New York è una finestra senza tende

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Paolo Cognetti New York è una finestra senza tende DI PROSSIMA PUBBLICAZIONE

Romolo Bugaro Bea vita! Crudo Nordest

Paolo Cognetti

New York è una finestra senza tende

Editori Laterza

© 2010, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2010 www.laterza.it

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council Le cartine sono state realizzate da Francesco Marconetti

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel febbraio 2010 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9218-6

Questo libro è per Marco

Indice

Prologo. Ritorno a Gotham

3

1. Chiamatemi Ismaele (Brooklyn Heights + Dumbo)

11

2. Kaddish per un sogno (Lower East Side)

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3. Dove vanno le anatre di Central Park d’inverno? (Midtown Manhattan)

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4. In cerca di un jukebox all’idrogeno (Greenwich Village + East Village)

65

5. Il lato sbagliato del ponte (Park Slope)

87

6. Musica nella città di Dio (Williamsburg)

107

7. Brooklyn senza madre (Red Hook + Carroll Gardens)

121

8. Molto forte, incredibilmente vicino (Coney Island)

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Bibliografia

147

New York è una finestra senza tende

Prologo

Ritorno a Gotham

Cercavo qualcosa di speciale, perfetto per la mia città, quand’ecco, dall’acqua emerse il suo nome primordiale! Walt Whitman

Non posso dimenticare il mio arrivo in città. L’estate dei venticinque anni, uno zaino pieno di libri come sedile, e la corriera che emerge dal buio del Lincoln Tunnel. Anch’io cercavo qualcosa laggiù – le strade degli scrittori che amavo, la loro ispirazione segreta – ma non ero pronto all’accoglienza che mi aspettava. Sbarcando dal New Jersey, Manhattan apre il sipario all’improvviso: poco prima stavo contemplando un paesaggio di fabbriche e svincoli autostradali, e subito dopo ero tra i grattacieli. L’edificio davanti a me, nella fuga prospettica della 34a Strada, assomigliava del tutto all’Empire State Building. Non ho fatto in tempo ad abituarmi alla luce che l’autista ha accostato, ha annunciato il capolinea e mi ha scaricato a terra. Di colpo ho smesso di osservare la città nel finestrino – e di studiarla, immaginarla,

desiderarla, perfino averne un po’ paura – e ho cominciato a farne parte. Ho sentito molti racconti come questo negli anni. Colson Whitehead, uno dei miei spiriti guida alla città, ha scritto: «Cominci a costruire la tua New York privata appena posi gli occhi su di lei». Rispetto ad altre cronache di viaggio, chi c’è stato parte sempre da lì. Dal primo fotogramma. La prima guglia sparata in cielo, il primo marciapiede gremito, il colore della pelle del primo incontro. Il primo odore inatteso, che per qualcuno è di oceano, o di carne arrostita, o di zucchero a velo, o di ruggine e foglie marce, anche se quello che sta marcendo è legno, cemento, ferro, mattoni, perché l’intera città sembra attaccata dalla ruggine e dalla muffa. Sono inaspettati anche i colori. Non il bagliore freddo del vetro e dell’acciaio, ma le tonalità pastello del rosso, dell’arancio, del marrone. La sorpresa di sbarcare nel Nuovo Mondo e scoprire una città vecchia: non come sono vecchie quelle europee, che sono vecchie come monumenti, ma vecchia come una fabbrica abbandonata, o una casa di famiglia, o gli edifici ferroviari che si vedono appena fuori dalle stazioni, o i luna park in disuso. Ancora Whitehead: «Magari eri su un taxi partito dall’aeroporto, quando hai visto sorgere l’orizzonte urbano. Tutti i tuoi beni terreni nel bagagliaio, e nella mano un pezzo di carta con l’indirizzo. Da qualche parte in quel caos glorioso e fantastico c’era il posto indicato sul foglietto, la tua prima casa qui». La mia non era una casa ma un letto dentro un ostello di Greenpoint, il quartiere polacco di Brooklyn. La prima per4

sona con cui ho parlato era un venditore di spiedini, un portoricano che mi ha indicato la metropolitana dicendo «Bienvenido in America». Le prime cose che mi sono ritrovato a contemplare: le scale antincendio sulle facciate dei palazzi e le cisterne d’acqua sui tetti. «Ferma quel momento: è il tuo primo mattone». Subito dopo ha cominciato a farsi strada un’altra sensazione. Fermarsi al semaforo e approfittarne per guardare in su, o attraversare l’incrocio e voltarsi verso un punto lontano chilometri nel saliscendi del viale, o lasciarsi trasportare dalla corrente umana lungo i marciapiedi, sembravano cose già fatte molto tempo prima. Cose che stavano in quella zona della memoria dove vanno a finire i ricordi dell’infanzia, o in un posto molto vicino. Mi sentivo come uno che ritorna, ritrova, riconosce: eppure io a New York non c’ero mai stato. Quelle cose, era la prima volta che le facevo. Ma se non erano ricordi miei, allora di chi erano? Ho continuato a farmi questa domanda per giorni. Camminando per strada, o sul balcone da cui davo la buonanotte al fiume. Non ero più a Greenpoint a quel punto. Avevo passato qualche notte memorabile, il mio scorcio privato di anni Sessanta, in un appartamento del Village, proprio sopra il locale in cui Bob Dylan esordì da ragazzo. Ero tornato con i piedi per terra trasferendomi con quattro amici a Roosevelt Island, l’isola dei manicomi e degli ospedali, che tra di noi chiamavamo l’isolaccia: e lì, ogni sera, fumavo l’ultima sigaretta davanti a uno spettacolo messo in scena soltanto per me, la vita quotidiana dentro i dodici piani di finestre illuminate 5

del palazzo di fronte. Sull’isola, come dappertutto in città, nessuno sembrava istruito all’uso delle tende. Era luglio, la gente girava per casa fino a tardi, e mi ricordo un bambino con un telescopio e tre ragazze che ballavano in pigiama. Un uomo si era addormentato davanti alla televisione, e nella finestra accanto alla sua una donna prendeva qualcosa dal frigo. Erano finestre della stessa stanza, o stanze della stessa casa, o il muro che c’era tra loro non aveva porte? Forse quei due erano marito e moglie. O forse avrebbero passato tutta la vita uno accanto all’altra senza nemmeno saperlo. Avevo la sensazione che le storie che amavo, quelle che mi avevano portato fin lì, si stessero svolgendo davanti a me in quel momento, anzi che la città intera fosse fatta di materiale narrativo: che il suo corpo luccicasse sulla cupola del Chrysler Building o nelle insegne al neon di Times Square, ma il suo spirito vivesse dentro le finestre, nelle tavole calde e sui vagoni dei treni, tra gli emigranti scaricati alla stazione e accanto all’uomo sulla chiatta di immondizia che ogni notte risaliva l’East River. E così, dal mio balcone, ho cominciato a pensare alla città in un modo nuovo. Ho pensato di poter prendere tutte le storie mai raccontate – tutte le trame inventate da un essere umano, tutti i personaggi e i luoghi – e di metterle insieme per formare un mondo, e ho pensato che se quel mondo avesse avuto una capitale, ecco, io c’ero finito in mezzo. Per uno come me era come essere tornato a casa. I luoghi che stavo riconoscendo mi erano appartenuti davvero: solo non qui, ma nell’altrove in cui veniamo catapultati quando abbandoniamo la realtà aprendo un libro. Mi trovavo nella capitale dell’immaginazione. 6

Questa è una piccola guida a quella città. Non ero sicuro del nome con cui chiamarla, perché ne ha avuti tanti nel tempo e nessuno sembrava adatto al posto che avevo in mente io. «La città delle meraviglie». «La città che non dorme mai». «La città impero». I suoi primi abitanti la chiamavano Mannahatta, «L’isola delle colline». I coloni olandesi Nieuw Amsterdam, i conquistatori inglesi New York. Credo che gli americani abbiano sempre rimpianto di non averla battezzata un’altra volta dopo la rivoluzione, e così hanno cominciato a inventarsi soprannomi. Il più celebre è «La grande mela». Viene dal gergo degli schiavi africani e allude alla fortuna, alla ricchezza e forse pure al peccato, tutti frutti proibiti che chi emigrava dalle campagne sperava di riuscire a cogliere qui. Ma il nome che preferisco fu coniato da Washington Irving, il primo grande scrittore americano, verso l’inizio dell’Ottocento. Lavorando ai suoi articoli di costume locale, Irving venne a conoscenza di una cittadina inglese nota per l’eccentricità degli abitanti: Gotham. Pare che in Inghilterra la parola fosse entrata nei proverbi: quello è un po’ strambo, un po’ svitato, che cosa vuoi farci, viene da Gotham. Irving pensò di avere scoperto un antenato della sua città, già allora piuttosto lunatica. Il nome fu ripreso da diversi scrittori nell’Ottocento – lo stesso Edgar Allan Poe curava una rubrica intitolata Cronache da Gotham – e reso immortale da Bob Kane nel 1939, quando creò il personaggio di Batman e la città di Gotham City, infestata da pazzi criminali. Come la patria di Batman, anche il posto che ho cercato di raccontare è una città molto simile a New York, ma che non è davvero New York. Come New York è costruita sul 7

granito, ma anche sul materiale impalpabile dell’immaginazione. È fatta di isole, ponti, palazzi, e di infinite pagine di carta. È popolata da otto milioni di abitanti e da quelli che nessuno si è mai messo a contare, i personaggi che vivono dentro i racconti, i romanzi, le poesie. Questa città è un luogo fisico e un luogo della mente, e per ricordarmelo, a volte, invece di usare il nome di New York ho usato l’altro. La città degli scrittori e delle storie. Gotham. Questo libro è frutto di diversi viaggi effettuati in un periodo di cinque anni. Scriverlo mi ha fatto bene. Ha dato un senso più profondo al mio rapporto con la città, ai miei vagabondaggi, alla nostalgia di lei che provo quando sono a casa. All’inizio ho avuto la fortuna di avere come guide nove scrittori in carne e ossa: Donald Antrim, Nathan Englander, Adam Haslett, A.M. Homes, Shelley Jackson, Jonathan Lethem, Rick Moody, Gary Shteyngart, Colson Whitehead. Dovevo realizzare una serie di documentari, e ognuno di loro mi ha portato in luoghi che da solo non avrei mai scoperto. Poi sono venuti altri incontri, e molte esplorazioni solitarie. Il risultato è una mappa ottenuta per accumulazione di appunti – piena di buchi, libri che non ho letto, posti che non ho visitato – ma mi sono arreso a pensare che, se scrivere una guida alla città più raccontata al mondo aveva un senso, l’unico senso possibile era che fosse incompleta, particolare e mia. Del resto, la gerarchia dei luoghi di New York è una questione molto personale. Ascoltando il racconto del mio primo viaggio, a qualche amico sembrava impossibile che non avessi trovato il tempo per visitare il Moma, o il Me8

tropolitan Museum. Non sono mai stato nemmeno sulla Statua della Libertà. Ognuno ha la sua lista di cartoline da portare a casa: i grattacieli di Midtown e le vetrine della Quinta Avenue, i laghetti di Central Park, la musica del Greenwich Village, le gallerie d’arte e i locali notturni di Chelsea e di Soho. Io ho trovato quello che cercavo in una piccola zona di New York – le due sponde di Manhattan e di Brooklyn affacciate sull’East River – e questo è il pezzo di città che ho cercato di raccontare. Allo stesso modo, ho rinunciato subito all’idea di scrivere una storia della letteratura di Gotham. Non sono uno studioso ma un lettore, e ho i miei sentimenti. Gli scrittori newyorkesi che amo sono quelli capaci di catturare il lamento dei marciapiedi, le chiacchiere delle minuscole cucine, le risate sguaiate e i pianti sommessi che scivolano fuori dagli empori, il borbottio dei macchinisti della metropolitana, dei mendicanti che chiedono moneta, degli scacchisti di Washington Square che ti sfidano a giocare a cinque dollari a partita, o la voce di quel poeta barbone che una volta ha fermato me e i miei amici ad Harlem: recitava la sua poesia facendo bolle di sapone, e alla fine ha allungato una mano e ha detto: «Avete un dollaro ragazzi? Sapete, è dura essere Mister Bubble». Ecco. Ci sono pezzi di New York che mi commuovono, non trovo una parola migliore. Mi è capitato spesso di trattenere le lacrime davanti ai vecchi moli del porto di Red Hook, alle strade lastricate di Dumbo, alle catapecchie del Lower East Side e ai giganteschi palazzi a gradoni di Midtown. Tra 9

tutte le storie commoventi di Gotham, una delle mie preferite è questa: il pennone dell’Empire State Building non è stato progettato per essere un elemento decorativo, ma un attracco per dirigibili. Nella testa di chi l’ha immaginato, verso la fine degli anni Venti, il dirigibile sarebbe stato ormeggiato lassù come una nave da crociera in porto, e i passeggeri sarebbero scesi in città per una cena elegante e un giro di bevute, e poi magari una festa da ballo, l’opera lirica al Metropolitan, una notte al Plaza. La mattina seguente, dopo colazione, avrebbero preso l’ascensore fino al centoduesimo piano e sarebbero ripartiti per Boston o Philadelphia o Chicago. Non è una fantasia meravigliosa? E non è incredibile che un architetto l’abbia immaginata, e un milionario l’abbia finanziata, e una squadra di muratori l’abbia resa reale? In questa fede nell’immaginazione c’è l’anima di New York. La città dei cacciatori di fortuna, dei poeti visionari e dei sogni infranti. Un attracco per dirigibili. Le vite spese a cercare di scrivere il Grande Romanzo Americano. Forse è superfluo dire che il pennone dell’Empire non ha mai svolto la sua funzione: tra vento e fulmini si rivelò ben presto il posto peggiore al mondo dove ormeggiare un dirigibile, e così fu convertito ad antenna televisiva. Dopo il crollo delle Torri Gemelle è tornato a essere il punto più alto di New York, la mano con cui la città dei sognatori cerca di acchiappare il cielo.

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Chiamatemi Ismaele (Brooklyn Heights + Dumbo)

Così sogno di notte un imbarco, capitani, capitani, passerelle di ferro, luci di bordo; Brooklyn al di là dell’acqua, la grande nave cupa, visitatori, addii, il vasto mare indistinto – perdere o vincere una vita in un viaggio. Allen Ginsberg

I grattacieli sono l’ultima cosa che ho in mente, scendendo da Court Street e svoltando a ovest verso la Promenade. Poco lontano il municipio, il palazzo di giustizia, la loro architettura monumentale, ricordano l’epoca in cui Brooklyn era una città indipendente. Ancora prima, nell’estate del 1776, gli inglesi sbarcati a Long Island attaccarono qui l’esercito delle colonie ribelli, e su queste colline le truppe guidate dal generale Washington organizzarono la loro difesa. Lo scontro più imponente della rivoluzione passò alla storia come «La battaglia di Brooklyn». Il quartiere oggi si chiama Brooklyn Heights. Strade in sa13

lita e palazzi nobili, anche se nel miscuglio di stili che mi circonda è difficile riconoscere gli originali dalle copie. Neoclassico, gotico, rinascimentale. O come dicono qui: revival greco, inglese, italiano. È passata da poco la notte di Halloween e alle finestre compaiono ancora streghe a cavallo di scope, fantasmi avvolti nelle loro lenzuola. Le zucche annerite e spente ammuffiscono sui davanzali. Non faccio nessuna fatica a immaginare il quartiere un paio di secoli fa, all’epoca di Hawthorne e di Poe, scenografia perfetta per uno dei loro racconti dell’inquietudine. Nemmeno qui, tra le case dei ricchi, le finestre hanno tende, e così, nel buio gelido di una sera di novembre, percorro queste strade spiando i saloni tappezzati di luce gialla, i mobili di legno massiccio, le pareti coperte di libri e di quadri. Sembrano tutte case di collezionisti e antiquari. Le stanze illuminate e deserte, come interni di gioiellerie dopo l’orario di chiusura, e solo ogni tanto un uomo in poltrona con un libro in mano, o un ragazzino seduto per terra davanti alla televisione, dentro soggiorni molto più grandi di loro, illustrazioni iperrealiste di vita borghese. Riesco quasi a immaginare l’odore di legno e di fuoco di queste case, di cera per mobili, di carta ingiallita. Sono stanze ampie, alte, insolite per New York. In queste palazzine hanno abitato, negli ultimi cinquant’anni, scrittori come Arthur Miller, Norman Mailer, Truman Capote, un uomo del Sud che nel suo studio di Willow Street scrisse: «Amo New York, anche se non è mia nel modo in cui qualcosa deve esserlo, un albero o una strada o una casa, qualcosa che mi appartiene perché io le appartengo». Newyorkesi di nascita o d’adozione che hanno 14

scelto di vivere da questa parte del fiume, un modo per stare in città e starne fuori: è un senso di esilio, mi ha detto una volta Rick Moody, che ha molto a che fare con la distanza necessaria alla scrittura. Si può raccontare bene soltanto qualcosa di lontano nel tempo o nello spazio; bisogna ripensare alle cose, tornare indietro sui sentieri battuti, osservare l’aspetto della tua città dall’alto; allontanarsi dalla vita per riuscire a infonderla nelle parole. Poi Remsen Street, o Montague Street, o Pierrepont Street finiscono e mi ritrovo sulla Promenade, e all’improvviso Manhattan invade l’orizzonte notturno. Sembra che ogni finestra di ogni grattacielo sia illuminata. Le torri della zona di Wall Street, i colori che accendono la vetta dell’Empire, le scaglie del Chrysler Building in lontananza. Il Woolworth Building, costruito dal re dei grandi magazzini all’inizio del Novecento e pagato, si dice, in banconote di piccolo taglio. In basso, da questa parte, la luce dei moli basta appena a rischiarare i capannoni dismessi del vecchio porto di Brooklyn. Di là la sponda dell’East River è disegnata dal traffico del lungofiume, e i pilastri del ponte affondano nell’acqua nera. Le panchine della Promenade, d’estate una terrazza panoramica per innamorati e turisti, adesso sono incrostate di ghiaccio, battute dal vento che soffia dall’Oceano Atlantico. Non c’è nessuno oltre a me lungo questo viale. Non è la prima volta che Gotham mi sorprende così: otto milioni di abitanti ma nessun essere umano in vista, sono al centro del mondo e sono solo. Questo è il luogo in cui, fino al 1898, si fronteggiarono le due città gemelle. Questo è il fiume-che-non-è-un-fiume. Del fiu15

me ha l’aspetto, ma ingrandendo la mappa si scopre che Manhattan e Brooklyn non sono altro che isole o parti di esse, separate da uno stretto d’acqua salata nella grande foce dell’Hudson. Herman Melville e Walt Whitman sono nati qui, sulle sponde opposte dell’East River, nel 1819. Melville in Pearl Street, la via dei pescatori di ostriche a Manhattan, da un mercante inglese e una proprietaria terriera, entrambi figli di eroi di guerra della rivoluzione. Whitman a West Hills, nelle campagne di Long Island, da un muratore quacchero e una contadina. Un ragazzo ricco e uno povero, ma le loro sorti sono destinate a ribaltarsi: come nelle migliori storie americane, i ricchi pagano i privilegi di nascita crollando nella polvere, e i poveri emergono a forza di braccia dai loro bassifondi. Così nel 1823 la famiglia Whitman tenta la fortuna trasferendosi a Brooklyn, allora una piccola cittadina in forte espansione, mentre il padre di Melville va in bancarotta nel 1830 e muore due anni dopo, costringendo la vedova a ritirarsi con i figli nelle tenute di famiglia a nord di New York. Finite le scuole primarie, Walt comincia a lavorare come apprendista nelle tipografie dei giornali. Della sua giovinezza ricorderà soprattutto la fatica. Ma è un ragazzo forte e curioso, che frequenta per conto suo il teatro e la biblioteca, uno che lavora duro e impara in fretta. Herman invece è chiuso in se stesso, soffocato dall’ambiente in cui è cresciuto, e dopo il diploma decide di andarsene: nel 1839 si imbarca su una nave mercantile e passa quattro anni sull’oceano, prima battendo la rotta per Liverpool e poi i Mari del Sud. 16

La Promenade è un buon posto per immaginare la città a quell’epoca. Le acque che oggi sono solcate da qualche raro scafo – i battelli turistici, le vedette della polizia e i traghetti arancioni per Staten Island, le chiatte dell’immondizia dirette agli inceneritori – allora bagnavano il porto più industrioso d’America. Secondo le cronache dell’epoca, la baia aveva l’aspetto di una piazza nel giorno del mercato. Decine di miglia di moli attrezzati, velieri militari e mercantili, soldati, marinai, operai portuali, tonnellate di merci scaricate insieme ai contadini irlandesi, gli artigiani tedeschi e i commercianti cinesi. La grande ondata migratoria di fine secolo deve ancora arrivare, ma nella prima metà dell’Ottocento la città cavalca l’entusiasmo rivoluzionario, è la capitale economica di una nazione appena nata e attira avventurieri da tutta l’Europa. La popolazione di Manhattan passa in cinquant’anni da 60.000 a mezzo milione di abitanti. Del 1811 è il piano regolatore che disegna l’attuale griglia urbana, stabilendo che a nord di Houston Street la città si espanderà a blocchi rettangolari tutti uguali, separati dalle grandi avenues in direzione nord-sud e dalle streets ortogonali e numerate, dalla 1a alla 220a. Brooklyn cresce a un ritmo ancora più elevato, assorbendo tutte le cittadine della costa e passando da 5000 a 140.000 abitanti. Infine la carestia delle patate – la famigerata Grande Fame scoppiata nel 1845 – provoca l’esodo in massa di tre milioni di irlandesi, almeno un terzo dei quali si ferma qui in cerca di casa e lavoro. La città accoglie tutti, ma è impreparata a una tale invasione. Esplodono povertà, incendi, malattie, conflitti sociali, nascono in fretta e furia istituzioni e sindacati, fioriscono la malavita e la corruzione. 17

Immagino le vite di due ragazzi di vent’anni in un tale formicaio. Più che i numeri dei censimenti e le date delle biografie, sono le loro stesse voci a raccontare il rapporto che stringeranno con la folla. Ecco l’umore nero di Melville, mentre il suo protagonista Ismaele si aggira per la città all’inizio di Moby Dick. Alcuni anni fa – non importa quanti di preciso – avendo poco o niente in tasca, e nessun particolare interesse sulla terraferma, pensai di imbarcarmi e vedere la parte acquea del mondo. Questo è un modo che ho io di scacciare la malinconia, e regolare la circolazione. Ogni volta che mi ritrovo con le labbra torve, ogni volta che nell’anima mi scende un novembre umido e piovoso, ogni volta che mi accorgo di fermarmi involontariamente davanti alle pompe funebri e di accodarmi ai funerali che incontro; e soprattutto ogni volta che l’umore si fa tanto nero in me che serve un forte principio morale per impedirmi di scendere in strada e buttare per terra il cappello alla gente – allora capisco che è tempo di mettermi in mare al più presto.

Whitman invece è entusiasta. Adora la città, il traffico, il lavoro, il frastuono del porto, forse perché, nato povero, vede nella metropoli moderna la promessa di un futuro migliore. Ecco la sua euforia nell’ode Mannahatta. Emigranti in arrivo, quindici, ventimila a settimana, I carri che trasportano merci, la stirpe maschia dei carrettieri, i marinai dal viso abbronzato, L’aria d’estate, il sole luminoso splendente, le nubi che salpano lassù, Le nevicate d’inverno, il tintinnio delle slitte, il ghiaccio rotto nel fiume, che sale con l’alta marea e con la bassa scende,

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Gli operai della città, i padroni eleganti, dai nobili volti, che ti fissano dritto negli occhi, Folle sui marciapiedi, veicoli, Broadway, donne, negozi, vetrine, Un milione di persone – liberi modi superbi – voci franche – ospitalità – i giovani coraggiosi e cordiali. Città di fulgide acque correnti! Città di guglie e d’alberi maestri! Città incastonata tra le baie, la mia città!

Vogliono fare gli scrittori, e verso i trent’anni esordiscono entrambi. Melville si congeda, trova un editore a Londra e ottiene immediato successo con un paio di romanzi di ambientazione esotica – Typee e Omoo – frutto delle sue esperienze a bordo dei mercantili. Sembra l’inizio di una luminosa carriera. Con i primi guadagni mette su famiglia e compra una fattoria dalle parti di Saratoga, dove stringe amicizia con Hawthorne, riprende la lettura dei classici e si dedica al progetto di un romanzo di grande respiro. Whitman, che da tipografo è diventato giornalista, pubblica qualche poesia sulle riviste senza destare particolare attenzione. Ma poi, di nuovo, la fortuna inverte la rotta. Nel 1851 l’uscita di Moby Dick è un fiasco. Il romanzo è dedicato a Nathaniel Hawthorne – «in segno della mia ammirazione per il suo genio» – ma è troppo difficile e oscuro per il pubblico di Melville, abituato a storie d’amore tra i marinai e le ragazze delle isole: l’incubo di un capitano folle, ossessionato da una balena fino a condurre un intero equipaggio alla morte, non viene apprezzato dalla borghesia americana. Moby Dick vende poche centinaia di copie e incrina la vocazione di Melville, che 19

non scriverà altri romanzi per molto tempo. Nel 1855, invece, Whitman pubblica a proprie spese la prima edizione di Foglie d’erba, la raccolta di poesie che continuerà ad ampliare e correggere fino alla morte. È un poeta autodidatta – ha lasciato la scuola a undici anni – che inneggia alla città, alla massa, alla democrazia, con toni biblici e un’esplicita tensione erotica. La raccolta riceve una buona recensione da Ralph Waldo Emerson, il filosofo del Trascendentalismo. Da altri è accusata di oscenità, ma come sempre lo scandalo ne alimenta il successo. Viene ristampata più volte e raggiunge un pubblico più vasto a ogni successiva edizione. E così, mentre Melville fa i conti con la parabola discendente del genio incompreso, qualche critico comincia a ritenere Whitman il fondatore di una sensibilità poetica nuova: schietta, romantica, genuinamente americana. La nazione giovanissima ha un gran bisogno di trovare il suo vate. Poi, nel 1861, arriva la Guerra Civile a sconvolgere la società americana e a separare per sempre i destini dei due scrittori. Whitman è in prima linea, corre al fronte a cercare il fratello disperso, lavora come volontario tra i feriti, e una volta tornato a casa compone la sua opera più celebre, l’ode a Lincoln che lo consacrerà come poeta guerriero («O Capitano! Mio Capitano! Il nostro aspro viaggio è terminato / La nave ha superato ogni pericolo, l’ambito premio è stato conseguito»). La vittoria dell’Unione segna il suo definitivo successo. Ha una gran barba bianca e una faccia da vecchio che a soli cinquant’anni gli vale il soprannome di good gray poet, «buon poeta grigio». C’è un ultimo ostacolo tra lui e la gloria, l’omosessualità che traspare evidente nelle prime poesie: 20

Whitman lo supera censurando le successive edizioni di Foglie d’erba, stemperando l’attrazione verso i marinai, i portuali, i carrettieri, la «maschia razza» che fu la sua fonte di desiderio e d’ispirazione. Quasi per contrappasso il corpo lo tradisce: nel 1873 viene colpito da un ictus che lo lascerà fino alla morte invalido e sofferente. Melville nel frattempo è sparito dalla scena letteraria. Tiene ancora qualche conferenza sulla vita degli indigeni nei Mari del Sud, usando le sue memorie giovanili per intrattenere un pubblico da salotto. Anche l’impresa della fattoria dev’essersi rivelata un fallimento, perché all’inizio degli anni Settanta torna in città e accetta un impiego alla dogana del porto, dove resterà per i successivi vent’anni. Ha scritto poco negli ultimi tempi. Qualche articolo e qualche racconto, tra cui il suo capolavoro breve, Bartleby lo scrivano, un altro testo nero che sarà rivalutato solo nel Novecento. È la storia di un impiegato di Wall Street che un po’ alla volta si ritira dal mondo: prima rifiutandosi di lavorare, poi di rapportarsi con gli altri, infine perfino di vivere. Oggi suona come una favola sulla disobbedienza, o al contrario sull’alienazione. Allora invece doveva sembrare la storia di un pazzo, uno che un giorno comincia a rispondere a chi gli chiede di fare il suo lavoro di scrivano, o di lasciare il posto e tornare a casa sua, o di mangiare un boccone per non morire di fame, o almeno di spiegare perché diavolo si rifiuti di fare tutto questo, con un implacabile preferirei di no. Non ci vuole molto a trovare in Bartleby un alter ego di Melville, che in questi anni mette via la penna e accantona le ambizioni letterarie, comincia a bere forte e scompare nell’anonimato della folla di New York. 21

Arrivò il mattino successivo. «Bartleby», dissi, chiamando con gentilezza verso il suo paravento. Nessuna risposta. «Bartleby», dissi, in tono ancora più gentile, «venga qui; non le chiederò di fare niente che lei preferisca non fare. Vorrei soltanto parlarle». Al che, egli apparve senza rumore. «Vuole dirmi, Bartleby, dov’è nato?». «Preferirei di no». «Non vuole raccontarmi niente di sé?». «Preferirei di no». «Ma quale ragionevole obiezione ha per non parlarmi? Sto cercando di essere amichevole con lei». Non mi guardava mentre parlavo, ma teneva gli occhi fissi sul busto di Cicerone, dietro la mia sedia, circa sei pollici sopra la mia testa. «Che cosa mi risponde, Bartleby?», chiesi, dopo aver aspettato per parecchio tempo, mentre il suo volto rimaneva immobile, salvo un tremore quasi impercettibile delle labbra sottili. «Per il momento preferisco non rispondere», disse, e si ritirò nel suo rifugio.

Tira vento sulla Promenade, troppo freddo per stare qui seduto in meditazione. Così sollevo il colletto del mio giaccone e affondo le mani nelle tasche, e poi vado giù a piedi per Columbia Street verso il fiume, lasciando il quartiere nobile di Brooklyn Heights per il posto molto più popolare che una volta si chiamava Fulton Landing. «L’attracco di Fulton Street»: tra le lastre di pavé inghiottite dall’asfalto si intravedono ancora le rotaie dei tram, che una volta attraversavano 22

la città in tutte le direzioni. Bob, il mio amico e padrone di casa, mi ha raccontato che dalla nostra strada c’era una linea che portava fin qui, dove gli impiegati e gli operai si imbarcavano per andare a lavorare, molti anni prima della costruzione del ponte. Il traffico su rotaia era così intenso che gli abitanti di Manhattan ironizzavano su quelli di Brooklyn chiamandoli Trolley Dodgers – gli «schivatori di tram» –, il nome poi adottato dalla leggendaria squadra di baseball della città. Adesso che i ponti sono tre, i tram si sono ridotti a zero e i Dodgers non esistono più, anche il quartiere è stato ribattezzato: Dumbo, acronimo di Down Under the Manhattan Bridge Overpass. Sembra il titolo di un romanzo: «Sotto il cavalcavia del ponte di Manhattan». È uno strano triangolo chiuso su un lato dall’East River, e sugli altri due dalle rampe d’accesso dei ponti di Brooklyn e Manhattan, che convergono in pilastri altissimi e svincoli a quattro corsie. All’interno di questi confini, Dumbo si sta trasformando rapidamente. È un polo di gallerie d’arte e locali notturni, con una vista da cartolina sui grattacieli della sponda opposta, e perciò è destinato a diventare l’ennesimo quartiere alla moda, miniera d’oro per le agenzie immobiliari e meta di emigrazione dei ragazzi ricchi di Manhattan. Il processo però non si è ancora del tutto compiuto. Scendendo lungo Columbia Street, supero il quartier generale dei Testimoni di Geova. Giù all’angolo c’è un meccanico di auto d’epoca: le vecchie Ford, le Chevrolet, le Mercury, parcheggiate davanti all’officina, tra una pompa di benzina in disuso e un mucchio di bidoni di gasolio. Poco più avanti, vicino all’acqua, il vecchio molo è stato trasformato in un’ampia pedana di le23

gno dotata di caffetteria. Il traghetto funziona ancora, ma oggi è più che altro un’attrazione per turisti. Nel freddo di stasera nessuno aspetta la prossima corsa. Io mi ritrovo nel cono di luce e musica di un ristorante in stile marinaresco affacciato sul fiume: lo sciabordio delle onde è un panno di velluto steso sulle chiacchiere dei commensali, il tintinnare di posate e bicchieri, gli ottoni dell’orchestrina. Manhattan, di fronte a me, si riflette maestosa nelle acque scure. Incisi sulla ringhiera del molo ci sono alcuni versi di una poesia di Whitman, Crossing Brooklyn Ferry. Continua a scorrere, fiume! Alzati e abbassati con le maree! E voi continuate a giocare, onde crestate di spuma! Sontuose nubi del tramonto! Riversate su di me il vostro splendore, e sulle generazioni d’uomini e donne che verranno! Solcate il fiume da riva a riva, folle innumerevoli! Sorgete eccelsi, alberi di Mannahatta! E voi innalzatevi, verdi colline di Brooklyn! Pulsa, stupito e curioso cervello! Butta fuori domande e risposte! Qui e ovunque resta sospeso, eterno fluttuare della soluzione!

Prima di morire, Melville e Whitman riuscirono ad ammirare l’opera che avrebbe portato alla fusione delle loro due città. Ancora adesso la vista del ponte di Brooklyn è una di quelle che ti rappacificano con il genere umano, lasciandoti dimenticare i suoi difetti per riconoscerne il gusto, l’intelligenza, il coraggio, la forza di volontà, il desiderio di progredire. La combinazione di granito e acciaio – due torri al24

te novanta metri e centinaia di fili di ragnatela – rende la sua struttura massiccia e leggera al tempo stesso, una cattedrale sospesa nel vento che soffia sul fiume. La costruzione del ponte è un altro capitolo epico della leggenda di New York. Il cantiere venne inaugurato nel 1870, tra molti dubbi sulla riuscita dell’impresa: ancora prima dell’inizio dei lavori il progettista, John Augustus Roebling, si ferì un piede perlustrando il fiume in barca, e morì di tetano pochi mesi dopo. La direzione venne assunta dal figlio, Washington Roebling, che nel 1872 a sua volta subì un incidente: un embolo gassoso, provocato dalle immersioni nei cassoni subacquei in cui si lavorava alle fondamenta dei pilastri, lo costrinse all’immobilità. Passò gli anni successivi chiuso in un appartamento di Brooklyn Heights, seguendo i lavori con un cannocchiale e mandando avanti e indietro la moglie Emily per comunicare con il capo cantiere. Emily è la vera protagonista di questa storia: lei stessa ingegnere, durante la costruzione del ponte sviluppò una profonda conoscenza del progetto, lo difese con tutte le sue forze quando cominciò a sforare sulle spese, e fu artefice dell’opera tanto quanto il marito, il suocero e i ventisette morti sul lavoro di quei lunghi anni di cantiere. Il suo nome oggi compare in una targa affissa al pilastro est del ponte, con una dedica che vuole essere un omaggio ma sa di beffa: «A Emily Warren Roebling, perché dietro una grande opera c’è sempre la devozione e il senso di sacrificio di una donna». Il ponte venne inaugurato nel 1883. Le vite parallele di Melville e di Whitman continuarono a intrecciarsi fino alla fine, anche se i due a quanto pare non si incontrarono mai: 25

Herman Melville morì sconosciuto nel settembre del 1891 – un anonimo funzionario doganale che nel tempo libero scriveva romanzi. Walt Whitman lo seguì appena sei mesi più tardi, ma con il lutto riservato al poeta nazionale. Ci sarebbero voluti trent’anni perché le opere di Melville fossero rilette e riconosciute, e lo scrittore avesse il suo posto accanto a Whitman, Hawthorne, Poe, Emerson e Thoreau, nella corrente filosofica e letteraria del Rinascimento Americano. Infine, nel 1898, sempre più legati a Manhattan da rapporti economici e commerciali, gli abitanti dei quattro distretti periferici vennero invitati a esprimersi sulla possibilità di un’annessione. Queens, il Bronx e Staten Island erano terre di campagna con qualche borgo sparso, e non avevano niente da perdere. Soltanto Brooklyn possedeva una storia secolare: sembra che gli autonomisti abbiano perso per 300 voti, un numero talmente esiguo da far pensare al broglio o alla leggenda. Il 1898 segnò la nascita della Grande New York – una città che già si espandeva in altezza e in profondità, con i cantieri dei primi grattacieli e della metropolitana, e che con tre milioni e mezzo di abitanti era pronta a diventare la nuova capitale d’Occidente.

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Kaddish per un sogno (Lower East Side)

I bambini a passeggio con le loro nonne parlano lingue straniere. Ecco la natura di questa città. Grace Paley

Una bottega di barbiere con le pareti coperte di orologi a muro. Un aggiustatutto che ripara e rivende elettrodomestici usati. Un chiosco di madonnine, statue del presepe e immagini sacre, con la saracinesca chiusa e l’insegna Puerto Rico Importing. Una vetrina in cui sono assortite borsette rosa, bigiotteria di plastica, mollette per i capelli: The Lower East Side Girls Club. E poi macellai, pescivendoli, drogherie con i barattoli di zuppa in scatola allineati sugli scaffali. I cartelli in inglese e in spagnolo, così come la scritta di auguri sull’albero di Natale, un piccolo abete di quelli venduti a venti dollari l’uno sui marciapiedi qui fuori. I banchi del formaggio e dei salumi e i grandi barili di cetrioli in salamoia, eredità degli abitanti di un tempo, anche se oggi non sono più gestiti da italiani ed ebrei ma da portoricani. Prendo questi primi appunti nel mercato coperto di Essex 29

Street. Ho trovato un emporio in cui comprare una penna, un taccuino e un caffè, e mi sono seduto a scrivere su uno dei suoi quattro tavoli di formica verde. Tra i barattoli della senape e del ketchup, i resti di riso al curry di chi è passato prima di me, le ragazze latine che fanno la spesa con uno o due bambini in braccio e la voce di Bing Crosby che canta White Christmas negli altoparlanti. A parte le chiese e le sinagoghe, questo mercato è l’ultimo bastione del vecchio Lower East Side a essere rimasto in piedi. Fu voluto nel 1940 da Fiorello La Guardia, Little Flower, il sindaco più amato della storia di New York, per togliere le bancarelle dalla strada e regolamentare il commercio abusivo. La Guardia era del Bronx: figlio di un pugliese e di un’ebrea triestina, parlava quattro o cinque lingue e aveva lavorato per anni all’ufficio immigrazione di Ellis Island. Durante i suoi tre mandati da sindaco, tra il 1933 e il 1945, si trovò ad affrontare la Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale, facendosi ricordare per le politiche a sostegno della classe operaia, come la costruzione delle prime case popolari. In città c’è un aeroporto La Guardia, una via chiamata La Guardia Place e una fotografia di Fiorello La Guardia in tutte le pizzerie italiane, accanto a Joe Di Maggio e a Frank Sinatra (mentre i pub irlandesi hanno i fratelli Kennedy, e le tavole calde messicane Al Pacino nella parte di Scarface). In altre foto d’epoca ci sono poliziotti armati di mazze ferrate che fanno irruzione nei bar: questo perché, quando il giro dei flipper cadde in mano alla mafia, La Guardia li dichiarò illegali e li fece distruggere. Un duro più duro dei gangster, padre e padrone della città dov’era nato e cresciuto. Ecco che tipo era il sindaco degli anni Trenta. 30

Il lato est della parte bassa di Manhattan è tradizionalmente il quartiere più povero, la zona in cui da sempre si sistemano gli emigranti. All’inizio del Novecento la punta meridionale dell’isola era il centro della città; il lato ovest, sulla riva del fiume Hudson, la parte più sviluppata del porto; a nord cominciavano i sobborghi ricchi, dal Greenwich Village a New Haarlem, molto tempo prima che diventassero il rifugio della controcultura e il covo malfamato del jazz. Per chi era appena sbarcato da un piroscafo, non capiva una parola d’inglese, non aveva una casa e un lavoro e poteva solo cercare accoglienza tra i suoi compaesani, non restava che imboccare la Bowery e dirigersi verso il Lower East Side. Michael Gold descrisse il quartiere nel suo romanzo del 1930, Ebrei senza denaro. Mai potrò dimenticare quella strada dell’East Side dove ho vissuto da ragazzo: distante un isolato dalla famigerata Bowery, era un canyon di caseggiati guarniti di scale di sicurezza, lenzuola e facce. Facce, facce alle finestre dei caseggiati. Che inesauribile, immensa miniera di emozioni, la strada! Non si addormentava mai. Ruggiva come un mare in tempesta. Esplodeva come una girandola di fuochi artificiali. La gente si urtava, discuteva per la strada. Eserciti di venditori ambulanti spingevano urlando i loro carretti. Donne strillavano, cani abbaiavano e si accoppiavano in mezzo alla strada. Bimbi piangevano. Un pappagallo bestemmiava. Marmocchi cenciosi giocavano tra le zampe dei cavalli. Grasse massaie si prendevano per i capelli, da una porta all’altra. Un mendicante cantava. Magnaccia, giocatori e ubriaconi sfaccendati; politicanti, pugili in canottiera; buontemponi striminziti, allampanati facchini del

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porto in tuta. Le madri dell’East Side dagli eroici seni spingevano spettegolando le carrozzelle coi bambini. I tram a cavalli passavano strepitando. Un calderaio picchiava sul rame. I robivecchi scampanellavano insistenti. Turbini di polvere e di giornali. Le prostitute ridevano stridule. Un predicatore passava, un rigattiere ebreo dalla lunga barba candida. Monelli ballavano intorno all’organetto. Due vagabondi sonnacchiosi si tenevano su, spalla a spalla. Agitazione, sporcizia, botte, confusione. La voce della mia strada si levava come lo scoppio di un gran carnevale o di una catastrofe. Quel rumore mi riempiva le orecchie. Perfino in sogno lo udivo, ancora oggi ne sento l’eco.

Ho passato molto tempo a chiedermi come raccontare questo quartiere. Se la storia di una città fosse la storia della sua gente, e non dei suoi sindaci, milionari, architetti, intellettuali, campioni sportivi, artisti e capimafia, il Lower East Side sarebbe il quartiere più importante di New York. Questo spicchio di Manhattan ha confini netti – l’East River a est, Houston Street a nord, la Bowery a ovest, Canal Street a sud – e dalla seconda metà dell’Ottocento ha ospitato tedeschi, irlandesi, italiani, cinesi, russi, europei dell’Est, qualcuno per fermarsi e qualcuno in transito verso altri angoli d’America. Nel periodo compreso tra il 1892 e il 1924 – il trentennio in cui Ellis Island funzionò da anticamera della nazione – nel porto di New York sbarcarono dodici milioni di emigranti. Quattrocentomila all’anno. Un’intera città di profughi in movimento. Chiamalo sonno, il capolavoro di Henry Roth, fu scritto nel 1934 ma è ambientato in quell’epoca. 32

Tutto il giorno, come ogni giorno dall’inizio della primavera, i ponti del vaporetto erano stati affollati da centinaia e centinaia di stranieri, originari di qualsiasi terra sotto il sole – il tedesco mascelluto con i capelli tagliati cortissimi, il russo dalla gran barba, l’ebreo dalle basette spelacchiate, e in mezzo a loro contadini slovacchi dalle facce docili, armeni dalle guance lisce e scure, greci foruncolosi, danesi dalle palpebre grinzose. Tutto il giorno i suoi ponti erano stati pieni di colore, una matrice dei vividi costumi di altre terre, i grembiali screziati verdi e gialli, i fazzolettoni fioriti, stoffa tessuta in casa e ricamata, il panciotto di pelle di pecora guarnito d’argento, le sciarpe sgargianti, stivali gialli, berretti di pelliccia, caffettani, smorte gabardine. [...] Dietro la nave, la scia bianca che si stendeva fino a Ellis Island si allungava, sfilacciandosi pallida in un verde melone. Da un lato la curva della bassa costa grigiastra del Jersey, con i pali e le alberature del porto che frangiavano il cielo; dall’altro lato Brooklyn, piatta, con le torri dei suoi serbatoi dell’acqua: le due corna del porto. E dinanzi a loro, verso occidente, sorgendo sul suo alto piedistallo dal brulicante sfaccettato splendore dell’acqua piena di sole, la Libertà.

La Statua della Libertà non era stata pensata per accogliere questa gente. Progettata dallo scultore Frédéric Bartholdi, realizzata sulla struttura metallica dell’ingegner Gustave Eiffel, era un’opera concepita per celebrare i valori comuni della rivoluzione francese e di quella americana. «La libertà che illumina il mondo», ecco il suo nome originale. Era rivolta verso l’oceano, ma non per dare il benvenuto ai profughi: simbolicamente, guardava verso Parigi. Eppure, qualsiasi fosse la volontà dei progettisti, si trasformò subito in un simbolo di altro genere. Fu costruita nel 1884, il periodo in 33

cui gli ebrei russi scappavano dalle persecuzioni di fine secolo, e gli italiani del Sud dalla crisi economica seguita all’unificazione. Ancora oggi porta incisa sul piedistallo una poesia di Emma Lazarus, che termina con questi versi: Tenetevi pure, o terre antiche, le vostre ricchezze. A me rendete i vostri miseri, i vostri poveri, le vostre masse oppresse e soffocate; lasciate a me i derelitti delle vostre coste. Mandate questi, i senza casa, squassati dal mare. Io qui levo la mia torcia, accanto alla porta d’oro.

Una volta scaricati a terra, dopo avere superato le ispezioni sanitarie di Ellis Island, di solito i miseri, i poveri, le masse oppresse e soffocate andavano ad abitare in un tenement. Questa è una parola su cui la traduzione letteraria ha generato confusione. Nei classici di inizio Novecento la parola è tradotta con «caseggiato popolare», e così mi ero fatto l’idea di una struttura a corte – con le scale e i pianerottoli, le donne sui ballatoi e i bambini nei cortili, la biancheria stesa ad asciugare, i bagni in comune, qualche pianta e qualche fiore. Invece la parola tenement indica un edificio ben preciso, in cui balconi e cortili non sono previsti. Una palazzina di cinque piani, costruita su un lotto di otto metri per trenta, pensata per ospitare quattro famiglie per piano. Attorno alla metà dell’Ottocento, sette newyorkesi su dieci vivevano in un posto del genere. Molti edifici del Lower East Side risalgono a quell’epoca, anche se nel frattempo sono stati più volte ristrutturati: hanno facciate di mattoni o rivestite a listelli di legno, e tinteggiate di bianco, di rosso, di 34

azzurro, di verde. Sono case alte e strette dall’aria cadente. Le finestre a ghigliottina, le scale antincendio, i tetti piatti usati come terrazze. Io le trovo bellissime e struggenti. Chi ci ha vissuto dentro, come Michael Gold, sognava soltanto di scappare via. Estate. A fatica si respirava. Tutto il giorno il sole lanciava i suoi raggi micidiali. Di notte, vapori si levavano dalle pietre del nostro ghetto come da un bagno turco. Nella casa degli ebrei i bimbi piangevano, morivano, e prosperavano le mosche. Tutti erano esasperati, e l’eco dei litigi saliva su per gli sfiatatoi. Se mi svegliavo, nel cuore della notte, ero certo di sentire la casa intera brontolare e rivoltarsi nelle camere da letto. [...] Svegliandomi, al mattino, non ero mai troppo sorpreso se mi trovavo accanto, nel letto, una nuova famiglia di emigranti, insaccati in camicie da notte di foggia straniera. Apparivano pallidi, esauriti. Riempivano l’aria del disinfettante di Ellis Island, un fetore che mi nauseava peggio dell’olio di ricino. In giro per la stanza erano sparsi i loro averi: le sacche da viaggio di tela grossa a righe, e monumentali fagotti dai quali si intravedevano materassi di piuma, pentole e casseruole, preziosa tela tessuta a mano, tovaglie ricamate, strane giubbe spesse come coperte. [...] I miei non potevano sopportare tutta questa sporcizia. Ma era l’America, e bisognava accettarla. Ed erano i nostri vicini, dopotutto. È impossibile vivere in un caseggiato popolare senza trovarsi tra i piedi gli scarafaggi e le tragedie altrui.

New York è la città dei musei. Si possono passare giorni e giorni a visitare il Moma, il Metropolitan, il Guggenheim, il Whitney, ma ce ne sono due che non bisogna perdere se si vuole capire qualcosa della storia di questa città: uno è il Mu35

seo dell’Immigrazione di Ellis Island, l’altro è il Tenement Museum del Lower East Side. Sorge al 97 di Orchard Street, in un edificio costruito da un sarto tedesco nel 1863. Tra quell’anno e il 1935 ci hanno vissuto dentro circa settemila emigranti. Oggi gli appartamenti sono restaurati in modo da rappresentare gli ambienti domestici di diversi gruppi etnici: una famiglia tedesca del 1870, una irlandese del 1890, una ebrea russa di inizio Novecento, una italiana degli anni Trenta. E così, girando per queste vecchie stanze, ascolto la storia della donna tedesca abbandonata dal marito durante il Grande Panico del 1874, con due figli a carico e una macchina da cucire come unica fonte di reddito. Osservo il tavolo da lavoro spinto accanto alla finestra per ricevere un po’ di luce, sotto i muri anneriti dal fumo della stufa. Nell’appartamento degli italiani riconosco le carte da gioco e i bicchieri del servizio buono. La fioriera mi ricorda un’altra scena descritta da Gold: in ogni cantiere, durante gli scavi per le fondamenta di un nuovo edificio, si formava una processione di italiani in fila per avere un po’ di terra, quella che serviva per coltivare i gerani e il basilico sul davanzale di casa. La cassetta di legno usata a questo scopo è il contenitore in cui si ricevevano gli aiuti alimentari durante la Depressione. Il ritratto di Roosevelt appeso sopra il letto matrimoniale prova la gratitudine di questa coppia nei confronti del presidente di allora. All’inizio gli appartamenti nei tenements non avevano acqua né corrente elettrica. Ricevevano luce soltanto dalla facciata, perciò molte stanze della casa erano cieche e prive di circolazione d’aria. Per sopravvivere le famiglie subaffittava36

no camere agli emigranti appena sbarcati e si stringevano nello spazio che restava, così si calcola che ogni edificio potesse ospitare fino a 200 persone. Poi, nel 1901, la New York Tenement House Law stabilì alcune norme per i costruttori: acqua corrente, servizi igienici in ogni piano, una finestra per ogni stanza, scale antincendio. Nel 1935 vennero introdotte regole ancora più restrittive, e allora il proprietario del 97 di Orchard Street decise di buttare fuori tutti e affittare l’edificio come magazzino. Non fu l’unico a prendere una decisione del genere: con la Grande Depressione il mercato immobiliare era crollato, Central Park si stava trasformando in una baraccopoli, e proprio nel Lower East Side l’amministrazione cittadina avviò il primo progetto di case popolari. House projects, appunto. Era l’epoca di La Guardia, ma ancora oggi a New York basta dire projects e tutti capiscono che cosa intendi. Casermoni di trenta piani, tristemente simili alle case popolari di qualsiasi periferia d’Occidente: più cammini verso est, nel quartiere, più incontri palazzi come questi, fino a quando, sulle sponde dell’East River, ti ritrovi in una zona edificata esclusivamente a projects. Oggi ci abitano i latini. È sufficiente fare un giro da quelle parti per capire che in un secolo e mezzo la povertà ha cambiato lingua e colore, ma non ha mai smesso di scorrere nelle vene di questa città. Vado in cerca di segni. Passo lunghi pomeriggi su strade battute da una pioggia insistente, dentro e fuori dalle librerie e dai bar, spalla a spalla con la delusione di trovarmi nel quartiere che ho amato così tanto nei libri, e che non esiste più nella realtà. Il vecchio Lower East Side oggi è attaccato da 37

molti nemici: a ovest gli agenti immobiliari di Soho in cerca di nuovi mercati, a sud Chinatown che tutto divora. In mezzo c’è una zona grigia, in attesa del suo destino. Se telefono a casa e racconto le mie scoperte, mi ritrovo a elencare case sfitte, sinagoghe trasformate in magazzini, topi che al mio passaggio si rintanano negli scantinati. Ma questo è il mio quartiere preferito di Manhattan anche così, forse soprattutto così. Mentre lo dico al telefono, mentre lo scrivo, a volte mi interrogo su questa difesa a oltranza e vado in crisi: che senso ha trovarsi nella città delle meraviglie e vagare per un quartiere popolare, mezzo abbandonato e ormai senza vita? È davvero una ricerca di autenticità o si tratta piuttosto di un mio bisogno di rassicurazione? Cercare lo spirito di Gotham dove non guarda più nessuno proverebbe la qualità dei miei occhi, darebbe senso al mio vagabondare e scrivere. Come gli emigranti che hanno ormai messo radici fanno con gli ultimi arrivati, io da turista di lungo corso odio i turisti occasionali – specialmente quelli che parlano la mia lingua, sembrano non desiderare altro che acquisti e fotografie, spendono tre giorni a New York prima di ripartire per il Grand Canyon o le cascate del Niagara – forse perché mi ricordano che anch’io sono di passaggio, anch’io sono venuto qui soltanto per collezionare cartoline. Così spesso il mio percorso è una fuga dalle masse che affollano i negozi, i ristoranti, i musei, i traghetti, le terrazze panoramiche: preferisco perdermi a Chinatown o fare mezz’ora di treno per raggiungere Coney Island d’inverno, dove so che tra i cartelli in cinese o sulla spiaggia deserta sarò estraneo a tutto e sarò solo. Negli angoli desolati mi sembra di trovare quello che sto cer38

cando qui. Mi piace girare a caso tra queste quattro strade, Orchard, Allen, Eldridge, Essex Street. Oggi è chiamato Bargain District, il distretto del commercio, perché è pieno di negozi eternamente in saldo, aperti tutti i giorni e a tutte le ore. Valigie, scarpe, giacche di pelle. I commercianti aspettano sulla soglia come pescatori in riva al fiume. Ci sono scritte ovunque: le insegne dei negozi, i cartelli esposti in vetrina, i murales dei grossisti di tessuti dipinti sulle facciate. Allen Street – la via che a nord di Houston Street, dove comincia la griglia urbana, diventa la Prima Avenue – è più ampia delle altre strade: per farci passare la sopraelevata, negli anni Trenta, tirarono giù un’intera fila di tenements. Sotto la sopraelevata, protetta dagli sguardi e dalle intemperie, fioriva la prostituzione, perciò questa strada era chiamata «via degli emigranti» ma era anche la zona a luci rosse del Lower East Side. Ecco, a me piace sapere queste cose. Invece di visitare i posti segnalati sulle guide preferisco andarmene mani in tasca su e giù per Allen Street, la strada dove una volta si faceva la vita. In angoli segreti, disposti a farsi trovare dai cercatori pazienti, alcuni vecchi luoghi sopravvivono ancora. La mia prima incursione nel Lower East Side è stata al seguito di Nathan Englander, scrittore cresciuto in una comunità di ebrei ortodossi. Fu lui a portarmi al numero 12 di Eldridge Street, oggi un vicolo senza importanza nel groviglio di Chinatown, per visitare la più antica sinagoga askenazita di New York, inaugurata nel 1887 e da qualche anno dichiarata monumento storico. Dentro non c’era nessuno. Un custode molto gentile ci ha aperto la porta e poi è sparito da 39

qualche parte sul retro. L’edificio era gravemente trascurato, con i soffitti ammuffiti e l’intonaco che cadeva a pezzi, le balconate di legno del settore femminile chiuse al pubblico perché pericolanti. Le vetrate colorate vibravano al passaggio della metropolitana, che lì vicino esce in superficie per attraversare il Manhattan Bridge. Le targhette di ottone sulle panchine riportavano i nomi dei donatori a cui un tempo erano riservate – Silverman, Berenstein, Rabinowitz, Kaplan, Levy – e mi ricordavano le lapidi dell’Antologia di Spoon River. Sono uscito da Eldridge Street con un po’ di tristezza. Tempo dopo ho saputo che erano stati trovati i fondi per i lavori di ristrutturazione. Ho visto delle foto in cui la sinagoga è come nuova, ma non ci sono più tornato. Di altri posti è rimasto solo l’involucro. Succede di imbattersi in vecchi palazzi eleganti, costruiti nello stile austroungarico di metà Ottocento, sormontati da insegne in cinese. Facendo ricerche si scopre trattarsi di sinagoghe, bagni pubblici, teatri, quasi sempre riadattati a magazzini. In altri quartieri della città, i proprietari non si sono fatti scrupolo ad abbattere edifici di questo tipo per costruirne di nuovi: i cinesi di New York la trovano una fatica inutile, e così, senza volerlo, custodiscono qualche memoria del quartiere di un tempo. La sinagoga di Pyke Street oggi è il deposito di un grossista. I bagni pubblici di Allen Street sono una chiesa cinese. Il Sunshine Theatre di East Houston Street è un cinema multisala, ma fu costruito nel 1898 come teatro yiddish di vaudeville: quello spettacolo di varietà composto da attori, comici, musicisti, cantanti, acrobati, prestigiatori e 40

animali addestrati, che era l’intrattenimento preferito della gente del quartiere. New York non si prende cura di questi luoghi. Qualcuno dice che siccome Manhattan è un’isola, e non può espandersi in ampiezza, per continuare a vivere è costretta a demolire e ricostruire. È il carattere della città che spinge a puntare verso l’alto, e a immaginare il futuro più che ricordare il passato. Quello che è ormai impossibile vedere con gli occhi è rimasto nei libri. Perduti in America di Abraham Cahan, Ebrei senza denaro di Michael Gold, Chiamalo sonno di Henry Roth, sono tutti ambientati nel Lower East Side d’inizio secolo. Di un’epoca appena successiva sono i racconti di Bernard Malamud. È un mondo di luci fioche, puzza di pesce, freddo che penetra nelle ossa, popolato da piccoli commercianti e artigiani, sarti, ciabattini, rabbini poveri in canna, sensali di matrimoni, padri che cercano soldi per curare figli malati, madri che sperano in un buon matrimonio per le figlie ma poi si rassegnano a darle in spose ad altri poveracci, ragazzi che invecchiano aprendo il negozio all’alba e chiudendolo quando è già buio, giorno dopo giorno per vite intere. Il commesso di Malamud è un romanzo degli anni Cinquanta ma racconta un mondo senza tempo: fatica di vivere e miseria nera, declinazione del libro di Giobbe ambientata tra Brooklyn e il Lower East Side, un destino ripetuto identico a se stesso per generazioni. Nel 1959 Allen Ginsberg, il fondatore del movimento beat, intitolò la sua poesia più vibrante come la preghiera ebraica per i morti, Kaddish, lamento funebre in memoria della madre e di un’intera generazione di emigranti. 41

Strano adesso pensare a te, andata via senza corsetti e senza occhi, mentre cammino sulle strade assolate del Greenwich Village [...] – o giù per la Avenue verso sud – perché cammino verso il Lower East Side – dove tu camminavi 50 anni fa, ragazzina – venuta dalla Russia, mangiando i primi velenosi pomodori d’America, spaventata sul molo – poi facendoti largo tra la folla di Orchard Street verso cosa? – verso Newark – verso il negozio di dolci, le prime bibite del secolo fatte in casa, il gelato sbattuto a mano nel retrobottega dal pavimento di legno ammuffito – verso istruzione matrimonio esaurimento nervoso, operazione, insegnamento a scuola, e imparare a essere pazza, in sogno – che cos’è questa, è vita?

Cahan, Roth, Gold, Malamud, Ginsberg. Non è possibile esplorare Gotham senza fare, prima o poi, i conti con l’ebraismo. È una storia antica quanto la città stessa. I primi ad arrivare, all’inizio del Seicento, furono i sefarditi: ebrei di origine spagnola e portoghese che cercavano rifugio dalle persecuzioni della Controriforma. Gli ultimi, gli askenaziti scappati dall’Unione Sovietica negli anni Settanta del Novecento, quando erano gli unici a poter emigrare: anzi invitati ad andarsene e a non tornare, come racconta Gary Shteyngart nel suo Manuale del debuttante russo. In mezzo ci furono quattro secoli di pogrom, culminati con il nazismo. Non c’è da stupirsi che il soprannome yiddish di New York sia Goldene Medine, la città d’oro. È la capitale del mondo ebraico fuori da Israele, e il primato diventa ancora più netto parlando di letteratura. 42

Isaac Bashevis Singer, forse il più celebre del gruppo, arrivò in America già adulto, fuggendo dall’Europa antisemita degli anni Trenta, e per tutta la sua vita non smise mai di scrivere in yiddish. Bernard Malamud, Grace Paley e Allen Ginsberg erano invece figli di emigranti, ebrei di origine russa perseguitati dalla polizia zarista, ma mentre il primo mantenne sempre vive le sue radici, gli altri due le recisero senza rimpianti. Chaim Potok, l’autore che ha raccontato le comunità ortodosse di Brooklyn e del Bronx, era addirittura rabbino. E questi diversi gradi di radicamento nella cultura ebraica sono stati mantenuti dagli scrittori contemporanei: l’ebraismo è un tema centrale nella narrativa di Nathan Englander, Michael Chabon o Jonathan Safran Foer. Altri, come Paul Auster o Jonathan Lethem, di ebraico conservano solo qualche traccia nel nome. Per altri ancora, come Cynthia Ozick o E.L. Doctorow, ha senso usare la categoria di «scrittore ebreo americano». C’è un legame misterioso tra l’ebraismo e la narrativa, ed è l’aspetto che mi affascina di più di quella cultura. Personalmente mi sono costruito una teoria che riguarda le radici letterarie delle religioni: se il Vangelo è un romanzo e il Corano un poema, la Bibbia è una raccolta di racconti. Prima di essere trascritte, le storie della Bibbia venivano raccontate: dal padre al figlio, o dal maestro ai discepoli, e forse gli ebrei l’hanno fatto così a lungo, e così bene, che sono diventati un popolo di narratori. Sembra un’ipotesi delirante? In fondo non è così diversa da quella che spiega l’evoluzione artistica europea con la necessità di catechizzare milioni di analfabeti. I cristiani dipingevano le loro storie sui muri delle chiese. Gli ebrei le raccontavano a parole. 43

Il reading più emozionante a cui ho assistito è stato quello di Jonathan Lethem, organizzato dal New Yorker Festival nel 2004, che si teneva nella sinagoga Beth Hamedrash di Norfolk Street. Un reading letterario in una sinagoga: strano, vero? Qui è una cosa del tutto normale. La sinagoga non è un luogo sacro ma una sala della comunità, che può diventare sede di una cerimonia così come di una conferenza o un evento artistico. Ascoltare lì dentro un lungo capitolo della Fortezza della solitudine dava alla lettura la solennità di un rito. Il romanzo non ha niente a che fare con la religione – racconta la vita di un ragazzino a Brooklyn negli anni Settanta – eppure sentivo che non era sbagliato: come se ci fosse una relazione profonda tra quel posto e l’atto di raccontare storie. Passando del tempo in città non si fa più molto caso agli uomini d’affari che indossano la yarmulke, agli scuolabus delle yeshivot o alle famiglie che nei ristoranti kosher festeggiano un Bar Mitzvah. Leggendo i libri degli scrittori newyorkesi, si impara anche un po’ di questo lessico ebraico o yiddish. I bagel sono le ciambelle di pane vendute nei baracchini sulla strada. Schmück indica l’attributo virile ed è un insulto entrato nel gergo urbano, tanto che ogni buon newyorkese è in grado di usarlo, capirlo e offendersi. Hanukkah è la festa delle luci, più o meno contemporanea al Natale cristiano: dura otto giorni durante i quali vengono accesi uno alla volta i lumini di un candelabro, perciò in questo periodo molte vetrine di Manhattan sono illuminate allo stesso tempo da candelabri di Hanukkah e alberi di Natale addobbati. È il motivo per cui le scritte di auguri in giro per 44

la città recitano un neutro Happy Holidays, cercando di fare contenti tutti (ma quando ho augurato «Happy Holidays» a Bob, che è un italoamericano molto fiero delle sue radici, mi ha risposto tutto serio: «Noi diciamo Merry Christmas!»). Il mio ristorante kosher preferito, dopo la chiusura dello storico Second Avenue Deli, è il Noah’s Ark di Grand Street, nella parte del Lower East Side in cui i vecchi tenements cedono il passo alle case popolari. Ho un debole per il pastrami, una specie di arrosto marinato servito con senape e pane di segale, oltre ai cetrioli in salamoia e all’insalata di crauti. Oggi seduti ai tavoli ci sono clienti molto vecchi, così tanti e così vecchi che mi fanno pensare a una casa di riposo in gita: il cameriere raccoglie con pazienza le ordinazioni e porta a tutti acqua, tè caldo e un brodo di pollo in cui è inzuppata una palla di semolino, la matzah ball soup. Mentre aspetto il mio turno mi diverto a immaginare come potrebbe essere questo ospizio pieno di vecchi ebrei, con la sua sinagoga interna, la sua mensa, i suoi infermieri goym disposti a lavorare di sabato. Dopo pranzo percorro Essex Street e poi East Broadway fino a Chatham Square, di nuovo nel cuore di Chinatown. Pare che sotto questo incrocio di strade sorga il più antico cimitero ebraico di New York, anche se non mi aspettavo di trovare lapidi né segni di alcun genere. Ogni tre o quattro minuti una metropolitana imbocca il Manhattan Bridge sferragliando, e il rumore aumenta la sensazione di caos che c’è qui. I cinesi riempiono i marciapiedi, sembrano fare tutto per strada: mangiare, fumare, discutere, sedersi sui talloni per aspettare qualcuno, spingere carrelli dentro e fuori dai 45

negozi e dagli scantinati, comprare e vendere, ascoltare musica, formare code per motivi che mi sfuggono (ma se mi fermo a osservare, dopo un po’ capisco: lì c’è la fermata dei furgoncini che offrono un trasporto pubblico alternativo, lì si vendono biglietti della lotteria, e quella donna dev’essere una specie di chiromante). La piazza in realtà è l’incrocio delle due grandi linee di traffico della Bowery e di East Broadway, al centro del quale campeggia un monumento a Ling Ze Xu («pioniere della lotta alla droga»), e un piccolo arco di trionfo («dedicato ai cinesi americani caduti in tutte le guerre per difendere la libertà e la democrazia»). Intorno, le catapecchie di legno a due o tre piani resistono all’ombra dei palazzi di trenta, e a me viene in mente quella scena di Molto forte, incredibilmente vicino di Jonathan Safran Foer, in cui il bambino protagonista, Oskar, nella sua odissea dentro New York arriva a casa di un vecchio cinese che indossa la maglietta con la scritta I love NY. Tutto l’appartamento è tappezzato di poster, adesivi, tende e cuscini con la stessa scritta. E Oskar gli dice una cosa tipo: «Certo che New York ti piace proprio tanto!». E il vecchio non capisce. Allora Oskar indica la N della maglietta e dice: «New», e la Y della maglietta e dice: «York», e poi ripete: «Ti piace proprio tanto!». E il vecchio prima si illumina, e subito dopo ci resta malissimo. Perché, pur abitando in città da una vita, aveva sempre pensato che NY fosse la trascrizione della parola cinese per TU, che cioè tutte quelle scritte significassero: «Ti voglio bene». Alla fine sospendo le mie ricerche e mi consolo in una pasticceria di Canal Street. Ritiro due paste alla crema e un 46

caffè nero gigante. Considero la possibilità di sedermi qui dentro, ma i tavolini della pasticceria sono già occupati. Dalla panchina dei giardinetti appena fuori, dove mi siedo a fare merenda, alzo gli occhi e scopro un palazzo con una scritta in ebraico sulla facciata, e un orologio in cima. Lo riconosco per averlo visto in fotografia da qualche parte. È la sede storica del «Jewish Daily Forward», al 175 di East Broadway: il quotidiano socialista fondato nel 1897 da Abraham Cahan, un giornale interamente in yiddish che negli anni Trenta tirava quasi 300.000 copie ed entrava nelle case e nei negozi di tutti gli ebrei americani. Anche Singer ci lavorò per molti anni. Oggi il palazzo è diventato un condominio residenziale, e come tutto il resto è occupato da cinesi. Sarà giusto così?, mi chiedo. Sarà Chinatown, con la sua indifferenza e i suoi nuovi poveri, a conservare nel tempo lo spirito del Lower East Side? Lascio le briciole delle mie paste alla crema a due scoiattoli di passaggio, e vado a prendere la linea F diretta a Coney Island.

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Dove vanno le anatre di Central Park d’inverno? (Midtown Manhattan)

Io vivo a New York, e stavo pensando allo stagno di Central Park, giù a Central Park Sud. Mi chiedevo, chissà dove vanno le anatre quando lo stagno gela e diventa tutto di ghiaccio. Chissà se qualcuno arriva con un camion e le porta allo zoo o chissà dove. O se volano via e basta. J.D. Salinger

Jimmy era il migliore amico di Bob, nonché suo vicino di casa. James, detto Jimmy la Peste. Un po’ più giovane di Bob, ma come lui era cresciuto a Manhattan e si era trasferito a Brooklyn nello stesso periodo, tra gli anni Ottanta e i Novanta, quando gli affitti sull’isola avevano cominciato a costare troppo. Meglio mettere a tacere l’orgoglio da manhattanese e rassegnarsi a vivere dall’altra parte del fiume. Perciò adesso Bob e Jimmy dividevano un giardino incolto, le radici italiane, la riluttanza a prendere moglie e la passione per 51

l’handball, un gioco di strada che funziona così: due giocatori o due coppie, un muro di cemento e una pallina di gomma dura, regole simili a quelle della pelota se non che al posto delle racchette si usano le mani, sia la destra che la sinistra, e per esperienza posso dire che devono essere mani allenate al dolore. Ogni giovedì, e a volte anche il martedì, Bob e Jimmy se ne andavano in una palestra di Manhattan a farsi qualche partita, loro e altri tre o quattro amici del vecchio quartiere, e poi tutti a cena nel ristorante del cugino di Bob, John’s Pizza, tra Bleecker Street e la Settima Avenue. Avevano tra i cinquanta e i settant’anni. Uno con la schiena a pezzi, uno con una fitta all’anca o una fasciatura alla spalla, uno con qualche vite o valvola artificiale dentro al corpo, si sedevano e ordinavano una pizza con le acciughe e una con aglio e salsiccia. Jimmy magari era ancora un po’ nervoso perché aveva perso, Bob lo prendeva in giro perché aveva vinto, gli altri litigavano sulla distribuzione dei meriti e delle colpe, finché arrivavano le pizze e la pace trionfava. Nei miei viaggi a Gotham, la cena del dopopartita era un appuntamento fisso. Per le settimane o i mesi in cui stavo lì, ogni giovedì mattina Bob veniva su a bussare – io lo sentivo salire per le scale e lo anticipavo sulla porta, aspettavo quel momento fin da quando mi ero svegliato – e nel suo italiano imparato leggendo Moravia mi faceva la domanda di rito: «Stasera ti piacerebbe la pizzeria?». A tavola, mi ero ritagliato la parte dello straniero. Uno che non conosce bene la città, e nemmeno tanto bene la lingua, e perciò passa il tempo a chiedere spiegazioni. Non era male. Siccome le norme di ospitalità imponevano di darmi risposte esaurienti, pote52

vo fare le domande tipiche del turista a New York («Perché i tombini fumano?», «Chi è quel tizio basso e grasso che c’è in tutte le foto?», «Perché la pizza pepperoni non ha i peperoni ma il salame piccante?»), e poi come niente passare a: «Senti Jimmy, com’è che non ti sei mai sposato?». Il mio inglese primitivo mi costringeva a fare queste domande nel modo più semplice possibile. Niente allusioni né giri di parole. E lo stesso valeva per le risposte: se uno provava a divagare io lo troncavo con un «Non ho capito», e a lui toccava ricominciare daccapo. Bob e Jimmy avevano tante cose in comune, ma caratteri molto diversi. Bob veniva in Italia almeno una volta all’anno per visitare i suoi parenti, mentre Jimmy non c’era mai stato in vita sua. A me sembrava strano che non avesse voglia di vedere il posto da cui qualcuno, tre o quattro generazioni prima, si era imbarcato per superare l’oceano e fare di lui un americano. Ma Jimmy in vacanza preferiva nuotare, prendere il sole e bere margaritas in qualche spiaggia della Florida o del Messico, piuttosto che cercare le sue radici in chissà quale paesello sperduto della provincia italiana. E chi poteva dargli torto. A New York c’è abbastanza materiale per inventarsele, le radici, o prenderle in prestito da qualcun altro. E così, mentre Bob evitava la cucina italoamericana, preferiva il jazz a Frank Sinatra e non capiva una parola di dialetto siciliano, Jimmy adorava recitare la parte del bravo ragazzo. Andava a mangiare da Vinny’s. Giocherellava con lo stuzzicadenti molto tempo dopo la fine del pasto. Portava un anello d’oro al mignolo e l’unghia lunga, e aveva quel modo di chinarsi verso la gente per chiedere qualcosa, come se fosse 53

sempre una questione di saperci fare: anche farsi portare il formaggio a tavola, o avere un’informazione stradale. I suoi genitori non avevano mai parlato italiano, ma da Vinny’s e da qualche altra parte doveva averne orecchiato un po’, e così certe volte noi due ci scambiavamo i ruoli. Lui domandava e io rispondevo. L’equivalente della mia ossessione per la pizza pepperoni, per Jimmy era la colazione: in italiano la parola indicava il breakfast o il lunch? Come mai nei vecchi libri il pranzo si chiamava colazione? E la cena si chiamava pranzo, giusto? E perché poi hanno incasinato tutti i nomi? Me l’avrà chiesto cento volte, e io non sapevo mai cosa dire. Immagino fossero le questioni di cui si discuteva da Vinny’s, mangiando spaghetti e polpette. L’altra parola che a Jimmy piaceva tanto era ginocchio. Siccome aveva un amico che si chiamava Salvatore Ginocchio (chissà che personaggio, immaginavo: Sally Ginocchio), se la ricordava e la pronunciava perfettamente. In un momento infelice, probabilmente dopo qualche bicchiere di troppo in pizzeria, io devo avergli spiegato le sfumature di significato della parola finocchio, e quella sera ho firmato la mia condanna. Jimmy non la smetteva più. Tutte le volte si toccava la gamba e diceva: «Questo è un ginocchio, sì? Non un finocchio, right?». E poi giù a ridere come se fosse la barzelletta del secolo. Un’altra domanda che mi faceva sempre è perché in Italia ce l’avessimo così tanto con Mussolini. Tra gli emigrati a New York, negli anni Trenta, il duce era stato un motivo di grande orgoglio, e anche dopo hanno continuato a ricordarlo come un campione nazionale, insieme a Enrico Caruso e Primo Carnera. Di cose italiane Jimmy ne possedeva tre: un 54

vocabolario, un libro illustrato sulla mimica napoletana e un disco di canzoni fasciste. Se voleva provocarmi, in macchina si metteva a canticchiare Giovinezza o Faccetta nera. E io a spiegargli che quelle canzoni non si potevano cantare, che per noi erano canzoni proibite. E lui invece le aveva sentite per anni, così come aveva continuato a vedere il ritratto del duce nelle case del quartiere, e non capiva. D’inverno Bob aveva un lavoro notturno. Faceva il custode nel locale caldaie di un grande edificio, sette notti su sette da novembre ad aprile. Così, una volta che ho passato a New York tutto il periodo delle feste, temendo che soffrissi di solitudine Jimmy si è messo in testa di regalarmi un capodanno in grande stile. Non che corressi alcun pericolo. Nonostante io sia una persona nostalgica, incline a sentire la mancanza di qualunque persona o luogo purché siano lontani, Gotham è un posto in cui la malattia del ritorno non mi ha mai colpito: nemmeno mangiando un cheeseburger come pranzo di Natale, o sedendomi da solo sul tetto della casa di Brooklyn davanti ai fuochi del Quattro Luglio. Però Jimmy era fatto così, gli piacevano i piani grandiosi. Poi ho capito che gli piaceva di più progettarli che realizzarli: ne parlava a tavola, immaginava i momenti e le situazioni, e così quella volta aveva passato due settimane a descrivermi come sarebbe stata la nostra memorabile serata di capodanno, ma poi quando è arrivata davvero era un po’ triste, a mezzanotte e un secondo pensava solo a tornare a casa. Il piano era il seguente. Trionfale discesa di noi ragazzi di Brooklyn a Midtown Manhattan, in mezzo ai grattacieli; bagno di folla e giro di bevute sulla Quinta Avenue; cena e fe55

sta privata in un ristorante della 42a, con clientela selezionatissima; attesa del botto a Times Square, in prima fila davanti al concerto di capodanno, nel centro esatto dell’impero occidentale. Una serata uscita da un romanzo di Jay McInerney, o di Bret Easton Ellis. Ora, io ho un problema con la parte di New York che sta a nord della 14a Strada. In pratica la metà superiore dell’isola di Manhattan. Dopo le vie sghembe del Village, eredità del suo passato di sobborgo, la griglia urbana diventa implacabile, e anche chi non conosce la città può andarsene in giro senza mappa, tanto è come muoversi su un piano cartesiano. Dal punto di vista dell’esploratore urbano questo provoca due effetti contrari. Una struttura del genere ti permette di girare a caso senza perderti mai, ma che senso ha vagabondare senza smarrirsi, mettere le vele al vento senza la possibilità di naufragare? In fondo sono affezionato all’idea della città-labirinto. Al bisogno di ripetere percorsi, fissare punti di riferimento e coltivare abitudini, all’arte di orientarsi che in ogni città è diversa e va imparata da zero, procedendo per prove ed errori, dipanando il groviglio delle sue strade, spendendo tempo e suole delle scarpe. Come se il viaggio in una città sconosciuta fosse una storia d’amore agli esordi, quando l’attrazione è massima ma l’intimità tutta da costruire. A Midtown non succede. Nessuno chiede indicazioni ai passanti, nessuno ha l’aria di non sapere dove andare. La distinzione tra un newyorkese e un forestiero è molto labile – quasi tutti sono arrivati da un’altra parte, e quasi tutti prima o poi se ne andranno altrove – ma chi sta a New York da un po’ di tempo riconosce chi è appena arrivato 56

perché, uscendo dalla metropolitana, deve guardarsi in giro a lungo per individuare i punti cardinali. Una volta che li hai trovati il gioco è fatto, hai stabilito le tue coordinate sul piano e le direzioni. Così alcuni osservano i numeri civici (crescono andando verso nord, calano a sud), altri scrutano l’orizzonte in cerca d’acqua (il corso ampio dell’Hudson a ovest, quello stretto dell’East River a est), altri camminano fino a distinguere il numero della street più vicina, e capire da che parte stanno andando. Io uso il sole. Ci ho pensato su un po’, e alla fine ho deciso che questa per me è l’unica cosa bella della griglia urbana: nella mia città intrecciata di linee curve non mi è mai capitato di alzare gli occhi al cielo, e poi seguire la direzione del tramonto. Qui il sole mi indica la strada, le ombre dei grattacieli a mezzogiorno sono l’ago della mia bussola. Ma il problema con Midtown va oltre le questioni topografiche. L’intera iconografia della città arriva da questa zona, perché è la parte di Manhattan costruita nella sua età dell’oro: tra gli anni Venti e gli anni Cinquanta, quando l’Europa precipitava nel buio e gli Stati Uniti si avviavano a governare il mondo. Tutto, qui, parla di ricchezza e di potere. Non è cambiato molto da quando Francis Scott Fitzgerald, nel suo racconto May Day, descriveva questi viali come fossero i boulevard parigini sotto Napoleone, o i fori imperiali all’epoca di Augusto. C’era stata una guerra combattuta e vinta, e la grande città del popolo conquistatore era addobbata con archi trionfali e vivida di fiori bianchi, rossi e rosa lanciati dalla folla. Nella grande città non c’era mai stato tanto splendore, poiché la guerra vittoriosa aveva

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portato con sé l’abbondanza, e i mercanti avevano affollato la metropoli insieme alle loro famiglie, venendo dal Sud e dall’Ovest, per godersi i lussuosi banchetti e assistere ai festeggiamenti. Un giorno dopo l’altro le fanterie sfilavano nei viali e tutti esultavano, perché i giovani reduci erano puri e coraggiosi, con denti sani e gote rosa, e le giovani donne del paese erano vergini e belle.

Anche la narrativa di Gotham ha i suoi monumenti qui. La New York Public Library, immensa biblioteca-tempio, forse l’unica vera cattedrale di una città che rispetta tutti i culti, ma non ne abbraccia nessuno. La sede del «New Yorker», la rivista che da quasi un secolo detta legge nel panorama letterario americano. L’hotel Algonquin, dove Dorothy Parker radunava il suo circolo di scrittori ubriaconi. Il Plaza, il Waldorf-Astoria e tutti i grandi alberghi in cui bruciò l’età del jazz di Francis Scott Fitzgerald. La Grand Central Station e la Penn Station, da dove partono i treni diretti a Long Island e nel Connecticut, affollati dai pendolari tristi di John Cheever e Richard Yates. Forse c’è troppa letteratura, qui, per pensare di esplorare queste strade assaggiando il sapore del presente. Io però avevo il vecchio Jimmy quella sera. Era lui, il mio qui e ora. Qualche mese prima Jimmy aveva comprato un fuoristrada dall’amico Ira, ottimo medico e modesto giocatore di handball. Durante ogni viaggio mi chiedeva: «Ma a te sembra una macchina nuova o usata?», e io rispondevo sempre: «Nuova!», non solo per fargli piacere ma perché era vero, aveva dieci anni ed era senza un graffio. La sera di capodanno, dentro quella macchina, Jimmy e io sfrecciavamo sul ponte di Brooklyn diretti verso un ristorante di Times Square. Da 58

casa nostra a lassù si arrivava comodi con la linea F, ma lui non prendeva la metropolitana per questioni di principio: sosteneva che era troppo affollata e tutti spingevano e dovevi sempre stare attento al portafoglio, e poi puzzava, faceva freddo, faceva caldo, c’era rumore ed era sempre in ritardo. Anche questo faceva parte del personaggio. Non mischiarsi troppo alla gente, e se proprio si doveva, almeno cercare di saltare la coda, imboccare le scorciatoie, ottenere un favore dal vigile o dal bigliettaio. Prima di cena andammo a pattinare sulla pista ghiacciata di Bryant Park. Per me era la prima volta e non mi reggevo in piedi, così sulla pista Jimmy fermò una ragazza di passaggio, una vietnamita che non era davvero niente male: lui le chiese se fosse brava a pattinare, lei rispose «Abbastanza», lui disse «Questo è il mio amico italiano», mise la mia mano nella sua e mi fece l’occhiolino. Ci sapeva fare il vecchio Jimmy. Sopra di noi c’era l’Empire State Building illuminato di rosso e di verde. E anche se eri uno scrittore timido, affetto da quella sindrome tipica degli scrittori che ti impedisce di essere del tutto dentro le cose mentre le fai e ti costringe a guardarle sempre un po’ dal di fuori, però pattinare sul ghiaccio nel cuore di Manhattan l’ultimo giorno dell’anno, con una bella ragazza sconosciuta che ti teneva per mano e le luci della città sopra la testa, per un momento ti faceva dimenticare i tuoi libri e sentire proprio come tutti gli altri, uno tra gli altri. Dopo il pattinaggio venne l’ora di raggiungere la pizzeria. Il problema è che tutta la zona intorno a Times Square, dove a mezzanotte si raduna un milione di persone per il conto alla rovescia in diretta mondiale, era transennata e sorvegliata da un esercito di poliziotti. Chi era dentro, era dentro 59

da mezzogiorno. Chi era fuori, poteva entrare solo se aveva il biglietto di un teatro o di un albergo, la prova certa che non stesse facendo il furbo. Non bastava un invito a voce per una cena in pizzeria. Fu allora che vidi il vecchio Jimmy chinarsi verso il poliziotto di guardia in quel suo modo tipico, come faceva con il cameriere di Vinny’s quando voleva qualcosa che non c’era nel menu. Un po’ come parlandogli all’orecchio, ma non proprio. Abbassando il tono di voce e costringendolo a sua volta a chinarsi: rendendolo subito complice, con questo accettare di avere un colloquio privato. Il poliziotto ascoltò quello che Jimmy aveva da dire, si raddrizzò nella sua posa marziale e fece proprio la faccia del vigile al finestrino, dopo che gli hai raccontato la tua scusa e sta decidendo se farti o non farti la multa. E poi, con mio grande sconcerto, non solo ci aprì uno spiraglio fra le transenne, ma chiese a un collega di sostituirlo e ci scortò verso la nostra festa. Faceva un freddo assassino quella sera, si ghiacciavano le pozzanghere. Ogni viale di Manhattan è un camino in cui il vento si incanala, rimbalza tra i grattacieli e prende velocità, così incrociare Broadway dalla 43a era come attraversare una bufera. E lì, tra due ali di folla che aspettavano il loro momento da ore, nel vento ghiacciato e furibondo dell’ultimo dell’anno, vidi Jimmy sollevare gli occhi al cielo, respirare a pieni polmoni e sorridere, godendosi il suo piano grandioso mentre andava in porto. Mai, per tutta la sera, lo vidi altrettanto felice. Poco dopo fu chiaro che non era stata solo una faccenda di saperci fare: questa pizzeria pullulava di sbirri. C’era un accordo informale tra il proprietario del ristorante e il capo della polizia – un vecchio ita60

liano e un vecchio irlandese, come da copione – per cui i poliziotti in servizio potevano entrare liberamente, sedersi al caldo e bere tutto il caffè che volevano, e in cambio avrebbero vegliato sugli invitati, scortandoli prima all’ingresso e poi a festeggiare la mezzanotte in piazza. La festa fu un po’ strana con tutta quella polizia in giro. Le bevande erano offerte dalla casa, così capitava di tornare barcollando dal bar, con altri due bicchieri che cercavi di condurre intatti fino al tavolo, e andare a sbattere contro un enorme agente fornito di manganello e pistola, ed era dura farci l’abitudine. Ma un po’ alla volta il clima si rilassò. Il figlio del proprietario convinse l’ufficiale più alto in grado a concedere qualche brindisi ai suoi ragazzi, e poi gli chiese il favore di provare giacca e cappello per farsi una fotografia con la moglie. A quel punto rubò il megafono a un agente e si mise a gridare: «Mettete le mani sopra la testa, tutto quello che direte potrà essere usato contro di voi!». In poco tempo eravamo tutti amici. Fu in quella pizzeria, durante l’ora un po’ stanca prima della mezzanotte, che chiesi a Jimmy perché non si era mai sposato. Intorno c’erano tavoli in disordine, gente sazia e ormai senza contegno, piatti e bicchieri sparsi, risate. Accasciato sullo schienale della sedia, Jimmy mi raccontò che aveva avuto tre ragazze importanti: Myra, Erika e Jane («all togheter?», chiesi io, e lui rise un po’ ma non troppo). Erano una ebrea, una messicana e una afroamericana («oh, the complete collection!», dissi io, e questo lo fece ridere ancora meno). Erano state storie lunghe e serie, solo che c’era sempre qualcosa che non andava. «C’era sempre qualcosa 61

che io volevo fare e loro no», mi disse, «e non volevano nemmeno che la facessi da solo». Capito? A me sembrava di avere capito. Lo vedevo un po’ triste a quel punto, e allora, per distrarlo, gli chiesi se anche Bob non si era mai sposato per gli stessi motivi. No, disse Jimmy. E per quali motivi?, chiesi io. Per motivi diversi, disse lui. Ci eravamo impantanati nelle paludi della tristezza. Io non sapevo più cosa fare. Cominciai a giocherellare con il bicchiere vuoto, a masticare le croste di pizza. Poi Jimmy si riprese di colpo, indicò un tizio grande e grosso un paio di tavoli più in là e mi disse: lo vedi quello? Ha quattro figli, e un bel giorno è tornato a casa dicendo a sua moglie che la lasciava per mettersi con un uomo. Quello non è un ginocchio, vero? Com’è che si dice? Scoppiò a ridere nel suo modo tipico e poi andò a prendere qualcosa da bere per tutt’e due. C’era una fila lunghissima, ma lui tornò dopo un minuto. Vecchio Jimmy. Alla fine arrivò la mezzanotte. I poliziotti ricominciarono a fare i poliziotti e ci scortarono per due isolati fino a Times Square. I megaschermi della piazza erano sintonizzati su una decina di canali: le facciate dei palazzi, rivestite di pannelli a cristalli liquidi, mandavano contemporaneamente il concerto di capodanno, le azioni del campionato di football, il telegiornale con le guerre nel mondo, la pubblicità. A mezzanotte meno cinque da un paio di casse gigantesche montate sui grattacieli partì Imagine di John Lennon. A mezzanotte meno due guardai Jimmy, che a quel punto sembrava davvero tristissimo, con la gente che lo spintonava e il suo piano grandioso ormai agli sgoccioli. A mezzanotte meno uno 62

tutti gli schermi si sintonizzarono su un conto alla rovescia digitale, e un milione di persone cominciarono a gridare all’unisono fifty-nine, fifty-eight, fifty-seven, finché allo zero un’esplosione di coriandoli turbinò nel vento polare, e le casse lanciarono New York, New York di Frank Sinatra («Voglio svegliarmi in una città che non dorme mai. Sì, voglio farne parte. Se ce la faccio qui, allora potrò farcela dovunque»). In quel momento, mentre tutti si baciavano sommersi dai coriandoli e gli schermi impazziti di Times Square illuminavano la piazza a giorno, mi venne in mente che era il compleanno di Salinger. A dire la verità non mi venne in mente, l’avevo già deciso prima: avevo deciso che a mezzanotte in punto avrei pensato a lui. Il vecchio matto compiva novant’anni, e io stavo calpestando le strade dov’era cresciuto. Così ho sussurrato «buon compleanno vecchio, dovunque tu sia», e poi mi sono dedicato un po’ a ricordare Seymour e Buddy, Holden e le sue anatre e il suo cappello da cacciatore. Se fosse stato lì al mio posto, in mezzo alla folla in delirio, sono sicuro che avrebbe tirato fuori un pensiero nero dei suoi. Ho abbracciato Jimmy e già mentre lo abbracciavo lui mi ha chiesto se mi andava di tornare a casa, e io ho detto sì, va bene, torniamo a casa. Nessuno era mai diverso. L’unico a essere diverso eri tu. Non è che fossi più vecchio né niente. Non era proprio questo. Eri solo diverso, ecco tutto. Questa volta avevi addosso un soprabito. O il ragazzo che era stato tuo compagno l’ultima volta si era preso la scarlattina e ora avevi un nuovo compagno. O c’era una supplente a sorvegliare la classe al posto di Miss Aigletinger. O avevi sentito tuo padre e tua madre che litigavano di brutto nel bagno. O

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per strada avevi appena superato una di quelle pozzanghere in cui la benzina fa l’arcobaleno. Voglio dire, in qualche modo eri diverso. Non so spiegare quello che ho in mente. E anche se sapessi farlo, non sono sicuro che ne avrei voglia.

C’è un’altra cosa che ho scoperto quella sera: il vapore che sale dai tombini di Gotham non arriva dalle gallerie della metropolitana né dalle cucine dei ristoranti cinesi, ma dalle condutture del teleriscaldamento. È un circuito inaugurato nel 1877 e giunto a regime negli anni Trenta, quando serviva il Chrysler Building, l’Empire State Building, la Penn Station, la Grand Central Station e il Rockfeller Center. Ancora adesso, circa 1800 edifici a Manhattan non hanno un locale caldaie, ma vengono riscaldati in questo modo: sei grandi centrali distribuite sull’isola producono vapore e lo forniscono ai loro clienti proprio come succede con il gas, l’acqua o l’elettricità. Gli impianti, che sono molto vecchi, necessitano di continui lavori di manutenzione, e questo spiega i tombini che fumano nella notte e certi marciapiedi bollenti su cui ti siedi d’inverno, quando sei mezzo congelato e stanco di camminare – come regali che ti sorprendono e quasi quasi ti spingono a fare la pace con Midtown, il pezzo di New York che non hai mai amato.

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In cerca di un jukebox all’idrogeno (Greenwich Village + East Village)

Appendo vecchie foto di ragazze della mia infanzia. Col cuore a pezzi siedo, gomito sulla tavola, mento nel palmo, e studio gli occhi fieri di Helen, la bocca debole di Jane, i capelli d’oro di Susan. Gregory Corso

Una sera ero al Greenwich Village e mi ricordo che pioveva forte. A un certo punto pioveva così forte che mi sono riparato nella libreria di Carmine Street: Unoppressive Non-Imperialist Bargain Books. Sarò rimasto un’ora a sfogliare libri su Ginsberg, Bob Dylan, il buddismo zen, le droghe naturali e sintetiche, il femminismo, la psichedelia, il potere nero, la rivoluzione sessuale. Poi ho trovato qualcosa che stava aspettando me. Una guida intitolata The Beat Generation in New York. La mappa delle strade, le case, i pensionati universitari, le stazioni degli autobus e dei treni, i locali nottur67

ni in cui nacque la leggenda beat. Fuori la pioggia non accennava a diminuire – ci sono certe settimane di primavera, a Gotham, in cui piove così forte e così a lungo che l’acqua penetra nel sottosuolo fino alle gallerie della metropolitana, ti gocciola in testa mentre aspetti il treno, forma torrenti gorgoglianti tra i binari – ma erano i giorni in cui me ne andavo in giro con Kerouac in tasca, ed ero in cerca del mio Dean Moriarty per cambiare vita. Leggevo Sulla strada e mi sentivo più o meno così: Correvano insieme per le strade, assorbendo tutto in quella primitiva maniera che avevano, e che più tardi diventò tanto più triste e ricettiva e vuota. Ma allora danzavano lungo le strade leggeri come piume, e io gli correvo dietro come ho fatto tutta la vita con la gente che mi interessa, perché per me l’unica gente possibile sono i pazzi, quelli che sono pazzi di vivere, pazzi di parlare, pazzi di essere salvati, desiderosi di tutto allo stesso tempo, quelli che mai sbadigliano o usano un luogo comune, ma bruciano, bruciano, bruciano come fuochi d’artificio gialli che esplodono a forma di ragno tra le stelle e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno «Ooohhh!».

Perciò ecco, da certe pagine secche e giallognole del mio taccuino, come diventa la carta dopo che è stata bagnata e asciugata, il resoconto di quella ricerca. La prima tappa era MacDougal Street, la strada maestra del Village notturno. Lì in un paio di isolati si concentrano il Café Reggio e il Café Wha?, la Minetta Tavern, il vecchio San Remo e il Gas Light Café, tutti locali storici, secolari testimoni di sbronze, risse, esordi musicali, amori selvaggi e pagine di letteratura, ormai 68

ridotti ad attrazioni turistiche mangiasoldi. Per ritrovare un po’ di spirito dell’epoca ho svoltato in Minetta Lane e poi in Minetta Street, uno dei rarissimi vicoli curvi newyorkesi, e mi sono fermato a contemplare l’insegna sbiadita del Black Fat Pussycat. Era una scritta a vernice dipinta sul muro e mezza coperta dal neon di un ristorante messicano, che chissà quando ha sostituito il vecchio locale degli anni Cinquanta. Appena un metro più su, una ragazzina fumava una sigaretta seduta sulla scala antincendio. Guardava la pioggia e fumava, e a me è venuta in mente una poesia di Gregory Corso, l’unico dei beat che al Village era nato, quando ancora la sua parte occidentale, a ovest della Sesta Avenue, era un quartiere popolare italiano. Corso fu abbandonato dalla madre a pochi mesi d’età, crebbe tra l’orfanotrofio e due diverse famiglie adottive, venne educato dalla strada, arrestato più volte per furti e rapine e rinchiuso in riformatorio e poi in carcere, e infine trovato da Allen Ginsberg in un bar, e salvato dalla poesia. Quando tornò nel vecchio quartiere, il Village si era ormai trasformato nel palcoscenico della bohème newyorkese. Sto in piedi nella luce buia della strada buia, e alzo gli occhi verso la mia finestra, dove sono nato. Le luci sono accese; altra gente si muove lassù. Ho addosso l’impermeabile, sigaretta in bocca, cappello calato sugli occhi, mano sulla pistola. Attraverso la strada ed entro nel palazzo. I sacchi della spazzatura non hanno smesso di puzzare.

La tappa successiva era la White Horse Tavern di Hudson Street, dove Dylan Thomas restò mezzo morto dal bere il 3 69

novembre 1953, prima di morire davvero nel giro di una settimana. È il bar letterario più famoso del Village e oggi vive della sua leggenda: quando ci sono andato io risplendeva di luci al neon che richiamavano turisti da quattro o cinque isolati di distanza. Mi sono avvicinato alla vetrina e ho letto il programma della serata. Alle sei sarebbe partito un tour per i bar del quartiere, con attori che interpretavano Dylan Thomas, Jack Kerouac e altri scrittori alcolizzati. Prenotandosi era possibile seguirli, ascoltare i loro monologhi da ubriachi, offrire da bere ai propri miti letterari e sentirsi per un paio d’ore negli anni Cinquanta. La mia ultima speranza era Chumley’s in Bedford Street. Il posto è noto per non avere mai avuto un’insegna: fu inaugurato negli anni Venti e durante il proibizionismo funzionò da speak-easy, uno di quei bar in cui si vendevano alcolici sottobanco. Avevo osservato a lungo, nelle fotografie, le inferriate montate alle finestre per evitare irruzioni a sorpresa, il passaggio segreto per uscire dal retro, le copertine dei clienti più famosi esposte alle pareti: Theodore Dreiser, Francis Scott Fitzgerald, J.D. Salinger, e gli immancabili Burroughs, Ginsberg e Kerouac. Quando sono arrivato sul posto, tutto quello che ho trovato era il ponteggio di una palazzina in costruzione. Chiedendo in giro ho poi scoperto di aver mancato di appena due settimane il momento migliore, l’epifania tipica di New York: quella in cui cerchi un edificio storico indicato sulla guida, o un indirizzo segnato da un amico su un biglietto, o un palazzo che l’ultima volta stava proprio lì, ne sei sicuro, ci sei entrato esattamente un anno fa, e ti trovi di fronte a una spianata. Nell’aprile di quell’an70

no una crepa era improvvisamente apparsa su un muro di Chumley’s. Il locale era stato sgomberato e poco tempo dopo era crollato. Quando una cosa del genere è successa davanti ai miei occhi – mi trovavo in una tavola calda dell’Upper West Side e sul lato opposto della strada una ruspa portava via macerie ancora fumanti – il cameriere a cui ho chiesto spiegazioni si è limitato a scrollare le spalle e rispondere: «Amico, questa è New York». Un luogo in cui le cose finiscono e ricominciano a una velocità troppo elevata per coltivare nostalgie. Così alla fine ho attraversato di nuovo il Village da ovest a est, tornando sui miei passi lungo la 4a Strada, e superando la Sesta Avenue, Washington Square, Broadway, fino alla cara vecchia birreria McSorley’s tra la 7a Strada e la Terza Avenue. È un locale fondato nel 1854, che produce la propria birra e vende solo quella. Per la prima volta l’ho trovato mezzo vuoto. Un gatto si aggirava dalle parti del bancone: c’era sempre stato? Forse nelle ore di punta andava a nascondersi da qualche parte. Ho osservato di nuovo le foto appese alle pareti, così tante da tappezzarle completamente. Raccontano la storia di McSorley’s, di New York e d’America nell’ultimo secolo e mezzo. Ci sono tavoli di legno, segatura per terra e una piccola stufa a carbone al centro della sala. L’oste, che tra me e me ho battezzato signor McSorley, mi ha preso in simpatia perché ho i capelli rossi e sembro un irlandese, e in più conosco un trucco della casa: siccome qui hanno soltanto due tipi di birra, la chiara e la scura, e siccome ordinandone una te la portano in due piccoli boccali separati, quando lui ti chiede «Chiara o scura?» tu puoi ri71

spondere «Tutt’e due!», e stai sicuro di aver ottenuto la sua benevolenza. Così ho chiesto al signor McSorley una chiara e una scura, mi sono seduto vicino alla stufa e ho buttato giù questi appunti, la cui prosa risulta sempre più fluida, e la calligrafia più illeggibile con l’avanzare della notte e dei bicchieri vuoti. Le dita aggrappate alla trama di ferro della recinzione, il traffico della Sesta Avenue alle mie spalle, passo il tempo a osservare le partite di handball dentro la Gabbia, il campetto storico sulla 4a Strada. Lì accanto va in scena il miglior basket della città, ma io sono più affascinato da quest’altro gioco. Bob, che è cresciuto nel quartiere in un’epoca appena successiva a quella di Corso, mi racconta spesso delle lunghe partite in cui si sfidavano i ragazzi delle bande rivali, non in un campetto ma sui muri dei palazzi. Lui girava a piedi nudi all’epoca. La pallina era un tesoro prezioso: possederla significava avere un ruolo dominante nella banda, perderla era una tragedia. Il gioco è ancora così popolare che ogni parco o giardinetto ha un muro di cemento alto circa quattro metri e largo il doppio, con le righe del campo disegnate per terra a vernice. Oggi non solo lo spirito del Greenwich Village, anche il suo territorio ha confini incerti. A New York i problemi di toponomastica sorgono a causa del mercato immobiliare: pezzi di città vengono ristrutturati e prendono nomi nuovi, e i loro prezzi salgono alle stelle. Così sono nati Soho (South of Houston Street), Noho (North of Houston Street), Nolita (North of Little Italy), Tribeca (Triangle below Canal Street), 72

ma questi nomi non hanno nessuna importanza: il quartiere in cui Bob è stato bambino andava da Houston Street alla 14a Strada, e da Broadway al fiume Hudson. Fu un borgo separato da New York fino al 1822, quando un’epidemia di febbre gialla spinse chi poteva permetterselo a scappare dalla punta meridionale di Manhattan, e colonizzare le campagne. L’ambiente qui era borghese, la metropoli tornava alle dimensioni del villaggio. I due scrittori più celebri vissuti da queste parti furono i suoi primi cantori: Henry James (Washington Square, 1880) ed Edith Wharton (La casa della gioia, 1905; L’età dell’innocenza, 1920), uno maestro dell’altra, entrambi cresciuti a New York ma espatriati in Europa per una sorta di esilio intellettuale, in anni in cui la società americana appariva inadeguata a coltivare arte e letteratura. Anche l’ambiente descritto nei loro libri – quello dell’alta borghesia di fine secolo – è raffinato, conservatore, chiuso ai limiti del soffocamento. Quanta distanza dal quartiere degli artisti, della controcultura, dei movimenti politici. Qualche decennio dopo, nel 1949, Marcel Duchamp avrebbe proclamato la «Repubblica indipendente del Greenwich Village». Negli anni Cinquanta i beat, arrivati dai quattro angoli d’America, l’avrebbero eletto a teatro delle loro scorribande, e nei Sessanta tra qui e San Francisco sarebbe risorta la musica folk, e nato il movimento hippy. E oggi che cosa resta? Una volta, in un bar di Tompkins Square, ho visto sulla cassa un adesivo con la scritta I miss the old New York: «Mi manca la vecchia New York». Quella più sporca, più violenta, più fertile e più sincera. Di nuovo il problema dell’autenticità, la persecuzione del viaggiatore contemporaneo. 73

Nello stesso bar ho passato il pomeriggio a osservare foto d’epoca, molte scattate sui tetti del quartiere. Sembra proprio che nessuno volesse saperne di restare in casa, a quei tempi. Ragazzi di vent’anni con l’espressione assonnata, felice, strafatta, infreddoliti dentro abiti troppo leggeri, sorridenti, abbracciati a coppie, con gli edifici bassi del Village sotto di loro e l’Empire State Building in lontananza. Concludere che ormai è tutto finto è una tentazione frequente girando per le strade in cui prosperano i ristoranti italiani e francesi, i locali in cui si suona jazz, i negozi dall’aria polverosa che vendono magliette e poster, vestiti usati e dischi in vinile, in un triste mercato dell’autocelebrazione: e in fondo è quello che mi piace di Brooklyn, la sensazione di lasciarsi alle spalle il passato ed esplorare luoghi in cui le cose succedono adesso, proprio mentre le guardi, e non sono la rappresentazione sbiadita di altre cose successe mezzo secolo fa. Eppure, arrivando a Washington Square un sabato pomeriggio d’estate, è impossibile non sentire l’energia che scorre ancora da queste parti: giocolieri e saltimbanchi improvvisano spettacoli nel parco, alcune bancarelle espongono dipinti e fotografie, gruppi di studenti prendono il sole sui prati. Il demone del gioco mi costringe ad accettare l’invito di uno degli scacchisti barboni accampati tutto il giorno nell’angolo sud-ovest della piazza, ai tavoli in cui Bobby Fischer si allenava da ragazzino. Il mio avversario è molto concentrato durante la prima partita, ma quando si rende conto di non avere di fronte un campione si rilassa, diventa arrogante e poi quasi dispiaciuto di spennarmi. Io riesco a mettere a tacere l’orgoglio e ad alzarmi dal tavolo soltanto dopo quat74

tro sconfitte, le tasche alleggerite di una ventina di dollari. Vado a leccarmi le ferite sul prato, ascoltando una ragazza che canta come Joan Baez sotto il simbolo del Village ottocentesco: l’Arco di Trionfo costruito nel 1889 per celebrare la memoria di George Washington e fare da ingresso alla Quinta Avenue, il viale più luccicante della città delle luci, cinquanta isolati di lusso sfrenato che rappresentano New York nel mondo e che io non sono mai riuscito ad amare. Come i viaggiatori solitari, anche i lettori seguono percorsi tutti loro. Per me, la porta del Greenwich Village è stata Grace Paley. A lei ero arrivato passando da Raymond Carver, il mio scrittore preferito quando ne avevo uno: alla fine degli anni Settanta furono accomunati dalla critica come il padre e la madre del minimalismo letterario. Avrei scoperto quasi subito che non avevano niente in comune, se non la scelta di scrivere racconti brevi ambientati nella quotidianità famigliare. Ma Carver veniva dalle montagne del nord-ovest, era figlio di un operaio e di una cameriera e crebbe leggendo London ed Hemingway, mentre Grace Paley era un’ebrea newyorkese, erede della tradizione yiddish e vicina agli scrittori postmoderni, tra cui l’amico Donald Barthelme. Il suo lavoro sulla lingua fu così ossessivo da non permetterle di pubblicare più di tre raccolte di racconti in una vita di lavoro. Piccoli contrattempi del vivere (1959), Enormi cambiamenti all’ultimo momento (1974), Più tardi nel pomeriggio (1985). Una cinquantina di storie in tutto: la mia prima casa a New York, il mio Lower East Side di lettore. 75

Per modestia, sosteneva che non fosse una questione di perfezionismo ma di bambini da allevare e pasti da cucinare. «L’arte è lunga e la vita troppo breve», diceva, pensando ai suoi tre libri scritti in trent’anni di carriera. Era nata nel Bronx nel 1922, figlia di oppositori del regime zarista scampati ai campi di lavoro grazie a un’amnistia. Emigrati a New York all’inizio del secolo, in famiglia parlarono sempre russo e yiddish. Si chiamavano Gutseit ma una volta in America cambiarono il loro nome in Goodside, «il lato buono», forse sperando di essere arrivati nel posto giusto. Un giorno stavo ascoltando la radio. Sentii una canzone: Vorrei vedere mia madre sulla soglia. Mio dio – dissi – io la capisco questa canzone. Quante volte ho desiderato vedere mia madre sulla soglia. In effetti, stava sempre nel vano delle porte a guardarmi. Un giorno stava proprio così, sulla soglia di casa, l’oscurità del corridoio alle sue spalle. Era Capodanno. Disse con tono triste: Se torni a casa alle quattro del mattino a diciassette anni, a che ora tornerai quando ne avrai venti? Fece questa domanda senza sarcasmo o meschinità. Aveva cominciato i suoi inquieti preparativi per la morte. Non ci sarebbe stata, pensava, per i miei vent’anni. E così si interrogava.

Da ragazza cominciò a interessarsi di politica e ad allontanarsi dal quartiere in cui era cresciuta, si sposò a vent’anni e andò a vivere nel Greenwich Village. Era la stessa epoca, gli anni Quaranta, in cui nascevano i beat, ma non credo che le loro strade si siano mai incrociate. Eppure si assomigliavano: anche Grace Paley era profondamente, visceralmente antiautoritaria. In un’intervista raccontò che non riusciva a usare un 76

libro di ricette senza ribellarsi all’idea di ricevere ordini. Ecco, lei forse aveva l’ironia che a Ginsberg mancava. Cercò di imparare a scrivere raccontando quello che vedeva tutti i giorni: le giovani madri e mogli e i loro piccoli contrattempi del vivere, i mariti che non c’erano mai – che fossero al bar o al lavoro o al fronte – e i prepotenti bisogni dei figli, il problema di essere donna in America durante e dopo la guerra. Erano cose serie ma lei ci rideva sopra, ne parlava con quella leggerezza delle chiacchiere da vicine di casa. Mio marito mi regalò una scopa per Natale. Non era giusto. Nessuno riuscirebbe a convincermi che fosse un pensiero gentile. «Mi sto arruolando nell’esercito e non voglio che tu non abbia niente per Natale», disse. [...] Gran bel regalo da dare a una donna che progettavi di non vedere più per un pezzo, con cui avevi dei figli e nel cui corpo entravi e uscivi quando ti pareva, ubriaco o sobrio, anche prima di alzarti presto al mattino. Gli chiesi di aspettare una mezz’ora ad arruolarsi nell’esercito, così potevo fare la spesa.

Faith Darwin, la protagonista delle sue storie, cresce e invecchia insieme a lei in questi tre libri: è ragazza ribelle e poi moglie non sottomessa e poi madre sola e orgogliosa, si innamora di uomini e ideali, diventa femminista e pacifista. Anche Grace Paley ebbe due mariti e due figli, partecipò a marce di protesta per le strade d’America, manifestò contro la guerra in Vietnam e per i diritti della donna, fu arrestata più volte, fece parte di delegazioni politiche a Santiago del Cile, a Mosca, ad Hanoi, ma tornò sempre a New York, co77

me se fosse impossibile vivere da un’altra parte – e per me, in effetti, è impossibile immaginarla altrove. Di mestiere insegnava scrittura. A.M. Homes, che fu sua allieva, una volta mi disse: «Quello che Grace insegnava non riguardava tanto la scrittura, riguardava la vita. Riguardava il significato di essere uno scrittore, l’importanza della dignità umana. Lei parlava spesso dell’onestà nei confronti di un personaggio, e lavorando su un racconto ti spingeva sempre a chiederti se lo stavi lasciando libero di fare le sue scelte, o gli stavi imponendo le tue». Continuava a scrivere poco – diceva di non essere capace di chiudersi in camera a lavorare, di non riuscire a tagliar fuori il mondo – ma dagli anni Ottanta in poi cominciò a essere premiata, tradotta all’estero, riconosciuta. È la sua voce, ancora più che le sue storie, a imprimersi nella memoria. È la voce dei vicoli di New York nel Novecento, è yiddish e italiano e afroamericano, è come quel genere di jazz che per tutto il tempo singhiozza e stona, si rifiuta di rinchiudersi in un ritmo, e poi di colpo si abbandona a certe dolcissime melodie. È una voce generosa e piena di passione, com’era lei con tutti. Io l’ho mancata di un niente nel 2004: si era detta disponibile per un’intervista, ma era già malata. L’estate a New York era rovente e lei si stava riposando nella sua casa del Vermont, dove sarebbe morta poco tempo dopo, a ottantacinque anni. Non aveva smesso di scrivere poesie. Eccomi qui a ridere in giardino una vecchia coi seni pesanti e una mappa disegnata sul viso – comunque sia successo

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è quello che volevo diventare – infine una donna seduta per terra all’antica cosce robuste piegate sotto un’ampia gonna e in braccio un bambino che salta su e giù nel piacevole sudore estivo – il mio vecchio in fondo al cortile parla con il tecnico del contatore gli sta raccontando la triste storia del mondo l’energia elettrica fatta di uranio e petrolio e così dico a mio nipote, vai corri da tuo nonno e pregalo di sedersi accanto a me per un minuto all’improvviso sono sfinita dal desiderio di baciare le sue sagge dolci labbra.

Una linea netta segna il confine orientale del Greenwich Village. Broadway, che quaggiù non è il viale dei teatri ma una bella strada piena di librerie e ristoranti. Subito dopo, camminando verso est, l’8a Strada prende il nome di St. Mark’s Place, e nel giro di un isolato la macchina del tempo mi scaraventa negli anni Settanta: tatuatori e parrucchieri specializzati in creste colorate, negozi di abbigliamento in cuoio e giubbotti di gruppi musicali, punk tra i quindici e i vent’anni che passano il pomeriggio camminando avanti e indietro, osservando le vetrine o fermandosi a fumare e discutere sui gradini delle case. Proseguendo ancora, la Seconda Avenue segna la trasformazione definitiva del paesaggio. Nella prima metà del Novecento, quando le case affollate di emigranti cominciarono a espandersi verso nord, que79

sta veniva considerata la parte settentrionale del Lower East Side. Per i portoricani che hanno colonizzato il quartiere si chiama ancora così: Loisaida. Per le agenzie immobiliari è Alphabeth City, dato che dopo la Prima Avenue i viali diventano Avenue A, B, C, D, ma questo nome non ha mai avuto successo a New York, forse perché non evoca niente nella memoria di nessuno. Chi ci ha vissuto negli anni Settanta e Ottanta, o chi come me ne ha coltivato il mito, continua a chiamarlo East Village. È il posto in cui gli artisti vennero a vivere quando il Greenwich Village diventò un quartiere alla moda, ormai troppo costoso per abitarci. Furono gli anni della Factory di Andy Warhol, l’età brevissima di Keith Haring e Basquiat, l’epoca in cui qualsiasi trasgressione, dalle droghe alle pratiche sessuali, sembrava sperimentabile. Lou Reed cantava Heroin con i suoi Velvet Underground. Negli anni Ottanta fu spazzato via tutto proprio dall’eroina, dall’Aids e dallo yuppismo, dal modello unico del successo economico e sociale. In pochi anni chiave, intorno al 1985, la trasformazione fu raccontata in modi diversi da alcuni giovanissimi scrittori newyorkesi: Jay McInerney con Le mille luci di New York, David Leavitt con Ballo di famiglia, Lorrie Moore con Tutto da sola. Del 1995, ma ambientato un decennio prima, è invece il romanzo breve di Rick Moody, La più lucente corona d’angeli in cielo, che ha ritratto come nessun altro la fine di quell’epoca: «Noi tutti facevamo su e giù per l’8a Strada come se fosse una vera e propria arteria dentro una forma di vita più grande, un organismo più grande. Nessuno di noi sembrava essere consapevole della natura delle coincidenze che ci univano, come io 80

ne sono consapevole ora, né del fatto che i tossici e i masochisti e le puttane, e quelli che hanno sprecato tutto nella vita, sono la più lucente corona d’angeli in cielo». Anche questa zona obbedisce alla strana regola della metà inferiore di Manhattan: più si cammina verso est e più le strade diventano povere, le case cadenti, l’umanità marginale. Molti negozi chiusi, alcuni edifici demoliti, i turisti che lasciano il posto a latini e afroamericani, che riescono a vivere qui grazie al regime di rent control, l’equo canone a cui sono soggetti molti edifici del quartiere. Sui marciapiedi compaiono gli homeless con i loro carrelli di lattine e bottiglie vuote, che a fine giornata scambieranno per qualche moneta. I vecchi tossici si aggirano ancora intorno a Tompkins Square, la piazza che negli anni Ottanta si trasformò in baraccopoli dell’eroina. All’angolo con Avenue A una donna nera molto grassa, con i capelli stirati e biondi, grida in un telefono pubblico. Ha accanto a sé due bambini, maschio e femmina, con lo zaino in spalla. Dev’essere appena andata a prenderli a scuola e forse sta litigando con il padre: grida motherfucker al telefono e poi lo sbatte contro il muro, afferra per mano i bambini e se ne va, mentre la cornetta resta lì a penzolare per aria. Capita di percorrere queste strade e imbattersi in strani cortili. Sulla 3a Strada, tra Avenue B e C, nel buio di un pomeriggio d’inverno vengo attirato dal suono di campane tibetane. Arriva da un fazzoletto di terra largo tre metri, chiuso tra una palazzina e quella successiva. Sulla recinzione che lo separa dalla strada c’è un cartello, e la scritta Brisas del Caribe Garden. È un giardino lungo e stretto percorso da un 81

sentiero lastricato. Ai lati una sfilata di statuine di gesso: una rana, un coniglio, un frate che identifico come Sant’Antonio, due bamboline sedute su un muretto di mattoni. Anche la baracca che intravedo in fondo – due sedie e un tavolo e una griglia per il barbecue – ha l’aria di una casa delle bambole. Di giardini simili se ne trovano in ogni isolato. Hanno nomi come Peachtree Garden, Generation X Garden, La Plaza Cultural Garden, e decorazioni che vanno dall’eccentrico al kitsch al macabro vero e proprio. Le Petit Versailles Garden si chiama così perché è pieno di specchi, interi o a frammenti conficcati per terra. Il Kankeleba House Garden ha una collezione di sculture in metallo, androidi ricavati da scarti di rame e ferro. Ma in giro ho visto anche cornici vuote, pastori del presepe alti un metro, carrelli della spesa mezzi seppelliti e usati come fioriere, lapidi di marmo rubate a qualche cimitero, stagni zen circondati da teschi di Amleto. D’estate lo stesso gusto è applicato al giardinaggio. Non ci sono aiuole ben curate qui, né i prati all’inglese di Brooklyn, ma rampicanti che crescono in mezzo ai roseti e tulipani piantati tra i cespugli: l’effetto è quello della vegetazione selvatica, come un pezzo di foresta tropicale tra i muri scrostati dell’East Village. Sono i community gardens, luoghi caratteristici del quartiere e di tutta New York. Verso la fine degli anni Settanta la città attraversava una crisi nera di disoccupazione e criminalità, che aveva portato allo spopolamento di alcune zone, tra cui il Lower East Side. Altri posti, come Harlem e il Bronx, devono a quell’epoca la loro fama. Quando gli edifici sfitti divennero ricovero di umanità alla deriva, la reazio82

ne delle autorità fu di sgomberare e demolire. Quando a loro volta i vacant lots, gli spazi liberati dalle ruspe, si dimostrarono luoghi ideali per lo spaccio e la prostituzione, la risposta fu il filo spinato: nel 1977 esistevano circa 25.000 lotti recintati in cui proliferavano topi e spazzatura. Fu allora che, nel movimento ambientalista, nacque l’idea di riappropriarsi di questi spazi. Il primo gruppo, chiamato Corpo di Pace della Generazione Post Flower Power, inaugurò la pratica delle Seeds Bombs, palloncini riempiti di terra e semi da gettare nei lotti abbandonati perché germogliassero. Con il nome di Green Guerrillas lo stesso movimento riuscì ad avere in gestione un giardino che esiste ancora oggi – sul lato nord di Houston Street tra la Bowery e la Seconda Avenue – e in onore della fondatrice porta il nome di Liz Christy Garden. Da allora la pratica dei giardini autogestiti si diffuse nel quartiere, fino a quando New York fu investita dalla ripresa economica degli anni Ottanta, e il senso della lotta – quasi sempre persa in partenza – divenne non più l’attacco delle aree abbandonate ma la difesa di quei fazzoletti di verde dalla speculazione edilizia. Oggi ne restano sempre meno. Così come i fiori e l’erba, anche la poesia ha una storia di clandestinità e guerriglia nel quartiere. Anch’essa dovette trasformarsi in una bomba di semi mentre l’East Village e il Lower East Side attraversavano i loro anni bui. Lo fece in una lingua mai sentita, dopo che italiano e yiddish smisero di risuonare da queste parti, quando nuovi emigranti sbarcarono al posto di quelli europei. La scelta tra la lingua madre e l’inglese ha sempre costituito un passaggio critico, nel83

la letteratura dell’emigrazione. Quando non sai chi sei, non sai più nemmeno che parole usare. Oppure, per dirla con i versi di Sandra Maria Esteves: Essendo puertorriqueña dominicana borinqueña quisqueyana taìna africana nata nel Bronx, non proprio jìbara eppure non gringa nemmeno pero ni portorra, pero si portorra anche pero ni que che cosa sono? Y que soy, pero con che voce si muovono le mie labbra?

Oggi questa lingua ibrida si chiama spanglish. Ma l’immigrazione da Puerto Rico non è un fenomeno recente: cominciò nel 1917, quando gli abitanti delle isole ottennero la cittadinanza americana, ed esplose negli anni Sessanta, facendo di New York la maggiore colonia di portoricani nel mondo, quasi un milione. Le zone in cui tradizionalmente si installarono furono tre: il grande Bronx, che è stato per i latini e gli afroamericani quello che il Lower East Side fu per gli emigranti europei; il quartiere a nordest di Manhattan chiamato Spanish Harlem oppure El Barrio; questa zona tra l’East Village e il fiume, che Bimbo Rivas nella sua poesia più famosa ribattezzò Loisaida. Il termine ebbe successo e oggi Loisaida Avenue è il soprannome della poco poetica Avenue C. Anche gli emigranti di seconda generazione avevano bisogno di un nome nuovo – non si sentivano più portoricani e non ancora newyorkesi – e così si chiamarono nuyorican. In prosa la loro esperienza fu raccontata da Piri Thomas, con 84

un’autobiografia del 1967, Down these main streets, ma fu in poesia che il movimento trovò la sua espressione più genuina. Con Pedro Petri e il suo Necrologio Portoricano, lamentazione funebre per cinque uomini e donne sbarcati a New York in cerca di fortuna e morti di lavoro, di violenza e di stenti. Con Miguel Algarin e Miguel Piñero, curatori nel 1975 dell’antologia Nuyorican Poetry e fondatori del Nuyorican Poets Cafe, che ancora oggi, nella sua sede della 3a Strada, è il tempio della controcultura latina. A Loisaida negli ultimi trent’anni tutte queste storie si sono intrecciate: la poesia, i giardini, i murales, i community centers e la loro azione sociale condotta spesso attraverso la musica e il teatro, le vite avventurose dei poeti venuti dalla strada. Per questo ogni tanto penso che l’anima perduta della Beat Generation si sia reincarnata in questo movimento – anche lei camminando verso est, cercando sempre i margini, le strade meno battute. Mentre varco la soglia del Nuyorican Poets Cafe – il venerdì è la serata del poetry slam, la gara tra poeti che da qui si è diffusa nel mondo – penso che alla fine di questa strada, appena un paio di isolati più a est, c’è il fiume, e poi cominciano le luci di Brooklyn. Forse qualcuno proprio in questo momento le sta dedicando versi da innamorato, come fece Bimbo Rivas nella sua poesia-manifesto. Lower East Side Ti amo. Tu sei la mia bella. Dovunque mi trovo Io penso a te! Le montagne e le

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valli non possono competere con il mio amore per te, Loisaida, ti amo. Adoro la tua lingua, adoro il tuo aspetto. Me vacila tu cantar y yo me las juego fria pa’ que vivas para siempre. En mi mente, mi amada, yo te llamo Loisaida.

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Il lato sbagliato del ponte (Park Slope)

Vivo a Brooklyn. Per scelta. Truman Capote Stavo cercando un posto tranquillo per morire. Qualcuno mi consigliò Brooklyn, così la mattina dopo partii da Westchester per andare a fare un sopralluogo. Paul Auster

Per un lettore come me, il cui firmamento è un cielo costellato di bottiglie vuote (Poe, Melville, London, Faulkner, Hemingway, Fitzgerald, Kerouac, Yates, Capote, Cheever, Carver, Bukowski: la storia della letteratura americana, per motivi mai compresi fino in fondo, è anche una storia dell’alcolismo), appena arrivato a New York fu di fondamentale importanza verificare l’esistenza di due icone letterarie: la «confezione da sei» e lo «spaccio di liquori». Saranno state altre invenzioni di traduttori? Con sollievo, e grande giova89

mento della mia vena poetica durante i soggiorni a Brooklyn, ho scoperto che la confezione da sei esiste davvero ed è una specie di valigetta di cartone, in grado di contenere sei bottiglie di birra da mezza pinta. Deve la sua fortuna al fatto di essere venduta nei drugstores, empori aperti ventiquattr’ore su ventiquattro dove puoi correre a rifornirti di birra se sono le tre di notte e ti è venuta sete. A Gotham i posti del genere si chiamano, a seconda del quartiere, groceries, bodegas, convenience o deli, ma si assomigliano tutti: due o tre file di scaffali gremiti di biscotti, patatine, caramelle, dolciumi industriali, cibo in scatola; un frigorifero pieno di bibite; la macchina del caffè sempre in funzione accanto alla bacheca delle sigarette; luci fioche per nascondere il decadimento generale. Lo spaccio di liquori, al contrario, è un negozio molto austero, virile in un modo antico e anglosassone, con scaffalature di legno che arrivano al soffitto e bottiglie allineate secondo genere e prezzo, dal raffinato scotch d’importazione fino al dubbio bottiglione di cabernet californiano. Deve la sua esistenza al fatto che gli alcolici, a parte la birra, non possono essere venduti al supermercato. Il proprietario del deli è di solito un latino, un asiatico o un afroamericano. Ha un aspetto annoiato e sonnolento, ma nessun luogo è migliore per fare due chiacchiere o chiedere informazioni. Il proprietario dello spaccio di liquori di preferenza è bianco e sospettoso. Deve averne viste troppe, e non si sorprende più di niente, e non si fida più di nessuno. Entrambi i negozianti, lavoratori della notte, hanno un piccolo televisore sempre acceso nei pressi del banco: ma nel deli trasmettono un film di Bollywood o una telenovela messicana, nello spaccio di li90

quori una partita di football. Entrambi ti consegneranno la merce dentro un sacchetto nero. Più passa il tempo, più mi sembra di capire meglio l’importanza di questo sacchetto e del suo colore. Mi ricorda il velo nero del racconto di Hawthorne, in cui il giovane reverendo Hooper decide di coprirsi il volto per il resto dei suoi giorni, gettando scompiglio nella comunità. Il velo, così come il sacchetto, ha a che fare con lo strato di finzione che separa l’apparenza dei rapporti sociali dalla sostanza della vita privata. Negli Stati Uniti bere all’aperto è illegale, e andarsene in giro con una bottiglia in bella vista è considerato sconveniente, se non proprio osceno. L’alcol si può comprare, si può consumare, si può usare per scrivere meglio, per sopportare le proprie sofferenze e perfino per uccidersi, ma bisogna farlo in privato. Così uomini di mezz’età si aggirano per strada come ladri, con il loro sacchetto nero sottobraccio, approfittando del buio, verso cucine al riparo dagli sguardi in cui l’alcol potrà finalmente scorrere a fiumi. A volte Gotham dà la stessa sensazione: c’è quello che succede dentro e quello che si vede da fuori, e in mezzo c’è un velo nero. La Brooklyn Public Library sorge in una delle rare piazze tonde della città, dal nome bellicoso di Grand Army Plaza. Segna il confine orientale di Park Slope, il quartiere che verso la fine dell’Ottocento divenne il centro di Brooklyn: proprio com’era successo a Manhattan, la presenza del parco aveva attirato qui tutta l’aristocrazia cittadina. Dopo aver costruito le loro ville, i ricchi brooklyniani provarono a nobilitare la zona a colpi di monumenti. Al centro della piazza un 91

arco di trionfo celebra la vittoria nordista nella Guerra Civile, e dalla parte opposta due colonne di pietra costituiscono l’ingresso di Prospect Park, progettato dagli stessi architetti di Central Park per superarlo in magnificenza. Anche il Brooklyn Museum, poco lontano, è stato realizzato sul modello del Metropolitan Museum, così come la biblioteca imita l’aspetto da tempio greco della New York Public Library. I risultati non sono male, se non fosse che la piazza è una rotatoria ad alto scorrimento, e intorno non ci sono le torri di Midtown né i maestosi palazzi dell’Upper East Side, ma qualche condominio e una distesa di edifici a due piani. Testimoniano come, dopo la nascita della Grande New York, le ambizioni architettoniche furono abbandonate, e anche questo divenne un sobborgo nella galassia dei distretti periferici. In mezzo al traffico, ai piedi della scalinata d’ingresso della biblioteca, una targa rende omaggio agli eroi della letteratura locale: Walt Whitman, Maurice Sendak, Marianne Moore, Richard Wright, Betty Smith. Per trovare un po’ di umanità bisogna addentrarsi nelle strade a ovest del parco, quelle che scendono in leggera pendenza dall’Ottava Avenue. Sono sfilate di case e giardini dall’aria signorile. Nonostante la sua fama – dagli anni Novanta questo è il quartiere degli scrittori, l’epicentro letterario di New York – Park Slope non è una mecca della vita bohemienne. Qui non ci sono locali equivoci né poeti squattrinati. È una zona borghese, solo un po’ meno nobile di Brooklyn Heights, dove è possibile lavorare in pace e abitare in una casa spaziosa. A Manhattan ho visto di rado appartamenti con più di una camera da letto, e un soggiorno 92

con angolo cottura. A Park Slope invece ci sono le più belle brownstones di Brooklyn. Non so se siano tutte «case in arenaria», che per qualche motivo è il canone della nostra traduzione: si tratta di palazzine a tre piani di epoca ottocentesca, dotate di portici, bowindows e tetti a punta, di solito affacciate sulle strade laterali. Le due linee principali di traffico – la Quinta e la Settima Avenue – sono invece i viali del commercio. Dalle vetrine si può intuire qualcosa sulla natura del quartiere: molti antiquari, librerie, laboratori d’artigianato, ristoranti tipici; e poi negozi di biciclette, alimentari biologici, giocattolerie per bambini. Forse è questo spirito radical – l’attenzione all’ecologia, alla sostenibilità, ai diritti di categorie come pedoni e ciclisti; una certa aria di lotta, una rabbia a bassa tensione che mi è sembrato di respirare durante l’era Bush; e la diffusione di eventi artistici e culturali – a fare di Park Slope qualcosa di diverso da un elegante sobborgo urbano. Qui nemmeno i bar assomigliano al luogo che, nella mia immaginazione, è per eccellenza il teatro della vita sociale. Se hanno la licenza per gli alcolici lavorano soprattutto dal tardo pomeriggio in poi. Sono posti poco illuminati, con vetrine oscurate o opache, in modo che dalla strada sia difficile guardare dentro, «vedere la gente bere». Poi esistono i bar per il giorno, e non vendono alcol. Quello in cui sono adesso, Ozzie’s, fa parte della categoria. Si trova sulla Settima Avenue e ha un fascino speciale: è il locale degli scrittori, anche se le uniche bevande a rischio dipendenza sono la CocaCola e il caffè. Chissà che cosa ne direbbero i padri della narrativa americana. I tavoli sono occupati da uomini e donne 93

di qualsiasi età, che passano intere mattinate davanti al computer portatile e ogni tanto ordinano da mangiare o da bere. Guardandomi attorno ho la curiosità di spiare i loro monitor: saranno anonimi studenti, giornalisti, professori, o qualcuno di loro è uno scrittore che non riconosco? Uno ha l’aria assorta, per niente turbata dal viavai al banco; un altro ticchetta sulla tastiera da ore, rapito dal flusso creativo; un altro ancora sembra tipicamente disperato, mani nei capelli e sguardo fisso sul salvaschermo, in piena fase di autoflagellazione. Saranno romanzi destinati a fare la polvere nei cassetti, o da qualche parte intorno a me sta nascendo un capolavoro? Lo scrittore più celebre ad aver scelto il quartiere come residenza è Paul Auster. Nato nel New Jersey e vissuto a lungo a Manhattan, che ha raccontato nei suoi primi romanzi tra cui la Trilogia di New York, passati i quarant’anni ha deciso di attraversare il ponte. La sceneggiatura di Smoke e il romanzo Follie di Brooklyn sono ambientati qui. In anni successivi l’hanno seguito in molti: tra gli altri Jhumpa Lahiri, Jonathan Franzen, Jonathan Safran Foer. Gli scrittori vengono a vivere a Park Slope perché è un luogo discreto, adatto a proteggere l’intimità dei suoi abitanti, e allo stesso tempo conserva un calore urbano impossibile da trovare nei sobborghi. Ecco la scoperta del quartiere da parte di Nathan Glass, il protagonista di Follie di Brooklyn. Il trasloco fu all’inizio della primavera, e dedicai le prime settimane a esplorare il vicinato, facendo lunghe passeggiate nel parco e piantando fiori nel mio giardino – un pezzettino di terra pieno di rifiuti, trascurato da anni. Andai a farmi tagliare i capelli rinati al

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Park Slope Barbershop sulla Settima Avenue, noleggiai qualche cassetta al centro Movie Heaven ed entrai di frequente al Brightman’s Attic, un negozio di libri usati stracolmo e caotico di proprietà di un vistosissimo omosessuale di nome Harry Brightman. Di solito al mattino mi preparavo la colazione in casa, ma dato che non ho né passione né il minimo talento culinario, per pranzo e cena preferivo andare al ristorante – sempre da solo, sempre con un libro aperto davanti, e sempre masticando più piano che potevo per prolungare il pasto. [...] Da un punto di vista rigorosamente antropologico scoprii che i brooklyniani sono meno restii a parlare con gli sconosciuti di qualunque altra tribù avessi incontrato prima. Si impicciano spudoratamente degli affari del prossimo (vecchiette che rimproverano giovani mamme perché non vestono i loro bambini in modo adeguato, passanti che apostrofano i padroni dei cani perché li tirano troppo forte per il guinzaglio); litigano per i posti nei parcheggi come bambini dell’asilo nevrotici; e lanciano battute folgoranti come se fosse la cosa più normale del mondo.

Andare a vivere dall’altra parte del ponte non significa solo cambiare casa e quartiere. È come convertirsi, o restando in tema di letteratura americana: come passare dal romanzo al racconto, dal bourbon allo scotch. Fin dal fatidico 1898, quando le due città gemelle diventarono una sola, la rivalità tra Manhattan e Brooklyn non si è mai spenta. Manhattan ha dalla sua parte un intero secolo di architettura, fotografia, cinema, letteratura, teatro, musica e perfino fumetti, tutti i modi in cui è stata rappresentata e celebrata, motivo per cui, nel resto del mondo, pensare a New York significa pensare all’isola dei grattacieli. Con due milioni e mezzo di abitanti, Brooklyn le oppone l’orgoglio di primo distretto della città, e di fucina dei suoi talenti. Pochi tra gli artisti che hanno 95

sfondato a Manhattan sono nati tra le sue strade: la maggior parte di loro è arrivata dai quartieri popolari del New Jersey, del Bronx, di Brooklyn. È come se l’isola fosse da sempre una terra di conquista, o il luogo magico in cui è possibile realizzare i propri sogni. Ma sono sogni nati altrove, e la forza necessaria a realizzarli viene dalle periferie. L’atteggiamento dei manhattanesi nei confronti dei brooklyniani assomiglia un po’ a quello che le ragazze assumono verso i loro coetanei a tredici anni. Disprezzo e senso di superiorità sarebbero già qualcosa. Invece, è proprio come se non esistessero. Ho sentito persone vantarsi di non essere mai state al di là dell’East River in un’intera vita passata a New York. Ho sentito tassisti rifiutare di trasportare passeggeri dall’altra parte del ponte. Ho sentito infinite volte il macchinista della linea F annunciare Last stop in Manhattan alla fermata di East Broadway, poco prima che il treno si buttasse sotto il fiume, ma non l’ho mai sentito rendere omaggio a Brooklyn nella direzione contraria. Poi ci sono le barzellette e i nomignoli: per tutta l’acqua che circonda l’isola, i ragazzi che il sabato sera vengono a divertirsi dai distretti periferici sono chiamati Bridge&Tunnel, il popolo dei ponti e delle gallerie. Brooklyn si difende a modo suo. Colson Whitehead racconta di quando, aspirante scrittore, spediva i suoi dattiloscritti agli editori di Manhattan, e nell’attesa risparmiava sulla metropolitana facendo il ponte a piedi. Allora attraversare il fiume, e ritrovarsi davanti i grattacieli di Wall Street, era come dare l’assalto alle mura di una fortezza che si ostinava a rifiutarlo. Un altro Bridge&Tunnel fu Jean-Michel Bas96

quiat, nato nel 1960 da padre haitiano e madre portoricana, che da Brooklyn compiva rabbiose incursioni a Manhattan per contaminarla con i suoi graffiti. Jonathan Lethem, tra i più appassionati difensori dell’alterità di Brooklyn, scrive che negli anni Settanta questa era la soglia dell’adolescenza, il rito di iniziazione alla giungla urbana: prendere la metropolitana da soli e attraversare l’East River. E poi c’è un campo da gioco molto particolare in cui Manhattan e Brooklyn si scontrano dalla notte dei tempi. Arrivando in volo dall’Europa, quando l’aereo attraversa Long Island, la sua forma si riconosce tra le autostrade, i quartieri residenziali, i grandi parcheggi dei centri commerciali nella sterminata periferia di New York. È un prato verdissimo, con due lati dritti e uno curvo a chiudere un arco di cerchio. Il diamante. Come si scopre dopo, è impossibile passare un’estate in città senza imparare la storia, le regole e le parole del baseball. Gli altri giochi americani sono per l’inverno, e non sono altrettanto amati. Non a Gotham, almeno. Per osservare la differenza è sufficiente entrare in un pub a gennaio, mentre diversi televisori trasmettono partite di football, basket, hockey su ghiaccio, e tornare nello stesso posto in settembre, quando si svolgono i playoff della stagione di baseball, e le teste di tutti i bevitori al banco sono rivolte nella stessa direzione. Il gioco è stato fondato qui nel 1842. Il primo campionato fu organizzato nel 1858, con ventidue squadre provenienti dall’area cittadina. Di queste, solo due superarono la soglia del ventesimo secolo: entrambe avevano cambiato nome al97

cune volte, ma sono passate alla storia come New York Giants e Brooklyn Dodgers. Una di Manhattan e l’altra di Brooklyn, una ricca e l’altra povera, una spesso vittoriosa e l’altra quasi sempre sconfitta. Questa lotta squilibrata durò più o meno mezzo secolo. Nel frattempo era stata fondata una terza squadra che in breve le superò entrambe, sia in termini di risultati che di popolarità dei suoi campioni: sono nomi entrati nella leggenda come Babe Ruth, Lou Gehrig, Joe Di Maggio. Prima della metà del secolo i New York Yankees erano i nuovi padroni della città. Poi, nel 1957, successe qualcosa di imprevedibile. I proprietari dei Giants e dei Dodgers, che fino a quel momento giocavano in uno stadio pubblico, volevano costruire strutture private, e per farlo chiesero terreni che la municipalità di New York decise di non concedere. Altre città fiutarono l’affare e si offrirono come sedi. E così, mettendo in atto quella che sembrava solo una minaccia, alla fine le due squadre se ne andarono da New York, attraversarono il paese e approdarono in California. Per ironia della sorte, come se fossero condannate a essere nemiche per sempre, si insediarono in due città rivali, in cui tuttora giocano come Los Angeles Dodgers e San Francisco Giants. Il trauma più doloroso fu subito dalla gente di Brooklyn. A Manhattan ormai comandavano gli Yankees, e i tifosi dei Giants impiegarono poco a cambiare bandiera. Quelli dei Dodgers restarono orfani fino al 1962, quando fu rifondata l’antica squadra dei Metropolitans, detti Mets, e poiché era piccola e povera decisero di adottarla. Inutile dire che, da allora, il destino sportivo delle due squadre non è mai cam98

biato. Gli Yankees sono ricchi, vincenti, arroganti, comprano i campioni migliori, hanno lo stadio sempre pieno e i berretti con il loro logo hanno invaso il pianeta. I Mets navigano stabilmente in fondo alle classifiche, e il loro titolo del 1973 fu un evento epocale. Gli Yankees rappresentano New York nel mondo, come Manhattan. I Mets possiedono la poesia dei perdenti, e forse per questo piacciono così tanto agli scrittori di Brooklyn. Chi arriva da fuori, come me, e non ne sapeva niente, ben presto si ritrova a scegliere da che parte stare. Il primo incontro con Rick Moody fu un fallimento. Avvenne in un locale tipico di Park Slope – un ristorante vegano senza licenza per gli alcolici – così per consolarci non c’era nemmeno un bicchiere di vino. Con Marco e Giorgio, i miei compagni di viaggio, stavamo preparando il lavoro per il giorno dopo. Sul tavolo era distesa una cartina di New York, in mezzo a tazze di tè verde e tortini di verdura che alla fine avremmo pagato a peso d’oro: ma la cena, così come la mappa, faceva parte di una strategia studiata per rompere il ghiaccio. Molti scrittori non amano essere ripresi né intervistati, e Moody è tra questi. I motivi sono comprensibili: scarsa simpatia per la propria faccia, totale sfiducia verso la parola orale, una certa dose di sospetto nei confronti di chi, senza conoscerti di persona, pretende di saperne abbastanza da ritrarti in un documentario. Perciò gli presentammo il progetto come un viaggio letterario attraverso New York, l’idea di farsi condurre da alcuni scrittori nei loro luoghi: quelli che avevano abitato nella vita e raccontato nei libri. «I posti che ho descritto non esistono più», fu la risposta 99

di Moody. Per tutta la cena aveva parlato poco. Si era seduto in un angolo e aveva sempre tenuto il cappello. Non era contento di essersi fatto cinque ore di macchina, abbandonando il suo villaggio di pescatori e attraversando Long Island per incontrarci. Tutta la faccenda non gli piaceva per niente. Noi cercammo delle proposte alternative. Avrebbe potuto portarci nei luoghi dei suoi romanzi, raccontare com’erano prima e come si erano trasformati nel tempo. Oppure guidarci nel tragitto di una sua giornata tipo: saremmo stati contenti di seguirlo tra bar, librerie, negozi di dischi, linee della metropolitana. O ancora, avrebbe potuto mostrarci dove va quando ha bisogno di pensare, dove gli piace sedersi a leggere, dove scrive. Ecco un buon documentario: i luoghi dell’ispirazione di uno scrittore newyorkese. Moody si aggiustò il cappello sulla testa. Era stanco e voleva andare a dormire. Disse: «Quando sono a New York sto in casa. Quando scrivo, sono da un’altra parte». Avrei capito dopo il legame tra il carattere di Rick Moody e la scelta di vivere a Park Slope. Ha a che fare con la riservatezza, e con la marginalità che ne segna la biografia: come ogni buona vita americana, anche la sua è scandita dai traslochi. Moody è nato a New York nel 1961 ma è cresciuto nei sobborghi del Connecticut, è stato studente a Hoboken, New Jersey, nel periodo del suo fermento musicale, ed è tornato a Manhattan solo negli anni Ottanta, vivendo la decadenza dell’East Village senza essersi goduto il suo splendore. Poi ha scelto Brooklyn. È come se l’isola avesse su di lui 100

la forza attrattiva di un buco nero: come se fosse inevitabile gravitarci attorno, però mai avvicinarsi troppo, mai uscire dall’orbita di sicurezza se non si vuole essere inghiottiti. Ha scritto libri che seguono le stesse traiettorie laterali: la provincia borghese di Tempesta di ghiaccio, Racconti di demonologia, Rosso americano; la periferia urbana di Cercasi batterista, chiamare Alice; l’East Village degli anni Ottanta e dell’eroina nel suo capolavoro breve, La più lucente corona d’angeli in cielo. Lui stesso in quel periodo ha vissuto una discesa agli inferi: la dipendenza dall’alcol, la depressione, il ricovero in clinica psichiatrica. Ha raccontato anche questo nel memoir Il velo nero, intitolato così perché il reverendo Moody, che ispirò il racconto di Hawthorne, era un suo avo. È un testo durissimo sulla famiglia, la malattia e la scrittura. Adesso che Moody è astemio, vegetariano, salutista, e ha mantenuto solo le passioni innocue come la musica, il baseball, i cappelli, la Diet Coke senza caffeina, mostra ancora i segni di quei tempi. È molto timido. È ansioso più che diffidente, come avremmo scoperto il giorno successivo al nostro incontro. La casa in cui lo intervistammo non era sua, era della moglie Amy: Moody è sposato ma vive per lunghi periodi da solo, a Fishers Island, e nell’appartamento di Park Slope ci seguiva preoccupato per i mobili e i soprammobili, e ci cacciò senza tanti complimenti quando si avvicinava l’ora del ritorno di Amy. Durante l’intervista soppesava le risposte e di alcune poi si pentì, chiedendoci di tagliarle in montaggio. Era riluttante a rileggere le sue vecchie cose, soprattutto il primo romanzo e due racconti che riguardano la morte della sorella. 101

Non gli piaceva ripensare a se stesso, alla sua vita passata, e riguardo alla carriera ha sempre detto che l’importante non sono i libri scritti – anzi quelli vanno dimenticati il più presto possibile – ma il lavoro quotidiano, il momento in cui l’atto di scrivere si compie. Il modo di salutare a mani giunte, il fatto che tra una registrazione e l’altra si sedesse in poltrona e chiudesse gli occhi in meditazione, mi facevano pensare alla pratica buddista. Moody ha l’aria di un uomo che verso i quarant’anni ha raggiunto un equilibrio, ma si ricorda sempre che è costato fatica, è fragile e va protetto. Una volta, parlando del racconto La più lucente corona d’angeli in cielo, ha ricostruito il momento dell’ispirazione: si trovava con alcuni amici, ognuno stava ricordando le proprie disavventure cliniche, e a lui era sembrato che tutte le vite a New York avessero a che fare con la dipendenza, e che tutte le storie di dipendenza raccontassero qualcosa di New York. Alcol, eroina, farmaci, sesso, lavoro, ginnastica, televisione. Come se, di fondo, il centro della vita newyorkese fosse una mancanza, un buco che solo un’ossessione può riempire. All’epoca in cui ne parlavamo, anche se non ho mai avuto il coraggio di farglielo notare, quel buco esisteva davvero ed era Ground Zero, il cratere lasciato dal crollo delle Torri Gemelle. Leggendo i suoi libri, mi sembrava tremendamente giusto che nel cuore di Manhattan ci fosse uno spazio vuoto. Mi sembrava anche di capire l’attrazione che esercitava, e l’istinto di tenersene lontani per aver salva la vita. Tempo dopo Moody avrebbe scritto un altro racconto, Albertine, 102

che torna sul tema della dipendenza ed è la sua elaborazione dell’Undici Settembre: in un futuro prossimo, l’isola di Manhattan viene distrutta da una catastrofe. La vita a New York prosegue nei distretti periferici, ma è una vita da reduci resa ancor più malinconica da una nuova droga, chiamata Albertine, che permette di rivivere i propri ricordi. Così le persone rinunciano al presente e preferiscono immergersi in un passato chimico, in cui la loro città e le loro esistenze sono ancora intatte dal male. Dell’America che c’è intorno, a Moody non sembra importare molto. Succede ai newyorkesi, e agli scrittori newyorkesi, di sentirsi in una città-mondo: estesa a dismisura ma chiusa su se stessa, autonoma e isolata, come se oltre i suoi confini cominciasse il deserto, o lo spazio interstellare. L’America fuori da New York è la terra delle radici, ma anche un luogo comune su cui si può fare dell’ironia. Una volta la «Paris Review» chiese a Moody che cosa volesse dire essere uno scrittore americano. Lui rispose: Essere uno scrittore americano vuol dire che ho cenato molte volte allo sportello di un drive-thru. E che ogni tanto non ho scelta e mi tocca entrare in un centro commerciale. E che vengo da un paese di ex proprietari di schiavi. E che la bomba atomica pesa sulla mia coscienza come un peccato che non potrò mai espiare. E che c’è qualcosa nel baseball che mi colpisce al cuore. E che conosco gente convinta che il governo esista solo per ostacolare la filantropia delle multinazionali. E che la mia testa vacilla continuamente tra il messaggio etico giudaico-cristiano e il desiderio di liberarmene per sempre. E che mi piacciono i cibi artificiali al sapore di formaggio. E che concepisco la natura come una distesa di spazio.

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E che credo che la spiritualità si viva meglio in paesaggi privi di esseri umani. E che mi piace cambiare canale alla televisione, anzi non riesco a smettere di farlo. E che parlo bene una sola lingua. E che non faccio caso alla gente che per strada discute del prezzo delle azioni. E che guardo all’Europa per una definizione di cultura alta. E che a volte non riesco a distinguere tra cultura alta e bassa. E che l’idea della famiglia come origine di ogni bene non è estranea alla mia mente, anche se cerco di resisterle con tutte le forze. E che ne so parecchio di automobili. E che posso parlare per mezz’ora del miglior tipo di computer. E che ho delle opinioni sul miglior sistema operativo per computer. E che preferisco il suono della chitarra a quello delle tastiere elettroniche. E che penso che il ketchup sia una pianta. E che in qualche misura mi preoccupo per il mio peso. E che credo fermamente nei mini depositi a noleggio, e nella loro filosofia di vita. E che non riesco a immaginare qualcuno che non sia d’accordo con questa roba americana. Vuol dire un sacco di cose, no?

Il documentario, alla fine, risultò il migliore della serie. Fu sufficiente una giornata insieme e poi Moody si arrese a portarci in giro. Ci spiegò la diffidenza della prima sera con queste parole: «New York è una città così complessa che qualsiasi tentativo di definirla sarebbe riduttivo, e cambia così in fretta che qualunque discorso diventa subito vecchio. Anche quando la descrivo nei libri, parlo di una città lontana nel tempo e nello spazio. Ho bisogno di essere in esilio per pensare a lei». Mantenne questi suoi dubbi sul lavoro che stavamo facendo, eppure si dimostrò molto generoso. Ci guidò attraverso Park Slope, Williamsburg e l’East Village. Suonò per noi il pianoforte e la chitarra, e alla fine ci invitò allo stadio 104

per condividere l’ennesima sconfitta dei suoi amati Mets. Per me fu l’inizio di una passione che ogni estate porta a scambi di lettere, qualche viaggio allo Shea Stadium se mi trovo a Brooklyn, e speranze tradite. Tornando dalla partita persa contro i Phillies di Philadelphia, l’ultima sera, abbiamo chiesto a Moody se fosse contento del lavoro. Ha risposto: «Se siete contenti voi, sono contento anch’io». Non ha mai voluto vedere il nostro documentario.

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Musica nella città di Dio (Williamsburg)

C’è stata un’epoca in cui New York era tutto per me: mia madre, la mia amante, la mia Mecca. Harvey Swados

Il piano terra del locale è un salone allagato da mezzo metro d’acqua. Colonne di cemento grezzo sostengono un soppalco che corre lungo tre pareti, come la balconata di un teatro. Sotto il soppalco c’è il banco del bar, che poi è la terraferma. Sull’acqua una passerella di ferro parte dal bar e si dirama verso alcune isole circolari, occupate da un tavolino basso e da un divano, rosso e di pelle, anch’esso circolare. Vorrebbe rappresentare un arcipelago ma a me ricorda piuttosto quella giostra dei luna park, con le navicelle che vorticano tra i tentacoli di una piovra meccanica. Sulle isole i posti sono pochi e tutti prenotati: poco prima che il concerto cominci, le cameriere in gonnellino tropicale consigliano di andare di sopra, dove in una penombra densa la folla beve e chiacchiera, osserva il salone dall’alto 109

e ondeggia al ritmo rallentato della musica di sottofondo. Poi si apre il sipario. A Gotham c’è anche questo, l’arte della confezione. Quando sono giù di morale mi viene il sospetto che sia soprattutto questo, un’enorme recita allestita a scopi commerciali. Tutti i negozi sono belli da guardare, tutti i bar hanno un loro stile, tutti gli stili richiamano epoche e luoghi da decifrare, come in un gioco colto di citazioni. Entrare in un locale significa passare parecchio tempo a guardarsi attorno. La pop-art è ovunque e confonde i riferimenti estetici: storia del cinema e della moda, elementi kitsch e pezzi di design, arte classica e prodotti di consumo. Lampade muovono gli spazi – o sono insegne al neon, candele dentro bottiglie, televisori in bianco e nero, faretti colorati – moltiplicando le ombre e ingannando la percezione. È l’arte di arredare, di illuminare, di dare nomi ai posti. Di curare la forma qualunque sia il contenuto. Quando ne ho abbastanza esco dal Galapagos e mi ritrovo di nuovo a Williamsburg, Brooklyn, sotto la neve. Bedford Avenue è un susseguirsi di locali notturni ma anche di tavole calde, piccole librerie, negozi d’abbigliamento di seconda mano, lavanderie a gettoni, posti dove è possibile mangiare o vestirsi con pochi soldi. L’età media della gente che ho intorno sarà sui venticinque anni. All’incrocio con Grand Street, dove le due vie principali del quartiere formano uno spiazzo, un esiguo gruppo di ebrei ortodossi è riunito davanti a un candelabro di Hanukkah. È alto circa tre metri, e avvicinandomi mi accorgo che le sue candele sono in realtà lampadine elettriche. Quando la prima viene accesa dal celebrante – non so se sia un rabbino o 110

cosa – il gruppo intona una melodia. Hanno le barbe spolverate dalla neve, le tese dei cappelli imbiancate. Dalle vetrine dei pub i ragazzi osservano la scena bevendo birra in grandi boccali. Progresso e tradizione, autenticità e finzione sono solo alcune delle dicotomie del quartiere: Williamsburg è una casa degli specchi, il doppio è il suo tema. L’anno chiave, nella storia del luogo, è il 1903. Prima questo era un porto circondato dalle campagne, i cui prodotti venivano imbarcati e venduti a New York, quando il nome indicava soltanto la punta meridionale di Manhattan. Nell’Ottocento, per la sua vicinanza all’acqua, si trasformò in un distretto industriale. Raffinerie di zucchero e prodotti chimici, conservifici e calzaturifici, fonderie e cantieri navali, con padroni appartenenti alle nuove dinastie americane e una classe operaia composta soprattutto da immigrati di origine irlandese e tedesca. E poi le banche: ancora oggi il grattacielo più alto di Brooklyn è quello della Williamsburg Savings Bank. Alla fine del secolo la vitalità finanziaria della zona cominciava a impensierire Wall Street, ma non era questo il suo destino: nella stessa epoca il lato est di Manhattan accoglieva una tale quantità di poveri da rischiare il collasso, e per alleviare il carico fu progettato un ponte che da Delancey Street oltrepassasse il fiume. L’approdo era Williamsburg, che da allora divenne il ghetto gemello del Lower East Side. Nelle sue case venne raggiunta la densità di popolazione più elevata d’America. I primi projects del quartiere risalgono agli anni Trenta e Quaranta, così come i suoi due libri simbolo: Un albero cresce a Brooklyn di Betty Smith e Primave111

ra nera di Henry Miller, che da queste parti fu educato alla vita di strada. Sono un patriota: del 14° Distretto di Brooklyn, dove sono cresciuto. Per me il resto degli Stati Uniti non esiste se non come idea, o storia, o letteratura. [...] Nascere in strada significa vagare per tutta la vita, essere libero. Significa accidente e incidente, dramma, movimento. Soprattutto, significa sogno. Un’armonia di fatti irrilevanti che conferiscono una certezza metafisica al tuo vagabondare. Nella strada impari a conoscere le creature umane per quello che sono; altrimenti, o in seguito, te le inventi. [...] I ragazzi che hai venerato quando la prima volta sei sceso in strada restano con te per tutta la vita. Sono gli unici veri eroi. Napoleone, Lenin, Capone: tutte fantasie. Per me Napoleone non è niente al confronto di Eddie Carney, che mi fece il primo occhio nero. Non ho mai incontrato nessuno tanto signorile, ai miei occhi, e regale, e nobile, quanto Lester Reardon, che con la sua sola comparsa in strada ispirava timore e ammirazione. Jules Verne non mi ha mai guidato nei posti che Stanley Borowski aveva in serbo per quando faceva buio. Paragonato a Johnny Paul, Robinson Crusoe mancava di fantasia. Tutti quei ragazzi del 14° Distretto ancora oggi conservano un loro sapore. Non erano né inventati né sognati: erano veri, verissimi. I loro nomi tintinnano come monete d’oro: Tom Fowler, Jim Buckley, Matt Owen, Rob Ramsay, Harry Martin, Johnny Dunne, per non parlare di Eddie Carney o del grande Lester Reardon.

Seguo impronte di scarponi sui marciapiedi coperti di neve, uscendo dalla libreria di Bedford Avenue. Scendendo verso il ponte, i grattacieli di Manhattan luccicano in fondo alle vie come stelle, indicando la posizione a chi sa leggere la 112

loro mappa. Un senzatetto fuori dallo spaccio dell’Esercito della Salvezza grida da solo maledicendo il mondo. Poco più avanti c’è il capannone che una volta era il mio bar preferito in quartiere, perché il biliardo era gratis e la birra era buona e c’erano sempre studentesse al lavoro dietro al banco, e seduti ai tavolini in cortile si poteva perfino fumare. Adesso è vuoto, recintato, in attesa di un nuovo destino. Dentro al pub in cui mi rifugio i televisori trasmettono una partita di football: una battaglia tragica sotto la neve – i New York Giants le stanno prendendo e va sempre peggio – eppure questo gioco ha l’aria di essere bello soltanto così, mentre si cerca di guadagnare terreno in mezzo alla tormenta. Gli uomini al banco imprecano davanti alle loro Guinness per l’ennesima palla persa. Ne ordino una anch’io, la bevo durante il secondo tempo e prima della fine lascio un dollaro di mancia sotto il bicchiere vuoto. Di nuovo fuori, i fiocchi soffici si sono trasformati in neve molle, che inzuppa i vestiti e sull’asfalto si riduce subito in poltiglia. Poche vie a sud del ponte, tra Bedford Avenue e Broadway, comincia la zona degli ebrei ortodossi, i chassidim. Sono le comunità raccontate da Chaim Potok nei suoi romanzi, ambientati in diversi quartieri nei distretti periferici di New York. Lo scrittore, nato nel Bronx nel 1929 da genitori ebrei polacchi, ricevette un’educazione ortodossa e a poco più di vent’anni fu ordinato rabbino. Partì per la guerra di Corea come cappellano militare, ma intanto imparava a scrivere. Il suo romanzo più celebre è Danny l’eletto, del 1967: racconta l’amicizia tra due ragazzini, Reuven e Danny, uno ebreo riformato e l’altro ortodosso, per le strade di Williamsburg negli 113

anni Quaranta. È cercando quei personaggi e quei luoghi che sono arrivato qui. Durante i primi quindici anni della nostra vita, Danny e io abitammo a cinque isolati di distanza senza nemmeno sospettare l’esistenza uno dell’altro. L’isolato di Danny era gremito dei seguaci di suo padre, ebrei russi chassidim in abito scuro, i cui usi, principi e precetti erano sorti dal suolo del paese che avevano abbandonato. Facevano il tè col samovar e lo sorseggiavano lentamente tenendo una zolletta di zucchero tra i denti; mangiavano i cibi della madrepatria, parlavano a voce alta, ogni tanto in russo ma di solito in yiddish, e professavano fedeltà incondizionata al padre di Danny. [...] I marciapiedi di Williamsburg erano fatti di mattonelle di cemento screpolato, le strade erano pavimentate d’asfalto che si scioglieva nelle estati afose e si apriva in spacchi profondi nei rigidi inverni. Molte case erano di pietra arenaria rossastra, addossate l’una all’altra e non più alte di due o tre piani. Vi dimoravano ebrei, irlandesi, tedeschi, e alcune famiglie di profughi della guerra civile di Spagna, fuggite dal nuovo regime di Franco prima del secondo conflitto mondiale. I proprietari dei negozi appartenevano in prevalenza ad altre religioni, ma ce n’erano anche di ebrei ortodossi, membri delle sette chassidiche del quartiere. Si vedevano dietro il banco con lo zuccotto nero, la barba folta, i riccioli lunghi sopra le orecchie, che si affannavano per racimolare i magri guadagni e sognavano il Sabato e gli altri giorni di festa, in cui potevano chiudere bottega e rivolgere la mente alle loro preghiere, al loro rabbino, al loro Dio.

Ecco alcune cose che mi sono capitate in queste strade di Williamsburg: essere sgridato in yiddish da un vecchio libraio, mentre curiosavo tra i suoi testi religiosi; essere fer114

mato da due ragazzi che si offrirono di farmi da guide per cinquanta dollari; voltare l’angolo e ritrovarmi circondato da bambini, impegnati in qualche gioco da marciapiede, che reagirono alla mia vista dandosi alla fuga; entrare in una tavola calda e seminare il panico, e poi accorgermi che nel locale c’erano soltanto donne. Le strade di Williamsburg sono affollate come poche altre a New York, e sono un mercato a cielo aperto. Assomigliano a quelle di Chinatown per l’industriosità che le anima. I fattorini messicani, in genere gli unici uomini in vista senza barba e cappello, fanno avanti e indietro dai camion ai magazzini trascinando carrelli e scatole. Gruppi di chassidim confabulano agli angoli delle strade, altri parlano al telefono dentro auto parcheggiate. Quelli che non ti guardano con sospetto in quanto goy, «gentile», lo fanno con aperto interesse: forse con te è possibile concludere un buon affare. Il chassidismo è un movimento interno all’ebraismo nato alla fine del Settecento in Russia, per opera di un predicatore noto con il nome di Ba’al Shem Tov. Il suo messaggio era incentrato sul recupero dell’ortodossia religiosa e sull’importanza dello spirito comunitario, ed ebbe immediato successo tra gli ebrei poveri dell’Europa orientale. Molti villaggi fondarono la propria comunità chassidica, ognuna con un rabbino capo – detto rebbe – la cui carica è ancora oggi dinastica. I chassidim furono perseguitati indifferentemente dai kaiser e dagli zar, e sterminati durante il nazismo: di alcune comunità, soprattutto polacche, non esistono più tracce. Generalmente antisionisti (molti ebrei ortodossi si opposero alla creazione dello stato di Israele, ritenendola vincolata al 115

ritorno del Messia), i superstiti emigrarono negli Stati Uniti durante e dopo la guerra, e qui ricrearono le strutture sociali della loro terra d’origine. Sono comunità chiuse, e il motivo è nelle regole che le governano. Sarebbe complicato, per un chassid, vivere in un posto qualunque della città: l’ortodossia religiosa impone scuole, sinagoghe, prodotti di consumo, orari e festività diversi dal resto della cittadinanza. E così i Satmar, i Lubavitch, i Bobov – nomi di antichi paesi dell’Europa orientale che oggi indicano le differenti comunità newyorkesi – a poco a poco hanno popolato e trasformato a propria immagine interi quartieri. Il più grande è Boro Park, a Brooklyn: quasi 100.000 chassidim di diverse provenienze, con tassi di natalità superiori a qualsiasi altra zona di New York. Il più antico è questo di Williamsburg, in cui i Satmar ungheresi hanno invece mantenuto una forte omogeneità etnica. Nessun estraneo entra a far parte della comunità, pochissimi ne escono abbandonando l’ortodossia. Allo straniamento geografico di Chinatown – attraversare una strada, infilarsi in un vicolo e sentirsi di colpo a Pechino o Shanghai – qui si aggiunge quello temporale. Automobili moderne e costose, villette a due piani nel solito stile di Brooklyn, ma le persone sono vestite e acconciate come in un ghetto dell’Europa orientale, a Varsavia, a Kiev, un secolo fa o forse più. Gli uomini indossano cappotti di lana, neri e lunghi fino alle ginocchia, d’estate e d’inverno. Per qualche codice che non so decifrare alcuni portano un cappello a tesa larga, altri un colbacco di pelo. Le frange bianche tradizionali spuntano dai cappotti così come i riccioli neri, castani o rossicci dalle tese dei cappelli. I ragazzi, già vestiti al116

lo stesso modo dopo il Bar Mitzvah che si celebra a tredici anni, sembrano bambini dentro vestiti da uomini. Molti hanno occhiali da vista rotondi, con montature di metallo sottile. Sotto certe barbe folte mi sembra di individuare volti di diciotto o vent’anni, e poi osservandoli meglio credo di riconoscere le differenze e i caratteri: il ragazzo goffo, quello dalla parlantina sciolta, il capobanda, quello molto intelligente e rispettato, quello che piace alle ragazze e si mette in posa. D’estate le bambine camminano per le strade a gruppi di quattro o cinque, tenendosi per mano, tutte vestite con maglie dello stesso colore. Credo siano gruppi di sorelle. I maschi portano la kippah in testa anche a due o tre anni, e i riccioli sulle tempie non vengono mai tagliati. Le donne hanno gonne lunghe, camicette e cuffie, in tonalità di grigio che vanno dal quasi bianco al quasi nero. Solo ogni tanto un accenno di colore freddo, verde o azzurro o turchese. Mi sorprendo che alcune non portino il cappello, ma c’è qualcosa di strano nelle loro acconciature: più tardi, facendo ricerche, scoprirò che ogni donna è tenuta a indossare la parrucca dopo il matrimonio. Ragazze giovanissime spingono carrozzine o tengono le sorelle per mano. Incrociandomi per strada evitano di guardarmi. Sono l’unico non ebreo nei paraggi, ed è difficile non ricordarselo continuamente. Attraversando di nuovo Broadway e risalendo verso nord i chassidim scompaiono di colpo, come se il loro quartiereghetto fosse chiuso da mura. Altre zone di Williamsburg hanno confini meno marcati e sono in prevalenza polacche, 117

italiane, portoricane. Nell’ultimo secolo in tanti hanno attraversato il ponte: non solo gli emigranti della prima metà del Novecento, ma anche studenti e artisti in fuga dal Greenwich Village dopo la sua età dell’oro. Il progressivo esodo verso est, che negli anni Settanta li aveva portati a colonizzare l’East Village, è proseguito oltre il fiume e alla fine del secolo ha fatto di Williamsburg l’epicentro musicale di New York. Per la velocità con cui i processi si consumano da queste parti, pochi anni dopo ho cominciato a sentir dire che il quartiere non era più quello di un tempo, era ormai pieno di locali per turisti e la genuina scena indipendente aveva già ripreso il suo vagabondare, verso l’interno di Brooklyn o gli inesplorati territori di Queens. Può darsi che sia così. Di certo c’è un compiacimento in questi discorsi, per cui la frontiera dell’autentico è sempre un passo più in là rispetto a dove sono tutti, e se la insegui accodandoti alla comitiva non la troverai mai. Quello che ho visto io era un luogo già molto frequentato, ma non ancora compromesso. In qualche bar di Williamsburg, bevendo birra e ascoltando un solitario musicista folk che magari avevo già incontrato la mattina, mentre faceva moneta in metropolitana, mi è sembrato di riuscire a percepire un po’ della verità di questo posto, di scostare il velo di apparenza che New York stende su tutte le cose e sfiorare la sostanza che c’è sotto. Alla fine del giro torno a rifugiarmi sotto le rampe del ponte. C’è un gioco che faccio spesso tra me e me a Gotham, obbedendo alla mania locale per le classifiche: ho la lista dei miei cheeseburger preferiti (prima il Corner Bistro nel West Village, poi Paul’s sulla Seconda Avenue), dei miei grattacie118

li preferiti (il Chrysler, il Flatiron, l’Empire), delle mie librerie preferite (nessuna può competere con Strand, tra Broadway e la 12a Strada) e delle mie linee di metropolitana preferite (la F e la 7 per i posti che attraversano, e per tutte le volte che le ho prese). Quando arrivo alla classifica dei ponti sono combattuto. Il ponte di Brooklyn è il coraggio dei suoi progettisti, il sangue dei morti che lo costruirono, i poeti che lo cantarono: è fratello delle grandi cattedrali europee, come loro provoca meraviglia e quasi senso del sacro. Il ponte di Manhattan, che sorge lì accanto dal 1930, è invece figlio dell’epoca dei grattacieli, è leggero ed elegante e racconta il trionfo americano, la fede nella tecnologia e nel progresso, l’ottimismo che stava per essere spazzato via dalla Grande Depressione. Il ponte di Williamsburg sembra un viadotto ferroviario. È pesante come le sue putrelle di ferro, come le viti e i bulloni che a migliaia lo tengono insieme. Se non concede molto allo stile, è perché non serviva a celebrare un architetto o un’epoca, ma a far passare di là una massa di profughi. Osservandolo bisognerebbe tenere a mente il motivo per cui fu costruito, quanti uomini ha accompagnato verso una nuova vita. È una di quelle opere drammatiche che conservano la memoria degli umili, e per questo mi commuove: e così per stasera lo eleggo a mio ponte preferito di New York.

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Brooklyn senza madre (Red Hook + Carroll Gardens)

New York è il posto in cui dicevano: «Coraggio tesoro, fatti un giro sul lato selvaggio». Lou Reed

In cucina ho la stampa di un quadro di Edward Hopper intitolato Early Sunday Morning. Non è tra quelli più famosi, qui non ci sono nottambuli al bar né donne sole. È un paesaggio privo di esseri umani: una strada di città, un lungo edificio a due piani dipinto di rosso mattone. Al primo piano, le finestre delle abitazioni sono buie o coperte da tende. Al piano terra i negozi sono chiusi: le ombre delle insegne si allungano sulla facciata, e tra le vetrine spicca la bottega di un barbiere, riconoscibile per il cilindro rosso e bianco esposto sul marciapiede. Per strada non c’è nient’altro che un idrante isolato. Il cielo è limpido, di un azzurro più chiaro a oriente. Domenica mattina presto. Così succede che io, quando sono via da Gotham e soffro per la distanza, mi siedo a tavola e mi metto a contemplare 123

questo quadro. Nella mia testa è una strada di Brooklyn che conosco bene: e nei miei ricordi in Smith Street è sempre estate, è un pomeriggio qualunque di agosto con i negozi chiusi per ferie e il traffico placido del tramonto. Ho dormito in posti diversi in città – in un palazzo con il portiere in livrea a due passi da Broadway; in un altro così vicino al ponte che l’acqua tremava nei bicchieri al passaggio dei camion; o in una stanza sopra a una centrale di polizia, con le radio che gracchiavano per tutta la notte, gli agenti che stazionavano al deli e ogni tanto partivano a sirene spiegate – ma solo qui mi sento a casa. Molti di questi quartieri hanno nomi recenti. Prima, a parte gli insediamenti storici come Williamsburg e Coney Island, il resto di Brooklyn si chiamava soltanto Brooklyn, oppure East New York. Qui passa da un secolo il Gowanus Canal, che collega alcune grandi fabbriche al mare aperto, e allora tutta la zona si chiamava così, Gowanus: un nome che una volta evocava un esteso distretto operaio, con le sue case popolari, i suoi problemi razziali, i suoi crimini e la sua malavita. Quando la popolazione è cambiata, ed è stata l’ora di ribattezzare i luoghi, le verdi colline cantate da Whitman hanno dato l’ispirazione: Boerum Hill, Cobble Hill, Carroll Gardens. L’ultima è una zona storica di italoamericani, una delle tante Little Italy di New York: tra Court Street e Smith Street si incontrano ristoranti costosi come Marco Polo, Casa Rosa o Caserta Vecchia, e trattorie alla mano come Vinny’s o Sam’s, e poi le panetterie Mazzola e Caputo, la macelleria Esposito and Sons, la pasticceria siciliana di Court Street, le cantine ben fornite di Chianti e Valpolicella. Prima 124

di costruirsi una fama come gangster di Chicago, Al Capone nacque a Brooklyn e imparò il mestiere in queste strade: alla fine del 1918 sposò sua moglie Mae nella più grande chiesa cattolica del quartiere, St. Mary Star of the Sea, e durante il proibizionismo pare controllasse un bar nello stesso isolato. I segni d’Italia nel quartiere sono i circoli per anziani, le piste di bocce nei giardinetti, le chiese cattoliche e determinati personaggi seduti fuori dalle pizzerie, inconfondibili per accento, stazza fisica e gesticolazione. Parlando con il signor Caputo, mentre cercavamo di trasformare gli etti in libbre nella sua gastronomia, ho imparato che molti di loro sono arrivati qui dopo la guerra, da Mola di Bari. In effetti, il quartiere non è una Little Italy, ma una Little Bari. I paesani hanno ancora il loro circolo ricreativo, il loro parroco, le loro pompe funebri e il loro cibo: in pochi altri posti in città è così facile trovare prosciutto, parmigiano, olive e basilico, mozzarelle e pasta all’uovo. Quando volevo fare un regalo a Bob, o celebrare tra di noi una partenza o un arrivo, dovevo solo preparargli una cena casalinga con le tagliatelle e il ragù, l’arrosto e le patate al forno, i cannoli appena riempiti di ricotta, il vino. Boerum Hill, pochi isolati a nord andando verso il ponte, è il quartiere cantato da Jonathan Lethem nel suo romanzo autobiografico del 2004, La fortezza della solitudine. Ecco una descrizione del luogo nei primi anni Settanta. Ghetto? È il nome giusto per questo posto? Dipende da quale isolato del mosaico hai in mente. Sali in alto, come l’uomo volante non può più fare. Guarda. Qui la Quarta Avenue è un’ampia

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trincea di piccole fabbriche dismesse, autofficine con le chiazze d’olio e benzina e magazzini dimenticati e graffitati, marciapiedi cosparsi di schegge di vetro che seguono il contorno degli incidenti notturni davanti ai ristoranti cinesi da asporto, ai negozi di liquori, alle bodegas, tutti che servono i loro clienti attraverso feritoie o cassetti scorrevoli dietro scudi di plexiglas. All’estremità opposta, Court Street è un’antica riserva italiana, le stradine laterali a sud di Carroll ammutolite nella morsa dei bisbigli della mafia, antiche usanze fatte rispettare con mazze da baseball e pneumatici squarciati, giù fino al punto in cui la Brooklyn-Queens Expressway incombente e curvilinea forma una cortina d’acciaio che trancia in due quello che un tempo era Red Hook. A sud, il Gowanus Canal è una terra desolata di tossine sepolte o affondate e brandelli di gomma che bruciano senza fiamma, mentre la Ulano, la fabbrica di solventi, è un motore lungo quanto un isolato, le finestre come occhi socchiusi, che sputa nuove tossine invisibili e le corrispondenti leggende di danni al sistema nervoso e tumori al cervello. Le case popolari, Wyckoff Gardens e Gowanus Houses... bè, sono case popolari, hanno la loro legge, come meteore del crimine atterrate nel bel mezzo della città, ancora incandescenti e inavvicinabili. La prigione viene chiamata House of Detention, un sottile eufemismo a cui, tuttavia, vale la pena aggrapparsi. E allora, le strade di case in arenaria che si estendono entro questi confini – Wyckoff, Bergen, Dean, Pacific Street – un ghetto?

Jonathan Lethem è nato qui, in Dean Street, nel 1964. Tra i venti e i quarant’anni ha scritto molti romanzi e racconti esplorando le contaminazioni tra narrativa classica e di genere: il giallo e soprattutto la fantascienza. Tra i suoi maestri affianca Franz Kafka e Philip K. Dick, e i fondatori del postmoderno americano Donald Barthelme, Thomas Pynchon, 126

Don DeLillo. Tra i libri che gli hanno cambiato la vita, Alice nel paese delle meraviglie. È stato via da New York per dieci anni, ha vissuto a lungo in California, poi è tornato e, come un vecchio emigrante, si è scoperto profondamente legato al luogo da cui era partito: Boerum Hill, Brooklyn. È un sentimento delle proprie radici per niente americano, che l’ha spinto a cercare casa in Dean Street e a scrivere due romanzi ambientati nel quartiere: prima Brooklyn senza madre, poi La fortezza della solitudine. All’epoca in cui l’ho incontrato il secondo era appena uscito, stava ottenendo un buon successo e lui rilasciava interviste portando i giornalisti in giro per strada, mostrando loro i luoghi del romanzo. È così che anch’io ho visitato il quartiere e ascoltato la sua storia: quella di un ragazzino bianco, nato da una coppia di artisti e allevato con la musica dei Beatles nel pieno spirito degli anni Sessanta, ma cresciuto a Brooklyn durante l’esplosione della cultura hip-hop e la decadenza newyorkese culminata con l’estate del ’77. Racconta Lethem di aver amato i fumetti della Marvel proprio perché rispecchiavano la città di quell’epoca, con i muri coperti di graffiti o ridotti in macerie, le strade nella morsa delle gang, l’assenza di supereroi. Forse era davvero una guerra, la popolazione nera rivendicava la propria identità dopo una lunga oppressione e il passaggio non poteva che essere violento. Intanto, a Boerum Hill, il ragazzino bianco Dylan Ebdus cresceva insieme al suo migliore amico, il vicino di casa nero, Mingus Rude. Millenovecentosettantacinque. Dylan Ebdus e Mingus Rude nella primavera del 1975, che tornavano a casa camminando per Dean Street, studiando i tag a pen-

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narello nero e viola, sulle cassette della posta e sui lampioni, DMD e FMD, DINE II e SCAR 56, cercando di forzare il codice, sillabando senza voce. Dylan e Mingus insieme e da soli, dentro finestre del tempo, punteggiatura. Uno che attraversava Nevins Street per scansare un crocchio di ragazzini delle case popolari, tenendo la faccia bianca nascosta nel bavero di un giubbotto; uno che frequentava branchi sfilacciati di ragazzi neri dopo la scuola e poi tornava da solo in Dean Street. Loro due, uno di quinta e uno di prima media, spezzati in zone, in molti da sé. Ragazzino bianco, ragazzino nero, Capitan America e Falcon, Pugno d’Acciaio e Luke Cage. Dentro finestre del tempo, tornando da scuole diverse allo stesso isolato, due case in arenaria, due padri, Abraham Ebdus e Barrett Rude Junior, ognuno intento ad aprire i bordi in alluminio di cene televisive, a scoprire piselli e carote che avevano invaso lo spezzatino per poi posarli sul tavolo in un tetro silenzio. Cena in silenzio o al suono del televisore soffocato dall’urlo delle sirene, Nevins Street corsia d’emergenza, percorso di distruzione, i projects di nuovo in fiamme, un appartamento al diciottesimo piano con un materasso fumante per metà fuori dalla finestra, incastrato. [...] Dylan Ebdus e Mingus Rude come personaggi che a intervalli di qualche settimana emergevano da nebbie di silenzio per leggere un fumetto o ammazzare il tempo con tag fatti a biro, esercitazioni a salve, prove per qualcos’altro.

Non troppo tempo dopo quel 1975, La fortezza della solitudine ha un posto fisso in vetrina nella libreria di Court Street, così come tra i mucchi dell’usato nella polverosa Community Bookstore e dentro la sezione narrativa locale del vicino Barnes&Noble, uno scaffale numerato tra quattro piani ricolmi di libri. In tutto il quartiere convivono le tavole calde e le catene di Starbucks e Dunkin’ Donuts, l’abbi128

gliamento di seconda mano e le vetrine di American Apparel e Brooklyn Industries, il vecchio cinema di quartiere e il multisala di Court Street. Lo stesso equilibrio pacifico ma precario esiste tra gli abitanti. I vecchi italoamericani, i latini al lavoro nei ristoranti, gli afroamericani dei projects incrociano per strada le giovani coppie bianche con cani e carrozzine, ragazzi benestanti venuti ad abitare qui perché il quartiere è pittoresco, vivace e ben collegato con Manhattan. Chissà come diventerà tra qualche anno. Io l’ho conosciuto adesso e me lo sono portato via così, miracolosamente in bilico, con i segni del passato nascosti ma non ancora cancellati dal tempo. Se chiudo gli occhi, riesco a vedere l’uscita della linea F tra Smith Street e la 2a Strada. È il primo pezzo di New York che ritrovo quando arrivo al JFK. Sulle due vie principali, Smith e Court Street, i marciapiedi sono affollati di gente, ma basta prendere una strada laterale per ritrovarsi in un angolo silenzioso. Union Street è la mia preferita. Qui ci sono le più belle brownstones, ognuna con un giardino sul retro e un piccolo ingresso recintato sul davanti. In questo spazio, lo stoop, i bambini di Lethem hanno inventato un gioco con la palla chiamato appunto stoopball, e nei sabati d’estate vengono allestiti dei minuscoli mercatini, gli stoop sales, in cui si vendono gli oggetti di casa, i libri e i dischi, i giocattoli in disuso. Una volta mi è successo di seguire un cartello con la scritta moving sale («vendita per trasloco»), salire i gradini d’ingresso e ritrovarmi nella casa di una coppia di anziani: raggiunta l’età della pensione se ne andavano da New York, forse in un posto più caldo e tranquillo, e anziché caricare la 129

loro roba su un camion avevano deciso di vendere tutto e cominciare da zero. Ogni oggetto nell’appartamento, dalle pentole al ventilatore al tappeto, aveva un cartellino con il prezzo. Sembrava di essere in quel racconto di Carver, Perché non ballate?, con il vecchio ubriacone che dà via i mobili di casa dopo che la moglie l’ha lasciato. In altre strade gli edifici sono più poveri. Facciate di mattoni o ricoperte di listelli di plastica, e interni tutti di legno. Scale di legno, soffitti e pavimenti di legno, tetti con travi di legno che spiegano come mai, in questa città, la minaccia più grande è sempre stata il fuoco. E la paura del fuoco ha generato tre elementi senza i quali l’aspetto di Brooklyn non sarebbe lo stesso. Primo: i pompieri. Ogni quartiere ha la sua caserma dei pompieri. Andando in giro a piedi, non passa giorno senza incrociare un camion rosso e bianco lanciato a sirene spiegate verso l’emergenza. La passione tutta newyorkese per i soprannomi ha colpito anche gli eroi di strada, e così i poliziotti sono the finest («i più bravi»), i netturbini the strongest («i più forti»), i pompieri the bravest («i più coraggiosi»). Secondo: gli idranti. Ce ne sono almeno un paio per ogni isolato, e io provo per loro un affetto legato a un’infanzia non mia. Come molti altri sentimenti che questa città mi suscita, è la nostalgia di un tempo immaginario. Un’età in cui ho giocato anch’io per strada, nei torridi pomeriggi d’estate, ballando a piedi nudi sotto il getto degli idranti, e che giustifica il mio struggimento quando ne incontro uno. Terzo: le scale antincendio. A Brooklyn si trovano sul retro delle case, il lato che dà sul backyard. Non essendoci bal130

coni sono a volte utilizzate per appoggiare vasi di fiori, appendere i panni ad asciugare, uscire a prendere il sole. Qualche anno fa, quando ho passato qui l’estate, il mio primo rito mattutino era uscire sulla scala antincendio con una tazza di caffè e una sigaretta, e osservare il risveglio del vicinato. Dal secondo piano potevo vedere i cortili oltre il livello degli steccati, e ogni backyard rivelava qualcosa del suo proprietario a seconda che ospitasse una piscina gonfiabile, un canestro da basket, un capanno per gli attrezzi, un gazebo con tavolo, sedie e barbecue. I cortili comunicanti di Bob e Jimmy formavano il giardino più grande dell’isolato, ma loro due, da bravi scapoli cresciuti a Manhattan, l’hanno lasciato per anni in balia delle erbacce, fino a quando al piano terra è arrivata una giovane coppia e un po’ alla volta sono comparsi i fiori, la cuccia di un cane, i giocattoli di una bambina. Intorno c’erano scoiattoli che scorrazzavano tra i rami degli alberi e i tetti, ragazzini a mollo nelle piscine, uomini e donne che curavano il prato in attesa del tramonto, quando il cortile sarebbe passato nelle loro mani per la grigliata con gli amici. C’è un libro di racconti di Harvey Swados, il maestro di scrittura di Grace Paley, intitolato Notti nei giardini di Brooklyn: è ambientato nel dopoguerra ma a me sembrava di respirare lo stesso spirito, osservando il quartiere dalla mia scala antincendio. Dentro, la casa era calda d’estate e fredda d’inverno, tanto bassa da toccare i soffitti con le mani e un poco storta, come se pavimenti e pareti si ribellassero alla dittatura della bolla e del filo a piombo. Bob, che nella vita aveva fatto il carpentiere, se l’era ristrutturata da solo, e mi raccontava di 131

aver trovato un penny del 1851 sotto il tavolato della cantina. Lasciare una moneta nelle fondamenta era di buon auspicio per l’avvenire della casa. Il rito aveva funzionato, un secolo e mezzo è un’eternità da queste parti: e a me dava le vertigini pensare che nel 1851, mentre Melville scriveva Moby Dick, un immigrato tedesco benediceva i muri tra cui dormivo. La Brooklyn-Queens Expressway è un’autostrada urbana a quattro corsie, che dagli anni Cinquanta attraversa la parte occidentale di Brooklyn. Per effetto di questo confine artificiale, negli anni due paesaggi che prima erano simili si sono trasformati in modo indipendente, e adesso varcare la BQE significa entrare in un altro mondo. La casa di Summit Street sorge proprio lì vicino. Dentro quelle stanze, i miei soggiorni a Gotham sono sempre stati periodi di scrittura intensa: non avevo nessun altro lavoro a cui pensare, nessuna persona da incontrare. Niente telefono né televisione. Mi piaceva scrivere la mattina: alzarmi presto e preparare una brocca di caffè americano, fumare una sigaretta fuori, sedermi a tavola con il mio quaderno e la mia tazza piena. Nella prefazione ai Quarantanove racconti Hemingway elencava i luoghi in cui aveva lavorato – Parigi, Madrid, la Florida, il Kansas, l’Avana – dicendo che alcuni posti erano buoni per scrivere, altri meno. «O forse eravamo noi a non essere così buoni mentre eravamo lì». Credo di capire che cosa intendesse, e so che Brooklyn per me è un buon posto perché mi ha sempre fatto stare bene. Eppure scrivere non era meno duro. Se le cose, la mattina, andavano in un certo modo, a mezzogiorno 132

scendevo di casa e uscivo in Summit Street, mi chiudevo il cancelletto alle spalle e giravo a destra, verso est, oltre il ponte pedonale sulla BQE, e a quel punto avevo tutta la città a mia disposizione. Potevo decidere di andarmene in giro per Carroll Gardens, oppure spingermi a piedi fino ai quartieri eleganti di Park Slope o Brooklyn Heights. Potevo prendere la linea F e andarmene a Manhattan, o giù fino a Coney Island. La scelta era davvero infinita. Superare quel ponte e quelle quattro corsie di traffico era come entrare nella civiltà. Il lato selvaggio, il posto per i giorni neri, era quello che trovavo se uscendo di casa giravo a sinistra e mi incamminavo verso ovest. Red Hook. Guardando la cartina, qualche chilometro a sud del ponte, Brooklyn si allunga nella baia formando una specie di corno. Tutta la costa da qui a Greenpoint è una serie di moli, gru, capannoni, per la maggior parte in disuso, dopo che il traffico navale ha abbandonato New York per le coste più accoglienti del New Jersey. Rispetto ad altri quartieri, però, a Red Hook l’aria del porto è rimasta. La via principale, Van Brunt Street, corre parallela alla costa e arriva proprio in punta, dove una grande fabbrica in mattoni di metà Ottocento è stata trasformata in una colonia di artisti, la Brooklyn Water Artists Coalition. Ci sono studi, laboratori e spazi espositivi su tutti i tre piani dell’edificio. Per arrivare laggiù c’è un autobus, che ha sostituito la vecchia linea del tram, o un chilometro abbondante di cammino. Lungo la via le solite case di legno, rari negozi. Sulla destra, i capannoni dismessi del porto e le strade che terminano ai moli. Un edificio mi piace in particolare, monumentale come 133

una fortezza, con le sue torri di guardia e la scritta New York Docks Co. a caratteri cubitali. L’insegna di un edificio in lontananza, sul cui scheletro resta una lettera sola, la R di una parola non più riconoscibile, è diventata il simbolo del quartiere. C’è un legame tra Red Hook e lo scrittore che mi ha catapultato fuori dall’adolescenza. Avevo diciott’anni e una passione appena nata per i maledetti americani: seguendo quella strada ho incontrato Kerouac e Bukowski, sono risalito a Hemingway e Fitzgerald e sceso fino a Ellis e McInerney, poi ho trovato Hubert Selby Junior e la scoperta mi ha tagliato il fiato. Ultima fermata a Brooklyn non c’entrava niente con quello che avevo letto fino a quel momento. In confronto ai personaggi di Selby i duri di Hemingway sembravano antiquati galantuomini, Kerouac era un nobile cavaliere errante e perfino Bukowski faceva la figura del romantico ubriacone. Quel libro era pieno di dolore, droga, sesso, vita di strada, bisogno di consolazione. Vorrei tornare indietro solo per essere nella biblioteca del mio quartiere, leggere il racconto La regina è morta dal libro che sto per chiedere in prestito, e restarci secco come la prima volta. Anni dopo mi ritrovo nel luogo in cui quei racconti sono ambientati. Hubert Selby Junior nacque a Red Hook nel 1928. Hubert Selby Senior lavorava sulle navi e nel porto. Proprio come Melville, il figlio seguì le orme del padre ad appena quindici anni, lasciando la scuola e arruolandosi nella marina mercantile. La sua carriera da marinaio durò poco: a diciannove anni si ammalò di tubercolosi, a venti ven134

ne operato e subì l’asportazione totale di un polmone e quella parziale dell’altro. Tornò a casa, ma non poteva più lavorare. Sviluppò una dipendenza da farmaci che divenne ben presto dipendenza da eroina. Ecco da dove arrivavano le sue storie: da un ragazzo di vent’anni invalido, disoccupato, tossicodipendente, che bazzicava le strade del porto di Brooklyn all’inizio degli anni Cinquanta. A un certo punto un amico gli consigliò di provare a scrivere. Selby cominciò con lunghi monologhi privi di punteggiatura, senza sapere che stava fondando uno stile. Quando finiva una frase andava a capo. Quando doveva prendere il respiro ci metteva un paio di barre, così: //, perché gli venivano comode sulla sua macchina da scrivere. Vomitò fuori tutta la vita che aveva visto in quegli anni: i tossici, i soldati, i reduci disoccupati, le prostitute adulte e bambine, i travestiti, le risse, gli stupri, l’eroina. Alla fine degli anni Cinquanta, mentre l’America si scandalizzava per Urlo e Sulla strada, Selby inviò i suoi racconti a qualche rivista, catturò l’attenzione di Allen Ginsberg che volle conoscerlo e si spese per lui fino a quando Ultima fermata a Brooklyn fu pubblicato dalla Grove Press, editore storico dei beat. Era il 1964. In molti paesi il libro fu bandito per oscenità. Nemmeno negli ambienti della controcultura raccolse entusiasmi: non era possibile fare di Selby un eroe come Kerouac, né un leader politico come Ginsberg. Nelle sue storie non c’era nessuna volontà di ribellione. Erano l’orrore nudo e crudo della realtà, o di un pezzo di realtà: certi soldati tornavano dalla guerra, si sposavano e facevano bambini, compravano una casetta fuori città e sorridevano al mondo dal135

le cartoline del sogno americano. Certi altri non riuscivano ad adeguarsi, ed erano i protagonisti disperati delle storie di Selby. Anche Red Hook ha avuto per anni una pessima fama. Tra i moli del porto la malavita ha prosperato dall’epoca in cui si trafficava in whisky fino alla fine del secolo, quando il quartiere fu bollato come «crocevia del crack». Le guide turistiche sconsigliavano di fare un giro da queste parti, e gli stessi newyorkesi stavano alla larga. È difficile immaginarlo, oggi che il quartiere si popola di artisti e le fabbriche si trasformano in laboratori o gallerie, dando vita a una comunità che ha adottato come marchio l’uncino rosso. Il processo è molto lento e forse non raggiungerà mai l’ultimo stadio della gentrification, cioè la moda immobiliare, perché qui non arriva la metropolitana e questo a New York è un ostacolo decisivo, che condanna un luogo a restare inaccessibile o da un altro punto di vista lo preserva. È insolito in città vedere biciclette come succede lungo Van Brunt Street. La Public School 102, dove Selby è cresciuto, è ancora la scuola elementare del quartiere. Più avanti tre vagoni abbandonati su un binario morto, i sedili divelti, i finestrini in frantumi, sono quello che resta del progetto di un museo del tram. C’è un barcone trasformato in una casa galleggiante, e un noleggio canoe che propone visite guidate del porto. Alcuni dei moli recintati, proprietà di fabbriche ormai chiuse, vengono ristrutturati e aperti al pubblico. Ce n’è uno, su Coffey Street, che è stato trasformato in un piccolo parco, e in onore di un pompiere di Red Hook è chiamato Valentino Pier. 136

Su questo molo, durante l’estate, mi è capitato spesso di trovare qualche pescatore, soprattutto latini che ammazzavano i pomeriggi d’agosto su una sedia a sdraio, con un paio di lenze lasciate a mollo e qualche birra in fresco in un secchio d’acqua e ghiaccio. Da quanto ho capito i messicani di Brooklyn se ne fregano della legge sull’alcol, e la polizia deve aver gettato la spugna: impossibile spiegare loro che bersi una Corona al sole costituisce un reato penale. D’inverno, sotto la neve, sono arrivato fin qui senza incontrare nessuno. Il molo è un ottimo punto di osservazione su Manhattan e la baia, coi mercantili che salpano dal New Jersey e il ponte di Verrazzano giù in fondo, a fare da arco d’ingresso per l’Oceano Atlantico. La Statua della Libertà è proprio lì, basta allungare un braccio per toccarla. Con la sua forma a uncino Red Hook la aggira a oriente, e così questo è l’unico posto sulla terraferma da cui è possibile guardare Lady Liberty negli occhi.

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Molto forte, incredibilmente vicino (Coney Island)

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Tutto scivola e si sbriciola, tutto scintilla, vacilla, barcolla, ridacchia. Tutto è menzogna, finzione. Una Coney Island della mente. Henry Miller

E così sono arrivato al mio ultimo giorno in città. Una corsa sulla linea F è un buon modo per dirle addio, perché a Brooklyn, dopo qualche fermata, il treno corre in superficie fino al capolinea. Oggi mi tengo lontano dai soliti posti: attraverserò i quartieri senza nome a sud del parco, le file di villette a schiera, il cimitero e il deposito degli scuolabus, i campi da baseball, i palazzi popolari di Avenue U, X, Z. Poi ritroverò l’odore di salsedine, la lunga passerella di legno sul lungomare. L’isola dei conigli, come fu battezzata dai coloni, è un quartiere di russi e di ebrei, ma è soprattutto la spiaggia libera di New York, e il più antico luna park d’America. Laggiù, alla fine dell’Ottocento, venne costruito un paese dei balocchi che comprendeva il circo, il teatro, le giostre, le 141

sale da ballo e i ristoranti, il casinò e la casa degli specchi, e di cui ormai restano solo la ruota panoramica e il Cyclone, l’antico ottovolante in legno. Intorno c’è la desolazione dei luna park dismessi: i tirassegni chiusi, i trenini coperti da teli di plastica, le giostre spente e senza musica. Ora dicono che tutta la costa sia stata acquistata da qualche milionario, e che da un momento all’altro anche Coney Island sia destinata a una rivoluzione. Ci sono luoghi da cui parti tranquillo: sai che resteranno fermi mentre non ci sei, ti aspetteranno intatti come i ricordi d’infanzia, o la casa dei tuoi genitori. Ritroverai gli oggetti di una volta e lo stesso vecchio odore. Altri sono come le persone: continui a immaginarle identiche mentre tu viaggi, impari e ti trasformi, e invece al prossimo incontro saranno cambiate almeno quanto te, e dovrai ricominciare da zero. New York è così. Ecco il problema quando si cerca di raccontarla: qualsiasi parola spesa su di lei porta incisa una data, e comincia a invecchiare subito dopo averla scritta. Durante il mio primo viaggio sembrava inevitabile parlare dell’Undici Settembre. Era passato poco tempo dal crollo delle Torri, e quell’immagine perseguitava i newyorkesi. Se ti mostravano lo skyline di Manhattan dai giardinetti di Dumbo, a un certo punto indicavano un pezzo di cielo e dicevano: «e lì una volta c’erano le Torri Gemelle». Se ti portavano in una strada dove avevano abitato raccontavano: «ed è da quella terrazza che le ho viste crollare». Una particolare mattina di settembre, tipica dell’autunno cittadino – vento freddo dall’oceano, sole abbagliante, cielo pulitissimo e blu – era «proprio come quella mattina». Non si era ancora 142

spenta l’urgenza del dopo, per cui ciascuno si metteva a raccontarti dov’era, che cosa aveva fatto, a chi aveva telefonato, e com’erano stati strani e intensi i giorni successivi al disastro, quando andavi in giro per strada e guardavi gli altri negli occhi e sentivi di appartenere a una comunità, come non ti era mai capitato prima. Forse succede a tutti quelli che hanno assistito a una catastrofe. Qualcuno cercava di sdrammatizzare: Gary Shteyngart raccontava del tetto della sua palazzina nel Lower East Side, dei messicani con le birre e gli hot-dog, tutti a osservare le torri fumanti come in un cinema all’aperto. Qualcun altro, come Rick Moody, ricordava il primo viaggio in metropolitana, qualche settimana dopo: sul ponte di Manhattan gli era sembrato che tutti i passeggeri del vagone evitassero di guardare fuori, e allora lui, con uno sforzo di volontà, si era avvicinato al finestrino e aveva fissato quel vuoto. E poi uno sconosciuto gli era venuto incontro e l’aveva abbracciato a lungo. Ascoltando questi racconti sembrava che la storia di New York sarebbe stata per sempre divisa in due, prima e dopo l’11 settembre 2001. L’età dell’innocenza e quella della paura. L’epoca delle grandi speranze e quella dei rimpianti per le occasioni perdute. Poi lo scorrere del tempo, l’inarrestabile ingranaggio che è nell’anima di questa città, ha cominciato a sgretolare anche quel macigno. La spianata di Ground Zero è rimasta ferma per un bel pezzo, come se nessuno avesse il coraggio di pensare a cosa farne, ma poi si è cominciato a costruire. Dopo un periodo di silenzio, rappresentare l’Undici Settembre nelle storie non è stato più un tabù. Gli scrittori hanno pubblicato romanzi, i registi hanno gira143

to film. Se prima non potevi passare di lì senza fermarti, gettare uno sguardo oltre le recinzioni e dedicare un pensiero, qualunque tipo di pensiero al dolore che gli uomini sono capaci di provocarsi a vicenda, adesso l’abitudine è più forte della commozione. Una decina d’anni dopo, sembra che il lutto sia finito e la città abbia ripreso a vivere a suo modo: accogliendo gente dai quattro angoli del mondo. Forse è proprio questo il segreto di New York, le persone. Tra le voci del censimento del 2006, una tabella appassionante come un romanzo se uno riesce a immaginare le storie che stanno dietro ai numeri, ce ne sono alcune che catturano la fantasia più di altre. Popolazione sotto i diciott’anni: 25%. Popolazione nata all’estero: 35%. Popolazione che in famiglia parla una lingua diversa dall’inglese: 48%. Popolazione che negli ultimi cinque anni ha cambiato casa: 39%. Età media della popolazione: 34 anni. Questi numeri dicono che, in un futuro abbastanza vicino, la maggior parte degli abitanti di New York non avrà una memoria diretta dell’Undici Settembre: quel giorno vivevano da un’altra parte, o non erano nemmeno nati. Colson Whitehead ha scritto: «Sei un newyorkese quando quello che c’era prima è più reale e solido di quello che c’è adesso». Ma nello stesso capitolo del suo Colosso di New York ha scritto anche: «O forse diventiamo newyorkesi quando ci rendiamo conto che senza di noi New York continuerà a esistere». E tra il primo pensiero e il secondo c’è lo spazio sufficiente per tutti i libri possibili su Gotham, tutte le fotografie già vecchie che gli scrittori provano a fissare sotto forma di parole. 144

A Chinatown sono scesi i turisti, i cinesi, i portoricani, i musicisti che fanno moneta avanti e indietro dal Village: il macchinista ha biascicato «East Broadway, ultima fermata a Manhattan», e mentre chiudeva le porte è arrivato anche il ritardatario, rotolando giù per le scale e rovesciando il caffè dal bicchiere di carta e incastrandosi dentro con una spalla e una gamba finché non l’hanno lasciato entrare, e poi quel vecchio treno di latta si è inabissato nell’East River. Intanto il grassone ha finito il suo pasto di metà pomeriggio, un pollo arrosto dorato e croccante che aveva attaccato dall’ala cinque fermate prima, ha preso il vassoio degli avanzi e si è dedicato a rosicchiare gli ossi già spolpati. Alla fermata di York è salito un rastafari armato di tamburello. Lo batteva con il polso e la coscia esclamando: «L’amore è nell’aria, l’amore è nell’aria! Benvenuti nella città dei sognatori! Questo è il treno della fortuna, signore e signori, e io vi auguro che vi porti dove desiderate andare!». La studentessa di fronte a me aveva due borse ai suoi piedi e un libro in mano, con il marchio di una biblioteca sul dorso. Guardava in basso a destra e sorrideva da sola. Com’era quella storia? In basso a destra per ricordare, in alto a sinistra per immaginare. Poi l’espressione è cambiata di poco, quello che basta per trasformare un sorriso in un sorriso ferito, come se dal ricordo di prima fosse passata a una scena successiva, con la stessa persona dentro, solo più triste. Alla fermata di Bergen il treno ha frenato di colpo e il barbone si è svegliato: si è sollevato dai sedili, si è stiracchiato per bene, ha preso una bottiglia di plastica da uno dei suoi sacchetti neri e ci ha pisciato dentro, poi ha messo via la bottiglia ed è tornato a dormire. I chassi145

dim non vedevano l’ora che il treno uscisse all’aperto per cominciare a telefonare. Li ho sentiti parlare in russo, in polacco, in un’altra lingua che poteva essere ungherese e in quel dialetto tra il tedesco e lo slavo che ho imparato a riconoscere come yiddish. Dopo Smith Street abbiamo piegato a sinistra sulla sopraelevata e all’improvviso Brooklyn è comparsa nei finestrini. Le villette di Carroll Gardens, le fabbriche del Gowanus Canal, il vecchio porto di Red Hook giù verso la baia e le colline di Brooklyn Heights in fondo. Un paesaggio infinito di case rosse: legno, mattoni, scale antincendio, cisterne d’acqua mangiate dalla ruggine, sangue pulsante nelle vene, giorni consumati e sempre uguali, dolore e finestre e desideri. I grattacieli di Manhattan sembravano solo le quinte di cartone di tutte quelle vite. Aggrappato alla maniglia del treno ho visto una città che non sapeva niente di me, delle forze che mi avevano portato fin lì, di dove stavo andando. La cosa che ho visto è durata il tempo di un pensiero, e poi ci siamo buttati giù verso Coney Island.

Bibliografia

I titoli tra virgolette si riferiscono a racconti e poesie, i titoli in corsivo a romanzi e raccolte. Per ciascuna opera ho indicato il titolo originale e l’anno di pubblicazione, più l’edizione italiana attualmente disponibile, quando esiste. Dove non è diversamente indicato, la traduzione del brano è mia.

Prologo Walt Whitman, «Mannahatta», 1892 («Mannahatta», in Foglie d’erba, Einaudi 2005) Colson Whitehead, The Colossus of New York, 2003 (Il colosso di New York, Mondadori 2004)

Capitolo 1 Allen Ginsberg, «Siesta in Xbalba and Return to the States», 1956 («Siesta a Xbalba e ritorno negli USA», in Poesie scelte 19471995, Net 2005)

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Truman Capote, Breakfast at Tiffany’s, 1958 (Colazione da Tiffany, Garzanti 2007) Herman Melville, Moby-Dick; or, The Whale, 1851 (Moby Dick, o la balena, Adelphi 2008) «Bartleby the Scrivener», 1856 (Bartleby lo scrivano, Einaudi 2006) Walt Whitman, «Mannahatta»; «O Captain! My Captain!»; «Crossing Brooklyn Ferry», 1892 («Mannahatta»; «O capitano! Mio capitano!»; «Sul ferry di Brooklyn», in Foglie d’erba, Einaudi 2005)

Capitolo 2 Grace Paley, «The Nature of this City», 1985 Michael Gold, Jews without Money, 1930 (Ebrei senza denaro, Baldini Castoldi Dalai 2006, traduzione di Alessandra Scalero) Henry Roth, Call It Sleep, 1934 (Chiamalo sonno, Garzanti 2006, traduzione di Mario Materassi) Emma Lazarus, «The New Colossus», 1883 Allen Ginsberg, «Kaddish», 1961 («Kaddish», in Poesie scelte 1947-1995, Net 2005)

Capitolo 3 J.D. Salinger, The Catcher in the Rye, 1951 (Il giovane Holden, Einaudi 2008)

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Francis Scott Fitzgerald, «May Day», 1920 («Primo maggio», in Racconti dell’età del jazz, Mondadori 1999, traduzione di Giorgio Monicelli e Bruno Oddera)

Capitolo 4 Gregory Corso, «On the Walls of a Dull Furnished Room»; «Birthplace Revisited», in Gasoline, 1955 («Sui muri di una squallida stanza ammobiliata»; «Luogo natio rivisitato», in Poesie, Guanda 2007) Jack Kerouac, On the Road, 1957 (Sulla strada, Mondadori 2006, traduzione di Marisa Caramella) Grace Paley, «Mother», 1985; «An Interest in Life», 1959 («Madre»; «Un interesse nella vita», in Piccoli contrattempi del vivere, Einaudi 2002) «Here», 2001 Rick Moody, «The Ring of Brightest Angels around Heaven», 1995 (La più lucente corona d’angeli in cielo, minimum fax 2004) Sandra Maria Esteves, «Not Neither», 1984 (traduzione di Mario Maffi) Bitman Bimbo Rivas, «Loisaida», 1974

Capitolo 5 Truman Capote, «A House on the Heights», 1959 (Una casa a Brooklyn Heights, Archinto 2007)

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Paul Auster, The Brooklyn Follies, 2005 (Follie di Brooklyn, Einaudi 2005, traduzione di Massimo Bocchiola) Rick Moody, «The Art of Fiction», 2001 (Col pianoforte ero un disastro, minimum fax 2003)

Capitolo 6 Harvey Swados, Nights in the Gardens of Brooklyn, 1960 (Notti nei giardini di Brooklyn, Bookever 2005) Henry Miller, Black Spring, 1936 (Primavera nera, Mondadori 1998, traduzione di Attilio Veraldi) Chaim Potok, The Chosen, 1967 (Danny l’eletto, Garzanti 2007, traduzione di Marcella Bonsanti)

Capitolo 7 Lou Reed, «Take a Walk on the Wild Side», 1972 Jonathan Lethem, The Fortress of Solitude, 2004 (La fortezza della solitudine, Net 2007, traduzione di Gianni Pannofino)

Capitolo 8 Henry Miller, Black Spring, 1936 (Primavera nera, Mondadori 1998, traduzione di Attilio Veraldi) Colson Whitehead, The Colossus of New York, 2003 (Il colosso di New York, Mondadori 2004)

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