L’economia del noi. L’Italia che condivide

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L’economia del noi. L’Italia che condivide

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Saggi Tascabili Laterza 351

Roberta Carlini

L’economia del noi L’Italia che condivide

Editori Laterza

© 2011, Gius. Laterza & Figli Prima edizione 2011 www.laterza.it Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Finito di stampare nel marzo 2011 SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-420-9576-7

Introduzione

La grande recessione ha portato via con sé parecchie certezze. Oltre a milioni di posti di lavoro, case, mutui, pensioni, sanità, scuole e università; oltre a molte imprese e qualche banca; oltre a molte vite umane; oltre al mito della stabilità e della crescita come elementi naturali del sistema; oltre al castello di carte dell’economia finanziaria e a un bel pezzo dell’economia reale, la grande crisi ha fatto cascare anche una certa concezione dell’economia. Ossia, quel corpus di idee e teorie prevalenti che ha dominato sulla scena politica, culturale e accademica negli ultimi trent’anni. I segnali di questa crisi sono parecchi. Ha cominciato subito la regina Elisabetta, con la sua celebre domanda naïf agli attoniti economisti della London School of Economics circa la mancata previsione del crollo («come mai non se n’era accorto nessuno?»). Ha proseguito l’Accademia di Stoccolma, che dopo il disastro ha fatto uscire per un po’ il Nobel per l’economia dai ristretti confini della teoria mainstream in cui era rimasto, salvo rare eccezioni, per anni e anni; portandolo addirittura dagli algoritmi super-specialistici del mercato al campo interdisciplinare dei «commons», premiando Eleanor Ostrom e le sue ricerche sulla gestione collettiva dei beni comuni, e così riportando l’economia con i piedi per terra, dentro la società. Se ne sono accorti la comunità scientifica e i media, con ­v

una produzione ricchissima di libri e articoli con critiche, autocritiche, processi alla «scienza triste». Nei convegni degli economisti è comparsa la parola «felicità» e il relativo filone di studi ha trovato nuova linfa. Intanto si è andata allargando al di fuori dell’ambito degli addetti ai lavori la critica alla crescita del Pil come sola misura del benessere delle nazioni: una critica di lungo periodo che ha permeato studi e movimenti, ma che è stata sussunta a livello istituzionale in Francia con la Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi, è entrata anche nei programmi scientifici di istituti di statistica nazionali tra i quali il nostro Istat, ed è diventata argomento ricorrente e persino di moda nella pubblicistica economica. Anche in questo caso è in gioco l’allargamento dei confini dell’economico, e l’ingresso di indicatori di qualità sociale al fianco dei tradizionali indici relativi alla sfera dell’economia intesa in un senso assai ristretto. Sulla stessa interpretazione della crisi, si sono fronteggiate una versione minimalista, che ha chiamato in causa disfunzioni della finanza e disattenzioni del regolatore, e altre più attente a fattori strutturali globali; queste ultime indagano sul ruolo che la crescita delle diseguaglianze sociali nelle società occidentali ha avuto nell’innescare la crisi del debito, e dunque sottolineano l’importanza dei fattori distributivi, sociali e istituzionali sui fatti dell’economia: riequilibrando così i pesi tra mercato, società e politica, per un lungo periodo decisamente squilibrati a favore del primo. Si tratta di segnali per un po’ di tempo molto evidenti anche nella percezione pubblica e poi rapidamente dimenticati dopo che la crisi finanziaria è rientrata – grazie al pronto soccorso dei governi – mentre è esplosa in tutta la sua distruttività quella economica – contro la quale l’intervento della politica è stato meno rapido se non assente. Segnali di diversa natura, tutti però concordanti nel mettere in discussione l’assunto che ha nutrito per trent’anni il senso comune dell’economia: quello per cui è l’interesse ­vi

individuale l’unico motore e l’unica chiave interpretativa dei comportamenti umani nella sfera della produzione e dello scambio. In quest’ottica, il mercato da luogo istituzionale dove si scambiano beni, servizi e denaro diventa centro di gravitazione universale, e l’individuo – l’io isolato al centro della scena economica – il protagonista di un modello che, con teorie e tecniche via via più raffinate, ha sempre continuato a battere sullo stesso chiodo: lasciate fare gli interessi individuali, e la loro interazione ci darà il massimo raggiungibile per tutti. Una concezione del mondo che pareva fallita e incartocciata negli scatoloni dei broker di Lehman Brothers, e che è stata momentaneamente accantonata proprio dai suoi più accaniti fautori, quando sotto le strette della crisi hanno chiesto e ottenuto un salvataggio pubblico per rimediare ai guasti privati. Salvo poi tornare sani e salvi al «business as usual», rifiutando innovazioni radicali sulle regole finanziarie e sullo stesso sistema economico. Gli interessi costituiti, o meglio ricostituiti, si sono ripresi la scena, ma non è una gran scena in un mondo occidentale alle prese con disoccupazione, povertà, instabilità, rischi ecologici crescenti e crescenti paure; mentre la politica, alla quale era stato ridato un piccolo scettro nell’emergenza della crisi finanziaria, l’ha subito perso, non sapendo bene come usarlo o non riuscendo a farlo per sproporzione di forze. È in questo quadro – di macerie ma anche di una transizione potenzialmente fertile – che emergono sempre più nella società comportamenti che sostituiscono il «noi» all’«io», la condivisione alla divisione, la cooperazione alla frammentazione. Definiamo l’economia del noi come un insieme di esperienze fondate sui legami sociali, nelle quali gruppi di persone entrano in relazione e cercano soluzioni comunitarie a problemi economici, ispirate a princìpi di reciprocità, solidarietà, socialità, valori ideali, etici o religiosi. Fuori dalla logica esclusiva dell’homo oeconomicus, ­vii

spesso contro di essa, ma dentro il mercato. Fuori dalla scena politica istituzionale, ma con l’ambizione di portare una propria visione politica nel fare quotidiano. Fuori dall’universo chiuso della proprietà privata, nello spazio aperto dei beni comuni. Di esperienze del «noi» la storia del capitalismo è costellata sin dalle origini. Dalle società di mutuo soccorso in poi, è lunga la lista di esempi di quella che Polanyi definiva «l’autodifesa della società» dal mercato, e che gli anti-utilitaristi del Mauss chiamano la «persistenza del dono nelle società moderne». Lunga, diversificata, e con ondate cicliche. Ha preceduto e accompagnato l’ascesa dell’azione collettiva organizzata nei sindacati e nei partiti di massa, gettando le basi di istituti che sarebbero poi diventati pilastri del welfare state; e ha accompagnato la crisi dello Stato sociale, svolgendo un ruolo di integrazione o di sostituzione rispetto ai suoi servizi. Ha prosperato, con le cooperative bianche e rosse del dopoguerra, in epoca di politica «forte», sorretta da robusti schemi di cambiamento del sistema economico e sociale; ed è ritornata, con gruppi che praticavano modelli alternativi di consumo, di risparmio, di bilanci, in epoca di politica debole, debolissima, a contrapporre alla povertà di vedute di quest’ultima le sue «utopie del ben fare» (per citare il bel titolo di un libro di Giulio Marcon, excursus esaustivo e critico nella storia delle organizzazioni della società civile in Italia). È cresciuta, nel mondo occidentale e anche in Italia, negli stessi decenni in cui a livello politico mondiale le istanze dell’economia «giusta» venivano mandate in soffitta o delegate al mondo della religione o della filantropia. Adesso, l’economia del noi gode di due fattori congiunturali favorevoli. Il primo è in negativo, ed è nel declino delle fortune teoriche dell’individualismo economico, nella consapevolezza diffusa dell’esaurimento di un modello che ha provocato guasti sociali e sta portando al collasso ambientale, nell’urgenza di un’innovazione di sistema. Il secondo è in positivo, ed è nell’economia della conoscen­viii

za: il cambiamento del paradigma tecnologico seguìto alla rivoluzione della rete, che non solo dà ai gruppi (oltre che ai singoli) un formidabile strumento di comunicazione, organizzazione e azione, facilitando la messa in pratica di molti progetti di innovazione sociale; ma che è essa stessa, strutturalmente, un’economia di comunità, fondata sulle relazioni, dove la cooperazione vince perché è più efficace e non solo perché è più buona, e nel quale sono la collaborazione e il dono a produrre valore. Dai gruppi d’acquisto di quartiere alle nuove comunità del free software, dai gruppi di abitazione o di autocostruzione al coworking, dalle banche del tempo all’economia di comunione, dalle cooperative sociali alla finanza etica: le pratiche dell’economia del noi sono molte, assai diverse tra loro, e varie sono le motivazioni di chi vi partecipa. Le stesse realtà organizzative possono assumere connotazioni differenti a seconda del contesto in cui agiscono o del momento storico. Ad esempio, i gruppi d’acquisto solidali, nati sull’esigenza di coniugare consumo ed etica, sono cresciuti esponenzialmente sull’onda delle crisi alimentari e relativi effetti di panico; sono diventati uno strumento molto potente nella riconversione ecologica dell’economia; e hanno modellato i propri caratteri sulle priorità del territorio nel quale operano in organizzazioni che si stanno sempre più strutturando. In Sicilia, dove sono sbarcati non da molto, e più in generale nel Mezzogiorno, stanno sempre più assumendo l’obiettivo della lotta alla mafia come prioritario, e conducono questa lotta con lo strumento principale del consumo critico: il portafoglio. Mentre al Nord, dove sono nati e in massa cresciuti, gli stessi gruppi si sono trovati ultimamente anche a guidare o aiutare il salvataggio di aziende in crisi. E ovunque, la rete dei gruppi d’acquisto ha messo a fuoco i costi e i guasti della filiera lunga della catena che va dai campi al piatto, salvando letteralmente dalla crisi molti piccoli produttori strozzati dalla grande distribuzione. Nel far questo, ha incrociato un movimento d’opinione vasto e crescente e trovando ­ix

punti di contatto inaspettati con le organizzazioni collettive degli agricoltori. Come la Coldiretti, l’antico granaio democristiano degli anni Cinquanta, ormai conquistata alle parole d’ordine del chilometro zero e protagonista di iniziative comuni con le reti locali dei gruppi d’acquisto, e Slow Food. Nel muoversi su istanze non economiche, queste realtà si sono trovate a confrontarsi con alcuni problemi strutturali (e colossali) dell’economia italiana: il peso dell’intermediazione, l’agonia del settore agricolo, i cartelli dei grandi operatori organizzati, l’illegalità e il lavoro nero. La «filiera corta», oltre che modello sano ed ecologico nel campo agricolo e dell’alimentazione, è diventata bandiera di un più generale movimento di avvicinamento tra chi lavora e chi consuma, chi risparmia e chi presta, valorizzando al massimo il capitale umano delle relazioni tra questi soggetti e allo stesso tempo tagliando tutta l’erbaccia parassitaria cresciuta negli spazi di un mercato ben diverso da quella macchina ben funzionante descritta nei libri di testo di economia. Allo stesso tempo, la diffusione di altri stili di vita comunitari – come i gruppi di abitazione, o il coworking – mescola motivazioni economiche e una sensibilità ambientale che in alcune zone del paese e in alcune fasce di popolazione è ormai consolidata. Mentre la collaborazione di massa nel web sfida i modelli produttivi preesistenti – soprattutto nel campo dell’economia della conoscenza, ma non solo – e dà alle economie di comunità strumenti potenti per costruire proprie «filiere corte», facilmente connesse in rete. Strumenti non ancora sufficientemente esplorati dalla società civile, in realtà, soprattutto in una realtà come la nostra nella quale il divario digitale è sensibile, ma il cui sviluppo è solo agli inizi, e può prendere direzioni diverse anche in relazione alle scelte che si faranno sulla politica della rete. Anche le motivazioni di chi opera dentro l’economia del noi non sono facilmente riconducibili a uno schema, ­x

una linea, un’ideologia. È un altro modo di far politica? Biograficamente, è stato così sul finire del secolo scorso, negli anni Novanta, quando in esperienze di «ben fare» si è tuffata parte di una generazione disillusa dalla caduta dei grandi progetti novecenteschi. Ma nel frattempo è successo di tutto, nel mondo e in Italia. La globalizzazione e il movimento no global, il terrorismo e le guerre, la rivoluzione della rete e quella del mercato del lavoro, la crisi della rappresentanza... La dimensione politica dell’economia del noi non è univoca, né è sempre presente. Per molte delle persone che abbiamo incontrato in questo viaggio, è il solo modo di far politica, partendo dalle condizioni della propria vita; per altri, è uno dei modi per occuparsi dell’interesse pubblico prioritario, individuato nella tutela e la gestione dei beni comuni e in particolare del bene comune della conoscenza; per altri ancora, è uno strumento per scardinare un sistema economico che non funziona sin dalla radice, mentre per alcuni è la sola via per salvare lo stesso sistema economico; per i credenti dell’economia di comunione, è un sistema totale di vita e opere; per gli hactivist del free software, è una rivoluzione dei diritti proprietari e dei rapporti di produzione; ma per i partecipanti a un gruppo d’acquisto di frutta o di impianti solari, può anche essere solo una modalità un po’ più sobria – e allo stesso tempo etica – di consumo. È un’istanza morale? Anche, ma non è intesa nel senso della beneficenza, della filantropia. È un fenomeno di nicchia? Non proprio, soprattutto se si guarda allo sviluppo e all’efficacia di forme organizzative basate sulla collaborazione e la condivisione nel settore dei consumi, dell’ambiente e in quello dell’economia della conoscenza. È, nel campo del lavoro, l’ennesima conseguenza della frammentazione sociale seguita a flessibilità e precarietà? Forse sì, ma vissuta cercando nuove forme di relazioni all’interno delle quali agire da soggetti e non da vittime. «Ho scoperto che era più facile aiutare gli altri che me stesso»: non è una frase sentita in una parrocchia, ma all’interno di un grup­xi

po di ex manager che si sono dati, dopo il licenziamento, una particolare forma di mutuo aiuto. Il racconto di queste esperienze potrà forse aiutare, con le parole dei protagonisti, a rispondere a qualche domanda. Le ho scelte in modo inevitabilmente parziale, seguendo le tracce del «noi» nelle soluzioni quotidiane a problemi economici, cercando di capire i nessi con l’economia e la politica tradizionali, privilegiando quelle con più spiccati aspetti di innovazione sociale, e cercando di narrarne il più possibile l’interazione con il luogo e il tempo in cui si trovano a operare. Per questo più che un saggio è un viaggio in una parte della società italiana trascurata dalla rappresentazione prevalente dei media. La parte di chi cerca di costruire con le relazioni, laddove la crisi economica e quella politica sembrano aver spinto molti a resistere chiudendosi: in casa, in un gruppo identitario, nel proprio interesse. In questo senso, è un viaggio in controtendenza, i cui appunti riportano risorse sociali nascoste e zone di solidarietà, partecipazione, innovazione non adeguatamente valorizzate. Questo libro contiene molte storie, dunque il primo ringraziamento va a tutti coloro che hanno accettato di rispondermi, raccontarsi, spiegarsi. Grazie anche a tutto il gruppo di Sbilanciamoci!, segnalatore e serbatoio di buone pratiche collettive; a Mario Pianta e Fabrizio Tonello, per i loro preziosi consigli; e a Pietro, il più fedele dei critici.

L’economia del noi L’Italia che condivide

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Consumo

Arance allegre La chiamano la tristezza delle arance. A un certo punto gli alberi cominciano a perdere le foglie, gli aranceti si spogliano e muoiono. «È un virus degli agrumi. Noi in Sicilia non ce l’abbiamo, in altre parti d’Italia invece si sta diffondendo», dice Michele. E rassicura i suoi interlocutori, soci di un gruppo d’acquisto romano dai quali è stato invitato per discutere del prossimo raccolto: «Non ci mettiamo niente sui nostri alberi. Non ci abbiamo messo niente neanche quando abbiamo avuto il problema delle formiche». Un problema serio. «Si infilavano nei buchetti degli irrigatori e li tappavano. Pensate quanto tempo ci voleva ad andare a stappare tutte le sere centinaia di augelli, uno per albero». E via con una spiegazione tecnica sull’augello dell’irrigatore degli aranci, e del nuovo dispositivo che è stato messo in commercio che si tappa da solo quando non butta fuori acqua e così le formiche non entrano più: problema risolto, senza veleni chimici. Michele Riggio è un produttore di arance di Agrofonte, provincia di Siracusa, area Igp. Che vuol dire: indicazione geografica protetta, il che dà un marchio di qualità ai suoi agrumi. Marchio che però non gli basta per vendere le sue arance al mercato senza rovinarsi. Per questo è qui, in una cena romana a casa di Adele, con quelli del gruppo ­3

Gasper: uno dei tanti gruppi d’acquisto di Roma e d’Italia, ai quali moltissimi produttori agricoli si stanno legando come a un’ancora di salvezza. Gruppi di consumatori che per i produttori come Riggio valgono più del marchio Igp: gli permettono di vendere le arance a un prezzo decente, sufficiente per vivere, e non essere strozzato da quelli che lui chiama i «commercianti»; di parlare del lavoro che fa, metterci la faccia e mostrare in piazza i suoi conti e le sue virtù; e sono anche un buon motivo per girare l’Italia, per incontrare anche fisicamente i suoi gruppi di clienti arrivati alla sua azienda via internet o con il passaparola, far girare foto e dati o assaggi; e intanto chiacchierare un po’ sul mondo. Tra le novità emergenti dal mondo della società civile e dell’altra economia, quella dei gruppi d’acquisto è stata la più duratura e popolare. I soli gruppi registrati alla rete nazionale superano quota 700, e crescono a un ritmo del 50-60% all’anno. Se ne trovano nelle scuole e negli uffici, sono fatti da vicini di casa o da nuclei di amici sparsi. Sono nati all’epoca del telefono o della convocazione verbale, cresciuti con scambi di mail collettive e con le piattaforme internet. Se capita di vedere agli angoli delle piazze o nei garage condominiali gente che scarica e scambia cassette o buste con merci d’ogni tipo; se gente come Michele macina centinaia di chilometri per incontrare i suoi clienti quasi uno per uno; se, più in generale, centinaia di migliaia di persone dedicano alla propria spesa dieci o venti volte il tempo che ci vuole per riempire il carrello di un supermercato; se tutto questo succede, qualche buon motivo ci sarà. E, come tutta la ormai ricca letteratura sui gruppi d’acquisto racconta e l’esperienza diretta conferma, si tratta di motivi che travalicano la sfera dell’economico per entrare nel campo dell’etica, della salute, anche della politica. Non quella con la P maiuscola, che doveva o dovrebbe intervenire per indirizzare, correggere, regolare il mercato; ma quella che, attraverso il consumo critico, una parte di società civile pretende di portare direttamente dentro ­4

il mercato. Quella parte di società civile che utilizza «il mercato come arena politica e la spesa quotidiana come un voto a favore dell’ambiente e dei diritti umani», per usare le parole di Michele Micheletti, scienziata politica svedese, esperta di consumerismo politico. A casa di Adele, mentre si parla di arance, soldi, formiche, camion e piattaforme, vediamo un pezzo di questo mercato trasformato in arena politica, o della politica che scende al mercato. La padrona di casa di mestiere fa modelli econometrici, e non è molto entusiasta dell’uso che i suoi committenti fanno dei numeri che lei fornisce. Gli altri membri del gruppo sono professionisti, studenti, bancari, insegnanti, dirigenti. Molti hanno figli piccoli, ma non tutti. Qualcuno viene da esperienze politiche – a sinistra –, altri no. Sono interessati a tutto il percorso di quello che comprano e mangiano. Sono più o meno giovani (qualcuno che va per i quarantacinque c’è), e illustrano la loro organizzazione logistica militante, messa su nel caos di San Lorenzo, quartiere romano un tempo popolare, schiacciato tra il via vai dell’università di giorno e il brulichio dei locali di notte, il grigio della tangenziale e l’oasi del cimitero del Verano. C’è un referente del gruppo per ogni produttore, che analizza e garantisce il prodotto; c’è un giorno e un luogo di consegna; c’è, a turno, la persona incaricata di ricevere la merce, poi smistarla e raccogliere i soldi; c’è un cassiere, che riceve i soldi e fa i bonifici ai produttori. Comprano di tutto, non solo alimentare e non solo biologico; purché sia garantita la provenienza, la salubrità, il rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro. I vari bollini delle certificazioni non sono né necessari né sufficienti: il più delle volte, in questo come in quasi tutti i gruppi, si va direttamente a visitare il luogo della produzione, si fanno domande, prove, a volte anche test a campione successivi. Ma soprattutto, come dice Valeria Manna, fondatrice di un altro gruppo romano, chiamato Modus vivendi, «vogliamo guardare negli occhi il produttore, quello che fa le cose che mangiamo o indossiamo». ­5

E così facendo va a finire che non si parla solo di pesticidi da evitare o biologico da garantire; ma anche dei semplici conti del contadino, dell’impossibilità di farli quadrare nel settore agricolo tradizionale; e dei problemi di tutta la filiera produttiva alimentare, dal campo al piatto. Ritorniamo alla tristezza delle arance di Michele Riggio, che racconta così lo stato delle cose per un giovane agricoltore italiano oggi: «Mio nonno con un agrumeto di un ettaro viveva benissimo, e ad agosto aveva già tutti i raccolti prenotati. Io l’ultima volta che ho venduto le arance ai commercianti ho preso 2.050 euro per una raccolta di 400 quintali, sull’albero». Vale a dire, «i commercianti» – ossia gli intermediari che a loro volta vendono le arance alla grande distribuzione – gli davano 5 centesimi al chilo, stimando più o meno quanti chili faceva ogni albero, poi pensavano loro a raccolta, stoccaggio e tutto il resto. Adesso non va molto meglio, si arriva a 7, massimo 8 centesimi al chilo. L’alternativa, per un agricoltore, è raccogliere le arance, metterle nelle cassette e andarle a vendere all’ingrosso: «Ma il prezzo si fa ogni giorno, non sai mai quale sarà e comunque non ti pagano subito. I grossi acquirenti si spartiscono il mercato e, poiché la merce è deperibile, è chiaro che a un certo punto fanno scendere il prezzo e sei costretto a svendere». È la legge del mercato: da un lato produttori piccoli e frammentati, anche se con certificazioni di qualità o biologiche; dall’altro la grande distribuzione organizzata, che di fatto riesce a imporre i prezzi; nel mezzo, una filiera particolarmente costosa e inefficiente, che fa sì che comunque alla fine i prezzi sugli scaffali risalgano, e che dell’impoverimento del contadino non benefici il consumatore. Saltando tutti questi passaggi, ci guadagnano sia Michele che i suoi commensali: al gruppo romano le arance biologiche finiranno per costare 1 euro e 10 centesimi al chilo, un prezzo che non è superiore, anzi a volte è inferiore, a quello che pagherebbero al supermercato per arance non biologiche e di non certa provenienza. È vero che il produttore, Michele in questo caso, non le ­6

vende «sull’albero», ma deve metterci raccolta, cassette, trasporto. «Ma comunque, lo dichiaro apertamente a tutti i gruppi con cui vado a parlare, con questo prezzo a me restano 30 centesimi al chilo. Mi sembra un incasso onesto». Dal gruppo al distretto Il primo gruppo d’acquisto solidale (Gas) in Italia è nato a Fidenza nell’86, l’anno di Chernobyl. La volontà di controllare direttamente quel che arrivava nel piatto e il legame con l’impegno politico ecologista erano fin dall’inizio molto forti. Ma è degli anni Novanta il loro forte incremento, e l’inizio di un’evoluzione che man mano ha fatto loro cambiar pelle. Da un fenomeno di nicchia di consumo critico a una rete molto vasta che, crescendo, si è trovata alle prese con tutti i nodi che l’economia italiana e globale man mano poneva di fronte: la preoccupazione sulla salubrità dei cibi, alimentata dalle emergenze che si sono succedute l’una dopo l’altra; ma anche l’ondata della globalizzazione e dei consumi low cost, la problematica della grande e della piccola distribuzione, l’agonia del settore agricolo italiano, e – negli ultimi anni – l’impatto della crisi sui bilanci delle famiglie e delle piccole imprese. E, in positivo: l’aumento della consapevolezza diffusa sui temi ambientali; lo sviluppo del biologico, al quale i gruppi in Italia hanno contribuito in maniera decisiva; la maggiore facilità del mettersi in rete con gli strumenti della tecnologia dell’informazione; il sodalizio culturale e pratico con organizzazioni di produttori; lo sbarco nel campo delle energie alternative, per le quali la motivazione ambientalista (in larga misura scontata, per i partecipanti ai Gas) si è incontrata con una fortissima convenienza economica all’acquisto in gruppo, legata al meccanismo legislativo degli incentivi. In linea generale, i Gas più che crescere si moltiplicano, perché un singolo gruppo diventa di difficile gestione se sale oltre una certa soglia di partecipanti. Esiste una ­7

rete nazionale di gruppi d’acquisto che sul finire del 2010 contava 720 gruppi. Iscriversi alla rete Gas non è un obbligo, e dunque si può presumere che esistano molti altri gruppi oltre a quelli registrati: gruppi più informali, che si formano tra colleghi di lavoro o genitori delle scuole o in condomini, magari in relazione a una fornitura specifica e motivati soprattutto dalla voglia di risparmiare. I gruppi che aderiscono a Retegas sono invece solitamente quelli più stabili e anche più sensibili a motivazioni che vanno al di là del semplice fatto che mettendosi insieme si risparmia. I loro numeri ci danno qualche indizio sulla diffusione del fenomeno: crescono annualmente a ritmi molto elevati – il 60% nell’ultimo anno –, e sono una realtà molto settentrionale. Nelle regioni del Nord opera il 56% dei Gas iscritti in rete, e quasi 200 sono in Lombardia, dove, secondo una ricerca realizzata nel 2009, quasi il 10% della popolazione ha partecipato o partecipa a un gruppo d’acquisto. Una crescita del genere dà anche qualche problema. Come quello di mantenere la particolare declinazione di «piccolo è bello» propria dei gruppi d’acquisto: le relazioni dirette e non mediate tra i membri e con i produttori, il lavoro volontario. Finora la soluzione è stata cercata nella strategia delle reti. Sono nate 11 reti di Gas locali, ed è stata costituita una rete nazionale di economia solidale. Si sono inventati i distretti di economia solidale, che, alludendo nel loro stesso nome ai fortunati distretti industriali italiani, vogliono mettere insieme tutti i soggetti della filiera solidale: dunque i gruppi di acquisto, ma anche quelli che si occupano di finanza, le botteghe del commercio equo, le cooperative sociali, fino alle associazioni e ai comitati che si muovono sul territorio. Si è teorizzata la necessità di una «piccola distribuzione organizzata», in opposizione alla grande distribuzione organizzata che è capace di farti viaggiare un carciofo dalla Puglia all’Emilia Romagna per impacchettarlo e poi rimandartelo nei supermercati pugliesi. Sono nate forme di integrazione tra ­8

produttori e consumatori, che in alcuni casi sono formalizzate nei Godo, gruppi di offerta e domanda organizzata (la ricerca di nomi-bandiera in questo mondo è particolarmente curata). I Godo sono attivi soprattutto in Umbria, e vedono il mercato così: un tavolo di lavoro e discussione tra consumatori e produttori, nel quale, come è scritto in uno studio dell’Aiab, «i cittadini non sono trattati come semplici clienti ma come persone titolari di un diritto alla alimentazione alle quali comunicare la storia, la fatica e la qualità che stanno alla base dei cibi prodotti e venduti». Qualcosa di un po’ diverso dalla curva della domanda e dell’offerta che si studia al primo esame di Economia: da quel tavolo si cerca di far venir fuori un prezzo considerato giusto, da chi lo paga e da chi lo riceve. Tra la funzione dell’utilità individuale di qua, e la ricerca del profitto di là, c’è un fitto intreccio di relazioni e di motivazioni anche extraeconomiche che, nelle intenzioni dei Godo e del loro mondo, dovrebbe fare la differenza. In altre esperienze, i consumatori solidali sono entrati direttamente in produzione. Ha fatto scuola il caso di successo della fabbrica «rilocalizzata» della Astorflex, calzaturificio veneto, che dopo aver portato all’estero per anni la sua produzione ha trovato conveniente aprire una linea tutta italiana, ecocompatibile, commissionata dal Gas del Nord-Est: all’inizio la nuova linea era poco più di una nicchia, accanto alle scarpe prodotte con materiali di bassa qualità e dove la manodopera costa di meno. Poi però gli stessi produttori si sono accorti che potevano essere convenienti, quelle scarpe ecologiche comprate dai gruppi, rispetto a scarpe prodotte all’estero che la grande distribuzione o i grandi marchi pagavano in fabbrica al massimo 20 euro al paio – per poi venderle nei negozi a 150 euro. Come nel caso dell’agricoltura, anche qui i Gas hanno spezzato la catena dell’intermediazione. Ancor di più hanno fatto per il caseificio Tomasoni, nel bresciano, che è stato letteralmente salvato dall’ingresso nel capitale dei suoi gasisti, che in questo caso si sono infilati nella ­9

accidentata filiera del credito. Il tutto è successo a cavallo della grande crisi dell’economia. Per una emergenza finanziaria dovuta al rincaro del prezzo del latte, il caseificio rischiava di chiudere: mancavano i liquidi, il necessario per acquistare il latte da cui fare i latticini. La cifra era minima: 150.000 euro. Ma nessuna banca, in particolare dopo la crisi del 2008 che ha fatto stringere i criteri del credito soprattutto a danno dei piccoli, era disponibile a coprirla. Massimo Tomasoni, uno dei titolari, ha chiesto aiuto ai Gas di cui era fornitore da qualche anno, dopo aver varato la conversione dalla monoproduzione del grana a una gran varietà di formaggi, tutti biologici. Nella lettera si spiegava quel che non andava, e il concreto rischio di fine delle produzioni. Ne è nato il primo salvataggio di un’azienda da parte dei suoi clienti: «A inizio 2009 nel giro di un mese un migliaio di famiglie di 90 Gas raccoglie i soldi che servono per il prestito, in parte sottoscritti come pagamento anticipato sul prodotto, in parte gestiti come finanziamento attraverso la cooperativa di finanza etica Mag2 Finance di Milano, che partecipa all’iniziativa con una parte del prestito – racconta un libro della Rete italiana di economia solidale dedicato al «capitale delle relazioni» –. Ora l’azienda si è ripresa». Al mercato del sole Storie come quelle del caseificio nel Bresciano o della fabbrica di scarpe veneta mostrano anche un altro aspetto della realtà dei gruppi d’acquisto: una volta che la rete c’è, il suo capitale di conoscenze, relazioni, socialità diventa una risorsa che si può spendere anche per altri problemi, altri temi che si impongano nella vita pubblica. Mettendo in rilievo il valore dei beni non monetizzabili e del capitale relazionale, e spostando così continuamente i confini del mercato, o meglio potenziando lo spazio che in esso hanno comportamenti non strettamente riconducibili a una logica di scambio basato sul tornaconto economico indivi­10

duale. Allo stesso tempo, l’aggregazione dei consumatori è uno strumento potente anche sotto il profilo strettamente economico. Ne è un esempio evidente lo sbarco dei gruppi d’acquisto nel settore delle energie rinnovabili, nel quale alla predisposizione «naturale» dei partecipanti ai gruppi si sono aggiunti gli incentivi governativi: considerevoli, a patto di saperli usare, organizzarsi bene, fare i conti con una burocrazia pesante, e in più orientarsi in un’offerta molto diversificata sulla quale il consumatore medio aveva e ha poche informazioni. La situazione ideale per un approccio comunitario. «Qui a Padova avevamo uno sportello energia, con il quale Legambiente voleva dare consulenze e aiutare la diffusione delle energie alternative, in particolare il solare – racconta Davide Sabbadin, ambientalista veneto –. Ma la gente veniva, prendeva informazioni e poi, travolta da mille intoppi e problemi, o da ostacoli economici, non ne faceva quasi mai niente. Un po’ frustrati da questo andazzo, abbiamo preso a modello alcuni gruppi che già in altri posti erano nati, e abbiamo inventato un sistema per facilitare la formazione delle comunità e l’accesso al solare: sistema che adesso è su internet, disponibile per tutti, chi vuole può prenderlo e rifarlo nella sua città». Il problema di base, direbbero gli economisti, è nell’asimmetria delle informazioni. Prendiamo i pannelli per il fotovoltaico da mettere sui tetti, all’apparenza un’operazione semplice. Spiega Sabbadin: «In un settore che era all’inizio del suo sviluppo, l’offerta sul mercato era – ed è tuttora – molto diversificata. Non basta mettere a confronto diversi preventivi: ce n’è di tutti i tipi, con prezzi diversissimi e soprattutto non fatti con criteri confrontabili. Così un singolo, o un condominio, che si trova di fronte a varie offerte di imprese non sa come regolarsi. E sul mercato ci sono moltissime marche, alcune ottime altre inventate per cavalcare l’onda del business. In più, c’è il fatto che chi fa una scelta di questo tipo è particolarmente attento anche ad altri aspetti del prodotto che compra: ad esempio, ­11

come è stato fatto, dove, quanto ha viaggiato per arrivare qui...». Per affrontare questo ginepraio, Sabbadin ha messo su un sistema basato sui gruppi. «Legambiente si pone come intermediario, come garante. Mette insieme le persone interessate all’acquisto dei pannelli, di solito sono 20 o 30 per ogni gruppo. C’è un capitolato tecnico di base, che viene mandato alle aziende del territorio. E dall’altro lato c’è una commissione fatta con i cittadini, i partecipanti ai gruppi, nella quale si valuta quale peso dare alle varie componenti del capitolato». Per esempio, un gruppo può dare più punti a un’impresa con finalità sociali (una cooperativa sociale, per esempio), oppure a quella più vicina sul territorio; può voler escludere dai soggetti finanziatori determinate banche oppure basarsi solo sul tasso di interesse che fanno; può chiedere di escludere materiali importati dall’estero, o da uno specifico paese. È questa la fase più partecipativa dell’intera procedura, nella quale le persone che comprano i pannelli devono mettersi d’accordo sulle motivazioni e le volontà da trasformare poi in capitolati e contratti. «Ma in linea generale, la motivazione più forte è quella economica: mettendosi insieme si risparmia, perché il produttore ha la garanzia di un ordinativo importante, c’è spesso anche una forma di garanzia sui pagamenti, e le banche finanziano l’operazione con prodotti specifici». L’intervento delle banche è importante: in sostanza, si tratta di anticipare guadagni futuri, quelli che le famiglie avranno con i contributi in conto energia e con i risparmi in bolletta – o rivendendo la loro energia solare sul mercato, se ne producono in eccesso. Con un buon accordo con i produttori e con le banche – quasi sempre banche popolari, a volte la Banca Etica o le mutue di autogestione, nei casi dei gruppi d’acquisto più attenti a tutti i passaggi del loro denaro – si può riuscire ad avere l’impianto solare anche senza sborsare un euro. Per questo la diffusione dei gruppi d’acquisto solare è stata molto rapida. A Padova, sono stati comprati e installati con il metodo qui descritto da Sabbadin ben ­12

150 dei quasi 300 impianti esistenti; grande traffico anche sui tetti di Treviso, che ha importato lo stesso metodo dei gruppi e vanta ben 400 impianti allacciati; a livello nazionale, in pochi mesi il sistema dei Gas solari di Legambiente ha coinvolto 22 gruppi per circa 800 impianti. Con una diffusione quasi tutta concentrata al Nord – è il solito paradosso dell’energia solare, nel quale il nostro paese è arrivato molto dopo paesi dal clima piovoso e partendo proprio con le zone meno assolate –, ma anche con qualche benaugurante puntatina al Sud: «Possiamo vantare adesso di avere gruppi sia in Sicilia, nel comune con maggiore insolazione d’Italia, che è Modica, che in quello con minore insolazione, Gemona nel Friuli». Un successo in gran parte legato agli incentivi e alla convenienza economica; ma che, coinvolgendo comunque gruppi provenienti da altre esperienze di azione collettiva, e temi fortemente sentiti dai consumatori «etici», permette di vedere qualche novità nell’evoluzione degli stessi gruppi, e del loro rapporto con i territori. «Questi gruppi sono un po’ diversi dal classico gruppo d’acquisto. Qui la motivazione prevalente è il risparmio, il mettersi insieme per avere un prodotto di qualità a un prezzo buono», continua Sabbadin. Ma nella piattaforma di base ciascuno può aggiungere o togliere motivazioni: lo stesso modello, importato in altri gruppi nati per obiettivi solidali e di giustizia sociale, può assumere connotati più forti. A Como per esempio la rete dell’Isola che c’è ha messo su un modello che propone, oltre al gruppo d’acquisto nel fotovoltaico, anche l’autocostruzione del solare termico e il finanziamento del progetto attraverso forme di finanza solidale. L’osservatorio padovano di Sabbadin, che si è fatto centinaia di assemblee di futuri acquirenti, permette invece di vedere quali sono le richieste prevalenti che vengono dai gruppi di acquisto meno politicizzati, con minore esperienza comunitaria alle spalle: «Noi chiediamo comunque alle imprese garanzie sul rispetto della legalità, sicurezza sul lavoro, correttezza fiscale. Poi, i singoli gruppi ­13

possono inserire i requisiti che vogliono. A volte l’interesse prevalente è il prezzo, ma molto forte è anche l’attenzione alla vicinanza del fornitore, e soprattutto dell’installatore; si dà la preferenza a quello locale, sia per motivi di fiducia che per il fatto che si pensa che se uno abita vicino a te non ti dà fregature. In molti casi, viene specificato: no a pannelli cinesi». Una preoccupazione che non sempre è dettata da motivi etici – l’attenzione alle condizioni di lavoro nelle quali sono stati prodotti quei pannelli o loro componenti, per esempio: «Più che altro c’è un’idea di bassa qualità, che peraltro non corrisponde in questo caso al vero», dice Sabbadin. È più che probabile che in tutto ciò ci sia anche un riflesso identitario, un’autodifesa della propria «gente», un localismo non sempre solidale; che però, nella gestione partecipata del processo, devono comunque essere razionalizzati, messi a confronto con altre esigenze, discussi collettivamente per arrivare a una decisione condivisa. Ma quello dei gruppi facilitati da Legambiente è solo un esempio. La formula dell’acquisto collettivo per l’energia rinnovabile si è diffusa molto, sempre nel Nord e Centro Italia, anche per opera di altre associazioni, oppure su spinta dei comuni – soprattutto i piccoli, che si associano e fanno associare i cittadini per avere maggior forza contrattuale verso i fornitori e semplificare le procedure burocratiche – o dei «vecchi» Gas. I più attrezzati, data la provenienza ideale e l’abitudine a guardare nel piatto in cui si mangia, anche a una visione critica e cauta della stessa diffusione delle energie alternative, del loro impatto con il paesaggio (virulente le dispute sull’eolico), della necessità di mantenere l’attenzione sull’obiettivo del risparmio energetico e di una revisione generale del paniere dei consumi. Più in generale, l’attitudine e la pratica della condivisione appaiono sempre più doti essenziali per affrontare i problemi di sostenibilità legati al nostro modello di sviluppo e di consumo, con enorme potenziale di applicazione nel campo della mobilità e dei trasporti. ­14

Salutisti e contestatori Torniamo a Roma, e a uno dei suoi tanti gruppi di acquisto di merci. Quello di Valeria smista arance, fragole, latticini, carne, scarpe, detersivi nel cortile di una scuola della Magliana, a Roma. «Dimostriamo che il biologico e le cose di qualità non devono per forza essere un lusso, roba costosa. Però il risparmio non è il primo motivo. I primi due motivi per me sono la tutela della salute, e la volontà di rifondare i rapporti economici su basi più giuste. Le due cose vanno insieme, non riesco a vederle separate». Le ha separate invece, in sede di ricerca, la sociologa Letizia Carrera, che ha studiato i Gas e ne ha dato una definizione efficace: «una proposta solida nella società liquida». Da una sua indagine su alcuni Gas presi da due realtà geografiche assai differenti, Venezia e Bari, vengono fuori due gruppi nei gruppi, il filone dei «salutisti» e quello dei «contestatori critici»: i primi spinti dall’esigenza di un mangiare sano che «viene sentito come una responsabilità tutta personale, un’impresa da perseguire contro il sistema che ormai ci abitua a cibi anonimi e artificiali, fatti chissà dove e chissà come»; i secondi portatori di un diverso senso e modello di consumo, che vivono il Gas «come occasione di partecipazione, come possibilità di far sentire la propria voce, molto spesso quasi a compensare una crescente disillusione nei riguardi dei partiti». Carrera indica un limite, che vale per entrambi i gruppi ma pesa soprattutto per il secondo: l’assenza di un progetto più ampio, di un percorso per il cambiamento che si dice di voler attuare. Ponendo così la questione cruciale, quella che interroga il consumerismo politico e tanti esperimenti di economia solidale dal basso: ma che, si fa politica così? Quanta azione politica può esserci in un gesto che è comunque proprio della sfera del consumo, sia pure collettivo, organizzato, messo in comunità? Ricorriamo a un’altra indagine, ai numeri che vengono fuori da una ricerca sull’associazionismo in Lombardia ­15

illustrata dalla sociologa Francesca Forno nel saggio Il consumo critico come forma di partecipazione politica. Vi si trovano indicazioni sulla vicinanza politica dei partecipanti ai Gas: prevale la collocazione nella sinistra e nel centro, ma c’è anche un buon 17,3% che si definisce di centrodestra e un 7,9% di destra, mentre il 22,3% rifiuta ogni collocazione politica. Molto interessante la risposta alla domanda sull’interesse verso la politica: la quota di persone che non si interessano affatto alla politica, tra i partecipanti ai Gas, è del 12,6%. La stessa ricerca dice che, tra coloro che non fanno parte di gruppi Gas, la quota di persone che risponde di non interessarsi alla politica è molto più alta, è del 34,6%. Quindi la politica interessa – o quanto meno interessa più che nella media –, e più forte è la fiducia in alcune istituzioni: Parlamento, magistratura, Chiesa. Bassa invece, anche per i gasisti, la fiducia nei partiti e nei sindacati: qui le risposte non si differenziano molto da quelle date dalle persone che non aderiscono ad alcuna esperienza comunitaria dal basso. Dati parziali, molto caratterizzati dal contesto lombardo, sicuramente limitati; ma che permettono di trarre una prima conclusione: come ha scritto Francesca Forno nel saggio appena citato, i partecipanti ai gruppi d’acquisto sono molto critici verso la forma data della politica, ma questo non abbassa la loro voglia di fare politica. Sono molti gli studi e le ricerche che fanno pensare che, in comunità come quelle dei Gas, l’associarsi per consumare può essere visto come la prosecuzione della politica con altri mezzi e in altri luoghi. Forse molti utilizzerebbero volentieri anche i luoghi «deputati», se solo ce ne fossero; altri non si sentono affatto orfani di un’organizzazione tradizionale, e anzi ritengono più efficace e soddisfacente fare politica così; altri ancora vorrebbero avere a fianco politica e istituzioni nella loro battaglia, ma pensano che nell’attesa che queste si muovano è meglio cominciare a camminare. È il caso di un nuovo filone che si può intravedere nell’evoluzione ­16

del consumo critico collettivo al Sud, in particolare nelle regioni controllate dal racket della criminalità organizzata. La spesa antimafia «Quando mi trovavo giovane giovane, sbarbatello, davanti a negozianti che avevano alle spalle dieci, venti anni di estorsioni, era difficile anche cominciare a parlare». Daniele Marammano, avvocato, «giovane giovane» lo è ancora, ma adesso sulle spalle un po’ di esperienza ce l’ha anche lui: l’esperienza di Addio pizzo, primo caso in Italia – e forse nel mondo – di shopping antimafia. Ovvero: l’organizzazione di una rete di consumatori disposti a comprare solo da commercianti che non pagano il pizzo; e la speculare organizzazione di una rete di commercianti e produttori, che dicono di no all’estorsione, e lo dicono pubblicamente. Il tutto nato da un gruppo di 7 amici, giovani neolaureati, che nel 2004 si mettono in testa di aprire un pub equo e solidale in pieno centro a Palermo, e cominciano a fare i conti di possibili incassi e costi. Si trovano subito davanti, nei preventivi di spesa, la posta negativa del pizzo da pagare ogni mese al boss di riferimento. Loro non solo non lo pagano, ma decidono che è ora di smetterla di considerare normale quella richiesta. Così, si mettono a stampare centinaia di adesivi che affiggono dappertutto: «Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità». E poi striscioni, scritte sui muri: lo slogan si diffonde, la città si interroga su chi siano gli anonimi che lo mettono in giro (qualcuno pensa persino a una strana provocazione mafiosa), i giornali ne parlano. L’occasione del locale-pub sfuma perché il proprietario si intimorisce, e i 7 si mettono a fare qualcos’altro: «La lotta al racket delle estorsioni attraverso il consumo critico», sintetizza Daniele. Che all’epoca studiava Legge all’università e come tanti altri è stato attratto dall’esistenza di qualcosa che si muoveva in città, su un terreno tanto concreto quanto ­17

antico: «Cosa possiamo fare noi, qui e ora, per smettere di finanziare con i nostri soldi la mafia?». La risposta è molto semplice, e nasce nello spostare l’attenzione sull’atto finale, il consumo. «Il cliente che fa la spesa da un commerciante che paga il pizzo, con una percentuale sia pur minima dei suoi soldi sta finanziando la criminalità». Quanti ce ne sono a Palermo che non vogliono che i propri soldi finiscano al racket? I ragazzi di Addio pizzo hanno cominciato con una raccolta di firme temeraria, chiedendo ai consumatori critici di uscire allo scoperto, e metterci il nome e il cognome. Dopo un anno, ne avevano 3.500, e sono riusciti a far pubblicare la lista su un giornale. Ci è voluto poi un altro anno per avere la prima lista dei negozianti: 100, per cominciare. Che dichiaravano di non pagare il pizzo al racket, e mettevano fuori dalla vetrina l’avviso, vicino a «vietato fumare» e agli orari d’apertura: qui non si paga il pizzo. «Se avessimo contato tutti i no, all’inizio, adesso non saremmo qui. Le vittime, soprattutto, hanno molto imbarazzo nel dirlo, nel raccontare. Infatti le prime adesioni erano tutte di commercianti che non avevano mai pagato, poi sono arrivati anche quelli che hanno smesso di pagare e hanno denunciato gli estorsori», racconta Daniele, che vede proprio in questo passaggio la differenza tra la loro azione di consumo critico e il boicottaggio. «Non è solo un ‘no’, non ci limitiamo a dire che non compriamo da chi finanzia il racket. Segnalando chi non paga il pizzo, aiutiamo l’ultimo anello della catena, il più debole. In qualche modo, spersonalizziamo il suo rapporto con i mafiosi: entrando in un circuito in cui ci sono anche altri, i rischi del suo rifiuto di pagare si riducono. E in più aiutiamo chi denuncia l’estorsione, che si trova davanti una solidarietà concreta, insomma non si ritrova da solo il giorno dopo». Qui entra in gioco un’altra associazione, collegata ma distinta, che si chiama Libero Futuro e fornisce assistenza legale e sostegno ai commercianti e produttori che presentano le denunce. «Quando siamo ­18

nati a Palermo non c’erano denunce per estorsione. Zero. Dal 2007 a oggi ne sono state presentate 100». Se le due attività – l’organizzazione del consumo critico-legalitario e il sostegno a chi denuncia il racket – sono strettamente connesse, è nella prima la vera novità e l’intuizione dei fondatori di Addio pizzo. Che hanno capito la potenza di uno strumento che ha le più varie provenienze e motivazioni – dall’altermondialismo al salutismo, dal rifiuto della politica alla ricerca di nuove forme di partecipazione – ma che ha un tratto comune: il portafoglio, l’incidenza sul gesto quotidiano della spesa e attraverso questo sul contesto in cui il mercato si svolge. In questo caso, il contesto mafioso. «Chi non paga, e mette la nostra vetrofania sulla porta, sta dando un avviso preventivo. Che ha funzionato, finora: in molte strade, i commercianti adiacenti a quelli pizzo-free hanno subìto minacce e intimidazioni, i nostri no». La legalità come pre-condizione, e quindi come primo obiettivo di chi vuol darsi da fare per cambiare le cose nel posto in cui si vive: questo tratto, che sta connotando sempre di più le esperienze di economia del noi in tutto il Mezzogiorno, è costitutivo del gruppo di Addio pizzo. Si tratta di un movimento politico? «Noi cerchiamo, e pensiamo di aver trovato, un modo per renderci personalmente attivi e partecipi», è la risposta di Daniele. Però «ci siamo sempre professati apartitici». E sarebbe difficile, aggiunge, definire un terreno comune di provenienza politica dei tanti che si sono associati all’esperienza di Addio pizzo: alcuni vengono dai movimenti no-global, altri no; ci sono persone di sinistra, ma non solo. Certo è che dopo il successo della loro iniziativa, ma solo dopo, sono stati corteggiati da alcuni partiti, ma non c’è stato alcun travaso in liste elettorali. Per non parlare dei rapporti con altre organizzazioni stabili e strutturate. «Spesso si rivolgono a noi commercianti che saltano le loro associazioni di categoria, non si fidano». Sono i piccoli, soprattutto: la grande distribuzione è quasi del tutto assente, tranne le Coop e le librerie Feltrinelli ­19

non ci sono catene associate ad Addio pizzo. Che conta adesso 10.000 consumatori, 400 commercianti e una trentina di produttori; sta cercando di introdurre una «pizzo free card» per gli acquisti antimafia, e un marchio «pizzo free» per i produttori, un bollino come quelli del biologico o del Doc; e ha aperto anche un «Addio pizzo travel», che organizza percorsi turistici con tappe nei luoghi simbolo della ribellione alla mafia. Insomma, una piccola ma capillare rete, basata su una ventina di militanti attivi. «Intendiamoci: noi aspiriamo a una mobilitazione di massa, che ancora non c’è», dice Daniele. Ma «se noi, con le nostre sole forze, abbiamo fatto questo, pensiamo a cosa potrebbe succedere se l’azione di consumo critico si espandesse, se tutti facessero la loro parte». Legalità nel piatto L’incontro tra il mondo del consumo critico e quello dei movimenti antimafia è andato molto al di là dell’iniziale esperienza di Addio pizzo. Sempre più spesso in Sicilia, in Calabria e in tutto il Mezzogiorno i gruppi del consumo critico chiedono requisiti di «bontà» del prodotto e del produttore che vanno oltre il metodo di coltivazione, il chilometro zero, la salubrità, l’equo compenso per chi ci ha lavorato: chiedono che il prodotto non venga dal contesto dell’economia criminale, né alla fonte né per tutto il percorso. Una richiesta che ha un prezzo. «Dai 3 ai 5 centesimi al chilo», nel caso delle arance di Roberto Li Calzi, agricoltore e fondatore di un’altra di quelle realtà dai nomi che alludono: Le galline felici, così si chiama il suo consorzio. Li Calzi ha una biografia abbastanza tipica del produttore solidale. Dopo aver fatto politica «negli anni giovanili» e aver girato il mondo inseguendo esperienze (sei mesi con i pescatori indiani nell’oceano, per dirne una), ventisette anni fa è tornato sulla terra di Sicilia – Costa saracena, tra Catania e Siracusa – per fare l’agricoltore. Rapidamente si è trovato buttato fuori dal ­20

mercato della distribuzione tradizionale – «a quei prezzi non potevo produrre» –, ha incontrato i gruppi d’acquisto e con loro è cresciuto fino a diventare l’artefice dello sbarco della rete dei Gas nell’isola: «quattro giorni di festa, abbiamo fatto una piccola Woodstock dei gruppi d’acquisto solidali». Anima anche Siqillyah, associazione dagli obiettivi economico-cultural-sociali. Insomma, è uno che non sta molto tempo fermo. Da due anni le sue arance le fa trasportare dalla Riela, ditta di trasporti che, dopo essere stata sottratta alla mafia catanese e confiscata, ha visto svuotarsi ordini e commesse. Aveva 500 camion e un fatturato da 60 milioni di euro, quando era della mafia. Dopo la confisca, se ne sono andati tutti i dipendenti e gli ordinativi, era diventata un contenitore vuoto, con mezzi obsoleti. «Gli imprenditori locali non gli affidano più i trasporti, allora ci siamo fatti avanti noi; chiedendo però di rispettare in tutto e per tutto la legalità: anche nelle condizioni di lavoro degli autisti, che devono stare al volante 8 ore al giorno, mentre quasi dappertutto per essere competitivi guidano anche 20 ore al giorno», racconta Roberto. C’era un problema, però: «Il semplice rispetto delle regole e del contratto li avrebbe messi fuori mercato, rispetto alle condizioni che fanno tutti gli altri. Per questo noi abbiamo chiesto e ottenuto dai nostri clienti un prezzo leggermente maggiore. Dai 3 ai 5 centesimi al chilo in più, per ogni chilo di arance. Abbiamo spiegato loro perché, mostrato i conti, e i nostri clienti hanno detto di sì». Hanno detto sì a un prezzo leggermente superiore, per far lavorare in modo pulito l’azienda sequestrata alla mafia che rischiava di chiudere perché sottratta all’economia sporca. E non che paghino quelle arance a prezzi da gioielleria: 1 euro e 10 centesimi, 1 euro e 20 centesimi al chilo, a seconda quelle quantità consegnate. «Ora, dico io, com’è possibile che dentro quell’euro e venti siamo felici tutti – chi le produce, chi le raccoglie, chi le trasporta, chi le mangia – e dentro un prezzo di 1,50 euro, quello delle arance normali, c’è un produttore che non rientra nei conti, operai che le hanno raccolte in nero, e camionisti che fanno una vita infame?». ­21

Roberto Li Calzi è uno della generazione che voleva cambiare il mondo, e non pare aver cambiato idea. Adesso prova a farlo dal suo campo e dalla sua Sicilia. Osservatorio dal quale registra delle novità, nella sensibilità dei gruppi del consumo critico. «Due anni fa, un amico della rete antiracket mi ha telefonato, chiedendomi se potevo aiutare un produttore taglieggiato dalla mafia. Gli stavano impedendo di raccogliere le arance, non sapeva a chi venderle. Ho proposto ai gruppi miei clienti di comprarne, anche se non erano biologiche, ma ho avuto una risposta scarsissima. Invece quest’anno per le patate etiche è stato un boom». Le patate etiche sono spuntate fuori dopo i fatti di Rosarno del gennaio 2010. La vista di quelle persone espulse dopo la rivolta bracciantile nera di Calabria, caricate sui camion, ingannate e rispedite a casa o in altra clandestinità, qualcosa ha prodotto. Anche a Cassibile, nel Siracusano, dove nella stagione del raccolto delle patate si concentrano immigrati disposti a lavorare per 15 o 20 euro al giorno. «Un amico della rete antirazzista mi ha segnalato le difficoltà di un agricoltore che pagava gli operai regolarmente, con i contributi e tutto. E chiedeva ai gruppi d’acquisto un aiuto, poiché queste patate alla fine lui non riusciva a venderle, costavano troppo rispetto a quelle raccolte in nero». Roberto ha fatto partire una mail collettiva ai suoi clienti, chiedendo la disponibilità a comprare le patate così raccolte, a un prezzo finale di 1 euro. La risposta è stata incoraggiante, l’intero raccolto è partito per il continente. «È stato possibile perché il produttore ci ha messo la faccia, si è esposto con nome e cognome, e questo ha dato garanzie al gruppo; e anche per le relazioni che nel frattempo avevamo costruito, per cui c’è una fiducia reciproca. Ma anche perché è cresciuta la sensibilità, e la vergogna per le cose viste a Rosarno. Solo un anno prima, su una richiesta partita da un produttore taglieggiato dalla mafia, non avevamo avuto grandi risposte dai gruppi. Quest’anno, abbiamo fatto partire sia la scelta dell’autotrasporto con la ditta confiscata alla mafia che l’operazione patata etica, ed è andata benissimo». Una ­22

svolta del consumo etico che Roberto condivide in tutto e per tutto: «Se fai parte di un Gas solo per mangiare bene non è che abbiamo fatto poi tanta strada, o no?». Nuova cucina organizzata Saliamo in Campania, a San Cipriano d’Aversa, dove c’è uno strano ristorante. Si chiama Nco, che sta per: nuova cucina organizzata. Ma il suo merito non è solo di ironizzare sul sistema camorristico – e non è facile farlo in provincia di Caserta. Il ristorante Nco è anche un microcosmo di esperimenti sociali, nel quale una piccola comunità nata sull’assistenza al disagio sociale e psichico si è incontrata con altre comunità, nate su obiettivi di legalità, e ha sfidato la più potente delle comunioni, quella dell’affiliazione di sangue e denaro. Giuseppe Pagano, emigrante di ritorno, racconta com’è andata. «Facevo l’insegnante di sostegno nelle Marche, sin da ragazzo mi ero dato da fare in attività sociali in parrocchia. Ho deciso di tornare dalle mie parti quando mi hanno raccontato delle cose che stavano provando a fare ‘quei pazzi di Trieste’». Era successo che nella Asl Caserta 2 era arrivato da Trieste Franco Rotelli, esponente di primo piano della psichiatria basagliana. «Non parliamo di tanti anni fa, era il 2001. Ma portare qui esperienze di cooperazione sul territorio, di passaggio dalla clinica ai gruppi di convivenza, dalle cure standardizzate ai progetti personalizzati, poteva sembrare un’impresa impossibile. Invece è andata molto bene». E non solo perché, pur tra mille difficoltà, i progetti terapeutici sul territorio sono partiti, e con essi anche l’attività economica e lavorativa che è parte essenziale dei percorsi di ritorno alla socialità. Ma anche perché il loro sviluppo si è intrecciato con altri interessanti sviluppi. Come quando si trattava di cercare una casa per insediarvi dentro uno dei primi gruppi di convivenza: «Non ce li vogliamo qui i pazzi!, si rivoltava la gente. E proprio mentre la tensione saliva per queste proteste, a ­23

pochi metri di distanza dal nostro portone i poliziotti stavano arrestando uno dei 30 latitanti più pericolosi d’Italia. Allora, ci siamo detti e abbiamo detto alla gente: dov’è il pericolo vero? Di qui quel nome per il ristorante-pizzeria, che è una sfida: vogliamo organizzare qualcosa di diverso, organizzare il bene. Adesso i nostri vicini sono quasi tutti clienti della pizzeria». La prima sera hanno offerto la pizza gratis a 500 persone, il primo anno hanno chiuso con un utile che hanno reinvestito nell’attività, il secondo anno il bilancio ha registrato di nuovo un utile, destinato ad altre attività di carattere sociale. Si capisce perché Giuseppe abbia abbandonato il posto fisso nella scuola e sia tornato a stabilirsi in provincia di Caserta a fare l’operatore sociale di comunità. È preoccupato perché intanto lo psichiatra basagliano è stato allontanato e nuove direttive sanitarie mettono a rischio molti progetti. Ma è entusiasta di quel che nel frattempo si è costruito. Racconta del lavoro fatto dal loro gruppo in un immobile confiscato alla camorra. «Abbiamo chiesto che ce lo affidassero, quando siamo entrati era vandalizzato, distrutto. I vicini di casa si nascondevano, la moglie del boss veniva a sfidarci, i ragazzi del quartiere gironzolavano nel cortile». Giuseppe racconta di come hanno ristrutturato la casa del boss; dei campi di lavoro fatti da volontari di tutt’Italia; di uno dei loro ex pazienti, diventato responsabile dell’operazione di recupero; dell’arrivo dei ragazzi del quartiere, compresi figli di killer e camorristi; della tormentata introduzione di regole, valide per tutti; del festival dell’estate scorsa, quando sono arrivati tutti, anche quelli che prima chiudevano le porte in faccia o peggio; di un buco «che noi stessi abbiamo fatto nel muro di cinta, perché non solo non chiudiamo il portone, ma lo spalanchiamo». Ormai da un anno nell’ex stabile del boss c’è un presidio fisso di Libera, giorno e notte.

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Soldi

Yunus alle Piagge «In fondo, cosa significa la parola credito? Dare fiducia, riconoscimento, rispetto a una persona». Francesco Festini lavora in banca ed ha una idea del credito che forse non piacerebbe al suo capo. Infatti ne parliamo in un posto senza sportelli né metal detector, nello spiazzo dove ha sede la comunità di base delle Piagge, nata nel quartiere popolare della periferia ovest di Firenze a metà degli anni Novanta per iniziativa di don Alessandro Santoro, uno dei preti italiani che portano al posto dell’abito talare l’etichetta «scomodo» – e non si cura molto né dell’uno né dall’altra. «Sede» è una parola grossa; c’è un prefabbricato, dove si trova il centro sociale Il Pozzo e si svolgono le attività principali della comunità: riunioni, corsi, accoglienza, seminari, messe. Di fronte, c’è una struttura in legno con una bottega delle economie solidali. Nello spiazzo, panchine, tavoli e sedie disposte a cerchio sotto gli alberi, un po’ di bancarelle messe su per la festa: i dieci anni del Fondo etico, un’esperienza di microcredito nata all’interno delle Piagge prima che Muhammad Yunus prendesse il Nobel per la pace e che il microcredito diventasse una branca del marketing delle grandi banche, anche italiane. Dalle Piagge – una delle esperienze più radicali di finanza messa in comunità – partiamo per raccontare i vari ­25

modi nei quali «l’economia del noi» entra nelle faccende del credito, del risparmio, della moneta. Francesco viene qui alle Piagge da un altro quartiere fiorentino, quello di Settignano, dove ha fatto partire un parallelo progetto di microcredito. Il lavoro in banca gli sta un po’ stretto, essendo lui convintissimo di un principio: «dal denaro non si fa denaro». Ma vive questo suo doppio ruolo con una certa ironia, e gli torna anche assai utile conoscere bene alcuni meccanismi del credito dall’interno. Per cui cita subito il numero del miracolo: 98,5%. Che è il tasso di restituzione dei crediti dati dal Fondo etico delle Piagge in dieci anni. Un tasso altissimo, rispetto alla media degli istituti di credito, gli stessi che mettono i soggetti che hanno preso i soldi dal Fondo etico nella categoria «non bancabili». È lo stesso miracolo alla base della scoperta che è valsa a Yunus il Nobel (per la pace, non per l’economia): ai più poveri bastano pochi soldi per uscire dalla miseria, e se la comunità si fa garante del progetto la restituzione del prestito è sicura. «Non chiediamo garanzie reali, né fideiussioni. Il fatto è che se uno viene qui da noi trova persone che lo stanno a sentire. E sono persone che non stanno facendo la carità ma stanno cercando di capire se si può dar credito a chi in quel momento chiede del denaro perché ne ha bisogno». Si tratta di piccole somme e piccoli numeri: in dieci anni il Fondo ha concesso 141 prestiti per un totale di 315.000 euro. L’ammontare massimo è di 2.600 euro per i prestiti personali e di 7.000 per i progetti di impresa; invece la somma minima per aderire al Fondo da prestatori è di 25 euro. Il tutto funziona a «tasso zero», stavolta la formula è vera e non presa da quelle pubblicità che poi nelle note a margine piccolissime scrivono il tasso reale. Il Fondo lavora a interessi zero non solo per il debitore, ma anche per i creditori: chi presta soldi al Fondo riavrà il capitale e niente in più; nei primi anni di vita del Fondo si garantiva la rivalutazione monetaria per ­26

coprire il prestito dall’inflazione, poi si è deciso di non dare neanche questo. Quindi chi dà i soldi al Fondo non lo fa certo per interesse, non ci guadagna denaro; ma non lo fa neanche per pura beneficenza, raccontano le storie delle persone presenti alla festa del decennale. Qui, come in molte delle esperienze di finanza solidale, la motivazione di partenza è in un istinto molto semplice: non dare i propri soldi alle banche, sottrarli almeno in parte a impieghi di cui non si sa niente e dove comunque rendono pochissimo. A questa motivazione in negativo si aggiunge quella in positivo: sapere dove vanno a finire i soldi, partecipare a un progetto. Come chi compra nei gruppi d’acquisto vuol sapere tutto del contadino che gli vende le arance, chi dà i soldi al Fondo è consapevole, se vuole è anche partecipe, della loro destinazione. La governance è a dir poco democratica: su ogni prestito qui alle Piagge decide l’assemblea, alla quale hanno diritto di partecipare tutti quelli che hanno versato o ricevuto soldi. Si fanno 4 o 5 assemblee all’anno, alle quali partecipa una quota tra il 40 e il 60% dei soci. Una commissione istruisce la domanda, e poi in assemblea si valuta se concedere il prestito. Con quali criteri? «Certo non quello delle garanzie patrimoniali: noi non le chiediamo, anzi le rifiutiamo, perché pensiamo che sia proprio tale richiesta a erigere la barriera che tiene le persone fuori dal circuito bancario. Si valuta la sostenibilità, la possibilità di rientro, in base alle capacità e alla responsabilità della persona», spiega Francesco. Impresa non facile, resa ancor più complicata dal metodo democratico della decisione: «La decisione deve essere collegiale. Non unanime, ma collegiale. Vuol dire che continuiamo a discutere finché i dubbi non sono fugati e le perplessità sono state esaurite o almeno ridotte. Poi una persona dell’assemblea si assume il ruolo di seguire quel prestito». È questa rete di relazioni intessuta prima, durante e dopo che fa il miracolo del 98%, secondo Francesco: chi usufruisce di un prestito fa di tutto per restituirlo, mentre il Fondo fa quel che può anche per aiutare il ­27

debitore, attraverso le altre attività della comunità, a uscire dalla situazione di bisogno. Il più delle volte si tratta di un piccolo prestito personale: bollette arretrate da pagare, l’affitto, una spesa imprevista. Altre volte di finanziare piccoli progetti di vita: come nel caso del ragazzo che fa il commesso nel vicino megastore di Scarpe & Scarpe, ma sogna di pagarsi un corso da estetista per cambiare lavoro. Non è un posto facile, Le Piagge. Costruito negli anni Ottanta su una lingua di terra stretta tra l’Arno, la ferrovia e la via Pistoiese, ha assorbito le fasce più acute del disagio sociale e abitativo di Firenze. Fiorentini, vecchi immigrati meridionali, nuovi immigrati, e i rom lungo gli argini del fiume. Chi lo ha progettato non aveva tenuto in conto il rumore degli aerei in atterraggio e decollo da Peretola, sottofondo perenne della vita quotidiana; né aveva pensato alle piazze. Non ce n’è neanche una. Alla mancanza di piazze ha rimediato prima la comunità delle Piagge, con il suo slargo davanti al centro sociale; poi un centro commerciale con in mezzo una piazza, in quanto tale utilizzata dalla gente del posto per andare a chiacchierare, a sedersi sulle panchine, a portare un po’ fuori i bambini: solo che chiude quando chiudono i negozi. Quando è venuto qui, Alessandro Santoro ha detto che non c’è bisogno di andare in Africa per trovare i poveri. Ha portato le pratiche della teologia della liberazione a pochi chilometri da piazza della Signoria, ha litigato con parecchie istituzioni, ha rotto le scatole a chi prosperava sull’illegalità diffusa nel quartiere, ha subìto minacce, si è scontrato sull’accoglienza ai nuovi poveri – gli immigrati – anche con i vecchi poveri del quartiere. Un’esperienza radicata e radicale, non rara nella periferia della chiesa cattolica. Ma che qui prende una piega particolare, si incontra con le pratiche della finanza mutualistica che intanto venivano portate avanti altrove sotto la sigla delle Mag (acronimo che sta per: mutua autogestione finanziaria). In particolare stringe un sodalizio con la Mag di Reggio Emilia, una delle ­28

più intransigenti nella concezione alternativa del denaro e del credito. E comincia ad occuparsi – oltre che di doposcuola per ragazzi che poche volte vanno oltre la terza media, oltre che di cooperative di lavoro, oltre che di case per chi non ce le ha – anche di prestiti. Con una chiara idea in testa, che don Santoro riassume nel giorno della festa del decennale: «Non abbiamo mai voluto essere degli elargitori di denaro, abbiamo sempre voluto tener fede a due princìpi: primo, il denaro è un mezzo di scambio, non deve stare al centro; secondo, la ricchezza deve circolare, non si deve accumulare». Adesso la comunità delle Piagge vuole andare oltre il microcredito di prossimità. Da un lato, si cerca di fare una vera e propria Mag, soggetto che potrà fare prestiti anche più grossi di quelli del microcredito, che per legge ha un limite massimo di 25.000 euro per prestito; dall’altro, «dobbiamo mettere in circolazione anche la nostra ricchezza non finanziaria, quello che ciascuno di noi sa fare». Così, ai soci del Fondo riuniti per la festa in un sabato autunnale che minaccia pioggia, viene distribuito un questionario: cosa fai, cosa sai fare oltre al tuo lavoro, cosa ti appassiona, quali abilità vuoi mettere a disposizione degli altri. Il progetto è quello di fare una «rete senza soldi», ossia una rete di mutuo scambio di beni e servizi. Una forma di baratto, che potrà poi anche sfociare in una moneta sociale interna alla comunità per misurare i beni e servizi messi a disposizione. «La forma la decideremo poi insieme, se ci convince. Prendiamoci tutto il tempo che serve, non abbiamo scadenze né fretta. Quel che è certo è che una rete di beni e servizi si può fare se c’è già una comunità, non con un approccio utilitaristico». Se funzionerà, sarà un incentivo in più per entrare nel Fondo etico o nella futura Mag: chi mette i suoi soldi rinuncia all’interesse – e non è una gran rinuncia, visto quello che le banche pagano ai piccoli risparmiatori, ossia una percentuale dei depositi vicinissima allo zero –, ma in cambio potrà avere l’accesso alla rete dei servizi gratuitamente messi a disposizione da ­29

tutti. E chi entra nella condizione di debitore, sa che nella vita quotidiana avrà qualcosa in più, gratis, per vivere. Il che conta parecchio, soprattutto di questi tempi piagati dalla crisi. A causa della quale molta più gente arriva alle porte della comunità, con bisogni crescenti. Chiediamo ad Alessandro Santoro se non teme di essere usato, se la comunità non finisce per svolgere una funzione di supplenza rispetto a quello che il governo, le istituzioni locali, lo Stato, dovrebbero fare e non fanno per redistribuire le risorse. La risposta è secca: «Noi non suppliamo al sistema, noi lo denunciamo». Poi spiega: «Non siamo sussidiari a nessuno, perché noi vogliamo costruire una finanza realmente alternativa. E diciamo alle persone: hai il diritto ad avere una parte della ricchezza, che non è tua, e che restituirai». L’esperienza del Fondo etico e – in prospettiva – della nascente rete di mutuo scambio di servizi sono indissolubili dal territorio in cui sono nate e radicate. Non solo per motivi concreti: bisogna risiedere qui, per poter chiedere un prestito. Ma anche per la forza della comunità di base, per il ruolo del suo fondatore, per i richiami culturali che sono visibili anche sui muri, con le citazioni dalla Lettera a una professoressa di don Milani e la frase chiave che torna spesso nei discorsi e negli scritti: «Se hai, hai per dare». Non è però la religione il collante della comunità, nonostante il fatto che sia stata fondata da un sacerdote e il suo primo atto sia stato una messa all’aperto in una notte di Natale. Maria Chiara Manetti, referente del Fondo etico e attivista alle Piagge dalla prima ora, ci è capitata proprio per quella messa: «è da allora che ho cominciato a partecipare alla vita della comunità. Io lavoro alla forestale, ma non direi che qui faccio volontariato. È la mia vita, non è volontariato». Anche Francesco, il bancario che lavora contro le banche, parlando della sua vita e della sua formazione racconta un background cattolico. «Prima facevo il volontario nelle Misericordie, era quella la realtà ­30

più attiva nella mia zona». La Confraternita della Misericordia, istituzione di volontariato che esiste da ottocento anni e si occupa del trasporto dei malati. «Sono stati loro a costruire la rete del primo soccorso, quando ancora non c’era il 118». Una formazione cattolica sul campo, in senso letterale: «Ma qui c’è di tutto, ci sono anche persone che vengono da tutt’altra formazione». E l’appartenenza religiosa non fa da discrimine, né per l’inclusione né per l’esclusione. Soprattutto da quando è diventata forte la presenza, tra chi si avvicina al Fondo, di immigrati da paesi islamici. Più che per la componente della fede, l’esperienza del Fondo etico delle Piagge si contraddistingue per un forte legame comunitario e per una radicalità di fondo: non creare denaro a mezzo di denaro. Una radicalità che li caratterizza rispetto ad altre realtà sorelle o cugine, e che ne fa un mondo a parte: legato ai bisogni reali di un tessuto sociale e territoriale a rischio; distaccato dalla giungla della finanza e dalle sue evoluzioni e involuzioni; non sfiorato dal coinvolgimento in progetti «fiore all’occhiello», quelli che usano l’etica come un capitolo delle pubbliche relazioni; molto diffidente verso ogni apertura della vecchia finanza in crisi all’apporto di modelli alternativi, basati sul capitale delle relazioni. Buona finanza C’è un problema che prima o poi viene fuori ogni volta che le buone intenzioni si incontrano o si scontrano con il mercato. Possiamo parlare di prodotti sani, o di rispetto e tutela di chi li ha fatti, o di solidarietà nel consumo e nella finanza, o di impresa sociale e responsabile. Prima o poi viene fuori la tentazione, il rischio, il sospetto: è l’etica messa a scaffale. La bontà come un ulteriore attributo del prodotto, utile per venderlo. Soprattutto di questi tempi, da quando tutti, dal detersivo ultra-sbiancante alla banca costruita attorno a te, vantano un progetto per bambini sieropositivi, una scuola tra le favelas, un’elemosina in qual­31

che posto molto povero purché lontano. È una copertura antica, ma che ha acquistato molta più forza e diffusione oggi. Ha raccontato Fabio Salviato, il fondatore di Banca Etica, che quando avviò il primo progetto per finanziare la produzione e commercializzazione del caffè equo e solidale da parte di un gruppo di contadini dell’Ecuador, non riusciva a trovare nessuno stabilimento italiano per farlo tostare. Adesso si metterebbero in fila per poter mostrare con poco sforzo un piccolo fiore solidale all’occhiello. Allora, dov’è la differenza? Come distinguere il business dalla solidarietà? Come orientarsi nella nuova giungla della bontà? Per rispondere, è necessario inoltrarsi nelle motivazioni che muovono singoli e gruppi; ma soprattutto cercare nei loro progetti la presenza del «noi»: i legami sociali al posto dell’iniziativa solitaria, il patrimonio delle relazioni in luogo di quello monetario, la collaborazione al posto della competizione. Ma anche così, resta una grande gamma di sfumature, nel rapporto con il business senza aggettivi. C’è chi rifiuta ogni contaminazione e chi, come Yunus, teorizza una fusione nella nuova branca del «business sociale». Chi elogia la lentezza della democrazia assembleare – una riunione di tutti per decidere su ogni prestito – e chi esalta la rapidità e la flessibilità delle nuove piattaforme di social lending; chi vuole abolire la moneta e chi è entrato nella casa del diavolo, la banca. Parla di «etica messa a scaffale» Lorenzo Vinci, operatore e conoscitore della finanza etica e solidale, ex presidente della Mag di Torino. Lorenzo è della generazione che si è trovata a fare politica negli anni del grande gelo, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso; e l’ha fatta partecipando ai movimenti che c’erano, «con un approccio concreto». Concreto, ma che parte da lontano. Gli piace citare lo slogan dei Beati i costruttori di pace: quando l’economia uccide, è ora di cambiare. E si identifica anche nel duplice passo delle strofe del Dormitorio di Brecht: dare un letto ai senzatetto d’inverno non muta il mondo, però alcuni uomini hanno un posto per ­32

dormire e la neve a loro destinata cade sulla strada; alcuni uomini hanno un posto per dormire e la neve a loro destinata cade sulla strada, ma il mondo così non muta. Un approccio utopistico e pragmatico insieme, che caratterizza il mondo della finanza mutualistica. Se alle Piagge abbiamo visto in azione il microcredito di prossimità, nelle Mag la scala è maggiore: l’ambizione è quella di finanziare progetti – non necessariamente piccoli – di cambiamento sociale. La prima mutua di autogestione finanziaria nasce alla fine degli anni Settanta a Verona, da un’occupazione di terre, dunque attorno a un’esperienza squisitamente comunitaria: nel pieno della conflittualità di quegli anni, legata alla difesa dei posti di lavoro e al progetto dell’autogestione della propria impresa. Lo strumento è quello della società di mutuo soccorso, ereditato nei nostri codici dall’Ottocento; poi un avvocato trova anche il sistema per poter raccogliere denaro e prestarlo, insomma per fare un lavoro da banca senza essere una banca: il marchingegno iniziale è una cooperativa che presta denaro ai suoi soci. In seguito gli strumenti si diversificano, anche perché le leggi si complicano per inseguire un mondo della finanza ben più sofisticato; e da quel modello nascono – quasi tutte al Nord – altre realtà per fare finanza solidale autogestita. Ossia, far incontrare gente che vuole prestare i suoi soldi per finanziare progetti sociali, etici, solidali; e gente che questi progetti li vuole realizzare, garantendo la restituzione del capitale e dunque la sostenibilità economica. Spiega Lorenzo Vinci: «Chi presta soldi, in questo caso, è prima di tutto un obiettore monetario, uno che non vuole dare i suoi risparmi alle banche. A volte ha solo la garanzia del rimborso, altre ha anche la copertura dell’inflazione, insomma alla fine non è che le banche vere ti diano di più». Ma il lavoro importante, quello che viene dopo, è nella scelta dei progetti da finanziare: progetti di impatto sociale, o nel campo del commercio solidale, o di innovazione sul territorio; che devono avere una sostenibilità economica, cioè essere in grado di restituire il prestito; e ­33

che spesso sono presentati da soggetti esclusi dal sistema del credito, che le Mag vogliono invece includere con la collaborazione e la condivisione del progetto. Ma, per dirla in termini economici classici, pur sempre di incontro tra domanda e offerta di denaro si tratta. Il che ha delle ricadute giuridiche. È da vent’anni che le mutue di autogestione finanziaria fanno slalom tra i paletti posti dalla Banca d’Italia: nate in una specie di limbo normativo, hanno poi dovuto soddisfare requisiti sempre più stringenti per raccogliere risparmio, inventarsi formule e artifici, recarsi diverse volte nel palazzo – palazzo Koch, sede della Banca d’Italia – per evitare di essere cancellati; finché il mondo Mag non si è diviso in due, e una parte ha deciso di mollare gli ormeggi e fare una vera e propria banca, ossia la Banca Etica. Per avere un’idea delle proporzioni: adesso le Mag in giro per l’Italia sono 6, hanno 4-5.000 soci e danno in prestito non più di 10 milioni all’anno. Mentre la sola Banca Etica ha 34.000 soci, impieghi per 422 milioni, 14 filiali: le dimensioni di una banca popolare medio-grande, specializzata soprattutto nel credito all’associazionismo e al terzo settore. Le due realtà – i cani sciolti delle Mag e il piccolo colosso bancario etico – convivono, si intrecciano, a volte discutono animatamente, si spaccano, collaborano. Entrambe si sono trovate, dopo lo spartiacque della crisi del 2008, a fare i conti con le macerie della finanza e l’emergenza economico-sociale italiana. «Per il mondo della finanza alternativa, la crisi del 2008 poteva essere quello che è stata l’emergenza della mucca pazza per il biologico», dice Alessandro Messina, che della finanza etica è stato operatore, animatore e studioso, e che poi è andato a dirigere il settore crediti dell’Associazione bancaria italiana (la casa delle case del diavolo, direbbero tanti suoi compagni di strada). Con tutta evidenza non è stato così, il risparmio critico non si è diffuso allo stesso ritmo del consumo critico, è rimasto seminascosto. È vero che nel caso del risparmio entra in gioco il rapporto di ­34

ciascuno con il denaro, più ambivalente e più difficile di quello con la merce che si consuma; è vero anche che è più facile riconoscere un prodotto alimentare tossico che un asset tossico, e che il primo (forse) fa più paura; ma è indiscutibile che, con il crollo di credibilità delle banche, delle finanziarie e delle istituzioni che avrebbero dovuto controllarle, un’autostrada poteva aprirsi davanti alla finanza mutualistica. Poteva essere l’occasione per uscire dalla nicchia, «rimettersi in discussione», dice Alessandro. Così non è stato. Anzi, il giro di vite nelle regole per fare credito, che è seguìto agli eccessi finanziari globali, rischia di penalizzare paradossalmente proprio tutto il mondo della finanza alternativa che da quegli eccessi si è sempre tenuto lontanissimo. In qualche modo, la mancata crescita è una logica conseguenza di alcune regole che le stesse mutue di autogestione si sono date: non tanto quelle sul tasso di interesse (che variano da Mag a Mag; in alcuni casi, come si è visto alle Piagge, si rifiuta di dare al prestatore non solo l’interesse ma anche la copertura dell’inflazione), quanto le procedure collegiali di decisione, e la vicinanza e la condivisione tra chi presta e chi prende: virtù praticabili facilmente solo su piccola scala. Cinzia Cimini, socia fondatrice della Mag romana, al mattino lavora in uno studio di un commercialista e al pomeriggio si occupa dei prestiti solidali; lei può elencare i progetti finanziati uno per uno, e parlarti anche a lungo delle vicende e della personalità di chi ha avuto i prestiti. «Ci sono statuti diversi e differenti regole, ma un principio comune è quello per cui non si richiedono garanzie patrimoniali», ossia quelle che tutti gli istituti chiedono prima di darti un euro, e che chiude fuori dalla porta blindata delle banche moltissime persone. In senso reale e non solo figurato, qui il capitale delle relazioni sostituisce il capitale fisico: garantisce per la persona la sua storia, il suo progetto, la sua affidabilità, e a volte una rete di altre persone. A volte si tratta di piccoli progetti con forte valore simbolico ma basso rischio. Un esempio? «Abbiamo appena finanziato ­35

un progetto delle Brigate di solidarietà attiva, che aprono un centro a Nardò per far emergere dal nero i lavoratori immigrati. Ne avevano bisogno per acquistare il furgone e un gazebo, pochi soldi che saranno poi restituiti quando arriveranno i fondi dalla chiesa valdese, che ha promesso una donazione per questo». Solo un prestito-ponte, insomma, per un’attività squisitamente sociale. Ma nella maggior parte dei casi si tratta di finanziare, o co-finanziare, attività che poi devono sostenersi da sé, «tutto è basato sulla valutazione del progetto, che non viene valutato solo nell’istruttoria ma seguìto per tutto il percorso. La nostra attività non è solo nel dare i prestiti, è un’attività politica a tutto tondo». Riecco la parola «politica»: anche Cinzia ha iniziato a farla al crepuscolo del Novecento, e lei ammette che sì, si sente «orfana di un soggetto politico tradizionale»; ma allo stesso tempo soddisfatta dall’aver intrapreso «una strada operativa, nella quale il mio lavoro non è dissociato dalla mia identità». Scudo e fragoline Un piccolo mondo un po’ antico, che, dopo la crisi del 2008, ha visto bussare alle porte nuove esigenze (la crescente massa delle persone escluse dal credito quando le banche ne hanno ristretto i requisiti) e nuovi problemi (dovuti alla necessità di adeguarsi a regole pensate per i pescecani del prestito personale, per le finanziarie mordi-e-fuggi, insomma per quanto di più lontano ci possa essere dal mondo dei fondi etici e delle casse autogestite), faticando un po’ a tenerne il passo. E che può vantarsi di aver dato i natali a Banca Etica, creata nel ’99 su impulso e trasformazione di alcune Mag, con l’adesione di reti importanti come l’Arci, le Acli, Legambiente, la Cisl. I racconti degli esordi, raccolti dal primo presidente di Banca Etica Fabio Salviato nel libro Ho sognato una banca, sono radicati nelle pratiche comunitarie del «ben fare» nella realtà veneta: la Banca nasce dalla necessità di finanziare i fornitori del commercio equo e solidale, su una scala sempre più impegnativa e con ­36

requisiti sempre più stringenti richiesti dalle autorità bancarie. Crescendo, si è sempre più affermata nell’immagine e anche nei fatti come banca del terzo settore, del mondo associativo, delle organizzazioni non governative: non l’unica e neanche la principale – anzi, secondo dati della Banca d’Italia sono le banche tradizionali e tra queste soprattutto quelle maggiori i principali interlocutori del terzo settore –, ma comunque una realtà cresciuta in parallelo con la crescita del non profit e la sua sempre più evidente istituzionalizzazione. Come si concilia tutto ciò – le maggiori dimensioni, le filiali in tutto il territorio, le procedure e regole di una banca, il rapporto con altri piccoli colossi – con le pratiche comunitarie delle origini? Chi sono i «noi» di Banca Etica? Come ci si può aspettare, con il crescere delle dimensioni le pratiche di decisione collettiva si fanno più difficili se non impossibili. Se già in una Mag i partecipanti attivi sono spesso il 10-20% di coloro che mettono i soldi, in una banca vera e propria il meccanismo di delega scatta ancora più spesso. All’ultima assemblea di Banca Etica, per fare un esempio, hanno partecipato solo 3.000 dei 34.000 soci. Anzi, i soci fisicamente presenti erano ancora di meno, circa 900, dato che molti avevano deleghe di altri. La partecipazione dei soci alle decisioni è affidata agli equilibri dei meccanismi di governance, più trasparenti di quelli del mondo bancario tradizionale (non ci vuole molto, si dirà), all’attivismo di 70 gruppi locali che hanno un nome da militanti più che da finanzieri (si chiamano Gruppi di iniziativa territoriale), e a una rete di 25 promotori finanziari che portano anch’essi un nome originale (Banchieri ambulanti) e si vantano di non avere in valigetta alcun prodotto tossico, di quelli che hanno avvelenato la finanza mondiale. È a loro, agli ambulanti del credito, che è affidato il compito di trovare o accogliere progetti che abbiano allo stesso tempo obiettivi sociali – solidarietà, inclusione sociale, tutela ambientale, sostegno ai giovani – e sostenibilità economica. Progetti che molto spesso vengono da gruppi, ­37

o si appoggiano a realtà comunitarie locali. Com’è successo dalle parti di Messina, dove la banca ha finanziato la costruzione di un parco per le energie rinnovabili su terreni confiscati alla mafia; ma i pannelli solari non saranno messi a terra, rubando ettari all’agricoltura, come sta succedendo in molte zone d’Italia; saranno invece sollevati di qualche centimetro, a far ombra a piante di fragoline biologiche. E un terzo degli addetti verrà da situazioni di disagio sociale: in particolare, dall’ex manicomio di Barcellona Pozzo di Gotto. Alla rete dei banchieri ambulanti e a pratiche di questo tipo sul territorio quelli di Banca Etica danno molta importanza per rinforzare l’identità solidaristica del loro istituto, e, come dice il suo direttore generale Mario Crosta, anche per «rinnovare la sua diversità». Un’occasione gliel’ha data il governo italiano quando ha varato lo scudo fiscale, ossia il provvedimento che ha permesso a chi aveva espatriato illegalmente i capitali di regolarizzare la propria posizione pagando un piccolissimo obolo. Banca Etica ha fatto sapere che non si sarebbe prestata a quest’operazione con i suoi conti e sportelli. Va detto che negli stessi giorni tutte le banche stavano rincorrendo i clienti da «scudare», portatori di un piccolo business a rischio zero; ma, da parte di una banca che porta quell’aggettivo nel nome, la precisazione poteva persino essere inutile o ridondante: quanti clienti poteva avere una banca etica tra gli evasori fiscali? Invece è stata molto apprezzata come elemento di chiarezza e presa di distanza da un certo mondo del denaro sporco: «Molti hanno voluto aprire un conto corrente il giorno dopo, molte persone ci hanno chiamato per farci i complimenti», racconta Crosta. Mentre le banche che hanno seguito l’esempio, anche nello stesso mondo cooperativo delle popolari, si contano sulle dita di una sola mano. Per alcuni, soprattutto nel mondo del non profit più strutturato, Banca Etica è rimasta a metà percorso, ancora ­38

troppo ancorata alle sue origini e a realtà di nicchia. Per altri, dalle parti del suo mondo d’origine, si è contaminata fin troppo con il mercato e le banche senza aggettivi. Ma «una banca è una banca, è una banca», direbbe Gertrude Stein. E così, può anche prevedere che lo stipendio di chi ci lavora non sia meno di un settimo di quello di chi la dirige; può anche rifiutarsi di rimpatriare i soldi provenienti dai paradisi fiscali; può non aver mai avuto né piazzato derivati in portafoglio; può attrarre risparmio nonostante tassi di interesse più bassi, in cambio di scelte etiche sulla governance e sui prodotti; può fare tassi uguali in tutt’Italia, dal Friuli alla Campania; può anche avere un presidente – Ugo Biggeri – che non prende stock option e vive in una comunità in una campagna toscana; ma è sempre una banca, e pure abbastanza grande. In concorrenza con altre, via via salendo sempre più nella scala delle sfumature dal dono al business: le banche popolari, il mondo del credito cooperativo, e anche le banche in tutto e per tutto profit. Racconta Mario Crosta che a margine di un convegno un rilevantissimo banchiere italiano, di statura internazionale, gli disse: «Ce l’abbiamo anche noi una linea etica, il cliente ce la chiede e noi gliela diamo». Magari quel cliente si accontenta di investire i suoi soldi in un prodotto specifico «pulito» e non guarda le altre attività dello stesso istituto; oppure gli basta che ci sia una destinazione filantropica di una parte dei fondi. Vista dal punto di vista del banchiere tradizionale, si tratta di un settore specifico di clientela da conquistare; solo che ha richieste un po’ particolari e un tasso di rischiosità a volte più basso di quello delle imprese normali: cosa che in questi tempi di magra fa particolarmente gola. Per qualcuno, è il mercato che si prende la rivincita, mangiandosi anche l’antimercato: questo direbbe il successo d’immagine della finanza etica, speculare allo sprofondare dell’immagine della finanza vera, nel gorgo dei derivati e delle stock option; e anche l’espansione del microcredito, importato anche in Occidente negli stessi anni ­39

delle crisi subprime, per favorire l’inclusione di soggetti «non bancabili», e praticato anche da fior di banche in tutto e per tutto «profit». Ma si può anche dire che questo prova l’esistenza di un bisogno diffuso di fare le cose in un altro modo, di usare il denaro criticamente e per questa via cambiare il sistema. Oppure – come una corrente di pensiero economico sostiene, ispirandosi al filone dell’economia civile – che proprio la persistenza e l’allargamento di zone dell’economia governate da motivazioni diverse dall’interesse economico individuale possono salvare un sistema in crisi. Certo è che molti continuano a provarci, anche in comunità dal basso, con nuove esperienze nate a ridosso o dopo la crisi. Così può capitare che nel cuore dell’eurozona nascano comunità fondate sul baratto, o su un’altra moneta, che circola in parallelo o a integrazione dell’euro per sostenere le reti dell’economia locale. Oppure che un bancario si inventi con un gruppo di amici un sito di social lending. Soldi in rete Prestiamoci è nata a casa di Mariano, a Ivrea, un giorno di Natale. Mariano Carozzi, che di sé dice: «Ho una storia tipica in un ragazzo di provincia: liceo classico, legge, assunzione in banca». Mariano è credente, ha militato per anni come volontario in Pax Christi ed è cresciuto nel cattolicesimo sociale di Luigi Bettazzi. Già in banca, dove ha fatto una buona carriera, si era messo «a lavorare su internet» e aveva scoperto le potenzialità del prestito tra persone in rete, cominciando a studiare possibili versioni italiane. Così, con business plan fatti con amici nella tavernetta di casa, ha preso forma il progetto di Prestiamoci: una piattaforma di social lending, ossia prestiti tra persone che si incontrano in rete. La società è partecipata da Mariano e altri 6 amici che l’hanno fondata, partendo con un capitale iniziale di 1 milione di euro, ai quali si è successivamente aggiunto lo stesso istituto nel quale la­40

vorava Mariano, Banca Sella, che adesso detiene il 40% della società. «La nostra è una società che ha due anime, una più seria e professionale, una sognatrice, che vuole portare però questi sogni nel mondo vero». Perché «a un certo punto dal monte bisogna scendere». E questa discesa dal monte, Carozzi la vede così: «C’è una comunità di prestatori, gente che vuole sapere dove vanno a finire i suoi soldi; e ci sono i progetti presentati da chi chiede credito, ognuno dei quali ha la sua scheda di presentazione e il suo blog». Non è che il prestatore si scelga à la carte il debitore, ma ci va vicino: la piattaforma prevede infatti che chi dà i soldi possa dare indicazioni sul tipo di progetti che vuole finanziare e quelli che vuole evitare, e quindi influenzare la destinazione finale del suo denaro. Dall’altra parte, ai debitori si chiedono requisiti di affidabilità pari a quelli chiesti dalle banche «normali», e in più si valuta l’età – l’essere giovani, mai entrati nel circuito del credito, è un punto a favore –, e il progetto, il business plan. «Il nostro primo finanziamento l’abbiamo dato a un ragazzo appena laureato, aspirante regista, voleva fondi per andare a girare un documentario a Sarajevo». I progetti sono tutti sul sito, visibili e commentabili. Raccontano ipotesi e pezzi di vita, più che investimenti d’impresa. Non è richiesto che questi siano nel campo dell’altra economia, anzi spesso si tratta di microprogetti assai ordinari: l’acquisto di un’auto usata o di «un trattorino nuovo»; il finanziamento di un corso di lingue («devo migliorare il cinese») o le spese dentistiche per il figlio. C’è anche, già finanziato, un trattamento di fecondazione assistita, valutato 4.000 euro e seguito con particolare pathos. Sono prestiti tra amici, che non si conoscono ma si sono incontrati sul web proprio per far questo: chiedere denaro, prestare denaro. «Quasi tutti giovani, a basso reddito e alta cultura, che amano usare questo strumento, anche come microprestatori». Ci sono attività e merci escluse, ma non un campo d’attività preciso: si possono finanziare attività sociali o di business, innovative o tra­41

dizionalissime, il mini-eolico come il magazzino di un negozio di abbigliamento. La spinta comune, di chi dà e chi prende soldi, è quella di saltare la banca, incontrandosi direttamente – sia pur virtualmente. È una comunità che Mariano Carozzi sogna di far incontrare: «Lo faremo un giorno un Prestiamoci-day». Non è una comunità unita da un progetto di cambiamento radicale, come lo sono le esperienze di finanza alternativa più antiche; ma, al contrario di queste, ha trovato uno strumento potente e veloce per fare rete: la rete, appunto. E proprio in rete si stanno sviluppando forme alternative, e comunitarie, di finanziamento. L’aggregazione di una comunità di sconosciuti attorno a un progetto, forma specifica della collaborazione in rete, ha già una sua versione finanziaria, in particolare nel campo della conoscenza. Si va dal finanziamento delle inchieste «su domanda» nel campo del giornalismo di siti come spotus.it e dig-it.it – in cui il reporter parte per la sua inchiesta se trova una comunità di persone interessate che gliela finanziano – alle produzioni audiovisive. Si intitola proprio «Nuove comunità economiche» il progetto di Produzioni dal basso, piattaforma internet indipendente che offre spazio a «tutti coloro che vogliono proporre il loro progetto attraverso il sistema delle produzioni dal basso». Ha più di 4.500 iscritti, una cinquantina di progetti attivi: film, cortometraggio, documentari, progetti artistici, inchieste, libri. Qui non siamo nel campo del credito ma delle microdonazioni: con 500 quote da 6 euro l’una, per esempio, si è finanziato L’ora d’amore, film documentario su vita e sessualità in carcere; con 4.000 quote da 10 euro l’una, il lungometraggio Il Vangelo secondo Precario. Il metodo è quello antico delle sottoscrizioni popolari, il luogo è quello moderno della rete, nella quale ciascuno presenta, discute e mostra il proprio progetto. Come nel caso del successo dei gruppi d’acquisto verso i nuovi e più moderni agricoltori, come nel caso delle casse autogestite o del social lending, l’appeal della formula può essere nel saltare l’intermediario, editore o banchiere o ­42

finanziere che sia. Lo scopo di Produzioni dal basso è totalmente non profit: «Non percepisce percentuali per i progetti proposti, non acquisisce diritti sulle opere proposte, non stampa e non distribuisce nulla», si legge nel suo sito. Il cui scopo, si aggiunge, «è proporre un metodo nuovo, discutere e ridiscutere l’autoproduzione».

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Case

Eva sul cratere «Un altro caffè?». La moka da sei tazze porta i segni di un certo sfruttamento. Se c’è un genere che va molto, qui all’Eva, è il caffè. Seguono paglia e wifi. Tre generi essenziali per spiegare, attorno a un grande tavolo che serve per lavoro, pranzo, cena e salotto, cosa sta succedendo su una delle montagne del cratere del sisma dell’Aquila, dove a fianco di un paese prima disabitato e poi terremotato sorge Eva: eco villaggio auto-costruito. Sette case di paglia, opera in progress di una comunità che si può descrivere per cerchi concentrici: i senza casa che le abiteranno, il gruppo che le ha pensate, i sostenitori che le hanno finanziate via internet. Ma soprattutto, i volontari che le hanno costruite, e che nel loro via vai dai più disparati posti d’Italia e d’Europa a Pescomaggiore – una decina di chilometri da L’Aquila – hanno già realizzato l’obiettivo di più lungo periodo del progetto Eva: ripopolare il paese fantasma. «Non si tratta solo di uscire dall’emergenza, ma di uscire dalla precarietà». Dario D’Alessandro, giovane avvocato che a Pescomaggiore vive in una casa salvata dal terremoto, è uno dei promotori e animatori del progetto Eva. Ma si è un po’ stancato di vederlo incastrato nelle cronache del post-terremoto. Perché quell’idea di far rinascere dal basso qualcosa sulle montagne spopolate, di ridare ­44

senso alla parola «universitas» che in epoca medievale definiva le terre del comune di Pescomaggiore, ce l’aveva già da un pezzo. Come un bisogno a cui il terremoto ha dato urgenza e visibilità. E infatti prima del sisma la comunità di Eva già era in nuce, in un gruppo che chiedeva la rinascita del paese, o meglio del borgo: una rocca e una chiesa, poche case e 45 abitanti. Qualche tempo fa una ricerca fatta da Confcommercio e Legambiente ha stimato che saranno 1.650 i paesi che si estingueranno entro il 2016. Pescomaggiore potrebbe essere uno di questi, colpito da anni a morte prima dall’emigrazione, poi dalla discesa in pianura, verso le strade veloci e la città. Anche prima delle macerie del terremoto c’era già un simbolo fisico della ferita del paese: la cava nella montagna che si incontra salendo da Paganica. Impossibile non vederla. All’improvviso a un tornante spunta il cratere bianco, e uno pensa che sia lì per dare materia alla ricostruzione, rialzare muri dopo la distruzione del 6 aprile del 2009. E invece no, quella cava c’è dagli anni Settanta, e da allora la comunità discute, si divide, protesta contro lo sventramento che per 58 centesimi a tonnellata ha dato il suo minuscolo obolo di calce e cemento al boom edilizio planetario, presente anche qui – nella pianura, prima di inerpicarsi su per Pescomaggiore – in casette e villette appena costruite e già transennate, e in scheletri in cemento armato di palazzi con su ancora la scritta «vendesi». Dario e i suoi amici la vedono un po’ come un simbolo, quella cava contro cui hanno lottato inutilmente. Il loro gruppo, nato proprio sulle lotte contro lo scavo della montagna, cerca adesso una specie di riscossa nel fare le case di paglia e legno: «Le facciamo con le balle di paglia: perché è un materiale pulito, perché si tratta di progetti all’avanguardia, perché costano di meno. Sì, c’è anche un elemento simbolico, rispetto allo scempio della cava». E a proposito di simboli, a Isabella, che in una di queste case verrà a vivere, piace ricordarne un altro: «Quelle della cava erano le terre di confine del paese, lì sopra hanno bruciato ­45

Misa, accusata di stregoneria». Un simbolo femminile, come Eva, il loro acronimo che adesso nei motori di ricerca se la batte ai primi posti con la voce di Wikipedia sulla prima donna della storia e con la pornostar Eva Henger. Alle terre di Misa, Isabella Tomassi tiene molto. È da poco laureata in Filosofia e viveva nel centro dell’Aquila prima del terremoto. Adesso è senza casa, i suoi genitori hanno avuto uno di quei tetti provvisori chiamati Map e lei si è infilata mani e piedi nell’avventura di Eva: «Sono la disoccupata del gruppo», così si presenta sorridendo. Per ora però è molto occupata in un progetto che prevede la partecipazione fisica, fatta di fatica e sudore, e quella ideale, fatta di progetti futuri ma anche di mediazioni, discussioni, gestione della vita in comune. Non è stato facile, non sarà facile, lo si capisce anche attorno al nostro tavolone pieno di tazzine di caffè e appunti, davanti alla casetta dei volontari, prima variante in corso d’opera al progetto, per ospitare il consistente flusso di autocandidati a costruire, imballare, inchiodare, allacciare, dipingere, che si è avuto da quando Eva è stata lanciata in rete, con un appello e un sito. Erano passate poche settimane dal sisma. A pochi chilometri i Grandi Otto erano venuti e andati. L’astro berlusconiano ancora brillava sulle macerie. Un po’ fuori dai riflettori, trascurato per mancanza di morti e grandi numeri, stava il piccolo borgo di Pescomaggiore semidistrutto: 22 abitanti erano rimasti senza casa, l’inverno si avvicinava. Il piccolo gruppo di Eva si è presentato al mondo via web così: «Meglio rimboccarci le maniche». Come? La ricostruzione, quella ufficiale e definitiva, chissà quando arriverà; nell’attesa, si son detti, facciamoci le nostre abitazioni provvisorie, mettendo già nella soluzione emergenziale i germi di un progetto futuro. Invece dei Map piovuti dal cielo della Protezione civile, un villaggio ecologico. Invece dell’attesa dello Stato, la sollecitazione di una comunità attiva. Invece dei fondi pubblici dall’alto, il fund raising dal basso. Invece di case di proprietà, case ­46

di comunità da dare alle famiglie per l’emergenza e poi da restituire alla comunità. Invece di un fai-da-te disperato e improvvisato, un facciamo-da-noi ispirato a valori condivisi: ecosostenibilità, partecipazione, trasparenza. I due architetti che hanno materialmente fatto il progetto, Paolo Robazza e Fabrizio Savini, sono arrivati in Abruzzo quasi subito, qualche settimana dopo il terremoto, e si sono piazzati con la loro tenda un po’ fuori dall’Aquila, come volontari. Paolo è partito da Padova, Fabrizio da Roma. Con il loro gruppo – che si chiama Beyond Architecture – si erano già occupati di architettura di comunità, progetti ecosostenibili, interventi sulle emergenze. Ma finora avevano lavorato nei paesi in via di sviluppo, non sul dorso traballante di uno dei paesi più ricchi del mondo. Arrivati all’Aquila per dare una mano, hanno partecipato alle reti di volontari, alle associazioni dal basso che hanno tenuto nella devastazione dei rapporti sociali seguita al terremoto e al post-terremoto; e in una di queste hanno conosciuto il gruppetto di Pescomaggiore ed è iniziata l’avventura che ha portato, qualche mese dopo, alla consegna delle prime case «di paglia». Che da fuori sembrano casette normali non fosse per gli angoli morbidi delle mura, smussate dall’intonaco che riveste le balle e ne segue la forma. «Abbiamo scelto di fare le case in paglia per diversi motivi: materiali, economici, simbolici», spiega Paolo Robazza, che ogni volta si trova a dover spiegare pazientemente agli scettici che si tratta di una tecnica di costruzione presente da anni, molto sviluppata e che ha dato origine anche a esperimenti d’avanguardia: «Come la casa a tre piani in Val Venosta, costruita con balle portanti, una Ferrari delle case». Per lo specifico del progetto Eva, è apparso subito chiaro che la paglia aveva notevoli vantaggi rispetto ad altre tecniche eco-sostenibili: «Soddisfa i requisiti di sicurezza, anche quelli anti-incendio essendo coperta da uno spesso intonaco. Garantisce un isolamento termico perfetto: i costi del riscaldamento sono abbattuti drasticamente. Per fare un confronto: lo standard dei ­47

Map, i moduli abitativi provvisori della Protezione civile, è di un valore dell’isolamento di 0,40, nelle case di paglia questo indice scende a 0,13. È economica, si costruisce abbastanza velocemente. E tutti possono lavorarci, anche persone anziane e ragazzi». È questa la parte che sta più a cuore a Paolo Robazza, che spiega in concreto il farsi dell’architettura partecipata: non è solo il partecipare al progetto, alla raccolta fondi, alle riunioni e alle decisioni; ma è anche fatica comune: «Se ognuno è responsabile della costruzione di casa sua e delle case intorno, nel corso della stessa costruzione si attiva un processo; si crea una comunità e un rapporto particolare tra gli abitanti e con la stessa casa. Un rapporto che continuerà anche nel futuro, si rifletterà nelle decisioni sull’uso di quelle case dopo l’emergenza; non sono case piovute dal cielo». Paolo non nasconde il fatto che si tratta di un processo faticoso, rischioso, complesso. Che, nel caso di Pescomaggiore, è stato aiutato anche dal successo simbolico-mediatico della paglia: contrapporre quella casetta da «Tre porcellini», povera e autocostruita, all’extra lusso che nel frattempo il circo della Protezione civile ostentava, è servito a far conoscere il progetto e anche a raccogliere fondi attorno ad esso. Nel frattempo, Dario D’Alessandro lavorava agli aspetti legali, costruendo l’impalcatura giuridica: l’associazione che gestisce le case, costruite su terreni dati in comodato da privati cittadini; i requisiti per avere una delle case di paglia, primo tra tutti, ovviamente, l’essere rimasto senza casa a seguito del terremoto; la conferenza dei donatori che prenderà ogni decisione importante sul progetto, con partecipazione di tutti i donatori e diritto di voto di coloro che hanno versato più di 250 euro. Alla fine, raccogliere soldi è stata la cosa più semplice: a un anno dall’inizio dell’avventura, erano tre e mezzo le casette già costruite e 136.000 gli euro raccolti. Il grosso lo hanno offerto associazioni, gruppi di volontariato, comunità già esistenti; mentre sono state una sessantina le sottoscrizioni di singo­48

li, quelle via internet «modello Obama» (da ciascuno un poco, secondo le sue possibilità). Poi ci sono le donazioni di tempo, lavoro messo a disposizione gratis: dai fondatori della comunità, e anche dai volontari pendolari, circa 300 in meno di un anno. Possono sembrare numeri piccoli, ma vanno valutati nel contesto di partenza: un paese dove risiedevano 45 abitanti prima del terremoto e ne sono rimasti 30 dopo (nessun morto sotto le macerie, per fortuna; ma c’è stato chi è andato via dai parenti, chi è deceduto per cause naturali); 22 senza tetto; un piano che si proponeva di dare una casa provvisoria a una parte di essi: quelli che avrebbero voluto aderire al progetto. Qui arriviamo alla parte meno semplice: raccogliere le persone. Sotto il sole di un bel pomeriggio di agosto, mentre si sentono diversi accenti e lingue accordarsi sul da farsi dopo la pausa caffè – non solo nelle case, ci sono anche i bulbi di zafferano da piantare –, sembra che Eva sia una sirena da cui è impossibile non farsi attrarre. Ma non è stato così. Il perché lo spiega Dario, e ha a che fare con la parola proprietà. «Venire qui non è poi così semplice, per un abitante del posto che è rimasto senza la casa. Non è solo il fatto che doveva rinunciare alla eventuale sistemazione fornita dalla Protezione civile. All’epoca l’alternativa non si poneva: quando noi abbiamo iniziato, nel primo autunno dopo il sisma, qui delle casette di Bertolaso non si vedeva neanche l’ombra». Ma il punto più importante è un altro. «Devi essere disposto a investire energia e risorse in qualcosa che non è tuo, ma che tornerà alla collettività». A un principio simile si ispiravano le società operaie quando facevano le cooperative a proprietà indivisa; istituto assai poco popolare nella politica abitativa di un paese, come l’Italia, che è ai primi posti in Europa per la diffusione della proprietà privata dell’abitazione: la casa come valore d’uso – per il tempo della tua vita – e non come valore di scambio. Gli abitanti di Eva, nel costruire il proprio villaggio come un bene al tempo stesso privato e pubblico, che verrà usato da chi l’ha fatto e poi tornerà alla ­49

collettività, sembrano condividere quell’idea: più che per una adesione ideologica, per una esigenza allo stesso tempo morale e pratica. «Ci sembra una soluzione coerente con una prospettiva di rinascita di un paese che in mezzo secolo ha perso i due terzi degli abitanti: dobbiamo pensare al dopo», dice Dario. Presto o tardi – questo il progetto e il sogno di Eva – quelle case si svuoteranno, perché sarà terminata la ricostruzione delle case «vere», quelle antiche, in muratura, che adesso se ne stanno accartocciate, o con i tetti afflosciati; e allora torneranno alla comunità, per un uso su cui si fanno varie ipotesi: potranno essere destinate alla prima accoglienza ai neoresidenti, oppure al turismo sostenibile, o diventare un nucleo di residenze temporanee per comunità creative. Ma in ogni caso sarà un uso pubblico. Pubblico, privato. Individuale, collettivo. A pochi passi dal cuore dello scandalo – le macerie dell’Aquila abbandonate da uno dei più forti degli organi dello Stato, quella Protezione civile potenziata di poteri e strumenti e sporcata da scandali e promesse mancate –, sembra prendere corpo, nel microvillaggio di Eva, quella «terza via» tra Stato e mercato evocata nella letteratura sul nuovo comunitarismo, criticata da destra – come velleitaria, destinata a essere assorbita dal mondo profit – e da sinistra – come rinunciataria, condannata a supplire a uno Stato che si ritira. Ma dei propri diritti, e dei doveri a cui le istituzioni ai vari livelli non adempiono, gli abitanti di Eva così come i loro visitatori volontari sono ben consci. Ne parlano, recriminano, raccontano delle opere di urbanizzazione chieste e mai ricevute, così come del paradosso del diverso trattamento nell’assistenza ai terremotati con case inagibili: «Chi sceglie di stare nelle sistemazioni della Protezione civile o in albergo costa allo Stato 50 o 60 euro al giorno. Chi invece si trova da sé la sistemazione, dovrebbe ricevere 200 euro al mese. Ma per mesi e mesi questi soldi non si sono visti», racconta Isabella. Sono arrabbiati, ma anche un po’ orgogliosi: noi sappiamo fare di meglio. Non ­50

solo perché «qui sulla rupe di Pescomaggiore siamo arrivati prima dei Map, con le nostre casette di paglia»; non tanto «perché un modulo abitativo dei nostri, ecocompatibile, alimentato con energia fotovoltaica e riscaldato con stufa a legna, costa solo 500 euro al metro quadro, mentre le Case di Bertolaso costano almeno 5 volte di più»; non solamente perché di ricostruzione pubblica non c’è neanche l’ombra, «mentre noi vogliamo proporci come modello anche per la ricostruzione delle case danneggiate»; ma soprattutto perché «almeno siamo liberi». Liberi da cosa? Dall’approccio militaresco dei campi della Protezione civile, dalle pastoie burocratiche, dall’assistenza pubblica, dall’eterna attesa di un aiuto da istituzioni nelle quali pochi credono più? Tutto questo c’entra, ma fino a un certo punto. Più forte, per lo meno nelle parole di alcune delle persone che hanno scelto di costruire e vivere qui, è un’idea di «libertà di»: di scegliere qualcosa, prendere parola, autocostruirsi un futuro. Lo spiega bene Filippo Tronca, 40 anni, giornalista in una rete locale all’Aquila, anche lui abitante di Eva: «Il fatto è che noi eravamo già terremotati, prima del terremoto». Per «noi» intende «una generazione sottopagata e precaria», parte di quell’esercito di figli che stanno peggio dei propri genitori, e non solo perché vivono in una zona sismica e perché i paesini si spopolano. «Uno dei motivi per cui sono venuto a vivere qui nasce dal fatto che c’è un’idea nuova dell’abitare, anzi c’è la voglia di reinventare il modo di abitare». Il rispetto dell’ambiente, il basso consumo energetico, l’ecocompatibilità sono parti essenziali di questo nuovo modo: «Una sola stufetta a legna, e in due ore si riscaldano per tutto il giorno. La paglia è il miglior isolante che ci sia al mondo: abbiamo superato il primo inverno, benissimo». E il progetto dell’abitare si innesta con altri progetti di vita, lavoro, economia: coltivare quella terra trascurata per anni, farci tornare sopra anche gli animali, recuperare produzioni abbandonate. Insomma, infilarsi nell’onda Slow Food e consumi a chilometro zero, più per autososten­51

tamento che per business: «Lo spazio del mercato nelle nostre vite è già troppo grande», dice Dario. E Filippo: «Qui si è creata un comunità allargata, insieme possiamo fare parecchie cose. Adesso, per esempio, stiamo piantando 10 quintali di bulbi di zafferano: io da solo quando li piantavo 10 quintali?». Scendendo dalla montagna di Pescomaggiore, superate le terre di Misa e la brutta cava, prima di riprendere la statale si costeggia l’insediamento di Bazzano, uno dei primi del progetto «Case». «Case» sta per: complessi antisismici sostenibili ed ecocompatibili, 700 milioni di euro per 4.500 appartamenti raggruppati in 185 edifici. Bazzano è stato uno dei primi ad essere consegnato, con 400 alloggi. Sono nuove, colorate, fresche di intonaco, piazzate su una robusta piattaforma di 1.000 metri quadri di cemento armato. Sulle targhe dei corridoi d’asfalto che le attraversano si leggono i nomi di giornalisti morti ammazzati: via Mauro Rostagno, via Walter Tobagi, via Giancarlo Siani. A un anno e mezzo dal sisma, accoglievano solo un terzo degli sfollati del terremoto. Sono provvisorie come le casette di paglia della comunità di Eva, sono costate cinque volte di più. Sono della nostra comunità, anche queste. Cohousing, vicini per casa La scelta della piccola comunità di Eva non nasce dal nulla. I suoi membri si sono ispirati a esperienze di autocostruzione e progettazione partecipata, importate dal Nord Europa e con primi germi di diffusione anche da noi. La novità sta nell’ambizione di portare un progetto ad alto tasso di partecipazione e innovazione in un posto segnato dal trauma del terremoto e da quello del post-terremoto: il primo, con il suo impatto drammatico sulla vita materiale; il secondo, con i suoi guasti sulla vita civile e politica. In una situazione d’emergenza, insomma. Non che l’emergenza, in sé, aiuti l’affermazione di modelli nuovi e di soluzioni ­52

comunitarie; prova ne è proprio la questione della casa, emergenza perenne affrontata e mai risolta in Italia prendendo la via opposta: la diffusione della proprietà privata dell’abitazione. Con il 68,5% delle famiglie proprietarie della casa in cui vivono, e un’edilizia residenziale pubblica ridotta al lumicino, si può ben dire che sulla casa la politica italiana ha dato da un bel pezzo, dopo una breve e incompiuta stagione di politiche pubbliche, un’indicazione semplice e brutale: diventati tutti proprietari, quanto al «come», ciascuno si arrangi per sé. Cosa che le famiglie hanno fatto, comprando e comprando, almeno fino alla fine dell’ultimo boom edilizio, che ha lasciato sul terreno molte più case di quante coloro che vivono in Italia, con il loro reddito e i loro risparmi, possano comprare. Come una marea che si ritira, la fine del boom ha fatto emergere una serie di questioni irrisolte: l’inaccessibilità della casa, sia in proprietà che in affitto a prezzi di mercato, per una fascia crescente della popolazione; l’ingresso nell’area del disagio di un ceto medio senza casa, che non è abbastanza ricco da comprare ma non abbastanza povero da entrare nelle lunghissime liste d’attesa dell’edilizia popolare, via via depauperata e rimasta ormai un’opzione residuale, per le fasce più marginali del disagio; ma anche la scarsa desiderabilità, in molti casi l’invivibilità, di spazi e quartieri progettati male e costruiti peggio, nella rincorsa frenetica e incontrollata della bolla immobiliare dei primi anni del Duemila; e la rigidità di un modello basato sulla proprietà privata dell’abitazione, assai poco adatto a progetti di mobilità territoriale che nello stesso tempo sono incentivati o forzati dal mercato del lavoro. In questo quadro, nel vuoto delle politiche pubbliche e nell’affanno crescente della soluzione proprietaria privata, alcune spinte di autorganizzazione della società civile hanno cominciato timidamente a mostrarsi, e a riscuotere un qualche interesse anche nei (pochi) decisori pubblici in cerca di idee sull’emergenza abitazione. Una di queste è il cohousing: mito e progetto di comunità di amici, o ­53

work in progress di gruppi d’acquisto urbani, o modello utopico e bucolico di vita alternativa; oppure anche nuova branca del business immobiliare, o ancora strumento di quella politica pubblica che oggi si usa chiamare «housing sociale». Inventato quarant’anni fa in Danimarca, diffuso soprattutto nei soliti paradisi scandinavi e tra gli alternativi californiani, il cohousing, alla lettera, è una forma di coabitazione. Ma non ha molto a che vedere con le comuni libertarie degli anni Sessanta, anche se in alcuni casi vi si può ravvisare un analogo impulso a partire da sé per cambiare il mondo: dunque realizzare cohousing totalmente rispondenti a princìpi etici, ecologici, solidali, dalla scelta del luogo alle modalità del lavoro all’ente finanziatore. Né si riferisce alle coabitazioni forzate degli studenti o dei familiari che non riescono a trovare casa autonomamente, anche se la riduzione di alcune spese che così si ottiene non è indifferente, e dunque la motivazione economica ha pesato non poco nel rendere attraente il nuovo modello. Ma la motivazione comunitaria resta quella prevalente: il prefisso «co» si riferisce al mettere in comune alcuni spazi e servizi; e soprattutto allo scegliere e progettare insieme tali aree comuni: dal giardino a una sala living, dal micronido alla lavanderia condominiale, fino ad accessori come palestre e piscina, o qualsiasi altra cosa venga in mente e trovi l’accordo dei futuri coabitanti. Il percorso per decidere insieme quali zone comuni fare – e come farle – è lungo e articolato: è il tempo nel quale la comunità si forma – o si sfascia, scontrandosi con la fatica della condivisione. Il primo caso di cohousing importato e realizzato in ­Italia, nato dalla ristrutturazione di un’ex fabbrica di ba­ rattoli nella zona Bovisa, ha avuto un tale successo di pubblico e critica che i suoi coabitanti sono stanchi di ricevere giornalisti e telecamere per mostrare la loro bella stanza hobby, il terrazzo con il barbecue condiviso, la sala con le bici tutte senza catena, il magazzino per il deposito e la distribuzione delle merci del gruppo d’acquisto, le case private che, in una struttura che è rimasta quella della ­54

vecchia fabbrica, si affacciano sulla grande corte interna. Si tratta di 32 famiglie, abbastanza miste ma prevalentemente giovani, quasi tutte con lavori intellettuali e creativi, che tutto sommato hanno avuto una gran fortuna, partecipando a un progetto pilota che poi si è rivelato assai conveniente anche dal punto di vista economico. Tutto è nato da una ricerca fatta nel 2005 dal Politecnico di Milano, insieme all’agenzia per l’innovazione sociale Innosense, diretta proprio ad esplorare nuove domande di stili abitativi, aperti alla condivisione. Si trattava di un questionario lanciato in internet, a cui hanno risposto spontaneamente soprattutto persone desiderose di restare a vivere in città, ma con una forte insoddisfazione per la mancanza di spazi sociali e condivisi: il 90% delle risposte denunciava la perdita delle dimensioni del quartiere e del vicinato, quasi uno su due dichiarava di non aver mai conosciuto i propri vicini. In tre settimane, 3.500 persone hanno espresso interesse per forme di co-residenza: persone singole, famiglie, gruppi di amici. Un interesse raccolto, guidato e gestito da Cohousing Ventures, una Srl fondata da Luca Mortara sulla base di quanto constatato dalle varie ricerche internazionali: la maggior parte dei progetti di cohousing si arena sulle difficoltà materiali, sulla difficile conciliazione tra lo spontaneismo del gruppo di amici e le competenze tecniche necessarie nella materia urbanistica, e sulla fatica del dover mettere d’accordo tutti. Così Cohousing Ventures ha cercato e trovato lo stabile – l’ex fabbrica alla Bovisa, proprio a cavallo della trasformazione di quella zona nel nuovo quartiere del design, insomma poco prima che i prezzi lievitassero perché la zona era diventata trendy –, ha gestito la ristrutturazione e la progettazione concordata con la comunità che intanto si era scremata e formata: otto mesi di incontri, almeno una riunione al mese, oltre a diversi week-end condivisi. «Non siamo un’agenzia, siamo piuttosto dei consulenti, dei facilitatori che permettono di formare gruppi tra persone che non si conoscono ma hanno la stessa volontà ­55

e attitudine a vivere in cohousing, o aiutare gruppi già formati a realizzare il loro progetto», dice Nadia Simionato di Cohousing Ventures. La sala riunioni in cui racconta lo sviluppo del primo progetto e l’avvio di nuovi, all’apparenza, non ha molto di diverso dall’ufficio vendite di un costruttore o di un’agenzia immobiliare, tappezzata alle pareti da planimetrie dei complessi in costruzione o ri-costruzione. Ma oltre che con terreni e calcestruzzo, hanno a che fare con la gestione del gruppo, le tecniche di facilitazione, la risposta a domande che alzano molto l’asticella delle richieste che abitualmente si fanno a un costruttore: soprattutto per quanto riguarda la classe energetica dell’edificio, la ecosostenibilità del progetto, la garanzia sul rispetto di regole e condizioni di lavoro nei cantieri. Tutti temi ai quali i cohouser sono molto attenti; anche se la preoccupazione principale è la ricerca di persone che abbiano la propria stessa attitudine: mettere in comune alcuni spazi, alcuni servizi, «lasciare aperta la porta di casa». Non è facile, come non è facile gestire i passaggi successivi di quella che comunque resta, a tutti gli effetti, una proprietà privata: cosa si fa se uno dei coabitanti vende? «All’estero negli statuti dei cohousing vengono inserite a volte vere e proprie clausole di gradimento, possono acquistare solo persone gradite alla comunità. Noi invece non poniamo alcun limite formale, le persone che abbiano necessità o voglia di vendere si impegnano a cercare persone che sono interessate a vivere in cohousing e rispettare tutte le regole del gruppo nella gestione degli spazi comuni: in fondo, c’è un processo di autoselezione», dice Simionato. Che mostra anche una testimonianza della seconda, altrettanto lunga, storia-impresa di cohousing alla quale stanno lavorando, in un foglietto che riassume i desiderata del gruppo che finora ha aderito al progetto «Terracielo» a Rodano, ai confini di Milano: al primo posto, spazi comuni per collocarvi servizi per i bambini. Vale a dire: micronidi, asili di condominio, baby sitter condivise. Insomma, una piccola rete autogestita di servizi sociali che, nel secolo scorso, ­56

si sarebbe preteso che venissero forniti dai comuni. Ma anche il desiderio di avere degli spazi conviviali, di uso flessibile del proprio tempo non solo per sé ma magari, se serve, anche per il vicino di casa. Quanto costa tutto ciò? Marco Bolis, attuale amministratore di Cohousing Ventures, viene dal mondo delle costruzioni e dunque è abituato a fare i conti in tasca ai suoi ex colleghi. A suo parere, con una buona assistenza e gestione – sia nella costruzione del nuovo, che nella riqualificazione di edifici vecchi –, i cohouser possono strappare un prezzo lievemente inferiore a quello di mercato, o in linea con quello di mercato, ma con classe energetica superiore e dunque risparmi futuri sulle bollette; senza contare quelli sulle spese comuni e sui servizi che si decide di mettere in comunità. Certo, tutto dipende poi dalle condizioni del mercato, che nel caso delle abitazioni è stato a dir poco drogato. Ne sanno qualcosa proprio i «facilitatori» della Cohousing Ventures, che sono nati per gestire i sogni e i problemi di persone che vogliono andare a vivere in semicomunità, e si sono trovati, dopo lo scoppio della bolla immobiliare, assediati dai palazzinari. Molti costruttori, che hanno costruito indebitandosi fino al collo nel periodo della grande bolla, si sono poi trovati con interi palazzi invenduti, e alcuni di questi hanno bussato anche alla porta degli aspiranti cohouser per venderli. «Un gruppo di persone che compra in blocco fa gola, soprattutto di questi tempi. Ma per la stragrande maggioranza si trattava di offerte impresentabili, sia per le caratteristiche degli edifici, che per la mancanza di disponibilità a fare progettazione partecipata sugli spazi comuni, che per i prezzi». Bolis mette il dito nella piaga. Le case che si sono costruite nelle nostre grandi città, negli anni della bolla, sono in gran parte ancora da vendere; logica mercantile vorrebbe che i prezzi scendessero, ma questo non succede perché tutto quel cemento è stato tirato su con il leverage – la leva bancaria, i debiti insomma –, e dunque i grandi costruttori hanno promesso alle banche rendimenti «da boom», e de­57

vono mantenere il punto; mentre le banche mantengono ancora in vita i loro debitori perché, come certi signori di Wall Street, sono troppo grandi per fallire. Fatto sta che, se una gran parte di popolazione senza casa non può accedere a quei palazzoni di nuove periferie per mancanza di soldi, c’è una fascia crescente di clienti che chiede più qualità, architettonica ma soprattutto sociale. Tra questi, le comunità degli aspiranti cohouser. Sarà disperazione o intuito, certo è che anche i pescecani dell’immobiliare hanno fiutato l’affare cohousing: a testimonianza del fatto che, dalla prima casa danese del ’63 a oggi, un piccolo sbarco di quel modello in Italia c’è stato. Difficile contare tutti coloro che hanno pensato, o anche iniziato a progettare, di mettersi insieme a un po’ di amici e costruirsi una casa, ristrutturare uno stabile, recuperare un rudere. Moltissimi di questi progetti si perdono per strada. Ma un buon indizio del fatto che il cohousing oggi è più di un’aspirazione viene dal numero di associazioni nate con l’obiettivo di fare e promuovere cohousing, soprattutto al Nord e al Centro. Dopo Milano, è Torino la seconda realtà urbana che vedrà nascere uno stabile in cohousing, da un vecchio stabile di Porta Palazzo. Da Faenza a Roma, da Varese a Firenze, altri progetti sono in gestazione. Spesso si tratta di evoluzioni di gruppi d’acquisto (com’è successo a Ferrara e a Rimini), altre volte di associazioni più vaste di quartiere. Nella primavera del 2010 si è costituita la prima rete italiana di cohousing, radunando già in partenza una quarantina di realtà, ciascuna delle quali composta da 7-10 famiglie. «Abbiamo voluto mettere insieme le persone, per rafforzare il loro percorso, chiarire i caratteri del progetto, gli scopi comuni», dice Andrea Venturelli, uno dei promotori della rete. Che ha un suo manifesto, in cui si definisce il cohousing come «una modalità residenziale costituita da unità abitative private e spazi e servizi comuni», e si sottolinea la necessità di «una progettazione e gestione partecipate, condivise, consape­58

voli, solidali e sostenibili lungo tutto il percorso». In più, il manifesto della rete sottolinea che non deve trattarsi di un’esperienza chiusa, il benessere in un solo condominio: «Gli spazi e i servizi comuni ove possibile sono aperti al territorio». Venturelli ha in mente soprattutto un cohousing che nasce dal basso, dalla richiesta di gruppi che hanno una motivazione insieme economica ed extraeconomica: «C’è l’aspettativa di ridurre alcuni costi, ma la spinta determinante è nel desiderio di socialità; chi partecipa a un cohousing pensa a mettere in rete le persone, le famiglie, a condividere relazioni. Di solito non viene da un disagio abitativo, ma vuole vivere in modo più pieno». Comuni per le comuni Da quando l’architetto danese Jan Gudmand Hoyer progettò il primo caso di cohousing, nel ’63, molte comunità l’hanno come fonte d’ispirazione, adattando l’esperimento alle realtà istituzionali, politiche ed economiche locali. In Svezia, per esempio, l’idea è stata presa e realizzata prevalentemente da soggetti pubblici, con la realizzazione di una settantina di strutture. In Danimarca, dove ci sono adesso 600 stabili in cohousing, l’ha invece sviluppata il settore privato, ma con forte supporto pubblico. Il modello si è diffuso anche negli Stati Uniti, sbarcando in California, e gode di un certo appeal adesso anche in Gran Bretagna e Germania. In molti di questi posti – senza arrivare alla presenza forte del welfare svedese – l’intervento di amministrazioni ed enti pubblici è stato determinante nello sviluppo del cohousing. Il nodo, ovviamente, è il costo di partenza dei terreni o degli stabili, che se cercati sul mercato privato debbono inglobare il peso della rendita immobiliare. Ma è un nodo che in molti casi le amministrazioni possono sciogliere facilmente, essendo spesso proprietarie di pezzi di patrimonio fatiscente, inutilizzato, da bonificare e ristrutturare, non avendo però i soldi per farlo. In questi casi, mettere a disposizione tali immobili a ­59

domande provenienti da comunità può portare un doppio vantaggio: venire incontro a una richiesta abitativa di tipo nuovo, senza inondare il suolo di nuovo cemento; e aiutare una fascia di popolazione che tutti gli studi definiscono come protagonista della nuova emergen­za abitativa, ossia quella formata da persone per lo più giovani, a reddito medio o basso, spesso con lavori atipici, che non sono abbastanza «povere» per avere le case popolari né abbastanza ricche da comprare una casa. Alcune esperienze pilota in questa direzione ci sono anche in Italia. A Bologna per esempio è in atto un progetto di autorecupero di 9 palazzine del comune, abbastanza mal messe, sparse in 9 zone della città: punto centrale del progetto è la creazione di una cooperativa con i futuri abitanti, i quali dovranno contribuire al recupero anche lavorando nel cantiere: sedici ore a settimana, per la precisione. In sostanza, chi entra nel progetto si troverà a poter vivere in una casa pagata a prezzo molto inferiore a quello di mercato, partecipando attivamente, insieme ai suoi futuri vicini di casa, alla sua ricostruzione. Solo al termine dei lavori avrà il «suo» appartamento – in diritto di superficie, per 99 anni – all’interno di quello che tecnicamente non è un cohousing ma che come questo dà molta forza alle relazioni di vicinato e vede la casa come un bene comune. Come in tutte le procedure partecipate, l’iter è stato lungo e complicato, dal bando per selezionare gli interessati (destinato preferibilmente a giovani coppie, con reddito Isee al di sotto dei 40.000 euro) alla costituzione del soggetto gestore del progetto (di cui è capofila l’associazione di promozione sociale Xenia, affiancata da un consorzio che cura gli aspetti tecnico-edilizi e finanziari e da una cooperativa sociale per gli aspetti di partecipazione e coinvolgimento dei futuri abitanti), al dettaglio finanziario, complicato dall’arrivo della crisi dei mutui, che ha fatto stringere i freni alle banche proprio nei confronti delle fasce sociali meno forti. È stato proprio l’intervento delle banche, anzi, a far cambiare in parte il progetto, ­60

che all’inizio voleva assegnare le case in concessione per trent’anni e poi farle rimettere in circolazione: un modello più mobile e più adatto a un uso condiviso delle case recuperate, laddove il diritto di concessione novantennale somiglia moltissimo all’immobile diritto di proprietà. Resta comunque la realtà di un progetto innovativo, realizzato creando il «noi» – la comunità degli abitanti – prima di partire. Anche in questo caso, come per il cohousing, c’è una convenienza economica legata in gran parte a banali economie di scala; ma a questa si aggiunge la partecipazione al progetto, e una coabitazione che comincia fin dentro il cantiere: come ci ha detto l’architetto Robazza a proposito di Pescomaggiore, è completamente diverso entrare in una casa che si è contributo a fare; e quando si è contribuito a fare anche quella del vicino, forse saranno fluidificati anche i rapporti sociali del futuro condominio. Pochi chilometri più in là, ha fatto ricorso alla fantasia e alle nuove tendenze comunitarie anche il sindaco di Monzuno – poco più di 6.000 abitanti rimasti sull’Appennino bolognese ad assistere allo spopolamento del proprio paese. Qui l’emergenza abitativa si pone rovesciata: come arginare la fuga, come ripopolare il paese. Così è partito un progetto per recuperare e riaprire le case private abbandonate con il modello cohousing: ossia ristrutturandole in modo da mettere in comune servizi e spazi, e chiamare giovani dalla città ad abitarle. Anche qui, come a Bologna, il ruolo dell’istituzione locale è determinante, nel fornire i servizi – a partire dalla banda larga e il pulmino per i bambini che dovranno andare a scuola – e nel supportare tutto il progetto, che avrà una direzione scientifica forte, affidata all’architetto bolognese Pierluigi Cervellati. Un cohousing chiamato dall’alto – in questo caso, un’istituzione pubblica, non un soggetto profit – per ricreare una comunità scomparsa dal basso.

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Dar casa In Italia l’edilizia residenziale pubblica copre appena il 3,5% del patrimonio abitativo. In una metropoli come Roma la percentuale scende all’1%. Nelle principali città ci sono 100.000 famiglie iscritte alle graduatorie per avere una casa pubblica, mentre in soli cinque anni il settore pubblico ha venduto ben 150.000 degli alloggi del suo patrimonio. La spesa pubblica per il sostegno alle spese per l’abitazione è assai prossima allo zero – 150 milioni, nel 2010, è stata la cifra stanziata per il sostegno all’affitto; e nel mondo sofferente dell’affitto privato la crisi economica ha fatto crescere insolvenze, morosità e sfratti. Una situazione nella quale qualsiasi azione comunitaria dal basso, più o meno autorganizzata, più che svolgere un ruolo di supplenza – di un pubblico che non c’è – svolge quello di un secchiello di fronte al mare dell’emergenza. Un secchiello che comunque, in molti casi, fa di più di una politica pubblica assente. A Roma – città nella quale, secondo i dati ufficiali, ci sono 190.000 case vuote – negli ultimi anni l’occupazione delle case ha preso una piega inedita. Non guerra tra poveri, non pratica di squatter d’altri tempi; ma ultima spiaggia di famiglie italiane e straniere senza altre alternative. Che hanno cominciato, supportate da reti e collettivi sociali (il più organizzato dei quali è quello di Action), a occupare patrimonio inutilizzato: dunque non le case destinate ad altri «poveri», ma quelle vuote. L’urbanista Giovanni Caudo, dell’università Roma Tre, dà le cifre di questo movimento e le confronta con quelle della politica abitativa ufficiale: negli stessi anni in cui l’edilizia residenziale pubblica ha dato casa a 1.800 famiglie, le occupazioni ne hanno «sistemate» 2.200. Con tutt’altri metodi, sono passati da vent’anni all’azione diretta anche quelli di Dar=casa, cooperativa sociale di Milano: «dar» in arabo vuol dire appunto «casa», e questo gioco di parole hanno scelto Piero Basso (figlio di Lelio) e un gruppo di suoi amici quando, in quegli anni di cre­62

puscolo della Milano da bere e di inizio dell’ondata migratoria e della relativa emergenza abitativa, hanno deciso di fare qualcosa subito. Dar casa, appunto. Non caritatevolmente, ma con una organizzazione economicamente sostenibile. E con uno strumento antico della mutua solidarietà dal basso, ma dimenticato per quasi un secolo: la cooperativa a proprietà indivisa. «Piero Basso veniva dalla Lega dei diritti dei popoli. Quasi tutti avevamo alle spalle esperienze in organizzazioni politiche: partiti, sindacati, anche gli stessi sindacati degli inquilini. Stava scoppiando l’emergenza abitativa degli immigrati, abbiamo deciso di mettere su un progetto concreto. Non volevamo dare una risposta d’emergenza di tipo assistenzialistico, ma creare un soggetto gestore di soluzioni abitative stabili». Riassume così storia e scopo di Dar=casa il suo attuale presidente, Sergio D’Agostini, architetto. Un professionista, impegnato politicamente e deluso dalla politica corrente all’inizio degli anni Novanta a Milano. Esponente tipico di quella borghesia milanese laica e civile che ha contribuito sul nascere anche finanziariamente al progetto, con prestiti o depositi sociali destinati a reperire le case. Ma come? D’Agostini racconta una fase d’avvio assai lunga e travagliata. «All’inizio si pensava prevalentemente a recuperare beni inutilizzati o sottoutilizzati, stabili o case dismesse, abbandonate. E ce n’erano, nello stesso patrimonio dell’edilizia pubblica o del comune». Ma per quattro o cinque anni non si riusciva a chiudere nessun accordo, «insorgeva sempre qualche ostacolo all’ultimo minuto», ricorda D’Agostini sorridendo. Si può immagine qual era l’ostacolo dell’ultimo minuto: paure politiche, ostilità negli stessi quartieri: ma come, dicevano molti, già siamo messi male e voi ci volete mandare quelli che stanno anche peggio? «Così, per i primi anni ci siamo arrabattati: comprando piccole case da privati, facendo qualche comodato, recuperando qualcosa qua e là». Poi la situazione si è sbloccata, e sono partiti i primi accordi con il comune di Milano e l’Aler (che è l’ente gestore ­63

dell’edilizia popolare milanese, l’ex Iacp). «Per esempio, c’era il caso degli alloggi detti ‘sotto soglia’, di meno di 30 metri quadri: troppo piccoli per gli standard dell’edilizia residenziale. Loro non potevano usarli, ma perché lasciarli vuoti? Così ce li siamo fatti dare, per aggiustarli, prenderli in gestione e assegnarli. Poi sono stati fatti altri accordi, su altre situazioni specifiche». Le prime operazioni sono state difficili, accolte con diffidenza o ostilità soprattutto nei quartieri dove dovevano arrivare i nuovi inquilini. Ma poi «le cose sono cambiate, si è capito che noi non ci limitiamo a mettere gente in quelle case ma riqualifichiamo l’immobile, facciamo progetti nel quartiere, seguiamo tutto il percorso. Tant’è che a Quarto Oggiaro, da qualcuna delle associazioni che avevano protestato veementemente contro l’arrivo dei nostri soci, qualche tempo dopo ci hanno chiesto di mandarne altri». Adesso Dar=casa ha 1.200 soci, tra i quali ci sono quelli che hanno già avuto una casa, quelli in lista d’attesa, e i soci che sono solo finanziatori, che fanno un prestito sociale alla cooperativa. In vent’anni, ha assegnato 350 case, con un tasso di ricambio purtroppo abbastanza lento: sono 212 adesso i soci assegnatari, 560 quelli in lista d’attesa. Per iscriversi basta pagare una piccola quota, e dimostrare di guadagnare meno di 45.000 euro all’anno. La lista d’attesa è in ordine di arrivo, i canoni da pagare variano a seconda degli alloggi: di solito sono di 50 euro annui al metro quadro (un terzo di quelli di mercato), si paga qualcosina in più per alcuni stabili la cui riqualificazione ha chiesto più fondi. In questi vent’anni, Dar=casa ha mantenuto la sua ragione sociale evidente nel nome, rivolta prevalentemente all’emergenza abitativa degli immigrati, ma ha introdotto delle «quote italiane» nelle sue liste: il mix – sia tra popolazioni che tra ceti sociali – è visto infatti come la chiave di volta del successo. «Il fatto che da noi l’abitazione pubblica in affitto è stata considerata e costruita come una soluzione emergenziale, per una fascia davvero ristretta, ha finito per concentrare su queste case tutte le ­64

situazioni peggiori, di difficoltà davvero acuta; e dunque per ghettizzarle. Il privato sociale può cercare soluzioni più flessibili, puntare a un mix», secondo D’Agostini. Il mix di Dar=casa non è più limitato solo ai microappartamenti avanzati all’Aler, o ai lasciti trovati nelle pieghe di patrimoni pubblici o di enti di carità. C’è sempre l’attività di «raccolta e recupero» di case vuote non utilizzate da soggetti pubblici – per le quali spesso la cooperativa paga anche un canone; ma intanto Dar si è lanciata anche in progetti più grandi, insieme ad altre cooperative sociali. Alla Stadera ha preso in comodato per venticinque anni uno stabile in rovina e ha tirato su il progetto «Quattro corti»: in una delle corti adesso vivono 48 famiglie di soci Dar, di 17 nazionalità diverse, che gestiscono insieme – tra le altre cose – anche una Banca del tempo. Dalla parte opposta di Milano – in zona nord – è spuntato invece il villaggio cooperativo Grazioli, sul recupero di una vecchia fabbrica Montedison che faceva lucido da scarpe: 230 alloggi, la metà dei quali venduti sul mercato privato, gli altri in affitto. E, tra quelli in affitto, una parte offerta a canone concordato, e un’altra «riservata» ai soci di Dar. «È un buon esempio di mix: i profitti della parte in vendita permettono di tenere bassi i canoni, e dunque di mantenere una fascia di affitto accessibile». Mentre la struttura del «villaggio» aiuta lo sviluppo di pratiche partecipate per qualificare il quartiere: la stessa Dar sta seguendo la progettazione partecipata di uno spazio per l’infanzia, destinato a bambini e ragazzi di elementari e medie nel pomeriggio e durante le vacanze. «Ma siete sicuri che le volete, queste case?». Il presidente di Dar=casa ricorda le prime domande dei funzionari delle case pubbliche, di fronte a quei rispettabili signori che volevano racimolare metri quadri per i senza casa. Vent’anni dopo, ci sono sempre meno case pubbliche e sempre più emergenza casa. Con caratteri nuovi: dall’osservatorio della cooperativa Dar, hanno visto aumentare la morosità dati i tempi di crisi; uscire qualcuno ­65

dalle proprie case e dalle proprie liste, ma solo per aver avuto in assegnazione una casa pubblica o per nuovo progetto migratorio (quasi mai per fine del bisogno); hanno visto anche crescere la quota di italiani che bussa alle liste d’attesa, mentre all’inizio se li dovevano quasi andare a cercare; e aumentare la richiesta di coinvolgimento, da parte pubblica, in quello che viene definito «housing sociale», una politica per le abitazioni pensata anche per il ceto medio non proprietario e non solo per le emergenze. Nella quale gli enti locali sempre più spesso coinvolgono – per reale apertura democratica, sincero bisogno di innovazione sociale o per drammatica carenza di forze e fondi propri – le realtà della cooperazione, o della solidarietà sociale, del volontariato cattolico e dell’autorganizzazione dei cittadini.

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Imprese

Creativi all’«Hub» «Lo spazio di lavoro per chi vuole cambiare il mondo», mette subito in chiaro il sito. Ma scordatevi centri sociali, intonaci più che vissuti, vecchi immobili occupati, caos creativo. La sede di «The Hub» a Milano fa invidia a molti cacciatori del trendy. Ci si arriva da via Paolo Sarpi, cuore e simbolo della Chinatown milanese. Pochi passi in un vialetto, ed ecco la vecchia fabbrica di ceramica, in anni passati ristrutturata da un’architetta coreana e usata come classica location milanese: sfilate, feste, eventi. Adesso è della comunità degli hubber, primo insediamento italiano di un’iniziativa che nel mondo conta 23 sedi e 5.000 «soci», imprenditori-militanti di un progetto che ha come marchio «The Hub», come oggetto l’innovazione sociale e come incubatore uno spazio di lavoro collettivo. Fuori, in un piccolo cortiletto, c’è un tavolo di lavoro con due poltroncine e due ragazzi agganciati al loro laptop. La zona dell’accoglienza è delimitata da un grosso portone girevole, fatto di legno di recupero. A destra, due salette consecutive per le riunioni. Di fronte, l’ingresso nell’open space grande e luminoso di 250 metri quadri, detto Sala delle Nuvole, dove le postazioni di lavoro sono scrivanie di cartone pressato dalla forma di un’ellisse. Tutti i mobili sono di materiali riciclati: l’arredo dell’«Hub» è stato uno ­67

dei primi progetti qui partoriti, quello di un ufficio hightech interamente sostenibile. Di chiuso, oltre alle salette per le riunioni, c’è solo la cucina, dove chi lavora qui può prepararsi il pranzo e mangiare. Al piano interrato, una sala per esposizioni. Dopo le 18,30, lo spazio riprende un uso classico, e può essere affittato per presentazioni, seminari, eventi culturali. Prima, per tutta la giornata, non è solo un ex capannone scelto da un gruppo di ragazzi per lavorare insieme; il loro obiettivo, più ambizioso, è far nascere il «quarto settore». Se il «terzo settore» era nato in opposizione alla dicotomia Stato/mercato, il quarto vuole uscire anche dalla contrapposizione profit/non profit. Ma che impresa hanno in mente, al di là delle definizioni in negativo (né Stato né mercato, né profit né non profit, né pubblico né privato)? «Per noi l’impresa è uno strumento, non il fine», sintetizza Alberto Masetti Zannini, cofondatore di «The Hub Milano». Che vuol dire: «Il nostro obiettivo primario è di natura sociale: la creazione di valore sia per l’impresa che per la comunità che per l’ambiente. I costi derivanti dall’attività dell’impresa non sono esternalizzati verso parti della società, o del pianeta, che non partecipano in nessun modo alle decisioni e non hanno modo di difendersi». Se gli obiettivi sono innovazione e cambiamento sociale, la parola chiave per entrare nel mondo «Hub» è «condivisione»: «delle idee, delle risorse, dell’impatto proprio e altrui», dice Federica Scaringella, una delle fondatrici di «The Hub Milano» insieme ad Alberto e Nicolò Borghi. Le biografie dei fondatori aiutano a capire il progetto. «Io e Alberto ci siamo conosciuti nella Repubblica Dominicana, entrambi lavoravamo nella cooperazione internazionale, in due diverse organizzazioni non governative». «The Hub» intanto muoveva i primi passi a Londra, un’altra delle patrie di Alberto, master alla London School of Economics e membro sin dalla prima ora di quel nuovo esperimento collettivo nato all’insegna di tre settori chiave della nuova economia: ecologia, energie rinnovabili, open ­68

source. Alberto ha fatto uno studio di fattibilità, ha contattato un bel po’ di persone, e con Federica e Nicolò nel giro di otto mesi, tra il 2009 e il 2010, ha importato «The Hub» a Milano. Con lo stesso metodo gli «Hub» sono ­nati un po’ ovunque nel mondo, da Porto a Johannesburg, da Amsterdam al Cairo. Ventitre sedi in 4 continenti, con uno slogan ambiziosissimo: «Un altro mondo non solo è possibile: è all’orizzonte». A un decennio dall’esplosione del movimento no global di Seattle, con l’intermezzo della rivoluzione digitale, diverse guerre e una grande crisi economica, dov’è questo nuovo orizzonte? In quello che facciamo, rispondono i protagonisti dell’esperimento. Un po’ come quelli del consumo critico cercano di cambiare il mondo a partire dalla propria spesa, gli hubber cercano di cambiarlo a partire dal proprio lavoro e dalla propria impresa. E pensano che sia possibile, anzi necessario farlo, cercando la sostenibilità economica del progetto e muovendosi nel mondo profit. I requisiti per entrare nell’«Hub» non sono stretti nella forma, ma nella sostanza sì. «È fondamentale l’attitudine comunitaria, la disponibilità a entrare in una rete con un’ottica di collaborazione», dice Alberto. «Il nostro obiettivo è quello di far crescere dei proget­ ti», spiega Federica. «Si tratta di selezionare poche centinaia di membri, perché oltre un certo numero non si riesce più a essere una comunità. Devono essere le persone giuste, cioè in primo luogo disponibili a parlarsi». Non si tratta solo di condividere uno spazio, alternarsi magari sulle stesse scrivanie, usare la stessa cucina e fare due chiacchiere davanti alla macchinetta del caffè. Il punto è che le varie start-up del sociale, una volta messe nello stesso posto, si aiutano tra loro: «Più che un incubatore, ci definiamo un acceleratore di progetti e idee». Il tocco magico sull’acceleratore, spiegano in via Sarpi, viene dall’uso e dallo straordinario potenziale di diversi beni comuni: lo spazio – che si paga, con formule che possono prevedere un fisso mensile o una tariffa «a consumo», e che rendo­69

no il bell’ambiente dell’«Hub» tutt’altro che gratuito ma comunque accessibile rispetto ai deliri immobiliari delle grandi città –, i servizi tecnologici e non, ma soprattutto la conoscenza, le relazioni che si instaurano nella comune tecnologica, che rendono prezioso anche il tempo perso a chiacchierare nel cortile. La condivisione non è standardizzata né obbligatoria. Ci sono eventi programmati in comune – a Milano ogni due settimane si pranza tutti insieme per fare il punto sullo sviluppo dei vari progetti –, ma non pare emergere una visione rigida delle regole comunitarie. «Uno può dire agli altri tutto quello che sta facendo o non dirlo; può lavorare a un prodotto che poi brevetterà oppure mettere tutto a disposizione di tutti da subito: l’importante è che lavori a un’attività che sia a beneficio della collettività, nel settore dell’innovazione sociale, e che si legittimi sul suo territorio», dice Dario Carrera, ricercatore, che lavora nel gruppo romano che sta cercando di portare «The Hub» nella capitale. Un’impresa per la comunità: implicitamente o esplicitamente, gli hubber rimandano alla figura di Adriano Olivetti. «C’è molto dell’esperienza olivettiana, nella nostra concezione d’impresa – dice Alberto Masetti Zannini –, ma non è un ritorno al passato, c’è stato un processo evolutivo. Il nostro obiettivo primario è di natura sociale, ed a questo obiettivo sono diretti impresa e tecnologia». «Non so dire bene cosa sia l’innovazione sociale, ma se la vedo la riconosco», dice Cary Hendrickson, con candore splendente sotto la sua frangetta nera. Cary è assai giovane, viene dagli Usa e lavora nel gruppo del futuro «Hub» romano. Allora andiamola a vedere, quest’innovazione sociale, nei progetti già in corso d’opera o realizzati a Milano e negli altri «Hub» del mondo. Nella Sala delle Nuvole, a Milano, ci sono gli urban bike messanger, che fanno in tutto e per tutto il lavoro dei corrieri ma lo fanno in bicicletta, per le imprese, gli studi e i privati che vogliano scegliere consegne rapide in città non inquinan­70

ti. Si possono incontrare gli inventori del social lending di Prestiamoci (progetto di cui abbiamo già parlato nel capitolo sul credito). Ed è cresciuto lì anche il circuito di Best Up, per promuovere «il bello equo e sostenibile»: un’associazione con la quale due donne, Clara Mantica e Giuliana Zoppis, si sono proposte di portare temi forti del non profit – commercio equo, sostenibilità ambientale, legalità, etica del consumo – nel cuore del «profit» milanese, il design e la moda; per dirla con le parole del loro manifesto, di «sdoganare la sostenibilità dalle nicchie del tecnologismo e da un’ideologia pauperistica e minoritaria». Sempre in tema di salvaguardia dell’ambiente, nell’«Hub» di Amsterdam è stata ideata e confezionata la «formula zero», una Formula Uno in cui le gare di velocità sono tra auto a impatto zero. E nell’«Hub» di Londra è cresciuta «Unpackaged», una catena di negozi in cui si vende di tutto purché sfuso, senza carta né cellophane né pacchetti. Ma si lavora anche con i comuni, come nel caso di un’altra società che fa trasporto pubblico nella zona est di Londra. Progetti di diversa natura, molto spesso legati all’idea di un’economia sostenibile, e a volte direttamente provenienti dalle esperienze del terzo settore, della cooperazione, del consumo critico, o con esse collegate. Ma rispetto a questi mondi gli hubber sostengono di voler fare un passo in avanti decisivo. «Quando i primi progetti di The Hub sono nati, nel 2005, era ancora forte l’eco degli slogan del movimento di Seattle e del Forum sociale mondiale. Per questo si è scelto di dire ‘another world is happening’: non per contrapporsi a quel movimento, ma per dargli un’ideale prosecuzione. Possiamo dirla così: il movimento altermondialista ha individuato i problemi, chi entra negli Hub vuole cercare soluzioni», dice Alberto. «Il nostro motto è e resta: cambiamo il mondo. Vogliamo un diverso modo di produrre, lavorare, investire – aggiunge Federica –. Ma cerchiamo la sostenibilità economica delle nostre iniziative, non vogliamo né chiediamo il sostegno delle ­71

amministrazioni pubbliche». O per lo meno, questa è stata la scelta fatta dagli hubber italiani, poiché in altri posti gli «Hub» sono nati anche con il sostegno/cooperazione di governi locali. La ricerca della sede è emblematica di questa scelta: né a Milano né a Roma sono stati coinvolti comuni e province, che pure di aree da destinare a scopi sociali di questo tipo ne avrebbero molte. Il che comporta però, per cominciare, che lo spazio fisico costa, e l’impresa innovativa tanto per cominciare nel suo business deve prevedere il pagamento dell’affitto in cambio della libertà dai condizionamenti di un sindaco o di un assessore. La lontananza dalle istituzioni, e dalla politica che lì dentro si svolge, è rivendicata con orgoglio. Nel caso romano, c’è anche uno strascico delle esperienze passate, di un buon periodo di collaborazione tra amministrazioni comunali – del centrosinistra – e mondo non profit, che però è finito bruscamente e con effetti dolorosi per esperienze che erano decollate con maggiore o minore successo, dall’incubatore di imprese alla Città dell’Altra Economia, messe in crisi al cambiar di giunta. «Si rischia di cadere nell’isomorfismo istituzionale», dice Dario Carrera. Traducendo per i non addetti ai lavori: «Così come il settore non profit è stato accusato di finire per l’assomigliare troppo alle imprese capitalistiche pure, modellandosi su queste, c’è anche il rischio di modellarsi sull’aiuto pubblico, sulla vicinanza istituzionale, e trovarsi poi senza risorse se gira il vento della politica». Non è un ripiegamento, sembra più un dire: ce la facciamo da soli. Con enormi difficoltà, soprattutto finanziarie, ammette Federica. «Qui da noi è più difficile che in altre realtà. Non abbiamo il mercato del social venture capital, investitori che rinuncino a un ritorno economico immediato per avere un alto impatto sociale nel lungo periodo. Li chiamano ‘capitali pazienti’, qui in Italia non se ne vede l’ombra». Se già latitano gli imprenditori illuminati alla Olivetti, figuriamoci la finanza illuminata, soprattutto in questi tempi di crac. E allora, in mancanza di meglio si ­72

ricorrerà all’autofinanziamento, o ai soliti capitali impazienti delle banche. Per alcuni versi quelli dell’«Hub» possono essere visti come un’élite creativa, un gruppo di colti privilegiati, che si muovono nel mondo nuovo e aperto della produzione della conoscenza. Ma allo stesso tempo sono assai simili a una gran massa di loro coetanei, richiamando in qualche modo alla mente la figura tipica della «generazione zero»: tecnologicamente avanzata, con istruzione alta o molto alta, senza alcun lavoro stabile, con frequenti esperienze internazionali. Semmai il carattere specifico che vi si può trovare è nell’attitudine alla collaborazione, che si unisce qui a una intima e condivisa fiducia nella possibilità di fare impresa in un modo diverso. Un’impresa che sempre più spesso – non solo dalle parti dell’«Hub» – si sente il bisogno di ri-qualificare con qualche aggettivo. Impresa responsabile. Impresa sociale. Impresa civile. Imprese di comunità. Come dando per scontato che le altre imprese, quelle che la realtà ci mette davanti, siano normalmente: irresponsabili, asociali, incivili, autistiche. Per la patria del modello olivettiano e dei distretti industriali (che dovevano il loro successo proprio alla rete di relazioni sul territorio), può sembrare la riscoperta di una vecchia storia. Ma sono nuove, e assai diverse tra loro, le modalità concrete con le quali questa concezione di impresa si attua; così come è nuovo il tentativo di portare la sfera non mercantile direttamente dentro l’impresa, senza con questo cambiarne la forma giuridica né la centralità della motivazione del profitto. Un caso estremo, nato all’interno di una comunità di fede prima che di impresa, è quello dell’economia di comunione del movimento cattolico dei Focolarini. Impresa e comunione «Fino al ’91 mio marito ha lavorato nell’azienda di famiglia. Poi ha sentito Chiara che lanciava questo nuovo ­73

progetto, e ha deciso di entrarci». La chiamano tutti per nome, Chiara Lubich, nel polo di Incisa Val d’Arno, che è sede e tempio della creatura a cui la fondatrice del movimento dei Focolarini ha dedicato gran parte della sua vita: l’economia di comunione. La chiama per nome anche Giuliana Zubani in Bertagna, la signora che ci racconta la storia della sua famiglia venuta da Brescia a vivere sulle colline vicino Firenze, nella comunità che ha deciso di portare la comunione dentro l’impresa, con una regola numerica sulla distribuzione dei profitti: un terzo resta in azienda, un terzo va ai poveri e un terzo a progetti di cultura e formazione. Una regola accettata da 797 imprese nel mondo, 200 delle quali in Italia. Di queste, una ventina hanno fatto da qualche anno un altro passo in più, e sono andate a stanziarsi nel polo dell’economia di comunione a Incisa Val d’Arno, aperto nel 2006 nelle vicinanze della cittadella dei Focolarini di Loppiano. La cui storia invece era cominciata più di quarant’anni prima, quando il movimento fondato da Chiara Lubich si insediò sugli 80 ettari di terreno donati da Vincenzo «Eletto» Folonari, uno degli eredi della dinastia del vino, convertito al movimento. Anche Giuliana e Giovanni Bertagna, rispettivamente 66 e 69 anni, discendono da famiglie di imprenditori, nel Bresciano. Prodotti da forno lei, filati di lana lui. Giuliana ha vestiti semplici, neanche un filo di perle o di trucco, occhi azzurri assai vivaci. Le piace raccontare la storia della sua famiglia, segnata da una tradizione imprenditoriale e dalla svolta dell’adesione al «movimento» – come tutti i suoi membri chiamano la comunità dei Focolarini: movimento, senza aggettivi né altre specificazioni. «Non sono entrata nell’azienda di famiglia di mio marito, all’inizio. Era un’impresa grossa, la Mondial di Brescia. Lui la gestiva insieme ai fratelli, ma a un certo punto cominciarono i contrasti, sul modo di rapportarsi con i fornitori, con i dipendenti, su tante questioni organizzative. La filiera del tessile è lunga, ogni pezzo ha tanti passaggi e si lavora soprattutto con i terzisti». I princìpi dettati dalla francescana ­74

Chiara Lubich, da una parte; i contrasti con la gestione della famiglia, dall’altra: Giovanni e Giuliana decidono di prendersi la loro parte e fare un’altra impresa, la Bertagna filati, che all’inizio lavora per la casamadre Mondial, poi invece si mette a fare da sé, e anzi entra anche in concorrenza con la prima. Siamo negli anni Novanta, la globalizzazione che porterà (anche) alla crisi del tessile è solo agli inizi e la produzione tira ancora; in questo contesto, i Bertagna vivono quella che Giuliana definisce «un’esperienza molto forte». Non solo per la scelta di destinare i due terzi degli utili al movimento cattolico dei Focolarini, ma anche per il tipo di comunità aziendale che tirano su. «Ci riunivamo una volta al mese con tutti i collaboratori, per parlare delle questioni dell’azienda. Partecipavano e parlavano tutti, dall’operaia delle dipanature al tecnico di produzione. Io e mio marito eravamo all’ascolto, anche dei più piccoli problemi». Così quando arrivano i grandi problemi – il crollo del fatturato nel 2001, sotto i colpi della concorrenza globale e dell’euro forte –, e Giovanni annuncia alle sue dipendenti che è costretto a chiudere, queste non ci stanno e propongono di autoridursi orari e stipendi per far andare avanti la produzione. «Non abbiamo mai fatto grossi utili, anzi a volte siamo andati anche in perdita; ma insomma l’azienda è andata avanti, e ha trovato una sua buona collocazione di nicchia, specializzandosi su filati di qualità molto alta». Intanto i Bertagna continuavano a essere membri attivi del «movimento», e facevano la spola con la cittadella di Loppiano; fino a che, arrivati verso i 60 anni, hanno risposto di nuovo all’appello di Chiara Lubich, che ha chiamato a raccolta gli imprenditori per costituire vicino alla cittadella un vero e proprio polo produttivo. «I nostri collaboratori storici stavano andando uno dopo l’altro in pensione, noi due facevamo una vita da pendolari tra Brescia e la Toscana. Un giorno, il proprietario di una delle ditte che lavorava per noi ci ha chiesto se volevamo vendere, e ci ha fatto un’offerta per marchio e magazzino, impegnandosi a continuare sulla stessa linea ­75

di produzione». Per i coniugi bresciani, è il coronamento del sogno di una vita. Qui a Loppiano fanno lavoro culturale, organizzativo, militante: «L’idea vincente è fare le cose insieme, non ci piace un mondo in cui non c’è spazio per la gratuità». E continuano a camminare su quel filo di lana: Giuliana gestisce all’interno del polo il Filocaffè, un bar nel quale si vendono anche i filati – quelli della sua ex azienda – e si lavora a maglia. «Le persone che vengono qui per lavorare ai ferri chiacchierano, si rilassano, stanno un po’ insieme, si scambiano consigli. Facciamo anche dei corsi, e naturalmente vendiamo la lana». Il polo produttivo dove sono arrivati i Bertagna e altri 24 imprenditori è intitolato a Lionello Bonfanti, già magistrato, trasferitosi a Loppiano, dove per quindici anni ha lavorato allo sviluppo del movimento. Se le 200 imprese italiane dell’economia di comunione sono una comunità, le imprese presenti a Loppiano sono «una comunità di comunità», per dirla con l’economista Luigino Bruni, che dell’economia di comunione è teorico oltre che concreto partecipante. Anche Bruni fa la spola tra la calma delle colline toscane e il Nord produttivo. Insegna all’università di Milano, ed è uno dei protagonisti, con Stefano Zamagni, Benedetto Gui e altri, del filone di pensiero economico che si rifà alla cosiddetta «economia civile»: un filone che, riscoprendo e rinverdendo la tradizione del pensiero economico italiano del Settecento, si caratterizza per la centralità data alla dimensione comunitaria e relazionale all’interno del mercato. Nell’economia di comunione, c’è un ulteriore grado di adesione, un di più che, visto dalle colline di Loppiano puntellate da chiese moderne e residenze molto spartane, dove ogni anno 40.000 persone vengono a confrontarsi nella comunità dei Focolari, pare appartenere al mondo della fede, all’anelito all’ultraterreno. Ma Bruni la parola «fede» non la usa, lui dice: «Aderire all’economia di comunione significa mettersi in cammino; non è come entrare in un club, è una scelta iden­76

titaria. Significa aderire a una visione del mondo, per cui l’imprenditore dona gli utili, quando li ha. Chi poi viene qui fa un ulteriore passo, si mette in una comunità di imprenditori: persone che per vocazione e mestiere non sono molto abituate a cooperare con altri». L’economia di comunione il profitto non vuole affatto cancellarlo. Il suo scopo è redistribuirlo: «Un terzo resta nell’azienda, per remunerare l’imprenditore e per lo sviluppo; i due terzi vanno fuori». E il «fuori» spiega la particolarità dell’economia di comunione all’interno di tante altre pratiche di ricerca del bene comune: è un «fuori» comunque gestito e in qualche modo garantito dalla comunità, con le sue diramazioni in tutto il mondo. Gli utili donati – nel 2009, 1 milione di euro da tutte le imprese «in comunione» nel mondo – si dividono infatti a loro volta tra i fondi che vanno a finanziare i progetti contro la povertà e quelli destinati allo sviluppo del movimento stesso e della sua cultura. Da quel lontano ’91 in cui la fondatrice dei Focolarini, di ritorno da un viaggio tra le favelas brasiliane, inventò l’economia di comunione («un’economia che ha a che fare con la comunione tra gli uomini e con le cose»), il loro sistema si è strutturato parecchio: c’è un’organizzazione non governativa per i progetti internazionali, e un istituto universitario dentro la cittadella di Loppiano. «Abbiamo in corso una cinquantina di progetti di aiuto nel mondo, soprattutto nei settori della scuola e della salute; mentre la parte di utili destinata alla formazione adesso va in gran parte a sostenere la nostra università, Sophia, che ha da poco avuto il suo primo laureato: un ragazzo brasiliano non vedente». Opere di carità? Filantropia? Bruni come tutti qui a Loppiano non si riconosce in queste parole, spiega che tratto distintivo del loro movimento è «dare dignità al popolo includendolo, non elargendo soldi». E ci tiene a sottolineare che quel che fanno non è qualcosa di extraeconomico ma avviene dentro l’economia. Non si tratta solo, ha scritto Bruni, di «riconoscere a categorie co­77

me il dono e l’amore un posto all’interno della riflessione e della pratica economica», ma di portare anche le stesse categorie all’interno dell’impresa capitalistica, non fuori né contro di essa. Il che vuol dire, da un lato «impostare tutta l’impresa secondo linee di comunione, che devono ispirare i rapporti interni e anche quelli con l’esterno»; ma dall’altro mantenere l’economicità dell’impresa, con progetti che stanno in piedi. «La sfida e la difficoltà del nostro polo è proprio quella di mantenere insieme la comunione e l’economia: per esempio, si può creare una filiera tra le imprese che stanno qui dentro, ma deve essere conveniente, non posso scegliere un partner solo perché appartiene anch’egli alla comunità, mi deve anche convenire il prezzo che fa». Bruni è una figura atipica di economista. Non solo per la ricorrenza nei suoi scritti di termini che raramente si trovano nei testi di economia, a partire dalle sue parolechiave: amore, gratuità, dare, comunione. È atipico anche nello stile del suo argomentare, che pare voler convincere più che dettar legge o dimostrare un postulato. È atipico nel suo mestiere anche Luca Bozza, che ha un’agenzia di assicurazioni. Un signore di mezza età, un pochino in sovrappeso, lavora nel polo dell’economia di comunione insieme alla moglie Alessandra. Sorride alla nostra domanda poco educata: come può uno vendere assicurazioni e credere nell’economia di comunione? Racconta la sua storia. «A me questo mestiere è sempre piaciuto, perché è fatto di relazioni con le persone. Nel movimento dei Focolarini ci stiamo tutti e due, io e mia moglie, da sempre. Anche prima di venire qua, ho sempre cercato di portare nella mia professione i miei princìpi». E si sono scontrati ogni tanto, princìpi e professione: «C’erano prodotti che non volevo vendere, ho preso anche un bel po’ di rimbrotti per questo». Per trasferirsi nel polo Bonfanti, ha cambiato compagnia assicurativa, ne ha scelto una «più propensa a questo discorso», e ha perso anche un po’ di clienti per strada. ­78

«Alcuni mi hanno seguito, altri no. Sapevamo che c’era da fare un piccolo sacrificio, ne abbiamo discusso in famiglia anche con i figli, e abbiamo deciso di farlo. A fine mese, se ci sono utili, tolta quella che giudichiamo la remunerazione giusta per il nostro lavoro, li diamo al movimento». Le targhette all’ingresso del polo Lionello Bonfanti mostrano il catalogo variegato dell’economia di comunione: dai prodotti alimentari delle terre del movimento agli odontoiatri, dalla fabbrica tessile alle assicurazioni, dai lettini per bambini agli studi di architetti e commercialisti; da Confindustria a Banca Etica. «Chi viene qui risponde a una vocazione», dice Eva Gullo, che del polo produttivo è presidente. Ma, al contrario di quel che si potrebbe pensare, non parla di una vocazione strettamente religiosa. Spiega: «L’imprenditore sente la vocazione a far diventare la sua impresa una comunità. L’impresa si apre, guarda fuori, contribuisce a progetti di aiuto reale. E l’imprenditore dà un senso all’attività che sta svolgendo». Un senso che è stato riconosciuto, con grande entusiasmo dei Focolarini, anche nell’enciclica Caritas in veritate, la prima a consacrare l’economia di comunione negli alti livelli ufficiali della chiesa cattolica, auspicando la progressiva apertura dell’economia a esperienze di questo tipo. Che sono cresciute senza grande rumore, e anche senza grandi favori nelle gerarchie ecclesiastiche, che hanno sempre considerato quella francescana trentina e la sua comunità un po’ troppo radicali – fino all’incontro tra Giovanni Paolo II e Chiara Lubich, dal quale nacque un sodalizio e anche un’amicizia personale. Ai funerali di Chiara Lubich, nel 2008, il cardinal Bertone l’ha definita «uno degli astri lucenti del Ventesimo secolo», insieme a Madre Teresa di Calcutta. Ma l’impressione, appena superate le verdi colline di Incisa Val d’Arno, è che nella pianura, nel vasto mondo capitalistico che si vuole conquistare, della «economia di comunione» si sappia abbastanza poco, rispetto ad altre esperienze di impronta religiosa, dalla robusta rete ­79

delle cooperative che fanno capo al cattolicesimo sociale a quella, molto più business-oriented, delle imprese di Comunione e Liberazione. Tutte, nel bene e nel male, molto più collegate con le realtà del territorio ad esse esterne, laddove la comunità che si vede all’opera a Loppiano appare più centrata sul proprio messaggio e i propri tratti identitari, e – quanto all’esterno – appare più vicina a San Paolo del Brasile che a Firenze o Milano. «Molti imprenditori ci criticano perché non valorizziamo abbastanza il nostro marchio», dice Bruni. Ma è anche una strategia, fare senza mostrarsi molto. Una strategia in evoluzione: mentre visitiamo il polo, è allo studio un progetto per aprire nelle Coop rosse degli spazi di vendita targati Edc: economia di comunione. Cooperative e welfare La radice, o la militanza, oppure semplicemente la formazione cattolica ritorna spesso tra i protagonisti delle storie di «economia del noi». Anche laddove non strutturata e organizzata – e anche teorizzata – in forma di impresa come nel movimento dei Focolarini, la presenza cattolica in esperienze solidaristiche e comunitarie è una realtà storica. Più frequentemente ricorre alla forma della cooperativa, in particolare alle cooperative sociali – formula introdotta dalla legge all’inizio degli anni Novanta, e sviluppatasi molto sia per la sua facilità di gestione nel territorio che per le dinamiche partecipative, che per il crescente bisogno di assistenza in settori non coperti dal welfare state (senza contare il capitolo «truffe» che purtroppo ha avuto la sua parte). Nella cooperazione sociale ci sono esperienze grandi e piccole, laiche e cattoliche; tra queste, è sensibile la presenza, da nord a sud d’Italia, dell’ampia rete del cattolicesimo montiniano e del movimento delle pastorali del lavoro. Il Cgm – consorzio Gino Mattarelli, nato alla fine degli anni Ottanta nell’alveo del cattolicesimo bresciano ma ormai presente in 80 consorzi territoriali in ­80

tutt’Italia – comprende ben 1.200 delle 8.000 cooperative sociali italiane ed è ormai un colosso del welfare «sussidiario». Un settore che, nel suo insieme, è stato l’unico a non perdere posti di lavoro, anzi a guadagnarne nel corso dell’ultima crisi. E si capisce perché: le cooperative sociali si occupano di servizi sociosanitari o educativi, oppure di reinserimento di soggetti svantaggiati, andando a coprire bisogni crescenti non solo laddove, per il tipo di intervento e problema, l’approccio statal-burocratico non è molto efficace; ma anche in aree di intervento progressivamente abbandonate, o mai previste, dallo Stato – come le cure odontoiatriche. Nel dibattito storico sul ruolo di integrazione o di sostituzione rispetto al soggetto pubblico svolto da questo settore nel welfare, i tagli ai bilanci pubblici si sono incaricati di scegliere, e far crescere sempre più, il ruolo di supplenza. Un ruolo che sta assumendo caratteri nuovi, soprattutto da parte di alcune realtà, in particolare attive nel Nord, che si candidano non più a lavorare in convenzione o per conto del welfare pubblico, ma in sua vece. Lo dimostra la svolta intrapresa di recente dallo stesso Cgm, che ha fondato un altro consorzio chiamato Welfare Italia con l’obiettivo di sbarcare nel campo sanitario tout court: per esempio, aprire laboratori odontoiatrici per curare i denti a basso prezzo. Per fare ciò mantenendo un equilibrio economico e senza chiedere soldi allo Stato, ha spiegato recentemente in un’intervista uno dei fondatori di Welfare Italia, Marco Maiello, bisogna prevedere una scala colossale, industriale: con questa si può riuscire a curare i denti a prezzi accessibili, evitando che la gente vada a curarseli in paesi dai dentisti low cost oppure non se li curi affatto. E quello dei denti – mai coperto dalla sanità pubblica – è solo uno dei settori in cui Welfare Italia intende costruire un modello di «sanità popolare»: lo citiamo qui come esempio delle traiettorie di sviluppo di un settore come quello della cooperazione sociale che, essendo nato tra Stato e mercato, risente naturalmente delle evoluzioni e delle involuzioni dell’uno e dell’altro. ­81

Fuori dall’impresa «Mi chiamo Claudio, sono ingegnere, ho 42 anni, sono fermo da nove mesi». «Mi chiamo Paola, per 25 anni ho lavorato nelle risorse umane, sono a casa da gennaio». «Giovanni, 39 anni, ero buyer nella grande distribuzione, sono fuori dal mondo del lavoro tradizionale da tre anni». «Sono Maurizio, 51 anni, ‘non occupato’ da sei mesi». «Sono Danilo, 56 anni, ventisei passati nella grande distribuzione, fermo da agosto dell’anno scorso». Ogni giovedì da diversi anni in un bar nel centro di Milano un gruppo di persone si incontra per fare colazione. Sono i soci di Unbreakfast, un nome che è già un programma: «un», come l’inizio di unemployed; «break», come la rottura violenta che si è avuta a un certo punto, abbastanza avanzato, di una buona carriera; «fast», come le comunicazioni che si cerca di riavviare; e infine breakfast, come la colazione che è il momento più critico per chi prima aveva la giornata pienissima e adesso ce l’ha vuota. Una colazione al giovedì. Sembra niente, o una banalità, ma è stata la chiave di volta di un’esperienza nuova: il mutuo soccorso tra manager disoccupati. Non hanno una sede, non hanno un sindacato né un partito, non hanno più un ufficio. Hanno costruito, davanti a cappuccino e cornetto, una rete. Arrivano puntuali, abbigliamento informale, qualche giacca ma nessuna cravatta, le signore sono tutte da tailleur ma l’hanno lasciato a casa. Il primo giro di tavolo è dedicato alle presentazioni, ciascuno ha un minuto per dire di sé l’essenziale. «Sembriamo gli alcolisti anonimi...». Quel primo parlare di sé, subito e senza paletti, si rivela utile. Qualcuno all’inizio è un po’ in imbarazzo ma poi parlano tutti. «La cosa curiosa è che quasi tutti dicono subito quanti anni hanno, anche se ci battiamo contro ogni ­82

discriminazione in base all’età sul posto di lavoro o nella stessa ricerca del lavoro», dice Chiara Bonomi, che di Unbreakfast è presidente e cofondatrice. Chiara è una delle più giovani del gruppo. Ma lo sa, che quello dell’età è il nervo scoperto. A poco serve ribadire che il «max 35 anni» scritto sugli annunci di lavoro è illegale. La schiera di persone che è passata e passa per Unbreakfast ha in comune proprio un problema di età: troppo maturi e qualificati per il mercato del lavoro, troppo giovani per poter anche solo pensare alla pensione. Del resto, è scritto nello stesso statuto dell’associazione, che accoglie persone con almeno quindici anni di esperienza manageriale: nel personale, nella comunicazione, nei ruoli tecnici, nel marketing, insomma in qualsiasi posto da cui si gestiscano persone, denaro, processi decisionali. Persone che non avrebbero mai pensato di trovarsi, un giorno, a doversi ricollocare; e che mettono in comune la propria rete di conoscenze e la propria esperienza, per ricominciare: con una nuova occasione di lavoro in un’azienda, oppure, più spesso, avviando un progetto indipendente. Finora ha funzionato: almeno il 40% dei soci di Unbreakfast è tornato allo status di «occupato». E molti di più, si può immaginare, hanno passato dei giovedì meno neri del solito. L’idea è venuta a Chiara pochi anni fa, quando è caduta rapidamente da una brillante carriera di pierre nella grigia attesa del «vedremo cosa si può fare». «Ero direttore della comunicazione a Finmatica quando hanno arrestato l’amministratore delegato». Non male, dover gestire la comunicazione di un’azienda quando ti arrestano il capo. Ma non è stato questo il peggio. «Ho avuto subito dopo un incarico per le Olimpiadi di Torino, ovviamente a tempo, ed è andato molto bene». Ma dopo ha cominciato a girare a vuoto, nella ricerca di altri lavori. E soprattutto si è accorta del fatto che per professionalità ed età come la sua non c’erano reti, sostegni, aiuti e consigli di nessun tipo. Non si tratta solo del sostegno economico, che almeno per qualche mese può essere meno urgente che per altri ­83

disoccupati. Ma di quel che serve a ripensare la propria vita. «Per le cosiddette ‘alte professionalità’ c’è un di più legato non solo al ruolo di responsabilità, ma anche al fatto che parliamo di persone che talvolta letteralmente non sanno più che pesci pigliare; abituati ad avere una segretaria tuttofare, spesso non sanno farsi un biglietto da visita, cercarsi un gestore di telefonia, comprarsi un biglietto del treno o dell’aereo, e soprattutto col timore di telefonare a chiunque per il senso di vergogna, di fallimento», ha spiegato Massimo Gozzetti, che di Unbreakfast è vicepresidente, in un’intervista al mensile «Una città». Massimo faceva il pubblicitario. Per lui il «break» è stato anche fisico, nella forma di un infarto che l’ha colpito negli stessi anni in cui cambiava lavoro e vita. È in gran forma, gioviale, aperto. La sua attività attuale è al present continuous: «Ho una società che si occupa di coworking, counseling, coaching». In sostanza, sostiene da fuori un mondo del lavoro che si sbriciola, vendendo formazione, consigli, accompagnamento alla crescita di professionisti e imprese. Lo fa con la sua attività professionale, e dedicandosi anima e corpo ad Unbreakfast. Un giorno, in uno dei suoi corsi ha incontrato Daniele Alzati, 52 anni, ex responsabile qualità della sede brianzola di una multinazionale tedesca, in cassa integrazione «con nessuna possibilità di rientro». E lo ha subito conquistato alla colazione del giovedì. Daniele non è «nato manager»: diplomato, ha iniziato subito a lavorare nella grande azienda che l’ha messo nell’ufficio tecnico di controllo, poi con gli anni Ottanta gli ha fatto scoprire, con un certo anticipo rispetto alla moda, la qualità totale e un’ottica innovativa nella soluzione di problemi. In particolare, di sicurezza sul lavoro, tema posto con forza dai sindacati interni. «Se c’era un problema da discutere, si fermava la linea e ci riunivamo con tutte le maestranze a parlarne. Non succedeva spesso, ai tempi». Daniele ne parla con orgoglio: la linea cambiata all’80% per migliorare la sicurezza, l’azienda che vince un premio per l’ergonomia sul posto di lavoro, le sue succes­84

sive promozioni. Poi il passaggio di proprietà, e l’inizio di un percorso che rapidamente l’ha portato all’espulsione. «Fino al giorno prima, ti suona continuamente il telefonino, tutti ti cercano, sei quello che risolve i problemi. All’improvviso, il telefono tace e non sai che fare. Sei isolato». Daniele non ce l’ha con chi l’ha estromesso, il licenziamento gli ha lasciato più stupore che indignazione. E molta determinazione: «Ho ancora qualcosa da dare». Per questo Daniele si è aggregato subito a quel Massimo di Unbreakfast, ed è andata bene. «Io di mio sono abbastanza chiuso, ma poi quando si parla di lavoro mi sciolgo, sto bene nel gruppo». E ci va tutti i giovedì, anche oggi che è molto più indaffarato. Ha continuato a lavorare sul tema della sicurezza, e ha sviluppato un progetto per informatizzare le cartelle sanitarie dei lavoratori. «È assurdo che la maggior parte delle nostre imprese ancora ce le abbia tutte di carta, spesso neanche si trovano. Non è solo un software, è un servizio chiavi in mano che offriamo, che implica temi delicati di privacy, gestione dati, e aiuterebbe il rispetto delle leggi sulla sicurezza», si infervora il «taciturno» Daniele. L’aiuto di Unbreakfast? «Scambio di idee, informazioni, l’aiuto di altre professionalità. Per esempio, quando il mio progetto era pronto a partire, non sapevo come farlo sapere in giro, un giovedì ne ho parlato con una signora che veniva dal marketing, e ne è nato un lavoro comune». Chiara, Massimo e altri loro amici hanno capito che quello che serviva a se stessi e ai loro ex colleghi era una rete: per non sentirsi soli e per condividere informazioni. E l’hanno creata, con l’aiuto di internet ma soprattutto con la connessione fisica dei giovedì mattina. Hanno cominciato nel 2007: pochi anni fa, ma per il mondo dell’economia si tratta di un’era geologica, prima della grande glaciazione del 2008. Erano già una realtà quando su tutto è piombata la grande crisi, e nuove frotte di manager hanno bussato alle porte dell’associazione. Non hanno le scatole di cartone con dentro le loro carte e strumenti d’ufficio, come ­85

i ragazzi in maniche di camicia messi sul marciapiede dal fallimento della Lehman Brothers, ma ne sono in qualche modo parenti. Massimo li descrive così: «Rispetto alla prima leva, ultimamente arrivano persone molto più giovani, che sono uscite peggio dai loro precedenti lavori, e che sono ferme da più tempo». Di solito sono i maschi a dire «sono fermo», le donne, nel minuto a disposizione per fare le presentazioni, più frequentemente dicono: «Sto a casa». Forse perché i primi davvero non riescono a stare a casa neanche quando l’ufficio non c’è più, oppure perché non lo vogliono ammettere. Del resto, l’esigenza di portare fuori di casa il proprio problema privato della ricerca del lavoro è alla base dell’intuizione di Unbreakfast. Che il problema l’ha spostato al bar. «Non avere una sede, ma vederci informalmente a colazione, non è un punto di debolezza ma anzi ci dà forza», dice Chiara. Ovviamente il cappuccino e il cornetto non bastano, ma è lì intorno che prende forma un network di relazioni, che è la vera forza del gruppo. La scoperta, semplice e disarmante, è che «è più facile aiutare un altro che se stessi». Detta dall’alto di un’esperienza navigata tra gli squali del business milanese sembra poco più che una buona intenzione, ma diventa realtà se la si guarda nella vita quotidiana: «È difficile chiamare un ex collega, conosciuto nella precedente vita, e chiedere lavoro. Più facile è segnalare un altro, un amico, una persona di cui si conoscono le capacità». Un manager che esce da un’azienda dove ha avuto un ruolo di responsabilità porta con sé un bagaglio di esperienza e soprattutto tanti contatti: persone con cui ha avuto a che fare come fornitore, committente, acquirente, cliente, ospite, amico. Dentro Unbreakfast, questi contatti diventano un bene pubblico particolare, che non solo non si può facilmente chiudere in un recinto per uso privato, ma che vede aumentare il suo valore proprio grazie all’esistenza di una collettività che ne gestisce l’uso. Il che non vuol dire che non abbia anche un valore economico, in senso stretto: e ­86

infatti «sulla nostra banca dati, di contatti e di curriculum, molti hanno messo gli occhi»; però l’associazione la mette a disposizione solo di chi entra nel gruppo, ne condivide gli scopi, ne accetta le regole. Ma non si tratta solo di aiutare gente che ha avuto lavori importanti a cercare nuovi lavori importanti dentro aziende importanti. Come è successo per Daniele, per molte delle persone che hanno frequentato e frequentano Unbreakfast, la rete di relazioni che qui si coltiva permette anche un passaggio da un modo di lavorare all’altro, da una fase all’altra. Parliamo di persone che stanno sopra i 40, spesso sopra i 50 anni, che hanno sperimentato sulla propria pelle il passaggio dall’era del posto fisso a quello del posto variabile; che a volte – soprattutto prima della crisi economica – hanno intrapreso questo passaggio per scelta, per essere più liberi. A costoro, il capitale relazionale di Unbreakfast può dare la spinta decisiva: c’è chi impara a comportarsi da libero professionista, anche se non lo è mai stato, e chi mette in comune idee e forze per progetti nuovi. «Qui dentro sono nate 10 aziende, cofondate da persone che prima neanche si conoscevano», dice Massimo. Maurizio, «non occupato» da sei mesi, al suo quarto mese di colazioni del giovedì racconta al gruppo: «Sono quasi al traguardo con la mia nuova società. Distribuiremo prodotti che ancora non vengono venduti in Italia, nell’ambito termosanitario. E stiamo chiudendo un accordo con un produttore turco di pannelli solari». A sentir parlare di un progetto che si avvia, di un’attività che riprende, il tono della riunione diventa più professionale: anche se un po’ alla rinfusa, tutti intervengono, fanno domande tecniche, danno consigli, forniscono indirizzi. Che differenza c’è rispetto al business quotidiano che si fa tutt’intorno a questo bar del centro milanese? Un economista lo chiamerebbe il capitale relazionale: «Puoi avere il curriculum migliore, ma senza il networking non serve a niente. E il più grosso ostacolo al networking spesso sei te stesso», di­87

ce Paola, che, dopo aver ricordato a tutti di essere «a casa» da qualche mese, annuncia con una certa soddisfazione di aver appena rifiutato una proposta di rientrare in azienda: «La consulenza, fatta in modo intelligente, può dare di più sia a me che a loro. Per me è un investimento sul futuro, ma per farlo è fondamentale avere un network». Messi fuori dalle loro aziende, privati di uffici e segretarie, spogliati dalla corazza della routine degli affari, gli ex qualcosa di Unbreakfast prendono strade diverse: chi – soprattutto quelli che sono al primo giovedì – ancora recrimina contro l’azienda che lo ha «estromesso», chi cerca di rientrare – e racconta al gruppo l’esito di un colloquio, di una telefonata, di un viaggio –, chi si mette in proprio. E ultimamente è proprio quest’ultima la strada che prevale; a volte succede per necessità, dato che è dalle stesse aziende che sta venendo pressante la domanda di temporary manager, capi a tempo determinato, precari come i loro dipendenti: anche Manpower, il colosso dell’interinale, è da poco entrato nel mercato del lavoro manageriale. Sia pure con più soldi e migliori maniere, ma un manager con esperienza può trovarsi ad essere compravenduto come un operatore del call center: «Ormai possono portarsi dentro un dirigente al costo di un apprendista». E allora, «se devo andare a fare il temporary manager per pochi soldi, tanto vale mettermi in proprio». Ma nella necessità molti scovano la virtù: lo si capisce, nei racconti attorno al tavolino, dai dettagli che spuntano su imprese originali, su campi da esplorare, su business innovativi pensati nel gruppo e col gruppo, addirittura sugli hobby trasformati in impresa a tempo pieno, sulla grande quantità di tempo dedicata alla formazione e all’informazione. L’atmosfera è tutt’altro che depressa. Anzi, sembra che viaggi nell’aria un leggero sospiro di sollievo, per potersi dedicare a lavori di cui si condivide il senso. I manager «non occupati» di Unbreakfast sono a metà, tra la generazione stabile e quella precaria; dei sindacati, ­88

qualcuno se ne è occupato come controparte e pochi hanno mai pensato di potersene servire come protezione; delle associazioni di categoria dicono tutto il male possibile, dato il ritardo storico con cui tutte sono arrivate a capire i cambiamenti sui posti di lavoro. Così, come la nuova leva di quella che prima era un’élite – i giovani con altissima istruzione e qualifiche, esercito addetto per lo più all’economia della conoscenza –, si trovano alle prese con nuove forme di organizzazione collettiva e di soluzioni comunitarie a un problema diffuso: cercare lavoro, mantenerlo, difenderlo. E provare anche a farlo bene. Al contrario dei protagonisti di molte altre esperienze qui narrate, non hanno tra gli obiettivi un ribaltamento totale e radicale della logica economica nel mondo; ma si sono accorti a proprie spese dell’ottusità del corto periodo dell’interesse individuale come unico motore della vita economica e sociale; e sperimentano il ritorno della più antica delle pratiche di solidarietà, una società di mutuo soccorso, adattandola a tempi e luoghi in cui pareva improbabile.

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Rete

Binario etico «Lo sai cos’è un computer? Una bomba ecologica. Per costruirlo, se ne vanno 1.500 chili d’acqua, 22 chili di sostanze chimiche varie, 240 chili di petrolio. Ti resta in casa o in ufficio per periodi sempre più brevi, e consuma sempre di più. E ogni anno 150 milioni di computer si avviano alle discariche, dove rilasciano mercurio, cadmio, piombo e altre prelibatezze tossiche». Chi parla non è un nostalgico della Olivetti 32, o un luddista moderno, ma un ingegnere elettronico di 36 anni, che si chiama Ruggero Russo. è nato e cresciuto nella comunità del free software, ed ha fondato a Roma la cooperativa Binario etico, che non ha niente a che vedere con le ferrovie, e molto a che vedere con i due beni comuni per eccellenza: l’ambiente e la conoscenza. Per i quali la cooperativa creata da Ruggero insieme al suo ex compagno di università Davide Lamanna, e adesso allargata a diverse altre persone, lavora e dà reddito ai suoi soci, senza mai tradire l’adesione originaria al credo del free software: no al copyright, mettere ogni passo avanti nella conoscenza a disposizione di tutti. Per questo Ruggero e il suo gruppo sono un buon osservatorio per vedere da vicino come il fantastico mondo della condivisione in rete, che qualcuno ha definito la «cornucopia» dei beni comuni, si concilia con un’impresa che sta ­90

economicamente in piedi; e soprattutto, quali motivazioni e idealità ci si mettono dentro. Ruggero e Davide hanno iniziato a ragionare su queste cose all’università, e poi in un’associazione chiamata Ingegneria senza frontiere. In seguito, man mano dalla realtà associativa sono passati a quella imprenditoriale, con la creazione della cooperativa. Il cui oggetto sociale è riassunto da Ruggero con due parole: riuso e condivisione. Ossia: riciclaggio dei vecchi computer, ripuliti e rimessi in circolo con programmi di software libero. «La gente cambia spesso computer, sia nelle case, dove la vita media di un pc è di 4 anni, che nelle aziende, dove è di soli 1218 mesi. E questo non per esigenze oggettive, ma perché tutto il sistema ti induce a farlo: si immettono sul mercato programmi di software sempre più pesanti, che richiedono computer sempre più potenti. Oppure nuovi apparecchi – per esempio nel campo delle macchine fotografiche digitali, o delle videocamere – non più compatibili con le precedenti versioni del software o del pc». È il consumismo informatico che ci spinge a buttare via rapidamente macchine che, per l’uso che ne fanno i più (scrittura, posta, navigazione in internet, giochi, video), potrebbero ancora andare benissimo. Buttare via, ma dove? Dei 14 chili di rifiuti elettronici pro capite prodotti annualmente in Italia, solo uno e mezzo viene smaltito correttamente, secondo i dati che ci dà Binario etico. La quota di riciclo è più alta, ma comunque insufficiente, anche in Europa e negli Stati Uniti: dal 25 al 20%. Quanto alle rotte dello smaltimento, ricordano quelle delle nostre vecchie carrette dei mari, di quelle navi che vengono smontate letteralmente con le mani sulle spiagge delle Filippine, dello Sri Lanka, o di altri paesi del Sud del mondo: solo che in questo caso i vecchi pc una volta arrivati in Cina, India o Nigeria finiscono sul tavolo di laboratori in nero, dove lavoratori senza alcuna protezione, spesso bambini, ne estraggono le componenti preziose – oro, rame – che poi vengono riutilizzate o fuse. Il tutto, con esposizione continua a processi tossici. Men­91

tre noi, con i nostri pc nuovi di zecca e sempre più potenti, consumiamo sempre più energia per fare più o meno le stesse cose che facevamo prima. Nei laboratori di Binario etico, pieni di vecchi pc sventrati, si cerca un rimedio a tutto ciò. Un rimedio che assomiglia all’uovo di Colombo: «Prendiamo i computer dismessi, li rimettiamo a posto e li vendiamo a prezzi accessibili a tutti coloro che non possono permettersi di comprarne uno nuovo – oppure gratis, qualora ci sia un ente pubblico, o una comunità, o una fondazione che finanzia l’operazione: cosa che può succedere per esempio per scuole, carceri, centri anziani». Nel «rimetterli a posto» entra in gioco la questione del software libero: «Per riqualificare un computer, serve una gestione approfondita dell’hardware tramite il software». Quel che si tiene e quel che si butta – per dirla in termini banali e non del tutto corretti – dipende dalle esigenze finali dell’utente, privato o impresa che sia; l’installazione del software libero al posto dei vecchi programmi proprietari permette una gestione più flessibile e più efficace, poiché consente l’accesso al codice sorgente dei programmi; e dà ampio margine di miglioramento essendo aperto alle modifiche che chiunque vorrà fare. Così, oltre che riusare plastica e metalli che altrimenti andrebbero a inquinare il mondo, e a dare computer a chi non potrebbe averli (oppure permettere a imprese, scuole, enti non profit un bel risparmio sulla propria spesa informatica), la cooperativa di Binario etico chiude il cerchio diffondendo il software libero, e cercando di far capire ai suoi clienti – o beneficiari dei suoi prodotti – che funziona. Con il suo mix di minuta pratica quotidiana e alti obiettivi politici – salvaguardia dell’ambiente, riduzione del divario digitale, diffusione della conoscenza libera – Binario etico è un bell’esempio di quel che può nascere in una comunità aperta, motivata, e anche fortemente identitaria come quella degli attivisti del software libero. Uniti da quella che vivono come una missione culturale e politica ­92

– contrastare tutte le forme vecchie e nuove di recinzione del bene comune della conoscenza –, che in questo caso si coniuga con altri obiettivi: solidarietà, giustizia sociale, ecosostenibilità. Non a caso, l’esperienza di Binario etico è nata all’interno del circuito romano dell’Altra Economia – e nella relativa cittadella, nei locali dell’ex mattatoio del quartiere Testaccio, c’era la prima sede del loro trashware: prima che la Città dell’Altra Economia fosse messa in discussione, per scelte legate al cambiamento della giunta al comune di Roma. «Venivamo da una realtà associativa, ma il tentativo che abbiamo fatto è stato quello di cercare la sostenibilità economica». E finora ce l’hanno fatta. Dunque di software libero si può anche vivere? Non è una passione da smanettoni nel tempo libero? Come si porta a casa il pane nell’economia del «gratis»? Risponde Ruggero: «Non vendiamo il prodotto, vendiamo un servizio». Nelle slide con le quali Binario etico presenta il «credo» del free software in incontri e seminari campeggiano la foto di Richard Stallman, padre di «Gnu» (il primo progetto collaborativo per lo sviluppo del software libero), e le quattro libertà di base del free software: di studiare il codice del programma; di modificarlo; di farne copie e distribuirlo; di pubblicare versioni modificate. «Questo garantisce che il programma sia aperto a miglioramenti, sempre, con la collaborazione di tutti. Ma l’assistenza agli utenti, la personalizzazione, la risposta a esigenze specifiche, sono attività che invece possono essere commerciabili. Il concetto chiave è nel passaggio dall’informatica come prodotto all’informatica come servizio». Maestri di software Parlare di «economia del noi» quando si parla di rete e nuove tecnologie è allo stesso tempo ovvio e complicato. Ovvio, perché è sulla condivisione e collaborazione di massa che l’era dell’economia della conoscenza si è affermata a livello planetario. Complicato, perché le for­93

me concrete che le comunità in rete prendono sono sfuggenti, non tradizionali e non catalogabili: certo non con le categorie passate dell’azione economica individuale e dell’azione politica collettiva. Ne è un buon esempio la stessa comunità del free software, nucleo forte dell’azione collettiva in rete, che condivide uno strumento di lavoro e allo stesso tempo una visione del mondo: il software – ossia il linguaggio della società dell’informazione – non deve essere oggetto di diritti di proprietà, non va recintato, ma messo a disposizione di tutti perché tutti possano usarlo, conoscerlo, migliorarlo. È una comunità globale, formata da persone che sui sistemi operativi lavorano o studiano; che si ritrova in punti di aggregazione virtuali e a volte anche fisici. Hanno siti di riferimento, forum di discussione, luoghi virtuali di scambio e condivisione. E anche incontri diretti, come negli hack-meeting annuali (all’ultimo appuntamento in Italia c’erano circa 5.000 persone) o negli eventi del Linux day annuale. Quella del Linux day è una buona occasione per incontrare fisicamente la comunità virtuale del free software, distribuita nei tanti Lug – Linux user group – che il più delle volte sono locali, riferiti a un singolo territorio, a volte anche un piccolo paese. Al Linux day del 2010 se ne sono contati 135, tanti quanti gli eventi organizzati in tutt’Italia, da Matera a Imola, da Alcamo a Poggibonsi; ospitati da comuni o università, oppure in teatri, sale o persino – com’è successo a Bologna – in un’ipercoop. Non sono raduni improvvisati, ma giornate di studio preparate da una call for papers, dove si propongono e si discutono le ultime novità nel campo del free software, temi all’ordine del giorno dell’agenda politica e legislativa sulla rete, o qualsiasi altra cosa sia stata proposta dal basso e accolta dai coordinatori locali. Sono anche giornate in qualche modo di «evangelizzazione», per diffondere il free software nella società parlando di temi che interessano tutti. Per il Linux day italiano 2010 il tema era la scuola, ovvero: quello che il free software può fare per e nella scuola. ­94

«Ho due figlie gemelle che fanno la quinta elementare e hanno cominciato coi rudimenti di informatica. Ho sfogliato i loro libri, e mi sono accorto che lì si parlava solo di applicativi Windows. Perché?». In uno degli incontri della comunità Linux di Roma, ospitato dall’università «La Sapienza» nelle aule della facoltà di Matematica, Enrico racconta com’è nato il progetto del suo gruppo; costituito qualche anno fa a Sabazia, un piccolo comune nel Nord del Lazio, dopo una casuale chiacchierata in un pub tra fan di Linux, e creatore di un progetto per la distribuzione del free software in quarta e quinta elementare. Spiega i rudimenti del programma, le applicazioni che ci hanno messo dentro; il mix di gioco e didattica; le scelte fatte per massimizzare l’attenzione dei bambini, tranquillizzarli sul fatto che «ci possono fare tutto, non è uno strumento che dà meno possibilità di quelli comprati (o copiati)»; le modalità della distribuzione del software; le differenze rispetto ad altri strumenti didattici «free» già esistenti. Dalle sue parole si intuisce qualcosa dell’incontro tra un’avanguardia della tecnologia della conoscenza e un mondo della scuola che sulla tecnologia tanto avanti non è (nonostante quella dell’informatica fosse una delle tre «i» qualche anno fa messa pomposamente al centro di un programma ministeriale), nel quale spesso girano ancora floppy disk e quando si va in sala computer a volte sono i bambini a spiegare alle maestre cosa fare. «Il rapporto con gli insegnanti è fondamentale, se non mettete prima gli insegnanti al corrente di tutte le fasi del progetto non funziona niente». E dallo scambio con le maestre possono venire idee originali: come quella di usare un programma libero di ascolto audio per spiegare le parole e le frasi palindrome – che possono essere lette al contrario, e anche ascoltate dalla traccia audio del computer al contrario. Enrico ci tiene a chiarire perché con il suo gruppo si è dedicato a questo progetto: «Non è giusto che sui libri di informatica i bambini trovino solo una parte della storia, quella raccontata da chi produce software proprietario. ­95

Ma soprattutto, c’è una forte esigenza di legalità: non c’è bisogno di rubare software, diciamo ai ragazzi, c’è quello libero». Che, oltre a non costare niente, può far funzionare meglio i vecchi computer delle scuole – obsoleti per l’evoluzione dei programmi Windows, ma ancora buoni per questi programmi –, ed essere migliorato con la collaborazione di una potenza mondiale, ossia la rete degli sviluppatori del free software. Naturalmente costa il lavoro, il tempo messo nel progetto e nelle lezioni. «Abbiamo avuto un finanziamento dalla Regione per il progetto. E questo vorrei sottolinearlo – dice Enrico alla platea del Linux day romano –. Dobbiamo ricordarci che la politica è al servizio del cittadino, noi possiamo e dobbiamo pretendere dalla politica attenzione e intervento». Non che della politica abbiano tutti la stessa visione: «Tra noi ci sono persone di destra e di sinistra», dice il presidente del Lug di Sabazia Diego Sorrentino. «Quando ci sono state offerte donazioni da forze politiche, abbiamo discusso tra noi il da farsi, e deciso che le accettiamo purché non si facciano i nomi: nessuno deve farsi pubblicità su di noi». Diego è sulla trentina, per mestiere fa il programmatore nell’istituto italiano che si occupa di Geofisica e vulcani e passa diversi mesi all’anno in Antartide. Ma non confinerebbe la sua attività nel gruppo di Linux nella sfera del tempo libero: a sentirlo parlare con passione e divertimento di quel che fa, sembra più una prosecuzione del suo lavoro con altri mezzi e con un altro senso, un senso che sente più vicino a sé e allo stesso tempo condiviso con altri. «Siamo molto diversi tra noi, sia come età – nel nostro gruppo si va dai 18 ai 55 anni – che come idee politiche e bagaglio culturale. Siamo accomunati dal fatto di essere tutti informatici (o giù di lì), e interessati alla diffusione del free software. Per tutto il resto, siamo un gruppo molto eterogeneo». Salvo che per un altro dettaglio: tutti maschi. Come a schiacciante maggioranza maschile è la platea del Linux day romano, e più in generale del mondo del free sof­96

tware – come ammettono tutti i protagonisti, dandone la colpa a uno squilibrio che si forma all’università nelle facoltà di Informatica. L’hardware regalato Non sono molte le ragazze neanche alla presentazione di «Mister Arduino, il re dell’hardware». Cinque o sei, tutte molto giovani, e un centinaio di maschi, per la maggior parte sotto i 30. Tutti convenuti al Linux day romano per discutere del nuovo progetto italiano di cui in tutto il mondo si parla: è nel campo dell’informatica, nasce vicino Ivrea non lontano dalla grandiosa e defunta esperienza olivettiana, ma non ha sopra nessun marchio storico né grandi capitali; anzi, non c’è di mezzo proprio alcun diritto di proprietà. Parliamo infatti del primo caso in cui la collaborazione di massa è stata applicata non alla scrittura del linguaggio dei computer ma alla macchina stessa: il primo hardware condiviso in open source, un microprocessore detto Arduino dal nome di un pub frequentato dalla piccola comunità che lo ha inventato. Agli attivisti del gruppo Linux di Roma non sembra vero di tuffarsi in circuiti e microprocessori, anche con un po’ di orgoglio nazionale derivante dal fatto che per una volta si parla di una geniale start-up italiana. A parlare di Arduino c’è un giovanotto simpatico, si chiama Mauro Fava e per lavoro fa il programmatore web e con un’azienda si sta dedicando adesso a un’applicazione di Arduino nel campo dell’energia solare. Racconta la genesi del progetto, che è nato in una scuola di design, l’Interaction Design Institute di Ivrea. «Tutto è cominciato qualche anno fa quando Massimo Banzi, ingegnere e insegnante nella scuola, si è accorto che gli studenti, non abituati a cose di elettronica e ingegneria, erano in difficoltà a implementare soluzioni hardware; avevano bisogno di qualcosa di più semplice, allo stesso tempo potente ma di facilissima utilizzazione». Detto, fatto. Con David Cuartielles, un ingegnere spagno­97

lo che in quel periodo era ospite presso l’istituto, e con l’aiuto di alcuni studenti, in poco tempo la scheda Arduino è stata fatta, e data agli studenti: e si è visto che potevano farci molte cose, sperimentare le loro idee e creatività, anche se non sapevano niente di informatica e programmazione. Ma una scheda hardware, anche se economica e semplice, non è come il codice sorgente del software, ha comunque una componente materiale che qualcosa costa. Come produrla, come diffonderla, come migliorarla? A quel punto è partita la scommessa dell’open source. «Una volta creato Arduino, Banzi e i suoi hanno pensato di regalarlo alla comunità. Le schede sono in vendita, a prezzo molto basso: dai 26 euro in su. Ma sul loro sito c’è anche tutto il necessario per rifarle: schemi, progetti, software». Così sul piccolo prototipo nato per aiutare studenti poco interessati alla macchina e molto alla bellezza, è nato l’esperimento della prima condivisione di massa di un oggetto hardware. «È nata una comunità italiana attorno alla piattaforma Arduino, poi rapidamente la comunità si è allargata agli Stati Uniti», racconta Fava; e gli brillano gli occhi, sia quando illustra la paradossale semplicità della macchina e del suo linguaggio; che quando spiega come l’aver aperto la piattaforma a tutti ha lanciato l’impresa invece di danneggiarla, come la logica economica e lo stesso buon senso vorrebbero. Che senso ha, infatti, inventare una cosa geniale, che ha un suo mercato (in due anni la piccola fabbrica di Banzi ha venduto 50.000 schede Arduino), metterla in vendita e allo stesso tempo dare a tutti la possibilità di copiarla? In un’intervista alla rivista «Wired» realizzata da Mario Privitera, i due inventori del prototipo danno due risposte diverse e complementari. Cuartielles, descritto come un tipo «che ha una massa di capelli ispidi e ricci e una barba alla Che Guevara», racconta di essere «meno interessato a guadagnare soldi che a ispirare creatività e a fare in modo che la sua invenzione venga utilizzata ad ampio raggio». Mentre Banzi, che adesso non insegna più ma ge­98

stisce la sua società, che fa Arduino e altre cose, pare più business-oriented: «Aveva intuito che, se Arduino fosse stato aperto, poteva ispirare più interesse e ricevere più pubblicità gratuita di quanta ne avrebbe potuto ottenere un pezzo di hardware chiuso e proprietario», racconta sempre il mensile «Wired». Mauro Fava, il programmatore venuto al Linux day di Roma per raccontare l’Arduino story, incarna un po’ tutte e due le versioni. Racconta infatti – nei dettagli – il progetto a cui si sta dedicando: l’oggetto finale sarà una lampada stand-alone, alimentata a energia solare, che avrà dentro una scheda Arduino per fare per bene tutto quel che deve fare: orientarsi seguendo il sole, accendersi al crepuscolo, dosare la luce della notte in base alla carica accumulata nel giorno... La sua azienda non ha scelto Arduino solo perché è semplice e flessibile, o solo perché costa poco, ce la si può fare in casa: ma anche perché è migliorabile, tutti potranno partecipare alla soluzione di problemi tecnici che man mano si incontreranno. Le sue lampade sono state prenotate in quantità industriale per una fornitura nel Dubai. I clienti, racconta Fava, sono rimasti un po’ sconcertati ma alla fine molto interessati, quando hanno saputo che l’oggetto che stavano comprando potrà essere copiato da chiunque. Probabilmente hanno pensato ai vantaggi di possibili miglioramenti, o che in futuro potranno rifarsele in casa, dice Mauro Fava, coinvolto e divertito più dall’aspetto tecnico di tutta la faccenda che dai risvolti commerciali. Che però ci sono, evidentissimi, e chiamano in causa il rapporto tra la logica del dono nella produzione dei nuovi beni della conoscenza e quella del mercato. Dono e mercato «Io la vorrei spiegare meglio questa storia del dono – dice Fabrizio, giovanissimo del gruppo di Sabazia, quello che ha tenuto materialmente la gran parte delle lezioni di free software nelle scuole del paese –. Non è una questione ­99

di altruismo. Io sviluppo un prodotto, poi lo metto a disposizione di tutti, qualcuno lo potrà anche migliorare e questo conviene anche a me». E non solo a lui. Ormai da anni molte delle corporation che prima vedevano nella produzione sociale di software solo una fonte temibile di concorrenza hanno fatto la grande svolta, entrando anch’esse nei servizi «open». Sono uscite dalla cattedrale e sono entrate nel bazar, per dirla con le parole di Eric S. Raymond, autore di uno dei testi di riferimento della comunità del free software: La cattedrale e il bazaar, del lontanissimo ’97. «Credevo che il software più importante andasse realizzato come le cattedrali, attentamente lavorato a mano da singoli geni e piccole bande di maghi che lavoravano in splendido isolamento, senza che nessuna versione beta vedesse la luce prima del momento giusto». Invece non c’è «nessuna cattedrale da costruire in silenzio e reverenza». Piuttosto, «un grande e confusionario bazar pullulante di progetti e approcci tra loro diversi. Un bazar dal quale soltanto una serie di miracoli avrebbe potuto far emergere un sistema stabile e coerente». Eppure ha funzionato. Funziona. E fa scuola. Perché, aveva scritto lo stesso Raymond proprio alla vigilia della conversione del colosso Netscape all’open source, «nessuno sviluppatore di ‘closed source’ potrà mai pareggiare la fucina di talenti che la comunità Linux è in grado di offrire per affrontare un problema». Dopo Netscape, molti big dell’informatica sono scesi al bazar, una multinazionale come Ibm ha cominciato a macinare profitti sui servizi Linux; dal lato della domanda, gli utenti dell’open software sono in ascesa ovunque, anche per la spinta di molti governi e istituzioni oltre che per l’opera di «evangelizzazione» dei suoi attivisti. Un cambiamento strutturale, nel quale c’è chi vede l’inizio di un nuovo paradigma dell’economia della conoscenza e per il suo tramite di tutta l’economia, con nuovi equilibri tra la produzione sociale e quella di mercato; e chi vede l’apertura di una nuova era caratterizzata dallo sfruttamento di lavoro gratuito planetario, quale quello ­100

volontariamente fornito dalla comunità degli sviluppatori del linguaggio così come dai produttori di contenuti che quel linguaggio veicolerà. Un cambiamento che investe anche le comunità del software. «Ci sono due grandi filoni. Uno più pragmatico, industriale, che è il campo dell’open source. E un altro più ideale, legato a valori di etica e solidarietà, che è il free software», dice Arturo Di Corinto, saggista e giornalista, esponente del movimento del free software italiano. Per entrambi, c’è un legame sociale forte dato dalla condivisione di un obiettivo: costruire qualcosa che funziona, mettendo insieme su scala globale le minuscole parcelle della propria attività senza recinzioni proprietarie. All’inizio dell’era internet, questa messa in discussione dei confini proprietari pareva rivoluzionaria, una sfida da pazzi alle fondamenta del capitalismo; poi, in pochissimi anni, si è visto che invece il capitalismo conviveva benissimo con il sacrificio di alcuni steccati proprietari, e anzi che se ne poteva giovare. Quel che l’open source mette in discussione infatti è la proprietà, non il mercato. Ma per il movimento del free software c’è un di più, un elemento più forte di critica al sistema che fa anche da collante di un’azione collettiva: «Partecipare insieme a una battaglia politica e culturale per la diffusione della conoscenza». Una battaglia i cui obiettivi cambiano continuamente, di pari passo con le «nuove recinzioni» che il mercato inventa per fare profitti anche nell’era della condivisione; e che non riguarda solo l’economia, ma è anche e soprattutto questione di democrazia. Si sbaglierebbe a pensare che la dimensione comunitaria dell’economia della conoscenza riguardi solo una minoranza di accaniti «smanettoni», un club (quasi tutto) maschile colto e aperto ma con forti barriere di conoscenza tecnica all’ingresso. È vero che è nelle comunità come quelle di Linux che si vede all’opera in modo plastico il valore di comportamenti non riconducibili alla sola moti­101

vazione dell’interesse egoistico individuale, l’allargamento della sfera della collaborazione, la sostituzione della logica della reciprocità a quella dello scambio. Alcuni dicono, citando Marcel Mauss e il movimento nato in suo nome: la persistenza e l’allargamento della sfera del dono nelle società moderne. Ma tutto ciò va oltre la produzione di software, permea tutti i settori che hanno a che fare con la cultura, la conoscenza, la ricerca, l’arte, il pensiero; e dà modalità organizzative più rapide ed efficaci. Lo si ritrova nella collaborazione planetaria a Wikipedia, negli scambi peer-to-peer, nella condivisione di file e video, nel proliferare delle piattaforme partecipative di ogni tipo. Anche qui, come nel caso del software condiviso, i soggetti dominanti del mercato – in questo caso, le corporation della comunicazione – hanno reagito prima alzando steccati e poi cercando di inglobare il nemico e di utilizzare i suoi stessi strumenti. Vista dall’alto, è una gigantesca transizione della quale non si capisce ancora bene la direzione: come è successo e può succedere ancora per molte esperienze nate sotto il segno di un’alterità radicale rispetto al sistema economico dominante, è possibile che i meccanismi di quest’ultimo inglobino e fagocitino tutto, che anche le esperienze del «noi» nella rete finiscano per diventare una modalità come un’altra del funzionamento del capitalismo. Ma vista dal basso, dal punto di vista della formazione e diffusione di legami sociali che ridisegnano i confini tra l’economia e la società, è una opportunità da cogliere al volo, e che già caratterizza molte modalità d’azione collettiva. Nascono nuove comunità intorno al bene comune della conoscenza, per favorire la libera circolazione delle informazioni e delle scoperte, e allargare l’accesso alla formazione e alla cultura: la diffusione di una biblioteca circolante, la digitalizzazione di archivi e memorie altrimenti destinati al macero, i movimenti dell’open science, le sottoscrizioni diffuse per finanziare progetti creativi. Chi ha un’idea che ritiene buona o meritevole, invece di cercarsi ­102

con i vecchi metodi un finanziamento sul mercato – una banca, un editore, una grande impresa, la borsa – o sperare in una fondazione o un ricco illuminato, può andare in rete, su una delle tante piattaforme a questo dedicate, e cercarsi una folla di micromecenati, che credono nel suo progetto e gli danno in tante piccole quote la somma necessaria. Ma anche le comunità «vecchie», nate su questioni più concrete e quotidiane – il consumo consapevole, la tutela dell’ambiente –, le realtà organizzate attorno alla mobilitazione su temi che riguardano il proprio territorio, i gruppi d’azione politica dal basso, si trovano tra le mani uno strumento di collaborazione e partecipazione formidabile. Uno strumento che, se ben usato, può anche far salire enormemente il grado di trasparenza delle decisioni delle élite politiche ed economiche, nei Parlamenti come nei Consigli di amministrazione delle grandi aziende come sulle etichette di un barattolo al supermercato; la funzione di watchdog, di controllo da parte di gruppi di interesse e di pressione, può essere condivisa e potenziata da una miriade di occhi di microcontrollori messi in rete: sempre che le leggi mettano bene in chiaro cosa deve essere reso pubblico, quali porte devono essere aperte, diventa più facile per i soggetti collettivi organizzati entrare dentro quelle porte, prendere in mano quei documenti e capirci qualcosa. «Siamo letteralmente circondati dalla condivisione», ha scritto Yochai Benkler, giurista di Yale, uno dei più convinti assertori del fatto che la «ricchezza delle rete» – è il titolo del suo più celebre libro – cambi il modo in cui si produce la ricchezza delle nazioni, e anche lo spazio della libertà politica al loro interno. Benkler non usa toni da guru né diffonde quell’ottimismo un po’ ingenuo che spesso traspare da molti discorsi sul fantastico e facile mondo della rivoluzione internet; analizza i cambiamenti tecnologici, e quelli strutturali che ne sono conseguenza. «Quello che c’è di speciale nella nostra era – scrive – è l’efficacia crescente degli individui e delle affiliazioni aperte non di ­103

mercato in quanto agenti dell’economia politica». Ma se la tecnologia e la rete rendono possibili pratiche sociali nuove, o potenziano enormemente l’azione di comunità preesistenti, sta a noi «adeguare il nostro ambiente istituzionale alle nuove pratiche sociali rese possibili dalla rete»; un salto di qualità, un passaggio politico e istituzionale ancora tutto da compiere.

Conclusioni

Consumo, credito, case, imprese, web. Nel riepilogare il mio viaggio nell’economia del noi, ho sistemato le storie raccolte dentro queste grandi categorie. Una forzatura: ogni storia di consumo collettivo parla anche di un altro modo di fare impresa e finanza, le innovazioni della rete non sono un capitolo a sé ma entrano in tutti gli altri, la questione delle abitazioni e quelle del credito non sono così facilmente separabili. Ma i titoli dei cinque capitoli aiutano a capire che la dimensione del noi nell’economia – ossia, il crescente ruolo di comportamenti cooperativi e comunità organizzate nella soluzione di problemi economici – pervade tutti gli aspetti della vita quotidiana, fornisce soluzioni nuove a problemi più o meno nuovi, entra nelle categorie basilari dell’azione economica, mettendo in discussione parecchie delle interpretazioni correnti, a partire dall’individualismo metodologico che si apprende con l’abc della scienza economica. Di tutto questo mondo, assai variegato e anche contraddittorio, ho voluto innanzitutto dare conto e racconto, per scandagliarne la profondità, le caratteristiche, le motivazioni, e fornire alcuni materiali per rispondere a una domanda: si trova qui una risposta possibile della società a una crisi di senso della politica e dell’economia, o sono solo esperienze di autodifesa e trucchi di sopravvivenza di fronte alla stessa crisi? Domanda che se ne tira dietro un’altra: è la società che ­105

invade lo spazio del mercato, o il mercato che si allarga e mangia esperienze della società civile nate con scopi diversi dal profitto? Al termine del viaggio (arbitrario, come dichiarato all’inizio, nella scelta delle sue tappe), i quesiti restano aperti ma c’è qualche elemento in più per rispondere. Elementi cercati innanzitutto nel punto di vista di chi opera nell’economia del noi, per una parte o la totalità del suo tempo di vita e di lavoro. Guardando quindi in primo luogo alle motivazioni dei protagonisti più che alla cornice giuridica da loro prescelta: nella convinzione che non sia tanto il contenitore a fare la differenza (dunque la forma cooperativa piuttosto che quella di società di persone o per azioni; l’associazione piuttosto che l’impresa; il settore non profit versus quello profit), quanto l’obiettivo perseguito e le modalità collaborative nello svolgimento concreto delle azioni per arrivarci. Questo mi ha portata un po’ lontana dal mondo delle strutture stabilmente organizzate, come quel terzo settore sempre più istituzionalizzato sulla cui evoluzione ferve il dibattito teorico e politico; e più vicina a realtà spontanee di auto-organizzazione dal basso, che nei diversi campi e in giro per l’Italia sono nate e nascono continuamente. Per definizione, tale realtà è frammentata e difficilmente sistematizzabile; dentro ci sono gli orfani della vecchia politica come quelli della nuova speranza dell’altermondialismo di Seattle; i portatori del verbo moderno del free software o i super-pragmatici di alcuni gruppi d’acquisto; le nuove imprese dell’innovazione sociale e i credenti della comunione dei profitti; comunità che si muovono contro il mercato e altre che vogliono usarlo in un altro modo. Andandola a guardare da vicino, però, si possono individuare dei tratti comuni. Il primo tratto comune è nell’importanza delle relazioni tra le persone. Quel capitale fatto di conoscenza, fiducia reciproca, condivisione di tempo, che da sempre è riconosciuto come fondamentale per la convivenza civile ma che non è monetizzabile, non si può misurare e scambiare ­106

con il tramite del denaro. Nelle reti dell’economia del noi, al contrario, le relazioni acquistano tanta più importanza in quanto non sono monetizzate anche se si sa che hanno un valore enorme. Scambio due chiacchiere riguardo al libro che sto scrivendo con un’amica esperta di knowledge economy sapendo che la conversazione mi aiuterà a vederci più chiaro, e immagino che lei farà lo stesso con me se e quando ne avrà bisogno: ma non si sa se, né quando, renderò il favore. Francesco, che fa microcredito alle Piagge, parla e parla con chi va a chiedere i finanziamenti della loro comunità, consolidando con il «debitore» una relazione che fa sì che questi restituisca sempre il debito, senza pegni e garanzie. Michele, che riesce a portare avanti gli aranceti del nonno grazie ai gruppi d’acquisto che gli comprano il raccolto, può farlo solo consolidando nel tempo un rapporto di fiducia con i suoi consumatoricollaboratori, costruito anche a cena e in molto tempo «libero» gratuitamente dato. E anche nel web, nell’apparente virtualità degli incontri sui progetti collaborativi in rete, si costruisce un capitale di conoscenze e relazioni, in cui l’effetto-reputazione è spesso la vera «moneta» in cui è pagato il tempo di un lavoro fornito, all’apparenza, gratis. Il secondo tratto comune è nella ricorrenza della logica del dono in luogo di quella dello scambio. Come sottolineato da tutta la letteratura che ha riletto per i tempi contemporanei gli studi antropologici sul dono nelle società arcaiche, fondamentale è l’elemento della reciprocità, dell’assenza di gerarchie: non siamo nell’ambito della carità fatta dall’alto, da chi ha a chi non ha; ma su un piano paritario, l’unico che può consentire la nascita di una comunità di intenti e non di un semplice ente benefico incaricato di alleviare i bisogni di chi è lasciato al margine della società. E questo è vero sia quando si tratta di esperienze di tipo mutualistico, con forti istanze di solidarietà e mutamento sociale; sia laddove la superiorità del comportamento collaborativo sia «solamente» un portato dei nuovi meccanismi di produzione e dell’innovazione tecnologica, che ­107

forzano a una riscrittura delle organizzazioni aziendali e a un arretramento della logica proprietaria. Il terzo tratto in comune è, mi si scusi il bisticcio di parole, nell’esistenza di un bene comune. I «noi» che ho raccontato possono essere più o meno radicali; sentirsi portatori di una visione del tutto alternativa della vita, della produzione e del mercato, oppure più pragmaticamente di una pratica collaborativa per raggiungere meglio il proprio risultato; essere mossi da valori etici o da una fede religiosa; venire da una storia politica novecentesca, in grandi organizzazioni di massa, oppure essere nati all’azione collettiva negli anni Duemila; possono esserci tutte queste differenze e sfumature, ma ovunque ricorre e spunta un bene comune. Come obiettivo della propria azione, come oggetto del proprio campo di attività, come valore unificante dei propri comportamenti. Gli esempi più evidenti e ricorrenti sono quelli dell’ambiente e della conoscenza. Beni che il mercato non sa fornire al livello ottimale e nella cui produzione, difesa o promozione si allarga la sfera dell’azione collettiva della società civile mentre declina (o latita) quella dello Stato: vuoi per il fallimento di quest’ultimo speculare a quello del mercato, vuoi per un deliberato e non innocente ritiro motivato dalla crisi fiscale delle casse pubbliche. Qui è bene introdurre un piccolo chiarimento, per fugare un equivoco che ricorre spesso quando si parla di soggetti intermedi che si muovono nell’area tra Stato e mercato: l’equivoco che si tratti di supplenti di mancanze altrui. Per (quasi) ciascuna delle esperienze raccontate e dei problemi sollevati, si potrebbe contrapporre alla buona volontà cooperativa delle persone intervistate il modello ideale che ha guidato la sinistra nel Novecento: questi bisogni devono tradursi in un progetto politico, e deve essere lo Stato a garantirne la soddisfazione su un piano di parità, universalità, eguaglianza di tutti i cittadini. Deve essere la politica urbanistica a dare le case, disegnare le città ­108

e tutelarne gli spazi comuni; la politica sociale a proteggere chi è travolto dalle tempeste del mercato del lavoro; la politica industriale a evitare che questo accada; la politica sanitaria a dare le cure a tutti; la politica dei comuni a mettere i pannelli solari sui tetti e fare la raccolta differenziata, ecc. Chi scrive viene da una formazione politica e culturale di questo tipo, e non pensa affatto che quest’idea alta della politica sia tramontata. Ma tale idea – in questo momento purtroppo abbastanza lontana dalla realtà italiana – non è in contraddizione con l’esistenza di una società civile organizzata, anzi è necessario che l’una si alimenti dell’altra, purché ciò avvenga in modo indipendente e spontaneo. È presumibile che laddove c’è una comunità organizzata e attiva, ci si organizzerà e attiverà anche per alzare la voce nell’arena pubblica, e pretendere dallo Stato quel che lo Stato può e deve dare: o per lo meno, questo è lo spirito che anima molti dei protagonisti delle storie qui raccolte. Ma è anche possibile, e augurabile, che il coinvolgimento delle comunità dal basso interessate e partecipi possa far arrivare i servizi pubblici laddove adesso non arrivano, o non sono mai arrivati, e alzare la loro qualità sociale. Questo è tanto più vero quando il fallimento dell’a­ zione pubblica statuale è intrinsecamente collegato con problemi interni alla stessa società civile, cioè quando questa tanto civile non è. È interessante quel che sta succedendo tra i gruppi d’acquisto e le forme di consumo critico nel Sud d’Italia (dove sono arrivati molto più tardi che nel resto del paese): meno attenti ai certificati bio e più a quelli antimafia, per dirla con una battuta. Nessuno può negare che la lotta al sistema di criminalità organizzata spetti (spetterebbe) alle istituzioni centrali e locali, in tutte le loro politiche: della giustizia, dell’ordine pubblico e soprattutto della spesa pubblica. Ma è altrettanto difficile negare, per un male talmente incistato nella società italiana, il valore di azioni di denuncia e ribellione concrete provenienti dalla stessa società, come quelle di chi sceglie i prodotti da consumare anche in base al rispetto della lega­109

lità di chi li fornisce, e quelle di chi fornisce un’alternativa concreta di lavoro e sopravvivenza al di fuori del circuito criminale e mafioso. Valorizzazione del capitale delle relazioni, prevalenza della logica del dono e centralità del bene comune: il fatto che queste categorie – che si possono veder correre sottotraccia in molte delle esperienze qui raccontate – abbiano acquistato un’importanza crescente non è dovuto solo alle buone intenzioni che una parte della società civile ci mette dentro. Ma si tratta di un cambiamento collegato a mutamenti strutturali del nostro modo di produrre e di convivere: mutamenti indotti dalla rivoluzione tecnologica, e dal suo impatto sul ciclo produttivo e sul lavoro. La collaborazione di massa in tutti i settori dell’economia della conoscenza ne è l’esempio più chiaro, con l’appropriazione da parte del mondo tradizionale del business delle modalità «rivoluzionarie» dell’open source. Non è però l’unico, in un mondo del lavoro sempre più frammentato e flessibile e allo stesso tempo sempre più recettivo dei benefici dei comportamenti cooperativi. «La grammatica della produzione contemporanea – ha scritto Aldo Bonomi – abbonda di community: open source, professionali, epistemiche, di senso. [...] Il paradosso è che questa produzione sempre più basata su attori ‘singolari plurali’ si afferma negli anni in cui si dissolvono i legami e le appartenenze che per un secolo hanno strutturato le relazioni sociali, le forme di riconoscimento e partecipazione politica e azione collettiva». Ma se è la stessa produzione che ha bisogno del «noi», non è affatto detto che il «noi» si organizzi e manifesti solo in relazione alla centralità della produzione. Soprattutto quando le motivazioni dei soggetti individuali e sociali che animano le nuove comunità fanno riferimento non ad interessi individuali ma a idee e valori condivisi.

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Per saperne di più www.altreconomia.it: Rivista on line, fatti, commenti e inchieste sulle pratiche dell’altra economia www.benecomune.net: Rivista on line, promossa dalle Acli, con articoli e commenti sul concetto e la tutela del bene comune www.bilancidigiustizia.it: Bilanci di giustizia, campagna dei Beati costruttori di pace www.cambieresti.it: Associazione per la ricerca di nuovi modelli di consumi, ambiente, risparmio energetico e stili di vita www.carta.org: Sito di informazione dei Cantieri sociali www.cnms.it: Sito del Centro nuovo modello di sviluppo www.eddyburg.it: Portale di informazione, analisi e dibattito di urbanistica e politica www.faircoop.it: Società cooperativa di consulenza, formazione su economie solidali, comunicazione sociale e cooperazione internazionale nova.ilsole24ore.com: Settimanale di innovazione e tecnologia del «Sole 24 Ore» www.sbilanciamoci.info: Rivista on line di analisi e discussione sull’economia «come è e come può essere», per la promozione del pensiero critico e delle alternative economiche www.sbilanciamoci.org: Campagna promossa da una rete di 47 organizzazioni della società civile, attiva dal ’99. Produce annualmente una controfinanziaria ­115

www.stiglitz-sen-fitoussi.fr/en/index.htm: Il rapporto della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi su Pil e misurazione del benessere sociale www.unacitta.it/newsite: Sito di «Una città», mensile di interviste su politica, società e buone pratiche www.valori.it: Sito di «Valori», mensile di economia, finanza etica e sostenibilità, promosso da Banca Etica www.vita.it: Sito di «Vita», settimanale del non profit, nato nel ’94 www.wired.it: Edizione italiana del mensile «Wired», notizie dal mondo di internet e della tecnologia.

Capitolo 1 www.addiopizzo.org: Sito del comitato Addio pizzo, prima realtà di consumo critico antimafia www.altromercato.it: Sito del commercio equo e solidale www.astorflex.it: Sito di Astorflex, calzaturificio che produce una linea per i gruppi d’acquisto www.autocostruzionesolare.it: Progetti e consigli per l’autocostruzione solare www.biocaseificiotomasoni.it: Sito del biocaseificio «salvato» dai Gas www.energiacomune.org/il-gas: Gruppi d’acquisto solare, promossi da Legambiente e Achab group www.legallinefelici.it: Consorzio di agricoltori biologici siciliani www.libera.it: Associazione contro le mafie, fondata nel ’95 www.lisolachece.org: Rete di economia solidale di Como www.retegas.org/index.php?module=pagesetter&func= viewpub&tid=2&pid=18: Associazione dei Gas per la promozione del risparmio energetico e l’acquisto di energia verde www.roadsharing.com: Un esempio di piattaforma per mettere in comune auto e bici www.sbarcogas.org/: Rete dei Gas siciliani www.siqillyah.it: Il portale siciliano delle «economie diverse» www.slowfood.it: Sito dell’associazione attiva dall’86: buon ­116

cibo, promozione della biodiversità, nuovo modello di agricoltura www.solarecollettivo.it/: Associazione per la promozione e il finanziamento di progetti di produzione alternativa di energia www.terrafutura.it: Mostra-convegno su pratiche e prodotti del mondo dell’economia solidale e sostenibile, si svolge annualmente dal 2004 www.terramadre.it: Promossa da Slow Food, rete delle comunità del cibo www.zoes.it: Piattaforma informatica per il consumo critico Siti di riferimento per i gruppi d’acquisto solidale e loro reti e distretti www.economia-solidale.org www.retegas.org www.retecosol.org

Capitolo 2 www.altracitta.org: Giornale di periferia, nasce nel laboratorio di giornalismo partecipativo della comunità delle Piagge di Firenze www.arcipelagoscec.org: Associazione che riunisce gli esperimenti di moneta complementare (Buoni Locali) in Italia www.bancaetica.com: Banca Popolare Etica, istituita nel ’94 per iniziativa di organizzazioni del terzo settore, del volontariato e della cooperazione internazionale www.finansol.it: Sito e blog per la promozione della finanza solidale (al suo interno si trova la mappa delle realtà di finanza alternativa in Italia) www.fondoetico.blogspot.com: Fondo etico della comunità delle Piagge di Firenze www.mag6.it: Mutua di autogestione finanziaria di Reggio Emilia www.magfirenze.it: Mutua di autogestione finanziaria di Firenze, in costruzione www.magroma.it: Mutua di autogestione finanziaria di Roma ­117

www.prestiamoci.it: Network per i prestiti tra persone, fa capo ad Agata Spa

Capitolo 3 eva.pescomaggiore.org: Sito dell’eco-villaggio autocostruito di Pescomaggiore (L’Aquila) www.autorecupero.org: Sito per promuovere e organizzare l’autorecupero di immobili in comunità www.cohousing.it: Società di servizi di Milano, per la promozione di community della coabitazione, in proprietà o in affitto www.darcasa.org: Cooperativa di abitazione milanese, per affitti a canoni accessibili a stranieri e italiani Associazioni non profit di promozione del «cohousing» associazioni.comune.fe.it/index.phtml?id=2043 (Solidaria Ferrara) www.ciohousing.it (Faenza) www.coabitanza.org (Veneto) www.coabitare.org (Torino) www.cohousingbologna.org www.cohousingitalia.it www.cohousingintoscana.it (Firenze) www.cohousingnumerozero.org (Torino) www.comunitaefamiglia.org (Firenze) www.des.varese.it/index.php?option=com_content&view= section&layout=blog&id=15&Itemid=80 (Varese) www.ecoabitare.org (Roma) www.kuraj.org (Reggio Emilia) www.lisolachece.org/index.php?option=com_content&task =blogcategory&id=73&Itemid=387 (Como) www.retecohousing.org

Capitolo 4 www.cittadellaltraeconomia.org: Sito della Città dell’Altra Economia, Roma ­118

www.consorziocgm.org: Consorzio Gino Mattarelli, la maggiore rete italiana di imprese sociali www.edc-online.org: Portale dell’Economia di Comunione the-hub.net: Portale del progetto «The Hub», coworking per l’innovazione sociale. Il sito di «The Hub Milano» è: http://milan.the-hub.net/public/ www.loppiano.it: Cittadella internazionale del movimenti dei Focolari www.unbreakfast.it: Sito dell’associazione Un-Break-Fast www.welfareitalia.com: Marchio fondato da Cgm, per una rete di poliambulatori e servizi odontoiatrici a prezzi accessibili Alcune imprese nate nell’incubatore «The Hub» beunpackaged.com: Commercio senza carta e imballaggi www.bestup.it: Promozione di design «bello e sostenibile» www.formulazero.nl: Corse in auto a emissioni zero www.urbanbm.it: Consegne urbane su due ruote

Capitolo 5 www.arduino.cc: Il primo hardware in open source, Ivrea www.binarioetico.org: Impresa sociale per l’informatica sostenibile www.creativecommons.it: Sito italiano delle licenze creative commons, che offrono diverse articolazioni di diritti d’autore a chi desideri condividere in maniera ampia la propria opera secondo il modello «alcuni diritti riservati» www.gnu.org: Sito del progetto «Gnu» per lo sviluppo del software libero www.isf-roma.org: Associazione Ingegneria senza frontiere www.linuxday.it: L’appuntamento annuale della community di programmatori e utenti attivi di Linux in Italia. I Linux user group citati sono: www.sabazialug.org, www.ls-lug.org www.wikimedia.org: Organizzazione internazionale non profit il cui scopo è la promozione della crescita, sviluppo e distribuzione di contenuti liberi in tutte le lingue del mondo

www.wikipedia.org: Enciclopedia libera nata nel 2001, scritta in collaborazione di massa Alcuni siti italiani per il finanziamento dal basso di opere della conoscenza www.dig-it.it www.produzionidalbasso.com www.spotus.it Piattaforme per la trasparenza delle istituzioni e la promozione della partecipazione on line www.openparlamento.it parlamento.openpolis.it softwarelibero.it: Associazione italiana per il software libero www.zoes.it: Piattaforma informatica per il consumo critico

Indice



Introduzione

v

1. Consumo

3

Arance allegre, p. 3 - Dal gruppo al distretto, p. 7 Al mercato del sole, p. 10 - Salutisti e contestatori, p. 15 - La spesa antimafia, p. 17 - Legalità nel piatto, p. 20 - Nuova cucina organizzata, p. 23

2. Soldi

25

Yunus alle Piagge, p. 25 - Buona finanza, p. 31 Scudo e fragoline, p. 36 - Soldi in rete, p. 40

3. Case

44

Eva sul cratere, p. 44 - «Cohousing», vicini per casa, p. 52 - Comuni per le comuni, p. 59 - Dar casa, p. 62

4. Imprese

67

Creativi all’«Hub», p. 67 - Impresa e comunione, p. 73 - Cooperative e welfare, p. 80 - Fuori dall’impresa, p. 82

5. Rete

90

Binario etico, p. 90 - Maestri di software, p. 93 L’hardware regalato, p. 97 - Dono e mercato, p. 99

­121



Conclusioni

105



Bibliografia

111



Sitografia

115