La follia che è anche in noi 9788858431771

La fenomenologia ha portato a considerare la psichiatria finalmente non solo come una scienza naturale, ma anche come un

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La follia che è anche in noi
 9788858431771

Table of contents :
Indice......Page 99
Frontespizio......Page 2
Il Libro......Page 95
L'autore......Page 96
Introduzione La soglia......Page 4
Le scansioni tematiche della fenomenologia......Page 7
La fenomenologia del colloquio......Page 9
La fenomenologia ancora......Page 10
La fenomenologia delle emozioni......Page 11
La fenomenologia del corpo......Page 12
La fenomenologia dello spazio......Page 13
Gli orizzonti......Page 14
Il pozzo del passato......Page 16
Il manicomio di Milano......Page 17
La Clinica ancora......Page 18
La svolta......Page 19
Elena......Page 20
Le allucinazioni......Page 21
Il manicomio di Novara......Page 22
Una parentesi......Page 23
Fonti di dolore......Page 24
La follia femminile......Page 25
La poesia di Margherita......Page 26
La direzione......Page 28
L'anno della riforma......Page 29
Noi siamo un colloquio......Page 30
La montagna incantata?......Page 31
Nietzsche......Page 32
La vita interiore......Page 33
Le fragili ragioni del cuore......Page 34
Le ombre......Page 35
La contenzione......Page 36
L’aggressività......Page 38
La psichiatria gentile......Page 39
Risonanze......Page 40
Una diversa psichiatria......Page 41
Gli uomini non sono oggetti......Page 43
La psichiatria di oggi: l’inizio......Page 44
L’immagine sociale......Page 45
Le direzioni sanitarie......Page 46
Il modo di fare psichiatria......Page 47
La psichiatria territoriale......Page 49
Dissonanze......Page 50
L’impossibile diviene possibile......Page 51
Le ultime cose......Page 52
Il cuore della riforma......Page 53
Le mete ideali......Page 54
Non dimenticare......Page 55
Le parole in psichiatria......Page 56
Non solo in psichiatria......Page 58
Cristina Campo......Page 59
Ascoltare......Page 60
Le cicatrici......Page 61
La fragilità......Page 62
La comunità di destino......Page 63
I grandi slanci comunitari......Page 65
La follia......Page 66
Le ferite dell’anima......Page 67
Chiara......Page 68
La gentilezza ancora......Page 69
Margherita......Page 71
L’altro mondo......Page 72
Le poesie......Page 73
Cosa dire ora?......Page 77
L’immagine della follia......Page 78
Flashback......Page 81
Il linguaggio del silenzio......Page 82
Il filo rosso delle emozioni......Page 83
La tristezza dell’anima nella poesia......Page 85
La nostalgia......Page 86
La speranza......Page 87
Le risposte......Page 88
Bibliografia......Page 90

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Eugenio Borgna

La follia che è anche in noi

La follia che è anche in noi

Introduzione La soglia

Nell’avviarmi lungo il cammino delle mie forme di vita in psichiatria vorrei ora solo indicarne le linee tematiche: ad una introduzione, che intende fare conoscere con parole le piú semplici possibili cosa sia, o almeno come si possa interpretare, quella che è chiamata psichiatria fenomenologica, e che ha portato alla rivoluzionaria legge italiana di riforma della psichiatria, seguiranno quattro capitoli e alcune riflessioni finali. Inizialmente, dopo una breve riflessione sul significato della rivoluzione psichiatrica, si procede alla ricostruzione di quelle che sono state le strutture portanti della psichiatria del passato, nelle loro connotazioni storiche e soprattutto nelle esperienze che ho potuto fare nella Clinica delle malattie nervose e mentali dell’Università di Milano, nella quale l’insegnamento della psichiatria si intrecciava a quello della neurologia, e poi in un ospedale psichiatrico, in un manicomio, come un tempo si chiamava, quello di Novara. Sono stati anni, nei quali la psichiatria era considerata, e in fondo continua ad esserlo, come l’ultima fra le discipline mediche, e la psichiatria manicomiale (la pregnanza semantica e storica della definizione non consente di cancellarla), consegnata istituzionalmente alla cura della follia, non sapeva essere adeguata ai problemi clinici e a quelli umani della follia. In ogni caso, le mie pagine diranno come nel manicomio di Novara la dignità e la libertà delle pazienti – mi sono sempre occupato della sua parte femminile – non sono state mai incrinate, e anzi sempre rispettate. Ma le mie pagine diranno ancora come l’incontro con la follia mi abbia consentito di riconoscerne la fragilità e la debolezza, la sensibilità e la gentilezza, il dolore dell’anima e la indifesa rassegnazione alla noncuranza e alla indifferenza delle persone normali che non di rado sono portatrici di consapevole, o inconsapevole, violenza. La follia femminile ha in sé sue connotazioni emozionali e psicopatologiche, come ci dicono fra l’altro le celebri descrizioni della follia di Ellen West e di Suzanne Urban, di Ilse e di Lola Voss, consegnate per sempre alla storia della psichiatria da Ludwig Binswanger, il celebre psichiatra svizzero, al quale si deve la rifondazione fenomenologica e umana della psichiatria; e questo fa parte, benché ignorata e dimenticata, della

psichiatria del passato. In seguito l’indagine è incentrata sui cambiamenti radicali conseguiti alla legge di riforma del 1978 che ha portato alla chiusura dei manicomi, alla costituzione dei servizi ospedalieri di psichiatria, accanto alle altre specialità mediche, alla apertura di comunità residenziali e alla articolazione della assistenza psichiatrica nel territorio con una rete di ambulatori che consentono di seguire i pazienti, nei casi di emergenza, nella propria abitazione. Nelle pagine dedicate a questa seconda tranche del mio discorso mi sono confrontato con gli inimmaginabili cambiamenti nel metodo e nella cura in psichiatria conseguenti alla rivoluzionaria testimonianza teorica e pratica sancita da Franco Basaglia che ha dimostrato, è una sua bellissima immagine, come l’impossibile possa divenire possibile. Ci sono ancora défaillances nello svolgimento della psichiatria italiana di oggi ma in ogni caso nulla di confrontabile con quella che era la condizione umanamente intollerabile dei manicomi italiani, anche se non di tutti, e in particolare non di quello femminile di Novara. E la psichiatria del futuro? Che sia una psichiatria che rimuova la precarietà di alcuni modelli di cura nei servizi ospedalieri di psichiatria, che ridia slancio ideale ai contenuti della legge di riforma ancora non completati fino in fondo, che sappia prendere coscienza sempre piú temeraria della importanza delle parole e del silenzio nella articolazione della cura, che tenda, con leopardiana passione della speranza, alla accoglienza della fragilità e della dimensione umana della follia, non dimenticando la bellissima definizione che ne è stata data da Clemens Brentano come la sorella infelice della poesia, e infine una psichiatria dell’ascolto che, senza fare a meno di una rigorosa farmacoterapia, non ignori l’importanza dei contesti psicoterapeutici e socioterapeutici. Non potrei concludere questa parte senza richiamarmi non alla storia clinica ma alla storia della vita di due pazienti dalle quali riemergano i loro stati d’animo, e le loro angosce, la loro stremata fragilità, che ne hanno portata una, dopo vent’anni dall’esordio della malattia, a scegliere la morte volontaria come ultima speranza contro ogni speranza. Queste pagine hanno cercato di indicare le linee tematiche essenziali di quello che vorrebbe essere questo libro, non un testo di psichiatria, che rischia ogni volta di inaridire e di oscurare le fiamme ardenti del dolore, che è l’anima (Schelling la definisce il cielo interiore dell’uomo: come ci dice in un suo bellissimo libro Lionello Sozzi) di ogni umana condizione di sofferenza,

ma l’itinerarium cordis di uno psichiatra alla ricerca insonne e impossibile del mistero della follia. In una lirica di Eugenio Montale, di indicibile dolorosa bellezza, risplende una immagine, quella del male di vivere, nella quale mi sembrano rispecchiarsi le penombre della malinconia e della tristezza, della fragilità e della inquietudine dell’anima, della nostalgia ferita e delle speranze infrante, che sono le tracce visibili e invisibili di quella condizione di vita che chiamiamo con inaudita leggerezza follia: «Spesso il male di vivere ho incontrato: | era il rivo strozzato che gorgoglia, | era l’incartocciarsi della foglia | riarsa, era il cavallo stramazzato». La psichiatria, in ogni caso, non può fare a meno della poesia che l’aiuta a riconoscere la fragilità e l’umanità della follia: della follia mite, e della follia dolorosa.

I.

La rivoluzione in psichiatria

La prima rivoluzione, non solo conoscitiva, ma etica, in psichiatria è stata quella che, agli inizi del secolo scorso, e sulla scia della fenomenologia, ha radicalmente cambiato l’oggetto della psichiatria: non il cervello con le sue disfunzioni, ma la soggettività, la interiorità, dei pazienti: il loro modo di essere nel mondo delle relazioni interpersonali. Rifondare la psichiatria come scienza umana, e non solo come scienza naturale, è stata la grande intuizione di alcuni psichiatri del secolo scorso che si sono alleati alla filosofia, a quella fenomenologica in particolare, nel ricercare e nel riconoscere le sorgenti umane della psichiatria. Ma questa rivoluzione culturale non riusciva nel corso degli anni a radicarsi nei modi concreti di fare psichiatria che continuava a richiamarsi, e a seguirne i modelli teorici e pratici, alla psichiatria somatologica, alla sua riduzione a scienza naturale, a disciplina sostanzialmente assimilabile a quella neurologica. Nella psichiatria manicomiale, quella della esclusione e della negazione di senso nella follia, si realizzavano fino in fondo le ragioni teoriche e pratiche della psichiatria somatologica. Questa concezione della psichiatria trovava, e fra i paesi europei in Italia e in Francia in particolare, i suoi modelli piú rigidi e talora terrificanti di espressione nella creazione di manicomi nei quali la dignità delle persone era quotidianamente sfregiata sulla scia non solo di una desertica incultura psicopatologica ma di una concezione teorica che considerava la sofferenza psichica (la «malattia mentale»: definizione quanto mai straziante e anche scientificamente inquietante) come inguaribile, e in fondo come incurabile. Solo in Italia, solo nella rivoluzione realizzata da Franco Basaglia, e concretatasi nella legge 180 del maggio 1978, la fenomenologia non è rimasta chiusa in laboratori di pensieri e di intuizioni, ed è divenuta sorgente di radicale cambiamento nel modo di curare la sofferenza psichica, e di riguardarla nella sua inalienabile dignità, e nella sua libertà assediata, ma non perduta.

Le scansioni tematiche della fenomenologia.

Le scansioni tematiche della fenomenologia sono state in particolare queste: il rispetto della dignità della sofferenza, la consapevolezza che la follia fa parte della condizione umana, il mettere fra parentesi (l’immagine è di matrice husserliana) la malattia che consente di avvicinarci alla sua essenza, alla sua natura profonda e alla sua palpitante umanità, la importanza radicale della introspezione e della immedesimazione nella comprensione delle esperienze vissute che sono in noi e negli altri, e la decisiva significazione delle relazioni umane nella cura. Sono orientamenti teorici confluiti in una straordinaria trasformazione della psichiatria che, eterogenesi dei fini, in Italia, dove la psichiatria manicomiale aveva avuto dolorosi lasciti di inumanità, è giunta alla riscoperta di ideali che sembravano sconfinare nella utopia, e che hanno condotto invece alla cancellazione dei manicomi. La fenomenologia in psichiatria non è stata nel corso di quasi tutto il Novecento se non una fragile umanissima alternativa alla psichiatria somatologica, giungendo nondimeno a creare testi di una straordinaria significazione psicopatologica e umana, e facendoci riconoscere, non solo nelle esperienze neurotiche, ma in quelle psicotiche, nella follia tout court, forme di vita sigillate dal dolore, certo, ma mai anarchiche, e sempre dotate di senso. A questo riguardo, vorrei ricordare le storie cliniche, cui si è accennato in precedenza, che sono storie della vita di Suzanne Urban e di Ellen West, immerse nei roveti ardenti della schizofrenia, e splendidamente descritte nelle loro metamorfosi esistenziali da Ludwig Binswanger, e quella di una giovane schizofrenica, Elena, magistralmente descritta da Enrico Morselli che è stato il mio predecessore nella direzione dell’ospedale psichiatrico di Novara. Sono storie cliniche che ancora oggi si leggono con stupore nel cuore, conducendoci alla consapevolezza che anche nella schizofrenia, la sfinge della psichiatria, il cammino dell’umano continua doloroso, e dotato di senso. Sono storie cliniche che la fenomenologia ha consentito di analizzare e di descrivere con una radicalità e una profondità vertiginose che ci hanno fatto discendere negli abissi della follia: rivelandone dimensioni emozionali sconvolgenti nella loro sensibilità, nel loro dolore dell’anima, e nella loro umanità. Dalle sconfinate aree della fenomenologia vorrei ora fare riemergere alcune sue componenti che contribuiscano a indicarne il cammino conoscitivo in psichiatria.

La fenomenologia del colloquio. Ci sono parole, che i linguisti chiamano parole-marmellata, o parolevaligia, dai molteplici orizzonti semantici, e «colloquio» è una di queste, nella quale, sulla scia di un celebre verso di Friedrich Hölderlin («Noi siamo un colloquio»), confluiscono altre definizioni come quelle di dialogo, di relazione, di incontro, di immedesimazione, e di altre ancora, tematizzate nel loro insieme dalla partecipazione emozionale e razionale, dall’ascolto, e dalla attenzione che Simone Weil diceva essere una forma di preghiera. Il colloquio, il modo di essere un colloquio, è il lascito che la fenomenologia consegna ad una psichiatria che voglia essere umana e gentile; e di alcuni modelli fenomenologici di colloquio vorrei ora parlare. Il colloquio fenomenologico non si svolge nel deserto e nel vuoto ma nel qui-eora di un tempo e di uno spazio. Le parole cambiano il loro senso nella misura in cui si confrontano con il tempo e lo spazio dell’altro: dal quale le parole ci distanziano, o al quale ci avvicinano. Non solo: il desiderio di solitudine (di lontananza dal mondo e dagli altri) e il desiderio di comunicazione (di vicinanza al mondo e agli altri) si intrecciano l’uno all’altro; e solo la conoscenza emozionale può indicare quando sia l’ora di parlare, e quando sia l’ora di tacere: quando servirsi del linguaggio delle parole, e quando invece di quello del corpo vissuto, del corpo che significa. Nella misura in cui è essenza vivente, all’uomo è possibile in un colloquio con l’altro da sé portare alla luce del linguaggio quello che lo angoscia: lo diceva splendidamente Shakespeare nel Macbeth: date voce al vostro dolore se non volete che il vostro cuore si spezzi. Il lavoro di conoscenza reciproca all’interno di un colloquio terapeutico non avviene in una atmosfera di arida intellettualità ma è legato alle emozioni; e nel corso del colloquio dovrebbe sempre riemergere qualcosa di nuovo. Le emozioni ci inondano, e si ha bisogno di avere fiducia in chi ci cura: senza temere che ci possa essere indifferenza, o noncuranza, nell’ascoltare le nostre debolezze di cui magari abbiamo vergogna, o ci sentiamo colpevoli. Le qualità, che ci si deve attendere da uno psichiatra, sono pazienza, discrezione, calore umano, attitudini alla introspezione e alla immedesimazione, capacità di creare una climax di fiducia e di ascolto

gentile, e di non venire mai meno al rispetto dinanzi alle parole dell’altro. Sono inclinazioni dell’anima, sono modi di essere, di matrice radicalmente fenomenologica, e alla loro conoscenza è chiamato ogni terapeuta, e anzi (direi) ogni medico, che intenda essere in una relazione dialogica con un paziente. Sí, i grandi progressi tecnologici ci fanno dimenticare la grande insostituibile importanza che ha il colloquio, la parola di cui si nutre, non solo in psichiatria ma anche in medicina.

La fenomenologia ancora. La fenomenologia non è nemmeno estranea al modo con cui si prende coscienza del senso, o del nonsenso, della malattia in psichiatria. Consideriamo la malattia nella sua natura radicalmente patologica, o nel suo essere un fenomeno che contraddistingue la condizione umana nella sua fragilità? La percezione, che noi abbiamo della malattia, decide se la relazione terapeutica sia plasmata da vicinanza, o da lontananza, da affinità, o da estraneità, emozionali; e la relazione terapeutica è influenzata dal fatto che ai sintomi si attribuiscano, o non si attribuiscano, orizzonti di senso: cosa alla quale la psichiatria clinica del passato e del presente non consegna alcuna importanza. La fenomenologia non può non guardare alla sofferenza psichica, alle esperienze psicotiche in particolare, se non nella loro fragilità, e nella loro nostalgia di gentilezza umana. Cosí, cosa solo apparentemente banale, o rapsodica, è necessario che ad una paziente o ad un paziente, se vogliamo avere la loro fiducia, non siano fatte domande che possano essere vissute come indagini: come ferite alla loro timidezza; ma è anche necessario considerare quale significato i pazienti diano ai loro deliri, e alle loro allucinazioni. Sono sintomi, questi, di solito facilmente riducibili in misura piú, o meno, radicale dai farmaci neurolettici, e nondimeno la loro cancellazione non è talora consigliabile: quando i pazienti si siano adattati alla presenza di deliri e di allucinazioni, la loro scomparsa fa talora riemergere angosce e inquietudini che possono rinascere improvvisamente, e possono portare al suicidio. Non potrei non concordare, a questo riguardo, con la tesi di uno psichiatra svizzero del secolo scorso: meglio combattere nel delirio con il mondo intero che non essere soli. Constatazioni, certo, che sono

possibili solo nella misura in cui ci si immerga nella vita interiore dei pazienti, alla ricerca dei significati che hanno deliri e allucinazioni.

La fenomenologia delle emozioni. Il pensiero moderno considera le emozioni, le passioni, le intuizioni, come categorie rivelatrici del senso, e del destino. In Giacomo Leopardi questa tesi è radicalmente espressa. «Ma la ragione non è mai efficace come la passione. Sentite i filosofi. Bisogna fare che l’uomo si muova per la ragione, come, anzi piú assai che per la passione, anzi si muova per la sola ragione e dovere. Bubbole»; e allora: «Non bisogna estinguer la passione colla ragione, ma convertir la ragione in passione; fare che il dovere la virtú l’eroismo ec. diventino passioni». Ma infine, la ragione «pura e senza mescolanza» è «fonte immediata e per sua natura di assoluta e necessaria pazzia». Come conoscere, e riconoscere, le emozioni, le passioni (che sono emozioni che persistono nel tempo), che vivono in noi, e quelle che vivono negli altri da noi? Come avviarsi lungo i sentieri che ci portano nei vortici della nostra interiorità? Solo se sappiamo educarci a cogliere qualcosa di quello che si muove nei segreti della nostra interiorità, ci sarà possibile riconoscere la cascata infinita e non di rado inafferrabile delle nostre emozioni; e allora non stanchiamoci di guardare dentro di noi: in questa ricerca continua, a volte faticosa, e a volte angosciante, di quello che noi siamo nelle vaste regioni delle nostre emozioni. Le conosciamo sguscianti e serpeggianti solo se sappiamo vivere in noi la solitudine, e a questo proposito vorrei ricordare le parole di Rainer Maria Rilke: «C’è solo una solitudine, e quella è grande e non è facile a portare»; e ancora: «Questo solo è che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno, – questo si deve poter raggiungere». La fenomenologia in psichiatria ci avvia a cogliere i significati che non si vedono, sono al di là di ogni soglia visibile, si nascondono in noi, e fuori di noi, e senza una ricerca ardente e febbrile dei valori e dei significati, che si animano nella nostra interiorità, la psichiatria non si realizza nelle sue mete, e nel suo destino, che è quello di dare una mano, come diceva Manfred Bleuler, a chi scenda negli abissi della follia. Senza la ricerca di quello che ci unisce,

nonostante ogni differenza, con le figure e le dissolvenze, con i fantasmi e le ombre, con il dolore e la sofferenza, della malinconia e dell’angoscia, non si riesce ad aiutare chi sta male, e nemmeno si riesce a salvaguardare la nostra interiorità che tende a inaridirsi e a spegnersi: strumento di tecnologie esasperate che escludono l’anima dal discorso di cura: quell’anima che si nasconde forse nelle inquietudini del cuore in chi cura, e in chi è curato. I modi di vivere le proprie emozioni si rispecchiano nei modi di essere del corpo: del corpo vivente, del corpo che significa.

La fenomenologia del corpo. La fenomenologia si è da sempre interessata del corpo, non del corpo fisico, del corpo-cosa, del corpo-oggetto, ma del corpo vivente, della mia mano che improvvisamente si ridesta e comunica qualcosa, la mia ansia, o la mia tristezza, la mia gioia, o la mia impazienza, la mia attesa, o la mia speranza. Ma cosa dire del volto e degli sguardi, delle lacrime e del sorriso, modi di esprimersi del corpo vivente, che la fenomenologia, passione delle differenze, ha riscoperto, e ha fatto conoscere nei suoi linguaggi di cosí radicale importanza anche in una diagnosi in psichiatria? Nello svolgimento di queste mie pagine vorrei allora brevemente indicare alcune aree della fenomenologia, stella polare del mio libro, muovendo anche da testimonianze letterarie, e cosí di alcune emblematiche espressioni del corpo vivente, e del volto in particolare, vorrei richiamarmi ad un frammento del bellissimo romanzo La recita di Bolzano di Sándor Márai, il grande scrittore ungherese. Francesca dice a Giacomo: «Ci sono ancora tante, tante maschere fra noi, e dovremmo toglierle una dopo l’altra prima di poter conoscere i nostri veri volti». E prosegue: «Non è un caso che oggi, dopo tanto tempo, ci ritroviamo con la maschera sul volto, quando ciascuno di noi si è finalmente liberato dalla sua prigione e siamo qui l’uno di fronte all’altro, non affrettarti a gettare la maschera, perché sotto ne troveresti un’altra, fatta di ossa, di carne e di pelle, che tuttavia è una maschera proprio come quella di seta»; e infine con una sfolgorante immagine che coglie un modo quotidiano di essere dei nostri volti: «Dovremmo gettare molte altre maschere prima che io possa vedere e conoscere il tuo volto». Questa è fenomenologia che ci dice come noi siamo responsabili del volto degli altri, la celebre affermazione di Emmanuel

Lévinas, ma anche del nostro volto nel quale si rispecchiano, seppure non lo vorremmo, le nostre emozioni.

La fenomenologia del tempo. Il lascito della fenomenologia riguarda anche il modo con cui i pazienti rivivono il tempo, non il tempo delle lancette dell’orologio, il tempo della clessidra, ma il tempo dell’io, il tempo vissuto, che nella malinconia, nelle sue diverse forme di espressione, si modifica profondamente, e non dovremmo mai dimenticarlo. Il tempo si arresta nella sua evoluzione, non ha piú futuro, è invece solo presente e passato, con il conseguente dilagare delle esperienze di colpa, e con il franare della speranza come apertura al futuro, e al cambiamento. Il tempo vissuto si modifica radicalmente anche nella maniacalità nella quale non si vive nel futuro ma non si vive nemmeno nel passato, e si vive solo in un eterno presente che non ha piú senso. Sono modificazioni del tempo vissuto che Eugène Minkowski ha magistralmente analizzato e descritto in uno dei suoi lavori piú importanti. Cosa avviene invece nella schizofrenia che è la malattia psichica piú enigmatica? Il tempo si sbriciola, si scompone e si frantuma, e la percezione dell’io e del mondo ne viene profondamente deformata; e di questo la fenomenologia dà testimonianze alle quali non si dovrebbe rinunciare. Mi vorrei limitare a queste sole considerazioni sul tempo, sulla modificata esperienza del tempo, che si ha nel corso di quelli che sono i disturbi di cui si occupa una psichiatria orientata fenomenologicamente alla ricerca di un senso che dovremmo essere inclini a intravedere nella follia.

La fenomenologia dello spazio. Nello svolgersi delle esperienze psicotiche si ha una percezione dello spazio, e non solo del tempo, diversa da quella nella quale ciascuno di noi vive, e la fenomenologia consente di coglierne le differenze. Non si ha nondimeno a che fare con lo spazio geografico e geometrico, ma con lo spazio vissuto e fonte di significati. Sí, il suo dilatarsi vertiginoso, il suo livellarsi e il suo irrigidirsi, il suo accompagnarsi ad una esperienza

soggettiva di infinitudine, la sua pietrificazione e la sua liquefazione, sono alcuni modi di vivere e di non vivere lo spazio in alcune forme di vita psicotiche. Le figure corporee delle persone e le cose si destituiscono della loro consistenza spaziale, e ne scaturisce un mondo (il mondo interiore e il mondo-ambiente) nel quale dilaga il deserto: il deserto dei tartari. Nel silenzio e nella liquefazione dello spazio si coglie una emblematica immagine dei confini ultimi della sofferenza psichica. Quelli della schizofrenia (una definizione che si vorrebbe cancellare, ma anche oggi difficilmente sostituibile): della sua straziata solitudine. Non ci sono piú in essa luoghi dell’anima a cui ancorarsi in questa estrema dilatazione dello spazio vissuto, scandita dal vuoto, che genera la liquefazione dei confini del corpo.

Gli orizzonti. La fenomenologia, come movimento filosofico, ha contrassegnato nel secolo scorso una psichiatria che ha radicalmente cambiato il suo oggetto di ricerca e di cura, non piú, come nell’Ottocento, il cervello e le sue disfunzioni, ma, come si diceva, la soggettività, la interiorità dei pazienti, il loro sconfinato mondo delle emozioni, e il loro modo di essere negli intrecci delle loro relazioni sociali. Sono stati Ludwig Binswanger e Karl Jaspers a costruire le fondazioni della psichiatria fenomenologica che, fra le altre cose, ha condotto alla umanizzazione delle modalità di assistenza e di cura in psichiatria. Negli ultimi decenni del secolo scorso la psichiatria fenomenologica è stata a mano a mano sempre piú emarginata dalla psichiatria farmacologica, da una parte, e dalla psichiatria descrittiva e ateoretica del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi psichici (noto con la sigla DSM, che rimanda al suo titolo in lingua inglese Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders), dall’altra. La psichiatria fenomenologica sarebbe scomparsa se negli ultimi decenni del secolo scorso non fosse stata rivitalizzata dall’opera di Franco Basaglia che l’ha sottratta alle sue fondazioni teoriche, e l’ha riconvertita in una psichiatria che si è fatta prassi rivoluzionaria; ma questo senza perderne nondimeno l’anima fenomenologica che ne ha dilatati i significati. Nel corso di queste mie considerazioni sono andato alla ricerca di quello che è ancora vivo della fenomenologia, e di quello che di essa una psichiatria

umana e gentile non dovrebbe mai fare a meno. La fenomenologia, alla quale vorrei richiamarmi nel corso del libro, è quella ancorata alla conoscenza intuitiva ed emozionale delle esperienze vissute che, malate e sane, si rispecchiano elettivamente nei bellissimi lavori di Eugène Minkowski.

II.

La psichiatria di ieri

In questo mio lavoro vorrei svolgere alcune considerazioni sulla mia vita nelle stagioni in cui si è incontrata con la cifra enigmatica e dolorosa della psichiatria: dell’angoscia e della tristezza, della indicibile sofferenza e delle speranze ferite, che fanno parte della psichiatria, e che, al di là di ogni altra possibile connotazione, la costituiscono nelle sue ultime radici: nella sua grandezza, e nella sua precarietà. L’immagine, che oggi si ha della psichiatria, non è piú quella di un passato lontano e vicino, al tempo stesso, nel quale era considerata come una disciplina che si occupava solo di «malattie mentali», e della quale non si voleva nemmeno sentire parlare. Se ci si lamentava di problemi psichici, si chiedeva aiuto alla neurologia, cosa che ancora oggi avviene, ma in ogni caso non con la frequenza di un tempo, e solo una élite sapeva fare riferimento a indirizzi psicodinamici di cura. Questa, in ogni caso, l’anticlimax culturale e sociale che contrassegnava la psichiatria di ieri, e nella quale naufragavano i medici che sceglievano la psichiatria come loro campo di vita e di lavoro.

Il pozzo del passato. Nel mio cammino alla ricerca del passato, del tempo perduto, non potrei dimenticare quello che del passato ha scritto Thomas Mann nella pagina iniziale del suo romanzo piú complesso e insondabile, ai confini della leggibilità, che è Giuseppe e i suoi fratelli. «Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo imperscrutabile? Imperscrutabile anche, e forse allora piú che mai, quando si discute e ci si interroga sul passato dell’uomo, e di lui solo: di questo essere enigmatico che racchiude in sé la nostra esistenza per natura orientata al piacere ma oltre natura misera e dolorosa, e il cui mistero, come è comprensibile, forma l’alfa e l’omega di tutti i nostri discorsi e di tutte le nostre domande, dà fuoco e tensione a ogni nostra parola, urgenza a ogni nostro problema». Il mio passato non ha ovviamente nulla a che fare con gli abissi di un

passato come questo evocato da Thomas Mann, e nondimeno nel passato di ciascuno di noi quante cose sono, e continuano ad essere, misteriose e imperscrutabili, ma in ogni caso il mio sguardo non si rivolge ora se non al mio passato tematizzato dalla scelta di una professione ricolma di luci e di ombre, di attese e di speranze, di vocazioni e di contraddizioni, come è quella della psichiatria.

La Clinica universitaria di Milano. Conoscenze vaghe avevo della psichiatria se non quelle che facevano parte, una parte subalterna, dei testi di neurologia: questa, sí, materia fondamentale nel corso di studi universitari in Medicina e chirurgia; e la psichiatria ho poi incontrato quando, dopo la laurea conseguita nella Università di Torino, mi iscrivevo alla scuola di specializzazione in Neurologia nella Clinica delle malattie nervose e mentali della Università di Milano: quella in Psichiatria sarebbe stata possibile solo dopo alcuni anni. La neurologia era in fondo quella parte della medicina che meno si allontanava dalle mie inclinazioni a interessarmi (anche) di letteratura, e di filosofia, e nella Clinica di Milano alcuni letti erano assegnati a malati con disturbi psichici: non psicotici ma neurotici. L’orientamento della Clinica era in ogni caso radicalmente neurologico, e nondimeno contrassegnato da sensibilità umana, e da attenzione ai problemi psicologici dei malati. Il direttore della Clinica, Carlo Riquier, e poi Gildo Gastaldi, e in particolare i due aiuti, Carlo Lorenzo Cazzullo e Italo Sanguineti, seguivano noi specializzandi con gentilezza e con passione, e il loro insegnamento ha fatto parte della mia vita: mi sono stati maestri di cultura e umanità.

Il manicomio di Milano. Non avrei nondimeno potuto conoscere la psichiatria, la grande psichiatria, se, da uno degli aiuti della Clinica, Carlo Lorenzo Cazzullo, che mi ha insegnato in particolare la passione e il rigore della ricerca scientifica, l’apertura all’umano e il primato dell’etica nelle scienze, non fossi stato incaricato di studiare l’azione terapeutica degli psicofarmaci, scoperti in

quegli anni cruciali, sulle forme di vita psicotica, in un ospedale psichiatrico di Milano, considerato il piú aggiornato degli sterminati manicomi della città. Quale sconvolgente immagine di inumanità e di glaciale indifferenza ai valori della dignità e della umana sensibilità ne scaturiva, e non si cancellava piú. Certo, essendo stato mandato dalla Clinica, potevo leggere le cartelle cliniche, che nella loro inconsistenza nulla dicevano degli stati d’animo dei pazienti, e potevo parlare con loro analizzandone e descrivendone le emozioni lacerate dal dolore, e dalla disperazione, dalla nostalgia e dalla solitudine dell’anima, giungendo infine a raccogliere le mie ricerche in un lavoro monografico incentrato sugli aspetti clinici e terapeutici, ma anche psicopatologici e fenomenologici, della sofferenza psichica: dando voce alla follia, e facendola riemergere nella sua autenticità, e nella sua umanità, che le condizioni ambientali non riuscivano a cancellare. Nell’ascoltare i pazienti, nel rimanere accanto a loro senza ovviamente guardare l’orologio, quanta angoscia e quanta sofferenza, quanta tristezza e quanta disperazione, quanta solitudine e quanta nostalgia di una parola e di un gesto, che non giungevano mai, e quanta gentilezza dell’anima nei loro volti e nei loro sguardi attoniti, e sfiniti dal dolore. La cosa piú sconvolgente, ancora oggi radicata nella mia memoria, è stata quella di essere stato chiamato ad assistere a sedute di elettroshock che continuavano ad essere terapia di elezione non solo delle depressioni, ma anche delle schizofrenie (cosa che ancora oggi avviene sia in cliniche universitarie sia in case di cura private: in anestesia nondimeno). In una sala agghiacciante nella sua ampiezza, non so quante pazienti, e quanti pazienti, le une accanto agli altri, le une dopo gli altri, le une osservavano le crisi convulsive degli altri, nella gelida e futile indifferenza dei medici che si alternavano nel praticare gli elettroshock. Immaginare la fragilità e la delicatezza, la sensibilità e la vulnerabilità, la spaurita rassegnazione e lo smarrimento, dei pazienti, stringeva il cuore, e mi chiedevo se questa fosse ancora psichiatria.

La Clinica ancora. Cosa era mai la follia, agli occhi degli psichiatri che lavoravano in questo manicomio, se non anarchia e insensatezza, malessere biologico e isolamento, impenetrabili ad ogni sollecitazione ambientale, con la conseguente inutilità

di ogni dialogo, e di ogni relazione? In ogni caso, concluse le mie ricerche, e presa coscienza della miseria della psichiatria, e della umana sensibilità della follia, rientravo in Clinica, e a mano a mano si allontanavano dalla memoria ferita le angoscianti disperate immagini della vita manicomiale: della infinita sofferenza dei pazienti, e delle glaciali indifferenze di chi li curava. Mi occupavo ancora di neurologia, la piú rigorosa e la piú matematica delle discipline mediche, scrivendo lavori, anche in collaborazione con l’Istituto di anatomia patologica, i piú lontani dalla psichiatria, che mi consentivano nondimeno di avere una formazione neurobiologica necessaria, fra l’altro, alla diagnosi differenziale, non sempre facile, fra disturbi psichici e disturbi neurologici. Ma, nello stesso tempo, leggevo i grandi libri di psichiatria, e di psicopatologia che è l’anima della psichiatria, di lingua tedesca, e i pochissimi testi di lingua italiana che davvero meritavano di essere letti, e studiati: quelli di Ferdinando Barison, di Franco Basaglia, di Bruno Callieri, di Danilo Cargnello, e di Enrico Morselli. Non c’erano altre cose da leggere in Italia se non i bellissimi romanzi di Mario Tobino che della follia descrivevano con parole liriche e commosse gli aspetti dolorosi e strazianti, e anche quelli creativi e umani. Gli anni di clinica e di studio si snodavano in una climax di esperienze pratiche e di conoscenze teoriche, e nel 1962, a trentadue anni, conseguivo la libera docenza in Clinica delle malattie nervose e mentali, e avrei potuto avviarmi lungo il cammino, non facile, della carriera universitaria, ma le scelte di vita non sono sempre programmabili.

La svolta. L’esperienza dolorosa e lacerante del manicomio di Milano mi aveva fatto conoscere la miseria della psichiatria, e la grandezza umana della follia (in quegli anni «Esprit», la rivista fondata da Emmanuel Mounier, dedicava uno dei suoi bellissimi fascicoli alla grandezza e alla miseria della psichiatria), e cosí, sapendo di un concorso di primariato di Psichiatria nel manicomio di Novara, sono stato tentato di prenderne parte: una sfida temeraria e ai confini dell’impossibile. Lo dirigeva dal 1935 (lo ha diretto fino al 1970) Enrico Morselli: giungeva a Novara dalla Clinica universitaria delle malattie nervose e mentali di Milano, seguendo un cammino che

avrebbe potuto essere il mio. Conosciuto in tutta Europa, e anche negli Stati Uniti, Morselli era autore di bellissimi lavori, ancora oggi attuali, splendidamente scritti in italiano e in francese, e di una grande e sconvolgente originalità, sulla schizofrenia e sulla tossicomania mescalinica, sulle relazioni fra esperienze letterarie e artistiche, ed esperienze psicotiche, sulla psichiatria come scienza umana, e non solo come scienza naturale. Sono andato un giorno, prima della scelta definitiva, nel suo studio a Novara, e in una sala immensa, che alle pareti aveva belle riproduzioni di celebri quadri, Morselli mi accoglieva, un grande cane accucciato ai suoi piedi, molto alto e magrissimo, sorridendomi, e la sua passione della speranza, la sua chiamata ad una psichiatria umana e gentile risplendeva nelle sue parole, talora fragili, nei suoi occhi e nei suoi sguardi. Non si poteva non essere affascinati dalla sua cultura, dalla sua spontaneità e anche dalla sua timidezza che rinasceva in particolare quando doveva parlare in pubblico. Modo di essere e modo di scrivere in misteriosa concordanza.

Elena. Il suo lavoro piú bello e di incandescente tensione emozionale, uscito nel 1930, che si legge ancora oggi con il cuore in gola, si incentra sulla esperienza schizofrenica di Elena, come ricordavo, una pianista italiana di venticinque anni, che è stata ricoverata nella Clinica neuropsichiatrica della Università di Milano (dal maggio 1925 al luglio 1927), e che nel corso della dissociazione si esprimeva ora in lingua italiana ora in lingua francese. Le esperienze vissute di Elena sono descritte nella loro pulsante ragione d’essere, e nelle loro sequenze di vita normale e di vita patologica: l’una intrecciata all’altra. Nella condizione francese i sintomi crescevano, e inducevano la perdita di ogni contatto con la realtà, mentre in quella italiana i sintomi decrescevano, e migliorava la consonanza con l’ambiente. L’altro mondo della follia riemergeva con emblematica risonanza semantica dall’ascolto delle parole trasognate e arcane, luminose e straziate, patologiche e non estranee alla vita di ciascuno di noi. Un paziente non è una «cosa», non è un «organo» malato, ma una persona con la sua vita interiore, con la sua angoscia e con la sua sofferenza, con la sua originalità e con la sua nostalgia di dialogo. Questa è l’autentica dimensione esistenziale, che include e

trascende quella sintomatologica, della schizofrenia, quando sia analizzata con la capacità di ascolto e con la intuizione di Morselli. Dal suo lavoro rinasce (anche) la radicale importanza che ha in psichiatria il linguaggio, e solo un linguaggio alato e rigoroso, metaforico e a volte lirico, riesce a dare di Elena una immagine che un altro linguaggio avrebbe inaridito, e disseccato. Da questo diario incandescente riemerge la figura di una paziente, dei suoi vissuti e del suo mondo, delle sue inquietudini dell’anima e della sua disperazione. Non posso non dire che Enrico Morselli ha saputo mettere in evidenza l’umana significazione della malattia in psichiatria, quando, e non solo negli anni in cui descriveva la condizione clinica di Elena, la psichiatria italiana era ricondotta ad una glaciale ragione d’essere positivistica. Questo è stato un suo merito storicamente indimenticabile che si accompagna a quello di avere dimostrato come, nella schizofrenia, la vita continua a testimoniare della sua grandezza ferita e lacerata, e dotata di senso. Ma egli ha anche dimostrato la possibilità di una cura, di una cura come dialogo, che ci avvicina agli abissi di dolore e di angoscia, in cui si vive nella schizofrenia; e allora non c’erano ancora farmaci antipsicotici.

Le allucinazioni. Dal diario clinico di Morselli vorrei stralciare alcune sue considerazioni sulle allucinazioni della paziente. «Elena assiste con critica e lucidità ottime a tali fenomeni di perturbamento allucinatorio (anche tattile e cenestesico; vede piccoli ragni, animaletti rampicanti); il soffitto si apre, “ecco la morte!” si sente toccare, avvolgere misteriosamente, tiene gli occhi chiusi illudendosi di non vedere. Eccitabilissima, le sensazioni piú strane la invadono; il minimo rumore genera reazioni violente, non riconosce piú la sua né la mia voce, si disorienta nella stanza. Dice che “quella sera” le pare di essere stata cosí… e che non parla francese, non le viene da parlare francese… Lo stato della coscienza non pare alterato; ricorda (in qualche attimo di tregua) tutto ciò che nella giornata è avvenuto». Quando Morselli le chiedeva quale fosse la vera Elena, si sentiva rispondere che era vera sia quella che parlava italiano sia quella che parlava francese. Certo, se questa fosse stata la psichiatria italiana, se questo fosse stato il modo con cui gli psichiatri italiani, almeno in parte, ascoltavano i pazienti, e con loro rivivevano deliri e allucinazioni, angoscia e

dolore dell’anima, i manicomi italiani non sarebbero stati i non-luoghi che sono stati.

Il manicomio di Novara. Cosí, un anno dopo il conseguimento della libera docenza, entravo nel manicomio di Novara: come primario nel 1963, e come direttore nel 1970, e questo fino al 1978, quando la legge 180 deliberava la chiusura dei manicomi, e divenivo allora primario del Servizio di psichiatria nell’Ospedale maggiore di Novara. I reparti femminili del manicomio, in cui si è svolto il mio lavoro, nel 1970 si costituivano come il secondo ospedale psichiatrico di Novara, distinto da quello maschile, e con una sua autonoma direzione. In un tardo pomeriggio di autunno del 1963 mi incamminavo lungo i viali silenziosi e attoniti del manicomio di Novara immerso nel verde dei prati, e nel canto infinito dei passeri solitari. L’immensa costruzione si stagliava misteriosa, nello sfondo scarlatto del cielo, in tre piani che avevano finestre sbarrate dalle quali si intravedevano i volti e gli sguardi di pazienti che da lungo tempo erano in manicomio. Le sbarre rimanevano immobili e crudeli, le finestre scheggiate continuavano ad essere silenziose e vuote, ma improvvisamente i volti e gli sguardi delle pazienti si illuminavano, e sembravano cancellare la prigionia di quelle sbarre e di quelle finestre. Mi è subito sembrato di entrare in un altro mondo, in un mondo sigillato dal dolore, dal silenzio e dalla solitudine, lontano dalla distrazione e dalle banalità quotidiane. Da allora fiumi di esperienza hanno segnato la mia vita, lasciando dietro di sé braci incenerite, ma le emozioni provate nel mio inquieto entrare nel mondo sconosciuto della follia non si sono mai piú inaridite nel loro vortice incontaminato. Quando poi mi sono avviato lungo i corridoi e le stanze del manicomio, sono stato subito colpito dalla fragilità e dalla gentilezza, dalla timidezza e dalla sensibilità, delle pazienti. Mi sono sempre occupato dei reparti femminili, e in questi non c’era nulla della glaciale indifferenza, e delle terrificanti applicazioni di elettroshock, che avevo conosciuto nel manicomio di Milano. Le porte erano chiuse, alcune pazienti erano contenute, quelle lungodegenti vivevano in condizioni ambientali molto diverse da quelle delle pazienti con degenze brevi, ma si respirava una climax emozionale di ascolto

e di non violenza: sorelle religiose e infermiere si accostavano alle pazienti con gentilezza e umanità, come facevano i medici. Le terapie erano farmacologiche, e non si ricorreva a elettroshock.

Una parentesi. Insomma, non tutti i manicomi italiani erano come quelli di Milano, lo vorrei dire subito, e nondimeno si continua ancora oggi a pensare e a dire questo. Nel manicomio di Novara, anche quando è stato diretto da Enrico Morselli, in anni nei quali si sosteneva l’origine biologica della sofferenza psichica, e la inutilità di ogni cura che non fosse terapia di shock, mai sono avvenute cose come quelle avvenute nel manicomio di Sant’Antonio Abate di Teramo nel quale venivano ricoverate donne ribelli, e libere nei loro comportamenti, come ha ricordato Paolo Mieli sul «Corriere della Sera» del 12 dicembre 2017, recensendo un libro di Annacarla Valeriano. Queste le sue parole: «Quasi sempre la diagnosi di “comportamento quanto mai strano e dovuto senza dubbio a squilibrio mentale” (o cose del genere) era sufficiente per rinchiudere molte di queste povere persone in pubblici lager per malate di mente. Sul finire degli anni Sessanta alcune giovani erano state ricoverate a forza con l’accusa di essersi allontanate da casa e dal lavoro “per unirsi con i capelloni” o perché erano andate “nelle bettole a fare l’amore”. Qualcosa del genere si prolungò ancora per anni e anni. Praticamente fino al 13 maggio del 1978, quando fu approvata la cosiddetta legge Basaglia. Incredibile». Ovviamente, non si possono contestare osservazioni, come queste, fondate sulle cartelle cliniche del manicomio di Teramo, ma nemmeno si possono generalizzare. A Novara, ancora prima che giungessi dalla Clinica universitaria di Milano, nulla c’era di nemmeno lontanamente paragonabile alle cose descritte; e allora non è giusto parlare dell’uso degli ospedali psichiatrici come strumento per colpire «i comportamenti femminili ritenuti trasgressivi». Nel manicomio di Novara, negli anni fatali della guerra, erano state ricoverate, questo sí, persone ebree che nulla avevano di patologico, ma che sono state da Morselli salvate dalla persecuzione e dalla morte possibile; e, nel fare questo, egli incorreva in grandi pericoli personali. Non posso non ricordare questi fatti che mi consentono di dire che non in tutti i manicomi, e

non certo in quello di Novara (ho già parlato della cultura e della gentilezza, della timidezza e della passione della speranza, della sensibilità e della fragilità, di Enrico Morselli, che mai avrebbe tollerato una qualsiasi forma di violenza), si seguivano criteri di ricovero come sono stati quelli di Teramo: inimmaginabili nella loro insensatezza e nella loro indiscriminata assurda e inutile violenza. Non posso non dire queste cose: lo sento come un dovere nei confronti di un direttore di manicomio, grande maestro di umanità e di psichiatria, anche se oggi crudelmente ignorato e dimenticato. Il suo saggio su Elena, la giovane schizofrenica, che egli ha avuto in cura, è di una indicibile bellezza, anche estetica, e dovrebbe essere letto e studiato non solo da ogni psichiatra ma da ogni persona che voglia conoscere qualcosa delle fondazioni emozionali della schizofrenia. Vorrei ora ritornare alla mia vita in manicomio dal momento in cui ne ho oltrepassata la soglia, e mi sono immerso nei laghi oscuri di dolore, di angoscia, e anche di speranza.

Fonti di dolore. Mi erano state affidate le pazienti che entravano in manicomio per la prima volta, o che rientravano, con disturbi ad insorgenza acuta, e non quelle da tempo ricoverate, e chiamate, con una infelice definizione, «croniche», delle quali mi sono occupato solo quando, nel 1970, sono divenuto direttore del manicomio femminile, e ho potuto allora, con l’aiuto di giovani psichiatri che venivano dalla Clinica psichiatrica della Università di Milano, a sua volta divenuta autonoma dalla Clinica delle malattie nervose e mentali, trasformare i modelli di assistenza e di cura di tutte le pazienti, e non solo di quelle acute. Le cartelle cliniche, le nostre e quelle a suo tempo scritte da Morselli, descrivevano non solo i comportamenti delle pazienti, ma la storia della loro vita, le loro emozioni, i loro stati d’animo, le loro angosce e le loro nostalgie, le loro illusioni infrante e le loro speranze ferite, e non avevano nulla a che fare con le cartelle cliniche aride e insignificanti, dei manicomi che non avevano tracce di umanità, e nemmeno di rigore scientifico e di cultura. In un manicomio, nel quale si cercava di vivere la psichiatria con sincera partecipazione alle fonti di dolore, che è il nocciolo tematico della follia, si poteva fare una psichiatria animata dal dialogo, e dalla ricerca di parole e di

gesti incentrati sulla apertura alla speranza come ascolto dell’infinito.

Una breve stagione. In ogni caso, la psichiatria manicomiale poteva essere anche questo: una segreta e (quasi) invisibile sorgente di umanità e di gentilezza, di ascolto e di silenzio del cuore, di comunità di cura e talora di comunità di destino; ed è stata una breve stagione, oscurata dalla inenarrabile violenza, e dalla noncuranza, di un grande numero di psichiatri: incapaci di immedesimarsi nel dolore infinito della follia. Da questa follia, dalla sua grandezza e dalla sua dignità, sono stato contagiato, e dalla lettura dei testi dei grandi psichiatri di lingua tedesca e olandese che, senza dimenticare Sigmund Freud, sono stati testimoni di una psichiatria lontanissima da quella praticata nei manicomi italiani, e francesi. Vorrei ricordare, fra gli altri, oltre a Ludwig Binswanger, Karl Jaspers, Eugène Minkowski, anche V. E. von Gebsattel, H. C. Rümke, Kurt Schneider, Erwin Straus e Jakob Wyrsch, che hanno radicalmente mutato la fisionomia psicopatologica e clinica della psichiatria: non piú scienza naturale, e invece (anche) scienza umana. Sulle orme scintillanti di questi grandi psichiatri gli anni dal 1963 al 1970 sono stati gli anni della dolorosa scoperta di una follia che non veniva meno alla gentilezza e alla fragilità. Sono stati gli anni in cui scrivevo i miei lavori sulle depressioni, sulle manie e sulle schizofrenie, e in cui lavoravamo insieme, psichiatri e psicologi, assistenti sociali e infermiere, sorelle religiose e educatori, in un comune orizzonte di speranza e di cura, di solidarietà e di etica.

La follia femminile. Ad ogni paziente si poteva dedicare il tempo necessario ad una attenzione e ad un ascolto nutriti di passione e di rigore. Certo, la follia femminile non ha le asperità e le aggressività che piú facilmente fanno parte di quella maschile, e le infermiere erano dotate di delicatezza e di tenerezza, di gentilezza e di ascolto, di attitudini relazionali e di pazienza; e non mancava poi la presenza gentile delle sorelle religiose che non ho piú dimenticato nella loro tenerezza e nella loro grazia innate. Sono stati anni in cui mi è stato

possibile fare una psichiatria, incentrata sulle esperienze psicotiche, ricolma di umanità, senza essere condizionato da altre esigenze che non fossero quelle terapeutiche. Sono stati gli anni nei quali mi è stato possibile ricostruire la storia della vita, la fenomenologia clinica dei disturbi che le avevano portate in ospedale psichiatrico, di Angela, di Anna, di Giuliana, di Liliana, di Margherita, di Maria, di Maria Teresa, di Paola, di Valeria, e di tante altre pazienti, delle quali mi è stato possibile riconoscere la tenerezza e la sofferenza, la sensibilità e la disperazione. Ascoltare e rivivere la follia nella sua dimensione umana e dolorosa alla quale i miei libri hanno cercato di dare voce, sottraendola all’oblio, nella consapevolezza che le parole sono fragilissime, e non durano se non il tempo breve di un sospiro. Sono considerazioni sfiorate dalla nostalgia di un passato che non poteva sopravvivere al deserto dei manicomi italiani, nei quali moriva la speranza, e moriva la gentilezza, come anima della cura; e la salvezza non poteva venire se non dalla loro cancellazione.

La poesia di Margherita. Margherita è stata una giovane schizofrenica che ho seguito dagli anni in cui sono giunto a Novara, e che morirà poi suicida. Vorrei ricordarne non la sintomatologia allucinatoria e delirante ma una poesia che sgorgava dal suo cuore dilaniato dall’angoscia della morte, e dal desiderio della morte. Sono parole ferite che dicono la sensibilità e la ricchezza della sua vita interiore che la malattia non è riuscita a devastare. Sono la testimonianza bruciante di dolore, e di speranze infrante, che andavano alla vana ricerca di schegge impossibili di luce. Si tocca il fondo quando si diventa indifferenti anche al proprio dolore. Quando ci si aggrappa alla morte per ricevere un po’ di affetto postumo. Quando non si ha piú niente da ascoltare, piú niente da dire, piú niente da vedere.

Quando una bocca parla e non se ne sentono i suoni. Quando l’indifferenza ti strappa alla vita negli acquitrini del nulla. Quando il disgusto è tanto forte che non dà spiegazioni. Quando il dolore tace sommesso e annientato dal suo stesso silenzio diventa come pietà. Quando hai le braccia distese e non sai che fartene. Quando le lacrime si sono come rapprese negli occhi. Quando quell’urlo di disperazione è diventato afono e tu gridi, gridi, ma non ti sentono. Ma continui a sprecare la tua lealtà e aspetti nel tempo con umiltà.

Cosa dice la poesia? Sono frammenti poetici che ci avvicinano, meglio che non schegge di diario, alla tesi che il mondo interiore della schizofrenia, di alcune schizofrenie, ha caratteristiche psicologiche e umane che dovremmo cercare ogni volta di sondare e di rivivere: come si fa, lo diceva Enrico Morselli, con le espressioni autentiche e significative della esistenza. Sono frammenti di un mondo interiore che allucinazioni e deliri mascherano, e che bisogna allora fare riemergere sulla scia di un ascolto gentile, e di una febbrile immedesimazione, che non diventi mai identificazione. Sono frammenti che ci dicono, fra le altre cose, quale angoscia e quale dolore ferivano l’anima della paziente, e questo al di là delle allucinazioni e dei deliri, che possono esserci, o non esserci, e non sono in ogni caso i soli sintomi della malattia. Una poesia, rapsodica e divagante, come questa, invita a considerare ogni forma di vita schizofrenica nella sua epifania di dolore infinito, e nella sua disperata ricerca di frammenti di dialogo che ne addolciscano la solitudine:

sorgente a sua volta di dolore. Una poesia, infine, che ci dice come nella follia la morte, la morte come ultima speranza, sia una fragile e temeraria compagna di strada, e basterebbe questo a indurci, a indurre psichiatri e non psichiatri a non ferire, e nemmeno a scalfire, la estrema sensibilità e la aerea fragilità delle pazienti, e dei pazienti, con le parole che sono dette, e con quelle che non sono state dette. (Sono cose sulle quali non posso non insistere nello svolgersi di questo libro, e nondimeno ora in un rapido flashback qualcosa sul potere dilemmatico delle parole. Da un bellissimo libro di Ferruccio Cabibbe, psichiatra di formazione junghiana, che ha lavorato tre anni da noi, a Novara, vorrei citare questo frammento, anche se de domo mea: «Giungevo dalla Clinica Universitaria dove, insieme alla preparazione “scientifica”, senza rendermene conto avevo appreso un atteggiamento da giovane medico sicuro di sé, che si esprimeva utilizzando termini specialistici ma anche gergali. Accadde cosí che, parlando con il Direttore, dicessi che una paziente era “una schizo”, intendendo schizofrenica. “Schizo” e “para” erano i termini che si usavano abitualmente nella Clinica Universitaria per indicare schizofrenia e paranoia. E il Direttore, di solito sorridente e gentile, molto freddamente osservò: “Mi meraviglio che una persona come lei usi questo modo di esprimersi verso i pazienti, questo linguaggio reificante”. Nella famosa Clinica mi avevano insegnato tante cose, ma quella se l’erano dimenticata». Le parole non sono se non creature viventi).

La direzione. Dal 1970, con il pensionamento di Enrico Morselli, la direzione dell’ospedale psichiatrico femminile mi ha messo a confronto con il problema delle pazienti in condizioni di lungodegenza che erano molte, e che avevano bisogno di cambiamenti profondi che solo la legge di riforma del 1978 avrebbe poi consentito di realizzare. Nei miei otto anni di direzione, con la collaborazione degli psichiatri che venivano dalla Clinica universitaria di Milano, sono state aperte le porte di tutti i reparti, sono state abolite le contenzioni, e le pazienti potevano avviarsi lungo i viali del manicomio. Dei reparti, dedicati alle degenze croniche, facevano parte pazienti dai comportamenti ambivalenti, ora tranquilli ora agitati, e dalle sintomatologie

ostinate e ribelli alle cure, e pazienti anziane, molto anziane, adeguatamente assistite. Solo sulla scia di mutate strategie terapeutiche e sociali sarebbe stato possibile giungere alla dimissione delle pazienti che, in ogni caso, anche negli anni della mia direzione, vivevano una vita rispettosa della loro fragilità, e della loro dignità; seguite dai diversi punti di vista clinici e assistenziali: in locali, certo, non adeguati alle loro esigenze. Una malattia cronica è immediatamente considerata una malattia perduta, e allora è facile lasciare morire la speranza in chi cura, e in chi è curato. Quando ho avuto la responsabilità della direzione, mi sono dovuto occupare anche di queste pazienti, sono entrato nei reparti nei quali trascorrevano le loro giornate, giovani, e non piú giovani, assistite da suore e da infermiere, ma non impegnate in attività di ricreazione: cosa che abbiamo poi cercato di fare. Le rivedo, fantasmi che si fanno ancora realtà, nella loro tranquilla rassegnazione, e nella loro inerzia. Mi venivano incontro, alcune sorridendo, altre piangendo, desiderose di un saluto, di un sorriso, di una carezza talora, di una stretta di mano, e altre talora aggressive. Le pazienti anziane, irrigidite e talora pietrificate nei loro gesti e nei loro volti, ma non ancora spente nei bagliori intermittenti dei loro sguardi, e quelle giovani in febbrile attesa di essere accolte con gentilezza, e con mitezza. (Anche sui cambiamenti funzionali e strutturali del modo di vivere delle pazienti, ai quali siamo giunti, ha scritto pagine molto belle Ferruccio Cabibbe nel suo libro che risuona ancora oggi di una sommessa leopardiana passione della speranza).

L’anno della riforma. Come è cambiato il mio modo di fare psichiatria, e di immaginare la psichiatria, quando nel maggio del 1978 veniva approvata la legge che disponeva la chiusura degli ospedali psichiatrici? Conoscevo i lavori di Franco Basaglia, e le riforme radicali che aveva realizzato a Trieste, e che portavano alla loro chiusura; ma non pensavo che si giungesse a sancirla cosí rapidamente. Non posso non dire di esserne stato emozionato. I quindici anni di manicomio, di questo vivere insieme alla follia, alla fragilità, alla gentilezza, al dolore dell’anima e del corpo, al sorriso e al pianto, di tante pazienti, di quelle che entravano e di quelle che uscivano, di quelle giovani e

di quelle anziane, erano cancellati; e nulla poteva sopravvivere di un passato di comunità di cura e di destino. Avremmo avuto ancora la libertà di dedicare ad ogni paziente il tempo necessario ad un ascolto e ad un dialogo mediatori di conoscenza e di comprensione dei mille diversi modi di essere nella follia, e la libertà di prendere autonome decisioni riguardanti i modi concreti con cui di giorno in giorno realizzare assistenza e cura? Avremmo potuto lasciare uscire le pazienti dai reparti, e la mattina, quando si andava loro incontro, avrebbero ancora potuto chiederci in silenzio l’aiuto di una parola, di un sorriso, e talora di una lacrima: cose che, in un ospedale generale, sarebbero state considerate svenevolezze, futili nostalgie di un tempo passato, o infantili sogni a occhi aperti? Avremmo potuto ancora fare nostre le arcane parole di Manfred Bleuler: il piú forte dà la mano al piú debole, e questa è la psichiatria? Non so, ma nella cittadella assediata, e nondimeno libera nel suo interno, di un manicomio femminile si è realizzata una psichiatria umana e gentile: nel rispetto radicale della dignità della sofferenza, e della disperazione. Non conoscevo il futuro, non sapevo se i timori, che tutto finisse, sgorgavano dalla mia incapacità di adeguarmi al reale, e dal mio perdermi in sogni a occhi aperti, che non mi consentivano di cogliere la concreta alienante dimensione della psichiatria manicomiale. La legge era del maggio 1978, e dopo l’estate sceglievo di occuparmi del primariato di psichiatria istituito nell’Ospedale maggiore della Carità di Novara. Quindici anni di vita e di lavoro, molti gli articoli pubblicati nelle migliori riviste italiane, si chiudevano cosí, nella consapevolezza che non sarebbe bastata la sola riforma dei manicomi per ridare un’anima alla psichiatria italiana: da sempre incline a negarne la dimensione fenomenologica e antropologica.

Noi siamo un colloquio. Cosa mi hanno insegnato gli anni di manicomio? Quali esperienze, e quali conoscenze, mi sono state possibili, e mi hanno accompagnato negli anni che ne sono seguiti? Come la memoria, come il passato, ha condizionato, o almeno ha influenzato, il futuro della mia forma di vita in psichiatria? Non sono stati anni inutili perché mi hanno consentito di

conoscere i modi di essere profondi e radicali della follia, della follia depressiva e maniacale, della follia dissociativa, che nel mondo femminile assumono una fisionomia piú dolorosa e piú nitida, piú gentile e piú creatrice. Mi hanno consentito (anche) di seguire nel tempo il nascere e il morire, lo svolgersi e l’interrompersi, il trasformarsi, dei sintomi, dei modi di essere, della malattia, ascoltando senza fine le pazienti, cogliendone la stanchezza di vivere e la fragilità, la sensibilità e la dolcezza, la sofferenza infinita e la dignità, il desiderio e la nostalgia di una vita liberata dal dolore e dalla solitudine. I miei lavori e i miei libri non sarebbero stati scritti senza gli anni di manicomio che mi hanno (anche) insegnato quanta importanza abbia in psichiatria, e nella vita, conoscere se stessi, andare alla ricerca delle emozioni, che si accompagnano ai nostri pensieri e alle nostre azioni, e si intrecciano senza fine alle nostre scelte razionali. Cambiando i modi di essere delle infermiere, e aiutandole a conoscere la fragilità e la sensibilità delle pazienti, le loro angosce e le loro inquietudini dell’anima, cambiavano quelli delle pazienti, in una continua circolarità di esperienze vissute; e questo come conseguenza della significazione terapeutica che hanno le relazioni non solo in psichiatria, ma nella vita sociale di ogni giorno. Noi siamo un colloquio, nelle parole già evocate di Hölderlin, e lo siamo in particolare quando la solitudine, che è sorgente di sofferenza e di malattia, è in noi. Ma, di queste cose, e di queste esperienze, di queste attese e di queste speranze, di questi progetti, cosa sarebbe rimasto in una psichiatria ricondotta ai modelli di comportamento di un ospedale generale con le sue indicazioni, e con le sue norme?

La montagna incantata? Queste le cose che la mia vita in manicomio ha radicato nel mio modo di fare psichiatria, ma quali orme ha lasciato negli anni che ne sono seguiti nel loro scorrere vertiginoso? Sono riuscito a liberarmi dal fascino stregato di quelle mura che, nel cuore della città, mi isolavano dal mondo della vita normale, come se mi fossi trovato a vivere nella montagna incantata di Thomas Mann? Uno dei grandi psichiatri tedeschi del secondo Ottocento, inclini a cogliere le analogie possibili fra psichiatria e filosofia, diceva che la vita normale, divorata dai conflitti e dagli egoismi, gli faceva desiderare ogni

volta di rientrare nel suo manicomio, nel quale ritrovava persone gentili e sensibili, anelanti ad un aiuto e ad un ascolto, ad una stretta di mano e ad un sorriso, ad una lacrima e ad un gesto di umana solidarietà. Non sarei potuto giungere fino a questo punto, ma, certo, non mi era possibile sfuggire ad una nostalgia non molto lontana da questa. Un manicomio, uno strano e forse unico manicomio, almeno in Italia, nel quale, sia pure con tutti i limiti della esclusione dal fluire della vita normale, si era venuta formando una comunità di cura, che talora diveniva una comunità di destino, che ci univa, medici e non medici, sorelle religiose e infermiere, alle pazienti, a quelle che entravano e poi uscivano, e a quelle che si dovevano trattenere piú, o meno, a lungo. Si era fuori dal mondo, o meglio si era in un altro mondo, nel mondo del dolore e della tristezza, delle infinite metamorfosi della tristezza e dell’angoscia, della nostalgia ferita e della rassegnazione, delle speranze ferite e della disperazione. Ma si era in un mondo nel quale ciascuno di noi, in modi diversi, continuava di giorno in giorno il dialogo fragile e talora impossibile con ciascuna delle pazienti: mai contenute, e sempre rispettate nella loro stremata debolezza e nella loro angoscia, nella loro solitudine, cosí difficile da sopportare, e nei loro sogni. Ovviamente, la nostra psichiatria non faceva a meno di cure farmacologiche: immerse nondimeno in atmosfere psicoterapeutiche e socioterapeutiche, e cioè semplicemente umane, che queste mie pagine cercano di indicare sulla scia della memoria vissuta.

Nietzsche. In questa ricostruzione degli anni trascorsi in manicomio non potrei non ricordare ancora quanta libertà si aveva nel tempo da dedicare ad ogni paziente: un tempo, un tempo dell’orologio, non condizionato da ragioni economiche, ma riscattato dal tempo vissuto, dal tempo, di cui ogni paziente aveva bisogno, di un’ora, o di due ore. Nel nostro strano manicomio, come nella montagna incantata, il tempo, il tempo interiore, il tempo vissuto, aveva un suo modo di andare avanti, di trascorrere, lento e ricco di risonanze emozionali, e la sera, ripensando alla giornata passata, non si aveva la sensazione di avere perduto tempo ad ascoltare, e si aveva invece la sensazione di non essere nemmeno venuti meno alla preghiera che Nietzsche diceva di dire ogni mattina: quella di essere di aiuto ad una qualche persona.

A proposito di queste cose (è cosí facile considerarle rapsodiche, o svagate), vorrei dire che in alcune cose la psichiatria è ben diversa dalle altre discipline mediche: per l’importanza, ad esempio, che nella ammissione alle scuole di specializzazione in psichiatria dovrebbero avere le doti di sensibilità e di emozionalità, di gentilezza e di mitezza, di introspezione e di immedesimazione, da un qualche punto di vista forse ancora piú importanti, delle doti di intelligenza astratta, geometrica e matematica. Sí, in psichiatria le ragioni del cuore sono non meno importanti della ragione calcolante, e in essa ci sono condizioni cosí dolorose, e cosí strazianti, che la comunità di cura non possa talora non sconfinare in una comunità di destino. A una madre, disperata a causa della morte non naturale del suo bambino, non si può donare se non un ascolto gentile che le consenta di portare alla luce la sua angoscia e il suo smarrimento, e un dialogo che sia sigillato da un silenzio capace di testimoniare umana vicinanza. Non ho saputo fare altro quando questo è avvenuto, e non ho certo misurato il tempo del nostro incontro: ma quello che uno psichiatra può dare non è nulla dinanzi a quello che riceve con stupore nel cuore. Non si può parlare di questo se non con timore e tremore: lasciando al silenzio l’ultima risposta.

La vita interiore. Nel fare psichiatria non è possibile non integrare le conoscenze mediche generali con quelle che sono le conoscenze interiori: la conoscenza di se stessi, certo, ma anche quella delle emozioni e della interiorità, delle attese e delle speranze, delle nostre e delle persone che chiedano un aiuto, che non è mai solo di medicine, ma di parole, e di silenzi, che aprano il cuore alla fiducia e alla speranza. Non sto elogiando la psichiatria che si svolgeva in manicomio, in Italia regredita per ragioni storiche e culturali a livelli di sconvolgente inumanità, ma sto concludendo la storia della mia esperienza manicomiale, che mi ha consentito di avvicinarmi alla comprensione dei modi di essere della follia, delle esperienze psicotiche, depressive e maniacali, e anche schizofreniche. Non è stata, vorrei ripeterlo, una comprensione orientata alla conoscenza astratta della malattia, ma alla conoscenza della vita interiore delle pazienti, delle loro esperienze interiori, delle loro emozioni e della loro vita, volendo cosí sottrarle all’oblio e farle

conoscere nella loro umanità, e nelle loro latitudini emozionali. Le bellissime dolorose autodescrizioni delle pazienti, che le cartelle cliniche testimoniavano, hanno consentito di portare alla luce del senso esperienze di vita che, inespresse, avrebbero straziato il loro cuore: come dicono le parole singhiozzanti del Macbeth, e come ci insegna l’esperienza clinica. Nei miei anni manicomiali mi è stato (anche) possibile riconoscere definitivamente quanta parte hanno i contesti familiari e sociali non nel causare le depressioni unipolari e bipolari, le esperienze maniacali e quelle schizofreniche, ma nel facilitarne la insorgenza, e nel determinarne la evoluzione, nel frenarla e nel prolungarla nel tempo. Una cosa ancora: quale sconvolgente emozione rinasceva ogni volta nell’intravedere la guarigione di una condizione clinica depressiva, annunciata da un sorriso, da un fragile sorriso, che ridonava improvvisamente ad un volto la luce apparentemente perduta, e solo annebbiata dal dolore. Si comprenda allora la mia nostalgia non del manicomio, sorgente di indifferenza e di violenza senza fine, ma di un manicomio, inconfrontabile con ogni altro, nel quale la follia sembrava talora vagamente rispecchiarsi nella dolce follia di Maurice Blanchot. Non c’è psichiatria fenomenologica che non abbia bisogno di nutrirsi della grande poesia, e delle grandi narrazioni, che l’aiutano ad avvicinarsi al mistero delle soggettività ferite, o lacerate, dal dolore e dall’angoscia, dalla tristezza e dalle inquietudini dell’anima; e di questa psichiatria gli anni di manicomio mi hanno consentito di cogliere le articolazioni tematiche, e gli orizzonti di senso.

Le fragili ragioni del cuore. Sí, la ragione mi portava fatalmente a considerare doverosa la chiusura dei manicomi, regrediti in Italia a livelli di intollerabile inumanità, e il cuore invece, le fragili ragioni del cuore, mi facevano pensare con nostalgia al mondo perduto della follia che la scomparsa del manicomio, di un manicomio mai divorato dalla violenza e dalla indifferenza, ridestava nella mia anima da quindici anni accompagnata da esistenze ferite dalla solitudine e dal dolore, e nondimeno aperte alla speranza, la passione del possibile (la definizione è kierkegaardiana), come sono state quelle delle pazienti, acute e non piú acute, che non si possono cancellare da una memoria rapita da quegli

anni che sono stati anche gli anni della passione civile. Ma, certo, mai generalizzare: nella cura e nella assistenza della lungodegenza psichiatrica la riforma sarebbe stata necessaria anche in un manicomio gentile, come è stato il nostro. La stessa cosa però è possibile dire nei riguardi delle degenze causate da disturbi psichici acuti? Sono, questi, i temi svolti nei capitoli di questo mio libro dedicato alla psichiatria di ieri, di oggi e di domani.

Le ombre. Non vorrei ora parlare delle esperienze, del modo di vivere la psichiatria, nel mondo chiuso di un manicomio, quello femminile di Novara, ma dei problemi che ho incontrato dal momento in cui è stata approvata la legge 180 che consente di fare la migliore delle psichiatrie possibili, e che non è stata nondimeno ancora realizzata in alcuni suoi aspetti. La psichiatria, uscendo dalle cittadelle assediate dei manicomi, è entrata negli ospedali civili, e sulla scia della sua straordinaria articolazione territoriale fa ora parte del servizio sanitario nazionale con la creazione di ambulatori e di comunità extraospedaliere: umanizzandosi, e assimilandosi alle altre discipline mediche. Questa è stata la rivoluzione piú sconvolgente, e quasi inimmaginabile nella sua ideazione e nella sua realizzazione, dalla quale è cambiato tutto nella psichiatria italiana: modello non ancora raggiunto in alcuna altra nazione europea, e non europea. Non si può non continuare a pensare con stupore infinito a quello che Basaglia ha saputo fare in tempi fra l’altro incredibilmente brevi, e in modi che nulla hanno perduto della loro significazione umana e sociale: ermeneutica e terapeutica. Ci sono nondimeno ombre dolorose: le vorrei ricordare.

III .

La psichiatria di oggi

Nei servizi ospedalieri di psichiatria, e la cosa è subito riemersa nella sua dolorosa evidenza, non sempre ci sono condizioni di degenza rispettose dei diritti umani dei pazienti. Ci sono servizi ospedalieri di psichiatria, anche in ospedali di grandi città, contrassegnati da porte e finestre sbarrate, e da agghiaccianti forme di contenzione. Sí, Basaglia non avrebbe voluto che si istituissero negli ospedali civili servizi di psichiatria: temendo la loro trasformazione in luoghi di separatezza e di esclusione, di violenza e di contenzioni, che ne ripetessero i modelli manicomiali, e togliessero ai pazienti libertà e dignità, autonomia e speranza. Nelle divisioni di medicina generale si dovevano invece creare posti-letto, non strutturati, per i pazienti bisognosi di degenza ospedaliera. Le cose non sono andate cosí. Le mie non sono considerazioni critiche, non avrebbero senso, nei confronti di una legge, che ha radicalmente cambiato, umanizzandola, la psichiatria italiana, ma constatazioni di modi ancora non degni di una psichiatria che sia scienza sociale, e scienza della intersoggettività: scienza fondata sul dialogo e sull’ascolto, sulla comprensione e sulla immedesimazione nel dolore, e nella disperazione, dei pazienti. Sono cose che scrivo perché, vorrei illudermi che sia cosí, i giovani psichiatri prendano coscienza dei pericoli immanenti agli svolgimenti di una psichiatria talora estranea alla ispirazione della legge di riforma, e sappiano contestare con coraggio questi dolorosi stravolgimenti che ne lacerano le intenzioni; e prendano anche coscienza, in particolare, del tema della contenzione, dei suoi modi di ferire e anzi di straziare la dignità dei pazienti.

La contenzione. La contenzione è un problema sanguinante in psichiatria, nei servizi ospedalieri di psichiatria, e (anche) nelle case di riposo. Non se ne parla molto, e anzi non se ne parla, nonostante la radicale e bruciante dimensione etica della cosa. Le forme di contenzione sono diverse, e si distinguono in

contenzione psicologica – disseminata nei luoghi di lavoro e non solo –, in contenzione architettonica – ne è paradigmatica quella carceraria –, in contenzione farmacologica – cosí difficile da riconoscere e cosí diffusa in psichiatria, al di fuori di ogni cornice etica – e infine in contenzione fisica, o meccanica – la piú crudele e la piú frequente, la piú dolorosa e la piú sconvolgente, quella che, dal lato oggettivo, come si legge in una relazione di Marco Borghi, professore emerito di Diritto della Università di Friburgo, non è se non una forma di tortura in flagrante violazione dei diritti umani fondamentali. Ci sono livelli diversi di contenzione fisica: non intendo elencarne le sconvolgenti modalità, e vorrei solo dire che costa fatica rinunciare alla contenzione come metodo di comoda e apparentemente sicura assistenza, e sostituirla con la presenza umana: con l’attenzione e la pazienza, con l’ascolto e la tenerezza, con lo sguardo che ne dica l’accoglienza, con l’amore insomma: sono modi di essere e di agire che non possono sgorgare se non dal silenzio del cuore. Ma come non sapere che la contenzione, modello radicalmente inaccettabile di assistenza, annulla ogni possibilità di cura; facendo ulteriormente soffrire esistenze già lacerate dal dolore e dalla disperazione, dall’angoscia e dalla tristezza, dalla dissociazione psicotica e dalla frantumazione maniacale? Non ci si può non confrontare con questo problema se si vogliono conoscere le indicibili ferite della dignità umana in psichiatria; nella consapevolezza che ci sono degenze ospedaliere e in case di riposo nelle quali le persone sono curate e assistite senza causare ferite alla loro dignità e alla loro libertà; e ce ne sono altre nelle quali questo non avviene, e non si sa fare altro se non ricorrere, quando piú alto è il grido di aiuto, alle diverse forme di contenzione. Sono cose che dovrebbero indurci a riflettere fino in fondo sugli abissi di disperazione che si dischiudono quando una contenzione scenda come una ghigliottina sulla sensibilità ferita e sulla angoscia, sulla nostalgia della vita e della morte, di persone malate che si rivivono come oggetti: come alter ego privati di dignità e di libertà. Non si può parlare di psichiatria, non si può guardare alla psichiatria come ad una disciplina nobile e complessa, che ha a che fare con gli abissi della sofferenza e della tristezza, delle attese e delle speranze ferite, se non si tengono presenti le sue ombre e le sue strazianti problematiche: tematizzate da situazioni dolorose come sono quelle dei modi e dei luoghi in cui la psichiatria agisce quando diviene ospedaliera, e ha a che

fare con comportamenti dissonanti come sono quelli che portano alle contenzioni. Queste si confrontano, in particolare, con il tema bruciante della aggressività, e su questo tema vorrei ora riflettere.

L’aggressività. L’aggressività è un fenomeno complesso e stratificato che non si conosce fino in fondo nei suoi modelli di insorgenza e di evoluzione se non si ripensa alle sue fondazioni relazionali. L’aggressività psicotica è la situazione clinica che piú frequentemente induce a contenere i pazienti in psichiatria, ma anche in non poche case di riposo, nelle quali si contengono persone anziane, anche solo quando sono agitate, o si lamentano. Ma, sia l’aggressività di pazienti psichici sia l’agitazione di persone anziane sono, almeno in parte, motivate dalla nostra incapacità ad entrare in relazione con i loro modi di essere, e di comportarsi; e allora il nostro comune impegno etico non può essere se non quello indirizzato a conoscere noi stessi, e a ri-conoscere la nostra responsabilità nella insorgenza della aggressività, e della agitazione. Siamo tentati di considerare la contenzione come una semplice misura tecnica di salvaguardia, e di volerla applicare, o di consentire alla sua applicazione, solo in casi eccezionali. Non è cosí, e, se fosse anche cosí, ogni contenzione, sia pure temporanea, è causa di ferite incancellabili alla dignità e ai diritti umani delle persone: di quelle fragili e indifese, in particolare. Nella insorgenza della aggressività ha radicale importanza la relazione: la disposizione ad immedesimarsi nelle emozioni dei pazienti, alle loro attese, al fine di intuirne le parole e i comportamenti idonei a smorzarne le conflittualità. Molta aggressività è determinata dalle relazioni sbagliate che si hanno con i pazienti, sia perché si è prigionieri della routine e della indifferenza sia perché si è svuotati interiormente, e si è incapaci di ascolto e di pazienza. La vera relazione è quella che ci consente di entrare nel mondo interiore dell’altro, evitandone facili e banali ferite, che nel mondo doloroso delle case di riposo, in particolare, nascono (anche) dal modo con cui sono chiamati gli ospiti, dando loro facilmente del tu, e dalla disattenzione alle loro illusioni e alle loro speranze, ai loro sogni e alle loro nostalgie. Conta la vocazione interiore alla assistenza e alla cura, e sarebbe bello avere case di riposo e servizi di psichiatria nei quali si dicesse: «Qui non si contiene mai, si

accoglie sempre». L’etica lo vorrebbe: utopia, o demagogia? La cosa è stata possibile a Basaglia, e nei luoghi, in cui ho lavorato, a Milano come a Novara, non ci sono state mai contenzioni.

La psichiatria gentile. La psichiatria è una disciplina impossibile, una disciplina che tradisce la sua ragione d’essere umana, se non ci sono in noi mete ideali: come la gentilezza e la sensibilità, la intuizione e la grazia, la fantasia e la immaginazione, la solidarietà e la speranza. Queste sono le premesse allo svolgersi di cura e di assistenza di persone fragili e insicure, angosciate e disperate, dimenticate ed emarginate, sommerse da crudeli e ostinati pregiudizi, che giungono a considerarle come esistenze insignificanti, e, la storia lo dimostra, non piú degne di essere vissute. Se non ci sono in noi queste premesse, si potranno conoscere le piú sofisticate modalità di azione degli psicofarmaci, e le sconfinate quattrocento e piú diagnosi del DSM, ma non si sarà capaci di creare relazioni interpersonali con persone ferite dalla angoscia e dalla tristezza patologica, dalla maniacalità e dalla dissociazione psicotica, dalla schizofrenia, che di queste relazioni, di questo ascolto e di questo dialogo hanno bisogno non meno che di psicofarmaci. Certo, se Basaglia avesse considerato la psichiatria scienza biologica, e non invece scienza umana e scienza sociale, mai sarebbe giunto alla rivoluzione che ha portato alla chiusura dei manicomi; e questo, come si è detto, è avvenuto solo in Italia: benché con le problematiche ancora non risolte che sono quelle, in particolare, dei servizi ospedalieri di psichiatria con le loro atmosfere gelidamente farmacologiche, e non psicoterapeutiche e socioterapeutiche, e con le loro contenzioni non solo farmacologiche, ma ancora piú crudelmente fisiche, che ho cercato di illustrare nella loro inammissibile violenza. A queste défaillances di metodo e di prassi in una psichiatria cosí avanzata culturalmente, come è quella italiana, si aggiunge l’orientamento rigidamente biologico e farmacologico delle psichiatrie universitarie che sono, quasi tutte, radicalmente estranee alla ispirazione psicopatologica e fenomenologica, sociale e umana tout court, della legge di riforma del 1978. In ogni caso, mi auguro che la psichiatria del futuro, quella italiana in particolare, possa ritrovare, sia nelle sue riflessioni teoriche sia nelle sue

concrete forme di realizzazione, lo slancio ideale, che ha nutrito la legge di riforma, e la passione della speranza nei riguardi di ogni forma di sofferenza psichica: riguardata nella sua dignità e nella sua umanità: nella sua nostalgia di ascolto e di dialogo. Come non dire ancora che siamo oggi dinanzi ad una opinione pubblica, divenuta sempre piú estranea al tema della sofferenza psichica, e incapace di coglierne la dimensione dialogica e sociale, e ad una crescente disattenzione della politica che aveva invece coralmente accompagnato il lavoro di Basaglia, comprendendone, e facendole proprie, le radicali fondazioni etiche. Sono cose, queste, che dovrebbero essere illustrate nelle scuole, magari iniziando dalla scuola primaria, e indicando cosa sia la sofferenza psichica, e quali siano i significati, la fragilità e la sensibilità, le ferite dell’anima e la ricchezza umana, che fanno parte della sofferenza psichica, alla quale ciascuno di noi può andare incontro, indipendentemente dalla età, dalla cultura, e dalla condizione sociale. Ma indicando anche la importanza che nella vita hanno la gentilezza e la tenerezza, il sorriso e le lacrime, l’accoglienza della fragilità e della debolezza, le attese e le speranze. Se questo avvenisse, si allenterebbe la forza distruttiva dei pregiudizi che identificano sofferenza psichica e violenza, e diminuirebbe la paura nei confronti del modo di essere e del modo di vivere nelle aree sconfinate della sofferenza psichica, della follia, che è intessuta di umanità ferita.

Risonanze. Queste sono alcune frammentarie riflessioni sulla psichiatria di oggi, sulle sue luci e sulle sue ombre, sulle sue aperture e sulle sue chiusure, sulle sue prospettive e sulle sue défaillances, sui suoi ideali e sulle sue sconfitte, ma anche sui suoi orizzonti di senso che faticosamente continuano a vivere, o almeno a sopravvivere. Non ci sono se non fragili conoscenze sulla follia, sulla genesi della follia, e sui suoi condizionamenti, che non possono se non essere molteplici, storico-vitali, psicologici, biologici e sociali, e nondimeno in queste problematiche conoscenze se ne coglie una non contestabile, ed è questa: la follia, la sofferenza psichica che la nutre, è una esperienza umana, che fa parte della vita, della vita di ciascuno di noi, e che si comprende nella sua natura piú profonda. Si cura, con i farmaci nelle sue radici biologiche, ma

anche sulle scie del dialogo, dell’incontro umano fra chi cura e chi è curato, della conoscenza di sé, delle emozioni che si provano nelle diverse situazioni della vita, e delle attitudini a immedesimarsi nelle emozioni degli altri, a cogliere i significati che si nascondono nelle parole che si ascoltano, e anche quelli che si nascondono nei linguaggi del corpo, dei volti e dei gesti, dei silenzi e dei sogni. Se condanniamo la psichiatria ad essere scienza naturale, o scienza dei comportamenti, mai ne coglieremmo l’essenza e il mistero; e nondimeno nella ammissione alle scuole di specializzazioni in psichiatria, come ricordavo, non si ricerca mai, mai si analizza, la presenza, o l’assenza, di attitudini emozionali e culturali, e di sensibilità aperte ad entrare in relazione con gli altri, e ad ascoltarne le voci sommesse e neglette del dolore e del silenzio, della nostalgia di uno sguardo e della speranza. Sono attitudini, sono qualità, che talora, o non di rado, mi è capitato di intravedere in sorelle religiose, e in infermiere, e non in psichiatri, divorati dalla fascinazione della tecnica. Questa è sempre stata, e continua ad essere, una psichiatria che si nutre di gentilezza, parola tematica che scorre temeraria nei miei libri, e di ascolto: vox clamans in deserto, naturalmente, anche se questa mi sembra essere la linfa vitale di ogni psichiatria che intenda cogliere la diversità, certo, ma anche la stremata umanità della sofferenza psichica, alla quale ci si avvicina ancora oggi con diffidenza e noncuranza, con indifferenza e apatia, con crudeltà talora e chiudendo gli occhi dinanzi al dolore e alla disperazione che sono in essa.

Una diversa psichiatria. Non è facile non finire prigionieri di una psichiatria svuotata di mete ideali, di crescita e di maturazione spirituali, e divorata dalla applicazione delle infinite diagnosi del DSM, e dalla sola somministrazione di psicofarmaci che escluda psicoterapia, e socioterapia. Non mi è possibile concludere questo cammino lungo i sentieri della psichiatria di oggi senza riflettere, sia pure brevemente, su quelle che sono le strutture portanti della psichiatria a-teorica del DSM. Le diverse edizioni, e in particolare l’ultima, sono contrassegnate dal crescente vertiginoso aumento delle diagnosi dei

disturbi psichici. Come ha scritto, in un suo libro di radicale contestazione della quinta edizione del DSM, Allen Frances, al quale si deve la task force che ha pubblicato la quarta edizione, senza che si abbiano prove scientifiche della concreta realtà clinica, introducendo denominazioni vaghe come quella di «disturbi», si sono inventate nuove patologie inutili e pericolose, che conducono in ogni caso alla crescente richiesta di psicofarmaci. Le premesse conoscitive del DSM esigono che tutti guardino agli stessi sintomi con gli stessi occhi: sintomi che sono considerati ripetersi identici in ogni parte del mondo; ma la tristezza, l’angoscia, la colpa, i deliri, le allucinazioni, i suicidi, sono esperienze di vita che cambiano nei diversi contesti psicologici e culturali, e che si possono riconoscere e valutare nella loro dimensione psicopatologica solo muovendo dalla interiorità, dalla soggettività, della persona che soffre, e non dai suoi modelli esteriori di comportamento. L’accoglienza trionfale del DSM, dei suoi paradigmi conoscitivi, nasce, come scrive ancora Allen Frances, dalla sua capacità di uniformarsi alle tendenze culturali oggi dominanti: escludere la soggettività dalle scelte che facciamo, proporre modelli di vita che consentano la realizzazione automatica delle cose, quella di giungere rapidamente a soluzioni predeterminate, senza che si perda tempo nella ricerca dei significati che si nascondono nelle realtà umane. Ci sono sofferenze che ai nostri occhi sembrano immotivate, e che agli occhi di chi le vive sono dotate di senso; e ci sono sofferenze nascoste che straziano l’anima, e che sfuggono ai nostri occhi distratti da mille inutili cose epidermiche. Non so come, in psichiatria, si possa fare a meno della ricerca e della conoscenza intuitiva della soggettività, della interiorità, delle persone che soffrono, e chiedono disperatamente aiuto. Vorrei infine citare le parole conclusive del libro di Allen Frances sul tema bruciante della inflazione diagnostica, e anzi della iperinflazione diagnostica. «C’è la reale possibilità di invertire l’inflazione diagnostica, o ormai il dado è tratto a favore di una serie infinita di false epidemie? La mia parte razionale mi dice che l’inflazione vincerà e noi perderemo la nostra battaglia per salvare la normalità. Siamo troppo pochi a combattere l’inflazione, deboli, privi di risorse, disorganizzati e di fronte a una sfida troppo difficile. Ma poi mi viene in mente l’esercito senza speranza dell’Enrico V – ”siamo pochi, felicemente pochi, noi questa banda di fratelli”: erano uno contro sei, ma si fecero coraggio e vinsero la battaglia di

Azincourt». E infine: «I miei due obiettivi – “salvare la normalità” e “salvare la psichiatria” – sono in realtà uno soltanto. Possiamo “salvare la normalità” solo “salvando la psichiatria” e possiamo salvare la psichiatria solo contenendola entro i suoi confini. L’eredità di Ippocrate è vera oggi come lo era 2500 anni fa: sii modesto, consapevole dei tuoi limiti e per prima cosa non nuocere. La normalità va salvata a tutti i costi. E cosí la psichiatria». Sono parole che non dovremmo mai dimenticare, e che misurano le radicali profonde differenze che separano la psichiatria descrittiva oggi dominante dalla psichiatria gentile, dalla psichiatria fenomenologica, dalla psichiatria che è possibile fare in Italia.

Gli uomini non sono oggetti. Non potrei infine, e a questo punto, non citare alcune radicali considerazioni di Basaglia sui paradigmi conoscitivi della psichiatria, che egli ha immaginato, e che sono queste. «Ciò significa che per lo psichiatra l’alternativa oscilla, fra un’interpretazione ideologica della malattia (con la costruzione di una diagnosi esatta ottenuta attraverso l’incasellamento dei diversi sintomi in uno schema sindromico precostituito); o l’approccio al malato mentale su una dimensione in cui la classificazione della malattia ha o non ha peso»; e ancora con sferzante chiarezza: «Nel primo caso accetteremmo, ancora una volta, il ruolo di schedatori di cartelle per un centro meccanografico; nel secondo, saremmo noi psichiatri ad andare alla ricerca di un ruolo che non abbiamo ancora mai avuto e che ci metta – per quanto possibile – alla pari con il malato in una dimensione in cui la malattia come categoria venga messa fra parentesi». Sono considerazioni metodologiche, che hanno consentito a Basaglia di ridare libertà e autonomia alla psichiatria, e di giungere alla cancellazione della psichiatria manicomiale, in antitesi flagrante alla ideologia positivistica della psichiatria alla quale giunge il DSM nelle sue diverse edizioni. A queste sue considerazioni vorrei associarne altre che dimostrano la radicale fondazione etica e umana della psichiatria di Basaglia. «Ma gli uomini non sono oggetti che possano essere posti in qualunque ordine. Piú precisamente, dobbiamo aver chiaro che l’uomo è un animale sociale, è una persona e un individuo, un soggetto»; e con parole ancora piú sferzanti, e

intessute di grande respiro etico: «Parlando per assurdo, potrei alimentare tutti gli uomini, offrire casa a tutti, creare condizioni di conforto materiale che possano soddisfare tutti. Tuttavia, il dolore che opprime l’uomo, l’angoscia di ogni giorno nella relazione con gli altri uomini, tutto questo io non posso risolverlo. Questa angoscia esistenziale fa parte dell’uomo, è una realtà, e tale relazione tra l’ordine sociale e la dimensione esistenziale rappresenta la contraddizione e l’opposizione della nostra vita. Non c’è ricetta, né dal punto di vista politico, né a livello di buona volontà che possa risolvere questa contraddizione». Da una legge di straordinaria apertura all’umano, quale è la legge 180, ancorata al pensiero e all’opera di Franco Basaglia (i frammenti citati ne dicono splendidamente la profondità e la originalità inenarrabili), sono sgorgate le sorgenti di una psichiatria riscattata dal riduzionismo biologico, e dalla arida elencazione e classificazione dei disturbi psichici, che il DSM ha diffuso nel mondo intero, e animata dai bagliori della partecipazione umana al destino della sofferenza psichica, e dei valori di indifesa umanità che sono in essa. Cosí si conclude la parte di questo libro dedicata alla fenomenologia della psichiatria di oggi con le sue luci smaglianti, e con le sue ombre, che non ne incrinano i fulgori.

La psichiatria di oggi: l’inizio. In Italia, la psichiatria di oggi inizia quel 13 maggio 1978 quando è divenuta legge la riforma della psichiatria italiana che, sulla scia delle straordinarie esperienze di Franco Basaglia, ha condotto alla chiusura dei manicomi. Alcuni mesi dopo, nell’ottobre del 1978 ho lasciato la direzione di quello femminile di Novara, divenendo primario di psichiatria dell’Ospedale maggiore della Carità di Novara – ricordavo – con la responsabilità temporanea dei servizi territoriali di psichiatria, e lo sono stato fino al 2002. Il cambiamento nel mio modo di fare psichiatria è stato radicale: non piú in un ospedale femminile di duecento posti-letto, ma in un reparto di quindici letti femminili e maschili in spazi quanto mai ristretti che non consentivano alle pazienti e ai pazienti alcuna libertà nei movimenti. Un corridoio, e stanze, in genere a due letti, inadeguate alla cura di pazienti che potevano

avere bisogno di degenze prolungate. Ancora oggi, a quarant’anni di distanza dalla apertura del reparto, gli spazi continuano ad essere gli stessi. Nei ventiquattro anni di mio primariato le porte del reparto sono rimaste aperte, non c’erano contenzioni, ma la direzione sanitaria non consentiva alle pazienti e ai pazienti, anche se accompagnati, di scendere nei giardini dell’ospedale. Certo, come direttore di un ospedale psichiatrico, dovevo rispondere alla autorità giudiziaria degli aspetti giuridici dei ricoveri, ma ero completamente libero nelle mie decisioni cliniche e sanitarie, nel tempo da dedicare alla cura di ogni singola paziente, alle quali si consentiva di uscire e di passeggiare negli immensi giardini del manicomio, o, accompagnate, di fare loro visitare la città: cose, fra l’altro, di non poca importanza terapeutica. Come primario di psichiatria non avevo invece alcuna autonomia se non nelle decisioni che riguardavano le scelte cliniche e terapeutiche, ma non in quelle che rientravano nei programmi di una psichiatria sociale: anche quando consisteva semplicemente nel fare accompagnare in giardino le pazienti, o i pazienti. Nulla di male agli occhi di una disciplina medica, certo, ma non agli occhi di una psichiatria consapevole della importanza che nella cura, alla quale non basta la sola somministrazione farmacologica, non sempre necessaria del resto, hanno le relazioni umane, e i contesti sociali che ad esse si accompagnano.

L’immagine sociale. Il cambiamento di immagine sociale, questa la cosa meno importante, è stato a suo modo radicale. La direzione di un ospedale psichiatrico destava una risonanza sociale che, sia per l’autonomia e il potere che essa aveva, sia per l’immagine sociale alla quale si accompagnava, sia per la sua connotazione vagamente elitaria, non si allontanava del tutto da quella, certo ben diversa, della direzione di una clinica universitaria. Uno psichiatra, con il quale è iniziata la nostra comune carriera universitaria nella clinica di Milano, e al quale sono stato, e sono, unito da comuni ideali e sono stato, e sono, piú vicino nella concezione di una psichiatria umana e gentile, Alberto Giannelli, autore di bellissimi lavori ad ampio spettro culturale, vinceva non ancora quarantenne il concorso a direttore della clinica psichiatrica della Università

di Sassari, con la prospettiva fra l’altro di potere tornare dopo qualche tempo a Milano, e nondimeno rinunciava alla cattedra, scegliendo invece di dirigere l’ospedale psichiatrico di Bergamo. Una perdita mai colmata per la psichiatria universitaria italiana, che egli avrebbe saputo radicalmente rinnovare, ma il segno anche della importanza che la direzione manicomiale negli ultimi anni della sua sopravvivenza continuava nonostante tutto ad avere: sulla scia delle cose che Basaglia stava realizzando a Trieste, e che ciascuno di noi si augurava di potere fare, sia pure in modi diversi, nei nostri manicomi. Alla direzione dei manicomi si giungeva talora, come a Gorizia, a Bergamo e a Novara, da cliniche universitarie, cosa che non avveniva piú dopo la legge del 1978, che moltiplicava i primariati ospedalieri di psichiatria, ai quali sono chiamati psichiatri che si sono formati in scuole di specializzazione quasi tutte orientate a insegnare una psichiatria farmacologica, e fondata sullo studio del DSM. In Italia non ci sono nemmeno piú libere docenze che, se non altro, come avviene in Germania e in Svizzera, obbligavano a scrivere qualcosa di psichiatria: una disciplina nella quale si può vivere e morire senza essersi mai aggiornati se non sugli ultimi farmaci che di volta in volta entrano in commercio, e che, almeno in psichiatria, non sempre sono migliori dei farmaci precedenti che in molti casi non hanno perduto la loro efficacia terapeutica. Ma sono oggi i medici di base a prescrivere senza fine ansiolitici e antidepressivi.

Le direzioni sanitarie. Cambiando i luoghi di cura della psichiatria, oggi reparti ospedalieri, cosa cambiava nelle relazioni con le amministrazioni e con le direzioni sanitarie, e con i primari delle altre discipline mediche? Come cambiavano le relazioni con le pazienti e i pazienti, e le loro risonanze emozionali ad ambienti cosí diversi da quelli manicomiali? Nulla era piú come in manicomio: le direzioni sanitarie, che a Novara si sono alternate nel corso degli anni (ne vorrei escludere una di grande sensibilità umana e culturale, ma è durata poco) guardavano alla psichiatria, e cosí la piú parte degli altri primari, come ad una disciplina estranea e anarchica che aveva poco di realmente medico e di scientifico, che non

serviva all’ospedale, e creava solo conflitti. Le direzioni sanitarie non si curavano della inadeguatezza degli spazi di degenza non terapeutici nei riguardi di disturbi problematici e complessi, come sono quelli psichici, che hanno bisogno di cure in spazi aperti, e dialogici. Gli anni si snodavano senza fine l’uno dopo l’altro, gli spazi di cura non cambiavano, e continuavano le contestazioni al nostro modo di fare psichiatria. Le differenze nella progettazione e nella articolazione delle due psichiatrie, manicomiale l’una, ospedaliera l’altra, sono state insomma radicali, anche perché alla formazione culturale di un direttore sanitario di un ospedale è radicalmente estranea la comprensione dei complessi snodi tematici della psichiatria. Non era del resto possibile una qualche collaborazione con le altre discipline ospedaliere: quasi tutte orientate, lo ripeto, a considerare la psichiatria come estranea alla medicina. Come avrei potuto non avere una acuta nostalgia, ne ho parlato nella prima parte di questo mio lavoro, degli anni trascorsi in manicomio, della libertà e del rigore scientifico, con cui svolgevamo l’assistenza e la cura delle pazienti, nel rispetto della loro sensibilità e della loro dignità, delle loro esigenze di dialogo, e di ascolto delle attese e delle speranze che erano in loro? (Addio al tempo, al tempo dell’orologio, e al tempo vissuto, senza fine dedicato all’ascolto delle pazienti, addio alla comunità di cura che in manicomio ci univa, medici e infermiere, assistenti sociali e sorelle religiose, addio alle assemblee che univano pazienti e volontari, giovani e non piú giovani, in comuni discussioni, addio alle passeggiate delle pazienti lungo i viali del manicomio, addio ad una psichiatria che ci portava a guardare alla follia come ad un’esperienza che fa parte della vita).

Il modo di fare psichiatria. Come cambiava, vorrei ora chiedermi, il modo di entrare in relazione con le pazienti e i pazienti nella psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara? Sí, la fragilità e la vulnerabilità della follia, della sofferenza che ne è il background radicale, si curavano meglio nelle stanze sperdute e precarie, e nondimeno molto piú luminose e ampie, del vecchio manicomio. La legge di riforma ha consentito di giungere alla chiusura di manicomi che non avevano

nulla di terapeutico, e non di rado nulla di umano, e allora una qualsiasi altra modalità di cura della follia sarebbe stata migliore. Non è ovviamente la prima volta che nella storia delle idee la eliminazione del male, della psichiatria manicomiale, trascina con sé il sacrificio del bene, di quelle particelle di umanità che in alcuni manicomi sopravviveva. Certo, Basaglia moriva a cinquantasei anni, nel 1980, due anni dopo l’approvazione della legge di riforma, e non ha potuto conoscere quello che aveva nondimeno presagito, e cioè che dai servizi ospedalieri di psichiatria non sarebbero scomparse le tracce di una psichiatria manicomiale. A Novara, come dicevo, queste tracce non c’erano: non contenzioni, non finestre sbarrate, non porte chiuse, o murate, ma apertura al dialogo e all’ascolto, alla accoglienza e alla comprensione, dei pazienti, con cui creare una comunità di cura: sia pure fragile. Questo è stato possibile, nonostante la precarietà dei luoghi di cura, solo perché una comune passione e una comune partecipazione al dolore dell’anima e del corpo, alla angoscia e alla tristezza, alla disperazione, dei pazienti, univa psichiatri e infermiere e infermieri, che venivano dal manicomio femminile e da quello maschile, coordinati da una straordinaria caposala, che veniva invece dall’ospedale, Claudia Mantovan, e che era dotata di gentilezza, e di grandi capacità di ascolto. Certo, le degenze erano brevi, i letti pochi, e le dimissioni rapide; e non mi era possibile non avere nostalgia dei lunghi colloqui che l’essere in manicomio ci consentiva di avere con le nostre pazienti. Le depressioni monopolari si potevano curare adeguatamente, quando erano in fase acuta, ma le cose cambiavano quando, come talora avviene, esse assumevano andamenti lenti e strascicati, in persone anziane in particolare, piú resistenti alla azione terapeutica dei farmaci antidepressivi: abitualmente idonei a condurre a risoluzioni cliniche complete. Queste difficoltà, e queste problematiche cliniche, non impedivano in ogni caso che da noi i valori etici e umani fondamentali non venissero mai lacerati: anche se non è stato facile. Non era facile invece confrontarsi con le depressioni bipolari che sono le condizioni cliniche nelle quali la tristezza si alterna con una eccitazione patologica, con una euforia patologica, associate ad aggressività, e bisognose di farmaci, certo, ma anche di grandi spazi, che consentano ai pazienti di muoversi senza fine. Ancora piú precaria è la cura delle schizofrenie, le condizioni psicopatologiche piú enigmatiche, e complesse, che a loro volta hanno bisogno di accoglienza e di solitudine: necessarie ad arginare le

cascate di angoscia e di dissociazione psichica che dolorosamente le contrassegnano. Sono temi, questi, che ho descritto e analizzato in molti miei lavori, e che ho voluto ora indicare nelle loro linee tematiche essenziali.

Alcune riflessioni. La chiusura dei manicomi ha costituito, e costituisce, un avvenimento di una importanza storica tale da potere ricordare la liberazione dalle catene, a cui erano legati i pazienti psichici, realizzata a Parigi, alle soglie dell’Ottocento, da Philippe Pinel. Ma questo, insieme alla crescente importanza della psichiatria nella comprensione e nella cura di malattie fisiche numerose e complesse, non basta perché le amministrazioni e le direzioni sanitarie si interessino della psichiatria, dei luoghi, e delle atmosfere psicologiche e sociali, di cui si ha bisogno in psichiatria. Gli investimenti finanziari sono rivolti alle grandi discipline mediche e chirurgiche, radiologiche e di laboratorio, ma non a migliorare le condizioni di vita ospedaliera delle pazienti e dei pazienti psichici. La psichiatria negli ambienti ospedalieri non desta in pratica alcun reale interesse. La nostalgia apparentemente cosí antistorica e arcaica della psichiatria che si svolgeva in un manicomio, come il nostro, non è nondimeno tale, lo ripeto senza fine, da non farmi dire che in Italia solo la cancellazione dei manicomi consentiva di immaginare e di realizzare una psichiatria adeguata alla sensibilità e alla fragilità, alla gentilezza e alla vulnerabilità della follia.

La psichiatria territoriale. Se i servizi ospedalieri di psichiatria destano oggi le riserve che ho esposto nei riguardi della cura e della assistenza delle pazienti e dei pazienti con disturbi psichici acuti, non potrei non ridire la straordinaria importanza che la legge 180 ha avuto nella progettazione e nella articolazione dei servizi territoriali, che consentono di seguire i pazienti (che non hanno bisogno, o non hanno piú bisogno, di degenze ospedaliere) negli ambulatori, nelle comunità terapeutiche, e anche a casa. A Novara, la psichiatria territoriale è radicalmente separata da quella

ospedaliera, ha ambulatori, e due comunità, ciascuna di venti posti-letto, e svolge contestualmente, in quelli che erano i reparti del manicomio maschile (bene ristrutturati), funzioni farmacoterapeutiche e psicoterapeutiche nelle condizioni di sofferenza psichica acuta, e socioterapeutiche in quelle non piú acute. Le comunità e gli ambulatori si intrecciano le une agli altri in un discorso di cura quanto mai gentile e umano, e nemmeno lontanamente confrontabile con quello che mi è stato possibile constatare in alcuni reparti ospedalieri di psichiatria dei quali già ho scritto. Ci sono larghi spazi di incontro quotidiano, e splendide attività di animazione, e di socializzazione, che tolgono alle comunità qualsiasi traccia di quello che sono state nel passato. I giardini sono comuni sia ai servizi psichiatrici sia a quelli di medicina legale, e amministrativi, della azienda sanitaria locale di Novara, e i pazienti, che sono in comunità, sciamano ogni giorno tranquillamente nei bellissimi giardini. Il manicomio di Novara non era, come invece accadeva quasi dovunque, lontano dalla città, ma quasi vicino al suo cuore, e già questo ne ammorbidiva l’immagine: quasi un immenso misterioso castello kafkiano che risuonava di dolore, e di speranze: anche se infrante. (Lontano dalla città, e immerso in una campagna silenziosa, ma desertica, è invece il nuovo ospedale psichiatrico che avrebbe dovuto sostituire quello nel quale si sono svolti tanti anni della mia vita, e che la legge di riforma non ha ovviamente consentito di utilizzare come luogo di cura. Un ospedale come cittadella assediata con la sua chiesa e i suoi molti padiglioni che avrebbero dovuto ospitare non so quanti pazienti. Sono stato il solo a contestarne la costruzione, inutilmente, e oggi è sede di istituti scolastici che studenti e insegnanti hanno fatto rinascere dalle ceneri).

Dissonanze. Non tutte le psichiatrie territoriali si svolgono seguendo i modelli di cura e di assistenza che a Trieste, e anche a Novara, si uniformano agli ideali della legge di riforma, ai quali le aziende sanitarie locali dovrebbero adeguarsi; ma uno dei meriti storici ineguagliabili della legge è stato proprio questo: l’avere associato alla chiusura dei manicomi, e alla apertura dei servizi ospedalieri di psichiatria, la sua articolazione territoriale nei modi, che ho indicato, e nell’orizzonte di una strategia di cura che si occupi non solo della sofferenza

di chi sta male, ma anche di quella delle famiglie, che hanno bisogno di essere assistite, e di non essere lasciate sole. Non c’è piú una sola sede manicomiale lontana dalla casa, in cui si abitava, ma ci sono piú sedi ospedaliere che si accompagnano ad ambulatori e a comunità terapeutiche non lontane dai luoghi di residenza. Certo, Leitmotiv del mio discorso, è una psichiatria, questa, che non può essere realizzata se non ci si immedesima nella grande rivoluzione etica, immaginata da Basaglia, che si nutre di quella che chiamerei ancora una volta la leopardiana passione della speranza, che consente di vivere la psichiatria come vocazione: parola antica, velleitaria, utopica e nondimeno essenziale alla comprensione di una sconfinata sofferenza come è quella psichica. Una vocazione che si confronta oggi con il dilagare inarrestabile dei pregiudizi che fanno di ogni erba un fascio: basta l’essere stati sfiorati da una condizione depressiva, o ancora di piú l’essere stati ricoverati in una struttura psichiatrica ospedaliera con la diagnosi di depressione, anche solo per qualche giorno, guarendo, perché si sia considerati malati psichici, nel migliore dei casi, se non malati pericolosi, dai quali bisogna guardarsi: allontanandoli, e isolandoli. Non serve a nulla insistere sul fatto che la depressione-malattia, da cui oggi si guarisce, se si è curati con adeguate somministrazioni farmacologiche antidepressive, è diversa dalla depressione - stato d’animo, quella che possiamo chiamare malinconia, tristezza, o male di vivere (la parola tedesca Stimmung ne dice la fragile musicalità) che non ha nulla di patologico, e che fa parte della vita: rendendola sensibile alla comprensione e alla accoglienza del dolore. Cosa sarebbe la poesia di Giacomo Leopardi, intessuta di indicibile grazia, e suscitatrice di un infinito stupore del cuore, senza la malinconia, la dolce malinconia, ma anche la dolorosa malinconia, che lo ha accompagnato per tutta la vita?

L’impossibile diviene possibile. In una delle sue conferenze brasiliane mi sembra di cogliere il senso radicale e profondo del pensiero di Franco Basaglia. «L’importante è che abbiamo dimostrato che l’impossibile può diventare possibile. Dieci, quindici, venti anni addietro era impensabile che il manicomio potesse essere distrutto. D’altronde, potrà accadere che i manicomi tornino a essere chiusi e

piú chiusi ancora di prima, io non lo so! Ma, in tutti i modi, abbiamo dimostrato che si può assistere il folle in altra maniera, e questa testimonianza è fondamentale. Non credo che essere riusciti a condurre un’azione come la nostra sia una vittoria definitiva. L’importante è un’altra cosa, è sapere ciò che si può fare. È quello che ho già detto mille volte: noi nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, non possiamo vincere. È il potere che vince sempre. Noi possiamo, al massimo, convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare». Sono considerazioni che nella loro drastica chiarezza ci dicono che l’idea di manicomio può sopravvivere alla apparente distruzione della istituzione manicomiale.

Le ultime cose. La psichiatria che è possibile oggi fare è la migliore delle psichiatrie possibili: questa è l’eredità che Franco Basaglia ci ha lasciato, e che con il passare degli anni si dimostra sempre piú stupefacente; ma la psichiatria, che egli ha progettato e realizzato, si diceva, ha bisogno di grandi slanci ideali, di una viva passione della speranza, e di una grande cultura, clinica e psicopatologica, ma semplicemente umana, per fare riemergere le sue straordinarie potenzialità assistenziali e terapeutiche, e anche scientifiche. Il volto della psichiatria è in ogni caso cambiato: le sovrastrutture manicomiali sono state cancellate da una psichiatria, che è ancora ospedaliera, ma è divenuta (anche) territoriale e comunitaria; da una psichiatria che si è costituita nella sua piú profonda ragione come psichiatria interpersonale, e psichiatria sociale, e che nondimeno ha bisogno dello slancio ideale, e della rinascita emozionale e culturale, non solo degli psichiatri ma delle équipe infermieristiche e sociali che fanno parte ineliminabile di una psichiatria ospedaliera, territoriale e comunitaria. Nella parte a seguire di questo lavoro saranno indicate le linee tematiche essenziali di una psichiatria che rinnovi e aggiorni gli ideali di Basaglia.

IV.

La psichiatria del futuro

La psichiatria è entrata negli ospedali civili, e fa parte del servizio sanitario nazionale; ma cambiare e migliorare radicalmente le strutture e i modi di fare psichiatria non basta se, come ancora oggi avviene, si dà esclusiva importanza ai farmaci, e se la cura non si nutre di attenzione e di ascolto, di sensibilità e di passione, di vicinanza emozionale, e di capacità nel cogliere il senso che si nasconde nella sofferenza psichica, nella follia, e se non si è consapevoli della enorme importanza che nella cura hanno le parole. L’homo faber, l’homo robot, dilaga in noi, nella vita di ogni giorno, e in psichiatria, che nondimeno non può non essere orientata alla relazione, al colloquio, donando a chi sta male tutto il tempo necessario. Solo se la psichiatria del futuro saprà recuperare questi valori, che le mie pagine vorrebbero ora ricostruire nelle loro linee essenziali, rinasceranno gli ideali che hanno animato l’opera di Basaglia, e che oggi tendono ad essere oscurati da una psichiatria divorata dalla tecnica che è il nocciolo conoscitivo del DSM.

Il cuore della riforma. La conseguenza radicale e sconvolgente della legge di riforma è stata la chiusura degli ospedali psichiatrici, e questo, a quarant’anni dalla sua realizzazione, non può non essere continuamente ricordato nella sua rivoluzionaria significazione storica; ma non sono sempre ricordate le premesse teoriche che sono state a fondamento del pensiero e dell’azione di Basaglia, e alle quali la psichiatria del futuro dovrebbe guardare con estremo interesse e con quella leopardiana passione della speranza che ho invocato. Il cuore della rivoluzione, che ha cambiato il modo di fare psichiatria, si rispecchia in quello che Basaglia ha scritto: noi psichiatri non possiamo non andare alla ricerca di un ruolo che non abbiamo mai avuto, e che ci consente, per quanto è possibile, di metterci alla pari con chi sta male in una dimensione in cui la malattia, come categoria, è messa fra parentesi. Solo cosí

è possibile entrare in immediata relazione di cura con chi è immerso nell’angoscia e nella tristezza, nell’inquietudine e nella disperazione, nelle allucinazioni e nei deliri, e ha bisogno di essere accolto e aiutato nel suo dolore e nella sua dignità ferita. Non potrei ora non dire che la psichiatria manicomiale non è scomparsa nel concreto agire di non pochi psichiatri, e continua a svolgersi nella esclusiva attenzione alla malattia, e non alla interiorità, alla soggettività, alla storia della vita dei pazienti; ignorando la radicale importanza delle emozioni nella conoscenza e nella cura della sofferenza psichica: non piú considerata come qualcosa da analizzare con la freddezza di un chirurgo che taglia e ricompone un organo malato, ma come ferita viva e sanguinante da curare con sensibilità e gentilezza, con vicinanza emozionale e introspezione, con insonne immedesimazione nella storia della vita di chi sta male, cosí da rifondare una psichiatria aperta agli orizzonti della psichiatria sociale. Insomma l’opera di Basaglia, lo vorrei ripetere, non si comprende fino in fondo se non è ricondotta alle sue sorgenti che sono state quelle fenomenologiche; e non è la mancanza di strutture alternative alla ospedalizzazione, o di adeguate forme di assistenza alle famiglie dei pazienti, a non consentire di realizzare le istanze normative della legge di riforma, ma la mancata valorizzazione degli ideali etici e sociali che ne sono a fondamento. A questi ideali, alla loro realizzazione, dovrà guardare una psichiatria del futuro che intenda essere umana e gentile.

Le mete ideali. La psichiatria ideale non potrà nel futuro non avviarsi alla eliminazione delle contenzioni e degli elettroshock, come forma crudele di terapia delle schizofrenie, e delle depressioni, e non potrà non confidare in una nuova generazione di psichiatri che sappiano trovare slancio e immaginazione per rilanciare e ricostruire modelli perduti di fare psichiatria che si richiamino a quelli che hanno cambiato gli orizzonti di senso della psichiatria manicomiale. Come dare un’anima alla rivoluzione incompiuta non è possibile dire, e nemmeno prevedere, anche se i sentieri ne sono tracciati nelle loro attese e nelle loro speranze, nella loro concretezza e nella loro storicità, nelle iniziative che Basaglia ha immaginato, e ha realizzato. Sarà

necessaria una rivoluzione complementare, vorrei chiamarla cosí, che ridia slancio e passione ai contenuti della legge, dalle straordinarie implicazioni teoriche e pratiche, e che sconfigga le indifferenze e le inerzie degli psichiatri, e della opinione pubblica, divenuta estranea al tema che, negli anni Settanta, ha accompagnato coralmente il lavoro di superamento del manicomio. La disattenzione politica nei confronti della psichiatria, dei problemi umani e sociali della psichiatria, ha molto concorso nell’indebolire e nel mettere fra parentesi i grandi ideali della legge, ed è a questi che bisogna tornare, magari storicizzandoli nei modi applicativi, ma senza pensare a inutili modifiche, o integrazioni, che distraggano dalla considerazione dei roventi problemi ancora non risolti: quello dei servizi ospedalieri di psichiatria nei quali, come dicevo, si continuano a contenere i pazienti, a tenere le porte chiuse, e le finestre gelidamente sbarrate, che accentuano nei pazienti la solitudine autistica, e quello della somministrazione di spropositati cocktail farmacologici stralciati dai contesti relazionali che non possono non essere di natura psicoterapeutica e socioterapeutica.

Non dimenticare. Il drago dell’oblio è sceso crudelmente sui luoghi del deserto manicomiale, su questi luoghi di infinito dolore, e di indicibile solitudine. Un’epoca, la nostra, nella quale si vive il presente, e nel presente, dimenticando il passato, e non guardando al futuro, che non può non riannodarsi al passato: come ci dice la splendida immagine di sant’Agostino che definisce la speranza come memoria del futuro. Non si può capire cosa sia la psichiatria, se non si riflette sugli abissi di dolore che si accompagnava alla sofferenza psichica, alla sua solitudine e al suo isolamento in manicomio, e che contrassegnava i giorni e le notti di persone giovani e di persone anziane, di persone giovani che divenivano anziane, senza mai muoversi magari da un locale, da uno stesso locale, o magari da una sedia, da una stessa sedia. Non tutti i manicomi erano cosí: non lo era, lo vorrei ancora ripetere, quello di Novara, almeno nella sua parte femminile, nel quale siamo riusciti in tempi anche brevi a ricreare condizioni umane e gentili di vita. Sí, la follia femminile sa resistere meglio al dolore, e sa esprimere il dolore con

emozioni e con parole piú intense, e creatrici; e dare parole al dolore, farne partecipare un altro da noi, significa almeno un poco mitigarlo. Le parole di queste pazienti sono raccolte nei miei libri, e sia pure nel tempo brevissimo di un mattino sono state salvate dal naufragio, e dal silenzio. Sono parole che nella mia memoria sono ricollegate alle lacrime e al sorriso, alla gentilezza inerme e indifesa delle pazienti; e questa è stata talora la psichiatria manicomiale. Alla memoria delle persone ferite nella loro anima si dovrebbe accompagnare la memoria dei luoghi da loro abitati, e da loro vissuti nel dolore e nella speranza contro ogni speranza, anche se ora sono presenti solo alla memoria di chi li ha conosciuti. Sono luoghi, sigillati dal dolore, dei quali dovremmo avere cura e rispetto: come di cose che sono state segnate dalla sofferenza. Sono cose che, lo vorrei ripetere, nelle scuole, anche in quelle primarie, dovrebbero essere ricordate e illustrate; e questo al fine di fare capire cosa sia la sofferenza psichica, di quale sensibilità, e di quale fragilità, sia nutrita, e come possa manifestarsi in ciascuno di noi. Solo cosí – la cosa è avvenuta in alcune scuole austriache –, si smorzerebbero i pregiudizi ancora dilaganti che considerano la sofferenza psichica una forma di vita estranea alla condizione umana, e destituita di senso; ignorandone la gentilezza e la tenerezza, la solitudine e la disperazione, la nostalgia di un sorriso e di una lacrima. Sono indicazioni, queste, che si comprendono nel loro radente significato umano solo se la psichiatria sia riconosciuta e sia vissuta nella sua articolazione non solo tecnica, e scientifica, ma etica, che la psichiatria del futuro dovrebbe cercare disperatamente di realizzare nella sua complessa e ardente ricchezza umana: inconciliabile con la sua riduzione a scienza naturale.

Le parole in psichiatria. Non si è mai data grande importanza, in psichiatria, alle parole che si rivolgono ai pazienti: non pensando alle risonanze dolorose che le parole indifferenti e crudeli trascinano con sé. Un tema, già svolto in alcuni miei lavori, certo, che vorrei ora riformulare brevemente nell’orizzonte di una psichiatria che dal passato e dal presente si progetti in un futuro intessuto di

speranza, e indirizzato al rispetto della fragilità e della dignità della follia. Un tema al quale, in una psichiatria rifondata eticamente sulle macerie di quella manicomiale, non si può non dare grande importanza nell’orizzonte di quella che dovrebbe essere la psichiatria del futuro, e al quale non ci si dovrebbe mai stancare di pensare. Un tema che nei testi di psichiatria clinica non è nemmeno accennato, e semmai liquidato come arcaico e antiscientifico. Ne vorrei invece ancora una volta sottolineare l’enorme significazione diagnostica e terapeutica, e non solo in psichiatria. Da Hugo von Hofmannsthal, un grande scrittore austriaco del secolo scorso, dalla straordinaria sensibilità e dalle grandi intuizioni psicologiche, le parole sono chiamate creature viventi. Nascono, si modulano, si modificano, cambiano, negli incontri che abbiamo in vita, ridestando risonanze emozionali molto diverse: talora serene e gioiose talora dolorose e scarnificanti. Sono impegnative per chi le dice, e per chi le ascolta, cambiano nel loro significato nella misura in cui cambiano i nostri stati d’animo, le nostre emozioni e le nostre passioni; e cosí non è facile coglierne fino in fondo le risonanze che destano in noi e negli altri. Una volta dette, non ci appartengono piú, e cambiano in arcana relazione con il linguaggio del sorriso e delle lacrime, degli sguardi e dei gesti, e del silenzio: sí, anche il silenzio parla, bisogna saperlo ascoltare, ed esserne in dialogo senza fine. Il cammino delle parole, di quelle che diciamo, e di quelle che ascoltiamo, è misterioso. Le parole, che sono belle e creatrici in un determinato contesto, possono non esserlo in un altro, ed è necessario saperle riconoscere nelle loro luci e nelle loro ombre, nei loro orizzonti aperti alla speranza e in quelli chiusi alla speranza. Quando la psichiatria si confronta con esperienze complesse, come sono quelle psicotiche, avrebbe ancora piú bisogno di parole fragili e silenziose che siano capaci di creare relazioni di cura. Senza queste parole non è possibile fare riemergere il discorso infinito del dolore e dell’angoscia, della tristezza e della disperazione, delle inquietudini del cuore e dei trasalimenti dell’anima, delle voci e del silenzio, che fanno parte di ogni condizione umana di sofferenza. In particolare, le parole da dire ad una paziente depressa, smarrita e disperata, devono essere in sintonia con il suo modo di vivere il tempo: vive nel passato, e il futuro rinasce lentamente a mano a mano che la malattia si spegne. Ancora meno facili le parole da dire ad una paziente lacerata dalle ombre di una schizofrenia – ci sono nondimeno forme

lievi e forme gravi – che la rende sensibile ad ogni parola che non sia gentile e attenta a non destare insicurezza, o sentimenti di persecuzione. La psichiatria del futuro non consideri futili, o rapsodiche, queste apparenti divagazioni linguistiche, sí, sconosciute alle psichiatrie manicomiali, e non solo.

Le parole che non fanno male. Non troveremo mai le parole che non fanno male, e che aiutano le persone che vivono nel dolore, se non essendo capaci di immedesimarci nelle loro emozioni, e di riviverle per quanto è possibile in noi. Non ci sono ricette, non ci sono consigli, in questo campo, ed è solo necessario affidarsi alle antenne leggere della intuizione e della sensibilità personali. Ci sono psichiatri e psicologi che non le hanno, e persone semplici che le hanno: sono antenne almeno in parte innate, anche se piú, o meno, educabili in ciascuno di noi. Certo, non si comunica con la sofferenza psichica se non quando si evitano parole indistinte e banali, ambigue e indifferenti, glaciali e astratte, crudeli e anonime. Se non siamo tristi, o ansiosi, inquieti, o disperati, le parole, anche quelle infelici, non ci toccano molto, ma, se lo siamo, o lo siamo stati, le risonanze emozionali a queste parole crescono in noi dolorosamente: lasciando ferite sanguinanti che non guariscono. Ancora: se non stiamo bene, e come può non accadere almeno in alcune stagioni della nostra vita, non potremmo mai ascoltare parole come «pazzia», «matto», «utente di servizi di psichiatria», «pericoloso», o una parola come «demenza» (sbandierata con terribile leggerezza dinanzi a qualche défaillance della memoria in persone anziane, che non si liberano piú da questa etichetta, nemmeno quando la diagnosi sia sbagliata), senza sentirci inutilmente lacerati da ferite che non guariscono talora mai piú. Sono parole, queste, che fanno del male anche a chi le dice; desertificandone la interiorità.

Non solo in psichiatria. Come ha scritto un grande oncologo francese, David Khayat, le parole

hanno un grande potere: sono in grado di portare la speranza nel cuore dei pazienti, sono il dono di una particella di umanità che insieme al sapere tecnico il medico deve tenere viva nel suo cuore. Molte volte alla sua consulenza giungevano persone ferite dalle parole troppo dure, inumane, che i medici avevano detto loro. Le parole di un medico, oncologo, o non oncologo, non sono mai incolori, non sono mai neutrali, o insignificanti, e lasciano tracce profonde nel cuore di una paziente, o di un paziente, che ne è in dolorosa attesa. (Queste parole so di non trovarle nei testi di psichiatria, e di trovarle invece, ad esempio, nelle lettere di madre Teresa di Calcutta). Non sapendo cosa dire, e come trovare le parole che aiutano, meglio, molto meglio, tacere, e testimoniare il dolore con una semplice stretta di mano che, lo diceva Paul Celan, uno dei grandi poeti di lingua tedesca del secolo scorso, che moriva suicida nelle acque della Senna, gli sarebbe stata (sola) di aiuto. La grazia misteriosa della intuizione ci consente di trovare le parole che sono di aiuto nelle ore del dolore, e dell’angoscia, e delle quali non può non andare alla ricerca una psichiatria che rivolga lo sguardo al futuro. Sí, quante considerazioni ancora dedicate in un mio libro alla tematica del linguaggio che è di una radicale drammatica importanza nella vita di ogni giorno, e che dovrebbe essere tenuta costantemente presente in una psichiatria, quella del futuro, che sia indirizzata a riempire di contenuti umani la vita della sofferenza, e le strutture delegate alle diverse modalità della sua cura.

Cristina Campo. Un tema molto vasto, e camaleontico, questo delle parole, della loro fenomenologia e delle loro articolazioni tematiche, che non si finisce mai di analizzare, direi, nelle aree delle scienze umane, e la psichiatria ne fa parte. Cosí, anche nella vita di ogni giorno, è necessario rimeditare le parole che diciamo, valutandone le risonanze negli altri, e non dimenticando che esse hanno un proprio destino. Dicono sempre molto alla mia immaginazione e alla mia speranza le parole arcane e stellari di Cristina Campo. Non so quanti ne conoscano la leggerezza e la profondità vertiginose del pensiero che si riflettono, direi, in queste citazioni: «Ogni parola si offre nei suoi multipli significati, simili alle faglie di una colonna geologica e abitata: ciascuna

diversamente colorata e abitata, ciascuna riservata al grado di attenzione di chi la dovrà accogliere e decifrare. Ma per tutti, quando sia pura, ha un colmo dono, che è totale e parziale insieme: bellezza e significato, indipendenti e tuttavia inseparabili, come in una comunione»; e infine con stremata tenerezza: «La parola del maestro, dice un racconto ebraico, appariva a ciascuno un segreto destinato all’orecchio suo e a nessun altro: sicché ciascuno sentiva come sua, e completa, la storia meravigliosa che egli narrava nelle piazze e di cui ogni nuovo venuto non udiva che un frammento». Non è, questa, una bellissima immagine, una arcana metafora, di quello che avviene, o almeno può avvenire, quando fra chi parla e chi ascolta nasce una consonanza misteriosa che consente all’uno e all’altro, anche in una assemblea, e non solo in una relazione duale, di entrare come in un guscio in cui ci si scambiano emozioni e pensieri nel silenzio, e nella accoglienza? Non si avverte come il respiro del mistero che ci porta talora, quando si è in uno stato di grazia, a intuire quelle che sono le emozioni di una persona ancora prima che le esprima? Sono intuizioni che, lo ha scritto anche, ad esempio, H. C. Rümke, il grande psichiatra olandese, consentono non di rado di giungere alla diagnosi nel momento in cui ci si incontra con una paziente, o un paziente: sulla scia, forse, di quella attenzione che Simone Weil diceva essere preghiera? Non lo so, ma so che le magiche parole di Cristina Campo sono utili alla psichiatria, ne rivelano la dimensione intuitiva, interiore, che rende ogni incontro, ogni colloquio, una sfida alla ragione. Vorrei che la psichiatria del futuro non dimenticasse la grande importanza, che la psichiatria di oggi ha ferocemente negato, della intuizione fenomenologica nella conoscenza della vita psichica normale, e patologica. Non tutto il passato, in psichiatria, merita di essere cancellato, o addirittura demonizzato: non potrei non ribadirlo.

Ascoltare. Le parole necessarie alla cura si trovano solo se siamo educati e abituati ad ascoltare, ma come ascoltiamo in psichiatria? Non posso dimenticare il cambiamento profondo che nel manicomio femminile di Novara si è accompagnato al nostro stare accanto alle pazienti giovani e anziane, ascoltandole di giorno in giorno, e facendo rinascere in loro risorse smarrite,

ma non perdute. Oggi, invece, non di rado, ci sono tempi di ascolto sempre piú brevi, domande orientate alla conoscenza dei sintomi, e non della storia della vita, che dia significato ai sintomi. Ci sono infiniti modi di ascoltare, e non si è capaci di ascolto, in particolare in psichiatria, se non quando si tengano presenti le attese e le speranze dei pazienti, e ci si metta in sintonia con quella che è la loro esperienza del tempo interiore. Quante infinite occasioni di ascolto noi abbiamo, ma quante volte siamo capaci di immedesimarci nei pensieri e nelle emozioni delle persone, malate o non malate, con cui entriamo in comunicazione? Quante sofferenze, e quante ferite, eviteremmo, se ogni volta seguissimo il cammino che porta a presagire quello che avviene in noi, nella nostra interiorità, e in quella degli altri: nelle loro attese, giuste o sbagliate, silenziose o gridate. In ogni nostra giornata siamo circondati da sciami di attese; quelle delle persone che assistiamo, o curiamo, che chiedono aiuto: l’aiuto di una parola, di uno sguardo, di un gesto, di una semplice stretta di mano, l’aiuto anche delle persone che di volta in volta la vita, la vita quotidiana, ci fa incontrare. Ma può essere l’attesa di un mendicante che ci passa davanti, e noi non riusciamo nemmeno a salutare, ad ascoltare e ad accogliere: perduto negli abissi di una solitudine che la nostra indifferenza esclude da ogni speranza, da questa goethiana stella cadente, senza la quale non è possibile vivere, e nemmeno sopravvivere. Sí, l’ascolto delle parole che ci vengono da chi ha conosciuto, e ha attraversato, la sofferenza, non può non essere uno dei primi passi nel cammino verso quella che dovrebbe essere la psichiatria del futuro.

Le cicatrici. L’ombra, che resta accanto a chi ha conosciuto la sofferenza psichica, talora non si cancella in vita e talora si fa esile fino a dissolversi. Non si cancella piú l’ombra, che rinasce dalle esperienze psicotiche, dalle esperienze schizofreniche, e diviene cicatrice che non guarisce, e continua a sanguinare, quando i ricordi del tempo della malattia riemergano dalla memoria, e non si riesca a farli tacere. Sono ricordi strazianti che talora sciamano nel fiume dell’angoscia mortale e della morte volontaria. Le categorie cliniche di guarigione e non guarigione non si adattano

facilmente alla complessa e dilemmatica realtà delle esperienze psicotiche nelle quali talora i sintomi della malattia, deliri e allucinazioni, sono necessari al paziente per continuare a vivere, ed è pericoloso come si è visto cancellarli farmacologicamente perché la guarigione clinica determinerebbe un vuoto insostenibile. Una solitudine disperata. Meglio combattere con il mondo intero che non essere soli: ha scritto, lo accennavo, uno dei grandi psichiatri di lingua tedesca del secolo scorso. L’ombra, che accompagna la depressione nella sua insorgenza e nel suo decorso, si attenua a mano a mano che la malattia migliora, e quando guarisce ne scompare quasi il ricordo, ma ad essa segue una malinconia, condizione dell’anima non patologica, e che, come quella leopardiana, ci fa guardare al mondo con una nostalgia acerba e dolorosa. (Sulla malinconia ha scritto cose di indicibile straziata bellezza Romano Guardini).

La fragilità. La follia è fragile, come lo sono la timidezza e la sensibilità, e oggi si tende a non tenerne conto, cosa che non dovrebbe piú accadere in una psichiatria di domani che si proponga di farne lievitare le dimensioni fenomenologiche e umane. Su alcuni aspetti della fragilità, che abbiano a che fare con le grandi esperienze psicopatologiche, quella depressiva, e quella schizofrenica, vorrei ancora brevemente riflettere. Fragilità è parola che nei suoi vasti orizzonti semantici sconfina dalla debolezza alla vulnerabilità, dalla delicatezza alla sensibilità, e che si associa al tema della follia. Ci sono parole di moda che nascono e rapidamente muoiono; ma ce ne sono altre che la moda fa riemergere dall’oblio, e che resistono allo scorrere del tempo; mantenendo il loro senso e la loro attualità perché dotate di significati profondi e indelebili. Questo mi sembra essere il destino della fragilità: anche se non sempre si ha una chiara e adeguata coscienza della sua complessità, e della sua significazione psicologica e umana. C’è la fragilità che è ombra, smarrita stanchezza del vivere, notte oscura dell’anima (il dolore, il male di vivere, la follia), e c’è la fragilità che è grazia, linea luminosa della vita; e l’una sconfina nell’altra. Fragile nel suo immenso dolore è la follia, cosí facilmente esposta alle ferite della vita, che dovremmo rispettare e riconoscere nella sua dignità, e nella sua nostalgia di

ascolto, e di dialogo; liberandoci dal crudele pregiudizio che la considera come esperienza senza senso. La follia è fragile, e nondimeno ci fa conoscere realtà profonde della condizione umana che restano altrimenti nascoste. Sono fragili l’adolescenza con i suoi conflitti con una società che non ne sa cogliere le attese e le speranze, e la condizione anziana con le sue debolezze e le sue angosce, con i suoi desideri di ascolto, e di accoglienza. La fragilità ci obbliga a considerare la precarietà dei nostri desideri e delle nostre attese: delle nostre speranze e delle nostre illusioni: della nostra vita; ma come riconoscere le nostre fragilità, e quelle degli altri? Certo, allontanandoci dalle febbrili inquietudini delle nostre giornate con le loro frequenti distrazioni dalla nostra interiorità, e recuperando la solitudine, la grande solitudine interiore, che ci consente di scendere nelle profondità del nostro io, e che non ha nulla a che fare con l’isolamento che è la controimmagine della solitudine interiore. Non è facile salvare la nostra solitudine, questa Isola del tesoro sempre cercata, e in fondo mai trovata, ma non stanchiamoci dall’andarne alla ricerca. La solitudine è una buona compagna di strada nel cammino della nostra vita, anche se dolorosa, perché ci confronta con le nostre emozioni, e le nostre passioni, con le nostre fragilità e le nostre delusioni, che ci aiutano a comprendere quelle degli altri. Non vorremmo la fragilità in noi, e siamo ogni volta tentati di non riconoscerla, di considerarla come esperienza estranea alla nostra vita, e vorremmo rinchiuderla nelle aree delle esperienze che non ci appartengono. Certo, la follia è emblema e sigillo di fragilità, di fragilità estrema, ma insieme di solitudine, di solitudine dolorosa, che anela alla luce di una parola amica, e di uno sguardo silenzioso; ma la vita, come diceva Georg Trakl, il grande poeta austriaco, divorato dalla solitudine e dalla ricerca della morte volontaria, risuona di armonie e di morbida follia. La psichiatria del futuro non dovrebbe mai dimenticare la fragilità, come dimensione segreta della follia, e nemmeno la comunità di destino come dimensione di una cura della follia riguardata nella sua nostalgia di dialogo e di relazione senza fine fra chi cura e chi è curato.

La comunità di destino. Sono complesse le cose quando si cerca di definire nelle sue radici

fenomenologiche la comunità di destino che la psichiatria di domani, chiamata a fare sempre piú lievitare i suoi contenuti umani, dovrebbe sapere ritrovare: innestandola sul tronco della rivoluzione compiuta da Basaglia nell’anima di una psichiatria distratta da orizzonti incapaci di riconoscere i significati profondi della follia, e di curarla umanamente. Cosa si può dire allora di una comunità di destino che non è utopia ma meta raggiungibile sulla scia della conoscenza fenomenologica della vita psichica? Si ha una comunità di destino, quando si senta e si viva il destino di dolore, di angoscia, di sofferenza, di disperazione, di gioia e di speranza, dell’altro da noi: come se fosse, almeno in parte, il nostro destino. Ci si avvia insomma a creare una comunità di destino immedesimandosi nel mondo emozionale di una paziente, o di un paziente: cercando di riconoscerne e di valutarne, se sia possibile, le alte tensioni della angoscia, della tristezza, e della disperazione. Certo, la comunità di destino è visibile agli occhi del cuore, e non ai freddi sguardi della ragione cartesiana. Non c’è comunità di cura se non nell’orizzonte di una comunità di destino che rinasca nella coscienza di ciascuno di noi, e poi nelle relazioni che noi abbiamo con gli altri: nella famiglia, nella scuola, nella assistenza e nel lavoro nelle sue diverse espressioni. Riconoscersi nel destino di fragilità dell’altro significa, anche, tenere presente questa fragilità nella comprensione di comportamenti che sotto la sua luce si chiariscano nei loro significati. Solo muovendo dalla nostra interiorità, solo immergendoci nella nostra vita emozionale, è possibile rintracciare le parole, le parole della speranza e del silenzio, le parole dell’ascolto e del dialogo, che consentano a chi sta male, con le antenne che la sofferenza rende sensibilissime, di ritrovarsi in una condizione di accoglienza, e di salvezza umana. Il destino, il destino di dolore e di angoscia, di tristezza e di disperazione, diviene esperienza dolorosa della vita che si riscatta nei suoi orizzonti di senso quando si incontra con una parola, uno sguardo, un sorriso, una lacrima, che venga dal cuore. Sono comunità di anime ferite dalla vita, comunioni di destini, che rinascono nello sfondo di vite divorate oggi da ben altri orizzonti: quelli di ribalte sempre accese, di un successo ricercato con febbrile ostinazione, di ricchezze ostentate e nascoste, di una indifferenza alle ragioni del cuore e di una insensibilità al dolore, e al sacrificio. Sono comunità nutrite di speranza, visibili agli occhi e agli sguardi di chi, almeno per un attimo, abbia conosciuto le ferite dell’anima in sé, e negli altri. Sono comunità che dalla

psichiatria sconfinano nella sociologia, e dalla nostra comune terrestre forma di vita sconfinano nei modi e nei luoghi riscattati (ad esempio, dalla arcana e splendente testimonianza di una madre Teresa di Calcutta).

I grandi slanci comunitari. La psichiatria del futuro non può nondimeno non presagire, o non avere coscienza, dei cambiamenti profondi che la società ha, e avrà, nei prossimi anni, e che la renderanno ancora piú fragile. Ne vorrei dire qualcosa. I grandi slanci comunitari, che stanno a mano a mano inaridendosi, hanno contrassegnato gli anni Sessanta e Settanta quando, lo ricordavo, la cultura, anche quella politica, era sensibilissima al tema lacerante della vita nei manicomi, delle sanguinanti ferite arrecate alla dignità e alla libertà dei pazienti, che vivevano in condizioni di crudele disumanizzazione: non in tutti, certo, ma nella stragrande maggioranza dei manicomi si moriva di solitudine. Quando, in quegli anni, la realtà manicomiale si è manifestata nella sua inaudita negazione di ogni diritto e di ogni rispetto della persona, lo scandalo e la rivolta morale sono stati tali da ridestare la indignazione delle coscienze, e della società civile. Oggi, non è piú cosí, e la psichiatria del futuro non potrà piú contare su questi grandi slanci vitali, e dovrà prendere coscienza delle défaillances comunitarie e sociali dalle quali non dovrà lasciarsi sommergere. La climax dominante è quella della indifferenza ai valori della solidarietà, e della partecipazione alla sofferenza, e alla sofferenza psichica in particolare. Ci si sente, e si è, sempre piú soli, sempre piú abbandonati, sempre piú dominati dal timore che gli altri non ci ascoltino, non guardino al nostro destino; e questo in modo ancora piú radicale quando stiamo male, quando siamo inquieti e depressi, quando la sofferenza psichica scende in noi. Cresce la sensazione che non si dia alcuna umana significazione alla sofferenza: considerata molte volte come qualcosa di colpevole: come qualcosa che, se davvero lo volessimo, ci sarebbe possibile superare, e cancellare. Sí, l’indifferenza è davvero una malattia gelida e crudele della vita psichica, e in essa siamo prigionieri del deserto della speranza, che non consente alcuna reale comunicazione, alcuna sincera relazione, con il mondo delle persone e delle cose. Nella indifferenza siamo immersi in una solitudine

arida e pietrificata, che nulla ha a che fare con la solitudine interiore, con la solitudine creatrice, e che diviene isolamento. Nell’isolamento diveniamo monadi senza porte e senza finestre: negati a qualsiasi slancio altruistico, e solo immersi nei ghiacciai di un individualismo radicale. Nella indifferenza si spegne ogni possibile desiderio di comunità che è invece l’espressione, l’immagine, la metafora palpitante e viva, di una vita degna di essere vissuta anche nel dolore e nella sofferenza, nell’angoscia e nella disperazione. La psichiatria del futuro, che è sgorgata nel suo passato dalla fenomenologia, e nel suo presente dalla rivoluzione del 1978, saprà mantenersi fedele ai rinnovamenti strutturali a cui la legge l’ha portata, e saprà portare a maturazione gli ideali che ne costituiscono l’asse portante? Questa è la speranza che nasce, e non muore, nel cuore di chi ha conosciuto la psichiatria del passato nei suoi momenti migliori, ce ne sono stati, e quella del presente che ha demolito mura che sembravano intoccabili e indistruttibili, ricostruendo ponti che hanno cambiato le fisionomie del mondo.

La follia. L’ultimo capitolo di questa parte lo vorrei dedicare alla follia, alla fenomenologia della follia, della quale ogni psichiatria si occupa, ovviamente in forme e in definizioni molto diverse, descrivendo i modi di vivere e di morire di due giovani donne, l’una depressa, e l’altra schizofrenica; e questo perché chi legga questo libro abbia presenti gli sconfinati orizzonti di angoscia e di dolore, di tristezza e di disperazione, ma anche di gentilezza e di delicatezza, di fragilità e di speranza infranta, che non mancano mai nella follia, e che nella sua storia di frequente la psichiatria ha dimostrato di non conoscere, e di sbriciolare. Sono due pazienti, che ho incontrato nella mia vita, l’una in manicomio e l’altra al di fuori del manicomio, e che dimostrano come la follia sia intessuta di sofferenza umanissima, e non vorrei che fosse dimenticata dalla psichiatria del futuro, alla quale è delegato il compito di non lasciarla soffocare e sommergere dalle cascate inarrestabili della tecnica nelle sue molteplici forme di espressione. Sono solo due pazienti ma nella loro sintomatologia si rispecchiano i modi di essere essenziali delle due emblematiche esperienze psicopatologiche, quella depressiva e quella

schizofrenica, che si intrecciano idealmente alle molte altre che nei miei lavori e nei miei libri ho descritto nel succedersi vertiginoso degli anni e dei luoghi di lavoro. Ne intendono essere testimonianza umana e clinica che diano un’anima alle pagine finora dedicate a considerazioni metodologiche e teoriche.

Le ferite dell’anima. La psichiatria non si occupa solo di depressioni patologiche, di depressioni che hanno bisogno di psicofarmaci, ma, insisto nel dirlo, di depressioni che fanno parte della vita di ciascuno di noi, e hanno bisogno di parole che curano, e aprano il cuore alla speranza, delle quali è necessario andare alla ricerca, e non di soli farmaci che non sempre sono utili. Cosa è possibile dire ad una paziente, o ad un paziente, lacerati dal dolore, dal dolore dell’anima e dal dolore del corpo, cosí facilmente uniti l’uno all’altro, che chiedono disperatamente aiuto? Le parole non sono facili da trovare, e talora non si trovano, e allora un gesto, una carezza, un sorriso, una lacrima, serve a rimuovere le ombre, o almeno le penombre, della sofferenza. Sono cose che ho conosciuto bene sia nella Clinica universitaria di Milano sia nel manicomio di Novara sia nel Servizio di psichiatria dell’Ospedale maggiore di Novara, e quando, lasciato l’ospedale, ho potuto ancora accompagnare alcune pazienti nel loro cammino. Ma anche in questo libro, dedicato alla riflessione sugli aspetti teorici e pratici della psichiatria, vorrei ancora dire qualcosa sulla storia della vita delle due giovani pazienti, Chiara e Margherita – della quale si è già incontrata una traccia poetica –, l’una depressa e l’altra schizofrenica, che ne dica la sensibilità e la gentilezza, la fragilità e la delicatezza, ancora oggi facilmente dimenticate e ignorate dalla psichiatria clinica. Ma che ne dica (anche) la presenza lacerante del dolore, di un dolore invisibile agli occhi indifferenti e distratti di una psichiatria che si occupi solo dei sintomi, delle esperienze depressive, o delle esperienze allucinatorie e depressive, scomposte e ricomposte freddamente, e non della interiorità delle pazienti e dei pazienti, della interiorità che sanguina ferita dal dolore in Chiara e in Margherita. Una testimonianza di dolore e di angoscia cosí ignorata, e cosí dimenticata, in una psichiatria che ha come suo unico testo di insegnamento e di formazione in psichiatria le diverse edizioni,

ne ho già parlato, del DSM, e in particolare quella della ultima edizione, la quinta, nella quale non c’è alcun accenno al dolore, alla sofferenza umana, alla vita interiore, alle risonanze emozionali alla malattia, come se non fossero importanti, come se non fossero premesse necessarie alla cura: alla scelta delle parole e dei gesti, del sorriso e delle lacrime, che della cura fanno parte, sia quando sia comunità di cura sia quando lo sia di destino. Non siamo davanti a malattie da curare con la fredda e autonoma somministrazione di farmaci antidepressivi, ansiolitici, o neurolettici (antipsicotici), ma a persone estremamente sensibili alle parole che ascoltano, e alla comprensione della loro sofferenza, delle loro attese e delle loro speranze infrante. Non so quale utile e umana psichiatria, nel suo essere scienza naturale ma anche, e forse soprattutto, scienza umana, scienza dello spirito (come la definisce la psichiatria di lingua tedesca), si possa fare se non si pensa, se non c’è attenzione, alla umanità ferita, al dolore dell’anima, delle pazienti e dei pazienti; e di questa umanità ferita, di questo dolore, sono testimonianza Chiara e Margherita: vorrei che le loro parole venissero meditate, e non venissero dimenticate.

Chiara. Questa è Chiara: una giovane madre che ha perduto il suo unico figlio di dieci anni. La sua vita si è svuotata di senso, le giornate, tutte uguali, nascevano e morivano senza lasciare traccia. Lavorava come maestra in una scuola materna in contatto con tanti bambini, che le ricordavano senza fine il suo, e l’amore, che dedicava loro, era la sua sola ragione di vita, nella solitudine di una casa sempre piú immersa nel silenzio del cuore, e nella straziata nostalgia dell’impossibile. Cosa mi era possibile dire a questa giovane madre, sconvolta da un indicibile dolore e perduta ad ogni attesa e ad ogni speranza? Sono rimasto in silenzio, senza mai guardare l’orologio, che scorreva indifferente al suo dolore, andando alla febbrile ricerca di un ascolto almeno lambito da una attenzione, che anelasse ad essere preghiera (ancora la parola inenarrabile e abbagliante di Simone Weil), e consentisse alla paziente – la chiamo cosí, ma dinanzi ad una sventura come quella di Chiara lo saremmo tutti – di dare voce alla sua disperazione. Nelle lente ore di un colloquio di cura, che mi sembrava non finire mai nelle sue aperture, e nelle

sue chiusure, ad una indicibile speranza, ascoltavo cercando di immedesimarmi negli abissi di dolore e di angoscia che si aprivano in Chiara, e ai quali in silenzio rivolgevo uno sguardo fragile e straziato che mi consentisse di riconoscerli. Mi sovvengono le parole arcane e luminose di Giovanni Pozzi che in un suo libro di rara bellezza, Tacet, dice del silenzio cose che mi aiutano a coglierne la friabile misteriosa tessitura. «Per ascoltare occorre tacere. Non soltanto attenersi a un silenzio fisico che non interrompa il discorso altrui (o se lo interrompe, lo faccia per rimettersi a un successivo ascolto), ma a un silenzio interiore, ossia un atteggiamento tutto rivolto ad accogliere la parola altrui. Bisogna far tacere il lavorio del proprio pensiero, sedare l’irrequietezza del cuore, il tumulto dei fastidi, ogni sorta di distrazioni. Nulla come l’ascolto, il vero ascolto, può far capire la correlazione fra il silenzio e la parola». Di un silenzio, come questo, di un silenzio che sa ascoltare i battiti del cuore, del proprio cuore e di quello di chi chiede il nostro aiuto, c’è bisogno quando il destino ci fa incontrare una giovane madre, come Chiara, che una psichiatria arida nelle sue classificazioni e nelle sue diagnosi si limiterebbe a fare rientrare nell’area clinica delle depressioni con le conseguenti terapie farmacologiche. Ma, come pensare che i farmaci antidepressivi potessero essere di un qualche aiuto nel lenire l’immenso dolore e la infinita solitudine che straziavano l’anima di Chiara? Quando in psichiatria ci si incontra con pazienti immerse, come lei, nella sofferenza e nella tristezza, nella perdita di ogni speranza, non si può se non essere in un continuo ascolto delle cose che dicono, e delle risonanze emozionali che destano in noi, anche se non è facile seguirne il cammino misterioso che porta agli abissi della nostra interiorità. Non so se sia possibile fare psichiatria limitandosi, in una paziente come Chiara, a creare una comunità di cura che non si dischiuda ad una comunità di destino, e non si riconosca nella fragile arcana figura della gentilezza.

La gentilezza ancora. Non c’è cura, cura dell’anima e cura del corpo, se non quando sia accompagnata dalle schegge di una gentilezza che consenta allo psichiatra di incontrare le sue pazienti e i suoi pazienti nell’orizzonte di una reciproca

comprensione. Non c’è gentilezza che non nasca dal cuore della interiorità, e dalla consapevolezza che siamo tutti chiamati a un comune destino di dignità, e di solidarietà. Sí, sono parole, queste, che sembrano venire da un altro mondo, dal mondo della nostalgia e della utopia, e nondimeno la psichiatria, che ha radicalmente cambiato la psichiatria italiana, si è nutrita di questa gentilezza, di questa apertura dialogica all’altro, di queste attese e di queste speranze. La gentilezza ci consente di essere aperti agli stati d’animo e alle sensibilità degli altri, di quelli che stanno male in particolare, e di interpretare le richieste di aiuto che giungano non solo dalle parole ma dagli sguardi e dai volti. La gentilezza è come un ponte che mette in relazione, in misteriosa relazione, chi cura e chi è curato; ma la gentilezza è un ponte anche perché ci fa uscire dai confini del nostro io, della nostra soggettività, e ci fa partecipare alla vita interiore, alla soggettività, degli altri, e delle pazienti e dei pazienti in particolare, creando invisibili alleanze, invisibili comunità di destino, che allentano la morsa della solitudine e della sofferenza. Non c’è cura, cura dell’anima e cura del corpo, se non sulla scia di stati d’animo, di forme di vita, come la gentilezza, la tenerezza, la mitezza, la intelligenza del cuore, che sconfinano le une nelle altre; e questo non solo in psichiatria ma nella vita. Non sempre la pratica clinica con i suoi tempi rapidi e singhiozzanti consente di immergere queste forme di vita nella carne viva di un colloquio terapeutico, e nondimeno siamo tutti chiamati, ciascuno di noi a suo modo, a ritrovare in noi le isole del tesoro della gentilezza e della mitezza alle quali approdare, e dalle quali muovere a dare una mano a destini crudeli e insondabili come è questo di Chiara. Non si può farne a meno, certo, se non si vuole lasciare morire la speranza, questa impalpabile e fuggitiva stella cadente, in noi e soprattutto in chi è naufragato sugli scogli del dolore incommensurabile. (Non dovremmo mai dimenticare le parole insondabili e folgoranti di Friedrich Hölderlin sulla gentilezza come meta alla quale guardare in vita in un orizzonte di speranza che non muore nemmeno nelle situazioni estreme della vita. «Finché la gentilezza, pura, si conserva nel suo cuore, l’uomo non si misura infelicemente con la divinità. È sconosciuto Dio? È manifesto come il cielo? questo credo, piuttosto. Dell’uomo è la misura. Colmo di meriti, ma poeticamente, l’uomo dimora su questa terra. Ma l’ombra della notte con le stelle non è piú pura, se cosí posso dire, dell’uomo, che immagine della divinità è chiamato»).

Nel cuore della psichiatria c’è la relazione, la intersoggettività, nutrita di gentilezza e di mitezza, di emozioni fragili e dialogiche, e radicata negli orizzonti di senso non solo della psichiatria clinica ma anche della psichiatria sociale: due immagini, l’una intrecciata all’altra, di una comune realtà psicopatologica e umana.

Margherita. A Chiara, immagine di una depressione umanissima, leopardiana e schubertiana, che sarebbe meglio chiamare malinconia, o tristezza vitale, vorrei ora associare Margherita, immagine di una sofferenza psichica, di molto piú profonda, contrassegnata dalla dissociazione che è la struttura portante di una schizofrenia: denominazione ancora oggi suscitatrice di angoscia e di disperazione che si dovrebbe cancellare dal linguaggio della psichiatria, ma non si riesce a farlo, e che è nondimeno nutrita di sofferenza e di angoscia umanissime che non mi è possibile dimenticare a distanza di tanti anni. Margherita, questa giovane madre, come ricordavo, l’ho conosciuta in manicomio, nel nostro nomade manicomio femminile di Novara, e ne ho descritte la forma di vita e le poesie in un mio lavoro: L’esperienza poetica di una schizofrenica. A questo lavoro, scritto sette anni prima, nel 1971, della legge di riforma psichiatrica, vorrei ora richiamarmi al fine di indicare ancora una volta quanta gentilezza e quanta delicatezza, quanta umana sofferenza, ci possano essere in una condizione psicotica, cosí ingiustamente negata nella sua umanità, come quella schizofrenica, e quanto complessa e problematica, difficile e straziante, ne sia la cura, che la legge di riforma ha reso possibile in ogni regione italiana, e che nondimeno non era sconosciuta in un manicomio a misura d’uomo quale era il nostro. Non si può parlare di psichiatria sociale se non tenendone presente la dimensione umana, e la conseguente infinita importanza dell’ascolto e del colloquio con l’anima inquieta e lacerata della follia femminile, in particolare. Non lasciamoci ingannare dai sintomi della malattia, dai deliri e dalle allucinazioni, dai disturbi della vita emozionale, che non mancavano in Margherita, ma che si associavano ad una sensibilità e ad una immaginazione creatrice ancora oggi sorgente di stupore del cuore. Non ha ovviamente alcuna importanza che si ricordino le mie parole, queste mie parole che il tempo lontanissimo oggi ricrea in questo mio libro, ma

vorrei, questa è la mia esile friabile speranza, che il drago dell’oblio non cancellasse completamente le parole dolorose e le parole poetiche di Margherita. Non si può parlare di psichiatria, lo dico continuamente, nemmeno della psichiatria piú avanzata nei suoi aspetti conoscitivi e terapeutici, se non si ascoltano le pazienti e i pazienti, e se non ci si richiama, nella psichiatria del futuro, alle loro esperienze umane di sofferenza, e di speranza.

L’altro mondo. Margherita ha venticinque anni quando entra in manicomio sulla scia di esperienze allucinatorie e deliranti che, immerse nei laghi oscuri dell’angoscia, si accompagnavano a pensieri di suicidio, e persistevano intermittenti da cinque anni. Nel medico, che le offriva una sigaretta, vedeva l’odio negli occhi, pensava che le sigarette fossero drogate, e l’angoscia dilagava in saliscendi strazianti. «Tutti mi sono contro. Non capisco perché tanto odio contro di me. In lei non vedo odio, per ora, poi non so. È una questione di sensibilità. So che le sembra assurdo quello che dico, e anch’io, se ascoltassi queste cose da un altro, non crederei, ma so io quello che ho vissuto». L’angoscia cresceva nonostante le terapie antipsicotiche, e il mondo, in cui Margherita viveva, si riempiva di terrore. «Ieri alcune persone sono venute a chiedere un catino, ed era per raccogliere il mio sangue. Mi strapperanno gli occhi, mi taglieranno le gambe per simulare un incidente». Questi sono solo alcuni frammenti del suo discorso allucinatorio e delirante che la sommergeva, e ne induceva la permanenza per alcuni mesi in manicomio: nonostante le alte dosi farmacologiche che ne consentivano infine la dimissione. Come negare la presenza di una condizione psicotica, di una forma di vita schizofrenica contrassegnata dalla metamorfosi delirante e allucinatoria dei significati, e dalla solitudine autistica che non le consentiva alcuna relazione con gli altri; e nondimeno quanta ferita gentilezza, e quanta umana sensibilità, erano presenti nella vita emozionale di Margherita: solo apparentemente desertificata, e anzi pietrificata. Cose, che si dimenticano facilmente, quando ci si incontra con pazienti, divorate da allucinazioni e da deliri, nella apparente perdita di ogni slancio emozionale, alle quali si somministrano non di rado farmaci senza curarsi delle parole che, nella

persuasione che non servano a nulla, si dicano loro. Di questa ricchezza interiore ed emozionale sono una testimonianza bellissima le sue poesie.

Le poesie. Negli anni, fra i ventidue e i venticinque, Margherita componeva poesie di una straziante bellezza che ne indicavano la sensibilità, e la ricchezza umana. Sono poesie composte in corrispondenza con le sconvolgenti esperienze deliranti e allucinatorie, e vorrei citarne ancora qualcuna: molto diverse le une dalle altre. Sono poesie che, al di là di una loro pregnanza lirica, sono la conferma di quello che alcuni grandi psichiatri del secolo scorso hanno sempre sostenuto, e cioè che, vale la pena di ripeterlo, nelle esperienze psicotiche, nelle forme di vita schizofrenica, le emozioni non si spengono, e si continuano a vivere esperienze umane significative, e talora creative. Sono poesie che ci dicono del dolore, del dolore lacerante, dolore dell’anima e dolore del corpo, che nella condizione umana di Chiara si accompagnava ad esperienze depressive, e in quella di Margherita ad esperienze psicotiche, ad esperienze schizofreniche, e ogni volta vorrei chiedermi se, quando ci incontriamo con pazienti, come queste in particolare, divorate dai loro deliri e dalle loro allucinazioni, e imprigionate nella loro solitudine autistica, teniamo presenti le orme insondabili del dolore che non mancano mai. Alla poesia fiammeggiante di un indicibile dolore che ho citata in un diverso contesto nella prima parte di questo libro, vorrei aggiungerne altre che ci consentano di cogliere le sconfinate latitudini tematiche delle esperienze poetiche di Margherita. La prima poesia è lambita dalle penombre di una dolorosa nostalgia, che non sconfina in una desertica disperazione, e che si intreccia alle stelle filanti di una fragile e temeraria speranza che la fa aspirare ad una quasi impossibile gioia di vivere: scandita dalla tenerezza ferita degli ultimi versi. Vorrei rimanere nel tempo agave incolta avvinghiata a questa terra. Le anime ritorte degli ulivi al vento

schiudono a raggiera in polverose carezze ritagli di cielo e di astri. E stesa su questo prato d’agosto vorrei essere gioia di vivere. S’incendia il bosco di aghi secchi, di ginestre solari, e dalle grate arboree degli ulivi filtra una tenera luce che accende le pietre come schegge di ghiaccio contro il cielo. E ritorna il sapore della vita. Il giorno in larghi voli e assonnati cicalecci si perde nel mare. L’alba viene al litorale e con il chiaro gabbiani.

La seconda poesia è tematizzata dalla rassegnazione sconsolata al nonsenso della vita. C’è gente senza sorriso gli occhi vuoti lo sguardo senza gioia che vive ottusamente la vita di tutti i giorni. Gente senza storia senza idee, senza amore o pietà. Albe inutili per loro cuore fermo in calma cuore di pietra cuore di indifferenza.

E la vita che passa nel suo grigiore, e non chiede e non dà. L’occhio si incupisce il parlare è scarno i gesti scabri non c’è né fierezza né umiltà. Rimane l’ottusa indifferenza a placare l’animo della propria inutilità.

La terza poesia è sigillata dalle fiamme brucianti di un pianto senza dolore che si accompagna all’anima ferita di Margherita: risucchiata dal fascino segreto di un amore che non sembra corrisposto nonostante la sua ardente preghiera. Era già tempo di ricordi. Il mio spirito come un granaio. Forconi sul fieno. Pannocchie ai muri. Acqua lenta di rogge in respiri di nebbia. Brughiera azzurrognola. E i giorni se ne andavano… Intreccio di arbusti da ardere. Vegliavo nelle notti piovose e senza astri, e il chiaro mi trovava umile e vinta, il viso asciutto da un pianto senza dolore. E senza vita e senza rimpianti aspettavo nel tempo. Poi sei arrivato tu, niente amore, che vuol dire niente di niente, ma io ti ho dato la mano, tacita preghiera perché tu restassi. … Da tempo so il sapore del mio pasto frugale.

Una quarta poesia è immersa in una rassegnata e straziante nostalgia della morte che diverrà infine morte volontaria. Sono parole accorate ed elegiache che non si possono non leggere ogni volta con grande emozione. Morirò all’alba di un giorno come questo. Il sole pallido sorgerà a raggiera dietro la brughiera. Voleranno rondini composte. […] Il viso tranquillo gli occhi aperti al volo di un gabbiano sul verde mare di ottobre. […] Un ricordo di gerani e agavi in una stretta strada ligure. […] Lacrime di madre e io non sarò piú. I miei anni umili lambiranno cose mie nella casa antica, tragico nido. I vetri del muro di cinta feriranno la mia anima in corsa. […] Quando sarò morta mettetemi la bianca veste di sposa. Non stonerà vicino ai miei occhi sinceri. Portatemi vicino al mare all’aria pulita ridente di fiori mediterranei. Portatemi lontana da canali e rogge che languiscono in questa triste pianura. Trasportatemi in una cesta di vimini di quelle che usano i ragazzi

per rubar fichi e non piangete perché dal campanile vi guarderò sorridente e bianca.

L’angoscia della morte sembra dissolversi nel ritmo cantante dei versi ma non è se non apparenza.

Cosa dire ora? L’esperienza poetica di Margherita, al di là di ogni sua valutazione estetica, non può non essere colta nel suo messaggio, doloroso e lacerante, che ci induce a riflettere ancora una volta sulla dimensione non solo psicopatologica, ma umana, della malattia in psichiatria, e sulla importanza che in essa assumono le parole e i gesti, il silenzio e i linguaggi del volto, con cui ci si avvicina alle pazienti e ai pazienti immersi nelle fiamme della sofferenza psichica. Nel leggere queste poesie, come non essere ogni volta angosciati dagli slanci di emozioni che rinascono dai roveti ardenti delle esperienze psicotiche? Negli anni, che sono venuti dopo, periodi di remissione e di ricomparsa della malattia si alternavano in una vita che consentiva a Margherita di essere madre e di insegnare in una scuola media sia pure continuando ad essere seguita in psicoterapia, e con farmacoterapia ansiolitica e neurolettica. Non posso dimenticarla nella sua fragilità e nella sua immensa sofferenza. Non le mancava, ed era anzi presente acuta e lacerante, la coscienza di essere malata, di essere dilaniata da esperienze deliranti e allucinatorie che non le consentivano di vivere normalmente, e che talora riviveva come conseguenza di una colpa personale alla quale non poteva sfuggire, e dalla quale era talora divorata. Non posso non ricordarla nei mesi, che si sono snodati inarrestabili, in cui stava male, e i pensieri di suicidio rinascevano strazianti, e nei mesi in cui stava bene, e la speranza si faceva compagna luminosa della sua vita, e tutto cambiava in lei e intorno a lei. Scomparivano le esperienze deliranti e allucinatorie, e venivano meno le barriere che la isolavano radicalmente dal mondo, dal mondo delle persone e dal mondo delle cose, consentendo a

Margherita di uscire dalla sua radicale solitudine autistica. Nei suoi ultimi anni di vita la perdevamo di vista, e alla soglia dei quarant’anni, degente in un reparto ospedaliero, non di psichiatria, moriva di morte volontaria.

Il dolore come Leitmotiv. Nei miei lavori e nei miei libri ho continuato a descrivere e ad analizzare le storie della vita delle pazienti che il destino mi faceva incontrare, e nondimeno anche in questo libro, che ha piú vaste prospettive teoriche sugli orizzonti di senso della psichiatria che non negli altri, ho voluto radicare il mio discorso nel tessuto vivo della clinica: di una condizione depressiva, cosí frequente oggi, e di una condizione psicotica, di una condizione schizofrenica, molto meno frequente, e nondimeno paradigma di una malattia, alla quale è necessario somministrare farmaci neurolettici, farmaci antipsicotici, che ne hanno radicalmente trasformata la evoluzione che può giungere alla guarigione. In queste due giovani pazienti, dotate di non comuni attitudini alla introspezione e alla narrazione delle proprie sofferenze e delle proprie esperienze, si riflettono, come in uno specchio, oscuramente i modi di essere della angoscia e della tristezza, della inquietudine dell’anima e della disperazione, che sono in esistenze ferite dalla sventura e dalla perdita di senso nella vita. Sí, in queste giovani pazienti si rispecchiano anche i possibili modi di essere della cura, che non può mai solo essere farmacologica, ma psicoterapeutica, tematizzata dal linguaggio, dal linguaggio delle parole, e dal linguaggio del corpo vivente: quello dei volti e degli sguardi, degli occhi e delle mani, delle lacrime e del sorriso. Non potrei nondimeno non ribadire come dalla storia della vita delle due pazienti rinasca la straordinaria importanza che ha in psichiatria, nelle sue diverse forme di espressione sintomatologica, quella depressiva e quella psicotica, la esperienza del dolore, della sofferenza, che le poesie di Margherita fanno conoscere con parole strazianti che non dovremmo mai dimenticare.

L’immagine della follia.

Dalle due giovani donne, immerse nelle onde di una sofferenza psichica arcana e straziante, vorrei ora risalire a quella che è la immagine umana della follia. Nei suoi orizzonti tematici si nascondono le emozioni sigillate dalla vertigine del dolore e della angoscia, della speranza e della disperazione, delle ombre e della luce, e talora dall’anelito fatale alla morte volontaria: come espressione ultima di una cascata di illusioni bruciate dagli avvenimenti della vita, e dal destino. Sono emozioni che fanno parte della vita, della vita di ogni giorno, e anche della vita psicopatologica, ma sono emozioni che possono ammalare, incendiarsi e inaridirsi, e che testimoniano della pulsante vitalità delle anime ferite dalla sofferenza, e dalla angoscia. Sono emozioni che, lo vorrei ancora ripetere, si rivelano nella loro radicale dimensione umana e psicologica solo quando alla conoscenza razionale si unisca quella che nasce dalle ragioni pascaliane del cuore. Il cuore in fiamme come metafora viva che ci avvicina alla cifra segreta della condizione umana, certo, ma anche di quella sigillata dalla follia. La follia non è qualcosa di estraneo alla vita, ma è una possibilità umana che è in noi, in ciascuno di noi, con le sue ombre e con le sue incandescenze emozionali. La distanza, la separazione, fra la vita non psicotica e quella psicotica, è talora solo quantitativa, non qualitativa. La tristezza e l’angoscia sono esperienze umane non estranee alla vita di ciascuno di noi, e, come ha scritto una volta Kurt Schneider, uno dei grandi psichiatri del secolo scorso, guai a non provarle, o a non averle provate. Solo quando crescono e sono roventi, quando dilagano crudelmente in noi, tristezza e angoscia si fanno malattie che hanno bisogno di cure farmacologiche. Cancelliamo allora l’immagine della follia come di una forma di vita alla quale si associano insignificanza umana, incapacità di provare emozioni, insensibilità, indifferenza ai valori, aggressività e, slogan che non muore mai, violenza. La follia non è violenza, lo è solo talora, e in misura radicalmente meno frequente che non nelle condizioni di vita normale. Al di là di queste considerazioni la follia ci mette a confronto, e la storia delle vite di Chiara e di Margherita lo dimostra dolorosamente, con aspetti nascosti e ignorati della condizione umana. Questo fiume ininterrotto, che è la vita, questo fiume nel quale siamo quotidianamente immersi, ci travolge e non sempre ci consente di riflettere su quello che si nasconde nelle sue acque profonde, che sono quelle della nostra interiorità; e allora, quando scendono in noi le ombre della sofferenza psichica, le acque del fiume della vita si arrestano, e ne riemergono (dilatate)

esperienze umane di grande significato. Ne ho indicate alcune: l’esperienza della colpa e della malattia, quella della tristezza e dell’angoscia, quella della solitudine che sconfina nell’isolamento autistico, quella delle attese e delle speranze infrante, quella del tempo interiore che si inaridisce nel passato, e non ha piú futuro dinanzi a sé, quella della morte e del morire che incombe nel suo fascino stregato, e che è cosí difficile rimuovere in alcune forme di vita depressive, nelle quali l’ultima speranza è riposta nella morte. Sono consapevole delle immense sofferenze dell’anima e del corpo, che la follia trascina con sé, e che possono giungere ad abissi di indicibile disperazione, e nondimeno anche in situazioni, come queste, la vita continua a testimoniare della sua significazione umana, e ad essere degna di essere vissuta: cosa che, in un passato non molto lontano, è stata crudelmente contestata non solo dalla opinione pubblica, ma dalla psichiatria dominante nel secolo scorso. In ogni caso vorrei che la psichiatria del futuro abbia a riflettere senza fine sulla dimensione fenomenologica e umana, e non solo su quella clinica e psicopatologica, che la follia ha in sé, e che quella del passato e, almeno in parte, quella di oggi, non sempre hanno saputo, o voluto, riconoscere: non adeguandosi alle conseguenti necessarie modalità di ascolto, e di cura.

Ultime riflessioni

Flashback. In queste ultime pagine vorrei riflettere su alcune delle linee tematiche che si sono venute svolgendo nel corso del mio libro, che possano ancora ridestare fragili, ma non labili, consonanze emozionali. Il dialogo, la ricerca di un dialogo, con la follia, Leitmotiv del mio discorso, si è svolto in una climax che avrei voluto di umana vicinanza, nutrita di ascolto e di accoglienza, di solitudine e di silenzio. Certo, non solo nella vita di ogni giorno, ma in particolare nel colloquio con la follia, ciascuno di noi non dovrebbe mai confrontarsi con l’altro, con l’altro che sta male e chiede aiuto, in un atteggiamento di fredda distanza clinica, e di ghiacciata osservazione. Nessuno si conosce fino in fondo se rimane soltanto se stesso, e non nello stesso tempo anche un altro, ma, nel conoscere noi stessi, e nel conoscere gli altri, è nondimeno necessario seguire il cammino misterioso che porta alla nostra interiorità, e si rispecchia nelle parole mirabili di sant’Agostino: in interiore homine habitat veritas. Sulla scia della fenomenologia, di una fenomenologia rivissuta come passione delle differenze, cosí definita da Moritz Geiger (leggo questa citazione in una bellissima lettera che mi è stata inviata da Gabriele Scaramuzza), e come ricerca della follia che è in noi, nella splendida definizione di Kurt Schneider, non avrei potuto non dare grande importanza clinica e diagnostica alla conoscenza emozionale, alla intuizione, che ci avvicina, lungo sentieri che sono magari oscuri e misteriosi, alla angoscia e alla tristezza, alla inquietudine e alla aggressività, alla solitudine e alla disperazione, alle allucinazioni e ai deliri, alle esperienze di estraneità, che sono le aree tematiche della psichiatria: di una psichiatria della interiorità che riscopra senza fine l’umano nella follia. La fenomenologia, quella che è stata la mia interpretazione della fenomenologia, mi ha portato a ridare valore conoscitivo, e dialogico, al linguaggio delle parole, queste creature viventi, che possono risanare le ferite dell’anima e del corpo, o farle sanguinare senza fine, e possono creare ponti di comunicazione con chi è immerso nelle ombre

del dolore. Ma le parole non bastano a creare una relazione di cura se non si intrecciano senza fine al linguaggio del silenzio, e a quello del corpo vivente.

Il linguaggio del silenzio. Ogni silenzio ha un suo linguaggio che in psichiatria, e non solo nella vita di ogni giorno, non è sempre facile decifrare nei suoi significati. Quante volte, in un incontro terapeutico, un paziente è murato in un fragile silenzio che non si può interrompere con parole indiscrete e leggere che farebbero del male. È necessario distinguere il silenzio, che nasce da un desiderio di solitudine, da quello che nasce invece da una profonda depressione, nella quale si lambiscono i bordi di una morte volontaria mai impossibile. Ma è anche necessario distinguere il silenzio, che ha in sé una scintilla, o almeno una goccia, di speranza, dal silenzio che riemerge dalla nostra incapacità di ascoltarne le radici segrete. Solo le parole scandite dal silenzio possono talora salvare una vita alla deriva, e non c’è psichiatria che possa fare a meno delle parole e del silenzio. Non è facile, quando si ha a che fare con i roveti ardenti delle ossessioni, delle depressioni, e delle schizofrenie, scegliere il momento in cui parlare, e quello in cui tacere, il momento in cui fare domande, e quello in cui dare una risposta. Solo l’intuizione, l’educarsi alla conoscenza emozionale, ci aiuta, o almeno ci può aiutare, a scegliere cosa dire nel difficile cammino della cura; ma, se non si riflette su questo, non ci sarà possibile trovare modelli di cura adeguati alle diverse forme di sofferenza psichica. (Le riflessioni di Giovanni Pozzi sul silenzio e sulla solitudine sono cosí scintillanti di grazia e di bellezza che vorrei tornare a citarle in queste mie ultime pagine. «La cella e il libro sono le stanze della solitudine e del silenzio. Della solitudine, la cella, non casupola di frasche nel deserto, né carcere murato, ma collocata al centro dell’uomo: il cuore che mai non dorme, vigile nell’ascolto, metafora assoluta dell’abitacolo e metonimia dell’intera persona umana»; e ancora: «Del silenzio, il libro, deposito della memoria, antidoto al caos dell’oblio, dove la parola giace, ma insonne, pronta a farsi incontro con passo silenzioso a chi la sollecita. Amico discretissimo, il libro non è petulante, risponde solo se richiesto, non urge oltre quando gli si chiede una sosta. Colmo di parole, tace». Temeraria è questa mia citazione,

certo, e nondimeno questo mio libro, come ogni altro mio libro, vive delle immagini e delle parole, del dolore e della tristezza, delle speranze infrante, delle mie pazienti, e cosí il libro è anche loro nella sua solitudine, e nel suo silenzio).

Le sonde ermeneutiche della psichiatria. La psichiatria è una disciplina ambigua e dilemmatica che, quando sia aperta agli orizzonti interdisciplinari della ricerca, non si occupa solo delle malattie (dei disturbi psichici), ma si confronta con i fenomeni del mondo della vita, astraendo dal loro essere normali, o patologici, e in particolare con gli arcipelaghi sconfinati delle emozioni. Certo, se nel fare psichiatria non siamo capaci di immedesimarci nella vita interiore degli altri, degli altri che stanno male in particolare, e non siamo capaci di intuizioni (non siamo capaci di affidarci ai vascelli fragili e ardenti della conoscenza emozionale che si accompagni alla conoscenza razionale), non ci è possibile cogliere fino in fondo il senso del dolore e della sofferenza, della tristezza e dell’angoscia, degli smarrimenti e delle lacerazioni dell’anima, del silenzio e dello stupore del cuore, che fanno parte della condizione umana nelle sue infinite forme di espressione: in quelle normali e in quelle non piú normali, sconfinanti senza fine le une nelle altre. Queste sono state le sorgenti dalle quali sono sgorgate le mie pagine sulle psichiatrie di ieri, di oggi e di domani, sulle loro possibili declinazioni cliniche e psicopatologiche, fenomenologiche e umane, e sono sgorgate quelle sulla memoria e sulla paura, sulla morte e sul morire, sulla morte volontaria come straziata esperienza umana mai estranea alla vita, e sui contenuti emozionali, sulla tristezza e sulla malinconia, sull’angoscia e sulle speranze infrante, che scintillano (anche) nel dolore in alcune esperienze poetiche.

Il filo rosso delle emozioni. Cosa può ricondurre a comuni radici le quattro parti che compongono questo libro? La tesi, in fondo, che la psichiatria non sia solo scienza

naturale, ma anche scienza umana, che nella cura delle interiorità ferite segue sentieri conoscitivi nutriti di gentilezza e di sensibilità, di etica e di umanità, che aiutano a sondare aree tematiche solo apparentemente estranee alla psichiatria, ma a questa vicine nel loro comune background emozionale. Sono emozioni ferite quelle che entrano a fare parte delle depressioni, sia monopolari sia bipolari, delle ansie patologiche, e, benché intessute di dissociazioni radicali, delle schizofrenie. Ma le emozioni accompagnano la nostra vita in ogni sua circostanza, si voglia, o non si voglia, quando stiamo male, e quando stiamo bene, e non solo nelle condizioni di malessere, anche se non sempre ne siamo consapevoli. Sí, cambiavano le mie emozioni, le mie esperienze vissute, quando mi confrontavo con una depressione, o con una sindrome ansiosa, nella Clinica universitaria di Milano, nell’ospedale psichiatrico, e nel Servizio di psichiatria dell’Ospedale maggiore della Carità di Novara, e cambiavano le emozioni delle pazienti e dei pazienti nell’una, o nell’altra, di queste condizioni di cura e di vita. Le emozioni, che mi hanno accompagnato nelle loro vertiginose oscillazioni, e nei loro vorticosi ondeggiamenti, hanno a che fare con i modi di essere della memoria, non solo con le sue ferite profonde e talora inemendabili, come sono quelle della malattia di Alzheimer, ma anche con le condizioni normali di vita. Le emozioni si intrecciano anche, e con snodi tematici radicali, alla paura, e come non coglierle tumultuose e sconvolgenti nelle esperienze del morire e della morte, e della morte volontaria in particolare? Il filo scarlatto delle emozioni scorre insomma nelle sue luci e nelle sue ombre dalla prima alla ultima parte di queste mie pagine alla ricerca dei sentieri che si nascondono nella vita di ogni giorno, e anelano ad essere riscoperti. Filosofia e psichiatria sono oggi impegnate nel rivalutare l’importanza delle emozioni nella conoscenza delle realtà psicologiche e umane; e non si può fare a meno delle emozioni se vogliamo avvicinarci alla comprensione delle strutture costitutive della vita interiore di ciascuno di noi. Non si può fare psichiatria, in ogni caso, se non si cerca di guardare a quello che Ingeborg Bachmann, la grande scrittrice austriaca, divorata in vita dalle ondate imprevedibili dell’angoscia, considerava la emblematica impronta espressiva dell’opera di Robert Musil: l’essere egli riuscito con le sue parole acerbe e luminose a portare in superficie, e a convertire in immagini, le esperienze piú profonde dell’anima.

La tristezza dell’anima nella poesia. Non mi sarebbe stato possibile concludere l’ultima parte di questo libro, dedicata alla psichiatria come sonda ermeneutica, orientata a cogliere il senso di alcune grandi tematiche della vita, senza qualche riflessione sulla tristezza dell’anima: sulla malinconia. L’ho fatto evocandone le immagini, le metafore, le apparenze, le simbologie, come quelle che rinascono dolorose e strazianti, e nondimeno umanissime dalle poesie di Georg Trakl. Le leggiamo affascinati e storditi dalla scala vertiginosa delle emozioni che in esse ondeggiano da una malinconia dolce e tenera, fragile e sommessa, silenziosa e impalpabile, evanescente e timida, ad una malinconia lacerante e scarlatta, febbrile e tempestosa, crudele e pietrosa, allucinata talora e inebriante talaltra. Sono emozioni, sono risonanze emozionali, che forse allo sguardo timoroso e alacre della psichiatria si consegnano piú facilmente che non a quello accademico e formale della critica letteraria che non può magari farle sue, o almeno tenerle presenti nei suoi, certo, diversi e panoramici orizzonti di senso. La meta della psichiatria non può se non essere quella di giungere alla interpretazione dei contenuti emozionali delle poesie, e dei romanzi, letti con una attenzione e un ascolto che non siano quelli della psichiatria clinica. In ogni condizione di tristezza, o di malinconia (le sfere semantiche dell’una e dell’altra si sovrappongono), lo scorrere del tempo si incrina: il presente sconfina ininterrottamente nel passato, che cresce come un fiume che non ha un lago, in cui defluire, e il futuro si sbreccia, e muore, non consentendo piú alla speranza di dare un senso alla vita. Le poesie di Trakl ci ricordano come nell’area tematica della malinconia, della tristezza vitale, si stratificano dimensioni cliniche diverse. La malinconia come stato d’animo è una condizione emozionale non patologica che sconfina nelle esperienze sorelle della tristezza e della nostalgia, del male di vivere, e in quella, che le è vicina e lontana, della depressione nella quale la tristezza si radicalizza, e si dilata vertiginosamente nei suoi orizzonti di senso, che non hanno piú futuro, o il solo futuro dell’angoscia, e sono tematizzati dalle ombre del passato che si rigonfia, riempiendosi di colpe mai commesse. Sono poesie nelle quali i confini fra la tristezza, la malinconia, la dolce malinconia, e la depressione, la depressione acerba e dolorosa, oscillano dall’una all’altra.

Il dolore. Queste mie pagine, che hanno avuto come loro meta ideale la psichiatria come forma di vita, come destino, sono state in fondo sigillate da un comune orizzonte di senso: l’incontro con il dolore, con il dolore dell’anima e del corpo, con la tristezza e con l’angoscia, con le paure e con le dissolvenze della memoria, con la fragilità e con il silenzio, con la mia tristezza e con la mia angoscia, con il desiderio della morte, e con la sua febbrile ricerca, il tema piú lacerante e misterioso, piú sanguinante e imprevedibile, con cui abbia a che fare la psichiatria, ogni psichiatria, al di là delle sue diverse premesse conoscitive, e terapeutiche. Il dolore, un dolore straziante nella sua infinitudine, è il nocciolo tematico della follia, e di ogni discorso sulla follia, e il dolore mi è stato ben presente, ferita palpitante e viva, in queste mie pagine, al di là della ricostruzione tematica delle mie esperienze di vita. Al dolore, ad una delle sue piú strazianti e indicibili espressioni, dovremmo sempre pensare, e parlarne con timore e tremore, ogni volta che in vita, psichiatri e non psichiatri, si abbia a conoscere, o a incontrare, la follia, quella di ieri e quella di oggi, quella di domani, che la legge di riforma del 1978 consente di avvicinare e di curare nel migliore dei modi possibili.

La nostalgia. Le protagoniste di questo libro sono le mie pazienti, quelle del passato, e quelle che continuano a ritrovare il senso di un ascolto che non sia ferito dalla disattenzione e dalla distrazione, e nemmeno dalla banalizzazione del dolore e dalla freddezza algida dell’anima. Sono pazienti che mi hanno accompagnato dagli anni lontanissimi del vecchio manicomio a quelli dell’Ospedale maggiore di Novara, e a quelli di oggi nella casa del baluardo che guarda temeraria alla montagna alta e vertiginosa, il Monte Rosa, alle sue nevi perenni e al suo silenzio arcano, e indecifrabile. La nostalgia non è estranea alla Stimmung fragile e friabile che scorre lungo queste pagine: unificandone, vorrei augurarmi, i timbri narrativi. Sí, la nostalgia è matrice infinita di ricordi smarriti, e anche la paura può essere mitigata dalle luci intermittenti della nostalgia, alla quale è cosí difficile sfuggire nelle ore del silenzio e della riflessione sul mistero indicibile della vita. Magari, questo

libro, zigzagante nei suoi temi, e nei suoi modi di svolgerli, raccoglie i suoi arcani significati, quando si vivano stagioni sigillate dal silenzio, e dal crepuscolo, dalle ombre che scendono sui bagliori inebrianti dei giorni d’estate.

La speranza. Cosí si chiude un libro, dai molti sentieri tematici, che ha cercato di ricostruire la mia vita in un dialogo infinito con una psichiatria che, nel trascorrere vertiginoso degli anni, ha cambiato i suoi modi di essere, e i luoghi in cui si è venuta svolgendo. Cambiava la psichiatria nella sua immagine, e nelle sue modalità di cura, ma non cambiava la follia, la sofferenza psichica, nella sua fragilità e nella sua enigmatica ragione d’essere. Non c’è una sola psichiatria, certo, ci sono molte psichiatrie che si confrontano con le nostre diverse esperienze, e con le nostre diverse visioni del mondo; ma, al di là di ogni differenza culturale e teorica, non si può fare psichiatria senza recuperare fino in fondo il senso della umiltà e del rispetto dinanzi alla sofferenza che è nella follia, e in questo dovremmo (tutti) riconoscerci: al di là dei nostri (diversi) destini. Ma non si può fare psichiatria, forse, se non si abbia (anche) come compagna di strada la speranza, la kierkegaardiana passione del possibile che rinasce, e può rinascere, anche dalle braci di condizioni di vita considerate alla luce della ragione calcolante come perdute ad ogni cambiamento, ad ogni futuro, e invece ancora aperte a rinascite apparentemente impossibili. Non so, questo è un libro diverso dai molti altri che ho scritto, forse perché intessuto di frammenti della mia vita, rapsodici e serpeggianti, nei quali sono confluite esperienze lontane e vicine nel tempo, descrizioni esangui e fotografiche, narrazioni dolorose e sanguinanti, divagazioni letterarie e riflessioni nutrite di etica febbrile, e mai conclusa, nostalgia di un tempo ormai bruciato dalla vita, e in particolare di una psichiatria, che sembra talora agonizzare negli ideali ai quali si ancorava il mio destino. Ma la speranza in una psichiatria che non si esaurisca negli aridi deserti della tecnica, e sia consapevole della stremata umanità che riluce nella follia, non può morire.

Le risposte. La domanda ha in sé la sua risposta che è anche la mia. La nostalgia nei suoi misteriosi cammini ci riconduce a guardare negli abissi di un passato nel quale ritroviamo le sorgenti di quelle che avrebbero potuto essere le nostre attese e le nostre speranze, e la nostalgia le fa rivivere: influenzando quel poco, o quel tanto, che ci resta da vivere. La nostalgia ci consente di ritrovare qualcosa del nostro futuro che si era dimenticato. La psichiatria, che è alla ricerca delle connessioni possibili fra passato e futuro, non vive senza le grandi opere da lei citate. Ci sono consonanze, ma anche, e forse soprattutto, dissonanze fra l’essenza della nostalgia e quella del rimpianto: nella prima, ripensiamo al dolore delle cose che il destino non ci ha consentito di realizzare, e nel secondo, invece, ripensiamo a cose che avremmo potuto fare, e non abbiamo fatto. Questo mi sembra essere il tempo del rimpianto, delle cose che si potevano fare, e non si sono fatte. Il passato, la considerazione del passato, cambia vertiginosamente nella misura in cui cambiano le nostre emozioni. Il passato non è una massa inerte e pietrificata ma camaleontica: ripensarlo ci aiuta a guardare alle cose che accadono oggi con una meraviglia che si rinnova senza fine. Si ha nostalgia della nostra infanzia e della nostra adolescenza, come diceva Dostoevskij, che alla nostra vita aprivano possibilità infinite che non siamo stati capaci di realizzare. Si può avere nostalgia di orizzonti di vita, a cui la nostra immaginazione inconsciamente aspirava, e che non sono mai esistiti. Ma non si spegne mai l’attesa che l’impossibile divenga possibile, ed è un altro modo di non lasciare morire la speranza in noi. Sí, la nostalgia ha in sé prefigurato il rischio di tenerci imprigionati in un passato idealizzato che non ci consente piú di avere un futuro, e ci immobilizza in un deserto che non fiorirà mai. L’immagine che ho ricordato all’inizio di questo racconto, una delle piú belle di Brentano, che definisce la follia la sorella infelice della poesia mi sembra di poterla temerariamente avvicinare qui a quella di Giorgio Colli, in cui la follia è la matrice della sapienza, l’una e l’altra immagini di una impossibile speranza. La grande poesia, e i grandi romanzi, consentono alla psichiatria di dilatare e di ampliare la conoscenza dell’anima che ne è l’orizzonte infinito. In Hölderlin, in Gérard de Nerval, o in Sylvia Plath, e in

Robert Walser, la follia e la poesia confluiscono in una straordinaria associazione creativa: talora, come diceva Karl Jaspers, incomparabile nella sua dolorosa bellezza.

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Il libro

L

A FENOMENOLOGIA HA PORTATO A CONSIDERARE LA PSICHIATRIA FINALMENTE

non solo come una scienza naturale, ma anche come una scienza umana, che nella cura delle interiorità ferite segue sentieri conoscitivi nutriti di

gentilezza e di sensibilità, di etica e di umanità, sondando aree solo apparentemente estranee alla psichiatria, ma a questa vicine nel loro comune retroterra emozionale. Le emozioni ferite entrano a fare parte delle diverse forme di sofferenza psichica, e non solo di quelle depressive. Ma le emozioni accompagnano la nostra vita in ogni sua circostanza, si voglia o non si voglia, quando stiamo male e quando stiamo bene e non solo nelle condizioni di malessere, anche se non sempre ne siamo consapevoli. In questo libro Eugenio Borgna intesse le sue riflessioni su passato, presente e futuro della psichiatria con frammenti della sua vita «rapsodici e serpeggianti, nei quali sono confluite esperienze lontane e vicine nel tempo».

L’autore EUGENIO BORGNA

è psichiatra e docente. Presso Einaudi ha pubblicato Elogio

della depressione (con A. Bonomi, 2011), La fragilità che è in noi (2014), Parlarsi (2015), Responsabilità e speranza (2016), Le parole che ci salvano (2017) – che raccoglie in un unico volume gli ultimi tre testi –, L’ascolto gentile (2017) e La nostalgia ferita (2018).

Dello stesso autore Elogio della depressione (con A. Bonomi) La fragilità che è in noi Parlarsi Responsabilità e speranza L’ascolto gentile Le parole che ci salvano La nostalgia ferita

© 2019 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858431771

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Frontespizio Il Libro L'autore Introduzione La soglia 1. La rivoluzione in psichiatria Le scansioni tematiche della fenomenologia La fenomenologia del colloquio La fenomenologia ancora La fenomenologia delle emozioni La fenomenologia del corpo La fenomenologia del tempo La fenomenologia dello spazio Gli orizzonti 2. La psichiatria di ieri Il pozzo del passato La Clinica universitaria di Milano Il manicomio di Milano La Clinica ancora La svolta Elena Le allucinazioni Il manicomio di Novara Una parentesi Fonti di dolore Una breve stagione La follia femminile La poesia di Margherita La direzione L'anno della riforma Noi siamo un colloquio La montagna incantata? Nietzsche La vita interiore Le fragili ragioni del cuore Le ombre 3. La psichiatria oggi La contenzione L’aggressività La psichiatria gentile Risonanze Una diversa psichiatria Gli uomini non sono oggetti La psichiatria di oggi: l’inizio L’immagine sociale Le direzioni sanitarie Il modo di fare psichiatria Alcune riflessioni La psichiatria territoriale Dissonanze L’impossibile diviene possibile Le ultime cose 4. La psichiatria del futuro Il cuore della riforma Le mete ideali Non dimenticare Le parole in psichiatria Le parole che non fanno male Non solo in psichiatria Cristina Campo Ascoltare Le cicatrici La fragilità La comunità di destino I grandi slanci comunitari La follia

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Le ferite dell’anima Chiara La gentilezza ancora Margherita L’altro mondo Le poesie Cosa dire ora? Il dolore come Leitmotiv L’immagine della follia Ultime riflessioni Flashback Il linguaggio del silenzio Le sonde ermeneutiche della psichiatria Il filo rosso delle emozioni La tristezza dell’anima nella poesia Il dolore La nostalgia La speranza Le risposte Bibliografia

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