L'educazione (im)possibile. Orientarsi in una società senza padri
 8817072176, 9788817072175

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Maleducati. Trasgressivi. Immaturi. Le ricette salva

gli sono ormai diventate argomento quotidiano di discussione e

confronto fra genitori in crisi e insegnanti rinunciatari. C’è chi grida alla scon tta dell’antiautoritarismo. Chi invoca un ritorno alla disciplina tra le mura domestiche.

Chi accusa la scuola di aver abbandonato il suo ruolo pedagogico. Per Vittorino Andreoli, da sempre attento osservatore del disagio psicologico degli adolescenti e dei loro compagni più adulti, invece il fallimento educativo è un malessere profondo

che riguarda tutti, genitori e no, e che può essere risolto solo con uno sforzo comune. Il primo sintomo va ricercato

senz’altro nella morte della famiglia tradizionale. I bambini avrebbero bisogno di un’unica gura che si occupi di loro: la

madre.

L’aumento delle gure di riferimento – necessario, per molte ragioni, nella nostra società – crea un disaccordo educativo,

ed è la vera causa della loro inquietudine e disobbedienza. Cosa dovrebbero fare, allora, i genitori per far crescere meglio i loro gli? Dovrebbero ritrovare un punto d’unione con tutte le gure che li a ancano: i nonni, le babysitter, le insegnanti

dei nidi e delle scuole per l’infanzia… Educare vuol dire trasformare un glio in un uomo o una donna capaci a loro volta di diventare padri e madri. E per farlo dobbiamo tenere conto dei sentimenti che sono parte indispensabile di ogni

processo di crescita. “I primi tentativi di ricevere aiuto a ettivo si fanno con il padre, con la madre e con i fratelli” scrive

Andreoli. Il legame profondo dell’amore è il primo compito di un buon genitore e deve continuare nelle aule scolastiche

con l’aiuto di maestri capaci di dedicarsi non solo alle battaglie ma anche alle memorie private per riscoprire il piccolo patrimonio di eccezionalità e meraviglia presente nella storia di ciascuno di noi.

VITTORINO ANDREOLI è uno dei maggiori psichiatri italiani. Le sue ultime opere saggistiche uscite per Rizzoli sono La fatica di crescere (2009), Le nostre paure (2010), Il denaro in testa (2011), L’uomo di super cie (2012) e I segreti della

mente (2013).

Vittorino Andreoli L’educazione (im)possibile

Proprietà letteraria riservata

© 2014 RCS Libri S.p.A., Milano ISBN 978-88-58-66403-2 edizione gennaio 2014

In copertina: fotografia © Yolande de Kort / Trevillion Images Art Director: Francesca Leoneschi

Graphic Desiger: Paola Berardelli / theWorldofDOT www.rizzoli.eu

Premessa

Educazione e educare sono ormai parole vuote, ridotte a recipienti destinati a contenere qualsiasi cosa: oggetti ancora buoni, e poi tanti rifiuti. Eppure risuonano come fossero parole sacre. Mi ricordano il folle della Gaia scienza di Friedrich Nietzsche, che gira per il mercato gridando: «Dio è morto, noi l’abbiamo ucciso, io e voi». Dio non può morire, ma è come non esistesse affatto. Educazione: un termine di grande lignaggio, che ora è morto ma continua a essere nominato come si fa anche per le persone care che non ci sono più. Ci si aggira alla ricerca di segni per farle rivivere, evocarle, anche se sono ridotte a spettri, quegli spettri che Amleto scorgeva tra la nebbia della propria mente e con cui farneticava. Ora vedeva delle persone, dopo un poco un’altra cosa. «Come posso fare il padre con mio glio che mi sfugge navigando per il nuovo mondo di Internet che io a malapena conosco?» «Sono terrorizzata dall’idea che mia glia possa buttare il proprio corpo alle ortiche, perdersi sotto i miei occhi che però non vedono. Lei non parla, è muta di fronte anche alla mia angoscia.» «Non so se essere severo di fronte ai comportamenti di mio glio che mi si presenta nelle vesti di un nemico. Cosa mi suggerisce di fare?» Educare vuol dire insegnare a vivere in un mondo così vasto, così mutevole da ridursi a mistero. Educare un figlio misterioso a vivere dentro un mondo incomprensibile. E intanto ascolto gli adolescenti, gli dei genitori smarriti che mi chiedono che fare, li vedo anche se non mi chiamano, anche se la loro voce è afona. Mi pare che vogliano dirmi di essere stanchi di un padre che urla, di una madre che piange. Vorrebbero essere senza padre, quando ce l’hanno, e quando è lontano o non c’è, lo sognano. Padre e figlio, una combinazione impronunciabile, la e che unisce è diventata una o di opposizione: padre o figlio. Nella famiglia domina il principio della lotta e, nel migliore dei casi, non si spara e si cerca la via di un armistizio: dalla guerra calda, quella della violenza, alla guerra fredda. «Come posso insegnare l’algebra in mezzo al rumore di una classe che ritiene la mia materia un’inutile decorazione per il tempo presente? Come faccio a punire, quando sento che questo atteggiamento incita una opposizione ancora maggiore? Vengo a

scuola e sono avvolto dalla paura dei miei stessi allievi. Mi fanno paura.» La mia mente è bombardata da queste domande a cui non so dare una risposta. Quando mi pare di poter sostenere con chiarezza una posizione, poco dopo sono preso dal dubbio che la mia visione sia legata a un passato. Un passato che rimanda solo a un anno fa, eppure è roba defunta, arcaica. Ho iniziato a scrivere queste pagine partendo dal dubbio, per dare un senso all’educazione, per salvare questa parola dall’oblio e dalla banalità. La banalità dei significati. E ho sognato che l’educazione, che oggi mi appare impossibile, possa diventare possibile. Scrivendo ho capito che per questa metamorfosi non basta un professore, serve un’intera società, una società che abbia la forza di cambiare rotta. Io e ciascuno di voi. Intanto io tento di fare la mia parte, con passione.

L’educazione mancata

L’educazione imperativa: quando educare significa sottomettere

Fare la storia dell’educazione signi ca ripercorrere al contempo quella del potere all’interno della famiglia, delle scuole e delle piccole società. La macrostoria, la Storia maiuscola, che concentra la sua analisi sulle azioni dei governi e degli Stati, dedicando capitoli e capitoli alle guerre, per la quale Marc Bloch coniò la de nizione di “histoire bataille”, si contrappone alla microstoria, che comprende anche le vicende legate ai diversi sistemi educativi. È interessante notare che lo storico francese, delineando il suo nuovo approccio di studio, concentrò la sua attenzione proprio sul matrimonio, un’istituzione che, tra l’altro, permette di esaminare il potere dell’uomo sulla donna, del marito sulla moglie. Non ho mai nascosto di condividere il pensiero di Thomas Hobbes, secondo il quale la storia umana è il racconto della pulsione che egli aveva chiamato dell’“homo homini lupus”. È innegabile che il potere è la forza dominante in tutte le specie animali, eppure nel caso dell’uomo, considerato all’apice dell’evoluzione, si è quasi sempre relativizzato questo istinto in nome della supremazia della ragione. Una presunzione che spinge a dimenticare la sua sconvolgente violenza. Per parlare di educazione si deve partire dal ritmo delle generazioni e, in modo particolare, dal tempo necessario per passare dalla condizione di glio a quella di genitore. L’educazione del resto è e etto del bisogno primario di prolungamento della specie, che si lega all’imperativo biblico del multiplicamini. I termini padre e madre sono molto più recenti rispetto a quello di genitore (che accomuna le due gure) e delineano una separazione che ha come fondamento la supremazia dell’uomo sulla donna: da pater deriva infatti patrimonium (la ricchezza), da mater, matrimonium (il dovere di essere legata). E questo è in fondo l’esito di una battaglia, poiché la gura materna e quella paterna si sono per un lungo periodo contese la predominanza nell’educazione dei figli. Una contrapposizione che si era già rivelata in ambito religioso, dove la Dea Madre e il Dio Padre hanno avuto in fasi diverse il sopravvento l’una sull’altro. Il diritto paterno al ruolo educativo si a ermò all’incirca diecimila anni fa, in corrispondenza con un grande cambiamento della struttura sociale, quando l’uomo, sino ad allora cacciatore o semplice raccoglitore dei prodotti della terra, scopre l’agricoltura. Il primo e etto fu la transizione dal nomadismo alla stabilitas loci, alla stanzialità, che prevedeva l’insediamento permanente in una casa per la famiglia e in un villaggio per la comunità. L’uomo viveva non più di ciò che la terra dava spontaneamente, ma di

quanto lui stesso coltivava. È in questo contesto che emerge la gura dell’homo genitor, cioè di colui che, con un gesto erotico, la copulazione, produce nella donna un e etto, la nascita, a nove mesi di distanza, di un figlio. Prima di allora, la liazione era un fenomeno esclusivamente femminile, che prevedeva semmai l’intervento di uno spirito che rendeva fertile, dunque gravida, una donna. Era insomma necessario riferirsi a qualche Ente, sia pure invisibile, per poter distinguere le donne fertili da quelle sterili e dare ragione della sterilità delle donne in alcune fasi della loro vita. Sia l’escissione (asportazione del clitoride e delle piccole labbra) che l’in bulazione (asportazione del clitoride nelle varianti parziale o totale) avevano lo scopo di rendere possibile, o facilitare, l’entrata agli spiriti fecondatori. Ma con l’osservazione che possiamo de nire scienti ca, certamente favorita dal nuovo contesto agricolo e in particolare da una nuova familiarità con il comportamento degli animali addomesticati e con i loro sistemi di riproduzione, emerge il ruolo dell’uomo come sostituto degli spiriti. È naturalmente di grande interesse rilevare come tutto quanto era stato attribuito agli dèi venne poi assegnato agli uomini. Così l’espressione “possedere una donna” per fecondarla, riferita all’intervento degli spiriti, è rimasta per indicare quello dell’uomo, anche se con una ancor più precisa dimensione fisica e carnale. Prima di questa grande scoperta, che alcuni antropologi attribuiscono alla popolazione dei natu ani, dominava la religione della Dea Madre, la Dea genetrix, portatrice di un sommo potere: senza di lei la società non poteva nemmeno con gurarsi. Per un lunghissimo tratto di storia la donna, responsabile della nascita e della crescita dei gli, è stata il vero dominus delle società, anche laddove la caccia era attività specifica del maschio e contribuiva a risolvere l’esigenza primaria dell’alimentazione. Una religione della madre ha quindi dominato per molto tempo, ed è soltanto, lo ripeto, con l’invenzione dell’agricoltura che l’uomo assume il ruolo dello spirito fecondatore, per cui egli stesso assurge a divinità, favorendo la nascita della religione del padre e del Dio-Padre, in cui ancora ci troviamo. Presso i sumeri (che si stabiliscono in Mesopotamia nel 4000 a.C.) la Dea Madre esiste, e si unisce il primo giorno di primavera con il Dio Toro. Nell’Antico Egitto (civiltà che si sviluppa lungo il Nilo a partire dal 3200 a.C.) Horus diventa il sommo dio, ma tuttavia permette la presenza di donne nel pantheon egizio, sia pure in dimensione e ruoli minori. Con la religione ebraica, che si innesta su quella egizia, le divinità femminili scompaiono. Jahvè è il dio solitario, iroso, che impone persino le prime regole dell’educazione: le Tavole della Legge. È impressionante seguire il decadimento della gura femminile all’interno del mondo ebraico: la donna viene colpevolizzata per tutti i mali del mondo, a cominciare dal peccato originale, un errore solo suo, che ricade sulla prima coppia provocandone la cacciata dall’Eden. È da quel momento che tutti nascono peccatori. La gura della donna evoca inoltre anche la contaminazione, e quindi il male,

facendo dire a Salomone, il grande re saggio: “Trovo che amara più della morte è la donna” (Ec 7,26). È evidente che in questa percezione la donna non poteva essere la responsabile dell’educazione. La sua condanna si lega proprio alla sua biologia e a un male sostanziale, visibile: le mestruazioni. Il sangue mestruale è il tramite della contaminazione, è il vero e irrimediabile pericolo che l’uomo corre. Essendo espressione del male, anzi, all’origine del male stesso, la donna non può essere l’educatrice dei gli. Una distinzione di genere che comporta un destino e una considerazione sociale differenti rispetto a quelli riservati al maschio. Si delinea uno scenario dove la madre, utile soltanto ad accudire i bisogni del corpo ma non dello spirito, è inabile per costituzione all’educazione, mentre il padre ne è l’unico depositario secondo il criterio delle Tavole della Legge, che si reggono sulla formula del “non devi” e del “se fai verrai punito”. Nel rapporto padre- glio la pena è concepita secondo il sistema di ordini che Jahvè dà al suo popolo eletto e quindi possiede la dimensione dell’eterno. È così che nasce la paura del padre. E, come Jahvè è l’unico riferimento per il suo popolo eletto, analogamente il padre, nell’ambito generazionale, è fatto a immagine del Padre divino. Sarà Freud, ebreo, a immaginare che il piccolo Jahvè della terra dell’educazione non minacci il figlio con la condanna eterna, bensì l’evirazione. Ecco alcuni degli elementi che hanno istituzionalizzato l’educazione della paura.1 Per la riabilitazione del ruolo femminile bisognerà aspettare un ebreo di nome Gesù,2 colui che si contrappone alla Legge, in modo particolare proprio sul tema della donna.3 La famiglia, come si rileva da questi richiami, ha un’origine storica e in questo senso non è a atto naturale, termine che fa pensare a una natura “naturata” e non “naturante”, a una concezione di tipo aristotelico, per cui la natura è un hortus conclusus, immodi cabile, quando invece essa mostra un’evoluzione e pertanto anche un continuo cambiamento. Insomma, la natura genera natura e include persino l’uomo e la sua stessa storia, che certo non può essere considerata immodificabile. A me pare ingiusti cato voler attribuire alla famiglia – così come oggi la consideriamo – la connotazione di “naturale”. Signi cherebbe, per esempio, ritenere innaturale l’organizzazione sociale degli elefanti, degli orsi, delle pecore, di molte specie di uccelli e della maggior parte delle migliaia e migliaia di insetti. Non possiamo tuttavia negare che la famiglia umana nello schema trinitario, padremadre- glio, si sia storicamente imposta e abbia trovato una forte difesa sia sul piano religioso sia su quello legislativo. Questi cenni alla storia della famiglia (che certo meriterebbero maggior approfondimento) dimostrano in maniera decisiva che questa struttura sociale svolge un ruolo indiscutibile nella storia dell’educazione, anzi, è stata il primo e più importante

ambito educativo, sempre all’insegna della paura del padre. Un’impostazione che comporta inevitabilmente un giudizio negativo nei confronti delle strutture familiari “nuove” o “diverse.”4 Pensare di opporsi al grande mutamento sociale che negli ultimi decenni ha sconvolto la struttura familiare è impensabile o addirittura folle. E invece ogni giorno dobbiamo riconoscere segnali che rivelano una forte resistenza, una volontà di difendere la famiglia tradizionale che ignora il cambiamento della società, degli uomini e delle donne che la costituiscono. Se poi si considera che i mutamenti sociali sono talora in grado di mettere in contrasto due generazioni, quella dei padri e quella dei gli, e che si osservano divisioni profonde all’interno di una stessa generazione di gli, ci si rende conto di come la vecchia struttura familiare rimanga ormai un riferimento del passato, uno stile di esistenza che in questo nuovo “teatro” viene per lo più solo recitato. Il risultato più evidente di questa situazione è la difesa a priori di una struttura all’interno di una società che, in confronto soltanto a qualche decennio fa, è ormai irriconoscibile. Nello stesso tempo, la proposta di nuovi modelli familiari – che certo non devono essere accettati in modo acritico – arriva proprio dagli eretici che continuano ad aumentare. La struttura familiare tradizionale ha separato nettamente i ruoli, non solo della madre e del padre, ma anche del glio maschio rispetto alla femmina, che ha sempre seguito percorsi educativi di erenziati. Questo sistema ha avuto ri essi persino nell’economia, visto che il primogenito ha sempre goduto del diritto sui beni economici in maniera esclusiva. Se appare innegabile che la spiegazione storica della nascita della struttura familiare è di tipo economico, è altrettanto chiaro che non è lecito far dipendere dall’economia il difficile processo educativo. Le società continuano a trasformarsi, mutano gli atteggiamenti psicologici, i desideri, le motivazioni all’origine dei comportamenti, la sessualità e le relazioni d’amore. Com’è pensabile che questi sconvolgimenti possano essere contenuti entro un edi cio educativo rigido come quello familiare che si vorrebbe immodificabile? E infatti la famiglia tradizionale è ormai segnata dai matrimoni che si frammentano e si consumano con una rapidità che interrompe drammaticamente ogni piano, esplicito o implicito, posto dall’organizzazione familiare nell’atto costitutivo. Senza contare la trasgressione degli eretici, intesi proprio nel senso etimologico, come coloro che scelgono un sentiero diverso, che diventa di cile percorrere sia perché si situa al di fuori della tradizione, sia perché condannato dalla religione e dalle leggi civili. Ma ad avvertire che la famiglia – difesa a oltranza e fatta apparire come la sola possibilità organizzativa, poiché naturale – non risponde alla nalità dell’educazione sono soprattutto i gli, attraverso i loro comportamenti di disagio e di malessere. Per molto tempo questi atteggiamenti non sono stati considerati come e etto di dinamiche familiari, ma interpretati come singoli casi da de nire semplicemente anormali. Sono stati loro a pagare l’incongruenza di un’ossessiva resistenza al cambiamento.

In questo nuovo panorama dell’eresia si profila anche una speciale sezione che ricorda i tempi dell’Inquisizione: le carceri, che oggi si chiamano collegi e scuole. I gli che non si adeguano alla rigida struttura familiare possono essere infatti portati sulla retta via in un unico modo: sottoponendoli a pene correttive. Il concetto di anormalità mentale, che riguarda il modo di pensare e il comportamento, si fonda su criteri puramente sociali, soprattutto quelli che interessano l’ordine pubblico. Persona normale è chi sa interpretare la volontà del potere, espressa attraverso delle leggi scritte e altre non scritte ma esemplificate nelle tradizioni, e le rispetta. Si potrebbe anche dire che il normale è colui che non infastidisce il potere collocandosi nella media della società. Società che, pur ammettendo qualche minima disobbedienza, premia chi è ligio al potere. L’educazione ha successo se produce gli secondo i desideri del potere, solitamente civile, peraltro quasi sempre in sintonia con quello religioso. Ne sono stati chiari esempi le monarchie “volute da Dio” e le religioni di Stato iniziate con Costantino, che elesse il Cristianesimo a religione dell’Impero. Per arrivare ai concordati più recenti, in cui il rapporto tra potere civile e Chiesa è sancito puntualmente con l’intento di prevenire qualsiasi dissidio. La normalità quindi è abitualmente intesa come rispondente ai dettami sia di Cesare che di Dio. E infatti ci sono leggi dello Stato che puniscono chi bestemmia nominando il nome di Dio invano e condannano le opposizioni alle istituzioni religiose, operando delle vere e proprie difese teologiche. Gli intrecci tra Stato e Chiesa, per passare alla dimensione del nostro Paese, hanno fortemente coinvolto anche l’educazione: da un lato esiste la scuola cattolica, che è al contempo scuola legalizzata, e dall’altro la scuola di Stato, che svolge funzioni educative di tipo religioso attraverso l’insegnamento della religione da parte di docenti indicati dalla Chiesa e pagati dallo Stato.5 E questo è solo uno degli esempi che provano l’inesistenza di una vera laicità della res publica. Il concetto di normalità mentale è qualcosa che non si trova insito nel singolo uomo, né all’interno della sua biologia né dentro il suo pensiero, ma nasce dal rapporto individuo-società e dal grado di adeguamento del singolo alle regole imposte a tutta la collettività. Questa interpretazione della normalità può essere fatta risalire alla ne del XVII secolo,6 momento in cui la mano dello Stato viene posta sulla salute mentale perché venga controllata, sia pure in maniera indiretta, dalla gura dello psichiatra, che diventa il tramite per la gestione della normalità e che deve rispondere al mandato dello Stato. Nella visione di Michel Foucault, il primo ospedale in Europa destinato al controllo mentale è Bicêtre, e il primo psichiatra è Philippe Pinel. Per fare un accenno all’Italia, che ha raggiunto l’unità nazionale più tardi della Francia, va ricordato che la prima legge del regno per il controllo della salute mentale è del 1904, in cui si de nisce malato di mente colui che è “pericoloso a sé e/o agli altri

oppure è di pubblico scandalo”. Credo che non ci sia de nizione più ingenua e più chiara per dimostrare che le anomalie della mente sono misurate sulla dimensione sociale. E la pericolosità è data dall’insieme dei comportamenti che il potere deve costantemente impedire e prevenire per tenersi saldamente al comando e per garantire lo status quo economico e sociale.7 Ne deriva che l’eretico nei confronti della “religione del padre” e della “cellula della società”, la famiglia, diventa ipso facto malato, seguendo una linea che sovrappone in ogni aspetto la malattia di mente alla pericolosità sociale. Se leggiamo la storia della dissidenza politica, ci rendiamo conto che colui che non condivide il pensiero del potere è ad alto rischio di venire giudicato “pazzo”, così come avvenne in Unione Sovietica in epoca stalinista. Ma già l’Inquisizione giustiziava tutti coloro che dissentivano dai dogmi della Chiesa. E, andando ancora più lontano nel tempo, pensiamo all’eresia di Ario, che riguardava esclusivamente la materia teologica – sostenendo che Cristo non era Dio e quindi negando anche la sua eternità – e non poteva certo avere ripercussioni sullo svolgimento della società civile su questa terra. Ma Ario e i suoi seguaci furono tutti condannati da Costantino al Concilio di Nicea del 325, un evento storico che prova come in una società il potere e le sue due espressioni, divina e terrena, abbiano i medesimi scopi: quelli del comando.8 La religione del padre e la famiglia, come luogo e stile di relazioni, generano degli eretici che vengono giudicati da un’inquisizione che non li mette più al rogo, ma li considera anormali e li allontana nettamente dai gli sani di mente, che accettano l’imperio del padre e i suoi limiti talora as ssianti. La loro prospettiva è di passare dall’anomalia adolescenziale alla follia cronica, propria dell’età adulta. Lo sviluppo patologico segue delle tappe speci che, prevedendo l’osservazione educativa e il recupero della normalità. Anche se è ammesso un certo grado di tolleranza della deviazione, tuttavia, nel caso in cui non si dovesse compiere “la correzione educativa”, vengono applicate sia le diagnosi psichiatriche sia le terapie che escludono dalla società: un tempo erano i manicomi, oggi sono i farmaci, o meglio gli psicofarmaci e le diagnosi che hanno il significato di stigma di esclusione. Il periodo della crescita è dunque visto come una fase di transizione, che ammette alcune forme di insicurezza e di indeterminatezza, che vanno comunque sanate prima di raggiungere l’età adulta. La creazione di questo periodo è puramente convenzionale, e ha lo scopo di sospendere temporaneamente il giudizio di anormalità, tenendo i gli nella condizione di massimo controllo per poter in seguito applicare subito i sistemi di correzione e di contenzione. Insomma, l’educazione tende a riportare i gli alle regole del padre sia dentro il rapporto familiare sia dentro l’insieme sociale. Come ho detto, quando questo non avviene, la diagnosi e la terapia si trasformano in un giudizio e in una pena, che si mascherano nel clima proprio della sanità. Per molto tempo i casi anormali e resistenti alla correzione sono stati de niti inguaribili, aprendo le porte del manicomio, che aveva il compito della esclusione sociale. Successivamente al manicomio, luogo di contenzione de nitivo, si è sostituita

l’assunzione perenne dei farmaci. Oppure la psicoterapia o la psicoanalisi, nei casi in cui alla terapia delle molecole si affianca quella della parola e della relazione. Ma anche questa cura può diventare interminabile, una vera e propria contenzione entro le catene del dominio del terapeuta nei confronti del paziente. Come ho già accennato, nel periodo della transizione – infanzia, ma soprattutto adolescenza – si applicano i sistemi di educazione correttiva e si formulano le prediagnosi. La prima è quella di maleducato. Un’espressione ancora benevola, che racchiude il dovere di raggiungere un comportamento adeguato rispetto alle aspettative sociali, che non è solo di sostanza ma anche di forma. Tiene conto cioè delle belle maniere. La maleducazione poi non attribuisce la colpa esclusivamente all’adolescente ma chiama in causa anche il sistema educativo, che, a sua volta, non riguarda soltanto il padre e la famiglia, poiché l’educazione è stata estesa a diverse figure. Un altro termine pre-diagnostico è trasgressivo. Si tratta di un comportamento che in sé può essere molto grave e, se compiuto al di fuori dell’età dell’educazione, viene sanzionato. Il trasgressivo è infatti colui che segue d’abitudine le regole, ma che, periodicamente o occasionalmente, agisce-contro. Il fatto di inserire il danno provocato a sé e/o agli altri dentro un comportamento d’abitudine corretto porta a mutare il giudizio sull’azione compiuta, indipendentemente da qualsiasi altra considerazione. Una prova che i padri hanno un grande senso di tolleranza verso le trasgressioni e che il termine, avendo per attore un adolescente, connota diversamente il gesto. Anche in questo caso la trasgressione diventa una diagnosi transitoria e benevola e non è affatto considerata un esito definitivo.9 Una diversa valutazione dei comportamenti è espressa da un’altra parola: opposizione. In questo caso ci si riferisce a un adolescente che sistematicamente non obbedisce. Il padre richiede un’azione e il glio sceglie un comportamento del tutto antitetico. “Vai a scuola” è la richiesta, marinarla è la decisione; a “non fumare tabacco” corrisponde comperare subito le sigarette. È tipico dell’opposizione mettere in atto il comportamento inaccettabile solo dopo aver ricevuto la richiesta, come se fosse subordinato all’esplicito richiamo della norma. L’opposizione è dunque diversa dalla trasgressione, ma anch’essa è considerata già un piccolo disturbo della mente, che esprime non soltanto la fatica di obbedire, ma l’impossibilità di farlo. La trasgressione rimanda al carnevale in cui ciascuno di noi, con una maschera sul volto, può “permettersi” gesti, espressioni che, tolta la maschera, non si sentirebbe di ripetere, di avallare. L’opposizione richiama invece la relazione tra padre e glio, come se all’origine del gesto ci fossero le condizioni dell’incontro. E, infatti, i due soggetti, presi singolarmente e al di fuori della relazione, non mostrano alcuna anomalia. Vi è un altro termine che domina la pre-diagnosi, ed è quello di immaturità.

Se l’educazione è il processo di maturazione che porta il giovane a essere fedele al padre e obbediente alle richieste sociali, si deve ammettere che egli può compiere oggi delle azioni che in futuro, completato il processo di crescita, non ripeterà più. Si tratta quindi di comportamenti limitati al periodo educativo, e che danno la garanzia (o la speranza) di scomparire in seguito. Si arriva al paradosso per cui un comportamento negativo è indice di un processo in corso, e quindi anche di una previsione di successo. In un certo senso immaturità sembra una parola magica, che permette metamorfosi stranissime, inimmaginabili persino a Ovidio. Esiste poi una immaturità sociale che esclude ogni responsabilità personale, come se a essere malata fosse l’età e non il singolo ragazzo. I sedici, diciotto e ventuno anni stanno a indicare tre limiti che sono propri non del soggetto ma della sua età. Egli non può esercitare certe funzioni, e al contempo non è considerato responsabile di comportamenti che, al di là di quel limite anagra co, sarebbero gravi e per questo puniti. Queste tre età diventano, in qualche modo, l’indice di tre gradi di maturazione, che dovrebbe compiersi definitivamente con i ventuno. In questo piccolo vocabolario pre-diagnostico, in cui si tende a non pronunciare ancora la diagnosi di anormale (che indica invece uno status), bisogna menzionare la parola rivolta. Il suo signi cato è decisamente diverso. L’adolescente in rivolta compie azioni-contro, ma lo fa dopo aver analizzato attentamente la proibizione (non fare) o l’imperativo (fai), e dopo essersi accorto che essi sono inaccettabili, come se violassero profondamente la sua visione del mondo e il suo stile di vita, assunti sia pure in età di crescita. È come se il giovane non soltanto non fosse immaturo, ma mostrasse una maturità anticipata e in un certo senso precoce. Il suo modo di agire ricorda uomini di grande valore, come Tommaso Moro che ri utò di fare ciò che gli chiedeva il re, perché l’azione sarebbe andata contro i principi in cui egli credeva. Altro esempio è certamente quello di Socrate, che ri utò l’autorità di chi lo giudicava, dimostrando che non era degna di rispetto. L’uomo in rivolta è il titolo di un bellissimo saggio di Albert Camus, in cui viene fatta l’esaltazione dell’uomo che dice di no al tiranno, e dice di no persino a Dio.10 L’adolescente in rivolta è visto come un anormale, ma paradossalmente la sua anormalità risulta persino virtuosa, mentre la normalità che ci si attende da lui è in realtà l’immaturità. Come ultimo paradosso del sistema educativo voglio ricordare il caso di un glio molto dotato che, frequentando una classe di scuola regolare, viene percepito come un disadattato, e dunque un diverso da emarginare. Ma quali sono le pene per coloro che non accettano il potere del padre e la sovranità delle regole sociali? Il loro termine scientifico è quello di sistemi di correzione. A meritare il primo posto è il collegio.

Per poter parlare di collegi in generale e sostenere il loro signi cato esplicito o implicito di luoghi di punizione, si deve partire da una de nizione di educazione e dei relativi sistemi per promuoverla. Mi limito a considerare che l’educazione è un sistema di interventi che devono portare le nuove generazioni a vivere secondo i criteri stabiliti dai padri, dalle leggi vigenti e dalle tradizioni non scritte. Per essere più espliciti, l’educazione insegna a vivere seguendo le convinzioni del padre e rispettando le leggi di una società, leggi che tendono a conservare l’esistente, impedendone ogni variazione. Il potere desidera soltanto e sempre che la società non cambi. È l’unica condizione perché possa continuare a dominare. Ritengo che uscire da questa posizione concreta porti le considerazioni sull’educazione sul piano delle illusioni e dei sogni. Per educare occorre tenere conto dei sentimenti e delle pulsioni che la biologia ha inscritto in ciascun uomo. I sentimenti sono infatti una parte determinante dell’esistenza. Così, se da un lato viviamo contando sulla razionalità, che ha un compito considerevole nella conoscenza, dall’altro siamo soggetti all’a ettività, che sfugge al principio di non contraddizione, ma segue una “logica” che è informata dall’insicurezza umana. La razionalità guida alla comprensione dei criteri a cui l’educando è sottoposto, collegandoli in un sistema che non solamente è chiaro, ma persino atteso; nel momento in cui il giovane contravviene alla logica di questi criteri, capisce anche il senso del gesto compiuto, percepisce di essere contro, e quindi di meritare una pena. Permette il dubbio, la discussione, come metodo di convincimento, per giungere alla verità che rende possibile prevedere e discernere. L’a ettività si fonda sui legami, sulle relazioni umane e va guidata al rispetto dell’autorità che impartisce le norme e che somministra le pene in caso di violazione. L’adolescente deve avvertire, andando-contro, la vergogna e un senso interiore di colpa, come se i comportamenti proibiti fossero riprovevoli anche per chi li esegue. Non è in causa soltanto il capire, ma il sentire: dall’amore liale all’amore di patria, che è un sentimento radicato nella propria storia. La vergogna è la sensazione di malessere che uno prova di fronte agli altri nel compiere o nell’aver compiuto un gesto-contro. La esprime bene il rossore che l’accompagna, un eloquente messaggio della super cie cutanea che segnala la di coltà di mostrarsi dopo aver commesso un’azione proibita. La colpa è invece la sensazione di malessere che si avverte indipendentemente dall’altro. In questo caso si ha la sensazione di essere andati anche contro se stessi, segno che il divieto non è stato solo appreso ma anche interiorizzato, ed è diventato legge interiore, “la legge morale dentro di me”.11 Ed ecco quindi i collegi, le “crudeltà educative”, vere e proprie carceri dell’educazione, luoghi di punizione, nonostante il carattere di transitorietà, che promuovono una serie di attività utili a ricondurre al rispetto del padre e delle regole sociali.

Possono avere impostazioni e gestioni molto diverse tra loro, gradi di severità e riferimenti a principi distantissimi, ma nessuno prescinde dallo scopo educativo così come noi l’abbiamo tratteggiato. Molti dei collegi sono a fondamento religioso, e quindi si ispirano a una visione teocentrica del signi cato dell’uomo e del suo vivere nel mondo. Sono certamente tra i più rigidi, poiché le religioni, in particolare quella cattolica, radicata sul concetto di peccato e di perdono, fanno riferimento al Padre (Padre Nostro). I collegi, di qualsiasi censo, principio e ispirazione, sul piano delle a ettività sono degli orrori. Quanto all’e cacia didattica sono invece sicuramente degni di grande rispetto. I sentimenti esprimono un bisogno di sicurezza, di considerazione e amore, non sono perciò possibili dove dominano l’autoritarismo e la paura della pena. I primi tentativi di ricevere aiuto a ettivo si fanno con il padre, la madre e i fratelli. Il collegio, separando il bambino dalle sue fonti primarie di sicurezza, impedisce questa esperienza, anzi, è concepito proprio per sanzionare le di coltà che queste relazioni possono aver rivelato. Così, invece di vedere la di coltà e il con itto come stimoli di natura educativa, per trasformarli (si dice anche elaborarli), si sceglie l’inserimento in un collegio, a dandosi alla sua gerarchia educativa, che per de nizione non è e non può essere affettiva. Il legame profondo, quello dell’amore, non è una questione che possa appartenere al personale docente o ai tutor di un collegio, ma è proprio delle relazioni con i genitori o con le persone scelte (liberamente, questa volta) nelle esperienze sociali. Del resto ogni collegio sa che deve impedire la nascita di legami d’amore all’interno dell’istituzione, sia nei confronti degli adulti che dei coetanei. Il suo obiettivo è valutare le carenze di ciascun adolescente, mettere in atto progetti comuni e speci ci, in rapporto all’età e alla fase dell’adolescenza, e applicare sistemi di correzione e di riabilitazione sociale. In questo non si distingue molto dal carcere, quando oltre alla punizione attiva anche una “educazione” tardiva. Il rapporto tra collegio e carcere meriterebbe un approfondimento, proprio perché in alcuni momenti storici si è tentato di fondare entrambe le istituzioni sugli stessi principi. L’adulto che commette reato si considera come un adolescente che ha bisogno, sia pure fuori tempo, di essere educato. Da qui deriva l’idea di un’educazione rigida e punitiva, possibile solo là dove manchi la libertà. Nel collegio, analogamente, è la persona immatura, in una fase della crescita, che deve essere sottoposta alle stesse misure, per riuscire a portare a termine il processo educativo nei tempi previsti. Con Cesare Beccaria e il suo Dei delitti e delle pene (1764), il carcere ha acquisito una dimensione analoga a quella dei collegi e questa nuova visione educativa ha messo fortemente in crisi il concetto di pena perpetua, intesa sia come ergastolo, sia come condanna a morte. Il criminale, adolescente fuori tempo, è da educare. Il collegiale è un adolescente che si oppone in qualche modo al padre e alle leggi dello Stato (del potere) e quindi deve essere corretto, poiché l’educazione è un suo diritto. Come a dire che lo si mette in “carcere” non solo per il suo bene, ma persino su una sua

inconsapevole richiesta.12 La falsità degli adulti è riuscita a coprire lo scopo primario dei collegi. Nascosto l’obiettivo di correzione, essi non sembrano altro che luoghi che permettono di frequentare scuole più impegnate, di maggior valore educativo e di pregio, un’occasione esclusiva destinata a rampolli di censo economico elevato.13 È fuori di dubbio che anche i collegi hanno subìto profonde trasformazioni: oggi, almeno nel nostro Paese, essi hanno una sionomia che ri ette i dubbi di questa società e il crollo di tutte le certezze, comprese quelle legate ai criteri educativi. Molti collegi non prevedono più la stanzialità e pertanto il confronto con il carcere non è più possibile e diventa legittimo il parallelismo con la semplice realtà scolastica. Analogamente non si possono dimenticare i casi in cui il carcere permette esperienze controllate fuori delle sue mura. Ribadisco, considero le scuole del passato una variante delle istituzioni carcerarie e dei collegi. L’obbligo scolastico non è stato introdotto come e etto straordinario dell’evoluzione dei diritti dell’uomo e dell’amore del sapere, ma perché tutti devono essere educati nella religione del padre e in armonia con la stabilità del potere. Non è casuale che l’estensione del diritto di accesso alle scuole coincise con l’introduzione sperimentale dell’insegnamento nelle città o nei quartieri in cui era elevatissimo il numero dei crimini e la violenza in ambito familiare. È questa anche la storia comune alle istituzioni di matrice religiosa che, in particolare nella seconda metà dell’Ottocento, si sono dedicate all’educazione dei poveri e degli emarginati. Ed è anche la storia del percorso fatto da Maria Montessori. Obbedienza al padre: per questo la scuola dell’obbligo (termine orrendo) è da mettere nel pacchetto degli strumenti di difesa del potere stabilito, quello che una volta prevedeva l’obbligo al servizio militare che preparava alla guerra contro tutti i nemici dello Stato. Basti dire che continua a imperare l’obbligo alla bocciatura, e dunque alla sanzione, che colpisce il ragazzo e nello stesso tempo le famiglie. Una scuola che costringa un adolescente a ricevere giudizi negativi, confronti frustranti con i coetanei e bocciature, è un sistema ra nato di tortura. E va contro non solo ai principi di libertà, ma a tutte le odierne concezioni psicologiche e sociali in tema di educazione. Un’ulteriore prova di questa mia fortissima convinzione è la tendenza a creare scuole nettamente distinte sulla base dell’appartenenza sociale ed economica delle famiglie, un’evidente contraddizione di ogni vero principio democratico ed egualitario. Senza contare che oggi, oltre alle di erenze di censo, si pongono anche quelle stabilite sul colore della pelle, in base alle quali si auspicano scuole che escludano di fatto gli stranieri (definiti fino a poco tempo fa extracomunitari).14 La scuola dunque rimane un sistema correttivo e punitivo e si situa tra le istituzioni che hanno lo scopo di obbedire ai ni dell’educazione più volte sottolineati, e a quelli che abbiamo chiamato interventi sulle pre-diagnosi. Questo scenario scolastico si è mantenuto anche dopo le contestazioni del Sessantotto, quando un gran numero di insegnanti decise di intraprendere una via “eretica”. Docenti

che non seguivano i programmi dettagliati per ciascuna materia e imposti dai ministeri della Pubblica istruzione. Che rompevano un sistema monolitico, esprimendo apertamente nell’aula le con ittualità tra chi insegnava matematica e chi loso a, chi seguiva il pensiero marxista e chi, per esempio un insegnante di religione, difendeva le norme impartite dalla Conferenza episcopale italiana. Quando i ni primari dell’educazione a vivere la legge del padre e il conservatorismo del potere stavano entrando in crisi, poiché il numero degli eretici era oltre la soglia di tolleranza prevista, è stata creata la categoria dei docenti non di ruolo, che potevano essere esclusi dall’insegnamento da un momento all’altro, e poi quella dei precari, entrambi ricattabili e facilmente eliminabili. La scuola non ha mai perduto la propria dimensione di luogo del sapere e dell’esempio, ma nel contempo ha mantenuto fermo l’imperativo di chiudere i giovani dentro il conservatorismo, senza nemmeno accorgersi del fallimento culturale a cui si stava avviando con l’e etto di demotivare la famiglia a iscrivere i propri gli. E proprio allora è scattato l’obbligo, salutato come espressione di un diritto di uguaglianza e di giustizia. L’ipocrisia del potere nella scuola è giunta ad aprire l’università a tutti ma, non appena le famiglie si sono impegnate faticosamente a sostenerne l’onere economico, si è fatto in modo che la laurea venisse declassata, fino a perdere un qualsiasi significato.15 È di una evidenza drammatica che a una scuola aperta, capace di guidare nella scelta di principi esistenziali e stili culturali, ne viene preferita una vuota e ridicolizzata, ma ancora organizzata a difesa del potere. Mai come negli ultimi anni si sono moltiplicati i criteri imposti direttamente dai ministeri e dalle direzioni didattiche, e mai sono state così lampanti e volgari le raccomandazioni che hanno collocato nei ruoli cardine del sistema persone che garantissero alla scuola dell’obbligo di “servire”, come si diceva un tempo, lo Stato. Ed è altrettanto deludente rendersi conto di come i genitori, di fronte a questo fallimento, reclamino sempre di più il ritorno della vecchia scuola, che dappertutto si alzi la voce per invocare impegno e serietà, cioè dedizione, sottomissione all’autorità e alla religione del padre. Una richiesta che aiuta a mantenere al potere sistemi di governo idioti, ideologicamente assolutisti e dittatoriali. Lungo la strada indicata verso la normalità, per tutti quei giovani che non si adattano alle “autorità”, che resistono alle punizioni impartite dentro la famiglia e nella comunità (scuole e collegi)16 e ri utano il progetto educativo e i suoi ni, si parla di disturbi di personalità. È questa la tappa che fa rientrare l’essere-contro decisamente in una dimensione medica, più speci camente psichiatrica, che l’avvicina alla follia, nel suo signi cato di condizione incompatibile con la norma e la socialità, e che comporta l’inevitabile esclusione. Quell’esclusione che aveva la sua espressione più esplicita nella città dei folli, il manicomio. I disturbi di personalità non sono ancora propriamente diagnosi psichiatriche, non

indicano l’appartenenza a una categoria clinica, ma segnalano una vera e propria vicinanza. Una zona ad alto rischio, come incamminarsi in un’area montana dove sono stati segnalati dei lupi pericolosi. Tra i dieci disturbi di personalità, esiste un gruppo speci co che riguarda l’adeguamento sociale. Vi è, per esempio, il disturbo antisociale in cui vengono inseriti tutti coloro che nell’età della crescita mostrano un comportamento-contro: contro i genitori, contro gli insegnanti, contro le regole e le gure che in qualche modo le rappresentano e sono delegate a rappresentarle. Nei disturbi di personalità, la dimensione clinica si mescola a quella dei comportamenti perseguiti dalla legge, in particolare nei capitoli della difesa dei diritti alle persone e alle cose (proprietà). Sono storie di adolescenti che non hanno ancora compiuto nulla che possa propriamente chiamarsi reato, ma vi si trovano vicini tanto da poter dire che hanno corso dei pericoli consistenti. Si impossessano di oggetti d’altri, magari anche soltanto di una matita, fumano nei bagni quando è vietato e mostrano anzi di sentirsi grati cati dall’andare-contro. Bisogna considerare che all’interno della famiglia e della scuola esistono proibizioni sostanziali, e altre invece che vengono inserite per testare l’accettazione dell’autorità. Proibizioni che non hanno alcun signi cato sul piano sociale e comportamentale, ma che sono considerate degli indici di obbedienza e di adeguamento. Non bisogna alzarsi dal banco durante le ore di lezione, mostrarsi disattenti mentre l’insegnante spiega, tenere la cartella sul banco e così via, con una serie di molti altri divieti che finiscono per essere test di una tendenza asociale. Per capire meglio la sovrabbondanza e l’inutilità sul piano sostanziale di moltissime proibizioni può essere utile riferirsi al servizio militare, soprattutto quando era ancora obbligatorio. L’intruppamento e quindi l’accoglienza in caserma avveniva dopo un numero enorme di formalità: non avere le mani in tasca in certe situazioni, mettersi sull’attenti in certe altre, tenere i capelli corti, indossare il berretto in una data maniera, calzare stivali lucidi, rispondere “signorsì” alla chiamata del caporale… Il nucleo di valutazione fondamentale era dato dall’obbedienza a qualsiasi richiesta, benché fosse veramente difficile distinguere i comportamenti necessari dalle decorazioni inutili. L’età dell’arruolamento si collocava tra i diciotto e i ventuno anni, e quindi nell’ultima parte del percorso educativo. Sia pure tenendo conto della di erenza di età, il sistema militare vedeva applicati in maniera accelerata le regole e lo stile educativo che dominavano in famiglia e nell’ambito scolastico. La qualità umana per eccellenza era la disponibilità acritica alla sottomissione: domandarsi se una richiesta avesse un senso e fosse accettabile per le convinzioni e la dignità di ciascuno non era apprezzato in alcun modo. In caso di mancato rispetto della regola, venivano applicate delle punizioni che talvolta apparivano assurde, sovente immeritate, perché poteva addirittura capitare di essere ritenuti responsabili di colpe commesse da altri.17

Non si deve credere che i sottu ciali o gli u ciali non fossero consapevoli di quanto danno una punizione ingiusti cata provocasse in un giovane soldato, erano però altrettanto convinti che l’addestramento dovesse avvenire eseguendo qualsiasi comando e accettando qualsiasi castigo considerato come un mezzo didattico. Sono proprio le punizioni che permettono di avvicinare il sistema educativo militare a quello dei collegi e delle scuole. Pensiamo per esempio alla bacchetta educativa e al frustino in uso un tempo in Inghilterra. O alla sberla cosiddetta educativa, più “appropriata” in ambito familiare, ma non estranea a quello scolastico. Il “disturbo di personalità antisociale” si attribuiva dunque a quei giovani che avevano una soglia abbastanza bassa di accettazione delle regole. Veniva stabilito senza considerare la storia personale del colpevole, sulla base esclusiva di un rilievo che prescindeva dal senso di giustizia e ignorava gli e etti sull’autostima provocati da trattamenti imposti da un superiore, magari soltanto per una ragione di antipatia. Vi è poi il “disturbo borderline di personalità”, che richiama bene il senso del rischio, di trovarsi proprio al limite oltre il quale si diventa “matti”. Ha il sapore, sul piano clinico, della pagella. La tua situazione è al limite, o ti impegni oppure sarai bocciato. Rischiando una diagnosi di anormalità. I disturbi di personalità hanno rappresentato, e in qualche modo continuano a rappresentare, le pre-diagnosi per il mondo giovanile nella fase della crescita. Sono una drammatica espressione di come ancora la psichiatria sia al servizio dell’educazione, intesa proprio come riduzione di ogni soggetto dentro sentieri comportamentali leciti e ammessi dalla società. Altri segnali di questo atteggiamento sono l’attenzione e la punizione nei confronti della rabbia e della violenza degli adolescenti. La rabbia, com’è noto, è una violenza interna, non ancora agita, ma a rischio di esprimersi. È facile rilevare come persino negli ambienti violenti l’unico comportamento inaccettabile e severamente sanzionato sia la violenza del glio. Il padre può essere violento (come Jahvè), ma non è ammissibile che lo sia la sua prole, nemmeno verso il padre violento. La stessa regola vale all’interno della società. Una società può essere violenta perché esclude e colpisce in modo duro, ma un cittadino, e soprattutto un giovane, non può esserlo nei confronti delle leggi. La mia condanna della bocciatura all’interno della scuola dell’obbligo ( ssata oggi dalla Comunità Europea ai diciott’anni) non vuole assolutamente assecondare una linea destinata ad appiattire la valutazione degli studenti. Ritengo anzi che la scuola abbia il dovere di aiutare a capire le propensioni e i talenti di ciascuno, e quindi debba considerare in maniera distinta ciascun allievo. Ma non raggiungerà questo obiettivo ricorrendo alla bocciatura, una decisione violenta che non esprime soltanto un giudizio sul rendimento scolastico, ma estende la condanna al giovane stesso come persona. Un evento a cui possono seguire comportamenti o di abbandono scolastico o antisociali.

La violenza in una società va contenuta, ma è la società intera per prima che va educata a non ricorrere alla violenza. Un padre violento contribuisce a formare un glio violento. Un insegnante può usare una violenza dalle belle maniere, manipolando con i voti, veri e propri schia e talora strumenti di tortura. Con il risultato che una violenza mascherata produce violenza manifesta. Si deve rompere questo circolo perverso e non spostare sul mondo giovanile la colpa e la rabbia di una società violenta. Ovviamente si dovrebbe partire dalla violenza del potere, dalla considerazione che il potere è in sé violento. Sembra un paradosso, ma è così: una società violenta è sempre intollerante e incapace di capire la violenza nel mondo giovanile. Opposto alla rabbia, ma ugualmente sintomatico, è un altro sentimento: la malinconia. Una condizione di silenzio esistenziale che sa di morte, e che invece la società accetta, proprio perché non disturba. Analogamente alla depressione (termine usato qui nel suo signi cato clinico-diagnostico), considerata socialmente innocua perché non rischia di creare fastidio al potere. L’unico danno che produce è quello a se stessi. Verso la violenza che si esprime fuori del proprio sé e coinvolge sempre gli altri, le cose, la proprietà, che sono fondamento del potere, non c’è spazio per la comprensione, ma scattano subito la condanna e la pena. Nella mia lunga esperienza di psichiatra del mondo adolescenziale, sono sempre colpito dalla frequenza con cui vengo interpellato da genitori preoccupati per le più piccole manifestazioni violente dei gli. Pochissimi sono invece quelli che si accorgono delle espressioni di malinconia, anche di forte intensità e vicine al suicidio, che i figli possono presentare. L’ultimo riferimento ai disturbi di personalità (non è possibile in queste pagine fare una trattazione completa)18 è quello al “disturbo dipendente di personalità”. Lo voglio richiamare perché ha insita una contraddizione educativa di grandi proporzioni, che sembra non essere nemmeno percepita. Viviamo in una società che da un lato tende a fare del giovane un “integrato”, un “dipendente” dal padre e dalle leggi sociali, e dall’altro ri uta la passività e le dipendenze da sostanze oppure da particolari stili di vita. Una società acriticamente dualistica che educa alla dipendenza, ma nello stesso tempo non accetta che la dipendenza possa essere “scelta” dal glio o dal gruppo a cui egli appartiene. La contraddizione è ancora più assurda perché non tutte le sostanze che creano dipendenza vengono condannate. Il nostro Stato trae vantaggi economici da tabacco e alcol e nessuno si scandalizza di fronte a campagne pubblicitarie che ne promuovono il consumo. Anzi, chi non beve il frizzantino a mezzogiorno, una bottiglia di grande prestigio e la grappa alla sera, si sente un “quasi” uomo, obbligato a giusti care la ragione per cui è astemio. Nello stesso tempo è una società che colpisce i consumatori di marijuana tanto che, no al 1975, il codice penale prevedeva condanne che arrivavano anche a otto anni di carcere. Insomma, sia pure con le debite di erenze legate alla speci cazione dei

principi attivi che caratterizzano alcol o marijuana o altre nuove sostanze, questa società ammette e promuove l’uso di alcune droghe e colpisce o condanna chi è consumatore di altre, e le definisce illegali. Ma non è tutto: pensiamo alla dipendenza da video. Da un lato si stimola e promuove l’esposizione alla televisione per il suo grande potere pubblicitario e dall’altro si fa di tutto per limitare quella ai videogiochi, in particolare ai giochi di ruolo, che esercitano una speciale attrazione sul mondo adolescenziale. Quando invece entrambi questi consumi hanno un notevole potenziale di dipendenza. Ma ritorniamo alla contraddizione di fondo. L’educazione, come ho detto, tende a integrare un soggetto entro la famiglia e nel gruppo sociale, e intanto si infervora con discorsi grondanti retorica sul valore della libertà. Gli intellettuali sono gli uomini della libertà, vengono continuamente citati i “grandi” della libertà, le guerre sono tutte di liberazione. È questa la recita promossa da un potere preoccupato solo di mantenere i propri vantaggi, e che usa questo termine come una decorazione fasulla. Da molti anni, nel nostro Paese, viviamo una democrazia di nome. Il diritto di voto è sancito ma è anche possibile vendere e comprare il voto, oppure imporlo con la suggestione e persino con lo stile tipico delle organizzazioni criminali. Continuamente discutiamo, difendiamo, celebriamo una libertà (di voto) che non c’è, illudendoci che parlarne sia una via per averla. Come è possibile de nire un Paese libero quando applica un’educazione che mira all’obbedienza automatica verso il padre o verso un’intricata foresta di leggi che esprimono solo la volontà del potere, raggiunto con un sistema pseudodemocratico e in mano a un’oligarchia? E, poiché ogni discorso sulla libertà nel nostro Paese è falso, come si può perseguire una vera educazione che promuova la libertà, se a dominare è il bisogno di dipendenza? Sono interrogativi che suscitano tristezza e indignazione. Per questo voglio ribadire la mia convinzione che sono assurdi i giudizi e le punizioni nei confronti degli adolescenti che rischiano la diagnosi di “anormale” e di “malato di mente”, solo perché non si piegano all’obbedienza verso i padri. Padri corrotti che per primi non rispettano le leggi di uno Stato che favorisce illegalità e vantaggi personali per dare stabilità a un potere che si de nisce democratico ed è semplicemente tirannico. Un potere che, per esempio, continua a rinviare la riforma dell’attuale legge elettorale, che è un vero e proprio atto di vassallaggio, perché non consente di scegliere il proprio candidato. Non è molto distante questa proibizione dalle vecchie dittature che in modo inaccettabile, ma almeno chiaro, non ammettevano il voto. È persino ipotizzabile che esista un’educazione alla stupidità. Lo stupido colpisce per l’insensatezza di ciò che compie, per l’inutilità di quelle azioni verso di sé e soprattutto verso la società. È attivo ma non sa perché si stia muovendo. Corre ma non si è mai interrogato sul senso del correre. Nel vocabolario dello stupido manca il termine perché. Egli non percepisce il dubbio,

non ha un senso critico, non mostra interesse per i temi della società, semmai li strumentalizza a favore dei propri. Ci sono attività in cui è necessario essere stupidi per avere successo, e non ho paura di a ermare che oggi l’espressione somma della stupidità è la politica. Il politico ama l’elogio e non percepisce neppure il rimprovero e la critica, a meno che non siano espressi da un nemico, e in tal caso sono attesi, scontati. Si circonda di cicisbei che gli dedicano poesie, canzoni, elegie. Lo stupido è a ettivamente una nullità, perché non pensa di aver bisogno dell’altro, anzi, è convinto che tutti gli altri abbiano bisogno di lui. E la dimostrazione starebbe nella sua scalata al potere. L’ascesa della stupidità impedisce alla saggezza di emergere, alla ragione di servire davvero a vivere. Sono sempre più numerosi gli stupidi sapienti, gli idiots savants, uomini e donne che usano la lingua correttamente, tengono un libro nella borsa, ripetono frasi di cili ascoltate da altri idiots e così decorano la stupidità come lupi vestiti da pecora o come sepolcri imbiancati. Il sapere diventa una recita, una sorta di trucco applicato senza stile e con la totale mancanza di senso estetico e di charme. 1

Occorre ricordare anche che nell’ebraismo, matrice anche dei comportamenti civili dell’Occidente, non c’è di erenza tra

regole della religione e regole della vita quotidiana, poiché tutta l’esistenza è esperienza religiosa. Anche i Talmud, che entrano nel dettaglio del quotidiano, sono parte dell’insegnamento che discende da Jahvè, e dunque rientrano nella Legge. 2 3

Vittorino Andreoli, Il Gesù di tutti, Piemme, Milano 2013.

Un insegnamento che spesso viene dimenticato dal Cristianesimo, che almeno in questo aspetto – e non certamente solo

in questo – non ha nulla a che fare con la figura di Cristo, anzi gli si pone contro. 4

Le famiglie “nuove” o “diverse” sono quelle che derivano dai matrimoni gay, dalle famiglie divorziate e con gli, da

adozioni da parte di single. Ma vi fanno parte anche comunità come i kibbutz infantili di Bruno Bettelheim e gli orfanotrofi.

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D’altra parte il matrimonio – che si inserisce in quel concetto di “naturale e divino”, base della famiglia – se viene

celebrato di fronte a Dio, vale anche per lo Stato, ed è come se a siglarlo fosse l’autorità civile, che delega la celebrazione del rito a quella religiosa. 6 7

Michel Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1969.

Quando con la legge 180 del 1978 si volle cambiare questa concezione e riportarla all’interno dei problemi che riguardano

la salute, si dovette slegare completamente il termine pericolosità sociale da quello di malessere psichico. Un’impresa

impossibile e di valore esclusivamente storico proprio perché, come già ricordato, il singolo non è pensabile se non entro la società e, di conseguenza, non è immune dai suoi condizionamenti.

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Del resto la presenza di Dio sulla terra ha un riferimento materiale preciso e ben organizzato. Il suo potere è mediato

dagli Apostoli e dai Sacerdoti e ha la sua massima espressione nel Tempio: si fonda quindi anche sulle “cose” che hanno un valore economico e un ubi consistam materiale, e non solo sullo Spirito, e conduce al potere temporale dei Papi e allo Stato

della Chiesa. 9

Pensiamo al carnevale, istituito dalla Serenissima per dare a ogni veneziano la possibilità di indossare una maschera per

una settimana trasgredendo a ogni regola, e persino o endendo il doge. Un’occasione voluta per permettere la

sperimentazione di una pseudolibertà, utile a rinsaldare l’obbedienza ordinaria. Si tratta di un caso in cui la trasgressione è addirittura programmata dal potere. 10

Anche nel romanzo La peste, il protagonista, un medico, dice di no persino al destino, ritenuto responsabile della

malattia. 11

A di erenza del senso che questa espressione aveva in Kant, io ritengo che la legge morale non sia parte della natura,

oggi diremmo della biologia, ma nasca con l’apprendimento e il condizionamento che l’educazione e le leggi producono. È

la stessa via che spinge al concetto di peccato e soprattutto alla sua percezione che può giungere a determinare una sensazione di dolore che si tende a confessare come processo di liberazione. La confessione religiosa è l’esempio più forte

di una colpa indotta da un condizionamento esterno: il peccato per aver mangiato carne il venerdì oggi non è più un precetto sostenuto dalla Chiesa, e quindi non è più un imperativo e non può produrre alcun malessere. Il peccato non ha, e

non deve avere, una logica razionale, ma semplicemente deve subordinare quel comportamento alla perdita di un legame,

persino quello con Dio, senza il quale si va all’inferno. Un esempio che vale anche per la sua versione terrena, verso il padre di questa terra. La religione cattolica ha, nell’ambito della nostra cultura, un compito di educazione che è perfettamente compatibile, e anzi essenziale, al dominio sociale imposto. Si fonda semplicemente sul legame, sulla ducia

(da cui fede), e può essere persino assurdo sul piano della razionalità. Dunque i principi si accettano perché provengono da Dio e non si discutono anche se non si capiscono.

12

Un altro confronto utile è quello con il seminario, dove il rapporto di dipendenza dalla legge è ancora più forte poiché è

stabilita da Dio, a cui si decide di dedicare la propria vita. 13 14

È il caso di Eton in Inghilterra o delle scuole gesuitiche in Italia.

Molte di queste istituzioni chiuse sono gestite dai cattolici, che vivono in altre parti del mondo l’universalità di tutti gli

uomini e degli adolescenti, senza distinzione, in quanto figli dello stesso Dio. 15

E così si è iniziato a dar valore soltanto a lauree conseguite presso università private che hanno costi di iscrizione molto

alti. In Italia l’esempio più conosciuto è quello della Bocconi di Milano. Per arginare il problema del numero eccessivo di

iscritti si sono introdotti test di ammissione che inevitabilmente privilegiano i giovani ricchi – o almeno quella parte dotata della vocazione a mantenere il potere dei padri – visto che prevedono un sapere che si acquisisce soltanto attraverso lezioni private o corsi extra. Senza contare il possibile ricorso a forme di clientelismo come le raccomandazioni.

16 17

Penso alle bocciature e alle espulsioni dal collegio che vengono vissute come segnali di vergogna e di esclusione.

Del resto, per fare ancora qualche paragone, accade regolarmente qualcosa di simile negli ambienti religiosi, nei

monasteri, dove l’abate o la badessa sovente puniscono in maniera incomprensibile, una punizione che tuttavia ha un senso per una obbedienza “cieca”, segno della totale sottomissione alla “volontà del Signore”. 18

Si veda il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM IV e DSM V), Elsevier, Milano 1995, 2013. E

Vittorino Andreoli, I segreti della mente, Rizzoli, Milano 2013.

L’abbandono educativo: quando educare significa lasciar fare tutto

Considerando gli e etti disastrosi di un’educazione errata, talora nella storia si è pro lata l’idea di rinunciare a questa funzione e di permettere il dominio del laissez faire. La famiglia e la scuola in questo caso si limitano ad aiutare a vivere nel senso più stringato del termine, provvedendo solo ai bisogni primari: la sopravvivenza, la difesa e in ne la garanzia dei mezzi perché i gli scelgano un proprio stile di esistenza in quella data società, che, pur essendo storicamente de nibile, viene declinata con i vissuti individuali. All’educare si sostituisce il progetto di una non educazione, ritenuto il criterio meno lesivo per i figli e meno angoscioso per gli educatori. La famiglia diventa un albergo, la madre bada all’alimentazione e ai compiti di lavare e stirare, il padre è semplicemente un erogatore di denaro che va trattato come nelle discussioni sindacali, con la certezza che il padrone tende a dare il meno possibile e per questo il lavoratore, tramite la rappresentanza sindacale, deve richiedere il massimo possibile. La scuola, a sua volta, si limita a fornire informazioni senza alcuna regola, senza una forma che richieda il silenzio e l’ordine in classe, senza nemmeno l’obbligo di ascoltare e persino dando la possibilità di uscire dall’aula e di rientrare a proprio piacimento. Il controllo dell’apprendimento – interrogazioni, compiti in classe o a casa – è un’opzione, una richiesta a risposta individuale e volontaria. Un minimalismo che non esige nulla, come buttare un seme senza preoccuparsi se cada su un terreno fertile e se venga poi coltivato per ottenere i frutti. A me pare che questa forma di astensione educativa sia in realtà un’educazione precisa poiché si esprime dentro una relazione, sia pure minima, dovuta alla coabitazione, nel caso della famiglia, e alla permanenza quotidiana in aula, nel caso della scuola. Una convivenza che genera comunque attrazione o repulsione nei confronti dei genitori e dei fratelli e, sia pure in forma diversa, degli insegnanti, e dunque della scuola. Attrazione che significa osservare, imitare, contrapporsi. È impossibile non esistere se si vive nello stesso luogo. Ma in questo modo sia i genitori sia gli insegnanti perdono il ruolo di educatori in quanto non hanno un progetto, e possono essere sostituiti da persone di erenti. Persone magari dal fascino perverso. I punti di riferimento sono necessari per escludere l’a ermarsi di esempi negativi. La

di erenza tra bene e male si impone in ogni momento storico, ciò che non è accettabile è che sia imposta da leggi emanate dal più forte, da chi è al potere e può essere una figura negativa, o persino un delinquente. Il bene e il male sono categorie di comportamento etico e base fondamentale dell’esperienza umana, del senso dell’uomo nel mondo. Esiste una distinzione netta tra i principi di giustizia, di uguaglianza, di rispetto della vita e le leggi, che hanno una dimensione storica e possono essere manipolate a vantaggio di un potere, spesso impostosi con la forza o con la menzogna. Quando manca ogni relazione, e dunque si realizza un distacco, come se gli educatori non esistessero, non sono possibili valutazioni e, quando si esprimono, vengono fondate soltanto su criteri di simpatia e antipatia, invece che sul riconoscimento di un merito. I padri assenti sono presenti come assenza, e ai gli è possibile immaginare soltanto ciò che dovrebbero compiere per rispondere ai loro desideri. L’assenza è motivo per avvertire i bisogni non soddisfatti di gli e per fantasticare sui bisogni dei loro padri che non ci sono. Ecco il termine chiave: bisogni. Alla base delle relazioni ci sono necessità che nascono momento dopo momento. Bisogni di chiedere e bisogni di dare. Se un glio deve trovare una soluzione e per farlo gli serve l’aiuto del padre, cercherà il padre. Cosa succede se il padre non c’è? Si è abituati a credere che l’educazione sia soprattutto parlare, dire, ordinare o negare. È invece addirittura possibile evitare qualsiasi espressione verbale, mantenere il silenzio, senza che la comunicazione si interrompa, poiché i linguaggi sono molti, e quello mimico, a ettivo e corporeo sono importantissimi. Non conta se vengono coperti da quel linguaggio rumoroso e confuso che nelle società occidentali ha assunto un peso enorme, dominante. Il rapporto madre-bambino si stabilisce per pulsione n dal primo momento della venuta di un glio sulla terra e si esprime con l’alimentazione, con il prendere in braccio, con l’accudire. Per questo non è possibile, se non astrattamente, pensare a un robot che sostituisca la madre, a un biberon che faccia le veci del seno materno. Non è immaginabile vivere con i propri gli senza coinvolgimento, senza esercitare un’azione che venga osservata e seguita oppure ri utata, e non è pensabile impedire o minimizzare una relazione che è già implicita nello stare insieme e nei bisogni che si avvertono, talora in maniera acuta. Nei casi in cui il padre non c’è e non è mai stato conosciuto, si osserva che il ruolo viene spostato dal glio su altre gure che non hanno quella identità; sovente l’assente, o il non esistente, è tenuto vivo dentro la fantasia e il glio mantiene una relazione con questa immagine. Insomma, a me pare che l’educazione non sia evitabile, ma possa soltanto essere attivata in maniera di erente e propria per quel glio e quel padre o quella madre, persino risentendo del luogo in cui quello stare insieme si realizza. Dipende dalla casa e dalle infinite variabili che una condizione affettiva e sociale presumono. Non vi è dubbio che il legame ha un fondamento biologico, evidente già nelle specie

animali meno evolute. Penso agli odori come mezzo di riconoscimento, di appartenenza. Un pipistrello trova il proprio nido in una grotta tappezzata da migliaia di nidi, un agnello riconosce l’odore della madre in un gregge numeroso. Konrad Lorenz ha scoperto nell’anatra selvatica l’imprinting, un legame tra madre e nuovo nato che, instauratosi molto presto (dopo poche ore dalla nascita), si ssa de nitivamente. Da quel momento non sarà più sostituibile e il piccolo avrà come unico punto di riferimento la madre e sarà sempre pronto a seguire i suoi spostamenti. Se però il cucciolo non incontra la madre perché non c’è, allora seguirà il primo oggetto mobile, che potrà essere lo stesso Lorenz, un uomo invece che un’anatra, o una sagoma di legno, che non ha nulla di vitale. Il bambino trovato alla ne del Settecento nella foresta francese dell’Aveyron e cresciuto privo di relazioni umane, ma solo con animali, si comportava come loro.1 Non aveva sviluppato il linguaggio, non aveva raggiunto la stazione eretta e possedeva reazioni selvagge. L’uomo non è solo lo stigma di una specie, ma anche di relazioni interpersonali che si acquisiscono con la crescita, con le esperienze e con l’educazione. Il salvacondotto della non educazione, che spesso viene espresso con l’idea di o rire un’educazione totalmente libera, è una sciocchezza. L’educazione c’è sempre, varia solo la sua qualità, il suo signi cato e la sua utilità. Senza punti di riferimento la stessa potenzialità umana si disgrega. La prima tappa della crescita, l’acquisizione dell’identità individuale che si realizza entro i tre anni, è possibile solo se il bambino vive relazioni stabili; in caso contrario perde persino la consapevolezza di possedere un Io diverso dagli altri, perché non può portare a termine il processo di individuazione e separazione. Se un neonato viene tenuto nei primi mesi di vita senza stimoli, non sviluppa alcune caratteristiche mentali umane: è questo il caso del bambino in sensory deprivation. È necessario dunque persino un ambiente sico che gli dia stimoli. L’uomo non è un risultato casuale, ma il derivato di una strategia di relazioni sensoriali, parentali e sociali. 1

Valutato dallo psichiatra Philippe Pinel, fu affidato alle cure del dottor Jean-Marc-Gaspard Itard.

L’incostanza e la contraddittorietà educativa: quando educare significa fare così e il contrario di così

Se l’abbandono educativo e il ri uto espresso o inconsapevole del ruolo degli educatori, sia nella famiglia – trasformata in semplice luogo abitativo – sia nella scuola – che diventa un’agenzia informativa e asettica – non è fortunatamente di uso, frequenti sono invece l’incostanza nel mantenere una relazione educativa e l’incoerenza di atteggiamenti (a ettività) e di contenuti trasmessi (razionalità). Una situazione che provoca gravi danni educativi. L’a ermazione di un errore strutturale non deve far pensare che esista un manuale per l’educazione ideale e una scala di valutazione del grado di errore. Ogni manuale che stabilisca le regole nel dettaglio per evitare sbagli, tutti gli sbagli possibili, è una pura utopia. Sono però convinto che esistano delle condizioni per l’educazione che rispondono a bisogni strutturali, che potremmo definire anche biologici. Tra i principali quello che l’educazione sia continua e coerente. “Continua” non signi ca eterna, ma semplicemente che deve permanere per tutto il periodo della crescita, no alla maturità, intesa come capacità di vivere in maniera adeguata nell’ambiente in cui ci si trova. Prolungarla oltre questo periodo signi cherebbe mantenere in crescita un glio già adulto solo per rispondere a esigenze della madre e del padre che non si sanno distaccare dal glio e dal loro ruolo. Senza, non avrebbero identità personale. Sono i casi in cui l’identità personale si lega esclusivamente al ruolo.1 Un’educazione discontinua impedisce invece di ssare delle relazioni capaci di dare sicurezza, poiché il glio sperimenta l’alternarsi di presenza/assenza della madre o del padre perdendo ogni riferimento rassicurante. Osservando altre specie viventi ci si rende meglio conto di questo bisogno di conferme: un agnello segue sempre la propria madre dentro la radura ma, appena questo si accorge di non averla vicina, o quella scopre di non essere seguita dal proprio glio, si scatenano i richiami no alla ricostituzione della coppia.2 Terminato il periodo dell’ammaestramento, la madre allontana il glio come se non lo riconoscesse più, e così lo spinge, anzi lo obbliga, ad applicare le regole di vita che ha appreso.3 L’incostanza del rapporto educativo, anche se esso non si fonda sull’imitazione come nelle specie animali, genera insicurezza e smarrimento, tanto che il glio non sa più riconoscere la propria identità. Si produce il glio qualunque, qualcuno che può essere tutto e nulla, mutare in un istante no a sembrare un altro. Si realizza l’Uno, nessuno e centomila di Pirandello.

Il padre non può essere il modello poiché non è riconosciuto come persona di riferimento: c’è e poi non c’è. Viene sostituito da molte altre presenze, sempre discontinue, da cui impara ogni volta qualcosa di diverso, a seconda dell’esempio del momento, e così si convince che non esiste nulla di stabilmente definito. Sono convinto che la presenza sica sia importantissima, e dunque che un padre non sia sostituibile da una telefonata oppure da un’immagine ideale, e che sia necessario toccarlo, percepirlo nella sua sicità e nei suoi movimenti. Hanno molto più valore i linguaggi non verbali, persino il silenzio, che permette di cogliere meglio le azioni, le espressioni mimiche, e anche il dolore, i sentimenti. Il linguaggio verbale è certamente utile per esprimere i pensieri e i concetti educativi, purché non uccida i linguaggi dell’a ettività. Viene da dire che con le parole si può fingere ma non con un abbraccio o un bacio. Si esagera ritenendo che educare dipenda solo dai contenuti, e quindi dai principi, e non anche dallo stare insieme e dall’apprendere dal corpo del proprio padre reazioni e comportamenti. Sono convinto che il peso della parola sia diventato ormai straripante, in modo insopportabile. Il silenzio invece ha un valore straordinario, certo se è accompagnato dalla presenza e dalla dimostrazione di interesse, dal bisogno del legame. Un’educazione insomma diretta non mediata, stare insieme e non necessariamente tenere ai gli le omelie sapienti, o limitarsi ai momenti in cui si grati cano con regali o denaro (compensi per lo più alla condizione di padre mancato). È più facile regalare dieci euro che un bacio. L’assenza, la discontinuità nell’esserci, limitata a morti e resurrezioni, e fatta di ripetute scomparse, genera gli confusi, che possono dare risposte di ogni tipo allo stesso stimolo, in rapporto alle in uenze del momento e del luogo in cui si trovano. Un relativismo fattuale che non aiuta a costruire una propria identità.4 E dà come risultato figli frammentati e opportunisti. La coerenza è un obiettivo di cile e trascurato nella politica dell’esistenza, quando invece sarebbe un atteggiamento utile e favorevole a superare le di coltà dell’esistenza familiare o sociale. In una società accelerata e in continuo mutamento, nisce addirittura per diventare controproducente, poiché si impone come qualcosa di sso in un mondo sempre di più plastico, malleabile o, come oggi si a erma, liquido.5 Viene giudicata persino un segno di conservatorismo comportamentale o mentale. Si tende ad attribuire sempre più signi cato alla essibilità, che vuol dire anche maggiore opportunità di adattamento, nel senso darwiniano, all’ambiente, e perciò maggiore probabilità di uscire vincenti o di resistere per lo meno di più alla propria eliminazione. Non voglio discutere questa visione pensando all’uomo adulto, e dunque alle strategie esistenziali che in questa fase della vita si scelgono, sono però certo che questo atteggiamento nella fase della crescita è negativo. Perché, per essere plastici e poter cambiare, occorre prima essere, avere un’identità. Senza, non si coglie nemmeno la variazione, poiché non esiste un punto di riferimento: si arriva ad assomigliare a

un’ameba che nel proprio movimento assume tutte le forme possibili. L’identità è una direzione verso cui si tende, è un progetto su di sé, una maniera per creare un uomo. E non può essere raggiunta con un’educazione rigida che mira a cristallizzare, a ssare con la solidità di una pietra le caratteristiche umane che devono invece sapersi adattare alle diverse circostanze. Durante la crescita è necessario diventare qualcuno, avere consapevolezza del proprio essere nel mondo e quindi acquisire le tre identità di base, quella dell’Io, di un essere unico e personale, quella di genere, per cui si è uomo o donna – e per questo si devono assecondare le pulsioni che provengono dalla biologia – e in ne l’identità sociale, che contempla il senso e la funzione che si vogliono raggiungere all’interno della comunità. Tutto ciò non può avvenire se mancano una coerenza e una serie di stimoli che divengono efficaci con la ripetitività e con il rinforzo. Si possono riportare esempi talmente semplici da sembrare banali. Sul piano sociale, e dunque dei ruoli, se uno pensa di esprimersi attraverso uno strumento musicale, il clarinetto o il violino, è necessario che partendo da una propensione e da un desiderio, ci si applichi presto allo studio di quello strumento, altrimenti si rimarrà frustrati per non aver raggiunto livelli possibili, ma non ottenuti proprio per un’applicazione tardiva. E sul piano dell’autostima (self-esteem), che ha un rilievo fondamentale per muoversi dentro il mondo, è necessario che la propria dimensione personale, l’Io, sia ben disegnata e percepita. In caso contrario, si rimane un uomo informe o frammentato, come i tanti pezzi di un puzzle che si continuano a mescolare senza mai dare la gura che unendosi possono costituire. E si va per tutta la vita alla ricerca di un Io che non si può formare poiché non si è fatto nulla per realizzarlo. L’Io è il risultato di una biologia dentro un processo educativo, non è un tratto determinato come il colore degli occhi o quello dei capelli. Senza un Io si è incapaci di esistere nel mondo, non si può aggiungere alcun aggettivo all’identità, semplicemente perché non c’è, e si vive senza essere un ente consapevole, senza avvertire delle propensioni, persino dei desideri, poiché tutto può diventare propensione o desiderio. Come se ogni esperienza, e quindi ogni incontro e ogni ambiente, nissero per dare forma a un informe, a un Io transitorio che poi cambia, come appunto un’ameba in continua evoluzione. Sembra un paradosso ma è così: per essere aperto, mutevole, e perciò essibile, bisogna prima possedere un Io. E quanto più l’Io è forte e formato, tanto maggiori sono le possibilità di cambiamento consapevole. Il paradosso potrebbe essere espresso da questa formula: cerca un’identità forte per poter essere in grado di una grande variabilità e essibilità. Sono doti che non devono essere acquisite in maniera automatica, per questo occorre compiere sempre il confronto tra ciò che si è e ciò che si può essere, e persino si desidera essere. Serve un Io mobile e non un Io mancato, che semmai caratterizza chi può solo essere agito dall’altro e dall’ambiente, come una foglia sbattuta dal vento.

1

Un comportamento analogo si osserva con il raggiungimento della pensione, e dunque con la perdita di ruolo sociale.

Senza lavoro, ci si sente perduti, privi di senso e socialmente defunti. E per non perdere il ruolo con il quale ci si è

costruiti un’identità si sarebbe disposti a continuare a lavorare senza compenso economico. Si tratta di un altro esempio di

identità gregaria al ruolo e non fondata sulla propria personalità e sui propri bisogni. 2

Nelle pecore, ma anche nell’orso, il padre non esiste a atto e l’ammaestramento è sempli cato nella coppia madre- glio.

Negli uccelli invece la gura paterna è presente, anche se la funzione non sembra signi cativamente separata da quella

materna, perché vige un sistema di cooperazione paritaria. 3

È straordinario osservare negli uccelli (nei gabbiani, per esempio) come, a partire da un certo momento della crescita, la

madre ri uti di rigurgitare il cibo per i gli, si imponga di non alimentarli e limiti un comportamento che no a poco prima era non solo attivato ma donato con abbondanza. 4

Ho parlato prima dei padri convinti che costruire una identità precisa nei loro gli sia un handicap, una vera e propria

imposizione del potere del padre sul glio. In base a questa impostazione, la discontinuità educativa sembra necessaria per

permettere al figlio di costruirsene “liberamente” una propria. Come se una identità voluta dal padre fosse un errore. 5

Termine fortunato che si deve a Zygmunt Bauman (Modernità liquida, Laterza, Bari 2006).

Il tempo presente: un’educazione confusa e folle

Il contesto educativo del tempo presente

Passiamo ora alla situazione del tempo presente, per misurare il suo peso sul processo educativo. La prima caratteristica che emerge è quella di una società senza famiglia. Che l’istituzione familiare sia in profonda crisi lo si vede in modo particolare dal tentativo, che sembra persino esagerato, di difenderla. Pensiamo alla Chiesa, ossessionata da una battaglia in nome della famiglia che giunge al grottesco, poiché è a data a cristiani che hanno contribuito a massacrare la propria, cambiando più volte moglie o “compagna”. Il matrimonio, che segnava l’atto costitutivo di un nucleo familiare, ha perso la propria attrazione, ha mostrato di consumarsi rapidamente e soprattutto ha rinunciato alla funzione di procreare. Il concetto stesso di generazione futura e di prosecuzione della gura paterna nel glio e di questi, una volta divenuto padre, nei propri gli sembra in grave pericolo. In una sintesi statistica l’anatomia della famiglia è la seguente: il cinquanta per cento dei matrimoni si è sciolto, del cinquanta che resiste, la metà è divisa di fatto e non ricorre alla formalizzazione per di coltà economiche. Dunque solo il venticinque per cento delle unioni matrimoniali resiste. L’infedeltà di coppia è ormai una regola e non suscita né senso di colpa né vergogna. È anzi un segnale di normalità.1 Le nuove unioni che si formano dopo una separazione o un divorzio vengono falsamente de nite “nuove famiglie”, quando in realtà mettono in scena situazioni confuse e poco coerenti all’interno di legami all’insegna dell’improvvisazione e dell’avventura. Non mi pare corretto definire “famiglia allargata” una simile condizione, in cui gli che uno stesso padre ha avuto da donne diverse si assommano ai gli di una stessa madre portati da altre relazioni. Sia ben chiaro che non parlo in questo modo dominato da perbenismo o da moralismo, ma ritengo che non si debbano usare eufemismi e sia preferibile ammettere che la famiglia di oggi ha smarrito il suo ruolo generando una società senza famiglia. A questo punto è inevitabile domandarsi se sia possibile un’educazione su bambini e adolescenti che non hanno identi cato una gura paterna e/o materna stabile, avendo avuto esperienza di altri partner all’interno della casa in cui sono nati e cresciuti. Una casa che doveva essere, se non proprio il “nido”, almeno un riferimento duraturo e costante. Società “senza famiglia” non vuole dire senza relazioni uomo-donna, compagnocompagna, e non signi ca nemmeno che manchino, in senso assoluto, i gli, ma certo il

termine di fratello o di sorella è un poco dissipato, rispetto ai legami biologici ssi. Il nomadismo a cui sono obbligati i gli di separati – sovente per decreto del tribunale – li costringe a emigrare dalla casa della madre a quella del padre, e così si trovano in mezzo a “fratellastri” o “sorellastre”, con genitori che assumono ruoli allargati. L’agonia, o la morte, della famiglia “tradizionale” si evidenzia anche dal ruolo che hanno assunto i nonni, obbligati in molti casi a svolgere il compito di madre e padre, aumentando la confusione sul piano delle identità. In questo quadro diventa indispensabile stabilire una distinzione chiara tra genitore e padre. Il primo è colui che genera, compie il gesto, il coito, dona il proprio seme. Il padre è invece colui che crea una relazione e partecipa al processo educativo. È evidente che il genitore è unico, anche se incerto o sconosciuto o nascosto, mentre le relazioni che richiamano al padre possono diventare molte. Quindi un bambino o un adolescente può avere diversi padri. Complici i tempi lunghissimi per ottenere il divorzio, che allontanano la possibilità di celebrare un nuovo matrimonio e favoriscono le unioni tra compagni e compagne con un turn-over spaventoso, trattandosi di legami non formalizzati che, iniziati ieri, possono terminare domani. Un’altra espressione di questa società senza famiglia è anche il successo, e quasi il fascino, che sta riscontrando la condizione di single. Questo termine ha acquisito una connotazione positiva e sta a indicare un uomo o una donna che ri utano la vita in comune, e quella di coppia in particolare, premessa necessaria a far esistere il matrimonio. Ormai la nostra è una società di single, uno status non solo in percentuale elevata, ma anche in continua crescita; come se si fosse stabilito che il matrimonio è una tomba dei sentimenti e una specie di carcere, da cui è indubbiamente bene difendersi. Ma il caso ancora più eloquente è quello della madre single. Una donna che con una deliberata strategia ha cercato una relazione per procurarsi un poco di sperma con l’intenzione di vivere poi da sola, con il proprio glio, come se un padre non solo non fosse necessario, ma persino una disgrazia. Non dimentico naturalmente i single “di ritorno” o quelli che aspirerebbero a un’unione e, non potendola realizzare, vivono la loro condizione come una condanna alla solitudine. È indubbio che questa nuova gura si è a ermata sia come conseguenza della perdita di credibilità dell’istituzione familiare, sia come e etto del profondo cambiamento dei costumi sessuali favorito dalla pillola anticoncezionale del dottor Pincus che, a partire dagli anni Sessanta, ha separato la sessualità allo scopo di procreare da quella di puro piacere. Si deve riconoscere a Pincus di aver liberato la donna da una dipendenza che sembrava impossibile, permettendole persino di coniare uno slogan non molto ra nato del femminismo: “L’utero è mio e lo gestisco io”. Ho usato l’espressione “senza famiglia” coniugandola soprattutto con società, ma è

innegabile che può essere, in maniera signi cativa, coniugata anche con gli per descrivere la condizione dei gli senza famiglia. Ho solo apparentemente ignorato nora questa realtà, perché mi pare di poterla a rontare meglio parlando della “società senza padri”. Se il nostro tempo può essere de nito come quello di una società senza padri signi ca che si è compiuto un cambiamento in qualche modo radicale rispetto al secolare periodo che ha visto prevalere la religione del padre. Un cambiamento che non ha semplicemente estromesso dalla scena un protagonista, ma ha scosso tutto il sistema. E che si può collegare alla contestazione del Sessantotto, un movimento giovanile che non è riuscito a con gurarsi totalmente come una rivoluzione, anche se non sono mancate delle sue espressioni. A mancare invece, delle rivoluzioni, erano il progetto, il coordinamento delle forze, un obiettivo preciso da eliminare, mentre trionfava la voglia di dire di no a tutto. Il governo del Paese tuttavia non è stato minimamente scosso e, anzi, il potere ne ha appro ttato per fare un’epurazione delle componenti, quelle sì, che lo preoccupavano. Ciononostante le vittime ci sono state e l’uccisione del padre è sicuramente una delle più significative. Era in fondo un obiettivo facile, poiché lo si aveva in casa, se ne conoscevano i difetti e anche una particolare debolezza che suggeriva le modalità operative per vincerlo. Il padre era infatti il responsabile o il simbolo su cui riversare l’insoddisfazione dei gli, come se il limite alla libertà individuale e al capriccio dipendesse proprio da lui. Il pensiero va certamente al libro di Sigmund Freud Totem e tabù che mette all’origine dell’uccisione (simbolica) del padre un limite imposto alla libertà sessuale. Una libertà certamente di poco conto, se la si confronta con le aspirazioni che poteva teoricamente aver vissuto uno schiavo, un colono, un servo della gleba, che doveva riconoscere al padrone persino lo ius primae noctis. Nell’orda descritta da Freud si consuma l’omicidio del padre, ma poi i gli, mostrando una certa insicurezza, ne sentono la mancanza, lo rivogliono in vita e allora, come è noto, compiono la sua resurrezione attraverso la communio: lo mangiano, immaginando così di riportarlo non solo in vita, ma “dentro” la vita di ciascuno di loro. Confrontando la situazione presente con la storia inventata da Freud, noi siamo comunque ancora nella fase in cui il padre è cadavere. Se questa è la percezione dei figli, ben diversa è quella dei padri esautorati, simbolicamente morti. La prima considerazione è che sono “morti volentieri”, perché i compiti a cui erano chiamati, e che le scienze del comportamento attribuivano loro, erano diventati sempre più gravosi. Certamente non si limitavano come nel passato a dare ordini e a emettere imperativi. La psicologia aveva cominciato a parlare di relazione trinitaria, padremadre- glio, sostenendo che l’educazione riguardava il padre anche nella quotidianità. Non bastava più una presenza sporadica, anche se decisamente autoritaria. Si era anzi teorizzato che l’imperio si dovesse accompagnare a un mostrarsi e a un agire non prevedibile e pertanto eccezionale. Analogamente a quanto era richiesto al re, che di rado doveva scendere a contatto con i sudditi. Quando succedeva, l’incontro aveva

caratteristiche sacre e imponeva al popolo di abbassare il capo, essendo indegno persino di osservare in volto il proprio re. E ancora più rara era la “visione” di un Papa, il quale doveva, tra l’altro, richiamare al proprio potere spirituale. Insomma, perché l’autorità sia veramente signi cativa deve potersi esprimere proprio nell’assenza.2 La pedagogia adesso invece richiede al padre una relazione non solo quotidiana, ma coinvolgente. Dunque non lo si distingue più dalla madre. Se non per i compiti, che tuttavia sono sempre a ettivi e dunque continui. Questa tendenza non si è ancora arrestata e ha raggiunto risultati che sembrano, in confronto al passato, incredibili. Così il padre è chiamato a partecipare alla gravidanza della moglie, l’accompagna ai corsi di preparazione, è parte attiva durante il travaglio ed entra nella sala parto per assistere alla nascita. In qualche modo diventa un “mammo” che accudisce il neonato in modo assolutamente speculare rispetto alla madre. E ora è la stessa legge a riconoscere questo diritto-dovere, permettendo al padre di godere di una licenza, mentre la madre va subito a lavorare. Queste innovazioni, dal punto di vista della tradizione, non possono che apparire delle follie. Il padre, ridotto a questo ruolo, diventa inutile e allora è come se non ci fosse e la sua morte può essere vissuta come una vera liberazione. Potremmo dire che è avvenuta perché i gli non accettavano più un padre autoritario, ma anche perché i padri non riuscivano a vedere il culetto dei bambini con la stessa tenerezza delle madri. Ma al di là di questa descrizione dal carattere un poco mitologico, un dato facilmente rilevabile è che il padre, esautorato dal proprio ruolo e dal proprio potere, vive la nuova condizione in maniera frustrante e, come sempre accade, l’accumulo di frustrazioni si trasforma in violenza verso la moglie, perché diventa insopportabile rivestire una posizione condivisa e similare nei confronti dei gli, no a parlare di ruoli scambievoli, che ruotano, indipendentemente dal fatto di essere madre, padre o figlio. L’immagine della trinità per la famiglia diventa ora indice di una vera confusione similteologica, quella per cui il Padre è anche Figlio, e Figlio e Padre sono Spirito Santo. Un padre frustrato è di gran lunga peggiore di uno autoritario, perché di sicuro risulterà un padre violento, anzi un non-padre violento. Il suo “cadavere” riporta l’attenzione su una famiglia che non c’è più, anche perché, ritornando a Totem e tabù, al suo interno manca chi la difende e le dà sicurezza. Si ripropone dunque il tema del potere che non ha più una rappresentazione precisa. Avviene per così dire una trasposizione oggettuale o, come si usa dire nel linguaggio psicologico, transizionale. E a questo punto, accade che l’educazione si realizza in presenza di un altro personaggio: il denaro. La sua rilevanza è talmente forte che, se si può ancora parlare di famiglia, lo si fa intendendola semplicemente come l’insieme di più persone che sono attaccate, incollate dal denaro. È questo l’elemento che esercita un bisogno, un fascino, che però non è più esclusivo del padre, ma diventa per tutti l’espressione del vero potere.

Il denaro diviene il capo indiscusso, il capofamiglia. Occorrerebbe fare l’analisi storica del denaro come potere, n dal momento in cui è costituito dal metallo più prezioso: l’oro. E non si può dimenticare che Esiodo parla dell’età dell’oro come di un’epoca in cui è massima la felicità e impossibile il dolore. Si dovrebbe aggiungere la storia della pietra filosofale, capace di trasformare in oro la banalità, gli oggetti senza valore, mostrando così che è proprio nell’oro che sta il segreto della vita e la philo-sophia. Bisognerebbe ancora indagare sul mito, come quello di Danae, che collega l’amore all’oro. In questa storia è la stessa divinità che si esprime attraverso questo metallo prezioso. Oggi il denaro è fatto di carta, non ha più alcuna relazione con i depositi d’oro che un tempo le banche centrali dovevano accumulare e custodire; ma anche se l’oro è diventato un’ombra, il denaro non ha perso quel signi cato magico, capace di generare metamorfosi e quindi di cambiare la vita. Oggi è la rappresentazione, l’oggetto transizionale del potere. Il valore delle cose si traduce in denaro e sembra che anche le persone abbiano attaccato un cartellino che indica il loro prezzo. E quando un oggetto ha un prezzo elevato, si ritorna a parlare di oro. Pensiamo al petrolio, chiamato “oro nero”. Si potrebbero parafrasare i presocratici, a ermando che il principio di tutte le cose è il denaro. Oggi ha la funzione di sostituire ogni autorità, poiché l’autorità e il potere si misurano anch’essi sul denaro. E così sono morte tutte le speci cazioni e le identificazioni, che nella storia si sono susseguite sulla scena del potere. Non deve pertanto meravigliare se, nel contesto in cui si deve operare, o si vorrebbe farlo, sul piano dell’educazione, occorre ricordarsi che il denaro ha generato la morte di tutti i principi. Il solo principio, la madre di tutti i principi, è il denaro. A questo punto il denaro può meritare il titolo di dio denaro. La ne dei principi si è ormai compiuta, anche se si nge che siano ancora in vita. Si tratta dello stesso delirio di cui soffriva Amleto, evocando e vedendo gli spiriti dei propri antenati. I principi sono morti, perché sono stati riassunti tutti nel dio denaro, origine di tutte le cose. E credo che, se proprio non morto, stia male persino il Padreterno, poiché è sempre più di usa la convinzione che “… in principio era l’oro e l’oro ha generato il mondo”. Nella cultura, per lo più loso ca ma anche teologica, si distinguevano i principi primi, che erano quelli propri dell’etica e che non potevano essere mercanteggiati o modi cati. Potremmo paragonarli ai postulati o agli assiomi, nel loro signi cato matematico. Sono i principi di cui parlavano Platone e Aristotele, e che sono sopra le cose e sopra il mondo. Seguono poi i principi che regolano le comunità, meglio la res publica, e sono le guide per formulare e promulgare le leggi che vanno calate sempre nella storia e, dunque,

devono tener conto degli uomini di quella particolare epoca. Ebbene, non ci sono più, rimangono puro atus vocis e le storie di quegli uomini che per i principi hanno dato la loro vita suscitano ormai tristezza. Lo ripetiamo, con ancora maggior dolore: principio primo assoluto oggi è il denaro. Il resto non conta. E per il denaro è giustificato compiere qualsiasi azione. L’etica è morta, le leggi non bastano a regolare una società, e talora vengono promulgate solo per trarre vantaggi individuali trascurando la giustizia e l’uguaglianza, che ormai non significano assolutamente nulla. La ne dei principi, ovvero la loro assimilazione al denaro, è l’unica reale caratteristica della società di oggi che non solo scuote i vecchi criteri educativi, ma mette anche in dubbio una possibile educazione. Si può persino compilare un decalogo sui modi per appropriarsi del denaro, rubandolo, ottenendolo con la corruzione, con la concussione, con la falsità, attraverso comportamenti criminali. E usando la burocrazia delle carte bollate e il potere dell’imbroglio coperto di legalità. Devo fare uno sforzo per trattenere la mia indignazione, che avrebbe bisogno di altro spazio per urlare contro ai “corvi” di una civiltà agonizzante, una civiltà che nel passato ha saputo dare all’uomo un volto più nobile e più umano. Devo trattenermi dall’indicare i nomi di coloro che hanno commesso veri e propri delitti contro l’umanità. Sono i nazisti del tempo presente. Hanno ammazzato i principi, rendendo inutile ogni tentativo di far emergere le doti dell’uomo, quelle che lo pongono tra le espressioni migliori del creato, invece che tra quelle infime e orrende, tra le peggiori della storia. A questo punto sorge la drammatica questione: su quali basi è possibile parlare ancora di educazione? Come si può guidare una famiglia senza una direzione da seguire, senza principi che stabiliscano il rispetto dello stare insieme e le nalità che si intendono raggiungere? Quali valori devono farne parte se tutti sono stati distrutti no a non poterli nemmeno più riconoscere? E come è possibile fare dei progetti se tutt’intorno si avverte l’instabilità dello stesso rapporto che ha generato una famiglia? Come guardare al futuro se tutto si àncora al bisogno del giorno per giorno e se tutto il mondo è regolato in tempo reale come fosse senza passato e senza un futuro? E come è possibile parlare di scuola se essa si è ridotta a un ammasso di giovani che si siedono stanchi e demotivati su banchi scomodi e scoloriti? Come seguire un insegnante monotono e privo di attrattive, quando basta poco per sintonizzarsi su canali trasmessi dal proprio telefonino con la possibilità di attivare un mondo fantastico e di spegnerlo se non è più gradito, mentre quello dell’aula scolastica non può certo essere cambiato? Sono molto colpito dalla vastità dei dubbi educativi, dalle discussioni che teorizzano modelli contrapposti e persino formule che sembrano pura follia. Ho sempre ritenuto che il dubbio sia un elemento fondante, strutturale del procedere scienti co; in un certo senso ne rappresenta per no l’anima, poiché ogni ricerca parte da un dubbio e dall’analisi degli strumenti più idonei per trovare una risposta. Ma quando il dubbio coinvolge persino il procedere scienti co, la stessa possibilità di comprensione, tutto diventa dubbio e non sembra esserci spazio nemmeno per reperire un punto su cui

poggiare un piede senza cadere. Quando tutto è possibile, signi ca che non ci sono le condizioni per fare alcunché e le discussioni sui dubbi non possono che generarne di nuovi moltiplicandoli. Sia chiaro che io non ritengo sia necessaria la conoscenza della Verità per educare. Ho bisogno però di pensare che questa esista almeno nel suo signi cato storico, esista come il miglior modo possibile al presente di risolvere una questione attuale. Se la verità della pedagogia è riportabile all’Uno, nessuno e centomila, non è pensabile non solo trovarla, ma neanche ipotizzarla. Una verità qualunque non ha nemmeno le sembianze di una verità. Oltre ai dubbi educativi sono colpito dalla “maleducazione” degli educatori, tanto che non sono più in grado di tracciare neppure una sinopia di questa figura. Quando mi pongo il problema di come educare gli educatori perché possano svolgere la loro funzione, avverto disagio e una sensazione che s ora l’impotenza e mi conduce lentamente ad accogliere l’idea che la migliore educazione sia quella che si fonda sulle pulsioni che sono “stampate” dentro ciascun uomo. L’idea di Jean-Jacques Rousseau che ogni uomo nasce buono: a renderlo cattivo ci pensano poi l’esperienza e l’educazione. L’analisi della famiglia e della società come riferimenti necessari per parlare di educazione si fa progressivamente più impietosa, perché queste due istituzioni sono talmente cambiate nello spazio di pochi decenni che sono ormai irriconoscibili. E a dirlo è una persona disposta a comprendere la necessità dei giri di boa, quando una situazione non è più in grado di rispondere ai bisogni dell’uomo. Sono però anche convinto che i cambiamenti più signi cativi non siano determinati da svolte repentine, ma da trasformazioni progressive, che nel loro compiersi lasciano il tempo di ri ettere su ciò che si deve cambiare, e di valutare criticamente il progetto che sostiene il cambiamento. Sono letteralmente terrorizzato da chi sa solo descrivere una pars destruens e non tenta nemmeno di immaginare la pars construens. Gli esempi sono numerosi, sia nella microsocietà costituita dalla famiglia, sia nell’ambito della res publica, come è accaduto a seguito di cambi di governo e di gestione del potere. Un tema che caratterizza il tempo presente è quello che potremmo intitolare l’importanza dell’inutile. Credo infatti che quest’epoca sarà ricordata in modo particolare per l’affanno, la lotta e gli impegni che l’inutile richiede. Avverto subito una di coltà nell’uso di questo termine perché, paradossalmente, l’inutile è diventato essenziale, e io non accetterò mai di considerare necessario alla vita e alla sua qualità qualcosa che ha insito in sé il rischio di trasformarsi in danno. Non si può perdere di vista ciò che è essenziale per dare un signi cato all’esistenza dell’uomo. Certo, sono consapevole che i cosiddetti bisogni primari sono soggetti a mutamenti, poiché, come è stato sostenuto dalla fenomenologia con l’introduzione del

Dasein (esserci) – il vivere qui e ora – non è possibile de nire in maniera statica e perenne i bisogni. Un uomo astratto dall’ambiente, l’ho sostenuto io stesso, è semplicemente una nzione. Ma ciò non giusti ca uno stravolgimento così radicale da negare per esempio il bisogno di legarsi a ettivamente all’altro. L’uomo, da solo, nisce per contraddire la stessa identità di specie. Per questo si potrà discutere sui tipi di legame, ma non certo esaltare la misantropia e il narcisismo. Anche se l’esistenza e il signi cato dell’uomo si riducono al raggiungimento della bellezza esteriore, non è possibile dare a questo desiderio la de nizione di bisogno primario, perché quando tutto viene speso per essere “attraenti”, per un gioco di seduzione, si nisce per gettare una luce negativa sulla bellezza vera, intendendo per esempio quella della natura ma soprattutto quella propria dell’uomo, a cui Fëdor Dostoevskij attribuiva addirittura la capacità di salvare il mondo.3 Insomma, non tutto ciò che si cerca insistentemente diventa essenziale, esiste un super uo da combattere e arginare perché toglie forza e mezzi da dedicare proprio all’essenziale. Ed ecco perché non deve mai essere persa di vista la “scala” dei valori, pur nella sua variabilità nel tempo. Si potranno ammettere aggiustamenti, spostamenti al suo interno, ma dedicarsi alla sua compilazione non va considerata un’operazione inutile. La mia impressione è che questa società non sappia proprio più distinguere l’inutile dall’essenziale, perché ha perduto il senso da attribuire all’uomo-nel-mondo, concetto che io credo non abbia nulla di de nitivo, ma – e lo ripeto – che risenta del momento storico. Leggere che il sessanta per cento delle nostre spese è destinato all’inutile mi ha sconvolto: se è così, signi ca che più della metà del tempo di lavoro dell’uomo ha origine da questa, consapevole o inconsapevole, spinta. Negli anni Settanta del Novecento mi sono occupato, nell’ambito di un ristretto gruppo di studio, di questo fenomeno, che ormai aveva raggiunto dimensioni preoccupanti. Scoprimmo così che molti giovani originari dei villaggi della Costa d’Avorio, allora uno dei Paesi più avanzati dell’Africa equatoriale, abbandonavano le loro case per raggiungere i moderni centri urbani come Abijan, e si dedicavano ad attività spesso illecite come il tra co di droga per poter comperare alcuni oggetti di culto, che allora erano, in primis, gli occhiali da sole e le radio portatili. I più fortunati ritornavano al villaggio dopo alcuni mesi, sfoggiando un paio di occhiali e una radio a pile, che passato poco tempo rimaneva muta. Il costo umano di questa ricerca dell’inutile era lo smarrimento completo dei principi che informavano la vita del villaggio. Si tratta di un esempio forse troppo lontano, sia nel tempo sia nello spazio, ma ancora oggi ricordo il dolore che provai nel trovarmi di fronte a vite smarrite in nome dell’inutile. E la società occidentale, usando la pubblicità come strumento di persuasione subliminale, è diventata abilissima nello spacciare l’inutile per necessario. Ricordo uno spot che in venti secondi riusciva a capovolgere il senso tra inutile e necessario: in primo piano si vedeva un adolescente elegante e sorridente su un

motorino, fermo davanti a una ragazza che teneva una mano sul manubrio e l’altra sulla spalla del giovane, segno che il suo gradimento era dato dall’insieme giovanemotorino, come se questo mezzo di locomozione fosse un’estensione del suo corpo. Sullo sfondo, in maniera indistinta, c’era un adolescente da solo, che osservava la scena: la sua espressione dichiarava apertamente la sua solitudine e la sua frustrazione. Il messaggio era chiarissimo: il motorino dà un senso alla vita e promuove l’amore; senza, un adolescente è come se non esistesse, come se non avesse alcuna possibilità di realizzare il bisogno essenziale di una relazione a ettiva. In questo spot, il bisogno non era la ragazza, bensì il motorino. L’inutile non condiziona solo il singolo, ma modi ca l’intera collettività. È diventato globale, grazie ai mezzi di comunicazione, come le tv e i social network, da Facebook a Twitter. Se la promozione dell’inutile, al solo scopo di aumentare i pro tti di qualche imprenditore o società d’a ari, si allarga e si impone, è facile immaginare che l’intera società ne venga trasformata fino a giungere al dominio dell’inutile. Una famiglia dell’inutile, una società dell’inutile. Nell’immediato dopoguerra, quando si diede avvio alla ricostruzione, non ci si limitò a quella degli edi ci. La speranza che dominava era di ricostruire anche l’uomo e la sua civiltà, vittime dei poteri che avevano scatenato l’inferno del con itto mondiale. Era forte il desiderio di compiere un balzo dalla miseria e dalla mancanza dell’essenziale, e gli italiani si dimostrarono capaci di reagire, di dimenticare la guerra e ogni indigenza. Ma, proprio in questa fase straordinaria, si commisero degli errori, che hanno coinvolto i singoli, ma anche la polis. Errori politici prima di tutto, perché, invece di mirare alla distribuzione del benessere che si doveva sostituire al malessere della guerra e dell’immediato dopoguerra, si sono ristabilite le basi per i classismi e le disuguaglianze sociali. E così si ripiombò nella società delle distinzioni e delle disparità, accentuando per no le distanze tra chi aveva molto e chi poco, nché questa distinzione si fondò esclusivamente sulla dimensione del denaro. Ben presto si è di uso il fenomeno del consumismo che ha espresso in maniera evidente la di erenza tra l’essenziale e l’inutile. Se indossare un paio di scarpe era importante per ragioni di igiene e di difesa del piede si passò subito all’imperativo di buttarle anche quando erano funzionalmente buone. All’essenzialità si sostituì il bisogno di cambiamento per rispettare la moda, ostentare l’abbondanza e persino dimostrare che si potevano eliminare oggetti ancora perfetti. Dando l’avvio all’epoca dell’“usa e getta”. Agli anni della mancanza seguirono quelli dell’eccesso: lo spreco divenne un bisogno e uno stile di vita, e la necessità del super uo si mostrò nella moltiplicazione di forme, di colori e di invenzioni. L’inutile nella sua espressione più estrema si ha quando la produzione non è più rivolta alla varietà dell’utile, ma quando crea oggetti legati non alle necessità, bensì a ciò che è pura decorazione. Ed è a questo punto che la bellezza acquista una dimensione sconvolgente. Diventa sfizio, orpello, soprammobile. Sulla bellezza dell’essenziale, si inventa una bellezza del ridondante, dell’eccesso. Una

storia dunque che, in brevissimo tempo, passa dalla mancanza all’eccesso del necessario, e dunque al consumismo. La società dell’inutile trionfa alla ne di un processo folle che ha spinto l’industria a produrre beni super ui, come se lo scopo dell’uomo non fosse di essere e vivere in una società giusta, bensì quello di apparire; ed è proprio su questa esigenza che si fonda il grande dogma della contemporaneità: si ha successo se si appare. In questo modo abbiamo mancato l’occasione per far sì che il benessere nato nel dopoguerra fosse distribuito equamente, come base di una vera democrazia, intesa nel senso in cui l’avevano de nita i greci dell’antichità; lo abbiamo invece incanalato per dare sostanza a nuovi criteri di classismo, di con ittualità e di lotta che hanno come unico esito la violenza. E infatti questa diseguaglianza ha innescato una violenza che ha raggiunto livelli che non solo ricordano la stupidità della guerra, ma la superano nella sua disumanità. Oggi, anche chi vive predicando falsamente l’uguaglianza e la giustizia è forse una vittima inconsapevole del bisogno di successo. Si è giunti ormai a un grado di delirio dell’individualismo e del dominio del singolo, impensabile pochi anni fa. E questo è segno non solo di ingiustizia presente, ma anche futura. Sia chiaro che con le mie considerazioni non auspico una omogeneizzazione della società, che renda tutti uguali appiattendoli. È una posizione, la mia, che crede nella diversità, ma vorrebbe che la diversità fosse una ricchezza, fondamento dell’unione tra uomini, sviluppata nell’ambito dell’essenziale e non dell’inutile. Una società misurata sul denaro può invece solo seppellire le caratteristiche di sostanza che dovrebbero caratterizzare le differenze tra gli uomini. Dopo avere visto la povertà della guerra, assistito alla forza della ricostruzione che è stata via via massacrata dall’inutile, ora guardo con simpatia al minimalismo, una corrente di pensiero che ha ispirato uno stile di vita che ri uta ogni eccesso del consumismo. Il minimalista aspira a uscire dalla meccanica folle dell’inutile e desidera un’esistenza al minimo. Vuole evitare lo spreco di energie e di tempo, e dunque anche di lavoro, necessari per garantirsi beni inutili. Non si tratta di un atteggiamento esteriore, una sorta di dandismo al rovescio, ma è una vera e propria teoria sociale per cui un uomo al minimo dell’inutile funziona al massimo dei propri bisogni, culturali e a ettivi. È un movimento di uso soprattutto tra i giovani che non considerano più il lavoro una via per il successo, ma semplicemente uno strumento per potersi permettere lo stretto necessario. Descrivendo il tempo presente e immaginando una possibile educazione, mi ritorna ripetutamente alla mente il camaleonte, un animale pieno di fascino, anche se inquietante, perché riesce a trasformarsi totalmente no a sembrare altro, perdendo la propria e assumendo una nuova identità. L’uomo-camaleonte è ormai una figura molto diffusa, che non soltanto mi turba, posso

dire che mi terrorizza letteralmente. Come il camaleonte, l’uomo può cambiare il suo aspetto, sottoporlo a trasformazioni attraverso la chirurgia, ma soprattutto può trasformare la propria mente, i propri pensieri, affetti, azioni. Sull’uomo-camaleonte occorrerebbe scrivere un vero trattato di zoologia; mi voglio tuttavia limitare alla descrizione di due forme che mostrano l’uomo come una specie di animale non solo infelice, ma disgraziato. La prima è quella del camaleontismo politico. La politica dovrebbe esprimere una concezione del mondo, o meglio, dell’uomo dentro il presente e dovrebbe promuovere una “città” (polis) che permetta di realizzarla nella pratica. Un modello deve farsi esperienza quotidiana. Proprio per questo, Platone aveva riconosciuto nei filosofi le figure più indicate per definire i bisogni. Platone, per incominciare, aveva concepito un’idea loso ca come premessa di un progetto che i tecnici avrebbero dovuto poi attuare. Idea immodi cabile e immodi cata, mentre a mutare sono gli strumenti di realizzazione nella storia. Nell’ultimo periodo la politica si è invece ridotta a puro potere, che vuol dire denaro, e il camaleontismo si è talmente di uso che i politici si spostano senza scrupolo là dove il vantaggio è maggiore, senza curarsi della concezione sulla gestione della polis espressa dal partito in cui sono stati eletti. Insomma, possiamo parlare di un vero e proprio mercato della politica per cui ci si sente legittimati ad acquistare un deputato o un senatore per qualsiasi scopo, anche quello di provocare la caduta di un governo. La seconda forma di camaleontismo riguarda i sentimenti. Le molteplici strategie dell’amore mi a ascinano, mentre mi sconvolge l’idea che sia possibile amare più persone contemporaneamente. Sono sempre stato convinto che sui sentimenti non è possibile ngere: chi mente dichiarando il proprio amore non può che essere smascherato da un abbraccio, perché il corpo non sa tradire. Ma già guardandomi attorno, mi rendo conto che mi devo essere sbagliato. Ovunque incontro uomini che riescono a vivere più relazioni parallele, possono addirittura avere due case, due mogli o compagne, glioli avuti dall’una e dall’altra donna. Non si fanno nemmeno scrupolo di nascondere questa doppia vita, e così mi capita di incontrarli una volta con una compagna, altre volte con l’altra dimostrando una disinvoltura che mi fa appunto pensare al camaleonte che muta il proprio corpo a seconda delle circostanze. Ricordo le discussioni, un po’ salottiere, che si facevano una volta su Giacomo Casanova e su don Giovanni: se Casanova poteva essere de nito un consumatore di sesso, quindi di incontri rapidi che escludevano qualsiasi coinvolgimento sentimentale, don Giovanni, abile e scaltro conquistatore, amava comunque tutte le donne conquistate. Secondo questa lettura, era indubbiamente lui a meritare attenzione, proprio perché fondava sull’amore, sia pure facile, i legami a ettivi, al cui interno avveniva il consumo della sessualità. L’interesse di don Giovanni sta però nel fascino del mito, poiché non è possibile – questa, almeno, è la mia convinzione – essere legati nell’amore a più persone, se amare significa non poter vivere senza l’altro. Se penso al don Giovanni mozartiano non posso che riconoscere nel personaggio una

trasposizione ideale dello stesso Mozart che, com’è noto, sfarfallava da un grembo all’altro, spinto da un grande bisogno d’amore mai soddisfatto. E certo non poteva trovare appagamento nella moglie, Constanze Weber, donna calcolatrice e fredda, no alla mostruosità. Mi piace pensare a don Giovanni in versione mitologica. E il mito rimanda per contrapposizione alla realtà dell’uomo e dei suoi bisogni concreti. È molto probabile che don Giovanni non abbia mai amato e che, coltivando come tutti gli uomini il sogno d’amore, lo cerchi “seriamente” in ogni donna che incontra, e nella speranza di averlo nalmente trovato viva esperienze che vorrebbe d’amore, ma che lo sono solo transitoriamente, nel suo desiderio. Si potrebbe sostenere che la sua ricerca continua dell’amata e la continua illusione di averla trovata esprimano una vera e propria incapacità di amare. Di tutt’altro spessore sono i giri di valzer in cui viene condotto l’amore oggi. Intrecci che rendono falsi persino gli a etti, e dunque anche il sentimento d’amore, che diventa oggetto per camaleonti, in cui non si manifesta un desiderio a ettivo, ma un puro calcolo espresso in euro o in dollari. Anche i sentimenti sembrano essere sottomessi a una sorta di “usa e getta” che riporta alle scarpe e agli oggetti da bottega. Un consumismo dell’amore che si è fatto costume, per cui se un legame non può continuare si aspetta la sua ne, addirittura la si desidera e, desiderandola, la si guida. Se non credo più in una relazione, inconsapevolmente contribuisco al suo consumarsi, mentre se sono profondamente convinto che sia stabile – un tempo si osava persino de nirla eterna – allora faccio resistenza (resilienza) ogni volta che riconosco qualche segno di stanchezza. Insomma, l’attesa non è mai una condizione passiva, ma si fa azione anche se involontaria. Se il sesso si riduce alla funzionalità di un organo, è indubitabile che dipende da meccanismi puramente biologici: il testosterone per l’uomo e gli estrogeni per la donna. E se è dimostrato che il livello di produzione muta con l’età, con la menopausa e l’andropausa, si deve concludere che il sesso come ingrediente sostanziale dell’amore nisce. Per cui si dovrebbe desumere che anche l’amore ha una data di nascita (pubertà) e una di morte, in relazione alla limitata produzione di ormoni, non più su ciente a far funzionare l’organo maschile e femminile (sia pure con dinamiche e percezioni differenti). Ma l’amore non è riportabile esclusivamente alla sessualità e agli ormoni che la regolano, esistono infatti varie modalità di espressioni corporee capaci di generare piacere e desiderio. Innanzitutto la sessualità non si limita all’organo destinato a dare piacere, ma include tutto il corpo e diventa piacere di stare insieme, abbracciarsi, baciarsi, giocare con una fantasia che può farsi infinita in ogni età. Il problema dell’anziano in amore non è quello di recuperare arti ciosamente la sessualità d’un tempo, ma di scoprirne una nuova e fantastica per quell’età. La vecchiaia permette – con ritmi di erenti, attenzioni particolari rivolte ad aree del corpo che si pensavano neutre quando tutta la scena era presa dall’amore eroico e generante – una ra nata sperimentazione, dolce e piacevole, senza fretta, senza le esplosioni capaci di

stremare anche il più grande degli eroi. Il piacere non è solo legato agli organi, alla loro sensibilità, ma ha una componente mentale notevole e pertanto i gradienti con cui mettere insieme le due frazioni sono diversi con l’età: ora più sico ora più mentale. Una mescolanza che produce e etti propri in funzione anche del gusto e della capacità di combinarli. Esattamente come nella realizzazione di un piatto da gourmet che usa gli stessi ingredienti che in altre mani e in altre occasioni portano a un desinare da mensa aziendale. Potrei dedicare pagine e pagine al tema dell’amore, non fosse altro per contrastare l’idea che una coppia che dura da molti anni sia automaticamente da considerare un insieme in agonia o già morto sessualmente. Un errore che mi o ende, perché discende da una visione rigida della sessualità che ritiene morto chi consuma l’amore con modalità che non sono più quelle giovanili. È regola, nella sequenza esistenziale, che una funzione muoia per lasciar spazio a un’altra, e quando le funzioni comportano anche l’azione della mente e del cervello con la sua fantasia e creatività, talora la morte di una funzione sa di vera resurrezione. Dopo aver accennato all’amore, viene subito in mente l’amicizia. E di nuovo sorge spontanea una domanda: esiste ancora nella nostra società? E, se sì, che caratteristiche ha? L’amore, un sentimento forte, presume l’esclusività e appartiene alla sfera del privato. L’amicizia invece, essendo un legame più comune e meno profondo, si instaura più facilmente e ha una dimensione sociale. Si fonda sulla ducia, sulla stima, che sono qualità misurabili, mentre è assai più complicato “misurare” l’amore. E se l’amore, essendo esclusivo, è in grado di attivare la gelosia, con il sogno di nasconderlo e di riservarlo tutto per sé, l’amicizia viene esposta, presentata, ha carattere multiplo e non provoca quella paura che affiora quando si teme di perdere il proprio oggetto d’amore. Nella vita sociale gli amici sono molto importanti, possono soccorrere con le loro competenze professionali, con un consiglio, con un aiuto o con una raccomandazione. Ma è chiaro che l’amicizia va oltre questi aspetti utilitaristici, proprio perché si tratta di un legame sentimentale, di una relazione, anche se meno intensa dell’amore. La dimensione a ettiva è infatti ciò che distingue un amico da un esperto o un consulente professionale, che offre una prestazione dietro un preciso compenso economico. Se penso alla mia ormai lunga esistenza, non posso non ricordare gli amici che mi hanno accompagnato e li ricordo con rispetto, con l’a etto che si riserva a chi ha fatto del bene e si è donato con generosità. Non sono stati certamente personaggi di un momento. L’amico è colui con cui si stabilisce un legame che dura nel tempo, indipendentemente dalla frequenza degli incontri. Anzi, è osservazione comune che il tempo sembra perdere signi cato, che anche quando ci si rivede dopo anni si ha l’impressione di una continuità, come se il periodo in cui non ci si è visti fosse posto tra parentesi. Io considero l’amicizia come l’espressione più alta della socialità, proprio perché la dimensione a ettiva prevale assolutamente sull’interesse. Perciò interrogarsi su questo

legame serve, sia pure in modo indiretto, a stabilire il grado di coesione sociale esistente. Mi pare di poter dire che oggi noi viviamo un’amicizia allucinata, per lo più improvvisata, dove conta quello che noi proiettiamo sull’amico più di quanto egli non sia, un’amicizia delle apparenze e non delle qualità. Un’amicizia del sembrare. Per questo motivo trovo che l’uso del termine sia speso con troppa facilità e che venga talora riferito a semplici conoscenze che sono rivendicate come una decorazione del proprio status sociale. Tanto che il numero delle amicizie presunte è direttamente proporzionale all’aumento del proprio potere sociale e della propria fama. In realtà si tratta soltanto di amicizie illusorie o semplicemente inventate. Occorre anche distinguere tra un legame di amicizia che coinvolge persone dello stesso sesso e persone di sesso di erente, nel caso in cui l’attrazione sia di tipo eterosessuale. È di cilissimo parlare di amicizia tra un uomo e una donna, quando si avverte un’attrazione sica. Già la semplice simpatia apre le porte a una relazione sessuale, talvolta basta la curiosità o l’occasione. A maggior ragione, dunque, la sessualità nisce per accompagnare un legame d’amicizia, che però in questa maniera si snatura. Sulla base di queste considerazioni, si può sostenere che l’amicizia si colloca, o si dovrebbe collocare, entro i legami tra individui con attrazione sessuale zero e dello stesso sesso: pensiamo all’elogio che ne facevano i greci, all’importanza che aveva nel gymnasium o sotto i portici dell’agorà in cui passeggiavano i filosofi. In questo momento storico sembrano smarrite persino le condizioni stesse che promuovono l’amicizia: i cambiamenti troppo rapidi e lo sconvolgente numero di incontri che si limitano a una toccata e fuga impediscono un rapporto che ha bisogno di essere approfondito e coltivato. Un’altra di coltà deriva dal clima che si respira nei luoghi di lavoro, che una volta o rivano l’opportunità preziosa di incontri prolungati e duraturi. L’indice di con ittualità che caratterizza il tempo presente spinge semmai alla inimicizia e alla lotta, piuttosto che a quell’intesa anche affettiva alla base dell’amicizia. È un tema sicuramente complicato e per comprenderlo sino in fondo servirebbe ri ettere sul signi cato di questo rapporto nella storia. Ci si dovrebbe perdere tra le grandi amicizie del mondo della cultura, esempi che ci rivelerebbero anche l’instabilità e la precarietà di questo legame, pensiamo per esempio all’amicizia-inimicizia tra Richard Wagner e Friedrich Nietzsche. Ci sembra che il mutamento di questo legame nel mondo attuale sia un ennesimo indice di disgregazione. Anzi, in un certo senso potremmo de nire la nostra come una società dell’inimicizia e parlare persino di una cultura dell’inimicizia. Il che significa che, no a prova contraria, le persone che incontriamo e ruotano intorno a noi sono dei nemici. Ecco da dove nasce la di denza, la di coltà ad accogliere lo “straniero”, un atteggiamento che dovrebbe sorprenderci se pensiamo che nella cultura greca e romana lo straniero era considerato portatore di novità, di conoscenza e di cultura, e dunque un

ospite sacro. Mi ha sempre colpito l’episodio evangelico dei discepoli di Emmaus: due viandanti stanno tornando da Gerusalemme e parlano della vicenda della Croci ssione e della notizia della tomba vuota ormai sulla bocca di tutti. Discutono della possibile Resurrezione e si scambiano le proprie opinioni, nché incontrano un pellegrino, che si unisce al loro cammino e al loro dialogare. Raggiunto il villaggio quando ormai si è fatta sera, i viandanti insistono perché il pellegrino rimanga ospite a casa loro, ma lui decide di continuare il suo viaggio, e solo in quel momento si rendono conto che egli è il Risorto (Lc 24,13-31). È bellissima questa scena: un uomo viene accolto, invitato, pregato di restare e, pur senza fare domande sulla sua identità, si nisce per scoprire in quel senza nome, in quel senza identità, la gura di Cristo che, se è risorto, allora è Dio. Se la stessa scena avvenisse oggi, quel pellegrino non potrebbe parlare con i due viandanti, che sospettosi lo allontanerebbero, non capendo che era Cristo, il Dio venuto tra gli uomini per la loro salvezza. A questo punto vorrei tentare di valutare lo stato, la salute dell’educazione nella nostra società. Sarebbe infatti inutile considerarle separatamente, perché è solo nell’interazione che il processo si attua. I due elementi, società e educazione, si in uenzano no a negare che possa esistere una tipologia di educazione assoluta. Il problema però non è se ne sussista un tipo piuttosto che un altro, ma se sia ancora possibile un processo educativo, indipendentemente da dove porti e con quali esiti. Proviamo infatti a immaginare un seme di begonia perfettamente conservato, che mantiene tutte le sue potenzialità, eppure, messo in un determinato terreno, non si sviluppa in ore, perché quel terreno in sé potrebbe permettere la nascita di una ginestra, ma è incompatibile per la begonia. 1

I componenti di matrimoni vissuti nella fedeltà che reggono da quaranta, cinquant’anni vengono considerati amor , il

che certamente implica la fine della sessualità, e quindi un’impotenza presunta. 2

Solo nel secondo dopoguerra, dopo Pio XII, i Papi hanno modi cato strategia comunicativa, e con l’avvento della tv

addirittura sono diventati delle star. 3

L’espressione “La bellezza salverà il mondo” è usata dal principe Myškin nell’Idiota.

Futuro e educazione

Il primo punto critico, e a questo proposito essenziale, si lega alla percezione del futuro che caratterizza la nostra società, e in particolare il mondo infantile e adolescenziale, cioè i destinatari principali dell’educazione. Se educare è attivare e svolgere un processo graduale e continuo, si presuppone che esista un tempo futuro in cui si realizzerà pienamente questo progetto. Se domani fosse il giorno del Dies irae, del giudizio, e quindi della ne del mondo, è chiaro che non sarebbe possibile alcun progetto educativo. Il tempo per educare non ci sarebbe. Parlare del tempo è per me sempre a ascinante, perché, come minimo, si giunge a dire che il passato non c’è, anche se è realmente esistito, come testimonia la memoria; che il presente esiste, ma solo come nzione, perché nel momento stesso in cui ho coscienza del suo esserci, si consuma e muore; e che il futuro potrà avvenire ma non è certo, e quindi tutto ciò che vi proietto potrebbe essere illusorio. Sia sant’Agostino, sia i fenomenologi, che sono maestri del “tempo che passa”, hanno espresso questo concetto in maniera forse più vasta e completa. Opportunamente Eugène Minkowski ha parlato di temps vécu (tempo vissuto)1 e lo ha nettamente distinto da quello cronologico (del resto lo avevano già fatto, in altro modo, i greci n dai presocratici). Il tempo vissuto indica bene che si può percepire il futuro, anche se non è detto ci sia, o il passato, anche se non c’è più. A testimoniare il passato è la percezione del ricordo, a testimoniare il futuro è l’immaginazione di ciò che per me è pensabile n da ora, anche se non so se ci sarà domani. Ciò permette di rendere passato e futuro presenti nel mio vissuto, anche se nel presente cronologico non ci sono. Il periodo adolescenziale, in maniera particolare oggi, manca della percezione del futuro. Si consuma come se tutto potesse nire tra un attimo, come se stesse per attivarsi la scena apocalittica. Quando noi diciamo che nel mondo degli adolescenti manca il senso della morte, pronunciamo una sentenza super ciale, se non falsa. I giovani non parlano della morte, non a rontano i problemi escatologici, per la semplice ragione che vivono, più o meno consapevolmente, la fine del tempo. Se volessimo essere un po’ meno apocalittici, potremmo dire che negli adolescenti la percezione del futuro è miope, e dunque si riduce al tempo delle vacanze estive oppure al prossimo weekend, per questo, se programmano qualcosa, non superano di certo il limite della loro percezione temporale concreta. Parliamo di adolescenti, ma molte considerazioni analoghe si potrebbero fare se al centro della nostra attenzione ci fosse la vecchiaia. L’otium senile non è soltanto la

conseguenza di una società che ha cancellato i ruoli e il signi cato di ciascun uomo dopo la pensione, ma si lega in maniera prevalente alla percezione del futuro che, in rapporto all’età, non è su cientemente lungo per molti dei progetti che la mente e i desideri potrebbero ancora sostenere. Non mi pare esista dubbio alcuno sulla caratteristica che abbiamo de nito propria del mondo giovanile attuale e, se potessi assumere il mio ricordo come riferimento per tracciare un confronto, dovrei dire che nella mia adolescenza la percezione del futuro era invece molto forte, si proiettava persino nella dimensione dell’eterno. Con la ne del mio tempo, mi domandavo infatti che cosa mai potesse accadere. Mi ricordo che nell’affrontare il tema del matrimonio, e quindi nell’immaginare la mia vita futura in questa nuova situazione a ettiva, mi ero posto il problema se si continuasse a vivere insieme, come sposati, nell’eterno. Una prospettiva forse persino terri ca, ma certo indicativa di quanto abbia rappresentato nella mia adolescenza il pensiero del futuro. Riferendosi più semplicemente alla progettualità, che pure ha bisogno del tempo, devo constatare che oggi gli adolescenti non fanno progetti, e che la società in cui vivono non compie nessuno sforzo per farli guardare lontano. Devo aggiungere, per dare maggior senso a questo riferimento personale, che il tempo futuro allora era così importante che niva per impoverire il presente. L’educazione che ho ricevuto sembrava fatta per il domani, e la regola era il sacri cio del presente per il futuro, per “quando sarai grande”, per “quando avrai nito il liceo”, e poi “per quando avrai conseguito la laurea”. A spingermi dunque non era tanto il presente quanto i desideri. Ero pieno di desideri e i desideri, per esprimersi, hanno bisogno del futuro, di percepirlo, di disegnarlo, e persino di inventarlo. E così accadeva anche per la sessualità. Fatta anch’essa di desideri, di progetti, di spostamenti. Oggi parlare di desiderio sessuale non ha senso, e se un adolescente dicesse che si astiene da un rapporto sessuale per poterlo consumare con la stessa ragazza in futuro, per esempio tra tre anni, verrebbe ricoverato con una diagnosi di follia che s ora il delirio. Quando mi capita di raccontare che sono arrivato al matrimonio vergine, pur avendo frequentato la mia futura sposa per cinque anni, sono guardato come un “poveretto”. E certo non mancava l’appetito, che veniva spostato sovente su noccioline, qualche olivetta, cose da happy hour, ma il resto “a suo tempo”. Mi ricordo il fascino che avevano le parole attribuite a Salomone: “C’è un tempo per so rire e uno per godere, un tempo per amare e un tempo per odiare”. C’è dunque un tempo che verrà, in cui saranno possibili cose che il presente non contiene. La questione che si pone è la seguente: è possibile un’educazione se non si ha idea del futuro? E, senza questa dimensione, come si può partecipare a una scuola che abbia un progetto a lungo termine, se gli allievi non vedono oltre il weekend o la ne dell’anno scolastico? Non è possibile educare senza la percezione del futuro, non si dà scuola ritmata nel

tempo senza che lo studente abbia presente il futuro. La scuola senza questa atmosfera diventa una serie di momenti separati l’uno dall’altro, è ridotta all’hic et nunc e infatti ci si comporta attimo per attimo: a uno stimolo si dà una risposta che non ha nulla in comune con l’attimo precedente o passato o con quello che verrà, se ci sarà, e quindi nel futuro. Non si entra certo in classe avendo davanti a sé il progetto dei molti anni che dividono dal cosiddetto completamento del ciclo scolastico, ma per vivere quella mattina, in particolare quell’ora di lezione. Quel che conta è vedere un amico o un’amica, scambiare un’informazione o organizzare il pomeriggio di evasione. Senza percezione del futuro dunque, non può nemmeno partire il motore dell’educazione e gli adolescenti vivono rispondendo agli stimoli che quel momento attiva. La vita diventa una sperimentazione casuale, guidata quasi esclusivamente dagli istinti e dalle pulsioni che sono parte della biologia, oppure dai vantaggi immediati che le circostanze fanno emergere. Non esiste educazione al presente, l’educazione ha un senso solo se si ammettono una crescita, quindi una maturazione, e la possibilità di plasmare in diverse forme un bambino e un adolescente. L’empirismo radicale non ha progetti. È dominato dalle pulsioni primarie, dall’appropriarsi di ciò che piace persino rubando, dal possedere la donna che si desidera violandola, dal battere un nemico eliminandolo. Nell’attimo presente l’unica modalità che può in uenzare il singolo è l’imitazione, e infatti l’emulazione è fortissima tra gli adolescenti che, per certi aspetti, sembrano tutti uguali. Mi pare che queste caratteristiche ci avvicinino a specie animali che ci hanno preceduto nella scala evolutiva, e persino agli insetti che si muovono perché uno imita l’altro. Senza arrivare alle termiti, di cui parleremo più avanti, ci possiamo fermare alle anatre che seguono la madre in la indiana e, se questa non si muove, rimangono ferme. Oppure possiamo richiamare quelle forme viventi solitarie, come le farfalle o i ragni. I ragni tessono una tela e aspettano che un moscerino rimanga impigliato; le farfalle saltano da un ore all’altro per assorbirne il nettare. Forme viventi insomma che si muovono attimo per attimo e che mancano della coscienza di essere e certamente di quella di poter vivere nel futuro. Possiamo dire che sta per scomparire quel salto logenetico dato dalla coscienza, che non è possibile de nire senza la dimensione del tempo. La consapevolezza di esserci presuppone al contempo il possesso di una memoria che attesti di esserci stati e un’immaginazione che permetta di pensare che ci potrà essere domani. L’empirismo radicale di cui ho parlato fa persino dimenticare di avere una consapevolezza, fa perdere la dimensione del proprio sé. È certo una visione drammatica e, se pur malinconicamente, si deve cercare di capire come possa essere partita questa regressione che rimanda a un Charles Darwin ribaltato. Sicuramente non possiamo ignorare che la società nel suo insieme ha spaccato, forse addirittura

ammazzato il futuro. Questa volta, non la sua percezione, ma proprio le condizioni perché una società continui domani. Penso alla forza trainante che in passato ha avuto l’attività imprenditoriale, con i suoi piani di sviluppo quinquennali o decennali. Quella stessa imprenditoria che oggi vive giorno per giorno e, nel migliore dei casi, fa previsioni mensili. E il corrispettivo è che non esiste più un posto sso, anzi, pare per no incredibile veri care che c’è chi lo vorrebbe ancora difendere. Si capisce perché i giovani non siano interessati a “imparare” un lavoro, quando l’unica ipotesi è che un domani, se un domani ci sarà, sarà totalmente diverso da quello possibile oggi. L’occupazione si fa occasionale e ogni occupazione dell’immediato è svolta senza coinvolgimento e senza stimolo ad approfondirla, non interessa a atto diventare un vero artigiano o anche un vero operaio. I giovani quindi non imparano a eseguire nulla e muovono solamente le mani e il corpo con l’unico scopo di ottenere un compenso per quel giorno, e domani si vedrà. Magari spenderanno il loro tempo in un luogo vicino al precedente, in un’occupazione che opera in un settore totalmente diverso, ma per loro sarà come se nulla fosse mutato. E questo stile vale anche nelle università dove non si guarda più al futuro e non si preparano gli studenti a una professione, che forse semplicemente non ci sarà. E quindi i giovani brancolano nel consumo del tempo, giorno per giorno, depauperando lo studio di significato o caricandolo di significati generici e inutili. Così anche l’università si pone tra i distributori di decorazioni che ormai non si mostrano più e talora si devono nascondere, poiché non si è ammessi a una giornata di lavoro in un cantiere edile se si è laureati in giurisprudenza: essere laureati è un handicap e non certo un privilegio. E allora si capisce perché i docenti universitari di oggi siano sovente dei minus habens o per lo meno si comprende perché, non dovendo insegnare nulla di rilevante, tutto, anche il loro nulla, si ponga sullo stesso piano del sapere. Rispetto a chi sa, essi credono di sapere, sono sapienti immaginari, per parafrasare il “malato immaginario” di Molière. In questo scenario, a dir poco sconvolgente, mutano i ruoli sociali e persino le professioni che un tempo scandivano l’ordinamento e il funzionamento delle società. L’unico settore che sembra resistere e, anzi, aumentare la propria dimensione, è quello della burocrazia: i burocrati, come controllori del comportamento previsto dalle leggi, diventeranno sempre più corrotti e sempre più convinti che la corruzione aiuti le vittime del sco e si giungerà a richiedere balzelli persino per poter vivere e almeno respirare. Una corruzione elevata a logica, se non a senso morale. Mi pare che la perdita della percezione del futuro sia correlata a una politica che non sa programmare nemmeno a tre mesi, ed è ormai regola che le opere che hanno bisogno di tempo per essere realizzate rimangano sempre incompiute. Come se l’uomo potesse agire solo come una farfalla e succhiare il nettare che serve per quel momento, per

l’oggi. Una società retta da una politica dell’attimo fuggente – e che sembra parafrasare ogni giorno il verso di Lorenzo il Magni co “del doman non v’è certezza” – verrà guidata dall’improvvisazione, e poiché anche l’attimo fuggente non rinuncerà mai al potere, sarà dominata da un potere che si muove, attimo per attimo, sulla preoccupazione che, diventando senza futuro anche il potere, sia meglio concentrarlo su gesti rapidi, di imperio e di grande profitto. Ma sarebbe ingiusto fermarsi solo sull’imprenditoria da una parte e sulla politica dall’altra, perché, senza un futuro della società e senza la percezione del futuro individuale, anche la cultura muore. E infatti di fronte a noi abbiamo una cultura dell’immediato, del successo, che è sempre di questo momento. Le librerie sono piene di instant book, qualcosa che nasce in un secondo e muore sempre in un secondo. Non c’è più di erenza tra il creare e il copiare, tra un autore e un ghostwriter, tra chi ha costruito faticosamente una storia e chi invece indossa una maschera improvvisata. Il mondo dell’immediato, la cultura dell’effimero. In una parola, questo è il tempo della non cultura. È il tempo in cui il cavallo di Caligola può, invece di entrare in Senato, essere insignito del Premio Nobel per la letteratura. Del resto le vallette hanno occupato i ministeri della cultura e gli stolti sono nelle top ten della scrittura. 1

Eugène Minkowski, Il tempo vissuto, Einaudi, Torino 2004 e Biblioteca della Mente, “Corriere della Sera”, Milano 2011.

Bellezza e educazione

Abbiamo già parlato della bellezza e di come sia oggi ancorata esclusivamente al corpo, inteso proprio come super cie, come la cute nelle forme che assume. Vogliamo adesso tentare di coniugare la bellezza, così intesa, all’educazione, non tanto e non solo per parlare di un’educazione alla bellezza, quanto piuttosto per mostrare come l’imperativo di essere belli finisca per impedire, o quanto meno ostacolare, il processo educativo. Gli adolescenti sono certamente molto sensibili alla bellezza, poiché vivono l’età della metamorfosi e quindi vedono il loro corpo trasformarsi rapidamente; e proprio il cambiamento crea drammatici interrogativi su quando si fermerà e soprattutto su quale esito darà nel momento in cui le forme potranno essere definite.1 Certo i giovani di oggi sanno che un cambiamento, anche arti ciale, è possibile: ci sono il trucco, l’abbigliamento, la chirurgia plastica. Queste possibilità contribuiscono a sedare un poco l’ansia della metamorfosi, anche se possono generare dei desideri di intervento in un’epoca che è tutta all’insegna del divenire. Per cui vediamo casi sconsiderati di adolescenti in cliniche estetiche per aumentare un seno o per correggere la conformazione di un naso. Indizi di una società impazzita, in cui non funziona né il buon senso né il rispetto dei limiti, nel confronto di operazioni non soltanto inutili, ma persino dannose. Ricordo con amarezza una perizia condotta per ordine della magistratura su un chirurgo estetico che aveva operato, proprio al seno, un’adolescente di sedici anni, la quale non solo non era rimasta soddisfatta del risultato, ma dopo l’intervento si viveva ancora più mostruosamente. Suo padre chiese i danni, con l’ipotesi di un intervento errato, ma soprattutto perché un chirurgo non avrebbe mai dovuto operare una ragazza così giovane, ancora in piena trasformazione fisica. Il padre sosteneva che quel medico si sarebbe dovuto professionalmente opporre, anche se la ragazza aveva ottenuto il benestare di entrambi i genitori. Mi aveva colpito, e mi indigna ancora, una frase che quel chirurgo aveva usato a propria difesa. Negava che potesse trattarsi di un errore, dal momento che era sempre possibile intervenire ancora per raggiungere il risultato atteso dalla ragazza. Insomma, se la chirurgia estetica sul seno può aumentare o diminuire il volume e può cambiarne ad libitum le forme, il termine errore non è nemmeno ipotizzabile. Ma ritorniamo al signi cato che la bellezza ha assunto oggi non solo per gli adolescenti. Penso per esempio all’ansia giovanilistica che tormenta le persone anziane, pronte a modi care il proprio corpo con qualsiasi intervento – farmaci, chirurgia e trattamenti come creme, massaggi, lampade abbronzanti – al solo scopo di nascondere l’età e quindi di sembrare, dal punto di vista dell’aspetto, giovani. In questo caso i tre

distretti particolarmente in gioco sono il viso, il pube (gli organi sessuali) e la tonicità della cute. Non possiamo che arrenderci se persino un’età che dovrebbe teoricamente essere più vicina alla saggezza (oltre che alla morte) mostra una stoltezza che sembra addirittura irreale. Riprendendo il tema dell’educazione, non vi è dubbio che un eccesso di attenzione al corpo distoglie da altri interessi e porta a spostare tutto sulla cute e sulle forme di superficie. Spero sia chiaro che di bellezza si è sempre parlato, e non solo in maniera astratta – pensiamo a Dostoevskij e al suo già citato “la bellezza salverà il mondo” o al richiamo alla bellezza della natura, no alla teorizzazione del bello che è anche buono in una coraggiosa liaison tra estetica ed etica. Il punto centrale è che nell’adolescente la percezione di essere brutti attiva la frustrazione, riduce la stima in sé, porta a pensare che nessuno possa provare un interesse per la propria persona e dunque che si sarà condannati alla solitudine. Una percezione che può spingere a un ritiro dal mondo senza riuscire più a trovare alcuna passione per nulla. E certamente a non avvertire alcuno stimolo verso tutto ciò che chiamiamo processo educativo. Non è facile convincere un giovane a cambiare atteggiamento, perché da una parte non ci si può attaccare alla dimensione del futuro che non c’è, dall’altra è di cile contraddire un messaggio sociale che attribuisce alla bellezza il senso di un vantaggio immediato: l’essere belli permette un’esistenza da cui sono esclusi tutti coloro che non rispecchiano i canoni estetici dominanti. Se si è belli, si attrae, si è osservati, ricercati, coperti di complimenti, si ottengono o erte per cui l’aspetto esteriore si traduce in denaro e sovente promuove un’occupazione motivata dal desiderio di circondarsi di bellezza. È come se accanto a un bel volto e a un bel corpo comparisse un cartellino con il prezzo per attirare il maggior numero possibile di compratori. Il termine bellezza è diventato sinonimo di ricchezza, e senza bellezza il successo non è nemmeno ipotizzabile. Qualcuno potrà obiettare che è sempre stato così, ed è vero, ma mai nelle dimensioni che questo fenomeno ha assunto nel nostro tempo. Quella che era una “malattia rara” si è trasformata in un’epidemia che sembra la peste. Sappiamo il dramma esistenziale che possono scatenare un brufolo sul viso, una smagliatura sulla coscia, la caduta di dieci capelli in un unico giorno. Drammi su cui non è possibile intervenire per non aggravare la situazione, perché ogni parola è interpretata come un tentativo di consolazione, che in e etti ha il sapore di un giudizio estetico ancora più severo. E bisogna stare attenti ad usare la parola speranza, perché è la più disperante possibile, visto che rimanda a un tempo che non c’è, a un’illusione, un imbroglio. Vorrei ricordare ancora una volta la mia adolescenza, sentendomi un po’ in colpa per questo ulteriore ricordo personale: anche allora si parlava della bellezza, misurandola però oltre la super cie cutanea. Ad attrarre era la bellezza della persona, ottenuta dall’insieme di un corpo e di una mente e dallo stile di relazione interpersonale e

sociale. C’era per no spazio per metterci dentro l’anima, che serviva non tanto alla relazione umana, ma a un rapporto con il Cielo e con Dio. Confesso, con il rischio di spingere qualcuno a formulare una diagnosi severa sulla mia adolescenza, che non sono mai entrato in ansia per un brufolo, che non ho mai vissuto drammaticamente la scelta di un paio di jeans e che non mi sono mai chiesto se l’occasione di gustare un gelato (che contiene acidi grassi saturi tremendi) potesse far crollare il valore del mio corpo sul mercato. Un’appendice a questa ri essione ci porta a ragionare sulle di erenze tra bellezza femminile e maschile. In realtà in età adolescenziale la distinzione di genere non è così netta. Infatti si sono eliminate, o quanto meno ridotte, le distanze e ci si è avvicinati a un ideale di bellezza simile a quello della gura antica dell’efebo, di chi mostra una beltade maschile ma anche femminile. Non solo perché si nascondono i caratteri secondari con l’abbigliamento, i jeans unisex, i tagli di capelli maschili che permettono di comporre una treccia o che richiamano la criniera di un cavallo irlandese di razza e, viceversa, tagli estremamente mascolini per le donne. Penso anche alle bellissime borse destinate agli uomini che sembrano uscite da una maison esclusiva per signore. La borsa è anche un simbolo di accoglienza, di mettere dentro, invaginare, che non si adatta propriamente a un lui. Il consumo di creme e di cosmetici è ormai diviso equamente tra i due sessi. Il rossetto sulle labbra è usato da entrambi e semmai le preferenze sono per un’intensità di rosso, ma non esiste certo più il ri uto di uno strumento ritenuto no a poco tempo fa un’esclusiva femminile. Io sono vissuto in un tempo in cui santa Lucia a me portava i soldatini e a mia sorella le bambole e, se un giorno per errore avessi giocato con i suoi regali, i nostri genitori mi avrebbero portato di corsa da uno psichiatra infantile. Anche il linguaggio si è uniformato, per cui si sentono espressioni in bocca a un’adolescente che dichiara di avere rotti, e persino frantumati, organi che non possiede biologicamente. È sparito il diritto del maschio a stabilire la regia dell’amore, tanto che oggi è la femmina a prendere l’iniziativa e a regolare i tempi, ad a errare la spada per condurre il combattimento e per non sprecare il piacere femminile che ha scansioni differenti. Non ci sono cose proprie della donna e altre dell’uomo, se si esclude quel minimo, e sempre minore, che deriva dalla imposizione della biologia e dunque di un assetto anatomico e funzionale dei corpi. A questo proposito mi sembra interessante l’esperienza che ho fatto come consulente dello Stato maggiore dell’esercito al tempo in cui le forze armate erano state aperte alle donne. Avevo suggerito di tenere delle riunioni con le dirette interessate, almeno con coloro che avevano presentato domanda sia per entrare tra gli u ciali sia nella truppa. Durante uno di questi incontri un generale di artiglieria aveva proposto che le donne soldato venissero inserite in operazioni di comunicazione, nel coordinamento delle batterie e in compiti logistici, escludendole dalla carica di un pezzo da novanta in un

cannone. Questo generale doveva essere convinto che non fosse possibile eliminare tutte le barriere tra soldati maschi e soldati femmine. A quel punto però una graziosa ragazza che sperava di essere assunta nell’esercito come soldatessa semplice sbottò: «No, signor generale, gli obici ce li carichiamo noi». Tutti i presenti immaginarono questa, almeno all’apparenza, fragile donna abbracciare un oggetto di struttura fallica da cento chili tentando di porlo nella canna di un cannone. Sempre nelle mie funzioni di esperto in psicologia, un giorno fui mandato in una caserma in Friuli. Le donne soldato avevano ri utato di eseguire l’ordine impartito dal comandante di partecipare a squadre miste per gestire un carro, occupando funzioni speci che e di erenziate rispetto agli uomini, i quali avevano il compito di curarsi dei cingoli e di cambiarli in caso di disfunzione. Le ragazze venivano escluse dalla guida del mezzo, mentre erano incaricate del sistema radio e degli approvvigionamenti. Ebbene, queste donne soldato ri utarono ogni esclusione e richiesero persino che si formassero squadre di sole donne. Tutti e cinque gli operatori dovevano essere soldatesse e il mezzo doveva essere totalmente nelle loro mani. Un desiderio che sembrava assurdo almeno no a quando non dimostrarono di poter guidare un carro armato esattamente come i colleghi maschi. Ho voluto citare queste esperienze in ambito militare poiché è stato certamente quello sempre meno aperto alle donne e che ha opposto una dura resistenza al riconoscimento della parità fra i sessi. Nella vita civile non esiste oggi un solo campo che non sia occupato dai due sessi, anche se molte di erenze rimangono ancora nella distribuzione percentuale dei ruoli. Nella sanità, per esempio, le donne “primario”2 di reparti di tradizione esclusivamente maschile, come le chirurgie e persino la cardiochirurgia, sono molte e il loro numero è in continuo aumento. Come si contano sempre più donne nel management di aziende di spicco, che nel recente passato era il campo dei nuovi eroi, di coloro che gestivano budget di dimensioni falliche e comunque imponenti.3 Inutile ricordare che le donne sono ammesse a tutti i gradi di educazione e dunque di scuola, sia come allieve che come docenti. E forse vale la pena sottolineare che in questo momento in tutte le graduatorie di merito e tra i vincitori di concorso dominano le donne. E anche in tema di bellezza la parità sembra ormai de nitiva: così le donne non detengono più l’esclusività, come se soltanto a loro spettasse l’attribuzione dell’aggettivo bella. Gli adolescenti sono sensibili alla bellezza di super cie come le adolescenti, e il segnale non è dato tanto dal loro mostrarsi, ma al contrario dai tentativi di nascondere tutto ciò che a loro parere li deturpa. E la misura non sta nei criteri derivanti dai modelli propagandati, ma dal personale vissuto a cui si legano i timori maggiori, no alla paura della mostruosità. Naturalmente è inutile ricordare loro che un brufolo ha un decorso abituale di una decina di giorni e poi scompare, proprio perché il vissuto si lega al presente e agli e etti che esercita nel momento in cui lo si rileva e limita. Così come non si può parlare di adolescenza come periodo transitorio: è una espressione che, se non è presa come consolatoria, diventa

incomprensibile perché la dimensione del domani è priva di interesse, come se non avesse senso nulla al di là dell’attimo presente. Un atteggiamento comune ai generi, che tendono ormai a una sola dimensione. Non rimane quindi più nulla dello schema educativo per cui l’adolescente di sesso femminile doveva tendere alla bellezza, magari intesa anche come delicatezza, stile, grazia, mentre lui doveva mostrare un sico atletico e forte. Nulla dell’attesa di un adolescente intelligente e di una adolescente ricca soprattutto di sentimento. Considerazioni che, oltre a fare della bellezza una dote indipendente dal genere, rendono anche la mente, e dunque le due personalità, del tutto sovrapponibili. Così ogni ragazzo si chiede quanto di femminile ci sia nella propria mascolinità e ogni ragazza quanto di maschile si mescoli alla propria femminilità. La biologia che sta alla base dei generi in pratica va scomparendo, o almeno non è più coltivata, la si vorrebbe forse negare e per il momento la si nasconde. Non si può dimenticare che un correlato al tema del rapporto bellezza-educazione è il denaro, uno strumento che riesce a comperare la bellezza o a crearla. Come è possibile educare al rispetto della propria persona, quando il prezzo esposto si riferisce solo alla carne, mentre lo stile, la generosità, la mente e il sapere non valgono nulla? In nome di che cosa ci si può motivare a non buttare via se stessi, quando conta soltanto ciò che appare e quanto viene richiesto? Com’è possibile resistere a vendere, se il mondo nisce domani? In una società in cui conta più il denaro dell’amore e più il successo dei sentimenti? Com’è possibile a ermare che il denaro non dà la felicità, quando non si sa sostenere la felicità in nessun altro modo, nemmeno coniugandola con l’amore? Come si può in tale contesto educare al rispetto di una bellezza, indicandola come una risorsa per la propria storia d’amore? 1

Verrebbe da dire “stabilmente”, ma non si può dimenticare che, se l’adolescenza è il periodo della metamorfosi rapida, il

mutamento del corpo, e della sua super cie in particolare, continua anche nelle età successive e riprende a correre nella vecchiaia, dai sessantacinque anni in poi. 2

Spesso manca persino il termine al femminile per designare un compito: primario, ministro, chirurgo, generale sono solo

alcuni esempi. 3

L’unico settore in cui la di erenziazione regge è quello religioso. Nella religione cattolica le donne non sono ammesse agli

ordini maggiori e quindi non possono diventare presbiteri e celebrare l’Eucarestia, e vengono escluse dal ruolo di vescovi,

cardinali e Papa. Limite che è stato almeno in parte superato nella Chiesa anglicana, in cui persino il capo supremo della Chiesa è adesso una donna: la regina Elisabetta.

Sesso e educazione

La sessualità è un tema che si è sempre intrecciato con l’educazione e nel recente passato è stato persino accolto come materia di studio: un settore speci co, un percorso centrato sui sensi e tendente al buon uso del piacere. Ritengo un errore frazionare l’educazione, suddividendola per attività o addirittura per organi. Educare, come ho già ricordato, è per me un processo che tende a insegnare a vivere, e dunque si rivolge all’uomo tutto intero nel suo rapporto con il mondo e quindi con la società, intesa come un luogo e un insieme di relazioni. L’educazione deve mettere al centro la persona, e solo allora potrà occuparsi anche di sessualità. Ma l’aspetto che maggiormente si lega alle considerazioni sull’educazione del nostro tempo mi pare sia il significato proprio della sessualità e del sesso. La sessualità è diventata essa stessa un comportamento consumistico, e il sesso un organo (un oggetto) da usare, soprattutto perché è tra le poche fonti di piacere che il corpo possiede e che una società in affanno economico permette. Questa visione si contrappone al corpo come fonte di dolore, non solo perché il corpo si può ammalare e ogni disturbo sico si manifesta con il dolore, ma anche perché è al centro di una so erenza esistenziale che si esprime, almeno inizialmente, come malessere del corpo: il corpo intero malato, non un suo organo. L’edonismo che domina il nostro vivere comporta una sopravvalutazione degli organi del piacere. Una tendenza che, lo abbiamo già notato, è stata favorita e potenziata dalla scoperta da parte di Pincus della pillola anticoncezionale, ma che oggi si pone in un clima che spinge a “consumare” la sessualità, per darsi e per essere accolti. E per questo non sembrano esserci più tabù, né una loso a che difenda il valore della verginità e nemmeno il merito dell’astinenza. Un tempo la Chiesa metteva il sesto Comandamento – non commettere atti impuri – al centro della confessione, mentre oggi vi è una dichiarata tolleranza per gli speci ci peccati, persino quando vengono commessi dal clero, e così il consumo della sessualità degli stessi sacerdoti non può più essere nascosto, anche perché per questa società non esiste un vero motivo per negarlo. Il sesso è una delle bandiere della libertà ritrovata, e le esperienze sessuali sono oggetto di racconti sovrapponibili a quelli di una gita in montagna o di uno dei frequenti viaggi low cost nel mondo. Ricordo il caso emblematico di una ragazza di diciassette anni. Giorgia frequenta il primo anno di liceo classico di una città veneta, appartiene a una famiglia benestante e, almeno nora, ha avuto buoni risultati scolastici, tanto da trovare proprio nel successo la motivazione a recarsi quotidianamente a scuola.

È a ascinata e attratta da uno studente di un’altra sezione di un anno più avanti, Roberto, e le sue fantasie la portano a immaginare un loro legame. Ma il suo è un desiderio quasi impossibile, poiché egli gode della fama di grande conquistatore e i racconti sulle sue avventure circolano senza alcuna precauzione nei corridoi della scuola. Questo dato è vissuto da Giorgia come una qualità, la prova che si tratta proprio di un ragazzo straordinario, e quel comportamento aumenta ancora di più il suo desiderio. È evidente che considera l’ipotesi di stare con lui come un sogno irrealizzabile, tuttavia cerca ogni occasione per vederlo e ogni momento per pensarlo. E poiché durante un intervallo, emozionatissima, ha l’impressione che lui la guardi con particolare interesse, sottopone il suo corpo a un’accurata analisi, chiedendosi che cosa lo possa aver colpito, che cosa invece dovrebbe essere modificato per colpirlo ancora di più. Un esame che la getta nello sconforto, anzi, la angoscia perché la mette di fronte a un ostacolo che potrebbe rendere impossibile la realizzazione delle sue fantasie. Giorgia prende consapevolezza della sua verginità e ne rimane turbata, come se avesse scoperto un’anomalia, una sorta di difetto sico che non è più possibile nascondere. Pensa che, se Roberto la invitasse a uscire con lui, sarebbe pazzamente felice, e se le chiedesse, data la sua fama, di fare l’amore (e ne sarebbe ancor più felice), si renderebbe ben presto conto di quel suo difetto. Essere ancora vergine attesta infatti in maniera inequivocabile non solo che non ha mai avuto un rapporto sentimentale, ma che non è nemmeno mai stata corteggiata, richiesta da nessuno, che è proprio il contrario di quanto è accaduto a lui. La conclusione inevitabile sarebbe una sola: lei non vale nulla. In classe c’è un compagno con il quale Giorgia si trova sovente per fare i compiti, in particolare le versioni dal greco, in cui egli mostra una particolare abilità. Così un pomeriggio lo invita a casa sua; immediatamente e con sconcertante ingenuità, gli chiede se può farle un grandissimo favore. Gli domanda di congiungersi a lei, per sverginarla. In questo modo avrebbe superato, anche se forse non del tutto, la sua anomalia sica. Una richiesta che rivela chiaramente il senso che questa società dà al sesso, ma per completezza di cronaca e per mostrare la generosità di questo ragazzo, occorre concludere, ricordando che il compagno, per nulla turbato, le concede volentieri il favore richiesto. Il sesso dunque non è più coperto da alcun limite, ed è semmai il suo non uso a preoccupare e a rappresentare un “difetto”. La conseguenza che mi pare più grave sul piano dell’educazione è che, essendo ormai tradotto in oggetto banale, non fa più parte dei desideri. La sua disponibilità in tempo reale è tale da spegnere ogni fantasia. Questo dato cambia il signi cato stesso di corteggiamento. Scomparsa la capacità di aspettare, non si riesce più a dare all’attesa il senso di un investimento, di un cambiamento interiore, di un ra orzamento del desiderio. E senza l’attesa spariscono anche le tappe per giungere all’amore. Credo che non sia possibile l’amore se il sesso viene banalizzato disgiungendolo dai sentimenti. Se domina la convinzione che non provare gelosia sia un segno di forza, di controllo sulle pulsioni e sugli a etti, raggiunto con ogni strumento razionale e ogni

strategia che un uomo di successo conosce bene. Così che, di fronte a un’infedeltà, ci si deve mostrare freddi accettando il tradimento oppure sciogliendo il legame come si fa per un contratto d’acquisto. Fingendo di ignorare la violenza che quell’infedeltà può scatenare spingendo a gesti estremi come l’omicidio. Una prova che l’uomo non può controllare con la razionalità o con la volontà ferite a ettive che non riesce a comprendere e vive come un vero e proprio lutto. Io non sono convinto che dalle relazioni sia scomparsa la gelosia, e anzi mi pare positivo il fatto che la persona su cui si proietta un legame d’amore non possa allo stesso tempo usare il sesso come qualcosa di estraneo alla relazione. L’amore è una intesa di reciproco possesso, di bisogni essenziali simmetrici, e la paura di perdere l’amato o l’amata ha forse persino una forza biologica, istintuale. La gelosia “buona” porta chi la prova a essere disponibile, a donarsi all’altro per rendere ancora più forte il legame. È ormai evidente la radicale trasformazione subita dalla coppia che ha provocato la scomparsa di quelle fasi una volta indicate da termini, oggi desueti, come fidanzamento, fedeltà, progetto familiare. Torniamo a quella sorta di circolarità per cui la società modi cata induce mutamenti nel singolo, che non si a da più alle relazioni a lungo termine, e ciò comporta una svalorizzazione del matrimonio e della famiglia che non hanno più alcun rilievo nel processo educativo. I sentimenti si consumano e vengono assimilati agli oggetti che si buttano, poiché la moda li ha de niti “brutti”, anche se funzionalmente sono ancora nuovi. I sentimenti sono stati sostituiti dal sesso che sembra divenuto l’unica forza dei legami, ma è anche la loro debolezza, perché se il sesso è soltanto un oggetto e non viene inserito propriamente in un legame di amore, e dunque non viene caricato di signi cato, è destinato a durare quanto un sogno che, da fantastico, si trasforma in incubo.

Internet e educazione (clicco ergo sum)

Internet ha sconvolto la società. Ho motivi per pensare che apparentemente e settorialmente l’abbia migliorata, ma al contempo ho paura che la stia rovinando ancora di più. È questo un tema che ha già visto un’ampia trattazione nella letteratura scienti ca e nella saggistica.1 Mi limiterò pertanto a qualche considerazione sull’in uenza di Internet nella prassi educativa e in particolare all’interno della scuola, che rimane il luogo istituzionale per l’educazione. Internet è ormai un termine generico. E per capirne l’importanza non è certo su ciente guardare l’etimologia, il fatto di legare due parole inter e net: un mezzo che permette di “entrare nella rete” o, secondo altri, che “collega tra loro delle reti”. Anche rete è diventata una parola che si pone tra scienza e mitologia. Le reti ormai costituiscono un vero e proprio settore dell’analisi matematica, ma sono anche la rappresentazione metaforica della comunicazione e della sua particolare complessità. L’uomo infatti è immerso in una enorme rete, dove ciascuno occupa un nodo e invia messaggi che si di ondono dappertutto, anche quando egli si relaziona solo con un altro uomo. Il termine designa ormai un luogo e uno strumento per comunicare teoricamente con tutti gli abitanti del pianeta. Ignorare Internet parlando di educazione non è più possibile, almeno secondo il senso che gli abbiamo attribuito. L’educazione non è più soltanto il rapporto tra un precettore e uno scolaro, ma riguarda appunto un’intera comunità che sempre più coincide con il mondo poiché, se le nazioni hanno ancora dei con ni, Internet li ha ormai abbattuti tutti. E ha permesso che il sapere di uno divenga parte anche degli altri. La comunicazione attraverso la rete tende ad allargarsi continuamente. Mentre ha coperto del tutto il dominio dell’informazione, sta facendo propria anche gran parte del contenuto educativo. Non si può dire che Internet insegni senza insegnanti, e che manchi della regolarità di frequentazione propria della scuola: è possibile infatti entrare nel web e ritornarci ogni giorno, ogni ora, persino per tante ore, quante sono quelle previste da un corso o da un anno scolastico. Gli insegnanti sono virtuali, ma non per questo meno veri di quelli che si incontrano in una classe di liceo o in un corso universitario. Si muovono, parlano, riescono ad attirare l’attenzione e l’interesse anche di chi si trova a migliaia di chilometri di distanza. È indubbio che la scuola, almeno quella italiana, non ha saputo stare al passo con questo strumento decisamente straordinario, se si considera che ognuno di noi porta nella propria tasca Internet, collocato dentro a un piccolo terminale che ha le

dimensioni di pochi centimetri quadrati. Centimetri che potrebbero facilmente ridursi ancora, permettendo di posizionarlo dentro il nostro corpo, sotto la cute, per esempio, e acquisire il senso di un trapianto d’organo. Una realtà sconvolgente perché si tratterebbe della prima protesi della mente nella storia delle tecnologie, quando sino a oggi le protesi sono state tutte per il corpo: dalla ruota al motore, agli apparecchi sensoriali no alle gambe di Pistorius, il quale, grazie alla bra di carbonio, ha potuto partecipare alle Olimpiadi pur non possedendo arti di carne. Internet è in grado di fare operazioni che appartengono, come dicevamo, alla mente e le fa con maggior precisione e con una sorprendente velocità. La prima speci cazione riporta alle memorie digitali, la seconda alle capacità di calcolo. Si giunge a ottenere una risposta in un minuto per operazioni che un uomo porterebbe a termine in una decina di anni. Il calcolo digitale non sbaglia, quello umano è ad alto rischio di errore, soprattutto quando aumenta la sua complessità. Possono sembrare osservazioni scontate e persino banali ma, se le richiamo, è perché il rapporto tra Internet e educazione è strettissimo. L’educazione non è sempre un’azione sulla mente che, se efficace, può addirittura mutarla? Educare signi ca cambiare il proprio pensiero e, in certa misura, persino il proprio cervello, poiché è grazie alla sua plasticità che si sviluppano le capacità mentali, dall’attenzione alla memoria, dall’apprendimento alla razionalità e alla creatività. E invece la nostra scuola non solo non riesce a recuperare il ritardo con cui ha accolto questo strumento nelle sue aule, ma sembra aver persino ingaggiato una lotta per tenerlo lontano. Ho appena detto che Internet si trova ormai perennemente nelle nostre tasche, i bambini sono sempre più precoci e imparano prestissimo a usarlo. Ciò signi ca che è diventato parte della loro attività mentale. Con un ruolo ben maggiore rispetto a un’automobile: sull’auto ci saliamo, raggiungiamo la nostra meta e poi la parcheggiamo, mentre Internet è sempre “con me”, anzi è me, una mia parte. Nella nostra scuola, invece, uno studente che debba mostrare le proprie capacità mentali deve lasciare a casa Internet, come se fosse un nemico del sapere, anzi un diavoletto che spinge all’ignoranza. Una scuola dunque che chiede ai propri studenti di non portare in classe la memoria, che ormai è del tutto delegata al computer e a Internet, compie un errore storico. Una scuola che vuole dare un voto alla memoria storica di carne, quando funziona molto meglio quella di silicio, è ridicola. Quando decide di estromettere Internet, non si rende conto che immagina di educare in una società totalmente altra, in una società che non esiste più. È una scuola che insegna ai morti in una società morta. E sia chiaro che il campo dell’educazione scolastica deve essere “altro”, qualcosa di diverso da ciò che Internet o re senza fatica, senza stare seduti su un banco per cinque ore al giorno. Si tratta di uno strumento utile anche per attribuire alla scuola livelli di insegnamento e di educazione che vanno oltre Internet, e che sono possibili proprio perché Internet c’è.

Voglio riportare l’esempio di una delle più grandi scoperte, almeno per i miei interessi, del tempo presente. Mi riferisco alla dimostrazione dell’esistenza del bosone di Higgs, allo stato delle conoscenze attuali, la prima tappa nell’origine dell’Universo. È stato chiamato anche la “particella di Dio”, il mattone alla base della costituzione della materia in quanto ha generato la massa di tutte le particelle costituenti l’atomo. Il merito di questa ricerca, che è stata impostata e controllata da duemila sici al Cern di Ginevra, davanti ai computer che seguivano la collisione di particelle elementari, dopo aver raggiunto una velocità mai prima realizzata, va ascritto alla straordinaria capacità di calcolo di Internet. Ebbene, come può la scuola bocciare una protesi della mente che ha permesso una delle scoperte più grandi della sica delle particelle, che già di per sé ha una storia assolutamente meravigliosa? Credo che Internet debba nalmente essere considerato una protesi della scuola, e così come il motore ha permesso di alleviare lo sforzo per sollevare pesi, per correre più veloci, così la scuola deve – grazie alla rete – dedicarsi a fare cose che prima non erano possibili. Jules Verne ha compiuto il giro del mondo in ottanta giorni, oggi in aereo lo si può compiere in ventiquattr’ore e su un satellite ne basta una manciata. C’è invece un campo impossibile a Internet che potrebbe diventare lo speci co dell’educazione scolastica: l’universo dei sentimenti. Internet certamente può dare emozioni, ma non stabilisce legami a ettivi, e infatti non è una coincidenza che gli adolescenti non sappiano gestire né vivere la loro affettività. Per approfondire un poco questo tema, dobbiamo però partire dalla distinzione tra emozioni e sentimenti. Le emozioni sono risposte che seguono immediatamente a uno stimolo. Durano nché lo stimolo è attivo e presente, poi scompaiono e si ssano semmai nel ricordo, ma perdono comunque il loro impatto che si rende visibile attraverso le espressioni dell’ansia, della paura o dell’azione. Gli stimoli possono essere di varia natura e provenire da fonti molto diverse, dall’uomo, dagli animali, da oggetti, o anche più semplicemente da immagini. Una macchia di sangue che appaia improvvisamente su uno schermo, mentre si segue un documentario o un film, promuove una reazione emotiva. I sentimenti, invece, sono dei legami che si stabiliscono tra una persona e un’altra. E rimangono attivi anche quando la persona a cui si è legati non è presente. E non si tratta, in questo caso, di un ricordo: il sentimento fa sì che noi ci sentiamo come se la persona ci fosse realmente, anche se non c’è. Il legame, dunque, non è una risposta acuta a uno stimolo, ma una modi cazione del proprio assetto mentale che è dovuta alla interazione avvenuta tra le due persone che, attraverso il sentimento, si sono legate. Internet è in grado di dare emozioni, ma non di stabilire dei legami, abbiamo detto, quindi è fuori dal dominio dei sentimenti che uniscono attraverso una “corda” due

individui. Quel che osserviamo è che la vita degli adolescenti oggi è ricchissima di emozioni, ma povera di sentimenti che, tra l’altro, fanno molta fatica a gestire. Si usa dire che essi sono intelligenti, nel senso della razionalità e dell’uso del linguaggio, che ne è in qualche modo una rappresentazione, che vivono e cercano emozioni sempre più forti, ma mostrano una grande povertà di sentimenti, una di coltà a stabilirli e un’incapacità a gestirli. L’uso degli strumenti digitali favorisce certamente il vissuto emotivo, ma allontana dai legami sentimentali. Passare il tempo davanti a un video promuove un esercizio e un arricchimento per le emozioni. Se lo stesso tempo è trascorso in un ambiente familiare, inteso come presenza di gure a cui si è legati a ettivamente, si arricchisce invece la vita dei sentimenti. Il sesso ridotto a un oggetto-stimolo genera emozioni, se diventa l’espressione di una persona, di una sua parte, si trasforma in un’occasione di sperimentarlo dentro un legame sentimentale. Internet al di là di questa distinzione rimane straordinario ed e cace per l’informazione, e i motori di ricerca sono in grado di dare una risposta rapida a una infinità di quesiti, sia pure con diversi gradi di arricchimento e approfondimento. Per questo sono convinto che compito della scuola dovrebbe essere quello di includere questa grande novità della tecnologia dentro le proprie procedure e nel contempo dedicarsi al vuoto che Internet non può colmare, quello dei sentimenti, per trasformarsi in un laboratorio fondamentale per i legami della vita affettiva. Una scuola con Internet, ma oltre Internet, dunque. Prima di tutto occorre che ciascuno riesca a distinguere ciò che gli capita sul piano emotivo e su quello dei sentimenti. Generalmente il termine affettività li comprende entrambi. Bisogna perciò saper individuare quando dentro di sé si attiva un’emozione e quando invece si è già consolidata una relazione di sentimenti. E per confronto, occorre saper capire che cos’è il pensiero, la ragione, e quali sono i suoi requisiti o gli elementi che lo caratterizzano e lo distinguono dal mondo dei sentimenti. Appariranno così nettamente e, a poco a poco, in maniera chiara le due logiche: quella razionale e quella a ettiva. E si potrà avviare quest’analisi inserendo un’ampia fenomenologia degli a etti no a giungere alle relazioni con il mondo religioso, in cui è un’idea a prevalere, ma identi cata con un “uomo” che l’ha espressa e vissuta con l’esempio. Nel caso del Cristianesimo il legame è con Cristo che ha predicato e mostrato contenuti e modi di vivere pieni di fascino.2 Questo tema, importantissimo per l’educazione, è qui accennato per sottolineare che anche le ideologie possono essere “oggetto” di legami sentimentali, poiché sono mediate sempre da una persona. Dopo aver condotto i giovani alla cognizione del mondo a ettivo attraverso la sua analisi e la scoperta di questo straordinario potere della mente, allora si può passare all’analisi delle relazioni interumane, cioè alla condizione necessaria per entrare nel

mondo dei sentimenti. E a questo punto si aprono tre grandi capitoli: l’educazione a relazionarsi con l’altro, l’educazione a relazionarsi con il gruppo dei pari età, l’educazione a relazionarsi con l’intera società, che in qualche modo significa con il consesso umano. L’obiettivo straordinario che la scuola potrebbe proporsi è che questi temi, essenziali a vivere, dopo una trattazione teorica, vengano applicati e quindi diventino esperienze. “L’altro” diventa quel docente, ed è possibile mostrare la diversità dei legami perché, per alcuni studenti, egli è solo una fonte di emozioni, per altri una relazione. E si potrà così mettere in gioco ciascun docente come una persona che consente di analizzare l’esperienza affettiva nell’ambito della frequentazione scolastica. Ma ancora più importante, forse, è veri care sul piano del vissuto il rapporto di ciascuno con il gruppo classe. Ciò permetterà di a ermare o negare che esista un tale gruppo, e di chiedersi come eventualmente promuovere un legame tra tutti gli allievi. A questo scopo ho più volte usato la metafora dell’orchestra. Se gli orchestrali che la formano, pur singolarmente capaci, non si relazionassero, non emergerebbe quella sonata con la grandezza che il suo compositore le ha dato creandola. Insomma, si metterebbe in atto la valutazione funzionale della classe e si vedrebbe se gli insegnamenti trasmessi sono ancorati ai singoli allievi catalogati nelle gerarchie di bravi e asini (il voto è uno degli strumenti che le favorisce) o se invece hanno spostato il piano del giudizio all’insieme “classe”. Se e ettivamente esiste un gruppo inteso come una rete di legami a ettivi, allora è tempo di educare alle modalità con cui ciascuno può non solo essere parte del gruppo, ma viversi come gruppo. E ciò vuol dire abbassare il potenziale individuale correggendo i narcisismi e le lotte, consapevoli o inconsapevoli, tra gli allievi. Sono sempre stato colpito e amareggiato dal rilevare che questa società considera il gruppo degli adolescenti un pericolo. Il gruppo dei pari età è talmente sospetto agli occhi degli adulti, che i genitori spesso interferiscono in maniera inaccettabile per i gli, sovente fino a distruggerlo. Gli adulti dimenticano che il gruppo aiuta i giovani a sedare le loro incertezze, perché la propria condizione è vista come se fosse “clonata” negli altri, e ciò li toglie dal vissuto negativo di sé che si esprime, come abbiamo visto, già sulla misura della bellezza. È avvilente considerare come l’adolescente non sappia tuttavia vivere in gruppo né difendere le proprie convinzioni, rischiando di essere trascinato nel pericolo e nel dramma di comportamenti-contro, benché egli faccia parte di una classe, dunque di un potenziale gruppo, sin dai sei anni. È questo un segno evidente che l’educazione scolastica, il cui primo risultato dovrebbe essere quello di insegnare a vivere nel gruppo e nella dimensione del quotidiano, non c’è e rinuncia a sperimentare quella che io chiamo educazione a relazionarsi con il gruppo. Se la scuola riuscisse a raggiungere questo obiettivo, avrebbe già dato un contributo essenziale ai propri allievi.3 Non vi è dubbio che il contesto del gruppo permette di a rontare altri capitoli

dell’esistenza che, nel mondo giovanile, sono sovente portatori di infelicità e di violenza. E tra questi l’educazione alle frustrazioni e dunque alle scon tte. Come alle gratificazioni e alle vittorie. È di cile accettare una scon tta – non solo in campo scolastico, per un risultato in algebra o in latino, ma anche in quello dei sentimenti, per un abbandono, una discriminazione – e altrettanto di cile gestire una vittoria. Purtroppo, in una società in cui tutto si misura in termini di successo e di potere, questi eventi sono portati all’eccesso. Non sono infatti pochi i giovani che, dopo tante vittorie, non sanno affrontare la prima sconfitta e magari per questo decidono di togliersi la vita. Vi è poi il grande capitolo dell’educazione alla cosa pubblica (la res publica): educare al rispetto delle strade che vanno tenute pulite, degli oggetti sistemati nelle aule, dei treni, degli autobus, delle piazze. È il capitolo dell’educazione del singolo al legame con la comunità. Spesso si accusa il termine società di essere eccessivamente generico insinuando che il suo uso serva per sfuggire ai problemi reali. A me pare invece che sia molto preciso, tant’è che sulla sua radice si è costruito il nome di una disciplina, la sociologia. È un termine che indica una totalità, alla stessa maniera per cui l’uomo è l’insieme di un corpo, di una mente e persino di un ambiente in cui egli si muove. Sarebbe errato considerarlo privo di signi cato: la società va intesa proprio come globalità, una struttura che è fatta da uomini che la determinano e condizionano. Non è a atto una parola della fantasia né della mitologia, ma indica una realtà in cui tutti noi siamo attori, e da cui siamo fortissimamente influenzati. Educare alla società presuppone sapere che cos’è e qual è la dinamica che la regola. Ed è solo riferendosi alla società che si può parlare di potere, si distinguono i ricchi dai poveri, i privilegiati dagli emarginati, le donne dagli uomini. La società è la più grande delle orchestre possibili di un Paese e della sua storia. È insopportabile che si percepisca il complesso come una nzione, per ritornare poi, sempre e solo, all’individuo, come se a essere concreto fosse il singolo, mentre la società sarebbe una pura invenzione per sfuggire i veri problemi. Una società può concretamente essere malata o sana, giusta o ingiusta. E può esercitare un’azione nefasta sui giovani, oppure al contrario li può educare. Così una dittatura è fatta in modo che tutto si riduca al tiranno, ma una grande democrazia può sempre nascere, perché una società non è a atto astratta e può cambiare. Certo, basta la presenza di un presidente del Consiglio incapace per rovinare una società, come è accaduto a quella italiana. Il problema è che non si vuole educare alla coesione sociale. Se un capo del governo ha comportamenti pubblici immorali non si può sostenere che è una sua questione privata, personale. La sua condotta inevitabilmente provoca un danno a un’intera società, perché dimostra che egli tollera l’immoralità e, per tollerarla, occorre essere immorali. La mancanza di percezione della società e l’insistenza nel negarla sono il sintomo dell’a ermarsi dei personalismi sull’insieme sociale, e la nostra è senza dubbio una

società impregnata di personalismo e di narcisismo. È invece tempo di occuparci prevalentemente del Noi, contraddicendo la dimensione del singolo, di un partito e di una casta che ormai domina la politica italiana. La società è talmente concreta da ri ettersi su ciascun socio. L’ho sperimentato personalmente, quando, per un periodo di tre anni, ho rappresentato l’Italia in una commissione scienti ca, l’Emea, un’agenzia che ha tra i suoi compiti l’approvazione di nuovi farmaci e il controllo dell’e cacia di quelli già in commercio. Era il tempo in cui esisteva l’Europa dei quindici, dunque ero uno dei quindici rappresentanti nella Commissione che aveva la propria sede a Londra. Non c’è stata una sola volta in cui, entrando in quel consesso, non sia diventato occasione per una battuta sul comportamento di questo o quel politico italiano e dunque non pesasse, anche su di me, l’immagine ridicola che avvolgeva il nostro Paese. Se un premier fa battute di pessimo gusto e volgari su un primo ministro donna o sulla regina d’Inghilterra, il giudizio che ne consegue non è rivolto a quell’italiano, ma a tutti gli italiani, poiché sono loro ad averlo eletto o sono stati comprati per eleggerlo. Oggi poi esiste una dimensione sovranazionale, che comprende un insieme di popoli, l’Europa. Ecco quello che dovrebbe essere un altro capitolo obbligato dell’educazione alla società: la relazione di ciascuno di noi con l’Europa. E, per poterlo svolgere, bisogna vederla come un’unità, conoscere come si è formata e poi osservarla nel tempo presente, allo scopo di essere un cittadino dell’Europa e quindi di un’estensione sociale che può migliorare la vita di tutti. L’Europa è certamente più vera per i giovani che per chi è già vecchio. Essi frequentano una scuola europea, ricevono attestati che per i concordati sono europei e, se vanno a lavorare in un altro Paese dell’Unione, non vi si recano certo come gli emigranti italiani che venivano accolti in povere baracche di legno costruite accanto alle fabbriche o alle miniere di carbone e ferro. Oggi un italiano arriva in Germania con la dignità di cittadino europeo. Per capire il grande cambiamento seguito alla nascita dell’Unione europea, bisogna essere educati all’insieme. Bisogna saper scoprire l’originalità e il valore di chi non è parte del proprio gruppo nazionale, bisogna educare al rispetto dello straniero come premessa per appartenere ed essere legato a una società di dimensioni europee. Finché continuano a esistere giovani che percepiscono il colore della pelle come una barriera, come un muro di Berlino, è segno che la scuola è fallita, che non sa insegnare a vivere e che dà attestati di maturità a chi non ha ancora cominciato a crescere dentro l’umanesimo. Se uno straniero è accolto con correttezza, nel rispetto dei diritti dell’uomo e magari con simpatia, l’insicurezza e la paura che ciascuno prova quando è lontano dal proprio Paese avranno minore possibilità di trasformarsi in violenza. Educare a vivere le relazioni sociali significa anche essere educati alla democrazia. Nemmeno questo termine, pur conoscendo bene le declinazioni storiche che ha avuto, può essere tacciato di signi cati generici e come tali qualunquisti. La democrazia ha un

senso preciso ed espressioni concrete. Tanto per cominciare, è l’opposto di una dittatura o di un’oligarchia che hanno raggiunto il potere con la forza e senza il sostegno del popolo. Democrazia signi ca che ciascun uomo può esercitare il diritto di eleggere chi governa e di cacciare chi mal governa. Bisogna educare i giovani a questa consapevolezza. E se sarà così, nessuno riuscirà più a vendere il proprio voto per cinquanta euro, per darlo magari alla ma a permettendole di insinuarsi all’interno dello Stato. Se un cittadino pensa che questo diritto abbia il valore di cinquanta euro signi ca che non è educato, che nessuno gli ha spiegato che un giorno qualcuno ha lottato no al sacri cio della propria vita per conquistarlo. Democrazia vuol dire poter esprimere il proprio parere, sostenere le proprie opinioni e criticare il potere, ogni potere. Democrazia vuol dire che le donne hanno gli stessi diritti degli uomini in ogni dimensione, dalla politica al lavoro. Democrazia significa che i più deboli hanno un diritto in più, quello di essere difesi e amati perché sono più fragili. Democrazia vuol dire che i bambini, tutti i bambini, hanno diritto di diventare grandi e di avere un senso dentro il mondo. E per questo devono essere alimentati, curati nella salute e nella mente. Ed è tempo di ribadire che l’educazione è una vera terapia. È bene partire ancora una volta dall’inutile, guardare allo spreco della società e contemporaneamente ai bambini che muoiono di fame, ai bambini che nel nostro Paese sono ancora in un orfanotro o. Mettere a confronto la ricchezza di pochi e le famiglie che si trovano nella miseria e non possono far crescere i propri figli. Educare alle relazioni a ettive con la società signi ca anche dedicarsi al capitolo dei vecchi. Bisogna prendere questa occasione per parlare dei ruoli sociali che devono partire dal signi cato che il singolo ha all’interno della comunità e quindi dal compito che egli svolge per la società. Questo è un tempo in cui si guarda soprattutto agli eroi, alle azioni eccezionali. Così non si vede più il vecchio come colui che, dopo aver avuto per tutta la vita un ruolo lavorativo, ora può essere ancora utile. Educare a vivere la società signi ca legare a ettivamente i giovani ai vecchi ed evitare che siano abbandonati, perché inutili e privi di interesse. E c’è una sola maniera per farlo bene, rendere i giovani interessati alla loro piccola ma lunga storia. È tempo che i programmi scolastici smettano di fare la storia delle battaglie e delle guerre, che è sempre falsa, anche quella proposta da un insegnante che si de nisce “obiettivo”. Molto meglio dedicarsi alle piccole storie dove emergono i nonni e i bisnonni e si arriva sempre al cimitero, che è il luogo, l’archivio, in cui reperire il passato della propria famiglia. Bisogna scoprire il vecchio dentro la sua storia che è una storia di famiglia e storia dei giovani di quella famiglia. La piccola storia di ciascuno è straordinaria. Ho ripercorso più volte la mia, con meraviglia, con fascino, scoprendo molti personaggi che sono stati dei “nessuno” per la cronaca e per la Storia, ma che

rappresentano i grandi protagonisti del silenzio e della mia piccola e in fondo insigni cante vita. Grazie a loro ho scoperto le mie radici dentro la povertà e mi sono sentito più umano e più fiero di essere uomo. Bisogna “interrogare” ogni allievo sulla propria storia familiare, perché è un segnale utile per valutare se il processo educativo avanza. Sono questi i prolegomeni per un programma educativo che aiuti a vivere e che sostituisca “l’educazione impossibile” del tempo presente. Rimane un aspetto che ho voluto lasciare per ultimo, anche se spesso penso che meriterebbe maggior rilievo. È il capitolo sulla stupidità dell’uomo e sul di cile, se non irrealizzabile, compito di educarlo a essere il meno stupido possibile. Questa parola ha la stessa radice di stupor (stupore) e lo stupido è proprio colui che lascia esterrefatti, che compie un gesto inspiegabile. Nei momenti di grande abbattimento, quando diventa insopportabile pensare di appartenere alla specie homo sapiens sapiens, cerco di correggere questo sbaglio dell’evoluzione, che come è noto nasce da Charles Darwin, in homo stupidus stupidus. La stupidità non è irrazionalità, non esprime un tipo di errore, è qualcosa di strutturale all’uomo, che dunque si costruisce durante la crescita e nonostante l’educazione. Un altro grave segnale di fallimento dell’educazione. 1 2 3

A cui ho contribuito con il mio La vita digitale, Rizzoli, Milano 2007.

Talora il sentimento religioso si può identificare con un personaggio che si è incontrato: un monaco, un padre spirituale.

Preferisco questo termine a scolari, perché il verbo allevare esprime meglio la mia attenzione rivolta proprio all’insegnare

a vivere.

Per un’educazione possibile, domani

Sono stato tentato di chiudere il saggio a questo punto, perché il mio attuale stato d’animo non è certo all’insegna dell’ottimismo. E poi non sono a atto convinto che i libri debbano sempre formulare proposte di soluzione ai problemi. E, peraltro, non ho alcuna caratteristica per essere, o essere immaginato, come il salvatore del mondo o il terapeuta dell’educazione. Sono vecchio, talvolta vengo assalito dalla malinconia e, quando guardo il mio passato, proprio ora che la mia vita si avvicina inesorabilmente alla ne, mi sembra di aver sprecato il tempo, di non averlo consumato al meglio. Non posso però nemmeno nascondere che qualche volta mi sento vittima di una società che ha ignorato le mie convinzioni e la mia grande voglia di un mondo differente. Da uomo e da psichiatra, mi sono sempre rivolto agli altri, ai loro bisogni e al loro dolore. E so che un mondo ingiusto e disumano produce dolore e persino follia. Mi sono poi convinto a continuare questo saggio, pur sapendo di non conoscere rimedi segreti per una nuova educazione. Mi manca completamente quella vena maniacale, così di usa, che potrebbe indurmi a estrarre dal cilindro una formula magica o anche solo un coniglio educativo. Come non ho alcun dubbio che oggi un’educazione, sic stantibus rebus, sia impossibile, non mi sento peraltro di negare che, se dovessero cambiare le condizioni e si percepisse il danno diretto o per omissione prodotto dal tempo presente, potrebbe diventare possibile. Credendo nella possibilità di passare dalla non educazione del tempo presente a una nuova educazione domani, vorrei più modestamente che tutti si interrogassero su questa funzione e avessero la pazienza di immaginare qualche cosa di utile per renderla, appunto, realizzabile. E sia chiaro che, perché ciò avvenga, non sto pensando “a partire dai politici”. No, loro è meglio escluderli, che non se ne occupino, perché la stupidità non serve a questo progetto. L’attuale specie politica va semplicemente eliminata, come le distinzioni fra destra e sinistra, fra centrismo e radicalismo, che certamente esistono. Non penso naturalmente a eliminazioni violente. Conosco troppo bene i campi inventati dalle SS e continuo a visitarli proprio per non dimenticare che non devono ricomparire mai più. Lo strumento dell’eliminazione che ho in mente può passare soltanto attraverso il voto, e dunque partendo dalla consapevolezza che questa politica non è un destino, segnato da un dio malvagio, ma l’espressione di un uso sconsiderato di un diritto democratico. È tempo di smetterla con le critiche ai politici che, entrati un giorno in scena, non escono nemmeno durante le pause dello spettacolo, e di rivolgersi agli italiani che hanno voluto questi nostri rappresentanti che adesso ci massacrano. Non servono i campi Z, quelli delle camere a gas – temo tra l’altro che i politici di mestiere vi sopravvivrebbero – ma penso ai due giorni destinati alle elezioni, quando gli italiani scelgono i loro deputati e senatori per poi puntualmente criticarli. Ma chi li ha investiti di quel potere se non i cittadini italiani? Se l’Italia ha politici immorali, è perché gli italiani sono immorali; se hanno eletto politici ladri, è perché gli italiani sono

ladri; se usano la politica per interessi personali, è perché gli italiani si servono dello Stato e dell’insieme sociale per vantaggi esclusivamente personali. E potrei continuare no all’a ermazione, che certo non piacerà, che se a governare l’Italia c’è la ma a mascherata, è perché gli italiani sono ma osi mascherati. E che la ma a non sia un fenomeno chiuso nelle regioni di tradizione ma osa, lo dimostra il fatto che si è ormai di usa nel Veneto, in Lombardia, invitata dalla politica e in qualche caso ospitata nelle ville dei presidenti del Consiglio. Credo che se gli italiani si svegliassero dal “sonno dogmatico” del piccolo vantaggio, rinunciassero al gusto di evadere le tasse, all’eroismo di andare contro le leggi e nalmente portassero a rappresentarli persone oneste, educate e capaci, il nostro sarebbe un Paese straordinario e non deriso da tutto il mondo come oggi accade. Insomma, presupponendo un’educazione possibile, vorrei che questa fosse uno stimolo per tutte quelle persone ere di appartenere a un grande Paese, che vorrebbero che i propri gli potessero girare il mondo senza dover nascondere la loro nazionalità. Persone capaci di porsi davvero il problema di come mutare la società per creare il contesto ideale a una nuova educazione. Io non dirò certo quale essa debba essere, semplicemente perché non lo so, e perché sono troppo indignato dal gusto della distruzione che mi circonda, dal fascino del perverso e del macabro, dai monumenti storici che crollano, dalle bellezze saccheggiate, dalla Valle dei Templi di Agrigento occupata ormai da una città abusiva. Mi limiterò a individuare dei capitoli che, a mio modo di vedere, devono essere considerati per inventare un’educazione possibile e per uscire dal disastro dell’attuale sistema scolastico e familiare, inutili e dannosi.

Le scienze del comportamento oggi: individuo e ambiente

L’educazione non può essere programmata senza conoscere quali sono le determinanti e le dinamiche del comportamento umano. Per molti secoli sia l’educazione sia il comportamento dell’uomo non sono stati studiati secondo un approccio scienti co. Entrambi soggiacevano alle decisioni del potere che esercitava il proprio dominio incontrastato. Si sa che il potere si impone come un principio assoluto, una sorta di assioma che viene posto senza possibilità alcuna di contraddirlo e senza bisogno di dimostrazioni. I sudditi devono soltanto prendere atto che esiste e che le distanze sono abissali, immodi cabili. I postulati non si discutono, sono così e non ammettono eccezioni.1 Pensiamo al Principe di Niccolò Machiavelli e ai suoi consigli mirati solo al mantenimento ed eventualmente all’accrescimento del potere. Machiavelli immagina un principe che deve anche manifestare la propria bontà, ma solo per avvicinare il popolo e poterlo meglio sottomettere. Il suo è un disegno per dominare, e per farlo felicemente, una finalità destinata a generare un popolo di sudditi ancor più infelice. L’educazione che ha dominato nella storia rientra in una tradizione che ha come unico scopo la creazione e il mantenimento del potere, con l’aiuto della loso a o della teologia, sia pure ridotte ad a ermazioni quali “L’uomo non vuole la libertà, cerca solo un padrone”.2 Una concezione scienti ca del comportamento umano e dell’educazione fa la propria apparizione storica solo con il positivismo. Il termine sta a sottolineare la necessità di avere un approccio positivo, quindi di fondarsi su elementi e dati sperimentali, quando si voglia giungere a conclusioni credibili e, in qualche modo, non confutabili. Relativamente al comportamento, la scuola positiva sostiene e dimostra (o crede di dimostrare) che esso dipende dal cervello e quindi che è la semplice traduzione di come esso è strutturato in un dato individuo. La ricerca che ha portato a questa conclusione si fonda tutta sulla correlazione tra le caratteristiche del volto, e in generale del cranio, con i comportamenti agiti. Il possesso di bozze frontali, quindi rilievi particolarmente evidenti rispetto a una fronte piatta, viene ricondotto a comportamenti criminali e a crimini eseguiti con modalità precise, con speci che tattiche. Le bozze frontali per i positivisti sono il risultato di una spinta, di una “impressione” che il cervello esercita sul cranio, nel momento in cui è ancora in via di formazione. Sono il dato siognomico di un cervello

di particolare conformazione a cui correlare il comportamento. Il positivismo per primo ha cancellato la tendenza a fondare lo studio del comportamento umano sulla loso a e su discipline non sperimentali come la magia e le religioni, abituate a metter in scena demoni e demonietti. L’apporto della scuola positiva è stato infatti quello di legare il comportamento sociale alla conformazione e alla struttura cerebrale di ciascun uomo. Dato un cervello, ne conseguiva in maniera deterministica un tipo unico di uomo e di modo di essere. E poiché il cervello non è manipolabile, o almeno così appariva a cavallo tra Otto e Novecento, quel dato comportamento è immodi cabile e non risponde a nessun criterio educativo. È inutile porsi lo scopo di ridurre all’obbedienza chi possiede un cervello che tende invece all’opposizione. L’unica via praticabile è quella dell’eliminazione sociale, ed è infatti proprio la scuola positiva a “inventare” il nuovo manicomio e le nuove carceri, come luoghi di vita separata. Poiché era possibile svelare le condizioni del cervello già nei bambini, analizzando le loro caratteristiche siognomiche, di cui si era scoperta l’ereditarietà, si diede anche impulso all’eugenetica che tendeva a sterilizzare tutti quegli adulti portatori di anomalie trasmissibili di generazione in generazione. La politica di Adolf Hitler, descritta nel Mein Kampf, non è altro che l’applicazione rigida del positivismo scienti co, che conteneva i criteri per ideare una gerarchizzazione delle razze e per bloccare la di usione di alcune di queste attraverso diversi sistemi come la castrazione o i campi di concentramento. Non va dimenticato che la razza ebraica era l’esempio sommo di un’anomalia cerebrale, siognomicamente rivelata dal naso semitico. Come ho detto, se una conformazione del cervello non è in alcun modo modi cabile, inevitabilmente un’azione educativa non potrà avere alcuna importanza e alcun e etto. In termini di scienze del comportamento il signi cato della scuola positiva sta quindi tutto nel legare l’azione umana al cervello, il che equivale a dire che un certo comportamento si sarebbe veri cato a prescindere dall’ambiente sociale. Sanciva perciò l’inesistenza di una relazione tra comportamento individuale e società. Per capire il comportamento bisognava solo guardare dentro il cervello e, non a caso, la scuola positiva ha dato un grande sviluppo all’anatomia patologica che si svolgeva tutta nel post mortem, nella sala in cui il cadavere veniva sezionato. Di questo importava soprattutto il cervello, poiché era possibile provare quello che si era dedotto dalla conformazione cranica. Insomma, per capire il comportamento, bisognava “guardare dentro” il cervello. Sigmund Freud, che iniziò la sua attività a cavallo del Novecento, era un convinto positivista che diede un apporto speciale al “guardare dentro”. Dapprima “guardò” il cervello nei laboratori del dottor Ernst Brücke, colorandone delle sezioni nel post mortem per evidenziare i segni microscopici della degenerazione. Lasciato l’ambiente più tradizionalmente scienti co, continuò a “guardare dentro”, no

a scoprire l’inconscio e a cimentarsi nell’interpretazione del mondo dei sogni, che è parte del singolo. A mio giudizio, Freud rimase un positivista, sia pure originale, anche nella seconda fase del suo lavoro, trascurando nei suoi studi l’importanza del ruolo dell’ambiente. Una vera svolta nelle scienze del comportamento avviene soltanto quando, attraverso approcci molto diversi, si riesce a dimostrare scienti camente l’importanza che l’ambiente sico e relazionale, e l’appartenenza a una determinata società, hanno sul comportamento individuale. La teoria della “colpa sociale” sostenne per esempio l’inutilità del “guardare dentro” perché tutto era da attribuire a ciò che accadeva fuori. E in particolare nella società in cui il singolo viveva e che si proiettava in lui, no a indurne comportamenti inaccettabili che egli non avrebbe mai messo in atto in un ambiente differente. Ci sono poi ipotesi che, dalla società nel suo insieme, sono passate alla microsocietà, come la teoria delle famiglie patogene, con Gregory Bateson che de nisce la madre “schizofrenogena”. Ma il punto di arrivo, e siamo all’oggi, è quello che ora io cercherò di riassumere. Il comportamento dell’uomo singolo è la risultante di tre fattori. Il primo è quello della biologia e cioè delle caratteristiche siche e cerebrali di ciascuno. È innegabile che noi portiamo all’interno del genoma delle determinanti per alcuni comportamenti e delle disposizioni per altri che diventano, pertanto, possibili. La “carne” è dunque un fattore essenziale, e in questo avevano ragione i positivisti, sbagliavano solo ritenendola l’unico elemento. Il secondo fattore è dato dall’esperienza, potremmo dire dalla storia personale, che in questo caso è costituita di incontri e, appunto, di legami. Tutto lascia traccia, non solo nella memoria, vista come deposito passivo degli accadimenti, ma anche dentro istanze che spingono e condizionano la modalità con cui noi viviamo il presente e il futuro e come noi reagiamo e ci comportiamo. È indubbio che, tra una madre nutrice rispetto a una che o non può allattare o si ri uta, l’esperienza per un neonato è così diversa da incidere nell’immediato, ma anche nella sua vita futura. Si parla in questo caso di fonti esperienziali che si rilevano anche durante l’età adulta, condizionandola. Un rapporto con ittuale tra bambino e madre può organizzarsi in nevrosi, può portare all’impossibilità del glio di separarsi da lei e, anche nella scelta adulta di una compagna, a prediligere una gura simil materna, con cui stabilirà un legame di tipo infantile, che potremmo chiamare riparativo. La conseguenza sarà una relazione tra coniugi “malata”. Una madre che soffre di una grave depressione o che mostra un’alternanza di umore, che dalla malinconia salta alla maniacalità, in uisce fortemente sull’equilibrio di quel bambino e sul suo futuro di adolescente e poi di adulto. Insomma, un uomo è anche e soprattutto la propria storia vissuta.

Il terzo elemento è dato dall’ambiente, che va inteso prevalentemente nel senso di ambiente relazionale, costituito, più che dagli oggetti e dalla collocazione geogra ca, dagli affetti che vengono attivati nei rapporti interpersonali. Ma con il termine ambiente si vuole indicare anche la comunità di appartenenza, no a comprendere la società nel suo insieme.3 Pensiamo alle guerre, alle esperienze dei campi di eliminazione nazisti, rimaste indelebili nella mente delle vittime, come nel caso di Primo Levi, la cui vita e il suicidio con cui termina sembrano manifestazioni dell’esperienza di Auschwitz. Ma si potrebbero citare, per avvicinarci ai temi dell’educazione, gli e etti di una bocciatura che, come ho già spiegato, diviene talora stimolo al suicidio o a comportamenti di abbandono scolastico. Per sottolineare la componente a ettiva si potrebbero richiamare invece le conseguenze di una rottura sentimentale che possono portare pure a suicidi o a omicidi. In sintesi, oggi si ritiene che tutti e tre questi elementi agiscano su ogni singolo comportamento, anche se l’importanza di ciascuno può essere varia, e quindi la loro in uenza si esprime con un peso di erente. Ci sono casi in cui la biologia ha una percentuale di partecipazione maggiore perché vi si lega anche un’anomalia genetica; altri invece in cui l’esperienza è particolarmente rilevante, come per gli esiti post traumatici. E non mancano esempi che hanno come pilastro portante la società. Basterebbe studiare le storie dei deportati o degli “eretici” per rendersene conto. Ciò che tuttavia è parte del sapere scienti co sui comportamenti è l’a ermazione che sempre tutti e tre questi elementi hanno un ruolo. E lo hanno nell’educazione come negli interventi terapeutici. Per completare, sia pure sinteticamente, lo status quo delle scienze del comportamento, occorre riportare due altre considerazioni di principio. La prima riguarda la stretta connessione tra educazione e terapia mentale. Contrariamente all’opinione più di usa che li vede come aspetti del tutto distinti, essi invece appartengono allo stesso dominio: pensiamo agli interventi che si svolgono tramite la parola, quindi “dentro” una relazione, applicati sia dai sistemi educativi sia dalle cosiddette psicoterapie. Il parallelismo è ancora più evidente se si fa riferimento all’educazione di tipo individualizzato, al rapporto che in passato era esemplificato dalle figure dei precettori. Persino le liturgie del setting non sono molto diverse: una seduta di psicoterapia dura 45-50 minuti, e non so se per una pura coincidenza è lunga come una lezione “privata”, e come il tempo che separa lo squillo delle campanelle in una scuola, che segnala la sostituzione di un insegnante con un altro. La seconda considerazione di principio si lega ai vissuti, cioè alle esperienze, e dunque alle risposte che ciascuno dà e che non hanno nulla di obiettivo, poiché dipendono proprio dal caso singolo, da quella speci ca personalità. Un principio che toglie dalla scena educativa la dimensione dell’obiettività e la sostituisce con il concetto di vissuto, mettendo in chiara luce come la condizione essenziale per la terapia e per l’educazione sia l’ascolto, unico strumento per avvicinarsi alla singolarità e, appunto, al vissuto di

ciascuno. E deriva sempre da questa considerazione che, per capire un vissuto, bisogna entrare nella relazione. Questi due preamboli annunciano l’ingresso di un atteggiamento straordinario e fondamentale: la fiducia, termine che ha la stessa radice di fede. Ed è a questo punto che è possibile analizzare i comportamenti, intesi questa volta come espressioni agite: punto di congiunzione per sottolineare ancora che la psicoterapia conduce il “malato” nella stessa direzione dell’educazione. Del resto, sia l’educazione sia la psicoterapia sono due esempi di “integrazione” dentro la società, percorsi “di successo” nell’ambito della famiglia e in quello della scuola. Da questa sintesi sulle scienze del comportamento e sulla loro applicazione all’educazione, mi pare si debbano intravedere tre fasi sequenziali: ascolto, costituzione di un legame affettivo, guida all’azione. Il secondo capitolo strettamente connesso alle scienze del comportamento ci riporta allo studio del cervello che, come abbiamo visto, ne è parte integrante, e che ha raggiunto oggi conoscenze così innovative da avere una ricaduta importante sull’educazione. 1

Si immagini che cosa accadrebbe se il postulato dell’educazione fosse invertibile e divenisse possibile a ermare che il

potere aspira a fare in modo che tutti i cittadini gli si oppongano. Un’asserzione assurda, poiché comporterebbe la sua

eliminazione. E ancora più evidente risulterebbe l’assurdità di un padre che non ritenesse di essere l’educatore, ma colui che deve venire educato, quindi guidato, dai

gli. Si tratterebbe di una contradictio in terminis, un ossimoro, una follia.

Come per le ipotetiche della irrealtà, con il famoso esempio “Se domani non sorgesse il sole”: certo è possibile, ma in quel caso finirebbe anche l’esistenza su questo pianeta. 2

Sono queste le convinzioni che il “Grande Inquisitore” dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij sostiene davanti al Gesù

ritornato sulla terra e accusato di avere concesso all’uomo la libertà (I fratelli Karamazov, Mursia, Milano 1959, p. 273). 3

E qui ritorna in gioco il ruolo del potere, che mi fa pensare all’Allegoria ed E etti del Buono e del Cattivo Governo della

città, un ciclo di affreschi dipinti da Ambrogio Lorenzetti nella Sala Consiliare del Palazzo Pubblico di Siena.

La biologia della mente umana

I recenti studi sul cervello hanno dimostrato che può essere schematicamente diviso in due parti: la prima è quella del cervello deterministico, che dunque compie azioni e realizza comportamenti totalmente previsti. Ha lo scopo di garantire le funzioni che sovrintendono alla difesa della vita e che devono poter essere attivate automaticamente, quando si presentano stimoli o situazioni di pericolo. La seconda parte, quella dell’encefalo plastico, pur derivando sempre dal codice genetico, ha una sua struttura “aperta”, nel senso che la sua organizzazione dipende dall’esperienza. E dimostra in maniera chiara che l’uomo è “destinato” a situarsi, a adattarsi a un ambiente che è fatto di altri uomini e di condizioni siche e geogra che peculiari. Una conferma di questa relazione è venuta dalla recente scoperta dei “neuroni specchio”, strutture che si attivano quando un uomo ha vicino un altro uomo, e hanno proprio la funzione di permettere quell’incontro e persino di porlo sulla stessa lunghezza d’onda affettiva.1 In estrema sintesi, si può dire che il cervello plastico viene strutturato dall’esperienza, che signi ca dal contatto che il singolo uomo stabilisce con un altro uomo, all’interno del mondo fisico e relazionale. È questo il cervello dell’educazione, nel duplice senso che un comportamento appreso corrisponde a un’organizzazione di una parte del cervello che prima non c’era. E da qui emerge una grande e straordinaria conclusione: l’educazione modi ca il cervello e quindi attiva una riorganizzazione delle cellule cerebrali (i neuroni) che sono disponibili e vengono legate in quel modo a seguito di quell’appreso. Dunque è sempre possibile modi care il cervello e sostituire un comportamento, che corrisponde a una struttura modificabile, capace di un nuovo assetto tra i neuroni. Possiamo a questo punto a ermare che è nita l’epoca dei casi di resistenza educativa insormontabile. Occorre tuttavia aggiungere che questi movimenti neuronali si legano al tipo di esperienza, e richiedono una relazione che non si limita solo all’attenzione, bensì a una partecipazione interpersonale che abbiamo chiamato affettiva. Risulta anche utile distinguere in maniera precisa l’educazione informativa (che abbiamo anche de nito razionale) da quella dei sentimenti. Nel primo caso si attivano aree plastiche che coinvolgono la memoria, il legame causa-e etto, il principio di non contraddizione; per l’a ettività viene invece impegnata quella parte plastica che coinvolge sì una memoria, ma del tutto diversa e distinta, e che si può chiamare memoria delle emozioni e, separatamente, dei sentimenti.

È opportuno a questo punto portare un esempio che serve anche a dimostrare come il termine memoria vada coniugato al plurale. E una delle memorie è quella che si occupa delle immagini. Per farlo, mi riferirò in particolare alle immagini dei volti. Nella nostra memoria vi è una vera e propria galleria, che potremmo chiamare, riferendoci al mondo della pittura, anche galleria dei ritratti. Ogni volta che incontriamo una persona, sia pure rapidamente e occasionalmente, esponiamo nella nostra galleria il suo volto. Uno “spazio” che deve essere piuttosto ampio, soprattutto nella società accelerata e dinamica del tempo presente, anche perché vi si inizia ad appendere ritratti fin dalla nascita. Il primo è quello della madre, che allattando permette al bambino di esplorare visivamente il corpo a cui è attaccato, arrivando a percepire il viso materno che rinforza il proprio tratto e quindi la propria incisività nella ripetizione. Nella fase dell’“attaccamento” quel volto finisce per essere esclusivo o almeno dominante. Quell’immagine è dunque acquisita e può anche non esserci a atto, se l’esperienza nega l’incontro con la madre biologica a favore di quello con una madre adottiva o di una balia. Fino a questo momento abbiamo descritto un processo di “stampa”, come se una macchina fotogra ca avesse catturato i volti di coloro che abbiamo incontrato. Ma ecco entrare in funzione la memoria delle emozioni e dei sentimenti per cui a ognuna di queste “fotogra e” corrisponde il tipo di emozione che ha accompagnato lo scatto o il legame sentimentale che si è costituito. Ogni viso dunque è connesso con il ricordo a ettivo a cui si è associato nell’esperienza. Tutte le volte che si incontra quel viso, immediatamente si riaccende anche, oltre al riconoscimento, la qualità dell’esperienza vissuta. Se aveva generato paura, nel rivederlo sentirò, sia pure ricordata, la stessa paura. Se invece è collegato a un’esperienza gioiosa, nella mia memoria ho l’“immagine” rivissuta della gioia. Già da questi dati si comincia a intravedere il senso difensivo della galleria dei volti e della memoria degli a etti. Rivedendo quel viso, sentendone subito la paura nel ricordo, metterò in atto comportamenti di difesa anche se, in quel preciso momento, quel volto non ha assunto atteggiamenti capaci di suscitare timore. Tutto ciò spiega anche la concezione che abbiamo richiamato parlando di esperienza traumatica o di ferite infantili che non si cancellano. È persino molto probabile che la prima parte della galleria, supponiamo una sua stanza espositiva, sia dedicata a immagini ereditate. Ci sono, anche se noi non le abbiamo mai vedute, e sono connesse a emozioni e sentimenti che non abbiamo provato, e si attiverebbero se dovesse avvenire l’incontro. Ciò vale sia per volti “nemici”, che hanno bisogno di attivare una difesa, sia per volti “amici”, che invece vengono accettati. La questione è evidente in alcune specie viventi non umane. Se una gazzella dovesse legare solo all’esperienza il fatto che un leone tende ad aggredirla, non avremmo mai veduto una gazzella. Se invece nella galleria dei volti vi è già esposto il leone ed è connesso alla minaccia che spinge automaticamente alla fuga, l’apprendimento

individuale non è più necessario, perché il singolo gode di una esperienza della specie e ha un’alta probabilità di salvarsi. Ma ritorniamo all’uomo e a una risposta a ettiva del tutto speciale, che chiamiamo simpatia o antipatia, e che ha un peso enorme nel comportamento degli insegnanti verso i propri alunni, e degli allievi nei confronti di uno stesso insegnante. È altamente probabile che, quando un insegnante entra il primo giorno di scuola in una classe di nuova formazione, nel suo rapido sguardo iniziale identi chi uno scolaro simpatico e un altro antipatico, e ciò accade perché il primo assomiglia a un volto della galleria altamente gradevole per l’insegnante e il secondo invece a una esperienza imbarazzante o frustrante.2 Proviamo a immaginare adesso la situazione di uno scolaro che, guardando in volto l’insegnante, attivi il richiamo di uno zio cattivo che ingiustamente lo ha preso a sberle. Sarà come se quell’insegnante diventasse la causa di quell’esperienza, richiamata dalla memoria dei sentimenti. E il dolore della memoria non è anestetizzato, fa male. Il comportamento che egli metterà in azione è di difesa, e la difesa verso chi ha usato i modi violenti prevede l’attacco violento. A questo punto, può intervenire l’educazione che ristruttura la galleria, la rimette un poco in ordine, espone il nuovo volto che assomiglia molto a quello precedente, ma lo distingue legandolo a un sentimento totalmente diverso, perché la prima interrogazione si è svolta sul piano dell’apprezzamento e persino di una reciproca stima. In questo caso l’esperienza educativa ha permesso di modi care o impedire un comportamento che aveva una componente automatica e immediata. Da un allievo impulsivo si è “prodotto” un allievo capace di distinguere e dunque di non atteggiarsi con quel professore come si trattasse di un nemico. Sono queste alcune delle premesse che forse in futuro serviranno a gettare le basi di una biologia dell’educazione. Oggi sappiamo che cervello e mente sono termini per de nire una stessa realtà che nora, essendo stata considerata dualistica, è stata esaminata con due linguaggi diversi. A sconvolgere questo assetto basterebbe ricordare che l’azione della parola e dell’esempio (che si può riportare a immagine o a sequenza di immagini) genera biologia, è cioè in grado di modi care la struttura del cervello plastico. Un’osservazione su ciente a dimostrare la falsità del detto “verba volant” . Verba non volant, le parole incidono sulle azioni, mettono insieme neuroni.3 Ma ora il terzo capitolo lo voglio dedicare alla relazione. 1

Questa scoperta di origine italiana porta il nome di Giacomo Rizzolatti, docente di Fisiologia all’Università di Parma

(Giacomo Rizzolatti, Corrado Sinigaglia, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Ra aello Cortina, Milano

2006). La scoperta della plasticità del cervello è il risultato di molti contributi, a partire da quello di Eric Kandel con la dimostrazione che l’aplysia, una chiocciola di mare, apprendendo un comportamento modi ca anatomicamente i suoi

neuroni. Si veda, tra la vasta letteratura sull’argomento, Ian H. Robertson, Il cervello plastico, Rizzoli, Milano 1999 e Biblioteca della Mente, “Corriere della Sera”, Milano 2011.

2

Accade anche che molti allievi non attivino nulla, sono in qualche modo neutri. Ma ben presto verranno anch’essi esposti

e collegati a qualche cosa che sarà però acquisito in seguito. 3

Per l’associazione tra educazione e terapia che abbiamo sostenuto, si può anche dire che il fondamento delle psicologie e

della psicoanalisi si trova dentro la biologia, e di conseguenza anche l’educazione è de nibile come l’insieme delle

operazioni biologiche che promuove nel cervello plastico. Non so nemmeno più se porre l’insegnante d’italiano dentro le discipline classiche e letterarie oppure in quelle biologiche di cui fanno parte le scienze del comportamento.

Relazione e educazione

La relazione costituisce uno degli aspetti più a ascinanti del comportamento umano ed è la base stessa dei sentimenti che, lo ripetiamo, rappresentano dei legami che hanno la sola funzione di aumentare la sicurezza del singolo e di aiutarlo a rispondere alla paura attivata dalla percezione di ciò che si definisce rischio e pericolo. Devo ammettere che con il passare degli anni mi convinco sempre di più che la complessità del nostro comportamento non è così enigmatica come può apparire, poiché è guidata da poche e fondamentali esigenze, e tutte si riducono a un bisogno semplicissimo: vivere. E ciò vuol dire permanere, e il più a lungo possibile, in un ambiente che si presenta pieno di ostacoli e genera paura. Se un giorno, colpito da un processo degenerativo cerebrale decidessi di scrivere un Genesi, lo comincerei così: “In principio era la paura e tutto ciò che è accaduto dopo il Big Bang è stato orientato a vincere la paura”. Arriverei rapidamente all’Apocalisse, dicendo: “La paura non è stata vinta, ha preso il volto del demonio che, solo alla ne dei tempi, verrà schiacciato”. Non sono ancora così mal messo, ma è certo che la paura è sempre la fonte della relazione. L’uomo cerca l’altro per paura; talora l’altro, invece di placarla, la aumenta. Tutta la storia dell’uomo gira intorno alla paura e sono sicuro che anche la violenza è generata dalla paura. Non abbiamo altra possibilità che promuovere relazioni, attivarle, perché, abbracciati a un altro, la si sente di meno, ma soprattutto cresce il coraggio per a rontarla. Non bisogna fermarsi alla coppia, occorre che la coppia si relazioni con un’altra coppia, in modo che tutte le coppie siano legate fra loro e, solo quando tutti gli uomini saranno un solo insieme, forse la paura sarà vinta. Devo ammettere che questo obiettivo è un’utopia, perché persino nell’amore, il legame più forte con cui ci si relaziona all’altro, si avverte paura. Una paura che non è suscitata da colui che ti ama, ma dal mondo esterno, dove qualcuno cerca di rubare il tuo oggetto d’amore. Esistono paure che si generano dentro di me e paure del mondo fuori di me. La paura del mondo e la paura di sé, che è una particella di mondo. Il mattone dell’Universo, il bosone di Higgs, per un antropologo è la paura. Io non soltanto ho paura, ma mi faccio paura e genero paura anche in chi amo. E mi pare che la paura sia in ogni cosa, dappertutto. Forse allora è più corretto dire che la relazione è generata dalla paura; sovente aiuta a vincerla, ma talvolta l’aumenta.1

Ma per evitare un canto tragico della paura, è meglio cercare di de nire ciò di cui si ha paura e giungere a quella paura prima che ha il corrispettivo nel “peccato originale”. La paura ha sempre un “unico oggetto”, anche se nascosto, inconsapevole, mascherato da mille altri riferimenti, semplici oggetti transizionali che rimandano all’unica paura: quella della morte. La morte è l’espressione antinomica della vita ed è insita nella vita. Di conseguenza temere la morte signi ca anche temere di vivere. La paura di vivere è data dalla certezza che si muore. La relazione a due fa dimenticare per un po’ la morte, anche se dopo un altro poco si scopre che si muore entrambi. E io sono sicuro che morire solo è più triste e fa più paura che morire in due. Non ho alcun dubbio che la relazione sia un meccanismo inventato per allontanare la paura. La relazione è il punto di partenza per stabilire un legame, e il legame può raggiungere la qualità del sentimento, che ha la capacità di far avvertire la presenza dell’altro anche quando si è da soli. Devo confessare che le espressioni più forti del legame d’amore io le ho avute nella solitudine, pensando a chi non c’era e a cui tuttavia ero legato. Avevo talmente bisogno di vincere la paura della solitudine, che nivo per idealizzare l’assente, come se non fosse fatto più nemmeno di carne. Diventava perfetto, esattamente ciò che mi mancava per non provare più paura. Poi lo raggiungevo e mi faceva paura. Se le persone con cui ho vissuto, che ho amato, sapessero che cosa è stato il nostro rapporto nei miei propositi, nei miei progetti, saprebbero di essere state e di essere per me infinitamente meglio di quello che esse sono nelle loro espressioni esistenziali. È talmente forte il desiderio di sedare o di vincere la paura che si riesce a dipingere d’amore anche chi non lo merita. E talvolta ho il sospetto che il bisogno di relazione, come necessità per vivere, inventi l’oggetto d’amore. E che dunque questo legame sia illusorio o irreale. Mi sono sempre dedicato ai casi estremi, perché volevo mettermi vicino alla paura estrema che si esprime sempre con la violenza estrema. E per questo, essere lo psichiatra dei casi estremi signi ca nello stesso tempo essere lo psichiatra della paura. Io ho conosciuto la paura, la paura estrema. Mi sono persino visto da bambino, circondato di demoni. E sono stato molte volte faccia a faccia con la morte, con quel maledetto momento in cui nisci per non sapere chi sei, perché ti trovi a questo mondo, il perché del dolore tuo e degli altri. E adesso muori senza conoscere nulla non solo della vita, ma anche della fine della vita. È una visione tragica che deve indurre una meditazione sui limiti dell’uomo; non quelli che egli incontra nella sua esperienza del mondo, ma quelli che sente riconoscendo di esistere. Una meditazione necessaria a chiunque voglia contribuire a educare. Se educare signi ca aiutare a vivere, signi ca anche che si deve aiutare a stabilire relazioni che attenuino la fatica di vivere, che permettano di placare la paura della morte, e a rendere meno insopportabile l’enigma che ciascuno si porta addosso. Ho cercato in tutti i miei anni di conoscere, di dare risposta a dubbi scienti ci oppure loso ci, e ho l’impressione di avere imparato molte cose, ma l’enigma è rimasto intatto. E tutto il mio sapere si trova dentro una nicchia, dentro una scatola, che è

inserita nel mistero, nell’enigma. 1

Si veda Vittorino Andreoli, Le nostre paure, Rizzoli, Milano 2010 e Biblioteca della Mente, “Corriere della Sera”, Milano

2011.

L’esperienza

Il quarto capitolo lo voglio dedicare all’esperienza, un argomento che è da sempre all’attenzione della cultura e che viene continuamente ridisegnato. L’aspetto più nuovo in questo campo si fonda sulla distinzione tra mondo esterno e mondo interiore, che a me piace chiamare rispettivamente il “mondo fuori di me” e il “mondo dentro di me”. Si tende a credere che esperire signi chi incontrare qualcosa o qualcuno che sia distinto da me e che, grazie all’incontro, diventa parte di me. Detto in altro modo, una persona che no a quel momento non esisteva per me ora c’è. Per questo l’esperienza è anche conoscenza di qualcosa o di qualcuno che per me no a quel momento non c’era pur esistendo nel mondo. L’esperienza ha portato all’essere ciò che per me era nulla. Un atto creativo: attraverso di me, esiste ciò che per me non c’era affatto. L’evento che porta all’esistenza una cosa o una persona avviene quando, e solo quando, il mondo che è fuori di me entra in me. E sembra di poter dire che dunque esiste per me un solo mondo, il mio, anche se vi appartiene qualcosa che appare diverso da me. In questo passaggio dal fuori al dentro, l’oggetto, la persona, il mondo cambiano perché sono filtrati, messi dentro di me e quindi trasformati per me. È questo il grande apporto della loso a kantiana, cioè della concezione che il mondo che conosciamo è la riduzione del mondo oggettivo alle nostre categorie mentali, da cui deriva che le mie categorie misurano e danno forma al mondo, rendendolo a me adeguato e comprensibile. La professoressa di matematica assume nella mia esperienza, quindi dentro di me, una riformulazione, un vero atto ri-creativo, e diventa la “mia” professoressa, certamente distinta da quella del mio compagno di banco. Rendo a me conoscibile il mondo, trasformandolo. E non si tratta soltanto di un e etto legato ai sensi così come sono organizzati nell’uomo, ma dipende anche dalla elaborazione che la introiezione delle cose del mondo esterno produce. Insomma non esiste il mondo, ma il mondo “dentro” di me, e ciò che il mondo è veramente io lo manipolo, lo sento, lo interpreto, facendolo diventare altro. Una vera metamorfosi. Potremmo dire che, a fronte di un mondo inconoscibile, esistono tanti “vissuti” del mondo, che fanno persino credere di conoscerlo com’è, mentre sono io a ridurlo a come sono io. Da queste sequenze emerge con tutta la sua forza il concetto di vissuto, e l’esperienza è tale in quanto vissuta, perché riduce e porta dentro di me il mondo che è di fuori e che io trasformo nella relazione, nel momento in cui ciò che non esisteva diventa mio.

Credo che corrisponda al vero l’a ermazione secondo cui non ci si innamora mai di un altro o di un’altra, ma di una persona che è da noi trasformata e che dunque porta l’impronta di me come creatore. Per approfondire il tema dell’identità, non solo del singolo, ma del mondo, non c’è nulla di meglio che leggere Uno, nessuno e centomila di Pirandello. Io ho un’identità e l’attribuisco persino al mondo che altrimenti per me non l’avrebbe. La di coltà della relazione interpersonale sta nel come l’altra persona viene ridotta e trasformata dentro di me, ma anche dalle diverse modalità che ciascuno opera sullo stesso mondo riportandolo all’interno di sé. Si crede di parlare della stessa identica cosa, si pensa che quella parola abbia lo stesso signi cato, ma non è a atto vero. E ciò che semmai meraviglia non è l’incomprensione, ma l’accordo. Se qualche volta sembra di averlo raggiunto, è semplicemente perché attribuiamo a ciò che dice l’altro il nostro senso e non quello che l’altro ha e ettivamente espresso. È altamente improbabile che il mio vissuto sia identico a ciò che mi comunica l’altro. Il mondo è un’enorme Torre di Babele, che diventa coerente non per quello che è, ma per come nella mia esperienza, dunque portandolo dentro di me, riesco a trasformarlo. Se poi aggiungo che io stesso posso “vivermi” diversamente in tempi diversi, si arriva a un nuovo scetticismo, al cui confronto quello di Gorgia di Lentini è una semplice anticipazione. La comprensione dell’altro è una costruzione difensiva, una manipolazione che serve anch’essa a diminuire la paura del mondo. Io trasformo l’altro rendendolo simile a me, comprensibile, mentre è del tutto incomprensibile. “Moi, je suis l’ordinateur du monde”, il francese esprime meglio questo concetto, perché il termine ordinateur è diretto ed esprime ciò che uno fa.1 Queste considerazioni dovrebbero far ri ettere tutti coloro che pensano di possedere la verità, e potrebbero aiutare a comprendere le conseguenze che la verità ha nell’educazione. È chiaro che nell’incontro speciale tra insegnante e allievo, la verità si pone come qualcosa che può rendere del tutto asimmetrica la relazione: l’insegnante la conosce e la svela a chi invece la ignora. Va ricordato però che negli ultimi decenni la scienza, che era ritenuta la via per raggiungere la conoscenza de nitiva, sia pure entro il particolare, ha rivisto nettamente questa posizione. E mi riferisco proprio alle scienze pure, alla matematica, alla fisica. Basterebbe ripensare per la matematica al teorema di Kurt Gödel, che dimostra la indimostrabilità di un teorema,2 alla relazione di indeterminazione di Werner Heisenberg, alla impossibilità cioè di conoscere di una particella contemporaneamente la massa e la sua accelerazione, elementi necessari a identi carla. E per la scienza, come metodologia di conoscenza, ricordare il concetto di falsi cazione di Karl Popper, secondo cui ogni conclusione raggiunta con il metodo scienti co include la falsi cabilità che rimanda a una nuova ricerca e conclusione, che giungerà, a sua volta, a una conclusione falsi cabile, spostando in una sequenza in nita ogni conclusione “definitiva”.

1 2

È interessante notare che nella lingua francese ordinateur significa anche computer. Almeno questo è il senso divulgativo che gli si attribuisce.

Dal successo dell’Io all’affermazione del Noi

Può sembrare un ossimoro, dopo aver posto l’Io, la singolarità, al centro del processo di apprendimento in quanto misura del mondo (di tutte le cose, direbbe Parmenide), parlare del Noi e della necessità di giungere a un’unità fatta da molti Io. Eppure questo è un passaggio necessario per ovviare a molti degli errori che il dominio del singolo sul gruppo ha prodotto nell’educazione, in qualsiasi ambiente e istituzione sia stata promossa (la famiglia, la scuola), e nelle più varie attività sociali, dallo sport, al lavoro, alla cultura. Il dominio dell’Io nell’educazione ha generato il con itto, la gura del nemico, il bisogno del successo, che signi ca superare l’altro con tutti i mezzi possibili poiché l’altro è diventato l’elemento di confronto e dunque anche di frustrazione per non saperlo non solo emulare, ma superare. È la logica dell’Io ad aver di uso l’invidia, che è il tarlo della vita sociale. L’invidia esprime il desiderio di avere ciò che un altro possiede e io non ho, spingendomi a fare di tutto per ottenerlo. Ma non appena l’ho raggiunto, mi accorgo di non possedere ancora qualcosa che l’altro ha, e allora lo inseguo di nuovo, come se la felicità o la tranquillità si legassero proprio alla realizzazione di quel desiderio fondato sull’altro. È questa la condizione in cui si vive per ciò che non si ha non accorgendosi di ciò che invece appartiene al proprio bagaglio di oggetti o di qualità. È tipica di chi guarda all’altro e non dentro di sé, di chi non ha presente i propri talenti e nemmeno i propri gusti. In questo modo la presenza dell’altro non è occasione di legame, ma di contrapposizione, di una inferiorità che chiede di essere sanata, rincorrendo sempre un altro e ciò che egli ha e a noi manca. L’invidia è pertanto fonte continua di frustrazione, che si avverte mentre si agisce per vincere una diversità reale o presunta. Se uno guarda all’altro e sfugge all’indagine di ciò che egli è e possiede, nisce per non conoscersi e porre l’attenzione sempre fuori di sé come se fosse vuoto o perennemente manchevole. L’immagine è quella di uno che rincorre ansimando chi, appena è raggiunto, fa uno scatto mettendo una nuova distanza. Una corsa perenne senza aver nemmeno la possibilità di chiedersi il senso di quell’inseguimento interminabile, che porta alla prostrazione, che assume il volto della depressione, quando ci si accorge di essere sempre in ritardo e sempre manchevoli di qualcosa che altri invece possiedono. Nel sistema educativo si è preconizzato che questa corsa è un bene, deve esistere, in nome di modelli positivi, dei bravi e buoni. C’è una variante a questa dimensione dell’invidia che ha fondamento nell’Io ideale posto da Freud accanto a un Io attuale, e che mi pare fotogra un altro principio

applicato al processo educativo. L’Io attuale è la condizione in cui ognuno si trova nel presente, l’Io ideale è la rappresentazione di come vorrebbe essere. Nella corsa dall’Io attuale all’Io ideale si dovrebbe realizzare il miglioramento di ciascuno di noi e in particolare di chi si è impegnato nel processo di crescita. La di erenza rispetto all’invidia centrata sull’altro è che in questo caso tutto accade dentro le caratteristiche del singolo, e dunque dentro la conoscenza di sé, lontano dalla dispersione di ciò che attrae nell’altro e che potrebbe non essere coerente con le proprie inclinazioni e persino con i propri desideri, sostituiti dai richiami del momento. Potremmo dire che anche questa è una forma di invidia, ma nel primo caso, quella centrata sull’altro, si tratta di un’invidia cattiva, mentre quella che è tutta dentro di sé è buona, poiché spinge a rincorrere se stessi, coerentemente alle proprie propensioni, in vista di continui miglioramenti individuali. Se l’educazione è imparare a vivere, è chiaro che esistono livelli di abilità che si possono raggiungere, basta mettere il proprio Io attuale in corsa dietro all’Io ideale. Anche questa “corsa” è comunque parte strutturale del delirio della psicologia dell’Io che ormai domina da più di un secolo, dal 1900, anno di pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni con cui, almeno convenzionalmente, si fa nascere la psicoanalisi. Una dottrina fondata sull’Io e sul principio della soddisfazione dei bisogni singoli come via per giungere alla felicità: e in questo processo sia l’altro che il Noi non hanno certo un grande rilievo. La distinzione tra invidia buona e cattiva è in realtà falsa poiché non prende in considerazione la dinamica attraverso cui si forma l’Io ideale che è condizionato proprio dai modelli esterni.1 Insomma l’Io ideale è l’insieme di invidie che sembrano desideri adeguati all’Io semplicemente perché sono state interiorizzate senza rendersi conto che appartenevano ad altri e invece sono state riferite a sé, ai desideri del proprio Io. Queste considerazioni mi portano a togliere ogni valore all’invidia e a concludere che è il dominio dell’Io a limitare la vita sociale degli esseri umani e a renderla violenta. Ed è dunque tempo di a ermare una psicologia del Noi che non ha tracce di invidia, ma semmai si fonda sulla percezione delle di erenze come elemento fondamentale. Diversità indispensabili dentro il gruppo familiare prima, nella scuola poi, nella piccola comunità e via via no alla dimensione di tutta una società, poiché ciò che l’altro ha serve a far funzionare l’orchestra sociale, in cui si pone anche la propria capacità a costituire il benessere del Noi, che è la condizione perché il singolo Io sia gratificato. Dunque dall’Io al Noi, in quanto è il Noi a garantire l’atmosfera (il setting sociale) in cui l’Io si percepisce e si grati ca. L’Io come particella del Noi, legato necessariamente all’insieme senza il quale l’Io muore, o comunque è infelice. E siamo ritornati alla classe come unità di riferimento dell’educazione scolastica. La classe e non più il singolo, esaltato da una psicologia che ora va integrata in una dimensione maggiore, più vasta, quella del Noi.

1

Talvolta i modelli interni risentono dell’infanzia e della mancata soluzione di complessi come quello di Edipo, che è un

modello di eliminazione del padre, o quello di Elettra per la femmina, in cui si deve eliminare la madre per il possesso

sessuale del padre.

Dal Noi alle supercollettività

La dimensione del Noi è variabile, va dalla coppia all’intera società, che a sua volta ha una estensione di erente entro i gruppi nazionali europei (la Danimarca ha poco più di 5 milioni di abitanti e la Germania oltre 80 milioni), e ancor più tra le nazioni extraeuropee come per esempio la Cina, che supera il miliardo. In questo confronto l’Io, la dimensione del singolo, si perde più o meno come accade per una particella di materia, un bosone o un elettrone, di fronte alla vastità dell’intero Universo. Nell’analisi del comportamento umano ci si è sempre fermati all’Io oppure alla coppia, che riporta a due particelle tenute insieme da legami (forti o deboli), come accade tra un protone e un elettrone (a carica rispettivamente positiva e negativa)1 oppure a insiemi sociali di dimensioni maggiori come la famiglia o la classe di una scuola. E ci si arresta a questo punto come se a rontare dimensioni più vaste signi casse dover oltrepassare le colonne d’Ercole, un ostacolo mentale prima che materiale.2 È invece un limite che va assolutamente varcato perché ormai esistono gruppi (o società) di dimensioni enormi che attribuiscono anche al Noi una quali ca che sembra perdersi ben oltre la grandezza necessaria a parlare di società europea. Oltre la stessa dizione di “società globale”, che per ora ha una speci cità soprattutto legata ai mercati e alle esigenze delle grandi industrie di distribuire le proprie merci in aree sempre più vaste, fino a raggiungere i limiti del pianeta.3 Oggi sono nate di fatto le supercollettività. Il termine collettivo esprime un insieme di molti individui, ma in un senso diverso da quello che ha portato alla nascita delle singole nazioni o alle classi sociali. È un termine, in qualche modo, neutro che si limita a indicare un insieme numericamente alto di uomini. Collettivo si contrappone a singolo, all’Io, e così come nell’uso di Io non è implicita la nazione, altrettanto vale per collettività, che si limita appunto a un insieme di individui legati in qualche modo. La collettività, a sua volta, si distingue dalla massa, che invece esprime un dato numero di soggetti, ma privi di un legame che li tenga insieme. La massa suggerisce solo un accumulo disordinato. Quando si parla di collettività giovanile, il legame che unisce è dato dall’età, in quella femminile lo speci co diventa il genere. Nella collettività religiosa è l’appartenenza a un credo. Il termine supercollettività è nato dal contesto delle reti rese possibili dall’uso dei computer, e si potrebbe dire che a legarle è proprio il mondo digitale. Due supercollettività sono per esempio Facebook e Twitter, costituite entrambe da

milioni di utenti (Facebook ne conta addirittura un miliardo). Ciò signi ca che un miliardo di individui entra a formare la rete, e peraltro lo stesso concetto di rete esprime l’idea di un insieme che costituisce un tessuto, un’unità, una supercollettività, per l’appunto. La speci cazione super è quanto mai necessaria proprio per la pluralità che la caratterizza. Se pensiamo agli 80 milioni di abitanti della Germania e ai 300 milioni degli Stati Uniti, ci rendiamo conto che i social network possono vantare una “popolazione” ben superiore di almeno cinque volte. Soltanto la Cina potrebbe reggere il confronto, ma le supercollettività digitali sono decisamente più rapide nella loro crescita e possono raddoppiare nel giro di qualche anno. Le supercollettività, dal punto di vista psicologico, rappresentano la morte dell’Io, degli individualismi, dei narcisismi. E nonostante tutte le critiche che ho rivolto alla cultura e alle psicologie fondate sull’Io, pensare alla sua morte mi impressiona. Una rete digitale è un sistema che permette di inviare messaggi, quindi di comunicare in tempo reale, incidendo sul conoscere (informazione) e sull’agire (modi cazione del comportamento) di un miliardo di persone. Un Io può comunicare solo con un altro Io. Ma se ci si connette in una riunione si può procedere a gruppi di dieci-venti persone, se si passa a una conferenza si arriva a trecento, mille. Il sistema televisivo può raggiungere un’audience di milioni e milioni di telespettatori e la tv ha certamente permesso di uniformare stili di vita e di di ondere notizie con una grande velocità. Ma ciò che non è mai stata in grado di aumentare è la comunicazione poiché si fonda sulla passività: si può soltanto vedere e ascoltare. Internet invece richiede e promuove l’interattività. La televisione si limita a inviare messaggi, Internet è dialogico, consente di trasmetterli oltre che riceverli. E la rete, nella sua costituzione di “nodi” e di “ li”, tra un nodo e l’altro, rappresenta anche visivamente la dinamica comunicativa: ognuno (il nodo) riceve e trasmette ad altri. Una rete attiva che si muove, e che ognuno contribuisce a muovere. Si è calcolato che un messaggio messo su Facebook o su Twitter viene oggi ricevuto da un quarto dei componenti la rete, benché gli studiosi siano convinti che si possa e si debba giungere a un indice molto maggiore, no a coinvolgere tutti e portare a zero la “dispersione”. È evidente che, se in questo modo gli Io esposti ricevono tutti quel messaggio e le serie di messaggi che ne susseguono, niranno per perdere la loro individualità promuovendo il dominio della molteplicità, cioè il fenomeno della collettivizzazione. Sul piano delle informazioni tutti avranno le stesse conoscenze, sul piano dei comportamenti tutti riceveranno gli stessi stimoli e dunque tenderanno a dare identiche risposte. Insomma, l’Io è destinato a indebolirsi sempre più, perché tutti i nodi della rete risulteranno sempre più simili. Questa, in fondo, mi sembra la migliore realizzazione del sogno del potere, evitare che ci siano degli oppositori, degli eretici, come dell’educazione, tutti gli allievi devono conoscere i teoremi di Euclide, tutti devono comportarsi in classe allo stesso modo. Un atteggiamento che, una volta appreso, si può portare in modo più di uso all’interno

della società. La morte dell’Io, tuttavia, è segnalata anche dalla perdita di signi cato sia delle emozioni sia dei sentimenti. Dimensioni che la rete nemmeno accoglie: se venissero considerati come messaggi risulterebbero troppo complessi e variabili e darebbero luogo a interpretazioni diverse. Per la rete non sono altro che resistenze, ostacoli, destinati a impoverire le funzioni di una supercollettività. Per capire meglio questo passaggio, è utile so ermarci sull’importanza che nel tempo presente hanno i test nella valutazione degli individui e nella misura delle loro capacità. Si tratta di una vera e propria nuova modalità per definire un uomo. Il test è strutturato sul procedere binario della mente, che è poi esattamente il sistema analogico del computer. Tutto è ridotto a “yes or not”, a “è così oppure non è così”. E non esistono alternative. È un sistema in cui non trovano posto il dubbio, l’ipotesi, che sono espressioni di incertezza e dunque richiedono un tempo di risposta che non è il “tempo reale”. Il sapere binario riporta al cervello deterministico che dà risposte automatiche e univoche. Del resto di fronte a un nemico si attiva la fuga oppure l’aggressione. Se la mia mano va sul fuoco, automaticamente la contrazione muscolare la tira via. In questa risposta non c’è nemmeno la possibilità di scegliere, tant’è che la difesa automatica avverrebbe anche se la mia volontà decidesse di volerla bruciare. I test di misura dell’uomo devono essere svolti in successione rapidissima, perché il tempo a disposizione è limitato. In genere la richiesta è di dare due risposte al minuto, e il più bravo è colui che mette la crocetta in modo esatto e che completa la serie delle domande nel tempo più conciso possibile. Un cosiddetto genio potrebbe dare persino quattro risposte al minuto. Questo tipo di test è indicativo per esempio della capacità decisionale, e in una società del tempo reale, in cui la rapidità può permettere operazioni (penso a quelle finanziarie) di grandissimo vantaggio, è fondamentale. La laurea ottenuta via Internet è basata su prove di apprendimento (gli esami) che si svolgono solo su test. Questo metodo, di origine angloamericana, è stato sviluppato partendo dalla critica al tipo di esame che si svolgeva nelle università europee, che si fondava sul colloquio di un solo studente con il docente, condotto su un tema libero: una situazione che dunque risentiva del singolo e si rapportava a quello studente e a quell’esaminatore. Una critica che sostanzialmente rilevava che proprio le emozioni e i sentimenti interferivano nella valutazione, allontanando il giudizio da parametri comuni per tutti gli studenti. Vi interferivano le simpatie, le estroversioni, le capacità linguistiche, tutti aspetti estranei allo specifico di quel corso di studi. I test invece vanno all’essenziale, e tolgono le maschere, utili a teatro ma non nel comportamento aziendale o comunque sociale e sopraindividuale. E così sono entrati anche nelle prove di ammissione all’università, nelle valutazioni degli esami previsti in un curriculum universitario, e hanno già invaso le valutazioni dei master e le assunzioni aziendali.

Tutto ciò sta a indicare qual è l’uomo che serve alla società: un uomo che decide rapidamente, non ha dubbi e controlla emozioni e sentimenti. Negli anni Ottanta l’eroe della società era identi cato nel manager, e io ricordo che la sua formazione era prevalentemente orientata proprio verso la capacità di non vivere emozioni e sentimenti sul luogo di lavoro. Erano proibiti, proprio perché ostacolavano le decisioni. E il manager, per definizione, è colui che decide. L’a ettività doveva essere relegata al privato, e dunque vi era una scissione tra l’uomo d’azienda depurato dall’affettività e l’uomo di casa immerso nei sentimenti. L’individualità è a ettiva e gli a etti sono con ittuali; la società, o meglio la collettività, ha bisogno di seguire la logica binaria, chiara e precisa: yes or not. Quando si passa alle supercollettività è di gran lunga preferibile che emozioni e sentimenti proprio non esistano più. Questi richiami alla supercollettività non sono teorici, ma riportano all’interno del mondo concreto, segnato da linee di sviluppo (o di regressione) che si notano anche nella vita quotidiana, condizionata ormai da ogni tipo di apparecchio digitale, tanto che non sappiamo più vivere senza computer e senza Internet. Una realtà che mi fa pensare ad Aldous Huxley e al suo Il mondo nuovo, un romanzo pubblicato nel 1932, incentrato sul tema del condizionamento. Huxley racconta di una società in cui tutto è legato alla procreazione arti ciale e potremmo dire, con linguaggio più moderno, ai “bambini in provetta”. Quando avviene l’incontro dello sperma e dell’ovulo, realizzato all’interno di enormi laboratori, le “maternità”, una voce registrata prende a ripetere dei messaggi, diversi per ogni laboratorio, ma con un’identica nalità. Da uno devono uscire infatti uomini destinati a fare i muratori, da un altro coloro che devono lavorare nelle miniere. E in uno la voce ribadisce con convinzione che è bellissimo essere muratori, che non vi è nulla di più straordinario che usare i mattoni. In un altro si a erma l’esaltazione dei minatori, e poi dei camerieri e così via, con l’unico obiettivo di suscitare desideri che coincidano esattamente con i bisogni sociali. Il sistema è guidato dall’Alfa-plus, il piani catore. Analizzando la società, egli rileva quanti muratori sono necessari e quindi piani ca quel numero esatto di provette, messe in gestazione in quella stanza. Ovviamente l’Alfa-plus è il deus di quella terra, capace di decisioni fredde che tengono conto solo dei bisogni sociali. Sa che l’individuo deve essere “condizionato” a credere che la società rende “felici” i suoi soci. E in questo modo elimina emozioni e sentimenti. Potremmo dire che è il manager massimo, in un certo senso perfetto. In verità, egli ha una piccola stranezza, ma non certo nell’esercizio della sua funzione sociale. Abita in un ampio appartamento e, appena rientra – ecco la stranezza – chiude bene la porta e poi, con un fare che esprime urgenza, si porta nella camera da letto davanti a un comò su cui è appoggiata una grande scatola. Trovata la chiave, la apre. Dentro ve n’è un’altra, quindi cerca in un altro cassetto la seconda chiave nascosta e poi, un po’ ansiosamente, la in la nella toppa e apre. Dentro c’è una terza scatola e la progressione suggerisce che il contenuto sia estremamente prezioso e che il modo in cui viene custodito dipenda dal timore che gli venga rubato.

Finalmente apre l’ultima, dove trova un libriccino, a carattere di stampa quasi invisibile. È una edizione mignon delle Opere di William Shakespeare. L’autore simbolo dei sentimenti, dei grandi con itti e delle tragedie: una dimensione dell’uomo che interferisce nel controllo sociale e nell’organizzazione di una collettività efficiente. Nel caso delle supercollettività e dei messaggi che circolano nella rete non basta la suggestione, il condizionamento, ma a uni care la grande varietà degli uomini è l’appartenenza, che progressivamente fa emergere gli interessi comuni su quelli speci camente personali. E dunque è capace di ridurre il singolo alla logica della rete a cui egli stesso appartiene. Qui l’illusione non è la felicità che vuol promuovere l’Alfa-plus, ma è appunto l’appartenenza, che non ha a che fare con il piacere ma dà illusione di sicurezza, vince la paura. Quando si giungerà a un’unica supercollettività, e dunque a una sola rete a cui tutti fanno riferimento, la sicurezza sarà totale perché non vi sarà più un nemico. A questo punto il nuovo Alfa-plus avrà capito che l’insicurezza è legata agli affetti. Non vi è dubbio che la supercollettività pone interrogativi drammatici all’educazione, perché svaluta il singolo, e si riferisce alle collettività. Una dimensione che è sproporzionatamente diversa dal gruppo. Come sono critico verso una scuola fondata sull’Io e auspico la logica del gruppo classe, così immagino una classe che non impedisca una relazione di tipo a ettivo, mentre mi rendo conto che il futuro della supercollettività è privo di sentimenti, perché ha bisogno non di persone a cui insegnare il controllo, ma di garantire che esse non interferiscano con la rete. Serve quindi un uomo deprivato di emozioni e di sentimenti. Gli uomini sentiranno solo il bisogno di essere “in” rete, non di una relazione di coppia o del gruppo sociale, sia pure piccolo e fatto di amici. Non avvertiranno più la solitudine, perché saranno collegati con tutti.4 Insomma si pro la il bisogno di educare seguendo un processo che cancelli dall’uomo questa aporia, emozioni e sentimenti, e che cambi pertanto quel “destino” della specie umana e della condizione esistenziale di ciascuno. In tutti gli studi matematici sulle reti, è prevista la correzione di comportamenti che rallentano la velocità con cui navigano i messaggi, diminuendo le resistenze che hanno l’e etto di aumentare il consumo di energia che fa funzionare la rete. Un consumo unitariamente piccolo, ma nella estensione di miliardi di persone molto alto. E le resistenze come abbiamo detto rallentano la velocità di trasmissione e dunque la funzionalità del sistema. Gli studiosi di rete, che già sanno attivare sistemi da supercollettività sul computer, possedendone ormai le formulazioni che le dimostrano possibili, sono particolarmente interessati alle società degli insetti, che sono formate da alti numeri di individui. Un alveare è troppo piccolo e neanche una collettività di formiche raggiunge i numeri di una supercollettività. L’attenzione, oggi, è rivolta alle termiti e, in modo particolare,

ai termitai. Quando sono stato in Africa, ricordo l’impressione che mi fece osservare nella savana subsahariana della Mauritania e del Mali lo staccarsi dalla bassa e rada vegetazione di queste costruzioni enormi di terra, in cui vive ordinatamente una collettività che è connessa verticalmente piano per piano, via via sempre più in alto, senza che vi siano lotte e conflitti, né allo stesso livello né a livelli differenti. I termitai sono diventati i modelli a cui poter ridurre l’umanità. Un termitaio in rete. E infatti le termiti, sembra garantito, non hanno né emozioni né legami sentimentali anche se hanno un re e una regina, collegati al centro di ciascun piano e circondati da un giardino coltivato in cui nascono i funghi, cibo prelibato. Una coppia reale che può stare insieme anche senza amarsi. È capitato persino a me di affermare che l’amore umano è una malattia. 1

Dall’analisi strutturale dell’Io si è passati all’analisi interpersonale, che si fonda sulla relazione. La prima a suscitare

interesse è stata la relazione di coppia, ed è in questo clima che l’amore è diventato un argomento di particolare rilievo, considerabile come il primo insieme, il nucleo base dell’intera società.

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La coppia è anche alla base della famiglia su cui si sono concentrati gli studi alla fine del Novecento, dando origine al tema

della dinamica familiare. Ma a questo punto la progressione si è bloccata, come se non si sapesse uscire da questi con ni.

Non si è colto che la linearità che porta dalla famiglia alla società tramite le famiglie allargate, nelle società primitive erano

rappresentate dal villaggio. Ci sono stati i clan, i gruppi di tipo industriale, quelli politici, tutte super unità identi cate, ma senza diventare oggetto di analisi e di studio come è accaduto per l’Io, per la coppia e per la famiglia. 3

Occorre aggiungere che nell’ambito delle sociologie non si è andati oltre il concetto di nazione. E basterebbe riferirsi alla

Storia che si centra sulle guerre, conflitti generati dal bisogno di allargare i propri confini e quindi di occupare territori che appartenevano a nazioni vicine e nemiche. Del resto, se si guarda all’Europa come a una fase ulteriore rispetto alla nazione,

si deve ammettere che, nonostante l’idea nasca operativamente negli anni Cinquanta del Novecento con il Trattato di Roma (1957), essa non si è mai costituita sul piano sostanziale. Si è limitata a una dimensione puramente commerciale e, più

recentemente, nanziaria. La moneta unica tuttavia non è stata accettata da alcuni Stati e oggi ci troviamo al centro di una

crisi dell’euro, con il ritorno alle discussioni sulla sua e ettiva utilità per l’economia dei singoli aderenti alla Comunità. Non esiste quindi un’Europa politica come non se ne pro la nemmeno una culturale: basterebbe guardare alla lotta tra chi

sostiene che il Cristianesimo sia all’origine dell’Europa e chi lo nega in maniera perentoria.

Del resto il magni co saggio di Kant sull’Europa, Per la pace perpetua, non ha nemmeno stimolato un progetto fattivo per realizzarla, e da Kant al Trattato di Roma vi sono di mezzo quasi due secoli, trascorsi inutilmente.

Frutto di altrettanti buoni propositi è la costituzione delle Nazioni Unite (26 giugno 1945), nate dopo il secondo con itto mondiale per creare un’assemblea di Stati in grado di sostenere la pace. Oggi però l’Onu è una delle organizzazioni più

costose e più inutili: al suo interno si è imposta una distinzione tra grandi e piccole potenze, tra Paesi con diritto di veto e altri che non lo possono usare, con seggi permanenti e altri temporanei. Non riesce nemmeno a contenere la violenza tra gli

stati nazionali, prova ne è che, attualmente, nel mondo si combattono almeno quaranta guerre alcune delle quali, come

quella ebraico-palestinese, sembrano senza fine. 4

L’Alfa-plus viveva da solo. Così anche il protagonista di 2001: Odissea nello spazio di Stanley Kubrick che è una buona

rappresentazione cinematografica per una cronaca futura e ora forse addirittura vicina.

L’autorità

L’autorità è uno dei temi classici sia nell’ambito del funzionamento sociale sia in quello dell’educazione. Abitualmente si distingue l’autorità dall’autoritarismo, insito invece nel potere. Non esiste infatti potere senza uso della forza, anzi potremmo proprio utilizzare questo elemento per segnare il confine tra autorità e potere. Se vogliamo fare un esempio storico, possiamo contrapporre la figura di Adolf Hitler a quella di Mohandas Gandhi, il Mahatma. Quest’ultimo non ha mai occupato una posizione di governo e ha sempre sostenuto la tesi della non violenza come fondamento del vivere sociale. Per certi aspetti richiama l’insegnamento di Cristo, verso il quale Gandhi ha sempre espresso ammirazione e rispetto. L’autorità è una condizione di grande signi cato sociale e educativo, poiché diviene un esempio da imitare e da seguire. Se è facile fondare l’autoritarismo sulla forza, più di cile è indicare le caratteristiche su cui poggia l’autorità. Si è coniato il termine autorevolezza per identi care il “quid” che attribuisce a una persona autorità, ma il rischio è di entrare in un gioco di parole. E non vi è dubbio che le parole abbiano un fascino. Un altro termine frequentemente associato ad autorità è carisma, che contiene un signi cato sacrale, e se si considera che il sacro rimane legato al mistero e non è riducibile a razionalità, si comincia a intravedere che l’autorità non permette di essere ridotta totalmente a qualcosa di preciso, bensì si pone oltre la comprensione. È indubbio comunque che i primi esempi di autorità nell’antropologia sono dati dai sacerdoti che, etimologicamente, sono coloro che “fanno il sacro”. Se poi si considera che hanno un legame con Dio (religione deriva da religio, cioè da “legare insieme”), si coglie la tendenza a spostare sugli dèi l’autorità o comunque a riceverla dal Cielo. Una sorta di investitura divina. Nel Cristianesimo il sacerdote è chiamato da Dio, e in questo sta la vocazione. Segue poi la con-sacrazione, un rito che lo trasforma in uomo del sacro, un’iniziazione che gli conferisce autorità. Cristo manda gli Apostoli e attribuisce loro autorità sui demoni che quindi essi possono scacciare. Nell’ambito scolastico e quindi degli educatori, l’autorità non è riducibile alla conoscenza, alla preparazione, anche se ne è parte, ma occorre qualcos’altro. Vi è la tendenza ad aggiungere sempre qualche nuova caratteristica nel tentativo di spiegare l’autorità, ma non si arriva mai alla certezza di esserci riusciti. Una delle associazioni che mi viene spontanea è quella tra autorità e saggezza. Un termine,

quest’ultimo, ormai però praticamente fuori moda. La saggezza riguarda sempre l’insieme del singolo con l’ambiente sico e umano in cui vive. Si lega all’esperienza, e un tempo era considerata una dote della vecchiaia. Di certo è preparata dalla meditazione, dal silenzio e persino dal nascondimento. Porta alla modestia, e infatti il saggio nega sempre, in maniera decisa, di essere un’autorità. L’autorità attira, conquista, si avverte la disposizione ad avvicinarsi, a seguirla, a credervi. Una delle componenti che caratterizza la relazione con una persona che esprime autorità è infatti la ducia. E ducia ha la stessa radice di fede, che riporta al “credo perché credo”, quindi alla fede come una condizione che è inspiegabile. Si potrebbe dire con Tertulliano “Credo quia absurdum”. Sono a ascinato dal labirinto in cui nisco per trovarmi ogni volta in cui tocco questo campo del sapere e dell’esperienza, perché mi rendo conto che alcune delle espressioni umane, e dunque anche sociali, più signi cative, più essenziali all’esistenza sfuggono a ogni spiegazione, proprio come se scappassero. E mi succede spesso parlando di educazione, segno che anch’essa è lontana da ogni riduzionismo. Mi preoccupo ogni qualvolta avvicino qualcuno che a erma di averla capita, di sapere esattamente cos’è, e come vada impartita. Io sono invece convinto che c’è qualcosa di enigmatico nell’uomo, nella sua crescita, nel suo vivere sociale. L’enigma va solo ammesso, non risolto. L’uomo senza mistero è un robot, togliergli il mistero equivale a impoverirlo e deumanizzarlo. Il razionalismo e lo scientismo, che hanno fatto guerra al mistero, hanno nito per disumanizzare l’essere umano, senza riuscire a spiegarlo. Perché la società e l’educazione – ma anche la famiglia, la Chiesa, l’azienda – hanno bisogno di autorità, e quindi di mistero. È un peccato constatare la voglia di dimenticare l’autorità, per sostituirla con il potere, che invece ne rappresenta la patologia. Proprio perché non si riesce a de nirla e a spiegarla, l’autorità non si può insegnare. È meglio cercarla e così forse si nisce anche per rappresentarla. L’errore più grave sta forse nel volerla legare alle persone di successo, ma in questo modo si mostra di fare ancora confusione tra autorità e potere. Sempre più spesso rilevo l’autorità tra i “nessuno”, tra coloro che esistono ma è come se non ci fossero. E infatti fuggo ormai dalle persone visibili, dai “qualcuno”, da coloro che sono circondati dai cantori del loro merito e mi voglio confondere con i nessuno. Sono privi di aggettivi, sembrano calpestare la terra senza voler fare rumore e senza desiderare di lasciare traccia, perché sono convinti di non valere abbastanza. Temono sempre di sbagliare poiché non riescono a de nire il giusto e a separare ciò che è vero dal falso. Sono gli uomini del dubbio, pensano che avrebbero potuto fare meglio e non ci sono riusciti. Hanno presente soprattutto i propri limiti e non riescono a esaltarsi per nulla. Rinunciano al potere, anzi, lo fuggono come se fosse la peggiore delle tentazioni, perché hanno capito che è come la droga, non si smette mai di assumerla e si aumenta sempre la dose pur sapendo che è tossica.

I nessuno pensano all’uomo, non per imporsi nel sapere, ma per nascondersi nell’ignoranza che cresce progressivamente, poiché nel sapere aumenta il dubbio di non sapere e ci si avvicina necessariamente a ignorare tutto. E allora si sta fermi, chiusi nel proprio ruolo e dentro una storia minima fatta di sopravvivenza e di bontà. Entrambe non aiutano a imporsi, ma soltanto a morire, a morire bene. I nessuno non si trovano nei palazzi, ma nelle vie nascoste della città, nelle periferie che diventano sempre più i luoghi della dignità e non solo della povertà. Talora sono vestiti da barboni, seduti in una via centrale a guardare i passanti senza saperli giudicare, ma nemmeno giusti care nel loro correre e nella recita di una comédie humaine che è ancor più triste quando gli attori vestono gli abiti della gloria e del potere. Un barbone non si aspetta l’elemosina, non ha bisogno di nulla, semplicemente perché ignora quale sia il destino dell’uomo e il suo senso. Diogene dentro la sua botte, nudo e con una lanterna in mano, non chiedeva denaro, semplicemente cercava l’uomo e non riusciva a trovarne nemmeno un esempio. Chi è l’uomo e quale senso ha nel mondo: ecco la questione che toglie signi cato al potente e lo ridicolizza di fronte al nessuno. Ecco il dubbio che rende saggi e dona l’autorità. Non so perché, ma sento il bisogno di richiamare in queste pagine il silenzio. So che qualcuno potrà dire che non c’entra per niente. E invece io voglio proprio farlo questo elogio del silenzio. Anche riferito all’educazione. Siamo precipitati in un ambiente in cui il principale inquinante è il rumore, e quando se ne cerca la fonte, al primo posto, c’è sempre la parola. Il rumore delle radio che parlano, di centinaia di canali televisivi che parlano, di 7 miliardi di persone che parlano, in particolare quei 60 milioni che fanno parte del nostro Paese: l’Italia bombardata di parole. Si può parlare piano, a voce contenuta, e invece tutti gli italiani urlano. Dal neonato al primo vagito fino all’ultracentenario che non vuole stare solo. Le televisioni trapassano i con ni di casa nostra per invadere l’intero condominio, e così tutti alzano la voce, magari per protestare contro chi parla in tono troppo alto. L’urlo di Edvard Munch è il simbolo di questa nostra società. Un urlo che fa tremare persino le pareti di casa. Loquor, ergo sum. Urlo e quindi esisto due volte. Le parole entrano ormai dappertutto non solo nei canali auricolari, ma si in lano dentro i pori della cute. Esiste uno stress da parola, e sono convinto che le parole uccidono; non mi riferisco però alle “maledizioni” e nemmeno alle bestemmie che non credo colpiscano Dio, mentre di sicuro provocano ferite sulla cute dell’uomo. Ho una grande voglia di silenzio, di luoghi in cui non possa arrivare nessun altro uomo all’infuori di me. Basta che se ne aggiunga uno per essere bombardati da una

radio portatile e poi da un cellulare che chiama cento persone per comunicar loro che si è giunti in un luogo isolato dove c’è un uomo solo. E così si urla, descrivendo il luogo del silenzio. Non sono entusiasta della grande scoperta del motore a scoppio e sono convinto che l’uomo avrebbe potuto produrre, con maggior ingegno, un motore a silenzio. Personalmente non mi sarei lamentato, nemmeno se questa versione non fosse riuscita a muoversi. Tutto ciò che si muove fa rumore. La società della parola. Ogni termine ha mille signi cati e quindi si può parlare per non dire nulla, soltanto per far rumore. L’uomo va a rumore: senza, si sgon erebbe, come uno di quei palloncini da luna park privi d’aria. Sembra un paradosso, ma si parla per non dire niente. O addirittura si parla per nascondere ciò che non si è detto. Non si esprime nulla anche perché non si ha nulla da dire, eppure tutti parlano con l’impressione di avere cose fondamentali da riferire. Nel silenzio non si ritrova il vuoto, ma si scopre un’importante dimensione umana, che è appunto l’ine abile, l’indicibile. Nel silenzio si colloca anche il mistero e allora vien da dire che solo nel silenzio si comprende l’uomo e il mondo, e che la parola è rumore che confonde. Nella scuola introdurrei l’ora del silenzio. E magari potrebbe essere persino utile prevedere il professore di silenzio. Nella società cancellerei il giorno del riposo perché in realtà viene consumato tra fatiche enormi: si continua per ventiquattro ore a parlare, a fare rumore e ad ascoltarlo. Invece di celebrare il giorno della liberazione, il 25 aprile, che poi non merita tanto encomio, lo sostituirei con il giorno del silenzio, così nessuno userebbe paroloni e metafore per convincerci della grandezza dell’Italia in guerra. Sarebbe straordinario entrare in un’aula dopo la campanella, sedersi e fare silenzio, guardare gli allievi ed essere quindi guardati da loro, che poi si guardano a vicenda, in silenzio. Il mio sogno è avere una moglie che tace. Una sposa silenziosa che ti guarda attonita e, semmai, prega: perché il silenzio è un tempo di preghiera mentale. È stato stabilito persino dai teologi che Dio non risponde alla preghiera rogatoria, quella in cui si chiede. Non ne può più di dare numeri del lotto. È superata anche la preghiera acclamatoria in cui si grida “viva Dio” e che conduce alle giaculatorie. L’unica preghiera teologicamente valida è la preghiera mentale, che non usa le parole e si esprime in un silenzio di tomba. Ed è solo nel silenzio che si incontrano i morti. E i morti non parlano. Ormai sono gli unici ad amare il silenzio, perché conoscono l’inutilità della parola. Sogno di fare una conferenza sul silenzio, non parlando del silenzio, ma facendo silenzio.

Immagino la bellezza, l’interesse dei talk show, se si potessero trasformare in silence show: la gente ne sarebbe a ascinata e imparerebbe molto di più che dai botta e risposta, dalla sovrapposizione di voci, da un parlare di gruppo che si trasforma in un rumore continuo di fondo. Per fortuna, e forse per grazia di Dio, ogni persona usa mediamente nel suo parlare settanta-ottanta parole e ignora che il vocabolario della lingua italiana ne contiene parecchie migliaia. Se ne avessero consapevolezza dovrebbero usare cinque parole alla volta e il rumore diventerebbe infernale. Credo che l’inferno di parole sia la terra, e che il girone satanico sia situato in Italia, un Paese che esiste in quanto si parla. E parlando, non si fa nulla. L’esempio più eclatante lo danno i politici. Il politico è colui che parla senza sapere cosa dice. Il prototipo sommo è colui che parla e fa parlare; così ha la possibilità di dire di non essere stato capito, e quindi ha bisogno di correggere l’interlocutore e per questo di parlare. Bisogna insegnare il silenzio, bisogna imporlo. Dopo la proibizione del fumo nei locali pubblici, è ora di proibire di parlare. Riscoprire la bellezza del cinema muto dei fratelli Lumière, insegnare la meditazione e promuovere nel weekend ritiri, a basso prezzo, nei monasteri. I monaci non parlano, ti guardano negli occhi e, anche se li o endi, ringraziano il Signore restando muti. Si devono organizzare i viaggi proibendo di parlare: durante il percorso non bisogna dire nemmeno una parola. E siccome non se ne può più dei controllori burocratici, trasformarli in controllori del silenzio. Ritengo assolutamente sbagliato il principio che si attribuisce a Benedetto Croce, per cui il pensiero è parola e di conseguenza senza la parola non ci sarebbe pensiero. Una delle conseguenze educative di questo principio è credere che chi possiede un linguaggio povero produca pensieri banali. È su questa convinzione che il nostro ordinamento scolastico ha attribuito grandissima importanza all’italiano, analizzato sotto diversi parametri: l’analisi grammaticale, quella sintattica, la costruzione del periodo e via via no a giungere alla retorica, considerata la disciplina per parlare efficacemente. E questo principio si è trasferito persino nella psicologia. Nei test di intelligenza (il Q.I. di Wechsler) la dotazione logico-verbale incide profondamente nel raggiungimento di alti punteggi. Io credo che questo principio crociano, accolto dalla riforma della scuola di Giovanni Gentile come sua parte centrale, non abbia fondamento; e pertanto credo che il pensiero sia una funzione autonoma della mente, anzi, dovendo essere ingabbiata entro le parole, nisce per perdere incisività. Il pensiero non è condizionato nella sua formulazione dalle parole, talora si realizza mentalmente in un attimo, un’intuizione che poi, per essere comunicata, ha bisogno di un tempo, di una traduzione entro la struttura di una determinata lingua. Avendo vissuto per un lungo periodo in Inghilterra e poi negli Stati Uniti e avendo usato correntemente due lingue, l’italiano e l’inglese, mi sono accorto che il pensiero ha

una formulazione puramente mentale e che, tentando di riferirlo in una lingua o nell’altra, rivela dei grossi limiti. In qualche caso l’inglese me ne imponeva persino di più dell’italiano. Insomma, il pensiero è una facoltà della mente in sé autonoma. La sua comunicazione è una derivazione non necessaria. Credo che tutti abbiano sperimentato di avere un pensiero chiarissimo ma “indicibile” e che la traduzione in parole ha miseramente impoverito. E se dal pensiero si passa alla comunicazione del mondo a ettivo, questa dicotomia diventa ancor più evidente. Molti musicisti, che sanno esprimersi meravigliosamente in una composizione musicale, quando cercano di trasferire in parole ciò che l’ha ispirata, niscono per farne una traduzione banalizzata. La tetralogia wagneriana, per esempio, nella versione musicale è di una ricchezza straordinaria, nel libretto è semplicemente inespressiva e piuttosto noiosa.

Il tempo

“Il tempo che passa” è la dimensione della vita e della coscienza di vivere. Guida lo svolgimento dell’esperienza in questo mondo e la divide in fasi, in età. La sua rappresentazione gra ca più comune è quella di una curva che prima sale e poi scende: dal nulla all’essere, e dall’esserci al nulla. Non è possibile cogliere il signi cato dell’uomo senza pensare e meditare sul tempo; anzi, l’avventura umana si potrebbe descrivere proprio come un procedere fatale dentro il tempo, anche se ciò che conta è il tempo vissuto che, come abbiamo ricordato, ha un procedere piuttosto irregolare: accelera o rallenta a seconda dei sentimenti, ma anche delle età. Per molti l’uomo è la sola specie che vive il tempo, e che persino lo immagina nell’attesa. Non credo che esista un tempo per venire educati e un tempo per educare, perché in una società che cambia in maniera forsennata c’è sempre qualcosa da imparare e si ha sempre qualcosa da insegnare. Se questo è vero, la distinzione tra educatore e educando è quanto meno debole. Ciò non rende necessariamente più di cile il compito dell’educatore, ma, anzi, garantisce una simmetria, anche se si di erenzia per ciò che in quel momento è importante apprendere per uno e non per l’altro. Poiché credo che si debba insegnare a imparare, il metodo migliore sarebbe quello di mostrare come il docente stesso impara. Gli allievi sono sempre molto critici nei confronti dei loro maestri e talora severi, se non addirittura cattivi. Se provassero anch’essi a insegnare o se fosse loro richiesto di farlo in rapporto a certi temi o a certi vissuti, capirebbero quanto è difficile e sarebbero più comprensivi. Agli inizi degli anni Ottanta l’introduzione del computer ha mostrato l’enorme velocità di apprendimento del suo uso da parte dei giovani. Come se fossero più predisposti o, visto che stiamo tracciando un confronto tra allievi e maestri, non fossero inibiti dalla mancanza di un bagaglio di conoscenze che invece, nel caso dei professori, niva per rendere più di cile la logica del computer rispetto alla logica della ragione. In questo caso era davvero impossibile chiamare docenti gli adulti e allievi i giovani. Si rende pertanto necessaria una certa malleabilità, per non attribuire all’anagrafe un’importanza eccessiva. In queste pagine abbiamo fatto molte volte riferimento al tempo, parlando delle memorie e quindi del passato, oppure del futuro, senza il quale alcune potenzialità della nostra mente nemmeno si attivano, a cominciare dal desiderio. Ora tengo molto ad accennare alla ne del tempo e all’importanza che riveste come regolatrice del comportamento sociale, e perfino del processo educativo.

Bisogna avere il coraggio di insegnare la morte, non è possibile ignorarla e comportarsi come se non ci fosse. Senza la consapevolezza della ne, si giunge alla follia di ritenersi eterni, con il rischio di essere animati da progetti e da una percezione di sé che potrebbero non avere limiti e farci sentire onnipotenti. Una simile condizione riporta a una vera patologia, la maniacalità: il maniaco avverte di avere un Io grandioso, capace di azioni che possono provocare solo danni a sé e agli altri, in realtà, molto più spesso, non vengono nemmeno messe in atto. Sempre dentro la follia si con gura una situazione esistenziale esattamente opposta, quella della depressione. Il depresso pensa di essere sul punto di morire e talvolta decide di suicidarsi, perché si ritiene totalmente incapace di vivere, assillato com’è dal senso di colpa e dalla convinzione di nuocere alle persone a cui è legato e a cui vuole bene. Queste due condizioni si possono leggere anche sulla base del tempo vissuto che nel depresso è avvertito come un peso che si trascina, come se un attimo fosse rallentato fino a farsi lungo quanto un secolo; nel maniacale corre invece alla velocità della luce. Abbiamo voluto richiamare questi due estremi per ribadire che è importante capire il tempo e la maniera in cui transita dentro di noi, e ci conduce dalla nascita alla morte. Ed ecco di nuovo la morte: come è sbagliato negarla, è però altrettanto errato sentirsela addosso, come fossimo in agonia. Quel che serve è una meditazione sulla morte, visto che è difficile conoscerla, accettarla, e sembra sempre sfuggire. Per questo mi pare che il termine meditare la morte sia più adeguato, perché porta a sentirla anche se non si riesce a de nirla. La meditazione, comunque, dà la prova che essa c’è, che ci riguarda. Paradossalmente non è un oggetto di conoscenza, nemmeno nel signi cato scienti co, perché, nel momento in cui la incontriamo, perdiamo coscienza. Dunque moriamo senza sapere che cos’è. Credo che la morte sia l’espressione più e cace per signi care il mistero e al contempo il limite della comprensione. Ci possiamo interrogare, porre dei quesiti in maniera semplice, ma solo per dimostrare che non siamo in grado di rispondere. Ecco il senso della morte e del mistero, della capacità limitata della nostra stessa struttura, del nostro essere nel mondo. Accettare o ignorare la morte modi ca radicalmente il nostro atteggiamento, i nostri sentimenti e persino le nostre azioni. Dall’ossessione della morte all’oblio, vivere come se la morte non ci fosse, come se si fosse eterni. L’onnipotenza del potere è un’espressione di questo atteggiamento, e così l’accumulo di beni e di denaro, mentre si è circondati da persone che lottano per il necessario. Una prova che abbiamo dimenticato che presto non ci saremo più. Quando sembra sicuro che, se il Cielo esiste, per entrare non servono le ricchezze. E a dirlo in una stupenda parabola è Gesù di Nazareth che per molti è il Dio incarnato. Se il tempo presente dimostra disinteresse verso la morte, è invece sempre più di usa la preoccupazione per le malattie. Finendo per confondere morte e malattia. Un atteggiamento che mostra l’eccessivo attaccamento alla vita e il desiderio di prolungarla, se possibile, fino all’eterno. Ci si preoccupa delle malattie perché si vuol credere che tutte sono curabili e che la

cura esiste sempre. È possibile coniugare la malattia con la guarigione, con la prevenzione, con la speranza, mentre la morte è collegata con l’ineluttabile, con il destino, con la sfortuna, con il capriccio degli dèi: è fuori del dominio dell’uomo. L’atteggiamento che ci mette di fronte alla difesa dalle malattie è condivisibile, ma dimenticare la morte o fingere che sia un male curabile è assurdo. Quanto più un uomo è potente, tanto più può a rontare le malattie ed essere curato, la morte invece deride il potere e si beffa del denaro. Ho avuto modo, in altre occasioni, di fare a questo proposito due considerazioni che servono a distinguere nettamente le malattie dalla morte. La prima si lega a un racconto storico o meglio mitologico. Esiodo, descrivendo l’età dell’oro dell’umanità, la de nisce un’epoca felice: l’uomo in quel tempo non so riva, non conosceva dolore né frustrazioni e aveva la certezza che nulla avrebbe potuto intaccare questa situazione straordinaria. La sua condizione era sovrapponibile alla vita degli dèi, da cui si distingueva solo per la sua mortalità, l’unico segno di con ne tra Cielo e terra. Esiodo pone quindi la morte entro la felicità, lontano dalle malattie che nell’età dell’oro erano completamente sconosciute. Si moriva scivolando beatamente nel sonno e senza svegliarsi, dunque senza la consapevolezza del vicino trapasso. La seconda considerazione si rifà invece a una mia esperienza vissuta in Africa. Mi trovavo a nord della Mauritania, in pieno deserto, ospite di un ambulatorio che si occupava di malattie infettive, gestito da due suore che erano nate e per molti anni vissute a Vicenza, nella mia stessa regione. Un mattino mi recai con loro in un piccolo villaggio. Mi venne subito segnalata una donna ammalata; le suore avevano spiegato che io ero un medico e che dunque potevo meglio di loro valutare che cosa si potesse fare. Il capo villaggio mi accolse e io entrai in quella capanna. Mi resi subito conto che la donna era in preda a una febbre molto alta e respirava con a anno: aveva una polmonite bilaterale che avrebbe richiesto ossigeno, ma non c’erano gli strumenti per sostenere le funzioni vitali, in grande difficoltà. Dissi alle due suore che la donna stava per morire e che non c’era nulla da fare, trovandoci in quel luogo, privo di qualsiasi struttura. Loro tradussero quella mia valutazione al capo villaggio e ai familiari che aspettavano fuori dalla capanna. I parenti entrarono per chiedermi conferma e nell’istante in cui io annuii avvenne un cambiamento così repentino che mi impressionò: in uno spazio di tempo brevissimo, sentii battere i tamburi, mi chiesero di allontanarmi dalla signora e diedero avvio al rito che, in quella cultura, si celebrava in attesa della morte. Le due suore mi spiegarono che dopo la conferma della mia diagnosi, il capo villaggio aveva detto che non serviva il medico (lo sciamano) e che quella condizione non riguardava più solo la donna, ma tutta la comunità. Io potevo andarmene, come le suore del resto, perché nessuno di noi faceva parte di quella comunità e poteva quindi partecipare al rito collettivo della morte. Mentre ci portavano in un altro villaggio, mi venne in mente che un tempo, nelle campagne venete, di fronte a un evento simile, ci si domandava se si dovesse chiamare

il medico o il prete. La distinzione era chiarissima. Mi resi così conto che la medicina aveva persino espropriato la morte. Un’altra considerazione che feci un poco più tardi riguardava la spettacolarizzazione della morte. Infatti, mentre la morte come spettacolo impera nell’Occidente, quella vera, esistenziale è ormai dimenticata. Quando viene portata sulle scene di un teatro non ha più nulla di terrifico né di misterioso. In questa metamorfosi, non fa più paura. Perde il proprio mistero e prende i tratti di un’attrice di teatro o del cinema. Senza la memoria della ne del tempo l’umanità però è destinata a perdere anche il senso del “tempo che passa”.

Il caso

Questo penultimo capitolo voglio dedicarlo al caso. Anche su questo tema esiste una letteratura molto ricca e, per citare un esempio particolarmente noto, ricordo Il caso e la necessità di Jacques Monod.1 Sono legato anche a un’opera che io stesso ho pubblicato nel 1984 con il titolo La norma e la scelta.2 Riferendomi sempre al tema dell’educazione, intesa nel suo legame con il contesto sociale, il caso si presenta come un disturbo, un imprevisto, come se qualche cosa si frapponesse a un corso preciso o programmato. Del resto il caso caratterizza anche gli eventi sociali, e non solo quelli che dipendono dall’uomo, ma persino quelli legati alla natura, che può sconvolgere una società con una catastrofe come un’alluvione oppure un terremoto. Il caso sembra un personaggio che ama entrare in scena all’improvviso per scombinare la sequenza di una storia e la regia che prevedeva un dettagliato copione. Perciò sarebbe saggio tenere conto dell’imprevisto. Quanti poeti ce lo hanno raccomandato nei loro versi, a cominciare dal già citato “chi vuol esser lieto sia, del doman non v’è certezza”. Oppure pensiamo all’immagine dell’uomo attaccato a un “ lo di ragno”. Quel che pare certo è che la morte colpisce a caso. E anche la mia vita, se ci ripenso, è stata guidata più dal caso che dai miei progetti razionali. In un incontro casuale ho trovato una donna che avrebbe vissuto e vive ancora con me da molti anni. Per caso, ho incontrato un professore del Cornell Medical College che mi ha invitato a lavorare da lui, quando avevo appena preso in a tto un appartamento a Milano, perché pensavo di stare per sempre in quella città. Potrei continuare con gli esempi che dimostrano come il caso sia stato determinante per la mia esistenza, e sia persino arrivato a ridicolizzare i miei progetti. Del resto da sempre si parla di destino, riferendosi con questa parola a qualche cosa di predeterminato, ma dal punto di vista dell’uomo si presenta come un caso o come una serie di casi diversi. Il caso ha portato sovente a pensare agli dèi, i quali non sembrano proprio rispettare i progetti di ciascun uomo. E anche quando si è passati alle religioni monoteistiche, non se ne è cancellato il capriccio, che certo non ha una scadenza precisa nel suo manifestarsi. Il mondo adolescenziale di oggi sembra credere più al caso che agli impegni progettuali. E il successo si lega al caso: puoi incontrare per strada chi ti offre un lavoro,

chi una parte da attore perché è stato colpito da un particolare del tuo corpo. Il caso pone su due binari diversi il procedere della esistenza, tanto da poter separare chi viaggia senza meta da chi invece ha un itinerario con fermate e incontri organizzati. Anche su questo secondo binario nessuno può però escludere l’intervento del caso, perché può capitare che alla prossima stazione non ci sia il tale che avrebbe dovuto esserci. Un uomo puntuale ma che quel giorno, per caso, si è dimenticato di avere quell’appuntamento. Nel corso della mia esistenza, mi è successo di sperimentare in un tempo relativamente ristretto una concentrazione di eventi inattesi che mi pareva non potessero, data la loro sequenza e frequenza, essere casuali. Mi sembrava di aver perduto la capacità di progettare la mia vita, che qualcun altro, il caso, mi avesse sostituito e che proprio a lui dovessi imputare gli intoppi che impedivano la realizzazione di quello che volevo. Per contro, mi costringevano a fare proprio quello che non avevo previsto. Ecco che questa parola può diventare un personaggio che guida gli eventi nemmeno immaginati e, se assume queste vesti, è facile attribuirgli un’identità: Dio, il demonio, la provvidenza, ma anche la provvida sventura; e si nisce per perdersi, perché attribuendo all’ignoto ciò che ci capita, l’accaduto può avere qualsiasi senso. Talvolta il caso viene scritto in maiuscolo, generalmente quando lo si ritiene responsabile di effetti straordinari, fuori dal limite di un singolo. L’origine del mondo per molti è legata a un Creatore che addirittura, secondo il Genesi, ha dato vita a ciascuna delle creature, che prima non c’erano. E così si attribuisce a Dio la decisione e la programmazione della creazione che lo ha tenuto impegnato per ben sei giorni; e il lavoro non deve essere stato lieve se il settimo ha deciso di riposarsi perché non ne poteva più. Ma c’è chi non crede nel Creatore, o per lo meno non a un dio che il quinto giorno abbia deciso di creare i pidocchi e i virus, e allora sulla base dell’astro sica ammette che l’inizio dell’Universo si leghi al Big Bang. La condizione pre-Universo era stabile, ma casualmente le correnti di energia che andavano dall’in nito all’in nito hanno subìto una qualche irregolarità e così alcuni fasci si sono impigliati in una rete che, riducendone la velocità, ha generato la massa. E così sono nate le particelle elementari della materia.3 Le particelle elementari si attraggono, costituiscono il quark, dai quark all’atomo, e sempre per caso dagli atomi alla materia, che si organizza via via no a esprimersi con il “m’illumino d’immenso” dell’uomo che arriva a creare persino Dio, anch’esso frutto casuale del Big Bang. Mi pare quanto meno strano escludere Dio e ammettere il Caso, da cui certo è uscito un Universo così complesso da includere anche l’uomo. Viene da inginocchiarsi davanti al Caso e recitare un Padre Nostro. E forse sarà questione di gusti, ma preferisco con questa alternativa credere, inginocchiarmi davanti a Dio, anche se non l’ho mai visto né incontrato. Se guardiamo a questa teoria, il caso assume una dimensione così importante, in una

sequenza così finalizzata, che si potrebbe chiamare Dio proprio il Caso. Un altro aspetto curioso proviene dalla statistica, una scienza che ha grandissimo rilievo oggi, perché è riuscita a trasformare l’incerto in certo. Se non si trattasse di una scienza, si potrebbe dire che è un miracolo. Rappresenta il tentativo di ingabbiare il caso, di razionalizzarlo, di renderlo prevedibile. Può capitare che un aereo scoppi in volo, provocando la morte dei passeggeri e dell’equipaggio. È accaduto per caso: i controlli prima di partire avevano mostrato la piena e cienza del velivolo, il comandante era uno dei migliori a disposizione della compagnia aerea. Solo un caso, evidentemente sfortunato, poteva provocare quell’evento. Ma ecco la statistica: un aereo scoppia con la certezza di un volo su un milione, e dunque il caso diventa un evento sicuro e addirittura sembra avere un ritmo proprio, seguire delle leggi su basi matematiche. Verrebbe da dire che non ha più niente a che fare con il caso. Nel suo senso originario, invece, si contrapponeva al determinismo, a successioni di eventi che seguivano direzioni già stabilite, in qualche modo “stampate” dentro l’uomo. Alcuni hanno voluto ricorrere alla statistica persino per ipotizzare un determinismo sociale, per esempio una cadenza regolare e deterministica delle guerre. Il caso come variabile indipendente all’interno di un mondo che sembra guidato da regole sse. E quando si parla di leggi di natura si intende proprio che gli eventi accadono per una “necessità”, e compito della scienza è svelarne le dinamiche. Sotto un altro aspetto, quando si a ronta il tema della libertà, si ritorna al caso, perché la libertà è una deviazione, persino un’opposizione a ciò che deve accadere perché la meccanica prevede che accada. La libertà si coniuga in qualche misura con il caso. Anche la libertà è possibile solo se esistono regole, come il caso appunto, che si pone dentro le leggi della natura. Anzi, appartiene alle regole che possono modificarsi per interventi non previsti. Viene subito da pensare alle equazioni di indeterminazione di Heisenberg cui abbiamo già accennato, oppure alle dinamiche delle particelle di materia nei uidi e nei gas, che hanno portato a ipotizzare la presenza del famoso “diavoletto”, senza il quale, e senza un certo grado di libertà, erano inspiegabili. L’argomento del caso diventa un detector per analizzare le dinamiche sociali e comprendere la società, che forse ha un grado di complessità ancora maggiore della sica e dell’astronomia, dal momento che la struttura degli organi umani, e del cervello in particolare, sembra essere meno deterministica rispetto all’atomo e alle sue particelle, e segue leggi che hanno bisogno di un “quid”di indeterminato che nella dimensione umana viene chiamato libertà. E viene voglia di riferirsi al caso anche per le leggi dell’economia e della nanza.

Un’analisi che diminuirà la nostra meraviglia o il nostro disappunto davanti alla crisi economica mondiale – che sta portando a un totale sovvertimento degli stili di vita – innescata dal fallimento di una banca il 15 settembre del 2008, la Lehman Brothers, un istituto che aveva il compito di custodire il denaro dei suoi clienti, garantendone la sicurezza e, in qualche misura, gli interessi. Quel crollo richiama il fenomeno dei frattali per cui il battito d’ali di una farfalla al di qua dell’oceano può produrre progressivamente dall’altra parte, sull’altra riva, un uragano che distrugge un’intera città. Mi accorgo che il procedere di questi pensieri, che talora si svolgono per pure associazioni, mi sta portando dal caso al caos, ma è bene che concluda perché non vorrei che il caso fosse generato dal caos e che il caso abbia generato persino Dio. E un Dio per caso è veramente un’affermazione che consiglia di smettere di pensare. 1 2

Jacques Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano 1971.

Vittorino Andreoli, La norma e la scelta, Mondadori, Milano 1984 e Biblioteca della Mente, “Corriere della Sera”, Milano

2011. 3

E tutto comincia con il bosone di Higgs, a cui ho già accennato.

Verso l’umanesimo della fragilità

I temi che abbiamo toccato hanno un dato in comune: l’incertezza che circonda l’esistenza umana e il mondo in cui va in scena. Da una parte c’è l’uomo con i suoi limiti speci ci, quelli della carne, dell’impossibilità di rispondere ai quesiti che lo angustiano; dall’altra il mondo, nella duplice veste della natura e delle relazioni umane. Una natura talora inclemente e persino nemica quando i venti si trasformano in uragani, quando la crosta terrestre sobbalza e sembra voler ridurre tutto quanto si è costruito in macerie. Mi pare insomma di percepire un insieme uomo-mondo dentro la fragilità. Nel mio L’uomo di vetro1 ho spiegato la di erenza tra fragilità e debolezza. La debolezza è una condizione in cui la forza è diminuita no all’impotenza. E, per contrapposizione, è proprio la potenza che la misura. Il vecchio ne è un classico esempio: i suoi muscoli non sono più tonici, il suo passo rallenta ed egli procede piano piano, talora le sue mani tremano e non riescono nemmeno a guidare una matita per scrivere un biglietto d’auguri. Insomma, tutto ciò che prima funzionava in un certo modo, adesso sembra in via di esaurimento. Il vecchio è indubbiamente debole. La fragilità invece non si lega all’età, ma alle condizioni esistenziali dell’uomo, ai limiti di tutta la sua storia; e la morte è certamente il più drammatico. Un altro limite che percepiamo nel quotidiano deriva dalla nostra mente, e sembra un paradosso perché si lega alla funzione più elevata, forse esclusiva della nostra specie. L’attività cerebrale ci permette cose straordinarie, ma nello stesso tempo ci indica che oltre una certa soglia non è possibile andare. E lo dico senza voler togliere signi cato alle scienze che ci conducono verso mete prima considerate impossibili. Mi riferisco ai limiti che ciascuno di noi vive nella propria esperienza. Cercando di capire perché quel gliolo si comporti in modo inaccettabile, perché un bambino so ra, analizzando come si sarebbe potuta evitare una condizione particolarmente critica. È dalla mente che mi arrivano i segnali dei miei limiti, e talora li percepisco proprio nell’istante in cui raggiungo un risultato. Così come un atleta che riesce a battere un record e, nello stesso attimo, sa che non potrà superarlo più, perché va oltre le capacità del suo corpo. La medesima cosa accade alla mente: ha la certezza di possedere un’intelligenza che fa cose meravigliose, ma sa anche che non permette di compierne altre. Non si tratta di allenamento, ma proprio di un limite intrinseco, di cui però c’è consapevolezza. La coscienza della propria grandezza è allo stesso tempo coscienza dei propri limiti.

E allora ecco che vicino alle risposte che abbiamo dato, alle scoperte che abbiamo realizzato, subito si stagliano le invenzioni e le scoperte che si vorrebbero fare e che forse non si realizzeranno mai. Per i limiti umani. E tutto ciò diventa ancora più evidente per i sentimenti: tra un legame d’amore da una parte e l’odio dall’altra, tra un attimo di piacere e la ne di una storia al cui interno quell’attimo di piacere si era prodotto. L’impressione è di non gestire i sentimenti, ma di esserne sopra atti. E così al sorriso, a una carezza, seguono un ghigno e la voglia di ammazzare. I limiti del pensiero e i limiti dell’affettività. E che la mente sia condizionata da questa contraddizione traspare non soltanto dall’esperienza del quotidiano, ma anche dalle situazioni patologiche. Ed è bene che ciò risulti chiaramente, soprattutto quando il tema dell’educazione viene posto in primo piano nello sviluppo di una società. Negli ultimi anni si è dato molto rilievo alla sindrome di Asperger, semplicemente perché ha avuto una grande di usione. I soggetti portatori di questa malattia sono dotati di un livello mentale molto elevato, dal punto di vista della razionalità e dell’apprendimento, tanto che vengono de niti particolarmente intelligenti, ma allo stesso tempo hanno di coltà, e talora l’impossibilità, di stabilire relazioni a ettive come se non riconoscessero questa caratteristica dell’uomo. Una dissincronia di grandi proporzioni, una discrepanza che d’abitudine si evidenzia nell’adolescenza, ma che nella malattia di Asperger permane per tutta la vita. Invece che uomini, sembrano degli ippopotami del sentimento e calpestano quelli degli altri, non riuscendo a capire nemmeno i propri. È questo un richiamo, en passant, per ricordare le due grandi funzioni della mente umana, ciascuna delle due dotata di grandezza e miseria. Guardando alla storia della mente, o almeno ai capitoli che l’hanno vista protagonista, mi pare che sia possibile delineare tre epoche. La prima è quella del lungo periodo che la Storia ha de nito Medioevo. Un’età su cui occorrerebbe fare molte distinzioni e che va a rontata con grande prudenza. Non pare tuttavia azzardato sostenere che l’uomo medievale ha avvertito la propria incapacità strutturale, il non poter essere unico protagonista della propria esistenza e della società in cui era inserito. L’inutilità di programmare e del cercare di capire favorì la nascita della concezione teocratica: se l’uomo ha un senso, lo riceve da Dio, se realizza il male è semplicemente perché Dio l’ha abbandonato rendendolo preda del demone. La seconda epoca è quella rinascimentale che è stata preceduta dall’Umanesimo. Ed è quest’ultimo termine che voglio mettere al centro delle mie considerazioni finali. Siamo nel Quattrocento e si ha l’impressione che la mente dell’uomo abbia una straordinaria possibilità. Non solo capisce, ma può fare, creare. L’uomo si rende conto che il riferimento ossessivo a Dio non gli permette di manifestare la propria grandezza.

Nasce per opposizione l’idea che l’uomo è faber fortunae suae e che dunque deve interrompere la dipendenza divina e liberare i potenziali delle proprie capacità. Dalla fede in Dio si passa alla fede nell’uomo, e sia il termine umanesimo sia rinascimento esprimono l’ipotesi di una vita nuova. Anche questa concezione permane a lungo poiché la scienza, che si fa nascere nel Seicento, diventa uno strumento che sottolinea continuamente la grandezza della mente e dell’uomo. E se in questo secolo si assiste al di ondersi dell’interesse per la sica, la matematica, l’astronomia e anche per la biologia, nell’Ottocento si a ermano le scienze del comportamento, tra le quali la psicologia e la sociologia di Auguste Comte. La terza epoca è quella che inizia nel Novecento e che possiamo chiamare dell’incertezza, del dubbio o della ne dei principi e che, come conseguenza, comporta il lento sgretolarsi del grande edificio che l’uomo ha sino a quel momento costruito. Se il Rinascimento aveva visto cadere la fede in Dio e aveva conquistato quella nell’uomo, con il Novecento la fede nell’uomo cade, ma non ritorna su Dio. È quindi l’epoca del grande smarrimento, della crisi della scienza, del nichilismo in filosofia, della nascita dell’inconscio, e perciò di concezioni oscure che condizionano i comportamenti. E nessuno più pensa di poter sostenere la teoria della libertà dell’uomo. Un’epoca che, a mio avviso, deve essere distinta in due periodi: il primo si caratterizza per la presa di coscienza della debolezza umana, e dunque crea un’atmosfera di crisi sia dell’uomo singolarmente valutato, sia della società. Il secondo è quello che io amo chiamare della fragilità. Ho appena spiegato ciò che distingue la debolezza dalla fragilità, ebbene, se è stato compreso il valore della fragilità, si coglierà anche il senso positivo che attribuisco a questo termine. Io riesco a immaginare persino un nuovo umanesimo: l’umanesimo della fragilità. Parlare di questi temi non deve meravigliare in un contesto incentrato sull’educazione, che non può essere ridotta a una tecnica, a una professione, ma è qualcosa che esprime la visione dell’uomo dentro il mondo. Anzi, è tempo di parlare di umanesimo, proprio per rifondare sulla sua base i paradigmi che devono farsi guida anche dell’educazione. E, dentro l’umanesimo della fragilità, è soltanto possibile un’educazione della fragilità. Permettetemi due considerazioni. La prima si lega a un esempio che ho riportato in altre occasioni ed è collegato al vaso di Murano. Realizzato com’è noto dai so atori del vetro di questa meravigliosa isola veneziana, colpisce per la forma e per i colori. E etti possibili soltanto perché questi artigiani riescono a modellare un vetro molto sottile con un’abilità straordinaria, attraverso l’aria che vi so ano dentro, mentre la pasta di vetro è ancora plastica, duttile, e perché, grazie ai pigmenti che da veri maestri inseriscono nelle sottili pareti, le colorano no a farle sembrare dipinte. Il vaso di Murano si può rompere facilmente e ha proprio un punto, de nito di minore resistenza, che se viene colpito riduce quella sua straordinaria bellezza in frammenti. Non si può dire che sia debole, mentre gli si adatta perfettamente la definizione di fragile.

Si tratta di una caratteristica legata alla sua struttura, all’essere vaso di Murano. E conseguenza delle caratteristiche che lo rendono così bello. Non è un difetto, ma parte della sua condizione. Questa è la concezione e il senso della fragilità, e anche se tra un vaso e un uomo c’è una grande di erenza, trasferire questa analisi all’uomo mi pare non solo possibile, ma anche illuminante. La seconda considerazione mi riporta invece alla mia adolescenza. Dominava allora l’idea che il processo educativo, e mi riferisco in particolare a quello che si metteva in atto nelle famiglie, dovesse correggere i difetti, se possibile toglierli, oppure nasconderli. Ho assistito a una grande varietà di interventi correttivi. La parola correzione ha dominato per decenni, e anche se riferita al periodo di crescita, e quindi a un giovane, aveva lo stesso signi cato della correzione di un compito di matematica o di italiano, in cui si evidenziavano gli errori che poi si dovevano correggere. E la famosa matita rossa e blu serviva anche per sottolinearne la gravità. Poiché ero piuttosto “chiuso” (il termine più frequente allora era timido), mia madre mi insegnava come nascondere questo difetto e quindi mi spingeva a prendere delle iniziative, mi portava a giocare a pallone, cosa che non avrei mai fatto. Mi avrebbe voluto nella posizione di ala destra o di terzino ma io occupavo quella di portiere, che invece prediligevo perché mi sembrava la meno visibile: dovevo stare tra i pali e non correre come un forsennato nel ruolo di attaccante. Le tecniche che mia madre usò per rendermi un po’ più estroverso erano di una straordinaria ricercatezza, e si ponevano accanto a quelle per nascondere la timidezza. Mi spingeva ad alzare la mano durante le lezioni per rivolgere una domanda al professore. Io avevo capito che l’essenziale era chiedere, indipendentemente dalla richiesta e dal mio reale interesse. Così era frequente vedere i miei compagni con le braccia alzate, mentre io arrivavo a stento a sollevare la mano, per poi subito abbassarla. Questo mi permetteva di dire a mia madre che avevo obbedito, anche se l’insegnante aveva dato la parola ad altri. Oltre a correggere atteggiamenti mentali dovevo sottostare alle correzioni imposte dal mio corpo: ero troppo magro, tenevo il dorso curvo e a ginnastica ero un disastro. I miei capelli erano domati con una forcina. Tutto perché io non ero sufficientemente attento a dare un po’ di ordine alla mia testa. Ricordo anche un’estate in cui ero stato inviato in montagna con un gruppo di coetanei che frequentavano la mia stessa parrocchia dei Santi Nazario e Celso. Era la prima volta, e mia madre aveva dedicato ore ad ammaestrarmi per non fare brutta figura e, immagino, per non farla fare a lei. Una raccomandazione che mi parve fondamentale era l’obbligo di cambiarmi la biancheria: ogni tre giorni dovevo sostituire la canottiera. Quando, dopo due settimane, i genitori vennero a trovare i gli, mia madre scoprì che indossavo quattro canottiere,

una sopra l’altra. E la cosa grave è che mi pareva di avere corrisposto all’imperativo del “metti una maglia nuova e pulita”. A parte gli aneddoti che potrebbero continuare all’in nito, ho voluto sottolineare come dominasse, non solo in mia madre ma in genere nell’educazione di tutti i bambini e gli adolescenti, l’intento di correggere o nascondere i difetti, anche quelli disperati, come sembravano essere i miei. Il metodo più efficace era l’indurre vergogna. Quante volte nell’educazione di quegli anni, si è sentita l’espressione “non ti vergogni?” per indurre a seguire i modelli imposti, per non s gurare. Per esempio si doveva controllare come stare seduti a tavola, la posizione del corpo da tenere sui banchi di scuola. L’imperativo del nascondere mirava a combattere la debolezza, presupponendo che solo i forti avrebbero avuto maggiori occasioni e probabilità di affermarsi. Ebbene, io credo che allora non fosse chiara la distinzione tra debolezza e fragilità, che molte di quelle debolezze fossero invece fragilità, e sono convinto che le fragilità non vadano mai nascoste perché indicano, e in maniera molto espressiva, la condizione in cui si trovano un bambino e un adolescente: una condizione di estrema fragilità umana. Penso che l’umanesimo della fragilità debba porre particolare attenzione proprio alle di coltà del singolo e della società, per un’interpretazione che non sia più in rapporto al binomio forza/debolezza. Questo vecchio criterio spinge a rendere forte il debole, a mostrare muscoli più grossi, a parlare di vittoria e mai di scon tta, riducendo così l’uomo a un automa misurato solo sui risultati. Ed è così che nasce una gerarchizzazione su cui gran parte dell’umanità è buttata via o è come non fosse mai esistita. Bisogna aver consapevolezza che l’umanesimo presuppone la comprensione dell’uomo, che signi ca conoscere i limiti in cui egli è immerso ogni giorno. In caso contrario lo forzeremo, volendolo sempre più forte, essendo disposti persino a modi carlo arti ciosamente come fanno gli atleti in una gara che vogliono vincere, anche se non hanno le caratteristiche fisiche per realizzare questo obiettivo. E il concetto di fragilità si lega, per estensione, alla famiglia, alla comunità e alla società intera. Anche in questo caso il giudizio è sempre lo stesso: la distinzione tra una società forte oppure debole. E l’unico riferimento è dato dal denaro. È forte se il prodotto interno lordo (Pil) del Paese è alto, è forte se gli investitori vi insediano le loro attività, è forte se la Borsa sale e lo spread scende. La crisi di cui si parla tanto è una crisi del denaro, delle banche, che sono le cattedrali della pecunia. È una crisi della nanza, e si sa bene che si può fare reddito senza produrre nulla, poiché si tratta di speculazioni in un ambito che è al di fuori dell’economia reale. Il linguaggio è davvero monotono: l’euro è debole e bisogna rinforzarlo, i consumi sono deboli, i mercati sono deboli e bisogna aumentare i consumi. Ma per acquistare

occorrono i denari, che sono diminuiti. Non ci si accorge nemmeno che, guardando la società e la sua crisi solo riferendosi al denaro, si entra in un circolo vizioso, in una condizione da ubriachi. La crisi che ha colpito il mercato dell’auto è strutturale e invece si pensa di risolverla incitando a cambiare continuamente automobile. Ma come si possono acquistare auto se non si hanno nemmeno i soldi per i beni di prima necessità? Come rilanciare i consumi se il prelievo scale è tale da non permettere nemmeno di assicurare l’alimentazione delle famiglie? Ecco la stupidità di una visione del mondo ridotta a denaro, simbolo di forza e di potere. L’umanesimo della fragilità dovrebbe per lo meno prendere in considerazione l’ipotesi che a entrare in crisi non sia stato proprio il denaro, ridotto ormai a misura stessa dell’uomo e della sua felicità. Mi sembrerebbe opportuno tentare di vedere se questa crisi non possa favorire la riscoperta del senso che l’uomo ha entro il mondo in cui si trova a vivere. Chiedersi insomma se la crisi non sia ben più estesa della sola dimensione economica, se non si tratti piuttosto di una crisi di civiltà in cui il denaro e le banche non possono avere il ruolo esclusivo di contenere e de nire una società, no a sommergere tutto il resto. Sono molto colpito dal disprezzo con cui si parla della Grecia e dal grado in mo della sua credibilità. La Germania vi fa riferimento come a una nazione-immondizia quando io invece penso alla sua storia, ai suoi monumenti, che ancora ricordano tutto il suo splendore. Mi addolora pensare che siano in vendita persino alcune delle sue isole, una volta centro della civiltà. Mi meraviglia profondamente che la nazione che ha dato origine al nazismo e ai campi di concentramento, Paese ora economicamente forte, aspiri a cancellare la Grecia, senza la quale non potremmo nemmeno capire la democrazia, i grandi loso come Platone, che sono alla base del pensiero occidentale. Ecco dove può portare una visione che riduce il mondo a una sola dimensione. Così, anche la crisi di casa nostra non può essere misurata solo sul Pil e sui mercati internazionali, non si può mettere sullo stesso piano Torino e Detroit, una città ricca di storia e con un’urbanistica che parla di cultura, e una fatta di capannoni per automobili e di persone che non hanno mai respirato il profumo e lo splendore delle opere che racchiudono i nostri musei. L’Italia è un Paese di bellezze, senza il Rinascimento, che vuol dire senza Leonardo, Michelangelo, Bernini, Tiziano, Caravaggio, non sarebbe possibile fare la storia dell’arte. La nostra crisi sarà certamente dovuta a personaggi che hanno gestito la cosa pubblica a proprio unico vantaggio, per fare denaro, appunto. Ma accanto agli uomini del ridicolo di questo tempo, con una mente che non riesce ad andare al di là dei profitti, ci sono, come ci sono sempre stati, uomini di valore inestimabile. Insomma, questa crisi non potrebbe indicare che l’uomo non è semplicemente

un’espressione del denaro, una macchina consuma oggetti, malata di bulimia? Che il mondo degli a etti, estraneo alle logiche della nanza, è stato sacri cato in nome del denaro? Non può forse essere che questa crisi contenga l’indignazione verso una società che vuole comprare anche l’amore e la bellezza degli oggetti e anche quella che appartiene all’uomo e alla donna? Siamo sicuri che l’Italia sia più debole della Germania? Che la Grecia vada solo cancellata perché nella classi ca del debito viene dopo qualche Paese africano? Non è forse tempo di dire basta alla violenza del denaro, che si è fatto potere assoluto? Potrei continuare, ma sono certo che i miei interrogativi alla ne giungono tutti alla fragilità, e quindi a un’unica domanda: non abbiamo forse dimenticato di essere fragili, che la nostra condizione umana è fatta anche delle fragilità che abbiamo voluto nascondere inseguendo forza e successo? È tempo di un umanesimo della fragilità, non dell’appiattimento dell’uomo a denaro e stupidità: binomio oggi vincente. Bisogna riproporre il senso del limite e la saggezza, e leggere l’uomo come un insieme di conoscenza e di mistero. Fondare una civiltà che risponda all’uomo fragile, cioè a un uomo che ha bisogno dell’altro, che ha necessità della fragilità dell’altro. È solo attraverso questi legami che si sente il coraggio di vivere, la voglia di scoprire il mondo, non di coprirlo di denaro. Una civiltà con un uomo che non ama i potenti, perché i potenti non hanno bisogno dell’altro, se non per soggiogarlo e dominarlo. A me pare che i Paesi “bocciati” dall’intellighenzia del denaro siano i primi nella classifica della cultura e del rispetto dell’uomo, dell’uomo fragile. Mi piace Don Chisciotte, non Nerone o Caligola. E mai come in questo periodo sono orgoglioso di essere italiano e felice di non essere cittadino della “grande” Germania. Sono ero di appartenere alla civiltà inaugurata da Platone e di non desiderare la residenza a Montecarlo o nel Liechtenstein, dove vanno a vivere i ricchi d’Europa. Non riesco a piangere sapendo che i più ricchi del nostro Paese, quei cinque o sei al top, hanno dimezzato il loro patrimonio personale per la crisi della Borsa. Non dovrei dirlo, ma non me ne importa niente. So ro invece quando constato che gli uomini di governo della crisi sono impegnati in programmi per correggere la nostra debolezza, invece che per dare un assetto alla nostra società, per accogliere la caratteristica fondamentale della condizione umana: la fragilità. Vorrei che il denaro contasse poco e che, come ho avuto modo già di scrivere, fosse tenuto in tasca, dentro il portafoglio, senza riempire mai la testa. La testa guidata dal denaro ha generato questa crisi, non solo economica ma dell’uomo, che è molto più di una moneta, fosse anche d’oro. Il tema dell’educazione, nel momento di una crisi della civiltà, non può diventare un problema degli insegnanti o della scuola. Sarebbe una deformazione e ancora una volta signi cherebbe rompere l’insieme di una società, vorrebbe dire fermarsi al tempo che io ho definito dell’educazione impossibile. È impensabile una scuola che funzioni in una società frantumata, un’educazione

esemplare in una società corrotta da una bulimia di denaro. Pensare che la scuola, ridotta a luogo in cui depositare durante il giorno l’ingombro dei gli, bambini o adolescenti, riesca a educare in una società dello spreco che ha definito gli insegnanti come “nuovi poveri”, è follia. Mi auguro che questa crisi possa farsi ancora più profonda e ci costringa a discutere non solo di economia, ma del significato dell’uomo e del mondo. Mi auguro che si delinei un umanesimo della fragilità; che da qui, e solo da qui, rinasca una politica, rinascano i bisogni esistenziali dell’uomo e della convivenza tra uomini. Sono sicuro che solo a questo punto si potrà parlare di educazione nell’ambito della famiglia, della scuola e persino delle strade, perché la cultura della fragilità si dovrà respirare ovunque. 1

Vittorino Andreoli, L’uomo di vetro, Rizzoli, Milano 2008.

Indice

Premessa L’educazione mancata L’educazione imperativa: quando educare significa sottomettere L’abbandono educativo: quando educare significa lasciar fare tutto L’incostanza e la contraddittorietà educativa: quando educare significa fare così e il contrario di così Il tempo presente: un’educazione confusa e folle Il contesto educativo del tempo presente Futuro e educazione Bellezza e educazione Sesso e educazione Internet e educazione (clicco ergo sum) Per un’educazione possibile, domani Le scienze del comportamento oggi: individuo e ambiente La biologia della mente umana Relazione e educazione L’esperienza Dal successo dell’Io all’affermazione del Noi Dal Noi alle supercollettività L’autorità Il tempo Il caso Verso l’umanesimo della fragilità