario pensiero di Marx. 1095

A. DEL NOCE, Tradizione e rivoluzione, in Aa. Vv., Tradizione e rivoluzione, Morcelliana, Brescia 1974, p. 49. 1096 Si veda in particolare E. VOEGELIN, I movimenti gnostici di massa del nostro tempo, in Idem, Il mito del mondo nuovo: saggi sui movimenti rivoluzionari del nostro tempo, tr. it. di A. Munari, Rusconi, Milano 1976. Significative considerazioni di Del Noce sull’interpretazione della modernità e dei totalitarismi proposta da Voegelin si vedano in A. DEL NOCE, Introduzione a E. Voegelin, La nuova scienza politica, tr. it. di R. Pavetto, Borla, Torino 1968. Da Voegelin il Nostro riprende e sviluppa l’idea secondo la quale nella modernità «la categoria di storia ha assunto una centralità assoluta»: «a tal fine la modernità ha attuato una sorta di immanentizzazione dell’eschaton cristiano: l’uomo, attraverso la conoscenza delle leggi della storia [si pensi al “diamat” di Marx-Engels], è nella possibilità di autoredimersi mediante l’azione intramondana» (M. GNOCCHINI, Augusto Del Noce: il mito dell’autorendenzione umana come origine del male totalitario, in R. GATTI (a cura di), Il male politico. La riflessione sul totalitarismo nella filosofia del Novecento, Città Nuova, Roma 2000, pp. 243-266, p. 245).

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Uno scritto fondamentale per comprendere l’originale interpretazione delnociana del marxismo è sicuramente quello del 1946 da titolo La «non-filosofia» di Marx e il comunismo come realtà politica1097: in esso viene espressa l’idea per la quale la filosofia di Marx è “non filosofia” in quando prevede il completo superamento della pura speculazione nella prassi. Il marxismo è “non filosofia” - cioè non speculazione nel senso hegeliano del termine - poiché ripone ogni criterio di verità nell’azione, nella prassi rivoluzionaria e non certamente nella teoresi contemplativa. Come per Giovanni Gentile così anche per Del Noce uno dei testi fondamentali per comprendere l’essenza del marxismo è l’ultima glossa di Marx a Feuerbach, nella quale viene affermato che compito di un’autentica filosofia è quello di cambiare il mondo tramite la rivoluzione e non di contemplarlo in maniera astratta e distaccata come era stato teorizzato dalla filosofia hegeliana1098. Quella di Marx è perciò “non filosofia” per motivi prettamente filosofici: essa nega ogni valore alla pura vita teoretica all’aristotelico bíos theoretikós - per immergersi completamente nell’azione e nella storia, considerando quest’ultima “un campo di lotte” da trasformare radicalmente tramite la prassi rivoluzionaria. Nel marxismo Del Noce scorge perciò un superamento stesso della filosofia nel senso classico ed hegeliano del termine: egli si chiede «se tutto il marxismo non si costituisca nel passaggio da un concetto di filosofia come comprensione [il Verstehen hegeliano] a un 1097

Si tratta della relazione presentata da Del Noce al I Congresso internazionale di filosofia «Esistenzialismo e marxismo» organizzato a Roma da Enrico Castelli. 1098 Com’è noto, si tratta dell’undicesima proposizione delle Tesi su Feuerbach nella quale Marx prende le distanze dal pensiero meramente speculativo per affermare la necessità di una filosofia della prassi: «finora i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo: ora si tratta invece di trasformarlo (Die Philosophen haben die Welt nur verschieden interpretiert, es kömmt drauf an, sie zu verändern)» (K. MARX, Tesi su Feuerbach, [scritte nel 1845 ma edite postume a cura di F. Engels nel 1888], in Opere complete, Riuniti, Roma 1972, Vol. V, p. 5). Ricordiamo che un primo studio del pensiero marxista è stato effettuato dal giovane Del Noce sul volume di Auguste Cornu edito a Parigi nel 1934: Karl Marx, de l’hégelisme au matérialisme historique.

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concetto di filosofia come rivoluzione (o nel superamento del tipo del filosofo nel tipo del rivoluzionario: nel passaggio dalla filosofia a una non-filosofia che però non è semplice attività pratica distinta dall’attività teoretica, ma sorge e si esplica come superamento della filosofia)»1099. In Marx la filosofia «diventa mondo»: essa «si oltrepassa nella realizzazione politica e trova in questa la sua verifica»1100. Nel marxismo Del Noce scorge inoltre la più compiuta forma di ateismo non limitato alla diffusione tra le élites colte ma in grado di raggiungere le grandi masse. Per il Nostro il marxismo costituisce la piena realizzazione sul piano storico-politico del razionalismo moderno: in quanto materialismo esso nega completamente l’antropologia cristiana, storicizza la stessa idea di natura umana risolvendola nel sociale e diviene una radicale forma di umanismo. Del Noce è chiaro nell’affermare che «il marxismo si presenta come realizzante il programma della filosofia moderna in quanto unità di razionalismo (negazione del soprannaturale) e di una interamente laicizzata antropologia cristiana come affermazione della trascendenza dell’uomo sulla natura; in breve, per la coincidenza di queste due condizioni, come radicale umanismo»1101. Ecco allora i presupposti filosofici per i quali Del Noce reputa costitutivamente impossibile qualsiasi forma di commistione o di sintesi tra marxismo e cristianesimo: i princìpi autenticamente cristiani (la trascendenza dell’uomo e la sua salvezza ultraterrena) non possono trovare delle convergenze con una prospettiva radicalmente atea e materialistica come quella del marxismo, che per di più pone nella rivoluzione la salvezza stessa della storia, la possibilità di una totale autoredenzione del genere umano. A partire da questa sua interpretazione del marxismo Del Noce critica radicalmente sia l’esperienza del cattocomunismo italiano (Rodano e Balbo) sia le teologie della liberazione del mondo latino-americano: «l’errore che Del Noce ben presto intravede in queste posizioni è il disconoscimento del carattere filosofico del marxismo, che non viene considerato come una concezione dell’uomo e del mondo posta in alternativa al 1099

A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 238. Ivi, p. 128. 1101 Ivi, p. 126.

1100

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cristianesimo, ma come una semplice scienza della storia che la filosofia cristiana può permeare di sé ed utilizzare per i propri scopi»1102. Del Noce si dimostra critico anche verso tutte quelle interpretazioni che vedono il marxismo come un erede secolarizzato del messianismo ebraico: tale tesi è stata espressa con particolare efficacia in Germania da Ernst Bloch e Karl Löwith ed in Italia da Italo Mancini, il quale scorge in Marx «un abitatore eretico, ma non scismatico dell’area ebraico-cristiana»1103 e nel marxismo «una soteriologia senza cristologia»1104. In particolare Del Noce contesta 1102

P. ARMELLINI, Razionalità e storia in Augusto Del Noce, cit., p. 158. Le varie forme di “teologia della liberazione” hanno in comune la considerazione che «la via giusta è di integrare nel cristianesimo quella scienza della società che è il marxismo, conciliando così l’opzione per i poveri con la modernità» (A. DEL NOCE, La condanna della «Teologia della liberazione», in «Il Tempo», 14 settembre 1984: l’articolo è riprodotto in Idem, Pensiero della chiesa e filosofia contemporanea, a cura di L. Santorsola, Studium, Roma 2005, pp. 124-130, p. 126: in quest’articolo Del Noce mostra di condividere le critiche rivolte alla teologia della liberazione dall’allora Cardinal Ratzinger in una «Istruzione» della Congregazione per la Dottrina della Fede). Del Noce sottolinea che il marxismo ha dei tali “a priori ideologici” e un carattere filosofico così marcato e totalizzante che lo rendono del tutto incompatibile con il cristianesimo: «Posto il valore supremo in una rivoluzione che si attua attraverso la lotta di classe, l’idea di una verità trascendente perde di significato, perché il pensiero è sempre pensiero di classe, e la verità, piuttosto che essere, “si fa”, nel corso della storia. Ugualmente va per il carattere trascendente della distinzione tra il bene e il male: l’etica [nel marxismo] viene totalmente dissolta nell’azione rivoluzionaria. Il passaggio all’immanentismo storicistico diventa con ciò inevitabile. Dio viene identificato con la storia intesa come processo di auto-redenzione dell’uomo mediante la lotta di classe. Il senso di tutte le verità teologiche e di tutte le pratiche liturgiche risulta di conseguenza trasfigurato: la fede diventa “fedeltà alla storia”, la speranza “fiducia nel futuro”, la carità “opzione per i poveri”, identificati col proletariato; l’Eucarestia “celebrazione del popolo in lotta”» (ivi, p. 127). 1103 I. MANCINI, Filosofia della religione, Marietti, Genova 19863, [I edizione 1967], p. 59. 1104 Ibidem. Italo Mancini - sulla scia di Jürgen Moltmann, Ernst Bloch e Karl Löwith - interpreta il marxismo come erede della religione ebraico-

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l’idea espressa da Löwith secondo la quale le moderne filosofie della storia (da Voltaire e Condorcet ad Hegel e Marx) sono forme secolarizzate e laicizzate della teologia della storia ebraico-cristiana: questo per Löwith sarebbe soprattutto dimostrato dal fatto che le moderne filosofie della storia rifiutano il “modello ciclico” tipico del paganesimo per proporre una visione della storia basata sull’idea di un continuo progresso1105. Ad avviso di Del Noce, se Hegel con la sua dialettica ha cercato di “superare conservando” (aufheben nei termini del linguaggio hegeliano) il cristianesimo, questo con il marxismo viene radicalmente negato: diversamente da Löwith Del Noce sottolinea che il marxismo ha i caratteri propri di una «religione atea»1106 e che la stessa concezione marxista della rivoluzione «non si spiega con una reminiscenza dell’idea escatologica giudaico-cristiana, ma con l’essere il termine ultimo della riabilitazione illuministica della natura umana. Perciò la compiutezza dell’hegelismo si identifica in Marx con la compiutezza dell’esigenza illuministica di una ragione attiva, capace di trasformare il mondo»1107. cristiana (cfr. ad esempio E. Bloch, Religion im Erbe, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1959). Per Mancini «Marx intendeva risolvere non religiosamente i problemi che sono propri della religione. In questo senso si pone come erede. Korsch non ha avuto paura di parlare di una “religione dell’al di qua” […]» (I. MANCINI, Filosofia della religione, cit., p. 59). Diversamente dalla posizione di Del Noce che fa emergere una sostanziale incompatibilità tra marxismo e cristianesimo, Mancini sottolinea che Marx «ha pensato, voluto le stesse cose [del cristianesimo], anche se ne ha dato una soluzione capovolta, che non fa perno sulla grazia e sul fare di Dio, ma sull’uomo, perché la “la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso”» (ibidem). 1105 A questo proposito cfr. K. LÖWITH, Meaning in History, University of Chicago, Illinois 1949 (tr. it. di F. Tedeschi Negri, Prefazione di P. Rossi, Significato e fine della storia, Net, Milano 2004). Secondo Del Noce il Löwith nella sua analisi sulla genesi delle moderne filosofie della storia sarebbe stato influenzato da Nietzsche ed in particolare dalla «critica [nietzscheana] al cristianesimo travestito dell’Ottocento» (A. DEL NOCE, Tradizione e rivoluzione, cit., p. 123, nota n. 86). 1106 A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 123. 1107 Ivi, pp. 121-122.

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Uno degli elementi del marxismo che Del Noce condanna con fermezza non è tanto l’utopismo inteso come «la speranza nella società degli uguali e nella fine dei conflitti»1108 ma il totale riassorbimento dell’etica nella politica: il marxismo subordina gli individui ed i loro diritti ad un progetto politico che li ingloba. A questo proposito basti pensare alla celebre espressione di Lenin secondo la quale “è morale tutto ciò che è funzionale alla rivoluzione”. Nel marxismo il fine di una società politica perfetta dev’essere realizzato servendosi di qualsiasi mezzo, calpestando - se necessario - i diritti stessi degli individui e le loro libertà. Posto un fine escatologico alla politica - si chiede Del Noce - che «importa il sacrificio di milioni di vite, di intere generazioni?»1109. Quella marxista è perciò una «rivoluzione che impiega gli uomini (come mezzi e strumenti) piuttosto che esserne guidata»1110. Ricchi di suggestioni e di proposte ermeneutiche sono i testi delnociani sull’interpretazione transpolitica (cioè filosofica e concettuale) della storia contemporanea: il termine “transpolitica” ricorda il Nostro - fu utilizzato per la prima volta da Renzo De Felice. Esso comporta non solo una «completa analisi storica [degli eventi], ma anche una rigorosa problematica filosofica, così da coglierne l’essenza, il significato più intimo e non lasciarsi fuorviare dagli aspetti secondari»1111. Del Noce interpreta i grandi fatti storici 1108

A. DEL NOCE, I caratteri generali del pensiero politico contemporaneo. Lezioni sul marxismo, Giuffrè, Milano 1972, p. 55. 1109 Ivi, p. 55. Del Noce rileva che in Marx si ha una «sostituzione dell’idea di liberazione a quella di libertà» (A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 251) e che per questo tutto ciò che concerne l’etica - compresi gli stessi diritti individuali - viene totalmente subordinato alle finalità della politica, ovvero la liberazione dal dominio delle classi privilegiate e la costituzione di una società perfetta. 1110 A. DEL NOCE, Tradizione e rivoluzione, cit., p. 24. 1111 R. DE FELICE, Le interpretazioni del fascismo, Laterza, Bari 19713, pp. 102-103: questo testo viene citato in A. Del Noce, L’interpretazione transpolitica della storia contemporanea, in IDEM, Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, cit., pp. 59-82, p. 59 [questo scritto delnociano fu edito per la prima volta nel 1982 per i tipi dell’editore Guida di Napoli].

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del Novecento come conseguenza delle idee filosofiche e politiche che la modernità ha prodotto. Egli dà quindi particolare rilievo al marxismo, nel quale si trova la teorizzazione stessa del “farsi mondo di una filosofia”, cioè del trasformarsi delle idee in concreta prassi storica. Ad avviso di Del Noce il marxismo costituisce l’esito ultimo della filosofia classica tedesca e per il mondo contemporaneo esso ha comportato il passaggio dall’immanentismo idealistico al materialismo storico e all’ateismo di massa. Nel marxismo sono inoltre confluiti lo spirito rivoluzionario francese e l’attenzione per l’economia tipica del mondo inglese. Nel marxismo Del Noce scorge quindi l’esito maturo di tanta parte del mondo spirituale moderno ed in esso individua il vero soggetto della storia contemporanea il quale «dirige indirettamente lo stesso mondo occidentale»1112. Gran parte della storia del Novecento si può spiegare infatti in relazione alla diffusione del marxismo (soprattutto dopo la rivoluzione bolscevica), alla sua crisi (i fatti del 1989) oppure come reazione ed opposizione ad esso: si pensi alle scelte politiche dei paesi dell’Europa occidentale e degli Stati Uniti. È interessante notare che per Del Noce lo stesso fenomeno del nichilismo contemporaneo sia da porre in stretta relazione alla riuscita e al contemporaneo fallimento del marxismo: «la caduta marxista è stata in Occidente […] produttrice di nichilismo, nel senso della sua azione di corrosione della fiducia nell’assolutezza dei valori»1113. Il tramonto del marxismo a causa di una sua interna “decomposizione”1114 ha lasciato il mondo 1112

A. DEL NOCE, La razionalità della storia contemporanea, in «Il Nuovo areopago», IV, 2 (14/1985), pp. 17-25, p. 23: il testo è stato riprodotto anche in Idem, Secolarizzazione e crisi della modernità, Istituto Suor Orsola Benincasa, Napoli 1989. 1113 Ivi, pp. 23-24. 1114 Del Noce già a partire dagli anni Cinquanta - in un clima culturale di egemonia marxista - pronosticò la fine del comunismo sovietico e la dissoluzione del progetto politico marxista anche nei paesi europei. Egli notava che in Russia la classe dirigente del partito comunista aveva ereditato i tratti violenti e totalitari dello zarismo: inoltre faceva osservare ai suoi contemporanei quella che si stava realizzando nell’Unione Sovietica non era una “società senza classi” ma una società dominata dallo strapotere

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occidentale in preda ad una radicale crisi dei valori la quale a sua volta ha dato luogo ad una “società opulenta”, individualista e tecnocratica. Tramite lo sviluppo ed il tramonto del marxismo sono perciò spiegabili - sia direttamente che indirettamente - moltissimi fenomeni storico-culturali dell’età contemporanea come le attuali forme di relativismo e di nichilismo. È interessante notare che Del Noce interpreta anche il fascismo italiano in relazione al marxismo: egli vede nel fascismo «un fallito tentativo di rivoluzione ulteriore a quello comunista»1115. In opposizione a molte tesi storiografiche che interpretano la nascita del fascismo a partire dall’unione di forze reazionarie e conservatrici, Del Noce scorge nel fascismo una continuazione - violenta e negativa - dell’idea di unità nazionale del Risorgimento: il fascismo non sarebbe stato quindi la coalizione di forze conservatrici ma l’unica vera rivoluzione italiana. Del Noce sottolinea che il fascismo «non fu, come spesso si dice, un fenomeno provinciale, una dimostrazione dell’arretratezza italiana»: esso «fu, sì, un errore, ma non certo un errore contro la cultura quanto piuttosto un errore della cultura»1116. Quando parla di “errore della cultura” egli pensa in particolare all’attualismo di Gentile e al suo influsso sul pensiero stesso di Mussolini: inoltre il Nostro interpreta la “mistica dell’azione” tipica del fascismo come un controcanto del primato assoluto della prassi teorizzato da Marx. Per Del Noce lo stesso attualismo di Gentile può essere pensato come una forma di marxismo «separato dal materialismo»: di Gentile viene quindi messa in rilievo la sua stretta (e paradossale) parentela con Marx, del quale viene ripresa anche l’idea di rivoluzione trasfigurata «in quella di Risorgimento, elevata a vera e propria categoria filosofica»1117. Nel fascismo Del Noce scorge quindi un’ispirazione idealistica e rivoluzionaria che trova compiuta espressione teoretica del pensiero di una classe, quella dei burocrati del partito, “professionisti della rivoluzione” e “sacerdoti della nuova umanità”. 1115 P. ARMELLINI, Razionalità e storia in Augusto Del Noce, cit., p. 231. 1116 A. DEL NOCE, L’interpretazione transpolitica della storia contemporanea, cit., p. 69. 1117 Ivi, p. 70.

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di Gentile: grazie all’influsso di Gentile il fascismo - osserva Del Noce - avrebbe un’ispirazione spiritualistica che sarebbe invece del tutto assente nell’ideologia del nazismo, materialistica, razzista e pagana. Come abbiamo già accennato, il Novecento nel suo complesso viene interpretato da Del Noce come età della compiuta secolarizzazione: questa tuttavia nel suo sviluppo avrebbe conosciuto due fasi, una per così dire “sacrale”, l’altra “profana”. Fascismo, nazismo e comunismo sarebbero le manifestazioni del periodo propriamente “sacrale” della secolarizzazione: in esso la politica si “sacralizza” e fagocita gli ideali stessi di salvezza religiosa ultramondana. Il secondo periodo della secolarizzazione si è sviluppato invece dopo la caduta dei regimi totalitari e viene definito come “profano” perché il suo esito è la “società opulenta” caratterizzata da una “irreligiosità naturale”. Del Noce sottolinea che dalla seconda metà del Novecento ai nostri giorni si sta diffondendo una nuova e forse ancor peggior forma di totalitarismo: la “società opulenta”, tecnocratica e nichilista. Ecco le parole con le quali il filosofo caratterizza la “società opulenta” frutto della caduta del marxismo e del maturo processo di secolarizzazione: «è una società che accetta tutte le negazioni del marxismo nel riguardo del pensiero contemplativo, della religione e della metafisica; che accetta quindi la riduzione marxista delle idee a strumento di produzione; ma che d’altra parte rifiuta del marxismo gli aspetti rivoluzionari messianici, quindi quel che di religioso rimane nell’idea rivoluzionaria. Sotto questo riguardo [la società opulenta] rappresenta veramente lo spirito borghese allo stato puro; lo spirito borghese che ha trionfato sui suoi due tradizionali avversari, la religione trascendente e il pensiero rivoluzionario».1118 Viene quindi sottolineato che la “società opulenta” eredita dal marxismo il motivo materialistico coniugandolo però con una “mentalità pantecnicistica” e scientista: tale mentalità produce un atteggiamento sostanzialmente scettico nei confronti dei grandi ideali, siano essi politici (la società senza classi) o religiosi (la 1118

A. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione, Giuffrè, Milano 1970, p.

14.

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salvezza ultraterrena). Si tratta di un tipo di società organizzata «intorno all’idea di funzione»1119 e determinata da «piccoli miti consolatori, privi di profondità»1120. Sul piano etico tale società è inoltre caratterizzata da un estremo relativismo e da un forte individualismo. Un antesignano e “quasi profeta” di tale individualismo viene visto da Del Noce in Max Stirner: il Nostro rileva che «solo in tempi recenti si è giunti a intendere la singolarissima attualità della sua opera [si pensi soprattutto a L’Unico e la sua proprietà del 1845]. Che resta infatti, dopo la caduta, di quelli che con una punta di dileggio vengono chiamati i valori tradizionali nella forma classica di Dio Patria e Famiglia e altresì dei surrogati offerti dal marxismo se non l’irreducibile egocentrismo? Quel che resta dopo tante negazioni è l’affermazione del totale egocentrismo; totale nel senso che tutto acquisisce significato soltanto in ciò che può diventare strumento per l’affermazione dell’io».1121 6. Risorgimento, antiperfettismo Valutazioni critiche

politico

e

democrazia.

La posizione di Del Noce nei confronti della modernità è duplice: da una parte egli individua con chiarezza gli esiti nefasti ai quali ha dato luogo il razionalismo moderno (i totalitarismi, la 1119

L’espressione è di Gabriel Marcel. Del Noce condivide molte delle analisi critiche sulla società effettuate da Marcel sulla base di una filosofia attenta ai valori cristiani: cfr. in particolare G. MARCEL, Les hommes contre l’humain, La Colombe, Paris 1951 (tr. it. di E. Piscione, Gli uomini contro l’umano, Edizioni Logos, Roma 1987). 1120 M. MERLEAU-PONTY, Signes, Gallimard, Paris 1960 (tr. it. di G. Alfieri, Segni, Il Saggiatore, Milano 1967, p. 167). Abbiamo tratto l’espressione «piccoli miti compensatori» da un bilancio che Merleau-Ponty faceva sullo strutturalismo: tale espressione - a nostro avviso - può essere riferita a tutte quelle prospettive che appiattiscono la ragione umana in un’intrascendibile unidimensionalità. 1121 A. DEL NOCE, Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, cit., p. 66.

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secolarizzazione e la società tecnocratica con il connesso prevalere della “ragione strumentale”), dall’altra sottolinea che nella modernità ci sono state delle espressioni di pensiero che possono essere valide anche per l’oggi e che occorre recuperare per superare l’attuale crisi. Tra queste forme di pensiero c’è sicuramente quella di Rosmini, da riscoprire e valorizzare sia sotto il profilo teoretico (l’ontologismo di cui abbiamo già parlato) che sotto l’aspetto politico. «Rosmini appare oggi» - nota Del Noce nel 1982 - «come l’unico predicatore politico del Risorgimento che possa essere continuato»1122: questo è possibile perché in Rosmini il Risorgimento non è semplicemente la definizione di un periodo della storia italiana ma è una vera e propria «categoria filosofica»1123 che può essere ripresa anche nell’attuale contesto politico-culturale. È quindi percorrendo un itinerario “con Rosmini, oltre Rosmini” che si possono dare delle valide risposte alla 1122

A. DEL NOCE, Alcune condizioni per la riscoperta del Rosmini politico, relazione presentata ad un convegno rosminiano tenutosi a Stresa nell’agosto 1982: questo testo è stato pubblicato per la prima volta in un’appendice del volume di P. ARMELLINI, Rosmini politico e la storiografia del Novecento, Aracne, Roma 2008, pp. 233-251, p. 233. 1123 Ibidem. Paolo Armellini nota che l’idea di Risorgimento come “categoria filosofica” è di centrale importanza nel pensiero delnociano: con essa il Nostro intende una “restaurazione creatrice” dei valori cristiani tradizionali la quale «si oppone sia all’utopia rivoluzionaria, che intende sovvertire i valori acquisiti, sia alla restaurazione reazionaria, che vuole soltanto ritornare ad un passato di fatto» (P. ARMELLINI, L’idea di Risorgimento in Augusto Del Noce, «Arché. Rivista di Filosofia», 5 (2004), pp.15-57, p. 16). Con l’idea di un “Risorgimento filosofico” Del Noce intende proporre una valida alternativa «sia alla mentalità rivoluzionaria [il marxismo] sia alla mentalità reazionaria [molta parte dei neotomisti del Novecento e la prospettiva medievalista dello stesso Nicolaj Berdjaev]. In questo progetto egli mostra la distanza dall’utopia archeologica che caratterizza il progetto medievalista di una cristianità da recuperare contro la dissoluzione della modernità, perché in essa esiste una concezione della restaurazione dei princìpi eterni come associati indissolubilmente con un ordine storico delle istituzioni» (ivi, p. 15). Sul concetto delnociano di Risorgimento si veda anche G. RICONDA, L’idea di Risorgimento nel pensiero di Augusto Del Noce, in «Quaderni della Fondazione Centro Studi Augusto Del Noce», Morcelliana, Brescia 2006, pp. 25-53.

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crisi del mondo contemporaneo, una crisi in gran parte causata dal prevalere di un “liberalismo senza fondamenti e di un’etica senza verità”. Sulla scorta del pensiero rosminiano la metafisica cristiana diviene nuovamente riproponibile come fondamento speculativo dell’etica e di una prassi politica autenticamente liberale. Del Noce sottolinea che «solo il cattolicesimo più rigorosamente ortodosso può trovare un punto d’incontro con lo spirito liberale»1124: in Rosmini Del Noce individua una forma di cattolicesimo in grado di confrontarsi con la modernità e di proporre una prospettiva liberale ricca di istanze etico-sociali. Quella di Rosmini è inoltre una prospettiva politica incentrata sull’idea di persona quale «diritto sussistente»1125: in essa la libertà della persona è la fonte stessa del diritto, è “il limite” di ogni possibile prevaricazione dello Stato e costituisce il fine della vita associata. La riflessione di Rosmini viene ripresa anche per il contributo che essa ha dato alla definizione dell’antiperfettismo politico, il quale si rivela di fondamentale importanza poiché è in grado di contrastare i princìpi dai quali si originano i totalitarismi (interpretati forme di “perfettismo politico”). Possiamo dire che la pars costruens del discorso politico delnociano - che amplia e attualizza gli orizzonti di quello rosminiano - sia da individuare nella proposta di un “liberalismo antiperfettistico” fondato sui presupposti metafisici dell’antropologia cristiana: gli elementi essenziali di questa proposta sono «1) l’affermazione dell’assolutezza e trascendenza della verità; 2) la concezione della natura umana come decaduta e quindi imperfetta e limitata [ciò comporta il costitutivo fallimento di ogni progetto politico che intenda eliminare completamente il male dalla storia umana]; 3) la considerazione […] dell’individualità umana come dotata di un’interiorità»1126 che è libertà e trascendenza e che è perciò irriducibile alle circostanze storico-sociali della sua esistenza. 1124

A. DEL NOCE, Cattolicesimo e spirito liberale, in «Libro aperto», 42 (maggio-giugno 1987), p. 27. 1125 A. ROSMINI, Filosofia del diritto, [edizione originale 1841-1845], a cura di R. Orecchia, Ed. Nazionale, Cedam, Padova 1967, vol. I, p. 192. 1126 M. GNOCCHINI, Augusto Del Noce: il mito dell’autoredenzione umana come origine del male totalitario, in R. GATTI (a cura di), Il male politico:

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Un altro aspetto estremamente interessante del pensiero politico di Del Noce è la ridefinizione della democrazia fondata sul concetto di persona e sul rispetto del singolo individuo: per esso la democrazia è quel «regime in cui viene reso impossibile a ognuno l’agire su altri se non in termini di persuasione; ossia definizione equivalente, regime in cui ogni soggetto viene considerato come soggetto di persuasione, cioè come persona»1127. Del Noce nota con estremo realismo politico che «ciò che caratterizza la democrazia non è il governo della maggioranza (si potrebbe anzi mostrare come un almeno implicito consenso della maggioranza lo abbiano anche i regimi totalitari) ma il rispetto del singolo. È anzi proprio questa esigenza fondamentale del rispetto del singolo che fonda la necessità della democrazia»1128. Riecheggiando ed ampliando i passi kantiani sul concetto di persona come “fine in sé” (Zweck an sich), Del Noce afferma che in un autentico regime democratico «ogni singolo deve potersi considerare anche come fine e nessuno come unico fine dell’intera vita politica»1129. Del Noce propone quindi una concezione della democrazia in cui «metodo della libertà e rispetto delle persone siano tali valori a cui non si debba mai venir meno»1130. Possiamo dire che le considerazioni filosofiche e politiche di Del Noce siano certamente profonde e ricche di suggestioni: esse propongono delle feconde piste interpretative che possono essere la riflessione del totalitarismo nella filosofia del Novecento, Città Nuova, Roma 2000 , p. 246. 1127 A. DEL NOCE, Il concetto di democrazia e il principio delle “élites”, «Il Popolo nuovo», 20-21 settembre 1945: l’articolo è stato ristampato in C. VASALE e P. ARMELLINI (a cura di), La democrazia nel Novecento. Antologia di testi classici del pensiero filosofico e politico, Aracne, Roma 1999, pp. 309-310, p. 310 (la trattazione del pensiero di Augusto Del Noce si trova nel capitolo Democrazia e cristianesimo scritto da Giovanni Dessì). 1128 Ibidem 1129 Ibidem 1130 A. DEL NOCE, Analisi del linguaggio, in «Il Popolo Nuovo», 27 maggio 1945. Sulla proposta delnociana di una fondazione metafisica dei presupposti della democrazia cfr. P. SERRA, Metafisica e democrazia in Augusto Del Noce, in G. CECI - L. CEDRONI (a cura di), Filosofia e democrazia in Augusto Del Noce, cit., pp. 95-108.

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ancora riprese ed ulteriormente proseguite. Si pensi ad esempio alla prospettiva delnociana sulla modernità (da Cartesio a Rosmini) e all’esigenza di ridefinire i fondamenti filosofici del liberalismo e della stessa democrazia in relazione alla metafisica cristiana1131. A nostro avviso, nell’attuale contesto filosofico-politico possiamo individuare anche la presenza di una “scuola delnociana”: questa è composta da numerosi intellettuali e docenti che - seppur con diverse sensibilità ed accentuazioni - intendono proseguire ed ampliare le linee di pensiero proposte dal filosofo torinese. Tra gli appartenenti ad una “scuola delnociana” possiamo considerare insieme ad altri anche le figure di Giuseppe Riconda, Rocco Buttiglione, Salvatore Azzaro, Giuseppe Randone, Rocco Pezzimenti, Paolo Armellini, Giovanni Dessì e Andrea Paris. Come abbiamo potuto constatare gli scritti di Del Noce si distinguono anche per una rara erudizione che tuttavia non è mai fine a se stessa ma sempre al servizio di una particolare ipotesi speculativa da difendere e verificare sul piano storiografico. L’eruzione storiografica di Del Noce ed il suo costante impegno sul piano filosofico-culturale furono riconosciuti anche da Norberto Bobbio, che di Del Noce fu amico sul piano personale ma certamente forte oppositore sul piano delle idee. Il liberale e laico Bobbio come non risparmiò apprezzamenti per le opere delnociane non risparmiò neanche serrate critiche. In particolare Bobbio criticò l’eccessivo richiamarsi di Del Noce ai princìpi del cattolicesimo1132; allo stesso 1131

Un primo bilancio che indica gli itinerari di ricerca tracciati da Del Noce e la ricezione del suo pensiero è quello di E. RANDONE, Un bilancio sul pensiero di Augusto Del Noce a un decennio dalla scomparsa, in «Annuario filosofico», 17 (2001), pp. 373-388. 1132 Nicola Matteucci ricorda che una volta Bobbio definì Del Noce come “il De Maistre italiano” proprio per la centralità che il tradizionalismo cattolico assumeva nelle formulazioni del suo pensiero. Matteucci nota con rammarico che «la battuta di Norberto Bobbio (ma era una semplice battuta), che vedeva in Del Noce il De Maistre italiano, è servita subito per spiazzarlo e confinarlo nel pensiero della destra. E così si è variamente detto di lui che fosse un tradizionalista, un conservatore, se non un vero e proprio reazionario. Si tratta in ogni caso di aggettivi non pensati filosoficamente» (N. MATTEUCCI, Augusto Del Noce e il problema della modernità, cit., 98).

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modo criticò le considerazioni delnociane quasi sempre fortemente negative nei confronti dell’illuminismo, della secolarizzazione e dello stesso relativismo. Per Bobbio illuminismo e secolarizzazione sono stati anche “l’età del progresso, delle libertà e dei diritti”, sono stati cioè dei fenomeni che hanno avuto degli innegabili risvolti positivi sia sul piano del progresso scientifico che su quello del riconoscimento dei diritti umani: opponendosi a Del Noce egli sottolinea inoltre come solo il relativismo può essere la base filosofica di una prassi politica antitotalitaria, tollerante e rispettosa delle diversità individuali. Concludendo riportiamo queste interessanti critiche rivolte da Bobbio alla prospettiva delnociana cristiana e liberale: «non intendo mettere in dubbio la sincerità del liberalismo di Del Noce, e tanto meno la compatibilità dell’idea liberale con una visione religiosa del mondo. Ma non posso fare a meno di notare che le società dominate da una Chiesa tendono piuttosto alla teocrazia. Metto in dubbio che la perfetta attuazione dell’idea liberale sia possibile soltanto in una società cristiana e sia incompatibile con una visione non religiosa della vita. La tanto deprecata età della secolarizzazione mostra proprio il contrario, perché è attraverso essa che si viene a poco a poco formando lo Stato liberale sulle rovine degli Stati assoluti, che sono stati storicamente, tutti, almeno in Europa, cristiani; quello Stato liberale, al cui fondamento stanno le libertà civili e politiche dell’individuo, la libertà negativa o come “non-impedimento”, da cui nasce non la

Pietro Prini, interlocutore ed amico di Del Noce, parlando invece della ricezione del pensiero delnociano presso i contemporanei osserva che egli «per qualcuno, o forse per molti, è stato un outsider della filosofia, e più precisamente un non-filosofo. Pur studiando storicamente la genesi, le articolazioni e gli sviluppi di molti problemi filosofici, non si è impegnato in nessuna delle ricerche di carattere teorico, speculativo o analitico, di cui abitualmente si occupano i professionisti della filosofia» (P. PRINI, Augusto Del Noce e la reinterpretazione teologica della filosofia moderna, cit., p. 216): tuttavia Prini considera le ricerche filosofiche delnociane tra quelle più originali e significative del Novecento italiano.

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società atomistica come osserva polemicamente Del Noce, ma la società dei diritti dell’uomo».1133

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N. BOBBIO, Del Noce: fascismo, comunismo, liberalismo, in Aa. Vv., Augusto Del Noce. Il problema della modernità, Studium, Roma 1995, pp. 165-184, p. 184. Sul rapporto Del Noce-Bobbio si sono soffermati V. POSSENTI, Cattolicesimo e modernità. Balbo, Del Noce, Rodano, Ares, Milano 1995, pp. 78-83; L. CEDRONI, Norberto Bobbio e Augusto Del Noce: dialogo sulla libertà, in C. VASALE - G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 167-179.

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Appendice I Esistenza e libertà: maestri e compagni di strada di Augusto Del Noce

Nel presente scritto prendiamo in esame la raccolta di saggi dal titolo Filosofi dell’esistenza e della libertà1134: in essa i curatori (Francesco Mercadante e Bernardino Casadei) hanno selezionato i più significativi contributi storiografici di Augusto Del Noce sui fondamenti metafisici dell’esistenza umana e del libero arbitrio. Il volume costituisce una sorta di tripode nel quale i numerosi saggi editi da Del Noce in miscellanee e riviste vengono accorpati in tre sezioni, corrispondenti a tre differenti aree geografiche e culturali, la Russia, la Francia e l’Italia. Nell’ultima sezione del volume, quella dedicata ai grandi esponenti della filosofia italiana dei primi decenni del Novecento, sono stati inseriti tutti gli scritti dedicati da Del Noce ai suoi maestri di pensiero (Cosmo, Vidari, Faggi, Juvalta, Mazzantini, Martinetti) e compagni di strada (Castelli, Rensi, Capograssi, Pareyson). È una parte molto importante del volume poiché ci permette di comprendere l’itinerario intellettuale delnociano a partire dai suoi punti di riferimento filosofici, dagli autori che egli ha conosciuto personalmente e che hanno più inciso nella formazione stessa del suo pensiero. La seconda parte e terza parte del presente scritto verte sugli studi dedicati da Del Noce ai più emblematici filosofi francesi e russi che hanno posto la loro attenzione sulle tematiche morali dell’esistenza e della libertà. Si tratta di autori come Lequier, Renouvier, Simone 1134

A. DEL NOCE, Filosofi dell’esistenza e della libertà. Spir, Chestov, Lequier, Renouvier, Benda, Weil, Vidari, Faggi, Martinetti, Rensi, Juvalta, Mazzantini, Castelli, Capograssi, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè Editore, Milano 1992. D’ora in poi l’opera sarà citata con la sigla FEL, seguita dal numero di pagina.

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Weil, Lavelle, Špir e Šestov: essi possono essere considerati i maestri spirituali di Del Noce, gli intellettuali con i quali egli ha avvertito l’esigenza di un puntuale confronto critico. 1. I maestri di Del Noce: uno sguardo sulla filosofia torinese del primo Novecento Del Noce nacque a Pistoia nel 1910 ma allo scoppio della prima guerra mondiale la sua famiglia dovette trasferirsi a Torino. Fu così che il giovane ebbe la fortuna di frequentare il Liceo classico “Massimo d’Azeglio”, dal quale uscirono anche altri intellettuali come Cesare Pavese, Alessandro Galante Garrone, Leone Ginzburg e non da ultimo Norberto Bobbio. Al Liceo, Del Noce ebbe Umberto Cosmo come insegnante di letteratura italiana e latina: questi rappresentò per il giovane un primo significativo punto di riferimento intellettuale. Cosmo - come il suo collega Augusto Monti - era apertamente antifascista e nel 1925 fu costretto dal regime ad abbandonare l’attività didattica e giornalistica. Il rapporto di Cosmo con Del Noce continuò anche durante e dopo l’Università. Del Noce rimase ammirato dal suo insegnamento e gli sarà sempre riconoscente: «con Cosmo» - afferma il Nostro - «ebbi un rapporto molto assiduo e affettuoso durante gli anni ʼ30. Lui era sfuggito da tutti per il suo antifascismo. Facevamo quasi tutte le sere una lunga passeggiata. La posizione politica e culturale di Cosmo era molto particolare, una sorta di socialismo umanitario, o, per meglio dire, un cristianesimo risolto in umanitarismo. Fu una figura che esercitò molto fascino su Gramsci ma anche su Tasca e Sraffa. Lo potremmo definire l’antecedente di una linea cha va fino al Capitini di Esperienze di vita religiosa»1135. In un Ricordo del 1945 Del Noce traccia le linee essenziali dell’atteggiamento filosofico di Cosmo, teso ad armonizzare le tendenze del positivismo di Roberto Ardigò 1135

Il testo citato risale al 1978 ed è tratto da D. ANTISERI – S. TAGLIAGAMBE, Augusto Del Noce, in IDEM, Storia della filosofia. Filosofi italiani del Novecento, Bompiani, Milano 2008, vol. 13, pp. 504-517, p. 505.

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con quelle opposte dello spiritualismo di Francesco Bonatelli: in tal modo, egli «in una visione laica della vita voleva infondere i motivi della spiritualità cristiana»1136. Alla scuola del Cosmo il giovane Del Noce ebbe anche occasione di conoscere e valorizzare la cultura medievale e soprattutto la figura di Dante, alla quale il Nostro resterà sempre legato1137: Cosmo indagava il medioevo «come spirito, non come semplice oggetto di ricerca erudita. Divise tutta la sua attività di studioso tra Dante e San Francesco»1138. Dal 1928 al ʼ32 Del Noce studiò filosofia all’Università di Torino. Frequentò le lezioni di Erminio Juvalta, Carlo Mazzantini, Annibale Pastore, Giovanni Vidari e Adolfo Faggi; sotto la guida di quest’ultimo si laureò scrivendo una tesi Sulla formazione della filosofia di Malebranche. Faggi ebbe il merito di render sensibile il giovane Del Noce anche al pensiero tedesco, a movimenti come il neokantismo (Friedrich Albert Lange e Alois Riehl), le filosofie postidealistiche (Eduard von Hartmann) e le venature di pensiero scettiche e pessimistiche come quelle espresse da Schopenhauer. Tuttavia, come ricorda il Nostro, quella di Faggi rimase una figura isolata nella cultura italiana del primo Novecento: i suoi meriti, sia come studioso del pensiero tedesco che di psicologia, furono in gran 1136

A. DEL NOCE, Ricordo di Umberto Cosmo, «Il popolo nuovo», 19-20 novembre 1945; in FEL, pp. 373-376, p. 373. Sul rapporto speculativo tra Bonatelli e Ardigò si veda il volume di D. POGGI, La coscienza e il meccanismo interiore. Francesco Bonatelli, Roberto Ardigò, Giuseppe Zamboni, Il Poligrafo, Padova 2007. 1137 Basti pensare che quando Del Noce si spense (la notte tra il 29 e il 30 dicembre 1989), sulla sua scrivania, tra le carte alle quali stava lavorando, furono trovati - oltre le bozze quasi ultimate di un volume su Giovanni Gentile - anche degli appunti per un libro sul pensiero politico di Dante, argomento dal quale traeva stimoli anche per interpretare la vita culturale contemporanea: a tal proposito cfr. M. CIAMPI, Il Dante politico negli inediti di Augusto Del Noce, in G.F. LAMI (a cura di), Filosofi cattolici del Novecento. La Tradizione in Augusto Del Noce, FrancoAngeli, Milano 2009, pp. 182-192. 1138 Tra gli studi danteschi di Cosmo ci sono Vita di Dante (1930), L’ultima ascesa (1936, è un’introduzione alla lettura del Paradiso), La fortuna di Dante nel Seicento (1946), tutti editi presso Laterza.

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parte disconosciuti anche da storici della filosofia italiana come Michele Federico Sciacca1139. Secondo Del Noce, gli esponenti del neokantismo italiano con cui venne a contatto, Juvalta e Faggi, non furono espressioni di «una stanchezza e sfiducia speculativa»1140. Di Faggi il Nostro mette in rilievo e recepisce ampiamente la sua “intenzione spiritualistica”, il fatto che egli proponga una forma di spiritualismo attento alle esigenze critiche delle scienze sperimentali: in Faggi egli trova un neokantiano che, pur accogliendo le istanze di rigore scientifico tipiche del positivismo, non rinuncia pregiudizialmente alla metafisica. Del Noce, anche negli scritti della maturità, apprezza quindi l’idea espressa da Faggi di un «teismo postulatorio»1141, idea di chiara ispirazione kantiana, del Kant che pone un primato del pratico sul teoretico. Di Faggi il Nostro 1139

A tal proposito cfr. A. DEL NOCE, La solitudine di Adolfo Faggi, Edizioni di «Filosofia», Torino 1954; in FEL, pp. 377-400, p. 379. Del Noce nota che neanche Sciacca nelle sue ricostruzioni sul pensiero italiano tra Ottocento e Novecento aveva dato opportuno rilievo ad opere di Faggi come quella del 1890 La filosofia dell’Incosciente. Metafisica e Morale. Contributo alla storia del pessimismo (Le Monnier, Firenze). 1140 A. DEL NOCE, La solitudine di Adolfo Faggi, cit.; FEL, p. 380. Di uno scarso valore speculativo del neokantismo italiano parlava ad esempio Giovanni Gentile (cfr. G. GENTILE, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, Vol. III, I neokantiani e gli hegeliani, Nuova edizione riveduta da V.A. Bellezza, Firenze, Le Lettere, 2003, p. 3-4). Tale giudizio essenzialmente negativo sul movimento italiano del neokantismo sarà ripreso anche da Eugenio Garin: «I neokantiani limitavano il loro orizzonte alle questioni meramente gnoseologiche, non di rado facevano cadere anche queste sul piano della psicologia. […] Di Kant non si era ripreso il motivo costruttore, quella metafisica del trascendentale, del soprasensibile immanente, che risultava con linee poderose nell’edificio delle tre critiche. Così da una lato ci si perdeva in un lavoro di esegesi filologica, mentre dall’altro non si sottolineava che il momento negativo della dialettica» (E. GARIN, Storia della filosofia italiana, Vol. III., Laterza, Roma-Bari 1966, p. 1214). 1141 A. DEL NOCE, La solitudine di Adolfo Faggi, cit.; FEL, p. 383. Con l’espressione “teismo postulatorio” viene intesa la «desiderabilità che Dio sia, si pensi o no che a questa nostra esigenza corrisponda la sua esistenza reale» (ibidem, p. 383).

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riprende, e poi sviluppa anche nei suoi scritti della maturità, il fatto che egli «pur ammettendo pienamente la legittimità del bisogno metafisico dell’uomo, riconosce l’impossibilità di soddisfarlo in maniera univoca e assoluta»1142. Sotto il profilo speculativo Del Noce apprezza nel maestro l’idea che il bisogno metafisico dell’uomo sia un qualcosa di insopprimibile: quello della metafisica, di un senso finale dell’esistere, è un bisogno di cui è necessario proclamare la legittimità sotto il profilo filosofico pur ammettendo che esso resterà sempre inappagato. Del Noce si trova, quindi, perfettamente d’accordo sul giudizio che Augusto Guzzo, altro celebre filosofo torinese, diede di Faggi; Guzzo mise in evidenza la sua «reverenza insieme umile e dignitosissima» per la fede religiosa: «in tanta finezza di sforzi umani […] l’anima cerca una certezza infinita […]. Quando parla di questa speranza interiore, il Faggi trova le sue espressioni più luminose»1143. Tuttavia all’Università di Torino fu soprattutto Carlo Mazzantini che Del Noce riconobbe come suo vero e proprio maestro della ricerca filosofica1144: questi - afferma il Nostro - seppur «fu una figura poco nota fuori Torino», fu allo stesso tempo «la migliore mente cattolica italiana dalla fine della Prima guerra mondiale in poi»1145. Di particolare interesse ed originalità è la tesi delnociana di 1142

Ibidem, p. 381. A. GUZZO, Recensione agli Studi di A. Faggi, «Giornale Stor. Lett. Ital.», 1939, pp. 168-171. 1144 A tal riguardo si veda A. DEL NOCE, Storia di un pensatore solitario. Intervista ad Augusto Del Noce di Massimo Borghesi e Lucio Brunelli, in IDEM, Verità e ragione nella storia. Antologia di scritti, a cura di A. Mina, Introduzione di G. Riconda, Bur, Milano 2007, pp. 350-362, p. 352. Quest’intervista fu edita per la prima volta nella rivista «30 Giorni», nel fascicolo dell’aprile 1984. Sull’influenza filosofica di Mazzantini su Del Noce cfr. A. RIZZA, Mazzantini e Del Noce, in Aa. Vv., Augusto Del Noce. Il problema della modernità, Studium, Roma 1995, pp. 225-252; IDEM, Augusto Del Noce e l’eredità mazzantiniana, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, Sei, Torino 1996, pp. 27-44. 1145 A. DEL NOCE, Storia di un pensatore solitario. Intervista ad Augusto Del Noce di Massimo Borghesi e Lucio Brunelli, cit., p. 352. 1143

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una continuità speculativa tra la posizione del positivista e kantiano Juvalta con quella ontologica e cristiana di Mazzantini. Del resto, quando il Nostro ricorda che quando gli venne affidato il compito di redigere la voce Mazzantini per l’Enciclopedia filosofica, chiedendo lumi allo stesso Mazzantini ancora in vita, lui stesso gli raccomandò di iniziare la voce sottolineando che suo maestro e relatore di tesi era stato Juvalta. Secondo Del Noce «la chiave per intendere il pensiero di Mazzantini è da cercare in quello di Juvalta» e «correlativamente la continuazione del motivo più profondo del pensiero di Juvalta è in quello di Mazzantini»1146. Tuttavia per il Nostro occorre emendare la falsa immagine - diffusa soprattutto da Ludovico Geymonat1147 - di uno Juvalta tutto chiuso nel materialismo positivistico ed alieno ai valori dello spirito. Juvalta in fondo proveniva dalla scuola neokantiana di Pavia, la quale - come sottolinea Del Noce «appariva orientata verso una metafisica spiritualistica conciliata con la scienza, sull’esempio di Lotze, gran patriarca dei filosofi italiani spiritualisti di quel periodo [come ed esempio Cantoni, maestro di Vidari e dello stesso Juvalta]: ora Juvalta si distanzia da questo spiritualismo per allinearsi nell’orizzonte della filosofia dei limiti»1148. La posizione di Juvalta non assolutizza il “fatto bruto” come facevano i positivisti, la sua è piuttosto una prospettiva di «fenomenismo nel senso di decisione di non oltrepassare l’esperienza, lasciando la questione metafisica impregiudicata»1149. Si comprende allora come Mazzantini possa prender le mosse dalla posizione del suo maestro Juvalta: Mazzantini getta lo sguardo là dove il maestro si era arrestato, proponendo una metafisica criticamente fondata, dedotta con rigore argomentativo e comunque lontana da ogni evasione spiritualistica. L’originalità di Mazzantini, rispetto a Juvalta, è quella di recuperare la lezione metafisica del pensiero greco e della scolastica 1146

A. DEL NOCE, Juvalta e Mazzantini, in Aa. Vv., La filosofia di Carlo Mazzantini, Studium, Roma 1985, pp. 95-123: in FEL, pp. 547-587, p. 551. 1147 Cfr. L. GEYMONAT, Prefazione a E. JUVALTA, I limiti del razionalismo etico, Einaudi, Torino 1945. 1148 A. DEL NOCE, Juvalta e Mazzantini, cit.; in FEL, p. 553. 1149 Ibidem, p. 557.

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medievale: il carattere essenziale del pensiero mazzantiniano è la perennità dell’idea ellenico-scolastica, è cioè «l’idea dell’unità armonica di ellenismo e di cristianesimo (anzi espressamente di cattolicesimo); in questa continuità l’accento è da lui portato sul pensiero greco, dei cui valori genuini [quali, ad esempio, il realismo gnoseologico e la metafisica dell’essere] il cristianesimo ha rappresentato la restaurazione e la salvezza»1150. La prospettiva di Mazzantini ha costituito per Del Noce un fecondo paradigma di riferimento: in particolare, dal suo maestro tomista egli apprende ad orientare il suo sguardo in senso ontologico. In opposizione a gran parte della filosofia moderna che finisce per dimenticare l’essere assolutizzando il pensiero (si pensi al cogito cartesiano, all’Ich denke kantiano o all’Io puro dell’idealismo trascendentale), Mazzantini ha avuto il merito di porre nuovamente al centro dell’attenzione speculativa la problematica dell’essere, quella che Heidegger definiva come Seinsfrage, come domanda radicale sul senso dell’essere. È quindi per questa rinnovata centralità data alla questione ontologica che «Mazzantini si è sentito particolarmente affine al pensiero di Heidegger, che fu tra i primi a far conoscere in Italia»1151. Tuttavia, mentre in Heidegger troviamo «un ontologismo senza Dio»1152, in Mazzantini troviamo una prospettiva ontologica aperta alla trascendenza religiosa e che trova in Dio stesso il suo fondamento: seguendo la tradizione tomista Dio viene concepito da 1150

A. DEL NOCE, Carlo Mazzantini, in Enciclopedia filosofica, Centro Studi Filosofici di Gallarate, Lucarini, Firenze 1982, Vol. V, pp. 586-588; in FEL, pp. 541-546, p. 542. La voce Mazzantini scritta da Del Noce viene riproposta anche nella nuova edizione dell’Enciclopedia filosofica, Bompiani, Milano 2006, pp. 7167-7168. Per una sintesi dell’itinerario intellettuale di Mazzantini si veda P. PRINI, Carlo Mazzantini e l’ontologia dell’ulteriorità, in IDEM, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 19972, pp. 73-85. 1151 A. DEL NOCE, Carlo Mazzantini, cit.; in FEL, p. 544. Sulla ricezione del pensiero heideggeriano da parte di Mazzantini si veda A. DEL NOCE, Torino, primi anni Trenta, in Aa. Vv., La ricezione italiana di Heidegger, «Archivio di Filosofia», 1-3, 1989, p. 92; in FEL, pp. 575-588. 1152 A. DEL NOCE, Tesi su Feuerbach, in A. DEL NOCE - G.A. RIESTRA, Karl Marx: scritti giovanili, Japadre, L’Aquila 1975, p. 113.

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Mazzantini come plenitudo essendi ed “essere di per sé sussistente” (Ipsum Esse subsistens), ma differentemente dai tomisti tale essere viene pensato come dinamicità infinita e non come statico fondamento. Una delle caratteristiche più originali di Mazzantini (soprattutto nell’ultima fase delle sue riflessioni) è quella di considerare l’essere come linguaggio: possiamo dire che l’ontologia greca venga corretta ed ampliata con il contributo della cultura ebraica, cultura nella quale Dio viene inteso come essere e parola in unum, come parola assoluta - la davár ebraica - che si rivela nella storia umana. Nell’insegnamento dell’ultimo Mazzantini - rileva del Noce - si pone la «più radicale immedesimazione tra l’”essere” e il “linguaggio”; nell’orizzonte di quest’ultimo, soltanto, può davvero salvarsi, nell’immanenza piena, la perfetta trascendenza, anche proprio in senso cattolico (naturale e soprannaturale; secondo la filosofia spiritualistica del “Logos onniinclusivo”, e secondo la “parola” rivelata)»1153. È di fondamentale importanza sottolineare che il pensiero di Mazzantini costituisce per il Del Noce maturo il vertice dell’ontologismo moderno, ovvero di quella linea di pensiero francoitaliana che trova la sua prima espressione in Cartesio e Malebranche - nel Cartesio delle Meditazioni metafisiche in cui si parla di Dio come fondamento del cogito - e il suo successivo approfondimento nella cultura filosofica italiana, con Vico, Rosmini e con Giovanni Maria Bertini1154, figura poco nota ma di grande valore speculativo. Ad avviso di Del Noce «la linea Cartesio-Rosmini-Bertini1153

A. DEL NOCE, Carlo Mazzantini, cit.; in FEL, p. 544. Il platonico Giovanni Maria Bertini (1818-1876) viene definito come «il maggiore filosofo dell’Italia settentrionale dopo la morte di Rosmini» (A. DEL NOCE, Juvalta e Mazzantini, in Aa. Vv., La filosofia di Carlo Mazzantini, cit., p. 122). Pregevoli studi su questa figura sono quelli di G. GENTILE, Giovanni Maria Bertini e l’influsso di Jacobi in Italia, in IDEM, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, [Messina 1917], nuova edizione: Le Lettere, Firenze 1958, Vol. I, pp. 139-214; C. MAZZANTINI, Filosofia perenne e personalità filosofiche, Cedam, Padova 1942; R. VIORA, Il pensiero di Giovanni Maria Bertini, Centro Stampa, Cavallermaggiore 1998. 1154

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Mazzantini [la linea franco-italiana] poteva costituire l’alternativa reale a quella Cartesio-Hegel-Spaventa-Gentile [la linea francotedesca che conduce ad un radicale immanentismo] la cui egemonia era stata causa dell’oblio dell’altra. Di quest’ultima il realista-tomista Mazzantini doveva costituire, nell’ambito del pensiero italiano contemporaneo, il punto più alto»1155. Notiamo quindi come Mazzantini abbia notevolmente influenzato la pars costruens e propositiva del pensiero delnociano: questa consiste essenzialmente nella corretta riappropriazione storiografica e speculativa della linea franco-italiana dell’ontologismo, l’unica in grado di salvaguardare la trascendenza divina e di render possibile ancora oggi una “filosofia cristiana”. Dal 1936 al ‘41 Del Noce ebbe occasione di frequentare Piero Martinetti nella sua casa di Castellamonte e a Torino: come egli ricorda, gli fu presentato da «Ludovico Geymonat e da Ennio Carando, [suoi] fraterni amici torinesi di quegli anni»1156. La figura di Martinetti esercitò sui giovani intellettuali molto fascino dovuto sia alle sue intransigenti scelte politiche che ai temi filosofici trattati; ecco come Giuseppe Riconda pone in luce quello che Norberto Bobbio ha definito come “martinettismo torinese”1157: «rilevante per la cultura filosofica torinese è certo un filosofo piemontese che non insegnò mai a Torino e, rifiutando il giuramento fascista, si ritirò a Castellamonte, Piero Martinetti, tanto che si è potuto parlare da parte di Bobbio di un martinettismo torinese (lui stesso, Geymonat, Del Noce e Pareyson). La problematica di Martinetti concerneva 1155

M. BORGHESI, Riflessioni sull’ontologismo in Augusto Del Noce, in A. MURATORE (a cura di), Da Cartesio a Hegel o da Cartesio a Rosmini?, Edizioni Rosminiane Sodalitas, Stresa 1997, pp. 67-84, p. 84. Tramite Mazzantini - afferma Del Noce - «la via che chiamerò, con approssimazione, neoscolastica, si presenta ancora, quanto meno, tentabile» (A. DEL NOCE, Torino, primi anni Trenta, cit.; in FEL, p. 587). 1156 A. DEL NOCE, Martinetti nella cultura europea, in Aa. Vv., Giornata martinettiana, Edizioni di «Filosofia», Torino 1964, pp. 63-94; in FEL, pp. 401-448, p. 401. 1157 Cfr. N. BOBBIO, “Martinettismo” torinese, «Rivista di filosofia», dicembre 1993, pp. 329-339.

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essenzialmente la libertà e il male»1158. Grazie a Martinetti Del Noce pubblicò dei saggi sulla Rivista di filosofia: di particolare rilievo speculativo è il saggio del ʼ37 Osservazioni sul realismo e l’idealismo di Špir1159. Si tratta di un contributo sul pensiero del russo Afrikan Špir di cui Martinetti aveva curato nel 1913 un’edizione italiana di Saggi di filosofia critica. La figura di Martinetti esercitò sul giovane Del Noce un’importante influenza: ad esso «si sentiva vicino per l’aspetto dualistico-pessimistico che aveva allora assunto il suo pensiero e che le circostanze storiche del tempo, caratterizzate da un’avanzata apparentemente invincibile delle forze irrazionali [nazismo e fascismo al potere], sembravano autorizzare»1160. In Martinetti il giovane Del Noce trova dunque un modello di pensiero antifascista e, più in generale, contrario ad ogni forma di totalitarismo. Nel 1931, appellandosi al principio fondamentale della libertà di coscienza, Marinetti rifiuta il giuramento al regime fascista e per questo perde il suo insegnamento di filosofia teoretica all’Università di Milano. E con queste parole 1158

G. RICONDA, Torino 1950-1990: il pensiero religioso, «Annuario filosofico», 25, 2009, pp. 7-25, p. 14. 1159 Poi riedito in FEL, pp. 3-22. 1160 A. DEL NOCE, Curriculum, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 183-187, p. 186. Questo curriculum risale ai primi mesi del 1965: si tratta di un inedito ritrovato in casa Del Noce e pubblicato per la prima volta da Tommaso Dell’Era all’interno del volume sopra citato. L’idealismo di Piero Martinetti (1872-1943) si caratterizza per essere “critico”, “trascendente” e “religioso”: si tratta di un filosofo che venne in larga misura emarginato dalla cultura dominante del primo Novecento sia per la sua opposizione al regime fascista sia per l’egemonia che negli stessi anni venivano ad avere le versioni dell’idealismo immanentistiche ed hegeliane (quelle di Croce e Gentile). Sulla figura e l’opera di Martinetti si veda la monografia di A. VIGORELLI, Piero Martinetti. La metafisica civile di un filosofo dimenticato. Con un’appendice di documenti inediti, Mondadori, Milano 1998. Sul rapporto di Del Noce con Martinetti cfr. A. PARIS, Augusto Del Noce e Piero Martinetti: un confronto sul significato della libertà, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 45-60.

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che si rivolge al ministro dell’educazione nazionale rivendicando la sua autonomia intellettuale: «Ho sempre diretta la mia attività filosofica secondo le esigenze della mia coscienza, e non ho mai preso in considerazione, neppure per un momento, la possibilità di subordinare queste esigenze a direttive di qualsivoglia altro genere [a direttive di chiese o di partiti politici]»1161. Per Del Noce Martinetti rappresenta non solo un modello di dirittura morale e di rinnovamento religioso ma anche di vigoroso impegno speculativo, seppur non condivide in toto alcune accentuazioni pessimistiche del suo pensiero. Di Martinetti Del Noce apprezza la sua lotta «a positivisti, a scientisti, a storicisti, a immanentisti»1162 e condivide la sua protesta contro ogni forma di naturalismo. Di particolare interesse è il fatto che Del Noce mostri notevole sensibilità anche per le critiche mosse da Martinetti alla chiesa cattolica, a quello che egli definiva come “cattolicesimo curiale”. Martinetti - sottolinea Del Noce - fu un pensatore di autentica ispirazione religiosa: si trattò di una religione tutta fondata sul senso della trascendenza e lontana da ogni forma di dogmatismo settario e di secolarismo: tali idee vengono espresse in opere come Gesù Cristo e il cristianesimo (Torino 1934) e Ragione e fede (Torino 1942). La sua posizione può essere espressa nella formula «una religio in rituum varietate». Martinetti fa del sentimento religioso un trascendentale che si esprime in ogni cultura, una forma universale di sublevatio mentis verso l’assoluto che, pur concretizzandosi in differenti forme storiche e simboliche, conserva una sua essenziale unità ed omogeneità. Ecco come Martinetti parla dell’universalità della mistica religiosa: «qualunque sia la differenza di dogmi, le conclusioni dei mistici si rivelano, in tutta la loro verità, egualmente in tutte le religioni. Anche fra di essi vi è un accordo sorprendente: il che prova che essi parlano fondandosi su di una reale esperienza interiore. Ciò che vi è di 1161

La lettera del 1931 viene riportata nella Prefazione di Giacomo Zanga alla seconda edizione di P. MARTINETTI, Breviario spirituale, Isis, Milano 1922 (in realtà questa prima edizione fu pubblicata anonima con la sigla C.P.), II edizione: Bresci, Torino 1972. 1162 A. DEL NOCE, Piero Martinetti (Pagine valide di un pensatore lontano), «L’Europa», n. 12, 30 giugno 1972, pp. 65-76; in FEL, pp. 455-468, p. 461.

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essenziale nella mistica è la negazione teoretica e pratica di quanto appartiene ancora al mondo dell’esperienza: negazione che però non è pura negazione, ma ci rinvia a una realtà più alta, determinabile solo per mezzo di simboli»1163. Del Noce scorge in Martinetti una forma di pessimismo religioso che affonda le sue radici nella cultura indiana rendendolo «un diretto continuatore di Schopenhauer»1164: il rinnovamento religioso proposto dal filosofo si caratterizza perciò come una forma dualistico-gnostica che vede il male come un principio ontologico ineliminabile dalla natura e dall’uomo stesso. Tale metafisica dualistica ha delle importanti conseguenze anche sul piano politico che Del Noce non manca di porre in rilievo: poiché l’esistenza del male è un qualcosa di intrinseco alla natura stessa dell’uomo, viene a cadere ogni progetto utopico tendente ad estirpare il male dalla storia umana per creare dei “paradisi in terra”. La prospettiva metafisica di Martinetti contiene in nuce una serrata critica a tutte quelle utopie - come il marxismo - fondate sull’idea di una “bontà naturale” dell’uomo che potrà esplicarsi nella storia quando (anche tramite rivoluzioni) saranno rimossi gli ostacoli esterni. Di Martinetti Del Noce mostra di condividere il realismo antropologico e l’antiperfettismo politico: «nulla di più alieno dal suo pensiero di una filosofia che trasformi il mondo [si pensi alle marxiane Tesi su Feuerbach] nel senso che dal massimo del male sappia trarre, attraverso la rivoluzione, una società di “liberi perché uguali”, in cui la volontà malvagia non possa più sussistere o esplicarsi»1165. 1163

P. MARTINETTI, Introduzione alla metafisica, Bona, Torino 1902, p. 61; il passo viene citato e commentato in FEL, p. 406. 1164 A. DEL NOCE, Piero Martinetti (Pagine valide di un pensatore lontano), cit.; in FEL, p. 462. Tra le fonti del pensiero di Martinetti vengono individuati da Del Noce oltre a Schopenhauer e al filosofo russo Afrikan Špir anche «il pensiero religioso di Kant, lo Spinoza del quinto libro dell’Etica, gli gnostici, Platone e il pensiero orientale» (A. DEL NOCE, Piero Martinetti (Pagine valide di un pensatore lontano), cit.; in FEL, p. 462). 1165 Ibidem. Sul pensiero politico di Martinetti si veda B. BRUNELLO, P. Martinetti. Spunti politici, «Rivista rosminiana», 1973, pp. 103-118.

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Ci pare interessante notare che Del Noce riprende e sviluppa anche la concezione martinettiana della democrazia fondata sulla nozione di persona come “fine in sé”; secondo Martinetti «stato democratico è quello in cui nessuno venga ridotto a strumento; in cui ogni uomo possa sentire se stesso anche come fine dell’intero ordinamento sociale, in ciò che questo gli si presenta come condizione della sua personalità»1166. Sotto il profilo della teoria politica la tesi essenziale che Del Noce riprende da Martinetti è quella della fondazione della democrazia sulla trascendenza religiosa: solo quest’ultima può evitare di far degenerare i regimi democratici in nuove e più celate forme di totalitarismo. Affinché la democrazia non scada in forme di mero proceduralismo o si limiti a garantire l’efficienza disumanizzante di una “società opulenta e tecnocratica” è, inoltre, necessario che essa si fondi su una 1166

P. MARTINETTI, Breviario spirituale, Bresci, Torino 19722, p. 199; il passo viene riportato e commentato in A. DEL NOCE, Piero Martinetti (Pagine valide di un pensatore lontano), cit.; in FEL. p. 463. Seguendo la lezione di Martinetti anche Del Noce sostiene giustamente che la democrazia è quel «regime in cui viene reso impossibile a ognuno l’agire su altri se non in termini di persuasione; ossia definizione equivalente, regime in cui ogni soggetto viene considerato come soggetto di persuasione, cioè come persona» (A. DEL NOCE, Il concetto di democrazia e il principio delle “élites”, «Il Popolo nuovo», 20-21 settembre 1945: l’articolo è stato ristampato in C. VASALE e P. ARMELLINI (a cura di), La democrazia nel Novecento. Antologia di testi classici del pensiero filosofico e politico, Aracne, Roma 1999, pp. 309-310, p. 310 [la trattazione del pensiero di Augusto Del Noce si trova nel capitolo Democrazia e cristianesimo scritto da Giovanni Dessì]. Del Noce nota con estremo realismo politico che «ciò che caratterizza la democrazia non è il governo della maggioranza (si potrebbe anzi mostrare come un almeno implicito consenso della maggioranza lo abbiano anche i regimi totalitari) ma il rispetto del singolo. È anzi proprio questa esigenza fondamentale del rispetto del singolo che fonda la necessità della democrazia» (ibidem). Riprendendo i passi di Kant, Rosmini e Martinetti sul concetto di persona come “fine in sé” (Zweck an sich), Del Noce afferma che in un autentico regime democratico «ogni singolo deve potersi considerare anche come fine e nessuno come unico fine dell’intera vita politica» (ibidem).

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concezione della persona come imago Dei: «la democrazia non è possibile senza coscienza religiosa, senza il senso di una realtà superiore dell’anima. Questo è il punto essenziale e primario»1167. In Martinetti Del Noce scorge quindi un pensatore profetico che ha saputo individuare ante litteram anche i mali delle democrazie liberali sviluppatesi nel secondo Dopoguerra: «l’egocentrismo, la reciproca strumentalizzazione di sé e degli altri, il collettivismo, l’edonismo, la vana tensione verso il futuro»1168. Il giovanile contatto con l’ambiente accademico torinese ha notevolmente influito nella formazione del pensiero delnociano indirizzandone anche gli sviluppi più maturi: è soprattutto grazie ai suggerimenti filosofici dati da Cosmo, Faggi, Juvalta, Mazzantini e Martinetti che Del Noce sarà in grado di elaborare una sua propria originale interpretazione della filosofia moderna, valorizzando quella linea di pensiero metafisico franco-italiana (da Cartesio a Rosmini) che era stata dimenticata a favore dell’altra franco-tedesca (da Cartesio ad Hegel e Nietzsche), egemone sotto il profilo culturale e dagli innegabili esiti immanentistici. Come abbiamo constato, uno dei tratti che accomuna tutti i suoi maestri torinesi è una spiccata sensibilità per la trascendenza religiosa e per i fondamenti speculativi della libertà umana: tale sensibilità per la metafisica condurrà Del Noce ad una netta opposizione ad ogni forma di immanentismo (attualismo gentiliano, storicismo assoluto, naturalismo e nichilismo) foriera di esisti nefasti anche sotto il profilo morale e politico1169.

1167

A. DEL NOCE, Piero Martinetti (Pagine valide di un pensatore lontano), cit.; in FEL, p. 467. 1168 Ibidem, p. 468. 1169 A tal proposito ci permettiamo di rinviare al nostro saggio Modernità, secolarizzazione e politica in Augusto Del Noce, in I. POZZONI (a cura di), Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, Morolo (FR) 2011, pp. 338386.

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2. Il confronto con Jules Lequier e l’esistenzialismo francese Una delle istanze di fondo della prospettiva di Del Noce è anche quella di cercare la «possibilità dell’accordo di filosofia dell’esistenza […] e ontologismo»1170: egli tenta quindi di recuperare - dando dei più saldi fondamenti metafisici - tutte quelle filosofie dell’esistenza moderne e contemporanee incentrate sul fenomeno della libertà. Questa prospettiva gli offre la possibilità di rileggere e valorizzare alcuni momenti significativi e non esaurientemente investigati della storia della filosofia, in particolare di quella francese e di quella russa: la ricerca dei fondamenti ontologici e metafisici della libertà umana diviene la finalità ideale di queste indagini storiografiche delnociane, successivamente raccolte nella prima e nella seconda parte del già citato volume Filosofi dell’esistenza e della libertà. Il Nostro nota che già in Cartesio la libertà viene considerata come l’aspetto costitutivo della res cogitans: per il filosofo francese la libertà è una prerogativa esclusiva del cogito umano, essa è l’elemento che differenzia radicalmente lo spirito dalla materia (res extensa). Quest’ultima è rigidamente sottoposta alle leggi della fisica ed è perciò caratterizzata da un determinismo meccanicistico. Parlando del pensiero cartesiano Del Noce sottolinea come in esso la libertà gioca un ruolo tutt’altro che secondario: in Cartesio la libertà umana diviene il presupposto stesso del sistema nonché la condizione di possibilità del giudizio conoscitivo: «iudicium est opus voluntatis»1171 - afferma il filosofo francese - e la volontà non è altro che l’espressione di un’originaria libertà del soggetto. Del Noce ricorda inoltre come la libertà costituisca per Cartesio uno dei tre elementi mirabili dell’atto creativo divino: «tria mirabilia fecit

1170

A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Introduzione di N. Matteucci, Il Mulino, Bologna 1964, p. 22; in una recente riedizione dell’opera (Il Mulino, 2010) è stata inserita anche una Postfazione di Massimo Cacciari dal titolo Sulla critica della ragione ateisitica. 1171 R. DESCARTES, Oeuvres, éd. par C. Adam, P. Tannery, Cerf, Paris 18971913; Vrin, Paris 1964-1975, Vol. V, p. 159.

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Dominus: res ex nihilo, liberum arbitrium et Hominem Deum)»1172. In Cartesio l’interiorità umana è quindi abitata da una presenza misteriosa ed insondabile: il libero arbitrio. Seguendo la lezione cartesiana, il tema della costitutiva libertà del cogito - osserva Del Noce - diviene l’elemento portante di numerosi autori francesi sia della corrente spiritualistica (da Maine de Biran, a Charles Sécrétan, a Blondel e Bergson), che di quella esistenzialistica (Lequier) e delle varie forme di philosophie de l’esprit (Lavelle, Le Senne e Marcel). A Del Noce si deve certamente la riscoperta in Italia di Jules Lequier (1814-1862), un filosofo bretone la cui opera principale uscita postuma - e di cui il Nostro cura una traduzione italiana1173 - si intitola Recherche d’une première vérité. L’opera - sottolinea Del Noce in un’ampia Introduzione agli scritti di Lequier - presenta un’argomentazione di carattere cartesiano e richiama direttamente le Meditationes de prima philosophia: «Lequier è il più francese dei filosofi perché continua il genio nazionale del pensiero francese, Cartesio, respingendo ciò per cui è stato continuato, così nella filosofia classica tedesca come nell’empirismo inglese»1174. Come Cartesio anche Lequier cerca la fondazione di un sistema della verità: si tratta di una certezza aletica originaria scaturita dal superamento del dubbio e di ogni possibile posizione scettica. Lequier si pone quindi «alla ricerca di una verità nel cui riguardo sia impossibile concepire il minimo dubbio e che, una volta accolta dallo spirito, vi rimanga incrollabile»1175. Il dubbio di cui parla Lequier - come 1172

R. DESCARTES, Cogitationes Privatae, in Oeuvres, cit., vol. X, p. 218 (tr. it. di A. Tilgher, a cura di E. Garin, Opere filosofiche, Laterza, RomaBari, Vol. I, p. 11). 1173 Cfr. J.-L. JULES LEQUIER, Opere, a cura di A. Del Noce, Postfazione di G. Riconda, Morcelliana, Brescia 2008 [prima edizione: Zanichelli, Bologna 1968]. 1174 A. DEL NOCE, Lequier e il momento tragico della filosofia francese. Introduzione, in J.-L. JULES LEQUIER, Opere, cit., pp. 3-119, p. 3: quest’ampio saggio posto da Del Noce come introduzione alle opere di Lequier tradotte in italiano è stato riprodotto anche in FEL, pp 75-198. 1175 J. LEQUIER, Oeuvres complètes, publiées par J. Grenier, Baconnière, Neuchâtelle (Suisse) 1952, p. 22 [144]. D’ora in poi facciamo riferimento alle Oeuvres complètes curate da J. Grenier con la sigla OC. Accanto al

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quello cartesiano - ha un carattere metodico ed iperbolico. Esso è il mezzo per giungere al fondamento epistemico della verità: inoltre per essere efficace esso dev’essere radicale e deve avere un carattere universale: «giungere, ho detto» - afferma l’autore francese - «a una verità che mi sia impossibile di porre in dubbio: dunque, bisogna dubitare. Per vedere che cosa è incrollabile, bisogna scuotere tutto»1176. Tuttavia - differentemente dall’argomentazione cartesiana - la prima certezza non viene rinvenuta da Lequier nel cogito bensì nella libertà che precede e fonda lo stesso atto di pensiero1177. Il fondamento epistemologico - sottolinea Del Noce - per Lequier non è il cogito, l’atto di pensiero, ma la libertà: è solo in virtù di una decisione originaria che il soggetto inizia a riflettere sui propri atti cognitivi cercando di determinarne la genesi. Il cogito di cui parla Cartesio non è quindi l’evidenza originaria, il fundamentum numero di pagina di OC indichiamo anche il numero di pagina - posto tra parentesi quadre - della traduzione italiana delle opere di Lequier edite da Del Noce. Laddove il numero posto tra parentesi quadre non compare significa che il testo di Lequier citato non è compreso tra quelli tradotti in italiano da Del Noce. 1176 OC, p. 24 [147]. 1177 Un aspetto interessante - messo particolarmente in evidenza da Del Noce - è che Lequier critica il cogito cartesiano e più in generale il razionalismo moderno poiché essi privilegiano il puro pensiero dimenticando quasi del tutto “la parte più intima e più fragile della soggettività umana”, quella concernente l’esistenza concreta ed i problemi delle scelte pratiche coinvolgenti il libero arbitrio. Lequier sottolinea quindi che il razionalismo di matrice cartesiana ha un deficit antropologico: esso concentrandosi esclusivamente sulla trascendentalità del pensiero finirebbe per lasciare da parte una considerazione integrale della natura umana nei suoi aspetti corporei, volitivi e teologici. Anche sulla scia di queste riflessioni lequieriane Del Noce afferma che il razionalismo moderno può essere accusato di aver eliminato ogni considerazione esistenziale dell’umano, ovvero le problematiche riguardanti la conflittualità del volere ed il male, ciò che la tradizione cristiana ha chiamato status naturae lapsae. A questo proposito cfr. P. ARMELLINI, Del Noce lettore di Lequier, in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 105-122.

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inconcussum su cui si baserebbe l’edificio della conoscenza: al di là e prima ancora del cogito v’è la libertà, cioè il volere originario con il quale l’uomo può mettere radicalmente in questione se stesso ed iniziare la ricerca filosofica. Per Lequier «il cogito non è che una verità seconda (une vérité seconde) e dedotta da un altro principio che resta da scoprire»1178: tale principio è la libertà. Potremmo dire “liber sum, ergo cogito”. La libertà è vista quindi come il presupposto della coscienza umana e come la stessa condizione di possibilità di ogni indagine speculativa: «il fatto che io cerco implica il fatto che io sono libero (je cherche implique le fait: je suis libre)»1179. Per Lequier «la prima verità, quella che non proviene da nessun’altra e che sarà il principio della scienza»1180, viene dunque trovata nella libertà. Da notare è che in Lequier il Nostro individua il modello di una filosofia cristiana dell’esistenza incentrata sulla libertà: in questo senso Del Noce accosta il pensiero lequieriano della liberà a quello di Dostoevkij e lo differenzia invece nettamente da quello del suo celebre contemporaneo spiritualista Maine de Biran. Differentemente da Biran, Lequier - osserva il Nostro - rimane 1178

E. CALLOT, Critique de la première vérité, in IDEM, Propos sur Jules Lequier, philosophe de la liberté. Réflexions sur sa vie et sur sa pensée, Éditions Marcel Rivière et Cie, Paris 1962, pp. 79-87, p. 80. 1179 OC, Descartes, p. 328. Ad avviso di Lequier il cogito cartesiano è una pura certezza logica, un’«evidenza sterile, [...] oscura» (ibidem, p. 329): un’autentica ricerca di carattere genetico non può arrestarsi innanzi all’evidenza del cogito ma deve scoprire «la legge di quest’operazione» (ibidem) da cui si originano il dubbio e lo stesso cogito. Lequier sottolinea che quest’operazione può essere solo il frutto del libero arbitrio. A questo proposito Paolo Pagani ha correttamente affermato che la stessa possibilità di dubitare è resa possibile solo dalla libertà originaria del soggetto: «dunque, con Cartesio, oltre Cartesio, nel segnalare che anche il dubbio può essere ricco di presupposti. […] Il dubbio, più precisamente, risulta un libero oscillare tra possibilità alternative (quelle cui allude l’etimo della parola [il quale si innesta sulle voci latine duo e duplum, che indicano appunto dualità]) - un oscillare nel quale si entra e dal quale si esce per libera decisione» (P. PAGANI, Libertà e non-contraddizione in Jules Lequier, FrancoAngeli, Milano 2000, p. 19). 1180 OC, p. 37 [156].

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fortemente scettico nei confronti della certezza della libertà fondata sulla testimonianza del senso intimo. La psicologia di Biran sembra a Lequier un metodo sperimentale dagli incerti risultati: il “senso intimo” per quest’ultimo potrebbe essere infatti fonte di autoinganno ed autoillusione: «io sento che sono libero» - afferma il filosofo bretone - «può significare soltanto “io sento che credo di essere libero”. […] Questa credenza [nella libertà] testimonia dopo tutto l’assenza di certezza»1181. In netta opposizione alla psicologia sperimentale di Biran, Lequier afferma che «l’esistenza della libertà non è suscettibile di essere riconosciuta attraverso un’osservazione diretta»1182: «la libertà non può essere osservata, dunque non può essere uno di quei dati che fornisce direttamente l’esperienza; ma una volta constatata, una volta certa come “verità logica”, essa può essere verificata attraverso l’esperienza. […] Il sentimento interiore della nostra libertà non avrebbe efficacia se si riducesse ad un fenomeno di pura coscienza. […] Io sento che sono libero: dunque sono libero. Questa conclusione è vera senza che il ragionamento sia giusto»1183. 1181

OC, Le problème de la science, p. 54 [175]. OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, p. 349. Lequier - seppur non li cita mai espressamente - conosceva di sicuro alcuni rilevanti scritti di Biran: quando ad esempio nei frammenti sopra citati parla della “debolezza del sentimento intimo della libertà” egli ha chiaramente presente il modello di psicologia sperimentale proposto da Biran. Lequier critica con fermezza la giustificazione psicologica della libertà difesa da Biran: per Lequier la filosofia non deve servirsi di dimostrazioni tratte dalla psicologia che è una mera «arte di fare una collezione dei fatti della coscienza» (ibidem, p. 339). Lequier mostra tuttavia di condividere ampiamente la rivalutazione biraniana della sfera della corporeità. A questo proposito egli afferma che «bisogna condannare l’abitudine di trascurare assolutamente il corpo, come se l’uomo non fosse composto di spirito e materia» (ibidem). 1183 OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, p. 352. Secondo Biran «tramite l’esperienza è impossibile constatare la necessità o la libertà» (ibidem, p. 353): la posizione filosofica di Lequier si discosta nettamente da quella di Biran, tutta fondata sull’analisi dei “fatti interiori” e che proprio per questo Félix Ravaisson ha definito come una sorta di “positivismo spiritualista”. Cfr. F. RAVAISSON, Philosophie en France au XIXème siècle, Hachette, Paris 1867. 1182

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Del Noce ha quindi correttamente fatto notare che tra Lequier e Biran rimane una profonda differenza: «Maine de Biran parla del fatto primitivo, Lequier di una prima verità che non può essere constatata come un fatto»1184. Del Noce mostra di condividere la posizione di Lequier secondo la quale la libertà non è suscettibile di prove razionali né sperimentali: si avverte la sua presenza ma da quest’avvertimento non si evince una certezza irrefutabile. La libertà per Lequier - come per Del Noce - non è una certezza derivante dall’attestazione, dalla testimonianza interiore dei sensi: essa è invece l’oggetto di una fede originaria, di un pari metafisico, di una “scommessa” nel senso pascaliano del termine. È in questo senso che Lequier parla di un miracolo dell’atto libero (le miracle de l’acte): «in fondo che cos’è un miracolo? Un fatto di cui le leggi della natura sono impotenti a fornire la completa spiegazione. In questo senso gli atti liberi sono miracoli: miracoli al cui confronto tutti gli altri sono veramente poca cosa. Così la libertà, questa facoltà di essere quello che si vuole fra i diversi uomini possibili, che contiene nel suo seno la volontà dell’uomo è un mistero tanto impenetrabile quanto i misteri della fede […]. Ecco ciò che nessuna filosofia spiegherà mai».1185 Possiamo sottolineare che per Del Noce e Lequier la libertà umana rimanga un enigma, un quid che non potrà mai essere compiutamente spiegato né dalla filosofia né dalle scienze. La presenza della libertà dev’essere dunque accettata come «un postulato»1186: si tratta di una di quelle «verità indimostrate o indimostrabili, che si ammettono come poste al di là di ogni contestazione»1187. Per i due pensatori è quindi un atto della libertà 1184

A. DEL NOCE, Lequier e il momento tragico della filosofia francese. Introduzione a J.-L. JULES LEQUIER, Opere, cit., p. 58. 1185 OC, Critique du critérium de l’évidence, in La liberté. Fragments philosophiques et théologiques, pp. 383-384. 1186 OC, Faiblesse du sentiment intime de la liberté, p. 350. 1187 Ibidem. A questo proposito è stato giustamente osservato che per Lequier «la filosofia può soltanto comprendere che la libertà è incomprensibile. L’atto libero è un atto non determinato, è l’atto di per sé, un miracolo, di cui le leggi della natura sono impotenti a fornire la completa

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ad affermare la libertà stessa. Di Lequier il Nostro condivide profondamente anche la sua posizione religiosa ed in particolare il fatto che la presenza del libero arbitrio sia da sostenere anche “al di là e contro ogni umana ragione” proprio perché si tratta di una presenza che fonda e legittima lo stesso atto di fede. Per Lequier come per Del Noce - il libero arbitrio è infatti «il dogma fondamentale del cattolicesimo»1188: è solo grazie al libero arbitrio che l’uomo può essere veramente indipendente nei confronti di Dio, il quale si “apparta” di forte alla creatura, per lasciare intatti il suo agire autonomo, la sua responsabilità ed il suo libero atto di fede. Del Noce sottolinea che per comprendere a fondo un filosofo francese è sempre necessario mettere in luce come esso si rapporta nei confronti di Cartesio. A partire dalla prospettiva cartesiana si aprono infatti due possibili vie filosofiche: una è quella che porta all’esistenzialismo religioso e che ha trovato in Lequier una sua emblematica espressione, l’altra è quella materialistica e scientistica. Di quest’ultima si è fatto epigone il pensiero di Sartre: «c’è il Cartesio delle Meditazioni metafisiche, iniziatore di una “filosofia della libertà”, orientata in senso religioso; e vi è un Cartesio che sembra fare centro della sua opera la fisica meccanicistica, un Cartesio scientista, il filosofo che ha trovato i suoi continuatori nel materialisti francesi del secolo XVIII [e nel Novecento in Sartre]. Nei primi quattro decenni del nostro secolo, dominò la prima linea quella che normalmente viene detta della filosofia dell’interiorità - in varie forme, da Bergson a Blondel, alla Philosophie de l’esprit degli anni ʼ30, che ebbe a suoi rappresentanti più noti Lavelle, Le Senne e Gabriel Marcel: in tutti questi pensatori la nota religiosa è dominante, o quanto meno l’apertura al problema religioso è

spiegazione. La filosofia ciò non lo capirà mai. La libertà è un potere assoluto, è un primo cominciamento poiché segna una completa rottura con gli avvenimenti anteriori» (P. ARMELLINI, Lequier. La solitudine di Dio, Studium, Roma 1998, p. 56). 1188 OC, Préface de Charles Renouvier, p. 10 [133].

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presente»1189. Sartre - osserva giustamente Del Noce - proprio a partire dal suo scritto del ʼ46 La liberté cartésienne ha completamente neutralizzato l’aspetto religioso del pensiero cartesiano, connettendo l’esistenzialismo con il materialismo marxista. Del Noce, in maniera simile a Pareyson1190, contesta l’originalità assoluta che veniva attribuita da molti storici della filosofia - come Jean Wahl1191 - al pensiero sartriano: nel sartrismo veniva addirittura scorto il “Terzo Grande”, la grande alternativa in grado di superare l’opposizione di cristianesimo e marxismo. Secondo Del Noce, «la filosofia di Sartre, nonostante l’aspetto di novità con cui si presenta, è piuttosto l’epilogo di un processo»1192: tale processo ha già visto in Alain1193, maestro di Simone Weil, un momento essenziale nel quale il carattere religioso del cartesianesimo veniva notevolmente attenuato. Da Cartesio e da Alain - così Del Noce - si è generata nel Novecento francese la grande opposizione che vede da una parte Simone Weil e Marcel, esponenti di un esistenzialismo aperto alla trascendenza cristiana1194, 1189

A. DEL NOCE, Un pensatore radicale che non lascia epigoni, «Il Tempo», 14 giugno 1980; in FEL, pp. 333-338, p. 334. Tale articolo è interamente dedicato a Sartre. 1190 A tal riguardo si veda A. DEL NOCE, L’alternativa di Pareyson, «Il Tempo», 7 febbraio 1986; in FEL, pp. 617-622. Nell’articolo Del Noce commenta l’opera di Luigi Pareyson Esistenza e persona (Taylor, Torino 1950), nella quale «si trovano degli spunti per uno studio sereno ed oggettivo, e proprio perciò rigorosamente critico, dell’opera di Sartre» (ibidem, p. 620). 1191 Jean Wahl scorge in Sartre uno dei vertici di quella filosofia dell’esistenza che trova in Kierkegaard un suo fondatore e in Heidegger una sua solida edificazione speculativa: cfr. J. WAHL, Tableau de la philosophie française, Gallimard, Paris 1946; tr. it. B. Biral, Il pensiero moderno in Francia, La Nuova Italia, Firenze 1965. 1192 A. DEL NOCE, Un pensatore radicale che non lascia epigoni, cit.; in FEL, p. 336. 1193 Il cui vero nome è Émile-Auguste Chartier (1868-1851). 1194 A tal proposito cfr. A. DEL NOCE, Simone, la negativa, in FEL, pp. 267272; Simone Weil, l’itinerario di una mente in cerca di Dio, in FEL, 273278; Un pensiero che va continuato, in FEL, pp. 279-284; Simone Weil e la

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e dall’altra un Sartre continuatore del materialismo settecentesco ed epigone del più radicale immanentismo della filosofia tedesca. 3. Concupiscentia irresistibilis: Del Noce lettore ed interprete di Lev Šestov La ricerca di un’”ontologia della libertà” viene perseguita da Del Noce anche a partire dal confronto con alcuni significativi pensatori di lingua russa: si pensi in particolare ad Afrikan Špir1195, a Lev Šestov e a Vladimir Solov’ëv1196. Come ha correttamente osservato Andrea Paris, questi filosofi russi hanno una notevole rilevanza soprattutto negli anni della formazione di Del Noce: le loro varie forme di esistenzialismo religioso gli offrono spunti di ricerca sui temi del libero arbitrio, della scelta e del male. Inoltre Del Noce si interessa per la cultura russa anche e soprattutto perché essa è capace di «fornire un punto di vista privilegiato sull’Occidente, al quale è legata per tramite della tradizione cristiana, ma divisa a motivo del diverso percorso compiuto nell’arco della modernità»1197. Di particolare interesse ci paiono le prefazioni scritte da Del Noce a due traduzioni italiane delle opere di Šestov: Il sapere e la libertà (1943)1198 e Concupiscentia irresistibilis (1946)1199. Del filosofo

città di oggi, in FEL, pp. 285-300; Marcel de Corte e Gabriel Marcel, in FEL, pp. 215-224. 1195 Cfr. A. DEL NOCE, Osservazioni sul realismo e l’idealismo di Spir [Špir, secondo una traslitterazione più vicina alla lingua russa], «Rivista di filsosofia», XXVIII, 3, 1937, pp. 209-226; in FEL, pp. 3-22. 1196 Cfr. A. DEL NOCE, Religione e politica nel pensiero di Soloviev [Solov’ëv, secondo una traslitterazione più vicina alla lingua russa], «Cronache sociali», II, 2, 31 gennaio 1948, p. 16; in FEL, pp. 53-58. 1197 A. PARIS, Del Noce e la cultura filosofica russa, in «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», I/19, 2010, pp. 190-192, pp. 191-192. 1198 A. DEL NOCE, La fede nell’impossibile in Chestov [Šestov, secondo una traslitterazione più vicina alla lingua russa], Prefazione a L. CHESTOV, Il sapere e la libertà, Bocca, Milano 1943, pp. 7-19; in FEL, pp. 23-31.

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russo Del Noce condivide e sviluppa la sua critica al razionalismo occidentale, a quella linea di pensiero che si origina in Cartesio, trova la sua compiuta teorizzazione in Kant ed Hegel, generando i presupposti per una visione della realtà materialistica e positivistica: a nostro avviso, le stesse idee di fondo de Il problema dell’ateismo (1964) trovano notevoli consonanze con quelle espresse da Šestov. Anche in Del Noce, così come in Šestov, possiamo rinvenire una dura opposizione alla filosofia razionale moderna e alle sue degenerazioni: l’immanentismo assoluto, lo scientismo e il nichilismo. Secondo Šestov l’errore fatale del razionalismo, tanto di quello antico (Aristotele) che di quello moderno (Cartesio, Spinoza, Kant, Hegel, Husserl1200), è di far limitare lo sguardo umano al mondo angusto e soffocante dell’esperienza fenomenica, cercando di eliminare il senso stesso del mistero. Tale progetto razionalistico - e qui Del Noce è particolarmente concorde con Šestov - trova il suo pieno compimento nel panlogismo hegeliano che, identificando il reale con il razionale, comprende l’intero universo (das Ganze) espungendo da esso ogni elemento di trascendenza religiosa e di mistero ineffabile. L’altro grande errore del razionalismo moderno e della stessa scolastica medievale - secondo Šestov - è quello di una concupiscentia irresistibilis nell’utilizzo del lógos: si tratta di un “desiderio sfrenato” di spiegare tutto con la ragione (si pensi anche ai praeambula fidei di San Tommaso1201), ingabbiando in tal modo il 1199

A. DEL NOCE, L’esistenzialismo di Chestov, Prefazione a L. CHESTOV, Concupiscentia irresistibilis della filosofia medievale, Bocca, Milano 1946, pp. 7-47; in FEL, pp. 31-52. 1200 A tal proposito cfr. L. ŠESTOV, Contra Hussel: tre saggi filosofici, a cura di F. Déchet, Guerini e. Associati, Milano 1994. 1201 «Dal punto di vista del razionalismo [anche di quello della scolastica tomista] la fede si riduce a un succedaneo della ragione, a una specie di “conoscenza a credito”. Questa tesi della superiorità formale della ragione sulla fede è per il Chestov l’errore fondamentale della filosofia medioevale» (A. DEL NOCE, La fede nell’impossibile in Chestov, cit.; in FEL. p. 27). Sul confronto critico di Šestov con la scolastica si veda in particolare L. CHESTOV, Concupiscentia irresistibilis della filosofia medievale, cit.

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reale e Dio stesso in un determinismo che soffoca ogni autentica espressione di libertà. Nel tentativo di spiegare tutti i fenomeni secondo rigidi rapporti di causa ed effetto, il razionalismo finisce per ridurre gli uomini «ad infime ruote di un’enorme macchina»1202, negando ad essi la possibilità stessa del libero arbitrio. Tale razionalismo - quando è assolutizzato, come avviene soprattutto nei sistemi di Spinoza ed Hegel - finisce per ingabbiare anche Dio, rendendolo soggetto alle leggi del determinismo meccanicistico, di cui egli paradossalmente sarebbe il creatore. Secondo Šestov - e qui Del Noce si trova particolarmente in sintonia -, allo spirito razionalistico di matrice greca occorre sostituire lo spirito della fede biblica, l’unico in grado di salvaguardare l’assoluta libertà dell’uomo e di Dio stesso. Ecco allora l’opposizione posta da Šestov tra Atene e Gerusalemme, tra l’hýbris della razionalità filosofica e l’umiltà della risposta ad un appello proveniente dal totalmente altro: Ecce ancilla Domini, fiat mihi secundum verbum tuum! La fede biblica sottolineano con efficacia Šestov e Del Noce - è la libera risposta ad un appello, è una risposta che si fonda sulle esigenze del cuore, che sa di essere priva di garanzie logiche e scientifiche: «se il Dio biblico, infatti, deve essere inteso come assoluta libertà, al di là delle verità eterne e del bene e del male, se dire Dio significa dire “tutto è possibile”1203 (contro il “tutto è necessario” della filosofia speculativa), non potrà essere riconosciuto che mediante una conoscenza non evidente; liberamente, senza costrizione logica; 1202

L. ŠESTOV, Athène et Jérusalem. Essai de philosophie religieuse, Vrin, Paris 1938, p. 396; il passo viene citato in FEL p. 26. Un’edizione italiana dell’opera è la seguente: Atene e Gerusalemme, a cura di A. Paris, Bompiani, Milano 2005. 1203 Notiamo che nelle sacre scritture la libertà assoluta di Dio e la sua onnipotenza viene ribadita sia all’inizio dell’Antico che del Nuovo Testamento. Quando Jawé apparve ad Abramo, innanzi alla sua incredulità nell’avere un figlio in tarda età, Egli gli domanda: «C’è forse qualche cosa di impossibile per il Signore?» (Genesi, 18,14); e così quando l’Angelo annuncia a Maria la nascita miracolosa di Gesù e di Giovanni, innanzi alla paradossalità degli eventi che oltrepassano le leggi della natura, Egli afferma: «nulla è impossibile a Dio! (ouk adynatései parà toû Theoû pan)» (Vangelo di Luca, 1,37).

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oggetto di una conoscenza individuale, di una certezza soggettiva, al di là di qualsiasi possibilità di controllo; non è “difeso” da nulla, non ha bisogno di prove»1204. Il punto fondamentale sul quale Del Noce concorda pienamente con Šestov è che la libertà, sia quella umana che quella divina, rimane un mistero insondabile, un quid innanzi al quale la ricerca filosofica non può che arrestarsi per cedere il passo alla fede religiosa. L’esistenzialismo autentico, l’unico in grado di “dar ragioni” della libertà dell’uomo, è dunque quello capace di aprirsi alla dimensione del mistero religioso, oltrepassando ogni esigenza di spiegazione razionalistica.

1204

A. DEL NOCE, La fede nell’impossibile in Chestov, cit.; in FEL, p. 28. A nostro parere la posizione di Šestov mostra notevoli affinità con quella dei tedeschi J.G. Hamann e F.H. Jacobi: anche questi ultimi, con argomentazioni simili a quelle del filosofo russo, criticano radicalmente il razionalismo moderno accusandolo di avere degli innegabili esiti deterministici e fatalistici. Per Jacobi ed Hamann la libertà dell’uomo può trovare un suo valido fondamento solo nella trascendenza religiosa, raggiungibile non con la ragione ma con un “salto mortale” della fede (Glaube) verso il totalmente altro. A tal proposito ci permettiamo di rinviare al nostro saggio Fede e sapere nel dibattito tra F.H. Jacobi e J.G. Fichte, in A. PORRAS (a cura di), Fede e ragione. Le luci della verità. In occasione del decimo anniversario dell’enciclica Fides et ratio, Edusc, Roma 2012, pp. 141-168.

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Appendice II Augusto Del Noce: il Risorgimento come “rivoluzione liberale” e “restaurazione creatrice”

«Il Risorgimento italiano è stato un processo rivoluzionario in quanto è stato un “sorgimento”: ed è da esso che procede la sua raffigurazione come modello di rivoluzione “liberale” e non “giacobina”. (In questa linea l’Europa parla sovente di unificazione europea come vera rivoluzione)»1205

1. Il Risorgimento, una categoria filosofico-politica da riscoprire e valorizzare Il giurista e politologo Ernst-Wolfgang Böckenförde ha affermato che «lo Stato liberale secolarizzato si fonda su presupposti che esso non è in grado di garantire»1206: tale posizione, espressa negli anni Sessanta, ha suscitato un ampio dibattito tutt’ora vivo e fecondo1207. 1205

A. DEL NOCE, Rivoluzione, risorgimento, tradizione, in IDEM, Rivoluzione, risorgimento, tradizione, a cura di F. Mercadante, A. Tarantino, B. Casadei, Giuffrè, Milano 1993, pp. 427-443, p. 429. Il saggio fu edito per la prima volta ne «L’Europa», VI, n. 17, 15 ottobre 1972, pp. 129-141. 1206 E.-W. BÖCKENFÖRDE, Die Entstehung des Staates als Vorgang der Säkularisation [edizione originale 1967], ora in IDEM, Staat, Gesellschaft, Freiheit, Suhrkamp, Frankfurt a.M. 1991, p. 112; tr. it., La formazione dello stato come processo di secolarizzazione, in P. PRODI – L. SARTORI (a cura di), Cristianesimo e potere, EDB, Bologna 1986, p. 121. 1207 Si ricordi che anche il filosofo Jürgen Habermas ha sentito l’esigenza di confrontarsi con le tesi di Böckenförde: a tal proposito si veda J. HABERMAS, Vorpolitische moralische Grundlagen eines freiheitlichen Staates, «Katholische Akademie in Bayern», I/2004; tr. it., I fondamenti

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A nostro avviso le riflessioni di Augusto Del Noce (1910-1989) ci portano ad indagare i fondamenti speculativi dello Stato liberale, proprio quei presupposti filosofici che - secondo Böckenförde - il processo di secolarizzazione avrebbe ormai reso del tutto inefficaci. Per Del Noce è nella riscoperta della categoria filosofico-politica di Risorgimento che possiamo gettar luce sui fondamenti e sulle finalità stesse delle nostre democrazie liberali. In questo contributo ci soffermiamo quindi ad analizzare la categoria delnociana di “Risorgimento” situandola nell’alveo del suo pensiero filosofico e, più in generale, della situazione storico-politica italiana. Diciamo subito che secondo Del Noce il Risorgimento «è categoria filosofica e non semplicemente definizione di un periodo della storia italiana»1208. Il Risorgimento - termine tipicamente italiano e non traducibile nelle altre lingue1209 - è una categoria filosofica che si radica nella storia culturale dell’Ottocento, in particolare con Mazzini, Rosmini e Gioberti, e che ha come télos ideale il rinnovamento stesso della politica1210. Tale rinnovamento -

morali prepolitici dello Stato liberale, in J. RATZINGER – J. HABERMAS, Etica, religione e Stato liberale, a cura di M. Nicoletti, Morcelliana, Brescia 2005, pp. 21-40. 1208 A. DEL NOCE, Alcune condizioni per la riscoperta del Rosmini politico, relazione presentata ad un convegno rosminiano tenutosi a Stresa nell’agosto 1982: questo testo è stato pubblicato per la prima volta in un’appendice del volume di P. ARMELLINI, Rosmini politico e la storiografia del Novecento, Aracne, Roma 2008, pp. 233-251, p. 233. 1209 Del Noce trae spunti di riflessione filosofica dall’etimologia stessa della parola Risorgimento: se storicamente con tale termine ci si è riferiti allo “Stato italiano che risorge” dopo secoli di dominio straniero, egli utilizza tale termine anche in un senso propriamente speculativo ed etico: a risorgere, secondo il Nostro, dopo il conseguimento dell’unità nazionale devono essere soprattutto i valori della tradizione. In quest’ottica, come esamineremo anche più avanti, il Risorgimento viene inteso come “risorgimento di valori e non di ordini storici”. 1210 A. DEL NOCE, Rivoluzione, risorgimento, tradizione, cit., p. 429.

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«risorgimento di vita civile» direbbe Gian Domenico Romagnosi1211 - si fonda sulla riscoperta dei valori ed in particolare di quell’ethos che ha caratterizzato la storia italiana “da Vico a Rosmini”. Solo riprendendo le virtualità sottese a tale ethos - sottolinea Del Noce - è possibile dare alla politica vasti orizzonti e trovare anche solide argomentazioni in grado di contrastare il nichilismo, ospite inquietante al quale l’Occidente sta aprendo sempre di più le sue porte. Notiamo quindi che la categoria delnociana di Risorgimento va al di là dei dibattiti storiografici novecenteschi sulla nascita del Regno d’Italia, per situarsi su di un piano propriamente filosofico, che, pur non escludendo considerazioni storiche, evita di ridursi ad esse. In Del Noce siamo quindi lontani da posizioni come quelle di Piero Gobetti o di Antonio Gramsci, che vedono il Risorgimento italiano come una «rivoluzione fallita» (Gobetti)1212 e «passiva» (Gramsci)1213 per la mancata adesione delle masse popolari e dei lavoratori alla vita del nuovo Stato. A Del Noce non interessano in maniera particolare neanche i problemi cronologici sull’inizio e la

1211

Cfr. G.D. ROMAGNOSI, Dell’indole e dei fattori dell’incivilimento, con esempio del suo Risorgimento in Italia, Editori degli Annali universali delle Scienze e dell’Industria, Milano 1832. 1212 Cfr. P. GOBETTI, Risorgimento senza eroi, Edizioni del Baretti, Torino 1926. Ricordiamo che alla tesi gobettiana del Risorgimento come “rivoluzione fallita” cercò di replicare lo storico Adolfo Omodeo, per il quale il Risorgimento fu il frutto dei più alti valori morali della nazione: questo fu sì l’opera di pochi ma «furono proprio questi pochi» - esclama Omodeo - «che operarono per il popolo, si adattarono ad essere la loro nazione, come i settemila israeliti, che ai tempi d’Elia non avevano piegato il ginocchio a Baal, costituivano il vero Israele. Ma è qui il loro grande merito, credettero nel popolo e nella nazione; dell’edificazione del popolo ebbero […] il peso di responsabilità. Se l’opera non riuscì completa, sì fu perché un popolo non s’improvvisa in cinquant’anni» (A. OMODEO, Difesa del Risorgimento, Einaudi, Torino 1956, p. 443). Tale sensibilità dell’Omodeo per gli aspetti di incivilimento nazionale e per la riscoperta del valore fondamentale della libertà la ritroviamo anche in Del Noce. 1213 Cfr. A. GRAMSCI, Sul Risorgimento, Editori Riuniti, Roma 1959.

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fine dell’età risorgimentale1214: egli è piuttosto intenzionato a sottolineare che il Risorgimento come categoria filosofico-politica è per la cultura italiana un impegno ancora da realizzare, da rendere effettivo nella riscoperta dei valori fondamentali che hanno 1214

Tradizionalmente gli storici indicano come terminus a quo del Risorgimento la data del Congresso di Vienna (1814-1815) e come terminus ad quem l’anno della costituzione del Regno d’Italia (17 marzo 1861) oppure il 20 settembre 1870 (la Breccia di Porta Pia a Roma). Per Alberto Maria Ghisalberti la fine effettiva del’età risorgimentale può persino essere spostata alla Prima Guerra Mondiale «dall’anima popolare salutata come quarta guerra d’indipendenza» (A.M. GHISALBERTI, Introduzione alla storia del Risorgimento, Edizioni Cremonese, Roma 1942, p. 27). Numerosi storici - come ad esempio Luigi Salvatorelli - sottolineano inoltre che il Risorgimento italiano fu preparato dalla cultura europea del Sei-Settecento, dalla diffusione degli ideali liberali ed illuministici: «L’Italia riceve il pensiero di oltralpe, lo assimila, lo rinforza con i succhi del proprio terreno, stimolati dall’innesto esterno. L’Italia del Settecento ripiglia i fili interrotti dalla sua tradizione [interrotti dalla Controriforma]; il Risorgimento si riattacca al Rinascimento. Ma il riattacco non è fatto direttamente, rimanendo sul suolo nazionale; esso si compie attraverso l’Europa. Ricongiungendosi all’Europa, dopo l’isolamento controriformistico e seicentesco, l’Italia comincia a ritrovare se stessa» (L. SALVATORELLI, Pensiero e azione del Risorgimento, Einaudi, Torino 19503, pp. 42-43). Sui dibatti cronologici e storiografici concernenti l’età risorgimentale ci limitiamo a segnalare i contributi di C. BONANNO, I problemi del Risorgimento nei consensi e nei dissensi dei protagonisti e degli storici 1789-1919, Liviana, Padova 1965; S.J. WOOLF, Il risorgimento italiano, 2 voll., Einaudi, Torino 1981; L. RIALL, Il Risorgimento. Storia e interpretazioni, Donzelli, Roma 1997; G. PÉCOUT, Il lungo Risorgimento: la nascita dell’Italia contemporanea (1770-1922), Mondadori, Milano 1999; L. DEL BOCA, Indietro Savoia! Storia controcorrente del Risorgimento, Piemme, Casale Monferrato 2003; A. PELLICCIARI, Risorgimento anticattolico, Piemme, Casale Monferrato 2004; A. ESPERIDE – N. QUONDAMATTEO, Il mito della nazione. Personaggi e storie del Risorgimento, Tabula Fati, Chieti 2011; A. PELLICCIARI, L’altro Risorgimento. Una guerra di religione dimenticata, Ares, Milano 20112; M.L. BETRI (a cura di), Rileggere l’Ottocento. Risorgimento e nazione, Carocci, Roma 2011.

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caratterizzato i grandi filosofi italiani dell’Ottocento, in primis Gioberti e Rosmini. Nicola Matteucci ha osservato che tali considerazioni delnociane rischiano di destoricizzare il Risorgimento, trasformandolo da fatto storico a concetto filosofico e categoria d’azione politica: a nostro avviso in Del Noce non troviamo un oubli de l’histoire, “una dimenticanza del problema storico del Risorgimento”, quanto piuttosto il tentativo di trarre da fatti storici e personaggi attentamente studiati - una categoria che valga come ideale regolativo anche per il presente. Matteucci inoltre non concorda pienamente con il suo amico Del Noce nel considerare il mondo culturale cattolico come una delle matrici fondamentali del Risorgimento: «Il Risorgimento della nazione italiana» - egli afferma - «e la Restaurazione cattolica restano termini del tutto eterogenei»1215. Del Noce è particolarmente attento nel porre in luce il contributo del mondo intellettuale cattolico alla causa dell’unità nazionale: tuttavia è lungi dall’affermare un contributo esclusivo dei cattolici a tale causa; egli sottolinea soprattutto la necessità anche per l’oggi, per l’attuale contesto laicistico e relativistico, di una rivalutazione del pensiero giobertiano e rosminiano, tipiche espressioni di un “Risorgimento di pensiero” in grado di parlare e suggerire orizzonti d’azione anche al mondo contemporaneo1216. In tal senso si comprende anche l’attenzione riservata dal Nostro ad uno scritto di Franco Rodano edito nel 1962: Risorgimento e 1215

N. MATTEUCCI, Interpretazioni del Risorgimento: un nuovo revisionismo cattolico, «Il Mulino», marzo 1961, pp. 151-157. 1216 A tal proposito cfr. A. DEL NOCE, Interpretazioni revisionistiche e interpretazione “storica” del Risorgimento, «Civitas», XIII, 11-12, novembre-dicembre 1961. Si vedano anche R. BUTTIGLIONE, Del Noce e il Risorgimento, in Aa. Vv., Percorsi di filosofia moderna, Tools Aggiornamenti, Lugo di Romagna 1992, pp. 71-76; G. ALIBERTI, Augusto Del Noce e la “contemporaneità” del Risorgimento italiano, in F. MERCADANTE - V. LATTANZI (a cura di), Essenze filosofiche e attualità storica, Vol. I, Spes – Fondazione Capograssi, Roma 2001, pp. 160-184; P. ARMELLINI, La categoria di Risorgimento in Augusto Del Noce, «Acta Philosophica. Rivista internazionale di Filosofia», 19/I, 2010, pp. 181-190.

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democrazia. Del Noce riprende da Rodano l’idea che il Risorgimento debba essere anche per l’oggi una categoria di pensiero e d’azione: egli però rifiuta nettamente l’idea secondo la quale «il Risorgimento troverebbe soluzione solo nel nostro tempo e attraverso l’incontro cattolico-comunista [siamo negli anni Sessanta-Settanta]»1217. Secondo Del Noce cattolicesimo e marxismo sono due realtà inconciliabili, fondate su differenti concezioni dell’uomo e della storia: la loro unione politica e strategica non può essere vista perciò come la continuazione degli ideali risorgimentali. Differentemente da Rodano, Del Noce è ben lungi dal sostenere che il Partito comunista possa operare in Italia una “rivoluzione nella democrazia” che riesca a portare a compimento la “rivoluzione fallita” rappresentata dal Risorgimento. Egli è quindi contrario alla concezione di Rodano secondo la quale «in Italia [grazie al Partito comunista e all’unione 1217

A. DEL NOCE, Risorgimento e democrazia, in IDEM, Il cattolico comunista, Rusconi, Milano 1981, pp. 301-316, p. 303. Il saggio che Del Noce commenta è quello di F. RODANO, Risorgimento e democrazia, «Rivista trimestrale», 1, marzo 1962. Ricordiamo che dal 1940 al ʼ42, su proposta di Enrico Castelli, Del Noce venne chiamato come collaboratore a Roma presso l’Istituto di Studi Filosofici: in quegli anni ebbe occasione di entrare in contatto anche con Franco Rodano e Felice Balbo e si avvicinò al “catto-comunismo”, cioè a quel progetto ideologico che tentava di coniugare il cristianesimo con il marxismo. Tuttavia Del Noce non aderì al Manifesto dei Cattolici Comunisti e presto si allontanò dal gruppo, pur continuando ad intrattenere una sentita amicizia sia con Rodano che con Balbo. Nel 1946 Del Noce pubblicò un ampio saggio nel quale chiarì la sua posizione filosofica innanzi al marxismo, affermando una sostanziale inconciliabilità tra antropologia cristiana e materialismo marxista: si tratta del celebre saggio La «non-filosofia» di Marx e il comunismo come realtà politica [edito anche in A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, (edizione originale 1964), Introduzione di N. Matteucci, Postfazione di M. Cacciari, Il Mulino, Bologna 2010, pp. 213-266]. Il problema del confronto critico con il marxismo restò una costante anche della produzione più matura di Del Noce: gli darà occasione di scrivere volumi come Il problema politico dei cattolici (UICP, Roma 1967), L’eurocomunismo e l’Italia (Europa Informazioni, Roma 1976), Il suicidio della rivoluzione (Rusconi, Milano 1978) ed il già citato Il cattolico comunista.

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delle forze marxiste con quelle cattoliche] la rivoluzione prenderà la forma di conservazione e di allargamento delle conquiste democratiche del Risorgimento»1218. Per il Nostro il marxismo è sinonimo di totalitarismo e rimane del tutto inconciliabile con gli ideali cristiani e democratici: egli smentisce quindi con vigore la prospettiva di Rodano che individua nel comunismo italiano le basi per un “secondo Risorgimento”, per una «rivoluzione nella democrazia»1219. Del Noce pone una stretta relazione tra la categoria di Risorgimento e quella di rivoluzione, sottolineando che quest’ultima ha due significati fondamentali. Da una parte la rivoluzione - si pensi ai giacobini o a Marx - è una prassi, spesso violenta, che tenta di sovvertire il reale per instaurare un ordine totalmente nuovo, cercando la redenzione dell’umanità nella storia stessa. A tal proposito egli sottolinea che le categorie di cui si nutre il lessico rivoluzionario nascono spesso dalla secolarizzazione della teologia ebraico-cristiana: i rivoluzionari cercano di realizzare nella storia umana quei “cieli nuovi e terra nuova” che la teologia postula solo nei Novissimi, in una dimensione chiaramente metastorica. Tuttavia a questo senso violento e totalizzante di rivoluzione se ne affianca un altro, che ha il carattere di una renovatio, di un ritorno ai princìpi etici e che nasce da una radicale contestazione del reale. In tal senso «rivoluzione […] coincide con una restaurazione di valori, con un approfondimento e con una purificazione della tradizione. Sono rivoluzionari in questo senso Mazzini (onde l’opposizione, di una radicalità assoluta, che lo divise da Marx) e, con maggior approfondimento di pensiero, Gioberti [e Rosmini]»1220. Per designare tale tipo di rivoluzione-restaurazione - afferma Del Noce «disponiamo in un termine che è perfettamente adeguato ad esprimerla, quando venga identificato per indicare non soltanto un evento storico, ma una vera e propria categoria filosofico-politica (come lo fu dal Gioberti), quello di Risorgimento. Indica che le nazioni possono risollevarsi soltanto per approfondimento della loro 1218

A. DEL NOCE, Risorgimento e democrazia, cit., p. 304. Ibidem 1220 A. DEL NOCE, Rivoluzione, risorgimento, tradizione, cit., p. 432.

1219

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tradizione, e criticando l’ordine storico dal punto di vista di un ordine ideale. Se principio primo della “rivoluzione totale” [quella di cui parlano Marx e Lenin] è il “futuro”, principio ideale del Risorgimento (inteso in questo senso) è l’Eterno»1221. Da questi passi emerge che la nozione delnociana di Risorgimento ha alle sue spalle un “platonismo etico” - il postulare un ordine oggettivo di valori il cui vertice è il “bene in sé”; da tale ordine di valori nascono le istanze di critica del presente, di una critica sempre costruttiva e propositiva e che vede nella tradizione del pensiero liberale cristiano uno “scrigno di valori”. Per comprendere più a fondo la genesi dell’idea di Risorgimento proposta dal Del Noce come “rinnovamento” della stessa vita democratica italiana, occorre spiegare la sua concezione della modernità filosofica e la sua visione della libertà umana. 2. Le critiche alle concezioni del Risorgimento di Croce e di Gentile Come abbiamo già accennato, la categoria di Risorgimento viene individuata da Del Noce come «un’alternativa sia alla mentalità rivoluzionaria sia alla mentalità reazionaria»1222: egli intende quindi tale categoria come una sorta di “rivoluzione liberale” e di “restaurazione creatrice”. Quella liberale è una rivoluzione non violenta ed incentrata sul primato della persona umana (antistatalismo); con “restaurazione creatrice” egli propone invece un atteggiamento culturale attento ai valori della tradizione, della storia e della spiritualità cristiana, valori che l’Occidente, con l’avanzare sempre più incalzante della secolarizzazione, sta gradualmente perdendo1223.

1221

Ibidem, p. 432. P. ARMELLINI, L’idea di Risorgimento in Augusto Del Noce, «Arché. Rivista di Filosofia», 5, 2003/2004, pp. 15-57, p. 15. 1223 A tal proposito si veda A. DEL NOCE, L’epoca della secolarizzazione, Giuffè, Milano 1970. 1222

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Nell’elaborare la sua idea di Risorgimento Del Noce opera un puntuale confronto critico con le posizioni storiografiche e filosofiche di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile. Nella celebre opera crociana Storia d’Italia dal 1871 al 1915 egli scorge un modello interpretativo teso a sottolineare soprattutto l’ispirazione anticattolica della politica italiana da Cavour a Giolitti1224. Secondo Del Noce tale modello è troppo unilaterale e dimentica il contributo che il pensiero cristiano ha dato all’idea stessa di Risorgimento, contributo che in Gioberti e Rosmini ha trovato due emblematiche formulazioni1225. Del Noce considera quindi Croce come il vero continuatore del liberalismo laico risorgimentale: si tratta di una “religione della libertà” che espunge completamente dalle vicende storiche la presenza del Dio cristiano. Egli critica quindi l’estremo laicismo della storiografia crociana nella quale gli ideali del liberalismo risorgimentale convivono con una filosofia immanentistica. Del Noce definisce Croce come il “teologo del divino immanente” e interpreta la sua posizione come il tentativo di «ritrovare una ragione di vita dopo la scomparsa del Dio trascendente [sancita in maniera icastica dall’espressione di Nietzsche «Gott ist tot! (Dio è morto!)], o di vincere il pessimismo che consegue a questa scomparsa [sono certamente note le critiche di Croce al decadentismo e a certe forme pessimistiche di esistenzialismo]» 1226. 1224

Cfr. B. CROCE, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Bari 1928. Cfr. A. DEL NOCE, Per una interpretazione del Risorgimento (il pensiero di Gioberti), «Humanitas», 1961, pp. 16-40; IDEM, Rosmini e la categoria filosofico-politica del Risorgimento, relazione inedita tenuta alla “Cattedra Rosmini” nell’agosto 1983 dedicata a “Chiesa e Stato nel pensiero di Antonio Rosmini”. 1226 Cfr. A. DEL NOCE, Homo sapiens homo faber. Il teologo del divino immanente, «La fiera letteraria», XLI, 18, 12 maggio 1966, p. 7. Sul confronto critico di Del Noce con la posizione filosofico-politica di Croce si vedano anche IDEM, Benedetto Croce e il Partito Liberale, «Il Popolo Nuovo», 13 aprile 1948: testo edito anche in C. VASALE e G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, Sei, Torino 1996, pp. 209-212; A. DEL NOCE, Grandezza e limiti di Croce, «Il Nostro Tempo», 30 novembre 1952; IDEM, Croce e il pensiero religioso, in IDEM, L’epoca della 1225

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Da un punto di vista storico la prospettiva crociana viene letta da Del Noce anche come il tentativo di reagire alla caduta di due grandi miti: il definitivo tramonto dello Stato pontificio nel 1870 (emblema della fede religiosa) e la fine della Comune di Parigi (emblema della speranza rivoluzionaria socialista). Alla caduta di questi miti per Croce non deve seguire un’età di pessimismo e di rassegnazione1227: Del Noce nota infatti che quella crociana è una prospettiva storica ottimistica, una sorta di “teodicea laica” che considera il male come momento necessario e transeunte del processo storico. Per Croce la storia è sempre “storia del graduale realizzarsi della libertà nel mondo”: in quest’ottica la stessa esperienza del fascismo e dei regimi totalitari del Novecento viene interpretata come una parentesi storica negativa ma utile per dare successivamente nuovo impulso allo sviluppo della libertà e della democrazia1228. Secondo Del Noce la prospettiva idealistica crociana - come del resto quella di Gentile dimentica un elemento fondamentale: il fatto che il male, ciò che i Padri della Chiesa definivano come status naturae lapsae, sia un costitutivo della natura umana e della storia. All’ottimismo dello storicismo crociano Del Noce contrappone quindi il realismo storico cristiano che considera il male come un fattore del processo storico purtroppo ineliminabile: in opposizione a Croce e Gentile, egli recupera quindi le posizioni cristiane espresse da Sant’Agostino e da Rosmini; queste pongono l’aeterna beatitudo solo alla fine della storia umana, in una dimensione escatologica. secolarizzazione, cit., pp. 239-251; IDEM, Benedetto Croce e la nuova età oscura, «Il Tempo», 27 dicembre 1977. 1227 A tal proposito è stato giustamente osservato: «Dopo la sconfitta della Comune parigina e la caduta del potere temporale dei papi, sono crollati per Croce sia l’utopia rivoluzionaria sia il cattolicesimo, ma nella storia nulla va perduto, per cui il cristianesimo si deve tradurre in immanentistica religione della libertà, dopo il superamento della trascendenza da parte della filosofia moderna [da Cartesio ad Hegel e i suoi epigoli italiani: Giovanni Gentile e lo stesso Croce]» (P. ARMELLINI, L’idea di Risorgimento in Augusto Del Noce, cit., p. 22). 1228 A tal riguardo si veda un’utile raccolta di testi crociani: B. CROCE, La religione della libertà. Antologia degli scritti politici, a cura di G. Cotroneo, Sugarco Edizioni, Milano 1986.

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Del Noce vede anche in Gentile un fondamentale punto di riferimento della cultura italiana: egli valorizza ampiamente il suo pensiero, criticandone tuttavia i radicali esiti immanentistici e la ripresa stessa di alcuni aspetti della filosofia risorgimentale. Di Gentile il Nostro critica soprattutto la ripresa degli ideali del Risorgimento posti a fondamento del fascismo: nell’opera gentiliana Origini e dottrina del fascismo tale ideologia viene effettivamente celebrata come l’unica in grado di garantire quell’unificazione politica tentata ma non raggiunta in modo esauriente dal Risorgimento dell’Ottocento1229. Del Noce si oppone radicalmente a tale concezione storiografica, mettendo particolarmente in evidenza la totale diversità sul piano storico-concettuale tra Risorgimento e fascismo. Quest’ultimo viene giustamente interpretato come movimento politico violento e dittatoriale - intrinsecamente anticristiano nonostante il Concordato con la Chiesa cattolica - e che nulla ha a che vedere con gli ideali di libertà ed emancipazione nazionale del Risorgimento. Il fascismo - egli afferma - «è anzitutto il rifiuto di riconoscere la realtà personale degli altri, esso è spirito di violenza»1230. Di particolare interesse è l’interpretazione delnociana dell’attualismo di Gentile, nel quale viene individuata un’originale convivenza di elementi di attivismo marxista accanto a quelli del pensiero di Gioberti: nell’attualismo viene quindi vista una singolare «coincidenza tra marxismo dissociato, come filosofia della prassi, da materialismo, e giobertismo [dissociato], come filosofia della 1229

Si vedano G. GENTILE, Origini e dottrina del fascismo, Littorio, Roma 1929; IDEM, Che cosa è il fascismo, Vallecchi, Firenze 1925; IDEM, Fascismo e cultura, Treves, Milano 1928. Cfr. anche A. DEL NOCE, L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in Giovanni Gentile, “Giornale critico della filosofia italiana”, LXVII, 2, 1968, pp. 163-215. 1230 A. DEL NOCE, Analisi del linguaggio, «Il Popolo Nuovo», a. I, n. 14, sabato 12 – domenica 13 maggio 1945, p. 3; il testo dell’articolo è stato riprodotto in IDEM, Scritti politici 1930-1950, a cura di T. Dell’Era, Rubbettino, Soveria Mannelli 2001, pp. 63-65, p. 64. Cfr. anche IDEM, Fascismo e filosofia, in J. JACOBELLI (a cura di), Il fascismo e gli storici oggi, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 51-58.

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creazione, da platonismo e ontologismo»1231. Il pensiero gentiliano si origina quindi da una sintesi di attivismo marxista e di giobertiana filosofia della creazione, privata però dell’elemento teistico e trascendente. In Gentile il Nostro scorge un’immanentizzazione della teologia cristiana, nella quale il divino viene completamente ridotto all’attività della coscienza umana: nell’attualismo gentiliano non v’è nessun altro Dio all’infuori dello spirito umano e delle sue molteplici produzioni. Tuttavia - sottolinea Del Noce - la particolarità di Gentile è che egli - differentemente da positivisti e marxisti - non si oppone alla religione e nemmeno al cattolicesimo: anzi, egli propone il suo pensiero come la “vera religione”, come l’inveramento stesso del cattolicesimo1232. Notiamo che Gentile individua nel Risorgimento due distinte tradizioni, una più materialistica e laicista (rappresentata da Ferrari e Cattaneo) che ha poi condotto al trasformismo di Giolitti, l’altra di matrice più cristiana (Gioberti, Rosmini e lo stesso Mazzini), caratterizzata dalla volontà di una missione civilizzatrice: Gentile intende continuare quest’ultima linea del Risorgimento, trasformando il cristianesimo in attivismo etico e ponendo in 1231

A. DEL NOCE, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, Il Mulino, Bologna 1990 [opera edita postuma], p. 93. Cfr. anche IDEM, Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVII, 2, 1968, pp. 163-215. 1232 Riprendendo da Gioberti l’idea della poligonìa, cioè delle molte possibili espressioni del cattolicesimo, Gentile arriva ad affermare di sentirsi profondamente cattolico: si tratta naturalmente di una forma religiosa lontana dalla dogmatica del cattolicesimo romano. A tal proposito egli afferma: «Ripeto dunque la mia professione di fede, piaccia o dispiaccia a chi mi sta a sentire: io sono cristiano. Sono cristiano perché credo nella religione dello spirito. Ma voglio subito aggiungere, a scanso di equivoci: io sono cattolico. E non da oggi; sia anche questo ben chiaro. Cattolico a rigore, sono dal giugno 1875, ossia da quando sono al mondo» (G. GENTILE, La mia religione [conferenza tenuta all’Università di Firenze il 9 febbraio 1943], in IDEM, La Religione, Sansoni, Firenze 1965, pp. 403426, p. 406). Sulla ripresa gentiliana dell’idea di poligonìa del cattolicesimo si veda A. DEL NOCE, Gentile e la poligonia giobertiana, «Giornale critico della filosofia italiana», LXVIII, 2, 1969, pp. 222-285.

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Mussolini le speranze per la concreta realizzazione storica degli ideali risorgimentali. La vera finalità del pensiero gentiliano è, dunque, quella di una riforma religiosa e politica della cultura italiana: nel fascismo, almeno fino ai Patti Lateranensi del 1929, egli individuava la forza ideologica capace di realizzare tale finalità. Gentile - avverte Del Noce - si sente il vero erede spirituale del Risorgimento, movimento che intende perficere et conficere, perfezionale e portare a compimento, tramite le potenzialità politiche del fascismo, dando al fascismo stesso dei più solidi fondamenti filosofici ed ideologici. Sottolineiamo che è soprattutto dal confronto con il pensiero di Rosmini e di Gioberti che Gentile elabora una nozione di Risorgimento come categoria filosofica - simmetrica a quella di rivoluzione operata da Marx -, da porre alle basi dell’ideologia fascista1233. 3. Il Risorgimento come «restaurazione di valori»: una possibile riappropriazione del pensiero di Rosmini Alle visioni del Risorgimento espresse da Gentile e da Croce, il Nostro propone un’alternativa in grado di restare fedele alla tradizione cristiana e capace di dare solide fondamenta alla democrazia, ad un regime politico rispettoso della persona umana ed avverso a qualsiasi forma di totalitarismo. Si comprende allora come Del Noce vada alla riscoperta delle notevoli virtualità contenute nel pensiero di Antonio Rosmini, il quale - così afferma nel 1982 - gli «appare come l’unico predicatore politico del Risorgimento che possa essere continuato»1234. Egli nota giustamente che il pensiero rosminiano resti difficile da etichettare: «non lo si può far rientrare senza riserve decisive nel pensiero liberale, né nel pensiero cattolico liberale, né nel pensiero tradizionalista, né nel reazionario, né nel

1233

Cfr. G. GENTILE, Rosmini e Gioberti, [edizione originale 1898], Sansoni, Firenze 1958. 1234 A. DEL NOCE, Alcune condizioni per la riscoperta del Rosmini politico, cit., p. 233.

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neoguelfo, né nel pensiero medievalista romantico»1235. Una feconda linea di lettura della filosofia politica rosminiana è secondo Del Noce quella inaugurata da Giuseppe Capograssi e proseguita anche da Mario D’Addio, i quali hanno contrapposto radicalmente Hegel a Rosmini, lo Stato etico teorizzato da Hegel alla concezione personalistica tipicamente rosminiana1236. Del Noce, sulla scorta della lezione di Capograssi, osserva che la Filosofia del diritto hegeliana è l’esatta antitesi di quella rosminiana: la prima è infatti incentrata sul primato assoluto dello Stato, considerato addirittura come «l’ingresso di Dio nel mondo (der Gang Gottes in der Welt)»1237, mentre la seconda è incentrata sulla nozione di persona umana, vista come la fonte stessa del diritto. In Rosmini la persona viene considerata come «diritto sussistente»1238: tale concezione giuridica salvaguarda i diritti dell’individuo di fronte a qualsiasi ingerenza fagocitante dello Stato-Leviatano. Prima viene la persona e i suoi diritti inalienabili (le libertà individuali e la proprietà privata), così come li ha formulati in maniera emblematica il pensiero liberale di Locke, e solo in seconda battuta lo Stato e le sue istituzioni: in altre parole, è lo Stato a servizio del cittadino e non viceversa. Nella Filosofia della politica di Rosmini, in particolare nella II parte del capitolo XIV dal titolo La società e il suo fine, Del Noce rinviene fondamentali concezioni filosofico-giuridiche in grado di contrastare 1235

Ibidem, p. 235. Su tale tematica si vedano G. CAPOGRASSI, Il diritto secondo Rosmini, «Rivista internazionale di Filosofia del Diritto», 20, 1940, pp. 214-245; IDEM, Attualità e inattualità di Rosmini, a cura di V. Lattanzi, Sodalitas, Stresa 2001; M. D’ADDIO, Introduzione a Rosmini, in A. ROSMINI, Filosofia della politica, Marzorati, Milano 1972; M. D’ADDIO, Il concetto di filosofia della politica in Antonio Rosmini, in F. TRANIELLO e G. CAMPANINI (a cura di), Filosofia e politica. Rosmini e la cultura della Restaurazione, Morcelliana, Brescia 1993; M. D’ADDIO, Libertà e appagamento. Politica e dinamica sociale in Rosmini, Studium, Roma 2000. 1237 G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, [edizione originale: Berlino 1820], tr. it. e cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, § 258. 1238 A. ROSMINI, Filosofia del diritto, [edizione originale 1841-1845], a cura di R. Orecchia, Ed. Nazionale, Cedam, Padova 1967, vol. I, p. 192.

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ex principiis ogni tipo di statolatria e di totalitarismo. Quella di Rosmini è una prospettiva politica nella quale la libertà della persona, considerata come la fonte stessa del diritto, è “il limite” di ogni possibile prevaricazione dello Stato e costituisce il fine della vita associata1239. Il pensiero rosminiano viene riscoperto e valorizzato da Del Noce anche perché in esso vengono rinvenuti i princìpi fondamentali per 1239

Su tale tematica cfr. D. ZOLO, Il personalismo rosminiano. Studio sul pensiero politico di Rosmini, Morcelliana, Brescia 1963. Notiamo che anche il giovane Norberto Bobbio negli anni Quaranta subì il fascino di una filosofia incentrata sull’idea di persona: egli, in maniera simile a Del Noce, la considerò una filosofia in grado di salvaguardare i diritti della persona in opposizione alle possibili ingerenze dello Stato autoritario. Ricordiamo che la sua prolusione del 1946 all’Università di Padova è dedicata a La persona e lo Stato: «l’uomo, in quanto diviene persona, sorpassa continuamente lo Stato, e quindi non può essere racchiuso integralmente nei limiti dello Stato, perché ne va della sua possibilità stessa di allargare gli orizzonti della propria umanità, di irrobustire la propria personalità morale che si perfeziona soltanto nella libertà incondizionata della coscienza» (N. BOBBIO, L’uomo e lo Stato, saggio riedito in IDEM, Tra due repubbliche. Alle origini della democrazia italiana, Donzelli, Roma 1996, p. 83). Differentemente da Del Noce, Bobbio ricerca una valenza laica del personalismo e si richiama alla tradizione kantiana. Talvolta non viene sufficientemente sottolineato che in Bobbio il personalismo è stato la matrice filosofica delle sue teorie sulla tolleranza e sul relativismo tollerante. In Verità e libertà (1960) egli afferma: «Che la verità sia personale significa in fin dei conti che la molteplicità delle verità è giustificata dalla molteplicità e irriducibilità delle persone. […] Il personalismo è il tentativo più radicale di prender atto della moltiplicazione all’infinito delle verità e insieme di rifiutare la soluzione scettica» (N. BOBBIO, Verità e libertà, in Idem, Elogio della mitezza e altri scritti morali, Linea d’ombra, Milano 1994, p. 64-65). Bobbio fu amico di Del Noce e spesso di confrontò criticamente con le sue tesi storiografiche e politiche: a tal riguardo si vedano N. BOBBIO, Del Noce: fascismo, comunismo, liberalismo, in Aa. Vv., Augusto Del Noce. Il problema della modernità, Studium, Roma 1995, pp. 165-184; L. CEDRONI, Norberto Bobbio e Augusto Del Noce: dialogo sulla libertà, in C. VASALE - G. DESSÌ (a cura di), Augusto Del Noce e la libertà. Incontri filosofici, cit., pp. 167-179.

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una decisiva opposizione a tutte quelle forme di perfettismo politico che hanno caratterizzato il Novecento. Rosmini definisce come perfettismo «quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane e che sacrifica il bene presente all’immaginata futura perfezione»1240: in tal senso, forme di perfettismo politico - sottolinea Del Noce - possono senz’altro essere considerati i totalitarismi del Novecento (marxismo sovietico, fascismo e nazismo), i quali hanno tentato di realizzare degli “Stati ideali” e dei “paradisi in terra” fagocitando, spesso con violenza inaudita, i diritti delle singole persone. Per Del Noce un pensiero politico autenticamente cristiano come quello espresso da Agostino d’Ippona e da Rosmini è costitutivamente antiperfettistico ed avverso a qualsiasi forma di “sacralizzazione della politica”1241. Come abbiamo già accennato in precedenza, il male nella prospettiva cristiana viene sempre considerato un qualcosa di ineliminabile dalla storia: essendo frutto del peccato originale, il male - sia quello in interiore homine che 1240

A. ROSMINI, Filosofia della politica, [edizione originale 1839], a cura di S. Cotta, Rusconi, Milano 1985, p. 137. 1241 Uno dei meriti teorici della proposta di Del Noce, a nostro avviso, può essere individuato nel recupero del rapporto tra trascendenza e politica: la trascendenza, di cui la persona umana è emblematica espressione, evita la tentazione sempre insorgente di “sacralizzare la politica”. Nella prospettiva ebraico-cristiana solo Dio, trascendenza di cui l’uomo è imago, è l’Assoluto ed il Signore: tutto il resto è relativo, finito, transeunte e fallibile. In tale concezione religiosa anche il potere politico viene desacralizzato e relativizzato. A tal proposito Dario Antiseri, proponendo una forma di liberalismo aperto alla trascendenza cristiana, ha correttamente osservato: «con il messaggio cristiano aveva fatto irruzione nel mondo l’idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto. Lo Stato non è l’Assoluto: Káysar non è Kýrios. E con ciò il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità da parte di coscienze inviolabili, di persone “fatte ad immgine e somiglianza di Dio”» (D. ANTISERI, Il liberalismo cattolico italiano dal Risorgimento ai nostri giorni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 5).

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quello sociale - potrà essere sconfitto solo in una dimensione metastorica ed ultraterrena. La libido sciendi, sentiendi et dominandi - i tre aspetti del peccato originale secondo i Padri della Chiesa - non può essere definitivamente eliminata dalla storia, poiché essa è un costitutivo della natura umana: i perfettismi politici sono quindi sempre destinati a fallire nel loro tentativo di un’”auto-redenzione dell’uomo e della storia”, nella ricerca di una salvezza tutta umana e terrena. Notiamo tuttavia che la prospettiva delnociana non sfocia mai in forme di pessimismo o di quietismo. Come Rosmini, anche il Nostro «non esclude l’idea di perfettibilità, ma vuole all’opposto promuoverne la ricerca che non avrà mai fine. Questo significa che la lotta contro il male e la realizzazione di un sempre maggiore perfezionamento è compito dell’individuo e quindi lotta che può, sì, minimizzare il male vincibile in quel momento e il quel preciso punto, ma non estinguerlo alla sua radice»1242. L’antiperfettismo politico proposto da Rosmini e ripreso da Del Noce si coniuga perciò con un realismo che concepisce l’azione di governo «non in nome di leggi perfette che sarebbero un’illusione ed un inganno, ma delle leggi migliori»1243. Di particolare interesse ci pare il fatto che Del Noce tra le forme di perfettismo politico prese in esame - e denunciate ante litteram da Rosmini - pone non solo i totalitarismi novecenteschi ma anche la connessione di liberalismo e liberismo, quello che oggi chiameremo neoliberismo: «il perfettismo» - rileva il Nostro - «è essenziale alla forma classica del liberalismo connessa con il liberismo, cioè alla forma di tutto quel liberalismo inglese da Locke a Hume, a Smith a Bentham che il Rosmini non a caso combatte. Una considerazione più approfondita mostrerebbe la permanenza del tipo perfettistico [anche] nel liberalismo conservatore»1244. Con tali affermazioni Del Noce non intende sottovalutare il grande apporto della tradizione liberale inglese in tema di diritti della persona: egli vuole piuttosto 1242

A. DEL NOCE, Alcune condizioni per la riscoperta del Rosmini politico, cit., p. 242. 1243 Ibidem 1244 Ibidem, p. 243.

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criticare come forma di perfettismo la categoria di “individualismo possessivo” da cui si origina il liberalismo/liberismo1245, una categoria che fa scindere nettamente l’etica dalla politica, trasformando quest’ultima in prassi egoistica, cinica e machiavellica. Sulla scorta della lezione rosminiana Del Noce riprende la categoria di Risorgimento come “rinascita di valori etici per la prassi politica”: in tal senso tale categoria nasce anche per contrastare il nichilismo, inteso anche come «riduzione di ogni valore al valore di scambio»1246. Anche seguendo alcune indicazioni speculative di Michele Federico Sciacca, Del Noce sottolinea che il pensiero di Rosmini, con la sua concezione del Risorgimento, può essere in grado di arginare il nichilismo di matrice nietzscheana che sta caratterizzando la cultura occidentale in misura sempre maggiore, determinando una “società opulenta”, cinicamente individualistica, edonistica e tecnocratica: come Sciacca, anche il Nostro vede «Nietzsche come il profeta del nichilismo quale risultato della filosofia razionalistica moderna, Rosmini come l’unico pensatore la profondità della cui filosofia potrebbe render vana questa profezia»1247. É dunque riappropriandosi degli aspetti centrali della prospettiva rosminiana che Del Noce propone la categoria di «Risorgimento come vera restaurazione, in quanto restaurazione di valori e non di ordini storici [come quelli dell’ancien régime]»1248. 1245

L’idea che la “scienza politica moderna” ed lo stesso liberalismo inglese si originino da una visione dell’uomo negativa, caratterizzata da un radicale “individualismo possessivo”, viene bene espressa nel celebre volume di Crawford B. MACPHERSON, The Political Theory of Possessive Individualism: Hobbes to Locke, Oxford University Press, Oxford 1962; tr. it. di S. Borutti, Libertà e proprietà alle origini del pensiero borghese. La teoria dell’individualismo possessivo da Hobbes a Locke, Prefazione di A. Negri, Isedi, Milano 1973. 1246 A. DEL NOCE, Alcune condizioni per la riscoperta del Rosmini politico, cit., p. 243. 1247 Ibidem, p. 245. 1248 Ibidem, p. 250. Cfr. anche M.F. SCIACCA, La filosofia morale di A. Rosmini, [prima edizione: Firenze 1938], a cura di U. Muratore, Sodalitas, Stresa 19993. Del Noce condivide quindi tali significative affermazioni di Sciacca: «Dopo quello di S. Tommaso, il rosminiano è il più completo ed

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Percorrendo un itinerario “con Rosmini, oltre Rosmini” Del Noce certa di dare delle valide risposte alla crisi del mondo contemporaneo, una crisi in gran parte causata dal prevalere di un “liberalismo senza fondamenti e di un’etica senza verità”. Sulla scorta del pensiero rosminiano la metafisica cristiana diviene nuovamente riproponibile come fondamento speculativo dell’etica e di una prassi politica autenticamente liberale. Del Noce sottolinea che «solo il cattolicesimo più rigorosamente ortodosso può trovare un punto d’incontro con lo spirito liberale»1249: in Rosmini Del Noce individua una forma di cattolicesimo in grado di confrontarsi con la modernità e di proporre una prospettiva liberale ricca di istanze etico-sociali. Concludendo possiamo affermare che tramite la riappropriazione del pensiero rosminiano Del Noce dia dei solidi fondamenti metafisici all’idea di Risorgimento che, a suo parere, deve configurarsi come “restaurazione di valori” e perciò l’unica possibile pacifica «rivoluzione nella democrazia»1250.

originale sistema di filosofia cristiana. Il Rosmini ha sondato l’umano pensiero ed ha trovato che esso è da Dio ed è fatto per tendere a Dio. Filosofia cristiana, dunque, di fatto e di diritto, come uso cristiano della ragione e come intrinseca vocazione del pensiero alla trascendenza, senza mescolanza e confusione del naturale e del soprannaturale. È qui lo spirito del Rosminianesimo, che può considerarsi lo spirito di tutto il pensiero italiano della prima metà dell’800 all’incirca» (M.F. SCIACCA, La filosofia nell’età del Risorgimento, Vallardi, Milano 1948, p. 297). 1249 A. DEL NOCE, Cattolicesimo e spirito liberale, in «Libro aperto», 42, maggio-giugno 1987, p. 27. 1250 A proposito del concetto di Risorgimento come “rivoluzione nella democrazia” Del Noce si è particolarmente confrontato con la prospettiva di Franco Rodano espressa di F. RODANO, Risorgimento e democrazia, «Rivista trimestrale», 1, marzo 1962. Cfr. A. DEL NOCE, Risorgimento e democrazia, in IDEM, Il cattolico comunista, Rusconi, Milano 1981, pp. 301-316.

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Studio IV Dal “tomismo essenziale” alla critica della modernità. La prospettiva filosofica di Cornelio Fabro

«L’ostinata coerenza con la quale la filosofia moderna ha portato a fondo il principio d’immanenza impegna il pensiero cristiano a elevarsi al punto di vista teoretico, mediante il quale il pensiero collochi l’inizio di sé stesso nell’essere e la ragione possa fare il “passaggio all’Assoluto”»1251.

1. Un itinerario di studi ad mentem Sancti Thomae Cornelio Fabro è stato giustamente considerato come «il più valido e autorevole esponente del neotomismo in Italia»1252. Egli riprende e vivifica le grandi intuizioni del pensiero dell’Aquinate ponendole in un serrato confronto critico con il pensiero filosofico moderno e contemporaneo. In particolare possiamo dire che egli rilegge San Tommaso mettendo in luce il nucleo originale della sua posizione metafisica: la dottrina della partecipazione ontologica che pone l’essere infinito di Dio (Ispum esse subsistens) come fondamento degli enti creati e finiti. In tal senso Fabro scorge nella metafisica tommasiana l’unica grande eccezione a quell’oblio dell’essere (Vergessenheit des Seins) che - secondo Heidegger avrebbe caratterizzato la metafisica occidentale da Platone a Nietzsche. Nel nostro studio presentiamo in esame gli elementi più rilevanti che hanno caratterizzato l’itinerario filosofico di Fabro, mettendo in luce la fecondità della sua proposta speculativa, da esso indicata con 1251

C. FABRO, San Tommaso davanti al pensiero moderno, in AA. VV., Le ragioni del tomismo, Edizioni Ares, Milano 1979, p. 69. 1252 B. MONDIN, La metafisica di S. Tommaso d’Aquino e i suoi interpreti, EDS, Bologna 2002, p. 97.

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la formula di “tomismo essenziale”. Si tratta di un «tomismo che non consiste in un sistema chiuso di verità definite ma in una serie di princìpi validi, capaci di spingere il pensiero a sempre nuove conquiste e a sempre maggiori approfondimenti»1253. Andrea Dalledonne, allievo di Fabro, ha giustamente sintetizzato tutta l’attività speculativa del filosofo friulano in quattro punti capitali: «1) il ripensamento critico-teoretico del tomismo; 2) lo studio genetico-critico dell’essenza antropocentrica del pensiero moderno; 3) l’interpretazione e il riconoscimento della validità e dell’originalità sul piano esistenziale cristiano, oltreché su quello speculativo, delle istanze di Kierkegaard in funzione della difesa della dignità dell’uomo singolo in rapporto all’Assoluto e, soprattutto, dell’eterna verità del cristianesimo, in opposizione al pensiero moderno demolitore di ogni trascendenza; 4) la critica radicale dell’equivoco di fondo dell’attuale teologia progressista che ha indotto l’a priori moderno nella fondazione della dogmatica e della morale»1254. A queste quattro fasi dell’itinerario fabriano corrispondono numerose opere, che hanno trovato vasta eco sia in Italia che all’estero. All’interpretazione del pensiero tommasiano come filosofia basata sull’idea di partecipazione ontologica sono dedicati i volumi: La nozione metafisica di partecipazione secondo San Tommaso (1939; II edizione 1950; III edizione 1963); Percezione e pensiero (1941; II edizione 1962); Partecipation et causalité (Univ. de Louvain, Chaire Card. Mercier, 1954), opera edita in italiano nel 1960: Partecipazione e causalità; Esegesi tomistica (1969); Introduzione a San Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno (1983; II edizione 1997). Alle analisi sulla genesi dell’immanentismo moderno sono dedicati i due cospicui volumi Introduzione all’ateismo moderno (1964; II edizione 1969): l’opera fu tradotta in inglese da A. Gibson col titolo Got in exile. Modern 1253

A. LIVI, Cornelio Fabro e il dialogo tra tomismo e pensiero moderno, in IDEM, La filosofia e la sua storia, Vol. III, tomo 2, Il Novecento, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1997, p. 636. 1254 A. DALLEDONNE, Cenni sul pensiero e sull’opera del Padre Cornelio Fabro, «Le panarie», settembre 1977, p. 5.

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Atheism (The Newman Press, New York 1968) e servì a Fabro come testo di base per il corso tenuto nel 1965 presso la Notre Dame University nell’Indiana (USA). Altre importanti opere sulla filosofia moderna e contemporanea in cui si confronta anche con Hegel ed Heidegger sono: Dall’essere all’esistente (1957) e La preghiera nel pensiero moderno (1979; II edizione 1985). Una terza linea di ricerche che approfondisce e sviluppa i risultati delle precedenti può essere individuata nei lavori dedicati a Kierkegaard e all’esistenzialismo del Novecento. A partire da queste opere storiografiche Fabro cerca di proporre una “filosofia della libertà” che trovi il suo fondamento dell’Assoluto. In tale ottica vanno comprese le traduzioni fabriane del Diario e di altre opere di Kierkegaard nonché i volumi Tra Kierkegaard e Marx. Per una definizione dell’esistenza (1952, II edizione 1978) e Riflessioni sulla libertà (1983). Fabro è stato un energico polemista. Tale carattere fortemente critico emerge nelle scritti in cui si confronta con Antonio Rosmini1255, con la posizione ontologica di Emanuele Severino1256 e soprattutto nelle opere dedicate alla svolta antropologica e progressista della teologia del Novecento: La svolta antropologica di Karl Rahner (1974) e L’avventura della teologia progressista (1974). Contemporaneamente alla produzione filosofica Fabro scrisse anche molti raffinati opuscoli ed entretiens di carattere teologico e spirituale. Tali sono ad esempio le raccolte delle sue omelie domenicali1257 ed la miscellanea Profili di Santi (1957), in cui

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Cfr. C. FABRO, L’enigma Rosmini. Appunti d’archivio per la storia dei tre processi (1849, 1850-1854, 1876-1887), Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli 1988. Questa ricerca sulle fasi dei processi a Rosmini fu commissionata a Fabro da Papa Paolo VI nel 1970. 1256 Cfr. IDEM, L’alienazione dell’Occidente. Osservazioni sul pensiero di E. Severino, Quadrivium, Genova 1981. 1257 Cfr. IDEM, Vangeli delle Domeniche, in Opere Complete Cornelio Fabro, Edivi, Roma 2010, Vol. 15. Si tratta di una serie di omelie tenute alla Radio italiana (Programma nazionale) negli anni 1954-55.

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compaiono interessanti articoli sulla spiritualità di Gemma Galgani, di San Pio X e di Edith Stein. L’11 aprile 2002 il Superiore Generale dell’Istituto del Verbo Incarnato, padre Carlos Miguel Buela, ha dato inizio al «Progetto Culturale Cornelio Fabro», che ha come scopo la conservazione e la diffusione di tutta la produzione intellettuale del filosofo friulano, rendendola fruibile sia in formato cartaceo che in formato digitale (con audio, filmati e testi). Tra i grandi meriti del «Progetto Culturale» vi è sicuramente quello di aver dato avvio alla pubblicazione dell’Opera omina di Fabro, un grande lavoro svolto sotto il patrocinio del CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche). Nel marzo 2004 è uscita la prima pubblicazione dell’Opera omnia presso la Casa Editrice di Roma EDIVI: si tratta dell’inedito fabriano La prima riforma della dialettica hegeliana. Attualmente sono stati stampati 12 volumi: il catalogo ne prevede oltre un centinaio (volumi editi dall’autore ormai fuori commercio, inediti, appunti di lezioni, omelie, epistolario). I lavori dell’Opera omnia vengono sapientemente guidati da Padre Elvio Celestino Fontana. Nell’aprile 2007 è stata annunciata anche la pubblicazione delle «Obras Selectas de Cornelio Fabro»: si sta quindi procedendo alla traduzione delle Opere di Fabro sia spagnolo che in inglese. 2. Cenni biografici Come abbiamo constatato, quello di Fabro è un itinerario di ricerca ad mentem Sancti Thomae: esso si articola come una Erneuerung des Thomismus, come un “rinnovamento del tomismo”, o meglio ancora come un ripensamento vigoroso dei presupporti speculativi che hanno mosso la ricerca filosofica dello stesso Aquinate. Tale ripensamento avviene in un fecondo confronto critico con la modernità filosofica: sia con la genesi dell’ateismo moderno sia con quegli autori come Kierkegaard che hanno dato solide basi per una rinnovata “filosofia della libertà”. Cornelio Fabro nacque a Flumignano di Talmassons (vicino Udine) il 24 agosto 1911. Nel 1928, dopo aver compiuto gli studi 540

presso la Scuola Apostolica Bertoni, entrò nell’ordine religioso degli Stimmatini. Fin dalla giovinezza Fabro fu un attento studioso di filosofia e teologia. In tarda età egli ricorda ancora l’importanza del suoi primi incontri con i testi filosofici durante gli anni del liceo: «l’entusiasmante prima lettura del Fedone di Platone»1258 e la sua formazione filosofica sui manuali di Rodolfo Mondolfo e di Ludovico Limentani. Egli compì i suoi studi presso l’Università Lateranense dove nel 1931 discute una tesi di laurea dal titolo L’oggettività del principio di causa e la critica di David Hume. Nel 1934 vinse il Concorso Internazionale dell’Accademia Romana di S. Tommaso con una dissertazione sul tema: Il principio di causa (origine psicologica, formulazione filosofica, valore universale e necessario). Fabro ricorda che la somma vinta al concorso gli permise la costituzione del primo nucleo di una biblioteca personale che nel corso degli anni si arricchì di migliaia di volumi (oltre 20.000), ora raccolti e catalogati come “Fondo Fabro” presso la Pontificia Università della Santa Croce (Roma)1259. Un aspetto importante della formazione intellettuale di Fabro, talvolta sottovalutato dagli interpreti, sono i suoi giovanili studi scientifici e biologici. Prima presso l’Università Lateranense e successivamente all’Università domenicana dell’Angelicum ebbe occasione di collaborare con il Prof. Giuseppe Reverberi che lo iniziò alle ricerche sull’embriologia e la genetica. Il Reverberi cercava una conciliazione tra i nuovi risultati delle scienze naturali e la prospettiva filosofica aristotelico-tomista: seguiva quindi le proposte vitalistiche, all’epoca in voga, di Hans Driesch. Fabro ricorda che «per mettere in luce gli stretti rapporti tra biologia e filosofia, il Reverberi presentò un giorno in classe la traduzione

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C. FABRO, Appunti di un itinerario. Versione integrale delle tre stesure con parti inedite, a cura di R. Goglia e E. Fontana, Edivi, Segni - Roma 2011, p. 29. Le tre redazioni di queste memorie autobiografiche risalgono al 1980. 1259 Una puntuale descrizione dei volumi che compongono la biblioteca di Fabro viene effettuata da A. ACERBI, Il “Fondo Fabro”, «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia», I, 13, 2004, pp.159-160.

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francese del Die Philosophie des Organischen del Driesch1260 con la prefazione di Jacques Maritain, nella quale l’astro nascente del neotomismo francese interpretava l’entelechìa del biologo-filosofo tedesco in diretta derivazione della “entelechìa” ch’è, com’è noto, il concetto fondamentale della definizione dell’anima di Aristotele»1261. Tuttavia Fabro abbandonò presto gli studi scientifici e tornò a quelli filosofici a causa di un «piccolo e quasi insignificante incidente accademico»1262: nel 1937 ebbe una disputa con il Prof. Aldo Spirito, docente di embriologia, sulla natura dei fenomeni vitali e sul comportamento dei colloidi nel mondo inorganico. Così ricorda il Nostro: «nel fervore della discussione il professore ebbe un’impennata e sbottò: “Ma allora, Fabro, vai a far filosofia!”. E così tornai completamente al mio primo amore»1263. La parentesi di studi biologici non fu però per Fabro priva di riflessi anche sul piano propriamente speculativo: essa contribuì a far orientare il suo atteggiamento filosofico zu den Sachen selbst, verso la concretezza delle cose in sé stesse, cioè verso «l’osservazione diretta dei fenomeni vitali - inesauribili nella varietà e nella molteplicità delle forme di sviluppo»1264. Non ci pare esagerato dire che il realismo conoscitivo, strenuamente difeso dall’Autore nei suoi successivi studi contro ogni forma di idealismo e di soggettivismo, abbia alle sue spalle anche dei saldi fondamenti scientifici; Fabro afferma che nella ricerca sperimentale effettuata nei laboratori «è la realtà in sé che ti prende e ti costringe a fare i conti con essa, senza permettere fumosità pseudo teoretiche e divagazioni formali semantiche»1265. Ci soffermiamo ora su alcune tappe significative dell’itinerario fabriano di docenza. Dal 1937 al 1940 Fabro fu professore incaricato 1260

Cfr. H. DRIESCH, Philosophie des Organischen, Gifford-Vorlesungen gehalten an der Universität Aberdeen in den Jahren 1907-1908, W. Engelmann, Leipzig 1909. 1261 C. FABRO, Appunti di un itinerario. Versione integrale delle tre stesure con parti inedite, cit., p. 34. 1262 Ibidem, p. 39. 1263 Ibidem. 1264 Ibidem, p. 36. 1265 Ibidem.

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di biologia e psicologia teoretica presso l’Università Lateranense, dove gli venne affidato anche un seminario di metafisica. Nel 1941 venne nominato professore ordinario presso l’Università Urbaniana di Roma: divenendo successivamente anche decano della Facoltà di Filosofia; nel 1959 fondò in quello stesso ateneo il primo Istituto in Europa di Storia dell’ateismo. Dopo una breve esperienza di docenza presso l’Università Cattolica di Milano, egli tornò ad insegnare a Roma presso l’Istituto Universitario di Magistero “Maria SS. Assunta” (l’attuale Lumsa), dove fu per qualche anno anche Rettore. Nel 1965 egli si trasferì nell’Università di Perugia ed insegnò in quella sede fino al 1981. Fabro fu anche tra i soci fondatori della SITA (Società Internazionale Tommaso d’Aquino), della quale fu presidente negli anni 1985-1991. Si spense a Roma il 4 maggio 1995. Nella sua tomba è stata posta una lapide con la scritta in latino «scio cui credidi» (II Lettera a Timoteo, 1, 12). 3. La novità della metafisica tomistica: l’actus essendi e l’idea di partecipazione ontologica Nel 1939, a soli 28 anni, Fabro pubblica la sua prima grande opera di ermeneutica tomistica: La nozione metafisica di partecipazione secondo san Tommaso d’Aquino. Tale scritto si colloca certamente nel grande alveo della rinascenza del tomismo promossa dall’enciclica Aeterni Patris (1879) di Leone XIII e poi dall’enciclica Pascendi (1907) di Pio X. Tuttavia a partire dal suo scritto giovanile Fabro prende esplicitamente le distanze dalla prospettiva aristotelico-tomista così com’essa veniva insegnata nelle università cattoliche e nei seminari, una prospettiva che non faceva emergere la novità del pensiero di Tommaso, riducendo quest’ultimo ad un “aristotelico cristiano”: si tratta, in larga misura, della prospettiva, astorica e sistematica, espressa nelle XXIV tesi redatte e commentate da Mons. Guido Matiussi1266. 1266

Cfr. G. MATIUSSI, Le XXIV tesi della filosofia di S. Tommaso, Università Gregoriana, Roma 1917, 19252.

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Il grande contributo storiografico e teoretico di Fabro è quello di aver dimostrato, sulla base di un’attenta filologia, l’assoluta originalità del concetto tommasiano di essere (esse ut actus): questo sarebbe originale sia rispetto ad Aristotele che all’ontologia (spesso formalistica e astratta) elaborata dai commentatori moderni di Tommaso, come il Gaetano e Fancisco Suárez1267. Fabro nega quindi la sostanziale unità della filosofia cosiddetta aristotelico-tomista: Tommaso non sarebbe un semplice continuatore di Aristotele, senza cesure o differenze rilevanti, ma un vero e proprio innovatore1268. Il filosofo friulano nota che in Aristotele il concetto di essere (tò òn) si risolve nella teorizzazione della sostanza (ousía) che è sínolo, cioè unione, di materia (hýle) e forma (morphé): nel XII libro della Metafisica lo Stagirita, pur parlando del “primo motore” come “sostanza sovrasensibile” che è puro pensiero (nóesis noéseos), non giunge però ad innalzare la teorizzazione dell’essere oltre i concetti di sostanza e di forma (intesa come entelécheia è próte). A partire da Aristotele, ma andando ben oltre il naturalismo aristotelico, Tommaso d’Aquino - sottolinea Fabro - ha innalzato la speculazione fino all’atto d’essere (actus essendi) primo e fondante, intendendo quest’ultimo come l’origine stessa di tutti gli enti finiti. Come lo Stagirita, anche l’Aquinate affida alla metafisica il compito di studiare «l’ente in quanto ente»1269, ovvero il più universale di tutti i 1267

A tal proposito si vedano anche C. FABRO, Neotomismo e Suarezismo, Divus Thomas, Piacenza 1941; a cura di M. Lattanzio, Edivi, Roma 2005; IDEM, Breve introduzione al tomismo, Desclée & C. - Editori Pontifici, Roma 1960; a cura di M. Lattanzio, Edivi, Roma 2007. 1268 Sulla questione dell’unità del pensiero arisotelico-tomista Fabro ebbe un acceso dibattito anche con il gesuita Carlo Giacon. Quest’ultimo mise in discussione le tesi sull’esse tomistico presentate da Maritain, da Gilson e dallo stesso Fabro, affermando che i tre autori accettavano in buona parte la lezione di Heidegger e concepivano la stessa metafisica della tradizione tomistica (in particolare la “seconda scolastica” o “scolastica barocca”) come “oblio dell’essere”. Si veda C. GIACON, S. Tommaso e l’esistenza come atto: Maritain, Gilson, Fabro, «Medioevo», I, 1975, pp. 1-28. 1269 ARISTOTELE, Metafisica, 1003 a; tr. it. di G. Reale, Rusconi, Milano 1993, p. 131: «C’è una scienza (epistéme) che considera l’essere in quanto essere (theoreî tò òn ê òn) e le proprietà (tà hypárchonta) che gli

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concetti: tuttavia l’Aquinate, differentemente da Aristotele, cerca di indagare la fonte originaria dell’essere degli enti, il loro Urspung. In questa sua ricerca di carattere genetico-fondativo Tommaso d’Aquino - osserva Fabro - si serve del concetto ebraico-cristiano di creazione (la creatio ex nihilo), sconosciuto ad Aristotele, per il quale, come è noto, la materia era increata ed eterna. Ogni ente (id quod habet esse) trova, quindi, il suo fondamento in un atto d’essere (Dio quale plenitudo essendi) che è creativo e che è Causa prima: causa universali essendi omnibus rebus et agendi omnibus rebus. Seguendo Fabro, possiamo dire che l’atto d’essere è “emergente” rispetto a tutti gli enti finiti, li fonda e li crea dal nulla, ma allo stesso tempo li trascende: «L’originalità teoretica della speculazione di S. Tommaso rispetto al pensiero classico, sia platonico come aristotelico, come rispetto al pensiero patristico e alla speculazione del suo tempo è stata nel chiaro proposito di dare all’esse il significato di “atto” emergente per eccellenza»1270. Andando alla ricerca delle fonti della nozione tomistica di essere, Fabro sottolinea la presenza di un elemento trascurato da tanta parte del neotomismo del Novecento: la componente platonica e neoplatonica del pensiero tommasiano, quale emerge soprattutto dalla nozione di partecipazione. Egli rileva che l’essere delle creature, per l’Aquinate, è sempre un “essere per partecipazione”.

competono in quanto tale. Essa non si identifica con nessuna delle scienze particolari: infatti nessuna delle altre scienze considera l’essere in quanto essere in universale (kathólou), ma, dopo aver delimitato una parte di esso, ciascuna studia le caratteristiche di questa parte». Aristotele sottolinea che la sua ricerca sull’ente ha un carattere protologico: essa intende cioè investigare «i princìpi e le cause prime (tàs archàs kai tàs akrotàtas aitías)» del movimento all’interno dell’essere. A tal proposito si vedano gli studi ormai classici di P. AUBENQUE, Le problème de l’être chez Aristote, P.U.F., Paris 1962; P. RICOEUR, Être, essence et substance chez Platon et Aristote, [cours professé à l’Université de Strasbourg en 1953-1954], Seuil, Paris 2011. 1270 C. FABRO, La problematica dell’esse tomistico, in IDEM, Tomismo e pensiero moderno, Pontifica Università Lateranense, Roma 1969, pp. 103134, p. 103.

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Fabro scrive nei suoi appunti che «quest’incontro con la nozione di partecipazione fu decisivo per il resto della [sua] ricerca, non solo nello studio del pensiero classico e medievale in cui essa diventa il signum contradictionis (opera allo scoperto, in modo positivo o negativo), ma anche per orientar[si] sull’essenza e sulle varie diramazioni del pensiero moderno che trovava affascinanti e stimolanti per il suo vario convergere sull’uomo e per le sue profonde affinità con la nozione di partecipazione che avev[a] intravista»1271. Soffermiamoci, quindi, nel delineare quella che è l’intuizione fondamentale tramite la quale Fabro rilegge ed interpreta con originalità l’intero pensiero di San Tommaso e la stessa modernità filosofica: l’idea di partecipazione ontologica delle enti finiti nei confronti dell’Ipsum esse subsistens. Ecco le parole suggestive con le quali Fabro ricorda la giovanile intuizione che costituirà poi il filo conduttore delle sue ricerche: «L’incontro con la nozione di partecipazione come chiave dell’ermeneutica speculativa a tutti i livelli, fu fortunoso ma non fu casuale. Attendevo agli inizi del 1934 agli ultimi ritocchi della Dissertazione per il Concorso accademico, ma non mi sentivo tranquillo benché mi fossi accodato con la maggioranza dei tomisti e neoscolastici alle posizioni del manuale di [Salvatore Maria] Roselli1272, fonte principale di quello dello Zigliara1273 e del neotomismo. Una notte, forse scosso dall’inquietudine latente, mi svegliai di soprassalto e fui colpito da un pensiero che mi parve semplice e radicale: la formula critica ultima del principio di causa non può essere che quella con la quale S. Tommaso esprime la 1271

C. FABRO, Appunti di un itinerario. Versione integrale delle tre stesure con parti inedite, cit., p. 34. 1272 Cfr. M.S. ROSELLI, Summa philosophiae, 6 voll., Roma 1777-1783; Madrid 1788. A tal proposito cfr. E.I. NARCISO, La Summa philosophica di Salvatore Roselli e la rinascita del tomismo, Lateran University Press, Roma 1966. 1273 Si tratta del domenicano Tommaso Maria Zigliara, al quale, com’è noto, Papa Leone XIII affidò la direzione dell’edizione romana (detta Leonina) delle opere di S. Tommaso. Il manuale al quale Fabro si riferisce è la Summa philosophica in usum scholarum edita nel 1876.

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“dipendenza” prima e radicale della creatura dal Creatore. Mi alzai, aprii la prima parte della Summa Theologiae alla q. 44, a. I (“Utrum sit necessarium omne ens esse creatum a Deo”) e trovai subito la formula radicale che cercavo: “Necesse est dicere omne quod quocumque modo est, a Deo esse. […] Per partecipationem […]”. E S. Tommaso concludeva che questo era il punto d’arrivo della speculazione sia platonica come aristotelica, l’incontro essenziale dei due massimi pensatori del mondo classico, Platone e Aristotele»1274. L’idea di partecipazione diviene per Fabro il fulcro ermeneutico del pensiero tommasiano: essa ne fa emergere la matrice essenzialmente platonica e ne dinamicizza le strutture speculative, allontanando altresì quello che Étienne Gilson definiva come “essenzialismo” del neotomismo e della neoscolastica. Per Platone la partecipazione (méthexis)1275 esprime il nesso tra l’Uno e i molti, tra la sfera intelligibile e quella sensibile: l’Aquinate - sottolinea Fabro riprende quest’intuizione platonica, la coniuga con il creazionismo cristiano e la pone a fondamento del rapporto tra Dio e gli enti finiti. In tale prospettiva ogni ens finitum ha un esse partecipatum che gli deriva direttamente dall’Ipsum esse per essentiam1276: si tratta di una dipendenza reale del finito dall’infinito, della creatura dal Creatore. Fabro rileva, quindi, che in San Tommaso troviamo un’originale sintesi di platonismo e di aristotelismo: nell’esame dell’ente e delle sue caratteristiche generali (sostanza-accidenti, materia-forma, attopotenza, ecc.) egli segue Aristotele, mentre quando tenta di fondare tutto il reale sull’atto d’essere (actus essendi) - cioè su Dio - egli ricorre all’idea platonica di partecipazione. A tal proposito Fernand Van Steenberghen, un grande storico del pensiero medievale, docente a Lovanio, ha correttamente messo in rilevo che «per Fabro S. Tommaso unifica in una sintesi superiore il platonismo e l’aristotelismo mediante una trasposizione originale della dottrina della partecipazione. Portata sul piano della causalità metafisica, la 1274

C. FABRO, Appunti di un itinerario. Versione integrale delle tre stesure con parti inedite, cit., p. 34. 1275 Si vedano PLATONE, Fedro 83 a; Parmenide 131 a; Repubblica 402 c. 1276 A tal proposito cfr. TOMMASO D’AQUINO, Summa Theologiae, I, q. 13, a. 11.

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partecipazione platonica si traduce, nel Doctor Communis, nella composizione reale di esse ed essentia nel finito, e con la dipendenza totale del finito sotto l’influsso creatore dell’Essere infinito; la composizione di esse ed essentia provoca, a sua volta, un ampliamento delle nozioni aristoteliche di atto e potenza, chiamate ormai a esplicare un ruolo nuovo nella struttura ontologica del composto finito. Il tomismo appare in fin dei conti come un ringiovanimento e un approfondimento originale del pensiero greco. Rispetto alle sue fonti principali il Fabro pensa che si tratta di un platonismo specificato dall’aristotelismo, più ancora che un aristotelismo specificato dal platonismo»1277. Già a partire dall’opera del 1939 Fabro distingue tra una “partecipazione predicamentale” e una “partecipazione trascendentale”. Il primo tipo è quella in cui entrambe i termini della relazione (partecipante e partecipato) restano a livello dell’ente, nelle sostanze finite, senza innalzarsi alla trascendenza divina: la “partecipazione predicamentale” può quindi aver luogo sia sul piano logico (la partecipazione della specie al genere) sia sul piano reale (la partecipazione della materia alla forma). Il modello “trascendentale” di partecipazione è invece quello che si svolge tra l’actus essendi e i singoli enti: qui si entra sul piano propriamente metafisico e sovrasensibile. Fabro chiarisce che in senso metafisico «partecipare significa avere in modo “limitato”, “particolare”, “imperfetto” un atto e una formalità che altrove si trovano in modo totale, illimitato,

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F. VAN STEENBERGHEN, Siger de Brabant d’après ses oeuvres inédites, Éditions de l’Institut Supérieur de Philosophie, Louvain 1942, Vol. II, pp. 481 e ss. Secondo Van Steenberghen «ces vues [de Fabro] sur la métaphysique de saint Thomas paraissent exactes» (ibidem). L’Autore di Lovanio fa sua la prospettiva di Fabro e sviluppa l’idea tommasiana di partecipazione nell’opera Le mouvement doctrinal du IXe au XIVe siècle, in A. FLICHE - V. MARTIN, Historie de l’Église, Bloud et Gay, Paris 1951, Vol. 13. Cfr. anche L. ROMERA, Pensar el ser. Analisis del conocimiento del “Actus essendi” segun C. Fabro, Éditions Scientifiques Européennes, Berna 1994.

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perfetto»1278. Con tali parole l’Autore vuol dire che l’essere degli enti non si autogiustifica senza il riferimento ad altro da sé, alla sua fonte sorgiva: l’actus essendi divino. In particolare, specifica Fabro, è la forma (eîdos/morphé) che partecipa dell’atto d’essere: quest’ultimo comunica alla forma l’attualità che la rende principium essendi et agendi dell’ente concreto. La “partecipazione trascendentale” è quindi il coronamento del sistema metafisico tommasiano, nel quale viene posto un sostanziale equilibro tra immanenza e trascendenza: Dio è il fondamento ontologico dei singoli enti - il suo essere vi si riverbera in essi per potentiam, per essentiam e per praesentiam - ma non si risolve totalmente in essi. Tra l’actus essendi di Dio e le creature continua sempre a sussistere una “differenza ontologica”1279. Tale iatus tra l’essere in sé e l’essere partecipato delle creature viene ribadito da Fabro anche nel volume del 1960 Partecipazione e causalità: in esso all’idea di partecipazione (di origine platonica) connette ed intreccia in una sintesi feconda quella di causalità (di origine aristotelica): Dio viene concepito come causalità divina dei singoli enti. In tal modo viene salvaguardata l’assoluta trascendenza di Dio e, allo stesso tempo, viene espressa la profonda immanenza di Dio che sorregge nell’essere il creato. Grazie all’intreccio fecondo dei concetti di partecipazione e causalità, in San Tommaso sottolinea Fabro - vengono superate le aporie tanto del platonismo 1278

C. FABRO, La nozione metafisica di partecipazione, Vita e Pensiero, Milano 1939; SEI, Torino, 19502, p. 361. 1279 A questo proposito, sulla scorta della lezione di Fabro e di Gilson, Battista Mondin ha opportunamente osservato che «la filosofia dell’essere di S. Tommaso non è semplicemente ontologia come nelle filosofia di Parmenide e di Heidegger; ma è un’autentica metafisica. La speculazione ontologica di S. Tommaso si spinge oltre (metà) gli enti e assicura loro una solidissima base radicandoli nell’esse ipsum subsistens. Nella filosofia tomistica dell’essere, tra enti ed essere c’è un abisso, un’infinita differenza qualitativa e non semplicemente quantitativa. Per questo motivo si può legittimamente affermare che quella di S. Tommaso è l’unica autentica metafisica dell’essere che sia mai stata concepita, anche se non è mai stata sistematicamente teorizzata né elaborata in tutti i suoi dettagli» (B. MONDIN, La metafisica di S. Tommaso d’Aquino e i suoi interpreti, cit., p. 82).

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quanto dell’aristotelismo: «La realtà è che a rigore nel platonismo storico la partecipazione elimina la causalità e questo tanto nella sfera trascendentale come in quella predicamentale: nella prima per il separatismo formale [la dottrina del chorimós] che riduce l’esse a “prima creatura” e quindi a una partecipazione, nella seconda per il separatismo reale in quanto i partecipanti [cioè gli enti] ottengono una “similitudine” dell’atto partecipato e non una partecipazione di “derivazione reale” dell’atto stesso [a Platone era sconosciuto il concetto biblico di creazione]. Parimenti a rigore nell’aristotelismo storico la causalità annulla la partecipazione: […] Dio nella gioia suprema dell’Atto di conoscere se stesso non può ammettere mescolanza di “altri” soggetti diversi da sé»1280. Le idee della partecipazione ontologica e della causalità divina conducono Fabro ad accettare quella che Gilson definiva come “metafisica dell’Esodo”: in San Tommaso, secondo Gilson e Fabro, la ragione filosofica (il lógon didónai) sarebbe in grado di argomentare per se ipsam i contenuti che il libro dell’Esodo propone come dati rivelati, ovvero la natura di Dio come essere supremo e creatore1281. Inoltre grazie ai concetti filosofici di partecipazione e di causalità diviene nuovamente possibile il discorso razionale su Dio per analogiam, cioè a partire dalla costituzione ontologica degli enti: 1280

C. FABRO, Partecipazione e causalità, SEI, Torino 1960, pp. 317-318. Quando Mosé sul monte Oreb chiese a Dio il suo nome, Egli rispose «Io sono colui che sono (in latino: Ego sum qui sum; in ebraico: Ehjéh Aschér Ehjéh, letteralmente “Sarò colui che sarò”)» (Esodo, 3, 14). Étienne Gilson sviluppa l’interpretazione del pensiero tommasiano come “metafisica dell’Esodo” soprattutto nella quarta edizione de Le Thomisme (Vrin, Paris 1965). Si noti che tale prospettiva ermeneutica di Gilson (e di Fabro) non è scevra di dibattito tra gli studiosi: Klaus Kremer sostiene, ad esempio, inesistenza di una «Exodusmetaphysik», attribuendo soprattutto a fonti neoplatoniche la nozione tomista di esse: cfr. K. KREMER, Die neoplatonische Seinsphilosophie und ihre Wirkung auf Thomas von Aquin, Müller Verlag, Leiden 1966, in particolare pp. XXVI, 302-303, 383-391. Su tale tematica si veda anche A. LIVI, Étienne Gilson e la «metafisica dell’Esodo», in IDEM, Il Cristianesimo nella filosofia. Il problema della filosofia cristiana nei suoi sviluppi e nelle prospettive attuali, Japadre, L’Aquila 1969, pp. 159-184. 1281

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com’è noto, la dottrina dell’analogia entis afferma che si può parlare di Dio e dei suoi attributi partendo dall’essere delle creature, ovvero così San Paolo - «a creatura mundi per ea quae facta sunt» (Ep. ad Rom., 1, 20), a partire dalle cose create. Fabro recupera, quindi, la lezione di Erich Przywara sulle possibilità dell’analogia, ponendosi in aperto contrasto con il teologo protestante Karl Barth e con il cosiddetto “barthismo”, che ha avuto influssi anche nella teologia cattolica1282. Come abbiamo già accennato, Fabro fu uomo energico e di grande vis polemica: non risparmiò critiche neanche ai tomisti suoi contemporanei come Jacques Maritain e Gilson. A quest’ultimo in particolare rimproverò di non aver approfondito sufficientemente le fonti della metafisica di Tommaso e soprattutto il fatto di non avergli riconosciuto il primato nella scoperta dell’idea di partecipazione 1282

Quello dell’analogia entis è il metodo teologico che Barth considera come «l’emblema stesso della teologia cattolica. L’idea che nella realtà umana e terrena vi sia oggettivamente qualcosa di analogo alla realtà di Dio, e che pertanto i concetti che designano tali realtà possano essere riferiti anche alla realtà divina, pur cogliendola solo parzialmente» (F. ARDUSSO G. FERRETTI - A. PERONE PASTORE - U. PERONE, Introduzione alla teologia contemporanea, Società Editrice Internazionale, Torino 1972, p. 38). Uno scritto ormai classico sull’argomento è quello di Erich Przywara, il quale ebbe un’accesa disputa con Karl Barth proprio sul tema della conoscenza analogica di Dio fondata sul principio di non-contraddizione: cfr. E. PRZYWARA, Analogia Entis - Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico, [la prima edizione del volume è del 1932, la seconda edizione ampliata è del 1962], Vita e Pensiero, Milano 1995. Secondo Karl Barth «l’analogia entis è l’abominevole strada che va dal basso in alto, che presume di passare dalla terra al mistero divino» (G. REALE - D. ANTISERI, La teologia protestante da Barth a Bonhoeffer, in IDEM, Storia della filosofia, Vol. 10, Bompiani, Milano 2008, pp. 489-566, p. 493), essa è quindi il frutto di una ragione umana presuntuosa ed arrogante. All’analogia entis andrebbe sostituita quella che Barth definisce come analogia fidei: «la strada giusta è quella che va dall’alto in basso, quella dell’analogia fidei: è partendo dalla fede che il cristiano comprende le verità cristiane, e non fondandosi sulla propria ragione. La fede cessa di essere fede quando cerca supporti razionali» (ibidem).

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come fulcro speculativo del tomismo. Ecco le affermazioni fatte da Fabro in una lettera a proposito di Gilson: «qualcosa mi ha sempre lasciato un po’ incerto sulla “qualità metafisica” della sua opera, e in particolare: a) il mancato studio critico-teoretico delle fonti della metafisica dell’esse tomistico; di qui la sua persistenza a usare existence per l’esse tomistico; b) la sua confessa noncuranza della filosofia moderna, ch’egli tocca ex communiter dictis. […] Gilson, solo nel 1942, sembra afferrare un po’ la vera natura dell’esse tomistico. Ora lei sa [riferito a B. Mondin] che il mio volume della partecipazione, dove si trova per la prima volta (mi sembra) il concetto di esse come atto emergente è del 1939 (cfr. p. 190 e segg. della I ed.). La presentazione era assolutamente nuova e certamente Gilson l’ha vista (ha avuto il volume) ma non dice nulla. 2) Un caso simile è la valorizzazione per la IV via del Prol. al Comm. In Jo. di S. Tommaso: un testo notevolmente diverso da quello della Somma. Nessuno, a mia conoscenza, ne aveva mai parlato. Il sottoscritto lo valorizzò per la prima volta in una conferenza dell’Accademia di S. Tommaso nel 1954 (pubblicata in volume dall’Accademia). Ora lo vedo per la prima volta citato da Gilson in The Elements of Christian Philosophy (tr. it., p. 148) senza nessun altro cenno. Questo non mi sembra molto generoso e mi dicono che il mio non è l’unico caso»1283. A partire dalle cose sin qui evidenziate, si comprende bene come Fabro sotto il profilo conoscitivo sia strenuo difensore del realismo classico e del “trascendentale tomistico”: solo in questa prospettiva Dio può essere pensato come essere oggettivo (esse ut actus) senza divenire un mero prodotto della coscienza umana, come spesso accadrà nelle moderne filosofie del cogito (che dissolvono l’essere nell’arco dei vissuti coscienziali). Al significato kantiano di “trascendentale” - il plesso delle condizioni formali tramite le quali la mente determina conoscitivamente il reale - Fabro afferma la necessità di un ritorno speculativo al “trascendentale tomistico”, l’unico in grado di fondare un saldo rapporto tra l’essere e il 1283

Lettera di C. Fabro a Battista Mondin del 22 dicembre 1964: il testo della lettera viene citato in B. MONDIN, La metafisica di S. Tommaso d’Aquino e i suoi interpreti, cit., pp. 98-99.

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pensiero. Fabro nota che la teoria kantiana della conoscenza degenera in forme di scetticismo: essa dichiara, infatti, inconoscibile il fondamento stesso del reale, cioè la cosa in sé (das Ding an sich). Al fine di salvare la conoscibilità dell’essere stesso occorre tornare al modello gnoseologico tommasiano, per il quale la conoscenza è astrazione, è intellezione dell’essenza delle cose materiali. Seguendo l’Aquinate l’oggetto primario del pensiero diviene nuovamente, dopo gli abbagli della modernità, la determinazione dell’essere e delle sue caratteristiche fondamentali, cioè i trascendentalia o trascendentitia: la determinazione dell’essere come unum, verum, bonum e pulchrum1284. Fabro sottolinea, quindi, che il «contatto dell’essere con l’ente è il primo passo del pensiero»1285, venendo meno il quale la conoscenza ha un’inevitabile deriva scettica e nichilistica. Per ribadire la necessità di questo contatto diretto del pensiero con l’essere dell’ente, Fabro si richiama spesso a questi pregnanti adagi contenuti nei scritti di S. Tommaso: «Ens est illud quod primum cadit in conceptione humana» (In Boeth. De Trinitate I, 3 ad. 3); «Primum quod in intellectu cadit est ens, secundum vero negatio entis» (Pot. IX 7 ad. 15); «Id quod primum cadit in intellectu est ens. Unde unicuique apprehenso attribuimus quod sit ens et per

1284

Dalla prima delle Quaestiones disputatae de veritate emerge che secondo l’Aquinate cinque sono i modi fondamentali dell’essere: res, unum, aliquid, verum, bonum. (Cfr. TOMMASO D’AQUINO, De veritate, q. 1, a. 1) Si tratta di cinque proprietà che trascendono (abbracciandoli) tutti gli ambiti in cui l’ente si articola: tali proprietà vengono chiamate (non direttamente da Tommaso, ma dagli scolastici a lui successivi) trascendentitia o trascendentalia. A tal riguardo si veda quanto scrive Lluís Clavell che fu anche un allievo di Fabro: L. CLAVELL, Gli aspetti trascendentali dell’ente, in L. CLAVELL - M. PÉREZ DE LABORDA, Metafisica, Edusc, Roma 20092, pp. 173-255. All’elenco dei cinque trascendentali alcuni autori come Antonio Rosmini e Jacques Maritain ne introducono un sesto: il pulchrum (il bello). Il filosofo francese ritiene che quest’ultimo sia «lo splendore di tutti i trascendentali riuniti» (J. MARITAIN, Art et Scolastique, Librairie de l’Art Catholique, Paris 1920, nota 63). 1285 C. FABRO, Il trascendentale moderno e il trascendentale tomistico, «Angelicum», LX, 1983, pp. 534-558, p. 550.

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conseguens quod sit unum et bonum quae convertuntur cum ente» (Summa Theol. Ia-IIae, 55, 4 ad. 1). 4. L’immanentismo della filosofia moderna Agli inizio degli anni Sessanta nella cultura italiana ci fu un ampio dibattito sull’ateismo contemporaneo, sulla sua genesi e sui suoi risvolti sociologici ed etico-politici. Tre autori che vi contribuirono con scritti significativi e discussi furono Sabino Acquaviva con L’eclissi del sacro nella civiltà industriale (1961), Augusto Del Noce con Il problema dell’ateismo (1964) e Cornelio Fabro con i suoi due volumi Introduzione all’ateismo moderno (1964). Tale dibattito fu sollecitato anche dai documenti del Concilio Vaticano II, apertosi nel Natale del 1961: il Concilio si occupò della questione dell’ateismo soprattutto nella costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Secondo Fabro la genesi dell’ateismo novecentesco, divenuto fenomeno di massa, è da ricercare nelle origini stesse della modernità filosofica: nel principio di immanenza insito nel cogito cartesiano. In Cartesio - sottolinea il Nostro - il pensiero umano ha perso la sua fondamentale intenzionalità ontologica, è divenuto autoreferenziale, perdendo di vista la relazione con l’essere oggettivo. Con la svolta cartesiana il pensiero filosofico ha conosciuto una radicale curvatio in se ipsum ed è divenuto essenzialmente scettico nei confronti della reale conoscibilità dell’essere. Il soggettivismo moderno, quella linea di pensiero che si origina in Cartesio per trovare poi compimento in Kant, Fichte ed Hegel, ha comportato una sostanziale riduzione dell’essere all’atto di coscienza. In questa linea, definibile anche come “trascendentalismo moderno” ogni realtà oggettiva parrebbe dissolversi in realtà di coscienza: in tale prospettiva il Sein (l’essere) e sempre e solo un Bewußtsein (un “essere consaputo”, un “essere di coscienza”). La coscienza nella modernità diviene, quindi, un orizzonte intrascendibile, costitutivamente e pregiudizialmente chiuso ad ogni forma di trascendenza, cioè di alterità: sia essa la trascendenza dell’altro che la trascendenza divina. 554

A parere di Fabro «il principio moderno di immanenza è intrinsecamente ateo poiché coincide con l’affermazione radicale dell’Io come sostrato o orizzonte e principio di ogni affermazioneposizione di essere e di non essere in senso stretto, cioè che l’essere e il non essere si risolvono nella presenza ed assenza di coscienza». Si comprende allora come «nel pensiero moderno, che fa scaturire la presenza dell’essere dall’attività dell’Io, si può parlare di un ateismo strutturale e costitutivo […] in virtù del nuovo principio dell’identità di essere e conoscere. In questa virata decisiva, di un “capovolgimento” (Umkehrung) di 180 gradi si attua la rimozione o assenza o esclusione radicale della stessa possibilità di una (qualsiasi!) “presenza” (o affermazione di esistenza) di Dio come Principio primo dell’universo e garante del senso del mondo come della possibilità di una salvezza eterna dell’uomo»1286. É con il cogito cartesiano che ad avviso di Fabro incipit tragoedia hominis moderni: la soggettività viene rinchiusa in una “gabbia d’oro”, in un immanentismo che, in ultima analisi, dichiara illusorio ogni slancio conoscitivo verso l’ulteriorità. L’autore afferma quindi esplicitamente che «già il cogito cartesiano e le sue variazioni razionalistiche, sia nell’empirismo, come nel deismo e nell’illuminismo, può essere detto ateo radicalmente»1287. Fabro sottolinea che il cogito cartesiano conduce all’ateismo poiché in esso si perde la “verità dell’essere e dei princìpi primi”. Il cogito si riduce perciò ad una sorta di “certitude sans vérité”, una “certezza logica, senza verità ontologica”: «col cogito il fondamento prima e poi il contenuto di verità è trasferito alla coscienza così ch’è l’atto di coscienza e sono le strutture della coscienza nelle sue funzioni intuitive, predicative, discorsive… a fondare la presenza dell’essere, […] in modo che l’atto e le strutture dell’essere “si risolvono” nell’atto e nelle strutture di coscienza. Alla metafisica dell’essere è subentrata la metafisica della mente la quale è fatta partire direttamente da se stessa ossia “muove da se stessa”, è tolto così alla 1286

C. FABRO, Appunti di un itinerario. Versione integrale delle tre stesure con parti inedite, cit., p. 79. 1287 IDEM, Introduzione all’ateismo moderno, Studium, Roma 19692, Vol. II, p. 667.

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radice il legame fondante immediato con l’essere e mediato con Dio e d’ora in poi la coscienza si definisce non più per rapporto all’essere ma per rapporto al “fenomeno” di essere di cui essa coscienza è la verità risolvente»1288. La conseguenza drammatica delle filosofie moderne incentrate sul cogito è, quindi, il nichilismo conoscitivo, un radicale scetticismo nei confronti dell’oggettività dell’essere: la filosofie moderne - come sottolinea efficacemente anche Gustavo Bontadini - sono ab imis fundamentis forme di “gnoseologismo” (cioè di primato assoluto del pensiero sull’essere) che hanno in sé i presupposti o dell’idealismo assoluto (si pensi ad Hegel) o del fenomenismo, facilmente degenerante nello scetticismo e nel nichilismo1289. Notiamo che questa visione storiografica di Fabro trova delle significative analogie con quella del filosofo francese Jean Laporte, alla quale si richiama esplicitamente anche Augusto Del Noce1290. 1288

Ibidem. Simili diagnosi sulle conseguenze negative del cogito cartesiano (e più in generale della modernità filosofica) le ritroviamo in numerosi tomisti del Novecento: ci pare che le analisi di Fabro sul pensiero cartesiano trovino particolari convergenze soprattutto con quelle di Joseph de Finance svolte nel volume Cogito Cartésien et Réflexion Thomiste, Beauchesne, Paris 1946; tr. it. di L. Zarmati, a cura di A. Livi, Essere e pensiero. Il “cogito di Descartes e il realismo tomista, Società Editrice Dante Alighieri, Città di Castello (PG) 1996. 1289 Bontadini sottolinea che nella posizione fenomenistica del pensiero moderno (in particolare cartesiano e kantiano) «ciò che si conoscere non è l’essere - il vero essere, la cosa in sé - ma qualcosa di meno, che è definito appunto, per contrapposizione dal suo… esser conosciuto! […]» (G. BONTADINI, La deviazione metafisica all’inizio della filosofia moderna, [edizione originale 1972], in IDEM, Metafisica e deellenizzazione, Vita e Pensiero, Milano 1975, pp. 35-53, p. 37). Con argomentazioni analoghe a quelle di Fabro egli rileva che nella filosofia moderna «i ponti con la tradizione precedente sono tagliati - strutturalmente appunto - in quanto viene obliterato il fondamento, che nel ciclo precedente sosteneva la tesi della “trascendenza” [cioè dell’alterità dell’essere rispetto alla coscienza conoscitiva]» (ibidem). 1290 Cfr. A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna 1964; 2010, con Postfazione di M. Cacciari, pp. 17-18.

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Laporte scorge nella secolarizzazione e nell’ateismo contemporanei gli esiti ultimi ed inevitabili del razionalismo moderno che ha la sua origine nel pensiero cartesiano. In maniera simile a Fabro, egli interpreta il razionalismo come negazione della trascendenza e come rifiuto quasi dogmatico del soprannaturale: «il razionalista accetta la religione, purché si tratti di una religione razionale, traducente in un linguaggio simbolico le affermazioni della ragione, o limitantesi alla coscienza stessa che noi abbiamo della ragione, in quanto principio di comunione universale tra gli uomini. Egli rifiuta ogni trascendenza. Egli si chiude nell’immanenza, perché pensa che la ragione, la nostra ragione, non si appoggia su nulla di altro, che essa non ha bisogno di completarsi con nulla di altro, che essa non ha dunque a curarsi di alcun al di là. Egli si accomoderà, a rigore, con l’inconoscibile. Egli non tollererà mai il soprannaturale».1291 A parere di Fabro il razionalismo moderno è stato un graduale processo di “immanentizzazione” del reale che ha avuto il suo inizio in Descartes e la sua più compiuta espressione nelle filosofie di Hegel e di Giovanni Gentile. Nella cultura italiana l’attualismo gentiliano rappresenta la più radicale conseguenza del soggettivismo moderno e dell’immanentismo: in Gentile l’Io trascendentale è un’autóctisi, è un’autocreazione dai caratteri quasi divini. Notiamo che nelle indagini di Fabro sulla filosofia moderna si avverte notevolmente l’influsso esercitato dalla storiografia gentiliana, molto seguita nella cultura italiana del primo Novecento: anche per Gentile nella modernità filosofica (da Cartesio ad Hegel) ha gradualmente prevalso il «metodo dell’immanenza», il quale pone «la concretezza assoluta del reale nell’atto del pensiero»1292. Nel pensiero classico greco e in quello medievale l’incipit del discorso filosofico è la meraviglia innanzi all’essere e la filosofia si qualifica come una «gigantomachía perí tés ousías»1293, come sforzo 1291

J. LAPORTE, Le rationalisme de Descartes, Puf, Paris 1945, p. XIX. G. GENTILE, Il metodo dell’immanenza, [relazione tenuta alla Biblioteca filosofica di Palermo il 16 dicembre 1912], in IDEM, La riforma della dialettica hegeliana, [edizione originale 1913], Sansoni, Firenze 1975, pp. 196-232, p. 232. 1293 PLATONE, Sofista 246 a. 1292

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intellettuale di comprensione dell’essere e delle sue strutture. Fabro sottolinea che Heidegger è nel giusto quando sostiene che il pensiero moderno (da Descartes ad Hegel) è stato invece un generale “oblio dell’essere”: andando alla ricerca delle condizioni di possibilità conoscitive dell’essere (le kantiane Bedingungen der Möglichkeit des Seins) i filosofi moderni sono caduti in un vuoto trascendentalismo che comporta inevitabili derive scettiche, poiché incapace di giungere alla conoscenza delle cose in sé stesse. Si comprendono, quindi, i profondi motivi speculativi che hanno reso Fabro tanto ostile nei confronti di tutti i vari tentativi di conciliare in una sintesi superiore la “metafisica dell’essere” con la “metafisica della mente”, il pensiero classico (fondato sull’essere extra-soggettivo) con le moderne filosofie del cogito, di matrice cartesiana e kantiana: si pensi, ad esempio, al pensiero di Rosmini, al “tomismo trascendentale” di Joseph Maréchal e della scuola di Lovanio, o più di recente all’antropologia trascendentale proposta da Karl Rahner. Secondo Fabro, come sottolinea con efficacia Giuseppe Pirola, «l’assolutizzazione della soggettività [tipica dei filosofi moderni e dei loro epigoni] è la premessa dell’ateismo filosofico, per la semplice ragione che, se l’essere è immanente alla coscienza pensante, anche Dio non può che risultare egli stesso un prodotto della coscienza umana, conclusione tratta da Marx stesso»1294. Un ulteriore elemento del pensiero moderno duramente criticato da Fabro è la perdita della concezione di Dio come Persona: in Spinoza, come è noto, Dio viene identificato con la sostanza (Deus sive natura) e perde di conseguenza le sue caratteristiche più pregnanti (ovvero la personalità e la trascendenza). In maniera simile avviene anche nell’idealismo trascendentale di J.G. Fichte e soprattutto nel panlogismo hegeliano in cui Dio diviene lo spirito (Geist) immanente nella storia del mondo: con il suo concetto di spirito e di assoluto (das Absolute) «Hegel» - sottolinea il Nostro «non arriva a Dio che è la soggettività in senso assoluto» e, di conseguenza, non arriva neppure a concepire «il Singolo nel suo 1294

G. PIROLA, Cornelio Fabro, critico della filosofia moderna, «La Civiltà Cattolica», IV, 2009, pp. 17-29, p. 27.

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rapporto a Dio»1295. Nello svolgimento del processo dialettico Hegel concepisce l’assoluto come un’astratta “universalità” (Allgemeinheit) dal carattere totalmente “impersonale”. Fabro nell’Introduzione all’ateismo moderno valuta allora molto positivamente le prospettive di J.K. Lavater, di J.G. Hamann e di F.H. Jacobi che scorgendo i pericoli immanentistici del’idealismo post-kantiano tentano di riproporre delle filosofie dal carattere realistico e che salvaguardano una concezione di Dio cristiana e personalistica. Ecco alcune parole emblematiche di Johann Kaspar Lavater - citate e commentate da Fabro - che mettono in rilievo i pericoli dell’idealismo trascendentale in ambito religioso: «Un Dio che non può dire: io sono; un Dio senza personalità, senza esistenza, che non crea e non dà nulla, fin quando è vero che vive un Dio che è spirito, una luce senza tenebre e l’amore di una pienezza suprema, non è Dio. Mettersi a giocare con la cosa più sacra con parole magiche prive di senso è il gioco più sacrilego»1296. Come noteremo tra breve, è in Kierkegaard che Fabro trova la più valida ed argomentata antitesi alla proposta teoretica degli idealisti ed in particolare di Hegel, che ha “giocato al cristianesimo” tentando di razionalizzare in un sistema le verità di fede e le determinazioni stesse dell’esistenza1297.

1295

C. FABRO, Introduzione a G.W.F. HEGEL, La dialettica. Antologia sistematica, a cura di C. Fabro, La Scuola, Brescia 1960, p. c. 1296 Lettera di J.K. Lavater a K.L. Reinhold (sugli esiti della filosofia idealistica) riportata in H. MAIER, An der Grenze der Philosophie, Mohr, Tübingen 1909, p. 260; il passo citato viene tradotto dall’autore in C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 668. 1297 A tal proposito cfr. C. FABRO, Kierkegaard critico di Hegel, in F. TESSITORE (a cura di), Incidenza di Hegel, Morano, Napoli 1970, pp. 497563.

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5. “Ripartire da Kierkegaard“: i fondamenti ontologici della libertà Fin dagli anni Quaranta Fabro instaura un pensoso confronto con le correnti esistenzialistiche a lui contemporanee: tali indagini prolungano ed approfondiscono al sua diagnosi critica sugli esiti del pensiero moderno. In quegli stessi anni Nicola Abbagnano rivendicava un “esistenzialismo tipicamente italiano”, superiore a quello francese (di Sartre e Merleau-Ponty) e a quello tedesco (di Jaspers ed Heidegger), poiché interpretava l’essere dell’esistenza sulla scorta dell’attualismo gentiliano: Abbagano arrivava, quindi, ad espungere dall’autentico esistenzialismo anche la corrente cristiana francese (rappresentata da Marcel, Lavelle e Le Senne), considerandola uno spiritualismo evanescente ed intimistico, privo di rilievo speculativo. Fabro si oppose radicalmente a tale prospettiva di Abbagnano e fin dai suoi primi scritti rivendicò una matrice propriamente religiosa, cristiana ed antiidealistica dell’esistenzialismo, il cui capostipite fu rinvenuto nel danese Søren Kierkegaard. Per Fabro l’autentico esistenzialismo non poteva essere quello “italo-gentiliano” che escludeva in maniera pregiudiziale dalla considerazione filosofica i temi del peccato, della finitudine umana e della fede come salvezza dal nichilismo1298. Si comprende, quindi, come per Fabro fu fondamentale l’incontro con il pensiero di Kierkegaard: in esso rinvenì un paradigma di critica alla modernità, un modello antihegeliano di filosofia e una prospettiva sulla libertà in grado di coniugarsi sia con il realismo gnoseologico classico che con la “metafisica della partecipazione”. Nel filosofo danese, per dirla con Jean Wahl, egli trovò «il salto opposto alla mediazione dialettica, il paradosso opposto alla sintesi, l’eterogeneietà opposta all’omogeneità, la trascendenza opposta all’immanenza». A Fabro parve di trovare nella grande Postilla alle Briciole di filosofia «l’unico scritto moderno in grado di tener testa - perché ne contesta i 1298

Cfr. C. FABRO, Rassegna dell’esistenzialismo italiano, «Divus Thomas», 5-6, 1943, pp. 431-440; IDEM, Problemi dell’esistenzialismo, Ave, Roma 1945. Cfr. anche E.C. FONTANA, Fabro e l’esistenzialismo, Edivi, Roma 2010.

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fondamenti - alla Scienza della logica di Hegel»1299: di Kierkegaard il Nostro condivideva la critica radicale al principio d’immanenza, caratteristico del pensiero moderno, e la sua ricerca di un’autentica filosofia della libertà. Ecco allora che il giovane Fabro decise di dedicarsi alla traduzione dal danese delle opere del filosofo, cercando di mettere in rilievo anche la lontananza dell’autentico pensiero di Kierkegaard dall’appropriazione che ne aveva fatto Karl Barth. Nel 1940 il Prof. Giuseppe Gabetti, direttore dell’Istituto Germanico di Villa Sciarra, gli mise a disposizione l’edizione originale delle Opere e dei Papirer ed egli iniziò un alacre lavoro di studio e traduzione. Fabro sottolinea che il suo «incontro con Kierkegaard è stato decisivo, non meno di quello con S. Tommaso, Kant, Hegel, Marx… sia per afferrare l’unità sotterranea del pensiero filosofico nelle varie epoche di cultura, sia per cercare dall’interno la radice o le radici del suo polimorfismo, del suo alzarsi ed abbassarsi… nei vari secoli. E come la metafisica di Tommaso [lo] ha liberato per sempre dai formalismi e dalle vuotaggini delle controversie scolastiche, così l’esistenzialismo cristiano di Kierkegaard [lo] ha liberato dal complesso di inferiorità verso il pensiero o, più esattamente, verso la baraonda dei sistemi a getto continuo della filosofia moderna e contemporanea, rivelando[gli] il loro sottofondo antiumano e anticristiano»1300. In particolare Fabro apprezza del pensiero di Kierkegaard il suo essere asistematico, realista e teologico ad un tempo. Il filosofo danese fu asistematico poiché era giustamente convinto che ogni classificazione del reale in un sistema fosse in funzione di una qualche ideologia. Fabro inoltre mette molto in evidenza il realismo della prospettiva gnoseologica di Kierkegaard: non solo per il fatto che egli entra in aperta polemica con il principio d’immanenza (presente in Cartesio, Spinoza, Kant e gli idealisti) ma per il suo esplicito richiamarsi al realismo classico; a tal proposito Fabro cita

1299

C. FABRO, Appunti di un itinerario. Versione integrale delle tre stesure con parti inedite, cit., p. 83. 1300 Ibidem, p. 85.

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spesso una dichiarazione di Kierkegaard che torna non di rado nelle sue opere: «Io sono stato educato al pensiero dei greci»1301. Un ulteriore e fondamentale elemento sul quale Fabro si sofferma è l’Io teologico, quel modello di soggettività in grado di fare il “salto nella fede”, un salto che è oltre ma non contro la ragione. L’Io teologico indica quindi il rapportarsi del finito innanzi all’infinito: si tratta di un rapporto personale tra la creatura e il Creatore, il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”. É sulla base di tale rapporto che la libertà dell’uomo diviene una libertà responsabile, una libertà che diviene cosciente di un ordine di valori incarnati nella stessa gerarchia dell’essere. Se nel mondo moderno la libertà è stata spesso teorizzata come individualismo, spontaneismo ed arbitrium indifferentiae (si pensi ad esempio ai libertini francesi del Seicento), con Kierkegaard la libertà torna ad essere radicata in un ordine ontologico che ha al suo vertice il “bene in sé”: Dio che è caritas, amore oblativo. Nel filosofo danese la libertà umana non è più rinchiusa nel cerchio incantato della coscienza o nel pensiero logicodialettico (come avveniva in Hegel): in Kierkegaard il momento della scelta è un qualcosa di drammatico e paradossale che impegna tutta l’esistenza e che pone l’uomo (libertà finita) in rapporto diretto con Dio (libertà infinita)1302. Si comprende allora come in Fabro - a partire dalle sue riflessioni su Kierkegaard - «l’ultima fondazione (causale) e l’ultima ragion d’essere (finale) della libertà umana è

1301

Tuttavia Fabro ha più volte riconosciuto di aver talvolta esagerato nel porre in rilievo le affinità tra Kierkegaard e il realismo classico: si veda G. BURGHI, Conversazione con Cornelio Fabro, «Aquinas», 3, 1996, p. 465. È stato in particolare Alessandro Cortese - raffinato traduttore italiano di Kierkegaard - a criticare Fabro per certe eccessive forzature interpretative circa i rapporti del filosofo danese con il realismo tomista e con il cattolicesimo: si veda A. CORTESE, Kierkegaard oggi, «Rivista di filosofia neo-scolastica», 75, 1983, pp. 500-510. 1302 A tal riguardo si veda in particolare C. FABRO, La fondazione metafisica della libertà di scelta in Soeren Kierkegaard, in IDEM, Riflessioni sulla libertà, cit., pp. 201-230.

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riconosciuta nel rapporto personale che sussiste tra l’uomo e Dio»1303. 6. Conclusioni e rilievi critici Le riflessioni sulla modernità condotte da Fabro hanno trovato notevole accoglienza tra gli studiosi ma, allo stesso tempo, hanno suscitato anche profonde critiche, che ora cercheremo di esaminare. Oggetto di contestazione e di dichiarati rifiuti è stata «l’idea di fondo sulla quale si baserebbe l’intero suo progetto filosofico - idea consistente nella pretesa di giudicare (e condannare) tutta la filosofia moderna alla luce del concetto tomistico dell’actus essendi»1304. Effettivamente ci pare che l’intuizione originale dell’esse tomistico stia sempre sullo sfondo anche delle sue diagnosi storiografiche sulla filosofia moderna: si tratta di un’intuizione che talvolta genera radicali rifiuti come quelli espressi da Fabro nei confronti sia del pensiero moderno tout court (da Cartesio ad Hegel) che di tutti coloro che hanno cercato di stabilire un dialogo fecondo con la modernità, pur intendendo rimanere fedeli ad un “tomismo essenziale”. Questo è il caso di Rosmini, di Maréchal, di Karl Rahner e del gesuita tedesco Johannes Baptista Lotz, che ha cercato di coniugare la prospettiva trascendentale kantiana con la gnoseologia tomista: quest’ultimo ha sottolineato che la teoria kantiana del giudizio - accentuando il valore di referenza della copula - può essere interpretata come una fondamentale intenzionalità ontologica1305. Pietro Prini, pur in un generale apprezzamento del pensiero fabriano, non esita a mettere in luce che l’esigenza - in sé legittima e positiva - di giustificare una prospettiva filosofica fondativa abbia 1303

A. ACERBI, La libertà in Cornelio Fabro, Edusc, Roma 2005, p. 243. G. REALE - D. ANTISERI, Cornelio Fabro, in IDEM, Storia della filosofia, Vol. 13, Filosofi italiani del Novecento, Bompiani, Milano 2008, pp. 754-769, p. 769. 13051305 Cfr. J.B. LOTZ, Transzendentale Erfahrung, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1978; a cura di M. Marassi, Esperienza trascendentale, Vita e Pensiero, Milano 1993. 1304

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come risultato anche quello di condurre a degli ingiustificati eccessi di critica: «Per un verso l’essere com’è colto in quell’”esperienza metafisica” è riconosciuto come il trascendentale del conoscere, come ciò senza cui non c’è conoscere, ossia come l’intenzionalità ultima e incontestabile del pensare, senza la quale non c’è pensare, perché qualunque pretesa di negarla la presuppone per essere valida. Per altro verso, si fa di quella medesima esperienza dell’essere il criterio di discriminazione tra la filosofia vera e la filosofia falsa, quasi che ci possano essere filosofie che in un modo o nell’altro non conoscano e non pensino»1306. Augusto Del Noce si è dimostrato molto vicino alla sensibilità con la quale Fabro si è accostato al pensiero moderno, trovando notevoli affinità e somiglianze con le sue indagini sulla genealogia dell’ateismo. Riferendosi all’Introduzione all’ateismo moderno egli affermò: «È con vera gioia che vi ho trovato una quasi identità di vedute con queste esposte in questo libro [Il problema dell’ateismo], tanto più degna di essere presa in considerazione perché il linguaggio è differente. Devo limitarmi qui a sottolineare alcuni tra i molti punti di accordo […]. Quanto alla sua tesi sul principio di immanenza come “passo essenziale” per la costituzione dell’ateismo, essa coincide perfettamente col concetto che io propongo del razionalismo. Pure perfetto accordo su quel che egli dice sul tentativo di salvezza della religiosità nell’ateismo marxista»1307. Tuttavia secondo Del Noce la modernità non è solo un processo che ha in sé i germi dell’ateismo contemporaneo, come parrebbe invece emergere dagli scritti di Fabro: nello stesso Cartesio, iniziatore del pensiero moderno, egli individua delle virtualità positive che vanno correttamente messe in rilievo e che hanno dato origine a quella linea di pensiero tipicamente moderna definita come “ontologismo”. Del Noce individua quindi nell’«età che si sul chiamare moderna, il delinearsi di due irreducibili direzioni di pensiero, l’una da Cartesio a Nietzsche, l’altra da Cartesio a Rosmini, destinata questa seconda a 1306

P. PRINI, Il contrassegno del neotomismo italiano, in IDEM, La filosofia cattolica italiana del Novecento, Laterza, Roma-Bari 1996, pp. 39-61, p. 60. 1307 A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., pp. 15-16.

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raggiungere e ad affinare il pensiero metafisico tradizionale»1308. In Del Noce la modernità ha una duplice direzione che trova la sua genesi nel pensiero cartesiano: la prima è quella da “Cartesio ad Hegel e Nietzsche”, ovvero la via dell’immanentismo già individuata ed analizzata da Fabro, la seconda è quella da “Cartesio a Rosmini”, che termina con il recupero dell’ontologia classica e dell’antropologia cristiana. Differentemente da Fabro, Del Noce mette ampiamente in rilievo che il vero avversario di Cartesio fu il pensiero libertino, il libertinage érudi che si dimostra scettico nei confronti di ogni verità prima e fondante e che esprime una concezione dell’uomo naturalistica ed edonistica. Non a caso Del Noce nel 1949 curò un’edizione italiana delle Meditazioni metafisiche di Cartesio: in esse, come egli sottolinea anche nel primo volume di Riforma cattolica e filosofia moderna, emerge un Cartesio che in maniera simile agli scettici e ai libertini fa partire l’indagine filosofica dal dubbio ma che - differentemente da essi - al dubbio non la fa arrestare. Il Cartesio valorizzato da Del Noce è perciò quello delle Meditationes, il cui argomentare è tutto finalizzato a fondare in maniera certa ed indubitabile una metafisica cristiana basata sull’idea di Dio e sull’immortalità dell’anima umana. A questo proposito emblematici sono la celebre epistola ai teologi della Sorbona premessa da Cartesio all’edizione latina delle Meditazioni (1641) ed il titolo stesso dell’opera: Meditationes de prima philosophia in qua Dei existentia et animae immortalitas demonstratur. Cartesio 1308

A. DEL NOCE, L’idea di modernità, [testo edito per la prima volta nel 1982], in IDEM, Modernità. Interpretazione transpolitica della storia contemporanea, a cura di G. Riconda, Morcelliana, Brescia 2007, pp. 3358, p. 37. Sulla complessa interpretazione delnociana della modernità si vedano in particolare M.M. OLIVETTI, Riforma cattolica e filosofia moderna nel pensiero di A. Del Noce, «Archivio di filosofia», I, 1969, pp. 153-187; C. CESA, A. Del Noce e il pensiero moderno, «Giornale critico della filosofia italiana», LXXII, maggio-agosto 1993, pp. 185-211; M. BORGHESI, Augusto Del Noce. La legittimazione critica del moderno, Marietti, Genova 2011; ci permettiamo di rinviare anche al nostro scritto Modernità, secolarizzazione e politica in Augusto Del Noce, in I. POZZONI (a cura di), Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, Morolo (FR) 2011, pp. 338386.

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secondo Del Noce - è un pensatore che non si può interpretare in senso univoco e riduttivo, come spesso fa Fabro: egli è certamente il fondatore del razionalismo moderno (con i suoi esiti nefasti) ma è allo stesso tempo anche un filosofo religioso che «inaugura la storia dell’ontologismo cristiano moderno»1309. Con Cartesio si originano, quindi, due percorsi speculativi che scorrono paralleli per tutto il corso della modernità: il razionalismo con i suoi esiti di idealismo assoluto e di immanentismo (Hegel) e l’ontologismo, cioè quella linea di pensiero che correggendo l’idealismo definisce l’uomo come imago Dei, come partecipazione all’essere in un orizzonte di mistero. Ci pare, inoltre, che una delle differenze fondamentali tra le indagini di Fabro e quelle di Del Noce sia da ricercare nella sensibilità per il problema della storia: mentre il pensiero di Fabro ha una formulazione più sistematica ed è attento a delineare i caratteri di una philosophia perennis radicata nell’essere, quello di Del Noce ha come esplicita finalità un’«interpretazione transpolitica [cioè concettuale] della storia contemporanea» e dei suoi drammi (i totalitarismi politici e l’attuale “società opulenta” e nichilista). Del Noce sostiene che nel mondo moderno la grande lacuna cartesiana del problema della storia fu subito correttamente evidenziata e colmata da Giambattista Vico, il quale ha avuto il merito di introdurre una filosofia della storia non rigorosamente circoscritta “entro la curva dei giorni” (ovvero nell’immanenza) ma aperta a considerazioni di ordine trascendente e metafisico: basti pensare ai concetti vichiani di provvidenza e di “eterogenesi dei fini”. É con Vico che si inizia quindi a delineare chiaramente quella che Del Noce individua come l’«altra modernità», quella caratterizzata dall’ontologismo: si tratta di una difesa della metafisica che pur non dimenticando la dimensione storica dello spirito umano tenta di ampliare e correggere il razionalismo ed il successivo idealismo trascendentale. Il filosofo è chiaro nell’affermale che «l’ontologismo dev’essere situato, nella storia del pensiero cristiano, come uno di quegli aspetti essenziali di quella rottura secentesca dell’agostinismo,

1309

A. DEL NOCE, Il problema dell’ateismo, cit., p. 471.

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che coincide (o meglio ne è la controparte) con l’inizio della filosofia moderna»1310. Ci pare che ulteriori elementi di critica alla prospettiva storiografica di Fabro vadano rintracciati nella mancata considerazione di alcuni fondamentali contenuti speculativi che smentiscono la concezione di una modernità filosofica quale graduale “processo di immanentizzazione del reale”: ci riferiamo, in particolare, all’idea di Dio in Cartesio e alla teoria kantiana dei limiti del trascendentale. L’idea Dei, introdotta dal filosofo francese nella terza delle Meditazioni metafisiche, si pone come principio stesso del cogito, forando l’immanenza della coscienza. Nella prospettiva cartesiana l’idea di Dio è l’idea di infinito e di perfectio che trascende il cogito stesso, indicandogli il suo vero fondamento “in altro da sé”: cogitor a Deo, ergo sum. Come ha ben sottolineato anche lo studioso tedesco Reinhard Lauth, l’idea Dei diviene in Cartesio “il principio primo del sistema” (das höchste Prinzip) che fonda il cogito nella trascendenza divina1311. Un’ulteriore linea di pensiero moderno alla quale Fabro si è dimostrato poco attento e sensibile è stata quella kantiana basata sui limiti gnoseologici del trascendentale, mirante a riproporre un’apologetica cristiana fondata sul “primato del pratico”. Nelle sue indagini Fabro concorda con la prospettiva di Otto Willmann che parla di un «ateismo kantiano (ein kantischer Atheismus)» e che considera «i postulati della ragion pratica, dopo le demolizioni della ragione pura, […] [come mere] “funzioni” utili solo per i meno

1310

A. DEL NOCE, Da Cartesio a Rosmini, a cura di F. Mercadante e B. Casadei, Giuffrè, Milano 1991, p. 491. 1311 Cfr. R. LAUTH, Descartes’Konzeption des Systems der Philosophie, Frommann-Holzboog, Stuttgart - Bad Cannstatt 1998; tr. it. di M. Ivaldo, Descartes. La concezione del sistema della filosofia, Guerini, Milano 2000; ci permettiamo di rinviare anche al nostro saggio Sistema di filosofia trascendentale e fondamenti conoscitivi degli oggetti d’esperienza. Reinhard Lauth interprete di Descartes, in A. ALLEGRA - G. MARCHETTI, Le forme dell’oggetto. Percorsi della rappresentazione nella filosofia moderna, Morlacchi Editore, Perugia 2007, pp. 23-61.

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progrediti»1312. In realtà ci pare che la teoria kantiana dei limiti (Grenzen) della conoscenza umana costituisca una sorta di moderno praeambulum fidei fondato sulle esigenze della morale e dell’esistenza umana: dopo aver evidenziando i limiti della conoscenza, nella Critica della ragion pratica Kant si è subito preoccupato di creare nuovi spazi di legittimità per la metafisica e soprattutto per i presupposti della fede religiosa (l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima e la libertà del volere). Questo è stato ben sottolineato anche dai cattolici tedeschi contemporanei di Kant come il benedettino Matern Reuß: per quest’ultimo grazie al filosofo di Königsberg «vanno in un sol colpo in rovina il materialismo, l’ateismo, il deismo, il fatalismo, lo scetticismo universale e ogni dogmatismo»: «risulta dunque chiaro» - continua Reuß - «che religione e morale ricevono grossi vantaggi dalla filosofia kantiana, e che a questa non si possono addebitare fondati torti» 1313. Fabro ci pare ancora troppo legato all’immagine di un Kant “Robespierre della teologia”1314 e alle durissime critiche mosse al pensiero kantiano da Guido Matiussi1315. 1312

C. FABRO, Introduzione all’ateismo moderno, cit., p. 668. Fabro considera Otto Willman come lo «storico più completo dell’idealismo» (ibidem); l’opera alla quale fa riferimento è Geschichte des Idealismus, 3 Bände, Vieweg, Braunschweig 1894, 1896, 1897. 1313 M. REUß, Soll man auf katholischen Universitäten Kants Philosophie erklären?, F.X. Rienner, Würzburg 1789; la traduzione del passo citato si trova in G. REALE - D. ANTISERI, Filosofi cattolici tedeschi al seguito di Kant, in IDEM, Storia della filosofia, cit., Vol. 10, pp. 567-574, p. 570. 1314 Nella cultura italiana dell’Ottocento fu molto diffusa l’immagine di Kant “Robespierre della teologia”: colui che con la sua filosofia “taglia la testa a Dio”. Anche il poeta Giosuè Carducci contribuì con i suoi versi alla diffusione di quest’immagine: «Decapitaro, Emmanuele Kant, Iddio,/ Massimiliano Robespierre, il re» (G. CARDUCCI, da Versaglia (nel LXXIX anniversario della Repubblica Francese), lirica edita sul giornale “Plebe“ di Lodi il 2 novembre 1871 e poi confluita nella raccolta Giambi ed epodi). 1315 Cfr. G. MATIUSSI, Il veleno kantiano, [prima edizione 1907], Tipografia Pontificia nell’Istituto Pio IX, Roma 1914. Nella cultura cattolica italiana del Novecento all’ermeneutica kantiana di Matiussi si è opposto esplicitamente Italo Mancini che ha notevolmente valorizzato le potenzialità

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Tra i grandi meriti ascrivibili agli studi di Fabro vi sono senz’altro il recupero della nozione tomistica di esse ut actus, la denuncia dei possibili esiti atei dell’umanesimo moderno (si pensi a Feuerbach1316) e soprattutto la valorizzazione del pensiero di Kierkegaard come “metafisica della libertà”. Di certo condividiamo il giudizio di Giuseppe Mario Pizzuti secondo il quale «l’ermeneutica che Fabro instaura del pensiero moderno è molto complessa e tutt’altro che semplificatrice»; egli sottolinea che in Fabro «la metafisica dell’esse ut actus si pone non soltanto come posizione teoretica alternativa rispetto al pensiero moderno, ma come posizione capace di recepire e di soddisfare realmente le istanze speculative e spirituali cui il cominciamento immanentista del pensiero moderno vorrebbe soddisfare: un ruolo, questo, che Fabro ha attribuito […] anche al pensiero di Kierkegaard e che a nostro avviso costituisce il punto nevralgico, il più delicato dell’opera del nostro filosofo»1317.

del pensiero religioso di Kant: secondo Mancini il filosofo di Königsberg mantiene il concetto di un Dio personale, provvido creatore del mondo, dando ad esso un carattere propriamente trascendentale: cfr. I. MANCINI, Kant e la teologia, Cittadella Editrice, Assisi 1975. 1316 Cfr. in particolare C. FABRO, Ludwig Feuerbach: “L’essenza del cristianesimo”, Japadre, L’Aquila 1979. 1317 G.M. PIZZUTI, Un filosofo “inattuale”, in G.M. PIZZUTI (a cura di), “Veritatem in caritate”. Studi in onore di C. Fabro, Ermes, Potenza 1991, p. 12.

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Studio V Per un “razionalismo della contingenza”. Epistemologia e fede religiosa in Dario Antiseri

«Non è la scienza che vieta di credere. La fede è piuttosto proibita da una ragione presuntuosa che, via via, nel corso dei secoli ha costruito assoluti terrestri, negando lo spazio del sacro ovvero occupando indebitamente lo spazio del sacro. […] La scienza non vieta la domanda metafisica o il linguaggio religioso. Il discorso della trascendenza viene piuttosto proibito dallo scientismo nelle sue varie forme: materialismo, positivismo, marxismo, neopositivismo, strutturalismo, psicoanalisi (in gran parte)»1318.

1. Anti-fondazionismo e recupero della contingenza Nel presente scritto ripercorriamo l’itinerario intellettuale di Dario Antiseri, mettendo soprattutto in rilievo il notevole contributo che egli ha dato alla chiarificazione dei rapporti tra scienza e fede. Diciamo subito che l’intento principale delle sue indagini epistemologiche è la lotta all’”abuso della ragione”. Egli sottolinea che «la filosofia contemporanea, nelle sue punte più avanzate e consapevoli anti-fondazionistiche, ha via via eroso e devastato le pretese assolutistiche e dogmatiche dei sostenitori di “assoluti terrestri”»1319: questi ultimi sono tutti coloro che hanno assolutizzato 1318

D. ANTISERI, Credere dopo la filosofia del secolo XX, Armando, Roma 1999, p. 25 p e p. 15. 1319 D. ANTISERI, La fede tra “uso” e “abuso” della ragione, in G. GOISIS M. IVALDO - G. MURA, Metafisica, persona, cristianesimo. Scritti in onore di Vittorio Possenti, Armando, Roma 2010, pp. 415-435, p. 419. Ricordiamo che l’espressione “abuso della ragione” compare in un volume di Friedrich A. von Hayek, autore attentamente studiato da Antiseri: cfr.

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la ragione filosofica e la scienza, eliminando la legittimità stessa della fede religiosa, la possibilità di quella che il Nostro definisce come “la grande domanda”, la domanda di un senso finale dell’esistere. Innanzi alle pretese di una ragione filosofico-scientifica che si crede assoluta e in grado di spiegare il reale nella sua interezza, egli ha ribadito che tra gli esiti più fecondi delle ricerche novecentesche in ambito epistemologico ed ermeneutico v’è sicuramente l’anti-fondazionismo, una prospettiva che porta al “recupero della contingenza”. Il grande merito del pensiero di Wittgenstein, di Gadamer, di Popper e di von Hayek - per citare solo alcuni tra i grandi maestri del Novecento ai quali Antiseri si richiama - è stato quello di decostruire ogni paradigma di ragione onnicomprensivo e totalizzante, ogni filosofia della storia che pretenda di determinare le leggi del progresso in maniera ferrea ed incontrovertibile: tali sono stati, ad esempio, l’idealismo hegeliano, il positivismo di Comte ed il materialismo storico-dialettico di MarxEngels. La prospettiva filosofica di Antiseri rinuncia alla fondazione speculativa di verità ultime ed assolute: essa si avvicina quindi al “pensiero debole” di Gianni Vattimo, condividendo con quest’ultimo soprattutto l’accentuazione della radicale finitezza umana e «la dissoluzione della filosofia fondazionale, dell’idea cioè che si dia una fondazione [metafisica e razionale] unica, ultima e normativa»1320. Antiseri ha perciò definito la sua proposta filosofica come un “razionalismo della contingenza”: si tratta di «una teoria che sonda la debolezza umana, la creaturalità dell’uomo, la contingenza umana. È una prospettiva che indaga sulle ragioni della contingenza umana: è razionalismo della contingenza»1321. Come noteremo nel corso della F.A. VON HAYEK, The Counter-revolution of Science. Studies on the Abuse of Reason, The Free Press of Glencoe, London 1952; tr. it. di R. Pavetto, L’abuso della ragione, Vallecchi, Firenze 1967: una nuova edizione dell’opera è uscita presso i tipi di Rubbettino, Soveria Mannelli 2008 (Prefazione di D. Antiseri). 1320 IDEM, Pensiero debole, ragione filosofica e spazio della fede, in D. ANTISERI - G. VATTIMO, Ragione filosofica e fede religiosa nell’età postmoderna, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008, pp. 19-63, p. 21. 1321 D. ANTISERI, Credere dopo la filosofia del secolo XX, cit., p. 47.

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trattazione, in questa sua proposta il Nostro riprende e valorizza una linea del pensiero moderno che egli definisce come “pirronismo cristiano”: si tratta di tutti quegli autori che reagirono agli “abusi della ragione”, rifiutando i tentativi, sempre ricorrenti, di inglobare e fagocitare Dio nelle maglie di un sistema logico-razionale. Questi autori, fautori di uno scetticismo - che limita le possibilità della ragione umana e apre spazi al mistero religioso - sono Michel de Montaigne, Pierre Charron, Pierre-Daniel Huet e soprattutto Blaise Pascal e Kierkegaard. Nel nostro contributo, dopo aver chiarito i presupposti metodologici delle ricerche di Antiseri, ci soffermiamo a considerare il rapporto che egli istituisce tra la ragione filosofica e la fede religiosa, cercando anche di far emergere le conseguenze di tale rapporto sul piano etico-politico. Non si dimentichi, infatti, che l’epistemologia fallibilista proposta da Antiseri ha dei fondamentali riflessi anche in ambito di teoria etica e sociale: egli con il suo fallibilismo epistemologico pone solide basi teoriche alla costituzione di una società realmente democratica e liberale, a quella che Popper definisce come “società aperta” (open society). 2. Un itinerario filosofico “contro l’abuso della ragione” Dario Antiseri è nato a San Giovanni Profiamma (comune di Foligno, in Umbria) il 9 gennaio 1940; si è laureato in filosofia nel 1963 presso l’Università di Perugia, discutendo una tesi sul passaggio dal “primo” al “secondo” Wittgenstein. Il relatore della tesi è stato Pietro Prini, il correlatore Armando Rigobello: questi due maestri della filosofia italiana hanno influenzato notevolmente il giovane Antiseri, soprattutto per la loro impostazione dei rapporti tra la filosofia e il cristianesimo. Sia Prini che Rigobello, seppur con differenti accentuazioni, sono stati fautori di una filosofia cristiana di ispirazione agostiniana: essi hanno perciò preso le distanze da una prospettiva aristotelico-tomista rigida e dogmatica che considera la metafisica come il fondamento essenziale della fede religiosa, quasi la sua conditio sine qua non. In Prini troviamo una posizione vicina 573

al socratismo cristiano di Gabriel Marcel: si tratta di una prospettiva dal carattere esistenziale, aperta al mistero religioso ed incentrata su quella che lo stesso autore definisce come “metodologia dell’inverificabile”1322. Notiamo che nell’Antiseri maturo troviamo chiari echi di questa posizione esistenziale espressa da Prini: si tratta di un filosofare nella fede, che, differentemente dalla neoscolastica e dal tomismo più rigoroso, resta aperto al senso del mistero, non cercando di ingabbiare Dio nelle maglie di un sistema logicodeduttivo. Soprattutto del maestro egli ritiene valide e feconde le riflessioni sul rapporto tra filosofia e cristianesimo. Ecco le parole di Prini, citate più volte da Antiseri, con le quali egli chiarisce che «gioca al cristianesimo quel credente che finge che la propria fede sia irrilevante per la ricerca filosofica»1323: «c’è» - asserisce Prini, ripreso e commentato da Antiseri - «un carattere ludico nell’atteggiamento del credente, quando pretende di poter mettere tra parentesi la propria fede e di essere anch’egli, nella ricerca della verità, come dice Husserl, ein wirklicher Anfänger, “un vero e proprio principiante”»1324. Antiseri riprende anche da Rigobello significative linee di ricerca: tra queste vi sono la visione personalistica della società e l’idea fondamentale che l’alleanza tra il pensiero classico greco e la filosofia cristiana non sia esclusiva, come invece parevano esprimere i difensori della neoscolastica e del cosiddetto “neoclassicismo filosofico” quali Francesco Olgiati, Umberto Antonio Padovani, Gustavo Bontadini e Marino Gentile1325. Secondo Rigobello, nota Antiseri cum assentione, «la filosofia classica greca trova oggi una notevole difficoltà soprattutto per due ragioni, che sono in fondo 1322

Cfr. P. PRINI, Gabriel Marcel e la metodologia dell’inverificabile, Studium, Roma 1977. 1323 D. ANTISERI, Credere dopo la filosofia del secolo XX, cit., p. 56. 1324 P. PRINI, Cristianesimo e filosofia, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Perugia», Vol. 1, 1962-1963, p. 129; il testo viene citato in D. ANTISERI, Credere dopo la filosofia del secolo XX, cit., p. 56. 1325 A tal proposito si veda anche D. ANTISERI, Gloria o miseria della metafisica cattolica italiana?, Armando, Roma 1987.

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anche due eventi storici: l’affermazione di un’epistemologia che finisce per togliere credito ai modi e alle forme mediante le quali il pensiero greco è stato formulato; l’avvento del cristianesimo che alla teoresi astratta contrappone la concretezza della coscienza personale e della vicenda storica»1326. Di Rigobello Antiseri condivide pienamente l’accentuazione socratica e kantiana dei limiti della ragione: il Kant studiato da Rigobello - e successivamente valorizzato da Antiseri - è soprattutto quello che, sottolineando i limiti (Grenzen) della conoscenza umana, apre le porte all’ambito della trascendenza religiosa, fondata sulla “fede morale” e sul primato della ragion pratica su quella teoretica1327. Il criticismo kantiano, così come per Rigobello, anche per Antiseri è, dunque, un fondamentale punto di riferimento filosofico; del maestro di Königsberg egli fa soprattutto sua l’espressione programmatica: «ho dovuto limitare il sapere per far spazio alla fede (Ich habe das Wissen aufheben müssen, um zum Glauben Platz zu bekommen)»1328. 1326

A. RIGOBELLO, Note su cristianesimo e filosofia oggi, in IDEM, Perché la filosofia, La Scuola, Brescia 1979, p. 121; il testo viene citato in D. ANTISERI, Credere dopo la filosofia del secolo XX, cit., p. 55. 1327 A tal proposito si vedano A. RIGOBELLO, I limiti del trascendentale in Kant, Silva, Milano 1963; IDEM, Kant. Che cosa posso sperare?, Studium, Roma 1983. 1328 I. KANT, Kritik der reinen Vernunft [prima edizione 1781, seconda edizione 1787], in IDEM, Werke in sechs Bänden, hg. v. W. Weischedel, Bd. II, Darmstadt 19835, p. 33 (Vorrede zur 2. Aufl.); tr. it. di G. Gentile e G. Lombardo-Radice, Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 19714, p. 28. Un originale contributo storiografico e teoretico di Antiseri è quello della riscoperta e valorizzazione del benedettino Matern Reuss (1751-1798) e di tutti quegli autori che già tra la fine del Settecento ed i primi dell’Ottocento utilizzarono il pensiero kantiano per una rinnovata apologetica del cristianesimo: essi misero in rilievo che Kant, con la sua filosofia dei limiti ed il suo primato del pratico, crea per l’uomo moderno nuove condizioni di possibilità per legittimare la fede. A tal proposito cfr. D. ANTISERI, La filosofia kantiana e la cultura cattolica, in M. PERILLO (a cura di), Kant e la filosofia della religione, Morcelliana, Brescia 1996, pp. 637-660; IDEM, Filosofi cattolici tedeschi al seguito di Kant, in G. REALE -

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Come sottolinea lo stesso Antiseri, «la linea teoretica che attraversa l’intero [suo] lavoro scientifico consiste nell’articolazione di una teoria dei limiti della ragione. L’orizzonte in cui si inserisce tale lavoro è quello kantiano nella rielaborazione fattane [da Wittgenstein], da Karl Popper e da post-popperiani come J. Watkins, J. Agassi, P.K. Feyerabend e, in special modo, W. Bartley»1329. Tale linea teoretica incentrata sui limiti della ragione costituisce, quindi, lo sfondo speculativo sul quale si articolano sia i giovanili studi dell’autore che quelli della maturità. Già nel Wittgenstein del Tractatus Antiseri trova un paradigma filosofico che gli permette di aggiornare il programma kantiano dei limiti epistemologici sulla base dei nuovi risultati della filosofia del linguaggio. È noto come per il “primo” Wittgenstein «il linguaggio traveste i pensieri»1330 e «tutta la filosofia è critica del linguaggio (Die ganze Philosophie ist Sprachkritik)»1331. Dell’autore viennese Antiseri condivide soprattutto l’impostazione teoretica volta a sottolineare che “al di là” ed “oltre” i limiti del linguaggio umano - quindi al di là ed oltre la nostra possibile raffigurazione conoscitiva del reale - v’è tutta una sfera di senso etico e religioso che è legittimo postulare. Tale sfera di senso non può essere tuttavia colta da una ragione apofantica e dimostrativa: innanzi all’ineffabile, al mistico, a ciò che permane D. ANTISERI, Storia della filosofia, Bompiani, Milano 2008, Vol. 10, pp. 567-574. 1329 G. FRANCO, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, in G. FRANCO (a cura di), Sentieri aperti della ragione. Verità, metodo, scienza. Scritti in onore di Dario Antiseri nel suo 70º compleanno, Pensa Editore, Lecce 2010, pp. 23-43, p. 27. Il testo di questa intervista ad Antiseri è stato edito per la prima volta in H. ALBERT – D. ANTISERI, L’ermeneutica è scienza? Intervista a cura di Giuseppe Franco, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; una traduzione tedesca del testo è apparsa con il titolo Kritischer Rationalismus als vernünftiger Zugang zum Glauben. Im Dialog mit Dario Antiseri über Glauben, Wissenchaft und Hermeneutik bei Hans Albert, Hans-Georg Gadamer und Karl R. Popper, in «Aufklärung und Kritik», 2, 2008, pp. 61-83. 1330 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, tr. it. A.G. Conte, Einaudi, Torino 19987, proposizione 4.002, p. 42. 1331 Ibidem, proposizione 4.0031, p. 43.

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inesprimibile in termini umani è solo possibile il silenzio e l’invocazione. Antiseri osserva giustamente che il grande merito di Wittgenstein «è quello di delimitare il dicibile - il dicibile dalla scienza - per proteggere l’ineffabile: quello che la scienza non può dire: l’etico e il religioso»1332. Ci soffermiamo ora sugli altri momenti più significativi che hanno scandito l’itinerario intellettuale di Antiseri. Dopo la laurea proseguì i suoi studi presso le Università di Vienna, Münster ed Oxford. A Vienna frequentò i corsi di logica tenuti da Kurt Christian e quelli di filosofia della scienza svolti da Bela von Juhos. Nel marzo 1964 ebbe occasione di conoscere personalmente Karl Popper intervenuto ad un seminario presso l’Istituto di Filosofia: questo fu certamente un momento fondamentale nella biografia di Antiseri. L’epistemologia popperiana, come avremo modo di sottolineare, rimase sempre per lui un fondamentale punto di riferimento. All’Università di Münster frequentò i seminari di linguistica generale diretti dal prof. Peter Hartmann: ebbe occasione anche di ascoltare alcune lezioni dell’allora Prof. Joseph Ratzinger e rimase affascinato dai corsi di Joseph Pieper sulla fenomenologia delle virtù1333. All’Università di Oxford ebbe importanti contatti con Gilbert Ryle, al cui pensiero dedicherà poi anche dei saggi. In particolare Ryle lo rese sensibile alle problematiche concernenti il linguaggio storiografico. Tuttavia va messa in rilievo la notevole distanza che separa la prospettiva di Ryle da quella di Antiseri, almeno nello loro considerazioni di carattere antropologico: nel celebre volume del 1949 The Concept of the Mind il filosofo oxoniense, parlando della res cogitans come di un «dogma dello spettro nella macchina (dogma of the ghost in the machine)»1334 - la macchina sarebbe il corpo -,

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D. ANTISERI, Credere dopo la filosofia del secolo XX, cit., p. 24. Queste notizie ce le fornisce lo stesso autore in una breve autopresentazione del suo itinerario filosofico: cfr. Dario Antiseri, in D. ANTISERI – S. TAGLIAGAMBE, Storia della filosofia, vol. 14, Filosofi italiani contemporanei, Bompiani, Milano 2008, pp. 24-37. 1334 G. RYLE, Lo spirito come comportamento, tr. it. di F. Rossi-Landi, Einaudi, Torino 1955, p. 59; una nuova traduzione curata da G. Pellegrino 1333

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propone una visione antropologica essenzialmente materialistica e riduttiva. Antiseri, al contrario, si è sempre dimostrato molto attento a sottolineare la complessità della realtà umana, mai riducibile al solo elemento materialistico: una prova di questo sono anche le sue forti critiche al materialismo marxista e ai riduzionismi della psicoanalisi freudiana1335. Dopo i soggiorni di studio all’estero Antiseri diviene assistente di “filosofia teoretica” all’Università di Perugia e successivamente in “storia della filosofia” al Magistero di Roma; dal 1969 al 1975 ha insegnato discipline filosofiche all’Università di Siena, con sede ad Arezzo. Vinto il concorso a cattedra, ha insegnato per undici anni “filosofia della scienza” presso l’Università di Padova. Nel suo periodo di docenza patavina il Nostro ricorda l’importanza che ebbero i suoi colloqui quotidiani con biologi, medici ed esperti di scienze naturali come Pietro Omodeo, Massimo Aloisi, Aldo Bressan, Mario Austoni, Giovanni Federspil e Cesare Scandellari. Antiseri ricorda che in quegli anni fu per lui «istruttivo anche il dibattito, a volte molto acceso, con non pochi colleghi filosofi parecchi dei quali gli apparivano troppo carichi di pretese fondazionistiche»1336: era forse inevitabile che sorgessero accesi dibattiti tra un pensatore come Antiseri, aperto alle novità dell’epistemologia anglo-americana, e tutta una serie di docenti rimasti fedeli alla tradizionale impostazione aristotelica dell’Universitas patavina. Agli anni di Padova risale anche la collaborazione tra Antiseri e Giovanni Reale, il grande storico del pensiero filosofico antico. Tale collaborazione ha portato alla stesura dei tre volumi di storia della filosofia: Il pensiero occidentale dalle origini ad oggi (Editrice La Scuola, Brescia) Questo importante manuale di storia della filosofia ha avuto numerose riedizioni (oltre quaranta) e traduzioni (in nel 2007 per i tipi di Laterza è più fedele anche al titolo originale dell’opera: Il concetto di mente. 1335 Cfr. D. ANTISERI, Analisi epistemologica del marxismo e della psicoanalisi, Città Nuova, Roma 1984. 1336 G. FRANCO, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, cit., p. 24.

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spagnolo, portoghese e russo): esso viene adottato ancora oggi come manuale di studio in molti licei e costituisce, quindi, la base per la formazione intellettuale di moltissimi giovani. Antiseri ricorda che questo testo gli è costato tre anni di fatica e di feconda immersione nella storia delle idee. Diversamente da altri manuali di filosofia dominati dalla presunzione di ergersi a tribunale dei filosofi, il Nostro afferma che questo testo «è stato pensato come una “storia scientifica” di problemi, teorie e argomentazioni filosofiche, dove la critica alle teorie dei filosofi viene esposta ed esaminata nelle teorie e argomentazioni di altri filosofi»1337. Uno dei grandi meriti di Antiseri è stato quello di un significativo rinnovamento degli studi epistemologici in Italia: egli con le sue opere e traduzioni ha notevolmente contribuito a far conoscere autori e problematiche in un mondo culturale italiano, nel quale - per dirla con Giulio Preti - «si aveva [ancora] l’impressione che la filosofia fosse una cosa in cui la logica contava poco e l’esperienza nulla»1338. Se nei suoi esordi accademici ha senz’altro contribuito a far approfondire in Italia le prospettive del Circolo di Vienna, di Wittgenstein, di Paul van Buren e della cosiddetta CambridgeOxford Philosophy1339, nei successivi scritti la sua attenzione si è 1337

Ibidem. G. PRETI, Il mio punto di vista empiristico, [edizione originale 1958], in IDEM, Saggi filosofici, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1976, vol. I, p. 478. Un ampio excursus sulle vicende della cultura epistemologica nell’Italia del secondo Dopoguerra viene effettuato da M. PERA, Dal neopositivismo alla filosofia della scienza, in AA. VV., La filosofia italiana dal Dopoguerra ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 93-174. 1339 A tal proposito cfr. D. ANTISERI, Dal neopositivismo alla filosofia analitica, Roma 1966; IDEM, Dopo Wittgenstein: dove va la filosofia analitica, Abete, Roma 1968; IDEM, La filosofia del linguaggio: metodi, problemi, teorie, Morcelliana, Brescia 1972; IDEM, Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso, Queriniana, Brescia 1974; D. ANTISERI (a cura di), Filosofia analitica. L’analisi del linguaggio nella CambridgeOxford Philosophy, Città Nuova, Roma 1975; IDEM, Dal non senso all’invocazione. L’itinerario speculativo di Paul M. van Buren, Queriniana, Brescia 1976; D. ANTISERI - M. BALDINI, Lezioni di filosofia del linguaggio, Nardini Editore, Firenze 1989. 1338

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soprattutto concentrata sull’epistemologia popperiana, divenuta quasi il fulcro della sua proposta teoretica ed epistemologica1340. Nel 1986 Antiseri prende la cattedra di Metodologia delle scienze sociali presso l’Università di Roma Luiss: questo trasferimento gli dà occasione di approfondire gli studi sugli economisti austriaci quali Carl Menger, Ludwig von Mises e Friedrich A. von Hayek. In questi anni, anche sulla scorta della lezione popperiana contenuta nella Società aperta, egli si fa quindi difensore del pensiero liberale e neoliberista, proponendo l’individualismo metodologico come possibile e valida alternativa a tutte le forme di collettivismo teorizzate in ambito marxista1341. Le ricerche di Antiseri conoscono, dunque, tre fondamentali momenti di sviluppo che vanno dagli studi di filosofia del linguaggio e dell’epistemologia di Popper all’individualismo metodologico: si tratta di tre fasi strettamente connesse e che hanno avuto come esito la formazione di un pensiero filosofico in grado di dar risposte concrete anche alle complesse problematiche del mondo contemporaneo. A tal proposito si pensi ai suoi numerosi interventi in ambito di teoria economico-politica, di bioetica, di medicina1342 e 1340

Si vedano l’antologia curata da Antiseri: K.R. POPPER, Logica della ricerca e società aperta, La Scuola, Brescia 1989 e 1997; D. ANTISERI, Karl Popper. Protagonista del secolo XX, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002; IDEM, La Vienna di Popper, Rubbettino, Soveria Mannelli 2000; D. ANTISERI - H. KIESEWETTER, La «società aperta» di Karl Popper, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007; D. ANTISERI, Karl Popper, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999 e 2010. 1341 Cfr. D. ANTISERI, L’individualismo metodologico, in M. FOTIA - A. PILIERI (a cura di), Il neoliberismo in Italia. Verso nuove forme della società e dello Stato, Città Nuova, Roma 1993, pp. 96-104; IDEM, Liberali. Quelli veri e quelli falsi, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998; D. ANTISERI L. INFANTINO, (a cura di), La Scuola austriaca di economia. Album di famiglia, Rubbettino, Soveria Mannelli 1999; D. ANTISERI, Principi liberali, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003; IDEM, Von Hayek visto da Dario Antiseri, Luiss University Press, Roma 2008. 1342 Cfr. D. ANTISERI - M. TIMIO, La medicina basata sulle evidenze, Edizioni Memoria, Cosenza 2000; D. ANTISERI - C. SCANDELLARI - G. FEDERSPIL, Epistemologia, clinica medica e la «questione» delle medicine

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di prassi educativa1343. A nostro avviso quello di Antiseri può essere definito come un itinerario filosofico “contro l’abuso della ragione”: una delle principali finalità delle sue cospicue ricerche in ambito epistemologico, economico e politico può essere individuata nel tentativo di screditare ad imis fundamentis - mostrandone l’inconsistenza - tutte quelle proposte filosofiche che intendono ingabbiare il reale in un quadro concettuale univoco e totalizzante. In questo senso Antiseri può essere considerato a pieno titolo anche “un filosofo della libertà”: nei suoi numerosi interventi egli ha sempre cercato di difendere le libertà fondamentali della persona contro le possibili prevaricazioni di uno Stato forte ed autoritario. Si tratta delle libertà economiche, sociali, educative e religiose. In questa sua strenua difesa delle libertà individuali egli ha recuperato e valorizzato, soprattutto negli scritti degli ultimi anni, anche alcune intuizioni fondamentali del cattolicesimo liberale: si pensi ad economisti liberali e di ispirazione cristiana come Wilhelm Röpke e Luigi Einaudi, a filosofi come Luigi Taparelli d’Azeglio e Antonio Rosmini e a politici come Luigi Sturzo. Questi autori, seppur con differenti accentuazioni, elaborano forme di “personalismo economico e sociale” nelle quali i singoli individui sono considerati sempre “principio e fine dello Stato” (così Rosmini): essi si dimostrano, quindi, alieni da tutte quelle forme di “perfettismo politico”1344 che finiscono per sacrificare libertà e diritti delle singole «eretiche», Rubbettino, Soveria Mannelli 2003; D. ANTISERI, Dialogo sulla diagnosi. Un filosofo e un medico a confronto, Armando, Roma 2008. 1343 Si vedano ad esempio D. ANTISERI, Epistemologia contemporanea e didattica della storia, Armando, Roma 1974; IDEM, Il mestiere del filosofo. Didattica della filosofia, Armando, Roma 1977 e 1992; IDEM, Epistemologia contemporanea e didattica delle scienze, Armando, Roma 1977; IDEM, L’università italiana. Com’è e come potrebbe essere, Rubbettino, Soveria Mannelli 1998; IDEM, Teoria e pratica della ricerca nella scuola di base, La Scuola, Brescia 1993; IDEM, Come si ragiona in filosofia. E perché e come insegnare storia della filosofia, La Scuola, Brescia 2011; IDEM, Elogio dell’insegnante. Formare la mente critica, La Scuola, Brescia 2011. 1344 Per “perfettismo politico si intende «quel sistema che crede possibile il perfetto nelle cose umane e che sacrifica il bene presente all’immaginata

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persone in nome di un’immaginata futura perfezione sociale. Secondo Antiseri «il pensiero liberale cattolico - un pensiero combattuto dalla sinistra comunista e socialista, sostanzialmente ignorato da un laicismo anticlericale spesso ottuso, sepolto da un cattolicesimo di sinistra succube da oltre cinquant’anni di idee accattate da una egemonica mitologia marxista - mostra al giorno d’oggi tutta la sua forza teorica, la sua praticabilità politica e il suo immenso valore morale»1345. É a partire da queste riflessioni che negli ultimi anni Antiseri ha fatto importanti edizioni di opere ed antologie dedicate alla tradizione del pensiero liberale d’ispirazione cristiana, incentrato sempre intorno al valore imprescindibile della persona umana1346. 3. Una vexata quaestio: la teoria unificata del metodo Veniamo ora alla trattazione di una delle questioni più originali e più discusse dell’epistemologia di Antiseri: la teoria unificata del metodo delle scienze. Un’autorevole tradizione che risale al pensiero tedesco dell’Ottocento ed in particolare a Wilhelm Dilthey (18331911) aveva posto una netta distinzione metodologica tra le scienze della natura (Naturwissenschaften) e le scienze dello spirito futura perfezione» (A. ROSMINI, Filosofia della politica, [edizione originale 1839], a cura di S. Cotta, Rusconi, Milano 1985, p. 137). 1345 D. ANTISERI, Persona, mercato, solidarietà. Perché l’etica dell’intenzione non è sufficiente, in IDEM, Credere dopo la filosofia del secolo XX, cit., pp. 79-123, p. 93. 1346 Si vedano D. ANTISERI, Cattolici a difesa del mercato, Sei, Torino 1995, seconda edizione a cura di Flavio Felice: Rubbettino, Soveria Mannelli 2005; IDEM, La «via aurea» del cattolicesimo liberale, Rubbettino, Soveria Mannelli 2007; IDEM, Liberali e solidali. La tradizione del liberalismo cattolico, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006; IDEM, L’attualità del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente, Rubbettino, Soveria Mannelli 2008; IDEM, Il liberalismo cattolico italiano dal Risorgimento ai nostri giorni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010; C. OCONE - D. ANTISERI, Liberali d’Italia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2011.

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(Geisteswissenschaften): compito delle prime è spiegare (erklären) i fenomeni naturali secondo le leggi fisiche, esprimibili in termini matematici ed oggettivi, compito delle seconde è comprendere (verstehen) le attività poietiche dell’uomo, costituendo la visione del mondo (Weltanschauung) propria di ciascuna cultura. Tali considerazioni di Dilthey si originano dal tentativo di dare valore di scienza anche a quegli ambiti come la storiografia e le humanae litterae che i positivisti spesso escludevano dalle loro indagini, poiché li ritenevano privi di validità scientifica: «i cosiddetti positivisti […] partendo da un concetto arbitrario di sapere (wissen), con visione miope e confusa, hanno negato la dignità di scienza alla storiografia dei grandi maestri»1347. Reagendo a tale angusta visione delle scienze tipica del positivismo ottocentesco, Dilthey cerca di dare salde fondamenta epistemologiche anche a quell’insieme di «scienze che hanno per oggetto la realtà storico-sociale»1348 e che egli definisce come “scienze dello spirito”: oggi noi le indichiamo come “scienze della cultura”, “scienze umanistiche” o “scienze storico-sociali”. Ma l’importante - per sottolineare la novità rappresentata dalla proposta di Antiseri - è ribadire che Dilthey, e dopo di lui una lunga e consolidata tradizione filosofica, pone una chiara distinzione metodologica tra i due ambiti di scienze. Questa netta distinzione di metodo è dovuta a fondamentali differenze: mentre le Naturwissenschaften si fondano sul concetto di causa (basti pensare al mondo-macchina di Newton, regolato da ferree leggi fisiche di causa ed effetto), le scienze dello spirito presuppongono la libertà creativa dell’uomo; in esse non si può, quindi, operare con il concetto di causa nel senso fisico-matematico. Nelle Geisteswissenschaften bisognerà operare con altri concetti: quelli di motivo, scopo e valore ovvero con i presupposti che spingono l’uomo ad agire. Come è noto, tale divergenza metodologica rilevata 1347

W. DILTHEY, Einleitung in die Geisteswissenschaften. Versuch einer Grundlegung für das Studium der Gesellschaft und der Geschichte, [edizione originale 1883], in IDEM, Gesammelte Schriften, Teubner, Leipzig und Berlin 1923; tr. it. di S. Bonarelli, Introduzione alle scienze dello spirito, Beniamino Carucci Editore, Assisi-Roma 1972, p. 14. 1348 Ibidem, p. 13.

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da Dilthey viene ribadita anche dal kantiano Wilhelm Windelband (1848-1915), il quale distingue i due tipi di scienze in nomotetiche ed ideografiche: le scienze delle natura sono nomotetiche poiché esse stabiliscono leggi (nómoi) dal valore universale, mentre le scienze dello spirito sono ideografiche poiché si soffermano nello studio di ciò che è unico, peculiare ed individuale (ídion), cioè i fatti di cui è costituita la storia umana1349. Nel 1976 Antiseri tenne a Padova una prolusione «sull’identità del metodo popperiano del trial and error con il circolo ermeneutico di Gadamer»1350: a partire dalla proposta epistemologica di Popper egli si oppone al dualismo metodologico teorizzato da Dilthey e dai suoi epigoni, affermando con convinzione una sostanziale unità metodologica delle scienze, sia di quelle naturali che di quelle umanistiche. I risultati di queste indagini sull’unità fondamentale del metodo scientifico sono consegnati in due volumi: Teoria unificata del metodo (prima edizione 1980, seconda 2001) e Trattato di metodologia delle scienze sociali (1996, seconda edizione 2001). Secondo Popper il metodo della scienza è costituito da tre elementi fondamentali: problemi, teorie e critiche. Antiseri sottolinea che questi tre elementi sono il Kern metodologico sia delle scienze della natura che dell’ermeneutica e, più in generale, di tutte le scienze storico-sociali. Egli afferma quindi che «il metodo della ricerca scientifica è unico […]. Problemi-teorie-critiche: in queste tre parole, scrive Popper, consiste il metodo di tutta la scienza. È questo il metodo del fisico, del biologo, del chimico e del clinico, ma anche dell’economista, [dello storico], del sociologo e dello psicologo. È il metodo dell’ermeneuta e del traduttore - sì, perché pure l’ermeneuta e il traduttore sono autentici ricercatori - la loro è una ricerca, spesso

1349

A tal propostio cfr. W. WINDELBAND, Geschichte und Naturwissenschaft, Discorso rettorale tenuto all’Università di Strasburgo nel 1894, in IDEM, Präludien, Mohr, Tübingen 19073, pp. 335-379; tr. it. di S. Babera e P. Rossi, Storia e scienze della natura, in P. ROSSI (a cura di), Lo storicismo tedesco, Utet, Torino 1977, pp. 313-332. 1350 G. FRANCO, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, cit., p. 29.

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difficile, del senso dei testi»1351. Antiseri definisce la sua posizione come “riduzionismo metodologico”: si tratta di una sorta di reductio ad unum che pone sostanziali analogie e convergenze tra il metodo di ricerca degli scienziati ed il metodo di indagine degli umanisti. Egli in particolare fa emergere gli elementi che accomunano il metodo del processo scientifico teorizzato da Popper ed il metodo ermeneutico proposto da Gadamer: «alla posizione di Popper» - afferma il Nostro in una sintesi sul suo itinerario di studi - «ho avvicinato la teoria ermeneutica di Hans-Georg Gadamer, sostenendo che il metodo delle congetture e confutazioni è la stessa cosa del circolo ermeneutico, così come questo è stato elaborato appunto da Gadamer»1352. «L’ermeneuta» - spiega Antiseri - «sia esso un critico testuale o un traduttore, un biblista, un giurista o un epigrafista ha da risolvere un problema, è un cercatore di senso, vale a dire del contenuto di un testo, di ciò che il testo dice, del suo messaggio. E, per risolvere i suoi problemi, l’ermeneuta propone le sue interpretazioni, che altro non sono se non ipotesi da mettere al vaglio sul testo e sul contesto. E se un pezzo di testo e contesto urta contro una prima interpretazione, occorrerà proporne una seconda che verrà pur essa messa al vaglio, così via. Così via, in linea teorica all’infinito; nella pratica ci si arresterà momentaneamente all’interpretazione meglio consolidata. Certo, sono molte le differenze esistenti tra Popper e Gadamer, ma mi sembra altrettanto chiara l’idea che il nucleo centrale della metodologia popperiana, riducibile alle tra parole problemi-teorie-critiche, sia identico alla procedura costituita dal Zirkel des Verstehens [dal circolo ermeneutico della

1351

D. ANTISERI, Teoria unificata del metodo, Utet, Torino 2001, p. VI [prima edizione 1980]. Riguardo la “disputa sul metodo” (Methodenstreit) in relazione alle scienze sociali cfr. anche D. ANTISERI, Questioni fondamentali di metodologia delle scienze sociali, in E. AGAZZI (a cura di), Filosofia e Filosofia di, La Scuola, Brescia 1992, pp. 27-51; R. BOUDON D. ANTISERI - A. OLIVERIO, Teorie della razionalità e scienze sociali, Luiss University Press, Roma 2005. 1352 G. FRANCO, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, cit., p. 29.

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comprensione]»1353. Antiseri rileva inoltre giustamente che, seppur il metodo scientifico sia unico (costituito cioè da problemi, congetture e tentativi di confutazione), differenti sono però le metodiche, ovvero le diverse tecniche di prova per mettere al vaglio critico le ipotesi o le interpretazioni proposte: è evidente, infatti, che le metodiche di un fisico o di un chimico utilizzano tecniche e saperi di sfondo del tutto eterogenei da quelli del filologo classico o dell’esegeta biblico. Tuttavia, nonostante la chiara diversità delle metodiche di verifica (o di falsificazione) adottate, lo stesso Popper afferma la sostanziale unità metodologica della scienza: «elaborare la differenza tra scienza e discipline umanistiche è stato a lungo una moda ed è diventato noioso. Il metodo di risoluzione dei problemi, il metodo delle congetture e confutazioni sono praticati da entrambe. È praticato nella ricostruzione di un testo danneggiato, come nella costruzione di una teoria della radioattività»1354. L’intento di Popper e di Antiseri, da noi condiviso, è anche quello di difendere il valore scientifico delle materie umanistiche, il cui statuto epistemologico viene spesso considerato di second’ordine, o comunque più blando, rispetto a quello delle scienze naturali. «Io ho mostrato» - così Popper - «che l’interpretazione dei testi (cioè l’ermeneutica) lavora con metodi schiettamente scientifici»1355. La proposta di una sostanziale unità 1353

Ibidem. Sullo statuto epistemologico delle discipline umanistiche cfr. anche D. ANTISERI - H. ALBERT, L’ermeneutica è scienza?, Rubbettino, Soveria Mannelli 2006. 1354 K.R. POPPER, La teoria del pensiero oggettivo, in IDEM, Conoscenza oggettiva, Armando, Roma 1975, p. 242. 1355 K.R. POPPER, Autointerpretazione filosofica e polemica contro i dialettici, in C. GROSSNER (a cura di), Filosofi tedeschi contemporanei, Città Nuova, Roma 1977, p. 353. La teoria dell’unità metodologica delle scienze è contenuta in nuce negli scritti di Popper: viene però ancor più chiaramente delineata e sviluppata da Antiseri sulla base di alcune importanti riflessioni popperiane. Il filosofo tedesco è esplicito nell’affermare che «tutta la sua concezione del metodo scientifico si può riassumere dicendo che esso consiste in questi tre passi: 1) inciampiamo in qualche problema; 2) tentiamo di risolverlo, ad esempio, proponendo qualche nuova teoria; 3) impariamo dai nostri sbagli, specialmente da quelli che ci sono resi presenti dalla discussione critica dei nostri tentativi di

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metodologica ha anche degli importanti risvolti in ambito educativo, sia per gli insegnanti di materie scientifiche che per quelli di discipline umanistiche. Questi ultimi, nota correttamente Antiseri, si sentono «non di rado vittime del pregiudizio che il fisico faccia scienza e che, invece, l’interprete o il traduttore di un testo pratichi un’attività di secondo ordine. Capire che la soluzione di problemi attraversa tutta la ricerca [sia quella del fisico che del filologo ed ermeneuta] può essere d’aiuto per l’impostazione di una didattica volta alla costruzione di menti critiche, cosa che, purtroppo, non accade nell’esecuzione degli esercizi»1356. La proposta dell’unità metodologica delle scienze ha suscitato sia in Italia che all’estero un ampio dibattito, trovando consensi (soprattutto tra i medici) ma anche dissensi. Valerio Verra, noto studioso di filosofia classica tedesca e dell’ermeneutica, si è dimostrato decisamente avverso e ha messo in luce le profonde diversità delle prospettive di Gadamer e di Popper, i quali si muovono in ambiti culturali molto lontani gli uni dagli altri. Anche Gadamer, interrogato a tal proposito dallo stesso Antiseri, ha espresso qualche perplessità. Di una vera e propria metánoia si può invece parlare in Hans Albert, docente di sociologia e teoria della scienza all’Università di Mannheim. Quando in un colloquio, che risale al 1985, Antiseri fece notare ad Albert le notevoli analogie metodologiche tra il fallibilismo di Popper e la teoria ermeneutica di Gadamer, egli replicò: «ciò che Lei sostiene di poter identificare risoluzione. O, per dirla in tre parole: problemi-teorie-critiche. Credo che in queste tre parole, problemi-teorie-critiche, si possa riassumere tutto quanto il modo di procedere della scienza razionale» (K.R. POPPER, Problemi, scopi e responsabilità della scienza, in IDEM, Scienza e filosofia, Einaudi, Torino 1969, p. 146). A partire da questi presupposti epistemologici Popper può affermare che «il metodo delle scienze sociali, come anche quello delle scienze naturali, consiste nella sperimentazione di tentativi di soluzione per i loro problemi» (IDEM, La logica delle scienze sociali, in AA. VV., Dialettica e positivismo in sociologia, Einaudi, Torino 1972, p. 702): già negli scritti popperiani viene, quindi, delineato un chiaro tentativo di “riduzionismo metodologico”. 1356 D. ANTISERI, Teoria unificata del metodo, cit., p. VII.

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come punti in comune sono, secondo me, vaghe analogie. Io non riconosco in Gadamer una teoria della conoscenza nel vero senso della parola. Non so nemmeno se egli avrebbe la pretesa di avere elaborato una tale teoria. Egli è stato un allievo di Heidegger. Il modo in cui distingue le scienze dello spirito dalle scienze naturali mostra che si pone nella tradizione dell’idealismo tedesco postkantiano; mentre Popper ha sviluppato le sue concezioni nella tradizione di Kant e di Hume, sulla scia dell’idealismo trascendentale di Oswald Külpe»1357. Antiseri è ben lieto nel sottolineare che nel 1994 Hans Albert pubblica un volume nel quale «quelle “vaghe analogie” di cui egli parlava dieci anni fa, si sono via via fatte, anche per lui, sempre meno vaghe sino a diventare lineamenti teorici comuni, precisi legami tra ermeneutica gadameriana ed epistemologia fallibilista»1358. Il volume richiamato, edito nel 1994 da Albert, è Kritik der reinen Hermeneutik: der Antirealismus und das Problem des Verstehens. In questo testo Albert rileva che la tecnica gadameriana dell’interpretazione dei testi, fondata sull’eventuale correzione delle ipotesi interpretative (Deutungshypothesen), mostra delle evidenti e profonde analogie con il metodo scientifico descritto da Popper, un metodo in cui si ha il vaglio critico delle ipotesi “per tentativi ed errori” (method of trial and error). Secondo Albert «si può quindi riconoscere una comunanza della concezione di Gadamer con l’idea di ricerca scientifica (Erkenntnispraxis in den Wissenschaften), sviluppata nell’ambito della odierna epistemologia da Karl Popper»1359. La tesi dell’unità del metodo viene difesa da Antiseri anche prendendo in considerazione i vari ambiti delle scienze (dalla medicina alla biologia, dall’attività del tradurre alla storiografia) e 1357

H. ALBERT, Viaggi attraverso il mondo 3, «Mondoperaio», 2, 1986; il testo è stato ristampato in D. ANTISERI, Teoria della razionalità e scienze sociali (appendice I: A colloquio con H. Albert su razionalismo critico, ermeneutica e Scuola di Francoforte), Borla, Roma 1989, p. 121. 1358 D. ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, Utet, Torino 20005, pp. 373-374. 1359 H. ALBERT, Kritik der reinen Hermeneutik: der Antirealismus und das Problem des Verstehens, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1994, p. 54.

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facendo riferimento a numerosi autori nei cui testi si possono trovare riferimenti ante litteram all’unità metodologica: tra questi Justus von Liebig (1803-1873), William Whewell (1795-1866), William Stanley Jevons (1835-1882), Claude Bernard (1813-1878) nella sua celebre Introduzione alla studio della medicina sperimentale, Ernest Naville (1816-1909) nel suo volume La logica dell’ipotesi, e Giovanni Antonio Colozza, secondo il quale «nella sua essenza, il processo d’investigazione è identico per tutte le scienze»1360. Di particolare interesse sono le riflessioni di Antiseri sulla storiografia, anche questo un ambito nel quale la celebre massima di Newton «hypotheses non fingo (non formulo ipotesi)»1361 viene considerata come un abbaglio: sulla scorta delle indicazioni metodologiche di storici come Gaetano Salvemini, Lucien Febvre e Marc Bloch, il Nostro afferma che «senza problemi e senza ipotesi non esiste ricerca, non c’è ricerca storica»1362. In opposizione a storici e filosofi della storia di tendenze disparate (storicisti, idealisti, marxisti e neomarxisti come gli esponenti della Scuola di Francoforte), gli autori sopra menzionati hanno sostenuto che non c’è una differenza sostanziale tra il metodo dello storico e quello del fisico: a variare sono le tecniche di prova, le cosiddette metodiche per verificare o falsificare l’ipotesi interpretativa che si vuol ammettere. A tal proposito Antiseri pone particolarmente in rilievo il valore delle riflessioni metodologiche di Salvemini; quest’ultimo in Storia e scienze nota che «in linea di fatto non c’è differenza 1360

G.A. COLOZZA, L’immaginazione nella scienza. Appunti di psicologia e pedagogia, Ditta G.B. Paravia e Comp., Torino-Roma-Milano-FirenzeNapoli 1899, p. 13; questo testo di Colozza è stato ristampato presso i tipi di Rubbettino, Soveria Mannelli 1997, con una Prefazione di D. Antiseri. Tutti gli autori sopra menzionati vengono citati da Antiseri come “pensatori a difesa dell’unità del metodo scientifico”: cfr. D. ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, cit., pp. 356-357. 1361 I. NEWTON, Opere, Vol. 1., Principi matematici della filosofia naturale, a cura di A. Pala, Utet, Torino 1997, pp. 801-802 [la massima si trova nella seconda edizione dei Principia del 1713, precisamente nella sezione finale intitolata Scolio generale]. 1362 D. ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, cit., p. 370.

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essenziale tra i problemi che affronta lo scienziato nel ricostruire il passato astronomico, geologico o biologico e i problemi che affronta lo storico nel ricostruire il passato degli uomini. In entrambi i casi l’esperto ricostruisce il passato con l’aiuto di testimonianze»1363. Salvemini precisa inoltre che «la tecnica usata dai vari indagatori può essere diversa, in quanto essi devono ricorrere ad espedienti diversi, adatti alle diverse fonti di informazione di cui dispongono, ma il metodo di trarre informazioni dalle fonti rimane lo stesso, perché lo spirito umano in tutte le circostanze lavora seguendo le stesse leggi del pensiero»1364. Salvemini, Lucien Febvre e Marc Bloch mettono quindi in evidenza che lo storico per scegliere i fatti da indagare si serve di «ipotesi, programmi di ricerca, teorie»1365, i quali non sussistono senza l’immaginazione e la creatività del ricercatore. In tali prospettive anche l’attività storiografica si configura come una vera e propria scienza: essa lavora con teorie falsificabili, con teorie controllabili, cioè confutabili dall’esperienza, dai fatti, dai documenti vagliati. 4. “Delimitare il dicibile per proteggere l’ineffabile”: una possibile apertura allo spazio della fede La proposta epistemologica di Antiseri riprende e sviluppa le indagini popperiane volte a sottolineare i limiti delle scienze, la possibile fallibilità dei loro risultati. In opposizione allo scientismo positivista egli afferma che la scienza procede per ternativi ed errori, congetture e confutazioni, proposte e critiche. Le verità della scienza non sono quindi un possesso assoluto, uno ktéma es aéi, una “conquista perenne”, valida in eterno: tali verità sempre in fieri, 1363

G. SALVEMINI, Storia e scienza, La Nuova Italia, Firenze 1948; ristampato in IDEM, Opere scelte, a cura di G. Agosti, A. Galante Garrone, vol. 8, Scritti vari (1900-1957), Feltrinelli, Milano 1978, pp. 136. Il testo di Salvemini viene citato e commentato dal Nostro in D. ANTISERI, Trattato di metodologia delle scienze sociali, cit., pp. 368-370. 1364 G. SALVEMINI, Storia e scienza, cit., pp. 136-137. 1365 L. FEBVRE, Problemi di metodo storico, Einaudi, Torino 1966, p. 144.

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perfettibili o, meglio ancora, falsificabili. La scienza - sottolineano Popper ed Antiseri - «è fallibile perché è umana»1366: essa è un campo dove «nulla è esente da critica»1367. Antiseri ha posto strettamente in continuità il fallibilismo popperiano con il discorso di Wittgenstein sui limiti del linguaggio scientifico: ciò che accomuna i due autori è l’istanza di “delimitare il dicibile per proteggere l’ineffabile”. “Delimitare il dicibile” significa demarcare con rigore gli asserti frutto dell’indagine scientifica da quelli che non lo sono (come le proposizioni del linguaggio metafisico e religioso). Sia nel Wittgenstein del Tractatus che in Popper è però viva anche l’istanza di “proteggere l’ineffabile” ovvero la sfera dei sentimenti e delle speranze umane, l’ambito di tutto ciò che “va al di là” del rigore scientifico. «Noi sentiamo» afferma Wittgenstein - «che persino nell’ipotesi che tutte le possibili domande scientifiche abbiano ricevuto una risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure sfiorati»1368. Ecco allora che “al di là” dei confini della scienza si apre uno spazio legittimo per l’invocazione religiosa, per la richiesta di un senso ultimo dell’esistere. Tale richiesta di senso viene definita da Antiseri come la «grande domanda»: è una domanda metafisica che coinvolge il domandante stesso; non è un “problema” come gli altri, quanto piuttosto un meta-problema, nel quale l’uomo è coinvolto con tutto se stesso. Tale domanda - sottolinea il Nostro - è un’invocazione: «la “domanda” metafisica è un’invocazione trascritta nel linguaggio dei problemi razionali. È una “interrogatio” nella forma; solo “rogatio” nella sostanza. Per questo essa non ammette soluzioni presunte razionali univoche, assolute ed incontrovertibili. Ammette soltanto scelte di fede. La domanda metafisica, se vuole una risposta assoluta,

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K.R. POPPER, La società aperta e i suoi nemici, Armando, Roma 19963, p. 477. 1367 Ibidem. Cfr. anche D. ANTISERI, Liberi perché fallibili, Rubbettino, Soveria Mannelli 1995. 1368 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, cit., proposizione 6.52, p. 108.

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avrà soltanto una risposta di fede, una risposta religiosa»1369. La domanda metafisica nasce dall’angoscia esistenziale, dalla ricerca di un senso ultimo che le scienze non possono e non sanno dare; essa è la domanda che si pose il giovane Agostino in occasione della morte di un suo caro amico: «Factus eram ipse mihi magna quaestio (Diventai un grande enigma a me stesso)»1370. Tale domanda ribadisce Antiseri - è «invocazione di salvezza, invocazione di salvezza dall’assurdo, invocazione di quel senso assoluto della vita che da soli non riusciamo a costruire. E chi sceglie l’assurdo, cioè l’ateo, non è più scientifico del credente»1371. È interessante notare che Antiseri concorda anche con il laico Norberto Bobbio nel sostenere che la scienza, nonostante i suoi grandi successi, non riesca a rispondere alla “grande domanda”, alla richiesta di un senso più profondo del vivere e del morire. A tale interrogativo non sanno rispondere né la scienza né la filosofia: ecco allora che l’uomo rimane costitutivamente un essere religioso. «Proprio perché le grandi risposte non sono alla portata della nostra mente, l’uomo» - sostengono Bobbio ed Antiseri - «rimane un essere religioso, nonostante tutti i processi di demitizzazione, di secolarizzazione, tutte le affermazioni di Dio, che caratterizzano l’età moderna e ancor più quella contemporanea»1372. 1369

D. ANTISERI, La fede tra “uso” e “abuso” della ragione, cit., p. 431. Cfr. anche IDEM, La domanda metafisica è un “problema” o un’ “invocazione”?, in IDEM, Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede, Queriniana, Brescia 1980, pp. 95-100. Sulle nuove condizioni di possibilità per la fede religiosa dopo gli sviluppi novecenteschi delle filosofie e delle scienze cfr. anche S. LOMBARDINI - D. ANTISERI - M. BALDINI, C’è ancora spazio per la fede?, Rusconi, Milano 1992; D. ANTISERI, Credere. Perché la fede non può essere messa all’asta, Armando, Roma 2005. 1370 AGOSTINO D’IPPONA, Confessiones, IV, 4. 1371 D. ANTISERI, La domanda metafisica è un “problema” o un’ “invocazione”?, cit., p. 100. Cfr. anche IDEM, La fede tra “uso” e “abuso” della ragione, cit., p. 431. 1372 N. BOBBIO, in Aa. Vv., Che cosa fanno oggi i filosofi?, Bompiani, Milano 1988, p. 165; questo testo di Bobbio viene più volte richiamato e commentato da Antiseri nelle sue opere.

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A nostro parere uno dei guadagni teoretici fondamentali di Antiseri è questo: l’aver reso legittima la domanda metafisica. Diversamente da quel che sostennero i neopositivisti ed ancora oggi numerosi pensatori tale domanda «è perfettamente sensata, è legittima (pur se non dentro la scienza); è inestirpabile»1373. Antiseri supera decisamente i limiti dei neopositivisti e di molti altri filosofi riduttivisti per i quali le questioni metafisiche sono del tutto insensate, mere espressioni di “sentimenti vitali” (Lebensgefühle direbbe Rudolf Carnap1374), o mero «materiale per lo psicoanalista» (così Alfred J. Ayer)1375. 1373

D. ANTISERI, La fede tra “uso” e “abuso” della ragione, cit., p. 41. Cfr. R. CARNAP, Überwindung der Mataphysik durch logische Analyse der Sprache, in «Erkenntnis», 2, 1932, p. 238. Secondo Carnap il linguaggio dei metafisici, poiché privo di referenza semantica (Bedeutung), non descrive il reale ma è solo “poesia in concetti” (Begriffsdichtung): «Dio, così come anche la maggior parte degli altri termini metafisici» sostiene Carnap - «è senza significato (ohne Bedeutung)» (ibidem). Partendo da questi presupposti egli arriva ad affermare che «i metafisici, in fondo, sono musicisti senza talento musicale» (ibidem). 1375 A.J. AYER, Language, Truth and Logic, Victor Gollancz, London 1936; tr. it. di G. De Toni, Linguaggio, verità e logica, Feltrinelli, Milano 1960, p. 154. È con tali parole che Ayer sintetizza la posizione dell’ateismo semantico espressa dai neopositivisti: «Il punto che vogliamo fissare è che non vi possono essere verità trascendenti di fede religiosa, poiché gli enunciati cui il teista ricorre per esprimere tali “verità” non hanno significato nel senso letterale (The point which we wish establish is that there cannot be any trascendent truths of religion. For the sentences which the theist uses to express such “truths” are not literally significant)» (ibidem, pp. 149-158). In Ayer troviamo una posizione tipica dei neopositivisti e di molti esponenti della philosophy of language di Oxford: tuttavia Antiseri sottolinea che «a dispetto di come l’abbiano pensata [Ayer], Antony Flew, R.M. Hare, P. van Buren, R.B. Braithwaite, Hepburn ed altri, un altro gruppo di oxoniensi, tra cui Basil George Mitchell e John Hick, sono dell’avviso che il linguaggio religioso sia sensato e significativo, che esso sia in un certo modo informativo e che si possano addurre dei “ragionevoli” criteri per la sua accettazione» (D. ANTISERI (a cura di), Filosofia analitica. L’analisi del linguaggio nella Cambridge-Oxford Philosophy, Città Nuova, Roma 1975, p. 70). Per scongiurare il pericolo di 1374

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5. L’opzione di fondo tra l’assurdo e la speranza Antiseri sottolinea giustamente che la “grande domanda” - la “domanda metafisica” - rimane inestirpabile dal cuore dell’uomo. Possiamo dire che tale domanda sia un “trascendentale” della condizione umana, un quid di universale e costitutivo, che è impossibile eliminare e che “anche nell’uso tutto profano della vita” (così Marcel) riemerge con forza nelle “situazioni limite”, innanzi ai drammi della sofferenza e della morte. In queste sue considerazioni Antiseri si pone sulla scia del pensiero kantiano: «Ciò che è stata finora chiamata metafisica non può soddisfare nessuno spirito critico; tuttavia il rinunciarvi del tutto è impossibile [… ed essa] è qualcosa di ben più profondo che un semplice desiderio di sapere»1376. La metafisica, intesa come richiesta di un senso ulteriore dell’esistere, sia per Kant che per Antiseri non può trovare risposte adeguate in ambito teoretico o epistemologico: la metafisica può essere affermata solo sulla base di un primato del pratico, dove per pratico va intesa l’esigenza più profonda dell’uomo di dar un senso ed una finalità ultima alla vita. La domanda metafisica pone, quindi, l’uomo innanzi ad una radicale “opzione di fondo”: siamo costretti a scegliere tra l’assurdo e la speranza. In particolare Antiseri sottolinea che tale opzione di insensatezza del discorso religioso, John Hick introduce l’interessante concetto di “verifica escatologica”: egli sostiene che «le asserzioni religiose sono sensate perché, sebbene non falsificabili di fatto ora, lo sono di principio “all’ultimo angolo della via”. Ed esse sono accettabili sulla garanzia della figura di Cristo. La fede è, infatti, sì, fides in qualcosa, ma anche fiducia in qualcuno per cui si crede in qualcosa» (ibidem, p. 71). Antiseri si dimostra quindi molto sensibile al tema dell’accettabilità delle proposizioni di fede in base al criterio dell’autorità del testimone, cha ha autorità appunto perché degno-di-fede. Lo scritto principale di John Hick al quale si fa riferimento è Faith and Knowledge, Cornell Univerisy Press, Ithaca 1957. 1376 I. KANT, Prolegomena zu einer jeder künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, Johann Friedrich Hartknoch, Riga 1783; a cura di P. Martinetti, Prolegomeni ad ogni metafisica futura, Paravia, Torino 1944, pp. 213-214.

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fondo diviene inevitabile nelle situazioni limite, soprattutto innanzi al dramma della sofferenza degli innocenti: «ci sono momenti e luoghi» - così il Nostro - «in cui l’ottundimento prodotto dagli impegni della vita quotidiana viene spazzato via - scompare l’indifferenza nei confronti della grande domanda, si spezza il velo di una fede abitudinaria e magari mai scossa. Sono questi i “momenti decisivi” - momenti in cui non possiamo sfuggire alla “grande domanda”, alla domanda metafisica - siamo costretti a scegliere tra l’assurdo e la speranza, in una situazione di indecidibilità razionale. L’assurdista e il nichilista non sono più scientifici o più razionali del credente. L’assurdo e la speranza sono e restano aperti all’”opzione radicale”»1377. Si comprende allora come Antiseri recuperi il valore speculativo della scommessa (le pari) di cui parla Pascal: la fede non scaturisce da un discorso logico né da argomentazioni di carattere prettamente razionale, essa è piuttosto il frutto di un pari che si origina delle esigenze del cuore, da motivi di carattere pratico ed esistenziale. La fede religiosa - contrariamente a quanto sostengono i fautori della scolastica - non ha bisogno degli orpelli della ragione né di praeambula logici: essa nasce dalla fiducia incondizionata nel totalmente altro, dall’esigenza di salvezza eterna, dalla speranza che - così anche Max Horkheimer - «nonostante questa ingiustizia che caratterizza il mondo, non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola»1378. Quella di Antiseri è la fede tipica dell’uomo moderno: si tratta di un affidamento totale al Dio biblico che nasce come risposta di senso ai drammi dell’ingiustizia, dell’angoscia esistenziale e della sofferenza. È il frutto di una scelta sofferta e difficile: è la fede di Pascal, Kierkegaard e Dostoevskij. Antiseri ribadisce che credere in Dio non è cosa facile: egli ripete con Kierkegaard che «credere è propriamente andare per quella via dove tutti gli indicatori stradali mostrano: indietro, indietro, indietro! Dunque, la via è stretta [Mt. 7,14] (e questo appartiene già alla fede). La via è buia; anzi, non è 1377

D. ANTISERI, Credere dopo la filosofia del secolo XX, cit., 9. M. HORKHEIMER, Die Sehnsucht nach dem ganz Anderen, Furche Verlag, Hamburg 1970; tr. it. di S. Gibellini , La nostalgia del totalmente Altro, Queriniana, Brescia 1972, p. 76.

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soltanto buia di un buio pesto, ma è come se la luce dei lampioni non facesse che confondere e aumentare l’oscurità… proprio perché i segnali stradali indicano la direzione inversa»1379. A nostro parere Antiseri rileva giustamente che la fede religiosa dell’uomo moderno si origina come risposta di senso all’esperienza dell’angoscia: dopo aver sondato l’abisso del non-senso assoluto e del nichilismo, si apre per l’uomo la possibilità del riscatto e della salvezza, la possibilità dell’invocazione religiosa. Tale dinamica antropologica dell’approdo alla fede viene ben descritta nei romanzi di Dostoevskij e nelle opere di Kierkegaard. L’esperienza dell’angoscia fa dell’uomo un mendicante di senso: essa è una sorta di moderno praeambulum fidei. Antiseri concorda quindi con Kierkegaard nell’affermare che «Dio, che vuole essere amato, discende con l’aiuto dell’inquietudine a caccia dell’uomo»; e così ancora il filosofo danese: «È una cosa eccellente, l’unica necessaria e chiarificante, questa che dice Lutero: “Tutta la dottrina (della Redenzione, e in fondo tutto il cristianesimo) deve essere messa in rapporto alla lotta della coscienza angosciata. Elimina la coscienza angosciata, e tu puoi anche chiudere le chiese e farne delle sale da ballo”. La coscienza angosciata capisce il cristianesimo, come un animale affamato»1380. Come altri insigni filosofi del Novecento, Antiseri pone la scelta della fede religiosa come frutto di un’opzione di fondo tra l’assurdo e la speranza: solo l’adesione al Dio trascendente e personale della rivelazione ebraico-cristiana può dar fondate ragioni alla speranza umana di salvezza. Così come il filosofo torinese Luigi Pareyson, anche Antiseri sottolinea che la fede scaturisce da un’esperienza intima e personale che nulla ha a che vedere con la metafisica razionalistica. Sulla linea di Pascal, Kierkegaard e Pareyson, anche Antiseri contrappone al “Dio della filosofia” il “Dio della fede 1379

S. KIERKEGAARD, Diario, tr. it. di C. Fabro, Vol. X 49, AG 89, Morcelliana, Brescia, p. 194. Ricordiamo che Antiseri ha curato due volumi sul pensiero di Pascal e Kierkegaard nei quali ha messo in rilievo la grande attualità delle loro prospettive sulla comprensione della filosofia moderna e della fede: cfr. D. ANTISERI, Come leggere Pascal, Bompiani, Milano 2005; IDEM, Come leggere Kierkegaard, Bompiani, Milano 2005. 1380 S. KIERKEGAARD, Diario, cit., Vol. VII, A 192.

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autentica”, il “Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe”, per credere al quale occorre “sacrificare l’intelletto”, occorre cioè far compiere all’intelletto un “salto mortale”: «Il problema dell’esperienza religiosa non è il problema metafisico di Dio, come invece suppone chi ancora si chiede se Dio debba o non debba concepirsi come sostanza o causa o come altro che sia. Questo è, se mai, il «Dio dei filosofi», al quale potrà essere - o meglio, essere stata - interessata la filosofia, ma che non riguarda certo la religione. Il Dio della religione è altra cosa: è il Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, il Dio vivente e vivificante, è un Dio al quale si dà del tu e che si prega, un Dio a cui si dice con trepidazione miserere mei e con disperazione ne sileas, a cui ci si rivolge domandando angosciati quare me repulisti? E supplicando con timore e tremore ne averte facies tuam a me, a cui nell’ora suprema ci si affida esclamando in manus tuas commendo spiritum meum e implorando in te, Domine, speravi: non confundar in aeternum»1381. 6. Fideismo ed irrazionalismo? Un possibile accostamento con la teologia dialettica di Karl Barth La posizione di Antiseri, almeno per il rapporto istituito tra la fede e la ragione, può essere definita come anti-intellettualistica. Egli condivide con Enrico Castelli l’affermazione che una «filosofia cristiana è possibile solo se anti-intellettualistica»1382 ovvero solo se rinuncia al Dio della scolastica e della metafisica razionalistica: al “motore immobile” e al “grande architetto dell’universo”. Antiseri ha più volte sottolineato che la sua prospettiva si avvicina molto al credo quia absurdum sostenuto da Tertulliano: egli si definisce perciò come un “fideista”, rivendicando l’autonomia del discorso religioso e l’impossibilità di fondarlo su presupposti razionali. 1381

L. PAREYSON, L’esperienza religiosa e la filosofia, in IDEM, Ontologia della libertà. Il male e la sofferenza, Einaudi, Torino 1995, pp. 85-149, p. 85. 1382 E. CASTELLI, Esistenzialismo teologico, Abete, Roma 1966; il volume era stato edito in francese presso i tipi di Hermann di Parigi nel 1966.

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Seppur esplicitamente “fideista”, ci pare tuttavia che la proposta di Antiseri non scada in forme estreme di irrazionalismo: antiintellettualismo e fideismo non significano tout court rinuncia totale all’uso della ragione1383. Possiamo dire che egli - alla via antiqua della dimostrazione nell’esistenza di Dio (una via ad mentem sancti Thomae Aquinatis) - preferisca la via moderna, cioè quella proposta da Pascal e Kierkegaard, la quale si fonda sull’esprit de finesse, utilizza ragioni di carattere antropologico-esistenziale e finisce col proporre un “salto mortale” nel totalmente Altro1384. Anche la via 1383

Egli afferma esplicitamente: «Sono un fideista, e cerco di rendermene conto, cerco di dare ragioni del perché non possiamo non essere fideisti. […] Una fede si testimonia, non si impone né si dimostra. Tutti siamo fideisti. Ma si ha paura di ammetterlo e soprattutto, di trarne le conseguenze. Io sono, pertanto, un fidesita volontarista. Ma sono anche un irrazionalista, se per irrazionalismo intendiamo la scelta irrazionale, cioè non scientifica, di una fede; e noi irrazionalmente scegliamo anche la ragione scientifica. Io sono un antimetafisico, se per antimetafisica intendiamo la sfiducia nelle pretese assolutistiche di costrutti umani quali le metafisiche. E, tuttavia, io mi considero impegnato nella ragione quando cerco di argomentare sulla (e per la) storicità degli sforzi filosofici; quando tento di guardare ai presupposti (e alle scelte) irrazionali che stanno dietro ad ogni visione o concezione del mondo, e dietro anche al progetto più razionale del mondo che esiste e che è quello della scienza. Penso di fare un lavoro filosofico razionale quando tento di offrire ragioni per la teoria di Galileo, secondo cui la ragione ci dice “come vadia il cielo” e la fede “come si vadia in cielo”. E reputo di essere “più razionale” di quanti credono [i metafisici e gli assertori del “pensiero fondativo”] di sostenere la loro visione del mondo in forza di una ragione costrittiva, invece che in forza di una scelta irrazionale (non scientifica) che, in un modo o nell’altro, doveva venir presa. Penso di essere “più razionale” di loro. Più razionale di loro; e quindi, contrariamente a loro, fallibile» (D. ANTISERI, Una filosofia nongiustificazionista contro gli “assoluti terrestri”, in IDEM, Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede, cit., p. 103). 1384 Prima ancora di Kierkegaard fu Friedrich Heinrich Jacobi (1743-1819) ad usare l’espressione “salto morale” per designare l’atto di fede. Marco Ivaldo ha fatto giustamente notare che anche il “salto mortale” di cui parla Jacobi non è da interpretare come un qualcosa di totalmente irrazionale: «il “salto mortale” è un’azione che si presenta “sensata” - anche se ciò non

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moderna sostenuta da Antiseri ha, dunque, le “sue ragioni”, le sue intrinseche motivazioni fondate sul kantiano primato del pratico e sull’esigenza di un senso totale dell’esistere: com’è noto, lo stesso Pascal afferma che nell’atto di fede «l’ultimo passo della ragione consiste nel riconoscere che ci sono infinite cose che la sorpassano»1385 e che «il cuore ha le sue ragioni che la ragione non comprende (Le coeur a ses raisons que la raison ne connaît point)»1386. L’opzione radicale per la fede religiosa non è allora un qualcosa di totalmente assurdo ed irrazionale, non implica un completo abdicare all’uso della ragione: del resto lo stesso Pascal afferma che c’è un’intrinseca logica della fede, una logique de la foi, che però solo il cuore (le coeur) può comprendere e non l’intelletto. Possiamo dire che quella di Pascal, Kierkegaard ed Antiseri sia una razionalità fecondata dall’agápe e disposta perciò, dopo aver riconosciuto i propri limiti, ad allargare i propri orizzonti verso la significa che essa non costituisca una scelta rischiosa - quando si persegue il principio dello spinozismo (cioè del determinismo naturalistico) fino alle sue estreme conseguenze e se ne misura la insostenibilità rispetto alla esigenza, che è incancellabile nell’uomo, di ammettere una volontà libera. [...] Il “salto mortale” è un atto della libertà, che si realizza sulla base di una consapevolezza critica alla cui maturazione hanno agito insieme volontà ed intelletto, e che apre a una percezione effettiva della profondità della realtà, quella profondità che i sistemi del “razionalismo” [e tra questi in particolare lo spinozismo e l’idealismo] non possono attingere» (M. IVALDO, Introduzione a Jacobi, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 70). 1385 B. PASCAL, Pensées, 267 (secondo la numerazione di L. Brunschvicg, Hachette, Paris 1897). 1386 Ibidem, 277. In maniera simile a Pascal anche il mistico Angelus Silesius afferma che «solo l’amore raggiunge presto il Signore, la ragione e lo spirito fanno lunghe anticamere (Die Liebe geht zu Gott unangesagt hinhein, Verstand und hoher Witz muß lang’ im Vorhof sein)» (A. SILESIUS, Cherubinischer Wandersmann, [edizione originale 1674], Reclam, Stuttgart 1983, p. 47). In questo radicale rifiuto del raziocinio come necessario auxilium fidei troviamo molte consonanze di Antiseri con la spiritualità della devotio moderna, del pietismo e della teologia dialettica di Karl Barth. Egli sottolinea con fermezza che la fede è un dono di Dio (donum Dei) e non un dono del ragionamento.

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trascendenza, a porsi in ascolto di una possibile parola di salvezza. Notiamo inoltre che le coeur al quale fanno riferimento Pascal e Antiseri come “organo della fede” possa essere interpretato come un uso “alternativo” della ragione: si tratta di un uso “affettivo” della ragione in relazione alle esigenze esistenziali di senso e compimento, alle esigenze che spingono l’uomo angosciato e sofferente ad optare per la speranza piuttosto che per l’assurdo. Ci pare che tale paradigma di ragione delineato da Antiseri abbia qualche affinità anche con quello descritto da Martha Nussbaum ne L’intelligenza delle emozioni1387. Condividiamo pienamente le critiche rivolte da Antiseri a tutti quei metafisici che intendono “salvare il Salvatore” tramite i loro sistemi razionali: anche in queste critiche egli riprende e sviluppa alcune profonde intuizioni che furono già di Pascal e Kierkegaard, sottolineando che l’approdo alla fede religiosa, e al cristianesimo in particolare, nasce sul terreno dell’esistenza e si sostanzia nell’esperienza etica della caritas. Con Kierkegaard Antiseri sostiene che «dal punto di vista cristiano la fede abita nell’esistenziale: Dio non si è esibito in veste di docente che ha alcune tesi; no, prima bisogna credere e poi comprendere. La fede esprime un rapporto di personalità a personalità». A nostro avviso uno dei grandi meriti di Antiseri è la rinuncia alla concettualizzazione razionalistica di Dio. Con Kierkegaard egli afferma che «la fede non si può comprendere; il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere». In particolare, sottolinea Antiseri, non è possibile fare del cristianesimo un sistema razionalistico, dove ogni elemento può essere giustificato e logicamente dedotto. I contenuti fondamentali del cristianesimo sono paradossali, sono per la ragione umana “scandalo e follia”: il credere in un Dio fatto uomo, morto in croce e risorto è in sé un qualcosa di paradossale, che implica un sacrificio dell’intelletto. Tuttavia rileva Antiseri sulla scorta di Kierkegaard: «non bisogna 1387

Cfr. M.C. NUSSBAUM, Upheavals of Thought. The Intelligence of Emotions, Cambridge University Press, Cambridge 2001; tr. it. di S. Scognamiglio, L’intelligenza delle emozioni, a cura di G. Giorgini, Il Mulino, Bologna 2004.

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pensar male del paradosso; perché il paradosso è la passione del pensiero, e i pensatori privi del paradosso sono come amanti senza passione. […] È questo allora il supremo paradosso del pensiero, di voler scoprire qualcosa che esso non può pensare»1388. L’intento speculativo di Antiseri è quello di liberare la concezione di Dio da ogni orpello razionalistico, da ogni filosofia che intenda inserirlo compiutamente in un sistema. Egli si trova quindi d’accordo con Maurice Clavel, quando afferma: «sì, Kant ha liberato lo spirito da ogni dogmatismo, Dio da ogni filosofia: l’ha messo al sicuro dai dottori e dai sapienti: “Via regale di Kant”, dice magnificamente Kierkegaard»1389. Il “Dio dei filosofi” rimane sempre un Dio che ha caratteri antropomorfici: l’assoluto rimane inconcepibile (unbegreiflich) per la mente umana e ogni tentativo di rappresentarlo è destinato a ricadere nell’antropomorfismo. Egli condivide quindi con Luigi Pareyson e, come noteremo anche con Karl Barth, l’idea che Dio è trascendenza assoluta, è un mistero che non potrà mai essere pienamente spiegato dalla razionalità umana: «Concepire Dio in termini concettuali significa definirlo in base a categorie elaborate dalla mente umana e attribuirgli proprietà che direttamente o indirettamente ineriscono all’uomo, sia pure estremamente affinate e astratte, e sia pure pensate in senso eminente ed elevate al vertice. In tal senso concepire Dio come Essere, Principio, Causa, Pensiero, Ragione, Valore, Persona, Bontà, Provvidenza, e così via, è pur sempre un κατ’άνθρωπον λέγειν che conferisce a tali concezioni della divinità un carattere sostanzialmente, anche se larvatamente, antropomorfico»1390. 1388

S. KIERKEGAARD, Philosophiske Smuler eller En Smule Philosophie [scritto edito nel 1844 con lo pseudonimo di Johannes Climacus]; Briciole di filosofia, in IDEM, Opere, a cura di C. Fabro, Sansoni, Firenze 1972, p. 219. 1389 M. CLAVEL, Ce que je crois, Grasset, Paris 1975 ; tr. it., Quello che io credo, Città Nuova, Roma 1978, p. 35. 1390 L. PAREYSON, Filosofia ed esperienza religiosa, in «Annuario filosofico», 1, 1985, (Milano, Mursia), p. 7. Questo passo di Pareyson viene riportato e commentato in D. ANTISERI, Credere dopo la filosofia del secolo XX, p. 63.

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Ci pare che nella posizione religiosa di Antiseri si possa scorgere una forma di “barthismo”: in maniera simile al teologo Karl Barth anche Antiseri denuncia tutti i tentativi di ingabbiare Dio nelle reti della ragione umana, affermando che l’assoluto è il “totalmente altro” e che come tale rimane inconcepibile per il pensiero umano. Riprendendo intuizioni di Kierkegaard, Barth evidenzia l’opposizione sostanziale tra Dio e tutto ciò che è umano, vale a dire la ragione, la filosofia e la cultura. Ci sembra quindi che Antiseri potrebbe condividere queste parole di Barth: «Dio è il Dio sconosciuto. Come tale egli dà a tutti la vita, il fiato e ogni cosa. Perciò la sua potenza non è né una forza naturale né una forza dell’anima, né una delle più alte o altissime forze che noi conosciamo […], essa è la crisi di tutte le forze, il totalmente Altro. […] L’Evangelo è soltanto credibile, esso può soltanto essere creduto. La sua serietà consiste in questo, che si offre come una alternativa: a colui che non è capace di sopportare la contraddizione e di attendere nella contraddizione, è motivo di scandalo; a colui che sa di non poter evitare la contraddizione, è oggetto di fede. La fede è questo: il rispetto dell’incognito divino, l’amore di Dio nella coscienza della differenza qualitativa tra Dio e l’uomo, Dio e il mondo, […] il fermarsi, turbati, davanti a Dio»1391. Ci pare inoltre che anche negli scritti di Antiseri si possa rinvenire una critica alla dottrina (tipicamente tomista) dell’analogia entis, simile a quella avanzata da Barth. Com’è noto, la teoria dell’analogia entis afferma che si può parlare di Dio e dei suoi attributi partendo dall’essere delle creature, ovvero - così San Paolo «a creatura mundi per ea quae facta sunt» (Ep. ad Rom., 1, 20), a partire dalle cose create. Ebbene, secondo Karl Barth (ma anche secondo Antiseri) «l’analogia entis è l’abominevole strada che va dal basso in alto, che presume di passare dalla terra al mistero divino»1392, essa è quindi il frutto di una ragione umana presuntuosa 1391

K. BARTH, Der Römerbrief, Theologischer Verlag Zürich, Zürich 1919 [seconda edizione rivista ed ampliata 1922]; tr. it. di G. Miegge, L’Epistola ai Romani, Feltrinelli, Milano 1978, pp. 12-15. 1392 G. REALE - D. ANTISERI, La teologia protestante da Barth a Bonhoeffer, in IDEM, Storia della filosofia, Vol. 10, Bompiani, Milano

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ed arrogante. All’analogia entis andrebbe sostituita quella che Barth definisce come analogia fidei: «la strada giusta è quella che va dall’alto in basso, quella dell’analogia fidei: è partendo dalla fede che il cristiano comprende le verità cristiane, e non fondandosi sulla propria ragione. La fede cessa di essere fede quando cerca supporti razionali»1393. Un importante corollario dell’analogia fidei è che essa non può essere strutturata all’interno di un sistema razionale: essa abita infatti la contraddizione e il paradosso, fondandosi soltanto sulla fiducia incondizionata nel Dei loquentis persona; tale è la fede di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. 7. In difesa del “pensiero debole” Antiseri nel suo progetto di individuazione dei limiti della ragione ha trovato nel “pensiero debole” di Gianni Vattimo «un inatteso, e in qualche modo, insperato orizzonte comune»1394. Anche Antiseri si è fatto, quindi, aperto sostenitore delle “ragioni del pensiero debole”, sottolineando le profonde affinità - ma anche le notevoli divergenze 2008, pp. 489-566, p. 493. Quello dell’analogia entis è il metodo teologico che Barth considera come «l’emblema stesso della teologia cattolica. L’idea che nella realtà umana e terrena vi sia oggettivamente qualcosa di analogo alla realtà di Dio, e che pertanto i concetti che designano tali realtà possano essere riferiti anche alla realtà divina, pur cogliendola solo parzialmente» (F. ARDUSSO - G. FERRETTI - A. PERONE PASTORE - U. PERONE, Introduzione alla teologia contemporanea, Società Editrice Internazionale, Torino 1972, p. 38). Uno scritto - ormai classico - sull’argomento è quello di Erich Przywara, il quale ebbe un’accesa disputa con Karl Barth proprio sul tema della conoscenza analogica di Dio fondata sul principio di noncontraddizione: cfr. E. PRZYWARA, Analogia Entis - Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico, [la prima edizione del volume è del 1932, la seconda edizione ampliata è del 1962], Vita e Pensiero, Milano 1995. 1393 G. REALE - D. ANTISERI, La teologia protestante da Barth a Bonhoeffer, cit., p. 493. 1394 G. FRANCO, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, cit., p. 35.

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con la proposta di Vattimo1395. Con quest’ultimo egli condivide molti punti: tra questi, soprattutto, l’idea che la filosofia debba abbandonare ogni pretesa fondativa, ritenuta come ultima e normativa1396; l’idea che la verità sia sempre il frutto di interpretazioni storicamente determinate1397; la concezione, tipicamente postmoderna, che la storia non sia inquadrabile in un disegno unitario di senso, così come pretendeva ad esempio la dialettica hegelo-marxista; la prospettiva di una “società aperta”, democratica, pluralista e relativista, tollerante e rispettosa nei confronti delle minoranze; la speranza che lo spazio lasciato aperto dalla caduta degli “assoluti terrestri” crei nuove condizioni di possibilità per la riscoperta della fede religiosa. Antiseri afferma che «l’antifondazionismo […] del pensiero debole di Vattimo sia una concezione teoreticamente valida, che si affianca ad esiti seriamente consolidati di correnti filosofiche contemporanee - dal razionalismo critico di Popper alla prospettiva ermeneutica di Gadamer, dalla 1395

Cfr. D. ANTISERI, Le ragioni del pensiero debole, Borla, Roma 1993, seconda edizione 1995: il volume è apparso anche in inglese con titolo The weak Thought and its Strenght, Alderhot, Avebury 1995. 1396 Fin dal manifesto del loro pensiero Vattimo e Pier Aldo Rovatti affermano: «il dibattito filosofico ha oggi almeno un punto di convergenza: non si dà una fondazione unica, ultima, normativa» (G. VATTIMO – P.A. ROVATTI, Premessa, AA. VV., Il pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1983, p. 7). 1397 Quando parla di “addio alla verità” Vattimo intende «la presa di congedo dalla verità come rispecchiamento “oggettivo” di un “dato”» (G. VATTIMO, Addio alla verità, Meltemi, Roma 2009, p. 13): si tratta della concezione della verità come corrispondenza oggettiva ai fatti, tipica della metafisica che da Aristotele giunge sino al positivismo. A tale concezione oggettivista e granitica della verità-corrispondenza Vattimo contrappone una nozione di verità come interpretazione e come “evento” (Ereignis) ovvero come apertura di un orizzonte di senso sempre storicamente e linguisticamente determinato. Egli si avvicina quindi alla teorizzazione dell’alétheia propota da Heidegger e al prospettivismo nietzscheano, stando al quale «non ci sono fatti ma solo interpretazioni (Tatsache giebt es nicht, nur Interpretationen)» (F. NIETZSCHE, Frammenti postumi 1885-87, in Opere, tr. it. di S. Giammetta, vol. 8, tomo I, 1975, pp. 299-300).

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logica deontica di filosofi del linguaggio e dal normativismo di Kelsen all’epistemologia dell’economia di Hayek -»1398. Nel “pensiero debole” Antiseri scorge, quindi, un valido alleato nella lotta agli “abusi della ragione” e nella riconquista razionale della contingenza, un alleato in grado di garantire nuovi spazi di legittimità al sacro e alla stessa domanda religiosa. Sono molti, dunque, i motivi per i quali Antiseri sente che il suo “razionalismo della contingenza” si avvicina al “pensiero debole” di Vattimo, soprattutto dopo che quest’ultimo in Credere di credere dichiara di essersi nuovamente avvicinato alla fede cristiana1399. Tuttavia Antiseri rimprovera a Vattimo di “giocare al cristianesimo”, di essersi costruito un cristianesimo ad personam, incentrato su un concetto di pietas edulcorato e moralmente accomodante. Abbandonando il cristianesimo “apocalittico e dostojeskiano” del suo maestro Pareyson, Vattimo si sarebbe costruito una forma religiosa adatta a “soddisfare il secolo”, lontana dai drammi morali, dal senso del peccato, da quella che Pascal nel Memoriale definiva come «renonciation totale et douce. Soumission totale à Jésus-Christ et a mon directeur»1400. Di particolare interesse sono le indagini di Antiseri sui precedenti storici del “pensiero debole”, ovvero su tutti quei pensatori che, eliminando gli “assoluti terrestri”, hanno reso libero lo spazio della fede. Si tratta di quella linea di pensiero definibile come “pirronismo cristiano”: essa comprende autori come Montaigne, Charron, PierreDaniel Huet, Pascal e Kierkegaard. In opposizione ad una forma di 1398

D. ANTISERI, Pensiero debole, ragione filosofica e spazio della fede, cit., p. 47. 1399 Cfr. G. VATTIMO, Credere di credere - È possibile essere cristiani nonostante la Chiesa?, Garzanti, Milano 1996. A parere di Vattimo «il nichilismo post-moderno è la forma aggiornata del cristianesimo. E dunque il pensiero debole è l’unica filosofia cristiana sul mercato. […] Il pensiero debole è anche l’unica filosofia cristiana pensabile» (G. VATTIMO (con P. PATERLINI), Non essere Dio. Un’autobiografia a quattro mani, Alberti, Reggio Emilia 2006, p. 182). 1400 B. PASCAL, Oeuvres complètes, a cura di J. Mesnard, Desclée de Brouwer, Paris 1964 ss., p. 554.

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“pensiero debole” che nega apertamente la fede, approdando ad esiti radicalmente scettici e nichilisti, Antiseri rivaluta tutte quelle forme di pirronismo cristiano che non cantano “la vittoria del nulla” ma che approdano alla fede, partendo dai limiti della conoscenza umana, sempre parziale, fallibile e incompleta. Egli condivide, quindi, queste programmatiche espressioni di Pierre Charron (1541-1603): «tanto celebri tra i saggi è il fatto […] che l’unica certezza e scienza è che non c’è nulla ci certo e noi nulla conosciamo, solum certum nihil esse certi, hoc unum scio quod nihil scio; che noi non facciamo che chiedere, tentare, cercare e brancolare in mezzo alle apparenze, scimus nihil, opinamur verisimilia; che la verità non è affatto nella nostra capacità, nei nostri progetti, in nostro possesso»1401. E a coloro che definiscono quasi con disprezzo “pirronismo” tale concezione gnoseologica, Antiseri replica con Charron che siffatta concezione «rende alla pietà e all’azione divina, lungi dal contraddirle, un servizio maggiore di qualunque altra cosa»1402. Simili modo seguendo Montaigne viene detto: «Quel che occorre fare è accompagnare la nostra fede con tutta la ragione che è in noi; ma sempre con questa riserva, di non pensare che sia da noi che essa dipende e che i nostri sforzi e le nostre argomentazioni possano giungere ad una scienza così soprannaturale e divina»1403. Antiseri riscopre e valorizza sotto il profilo teoretico anche il dibattito intercorso nel Settecento tra il vescovo di Avranches, Pierre-Daniel Huet, e Lodovico Antonio Muratori. Se quest’ultimo accusa Huet di screditare indebitamente i sensi e la ragione1404, il 1401

P. CHARRON, De la sagesse, Bordeaux 1601; tr. it. di G. Stabile, Piccolo trattato della saggezza, Bibliopolis, Napoli 1985, p. 100. 1402 Ibidem, p. 127. Una compiuta ricostruzione dei precedenti storici del “pensiero debole” viene svolta nel volume D. ANTISERI, Le ragioni del pensiero debole, cit. 1403 M. De MONTAIGNE, Apologie de Raimond Sebond, [in Essais, Libro II, capitolo XII], Paris 1588; Apologia di Raimondo Sebond, in IDEM, Saggi, a cura di V. Enrico, vol. 2, Mondadori, Milano 1985, p. 171. 1404 Cfr. L.A. MURATORI, Delle forze dell’intendimento umano o sia il pirronismo confutato. Trattato di Lodovico Antonio Muratori bibliotecario del Serenissimo Signor Duca di Modena, opposto al libro del preteso

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vescovo afferma invece che solo accentuando la debolezza della ragione umana si possono raggiungere due fondamentali finalità: 1) «il fine primario» - rileva Huet - «è di schivare l’errore, l’ostinazione, l’arroganza»; 2) «il fine lontano», ma quello ben più importante, consiste «nel preparare lo spirito a ricevere la fede»1405. 8. Conclusioni e rilievi critici Solo laddove cadono gli “assoluti terresti” - le costruzioni umane di un senso assoluto e totalizzante - è nuovamente possibile lo spazio per l’invocazione religiosa. È questo il motivo essenziale per cui Antiseri valuta molto positivamente il “pirronismo cristiano”, la filosofia dei limiti di Kant e di Wittgenstein, il “pensiero debole” di Vattimo, il fallibilismo di Popper e di tanta parte dell’epistemologia contemporanea: queste prospettive, pur nella loro diversità, rendono nuovamente legittima una possibile apertura alla dimensione della trascendenza divina. Si comprende, allora, come (quasi paradossalmente) il cattolico Antiseri valuti positivamente alcune forme di relativismo e di nichilismo. Quest’ultimo, così come il relativismo, ha diverse accezioni1406: quando per nichilismo s’intende il pessimismo assoluto, l’assurdo e la “morte di Dio”, egli lo rifiuta radicalmente, ma se per «nichilismo si dovesse intendere l’impossibilità a parte hominis di costruire un senso assoluto della vita dei singoli e dell’intera storia umana: se nichilismo, in altri termini, stesse a significare un nihil di senso assoluto costruito con mani umane, allora il nichilismo è una concezione razionalmente Monsignor Huet intorno alla debolezza dell’umano intendimento, Presso G. Pasquali, Venezia 1745. 1405 P.-D. HUET, Traité philosophique de la faiblesse de l’esprit humain, [opera edita postuma], Amsterdam 1723; Trattato filosofico della debolezza dello spirito umano, Presso Gian Battista Gonzetti, Padova 1724. 1406 Sulla pluralità di significati del concetto di “relativismo” cfr. A. COLIVA, I modi del relativismo, Laterza, Roma-Bari 2009. Sulla storia e le diverse accezioni del nichilismo si veda F. VERCELLONE, Introduzione a Il nichilismo, Laterza, Roma-Bari 1999.

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sostenibile e umanamente ricca: sorgente di tolleranza e insieme riconquista dello spazio del sacro»1407. Antiseri, come recita il titolo di un suo volume, sostiene di essere “cristiano perché relativista, relativista perché cristiano”: a suo parere «per un cristiano solo Dio è assoluto, per cui tutto ciò che è umano non può essere che storico, contestabile, non assoluto, relativo»1408. Il “relativismo cristiano” di Antiseri diviene però pressoché assoluto - e presenta a nostro avviso alcune aporie ed aspetti problematici - nella misura in cui egli accetta in toto la cosiddetta “legge di Hume“: com’è noto, tale “legge”, ponendo una netta cesura tra l’ambito delle descrizioni da quello delle prescrizioni, individua una differenza fondamentale tra i fatti (ritenuti oggettivi) e i valori (ritenuti soggettivi, frutto di mere scelte private). La “legge di Hume”, nota il Nostro, «ci dice che dalle descrizioni non sono logicamente derivabili prescrizioni, con la conseguenza che i valori di fondo di un sistema etico, i princìpi etici fondamentali risultano fondati, in ultima analisi, sulle scelte di coscienza di ogni singola persona e non su argomentazioni di natura

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G. FRANCO, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, cit., p. 41. 1408 Ibidem, p. 41. Sul tema del relativismo cfr. D. ANTISERI, Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano: per un razionalismo della contingenza, Rubbettino, Soveria Mannelli 2003. Per il cristiano solo Dio è veramente l’assoluto: tutto il resto è legittimato a considerarlo come una costruzione umana storicamente determinata, effimera e transeunte. Questa consapevolezza libera il cristiano anche da ogni possibile assolutizzazione delle realtà terrene e dello stesso potere politico: «con il messaggio cristiano» - afferma il Nostro - «aveva fatto irruzione nel mondo l’idea che il potere politico non è il padrone della coscienza degli individui, ma che è la coscienza di ogni uomo a giudicare il potere politico. Per il cristiano solo Dio è il Signore, l’Assoluto. Lo Stato non è l’Assoluto: Káysar non è Kýrios. E con ciò il potere politico veniva desacralizzato, l’ordine mondano relativizzato e le richieste di Cesare sottoposte al giudizio di legittimità da parte di coscienze inviolabili, di persone “fatte ad immagine e somiglianza di Dio”» (D. ANTISERI, Il liberalismo cattolico italiano dal Risorgimento ai nostri giorni, Rubbettino, Soveria Mannelli 2010, p. 5).

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razionale»1409. Antiseri dichiara di accettare la “legge di Hume” poiché - a suo avviso - essa è la legge logica della libertà di coscienza: «L’etica» - egli afferma - «non è scienza. […] La scienza sa e l’etica valuta; esistono spiegazioni e previsioni scientifiche, ma non esistono spiegazioni e previsioni etiche - esistono valutazioni etiche. […] Da tutta la scienza non possiamo estrarre un grammo di morale. Inevitabile è, pertanto, la scelta dei valori supremi - di quei valori “per i quali si può vivere o morire” - e questa è una scelta che trova la sua base non nella scienza, ma nella coscienza di ogni uomo e di ogni donna. […] Quindi: è falso sostenere che tutte le etiche sono uguali; ma non si può dar torto a quanti affermano che i valori supremi non sono né teoremi “dimostrati” né assiomi “autoevidenti” e “autofondantisi”»1410. Seguendo le note posizioni di Hans Kelsen, Antiseri sostiene che tale forma di relativismo sarebbe la base della stessa democrazia: tale regime politico sarebbe infatti impossibile se governanti e governati partissero dall’idea (o dalla presunzione) di possedere la conoscenza della verità assoluta e di valori assoluti. Antiseri concorda pienamente con Kelsen nel sostenere che «il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone»1411. 1409

G. FRANCO, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, cit., p. 40. La cosiddetta “legge di Hume“ («nessun deve può essere derivato da un è») presenta molti aspetti problematici e ha dato adito a differenti interpretazioni; è comunque opinione assai diffusa che essa stia alla base di molte tendenze dell’etica contemporanea: a tal riguardo cfr. A.C. MACINTYRE, Hume on “Is” and “Ought”, «The Philosphical Review», 68, 1959, pp. 451-468; G. CALACATERRA, Il problema della fallacia naturalistica. La derivazione del dover essere dall’essere, Giuffrè, Milano 1969; E. LECALDANO, Hume e la nascita dell’etica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 1991; H. PUTNAM, The Collapse of the Fact/value Dichotomy and Other Essays, Harvard University Press, Cambridge (Massacchuttes) 2002; tr. it. di G. Pellegrino, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, Fazi, Roma 2004. 1410 G. FRANCO, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, cit., p. 40. 1411 H. KELSEN, Vom Wesen und Wert der Demokratie, J.C.B. Mohr, Tübingen 1929; tr. it. di G. Melloni, Essenza e valore della democrazia, in

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Ci pare che questa posizione di Kelsen e di Antiseri sul relativismo vada in parte corretta o, perlomeno, integrata con un’altra considerazione: quella del valore assoluto della persona umana. Nella democrazia tutti i valori potranno essere relativi, contestabili e discutibili tranne uno: il rispetto incondizionato per la dignità della persona, che - come sosteneva Rosmini - è la fonte stessa del diritto, «il diritto sussistente»1412. Se si prescinde da questa considerazione, la democrazia diviene mero proceduralismo, un “freddo meccanismo burocratico” alieno da qualsiasi fine umanitario e sociale. Ci pare, quindi, che la democrazia - più che una forma assolutizzata di relativismo - abbia come suo presupposto il valore fondamentale della persona, venendo meno il quale la stessa prassi democratica rischierebbe di trasformarsi in oclocrazia, in governo sconsiderato delle masse, in “dittatura della maggioranza” o di chi “al momento viene eletto” (così come hanno ben messo in evidenza Gaetano Mosca e gli elitisti). Nel Novecento la necessità di fondare la democrazia sul valore “non negoziabile” della persona è stato ben sottolineato da autori di ispirazione cristiana come Luigi Stefanini1413, Jacques Maritain1414, Pietro Pavan1415 e Augusto Del Noce1416.

IDEM, La democrazia, a cura di M. Barberis, Il Mulino, Bologna 1984, 19955, p. 149. 1412 A. ROSMINI, Filosofia del diritto, [edizione originale 1841-1845], a cura di R. Orecchia, Ed. Nazionale, Cedam, Padova 1967, vol. I, p. 192. 1413 Stefanini sottolinea che «la democrazia è l’ordine sociale politico più personale, in quanto è quello per il quale ognuno è giudice sul tutto: quello secondo il quale per ogni cittadino passa tutta la città, per ogni suddito passa tutto lo Stato, per ogni coscienza passa tutta la legge, per ogni singola libertà passa tutta l’autorità» (L. STEFANINI, Personalismo sociale, [la prima edizione del volume è del 1952], Introduzione di A. Rigobello, Studium, Roma 1979, p. 4). 1414 Cfr. J. MARITAIN, La personne et le bien commun, Desclée de Brouwer, Paris 1947; IDEM, Man and the State, University of Chicago Press, Chicago 1951; tr. it. di L. Frattini, L’uomo e lo Stato, Introduzione di V. Possenti, Marietti, Genova 20033.

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Hans Albert ha criticato ad Antiseri di mettere insieme nel suo pensiero diversi filosofi appartenenti a tradizioni assai lontane le une dalle altre: ci pare tuttavia che il Nostro non possa essere accusato tout court di “eclettismo filosofico” o di “scorretti accostamenti”: il filo rosso che unisce le filosofie di Wittgenstein, Popper, Gadamer, Mises, Hayek e Kelsen è quello di aver distrutto - sotto il profilo epistemologico - le pretese assolutistiche della ragione umana, ponendo le basi per quello che Antiseri ha delineato come “razionalismo della contingenza”. Si tratta di filosofie tese ad indicarci che «i fatti del mondo non sono poi tutto»1417 e che, ponendo l’accento sulla finitudine e contingenza umana, scardinano ab imis fundamentis la pretesa di costruire con le nostre forze un assoluto: «l’assoluto terrestre della metafisica, della dialettica, dello Stato etico, del diritto naturale»1418. Certamente quelle analizzate da Antiseri non sono in sé stesse “filosofie cristiane”: sono però tutte prospettive compatibili con il cristianesimo, sono cioè prospettive che, eliminati gli “abusi della ragione” e sottolineati i limiti delle scienze, lasciano aperto lo spazio per la “grande domanda”; Dio 1415

Cfr. P. PAVAN, La democrazia e le sue ragioni, Studium, Roma 1958 (seconda edizione con uno Studio introduttivo di Mario Toso: Studium, Roma 2003). 1416 Secondo Del Noce «ciò che caratterizza la democrazia non è il governo della maggioranza (si potrebbe anzi mostrare come un almeno implicito consenso della maggioranza lo abbiano anche i regimi totalitari) ma il rispetto del singolo. É anzi proprio questa esigenza fondamentale del rispetto del singolo che fonda la necessità della democrazia» (A. DEL NOCE, Il concetto di democrazia e il principio delle “élites”, «Il Popolo nuovo», 20-21 settembre 1945: l’articolo è stato ristampato in C. VASALE e P. ARMELLINI (a cura di), La democrazia nel Novecento. Antologia di testi classici del pensiero filosofico e politico, Aracne, Roma 1999, pp. 309-310, p. 310). Del Noce propone quindi una concezione della democrazia in cui «metodo della libertà e rispetto delle persone siano tali valori a cui non si debba mai venir meno» (ibidem). 1417 L. WITTGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 19141916, cit., p. 174. 1418 D. ANTISERI, Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede, cit., p. 100.

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ripete Antiseri con Martin Buber - «abita dove noi lo facciamo entrare»1419. Al di là dei limiti della scienza l’atteggiamento spirituale più consono è quello della disponibilità e dell’attesa. In tal senso Antiseri mostra di condividere la posizione religiosa dell’ultimo Heidegger, che dichiara impossibile determinare con certezza apodittica l’esistenza e la natura di Dio: a parte hominis l’unica possibilità è quella di un attesa fiduciosa; «Ormai solo un Dio ci può salvare. Ci resta come unica possibilità quella di preparare (Vorbereiten), nel pensare e nel parlare una disponibilità (Bereitschaft) all’apparizione del Dio o all’assenza del Dio nel tramonto (al fatto che, al cospetto del Dio assente, noi tramontiamo) […]. Noi non possiamo avvicinarlo [Dio] col pensiero, siamo tutt’al più in grado di risvegliare la disponibilità dell’attesa»1420.

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M. BUBER, Die Erzählungen der Chassidim, Manesse Verlag, Zürich 1949; tr. it. di G. Bemporad, I racconti dei Chassidim, Garzanti, Milano 1983, p. 605. 1420 M. HEIDEGGER, Nur noch ein Gott kann uns retten, «Der Spiegel», 31 maggio 1976; tr. it., Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo “Spiegel”, a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1987, pp. 136-137.

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Riferimenti bibliografici

Ci limitiamo a segnalare volumi, atti di convegni e saggi dove viene presa in esame la filosofia italiana nel suo insieme o in alcuni suoi particolari aspetti: la bibliografia secondaria sui singoli autori è ormai cospicua (basti pensare ai casi di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile) e ci è perciò impossibile in questa sede darne un elenco completo. AA. VV., Filosofia e cristianesimo, Centro Studi Filosofici di Gallarate, Milano 1947. - La mia prospettiva filosofica, Liviana, Padova 1950. - Bibliografia filosofica italiana dal 1900 al 1950, a cura del Centro filosofico di Gallarate, Delfino, Roma 1950-55. - La filosofia contemporanea in Italia, 2 voll., Arethusa, Asti 1958. - Antonio Banfi e il pensiero contemporaneo, La Nuova Italia, Firenze 1967. - Il pensiero di Giovanni Gentile, 2 voll., Istituto dell’Enciclopedia Italiana, Roma 1977. - Il senso della filosofia cristiana, oggi, Morcelliana, Brescia 1978. - Dal ʼ68 ad oggi. Come siamo e come eravamo, Laterza, Roma-Bari 1979. - Che cosa fanno oggi i filosofi?, Bompiani, Milano 1982. - La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980 nelle sue relazioni con altri campi del sapere, Guida, Napoli 1982. - La filosofia italiana dal dopoguerra ad oggi, Laterza, Roma-Bari 1985. - Gramsci e il marxismo contemporaneo, Editori Riuniti, Roma 1991. - La filosofia italiana in discussione, Mondadori, Milano 2001.

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624

Avvertenza Lo Studio I (Filippo Masci e il neokantismo italiano) è stato pubblicato in Ivan POZZONI (a cura di), Voci dall’Ottocento III, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2011, pp. 327-369. Lo Studio II compare (in una versione ridotta) con il titolo Ermeneutica, ontologia e linguaggio in Luigi Stefanini e Paul Ricoeur. Un possibile confronto, in Atti del Convegno Arte e linguaggio in Luigi Stefanini, tenutosi a Treviso presso la Fondazione Luigi Stefanini il 10 e l’11 novembre 2006, Editrice Prometheus, Milano 2008, pp. 303-337. Lo Studio III (Modernità, secolarizzazione e politica in Augusto Del Noce) è stato pubblicato in Ivan POZZONI (a cura di), Voci di filosofi italiani del Novecento, IF Press, Morolo (FR) 2011, pp. 338-386. L’Appendice I (Esistenza e libertà: maestri e compagni di strada di Augusto Del Noce) è stata pubblicata in P. ARMELLINI - R. FIDANZIA (a cura di), Modernità, Secolarizzazione e Risorgimento. Studi in occasione del Centenario della nascita di A. Del Noce, Drengo, Roma 2012. L’Appendice II (Augusto Del Noce: il Risorgimento come “rivoluzione liberale” e “restaurazione creatrice”) è stata pubblicata in Maurizio SERIO (a cura di), Percorsi dell’Unità d’Italia. Confronto e conflitto, Aracne, Roma 2012 , pp. 57-80. Lo Studio IV è stato pubblicato (in una forma ridotta) con il titolo Dal “tomismo essenziale” alla critica della modernità. L’itinerario intellettuale di Cornelio Fabro, in Ariberto ACERBI (a cura di), Crisi e destino della filosofia. Studi su Cornelio Fabro, Edusc, Roma 2012, pp. 25-50. Lo Studio V compare con il titolo Per un “razionalismo della contingenza”. Scienza e fede in Dario Antiseri, in Mauro MURZI (a cura di), 150 anni di scienza e filosofia nell’Italia Unita, Limina Mentis, Villasanta (MB) 2011, pp. 525-566.

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626

Indice dei nomi Aristotele; 33; 43; 46; 64; 68; 179; 209; 212; 219; 226; 227; 243; 267; 372; 373; 396; 401; 411; 428; 431; 514; 542; 544; 547; 604 Aristotele,; 64; 68; 179; 226; 227; 243; 267; 372; 411; 428; 544; 547 Armellini; 7; 27; 126; 168; 446; 452; 469; 472; 478; 482; 485; 487; 488; 503; 507; 511; 518; 521; 524; 526; 611; 614; 625 Azeglio; 54; 56; 581

A Abbagnano; 282; 283; 284; 285; 286; 287; 288; 342; 445; 560; 615; 619; 622 Acerbi; 75; 541; 563; 625 Acquaviva; 273; 274; 554 Adorno; 99 Agazzi; 65; 151; 205; 236; 585; 614; 621 Agostino; 9; 11; 23; 28; 29; 34; 35; 44; 45; 51; 59; 63; 64; 66; 71; 112; 136; 169; 174; 194; 208; 209; 210; 211; 215; 219; 233; 237; 238; 239; 240; 241; 242; 251; 259; 267; 328; 369; 388; 415; 417; 418; 422; 451; 526; 532; 592 Ales Bello; 225; 265; 399 Aliotta; 256 Angelino; 306; 310 Antiseri; 16; 21; 40; 101; 143; 145; 183; 186; 188; 194; 439; 492; 532; 551; 563; 568; 571; 572; 573; 574; 575; 576; 577; 578; 579; 580; 581; 582; 584; 585; 586; 587; 588; 589; 590; 591; 592; 593; 594; 595; 596; 597; 598; 599; 600; 601; 602; 603; 604; 605; 606; 607; 608; 609; 610; 611; 612; 614; 625 Antiseri D.,; 614 Antonelli; 270; 614 Antonetti; 161; 176; 183; 186 Antoni; 281; 614 Ardigò; 73; 74; 360; 492; 493

B Babolin; 203; 614 Babolin A.,; 614 Balbo; 12; 30; 151; 159; 161; 162; 163; 164; 165; 166; 167; 168; 294; 444; 477; 490; 522 Baldini; 145; 311; 579; 592 Banfi; 30; 123; 206; 271; 279; 280; 613; 621 Barale; 246 Barth; 16; 169; 317; 551; 561; 597; 599; 601; 602; 603 Battaglia; 97; 182; 201; 202; 203; 205; 234; 235; 615 Bausola; 61; 131; 225; 233 Bedeschi; 160; 163; 184 Bellezza; 282; 343; 494; 615 Benamozegh; 23 Bergson; 68; 234; 375; 378; 388; 468; 506; 511 Berti; 205; 226; 227; 615 Berti E.,; 615 Bertoni; 270; 541

627

Calogero; 11; 97; 99; 103; 104; 105; 106; 108; 196 Caltagirone; 183; 184; 285; 615 Campanini; 190; 530; 615 Campanini G.,; 615 Camus; 31; 278; 303 Cantillo; 285; 287; 616 Cantillo G.,; 616 Cantoni; 123; 354; 355; 356; 361; 496 Capitini; 105; 439; 443; 492 Capograssi; 182; 283; 289; 491; 521; 530 Cappello; 191; 211; 389; 616 Carabellese; 12; 24; 97; 106; 108; 109; 110; 111; 112; 114; 238; 616 Caracciolo; 7; 13; 89; 97; 270; 271; 276; 278; 302; 303; 304; 305; 306; 307; 308; 309; 310; 311; 312; 313; 616; 617 Carducci; 148; 243; 350; 568 Carlini; 9; 13; 24; 70; 97; 205; 234; 235; 236; 240; 242; 243; 244; 245; 246; 247; 248; 249; 250; 251; 252; 253; 254; 255; 258; 260; 265; 281; 614; 618; 620; 622 Cartesio; 15; 27; 47; 53; 58; 68; 75; 113; 114; 207; 221; 223; 224; 243; 248; 249; 251; 260; 297; 307; 344; 346; 404; 406; 408; 437; 438; 440; 445; 447; 448; 449; 450; 451; 452; 453; 455; 456; 459; 460; 462; 464; 465; 466; 468; 470; 488; 498; 499; 504; 505; 506; 508; 511; 514; 526; 554; 557; 561; 563; 564; 567

Beschin; 270 Betti; 328 Bloch; 169; 170; 478; 589 Blondel; 62; 93; 140; 142; 143; 207; 210; 216; 219; 234; 242; 259; 270; 295; 296; 394; 440; 464; 468; 506; 511 Bobbio; 90; 123; 152; 170; 193; 280; 281; 285; 439; 441; 442; 488; 490; 492; 499; 531; 592; 615; 624 Bonatelli; 74; 493 Bontadini; 13; 42; 65; 67; 70; 169; 202; 205; 220; 221; 222; 223; 224; 225; 226; 227; 229; 230; 231; 232; 250; 251; 252; 260; 267; 282; 316; 464; 556; 574; 620; 624 Borghesi; 27; 274; 275; 439; 440; 442; 443; 459; 464; 465; 495; 499; 565 Bortolin; 203 Bozzetti; 51; 56; 205; 269 Bréhier; 211; 213 Brezzi; 167; 329; 331; 428; 615 Bruno; 79; 100; 113; 141 Brunschvicg; 36; 207; 599 Buber; 612 Bultmann; 301; 302 Buonaiuti; 12; 62; 75; 96; 121; 133; 139; 140; 141; 142; 143; 144; 145; 146; 147; 216 Buttiglione; 446; 488; 521 Buzzetti; 11; 50; 51; 52; 53 C Cacciatore; 279; 287; 291; 615 Cacciatore G.,; 615 Calderoni; 130

628

De Sanctis; 76; 80; 295 Del Noce; 7; 12; 14; 15; 21; 27; 30; 74; 89; 95; 96; 123; 126; 137; 151; 159; 162; 164; 166; 167; 168; 169; 170; 202; 272; 274; 298; 437; 438; 439; 440; 441; 442; 443; 444; 445; 446; 447; 448; 449; 450; 451; 452; 453; 454; 456; 457; 458; 459; 460; 461; 462; 463; 464; 465; 467; 468; 469; 471; 472; 473; 474; 475; 476; 477; 478; 479; 480; 481; 482; 483; 484; 485; 486; 487; 488; 490; 491; 492; 493; 494; 495; 496; 497; 498; 499; 500; 501; 502; 503; 504; 505; 506; 507; 510; 511; 512; 513; 514; 515; 516; 517; 518; 519; 521; 522; 523; 524; 525; 526; 527; 528; 529; 531; 532; 533; 534; 535; 554; 556; 564; 565; 566; 567; 610; 611; 614; 617; 625 Della Volpe; 271; 615; 618 Dessì; 103; 440; 441; 444; 469; 474; 487; 488; 490; 495; 500; 503; 507; 525; 531 Dezza; 51; 53; 617 Di Cesare; 327; 420; 435 Di Giovanni; 61; 97; 617 Dilthey; 69; 582; 583; 584 Donà; 273 Dossetti; 162; 176; 444 Dostoevskij; 303; 324; 595

Cassirer; 14; 85; 360; 362; 363; 364; 381 Castelli; 13; 162; 202; 271; 272; 276; 283; 292; 293; 294; 295; 296; 297; 298; 299; 300; 301; 302; 444; 476; 491; 522; 597; 616 Caviglione; 269 Cesa; 78; 246; 452; 565 Chiocchetti; 65; 67; 71 Ciancio; 315; 320; 466 Cipriani; 274 Clavell; 553 Colletti; 24; 271 Comte; 572 Coreth; 52; 56; 203; 269; 294; 616 Cornoldi; 53; 54; 56 Cortese; 562 Cosmo; 439; 492; 493 Cotta; 182; 445 Crinella; 169; 215; 280; 385; 616 Croce; 15; 29; 66; 71; 76; 80; 82; 84; 85; 86; 87; 88; 89; 90; 106; 113; 120; 125; 132; 133; 147; 153; 154; 155; 234; 244; 245; 257; 281; 366; 382; 389; 440; 444; 500; 524; 525; 526; 541; 613; 614; 618 D Dal Pra; 617; 618 Dalledonne; 538 De Felice; 480 De Gasperi; 161; 168; 176; 186; 187 De Grazia; 348 De Lucia; 77; 79; 97; 617 De Rosa; 617 De Ruggero; 123

E Eco; 170; 285; 294; 315 Eliade; 115 Emo; 272 Engels; 154; 475; 476; 572

629

F

416; 417; 435; 572; 576; 584; 587; 604; 611 Galluppi; 79; 343; 344; 345; 346; 347; 348; 349; 352; 358 Garin; 25; 51; 54; 79; 244; 280; 342; 355; 358; 359; 466; 494; 506; 618 Gemelli; 11; 34; 61; 63; 64; 65; 66; 67; 68 Geymonat; 123; 271; 441; 442; 496; 499; 618 Giacon; 201; 202; 618 Giannini; 45; 49; 205; 217; 267; 279; 291; 615 Gilson; 207; 208; 209; 210; 211; 213; 218; 219; 256; 441; 451; 463; 464; 544; 547; 549; 550; 551; 552 Gioberti; 17; 21; 53; 73; 96; 192; 215; 293; 358; 421; 438; 449; 457; 458; 459; 460; 461; 521; 523; 525; 528; 529 Giordani; 176 Girard; 335 Givone; 276; 315 Gobetti; 127; 135; 184; 185; 442; 519 Goethe; 129; 321; 363 Gramsci; 12; 67; 151; 152; 153; 154; 155; 156; 157; 158; 159; 161; 165; 168; 185; 439; 492; 519; 613; 615; 622 Greisch; 272; 326; 410 Guardini; 18; 205 Guzzo; 13; 29; 78; 201; 202; 205; 234; 235; 236; 238; 239; 240; 241; 242; 255; 260; 314; 495; 614; 618; 619

Fabris; 246 Fabro; 44; 52; 283; 451; 537; 538; 539; 540; 541; 542; 543; 544; 545; 546; 547; 548; 549; 550; 551; 552; 554; 555; 556; 557; 558; 559; 560; 561; 562; 563; 564; 567; 568; 569 Faggi; 440; 493; 494 Faggiotto; 89; 101; 205; 226; 227; 617 Felice; 12; 30; 79; 97; 151; 159; 161; 163; 164; 167; 182; 186; 201; 205; 354; 361; 444; 480; 522; 582 Ferrari; 51; 108; 119; 286; 354; 355; 528; 617 Ferraris; 326; 444 Ferrarotti; 274; 285; 286 Ferretti; 236; 551; 603; 618 Feuerbach; 84; 154; 165; 266; 464; 476; 497; 502; 569 Fichte; 7; 47; 54; 71; 75; 77; 93; 104; 110; 113; 117; 192; 223; 249; 256; 258; 297; 315; 320; 367; 404; 466; 516; 554; 558 Filoramo; 275; 276 Fiorentino; 79; 352; 354; 357; 358; 360 Fogazzaro; 141 Franco; 30; 161; 163; 167; 280; 286; 302; 352; 444; 521; 522; 535; 576; 578; 584; 585; 603; 608; 609; 617 G Gadamer; 13; 18; 293; 319; 320; 326; 327; 328; 329; 332; 386;

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H

J

Habermas; 517 Hegel; 25; 26; 27; 39; 54; 56; 73; 76; 77; 78; 79; 80; 81; 87; 89; 92; 104; 113; 118; 119; 132; 133; 214; 222; 223; 224; 244; 256; 257; 258; 259; 281; 295; 320; 322; 348; 366; 367; 371; 374; 382; 390; 399; 437; 447; 449; 450; 451; 454; 455; 459; 479; 499; 504; 514; 515; 526; 530; 539; 554; 556; 557; 558; 559; 561; 562; 563; 565; 617 Heidegger; 47; 69; 110; 213; 227; 228; 238; 272; 277; 278; 279; 284; 291; 306; 309; 316; 332; 335; 386; 390; 391; 402; 411; 412; 420; 428; 435; 456; 464; 497; 512; 537; 539; 544; 549; 558; 560; 588; 604; 612 Herder; 88; 121; 225; 230; 265; 357; 363; 399; 563 Horkheimer; 595 Hume; 33; 82; 84; 103; 222; 237; 290; 297; 305; 346; 374; 378; 533; 541; 588; 608; 609 Husserl; 123; 225; 247; 253; 279; 280; 330; 377; 390; 395; 399; 400; 404; 422; 425; 426; 434; 514; 574

Jacobi; 33; 74; 75; 297; 409; 459; 498; 516; 559; 598 Jaja; 79; 619 Jaspers; 278; 284; 302; 303; 309; 314; 317; 390; 560 Jervolino; 329; 432 Juvalta; 74; 439; 458; 491; 493; 496; 498; 504 K Kant; 13; 14; 30; 33; 34; 35; 37; 47; 56; 62; 63; 65; 68; 70; 79; 81; 93; 95; 103; 109; 113; 114; 115; 116; 119; 143; 178; 193; 222; 223; 224; 246; 258; 262; 268; 295; 303; 305; 306; 307; 308; 309; 312; 343; 344; 345; 346; 347; 348; 349; 350; 351; 352; 353; 354; 355; 356; 357; 358; 359; 360; 361; 362; 363; 369; 373; 374; 377; 381; 382; 393; 396; 399; 400; 404; 423; 430; 433; 454; 494; 502; 503; 514; 554; 561; 568; 569; 575; 588; 594; 601; 607; 617 Kelsen; 605; 609; 610; 611 Kierkegaard; 16; 33; 132; 281; 284; 295; 298; 317; 320; 512; 538; 539; 540; 559; 560; 561; 562; 569; 573; 595; 596; 598; 600; 601; 602; 605 Kleugten; 56

I Iannotta; 329; 330; 394; 407 Invitto; 167; 236; 280; 619 Ivaldo; 7; 33; 140; 306; 310; 324; 404; 466; 567; 571; 598

L La Via; 222 Laberthonnière; 62; 111; 140; 296; 300 Labriola; 80; 151; 154

631

Lazzarini; 202; 205; 206; 215; 216; 217; 218; 235; 265; 294 Lazzati; 23; 176 Le Senne; 234; 506; 511; 560 Leibniz; 44; 69; 116; 222; 306 Lenin; 96; 156; 168; 196; 480 Leopardi; 126; 276; 303; 307; 309; 452 Lequier; 15; 468; 469; 470; 471; 472; 491; 505; 506; 507; 508; 509; 510; 511 Levi; 304 Liberatore; 53; 54; 61; 184 Livi; 52; 209; 213; 299; 538; 550; 556 Loisy; 22; 121; 140; 141; 142 Löwith; 18; 170; 275; 478; 479 Luporini; 271

Marcucci; 351; 352 Maritain; 22; 182; 211; 219; 256; 399; 411; 441; 463; 551; 553; 610 Martinetti; 12; 106; 114; 115; 116; 117; 118; 119; 120; 121; 122; 123; 214; 443; 491; 499; 500; 501; 502; 503; 504; 594 Marx; 82; 83; 96; 152; 154; 155; 163; 164; 165; 168; 170; 390; 404; 444; 464; 475; 476; 479; 480; 482; 497; 522; 523; 529; 539; 558; 561; 572 Masci; 13; 14; 21; 341; 342; 343; 345; 346; 347; 348; 350; 351; 352; 354; 355; 356; 359; 360; 361; 362; 363; 364; 365; 366; 367; 368; 369; 370; 371; 372; 373; 374; 375; 376; 377; 378; 379; 380; 381; 382; 625 Masnovo; 29; 50; 51; 53; 65; 67; 70; 221; 620 Masullo A.,; 620 Mathieu; 239; 620 Matiussi; 62; 214; 543; 568 Matteucci; 195; 437; 442; 444; 447; 488; 505; 521; 522 Mazzantini; 27; 74; 115; 202; 439; 441; 458; 459; 491; 493; 495; 496; 497; 498; 499; 504 Melchiorre; 66; 108; 205; 212; 213; 220; 362; 400; 620 Melzi; 229; 230 Messinese; 41; 220; 228; 246; 250; 620 Michelstaedter; 125; 276 Mina; 439; 454; 467; 495 Mondin; 213; 537; 549; 552 Mondolfo; 151; 152; 541; 620 Moretti-Costanzi; 108; 238

M Machiavelli; 158 Maine de Biran; 210; 406; 468; 470; 471; 506; 508; 510 Maiorca; 282; 285; 619; 624 Malebranche; 27; 44; 49; 107; 373; 438; 440; 449; 451; 457; 458; 459; 460; 462; 493; 498 Malgeri; 176; 190 Malusa; 619 Mamiani della Rovere; 73 Mancini; 12; 34; 65; 151; 167; 169; 170; 171; 294; 301; 302; 351; 478; 568; 620; 624 Mandonnet; 61; 211 Mangiagalli; 620 Manzoni; 17; 32; 261 Marcel; 248; 261; 316; 329; 390; 393; 401; 411; 470; 484; 506; 508; 511; 513; 560; 574; 594 Marcolungo; 65

632

Padovani; 65; 201; 202; 205; 206; 214; 215; 250; 574; 616 Pagotto; 616 Papini; 29; 130; 131; 132; 133; 134; 135; 136; 137; 147 Pareyson; 7; 9; 13; 26; 41; 114; 123; 202; 205; 234; 235; 239; 241; 242; 248; 272; 276; 281; 282; 283; 313; 314; 315; 316; 317; 318; 319; 320; 321; 322; 323; 324; 325; 326; 329; 332; 387; 491; 499; 512; 596; 597; 601; 605; 621; 622; 623 Paris; 22; 31; 32; 36; 62; 84; 101; 111; 121; 127; 140; 141; 207; 209; 210; 211; 212; 232; 263; 272; 284; 300; 302; 326; 330; 339; 344; 345; 357; 372; 375; 389; 391; 392; 393; 394; 399; 400; 407; 409; 410; 411; 416; 426; 427; 429; 433; 444; 446; 448; 453; 465; 470; 471; 473; 484; 488; 500; 505; 508; 509; 512; 513; 515; 545; 548; 550; 553; 556; 557; 599; 601; 605; 606; 610 Pascal; 32; 33; 36; 126; 215; 219; 250; 259; 260; 290; 322; 388; 452; 457; 466; 467; 573; 595; 596; 598; 599; 600; 605 Pastore; 152; 439; 493; 551; 603 Pavan; 12; 176; 177; 178; 179; 180; 181; 182; 610; 611 Percivale; 269 Pérez de Laborda; 553 Perone; 84; 315; 466; 551; 603 Pezzimenti; 84; 85; 183; 488; 621 Piovani; 283; 289; 290; 291; 309 Pirola; 558

Moretto; 291; 303; 305; 306; 309; 327 Moschetti; 215; 620 Mounier; 197; 388; 392; 394; 400 Mura; 52; 203; 294; 327; 328; 571; 616 Muratore; 27; 269; 351; 459; 499; 534 Muratori; 606 Murri; 141; 184 Mussolini; 137; 153; 243; 244; 482; 529 N Negri; 105; 195; 275; 479; 534 Newman; 23; 140; 142; 539 Nietzsche; 15; 27; 33; 125; 128; 132; 134; 136; 276; 277; 278; 303; 306; 307; 332; 335; 386; 390; 404; 405; 406; 408; 437; 447; 449; 450; 451; 452; 479; 504; 525; 534; 537; 564; 604 Nussbaum; 37; 196; 600 O Olgiati; 24; 64; 65; 67; 68; 69; 70; 250; 251; 252; 260; 574; 620 Olivetti; 108; 176; 292; 293; 294; 296; 297; 300; 452; 565; 620 Oppes; 385 Otto,; 133; 306; 309 Ottonello; 270; 351 P Paci; 279; 280; 283; 621

633

Ricoeur; 13; 14; 192; 293; 302; 320; 326; 329; 330; 331; 385; 386; 387; 388; 389; 390; 391; 392; 393; 394; 396; 397; 400; 401; 402; 404; 405; 406; 407; 408; 409; 410; 411; 412; 413; 414; 416; 418; 420; 421; 422; 423; 425; 426; 427; 428; 429; 430; 431; 432; 434; 435; 545; 625 Riconda; 26; 123; 314; 315; 324; 439; 447; 450; 468; 485; 488; 495; 499; 500; 506; 565; 616; 622 Rigobello; 3; 7; 11; 21; 30; 34; 37; 88; 153; 191; 198; 205; 215; 234; 235; 262; 329; 330; 331; 385; 386; 391; 428; 432; 573; 574; 575; 610; 621; 622 Rizzacasa; 236; 622 Rodano; 30; 161; 163; 167; 168; 444; 477; 490; 521; 522; 535 Roma; 4 Romagnosi; 348; 349; 352; 519 Rosmini Serbati; 349 Rovatti; 332; 604; 624 Rovighi; 66; 70; 205; 236; 237; 280 Russo; 622

Pizzuti; 569 Platone; 38; 64; 68; 69; 74; 195; 209; 219; 244; 265; 267; 305; 327; 382; 387; 388; 415; 419; 422; 502; 537; 541; 547; 550; 557 Platone,; 38; 68; 69; 74; 195; 305; 387; 388; 415; 419; 422; 547; 557 Plebe; 78; 239; 241; 350; 568; 619 Popper; 572; 573; 576; 577; 580; 584; 586; 587; 591; 604; 607; 611 Possenti; 167; 191; 199; 274; 275; 337; 338; 490; 571; 610 Preti; 233; 271; 579 Prezzolini; 130; 137; 138; 147; 148 Prini; 119; 133; 147; 205; 206; 261; 270; 280; 283; 293; 294; 313; 461; 489; 497; 563; 564; 573; 574; 621 Przywara; 551; 603 Q Quinzio; 335 R

S

Randone; 447; 488 Raschini; 270 Ratzinger; 39; 478; 518; 577 Reale; 29; 305; 326; 327; 417; 544; 551; 563; 568; 575; 578; 602; 603 Regina; 227; 336; 337; 621 Regina U.,; 621 Rensi; 125; 126; 127; 128; 452

Sainati; 234; 246; 252; 622 Salvatorelli; 520 Salvemini; 590 Sanseverino; 54; 55 Santinello; 203; 204 Santucci; 131; 278; 282; 622 Santucci A.,; 622 Sartre; 263; 278; 279; 284; 292; 303; 511; 512; 560

634

Scheler; 280; 393 Schelling; 54; 56; 221; 315; 317; 320; 367 Schleiermacher; 309; 332 Sciacca; 13; 29; 35; 36; 45; 65; 67; 73; 82; 83; 84; 97; 114; 201; 202; 205; 206; 211; 218; 219; 234; 235; 236; 237; 240; 247; 252; 253; 254; 255; 256; 257; 258; 259; 260; 261; 262; 263; 264; 265; 266; 267; 268; 269; 270; 305; 356; 358; 494; 534; 614; 618; 619; 623 Scoppola; 140; 166 Semerari; 623 Serra; 623 Severino; 84; 170; 226; 227; 228; 272; 278; 294; 306; 539; 620; 623; 624 Sgreccia; 623 Signore; 189; 362 Spaventa; 76; 79; 349; 359; 360; 619 Spengler; 129 Spirito; 11; 18; 26; 77; 88; 97; 98; 99; 100; 101; 102; 103; 105; 107; 139; 147; 220; 224; 246; 259; 445; 542; 615; 622; 623 Stefanini; 7; 12; 14; 18; 21; 76; 77; 118; 179; 182; 190; 191; 192; 193; 194; 195; 196; 197; 198; 199; 201; 202; 205; 206; 211; 217; 218; 234; 235; 252; 253; 254; 264; 283; 385; 386; 387; 388; 389; 390; 391; 392; 393; 394; 395; 396; 397; 399; 400; 401; 406; 411; 414; 415; 417; 418; 419; 420; 421; 422;

423; 424; 425; 428; 429; 434; 435; 461; 610; 616; 625 Stein; 191; 198; 225; 265; 399; 422; 540 Sturzo; 182; 183; 184; 185; 186; 187; 189; 190 T Tagliagambe; 143; 145; 439; 492; 577; 614 Telesio; 79 Tessitore; 203; 289; 290; 559; 618; 623 Tocco; 79; 354; 361 Togliatti; 152; 159; 160; 168 Tomatis; 273; 315 Tommaso; 3; 17; 23; 29; 33; 43; 44; 45; 46; 47; 48; 50; 52; 53; 54; 55; 59; 62; 64; 68; 71; 79; 174; 175; 177; 179; 180; 193; 209; 211; 219; 240; 245; 251; 256; 266; 267; 268; 305; 401; 411; 440; 451; 463; 464; 500; 514; 534; 537; 538; 541; 543; 544; 546; 547; 549; 550; 551; 552; 553; 561 Toniolo; 55; 64; 184 Tresmontant; 212; 229; 231; 232 Troeltsch; 121; 306 Turoldo; 227; 428 V Vailati; 130 Vanni Rovighi; 66; 70; 205; 236; 237; 280 Varisco; 12; 106; 107; 108; 109; 116; 222; 294; 299; 356

635

Vasale; 440; 441; 444; 469; 487; 490; 495; 500; 503; 507; 525; 531; 611 Vattimo; 13; 26; 38; 40; 41; 101; 170; 229; 230; 231; 272; 276; 277; 278; 294; 313; 314; 315; 319; 320; 324; 326; 332; 333; 334; 335; 336; 337; 338; 363; 386; 417; 572; 603; 604; 605; 607; 617; 624 Venturelli; 303; 305; 306; 308; 310; 312 Vera; 78; 619 Vercellone; 276; 607 Verra; 239; 279; 286; 291; 294; 315; 317; 587; 624 Viano; 228; 285; 337; 622; 624 Vico; 26; 71; 82; 219; 342; 359; 360; 451; 456; 460; 519; 566 Vidari; 439; 491; 493; 496

Vigna; 97; 227; 624 Vigorelli; 120; 123; 280; 444; 500; 624 Voegelin; 195; 475 W Weber; 273; 286; 302 Wittgenstein; 41; 276; 572; 573; 576; 579; 591; 607; 611 Z Zamboni; 65; 74; 493 Zecchi,; 129 Zigliara; 52; 54; 546 Zolo; 531 Zovatto; 269; 624 Zucal; 170; 311

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2012 638

Nella prima parte del volume (Lineamenti generali) viene analizzata sotto un profilo storico-critico l’interpretazione del cristianesimo data dalle più significative correnti filosofiche del Novecento italiano: dal neotomismo all’idealismo, dall’esistenzialismo alle più recenti temperie speculative, come l’ermeneutica ed il “pensiero debole”. Pagine di approfondimento vengono dedicate anche al rapporto tra cristianesimo e politica, così come viene preso in esame sia da autori di tendenza marxista che liberale. In tal modo viene effettuato un excursus che mette in luce il contributo originale di alcune posizioni filosofiche tipicamente italiane e che, allo stesso tempo, evidenzia la fecondità di domande che il messaggio cristiano ha per il lógos umano. La seconda parte del libro (Percorsi di approfondimento) è costituita da cinque saggi sul rapporto tra fides et ratio così com’esso è stato tematizzato in autori e contesti ricchi di intuizioni originali ma che talvolta non hanno trovato adeguati spazi nelle ricostruzioni storiografiche. In particolare ci siamo soffermati sul kantismo di Filippo Masci, sul personalismo di Luigi Stefanini (letto come “ermeneutica filosofica” ante litteram), sul “tomismo essenziale” di Cornelio Fabro, sull’ontologismo di Augusto Del Noce, sull’epistemologia di Dario Antiseri. Tali indagini storiografiche prendono le mosse dall’idea giobertiana della poligonìa del cristianesimo, contraddistinto da una pluralità di confessioni, liturgie e spiritualità: esso non è religio “ad una sola dimensione” ma è un evento in grado di dar vita a molteplici ermeneutiche della condizione umana, a molteplici metodologie che, pur con differenti accentuazioni, tendono ad ampliare gli orizzonti della ragione umana. La Weltanschauung ebraicocristiana fa intravvedere alla ragione i suoi limiti costitutivi ma, allo stesso tempo, apre ad essa dimensioni di senso e di ulteriorità, altrimenti inattingibili.

* * * Tommaso Valentini (Spoleto, 1979) è ricercatore presso l’Università degli Studi Guglielmo Marconi di Roma, dove insegna “Filosofia politica” e “Storia della filosofia moderna”. Si è laureato in Filosofia all’Università di Roma LUMSA. E’ dottore di ricerca in “Etica ed antropologia filosofica” presso l’Università degli Studi del Salento. Dal 2004 lavora come segretario di redazione di «Acta Philosophica. Rivista internazionale di filosofia». Dal 2006 al 2008 ha approfondito i suoi studi sul pensiero classico tedesco a Monaco di Baviera presso la Ludwig-Maximilians Universität. Attualmente è anche docente di “Storia della filosofia moderna” presso la Pontificia Università Antonianum. Ha pubblicato numerosi saggi su Kant, J.G. Fichte, il personalismo e l’ermeneutica filosofica (in particolare Paul Ricoeur). Nel 2010 per gli Editori Riuniti University Press ha curato (insieme a Silvio Spiri) il volume Allargare gli orizzonti della razionalità. Prospettive per la filosofia; sempre per gli Editori Riuniti nel 2011 è stato curatore del volume Soggetto e persona nel pensiero francese del Novecento, nel 2012 autore della monografia I fondamenti della libertà in J.G. Fichte.

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VOCI DELLA POLITICA

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