L'economia dell'età della pietra 8845206718, 9788845206719

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L'economia dell'età della pietra
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Marshall Sahlins L’ECONOMIA DELL’ETÀ DELLA PIETRA scarsità e abbondanza nelle società primitive

Bompiani

RINGRAZIAMENTI

Sono particolarmente grato a due istituzioni, e aH’eccellente personale legato a esse, per l’aiuto e i mezzi fornitimi durante i periodi cruciali della ricerca e della stesura dell’opera. Nel 1963-64 ottenni una borsa di studio al Center for Advanced Study in thè Behavioral Sciences (Palo Alto), nel 1967-69 un ufficio e la disponibilità del Laboratoire d’Anthropologie Sociale del Collège de France (Parigi). Benché non occupassi alcuna posizione uffi­ ciale nel Laboratoire, Claude Lévi-Strauss, il direttore, mi accolse con una cortesia e una generosità che mi sarebbe difficile ricam­ biare se dovesse restituirmi la visita. Una borsa di studio John Simon Guggenheim durante il mio primo anno parigino (1967-68) e un’altra del Social Science Research Council Faculty Research (1958-61) furono anch’esse di grande aiuto per il periodo di stesura di questi saggi. Periodo che è stato così lungo e ricco di utili incontri intellet­ tuali che sarebbe impossibile elencare tutti i colleghi e studiosi che, in un qualche modo, hanno influenzato il corso dell’opera. Per i molti anni di amicizia e discussioni, faccio tuttavia tre ecce­ zioni: Remo Guidieri, Elman Service e Eric Wolf. Le loro idee e critiche, mai disgiunte da incoraggiamenti, sono state di inestima­ bile valore per me e il mio lavoro. Parecchi dei saggi sono stati pubblicati integralmente, parzial­ mente o tradotti nel corso di questi ultimi anni. “L’originaria società opulenta” apparve in forma ridotta con il titolo “La première société d’abondance” in Les Temps Modernes (n. 268, ott. 1968, 641-80).. La prima parte del cap. 4 fu originariamente pubblicata come “ Thè Spirit of thè Gift ” in Echanges et communications (a cura di Jean Pouillon e P. Maranda, Thè Hague,

RINGRAZIAMENTI

Mouton, 1969). La seconda parte del cap. 4 apparve come “Philosophie politique de l’Essai sur le don” in L’Homme (voi. 8 [4], 1968, 5-17). “Sociologia dello scambio primitivo” fu pub­ blicato dapprima in Thè Relevance of Models for Social Anthropology (a cura di M. Banton, London; Tavistock [ASA Monographs, 1], 1965). Ringrazio gli editori di tutte queste pub­ blicazioni per i diritti di riproduzione concessimi. “La diplomazia del commercio primitivo”, inizialmente edito in Essays in Economie Anthropology (a cura di June Helm, Seattle, American Ethnological Society, 1965), è stato intera­ mente rivisto per questo libro.

INTRODUZIONE

Ho redatto i vari saggi di questo volume in epoche diverse durante gli ultimi dieci anni. Alcuni furono scritti espressamente per questa edizione. Tutti furono concepiti e sono qui raccolti nella speranza di un’economia antropologica, cioè in opposizione alle interpretazioni efficientistiche delle economie e società pri­ mitive. Inevitabilmente il libro si iscrive nell’attuale controver­ sia antropologica tra pratiche “formaliste” e “sostantiviste” del­ la teoria economica. Endemico alla scienza economica per oltre un secolo, il dibat­ tito formalista-sostantivista sembra tuttavia senza storia, perché nulla di sostanziale sembra essere cambiato dacché Karl Marx ne definì i termini fondamentali in contrapposizione ad Adam Smith (cfr. Althusser et al., 1966, voi. 2). Comunque, l’ultima incarnazione in forma antropologica ha spostato l’accento della discussione. Se inizialmente il problema era 1’“ antropologia inge­ nua” dell’Economia, oggi è 1’“economia ingenua” dell’Antropo­ logia. “Formalismo contro sostantivismo” equivale alla seguente opzione teorica: tra i modelli convenzionali dell’economia orto­ dossa, specialmente la “microeconomia”, considerati universal­ mente validi e applicabili alle società primitive; e la necessità posta l’infondatezza di questo approccio formalista - di elabo­ rare un’analisi nuova più consona alle società storiche in que­ stione e alla storia intellettuale dell’antropologia. In senso lato, è una scelta tra una prospettiva manageriale, dato che il metodo formalista non può che considerare le economie primitive versio­ ni sottosviluppate della nostra, e uno studio culturalista che in linea di principio rispetti le differenti società per quel che sono. Nessuna soluzione è in vista, non c’è alcun motivo per conclu-

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dere accademicamente che “la risposta sta probabilmente nel mezzo”. Questo libro è sostantivista: adotta perciò una struttura familiare, fornita dalle tradizionali categorie sostantive. Il primo saggio concerne la produzione: “L’originaria società opulenta” e “Il modo di produzione domestico”. (Quest’ultimo è stato di­ viso per comodità in due parti, nei capitoli 2 e 3, che però costi­ tuiscono un discorso unitario.) I capitoli seguenti si occupano di distribuzione e scambio: “Lo spirito del dono”, “Sulla sociologia dello scambio primitivo”, “Valore di scambio e la diplomazia del commercio primitivo”. Ma dato che l’esposizione è contempo­ raneamente un’opposizione, questa successione nasconde una più segreta strategia di dibattito. Il primo capitolo accetta battaglia in termini formalisti. La “originaria società opulenta” non mette in discussione la comune interpretazione dell’"economia” come un rapporto tra mezzi e fini; si limita a negare che per i cacciatori esista una grande differenza tra gli uni e gli altri. I saggi se­ guenti, tuttavia, abbandonano definitivamente questa concezione imprenditoriale e individualista dell’oggetto economico. L’“eco­ nomia” diventa una categoria non tanto comportamentale quan­ to culturale, unitamente alla politica e alla religione più che alla razionalità o alla prudenza: non le attività utili degli indivi­ dui, ma il processo vitale materiale della società. Quindi, il capi­ tolo finale ritorna all’ortodossia economica, ma ai suoi problemi, non alla sua problématique. Il tentativo in conclusione è di as­ soggettare alla prospettiva antropologica il tradizionale compito della microeconomia, la spiegazione del valore di scambio. Ciononostante, lo scopo del libro rimane modesto: perpetuare la possibilità di un’economia antropologica con alcuni esempi concreti. In un numero recente di Current Anthropology, un portavoce della fazione opposta annunciava quasi compiaciuto la fine precoce dell’economia sostantivista: Il fiume di parole dissipato in questo dibattito non ne accresce il peso intellettuale. Fin dall’inizio i sostantivisti (come provano le opere giustamente famose di Polanyi ed altri) furono eroicamente confusio­ nari e in errore. È un merito della maturità dell’antropologia economica che nel breve volgere di sei anni si sia riusciti a scovare in che cosa consistesse l’errore. Il saggio... scritto da Cook (1966), fresco di laurea, risolve abilmente la controversia... Tuttavia, a quella specie di impre­ sa (!) che è la scienza sociale, è praticamente impossibile sbarazzarsi di un’ipotesi scadente, inutile o confusionaria, per cui prevedo che la prossima generazione di creatori di confusione ad alto livello riesu­ meranno, in una qualche forma, la visione sostantiva dell’economia (Nash, 1967, p. 250).

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Come descrivere allora l’attuale opera, che non è il secondo avvento né porta la minima traccia di immortalità? Si può sol­ tanto sperare che qualcuno si sia sbagliato. Forse, come con Mark Twain in un caso analogo, le voci della morte del sostantivismo sono state grossolanamente gonfiate. In ogni caso, mi astengo da ogni tentativo di rianimazione in forma di discussione metodologica. La recente letteratura di “antropologia economica” è già sovrainflazionata di chiacchiere a questo livello. E benché molte delle argomentazioni sembri­ no modelli di buonsenso, l’effetto complessivo è stato di raffor­ zare gli originali pregiudizi di ognuno. (“Chi è convinto contro volontà / rimane della stessa opinione.”) La ragione si è dimo­ strata un cattivo arbitro. Frattanto il pubblico del dibattito sta rapidamente diminuendo, per noia, spingendo perfino alcuni de­ gli interlocutori a dichiararsi disposti a mettersi al lavoro. Anche questo è lo spirito del libro. Ufficialmente, come partecipe di una disciplina che si considera una scienza, vorrei fondare la disputa sui saggi stessi, e sulla convinzione che essi spiegano le cose me­ glio del metodo teorico competitivo. Tale è la sana procedura tra­ dizionale: che i fiori sbocciano, e vedremo quali realmente frut­ tificano. Ma la posizione ufficiale, lo confesso, non mi convince più di tanto. Mi sembra che questo ordito di metafore sulle scienze na­ turali, presentato in termini di “scienze sociali”, quello che noi intendiamo per antropologia, abbia mostrato una scarsa inclina­ zione ad accordarsi sull’adeguatezza empirica di una teoria come sulla sua sufficienza logica. Infatti, a differenza della matematica dove “la verità e gli interessi umani non sono opposti”, come ebbe a dire Hobbes in tempi lontani, nelle scienze sociali nulla è incontestabile perché la scienza sociale “ mette a confronto uomini e interferisce nel loro diritto e profitto”, sicché “come spesso la ragione è disumana, un uomo è irragionevole”. Le differenze de­ cisive tra formalismo e sostantivismo, per quanto riguarda la loro accettazione, se non la loro verità, sono ideologiche. Incarnando la saggezza delle categorie borghesi indigene, l’economia formale prospera come ideologia in patria ed etnocentrismo all’estero. In confronto al sostantivismo, essa trae grande forza dalla sua profonda compatibilità con la società borghese - il che non signi­ fica neppure negare che il conflitto con il sostantivismo possa diventare uno scontro di (due) ideologie. Quando i primi fisici e astronomi, operando all’ombra dei dogmi ecclesiastici costituiti, si raccomandavano a Dio e al Sovra­

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no, sapevano quel che facevano. L’attuale lavoro sfrutta la stessa contraddizione: non nell’illusione che i dogmi si rivelino docili, ma almeno gli dei. Le differenze politico-ideologiche tra pensie­ ro formale e antropologico possono benissimo essere ignorate nella stesura, ma ciò non le rende molto meno conseguenti al­ l’esito. Si dice che il sostantivismo è morto. Politicamente, alme­ no per una certa parte del mondo, la cosa può essere vera: che il fiore fu reciso sul nascere. È anche possibile che l’economia bor­ ghese sia condannata, destinata dalla storia a condividere il desti­ no della società da cui trasse alimento. In ogni caso, la decisione non spetta all’attuale antropologia. Siamo almeno scienziati quel che basta per sapere che è prerogativa della società, e degli accademici figli del cielo che ne detengono il mandato. Nel frat­ tempo, noi coltiviamo i nostri giardini, in attesa di vedere se gli dei ci inonderanno di acqua o, come quelli di certe tribù della Nuova Guinea, di urina.

1. L’ORIGINARIA SOCIETÀ OPULENTA

Se è vero che l’economia è una scienza “tetra”, lo studio delle economie di caccia e raccolta dovrebbe esserne la branca più avanzata. Quasi universalmente concordi nell’affermare la durezza della vita nel paleolitico, i manuali di antropologia fanno a gara a comunicare un senso di condanna incombente, tanto che viene spontaneo chiedersi non soltanto come i cacciatori riuscissero a sopravvivere ma se, dopotutto, la loro fosse vita. Lo spettro della morte per fame è perennemente in agguato in queste pagine. L’incompetenza tecnica, si dice, imponeva un lavoro asfissiante per la semplice sopravvivenza, negando al cacciatore riposo e surplus, e quindi perfino 1’“ agio ” di “acculturarsi”. Ciononostan­ te, malgrado tutti i suoi sforzi, il cacciatore si colloca ai gradi infimi della termodinamica - meno energia/persona/anno che in ogni altro modo di produzione. E nei trattati sulla dinamica eco­ nomica è condannato a fungere da esempio negativo: la cosid­ detta “economia di sussistenza”. La saggezza tradizionale è sempre caparbia, tanto da costrin­ gerci a obiezioni polemiche, a formulare dialetticamente le neces­ sarie rettifiche: in realtà, a un esame attento, fu la prima società opulenta. Paradossalmente, da questa formulazione discende una altra utile e inopinata conclusione. Comunemente si conviene che una società opulenta è quella in cui tutti i bisogni materiali della gente sono di facile soddisfazione. Sostenere che i cacciatori sono ricchi significa negare che la condizione umana sia. prede­ stinata alla tragedia, con Tuomo prigioniero di una perenne dispa­ rità tra bisogni illimitati ejnezM ÌMdegiMiti. Due sono infatti le vie possibili all’opulenza. Si possono “facil­ mente soddisfare’’ i bisogni o producendo molto o chiedendo

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poco. La concezione tradizionale, il modello diGalbraith,) parte da presupposti particolarmente consoni a un’econòfflKrdi merca­ to: che i bisogni umani sono grandi, se non infiniti, laddove i mezzi sono, benché perfezionabili, limitati: pertanto, il divario tra mezzi e fini può essere ridotto dalla produttività industriale, perlomeno nei lijnit-Ldi un’abbondanza di ‘‘beni urgenti”. Ma esi­ ste anche una (ina Zgn-'aH’opulenza, sulla base di premesse alquan­ to differenti dalle nostre: i bisogni materiali dell’uomo sono cir­ coscritti e limitati e i mezzi tecnici immutabili ma nel complesso adeguati. Adottata la strategia Zen, un popolo può, con un basso tenore di vita, assaporare un’incomparabile abbondanza mate­ riale. Definirei i cacciatori in questi termini, il che ci serve a spiega­ re parte del loro curioso comportamento economico: la loro “pro­ digalità”, a esempio - la tendenza a consumare immediatamente tutte le provviste a disposizione, quasi che fossero un dono del cielo. Immuni come sono da ossessioni di scarsità di merci, le inclinazioni economiche dei cacciatori trovano, più delle nostre, un fondamento coerente nell’abbondanza. Marx dovette quanto­ meno convenire con Destutt de Tracy, il “gelido dottrinario della borghesia”, che “nelle nazioni povere la gente vive negli agi”, mentre nelle nazioni ricche “è in genere povera”. Ciò non per negare che un’economia preagricola operi sotto serie limitazioni ma soltanto per ribadire, come provano i moder­ ni cacciatori e raccoglitori, che un compromesso soddisfacente si può sempre raggiungere. Una volta esposta la documentazione, ritornerò in conclusione alle reali difficoltà dell’economia di cac­ cia e raccolta, nessuna delle quali è correttamente delineata nelle formulazioni correnti della povertà paleolitica.

Origini dell’equivoco “Mera economia di sussistenza”, “agio limitato tranne in cir­ costanze eccezionali”, “ricerca incessante di cibo”, “risorse natu­ rali scarse e relativamente incerte”, “assenza di un surplus econo­ mico”, “massimo di energia da un numero massimo di persone” - così è sintetizzabile l’opinione comune degli antropologi in tema di caccia e raccolta. Gli aborigeni australiani sono un classico esempio di popolo le cui risorse economiche sono delle più scarse. In molti casi il loro habitat è

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perfino più difficile di quello dei Boscimani, benché ciò non sia forse esatto per la parte settentrionale... Istruttiva in proposito è la classifi­ cazione delle cibarie che gli aborigeni del Queensland nordoccidentale ricavano dalla regione dove abitano... L’eterogeneità di questo elenco è impressionante, ma non bisogna erroneamente credere che la varietà implichi abbondanza, dato che le quantità disponibili di ogni elemento sono tanto scarse che soltanto l’applicazione più intensa rende possibile la sopravvivenza (Herskovits, 1958, pp. 68-69).

O ancora, relativamente ai cacciatori sudamericani: I cacciatori e raccoglitori nomadi soddisfacevano appena i bisogni mi­ nimi di sussistenza e spesso neppure quelli. Ne è un riflesso la loro densità demografica di 1 persona ogni 10-20 miglia quadrate. Costantemente in moto alla ricerca del cibo, chiaramente non disponevano delle ore di tempo libero per attività di una qualche importanza che non fossero di pura sussistenza, ed erano in grado di trasportare ben poco degli eventuali prodotti del tempo libero. Per loro, adeguatezza di produzione equivaleva a sopravvivenza fisica, ed era raro che avessero un sovrappiù di tempo o di prodotti (Steward e Faron, 1959, p. 60; cfr. Clark, 1953, pp. 27 sgg.; Haury, 1962, p. 113; Hoebel, 1958, p. 188; Redfield, 1953, p. 5; White, 1959).

Ma la tradizionale visione pessimistica delle insormontabili dif­ ficoltà dei cacciatori è anche preantropologica ed extrantropologica, a un tempo storica e riferibile al più ampio contesto eco­ nomico in cui opera l’antropologia. Risale all’epoca di Adam Smith, ed è probabilmente anteriore a ogni opera scritta.1 Fu forse uno dei primi pregiudizi chiaramente neolitici, una valuta­ zione ideologica della capacità del cacciatore di sfruttare le risor­ se terrestri, perfettamente consona al compito storico di pri­ varlo di queste. Eredità di cui siamo portatori con la progenie di Giacobbe, che “si diffuse a occidente, a oriente, e a settentrio­ ne”, a spese di Esaù, primogenito e cacciatore scaltro, ma spo­ gliato, in un famoso episodio, del diritto di primogenitura. La scarsa stima di cui gode attualmente l’economia di caccia e raccolta non è, comunque, da ascriversi necessariamente al­ l’etnocentrismo neolitico. L’etnocentrismo borghese non è da me­ no. L’attuale economia industriale, una trappola ideologica cui rantropologia economica deve costantemente sottrarsi, favorisce le stesse amare conclusioni sulla vita dei cacciatori.È poi tanto paradossale sostenere che i cacciatori, a dispetto della loro assoluta povertà, hanno economie opulente? Le stesse moderne società capitalistiche, per quanto riccamente dotate, si Almeno all’epoca in cui scriveva Lucrezio (Harris, 1968, pp. 26-27).

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consacrano al problema della penuria: l’inadeguatezza dei mezzi economici è il primo principio dei popoli più ricchi del mondo. L’apparente condizione materiale non ne spiega i risultati; qual­ cosa bisogna aggiungere quanto al modo di organizzazione eco­ nomica (cfr. Polanyi, 1947, 1957, 1959; Dalton, 1961). Il sistema industriale di mercato istituisce la scarsità, in maniera completamente nuova e in un grado mai prima sfiorato. Lad­ dove produzione e distribuzione sono regolate dalla dinamica dei prezzi e i mezzi di sussistenza dipendono dall’impiego del red­ dito, l’insufficienza dei mezzi materiali diventa il punto di par­ tenza, esplicito e calcolabile, di ogni attività economica.2 L’im­ prenditore è di fronte a investimenti alternativi di un capitale finito, il lavoratore (nella migliore delle ipotesi) a opzioni alterna­ tive di impiego remunerativo, il consumatore... Il consumo è una duplice tragedia: l’inadeguatezza iniziale sfocia alla fine in priva­ zione. Istituendo una divisione internazionale del lavoro, il mer­ cato mette a disposizione un abbagliante insieme di prodotti: tutti questi beni di Dio alla portata dell’uomo - ma mai tutti in suo possesso. Ma quel che è peggio, in questa altalena di libere scel­ te del consumatore, ogni acquisto è contemporaneamente una privazione, perché ogni acquisto di qualcosa equivale a una rinun­ cia di qualcos’altro - in genere soltanto marginalmente meno desiderabile, ma in alcuni particolari più desiderabile - che altri­ menti si sarebbe potuto possedere. (Il fatto è che se si compra un’automobile, una Plymouth a esempio, non si può avere anche una Ford - e l’attuale pubblicità televisiva mi induce a credere che le privazioni implicite non sono semplicemente materiali.)3 L’espressione “una vita di tribolazioni” è nostro esclusivo re­ taggio. Scarsità è la sentenza emanata dalla nostra economia - e non solo, anche il suo assioma: l’applicazione di mezzi scarsi, a fini alternativi al fine di ricavare la maggiore soddisfazione possi­ bilenelle circostanze date. Ed è precisamente da questo osser­ vatorio privilegiato che riandiamo con il pensiero ai cacciatori. Ma se l’uomo moderno, con tutti i suoi vantaggi tecnologici, è ancora privo del necessario, che possibilità aveva mai questo ignudo selvaggio con il suo fragile arco? Armato il cacciatore di 2 Sui requisiti storicamente specifici di questo calcolo, vedi Codere, 1968 (specialmente, pp. 574-575). 3 Per la complementare istituzionalizzazione della “penuria” in condizioni di produzione capitalistica, vedi Gorz, 1967, pp. 37-38.

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impulsi borghesi e di arnesi paleolitici, là sua situazione ci sembra disperata in partenza.4 Ma la scarsità non è una qualità intrinseca dei mezzi tecnici: è un rapporto tra mezzi e fini. Bisogna prendere in considerazione la possibilità empirica che i cacciatori traffichino per il loro be­ nessere, un obiettivo delimitato, e che arco e freccia siano adegua­ ti allo scopo.5 Ma altre idee ancora, proprie della teoria antropologica e della pratica etnografica, hanno congiurato a precludere la compren­ sione di questa realtà. L’inclinazione degli antropologi a esagerare l’inefficienza eco­ nomica dei cacciatori si manifesta, in particolare, nei paragoni con le economie neolitiche. I cacciatori, come sostiene recisa­ mente Lowie, “per sopravvivere devono darsi molto più da fare dei coltivatori o degli allevatori” (1946, p. 13). In proposito, rantropologia evoluzionistica, in particolare, trovò conveniente, perfino necessario sotto il profilo teorico, adottare un atteggiamento di_ rimprovero. Etnologi e archeologi avevano abbraccia­ to la causa della rivoluzione neolitica e nel loro entusiasmo ri­ voluzionario non risparmiarono nessuna accusa all’Ancien Re­ gime dell’età della pietra, senza trascurare qualche antichissimo scandalo. Non era la prima volta che dei filosofi associavano il primo stadio dell’umanità alla natura invece che alla cultura. (“Un individuo che passi la vita intera a inseguire animali per ucciderli e cibarsene o a spostarsi da un campo di bacche a un altro, in realtà non fa che vivere esattamente come un animale” [Braidwood, 1957, p. 122].) Declassati così i cacciatori, l’antro­ pologia era libera di magnificare il Grande Balzo in Avanti del neolitico: un fondamentale progresso tecnologico che consentì una “generale disponibilità di tempo libero grazie all’emancipa­ zione da attività di pura ricerca del cibo” (Braidwood, 1952, p. 5; cfr. Boas, 1940, p. 285). In un influente saggio, “Energy and thè Evolution of Cul­ ture ”, Leslie White spiegò che il neolitico produsse un “grande progresso nello sviluppo culturale... derivante dal grande aumen­ 4 Vale la pena di ricordate che l’odierna teoria marxiana europea spesso concorda con l’economia borghese sulla povertà dei primitivi. Cfr. Bucharin, 1967; Mandel, 1962, voi. 1; e il manuale di storia economica della Lumumba University di Mosca (elencato nella bibliografia come “Anonimo, s.d.”). 5 Per un lunghissimo periodo Elman Service fu quasi l’unico etnologo a battersi contro la concezione tradizionale della penuria dei cacciatori. Questo saggio è stato in gran parte ispirato dalle sue osservazioni sul tempo libero degli Arunta (1963, p. 9), oltre che da personali conversazioni con lui.

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to di energia utilizzata e controllata annualmente per individuo grazie alle tecniche agricole e pastorali ” (1949, p. 372). È White rafforzò ulteriormente il contrasto evoluzionistico individuando nello sforzo umano la principale fonte energetica della cultura paleolitica, in confronto alle risorse vegetali e animali domesti­ cate della cultura neolitica. Questa determinazione delle fonti di energia consentì al tempo stesso una precisa bassa stima del po­ tenziale termodinamico dei cacciatori - quello sviluppato dal corpo umano: in media “risorse di energia” di un ventesimo di cavallo-vapore a testa (1949, p. 369)- proprio mentre appariva, eliminando lo sforzo umano dall’avventura culturale del neo­ litico, che la gente fosse stata liberata da qualche congegno che faceva risparmiare fatica (piante e animali domesticati). Ma la problematica di White è ovviamente un malinteso. In_.realtÀ.la principale energia meccanica a disposizione della cultura paleolb tica come di quella ngolitica è quella fornita dagli esseri umani, trasmutata in un caso come neH’altro da fonti vegetali e animali, sicché, tranne trascurabili eccezioni (l’occasionale uso diretto di energia non umana), la quantità di energia utilizzata annual­ mente a testa è identica nell’economia paleolitica e neolitica - e abbastanza costante nella storia umana fino all’avvento della riv-oluzione, industriale.6 Un’altra causa specificamente antropologica dell’insoddisfazio­ ne che circonda il paleolitico nasce dalla ricerca stessa sul campo, dal contesto dell’osservazione da parte europea degli attuali cacciatori, quali gli aborigeni australiani, i Boscimani, gli Ona o gli Yahgan. Questo contesto etnografico tende ad alterare in due modi la nostra comprensione dell’economia di caccia e raccolta. Innanzitutto, fornisce singolari spunti a un osservatore inge­ nuo. Gli ambienti remoti ed esotici, diventati il teatro culturale dei moderni cacciatori, hanno sugli Europei uh effetto tutt’altro " L’evidente errore della legge evoluzionistica di White è l’uso di misure pro­ capite. Nel complesso le società neolitiche utilizzano una maggiore quantità totale di energia delle comunità preagricole, a causa del maggiore numero di persone fornitrici di energia mantenute dalla domesticazione. Questa crescita globale del. prodotto sociale, tuttavia, non è necessariamente realizzata da un’accresciuta produttività del lavoro — che pure, secondo White, accompagnò la rivoluzione neolitica. I dati etnologici attualmente disponibili (vedi il testo infra) indicano la possibilità che i regimi agricoli semplici non siano più effi­ cienti termodinamicamente della caccia e raccolta — in termini, cioè, di resa energetica per unità di lavoro umano. Nella stessa direzione, alcuni archeologi in anni recenti tendevano a privilegiare la stabilità di insediamento rispetto alla produttività del lavoro nello spiegare il progresso neolitico (cfr. Braidwood e Wiley, 19621.

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che propizio a una valutazione della loro sorte. Per la posizione marginale del deserto australiano o di quello kalahari rispetto all’agricoltura o alla quotidiana esperienza europea, l’osservatore ingenuo si chiede meravigliato “come sia possibile che qualcuno abiti in un posto come questo”. E.la deduzione che gli indigeni riescano a mala pena a rimediare da vivere è probabilmente raf­ forzata dalla loro alimentazione incredibilmente varia (cfr. Herskovits, 1958, cit.). Includendo comunemente cibi ritenuti disgu­ stosi e non commestibili dagli Europei, la cucina locale induce a ritenere che la gente muoia di fame. Una tale conclusione, naturalmente, è più frequente nei resoconti più antichi, o nei diari di esploratori e missionari che non nelle monografie degli antropologo ma proprio perché i rapporti degli esploratori sono precedenti e più attenti alla condizione aborigena, essi godono di una certa considerazione da parte nostra. Una tale stima, tuttavia, non deve essere incondizionata. Mag­ giore attenzione meriterebbe un personaggio come Sir George Grey (1841), che compì, intorno al 1830, diverse spedizioni nelle regioni più povere dell’Australia occidentale, e le cui osser­ vazioni sulla gente del luogo dovettero ridimensionare le infor­ mazioni dei colleghi su questo specifico aspetto della disperazione economica. È un errore assai comune, scrisse Grey, ritenere che gli indigeni australiani “abbiano mezzi di sussistenza scarsi o che talvolta siano alle strette per mancanza di cibo”. Nume­ rosi e “quasi comici” sono gli errori in cui sono incorsi in propo­ sito i viaggiatori: “Nei loro diari si dolgono che gli sfortunati aborigeni siano tristemente costretti dalla carestia a cibarsi di certi tipi di cibo trovati nei pressi delle loro capanne; laddove, in molti casi, i cibi che loro citano sono quelli maggiormente apprezzati dagli indigeni, di sapore o capacità nutritive niente affatto inferiori.” Per rendere evidente “l’ignoranza invalsa ri­ guardo alle consuetudini e usanze di questo popolo allo stato brado”, Grey fornisce un significativo esempio, una citazione dal suo compagno di spedizione, il capitano Sturt, che, imbattutosi in un gruppo di aborigeni impegnati a raccogliere grandi quantità di latice di mimosa, ne dedusse che “ ‘quelle sfortunate creature erano ridotte all’estremo e, incapaci di procurarsi qualche altro nutrimento, si erano viste costrette a raccogliere questa mucillagine’ ”. Ma, come osserva Grey, il latice in questione è un tipo di cibo apprezzato nella zona, e quando è di stagione offre l’occasione a grandi masse di persone di riunirsi e accamparsi

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insieme, cosa che altrimenti sarebbe impensabile. E così con­ clude: Generalmente parlando, gli indigeni non se la passano male; in alcuni distretti può verificarsi in particolari stagioni una penuria di cibo, ma in tal caso quei territori sono abbandonati. È, comunque, assolutamente impossìbile per un viaggiatore o perfino per chi non sia del posto giu­ dicare se un distretto offra meno abbondanza di cibo... Ma nel proprio circondario un indigeno è in una situazione assai diversa: ne conosce esattamente i prodotti, il momento in cui giungono a maturazione, e il modo più agevole di procurarseli. In base a questi elementi regola le visite alle differenti parti del suo terreno di caccia; e tutto quel che posso dire è di aver sempre trovato la massima abbondanza nelle loro capanne (Grey, 1841, voi. 2, pp. 259-262, corsivo mio; cfr. Eyre, 1845, voi. 2, pp. 244 sgg.).7

Nel formulare questo giudizio ottimistico. Sir George ebbe cura di escluderne il Lumpen-proletariat di aborigeni che vive­ vano nelle città europee o nei pressi (cfr. Eyre, 1845, voi. 2, pp. 250, 254-255). L’eccezione è istruttiva, e richiama alla mente una seconda fonte di equivoci etnografici: l’antropologia dei cac­ ciatorijè in larga misurauno studio anacronistico di ex selvaggi - un’indagine del cadavere di una società, disse una volta Grey, dominata dai membri di un’altra. I raccoglitori sopravvissuti sono profughi, deportati. Rap­ presentano i paleolitici privati dei diritti civili, occupanti covi marginali, tutt'altro che caratteristici del modo di produzione: santuari di un’era, luoghi tanto lontani dai principali centri di progresso culturale da rimanere indifferenti alla marcia planeta­ ria dell’evoluzione culturale, perché caratterizzati da una povertà estranea agli interessi e alle capacità delle economie più progredi­ te. A parte i raccoglitori felicemente insediati, come gli indiani della costa nordoccidentale, il cui (relativo) benessere è inconte­ stabile, gli altri cacciatori, allontanati dalle parti migliori della terra, prima dall’agricoltura e poi daÌle economie industriali, sono in condizioni ecologiche un po’ peggiori della media del tardo paleolitico,8 Inoltre, lo sfacelo prodotto negli ultimi due secoli dall’imperialismo europeo è stato particolarmente grave, al punto 7 Per un’osservazione analoga, relativa a un fraintendimento della medicina indigena nell’Australia orientale, vedi Hodgkinson, 1845, p. 227. 8 Le condizioni dei popoli cacciatori primitivi non devono essere giudicate, come osserva Cari Sauer, “ ‘dai loro moderni superstiti, ora confinati nelle re­ gioni più povere della terra, come l’interno dell’Australia, il Grande Bacino americano e la tundra e taiga artiche. Le zone occupate anticamente abbon­ davano di cibo’ ” (citato in Clark e Haswell, 1964, p. 23).

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che buona parte delle osservazioni etnografiche che costituiscono il materiale antropologico in commercio sono beni culturali adul­ terati. Perfino i rapporti di esploratori e missionari, a parte le loro falsificazioni etnocentriche, parlano talvolta di economie ma­ late (cfr. Service, 1962). I cacciatori del Canada orientale di cui parlano le Jesuit Relations si dedicavano al commercio delle pellicce all’inizio del secolo XVII. In altri casi, prima che fosse possibile documentare attendibilmente la produzione indigena, gli habitat furono selettivamente depauperati dagli Europei: gli Eschimesi a noi noti non cacciano più le balene, i Boscimani sono stati privati della selvaggina, il pinoti degli Scioscioni è stato falcidiato e i loro terreni di caccia trasformati in pascolo per gli animali.9 Se ora si definiscono poveri questi popoli, e “ scarse e incerte” le loro risorse, ciò è forse un indice della condizione aborigena o della violenza coloniale ? Gli enormi problemi (e implicazioni) per un’interpretazione evoluzionistica sollevati da questa generale ritirata, soltanto re­ centemente hanno cominciato a far notizia (Lee e Devote, 1968). Il punto da sottolineare è questo : invece di essere un test atten­ dibile delle capacità produttive dei cacciatori, la loro condizione rappresenta piuttosto una prova suprema. Tanto più straordina­ rie, allora, sono le seguenti attestazioni dei loro miracoli.

“Una sorta di abbondanza materiale”

Data la povertà in cui, in teoria, vivono cacciatori e raccogli­ tori, è sorprendente che i Boscimani del Kalahari vivano in “una sorta di abbondanza materiale”, almeno nella sfera degli oggetti quotidianamente utili, a parte cibo e acqua: Quanto più i Kung stringeranno contatti con gli europei - il che è già in corso — tanto più avvertiranno acutamente la mancanza dei nostri oggetti e i loro. bisogni e desideri cresceranno. Si sentono inferiori quando sono ignudi tra stranieri vestiti. Ma nella vita e con i loro ma­ nufatti erano relativamente esenti da difficoltà materiali. Tranne cibo e acqua (importanti eccezioni!) di cui i Nyae Nyae Kung hanno lo stretto necessario - a giudicare almeno dalla loro magrezza anche se non sono emaciati - tutti disponevano del necessario o erano in grado di fabbri-

’ Attraverso le sbarre dell’acculturazione ci si può fare un’idea di quel che caccia e raccolta dovevano probabilmente essere in un ambiente decente, dal racconto che Alexander Henry fa del suo munifico soggiorno in qualità di Chippewa nel Michigan settentrionale: vedi Quimby, 1962.

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carselo, perché ogni uomo è capace di fabbricare e fabbrica gli oggetti tipici del suo sesso così come le donne del loro... Vivevano in una sorta di abbondanza materiale perché forgiavano gli utensili della loro vita quotidiana nei materiali di cui c’era abbondanza nei dintorni e che erano alla portata di tutti (legname, canne, osso per armi e arnesi, radici fibrose per il cordame, erba per i ripari), o nei materiali almeno sufficienti ai bisogni della popolazione... I Kung potrebbero sempre utilizzare più gusci d’uovo di struzzo per perline ornamentali o da ba­ rattare, mentre in realtà a loro basta trovarne perché ogni donna ne abbia una dozzina come recipienti d’acqua — quante ne può trasportare — oltre a un discreto numero di monili di perline. Nella loro vita di nomadi cacciatori e raccoglitori, in viaggio di stagione in stagione da una riserva di cibo all’altra, avanti e indietro senza tregua, si portano appresso la prole e i loro averi. Grazie all’abbondanza di buona parte dei materiali a disposizione per rimpiazzare i manufatti in caso di necessità, i Kung non conoscono tecniche di immagazzinamento stabile e non hanno voluto o dovuto sovraccaricarsi di doppioni o eccedenze. Anzi non vogliono nep­ pure avere un po’ di tutto. Ciò che non posseggono lo prendono in pre­ stito. Grazie a questa disinvoltura, non fanno incetta, e l’accumulazione di oggetti non è diventata tutt’uno con la condizione sociale (Marshall, 1961, pp. 243-44, corsivo mio).

È bene suddividere, come fa Marshall, l’analisi della produ­ zione dei caccia tori-raccogli tori in due sfere;. Indubbiamente cibo e acqua costituiscono “importanti eccezioni”, tanto da merita­ re una trattazione ampia e distinta. Per il resto, il settore non alimentare, le affermazioni a proposito dei Boscimani sono vali­ de in generale e in particolare dal Kalahari al Labrador - o alla Terra del Fuoco, dove Gusinde dice degli Yahgan che la loro avversione a possedere più di un esemplare degli utensili d’uso comune è “un indice di fiducia in sé”. “I nostri Fuegini,” scrive, “si procurano e fabbricano i loro arnesi senza grandi sforzi” (1961, p. 213).10 Nella sfera non alimentare, i bisogni della gente trovano gene­ ralmente facile soddisfazione. Questa “abbondanza materiale” è legata in parte alla facilità di produzione, che a sua volta dipende dalla semplicità della tecnologia e dal carattere democratico del­ la proprietà. I prodotti sono semplici: di pietra, osso, legno, pelle - materiali di cui “c’era abbondanza nei dintorni”. Normal­ mente, né l’estrazione della materia prima né la sua lavorazione richiedono grande fatica. L’accesso alle risorse naturali è diretto Analogamente Turnbull osserva dei Pigmei congolesi: “I materiali per fab­ bricare alloggi, indumenti e tutti gli altri elementi della cultura materiale sono accensibili su due piedi.” Ed è esplicito anche riguardo l’alimentazione: “Per tutto l’anno, senza fallo, c’è un’abbondante riserva di selvaggina e vege­ tali” (1965, p. 18).

ABBONDANZA MATERIALE

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- “alla portata di tutti” -, generale è il possesso degli utensili necessari e comune la conoscenza delle tecniche opportune. Anche la divisione del lavoro è semplice, una divisione, in linea di mas­ sima, secondo il sesso. S’aggiunga la tradizionale generosità di cui i cacciatori possono giustamente menar vanto, e tutti sono messi in condizione di partecipare alla comune prosperità, se così si può chiamare. Ma, naturalmente, con questa riserva: questa “prosperità” dipende anche da un tenore di vita obiettivamente basso. È deci­ sivo che l’aliquota normale dei beni di consumo (e anche il nu­ mero dei consumatori) sia fissata culturalmente a un livello mo­ desto. Alcuni si ritengono fortunati per il solo fatto di posse­ dere alcuni oggetti facili a fabbricarsi: qualche modesto capo di abbigliamento e qualche alloggio di fortuna in quasi tutti i cli­ mi;11 oltre ad alcuni monili, pietre focaie di scorta e svariati altri oggetti quali i “frammenti di quarzo, che i medici indigeni hanno estratto ai loro pazienti” (Grey, 1841, voi. 2, p. 266); e, infine, le borse di pelle in cui la fedele moglie trasporta tutto ciò, “la ricchezza del selvaggio australiano” (p. 266). Per la maggior parte dei cacciatori, questa opulenza senza abbondanza nella sfera non alimentare è un fatto acquisito. Un quesito più interessante è perché si accontentino di così pochi averi - dato che per loro è un accorgimento, una “questione di principio” secondo l’espressione di Gusinde (1961, p. 2), e non una fatalità. Want noi, lack not * Ma i cacciatori sono forse così poco esigenti in fatto di beni materiali perché si assoggettano a una ricerca del cibo “che esige il massimo di energia da un numero massimo di persone”, di modo che non rimane né tempo né ener­ gia per procurarsi altre comodità? Alcuni etnografi attestano al contrario che la ricerca del cibo è tanto facile che per metà gior­ nata la gente sembra ignorare come impiegare il tempo. D’altro canto, questo successo presuppone un moto, in certi casi maggio­ re che in altri, ma sempre sufficiente a sminuire rapidamente le soddisfazioni della proprietà. È vero che per il cacciatore la ric­ chezza è un fardello. Nella sua condizione esistenziale, i beni possono diventare, come osserva Gusinde, “penosamente oppres-11 11 Sembra che certi raccoglitori di cibo un tempo famosi per le loro realizza­ zioni architettoniche, prima di essere messi in fuga dagli Europei, costruis­ sero abitazioni più solide. Vedi Smythe, 1871, pp. 125-128. * Modo di dire inglese che letteralmente si traduce con: “Chi non ha desideri, non ha privazioni.” (N.d.T)

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sivi”, e tanto più quanto più lunghi sono i suoi vagabondaggi. Alcuni raccoglitori hanno canoe e altri slitte tirate da cani, ma per lo più devono trasportare personalmente tutte le comodità in loro possesso, sicché si limitano a possedere gli oggetti comoda­ mente trasportabili. O forse soltanto quelli trasportabili da don­ ne: gli uomini devono poter cogliere l’occasione propizia della caccia o provvedere all’improvvisa necessità della difesa. Come ebbe a scrivere Owen Lattimore in un contesto analogo, “il nomade autentico è un nomade povero”. Mobilità e proprietà sono in contraddizione. Che la ricchezza si trasformi presto in un impedimento invece che in una fortuna è evidente perfino a un estraneo. Laurens van der Post colse la contraddizione mentre si apprestava a con­ gedarsi dai suoi selvaggi amici Boscimani: Questo fatto dei doni doveva metterci più volte in imbarazzo. Fum­ mo mortificati quando ci rendemmo conto di poter donare ben poco ai Boscimani. Quasi tutto sembrava dover rendere loro la vita più difficile aumentando il disordine e il peso che quotidianamente si por­ tavano in giro. In quanto a loro praticamente non avevano averi: un pe­ rizoma, una coperta di pelle, e una borsa a tracolla di cuoio. Non c’era nulla che non potessero in un attimo radunare, avvolgere nelle coperte e issarsi in spalla per un viaggio di mille miglia. Non avevano il senso del possesso (1958, p. 276).

Una necessità così ovvia per il visitatore occasionale diventa un fatto del tutto naturale per gli interessati. Questa modestia di bisogni materiali è istituzionalizzata: diventa un fatto cultura­ le positivo, che si manifesta in una varietà di congegni economici. A esempio, Lloyd Warner riferisce dei Murngin -che la trasporta­ bilità è un valore decisivo nel sistema locale. I beni di piccole dimensioni sono in genere migliori di quelli ingombranti. In ultima analisi “la relativa maneggevolezza dell’oggetto” farà ag­ gio, fino a determinarne la disposizione, sulla sua relativa scar- • sità o sul costo del lavoro. Infatti, come scrive Warner, il “valore decisivo” è “la libertà di movimento”. E a questo “desi­ derio di non assoggettarsi all’onere e alla responsabilità di oggetti che ostacolerebbero l’esistenza itinerante della società”, Warner ascrive 1’“immaturo senso della proprietà” dei Murngin, e il loro “disinteresse a sviluppare l’apparato tecnologico” (1964, pp. 136-137). Ecco .allora un’altra “pe^ - non pretendo con ciò che sia generale, e forse si spiega con una scarsa educa­ zione igienica non meno che con un coltivato disinteresse per

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l’accumulazione materiale: alcuni cacciatori, almeno, rivelano una notevole tendenza alla trasandatezza. Hanno una specie di disinvoltura che ci aspetteremmo da un popolo padrone dei problemi della produzione, comunque esasperante per un Eu­ ropeo: Non sanno badare ai loro beni. Nessuno si sogna di metterli in ordine, piegarli, lavarli o asciugarli, appenderli, o accatastarli ordinatamente. Quando cercano qualcosa di particolare, rovistano alla rinfusa tra il guazzabuglio di cianfrusaglie nei piccoli canestri. Gli oggetti più volumi­ nosi ammonticchiati nella capanna vengono sballottati qua e là senza cu­ rarsi del danno che possono subire. L’osservatore europeo ha l’impres­ sione che questi Indiani [Yahgan] non annettano alcun valore ai loro utensili e che abbiano completamente dimenticato lo sforzo necessario a fabbricarli.12 In realtà, nessuno si lega ai propri pochi beni mobili che, a dire il vero, vengono sostituiti con la stessa frequenza e facilità con cui vanno perduti... L’Indiano non fa neppure attenzione quand’è nel suo in­ teresse. Un Europeo di solito rimane perplesso di fronte all’estrema trascu­ ratezza di costoro che trascinano in mezzo al fango oggetti nuovi di zecca, preziosi capi di abbigliamento, provviste fresche, e oggetti di valore op­ pure li lasciano rapidamente distruggere dai bambini e dai cani... Gli og­ getti costosi che ricevono in dono sono tesaurizzati per qualche ora per curiosarli, dopo di che vengono lasciati sconsideratamente a deteriorarsi nel fango e nell’umidità. Meno posseggono, più comodamente possono viag­ giare, e ciò che si guasta viene di tanto in tanto rimpiazzato. Di conseguenza, sono completamente indjfferenti a ogni proprietà materiale (Gu­ sinde, 1961, pp, 86-87).

11 cacciatore, saremmo tentati di dire, è un “uomo non eco­ nomico”. Almeno per quanto concerne i beni non alimentari, è l’esatto contrario di quella tipica caricatura immortalata nella prima pagina di ogni trattato di economia. I suoi bisogni sono scarsi e i mezzi (relativamente) abbondanti. Di conseguenza, è “relativamente esente da difficoltà materiali”, non ha “senso del possesso”, rivela “un immaturo senso della proprietà”, è “com­ pletamente indifferente a ogni pressione materiale”, manifesta “disinteresse” a sviluppare il proprio apparato tecnologico. In questo rapporto dei cacciatori con i beni mondani c’è un elemento chiaro e importante. Dal punto di vista intrinseco dell’economia, sembra errato affermare che i bisogni siano “ri­ stretti”, i desideri “repressi”, e perfino che la nozione di ricchez­ za sia “limitata”. Questa fraseologia presuppone un Uomo Eco­ nomico e un cacciatore in lotta contro i suoi peggiori istinti, finalmente domati da un voto di povertà. La terminologia impli­ 12 Ma non si dimentichi l’osservazione di Gusinde: “I nostri Fuegini si pro­ cacciano e fabbricano i loro utensili senza grandi sforzi” (1961, p. 213).

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ca la rinuncia a uno spirito di accumulazione che in realtà non si sviluppò mai, una rimozione di desideri che non furono mai abbozzati. disse Marcel Mauss, “non una conseguenza, ma una premessa, come l’uomo etico”. Non è che cacciatori e raccoglitori abbiano frenato,.! loro ‘‘impulsi” materialistici; semplicemente non li hanno mai istituzionalizzati. “Per giunta, se è una fortuna sfug­ gire a un grande male, i nostri selvaggi [Montagnais] sono felici, perché i due tiranni - ambizione e avarizia - che tormentano tanti Europèi, non regnano nelle loro grandi foreste... acconten­ tandosi essi semplicemente di vivere, nessuno di loro cede al Diavolo per arricchirsi” (Lejeune, 1897, p. 231). Siamo portati a ritenere poveri cacciatori e raccoglitori perché non hanno nulla; ma forse proprio per questo dovremmo ritenerli liberi. “I loro beni materiali estremamente limitati li esonerano da ogni preoccupazione riguardo alle necessità quotidiane permet­ tendo loro di godersi la vita” (Gusinde, 1961, p. 1).

L’alimentazione

All’epoca di Economie Anthropology (1952) di Herskovits, era pratica antropologica corrente scegliere i Boscimani o gli aborigeni australiani quale “ classico esempio di un popolo le cui risorse economiche sono tra le più scarse”, così precariamente ubicati che “soltanto l’applicazione più intensa rende la soprav­ vivenza possibile”. Oggigiorno l’interpretazione “classica” può essere completamente rivista - in larga misura in forza della documentazione attinta da questi due gruppi. Si può dimostrare che cacciatori e raccoglitori lavorano meno di noi; che la ricerca d.el cibo,. invece: che una continua fatica, è saltuaria e il tempo libero abbondante; e che le ore di sonno giornaliere a testa sono superiori ■ndjl’arqo di un anno a ogni altro tipo di società. Parte della documentazione riguardante l’Australia appare da fonti antiche, ma fortunatamente oggi disponiamo di materiali quantitativi raccolti dalla spedizione scientifica americano-austra­ liana (1948) in Terra d’Arnhem. Pubblicati nel 1960, questi dati sorprendenti sono destinati a stimolare un riesame della pubblicistica australiana degli ultimi cento anni, e forse la revisio­ ne di un periodo ancor maggiore del pensiero antropologico. La ricerca fondamentale fu uno studio dei tempi di caccia e

AUMENTAZIONE

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raccolta di McCarthy e McArthur (I960), unito all’analisi di McArthur del risultato nutrizionale. Le figg. 1.1 e 1.2 compendiano i risultati dei principali studi della produzione. Si tratta di osservazioni di breve durata fatte durante periodi non cerimoniali. La registrazione per Fish Creek (14 giorni) è più lunga oltre che più circostanziata che non per Hemple Bay (7 giorni). Per quanto ne so, è stato rilevato soltanto il lavoro degli adulti. I diagrammi incorporano informa­ zioni, tabulate dagli etnografi, su caccia, raccolta delle piante, preparazione dei cibi e riparazione delle armi. Gli abitanti di entrambi gli accampamenti erano indigeni australiani dediti al nomadismo, che durante il periodo di studio vivevano all’esterno della missione o di altri insediamenti, benché non si trattasse necessariamente della loro sistemazione permanente né usuale.13 Bisogna andar cauti nel trarre deduzioni generali o storiche unicamente dai dati della Terra d’Arnhem. Non soltanto il conte­ sto era tutt'altro che primordiale e il periodo di studio troppo breve, ma certi elementi della situazione moderna possono aver elevato la produttività al di sopra dei livelli indigeni: l’uso di utensili metallici, a esempio, o il ridursi della pressione locale sulle risorse alimentari a causa dello spopolamento. E l’incertezza è semmai accresciuta, anziché annullata, da altri attuali circostan­ ze che, invece, riducono l’efficienza economica: questi cacciatori semindipendenti, a esempio, sono probabilmente meno abili dei loro antenati. Momentaneamente, le conclusioni della Terra d’Arnhem devono considerarsi provvisorie, potenzialmente credi13 Fish Creek era un accampamento interno nella Terra d’Arnhem occiden­ tale, composto da sei maschi adulti e tre femmine adulte. Hemple Bay era un insediamento costiero nell’isola di Groote Eylandt; nell’accampamento c’erano quattro maschi adulti, quattro femmine adulte e cinque ragazzi e fanciulli. L’indagine a Fish Creek si svolse alla fine della stagione secca, allorché la disponibilità di cibi vegetali era scarsa; • la caccia al canguro era rimunerativa, anche se gli animali diventavano sempre più diffidenti per i continui appostamenti. A Hemple Bay, i cibi vegetali abbondavano; la pesca era incostante ma nel complesso soddisfacente in rapporto ad altri accampamenti costieri visitati dalla spedizione. A Hemple Bay le risorse fondamentali erano più ricche che non a Fish Creek. Il maggior tempo impiegato a procacciarsi il cibo a Hemple Bay può, perciò, dipendere dal mantenimento dei cinque bam­ bini. D’altro canto, il gruppo di Fish Creek provvedeva a mantenere un arti­ giano virtualmente a tempo pieno, e la differenza d’ore lavorate può in parte rappresentare una normale variazione tra costa ed entroterra. Nella caccia all’interno, le occasioni propizie spesso si presentano a ripetizione, di modo che un giorno di lavoro può fornire cibo per due giorni. Un regime di pesca-rac­ colta ha forse un rendimento minore anche se più stabile, imponendo sforzi un po’ più prolungati e regolari.

ORE

GIORNO

Figura 1.1.

Ore giornaliere in attività connesse al cibo: gruppo Fish Creek (McCarthy e McArthur, 1960)

bili nella misura in cui siano suffragate da altri documenti etno­ grafici o storici. La conclusione più ovvia e immediata è che la gente non si ammazza dalla fatica. Il. periodo giornaliero medio dedicato indi­ vidualmente al procacciamento e alla preparazione del cibo è di quattro-cinque ore. Per giunta, non si lavora senza soluzione di continuità; laricercadel cibo era assai saltuaria, interrompendosi momentaneamente quando la gente si era procurata il necessario per Toccasione, il che lasciava . molto tempo libero . Chiaramente nel settore alimentare come negli altri settori produttivi, siamo in presenza di un’economia dagli obiettivi specifici, limitati. Obiettivi che con la caccia e raccolta vengono raggiunti di solito

ORE z / ì

7 / / /



■5 ne analizzare imprenditori ma confrontare culture. Rifiutiamo, in particola, il Business Outlook. Sulla scorta delle controversie recentemente sorte 11’American Anthropologist, l’orientamento adottato è molto più solidale con ilton (1961; cfr. Sahlins, 1962) che non con Burling (1962) o LeClair (1962). ■sì come ci sentiamo pienamente solidali con le massaie di tutto il mondo con il prof. Malinowski. Il prof. Firth rimprovera a Malinowski l’impreione su una questione di antropologia economica, osservando: “Questa n è terminologia economica, ma quasi linguaggio di massaia” (Firth, 1957, 220). Allo stesso modo, la terminologia del nostro lavoro si discosta l’ortodossia economica, il che può giustamente ritenersi una necessità frutto l’ignoranza, anche se in uno studio delle economie di parentela non va taciuta l’appropriatezza del punto di vista della massaia.

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patti” - l’espressione connota segnatamente uno scambio mate­ riale soddisfacente per entrambe le parti.2 Perfino sotto il profilo strettamente pratico, lo scambio nelle comunità primitivenon ha.lostesso ruolo del flusso economico 'nelle moderne comunità industriali. Differente è il posto della transazione nell’economia totale: in condizioni primitive è più «Taccata dalla produzione, meno saldamente incardinata .alla .pro­ duzione in modo organico. Caratteristicamente, è meno implicata dello scambio moderno nell’acquisizione dei mezzi di produzione, più impegnata nella ridistribuzione di beni finiti attraverso la comunità. L’inclinazione è quella tipica di un’economia in cui il cibo, detiene, una posizione dominante, e in cui la produzione giornaliera non dipende da un massiccio apparato tecnologico né da una complessa divisione del lavoro. È anche l’inclinazione di un modo di produzione domestico: unità produttive domesti­ che, dominante divisione del lavoro per sesso ed età, produzione orientata ai bisogni familiari, e diretto accesso alle risorse strate­ giche per gruppi domestici. È l’inclinazione di un ordinamento sociale in cui i diritti di amministrare gli utili vanno di pari passo con i diritti di usare le risorse produttive, e in cui limi­ tatissimi sono il traffico in titoli di proprietà o i privilegi di reddito sulle risorse. È l’inclinazione, infine, di società regolate in linea di massima dalla parentela. Tali caratteristiche delle economie primitive, formulate così in generale, sono naturalmen­ te suscettibili di precisazione in casi specifici. Le si propone semplicemente come guida alla seguente analisi circostanziata della distribuzione. £ anche opportuno ripetere che “primitivo.” 1 .L'economia è stata definita il processo di. .approvvigipnamento ..(materiale.Lde.lla..jocie.tà.,._jn opposizione alla definizione di atto umano che soddisfa bisogni. lì grande gioco dello scambio strumentale nelle società primitive sottolinea l’utilità della prima definizione. Talvolta l’aspetto di pacificazione è tanto fondamentale che gli stessi tipi e quantità di beni cambiano di pro­ prietario: è così simboleggiata la rinuncia a interessi opposti. Da un punto di vista strettamente formale la transazione è uno spreco di tempo e di sforzo. Potremmo dire che la gente massimizza il valore, il valore sociale, ma ciò significa situare erroneamente il fattore determinante della transazione, ri­ nunciare a specificare le circostanze che producono differenti esiti materiali in differenti casi storici, tenersi saldi alla premessa economizzatrice del mer­ cato assegnando falsamente qualità di tipo pecuniario a qualità sociali, in­ camminarsi sulla via della tautologia. L’interesse di queste transazioni sta pro­ prio nel fatto che materialmente non approvvigionano la gente e che non si fondano sulla soddisfazione di bisogni umani materiali. Esse, tuttavia, “approvvigionano” la società in modo decisivo: mantengono i rapporti sociali, la struttura della società, anche se non arricchiscono minimamente la scorta di beni di consumo. Senza ulteriori assunti, esse sono “economiche” nell’ac­ cezione proposta del termine (cfr. Sahlins, 1969).

SOCIOLOGIA DELLO SCAMBIO PRIMITIVI)

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attiene alle culture prive di uno stato politico, e si applica sol­ tanto in quanto economia e rapporti sociali non siano stati modi­ ficati dalla penetrazione storica di stati. In linea generale, l’insieme di transazioni economiche docu­ mentate etnograficamente può essere ricondotto a due tipi.3 In­ nanzitutto, quei movimenti “^tóhdev§li” e bilaterali noti comu­ nemente come “reciprocità” In secondo luogo, i movi­ menti «Centralizzati: «raccolta tra i membri di un gruppo, spesso nelle manTdFurihmica persona, e ridivisione all’interno di questo gruppo: A B

1 D C

A

B

y D C

È quel che prende il nome di “pooling” o “ridistribuzione”. In una prospettiva ancor più generale, i due tipi s’amalgamano. Infatti, il pooling è un’organizzazione di reciprocità, un sistema di reciprocità - un fatto centrale in relazione alla genesi di una ridi­ stribuzione massiccia sotto l’egida del capo. Ma questa accezione assai generale suggerisce semplicemente di concentrare innanzi­ tutto l’attenzione sulla reciprocità; resta affidato al giudizio anali­ tico sceverare i due tipi. Le loro organizzazioni sociali sono assai differenti. È vero che pooling e reciprocità possono coesistere negli stessi contesti so­ ciali - a esempio, gli stessi parenti stretti che consorziano le pro­ prie risorse nella commensalità domestica, individualmente si spartiscono l’un l’altro oggetti o beni - ma a rigore i rapporti sociali di pooling e reciprocità non sono identici. Il pooling ù socialmente un rapporto interno, l’azione collettiva di un gruppo. La reciprocità è un rapporto tra, l’azione e reazione di due parti. Il pooling, pertanto, è complementare all’unità sociale e, nella terminologia di Polanyi, alla “centricità”; laddove reciprocità J II lettore che abbia dimestichezza con le recenti discussioni sulla distri­ buzione primitiva riconoscerà il mio debito a Polanyi (1944, 1957, 1959) in pro­ posito, così come le deviazioni dalla terminologia di Polanyi e dal triplice schema di principi di integrazione. Sono anche lieto di condividere l’afferma­ zione di Firth che “ogni studioso dell’economia primitiva, in realtà, è grato di basarsi sui fondamenti posti da Malinowski” (Firth, 1959, p. 174).

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equivale a dualismo sociale e a “ simmetria ”. Il pooling presuppo­ ne un centro sociale dove i beni confluiscono rifluendo aH’esterno, e anche un confine sociale, al cui interno persone(o sottogruppi 1 Tono cooperativamente imparentati. La reciprocità, invece, pre­ suppone due parti, due distinti interessi socio-economici. La reci­ procità può stabilire rapporti solidali, in quanto il flusso materiale implica assistenza o mutuo beneficio, ma la realtà sociale dell’esi­ stenza delle parti è inevitabile. Dati i solidi contributi di Malinowski e Firth, Gluckman, Richards, e Polanyi, non sembri peccare d’ottimismo l’affermazio­ ne che i corollari sociali ed economici del pooling sono sufficientemente noti, come del resto le nostre conoscenze concordano sul fatto che il pooling è il lato materiale di “collettività’’ e “centri­ cità”. Produzione alimentare cooperativa, rango e chieftainship, azione politica e cerimoniale collettivo, ecco alcuni dei normali contesti del pooling nelle comunità primitive. Per riassumere la varietà quotidiana e ordinaria di ridistribu­ zione è il pooling familiare del cibo. Il principio implicito è che i prodotti di uno sforzo collettivo di approvvigionamento sono consorziati, specialmente nel caso che la cooperazione comporti una divisione del lavoro. Così formulata, la regola s’applica non soltanto all’economia domestica ma anche alla cooperazione di superiore livello, a gruppi più grandi di unità domestiche che na­ scano per compiti di approvvigionamento - a esempio, la recin­ zione dei bisonti nelle pianure settentrionali o la pesca a rete in una laguna polinesiana. Con qualche riserva - quali le speciali quote riconosciute localmente a speciali contributi allo sforzo col­ lettivo - al livello domestico superiore come inferiore rimane valido il principio che “i beni prodotti collettivamente sono di­ stribuiti nella collettività”. I diritti di prelazione sul prodotto della popolazione suddita, come gli obblighi di generosità, sono dovunque associati con la chieftainship. L’esercizio organizzato di questi diritti e obblighi è la ridistribuzione: Credo che in tutto il mondo i rapporti tra economia e politica si rivelerebbero dello stesso tipo. Il capo, dovunque, funge da banchiere tribale, raccogliendo il cibo, immagazzinandolo e proteggendolo, per poi utilizzarlo a vantaggio dell’intera comunità. Le sue funzioni sono il proto­ tipo del sistema finanziario pubblico e dell’odierna organizzazione del­ l’erario statale. Private il capo dei suoi privilegi e benefici finanziari e chi, se non l’intera tribù, patirà il maggior danno? (Malinowski, 1937, pp. 232-233).

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Questo uso “a vantaggio dell’intera comunità” assume varie forme: sovvenzionare cerimonie religiose, spettacoli pubblici o guerre; promuovere la produzione artigianale, il commercio, la costruzione dell’attrezzatura tecnica e d’edifici pubblici e religio­ si; ridistribuire diversi prodotti locali; ospitalità e assistenza alla comunità (individualmente o generalmente) nella penuria. Più in generale, la ridistribuzione da parte dei poteri costituiti assolve a due funzioni, l’una o l’altra delle quali può essere dominante in un dato caso. La funzione pratica, logistica - ridistribuzione sostiene la comunità, o lo sforzo comunitario, in senso materiale. Al tempo stesso, o alternativamente, la ridistribuzione ha una funzione strumentale: in quanto rituale di comunanza e di subor­ dinazione all’autorità centrale, essa sostiene la struttura costituita stessa, ha quindi un senso sociale. I benefici pratici sono forse decisivi, ma, quali che siano, il pooling genera lo spirito d’unità e di centricità, codifica la struttura, sanziona l’organizzazione centralizzata dell’ordinamento e dell’azione sociali: ... chiunque prenda parte all’afa [festa organizzata da un capo tikopia] è indotto a partecipare a forme di cooperazione che al momento tra­ scendono i suoi personali interessi e quelli familiari, e raggiungono i confini della comunità intera. Una tale festa raduna i capi e i loro clan, divisi in altre circostanze da rivalità e pronti a criticarsi e calunniarsi, ma che qui si riuniscono in una comune ostentazione d’amicizia... Inol­ tre, questa attività finalistica assolve a certi fini sociali più ampi, che sono comuni nel senso che ognuno o quasi, consapevolmente o meno, li asse­ conda. A esempio, la presenza all’ar/a e la partecipazione ai contributi economici in realtà serve a sostenere il sistema di autorità tikopia (Firth, 1950, pp, 230-2311.

Ecco delineata, quantomeno, una teoria funzionale della ridi­ stribuzione. Le questioni centrali sono ora probabilmente di tipo evolutivo, da specificarsi mediante raffronto o studio filogenetico di circostanze selettive. L’antropologia economica della recipro­ cità, tuttavia, non è allo stesso stadio. Una ragione, forse, è la tendenza invalsa a considerare la reciprocità un equilibrio, uno scambio paritario incondizionato. Ora, considerata come trasferi­ mento materiale, la reciprocità spesso non è affatto tale. Anzi, è proprio analizzando minuziosamente le deviazioni da uno scambio equilibrato che si percepisce l’interazione tra reciprocità, rapporti sociali e circostanze materiali. La reciprocità è un’intera classe di scambi, un continuum di forme,,Jf che.,g„particolarmente vero neirangusto contesto delle transazioni materialiin contrasto conun) principio^spciale^jo

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norma etica, largamente diffusi, di concessioni reciproche. A un «tremo dello spettro abbiamo l’assistenza liberamente prestata,, la moneta spicciola quotidiana della parentela, dell’amicizia e dei rapporti di vicinato, il “puro dono” secondo la definizione di Malinowski, rispetto a cui sarebbe impensabile e insocievole l’esplicita stipulazione di una contropartita. All’altro polo, la presa di possesso motivata da personale interesse, l’appropriazione mediante raggiro o forza contraccambiata soltanto da un pari e opposto sforzo secondo il principio della lex talionis,_ “recipro­ cità negativa”;, secondo l’espressione di Gouldner. Gli estremi sono evidentemente positivo e negativo in senso etico. Gli inter­ valli tra i due estremi non sono semplicemente altrettante grada­ zioni di equilibrio materiale nello scambio; sono intervalli di so­ cievolezza. La distanza tra i poli di reciprocità è, tra l’altro, di­ stanza sociale: A uno straniero è lecito prestare a usura; a un fratello giammai (Deu­ teronomio, xxiii, 21). I moralisti indigeni [Siuai] asseriscono che i vicini devono essere cordiali e reciprocamente fidati, mentre la gente di fuori è pericolosa e indegna di stima moralmente equa. A esempio, gli indigeni hanno un vero e proprio culto dell’onestà verso i vicini pur sostenendo che il com­ mercio con gli stranieri può attenersi al caveat emptor (Oliver, 1955, p. 82). La conquista a spese di altre comunità, in particolare le comunità di­ stanti e soprattutto quelle ritenute estranee, non è riprovevole secondo i modelli d’uso e costume nostrano (Veblen, 1915, p. 46). Un mercante è sempre un imbroglione. Ragion per cui il commercio intraregionale non è visto di buon occhio mentre il commercio intertribale conferisce all’uomo d’affari [Kapauku] prestigio e profitto (Pospisil, 1958, p. 127).

Uno schema

di reciprocità

È possibile una tipologia puramente formale di reciprocità, ba­ sata esclusivamente sull’immediatezza e l’equivalenza delle con­ tropartite, e simili dimensioni materiali e meccaniche dello scam­ bio. Una volta a disposizione la classificazione, si potrebbe pro­ cedere a correlare i sottotipi di reciprocità con diverse “va­ riabili” quale la distanza parentale delle parti della transazione. Il pregio di questo tipo di esposizione è che è “scientifico”, al­ meno a prima vista. Tra i difetti il fatto che è una convenzionale metafora espositiva e non una vera storia sperimentale. Bisogna riconoscere dall’inizio che la differenza di un tipo di reciprocità

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da un altro non è soltanto formale. .Una, caratteristica quale l’aspettativa di contropartite ci informa deilo spirito dello scam­ bio, del suo altruismo o meno, impersonalità, compassione. Ogni classificazione apparentemente formale comunica questi signifi­ cati: è uno schema tanto etico quanto meccanico. (Che il rico­ noscimento del carattere etico pregiudichi il rapporto di scàmbio alle “variabili” sociali, nel senso che queste ultime sono logica­ mente apparentate a variazioni nello scambio, è incontestabile. È un segno che la classificazione è valida.) I tipi effettivi di reciprocità sono molteplici in ogni società primitiva, per non parlare del mondo primitivo nel suo insieme. I “movimenti vicendevoli” possono comprendere: spartizione e contro-spartizione di cibo non trattato, ospitalità informale, scam­ bi cerimoniali tra affini, prestito e rimborso, ricompensa di ser­ vizi specialistici o cerimoniali, il passaggio di proprietà che sug­ gella un trattato di pace, mercanteggiamento impersonale, ecc. Esistono diversi tentativi etnografici di affrontare tipologica­ mente la diversità empirica, segnatamente lo schema di Douglas Oliver delle transazioni siuai (1955, pp. 229-231; cfr. Price, 1962, pp. 37 sgg.; Spencer, 1959, pp. 194 sgg.; Marshall, 1961, e altri). In Crime anà Custom, Malinowski affrontò il tema della reciprocità piuttosto grossolanamente e incondizionatamente, an­ che se invece in Argonauts elaborò una classificazione degli scam­ bi trobriand da molteplici variazioni di equilibrio ed equivalenza (Malinowski, 1922, pp. 176-194). Fu da questa posizione van­ taggiosa, osservando l’immediatezza delle contropartite, che ap­ parve il continuum della reciprocità: Ho parlato appositamente di forme di scambio, di doni e contro-doni, invece che di baratto o commercio, perché, benché esistano forme di baratto puro e semplice, esistono tali e tanti passaggi e sfumature tra questo e il semplice dono, che è impossibile tracciare una linea presta­ bilita tra commercio da un lato, e scambio di doni dall’altro... Per una trattazione corretta di questi fatti è necessario esaminare tutte le forme di pagamento o regalo. In questo esame avremo a un polo i casi estremi di puro dono, cioè un’offerta senza alcuna contropartita [ma vedi Firth, 1957, pp. 221, 222]. Poi, attraverso numerose forme consuetudinarie di dono o pagamento, parzialmente o condizionalmente contraccambiate, che sfumano l’una nell’altra, subentrano le forme di scambio, in cui si osserva un’equivalenza più o meno rigorosa, per arrivare finalmente al baratto vero e proprio (Malinowski, 1922, p. 176).

II punto di vista di Malinowski può essere esteso a campi di­ versi dalle Isole Trobriand e applicatolo generale allo scambio reciproco nelle società primitive. Sembra possibile ordinare in

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modo astratto un continuum di reciprocità, basato sulla natura “vicendevole” degli scambi, lungo il quale si possono disporre i casi empirici incontrati nel particolare caso etnografico. La stipu­ lazione di contropartite materiali, meno elegantemente la “parzia­ lità” dello scambio, costituirebbe il punto critico, per il quale esistono ovvi criteri obiettivi, quali la tolleranza di uno squili­ brio materiale e il margine tieeway'} di ritardo: il movimento iniziale di beni di mano in mano è più o meno contraccambiato materialmente ed esistono variazioni nel tempo concesso per cotraccambiare (vedi ancora Firth, 1957, pp. 220-221). In altri ter­ mini, lo spirito dello scambio oscilla dalla premura disinteressata per l’altra parte all’egoismo, passando attraverso la mutualità. Così espressa, la stima della “parzialità” può essere integrata da criteri empirici in aggiunta a quelli di immediatezza ed equiva­ lenza materiale: l’iniziale passaggio può essere volontario, invo­ lontario, prescritto, pattuito; la contropartita spontaneamente concessa, pretesa o sollecitata; lo scambio mercanteggiato o meno, contabilizzato o meno; e così via. Lo spettro di reciprocità proposto a uso generale è definito dai suoi estremi e dal punto medio: Reciprocità generalizzata:

l’estremo solidale (A ~t---- - B)4

“Reciprocità generalizzata” si riferisce a transazioni che sono presuntivamente altruistiche, transazioni modellate sull’assistenza fornita e, se possibile e necessario, ricambiata. Il tipo ideale è il “puro dono” di Malinowski, Altre formule etnografiche indica­ tive sono: “spartizione”, “ospitalità”, “libero dono”, “aiuto” e “generosità”. Meno socievoli, ma tendenti verso lo stesso polo sono “obblighi parentali”, “obblighi del capo” e “noblesse oblige”. Price (1962) definisce il genere “reciprocità debole” in ragione dell’indeterminatezza dell’obbligo di reciprocità. Nel caso estremo, a esempio la volontaria spartizione del cibo tra parenti stretti - o, per il suo valore logico, si pensi in questo contesto all’allattamento dei neonati - l’aspettativa di una diretta contropartita materiale è sconveniente. Nella migliore delle ipo4 A partire dall’originaria pubblicazione di questo saggio, l’“échange généralisé” di Lévi-Strauss è entrato molto più nell’uso della nostra “reciprocità generalizzata”, il che è una sfortuna perché i due termini non si riferiscono allo stesso tipo (per non parlare dello stesso universo) di reciprocità. Inol­ tre, critici e amici hanno suggerito varie alternative a “reciprocità genera­ lizzata”, come ad esempio “reciprocità indefinita”, ecc. L’ora di battere in ritirata probabilmente non è lontana; ma per il momento resto fermo sulle mie posizioni.

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tesi è implicita. Il lato materiale della transazione è rimosso da quello sociale: il computo dei debiti insoluti non può essere espli­ cito e caratteristicamente è omesso. Il che non significa che do­ nare in questa forma, perfino ai propri “cari”, non generi un obbligo contrario. Ma la contropartita non è stipulata temporal­ mente, quantitativamente o qualitativamente: l’aspettativa di re­ ciprocità è indefinita. Finisce in genere che valore e momento del contraccambio non sono soltanto condizionati all’offerta del donatore, ma anche alle sue contingenti necessità e inoltre alle possibilità concrete del beneficiario. Il ricevere beni presuppone un obbligo diffuso di contraccambiare se necessario al donatore, se è possibile per il beneficiario. Il contraccambio può pertanto essere istantaneo, come non avvenire mai. Vi sono persone che neppure a tempo debito sono capaci di giovare a sé o agli altri. Una valida indicazione pragmatica di reciprocità generalizzata è un prolungato flusso unidirezionale. La mancata contropartita non fa sì che il donatore cessi di donare: i beni si muovono in un unico senso, in favore del non abbiente, per un periodo lunghis­ simo. Reciprocità equilibrata:

il punto medio (A* -* t B)

“Reciprocità equilibrata” si riferisce allo scambio diretto. In caso di esatto equilibrio, il contraccambio è Fequivalente consue­ tudinario e istantaneo del bene ricevuto. Una reciprocità perfet­ tamente equilibrata, lo scambio simultaneo degli stessi tipi di beni in quantità identiche, non è solo concepibile ma etnografica­ mente attestata in certe transazioni coniugali (a es., Reay, 1959, pp. 95 sgg.), patti di amicizia (Seligman, 1910, p. 70) e trattati di pace (Hogbin, 1939, p. 79; Loeb, 1926, p. 204; Williamson, 1912, p. 183). La “reciprocità equilibrata” può essere meno rigo­ rosamente applicata a transazioni che prevedono contropartite di valore e utilità adeguate in un arco di tempo definito e limitato. Molti casi di “scambio di doni”, molti “pagamenti”, buona parte di quel che rientra nella voce etnografica di “commercio” e molto di quel che si definisce “compra-vendita” e comporta l’uso di “denaro primitivo” appartengono al genere della reciprocità equi­ librata. La reciprocità equilibrata è meno “personale” della reciprocità generalizzata. Dal nostro punto di vista, è più “economica”. Le parti si fronteggiano in qualità di interessi socio-economici di­ stinti. L’aspetto materiale della transazione è non meno decisivo

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di quello sociale: interviene un calcolo più o meno preciso, do­ vendo i beni dati essere reintegrati in tempi brevi. Il test prag­ matico di reciprocità equilibrata diventa quindi l’incapacità di tollerare flussi unidirezionali; i rapporti interpersonali sono pre­ giudicati dalla mancata contropartita entro tempi limitati e margi­ ni di equivalenza. E tipico dell’orientamento generale delle reci­ procità generalizzate che il flusso materiale sia sorretto dai rap­ porti sociali vigenti; laddove, nel caso dello scambio equilibrato, i rapporti sociali dipendono dal flusso materiale. Reciprocità negativa: l’estremo insocievole “Reciprocità negativa” è il tentativo di ottenere impunemente qualcosa in cambio di nulla, corrisponde alle diverse forme di appropriazione e transazione avviate e condotte in vista di un netto benefìcio utilitaristico. Tra i termini etnografici indicativi ricorderemo: “mercanteggiamento” o “baratto”, “gioco d’azzar­ do”, “raggiro”, “furto”, e altre varietà di impossessamento. La reciprocità negativa è il tipo più impersonale di scambio. In forme quali il “baratto” è; dal nostro punto di vista la più “economica”. I partecipanti si fronteggiano come interessi anta­ gonisti, ognuno teso a massimizzare il proprio tornaconto a spese altrui; Accostandosi alla transazione con l’unica idea di curare i propri interessi, il fine della parte inaugurale, o di entrambe, è il “profitto”. Una delle forme più socievoli, tendenti all’equi­ librio, è il mercanteggiamento condotto all’insegna della “mas­ sima disponibilità”. Da qui, la reciprocità negativa spazia, attra­ verso vari gradi di astuzia, furberia, azione furtiva e violenza, fino alla malizia di una ben congegnata scorreria a cavallo. La “reciprocità”, naturalmente, è di nuovo condizionata, un fatto di difesa del proprio interesse, ragion per cui il flusso può essere ancora una volta unidirezionale, il contraccambio essendo legato alla capacità di fare appello a una pari pressione o furberia: C’è una bella differenza tra un lattante e una scorreria a ca­ vallo degli Indiani delle pianure. Troppa, qualcuno dirà, essendo la classificazione eccessivamente ampia. Tuttavia, i movimenti “vicendevoli” nella documentazione etnografica sfumano l’uno nell’altro lungo l’intero arco. È bene, comunque, ricordare che gli scambi empirici spesso cadono in un qualche punto della linea, non direttamente nei punti estremi e mediani qui delineati. Il problema è se sia possibile specificare le circostanze sociali o economiche che spingono la reciprocità verso l’una o l’altra delle

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posizioni previste, verso la reciprocità generalizzata, equilibrata o negativa. Io ritengo di sì.

Reciprocità

e distanza parentale

Il grado di distanza sociale tra coloro che, scambiano condizio­ na il modo di scambio. La distanza parentale, come già abbiamo accennato, è particolarmente pertinente alla forma di reciprocità. La reciprocità è orientata verso il polo generalizzato dalla paren­ tela stretta, verso l’estremo negativo proporzionalmente alla di­ stanza parentale. Il ragionamento è pressoché sillogistico. Le diverse reciprocità, dal dono spontaneamente concesso al raggiro, equivalgono a uno spettro di socievolezza, dal sacrificio in favore di un altro al pro­ fitto personale a spese altrui. Si prenda come presupposto la massima di Tylor secondo cui parentado [kindred) è sinonimo di cortesia (kindness): “due termini la cui comune derivazione esprime nel modo più felice uno dei principi fondamentali della vita sociale”. Ne deriva che i parenti stretti tendono a spartire, a promuovere scambi generalizzati, mentre i parenti lontani e gli estranei (nonkin) a trafficare su basi di equivalenza o in modo fraudolento. L’equivalenza diventa obbligatoria in proporzione alla distanza parentale perché i rapporti non si interrompano completamente, dato che con la distanza guadagni e perdite diventano meno tollerabili proprio mentre si è poco inclini ad allargare i propri orizzonti. Agli estranei - gli “altri”, forse neppure “persone” - non si deve dar quartiere: l’inclinazione manifesta può essere benissimo “si salvi chi può”. Tutto ciò sembra perfettamente applicabile alla nostra società, ma è più significativo nella società primitiva, dato che la parente­ la è più significativa nella società primitiva. È, tanto per comin­ ciare, il principio organizzativo o idioma della maggior parte dei gruppi e rapporti sociali. Perfino la categoria “nonkin” è ordina­ riamente definita da essa quale suo aspetto negativo, l’estremo logico della classe - il non essere come categoria dell’essere. C’è un qualcosa di reale in questo punto di vista; non è un sofisma logico. Nella nostra società, “non-parente” denota rapporti di status di valenza positiva: medico-paziente, poliziotto-cittadino, datore di lavoro-dipendente, compagni di classe, vicini, colle­ ghi di professione. Ma per loro, “non-parente” connota la nega­

RECIPROCITÀ e distanza

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zione della comunità (o tribalismo); spesso è sinonimo di “ne­ mico” o “straniero”. Analogamente, il rapporto economico tende ad essere una pura e semplice negazione delle reciprocità paren­ tali: non occorre che intervengano altre norme istituzionali. La distanza parentale, tuttavia, ha differenti aspetti. Può essere organizzata in parecchi modi, e ciò che è “stretto” in uno di questi non è detto che lo sia in un altro. Lo scambio può essere condizionato alla distanza genealogica (in quanto ascritta localmente), cioè allo status parentale interpersonale. Oppure può dipendere dalla distanza segmentale, dallo status del gruppo di discendenza. (L’impressione è che quando questi due non cor­ rispondono è la relazione parentale più stretta a governare la reciprocità appropriata nei traffici tra singole parti, ma l’ipotesi dovrebbe essere sviluppata empiricamente.) Al fine di creare un modello generale, bisognerebbe prestare anche attenzione al pote­ re della comunità di stipulare la distanza. Non è soltanto la paren­ tela a organizzare le comunità, ma anche il contrario, di modo che è un criterio spaziale, coresidenziale a influenzare il grado di distanza parentale e quindi il modo di scambio. I fratelli coabitanti, o uno zio materno e i nipoti che vivessero sotto 10 stesso tetto erano, per quanto ho potuto osservare, in rapporti molto più stretti tra di loro di parenti di pari grado che vivessero distanti. Ciò era evidente ogniqualvolta si trattasse di prendere oggetti in prestito, di ottenere aiuto, di accettare un obbligo o di assumersi responsabilità reciproche (Malinowski, 1915, p. 532; si allude ai Mailu). L’umanità [secondo i Siuai] consta di parenti e stranieri. I parenti sono di solito legati da vincoli di consanguineità nonché coniugali; perlopiù vivono vicini, e le persone che vivono vicine sono tutte imparentate... Le transazioni tra di loro dovrebbero avvenire in uno spirito scevro di commercialità — consistendo preferibilmente di spartizioni [cioè “pooling”, nei termini della presente discussione], concessioni non ricambia­ bili, e lasciti ereditari, tra parenti strettissimi, o di prestiti tra parenti più lontani... Tranne che per alcuni parenti lontanissimi, le persone che vivono lontane non sono imparentate e non possono che essere nemici. La maggior parte delle loro usanze sono inadatte ai Siuai, ma alcuni loro beni e tecniche sono appetibili. Gli unici rapporti sono di compravendita — ricorrendo a una strenua contrattazione e al dolo per trarre 11 maggior profitto possibile da tali transazioni (Oliver, 1955, pp. 454-455).

Ecco un possibile modello per analizzare la reciprocità: la pianta tribale può essere vista come una serie di settori residenziali-parentali sempre più inclusivi, e la reciprocità quindi variare di qualità a seconda della posizione settoriale. I parenti stretti che si prestano assistenza sono parenti particolarmente vicini in

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senso spaziale: è nei riguardi della gente della famiglia, accampa­ mento, casale o villaggio che la compassione è indispensabile, in quanto l’interazione è intensa e la solidarietà pacifica essen­ ziale. Ma la misericordia è artificiosa nei settori periferici, resa tale dalla distanza parentale, sicché è meno probabile negli scam­ bi con i membri della tribù di un altro villaggio che non tra compagni di villaggio, e ancor meno probabile nel settore intertribale. Da questo punto di vista i raggruppamenti residenziali-parentali comprendono sfere di “coappartenenza” sempre più am­ pie: l’unità domestica, il lignaggio locale, forse il villaggio, la sottotribù, la tribù, altre tribù; la particolare pianta, natural­ mente, varia. La struttura è una gerarchia di livelli di integra­ zione, ma dall’interno e in loco è una serie di cerchi concentrici. I rapporti sociali di ogni cerchio hanno un carattere specifico rapporti familiari, rapporti di lignaggio, ecc. - e tranne quando le divisioni settoriali siano intersecate da altre organizzazioni della solidarietà parentale - a esempio, clan non localizzati o parentadi personali - i rapporti all’interno di ogni sfera sono più solidali dei rapporti del successivo settore, più inclusivo. Di con­ seguenza, la reciprocità tende verso l’equilibrio e il raggiro, proporzionalmente alla distanza settoriale. In ogni settore, sono caratteristici o dominanti certi modi di reciprocità: i modi gene­ ralizzati dominano nelle sfere più ristrette e si esauriscono nelle sfere più ampie, la reciprocità equilibrata è caratteristica dei settori intermedi, il raggiro delle sfere più periferiche. In breve, un modello generale del gioco di reciprocità può essere elaborato sovrapponendo la pianta settoriale della società al continuum di reciprocità. Modello che appare nella fig. 5.1. La pianta non si basa soltanto sui due termini della divisione settoriale e della variazione di reciprocità. Qualcosa va detto a proposito del terzo termine incastonato, la moralità. “Molto più di quanto si creda,” ha scritto Firth, “i rapporti economici hanno fondamenti etici” (1951, p. 144). Certo, questo deve essere il modo di vedere della gente: “Benché i Siuai abbiano termini distinti per ‘generosità’, ‘spirito di cooperazione’, ‘moralità’ (cioè, rispetto delle regole), e ‘giovialità’, credo che li considerino tutti aspetti strettamente correlati di un unico attributo: la bontà...” (Oliver, 1955, p. 78). Emerge un’altra differenza rispetto a noi: la tendenza della moralità, al pari della reciprocità, a essere, organizzata settorialmente nelle società primitive. Caratteristica­ mente, le. norme sono relative e contingenti invece che assolute

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RECIPROCITÀ RECIPROCITÀ QUILIBRATA ^NEGATIVA

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Figura 5.1.

Reciprocità e settori residenziali-parentali

e universali. Un determinato atto non è buono o malvagio in sé: dipende da chi è 1’“Alter”. L’appropriazione dei beni altrui o dell’altrui donna, che è peccaminosa (“furto”, “adulterio”) in seno alla propria comunità, può essere non soltanto perdonata ma positivamente ripagata dall’ammirazione dei propri simili, se è perpetrata nei confronti di un estraneo. Il contrasto con i criteri assoluti della tradizione giudaico-cristiana è probabilmen­ te esagerato: nessun sistema etico è esclusivamente assoluto (spe­ cialmente in tempo di guerra), come nessuno probabilmente è interamente relativo e contestuale. Ma criteri contingenti, defi­ niti spesso in termini settoriali, sembrano prevalere nelle comu­ nità primitive, il che contrasta sufficientemente con la nostra realtà da aver ripetutamente richiamato l’attenzione degli etnolo­ gi. A esempio: La moralità navaho è... contestuale invece che assoluta... La menzogna non è dovunque e sempre riprovevole. Le regole variano con la situa­ zione. Frodare quando si commercia con tribù straniere è una pratica moralmente accettata, Gli atti non sono di per sé buoni o malvagi. L’incesto [per sua stessa natura, un peccato contestuale] è forse l’unico comportamento condannato senza riserve. È assolutamente corretto usare

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tecniche magiche commerciando con membri di tribù straniere... Sono quasi completamente assenti ideali astratti. Nelle condizioni di vita aborigena, i Navaho non erano tenuti a uniformarsi a una moralità astratta... In una grande, complessa società quale l’America moderna, dove la gente va e viene e dove gli affari e altre operazioni devono essere condotti da persone che non hanno mai occasione di vedersi, è funzional­ mente necessario avere norme astratte che trascendano una situazione immediatamente concreta in cui due o più persone interagiscano (Kluckhohn, 1959, p. 434).

Lo schema di cui ci occupiamo è almeno tripartito: sociale, etico ed economico. Reciprocità e moralità sono strutturate set­ torialmente - la struttura è quella dei raggruppamenti tribali-parentali. Ma lo schema è un fatto interamente ipotetico. Sono immagi­ nabili circostanze che altererebbero i rapporti sociali-etici-reciproci da esso postulati. Particolarmente vulnerabili sono le affer­ mazioni circa i settori esterni. (Per “settore esterno” si intende in genere “settore intertribale”, il perimetro etnico delle comu­ nità primitive, che in pratica può collocarsi dove la moralità sfuma o dove l’ostilità tra gruppi è la normale aspettativa del gruppo omogeneo.) Le transazioni in questa sfera possono, è vero, compiersi con la forza e l’inganno, con wabuwabu, per usare il quasi onomatopeico termine dobuan per “pratica senza scru­ poli”. Tuttavia, l’appropriazione violenta sembra una risorsa det­ tata da necessità impellenti che possono soltanto, o facilmente, essere soddisfatte da una tattica battagliera. Un’alternativa perlo­ meno comune è una pacifica simbiosi. In questi fronteggiamenti non violenti, la propensione al wabuwabu indubbiamente rimane; è insita nella pianta settoriale. Per cui, se è socialmente tollerabile - se, cioè, le contrapposte condizioni che impongono la pace sono sufficientemente forti una serrata contrattazione è il rapporto esterno istituzionalizzato. Ci si imbatte allora nel gimwali, la mentalità mercantile, lo scambio impersonale (assenza di partnership) dei Trobriandiani di differenti villaggi o dei Trobriandiani con altri popoli. Ma anche il gimwali presuppone speciali condizioni, una sorta di isolamento sociale che eviti che l’attrito economico provochi una pericolosa conflagrazione. (Normalmente, il mercanteggia­ mento è di fatto represso, in particolare, sembra, se lo scambio ai confini è cruciale per entrambe le parti, come quando diffe­ renti specialità strategiche si danno battaglia. Nonostante la di­ stanza settoriale, lo scambio è equo, utu, equilibrato: il libero

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gioco di wabuwabu e gimwali è frenato nell’interesse della sim­ biosi. Il freno è esercitato da strumenti istituzionali particolarmente delicati di scambio confinario. Gli strumenti talvolta sembrano talmente assurdi da essere considerati dagli etnologi una specie di “gioco” inscenato dagli indigeni, ma essi intendono evidente­ mente immunizzare un’importante interdipendenza economica da' una fondamentale frattura sociale. (Si confronti la discus­ sione del kula in White, 1959, e Fortune, 1932.) Un famoso esempio al riguardo è il commercio silenzioso: si conservano buoni rapporti evitando ogni rapporto. Assai comuni sono le “relazioni commerciali” e le “amicizie commerciali”. L’elemento importante in tutte le varietà è la rimozione sociale della recipro­ cità negativa. La pace è incorporata, il mercanteggiamento ban­ dito e, condotto come trasferimento di utilità equivalenti, lo scambio a sua volta sanziona la pace. (Le associazioni commer­ ciali, in particolare, spesso create sul modello della parentela classificatoria o di affinità, incapsulano transazioni economiche esterne in rapporti sociali solidali. Rapporti di status essenzial­ mente interni sono proiettati al di là dei confini comunitari e tribali. La reciprocità allora può fare l’impossibile, nella direzione non del wabuwabu ma piuttosto in senso generalizzato. Formula­ ta come donazione, l’offerta ammette un ritardo nel ricambiare: una contropartita diretta può anzi essere sconveniente. L’ospita­ lità, in altra occasione ricambiata in natura, accompagna lo scam­ bio formale di beni commerciali. Capita spesso che un anfitrione contraccambi più del valore degli oggetti portati dal suo partner: riservare un tale trattamento al proprio partner in viaggio è consono al rapporto e immagazzina credito. In una prospettiva più ampia, questa dose di squilibrio favorisce l’associazione com­ merciale, imponendo un altro abboccamento.) La simbiosi intertribale, in breve, altera i termini del modello ipotetico. Il settore periferico è violato da rapporti più socievoli, di quelli normali in questa zona. Il contesto dello scambio è ora una più ristretta sfera di “coappartenenza”, lo scambio pacifico ed equo. La reciprocità si avvicina al punto di equilibrio. Ora, come ho avuto occasione di dire, le affermazioni di questo saggio sono scaturite da un dialogo con materiali etnogra­ fici, per cui è sembrato utile apporre alcuni di questi dati alle relative sezioni della trattazione. Di conseguenza, l’Appendice A espone materiali pertinenti al presente paragrafo, “Reciprocità e distanza parentale”. Ciò non a titolo probatorio, naturalmente -

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nei materiali, indubbiamente, non mancano eccezioni, almeno in apparenza - ma espositivo o illustrativo. Inoltre, dato che le idee mi si presentarono gradualmente e che le monografie e gli articoli erano stati in molti casi consultati ad altri fini, è certo che alcuni dati pertinenti alla reciprocità nelle opere citate mi siano sfuggiti. (Spero che ciò sia una scusa sufficiente e che le note etnografiche dell’Appendice A interessino altri oltre me.) Quale che sia il valore di 'queste annotazioni dal punto di vista dell’esposizione dell’asserito rapporto tra reciprocità e di­ stanza parentale, esse devono anche far vedere al lettore certi limiti dell’attuale prospettiva. Dimostrare semplicemente che il carattere della reciprocità è condizionato alla distanza sociale posto anche di poterlo dimostrare in modo incontestabile - non equivale a una spiegazione definitiva e neppure a specificare quando gli scambi effettivamente avverranno. Un rapporto si­ stematico tra reciprocità e socievolezza non dice di per sé quan­ do, e neppure in che misura, il rapporto interverrà. L’ipotesi è.che le forze coattive giacciano al di fuori del rapporto stesso. I termini dell’analisi finale sono la più ampia struttura cultu­ rale e la sua reazione adattiva all’ambiente. In questa ottica più ampia si dà la possibilità di stipulare le linee settoriali e le categorie parentali significative del caso in questione, nonché l’incidenza della reciprocità in differenti settori. Presupponendo come vero che dei parenti stretti si spartiscano il cibo, a esempio, non ne consegue che le transazioni avvengano. Il contesto totale (culturale-adattivo) può rendere disfunzionale un’intensa sparti­ zione e determinare impercettibilmente la fine di una società che se ne conceda il lusso. Concedetemi di citare un brano dal brillante studio ecologico di Fredrik Barth dei nomadi della Persia meridionale, che mostra tanto chiaramente le più generali considerazioni che devono essere vagliate in una spiegazione. Esso esemplifica dettagliatamente una situazione che esclude un’intensa spartizione: La stabilità di una popolazione pastorale dipende dal mantenimento di un equilibrio tra pascoli, popolazione animale e popolazione umana. I pascoli disponibili con le loro tecniche di mandriani pongono un limite massimo alla popolazione animale totale compatibile con una data area; mentre i modelli di produzione e consumo nomadici definiscono un limite minimo di grandezza della mandria che provvederà al sostenta­ mento di un’unità domestica umana. In questo doppio ordine di equili­ bri è compendiata la particolare difficoltà di creare un equilibrio demo­ grafico in un’economia pastorale: la popolazione umana non può che essere sensibile a squilibri tra greggi e pascoli. Tra gli agricoltori o i cac­

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ciatori-raccoglitori, un tipo di controllo demografico rozzamente malthusiano è insufficiente. Con il crescere della popolazione, aumentano inedia e tasso di mortalità fino al raggiungimento di un equilibrio intorno a cui la popolazione si stabilizza. Dove il modello predominante o esclusivo è il nomadismo pastorale, la popolazione nomade, sottoposta a una tale forma di controllo, non creerebbe un equilibrio demografico, ma ve­ drebbe eliminata la sua intera base di sussistenza. E ciò semplicemente per­ ché il capitale produttivo su cui si basa la loro sussistenza non è soltanto la terra, ma anche gli animali — in altri termini il cibo. Un'economia pa­ storale può durare soltanto finché chi la pratica non sia costretto a intac­ care questa grossa riserva di cibo. Una popolazione pastorale perciò può raggiungere un livello stabile soltanto se altri efficaci controlli demo­ grafici intervengono prima di quelli dell’inedia e del tasso di mortalità. Una prima esigenza in un tale adattamento è la presenza di modelli di proprietà privata delle mandrie, e una responsabilità economica indivi­ duale per ogni unità domestica. In base a questi modelli, la popolazione diventa frammentaria rispetto alle attività economiche, e i fattori econo­ mici possono incidere differentemente, eliminando alcuni membri della popolazione [a esempio, tramite la sedentarizzazione] senza coinvolgere altri membri della stessa popolazione. Il che sarebbe impossibile se l’orga­ nizzazione costituita riguardo alla vita politica e ai diritti di pascolo fosse anche estesa alla responsabilità economica e alla sopravvivenza (Barth, 1961, p. 124).

Ora, circa l’incidenza della reciprocità nel caso specifico, altre considerazioni sono eventualmente valide - potrebbe trattarsi di taccagneria. Nulla sappiamo delle sanzioni dei rapporti di scambio né, più importante, delle forze che fanno da contrappeso. Esi­ stono contraddizioni nelle economie primitive: si dà libero sfogo a inclinazioni egoistiche incompatibili con gli alti livelli di socie­ volezza tradizionalmente richiesti. Malinowski lo notò molto tempo fa e Firth (1926) in un lontano saggio sui proverbi maori fu abile nel mettere in luce il contrasto, la sottile interazione, tra i dettami etici della spartizione e gli angusti interessi econo­ mici. Il diffuso modo di produzione familiare per l’uso, non bi­ sogna dimenticare, finisce con il frenare la produzione a livelli relativamente bassi proprio mentre orienta l’interesse economico verso l’interno, all’interno dell’unità domestica. Il modo di produzione, perciò, non si presta facilmente a una generale solida­ rietà economica. Posto che la spartizione sia moralmente richie­ sta, a esempio dall’indigenza di un parente stretto, non è detto che tutto ciò che rende la spartizione giusta e opportuna susciti in un ricco l’inclinazione a praticarla. E proprio mentre può essere di scarso beneficio assistere il prossimo, non esistono rigide garanzie di contratti sociali quali la parentela. Gli obblighi socio­ etici acquisiti prescrivono un orientamento economico, e la pub­

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SOCIOLOGIA DELLO SCAMBIO PRIMITIVO

blicità della vita primitiva, aumentando i rischi di gelosia, ostilità e di una futura punizione, tendono a tenere in riga la gente. Ma, come è noto, osservare che una società ha un sistema di mo­ ralità e di vincoli non equivale a dire che ognuno vi acconsenta. Può esserci il periodo bisa-basa, “particolarmente alla fine del­ l’inverno, quando l’unità domestica nasconderebbe il proprio cibo perfino ai parenti” (Price, 1962, p. 47). Che il bisa-basa sia una condizione diffusa di alcuni popoli non è di impaccio alla presente tesi. I Siriono, tutti sanno, tra­ ducono ostilità e cripto-avarizia in un sistema di vita, mentre, curiosamente, formulano regole comuni di rapporti economici pri­ mitivi. Di norma, a esempio, il cacciatore non dovrebbe cibarsi dell’animale ucciso. Ma il settore de facto della spartizione non soltanto è ristrettissimo, ma “è raro che si proceda a una sparti­ zione senza un certo grado di diffidenza e incomprensione reci­ proche; una persona ha sempre la sensazione che sia l’altra ad approfittarne”, di modo che “più abbondante è la preda, più accigliato è il cacciatore” (Holmberg, 1950, pp. 60, 62; cfr. pp. 36, 38-39). I Siriono non sono perciò diversi dalla media delle comunità, primitive. Essi semplicemente portano alle estre­ me conseguenze la potenzialità altrove meno spesso realizzata, la possibilità che le coazioni strutturali alla generosità siano impari a un test di privazione. Del resto, i Siriono sono una banda di profughi deculturati. L’intero involucro culturale, dalle norme di spartizione alla terminologia parentale crow, passando attra­ verso le istituzioni della chieftainship, è una parodia della loro attuale miserabile situazione.

Reciprocità e rango parentale

È ormai evidente - in base ai materiali illustrativi dell’Appendice A - che in ogni scambio reale parecchie circostanze possono simultaneamente condizionare il flusso materiale. La distanza parentale, benché forse significativa, non è necessariamente deci­ siva. Un discorso a parte meritano rango, relativa ricchezza e povertà, tipo di beni (cibo o beni durevoli), ed altri “fattori” ancora. Quale accorgimento espositivo e interpretativo, è utile isolare e considerare separatamente questi fattori. Di conseguen­ za, passerei ora al rapporto tra reciprocità e rango parentale. Ma a questa condizione: le proposizioni sulla covariazione di

RECIPROCITÀ e rango

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distanza parentale o rango parentale e reciprocità possono essere discusse separatamente, perfino convalidate separatamente nella misura in cui è possibile selezionare casi in cui sia in gioco sol­ tanto il fattore in questione - ferme restando le altre condi­ zioni - ma le proposizioni non si presentano separatamente nella realtà. La prospettiva ovvia della ricerca futura consisterà nel de­ terminare l’efficacia delle varie “variabili” nella loro azione com­ binata. Nella migliore delle ipotesi, vengono qui prospettati soltanto gli inizi di questa ricerca. La differenza di rango, al pari della distanza parentale, pre­ suppone un rapporto economico. L’asse verticale, gerarchica dello scambio - l’implicazione del rango - può influenzare la forma della transazione, così come la influenza l’asse orizzontale della distanza parentale. Il rango è in certa misura privilegio, droit du ed ha le proprie responsabilità, noblesse oblile. Diritti e doveri competono ad entrambe le parti, sia in alto che in basso si vantano diritti, anche se in realtà i termini feudali non danno l’idea dell’equità economica della gerarchia parentale. Nel suo reale contesto storico la noblesse oblige difficilmente can­ cellava i droits du seigneur. Nella società primitiva l’ineguaglian­ za sociale è ancora l’organizzazione dell’eguaglianza economica. Spesso, in realtà, un rango elevato è soltanto assicurato o sor­ retto da una generosità senza limiti: il vantaggio materiale sta dalla parte del suddito. Forse è esagerato scorgere nel rapporto padre-figlio la forma elementare della gerarchia parentale e della sua etica economica. È vero, comunque, che il paternalismo è una comune metafora della chieftainship primitiva. La chieftainship è di solito un rapporto privilegiato di discendenza, per cui è singo­ larmente appropriato che il capo sia il loro “padre”, essi i loro “figli”, e che i rapporti economici reciproci non possano che esserne influenzati. Le pretese economiche del rango e della subordinazione sono interdipendenti. L’esercizio del proprio diritto da parte del capo schiude la strada a istanze dal basso e viceversa - spesso una modesta esposizione al “mondo esterno” è sufficiente a suggerire agli indigeni il riferimento a tradizionali spettanze del capo quale il procedimento locale di deposito bancario (cfr. Ivens, 1927, p. 32). Il termine quindi che designa il rapporto economi­ co tra ranghi parentali è “ reciprocità ”. Reciprocità che, inoltre, è legittimo classificare come “ generalizzata ”. Benché non socievo­ le come il tipo usuale di assistenza tra parenti stretti, essa propen­ de verso quel lato del continuum di reciprocità. I beni sono in

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verità ceduti ai poteri costituiti, forse a richiesta e su domanda, e così può darsi che debbano essere umilmente impetrati a essi. Tuttavia, il fondamento logico è spesso l’assistenza e il bisogno, e la supposizione di contropartite di conseguenza indefinita. Il contraccambio può essere rimandato finché un bisogno lo affretta; non è necessariamente equivalente al dono iniziale; e il flusso materiale può essere squilibrato a vantaggio di una delle due parti per un lungo periodo. La reciprocità è imbrigliata da vari principi del rango parentale. La gerarchia generazionale, con gli anziani in posizione di privi­ legio, può essere importante tra i cacciatori e raccoglitori non sol­ tanto nella vita familiare ma nella vita dell’accampamento nel suo complesso, e la reciprocità tra giovani e anziani una regola corrispondentemente generale di scambio sociale (cfr. RadcliffeBrown, 1948, pp. 42-43). Gli abitanti delle Trobriand hanno un termine - pokala - per l’etica economica appropriata tra parti di rango differente, all’interno di comuni gruppi di discendenza. È la norma per cui “i giovani membri di un sottoclan sono tenuti a tributare doni e servizi ai più anziani, i quali a loro volta sono tenuti a conferire assistenza e benefici materiali ai più giovani” (Powell, 1960, p. 126). Anche dove il rango è legato all’anziani­ tà genealogica e si esaurisce nel potere della carica - la chieftainship propriamente detta - l’etica è identica. Si prendano i capi polinesiani, funzionari in grandi sistemi politici segmentati: sor­ retti per un verso da varie spettanze, essi sono gravati, come molti hanno osservato, da obblighi forse ancor maggiori verso la popolazione suddita. Probabilmente la “base economica” della politica primitiva è comunque la generosità del capo - un atto di concreta moralità e a un tempo l’imposizione di un debito alla comunità. O, in un’ottica più ampia, l’intero ordinamento politico si impernia su un flusso di beni ascendente e discendente lungo la gerarchia sociale, in cui ogni dono non connota semplicemente un rapporto di status ma, in quanto dono non direttamente ricambiato, impone lealtà. Nelle comunità con ordinamenti gerarchici definiti, la reci­ procità generalizzata è dettata dalla struttura invalsa, e, una. volta in funzione, lo scambio ha effetti ridondanti sul sistema gerarchico, Esiste, tuttavia, un’ampia gamma di società in cui rango e leadership sono perlopiù acquisiti; nella fattispecie la re­ ciprocità è più p meno impegnata nella formazione^ del rango stes; so, in qualità di “meccanismo di avviamento”. La connessione tra reciprocità e rango nel primo caso si compendia nella formula

KECIPKOCITÀ e rango

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“nobiltà è sinonimo di generosità”, nel secondo in “generosità è sinonimo di nobiltà”. La struttura gerarchica vigente influenza i rapporti economici nel primo caso; mentre nel secondo è la reci­ procità a influenzare i rapporti economici. (Un analogo feedback si ha nel contesto della distanza parentale. L’ospitalità è spesso utilizzata per indicare socievolezza - su ciò ritorneremo in segui­ to John Tanner, uno di quei “selvaggi bianchi” che crebbe tra gli Indiani, riferisce un aneddoto ancor più pertinente. Ricordandosi che la sua famiglia ojibwa fu salvata dall’inedia da una famiglia muskoe, osservò che da allora in poi se qualcuno dei suoi incon­ trava qualcuno dell’altra famiglia, “lo chiamava ‘fratello’ e lo trat­ tava di conseguenza” [Tanner, 1956, p. 24].) L’espressione “meccanismo di avviamento” è di Gouldner. Ecco come spiega perché la reciprocità possa considerarsi un meccanismo di avviamento: ... serve ad avviare l’interazione sociale ed è funzionale nelle prime fasi di certi gruppi prima che elaborino una serie differenziata e consuetudi­ naria di doveri di status... Ammesso che la questione delle origini può facilmente impantanarsi in una palude metafisica, sta il fatto che molti concreti sistemi sociali [forse “rapporti e gruppi” sarebbe più esatto] hanno determinati inizi. I matrimoni non avvengono in cielo... Allo stesso jnodo, società per azioni, partiti politici, e gruppi di ogni specie hanno i loro inizi... Gli individui sono continuamente accorpati in nuove giustap­ posizioni e combinazioni, implicanti le possibilità di nuovi sistemi so­ ciali. Come si concretano queste possibilità?... Benché questa prospettiva possa di primo acchito sembrare alquanto estranea al funzionalista, una volta presentatagli, egli può presagire che certi tipi di meccanismi, ten­ denti alla cristallizzazione dei sistemi sociali sulla scia di contatti effi­ meri, saranno in qualche misura istituzionalizzati oppure modellati {patterned) in ogni società. A questo punto prenderebbe in esame i mec­ canismi di avviamento”. In questo senso, ritengo, la norma di reciprocità fornisce uno dei tanti meccanismi di avviamento (Gouldner, 1960, pp. 176177).

Lo squilibrio economico innesta lo spiegamento della ge­ nerosità, della reciprocità generalizzata, in qualità di meccanismo di avviamento del rango e della leadership. Un dono non ancora ricambiato innanzitutto “crea un qualcosa tra persone”: genera continuità nel rapporto, solidarietà - almeno finché è assolto l’obbligo di ricambiare. In secondo luogo, finendo sotto “l’ombra dell’indebitamento”, il destinatario è vincolato nei suoi rapporti al donatore. Il beneficiato è tenuto a un atteggiamento pacifico, circospetto e comprensivo verso il benefattore. La “norma di reciprocità”, osserva Gouldner. “esige due condizioni minime interrelate : 1 ) si deve aiutare chi è stato d’aiuto, e 2) non si deve

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nuocerea chi è stato di aiuto” (1960, p. 171). Condizioni che sono non meno vincolanti negli altopiani della Nuova Guinea che nelle praterie di Peoria. “I doni [tra i Gahuka-Gama] devono essere ricambiati. Rappresentano un debito, e finché non è onora­ to il rapporto degli individui in questione è squilibrato. Il debi­ tore deve agire con circospezione nei riguardi di chi si è avvan­ taggiato su di lui, a rischio di apparire ridicolo” (Read, 1959, p. 429). Accumulandosi la stima che deriva all’uomo generoso in un unico senso, la generosità è profondamente utilizzata come meccanismo di avviamento dato che crea seguaci (followership). “ Questa ricchezza gli- procura amici, ” scrive Denig a proposito dell’ambizioso Assiniboin, “come dovunque in altre circostanze” (Denig, 1928-29, p. 525). A parte i chiefdom altamente organizzati e i semplici cacciatoriraccoglitori, esistono molti popoli tribali intermedi in cui leader locali salgono alla ribalta senza tuttavia diventare ■ detentori di carica e titoli, di privilegi ascritti e di potere su gruppi politici integrati. Sono persone che “si fanno un nome”, come si dice; hanno fama di essere “pezzi grossi”, “uomini importanti”, eco., che emergono nel volgo, raccolgono seguaci e acquistano così autorità. If big-man melanesiano ne è un esempio, al pari del capo indiano delle Pianure. Il processo di acquisizione di un seguito personale e di ascesa ai vertici della fama è contrasse­ gnato da una calcolata generosità - se non da vera compassione. La reciprocità generalizzata è più o meno utilizzata come mec­ canismo di avviamento. In modi diversi, quindi, la reciprocità generalizzata ha a che fare con l’ordine gerarchico della comunità. Tuttavia, noi ab­ biamo già caratterizzato l’economia della chieftainship in altri termini transattivi, in quanto ridistribuzione (o pooling di massa). A questo punto si pone il quesito evoluzionistico: “Quan­ do l’una cede il passo all’altra., la reciprocità alla ridistribu­ zione?” Quesito che però può essere fuorviarne. La ridistribu­ zione del capo non è differente in linea di principio dalla recipro­ cità gc ra rch ico-pa reti tale. Si basa, anzi, sul principio di recipro­ cità, su una sua forma assai organizsata. La ridistribuzione del capo è un’organizzazione centralizzata e formale delle reciprocità gerarchico-parentali, un’estesa integrazione sociale delle spettan­ ze e degli obblighi della leadership. Il reale mondo etnografico non ci mostra l’improvvisa “apparizione” della ridistribuzione; presenta approssimazioni e tipi di centricità. La via evidente­ mente più saggia consiste nel fondare le nostre caratterizzazioni -

RECIPROCITÀ e rango

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delle reciprocità di rango rispetto a un sistema di ridistribuzione - sulle differenze formali del processo di centralizzazione, risol­ vendo così il quesito evoluzionistico. Un sistema big-man di reciprocità può essere centralizzato al massimo e un sistema di capi decentrato al massimo. Li separa una sottile linea, anche se forse importante. Tra la centricità di un 'economia big-man melanesiana quale quella siuai ( Oliver, 1955) e la centricità di un chiefdom della costa nordoccidentale quale quello nootka (Drucker, 1951), non c’è molto da scegliere. In ogni caso un leader integra l’attività economica di un seguito (più o meno) localizzato: funziona da stazione di smistamento per il flusso reciproco di beni tra il proprio e gli altri analoghi gruppi della società. Identico è anche il rapporto economico con i seguaci: il leader è il collettore centrale e l’elargitore di favori. La sottile linea di differenza è questa: il leader nootka è un funzionario in un lignaggio (gruppo domestico), il suo se­ guito è questo gruppo integrato, e la sua posizione economica centrale è ascritta per diritto di obblighi e spettanze. La centricità perciò è insita nella struttura. Nel caso siuai, è un’acquisizione personale. Il seguito è una conquista - un risultato della genero­ sità elargita - la leadership una conquista, e l’intera struttura in quanto tale si dissolverà alla morte del big-man su cui si impernia. Ora, credo che la maggior parte di chi si è occupato delle “economie ridistributive” ha finito con l’includere i po­ poli della costa nord-occidentale in questa voce; mentre asse­ gnare questa posizione ai Siuai sarebbe, quantomeno, motivo di disaccordo. Ciò indica che implicitamente si riconosce nell’orga­ nizzazione politica delle reciprocità l’elemento decisivo. Dove la reciprocità gerarchico-parentale è prescritta dall’ufficio e dal raggruppamento politico, e diventa sui generis in virtù di un do­ vere consuetudinario, assume un carattere peculiare. Carattere peculiare che potremmo utilmente definire “ridistribuzione del capo”. Un’ulteriore differenza delle economie di ridistribuzione è degna di nota. È un’altra differenza di centricità. In certi esempi etnografici il flusso dei beni dalle e nelle mani dei poteri costituiti non è in massima parte integrato. I sudditi tributano beni al capo, individualmente e in varie occasioni, ricevendone spesso individualmente benefici. Benché esista sempre accumulazione massiccia e distribuzione su larga scala - a esempio, durante i riti di chieftainship - il flusso prevalente tra capo e sudditi è frammentato in piccoli transazioni indipendenti : un dono al

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capo qui, un aiuto fornito là. Perciò, tranne casi particolari, il capo amministra sempre piccole riserve. Situazione che è comune nei chiefdom minori delle isole del Pacifico - a esempio, Moala (Sahlins, 1962) e Tikopia - e che può valere in genere per i chiefdom pastorali. D’altro canto, i capi possono menar vanto di massicce accumulazioni e di elargizioni più o meno massicce, e talvolta anche di grandi scorte immagazzinate spremendo il po­ polo. In questo caso l’atto indipendente di omaggio o il noblesse oblige riveste minore importanza. E se, inoltre, la scala sociale di ridistribuzione del capo è ampia - il sistema politico esteso, disperso, e segmentato - siamo in presenza di un grado di centricità che si avvicina alle classiche economie di magazzino dell’an­ tichità. L’Appendice B presenta materiali etnografici che illustrano il rapporto tra rango e reciprocità. (Vedi la citazione da Malo alla voce B.4.2. e da Bartram alla voce B.5.2. sulle economie di magazzino di diversa scala.)

Reciprocità e ricchezza Secondo il loro [Yukaghir] modo di pensare, “colui che possiede vetto­ vaglie deve spartirle con coloro che ne sono privi” (Jochelson, 1926, p. 43).

Questa usanza di dividere in parti esattamente uguali fra tutti è facil­ mente comprensibile in una comunità dove ognuno rischia di trovarsi di tanto in tanto in difficoltà, in quanto è la scarsità e non la suffi­ cienza a rendere la gente generosa, poiché così ognuno è garantito dalla fame. Chi è oggi bisognoso riceve aiuto da chi può esserlo domani (Evans-Pritchard, 1940, p. 85).

Uno dei significati delle precedenti notazioni su rango e reci­ procità è che le differenze di rango, o i tentativi di favorirle, tendono a estendere lo scambio generalizzato al di là della sfera tradizionale di spartizione. Identico può essere il risultato delle differenze di ricchezza, spesso comunque associate a differenze di rango. Se io sono povero e il mio amico ricco, allora nei nostri rap­ porti l’avidità di guadagno è sottoposta a certi vincoli - perlo­ meno se vogliamo rimanere amici, o conoscenti, a lungo. Parti­ colari restrizioni sono imposte ai più ricchi, se non altro una certa richesse oblige. In altri termini, stante un vincolo sociale tra coloro che scam-

reciprocità e ricchezza

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biano, le reciproche differenze di fortuna impongono una tran­ sazione più altruistica (generalizzata) di quanto altrimenti sa­ rebbe il caso. Una differenza di opulenza - o di capacità di reintegrare ricchezza - abbasserebbe il contenuto di socievolezza del rapporto equilibrato. Finché lo scambio è in equilibrio, la parte che non può permetterselo si è sacrificata a favore della parte che non ne aveva bisogno. Quanto maggiore è il divario di ricchezza, perciò, tanto maggiore è l’assistenza tangibile, da parte dei ricchi ai poveri, necessaria almeno a conservare un dato grado di socievolezza. Proseguendo il ragionamento sulla stessa linea, l’inclinazione allo scambio generalizzato aumenta di inten­ sità nei casi in cui il divario economico si traduce in un so­ vrapprovvigionamento [oversupply] e sottoapprovvigionamento (undersupply) di tradizionali bisogni e, specialmente di beni urgenti, il fenomeno da ricercarsi è la spartizione del cibo tra abbienti e non abbienti. È curioso pretendere di ricavare un gua­ dagno dai trofei di caccia, eppure per uno straniero affamato fratello! -- ci si può perfino privare di una monetina. Il “fratello” è importante. Che la scarsità e non la sufficienza renda la gente generosa è comprensibile, funzionale, “laddove ognuno rischia di trovarsi di tanto in tanto in difficoltà”. È com­ prensibilissimo, tuttavia, e assai probabile, laddove vigono co­ munità parentale ed etica parentale. Che intere economie siano regolate dall’interazione di scarsità e accumulazione differenziale non è un segreto per la Scienza Economica. Del resto, le società in questione non conducono una vita grama e incerta come quella nuer, né affrontano le privazioni come le comunità paren­ tali. Sono appunto queste circostanze a rendere intollerabile e disfunzionale un’odiosa accumulazione di ricchezza. E sé i ricchi non stanno al gioco, in qualche modo li si può di solito costrin­ gere a restituire il mal tolto: Un Boscimano farà carte false per evitare di suscitare gelosie tra i vicini, ragion per cui i pochi beni che i Boscimani possiedono circolano costantemente tra i membri dei loro gruppi. Nessuno ci tiene a tenersi troppo a lungo un coltello particolarmente affilato, anche se ne ha assoluto bisogno, perché diventerà oggetto di invidia; mentre se ne sta seduto in disparte a tirare a lucido 1’affilatura della lama, gli giungerà la voce degli altri membri della sua banda che sussurrano: “Guardatelo là in ammirazione del suo coltello mentre noi non abbiamo nulla.” Imme­ diatamente qualcuno gli chiederà il coltello, perché chiunque vorrebbe averlo, ed egli se ne sbarazzerà. La loro cultura è inflessibile in propo­ sito, e non è mai accaduto che un Boscimano non abbia diviso oggetti, cibo o acqua con altri membri della sua banda, perché senza una rigoro-

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sissima cooperazione i Boscimani non potrebbero sopravvivere alle ca­ restie e siccità che il Kalahari offre loro (Thomas, 1959, p. 22).

In caso di rischi gravissimi di indigenza, come nel caso di raccoglitori di cibo quali i Boscimani, è meglio che l’inclinazione a condividere la propria abbondanza sia legittimata. Ecco una condizione tecnica in cui alcune unità domestiche, a giorni alterni, non riusciranno a provvedere al proprio fabbisogno. La vulnera­ bilità alla penuria di cibo può essere affrontata, istituendo una continua spartizione aH’interno della comunità locale. Questa mi sembra la migliore interpretazione dei tabù che vietano ai cac­ ciatori di cibarsi della selvaggina che abbattono, o dell’ingiun­ zione, meno drastica e più comune, di spartire nell’accampamento alcune grandi prede - “il cacciatore uccide, gli altri se la godo­ no, dicono gli Yukaghir” (Jochelson, 1926, p. 124). Un altro modo di rendere normale, se non una norma, la spartizione del cibo è di caricarla di un valore etico. In tal caso, per inciso, la spartizione non avverrà soltanto nei momenti cattivi ma soprat­ tutto in quelli buoni. Il livello di reciprocità generalizzata è al­ l’apice in occasione di una fortuna inaspettata: ora ognuno può approfittare delle virtù della generosità: Raccolsero quasi 300 libbre [di noci tsi]... Quando ebbero raccolto tutto quel che si poteva trovare, quando ogni possibile sacco fu pieno, dissero di essere pronti a far ritorno a Nama, ma quando accostammo la jeep e cominciammo a caricarla erano già impegnati, al solito, a donare e ricevere, e avevano già iniziato a farsi regali di tsi. I Boscimani si sentono in dovere di offrire e ricevere cibo, forse per cementare i rapporti reciproci, forse per provare e rafforzare la loro reciproca dipen­ denza, dato che la possibilità di farlo non esiste a meno di disporre di grandi quantità di cibo. I Boscimani si scambiano sempre regali di cibi che abbondino, siano essi la carne di antilope, le noci tsi o le noci mangetti che in certe stagioni sono sparse a profusione nelle foreste. Mentre aspettavamo accanto alla jeep, Dikai diede alla madre un grande sacco. La madre diede un ' altro sacco alla prima moglie di Gao Feet, mentre Gao Feet diede un sacco a Dikai. Successivamente, nei giorni seguenti, il tsi fu nuovamente distribuito, questa volta in quantità minori, mucchietti o sacchetti, dopo di che a manciate, e, infine, in piccolissime quan­ tità di tsi cotto che la gente si spartiva mangiandolo... (Thomas, 1959, pp. 214-215).

L’influenzadelle differenze di ricchezza sulla reciprocità, natu­ ralmente, non è indipendente dall’azione del rango e della distanza_,parentale. Le situazioni reali sono complesse. A esempio, le differenze di ricchezza probabilmente obbligano all’assistenza in proporzione inversa alla distanza parentale delle parti che scam­ biano. È in particolare la povertà nel gruppo omogeneo a gene­

reciprocità e ricchezza

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rare compassione. (Viceversa, il fatto di aiutare persone in difficoltà crea una fortissima solidarietà - in base al principio che “gli amici si conoscono nelle avversità”.) D’altro canto, non è detto affatto che le differenze materiali tra parenti lontani o estranei debbano indurre la parte ricca a essere caritatevole. Spesso si osserva che ogni accumulazione di ricchezza, presso un certo popolo, è seguita immediatamente dal suo esborso. V obiettivo, anzi, che si persegue nel raccogliere la ricchezza è spesso quello di sbarazzarsene. Così, a esempio, scrive Barnett degli Indiani della costa nordoccidentale che “un’accumulazione di qualsiasi entità a prestito o altrimenti, in realtà, è impensabile se non al fine di un’immediata ridistribuzione” (1938, p. 353). P lecito sostenere che in generale nelle società primitive la spinta materiale tende nel complesso dall’accumulazione all’insufficienCosì: “In generale si può affermare che in un villaggio nuer nessuno patisce la farne a meno che tutti la patiscano ” (EvansPritchard, 1951, p. 132). Ma in considerazione delle precedenti osservazioni, è necessaria una precisazione. L’inclinazione verso i non abbienti è più pronunciata nel caso dei beni più urgente­ mente richiesti, e all’interno delle comunità locali più che tra di esse. Posta una tendenza a spartire a favore dei bisognosi, foss’anche mitigata dalla comunità, è possibile trarre ulteriori conclusioni circa il comportamento economico in condizioni di generale scar­ sità. Durante le stagioni povere l’incidenza dello scambio genera­ lizzato dovrebbe superare i valori medi, in particolare nei set­ tori sociali più ristretti. La sopravvivenza dipende allora da una duplice accelerazione della solidarietà sociale e della cooperazione economica (vedi Appendice C, a es. C.1.3). Questa unificazione socio-economica potrebbe naturalmente raggiungere il punto mas­ simo: i normali rapporti di reciprocità tra unità domestiche sono sospesi a beneficio del pooling delle risorse per la durata del­ l’emergenza. La struttura gerarchica è forse mobilitata e impegna­ ta, o nell’amministrazione del pooling o nel senso che le riserve alimentari del capo sono ora poste in circolazione. dalla struttura sociale messa alla prova e dalla durata e intensità della penuria. Si rafforzano, infatti, in questi periodi bisa-basa le forze che fanno da contrappeso: in particolare la tendenza a curare gli interessi familiari, nonché la tendenza a riservare la preferendoli ai lontani parenti nelle stesse ristrettezze. Probabilmente ogni organizzazione pri­

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mitiva ha il suo punto di rottura., o quantomena.il suo punto di svolta. Ognuno può constatare quando la cooperazione. è so­ praffatta dall’atnpiezza del disastro e l’inganno diventa ordinaria amministrazione. La sfera di assistenza si contrae progressivamen­ te al livello familiare; forse perfino questi legami si dissolvono e, spazzati via, rivelano un egoismo disumano, e tuttavia comprensi­ bilissimo. Inoltre, nella stessa misura in cui il cerchio della Carità si ridimensiona, quello della “reciprocità negativa” potenzial­ mente si espande. Persone che si aiutavano in circostanze normali e nelle prime fasi del disastro ostentano ora indifferenza alla reciproca sorte, quando non aggravano la reciproca rovina con l’inganno, il mercanteggiamento, il furto. In altri termini, l’in­ tero schema settoriale di reciprocità è alterato, compresso: la spartizione è relegata alla sfera di solidarietà più intima e tutto il resto è all’insegna del “ si salvi chi può ”. Implicito in queste osservazioni è un piano di analisi del normale sistema settoriale di reciprocità nel caso dato. Lo schema vigente di reciprocità è un vettore della qualità dei rapporti parentali-comunitari e delle normali tensioni prodotte da squilibri di produzione. Ma a interessarci ora è la situazione di emergenza. Qua e là nei materiali illustrativi di questo paragrafo si scorgo­ no le due predette reazioni al contrarsi delle riserve alimentari: una maggiore come una minore spartizione. Presumibilmente, le condizioni determinanti sono la struttura comunitaria, da un lato, e la gravità della penuria, dall’altro. Un’ultima osservazione in tema di reciprocità e ricchezza. Una comunità, opportunamente organizzata, si rinserrerà non soltanto se minacciata economicamente ma anche di fronte ad altri pericoli, a esempio una pressione esterna politico-militare. In proposito, nei materiali illustrativi annessi a questo paragrafo sono incluse due note sull’economia delle bande militari indigene (Appendice C: C.1.10 e C. 2.5). Esse illustrano la straordinaria intensità della spartizione (reciprocità generalizzata) tra abbienti e non, durante i preparativi di un attacco. (Allo stesso modo, l’esperienza delle guerre recenti rivela come le transazioni si svi­ luppino enormemente dalla partita a dadi in caserma alla sparti­ zione di vettovaglie e sigarette in prima linea.) L’improvvisa esplosione di pietà è conforme a quanto detto in tema di socievo­ lezza, spartizione e differenze di ricchezza. La reciprocità gene­ ralizzata non è soltanto l’unico scambio congruente con l’interdipendenza, ora seria: rafforza l’interdipendenza e quindi le prò-

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Labilità di ognuno e di tutti di superare il pericolo non eco­ nomico. I dati etnografici relativi alle affermazioni di questo paragrafo sono reperibili nell’Appendice C.

Reciprocità e cibo

II carattere dei beni scambiati sembra avere un effetto indi­ pendente sul carattere dello scambio, I generi alimentari dijirima. necessità non sempre possono essere trattati esattamente come ogni altra cosa. Socialmente essi non assomigliano a nessun’altra cosa. Il cibo è dispensatore di vita, urgente, simbolo in genere del focolare domestico, se non materno. Rispetto ad altri beni, il cibo è più facile a spartirsi, cosa del resto più spesso neces­ saria; stoffa e perline si prestano maggiormente a una donazione equilibrata. Contropartite-dirette ed equivalenti per il cibo sono sconvenienti in quasi tutti i contesti sociali: contraddicono i moventi sia del donatore che del beneficiario. Dal che sembrano derivare parecchie caratteristiche peculiari dei passaggi di cibo. I traffici in cibo sono un barometro sensibile, un’enunciazione rituale per così dire, dei rapporti sociali, e pertanto il cibo è utilizzato strumentalmente come meccanismo di avviamento, di rinforzo o di distruzione della socievolezza: II cibo è qualcosa su cui i parenti vantano diritti, e per converso i parenti sono coloro che forniscono cibo o lo esigono in tributo (Richards, 1939, p. 200). La spartizione del cibo [tra i Kuma] simboleggia un’identità di inte­ ressi... Non si spartisce mai il cibo con un nemico... Non si spartisce il cibo con estranei, in quanto potenziali nemici. Una persona può mangiare con i parenti consanguinei e affini e anche, dicono, con i membri del proprio clan. Normalmente, tuttavia, soltanto i membri dello stesso sottoclan hanno un diritto incontestabile a spartirsi il cibo... Se due persone o i membri di due sottoclan hanno un litigio serio e duraturo, né loro né i loro discendenti possono usare vicendevolmente il focolare... Quando parenti affini si incontrano a un matrimonio, la presentazione formale della sposa e del maiale e dei preziosi sottolinea l’identità sepa­ rata dei due clan, ma la gente che effettivamente partecipa alla cerimonia si spartisce il cibo informalmente, discretamente, come potrebbe farlo con compagni intimi all’interno del sottoclan. È un modo di esprimere il loro comune interesse all’unione dei due gruppi. Simbolicamente, ora appartengono a un unico gruppo, per cui sono “fratelli”, come devono esserlo parenti affini (Reay, 1959, pp. 90-92).

Il cibo offerto in modo generalizzato, in particolare sotto

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forma di ospitalità, è sinonimo di buoni rapporti. Come afferma sinteticamente Jochelson a proposito degli Yukaghir con piglio semiconfuciano: “L’ospitalità spesso trasforma i nemici in amici, e rinsalda i rapporti amichevoli tra gruppi estranei l’uno all’altro” (1926, p. 125). Il che, d’altra parte, implica un principio nega­ tivo complementare: il cibo non offerto al momento opportuno o rifiutato è sinonimo di cattivi rapporti. Così, la sindrome dobuan di diffidenza per chiunque tranne i parenti strettissimi trova la sua espressione più chiara nella sfera sociale della sparti­ zione del cibo e della convivialità - “Non si accetta cibo e tabac­ co se non in una cerchia ristretta” (Fortune, 1932, p. 170; sulle norme che vietano la convivialità, cfr. pp. 74-75; Malinowski, 1915, p. 545). Infine, vige il principio che non si scambiano oggetti con il cibo, direttamente cioè, tra amici e parenti. Il traffico in cibo è un traffico tra interessi alieni. (Si veda come un romanziere suggerisca assai semplicemente che uno dei suoi personaggi è un vero mentecatto: “Si portò le coperte nella nuda casa, cenò in silenzio con la famiglia Boss, insistette per pagare gli era incomprensibile tanta riluttanza quando si offriva di paga­ re; il cibo costava denaro; è vero che di professione non facevano i ristoratori, ma il cibo costava denaro, era innegabile” - MacKinlay Kantor). In questi principi di scambio strumentale di cibo sembrano esserci ben poche differenze da un popolo all’altro. Naturalmente, il grado in cui sono utilizzati, e quale in particolare si utilizza, variano da caso a caso. I Dobuan proscrivono le visite e l’ospi­ talità tra villaggi, per ragioni certamente buone e plausibili. Altrove, circostanze che variano dall’interdipendenza economica alla strategia politica ingiungono di far visita e accogliere ospital­ mente i visitatori. Un esame dettagliato delle diverse circostan­ ze sarebbe al di fuori della nostra portata: il fatto è che quando è consigliabile intrattenere rapporti cordiali con visitatori, l’ospi­ talità è un modo comune di farlo. E la sindrome dobuan non è affatto tipica. Di solito “i selvaggi sono fieri d’essere ospitali con gli stranieri” (Harmon, 1957, p. 43). Ne consegue che la sfera dello scambio generalizzato di cibo è talvolta più ampia della sfera dello scambio generalizzato di altri beni. Questa tendenza a trascendere la pianta settoriale raggiunge il suo apice nell’ospitalità concessa a soci in affari, o a parenti provenienti da lontano, che trasformano la visita in un’occasione di scambio di doni (vedi esempi nell’Appendice A). Ecco persone i cui traffici in beni durevoli sono consapevolmente equilibrati -

reciprocità e cibo

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quand’anche virtualmente condotti in base al caveat emptor - da un miracolo che caritatevolmente provvede vicendevolmente al cibo e all’alloggio. Del resto, l’ospitalità contrasta il wabuwabu in agguato nell’ombra, e predispone un’atmosfera in cui lo scam­ bio diretto di regali e beni commerciali può compiersi equa­ mente. C’è una logica nell’indebita tendenza a scambiarsi il cibo in modo generalizzato. Al pari dello scambio tra ricchi e poveri, o tra superiori e subalterni, dove c’è di mezzo deh cibo una maggio­ re propensione al sacrificio sembra semplicemente necessaria per mantenere il grado acquisito di socievolezza. La spartizione deve allargarsi a parenti più lontani, la reciprocità generalizzata esten­ dersi al di là di normali limiti settoriali. (Non bisogna dimenti­ care, sulla scorta delle Appendici ai precedenti paragrafi, che la generosità è caratteristicamente associata al traffico in cibo.) L’unica cosa socievole a farsi con il cibo è forse di regalarlo, e la contropartita proporzionata, dopo un intervallo di opportuno decoro, è il contraccambio di ospitalità o assistenza. Nel che _è implicito noni soltanto un equilibrio piuttosto incerto o imperfet­ to nel traffico alimentare, ma in particolare un limite agli scambi di cibo con altri beni. È interessante notare le ingiunzioni norma­ tive contro la vendita di cibo presso popoli in possesso di valute primitive, a esempio presso alcune tribù melanesiane e california­ ne. In questo caso lo scambio equilibrato è all’ordine del giorno. Pegni in denaro servono come equivalenti più o meno generali e sono scambiati con una varità di beni. Ma non con cibarie. All’interno di un ampio settore sociale dove il denaro surroga altri beni, i generi di prima necessità sono isolati dalle transa­ zioni pecuniarie e il cibo viene magari spartito ma raramente venduto. Il cibo ha uri valore sociale troppo grande - in defini­ tiva perché ha anche un grande valore d’uso - per avere valore di scambio. Il cibo non era in vendita. Lo si poteva regalare, ma essendo un “bene selvatico” non doveva essere venduto, secondo l’etichetta pomo. Si compravano e vendevano soltanto i manufatti: canestri, archi e frecce (Gifford, 1926, p. 329; cfr. Kroeber, 1925, p. 40, sugli Yurok — identica situazione). [Secondo i Tolowa-Tututni] il cibo era soltanto commestibile, non vendibile (Drucker, 1937, p. 241; cfr. DuBois, 1936, pp. 50-51). Le cibarie di prima necessità — taro, banane, noci di cocco — non sono mai vendute [dai Lesu], e vengono offerte, come atto di cortesia, a parenti, amici e stranieri di passaggio nel villaggio (Powdermaker, 1933, p. 195).

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Allo stesso modo, le cibarie di prima necessità venivano esclu­ se dal commercio equilibrato tra gli Eschimesi dell’Alasca: “Si aveva la sensazione che il commercio in cibo fosse riprovevole e perfino i cibi voluttuari che ci si scambiava tra mercanti veni­ vano ceduti in regalo e separatamente” (Spencer, 1959, pp. 204205). Sembrerebbe di poter dire che le comuni derrate alimentari hanno un “circuito di scambio” a parte, separato dai beni durevoli, in particolare dalla ricchezza. (Vedi Firth, 1950; Bohannan, 1955; Bohannan e'Dalton, 1962, sulle “sfere di scam­ bio”.) Moralmente e socialmente non può che essere così. Malgra­ do un’ampia gamma di rapporti sociali, transazioni (conversioni) equilibrate e dirette cibo/beni lacererebbero i vincoli solidaristici. Particolari categorizzazioni del cibo in contrapposizione ad altri beni, cioè alla “ricchezza”, ne esprimono la disparità sociologica e salvaguardano il cibo da raffronti disfunzionali del suo valore - come tra i Salish: Il cibo non era classificato come “ricchezza” [cioè, coperte, monili di conchiglia, canoe, ecc.]. Né lo si riteneva tale... “cibo sacro”, lo chiama­ va un informatore semiahmoo. Lo si doveva offrire spontaneamente, credeva, e non lo si poteva rifiutare. Evidentemente non si scambiava liberamente il cibo con la ricchezza. Una persona bisognosa di cibo poteva chiedere di acquistarne da un’altra famiglia della sua comunità, offrendo in cambio ricchezza, ma in genere il cibo non era offerto in vendita (Suttles, 1960, p. 301; Vayda, 1961).

Ma un’importante precisazione va subito fatta. Queste sfere. alimentari e non hanno fondamento e limiti spciologici. L’immor ralità delle conversioni cibo-ricchezza ha una dimensione setto­ riale: in un certo punto socialmente periferico i circuiti si amalga­ mano dissolvendosi. (In questo punto, lo scambio cibo-beni è un “trasferimento’’ nell’accezione di Bohannan e Dalton). Il cibo è intrasferibile in cambio di denaro o di altro bene all’interno della comunità o tribù, ma al di fuori di questi contesti sociali può essere scambiato su questa base, e non soltanto coattivamente ma anche consuetudinariamente. I Salish erano soliti portare cibo, “cibo sacro”, ai parenti affini di altri villaggi salish, rice­ vendone in cambio ricchezza (Suttles, 1960). Analogamente, i Pomo “acquistavano” da altre comunità - scambiandoli in ogni caso con perline - ghiande, pesce e simili necessità (Kroeber, 1925, p. 260; Loeb, 1926, pp. 192-193). La separazione dei cicli del cibo e della ricchezza è contestuale. All’interno delle comunità sono circuiti isolati, isolati dai rapporti comunitari;

RECIPROCITÀ equilibrata

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sono tenuti distanti dove una richiesta di contropartita sarebbe, in caso di beni indispensabili, in contraddizione con i rapporti parentali vigenti. Inoltre, nel settore intercomunitario o intertribale, l’isolamento del circuito alimentare può essere eroso dall’at­ trito della distanza sociale. (Le cibarie, per inciso, non sono di solito separate dal circui­ to dell’assistenza lavorativa. Al contrario, nella miriade di società "grìiriitive un pasto è l’usuale ricompensa del lavoro richiesto per l’orticoltura, l’edilizia e altre mansioni domestiche. Di “salari” 'nell’accezione invalsa non è il caso di parlare. Il dar da mangiare equivale a un allargamento straordinario ad altri parenti e amici dell’economia domestica. Più che un passo incerto verso il capita­ lismo, è forse meglio comprensibile in base a un principio in certo senso opposto: che coloro che partecipano allo sforzo pro­ duttivo vantano un qualche diritto sul suo risultato.)

Sulla

reciprocità equilibrata

Abbiamo visto la reciprocità generalizzata in azione in forme strumentali, in particolare come meccanismo di avviamento delle differenze di rango e anche, in forma di ospitalità, come mediatri­ ce di rapporti tra persone di comunità differenti. Analogamente, la reciprocità equilibrata trova impieghi_s^mentadi,.._sp.ecialmente, però, come contratto sociale formale. La reciprocità equili­ brata è il veicolo classico dei patti di pace e alleanza, sostanza-in-quanto-simbolo della trasformazione da interessi distinti ad ar­ monici. Le prestazioni di gruppo ne sono la forma spettacolare e forse tipica, ma esistono anche casi di contratto interpersonale suggellato da uno scambio. È utile qui ricordare la massima maussiana: “In queste società primitive e arcaiche non esiste via di mezzo... Due gruppi di uomini che si incontrano non possono che ignorarsi o, in caso di diffidenza o sfida, battersi o venire a patti.” E i patti devono essere equilibrati; i rapporti sono troppo tenui per tollerare a lungo una mancata contropartita - “ Gli Indiani notano certe cose” (Goldschmidt, 1.951, p. 338). Essi notano moltissime cose. Di fatto gli Indiani nomlaki di Goldschmidt articolano un’intera serie di glosse e parafrasi del principio maussiano; a esempio: Quando dei nemici si incontrano, si apostrofano. Se le intenzioni sono amichevoli si, fanno più dappresso e dispiegano i propri beni. Uno getterà

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qualcosa nel mezzo, uno dell’altra parte vi getterà qualcosa in cambio riprendendosi l’articolo scambiato. È gli scambi continuano finché una delle parti ha esaurito la propria scorta. Chi è rimasto con qualcosa in mano si prende gioco di chi è rimasto a mani vuote, vantandosene... Questo commercio avviene sulla linea confinaria (Goldschmidt, 1951, p. 338).

Reciprocità equilibrata è la disposizione a contraccambiare ciò che si è ricevuto. In ciò sembra risiedere la sua efficacia di con­ tratto sociale. La raggiunta equivalenza, o quantomeno una certa ricerca di equilibrio, è una chiara abdicazione all’egoismo da en­ trambe le parti, una rinuncia a intenzioni ostili o all’indifferenza a favore della reciprocità. Rispetto al preesistente contesto di sepa­ ratezza, l’equilibrio materiale significa un nuovo stato di cose. Ciò non per negare che la transazione sia conseguente in senso utilitaristico, come può benissimo essere - e l’effetto sociale ma­ gari combinato a uno scambio equo di differenti necessità. Ma, quale che sia il valore utilitaristico, non indispensabile del resto, non manca mai una finalità “etica”, come Radcliffe-Brown ebbe ad osservare di certe transazioni andamane: “Per creare un senso di amicizia... e in caso contrario veniva meno al suo scopo.” Tra i vari tipi di contratto perfezionati, per così dire, da uno scambio equilibrato, i più comuni sembrano i seguenti. Amicizia o parentela formale

Si tratta di patti interpersonali di solidarietà, pegni di fra; tellanza in certi casi, di amicizia in altri. L’alleanza può essere suggellata dallo scambio di beni identici, il complemento mate­ riale di un qualche scambio di identità, ma in ogni caso la tran­ sazione tende all’equilibrio é si scambia un rapporto di paren­ tela lontano con uno stretto (a esempio, Pospisil, 1958, pp. 8687; Seligman, 1910, pp. 69-70). Un’associazione, così formatasi, può benissimo con il tempo diventare più socievole, e le future transazioni affiancare e favorire questa tendenza diventando più generalizzate. Omologazione di alleanze di gruppo

Si possono inserire in questa categoria i vari festeggiamenti e intrattenimenti che comunità e gruppi locali amici si offrono reciprocamente, come certe cerimonie interclaniche negli altipiani della Nuova Guinea o festività sociali tra villaggi nelle Samoa o i n Nuova Zelanda.

pacificazione _gi tratta degli scambi di pacificazione, di cessazione di una di­ sputa, falda, o, guerra. Ostilità sia interpersonali che collettive possono così essere tacitate da uno scambio. “ ‘A parità rag­ giunta’, i litiganti abeìam sono soddisfatti: ‘le chiacchiere muoio­ no lì’” (Kaberry, 1941-42, p. 341). Questo è il principio ge­ nerale. Potremmo includere in questa categoria i pagamenti di guidri­ gildo, le indennità di adulterio e altre forme di compensazione di una offesa, nonché gli scambi che pongono termine a una guerra. Essi si basano tutti sullo stesso principio generale del fair trade. (Spencer fornisce un interessante esempio eschimese: quando un uomo riceveva l’indennizzo dal rapitore della moglie, i due “inevitabilmente” diventavano amici, scrive, “perché con­ cettualmente avevano effettuato un mercato” [1959, p. 81]. Vedi anche Denig, 1928-29, p. 404; Powdermaker, 1933, p. 197; Williamson, 1912, p. 183; Deacon, 1934, p. 226; Kroeber, 1925, p. 252; Loeb, 1926, pp. 204-205; Hogbin, 1939, pp. 79, 91-92; ecc.). Alleanza coniugale Le prestazioni matrimoniali sono, naturalmente, la forma clas­ sica di scambio come contratto sociale. Ho ben poco da aggiun­ gere al comune dibattito antropologico, tranne un’insignificante precisazione sul carattere della reciprocità in queste transazioni, forse anch’essa superflua. Talvolta, tuttavia, è fuori luogo considerare lo scambio coniu­ gale una prestazione in perfetto equilibrio. Spesso le transazioni matrimoniali, e forse anche l’eventuale scambio futuro tra affini, non sono esattamente pari. Tanto per cominciare, un’asimmetria qualitativa è normale: si scambiano donne con zappe o bestiame, toga con oloa, pesce con maiali. In assenza di una convertibi­ lità “profana”, o di mutuo standard di valore, il trasferimento sembra in qualche misura interessare beni incomparabili; né equivalente né totale, la transazione può essere di beni incommen­ surabili. In ogni caso, e perfino quando si scambia lo stesso gene­ re di beni, si può pensare che una delle parti ne tragga un indebi­ to vantaggio, almeno momentaneamente. Questa assenza di un preciso equilibrio è socialmente essenziale. Infatti, un beneficio diseguaìe sorregge l’alleanza come sarebbe impensabile in caso di perfetto equilibrio. In verità, gli interessati

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- e/o l’etnografo - potrebbero riflettere sul fatto che a tempo debito i conti tra affini si equilibrano. Oppure guadagni e perdite possono essere cancellati da schemi di alleanza circolari o stati­ stici. Oppure un certo equilibrio di beni, almeno, può realizzarsi nell’economia politica totale, dove il flusso ascendente di paga­ menti (contro un flusso discendente di donne) attraverso una serie di lignaggi gerarchizzati è ribaltato dalla ridistribuzione dal vertice (cfr. Leach, 1951). Tuttavia, è socialmente cruciale che per un certo periodo, e magari definitivamente, lo scambio tra due gruppi uniti da un matrimonio non sia stato equilibrato. Essendo i beni trasferiti di qualità differente, sarà sempre diffi­ cile calcolare che le parti siano “in pareggio”, il che socialmente è un bene. Lo scambio simmetrico o inequivocabilmente pari­ tario comporta alcuni svantaggi dal punto di vista dell’allean­ za:cancella i .debiti offrendo l’occasione di disimpegnarsi .Se nessuna delle parti è “ in debito ”, allora il vincolo reciproco è relativamente fragile. Ma se i conti non tornano, allora il rap­ porto si mantiene in virtù dell’"ombra dell’indebitamento”, e non potranno mancare ulteriori occasioni di associazione, magari in occasione di ulteriori pagamenti. Inoltre, ovviamente, uno scambio asimmetrico di beni differen­ ti si presta a un’alleanza che sia complementare. Il vincolo coniu­ gale tra gruppi non è sempre, e forse neppure in genere, una specie di associazione paritaria tra parti omologhe. Un gruppo cede una donna, un altro se la prende; in un contesto patrilineare, coloro che ricevono la sposa si garantiscono una continuità, a spese in parte di coloro che la cedono, almeno in questa occa­ sione. È avvenuto un trasferimento differenziale: i gruppi sono socialmente legati in modo complementare e asimmetrico. Analo­ gamente, in un sistema gerarchico di lignaggi l’offerta delle donne può essere un corollario della serie di rapporti tra superio­ ri e subalterni. Ora, in questi casi, i diversi diritti e doveri di alleanza sono simboleggiati dal carattere differenziale dei trasferimenti, sono legati a simboli complementari. Ancora una volta prestazioni asimmetriche garantiscono l’alleanza comple­ mentare come non potrebbero prestazioni perfettamente equili­ brate, simmetriche o totali. La comune concezione superficiale della reciprocità presuppo­ ne uno scambio abbastanza diretto .uno-contro-uno, una recipro­ cità equilibrata o una rigorosa approssimazione dell’equilibrio. Non è quindi inopportuno corredare questa discussione di una doverosa obiezione: che nella gran massa delle società primitive.

reciprocità equilibrata

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tenendo conto delle transazioni sia diretl^ente^utilitaristiche che strumentali, la_reciprocijA._^uiHbxat^non„èja. forma_prey alente di scambio. È perfino discutibile la stabilità della reciprocità equilibrata. LoLscanibio> equilibratotende in genere airautoeliminazione. Da un lato, una serie di traffici dignitosamente equili­ brati tra parti relativamente distanti genera fiducia e confiden­ za, e riduce in effetti la distanza sociale, aumentando così le probabilità di traffici futuri più generalizzati - poiché l’iniziale transazione in quanto patto di fratellanza crea, per così dire, una “apertura di credito”. Dall’altro, un rifiuto agisce nel senso di recidere i rapporti - poiché una mancata contropartita spezza un’associazione commerciale - quando non esorta in cambio all’inganno. Concluderemo allora che la reciprocità equilibrata è intrinsecamente instabile? O che forse sono necessarie particolari condizioni perché si perpetui? Il profilo societario della reciprocità, in ogni caso, molto pro­ pende verso modi generalizzati. Nei gruppi più semplici di cac­ ciatori l’assistenza generalizzata della parentela stretta sembra in genere dominare, integrata nei chiefdom neolitici dagli obblighi gerarchico-parentali. Esistono, nondimeno, società di un certo tipo in cui lo scambio equilibrato, se non propriamente domi­ nante, acquista un’insolita prominenza. Società che rivestono un grande interesse, non soltanto per il risalto della reciprocità equilibrata, ma per i fenomeni collaterali. Il famoso “scambio di lavoro” nelle comunità dell’entroterra dell’Asia sudorientale ce le riporta immediatamente alla mente. Ecco una serie di popoli che, paragonati alla media delle società primitive, presentano, nell’economia come nella struttura sociale, anomalie che non possono mancare di suscitare un certo interesse. Appartengono a questa categoria i ben descritti Iban (Freeman, 1955, 1960), Land Dayak (Geddes, .1954, 1957; cfr. Provinse, 1937) e Lamet (Izikowitz, 1951) - come forse anche alcune popolazioni filippine, anche se ho dei dubbi sui limiti di applica­ bilità ai Filippini dell’analisi qui di seguito proposta. Ora, queste società sono particolari non soltanto per le insolite caratteristiche interne dell’economia, ma anche per i singolari rapporti esterni - singolari in un ambiente assolutamente primiti­ vo. Si tratta di entroterra legati da un minuscolo commercio - e forse anche dall’egemonia politica (a esempio, i Lamet) - a centri culturali più sofisticati. Dal punto di vista dei centri progrediti, sono zone depresse utilizzabili come fonti secondarie di riso e altri beni (cfr. VanLeur, 1955, specialmente pp. 101 sgg.), mentre

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dal punto di vista di queste zone l’aspetto cruciale del rapporto interculturale è che il prodotto vitale, il riso, è esportato in cambio di denaro contante, utensili in ferro e beni voluttuari, molti dei quali costosissimi. L’ipotesi che avanzo - con tutta la deferenza doverosa da parte di chi non ha esperienza di ricerca nella zona - è che il peculiare carattere socio-economico delle tribù dell’entroterra dell’Asia sudorientale sia congruente con questa insolita allocazione delle eccedenze alimentari domesti­ che. La conseguenza di un commercio esterno di riso non è soltan­ to un divieto interno di spartirlo, o una corrispondente esigenza di quid-pro-quo nei traffici intracomunitari, ma una differenzia­ zione dalle comuni caratteristiche della distribuzione primitiva. Il legame con il mercato pone un'esigenza-chiave minima: che i rapporti interni comunitari consentano un’accumulazione domestica di riso, affinché siano disponibili le quantità necessarie per lo scambio esterno. Questa clausola deve valere in presenza di modi incerti e limitati di produzione risicola. Le unità dome­ stiche fortunate non possono farsi carico di quelle sfortunate; se si favorisce un livellamento interno, allora i rapporti commer­ ciali esterni sono semplicemente penalizzati. L’insieme di conseguenze per l’economia e il sistema politico delle comunità tribali dell’entroterra sembra includere: 1) diffe­ renti unità domestiche, in virtù delle variazioni della proporzione e del numero di produttori effettivi, accumulano differenti quan­ tità della derrata di base esportabile. Le differenze produttive sono comprese in un arco che va da un eccesso rispetto al fabbi­ sogno alimentare familiare a un disavanzo. Differenze che, però, non sono annullate dalla spartizione a favore dei bisognosi. Inve­ ce 2) l’intensità della spartizione all’interno del villaggio o tribù è bassa, e 3) il principale rapporto di reciprocità tra unità dome­ stiche è uno scambio equilibrato, accuratamente calcolato, di servizi lavorativi. Come osserva Geddes a proposito dei Land Dayak: “... la cooperazione al di là dell’unità domestica, tranne che in settori dove ogni servizio deve avere una pari contropar­ tita, si mantiene a livelli bassi’’ (1954, p. 34). Uno scambio lavorativo equilibrato, naturalmente, consolida il vantaggio pro­ duttivo (la capacità di accumulazione) della famiglia con lavo­ ratori più adulti. Gli unici beni che tradizionalmente si spostano in una reciprocità generalizzata sono la selvaggina e forse animali domestici sacrificati nelle cerimonie familiari. Questi beni sono ampiamente distribuiti nella comunità (cfr. Izikowitz, 1951), per quanto dipende dai cacciatori, ma la spartizione della carne è

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meno decisiva, nella strutturazione dei rapporti interfamiliari, della mancata spartizione decretata dall’esportazione di generi di prima necessità. 4) Perfino la convivialità domestica può essere rigidamente sorvegliata, soggetta al computo della razione di riso di ognuno nell’interesse della creazione di una riserva scam­ biabile, quindi meno socievole della comune convivialità primiti­ va (si confronti, a esempio, Izìkowitz, 1951, pp. 301-302 con Firth, 1936, pp. 112-116), 5) La ridotta spartizione di generi di prima necessità, richiesta dall’articolazione con il mercato che funge da sifone, trova il suo complemento sociale in un’atomiz­ zazione e frammentazione della struttura comunitaria. Lignaggi, o analoghi sistemi di estesi e collettivi rapporti solidaristici, sono incompatibili con il salasso esterno delle derrate domestiche e il relativo atteggiamento egoistico necessario di fronte alle altre unità domestiche. Grandi gruppi locali di discendenza sono assen­ ti o incongruenti. Al contrario, i rapporti solidali sono tipici della famiglia ristretta, in quanto l’unico tessuto connettivo tra unità domestiche è costituito da vari e mutevoli legami paren­ tali interpersonali. Legami parentali estesi che, economicamente, sono deboli: Un’unità domestica non è soltanto un’entità distinta, ma un’unità che bada ai fatti propri. E non può agire altrimenti, perché non ha con le altre unità domestiche rapporti formali, sanzionati dal costume, su cui contare come sostegno. Anzi, l’assenza di rapporti strutturali di questo tipo è una condizione della società nella sua attuale organizzazione. Nelle principali questioni economiche, la cooperazione ha base contrattuale e non principalmente parentale... In conseguenza di questa situazione, i le­ gami che le persone hanno con gli altri membri della comunità tendono a essere diffusi, ma limitati, spesso eccessivamente, quanto a sentimento e socievolezza (Geddes, 1954, p. 42).

6) Il prestigio evidentemente dipende dall’ottenimento di oggetti esotici - ceramiche cinesi, gong di ottone, ecc. - in cambio di riso o lavoro. II prestigio non si basa, né ovviamente potrebbe, sulla generosa assistenza ai propri simili alla maniera di un big-man tribale. I beni esotici figurano internamente come oggetti da sfoggiare cerimonialmente e nelle prestazioni matrimo­ niali - per cui, nella misura in cui lo status vi è legato è prin­ cipalmente sotto forma di possesso e di capacità di effettuare pagamenti, e non, ancora una volta, per il fatto di farne dono. (“La ricchezza non aiuta un individuo a diventare un capo perché lo mette in condizione di essere munifico. Raramente l’opulenza predispone un Dayak alla carità, benché possa predi-

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sporlo all’usura” [Geddes, 1954, p. 50]. Nessuno quindi impe­ gna altri indissolubilmente. Nessuno crea seguaci. Di conseguen­ za, non esistono leader potenti, un fatto che probabilmente con­ tribuisce all’atomizzazione della comunità e può ripercuotersi sull’intensità dell’uso della terra [cfr. Izikowitz, 1951].) In queste comunità dell’Asia sudorientale, il prevalere di una reciprocità equilibrata sembra legata a particolari circostanze. Del resto, sono le circostanze stesse a indicare che è illegittimo inse­ rire questi popoli nell’attuale contesto dell’economia tribale. Per lo stesso motivo, la loro utilizzazione nel dibattere problemi di economia primitiva - a esempio, Geddes usa i Land Dayak per mettere in discussione il “ comuniSmo primitivo ” - non sembra af­ fatto pertinente. Forse è meglio classificarli con i popoli contadini - purché con ciò non si intenda, come malauguratamentespesso accade sotto l’etichetta della “antropologia economica”, che “con­ tadino ” e “primitivo " appartengono a un tipo indifferenziato di economia che si distingue in negativo come tutto ciò che è al di fuori della sfera. dell’analisi economica ortodossa. Esistono comunque incontestabili esempi di enfasi societaria in fatto di reciprocità equilibrata in contesti primitivi. Ne sono una prova le monete primitive utilizzate come mezzi di scambio a tassi più o meno fissi. Monete che equivalgono agli speciali meccanismi ipotizzati per mantenere l’equilibrio. È utile indagare sulla loro incidenza e sui fattori socio-economici concomitanti. Tuttavia, non bisogna avventurarsi.su^q.uesto terreno senza una definizione formale della “(moneta primitiva"1, un problema che assomiglia a.un classico dilemmFdell’écoriomia comparata. Per un verso, ogni cosa che abbia un “uso monetario” - per quanti se ne conoscano: pagamenti, scambio, misura di valore, ecc. - può passare per “ denaro”. In tal caso, probabilmente ogni società gode dei dubbi benefici, giacché una qualche categoria di beni è in genere accantonata per certi pagamenti. L’alternativa è meno relativistica e sembra perciò più utile per generalizzazioni compa­ rate: accordarsi su un uso e qualità minimi dell’oggetto. La strate­ gia, come suggerisce Firth, non è di domandarsi: “Che cos’è il_ denaro primitivo?’’ ma: “Che cos’è utile includere nella catego­ ria del denaro primitivo? ” (1959, p. 39). lì suo specifico sug­ gerimento, che, a quanto capisco, si impernia sulla funzione di mezzo di scambio, sembra in verità effettivamente utile. (“È mia opinione che perché un oggetto sia di diritto classificato come moneta, esso debba essere di un tipo generalmente accetta­ bile, servendo a facilitare la conversione di un oggetto o servi-

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zio nei termini di un altro e quindi vada usato come misura di va­ lore” [Firth, 1959, pp. 38-39].) Si intendano con “moneta” quegli oggetti delle società primi­ tive che hanno valore simbolico più che valore d’uso e che servo­ no come mezzi di scambio. L’uso di scambio è limitato a certe categorie di oggetti - terra e lavoro ne sono comunemente esclu­ si - ed è fatto valere soltanto tra le parti di un certo rapporto sociale. Nel complesso serve come raccordo indiretto tra beni (M-D-M') più che assolvere a fini commerciali (D-M-D'). Entro questi limiti sarebbe giustificata l’espressione “denaro primiti­ vo”. Se tutto ciò è accettabile, appare anche che gli sviluppi primordiali del denaro primitivo non sono largamente diffusi sulla scena etnografica ma circoscritti a certe aree: in particolare Melanesia occidentale e centrale, California aborigena, e certe zone della foresta tropicale sudamericana. (Le monete possono anche essersi sviluppate in contesti primordiali in Africa, ma non sono abbastanza esperto per districare la loro distribuzione dalle civiltà arcaiche e dall’antico commercio “internazionale”.) Il che significa anche che il denaro primitivo è associato a un tipo storicamente specifico di economia primitiva, un’economia con una marcata incidenza di scambio equilibrato nei settori so­ ciali periferici. Non è un fenomeno delle semplici culture di cac­ ciatori - se mi si consente, culture a livello di banda. Né il denaro primitivo è caratteristico dei chiefdom più progrediti, dove i pegni di ricchezza, benché certamente presenti, tendono ad avere un peso limitato nello scambio. Le regioni indicate - Me­ lanesia, California, foresta tropicale sudamericana - sono (o era­ no) occupate da società di tipo intermedio, quali sono state defi­ nite “tribali” (Sahlins, 1961; Service, 1962) o "omogenee” e “tribù segmentate” (Oberg, 1955). Esse si distinguono dai siste­ mi di banda non soltanto per condizioni di vita più stabili spesso associate a una produzione neolitica invece che paleolitica - ma principalmente per una più ampia e complessa organizza­ zione tribale dei raggruppamenti locali costitutivi. I diversi inse­ diamenti locali delle società tribali sono legati tra loro sia da un nesso di rapporti parentali che da istituzioni sociali trasver­ sali, quale una serie di clan. Tuttavia gli insediamenti, relati­ vamente piccoli, sono autonomi e indipendenti, una caratteristi­ ca che a sua volta distingue la pianta tribale da quella di un chiefdom. I segmenti locali di quest’ultimi sono integrati in siste­ mi politici più ampi, come divisioni e suddivisioni, in virtù dei principi di rango e di una struttura di chieftainship e sottochief-

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tainship. La pianta tribale è puramente segmentale, il chiefdom piramidale. Questa classificazione evoluzionistica di tipi socioculturali è, lo riconosco, approssimativa. Spero che non insorgano questioni al riguardo, dato che è stata presentata semplicemente per richia­ mare l’attenzione sulle contrastanti caratteristiche strutturali delle aree del denaro primitivo. Si tratta proprio del genere di caratte­ ristiche che, stante .il discorso precedente, indicano un’insolita incidenza di reciprocità equilibrata. Una maggiore azione dello scambio equilibrato nelle società tribali rispetto a quello di banda è dimostrato in parte da una maggiore proporzione di oggetti artigianali e servizi nella produzione economica societaria. Le derrate alimentari, pur rimanendo la parte decisiva di una produ­ zione economica tribale, passano relativamente in secondo piano. Crescono le transazioni in beni durevoli, in genere più equilibrate delle transazioni alimentari. Ma più importante, la proporzione di scambio del settore periferico, l’incidenza di scambio tra persone meno direttamente imparentate, tende a essere notevol­ mente maggiore nelle società tribali. Il che è comprensibile in relazione alla pianta segmentale più definita delle tribù, e quindi anche alle più definite fratture (breaks) settoriali della struttura sociale. I diversi segmenti residenziali delle tribù sono, al confronto, stabili e formalmente costituiti. E una solidarietà politica integra­ ta è tanto caratteristica del segmento tribale quanto assente nelle flessibili sistemazioni di accampamento e banda dei caccia­ tori. La struttura segmentale tribale è anche più estesa, includen­ do forse i raggruppamenti interni di lignaggio nei segmenti po­ litici, la serie (e talvolta le sottoserie segmentali) di segmenti politici, e la divisione tribù/straniero. Ora, la crescita rispetto all’organizzazione per bande avviene particolarmente nella strut­ tura periferica, nello sviluppo dei settori intratribali e intertribali. È qui che i rapporti di scambio aumentano, siano essi strumentali, scambi di pacificazione, o rapporti schiettamente ma­ terialistici. Lo scambio quindi cresce nelle aree sociali di recipro­ cità equilibrata. Un chiefdom, ulteriore contrasto, liquida ed espelle i settori periferici trasformando i rapporti esterni in interni, includendo gruppi locali limitrofi all’interno di enclaves politiche unitarie. Al tempo stesso, l’incidenza della reciprocità equilibrata ne sof­ fre, in virtù della “interiorizzazione” dei rapporti di scambio e della loro centralizzazione. Con il raggiungimento di un livello

reciprocità equilibrata

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di chiefdom, gli scambi equilibrati dovrebbero perciò diminuire a favore di scambi più generalizzati. L’implicazione per da moneta, primitiva è forse illustrata dalla sua assenza nelle'Trobriand, nonostante quest’isola di chiefdom sia situata in un mare di tribù che usano il denaro, o dalla progressiva attenuazione dell’uso delle perline di conchiglia come moneta di scambio procedendo verso nord dalla California tribale al protochiefdom della Co­ lumbia britannica. L’ipotesi circa il denaro primitivo - presentata con la debita cautela e deferenza - è questa: si manifesta unitamente a un’insolita incidenza della reciprocità equilibrata nei settori sociali perife­ rici. Presumibilmente facilita l’intenso traffico equilibrato. Le condizioni che favoriscono il denaro primitivo hanno ottime probabilità di verificarsi nella gamma di società, primitive dette “tribali” mentre difficilmente sono assecondate da un’evoluzione per bande o chiefdom. Ma una precisazione è subito necessaria. Non tutte le tribù creano le condizioni per uno sviluppo moneta­ rio e certamente non tutte fruiscono della moneta primitiva, nell’accezione del termine qui usata. Infatti, la potenzialità di scambio periferico è valorizzata al massimo soltanto da alcune tribù. Altre rimangono relativamente ripiegate verso l’interno. Innanzitutto, i settori periferici diventano gli scenari di un intenso scambio congiuntamente a una simbiosi regionale e intertribale. Un regime ecologico zonale di tribù specializzate, le cui rispettive famiglie e comunità siano in rapporti commerciali, è probabilmente una condizione necessaria per il denaro primi­ tivo. Regimi siffatti sono caratteristici della California e della Melanesia - quanto all’America Latina mi riservo il giudizio - ma in altri contesti tribali la simbiosi non è caratteristica e il settore commerciale intertribale (o interregionale) relativamente sotto­ sviluppato. Forse altrettanto importanti sono le circostanze che favoriscono uno scambio dilazionato e quindi quei pegni che immagazzinino valore nell’intervallo trascorso. Le produzioni di comunità interdipendenti, a esempio, possono essere inevitabil­ mente sfasate nel tempo - come tra popolazioni costiere e interne, dove un carico di pesce commerciabile non sempre può essere controbilanciato da prodotti interni complementari. In questo caso, una valuta accettabile per entrambe le parti agevola enorme­ mente l’interdipendenza - per cui, a esempio, perline di conchi­ glie, scambiate con il pesce in una data occasione, possono essere convertite in ghiande in un’altra (cfr. Vayda, 1954; Loeb, 1926). Anche i sistemi big-man di leadership, a quanto si evince

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dalla Melanesia, possono rendere funzionale uno scambio equili­ brato dilazionato. Il big-man tribale opera su un fondo di potere consistente in cibo, maiali o beni simili che hanno in comune la qualità di essere difficilmente custodibili in grandi quantità per lunghi periodi. Ma, contemporaneamente, i congegni impositivi (extractive) per accumulare questi fondi politici sono sottosvi­ luppati, e la raccolta di beni per una distribuzione finale deve essere graduale e quindi tecnicamente difficile. Il dilemma è risol­ vibile con manipolazioni monetarie: convertendo la ricchezza in pegni e mediante una calcolata allocazione del denaro in pre­ stiti e scambi, di modo che verrà il momento in cui è possibile una richiesta massiccia di beni e l’intero fondo di ricchezza, distribuito, può essere convertito in status.

Una postilla È difficile concludere con un’impennata drammatica. Il saggio non ha una struttura drammatica - il suo andamento sembra nel complesso discendente. E un riassunto sarebbe inutilmente ripetitivo. Ma c’è una curiosità degna di nota. Si è abbozzato sull’econo­ mia un discorso in cui l’“economizzare” appare nel complesso come un fattore esogeno! I principi informatori dell’economia sono stati ricercati altrove. Nella misura in cui sono stati repe­ riti al di fuori di una presunta inclinazione edonistica dell’uomo, si propone una strategia per lo studio dell’economia primitiva che è in parte l’opposto dell’ortodossia economica. Può essere utile vedere dove questa eresia andrà a parare.

APPENDICE A

Appunti su reciprocità e distanza parentale

A.1.0. Cacciatori e raccoglitori In generale, si notano fratture set­ toriali nella reciprocità non sempre definite come nel caso dei popoli neolitici, ma è evidente la variazione di reciprocità in base alla di­ stanza parentale interpersonale. Spesso la reciprocità generalizzata consta di specifici obblighi di restituire beni a certi parenti (obbli­ ghi parentali) più che di assistenza altruistica. Notevoli differenze nel modo di trattare cibi e beni durevoli. A. 1.1. Boscimani II termine kung per mancanza di generosità o mancata contropartita è “senza cuore” - un’espressione indovinata, dal nostro punto di vista. Tre punti di rottura socio-materiali nella reciprocità sono evidenti nel saggio di Marshall (1961) sullo scambio kung: 1) una sfera di parenti stretti nell’accampamento con i quali si spartisce la carne, spesso come obbligo consuetudinario; 2) parenti più lontani nel­ l’accampamento e altri Boscimani, i rapporti economici con i quali sono caratterizzati dalla “donazione” di beni durevoli in una maniera più equilibrata e da transazioni in carne che si avvicinano a una “donazione”; 3) “commercio” con i Bantu. I materiali di Marshall sono ricchi e indicano l’interazione di varie considerazioni e sanzioni sociali che determinano le specifiche transazioni. La selvaggina grossa si muove attraverso l’accampamento in diverse ondate. Inizialmente è messa in comune nella squadra di cacciatori dal raccoglitore (taker), con parti che vanno anche all’arciere. “Nella seconda distri­ buzione [qui entriamo nella reciprocità vera e propria] la parentela stretta è il fattore che decide del modulo di donazione. Certi obblighi sono imperativi. Il primo obbligo di un uomo, a questo punto, ci dissero, è di donare ai genitori della moglie. Egli deve dare loro il meglio in suo possesso in porzioni quanto più generose possibili, pur ottemperando ad altri obblighi primari, che competono ai prò-

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pri genitori, alla sposa e alla prole [si noti: costoro cucinano e man­ giano la carne separatamente]. Si tiene al momento una parte per sé, da cui farà dono ai propri fratelli, ai fratelli della moglie, se sono presenti, e ad altri parenti, affini e amici presenti, possibilmente per allora soltanto in piccole quantità. Chiunque riceva carne la ridà, in un’altra ondata di spartizione,, ai genitori propri e della moglie, suoceri, consorti, prole, fratelli, ecc. La carne può essere cucinata e le quantità possono essere piccole. Gli ospiti, anche se non sono parenti stretti o affini, ricevono carne dalle persone cui fanno visita” (Marshall, 1961, p. 238). Al di là della sfera dei parenti stretti, l’offerta di carne è una questione di inclinazione individuale in cui entrano in gioco amicizia, obbligo di ricambiare passati favori e altre considerazioni. Ma questa offerta è certamente più equilibrata: “Nelle successive ondate di spartizione quando si sia adempiuto alla distribuzione primaria e agli obblighi parentali primari, l’offerta di carne dalla propria porzione ha il carattere di donazione. La società kung a questo punto non esige altro che una persona doni con ragio­ nevole generosità proporzionalmente a quanto ricevuto senza tenersi alla fine più di una quantità equa per sé, e che la persona che riceve un dono di carne contraccambi con un dono a sua volta in una qual­ che futura occasione” (p. 239). Marshall riserva la “donazione” allo scambio di beni durevoli, che si verifica anche, e significativamente, tra differenti bande di Kung. Doni che non bisognerebbe mai rifiu­ tare o mancare di contraccambiare. Gran parte della donazione è strumentale, avendo principalmente effetti sociali. Perfino la richiesta di un oggetto, asseriva un tale, “formava un amore” tra persone. Significa: “Continua ad amarmi, ecco perché ne fa richiesta.” E Marshall aggiunge laconicamente: “Quantomeno forma un qualcosa tra persone, pensai” (p. 245). La “donazione" si distingue dal “commercio” sia nella forma di reciprocità che nel settore sociale. “Nel ricambiare [un dono] non si restituisce lo stesso oggetto ma un qualcosa di valore paragonabile. L’intervallo temporale tra ricezione e contraccambio variava da alcune settimane ad alcuni anni. Le buone maniere esigono che non ci sia una fretta sconveniente. La do­ nazione non deve sembrare un commercio” (p. 244). La meccanica del commercio non è specificata. Si parla, tuttavia, di “negoziazione”, il che implica un mercanteggiamento. La sfera sociale è comunque chiara: “I Kung non commerciano tra di loro. Considerano il pro­ cedimento non dignitoso e ne rifuggono perché troppo facilmente suscita rancori e antipatie. Tuttavia, commerciano con i Bantu, negli insediamenti lungo il confine... Le difficoltà sorgono nel commercio con i Bantu. Grossi, aggressivi, decisi a ottenere ciò che vogliono, è facile che intimoriscano i Boscimani. Parecchi informatori kung mi dissero che cercavano di non commerciare con gli Herero se non era strettamente necessario perché, se i Tswana erano negoziatori infles­ sibili, gli Herero lo erano ancora di più” (p. 242).

appendice a

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Un’intensa reciprocità generalizzata negli accampamenti e bande boscimani - specialmente spartizione di cibò - è indicato anche da Thomas (1959, pp. 22, 50, 214-215) e Schapera (1930, pp. 98-101, 148). Lo scambio tra bande, comunque, è definito “baratto” da Schapera (1930, p. 146; c£r. il divertente aneddoto di Thomas sui dissapori che sorsero tra un uomo e una donna di differenti gruppi per un dono non ricambiato fatto al padre del primo dal padre della donna [1959, pp. 240-242]). Furto documentato ignoto a loro (Marshall, 1961, pp. 245-246; Thomas, 1959, p. 206). Tuttavia, Schapera ne sottointende l’esisten­ za (1930, p. 148).

A.1.2. Pigmei congolesi In generale, lo schema di reciprocità è assai simile a quello dei Boscimani, compreso uno scambio piuttosto impersonale con “Negri” (Putnam, 1953, p. 322; Schebesta, 1933, p. 42; Turnbull, 1962). Il bottino di caccia, in particolare la grossa selvaggina, è spartito nell’accampamento, apparentemente in base alla distanza parentale. Putnam sottointende che prima è la famiglia a spartire, poi il “gruppo familiare” a ottenere le porzioni (1953, p. 332; cfr. Schebesta, 1933, pp. 68, 124, 244). A.1.3. Washo “La spartizione vigeva a ogni livello dell’organizza­ zione sociale washo. Spartizione che decresceva con il crescere della distanza parentale e residenziale” (Price, 1962, 37). È difficile dire dove il “commercio” cessi e cominci la “donazione”, ma “nel commercio si tendeva a ricambiare immediatamente mentre lo scam­ bio di doni spesso implicava un intervallo di tempo. Il commercio tendeva anche a essere competitivo e a crescere in presenza di vincoli sociali meno stretti. Il commercio comportava un’esplicita negozia­ zione e la condizione sociale era un fattore secondario della transa­ zione” (p. 49).

A. 1.4. Semang Netta frattura settoriale nella reciprocità ai limiti del “gruppo familiare” (banda): “Ogni famiglia viene in aiuto con il proprio cibo, già cucinato e preparato, a ogni altra famiglia. Se una famiglia in un particolare giorno è eccezionalmente ben fornita, dona generosamente a tutte le famiglie imparentate, anche se rimane quasi a mani vuote. Se nell’accampamento ci sono altre famiglie non ap­ partenenti al gruppo, esse non partecipano alla distribuzione se non in misura limitatissima” (Schebesta, s.d., p. 84).

A.1.5. Andamanesi II resoconto di Radcliffe-Brown (1948) indica un superiore livello di reciprocità generalizzata all’interno del grup­ po locale, in particolare nei traffici alimentari e nelle transazioni

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tra generazioni di giovani e anziani (cfr. pp. 42-43), e forme più equilibrate di reciprocità tra persone di differenti bande, in particolare nei beni durevoli. Lo scambio di regali è caratteristico degli incontri tra bande, uno scambio che può ridursi al baratto di specialità locali. In questo settore “occorre una buona dose di tatto per evitare il risentimento che può sorgere se una persona pensa di aver ricevuto oggetti di un valore minore di quelli donati” (p. 43; cfr. pp. 83-84; Man, s.d., p. 120). A. 1.6. Aborigeni australiani Hanno numerosi obblighi parentali formali, imperativi, nonché ordini formali di precedenza nella spar­ tizione del cibo e di altri beni con parenti dell’accampamento (vedi Elkin, 1954, pp. 110-111; Meggitt, 1962, pp. 118, 120, 131, 139, ecc.; Warner, 1937, pp. 63, 70, 92-95; Spencer e Gillen, 1927, p. 490). C’è anche un forte obbligo di spartire il cibo nell’orda (Radcliffe-Brown, 1930-31, p. 438; Spencer e Gillen, 1927, pp. 37-39). Lo scambio yir-yiront sembra equivalente allo schema boscimano (sopra). Sharp osserva che la reciprocità varia da entrambe le parti dei tradizionali obblighi parentali, tendendo all’equilibrio e alla reci­ procità generalizzata nella ristrettissima sfera dei parenti stretti. Donare a persone al di fuori della sfera di quelle che ne hanno di­ ritto “equivale a uno scambio coatto... Ma esiste anche una offerta irregolare, sebbene in una sfera sociale relativamente ristretta, i cui incentivi sembrano essere principalmente affettivi, e che può conside­ rarsi altruistica; il che può far desiderare di arricchirsi per poter regalare” (Sharp, 1934-35, pp. 37-38). Sulla connessione tra assistenza e parentela stretta, Meggitt osser­ va dei Walbiri che “...un uomo che abbia parecchie lance se ne separa volentieri; ma se ne avesse soltanto una il figlio o il padre non dovrebbero chiedergliela. In caso di richiesta, l’uomo di solito dà l’unico articolo a un padre o figlio effettivo o stretto, mentre dice di no a lontani ‘padri’ e ‘figli’ ” (Meggitt, 1962, p. 120). La reciprocità equilibrata, in varie forme specifiche, è caratteristi­ ca del ben noto scambio mercantile tra bande e tribù, che è spesso effettuato da partner commerciali che sono parenti classificatori (vedi, a esempio, Sharp, 1952, pp, 76-77; Warner, 1937, pp. 95, 145).

A. 1.7. Eschimesi Si riscontra un alto livello di reciprocità generaliz­ zata neU’accampamento, associata da Birket-Smith al “cameratismo dell’insediamento”. Ciò riguarda principalmente il cibo, in particolare i grossi animali, e specialmente durante la stagione invernale (BirketSmith, 1959, p. 146; Spencer, 1959, pp. 150, 153, 170; Boas, 1884-85, p. 562; Rink, 1875, p. 27).

APPENDICE a

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Considerato nell’insieme, lo studio di Spencer sugli Eschimesi dell’Alasca settentrionale indica significative differenze tra l’appro­ priata reciprocità tra parenti, tra partner commerciali e tra non paren­ ti che non siano neppure partner commerciali. Queste variazioni con­ cernono beni durevoli, specialmente beni commerciali. I non parenti all’interno dell’accampamento presumibilmente riceverebbero del cibo se sono alle strette, ma i beni commerciali sono scambiati con loro, così come con gli estranei (che non siano partner commerciali), in una transazione impersonale “a offerta” (che ricorda il “gioco mer­ cantile” degli Indiani brasiliani). Si formano associazioni commer­ ciali — in linea semiparentale o istituzionale-amichevole - tra personale della costa e dell’interno; lo scambio riguarda specialità locali. I partner trattano senza mercanteggiare, in realtà cercano di estendersi; tuttavia senza'un equilibrio (o quasi) nello scambio, la partnership si dissolverebbe. I rapporti commerciali sono specificatamente distinti da Spencer dalla reciprocità parentale generalizzata. Perciò, i parenti non hanno bisogno di associarsi, perché “un parente non manche­ rebbe mai di essere d’aiuto, un dispositivo che riguardava innanzi­ tutto la spartizione del cibo e la concessione di un tetto” (Spencer, 1959, pp. 65-66). Ancora: “Non si entrerebbe mai in società con un fratello, la teoria essendo che in ogni caso era garantito l’aiuto e l’assistenza dei propri parenti stretti” (p. 170).

A. 1.8. Scioscioni Quando una famiglia non aveva molto da sparti­ re, come quando si prendevano soltanto sementi o piccoli animali, ciò che si distribuiva andava ai parenti stretti e ai vicini (Steward, 1938, pp. 74, 231, 240, 253). Sembra che nel villaggio ci fosse un livello abbastanza alto di reciprocità generalizzata, che Steward ricol­ lega all’“alto grado di parentela tra membri del villaggio” (p. 239).

A. 1.9. Tungusi settentrionali (cacciatori a cavallo) Grande sparti­ zione all’interno del clan, ma la spartizione del cibo raggiunge il massimo di intensità all’interno delle poche famiglie che conducevano insieme vita nomade (Shirokogoroff, 1929, pp. 195, 200, 307). Se­ condo Shirokogoroff, la donazione tra i Tungusi non era reciproca, e il Tunguso era insofferente delle aspettative manciù (p. 99); tuttavia, scrisse anche che si facevano doni agli ospiti (al di là dell’ordinaria ospitalità) e che questi oggetti dovevano essere contraccambiati (p. 333). La renna viene venduta solo al di fuori del clan; all’interno, circola in forma di doni e assistenza (pp. 35-36). A.2.0. Oceania II sistema settoriale di reciprocità è spesso più chiaro e più definito, specialmente in Melanesia. In Polinesia è scaval­ cato dalla centralizzazione delle reciprocità in mano ai capi o dalla ridistribuzione.

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Hogbin contrappone il commercio maritti­ mo tribale mediante partnership al commercio interno con popoli non imparentati, affermando a proposito di quest’ultimo scambio: “Le parti sembrano quasi vergognarsi, tuttavia, e concludono i loro affari al di fuori del villaggio. [Si noti la letterale esclusione di uno scambio impersonale dal villaggio 'gawa.] Il commercio, ritengono, dovrebbe svolgersi lontano da dove la gente vive, preferibilmente lungo la strada o la spiaggia (a Busama la bottega di proprietà di un indigeno è situata a 50 metri di distanza dall’abitazione più vicina). I Busama sostengono a proposito di questa situazione che la gente del mare si scambia regali, ma esige un’adeguata contropar­ tita dagli abitatori dei boschi. La base della distinzione è che sulla costa le attività sono limitate a parenti, ma sono così pochi sul mare ad avere parenti nella regione collinare che la maggior parte delle transazioni avvengono necessariamente tra estranei. [Hogbin ricorda altrove che il commercio di foresta è piuttosto recente.] Sul litorale si è avuto un certo grado di migrazione e intermatrimonio, e ogni indigeno della costa ha parenti in qualcuno degli altri villaggi co­ stieri, specialmente quelli vicini. Quando commercia per mare è con costoro, e soltanto con costoro, che scambia. Vincoli parentali e mer­ canteggiamento sono ritenuti incompatibili, e tutti i beni sono ceduti come doni spontanei offerti per motivi sentimentali. Si evita di discu­ tere di valori, e il donatore fa di tutto per dare l’impressione di non aver mai pensato a un dono in cambio. Tuttavia, in una fase successiva, quando se ne presenti l’occasione, si fa capire che cosa ci si aspetti, se pentole, stuoie, canestri o cibo... La maggior parte degli ospiti ritornano a casa con oggetti preziosi almeno quanto quelli con cui sono venuti. Anzi più il vincolo parentale è stretto, maggiore è l’ospitalità dell’anfitrione, e alcuni usano ricambiare i doni con maggiore generosità. Comunque, si tiene un’accurata contabilità, e il conto è successivamente riportato in parità... [Il racconto prosegue fornendo esempi e rivela che un mancato equilibrio causerebbe la fine della partnership. Ora, si confronti quanto precede con la reciprocità nel settore tra villaggi.] È significativo che quando un Busama acquista una borsa a rete da un compagno di villaggio, come è da poco possibile, egli la paghi il doppio di quanto la pagherebbe a un parente più lontano [ cioè, un partner commerciale ] sulla costa setten­ trionale. ‘Ci si vergogna,’ ecco la spiegazione, ‘a comportarsi con colo­ ro con cui si è in intimità come con un mercante’ ” (Hogbin, 1951, pp. 83-86). È anche degna di nota la variazione di reciprocità a se­ conda della distanza lineare-parentale: “Un regalo [di un maiale] da parte di un parente stretto impone in genere l’obbligo di ricam­ biare con un animale di grandezza equivalente in qualche futura occasione, ma non si ha passaggio di denaro né quando viene fatto il dono originario né successivamente. Un obbligo analogo esiste tra lontani parenti, ma in questo caso ogni maiale deve anche A.2.1. 'Gawa {Busama)

appendice a

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essere pagato al suo intero prezzo di mercato. La transazione è confor­ me a una precedente prassi, tranne che allora servivano come paga­ mento i denti canini. I membri del gruppo dell’acquirente contribui­ scono oggigiorno con alcuni scellini, così come in precedenza avrebbe­ ro dato una filza o due di denti” (p. 124).

A.2.2. Ruma La reciprocità generalizzata vige all’interno di grup­ pi di discendenza di scala ridotta quali il “sotto-sottoclan” - “una banca e una forza-lavoro per i suoi membri” (Reay, 1959, p. 29) — e il sottoclan (p. 70). Il settore interclanico è caratterizzato da uno scambio equilibrato, dal “rilievo che si dà a un’esatta recipro­ cità tra gruppi” (p. 47; vedi anche pp. 55, 86-89, 126). Nel set­ tore esterno, l’equilibrio è appropriato tra partner commerciali, ma in assenza di una partnership la transazione tende a una reciprocità negativa: “Nel commercio kuma esistono due forme distinte: transa­ zioni istituzionalizzate tramite partner commerciali, e incontri occa­ sionali lungo le vie commerciali. Nel primo caso, una persona è disposta a uniformarsi alla scala corrente di valori... ma nel secondo, mercanteggia sul prezzo, cercando di trarne un vantaggio materiale. Il termine che si usa per ‘partner commerciale’ è, assai significativa­ mente, una forma verbale ‘Io insieme io-mangio’... La persona è, per così dire, assimilata al ‘gruppo omogeneo’ dei membri del clan e affini, cioè a quelli che si devono sfruttare a fini privati” (pagi­ ne 106-107, 110). L’ospitalità affianca lo scambio equilibrato di beni commerciali tra partner, e “sfruttare un partner per un utile materiale vuol dire perderlo” (p. 109). Lo scambio senza partnership è recente. A.2.3. Buin Plain, Bougainville Differenze settoriali di reciprocità tra i Siuai sono state indicate in precedenti citazioni testuali. Alcuni ulteriori aspetti possono essere qui menzionati. Innanzitutto, sulla reciprocità estremamente generalizzata adatta tra parenti strettissimi: “La donazione tra parenti stretti al di sopra e al di là delle normali aspettative di spartizione [“spartizione” nella definizione di Oliver non è che il “pooling” del presente saggio] non può essere interamen­ te ridotta a un’aspettativa conscia di reciprocità. Un padre potrebbe razionalizzare il dono di leccornie al figlio spiegando che si aspetta di essere accudito da quest’ultimo nella vecchiaia, ma io sono convinto che alcuni doni tra, a esempio, padre e figlio non implicano alcun desiderio o aspettativa di contropartita” (Oliver, 1955, p. 230). I prestiti di beni strumentali normalmente fruttavano contropartite aggiuntive (“interesse”), ma non da parte di parenti stretti (p. 229). Lo scambio tra lontani parenti e partner commerciali è ootw. è ca­ ratterizzato da un’approssimativa equivalenza ma si distingue dalle “vendite” in moneta di conchiglia (come la vendita di beni artigiana­ li) per la possibilità di differire i pagamenti in ootu (pp. 230-231). Nelle transazioni tra partner commerciali, inoltre, la donazione al di

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sopra delle tariffe correnti è encomiabile, per cui si raggiunge un equilibrio forse soltanto nei tempi lunghi (vedi pp. 297, 299, 307, 350-351, 367-368). Le variazioni settoriali nell’economia dei vicini buin dei Siuai, (i Terei) colpirono a tal punto Thurnwald che questi ipotizzò l’esi­ stenza di tre “tipi di economia: 1) l’economia [pooling] domestica...; 2) l’assistenza interindividuale e interfamiliare tra parenti stretti e membri di un insediamento uniti sotto un capo; 3) i rapporti intercomunitari esemplificati dal baratto tra individui appartenenti a differenti comunità o strati sociali” (Thurnwald, 1934-35, p. 124).

A.2.4. Kapauku La differenza di reciprocità tra settori interregio­ nali e intraregionali deL’economia kapauku è stata fatta rilevare nella citazione testuale (sopra). Degno di nota è anche il fatto che i vincoli di parentela e amicizia abbassano i tradizionali tassi di cambio nelle operazioni monetarie kapauku (Pospisil, 1958, p. 122). I dati kapauku sono resi oscuri da un’impropria terminologia economica. I cosiddetti “prestiti”, a esempio, sono transazioni generalizzate “ ‘prendilo senza ricambiare nell’immediato futuro’ ” (p. 78; vedi an­ che p. 130) — ma non è chiaro il contesto sociale e l’ambito di questi “prestiti”. A.2.5. Mafulu Tranne lo scambio di maiali, che l’etnografo riduce a una faccenda cerimoniale, “scambio e baratto in genere impegnano soltanto membri di comunità differenti e non i membri della stessa comunità” (Williamson, 1912, p. 232). A.2.6. Manus Gli scambi tra affini, ordinariamente tra Manus dello stesso o di differenti villaggi, si distinguono per un credito a lungo termine, rispetto al credito a breve termine dello scambio di amicizia commerciale o mercantile (Mead, 1937, p. 218). Lo scambio di amici­ zia commerciale, sebbene più o meno equilibrato, si differenzia a sua volta dal più impersonale scambio “mercantile” con i compagni di foresta, gli Usiai. Le amicizie commerciali nascono con persone di lontane tribù, talvolta sulla base di vincoli parentali di vecchia data. Agli amici commerciali si fa credito, così come si concede ospitalità, mentre lo scambio mercantile è diretto: gli Usiai sono considerati sfuggenti e ostili, “sempre intenti a spuntare a tutti i costi il prezzo migliore, spietati nelle loro consuetudini commerciali” (Mead, 1930, p. 118; vedi anche Mead, 1934, pp. 307-308). A.2.7. Chimbu “Aiuto reciproco e spartizione caratterizzano i rap­ porti tra membri del sottoclan. Una persona può richiedere l’aiuto di un compagno di sottoclan ogniqualvolta gli occorra; può chiedere a qualsiasi moglie o figlia di un membro del suo sottoclan di dargli

appendice a

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del cibo quando ne ha... Tuttavia, sono soltanto le persone più emi­ nenti a poter contare su questi servizi da parte di persone esterne al proprio sottoclan “(Brown e Brookfield, 1959-60, p. 59; sull’ecce­ zione degli “uomini eminenti”, si confronti l’Appendice B, “Recipro­ cità e rango parentale”). Qui gli scambi di maiali e gli altri scambi tra clan si rivelano equilibrati nel settore esterno come altrove negli altipiani della Nuova Guinea (si confronti, a esempio, Bulmer, 1960, pp. 9-10).

A.2.8. Buka Passage II complesso della reciprocità interna sembra limitato rispetto al commercio esterno, ma vi sono indicazioni di scambio generalizzato in settori interni in contrapposizione a uno scambio esterno equilibrato, benché non contrattato. Nel villaggio kurtatchi, le richieste da parte di parenti dello stesso sesso di noci di betel o di cocco sono onorate senza contropartita anche se i benefi­ ciari sono soggetti a un’analoga richiesta; per il resto, nessun dono di nessun tipo in cambio di niente - tranne il fatto che i parenti stretti possono prendere le noci di cocco di una persona (Blackwood, 1935, pp. 452, 454; si confronti pp. 439 sgg. sul commercio). A.2.9. Lesa Si tributano “liberi doni” (reciprocità generalizzata) specialmente a parenti e amici, più in particolare a certi tipi di parenti. Si donano cibo e betel. Tra villaggi e sottotribù {moieties) esistono varie transazioni equilibrate (Powdermaker, 1933, pp. 195203). A.2.10. Dobu Come è notorio, si tratta di un ristrettissimo settore di fiducia economica e generosità, comprendente soltanto susu e unità domestica. Al di fuori di questo c’è il furto - un’eventualità. Gli scambi affinali {affinai) tra villaggi sono più o meno equilibrati, con i compagni di villaggio ad aiutare il susu patrocinatore a ottempe­ rare ai propri obblighi (Fortune, 1932).

A.2.11. Trobriand La sociologia del continuum di reciprocità de­ scritta da Malinowski è soltanto parzialmente settoriale; intervengono in particolare considerazioni di rango (si confronti oltre) e obblighi affinali. Il “puro dono”, comunque, è caratteristico dei rapporti fa­ miliari (Malinowski, 1922, pp. 177-178); “pagamenti consuetudina­ ri, ricambiati irregolarmente, e senza una rigorosa equivalenza” inclu­ dono urigubu e contributi a un fondo cerimoniale funerario di un pa­ rente (p. 180); “doni ricambiati in forma economicamente equivalen­ te” (o quasi) includono donativi tra villaggi durante le visite, scambi tra “amici” (a quanto pare, costoro sono specialmente o esclusivamente al di fuori del villaggio), e, pare, il commercio “secondario” in beni strategici tra partner del kula (pp. 184-185); “baratto ceri-

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SOCIOLOGIA DELLO SCAMBIO PRIMITIVO

mordale con pagamento dilazionato” (non contrattato) è tipico tra partner kula e tra partner nello scambio (wasi) tra costa e interno, ortaggi in cambio di pesce (pp. 187-189; cfr, p. 42); “commercio, puro e semplice”, che implica mercanteggiamento, principalmente nello scambio senza partnership tra membri di villaggi “industriali” e di altri all’interno di Kiriwina (pp. 189-190). L’ultimo tipo è il gimwali-, è caratteristico anche dello scambio ortaggi-pesce in assenza di partnership e dello scambio d’oltremare che accompagna il kula, sempre in assenza di partnership (cfr. pp. 361 sgg).

A.2.12. Tikopia Parenti stretti e vicini sono privilegiati economi­ camente (a esempio Firth, 1936, p. 399; 1950, p. 203) e ci si aspetta che offrano assistenza economica in vari modi (a esempio Firth, 1936, p. 116; 1950, p. 292). La necessità di un quid prò quo sembra crescere con la distanza parentale - a esempio, lo “scambio obbligato” (noto anche etnograficamente come “dono coercitivo”) è una transazione del settore più lontano: “L’importanza della categoria sociale emerge... in casi come quando una persona vuole uno sgabellograttugia. Se sa di un parente stretto che ne ha uno in più, va a chie­ derglielo e se lo prende senza convenevoli. ‘Tu mi dai uno sgabello per me; i tuoi sgabelli sono due.’ Dicono che il parente ‘è felice’ di darlo per il legame che si crea tra di loro. Prima o poi è lui ad andare a chiedere qualcosa che gli sta a cuore, e che gli sarà dato senza difficoltà. Questa libertà di approccio esiste soltanto tra membri di un piccolo gruppo parentale e dipende dal riconoscimento di un principio di reciprocità. Se una persona è intenzionata a rivolgersi a qualcuno che non sia del proprio parentado, un ‘uomo differente’ secondo l’espressione tikopia, allora cucina del cibo, riempie un grande cane­ stro, e lo ricopre con una normale pezza di stoffa o perfino con una coperta. Così equipaggiato si reca dal proprietario a chiedere l’arti­ colo. In genere non gli viene detto di no” (Firth, 1950, p. 316). A.2.13. Maori Gran parte della circolazione interna, specialmente quella del villaggio, era accentrata nelle mani di capi - era suffi­ cientemente generalizzata, ma condotta secondo i principi dell’obbligo del capo e della noblesse oblige (cfr. Firth, 1959). Gli scambi esterni (tra villaggi e tra tribù) comportavano una più diretta ed equivalente contropartita, benché naturalmente la liberalità fosse fonte di prestigio (cfr. Firth, 1959, pp. 335-337, 403-409, 422-423). Proverbio maori: “Parente d’inverno, figlio d’autunno”, che signifi­ ca: “Al tempo della semina quando c’è da ammazzarsi di fatica è soltanto un lontano parente, ma dopo il raccolto quando tutto è finito e c’è abbondanza di cibo da mangiare, allora dice di essere mio figlio” (Firth, 1926, p. 251).

A.3.0. Appunti sparsi A.3.1. Pilagà II famoso studio di Henry (1951) sulla spartizione del cibo in un villaggio pilagà è qui citato con cautela. Si tratta di una popolazione smembrata e ricolonizzata. Inoltre, nel periodo di osservazione di Henry buona parte degli uomini erano via a lavorare in piantagioni di canna da zucchero. Ed era, anche, il “periodo di fame” dell’anno pilagà. “Abbiamo perciò a che fare con un sistema economico cui era stato sottratto un notevole numero di persone produttive, e durante un periodo di penuria, con la società funzionan­ te a ritmo ridotto” (Henry, 1951, p. 193). (L’intensa spartizione di cibo in queste precarie condizioni è coerente con le proposizioni elaborate più avanti sul rapporto tra reciprocità e indigenza.) Suppon­ go che la maggior parte se non tutti i casi di spartizione fossero del tipo reciproco generalizzato, come l’elargizione di grandi scorte di cui si era venuti in possesso, il prestare assistenza e così via. La supposi­ zione concorda con gli esempi offerti da Henry e con la mancanza di equilibrio che egli registra nelle entrate e uscite individuali. Il com­ mercio con altri gruppi, di cui Henry documenta l’esistenza, non è considerato nello studio in questione. Il principale valore di questo studio, ai fini della presente discussione, è la sua specificazione del­ l’incidenza della spartizione del cibo a seconda della distanza.sociale. L’obbligo di spartire il cibo è massimo tra coloro che sono i più vicini in termini parentali-residenziali. “L’appartenenza alla stessa unità domestica [un gruppo multifamiliare e multiabitativo che costi­ tuisce una sezione del villaggio] rappresenta un vincolo strettissimo; ma l’appartenenza alla stessa unità domestica oltre a uno stretto legame parentale è il più stretto dei vincoli. Ciò è oggettivato nella spartizione del cibo, nel senso che coloro che sono uniti dal vincolo più stretto si spartiscono il cibo spessissimo” (p. 188). La conclu­ sione è avvalorata dall’analisi di casi particolari. (In uno di questi, l’associazione tra spartizione e stretti rapporti parentali funzionava al contrario - una donna spartiva generosamente il cibo con un uomo che voleva sposare e che alla fine sposò.) “I casi passati finora in rassegna concernenti la distribuzione all’interno dell’unità domestica [sezione del villaggio] possono essere così riassunti: alla domanda A quale individuo o famiglia ogni individuo o famiglia fa dono più spesso? si può rispondere soltanto attraverso un’analisi quantitativa

del comportamento di individui e famiglie. Una volta ultimata, emergono quattro punti: 1) Il Pilagà distribuisce la maggior parte del proprio prodotto a membri della sua unità domestica. 2) Egli non distribuisce equamente a tutti. 3) Una varietà di fattori intervengono a impedirgli di distribuire equamente a tutti: (-50-100 pentole—--->-5-10 maiali (a Umboi) (Sio-Gitua) (Nuova Inghilterra)

50 libbre (2) 1 maiale------«-di ocra rossa------- «-50 pentole---------- -.j!------ >-10 pentole-------- «-1 maiale di cocco (a Sio-Gitua) °ssidiana (a s;0_Gitua) (Nuova Inghilterra) (Kaltngi)

(4) 20-40 noci—►IO pentole—-------- »-l cane--------------- >-l maiale di cocco (Sio) (Nuova Inghilterra) (Nuova Guinea)

Figura 6.2.

Utili di intermediazione dei mercanti siassi (Harding, 1967)

TRE .SISTEMI COMMERCIALI

279

ragioni di utilità ora materiale ora coniugale. I Siassi scambiava­ no regolarmente pesce con radici commestibili con i villaggi limi­ trofi dell’isola di Umboi; essi erano gli unici fornitori di ceramiche per molti popoli della regione vitiaz, trasbordandole dai pochi luoghi di manifattura nella Nuova Guinea settentrionale. Così come controllavano la distribuzione dell’ossidiana dal suo luogo di origine nella Nuova Inghilterra settentrionale. Ma, fatto non meno importante, i Siassi costituivano per i loro partner commer­ ciali una fonte rara o esclusiva di dote della sposa e di beni vo­ luttuari - oggetti quali zanne ricurve di maiale, denti canini, e coppe lignee. Nessuno nelle zone limitrofe della Nuova Guinea, Nuova Inghilterra o Umboi poteva sposarsi senza aver prima commerciato, direttamente o indirettamente, con i Siassi. Il risul­ tato complessivo dell’iniziativa siassi, quindi, è un sistema com­ merciale di specifica forma ecologica: una cerchia di comunità collegate dai viaggi di un gruppo in posizione centrale, di per sé naturalmente povero ma che si avvale, a conti fatti, di un flusso interno di ricchezza dalla più ricca circonferenza. Questo schema ecologico dipende da certi dispositivi sul piano dello scambio di cui è il precipitato. Benché i domini dei diffe­ renti popoli mercantili talvolta si sovrappongano, un gruppo quale i Siassi monopolizza letteralmente il trasporto all’interno della propria sfera, dove la “concorrenza” è drammaticamente imperfetta: i numerosi villaggi sparsi lungo la circonferenza non hanno rapporti diretti reciproci. (I Manus arrivarono a impedire agli altri popoli della loro orbita di possedere o fabbri­ care canoe d’alto mare [cfr. Mead, 1961, p. 210].) Sfruttando la mancanza di comunicazioni tra comunità distanti, e sempre allo scopo di accrescere i tassi di scambio, i Siassi in epoca leggendaria si compiacquero di diffondere racconti fantastici sulle origini dei beni che trasmettevano: ...le pentole sono distribuite da tre località assai lontane sulla terrafer­ ma [Nuova Guinea]. Non si fabbricano terraglie nell’arcipelago [cioè, Umboi, isole limitrofe e Nuova Inghilterra occidentale], e i suoi abi­ tanti che ricevono le pentole tramite i Siassi (e prima i Tami) in prece­ denza non sapevano neppure che le pentole di argilla sono prodotti fabbricati dall’uomo. Anzi, li si riteneva prodotti esotici del mare. È incerto se questa credenza sia una creazione dei popoli privi di ceramica. I Siassi, comunque, come tutti sanno, svilupparono e concorsero ad avvalorare queste credenze. Raccontavano che le pentole erano i gusci di mitili di acque profonde. I Sio [della Nuova Guinea] sono specializzati nella raccolta in profondità di questi mitili e, mangiatane, la polpa, ven­ dono i “gusci” vuoti ai Siassi. L’inganno, anche se ne incrementava il

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

valore, era giustificato dalla parte vitale che le pentole occupano nel commercio d’oltremare (Harding, 1967, pp. 139-140).

Secondo la mia interpretazione (basata su una breve visita) i Siassi in questi racconti ingigantivano non tanto la scarsità di pentole quanto lo sforzo di produzione, in base al principio locale che un “lavoro ingrato” merita una “paga salata”. La più sofisti cata astuzia mercantile era embricata in un’innocentissima teoria del valore-lavoro. È piuttosto logico che la partnership consuetu­ dinaria della rete Vitiaz, una specie di amicizia commerciale, sia assai lontana, quanto a socievolezza, dalla “parentela com­ merciale” del sistema Queensland. È vero che gli scambi tra i Siassi e i loro partner si attenevano a tassi standard. Ma, al si­ curo nella loro posizione di intermediari e indispensabili ai loro “amici”, verso cui non si sentivano tenuti a essere premurosi, i Siassi, nel contesto di questi tassi, addebitavano “prezzi” elastici. Non soltanto i valori di scambio variano localmente a seconda della domanda/offerta - a giudicare ancora dalle differenti condi­ zioni in base alla distanza dall’origine (Harding, 1967, pp. 42 passim ) - ma una severa pratica monopolistica può aver consenti­ to profitti discriminatori. Come rivelano le serie transattive (fig. 6.2), i Siassi, viaggiando da un luogo all’altro, potevano in linea di principio cambiare 12 noci di cocco con 1 maiale, o an­ cora 1 maiale con 5 noci. Uno straordinario gioco di mano primi­ tivo - e un’altra apparente vittoria dell’interpretazione efficientistica del commercio indigeno.3 La stessa fiducia nel comune buon senso economico non è inve­ ce altrettanto avvalorata dal sistema del golfo Huon, perché in 5 La domanda locale nel sistema commerciale manus è indicata da un insolito dispositivo. Nelle transazioni manus con Balowan, dove c’è scarsità di sagù, un pacco di sagù offerto dai Manus equivarrà a 10 uova di rallide da parte dei Balowan; ma l’equivalente di un pacco di sagù offerto dai Manus ai Balowan in moneta-conchiglia è soltanto di 3 uova di rallide. (Chiara­ mente se i Manus possono convertire dovunque questi diversi beni si fanno una fortuna.) Analogamente, nel commercio quotidiano con la gente del terri­ torio Usiai, la domanda è indicata da tassi ineguali del tenore seguente: 1 pe­ sce dai Manus = 10 taro o 40 noci di betel da parte degli Usiai; mentre 1 tazza di calce = 4 taro o 8 noci di betel da parte degli Usiai. Commenta Mead: “La necessità di betel da masticare è contrapposta alla altrui necessità, sì da costringere la gente di mare [Manus] a fornire calce ai popoli di terra” (Mead, 1930, p. 130). Cioè a dire, quando gli Usiai vogliono calce, offrono noce di betel, poiché i Manus possono realizzare più betel scambiandolo con calce che non con pesce; se gli Usiai volessero pesce, porterebbero taro. Sul vantaggio in lavoro per i Manus in questo commercio, e gli utili stimati attra­ verso variazioni della domanda/offerta in differenti parti della rete manus, vedi Schwartz, 1963, pp. 75, 78.

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TRE SISTEMI COMMERCIALI

questo caso beni di produzione locale specialistica sono scambiati a tassi uniformi da un capo all’altro della rete (Hogbin, 1951). Ciononostante, una semplice analisi mostrerà che una volta anco­ ra sono in azione domanda e offerta. La rete costiera semicircolare del Golfo unisce di nuovo comu­ nità etnicamente eterogenee (fig. 6.3). Il commercio, tuttavia, si effettua mediante reciproci viaggi: la gente di un dato villag­ gio fa e a sua volta riceve visita da partner di parecchie altre località, su e giù lungo la costa, benché in genere dai vicini più prossimi piuttosto che da quelli più lontani. I partner commer­ ciali sono parenti, le famiglie legate da precedenti intermatrimoni; di conseguenza, il loro commercio è un socievole scambio di doni, equilibrato a tassi tradizionali, alcuni dei quali sono indi­ cati nella tab. 6.1. La specializzazione locale della produzione artigianale e ali­ mentare all’interno del sistema è attribuita da Hogbin alle varia­ zioni naturali nella distribuzione delle risorse. Un singolo villag-

O ISOLE TAMÌ [povere di cibo] (ciotole lignee)

BUSAMA '~q\[ ricchi

di cibo]

c. 65 miglia

BUAKAP, ecc. (sagù) GOLFO HUON VILLAGGI MERIDIONALI [poveri di cibo] O (ceramiche)

Figura 6.3.

Rete commerciale del golfo di Huon (Hogbin, 1951)

282

VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

gio o un piccolo gruppo di villaggi limitrofi ha la sua caratte­ ristica specialità. Essendo limitato il raggio dei viaggi, le comu­ nità situate in posizione centrale agiscono da intermediarie nella trasmissione dei beni specialistici prodotti alle estremità del gol­ fo. I Busama, a esempio, il cui commercio è stato studiato dal loro punto di vista, inviano a sud stuoie, ciotole e altri oggetti fabbricati sulla costa settentrionale, e a nord le pentole fabbricate nei villaggi meridionali. Al pari di altre reti commerciali della Nuova Guinea, il siste­ ma Huon non era completamente chiuso. Ogni villaggio costiero barattava con i popoli del suo immediato hinterland. Inoltre, gli abitanti delle Tami, di per sé grandi viaggiatori, collegavano a nord lo Huon con la sfera siassi; in epoca leggendaria i Tami disseminarono all’interno del Golfo l’ossidiana che aveva avuto origine nella Nuova Inghilterra. (Analogamente i vasai dei vil­ laggi meridionali esportavano il loro artigianato ancora più a sud, benché scarse siano le notizie su questo commercio.) Sorge allora una domanda: perché isolare il golfo Huon in quanto “sistema” distinto? C’è una doppia giustificazione. Innanzitutto, sul piano materiale i diversi villaggi apparentemente costituiscono una co­ munità organica, conservando all’interno della propria sfera la grande maggioranza dei beni di produzione locale. Secondaria­ mente, a livello organizzativo, questo commercio di parentela di forma definita, ed evidentemente anche la serie uniforme di tassi di scambio, sembrano circoscritti al Golfo.4 Per chi è portato a sminuire l’importanza pratica (o “econo­ mica”) del commercio primitivo, la rete del golfo Huon offre un salutare antidoto. In assenza del commercio certi villaggi non avrebbero potuto esistere nella loro conformazione. Nelle propag­ gini meridionali del Golfo, la coltura incontra difficoltà naturali, e si devono ottenere sagù e taro dai distretti Buakap e Busama (vedi fig. 6.3 e tab. 6.1). “Senza commercio, in realtà, i popoli meridionali [fabbricanti di ceramiche] non potrebbero soprav­ vivere a lungo nel loro attuale ambiente” (Hogbin, 1951, p. 94). Allo stesso modo, il terreno a disposizione degli abitanti delle Taminella regione nordorientale è insufficiente: “Gran parte del [loro] cibo deve essere importato” (p. 82). In conclusione, le ' Non sono tuttavia in grado di verificare queste affermazioni; nel caso che si rivelino insostenibili, alcune ipotesi dei successivi paragrafi dovranno essere modificate.

Tabella 6.1. Tradizionali equivalenti commerciali; rete commerciale del golfo Huon (Hogbin, 1951, pp. 81-95)

I. Busama Busama dà

Per

c. 150 libbre di taro o 60 libbre di sagù 24-30 pentole grandi = 1 canoa piccola 1 pentola piccola = c. 50 libbre di taro o 20 libbre di sagù 1 stuoia = 1 pentola piccola * 3 stuoie = 1 pentola grande (o 2 scellini) 4 borsellini — 1 pentola piccola (o 1 scellino per 2) 1 canestro = 2 ciotole grandi (o 1 sterlina) 1 ciotola (dimensione normale) — 10-12 scellini (di più per ciotole più grandi)

=

1 pentola grande

Per

II. Villaggi della costa settentrionale I villaggi della costa settentrionale danno

1 pentola grande 1 4 1 1

pentola piccola borsellini canestro ciotola intagliata

= 4 borse a rete o 3 stuoie o 6-8 scel­ lini = 1 stuoia (o 2 scellini) = 1 stuoia (o 1 scellino per 2) = 10 stuoie (o 1 sterlina) — cibo, quantità ignota III. Labu

Labu dà

Per

2 1 1 1

pentole grandi pentola piccola borsa a rete ciotola intagliata

Per

= — = =

1 canestro intrecciato (o 6-8 scellini) 4 borsellini (o 2 scellini) 3 borsellini (o 2 scellini) 10-12 scellini

IV. Villaggi di vasai I villaggi di vasai danno

150 libbre di taro o 60 libbre = 1 pentola grande di sagù 50 libbre di taro o 20 libbre di = 1 pentola piccola sagù 4 borse a rete = 1 pentola grande 1 stuoia = 1 pentola piccola 3 stuoie = 1 pentola grande 4 borsellini = 1 pentola piccola 1 canestro — 2 pentole grandi 1 ciotola intagliata = 8 scellini 1 canoa piccola = 24-30 pentole

* Tranne che in cambio di ciotole, era raro che si usasse denaro nel com­ mercio all’epoca dello studio.

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

esportazioni alimentari dalle zone fertili come quella busama costituiscono un’importante frazione della produzione locale: “più di cinque tonnellate al mese” di taro sono inviate al di fuori della comunità, principalmente a 4 villaggi meridionali, quando i Busama consumano personalmente 28 tonnellate al mese (di­ retta sussistenza umana). Secondo gli elastici standard dietetici in vigore a Busama (p. 69), il taro esportato avrebbe potuto nutrire un’altra comunità di 84 persone. (La popolazione media dei villaggi lungo il Golfo è 200-300; Busama, con oltre 600 persone, è eccezionalmente grande.) Globalmente, quindi, il gol­ fo Huon presenta un modello ecologico esattamente opposto allo stretto Vitiaz: le comunità periferiche nella fattispecie sono naturalmente povere, il centro ricco, e, tutto sommato, esiste un flusso strategico di ricchezza da quest’ultimo alle prime. Date certe premesse, le dimensioni di questo flusso possono essere colte nei rapporti di scambio dei beni centrali con i beni periferici. Il taro busama, a esempio, è scambiato con la ceramica meridionale in un rapporto di 50 libbre di taro per 1 pentola piccola o 150 libbre per 1 pentola grande. Sulla base di una mo­ desta conoscenza personale della zona in genere, ritengo questo rapporto assai favorevole alle pentole in termini di tempo di lavo­ ro necessario. Hogbin sembra dello stesso avviso (p. 85). In proposito, Douglas Oliver ebbe a osservare dei Bougainville me­ ridionali, presso cui 1 pentola di “dimensioni medie” è valutata allo stesso tasso monetario di 51 libbre di taro, che quest’ultimo “rappresenta una mole di lavoro incomparabilmente maggiore” (1949, p. 94). In termini di sforzo, le proporzioni del commer­ cio di villaggio taro-ceramica sembrano squilibrate. In base ai tassi invalsi, le comunità più povere annettono alla loro esistenza il lavoro intensificato di quelle più ricche. Ciononostante, questo sfruttamento è dissimulato da un falso equilibrio dei valori-lavoro. Benché non sembri ingannare nes­ suno, la menzogna sembra conferire un’apparenza di equità allo scambio. I vasai ingigantiscono il valore (lavoro) del loro pro­ dotto, mentre i Busama ne lamentano semplicemente il valore d’uso: Benché l’etichetta impedisca controversie, osservai con interesse quan­ do accompagnavo qualche Busama in un viaggio commerciale verso sud come gli abitanti del villaggio Buso [ceramica] insistessero a esagerare il lavoro necessario a fabbricare una pentola. “Sfacchiniamo un giorno intero dall’alba al tramonto per farne una,” uno ci continuò a ripetere. “È più faticoso estrarre argilla che oro. Che dolori alla schiena! E alla

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fine non è mai detto che la pentola esca perfetta.” I componenti del nostro gruppo [Busama] borbottarono gentilmente di essere d’accordo, ma successivamente la conversazione cadde sulla qualità scadente delle pentole attuali. Si tennero sulle generali, senza accusare nessuno in par­ ticolare, ma era evidente che si trattava di una tentata ritorsione (Hogbin, 1951, p. 85).

I tassi di scambio, come notavamo, sono abbastanza uniformi da un capo all’altro del Golfo. In uno qualsiasi dei villaggi, a esempio, dove si scambiano tradizionalmente stuoie, “borsellini” e/o pentole, 1 stuoia = 4 borsellini = 1 pentola piccola. Que­ sti tassi sono validi indipendentemente dalla distanza dal punto di produzione: una pentola piccola è valutata una stuoia sia nei vil­ laggi meridionali dove si fabbrica la ceramica che sulla costa settentrionale dove si fabbricano le stuoie. L’implicazione diret­ ta, il fatto che gli intermediari situati al centro non ricavino un utile dalla rotazione dei beni periferici è sostenuta da Hogbin. Nessun “profitto” deriva ai Busama nel trasferire le pentole meridionali a nord o le stuoie settentrionali a sud (Hogbin, 1951, p. 83). II semplice principio postulato per scoprire le influenze della domanda/offerta nei sistemi Vitiaz e Queensland, dove i valori di scambio variavano direttamente con la distanza dal luogo di pro­ duzione, non è perciò applicabile al golfo Huon. D’altra parte, la forma del “mercato” huon è differente. Tecnicamente, è meno' imperfetto. Perlomeno potenzialmente, una data comunità ha più di un fornitore di un dato prodotto, di modo che chi è tentato di estorcere profitti esosi corre il rischio di essere ignorato. Da cui la razionalizzazione busama della loro incapacità di esigere un tri­ buto di intermediazione: “A ogni comunità occorrono i prodotti di tutte le altre, e gli indigeni non hanno difficoltà ad ammettere di essere disposti a rinunciare a ogni utile economico pur di rimanere nella cerchia commerciale” (p. 83). Tutto ciò preclude la possibilità di effetti della domanda/offerta sui tassi di scambio. La possibilità è trasposta al superiore livello della rete nel suo insieme. Diventa una questione se il valore relativo di un bene nei termini di un altro rispecchi la rispettiva domanda/offerta aggregata da un estremo all’altro del Golfo. Una significativa eccezione all’uniformità dei tassi, equiva­ lente, parrebbe, a una violazione dei più elementari principi di opportunità commerciale e buon senso, indica che le cose stanno esattamente così. I Busama pagano 10-12 scellini le ciotole degli abitanti delle Tami scambiandole nei villaggi meridionali con pen-

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

tole del valore di 8 scellini.5 Come spiegazione i Busama dicono dei vasai meridionali: “ ‘Vivono in un paese tanto povero. Inol­ tre, le pentole ci servono per nostro uso e per scambiarle con stuoie e utensili’ ” (Hogbin, 1951, p. 92). Ora, la spiegazione in termini di pentole contiene un’interessante implicazione in termi­ ni di taro che i Busama stessi producono. I Busama chiaramente sono svantaggiati nel loro commercio meridionale a causa della limitata domanda di taro da un capo all’altro del Golfo, specialmente da parte dei villaggi settentrionali, dove si producono una varietà di oggetti di artigianato. Il “mercato” per il taro è effetti­ vamente ristretto ai vasai meridionali. (Nella tabella di scambio di Hogbin [tab. 6.1 ], il taro compare soltanto nel commercio me­ ridionale; ogni riferimento al taro scompare dalla descrizione del commercio settentrionale.) Ma se il taro busama ha una scarsa commerciabilità, le pentole fabbricate esclusivamente a sud sono dovunque richieste. Più che un bene di consumo, queste pentole diventano per i Busama un articolo commerciale capitale, senza il quale essi sarebbero isolati a nord, ragion per cui sono disposti a pagare salato in costi lavorativi. Le classiche forze economiche sono perciò in azione in questo senso: il valore relativo del taro busama in termini di pentole meridionali rappresenta le rispet­ tive domande di questi beni nell’insieme del golfo Huon.6 Il punto può essere articolato in maniera più astratta. Suppo­ niamo tre villaggi, A, B e C, ognuno produttore ■ di un parti' Il denaro contante ha in particolare sostituito le zanne di maiale tradi­ zionalmente scambiate con le ciotole tami, in corrispondenza alla sostitu­ zione di queste ultime con valuta europea nei prezzi nuziali (brideprtces) dell’area Finschhafen. 6 Belshaw descrive un sistema commerciale nel Massim meridionale appa­ rentemente simile nelle condizioni di valore di scambio al golfo di Huon (1955, pp. 28-29, 81-82). Egli, tuttavia, osserva che le tariffe di certi articoli — noci di areca, pentole e tabacco in bastoncini — variano localmente in base alla domanda. Il suo discorso, formulato in equivalenti monetari, non mi è completamente comprensibile, ma ciò che sembra mostrare, se considerato unitamente alla tabella pubblicata dei rapporti di scambio (pp. 82-83), è che i valori di questi beni nei termini l’uno dell’altro rispecchiano la rispettiva domanda e offerta nel Massim meridionale nel suo insieme, e non che i loro valori di scambio variano localmente da un luogo all’altro (tranne forse nelle moderne contrattazioni in scellini). Un particolare prodotto richiederebbe più o meno di un altro, a seconda della domanda/offerta globale, ma il rapporto che si ha in un luogo, rimane identico in un altro. Le tabelle pubblicate sembrano indicare tassi di scambio tradizionali abbastanza uniformi: a esem­ pio, 1 pentola è scambiata con 1 “grappolo” o 1 “fascio” di noci di areca in parecchie località (Tubetube, Bwasilake, Milne Bay), mentre 2 bastoncini di tabacco sono scambiati con 1 “grappolo” di areca a Sudest e 1 pentola con 2 bastoncini di tabacco a Sumarai (pp. 81-82).

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TRE SISTEMI COMMERCIALI

colare bene, x, y e z rispettivamente, e collegati in una catena commerciale di modo che A scambia con B e B a sua volta con C. Consideriamo ora lo scambio di x con y tra i villaggi A e B: Villaggi : beni :

A x

B y

C z

Posto che nessuno di questi prodotti sia sovrabbondante, la quan­ tità di y ceduta da B per ottenere x dipenderà in parte dalla domanda di y rispetto a x nel villaggio C. Se nel villaggio C la domanda di x è molto maggiore della domanda di y, allora B, nella prospettiva di un’acquisizione finale di z, è disposto a pagare più salato in y per ottenere x da A. Di converso, se in C la do­ manda di y è assai superiore a x, allora B tenderà a trattenere y nello scambio con il villaggio A. Perciò il tasso di scambio di prodotti locali tra due villaggi qualunque assommerebbe le do­ mande di tutti i villaggi del sistema. Apro una lunga parentesi. Benché l’analisi si possa considerare legittimamente conclusa a questo punto, con il riconoscimento che i valori di scambio del golfo Huon rispondono a normali forze di mercato, si è tentati di approfondire la questione, su un terreno a un tempo più speculativo e più reale, dove si scopre non soltanto una certa conferma della tesi ma anche un’intuizione dell’ecologia, dei limiti strutturali e della storia del sistema in questione. Nell’esempio chiave che dischiuse l’analisi precedente, i Busama furono disposti ad accollarsi una perdita netta in ciotole tami, nella speranza di favorire in questo modo il flusso di cera­ miche dal sud. Trattandosi di un unico scambio in una serie interdipendente, la transazione in sé si rivelò incomprensibile. Il modello a tre villaggi ne facilitò la comprensione, pur non poten­ do ancora rappresentare adeguatamente tutti i vincoli infine ma­ terializzatisi nella vendita della ciotola. Infatti, dietro questa transazione c’era un’intera serie di scambi preliminari mediante cui le ciotole tami furono trasportate da un luogo all’altro in giro per il Golfo, effettuando nel frattempo un’ampia ridistribu­ zione preliminare di specialità locali. È nella speranza di specifi­ care questa ridistribuzione, e le pressioni che ne derivano, che azzardiamo ulteriori congetture. A questo punto è indispensabile un modello a quattro villag­ gi. Per facilitare il rientro nella realtà, possiamo conservare i tre originari (A, B e C), identificando B con Busama e A con i vasai, e aggiungendo un quarto villaggio, T, che rappresenti i Tami

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

con il loro prodotto specialistico, t (ciotole). Supponiamo, anche, benché le cose non stiano esattamente così, che i beni di esporta­ zione di ogni comunità siano generosamente richiesti da tutte le altre; e che, più vicino al vero, ogni comunità scambi soltanto con il villaggio o i villaggi direttamente contigui. L’obiettivo dell’esercitazione sarà di trasferire le ciotole tami (/) da un estre­ mità della serie all’altra, determinando così la distribuzione totale di prodotti specialistici che ne deriverebbe. Nella speranza di spiegare meglio quella famigerata vendita di ciotole tami da parte dei Busama ai vasai (A), gli scambi si svolgeranno inizialmente tra i villaggi B (iBusama), C, e T (Tami). Con le mosse iniziali, quindi, T e C scambiano i loro rispettivi articoli, t e z, e i villaggi B e C i loro, y e z. Accantonando la questione delle quantità scambiate, i tipi di beni, dopo questa prima rotazione, assumerebbero la seguente distribuzione:

La seconda rotazione, mirante a trasferire una quantità di t, ciotole, alla comunità B (e di y a T) presenta già certe difficoltà non insormontabili e tuttavia sintomatiche delle pressioni che si accumulano all’interno del sistema, e del suo destino. Nelle condi­ zioni date, tuttavia, non c’è molto da scegliere. Il villaggio C difficilmente accetterà z da B in cambio di t, dato che C già pro­ duce z; di conseguenza, B può soltanto offrire di nuovo y aC per acquistare t, a quel punto probabilmente soltanto una parte dei t in possesso di C. Allo stesso modo T passa più t aC per ottenere y. Ciò fatto, la catena a tre villaggi è completa: i beni passano da un’estremità (A tuttora escluso) all’altra:

TRE SISTEMI COMMERCIALI

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Completa - ma forse anche finita. A questo punto, B(usama) si viene a trovare in un imbarazzante rapporto con la distribu­ zione globale di specialità e beni importati, le sue possibilità di ulteriori scambi essendo drasticamente ridotte. B(usama) non ha nulla da mettere in circolazione che i villaggi lungo la linea, C e T, già non possiedano, e che probabilmente possiedono in quantità proporzionali alla loro vicinanza a B. Di qui l’impor­ tanza strategica del villaggio A, i vasai, per Busama. Il prosieguo della partecipazione di Busama alla rete commerciale dipende ora dal sottrattosi, dall’avviare un commercio con A, il che equivale a dire che la continuità del sistema commerciale nel suo complesso dipende dalla sua espansione. E in questo approccio strategico, le ceramiche di A devono apparire a B non soltanto come un va­ lore d’uso ma come l’unico bene scambiabile con i beni di C...T. La transazione tra B e A concentra ed esercita sulle ceramiche di A il peso di tutti gli altri beni già nel sistema. Da cui i tassi, di scambio sfavorevoli ai beni di B(usama) e le perdite patite in “costi” lavorativi. Da un modello astratto a una storia ignota? Composto inizial­ mente da poche comunità, un sistema commerciale di tipo huon mostrerebbe immediatamente una forte inclinazione a espandersi, diversificando i propri prodotti circolanti mediante un’estensione della sua sfera spaziale. In particolare le comunità periferiche, essendo indeterminata la loro posizione contrattuale nelle fasi iniziali del commercio, sono spinte a cercare più lontano nuovi articoli in commercio. La rete si propaga alle estremità con una semplice estensione della reciprocità, agganciando nuove e prefe­ ribilmente, a ragione, esotiche comunità, quelle in grado di forni­ re prodotti esotici. (L’ipotesi può risultare per altre ragioni affascinante agli stu­ diosi della società melanesiana. Di fronte a estese catene commer­ ciali come il kula, gli antropologi sono stati portati a celebrare la complessità della “integrazione zonale” e contemporaneamente a chiedersi come avesse potuto prodursi. Il pregio della dinamica qui delineata è che fa di un semplice accrescimento segmentale di commercio - di cui le comunità melanesiane sono perfetta­ mente capaci - anche una complicazione organica.) Ma un’espansione così organizzata deve alla fine determinare i pròpri limiti. L’incorporazione di comunità esterne si ottiene soltanto a notevoli spese dei villaggi alle frontiere del sistema originario. Trasmettendo la domanda già occasionata dalla ridi­ stribuzione interna di specialità locali, questi villaggi periferici

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

sviluppano contatti esterni in termini per loro assai svantaggiosi quanto a costi lavorativi. Il processo di espansione quindi defi­ nisce un perimetro ecologico. Può proseguire abbastanza passabil­ mente attraverso regioni ad alta produttività, ma una volta apertosi un varco in una zona ecologica marginale il suo ulteriore avanzamento diventa irrealizzabile. Le comunità della zona margi­ nale non possono che essere felicissime di entrare nel sistema alle condizioni favorevoli offerte loro, ma di per sé non sono in condizioni di sostenere i costi di un’ulteriore espansione. Non che esse, divenute ora gli avamposti periferici della rete, non possa­ no intrattenere rapporti commerciali oltre. Soltanto che il sistema commerciale così com’è organizzato, come un flusso interrelato di beni governato da procedure e tassi uniformi, trova qui un confine naturale. I beni che oltrepassano questo limite devono farlo in altre forme e tassi di scambio; entrano in un altro sistema.7 La deduzione perciò si ricongiunge alla realtà. La struttura eco­ logica del sistema huon è esattamente quale fu prevista in teoria: villaggi relativamente ricchi in posizione centrale, villaggi relativamente poveri alle estremità, e in base alle clausole com­ merciali una corrente di beni strategici e di valore dalle località centrali a quelle marginali. Fine della parentesi. Riassumendo fino a questo punto, nei tre sistemi commerciali oceanici in esame, i valori di scambio sono sensibili alla domanda e all’offerta - perlomeno nella misura in cui domanda e offerta sono deducibili dalla reale distribuzione dei beni in circolazione.

Variazioni

di tasso nel tempo

Inoltre, la documentazione finora passata in rassegna, nel com­ plesso attinta spazialmente, può essere integrata da osservazioni fatte nel corso del tempo in specifici centri commerciali melane­ siani. Le variazioni temporali del valore di scambio seguono le stesse ferree leggi - con una riserva: i tassi tendono a rimanere stabili nel breve periodo, insensibili a cambiamenti anche signifi7 A esempio, i beni del golfo Huon possono benissimo passare attraverso Tami nell’area Siassi-Nuova Inghilterra, ma probabilmente soggetti a diffe­ renti clausole commerciali, perché gli abitanti’delle Tami agiscono da interme­ diari in una parte dell’area, quasi come i Siassi e probabilmente anche con un qualche vantaggio netto.

VARIAZIONI DI TASSO

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cativi della domanda e offerta, benché nel lungo periodo si adeguino. Le fluttuazioni stagionali dell’offerta, a esempio, generalmente lasciano inalterati i termini di scambio. Salisbury, a proposito dello scambio tolai (Nuova Inghilterra) tra costa ed entroterra, asserisce che non potrebbe essere organizzato altrimenti: Il movimento netto di tabu [denaro-conchiglia] dall'entroterra alla co­ sta, e viceversa, è ridotto. Il che contrasta con l’impressione che si ha in differenti stagioni, che tutti gli abitanti della costa comprano taro senza guadagnarci nessun tabu, o che gli abitanti dell’entroterra fanno incetta di pesce per i rituali senza vendere molto taro. Se i prezzi fossero fissati dai rapporti correnti tra domanda e offerta, potrebbero variare ampiamente e imprevedibilmente. È proprio in un simile contesto che è assai auspicabile un commercio a equivalenze fisse, con i prezzi “tra­ dizionali” tali da garantire un equilibrio equo nel lungo periodo (Salis­ bury, 1966, p. 117 n.).

Nel lunghissimo periodo, tuttavia, le “tradizionali” equiva­ lenze tolai variano. I tassi di scambio del cibo nel 1880 erano soltanto il 50-70 per cento dei tassi 1961. A parte una crescita globale delle riserve di denaro-conchiglia, la dinamica di questo cambiamento non è del tutto chiara. Ma altrove in Melanesia, le revisioni a lungo termine del valore di scambio sono state chiaramente una conseguenza delle accresciute provviste di beni (e anche di denaro-conchiglia) immesse forzatamente dagli Euro­ pei nei sistemi commerciali locali. Un esame dei Kapauku illustra entrambe le tendenze qui in questione, l’indolenza a breve termi­ ne dei tassi consuetudinari8 - benché i Kapauku non siano famosi per la loro onestà commerciale - e una sensibilità a lungo ter­ mine: ’ Nel parlare di indolenza a breve termine di fronte a uno squilibrio tra domanda e offerta, è necessario tener presente che ci si riferisce a tariffe consuetudinarie, specialmente se l’economia include un settore di baratto. Il mercanteggiamento deriva da vari gradi di disperazione e vantaggio, posizioni personali che non rappresentano individualmente la domanda-offerta aggregata e si traducono in marcate differenze da una transazione all’altra nei tassi di scambio. Nella terminologia marshalliana, i contraenti possono raggiun­ gere un equilibrio, ma soltanto fortuitamente /'equilibrio (1961, pp. 791-793). A meno che e finché altri non intervengono nella contrattazione, sia sul lato della domanda che dell’offerta, questo mercanteggiamento di coppia non costi­ tuisce un “principio mercantile” né influenza il prezzo nel modo previsto dal modello concorrenziale. Certe congetture etnografiche che i prezzi in una qualche società primitiva sono ancor più sensibili alla domanda/offerta che non nel nostro mercato, devono essere guardate con sospetto. In ogni caso, questi tipi di fluttuazioni non rientrano nell’attuale discussione della stabilità a breve termine.

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

In generale, comunque, la fluttuazione del prezzo a causa di un tem­ poraneo squilibrio del livello della domanda-offerta è poco frequente... [Ma] una crescita continua dell’offerta può produrre una caduta continua del prezzo reale. Il permanere di questa situazione ha un effetto sul prezzo consuetudinario che tende a identificarsi con i pagamenti reali. Così, prima del 1945, quando le asce di ferro dovevano essere importate dalla popolazione costiera, il prezzo consuetudinario era 10 Km per 1 ascia. L’avvento dell’uomo bianco e l’aumento e diretta fornitura di asce che ne derivarono, ridussero il prezzo a metà della quota precedente. Il pro­ cesso è ancora in corso e il prezzo reale nel 1956 tendeva a scendere al di sotto del prezzo consuetudinario di 5 Km per ascia (Pospisil, 1958, pp. 122-123; cfr. Dubbledam, 1964).

Nel 1959 si poteva ottenere 1 ascia per soltanto due unità della valuta indigena (2 Km) (Pospisil, 1963, p. 310). Tuttavia, l’esempio kapauku è straordinario, dato che l’economia include un ampio settore di scambio mercanteggiato, dove i tassi correnti possono variare radicalmente da una transazione all’altra, così come sviluppare tendenze a lungo termine suscettibili di comuni­ cazione col settore di reciprocità equilibrata (cfr. Pospisil, 1963, pp. 310-311). La situazione è più semplice nell’altopiano della Nuova Guinea australiana, dove il grosso del commercio avviene a tariffe Stan­ dard e tra speciali partner. Qui i valori monetari sono di fatto crollati dà quando gli Europei misero in circolazione grandi quantità di denaro-conchiglia (Gitlow, 1947, p. 72; Meggitt, 1957-58, p. 189; Salisbury, 1962, pp. 116-117). Al di fuori della Melanesia è stato notato lo stesso processo; variazioni del valore di scambio dei cavalli nel commercio intertribale delle pianure americane, dovute a cambiamenti delle condizioni di offerta (Ewers, 1955, pp. 217 sgg.). Indubbiamente, esempi di una simile sensibilità alla domanda e offerta potrebbero moltiplicarsi. Tuttavia, più esempi non fa­ rebbero che rendere la materia più incomprensibile - in base a ogni teoria invalsa del valore di scambio. Questo disagio teorico è degno di nota e cruciale, e anche se non sono in grado di risolverlo ritengo un successo del saggio averlo sollevato. In realtà..non si spiega nulla osservando che il valore di scambio nel commercio primitivo corrisponde alla domanda/offerta. Infatti, i meccanismi concorrenziali mediante cui domanda e offerta deter­ minano, per quanto ne sappiamo, il prezzo nel mercato non esi­ stono nel commercio primitivo. É molto più misterioso che i 'rapporti di scambio reagiscano alla domanda e offerta di quanto lo :S! :ano impassibili.

L’organizzazione MERCANTILE

sociale

del

commercio

primitivo

e

Domanda e offerta sono attive nel mercato autoregolantesi, sospingendo i prezzi verso un equilibrio, in virtù di una concor­ renza bilaterale tra venditori rispetto ai compratori, e tra compra­ tori rispetto ai venditori. Questa duplice concorrenza, simmetrica e inversa, è l’organizzazione sociale della teoria formale del mer­ cato, senza di cui domanda e offerta non possono tradursi nel prezzo - essa è dunque sempre presente, anche se soltanto impli­ citamente, nei manuali di microeconomia. In un caso teorica­ mente perfetto, tutti gli affari sono interconnessi. Tutte le parti in questione hanno accesso l’una all’altra e conoscono perfetta­ mente il mercato, di modo che i compratori sono in condizione di competere tra di loro pagando di più (se necessario e possi­ bile), i venditori chiedendo meno. Nel caso di un eccesso di offerta rispetto alla quantità richiesta a un dato prezzo, i vendi­ tori fanno a gara per accaparrarsi la limitata clientela riducendo i prezzi; allora, certi venditori si tirano da parte perché incapaci di far fronte al ribasso, proprio mentre un numero maggiore di acquirenti trovano le condizioni interessanti, finché si raggiun­ ge un prezzo che rende trasparente il mercato. Nella circostanza opposta, i compratori fanno salire i prezzi finché la quantità disponibile soddisfi la quantità richiesta. La “folla” dei compra­ tori chiaramente non ha nessuna solidarietà al suo interno con­ tro la folla dei venditori, e viceversa. £ l’esatto opposto del commercio tra comunità di differenti tribù, dove i rapporti inter­ ni di parentela e amicizia contrasterebbero la concorrenza postulata dal modello mercantile - particolarmente nel contesto di un confronto economico con estranei. Caveat emptor, forse; ma la socievolezza tribale e la moralità indigena costituiscono un’arena improbabile per un corpo a corpo economico - perché nessuno nel proprio accampamento può ottenere onori e profitto. Le intersezioni delle curve dell’offerta e delle curve della domanda nei diagrammi degli economisti presuppongono una data struttura della concorrenza. Assai differenti sono i procedi­ menti del commercio primitivo. Non si può entrare semplicemen­ te in azione, mettersi in lista contro le persone della propria parte in cerca dei prodotti esotici offerti da ospiti stranieri. Una volta in moto, ancora prima in realtà, il commercio è un rapporto esclusivo con una specifica parte esterna. Il traffico è canalizzato in tran-

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

sazioni parallele e isolate tra coppie particolari.9 Dove il commer­ cio si svolge attraverso delle partnership, chi scambia con chi è esattamente prescritto in anticipo: sono i rapporti sociali, non i prezzi, a collegare “compratori” e “venditori”. In mancanza di un contatto commerciale, una persona può non riuscire a otte­ nere ciò che vuole a qualsiasi prezzo.10 Non esiste nessuna prova in nessun luogo, per quanto ne sappia, di offerte concorrenziali tra i membri di un gruppo commerciale per la clientela dei reci­ proci partner; c’è soltanto l’osservazione occasionale che sono espressamente vietate.11 Allo stesso modo, il mercanteggiamento, laddove è praticato, è un rapporto distinto tra individui, non aperto a tutti. La situazione documentata che più si avvicina a un commercio a mercato libero sembra essere, da un Iato, una specie di asta, che implica una concorrenza soltanto all’interno del grup­ po dei compratori, come testimoniano certi materiali eschimesi e australiani (Spencer, 1959, p. 206; Aiston, 1936-37, pp. 376377);u d’altro canto, Pospisil fornisce un unico esempio di un 9 Oppure il commercio delle loro rispettive comunità si effettua tra capi rappresentativi, che ridistribuiscono gli utili all’interno dei loro gruppi, a esempio, certo commercio pomo (Loeb, 1926, pp. 192-193), o nelle isole Marchesi (Linton, 1939, p. 147). Sulle partnership costituite tra gruppi, vedi oltre. 10 Oliver fornisce un esempio, attinto ai Siuai, della difficoltà di commercio — perfino tra persone dello stesso gruppo etnico — in assenza di una partnership: “Non è semplice acquistare un maiale. I proprietari si affezionano ai loro animali e sono spesso riluttanti a rinunciarvi. Un eventuale acquirente non può limitarsi a far sapere che è interessato all’acquisto, rimanendo poi in casa ad aspettare ordini... Si assistette a una situazione in cui uno speranzoso acqui­ rente fece visita a un potenziale venditore tutti i giorni per 9 giorni prima di concludere finalmente la transazione: tutto per un [piccolo] maiale del valore di 20 spanne di tnauai! Non c’è da stupirsi, quindi, che si siano sviluppati congegni istituzionalizzati grazie ai quali l’acquisto di un maiale si semplifica, uno dei quali è il rapporto taovu [partner commerciale] già descritto” (Oli­ ver, 1955, p, 350). " “...è un grave affronto [tra i Sio della Nuova Guinea nordorientale] carpire o tentare di allettare ‘l’amico commerciale’ di un’altra persona. Antica­ mente, si sarebbe tentato di uccidere un amico commerciale che tralignasse insieme al suo nuovo partner” (Harding, 1967, pp. 166-167). Anche la citazione seguente è indice di impotenza concorrenziale nel commercio: “Un Komba [una tribù interna] che ha fama di generosità deprecava che alcuni amici [commerciali] sio fossero deliberatamente sgarbati con lui. Era assai risenti­ to: ‘Vogliono che faccia loro visita [cioè, scambi con loro], ma io non posso sdoppiarmi. Che cosa vogliono da me, che mi tagli le braccia e le gambe e le distribuisca loro?’ ” (p. 168). 12 Al pari delle tariffe mercanteggiate, anche le tariffe all’incanto sono inde­ terminate e difficilmente indicano l’equilibrio. Aiston scrive di un’asta del narcotico australiano pitcheri: “Il valore intrinseco non aveva nulla a che fare con le vendite; poteva capitare che un grosso sacco di pitcheri fosse scambiato con un unico boomerang, ma poteva anche benissimo capitare che fosse scam-

ORGANIZZAZIONE SOCIALE DEL COMMERCIO

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Kapauku in concorrenza con altri venditori che abbassa il prezzo di un maiale per un potenziale acquirente - ma, dato abbastanza interessante, la persona in questione cercò di accordarsi segretamente (1958, p. 123). La duplice e interrelata concorrenza in­ trinseca al modello mercantile, concorrenza mediante cui le forze della domanda e dell’offerta convenzionalmente regolano il prez­ zo, non è generalmente evidente nell’organizzazione dello scam­ bio primitivo, e soltanto eccezionalmente ci si avvicina a essa. Esiste sempre l’eventualità di una concorrenza implicita tra compratori e tra venditori. Tutto ciò che posso dire è che non mi è riuscito di dedurla dalle descrizioni esistenti.13 Né sarebbe sag­ gio disprezzare la forza morale dei tassi di scambio consuetudinabiato con 6 boomerang e magari 1 scudo e 1 pimi-, dipendeva sempre dalla volontà del compratore e del venditore; talvolta quando il venditore aveva con sé il massimo trasportabile ne dava un sacco in cambio di cibo per i suoi” (1936-37, pp. 376-377). 13 O perlomeno non ne ho dedotto una definita o generale concorrenza occulta. Esiste una forma di commercio che forse la prevede — certi cosiddetti “mercati” o “incontri mercantili” melanesiani. Questo dispositivo, di cui Black­ wood (1935) fornisce parecchi esempi, potrebbe legittimamente considerarsi una partnership commerciale collettiva tra comunità, i cui membri si incon­ trano in luoghi tradizionali e in occasioni predisposte, liberi di commerciare con chiunque si faccia avanti. Il commercio riguarda prodotti tradizionali, è regolato da tassi consuetudinari di equivalenza, e tradizionalmente avviene senza mercanteggiare — e quasi senza profferire parola. Blackwood vide una donna cercare di ricavare più del prezzo consuetudinario per un carico del suo prodotto — cioè, cercare di contrattare — ma il suo tentativo fu frustrato (1935, p. 440). Rimane, comunque, la scelta di particolari partner e l’ispe­ zione delle merci offerte; benché non si parli di vendite ambulanti, è imma­ ginabile che le donne di una parte facciano a gara l’una con l’altra nel variare la quantità o la qualità dei loro carichi “standard” (cfr. Blackwood, 1935, p. 443, sulle variazioni di certi carichi). Un’altra eventualità di concorrenza implicita, più generale di questa, è di­ scussa ulteriormente nel prosieguo del testo. Inoltre, esistono due condizioni piuttosto eccezionali di commercio che ab­ biamo già interpretato come concorrenza sistematica [business-like~\. Una era l’economia mista (Kapauku), combinante settori di mercanteggiamento e di reciprocità equilibrata, le cui differenze di tassi presumibilmente invitereb­ bero le persone, fin dove lo consentano i rapporti sociali, a ritirare i beni da un settore per i maggiori guadagni possibili nell’altro. Oppure ancora, come nel golfo di Huon, può darsi che due o più villaggi trattino lo stesso pro­ dotto, e che altre comunità abbiano accesso a più di uno di questi fornitori. In un caso come nell’altro l’effetto commerciale sarebbe il livellamento dei tassi nei differenti settori o comunità. Ma questa interpretazione non risolve i problemi cruciali. Come si traspone il trend di tassi indefiniti nel settore contrattato ai tassi consuetudinari dello scambio equilibrato di partnership, di modo che anche quest’ultimi risentano dell’influenza della domanda/offerta? Così come, nelle reti commerciali modellate concorrenzialmente a livello co­ munitario, rimane di difficile comprensione come il valore relativo si adegui alla domanda e offerta. Infatti, lo scambio è sempre condotto a tassi consue­ tudinari tra coppie di partner consuetudinari.

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

ri, una delle poche garanzie di equità e di continuità in un conte­ sto gravido di ostilità. Più importante, dove vigono tassi consue­ tudinari, e specialmente dove il commercio è di partnership, esi­ stono strategie alternative alla gara al ribasso dei prezzi che eviti­ no lo svantaggio materiale di ribassare i prezzi di vendita o di au­ mentare le offerte: un’alternativa consiste nell’acquisire più part­ ner commerciali alle solite condizioni; un’altra, che esamineremo più avanti dettagliatamente, nello strapagare momentaneamente il proprio partner, costringendolo così a contraccambiare entro un ragionevole lasso di tempo sotto pena di perdere la faccia o la partnership, completando così la transazione ai tassi normali. Indiscutibilmente ci può essere concorrenza per il volume del commercio esterno. Spesso i sistemi interni di prestigio ne dipen­ dono. Ma senza che si sviluppi in forma di manipolazione dei prezzi, differenziazione dei prodotti, e così via. La manovra tipica consiste nell’accrescere il numero dei partner esterni, oppure nell’aumentare il commercio con i partner esistenti. In queste società melanesiane non esistono mercati propria­ mente detti. Assai probabilmente non ne esistono in nessuna delle società arcaiche. Bohannan e Dalton (1962) sbagliarono a parlare di un “principio mercantile”, neppure marginale, in que­ sto contesto. Essi furono fuorviati sotto due riguardi da tran­ sazioni quali il gimwali, il mercanteggiamento del commercio trobriand senza partnership. Per un verso, definirono il mercato sulla base di un tipo di concorrenza non caratteristico di esso, un conflitto aperto tra compratore e venditore.14 Per un altro, de­ finirono il mercato sulla base di un tipo di transazione presa a sé, impersonale e competitiva, prescindendo dall’organizzazione globale di questi scambi. L’errore dovrebbe servire a mettere in risalto perché talvolta Polanyi insistesse che le transazioni devono intendersi come tipi di integrazione, e non come tipi tout court. “Reciprocità”, “ridistribuzione”, e scambio mercantile erano neH’esposizione del maestro non mere forme di transa­ zione economica ma modi di organizzazione economica. Le forme 14 È interessante che Marx rimproverasse a Proudhon lo stesso errore: “Il signor Proudhon non si accontenta di aver eliminato dal rapporto della domanda e dell’offerta gli elementi di cui abbiamo parlato. Egli spinge l’astrazione fino al limite estremo, fondendo tutti i produttori in un solo produttore, tutti i consumatori in un solo consumatore, e stabilendo la lotta fra questi due personaggi chimerici. Ma nel mondo reale le cose vanno di­ versamente. La concorrenza tra coloro che offrono e la concorrenza tra coloro che domandano costituiscono un elemento necessario della lotta tra compra­ tori e venditori: donde risulta il valore di scambio”.

UNA TEORIA PRIMITIVA

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specifiche di transazione scoperte nei mercati, quali la vendita e (occasionalmente) il mercanteggiamento, si incontrano anche in numerosi esempi primitivi. Ma in mancanza di una simmetrica e contraria concorrenza tra compratori e tra venditori, questi scam­ bi non sono integrati come sistemi mercantili. A meno che e finché il mercanteggiamento trobriand non sia così integrato (il che tradizionalmente non è), non fornirebbe alcuna indica­ zione di un principio mercantile o di un mercato periferico. I mercati propriamente detti, concorrenziali e determinanti i prezzi, sono universalmente assenti dalla società primitiva. D’altra parte, se il commercio non è classicamente costituito in modo da assorbire la pressione della domanda e dell’offerta mediante cambiamenti dei prezzi, la sensibilità che abbiamo no­ tato nei valori di scambio melanesiani rimane un mistero affasci­ nante.

Una

teoria primitiva del valore di scambio

Non propongo alcuna soluzione definitiva del mistero. Una volta riconosciuta l’inadeguatezza della teoria economica formale e scoperta così la totale rozzezza dell’economia antropologica, è assurdo aspettarsi spiegazioni più che parziali e stentate. Ma io posseggo realmente una teoria primitiva del valore. Come nella buona tradizione dell'Economia, essa ha l’apparenza di un “luogo immaginario”, e tuttavia è coerente con la condotta osservata di certo commercio, oltre a indicare alcune ragioni della sensibilità dei valori consuetudinari alla domanda/offerta. L’idea attiene esclusivamente al commercio di partnership, la cui essenza è che i tassi sono fissati dalla sensibilità sociale, segnatamente dalla diplomazia della moderazione economica consona a un confronto tra estranei. In una serie di scambi reciproci l’alterna apparizio­ ne di questo squilibrio, prima dalla parte di un partner poi dall’altra, fisserebbe un tasso equilibrato non meno sicuramente di un’aperta concorrenza di prezzi. Al tempo stesso, il principio informatore della “generosità” dovrebbe conferire al tasso conve­ nuto una sembianza dell’equilibrio, cioè della domanda/offerta. Bisogna rendersi conto che il commercio tra comunità o tribù primitive è un’impresa delicatissima, potenzialmente esplosiva. I resoconti antropologici documentano i rischi delle speculazioni commerciali in territorio straniero, l’imbarazzo e la diffidenza, la

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

facilità con cui si passa dallo scambio delle merci allo scambio di colpi. “Esiste un nesso,” scrive Lévi-Strauss, “una continuità tra rapporti ostili e la fornitura di prestazioni reciproche. Gli scambi sono guerre risolte pacificamente, e le guerre sono il risul­ tato di transazioni sfortunate” (1968, p. 67).15 Se la società pri­ mitiva riesce con il dono e con il clan a ridurre Io stato di guerra a una tregua interna (vedi cap. 4), è solo per dislocare all’esterno, sui rapporti tra clan e tribù, l’intero fardello di un tale stato. Nel settore esterno le condizioni sono radicalmente hobbesiane, non soltanto mancando quel “Potere comune per tenere tutti in sogge­ zione ” ma anche senza quella comune parentela che potrebbe invi­ tarli tutti alla pace. Nel commercio, inoltre, il contesto del con­ fronto è l’acquisizione di utili; e i beni, come abbiamo visto, possono essere benissimo urgenti. Quando si incontrano due per­ sone che non si debbono nulla ma che presumono di guadagnare qualcosa l’una dall’altra, la pace del commercio è la grande incognita. In assenza di garanzie esterne, quale quella di un po­ tere sovrano, la pace deve essere altrimenti garantita: estendendo i rapporti socievoli agli stranieri - da cui, l’amicizia commerciale o la parentela commerciale - e, più significativamente, procu­ rando che sia garantita dai termini dello scambio stesso. Il tasso economico è una manovra politica. “S necessaria una buona dose di tatto da parte di tutti gli interessati,” come scrisse RadcliffeBrown dello scambio intertribale andamanese, “per evitare il ri» sentimento che può sorgere se qualcuno pensa di non aver .ijce: vuto cose dello stesso valore di quelle date.,,” (1948, p, 42), La gente deve venire a patti. Il tasso di scambio assume le funzioni di un trattato di pace. Lo scambio tra gruppi non risponde .semplicemente al .“fine etico” di far amicizia. Ma quale che sia l’intenzione:_e per quan­ to utilitaristica, non deve servire a farsi nemici. Ogni transazione, come si sa, è necessariamente una strategia sociale: ha un coeffi­ ciente di socievolezza dimostrato nella sua modalità e nei suoi tassi dall’implicita disposizione a vivere e lasciar vivere, la volon­ tà di contraccambiare in misura piena. Si dà il caso che la proce­ dura sicura e sensata non sia affatto la misura-per-misura, una reciprocità perfettamente equilibrata. La strategia più accorta è la buona misura economica, una contropartita generosa rispetto a quanto ricevuto, di cui non ci si possa lagnare. Si nota in questi 15“ ‘Mentre commerciano, gli Indiani si guarderanno dal consegnare a uno straniero l’arco e le frecce contemporaneamente’ ” (Goldschmidt, 1951, p. 336).

UNA TEORIA PRIMITIVA

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incontri tra gruppi una tendenza a contraccambiare esageratamente: Il fine dello scambio [tra persone di differenti bande andamanesi] era di creare un senso di amicizia tra le due persone interessate, e in caso contrario veniva meno al suo scopo. Era la grande occasione per dimostrare tatto e cortesia. Nessuno era libero di rifiutare un regalo offertogli. Ogni uomo e donna cercava di sorpassare gli altri in genero­ sità. C’era una specie di simpatica rivalità circa chi riusciva a regalare il numero massimo di doni preziosi (Radcliffe-Brown, 1948, p. 84; cor­ sivo mio).

La diplomazia economica del commercio è “ quel tanto in più ” in cambio. Spesso è il “bicchiere della staffa”: ,l’anfitrione sor­ passa l’amico ospite, autore del dono iniziale, un “dono augura­ le” in segno di amicizia e nella speranza di una condotta fidata, e naturalmente in previsione di una contropartita. Nel lungo periodo i conti probabilmente tornano, o, meglio, una buona azio­ ne ne genera un’altra, ma momentaneamente è decisivo che venga gettata sul piatto della bilancia una buona misura non ricambiata. Letteralmente un margine di sicurezza, l’eccesso di generosità evita a un prezzo neppure alto “il risentimento che può sorgere se qualcuno pensa di non aver ricevuto cose dello stesso valore di quelle date”, cioè a dire il risentimento che potrebbe essere cau­ sato da un eccesso di zelo. Al tempo stesso, il beneficiario di questa generosità si sente obbligato: è un “suddito”, per cui il donatore ha ogni diritto di attendersi un trattamento parimenti buono la prossima volta, quando è lui a diventare lo straniero e l’ospite del proprio partner commerciale. In senso lato, come Alvin Gouldner ha intuito, questi lievi squilibri alimentano il rapporto (Gouldner, 1960, p. 175). La procedura di squilibrio transitorio, che frutta generose contropartite ai doni augurali da parte del padrone di casa, non è tipica degli Andamanesi ma abbastanza comune in Melanesia. È la forma idonea tra parenti commerciali del golfo Huon: I vincoli parentali e il mercanteggiamento sono considerati incompati­ bili, e tutti i beni sono ceduti come doni spontanei offerti per motivi sentimentali. Si evita di discutere di valori, e il donatore fa di tutto per dare l’impressione di non aver mai pensato a un dono in cambio... La maggior parte degli ospiti ritornano a casa con oggetti preziosi almeno quanto quelli con cui sono venuti. Anzi, più il vincolo parentale è stretto, maggiore è la generosità dell’anfitrione, e alcuni usano ricambiare i doni con maggiore generosità. Comunque, si tiene un’accurata contabilità, e suc­ cessivamente il conto è riportato in parità (Hogbin, 1951, p. 84).

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

O ancora, per il kula: L’offerta dei pari, dei doni di sbarco {landing gifts) da parte dei visi­ tatori, ricambiati con i talo'i, o doni di commiato dagli anfitrioni rien­ trano nella categoria... dei regali più o meno equivalenti... La persona del luogo di regola [Malinowski sembra intendere con questa espressione “invariabilmente”] offrirà un regalo più imponente, perché il talo'i supera sempre il pari quantitativamente e qualitativamente, e perché si fa anche dono di piccoli regali ai visitatori durante la loro permanenza. Naturalmente, se nel pari fossero inclusi doni di grande valore, come un coltello di pietra o una cucchiaiata di vischio, questi doni augurali sarebbero comunque ricambiati in forma rigorosamente equivalente. Quan­ to agli altri, il valore verrebbe generosamente oltrepassato (Malinowski, 1922, p. 362).10

Accettiamo, quindi, questa procedura di reciproca buona misu­ ra, quale è di fatto caratteristica del golfo Huon. Una serie di transazioni in cui i partner manifestino alternativamente una certa generosità deve deduttivamente prevedere un rapporto di equivalenza tra i beni scambiati. A tempo debito si perviene a un accordo abbastanza preciso sui valori di scambio. La tab. 6.2 presenta una semplice dimostrazione: 2 beni, asce e lance, scambiati tra 2 partner, X e Y, in una serie di visite reciproche che iniziano con la visita di X e il dono iniziale a Y. Dopo la prima ripresa, le 2 asce date da Y sono considerate implicitamente un dono generoso in cambio delle 3 lance portate da X. Alla fine della seconda ripresa, in cui Y dapprima rese più pesante il debito di X con 2 asce per poi essere indebitato dal dono di X di 6 lance, è sottinteso che 9 lance hanno un valore superiore a 4 asce. Ne deriva a questo punto che la quanti­ tà di 7-8 lance eguaglia quella di 4, ovvero, tenendo conto del­ l’indivisibilità, vige un tasso di ,2:1. Naturalmente non c’è alcuna necessità di intensificare continuamente i doni. Alla fine della seconda serie, Y è in passivo dell’equivalente di circa 1 lancia. Se X dovesse portare da 1 a 3 lance la volta seguente e Y ricam­ biare con 1-3 (o meglio 2 o 3) asce, si conserverebbe un giusto equilibrio. Si noti anche che il tasso è un qualcosa pattuito meccanicamente da entrambe le parti, stante l’attuale equilibrio di crediti e debiti, e se sorge qualche serio malinteso la partner­ ship si dissolve - il che, allo stesso modo, stipula il tasso a cui il commercio deve proseguire. 16 Cfr. Malinowski, 1922, p. 188, sugli squilibri dello scambio pesce-igname tra partner di differenti villaggi trobriand. Per altri esempi di buona misura tra partner commerciali nel ricambiare, vedi anche Oliver, 1955, pp. 229, 546; Spencer, 1959, p. 169; cfr. Goldschmidt, 1951, p. 335.

Tabella 6,2. Determinazione del valore di scambio attraverso la buona misura reciproca

Partner X dà

Partner Y dà

3 lance-------------------- »-

I ripresa (X in visita)

2 asce

[3 lance < 2 asce] 2 asce

II ripresa (Y in visita)

6 lance ■------------------- »[9 lance > 4 asce] ma se 3 lance < 2 asce, 6 lance < 4 asce 7-8 lance = 4 asce; o c. 2:1]

1-3 lance------------------

III ripresa (X in visita)


2 asce 4-5 lance = 2 asce]

II ripresa

2 asce

[

6 lance < 4 asce 2 lance = 1 ascia]

[—2 lance]

III ripresa

|

3 lance-------------------------- *-*» ———--- —————----- - 2 asce

[+1 lancia] [—■ 3 lance]

IV ripresa

|

3 lance-------------------------- >-

[0 lance] [■— 4 lance]

2 asce

. * [,

3 lance = 2 asce?]

Questo secondo esempio è soltanto una delle possibili per­ mutazioni della determinazione del tasso di scambio. Perfino in un viaggio a senso unico, l’etichetta del dono e del controdono può essere più complessa di quella ipotizzata (a esempio, Barton, 1910). Adduco gli esempi semplicemente per prospettare la possibilità che differenti modalità di scambio generino differenti tassi di scambio. Per quanto sia complessa la strategia di reciprocità mediante cui si stabilisce infine un equilibrio, e per quanto sottile la nostra analisi, rimane da sapere che cosa esattamente si determini, eco­ nomicamente. Come può essere che un tasso fissato da una reci­ proca generosità esprime la corrente domanda e offerta media? Tutto dipende dal significato e dalla pratica di quel principio capi­ tale, la “generosità”. Ma il significato è etnograficamente incerto, nel che risiede la maggiore debolezza della nostra teoria. I pochi dati noti, neppure rinomati per la loro frequenza nei documenti, sono questi: che coloro che avviano allo scambio un certo bene vi sono in relazione principalmente in termini di valore-lavoro, lo

UNA TEORIA PRIMITIVA

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sforzo reale necessario a produrlo, mentre coloro cui il bene è offerto lo apprezzano principalmente come valore d’uso. È tutto ciò che si apprende dagli episodi del commercio del golfo Huon e siassi, in cui il lavoro di fabbricazione veniva esagerato dai forni­ tori, ma il prodotto di conseguenza deprezzato dagli acquirenti l’una parte come l’altra nella speranza di influenzare le condizioni di scambio a proprio favore (vedi sopra). Da questa incrollabile devozione al proprio interesse, bisogna procedere a ritroso se­ condo una specie di logica invertita al possibile significato di “generosità”. Posta la necessità di una buona misura reciproca, ne conseguirebbe che ognuna delle parti deve considerare, oltre alle virtù dei beni che riceve, la relativa utilità per l’altra parte dei beni che offre, e, oltre il lavoro che ha personalmente speso, anche il lavoro altrui. La “generosità” deve méttere valore d’uso in relazione con valore d’uso, lavoro con lavoro. In tal caso eserciterà sul tasso di scambio alcune delle stesse forze, operanti nella stessa direzione, che influenzano i prezzi nel mercato, In linea di principio, beni' di costo reale superiore evocheranno superiori contropartite. In li­ nea di principio, ancora, se beni di maggiore utilità obbligano il beneficiario a una maggiore generosità, è còme dire che il prezzo tende a crescere con la domanda.17 Controbilanciando così gli sforzi del produttore e le utilità del beneficiario, i tassi fissati da un’accorta diplomazia esprimeranno molte delle condizioni ele­ mentari che altrimenti si compendiano nelle curve della doman­ da e dell’offerta dell’economista. In un caso come nell’altro interverrebbero, e con gli stessi risultati generali, le reali difficol­ tà di produzione, scarsità naturali, gli usi sociali dei beni, e le possibilità di sostituzione. Per molti aspetti l’opposto della con­ correnza commerciale, l’etichetta del commercio primitivo può condurre per un diverso itinerario a un risultato analogo. D’altra 17 Inoltre, si dà il caso empiricamente che una discrepanza dei valori-lavoro possa essere confortata da un’equivalenza di utilità (cfr. Godelier, 1969). “Bisogno” è contrapposto a “bisogno”, forse a spese, in realtà, di una delle parti — benché, come abbiamo visto, la norma della parità di lavoro possa essere anche difesa con astuzie e pretesti ideologici. Questo genere di discre­ panza è assai probabile quando i beni scambiati appartengono a differenti sfere di scambio all’interno di una o di entrambe le comunità commercianti, a esempio manufatti in cambio di cibo, specialmente laddove i prodotti artigianali sono usati anche nei pagamenti della dote della sposa. Allora, l’elevata utilità sociale della piccola quantità di un bene (il manufatto) è compensata da una grande quantità dell’articolo di rango inferiore. Il che può essere un importante segreto nello “sfruttamento” delle zone più ricche da parte delle più povere (a esempio, i Siassi).

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VALORE DI SCAMBIO PRIMITIVO

parte, esiste fin dall’inizio un’analogia di base: i due sistemi con­ dividono la premessa che il mercante deve essere materialmente soddisfatto, la differenza essendo che in un caso ciò è lasciato unicamente alla sua stessa inclinazione mentre nell’altro diventa responsabilità del suo partner. Tuttavia, per essere un “prezzo” diplomaticamente soddisfacente, il prezzo della pace, il tasso di scambio consuetudinario del commercio primitivo deve avvicinar­ si al normale prezzo di mercato. Essendo differenti i meccanismi, questa corrispondenza può essere soltanto parziale, ma la tenden­ za è unica.

Stabilità

e fluttuazione dei tassi di scambio

Provvisoriamente almeno, si giunge alla seguente conclusione: le condizioni materiali espresse familiarmente dai termini “do­ manda” e “offerta” sono analogamente sussunte nei patti di buon trattamento insiti nella procedura del commercio melanesiano. D’altra parte, come mai i rapporti di scambio rimangono immuni da cambiamenti effimeri della domanda/offerta? Già abbiamo accennato ad alcune ragioni di questa stabilità a breve termine. Innanzitutto, i tassi consuetudinari hanno forza morale, comprensìbile per la loro funzione di standard di condotta equa in un’area dove tenui rapporti tra gruppi minacciano co­ stantemente la pace commerciale. E benché dovunque la prassi morale sia vulnerabile di fronte all’interesse personale, in genere non è tanto facile cambiare le regole. Secondariamente, in caso di uno squilibrio di quantità disponibili rispetto alla domanda ( al tasso di scambio vigente), il comtnercio di partnership offre alternative più invitanti al ribasso del “prezzo di cartellino ” o airaumento dell’offerta: meglio trovare nuovi partner commer­ ciali ai vecchi tassi; oppure mettere in imbarazzo un partner esistente con un pagamento esagerato) obbligandolo a estendersi e più tardi a ricambiare, tutelando così di nuovo il tasso consue­ to. Quest’ultima non è una tattica ipotetica, frutto della mia immaginazione. Si prenda questa tecnica busama per incorag­ giare una fornitura di maiali: La differenza tra le tecniche commerciali indigene e le nostre fu chiarita da uno scambio verificatosi all’inizio del 1947. La zona salamaua aveva patito maggiori danni degli insediamenti settentrionali, la maggior parte dei quali conservavano i loro maiali. Alla ripresa dei viaggi dopo la sconfitta giapponese, uno di Bukawa’ ebbe l’idea di portare una pie-

TASSI DI SCAMBIO

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cola scrofa a un parente busama di nome Boya. L’animale valeva 2 ster­ line, ma tutto lasciava pensare che delle pentole sarebbero state più gradi­ te del denaro. Per un ragionevole equivalente era necessario raccoglierne 10, e siccome Boya ne aveva soltanto 5 da parte, informò i parenti che chiunque disposto a dargli una mano avrebbe ricevuto a tempo debito un maialino. L’invito fu accolto, e vennero offerte 22 pentole per un totale di 27 che furono tutte consegnate all’ospite, con sua grande sorpresa, come ebbe a confessarmi in privato. Tuttavia, una simile generosità non era poi tanto assurda quanto può sembrare: pagandolo tanto profumatamente Boya impose al proprio ospite l’obbligo di portare un’altra scrofa (Hogbin, 1951, pp. 84-85).

Il successo della manovra di Boya fu reso possibile unicamente dalle caratteristiche sociali del rapporto commerciale. La partner­ ship non è soltanto il privilegio ma anche il dovere di recipro­ cità. Specificamente comprende l’obbligo di ricevere così come di ricambiare. Alcuni possono ritrovarsi alla fine con più di un certo bene di quanto occorresse loro o si aspettassero, ma il fatto è che non era nelle loro aspettative. Un amico commerciale è per­ suaso ad accettare cose che non gli servono; di conseguenza, dovrà contraccambiare - per ragioni che non sono affatto “econo­ miche”. Padre Ross di Hagen non sembra ne apprezzasse la rela­ tiva etica spirituale: Il missionario disse all’autore che gli indigeni che hanno commerciato con lui, e che al momento sono in strettezze, si recano alla sede della missione con articoli privi di ogni valore materiale e che sono inutili al missionario. Gli indigeni cercano di piazzare questi articoli in cambio di cose di cui hanno bisogno. Al suo rifiuto gli indigeni gli fanno rilevare che la sua condotta è scorretta, perché secondo loro egli è loro amico e deve accettare una cosa che non gli occorre così da assisterli quando non possono fare a meno di questo aiuto. Gli diranno: “Tu compri il nostro cibo, noi ti vendiamo i nostri maiali, i nostri ragazzi lavorano per te. Perciò tu devi comprare questa cosa che dici di non volere, e non è cor­ retto che tu ti rifiuti di acquistarla” (Gitlow, 1947, p. 68).18

'• L’equivoco è culturale e economico, indipendentemente, è ovvio, dalla razza e dalla religione: “...I Nuer considerano un acquisto da un mercante arabo nel' modo in cui noi consideriamo l’acquisto in un negozio. Per loro non è una transazione impersonale, e non hanno alcuna idea di prezzo e valuta nella nostra accezione. La loro idea di acquisto è che tu dai qualcosa a un mercante che è perciò obbligato ad aiutarti. Contemporaneamente gli chiedi qualcosa che ti occorre nel suo negozio e che lui dovrebbe darti per­ ché, accettando il tuo dono, egli ha stabilito con te un rapporto di reci­ procità. Per cui, kok ha il significato di “comprare” o “vendere”. I due atti sono espressione di un unico rapporto di reciprocità. Poiché il mercante arabo considera la transazione in modo un po’ diverso, ne nascono malin­ tesi. Secondo il modo di vedere nuer ciò che è implicito in uno scambio di questo tipo non è tanto un rapporto tra cose quanto tra persone. A essere “comprato” è il mercante, e non i beni...” (Evans-Pritchard, 1956, pp. 223-224).

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Sfruttando lo stesso principio, la gente dell’entroterra sopra i Sio (Nuova Guinea nordorientale) può vincere la riluttanza a commerciare dei partner costieri: Anche i Sio, naturalmente, spesso accettano beni che momentaneamente non occorrono loro. Allorché chiesi a un Sio perché avesse 4 archi (quasi tutti ne hanno più di uno), mi rispose: “Se un amico [commerciale] della foresta arriva con un arco, lo si deve aiutare” (Harding, 1967, pp. 109-110).

Infine, un singolare esempio dello stesso fenomeno, apposto da Malinowski alla sua descrizione dello scambio pesce-igname (wasi) tra differenti comunità trobriand. Finora, osservava Mali­ nowski, i coltivatori interni di igname continuavano a insistere sull’obbligo di ricevere dei loro partner costieri, strappando così periodicamente una provvista di pesce, e alle solite condi­ zioni, benché per la gente di mare sarebbe stato molto più pro­ fittevole pescare perle. Il denaro rimaneva così schiavo della consuetudine, e la partnership padrona dei tassi di scambio indi­ geni: Oggigiorno, quando i pescatori potrebbero guadagnare dieci o venti volte di più tuffandosi in cerca di perle che non facendo la loro parte del wasi, lo scambio è di regola un pesantissimo fardello per loro. È uno degli esempi più lampanti della compattezza del costume indigeno il fatto che, nonostante tutte le tentazioni che la pesca delle perle offre loro, e nonostante le formidabili pressioni a cui li sottopongono i mercanti bian­ chi, i pescatori non cerchino mai di eludere un wasi, e che quando rice­ vono il dono augurale, il primo giorno di bonaccia sia sempre dedicato alla pesca del pesce invece che delle perle (Malinowski, 1922, p. 188 n.).

Agendo così in modo da mantenere la stabilità dei valori di scambio, la partnership commerciale merita un’interpretazione più generale e più rispettosa del suo significato economico. La partnership commerciale primitiva è l’equivalente funzionale del meccanismo dei prezzi di mercato. Un momentaneo squilibrio della domanda-offerta è risolto da una pressione sui partner com­ merciali invece che sui tassi di scambio. Mentre nel mercato l’equilibrio si realizza con un cambiamento del prezzo, qui il lato sociale della transazione, la partnership, assorbe la pressione economica. Il tasso di scambio rimane invariato - anche se il tasso temporale di certe transazioni può essere ritardato. L’analo­ go primitivo del meccanismo commerciale dei prezzi non è il tasso di scambio consuetudinario; è il rapporto consuetudinario di scambio.. Così si realizza un’uniformità a breve termine dei valori di scambio. Tuttavia, è la stessa deviazione della pressione dal tasso

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di scambio al rapporto di parnership a rendere quest’ultimo ancor più vulnerabile da una prolungata discrepanza della domanda/offerta. Supponiamo una continua e/o sempre più ampia di­ sparità tra il tasso tradizionale di scambio e la quantità di beni effettivamente disponibili - dovuta, magari, a una qualche nuova opportunità di acquisire uno dei beni in questione. A questo punto il commercio di partnership aumenta la pressione mate­ riale nell’intenzione di ovviarvi. Fermi restando i termini di scambio, la tattica di pagare esageratamente si rivela ragione­ vole e tollerabile soltanto se lo squilibrio domanda-offerta è reversibile. Altrimenti, un’intrinseca tendenza ad accumulare volume la rende intollerabile. Infatti, appellandosi a un ob­ bligo del partner di ricevere, data la sua possibilità di reagire in ritardo, lo scambio procede sempre alla quantità richiesta dalla parte più importuna. Sotto questo profilo, la spinta alla produ­ zione e allo scambio supera perfino la dinamica del mercato concorrenziale. In altri termini, agogni permutazione dell’offerta che si spinga al di sopra o al di sotto della domanda a un determinato prezzo, il volume dello scambio implicito nel commercio di partnership è maggiore dell’analogo equilibrio di mercato. Magari la quantità disponibile di maiali è momentaneamente inferiore alla quantità richiesta a un tasso di 1 maiale — 5 pentole; tanto peggio per gli allevatori di maiali: essi dovranno aumentare le consegne allo stesso tasso, finché tutte le pentole siano esaurite. Nel mercato libero, la quantità totale trattata sarebbe inferiore, e a condizioni più favorevoli al commercio in maiali. È evidente che, se permane la disparità tra i tassi correnti e i beni a disposizione, il commercio di partnership non può che scoprire i propri limiti di meccanismo equilibratore, mettendo sempre a disposizione della domanda un’offerta e sempre alle solite condizioni. Considerato a livello sociale, il commercio di­ venta irrazionale: un gruppo entra nello sviluppo economico per un diritto di prelazione sul lavoro di un altro. Né è prevedibile che il gruppo di partner tartassato tolleri indefinitamente lo squilibrio, né tanto meno che una società che tollerasse la proce­ dura continui indefinitamente. A livello individuale l’irrazionalità con ogni probabilità si prospetta come una disutilità ad accumula­ re, più concreta del costo di produzione non ricambiato. Deve arrivare un momento, dopo che qualcuno è entrato in possesso di 5 archi, o magari 10 o forse 20 in cui comincia a interrogarsi sull’opportunità di raccogliere tutto ciò di cui il suo partner sem­

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bra intento a disfarsi. Che cosa accade allora, quando la gente di­ venta riluttante o incapace di far fronte ai propri obblighi com­ merciali? Se lo sapessimo, si svelerebbe l’ultimo dei misteri posti dal commercio melanesiano: la tendenza osservata dei valori di scambio ad adeguarsi nel lungo periodo, se non nel breve, ai cambiamenti della domanda/offerta. Evidentemente, infatti, la soluzione consiste nel valutare i tassi. Ma come? Trasferendo il commercio, rivedendo le partnership. Sappiamo. da un lato, che cosa accade quando un partner commerciale è riluttante a ricambiare. La sanzione è dovunque la dissoluzione della partnership. Per una volta si può prendere tèmpo, ma se il ritardo è eccessivo o se alla fine si manca di ricambiare adegua­ tamente, il rapporto commerciale si interrompe. In tal caso, inol­ tre, il volume di scambio diminuisce, per cui crescg la spinta a commerciare. D’altro lato, sappiamo (o supponiamo) che il pro­ cesso mediante cui si determina in prima istanza il valore di scambio, cioè attraverso la buona misura reciproca, incorpora le vigenti condizioni medie della domanda-offerta. La soluzione, perciò, a una permanente discordanza tra valori di scambio e domanda/offerta sarebbe un processo sociale con cui si pone termine alle vecchie partnership negoziandone delle nuove. Forse perfino la rete commerciale dovrà essere modificata, geografica­ mente ed etnicamente. Ma in ogni caso, un nuovo inizio, passan­ do attraverso le tradizionali raffinate manovre di reciproco paga­ mento in eccesso, ripristina con i nuovi partner la corrispondenza tra valore di scambio e domanda/offerta. Questo modello, benché ipotetico, corrisponde a certi fatti, quale l’organizzazione sociale della deflazione sperimentata nelle reti commerciali melanesiane nel periodo successivo al contatto. Il commercio indigeno continuò per un certo periodo senza bene­ ficiare di una concorrenza sistematica. Ma gli stessi Europei che portarono eccessive quantità di asce, conchiglie o maiali imposero anche casualmente la pace. Nell’era coloniale la sfera del salva­ condotto melanesiano si espanse, gli orizzonti sociali delle comu­ nità tribali si ampliarono. Fu possibile un significativo rimgscolamento e allargamento dei contatti commerciali. E anche una rivalutazione dei tassi di scambio: come, a esempio, nel commer­ cio tra costa e interno del golfo Huon, nel complesso avviatosi più recentemente, e apparentemente più sensibile alla domanda/ offerta del tradizionale commercio marittimo (Hogbin, 1951, p. 86; cfr. Harding, 1967).

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II che suggerisce un’ipotesi finale: a seconda delle caratteristi­ che sociali del rapporto commerciale, i tassi di scambio in sistemi commerciali differentemente organizzati sono probabilmente dif­ ferentemente sensibili a cambiamenti della domanda/offerta. Diventa significativa la precisa natura della partnership: può essere più o meno socievole, lasciando così adito a ritardi più lunghi o più brevi nel contraccambiare - la parentela commer­ ciale, a esempio, è soggetta probabilmente a ritardi più lunghi dell’amicizia commerciale. Il rapporto vigente ha un coefficiente di fragilità economica, e, di conseguenza, l’intero sistema una certa sensibilità alle variazioni della domanda/offerta. La sempli­ ce questione della privacy o pubblicità consuetudinaria può essere analogamente conseguente; forse è possibile (per quanto se ne sa) pattuire segretamente nuove condizioni con i vecchi part­ ner. E quale libertà esiste all’interno del sistema di reclutare nuovi partner? A prescindere dalle difficoltà di farsi strada in villaggi o gruppi etnici precedentemente al di fuori del sistema, le partnership possono essere ereditate consuetudinariamente e la serie dei contatti essere perciò chiusa, oppure più facilmente con­ trattate e i valori di scambio quindi più suscettibili di revisione. In breve, la flessibilità economica del sistema dipende dalla struttura sociale del rapporto commerciale. Se il processo delineato descrive fedelmente le variazioni a lun­ go termine del valore di scambio, allora a un alto livello di gene­ ralizzazione e con una notevole imperfezione assomiglia alla con­ correnza commerciale. Naturalmente, le differenze sono profon­ de. Nel commercio primitivo, la strada verso l’equilibrio econo­ mico non passò attraverso l’azione di individui o aziende autono­ mi fissanti un prezzo attraverso le parallele competizioni dei com­ pratori e dei venditori. Iniziò invece dall’interdizione della con­ correnza all’interno della comunità degli uni o degli altri, attra­ versò una struttura di congegni istituzionali che con mutevole fa­ cilità associavano partner reciprocamente obbligati a essere gene­ rosi, a rischio di allontanare quelli non disposti, per negoziare infine un “prezzo” analogo. L’analogia con il commercio mer­ cantile appare, una volta fatta astrazione di tutto ciò e della pro­ tratta scala spazio-temporale, forse in realtà un “passaggio” di decenni dal commercio con un gruppo etnico a partnership in un altro. Allora il sistema primitivo, globalmente considerato, mette in rapporti commerciali quelle particolari persone, e a quei tassi che ragionevolmente rispecchiano la disponibilità e l’utilità dei beni.

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Ma qual è lo status teorico di questa residua analogia? Il fatto che fosse inizialmente apprezzata nella sua forma borghese, ne fa forse la proprietà privata analitica dell’Economia conven­ zionale? La risposta non può che essere a ragione negativa, per­ ché nella sua forma borghese il processo non è generale, mentre nella sua forma generale non è borghese. La conclusione per questo aspetto del commercio melanesiano servirà anche in gene­ rale: una teoria primitiva del valore di scambio è anche necessa­ ria, e forse possibile - per non dire che già esiste.

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INDICE DEI NOMI

Abelam, 253 Aborigeni, 15, 18-19, 39, 41, 238, 263 Aiston, G., 294, 311 Allan, W„ 54, 56 tab., 57, 61 e n., 311 Althusser, L., 9, 85n., 132n., 141n., 311 Andamanesi, 237, 248, 262, 299 Anderson, 147 Arapesh, 253 Arawe, 276 Arunta, 17n., 37, 82, 263 Assiniboine, 254, 265 Awad, M., 65n., 311 Azande, 73, 75 Balibar, E., 85 Balowan, 280n. Banton, M., 8 Bantu, 78, 235-236, 247 Barnett, H.G., 217, 258, 311 Barth, F., 206-207, 311 Barton, F.R., 302, 311 Bartram, W., 214, 259, 311 Basedow, H., 38-39n., 42, 311 Bau-Aundugu, 57 tab. Beaglehole, E., 269, 311 Beaglehole, P., 269, 311 Belsaw, C. 286n., 311 Bemba, 63-64, 66, 71n., 72 tab., 73 e tab., 131, 247, 260, 270 Bennett, W.C., 148n., 311 Best, E., 156-158, 160n„ 161, 162-164 e nn., 165-166nn., 167 e n., 168-172 e n., 173, 312 Biard, P., 41-42, 312 Biggs, B., 157 e n., 163-164nn., 169 Bilibili, 277 Bindegu, 57 tab.

Birket-Smith, K., 238, 263, 312 Blackwood, B., 243, 295n., 312 Bleak, D.F., 312 Boas, F., 17, 238, 263, 312 Boeke, J.H., 94, 312 Bogoras, W., 247, 268, 312 Bohannan, L., 66n., 68n., 312 Bohannan, P., 66n., 68n., 222, 247, 272, 296, 312 Bonwick, J., 37n., 312 Boscimani, 15, 18, 21-22, 24, 26, 32-35, 39, 40n., 50, 59-60, 63, 66, 68, 144, 188, 215-216, 235-237, 248, 262 Bougainville, 284 Braidwood, R.J., 17-18n., 312 Brookfield, H.C., 54-55 e nn., 56 tab., 57, 243, 312 Brown, P., 54-55 e nn., 56 tab., 57, 243, 312 Bucharin, N., 313 Bucher, K., 85, 91, 104, 313 Bulmer, R., 38, 243, 252, 313 Burling, R., 133n., 190n., 313 Burridge, K., 253, 313 Buruk-Maima, 57 tab. Busama, 240, 282, 283 tab., 284-289 Bushong, 62-63 Carneiro, R., 54-55, 56 tab., 58, 66, 78, 106, 137, 268, 313 Carriers, 249 Cazeneuve, J., 176, 313 Chayanov, A.V., 95, 97 e n., 98 tab., 99 e n., 100 tab., 109-110, 112-113, 115-117n., 120, 123, 126-127, 142, 313 Chimbu, 55, 242 Chipewayan, 264

326

Chowning, A., 142, 313 Ciukci, 247, 268 Clark, C., 20n., 60-61, 72n., 117n., 313 Clark, G„ 15, 313 Clark, W.T., 65n., 313 Cedere, H., 16n., 44, 258, 313 Colson, E., 112n., 129, 313 Comanche, 255, 266 Condorcet, M.-J.-A. de, 48 Conklin, H.C., 47, 54, 56 tab., 58n., 313 Cook, J., 147 Cook, S., 10n., 133n., 313 Coues, E., 266, 314 Cree, 254, 266 Cunnison, I., 155n. Curr, E.M., 36, 314 Dalton, G., 16, 190n, 222, 272, 296, 312, 314 Davies, J., 258, 314 Deacon, A.B., 225, 253, 314 Denig, E.T., 212, 225, 254, 265, 314 de Schlippe, P., 73, 75, 314 DeVore, I., 21, 318 Dinka, 246 Dogomba, 56 tab. Domkani, 57 tab. Douban, 220 Douglas, M., 62-63, 83n., 137, 314 Driberg, J.H., 274, 314 Drucker,' Ph., 140n., 213, 221, 258258, 268, 314 Dubbledam, L.F.B., 292, 314 DuBois, C., 221, 268, 314

Elkin, A.P., 238, 314 Engels, F., 101n., 314 Erodoto, 104 Eschimesi, 20, 50, 90, 139, 222, 238, 249, 262-264 Evans-Pritchard, E.E., 190, 214, 217, 246, 267, 305, 314 Ewers, J.C., 255, 265-266, 292, 315 Eyre, J,E., 20, 37, 38, 315 Faron, C, 15, 323 Figini, 76 Firth, R., 67, 78, 132-136, 140n., 146, 149, 159-160n., 161 e n., 166 e n., 167, 169-170, 172, 185, 190n„ 192n., 193-194, 202, 207, 222, 229-231, 244, 255, 258, 269-270, 272, 315 Forde, C.D., 64, 79-80, 315 Formander, A., 151-152nn., 256, 315

INDICE DEI NOMI

Fortune, R., 220, 243, 315 Freeman, J.D., 56 tab., 80-81 e tab,, 227, 315 Gahuka-Gama, 212 Galbraith, J.K., 14 ’Gawa, 240, 250 Geddes, W.R., 80n., 227-230, 315 Gifford, E.W., 221, 257, 315 Gillen, F.J., 36-37 e n., 38, 42, 238, 264, 322 Gitlow, A., 292, 305, 315 Gluckman, M., 193, 315 Godelier, M., 66, 109n., 186, 303n., 315 Goldschmidt, W., 223-224, 259, 298n„ 300n., 316 Goodenough, W., 142, 313 Goodfellow, D.M., 274, 316 Gorz, A., 16n., 316 Gouldner, A., 195, 211, 299, 316 Grey, Sir G., 19-20, 23, 38, 316 Grinnell, G.B., 316 Gudgeon, 166n. Guidieri, R., 7 Guillard, J-, 72, 73 tab., 316 Gusinde, M., 22-23, 25 e n., 26, 40, 43, 48, 316

Hadza, 39-40n., 60, 65, 77n. Handy, E.S.C., 148 e n., 258, 316 Hanuoo, 47 Harding, Th. G., 274, 277-278, 280, 294n., 301, 306, 308, 316 Harmon, D.W., 220, 249, 316 Harris, M., 15n., 316 Haswell, M., 20n., 60-61, 72n., 117n., 313 Haury, E.W., 15, 316 Hawaiani, 66, 130, 152 Hearne, S., 264-265, 316 Helsum, J., 8 Henry, A., 21n. Henry, J., 245-246, 261, 271 Herero, 237 Herskovits, M.J., 15, 19, 26, 32, 316 Hertz, 159 Hiatt, 36, 38, 316 Hobbes, Th., 11, 104-105, 155, 174-177 e n., 178, 181-185 e n. Hodgkinson, 20n., 36-37, 316 Hoebel, E.A., 15, 255, 266, 317, 324 Hogbin, H.I., 136, 140n., 141 e n., 198, 225, 240, 250-252, 269, 281282, 283 tab., 284-286, 299, 305, 308, 317

INDICE DEI NOMI

Holmberg, A.R., 208, 317 Howell, P.P., 246, 267, 317 Hunter, J„ 254, 266, 317

Iban, 56 tab., 80 e n., 227 Indiani Copper, 264 Indiani Nomlaki, 223 Ivens, W.G., 136, 140n., 253, 317 Izikowitz, R.G., 56 tab., 58, 80n., 137, 142n., 227, 228-230, 317

Jeannent, 37n. Jochelson, W., 214, 216, 220, 317 Johansen, J.P., 159, 162-163, 317 Kaberry, Ph. M., 225, 253, 317 Rachin, 259 Kamanianbugo, 57 tab. Kansa-Osage, 254, 266 Kaora, 251 Rapauku, 66-68,121,122 tab., 123,127 tab., 129, 195, 242, 251, 291, 295 e n. Ratiera, 82 Kauai, 148 Kelly, R.C., 59n., 317 Kingum-Sumbai, 57 tab. Kluckhohn, C., 204, 317 Romba, 294n. Komu-Ronda, 57 tab. Rroeber, A.L., 221-222, 225, 259, 268, 317 Ruikuru, 55, 56 tab., 57, 66, 77-78, 137, 268 Ruma, 219, 241 Kung, 21-22, 59, 63, 66, 236 '

Labu, 283 tab. Lafargue, P., 40n., 76n., 317 Lamet, 56 tab., 58, 80n., 137, 142, 227 Land Dayak, 80n., 227-230 Landtman, G., 142, 317 Langalanga, 276 Lattimore, O., 24 Leach, E.R., 226, 260, 318 Leacock, E., 78, 264, 318 Le Clair, E.E. Jr., 190n., 318 Lee, R., 21, 32-34 e n., 35, 39-40n., 44, 59; 318 Lejeune, P., 26, 42-44, 51, 318 Lele, 62 e n„ 63, 83n., 137 Lesu, 221, 243, 252 Lévi-Strauss, C., 7, 132, 139, 159, 161, 186-187, 197n., 298, 318 Lewthwaite, G.R., 147, 318 Linton, R., 258,'294n., 318

327

Locke, J., 175 Loeb, E.M., 198, 222, 225, 233, 259, 294n., 318 Lothrup, S.R., 40n., 318 Lowie, R.H., 17, 49, 318 Lozi, 78 Lucrezio, 15n. McArthur, M., 27-32, 38, 77n., 318 McCarthy, F.D., 27-32, 38, 77n., 319 MacGregor, G., 269, 319 McKern, W.C., 268, 319 MacRinlay Kantor, 220 McNeilly, F.S., 177n., 319 MacPherson, C.B., 179n., 319 Mafulu, 242 Mailu, 201 Malekula, 253 Malinowski, B., 91, 144, 190n., 192n., 193, 195-197, 201, 207, 220, 243, 253-254, 300 e n„ 306, 319 Malo, D„ 152-153 e n., 214, 256, 319 Man, E.H., 248, 262, 319 Mandan, 266 Mandel, E., 319 Mandelbaum, D.G., 255, 266, 319 Manus, 242, 252, 276-277n., 279, 280n. Maori, 132, 146, 155, 158-160n„ 162163, 166-168, 170, 173-174, 244, 255 Maranda, P., 7 Mariner, W., 257, 319 Marshall, A., 319 Marshall, L., 22, 34, 132n., 188, 196, 235-237, 248, 262, 319 Marx, K., 9, 14, 85, 88, 89-90nn., 93, 141n., 185-186, 296n., 319 Masai, 61n., 64 Mathew, J., 38, 319 Mauss, M., 26, 155-161n., 162-163n., 164n„ 166-167nn„ 172n., 174-179n., 180-187, 319 Mead, M., 137, 140, 242, 252-253, 277n„ 279-280n., 320 Meggitt, M., 37, 238, 263, 292, 320 Meillassoux, C., 85n., 320 Melanesiani, 90, 143 Micheli, G., 176n. Micmac, 41 Moala, 79 Molesworth, 185 Mondu-Ninga, 57 tab. Montagnais, 26, 42-43 Morgan, L.H., 103, 129 Mukogodo, 61n. Murngin, 24, 50

Nadel, S.F., 69 tab., 71, 320 Nambikwara, 138

328

Naregu, 55 e n., 56 tab., 57 Nash, M., 10n., 320 Naskapi, 254 Navaho, 204 Ndembu, 56 tab., 58 Needham, R., 44, 320 Negritos, 264 Nilles, J., 320 Nuer, 143, 246, 267, 305n. Nupe, 69 tab., 71n. Nyae Nyae, 21, 34 Oberg, K, 231, 320 Ojibwa, 265, 267 Oliver, D., 76-77, 140-141nn., 195-196, 201-202, 213, 241, 250, 284, 294n„ 300n., 320 Ona, 18 Ottawa, 267 Piedi Neri, 255, 265 Pigmei, 22n., 131, 237, 264 Pilagà, '245, 261, 271 Pirenne, H., 93, 94, 320 Pirie, N.W., 60 e n., 320 Polanyi, K., 10n., 16, 41, 192 e n„ 193, 296, 320 Pomo, 222 Pospisil, L., 66-68 e n., 121, 122 tab., 126, 129n., 195, 224, 242, 251, 274, 292, 294, 321 Pouillon, J., 7 Powdermaker, H., 221, 225, 243, 252, 321 Powell, H.A., 210, 321 Price, J.A., 61, 196-197, 208, 237, 274, 321 Proudhon, P.-J., 296n. Provinse, J.H., 68, 227, 321 Putnam, P„ 237, 264, 321

Quimby, G.I., 21n., 321 Radcliffe-Brown, A.R., 40n., 210, 224, 237-238, 248-249, 262, 299, 321 Rancière, J., 132n., 311 Rappaport, 56 tab. Read, K.E., 212, 321 Reay, M., 198, 219, 241, 252, 321 Redfield, R., 15, 321 Richards, A.I., 63-64 e n., 66, 71.e n., 72-73 tab., 131, 140n., 193, 219, 247, 260, 270, 321 Rink, H„ 238, 263, 321 Rivers, W.H.R., 65n., 321 Robbins, L., 133n., 321

INDICE DEI NOMI

Rodriguez, M., 258, 321 Rousseau, J.-J., 84, 104-105 e n., 155, 175-176, 322

Sa’a, 136, 253 Sahlins, M.D., 79, 95, 133n., 141, 146147, 190-191nn., 214, 231, 247, 249, 253, 255, 274, 322 Salisbury, R., 272, 291-292, 322 Salish, 222 Sauer, C., 26n. Schapera, I., 237, 262, 322 Schebesta, P., 237, 264, 322 Schwartz, Th., 280n., 322 Scioscioni, 21, 51, 239, 264 Scudder, T., 81, 82 tab., 110, 111 tab., 112 e n„ 116, 322 Seligman, C.G., 198, 224, 322 Semang, 237. Serenji Lala, 56n. Service,. E.R., 7, 21, 17n., 231, 322 Sharp, L., 40n., 76, 95, 238, 276-277, 322 Shirokogoroff, S.M., 239, 264, 322 Siassi, 277, 279-280, 290n., 303n. Sio, 279, 294n., 306 Siriono, 208 Siuai, 76, 195, 201-202, 213, 241-242, 250 Smith, A., 9 Smyth, R.B., 23n., 38, 41, 45, 322 Somerville, 37n. Spencer, B., 36-37 e n., 38, 42, 264, 322 Spencer, J.E., 58, 323 Spencer, R.F., 40n., 196, 222, 225, 238-239, 249, 262-263, 294, 300n., 323 Spinoza, B., 175 Stewa‘rd, J., 15, 40n., 51, 239, 264, 323 Stewart, C.S., 66, 323 Stuart Mill, J., 47 Sturt, 19 Suggs, R.C., 149, 323 Sunggwakani, 57 tab. Suttles, W., 222, 258, 323 Swaka, 56 tab. Swanton, J.R., 259, 323

Tarai, 276, 279, 282, 287-288 Tanner, J„ 211, 267, 323 Tasmaniani, 37n. Terei, 242 Tertay, E., 85n., 109n., 323 Thomas, E.M., 144, 216, 237, 248, 262, 323

329

INDICE DEI NOMI

Thomson, D.F., 51, 323 Thutnwald, R., 91, 242, 250, 323 Tikopia, 76, 134, 136, 149, 214, 244, 258, 269-270 Titiev, M., 68, 323 Tiv, 66n., 247 To’ambaita, 252 Togl-Konda, 57 tab. Tolowa-Tututni, 221 Tonga, 110, 111 tab., 112n., 257 Toupouri, 72-73 e tab. Toynbee, A., 147 Tracy, D. de, 14 Trobriandiani, 204, 243, 253 Tsembaga, 56 tab. Tswana, 237 Tungu, 253 Tungusi, 239, 264 Turnbull, C., 22n., 132n., 237, 323 Turner, V., 56 tab., 58, 323 Twain, M., 11 Tylor, 189, 200

Wagner, G., 247, 324 Walbiri, 238, 263 Wallace, E„ 255, 266, 324 Warner, LI. W., 24, 238, 324 Washo, 237 Weyer, E.M., 263, 324 Wheeler, G., 41n. Wheeler, J., 41 n., White, L., 15, 17-18, 190, 205, 324 Wiley, G.R., 18n., 312 Williams, H., 167n., 168, 324 Williams, W., 160n., 324 Williamson, R.W., 198, 225, 242, 324 W. Lala, 56 tab. Wogeo, 136 Wolf, E., 7 Woodburn, J., 39 e n., 40n., 43, 48, 60, 65n„ 77n., 324 Worsley, P.M., 30, 324 Worthington, E.B., 61, 324 Wugukani, 57 tab.

Usiai, 242, 280

Yagaw Hanaoo, 56 tab. Yahgan, 18, 22, 25, 43 Yamana, 40 Yir-Yiront, 30, 76, 276-277 fig. Yonggomakani, 57 tab. Yukaghir, 216, 220 Yurok, 221, 268

Van der Post, L., 24, 323 VanLeur, 227, 324 Vanoverbergh, 264, 324 Vayda, A.P., 222, 233, 324 Veblen, T., 89, 195, 325

INDICE GENERALE

Ringraziamenti

7

Introduzione

9

1.

L’originaria società opulenta Origini dell’equivoco “Una sorta di abbondanza materiale” L’alimentazione Riconsiderando cacciatori e raccoglitori

2.

Il modo di produzione domestico: La struttura della sottoproduzione Dimensioni della sottoproduzione Sottutilizzo delle risorse Sottutilizzo della forza-lavoro Insuccessi domestici Elementi del modo di produzione domestico Le generalizzazioni sono giustificate? La divisione del lavoro Il rapporto primitivo tra uomo e utensile Produzione per la sussistenza La regola di Chayanov Proprietà Poóling Anarchia e dispersione

52 53 53 61 78 83 83 87 88 91 95 100 102 103

Il modo di produzione domestico: Intensificazione della produzione

108

3.

13 14 21 26 45

Un metodo di indagine dell’inflessione sociale della produzione domestica Parentela e intensità economica L’intensità economica dell’ordinamento politico

109 129 136

4.

Lo SPIRITO DEL DONO “Explication de texte” I commenti di Lévi-Strauss, Firth e Johansen Il vero significato dello “bau” dei beni di valore Digressione sull’apprendista stregone Il più ampio significato di “bau” Filosofia politica dell’ “Essai sur le don” Aspetti politici dell’ “Essai” e del “Leviatano”

155 155 159 163 167 171 174 177

5.

Sociologia dello scambio primitivo Flusso materiale e rapporti sociali Uno schema di reciprocità Reciprocità e distanza parentale Reciprocità e rango parentale Reciprocità e ricchezza Reciprocità e cibo Sulla reciprocità equilibrata Amicizia o parentela formale Omologazione di alleanze di gruppo Pacificazione Alleanza coniugale Una postilla

189 189 195 200 208 214 219 223 224 224 225 225 234

6.

Appendice. A Appunti su reciprocità e distanza parentale Appendice B Appunti su reciprocità e rango parentale

248

Appendice C Appunti su reciprocità e ricchezza

261

Il valore di scambio e la diplomazia del com­ mercio primitivo

Tre sistemi commerciali Variazioni di tasso nel tempo L’organizzazione sociale del commercio primitivo e mercantile

235

272 275 290 293

Una teoria primitiva delvalore di scambio Stabilità e fluttuazione dei tassi di scambio

297 304

Bibliografia

311

Indice dei nomi

325