L’equivoco del sud. Sviluppo e coesione sociale [6 ed.] 978-88-581-0741-6

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L’equivoco del sud. Sviluppo e coesione sociale [6 ed.]
 978-88-581-0741-6

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Saggi Tascabili Laterza 386

Carlo Borgomeo

L’equivoco del Sud Sviluppo e coesione sociale

Editori Laterza

© 2013, Gius. Laterza & Figli www.laterza.it Prima edizione maggio 2013 1

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Edizione 5 6

Anno 2013 2014 2015 2016 2017

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste Stampato da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-581-0741-6

...evitare di cadere nell’errore di chi, trovandosi di fronte ad un albero che dà pochi frutti, invece di provvedere a curare la malattia dell’albero, provvedesse ad appendere dei frutti sui suoi rami. Giorgio Ceriani Sebregondi

Premessa

Nella bellissima chiesa di Santa Maria della Sanità, nel cuore di uno dei quartieri più incredibilmente contraddittori di Napoli, quasi un paradigma delle straordinarie ricchezze e del degrado civile della città, vi è una lapide che ricorda i campanari di quella chiesa: tra di essi Pasquale Borgomeo, mio trisavolo. Sono e mi sento “molto” napoletano. Ma alla vigilia della laurea, come molti giovani meridionali, ho lasciato casa per andare a lavorare fuori. Dopo qualche tempo, nell’estate del 1977, a trent’anni, lasciai la cisl di Brescia, dove avevo maturato una straordinaria esperienza umana e professionale, decisiva per la mia formazione, per trasferirmi alla cisl di Napoli. Non fu una scelta di “ritorno” a casa; i miei fratelli e i miei genitori erano ormai a Roma e mia moglie è bolognese. Ma una sorta di disagio e poi una convinzione molto netta: per un meridionale un impegno nel sociale, un impegno per il cambiamento, non aveva senso se non declinato al Sud, se non speso per dare un contributo a superare l’antica e maledetta questione. Per 36 anni, in diversi ruoli professionali e anche con rilevanti incarichi pubblici, mi sono occupato di Sud: al sindacato; come ricercatore del censis; per 16 anni con la responsabilità di gestire le misure per l’imprenditorialità giovanile e in seguito del “prestito d’onore”, il più im­vii

portante intervento di promozione di lavoro autonomo sviluppato in Europa. Sono stato capo della segreteria tecnica di un ministro tecnico del Mezzogiorno, amministratore delegato di Sviluppo Italia, assessore “esterno” del Comune di Ravello, amministratore della Società di trasformazione urbana di Bagnoli, consulente della Confcooperative e commissario di un’unione provinciale del Sud, consulente della Coldiretti; e infine, dal 2009, presidente della Fondazione con il sud. Anche con la mia società di consulenza, fondata con Marco Vitale nel 2002, mi occupo prevalentemente di imprese e pubbliche amministrazioni meridionali. Ho conosciuto persone, ambienti, organizzazioni; ho incrociato interessi piccoli e grandi, ho visto da diverse angolazioni il meglio e il peggio del Sud; senza rapporti organici e soprattutto senza “appartenenze” ho visto da vicino, in qualche fase molto da vicino, la politica per il Sud e nel Sud. Amo profondamente il Sud: i territori, i paesaggi, la cultura, le tradizioni, i dialetti; questo non mi impedisce, però, di coglierne i difetti, le contraddizioni e, soprattutto, di “pesare” le enormi responsabilità di noi meridionali. In questi lunghi anni ho visto crescere in me una percezione progressivamente sempre più accentuata, ed infine una convinzione sulle cause del mancato sviluppo del nostro Sud, ed anche qualche suggestione sul possibile percorso da intraprendere per avviare a soluzione il problema o, almeno, per non insistere in interventi che si sono rivelati come una sorta di accanimento terapeutico capace, in qualche caso, paradossalmente, di aggravare le patologie del sistema. Questo mio lavoro non ha la pretesa di rappresentare organicamente il tema: non ne avrei la capacità e non ne ho l’ambizione. Del resto richiamare dati e ripetere la storia del “fallimento” della “sempiterna questione meridionale” (Barucci, 1978) non credo serva a far avanzare, oggi, il dibattito sul tema. ­viii

Vorrei tentare un approccio particolare, una chiave di lettura socio-politica, nella speranza che sia utile a (ri)animare il dibattito sul Mezzogiorno in termini un po’ diversi dal solito. La mia impostazione potrà essere giudicata disinvolta – e tendenzialmente elusiva – da parte dei meridionalisti “ufficiali”: tuttavia, considerati i risultati complessivi conseguiti dalle politiche ispirate al meridionalismo classico, è forse lecito contare sulla benevolenza degli esperti della materia.

L’equivoco del Sud Sviluppo e coesione sociale

1.

Sessant’anni senza risultati?

Bisogna onestamente ammettere che l’antica questione meridionale pare ai più alquanto noiosa. Su di essa sembra che si sia detto e scritto tutto e che, nonostante mille programmi e mille proclami, nulla sia davvero cambiato. Di conseguenza, quando si parla di politiche per il Sud, ormai da tempo lo si fa con scarsa spinta ideale, senza progetto politico e, soprattutto, non credendo che la questione possa essere realmente risolta: un diffuso scetticismo e disinteresse nell’opinione pubblica e negli opinion leaders, una forte frustrazione in quanti generosamente hanno provato a fare qualcosa. Chi, ai livelli istituzionali e ai livelli apicali delle grandi organizzazioni, “deve” occuparsi del problema mostra di credere che la soluzione sia possibile; tutti gli altri semplicemente non ci credono più e si comportano di conseguenza. Di tanto in tanto si manifesta qualche spinta di protagonismo che spesso ha lo scopo di ottenere un posizionamento “efficace” nell’auspicato trasferimento di risorse pubbliche. In questi ultimi anni si è ripetuto sempre più spesso che lo sviluppo del Sud è condizione essenziale per lo sviluppo del Paese: ma questa affermazione, innegabilmente vera, non riesce a determinare uno scatto di interesse e di motivazione nella pubblica opinione, né di coerenza e di impegno nelle classi dirigenti. In effetti una ripresa di tensione positiva nell’argomento sarà possibile quando sarà ­3

rilanciato su basi diverse, e soprattutto con una strategia politica degna di questo nome, il tema della solidarietà, della necessità di superare distanze così pronunciate nelle condizioni di vita di cittadini dello stesso Paese. Ma tale strada è oggi fortemente in salita: essa richiama immediatamente il tema delle responsabilità, con un Paese che si spacca in due: chi dice che le risorse date al Sud sono state enormi, ma sostanzialmente sprecate dai meridionali, e chi, pur riconoscendo che c’è stata una gestione delle risorse non particolarmente efficace, denuncia che i trasferimenti sono stati largamente insufficienti. Non si tratta di una contrapposizione nuova: di nuovo c’è un’evidente maggiore forza polemica, una maggiore diffusione di un certo “antimeridionalismo”, anche perché su di esso hanno apertamente ed irresponsabilmente investito alcune forze politiche. Penso che affrontare il tema a partire da un giudizio sulle responsabilità sia apparentemente doveroso, ma in realtà inconcludente, nel senso letterale: uso lo stesso termine che adopera Benedetto Croce sull’argomento, in uno straordinario passaggio della sua Storia del Regno di Napoli (1924). Più volte si sono udite querele e accuse contro il Mezzogiorno: che senz’esso l’Italia sarebbe stata più omogenea nella ricchezza e nel grado di civiltà; che avrebbe segnato una media più bassa nelle statistiche dell’analfabetismo; che i suoi governi non avrebbero potuto disporre di voti guadagnati con facile corruttela; che la monarchia vi avrebbe ceduto il luogo alla repubblica, o che si sarebbe potuto evitare l’eccessivo accentramento e serbare o introdurre una sorta di autonomia regionale; che la politica italiana sarebbe stata più liberale o più democratica, e perfino non avrebbe avuto impedimenti di grave mora a svolgersi verso forme sociali ultrademocratiche e comunistiche; e simili. Ai quali detti sono state opposte le difese e le controffese: che, senza l’Italia meridionale, quella del settentrione e media si sarebbe ristretta a una vita angusta e piccina; che nel Mezzogiorno l’industria del settentrione ha trovato il suo mercato, mentre esso,

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con l’unità ha visto sparire quanto possedeva d’industrie locali; che l’efficacia del robusto pensiero meridionale ha assai innalzato la scienza e gli studi italiani; che è stata fortuna che l’Italia possedesse nel Mezzogiorno un contrappeso o una zavorra da ritenerla in certe follie, e che quella zavorra non era tutta gravità materiale, ma anche freno di buon senso, e l’ideale dello stato forte e della monarchia non rispondeva semplicemente a tradizionale disposizione verso il governo dall’alto, ma anche, come si vede nei maggiori uomini di questa terra, a percezione realistica e a seria meditazione politica e storica; e via di seguito. Accuse e difese che, in quanto tali, si dimostrano inconcludenti, perché è chiaro che in una unione si hanno sempre vantaggi e perdite reciproche, e che nondimeno il guadagno totale (e non s’intende solo di quello economico nel senso empirico e quantitativo, ma anche di guadagno spirituale e qualitativo) deve essere assai superiore alle perdite particolari, se l’unione si è formata e se, invece di dissolversi e di allentarsi, dura e si rinsalda.

In questa fase seguo con interesse le riflessioni di Carlo Trigilia e di Gianfranco Viesti che hanno maturato posizioni non del tutto sintoniche: Viesti certifica il clamoroso calo nei trasferimenti verso il Sud, esplicito nella riduzione degli stanziamenti, ed implicito come conseguenza cioè di scelte politiche e programmatiche che penalizzano il Mezzogiorno; Trigilia accentua una riflessione critica circa l’utilità dei trasferimenti, ed in particolare degli incentivi alle imprese, in mancanza di un quadro istituzionale locale adeguato. Entrambi sviluppano posizioni fondate, ma penso che in termini politici sia da approfondire maggiormente la posizione di Trigilia, e che anzi essa, come tenterò di dimostrare nelle pagine seguenti, vada ulteriormente “stressata”. Ritengo infatti che la pur conclamata e riconosciuta insufficienza dei trasferimenti al Mezzogiorno – argomento peraltro inevitabilmente e non del tutto strumentalmente indebolito dall’incapacità delle istituzioni meridionali a spendere – non sarebbe sufficiente a dare uno scossone ­5

all’antica questione. Il gioco del rimpallo delle responsabilità, delle reciproche accuse, è stato a lungo protagonista del dibattito sul Sud: ma non ha portato a grandi risultati. In tempi meno “ostili” al Sud, nelle stagioni politiche in cui la questione aveva maggior peso, tale confronto ha portato a qualche occasionale decisione di aumenti delle risorse stanziate (risorse rivelatesi, peraltro, spesso virtuali). Ma, pur riconoscendo il valore di “verità” alla questione, penso che essa non sia decisiva, come constato che rischiano di cadere nel vuoto i tradizionali richiami della svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) alla persistenza ed anzi all’aggravamento del divario. Su questo punto voglio essere chiaro ed evitare fraintendimenti. Il mio ragionamento non porta a considerare irrilevanti o inutili i trasferimenti al Sud; anzi mi associo a quanti sostengono che la quota di interventi “aggiuntivi” è ormai poca cosa. Penso, tuttavia, che la quantità di risorse stanziate non sia l’indicatore dell’efficacia delle politiche e, soprattutto, che trasferire “comunque” risorse, con obiettivi generici e quindi ambigui, procedure opache e controlli approssimativi, sia un danno effettivo. Bisogna partire dalla constatazione che dopo oltre sessant’anni di intervento straordinario la questione è ancora irrisolta. Certamente vi sono stati significativi cambiamenti ed una generale crescita del livello di vita, almeno sul versante dei consumi privati. Una crescita, comunque, relativamente insufficiente. Una crescita diseguale e spesso non lineare. Alcuni territori hanno registrato a lungo trend positivi, altri percorsi intermittenti. La felicissima immagine di De Rita di un Sud “a macchia di leopardo” ha efficacemente sensibilizzato ed orientato il dibattito, ma forse oggi vi è una diversa gerarchia territoriale. Il Sud che conosciamo è molto diverso al suo interno per la combinazione dei fattori di ricchezza, di occupazione, di tenuta istituzionale, di qualità della vita, di densità delle relazioni comunitarie, di presenza della criminalità organizzata. ­6

Anche al Sud vi sono aree di relativa ricchezza senza sviluppo e spesso i territori peggiori non sono quelli più poveri, ma quelli in cui il degrado delle relazioni sociali ha sostituito la comunità virtuosa con quella perversa. Sembra concretizzarsi, in tanti territori, quella che Elinor Ostrom, Nobel per l’economia nel 2009, nel suo libro Governare i beni collettivi, chiama la “tragedia dei beni collettivi”: l’incapacità, cioè, delle comunità locali di valorizzare i beni comuni. E tuttavia vi sono indicatori abbastanza omogenei che ci fanno legittimamente parlare di un’Italia divisa in due con forti divari in termini di pil, occupazione e soprattutto, anche se il dato è rappresentato in modo marginale, in termini di diritti di cittadinanza. Al Sud si è più poveri; c’è meno lavoro, ma soprattutto, come vedremo in seguito, vi sono condizioni di vita e qualità delle relazioni sociali molto più basse. Vi è una possibile spiegazione di questo evidente insuccesso? Esso va attribuito a interventi sbagliati, a leggi fatte male e gestite peggio? È andata male perché ci sono stati sprechi? La colpa è nella classe politica meridionale incapace e corrotta? O vogliamo aggrapparci a spiegazioni, che hanno una parte di verità, ma che sono palesemente insufficienti a motivare questo fallimento, come quella, fortemente ideologica, che tutto riconduce ad uno scambio politico complessivo tra centro e ceto politico meridionale, ad un persistente modello crispino? O infine vogliamo scivolare su improbabili e patetiche, ancorché pericolosamente vive, motivazioni antropologiche che fanno dei meridionali (ma solo quelli che restano al Sud) dei cialtroni o dei “lazzaroni”? Queste spiegazioni non convincono. Se invece ci chiedessimo con una riflessione più vasta, più “laica”, se la impostazione culturale e politica sia stata sbagliata? Non la attuazione, non le modalità, non i singoli strumenti, ma la strategia? Non è forse vero che dopo la fase iniziale della Cassa per il Mezzogiorno, sostenuta da un disegno ­7

politico molto lineare, è proprio mancata la capacità di definire un progetto politico, una strategia di sviluppo complessiva? Un interrogativo del genere è certamente almeno legittimo guardando ai risultati raggiunti in questi sessant’anni. La mia tesi è che, dopo l’avvio della Cassa per il Mezzogiorno, impegnata in una straordinaria opera di infrastrutturazione primaria, che aveva carattere di vera e propria emergenza, vi sono stati molti soldi, molti tentativi di spallate ed interventi “risolutivi”, molte innovazioni negli strumenti, ma poche scelte politico-strategiche degne di questo nome e tutte sostanzialmente sbagliate compresa quella, potente ed affascinante, della grande industrializzazione di base, ispirata e governata da Saraceno. L’iniziativa è stata prevalentemente orientata ad assicurare risorse, a trasferire modelli, a spostare al Sud soggetti e processi di sviluppo, in una logica strettamente quantitativa e con una sostanziale sottovalutazione dei soggetti, delle potenzialità, delle esperienze meridionali, considerate di fatto marginali, a partire dall’agricoltura. È forse opportuna una riflessione culturale e politica nel segno di una forte discontinuità: si tratta in sostanza di superare la cultura del “divario” del pil come motivazione di fondo, base di riferimento e parametro di misurazione dell’efficacia delle politiche, per affrontare le vere questioni del ritardo del nostro Sud che, specie in alcune aree, è soprattutto in ritardo in termini di comunità, di ruolo delle istituzioni, di infrastrutturazione sociale. Sono temi che si avvertono anche a livello nazionale, ovviamente, ma sarebbe profondamente sbagliato non vedere che al Sud tale aspetto è decisivo. Questa è oggi la grande questione: certamente sono gravissimi la mancanza di lavoro, il reddito relativamente basso, la carenza di infrastrutture (al netto di quelle inutili realizzate per “spendere”); ma il punto vero è la crisi delle relazioni sociali, la mancanza di regole, la diffusa illegalità, il rafforzamento delle mafie. ­8

Ed è da qui che bisogna ripartire; è in questa direzione che bisogna definire la gerarchia degli interventi: la coesione sociale premessa dello sviluppo, la qualità delle relazioni sociali e la valorizzazione del capitale umano come condizioni dello sviluppo. Si tratta di una forte discontinuità culturale, prima ancora che politica: ma, a mio avviso, indispensabile. E tengo a sottolineare che questa convinzione non è solo alimentata dalla evidente e sempre più rapida evoluzione delle teorie sullo sviluppo che privilegiano i “diritti” rispetto alla ricchezza e che invertono il rapporto tra ricchezza e istituzioni. Cercherò di dimostrare che un’altra impostazione, un’altra linea era presente già negli anni ’50 nel dibattito sul Sud; ma semplicemente fu ritenuta sbagliata da chi ispirava e decideva le scelte di politica meridionalistica: e fu una sconfitta senza l’onore delle armi.

2.

L’avvio dell’intervento straordinario: dalla prima “cassa” alla grande industrializzazione importata

Quando si discute del fallimento dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno, tutti, anche i più critici, tendono a distinguere e ad isolare – come positivo – il primo periodo della Cassa per il Mezzogiorno. Se ne sottolinea l’efficacia, la grande professionalità dei suoi tecnici, i risultati raggiunti. Con qualche enfasi, peraltro legittima, si ricorda che essa, nata sul modello della Tennessee Valley Authority, fu per qualche tempo assunta come esempio da imitare da altri Paesi alle prese con problemi di forte squilibrio territoriale. Poi però, sempre secondo l’opinione prevalente, negli anni successivi il ruolo della Cassa si è progressivamente appannato, la sua efficienza fortemente ridotta, la sua capacità di intervento dispersa in mille rivoli. Questa rappresentazione, certamente semplificata, contiene tuttavia un elemento di indiscutibile verità: con il passare degli anni, un po’ per il mutamento del clima politico generale e l’attenuazione della spinta alla solidarietà propria dell’immediato dopoguerra, un po’ per l’arricchimento e l’articolazione della missione della Cassa, la forza di quella politica si appannò. Nell’immediato dopoguerra, nell’ambito della ricostruzione, era emersa con forza l’esigenza di superare le enormi differenze tra il Nord e il Sud del Paese: in quel clima politico, in quella fase di impegno collettivo, la questione del Sud fu assunta, seppur con la resistenza di ­10

alcuni ambienti, come uno degli obiettivi decisivi in un generale disegno di solidarietà nazionale. Dopo alcuni interventi legislativi, tra i quali una legge del 1947 per agevolazioni creditizie e fiscali al Sud ritenuta generalmente assai poco efficace, la proposta politica per il Sud si concretizzò nelle dichiarazioni programmatiche del sesto governo De Gasperi (1° febbraio 1950) che preannunciò un disegno di legge per il Mezzogiorno. Il 10 agosto del 1950 il Parlamento approvò la legge che istituiva la “Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nel Mezzogiorno d’Italia”. Lo stanziamento previsto era di mille miliardi nell’arco di dieci anni. Gran parte di quelle risorse proveniva dal Piano Marshall ed anche per questo si stabilì che dovevano essere “aggiuntive”. Nasce in quel momento una questione, e un termine, che ha costituito un vero e proprio “tormentone” nel dibattito sul Sud. Fu anche per questo che si pensò di fare della Cassa un organismo a forte autonomia che operasse in parallelo con la Pubblica Amministrazione. Era prevista un’attività di coordinamento affidata in modo piuttosto vago e con diverse modalità operative a comitati interministeriali; ma l’impronta era quella di un organismo autonomo e con una forte connotazione tecnico-operativa. Obiettivo centrale della Cassa era il rafforzamento della dotazione infrastrutturale primaria (strade, centrali elettriche, bonifiche, irrigazione). Intanto, anche per la forte spinta di don Sturzo, si continuò nelle iniziative di sostegno al settore agricolo; nello stesso periodo furono istituiti per legge sette Enti di riforma agraria: i cinque realizzati al Sud espropriarono 417.154 ettari, che furono poi distribuiti ai contadini. L’industrializzazione rimaneva un obiettivo “mediato”; si riteneva importante realizzare attraverso diverse misure, compresa la concessione di agevolazioni, le condizioni di una fase di pre-industrializzazione. L’industrializzazione si sarebbe poi “naturalmente” realizzata in un contesto più favorevole. ­11

La legge istitutiva della Cassa ebbe in Parlamento una decisiva opposizione delle sinistre. Francesco De Martino, socialista, denunciò che le risorse destinate all’intervento straordinario erano insufficienti rispetto alla dimensione dei problemi, e che la Cassa per il Mezzogiorno non avrebbe dovuto operare al di fuori del controllo del Parlamento. Espressione di una strategia politica alternativa fu l’intervento che fece alla Camera il 20 giugno 1950 Giorgio Amendola. Nel suo discorso prevalsero le critiche di carattere politico generale. La questione della Cassa venne collocata all’interno di un disegno della Democrazia Cristiana e del suo principale alleato, gli Stati Uniti, per favorire gli interessi della grande impresa capitalista e monopolista. Amendola contestava in partenza la definizione del Sud come “area depressa”. Infatti le caratteristiche della crisi spingono i gruppi monopolistici alla ricerca affannosa di nuovi campi di espansione, di sfruttamento all’interno e all’esterno. Le zone depresse dovrebbero offrire queste possibilità. È un processo di colonizzazione, in definitiva, che si verrebbe ad operare dove l’azione statale, sul piano tecnico ed economico, ma anche su quello politico e militare, precorre i tentativi espansionistici dei gruppi monopolistici, la cui azione finanziaria è fortemente intrecciata con quella dello Stato. [...] E tutta l’azione del piano Marshall oltre a servire a scopi diplomatici, militari di preparazione bellica, ha assunto il carattere di un processo di colonizzazione dei paesi marshallizzati, dove l’intervento americano direttamente o indirettamente ha determinato l’asservimento di queste economie e una situazione di privilegio per particolari posizioni di monopolio. Naturalmente le aree depresse così “valorizzate” restano colonizzate, ossia private di ogni possibilità di un proprio autonomo sviluppo economico, né liberano le popolazioni dalle loro condizioni di miseria, mediante un miglioramento del loro tenore di vita.

Poi Amendola sottolineava le ridotte dimensioni dell’impegno finanziario con un raffronto sia al periodo dal 1862 al 1924, in cui la quota di onere che il contribuen­12

te italiano doveva sostenere per interventi al Sud era più alta, sia al periodo fascista: Del resto – né credo di essere un esaltatore del periodo fascista – negli anni che vanno dal 1927 al 1934, quando il regime fascista non aveva ancora iniziato la preparazione della guerra etiope e delle altre rovinose guerre, il bilancio dei Lavori pubblici ogni anno oscillava intorno a 4-5 miliardi di cui il 40% andava al Mezzogiorno. Facendo il calcolo in lire attuali, vediamo che in quegli anni per il Mezzogiorno si è speso dai 150 ai 200 miliardi di lire attuali all’anno.

Riletto 63 anni dopo, il discorso di Amendola ­colpisce per due riflessioni sostanziali che esso contiene. La prima è che il dissenso prevalente non è già sulle dimensioni dell’impegno, pure contestate, ma sull’utilità di un impegno straordinario in opere pubbliche in luogo di una generale politica di riforme economiche e sociali. L’altra è il richiamo alla necessità di evitare una logica di intervento che comprometta il ruolo delle popolazioni interessate. La via per la soluzione della questione meridionale non è quella di un intervento dall’esterno o dall’alto, a mezzo di un ente speciale che, sotto la copertura di un’azione tecnica, aprirebbe la strada all’espansione di gruppi monopolistici anche stranieri. La via è un’altra: quella di permettere alle stesse popolazioni meridionali di operare il rinnovamento e il progresso economico di quelle regioni e promuovere lo sviluppo delle forze produttive.

La Cassa, comunque, comincia ad operare, con risultati apprezzabili. Ma abbastanza rapidamente emerge una linea che spinge a considerare urgente l’avvio del processo di industrializzazione. Gli effetti del primo intervento straordinario non vengono sottovalutati nel dibattito politico, ma appaiono largamente insufficienti rispetto all’obiettivo. Soprattutto appare preoccupante per tutte le forze politiche, ed in particolare per la dc, la tumultuosa ripresa dell’emigrazione dal Sud verso il triangolo industriale. ­13

Il confronto tra le dinamiche demografiche e la domanda di lavoro potenziale lascia intravedere scenari drammatici e determina il consolidarsi di una convinzione: bisogna accelerare il processo di industrializzazione. È qui il punto politicamente decisivo: l’urgenza di dare risposte al dramma della disoccupazione è la cifra dell’iniziativa politica, che prevale su strategie più complesse ed attente a cogliere le specificità delle diverse situazioni territoriali. Tutte le carte vengono puntate, dunque, su una forte – e rapida – industrializzazione. Questo processo conosce due fasi: nella prima si fa affidamento sugli investimenti privati e si mettono a punto incentivi e anche strumenti finanziari per l’epoca abbastanza innovativi (irfis in Sicilia, cis in Sardegna e rafforzamento dell’isveimer, creato nel 1938 dal Banco di Napoli); si decide la creazione di “poli” industriali. Nella seconda fase, considerati gli scarsi effetti prodotti dagli incentivi (e constatato che spesso finivano per favorire, direttamente o indirettamente, soprattutto le imprese del Nord), si decide che lo Stato si fa direttamente imprenditore, promuovendo l’insediamento di grossi impianti industriali nel settore della siderurgia e della petrolchimica con forti incentivi. Questa linea e questa prospettiva ebbero un grande e lucido interprete in Pasquale Saraceno, promotore e poi presidente della svimez. Anche per la sua autorevolezza scientifica e morale, Saraceno fu il vero grande ispiratore di quella scelta che segnerà decenni di politica meridionalistica: forse l’unica grande scelta che il Sud, dopo l’istituzione della Cassa, ha conosciuto in questi sessant’anni. Una scelta, a mio avviso, profondamente sbagliata. D’altra parte essa fu sostanzialmente sostenuta dalle grandi forze politiche che temevano, con motivazioni solo parzialmente diverse, il dramma dell’emigrazione di massa verso il triangolo industriale, causa di forti disagi sociali e imprevedibili mutamenti politici; e in particolare dal pci, che vedeva nella nascita di una classe operaia meridionale ­14

l’elemento decisivo per far avanzare i livelli di democrazia tra le popolazioni. Molto interessante è un articolo di Saraceno (1955) che motiva l’urgenza di una politica di industrializzazione: un primo motivo è da rintracciarsi nel grado di avanzamento raggiunto dall’opera così detta di reindustrializzazione realizzata dopo il 1950. Il rapido sviluppo della spesa pubblica per la bonifica e la trasformazione fondiaria e per la creazione delle infrastrutture – soprattutto nel campo delle comunicazioni e della adduzione dell’acqua e dell’energia – ha raggiunto un complesso di risultati che aprono nuove ampie possibilità.

Tra l’altro, secondo Saraceno, gli operai che avevano realizzato le infrastrutture o le bonifiche avevano raggiunto un buon grado di specializzazione e avrebbero rischiato di rimanere senza lavoro, una volta completate le opere; un secondo motivo è dettato dalla favorevole congiuntura economica. Ora se nelle fasi in cui il saggio di progresso economico è più elevato non si riesce ad acquisire una quota rilevante di tale progresso alle zone meno favorite, come potrà ottenersi ciò, in prosieguo di tempo, quando il ritmo di sviluppo fatalmente andrà, non si dice annullandosi, ma anche solo rallentandosi?

Ma il motivo più rilevante è quello che fu suggerito dallo Schema di sviluppo dell’occupazione e del reddito nel decennio 1955-1964 predisposto nel 1954 da Ezio Vanoni: sempre in questa nota Saraceno fa un raffronto drammatico tra gli investimenti che lo schema Vanoni ritiene necessari su base annua (370 miliardi) per eliminare la disoccupazione strutturale al Sud e gli investimenti effettivi (100 miliardi). Occorre quindi realizzare molti investimenti aggiuntivi. È appena il caso di ricordare che, ovviamente, le industrie invocate dovevano essere labour intensive, essendo l’occupazione la prevalente motivazione di questa scelta. ­15

Come? È molto interessante notare come Saraceno, in questa fase, ritenga sbagliato puntare su interventi diretti dello Stato. A chi si chieda come procedere in tale situazione, una ­prima alternativa si pone tra l’attendersi che un flusso crescente di investimenti privati faccia raggiungere rapidamente i risultati voluti, e il considerare, viceversa, che lo Stato non possa non assumere, in fatto di industrializzazione, un compito preponderante, analogo a quello svolto per la formazione delle cosiddette infrastrutture. Ora non sembra che nella situazione attuale sia questa seconda alternativa a dover essere prevista; tra gli strumenti, cioè di una politica di industrializzazione, non dovrebbe esservi ora la creazione su vasta scala di aziende industriali di Stato; sembra infatti evidente l’opportunità che il processo di industrializzazione del Mezzogiorno metta capo a una struttura che, per quanto riguarda il rapporto fra industria di Stato e industria privata, non presenti differenze rilevanti rispetto a ciò che, sotto questo riguardo, si verifica nel resto del Paese. Se così non accadesse si potrebbe assistere, al limite, allo sviluppo, in uno stesso ambito nazionale, di due sistemi industriali, diversi quanto alla proprietà, prevalentemente privatistico al Nord, prevalentemente di Stato al Sud.

Ma, dopo aver elencato tutte le opportunità che si presentano per l’iniziativa privata, Saraceno conclude che dopo che questo vasto campo sarà stato esplorato potrà giudicarsi se esista o no nel Paese una capacità imprenditoriale. In quel momento, ove la prova fosse negativa per l’iniziativa privata, l’impianto diretto su vasta scala di nuove industrie da parte dello Stato non potrebbe essere evitato; non può infatti esservi dubbio che il conseguimento dei fini di sviluppo economico-sociale che oggi ci si propone in Italia non sono subordinati all’entità dell’iniziativa privata che sarà in concreto intrapresa, dopo che siano state create condizioni sufficienti per un suo largo sviluppo. Ed è quindi all’accertamento di tali condizioni che in questa fase debbono concentrarsi le nostre ricerche e le nostre esperienze.

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Ma non ci fu tempo né per le ricerche né per la valutazione dell’esperienza. Negli anni successivi allo schema Vanoni (e anche in seguito a una importante relazione del ministro Pastore sulla Cassa del Mezzogiorno nel 1962) vinse la linea di un processo di industrializzazione determinato direttamente dallo Stato. Anche la famosa nota aggiuntiva di La Malfa, che sottolineava l’esigenza di una forte attività di programmazione complessiva dentro la quale trovare la giusta soluzione per la questione del Sud, seppur unanimemente celebrata come un decisivo contributo alle politiche di sviluppo, non fu tradotta in scelte concrete. Un ruolo decisivo fu svolto dall’iri: a tale proposito è interessante la riflessione di Leandra D’Antone (2007): pur vistosamente proteso nell’“azione meridionalista”, l’Iri finì col condurre paradossalmente una spinta “dualistica” nello sviluppo economico italiano, divenendo sempre più infrastrutturalista al Nord e sempre più industrialista al Sud; un Nord e un Sud i cui confini vennero segnati proprio dalla geografia e dalle tecnologie delle loro autostrade e dei loro impianti industriali.

Ma torniamo alle scelte politiche che andavano maturando: tra le tante autorevoli prese di posizione ho scelto l’intervento di Moro ad un convegno organizzato dalla dc nel 1967 a Napoli, sui problemi del Sud. In questa visione appare evidente che il problema dello sviluppo dell’Italia meridionale risulta collegato in modo essenziale alla possibilità che si realizzi un intenso, efficiente e diffuso sviluppo industriale. Se guardiamo al futuro, possiamo osservare che all’inizio degli anni ottanta – cioè fra 10-15 anni – di tutta la nuova manodopera che si renderà disponibile nel nostro pae­ se per effetto dell’incremento demografico e per gli inevitabili processi di razionalizzazione in importanti settori produttivi, ben più della metà sarà nelle regioni meridionali. [...] Posti dinanzi a questa responsabilità, a questo serio impegno politico, riproponiamo dunque ancora a tutta la nazione la necessità di un intenso sviluppo industriale nelle regioni meridionali come

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obiettivo primario di giustizia e di pace sociale e come l’occasione migliore per colmare, nella eliminazione delle nostre interne arretratezze, il divario che ancora ci separa dagli altri paesi con noi impegnati nella Comunità europea. In questa prospettiva la politica di incentivazione industriale, opportunamente adattata alla luce delle esperienze e dei problemi che caratterizzano lo sviluppo di una economia competitiva, razionalizzata e resa più efficace nelle sue procedure di applicazione, sarà pur sempre un dato essenziale ed insostituibile. Ed è la direzione nella quale già stanno attivamente operando i nostri strumenti di intervento. [...] Tuttavia siamo consapevoli che la politica degli incentivi è importante, ma non sufficiente, essa sola, se veramente vogliamo che gli anni settanta divengano gli anni del “decollo” industriale del Mezzogiorno. Questa politica deve essere accompagnata da una continua azione pubblica che promuova nuove rilevanti iniziative industriali.

Una scelta netta, insolitamente perentoria perfino nel linguaggio: una linea che segna una evoluzione rispetto a quanto lo stesso Moro aveva affermato sul tema nella relazione all’VIII Convegno nazionale della dc (Napoli, 27 gennaio 1962). Così delineato il ruolo che l’industria a partecipazione statale dovrà assumere in una rinnovata visione della politica di industrializzazione del Mezzogiorno, occorre subito aggiungere che noi non potremmo accettare il pensiero che un simile allargamento della iniziativa pubblica potrebbe coprire il vuoto eventualmente lasciato da una iniziativa privata che fosse riluttante ad impegnarsi anche nelle regioni meridionali. Una simile concezione che talvolta affiora negli ambienti più vari deve giudicarsi la più catastrofica tra le molte che in un secolo di vita unitaria hanno colpito il Mezzogiorno.

Difficile dire se le condizioni sociali e politiche rendessero obbligata quella strada. Io penso di no: se la politica fosse stata più “dolce” nel perseguire l’obiettivo dell’industrializzazione oggi i risultati sarebbero migliori. E in ogni caso oggi non possiamo non dire con chia­18

rezza che essa ha avuto effetti disastrosi per il Sud. Una “concezione catastrofica”, per riprendere la frase di Moro. Certo, si può obiettare che questa è la classica valutazione “a posteriori”; con il senno di poi è facile ironizzare sulle “cattedrali nel deserto”, ma allora questi grandi investimenti industriali rappresentavano l’unica grande prospettiva di “riscatto” per il Sud. È una obiezione fondata. Ma bisogna almeno riconoscere che, per usare categorie oggi molto di moda, quelle scelte erano dettate dalla volontà di assicurare subito la crescita, e non da una visione strategica dello sviluppo. E riconoscere oggi che quella scelta era sbagliata è importante per evitare di compiere errori analoghi: ancora oggi si sognano spallate, eventi decisivi, politiche potenti e “definitive”, grandi trasferimenti capaci di forzare la crescita. Proprio per questo occorre convincersi che quello fu un grande errore: e vale la pena di tornare su quella scelta, esaminando le articolate motivazioni che la sostenevano. La prima, fondamentale, motivazione è quella occupazionale. Ma siamo di fronte ad un fallimento, come dimostra questa tabella: Occupati nel settore industriale nel Mezzogiorno Anno

Migliaia di unità

1959 1964 1968 1969 Variazione % 1959-1969

1.785 1.862 1.856 1.827 + 2,4

Fonte: istat

Nello stesso periodo i veri fenomeni che interessano la manodopera meridionale sono: – un forte passaggio dall’agricoltura al terziario che in dieci anni (’59-’69) registra un incremento percentuale di ­19

24 punti, allineando sostanzialmente l’occupazione terziaria (34,6% al Sud contro il 36% nazionale); – un’impressionante conferma del fenomeno migratorio verso il triangolo industriale e l’estero, con una progressiva attenuazione verso la fine degli anni ’60 dell’emigrazione verso l’estero. Con un’elaborazione su dati istat e dati del Comitato del Mezzogiorno, Nicola Cacace (1970) ha dimostrato che dal 1961 al 1967 nell’ambito dell’industria manifatturiera sono stati creati al Sud 212.400 nuovi “posti”, cui hanno fatto riscontro 151.600 posti persi. Ma per un giudizio di sintesi vale la pena di riportare le conclusioni di uno studio del censis sull’argomento (1970): – lo sviluppo industriale si evolve secondo le linee direttrici che passano per le grandi industrie, anziché attraverso la creazione di piccole e medie imprese; – gli investimenti tendono sempre più a spostarsi verso settori capital intensive, invece che verso settori labour intensive, tanto è vero che l’investimento medio per addetto, 6,1 milioni di lire circa nel quadriennio 1958-61, è passato a 9,3 milioni nel quadriennio 1962-65 ed a ben 16 milioni circa nel quadriennio 1966-69; – gli investimenti fissi nella chimica e nella metallurgia, settori ad alta intensità di capitale (in media un posto di lavoro nel settore della chimica primaria di base costa tra i 140 ed i 170 milioni e nel settore metallurgico tra i 25 – per le unità produttive di 2a lavorazione – e gli 85 milioni per le unità produttive di 1a lavorazione, cioè quelle che nel Sud hanno di gran lunga l’incidenza maggiore), tendono ad aumentare: infatti erano il 43% sul totale di 1.844 miliardi nel periodo 1964-67, il 61% sul totale di 1.094 miliardi nel solo 1968; – diviene sempre più macroscopica la carenza di un tessuto di piccole e medie industrie, essendosi ulteriormente ampliato il divario tra la grande industria di base la cui produzione trova l’utilizzazione industriale nel Nord ed all’estero e la piccola industria a carattere quasi esclusivamente artigianale.

E, più in generale, ­20

non si può fare a meno di rilevare che l’insistenza governativa nell’allocare e nell’incentivare l’allocazione al Sud di investimenti in settori contraddistinti dalla alta intensità di capitale, come il siderurgico e quello della chimica di base, non può avere un altro effetto che sbilanciare sempre di più la già molto sbilanciata economia italiana, nel senso di rendere e di concepire il Sud come il produttore dell’acciaio di massa e delle sostanze chimiche di base per l’industria manifatturiera e trasformatrice del Nord.

La seconda motivazione che sosteneva la scelta di una forte iniziativa pubblica di industrializzazione era che il settore privato, l’iniziativa privata, non aveva le dimensioni, l’esperienza, la cultura sufficienti per assicurare un consistente processo di industrializzazione. È il famoso tema dell’indotto, ma non solo: vi era anche la certezza che la presenza di grandi impianti industriali avrebbe stimolato la diffusione di una prassi e di una cultura imprenditoriale (inutile dire che, in quella fase del dibattito, cultura imprenditoriale coincideva, di fatto, con cultura industriale). La storia del nostro Sud dimostra che quest’obiettivo non è stato raggiunto. L’espressione “cattedrali nel deserto” rappresenta una percezione diffusa, vissuta, sperimentata. La grande industria, capace per la sua struttura finanziaria, per le risorse professionali, per il livello tecnologico, di superare le difficoltà ambientali per il suo insediamento, non ha poi con il territorio rapporti capaci di modificare il contesto: le speranze che si sviluppino apprezzabili livelli di attività “indotte” vengono fortemente ridimensionate, ma soprattutto le grandi industrie non sono in grado di “contaminare” in senso imprenditoriale il territorio: anzi per certi versi la loro dimensione, la loro portanza, la loro capacità di assicurare (e spesso solo promettere) “posti stabili” ha finito per scoraggiare i percorsi imprenditoriali minuti. Se ci volgiamo a considerare il settore industriale del Mezzogiorno non è difficile notare che nessuna delle caratteristiche che rendono efficienti le strutture industriali di altre regioni

­21

sembra finora affermata con sufficiente solidità. Strutture del tipo che abbiamo detto stellare, formate da una o più imprese dominanti, circondate da numerose imprese minori fornitrici di parti complementari, stentano gravemente ad affermarsi nelle regioni meridionali. Non mancano in queste regioni gli esempi di concentrazioni industriali cospicue, tali da costituire potenzialmente i nuclei di una struttura industriale integrata. Iniziative simili sono presenti in tutti i poli di sviluppo maggiori del Mezzogiorno: a Taranto con lo stabilimento siderurgico dell’Italsider, a Brindisi con lo stabilimento petrolchimico della Montedison, a Siracusa con la raffineria della Sincat, a Gela con lo stabilimento dell’Anic, infine in Campania con lo stabilimento dell’Alfa Sud. Ma tali complessi di grandi proporzioni stentano a stabilire legami con il tessuto produttivo locale, così come l’economia delle zone circostanti stenta ad esprimere quelle iniziative che potrebbero portare ad arricchire le produzioni industriali locali utilizzando il potenziale di appoggio rappresentato dai complessi maggiori. In parte tali difficoltà possono attribuirsi a carenze dell’organizzazione economica locale, in parte alla natura stessa dei grandi complessi che non consente di allacciare rapporti di scambio intensi con imprese minori (questo è il caso della siderurgia e ancor più della petrolchimica). (Graziani, 1975)

Si può ben dire che questi insediamenti erano insieme cattedrali nel deserto, ma anche deserto nelle cattedrali, spesso stabilimenti con la testa e il cuore altrove. Non voglio dare a questo dato valore di prova assoluta: ma non a caso nella mia esperienza di promozione di nuove imprese giovanili ho sempre registrato una maggiore vivacità e propensione imprenditoriale nei territori non interessati da grandi episodi di industrializzazione di base, anche nella stessa regione. Lecce, sicuramente più vivace di Taranto e Brindisi; Ragusa più di Siracusa; Cosenza più di Reggio. Anche Trigilia (1992) sostiene che vi è di fatto una relazione inversa tra interventi pubblici e avvio di percorsi di sviluppo autonomo dei territori. Le zone in cui sono arrivate meno risorse pubbliche sembrano essere le più dinamiche e le meno “dipendenti”. ­22

E infine l’ultima grande motivazione che suggeriva come indispensabile l’intervento diretto dell’industria pubblica e comunque l’insediamento di grandi imprese. Infine è certo più difficile creare, per una parte estesa dell’area meridionale, e quindi in modo diffuso, condizioni propizie allo sviluppo economico, che non dar luogo, in pochissimi punti ben delineati e con l’aiuto dei grandi gruppi, alla creazione di fattori esterni richiesti dall’impianto di un grande stabilimento. (Rapporto al ministro della Programmazione economica, 1964; ora in Saraceno, 1986)

sé.

E questa motivazione, per mio conto, si commenta da

3.

Quel maledetto divario

Ogni riflessione, ogni documento, ogni proposta che si fa sul problema del Sud parte, sempre più stancamente, da un preoccupato richiamo al divario in termini di Prodotto interno lordo. Questo continuo riferimento resiste anche alle riflessioni, sempre più critiche, sul pil come misuratore dello sviluppo (Fenoaltea, 2008). La variazione di qualche punto percentuale determina cauti e molto prudenti ottimismi, o devastanti pessimismi. L’analisi del problema è fortemente semplificata, come se tutto potesse racchiudersi in quell’indicatore. Apparentemente si tratta di una questione del tutto ovvia: essendosi da tempo definito e consolidato l’obiettivo del riequilibrio territoriale (o più enfaticamente della “vera” unificazione del Paese), si compie la necessaria verifica dei progressi compiuti. Ma vale la pena fare qualche riflessione. La prima è chiedersi se l’obiettivo sia necessariamente colmare il divario in termini di ricchezza o se, invece, non debba essere quello di far raggiungere al Mezzogiorno accettabili condizioni di qualità della vita, di godimento dei diritti essenziali di cittadinanza, anche con livelli di reddito inferiori a quelli di alcune delle aree più avanzate del mondo, come il nostro Nord. A tal fine forse sarebbe opportuno assumere altri indicatori per misurare il divario, come sostengo in seguito. E perché oggi dobbiamo misurare il divario del Sud con la media del ­24

nostro Paese e non con altri territori? Ci siamo resi conto in questi anni che l’obiettivo del superamento del divario, se il Sud avesse “guadagnato” un punto percentuale di pil all’anno, sarebbe stato raggiunto in cinquant’anni? A ben vedere, l’ossessivo controllo del livello del divario ha costituito la base culturale dell’impegno e della riflessione sul Mezzogiorno. Le tante, importanti, novità intervenute in questi decenni non hanno modificato l’approccio né hanno suggerito analisi più complesse ed articolate. Non è servita l’istituzione delle Regioni, che non hanno innescato una nuova dimensione di programmazione dei processi di sviluppo, confermando piuttosto una logica verticale e neo-centralista nella distribuzione delle risorse. E non è servito neppure il progressivo affermarsi di una dimensione economica e in parte istituzionale dell’Europa. Nei dibattiti ricorrenti e nel confronto politico l’attenzione all’Europa è l’attenzione ai Fondi europei, ancora a risorse finanziarie, ancora a dati quantitativi. Le stesse riflessioni, pure stimolanti, sul Mezzogiorno come possibile cerniera tra Europa e Mediterraneo sono diventate litanie da convegno, invece di proposte sulle quali misurare – e cambiare – concretamente le politiche. L’emergere di una questione settentrionale ci ha trovato impreparati e chiusi in un atteggiamento ironico o rancoroso, ma comunque difensivo. Insomma non vi è stata una sufficiente elaborazione politica. Tutto si è ridotto alla misurazione e alla denuncia del divario, in una logica esclusivamente quantitativa. E tale logica sollecita peraltro una impaziente ricerca di soluzioni forti, quantitativamente rilevanti, capaci di dare “colpi” significativi al problema, e suggerisce una certa diffidenza verso tentativi di individuare percorsi e proposte più complessi ed articolati. Quest’atteggiamento ho potuto verificarlo non solo in tanti episodi, leggi, piani di sviluppo, programmi, ma anche in confronti che ho avuto con leader nazionali del sindacato, della politica, di Con­25

findustria, in cui si discuteva prevalentemente dell’entità delle risorse finanziarie necessarie a risolvere la questione. E soprattutto mai un dubbio sulla strategia, sulle responsabilità, sui percorsi dello sviluppo; in una parola, mai la percezione di un deficit di politica, ma solo la voglia di farla finita, rapidamente, con un problema troppo antico, fastidioso ed incompatibile con lo sviluppo del Paese. La prevalenza di quest’approccio, espressione evidente della mancanza di una strategia politica propriamente detta, ha determinato negli anni il consolidamento dello schema collaudato di intervento: analisi e denuncia del divario; stanziamenti di risorse aggiuntive (con ritmo pendolare, ma sempre meno consistenti e sempre meno aggiuntive); modalità di intervento tarate sulle esigenze di un sistema di offerta autoreferenziale, poco responsabile ed incapace di (o disinteressato a) intercettare la domanda di sviluppo, come vedremo nel capitolo successivo. 3.1. Cultura del divario e classi dirigenti Aver assunto la cultura del divario come riferimento nelle politiche per il Sud ha determinato, peraltro, un effetto sociale e politico particolarmente rilevante. Insistere su un obiettivo palesemente troppo ambizioso, per certi versi proibitivo, ha di fatto contribuito a consolidare una vera e propria cultura della dipendenza. Se l’“asticella” è troppo alta, è inutile che io provi a saltare: la guardo con un senso di impotenza e di frustrazione e, soprattutto, aspetto che qualcuno mi aiuti. Mi convinco che ce la farò se e quando qualcuno mi aiuterà e sono indotto a considerare irrilevante o addirittura inutile provare a farcela con le mie forze. La convinzione, diffusa e consolidata, che le leve prevalenti per lo sviluppo fossero “altrove”, al “centro”, ha avuto come effetto non secondario l’affermarsi di un meccanismo di selezione della classe dirigente anomalo e, tendenzialmente, patologico. ­26

I gruppi dirigenti, non solo politici, anche se per il personale politico il fenomeno è più evidente, per anni sono stati selezionati – più spesso cooptati – e si sono affermati in ragione della loro capacità di rappresentare i problemi, le debolezze, di denunciare con forza le situazioni di disagio, di rivendicare interventi e risorse dal centro, di “fare giustizia” e di rendere possibile lo sviluppo. La classe dirigente molto raramente si è messa in gioco con proposte alla portata delle responsabilità locali, preferendo il ruolo più comodo di rappresentante del disagio. Questa è certamente una componente essenziale del fare politica: ma se ne diventa l’unica dimensione, quella sulla quale si costruisce il consenso e la propria carriera, il meccanismo della rappresentanza impazzisce. Diventano irrilevanti i percorsi locali di sviluppo, i progetti piccoli ma realistici, la prassi della manutenzione, gli obiettivi intermedi. Anche fare rete a livello locale diventa sostanzialmente inutile perché quello che conta è la rete verticale, il rapporto con il centro, da piazzale Kennedy a via Boncompagni, da via Veneto a via XX Settembre; e poi, negli anni, anche “alla Regione” o a Bruxelles. Così un qualunque parlamentare diventa più importante del sindaco di una città media: così la classe dirigente politica si è da sola condannata all’espatrio, a correre verso il centro dove si conta e si decide. In questo schema l’importante è immaginare e poi chiedere l’intervento risolutivo, la spallata, l’evento capace, “finalmente”, di cambiare le cose. Intere comunità attendono per anni una strada, una fabbrica, un centro congressi, un’area industriale, un centro di ricerca, un parco sportivo che spesso non ha niente a che vedere con le vere esigenze del territorio, né si collega a pur minime realtà locali. Migliaia di giovani aspettano il “posto”. Tutti attendono e costruiscono reti di relazioni orientate “ad esserci” quando si verificherà l’evento. E le comunità locali spesso si dividono: da una parte quelli che ritengono di essere in qualche modo coinvolti nell’evento ­27

auspicato, dall’altra quelli che, sentendosi esclusi, manifestano scetticismo e ironia. Attendono ed intanto considerano irrilevanti, inutili, le piccole cose che pure si potrebbero fare a livello locale; quelle cose, quei piccoli risultati, quella cura dei beni comuni, quell’investire sulle risorse locali, non serve. Le cose “serie” sono altre. Il meccanismo del consenso ha un altro, perentorio, percorso: rappresentare i bisogni, dare voce e legittimità alla protesta, in qualche caso perfino organizzarla, come insegna l’ultradecennale esperienza dei “disoccupati organizzati” napoletani; negoziare con il centro, ottenere risorse e puntare a gestirle: naturalmente con un occhio particolare alla propria rete di relazioni e di rappresentanza. Un meccanismo per certi versi perfetto. Una macchina del consenso a suo modo efficace, anche se non proprio efficiente, ma con un costo altissimo in termini di corretto gioco della rappresentanza politica. Se il meccanismo è quello, se si diventa forti rappresentando solo le cose che non vanno, se si sottovaluta il ruolo, decisivo, delle responsabilità dei soggetti locali, la politica si riduce a clientela, a rete di amicizie, a confusione tra diritti ed interessi. E per alimentare la propria “rete”, in attesa di soluzioni decisive che non arrivano per colpe di altri, si occupa l’area dei diritti trasformandoli in favori. Nel 1996, quando si avviò il prestito d’onore (vedi di seguito) alla Società per l’imprenditorialità giovanile, avevamo predisposto un modulo che consentisse agli aspiranti di illustrare la loro proposta di attività autonoma per richiedere il finanziamento. Il modulo era volutamente molto semplice perché volevamo limitare al massimo il ruolo dei progettisti; ma volevamo anche “saltare” altre mediazioni. Doveva essere semplicissimo trovare il modulo (a quei tempi non si poteva “scaricare” da internet). Allegammo il modulo ai principali quotidiani e, soprattutto, riuscimmo a fare in modo che, nello stesso giorno, i moduli fossero recapitati in tutti i Comuni del Sud. Alcuni ­28

politici non apprezzarono questa modalità. In particolare un parlamentare campano mi telefonò chiedendomi in modo rude e un po’ arrogante un certo numero di copie del modulo. Gli dissi che poteva indirizzare i giovani interessati al Comune: mi rispose, ormai decisamente irritato, che aveva il diritto-dovere di distribuire il modulo ai “suoi” disoccupati. Molti altri episodi nella mia esperienza confermano una non accettabile dimensione della politica al Sud. Alla fine degli anni ’80 le risorse dell’intervento straordinario per le opere infrastrutturali e per i programmi speciali venivano ripartite, sostanzialmente, su base regionale in relazione ad alcuni indicatori, peraltro non molto sofisticati, ed ovviamente strettamente “quantitativi”: reddito ed occupazione. Non proprio un esempio brillante di politica di sviluppo: ma in mancanza di strategia politica ci si affidava a meccanismi collaudati ed “oggettivi”. La sede in cui le percentuali di ripartizione su base regionale venivano definite era il Comitato delle regioni meridionali che si riuniva presso l’ufficio del ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno, in via Boncompagni. Partecipai ad una di queste riunioni presieduta dal ministro Salverino De Vito. Un diligente funzionario del ministero fece circolare una tabella dalla quale risultava, con una certa evidenza, che una delle regioni aveva fatto registrare consistenti miglioramenti. La reazione del presidente di quella regione fu durissima: considerava i dati falsi, quella tabella un’“operazione politica” tendente a discriminare la sua regione. In ogni caso un vero e proprio attacco ingiustificato ed inaccettabile. La reazione fu così violenta ed appassionata che quel presidente ebbe un malore. La peggiore offesa che si potesse fare a una regione meridionale era riconoscere che il suo territorio, la sua comunità stava crescendo, stava migliorando. E questo perché il rappresentante di quella Regione sarebbe stato costretto a condividere questa “nuova” situazione con il suo sistema ­29

istituzionale e politico, comunicando la relativa attenuazione del sostegno straordinario. In questo modo ovviamente la rappresentanza politica diventa patologica: è costretta a “temere” una buona notizia; a nascondere risultati positivi o comunque a ridimensionarli; a negarsi l’obiettivo finale di ogni comunità positiva, che è quello di non aver bisogno di “aiuti esterni”. In una parola una rappresentanza politica che, nei fatti, rischia di essere ostile allo sviluppo. Peraltro quello che ho richiamato è solo un episodio. Remo Gaspari, uno dei più generosi, presenti, infaticabili politici meridionali, ripetutamente ministro, anche del Mezzogiorno, commissionò uno studio a un brillante istituto di ricerca che identificasse un “sistema di indicatori oggettivi dello sviluppo”. La contestazione di metodologie che usavano indicatori tradizionali e l’assunzione di metodologie più complesse portava alla conclusione auspicata: Risultato dello studio è quello di aver dimostrato che il Mezzogiorno è un’area che presenta tuttora forti connotati di omogeneità in rapporto al tenore di vita e livello di sottoccupazione della popolazione residente. Ciò non significa che all’interno dell’area vasta non esistano situazioni diversificate, e che accanto ad aree più povere, nelle quali le condizioni di vita sono ancora molto insoddisfacenti, non si collochino zone circoscritte di relativo benessere; significa però che il Mezzogiorno d’Italia si configura come un territorio in cui la matrice unitaria prevale sulle spinte verso la diversificazione, e che quindi deve essere considerato, nelle politiche economiche, come un unico sistema e che non se ne possono, né se ne devono, estrarre piccole zone o intere province in cui lo sviluppo economico ha raggiunto valori più alti. Esse spesso costituiscono le prime basi da consolidare e dalle quali e sulle quali deve diffondersi il miglioramento delle condizioni di vita verso aree più ampie. (Isri, 1990)

La regione “da salvare” era l’Abruzzo. Non sarebbe stato molto più utile alla causa del Sud se si fosse rivendicato, con orgoglio, che, anche grazie all’intervento straordinario, ­30

quella regione era cresciuta e che, pur avendo ancora dei problemi, poteva finalmente non essere destinataria di interventi straordinari? Qualche anno fa sono stato invitato dal sindaco di uno dei comuni della Basilicata che ottengono delle royalties per l’estrazione del petrolio nel loro territorio. La questione per la quale ero interpellato quale “esperto di sviluppo locale” era la individuazione degli obiettivi per i quali impegnare le risorse finanziarie disponibili, non enormi, ma certamente significative per quella comunità. Eppure, dopo qualche minuto di discussione, i rappresentanti dell’amministrazione “innescarono” il software tradizionale, quello al quale erano abituati e irrimediabilmente condannati: i ritardi e le incertezze della Regione, l’indisponibilità arrogante delle compagnie petrolifere, il tale progetto che a Potenza o a Roma non si decidevano ad approvare... Insomma si è a proprio agio quando si parla delle altrui responsabilità, lontane ed in qualche modo astratte. Anche nel mio lavoro alla Società di trasformazione urbana (stu) di Bagnoli ho vissuto un’esperienza che rimanda ad una dimensione complessiva di sostanziale “dipendenza” delle classi dirigenti. Nei primi anni, all’avvio della complessa esperienza di Bagnolifutura, commissionammo ad una società specializzata, selezionata con meccanismo di evidenza pubblica, la predisposizione di un piano finanziario articolato in due scenari alternativi connessi al ruolo “imprenditoriale” o meno della stessa stu. Nel primo scenario la stu, in linea con la sua stessa natura, avrebbe svolto il ruolo di “sviluppatore” dell’area coinvolgendo in partenariato i privati, riservandosi le decisive funzioni di controllo, ma realizzando importanti ricavi connessi alla vendita degli immobili e non delle aree. Nel secondo scenario la stu rimaneva sostanzialmente un braccio operativo dell’amministrazione comunale e rinunciava alla valorizzazione dei suoli che sarebbero stati venduti ai privati. Si scelse la ­31

seconda strada: e forse, considerate le condizioni politicoistituzionali, era obbligata. Ma rimasi sorpreso – e deluso – per il fatto che l’altra ipotesi non suscitò alcun vero entusiasmo, nessun reale interesse: non è apparso decisivo che quella ipotesi era auto-sostenibile; avrebbe, cioè, consentito la trasformazione urbana dell’area, peraltro assai complicata, senza il ricorso a finanziamenti esterni, oltre quelli, insufficienti, previsti per la bonifica. E, del resto, mai come in questo caso, sarebbe scorretto e semplicistico attribuire questa mancata occasione alla responsabilità dei livelli politico-istituzionali; piuttosto, la classe dirigente, complessivamente intesa, a partire da quella imprenditoriale, manifestò molta freddezza, quando non aperta contrarietà all’ipotesi. D’altra parte, al di là di singoli episodi, vi è una storia lunga di attività politica, di iniziativa per lo sviluppo, impostata così. Il meccanismo vincente è stato per anni quello della rivendicazione, della rappresentazione praticamente esclusiva e lamentatoria delle cose che non vanno; della sottovalutazione e, quindi, della insufficiente rappresentanza delle realtà positive, presentate di solito come eccezioni, utili per rendere più forti e credibili le rivendicazioni, ma non assunte mai come base di partenza per la costruzione di proposte e progetti di sviluppo. Questo spiega anche la grande difficoltà a fare rete da parte delle istituzioni scientifiche e del sistema produttivo: le imprese forti, capaci d’innovazione e impegnate in processi d’internazionalizzazione, non fanno massa critica sul territorio. I migliori centri di ricerca “parlano” con il mondo intero, ma meno, molto meno, con i loro “vicini”. La politica è di fatto evitata dalle imprese migliori. In questo processo di verticalizzazione delle reti di relazione, il territorio non è un luogo da contaminare positivamente, ma è una dimensione da evitare per non essere contaminati. Si parte da Capodichino, Fontanarossa o Palese per Francoforte, Londra, Pari­32

gi guardando dall’alto territori sostanzialmente estranei al proprio business. Quante volte è capitato che in riunioni, tavoli di lavoro, convegni, il richiamo a elementi positivi, l’invito a tessere pazientemente i fili di possibili aggregazioni, forse fragili, ma presenti, in una parola la spinta a darsi da fare sia stata spazzata via con le frasi ridondanti e inutili che hanno sempre bruciato le responsabilità e il protagonismo locale: “il problema è un altro”; “questi sforzi sono inutili se non c’è un impegno complessivo”; “come si fa a fare un’azienda se il contesto è ostile”; “il problema è politico”; “c’è bisogno di una spallata”; “lo Stato è assente”; e via recitando noiose litanie, immaginando improbabili svolte, costruendo solidissimi e paralizzanti alibi, e confezionando deleghe totali ai vertici delle classi dirigenti. Con un sicuro e micidiale effetto di deresponsabilizzazione collettiva. Ovviamente sappiamo tutti che in quell’atteggiamento vi è del vero: ma l’errore è che la politica si è fermata lì, rimanendo nel recinto della rivendicazione e della protesta. Un recinto apparentemente disagevole, ma in realtà comodo e soporifero, come dimostra il fatto che da questa prassi politica, da questa interpretazione della realtà, non siamo stati capaci, in sessant’anni, di innovare il pensiero politico sullo sviluppo del nostro Sud. E qualche piccola innovazione, di tanto in tanto messa in campo, è stata prontamente neutralizzata. A proposito di classe dirigente meridionale vorrei manifestare una convinzione che mi sono fatto alla Fondazione con il sud, nata dall’accordo tra le fondazioni di origine bancaria e il terzo settore e che finanzia progetti di infrastrutturazione sociale al Sud: nel sociale, complessivamente inteso, vi è la migliore classe dirigente potenziale del nostro Sud. Mi sono chiesto se questa impressione non mi sia stata suggerita dal fatto che l’incontro con questo mondo, che colpevolmente conoscevo in modo superficiale, è stato per me un’esperienza sorprendente e coinvolgente. Penso di no: nel terzo settore, dove pure vi ­33

sono personaggi e qualche volta interessi ambigui, dove alcune esperienze sono molto dipendenti se non satelliti di soggetti politici, vi sono personaggi di notevole spessore. Non solo generosi, capaci di donarsi, in qualche caso fino all’eroismo, ma forti di pensiero e di strategia; pronti alle sfide dell’innovazione e a mediazioni intelligenti. Chissà se proprio la tradizionale marginalità di questo mondo, sostanzialmente estraneo ai grandi giochi, alle grandi promesse e alle grandi attese della politica per il Sud, non abbia favorito l’emergere, al suo interno, di soggetti più responsabili e forti. Io penso di sì, e penso che dovremmo guardare di più a loro e al loro modo di stare sul territorio per “ringiovanire” la nostra politica.

4.

Una politica quantitativa basata sull’offerta

L’intervento pubblico al Sud è stato, quindi, caratterizzato da un approccio di tipo tutto quantitativo, accentuato dalla logica spesso emergenziale che ha determinato le scelte e la definizione degli interventi. Quest’approccio ha portato a sottovalutare gli aspetti qualitativi, l’attenzione ai territori, l’esigenza di promuovere, selezionare e accompagnare i soggetti e i percorsi locali dello sviluppo. La politica “quantitativa” ha, però, ottenuto scarsi risultati, ha determinato non pochi sprechi, e in qualche caso veri e propri danni1. Bisogna riconoscersi invece attorno a due principali assunti: – non vi è una relazione diretta tra quantità di risorse finanziarie stanziate e prospettive di sviluppo innescate. Le risorse finanziarie sono, ovviamente, una condizione importante, ma non quella decisiva e comunque non sufficiente. La stessa abituale formulazione della graduatoria, ad esempio, delle migliori Regioni in base alla loro capacità di spesa, è un indicatore molto discutibile; ma viene assun1   Un po’ di conoscenza del territorio ce lo conferma e, per tutti, va ricordato il bellissimo lavoro di Hytten e Marchioni, Industrializzazione senza sviluppo, che già nel 1970 descriveva gli effetti negativi dell’insediamento dell’anic a Gela; libro che stranamente scomparve da subito dalle librerie.

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to come parametro di efficienza sia per mancanza di altri possibili parametri di valutazione, sia perché pensiamo erroneamente che spendere sia comunque un bene, un passo avanti. Questo non è affatto vero. E anche se la riflessione dovrebbe essere più complessa, mi ritrovo nell’affermazione di Bersani che da ministro dello Sviluppo economico, riferendosi ai Fondi strutturali, dichiarò che era meglio non spendere risorse, piuttosto che spenderle male («la Repubblica», 16 gennaio 2008). Spendere male può avere effetti ben più gravi che il solo spreco, già in sé gravissimo; può alimentare in modo patologico l’intermediazione di tanti lobbisti, paraprogettisti, finti commercialisti, esperti solo di procedure e di sottobosco politico e può anche, come è noto, arricchire la criminalità organizzata. Troppe volte ho ascoltato in riunioni politiche frasi del tipo: “È importante far girare un po’ di soldi”, affermazioni magari sostenute da assai improbabili ragionamenti a sfondo keynesiano per cui immettere risorse “fa ripartire la domanda”. In realtà le risorse sono utili – e necessarie – se stanziate in relazione a progetti, a domande effettive, a soggetti affidabili. Altrimenti sono soldi che accompagnano e rendono appetibili interventi già definiti che determinano “apposite” domande. Questi ragionamenti non trovano oppositori; ma all’atto pratico, nei momenti delle scelte, un po’ per la spinta dell’emergenza, un po’ per dare il “segno di una vera e propria svolta”, stressati dalle esigenze mediatiche, tutto si riduce a roboanti annunci il cui peso è in relazione diretta alle centinaia di milioni di euro stanziati; annunci che, peraltro, hanno un impatto negativo sulla pubblica opinione; – quando si parla di sviluppo a dimensione locale, questione che anche negli ultimi anni ha diviso i cosiddetti meridionalisti, non bisogna equivocare: vi possono essere interventi, articolati a livello locale, affidati a soggetti locali, di portata anche minuta, che non superano l’obiezione sopra richiamata. Non è la dimensione o l’articolazione dell’intervento che ne determina la validità e l’efficacia, ma è il percorso che lo caratterizza. Non ha senso divider­36

si tra quanti vogliono pochi e grandi interventi e quanti prospettano tanti piccoli interventi “attenti al territorio”. La vera distinzione è tra quanti pensano che le politiche di sviluppo si fanno lavorando sulla domanda, direi investendo sulla domanda, mestiere faticoso e necessariamente “lento”, e quanti pensano che tutto si gioca sul versante dell’offerta. Un’esperienza particolarmente significativa, da questo punto di vista, è stata certamente quella di Danilo Dolci, il sociologo educatore che dagli inizi degli anni ’50 sviluppò in Sicilia, a Trappeto e a Partinico, numerose iniziative non violente di lotta alla mafia e per lo sviluppo dei territori. Per Danilo Dolci il cambiamento, il progresso non avevano senso e prospettiva se non partivano dalle competenze, dalle tradizioni, dalla cultura delle popolazioni. Ho sempre trovato straordinaria una delle Conversazioni di Danilo Dolci (1962) che descrive una discussione con gli abitanti di un quartiere di Partinico – Spine Sante – sui piani di sviluppo. Si percepisce in modo chiarissimo, in quel resoconto, l’abissale distanza tra i piani calati ed imposti dall’alto e la cultura, la sensibilità, gli interessi, il sistema di relazioni sociali dei destinatari; e si capisce quale enorme lavoro comporti lo sviluppo costruito “dal basso”. L’offerta invece dà gli obiettivi, detta le regole, costringe la domanda ad adeguarsi a quello schema di regole. Alla fine i soggetti che vincono sono quelli che mediano l’offerta, che ne conoscono le regole e che – nei casi peggiori – sono collegati ai decisori, non quelli capaci di stanare, leggere, e organizzare la domanda. Il caso paradigmatico di questo ragionamento è quello dei Patti territoriali, alla cui vicenda dedico in seguito un’apposita riflessione. Molte iniziative, molte proposte si sono, nel tempo, mosse nella logica dell’offerta: dalla famosa riserva del 40% (quota minima da destinare al Sud sul totale degli investimenti pubblici) peraltro mai rispettata, all’opportunità di attrezzare “rustici industriali” che favorissero le decisioni d’insediamento delle imprese; dagli itinerari turistici cul­37

turali ai progetti speciali della Cassa degli anni ’70; e via costruendo e programmando interventi pensati e definiti centralmente, anche quando si trattava d’interventi, come nel turismo, che non avevano alcun senso senza un fortissimo legame e radicamento nei territori. Questa logica non è stata mai sostanzialmente modificata nel lungo percorso dell’intervento straordinario. Si è proceduto sicuri che la validità delle soluzioni immaginate e costruite al centro avrebbe assicurato risultati apprezzabili. Mentre questo schema aveva senso per le grandi iniziative d’infrastrutturazione primaria dell’immediato dopoguerra, si è rivelato poi un metodo sbagliato. E Riccardo Musatti nel 1958 scriveva: La scala è quella della comunità, il territorio entro cui sia possibile riconoscere un comune interesse morale e materiale fra gli uomini che vi abitano e i cui limiti “a misura umana” consentano di avere diretta conoscenza dei problemi, delle strutture, delle possibilità.

E più avanti: I piani restano inoperanti o scendono dall’alto smisurati, ridicoli come ogni veste troppo ampia imposta a forza su un corpo di taglia affatto diversa. E, in conseguenza, è anche troppo facile passare dal ridicolo al tragico, come quando i responsabili esecutivi, per evitare scherni o censure, stiracchiano ferocemente sul letto di Procuste i corpicini di quanti risultano colpevoli d’essere troppo magri e minuti.

Vi sono vari dati e tante esperienze che segnalano come abbia vinto sempre, nella definizione delle politiche, la cultura dell’offerta. Un’offerta spesso disordinata e ipertrofica: per decenni i governi che si sono succeduti alla guida del Paese hanno introdotto per il Sud nuovi e “decisivi” strumenti, che si aggiungevano a quelli vecchi, provocando disorientamento nei presunti destinatari e fa­38

cendo la fortuna dei professionisti dell’intermediazione, quelli esperti a “fare le pratiche di finanziamento”. In effetti una conseguenza non marginale di quest’approccio è stata la scarsa qualità progettuale e l’affermarsi di un ceto paraprofessionale dedito alla caccia di finanziamenti. Tale fenomeno, poi, è stato ulteriormente accentuato, in materia d’incentivi, dalla persistente ed ostinata affermazione del criterio dell’automaticità. Si dice spesso che al Sud c’è scarsa capacità progettuale: è un giudizio condivisibile, ma molto superficiale. Chi ha mai chiesto, preteso, valutato veri progetti? I progettisti non sono stati forse spinti, per gli incentivi come per altri finanziamenti, ad essere solo dei cani da tartufo, capaci di avere l’informazione giusta, e occhiuti e diligenti confezionatori di documentazione? Questa è una patologia datata. La fretta di voler concludere, presto e massicciamente, in modo da contentare con il minor sforzo il maggior numero di elettori, condiziona ogni intervento. Chi dà presumibili garanzie di rispondere a queste esigenze, viene scelto “a scatola chiusa”: è così che ad un architetto originale e valente si finisce per preferire un mestierante di mano svelta, a un tecnico valente un ex-funzionario di bonifica fascista, pedissequo e sbrigativo esecutore. Così si sono sentiti uomini politici responsabili esaltare come belle opere bruttissime, come democraticamente validi e funzionalmente efficaci metodi e sistemi di tipo dittatoriale. (Musatti, 1958)

Ed anche Sebregondi, a proposito della disponibilità di progetti che la svimez dal 1948 al 1950 si propose di censire, ma che in realtà non erano molto credibili, concluse: «si può dire infatti che la verità sta sia dalla parte di chi afferma che i progetti non mancano, sia di chi afferma il contrario». Per i bandi europei si è affermata una singolare figura professionale che si fa fatica a definire progettista: quelli che sono in grado di “rispondere” al bando. La qualità della proposta progettuale lascia il campo ad una sorta ­39

di capacità di adesione alle richieste del bando; e questi professionisti accumulano una strana, e per certi versi invidiata, competenza fatta di timbri messi al posto giusto, di ceralacca per sigillare le offerte, di conoscenza dei requisiti formali, di capacità per capire se “vale la pena” partecipare, di nessuna passione o condivisione della sostanza progettuale. Quello dei bandi è un tema che mi coinvolge molto anche alla Fondazione con il sud; lo straordinario squilibrio tra offerta e domanda potenziale proveniente dal “sociale” di sei regioni ci fa utilizzare come strumento, per ora prevalente, quello dei bandi. Ma come ho più volte dichiarato lo considero un “male necessario” e proviamo anche concretamente ad innovare il meccanismo sperimentando diverse modalità di erogazione. Il bando indubbiamente assicura una certa trasparenza e dà l’impressione di evitare il rischio di arbitrarietà; e da questo punto di vista rappresenta una “garanzia” per l’ente erogante. Ma ha anche il limite di non intercettare l’insieme dei bisogni di un territorio, di non stanare le proposte più innovative, di accentuare gli aspetti formali delle proposte2. Se si pensa a che cosa dovrebbe essere un progetto, di impresa o di intervento infrastrutturale, e cioè lo strumento di auto-valutazione di un’idea, di cui si dimostra l’utilità, il mercato potenziale o il fabbisogno effettivo, la coerenza interna, la congruità degli investimenti, l’autosostenibilità e solo successivamente, sulla base dell’esito di questa auto-valutazione, anche lo strumento per ottenere un finanziamento, viene da sorridere ed anzi da preoccuparsi. Si dirà che questa questione non è solo meridionale: consolazione assai magra, perché in un’area a ritardato sviluppo la qualità progettuale è un elemento essenziale. Per molte piccole aziende meridionali il progettista   Interessanti, specie per quanto riguarda la cosiddetta progettazione sociale, alcune proposte innovative, certamente da passare al vaglio della sperimentazione, contenute in un recente libro di Giovanni Laino (2012). 2

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coincide con il commercialista: quello che prepara la dichiarazione dei redditi all’imprenditore gli dice “facciamo una pratica di finanziamento?”. La politica di incentivi è così ridotta a mero trasferimento di risorse, divise tra professionista ed imprenditore, per il quale quelle agevolazioni, dal punto di vista aziendale, sono una specie di strana “revenienza attiva”. Con tanti saluti all’obiettivo vero di una politica di incentivazione che, come tradisce la parola stessa, dovrebbe spingere verso la qualificazione, l’innovazione, l’espansione del business. Ed è in questa sorta di auto-consistenza della figura e della funzione del progettista che si spiega un altro singolare fenomeno che negli ultimi anni ha assunto una dimensione significativa. Essendo il progettista “figlio” dell’offerta e non tecnico, accompagnatore e consulente della domanda, individua le opportunità di agevolazione che si presentano, che possono prescindere del tutto dalle sue competenze. Una sorta di “migrazione di massa” di progettisti si è verificata, per esempio, all’avvio delle politiche di sostegno alla diffusione di energie rinnovabili. Al di là delle tante operazioni opache che sono state avviate, ha sorpreso la rapidità e la disinvoltura di chi si è scoperto esperto in questi settori. Ed in questa logica, tutta formale, si afferma come decisiva la dimensione della “rendicontazione” che surroga una più complessa attività di monitoraggio. Vince l’offerta, tutto è organizzato in una logica di offerta. Come leggere diversamente la storia dei Consorzi per le aree industriali? Pensati già nella prima ora dell’intervento straordinario come elemento decisivo nella fase di industrializzazione, capaci di organizzare il contesto infrastrutturale minimo per accogliere nuovi insediamenti, hanno acquisito negli anni una sostanziale autoreferenzialità, diventando soggetti di spesa, continuando nei loro programmi di espansione e consolidamento, spesso indipendenti, nel concreto, dalle effettive domande di insediamento delle imprese. Non del tutto isolati i casi in cui imprese si sono rivolte a consorzi per le aree indu­41

striali e non vi hanno trovato disponibilità di energia, o reti internet, o minimi servizi logistici, ma in compenso sono stati invitati ad attendere la realizzazione dei grandi programmi di espansione e di crescita che quel consorzio si era dato. Per non parlare, sulla stessa linea, della risposta immaginata e realizzata da tante piccole amministrazioni che hanno pensato di favorire lo sviluppo produttivo dei loro territori con i pip, infelice acronimo di Piano d’insediamento produttivo. E guardare la mappa dei pip, disseminati in ogni dove, è la prova di questa distorta cultura dello sviluppo. In un processo in cui vince la logica dell’offerta l’importante è diventare un possibile destinatario dei mille rivoli attraverso i quali la cascata dell’offerta scende a valle: illuminante è anche la vicenda degli organismi di gestione dei Patti e dei Contratti d’area. Esaurito, più o meno positivamente, il loro ruolo di gestione di quegli interventi, in qualche caso sono riusciti a diventare una sede effettiva di coordinamento delle iniziative per lo sviluppo di quel territorio, come referenti delle forze sociali e delle istituzioni; ma spesso sopravvivono in una dimensione autoreferenziale e si propongono di intercettare risorse su programmi che consentano almeno la loro sopravvivenza. E che dire dei Consorzi di garanzia fidi, strumento importantissimo, e di crescente rilevanza, per la concessione di credito alle pmi? Anche questi strumenti al Sud sono diventati spesso un canale per ottenere finanziamenti pubblici; i dati sono emblematici. Al 31 dicembre 2010 (secondo gli Osservatori 2012: i Confidi ccia di Torino e Comitato Torino Finanza) vi erano al Nord 172 Confidi, con garanzie in essere per 15.778 milioni di euro; al Centro 143 Confidi con garanzie per 8.193 milioni; al Sud 238 Confidi con garanzie per 2.460 milioni. Gran parte dei Confidi al Sud, quindi, servono solo a se stessi. ­42

Molte personali esperienze confermano questa interpretazione. Ne ricordo due in particolare. Nei primi anni 2000, in una riunione organizzata tra alcuni sindaci del Cilento ed animata da un professore salernitano di grande esperienza e finissima cultura dello sviluppo, si discusse a lungo della possibilità di utilizzare fondi regionali dedicati alla promozione di reti ecologiche territoriali. Dopo un’illustrazione dell’opportunità e delle caratteristiche di quel programma si aprì una paradossale discussione: i sindaci, uno dopo l’altro, esprimevano la domanda del loro territorio che naturalmente non aveva niente a che vedere con il programma regionale, e si sentivano rispondere che quell’idea non era “compatibile”. E solo l’intelligenza e la sensibilità di quel professore risparmiarono ai sindaci i rimproveri o le ironie che in altri casi accompagnano questi giudizi d’incompatibilità, da parte degli “esperti”. Al secondo giro, i sindaci più “scafati” tentarono di adeguare i loro problemi alla “rete ecologica territoriale”, con improbabili forzature. Nulla di fatto ovviamente, se non la registrazione di una distanza abissale tra domanda e offerta. Più recentemente, in un convegno tenuto in una cittadina della Sicilia orientale, il sindaco, dopo la tradizionale denuncia dei gravi problemi della sua comunità, peraltro presentati con scarsa passione, elencò i tre progetti che l’amministrazione aveva “vinto”. Interrogato sui contenuti di questi progetti, dai titoli piuttosto generici, rispose che non era preparato ad entrare “nel dettaglio tecnico” ma che era importante aver assicurato risorse alla sua città. Ecco, regioni giudicate sulla capacità di spesa, politici ed istituzioni locali che cercano il consenso sulla stessa lunghezza d’onda e cioè sulle risorse ottenute. Come l’ex ministro Paolo Cirino Pomicino che al punto più alto del suo percorso politico, come prova indiscutibile del suo potere, affermava che nessuno, come lui, “aveva portato tanti soldi a Napoli”. ­43

4.1. Il “sommerso” dimenticato Il prevalere, nel tempo, di una politica costruita nella logica dell’offerta, ha determinato una sorta di presbiopia collettiva: lo sguardo si è concentrato sulle dinamiche e sulle opportunità che sono “altrove” e non ha colto le potenzialità, i percorsi, anche fragili e minuti, di sviluppo del proprio territorio, della propria realtà. Il rischio di una permanente sottovalutazione di quello che c’è, e che può essere potenziato e qualificato, è palese. Ho sempre pensato, ad esempio, che il tema del cosiddetto sommerso sia stato affrontato in modo episodico e, tendenzialmente, sbagliato. Il sommerso, evidentemente, costituisce una vera e propria piaga per lo sviluppo. In tutti i sistemi economici una quota del pil è frutto di attività informali, ma quando il fenomeno assume le dimensioni che si registrano in molte aree del nostro Sud, diventa un vero ostacolo allo sviluppo ed una emergenza sociale. E si è rivelato sbagliato, almeno al Sud, pensare che il “sommerso” fosse una “prima fase” di attività produttiva destinata poi a consolidarsi, come è successo, in parte, nel Nord-Est. Sul versante economico trascina verso il basso il sistema produttivo e ne compromette la competitività complessiva. Sul versante sociale la rete di relazioni informali, illegali, quando non esplicitamente illecite, ha carattere pervasivo sull’insieme del tessuto civile. Se si lavora e si produce reddito fuori o contro la legge, si rafforza la consuetudine a vivere e ad avere relazioni ignorando le norme. Il fenomeno è molto complesso e riguarda sia il sistema delle imprese, soprattutto quelle piccole e piccolissime, sia le diverse forme di lavoro irregolare, che si trovano in una ampia gamma di rapporti di lavoro, dipendente o autonomo, in continua evoluzione. Attenzione: il sommerso, come tutti sappiamo, non è necessariamente collegato ad attività criminali o, semplicemente, illecite. Spesso si tratta di attività che stanno in ­44

piedi solo se producono a bassissimo costo e quindi invisibili al fisco, alla Pubblica Amministrazione, agli enti previdenziali e spesso con retribuzioni, per gli eventuali dipendenti, nettamente fuori mercato. Ma con una frequenza non irrilevante il sommerso è anche causato da altri fattori: la scarsa cultura imprenditoriale, la difficoltà/impossibilità ad avere rapporti con le banche, la incapacità ad adempiere a tutti gli obblighi in materia sanitaria e di sicurezza del lavoro, la indisponibilità di sedi adeguate e non lontane dal proprio mercato di riferimento, i rapporti di affari con altre aziende sommerse. Mentre è chiaro che il lavoro e le imprese collegate ad attività criminali e illecite vanno combattute con un’azione di repressione senza alcuna tolleranza, per le altre tipologie di sommerso bisognerebbe fare maggiori sforzi per comprendere le caratteristiche del fenomeno ed individuare possibili soluzioni mirate e puntuali. In alcune aree del Sud, per esempio nella provincia di Napoli, si può calcolare che su 100 euro di ricchezza prodotta 30 sono frutto di attività in nero. È evidente che l’attenzione al fenomeno è inadeguata: basterebbe guarda­ re alle iniziative che negli anni la Regione Campania ha assunto in materia, nel quadro di una dotazione certo non marginale di risorse e strumenti a favore delle attività produttive. Il sommerso è oggetto di denunce, di qualche studio, d’interventi in convegni e seminari, ma non è nell’agenda delle istituzioni, della politica, delle classi dirigenti. Di fatto, rispetto al sommerso, vi sono due atteggiamenti consolidati: – da una parte l’attività repressiva sul versante dell’evasione fiscale, parafiscale e delle norme sulla sicurezza del lavoro: attività che, peraltro, sembra procedere a corrente alternata, con cicli di maggiore o minore intensità; – dall’altra una tacita, ma evidente, disponibilità a “chiudere un occhio”, a stabilire una certa linea di tolleranza entro la quale consentire livelli precari di sopravvivenza. Questo atteggiamento è insieme pericoloso ed ambiguo. ­45

Ambiguo perché se si riconosce necessario non “bruciare” questa fetta di economia e di produzione di reddito, bisognerebbe fare di tutto per qualificarla, anche a costo di ridimensionarla. Pericoloso perché “chiudere un occhio” in via strutturale significa di fatto accettare l’esistenza in via permanente di un’area di soggetti e relazioni legibus soluti. Poche le iniziative “attive” assunte nei confronti del fenomeno: le misure adottate hanno di solito avuto efficacia parziale, ma soprattutto di breve durata; sanatorie fiscali e parafiscali hanno prodotto risultati rilevanti in termini quantitativi ed hanno convinto gli scettici sulla rilevanza del fenomeno. Ma la loro efficacia è stata “a termine” e si è ritornati allo status quo ante. Il tentativo più rilevante è stato quello portato avanti da Luca Meldolesi con il Comitato nazionale per l’emersione, poi articolato in comitati regionali e provinciali, ma per sua stessa ammissione il progetto non ha sortito i risultati sperati, soprattutto per la sostanziale resistenza dei diversi livelli della Pubblica Amministrazione coinvolti. Un tentativo intelligente e complesso perché orientato a partire dalla domanda, e non limitato a definire strumenti di offerta. Il Comitato nazionale per l’emersione del lavoro non regolare venne istituito il 15 maggio 1999 presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Era prevista una rete territoriale di supporto, composta da commissioni regionali e provinciali. Il supporto di comitati decentrati era giustificato dal principio che il fenomeno del lavoro non regolare si manifestava in maniera disomogenea sul territorio e nei diversi settori economici, richiedendo pertanto interventi di ricerca, analisi e azione mirati rispetto alle caratteristiche del contesto locale. I primi due anni furono caratterizzati, da una parte, dall’elaborazione di proposte di politiche per l’emersione, dall’altra, da una costante attività di sensibilizzazione culturale e di creazione del consenso intorno al tema dell’emersione, inteso come nuova prospettiva di sviluppo per l’Italia. ­46

La strategia d’azione era articolata su tre aspetti: la persuasione, l’induzione all’emersione attraverso incentivi e l’azione di vigilanza e repressione. L’obiettivo generale consisteva nel migliorare per fasi successive, partendo dalle infrazioni più gravi, l’attività generale di prevenzione e di vigilanza e, nello stesso tempo, realizzare interventi compatibili con l’evoluzione economica delle imprese. Sul versante delle azioni, invece, il Comitato aveva individuato diversi strumenti, tra i quali gli oneri fiscali pagati a forfait per piccoli imprenditori, i livelli di riduzione delle imposte per le imprese che scelgono l’emersione, i livelli di riduzione delle imposte per l’assunzione di un lavoratore precedentemente a nero, l’abolizione del divieto del cumulo per i titolari di pensione di vecchiaia, e le misure dirette al monitoraggio e al controllo. Contemporaneamente aveva avviato degli studi sulla capacità di alcuni strumenti di incentivazione economica e di politiche del lavoro di favorire l’emersione (come ad esempio il credito d’imposta, con la legge 449/97, e il prestito d’onore, con la legge 608/96). Il cambio di legislatura nel 2001 determinò una brusca discontinuità nell’attività del Comitato nazionale. Venne elaborato il cosiddetto Piano per l’emersione, ispirato essenzialmente ad un meccanismo di sanatoria che non si integrò con l’approccio elaborato in seno al Comitato sul rapporto tra emersione, sviluppo locale e recupero della legalità, e segnò una frattura nelle politiche per l’emersione. È opinione condivisa, infatti, che i risultati del Piano per l’emersione siano stati deludenti, tenuto anche conto che nella relazione tecnica allegata alla legge 383/2001 veniva ipotizzata un’adesione cautelativa di novecentomila lavoratori. Osservando più da vicino i risultati registrati dall’inps ed elaborati dall’ires-cgil, si rileva che lo strumento dell’emersione progressiva coinvolse, in totale, solo 3.216 lavoratori. Nel succedersi delle varie legislature il Comitato divenne marginale anche a motivo della riduzione delle risorse ­47

economiche a sua disposizione, finché venne creata una nuova struttura denominata “Cabina nazionale di regia sull’emersione del lavoro nero ed irregolare”. Questa esperienza è la storia di una sconfitta; non la sola, come vedremo nel capitolo successivo: promuovere lo sviluppo a partire dalla domanda si è dimostrata operazione temuta dalla politica ed incompatibile con la cultura autoreferenziale della Pubblica Amministrazione. Paradossalmente i due strumenti legislativi che hanno avuto la più significativa incidenza sul fenomeno del sommerso erano stati voluti e realizzati per obiettivi diversi: il primo, nato per rilanciare il settore dell’edilizia, ha innestato un percorso di emersione nel settore riconoscendo la deducibilità delle spese per le ristrutturazioni; l’altro, il prestito d’onore, istituito per sostenere le attività autonome, di fatto ha spinto a far emergere migliaia e migliaia di lavoratori “in nero”. Trovo il caso del sommerso paradigmatico. Insufficiente attenzione complessiva al tema, lasciato prevalentemente alle cure e alle iniziative, meritorie, della Guardia di Finanza, della Agenzia delle Entrate e degli ispettori del lavoro. Pochi interventi, naturalmente indiscriminati e calati su una realtà multiforme e contraddittoria. Scarsissimi casi di iniziative attive, di selezione, qualificazione, accompagnamento della domanda, ancorché sospettosa e latente. Ma questo tipo di iniziative non ha sufficiente appeal: si tratta di costruire percorsi lunghi, faticosissimi, spesso sperimentali; si tratta di risultati quantitativamente “non decisivi” e poco visibili per chi è abituato a pensare e a lavorare in grande. Secondo l’impostazione prevalente il sommerso è solo un problema e anch’esso si risolverà “quando arriverà lo sviluppo”.

5.

I tentativi di ripartire dalla domanda

Nel corso degli anni vi sono state riflessioni critiche su un’impostazione che potremo definire semplicisticamente top-down. In tanti autori si colgono interrogativi e proposte tendenti a tarare le politiche sui territori, sulla capacità auto-propulsiva delle imprese e dei soggetti locali. Il tema dello sviluppo a dimensione locale in realtà trova, nel dibattito, oppositori molto agguerriti. Qualcuno parla di pensare allo sviluppo “guardando al proprio ombelico”, altri di “meschino localismo”. In realtà, dietro queste posizioni vi è il timore di una linea politica che reputi “inutile” l’intervento straordinario. Non si può infatti negare che una logica di sviluppo diffu­so si sia affermata; anzi essa è stata il principale motore di svilup­po dei fenomeni di dinamismo presenti nel Mezzogiorno nell’ultimo decennio, ma è rimasta debole e richiede interventi di sostegno specifici. Questi non dovrebbero però essere visti in contrapposizione ad altre politiche in favore dell’industrializzazione, anche per mezzo di imprese esterne. Non si tratta insomma di affannarsi a ridimensionare sempre e comunque i fenomeni di sviluppo locale, per timore che ciò si accompagni a richieste di maggiore liberismo e di smantellamento dell’intervento straordinario. (Trigilia, 1992)

Il rischio paventato da Trigilia è reale. Adriano Giannola (1992) afferma che: ­49

mentre il processo di riorganizzazione del sistema industriale vede moltiplicarsi le spinte all’internazionalizzazione ed investe con intensi fenomeni di concentrazione anche l’apparato produttivo della Terza Italia, e mentre il capitale internazionale finanzia e trascina lo sviluppo di Paesi come la Spagna ed il Portogallo, nel Mezzogiorno si continua a dibattere sull’impresa locale, sugli imprenditori indigeni e sullo sviluppo endogeno. Il vizio di fondo della riflessione sulle prospettive dell’industrializzazione è rappresentato da un intenso provincialismo alimentato, nel recente passato, da una impressionistica lettura di quel che avveniva nel regno felice della Terza Italia, il che ha portato ad infondate ed arrischiate trasposizioni che, come insegna l’esperienza, sono state utili solo per razionalizzare l’azzeramento delle politiche di industrializzazione del Mezzogiorno.

Un momento di approfondimento del dibattito su questo tema era stato rappresentato da un lavoro coordinato da Mariano D’Antonio (1985) sulla base del quale si rilanciò il tema dello sviluppo auto-centrato. Il termine fu usato da Piero Bassetti, presidente dell’Unioncamere, nella presentazione del volume che dava conto dei risultati del lavoro stesso. Queste le conclusioni: se però il nostro lavoro non cede ad una rappresentazione apologetica del nuovo ceto di produttori che si va affermando nel Mezzogiorno, tuttavia almeno contribuisce a sfatare alcuni luoghi comuni che circolano sulla piccola impresa specie meridionale. Coloro che diffidavano e diffidano tuttora degli sviluppi e delle dinamiche spontanee di una economia di mercato; coloro che stentano a percepire le difficoltà e i problemi di adattamento della grande impresa ad una congiuntura in veloce cambiamento; coloro insomma che coltivano ancora schemi dirigisti da politica in “grande” disegnata a tavolino e realizzati con comandi rivolti all’impresa pubblica oppure con “contratti stipulati tra pubblica amministrazione e giganti dell’industria privata; questi commentatori hanno spesso istintivamente cercato di minimizzare l’evoluzione della piccola impresa nel Mezzogiorno fornendo una rappresentazione degli imprenditori meridionali come se si trattasse di una borghesia “compradora” e dipendente, che

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lavora esclusivamente su commessa o realizza solo subforniture dalla grande impresa del Centro-Nord.

In realtà l’esperienza ci dimostra che questa contrapposizione ha fatto molti danni. Come diceva Giorgio Ceriani Sebregondi, già nei primi anni ’50, lo sviluppo non può che essere “autoctono”, non può, cioè, che partire dalla migliore combinazione dei fattori produttivi presenti in un determinato territorio, come non può non tener conto dei condizionamenti sociali, politici, istituzionali. Non ci si divide, quindi, anche per quanto concerne l’industrializzazione, tra chi nega l’utilità dell’intervento esterno e chi lo ritiene indispensabile; ma su quali caratteristiche esso debba avere: non può prescindere dalla comprensione, dalla promozione, dalla messa in rete delle risorse locali. Non può limitarsi ad incrementare, in un territorio, la produzione di beni e l’aumento del reddito: a lungo andare questi effetti si perdono, se non accompagnati da una visione attenta alle potenzialità, e perché no, alle vocazioni dei territori. E per far questo, ancora una volta, bisogna abbandonare la cultura degli interventi “potenti” e calati dall’alto, per sviluppare un approccio più qualitativo. Come non fare riferimento alla fondamentale esperienza dell’istao di Giorgio Fuà, per il rigore, la serietà degli studi, ma anche per il modo di affrontare concretamente i problemi, leggere le potenzialità, la vita delle piccole imprese? Ricordo con particolare emozione le serate che ho passato con lui nella sua casa in collina ad Ancona, in cui, non senza qualche rimprovero per il ritardo con cui leggevo i libri che mi aveva suggerito, mi metteva in guardia dal considerare lo sviluppo del Sud come “un inseguimento” e dall’avere come riferimento modelli di promozione d’impresa che puntassero ostinatamente alla crescita dimensionale, piuttosto che alla ricerca ossessiva della qualità, dell’innovazione, della promozione delle risorse. Se avessimo avuto maggiore attenzione alle dinamiche e alle prospettive della piccola impresa, senza demonizza­51

re la grande impresa ma anche senza considerarla l’unica cosa seria da rivendicare dall’esterno; se avessimo assunto politiche di incentivazione non indiscriminate, ma più selettive; se avessimo messo a punto interventi e politiche specifiche delle pmi, la situazione di oggi sarebbe diversa. Inutile negare che, avendo in testa il modello della grande fabbrica, tutto è stato orientato in quella direzione: la ricerca, il credito, la formazione professionale, il complessivo governo del mercato del lavoro, perfino il sistema di relazioni industriali. Ci si occupava delle pmi “per differenza”; si trattava di pmi in una logica di “deroga” rispetto all’unico modello vero. Quando si parlava di industrializzazione, si parlava solo di quello, della grande impresa. Le pmi erano, con l’agricoltura e l’artigianato, nell’analisi e soprattutto sui tavoli dei veri decisori, tra le “varie ed eventuali” nell’ordine del giorno dello sviluppo. Per concludere questa riflessione sul rapporto domanda-offerta nelle politiche per il Sud, riporto tre esperienze che hanno rappresentato tre tentativi espliciti, seppure di natura e dimensioni diverse, di ripartire dalla domanda: il Programma triennale di intervento 1985-1987, le Missioni di sviluppo e i Patti territoriali. Ho avuto ruoli diversi in queste esperienze che mi hanno comunque molto coinvolto. 5.1. Il Programma triennale di intervento (1985-1987) Salverino De Vito, maestro elementare di Bisaccia (AV), fu nominato ministro per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno nel 1983, con il primo governo Craxi. Ad Avellino aveva lavorato molto con il mondo dell’artigianato e quell’esperienza gli aveva lasciato una grande concretezza ed una permanente attenzione alla piccola dimensione produttiva. Demitiano della prima ora, era stato tra i fondatori di «Cronache Irpine», il periodico intorno al quale si sviluppò una delle più significative esperienze della sinistra democristiana della corrente di base. ­52

Non conoscevo De Vito quando nell’autunno del 1983 diventai suo consulente per i problemi del lavoro e dell’occupazione giovanile: mi trovai in quella posizione perché De Vito aveva chiesto al censis un sostegno e De Rita aveva indicato il mio nome. Del resto De Vito non era certamente un personaggio noto, e non faceva niente per diventarlo. Nutriva una certa insofferenza per l’establishment dei meridionalisti “ufficiali”, ed era largamente ricambiato. Diligente, presente ed incisivo nella sua lunghissima attività parlamentare, da senatore, era diventato un punto di riferimento nella Commissione bilancio del Senato in cui fu impegnato per oltre un decennio e di cui nel 1979 diventò presidente. Ho lavorato a lungo con De Vito, ne ho condiviso gli entusiasmi, i progetti, le tante soddisfazioni, ma anche le sconfitte e le tante, troppe amarezze, alcune delle quali lo hanno accompagnato fino agli ultimi anni della sua vita. Gli sono grato per avermi affidato la responsabilità di gestire la “sua” legge sull’imprenditorialità giovanile; ma di più gli sono grato per aver avuto la possibilità di conoscere ed apprezzare i tratti caratteristici del suo pensiero e della sua azione: una passione indomabile per la politica, un’ossessiva e spesso angosciata preoccupazione per il futuro dei giovani e una sorprendente capacità di innovazione. Per quest’ultimo aspetto basta ricordare la forte carica innovativa della legge 44/86 sull’imprenditorialità giovanile, la legge che per qualche anno portò il suo nome: la strategia dell’intervento; la decisa rottura con le precedenti esperienze di sostegno all’occupazione giovanile, prevalentemente scivolate sul terreno assistenziale, un meccanismo discrezionale (non arbitrario!) di valutazione dei business plan, particolarmente complesso perché riferito a nuove imprese; la “copertura” politica ad un meccanismo che respingeva otto domande su dieci senza bandi e senza graduatorie; l’obbligatorietà, per i soggetti beneficiari delle agevolazioni, dei servizi di assistenza allo start-up (il ­53

tutoraggio, termine ormai entrato nel linguaggio comune, fu introdotto su larga scala dalla legge 44); la presentazione delle domande alle Camere di Commercio e l’erogazione delle agevolazioni da parte della Cassa depositi e prestiti, saltando le banche che non sarebbero state in grado di erogare senza garanzie reali; le garanzie per i prestiti acquisite sui beni agevolati; l’assoluta autonomia della struttura di gestione; l’autonomia anche operativa con le funzioni di istruttoria non appaltate nonostante “autorevoli” suggerimenti in senso contrario; il ricorso a strutture di monitoraggio professionali; le relazioni periodiche al Parlamento (la prima già nel 1988!), e così via. Tutte innovazioni volute da lui. E ricordo che quando si trattò di dare il titolo al decreto legge poi convertito nella 44, avemmo una lunga discussione, a ruoli invertiti: io, consulente non ancora quarantenne, ero per una linea più prudente (“Misure straordinarie per il lavoro giovanile”); lui, ministro sessantenne, decise per un segnale netto, che desse il senso di una innovazione forte: oggi sembra scontato, ma nel 1985 fu davvero provocatorio il titolo “Misure straordinarie per la imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno”. De Vito arrivò al ministero in un momento di precarietà del quadro normativo e finanziario dell’intervento straordinario. In attesa di un provvedimento organico e di lungo respiro (almeno temporale) che sarebbe arrivato il 1° marzo del 1986 con la legge 64, furono approvati due provvedimenti che assicuravano continuità e copertura finanziaria all’intervento straordinario (la legge 651/83 e la 775/84). Nel primo De Vito, da pochi mesi ministro, introdusse la previsione del Programma triennale di intervento. Un programma da aggiornare e far “scorrere” anno dopo anno, che aveva da una parte l’ambizione di riposizionare correttamente la politica per il Sud nel quadro della programmazione ordinaria e, dall’altra, soprattutto, l’obiettivo di superare, attraverso un lavoro di coordinamento attivo con le Regioni, una prassi centralistica nelle scelte di intervento. ­54

Approvato dal cipe il 10 luglio 1985, il Programma era articolato in azioni organiche, in interventi cioè che intrecciavano le diverse misure di sostegno su obiettivi trasversali, tentando di superare la frammentarietà e la disarticolazione degli interventi stessi. Un ruolo centrale era disegnato per le Regioni: esse avrebbero dovuto declinare la loro natura di enti di programmazione, diventando “soggetti di domanda”, sia predisponendo “progetti regionali di sviluppo” sia valutando la coerenza rispetto alla programmazione regionale, dei progetti predisposti dagli altri soggetti, istituzionali e non, operanti nel territorio della regione. Ovviamente la stessa lettura del testo del Programma testimonia dell’estrema difficoltà di questo disegno che tentava di innescare una procedura di programmazione e di coordinamento in una situazione in cui già molti progetti erano approvati, molte opere avviate, molti impegni assunti. La linea politica era chiara e nell’introduzione del ministro alla pubblicazione del Programma si legge: Questo Programma, la cui principale innovazione è costituita dal coinvolgimento diretto delle Regioni, sul piano sostanziale delle proposte, non su quello burocratico-formale dei pareri, tende a spostare in avanti la discussione, spesso fortemente polarizzata, tra quanti ritengono che si debba ragionare di Mezzogiorno nel solco della tradizionale impostazione meridionalistica (dall’unità concettuale della questione alla unità operativa dell’apparato di intervento) e quanti, al contrario, ritengono che la realtà economica e sociale delle regioni meridionali è ormai diversificata ed impone un rinnovamento radicale dell’approccio concettuale ed operativo dell’intervento finalizzato allo sviluppo del Sud, sfruttando le dinamiche ed i soggetti nuovi che via via vanno emergendo. [...] Il filo che unisce le opzioni sopra indicate è quello di convincere i meridionali, popolo ed istituzioni, che essi sono sostenuti dalla loro forza di spinta e di responsabilità e non sono calate dall’alto, magari senza confronto e senza dialogo. La efficacia del Programma dipende certamente

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anche dalla definizione dell’impianto legislativo dell’intervento straordinario, ma dipende soprattutto dalla capacità dei soggetti meridionali di rispondere alla sfida che i tempi impongono a Mezzogiorno; alla miriade di soggetti pubblici e privati, alle istituzioni, alle forze politiche e sociali, spetta raccogliere questa sfida in un ritrovato gusto di protagonismo e nella volontà di un definitivo superamento dell’antica dipendenza.

Ma la sfida di De Vito non fu raccolta e l’innovazione immaginata, più che realizzata, con il Programma triennale, non ebbe sostanzialmente seguito. Il 1° marzo del 1986 venne approvata con la legge 64 la “Disciplina organica dell’intervento straordinario” con una dotazione finanziaria di 120.000 miliardi in nove anni. La legge confermò lo schema del Programma triennale da articolare in piani annuali di attuazione; ma dal punto di vista dell’assetto istituzionale la vera novità fu costituita dalla creazione, presso la Presidenza del Consiglio, del Dipartimento per il Mezzogiorno, alla cui guida fu chiamato Antonio da Empoli. Il Dipartimento aveva l’incarico di espletare “tutte le funzioni previste dalla legislazione vigente compresa la valutazione economica dei progetti da inserire nei piani annuali di attuazione”. Una scelta che da una parte voleva rappresentare un modello più avanzato e moderno, ma dall’altra introduceva un elemento di bilanciamento dei poteri con il ministro. Progressivamente il meccanismo individuato dal Programma triennale si indebolì e poi si inceppò: venne giudicato troppo farraginoso, “con questi progetti che vanno e vengono dalle Regioni al Dipartimento e poi all’Agenzia”. E per ironia della sorte fu proprio un ministro democristiano, della stessa corrente di De Vito, Riccardo Misasi (ministro dal luglio 1989 al luglio 1990) a sancire definitivamente il superamento di quel modello. Perché la logica del Programma triennale non passò? Intanto perché portare ad effettivo coordinamento un intervento straordinario articolato e disperso in una plu­56

ralità di interventi, di procedure, di interessi era oggettivamente molto complesso e richiedeva anche molto tempo in progressivi aggiustamenti. Ma soprattutto non vi fu di quell’ipotesi una condivisione di natura politica: una discontinuità così pronunciata non poteva essere frutto dell’iniziativa convinta di un ministro, ma di una scelta politica propriamente detta. 5.2. Le Missioni di sviluppo Le Missioni di sviluppo erano un programma di animazione territoriale predisposto dal Comitato per l’imprenditorialità giovanile, poi dal 1994 Società per l’imprenditorialità giovanile, che aveva l’obiettivo esplicito di promuovere presso i giovani meridionali la cultura del “mettersi in proprio”, del fare impresa in rottura con il prevalente atteggiamento di attesa del posto fisso. Il nome, Missioni di sviluppo, mi fu suggerito da Bruno Trentin, in quegli anni segretario confederale della cgil, che sin dall’inizio aveva seguito con particolare interesse – ed anche con esplicito sostegno in un sindacato piuttosto tiepido su un intervento che considerava tutto sommato un po’ troppo sofisticato rispetto alle emergenze occupazionali – la vicenda della legge 44. Trentin, fortemente favorevole alla promozione ed alla qualificazione di una domanda di sviluppo che rompesse con i tradizionali canali della mediazione politica, mi richiamò alla mia cultura e mi disse: “Sei di formazione cattolica: avete un termine bellissimo. Fai delle Missioni di sviluppo”. Quel suggerimento, con l’indicazione di un “marchio” così efficace rispetto all’idea che da tempo coltivavo in materia di promozione della 44, costituì un decisivo elemento di accelerazione. Su suggerimento di De Rita incontrai Aldo Bonomi, direttore del Consorzio aaster, sociologo ed esperto di animazione territoriale. Un lungo colloquio ci confermò una sostanziale sintonia negli obiettivi e nella metodologia. Il Programma Missioni di sviluppo prese rapidamente corpo. ­57

Nella sua prima fase il progetto, intitolato “Animazione delle Aree deboli” fu finanziato con Fondi europei (fers) in tre regioni – Calabria, Sicilia e Sardegna –, come sostegno diretto a promuovere gli strumenti offerti dalla legge per l’imprenditorialità giovanile in contesti territoriali, soprattutto aree interne, che stentavano a produrre autonomamente domanda e progettualità. Erano state individuate quattro tipologie di aree, con caratteristiche profondamente diverse nelle quali sperimentare approcci diversi: le aree “tristi”, prive di pur minime potenzialità e spinte endogene; le aree dell’“eppur si muove”, caratterizzate da un minimo di vitalità micro-imprenditoriale; le aree a rischio dei quartieri; e le università. L’obiettivo principale delle Missioni di sviluppo era spostare decisamente in avanti le pur consistenti attività di promozione della legge 44. Avevamo molti sportelli di promozione e d’informazione, avevamo degli uffici, chiamati “basi territoriali”, che accompagnavano i giovani nella difficile fase di progettazione, avevamo accordi con le organizzazioni di rappresentanza per attività di promozione. Ma tutto questo non bastava. Come scrivevo nella presentazione di un rapporto sui risultati dei primi due anni delle Missioni di sviluppo: per molti anni la promozione, al Sud, è stata attuata con sportelli, spesso sofisticati e costosi, in grado di produrre informazioni complesse, ma quasi sempre incapaci di uscire dal circuito degli addetti ai lavori e di intercettare una domanda diffusa, anzi di “stanarla”.

Volendo individuare delle esperienze precedenti si possono richiamare l’esperimento di animazione delle aree interne promosso dalla Cassa di Pastore e quello degli agenti di sviluppo promosso, in più fasi, dalla Unione europea. Le Missioni di sviluppo hanno avuto un impatto più forte e più incisivo per un motivo molto semplice: l’avvio del rapporto con i soggetti locali era facilitato dal ­58

riferimento concreto ed immediato ad un’opportunità, ad uno strumento di agevolazione: la 44. Quest’opportunità si dimostrava poi non semplice da utilizzare, ma il percorso era avviato. Ci si presentava al confronto con i giovani, tendenzialmente increduli, raccontando di altri giovani che ce l’avevano fatta, che un altro modo di conquistare il lavoro era possibile, ancorché difficile. E la circostanza che l’attività di promozione fosse realizzata dal Comitato per l’imprenditorialità giovanile, cioè dallo stesso soggetto che erogava le agevolazioni alle nuove iniziative giovanili, dava alle Missioni di sviluppo una grande forza, anche se fu da subito chiaro a tutti che presentare un progetto attraverso le Missioni di sviluppo non prefigurava corsie preferenziali nel percorso di valutazione. Ovviamente, come già rilevato, il processo logico e culturale che portava i giovani ad individuare idee di impresa e/o di lavoro autonomo osservando il proprio contesto, il proprio territorio, ricercando ed innescando diversi modelli di relazioni sociali non esclusivamente gestite dalla onnipotente presenza della mediazione politica, determinava spesso una situazione nuova in cui i diversi attori del territorio, in alcuni casi anche i sindaci, provavano a cimentarsi con diverse culture e prassi dello sviluppo e del lavoro. Come suggerisce la lettura dei bellissimi resoconti delle Missioni di sviluppo, il confronto tra i giovani, ma poi anche con le classi dirigenti locali, non era più sullo sviluppo atteso, sulle rivendicazioni da confezionare, sulle denunce da fare, ma su quello che si poteva fare lì, su quel territorio. In una parola emergeva, seppur spesso in modo incerto e contraddittorio, la dimensione della responsabilità, cioè dello sviluppo vero. Per questo motivo si partiva dalla 44, dalle possibili idee da trasformare in business plan, ma si arrivava inevitabilmente a riflettere su ipotesi più complessive di sviluppo locale, in cui si sentivano coinvolti i piccoli imprenditori, gli artigiani, le associazioni, spesso la Chiesa locale, il volontariato. ­59

Il lavoro paziente degli “agenti di sviluppo” – gli operatori scelti per attuare il programma di promozione nei territori – diffuso anche in realtà territoriali molto marginali, provocò interesse ed adesioni, per certi versi inattesi, finendo per andare ben oltre la promozione delle opportunità per mettersi in proprio, e si tradusse nella generazione di una nuova domanda, piuttosto inusuale allora, non tanto di contributi finanziari quanto di “accompagnamento” per creare condizioni per processi locali di sviluppo. Si tenevano incontri presso le associazioni, le parrocchie, altri centri di aggregazione e si “sfidavano” le persone, soprattutto i giovani, a manifestare idee, progetti, ipotesi sulle quali costruire un lavoro di verifica e di condivisione e sperimentare concreti processi di sviluppo locale. Questo produsse un notevole interesse della Commissione europea, che finanziò con il Fondo sociale un nuovo ciclo triennale del progetto, più mirato alla formazione e alla costruzione di laboratori locali di sviluppo. Fu necessario reperire risorse qualificate attraverso una selezione con bando pubblico e per quattro mesi furono preparati, attraverso specifiche attività di formazione e di esperienza “sul campo”, venti nuovi agenti di sviluppo poi dislocati nei diversi contesti regionali. Esteso a tutte le regioni meridionali, il programma si strutturò come l’occasione di intercettare una pluralità di soggetti locali e di promuovere percorsi e strumenti che in larga parte si sono poi consolidati in forme diverse, fino a preludere alla creazione di agenzie locali di sviluppo che hanno poi vissuto le diverse fasi successive delle politiche per lo sviluppo locale al Sud. Per dare qualche elemento sulla dimensione del progetto, in sei anni le Missioni di sviluppo, con 54 punti territoriali aperti, hanno visto: 63.673 partecipanti alle attività di animazione; 21.670 giovani transitati dalle Missioni; 5.117 idee di impresa presentate; 1.308 compagini accompagnate; 712 idee di impresa che hanno concluso il percorso di accompagnamento (Sviluppo Italia, 2000). ­60

Il lavoro delle Missioni di sviluppo ha di fatto costitui­ to una sorta di premessa, di detonatore della fase iniziale dell’esperienza dei Patti territoriali. Missioni di sviluppo e Patti territoriali, a dimensioni diverse e soprattutto con un impatto politico complessivo diverso, rappresentano il più evidente tentativo di impostare le politiche di sviluppo a partire dalla domanda. Dell’esito dei Patti territoriali dirò in seguito; il giudizio sulle Missioni di sviluppo va articolato: – l’obiettivo primario, quello di sperimentare più avanzati meccanismi di promozione per la 44, fu raggiunto: dai territori interessati furono presentati numerosi progetti e, soprattutto, da parte di molti giovani che non sarebbero stati mai raggiunti dai tradizionali canali di promozione e di comunicazione; – l’obiettivo più generale, quello in qualche modo sopravvenuto al programma iniziale, e cioè quello di contribuire ad avviare un processo diffuso e consistente di sviluppo dal basso e fortemente animato da soggetti locali, spesso “non addetti ai lavori” e per certi versi esordienti, non fu certamente raggiunto. Quel processo che per qualche anno ha assunto visibilità e dimensioni significative con l’esperienza dei Patti territoriali, si è interrotto con il loro fallimento, anzi più correttamente con la loro sconfitta; – ma sarebbe ingiusto non segnalare che le Missioni di sviluppo hanno rappresentato per molti giovani, soprattutto per quelli impegnati sull’attuazione del programma, una straordinaria occasione di crescita e di maturazione ed anche, per certi versi, di liberazione da una vecchia e deprimente cultura dello sviluppo. Una rete di classe dirigente, sicuramente minoritaria, ma certamente non irrilevante: mi capita spesso di incontrarli, ancora impegnati a promuovere o a tenere vivi percorsi e relazioni di sviluppo che la politica locale continua a ritenere marginali.

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5.3. I Patti territoriali I Patti territoriali sono generalmente considerati un vero e proprio insuccesso tra le politiche e gli interventi attuati, nel tempo, per il Sud. Il Patto territoriale è un accordo tra rappresentanti di amministrazioni locali, forze sociali, diversi soggetti del territorio, che sostengono un progetto di sviluppo di un’area. Da un punto di vista normativo i Patti territoriali vedono la luce con un decreto legge dell’aprile del 1995 (n. 123, poi reiterato e definitivamente convertito nella legge 341 dell’agosto del 1995) e vengono regolamentati da una delibera del cipe del 10 maggio 1995. Questo mini-ingorgo legislativo-amministrativo è la prima e un po’ contraddittoria risposta del sistema di “offerta istituzionale” ad un processo originale, tumultuoso che, seppure con qualche contraddizione, aveva tuttavia posto con forza l’esigenza di una politica fortemente collegata ai territori e costruita sulla capacità di integrazione e di corresponsabilizzazione dei soggetti locali. La vicenda dei Patti territoriali non nasce quindi con quel decreto legge: nasce da alcune riflessioni sviluppate nella “sala gialla” del cnel, promosse da De Rita, e alle quali ho sempre partecipato. Ci interrogavamo con alcuni tra i più illuminati esponenti (almeno dal nostro punto di vista) del sindacato e di Confindustria, e con altri soggetti interessati a costruire e se possibile sperimentare nuovi modelli di intervento che partissero direttamente dalla domanda. Quelle riflessioni avevano uno scenario strategico piuttosto marcato in una fase che veniva percepita come di vuoto determinato dalla “chiusura” dell’intervento straordinario, portata a termine con una sorprendente radicalità da Beniamino Andreatta, ministro del Bilancio. La riflessione puntava a costruire un percorso che partisse dalle situazioni locali, ma che non si limitasse, tuttavia, a ­62

declinare a dimensione locale, a riproporre su scala ridotta il solito metodo della rivendicazione di risorse con tanto di elencazione di progetti. Parlavamo allora di “pacchetti localizzativi” e mi ricordo che incominciammo a riflettere sul territorio di Brindisi, immaginando il coinvolgimento di una pluralità di soggetti che si riconoscessero in un’idea dello sviluppo del loro territorio, che fossero disposti a mettere in gioco le loro competenze e le loro responsabilità, private, collettive e istituzionali, che si proponessero di realizzare un modello di integrazione e di governo comune del processo di sviluppo. Queste idee si tramutarono in un’iniziativa di promozione: il cnel di De Rita, prima nei fatti, poi anche formalmente, diventò il soggetto promotore dei Patti: Aldo Bonomi ne fu il principale animatore e presso il cnel si costituì una Consulta per il Mezzogiorno. Come un cerino acceso in un pagliaio l’iniziativa determinò una fiammata di interesse ed ebbe un’espansione tumultuosa. Al cnel si allungava la lista dei territori che volevano realizzare dei Patti territoriali; si cominciò a parlare del “popolo dei Patti”. Tanti si incuriosirono, qualcuno si preoccupò di questo strano e anomalo movimento, naturalmente paventando il pericolo di “creare aspettative” che sarebbero inevitabilmente andate deluse, in mancanza di chiari riferimenti normativi. Ovviamente, come sempre accade, qualcuno mostrò interesse all’iniziativa per “andare a vedere”, immaginando, cioè, che nel deserto lasciato dalla chiusura dell’intervento straordinario, quella dei Patti potesse diventare un’interessante e profittevole strada da percorrere. Ma leggere solo così la straordinaria risposta che venne a quell’ipotesi di lavoro sarebbe ingiusto e, sostanzialmente, strumentale. C’era forte la volontà di sperimentare nuove modalità di lavoro per lo sviluppo; c’era l’entusiasmo di tanti soggetti, fino a quel momento “non addetti ai lavori”, di poter giocare un ruolo nel rimescolamento dei meccanismi di rappresentanza territoriale. E sui ter­63

ritori, non senza qualche incertezza e contraddizione, si svilupparono momenti significativi di confronto e di lavoro comune: si manifestò in molti casi la capacità di far convergere i diversi interessi su idee di sviluppo condivise; lo sforzo per individuare le iniziative e le attività, anche minute, che i soggetti locali, a partire dalle amministrazioni, potevano fare da subito per rendere credibili quelle idee ed accelerarne la realizzazione: ed infine il coinvolgimento di tanti soggetti tradizionalmente esclusi dai circuiti saldamente intermediati dalla politica locale. Il cnel si dette un regolamento ed una procedura di lavoro. In un dossier del 24 gennaio 1995 era schematicamente richiamata la filosofia dei Patti, venivano fornite indicazioni metodologiche e tracciato un primo bilancio dell’esperienza. Il sistema di rappresentanza degli interessi attraversa una fase di fecondo travaglio. [...] Il territorio, nelle sue valenze economiche, sociali e culturali, è al centro di questa ridefinizione della rappresentanza. [...] Le strategie delle diverse rappresentanze hanno sempre più di mira le specifiche caratteristiche del territorio in cui si trovano ad operare. Questo comporta una certa discontinuità con il modello tradizionale della rappresentanza, costruito su un’idea di interessi omogenei organizzabili dal centro e compatibili in un “interesse generale” garantito dal patto politico tra le maggiori forze. Il quadro politico sociale che per lungo tempo ha consentito alle parti sociali di svolgere ciascuna “il proprio mestiere” in un quadro di sostanziale stabilità e coesione, è messo in discussione dalla crescente articolazione degli interessi, dall’emergere di nuove rappresentanze particolari e dalla fine del ruolo di “garante” esercitato dalle forze politiche. [...] La proposta di promuovere Patti territoriali raccoglie questo disagio nei confronti del sistema tradizionale della rappresentanza.

L’articolazione dei passaggi era piuttosto minuziosa e tendeva a dare senso e razionalità al percorso da compiere: l’individuazione del “motore locale”, del soggetto cioè che nei singoli territori assumeva una sorta di leadership, ­64

l’indagine territoriale attraverso interviste mirate ai diversi segmenti della popolazione, la costituzione del gruppo di lavoro, il lancio del Patto territoriale “all’esterno” (Forum degli interessi), la firma del Protocollo d’intesa tra i soggetti interessati, l’attuazione del Patto territoriale. Seguivano i criteri per la certificazione del Patto: (dimensione, composizione degli interessi, rapporto con le istituzioni, coinvolgimento dei saperi locali, finalizzazione) e una bozza di protocollo d’intesa. A quella data erano stati siglati tre Patti (Brindisi, Caserta, Vibo Valentia), undici erano in fase di accompagnamento (Enna, Nuoro, Trapani, Crotone, Locride, Palermo, Salerno, Reggio Calabria, Matese, Cilento, Catanzaro), altri erano in costruzione (Zona Flegrea, Partinico, Cefalù, Ragusa, Matera, Lecce, Napoli), oltre ad alcune iniziative sospese. Mano a mano che il movimento cresceva ci si poneva il problema dello sbocco possibile di questa iniziativa, di come costruire e gestire un meccanismo di sostegno, di possibili agevolazioni. In una parola, un percorso nato “a prescindere” dal sistema di offerta, doveva fare i conti con essa, in tutti i sensi. Nonostante i buoni rapporti tra Ciampi, ministro del­ l’Economia, e De Rita, l’esito fu disastroso: non si tentò neppure di immaginare un sistema di valutazione complesso, capace di cogliere le specificità di quella esperienza. Il Patto territoriale diventò una semplice sommatoria di singole proposte, di singoli progetti purché coerenti con la normativa vigente in materia di incentivi o di opere pubbliche. Quello che veniva indicato come “valore aggiunto del Patto” e cioè lo sforzo di costruire interventi trasversali, complessi ed innovativi, non necessariamente riferiti al finanziamento di un’impresa o di un’opera pubblica, semplicemente si dissolse, rispetto ai criteri e alle procedure date. Il “popolo dei Patti” fu respinto dal Palazzo, anzi fu selezionato: il lungo viaggio dai territori si concluse con una scelta che consentiva l’ingresso solo a chi aveva i soliti ­65

requisiti richiesti in materia di incentivi alle imprese o di finanziamento di opere pubbliche. E a sancire definitivamente la sconfitta di quell’ipotesi si decise perfino che i progetti di agevolazione alle attività produttive presentate “dentro” i Patti avessero la precedenza sulle altre richieste di finanziamento e si costruì una tipologia di “Patti europei”, quelli che disciplinatamente nascevano sulla scorta di quanto previsto dalle regole dell’offerta. Intanto, sull’onda di una maggiore attenzione alla dimensione territoriale, nacquero i Contratti d’area, che avevano lo scopo di sostenere i territori in cui si manifestavano significative crisi aziendali. Alla fine del 2006 vi erano in Italia 220 Patti territoriali, molti dei quali specializzati, cioè riservati ad un solo settore (soprattutto agricolo). L’impegno di spesa cumulato al 2006 superava i 5,5 milioni di euro; i Patti territoriali diventarono una modalità convenzionale di sostegno allo sviluppo, secondo il modello tradizionale, senza alcuna innovazione sul versante della valutazione, della selezione, della promozione di nuovi soggetti. Niente a che vedere con l’idea originale. In un paper della Banca d’Italia (Accetturo e De Blasio, 31 gennaio 2007) si esprime, sui Patti territoriali, un giudizio negativo senza appello. I risultati emersi non sono positivi né per l’occupazione né per il numero di stabilimenti. [...] I risultati evidenziano che la policy non pare aver raggiunto gli obiettivi che le erano stati assegnati.

Tra le cause di insuccesso gli autori ne indicano una che è la più devastante per le misure che mirano a promuovere la concertazione: in base all’intendimento dei policy makers, i Patti Territoriali avrebbero dovuto incentivare l’ownership del programma, ovvero quel capitale di fiducia e cooperazione necessario allo sviluppo economico. La promozione dei Patti Territoriali doveva giungere dal basso, cioè dai beneficiari stessi, a fronte

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di un contributo pubblico piuttosto limitato da suddividere tra numerosi comuni. Una possibilità è allora che il capitale di relazioni fiduciarie e di cooperazione tra agenti diversi localizzati in uno stesso territorio non sia facilmente accumulabile, seppur incentivato attraverso finanziamenti pubblici.

Un giudizio condivisibile. Ma è un giudizio su quello che sono diventati i Patti territoriali, dopo la loro “normalizzazione”. Se avesse vinto un’altra cultura, una cultura innovativa e sperimentale, se si fossero avviati pochi Patti, ma più coerenti all’ipotesi iniziale, sarebbero state erogate molte meno risorse, ma avremmo forse avuto a disposizione meccanismi di sostegno allo sviluppo molto più efficaci, più moderni e qualitativamente più adeguati. Avremmo sperimentato difficili ma preziose tecniche di valutazione di programmi di sviluppo locale, di cui, ancora oggi, non ci è dato di disporre. Perché quel tentativo è fallito? Perché quell’ondata di nuova domanda non è stata neppure mediata, ma puramente e semplicemente neutralizzata? Come al solito le motivazioni possono essere molte e, ovviamente, non è possibile individuarle con precisione e, soprattutto, farne una gerarchia. Io penso che vi sia stata una forte – e diffusa – diffidenza, tra i meridionalisti, tra i quadri dell’amministrazione, nella maggioranza dei politici meridionali: questo clima di diffidenza ha fatto partire l’esperienza in una dimensione di sostanziale isolamento, a mala pena compensato dal prestigio di De Rita e dalla dimensione istituzionale del cnel. Un secondo motivo è forse da ricercare nella strategia di De Rita che, attento, non solo per coerenza istituzionale, ma per profonda convinzione, a non travalicare i limiti del suo ruolo, non affrontò, come a me sarebbe piaciuto, il tema delle possibili modalità di risposta, a quella domanda che cresceva: non una riflessione sui possibili incentivi, non la costituzione di gruppi di lavoro per costruire griglie di valutazione. Questo competeva all’amministrazione: il suo cnel non poteva che “accompagnare” la domanda. ­67

Ma queste motivazioni, pure presenti, non sono per me convincenti. Senza volermi avventurare in una dimensione di dietrologia – attitudine che sinceramente non mi appartiene – a me pare evidente che la sconfitta dei Patti territoriali fu una sconfitta squisitamente politica. Il meccanismo aveva messo in moto, e rischiava di mettere sempre di più in moto, spinte non facilmente governabili, incontrollabili e da un certo punto di vista eversive. Chi aveva in quella fase la maggiore responsabilità in materia, a livello politico ed istituzionale, preferì non rischiare nuove mediazioni, nuove sintesi, nuovi percorsi. Si lavorava ad ipotesi di riorganizzazione complessiva, si costruiva la “nuova programmazione”, che avrebbe caratterizzato per un ventennio le politiche per il Sud. Nei larghi e lunghi corridoi di via XX Settembre quell’ipotesi sembrava lontana, frutto di un approccio movimentista, persino fastidioso e, comunque, non facilmente governabile. Le antiche, collaudate, autoreferenziali regole di una politica capace solo di produrre nuova offerta avevano vinto. E il Sud aveva perso una grande occasione.

6.

La fine (solo annunciata) dell’intervento straordinario

A cavallo tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90 vi fu una stagione di grande incertezza; il cnel, che come abbiamo visto svolgeva un’importante azione di promozione dei Patti territoriali, si impegnò per l’affermazione di una pratica di concertazione tra le parti sociali: è della fine degli anni ’90 un bel documento relativo a Un anno di concertazione per lo sviluppo nel Sud che conteneva parecchi spunti interessanti e qualche proposta innovativa, anche in materia di incentivi. Al ministero circolavano documenti (marzo ’91) per l’“attivazione di progetti strategici territoriali”. Nel luglio del 1990 l’ufficio del ministro per il Mezzogiorno (in quel mese ci furono le dimissioni dal governo Andreotti dei ministri della sinistra democristiana e a Riccardo Misasi subentrò Giovanni Marongiu) predispose un libro bianco sull’intervento straordinario che, accanto ad una puntigliosa ricostruzione delle attività realizzate e degli obiettivi raggiunti («segni importanti di inversione di tendenza si sono manifestati nell’economia meridionale negli ultimi anni; in particolare nel 1989 gli investimenti nell’industria manifatturiera e l’occupazione sono cresciuti più al Sud che al Nord») sottolineava, con drammaticità, l’esigenza di non interrompere l’intervento straordinario e di evitare in ogni caso di riprodurre la situazione di carenza finanziaria dei primi anni ’80. ­69

Ma il clima politico e la sensibilità verso il Mezzogiorno stavano rapidamente cambiando. Nel settembre del ’91, in piena Tangentopoli e nella concitata fase politica della “fine della prima repubblica”, furono promossi dai Radicali, dal Comitato Segni e dal Comitato Giannini, nove referendum: tra essi il referendum abrogativo “della legge sull’intervento straordinario nel Mezzogiorno, ad eccezione delle norme per il sostegno delle attività produttive”. Obiettivo del referendum era l’abrogazione di numerose disposizioni della legge 64 del 1986, quella che aveva riformato “organicamente” l’intervento straordinario. In pratica, si proponeva la fine dell’intervento straordinario stesso. Una consultazione referendaria sull’intervento al Sud fu da tutte le forze politiche giudicata pericolosissima: avrebbe inevitabilmente spaccato in due il Paese. Sciolte le Camere, in modo drammatico, nel 1992 il nuovo governo si affrettò a definire un nuovo quadro legislativo che consentisse di evitare il referendum. Protagonista di questa fase di fortissima discontinuità fu Beniamino Andreatta, ministro del Bilancio e, successivamente, anche commissario ad interim dell’intervento straordinario. Fu emanato un decreto legge (415) per la copertura finanziaria per il biennio ’92-’94 degli interventi previsti dalla legge 64; poi l’approvazione della legge 488 del ’92 conferì delega al governo per il passaggio alla nuova disciplina ordinaria; e finalmente l’emanazione del decreto legislativo di attuazione della delega (96/1993) che scongiurò il referendum. Alcuni, in particolare Salvatore Cafiero, direttore della svimez, sostennero che del contenuto del “devastante” referendum si era data una interpretazione estensiva, nel senso che non sarebbe stato necessario “abrogare” l’intervento straordinario. Furono soppresse l’Agenzia per il Mezzogiorno ed il Dipartimento; le partecipazioni negli enti promozionali furono trasferite al ministro del Tesoro, al quale intanto confluiva il pacchetto azionario di tutte le Partecipazioni ­70

statali. Fu nominato un commissario liquidatore che subentrò nel complesso dei rapporti giuridici dell’Agenzia e del Dipartimento per il Mezzogiorno. La discontinuità fu violentissima e, per molti versi, drammatica. Molti interventi furono bruscamente interrotti, a partire dalle agevolazioni alle attività produttive: per anni si è trascinata la questione degli incentivi alle imprese che avevano la domanda di finanziamento bloccata in uno dei passaggi dell’iter istruttorio. Ma in generale si manifestarono grandi scompensi, incertezze, contenziosi, anche per tutte le altre tipologie dell’intervento straordinario e per un certo periodo regnò una grande confusione. Era naturale che fosse così: l’urgenza imposta dalla scadenza referendaria non consentì che operazioni indiscriminate, incapaci di modulazioni e di percorsi su misura. Questa violenta discontinuità non fu certo subita da Andreatta, che anzi aggiunse, se possibile, un’ulteriore dose di radicalità all’operazione. Andreatta pensò che quella circostanza fosse un’occasione per superare davvero la specialità delle politiche per il Sud, la loro separatezza e per certi versi “indipendenza” rispetto alla politica nazionale. E soprattutto temette che una gestione più moderata di quella scelta di discontinuità sarebbe stata insufficiente per sbarazzarsi, una volta per tutte, dei vecchi circuiti, delle vecchie clientele, delle cattive pratiche che avevano caratterizzato l’intervento straordinario soprattutto nell’ultima fase. La rottura doveva essere netta, senza se e senza ma. E come ci dimostra tutto il suo percorso di uomo delle istituzioni, quando Andreatta maturava un orientamento ne faceva derivare scelte e comportamenti di micidiale coerenza. Avevo con Andreatta un buon rapporto personale, maturato ai tempi della Lega dei cattolici democratici, il movimento nato dai “cattolici per il no” al divorzio ed animato da Pietro Scoppola ed Achille Ardigò, e gli chiesi appuntamento come presidente del Comitato per l’im­71

prenditorialità giovanile. Il Comitato non era formalmente nell’intervento straordinario ed anzi, specialmente in quella fase, la 44 era giudicata generalmente come un’esperienza positiva. Temevo, tuttavia, che anche il Comitato fosse “trasferito”, anche perché la destinazione immaginata era il ministero dell’Industria. La 44 finanziava per un 30% anche imprese agricole, aveva un forte connotato di autonomia gestionale e, soprattutto, esercitava valutazioni dei progetti con criteri discrezionali. Queste tre caratteristiche avrebbero reso difficile e faticoso il rapporto con un ministero vigilante come l’Industria. Andreatta fu irremovibile nel respingere la mia richiesta. E pose la questione nel quadro più generale di una linea che doveva escludere qualsiasi “zona franca”; il trasferimento ad amministrazioni ed enti ordinari delle competenze dell’intervento straordinario doveva essere realizzato senza eccezione alcuna, altrimenti “questi ricominciano”. Per inciso ricordo che i miei timori circa la nuova collocazione definita per il Comitato per l’imprenditorialità giovanile erano fondati: il rapporto con il ministero dell’Industria si rivelò difficile ed anche per questo, nel primo decreto legge del primo governo Berlusconi in materia economica (maggio 1994), il primo articolo prevedeva la trasformazione del vecchio Comitato in Società per l’imprenditorialità giovanile, con azionista il ministero del Tesoro. Il secondo governo Berlusconi, invece, ebbe per la 44 e il prestito d’onore ben altro atteggiamento: queste politiche, all’interno della missione di Sviluppo Italia, che intanto aveva assorbito la Società per l’imprenditorialità giovanile, non erano ritenute strategiche; probabilmente anche per la mia scarsa “affidabilità” in termini politici. Fui, infatti, allontanato da Sviluppo Italia con modalità piuttosto “decise” (2002). L’intervento straordinario venne, quindi, ufficialmente abolito. Poteva essere l’occasione per mettere a punto ­72

una strategia innovativa di più ampio respiro, che non si contentasse di cambiare gli strumenti, in qualche caso demonizzandoli oltre il giusto, ma che puntasse a ridefinire le scelte e le prospettive di lunga deriva? Probabilmente sì e questa era la grande opzione di Andreatta. Ma la politica mancò all’appuntamento: la sfibrante gestione degli interventi da completare prese il sopravvento, in un quadro di rancore di tanti soggetti meridionali, di tracotante e vuota percezione di vittoria da parte della Lega, di nessuna iniziativa propriamente politica. Con linguaggi diversi, con ammiccamenti a metodolo­ gie più tecnocratiche suggerite da Bruxelles, con una parziale ridefinizione degli interessi in gioco, il vecchio meccanismo si rimise in moto: denuncia del divario del pil, richiesta di risorse, stanziamenti frutto di mediazioni sempre più difficili e quindi, relativamente, meno consistenti. Nessuna vera novità. Le ceneri dell’intervento straordinario, come abbiamo visto, non si spensero rapidamente: si aprì una fase di gestione dei completamenti, di governo di “code” più o meno lunghe ed impazzite, nei diversi settori: per gli incentivi alle imprese la 488 incominciò a funzionare nel 1996; per il resto bisognerà aspettare il 1998 quando partì la nuova programmazione. Questi due strumenti, questi due percorsi, avrebbero segnato le politiche per il Sud per un lungo periodo. La 488 è stata abrogata solo recentemente, mentre il Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione si prepara ad impostare e governare una nuova fase di interventi connessa al prossimo (ed ultimo?) sessennio di interventi dei Fondi strutturali della ue. Ancora una volta tutto si muove in una rigida cultura che si concretizza in una marcata autoreferenzialità dell’offerta che, al di là delle enunciazioni, costruisce i percorsi, fissa le regole del gioco, si fa carico di individuare gli obiettivi in nome e per conto dei destinatari che sono, prevalentemente, scarsamente affidabili. E in questa fase, lunga più di un decennio, si materializza una dimensione amministrativa che si estenderà con accentuazioni patologiche ai livelli ­73

regionali, che tende ad escludere le responsabilità di chi ha la funzione di erogazione delle risorse. Tutto è procedura, verifica documentale, garanzia formale; l’architettura è costruita per allontanare e per attenuare le responsabilità di chi decide: le valutazioni ex ante, il giudizio di fattibilità economica sono sostanzialmente un’astrazione. Strana dimensione per chi è chiamato a governare politiche di promozione dello sviluppo. Lo sviluppo, quello vero, ha come condizione imprescindibile l’assunzione di responsabilità dei soggetti coinvolti, a tutti i livelli e in tutti i ruoli. Altrimenti è distribuzione di risorse. 6.1. La nuova programmazione La fase di vuoto e d’incertezza, determinata dalla brusca interruzione dell’intervento straordinario, si concluse, per gli incentivi, con l’avvio delle relative norme contenute nella 488, e per l’insieme degli altri interventi con la cosiddetta “nuova programmazione” nel 1998. In quell’anno venne costituito, al ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica, il Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione, alla cui guida fu chiamato, dalla Banca d’Italia, Fabrizio Barca. La nuova programmazione prese avvio, in termini politici, con un importante convegno organizzato dal Dipartimento, a Catania, dal 2 al 4 dicembre 1998. Furono, in quell’occasione, presentate numerose schede da parte delle amministrazioni centrali, delle Regioni, di singoli esperti, di rappresentanti di associazioni. Le Cento idee per lo sviluppo (in realtà le schede erano più numerose) volevano rappresentare in modo esplicito la volontà di ricostruire un quadro programmatico ripartendo dalla domanda, dando voce ai soggetti istituzionali e non, capaci di rappresentare i bisogni e le esigenze del Sud. Un’intuizione intelligente, un esplicito segnale di ripartenza. Le schede erano naturalmente disomogenee, con il rischio di una mera elencazione di questioni: in qualche ­74

caso si trattava della riproposizione di antiche tematiche o, peggio, della riesumazione di progetti che non era stato possibile realizzare nel passato. Ciampi, allora ministro del Tesoro, nell’introduzione precisava che i tempi contenuti, assieme ad ampiezza e molteplicità di contributi, fanno di questo, un documento di base; su di esso occorre lavorare ancora; come per una scultura dove al martello che sgrossa la pietra e delinea l’opera devono seguire lo scalpello e la mano dell’artista.

L’insieme delle schede non aveva certamente un tasso significativo d’innovatività. Ma l’operazione fu politicamen­ te forte, e a Catania si respirava una positiva aria di svolta, di voglia di fare, la diffusa percezione di una possibile, solida “rimessa in moto”. D’altra parte lo stesso Ciampi tracciò un quadro politicamente forte e ambizioso delle motivazioni di lunga deriva che sostenevano la nuova programmazione: la svolta nello sviluppo del Mezzogiorno e l’aggiustamento strutturale del Centro-Nord dipendono in larga parte dall’attuazione di una strategia di medio-lungo termine di investimenti pubblici, capace di garantire le condizioni generali e i servizi essenziali a combinare capitale e lavoro in nuove iniziative; per impostare una strategia di così ampio respiro, occorre rafforzare la capacità di programmazione delle nostre amministrazioni, a livello centrale e locale. [...] In passato la cattiva qualità dello spendere è dipesa spesso dalla mancata attribuzione di responsabilità alle amministrazioni locali, alle Regioni in primo luogo, per la scelta delle priorità e degli interventi da realizzare.

Anche nel documento di sintesi si sottolinea che si tratta di un primo passo del grande lavoro che bisogna compiere. È bene subito ricordare che le “Cento idee” non configurano un Piano di intervento, né vogliono configurarlo. [...] Questo

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documento non è ancora un mosaico. Contiene molte possibili tessere di un mosaico che si vuole creare. Sta al processo partenariale di analisi, di discussione tecnica e politica, di decisione da parte delle Regioni e delle istituzioni centrali, procedere a comporlo nei prossimi mesi.

Nonostante questa cautela, il disegno politico appare molto ambizioso. La programmazione 2000-2006 deve trarre insegnamento dalle passate esperienze; e la prima e principale lezione spinge verso una concentrazione degli interventi assai maggiore rispetto al passato. Appare opportuno giungere a grandi programmi integrati di intervento. Quindi: ad un numero minore di programmi (anche per facilitarne l’attuazione); a programmi di dimensione maggiore (per accrescerne l’impatto); a programmi integrati (per riuscire a toccare tutti i diversi aspetti delle aree di intervento). Occorre disegnare programmi strutturali: cioè, nello spirito e nella lettera dei regolamenti comunitari, programmi aggiuntivi rispetto al normale intervento pubblico; programmi in grado di accrescere strutturalmente le convenienze economiche per le imprese e la qualità della vita per i cittadini.

Su questa impostazione vanno fatte due osservazioni. La prima è che, nelle intenzioni di Fabrizio Barca, la nuova programmazione aveva in realtà un importantissimo meta-obiettivo. La partita del nuovo ciclo di programmazione doveva consentire di cambiare il sistema della Pubblica Amministrazione meridionale, la cui inadeguatezza era giustamente individuata come un fortissimo vincolo allo sviluppo: più capacità di programmare e di fare gerarchia dei bisogni; più trasparenza; più capacità d’integrazione e di coordinamento e quindi maggiore qualità della progettazione. La seconda è che nell’impostazione generale non vi è una strategia, una nuova idea di Sud e di sviluppo del Sud. Si accentuano, con enfasi, la necessità di innovare le modalità dell’intervento e il sistema delle procedure: ­76

Nella nuova programmazione il metodo di informazione, di trasparenza, di coordinamento, di negoziazione, di valutazione tecnica, vale tanto quanto il merito delle proposte.

La preoccupazione di voler marcare una profonda differenza con la fase precedente, archiviata con un giudizio sostanzialmente giusto, ma un po’ troppo sommario come una fase di sprechi e di inefficienze, diventa la cifra della nuova programmazione, a scapito, probabilmente, di uno sforzo per la definizione di una strategia di discontinuità, coraggiosa ed innovativa. Lo schema, sostanzialmente, è di grande continuità per quanto riguarda i contenuti: garantire infrastrutture e servizi, tentare il coordinamento con le politiche nazionali. La logica politica, al di là dei sinceri propositi di efficienza e di trasparenza, è ancora quella dell’offerta che detterà gli obiettivi e soprattutto definirà regole, criteri, procedure molto autoreferenziali. E le regole e le procedure, nell’impatto con Bruxelles e i Fondi strutturali, diventano, se possibile, ancora più difficili ed astruse. Questa impostazione, in una dimensione di “potenza” del ponte di comando, era molto distante dal lavoro che facevamo alla Società per l’imprenditorialità giovanile. Questa distanza si manifestò in modo paradossale per quanto riguarda il prestito d’onore, una misura che c’eravamo “inventati” sulla scia della legge 44 e che finanziava nuove attività di lavoro autonomo proposte da disoccupati meridionali. Le idee presentate in modo molto semplice (per evitare di alimentare un gigantesco mercato della consulenza), dopo una prima valutazione on-desk, venivano poi selezionate in un percorso di formazioneselezione che metteva tra l’altro in moto interessanti percorsi di auto-valutazione. Una vera e propria anticipazione degli attuali, diffusissimi, programmi di microcredito. Il prestito d’onore stava in quegli anni conoscendo uno straordinario successo e una grande visibilità presso i giovani del Sud. ­77

A fine 1999 erano state avviate oltre seimila attività autonome individuali e, soprattutto, per la prima volta lo Stato invitava i giovani a “non aspettare il posto ma a proporre un lavoro”, realizzando una straordinaria operazione anche culturale. I prestiti concessi arrivarono ad oltre diciannovemila nel solo 2001, con tassi di sopravvivenza – a due anni – di oltre il 90%. Nel 2002 poi vi fu un sostanziale stop determinato dalla carenza di fondi e accompagnato, secondo le migliori tradizioni, da improbabili e infondate accuse alla mia gestione come amministratore di Sviluppo Italia: in particolare fui accusato di aver favorito la mia regione (la Campania); di aver orientato la concessione dei prestiti in funzione della campagna elettorale; di aver impegnato risorse finanziarie non disponibili. Accuse puntualmente e inequivocabilmente smentite. Ma a Catania, nel 1999, del prestito d’onore non si parlò: de minimis non curat praetor, si potrebbe dire. E questa sottovalutazione delle potenzialità dello strumento, e soprattutto della logica che lo ispirava, non fece inserire il prestito d’onore tra le misure di cui si chiedeva il sostegno nei programmi fers per il 2000-2006. Questo nonostante il forte apprezzamento che la misura aveva avuto dalla Commissione europea. Il responsabile della V direzione generale della Commissione, Lisa Pavan Woolfe, in una lettera del 29 gennaio 1999, nel comunicarmi che il prestito d’onore era stato presentato come best practice a livello europeo, mi scriveva: Al di là dei risultati quantitativi, certamente importanti, il prestito d’onore, a mio parere, assume anche una significativa rilevanza in termini d’impatto qualitativo. Esso infatti potrebbe rappresentare uno strumento particolarmente efficace per diffondere tra i giovani italiani ed europei la cultura del fare impresa.

Ma, come ho sottolineato, la logica politica complessiva della nuova programmazione era un’altra. Non c’è traccia ­78

di disegni capaci di promuovere modelli di sviluppo autopropulsivo; non si abbandona un approccio meramente quantitativo, nell’analisi del divario e nella prospettazione di soluzioni. I buoni propositi di misurare, finalmente, l’efficacia e la efficienza della spesa, lasceranno il campo in modo perentorio ad un solo indicatore: la capacità di spendere. Su di esso si misurerà la virtuosità delle amministrazioni regionali. E il ricorso, praticamente esclusivo, a questo indicatore confermerà, in termini culturali e politici, il maledetto teorema per cui spendere, comunque, determina sviluppo. E poco importa se, pur di raggiungere l’obiettivo di spesa e non correre il rischio di “rispedire” i soldi a Bruxelles, ogni tanto si usa una modalità che eufemisticamente potremmo definire border line, quella di trasferire le risorse finanziarie senza evidenza pubblica ad una società in house (cioè a totale partecipazione dell’amministrazione), in modo che risultino formalmente “impegnate”. Un’onda tecnocratica, fatta di nuove procedure, ed anche di radici quadrate, bagna i vecchi circuiti della tradizionale attività di progettazione e di intermediazione. Bisogna fare i conti con gli acronimi dello sviluppo: cup, fesr, fse, fsc, feaog, feasr, fep, fdc, gal, dup, duss, par, prs, qsc, qsn, por, fas, fsc, par, poat, pon, poin, pongas, pongat, pin e tanti, tanti altri. Ma non è uno tsunami: tanti si aggiornano, si specializzano, progettando per enti locali, imprese, organismi vari. Come abbiamo già detto viene premiata la capacità di impossessarsi delle logiche e delle regole dell’offerta. Nonostante le buone intenzioni iniziali, nonostante le “Cento idee”, il meccanismo è capovolto. Il Quadro comunitario di sostegno individua degli assi, poi dei sotto-assi, e poi articolazioni successive che costituiscono altrettante caselle dentro le quali bisogna infilarsi: in qualche caso modificando e “stressando” l’idea o il progetto che si sarebbe voluto realizzare; in altri puramente e semplicemente inventandosi un progetto “adeguato”. Il limite è evidente; tanto che nel documento del Qua­79

dro comunitario di sostegno per il 2007-2013, nella parte introduttiva si sottolinea un diverso orientamento, si presenta un quadro di riferimento meno strutturato e meno rigido. Ma, a ben vedere, l’innovazione è largamente disattesa nei capitoli successivi dello stesso documento. Insomma una storia vecchia, nella sostanza. Negli anni ’60 e ’70 succedeva che un ministro del Mezzogiorno o comunque un politico “forte”, visitando un territorio, per improvvisa intuizione o, più probabilmente, per interessati suggerimenti, decidesse di realizzare un’infrastruttura. E i locali, che probabilmente avevano altre priorità, prontamente “coglievano l’occasione”; negli anni 2000 l’opportunità era rappresentata da un programma, da un sottoprogramma, da una misura, risultante da una generale impostazione programmatica definita negli anni precedenti. E nel corso degli anni si concretizza il pericolo che le scelte siano sempre più calate dall’alto: è Bruxelles che fissa gli obiettivi prioritari, dentro i quali bisogna realizzare i programmi nazionali. Non tutto, naturalmente, è andato così; ma il meccanismo ha portato a una incredibile frammentazione di interventi che è difficile immaginare come capaci di costruire nuove e più favorevoli condizioni per lo sviluppo. Una rapida occhiata al portale OpenCoesione, molto opportunamente voluto dal ministro Barca nell’autunno del 2012, in una logica di trasparenza e di controllo diffuso, determina un’impressione di assoluto sconcerto: 550.000 progetti per 52,4 miliardi con enormi ritardi nella spesa a un anno dalla scadenza del sessennio di programmazione. La stessa attività di valutazione è stata pesantemente sbilanciata sulla fedeltà alle procedure e sulla coerenza alle linee programmatiche: valutazioni certamente necessarie, purché accompagnate da motivati giudizi di fattibilità tecnico-economica delle proposte. Quando ad un sindaco si contesta un progetto non sfidandolo nel merito della proposta, ma invocando questioni formali e mancate coerenze rispetto a linee generali che a lui risultano astratte e ­80

incomprensibili, non si contribuisce a far crescere la classe dirigente. E bisogna concludere che quello che ho definito il meta-obiettivo della nuova programmazione, e cioè il rafforzamento e la qualificazione della Pubblica Amministrazione meridionale, è stato mancato. Lo stesso ampio ricorso da parte delle Regioni a organismi esterni per l’assistenza tecnica ai programmi, ne è una prova. Ai sindaci, poi, la nuova programmazione non ha insegnato a progettare; semmai li ha addestrati a prendere soldi, che è, evidentemente, cosa diversa. L’esperienza della nuova programmazione ha avuto numerose critiche, alcune delle quali, tuttavia, hanno generato una qualche confusione. In particolare sono stati assimilati a giudizi negativi sul lavoro del Dipartimento quelli relativi ad “una retorica dello sviluppo locale” (Nicola Rossi, «Corriere della Sera», 12 marzo 2007). Oppure, per contestare il lavoro del Dipartimento, è stato richiamato il fallimento dei Patti territoriali, che in realtà, come ho già ricordato, sono stati sconfitti da un’avversa cultura dello sviluppo e che comunque, al 2009, rappresentavano il 5% della spesa sostenuta negli anni dal Dipartimento stesso. La critica va riportata a questioni più strategiche. E per meglio riflettere su questa importante vicenda, vale certamente la pena richiamare alcune valutazioni che, sul tema, ha nel tempo svolto lo stesso Barca (2006), che descrive la situazione antecedente alla nuova programmazione come catastrofica. La situazione amministrativa e di programmazione, gestionale e progettuale era, alla fine degli anni novanta, veramente indescrivibile; specie nelle Regioni, ma anche in molte Amministrazioni centrali che avevano ereditato funzioni dall’Agenzia per il Mezzogiorno. In particolare: – era sostanzialmente assente una programmazione a mediolungo termine dei fondi della politica regionale nazionale (denominati fondi per le aree depresse); mancavano obiettivi circa l’impegno dei fondi e la loro spesa;

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– erano stati assenti (fino al luglio del 1996, quando il Comitato di Sorveglianza del programma comunitario aveva fissato obiettivi annuali di spesa per recuperare il ritardo accumulato) meccanismi di incentivazione degli amministratori responsabili della spesa, ed era anzi all’opera un meccanismo perverso di incentivo a non spendere, per potere poi rimodulare, e rimodulare ancora, le assegnazioni dei fondi; – i sistemi di monitoraggio erano approssimativi e comunque fortemente sottoutilizzati; –  le informazioni sul riparto territoriale della spesa erano approssimative e arrivavano con un ritardo di circa tre anni; mancavano previsioni ex ante; – la capacità di gestione era approssimativa, una larga parte essendo spesso assegnata a strutture esterne alle Amministrazioni, che finivano per condizionare le scelte, anche sul piano strategico, talora veicolando in modo opaco interessi esterni; – la cooperazione fra Stato e Regioni era approssimativa, priva di un protocollo e messa a repentaglio da un canale diretto di rapporto fra livello centrale ed Enti locali, che tendeva a perpetuare scelte paternalistiche e collusive nell’allocazione dei fondi; – la partecipazione delle parti economiche e sociali era inadeguata e formale, privando gli interessi delle imprese, dei lavoratori e dei cittadini, di canali di rappresentazione trasparente e verificabile dei propri fabbisogni e delle proprie proposte.

Insomma, in una parola, lo Stato assegnava propri fondi o veicolava fondi comunitari secondo modalità che, al massimo – nel caso della politica comunitaria – rispettavano regole formali e di rendicontazione, ma che sfuggivano in generale a un’amministrazione strategica e verificabile dell’azione pubblica. Rispetto a questa situazione Barca elenca i risultati conseguiti: la politica regionale, per quanto riguarda la dimensione finanziaria, è divenuta programmabile e monitorabile; si è notevolmente accresciuta la capacità delle amministrazioni, soprattutto di quelle regionali, di programmare le risorse, di selezionare, amministrare e completare i progetti e di spendere i fondi; sono inoltre stati realizzati notevoli progressi nell’attuazione di importanti riforme

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istituzionali settoriali; è stata avviata l’unificazione della politica regionale nazionale, con la costituzione nel 2002-2003 di un unico fondo denominato Fondo per le aree sottoutilizzate; sono stati conseguiti, specie attraverso gli Accordi di programma quadro, risultati di rilievo nella cooperazione istituzionale verticale fra Regioni ed Amministrazioni centrali; è stato avviato un sistema di partenariato economico e sociale che, rispetto alle precedenti esperienze di programmazione dello sviluppo, ha consentito al contributo delle parti di divenire una componente effettiva, sostanziale del processo decisionale; è stato effettivamente avviato il riequilibrio della spesa in conto capitale, da incentivi a investimenti pubblici, ossia a servizi collettivi; è stata conseguita una concentrazione dimensionale e territoriale dei progetti superiore a quanto sia comunemente percepito; molteplici esperienze di progettazione territoriale integrata, prima nei Patti territoriali – specie in quelli comunitari – poi nei Progetti integrati territoriali (dove si è molto ridotto il peso degli incentivi) hanno creato promettenti risultati economico-sociali, che potrebbero prefigurare l’avvio di percorsi autonomi di sviluppo endogeno; sono stati conseguiti risultati importanti nella diffusione di una cultura della valutazione.

La puntigliosa elencazione, in dieci punti, dei risultati conseguiti appare sinceramente piuttosto ottimistica. Accanto a innovazioni effettivamente introdotte, quali i conti pubblici territoriali, accanto a uno sforzo poderoso per trasferire cultura e procedure europee nella prassi progettuale e gestionale delle Amministrazioni Pubbliche, si tratta di un elenco di obiettivi ed in parte di percorsi appena avviati, anche perché nel 2005, anno cui si riferiscono queste riflessioni, l’impegno di spesa per il nuovo ciclo di programmazione era appena all’inizio. Ma a me pare più importante la riflessione di Barca sulle cause del mancato raggiungimento degli obiettivi quantitativi, cioè l’accelerazione, rispetto al Centro-Nord, dei volumi di spesa: – lo stato di partenza gravemente carente della programmazione finanziaria e dei suoi strumenti, sottovalutato nel momento di avvio della nuova politica;

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– la resistenza delle Amministrazioni pubbliche e delle prassi di assegnazione ad adattarsi alla regola di destinazione territoriale; – la mancata coerenza fra programmazione aggiuntiva e programmazione ordinaria: la debolezza della pianificazione nazionale ha portato spesso all’uso sostitutivo delle risorse aggiuntive; – [...] ma inoltre il resto della minore crescita deve essere ricondotto ad una qualità degli interventi inferiore agli obiettivi o, comunque al fatto che questa è stata la percezione di cittadini ed imprese. I miglioramenti ci sono, ma non in una misura e in una percezione tale da produrre quella discontinuità significativa nelle “variabili di rottura” che era stata ipotizzata. Come si legge nella Revisione di metà periodo del qcs, alla “più graduale dinamica della spesa”, si è accompagnata la “mancanza di una modifica decisiva nei comportamenti e nelle aspettative degli operatori privati”.

Nel testo citato vi è poi un’interessante illustrazione dei punti critici che bisognerà affrontare negli anni successivi perché la nuova programmazione possa dispiegare appieno i suoi effetti positivi. Come dicevo prima la nuova programmazione, già in quella fase, a metà degli anni 2000, raccoglieva pesanti critiche, dalle quali Barca si difende con veemenza e con una certa efficacia, casomai sopravvalutando i condizionamenti, i guasti, e le cattive prassi ereditate. Ma molte di quelle critiche, alcune delle quali condivisibili, non mi appassionano, e avendo avuto la responsabilità di gestione di strumenti complessi di intervento al Sud, sebbene in scala molto più ridotta, non posso non tener conto delle evidenti, enormi difficoltà che il Dipartimento per le politiche di coesione ha dovuto fronteggiare nel suo lavoro. A me interessa piuttosto mettere in luce un elemento, che dal mio punto di vista è assolutamente centrale quando si affrontano le questioni della progettazione, della impostazione e della gestione di politiche di sviluppo. Anche nell’illustrazione autocritica e nell’individuazione dei necessari correttivi, non viene mai assunta la questione ­84

della promozione, del consolidamento e della qualificazione della domanda. Dire che la risposta dei soggetti rispetto al nuovo sistema di offerta è stata insufficiente, dal punto di vista qualitativo, tradisce una concezione parziale e sbagliata delle politiche di sviluppo e dei soggetti che devono attuarle. L’insufficiente risposta dei soggetti non è un dato accidentale di cui si pagano le conseguenze, o al massimo una negativa condizione di contesto della quale tener conto, ma è la principale frontiera sulla quale ci si deve impegnare. Non si tratta, evidentemente, di assecondare la domanda facendosi da essa condizionare; né di realizzare “comunque” interventi senza tener conto di un complessivo grado di coerenza; e neppure di lavorare “ammiccando” alle pressioni e alle spinte del territorio. Niente di tutto questo. Si tratta di lavorare nella convinzione che non vi è sviluppo credibile se non costruito sulle esperienze, sulle potenzialità, sugli obiettivi dei soggetti locali: e che, pertanto, il primo obiettivo è quello di intercettare e qualificare la domanda, di fare premio sulle risorse locali, spingendo i soggetti a ricercare la più efficiente combinazione dei fattori produttivi a livello locale sulla base della quale richiedere il sostegno pubblico. Fare promozione significa intercettare la domanda, accompagnarla e selezionarla anche duramente: ma farlo nel merito delle proposte, non in relazione alle garanzie formali e al solo rispetto delle regole del gioco. Nelle pagine precedenti ho richiamato due esperienze particolarmente significative in tal senso, come i Patti territoriali e le Missioni di sviluppo. Piuttosto che definire dal centro o comunque dal “ponte di comando” gli obiettivi, con un conseguente sistema di regole e procedure, occorre individuare i punti di forza sui quali è possibile fare leva: risorse ambientali e culturali; tradizioni ed attività produttive esistenti; bacini di conoscenza; reti di relazioni sociali positive. Questo è fare sviluppo: altrimenti si scambia l’obiettivo con gli strumenti, che per quanto siano sofisticati, trasparenti ed inat­85

taccabili da un punto di vista teorico, non possono essere il fine di una politica. Senza contare che, alla fine, una battaglia esclusivamente incentrata sull’efficacia e sulla “purezza” degli strumenti conosce sempre pesanti delusioni. Nel novembre 2009, in un seminario alla Banca d’Italia, Barca esprime un convinto apprezzamento dell’analisi compiuta da Luigi Cannari, Marco Magnoni e Guido Pellegrini, e afferma: Avrei piuttosto aggiunto un’altra critica interna alla strategia del ’98: quella di avere dato eccessiva enfasi al reddito pro capite fra gli obiettivi da perseguire. La ricerca di Banca d’Italia lo dice fra le righe, ma andrebbe sottolineato con forza. Il problema fondamentale e specifico del Mezzogiorno non è la scarsa crescita del reddito pro capite. A crescere poco nell’ultimo decennio è stato l’intero paese; anche a seguito di fenomeni migratori, il divario di reddito pro capite fra le Regioni italiane si è lievemente ridotto fra il 1995 e il 2006, mentre cresceva o era stazionario all’interno degli altri principali paesi europei. Ma questo dato non ci deve rassicurare, perché il problema del Sud è un altro e ben più grave. Esso riguarda i divari socialmente insostenibili, in termini di qualità dei servizi essenziali per la vita dei cittadini, immotivabili per uno stato nazionale. È questo secondo dato a spiegare perché in Spagna, pure con differenze interregionali di produttività e reddito forti quasi quanto in Italia, non esista un grave problema sociale e politico nazionale di divari territoriali. Alla misurazione della qualità dei servizi la strategia della nuova programmazione ha destinato un’attenzione crescente, ma l’enfasi sui divari di reddito ha sviato l’attenzione degli amministratori, dei politici, del pubblico.

Non c’è bisogno di particolari commenti: si tratta di un approccio strategico radicalmente diverso. Se approfondito e tradotto concretamente in politiche ed in nuove gerarchie di priorità, come dirò in seguito, può dare un contributo significativo a costruire percorsi più realistici di sviluppo.

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6.2. La 488 e gli incentivi alle attività produttive Parlare oggi d’incentivi alle attività produttive nel Mezzogiorno, e cioè di una delle due gambe dell’intervento straordinario e dei successivi interventi per le regioni meridionali, significa parlare della legge 488, che per quindici anni ha rappresentato lo strumento principale, in qualche fase quasi esaustivo, di sostegno finanziario alle imprese, e ha fortemente influenzato, almeno nel suo modus operandi, moltissime altre forme di intervento nazionali e regionali. La 488 è del 1992, ma in materia di incentivazioni diventa operativa nel 1996. Rispetto al quadro normativo precedente (legge 64/86), la 488 introduce alcune innovazioni piuttosto consistenti: – l’adozione di un criterio generale che porta ad assumere come vincolo principale gli stanziamenti complessivi precedentemente fissati e quindi l’emanazione di bandi e la formulazione di graduatorie costruite sulla base di indicatori pre-definiti; nel vecchio regime, con la 64, la sola richiesta di agevolazione da parte di un’impresa faceva maturare un diritto, a prescindere dai vincoli di bilancio; – l’estensione del sistema di agevolazioni alle aree depresse del Centro-Nord; in particolare questa decisione suscitò grandi perplessità e aperte critiche da parte di molti osservatori “meridionalisti” che paventavano il rischio, poi confermato dalle verifiche successive, che le imprese del Centro-Nord, pur potendo contare su una minore intensità dell’aiuto, finivano per assorbire una quota molto consistente – in qualche periodo anche prevalente – del totale delle agevolazioni; – l’allargamento ad altri settori produttivi, quali il commercio, i servizi, il turismo, che ne appannava, in partenza, le potenzialità di strumento di politica industriale propriamente detto; – infine la legge si connotava per uno sforzo teso ad assicurare maggiore trasparenza, rigore e tempestività alle procedure di erogazione. ­87

Ricordo che nel momento in cui si stava definendo il quadro normativo della 488, per la parte relativa alle agevolazioni, il ministro Andreatta mi telefonò a casa, in tarda serata, per acquisire un mio parere sui soggetti che avrebbero potuto fare l’istruttoria delle domande di finanziamento. Sperava, palesemente, che io smentissi la sua percezione: e cioè che al Sud non si poteva affidare questo importante ruolo che alle banche, non essendoci altri soggetti, diffusi e sufficientemente solidi per questo lavoro. Non c’era alternativa, evidentemente. E ne prendemmo reciprocamente atto. Ma ricordo che Andreatta, concludendo la telefonata, espresse una previsione/auspicio: quel meccanismo, ormai assolutamente urgente, avrebbe avuto una breve durata per lasciare posto ad una strumentazione più efficace e lontana dalle vecchie logiche. In effetti vi era una grande urgenza di sbloccare la situazione per quanto riguarda gli incentivi. Da un appunto che ho ritrovato nella documentazione di lavoro dell’Osservatorio per le politiche regionali costituito nel 1994 e presieduto da Maria Teresa Salvemini, di cui ero componente, emerge che vi erano in quel periodo 1.048 domande deliberate senza erogazione, 5.683 in istruttoria all’ex agensud, 5.022 presso le banche, per un totale di 11.753 imprese ed un valore di 38.000 miliardi di lire. La 488 ha avuto molti estimatori e molti detrattori. La critica, di carattere generale, più consistente, è stata quella che essa non ha rappresentato uno strumento di politica industriale, anche perché la politica industriale per il Sud, ma non solo, semplicemente non c’era. Ancora una volta siamo di fronte ad una “politica” che come obiettivo massimo si pone quello di erogare risorse con le migliori modalità possibili. Questa circostanza è confermata, per la 488, dai numerosi studi che ne hanno valutato l’impatto. In mancanza di un obiettivo chiaro tali verifiche si sono evidentemente concentrate sull’efficacia dello strumento in sé e ne hanno misurato gli effetti sulle imprese rico­88

struendo “a posteriori” un giudizio sulla validità in termini di policy. E d’altra parte questa impressione era consolidata dalla lettura, sulla «Gazzetta Ufficiale», di interminabili elenchi di imprese beneficiarie: segno di trasparenza, ma anche plastica rappresentazione di una distribuzione indiscriminata di incentivi: e considerato l’importo, relativamente basso, degli incentivi stessi se ne ricavava la percezione di una distribuzione di risorse ad un sistema di interessi e beneficiari composito: con il piccolo imprenditore, il commercialista e l’istituto di credito. La 488 comunque diventò il modello vincente: la madre di tutte le leggi di incentivazione; venne utilizzata per i Patti territoriali, venne estesa ad altri settori; diventò modello di riferimento per le leggi regionali. Con una forzatura tutta italiana, la facemmo accettare dalla Commissione europea che fu convinta del suo carattere “discrezionale”. Per quanto riguarda le riflessioni specifiche sulla 488, sono in forte sintonia con le valutazioni sviluppate nel tempo da Raffaele Brancati, che con i suoi rapporti met da molti anni ha rigorosamente censito e valutato gli strumenti di incentivazione nel nostro Paese, dal punto di vista quantitativo e qualitativo. Un’interessante sintesi di queste riflessioni è rappresentata da un libro dello stesso Brancati (2010). Voglio piuttosto sottolineare un aspetto relativo alla 488 che a me pare utile richiamare nel quadro della più generale riflessione sulle politiche per il Sud. Il limite più importante di questo strumento è stato il suo carattere di automaticità che, peraltro, secondo molti, ne ha costituito il principale vantaggio. Quello dell’automaticità degli incentivi è una sorta di valore assoluto, di punto indiscutibile. Chi sostiene l’automaticità, contro la discrezionalità, lo fa con l’enfasi e la sicurezza di chi è schierato dalla parte giusta, con ragioni di efficienza, di trasparenza, di moralità. Ancora oggi, in una fase in cui non si vedono in giro incentivi se non automatici, si propongono e si rivendicano con particolare enfasi incentivi automatici! ­89

Vale la pena di approfondire. Il primo chiarimento è che, per un aspetto del problema, siamo di fronte a un clamoroso fraintendimento. Chi dice automatico pensa di dire il contrario di lento, di ambiguo, di poco trasparente. In realtà, come dimostrano le esperienze, e come richiamerò dopo, non è esattamente così. La vera contrapposizione tra criteri automatici (cioè non-criteri) e discrezionali non è nella fase di erogazione degli incentivi, ma in quella di valutazione delle proposte imprenditoriali da finanziare. Ho sempre sostenuto la validità di criteri di valutazione discrezionali e non per difendere il modello di valutazione della 44 che seguiva questa modalità, ma per profonda convinzione. Discrezionale non vuol dire arbitrario: la Società per l’imprenditorialità giovanile, superata una fase di verifica dell’accoglibilità formale di un progetto, ne valutava il merito assumendo quattro criteri fondamentali: qualità della compagine sociale, prospettive di mercato, aspetti tecnici riferiti all’investimento e alle risorse, aspetti economico-finanziari. L’esito della valutazione veniva comunicato per iscritto al proponente, con l’illustrazione delle motivazioni. Questo meccanismo, ovviamente pieno di difetti e passibile di molti miglioramenti, aveva però un punto fermo e per me decisivo: chi decideva si assumeva la responsabilità di valutare un business-plan e una proposta analitica; giudicava, cioè, fattibile o meno quel progetto misurandone la coerenza e anche valutando il livello di rischio connesso a quell’attività imprenditoriale. Non mi risulta che progetti presentati per la 488 siano stati mai respinti per la scarsa credibilità del business-plan; bensì per motivi formali, documentali; per l’insufficiente patrimonializzazione del soggetto proponente, o perché con scarso impatto occupazionale. Ma mai perché qualcuno si è assunto la responsabilità di giudicare sbagliato, irrealizzabile, o non redditivo il business proposto. Su questo tema sono stato per anni in minoranza o, meglio, in solitudine, tra gli addetti ai lavori. Anche quelli che giudicavano positivamente la 44 non ne coglievano ­90

l’essenza, che era appunto la valutazione discrezionale. Perché? Superati i fraintendimenti sul significato di automaticità, si arrivava alla sostanza. Accettare meccanismi discrezionali significava necessariamente, inevitabilmente, ovviamente favorire la corruzione: con un’equazione gravissima e inaccettabile, soprattutto se confermata nel tempo, come un assunto insuperabile. Non proposte, non tentativi di sperimentazione, non studio di altre esperienze. Tutti felici di evitare il rischio di chiamare la Pubblica Amministrazione ad assumersi responsabilità; tutti rassegnati a vivere in un Paese in cui Pubblica Amministrazione è inevitabilmente corruzione, con ovvi effetti di sempre maggiore demotivazione e, quindi, dequalificazione della stessa. Ho trovato sempre inaccettabile questa incrollabile certezza nei miei interlocutori, in particolare quando essi erano di tradizioni culturali e politiche di sinistra. Vedremo che l’automaticità della 488 non è stata un grande antidoto contro la corruzione. Ma va sottolineata la conseguenza più grave di questa impostazione: la assoluta deresponsabilizzazione di chi decide. Tutto è procedura, tutto è documentazione: nessuno, appunto, né la banca, né i funzionari del Ministero, valutavano il merito con relativo giudizio. Se nessuno giudica il mio business-plan esso stesso diventa come un qualunque documento da allegare alla domanda, che non verrà valutato, ma guardato sotto il profilo formale. L’esito, in termini di cultura economica è disastroso: non ha responsabilità sostanziali l’istituto di credito; non sente il peso della responsabilità imprenditoriale chi presenta la proposta. Non è polemico affermare che questi meccanismi alimentano in tutti i protagonisti un diffuso senso di “irresponsabilità”, che è un ingrediente decisivo per affossare la cultura dello sviluppo in un territorio. Con una tradizione così forte e consolidata, come lamentarsi della diffidenza che gli imprenditori meridionali hanno verso le società di venture capital? Non solo l’abitudine agli incentivi rende difficile quei rapporti, ma anche la disabitudine a confrontarsi sui programmi, sui ­91

business-plan e sui livelli di rischio imprenditoriale. Questo è il punto decisivo. Lo Stato non può accontentarsi di erogare risorse in incentivi con una motivazione generale, che è quella di compensare i costi derivanti ad una impresa dalle diseconomie del contesto. Deve valutare se gli incentivi dati a quell’impresa sono ben impiegati. Altrimenti delle politiche d’incentivazione restano solo gli aspetti negativi: gli effetti di distorsione del mercato, di spiazzamento, di sostegno ad imprese che “resistono” solo perché aiutate a tenere bassi i costi. Se non c’è questo obiettivo, difficile da conseguire, ma irrinunciabile, uno strumento di incentivazione risponde solo ad un altro criterio: quello del minor rischio possibile per il soggetto erogatore e per chi ne ha la responsabilità di gestione. Così è apparso normale introdurre criteri sempre più stringenti sulla patrimonializzazione delle imprese beneficiarie; così si è introdotto come criterio quello dell’asta “capovolta”: chi chiede di meno ha un punteggio più alto; così nell’ultima stagione della 488 qualche commercialista ha proposto a grandissime imprese (anche enel) di fare domande chiedendo contributi percentualmente bassissimi rispetto all’investimento da fare! A me avevano invece insegnato che un incentivo è importante se “appunto” incentiva la decisione di una impresa, non se diventa una specie di revenienza attiva per chi ha già deciso un piano di investimenti. E questa stessa logica ha determinato, nella fase finale della 488, una prassi a dir poco singolare. Quella di soggetti molto forti patrimonialmente, molto “bancabili”, e quindi molto ben visti dal sistema, che presentavano una domanda di finanziamento e una volta ottenuto il “decreto” cambiavano idea e invece di realizzare l’investimento stesso “trasferivano” il decreto ad altro soggetto a titolo oneroso: purché nello stesso settore e nello stesso territorio, e ovviamente accertate le caratteristiche finanziarie del nuovo soggetto, l’operazione era fattibile. Un meccanismo così non può essere condiviso. In realtà mentre si discuteva delle nuove leggi da fare, in qualche ­92

ambiente si avanzò qualche riflessione critica e qualche suggerimento. Il cnel in quegli anni aveva sviluppato un’importante attività di riflessione sul Sud ed anche in particolare sugli incentivi: preziosissime, in quella fase, la competenza e l’esperienza di Giorgio Cigliana. In un documento dell’assemblea svoltasi nell’aprile 1990, in cui si fornivano indicazioni al governo e al Parlamento alla vigilia di importanti innovazioni sugli incentivi, si legge: In linea di principio bisogna puntare ad introdurre meccanismi di selezione basati sulla verifica della validità tecnicoeconomica delle proposte di investimento. La cultura e la prassi della valutazione di “piani di impresa” si vanno rapidamente diffondendo: alcune esperienze, anche in Italia, hanno determi­ nato un’interessante accumulazione tecnico-professionale in tal senso. In sostanza bisogna sottolineare l’esigenza che si ­affermi il principio di una ragionevole discrezionalità (almeno per ­zone e per tipologie) nella concessione delle agevolazioni; discreziona­ lità che non significa arbitrio ma esercizio della capacità e della responsabilità della valutazione. Spesso rivendicare la automaticità degli incentivi significa rifiutare le lungaggini tecnico-burocratiche, l’inefficienza degli enti erogatori, i rischi di degenerazioni clientelari. Ma si scambia la causa con l’effetto; e si abdica allo sforzo doveroso di migliorare la trasparenza e l’efficienza della Pubblica Amministrazione. [...] Questa ritrosia a esercitare la discrezionalità consentita dalla legge, può alla fine ritorcersi negativamente su tutta la politica dell’intervento straordinario, che potrebbe in futuro essere costretta a limitazioni imposte dalle norme comunitarie e dalle esigenze di bilancio, senza che gli organi preposti all’intervento straordinario abbiano maturato una propria autonoma capacità di gestire la necessaria evoluzione (restrittiva) dell’intervento stesso; e senza che ci sia stato un minimo di sperimentazione in tal senso.

Suggerimenti che non furono accolti, né in sede amministrativa né in sede legislativa (nella successiva 488). Un’interessante analisi critica fu svolta da Paola Potestio (2004). In particolare veniva criticata l’assunzione, tra i criteri di selezione, dell’indicatore relativo ai “mezzi ­93

propri”, che premiava le imprese finanziariamente più forti e che probabilmente avrebbero comunque realizzato l’investimento, a scapito di quelle più deboli per le quali l’incentivo poteva risultare decisivo, senza peraltro alcuna verifica sul rendimento atteso dell’investimento. E ancora l’autrice sottolineava che la molteplicità degli indicatori faceva emergere la mancanza di un principio guida e quindi l’assenza di un disegno di politica industriale. Dal cnel quasi venti anni dopo (novembre 2009) vengono interessanti riflessioni – e proposte – sugli incentivi, che fanno fortemente vacillare l’antica e celebrata certezza: l’automaticità quale garanzia di trasparenza. Si tratta del documento conclusivo del gruppo di lavoro in tema di abuso di finanziamento pubblico alle imprese; un gruppo di lavoro molto qualificato e articolato con la presenza di esperti, imprenditori, rappresentanti delle banche, delle forze dell’ordine, della magistratura. Il documento elenca tutte le attività criminali connesse alle erogazioni d’incentivi, a partire dalla 488: Quanto alle modalità con le quali la materia è stata affrontata, va preliminarmente dato conto che l’analisi è stata incentrata sulle problematiche inerenti l’applicazione della disciplina della legge 488, ritenuta per plurimi aspetti paradigmatica di una normativa amplissima e caotica e, allo stato, priva sia di adeguato coordinamento sia di un soddisfacente inquadramento sistematico.

L’elenco degli abusi è molto dettagliato, anche se lo stesso documento mette in guardia dal rischio di generalizzazioni indebite. È invece interessante notare che, perfino da quel punto di vista che è legittimamente molto attento alle questioni formali, vengono suggerimenti di tipo qualitativo: dal punto di vista delle strategie dell’ente erogatore e/o del concessionario la criticità prevalente sembra risiedere nel deficit di un contatto diretto tra le persone fisiche che, a titolo personale o nella qualità di legali rappresentanti di impresa, richiedono

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l’erogazione di un finanziamento agevolato e i funzionari e i tecnici preposti al procedimento di istruzione delle pratiche. La mancata diretta conoscenza di questo particolare tipo di cliente, oltre ad essere in contrasto con le strategie di analisi comunemente adoperate nel governo del credito alle imprese, apre spazi impropri a forme di rappresentanza di interessi che vedono protagonisti consulenti e avvocati di affari, veri e propri schermi informali dei destinatari del finanziamento. La mancata diretta conoscenza del soggetto istante assume valore di potenziale rischio soprattutto nelle ipotesi di imprese di nuova costituzione, sconosciute al mercato e atte cioè a costituire strutture idonee a fatti di interposizione soggettiva. Appare di tutta evidenza che sotto il profilo dell’azione istruttoria e, ancor più dell’azione di controllo, l’approccio ordinariamente documentale alla trattazione delle pratiche di finanziamento è quello che più si presta ai rischi derivanti da azioni fraudolente. È infatti evidente che una delle caratteristiche essenziali della frode di finanziamento pubblico all’impresa è proprio l’apparente regolarità della documentazione prodotta. A tal proposito si propone di affiancare ad azioni di carattere strutturale interventi di natura immateriale capaci di innalzare il livello qualitativo del sistema di istruttoria e controllo, in particolare quello delegato agli intermediari.

Per concludere richiamo un documento del già citato Osservatorio per le politiche regionali (commento alla bozza di regolamento del ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato sulle procedure per la concessione e l’erogazione delle agevolazioni finanziarie ai sensi dell’art. 1, comma 1, della legge 488/92). Ricordo che si tratta di un osservatorio istituito per legge presso il ministero del Bilancio, i cui pareri avevano un taglio istituzionale. Il sistema appare, nel complesso, macchinoso. E in ogni caso prevede tre passaggi istruttori: una prima istruttoria tecnica da parte della banca sub-concessionaria per la concessione di un finanziamento ordinario (art. 6, comma 2); l’istruttoria del-

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la banca ordinaria, per la definizione delle graduatorie (art. 6, comma 4); e, presumibilmente il Ministero dell’Industria, del Commercio e dell’Artigianato che procede alla concessione delle agevolazioni. Tale situazione rischia di essere più lunga rispetto al tradizionale meccanismo della 64. Al contrario si sarebbe potuto valutare la opportunità di una istruttoria direttamente eseguita dagli uffici del Ministero.

Pensare a una Pubblica Amministrazione che valuta non è quindi una eresia! L’ultimo paragrafo del documento appare veramente significativo e conferma sostanzialmente i miei giudizi: Nel complesso la soglia per l’accesso alle agevolazioni è abbastanza elevata; con il rischio di favorire le imprese più affidabili e solide. Se questo è l’obiettivo si possono scegliere meccanismi più rapidi ed agili, di coinvolgimento diretto di operatori finanziari. Il percorso disegnato appare piuttosto come un insieme di procedure tendenti a diminuire al minimo i rischi, non in senso imprenditoriale, per l’Amministrazione.

7.

Una diversa politica era possibile

1. Nelle pagine precedenti, senza alcuna ambizione di voler ricostruire in modo organico la vicenda dell’intervento per il Sud, ho tentato di mettere in luce come in sessant’anni le politiche per il Mezzogiorno siano state improntate ad un approccio esclusivamente quantitativo. L’impegno dei governi per risolvere l’antica questione è stato misurato in miliardi di lire, poi milioni di euro, stanziati. La valutazione dei risultati è stata sempre, di fatto, riferita alle risorse. Vi sono state eccezioni, o meglio tentativi di innovazione e riflessioni critiche; ma la politica è stata caratterizzata da una sostanziale disattenzione alle dinamiche della domanda, da una forte inerzia che ha impedito alle classi dirigenti di interpretare e assumere in una nuova idea di sviluppo le grandi novità pure emerse nel corso degli anni1. Nel dibattito, pur con qualche voce dissonante, ha finito per prevalere una sorta di pensiero unico, così riassumibile: la questione del Sud coincide con il divario del pil e si può risolvere con adeguati trasferimenti di risorse. Tutto il resto conta poco e anzi può rappresentare una pericolosa dimensione minimalista, se non addirittura “negazionista”. 1   Sulla sottovalutazione di questi aspetti è molto efficace una riflessione di Giuseppe Galasso (2008).

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Di questo atteggiamento, di questo invincibile e immodificabile sillogismo, è prova la reazione irritata di fronte a interpretazioni diverse del divario o alle stesse critiche alle tradizionali modalità di intervento, alla luce dei modesti risultati conseguiti. La reazione non è mai riferita al merito delle riflessioni o alla validità dei temi proposti: si teme che mettere in discussione la formula collaudata per decenni significhi arrendersi. Quando si tenta di spostare la discussione ad un livello diverso, quando si cerca di individuare percorsi che portino a una diversa strategia politica si viene accusati: – di sottovalutare la gravità del problema; – di ritenere inutile o pericolosa la destinazione al Sud di risorse finanziarie; –  o addirittura di essere portatori di una cultura “liberista”. Accuse totalmente infondate per chi ritiene: – che i problemi del Sud siano gravissimi ma non riferibili esclusivamente – e neppure prevalentemente – al divario del reddito; – che vi sia bisogno di risorse finanziarie aggiuntive ma che esse non sono “comunque” un bene: vanno indirizzate verso nuove priorità ed erogate con modalità più trasparenti e partecipate, in un’indispensabile logica di responsabilità dei soggetti meridionali; – che senza queste condizioni le risorse eventualmente trasferite non solo sono uno spreco ma risultano dannose per lo sviluppo. 2. Per fortuna lo schema tradizionale che sosteneva le politiche di crescita appare sempre più datato. Emerge con crescente forza una concezione delle politiche di sviluppo più attenta alle questioni del capitale sociale, della conoscenza, della coesione sociale, della cooperazione, della tenuta dei sistemi istituzionali locali. La grande crisi finanziaria ha indubbiamente accentuato e accelerato que­98

ste riflessioni, ma esse erano già da tempo ampiamente sviluppate. Certo fa impressione leggere sulla «Harvard Business Review» che l’opportunità di creare valore economico attraverso la creazione di valore sociale sarà una delle più potenti forze che guideranno la crescita dell’economia globale. (Porter e Kramer, 2011)

Sembrano ormai del tutto smentite le teorie neoclassiche secondo cui la diseguaglianza è un incentivo per la crescita. L’idea che l’accumulazione di capitale, di per sé, inneschi un circolo virtuoso, generando nuovi investimenti, nuovo lavoro e quindi maggiori consumi e nuove produzioni, si è mostrata sbagliata. In situazioni di forte diseguaglianza e disagio sociale, il sistema economico si inceppa, si sviluppano investimenti parassitari e, soprattutto, i comportamenti rinunciatari e disillusi della popolazione esclusa fanno venir meno una delle leve decisive per lo sviluppo. La letteratura a tale riguardo è vastissima; basterebbe ricordare le fondamentali riflessioni di Amartya Sen (2001): I livelli di reddito della popolazione sono importanti, perché ogni livello coincide con una certa possibilità di acquistare beni e servizi e di godere del tenore di vita corrispondente. Tuttavia accade spesso che il livello di reddito non sia un indicatore adeguato di aspetti importanti come la libertà di vivere a lungo, la capacità di sottrarsi a malattie evitabili, la possibilità di trovare un impiego decente o di vivere in una comunità pacifica e libera dal crimine.

O anche richiamare, per le politiche adottate per il Sud, l’efficacissima distinzione introdotta da Daron Acemoglu e James Robinson (2002) sulle istituzioni “inclusive ed estrattive”. Quelle inclusive che puntano sulla certezza del diritto, sul supporto dello Stato al mercato (servizi e garanzie), su forti investimenti in formazione e in ricerca, ­99

sulla diffusione delle opportunità per un gran numero di cittadini e sull’apertura dei mercati, possono determinare sviluppo. Quelle estrattive che, fortemente centralizzate, conseguono nel breve periodo significativi risultati di crescita economica, ma con grandi diseguaglianze e con prospettive effimere. La centralità di temi quale il capitale umano, il buon funzionamento delle istituzioni, la giustizia sociale, la cura dei beni comuni, è ormai assodata, almeno a livello teorico. Ma vi sono anche importanti segnali: ad esempio il premio Nobel per l’economia Elinor Ostrom, che ha lungamente studiato la questione dei beni comuni; il mutamento, ormai pronunciato, nelle strategie delle grandi organizzazioni internazionali, a partire dalla Banca mondiale, che si occupano di Paesi in via di sviluppo e che, diversamente dal passato, progettano e attuano interventi che non prescindono dal capitale sociale. Vale la pena di richiamare una nota di Gaetano Giunta, direttore della Fondazione di comunità di Messina che, sulla base di un lavoro svolto con Domenico Marino (2011), giunge alle seguenti conclusioni in tema di sviluppo in aree svantaggiate: il grado di apertura del sistema economico fa aumentare la capacità di attrarre risorse. Tuttavia esiste una sorta di povertà trappola, cioè di un livello di povertà al di sotto del quale l’ulteriore apertura del sistema economico diventa controproducente, se non controbilanciato da forti politiche locali di coesione; una ricchezza equamente distribuita con larghi spazi di cooperazione produce vantaggi non solo sociali, ma anche economici, perché il sistema, in queste condizioni, se aperto è attrattore di risorse; in sistemi che partono da condizioni di povertà e forte sperequazione ed in territori in cui si sono fuse pratiche liberiste con antiche pratiche assistenziali e clientelari bisogna operare sistematicamente per potenziare piattaforme sociali ed economiche locali autonome e collegarle a reti nazionali ed internazionali, anche esterne al sistema locale.

3. Questa significativa evoluzione delle teorie sullo sviluppo e la constatazione degli insoddisfacenti risultati conse­100

guiti dal lungo impegno e dalle tante risorse per il riequilibrio territoriale del Paese, hanno moltiplicato nel corso degli anni le riflessioni critiche sulle politiche attuate. Anche da parte di alcuni protagonisti delle passate stagioni. In un’intervista al «Denaro» (maggio 1996) Giorgio Ruffolo diceva testualmente: Se le centinaia di migliaia di miliardi profusi nella incentivazione a fondo perduto di imprese industriali – molte delle quali andate poi in malora – fossero state investite nel progresso della educazione e nella valorizzazione dei luoghi, si sarebbe creato un ambiente civile ed ospitale.

E più avanti gli scempi come Gioia Tauro, grandi città stremate come Taranto, migliaia di miliardi d’incentivi che hanno arricchito perfino la malavita organizzata. Oggi mi sento di dire che, con i tentativi d’industrializzazione, abbiamo riempito il Sud di pugni nello stomaco.

Per inciso segnalo che Gioia Tauro è stata recuperata dall’intuizione e dall’impegno di Angelo Rovano, che vide la possibilità di utilizzare quel porto “orfano” dello stabilimento siderurgico come un grande hub di transhipment (smistamento di container da grandi navi portacontainer a navi di dimensioni più piccole), e che quindi oggi non può essere considerata come un’inutile cattedrale. Con grande lucidità, nei primi anni ’90 Paolo Sylos Labini affermava: ritengo che il problema del Mezzogiorno sia soprattutto un problema di sviluppo civile: la stessa relativa arretratezza economica – oggi non più grave come un tempo – è essenzialmente la conseguenza dell’arretratezza civile, la quale a sua volta, è il risultato di una lunga evoluzione storica; credo che l’aspetto saliente di tale evoluzione possa essere compreso, per contra-

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sto, riflettendo sull’evoluzione delle città nel Sud e nel Nord. Se ciò è vero, ne segue che dobbiamo approfondire in modo sistematico – e non più occasionale e frammentario come finora è avvenuto – il problema dello sviluppo civile; e ciò non solo e non tanto ai fini di conoscenza, ma anche e soprattutto a fini di azione politica.

Un vero e proprio punto di svolta in questo percorso di riflessione critica è rappresentato dall’intervento di Draghi, governatore della Banca d’Italia, nel 2009. Presentando un importante studio della stessa Banca, affermò che: è allarmante lo scarto di qualità fra Centro Nord e Mezzogiorno nella istruzione, nella giustizia civile, nella sanità, negli asili, nell’assistenza sociale, nel trasporto locale, nella gestione dei rifiuti, nella distribuzione idrica.

Draghi sottolineò la grande rilevanza del capitale sociale e la necessità di assumerne il potenziamento e la qualificazione come obiettivo prioritario delle politiche per il Sud. E richiamò un altro aspetto della questione, spesso dimenticato o comunque sottovalutato. Le “politiche regionali” che si riferiscono solo al 5% del totale dei trasferimenti al Sud possono integrare le risorse disponibili, consentirne una maggiore concentrazione territoriale, contrastare le esternalità negative e rafforzare quelle positive. Ma non possono sostituire il buon funzionamento delle istituzioni ordinarie.

Anche se le resistenze ad assumere un nuovo paradigma nella lettura e nella interpretazione dell’“antica questione” sono piuttosto forti; anche se, soprattutto, si fa fatica a individuare politiche innovative e coerenti con una nuova concezione della promozione dello sviluppo; anche se l’iniziativa sembra concentrarsi al massimo sulla conquista della trasparenza nell’erogazione delle risorse, obiettivo lodevole ma insufficiente; sembra evi­102

dente che si va affermando una nuova consapevolezza della inadeguatezza del modello di sviluppo fino ad oggi perseguito. 4. È interessante notare che è proprio nella tradizione culturale meridionale che nasce l’idea di economia civile: l’abate Galiani, Giacinto Dragonetti e, soprattutto, Antonio Genovesi. Nel 1754 gli fu affidata, all’Università di Napoli, la prima cattedra di Economia del mondo. Insegnava Economia civile che diventò poi il titolo di un libro pubblicato nel 1756. Come ricorda Stefano Zamagni2, l’economia civile fu sconfitta dall’economia politica di Adam Smith: senza l’elemento della “fraternità”, che oggi definiamo “reciprocità”, l’obiettivo dell’equità è affidato alle politiche redistributive chiamate a risarcire gli inevitabili guasti determinati dalla crescita economica. E negli anni più recenti, nella fase del cosiddetto turbo capitalismo, il modello è saltato, mostrando l’insufficienza del welfare cui, nel tempo, ci eravamo abituati. Ma tornando alla nostra riflessione sul Sud e agli anni più recenti, va sottolineato che l’attenzione ai temi della qualità dello sviluppo, del ruolo insostituibile e non surrogabile del sistema istituzionale, della partecipazione delle popolazioni, della valorizzazione dei patrimoni e delle tradizioni locali, è stata sempre presente. Per alcuni tali questioni costituivano il contenuto stesso delle politiche di sviluppo, per altri erano condizioni che dovevano accompagnarle. Come non ricordare il bellissimo e durissimo intervento, più volte interrotto, di Gaetano Salvemini al Congresso del Partito socialista del 1908, in cui sosteneva con forza la necessità del suffragio universale, in mancanza del quale la dipendenza e lo sfruttamento delle classi più povere del Sud sarebbe stata confermata?

  Intervista all’«Avvenire» (3 ottobre 2009).

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E nella lunga introduzione alla seconda edizione della sua Rivoluzione meridionale (1945) Guido Dorso scrisse: Bisogna quindi rivolgersi direttamente alle masse e far leva su di esse, poiché tutto il lavoro di sbloccamento della situazione consiste nel dare coscienza agli umili, e trasformarli da oggetto inconsapevole del vecchio baratto trasformista in soggetto della nuova politica autonomista. L’ultimo ostacolo che ormai sbarra il passo in questo lungo e doloroso cammino è il trasformismo meridionale, e lo sbloccamento della situazione politica nel Mezzogiorno appare come un dovere nazionale. Ma non nel senso tradizionale che si attribuisce a questa locuzione; nel senso cioè, problemistico e caritativo, adattato da tutti i governi succedutesi finora al potere. No, il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia: non chiede aiuto ma libertà. Se il Mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, tutto sarà inutile.

Manlio Rossi-Doria, che si definisce salveminiano, molti anni più tardi (1982) dirà che le variabili “non economiche” hanno, nei processi di sviluppo, grande importanza ed è, quindi, assurdo limitare lo studio dello sviluppo economico a variabili strettamente economiche con l’esclusivo uso di tecniche di indagine proprie di particolari scuole di pensiero economico.

E a proposito delle politiche di industrializzazione non ha alcuna consistenza e può risultare dannosa l’opinione largamente diffusa, secondo la quale i paesi progrediti sarebbero passati bruscamente, in un periodo relativamente breve, da condizioni rurali di equilibrio statico e di sottosviluppo a condizioni di progresso industriale rapido.

Il 18 gennaio del 1923 Luigi Sturzo tenne a Napoli un discorso ai quadri del Partito popolare sul “Mezzogiorno e la politica italiana”. È un discorso forte, organico, che affronta una pluralità di temi con grande lucidità ed una ­104

sorprendente modernità, che in alcuni passaggi lo rende molto attuale: Stando e vivendo fuori dell’ambiente meridionale – nel contatto con studiosi, uomini politici, economisti, finanzieri, persone dedite agli affari, giornalisti di qualche cultura e burocrati di discreta levatura – si ha l’impressione che il maggior numero di costoro consideri il problema meridionale anzitutto come un effetto dell’indole, dei costumi, dell’indirizzo culturale, della mancanza di iniziativa e di coraggio da parte degli abitanti di queste belle e disgraziate regioni; in secondo luogo come una questione di lavori pubblici, specialmente locali, ai quali lo stato già provvede con una certa specialità di metodi e con concorsi finanziari più larghi che per altre regioni, intervenendo anche di là da una equa misura per quelle condizioni speciali che veramente esistono, ma che spesso gli uomini politici del Mezzogiorno esagerano, per abitudine retorica e a scopo di facili clientele elettorali. Così la figura del meridionale è caratterizzata, nella opinione di molti, come quello che non fa, né sa fare quanto dovrebbe, per superare le difficoltà del proprio ambiente, e mendica dallo stato aiuti e favori, non sempre proporzionati o completamente utili, né sinceramente disinteressati. [...] Occorre superare il nostro stato psicologico che ci mette in condizioni di inferiorità, perché nell’accentuare questo contrasto e nel riportarlo alle condizioni diverse con le altre regioni d’Italia (specialmente del nord), sembra che si attenda un ausilio esterno, lontano, invocato, invece di creare noi un programma politico della questione meridionale, tale da divenire nostra convinzione, nostra formula, nostra forza (al di sopra dei partiti politici che ci dividono) e farlo divenire, con l’efficacia delle minoranze convinte, pensiero generale degli italiani.

Negli stessi anni Antonio Gramsci (1930) affermava che il Mezzogiorno «può essere definito una grande disgregazione sociale; i contadini, che costituiscono la grande maggioranza della sua popolazione, non hanno nessuna coesione tra loro». La soluzione, per Gramsci, non era certamente da ricercare in politiche di sostegno allo sviluppo del Sud, bensì in un’alleanza tra proletariato del Nord e contadini del Sud, capace di “distruggere il blocco agrario ­105

meridionale”. Per far questo sarebbe stato necessario «disgregare il blocco intellettuale che è l’armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario». Un cenno va fatto ad alcune figure che nel corso del ’900 hanno declinato un forte impegno meridionalistico nella direzione della qualificazione del capitale umano, del rafforzamento delle relazioni sociali, dell’affermazione di una vera dimensione comunitaria. Tante le storie, le vicende, i personaggi; alcuni noti, tanti poco noti o del tutto sconosciuti, come poco conosciute sono le tante esperienze presenti nel “sociale” al Sud. Una figura affascinante per la generosità del suo impegno e l’eclettismo delle sue attività è quella di Umberto Zanotti Bianco3: negli anni ’20 sviluppò una poderosa attività creando asili nido, scuole per la lotta all’analfabetismo, biblioteche per maestri, circoli di cultura, cooperative, centri di assistenza igienica e sanitaria. Fondò l’animi (Associazione nazionale per gli interessi del Mezzogiorno d’Italia). E gli interessi erano la scuola, i servizi sociali, la cultura. Particolarmente significativo anche il contributo di esperienza e di riflessione di Angela Zucconi. Accanto ad una qualificata attività professionale di studiosa e di traduttrice dal tedesco e dal danese, fu animatrice del Movimento di collaborazione civica, direttrice del cepas (Centro di educazione professionale per assistenti sociali). Nel secondo dopoguerra fu tra le principali animatrici di movimenti di volontariato, di assistenza sociale; lavorò con Adriano Olivetti. L’aspetto più interessante è che, guardando soprattutto al Sud, era convinta che la solidarietà, il dono, avevano una fondamentale funzione di ricostruzione delle relazioni sociali, di promozione della comunità e della cittadinanza. In questo filone di pensiero e di concreto lavoro emerge, naturalmente, la figura di Adriano Olivetti.

3   Sergio Zoppi ne ha recentemente (2009) ricostruito la ricchissima esperienza.

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Commentando la prima fase dell’intervento straordinario, pur non volendo dare un giudizio complessivamente negativo, Olivetti (1960) esprime alcune critiche riferite soprattutto alle politiche di industrializzazione e descrive le caratteristiche che dovrebbero avere i progetti di sviluppo. Nella nostra mente i progetti comunitari, quelli che tengono conto “contemporaneamente” di tutti i fattori sociali, culturali, economici, sono i soli che potranno cambiare le condizioni di vita delle aree sottosviluppate verso quella risurrezione permanente che le nostre popolazioni hanno atteso da ormai troppo tempo, attraverso la fiducia accordata a forme ingannatrici “perché provvisorie o insufficienti”, o perché dettate da uomini ai quali non mancava la buona fede, ma che non avevano né fantasia, né esperienza delle tecniche economiche e sociali nella loro più ampia e più moderna eccezione.

Olivetti ha dedicato al Sud non solo e non tanto riflessioni e denunce civili. Basti ricordare il suo impegno per la realizzazione della Martella, borgo costruito nella periferia di Matera per ospitare sessanta famiglie che abitavano i Sassi e progettato in modo da consentire, in condizioni di vita più agevoli e civili, il mantenimento e il rafforzamento delle relazioni comunitarie, proprie dell’esperienza di un borgo contadino. Rileggere la storia della Martella, dell’entusiasmo dei progettisti, della grande qualità progettuale, dello sforzo di coniugare interventi urbanistici, sociali ed economici, della fatica del coordinamento tra le diverse competenze, delle tensioni con l’Ente di riforma, dei sospetti della dc (preoccupata di tener vive le appartenenze e le relazioni “verticali” con la popolazione) è molto istruttivo: la storia della Martella, che è sostanzialmente la storia di una sconfitta, è paradigmatica dell’intervento pubblico per lo sviluppo del Sud. L’esperimento della Martella riuscì a metà, ma soprattutto non fu replicato, come era nelle intenzioni di Olivetti. E di Olivetti voglio ricordare anche il discorso che pronunciò all’inaugurazione del bellissimo stabilimento ­107

di Pozzuoli, che rimanda a una visione lontana anni-luce dallo stereotipo dell’industriale del Nord che, con le vesti del salvatore, tenta di trasferire al Sud modelli culturali. Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto della bellezza dei luoghi e affinché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno. Abbiamo lottato e lotteremo sempre contro questo immenso pericolo; l’uomo del Sud ha abbandonato soltanto ieri la civiltà della terra: egli ha perciò in sé una immensa riserva di intenso calore umano. Questo calore umano l’emigrante meridionale lo ha portato e donato in tutti i paesi del mondo ed è un segno inconfondibile del contributo che l’Italia ha dato alle civiltà d’Oltreoceano fecondate con un sacrificio in gran parte misconosciuto. Ed ecco perché in questa fabbrica meridionale rispettando, nei limiti delle nostre forze, la natura e la bellezza, abbiamo voluto rispettare l’uomo che doveva, entrando qui, trovare per lunghi anni tra queste pareti e queste finestre, tra questi scorci visivi, un qualcosa che avrebbe pesato, pur senza avvertirlo, sul suo animo.

Nel gennaio del 1948 molti vescovi del Sud pubblicarono una lettera collettiva, “I problemi del Mezzogiorno”. Il 18 ottobre 1989 fu pubblicato un documento della Conferenza episcopale, “Sviluppo nella solidarietà”, e venti anni dopo, anche per ricordare quella presa di posizione, un altro documento della cei, “Per un Paese solidale”. Soprattutto in relazione al momento storico in cui è stato redatto, il documento del 1989 è certamente il più forte, coraggioso e innovativo tra quelli citati. Nel solco delle Encicliche Populorum Progressio e Sollecitudo rei socialis, definisce lo sviluppo come “vocazione” e come processo di popolo da suscitare in ogni uomo e in ogni comunità: Nella linea del magistero pontificio e conciliare, la Chiesa italiana fa proprie le ragioni delle popolazioni del Sud ad avere un loro specifico e autonomo processo di sviluppo, che non sia copia di “modelli lontani” e che si caratterizzi come evoluzione complessiva vissuta da tutta la società meridionale.

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Particolarmente incisivo e severo il giudizio delle responsabilità della politica: l’essere stato il Mezzogiorno più “oggetto” che “soggetto” del proprio sviluppo, e il peso assunto dai rapporti di potere politico, hanno favorito l’instaurarsi di rapporti di dipendenza verticale verso le istituzioni, con una crisi di sviluppo della società civile e delle autonomie locali. La funzione della mediazione politica, a livello locale e nazionale, ha finito per assumere un’incidenza sociale di straordinario rilievo, generando una rete di piccolo e grande clientelismo, che misconosce i diritti sociali e umilia i più deboli. L’ostacolo forse principale a una crescita auto propulsiva del Mezzogiorno viene quindi proprio dal suo interno e risiede nel peso eccessivo dei rapporti di potere politico, lungo una linea che nel Meridione può dirsi di continuità storica. I gruppi di potere locali si presentano verso il centro come garanti di consenso, e verso la base come imprescindibili trasmettitori di risorse, più o meno clientelari, più o meno soggette all’arbitrio, all’illegalità, al controllo violento. La criminalità organizzata viene favorita da atteggiamenti di disimpegno, di passività e di immoralità nella vita politico-amministrativa. C’è, infatti, una “mafiosità” di comportamento, quando, ad esempio, i diritti diventano favori, quando non contano i meriti, ma i legami di “comparaggio” politico. Il Sud non sarà mai liberato se non in una trasparenza etica di chi governa e in un comportamento onesto di ogni cittadino. Al riguardo lo Stato non deve essere solo repressivo – sebbene si senta la necessità di una sua presenza forte e decisa – ma deve essere esemplarmente “promozionale”.

È una presa di posizione molto dura, molto netta sul piano della cultura dello sviluppo ed anche sul piano strettamente politico. Una presa di posizione che non sembra aver sortito grandi effetti (e rispetto alla quale la stessa Chiesa del Mezzogiorno non è certamente apparsa sempre del tutto coerente). E tuttavia lo spirito di quel documento non è andato disperso: intanto, a distanza di qualche anno, è nato il ­109

progetto Policoro, ancora oggi in sviluppo, che impegnava molte diocesi del Sud a compiere “gesti coerenti” in materia di lavoro dando vita a centinaia di cooperative. Ma soprattutto lo spirito di quel documento e la cultura che lo sostiene si ritrovano giorno dopo giorno nell’impegno sociale di tante associazioni, di tanti vescovi, sacerdoti, religiosi. Personaggi straordinari che in situazioni di disagio sociale estremo, con grande generosità e intelligenza, si occupano degli ultimi, si impegnano a costruire reti di fiducia, a liberare ragazzi e ragazze dalla cultura della dipendenza e dell’illegalità; che, dando un senso concreto alla cultura del dono, tessono le fila di comunità fiduciarie. 5. Tra le tante esperienze sin dall’inizio critiche nei confronti della logica prevalente degli interventi per il Sud particolarmente significativa è quella di Giorgio Ceriani Sebregondi. Nato a Roma da famiglia lombarda, laureato in giurisprudenza, cattolico. Forte il suo legame con Balbo con il quale aderì prima al Movimento dei cattolici comunisti e poi al Partito della sinistra cristiana. Dopo una breve esperienza al Servizio studi dell’iri, nel 1947 fu chiamato all’Ansaldo di Genova da Angelo Saraceno che ne era direttore. Ma nel luglio del 1949 Pasquale Saraceno lo volle alla svimez, che lasciò nei primi mesi del ’58 per assumere un incarico a Bruxelles. Nel giugno dello stesso anno morì, a 41 anni4.

4   Per una comprensione rapida ed efficace del pensiero di Sebregondi rimando alla bellissima prefazione di Giuseppe De Rita al libro di Saverio Santamaita (1998). Tutte le citazioni riportate di seguito sono invece tratte dal volume, ormai introvabile, Sullo sviluppo della società italiana (1965), che raccoglie tutti gli scritti, anche appunti e carte di lavoro, di Giorgio Ceriani Sebregondi. Ho scelto di dare conto in modo particolare del pensiero di Sebregondi in questa riflessione sul Sud per tre ordini di motivi: il primo – e prevalente – è la mia totale adesione alla sua concezione dello sviluppo, la stessa che ho alimentato lavorando al censis con De Rita, fondata su radici culturali nelle quali mi riconosco pienamente, ricon-

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In uno scritto del maggio 1950 Sebregondi esprime alcune riflessioni critiche sul disegno di legge istitutivo della Cassa per il Mezzogiorno. Riflessioni critiche che tuttavia si accompagnano ad un giudizio positivo in quanto essa «offre spunti, indicazioni e possibilità di sviluppo di estremo interesse». La prima critica si riferisce alla determinazione aprioristica del livello di spesa individuato: i famosi mille miliardi in 10 anni. Per Sebregondi la determinazione di un livello di spesa deve avere due riferimenti “inscindibili”: il preventivo delle opere ed iniziative da realizzare e «la possibilità ed il vantaggio per l’intero sistema economico di sostenere la spesa prevista». Una critica che, con ogni evidenza, avrebbe potuto accompagnare per decenni gli annunci di impegni di spesa da destinare al Sud.

ducibili al personalismo comunitario di Mounier. Lo stesso De Rita, che ha sempre dichiarato di dover tutte le ragioni del suo impegno ai trenta mesi nei quali ha frequentato Sebregondi alla svimez, racconta in un’intervista a Giulio Marcon (2008) che nel primo incontro che ebbe con lui Sebregondi gli disse che “la prima cosa da fare è la centralità del sociale nel processo di sviluppo, specie meridionale”. Il secondo motivo è che l’esperienza di Sebregondi, la sua vicenda personale, certifica in modo emblematico la divaricazione, fino all’aperta rottura, delle sue posizioni con quelle di Saraceno. Quest’ultimo, che lo aveva voluto alla svimez, dopo qualche anno istituì una sezione sociologica nell’associazione, affidandone la responsabilità a Sebregondi e in tal modo ridimensionandone il ruolo. E dopo qualche anno lo allontanò dalla svimez. Per ricostruire il difficile rapporto tra Saraceno e Sebregondi (non c’è, almeno in una prima fase, un vero e proprio conflitto: c’è un disamore reciproco) è interessante un testo di Nino Novacco (1995). Infine vorrei dare un piccolo contributo a far conoscere meglio Sebregondi. Quando la Fondazione con il sud nel 2010 ha deciso di ristampare il volume curato nel 1990 da Carlo Felice Casula (Credere nello sviluppo sociale) ho potuto verificare che per molti, per troppi, quella era stata l’occasione per “scoprire” Sebregondi. Una “marginalità ingiustificata”, come dice efficacemente Santamaita nel libro già citato.

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La seconda critica si riferisce al rischio che la Cassa diventi un organismo, diremmo oggi, autoreferenziale. L’organizzazione non può concepirsi che come forma, necessario modo di essere di un determinato contenuto, cui è data vita per un fine anch’esso determinato. Se non è questo, è vuota apparenza, maschera, o camicia di forza. Ora, il mancato concrescere della Cassa con un’adeguata comprensione e definizione del problema meridionale, il suo porsi in termini organizzativi prima che in termini di contenuti e di compiti, devono indurre almeno a riservare il giudizio sulla sua funzionalità ed efficienza. Risulta difficile poter valutare ora se la Cassa sarà in grado di vivere nel senso pieno del termine: di essere cioè centro di attrazione, coordinamento e propulsione delle forze pubbliche e private che devono essere indirizzate allo sviluppo del Mezzogiorno. O se piuttosto non sarà destinata a rimanere come un elemento inerte fra gli altri dell’apparato pubblico: nuovo fardello e relitto, anziché elemento di trasformazione e vivificazione della burocrazia.

Infine una contestazione alla denominazione della “Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale”. Sebregondi sottolineò che il termine “opere straordinarie” poteva rimandare ad un errato approccio politico al problema, e cioè attenuare la consapevolezza che le politiche per il Sud non si dovevano concretizzare in singoli e straordinari interventi ma in una iniziativa sistematica e un intervento organico della Pubblica Amministrazione. Le riflessioni di Sebregondi, che non aveva l’attitudine ad assumere snobistiche posizioni di distinguo, avevano individuato con grande lucidità i vincoli che, superata la prima fase, caratterizzeranno negativamente la travagliata vita della Cassa. Ma già nel 1953, in una “carta di lavoro interna”, Sebregondi, mentre registrava che nel Paese incominciava a manifestarsi una consapevolezza nuova circa l’esigenza di una politica capace di instaurare un indefinito processo di ­112

sviluppo di quelle regioni, esprime un giudizio assai severo sull’avvio dell’intervento straordinario. L’impostazione pratica e istituzionale dell’intervento per il Mezzogiorno rivela una tale parzialità, una tale mancanza di organicità, una tale insufficienza e indeterminatezza di obiettivi, da risultare nella sostanza un intervento, al più, conservativo e di parziale miglioria. Essa serve soltanto a rallentare l’allargamento, peraltro continuo, del divario tra Nord e Sud.

In realtà il modello di intervento straordinario che si va affermando è lontano dalla concezione di sviluppo delle aree depresse che ha Sebregondi. Per esempio la scelta di puntare fortemente sull’industrializzazione non corrisponde alla sua impostazione. Si può dire, in via di larga approssimazione, che la spesa per la creazione e la prima fase di avviamento di un sistema economico in tali regioni – fase che potrebbe durare dai sei ai dieci anni – dovrebbe concentrarsi per il 45% circa nei settori della bonifica, della sistemazione montana, della trasformazione fondiaria (ivi compresa la dotazione di edifici rurali per abitazioni e per servizi dell’agricoltura), dell’utilizzo delle risorse idriche per irrigazione e produzione di energia; il 22% circa della spesa dovrebbe essere devoluto alle opere inerenti alle comunicazioni e ai trasporti; un altro 26% spetterebbe alle opere edilizie, abitazioni, edifici sanitari, scuole, servizi di acquedotti, fognature, ecc.; il rimanente 7% sarebbe destinato allo sviluppo di industrie e, in minor misura, al turismo ed altre opere e iniziative.

È chiaro che questa ripartizione delle risorse rimanda ad una concezione dello sviluppo in cui i fattori di contesto, infrastrutturali, ma anche sociali ed istituzionali, vengono prima delle iniziative direttamente produttive, e che immagina il processo di industrializzazione meno rapido e, soprattutto, più spontaneo, ancorchè sostenuto da agevolazioni, rispetto allo schema che si affermerà negli anni ’60. ­113

Ma i punti più rilevanti del pensiero di Sebregondi che voglio richiamare sono: –  la convinzione che lo sviluppo di una determinata area, per non essere effimero, deve essere auto-propulsivo; – il giudizio di inadeguatezza di una concezione che limita il concetto di sviluppo ad una dimensione economica. Su questi aspetti vi sono pagine molto belle, molto convincenti e straordinariamente attuali. Se guardiamo ai risultati conseguiti, ai tanti errori che abbiamo commesso, dobbiamo riconoscere un che di profetico nelle riflessioni di Sebregondi. Lo sviluppo che non consiste nel raggiungimento di un determinato livello, ma è un processo continuo di “espansione quantitativa e qualitativa”. In questa logica gli interventi per le aree depresse, individuata la dimensione territoriale più appropriata, devono favorire un sistema economico auto-propulsivo: Un sistema, cioè, in cui si attuino e si sviluppino, per forza autonoma, i processi di agglomeramento e di cumulazione. È importante sottolineare il concetto di autopropulsività, ossia della rottura in radice della situazione di ristagno.

Una politica di sviluppo quindi deve puntare a favorire la migliore combinazione dei diversi fattori, ma soprattutto influendo sull’atteggiamento e sulla volontà delle popolazioni che devono sostenere ed orientare le politiche di sviluppo. Una politica di sviluppo che non riesca ad essere autosviluppo diviene un’imposizione o un’elargizione gratuita senza seguito. Lo sviluppo di una società non può essere né regalato né imposto. Ciò non significa che non debbono esservi interventi e assistenza dall’esterno. Anzi, senza questi interventi non può generalmente originarsi – almeno nelle società depresse o arretrate – l’avvio del processo di sviluppo, il passaggio dalla stasi e dall’involuzione allo sviluppo. Ma in che deve consistere, più precisamente, quest’apporto, per

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non essere a sua volta inefficace od oppressivo? Oggi in pratica, i paesi sviluppati – almeno nell’Occidente – si comportano come se fosse sufficiente l’apporto di capitali, di moderni strumenti di lavoro, di cognizioni tecniche. Tutto ciò è di certo indispensabile ma non sufficiente. Ciò che occorre in primo luogo è l’apporto di un principio motore, di motivazioni ideologiche che sollecitino a volere lo sviluppo, e quindi a procurarsi e a utilizzare i mezzi propri e altrui per attuarlo.

Per questo motivo Sebregondi ha una visione complessa e “trasversale” dell’assistenza tecnica. Essa non riguarda solo lo sviluppo economico e gli aspetti economici dello sviluppo, ma ne considera anche gli aspetti politici, sociali, culturali, giuridico-istituzionali, religiosi. Essa deve porsi l’obiettivo del superamento e se necessario della rottura degli schemi culturali e istituzionali, perché “costretti e costringenti al ristagno, alla depressione, all’involuzione.” Molto interessante è la riflessione che Sebregondi compie sul sostegno pubblico alle iniziative imprenditoriali private. Se la difficoltà per iniziative imprenditoriali nelle aree depresse è conseguenza di una crisi generale del sistema istituzionale e politico l’ente pubblico non può “surrogare” l’iniziativa privata. L’ordinamento istituzionale non deve né sostituire l’iniziativa privata né “sanarne” le deficienze. Deve svolgere una funzione di garanzia, eliminando le strozzature che condizionano o impediscono l’iniziativa imprenditoriale privata. Il problema principale non è quello del livello del reddito, ma delle fonti del reddito; ed il vero lavoro da fare, per sostenere lo sviluppo non è quello di puntare ad un rapido incremento di produzione di beni e di redditi, ma a promuovere la migliore combinazione dei fattori produttivi, evitando il rischio che vi siano squilibri tra consumi e capacità produttiva, tra capitali tecnici e capitale umano; tra economia ed istituzioni. Insomma lo sviluppo non è solo una categoria economica: nell’economia di piano, quindi, assumono preminente rilievo i livelli di occupazione, di investimenti, di reddito, ecc., come misurazioni statiche di disponibilità di fattori e come indicazione di traguardi

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successivi eteronomamente determinati. Viceversa, nel sistema auto propulsivo e autonomo, l’aspetto statico di tali livelli passa decisamente, come si è visto, in seconda linea rispetto alla problematica del movimento interno del sistema, dei suoi vizi e delle condizioni di riattivazione.

E con un bel po’ di anticipo su temi che oggi vanno molto, forse troppo di moda, Sebregondi, nel testo Appunti sullo sviluppo armonico (1953) dà la sua definizione di reddito: la realtà è che non ci siamo ancora decisi a introdurre fra gli elementi formativi del reddito – inteso come complesso di beni e di valori reso disponibile per la soddisfazione dei bisogni umani – una serie di valori culturali, morali, religiosi, affettivi, che sono pur decisivi per il giudizio, la scelta e l’azione anche economica: valori che sono decisivi nell’uomo per giudicare dell’economicità o meno di una determinata azione. Finché dunque l’economia non potrà tenere sistematicamente conto di valori che entrano nel reddito reale degli individui e delle società, non potrà darne misura quantitativa o si sforzerà di valutare a prezzi di mercato valori che non sono oggetto di mercato, non avrà la possibilità di misurare con sufficiente approssimazione la convenienza di determinati impieghi di denaro, di forze di lavoro, di strumenti tecnici e di risorse naturali. Né potrà stabilire con sufficiente approssimazione una corrispondenza fra livello di reddito e grado di sviluppo.

E concludo questa breve ricostruzione del pensiero di Sebregondi con una frase (Teoria delle aree depresse, 1950) che sintetizza nel modo migliore quello che io ritengo sia stato il grande errore delle politiche per il Sud: Essendo confermato che la crisi che si rileva nell’area depressa è crisi generale del sistema sociale costituito, risulta un’illusione economicista quella che induce a pensare di risolvere tale crisi rimanendo esclusivamente – o quasi – sul terreno economico e dei provvedimenti di natura economica.

Quell’illusione ha fatto molti danni. E continua a farne.

8.

Coesione sociale e sviluppo: quattro storie

In questo capitolo racconto quattro storie; quattro esperienze a sostegno della mia tesi di fondo: la coesione sociale come condizione e motore dello sviluppo. Non sono solo casi di successo. Sono stato sempre contrario ai racconti di casi di eccellenza presentati come eccezionali e quindi irripetibili. Sono storie di fatti, personaggi e circostanze che ho conosciuto abbastanza da vicino; storie come ce ne sono tante nel Sud e non solo, in cui si coglie con assoluta evidenza quanto sia stretta la connessione, in positivo e in negativo, tra comunità, responsabilità dei soggetti locali, cultura dei beni collettivi e sviluppo. 8.1. Messina: un ponte vero Messina, con i suoi 250.000 abitanti, è la terza città della Sicilia. È caratterizzata da una estrema sperequazione nella distribuzione della ricchezza e da una forte iniquità spaziale (il 2,5% della popolazione detiene il 50% della ricchezza immobiliare). Nel centro cittadino la ricchezza media pro capite è quattro volte superiore a quella della periferia nord e sei volte a quella della periferia sud, che ha altresì caratteristiche di forte degrado urbano, sociale, culturale e uno strutturale disagio abitativo (oltre 1.500 famiglie vivono ancora nelle baracche costruite dopo il terremoto del 1908 e dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale). ­117

Messina è sotto la soglia di “povertà trappola”. Essa è infatti caratterizzata sul piano economico da una debolezza strutturale del settore produttivo, costituito da imprese di dimensione “piccola” o “piccolissima”, inferiore alla media regionale e alle medie delle altre province “maggiori” della regione, in un contesto dominato, come si è già accennato, da forti polarità di ricchezza anche proveniente dai mercati illeciti e/o “protetti” e/o criminali. Fortissima la disoccupazione, molto estese le aree di disagio sociale. Da dove ri-cominciare in una città come Messina? Dove cercare il bandolo di una matassa assai intricata per avviare percorsi di sviluppo? Qualcuno ci sta provando in modo molto innovativo partendo dagli ultimi, dalla cultura, dalla conoscenza. Si tratta della Fondazione di Comunità di Messina1 che ha sede nel Parco sociale di Forte Petrazza, ubicato sull’omonima collina, dalla quale si ha una straordinaria veduta sullo stretto. Forte Petrazza era un complesso architettonico di grande pregio, una struttura militare a difesa dello stretto costruita tra il 1888 ed il 1903. Per oltre vent’anni questo spazio è stato abusivamente occupato dalla mafia che lo ha utilizzato per la solita discarica abusiva e per altre attività illecite. Oggi la gestione del sito, ristrutturato in modo innovativo e funzionale ad attività di accoglienza e di “intreccio” di saperi e conoscenze, è già un primo, positivo esempio, di economia solidale. I diversi servizi so1   Le Fondazioni di Comunità, all’inizio nate e sviluppatesi nel Regno Unito, costituiscono una particolare esperienza, espressione di una comunità locale che si dà l’obiettivo della promozione della cultura della solidarietà e della responsabilità sociale. In Italia le Fondazioni di Comunità sono oggi 24 in gran parte promosse dalla Fondazione cariplo e dalla Compagnia di S. Paolo. La Fondazione con il sud ha sostenuto tre Fondazioni di Comunità (Fondazione di Comunità Salernitana, di Messina - Distretto sociale evoluto, e del Centro storico di Napoli). Il sostegno della Fondazione si concretizza, soprattutto, nel raddoppio (fino a 2,5 milioni di euro) del patrimonio raccolto con attività di fund raising a livello locale.

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no gestiti, infatti, da cooperative di inserimento lavorativo che hanno consentito percorsi di inclusione di ex-detenuti, di disabili psichici, di persone che hanno avuto storie di dipendenze, di donne immigrate sfruttate sessualmente. Ma la Fondazione di Comunità di Messina non è solo questo. Nata il 21 luglio 2010, espressione di un “atto di amore per la nostra Costituzione e per il nostro territorio”, come si legge nel sito, in poco più di due anni ha sviluppato un’impressionante serie di attività in campo sociale, economico, culturale, della ricerca scientifica, delle relazioni internazionali nel bacino del Mediterraneo. Il direttore, ma anche ideatore e “anima” della Fondazione di Comunità, è Gaetano Giunta, fisico messinese, uomo di grande generosità, intelligenza e capacità strategica: una straordinaria figura di innovatore sociale. L’avevo conosciuto circa 15 anni fa, quando all’imprenditorialità giovanile lanciammo un programma, i Parchi letterari, che puntavano ad innescare percorsi di sviluppo su territori che si riconoscevano attorno a una marcata tradizione culturale. Giunta presentò un bel progetto: “Horcynus Orca” (opera di Stefano D’Arrigo), che fu da noi finanziato e che ha dato vita ad un’omonima Fondazione. Proprio la Fondazione Horcynus Orca è tra i fondatori della Fondazione di Comunità, insieme a ecos-med, centro di ricerca/azione per la promozione dell’Economia sociale nel Mediterraneo, alla Fondazione Padre Pino Puglisi, al Consorzio di cooperative sociali so.le, aderente alla rete cgm2. Ciascuno di questi soggetti aggrega diversi organismi e rappresenta svariate esperienze, alcune delle quali, in campo sociale e scientifico, particolarmente qualificate. Complessivamente la Fondazione di Comunità di Messi2   Il Consorzio Gino Mattarelli è la più grande aggregazione di cooperative sociali esistente in Europa: ad oggi le cooperative sociali aderenti danno lavoro a settantamila persone.

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na aggrega oggi oltre 700 soggetti del terzo settore e del mondo delle imprese. La Fondazione Horcynus Orca raggruppa numerosi soggetti istituzionali nel settore della ricerca e imprenditoriali nel campo delle itc; è polo internazionale sulle scienze e tecnologie marine, opera spesso sotto l’egida delle Agenzie dell’onu; è polo della cultura mediterranea (Scuola internazionale di cinema e impegno civile, Biennale d’arte contemporanea nel Mediterraneo), è polo di divulgazione scientifica, con il primo prototipo per la produzione di energia da correnti marine. Una poderosa rete di soggetti, sensibilità, esperienze tese a sostenere un’ipotesi di sviluppo praticabile in quella realtà, fatta di un mix di innovazione sociale, di cultura, di ricerca, di apertura al mondo globale. L’obiettivo di fondo della Fondazione di Comunità è promuovere processi di “capacitazione” dei cittadini e delle comunità locali; la coesione sociale attraverso la sperimentazione di forme mature di dialogo sociale e di partecipazione nonché attraverso la promozione e lo sviluppo di relazioni tra i cittadini, che abbiano anche valore economico: esemplare, da questo punto di vista, la realizzazione di un parco fotovoltaico diffuso, con piccoli impianti realizzati su abitazioni private che consentono il risparmio del costo dell’energia per le famiglie e l’utilizzazione comunitaria del conto energia; la concreta sperimentazione di un’economia sociale e solidale capace di determinare processi di inclusione in forme trasparenti e indipendenti alternative a quelle proprie delle economie compiacenti, illegali e criminali; l’apertura dei sistemi locali allo scambio di risorse, conoscenze, opportunità. La Fondazione di Comunità ha attualmente un patrimonio di poco più di cinque milioni di euro. Il rendimento del patrimonio e le raccolte fondi attuate ogni anno sono utilizzate per realizzare alcuni programmi: – il processo partecipativo trs® finalizzato a promuovere approcci di responsabilità sociale e ambientale complessivi del territorio; ­120

– il patto educativo fra tutte le scuole, le agenzie educative formali ed informali del territorio come alternativa alla frammentarietà e alla discontinuità del lavoro per progetti; – progetti permanenti per la prima infanzia, quali l’adozione sociale dei neonati in condizione di rischio sociale; – l’agenzia di sviluppo dell’economia sociale, per sostenere processi di spin off, per promuovere partnership commerciali e produttive a livello regionale, nazionale ed internazionale, per promuovere attività di venture capital etici; – l’attrazione di talenti ed esperienze creative, orientate alla promozione di economie sociali; – il finanziamento di processi di ingegnerizzazione di prototipi e ricerche pre-competitivi su cui lavorano cnr e università locali da connettere ad azioni di spin off di imprese sociali produttive. Di particolare rilievo il primo progetto finanziato dalla Fondazione (“La luce è libertà”), per la deistituzionalizzazione e l’inclusione sociale e lavorativa di sessanta ex-detenuti dell’ospedale psichiatrico di Barcellona Pozzo del Gotto, che da anni versa in condizioni di degrado, anche a causa dell’alto numero di detenuti. Molte altre iniziative sono in corso; molte altre sono in via di definizione, ma sarebbe troppo lungo darne conto. Quello che è certo è che ormai il meccanismo è innescato, che la Fondazione di Comunità di Messina ha struttura, professionalità, reputazione sul territorio come nelle relazioni internazionali. Gaetano Giunta è continuamente invitato a raccontare questa storia, a dare suggerimenti, a tessere reti, a certificare che si può, anzi si deve, partire dal sociale, per fare sviluppo. Le attività promosse dalla Fondazione danno lavoro ad oltre duecento persone; e in molti casi si tratta di lavoro di alta qualificazione. Evidentemente la più importante operazione di sviluppo realizzata negli ultimi anni in città. Gaetano Giunta e tutti gli altri non si lamentano, non ­121

rivendicano, non maledicono di essere a Messina. Cercano partner, non “salvatori”, né padrini. Sanno cosa significa fare sviluppo, al Sud. 8.2. Polistena: una cooperativa, una scuola, un prete, un palazzo Polistena è uno dei comuni più popolosi della provincia di Reggio Calabria. Circa dodicimila anime, a pochi chilometri dal porto container di Gioia Tauro. Un paese come tanti, in Calabria, soprattutto nella provincia di Reggio, pieno di problemi e anche afflitto da vistose patologie sociali. Da poco presidente della Fondazione con il sud, mi sono recato a Polistena proprio per vedere da vicino l’esperienza della Cooperativa sociale Valle del Marro, della rete Libera Terra, che aveva avuto assegnati diversi terreni confiscati alla ’ndrangheta. Una visita istruttiva e per certi versi inquietante, con i racconti molto dettagliati ed anche molto “realistici” di Domenico, vicepresidente della cooperativa. Una cooperativa che si occupa di produrre olio ed ortaggi in due grossi appezzamenti di terra lontani tra di loro, in una situazione molto complessa con la presenza, nell’area confiscata, di alcuni componenti della famiglia cui era stato confiscato il bene. Al termine della visita Domenico mi ha portato a visitare il Palazzo Versace. Un edificio di cinque piani fuori terra nel quartiere Catena di Polistena, uno dei rioni più difficili, che era appartenuto alla potentissima famiglia Versace. Una cosca che peraltro in anni lontani era stata falcidiata dalla ’ndrangheta perché i tre fratelli Versace avevano superato i limiti delle loro “competenze” territoriali, attratti dai grandi affari di Gioia Tauro. Uno dei fratelli era sopravvissuto ed era stato riammesso, dopo qualche anno, a svolgere il suo “lavoro” nel territorio di Polistena. E questo lavoro si era concretizzato in un grande simbolo, appunto il Palazzo Versace. ­122

Tremila e trecento metri quadrati, di certo non particolarmente affascinante dal punto di vista architettonico, questo palazzo rappresenta indubbiamente una specie di simbolo, un’espressione concreta e palpabile del potere della famiglia che governava il paese. Addirittura la piazza sulla quale si affaccia questo palazzo è una piazza che nel linguaggio comune aveva cambiato nome. Infatti era intestata a Giuseppe Valarioti, insegnante e segretario del pc di Rosarno, ucciso nel 1980 dal clan dei Pesce la sera della sua vittoria alle elezioni comunali. Ma il nome di Valarioti sulla piazza non era mai comparso; si chiamava piazza 2001, dal nome vagamente modernizzante e futuristico del bar che era al piano terra del Palazzo Versace. Un’organizzazione perfetta: al piano terra il bar che diventava un luogo di ritrovo e un centro per lo spaccio di stupefacenti. Ai piani superiori il palazzo ospitava l’Istituto Magistrale e quindi il Comune era affittuario del palazzo stesso fino a quando il parrocco, don Pino De Masi, assieme al preside Marafioti, chiese il trasferimento della stessa scuola: il trasferimento, dopo inspiegabili ritardi, avvenne solo dopo la singolare protesta delle lezioni in piazza. In quell’edificio successivamente venivano realizzate altre attività, soprattutto nei grandi saloni dove obbligatoriamente i polistinesi ed anche i cittadini dei paesi limitrofi erano tenuti a fare le loro feste di matrimonio, di cresima, di prima comunione; un incredibile appartamento dal dubbio gusto consentiva al boss di dominare fisicamente il suo territorio e di godersi dalle terrazze il panorama delle Eolie da una parte e dell’Aspromonte dall’altra. Questo palazzo, prima sequestrato e poi confiscato, venne affidato alla parrocchia Santa Maria Vergine e Martire, la chiesa matrice del paese. Il parroco, don Pino De Masi, vicario generale della diocesi di Oppido Palmi, vero motore della “buona” comunità locale, fa quello che può e apre una serie di attività soprattutto di accoglienza di bambini e di giovani. ­123

Quando la Fondazione con il sud pubblica un bando per la gestione auto-sostenibile dei beni confiscati, alla gara partecipa la Cooperativa sociale Valle del Marro con partner Libera, l’associazione di volontariato Il Samaritano, Emergency, la Fondazione “Il Cuore si scioglie” di Unicoop Firenze e la parrocchia Santa Maria Vergine, ente capofila. Il progetto viene approvato e a Polistena sono in corso i lavori di ristrutturazione del palazzo. Purtroppo questo palazzo è stato costruito dai mafiosi in modo assolutamente pericoloso, vi sono molti lavori da fare, l’impresa impegnata nella ristrutturazione ha trovato sorprese di ogni tipo e quindi il gruppo di promotori è alla ricerca di nuovi finanziatori che sicuramente vorranno sostenere il progetto. Il progetto prevede al piano terra un centro di aggregazione, aule laboratoriali e una Bottega dei saperi e sapori della legalità di Libera. Al primo piano saranno realizzati una sala multiculturale e un ristorante sociale con prodotti esclusivamente biologici. Il secondo piano ospiterà un poliambulatorio di Emergency e un ostello della gioventù. In quel palazzo dove si celebravano sontuosi matrimoni, dove la gente versava il pizzo, dove negli scantinati venivano ridotti alla ragione coloro che si ribellavano alla legge del boss locale, in quel palazzo che ospitava volgarità, disperazione e morte, il progetto prevede una serie di attività molto importanti. Una serie di attività sociali già programmate che sono: accoglienza educativa per minori a rischio, formazione ad una nuova mentalità del lavoro e dell’impresa con borse-lavoro per immigrati e giovani in stato di disagio, centri di aggregazione giovanile, servizi di mediateca e biblioteca, ospitalità e ristorazione di supporto a percorsi di turismo della legalità, negozio per la vendita dei prodotti delle cooperative Libera Terra, cure e orientamento sanitario gratuiti da parte di Emergency, sala congressi e pizzerie negli splendidi terrazzi del palazzo. Perché racconto questa storia? Perché mi chiedo che cosa può succedere in un territorio in cui gli unici elementi di speranza sono una straordinaria esperienza scolastica, ­124

l’istituto tecnico industriale statale “Conte Milano” che è un vero e proprio baluardo di legalità e di coscienza civile, un parroco intelligentemente e generosamente impegnato ed una cooperativa sociale che coltiva terre confiscate alla mafia. Che cosa possiamo immaginare rispetto alle nostre concezioni tradizionali di promozione dello sviluppo su un territorio come questo? Certo, è indispensabile che in questo territorio la criminalità organizzata venga combattuta dalle forze dell’ordine e dalla magistratura: è un lavoro difficilissimo, meritorio, in qualche caso eroico. Ma sappiamo tutti, perché la storia lo insegna, che la repressione della criminalità è necessaria ma non sufficiente a garantire lo sviluppo. E allora quale strumentazione abbiamo a disposizione per intervenire in un territorio come questo? Vogliamo dare incentivi alle imprese? Vogliamo programmare dei grandi investimenti infrastrutturali? Qualche impresa ce la fa, a gran fatica, come la straordinaria avventura di ecoplan sta a dimostrare. Un’azienda nata con la legge 44, promossa da un dipendente del Consorzio industriale cui il posto fisso stava stretto, che ha vinto premi internazionali in tema di ambiente, che deve farsi “perdonare” tutti i giorni, da banche e merchant bank, di essere calabrese. Quando si va a visitare la ecoplan, Domenico Cristofaro mostra le tante aziende chiuse, tutte realizzate da imprenditori del Nord, fuggiti, nottetempo, con i macchinari acquistati grazie alle generose agevolazioni pubbliche. Ma non è così che si può risolvere il problema: questi atti eroici, questi episodi di incredibile tenacia e di amore per la propria terra sono necessari, ma non bastano. D’altra parte, se si decidesse di “forzare” lo sviluppo produttivo con interventi dall’esterno, con grandi risorse e con grandi progetti, il destino di questi finanziamenti sarebbe segnato. In un posto in cui il governo del territorio è fortemente condizionato da sistemi di potere illegali, l’esito di finanziamenti di progetti piovuti dall’esterno è obbligato: o questi finanziamenti vengono “neutralizzati” dal sistema di controllo del territorio, se giudicati incom­125

patibili ed incoerenti con le proprie possibilità e le proprie strategie, ovvero questi interventi dall’esterno finiscono inevitabilmente per rendere più forti i poteri locali. E allora l’unica risposta possibile è che dalla comunità locale partano percorsi di coesione e di nuovo sviluppo, sui quali ha senso innescare sostegni dall’esterno; ma processi veri, partecipati, che partano dai bisogni di lavoro e di cittadinanza; non promesse e progetti mediati dalla cattiva politica. Quel Palazzo Versace assegnato alla parrocchia è un simbolo, e proprio per questo è un palazzo che potrà raccontare una storia positiva. La storia di una comunità che riprende il suo cammino, la storia di una comunità che prova a rimettere in piedi un edificio di sviluppo e di fiducia reciproca. Per questo è importante che i beni confiscati abbiano un’utilizzazione visibile e sostenibile. I migliori cittadini di Polistena possono aver gioito il giorno in cui il palazzo è stato confiscato: un giorno in cui lo Stato ha vinto sulla ’ndrangheta. Ma giorno dopo giorno un palazzo chiuso induce alla disperazione, appare un’opportunità persa; qualcuno, la sera al bar o in piazza ironizza, con il cinismo proprio di chi è abituato a temere la speranza; in qualcuno, forse, sorge il dubbio se per il territorio non fosse meglio una situazione di illegalità, ma tuttavia di lavoro e di parziale ricchezza, piuttosto che il deserto. È una grande battaglia quella dei beni confiscati, è una battaglia sulla quale bisogna probabilmente perfezionare ulteriormente metodologie, percorsi e strumenti finanziari. Una battaglia decisiva nel nostro Sud. A me viene in mente un cartello semplice e ­perentorio che ho letto in un caseificio in provincia di Caserta, realizzato ancora una volta da Libera e finanziato dalla Fondazione con il sud: qui la camorra ha perso. E ha perso perché le è stato confiscato un bene, ma soprattutto perché dentro quel bene si lavora e si produce nella legalità e nella trasparenza. ­126

8.3. La Paranza Sono sopraffatto dall’emozione. Pensavo di infilarmi nella solita rete di stretti e umidi cunicoli ed invece mi trovo improvvisamente in una vera e propria basilica interamente scavata nel tufo, con tanto di colonne, navate e cappelle laterali dentro alle quali, quasi ovunque, fanno capolino affreschi e mosaici paleocristiani di una vivacità ed una bellezza indescrivibili.

Così Marco Carminati del «Sole 24 Ore» (27 maggio 2012) descrive la sua visita alle Catacombe di Napoli. In effetti visitare le catacombe di Napoli, nel linguaggio comune le catacombe di San Gennaro, suscita una profondissima emozione. Si scopre all’improvviso un mondo fantastico, si ammirano capolavori pittorici, alcuni dei quali anche molto singolari, si è sfidati a ripercorrere la storia di una grande città. Si riflette sul senso di apertura, di capacità di investire sulla cultura, sulla straordinaria modernità dei primi cristiani che nel secondo secolo facevano, di una chiesa, un tempio aperto a tutte le religioni. Una visita irripetibile dal punto di vista culturale. Ma la vicenda attuale delle catacombe di San Gennaro è particolare, e per certi versi straordinaria, per altri motivi. Ormai, dopo la visita del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, per il quinto anniversario della Fondazione con il sud (1° ottobre 2011), le catacombe hanno assunto una crescente notorietà. Migliaia e migliaia di turisti paganti, circa quarantamila su base annua, molte convention e congressi, una serie di attività di contorno e un più complessivo progetto di contaminazione positiva del quartiere. Un quartiere strano e difficile, quello della Sanità. Situato al centro della città, nell’antico cuore di Napoli, ne è tuttavia segregato. Una specie di periferia “centrale”. Questa singolare circostanza è stata determinata da una scelta di Gioacchino Murat, che nel 1810 decise di realizzare il ponte sulla Sanità, che ancora oggi unisce il centro della città alla collina di Capodimonte. Questa scelta fu fatta per rendere più agevole e più rapido ­127

il tragitto dal Palazzo Reale di piazza Plebiscito alla Reggia di Capodimonte: prima il corteo reale doveva insinuarsi nelle strette stradine della Sanità e poi inerpicarsi sulla salita dello Scudillo. Quel ponte, progettato e realizzato con una disinvoltura che oggi ci fa sorridere, invase il chiostro della Basilica della Sanità, e soprattutto sancì la “chiusura” del quartiere che diventò una vera e propria enclave. Oggi la Sanità, con i suoi 33.000 abitanti, è un rione difficile, pieno di contraddizioni e di patologie sociali. Un quartiere nel quale vi sono intense attività commerciali, molta micro criminalità, e tanto “spaccio”. Ma un quartiere anche ricchissimo di opere d’arte, dalle catacombe di San Gennaro, chiuse per molti decenni, alla bellissima Basilica di Santa Maria della Sanità, un esempio straordinario di barocco con alcune opere di grande interesse, dal camposanto delle Fontanelle al Palazzo dello Spagnolo e a quello del Sanfelice, e tanti altri bellissimi edifici storici, gran parte dei quali in degrado. In questo quartiere don Antonio Loffredo, parroco, decide di declinare il proprio impegno pastorale affrontando direttamente la questione più grave del quartiere: i giovani. Occorre costruire una prospettiva che assuma la fiducia come elemento costitutivo di percorsi comunitari possibili. In questo suo lavoro è affiancato da un’associazione molto impegnata, l’Altra Napoli Onlus, il cui presidente, il manager Ernesto Albanese, ha deciso di restituire alla città quello che la città gli aveva tolto: suo padre fu assassinato per un banale furto nel cortile di casa da un rapinatore. Ernesto Albanese da quel momento ha deciso di impegnarsi per cambiare la sua città natale. Da questa alleanza sono nati e continuano a consolidarsi una serie di progetti: l’orchestra sinfonica della Sanitansamble, il Giardino degli Aranci, la Casa dei Cristallini, l’Altra Casa per mamme e bambini. In questo quadro, utilizzando un bando della Fondazione con il sud del 2008, un gruppo di giovani della Sanità, animati e spinti da padre Antonio Loffredo, presentarono un progetto per la gestio­128

ne delle catacombe di San Gennaro. Le catacombe di San Gennaro sono amministrate dalla Chiesa e la disponibilità del cardinale Sepe, arcivescovo di Napoli, e del cardinale Ravasi, presidente del Pontificio consiglio della cultura, consentì alla Cooperativa La Paranza di presentare il progetto e di candidarsi a gestire l’accesso alle catacombe. Un’avventura straordinaria, un incredibile successo. Una provocazione nel quartiere. La capacità di contaminare il quartiere, di rendere plausibile un percorso di vita e un futuro per i giovani diverso da quello già tracciato, fatto di precarietà, di incertezze, di progetti di andarsene, o peggio. I ragazzi della Cooperativa La Paranza bisogna vederli, bisogna parlarci, bisogna farsi raccontare le loro storie. Si percepisce il grande potere della fiducia come elemento di sovvertimento delle relazioni sociali in una determinata situazione. La storia delle catacombe di San Gennaro può essere raccontata in mille modi: si possono raccontare le difficoltà, gli sforzi di creatività, la fantasia, l’entusiasmo, la dedizione. Ma il punto qualificante di questa avventura sta nell’atto iniziale: quando don Antonio Loffredo all’avvio dell’iniziativa consegna le chiavi delle catacombe di San Gennaro ai giovani della Cooperativa La Paranza: in quel gesto vi è il segreto dell’operazione. I giovani improvvisamente hanno avvertito il peso della loro responsabilità; in quel momento una cultura e una prassi fatta di furbizie, di scambi, di promesse non mantenute, di fedeltà richieste, di manifestazione di potere personale, si dissolve in un gesto: la consegna delle chiavi, simbolo della responsabilità e della fiducia. I ragazzi della Cooperativa La Paranza hanno risposto in maniera straordinaria: hanno imparato a fare le guide ma hanno deciso anche di studiare e di laurearsi; hanno quasi tutti imparato l’inglese, trascorrendo lunghi periodi all’estero, e uno di loro è negli Stati Uniti, allo Jacocca Village, per frequentare un master in gestione delle risorse umane. La rassegnazione ha lasciato posto al protagonismo e alla voglia di fare. Quando uno dei ragazzi della Paranza vi accompagna nella visita delle catacombe, potete ­129

apprezzare la competenza e la preparazione, ma anche il fortissimo orgoglio di chi, in quella bellezza, nella ricchezza del sito trova le ragioni non banali del suo riscatto. Da questo episodio a macchia d’olio si sono sviluppate molte iniziative. Tre cooperative: gli Iron Angels, che lavorano il rame, l’Officina dei Talenti, un team di manutentori, e la Sanità Music Studio, che gestisce un moderno studio di registrazione; un’accademia di Teatro; una palestra: tutte iniziative sempre attente al tema dell’accessibilità dei diversamente abili. Sono stati aperti e attrezzati gli ipogei nella chiesa del Buon Consiglio, sede dei convegni; si avviano iniziative di catering con le mamme della Sanità, che preparano pasti nella migliore tradizione napoletana; è stato aperto un bed and breakfast; Luca Meldolesi ha avviato una scuola per l’imprenditorialità. E ogni volta che vado alla Sanità sento parlare di progetti, iniziative, di bisogni che non si possono trascurare. Il quartiere, prima incredulo, guarda con crescente attenzione. La storia delle catacombe di San Gennaro meriterebbe un racconto lungo, dettagliato, articolato. Andrebbe raccontata la meraviglia dei rappresentanti delle Fondazioni del Nord, dei mille turisti stranieri, degli studiosi, contemporaneamente incantati dalla bellezza del luogo e coinvolti dalla storia di chi l’ha resa fruibile. E qui la domanda: che cosa si sarebbe potuto fare di meglio e di diverso al rione Sanità? Quanti soldi avremmo dovuto promettere e a chi, per innestare un minimo di percorso di sviluppo? Come farsi spazio in quei vicoli, in quelle contraddizioni, in quel cinismo? Anche se con un equilibrio difficile e da conquistare giorno dopo giorno, è questo, in quei luoghi, l’unico possibile percorso per lo sviluppo. Uno sviluppo che si insinua nelle famiglie, che fa schierare i giovani, che “entra” nelle relazioni sociali vere; che non vive di dipendenze e di fedeltà. Qui è la vera questione da affrontare e il vero punto su cui riflettere. Questa storia, che speriamo possa continuare ad espan­130

dersi, superando resistenze, muri di gomma e scetticismi, ha dimostrato che quell’operatore di territorio napoletano che mi ha sempre raccontato che dagli ultimi e dal bello può scaturire lo sviluppo non era un sognatore, non era un intellettuale da strapazzo. Era uno che più di tanti altri conosce le dinamiche reali del territorio. Alla Sanità sono scattati ingredienti particolari: l’entusiasmo dei giovani, l’orgoglio di gestire un bene del loro territorio che per anni e anni avevano guardato da fuori, chiuso e lontano; il concorso di tanti donatori; un rigore professionale insospettabile in giovani di un quartiere come quello della Sanità. E il giorno in cui la Cooperativa La Paranza ha potuto siglare 14 contratti di lavoro a tempo indeterminato la vittoria è stata netta. Dentro quella chiesa, dentro quei cunicoli, appresso a quel prete, non si facevano chiacchiere, si faceva sviluppo, e quando in un quartiere come quello lo sviluppo acquista il contenuto di un lavoro dignitoso, non finto, e stabile, allora si spostano le ragioni del consenso e le relazioni sociali possono davvero cambiare. Sarà dura alla Sanità vincere la battaglia, soprattutto sarà molto lunga: ma a sentire il racconto dei giovani, a guardare i loro occhi mentre disegnano i programmi futuri, mentre cercano nuove alleanze, mentre con una saggezza disarmante affrontano e gestiscono i problemi che il territorio pone, si può sperare. Senza retorica è questa la strada per contraddire il disperato invito di Eduardo De Filippo che diceva ai giovani napoletani: fujtevenne! 8.4. L’auditorium di Ravello Ravello è un paese di 2.500 abitanti a 350 metri di altezza sulla costiera amalfitana. Vanta 18 alberghi, molti monumenti medievali, tre splendide ville. Da Ravello si gode uno dei più straordinari panorami della costiera amalfitana. Il paese vive soprattutto di turismo culturale, concentrato nei sei mesi caldi: il suo Festival estivo, che si svol­131

ge in queste ville, nel 2009 è stato frequentato da 97.000 spettatori (di cui il 40% stranieri). Negli altri sei mesi gli alberghi chiudono, il paese entra in letargo, 350 lavoratori restano disoccupati. I migliori emigrano e non tornano, creando una selezione naturale alla rovescia. I giovani restano esposti alla depressione e alla droga. Nel 2000, per sbloccare questo circolo vizioso che condannava all’inerzia il paese durante tutto il semestre freddo, il Comune intuì che l’anello mancante era un auditorium capace di contenere in tutte le stagioni dell’anno non solo concerti e spettacoli, ma anche convention e seminari: un auditorium indispensabile per destagionalizzare il turismo. C’era il luogo, previsto dal piano regolatore. Mancava un progettista, che il sindaco voleva famoso e gratuito. La fortunata quadratura del cerchio derivò dalla solida amicizia di Domenico De Masi, per anni assessore alla cultura di Ravello, poi cittadino onorario, con Oscar Niemeyer, il famoso progettista di Brasilia. Grazie alla sua generosità, Niemeyer accettò l’invito di De Masi con entusiasmo e il 23 settembre 2000, nel suo studio di Rio de Janeiro, gli consegnò il plastico e le prime tavole del progetto. Questo progetto “preliminare”, per diventare “definitivo”, ha avuto bisogno di altri quattro mesi di lavoro da parte di Niemeyer, alla fine dei quali il Maestro ha dichiarato: La paternità architettonica del progetto dell’auditorium “Oscar Niemeyer” [...] è totalmente ed esclusivamente mia, avendone io elaborato l’idea iniziale ed eseguito personalmente tutte le fasi e lo sviluppo fino agli elaborati finali, consegnati al Comune di Ravello in copia autografata.

Affermazione decisiva per confutare la tesi di quanti sostenevano che Niemeyer aveva fatto solo uno “schizzo” dell’auditorium. Intanto, la Regione Campania, entusiasta dell’iniziativa, aveva assegnato per la sua realizzazione 18,5 milioni di euro dai Fondi europei. A questo punto l’iter poteva ­132

sembrare ormai completo nelle sue parti essenziali: c’era un bisogno reale, un progetto prestigioso e c’erano i soldi per realizzarlo. Come molti paesi del Sud, anche Ravello era s­ paccata in due fazioni, che si combattevano da tempo, senza esclusione di colpi. Se la fazione al potere voleva l’auditorium, quella all’opposizione doveva avversarlo. Metà paese difendeva l’opera, l’altra metà la combatteva ritenendola inutile e non coerente con il paesaggio. E mentre nel percorso burocratico il progetto superava una ad una le diverse barriere, nel suo percorso giudiziario lo stesso progetto veniva via via mitragliato con ricorsi al tar e al Consiglio di Stato. Ben presto la spaccatura locale contagiò la regione ed il Paese: a favore dell’opera si schierarono Legambiente, Verdi, wwf e alcune centinaia di intellettuali; più tardi si unirà a questi difensori dell’auditorium anche un nutrito gruppo di ravellesi usciti allo scoperto. Contro l’opera si schierarono i proprietari del terreno da espropriare, il gruppo politico di opposizione, Italia Nostra e alcune decine di intellettuali. Così, tra ricorsi e controricorsi giudiziari, migliaia di euro sono stati sperperati in parcelle di avvocati e sei anni di sviluppo locale sono stati persi in battaglie condotte sulla carta stampata e con la carta bollata. In tutta questa fase la variabile indipendente non era l’architettura ma tutto ciò che la precede e la condiziona: i soldi, l’ambientalismo, i pregiudizi, la politica, i partiti, le faide locali, la burocrazia, la genialità del progetto, il perfido egocentrismo di alcuni, la generosa tenacia di altri, il furtivo trasformismo di molti. Divisi tra loro erano gli ambientalisti. Italia Nostra: contro. Legambiente: a favore. wwf: prima contro e poi a favore. Verdi: alcuni contro, altri a favore. fai: né contro, né a favore. Divisa al suo interno era la sinistra con i suoi notabili: il governatore della Regione a favore; il pd locale contro; i sindacati a favore; il sindaco di Salerno prima a favore e poi contro. ­133

Fino al 2006 il sindaco di Ravello era a favore e il ­capo dell’opposizione era contro, pur essendo entrambi di sini­ stra. Dopo il 2006, invertite le sorti elettorali, il nuovo sindaco era contro e il nuovo capo dell’opposizione era a favore. Naturalmente le motivazioni di merito (coerenza con il paesaggio, funzionalità, effettiva utilità) sembravano lasciare il passo ad una fortissima logica di “schieramento”. Finalmente, il 24 ottobre del 2006 le ruspe entrarono in azione. Per tre anni i vecchi di Ravello prendevano il sole guardando per ore i lavori delle gru, queste disturbavano i miliardari ospiti snob dell’hotel Caruso, i paesi vicini boicottavano il transito delle betoniere, le minacce degli oppositori locali continuavano a incombere. Avevano spergiurato ai loro elettori che i finanziamenti non sarebbero mai arrivati, i permessi non sarebbero mai stati concessi, i lavori non sarebbero mai iniziati e, se pure iniziati, mai sarebbero giunti al termine. Quest’opposizione, a volte esplicita, più spesso sotterranea, ha agito su più fronti: legale, mediatico, elettorale, personale, ricorrendo con pari disinvoltura alla bugia, alla calunnia, alla minaccia, alla lusinga, con un’azione costante, capillare, furbastra, a volte persino geniale. Ma, via via, il lavoro è arrivato a compimento mentre la maggioranza dei cittadini andava accogliendo con crescente e gradevole sorpresa la sensazione di convivere con un capolavoro amico della costiera, grazie alle forme sapienti che Niemeyer gli aveva impresso dieci anni prima, nel suo studio di Copacabana. 276 settimane sono state necessarie per posare la prima pietra; 40 settimane sono bastate per completare l’opera. Il 29 gennaio 2010 l’auditorium è stato inaugurato e subito dopo richiuso per essere usato solo di tanto in tanto, senza un piano industriale e, soprattutto, senza mettere in moto quella destagionalizzazione del turismo per cui tutta questa strategia era stata pensata. Ora l’auditorium, anche se in modo saltuario, è aperto. Cosa resta di tutta questa lunga avventura? Anzitutto, ­134

in Italia, in Campania, a Ravello resta un capolavoro di uno dei più grandi architetti; resta la crescita del senso estetico tra i cittadini di un bellissimo paese; la tenacia di quanti, tecnici ed operai, ingegneri ed architetti, hanno realizzato l’opera; resta lo straordinario esempio di generosità di Oscar Niemeyer che, centenne e a diecimila chilometri di distanza, ha progettato, senza alcun compenso, l’auditorium. Cosa ci ha insegnato questo caso che ha appassionato il mondo dell’architettura al di qua e al di là dell’Atlantico? Ci ha insegnato che l’universo urbanistico e architettonico italiano è regolato da leggi astruse in cui gli obiettivi della salvaguardia, dello sviluppo, della bellezza soccombono; e che, con queste leggi, occorrono grande intelligenza e infinita pazienza per realizzare un progetto eccellente, mentre basta una normale imbecillità per affossarlo. Ma un’altra lezione viene da questa vicenda: l’assenza, in quella comunità, di una dimensione di “bene comune”. Quello che mi pare emblematico – e molto preoccupante – è che per sei anni la comunità locale non ha reagito con la forza necessaria, con una violenta indignazione; si è appassionata e si è schierata su due poli, in un confronto al ribasso. Una comunità più coesa avrebbe travolto e annullato quella contrapposizione in ragione di un bene collettivo. C’era il progetto, c’erano i soldi, c’era evidentemente il mercato; tutti gli ingredienti che si invocano, in astratto, per “portare” lo sviluppo: ma questi ed altri ingredienti, se non c’è coesione sociale, non bastano. Anzi.

Appendice: la cronologia di una follia collettiva

1998-2000. Viene redatto il piano regolatore che individua l’area per la realizzazione di un auditorium. 2000, 22 giugno. La Società Salvatore di Calce Fermo & C. S.a.s., nella qualità di proprietaria del suolo individuato per la realizzazione dell’auditorium, ricorre al tar di Salerno avverso la delibera commissariale di adozione del piano regolatore. 2000, 2 luglio. Partecipando a un convegno della S3.Studium a Ravello, il giornalista brasiliano Roberto d’Avila suggerisce al sindaco (lista civica “Insieme per Ravello”) di scegliere Niemeyer come progettista dell’auditorium. Gli dice pure che Niemeyer, data la sua amicizia con Domenico De Masi, molto probabilmente avrebbe accolto la proposta e redatto il progetto gratuitamente. 2000, 7 luglio. Il giornalista Roberto d’Avila, tornato a Rio de Janeiro, chiede a Oscar Niemeyer, per conto di Domenico De Masi, la progettazione dell’auditorium. Niemeyer accetta di progettare l’auditorium gratuitamente. 2000, 23 settembre. Oscar Niemeyer consegna al prof. Domenico De Masi il plastico dell’auditorium, una spiegazione scritta e alcune tavole contenenti la sua proposta progettuale. Vi aggiunge la dedica del progetto a De Masi. 2000, 4 dicembre. Il Consiglio Comunale di Ravello “accetta l’omaggio donato al Comune di Ravello dall’Arch. Oscar Nie­ meyer”. 2001, 14 maggio. Alle elezioni amministrative vince nuovamente la lista civica “Insieme per Ravello” che, durante la campagna elettorale, aveva preso posizione in favore. All’opposizione la lista civica “Campana” che, durante la campagna elettorale, si era dichiarata contraria alla costruzione dell’auditorium. 2002, 2 giugno. Nasce la Fondazione Ravello, persona giuridica di diritto privato senza fini di lucro, con la finalità di tutelare e valorizzare, in termini culturali ed economici, i beni di interesse artistico e storico situati nell’area del Comune di Ravello. Presidente è Domenico De Masi. La Fondazione e il suo presidente promuoveranno passo dopo passo la realizzazione dell’auditorium, fino alla sua inaugurazione.

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2002, 8 luglio. Il nucleo di valutazione della Regione Campania approva lo studio di fattibilità relativo all’auditorium. Il governatore dà il via al finanziamento del progetto. Ora il Comune può dare mandato a un pool di tecnici (tra cui, ovviamente, Oscar Niemeyer e il suo studio) per procedere alla progettazione definitiva dell’auditorium. 2002, 31 luglio. Il «Corriere del Mezzogiorno» pubblica una dichiarazione della presidentessa della sezione salernitana di Italia Nostra, Lella Di Leo, contraria all’auditorium. 2003, gennaio-maggio. Oscar Niemeyer lavora personalmente e intensamente per sviluppare nei minimi dettagli la sua idea primitiva fino a completare il progetto definitivo, architettonico e artistico, da lui esposto in 32 tavole. 2003, 28 maggio. Oscar Niemeyer consegna ufficialmente il progetto definitivo dell’auditorium al governatore Bassolino e al sindaco di Ravello alla presenza del presidente Lula. Sono pure presenti l’ambasciatore italiano in Brasile e il presidente della Fondazione Ravello. 2003, luglio-agosto. La Commissione edilizia integrata del Comune di Ravello emette parere favorevole al progetto. Stessa cosa fanno la Commissione valutazione tecnico-amministrativa, la Sovrintendenza per i beni architettonici e per il paesaggio di Salerno e Avellino, la sezione di Salerno del Comitato tecnico regionale, l’Azienda sanitaria locale, la giunta regionale, il Comune di Ravello, la Comunità montana, l’assessore regionale all’Urbanistica. 2003, 4 agosto. Viene siglato l’accordo di programma tra Regione Campania, Comune di Ravello e Comunità montana per la realizzazione dell’opera. 2003, 28 novembre. I proprietari dell’area (la società Salvatore di Calce Fermo e la famiglia Palumbo) ricorrono al tar di Salerno impugnando tutti gli atti relativi al procedimento finalizzato alla realizzazione dell’auditorium Oscar Niemeyer. 2003, 17 dicembre. L’associazione Italia Nostra affianca i proprietari dell’area e si costituisce in giudizio, ritenendo illegittima la realizzazione dell’auditorium. 2004, 7 gennaio. 170 personalità firmano un appello promosso dalla Fondazione Ravello a favore dell’auditorium. 2004, 18 gennaio. 61 personalità firmano un appello promosso da Italia Nostra contro l’auditorium.

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2004, 19 febbraio. Il Comune di Ravello firma un protocollo d’intesa con i sindacati cgil, cisl, uil per la realizzazione dell’auditorium. 2004, 25 marzo. La società Salvatore di Calce Fermo si convince dell’importanza strategica del progetto e stipula con la Fondazione Ravello un atto di compravendita del proprio terreno, rinunziando al ricorso al tar che essa stessa aveva promosso avverso l’esproprio del terreno. Resta contraria la famiglia Palumbo, che proseguirà per altri sei anni la sua opposizione giudiziaria all’auditorium. 2004, 20 maggio. Il tar di Salerno prende atto della rinuncia della società Salvatore di Calce Fermo e dichiara inammissibile il ricorso per la famiglia Palumbo. 2004, 9 agosto. Viene depositata al tar di Salerno la sentenza che accoglie il ricorso di Italia Nostra per l’annullamento dell’accordo di programma e tutti gli atti di ratifica. Il Comune di Ravello si appella al Consiglio di Stato. 2004, 15 ottobre. Sul «Corriere della Sera» la presidentessa di Italia Nostra Desideria Pasolini Dall’Onda dichiara: “Ravello è un miracolo di armonia. Quel progetto – che nasce da uno schizzo di Niemeyer ma porta la firma di una architetta assessore all’urbanistica di Salerno – avrebbe alterato il territorio”. 2004, 9 dicembre. Sul n. 31 del «Corriere della Sera Magazine», la presidentessa di Italia Nostra Desideria Pasolini Dall’Onda insinua che dell’auditorium “Niemeyer ha solo fatto uno schizzo, il progetto era dell’architetto del Comune”. 2004, 14 dicembre. Sul «Corriere del Mezzogiorno», un esponente di Italia Nostra, l’urbanista Edoardo Salzano, sostiene che Oscar Niemeyer “per Ravello aveva fatto solo uno schizzo, che nel progetto definitivo è diventato altro”. 2004, 20 dicembre. Oscar Niemeyer, con una dettagliata dichiarazione da lui firmata, e controfirmata dal suo strutturista José Carlos Sussekind, rivendica tutta intera la paternità dell’opera, dall’idea iniziale fino a tutto il progetto definitivo. 2005, 15 febbraio. Il Consiglio di Stato accoglie l’appello del Comune di Ravello dichiarando inammissibile il ricorso di primo grado presentato da Italia Nostra. 2005, 8 ottobre. La stampa diffonde un documento in cui il Coordinamento delle sezioni ds della costiera amalfitana, d’intesa con la Segreteria provinciale ds, si è dichiarato contrario alla costruzione dell’auditorium progettato da Niemeyer.

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2005, 21 ottobre. Le mogli dei signori Palumbo, essendo in comunione di beni con i rispettivi mariti-proprietari, ricorrono al tar contro il decreto di esproprio. 2006, 26 febbraio. Il tar di Salerno dichiara inammissibile il ricorso delle signore Palumbo. 2006, 23 aprile. La Fondazione Ravello cede al Comune di Ravello il terreno acquistato dalla società Salvatore di Calce Fermo. 2006, 28 aprile. Le signore Palumbo ricorrono al Consiglio di Stato contro la sentenza emessa il 26 febbraio dal tar di Salerno, chiedendone anche la sospensiva. 2006, 29 maggio. Alle elezioni amministrative vince la lista civica “Campana”, che durante la campagna elettorale si era schierata contro la realizzazione dell’auditorium. 2006, 31 maggio. Vengono accreditate al Comune le somme necessarie per procedere all’esproprio del terreno e alla gara di appalto dell’opera. Il Comune, gestito dalla lista civica contraria all’auditorium, ritarda queste operazioni previste dall’accordo di programma. 2006, luglio-agosto. 800 ravellesi e 600 “amici di Ravello”, preoccupati per l’inerzia del Comune, firmano un appello in favore dell’auditorium, indirizzato al sindaco di Ravello e al governatore della regione. 2006, 29 agosto. Il Consiglio di Stato rigetta la richiesta di sospensiva fissando la trattazione di merito all’udienza del 7 novembre 2006. 2006, 29 agosto. La Commissione di vigilanza dichiara inadempiente il Comune di Ravello, rispetto all’accordo di programma. Entro poche settimane, se non fossero iniziati i lavori, Ravello avrebbe perso il finanziamento di 18,5 milioni di euro concesso dall’ue per la realizzazione dell’auditorium. In base a queste premesse, il presidente della giunta regionale, anche in qualità di presidente del collegio di vigilanza, invia un commissario ad acta. 2006, 1° settembre. Con le delibere nn. 1-2-3-4-5-6 adottate dal commissario ad acta, si avvia di fatto la realizzazione dell’auditorium. 2006, 4 settembre. La «Gazzetta Ufficiale» dell’Unione Europea pubblica il bando di gara per l’auditorium. 2006, 6 settembre. Il presidente della Commissione consiliare per la revisione dello statuto e del regolamento interno del consiglio regionale della Campania diffonde un comunicato stam-

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pa in cui si chiede uno stop agli accordi di programma e alle conferenze dei servizi. Su richiesta dei consiglieri di Alleanza nazionale, il presidente convoca la IV commissione, competente in materia urbanistica, per la valutazione sulla realizzazione dell’auditorium di Ravello. 2006, 6 settembre. Nasce il Comitato cittadino “Pro auditorium”. 2006, 8 settembre. Il Comune ricorre al tar di Salerno per l’annullamento del decreto di nomina del commissario ad acta, richiedendo, tra l’altro, l’adozione di un decreto presidenziale di sospensione. Se tale sospensione fosse stata concessa, già da sola sarebbe bastata per fare scadere i termini di avvio dei lavori, perentoriamente richiesti dall’ue per la concessione del finanziamento. E il finanziamento sarebbe svanito per sempre. 2006, 9 settembre. Il Comitato cittadino “Pro auditorium” si costituisce ad opponendum, a fianco della Regione Campania e della Fondazione Ravello, contro il ricorso del Comune. 2006, 9 settembre. Sulla «Gazzetta Ufficiale» n. 210 viene pubblicato il bando di gara per l’auditorium e per la palificata. 2006, 12 settembre. Il presidente del tar di Salerno respinge la richiesta di sospensiva chiesta dal Comune, fissando al 28 settembre la trattazione nel merito. Il commissario ad acta può dunque procedere agli adempimenti necessari per avviare i lavori entro i termini richiesti dal finanziamento europeo. Il finanziamento è salvo. 2006, 28 settembre. Il tar di Salerno respinge il ricorso del Comune di Ravello. Il Comune si appella al Consiglio di Stato per l’annullamento dell’ordinanza del tar di Salerno. 2006, 17 ottobre. Il Consiglio di Stato respinge il ricorso del Comune di Ravello contro l’ordinanza emessa dal tar di Salerno il 28 settembre. 2006, 24 ottobre. Apre il cantiere e le prime ruspe entrano nel terreno designato per la costruzione dell’auditorium. 2006, 7 novembre. Il Consiglio di Stato respinge definitivamente il ricorso delle signore Palumbo, condannando le appellanti al pagamento delle spese legali. 2006, 9 novembre. Il tar di Salerno respinge la domanda incidentale di sospensione proposta dalla famiglia Palumbo, proprietaria del terreno. 2006, 18 novembre. Iniziano le operazioni di gara per l’auditorium, ultimate il 29 novembre. 2007, 15 dicembre. Oscar Niemeyer compie cento anni. Il pre-

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sidente della Fondazione Ravello passa la giornata con Niemeyer e gli illustra lo stato di avanzamento dei lavori dell’auditorium. 2009, 5 aprile. Viene completata la “colata” della cupola e vengono apposte le bandiere dell’Italia, del Brasile e dell’ue. 2009, 27 ottobre. Il tar di Salerno respinge la domanda di annullamento del decreto di esproprio, chiudendo definitivamente tutta la querelle giudiziaria sorta intorno alla realizzazione dell’auditorium. 2010, 29-30-31 gennaio. L’auditorium viene inaugurato.

9.

il vero divario

Esiste, innegabilmente, un nesso inscindibile tra coesione sociale e sviluppo. È difficile trovare qualcuno che contesti questa affermazione, soprattutto oggi quando, come abbiamo visto, si moltiplicano le riflessioni teoriche su questo tema. E tuttavia questa generale e sostanzialmente unanime adesione alla centralità del tema della coesione sociale, del rafforzamento e della qualificazione dello spirito e della prassi comunitaria, della valorizzazione del capitale sociale, sembra correre su una linea parallela rispetto alle politiche che vengono adottate per lo sviluppo. Queste restano saldamente legate al vecchio schema, alla convinzione che la coesione sociale è una conseguenza di un adeguato livello di crescita. È uno schema fortissimo quello secondo il quale le politiche del welfare hanno una motivazione sostanzialmente risarcitoria, redistributiva, di correzione degli effetti perversi dalla crescita. “Il welfare non è un lusso” continuano a ripetere le organizzazioni del sociale che si vedono tagliare i fondi per le loro attività di cura, assistenza, di inclusione sociale. Ma in realtà non ne siamo convinti. E come si affermano posizioni secondo cui del welfare ci si occuperà quando sarà superata la crisi, così nelle politiche per il Sud ci si è mossi, e ci si muove nei fatti, con l’implicita ma imbattibile convinzione che i gravissimi problemi sociali di molti territori potranno essere ­142

adeguatamente affrontati “dopo” che sarà raggiunto un soddisfacente livello di crescita. Se fossimo convinti avremmo ben altro approccio nel misurare il divario del Sud con il resto del Paese. Vi sono molti approfondimenti e si confrontano diversi indicatori in svariati campi, ma il dato centrale, quello che determina l’approccio culturale e poi orienta le politiche per il Sud, resta il divario del pil. Bisognerebbe invece assumere come divario più drammatico quello relativo alla situazione dell’educazione dei giovani. Ricordarsi, per esempio, che la percentuale di giovani (18-24 anni) che abbandonano prematuramente gli studi è del 25% in Sardegna, 25% in Sicilia, 22% in Campania, con un grave distacco rispetto al già preoccupante dato nazionale (18,2%). E che i tassi di abbandono alla fine del primo anno della scuola secondaria (anno scolastico 2007-2008) ancora una volta molto alti in tutto il Paese (12,3%), sono significativamente più alti in Sardegna (16,7%), Campania (15,5%), Sicilia (14,7%). A Napoli, nell’anno scolastico 2009-2010, sono stati rilevati 550 casi di abbandono nella scuola primaria: l’1,7%, un dato di cui, davvero, vergognarsi. Secondo il pisa ocse (Programme for international student assessment) sulle competenze cognitive di quindicenni nell’anno 2009 i giovani di Lombardia, Friuli e Valle d’Aosta registrano punteggi medi superiori rispetto ai loro coetanei di Norvegia e Olanda; mentre i siciliani, i calabresi e i campani stanno peggio dei turchi e dei cileni. Anche in questo caso l’Italia complessivamente registra un forte ritardo rispetto ai Paesi ocse collocandosi nelle ultime posizioni, ma al suo interno vi sono differenze inaccettabili. Nella scuola primaria (anno scolastico 20112012) vi erano in Italia 29 classi di tempo pieno su cento: in Campania la percentuale è del 6,5% e in Sicilia del 7,1%. In Lombardia siamo al 41%. Altra situazione oggettivamente drammatica è ­quella de­143

gli asili nido. A livello nazionale solo il 13,6% dei bambini fino a due anni può usufruire di questo servizio. Il dato precipita al 5,2% per la Sicilia, al 5% per la Puglia, al 3,5% per la Calabria, al 2,7% per la Campania. La disponibilità di posti per i bambini dell’Emilia Romagna (29,5%) è più di dieci volte superiore a quella per i bambini della Campania. Sul tema della scuola e della formazione si potrebbero citare molti altri dati: da quelli della formazione professionale, al Sud mediamente molto meno efficace e paradossalmente peggiorata e “imballata” dalle grandi risorse comunitarie disponibili (fse), a quelli da tempo segnalati con particolare enfasi della “fuga dei cervelli”: il 27% dei laureati meridionali e il 38% di quelli laureati con il massimo dei voti lavora fuori dal Mezzogiorno. Salvo che per quest’ultimo aspetto, giustamente assunto come uno degli indicatori più gravi dell’arretratezza del Sud, nel dibattito non vengono sufficientemente drammatizzati i dati relativi al disastro del sistema formativo meridionale. Addirittura in qualche caso si coglie un irresponsabile atteggiamento che tende a giustificare questa situazione in relazione alle scarse possibilità di lavoro disponibili per i giovani. Mentre a livello globale si moltiplicano gli esempi di sistemi economici che puntano tutto sul rafforzamento del capitale umano, al Sud il tema è di fatto sottovalutato. Un altro campo in cui si manifesta un intollerabile divario è quello relativo alla spesa regionale pro capite per interventi e servizi sociali erogati dai Comuni, per famiglie e minori. I recenti tagli hanno drammaticamente ridimensionato questi interventi ma nel 2009, quando a livello nazionale la spesa media pro capite era di 119 euro, diventava di 25 euro in Calabria, di 49 in Campania, di 57 in Basilicata, di 51 in Puglia: cioè meno della metà per gran parte del Sud e circa un quinto per la Calabria. Anche per un altro fondamentale diritto, quello alla salute, permangono divari, alcuni dei quali piuttosto significativi. Intanto il tasso di mortalità infantile (anno 2008) è più ­144

alto al Sud (4,1 per mille nati vivi) rispetto alla media nazionale (3,3) con punte in Basilicata (5,3) Sicilia (4,5) e Calabria (4,1). La spesa del ssn pro capite è di 1.833 euro in Italia, al Sud 1.749 (anni 2006-2009 – censis). Nel 2010 tutte le Regioni meridionali, ad eccezione della Basilicata, sono “inadempienti” nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza (ministero della Salute, 2012). Al 31 dicembre 2010 nel Nord vi sono 8 posti letto per mille abitanti nei presidi sanitari socio-assistenziali, contro i 3 del Mezzogiorno. In Italia 8,7 persone su cento “emigrano” in altre regioni per ricoveri ospedalieri (attività per acuti); dalla Calabria il 20,8%, dalla Basilicata il 26%. Per il 44,6% dei meridionali negli ultimi due anni il Servizio Sanitario della propria regione è peggiorato, contro il 18,2% del Nord-Est e il 19,2% del Nord-Ovest. (censis). Al Sud vi sono ancora frequenti irregolarità nell’erogazione dell’acqua: il 14,7% delle famiglie del Mezzogiorno continentale lamenta questo fenomeno, mentre il dato sale ad una famiglia su 5 per le isole (Nord-Est: 4,2%; NordOvest: 4,8%). Anche per l’elettricità il Sud registra un servizio meno efficiente: il numero e la durata media delle interruzioni per cliente sono significativamente più alti (2,26 interruzioni contro le 1,39 del Nord; 127,95 minuti contro i 50,75 del Nord). Al Sud un procedimento civile che riguardi le pmi dura il 50% di tempo in più che al Nord (2.214 giorni contro 1.543); la giacenza media dei procedimenti civili (Corti d’Appello 2006-2008) è del 25% superiore rispetto al Nord (1.016 giorni contro 804). Per avviare un’impresa al Sud ci vuole un numero di giornate doppie che al Nord (26 giorni invece di 13), con costi, in relazione al reddito pro capite, di circa il 50% in più. ­145

Tra le venti province italiane con il più alto livello di disagio socio-economico, 18 sono meridionali e la prima provincia “non meridionale “ è al diciassettesimo posto. (censis) Ma non sono solo le differenze nel riconoscimento dei principali diritti e nella disponibilità di servizi a fare la differenza, a rendere meno “civile” il Sud. Giocano, e pesantemente, anche i comportamenti dei meridionali con una propensione, certamente non generalizzata, ma troppo diffusa a vivere ai confini della legalità. Gli ultimi dati che ho trovato sulla distribuzione territoriale della corruzione (reati contro la Pubblica Amministrazione anni 2002-2004) vedono Calabria, Sicilia e Campania ai primi posti nel Paese (Rossi, 2010). In Italia la percentuale di Comuni sciolti per mafia rispetto al totale dei Comuni è del 2,6%. In Sicilia del 13,6%, in Calabria del 14,2% e in Campania del 15,4% (anni 1991-2012). Nel 2011 per ogni 100 euro di imposta versata vi era un’evasione, in Italia, pari a 38,19 euro. Al Sud il dato sale a 61,89. Il tasso di irregolarità del lavoro nel 2009 era pari, in Italia, al 12,1%; nel Mezzogiorno del 18,9%, con la punta della Calabria in cui su 100 persone che lavorano, 29,2 svolgono un lavoro irregolare. Nel 2010 l’inps ha “cancellato” il 23% delle pensio­ni di invalidità sottoposte a verifiche. Salvo il caso del­l’Umbria, in cui sono state revocate il 47% delle pensio­ni, le regioni meno “virtuose” sono meridionali: la Sardegna con il 53%, la Campania con il 42%, la Sicilia con il 41%. Per il lavoro irregolare e per le pensioni di invalidità si possono invocare delle attenuanti riferite rispettivamente all’endemica scarsità di occasioni di lavoro e all’alto indice di povertà relativa in molte zone del Sud. Ma, a ben vedere, questo può aiutarci a comprendere il fenomeno, non certo a giustificarlo. Giustificarlo è assolutamente inaccettabile. Tollerare comportamenti come questi consolida e allarga ­146

la cultura dell’illegalità, che non è mai solo “relativa” ma che ha un potere pervasivo e disgregante della comunità. Per il canone Rai, che come è noto, è la tassa più evasa dagli italiani (nel 2011 il 43% delle famiglie non ha pagato), Campania, Calabria e Sicilia raggiungono punti di evasione di tutto rispetto: l’86%. Al Sud, più frequentemente che altrove, le multe si pagano molto poco. In una gara per la concessione del servizio di riscossione a privati, il Comune di Napoli partiva da una soglia minima del 20% delle multe non pagate. Ma va detto che molte multe non erano neppure notificate in alcuni quartieri, perché i notificanti temono per la loro incolumità. Naturalmente sul tema delle piccole e grandi illegalità si potrebbero raccontare tanti episodi, tante abitudini consolidate, tanti abusi. Ma questo non servirebbe a nulla: anzi in molti casi questi racconti suscitano perfino una certa ammirazione per la creatività e la fantasia dei protagonisti con il rischio di giudicare “normali” o addirittura virtuosi comportamenti inaccettabili. Nella raccolta differenziata dei rifiuti il Sud raggiunge una percentuale (14,97%) pari alla metà di quella nazionale (30,60%) e a un terzo di quella del Nord (45,50%). Per gli ingombranti a smaltimento siamo all’anno zero, come peraltro conferma la visione delle strade delle periferie delle città: Italia 1,70%; Sud 0,21%; Nord 2,92% (dati 2008). Nel Mezzogiorno vi sono 70 musei, con 1,597 milioni di visitatori; al Centro 91 musei con 5,932 milioni di visitatori; al Nord 48 con 3,193 milioni di visitatori. Nelle biblioteche del Nord vi sono 6,222 milioni di volumi, con 598.000 consultazioni e 595 dipendenti; al Sud 3,861 milioni di volumi, 267.000 consultazioni e 643 dipendenti. Al Sud si vendono e si leggono meno libri e meno giornali, e i consumi culturali, in genere, sono più bassi che al Centro-Nord. ­147

Concludo questo sintetico quadro relativo ad alcuni “divari” tra Nord e Sud del Paese, richiamando due dati che, dal mio punto di vista, sono assai significativi, perché espressione diretta di una cultura attenta ai valori comunitari e alla prassi del dono. Ambedue i temi, il volontariato e la donazione del sangue, vedono l’Italia indietro rispetto ai Paesi europei più avanzati. Ma ancora una volta il Sud mostra ritardi relativamente più accentuati. Il volontariato, che pure registra importanti e per certi versi impetuosi fenomeni di crescita, ancora coinvolge al Sud un numero minore di cittadini. Nel 2010 otto meridionali su cento hanno fatto volontariato, mentre il dato nazionale si assesta al 12,6%. Calabria (7,4%) e Campania (6,5%) sono i fanalini di coda. Per quanto riguarda le dosi di sangue donato, nel 2011 siamo a 51 dosi per mille abitanti al Nord e 37 per mille al Sud. Anche in questo caso vi sono importanti e positive iniziative in corso, di alcune delle quali sono stato testimone. Ma evidentemente c’è ancora molto lavoro da fare. 9.1. Una nuova gerarchia territoriale Assumere questi dati come indicatori del vero divario significa anche rifare gerarchia territoriale. Non voglio riprendere la difficilissima e spinosa discussione sulla “unicità” della questione meridionale o sulla preponderante rilevanza delle differenziazioni interne all’area: difficile perché negli anni ha assunto un sapore vagamente ideologico. In ogni caso a me interessa sottolineare come i più intelligenti ed impressivi schemi di rappresentazione dei territori del Sud – “la polpa e l’osso” di Manlio Rossi-Doria e “la macchia di leopardo” di Giuseppe De Rita – siano oggi da rivedere. La nuova gerarchia del disagio del Sud e del ritardo nello sviluppo vede al primo posto le aree urbane di Napoli, Palermo, Catania e Reggio Calabria; l’entroterra napoletano, ­148

compresa la provincia di Caserta e la parte della provincia di Salerno più vicina a Napoli, la Calabria, soprattutto nelle province di Catanzaro, Vibo, Crotone e Reggio, e la Sicilia occidentale. È in questi territori che è più pervasiva e arrogante la presenza della criminalità organizzata. Non è una graduatoria costruita in base al reddito, né tantomeno alla ricchezza; non in base all’occupazione o ai consumi; ma in relazione al livello di disgregazione sociale. E d’altra parte la sintetica rassegna di alcuni indicatori di divario che ho riportato nelle pagine precedenti conferma ampiamente questa lettura dei territori del Mezzogiorno. 9.2. I nuovi soggetti per una nuova politica Se si pone al centro dell’attenzione la coesione sociale come fattore essenziale dello sviluppo auto-propulsivo, bisogna affrontare un tema connesso e non marginale: quello del terzo settore. Con questo termine si fa riferimento al settore che comprende le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, la cooperazione sociale. In termini generali il terzo settore ha un ambito di riferimento molto più vasto, ma nell’esperienza concreta vale il richiamo alle esperienze che ho citato. Occorre, con ogni evidenza, dare maggiore rilievo generale al terzo settore, alle sue esperienze, ai suoi quadri dirigenti. Ho già fatto cenno alla circostanza che, a mio avviso, nel terzo settore del nostro Mezzogiorno vi sono grandissime potenzialità e vi è una riserva di classe dirigente molto importante. Tuttavia occorrono alcune condizioni generali perché il terzo settore possa adeguatamente rappresentare le istanze di rinnovamento, di qualificazione del tessuto sociale, e porsi come interlocutore non marginale, non episodicamente “associato” dei temi più complessivi dello sviluppo. La prima è quella che lo stesso terzo settore assuma una maggiore consapevolezza del suo ruolo politico. Intendo per ruolo politico la capacità di individuare e ­149

proporre politiche non più esclusivamente o prevalentemente riferite alla difesa e al rafforzamento dei propri ambiti di competenza. Non si tratta cioè di perfezionare la linea che porta a rivendicare spazi di agibilità, normative di sostegno, supporti e trasparenza nell’erogazione di pubbliche risorse: questi sono obiettivi assai importanti e dalla cui realizzazione pratica dipende spesso la stessa possibilità del terzo settore di svolgere il suo meritorio lavoro. Tuttavia è evidente che una linea che porti a considerare il sociale, l’infrastrutturazione sociale, come una condizione necessaria per lo sviluppo, impone l’assunzione di un ruolo politico più generale. Per far questo il terzo settore deve sicuramente accentuare la sua capacità di fare rete, l’individuazione e la condivisione di obiettivi comuni e generali che, pur rispettando la specificità delle identità e delle esperienze, consenta di fare massa critica e di proporre interventi di carattere complessivo. E deve sviluppare una maggiore attitudine alla comunicazione: non un banale cedimento a una logica della rappresentazione mediatica, ma la convinzione della necessità di “contaminare” e che per far questo deve far conoscere, deve raccontare, deve promuovere una riflessione critica sul lavoro e sulle conquiste che quotidianamente realizza. Va detto con chiarezza che in molti casi quello della comunicazione è vissuto come un disvalore: quasi che le attività che si svolgono e le motivazioni che le sostengono siano troppo serie e importanti per finire nel “frullatore mediatico”. Infine il terzo settore, e questo è connesso all’esigenza di “fare più rete”, deve porsi con maggiore chiarezza il tema della sua rappresentanza. Una seconda condizione è quella che le istituzioni riconoscano nel terzo settore un soggetto con cui confrontarsi a livello di politiche generali e non solo un interlocutore “settoriale” e del quale ci si ricorda soltanto in determinate occasioni. Dietro questa difficoltà a considerare il terzo settore come un elemento importante nel quadro delle rappresentanze degli interessi e delle esperienze, sta ­150

evidentemente una concezione che ritiene le attività del terzo settore estranee ai percorsi generali di sviluppo: una sorta di area riservata alla filantropia, animata da soggetti generosi e altruisti. Tale concezione emerge con chiarezza quando le Pubbliche Amministrazioni, a diversi livelli, si rivolgono al terzo settore come a un’area di supplenza. Una specie di ruota di scorta cui fare ricorso nel momento delle necessità più acute. Le istituzioni dovrebbero ricordarsi più spesso del terzo settore, dovrebbero cercare un rapporto più forte, favorendone l’autonomia e scoraggiando le pratiche, ahimè ancora diffuse, per cui ciascuna parte politica o addirittura ciascun rappresentante politico cura i rapporti in una sorta di rete verticale con le sue “associazioni”, con i suoi operatori. Si fa molta fatica a riconoscere la rappresentanza generale del terzo settore, ma è una strada obbligata che va percorsa con tutte le forze. Collegato a questo aspetto vi è il tema delle politiche di sostegno al terzo settore. Il discorso sarebbe lungo, ma se si confrontassero le risorse messe a disposizione da una regione per le piccole e medie imprese di tutti i settori produttivi con quelle messe a disposizione per gli incentivi alle cooperative sociali si avrebbero dei risultati clamorosi, assolutamente non giustificati, non solo dalla rilevanza sociale del terzo settore, ma anche dal numero di occupati, dalle attività svolte e dalle intrinseche possibilità di sviluppo. Vi sono Regioni del Mezzogiorno che dopo lunga gestazione hanno dedicato alle cooperative sociali o al volontariato meno di un milione di euro su base annua: tutto questo è inaccettabile e se è vero che il terzo settore deve a sua volta migliorare le sue performance, rafforzare alcuni profili di professionalità, sviluppare una corretta cultura della rendicontazione, è anche vero che le istituzioni devono finalmente fare un salto di qualità in questa direzione.

10.

Che fare

1. Come dicevo all’inizio quella per il Sud appare ormai una battaglia persa, persino noiosa. Infatti, salvo qualche appello accorato ed autorevole, non se ne parla nemmeno più. Fanno notizia singoli episodi di solito collegati alla criminalità organizzata e, in casi assai più rari, si racconta qualche vicenda “eccezionalmente” positiva. Un fenomeno di vera e propria rimozione. Anche le polemiche antimeridionali sembrano aver perso la virulenza degli anni scorsi. In realtà questo atteggiamento esprime una convinzione di fondo, alimentata da lunghi anni di delusioni ed obiettivi mancati: la questione è irrisolvibile; non c’è niente da fare. Quando si avvia un confronto sul tema vengono fuori argomenti tradizionali, tesi stereotipate, che nulla aggiungono alle tante cose dette, alle mille analisi compiute, alle ricette di volta in volta proposte e puntualmente rivelatesi inefficaci. Un importante “non argomento” è quello relativo alle profonde differenze interne al Sud: è naturalmente una grande verità, spesso anche sottovalutata; ma questa analisi non determina alcuna proposta innovativa se non la generica e confusa indicazione di cambiare le politiche e renderle meno indiscriminate. ­152

Oppure ci si abbandona ad una feroce critica ai politici e alla politica, disperatamente cercando di individuare un unico capro espiatorio e di risparmiarsi la fatica di ricostruire una mappa più realistica e complessa delle responsabilità. È ancora molto diffuso l’atteggiamento di quanti lamentano una scarsa spinta solidaristica del Paese nei confronti del Sud da misurare ovviamente in termini di risorse economiche, cui fa da contrappeso la denunzia dei soldi sprecati al Sud in tanti anni di intervento pubblico. Davvero si colgono scarsi segnali di novità, mentre si percepisce, tra i meridionali, un impressionante scetticismo in molti casi accompagnato da una buona dose di cinismo. Questa dimensione psicologica non è accettabile. Non è tollerabile che interi territori, importanti città, come Napoli, Palermo, Catania, Bari, Reggio Calabria, con le straordinarie tradizioni che ne hanno segnato la storia, con i segni provocatoriamente visibili di un passato nobile, potente e prestigioso, con le enormi potenzialità che nascondono, vivano in una dimensione collettiva di disperazione. Disperazione nel senso tecnico del termine: a chiunque si chieda che cosa bisognerebbe fare, quali sono le priorità, i possibili progetti, le leve per un riscatto collettivo, la risposta è sempre la stessa: non c’è niente da fare, è tutto inutile; oppure risposte ovvie, banali, irritanti, ripetute senza convinzione: bisogna cambiare mentalità; la colpa è dei politici, non contiamo niente a livello nazionale. Molti raccontano progetti e programmi della loro impresa, della loro associazione, del loro centro di ricerca, del loro circolo culturale, ma sempre in una dimensione di separatezza; il territorio è spesso vissuto come luogo in cui nulla si può fare, in cui tutto è destinato a dissolversi nell’indistinto. Intanto la situazione di degrado avanza: povertà, scarsa qualità dei servizi sociali, disoccupazione a livelli impensabili, crescente aggressività della criminalità organizzata. Il limite tra diritti e favori diventa sempre più labile. Si accentua un clima di rassegnazione e ciascuno si difende ­153

come può, sempre più da solo; sempre più frequentemente prende corpo la soluzione finale: andarsene o programmare per “altrove” il futuro dei propri figli. Una dimensione di speranza, in realtà grottesca e improduttiva, perché basata sulla sola attesa, è data dalla previsione-auspicio “che peggio di così non può andare”. Invece gli ultimi anni confermano che la spirale si avvita sempre più verso il basso. In un diabolico meccanismo di causa-effetto questo diffuso convincimento attenua progressivamente il senso di responsabilità dei cittadini rispetto alla dimensione collettiva: il bene comune, l’interesse generale, la dimensione pubblica, anche il solo rispetto delle norme, sono categorie che vengono richiamate in astratto: qualche volta in modo rituale, qualche volta in modo rabbioso. Ma alla fine ciascuno prova ad “arrangiarsi” da solo. 2. Si può spezzare questa spirale? Si può almeno tentare di invertire questa tendenza? Ci si deve accontentare di aggrapparsi a tante, numerose e importanti esperienze positive in campo culturale, sociale, imprenditoriale, ma spesso totalmente isolate dal contesto in cui sono inserite? O è possibile abbozzare una strategia di sviluppo che delinei un plausibile percorso collettivo, che possa rimettere in moto, anche se lentamente, la responsabilità e il protagonismo dei meridionali? Un dato è ormai acquisito: che una prospettiva credibile in tal senso non può essere affidata ad una generale, forte, ribadita denuncia dello stato di disagio e dell’attesa di interventi risolutivi dall’esterno. Una linea come questa, da troppi anni sperimentata, non ha funzionato, perché non poteva funzionare; ed oggi riproporla avrebbe come conseguenza quella di aumentare i rancori verso il Sud e la frustrazione nel Sud. La strada da percorrere è quella di una forte, esplicita, dichiarata discontinuità rispetto al passato. Bisogna dire che si è sbagliato nelle politiche per il Sud: che abbiamo sbagliato tutti, anche noi meridionali. ­154

E soprattutto non bisogna cadere nella trappola psicologica che tutto riduce al trasferimento delle risorse: non è questo il tema principale, anche se è quello di cui si occupa prevalentemente la politica. Non è questa la discontinuità di cui c’è bisogno, né nel senso di un forte aumento delle risorse da destinare al Sud, né del loro azzeramento. La discontinuità di cui c’è bisogno non è neanche quella del “come”. Non si tratta di innovare politiche, strumenti, modalità di intervento. Abbiamo visto, ricostruendo brevemente la storia degli ultimi trent’anni, che vi sono state violente – ed anche coraggiose – discontinuità di questo tipo: la chiusura brusca e traumatica dell’intervento straordinario nel ’92, e la “nuova programmazione” che puntava tutte le sue carte su una modalità più efficiente e trasparente di intervento. Anzi queste scelte sono state fortemente condizionate dall’esigenza, tutta politica, di dare il segno della discontinuità, capace di rompere vecchi equilibri e di “liberare” il Mezzogiorno. Quella discontinuità non ha prodotto gli effetti sperati. La vera discontinuità, quella capace finalmente di cambiare le carte in tavola e di dare una prospettiva credibile, è quella di ridefinire l’obiettivo dell’impegno per il Sud. Il nostro obiettivo, dei meridionali e di tutto il Paese, deve essere quello di assicurare a venti milioni di meridionali pari diritti rispetto a quelli di tutti i cittadini italiani, puntando ad innescare modelli di sviluppo auto-propulsivo. E i diritti non si rivendicano in astratto; non si “aspetta” che lo Stato li riconosca: vanno conquistati con la responsabilità, l’impegno e, in determinate fasi, con la lotta. Non più quindi l’obiettivo di “superare” il divario in termini di pil; non più il paragone con il reddito di una delle aree più ricche d’Europa, come il nostro Nord; non più la misurazione ossessiva del distacco come base psicologica, culturale, politica di un permanente complesso di inferiorità e di dipendenza; non più l’invocazione di interventi rapidi e risolutivi, improbabili, ma pervicacemente attesi, nel deserto di una credibile prospettiva di svilup­155

po. Dobbiamo lavorare per un Mezzogiorno possibile e consapevole, non per un Mezzogiorno immaginario e irresponsabile. In occasione della presentazione dell’ultimo rapporto svimez si è calcolato che, con i peggioramenti determinati dalla crisi, il Sud avrebbe bisogno di 400 anni per annullare il divario con il Centro-Nord. È stata naturalmente una provocazione, ma con un effetto disastroso perché capace di trasferire sensazione di assoluta impotenza e, quindi, di piena deresponsabilizzazione. L’obiettivo di un “Mezzogiorno possibile” potrà sembrare rinunciatario: visto che non si riesce a raggiungere il “vero” traguardo, ci si inventa un traguardo più a portata di mano. Una critica del genere è facilmente rintuzzabile con la constatazione di quanto è successo negli ultimi sessant’anni: obiettivo impossibile e danni causati dall’insistenza ad assumere quel modello come base dell’intervento. Si tratta di puntare a costruire un meccanismo di sviluppo auto-propulsivo e quindi più duraturo, in cui i soggetti locali siano motore dello sviluppo capaci di trovare la migliore combinazione dei fattori produttivi ed i sostegni esterni, quando necessari, non siano chiamati a trasferire sviluppo ma a concorrere a realizzare positivamente quella combinazione. In questa prospettiva acquistano concreta rilevanza e maggiore capacità di “propulsione” le esperienze positive, i soggetti già forti. In un bellissimo articolo sul «Riformista» (18 marzo 2005) Marco Vitale mette bene in luce questa circostanza: non è vero che le iniziative dal basso non abbiano risultati. Forse ne hanno dati meno di quello che si sperava ma ne hanno dati molti e significativi. Anche se queste iniziative sono state quasi sempre combattute ed ostacolate da chi doveva istituzionalmente favorirle. In questa chiave di lettura, nella percezione cioè di grandi potenzialità imprenditoriali e produttive, che la “politica” non sa accompagnare in una logica di espansione e di qualificazione, segnalo il lavoro puntuale ed approfondito che lo stesso Vitale (2008) ha compiuto con un’importante indagine in Campania. ­156

In una prospettiva del genere, in cui lo sviluppo parte da una dimensione locale, il Sud riscopre la propria dignità, per certi versi il proprio orgoglio. Significa non pensare più il Sud o i sud come periferia sperduta e anonima dell’impero, luoghi dove si replica tardi e male ciò che celebra le sue prime altrove. (Cassano, 1996)

Al fine di fugare possibili equivoci ribadisco che enfatizzare una logica di tipo auto-propulsivo dello sviluppo non significa affatto scivolare in una dimensione autarchica e neppure di concorrenza antagonistica rispetto alle altre aree del Paese. Il sostegno esterno è necessario ed anzi probabilmente va incrementato, ma con logiche di accompagnamento, di partenariato, anche finanziario, e di condivisione. La responsabilità prevalente deve essere nelle mani dei soggetti locali. Senza cadere nella retorica delle risorse locali, senza assecondare pericolose tendenze secondo le quali il localismo diventa una sorta di bizzarra ideologia che spinge a considerare tutti i territori vocati a qualsivoglia percorso di sviluppo, occorre individuare con chiarezza e con rigore le risorse, le potenzialità, le dimensioni ottimali per i diversi interventi, senza sottovalutarne i limiti e i vincoli. È naturalmente un lavoro difficile e anche lento, spesso incompatibile con i tempi, sempre urgenti, della politica: ma è una strada che non ha alternative, soprattutto nell’era della globalizzazione in cui i territori, nella competizione internazionale, sono chiamati ad attivare le loro dotazioni in termini di saperi, beni culturali, ambientali, specificità produttive. 3. Per avviare, consolidare e qualificare percorsi di sviluppo auto-propulsivo è necessario che le comunità locali abbiano un sufficiente livello di coesione sociale. Ne ho fatto cenno ripetutamente nelle pagine precedenti, richia­157

mando il tema da diversi punti di vista. La debolezza del capitale sociale condiziona negativamente la vita dei cittadini a disagio in un sistema di relazioni sociali con basso tasso di fiducia, con scarso rispetto dei beni collettivi e quindi con minore possibilità di fruirne in modo equilibrato e duraturo. Nel suo bel libro, dal titolo particolarmente efficace La modernità squilibrata del Mezzogiorno d’Italia, Francesco Barbagallo sottolinea questo dato citando tra l’altro l’economista svedese Myrdal: Un altro illustre studioso aveva insistito molto opportunamente sugli aspetti qualitativi dello sviluppo che, coinvolgendo insieme società, culture e civiltà, copriva uno spettro ben più ampio della mera crescita economica intesa nei ristretti ambiti quantitativi. Modernizzazione e sviluppo comportavano invece “il moto ascensionale dell’intero sistema sociale. In altre parole, coinvolti non soltanto la produzione, la distribuzione del prodotto, i modi di produzione, ma anche i livelli di vita, le istituzioni, gli atteggiamenti e le politiche”.

Quando si sottolinea che il contesto istituzionale, nel senso del funzionamento della Pubblica Amministrazione, è condizione essenziale per lo sviluppo, si torna al capitale sociale. Il basso capitale sociale condiziona inoltre lo sviluppo indirettamente, perché influisce sulla efficienza della Pubblica Amministrazione, sulla capacità di produrre beni collettivi e servizi, e quindi sulle economie esterne per le imprese locali e sulla qualità sociale per i cittadini (Trigilia, 2011). Come ho sottolineato nelle pagine precedenti l’ambizioso obiettivo, perseguito dalla nuova programmazione, di qualificare il sistema delle autonomie locali meridionali con un intervento dal centro, è fallito. È la crescita della società civile che fa evolvere positivamente le istituzioni che la rappresentano: naturalmente si innesca poi un circolo virtuoso che spinge le istituzioni a fare leva sulla società civile e a qualificarla ulteriormente. ­158

Ma è dalla forza del capitale sociale, dalla comunità che si parte. E la stessa riflessione vale per la questione delle regole: sappiamo tutti che, al Sud, soprattutto in alcune aree urbane, ma non solo, il rispetto delle regole non è un valore riconosciuto. In alcune situazioni, più gravi e socialmente più fragili, il concetto di regola è completamente saltato: anzi il disprezzo della regola, anche quando non dà vantaggi immediati, acquista il senso di un atto di autorevolezza, di legittimazione personale: chi non osserva le regole è forte, chi le osserva è debole. Che cosa bisogna fare per affermare la cultura della legalità, il rispetto delle regole? Penso che abbiamo tutti impresse nella mente quelle terribili scene in cui le forze dell’ordine vengono minacciate dalla popolazione di quartieri difficili in cui sono andate a ripristinare le regole. La risposta deve certamente contemplare un maggior rigore, un’indisponibilità a “chiudere un occhio” per le infrazioni meno gravi; forse anche l’adozione di sanzioni e misure repressive più dure. Ma la vera risposta è sul versante del capitale sociale: la regola è rispettata se una comunità si riconosce in essa, se ne coglie l’utilità per il buon funzionamento delle relazioni sociali. Ce l’hanno insegnato i Romani, inventori del diritto: ubi societas ibi ius. Non sono le regole e le norme che costituiscono una comunità. È una comunità che si dà delle regole: e se le sente sue, le rispetta1. Questa è una vera e propria battaglia culturale da combattere quotidianamente, a partire da un impegno straordinario per la scuola. 1   “Il vincolo e il freno delle leggi e della forza pubblica che sembra ora essere l’unico che rimanga alla società è cosa da gran tempo riconosciuta per insufficienti sia a ritenere dal male e molto più a stimolare il bene. Tutti sanno con Orazio che le leggi senza costumi non bastano e d’altra parte che i costumi dipendono e sono determinati e fondati principalmente e garantiti dalle opinioni.” Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli Italiani, 1824.

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4. Il rafforzamento del capitale sociale è anche la condizione indispensabile per combattere le mafie. Forse vale la pena di ricordarsi la famosa frase di Giovanni Falcone che spingeva a considerare la mafia come tutti i fenomeni umani, una patologia che si può vincere. Una frase apparentemente banale, ma in realtà potente. Falcone avvertiva il pericolo di un giudizio e di un atteggiamento, nell’opinione pubblica e nelle istituzioni, di ineluttabilità delle mafie. Infatti, mentre non possiamo che esprimere apprezzamento per lo straordinario lavoro delle forze dell’ordine e della magistratura che hanno ottenuto ed ottengono grandi risultati sul versante della repressione e in qualche caso della prevenzione; mentre sottolineiamo l’importanza di alcune conquiste come la legge Rognoni-La Torre nata su impulso del milione di firme raccolte da Libera di don Ciotti, per l’utilizzazione sociale dei beni confiscati alle mafie; mentre ci aggreghiamo a movimenti di opinione sempre più vasti che si mobilitano contro le mafie; tuttavia percepiamo che è ancora diffusa, nella coscienza della gente comune ed anche degli opinion leaders, la sensazione di essere di fronte ad un nemico invincibile, ad un fenomeno che può essere al massimo contenuto, ma non estirpato. Questa percezione è pericolosissima; ancorché non dichiarata può condizionare pesantemente l’iniziativa contro le mafie introducendo da una parte una sorta di rassegnazione e dall’altra, soprattutto nel campo delle relazioni economiche e imprenditoriali, una disponibilità a convivere con il fenomeno. Da questo punto di vista è particolarmente apprezzabile l’iniziativa assunta da alcune associazioni industriali del Mezzogiorno che hanno negato l’iscrizione ad alcune imprese2. In questa battaglia difficile, complicata e certamente di non breve periodo, ma tuttavia indispensabile, bisognerebbe aver presente, con 2   Illuminante l’indagine condotta nel 2011 dalla Fondazione Res, che descrive con efficacia la zona grigia delle attività imprenditoriali.

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maggiore chiarezza, e soprattutto con maggiore coerenza nei comportamenti, due circostanze. La prima è quella della connessione esistente tra corruzione e criminalità organizzata. È indubbio che corruzione non è sinonimo di mafie: pur se le mafie utilizzano pratiche corruttive con grande efficacia e determinazione, non si può affermare che tutti i fenomeni di corruzione siano inquadrabili nella criminalità organizzata. E tuttavia sarebbe un errore considerare queste patologie della nostra società e del nostro sviluppo come separate e del tutto indipendenti. Le patologie criminali rispetto allo sviluppo possono essere così descritte, in una sorta di micidiale crescendo: vi sono ampie zone di economia informale (lavoro nero, imprese sommerse) che nel nostro Paese, e specie nel Sud, come abbiamo visto, raggiungono valori percentuali altissimi. Al secondo step di questo percorso vi è la corruzione che non coincide con l’economia sommersa, ma neppure è ad essa del tutto estranea. La alimenta e ne è alimentata con consuetudini ed episodi grandi e piccoli, fino a consolidare veri e propri sistemi; le regole del gioco vengono ignorate o aggirate: la legalità subisce colpi più duri e la mancanza di legalità determina effetti negativi più consistenti frenando le possibilità di sviluppo, come in precedenza abbiamo visto. Infine le mafie: ancora una volta non c’è coincidenza tra i fenomeni, ma è indubbio che vi sono importanti relazioni dirette tra mafia e corruzione. Se condividiamo questo giudizio, se pensiamo che vi sia un continuum tra i diversi fenomeni, una sorta di filiera dell’illegalità che parte dall’evasione minuta delle regole e arriva agli orrori e alla devastazione delle mafie, allora dobbiamo concludere che vi è qualche contraddizione nella reazione dello Stato. È indubbio, ad esempio, che magistratura e forze di polizia stanno raggiungendo importanti traguardi nella lotta alle mafie: lo dimostrano gli arresti di grandi latitanti, ma anche l’attacco ai patrimoni delle famiglie mafiose, mediante norme sulla gestione dei beni sequestrati e confiscati, peraltro da perfezionare. Non si vede, ­161

però, nel contempo, uguale determinazione nel combattere la corruzione, come si deduce dalle difficoltà registrate nell’autunno del 2012 a legiferare in materia. Sembra quasi che una certa dose di corruzione sia ritenuta tollerabile, se non addirittura inevitabile. Anche le forze sociali, forse, possono fare di più: le già citate iniziative assunte dalle organizzazioni imprenditoriali contro la mafia, quali il rifiuto all’iscrizione delle imprese che soggiacciono alle estorsioni, hanno avuto un effetto importante. Analoghe iniziative andrebbero prese nei confronti delle imprese coinvolte in fenomeni di corruzione che, come abbiamo visto, indeboliscono il tessuto imprenditoriale e gli interessi delle imprese sane. La seconda circostanza è che va ribadito, con maggior forza e per certi versi anche con maggiore coerenza, che le mafie si battono non solo con legislazioni appropriate e con una forte azione repressiva, ma anche sul piano del consenso e della loro capacità di insediamento e di controllo dei territori. Anche se diventano multinazionali, anche se hanno quadri e strumenti sofisticatissimi, anche se muovono miliardi di euro, le mafie si alimentano delle loro radici territoriali. E lì può batterle solo un sistema di relazioni sociali positivo, una comunità basata sulla fiducia, reti orizzontali di condivisione e attenzione ai beni comuni. In quelle situazioni parlare di comunità non è vuota retorica ma è una dichiarazione di guerra. Significa gestire bene e in modo sostenibile i terreni confiscati, significa sottrarre i giovani (uno ad uno) alle proposte di reclutamento delle organizzazioni criminali; significa promuovere un ruolo diverso della donna nella famiglia; significa occuparsi in una chiave non tradizionalmente caritativa delle famiglie dei detenuti; significa insomma fare sviluppo sociale e diffondere cultura della legalità, anche minuta. In una parola trasformare il capitale sociale negativo in capitale sociale positivo. Da qualunque punto di vista si affronti il tema dello sviluppo mi pare venga confermata l’idea che bisogna ri­162

partire dal sociale mettendo questo tema al centro della riflessione e della proposta politica. 5. Ma che significa assumere il sociale come dimensione prioritaria nella promozione dello sviluppo? In che cosa deve consistere la discontinuità cui facevo prima riferimento? Come è naturale la risposta va articolata a più livelli: vi è il livello degli intellettuali, degli opinion leaders, degli uomini dell’informazione, particolarmente importanti nell’orientare la pubblica opinione; c’è il ruolo dei meridionali, istituzioni, classi dirigenti, popolazione tutta; c’è una chance per la politica che potrebbe mettere in campo un’offerta innovativa, più credibile e più motivante. Intanto il dibattito e la riflessione sul Mezzogiorno dovrebbero riprendere, in generale, “più fiato”. È desolante constatare come ancora si discuta dell’intervento aggiuntivo, in termini di risorse finanziarie, come se fosse la vera questione. Abbiamo visto che ormai questo flusso di risorse rappresenta circa il 5% dei trasferimenti della Pubblica Amministrazione verso il Sud; e mi chiedo di che parleremo tra sette anni, quando non ci saranno più interventi della ue, quando, cioè sarà sancito che il Sud non è nella fascia dei Paesi più poveri dell’Unione. Se continua così ci ritroveremo tra qualche anno concentrati sull’obiettivo, non proprio esaltante, di dimostrare che quelle risorse saranno ancora indispensabili, decisive, irrinunciabili; e lo faremo molto probabilmente condizionati da una scarsa credibilità collegata a una confermata incapacità di spendere e di spendere bene. Bisogna augurarsi che la riflessione sia insieme più rea­ listica e più “alta”. Per esempio sarebbe bene, e sarebbe assai utile, se in una chiave non difensiva e rancorosa, riflettessimo sul tema del federalismo, casomai studiandoci un po’ meglio Carlo Cattaneo e un po’ meno la proposta di Calderoli. Si potrebbe rinforzare e qualificare la riflessione già in ­163

atto sul ruolo del Mezzogiorno rispetto al Mediterraneo, ricordandosi che questi processi non si consolidano partendo da relazioni di affari, ma sviluppando poderosi processi di confronto culturale, di partenariato nella ricerca. In questa chiave basterebbe un po’ di memoria meno corta per liberare il potenziale di integrazione culturale legato a città come Palermo e come Napoli. Ma soprattutto, se si assumesse davvero quella del Mediterraneo come una dimensione strategica, di un Sud che non “insegue” con affanno e con crescente frustrazione modelli mitteleuropei, si dovrebbe modificare radicalmente il rapporto con le centinaia di migliaia di extra-comunitari che arrivano nel nostro Paese. Il nostro schema di riferimento istituzionale al riguardo è inconcludente: da una parte una gestione difensiva, timorosa e di sostanziale resistenza e spesso perfino condizionata dall’esigenza di “mediare” intollerabili spinte xenofobe, dall’altra una grande capacità di accoglienza espressa da molte associazioni, ma anche figlia di un’antica e saggia tradizione. Andrebbe affrontato in modo adeguato il tema delle città, che possono costituire anche nell’era della globalizzazione un’importante materia di sviluppo per il Mezzogiorno, a condizione che si innovino profondamente le politiche di sostegno3. Ma soprattutto è necessario rendere più forti, più ricche e articolate, più “visibili” le riflessioni e le proposte per rafforzare la coesione sociale, la cultura dei beni comuni, il senso civico, al Sud. Ormai la responsabilità è, ovviamente, nelle mani di noi meridionali. Non perché dobbiamo riparare ad errori compiuti solo da noi; non perché la situazione attuale è solo colpa nostra. Semplicemente perché, con ogni evidenza, se non c’è una più forte assunzione di responsabilità da parte dei meridionali, non se ne esce.

3   Su questo tema vi sono stimolanti riflessioni in un lavoro della Fondazione Res (2012).

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Quando si parla di Sud, in mancanza di argomentazioni più solide, le discussioni nei salotti o al bar, si concludono con la fatidica frase: “è questione di mentalità”. Invece è questione di responsabilità. Qui naturalmente c’è un ruolo importante degli uomini di cultura, dei leader del mondo associativo, delle parti sociali, delle istituzioni, degli organi di informazione. Bisogna scoraggiare un approccio al tema dello sviluppo che faccia sempre e solo parlare della responsabilità altrui, bisogna evitare che tutti siano orientati ad “aspettare” soluzioni costruite altrove; bisogna non consentire mai più a classi dirigenti locali, quando palesemente inadempienti, di trovare alibi e di scaricare altrove le proprie responsabilità. Non è affatto facile, anzi è difficilissimo: perché quando si affronta a viso aperto il tema delle responsabilità non vi sono “zone franche” e il positivo ma faticoso e doloroso contagio delle responsabilità coinvolge tutti e tutto può cambiare. Potrei citare un numero infinito di grandi personaggi, di meridionalisti e non, che con espressioni più o meno note, o più o meno efficaci richiamano i meridionali alle loro responsabilità, li invitano a prendere atto che il loro destino è nelle loro mani. Lo sviluppo non scende dal cielo: la Puglia cambia solo se la cambiano i Pugliesi; la Puglia cambia solo se anche i Pugliesi cambiano. (Viesti, 2005).

Naturalmente questa linea che insiste sulla necessità di una maggiore assunzione di responsabilità da parte dei meridionali suscita una critica prevedibile e scontata: si tenderebbe in tal modo a ridimensionare o a cancellare del tutto le responsabilità della politica nazionale e, soprattutto, di “quelli del Nord”. Io sono invece certo che una nuova, aperta assunzione delle proprie responsabilità da parte della classe dirigente ­165

meridionale, “riaprirebbe” la partita del Mezzogiorno a livello dell’opinione pubblica, prima, e quindi della politica nazionale: darebbe spazio alle posizioni più attente, responsabili e interessate ad una prospettiva innovativa e credibile di solidarietà verso il Mezzogiorno, e isolerebbe le posizioni più rancorose e retrive. 6. Per evitare che l’obiettivo di una maggiore coesione sociale appaia astratto e relegato in una dimensione etico-solidaristica, vale la pena ricordare che cosa significa concretamente promuovere la coesione sociale, anche nel senso di una più coerente offerta politica. Il primo ambito è quello del capitale umano e quindi dell’educazione: asili nido, lotta alla dispersione scolastica, tempo pieno nelle scuole, insegnanti di sostegno, fine dei doppi turni, progetti e programmi per l’inclusione dei giovani in particolari situazioni di rischio, ricordando che da qualche tempo appaiono più urgenti interventi nei confronti delle adolescenti. In quest’ambito rientrano i programmi di orientamento al lavoro dei giovani nei territori in cui è più forte la criminalità organizzata e più allettanti le sue proposte di reclutamento che trovano terreno fertile in diffuse situazioni di disagio giovanile. Il secondo ambito riguarda gli investimenti nella ricerca e nell’università, temi ampiamente analizzati e per i quali non mancano proposte concrete e intelligenti e sui quali, pertanto, non penso valga la pena di soffermarsi. Il terzo ambito è quello dei servizi sociali propriamente detti che stanno subendo, in questa fase, i tagli più gravi e che abbiamo visto, nelle pagine precedenti, essere al Sud relativamente assai carenti: assistenza domiciliare agli anziani non autosufficienti, case famiglia, assistenza e interventi per l’inclusione sociale dei diversamente abili; in questo ambito un rilievo particolare andrebbe riconosciuto all’area dei servizi ai detenuti e alle loro famiglie. Un altro settore di intervento molto importante è quello riferito alla cura, alla manutenzione, alla valorizzazione dei ­166

beni comuni. Quello dei beni comuni è uno dei fattori chiave per la costruzione di solide reti comunitarie. Non conta la definizione delle tipologie; conta l’individuazione di beni, anche immateriali, in cui una comunità si riconosca. Naturalmente grande rilievo hanno i beni culturali, i beni ambientali e grande valore simbolico hanno i beni confiscati alle mafie. Ma di uguale interesse è la valorizzazione dei beni comuni come le tradizioni culturali, enogastronomiche, dialettali, musicali. Una linea di azione particolarmente significativa, cui ho già fatto cenno nelle pagine precedenti, è quella della mediazione culturale e della integrazione degli extra-comunitari. Qui va fatta una precisazione molto importante: chi ha esperienza di territori nei quali è più forte l’impatto con flussi di immigrazione di extra-comunitari, sa bene che, dopo una prima fase ovviamente caratterizzata da grandi difficoltà, se scatta una logica di accoglienza e di integrazione, gli extra-comunitari, lungi dal rappresentare una minaccia per l’identità comunitaria dei territori, ne costituiscono un importante punto di aggregazione e di consolidamento. Se a qualcuno quest’affermazione può apparire strana o provocatoria sarà utile ricordare che in molte aree metropolitane le iniziative e le attività di associazioni che hanno ad oggetto l’assistenza ai bambini in età scolare, trovano nelle famiglie degli immigrati il punto di appoggio più solido e convinto. Per inciso ricordo che molte delle attività che ho richiamato, e in particolare quelle riferite ai servizi sociali, rappresentano, come dimostrano numerosi e qualificati indicatori, un bacino non marginale di nuova occupazione. In queste aree, infatti, oltre a importanti e positive iniziative di volontariato si sviluppano molte esperienze affidate alla cooperazione sociale, che grazie a una più intelligente e razionale combinazione dei fattori, riesce ad erogare servizi con minori costi e con maggiore efficacia. Di grande rilievo le innumerevoli iniziative direttamente dedicate alle fasce più povere delle popolazioni: penso ­167

in particolare all’esperienza del banco alimentare e alle strutture di accoglienza per i senza fissa dimora. Contestualmente si moltiplicano i percorsi in cui il “sociale” si intreccia positivamente con altri settori ed anche con attività produttive tradizionali. Cresce il numero di fattorie sociali in cui l’esperienza dell’inclusione sociale si concretizza in lavori agricoli, di esperienze di utilizzazione delle attività teatrali per il recupero di persone a rischio, di attività artigianali e turistiche svolte da cooperative che associano soggetti diversamente abili. Naturalmente nel momento in cui si sottolinea l’importanza di sviluppare una serie di attività che rafforzino i legami comunitari sui diversi territori, appare importante anche che vi siano adeguate iniziative per aumentare le opportunità per la popolazione di partecipare a processi decisionali. Non si tratta di invocare in astratto meccanismi e percorsi di democrazia diretta, quanto piuttosto di assumere un dato significativo: se diventa un obiettivo quello della maggiore coesione sociale, quella della promozione di identità e reti comunitarie, allora acquista grande momento tutto quanto concerne la partecipazione e la condivisione dei cittadini rispetto alle iniziative assunte, alla loro valutazione, alla loro qualificazione. 7. Provando a declinare le mie riflessioni sul terreno più concreto delle scelte e delle politiche da attuare, senza alcuna pretesa di tracciare un quadro esaustivo, individuo tre linee fondamentali. a) Un primo gruppo di questioni riguarda le politiche generali, quelle che una volta si definivano le politiche ordinarie per distinguerle da quelle straordinarie dedicate al Sud. Come abbiamo visto è su questo versante che si gioca la partita più importante: occorre, al di là di qualsiasi discussione sull’aggiuntività e specialità degli interventi, semplicemente affermare il principio che i cittadini di uno stesso Paese hanno diritti e doveri uguali rispetto allo Stato, incominciando dai servizi essenziali in capo alla Pubblica ­168

Amministrazione centrale. Al primo posto la giustizia, poi la scuola, la sicurezza, la sanità. Se parlando di cose da fare al Sud partissimo da queste questioni faremmo un formidabile passo in avanti. Pari dotazioni infrastrutturali, pari dotazioni di personale, uguale sforzo nella ricerca della efficienza e della efficacia dei servizi. Non sono questioni marginali o, peggio, irrilevanti rispetto allo sviluppo. Ne sono la condizione primordiale. Ma c’è una questione ancora più rilevante, da questo punto di vista, che è quella di valutare il ruolo delle diverse politiche nazionali rispetto al Mezzogiorno. Quest’affermazione, alla luce delle dichiarazioni, dei documenti, dei convegni, insomma della politica ufficiale, appare ovvia fino alla banalità. Ma a ben vedere si tratta invece di un tema che vale la pena riproporre. Non è forse vero che l’oggettiva sottovalutazione delle enormi potenzialità del settore agricolo, di fatto perpetrata per decenni e decenni, ha danneggiato il Sud? Con particolare efficacia la Coldiretti negli ultimi anni è impegnata in una grande operazione culturale e politica per ricordare al Pae­se la centralità e, soprattutto le prospettive del settore, che in una concezione più moderna ed equilibrata dello sviluppo e nel quadro della competizione internazionale, potrebbe dare molto di più al Paese in termini di reddito, di qualità della vita, di occupazione. Anche nella fase acuta della crisi il settore ha raggiunto risultati importanti in termini di occupazione, nuove imprese, bilancia commerciale. Ma è una lotta titanica, perché abbiamo inchiodato nella nostra testa un modello di sviluppo che faceva dell’agricoltura un settore residuale, luogo del vecchio, dell’assistenza, dell’incompatibile con le leggi dello sviluppo “vero”: tanto condizionante è stato lo schema che quando volevamo sostenere la necessità, sacrosanta, di aumentare il tasso di imprenditorialità in agricoltura dicevamo che bisognava “industrializzarla”. Abbiamo sottovalutato il peso insopportabile dell’intermediazione che ha strappato valore aggiunto ai contadini, indebolendoli nelle loro prospettive di reddito e di espansione produttiva. Con danni enormi ­169

soprattutto al Sud. Qualcuno potrebbe obiettare che questo ragionamento è indebolito dalla verifica degli enormi trasferimenti destinati al settore nel corso degli anni. Ma questo è un argomento a favore, non contro, la mia tesi. Un settore da assistere, non un settore strategico. E per capire che significa assumere come strategico il settore agricolo, basterebbe dare un’occhiata alla Francia, anche nei rapporti di quel Paese con la ue, nonostante in Francia l’agricoltura abbia potenzialità nettamente inferiori alla nostre e goda di trasferimenti certamente non meno consistenti. Ragionamento analogo si può fare per le politiche industriali: ho tentato di dimostrare nelle pagine precedenti che la politica di sostegno alle imprese è stata sbagliata e penso che sarebbe ora di rivederla radicalmente. Ma la revisione della materia o la conclamata necessità di abolire gli incentivi (al Sud come al Nord) sarebbe più credibile se fosse accompagnata da uno straccio di politica industriale; e soprattutto se si mettesse fine ad un antico, colossale equivoco delle nostre politiche: si parla continuamente delle piccole e medie imprese, si ricorda che in esse è concentrato oltre il 90% degli occupati e via rivendicando un’auspicata centralità. In realtà siamo figli, specialmente al Sud, di una cultura industriale che considera le pmi come una sorta di eccezione, un non-ancora della catena imprenditoriale; non un’area sulla quale investire, ma un’area da tutelare e da difendere, avendo in testa che lo sviluppo industriale “vero” è quello delle grandi aziende. Quando si progetta un intervento, un programma, un’iniziativa si ha netta la percezione che esso è pensato per la grande industria, salvo prevedere degli aggiustamenti, una sorta di deroga, per le piccole imprese. Vi sono molte prove di questa disattenzione: la più rilevante è l’assoluta mancanza di politiche (non di appelli) per promuovere la media dimensione di impresa, vero handicap della struttura industriale del Sud. Mai vista una proposta, un incentivo dedicato, una politica complessiva. Sembra quasi che le piccole imprese non siano considerate piccole, ma nane. ­170

Agricoltura, piccole imprese, ma anche turismo, artigianato: il Sud ha un interesse relativamente maggiore a che questi settori non vengano considerati, ai tavoli veri, come cose di cui si è “costretti” ad occuparsi in mancanza di meglio. Vi sono molti altri esempi di questioni certamente importanti a livello generale che per il Sud possono avere maggiore rilevanza per le prospettive di sviluppo: un esempio per tutti è quello dei beni culturali; una politica che non si limitasse alla salvaguardia e alla tutela, ma che si ponesse l’obiettivo di favorire percorsi di valorizzazione, sarebbe per il Sud molto rilevante. b) Un secondo gruppo di riflessioni riguarda le risorse supplementari che per un ulteriore e presumibilmente ultimo sessennio, saranno destinate al Sud, o a gran parte di esso, dai Fondi strutturali dell’Unione europea. Potrà sembrare strano, ma penso che la questione più importante al riguardo sia quella di prepararsi, concretamente, alla fase in cui queste risorse aggiuntive non vi saranno più. Non penso ad una attività di denunzia, di lamentela, di rivendicazione, di improbabili studi comparativi con altre aree depresse europee; anzi pavento questo come un grave rischio. Penso invece alla necessità di procedere da subito, con un impegno diretto e positivo: – a verificare con attenzione e rigore tutti gli ambiti in cui le risorse straordinarie dei Fondi europei sono state impiegate per supplire alle carenze dei finanziamenti ordinari; – a smontare la macchina, complessa e variegata, collegata alla gestione dei Fondi europei: mi riferisco alle amministrazioni, specie regionali, ma anche al reticolo fittissimo di interessi professionali (qualche volta paraprofessionali), collegato alla gestione dei Fondi europei: progettazione, monitoraggio, valutazione, assistenza tecnica. Questo strano terziario ha assunto dimensioni notevoli ed è difficile prevederne un’efficace riconversione, anche perché, spesso, si esprime in professionalità molto “dedicate” e alienate da una patologica consuetudine alle ­171

formalità documentali. Questa operazione non sarà facile ed incontrerà resistenze di vario tipo, a partire da quella degli amministratori regionali, abituati ad essere visti come “dotati” di grandi risorse, non proprio facili da spendere ma comunque almeno teoricamente disponibili. Anche tenendo conto di queste esigenze penso che sarebbe opportuno assumere tre fondamentali linee guida: – impostare in modo radicalmente diverso gli obiettivi del Fondo sociale e, ridimensionando le erogazioni per la formazione professionale tradizionale, a vantaggio di qualificati interventi a sostegno della ricerca e, soprattutto, investendo massicciamente nella scuola (il “quarto organo costituzionale” di Pietro Calamendrei!) e nel sociale, anche sulla scorta di piccole, ma significative esperienze, avviate dal ministro Barca e dal sottosegretario Rossi-Doria nell’autunno del 2012; – operare una forte revisione delle politiche di incentivazione alle imprese, in tutti i settori, industriale, agricolo, turistico, abolendo interventi indiscriminati, automatici (compreso il credito d’imposta) ed evitando che le agevolazioni siano utilizzate per “resistere” sul fronte dei costi. Questo consentirà, con serie attività di valutazione, di sostenere le innovazioni, l’internazionalizzazione, le aggregazioni o comunque le dinamiche cooperative tra imprese; – concentrare su un solo settore le risorse per le infrastrutture e precisamente in quelle per la mobilità, soprattutto ferroviarie ed aereoportuali. Ho sempre resistito, psicologicamente, a queste impostazioni, immaginando più importante l’utilizzazione delle risorse a sostegno di processi locali allo sviluppo. Ma bisogna arrendersi all’evidenza dei fatti: quando con la bella ed apprezzabile scelta, dal punto di vista della trasparenza, del Dipartimento per le politiche di coesione è stata accessibile la banca dati dei progetti ammessi a finanziamento, vi è stata la drammatica conferma di un meccanismo impazzito e fuori controllo, di un processo insieme autoreferenziale e ingovernabile. ­172

E d’altra parte se si tentasse di riorganizzare il sistema a mala pena basterebbero i sei anni del prossimo ciclo di programmazione. Meglio, realisticamente, scegliere la strada di un solo, chiaro, riconoscibile obiettivo. c) Infine ritengo che vadano assunti alcuni criteri fondamentali, veri e propri vincoli nella definizione di politiche e anche nella gestione di singoli interventi: – tutti gli interventi di sostegno e di incentivazione, soprattutto quelli di natura economica, devono assolutamente presumere e avere come condizione ineludibile, il coinvolgimento della responsabilità dei destinatari: dagli incentivi alle imprese agli interventi per i disoccupati; dal sostegno alle università alle politiche sociali, tutto deve essere condizionato non solo dalle regolarità formali e dalla giusta attenzione alla massima trasparenza, ma dal coinvolgimento pieno dei soggetti: è questo che, a tutti i livelli, distingue una politica assistenziale da un intervento di promozione dello sviluppo. E l’esperienza insegna che tertium non datur: un intervento o innesca un processo di autonomia o accentua la dipendenza; e quindi bisogna affrontare il tema delle valutazioni ex ante e discrezionali; – bisogna promuovere una logica di mercato e di concorrenza: non è un rigurgito neo-liberista, ma la constatazione del fatto che la scarsa cultura della concorrenza mortifica le spinte imprenditoriali, condiziona il modo di fare impresa, crea un clima ostile allo sviluppo. Per esempio sarebbe ora che le Pubbliche Amministrazioni interrompessero la sciagurata prassi che porta alla costituzione di strutture in house, (cioè di proprietà della stessa amministrazione) concepite in teoria per assicurare maggiore flessibilità ed efficacia, ma di fatto strumento per evitare l’evidenza pubblica nella concessione di appalti e, quindi, inaccettabili eccezioni a una corretta logica di mercato nell’area dei servizi; – occorre privilegiare, negli interventi di sostegno, la logica della rete e, quando possibile, delle aggregazioni: le imprese, i centri di ricerca, le aziende agricole, le iniziati­173

ve sociali devono smetterla di inseguire “in solitaria” l’incentivo ed essere educate ad una dimensione cooperativa. Non penso ad aggregazioni formali, ma ad integrazioni funzionali, da valutare – e monitorare – nel loro contenuto sostanziale; – occorre realizzare una robusta operazione di disboscamento di enti, agenzie, consorzi vari deputati a promuovere lo sviluppo; nelle pagine precedenti ho citato l’esempio dei Consorzi di garanzia fidi o dei Consorzi per le aree industriali; ma si potrebbero citare molti altri casi di organismi pubblici, parapubblici, o tenuti in vita dal pubblico. Su questo aspetto, sull’onda poderosa e qualche volta approssimativa dell’antipolitica, si è sviluppata negli ultimi anni una forte polemica incentrata sul tema dello spreco e delle “poltrone”. Ma non è solo questo il punto, che pure basterebbe. La vera questione è che molti di questi strumenti, per legittimare il proprio ruolo, in una disperata battaglia per la sopravvivenza, di fatto ostacolano lo sviluppo. Non sono solo inutili e, quindi, fonte di spreco: sono dannosi.

Conclusione

«Il Sud sta seduto su un tesoro e crede di trovarlo altrove»: così Erri De Luca in un’intervista del 2010 pubblicata sulla newsletter della Fondazione con il sud. Ne siamo convinti noi meridionali? E soprattutto abbiamo la volontà, la forza, di alzarci, di mettere finalmente gli occhi su questo tesoro, di amarlo e di investire su di esso? Non di chiedere ad altri di investire sul nostro tesoro, ma di chiamarli quando noi stessi con tenacia e convinzione abbiamo incominciato a farlo? Non ne sono sicuro. Senza cadere nella trappola del “di chi è la colpa”, senza pensare che l’obiettivo è trovare giustificazioni plausibili, dobbiamo assumerci le nostre responsabilità e dobbiamo, su questo senso di responsabilità diffusa, costruire una politica plausibile di sviluppo del nostro Sud. Sembrerà strano, ma in territori in cui abbiamo incrociato una politica ipertrofica, pervasiva, incombente; in cui non ci sono stati potere, ruoli, mediazioni, diritti, speranze se non affidati alla politica, dobbiamo registrare una carenza di politica. “La politica che non c’è” dice Viesti nel titolo di un suo bel libro del 2009; o come sottolineava Sebregondi, in un Appunto sulla democrazia diretta già nel 1951, riferendosi alla politica per il Sud ispirata dai cattolici: ­175

In fondo il problema è di trovare il modo di rendere oggettiva nell’azione politica anche l’opera soggettiva; di portare a un valore ontologico di mutamento di struttura anche l’azione psicologica. I cattolici hanno raggiunto una visione “sociale” sul piano sindacale e sul piano cooperativo, non ancora su quello politico istituzionale. In altri termini, non hanno ancora riconosciuto un’autonomia della teoria e della prassi politica.

Al Sud, più che altrove, la mancanza di una buona politica ha fatto grandi danni; e non mi riferisco alla cattiva politica delle ruberie e degli affari. Ma all’assenza di una dimensione politica piena, capace di comporre gli interessi in progetti e speranze collettive, di indicare percorsi impegnativi e insieme credibili, di orientare i comportamenti e di mobilitare. E anche di dividere, ma sui grandi obiettivi e non sulla spartizione delle risorse e sulle liste dei disoccupati. Per questo privilegiare ancora oggi un approccio di tipo economico, sperare di mobilitare le coscienze e di innescare processi di responsabilizzazione collettiva denunciando il divario del pil, sarebbe un errore imperdonabile. Per questo bisogna introdurre una netta discontinuità nell’approccio al tema: ripartire dal sociale, dalla promozione delle identità comunitarie, dalla ricerca di logiche cooperative tra i soggetti. È un lavoro molto lungo. E abituarsi a tempi non brevi è la prima grande discontinuità che la politica deve fare sua. Di solito riflessioni come questa si concludono con frasi del tipo “ce la possiamo fare”. La mia conclusione, e mi costa molto ammetterlo, è più preoccupata. Ci stiamo abituando troppo facilmente a considerare ineluttabile il degrado delle nostre città; a scambiare la memoria delle nostre tradizioni positive con la nostalgia di tempi irripetibili; a considerare le cose che funzionano come casuali e non replicabili eccezioni; a ritenere ovvio che la tradi­176

zionale solidarietà dei meridionali si appanni progressivamente; a vivere confondendo illusioni e speranze. Per farcela, per innestare un circolo virtuoso, pur tra mille e mille difficoltà, dovremmo, soprattutto come classi dirigenti, vivere una stagione di grande discontinuità psicologica, culturale, politica: avere piena consapevolezza della gravità della situazione; decidere radicali cambiamenti nei comportamenti individuali e collettivi; ripartire dalle nostre responsabilità.

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INDICI

INDICE DEI NOMI

Accetturo, Antonio, 66. Acemoglu, Daron, 99. Albanese, Ernesto, 128. Amendola, Giorgio, 12-13. Andreatta, Beniamino, 62, 70-73, 88. Andreotti, Giulio, 69. Ardigò, Achille, 71. Balbo, Felice, 110. Barbagallo, Francesco, 158. Barca, Fabrizio, 74, 76, 80-84, 86, 172. Barucci, Piero, viii. Bassetti, Piero, 50. Bassolino, Antonio, 137. Berlusconi, Silvio, 72. Bersani, Pierluigi, 36. Bonomi, Aldo, 57, 63. Borgomeo, Pasquale, vii. Brancati, Raffaele, 89. Cacace, Nicola, 20. Cafiero, Salvatore, 70. Calamandrei, Pietro, 172. Calderoli, Roberto, 163. Cannari, Luigi, 86. Carminati, Marco, 127. Cassano, Franco, 157. Casula, Carlo Felice, 111n. Cattaneo, Carlo, 163. Ceriani Sebregondi, Giorgio, 39, 51, 110 e n, 111 e n, 112-116, 175.

Ciampi, Carlo Azeglio, 65, 75. Cigliana, Giorgio, 93. Ciotti, Luigi, 160. Craxi, Bettino, 52. Cristofaro, Domenico, 125. Croce, Benedetto, 4. da Empoli, Antonio, 56. D’Antone, Leandra, 17. D’Antonio, Mariano, 50. D’Arrigo, Stefano, 119. De Blasio, Guido, 66. De Filippo, Eduardo, 131. De Gasperi, Alcide, 11. De Luca, Erri, 175. De Martino, Francesco, 12. De Masi, Domenico, 132, 136. De Masi, Pino, 123. De Rita, Giuseppe, 6, 53, 57, 62-63, 65, 67, 110n, 148. De Vito, Salverino, 29, 52-54, 56. Di Leo, Lella, 137. Dolci, Danilo, 37. Dorso, Guido, 104. Draghi, Mario, 102. Dragonetti, Giacinto, 103. Falcone, Giovanni, 160. Fazzari, Domenico, 122. Fenoaltea, Stefano, 24. Fuà, Giorgio, 51. Galasso, Giuseppe, 97n.

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Galiani, Ferdinando, 103. Gaspari, Remo, 30. Genovesi, Antonio, 103. Giannola, Adriano, 49. Giunta, Gaetano, 100, 119, 121. Gramsci, Antonio, 105. Graziani, Augusto, 22. Hytten, Eyvind, 35n. Kramer, Mark R., 99. Laino, Giovanni, 40n. La Malfa, Ugo, 17. Leopardi, Giacomo, 159n. Loffredo, Antonio, 128-129. Lula (Luiz Inácio da Silva), 137. Magnoni, Marco, 86. Marafioti, Luigi, 123. Marchioni, Marco, 35n. Marcon, Giulio, 111n. Marino, Domenico, 100. Marongiu, Giovanni, 69. Meldolesi, Luca, 46, 130. Misasi, Riccardo, 56, 69. Moro, Aldo, 17-19. Mounier, Emmanuel, 111n. Murat, Gioacchino, 127. Musatti, Riccardo, 38-39. Myrdal, Gunnar, 158. Napolitano, Giorgio, 127. Niemeyer, Oscar, 132, 134-138, 140-141. Novacco, Nino, 111n. Olivetti, Adriano, 106-107. Orazio, 159n. Ostrom, Elinor, 7, 100. Palumbo, famiglia, 137-140. Pasolini Dall’Onda, Desideria, 138. Pastore, Giulio, 17, 58.

Pavan Woolfe, Lisa, 78. Pellegrini, Guido, 86. Pesce, famiglia, 123. Pomicino, Paolo Cirino, 43. Porter, Michael E., 99. Potestio, Paola, 93. Ravasi, Gianfranco, 129. Roberto d’Avila, 136. Robinson, James A., 99. Rossi, Nicola, 81. Rossi, Salvatore, 146. Rossi-Doria, Manlio, 104, 148. Rossi-Doria, Marco, 172. Rovano, Angelo, 101. Ruffolo, Giorgio, 101. Salvemini, Gaetano, 103. Salvemini, Maria Teresa, 88. Salzano, Edoardo, 138. Santamaita, Saverio, 110n. Saraceno, Angelo, 110. Saraceno, Pasquale, 8, 14-16, 23, 110, 111n. Scoppola, Pietro, 71. Sen, Amartya, 99. Sepe, Crescenzio, 129. Smith, Adam, 103. Sturzo, Luigi, 11, 104. Sussekind, José Carlos, 138. Sylos Labini, Paolo, 101. Trentin, Bruno, 57. Trigilia, Carlo, 5, 22, 49, 158. Valarioti, Giuseppe, 123. Vanoni, Ezio, 15, 17. Versace, fratelli, 122. Viesti, Gianfranco, 5, 165, 175. Vitale, Marco, viii, 156. Zamagni, Stefano, 103. Zanotti Bianco, Umberto, 106. Zoppi, Sergio, 106n. Zucconi, Angela, 106.

Indice del volume

Premessa

vii

1. Sessant’anni senza risultati?

3

2. L’avvio dell’intervento straordinario: dalla prima “Cassa” alla grande industrializzazione importata

10

3. Quel maledetto divario

24

4. Una politica quantitativa basata sull’offerta 35 5. I tentativi di ripartire dalla domanda

49

6. La fine (solo annunciata) dell’intervento straordinario

69

7. Una diversa politica era possibile

97

8. Coesione sociale e sviluppo: quattro storie 117 9. Il vero divario

142

10. Che fare

152

Conclusione

175



Riferimenti bibliografici

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Indice dei nomi

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