Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare 8834315200, 9788834315200

Che cosa tiene uniti uomini e donne in una società se non il "mettere in circolo" legami, relazioni, azioni? D

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Quello che circola tra noi. Dare, ricevere, ricambiare
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JACQUES T. GODBOUT

Quello che circola tra noi Dare, ricevere, ricambiare

Che cosa tiene uniti uomini e donne in una società se non il 'mettere in circolo' legami, relazioni, azioni? Da qui l'intrigante domanda che Jacques Godbout pone al lettore in que­ sto libro importante, frutto di dieci anni di ricerca. Che cosa circola tra noi? Il pensiero più diffuso ritiene che si tratti esclusivamente di forme di scambio mercantile, interpretabili secondo modelli e rapporti commerciali. Ma i legami sociali si spiegano davvero solo in ter­ mini di calcolo e interessi reciproci? Già Adam Smith ne dubitava quando introdusse nella sua teoria il concetto di 'simpatia'. Ma è solo con Marcel Mauss che si fonda la base teorica di un autentico 'pensiero sul dono'. Rifacendosi a Mauss, Godbout sostiene che il concetto di dono, «bene non contrattuale» che nulla ha a che fare con la pietà o la compas­ sione, consente una lettura più acuta e com­ plessa delle relazioni tra gli individui. E, una volta che lo si è preso in considerazione, sor­ prende vedere come il modello del dono fini­ sca per ritrovarsi ovunque: non solo là dove ce lo aspetteremmo (per esempio nella beneficienza o nella donazione di organi), ma anche nella famiglia, nell'arte, nella giustizia, nella razionalità, nella teoria dei giochi e nelle stra­ tegie. Dove non avrebbe alcuna apparente ragione d'essere, eccolo comparire e sparigliare le carte. Il dono infatti è di per sé 'pericoloso', in quanto comporta una domanda non reto­ rica: «Perché mi vuoi aiutare anche se non ti do nulla in cambio?». È qui la sua natura pecu­ liare, capace di coinvolgere le passioni e i sen­ timenti più diversi - l'onore, il prestigio, l'im­ magine di sé - con una forza dirompente rispetto a schemi di comportamento 'contrat­ tuali'. Ed è qui la risposta all'interrogativo che apre l'opera di Godbout: perché un libro sul dono? Perché proprio attraverso il dono pos­ siamo misurare i limiti di quel 'modello mer­ cantile' dominante che esclude tanta parte di ciò che dà senso ai rapporti sociali e interperso­ nali e finisce per rendere difficile una prospet­ tiva di speranza oggi più che mai necessaria.

VITA E PENSIERO Università

Jacques T. Godbout, sociologo, è professore emerito all'istituto nazionale della ricerca scientifica nell'università del Quebec. Fa parte del Mouvement anti-utilitariste dans les sciences sociales (MAUSS), fondato a Parigi nel 1981 con l'intento di costruire un'alterna­ tiva all'utilitarismo, divenuto ormai para­ digma dominante dell'era postmoderna. È in quest'ambito di ricerca che prende forma l'inte­ resse per la figura antropologica del dono, un interesse che, in realtà, è il prolungamento delle sue ricerche sul tema della partecipa­ zione (La Participation contre la démocratie, 1983) e della democrazia (La Démocratie des usagers, 1987). È membro del consiglio scienti­ fico de «La Revue du MAUSS», dove ha pubbli­ cato alcuni studi sul dono. In collaborazione con Alain Caillé ha pubblicato nel 1992 uno dei testi fondamentali della sociologia del dono, Lo spirito del dono, tradotto in italiano e molte altre lingue. Tra le sue pubblicazioni ricor­ diamo: L'esperienza del dono. Nella famiglia e con gli estranei (Napoli 1998), // linguaggio del dono (Torino 1998).

In copertina: Xochitiotzin Desiderio Hernandez, Affreschi del Palazzo del Governo: il mercato di Ocotelolco al tempo dell'età dell'oro di Tlaxcala (part.), 1956-1986. Tlaxcala, Palazzo del Governo © 2007, Foto Scala, Firenze Progetto: studio grafico Andrea Musso

JACQUES T. GODBOUT

Quello che circola tra noi SOCIOLOGIA

Dare, ricevere, ricambiare

I

RICERCHE

UP

www.vitaepensiero.it Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5. della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana n. 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected] e sito web www.aidro.org

Titolo originale: Ce qui circule entre nous. Donner, recevoir, rendre © 2007 Editions du Seuil

Traduzione di Paolo Gomarasca © 2008 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 Milano ISBN 978-88-343-1520-0

INDICE

Ringraziamenti

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Premessa. L’ingresso dal dono

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PARTE PRIMA

L’attrattiva del guadagno

I. IL III.

Un modello che affascina Limiti e debolezze La rottura produttore-utente e la rimozione del modello comunitario

Conclusione. Adesso il dono può apparire

19 37

77

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PARTE SECONDA

L’attrattiva del dono

Introduzione IV. Gli elementi di un sistema di dono V. Il dono e il senso del dono VI. La reciprocità e il senso del dono VII. Il dono e il debito VIII. Al di là del debito: l’identità IX. Il dono agli sconosciuti: un dono puro? X. Il terzo del dono: dono e giustizia

109 111 123 147 161 177 193 221

Conclusione. Dono e istituzione

235

6

INDICE

PARTE TERZA

Dono e altri modelli

Introduzione XI. Dono e analisi strategica XII. Né egoismo, né altruismo: il dono e la teoria dei giochi XIII. Né individualismo, néolismo

241 245 263 281

PARTE QUARTA

La fecondità e la pertinenza del modello del dono XIV. Ritorno sul dono e il mercato. L’imprenditore come donatore XV. Ritorno sul dono e il mercato. Quando gli uomini d’affari si fanno dei regali XVI. Il dono, l’arte e la scienza

303 325

Conclusione. Il dono come utopia

345

Conclusione generale. L’invito al dono

347

Bibliografia

374

295

Per Alice

Perché ce l’hai così tanto con me? Eppure non ti ho donato nulla, (attribué à Confucios)

Ringraziamenti

Da quasi dieci anni ho diversi scambi sul tema di questo libro sia in conversazioni amichevoli con persone a me vicine sia con ri­ cercatori e universitari. I commenti e le critiche che mi hanno ri­ volto alimentano questo lavoro. E impossibile esprimere la mia gratitudine a tutti coloro che hanno contribuito a questo libro, talmente sono numerosi: mia figlia Alice e sua madre Nathalie, per la loro presenza ispiratrice; Alain Caillé, Dominique e gli ami­ ci del Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali (MAUSS), miei compagni in questa avventura; i miei scambi con Alain sono sempre così cordiali, stimolanti e necessari; camminiamo insieme da più di vent’anni in questa ricerca di un paradigma differente, su vie parallele, molto vicine e con molte passerelle, sperando che un giorno tutto ciò formerà una scala che potrà essere utilizzata per accedere a una migliore comprensione del senso di ciò che circola. I miei pensieri e la mia gratitudine vanno anche alla mia colle­ ga Johanne Charbonneau: insieme abbiamo realizzato, condivi­ dendo lo stesso entusiasmo, la ricerca più appassionante della mia vita, sul dono nella famiglia, in collaborazione con Vincent Lemieux; a Sandra Ann Franke, la cui vivacità interiore mi ha ispi­ rato nella ricerca sulla donazione di organi. Le critiche e i commenti della mia amica Catherine Paradeise rappresentano un apporto significativo a questo libro. Anche i miei amici Ann Gotman e Henry Raymond mi hanno dato un so­ stegno costante e hanno contribuito al contenuto di diversi capi­ toli. I miei soggiorni in Italia, che hanno avuto inizio grazie a Lia Sanicola, hanno allargato le mie prospettive. Infine, non posso non menzionare il Consiglio della ricerca in scienze umane del Canada (CRSHC) che ha ritenuto di sovvenzio­ nare i miei progetti di ricerca sul dono.



PREMESSA

L’ingresso dal dono

Al momento della prima uscita di Lo Spirito del dono, nel 1992, lo studio del dono appariva come un dominio riservato agli antro­ pologi. Fatta eccezione per il libro di Titmuss1 sul dono del san­ gue, le opere classiche sul dono erano studi etnologici di società lontane. Trattavano di usanze dai nomi strani: kula, potlach... Poi la situazione è decisamente cambiata. E diventato un tema por­ tante, largamente discusso in convegni, articoli, numeri speciali di riviste, opere2. Perché dunque un altro libro che tratta in gran parte del dono? Lo Spirito del dono era il risultato della ‘scoperta’ del fenomeno del dono. Talvolta il tono prendeva in prestito l’entusiasmo inge­ nuo di chi crede di aver appena trovato qualcosa d’importante e vuole condividere la sua gioia. In seguito, ho discusso con dei col­ leghi, ho ascoltato obiezioni, ho condotto diverse ricerche empi­ riche: sul dono nella famiglia, il volontariato, la donazione degli organi, il dono negli affari. Questo libro è il risultato di tutti que­ sti modi di procedere. Non è una teoria del dono. Il compito è er­ culeo, e tutti quelli che accumulano riflessioni e dati sul dono - in primo luogo il Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali, che pubblica «La Revue du Mauss» - sanno bene che ne siamo an­ cora lontani. E piuttosto un tentativo di vedere la società e quel che vi succede attraverso il dono. Che cosa ci insegna il modello del dono sul volontariato, sulla donazione degli organi, certa­ mente, ma anche sulla famiglia, sull’arte, sul suicidio e anche, perché no, sul mercato stesso e sul modello della razionalità stru­ mentale, sulla teoria dei giochi e sull’analisi strategica? Perché il

1 R. Titmuss, The Gift Relationship. From Human Blood Social Policy, Vintage Books, New York 1972. 2 Molto, ma non esclusivamente, nell'ambiente francofono e in Italia.

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PREMESSA

dono è sempre presente - anche se spesso in modo secondario nelle relazioni fondate sulla complementarietà delle funzioni e delle cose da scambiare, sulla divisione del lavoro? Ovunque non abbia più un’apparente ragion d’essere, constatiamo che, malgra­ do tutto, il dono è sempre lì. Il caso più estremo è il rapporto commerciale, dove si presume un interesse esclusivo per i beni al­ trui, mentre il dono mira al bene dell’altro. Non proporrò definizioni preliminari. Come punto di parten­ za è sufficiente la seguente definizione, molto semplice, di un economista: «Un dono è un bene non contrattuale»3. O ancora quella di un giurista americano, il quale sottolinea che il dono fat­ to per ragioni affettive o morali non deve mai «essere esplicita­ mente condizionato da una garanzia di contraccambio»4. Queste definizioni comportano l’immenso vantaggio di prendere le di­ stanze sia dall’approccio antropologico del dono/contro-dono, che tende a una concezione obbligatoria di questo modo di circo­ lazione e all’equivalenza tra le cose, sia, all’altro estremo, dalla de­ finizione del dono attraverso la sua ‘purezza’, cioè mediante la sua unilateralità. Giacché privarsi del diritto al contraccambio non significa che questo non ci sarà. Significa piuttosto che il con­ traccambio sarà libero, non essendo incluso nell’atto iniziale di donare, come nel caso del contratto che ‘attualizza’ la transazione tentando di prevedere tutti i trasferimenti che essa suppone. Il dono è un trasferimento non attualizzato. Questo è il presuppo­ sto che bisogna accettare per cominciare a parlare del dono. Per andare un po’ più lontano, si può anche richiamare l’ap­ proccio proposto in Lo Spirito del dono: analizzare il dono significa prendere a oggetto lo studio di ciò che circola tra gli esseri umani come risultato della dinamica del legame sociale, reale o simboli­ co. Significa osservare ciò che circola in modo non indipendente dal legame, contrapponendosi a quel che circola innanzitutto in base a una logica e una dinamica più indipendente dal legame so­ ciale, come il principio del diritto, l’apparato statale o la dinami­ ca del rapporto commerciale. 3 «A gift is a noncontracted good» (O. Stark -1. Falk, Transfers, Empathy, Formation and Reverse Transfers, «The American Economic Review», 88, 1998, 2, pp. 271-276; citazione a p. 272). 4 M.A. Eisenberg, The World of Contract and the World of Gift, «California Law Review», 85 (1997), pp. 821-866.

l'ingresso dal dono

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Queste definizioni circoscrivono bene il campo e identificano l’oggetto. Proponendole, non ci pronunciamo ancora sulla natu­ ra di questo rapporto tra il legame e il dono, e nemmeno sulla na­ tura di questo legame sociale. Accontentiamoci di precisare che il legame sociale ha una connotazione più forte e più interpersona­ le delle espressioni ‘rapporto sociale’, o ‘relazione sociale’. Il do­ no è uno strumento di legame? Questa discussione avverrà in se­ guito e ci permetterà di constatare che il dono, propriamente par­ lando, non è al servizio del legame. Fondamentalmente è ciò che fa sì che il legame sia sociale o umano. Qualunque sia la definizione, atteniamoci per il momento al fatto che, prendendo in esame il dono, ci si interessa a ciò che cir­ cola nelle società sotto una forma diversa da quella del modello commerciale. Soffermiamoci su questa idea che costituisce l’ori­ ginalità dell’ingresso dal dono e insistiamo sul fatto che ci sembra essenziale concentrarci sullo studio di ciò che circola. Perché? Perché il modo di pensiero dominante ha acquisito una sorta di diritto di esclusività sul senso di ciò che circola. Così, i moderni hanno preso l’abitudine di considerare ciò che circola soltanto al­ l’interno di un unico modello. Gli altri modi di vedere la società hanno certamente diritto di esistere, ma a condizione di non im­ mischiarsi con ciò che circola. Possono interessarsi ai sentimenti, alle emozioni, agli scambi simbolici, psichici. Ma di fronte a ciò che circola ‘veramente’, a quel che gli economisti chiamano ‘beni e servizi’, devono fermarsi. Così, quando arrivano a ciò che circo­ la, gli individui moderni, senza accorgersi, cambiano automaticamente modello di riferimento e passano al modello dominante. Senza farci troppo caso, si mettono subito a pensare in termini di quantità, rendimento, crescita, razionalità, produttività, calcolo, equivalenza monetaria e commerciale. Ci lasciamo ingannare molto facilmente. L’autore dell’intro­ duzione francese alla celebre opera di etnologia sul kula (rituale di dono), di Malinowski, scrive: «Salta agli occhi che il kula assol­ ve innanzitutto a una funzione commerciale»5. Il minimo che si possa dire è che questo modello di riferimento commerciale non ‘salta agli occhi’ dello stesso Malinowski, dato che nel corso di tut-

5 B. Malinowski, Les Argonautes du Pacifique occidental (1922), Gallimard, Paris 1989, p. 27.

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PREMESSA

to il suo lavoro afferma il contrario! Così: «Non vi può essere in­ fatti fra dono e controdono un’equivalenza più perfetta di quan­ do A dà a B un oggetto e B nello stesso giorno restituisce ad A esattamente lo stesso oggetto. [...] Ma è immediatamente ovvio che nessuna transazione potrebbe essere più lontana dal com­ mercio»6. In che modo il contrario di quel che afferma Malinow­ ski ha potuto ‘saltare agli occhi’ dell’autore della prefazione all’e­ dizione francese dell’opera? Il fatto è che noi, i moderni, siamo stati condizionati a pensare così, cioè a guardare in ciò che circo­ la solo... ciò che circola, ad aprire una parentesi, a indossare dei paraocchi, estrapolando ciò che circola dal senso di ciò che circo­ la o, che è poi lo stesso, postulando un unico senso, ovvero il sen­ so ‘commerciale’. Tutto ciò mostra bene che senza ricerca di significato non si può cogliere il dono; ci ritroviamo di fronte a una piatta equiva­ lenza economica (quantitativa) che in senso stretto non vuol dire nulla, salvo giustamente nel mondo economico. E come se un os­ servatore trobriandese interpretasse il senso dell’usanza francese del giro nei bistrot, accontentandosi di contare il numero dei bic­ chieri che sono circolati tra i partecipanti. L’individuo moderno ha sempre la tentazione di attenersi al conteggio di ciò che circo­ la. Il senso economico di ciò che circola non ne esaurisce il senso. Ecco una prima specificità dell’ingresso dal dono. Ma il fatto stesso di puntare i riflettori su ciò che circola adot­ tando una prospettiva di questo tipo implica anche un’altra speci­ ficità, stavolta in opposizione a ciò che è considerato come il mo­ tore universale dell’azione: l’interesse. Si è sviluppata un’abbon­ dante letteratura che si contrappone al carattere riduttivo dell’in­ teresse come spiegazione universale dei comportamenti umani. Essa riguarda l’altruismo, la fiducia, l’appartenenza, la comunità, il legame sociale, il dovere. Ma è degno di nota constatare come questa letteratura si interessa molto poco al dono, ossia - ripetia­ molo - a ciò che circola tra i membri di una società sotto una for­ ma che non è quella dello scambio mutuamente interessato. Per esempio, Fukuyama7 non dice una parola del dono in un libro 6 B. Malinowski, Argonauti del pacifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella so­ cietà primitiva, tr. it. di Μ. Arioti, 2 voli., Bollati Boringhieri, Milano 2004; citazione dal vol. I, p. 190. 7 F. FUKUYAMA, La fine della storia e l’ultimo uomo, tr. it. di D. Ceni, Rizzoli, Milano 1992.

l’ingresso DAL dono

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che, tuttavia, in inglese si intitola Trust. Allo stesso modo, in un ec­ cellente volume che tratta di tutte le dimensioni dell’altruismo8, gli autori menzionano occasionalmente il fatto di «contribuire a un’opera di carità»9, e dedicano tre pagine10 alla filantropia; ma il dono non viene mai discusso come concetto11. Perché questa stra­ na assenza? Perché anche laddove vogliono mostrare l’importan­ za, nei comportamenti umani, di motivazioni altre rispetto all’in­ teresse, questi autori lasciano - per così dire - il monopolio dello studio di ciò che circola all’approccio economico e al modello commerciale. Non cercano le regole di ciò che circola se non sot­ to la loro forma commerciale. La riflessione si ferma alla circola­ zione delle cose. L’ingresso dal dono obbliga comunque a pren­ dere in esame ciò che circola, ma in modo alternativo. Ci chiedevamo, perché ancora un libro sul dono? La risposta appare ora evidente: se l’oggetto di studio del dono riguarda ciò che circola tra gli esseri umani sotto una forma differente dal mercato o dallo Stato, l’argomento è abbastanza vasto da non do­ versi sorprendere. Piuttosto bisognerebbe stupirsi ancora di più nel constatare che migliaia di persone dedicano la loro vita a pub­ blicare tonnellate di pagine su ciò che circola sotto un’unica for­ ma, la forma commerciale! Questo lavoro vuole offrire un mode­ sto contributo a quell’immenso cantiere costituito dall’analisi dei modi in cui circolano le cose, quando non passano attraverso il mercato o la redistribuzione pubblica. Ma prima di occuparci del dono, è necessario indugiare su questa forma dominante di circolazione e sul modo di intenderla, al fine di comprendere perché ha così tanto successo, ma anche quali sono i limiti di questo modello, e perché esso esige un pen­ siero del dono.

8 J.J. Mansbridge (ed.), Beyond self-interest, The University of Chicago Press, ChicagoLondon 1990. 9 Ibi, p. 239. 10 Ibi, pp. 46-48. 11 Cfr. anche A.P. FlSKE, The Four Elementary Forms of Sociality: Framework for a Unified Theory of Social Relations, «Psychological Relations», 99 (1992), 4, pp. 689-723, e due eccezioni interessanti: J. Estades, Confiance et contrôle dans le partenariat recherche-indus­ trie, in R. Läufer - Μ. Orillard (éds.), La confiance en question, L’Harmattan, Paris 2000, pp. 328-352; P. Bernoux, La sociologie des entreprises, Seuil, Paris 1995.

PARTE PRIMA

L’attrattiva del guadagno

caph olo primo

Un modello che affascina

L’umanità non è venuta sulla terra semplicemente per fare economia1.

Orsi o formiche1 ?

Che cos’è una società? Che cos’è il legame sociale? Che cos’è il dono? E se in fondo si trattasse dello stesso interrogativo? In ef­ fetti, le tre domande non equivalgono a chiedersi che cosa acca­ de quando siamo in presenza di individui isolati che cercano so­ lo il loro interesse o al contrario di individui interamente deter­ minati daH’insieme cui appartengono. Né orsi né formiche. La questione del legame sociale emerge tra questi due poli che cor­ rispondono, a partire dall’illuminismo, ai due modelli classici di spiegazione delle origini delle società umane. Prima della so­ cietà umana c’era lo stato di natura, e lo stato di natura consiste­ va sia di individui senza alcun legame, di migliaia di Robinson sulle loro rispettive isole che, se finiscono per incontrarsi, si comportano come lupi, sia di individui, in un certo senso, con troppi legami: è l’orda, la solidarietà meccanica, la comunità pri­ mitiva, una società i cui membri sono interamente determinati dalla loro appartenenza a un insieme più vasto, una società di formiche, e dunque senza legame sociale in senso stretto. « [L’uomo] ha cominciato vivendo come parte di un tutto dotato di qualità organiche specifiche, che si serviva dell’individuo co­ me di un organo»2. Per Nietzsche, tutto il combattimento consi­ 1 C. Castoriadis, citato da N. Benabdelali, Le Don e l’Anti-économique dans la société ara­ bo-musulmane, Eddif, Casablanca 1999, p. 295. 2 F. Nietzsche, Frammenti postumi, in Opere di Friedrich Nietzsche, ed. it. a cura di G. Col­ li - Μ. Montinari, Adelphi, Milano 1964 ss.

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l’attrattiva del guadagno

ste nell’uscire dal gregge, nell’emancipare l’individuo. «Un tem­ po l’io si era nascosto nel gregge; e ora nell’io si nasconde anco­ ra il gregge»3. Partendo da questi due modelli dello stato di natura, da questi due miti d’origine dell’umanità dopo i Lumi, una domanda viene subito in mente: in che modo tali ‘creature’ sono potute passare dallo stato di natura alla società umana? Il ricercatore non si trova qui di fronte a un problema identico a quello dell’origine della vi­ ta? Come si è passati dall’assenza di vita nell’universo alla sua pre­ senza? Come nel caso dell’apparizione della vita, bisogna pure ipotizzare a un certo momento una sorta di ‘generazione sponta­ nea’. Mutatis mutandis, è necessario postulare in qualche modo una ‘generazione sociale spontanea’. Nell’evoluzione sociale, così come nell’evoluzione biologica, c’è un ‘anello mancante’, un anello sociale mancante. Durkheim non è il solo a credere che, se all’origine siamo in presenza di individui isolati che perseguono unicamente i loro interessi, non è facile capire in che modo sarebbero arrivati a formare una società. «Se è vero che l’interesse avvicina gli uo­ mini, tale avvicinamento non dura che pochi istanti: l’interesse non può creare che un vincolo esteriore. [...] Le coscienze non vengono a contatto che superficialmente; esse non si com­ penetrano né aderiscono fortemente. Se poi consideriamo at­ tentamente le cose, vediamo che ogni armonia di interessi cela un conflitto latente o semplicemente differito. [...] L’interesse è infatti la cosa meno costante al mondo»4. E il modello del­ l’orso. Ma, all’inverso, se questi individui sono interamente de­ terminati alla maniera delle società di formiche, allora in che modo comprendere l’emergenza di questo legame, in che mo­ do ciò che oggi chiamiamo individuo ha potuto separarsi e ac­ cedere a una certa autonomia? Del resto, le società di formiche esistono da molto più tempo delle società umane e nessuno sa di qualcuno che avrebbe varcato questa soglia, salvo nei ro­ manzi. Bisogna dunque sospettare, come scrive Sahlins a pro­ posito di Hobbes, che «lo stato di natura è già una società sui

3 Ibidem. 4 E. Durkheim, La divisione del lavoro sociale, Edizioni di Comunità, Milano 1972, p. 212.

(IN MODELLO CUE AFFASCINA

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generis»5. Perché gli uomini, afferma Hobbes, anche nello stato di natura, non sono api. Qualunque sia la risposta a questa domanda, qualunque sia Γimmagine scelta per rappresentarsi lo stato di natura - orsi o for­ miche -, è tuttavia sorprendente constatare che oggi le prime so­ cietà umane (le si chiami tradizionali, non moderne, arcaiche, primitive...) sono il più delle volte descritte - o piuttosto immagi­ nate6 - come delle società alquanto oppressive per i loro membri, dove l’idea di persona è ignorata, o non le è permesso emergere. Mentre i contemporanei di Rousseau e di Ferguson si rappresen­ tano i ‘selvaggi’ come degli individui liberi perché possiedono po­ chi beni, noi pensiamo esattamente il contrario. Il ‘buon selvag­ gio’ libero, che i filosofi del XVIII secolo opponevano all’indivi­ duo moderno, ha fatto cilecca. Oggi è il modello della formica che prevale non appena tentiamo di immaginare la società d’ori­ gine. La modernizzazione è un processo di liberazione. L’indivi­ duo moderno è allora definito come colui che si è emancipato dalle costrizioni che lo ostacolavano. Ma perché si possa parlare di società umana, tali costrizioni devono essere, per definizione, morali, sociali e non solamente istintive o ‘naturali’ come tra le formiche. Allora si pone subito la questione: da dove sarebbe venuta questa morale? La risposta di Nietzsche è nota: dalla necessità di cooperare e, perciò, di ri­ spettare le proprie promesse, il che ha trasformato gli uomini in gregge7. In altri termini, poiché per Nietzsche la morale rim­ piazza l’istinto, essa trasforma l’orso in formica. E l’origine della morale come costrizione sociale. Ma dopo Nietzsche, la teoria dei giochi8 ha mostrato che la morale non è necessaria all’emergere della cooperazione. Tra queste due spiegazioni (orsi o for­ 5 Μ. Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, Bompiani, Milano 1980, p. 177. 6 Esistono certamente delle eccezioni, come Sahlins e, beninteso, Marcel Mauss, co­ me si vedrà. Cfr. A. Caillé, L’Anthropologie du don, Desclée de Brouwer, Paris 2000 e C. Tarot, De Durkheim à Mauss, l’invention du symbolique, La Découverte/MAUSS, Paris 1999. 7 F. Nietzsche, Genealogia della morale, in Opere di Friedrich Nietzsche, Edizione italiana diretta da G. Colli - Μ. Montinari, vol. VI, t. Il, tr. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1984. 8 In particolare, con R. Axelrod, Giochi di reciprocità: l’insorgenza della cooperazione, tr. it. di R. Petrillo, Feltrinelli, Milano 1985 (cfr. cap. 12).

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l’attrattiva del guadagno

miche) che, come si può constatare, conducono a dei vicoli cie­ chi, l’utilitarismo ha proposto la sua, rivoluzionaria e scandalo­ sa: lo stesso interesse egoista può fondare una società. D’ora in poi non abbiamo bisogno dell’ipotesi moralista più di quanto Laplace avesse bisogno di quella di Dio. Quale ‘economia’! La mano invisibile si sostituisce a tutto questo inverosimile e com­ plicato montaggio dei sistemi morali, che spesso ci tolgono la nostra libertà in cambio di un’incerta e invisibile felicità pro­ messa in un altro mondo. Addio alla libertà ‘naturale’ dei sel­ vaggi: la mano invisibile ci conduce alla felicità visibile di quag­ giù, alla libertà del commercio e alla globalizzazione degli scam­ bi. Che bella notizia! Non sappiamo che farcene di questa mora­ le del gregge, la società funziona bene, e persino meglio, senza di essa. Allora subito si pone una questione: in assenza di criteri forni­ ti dalla morale, come definire questo ‘meglio’? Era infatti comun­ que la morale che definiva ciò che era bene o male, meglio o peg­ gio. Durante tutto il XX secolo si assiste al conflitto tra due rispo­ ste antitetiche a tale questione, o piuttosto tra una risposta ten­ denzialmente dominante e tutti quelli che vi si oppongono. Il me­ glio sarà quel che ciascuno deciderà. Ecco la risposta data dall’u­ tilitarismo, e più precisamente dal modello cosiddetto neoclassi­ co dell’economia. Anche se si può discutere ad nauseam dei suoi fondamenti teo­ rici e denunciare il suo carattere tautologico, sul piano pratico ta­ le risposta si dimostra presto un formidabile strumento di difesa contro tutti coloro che vorranno imporre agli altri la loro defini­ zione di ‘meglio’. A mio avviso, accade uno strano fenomeno psi­ cologico con questo modello neoclassico e quel che gli gira intor­ no - i sociologi e le loro teorie della scelta razionale, la razionalità strumentale e l’ottimizzazione. Più leggo sull’argomento, più ci rifletto, più lo insegno, più ho l’impressione di non andare né avanti né indietro, o ancora di alternare tra il disaccordo comple­ to (è una tautologia ‘senza interesse’...) e un certo fascino per questo strano modello. Più ho l’impressione di averlo esaminato e più mi sembra, nel medesimo tempo, di aver girato in tondo. Il mio cuore oscilla tra ciò che mi attrae e si presenta come un’evi­ denza che si tenderebbe troppo spesso a dimenticare o a trascu­ rare, e ciò che mi lascia insoddisfatto e mi irrita profondamente. Da tanto tempo non ho più l’impressione di avanzare, eppure mi

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sorprendo sempre a leggere sull’argomento, a tentare di afferrare qualcosa che mi sarebbe sfuggito. Provo invidia e allo stesso tempo sono infastidito da questi eco­ nomisti che sembrano possedere serenamente la verità del lega­ me fine-mezzi e passeggiano per il mondo applicando il loro mo­ dello a tutto ciò che vedono, proclamando con un grande sorriso di soddisfazione: «Vedete, funziona. Dopo tutto, non per niente la nostra scuola vince regolarmente i premi Nobel di economia!». E se qualcuno scopre che, osservando meglio, non funziona poi così bene - anche se si va un po’ avanti, è vero -, ma che, intro­ ducendovi altre considerazioni, il fenomeno in questione potreb­ be forse venir meglio compreso, questi stessi economisti si affret­ tano subito ad applicare il loro modello a queste ‘altre considera­ zioni’, e dichiarano con un sorriso ancora più grande e ancora più ironico: «Vedete, funziona ancora!». Questo recupero a 360 gradi non avviene senza richiamare l’astrologia, che ha saputo adattarsi a tutte le modificazioni delle no­ stre teorie fisiche del cosmo - e specialmente al passaggio al mo­ dello eliocentrico - affermando: «Nessun problema, funziona an­ cora; basta tener conto del fatto che la terra si muove e adattare i nostri calcoli». Del resto, non è l’unica analogia tra gli economisti e gli astrologi: la più rilevante è che tutti loro continuano a fare delle previsioni che spesso non si realizzano, ma a cui si crede ugualmente. Che fare? Seguendo il modello dei cambiamenti di paradigma di Kuhn, Etzioni9 propone di smettere di logorarsi a furia di criti­ care questo paradigma per cercare di costruirne un altro: vedre­ mo quello che prevarrà. E sicuramente un atteggiamento molto opportuno, come lo è certo il tentativo di elaborare una teoria del dono senza preoccuparsi di questo modello centrato sull’interes­ se. E quel che fa con grande successo il filosofo Marcel Hénaff nella sua opera sul ‘prezzo della verità’10. Come vedremo, que­ st’ultimo contesta anche l’idea che il dono sia concepito come una forma di circolazione delle cose. Ma è ugualmente vero che un’idea non è veramente còlta se non quando il problema che 9 A. Etzioni, The Methodology of Socio-Economics, «The Journal of Socio-Economics», 27 (1998), 5, pp. 539-549; citazione a p. 541. 10 Μ. Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono, il denaro, la filosofia, tr. it. di R. Cincotta - Μ. Baccianini, Città Aperta, Eroina 2006.

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l’autore si è posto, e ciò a cui questa idea si oppone, siano ben compresi. Non possiamo perciò fare come se il paradigma cui il dono si oppone non esistesse. Eppure, è un po’ l’atteggiamento adottato dalle scienze umane fino a poco tempo fa, cioè far finta di considerare che questo problema non esistesse, andando a stu­ diare il dono altrove, molto lontano da noi. Ma così facendo, que­ sti etnologi portavano spesso il modello dominante nella loro te­ sta, e i suoi concetti nei loro bagagli, al punto che il viaggio, in questo caso, non era necessariamente una soluzione, anche se, come in ogni viaggio, il ricercatore imparava molte cose interes­ santi sul dono. Ho dunque voluto vederci chiaro con questo paradigma. Se fossi trobriandese, forse potrei farne a meno. Ma, essendo occi­ dentale, devo passare di lì. Un moderno non arriva a riflettere su ciò che circola tra gli individui senza prendere in considerazione i concetti di utilità, di razionalità, di interesse. Essi fanno parte dei suoi riferimenti necessari. E un passaggio obbligato, la figura ro­ vesciata della gratuità del dono moderno. Dopo tutto, può darsi che una delle supposizioni della teoria della scelta razionale si av­ vicini alla verità: «La teoria della scelta razionale - afferma Abell è il punto di inizio necessario, a partire dal quale si possono con­ frontare gli altri tipi di teoria»11, il che gli conferisce un ‘privilegio paradigmatico’. Sarà questo il primo punto da trattare: il privilegio paradigma­ tico di tale modello. In effetti, se è falso, come spiegare un tale successo, quando negli ultimi due secoli sono stati proposti mo­ delli alternativi e alcuni sono stati sperimentati il secolo scorso, con il risultato che conosciamo? Senza rispondere a queste do­ mande, come proporre un’alternativa credibile? Oggi nella no­ stra società questo modello va da sé. E emerso dalla sua ‘ganga’12, come dice Bourdieu, il che sottintende il fatto che era lì da sem­ pre. Fa addirittura parte dell’inconscio. Vedremo che i suoi difen­ sori sostengono che non dev’essere dimostrato. E ciò spiega il fat11 P. Abell, Is Rational Choice Theory a Rational Choice of Theory'?, inJ.S. Coleman - T.J. Fararo (eds.), Rational Choice Theory: Advocacy and Critique, Sage, London 1992, pp. 183-206; citazione a p. 192. 12 P. Bourdieu, Ragioni pratiche, Il Mulino, Bologna 1995, p. 173 (Bourdieu si riferisce al fatto che i concetti fondamentali del pensiero economico si liberano progressiva­ mente dalla ‘ganga’ dei significati non economici [n.d.r.]).

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10 che alcuni partigiani di questa teoria, come ad esempio Becker, eliminano il legame di intenzionalità tra l’azione e la coscienza afleimando che, coscientemente o meno, gli attori obbediscono al­ la teoria della scelta razionale13. Coloro che contestano tale mo­ dello devono spiegarsi. 11 modello Questo modello, questo paradigma, in che cosa consiste? E sfug­ gente, ci scivola tra le mani. Va oltre l’idea di homo oeconomicus. Si adatta agli ostacoli, come l’acqua, e si definisce in funzione delle obiezioni. Possiede un dinamismo di tipo estensione-ripiegamen­ to: a seconda che i suoi difensori cerchino di estenderne il campo di spiegazione o di applicazione, si rifugiano nella neutralità as­ siologia. Ragion per cui, per numerosi autori14, questa teoria è sia precisa ma falsa, sia vera ma tautologica. Non è falsificabile. Ma, a questo proposito, è forse diversa da tutte le grandi idee delle scienze umane, a cominciare dal concetto di inconscio? Pochi teorici, senza dubbio, condividono l’insieme delle idee o delle credenze che costituiscono il cuore del paradigma domi­ nante. Cerchiamo di identificarle, poi di concatenarle. 1. La razionalità. La teoria della scelta razionale è un modello di decisione. Si basa sull’idea di ottimizzazione, che Coleman de­ finisce così: «La teoria specifica che, agendo razionalmente, un attore si impegna necessariamente in un processo di ottimizzazio­ ne. Talvolta si dice che massimizza la sua utilità, o ancora che mi­ nimizza i suoi costi, o altro»15. L’uomo è un animale razionale. Di conseguenza, quando il ricercatore osserva un comportamento, invece di accontentarsi di ricorrere alle tradizioni, alla mentalità, all’istinto e ad ogni altra spiegazione che si impone all’individuo dall’esterno, cerca di capire e cerca le ‘buone ragioni’ che hanno 13J. Bohman, The Limits ofRational Choice Explanation, in Coleman - Fararo (eds.), Ra­ tional Choice Theory, pp. 207-228; citazione a p. 214. 14 A. Caillé, Critica della ragione utilitaria. Manifesto del Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali, Bollati Boringhieri, Torino 1991; A.O. Hirschman, L’economia politica come scienza morale e sociale, a cura di L. Maldolesi, tr. it. di L. Berti - R. Rossini, Liguori, Napoli 1987; Mansbridge (ed.), Beyond self-interest. 15 Coleman - Fararo (eds.), Rational Choice Theory, p. XL

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condotto il soggetto ad agire in quel modo. Si tratta di un’idea importante, non tautologica, purché si capisca bene a che cosa si oppone. In Francia, Raymond Boudon, insieme ad altri, ha messo in evidenza e illustrato nei suoi lavori la fecondità di questa idea16. 2. L’interesse {self). Questa seconda idea introduce una restri­ zione, una chiusura in rapporto alla prima, una sorta di giudizio esterno che concerne ciò che è ragionevole perseguire quando una decisione è presa: il proprio interesse; e, si aggiunge, in prati­ ca è quello che fanno tutti. L’unica ‘buona ragione’ ultima ragio­ nevole è l’interesse, il proprio. Per quelli che aderiscono a questa concezione della razionalità, le tesi 1 e 2 sono complementari: es­ sere razionale significa scegliere i mezzi adatti per raggiungere un fine interessato, cosicché un comportamento non interessato non è razionale. Ma non tutti condividono questo postulato, e sono addirittura molti quelli che hanno modificato la loro visione in proposito1 '. Altri adottano l’una o l’altra posizione come mecca­ nismo di difesa, ripiegando dietro una posizione quando l’altra è attaccata. E la dinamica estensione-ripiegamento menzionata pri­ ma. La maggior parte degli economisti ha molte difficoltà a sfug­ gire all’influenza di questa idea della ricerca dell’interesse mate­ riale. Come scrive Frank, «gran parte dei libri di economia affer­ ma nelle prime pagine che il modello di scelta razionale assume le preferenze individuali, quali che siano, come date: gli individui possono essere altruisti, sadici, masochisti, o possono preoccupar­ si esclusivamente del proprio interesse materiale. Detto questo, però, i libri di testo in genere considerano l’interesse materiale come unica motivazione del comportamento umano»18. Perché? Essenzialmente perché, se questa seconda tesi è soppressa, il mo­ dello perde molto interesse. E la tesi seguente, quella che storica­ mente è stata la più rivoluzionaria e scandalosa, perde la sua per­ tinenza. 3. La ricerca del proprio interesse è al servizio dell’interesse collettivo. I vizi privati conducono al bene pubblico19, perché tut­ 16 Cfr. l’introduzione della terza parte. 17 Cfr. per esempio Buchanan, citato da Mansbridge (ed.), Beyond self-interest, p. 21. 18 R.H. Frank, Microeconomia, McGraw-Hill, Milano 2003, p. XI. 19 B. Mandeville, La favola delle api, ovvero, vizi privati, pubblici benefici, con un saggio sul­ la carità e le scuole di carità e un’indagine sulla natura della società, a cura di T. Magri, Laterza, Roma-Bari 2002.

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ti questi egoismi sono gestiti da un meccanismo, la mano invisibi­ le del mercato, scriverà Adam Smith. Un meccanismo, la concor­ renza, fa sì che il prodotto migliore sarà disponibile al prezzo mi­ gliore. Fa sì che questa ottimizzazione ricercata da ogni individuo sarà parimenti ottimale per la società tutta intera, e ciò indipen­ dentemente e persino nonostante gli individui. In effetti, ogni agente, perseguendo il proprio interesse, farà tutto ciò che è pos­ sibile e permesso per sopprimere la concorrenza che conduce al­ l’ottimo collettivo, dal momento che non è nel suo interesse ave­ re concorrenti. Si tratta dunque di un effetto non voluto dagli agenti individuali, ma constatato e auspicato dai riformatori so­ ciali come Bentham, ovvero da coloro che formulano questa teo­ ria della felicità collettiva. Ecco un’altra caratteristica, ben strana, di una teoria dei genere: la dicotomia permanente tra gli indivi­ dui osservati, egoisti e interessati a fare di tutto per sfuggire alla concorrenza, e l’osservatore, il solo preoccupato degli effetti col­ lettivi, della giustizia, dei vantaggi dell’egoismo o addirittura del suo carattere altruistico. Nel XVIII secolo queste idee rappresentarono una novità. L’i­ dea stessa di felicità non era comune. Di qui la celebre frase di Saint-Juste: «L’idea di felicità è nuova in Europa». Hirschman commenta così questa frase: «Era allora una novità pensare che la felicità potesse essere progettata cambiando l’ordine sociale»20. Il modello sarebbe un incrocio di idee francesi e scozzesi. «L’idea della perfettibilità dell’ordine sociale nacque originariamente du­ rante ΓIlluminismo francese, mentre quella delle conseguenze inattese fu uno dei contributi principali dei moralisti scozzesi»21. Si tratta di idee rivoluzionarie, che significano la possibilità di fa­ re a meno in gran parte dell’autorità e dell’appello alla virtù per controllare le passioni e far funzionare la società per la maggiore felicità del maggior numero di persone. Cosa dire di meglio? Co­ me valuteremo questa felicità? Introducendo un altro principio essenziale all’edificio. 4. Questo principio stabilisce che tutto ciò che è necessario alla felicità o al benessere è calcolabile, e dunque comparabile. Tutto ciò che conta si conta, le diverse utilità possono essere confrontate 20 Hirschman, L’economia politica come scienza morale e sociale, p. 73. 21 Ibidem.

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attraverso il calcolo, ed è questo che definisce l’utile in opposizio­ ne a ciò che vale, ossia a ciò che avrebbe un valore in sé; o ancora, solo ciò che si conta ha un valore. Tale ingrediente è fondamenta­ le, perché tanto la sua applicazione ‘pubblica’ quanto quella pri­ vata (vendere a degli sconosciuti) crollerebbe senza questa ‘qua­ lità quantitativa’, la cui conseguenza è il fatto che è possibile valu­ tare quantitativamente i risultati di un’azione, di una politica, di un’impresa. E la base del consequenzialismo22. L’utilità viene defi­ nita in base alle conseguenze quantitativamente misurabili di un’a­ zione ed è considerata come norma morale ultima della società. Il modello si oppone qui alle intenzioni e ai valori in sé. Rifiuta così a priori tutto ciò che è unico, incomparabile, incommensurabile. «È il postulato centrale di fungibilità o di sostituibilità: “Ciascuno conta per uno, nessuno conta più di uno”, affermava Bentham. E... ogni piacere conta per la stessa ragione come un piacere di in­ tensità e di utilità equivalente. [...] Nessuna differenza qualitativa o di principio. Questo postulato [...] è assolutamente essenziale poiché è soltanto attenendovisi che si può procedere a un calcolo e determinare “la maggior felicità dell’individuo o della comu­ nità”»23. La quantificazione di tutto è ciò che permette in pratica di essere moralmente neutrali, di non dare giudizi qualitativi su ciò che è morale o meno e, lo vedremo, di passare dall’utilità alle preferenze, realizzando la rottura tra produttori e utenti. Riassumiamo: la teoria della scelta razionale è un modello di decisione razionale che risponde alle preferenze di ciascuno in base a come ciascuno le concepisce, un modello che considera soltanto i risultati (le conseguenze e non i valori in sé), e che è fondato sull’interesse individuale, ma in grado di consentire, co­ me effetto non voluto, di raggiungere il massimo degli interessi collettivi, valutati quantitativamente. Tale paradigma è un intrec­ cio di concezioni psicologiche (motivazione, molla dell’azione umana, presa di decisione) e morali (benessere collettivo). L’idea che sostiene l’intero edificio è quella dell’interesse calcolabile del consumatore come valore supremo. Il consumatore è opponibile 22 Su questo punto, cfr. A. Sen-Klamer, Sur l’économie de marché. Entretien avec Amartya Sen, «Cité», 1 (2000), 1, pp. 181-201; citazione a p. 192; D. Hausman - Μ. McPherson, Taking Ethics Seriously: Economies and Contemporary Moral Philosophy, «Journal of Econo­ mic Literature», 31 (1993), 2, pp. 671-731. 23 Caillé, L’Anthropologie du don, pp. 240-241.

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■il produttore, come i risultati si oppongono ai principi (o ai valo­ ri in sé). ( :he cosa pensare di questo modello? In che misura corrisponde alla realtà? Se non è questo il caso, allora perché affascina così tan­ to? La tesi che voglio mettere alla prova è la seguente: la ragione per la quale siamo così affascinati da questo modello dipende dal < ontesto della rottura produttore-utente all’origine della società at­ tuale. E lì che prende senso e che diventa possibile articolare tutti i suoi elementi in modo significativo, nel quadro della dinamica fi­ ne-mezzo e dell’opposizione valori-strumenti. E questo contesto che gli conferisce la sua forza, la sua pertinenza e il suo interesse normativo e pratico. E dunque situandolo in questo quadro che po­ tremo contemporaneamente capirlo e relativizzarlo. Ma prima, ri­ cordiamo quel che spontaneamente ci piace di questo modello. Le attrattive dell’utilitarismo

Apporto teorico importante Una prima attrattiva, teorica, è stata spesso sottolineata, specialmente da Boudon, che ha mostrato chiaramente come questo ap­ proccio consideri non attendibili, come fattori di spiegazione dei comportamenti umani, le norme obbligatorie che ‘si impongono’ agli attori. Il che conduce in pratica ad un atteggiamento di ri­ spetto degli attori da parte del ricercatore, nello stesso modo in cui, come vedremo, l’idea di preferenza conduce al rispetto del­ l’utente da parte del produttore. Ecco una prima ragione per apprezzare questo modello, una ragione che inerisce al postulato delle buone ragioni di Boudon. Nonostante tutto ciò che i suoi oppositori - uno dei quali sono io - possano dirne, bisogna riconoscere il contributo notevole di te­ sti importanti che si ispirano a questo modello. Nonostante il suo carattere al limite del tautologico - ma quale teoria è in grado di sfuggirvi, se è spinta all’estremo? -, i lavori classici che si rifanno alla teoria della scelta razionale sono assai stimolanti24. Tali lavori 24 Pensiamo a Axelrod, Giochi di reciprocità·, R. Boudon (a cura di), Trattato di sociolo­ gia, tr. it. di Μ. Martini - Μ. Santoro, Il Mulino, Bologna 1996; M.L. Olson, The Logic of Collective Action, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1965.

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apportano novità e non sono tautologici. La loro tesi è falsificabi­ le, prova ne è il fatto che appunto non si è mancato di farlo, e in ciò consiste tutto il loro interesse. Anzi, questa teoria viene co­ stantemente falsificata, persino dai suoi protagonisti25, dimostran­ do così che qualcosa è plausibile proprio quando non ce lo si aspettava. Plausibile e logico, e sorprendente26. Ciò è molto im­ portante, e noi rivendicheremo la stessa cosa stabilendo, per esempio, che il dono è plausibile nel mondo commerciale, men­ tre non ce lo si aspetta. Rivendicheremo la legittimità di un ragio­ namento del genere.

Il realismo apportato dall’idea di interesse

Dopo il peccato originale, in Occidente l’uomo è stato consi­ derato come fondamentalmente cattivo, il che ha portato a cercare dei mezzi morali per controllare le sue passioni al fine di evitare effetti collettivi disastrosi. La teoria utilitarista pren­ de in contropiede tale approccio, affermando gli effetti collet­ tivi positivi delle passioni umane, volte alla ricerca egoistica del massimo piacere e della minima sofferenza. Ciò le consen­ te di evitare - o perlomeno di limitare - il ricorso alle virtù e alla morale per far funzionare la società. L’idea è che se essa riuscisse a dimostrare che la società può funzionare bene senza queste risorse rare quali l’altruismo, la devozione, il senso del dovere, sarebbe tanto di guadagnato. Nonostante le differen­ ze, questo è l’atteggiamento di base di tutti coloro che aderi­ scono a tale approccio, a cominciare da Bentham: «La simpa­ tia, il solo movente disinteressato di cui Bentham abbia ricono­ sciuto l’esistenza, non offriva ai suoi occhi che poche garanzie per l’azione virtuosa»27. Axelrod la pensa allo stesso modo a proposito del dilemma del prigioniero: se riuscissi a dimostra­ re che la cooperazione tra persone può nascere da individui che cercano unicamente il loro interesse, tanto meglio. Perché

25 R. Boudon, La troisième voie, «Sociologie et société», 24 (2002), 1, pp. 147-153; cita­ zione a p. 152. 26 Su questa idea, cfr. il numero di «Sociologie et société» che tratta della teoria della scelta razionale: La théorie du choix rationnel contre les sciences sociales?, «Sociologie et so­ ciété», 24 (2002), 1. 27 P. Chanial, Justice, don et association, La Découverte/MAUSS, Paris 2001, p. 184.

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l’altruismo è talmente strano, e così difficile da spiegare28. E, come· scrive il grande economista Kenneth Arrow: «Come la maggior parte degli economisti, noi non ci auguriamo di esau­ rire con noncuranza questa risorsa rara che è la motivazione altruista»29. Arrow la pensa come Bentham e, a dire il vero, un po’ come ciascuno di noi. Nessuno può rimanere insensibile a questa di­ mensione dello spirito utilitarista, al suo modo di non prende­ re gli esseri umani per ciò che non sono, riconoscendo l’im­ portanza di quella molla dell’azione che è l’interesse - il che è banale -, senza considerarlo però unicamente come una forza negativa per la società, il che è una novità. L’altruismo è una realtà difficile da comprendere, una risorsa rara. Inoltre - il che non può che complicare le cose -, l’altruismo sembra di­ ventare sempre più raro sotto l’effetto della scienza economica stessa. La scienza economica costruisce l’economia30 e, di con­ seguenza, man mano che lo spirito del capitalismo si diffonde, l’individuo è sempre meno capace di resistere alle sirene del­ l’economia, e si trasforma perciò in homo calculator e consommator. Così, lo studente di economia è diventato ancora più homo oeconomicus al termine del suo corso31. La teoria economica li­ berale è anche una sorta di profezia auto-realizzatrice (self-fulftlling prophecy). Ma vedremo come essa, nonostante tutto, sia spesso falsa, e come la realtà non giustifichi le dichiarazioni estreme di molti economisti, come quella, spesso citata, di Tullok: «L’essere umano medio è per il 95% del tempo egoista nel senso stretto del termine»32. C’è una soglia in cui il teorico esce dal realismo e cade in un pessimismo che l’osservazione non giustifica.

28 Axelrod, Giochi di reciprocità, p.182 (cfr. cap. 12). 29 KJ. Arrow, Gifts and Exchanges, in E.S. Phelps (ed.), Altruism, Morality and Economie Theory, Russel Sage Foundation, New York 1975, pp. 13-28; citazione a p. 22. 30 Μ. CALLON - B. Latour, “Tu ne calculera pas” ou Comment symétriser le don et le capital?, «La Revue du MAUSS», 9 (1997), pp. 45-70. 31 R.H. Frank - T. Gilovich - D.T. Regan, Does Studying Economies Inhibit Cooperation?, «Journal of Economic Perspectives», 7 (1993), 2, pp. 159-171. 32 Citato in ibi, p. 159. Cfr. anche R.H. Frank, Passions within Reason. The Strategic Role of the Emotions, W.W. Norton & Company, New York 1988, p. 256.

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Il rapporto commerciale e la libertà di uscirne Ci sono parecchie cose che ci piacciono nel mercato. C’è sicura­ mente la quantità inimmaginabile e sempre rinnovata di beni e gadget d’ogni genere che esso non smette di offrirci. E come una scatola a sorpresa permanente, ma che può concedersi solo chi può pagare (la ‘domanda solvibile’); gli altri si accontentano di sognarla e di comprare dei biglietti della lotteria. Quel che ci pia­ ce in modo del tutto spontaneo nel mercato è anche la facilità di uscire da una relazione e di andare a vedere altrove. E questa specie di leggerezza del legame sociale che esso instaura e gene­ ralizza. Il mercato è una sorta di simulazione neutralizzata (gra­ zie al meccanismo del ritorno immediato) del legame sociale, un legame artificiale, un gioco che rende possibile e incredibilmen­ te facile la circolazione di una quantità infinita di cose che chia­ miamo merci. Queste circolano grazie a un rapporto in cui gli agenti non possono né soffrire troppo né odiare troppo né ama­ re troppo, ma soltanto perdere o vincere, e per la maggior parte del tempo scambiare delle cose senza alcun rischio, senza affetto né animosità, ma senza legame duraturo. Gli economisti neolibe­ rali pensano che per gli esseri umani questo sia sufficiente, che essi non abbiano bisogno di essere ‘tormentati’ dai legami socia­ li, di esserne attraversati, trasformati. Rispetto alla persona nel suo complesso, il mercato sta al dono come il gioco del Monopo­ li sta al mercato. E l’idea di exit, sviluppata da Hirschman, e fondata sul fatto che ogni transazione punta ad essere ‘chiara’ (daring), immedia­ ta, senza passato né avvenire. La libertà di uscirne è fondata sulla liquidazione immediata permanente del debito, dal momento che il pagamento deve chiudere la relazione. Lungi dal rivelare, come pensano molti autori a partire da Adam Smith, la nostra ‘ve­ ra’ natura, che così sarebbe uscita dal suo viluppo preistorico, questa idea si è progressivamente imposta. Essa non ha nulla di ‘naturale’. Al contrario, siamo in presenza di una creazione socia­ le, di un’invenzione incredibilmente sofisticata che sembra anda­ re da sé, ma invece, come mostra Polany, ha qualcosa di straordi­ nario33. Questo processo di distacco dal debito è la migliore defi-

33 K. POLANY, La granite trasformazione, tr. it. di R. Vigevano, Einaudi, Torino 1974.

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Dizione sociale del mercato, più completa della sola definizione economica. La libertà moderna è fondamentalmente assenza di debito*34. Ci libera da quel debito ancestrale concepito come uni­ camente negativo, e che viene definito a priori come qualcosa di < ui l’individuo deve liberarsi, perché necessariamente alienante. «La coppia costituita dall’individualismo e dall’economia neo­ classica cerca di fondare l’etica del comportamento dell’uomo che non ha alcun debito verso nessuno. Il che porta questa teoria a rivendicare di essere riconosciuta come il discorso della li­ bertà»35. E quel che faceva dire nel Medioevo che l’aria di città rende li­ beri, perché libera da «quella sostanza [...] soffocante, immedia­ tamente impressa da una coercizione socializzata: il debito»36. E un fatto che sperimentiamo quotidianamente. Siamo tutti af­ fascinati dall’idea di liberarci da un debito negativo grazie al mer­ cato e al meccanismo monetario. Ma vedremo, nella seconda par­ te di questo lavoro, che il debito può anche essere positivo.

Il rispetto

Il mercato ha una struttura che include un certo rispetto dell’u­ tente, almeno se lo paragoniamo ad altri modelli. Grazie all’idea di preferenza, esso introduce un obbligo di neutralità assiologia in un contesto in cui i valori di chi offre i prodotti e di chi li uti­ lizza non sono gli stessi. In un contesto del genere - che è quello, come vedremo, della rottura produttore-utente -, c’è una cosa che sappiamo tutti, e cioè che la buona volontà, il fatto di volere il bene degli altri, non dà nessuna garanzia, né riguardo alla cono­ scenza di questo bene, né riguardo alla qualità del risultato. In al­ tri termini, non è sufficiente dimostrare la buona intenzione per ottenere buoni risultati. E quanto ci insegna l’enorme letteratura sugli effetti perversi, specialità della sociologia che prova un pia­ cere maligno a mostrare le catastrofi prodotte dalle buone inten-

54 Certo, possiamo anche considerare il sistema economico come un incredibile sis­ tema di debiti e di crediti. Cfr. infra, seconda parte, cap. 7. 35 A. Insel, Une rigueur pour la forme, «La Revue du MAUSS», 3 (1994), pp. 77-94; cita­ zione a p. 88. 36 J. Maucourant, Au coeur de l’économie politique, la dette. L'approche deJohn R. Commons (1924), «La Revue du MAUSS», 2 (1993), pp. 209-218; citazione a p. 214.

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zioni. Sono i risultati che contano, è l’etica della responsabilità ri­ spetto all’etica della convinzione. La teoria neoclassica è nata co­ me alternativa alla gerarchia imposta e contiene un principio ba­ silare di autonomia e di libertà ben descritto e difeso da Hayek, che la sinistra classica ha sempre avuto il torto di non voler mai ri­ conoscere, come ha chiaramente mostrato George Orwell37. Si tratta di una visione limitata, come vedremo. E la visione monologica di un sé che esiste indipendentemente dal resto del mondo. Ecco quel che nasconde la teoria della scelta razionale, scrive Charles Taylor. Egli aggiunge che bisogna dunque respin­ gerla a favore di una visione più ricca, più conforme a ciò che l’es­ sere umano è veramente38. Certo. Ma allora bisogna domandarsi perché questa visione monologica (individualista) ha così tanto successo. E se fosse perché la visione più ricca alla quale Taylor in­ vita viene spesso monopolizzata da tutti coloro che hanno l’esclu­ siva della definizione dei valori, che si trovano in strutture esterne alla società e alle sue reti, e che dunque non possono che provare ad imporre in modo autoritario questa visione diversa, insieme ai valori che le sono associati? Quando ciò che è offerto all’indivi­ duo è una visione imposta, egli preferisce in generale la visione meno ricca. Messo di fronte a questa alternativa, l’individuo opta per il modello ‘monologico’, che è più povero, ma apparente­ mente non gli impone nulla. In altri termini, la visione individua­ lista è una posizione di ripiego dei membri di una società quando un potere esterno cerca di definire i valori in loro nome, o quan­ do il rapporto di fiducia indispensabile ad ogni rapporto sociale è minimo. A queste condizioni, l’individuo diventa, giustamente, utilitarista. Il che spiega la forza del mercato e dell’individualismo fin dai suoi esordi: non soltanto la possibilità, ma la facilità di usci­ re da una relazione che non può esserci imposta. Come ha dimo­ strato la caduta del comuniSmo, il mercato ci salva dai sistemi to­ talitari. Esiste in realtà un terzo settore, quello della società, dove gio­ cano il dono e la solidarietà. Ma il modello commerciale sempli­ cemente non lo vede, come constateremo. Chi, come unica alter37 J.-C. Michea, Gorge Orwell, anarchiste Tory, Editions Climat, Castelnau-Le-Lez 1995. 38 C. Taylor, To Follow a Rule, in E. Lipoma - Μ. Postone Ceraio Calhoun (eds.), Bour­ dieu: Critical Perspectives, University of Chicago Press, Chicago 1993, pp. 45-60; citazio­ ne a p. 49.

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nativa, contrappone al mercato i sistemi burocratici, fa dunque il gioco del mercato e adotta il suo paradigma. Alla rete commer­ ciale è necessario opporre un sistema dello stesso tipo, e non del­ le istituzioni esterne agli agenti sociali. Ragion per cui il miglior modo di lottare contro l’imperialismo del mercato è di promuo­ vere la democrazia contro la burocrazia, è di battersi contro tutti i sistemi che vogliono imporci dei valori, perché questi finiscono sempre per accrescere l’attrattiva del mercato, come ha mostrato in modo definitivo l’esperienza dell’Europa dell’Est. A differenza della sinistra classica, e anche di una buona parte della sinistra tout court, non riconosco l’importanza del mercato soltanto perché non si può fare altrimenti, soltanto perché gli al­ ti i sistemi sono falliti; dunque non soltanto per realismo, ma an­ che perché aderisco a certi valori, specialmente a quello del ri­ spetto dei valori dell’altro. In virtù di questa caratteristica, il mer­ cato disturba le ‘autorità’ di ogni tipo, dalle più piccole alle più grandi, tutte quelle istanze che, attraverso la storia, hanno voluto imporre i loro valori agli altri, tutti coloro che non soltanto affer­ mano di sapere meglio di me ciò che è buono per me, ma preten­ dono anche di dovermelo imporre, invece di cercare di convin­ cermi: esperti, funzionari autoproclamati rappresentanti dell’in­ teresse generale, professionisti, tecnocrati, intellettuali organici che sanno dove va la Storia. Il mercato - come del resto la demo­ crazia - infastidisce terribilmente tutte queste categorie di attori, perché li obbliga a una maggiore modestia. Li forza a sedurci, a convincerci, e ci dà la possibilità di dire Niet, passate oltre, andate a vendere i vostri prodotti altrove, perché non potete impormelo. Oggi è in nome della scienza che gli esperti decidono del nostro bene. McCain, una multinazionale canadese che vende patate fritte congelate in numerosi paesi (compreso il Belgio...), ha de­ ciso di non comprare patate geneticamente modificate. «Ritenia­ mo che gli OGM siano molto buoni per la scienza [...] ma noi fac­ ciamo affari per dare ai clienti ciò che vogliono e non ciò che pensiamo dovrebbero avere», ha dichiarato il suo presidente, Mr McCain39. Il mercato e l’interesse evitano grandi disgrazie all’u­ manità, non lo si ripeterà mai abbastanza. Ora, i critici dell’utilitarismo, come d’altronde molti dei suoi 39 «Le Devoir», 30 novembre 1999.

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l’attrattiva del guadagno

difensori, lasciano il più delle volte da parte questo aspetto per­ ché criticano il mercato per delle ragioni sbagliate, affermando ad esempio che ciò che preferiamo non corrisponde necessaria­ mente al nostro bene (il nostro ‘vero’ bene...). «Non sempre la soddisfazione delle preferenze contribuisce al benessere», scrive Kymlicka40. Per criticare il modello commerciale, egli ricorda che, in una pizzeria, ci si può far servire una cattiva pizza e persi­ no, dice, una pizza putrefatta. Chi potrebbe negarlo? Ma perché sarebbe una condanna del modello commerciale? Quest’ultimo prevede proprio che, se questo capita, il cliente non tornerà più in quella pizzeria perché, nel modello commerciale, ce ne sono molte altre, e quella pizzeria, se non modifica il suo comporta­ mento, semplicemente fallisce ed esce dal mercato. Il modello commerciale è un formidabile meccanismo di auto-correzione dei problemi identificati da Kymlicka. Per convincersene, è suffi­ ciente andare ad assaggiare delle pizze in un sistema senza mer­ cato e dunque necessariamente burocratico: in confronto, i pro­ dotti di bassa qualità del sistema commerciale diventano quasi dei prodotti di lusso. In un sistema abituato a funzionare senza mer­ cato, McDonald’s fa la figura del grande ristorante e si mangia le pizze ‘socialiste’ in un sol boccone, come si è potuto constatare in Russia. Ci sono certamente le pizze fatte in casa. Anche queste variano di qualità. Ma siamo allora nel modello comunitario. E in con­ fronto a un modello comunitario idealizzato che il modello com­ merciale viene il più delle volte disapprovato, non certo in con­ fronto ad altri possibili modelli che si trovano nel medesimo con­ testo di rottura produttore-utente, caratteristico della modernità. Cosicché, per comprendere le qualità ma anche i difetti di questo modello, bisognerà tornare indietro e situarlo nel suo contesto sociale e storico.

40 W. KYMLICKA, Introduzione alla filosofia politica contemporanea, tr. it. di R. Rini, Feltri­ nelli, Milano 1996, p. 25.

capholo secondo

Limiti e debolezze

«Nel corso dell’intera storia umana, le devastazioni provocate da eccessi della tendenza all’autoasserzione sono quantitativamente trascurabili se paragonate al numero di persone uccise ad maiorem gloriam in conseguenza di una devozione autotrascendente a una bandiera, a un capo, a una fede religiosa o a una convizione poli­ tica»1. Contro tutti i mali che prostrano l’umanità a causa degli ac­ cessi della competizione, del prestigio, del dono, delle passioni, c’è dunque il mercato. C’è il controllo delle passioni da parte de­ gli interessi ben compresi. C’è la razionalità procedurale. C’è la li­ bertà di andarsene altrove, essendo sempre pari, senza debito. C’è il postulato che ciascuno sa ciò che è bene per lui e che non gli dobbiamo imporre i nostri valori. Chi dice di meglio? Eppure questa soluzione, che oggi l’umanità è pronta a globa lizzare, è stata non soltanto temuta da tutte le società, inclusa la nostra, ma anche disprezzata. E' ciò che Polany ha dimostrato. Uno dei peggiori insulti che viene rivolto ad Ulisse nel suo cele­ bre viaggio è l’accusa del figlio di Alcinoo, presso il quale si trova, di essere un mercante. «Ulisse ruba, prende a botte, uccide, ma non scambia!»2. Omero concorda con i Trobriandesi studiati da Malinowski, per i quali il commercio (gimwali) è ritenuto sprege­ vole, come nella maggior parte delle società. D’altronde, anche quando questa idea è diventata accettabile - nel XVII e nel XVIII secolo —, essa è rimasta comunque considerata spregevole. Era semplicemente meno disastrosa delle passioni che a quell’epoca scatenavano così tanta violenza. «La dolce passione per il denaro,

1 A. Koestler, Il principio di Giano, tr. it. di L. Sosio, Edizioni di Comunità, Milano 1980, p. 99. 2 D. Tempi e - Μ. Chabal, La Réciprocité et la Naissance des valeurs humaines, L’Harmat­ tan, Paris 1995.

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L’Ari RAITIVA DEI. GUADAGNO

anche se si ammetteva che fosse indegna e grossolana, poteva vin­ cere e sotterrare le passioni violente che avevano alimentato in modo rovinoso delle carneficine senza fine»3. Per mettere in evidenza i difetti di questo modello, conviene distinguere alcune questioni. In effetti, come abbiamo mostrato, non tutti condividono l’insieme dei suoi postulati. 1. Esiste un solo motore importante dell’azione umana, l’inte­ resse così come lo definiscono i sostenitori deH’utilitarismo ‘du­ ro’4? 2. Esiste un solo modello di decisione che conta veramente, e/o che dovrebbe contare, il modello della razionalità strumenta­ le? Alcuni rispondono di sì alle due domande. Altri soltanto alla seconda. 3. Ma anche se si risponde di no a queste due prime domande, non bisogna conservare l’idea di preferenza e di rispetto dell’a­ gente che essa suppone, come più sopra abbiamo visto? Dopo aver presentato la nostra posizione, tenteremo di rispon­ dere ad altre due domande meno frequenti. 4. Questo modello mira alla felicità. Ma la felicità di chi? Del maggior numero, rispondono gli utilitaristi. Del consumatore, ri­ sponderemo noi. 5. Di quale felicità si tratta? La felicità così come ciascuno la definisce, rispondono gli utilitaristi. Quella di consumare sempre di più, risponderemo noi. 1. L’INTERESSE COME MOTORE DELL’AZIONE. INTERESSE E UTILITÀ

La plausibilità come sostituto della prova

La ricerca del proprio interesse (self-interest) è il principale, se non addirittura l’unico motore (spring) dell’azione umana. E la posi3 S. Holmes, The Secret History of Self-Interest, in Mansbridge (ed.), Beyond self-interest, pp. 267-286; citazione a p. 276. Cfr. A.O. Hirschman, Le Passioni egli interessi: argomen­ ti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo, tr. it. di S. Gorresio, Feltrinelli, Mi­ lano 1990. 4 R. Young, Pour la rationalité dure, «Sociologie et société», 24 (2002), 1, pp. 125-132.

I.IMITI E DEBOLEZZE

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/ione più estrema, la versione «dura»5 della teoria della scelta ra­ zionale, ed è quel che abitualmente si intende per homo oeconomiI us. A partire da Adam Smith e il suo celebre macellaio6, questa spiegazione della circolazione delle cose si è diffusa, in particola­ re oggi con la nozione di capitale sociale. Il postulato dell’interes­ se costituisce un elemento essenziale del nostro immaginario mo­ derno. E quel che gli economisti chiamano ‘modello standard’. « [Secondo] il modello standard deH’equilibrio generale, tutti cer­ cano il proprio interesse personale, una volta stabiliti i gusti e le lecniche. E sufficiente allora introdurre abilmente la concorrenza imperfetta, l’ignoranza e l’incertezza; si può anche aggiungere l’apprendimento, la segnalazione e persino fare la dinamica dello squilibrio. In breve, si parte dall’ipotesi che, nelle sue linee gene­ rali, la teoria non pone problemi maggiori. Tutte le aggiunte che vengono fatte [... ] possono allora apparire come semplici opera­ zioni di routine che mirano a consolidare le operazioni acquisite, dato che la guerra è vinta fin d’ora, avendo acquisito il controllo delle alture. Ma non è affatto così; si è talmente lontani dal con­ trollare le alture che l’elemento più importante di questa modellizzazione, cioè la motivazione degli esseri umani, non è stato cor­ rettamente trattato»7. Questo modello standard differisce dall’affermazione più ge­ nerale secondo cui l’individuo sceglie i mezzi migliori per rag­ giungere i suoi obiettivi, affermazione di cui tratteremo in questo capitolo, e che Boudon descrive così: «Dato che è stato spiegato che il soggetto X ha fatto Y piuttosto che Y5 perché gli sembrava più vantaggioso dal punto di vista dei suoi obiettivi fare Y, la spie­ gazione è completa»8. In virtù di questo postulato, quando l’os­ 5 Ibidem. 6 «Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspet­ tiamo il nostro pranzo, ma dalla considerazione del loro interesse personale» (A. Smith, La ricchezza delle nazioni (1776), tr. it. di F. Batoli - C. Camporesi - S. Caruso, Newton, Roma 1995, p. 73). Il pensiero di Adam Smith è tuttavia molto più sfumato, come vedremo nella conclusione generale (cfr. infra, pp. 347 ss.). Per una presenta­ zione storica del ruolo della nozione di interesse, cfr. A.O. Hirschman, Il concetto di in­ teresse: daU’eufemismo alla tautologia, in In., L’economia politica come scienza morale e sociale, pp. 53-67. 7 Sen-Klamer, Sur l’économie de marche. Entretien avec Amartya Sen, p. 198. 8 R. Boudon, Théorie du choix rationnel ou individualisme méthodologique, «Sociologie et sociétés», 24 (2002), 1, pp. 9-34; citazione ap. 11.

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servatore vuole comprendere un comportamento, non deve far altro che cercare l’interesse tra gli insiemi di obiettivi di cui parla Boudon, e quando l’ha trovato smettere di cercare. «Una delle ra­ gioni essenziali dell’attrattiva della teoria della scelta razionale è [...] il fatto di fornire delle spiegazioni che non sfociano in que­ stioni aggiuntive»9. Quest’ultima affermazione non si applica di fatto che all’interesse. In altri termini, quando abbiamo trovato l’interesse, abbiamo trovato una spiegazione ‘completa’ del feno­ meno. Come afferma ancora Boudon: «Anche se la biologia fosse capace di descrivere i fenomeni elettrici e chimici che accompa­ gnano un processo di decisione, questo non aggiungerebbe nulla alla spiegazione»10. D’altra parte, anche in sociobiologia11, il fatto di trovare un interesse rappresenta la spiegazione ultima dell’al­ truismo: la formica è spinta a sacrificarsi per un’altra formica per­ ché quest’ultima è il suo clone12. E dunque nel suo interesse. Ciò significa senza dubbio che non è necessario cercare altri fattori di spiegazione per un comportamento. Ma questo implica anche un’altra cosa: che il ricercatore non ha nemmeno da verifi­ care quel che ha trovato. Certo gli ‘obiettivi’, il senso di un’azio­ ne, possono essere teoricamente di natura diversa. Ma tra tutti questi obiettivi (interessi personali, altruismo, rispetto di un prin­ cipio, valore, ecc.), l’interesse gode di uno statuto particolare: è l’unico motore dell’azione che non dev’essere dimostrato. E quel che si intende con spiegazione ‘completa’. Ed è quel che fa dire ad Abell che non solo questa spiegazione è generalizzata, ma che essa gode di un privilegio paradigmatico, di uno statuto privile­ giato. Come viene applicato questo principio? Procedendo nella ma­ niera seguente: di fronte a una decisione che sembra motivata da differenti obiettivi, l’utilitarista fa l’ipotesi che in fondo sono gli interessi che spiegano questa decisione. Egli mostra in seguito che la presenza di interessi è plausibile, senza stabilirne la dimo­ strazione empirica, e conclude che gli interessi erano proprio il

9 Ibi, p. 13. 10 Ibi, p. 11.

11 P. Jaisson, La formi et Ze Sociobiologiste, Odile Jacobe, Paris 1993. 12 R. Dawkins, Il gene egoista. La parte immortale di ogni essere vivente, ir. it. di G. Corte - A. Serra, Mondadori, Milano 1995.

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vero motore dell’azione. Dunque la motivazione interessata non viene dimostrata. Tutto quello che è messo in evidenza è la sua plausibilità. Il teorico delle scelte razionali confonde così due fasi del ragionamento: stabilire la plausibilità dell’esistenza di un fe­ nomeno e dimostrare la sua esistenza. Gli utilitaristi si acconten­ tano il più delle volte della prima fase e giocano sull’effetto com­ binato della sorpresa e sul privilegio di cui gode il postulato del­ l’interesse come motore dell’azione umana. Diamo un’illustrazione. E ben noto che gli immigrati inviano alle famiglie rimaste in patria delle considerevoli somme di dena­ ro. Analizzando questo fenomeno, che apparentemente ha un senso altruista, Stark13 ‘scopre’ che in realtà si tratta di obiettivi in­ teressati. Perché? E molto semplice: l’invio di denaro diminuisce il numero di immigrati potenziali aumentando il livello di vita nel paese d’origine. L’offerta di lavoro diminuisce, i salari aumenta­ no. Stark conclude che è l’interesse a motivare gli immigrati a in­ viare denaro nel loro paese d’origine. Gli basta aver mostrato la plausibilità della spiegazione perché questa venga accettata dal ri­ cercatore. Non viene addotto nessun elemento di prova per fon­ dare tale spiegazione. L’attore sociale (l’immigrato) avrà un bel protestare e affermare che vuole aiutare la sua famiglia, che si sente responsabile, ecc.: le sue spiegazioni saranno considerate nel migliore dei casi come falsa coscienza, nel peggiore come ipo­ crisia. Attribuendo uno statuto privilegiato alla spiegazione mediante l’interesse e mostrando soltanto la sua plausibilità, gli utilitaristi danno una spiegazione che è ben lungi dall’essere completa e che, contrariamente a quel che afferma Boudon, non obbedisce ai canoni della spiegazione scientifica. Questo carattere incom­ pleto della spiegazione chiarisce fin dove arriva il privilegio para­ digmatico di cui parla Abell. In effetti è l’unica spiegazione a pos­ sedere un tale statuto. Nessun’altra verrebbe ammessa in questo modo. Per esempio, se gli utilitaristi rivendicano giustamente il diritto di considerare come un progresso nella conoscenza il fatto di mostrare che l’interesse personale si nasconde dietro ad altre buone ragioni apparenti in ambiti in cui non ce lo si aspetta - am-

13 O. Stark, Altruism and beyond: an economic analysis of transfers and exchanges within families and groups, Cambridge University Press, Cambridge 1995.

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biti non economici come la famiglia ad esempio (Becker ha otte­ nuto un premio Nobel per questo) -, allora dovrebbe essere pos­ sibile rivendicare la legittimità del procedimento inverso per il dominio economico. In quest’ultimo caso, l’osservatore si aspetta che gli attori cer­ chino il loro interesse. Se si riuscisse a mostrare la ‘plausibilità’ di un’altra motivazione, di un altro motore dell’azione di certi agen­ ti economici, ciò dovrebbe essere considerato, in virtù della stessa logica, come un progresso della conoscenza. Eppure questo ra­ gionamento non verrà accettato. Perché? Perché, nel caso dell’in­ teresse, è sufficiente che ciò che è trovato sia plausibile, logico, coerente affinché venga riconosciuto come reale. Negli altri casi, occorre in più dimostrarlo empiricamente. E comunque, il teori­ co della scelta razionale continuerà a sospettare che c’è un inte­ resse nascosto e andrà avanti a cercarlo... finché non troverà qualcosa di plausibile. E pur vero che questa posizione è neutrale di fronte all’ogget­ to: il fatto di preferire la poesia o le zucche non ha importanza (esempio classico di Bentham)14. Ma non è neutrale di fronte agli scopi. E in questo che si distingue fondamentalmente dall’ap­ proccio basato sulle preferenze. Occorre che siano delle preferen­ ze interessate. In altri termini, Bentham giudica i fini dell’attore, e si permette di dire che devono essere interessati; il che ha come conseguenza non voluta dagli attori - ma voluta da Bentham che le ha attribuito la più grande importanza - la felicità del maggior numero. Conosce il fine meglio dell’attore stesso. In che misura questo ragionamento è fondato? Nessuno po­ trebbe negare l’importanza dell’obiettivo costituito dall’interesse personale. Significherebbe negare l’evidenza, negare l’istinto di conservazione. E poi chiaro che, se qualcuno fa sempre azioni a suo discapito, non sopravvivrà a lungo... Ammettiamo anche che questo interesse sia il più delle volte nascosto da altri motivi appa­ renti e che, in queste situazioni, tale postulato produca dei risul­ tati interessanti e inattesi. E il motivo per cui questa teoria ha con­ dotto a delle analisi molto stimolanti di certi fenomeni sociali, analisi «che vanno in senso contrario all’intuizione»15. Quando

14 Citato da Frank, Microeconomia, p. 207. 15 Young, Pour la rationalité dure, p. 129.

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I ìank afferma che, nel campo delle scienze umane, «non esiste umiliazione più grande per un ricercatore che chiamare altruista un'azione e farsi dire da un collega che un’analisi più sofisticata mostra che in realtà era egoista»16, egli non descrive solo il ricer­ catore, ma ogni persona moderna che rifugge come la peste l’at­ teggiamento ingenuo. Ricercatore o uomo d’azione, ci si sente tutti più rassicurati < onvincendo qualcuno che è nel suo interesse agire come si vor­ rebbe che facesse. Cerchiamo tutti di fondare la nostra collabora­ zione sull’interesse ben meditato degli attori, facendo appello il meno possibile alla sua generosità. E vero, come scrive Alain Cail­ lé, che «la dottrina utilitarista si organizza a partire da due propo­ sizioni difficilmente conciliabili: la prima stabilisce che gli esseri umani sono degli egoisti razionali e come tali devono essere con­ siderati. La seconda impone loro l’obbligo morale di sacrificarsi sull’altare del maggior numero, l’obbligo di essere ‘altruisti’»17. È il motivo per cui il riformatore utilitarista, avendo di mira il bene collettivo, fonda in parte il suo sistema sull’interesse individuale. Così facendo, non si contraddice necessariamente. Perché sa be­ ne che anche lui, messo nella situazione, sceglierà forse il più del­ le volte il suo interesse individuale piuttosto che l’interesse collet­ tivo, anche se pensa che non sia ciò che dovrebbe fare. Dobbiamo per questo considerare come completa ogni spiega­ zione mediante l’interesse, senza necessità di verifica empirica? Mi pare al contrario che, pur accordandogli uno statuto speciale, sia illegittimo ritenere completa questa spiegazione per il solo fat­ to che la sua plausibilità è stabilita. E questo principio a costituire un privilegio inaccettabile. Possono esistere altri sensi, altri obiet­ tivi di un’azione, anche quando abbiamo stabilito la plausibilità dell’interesse. Ci possono anche essere primariamente altri sensi, altri obiettivi. Del resto, la spiegazione mediante l’interesse è lun­ gi dal godere ovunque dello statuto esorbitante di cui beneficia nelle scienze sociali. Così, nel mondo giuridico, dunque nel pro­ cesso, l’interesse personale (a chi giova il crimine...) non viene mai considerato come una prova sufficiente. Costituisce certa­ mente un indizio importante, ma deve essere accompagnato da 16 FRANK, Passions within Reason. The Strategic Role of the Emotions, p. 21. 17 Caillé, L’Anthropologie du don, p. 168.

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altre prove, e in tal senso, contrariamente a ciò che afferma Bou­ don, la teoria della scelta razionale non obbedisce «agli stessi principi dell’inchiesta di polizia o di giustizia»18. Anche in campo giuridico, all’interesse viene assegnato uno statuto speciale, ma mai tale da valere come una spiegazione completa; occorrono dei fatti: ‘testimoni oculari’, impronte digitali, test del DNA, ecc. In breve, nel diritto, quando si trova chi ha interesse al crimine, si ri­ tiene di possedere un indizio, una presunzione, si ha un’‘ipotesi’ di sospetto. Nelle scienze umane, si è decisamente in possesso di una prova! Il verosimile diventa il vero. Conseguenze sul dono

Questo atteggiamento difficilmente giustificabile comporta gravi conseguenze per lo studio del dono. Proprio a causa dello specia­ le statuto di cui gode la spiegazione mediante l’interesse, molti os­ servatori attribuiscono ad ogni dono dato in cambio un unico senso, quello dell’interesse. Il più grande ostacolo alla compren­ sione del dono viene da tale postulato dell’interesse personale co­ me spiegazione completa. A motivo di ciò, quando osservano il dono, la maggior parte degli autori si impegolano fin da subito nel problema del ‘contraccambio’, il quale significherebbe auto­ maticamente che non era un ‘vero dono’, che non era un dono ‘puro’. Ogni volta che c’è contraccambio, diventa effettivamente plausibile che il dono sia stato fatto soltanto in vista di questo ri­ torno, e dunque per interesse. Applicando allora il postulato se­ condo cui la spiegazione mediante l’interesse è completa se è plausibile, senza dover essere dimostrata empiricamente, si con­ clude che ogni ‘ritorno’ dimostra che il senso del dono era l’inte­ resse del donatore. In altri termini, il senso del dono è definito unicamente dalla presenza o dall’assenza del contraccambio, in base all’affermazione: «C’è contraccambio, non è un dono; non c’è contraccambio, è un dono». Invano l’attore invocherà ogni al­ tra ‘buona ragione’: una volta che la spiegazione mediante l’inte­ resse è stata giudicata plausibile, logica, essa acquisisce uno statu­ to privilegiato che elimina le altre buone ragioni, persino quelle 18 Boudon, Théorie du choix rationnel ou individualisme méthodologique, p. 23.

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invocate dall’attore. Mentre Boudon afferma costantemente che l’individualismo metodologico è fondato sul rispetto dell’attore cosa che il più delle volte è vera -, il privilegio accordato all’inte­ resse non rispetta tale criterio. Ma, si obietterà, non è forse vero che un ‘vero dono’ è senza contraccambio? No. Può benissimo non esserci contraccambio senza che sia un dono, come impara ogni commerciante che si fa accalappiare in una transazione. All’inverso, ci può essere con­ traccambio e dono, senza che l’obiettivo (il senso) sia l’interesse. Tutto dipende dal senso. E essenziale stabilire la varietà possibile dei sensi di ciò che circola. In realtà, se è così cruciale interpretare correttamente e senza a priori ‘interessista’ il contraccambio nel dono, è perché tale contraccambio è molto importante. Come ve­ dremo nella seconda parte, si tratta persino di un fenomeno so­ ciale fondamentale: il dono attira il dono.

Distinguere senso e risultato

Possiamo constatare che questa interpretazione univoca del dono si basa sul fatto, come si è visto finora, che l’osservatore scopre che il gesto del donatore gli procura un vantaggio. Così, siccome l’invio di denaro alla sua famiglia ha per effetto di diminuire il numero di nuovi immigranti, l’immigrante ha interesse a inviare denaro alla sua famiglia, e, di conseguenza, il suo comportamen­ to è interessato, anche se quest’ultimo afferma di farlo per altre ‘buone ragioni’, anche se dà un altro senso al suo gesto. In questo caso, il senso che l’attore dà alla sua azione è opposto ai risultati di questa; più precisamente, è opposto solo a certi risultati della sua azione, quelli che gli procurano un vantaggio. Il senso dell’a­ zione è dunque ridotto ai soli risultati che procurano un vantag­ gio al suo autore. Pierre Jaisson afferma perciò che, «affinché il comportamento altruista abbia un senso, occorre che procuri un vantaggio all’or­ ganismo che lo manifesta»19. Se un comportamento fa guadagna­ re il suo autore, non può dunque, per definizione, avere altro sen­ so che quello della ricerca del suo interesse. Jaisson esclude aprio19 Jaisson, La formi et le Sociobiologiste, p. 155.

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ri la possibilità che il gesto procuri un vantaggio al suo autore sen­ za che quest’ultimo l’abbia voluto. Esclude così una delle nozioni più feconde delle scienze umane, quella degli effetti non voluti, fenomeno che gli utilitaristi stessi hanno reso celebre mettendo in evidenza, come si è visto, gli effetti collettivi positivi della ricer­ ca dell’interesse. Vedremo nella seconda parte che il ‘contraccambio’ è un ef­ fetto non voluto molto particolare. Il vantaggio che procura il do­ no al suo autore è forse l’effetto non voluto più spettacolare del­ l’azione umana. Deve essere non voluto. Ma nella misura in cui l’analista adotta - più o meno esplicitamente - il postulato del­ l’interesse, riduce l’intenzione a certi effetti e non rispetta le ‘buone ragioni’ dell’attore, contrariamente a quel che afferma Boudon. Vedremo che il modello del dono su questo punto è vin­ cente: esso rispetta ancora di più il discorso dell’attore, perché non fa un uso sistematico del sospetto quando quest’ultimo enun­ cia le sue ‘buone ragioni’. Il suo problema è perciò quello, inver­ so, deH’ingenuità. E importante sottolineare che questo ragionamento differisce da quello di un autore come Frank, che si accontenta di constata­ re che il comportamento altruista deve procurare un vantaggio al suo autore affinché continui. Se non frutta niente, in effetti, que­ sto comportamento tende necessariamente a scomparire insieme con la persona. Con ciò, Frank non conclude che l’altruismo non esiste per il solo fatto che fa guadagnare il suo autore; al contra­ rio, egli distingue, da una parte, il risultato dell’azione, e dall’al­ tra, il senso dell’azione per l’attore. La distinzione è simile a quel­ la che facciamo quando ci chiediamo perché un animale mangia. Un animale mangia perché ha fame. E il ‘senso’ che lui attribui­ sce alla sua azione. Il risultato di questa azione è che non muore, cresce e assicura la sopravvivenza della sua specie. E il risultato che l’osservatore constata. Nessuno confonderà il senso, l’inten­ zione ‘soggettiva’ che l’animale dà al suo comportamento, e il ri­ sultato osservato della sua azione.

La generalizzazione tautologica

Coloro che difendono il postulato del motore unico dell’azione, quello dell’interesse, cercano spesso di uscire da questo dilemma

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tenendo conto del senso, ma attribuendo ‘ultimamente’ un senso a {mori interessato a tutto ciò che procura soddisfazione all’agente. Così, considerano il piacere o la soddisfazione provati dal do­ natore20 alla vista della soddisfazione o del piacere del donatario ( onte un vantaggio, un risultato interessato. Oppure ipotizzano delle preferenze come «un senso della giustizia, un attaccamento alla reciprocità, un’avversione per la disuguaglianza, [...] e un gu­ sto per la punizione»21. Così, nel gioco chiamato Ultimatum game, i ricercatori constatano che i giocatori prendono delle decisioni che non sono unicamente in funzione del loro proprio interesse, ma che tendono verso un’equa spartizione dei benefici tra i gio­ catori. Come notano gli autori di tale esperienza, «gli economisti neoclassici potrebbero considerare che un’equa spartizione è compatibile con una concezione allargata del principio di massi­ mizzazione della propria utilità, il quale includerebbe un ‘gusto per la giustizia’»22. E generalizzando questo postulato dell’interesse ad ogni risul­ tato e ad ogni comportamento che la teoria diventa tautologica, non falsificabile. La teoria non ha più allora alcun potere esplica­ tivo (altro modo di dire che spiega tutto). Inoltre, una volta intro­ dotta l’idea di un gusto per la giustizia, la porta viene aperta a tut­ te le norme, e la teoria si dissolve nella socioeconomia, se non ad­ dirittura nella sociologia. La teoria perde dunque ogni interesse, mentre all’inizio era effettivamente molto pertinente affermare che il fatto di perseguire il proprio interesse poteva comportare vantaggi collettivi. È una grande scoperta, basata, notiamolo, sul­ la distinzione tra il senso dell’azione per l’attore e i risultati non voluti. Ma è inaccettabile non distinguere i differenti sensi dell’a­ zione, riportandoli a uno solo. L’umanità ha sempre creduto che tali questioni fossero non soltanto pertinenti, ma anche essenziali. E questa umanità inclu­ de gli economisti stessi che, a partire da Adam Smith, hanno fon­

20 O, all’inverso, il desiderio di evitare il disagio che avrebbe provato se non l’avesse fatto: altruismo morale. 21 J. Henrich (ed.), Foundations of Human Sociality: Economic Experience and Ethnographic Evidence from Fifteen Small-Scale Societies, Oxford University Press, Oxford 2004, p. 50. 22 T.D. Stanley - U. Tran, Economics Students Need Not Be Greedy: Fairness and The Ulti­ matum Game, «The Journal of Socio-Economics», 27 (1998), 6, pp. 657-664; citazione a p. 660.

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dato tutta la loro teoria sull’importanza di questa distinzione e sul fatto che è cercando il loro interesse, nel senso materiale, restrit­ tivo del termine, che gli individui ottengono le migliori conse­ guenze collettive. Il loro scopo, il senso della loro azione, è dunque proprio l’interesse collettivo! Così, gli economisti sarebbero gli unici che, per loro, distinguono sensi diversi dell’azione e non so­ no esclusivamente self-interested'. E tempo di abbandonare questa ipotesi estrema, ‘dura’, e chie­ dersi se il modello non diventi più interessante quando l’impor­ tanza dell’interesse viene relativizzata e quando viene riconosciu­ ta la molteplicità degli obiettivi dell’azione, come hanno fatto in particolare i sostenitori dell’individualismo metodologico. In sin­ tesi, quando questo modello viene considerato unicamente come un modo di prendere delle decisioni, il che ci riporta alla razio­ nalità strumentale. 2. IL FINE E I MEZZI. IL MODELLO DI DECISIONE

La razionalità strumentale è una razionalità dei mezzi in rapporto ai fini. Apparentemente, essa non si pronuncia sui fini e, contra­ riamente alla posizione che abbiamo appena presentato, non po­ stula un solo senso dell’azione umana. «Le teorie dell’azione in­ tenzionale [purposive action] non specificano i valori e le credenze degli individui. Esse si accontentano di ipotizzare che l’azione umana sia orientata verso un fine»23. Si tratta di teorie sul modo di fare delle scelte, essendo dati i valori e le credenze24. Termini co­ me preferenze, gusti, valori e scopi sono intercambiabili in questa teo­ ria: essa si concepisce come un modello di decisione neutrale.

La contaminazione. Come i poveri umani decidono

Per Coleman, uno dei più noti e più lucidi teorici della scelta ra­ zionale, questa teoria può essere sintetizzata in una parola: otti­

28 Μ.Μ. Marini, The Role of Models of Purposive Action in Sociology, in Coleman - Fararo (eds.), Rational Choice Theory: Advocacy and Critique, pp. 21-48; citazione a pp. 33-34. 24 Ibi, p. 43.

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mizzazione. «È [l’idea di ottimizzazione] che dà alla teoria della scelta razionale tutta la sua forza: essa compara le azioni secondo i risultati attesi dall’attore e postula che l’attore sceglierà l’azione che gli procurerà il risultato migliore»25. La teoria della scelta ra­ zionale tenta di «imporre la disciplina dell’uso dell’ottimizzazio­ ne come criterio generale»26. E nella sua valutazione della teoria della scelta razionale, Abell conclude che è il postulato dell’otti­ mizzazione a far sì che essa non abbia concorrenti seri nel campo delle scienze umane27. Riprendiamo dunque lo schema della razionalità strumentale, ma questa volta indipendentemente dai fini perseguiti, e chiedia­ moci se è più conforme alla realtà. Constateremo che questo mo­ dello non corrisponde al modo con cui gli esseri umani decido­ no, e lo dimostreremo in diverse maniere, cominciando da esem­ pi tratti sia dalla vita quotidiana sia dalle ‘grandi’ decisioni, quin­ di ricordando certe riflessioni di autori classici e tornando a con­ siderazioni più generali, il che condurrà a porre il problema del­ l’intenzionalità. Le piccole decisioni

Cominciamo da esempi della vita quotidiana, tratti da conversa­ zioni con persone diverse su questo argomento, situazioni ordina­ rie che tutti prima o poi abbiamo conosciuto, il che ci permetterà di constatare che maltrattiamo di continuo questa razionalità li­ neare e che il fine resta senza mezzi... e viceversa. Il fine diventa il mezzo, il mezzo diventa il fine, il mezzo trasforma il fine. E ciò senza che nessuno giudichi per questo che si tratti di comporta­ menti anormali, bizzarri, non umani o dell’ordine del riflesso.

• Il mezzo modifica il fine Un amico mi racconta: «Ho appena telefonato a un’amica in Eu­ ropa per dirle che ho deciso di andare a trovarla. Prima di questa telefonata, pensavo a questa visita in modo relativamente freddo. 25 Coleman - Fararo (eds.), Rational Choice Theory: Advocacy and Critique, p. XI. 26 Ibidem. 27 Abell, Is Rational Choice Theory a Rational Choice of Theory?, p. 203.

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L’ATTRATTIVA »El. GUADAGNO

Esitavo. Ma dopo questo colpo di telefono, sono eccitato come un bambino, mi manca terribilmente, vorrei partire domani, ho ad­ dosso il moto perpetuo. Non mi aspettavo affatto che questa te­ lefonata avesse questo effetto. Ne sono sbalordito e incantato». Ecco una sequenza elementare, ordinaria, quasi banale, che fa parte del nostro modo abituale di funzionamento. I gesti che fac­ ciamo non hanno solo delle conseguenze non previste e non vo­ lute sugli altri e sull’ambiente (oggetto degli innumerevoli studi sociologici degli effetti perversi), ma anche su noi stessi! Il mezzo utilizzato (il telefono) per raggiungere un fine (incontrare qual­ cuno) accresce in maniera inaspettata l’intensità del fine. Può an­ che condurre a modificare il mezzo (partire prima del previsto per esempio). I mezzi modificano significativamente e in modo inatteso il sentimento che ne è stato la causa. Questo fenomeno si situa al di fuori della razionalità strumentale. Ma se ci si pensa be­ ne, è il sale della vita.

• Il fine diventa il mezzo Ecco dunque un esempio in cui il mezzo modifica il fine. Capita spesso anche che il fine diventi il mezzo, e viceversa. Così, nume­ rose persone anziane incontrano i loro amici e compagni soltanto nei luoghi pubblici o semi-pubblici: caffè, parrucchieri, banche... Anzi utilizzano questi luoghi come un pretesto: «Passo davanti al parrucchiere e guardo con discrezione - mi racconta mio padre -. Se nella sala d’attesa non c’è nessuno che conosco, proseguo e torno l’indomani, finché non vedo qualcuno che conosco». Que­ sti luoghi secondari delle relazioni primarie sono essenziali, forse soprattutto per gli uomini, e per i vecchi.

• Il mezzo diventa il fine

E anche vero l’inverso: il legame primario ha degli effetti tera­ peutici in un rapporto professionale che è il fine. Il legame pri­ mario ha degli effetti secondari... Inoltre, quante volte un mezzo per un fine diventa un fine al punto che è il fine a diventare se­ condario: «Il libro collettaneo che abbiamo deciso di scrivere è diventato, in fondo, un pretesto per riunirsi, dato che in fin dei conti viviamo un’esperienza formidabile». Non è senza analogia con la necessità di essere occupati in altro per comunicare. Rara­ mente invitiamo qualcuno a una serata soltanto per parlare (le

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donne lo fanno più spesso degli uomini...), a meno che non sia un estraneo o qualcuno che non vediamo da molto tempo. Noi invitiamo a mangiare, ad andare al cinema, a giocare a carte (una volta). Gli uomini hanno spesso bisogno di stabilire un fine (un’attività pratica, un divertimento, una partita di calcio) per poter socializzare. Il fine è in realtà un mezzo. Il rovesciamento fine-mezzo raggiunge il suo apice quando abbiamo bisogno di un fine come mezzo. Arriviamo persino a dimenticare l’obiettivo iniziale. Marx fa un esempio affascinante a questo proposito, che ri­ guarda il legame sociale: «Quando gli operai comunisti si associa­ no [all’inizio], la teoria, la propaganda, ecc. costituiscono il loro primo obiettivo. Ma nello stesso tempo, e in conseguenza di que­ sta associazione, acquisiscono un nuovo bisogno - il bisogno di società - e quel che appariva come un mezzo diventa un fine»28. Durkheim riprende la stessa idea: «Quando gli individui che si trovano ad avere degli interessi comuni si associano, non è solo per proteggere questi interessi [...], è anche per associarsi, per il piacere di fare tutt’uno con molti»29.

• Il mezzo è il fine Il dominio della sensualità brulica di illustrazioni dell’aporia fine­ mezzo. Così, un gesto tanto semplice come la carezza non può es­ sere considerato soltanto come uno strumento, col rischio di non raggiungere il fine. Per raggiungere il suo scopo, dev’essere con­ temporaneamente lo scopo e il mezzo. In realtà, la carezza non dev’essere un mezzo per un fine. La norma della carezza è di es­ sere sempre voluta per se stessa, anche se comporta altro, altri ri­ sultati, altre carezze. Ogni carezza è un fine in sé, e i loro rappor­ ti non possono essere ricondotti alle categorie del rapporto fine­ mezzo senza nuocere al fine. D’altra parte, che cosa ne è della nozione di interesse applica­ ta a questo gesto? Una carezza è egoista o altruista? Interessata o disinteressata? Ancora una volta, le categorie si applicano male. Le carezze egoi­ 28 H. Chorney, City ofDreams: Social Theory and the Urban Experience, Nelson, Scarborough 1990, p. 24. 29 Citato da Chanial, Justice, don et association, p. 203.

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ste sono spesso le più riuscite... per colui che le riceve. Una ca­ rezza che non procura piacere in colui che la dona rischia di esse­ re senza valore per colui che la riceve. E, viceversa, una carezza che non ha la preoccupazione dell’altro è senza gioia per colei o colui che la dona. Tanto il rapporto fine-mezzi quanto l’opposizione egoismo-al­ truismo non si applicano all’esperienza della carezza. La carezza è un gesto che esprime un sentimento, un’emozione, è un veicolo dell’amore, del dolore, della compassione, dell’amicizia. Del lega­ me. L’erotismo sfugge ancora di più a questo modello. E possibile per due persone fare l’amore per caso, senza amore, ma con pia­ cere. Se la cosa si ripete ogni volta che si vedono, senza che nasca altro, la situazione degenera rapidamente. I partner si prendono reciprocamente come mezzo per soddisfare il loro ‘bisogno’ ses­ suale, il che è rigorosamente conforme al modello della raziona­ lità strumentale. Ma in pratica non funziona: a partire dal mo­ mento in cui la ripetizione della sequenza rende evidente, co­ sciente, il rapporto fine-mezzo, rende cioè esplicito il fatto che possono decidere di incontrarsi per fare l’amore, mentre questo doveva succedere per sovrappiù, la relazione si degrada. «Ogni volta che prendo della marijuana con X, mi racconta un’amica, facciamo l’amore meravigliosamente. O piuttosto facevamo, per­ ché col tempo, più questo diventa cosciente, automatico, meno funziona». La coscienza del rapporto fine-mezzo elimina una sor­ ta di grazia che risiede nella spontaneità essenziale a tutte le cose importanti che accadono tra gli esseri umani. Ciò che vale per la carezza vale dunque per l’insieme dei rap­ porti sessuali. E il motivo per cui essi non sono dominati dal rap­ porto commerciale, e la prostituzione resta un’attività marginale, mentre ‘normalmente’ il mercato avrebbe dovuto regolare tale at­ tività da un bel po’ di tempo, dato che nella nostra società libera­ le presto globalizzata è questo il modo in cui di solito circolano beni e servizi. In una società del genere, ci si dovrebbe dunque aspettare che la forma ordinaria dello scambio sessuale sia com­ merciale. In altri termini, che la prostituzione sia il modo norma­ le dello scambio sessuale. Ora, anche le società più liberali hanno sempre fatto resistenza a un’estensione di questo tipo. L’hanno sempre considerata anormale, spesso illegale, sempre immorale. Hanno condannato la prostituzione, pur tollerandola.

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Le grandi decisioni

Abbiamo presentato finora decisioni e comportamenti abituali, ordinari. I partigiani della teoria della scelta razionale potrebbero ammettere che spesso, nella vita quotidiana, in effetti non si ri­ flette abbastanza, ma che il loro modello resta valido per le gran­ di decisioni e che, sul piano normativo, è così che si dovrebbe agi­ re. Secondo il modello della razionalità strumentale, più la deci­ sione è importante, più ci si deve aspettare un’intensa ricerca di informazioni pertinenti prima della presa di decisione30, e più ci si dovrebbe aspettare che questa presa di decisione si avvicini al modello della razionalità strumentale. Ora, non c’è da stupirsi nel constatare che, anche in questo caso, ritroviamo dei comporta­ menti del tutto aberranti in relazione a questo modello. Anche qui la logica lineare fine-mezzo viene continuamente contraddet­ ta, come mostrano i pochi casi-tipo seguenti.

• La ‘non-decisione’ di donare un rene Per i donatori, la decisione di donare un rene a una persona vici­ na è spesso considerata, a posteriori, come l’atto più importante della loro vita. Si tratta evidentemente di un gesto oneroso, ri­ schioso. E normale perciò che coloro che si sono accostati a que­ sto fenomeno abbiano cercato di sapere come i donatori siano giunti a prendere una decisione simile, quale fosse la loro giustifi­ cazione per un tale gesto. Ora, la ricerca ci insegna che questa de­ cisione è spesso presa spontaneamente, senza riflettere a lungo e che, per molti donatori, ‘va da sé’. Questa scelta è fatta praticamente senza ‘decisione’, concludono i ricercatori31. E questo caso è lungi dall’essere l’eccezione, cosa che condurrà Piliavin e Charng32 a concludere che la spontaneità nell’aiutare è una pre­ disposizione genetica... 30 J. Elster, Rationalité et normes sociales: un modèle pluridisciplinaire, in L.-A. Gérard-VaRET-J.-C. PASSERON (éds.), Le Modèle et TEnquête. Les usages du principe de rationalité dans les sciences sociales, Edition de l’Ecole des hautes études en sciences sociales, Paris 1995, pp. 139-148; citazione a p. 140. 31 Cfr. J.T. Godbout - A. Caillé, Lo spirito del dono, tr. it. di A. Saisano, Bollati Boringhieri, Torino 1998, pp. 119-120. 32 J.A. Piliavin - H.-W. Charng, Altruism: A Review of Recent Theory and Reserch, «Annual Review of Sociology», 16 (1990), pp. 27-65; citazione a pp. 45-46.

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L’Ari RAITIVA DEI. GUADAGNO

• II paradosso della felicità Secondo Bentham e tutti gli utilitaristi, ognuno cerca la felicità. Qui si tratta del fine ultimo. In quanto produttori, fabbrichiamo ciò che dà la felicità ai consumatori e ciò che procura anche a noi la nostra felicità dandoci i mezzi di consumare. Tuttavia, non è privo di interesse ricordare che, prima di Bentham, pochi pensa­ tori hanno proposto la felicità come fine dell’umanità. Per la maggior parte dei saggi, la felicità arrivava per sovrappiù, se arri­ vava. «Il miglior mezzo di essere felici - secondo John Stuart Mill - è di non volerlo essere a tutti i costi»33. In Occidente, era piut­ tosto la virtù che occorreva avere di mira. Quanto alla saggezza orientale, essa afferma essenzialmente che entrambi si contami­ nano, che il fine e il mezzo non sono indipendenti. Per Tönnies, la felicità è un’illusione che consegue direttamente dalla razionalità strumentale, la quale trasforma tutto in mezzo. Il che spiega perché, una volta raggiunto il fine, essa vie­ ne sminuita e si trasforma in mezzo34. Per non raggiungere la fe­ licità, afferma spesso la saggezza storica dell’umanità, il metodo infallibile consiste nel cercarla continuamente. Tale saggezza sembra vera ancora oggi, come mette in evidenza il paradosso degli egoisti infelici. Un professore di psicologia ha chiesto ai suoi studenti di fare una lista di dieci nomi di persone che loro conoscono molto bene e di indicare se queste persone sono feli­ ci o infelici e se, per di più, sono generose. Su 1988 input, il ri­ sultato è lampante: il 91,4% delle persone considerate come fe­ lici sono anche giudicate altruiste e il 68% delle persone infelici sono considerate egoiste. Detto in altri termini: il 3,9% delle persone sono egoiste e felici; il 17,5% delle persone sono altrui­ ste e infelici. Commento dell’autore: «Questi risultati contengo­ no un interessante paradosso: gli individui egoisti sono, per de­ finizione, quelli la cui attività è interamente consacrata alla ri­ cerca della loro felicità. Ed ecco che, almeno nel giudizio degli altri, questi individui egoisti sono di gran lunga meno suscetti­ bili di essere felici di coloro che si sforzano di rendere felici gli

33 Citato da Μ. Terestchenko, Égpisme ou altruisme’!, «La Revue du MAUSS», 23 (2004), pp. 312-333; citazione a p. 317. 34 F. Tönnies, Comunità e società, a cura di F. Treves, Edizioni di Comunità, Milano 1963.

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altri»95. Questo rimette in discussione la pertinenza del modello razionale lineare, proprio in merito al suo obiettivo ultimo: il raggiungimento della felicità per tutti.

• Weber e il paradosso fine-mezzo Max Weber ha trattato questo tema in vari modi. Qui ricordiamo solo la sua tesi più famosa e controversa: in origine, il capitalismo - ossia la generalizzazione nella società del modello della raziona­ lità strumentale - è opera di individui motivati non dall’interesse materiale, ma da valori religiosi. Il loro scopo non è arricchirsi; al contrario, arricchirsi è un mezzo per calmare l’angoscia che na­ sce da questa incertezza. Sicuramente il risultato non voluto è che l’arricchimento conduce al gusto della ricchezza e fa dimenticare il fine che questi individui si erano dati35 36. In altri termini, l’asceti­ smo conduce aH’arricchimento, che a sua volta conduce all’ab­ bandono dell’ascetismo e all’arricchimento come fine. Bella illu­ strazione del gioco non lineare tra il fine e i mezzi! Come scrive Moscovici, che sia o meno esatto è secondario in rapporto al fatto che, così facendo, Weber diventa il fondatore del mito del capitali­ smo. «Nonostante i ripetuti riferimenti alla scienza, la cosa im­ portante nell’Etzca protestante e lo spinto del capitalismo è di essere un mito. Forse l’unico mito sulle origini dell’epoca moderna che la sociologia sia stata capace di inventare»37. Questo mito, ammet­ tiamolo, è ben lontano dal modello della razionalità strumentale!

• Prevenzione

In una riflessione sul rapporto fine-mezzo, come si può non dire una parola sugli effetti perversi dell’ideologia della prevenzione? Gli esperti distinguono la prevenzione primaria, secondaria e ter­ ziaria. La prevenzione primaria funziona nel modo seguente: di fronte a un problema per il quale lo specialista non vede nessuna immediata soluzione concreta, viene spontaneamente l’idea di eli35 B. Rimland, The Altruism Paradoxe, «Psichological Reports», 51 (1982), pp. 521-522; citazione a p. 522. 36 Μ. Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, tr. it. di A.M. Marietti, Rizzoli, Milano 2003, p. 214. 37 S. Moscovici, Lafabbrica degli dei. Saggio sulle passioni individuali e collettive, tr. it. di P. Lalli Gavina, Il Mulino, Bologna 1991, p. 253.

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L’ATERATTIVA DEI. GUADAGNO

minare la sorgente del problema, impedendogli di apparire. Per far ciò, bisogna trovarne la causa. Si identifica allora una causa del problema, il cui legame con il problema è il più delle volte stabili­ to in modo discutibile. In genere, è l’anello più debole del ragio­ namento: o la causa identificata è talmente generica da essere po­ co significativa, oppure è precisa ma il legame tra la causa e l’ef­ fetto non c’è affatto. Non resta ormai che applicare un program­ ma di prevenzione, che non è niente di meno che un programma di eliminazione delle cause. Spinta al suo estremo, la prevenzione è una filosofia che punta a evitare il male per non doverlo guarire. Secondo tale approccio, Ulisse che si lega all’albero maestro per essere sicuro di non cedere alle Sirene non è propriamente anco­ ra prevenzione. O piuttosto è prevenzione secondaria, ben infe­ riore alla prevenzione primaria, che sarebbe consistita nell’eliminare decisamente le Sirene prima che comparissero. La prevenzione è peraltro alquanto auspicabile e lodevole quando non è un pretesto e non si prende per ciò che non è. In compenso, si trasforma facilmente in una utopia della lotta per l’eliminazione del male sulla Terra, e rappresenta il rifiuto dell’Uomo per essere stato messo alla porta del Paradiso terrestre e per il fatto di dover vivere con il male. Come se il peccato facesse talmente paura che, invece di correre il rischio di commetterlo, certi esseri umani preferirebbero eliminarne la possibilità. E l’esasperazione caricaturale del rapporto fine-mezzo. Come aveva notato Bateson, esiste un contro-esempio affascinante: gli Alcoolisti Anonimi38. Questi ultimi affermano continuamente di non voler affrontare altro che il problema delle persone alcolizza­ te; nessun discorso sulle cause, nessuna teoria sulla prevenzione. Rifiutano di associarsi a tutte le altre organizzazioni che lottano contro le cause dell’alcoolismo e che fanno pressioni sui governi. Ora, una volta esaminata la loro azione, constatiamo che gli A.A. hanno spesso un effetto direttamente sulle cause, cambiando la personalità dell’alcoolizzato, toccando le ragioni per cui beveva. Spesso l’intera sua personalità è trasformata! Raggiungono così un fine preso di mira dalla prevenzione meglio di coloro che fan­ no prevenzione, ma vi giungono senza preoccuparsi del fine, con­ centrandosi su un mezzo. 38 Sugli A.A. cfr. Godbout-Caillé, Lo spinto del dono, pp. 89-95.

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• Il mercato e le organizzazioni I .’esame del ruolo del dono nel mondo degli affari39 mostra che esso ha contemporaneamente uno statuto di fine e di mezzo, e che spesso è quando si presenta come fine che registra la perfor­ mance migliore come mezzo! Così, a forza di voler perseguire il profitto come unico fine, non si finisce per sminuirlo? L’applica­ zione della razionalità strumentale dell’efficienza massimale con­ duce al limite a eliminare dallo spazio commerciale tutto ciò che non è commerciale. Negli Stati Uniti, durante il periodo delle fe­ stività, numerosi centri commerciali hanno chiuso le loro porte ai ‘suonatori di campanella’ dell’Armata della Salvezza: associati fi­ no a poco tempo fa al paesaggio di questo periodo tanto quanto lo stesso Babbo Natale, questi volontari e i loro discreti appelli al­ la carità diventano degli ‘intrusi’ sloggiati da una proprietà priva­ ta perché non si intonano con la scena40. Ma questa logica non ri­ schia di restringere lo stesso spazio commerciale? E per questa ra­ gione che nel settore delle librerie assistiamo alla tendenza inver­ sa, perlomeno in America del Nord (Indigo, Barns and Nobles)? Si punta su spazi di convivialità in cui il cliente legge i libri pren­ dendo un caffè, senza l’obbligo di comprare. Quanto alle organizzazioni moderne, dominio prediletto della razionalità fine-mezzo, di cui Weber ha fatto l’ideal-tipo, anche li il modello è maltrattato, come ha mostrato la sociologia delle orga­ nizzazioni41. Come scrive Catherine Paradeise, «ciò che si fa notare come fine spesso non è altro che il prodotto [... ] della congiunzio­ ne di mezzi diversi. L’ordine degli effetti e delle cause si rovescia». Inoltre, «fini e mezzi non sempre hanno statuti distinti nell’azione. Così, per esempio, l’annuncio dei fini ha un valore performativo, il che significa che questo stesso valore è un mezzo»42.

• Perdere la fede ed essere utile Termino questa sezione sulle grandi decisioni con due esempi 39 Cosa che faremo nella quarta parte (cap. 15). 40 J. Updike, One Big Bauble. Christmas in New York, «Lufthansa Bordbuch», 6 (1996). 41 Μ. Crozier - E. Friedberg, Attore sociale e sistema. Sociologia dell’azione organizzata, tr. it. di A. Capatti, Etas, Milano 1994. 42 C. Paradeise, Les sciences sociale set l’action, conferenza presentata all’École normale supérieure de Cachan, 16 dicembre 1998, pp. 5-6.

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I,’ATI RATI IVA DEL GUADAGNO

personali. Sono nato cattolico e sono stato educato in questa reli­ gione. Nell’adolescenza ho conosciuto quella che all’epoca veni­ va chiamata ‘crisi di fede’. Ho riflettuto molto, ho pensato inten­ samente all’esistenza di Dio, ho letto molto. E ho ‘perso’ la fede. Ma non so come! Non è stato in seguito a un ragionamento de­ duttivo, non è stata una decisione. Ho constatato un giorno che non avevo più la fede, come constato che mi sono alzato la matti­ na senza averlo veramente deciso. Eppure il mio scopo, all’inizio di questa riflessione, il mio fine era davvero di arrivare alla deci­ sione più razionale possibile. Inoltre, nella mia vita professionale ho vissuto un rapporto pa­ radossale con l’utilità. Avendo voluto per degli anni essere utile alla società, facevo dei rapporti di ricerca commissionati dai pote­ ri pubblici, rapporti che finivano il più delle volte ‘nei cassetti’. Avendo deciso un giorno di fare quel che mi appassionava piutto­ sto che quel che era utile, ho pubblicato un libro sulla partecipa­ zione, e hanno cominciato a chiedermi conferenze, articoli, e fi­ nalmente dei rapporti di ricerca che, loro, hanno considerato molto utili! E smettendo di voler essere utile che ho avuto l’im­ pressione di diventarlo un po’.

L’individuo sociale ha orrore del rapporto fine-mezzo

«L’unico tratto certo e prevedibile delle faccende umane è la loro imprevedibilità e la futilità di ogni tentativo di ridurre l’azione dell’uomo ad un unico movente - come l’interesse»43. In fin dei conti, questo schema che gli utilitaristi presentano come qualcosa che va da sé se ne infischia tanto delle esperienze più banali della vita quotidiana quanto dei momenti forti come la decisione di do­ nare un rene. Non tiene conto di una parte importante dell’espe­ rienza dell’umanità, né del modo di prendere le decisioni nelle stesse organizzazioni moderne. Detto questo, non potremmo conservarlo comunque come ideale da raggiungere, anche se non costituisce una rappresenta­ zione adeguata del modo umano di prendere le decisioni? Am­ mettiamolo, questo modello può rivelarsi utile per certe decisio­ 43 Hirschman, L’economia politica come scienza morale e sociale, p. 67.

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ni, come quella di inviare un uomo sulla Luna, cosa non certo trascurabile. Ma quello che gli esempi precedenti illustrano è che l’incertezza è spesso nel legame fine-mezzo, e più precisamente nello statuto rispettivo dei fini e dei mezzi. Di che cosa non tiene conto questo modello? Del fatto che chi decide non è quasi mai perfettamente informato delle conseguenze delle sue scelte, il che costituisce la critica abituale e conduce all’idea di ‘razio­ nalità limitata’. Tale obiezione è pertinente, ma non obbliga ad altro che a indebolire le ipotesi senza rimettere il modello in discussione44. Più in profondità, questo modello non tiene conto del fatto che il mezzo e il fine si influenzano in un cerchio... senza fine. Occorre esaminare il modo in cui le azioni si ripercuotono sui loro autori. Ci vuole una teoria della relazione tra il fine e i mezzi, che non esiste nella teoria della scelta razionale, oppure esiste a uno stadio talmente elementare, lineare e gerarchico, che raramente corrisponde alla realtà. Ora, una teoria della re­ lazione tra il fine e i mezzi deve includere una teoria del moto­ re dell’azione, ossia una teoria delle emozioni, come invitano a fare le attuali ricerche sul cervello. Ciò che le illustrazioni pre­ cedenti mettono in evidenza è che ogni decisione è un’avventu­ ra e una sorpresa. Il modello della razionalità strumentale è in­ capace di tener conto di questa dimensione della decisione. «Per via della sua stessa struttura, la teoria si applica soltanto a degli universi chiusi, a dei mondi che non autorizzano né rim­ pianti, né sorprese»45. In realtà, essa si applica a degli universi senza emozione. Inoltre, i partigiani di questa teoria fanno finta di credere che tale modello abbia sempre funzionato, mentre è sempre stato contestato, tanto dal pensiero orientale quanto nell’occidente moderno. Così, secondo Jullien46, la Cina non condivide affatto questo modello decisionale fondato sulla distinzione fine-mezzo. La cultura cinese rigetta la spiegazione che suppone il ragiona­ mento lineare razionale. Essa rifiuta di lasciarsi imprigionare nei 44 GÉRARD-VÀRET - PASSERON (éds.), Le Modèle et l’Enquête. Les usages du principe de ratio­ nalité dans les sciences sociales, pp. 12-13. 45 Ibi, p. 14. 46 F. Jullien, Strategie del senso in Cina e in Grecia, tr. it. di Μ. Porro, Meltemi, Roma 2004.

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suoi limiti. La spiegazione è nella migliore delle ipotesi inutile, il più delle volte impossibile, molto spesso dannosa. Il pensiero ci­ nese diffida del grande potere distruttore del ‘detto’. Anche Schopenhauer ha rimesso in discussione questo model­ lo: «non si può negare che l’uso della ragione sia necessario nel praticare una condotta virtuosa; soltanto la ragione non ne è la fonte; la sua è una funzione subordinata, cioè quella di mantene­ re le risoluzioni prese e di richiamare alla mente le massime, per resistere alla debolezza del momento e per la coerenza dell’agire»47. Quanto a Nietzsche, egli distingue perfettamente le due questioni dell’interesse e del modello di decisione: «Gli uomini hanno constatato con sorpresa che alcuni trascuravano il loro stesso interesse [...] e hanno considerato questi uomini dappri­ ma come folli, poi come buoni, nel caso in cui ne ricavavano, da parte loro, un vantaggio. In seguito hanno sviluppato la convin­ zione che tali atti vengono compiuti appositamente per il loro be­ ne. [...] Quel che ha così tanto esaltato l’altruismo è Γegoismo di coloro che hanno bisogno di aiuto e di beneficio»48. In questo passaggio, Nietzsche riduce dunque l’altruismo all’e­ goismo. Ma non per questo riduce le azioni umane alla volontà razionale. Al contrario, per Nietzsche, al posto di obbedire alla ra­ zionalità strumentale che, tra l’insieme delle decisioni possibili, sceglie coscientemente la migliore o la meno cattiva, l’azione più perfetta è decisamente non cosciente: «Ogni atto perfetto è ap­ punto inconscio e non è voluto; il conscio esprime uno stato per­ sonale imperfetto e il più delle volte morboso. [...] La perfezione cosciente [...] è una contraddizione in termini». Per Nietzsche, si tratta qui di un «atteggiamento teatrale»49. «Non esiste atto per­ fetto che non sia l’atto istintivo»50. «Ogni pensiero che si svolge coscientemente rappresenta un grado di moralità alquanto infe­ riore a quello di questo medesimo pensiero se si lascia guidare dai suoi istinti »51. Nel suo desiderio di relativizzare il pensiero razionale, Nietz­ 47 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, tr. it. di S. Giametta, Bom­ piani, Milano 2006, Libro I, § 12, p. 147. 48 Nietzsche, Frammenti postumi. 49 Ibi. 50 Ibi. 51 Ibi.

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sche arriva a valorizzare l’estremo opposto sotto la forma dell’isfinto e clell’inconscio. Ma non per questo lo spontaneo viene ri­ dotto al riflesso, contrariamente a quel che Nietzsche potrebbe la­ sciar intendere utilizzando il termine ‘istinto’. Nel suo studio clas­ sico sull’abitudine, Ravaisson insiste su tale distinzione: «I movi­ menti che l’abitudine sottrae alla volontà non per questo escono dalla sfera dell’intelligenza per passare sotto il regime di un mec­ canismo cieco. [...] Non è una forza estranea quella che viene a diri­ gerli: è sempre la medesima forza che ne è il principio, ma che sem­ pre più si abbandona all’attrattiva del suo proprio pensiero. [...] Quella dell’abitudine, dunque, non è una necessità esterna o di co­ strizione, ma una necessità di attrattiva e di desiderio. Si tratta pro­ prio di una legge [...] che subentra alla libertà dello spirito. Ma que­ sta legge è una legge di grazia. E la causa finale che predomina sem­ pre più sulla causa efficiente e che l’assorbe in sé»52. La spontaneità designa questo intreccio fine-mezzo. Il modello fine-mezzo appa­ re quando reprimiamo un movimento spontaneo e lasciamo che il mezzo predomini sempre di più sul fine e, al limite, lo assorba. La coscienza degli atti è all’origine del rapporto fine-mezzo perché è la condizione necessaria per esercitare la volontà, cioè per assumere un gesto come un mezzo per un fine. Il modello fi­ ne-mezzo è un prodotto della coscienza, una conseguenza diretta del fatto che siamo coscienti, come ha mostrato Tönnies nella sua opera magistrale53. Il che spiega come mai è tanto valorizzato e considerato come sorgente della libertà. Scrive Weber: «Sono le azioni che siamo coscienti di aver razionalmente eseguito quelle che corrediamo del più alto grado di sentimento empirico di ‘li­ bertà’»54. Ma qui egli non sembra vedere che questo sentimento costituisce altresì la principale trappola della coscienza. Perché, come lui stesso scrive, «la scelta del mezzo è inevitabile»55. «L’at52 F. Ravaisson, Dell’abitudine, tr. it. di A. Bussoni, Edizioni Paoline, Roma 1960; cfr. an­ che F. Heran, La seconde nature de l'habitude. Tradition philosophique et sens commun dans le langage sociologique, «Revue française de sociologie», 28 (1987), 3, pp. 383-416. 53 TÖNNIES, Comunità e società. 54 Citato da F. Vandenberghe, Une histoire critique de la sociologie allemande: aliénation et réification, vol. II, Horkheimer, Adorno, Marcuse, Habermas, 2 voli., La Découverte/ MAUSS, Paris 1998, p. 168. 55 Citato da F. Vandenberghe, Une histoire critique de la sociologie allemande: aliénation et réification, vol. I, Marx, Simmel, Weber, Lukàcs, 2 voli., La Découverte/MAUSS, Paris 1997, p. 168.

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d'attrattiva del guadagno

tore è infinitamente libero (nelle sue preferenze) e infinitamente costretto (dalla propria ragione)»56. In effetti, «se la liberazione in questione è una liberazione dalla costrizione degli affetti [per di più], l’azione razionale finalizzata, nel senso stretto del termi­ ne, è tutto tranne che libera. Determinata dall’esterno dalle con­ dizioni materiali, essa è interamente prevedibile - tanto quanto lo è l’azione meccanica di un oggetto inerte»57. Come scrive più ci­ nicamente Poster58, «la prospettiva economica è [...] profonda­ mente behaviorista. L’homo oeconomicus non è [... ] influenzato da stimoli [incentives] unicamente monetari, ma è una persona il cui comportamento è interamente determinato da stimoli. La sua ra­ zionalità non è diversa da quella di un topo o di un piccione»59. L’interesse e la razionalità strumentale

L’uomo e gli animali hanno, da una parte, gesti spontanei, dal­ l’altra, gesti che obbediscono al modello fine-mezzo. Soltanto l’uomo ha coscienza di queste modalità, e le trasforma in altro ri­ spetto al perseguimento dei suoi interessi o all’obbedienza ai suoi istinti. Ragion per cui, anche se abbiamo analizzato separatamen­ te quel motore dell’azione che è l’egoismo, e quel modello di de­ cisione che è la razionalità strumentale, e anche se si può teorica­ mente aderire ad uno o all’altro aspetto di questo modello, biso­ gna ora ricordare che tra questi due elementi esiste una certa cor­ relazione. La razionalità strumentale è un modello di ispirazione meccanicista. Ora, Simmel aveva osservato che «le visioni mecca­ nicistiche del mondo tendono sempre a riconoscere l’egoismo come unico principio pratico»60. D’altra parte, non è forse senza ragione che il postulato dell’interesse si è sviluppato dopo Gali56 C. Paradeise, Analyse stratégique et théorie de la décision, in F. Pavé (éd.), L’Analyse stra­ tégique. Sa genèse, ses applications et ses problèmes actuels. Autour de Michel Crozier, Seuil, Pa­ ris 1993, pp. 193-205; citazione a p. 194. 57 Vandenberghe, Marx, Simmel, Weber, Lukâcs, p. 168. 58 In D. Sciulli, Weakness in Rational Choice Theory ’s Contribution to Comparative Research, in COLEMAN - Fararo (eds.), Rational Choice Theory: Advocacy and Critique, pp. 161-180; citazione ap. 178. 59 R.A. Posner, The Problems ofJurisprudence, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1990, p. 382. 60 In Vandenberghe, Marx, Simmel, Weber, Lukâcs, p. 258, nota 30.

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ko, adottando una visione meccanicistica dell’universo. Così Hel­ vétius, alla fine del XVIII secolo, scriveva: «Come il mondo fisico è retto dalle leggi del movimento, così l’universo morale è retto dal­ le leggi dell’interesse»61. Ed è forse per questa ragione che persi­ no gli autori che prendono maggiormente le distanze dal self-interest e conservano soltanto la razionalità strumentale sembrano sempre attratti, quasi loro malgrado, dall’interesse come unico motore dell’azione. Così, la maggior parte dei casi analizzati da Boudon serve a illustrare l’interesse come unica ‘buona ragione’ per agire. La conclusione sembra chiara: in realtà, il legame sociale ha orrore del rapporto fine-mezzo. Si nutre di suspense, di sorpresa e di spontaneità, di supplemento che arriva in modo imprevisto. Trascende in continuazione il rapporto fine-mezzo invece di es­ serne assorbito. In fin dei conti, questi modelli fondati sulla razio­ nalità strumentale conferiscono tutti all’attore un’intenzione chiara. Ora, tranne che a livello elementare62, raramente esiste nelle nostre azioni una cosa simile a una distinzione chiara tra fi­ ni e mezzi. In ultima analisi, sarebbe questa struttura che biso­ gnerebbe mettere in discussione? Se vuoi raggiungere il bersa­ glio, non mirare il bersaglio, identificati piuttosto con la freccia, afferma il buddismo zen. «Non c’è cammino. Il cammino si fa camminando»63, scrive il poeta spagnolo Machado. «La fine è il viaggio»64. Ed è Michel Crozier che scrive: «Ciò che conta non è l’obiettivo, ma la strada verso di esso, lo sviluppo, in sentieri da aprire»65. Cosicché, a proposito del dono, ci chiederemo: c’è un’intenzione di donare?

61 Citato da Mansbridge (ed.), Beyond Self-Interest, p. 16; cfr. anche Hirschman, L’econo­ mia politica come scienza morale e sociale, p. 53. 62 «Ironicamente, è applicandoli alle decisioni più semplici prese dagli esseri umani e dalle altre specie [...] che i modelli di scelta razionale potrebbero forse essere più utili, mentre è rispetto alle decisioni astratte, complesse, [...] che sarebbero meno utili. Eppure è quest’ultimo tipo di decisione che ha costituito il campo tradizionale della teoria economica» (C. Gamerer - G. Loewenstein - D. Prelec, How Neuroscience Can Inform Economics, «Journal of Economics Literature», 43, 2005, 1, pp. 9-64; cita­ zione a p. 55). 68 «No hay camino, se hace camino al andar». 64 J. Campbell, The Power of Myth, Doubleday, New York 1988. 65 Μ. Crozier, L’impresa in ascolto: il management nel mondo post-industriale, tr. it. di V. Ra­ nieri, il Sole 24 Ore Libri, Milano 1990, pp. 145-146.

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L’ATIRATriVA DEL GUADAGNO

3. LE PREFERENZE E LE CONSEGUENZE

Dopo aver rimesso in discussione il postulato dell’interesse come unico motore dell’azione, abbiamo criticato la razionalità stru­ mentale quando si presenta come modello unico o ideale di deci­ sione. Ma anche se si respinge il carattere assoluto del postulato dell’interesse e del modello della razionalità strumentale (i due non sono indipendenti, come si è appena visto), non possiamo mantenere certi elementi del modello, specialmente l’idea di pre­ ferenza, che induce (si veda il capitolo precedente in cui veniva­ no presentati i vantaggi di questo modello) un obbligo di rispet­ tare i desideri dell’utente e del cliente da parte di colui che offre il prodotto? Le nozioni di utilità e di interesse consentono di in­ trodurre tale questione. L’idea di utilità, diversa dall’interesse

La teoria della scelta razionale è fondata sull’utilitarismo. Utile si oppone a inutile, o nocivo, e interesse si oppone a senza interesse, il che si ricollega un po’ all’inutile66. Diversi autori non fanno dif­ ferenza tra interesse e utilità. Così, per Cordonnier, l’utilità di una cosa per qualcuno è l’interesse che questa cosa ha per questa persona67. La confusione utile-interesse non è nuova. Risale addi­ rittura a Bentham68, per il quale l’utile ha finito per confondersi con la produzione materiale. «[Secondo Bentham] affinché qual­ cosa possa essere utile a un essere, bisogna che questi abbia degli interessi, e per avere degli interessi, bisogna poter soffrire»69. Mé­ tayer prosegue citando Peter Singer, utilitarista e grande difenso­ re dei diritti degli animali: «Sarebbe assurdo dire che è contrario agli interessi di una pietra essere portata a spasso per strada dai 66 Notiamo che non c’è un termine d’uso corrente opposto a ‘interesse’ ed equiva­ lente al binomio utile-inutile. Certo, esiste la parola ‘disinteresse’, ma è poco fre­ quente e designa l’indifferenza di qualcuno per qualcosa, indipendentemente dalla sua utilità. Ma c’è l’opposizione interessato-disinteressato. 67 L. Cordonnier, Coopération et réciprocité, PUF, Paris 1997, p. 183. 68 Cfr. P. LEROUX, Jeremy Bentham, célèbre pubbliciste anglais, «La Revue du MAUSS», 16 (2000), pp. 84-102. 69 Μ. Métayer, La Philosophie éthique. Enjeux et débats actuels, Editions du renouveau pé­ dagogique, Saint-Laurent (Québec) 1997, p. 300.

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calci di uno scolaro. Una pietra non ha interessi perché non può soffrire. Un topo, per esempio, ha un interesse a non ricevere cal­ ci, perché se ne riceve soffrirà»70. Eppure, nella vita ordinaria, distinguiamo l’utile e l’interesse. La parola ‘utile’ va verso il funzionale, come mostra bene l’e­ spressione ‘unire l’utile al dilettevole’. Se qualcuno adora la poe­ sia, si dirà abbastanza facilmente che è nel suo interesse compra­ re un libro di poesia. Ma si esiterà ad affermare che è utile. Si avrà piuttosto la tendenza a considerare che, anche se non è utile, ha comunque ragione ad acquistare poesia. O allora si dirà il contra­ rio: anche se adora la poesia, dato il suo reddito farebbe meglio a comprare qualcosa di utile. In entrambi i casi, l’interesse e l’utile sono dissociati. Per di più, qualcuno può fare qualcosa di molto utile, ma nell’interesse di un altro; o qualcosa di disinteressato, ma disgraziatamente inutile, come dice l’espressione quebecchese ‘donare un frigo a un Esquimese’. Non è nel mio interesse, per­ ché mi privo di qualcosa, e non è nel suo, perché non è utile lì do­ ve abita. I doni inutili sono un tema consueto della letteratura e una triste realtà, soprattutto nel campo del dono umanitario.

Il passaggio alle preferenze

Come mostrano questi esempi, l’idea di utilità è dunque diversa da quella di interesse. Dicendo ‘utile’, in effetti, colui che offre introduce già una restrizione, una norma, un giudizio. Egli giu­ dica di ciò che è bene per colui che riceve, dichiarandolo utile o inutile. E, in tal senso, l’interesse è una nozione più neutra del­ l’utilità, e si avvicina così all’idea di preferenza. Ma la stessa no­ zione di interesse contiene ancora un giudizio, come mettono in evidenza le frasi del tipo ‘non è nel mio interesse’, ‘non dovreb­ be’. In fin dei conti, solo la nozione di preferenza è senza ambi­ guità, perché non contiene altro che l’idea di scelta espressa (in inglese: revealed preference), perché concepisce l’interesse o l’uti­ lità così come se li augura, li vuole, li domanda (la ‘domanda’) l’utente e il consumatore, e non come sono percepiti o compresi

70 Ibidem. Per la nozione di interesse e la sua storia, cfr. O. Kuty, La Negotiation des va­ leurs, De Boek Université, Bruxelles 1998.

(iti

1.’ATI RA I !ΊVA DEI. GUADAGNO

da qualcun altro, dall’istanza responsabile delPofferta’. L’idea di preferenza introduce un obbligo di neutralità assiologia in un contesto in cui i valori di chi offre il prodotto e di chi lo utilizza non sono gli stessi. Al di là dell’uso polisemico di questi termini, passando dall’u­ tilità all’interesse e dall’interesse alle preferenze, ci allontaniamo progressivamente dalla possibilità, per colui che offre, di definire la natura di ciò che è offerto indipendentemente da colui che ri­ ceve. Ci allontaniamo così dalla possibilità di una definizione og­ gettiva da parte di colui che offre, per avvicinarci alla valutazione soggettiva da parte di colui che domanda. In quest’ultimo caso, tutto il potere è assegnato al consumatore: il cliente è sovrano. Teoricamente, è anche vero nel caso dell’interesse, in cui ciò che il consumatore vuole potrà essere utilmente deciso da qualcun altro. Tale distinzione caratterizza le due varianti dell’utilitarismo. Quest’ultimo, a partire da Bentham, sogna di calcolare in modo sempre più preciso i risultati dell’azione. Ma questo calcolo dei ri­ sultati può essere effettuato sia soggettivamente, dal cliente stesso nel quadro del meccanismo commerciale, nel qual caso chi offre non ha altro da fare che prendere nota dell’ordine delle prefe­ renze stabilite soggettivamente dal cliente; sia da un’istanza col­ lettiva quando, per esempio, la società ritiene che l’allocazione da parte del mercato (domanda solvibile) non sia moralmente accet­ tabile, o che, nei termini di questo modello, tale allocazione non sia ottimale. Conviene dunque distinguere almeno due sotto-mo­ delli all’interno di questa filosofia utilitarista: il modello intera­ mente soggettivo, basato unicamente sulle preferenze, e il model­ lo fondato sulle conseguenze oggettivamente calcolabili. È que­ st’ultimo modello che viene designato con il termine ‘consequenzialismo’. L’economia pubblica costituisce oggi il dominio dell’utilitarismo ‘consequenzialista’, in cui tutti cercano l’utilità maggiore per il maggior numero, e credono che questa utilità si calcoli e che, in certi ambiti, non sia grazie alla mano invisibile che si raggiungerà Γoptimum. Sono gli utilitaristi volontaristi o consequenzialisti. Il consequenzialismo implica un giudizio di valore sulle preferenze, affermando che certe preferenze devono essere preferite. E qui che si insinua la possibilità per alcuni di decidere quel che è bene per gli altri, insieme alla possibilità di derive paternaliste o persi­

LIMITI E DEBOLEZZE

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no totalitarie. A questo approccio si oppone l’idea che le prefe­ renze possono essere di qualsiasi tipo e non hanno nemmeno bi­ sogno di essere utili. Per definire l’utilità, non esiste allora più un criterio diverso dall’interesse che l’utente stesso vi trova. Queste due applicazioni dell’utilitarismo sono spesso in oppo­ sizione. L’economia del benessere (welfare economics) non cessa di protestare contro decisioni giudicate non razionali, ma rispon­ denti alle preferenze di certe persone e dei media. Per esempio, l’approccio consequenzialista considera del tutto ‘irrazionale’ il modo in cui la società gestisce le proprie risorse in materia di sa­ lute. Se il denaro speso in materiale per le cure intensive per i neonati prematuri fosse destinato a migliorare la salute delle don­ ne incinte, la mortalità infantile - secondo i consequenzialisti potrebbe ampiamente diminuire71. Qualche anno fa, negli Stati Uniti, c’è stato un dibattito a proposito di un bambino caduto in un pozzo abbandonato, che alla fine è stato salvato. «Centinaia di migliaia di dollari sono stati spesi per salvare Jessica [...]; questo denaro avrebbe potuto (vantaggiosamente) essere utilizzato per prevenire la morte di dozzine di altri bambini»72. Ecco come ra­ gionano gli utilitaristi consequenzialisti. Loro considerano irra­ gionevole la decisione di spendere tanto denaro per salvare un bambino caduto in un pozzo. Ma in che mondo vivremmo se non salvassimo Jessica, se la società non compisse più gesti spontanei di questo tipo, condannati dalla razionalità strumentale conse­ quenzialista? Esiste dunque una differenza importante tra il consequenzialismo e l’approccio basato sulle preferenze. Il primo richiede l’idea di una valutazione esterna delle conseguenze e dunque della pos­ sibilità di un giudizio indipendente della domanda. Con la teoria delle preferenze, il consumatore diventa sovrano. La grande dif­ ferenza tra queste due categorie di utilitaristi risiede nella risposta alla domanda: chi decide di ciò che è nell’interesse dell’utente? Quest’ultimo soltanto, o qualcun altro? Rispetto ai consequenzia­ listi, la teoria delle preferenze ‘pure’ è neutrale. Contrariamente all’approccio che tiene conto dei ‘veri interessi’, le conseguenze oggettive, essa non ha alcun problema a considerare, da un lato, 71 Hausman - McPherson, Taking Ethics Seriously: Economics and Contemporary Moral Phi­ losophy, p. 677. 72 Ibidem.

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l’attraiuva dei. guadagno

le ‘preferenze altruiste’ o, dall’altro, le passioni più ‘immorali’. Si concepisce come un guscio vuoto, e riconosce molteplici sensi dell’azione umana e molteplici modelli di decisione possibile. Al­ la fine, essa affida al consumatore la difesa dei valori nella società. Sta qui la sua forza. E anche la sua debolezza? 4. LA FELICITÀ DI CHI?

Facciamo il punto. Dopo aver presentato brevemente i principali elementi del paradigma dominante, abbiamo voluto mostrare i suoi aspetti positivi prima di proporne una critica, la quale ha ri­ guardato in un primo tempo il motore dell’azione che costituisce il self-interest, poi il modello di decisione definito dalla razionalità stru­ mentale. Infine, abbiamo distinto due sotto-modelli, l’uno basato sul calcolo razionale esplicito, l’altro che si accontenta di affermare che il mercato è al servizio delle preferenze, qualsiasi esse siano. Il mercato rispetta la libertà e non è autoritario: tale sottomis­ sione dell’offerta alla domanda procurerà la felicità. La felicità di chi? Dobbiamo adesso chiedercelo. Del maggior numero, rispon­ dono gli utilitaristi; o perlomeno di un numero maggiore rispetto a tutti gli altri sistemi. Questa versione del modello risponde in modo soddisfacente alle obiezioni avanzate finora? La risposta è negativa, per la ragione seguente su cui ora ci soffermiamo: tale modello privilegia un tipo di attore, o, più precisamente, un ruo­ lo sociale: quello del consumatore. L’intero sistema è orientato verso il benessere del consumatore. Tanto la versione ‘consequenzialista’ quanto quella ‘preferenzialista ’ valorizzano il consu­ matore, l’utente contro il produttore. Il produttore diventa uno strumento, un mezzo per soddisfare il desiderio del consumatore. Questo benessere ‘riservato’ al consumatore costituisce un limite non trascurabile, secondo lo stesso criterio dell’utilitarista: quan­ titativamente. La cosa è stata denunciata fin dagli inizi dell’industrializzazione. E tutto il tema dello sfruttamento dei lavoratori, del passaggio al rapporto salariale, sul quale non è necessario tor­ nare. Oggi, questo limite assume delle dimensioni nuove con l’in­ ternazionalizzazione dei mercati. Tale limite può essere illustrato dal rapporto con il terzo mondo, dal problema del debito e della dipendenza, dalla perdita di libertà dei produttori a vantaggio dei consumatori.

LIMITI E DEBOLEZZE

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La dipendenza del produttore

Legato al potere del consumatore sul produttore, il mercato in­ troduce surrettiziamente debito e dipendenza nei riguardi dell’e­ straneo73. E una delle ragioni che spiegano la reticenza delle so­ cietà ad aderire a questo modello, come illustra l’esempio se­ guente. Qualche anno fa, il governo del Québec propose a una comunità Inuit un progetto di commercializzazione della carne di caribù, un progetto ambizioso che comportava la creazione di numerosi posti di lavoro. Il sindaco del villaggio, interpellato, non nascose la sua esitazione e affermò con inquietudine: «Sape­ te, c’è una lunga storia con i caribù, ci chiediamo se possiamo far loro questo». Per sopravvivere, gli Inuit sono dipesi dai caribù per secoli. Pensano di dover loro molto. Ora dipendono dai doni del­ lo Stato. Hanno un debito verso uno Stato relativamente stranie­ ro. Questo Stato offre loro di cambiare dipendenza: dipendere anche dal mercato, ossia da consumatori che non vedranno mai e che mangeranno i loro caribù, fino al giorno in cui questi mede­ simi consumatori estranei potrebbero decidere che la cosa non fa più parte delle loro preferenze. O che possono produrre al sud dei caribù clonati molto meno costosi74. D’ora in poi, il debito viene trasferito a degli stranieri scono­ sciuti da cui dipenderà la sorte degli Inuit. Certo, anche gli Inuit sono peraltro sempre liberi di smettere di produrre e di vendere i loro caribù. Ma le conseguenze saranno drammatiche per i pro­ duttori, mentre sono trascurabili per il consumatore che, lui, può scegliere tra il caribù e il manzo, oppure può diventare vegetaria­ no. Gli Inuit, una volta entrati nel sistema, possono scegliere tra vendere caribù o trasformarsi in una nuova categoria finora sco­ nosciuta: i disoccupati. E così che il mercato trasforma i membri di una società in produttori dipendenti. Preoccupandosi unica­ mente dell’interesse del consumatore, la teoria delle preferenze sottomette il produttore ai rischi di un mercato dettato dalle pre­ ferenze del consumatore. E la fine della morale?

73 Callon - Latour, “Tu ne calculera pas” ou comment symétriser le don et le capital·, N. SarL’Éthique de la dette, PUF, Paris 1997. 74 J. Rifkin, La fine del lavoro. Il declino della fona lavoro globale e l’avvento dell’era post-mer­ cato, tr. it. di P. Canton, Mondadori, Milano 2002.

thou-Lajus,

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Ι.’ΑΊΊ RATUVA DEL GUADAGNO

Fine della morale?

No, risponde la teoria neoclassica. La legge delle preferenze non significa la fine della morale, nemmeno la fine della mora­ le nel mondo economico. E la fine della morale del produttore imposta al consumatore. Che il produttore non possa imporre la sua morale al consumatore più di quanto non possa imporre i suoi prodotti costituisce un grande progresso. Amartya Sen è fa­ vorevole all’introduzione di un’etica della responsabilità sociale tra gli imprenditori75. Ma per la teoria delle preferenze, il giudi­ zio morale dev’essere lasciato al consumatore. Ovviamente non si può impedire a un imprenditore di avere preoccupazioni eti­ che. Certamente possono esistere preoccupazioni morali nel rapporto tra operai e datori di lavoro o nelle relazioni tra uomi­ ni d’affari. Tuttavia, è in ultima analisi il giudizio del consuma­ tore che deciderà della sorte del produttore. Dal caffè equo e so­ lidale ai fondi di investimento etici, passando per il proprietario delle patate fritte McCain che boicotta gli OGM, è sempre in ri­ sposta alla domanda che il mercato diventa morale, rivelandosi addirittura più morale dello Stato: se la domanda è morale, il mercato sarà morale. Così Serge Latouche afferma che «l’elimi­ nazione della morale dall’economia porta alla sua eliminazione dalla vita sociale»76. Perché mai, rispondono gli utilitaristi, dato che il mercato si dichiara al servizio del consumatore, dunque al servizio delle morali, qualunque esse siano? Tocca a quest’ulti­ mo avere una morale, esigere prodotti ‘etici’, e li avrà, afferma la teoria, se sono le sue preferenze. Non prendetevela con il mercato. Convincete piuttosto i cittadini a comprare buoni pro­ dotti da imprenditori che non sfruttano i loro impiegati, e il mercato si adatterà presto: «Market is a good servant». L’intera società - e, sempre più, l’insieme interdipendente del­ le società - si sottomette alle decisioni morali dell’individuo con­ sumatore. Ma allora, se la morale del sistema risiede nella morale del consumatore, la questione che si pone adesso - l’ultima! - di­ venta cruciale: in che misura, fino a che punto la domanda del consumatore può contenere una dimensione morale? 75 Citato da S. Latouche, Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in una economia mon­ dializzata, tr. it. di A. Saisano, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 23. 76 Ibi, p. 32.

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5. IL PARADIGMA DELIA CRESCITA: LA FELICITÀ DEL CONSUMATORE

Il mercato non fa che obbedire alla domanda. Se i cittadini non hanno più morale, non è il mercato a dovere essere biasimato. Questo ragionamento è in parte corretto, a parte una riserva, una piccola condizione posta dal mercato, un’esigenza a prima vista insignificante, che costituisce uno strappo apparentemente mino­ re alla sua neutralità: che tutto ciò che tale sistema produce sia ‘mercificabile’ [commodifiable]77, possa diventare una merce. Cer­ to, l’imprenditore ha mostrato che può adottare delle strategie sempre più sofisticate per farsi carico della domanda del consu­ matore. Ma è sempre al consumatore che si rivolge, foss’anche il «consumatore cittadino»78. Il mercato non ha morale, si adatta a tutto, a condizione di fare merce di tutto. Ora, che cos’è una mer­ ce? E un oggetto che ha solo un valore commerciale. E la riduzio­ ne di quel che circola tra gli esseri umani al suo valore commer­ ciale. Il mercato ha dunque in sé una visione etica implicita del mondo, tale che il solo valore da considerare è il valore commer­ ciale, cosa che possiamo definire ‘edonismo commerciale’. Il mercato non si rivolge al cittadino, alla persona, ma al consuma­ tore, e tenta di persuaderlo che non può per definizione volere e desiderare che una cosa: consumare. Motivo per cui affermare che «siamo neutrali, ma a condizione che voi siate dei consuma­ tori», in realtà non è neutrale. E ciò che la neutralità delle prefe­ renze nasconde: siete liberi di definire ciò che è il vostro bene, ma a condizione di farlo a modo mio. Il mercato tende a mantenere e ad allargare continuamente il fossato tra produttori e consuma­ tori, per infilarci dei prodotti, per inondarci di montagne di pro­ dotti, per generalizzare il valore di prodotto. Il mercato aggiunge dunque qualcos’altro a questa neutralità di fronte ai valori. Aggiunge il fatto che, quali che siano i valori, essi devono prendere la forma di prodotti da ‘smaltire’ su un mer­ cato: «Quando il mio vicino si impegna a non lasciare il suo mo­ torino sotto le mie finestre a condizione che io non getti più i

77 Dall’inglese commodity, ‘merce’ [n.d.t.]. 78 J.-C. Toenig - C. Waldman, De l’entreprise marchande à l’entreprise marquante, Éditions d’Organisation, Paris 2005, p. 217.

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Ι. ΛΙΊ ΚΑΙΊ IVA DEI. GUADAGNO

miei mozziconi di sigaretta sul suo marciapiede, si tratta proprio di scambio, anche se non è circolato nessun bene»79. Tale transa­ zione non interessa il mercato. Eppure lo disturba. Ogni scambio diretto di beni o di servizi tra due produttori, ogni mercato senza merce non è conforme al modello. Il mercato tenterà di intro­ durvi un terzo, un intermediario, perché, senza la presenza di un terzo, non c’è produzione commerciale. Senza venditore, niente mercato nel senso dell’economia neoclassica! Il mercato tende a trasformare tutti i legami sociali in rapporto interessato produttore-consumatore e a negare il rapporto comu­ nitario, quello che è voluto per se stesso. Lo si constata tutti i gior­ ni. Nulla sfugge all’occhio avido del venditore. Illustriamo con­ cretamente fin dove va oggi questa tendenza, esaminando ciò che accade quando il meccanismo commerciale viene applicato a un campo in cui la circolazione delle cose è retta da valori e principi lontani dal mercato, come il settore della filantropia. E noto che le organizzazioni filantropiche affidano sempre più a delle impre­ se commerciali una delle loro operazioni più importanti: la rac­ colta di fondi. Il mercato si mette al servizio della filantropia. Per­ ché no? Il problema sta nel fatto che il mercato non si accontenta di questo statuto di mezzo. Si osserva che lo ‘spirito’ di questo mezzo - l’impresa commerciale - tende ad invadere l’insieme del sistema e a generalizzarvi le categorie commerciali. Colui che do­ na diventa un consumatore di dono. Rappresenta la domanda. Che cosa consuma? Qual è il prodotto? Egli consuma le varie Cau­ se che gli vengono offerte da agenzie specializzate. Esattamente come ogni consumatore nel modello commerciale, sceglie razio­ nalmente la Causa migliore secondo le sue preferenze. Con la presenza di queste imprese commerciali, il dono filantropico ten­ de dunque ad essere pensato secondo il modello commerciale dell’offerta e della domanda, provocando uno sbalorditivo rove­ sciamento del modo abituale di vedere le cose. Come scriveva un giornalista, «il donatore diventa un consumatore che ha un biso­ gno di dono da appagare»80. Usando un’impresa commerciale all’inizio unicamente come mezzo, il mondo della filantropia finisce per integrare il modello

79 Cordonnier, Coopération et réciprocité, p. 7. 80J. Pichette, «Le Devoir», 23 ottobre 1996.

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dell’economia neoliberale, fatto di consumatori e di produttori alla ricerca dell’equilibrio tra l’offerta e la domanda. E, come in ogni mercato, certi prodotti non saranno più comprati, non cor­ risponderanno più alla domanda e, sempre nella logica di tale modello, tanto peggio per loro: o rimanevano con una sciocchez­ za vendibile, una malattia alla moda, oppure sceglievano una dit­ ta efficiente che sapesse valorizzarli. L.' optimum sarà raggiunto se il mercato funziona bene. Non è una caricatura. E esattamente ciò che affermava qualche anno fa il presidente del Forum quebecchese della filantropia: «Ciascuna delle cause deve mettersi sul mercato se vuole raccogliere fondi. Solo perché si ha una buona causa non è detto che per forza andrà a ruba»81. Le Cause sono dunque da vendere, e cercano dei compratori, e i compratori di Cause sono i donatori... Perciò, anche quando delle organizzazioni auspicano l’uso del mercato unicamente come mezzo per raccogliere fondi, lo spirito commerciale riesce a ‘contaminare’ il fine per cui viene applica­ to, dovendo trasformare il donatore in consumatore di dono che cerca il suo interesse, anche se ciascuno sa che il gesto di offrire denaro a uno sconosciuto per una causa non obbedisce alla logi­ ca del consumo82. Il rapporto tra il mezzo e il fine viene rovescia­ to. La questione si pone: alla fine, non si corre il rischio di dimi­ nuire il numero di donatori, invece di aumentarlo? Se lo spirito del dono non esiste più se non sotto forma pubblicitaria, se degli intermediari sempre più numerosi sottraggono percentuali sem­ pre maggiori degli importi raccolti, se infine l’introduzione di questa mentalità venale attira un numero sempre più grande di individui pronti ad approfittare della situazione sottraendo fondi all’occorrenza, come cambierà la fiducia dei donatori nel siste­ ma? Tutto ciò non potrebbe comportare un calo dei donatori, cioè il contrario dello scopo cui si mirava? Tale esempio dell’impiego delle ditte di marketing da parte degli organismi fondati sul dono permette di confutare la suppo­ sta neutralità del modello, mostrando come il modello commer­ ciale si insinui in tutti i settori della società pervertendone lo spi­

81 Ibidem. 82 Questo può accadere, certamente, come possono esserci sottrazioni di fondi, ma non è ciò che qui è in discussione.

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l’atirattiva dei. guadagno

rito. Si vede bene come lo spirito del dono possa venire alterato da questa volontà contemporanea di generalizzare lo scambio commerciale, che porta collettivamente al paradigma della cresci­ ta della produzione, cioè a quella necessità di far aumentare in continuazione il PNB83. Consumare sempre di più: in fin dei con­ ti è questo l’unico valore ‘etico’ che il mercato tende a trasmette­ re al consumatore. Se non consumate sempre di più, siete cattivi cittadini. «Il Selvaggio è considerato come irrimediabilmente in­ capace di adattarsi perché non ha bisogni. Non obbedisce all’ingiunzione di consumare»84. Il ‘buon selvaggio’ dei filosofi del XVIII secolo, colui che vive in libertà, uguaglianza e fraternità, per gli economisti è un ‘catti­ vo selvaggio’: non massimizza né la sua produzione né i suoi bi­ sogni; non si «sviluppa»85: «La metamorfosi del consumo, da vi­ zio in virtù, è uno dei fenomeni più importanti - eppure uno dei meno studiati - del XX secolo»86. Un’indagine fatta negli Stati Uniti nel 1929 «ha dimostrato, in maniera conclusiva, ciò che un tempo veniva considerato teoricamente vero: i desideri sono in­ saziabili»87. Il nuovo sistema di valori era dunque già stabilito a quell’epoca. Dopo anni di aggressione pubblicitaria di questa idea, tale indagine prende atto che la cosa ha funzionato: i desi­ deri sono diventati insaziabili. Che magnifico esempio di profe­ zia auto-realizzatrice! Anche scartando il postulato dell’interesse, e anche se si scarta il modello di decisione mantenendo soltanto la nozione di prefe­ renza, è giocoforza constatare che questo modello, lungi dall’es­ sere neutrale di fronte ai valori, ne privilegia uno solo: la crescita della produzione commerciale. Ogni rapporto sociale è desidera­ bile se ha come risultato la crescita della produzione e della cir­ colazione dei beni. Certo, come scrive Coleman, «il mercato è compatibile con delle concezioni del bene molto diverse e, più di altre istituzioni, non esige che si arrivi a un accordo sui valori co­

83 Produit National Brut, Prodotto Nazionale Lordo [n.d.t.J. 84 A. Jacob, Le Travail, reflex des cultures. Du sauvage indolent au travailleur productif, PUF, Paris 1994, p. 247. 85 Ibi, pp. 247-248. 86 Rifkin, La fine del lavoro, p. 47. 87 Ibi, p. 54.

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me condizione per stabilire tra noi legami fruttuosi. Esso riduce così il rischio di instabilità sociale»88. E permette anche la distan­ za sociale89, in qualità di terreno neutrale dei legami sociali. Cosa c he è vera in un primo tempo e in una certa misura. Tuttavia, pro­ prio favorendo una certa stabilità, tale monopolizzazione dei rap­ porti sociali in vista di un solo fine comporta una meta-instabilità, uno straripamento che sbilancia la società ad un altro livello, tra­ sformandola in una macchina per produrre e scambiare su una base di equivalenza commerciale, trasformando ogni rapporto ed ogni persona in mezzo per tutt’altro che il legame sociale, sotto­ mettendo così il legame sociale alla crescita illimitata e metastati­ ca dei beni. In questo senso, la modernità equivale, grazie al mer­ cato, alla moltiplicazione di legami tra sconosciuti, senza che tale quantità crescente di legami possa essere qualitativamente gestita, senza tener conto del fatto che ogni società deve forse imporsi dei limiti nella quantità di rapporti tra estranei che i suoi membri possono sopportare. E dunque una moltiplicazione dei rapporti fuori controllo da parte della società. Questa proliferazione ha una dimensione cancerogena, virtualmente illimitata, che tende a distruggere i legami sociali, il cui sistema di protezione viene rag­ girato da questi rapporti commerciali così facili, così insignifican­ ti, così simili agli altri in apparenza, così liberi. Finora, la società controlla in parte questa proliferazione. Prima di tutto attraverso i rapporti familiari. Ma anche attraverso quel che Polany chiama ‘contro-movimento’, dal lato della dose minima di fiducia neces­ saria per ogni rapporto, anche commerciale. Lo si può osservare anche in ciò che oggi viene chiamato ‘globalizzazione dei merca­ ti’, dal momento che, per la maggior parte del tempo, questi mer­ cati sono in grado di globalizzarsi soltanto passando attraverso ciò che Kotkin90 chiama le ‘tribù moderne’, i gruppi sociali che non perdono la loro identità malgrado la loro ‘diaspora’: Ebrei, Giap­ ponesi, ecc. Ma che cosa ci riserva l’avvenire? Resta da vedere in che modo la crescita della produzione è di­ ventata una simile ossessione. Per rispondere a tale questione, 88 Citato da N. Schofield, Chaos or Equilibrium in a Political Economy, in A. Albert (ed.), Chaos and Society, IOS Press et Presses de l’Université di Québec, AmsterdamQuébec 1995, pp. 193-209; citazione a p. 198. 89 G. Simmel, Filosofia del denaro, tr. it. di A. Cavalli - L. Perucchi, UTET, Torino 1984. 90 J. Kotkin, Tribes, Random House, New York 1993.

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una breve ripresa storica è necessaria, il che permetterà di capire sia gli aspetti positivi sia quelli negativi di questo modello, ma an­ che di relativizzare e di introdurre il dono, dato che sarà messo in evidenza il fatto che questo modello è adatto alla rottura produt­ tore-utente, ma che non per questo tale rottura elimina il legame comunitario fondato sul dono.

( CAPITOLO TERZO

La rottura produttore-utente e la rimozione del modello comunitario

Introduzione

«Confidateci le vostre preferenze, diteci i vostri fini - procla­ ma il commerciante - e troveremo i mezzi per soddisfarvi». Questo modello, che propone la felicità per tutti, punta in realtà alla felicità del consumatore, a condizione che quest’ul­ timo definisca la sua felicità in termini di desideri fìssi di nuo­ vi prodotti di consumo. Grazie alla modernità, ci siamo libera­ ti dei legami sociali che giudicavamo troppo costrittivi. Non ci definiamo più a partire dai nostri legami, ma attraverso i no­ stri beni, i nostri prodotti. Con l’invenzione della bussola, si è finito per perdere il senso dell’orientamento. Guai allora a co­ lui che perde la sua bussola. Con la generalizzazione del rap­ porto commerciale e l’accumulo dei beni, si finirà per perdere il senso dei legami sociali? Allora guai a colui che perderà i suoi beni! Come siamo arrivati fino a questo punto? Che cosa ha con­ dotto l’umanità a convincersi che il solo aumento costante del­ la produzione commerciale conduce alla felicità? L’insicurez­ za, l’ancestrale paura di morire di freddo, di fame, rispondia­ mo. Ma questa paura giustifica il fatto di basare il modello sul­ la crescita della produzione? Perché non accontentarsi di mira­ re a un certo livello di sicurezza e di confort, considerando che il suo aumento costante è piuttosto un’aberrazione, che l’uma­ nità ha altro da fare, come scrive Castoriadis? Senza per questo eliminare l’idea di innovazione, perché, una volta raggiunto tale livello di sicurezza e di confort, quando appariva un’inno­ vazione, si sarebbe potuto utilizzarla per esempio per lavorare di meno invece che produrre di più. Del resto, è quel che pen­ sava lo stesso Adam Smith quando osservava l’instaurarsi del si­ stema commerciale: il bambino che scoprirà un modo più effi­

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ι.’λίί raitiva del guadagno

cace di far funzionare la sua macchina - scrive - potrà allora giocare più a lungo1. E anche quel che pensa la maggioranza dei membri di molte società prima di aver adottato questo modello, che perciò non va da sé, essendo, come si è appena visto, ben lontano dall’essere na­ turale, come già Weber aveva sottolineato: «L’uomo ‘per natura’ non vuole guadagnare denaro e sempre più denaro, ma vivere semplicemente, vivere come è abituato a vivere e guadagnare tan­ to quanto è necessario. [...] Ovunque [...] il capitalismo [...] urtò contro la resistenza infinitamente tenace e ostinata di questo motivo dominante del lavoro»2. Nel capitalismo, il lavoro deve compiersi «come se fosse assolutamente fine a se stesso - ‘voca­ zione’ [Beruf]. Ma una mentalità siffatta non è un dato naturale. E non può neanche essere il risultato diretto di salari alti o bassi, ma solo l’esito di un lungo processo educativo»3. Lo strano carattere di questo comportamento appare meglio con l’aiuto di un’immagine. Ricordiamo che, in questo modello, è l’aumento che conta, e non il PNB in sé. V.' homo oeconomicus non punta a raggiungere un certo livello di PNB, ma a fare in modo che il PNB aumenti sempre. Questo modello assomiglia molto a quello di un gatto che rincorre la sua coda. L’importante non è che il gatto acchiappi la sua coda, è che le corra dietro. Suppo­ niamo che il gatto smetta di correre. Nella realtà, ciò rappresenta la crescita zero. Finché non smetterà di pensare che se il gatto non acchiappa la coda è solo perché ha smesso di correre, l’indi­ viduo moderno ricadrà sempre nelle soluzioni che devono innan­ zitutto contribuire al rilancio. In altri termini, finché crederà al modello della crescita come a un assoluto, non ci saranno altre politiche sociali, economiche, ambientali, se non quelle che con­ tribuiscono ad accrescere il PNB. Bisogna sempre tornare alle condizioni iniziali per capire a che cosa si oppone un’idea e per comprenderne il senso. Noi cre­ diamo che la rottura produttore-utente instaurata dalla moder­ nità, che ha messo fine a un certo modello comunitario, sia all’o­ rigine di questo modello. La coppia produttore-utente ha rim­

1 Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 70. 2 Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, p. 83. 3 Ibi, p. 85.

LA ROTTURA PRODUTTORE-UTENTE

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piazzato il rapporto comunitario. Ciò costituisce la caratteristica specifica della modernità. In che modo ha progressivamente inva­ so la società, conducendo a questa valorizzazione della crescita come assoluto? Dall’utilità alle preferenze

All’inizio, l’importanza attribuita all’utilità materiale, alle conse­ guenze e ai risultati dell’azione, viene ad opporsi ai valori in sé. L’origine storica di questa opposizione è stata messa bene in evi­ denza da Gouldner4 nella sua analisi dei valori della borghesia nel XVIII secolo. L’utilità diventa allora il punto di convergenza di tut­ ti coloro che si oppongono ai privilegi dell’aristocrazia fondati sulla nascita, fondati su un valore in sé indipendente dal loro con­ tributo concreto alla società. Tale contrapposizione è dunque uno strumento della lotta contro l’aristocrazia e un modo per ri­ mettere in discussione la sua funzione sociale. Essa è all’origine della solidarietà dei produttori, basata sull’utilità del contributo materiale, contro l’utilità ‘parassitarla’ degli aristocratici, aggiun­ gerebbe Gouldner. E di lì che viene questa tendenza, propria del­ l’utilitarismo, a ricondurre tutto al materiale e al concreto, diffi­ dando del resto. L’idea di interesse va nello stesso senso. «Pochi individui soltanto hanno dei privilegi ereditari, ma tutti hanno degli interessi. Riconoscere la legittimità degli interessi equivale ad affermare che ogni cittadino, di qualunque status sociale, ha delle preoccupazioni degne d’attenzione. Dire che tutti gli indivi­ dui sono [legittimamente] motivati dai loro propri interessi equi­ vale a universalizzare lo statuto dell’uomo ordinario [the common man] »5. Come e da chi verrà valutata questa utilità? Non dal produtto­ re, cosa che ci farebbe cadere nell’arbitrio del modello che si vuo­ le mettere in discussione, ma da colui che ordina il prodotto e lo utilizza, dall’utente. E cosi che si stabilisce l’autonomia morale del consumatore, e che genera l’incertezza del produttore, owe-

4 A.W. Gouldner, La classe moyenne et l’esprit utilitarie, «La Revue du MAUSS», 5 (1989), pp. 14-39. 5 Holmes, The Secret History of Self-Interest, pp. 283-284.

HO

Ι.’ΛΊTRAITIVA DEL GUADAGNO

ro di colui che offre il prodotto. Finché l’utente non avrà acqui­ stato il suo prodotto, non saprà se è utile. Il produttore non ob­ bedisce più a un ordinativo; d’ora in poi deve rispondere alla do­ manda. Si mette a creare un prodotto aspettando che qualcuno lo trovi utile, tentando di anticipare le aspettative, il che crea l’in­ certezza sull’utilità reale di ciò che viene prodotto. E allora che si stabilisce e si approfondisce la distanza produttore-utente. Tale distanza implica che questa utilità sia valutabile in anticipo. E ri­ schiosa, ma calcolabile. La distanza che si stabilisce in seguito alla rottura produttore-utente rende necessario questo calcolo dell’u­ tilità e conduce a definire l’utilità in base al fatto che qualcosa vie­ ne comprato. Cosicché, se la borghesia in ascesa, lei stessa defini­ ta in base al suo contributo materiale alla società, insiste per defi­ nire il valore di qualcuno in base alla sua utilità, sarà presto por­ tata a definire questa utilità in base all’acquisto di un prodotto. «Con la parola ‘utile’ bisogna intendere tutto ciò che è adatto a soddisfare i bisogni, i desideri dell’uomo così com’è. [...] Lui so­ lo è giudice dell’importanza che le cose hanno per lui e del biso­ gno che ne ha. Possiamo giudicare soltanto attraverso il prezzo che lui stabilisce»6. D’ora in poi, il venditore può concentrarsi sul prezzo e, come scrive Gouldner, «disfarsi dell’utilità reale»7. A partire da questo momento, un autore come Montesquieu può af­ fermare: «E la natura del commercio a rendere utili le cose su­ perflue e necessarie quelle utili»8. Questa tendenza conduce al rovesciamento che si produrrà con l’economia neoclassica o marginalista. Goux descrive le con­ seguenze di tale passaggio da una teoria economica e da un’eco­ nomia fondata sulla produzione a una teoria economica e a un’e­ conomia fondata sul consumo, da una teoria del valore definita in base al lavoro, al prodotto, al valore definito in base al desiderio del consumatore, alle sue ‘preferenze’. Per Charles Gide, dev’esserci una preminenza contemporaneamente economica e morale del consumatore sul produttore9, motivo per cui auspica «nuove 6 J.J. Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, Blusson, Paris 2000, p. 174. 7 GOULDNER, La classe moyenne et l’esprit utilitarie, p. 29. 8 Citato da G. Berthoud, Le potlach, entre intérêt, libéralité e prodigalité, «La Revue du MAUSS», 12 (1998), pp. 294-310; citazione a p. 297. 9 Citato da Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 156.

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solidarietà attorno al polo del consumo»10. «Occorre trattare l’e­ conomia politica dal punto di vista del consumatore» (Bastiat)11. Senza dubbio, l’idea è presente fin dall’origine, ma è con questa teoria che viene formalizzata. «Necessario, utile, gradevole e su­ pei fino, tutto ciò, per noi, è soltanto più o meno utile. Qui non ci sono vantaggi della moralità o deH’immoralità del bisogno di cui tener conto... Che una sostanza sia ricercata da un medico per guarire un malato o da un assassino per avvelenare la sua fami­ glia, è una questione molto importante da altri punti di vista, ma dal nostro è del tutto indifferente» (Léon Walras)12. «Ragionevo­ le, stupido o colpevole, pane, diamante o oppio, non importa», aggiunge Charles Gide13. Facendo dichiarazioni del genere, questi autori, come osserva Goux, «sfrattano ogni giudizio morale», danno all’utile un’esten­ sione illimitata e consacrano così l’era delle preferenze. «L’utilità non lascia niente dietro di sé»14. Gli economisti neoclassici non negano la morale, affermano solo che non riguarda la molla del mercato, o più precisamente di colui che offre il prodotto, il qua­ le non deve preoccuparsene. La morale «è una questione molto importante - dice Walras - ma da altri punti di vista». Non da quello di chi offre, del produttore, del venditore. E giustamente, crediamo, nel contesto della rottura produttore-utente. In effetti, si tratta semplicemente di prendere atto delle conseguenze di questa rottura. L’etica del venditore deve ridursi a rispondere il meglio possibile al desiderio della domanda, senza ingannare il consumatore sulla natura del prodotto. Non deve definire la na­ tura del prodotto offerto, perché chi offre è troppo distante dagli utenti e dai loro valori per dare un giudizio morale sulla doman­ da. La forza dell’ideologia commerciale è di aver preso atto di questa grande incertezza che entra nel cuore di ciò che circola. Questo passaggio dall’ordinativo alla domanda conduce al grande rovesciamento dalla domanda all’offerta. Certo, ogni de­ siderio, ogni preferenza, diremo adesso, può essere utile. Ma sic-

10 Ibi, p. 164. 11 Ibi, p. 156. 12 Ibi, pp. 177-178. ls Ibidem. 14 Ibi, p. 180.

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l’attrattiva del guadagno

come, in questo sistema, il solo modo di sapere se qualcosa è uti­ le è sapere se è stata comprata, questo criterio finirà per esten­ dersi all’insieme della società, e solo ciò che può essere comprato sarà considerato utile. Per essere utile, bisognerà innanzitutto es­ sere una merce: «Sarà detto utile ogni bene, qualunque sia, che potrà... diventare una merce»15. Tale approccio pone dunque un limite all’utilità, e definisce al contempo un progetto per il siste­ ma economico. Il limite è che soltanto ciò che ha un prezzo ha un’utilità, soltanto ciò che è comprato ha un valore, e il progetto che ne deriva consiste nel trasformare progressivamente tutte le attività umane in merce dotata di prezzo, unica maniera di con­ cedere loro un’utilità e un valore. La priorità assoluta è accorda­ ta alla produzione di merci, dato che lo scopo è ormai accrescere il loro valore, il quale non può essere definito in altro modo se non sulla base dell’ammontare di denaro che qualcuno è pronto a pagare per il prodotto. Il passaggio dal ‘valore-lavoro’ al ‘valoredesiderio’16 libera l’economia dalle costrizioni morali e permette a questo meccanismo di scovare e invadere ogni attività umana. I desideri in sé e le preferenze vanno bene, ma non sono sufficien­ ti per l’economia, non le sono di nessuna ‘utilità’, se non riesco­ no innanzitutto a trasformarsi in merci acquisite su un mercato pubblico o privato. Questa necessità di ‘mercificare’ tutto condu­ ce alla ‘smaterializzazione’ del sistema, si tratti pure di una smaterializzazione unicamente quantitativa, come ha ben mostrato Alain Caillé17. Il mercato non crea i desideri

Al termine della sua evoluzione, il sistema non ha dunque più bi­ sogno che le cose siano utili, ma ha bisogno che siano prodotte piuttosto che donate, consumate piuttosto che utilizzate. Contra­ riamente a quel che il più delle volte si afferma, il mercato non gioca un ruolo centrale nella creazione in sé dei desideri e dei bi­ sogni. Spesso non fa che dare una forma commerciale a desideri

15 Ibi, p. 185. 16 Ibi, p. 157. 17 Caillé, L’Anthropologie du don, p. 161; Simmel, Filosofia del denaro.

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che sono già lì. Prendiamo la dinamica attuale della globalizzazio­ ne. Che cosa è in gioco in un dibattito come quello sugli OGM (organismi geneticamente modificati)? Non si tratta della crea­ zione di un nuovo bisogno. Gli agricoltori hanno bisogno di semi

l’attraitiva DEL »ONO

ni, esiste una meta-regola che consiste nel trasgredire persino le regole che noi stessi ci siamo dati. Questo comportamento, in un sistema di dono, ha lo statuto di una norma e non ha niente a che vedere con il comportamento che va dalla tolleranza al non-rispetto della regola, ben noto e ben analizzato nella sociologia del­ le organizzazioni18; niente a che vedere nemmeno con il non-rispetto della regola necessaria all’efficienza, il vago necessario illu­ strato a contrario dallo sciopero bianco19. Perché? Ancora una volta, per allontanare il più possibile i partner dall’impegno contrattuale. Quest’ultimo ha la proprietà di obbligare l’altro indipendentemente dai suoi ‘sentimenti’ nei miei riguardi, indipendentemente dal legame che esiste tra me e l’altro. Esso diminuisce le incertezze tra me e l’altro. Dunque è per lasciare l’altro il più libero possibile di ricambiare o meno e li­ bero anche di ‘calcolare’ ciò che deve ricambiare, e quando deve farlo, che i partner del dono intrattengono un rapporto ambiguo rispetto alle regole. E perché ci sia ‘gioco’ nello scambio che ren­ diamo impliciti il dono e la restituzione, al fine di introdurre, o di mantenere, o di accrescere il rischio nella restituzione del contro­ dono, al fine di introdurre delle ‘proprietà di indecidibilità’ nella sequenza. L’incertezza qui è centrale. Ma è positiva, contraria­ mente alla maggior parte delle situazioni analizzate nelle scienze sociali, dove si punta alla riduzione delle incertezze20. In breve, il rischio non soltanto è inerente al dono, è anche vo­ luto come tale.

Il dono e la legge Questo strano rapporto con le regole comporta diverse conse­ guenze, specialmente nel rapporto tra il dono e la legge21. Il legi­ slatore interviene con prudenza nel dono, in punta di piedi. Trat­ ta il dono con le pinze. Non interviene se non nei casi estremi. Così, nella tradizione francese, l’unica causa legittima di inter­

18 Cfr. cap. 11. 19 Kuiy, La Négotiation des valeurs, p. 240.

20 Cfr. cap. 11. 21 A. Sérieux, Les Successions, les Libéralités, PUF, Paris 1986.

GLI ELEMENTI DI UN SISTEMA DI DONO

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vento della legge in materia di dono è l’ingratihidine. Questa an­ tica tradizione era già presente nel XVI secolo22. Ma un intervento del genere è raro. Il codice civile del Québec segue la tradizione del codice civile francese. «Ogni donazione tra vivi può essere re­ vocata per causa di ingratitudine»23. Ma si accontenta di penaliz­ zare solo le forme estreme di ingratitudine. Recentemente, un giudizio che condannava qualcuno per ingratitudine è stato inva­ lidato in appello. Nel suo giudizio, il giudice precisa che «l’ingra­ titudine sanzionata dalla legge non risulta dal semplice difetto di riconoscenza. [...] Dev’esserci intenzione malevola»24. La legge non obbliga dunque alla riconoscenza. Questa tradizione sembra inesistente nella common law. Per il giurista americano Eisenberg, la legge affronta il dono in due ma­ niere opposte, ma che hanno lo stesso senso: «I doni irrevocabili; le promesse di dono non sono esecutive [enforceable} »25. In altri termini, il legislatore rifiuta di intervenire nella relazione di do­ no. E giustamente, pensa Eisenberg, come si vedrà chiedendosi su quale valore si basa la relazione di dono. Il valore nel dono

Nel quadro della circolazione commerciale delle cose, gli econo­ misti distinguono il valore d’uso e il valore di scambio. Il valore d’uso esprime l’utilità di ciò che circola per il destinatario. Il valo­ re di scambio confronta le cose che circolano indipendentemen­ te dagli altri valori. La circolazione attraverso il dono obbliga a te­ ner conto di un terzo tipo di valore, che possiamo chiamare valo­ re di legame. Il valore di legame esprime l’importanza della rela­ zione che esiste tra i partner, l’importanza dell’altro indipenden­ temente da ciò che circola. «Le cose hanno ancora un valore sen­ timentale oltre al loro valore venale»26, scrive Mauss, che ha mo­

22 N.Z. DAVIS, The Gift in Sixteenth-Century France, University of Wisconsin Press, Madi­ son 2000, p. 70.

23 Codice civile del Québec, art. 1836. 24 Desmarais c. Ziggiotti, par. 20, 2003. 25 Eisenberg, The World of Contract and the World of Gift, p. 821. 26 Mauss, Saggio sul dono, p. 117.

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i.'ai traìuva dei. dono

strato l’importanza, nel dono, della negazione degli altri valori di ciò che circola. Per Mauss «la rivalità anti-utilitaria, la manifesta­ zione del disinteresse mediante il sacrificio dell’utile, permetto­ no appunto di far vedere questo valore intrinseco del legame»27. Il valore di legame si afferma e si mette in evidenza opponendosi agli altri valori di ciò che circola, oppure utilizzandoli. Si costrui­ sce sulla negazione parziale del valore di scambio e del valore d’uso che si applicano a ciò che circola. Quello che Mauss ha constatato per il dono arcaico resta vero oggi. Diamone qualche illustrazione estrema. Quando un fidan­ zato offre un anello d’oro, normalmente è per esprimere l’inten­ sità del legame. Ma più l’anello ha un elevato valore di scambio, più esprime il legame, senza tuttavia che questa relazione sia li­ neare. In effetti, può benissimo capitare che l’elevato valore di scambio dell’anello serva a nascondere un legame povero e che un anello con un valore di scambio debole esprima il legame più intensamente, perché è stato scelto conoscendo perfettamente i gusti del destinatario. Il valore di scambio non è dunque neutrale. Il valore d’uso può allo stesso modo esprimere fortemente il valore di legame: «Ma come facevi a sapere che avevo proprio bisogno di questo og­ getto?» esclama, felicissimo, il destinatario di un regalo, espri­ mendo così il grande valore di legame che attribuisce al valore d’uso di questo regalo. All’inverso, i Piccoli Fratelli dei poveri hanno come motto: ‘Fiori prima del pane’, esprimendo così l’im­ portanza che attribuiscono al valore di legame e negando il valo­ re d’uso. Lo spirito contrattuale e commerciale tende ad escludere que­ sto valore di legame. Illustriamo tale affermazione partendo da un dibattito tra i giuristi, poi tra gli economisti. La promessa legale

Per molti giuristi, una promessa di dono dovrebbe essere esecuti­ va (enforceable). Per alcuni autori, sarebbe addirittura la prova del carattere serio, non frivolo, di una simile promessa28. Questi giu­

27 Caillé, Dépenser l’économie, p. 158. 28 Yorio e Thel, citati da Eisenberg, The World of Contract and the World of Gift, pp. 852 ss.

GLI ELEMENTI DI UN SISTEMA DI DONO

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risti ritengono che, se una promessa di dono non è legalmente obbligatoria, svaluta il dono e mostra che la società non dà im­ portanza al dono. Ma, per Eisenberg, è vero il contrario. E ren­ dendo la promessa obbligatoria che essa la svaluta perché, facen­ do così, impedisce al dono di esprimere il valore di legame, com­ portandosi come se tale valore fondato sull’attaccamento, l’amo­ re, la compassione, la solidarietà, fosse così debole che occorre renderlo legalmente obbligatorio. «E appunto perché questi valo­ ri sono assenti nel mondo impoverito del contratto che la legge deve giocarvi un ruolo centrale»29.

Il valore monetario

Il modello economico non considera il valore di legame. E quel che conduce Webley30 a privilegiare i regali in denaro rispetto ai regali ‘m kind1 (in natura), dopo aver constatato che il destinatario riceverebbe di più (in valore monetario) se preferisse questa forma di regalo. Un altro economista31 parte dal principio che il meglio che un donatore di regali possa fare è comprare ciò che il donatario stesso avrebbe comprato con la stessa quantità di dena­ ro. Ma la maggior parte delle volte egli non riuscirà e, conclude, il regalo in natura comporta dunque uno sperpero di valore stima­ to tra 4 e 13 miliardi di dollari nel 1992 negli Stati Uniti. Che spre­ co, in effetti! Può però capitare, eccezionalmente, che il donatore conosca meglio del donatario le sue preferenze. In questo caso, «è possibile che il dono crei valore, anziché distruggerlo»32. Waldfogel conclude che il regalo ‘in natura’ distrugge valore commerciale e valore d’uso, e che dunque sarebbe preferibile fa­ re regali in denaro. Ma, facendo tale ragionamento, egli dimenti­ ca la principale ragion d’essere del regalo: il valore di legame. In realtà non lo dimentica, decide volontariamente di escluderlo, perché, nel questionario utilizzato per giungere a questo risulta­ to, Waldfogel chiede ai donatari quanto sarebbero pronti a paga-

29 Ibi, p. 849. 30 P. Webley - S.E.G. Lea - R. Portalska, The Unacceptability of Money as a Gift, «Journal of Economie Psychology», 4 (1983), 3, pp. 223-238. 31 J. Waldfogel, The Deadweight Loss of Christmas, «The American Economic Review», 83 (1993), 5, pp. 1328-1336.

32 Ibi, p. 1330.

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I .'Al I RA I ! IVA DEL DONO

re per i regali che hanno ricevuto, specificando ogni volta: «Eschu dendo dal regalo ogni valore sentimentale»33. Dunque chiede esplicitamente a coloro che rispondono di non tener conto del valore di legame. Eliminando ciò per cui il donatore compie la scelta dei regali in natura - il loro valore di legame -, è facile arri­ vare a individuare uno ‘spreco’ tale che un regalo in denaro sa­ rebbe preferibile. L’importanza del valore di legame rende il rapporto di dono radicalmente diverso dal rapporto commerciale. Il che spiega co­ me mai il donatario attribuisce una grande importanza al fatto che il donatore indovini quel che si augura di ricevere. Ecco un comportamento perfettamente irrazionale per il modello com­ merciale e, più in generale, per ogni rapporto produttore-utente. La storia dei Magi illustra in maniera estrema questo valore di le­ game opposto al valore d’uso. In questo racconto di O. Henry34, il dono fatto all’altro rende perfettamente inutile il regalo da lui ri­ cevuto. In effetti, Jim vende il suo orologio d’oro per comprare a sua sorella un fermaglio per tenere i suoi lunghi capelli mentre lei, dal canto suo, si fa tagliare i capelli per poter comprare un cinturino d’oro per l’orologio di suo fratello. Il dono ricevuto non ha più nessun valore d’uso, dato che l’utilità è stata resa inu­ tile per fare il dono all’altro! Cosicché «ciascuno ha dato molto senza ricevere un dono di ritorno utile. [...] quanto aJim, egli di­ ce che i loro regali sono ‘troppo belli’ per essere utilizzati»35. E in questo contesto che il dono in natura ha un valore più grande del denaro e che il dono ha un valore più grande degli al­ tri modi di circolazione delle cose. In altri termini, il valore di le­ game non sta in un rapporto di neutralità con gli altri valori: esso può esprimersi con l’aiuto del valore d’uso e persino del valore commerciale, ma può anche negarlo, e si costruisce su questi altri valori.

™ Ibi, p. 1331. 34 O. Henry, TheGift ofthe Magi, in E. Current-Garcia - W.R. Patrick (eds.), Whatisthe Short Story?, Foresman&Co., Glenview (Illinois) 1974, pp. 297-301. Anspach presenta un eccellente commento di questo racconto di O. Henry, in cui si viene a sapere so­ prattutto la storia appassionante e quanto mai pertinente di tale autore (M.R. Anspa­ ch, A buon rendere. La reciprocità nella vendetta, nel dono e nel mercato, tr. it. di C. Fontani­ le, Bollati Boringhieri, Torino 2007, pp. 89-95).

35 Anspach, A buon rendere, p. 92.

(.1.1 ELEMENTI DI UN SISI Ι·Μ Λ HI I ·< >N< »

E il contraccambio?

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Molteplici rituali di negazione del rapporto contrattuale e com­ merciale e di presa di distanza in rapporto allo spirito commer­ ciale; tendenza all’eccesso; incertezza volontaria e rischio voluto; importanza del valore di legame. Tutte queste sfaccettature che abbiamo appena presentato a mo’ di introduzione al mondo del dono mettono in evidenza la distanza del dono certamente in rap­ porto al mercato, ma anche in rapporto alle istituzione più im­ portanti che regolano la circolazione delle cose nella società. Ma in questa presentazione abbiamo evitato una questione essenzia­ le, quella che costituisce l’oggetto di controversie e malintesi infi­ niti: il dono è unilaterale o reciproco? Che cosa ne è del contrac­ cambio nel dono? Il principale ostacolo per pensare il sistema del dono è infatti il dilemma del contraccambio.

CAPITOLO QUINTO

Il dono e il senso del dono

L’analisi del dono deve concentrarsi sull’oggetto donato, sulla relazione che si stabilisce tra il donatore e il donatario, o sugli inestricabili legami tra questi oggetti che circolano e queste relazioni? E questa la domanda fondamentale1.

Intorno al senso di ciò che circola

Il dono è nell’intenzione o nel risultato? Un vero dono è unilate­ rale? Il contraccambio dimostra il carattere interessato del dono? Tali questioni collegano, opponendoli, filosofi come Derrida e Lévinas e gli antropologi che descrivono le pratiche del dono ar­ caico. La distinzione tra ciò che circola e il senso di ciò che circo­ la permette, secondo noi, di risolvere il dilemma del contraccam­ bio. Per mostrarlo, è necessario compiere una deviazione filosofi­ ca su questa questione dell’intenzione. In un’opera che in parte si concentra sul dono, Descombes2 fa alcune distinzioni che, pur potendo apparire talvolta tautologiche, forniscono le categorie fi­ losofiche che consentono di distinguere tra ciò che circola e il senso di ciò che circola.

Intenzionale-naturale

«I termini intenzionali permettono di dire come le cose si presen­ tano a qualcuno [...]. I termini naturali permettono di dire che cosa sono le cose, niente di più»3. Esprimono i meri fatti. «In 1 A.D. Schrift (ed.), The Logic of the Gift. Toward an Ethic of Generosity, Routledge, New York-London 1997, p. 3. 2 V. Descombes, Le istituzioni del senso, tr. it. di M.G. Botti, Marietti, Genova 2006. 3 Ibi, p. 4.

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l’atiraitiva »EI. »ONO

mancanza di un linguaggio intenzionale, riconoscono i filosofi, è impossibile parlare del senso delle frasi, del fine delle imprese, dei motivi dell’azione, delle regole osservate nella vita sociale. [... ] In generale si ammette che il linguaggio intenzionale è come tale irriducibile al linguaggio naturale»4. «Dire che l’arciere ha un’intenzione, [...] è dire che egli usa dei mezzi che giudica ap­ propriati per arrivare ad un fine che è il suo. [...] Avere un’inten­ zione facendo qualche cosa, è fare ciò che si fa con uno scopo, in maniera che vi sia una relazione di intenzione tra l’attività presente e un risultato scontato»5.

Relazioni diadiche, triadiche, poliadiche Dare un nome a qualcosa significa identificare una monade. La monade si oppone alla relazione diadica, la quale «esige un verbo d’azione, non una semplice attribuzione»6. Per esempio: A uccide B. Quanto alla proposizione triadica, essa esprime un’intenzione. A assassina B. «Questa diade apparente è in realtà una triade»7, perché c’entra un’intenzione. Non si può ridurre la triade a una congiunzione di diadi, perché c’è intenzione, e l’intenzione non può essere ridotta a fatti bruti. Descombes aggiunge che, in ogni relazione triadica, c’è un elemento mentale o intenzionale, e che è impossibile restituirne il senso attraverso una semplice descrizione fisica di quel che è successo8. «Nessuna descrizione di meri fatti (diadici) può esauri­ re il senso di un fatto intenzionale (triadico)»9. Il dono

A partire da queste distinzioni, Descombes procede ad un’analisi del dono10. Egli constata innanzitutto che la mera descrizione, diadica, non consente di cogliere il dono, dato che il dono è in-

4 Ibi, pp. 5-6. 5 Ibi, p. 16. 6 Ibi, p. 277. 7 Ibi, p. 278. 8 Ibi, pp. 280-281. 9 Ibi, p. 297. 10 Torneremo a Descombes a proposito del ‘terzo’ del dono (cfr. cap. 10).

11. DONO E II. SENSO DEI DONO

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tenzione. Fa l’esempio seguente: A dona il libro C a B. Nessuna descrizione puramente fattuale «può fare la differenza tra il caso in cui il transfert osservato è intenzionale e il caso in cui non lo sa­ rebbe. Per esempio, il libraio A mette l’esemplare del libro C tra le mani del cliente B, perché quest’ultimo possa decidere se lo comprerà»11. La descrizione fattuale non riesce dunque a fare la differenza tra due diverse intenzioni: donare o vendere. In altri termini, non possiamo ridurre il dono a due fatti mo­ nadici (un rapporto di A al libro, un rapporto di B al libro) che si susseguono. Se fosse possibile, dice Descombes, questo vorrebbe dire che «si potrebbe [...] determinare il rapporto delle persone con gli oggetti senza parlare del rapporto delle persone tra loro. Si potrebbe fare della relazione dal donatore al donatario una semplice conseguenza logica della successione dei due rapporti con l’oggetto. [...] Ne consegue che la descrizione di un atto di donare è una descrizione intenzionale»12. E tale descrizione in­ tenzionale non può mai essere dedotta da una mera descrizione. In sintesi, il dono è una relazione triadica, che non può essere costruita o pensata a partire da rapporti diadici. Significa dire «che la relazione tra due degli oggetti possa darsi soltanto passan­ do per il terzo membro [...] che si può chiamare un mediato­ re»13. Questa relazione triadica deve comportare delle relazioni reali14, e anche delle relazioni intenzionali. Entrambe non posso­ no venire isolate, cosa che caratterizza, per Descombes, Γ‘approc­ cio mentalista’. Queste riflessioni di Descombes hanno il vantaggio di identifi­ care chiaramente l’errore più diffuso nell’interpretazione del do­ no. Tale errore consiste nel dedurre dal fatto del ‘contraccambio’ un’intenzione di ‘contraccambio’, il che induce a passare da una descrizione di meri fatti a una descrizione intenzionale. Si tratta di un errore onnipresente. Ecco perché è così importante opera­ re una distinzione teorica tra ciò che circola (mero fatto) e il sen­ so di ciò che circola. Per mettere in evidenza questo punto, appli­ chiamo tale distinzione a due concezioni dominanti del dono.

11 Ibi, p. 301. 12 Ibi, pp. 301-302. 13 Ibi, p. 306. 14 Ibi, p. 309.

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L'Ai l RAi riVA DEL DONO

1 due approcci del dono

I due modelli di dono ai quali gli analisti generalmente si riferi­ scono si basano sulla presenza o l’assenza di contraccambio: reci­ procità o unilateralità, dono reciproco e dono puro. «Per dono puro, intendiamo l’atto con cui una persona dona un oggetto o offre un servizio senza attendere né ricevere nulla in cambio»15. Quando qualcuno pensa al dono in generale nella società con­ temporanea, ciò che gli viene in mente in modo spontaneo è la fi­ lantropia, il dono umanitario, il ‘donate generosamente’ delle campagne di sottoscrizione. Viene definito come necessariamen­ te gratuito, ossia senza contraccambio. «Ciò che si abbandona a qualcuno senza ricevere nulla in cambio», dice il Petit Robert, co­ me la maggior parte dei dizionari, riprendendo la definizione del dono puro di Malinowski. Questa concezione del dono si oppone a quella che domina nelle scienze sociali. Fino a poco tempo fa, queste discipline si interessavano poco della cosa. E quando il do­ no veniva menzionato, lo si faceva o per negare la sua importanza nelle nostre società, o, che è lo stesso, per ridurlo a uno scambio interessato, commerciale. I ricercatori guardavano soprattutto al­ trove, nelle società arcaiche, dove constatavano che il dono era re­ ciproco, del tutto all’opposto della concezione ordinaria. Siamo dunque in presenza di due posizioni estreme: nel senso comune, il dono è unilaterale e sacrificale, senza contraccambio. Nelle scienze sociali, al contrario, si avvicina allo scambio com­ merciale, con contraccambio tendente all’equivalenza tra ciò che circola. Queste due posizioni opposte hanno però un punto in co­ mune: il dono è definito soltanto attraverso ciò che circola. Gli autori osservano e paragonano ciò che circola dal donatore al do­ natario, poi dal donatario al donatore, per concludere o che è equivalente, o che è unilaterale. Spingendo questa esigenza di ‘non-contraccambio’ all’estremo, filosofi come Derrida sono stati indotti ad affermare che il dono è la figura dell’impossibile, o che la generosità ha come condizione l’ingratitudine dell’altro. Spin­ ta al limite, questa posizione arriverebbe a supporre che nel ‘vero dono’ soltanto il donatore è generoso, dato che coloro a cui dona

15 Malinowski, Argonauti del parifico occidentale. Riti magici e vita quotidiana nella società primitiva, vol. I, p. 190.

II. DONO E II. SENSO DI I DONO

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devono idealmente essere degli ingrati oppure degli incapaci a ri­ cambiare. Tale è, troppo brevemente enunciato, il duplice approccio abi­ tuale. Esso muove da un’interpretazione unica di meri fatti: la presenza o l’assenza del contraccambio nel dono. Ma questo du­ plice approccio ci sembra stia cambiando. In effetti, da ormai una quindicina d’anni sono state effettuate diverse ricerche, e il dono è stato fatto oggetto di numerosi lavori, scritti da antropologi, ma anche da filosofi, letterati, economisti, giuristi, sociologi. Il dono è diventato un tema d’interesse. In che modo viene oggi affronta­ to in questi lavori? Ricordiamo la definizione di Stark16: il dono è un trasferimento che non costituisce l’oggetto di un contratto. Ciò si ricollega alla definizione che appare nel Dizionario di sociolo­ gia di Boudon: nella sua ultima edizione, per la prima volta, si tro­ va la parola ‘dono’. Vi si può leggere: «E il giuridico che permette di distinguere i due fenomeni [dono e scambio]: il diritto di esi­ gere una contropartita caratterizza lo scambio e manca nel dono. Donare è privarsi del diritto di reclamare qualcosa in cambio»1'. Il Dictionnaire di Boudon riprende la tradizione legale18 e mo­ rale (san Tommaso) del dono. In queste definizioni, si ritrova una differenza essenziale rispetto alle concezioni presentate prima, sia per quel che riguarda la concezione ordinaria sia in rapporto a quella delle scienze sociali. Per mostrarlo, partiamo dalla defini­ zione del Dictionnaire di Boudon. In primo luogo, questa defini­ zione non afferma né l’assenza di contraccambio (concezione or­ dinaria), né che il contraccambio è equivalente (concezione delle scienze sociali). Essa si sottrae a una concezione del dono in ter­ mini di assenza di contraccambio (di dono unilaterale), che tra­ dizionalmente viene opposta al modello del dono/contro-dono degli antropologi; anzi, in realtà non dice nulla sull’effettivo con­ traccambio. Non è il suo punto di partenza. Perciò il dono non è più definito unicamente attraverso ciò che circola, cosa che era comune a tutte le definizioni precedenti. Essa non parte più dai meri fatti, perché, dal momento in cui si afferma che ci si priva vo-

16 Stark - Falk, Transfers, Empathy, Formation and Reverse Transfers, p. 272. 17 R. Boudon (et al.), Dictionnaire de sociologie, Larousse, Paris 1999, p. 68. 18 Eisenberg, The World of Contract and the World of Gift, pp. 823-824; Sérieux, Les Suc­ cessions, les Libéralités.

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L’AI I RAITIVA DEI. DONO

lontanamente del diritto al contraccambio, che si rinuncia a que­ sto diritto, si smette di definire il dono in base al fatto che ci sia b meno contraccambio - cosa che hanno in comune tanto la defi­ nizione ordinaria quanto la concezione antropologica -, e si en­ tra nel rapporto intenzionale. Notiamo che privarsi del diritto al contraccambio non significa che questo non ci sia. Può esserci oppure no. L’essenziale è che il dono non è più definito a partire da questo criterio. Certamente ciò è negativo, e implica la privazione, la rinuncia volontaria. Ma possiamo facilmente rendere positiva questa idea: se non c’è esi­ genza di contraccambio, se non c’è diritto al contraccambio, pos­ siamo dedurre che, se c’è contraccambio, sarà libero, almeno giu­ ridicamente, perché non sarà effettuato in virtù di un contratto, di un’obbligazione contratta dal donatario. Se si volesse partire dal dono per definire le modalità di circolazione, invece di fare l’inverso, cosa che necessariamente conduce a una definizione negativa del dono, potremmo dunque dire, in base a questa defi­ nizione, ma enunciando la proposizione complementare: donare è liberare l’altro dall’obbligo contrattuale di ricambiare, di scam­ biare. O ancora: donare è una forma di circolazione delle cose, una forma di trasferimento che libera i partner dall’obbligo con­ trattuale di cedere qualcosa in cambio di qualcos’altro. Già Sene­ ca lo scriveva: «un beneficio si ha quando è concesso da qualcuno che avrebbe anche potuto non concederlo»19. «Non c’è dono se non perché avrebbe potuto non essere donato»20. E all’opposto, il contratto sarebbe definito come il fatto di privare l’altro della li­ bertà di donare. Ci sono spesso buone ragioni per farlo, ma la questione non sta qui. L’importante è che il modo abituale di porre la questione è rovesciato: invece di chiedersi perché si do­ na, ci si chiede perché non si dona, perché è spesso preferibile privare l’altro della libertà di donare. Con un approccio del genere, il dono cessa di essere definito sulla base di meri fatti e la sua natura intenzionale viene rispetta­ ta. Si toglie al gesto un certo senso, un certo valore: il senso e il va-

19 L.A. Seneca, I benefici, in Io., Tutti gli scritti in prosa. Dialoghi, trattati e lettere, 2 voli., a cura di G. Reale, Rusconi, Milano 1994, vol. I, pp. 449-664; citazione dal vol. I, p. 518 [1. Ili, 19],

20 Caillé, L’Anthropologie du don, p. 201.

11. DÓNO E II. SENSO DEI. DONO

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lore commerciale ο legale, il senso che il contrailo gli procura. Il dono non viene più definito attraverso ciò che circola in una di­ rezione o nell’altra (il senso contrattuale), sia per considerarlo come unilaterale, intendendo che il fatto di ricevere dopo aver donato implica che non era un ‘vero’ dono, sia per affermare che in realtà c’è contraccambio equivalente, e dunque che il dono non esiste. L’approccio qui proposto si allontana da tali concezio­ ni estreme, che hanno però una base comune: il confronto tra ciò che circola, il confronto tra i meri fatti, diadici, il rifiuto di rico­ noscere la natura triadica del dono, per riprendere le nozioni di Descombes. Questa definizione apre la strada alla comprensione dei molteplici sensi del dono. Prendendo le mosse da queste definizioni, ciò non è affatto semplice, tutt’altro. Nel dono, lo statuto dell’intenzione non sem­ bra così chiaro come lascia intendere Descombes. Dato che lui utilizza l’esempio del tiro con l’arco, ricordiamo le raccomanda­ zioni di un maestro zen nell’arte del tiro con l’arco21. Egli insegna all’arciere a non mirare il bersaglio a obbedire alla freccia, a la­ sciarla partire, ad allontanare ogni intenzionalità salvo quella di obbedire alla freccia, cosa che non si fa con un atto di volontà, ma attraverso il proprio intero essere. Il maestro zen fa questo esem­ pio per spiegare che cosa intende con il fatto di non avere inten­ zioni. Egli punta decisamente a eliminare la distinzione fine-mez­ zo. O a rovesciarla. Fa dell’arciere un mezzo affinché la freccia realizzi il suo destino di freccia, poiché l’arciere deve sentire quando quest’ultima è pronta a scagliarsi contro il bersaglio. La volontà allora, nel senso occidentale di decisione cosciente, sa­ rebbe piuttosto un fattore di disturbo. Il maestro raccomanda l’abbandono della volontà come condizione di esercizio della vo­ lontà22. Ma a un altro livello - un meta-livello -, tutte queste racco­ mandazioni sono in ultima analisi, per il maestro zen, un eserci­ zio affinché l’arciere raggiunga una certa condizione. Egli si au­ gura qualcosa come sottomettere l’intenzione individuale dell’ar­ ciere a un’intenzione più grande, unirla alle forze dell’Essere, fondere l’intenzione individuale in una sorta di intenzione cosmi­

21 E. Herrigel, Le Zen dans l’art chevaleresque du tir à l’arc, Dervy, Paris 1994.

22 Come tra gli Alcoolisti anonimi (cfr. più avanti).

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Ι. Λ1Ί HA I ! IVA DEL DONO

ca. «Abbandona dunque ogni intenzione, esercitati nell’assenza di intenzioni e lascia che sia l’Essere a fare le cose. Questo cam­ mino è senza fine, inesauribile»23. Sono perciò anche dei mezzi. Ma perché questi mezzi siano efficaci, devono in qualche modo trasformarsi in fine. Qual è l’intenzione del dono? Donare? Comprare un regalo è procurarsi un mezzo per realizzare l’intenzione di donare. Dona­ re può essere l’intenzione ultima. Ma donare può anche essere un mezzo per un’altra intenzione. La questione del dono è sape­ re se nel donatore esiste un’altra intenzione oltre a quella di do­ nare, in particolare l’intenzione di ricevere; in altri termini, se l’intenzione di donare non è lo scopo, ma anch’essa un mezzo. E un mezzo per quale intenzione? Le possibilità sono molteplici: ri­ cevere in cambio, migliorare il benessere di chi riceve, o al con­ trario dominarlo, umiliarlo. Rispetto allo schema utilitarista, la questione è dunque sapere qual è lo statuto del dono: fine o mez­ zo nell’atto intenzionale così come l’abbiamo definito. Il dono tende ad essere un movimento spontaneo idealmente privo di ogni intenzione? Che cosa ne è della distinzione tra intenzione ed effetto? Ed è possibile, è auspicabile conoscere con certezza l’in­ tenzione nel dono? Le questioni sono numerose, ed è il motivo per cui, lungi dal semplificarci la vita, una definizione del genere ce la complica. Ma almeno sappiamo che non si tratta di trasformare il gesto del dono in una semplice connessione reale, in un semplice trasferi­ mento fisico, che è quello che indirettamente fa il modello com­ merciale. Questa definizione sottrae il dono al modello dominante di spiegazione di ciò che circola - il mercato - e permette di giunge­ re al cuore del fenomeno. Insomma, si apre la porta sul mondo del dono. E ciò che permette di risolvere numerosi falsi problemi, aporie o paradossi nella letteratura sul dono, specialmente sul te­ ma del ‘contraccambio’. Come vedremo, soltanto questa distin­ zione permette di affrontare il problema della reciprocità e tutto quel che vi gira intorno, come la questione di sapere se ricevere senza ricambiare sia necessariamente negativo. No, tutto dipende dal senso del gesto (o dall’assenza del gesto...) per i partner. Tut­ 23 K.G. Dûrckheim, Le Zen et nous, Le Courrier du livre, Paris 1976, p. 136.

II. DONO E 11. SENSO DEI DONO

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tavia, la maggior parte degli autori, persino i più lontani dal pen­ siero utilitarista o economicista, conclude che constatare che il donatore riceve in cambio significa che l’interizione di donare era di ricevere, e confondono così il senso del dono con il mero fatto che qualcosa è circolato da B ad A dopo che qualcosa è cir­ colato da A a B. Non tener conto di questa distinzione comporta incomprensioni e difficoltà in diversi autori. Anspach e il contraccambio

In un eccellente lavoro sul dono e la vendetta, Anspach pone cor­ rettamente il problema del dono24. Tuttavia, in un primo tempo, egli si concentra su ciò che circola. «Dobbiamo cercare di spinger­ ci oltre la problematica del ritorno»25, afferma, e parla di quegli «imperativi contraddittori» che sono «donare in maniera disinte­ ressata, senza pensare al ritorno» e «ricambiare in modo equivalen­ te a ciò che si è ricevuto»26. Peggio ancora, aggiunge la dimensione di garanzia del ritorno. «Se colui che riceve deve donare a sua vol­ ta, come può trattarsi di un dono?». Ma, «se si tratta di un dono, co­ me essere sicuri che colui che ha ricevuto renda il dono?»27. 24 Tale confusione tra il senso del contraccambio e il fatto del contraccambio può esi­ stere non soltanto a proposito del dono, ma allo stesso modo a proposito di tutto ciò che circola, qualunque ne sia la forma. Così, a proposito della circolazione commer­ ciale, Anspach (A buon rendere) afferma a più riprese che «non c’è l’obbligo di rende­ re, non c’è l’esigenza della reciprocità» (p. 52) nel rapporto commerciale. Di certo, «non esiste alcuna esigenza di reciprocità al di fuori della transazione in questione» (p. 53). Eppure, in una transazione commerciale c’è proprio contraccambio, e persi­ no contraccambio immediato. C’è ritorno nella transazione stessa, è evidente. Ma questo ritorno non è un dono; è uno scambio che mira all’equivalenza tra ciò che cir­ cola tra due agenti, preferendo ciascuno ciò che l’altro ha rispetto a ciò che ciascuno cede in cambio. Ecco una prima illustrazione della confusione tra il fatto del con­ traccambio e il senso del contraccambio. La transazione non mira a creare o ad espri­ mere un legame, ma al contrario mira ai beni dell’altro, con il minimo di legame, al limite facendo a meno del legame. Essa è fondata sul principio deWexit, come dice Hirschman, mentre la politica si basa sulla voice e i legami primari sulla loyalty, come abbiamo visto. Il che spiega come mai essa è tanto necessaria in un mondo in cui cir­ colano molte cose. Nel modello commerciale, lo scambio si riduce alle cose scambia­ te, mentre per ciò che riguarda il dono, come d’altronde afferma Anspach, «nello scambio c’è molto di più che non gli oggetti scambiati» (p. 93). 25 Ibi, p. 44. 26 Ibidem. w Ibi, p. 30.

1.82

L’Al i KAITIVA Dl l. DONO

Anspach ricorre in questo caso alla formulazione abituale del problema, la quale fa del contraccambio (un mero fatto) una pro­ va dell’assenza di intenzione disinteressata, e somma il doppio di­ fetto di porre il problema come se si trattasse di misurare ciò che circola (restituire l’equivalente) e come garanzia di un contrac­ cambio (assicurarsi che il donatario doni in cambio). Egli oppone in ugual misura il senso nel donatore e nel donatario come se, af­ finché il senso del dono per il donatore sia disinteressato, occorra che il senso per il donatario venga conosciuto in modo certo dal donatore. Così formulata, la contraddizione è in effetti insolubile. Essa si basa su false premesse, poiché abbiamo visto che, nel dono, non c’è una cosa simile a una regola di equivalenza, e che nessuno può mai garantirsi il contraccambio. Il dono non è un’assicurazio­ ne. Anspach oppone qui un senso possibile del dono (donare in modo disinteressato) a un mero fatto di circolazione (il contrac­ cambio). Un’analisi del genere privilegia ciò che circola28. Al contrario, egli pone meglio il problema quando si concentra sui sensi di ciò che circola, chiedendosi: «Come si può evitare che [... ] la prestazione di ritorno non appaia il semplice pagamento di un debito?». E viceversa: «Come si può evitare che, lungi dall’esse­ re recepita come un vero e proprio dono, una prestazione senza ri­ torno sembri l’imposizione di un debito non pagato?»29. Vedremo più avanti come Anspach risponde a tali domande. Qui, in ogni ca­ so, la questione dei differenti sensi di ciò che circola è ben posta. Notiamo che quel che importa è l’apparire, e non la vera intenzio­ ne. Notiamo anche l’uso delle parole ‘vero dono’. Anche se spesso è implicita, tale nozione di ‘vero dono’ è presente in tutte le di­ scussioni sul dono, come vedremo con Mauss.

Lévinas e l’impossibile restituzione

Il vero dono viene a torto definito come un dono senza contrac­ cambio. In un articolo su Lévinas, Dewitte pone perfettamente il 28 Certo, come afferma l’autore, mettendosi «dal punto di vista del circuito globale, non c’è ricambio, ma solo una continuazione dello scambio» (ibi, p. 44). E vero. Ed è importante. Ma questo non risolve il problema del rapporto interpersonale e quello del senso. 29 Ibi, pp. 4-5.

II. DONO E II SENSO DEI DONO S'

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problema. Comincia col citare Lévinas: «L’opera pensata in modo radicale è in effetti un movimento del Medesimo verso l’Altro che non ritorna mai al Medesimo. [... ] L’opera pensata fino in fondo esige una generosità radicale del movimento che nel Medesimo va verso l’Altro. Essa esige, di conseguenza, una ingratitudine del­ l’Altro. La gratitudine sarebbe precisamente un ritorno del movi­ mento alla sua origine»30. Il commento di Dewitte31 è assai perti­ nente per il nostro discorso. «La generosità [...] esige l’ingratituidne dell’Altro. In mancanza di questa ingratitudine [...] la ge­ nerosità [...] non sarebbe più una vera generosità»32. Dewitte prende in esame questa idea inaccettabile, e si chiede ciò che Lé­ vinas avrebbe potuto scrivere al suo posto: «Avrebbe potuto dire per esempio: “l’opera pensata fino in fondo esige l’accettazione del rischio di una ingratitudine dell’Altro”, “esige che sia assunto accettato in anticipo il rischio di una non-reciprocità”»33. Dewitte introduce l’idea di rischio di non-restituzione. L’idea è importante, ma è sufficiente? Accontentandosi dell’idea di ri­ schio di non-restituzione, come non concludere che Dewitte assu­ me lui stesso implicitamente l’idea che il mero fatto del contrac­ cambio costituisce la prova che il dono non conteneva un’inten­ zione generosa, che era fatto per il contraccambio, che era il sen­ so di questo gesto? Per di più egli crede implicitamente che il do­ no sia sempre fatto in vista del contraccambio (pur accettando il rischio della sua assenza). Il senso del dono sarebbe dunque il contraccambio. Se Dewitte si augura di prendere le distanze ri­ spetto a questa idea, non gli basta dire che occorre assumere il ri­ schio del non-contraccambio. Bisogna andare più in là e afferma­ re che, anche se c’è contraccambio, l’osservatore non può con­ cludere che il dono era fatto per questo. Non può dedurre l’in­ tenzione non generosa basandosi sul mero fatto del contraccam­ bio. Un’intenzione non può essere dedotta da un mero fatto. Nel dono, bisogna senza dubbio assumere il rischio del non-contraccambio; ma bisogna considerare anche il contraccambio. In altri

30 Lévinas, citato da J. Dewitte, Un beau risque à courir, «Cahiers d’études lévinassiennes», 1 (2002), pp. 55-76; citazione a p. 64 (nota). 31 Ibi, p. 65.

32 Ibidem. 33 Ibidem.

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l.’ATTRATTIVA DEL DONO

termini, non bisogna fare del non-contraccambio una condizione del dono, salvo poi confondere il livello del mero fatto con il li­ vello intenzionale. Un investitore può fare un cattivo investimen­ to e non avere nessun ritorno. Nessuno concluderà che ha fatto un dono. All’inverso, numerosi doni implicano un contraccam­ bio non voluto dal donatore. Il donatore può ricevere in cambio ed essere generoso; può anche non ricevere e non essere genero­ so. I due aspetti del fenomeno non sono legati. Il senso e ciò che circola non stanno in un rapporto univoco. E vero che, in ogni dono, c’è rischio. Ma non si tratta del rischio del non-contraccambio. Più in generale - e più profondamente - si tratta del ri­ schio della relazione, di cui il contraccambio non è altro che una possibile manifestazione circoscritta. Riprendiamo il commento di Dewitte a Lévinas: invece di scri­ vere che la generosità «esige che sia assunto e accettato in antici­ po il rischio di una non-reciprocità»34, Lévinas avrebbe potuto, avrebbe dovuto scrivere molto semplicemente che la generosità esige di non puntare al contraccambio. Perché chi dice «rischio il non-contraccambio» suppone, lascia intendere ancora una volta che lo scopo del donatore era di ricevere. Cosa che è del tutto possibile. Ma se era il suo unico scopo, era veramente generoso ‘fino in fondo’? Certo, si può ammettere, come scrive Dewitte, che «la vera generosità può accompagnarsi alla speranza di una condivisione e di un’intesa, dato che l’importante è assumere il ri­ schio di un gesto che resterà a senso unico»35. Ciò significa affer­ mare che l’idea di accettare il rischio di non-contraccambio è già qualcosa di molto importante nel dono, è la condizione minima per parlare di dono. Ma a partire da qui, bisogna andare oltre e distinguere il contraccambio dal senso del gesto, separare nel pensiero del dono il senso del gesto e ciò che circola. Non basta rinunciare alla «garanzia di reciprocità»36 per essere considerato generoso. Il gesto del dono sarà più o meno generoso nella misu­ ra in cui, molto semplicemente, non è posto con questo scopo; nella misura in cui è posto indipendentemente dal fatto del con­ traccambio. Ma, così facendo, non ci si può assicurare nemmeno

34 Ibidem. 35 Ibi, p. 70. 36 Ibi, p. 66.

IL DÓNO E IL SENSO DEI DONO j,

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tore agisce in conformità alle apparenze, quale pertinenza può avere - al limite - la nozione di intenzione sul piano non mora­ le, ma sociologico? I giuristi utilizzano di solito questa nozione di apparenza per uscire dal problema dell’intenzione: ‘apparen­ za di conflitto di interessi’. Al limite, l’apparenza raggiunge il reale, come mette in evidenza la prostituta che dice al suo clien­ te: «Che cosa t’importa che goda o meno, se ti do l’impressione di godere?». La definizione di tipo giuridico del dono ha il vantaggio di ti­ rarci fuori dalla problematica dell’intenzione senza per questo ca­ dere nella trappola dell’interpretazione del senso, a partire dalla sola osservazione di ciò che circola in ciascuna direzione. I giuri­ sti considerano come qualcosa che va da sé ciò che per dei filoso­ fi come Derrida e Lévinas costituisce il problema maggiore, ovve­ ro l’aporia del dono, la figura delfimpossibile per Derrida. Una volta osservato ciò che circola in una direzione e nell’altra, dal do­ natore al donatario, dal donatario al donatore, dal donatario a un terzo, chi vuole comprendere il senso del dono non può fermarsi lì; non può dedurne il senso del dono, questo senso che si riduce allora necessariamente alla risposta a una sola domanda che ri­ guarda l’intenzione: quella del contraccambio. Ma perché questa insistenza nel cercare una prova dell’inten­ zione in base al solo fatto del contraccambio, mentre abbiamo vi­ sto che possono benissimo esserci diverse intenzioni, assenza o presenza di contraccambio, e che in poche parole tutto ciò non prova niente? Perché questa correlazione automatica attuata da quasi tutti gli osservatori e analisti del dono tra il confronto tra ciò che circola in ciascuna direzione (dono con o senza contraccam­ bio) e il senso di ciò che circola, così da arrivare all’equazione: non-contraccambio = non-intenzione di contraccambio; contrac­ cambio = intenzione di contraccambio? L’intera problematica del dono si riduce allora a questa idea che il confronto tra ciò che cir­ cola tra gli agenti è il principale - e in genere l’unico - indicatore dell’interpretazione del senso di ciò che circola. Questa affermazione può sembrare sorprendente, persino in­ giusta. Tuttavia, passando in rassegna diversi autori, abbiamo con­ statato che quasi tutti, in un momento o nell’altro e a gradi diver­ si, adottano questo ragionamento, che fanno tutti questa correla­ zione, il che li conduce all’ impasse del dono puro. L’unico modo di uscirne allora è distruggere ciò che si dona. E a questo genere

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Ι.’ΛΊΊ RA'I'I'IVA DEL DONO

di assurdità che i partner del dono sono condotti quando loro stessi fanno questa correlazione, come nota Mauss a proposito del potlàc, dove il donatore arriva a «distruggere, per non dare nean­ che l’impressione di desiderare qualcosa in cambio»5. Il che giun­ ge a eliminare il dono, a fare in modo che più niente circoli vera­ mente per dimostrare la propria intenzione ‘pura’6.

Ingenuità Si può sollevare un’obiezione più importante, che ci condurrà a concludere che non solo è impossibile conoscere l’intenzione, ma che questa incertezza è essenziale al dono. Di che obiezione si tratta? Più avanti in questo capitolo vedremo che nel dono esiste per di più l’ingiunzione di ricambiare (di donare a propria volta), e che tale ingiunzione è conosciuta tanto dal donatore quanto dal donatario, e che entrambi sanno che l’altro la conosce. L’idea di ‘contraccambio’ non può dunque essere assente nel donatore, salvo nella figura estrema dell’ingenuo che non resterà tale a lun­ go, dato che si renderà conto del fatto che riceve quando dona. Siccome colui che dona sa che riceverà, che cosa c’è di più facile, per lui, di ritenere che dona senza idea di contraccambio? Questo ragionamento vale anche se constata di non ricevere. Non si ap­ plica a un evento particolare, ma alla constatazione che in gene­ rale il donatore, di regola, di norma, riceve. Il sospetto è dunque possibile anche in assenza di contraccambio. E la constatazione del contraccambio in fondo non fa altro che confermare tale so­ spetto. Anspach considera risolto il problema concependo il dono co­ me qualcosa che è al servizio della relazione: «Se ciascuno dà per mantenere la relazione piuttosto che per ricevere un ritorno dal­ l’altro - se ci si attende questo ritorno in qualche modo dalla rela­ zione- non c’è falsa ingenuità nel far come se le prestazioni fosse­ ro offerte gratuitamente al livello degli individui»7. Nella misura in cui il donatore riceve, in che cosa il fatto di ricevere dalla rela­ 5 Mauss, Saggio sul dono, pp. 61-62. 6 Notiamo en passant che questa preoccupazione può dunque essere presente anche nel dono cerimoniale. 7 Anspach, A buon rendere, p. 89.

ΙΑ RECIPROCITÀ E II. SENSO 1)1 l*ì>ONO

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zione o dall’altro fa una differenza e costituisce una soluzione? L’osservatore potrà sempre concludere che ha donato per riceve­ re. Il che spiega perché le società hanno inventato dei rituali, dei meccanismi per tentare di eliminare il sospetto. La società mo­ derna ha inventato un personaggio straordinario, Babbo Natale, che gioca questo ruolo (tra gli altri). Egli fa in modo che i genito­ ri si assicurino di non ricevere niente in cambio, nemmeno la gra­ titudine e la riconoscenza, che vanno a questo passante, a questo donatore evanescente. Come osserva Anspach, «ciò garantisce ai genitori la spontaneità della loro generosità»8. Il donatore si assi­ cura che il suo unico piacere sarà di essere estasiato dallo spetta­ colo del piacere del donatario, senza che questo piacere costitui­ sca un segno di riconoscenza per lui. I genitori si assicurano così non solo il ‘non-contraccambio’, ma anche il non-sospetto circa il desiderio di contraccambio, dal momento che non compaiono come i donatori. Il destinatario, se restituisce, restituirà a un altro rispetto a colui che ha donato, dunque non c’è più dilemma, la purezza del dono è assicurata. Babbo Natale è una risposta per­ fetta al dilemma del contraccambio. Il rischio della relazione Sfortunatamente questa risposta è poco generalizzabile. Questo problema non può dunque essere risolto soltanto facendo la di­ stinzione proposta da Anspach tra ricevere dalla relazione e rice­ vere dall’altro. Come essere sicuri della qualità dell’intenzione? Questa è la domanda che ossessiona gli analisti del dono moderno. Qualun­ que sia la risposta, essa si basa sempre sul contraccambio. Ora, l’assenza o la presenza di un contraccambio non significa niente in sé quanto alla qualità dell’intenzione. Il che porta a chiedersi: e se fosse la domanda stessa a porre il problema? E se fosse non pertinente? Se non solo non si potesse, ma nemmeno si dovrebbe cercare di essere sicuri della qualità dell’intenzione, perché il do­ no si situa nel registro della fiducia e non della certezza? Ci sareb­ be dunque sempre un possibile sospetto. E nella ‘natura delle co­ 8 Ibi, p. 83.

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Ι.’ΑΊΊ RAi riVA DEI. DONO

se’, quando si tratta di dono. Voler trovare una risposta a questa domanda significa tornare ad adottare un approccio determini­ sta: ancora una volta, significa voler eliminare l’incertezza. Signi­ fica voler eliminare quel salto nell’ignoto che costituisce il dono, quel rischio della relazione che è inerente al dono. Ricercare le condizioni del dono puro equivarrebbe in fin dei conti a voler cercare le condizioni di un contraccambio garantito. In entrambi i casi, significa cercare le condizioni perché il fenomeno studiato non esista più! La distinzione tra ciò che circola e il senso di ciò che circola non consente di essere certi della purezza dell’intenzione. Ma es­ sa risolve il problema della purezza dell’intenzione, da una parte, affermando che il fatto della presenza o dell’assenza di contrac­ cambio non dice nulla sull’intenzione, e, dall’altra, stabilendo che nessuno può essere sicuro della purezza dell’intenzione. Il dono suppone il rischio: rischio del non-contraccambio, senza dubbio, al livello più basso. Ma più profondamente, il dono sup­ pone l’accettazione del rischio del senso di ciò che circola. Il so­ spetto dell’interesse resterà sempre potenzialmente presente nel dono, e questo indipendentemente dal contraccambio. Soprat­ tutto non bisogna correre il rischio calcolato su questo senso pos­ sibile del dono. Il senso del dono non è mai donato. Il che spiega perché l’obiezione che si riferisce all’ingenuità si risolve nel fatto che non si è mai sicuri dell’intenzione. La risposta ultima è nella libertà del dono. Queste considerazioni permetteranno di comprendere meglio la natura della reciprocità nel dono.

La questione della reciprocità

Come mostra Noonan nel suo immenso lavoro storico sulla cor­ ruzione a partire dalla Bibbia fino ai nostri giorni, la questione della reciprocità e del suo rapporto con il dono è antica quanto il dono stesso e dunque, forse, quanto l’umanità. La distinzione ap­ pena elaborata tra ciò che circola e il senso di ciò che circola per­ mette di chiarire tale questione della reciprocità e delle aporie che essa stessa sembra implicare. Non siamo più imbrigliati nel di­ lemma che se c’è contraccambio non è un dono, o non è un ‘ve­ ro’ dono. Il dono può essere reciproco, e tale questione può ora

LA RECIPROCITÀ E IL SENSO DEIgpONO

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porsi serenamente. Uno dei modi per mettere in evidenza l’im­ portanza del dono, di quel che possiamo chiamare \" appeal del dono’, in opposizione all”appeal del guadagno’, è proprio mo­ strare l’importanza del contraccambio^ Che cos’è la reciprocità? Questa nozióne può essere intesa in diversi modi, alcuni molto lontani dallo spiritò del dono, come quello che vede nella reciprocità una struttura simmetrica di equivalenza a lungo termine tra quel che è donato e quel che è ‘ritornato’. Dono qualcosa e ricevo l’equivalente. Ora, la reversi­ bilità non è la reciprocità. Per pensare il dono, bisogna prendere le distanze da questa idea. In questo preciso senso, la reciprocità è persino quasi estranea al dono, dato che si riferisce a un altro pa­ radigma, quello della simmetria, dell’equivalenza commerciale. In una classica opera, Sahlins ha esposto tale concezione del rap­ porto tra dono e reciprocità. «Il grado di distanza sociale tra colo­ ro che scambiano condiziona il modo di scambio»9. Più il legame è intenso, più la reciprocità è lontana e indefinita. E viceversa. Di conseguenza, ciò che circola tra estranei prenderà la forma del­ l’equivalenza commerciale, mentre l’intimo corrisponde all’uni­ verso del dono10. Questa regola si applicherebbe in tutti i tipi di società. In questa concezione, l’equivalenza commerciale diventa il tipo ideale della reciprocità: il mercato caratterizza il legame minimo, fondato sull’equivalenza. Ecco una regola generale, che stabilisce un rapporto tra il le­ game e ciò che circola. Tale rapporto lineare inverso sembra qua­ si andare da sé, e contiene evidentemente una gran parte di ve­ rità. Più il legame tra due persone è intenso, più il rapporto tra ciò che circola sarà, come scrive Shalins, ‘generalizzato’, nel senso di disteso, allentato, impreciso. Ma questa regola incontra un ostacolo enorme. Essa si scontra con il dono umanitario, nel qua­ le proprio il rapporto tra l’intensità della relazione e il carattere disteso della reciprocità tra donatore e donatario viene rovescia­ to. Il dono agli sconosciuti si caratterizza in effetti come un lega­ me molto debole, il più delle volte inesistente, tra il donatore e il destinatario, e come uno scarto massimo di reciprocità. C’è in

9 Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, p. 200. 10 DJ. Cheal, The Gift Economy, Routledge, New York-London 1988.

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Ι,'ΛΊ I ΗΑΊΊ ΐνΛ DEL DONO

questo caso un salto quantico, poiché il legame meno intenso è contemporaneamente il più squilibrato, apparentemente il più unilaterale, non reciproco. Quel che Shalins mette indirettamen­ te in evidenza con il suo continuum è ciò che la letteratura antro­ pologica non è mai riuscita a integrare: il dono così come lo si in­ tende abitualmente, la fdantropia, il dono umanitario, che le scienze sociali hanno allora la tendenza a non considerare come un dono. Come è possibile il dono agli sconosciuti? Senza dare una risposta immediata a questa domanda, sottoli­ neiamo che, pur interessandosi al senso di ciò che circola (men­ ziona per esempio il fatto che «lo spirito dello scambio oscilla dal­ la premura disinteressta per l’altra parte all’egoismo, passando at­ traverso la mutualità»11), anche Shalins basa la sua argomentazio­ ne sul confronto tra ciò che circola, sull’opposizione reciprocitàunilateralità. La reciprocità definita come ricerca di equivalenza è per lui una categoria generale del dono, mentre costituisce una categoria marginale, limite. Tale equilibrio, lo si è visto, definisce piuttosto la fine del dono e il passaggio a un altro tipo di relazio­ ne. L’equivalenza è l’uscita dal dono, per entrare nel mercato, o nella vendetta, dominio del ‘regolamento di conti’... La reciprocità propria del dono deve dunque essere definita con maggior precisione. In primo luogo, date le caratteristiche del dono presentate finora (tendenza all’eccesso, allo squilibrio, ecc.), tale reciprocità è asimmetrica. Il dono non è mai equilibra­ to in un momento X. Come mostreremo nel prossimo capitolo, il dono è un sistema di debito, che, a differenza del debito econo­ mico, può essere positivo o negativo. La fine del debito è la fine del dono. Quel che bisogna intendere con reciprocità nel conte­ sto del dono non è dunque il fatto dell’equivalenza tra le cose che circolano, e nemmeno la ricerca, da parte dei partner, di un’equi­ valenza del genere. Ciò che in compenso è stato rilevato è la presenza di una forza che incita colui che riceve a donare a sua volta (e non a restituire, dato che questo termine contiene la nozione di equivalenza e per­ sino di identità, come quando ‘rendiamo’ un oggetto preso a pre­ stito) a colui che gli ha donato oppure a un terzo. Il fatto di rice­

11 Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, p. 197.

ΙΛ RECIPROCITÀ I II. SENSO DEIHlONO

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vere qualcosa sotto forma di dono provoca in colui che riceve una voglia di donare a sua volta, e non di dirsi: «Ah, che buon affare!», come prevede la teoria dell’interesse. Il dono porta con sé un impul­ so a donare in colui che riceve. Tale è il principio di reciprocità pro­ prio del dono. Ciò è molto importante, e costituisce una forza sociale ele­ mentare. Numerosi autori vi si sono soffermati. Mauss ha analiz­ zato la forza di questa legge che obbliga l’altro a donare, soprat­ tutto nelle società arcaiche. Ma la forza del principio di recipro­ cità va ben al di là del dono agonistico descritto dagli etnologi. La norma di reciprocità - ha scritto Gouldner12 - è forte come il tabù dell’incesto, ed è presente oggi come ieri, da noi come nel­ le società esotiche. La norma di reciprocità è talmente essenziale ai rapporti umani che storicamente, secondo Noonan, c’è stato bisogno dell’intervento di un terzo esterno, di un Giudice, per far accettare il fatto che certe pratiche di reciprocità - tangen­ te... - vengano considerate come riprovevoli. E così che è nata l’idea di corruzione13. I suoi effetti economici sono decisamente notevoli14. L’influenza della reciprocità può essere messa in evidenza os­ servando la sua presenza nel tipo di dono in cui meno ce la si aspetta, nel dono definito a priori come unilaterale, e dunque non reciproco: filantropia, dono umanitario, donazione di organi... Diamone qualche illustrazione.

Donazione di organi Abbiamo osservato la volontà di donare, nell’ambito dei trapianti, nelle persone che hanno ricevuto un organo15. In questo caso, l’a­ spetto più interessante è il fatto che il desiderio di donare dopo aver ricevuto un dono di tale importanza - letteralmente un dono 12 A.W. Gouldner, The Norm ofReciprocity, «American Sociological Review», 25 (1960), 2, pp. 161-178. I3J.T. NOONAN, Jr, Bribes, Macmillan Publishing Company, New York 1984, p. XX.

14 G.A. Akerlof, Gift Exchange and Efficiency-Wage Theory: Four Views, «American Eco­ nomics Review», 74 (1984), pp. 79-83; E. Fehr- S. Gächter, Reciprocity and Economics: The Economic Implications of Homo Reciprocans, «European Economie Review», 42 (1998), pp. 845-859. 15 J.-T. Godbout, Le Don, la Dette et l'identité, Boréal/La Découverte, Montréal-Paris 2000.

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L’ATTRATTIVA DEL DONO

di vita, per un trapianto cardiaco - non si indirizza verso coloro che hanno reso possibile il dono (la famiglia del donatore), ma verso altre persone che hanno vissuto la medesima esperienza. I trapiantati affermano di avere un debito eterno verso il donatore e la sua famiglia, ma desiderano donare ad altri. Ci troviamo qui molto lontani dalla reciprocità concepita come un fenomeno di bilanciamento tra ciò che è donato e ricevuto, dato che il fatto di ricevere innesca nel donatario una tendenza a donare che non si dirige verso il donatore. Aiuto di emergenza

All’epoca della tempesta di ghiaccio a Montréal (1997), prima evocata, una delle regioni del Québec che ha aiutato di più i resi­ denti della zona colpita è stata Saguenay. Quando agli abitanti di Saguenay veniva chiesto il senso del loro gesto, rispondevano che qualche anno prima avevano ricevuto molti aiuti dagli abitanti di Montréal, in occasione di gravi inondazioni, ed erano tanto più contenti di aiutarli oggi. Nello stesso ordine di idee, il caso seguente16 illustra ancora di più la forza di tale principio. Nel 1985 la Croce Rossa d’Etiopia (forse il paese più povero del pianeta in questo momento) invia un assegno di 5000 dollari al Messico per aiutare le vittime di un terribile terremoto. La ragione: nel 1935 il Messico aveva aiutato l’Etiopia invasa dall’Italia fascista.

Filantropia

Da qualche anno, diverse organizzazioni hanno preso l’abitudi­ ne di accompagnare la loro domanda di dono con un piccolo presente simbolico. Così l’UNICEF invia con la sua domanda dei francobolli e un calendario, precisando: «Che decidiate o meno di versare un contributo, conservate questi francobolli e questo calendario come regalo»17. Cialdini ha rilevato che un gesto si­ mile aumenta in modo significativo il numero dei contributi. Per esempio, l’Associazione americana dei Veterani ha raddop­ piato il numero di donatori inviando, insieme alla domanda,

16 R.B. Cialdini, Influence. Science and Practice, Allyn and Bacon, Boston 2001, p. 21. 17 Lettera della direzione generale, UNICEF Québec, novembre 2005.

LA RECIPROCITÀ I Il SENSO IH I »INO

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degli autoadesivi con il nome e l’indirizzo dell’eventuale dona­ tore18. Oggi questi tipi di ‘regali’ sono talmente abituali che l’efficacia di un simile invito a donare probabilmente è diminuita. Nondi­ meno, questo caso-tipo illustra in maniera estrema il fatto che la reciprocità del dono non ha granché a che vedere con la ricerca dell’equivalenza. Sarebbe decisamente ridicolo voler confrontare il valore monetario del ‘regalo’ puramente simbolico fatto dal­ l’organizzazione con l’eventuale dono che farà il donatore. Co­ munque, esso manifesta la presenza di quella forza che incita a donare quando si è ricevuto, proprio nel cuore di ciò che nor­ malmente viene considerato come un dono unilaterale, e dunque non reciproco. La forza di questo principio può anche essere utilizzata, e per così dire dirottata, per obbligare l’altro a donare. E un fenomeno presente in tutti i tipi di società. Così Elster19 cita un antropologo (Turnbull) che descrive il dono presso gli Ik. I destinatari accetta­ no i doni loro malgrado e si sentono nonostante tutto in obbligo di donare a loro volta. Il dono - conclude l’autore - costituisce dunque essenzialmente un mezzo per indebitare gli altri. Si tratta di un fenomeno esotico sconosciuto nelle nostre società? Qual­ che anno fa Cialdini ha osservato il comportamento dei seguaci di Krishna all’aeroporto di Toronto. Offrivano una rosa ai passegge­ ri. Questi ultimi si sentivano obbligati ad accettarla e a dare del denaro in cambio, anche se, il più delle volte, buttavano il fiore nella prima pattumiera che incontravano; fiore che il seguace di Krishna recuperava per riciclarlo nel ciclo del dono20. Tali osser­ vazioni illustrano senza dubbio la forza dell’obbligo di ricambia­ re, ma anche quella di ricevere. Quando, in un primo tempo, il passeggero rifiuta il fiore, il seguace gli dice: «Ma, signore, è un dono, è per lei». Allora sono molto pochi quelli che si permetto­ no di rifiutare, a meno che non siano già stati fermati più volte. Che sia tra gli antichi o negli aeroporti moderni pieni di uomi­ ni d’affari, di cui si può supporre che siano imbevuti, per l’ap­

18 Cialdini, Influence. Science and Practice, p. 30.

19J. Elster, Selfishness and Altruism, in Mansbridge (ed.), Beyond self-interest, pp. 44-52; citazione a p. 48.

20 Cialdini, Influence. Science and Practice, pp. 25, 31-32.

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ι.'λγι raitiva del dono

punto, del ‘senso degli affari’, la forza del principio di reciprocità è palese e si applica persino a un dono non voluto. Il fatto è che «la relazione di dono possiede il sorprendente potere di instaura­ re un legame più forte dei sentimenti che lo accompagnano»21. Questa profonda osservazione di Hénaff a proposito del dono ce­ rimoniale si applica in realtà ad ogni dono. Ci ritorneremo.

In affari, niente amici

Tutto sommato, persino all’interno del mondo degli affari, dove l’interesse sarebbe tutto quel che conta, il principio di recipro­ cità, nel senso in cui lo intendiamo qui, è importante e può aver­ la vinta sull’interesse. E ciò che mettono in evidenza i risultati di una ricerca in cui è stata confrontata ‘l’efficienza’ rispettiva del dono e del contratto commerciale ordinario, motivato dall’inte­ resse. Lo stesso questionario è stato inviato a due insiemi di per­ sone. Nel primo caso, un assegno di 5 dollari accompagnava la ri­ chiesta di rispondere al questionario, essendo ognuno libero di ri­ spondere o meno, pur tenendosi i soldi; nel secondo caso, alla stessa richiesta di rispondere al medesimo questionario era unita invece una promessa firmata di restituzione di un assegno di 50 dollari nel caso in cui la persona avesse risposto al questionario. Gli autori hanno rilevato che il regalo di 5 dollari accresceva il tas­ so di risposte due volte di più dell’assegno di 50 dollari inviato do­ po, e perciò equiparato dal destinatario a un contratto22. Fatti per donare? Come dimostrano questi esempi, tale forza - un incitamento, un invito - non è spiegabile a partire dall’interesse. In tutti questi casi-tipo, donare a propria volta non rende nulla. Chi lo sa: forse siamo fatti per donare. Questa idea ha da poco avuto un primo fondamento biologico. In un articolo pubblicato nel 2002, alcuni ricercatori dell’Emory University (Atlanta) riportano i risultati di una recente ricerca. Partendo dal gioco del dilemma del prigion­

21 Hénaff, Il prezzo della verità, p. 208.

22 Cialdini, Influence. Science and Practice, p. 25.

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α reciprocità e ii. senso dèi

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iero, in cui i giocatori hanno la possibilità sia di giocare in maniera egoista, sia di cooperare (cfr. cap. 12), viene osservato quel che accade nel cervello dei giocatori con le tecniche più recenti della risonanza magnetica. Con loro grande sorpresa, i ricercatori hanno constatato che il comportamento altruista at­ tiva le stesse regioni del cervello che si attivano nel caso delle esperienze di piacere come la cocaina, il cioccolato, ecc. Siamo cablati per cooperare, concludono i ricercatori. «We are wired to cooperate»23. La reciprocità è una delle forze sociali elementari che, come l’interesse o la giustizia, rendono conto della circolazione delle cose al di fuori della pura costrizione fisica o della minaccia. Da dove viene questa forza che spinge a donare quando si è ricevuto? E se venisse dal fatto che l’essere umano non comincia dal dona­ re, ma dal ricevere? La vita non è (ancora) prodotta, non è com­ prata; è donata. Più precisamente, è trasmessa. E per molti anni dopo la nascita, il bambino continua a ricevere. Riceve infinita­ mente di più e più a lungo di qualsiasi altra specie animale. Do­ nare è trasmettere e, dunque, il primo dono che viene fatto con­ siste già in un ricambiare. Solo un Dio può iniziare il dono, può sfuggire alla reciprocità. Noi non possiamo fare altro che donare a nostra volta. Gli altri doni sono forse una ripetizione di questo dono primordiale della nascita, che fa di noi degli esseri in debi­ to, degli esseri di debito.

23 N. Angier, Why We’re So Nice: We’re Wired to Cooperate, «New York Times», 23 luglio 2002. Su questo punto, cfr. anche E. Fehr - U. Fischbacher - Μ. Kosfeld, Neuroeco­ nomics Foundations of Trust and Social Preferences: Initial Evidence, «The American Eco­ nomic Review», 95 (2005), 2, pp. 346-351; T. Singer - E. Fehr, The Neuroeconomics of Minds Reading and Empathy, «The American Economic Review», 95 (2005), 2, pp. 340345.

S'

CAPITOLO SETTIMO

Il dono e il debito

Per quanti sforzi facciamo, la più lunga vita ben spesa non ci permetterà mai di ricambiare altro che una porzione im­ percettibile di ciò che abbiamo ricevuto1.

L’individuo moderno, lo si è visto nella prima parte, si augura di li­ berarsi da ogni debito. Da dove viene questa visione negativa del debito? In Genealogia della morale, Nietzsche descrive così l’origine del debito e il legame con la colpevolezza e l’errore: «L’umanità ha ricevuto, insieme con l’eredità delle divinità della stirpe e della tribù, anche quella del peso di debiti non ancora soddisfatti e del desiderio di estinguerli»2. «Quel basilare concetto morale di ‘col­ pa’ ha preso origine dal concetto molto materiale di ‘debito’»3. E l’ancestrale debito negativo che sta alla base dei rapporti di dipendenza e di sfruttamento in tutte le società. Tale debito tradi­ zionale rimane ancora oggi in certi settori e in certi paesi. Esso prende la forma dell’assistenza e del clientelismo, ed è spesso ba­ sato sulla protezione4. Il debito economico liberatore

Ma «che cosa ne è di questo debito della vita quando si impone la forma della società politica? [... ] Lo Stato assume su di sé il debito 1 A. Comte, Catéchisme positiviste, par Pierre Arnaud, Garnier-Flammarion, Paris 1966, p. 238. 2 Nietzsche, Genealogia della morale, p. 80.

3 Ibi, p. 51. 4 Questo rapporto sociale è ben studiato da Lanna (1995), in Brasile, in un’opera in­ titolata per l’appunto II Debito divina. M.D. Lanna, A Divida Divina. Troca e Patronagem no Nordeste Brasileiro, Editoria da Unicamp, Campinas-SP (Brasil) 1995.

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Ι,'ΑΙΊ RAITIVA DEL DONO

Questo trasferimento del debito di vita in capo all’istituzione sovrana [...] è [...] l’origine regale del diritto di grazia»5. Storica­ mente, scrive Commons, «la maggior parte del genere umano vive­ va in uno stato caratterizzato dall’impossibilità di liberarsi del debi­ to e la libertà venne con la comparsa graduale dei debiti di cui ci si poteva liberare»6. La modernità, come ha mostrato bene Weber nella sua opera sulle città nel Medioevo, fu una liberazione dal si­ stema di debito feudale7. Essa ha prodotto «la scoperta che la tra­ sferibilità delle obbligazioni poteva essere distinta dalle persone fi­ siche delle parti che avevano creato l’obbligazione. [... ] queste pro­ messe tra eguali [... ] possono esse stesse essere considerate [... ] co­ me merci [...] essendo aspettative fondate sulla fiducia nelle pro­ messe dei poteri pubblici, dei giudici, degli uomini d’affari»8. La modernità ci ha dunque liberati da questa ancestralità negativa. Tale liberazione è stata resa possibile soprattutto gra­ zie alla moneta. L’economia monetaria è un sistema di debito, ma di debito misurabile, trasferibile e, in questa misura, inclu­ sivo di una possibilità di liberarsene9. Ciò spiega perché, come scriveva Tocqueville, «a misura che le condizioni si eguagliano, si incontra un numero crescente di individui [...] che non de­ vono niente a nessuno»10. Tocqueville esprime così l’ideale di liberazione dell’individuo moderno, fondato su uno straordi­ nario sistema di debito economico. Perché questo individuo non deve niente a nessuno? Perché, grazie alla moneta, paga continuamente i suoi debiti. La moneta «consiste interamente in riconoscimenti di debito per beni e servizi. [...] [Compran­ do un libro, il consumatore rimborsa] redattori, grafici, corret­ tori di bozze, tipografi, camionisti, venditori»11. «Il denaro rin­ 5 Hénaff, Il prezzo della verità, pp. 327-328. 6 Ciato da Maucourant, Au coeur de l’économie politique, la dette. L’approche de John R Commons (1924), p. 215.

7 Weber, La città. 8J.R. Commons, Ifondamenti giuridici del capitalismo, tr. it. di E. Pisani, Il Mulino, Bolo­ gna 1981, p. 339; citato da Maucourant, Au coeur de l’économie politique, la dette. L’ap­ proche deJohn R Commons (1924), p. 217. 9 Ibi, p. 213.

10 Citato da S. Kalberg, Tocqueville, Weber et la culture politique de la démocratie américaine, «La Revue du MAUSS», 14 (1999), pp. 302-324; citazione a p. 311. 11 G. Gilder, Ricchezza e povertà. Il valore sociale e morale della ricchezza, tr. it. di G. Salinas, Longanesi, Milano 1982, p. 42.

IL DONO !·. II. DI Iti l o

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via alle prestazioni altrui»12. «Lo scambio di equivalenti [...] è un rapporto che si annulla, si neutralizza nel momento stesso in cui si realizza», scrive Goux riferendosi a una specie di «reci­ procità istantanea»13. Il mercato è un meccanismo straordinario di liquidazione del debito. Nella misura in cui il debito è immediatamente quantifi­ cabile, esplicito, visibile, preciso e le sue condizioni di pagamento sono previste, ne segue che saldare i propri debiti non è mai stato così facile. «Viene da chiedersi se tutto l’enorme movimento del­ l’economia moderna [...] non sia in definitiva l’ultimo e il più ra­ dicale strumento di farla finita [...] con il debito»14. Il debito commerciale possiede dunque all’inizio un carattere emancipatore. Anche se il sistema economico delle merci è anche un sistema di debiti e di crediti, resta comunque il fatto che que­ sto sistema elimina il debito intangibile, il debito di vita negativo. Anche se il debito può essere a lungo termine, i termini, appunto, sono fissati, e tutto viene ricondotto all’immediato da un insieme di precisi meccanismi: tasso d’interesse, scadenza, garanzie, tutte condizioni che contemporaneamente minimizzano il rischio e at­ tualizzano il debito, cioè lo riportano all’istante presente. Non si tratta più di un debito eterno. Il sistema economico libera dal de­ bito non perché lo elimini, ma perché lo traduce continuamente in una quantità precisa in un momento preciso. In qualche misu­ ra, un debito fuori dal tempo. Tale dispositivo comporta tuttavia degli effetti perversi. E ben evidente, infatti, che contemporaneamente e collettivamente crea e mantiene un sistema incredibile di debiti e di crediti. Teo­ ricamente è possibile liberarsene. Ma non tutti hanno il medesi­ mo accesso all’ingrediente indispensabile per farlo: il denaro. Inoltre, nella misura in cui rende alcuni più dipendenti dalle de­ cisioni degli altri, questo sistema è profondamente iniquo. Pen­ siamo soltanto alle monocolture del Terzo mondo destinate ai paesi sviluppati. Il paese compratore può, da un giorno all’altro, decidere per un prodotto sostitutivo, cosa che per il paese pro­ duttore è una rovina. In questo senso, tale sistema vincola forse

12 Simmel, Filosofia del denaro, p. 489.

ls Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 295. 14 Hénaff, Il prezzo della verità, p. 36.

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L’ATTRATTIVA DEL DONO

lauto quanto le prestazioni totali descritte da Mauss, con l’unica differenza che la dipendenza è spesso unilaterale. Inoltre, il lega­ me è fondato sull’importanza delle cose, dei beni che circolano, mentre le prestazioni di Mauss sono fondate sull’importanza del­ le relazioni. Il sistema economico moderno ha trasferito la dipen­ denza delle persone alle cose. Ancora, in questo sistema l’obiettivo è sdebitarsi il più veloce­ mente possibile, e il rischio è minimo per il creditore, che prende tutte le precauzioni e le garanzie possibili per assicurarsi di venire rimborsato. La restituzione sotto forma di saldo (con interesse) è non soltanto inerente a questa concezione del debito, ma è impe­ rativa: il creditore può pignorare i beni del debitore se questi non si sdebita secondo i termini e alle condizioni previste. Vista da questa prospettiva, l’ampiezza del debito attuale del Terzo mondo e l’impossibilità materiale di rimborsarlo costituiscono un dram­ matico passo indietro, come hanno messo in evidenza numerosi osservatori15. Si ha un bel fondare teoricamente l’attuale sistema di credito generalizzato, planetario, globalizzato, su questa idea di clearing, di immediato, di neutralizzazione del tempo, non riconoscendo in tal senso il debito come stato, ma solo come relazione negativa di cui liberarsi; praticamente il debito economico finisce per ridi­ ventare il più delle volte uno stato di debito. Resta pur vero che il mercato ha giocato storicamente un ruo­ lo positivo, mettendo in scena un sistema che consente di liberar­ si del debito tradizionale opprimente da cui l’individuo non pote­ va mai svincolarsi. La visione negativa del debito

Ma il debito ha malgrado tutto continuato ad essere considerato negativamente. Non ha in sé niente di positivo, rimane negativo perché è concepito come qualcosa che dev’essere eliminato, li­ quidato. L’unica differenza sta nel fatto che è possibile liberarse­ ne. In un modello del genere, tutto si basa suH’equilibrio. L’asim­

15 Μ. Arruda, L’endettement est-il une dette legitimei, «La Revue du MAUSS», 21 (2003), pp. 55-65.

Il, DONO I II. 1)1 HI TO

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metria è pensabile solo negativamente. Tale è oggi il modello di riferimento, il paradigma di ogni debito. Questo spiega perché si trovi al centro non soltanto delle problematiche economiche, ma anche psicologiche, filosofiche, etiche, teologiche e sociologiche. Ci troviamo di fronte a un problema che Lévinas ha definito co­ me l’impossibilità di pensare l’asimmetria e la tendenza a ridurla alla simmetria. E la difficoltà a pensare l’eccesso16. Per numerosi analisti del dono, come per gli economisti, ogni situazione asim­ metrica permanente è giudicata inaccettabile. Diamo qualche esempio. In psicologia, uno stato di debito viene visto il più delle volte come necessariamente patologico17, a meno che non si collochi nel quadro economico in cui le modalità di rimborso, dunque di saldo, siano contrattualmente specificate. Come scrive Sarthou-Lajus, la nevrosi è spesso definita come un debito impa­ gabile. «L’esistenza di un debito originario sembra [...] il mar­ chio di una colpevolezza morbosa che fa corpo con la natura dell’uomo»18. Non c’è altra soluzione di fronte al debito: pagar­ lo, liquidarlo, regolare i propri conti. (Numerosi psicoanalisti esigono il pagamento in contanti alla fine della seduta...). L’au­ trice sottolinea che Lacan distingue il debito simbolico e il debi­ to immaginario. «La colpevolezza patologica deriva da un debi­ to immaginario mentre la colpevolezza morale è nel non-riconoscimento del debito simbolico che ogni uomo eredita e che ricorda a ciascuno il fatto di non essere all’origine della propria esistenza»19. Allo stesso modo, è il modello dominante tra i professionisti che intervengono nella donazione di organi. Il debito qui è visto soprattutto in modo negativo. L’evidente impossibilità di ricam­ biare il donatore, nel caso della donazione di un organo prove­

16 R. Bernasconi, What Goes Around Comes Around: Derrida and Lévinas on the Economy of the Gift of Genealogy, in Schrift (ed.), The logic of the gift. Toward an ethic ofgenerosity, pp. 256-273; citazione a p. 268. 17 P. Kammerer, Cadeaux-pièges et cadeaux-tremplins, ou le sens de la dette symbolique, «Dia­ logue», 110 (1990), pp. 9-15; G. Salem, Boszormenyi-Nagy et le grand livre der mérites et des dettes. 1. Loyautés, dettes et mérites: contribution théorique et clinique à la thérapie contextuelle, «Dialogue», 110 (1990), pp. 50-69. 18 Sarthou-Lajus, L’Éthique de la dette, p. 145. 19 Ibi, p. 146.

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l’attrattiva del dono

niente da una persona deceduta, instaura uno stato di debito ne­ gativo, che Fox e Swazey20 hanno chiamato ‘tirannia del dono’. Siccome questo debito non può essere ‘rimborsato’, esso è consi­ derato nefasto. L’unica soluzione è dunque negarlo e, a questo scopo, negare ogni legame simbolico con il donatore. «L’impossi­ bilità materiale di ricambiare, anche per una ragione indipen­ dente dalla sua volontà, provoca nel ricevente la colpa di non po­ ter soddisfare la morale del dono, inscrivendolo in un debito infi­ nito che risuona sulla sua vita come se fosse un biasimo o un trop­ po-pieno (di gratitudine, per esempio) da sfogare»21. Motivo per cui chi sta vicino ai riceventi propone loro un’interpretazione meccanicistica dicendo che un cuore non è altro che una pompa, un fegato è un filtro, ecc. Anche Nietzsche si ferma al debito negativo. Esclude la possi­ bilità di debito positivo. A proposito del cristianesimo, rifiuta di concepire l’idea che colui che dona potrebbe amare colui che ri­ ceve. «Con la moralizzazione delle nozioni di colpa e di dovere, [... ] deve essere pessimisticamente preclusa una volta per sempre proprio la prospettiva di un riscatto definitivo [...] finché eccoci all’improvviso di fronte al paradossale e spaventoso espediente in cui la martoriata umanità ha trovato un momentaneo sollievo, quel tratto geniale del cristianesimo·. Dio stesso che si sacrifica per la colpa dell’uomo, [...] il creditore che si sacrifica per il suo de­ bitore, per amore (dobbiamo poi crederci?), per amore verso il suo debitore!...»22. «L’avvento del Dio cristiano - aggiunge - [...] ha portato perciò in evidenza, sulla terra, anche il maximum del senso di debito»; «non si può respingere la prospettiva che la compiuta e definitiva vittoria dell’ateismo potrebbe affrancare l’umanità da tutto questo suo sentirsi in debito verso il proprio principio, la propria causa prima. Ateismo e una sorta di seconda innocenza sono intrinsecamente connessi»23. Per Nietzsche, me­ diante il sacrificio di Cristo, Dio si ripaga da sé perché gli uomini 20 Fox - Swazey, Spare Parts. Organ Replacement in American Society. 21 D. Le Breton, La Chair à vif. Usages médicaux et mondains du corps humain, Metallic, Paris 1993, p. 281; cfr. J.B. Rauch - K.K. Kneen, Accepting the Gift of Life: Heart Tran­ splant Recipients’ Post-Operative Adaptive Tasks, «Social Work in Health Care», 14 (1989), 1, pp. 47-59.

22 Nietzsche, Genealogia della morale, pp. 81-82. 23 Ibi, p. 81.

II. DONO I II DI'HI IO

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non possono pagarlo, e così aumenta il loro debito24. È il fonda­ mento dell’uomo eternamente colpevole. Verso il debito positivo: Sartou-Lajus

Se il sacrificio è fatto per amore (ma «chi lo crederebbe?», scrive ironicamente Nietzsche), non possiamo considerare la possibilità di un debito positivo, in cui colui che ha ricevuto è invitato a dare il più possibile, pur sapendo che non si sdebiterà mai? Il debito potrebbe allora essere concepito positivamente: né uno stato di dipendenza permanente come nelle società pre-monetarie, né un debito economico da liquidare come nel sistema monetario? Nietzsche rifiuta questa eventualità. Si ferma al debito negativo. Lascia chi riceve in una situazione insostenibile, il che spiega la sua critica feroce della carità cristiana. (Tuttavia, nello Zarathustra - si veda più avanti -, egli va oltre questa concezione e riconosce perlomeno che nel dono la pietà può venire superata). In una interessante riflessione sull’etica del debito, SarthouLajus25 comincia col criticare la concezione kantiana di debito. «Il rapporto morale moderno, così come Kant l’ha concettualizzato, si definisce a partire dal dovere che libera il soggetto da ogni de­ terminazione empirica veicolata dalla nozione di debito. [...] Il soggetto morale kantiano [...] è il creditore di se stesso e il suo debitore, o almeno non riconosce che un solo debito nei con­ fronti della sua ragione, la parte nobile e sublime della sua uma­ nità»26. «La morale del dovere è una morale del distacco che ga­ rantisce l’autonomia del soggetto. La morale del debito è una mo­ rale della dipendenza che privilegia il rapporto con l’altro. Il de­ bito fa uscire la morale dai limiti della ragione. Non è più la ra­ gione che obbliga il soggetto ma l’assoluta priorità dell’altro»27. «La vita etica [...] si fonda sull’autonomia del soggetto, sulla suf­ ficienza delle sue risorse interiori. [...] Si è così costituita tutta un’etica a partire dalla cancellazione del debito, al fine di evitare

24 Ibi, p. 83. 25 Sarthou-Lajus, L’Éthique de la dette. 26 Ibi, p. 101.

27 Ibi, p. 102.

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i.’attrattiva dei, dono

ad ogni costo i problemi di eredità e di filiazione che compro­ mettono la sovranità e la divinità dell’uomo»28. La morale del do­ vere sottomette il soggetto alla legge, ma indipendentemente da­ gli altri, mentre «il debito stabilisce una relazione di dipendenza del soggetto nei confronti di un altro. [...] in tutti i casi, il debito rimette in discussione il principio di sufficienza del soggetto, la sua autonomia»29. «E l’impotenza ad amare che rende l’uomo malato di colpa. [...] il debito impagabile si rivela essere un debito d’amore che rinvia l’eterno debitore alla propria impotenza ad amare [...], al­ la paura di essere messo di fronte alla propria incapacità di dona­ re»30. E l’incapacità di donare a propria volta che rende colpevo­ li, e non il fatto che il debito sia impagabile o che non ci si debba più nulla. E la volontà del donatore di impedire all’altro di dona­ re che è perversa. Il donatore può voler rendere colpevoli, e allo­ ra può essere preferibile uscire da un rapporto di dono. Se appli­ chiamo questa idea alle tesi di Nietzsche sul cristianesimo, ci si rende conto che ad essere in questione in realtà è l’intenzione che lui attribuisce a Dio, e non il mero fatto. Sarthou-Lajus propone una visione positiva del debito: «Rico­ noscersi debitori di altri è riconoscere la propria vita come dono sulla base del credito, della fiducia che l’altro ci ha accordato e che ci ha fatto uscire dall’anonimato»31. Perché dovremmo vole­ re, perché avremmo bisogno di liberarci da un debito simile? «La grazia [è] un dono che non esige nulla in cambio. [...] La grazia è determinata dalla legge della sovrabbondanza»32. Dunque la grazia non indebita. O genera, lo vedremo, uno sta­ to di debito positivo. Il debito esiste, ma non è da pagare. L’auto­ re sembra allora superare l’ordine del pagamento. Questo debito non dipende più da una problematica di contabilità. Ora, pur analizzando in modo magistrale le dimensioni positive del debito, Sarthou-Lajus non sembra in grado di sfuggire interamente all’in­ fluenza del modello dominante che critica. Pone sempre come

28 Ibi, pp. 1-4. 29 Ibi, p. 96. 30 Ibi, p. 147. 31 Ibi, pp. 168-169.

32 Ibi, p. 183.

II. DONO I II DI ΙΠΙΟ

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lli'l K

condizione per ini debito positivo la possibilità del pagamento. «Il debito I... I sostituisce la speranza di un pagamento all’utopia di un mondo liberato da ogni debito»33. Ora, questa speranza de­ finisce l’utopia della liberazione liberale dal debito, come si è visto. Il debito senza pagamento resta per lei necessariamente negativo, creatore di violenza, di verticalità, di dominio. «Il debito di cui ci si può liberare assicura un legame tra il passato e l’avvenire»34. «La riconoscenza e il pagamento dei propri debiti sono delle esi­ genze morali che esprimono un rifiuto di rinnegare le proprie origini»35. Ma non è forse l’esatto contrario che invece ha mostra­ to? Il pagamento, essere in pari, come ognuno sa, significa rom­ pere con il passato e il presente, mettere un termine alla relazio­ ne. Proprio come fanno il mercato e il debito commerciale, dove tutto nel contratto è precisato in anticipo, dove tutto è ricondotto al momento presente, dove tutto è attualizzato, come dicono i con­ tabili e gli economisti. Diventando il modello esclusivo di ogni debito, questa possibilità di mi­ surare, che pure aveva permesso di far uscire l’umanità da uno stato di de­ bito negativo, finisce per impedire di riconoscere la possibilità di un debito positivo. Per sdebitarsi bisogna ben contare. E quel che sembra ac­ cadere a Sarthou-Lajus, che scrive: «Nietzsche si sbaglia sull’origi­ ne della perversione del debito. All’origine delle malattie della colpevolezza non c’è l’interiorizzazione del debito con la forma­ zione del sentimento di colpa, bensì il carattere illimitato del de­ bito. Il debito impagabile perché illimitato»36. E se non fosse né l’uno né l’altro? Se anche qui ci fosse confusione tra ciò che cir­ cola e il suo senso? La quantità illimitata in sé non è un problema. E il senso morale dato al gesto che determina se tale debito sia ne­ gativo o positivo. Sarthou-Lajus non risolve dunque interamente il dilemma del debito: se c’è pagamento, si ricade nel modello dell’equivalenza, e, se non c’è pagamento, si ricade in tutti i pro­ blemi del dono disuguale descritti da Nietzsche. Pensare il debito senza il dono conduce forse a un.’impasse in cui il quadro del pa­ gamento impedisce di considerare il debito positivo. Ci si deve ne-

33 Ibi, pp. 3-4. 34 Ibi, p. 83. 35 Ibi, p. 85. 36 Ibi, p. 94.

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I.’attrattiva dei. dono

cessariamente liberare di un debito? Il non-pagamento è necessa­ riamente negativo? E possibile concepire un sistema di debito senza necessità di pagamento da una parte, ma che sia positivo, dall’altra? Il debito positivo

Il debito di partenza Il senso del debito commerciale è unicamente economico. Non ha alcun senso morale. Chi presta non dona nulla. Fa un affare. Guadagna denaro, certamente prendendosi un rischio, ma un ri­ schio che cerca di minimizzare con tutti i mezzi possibili. Il dono, invece, è uno stato di debito. Siamo rinviati a questa idea di debi­ to come stato. Uno stato positivo o negativo. Uno stato di debito che, in modo a prima vista paradossale, può anche essere recipro­ co. «Il debito [...] pone la questione: “Possediamo forse qualcosa che non abbiamo ricevuto affatto da voi?” (sant’Agostino). [...] Il debito rivela così, all’origine, un rapporto asimmetrico, una strut­ tura di dipendenza che permette l’emergere della soggettività»37. Questa posizione di sant’Agostino non si limita alla nascita. Quale artista non ha mai detto che il suo ‘talento’, il suo ‘dono’, gli ve­ niva da altrove38? E tutto il tema dell’ispirazione, di quella ‘neces­ sità interiore’ di cui parla Kandinsky39. Anche il dono cristiano fi­ nisce per essere pensato in questo modo. E il tema della grazia. Tutto proviene da un forza superiore, nulla viene da sé40. «L’etica del debito [...] rifiuta la pretesa della soggettività di essere perfet­ tamente autosufficiente»41. Tale indebitamento originario può es­ sere negativo e vissuto come «colpevolezza in cui l’uomo vive nel­ l’ossessione di un debito che non può pagare e al quale però non può sottrarsi»42.

37 Ibi, p. 2. 38 Cfr. cap. 16. 39 W. Kandinsky, Lo spirituale nell’arte, in Io., Tutti gli scritti, tr. it. di N. Pucci, 2 voli., Fel­ trinelli, Milano 1974, vol. II, pp. 65-152; citazione a p. 96. 40 Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, p. 163. 41 Sarthou-Lajus, L’Éthique de la dette, pp. 1-2. 42 Ibi, p. 3.

II. DONO 1 II Dumo

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Ma «la dipendenza del soggetto debitore fonda la possibilità di rapporti di responsabilità e di amore. [...] L’indebitamento origi­ nario del soggetto fa uscire la morale dai limiti della semplice ra­ gione. La legge morale non procede più dalla volontà ragionevo­ le del soggetto ma dalla sua dipendenza nei confronti di un’istan­ za esteriore»43. Il debito può dunque essere vissuto positivamente senza biso­ gno di sentirsi in pari. Tutto dipende dal senso che gli si dà. Tale debito di partenza, questa situazione, può anche riprodursi tra le persone e può anche essere vissuta dai membri di una rete come la parentela. Ognuno riceve più di quel che dona. L’idea di gioco a somma positiva (non nulla) si avvicina all’idea di debito reci­ proco positivo. Pulcini44 parla di una sorta di contagio della rela­ zione. E quel che abbiamo osservato in vari casi-tipo. Nella parentela «Gli devo così tanto, ma non sono in debito». E tentando di inter­ pretare questa frase così come altri enunciati simili che siamo45 giunti all’idea di debito positivo. Il debito può essere infinito, ma può generare non la colpevolezza, né un desiderio di pagamento, bensì un sentimento di riconoscenza e la voglia di donare a pro­ pria volta, pur sapendo che non saremo mai in pari. In realtà, nes­ suno è mai in pari di fronte a coloro che sono stati i più impor­ tanti nella nostra vita: genitori, amici, amori, maestri. L’idea di es­ sere in pari è in fin dei conti il modo commerciale di risolvere il problema del debito, liquidandolo e uscendo dalla relazione, fir­ mando una quietanzai Ora, non è uscendo dal legame che un de­ bito sociale viene risolto, ma assumendolo, riconoscendolo e do­ nando a propria volta. Oppure rifiutandolo se il dono è fatto per umiliare, per affermare il potere del donatore sul donatario; ri­ fiutandolo e reclamando giustizia, passando dal registro del dono a quello della giustizia. « [Nella famiglia,] gli interessati sono incapaci di sapere, in un

43 Ibidem. 44 E. Pulcini, Assujetties au don, sujet de don, «La Revue du MAUSS», 25 (2005), pp. 325338. 45 Cfr. J.-T. Godbout - J. Charbonneau -V. Lemieux, La Circulation du don dans la pa­ rente, INRS-Urbanisation, Montréal 1996.

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l’attrattiva dei. dono

dato momento e soprattutto nel corso del tempo, se sono credito­ ri o debitori»46. Ancora di più: questo sentirsi in debito può esse­ re condiviso da entrambi i partner47, situazione evidentemente as­ surda in un modello contabile del debito. E quel che abbiamo chiamato lo stato di debito reciproco positivo. «Non potrò mai re­ stituire tutto quel che hai fatto per me...», si sente spesso in que­ sto genere di relazioni. E un certo rapporto col passato che defi­ nisce la possibilità di funzionamento del debito positivo per l’av­ venire. Anche nei rapporti genitori-bambini, questo stato di debi­ to reciproco positivo viene spesso osservato. Non si contano i ge­ nitori che affermano di ricevere più di quello che donano ai loro bambini e ciò, persino nel momento in cui questi ultimi non do­ nano niente di concreto, nel momento in cui nessun bene circola in questa direzione.

Debito positivo nella donazione di organi

Abbiamo visto che la letteratura sulla donazione di organi tende a far emergere una concezione negativa del debito. Per far fronte a questo problema, si è stabilita la regola dell’anonimato, e i tra­ piantati sono invitati ad adottare una visione meccanicistica del­ l’organo: «Un cuore non è altro che una pompa...», viene ripetu­ to loro. E evidente che il ricevente non potrà mai rendere alcun­ ché al donatore deceduto. Ma questo è necessariamente negati­ vo? Tale interpretazione abituale si basa soltanto sull’osservazione di ciò che circola. La nostra ricerca mostra che occorre superare questo modo di concepire il dono. Come scrive Schwering, «i pa­ zienti trapiantati [possono] loro stessi provare un “gli devo così tanto” connotato di una gratitudine serena, piuttosto che di una tormentosa colpevolezza»48. Per mettere in evidenza quest’altra faccia della donazione di organi, bisogna tener conto del rappor­ to simbolico che il ricevente intrattiene con il suo donatore dece­ duto. Si constata che un numero considerevole di riceventi consi­

46 A. Pitrou, Les Solidarités familiales. Vivre sans famille1 ?, Privat, Toulouse 1992, p. 232. Cfr. anche ANSPACH, A buon rendere, p. 80.

47 Constatazione che abbiamo potuto mettere in evidenza grazie al fatto che abbiamo intervistato diversi membri della stessa famiglia. 48 K.-L. SCHWERING, Don et incorporation. Les enjeux psychique de la transplantation d’or­ ganes, Université catholique de Louvain (tesi), 1998, p. 189.

II. DONO E II. DEBITO

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derano positivamente il fatto di essere stati trasformati dal tra­ pianto. Pur riconoscendo, come loro dicono, di aver contratto un ‘debito eterno’, arrivano a pensare e soprattutto a vivere questo debito in modo positivo. Amano immaginarsi il loro donatore. Gli parlano, gli chiedono consiglio nelle situazioni difficili. «Mi sento più forte, più coraggiosa. E normale, era uno sportivo», dice una trapiantata che abbiamo incontrato49. Non accade soltanto a bre­ ve termine. Ricordiamo un caso estremo: un trapiantato di fega­ to, essendo riuscito a identificare non solo il suo donatore, ma an­ che i riceventi degli altri suoi organi, organizza da molti anni un incontro annuale di tutti i donatari in occasione dell’anniversario di nascita del donatore, per celebrarlo, mangiando insieme. In breve, questi trapiantati vivono un’esperienza di debito po­ sitivo ed evitano o superano questa minaccia che un tale dono rappresenta. Sfuggono alla «tirannia del dono»50. Non si interes­ sano più all’equivalenza e all’eguaglianza. Si augurano anche di restituire sotto forme diverse. Vogliono donare a loro volta.

Debito negativo: gli Svedesi donano agli Estoni Questo stato positivo è spesso presente nel dono agli sconosciu­ ti, in quella forma per cui il destinatario dona non a chi gli ha donato, ma a un terzo. Così, una delle ragioni espresse dai vo­ lontari è che donano perché hanno ricevuto molto. «Quand’ero più giovane - dicono - ho ricevuto così tanto che non riuscirò mai a donare abbastanza»51. Ma questa struttura di dono non sempre è positiva, tutt’altro. Tutto dipende dal senso di ciò che circola. Il caso-tipo seguente illustra come la stessa struttura di circolazione possa presentare uno stato di debito non positivo, ma negativo, al contrario della donazione di organi che abbia­ mo appena visto. E la storia, raccontata da Rausing, del gemellaggio di una città svedese con una città estone. Alla fine della guerra fredda, alcuni Svedesi decidono di aiutare i loro vicini Estoni: «non vengono do­ nati soltanto degli oggetti, ma anche una formazione che avrebbe reso più facile la trasformazione dell’Estonia, passando dal mo49 Cfr. anche C. Sylvia, A Change of Heart, Brown and Company, Boston 1997. 50 Fox - Swazey, Spare Parts. Organ Replacement in American Society. 51 Godbout, Le Don, la Dette et l’identité.

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i.'aitrattiva del dono

dello sovietico al modello della società occidentale alla ‘svede­ se’»52. «Da ‘occidentali’ relativamente benestanti in seno all’Unione sovietica, gli Estoni sono diventati degli abitanti di un ‘pae­ se dell’Est’ impoverito, situato in seno all’occidente»53. I donato­ ri svedesi, per parte loro, non si aspettano niente in cambio: «Si può ipotizzare che questo programma di aiuto abbia la sua ‘ri­ compensa’ nel fatto che la superiorità svedese vi si trova confer­ mata (gli Svedesi parlano dell’aspetto ‘sovietico’ e ‘irrazionale’ dei modi di fare degli Estoni) »54. Questa ‘carità’ è percepita essenzialmente come umiliante. «Essendo impossibile la reciprocità, [...] i membri più rispettati della comunità [...] evitano di avere contatti con gli Svedesi, la­ sciano che siano i meno rispettabili tra loro ad avere relazioni con quelli»55. L’effetto sul legame sociale è negativo: gli Estoni si sen­ tono disprezzati dai loro donatori e gli Svedesi considerano ingra­ ti gli Estoni. Come nel caso della donazione di organi, si ritrova anche il desiderio di restituire a terzi di fronte all’impossibilità di donare al donatore. «Per reazione, gli Estoni pensano che anche loro dovrebbero inviare aiuti in altri paesi, in Armenia o in Geor­ gia»56. E la stessa struttura della donazione di organi o del dono intergenerazionale: A dona a B che dona a C. Ma non è un dono positivo, perché il fatto di donare a loro volta agli Armeni è in questo caso una compensazione, un male minore per rifarsi un’immagine. Non trasforma il dono originario in dono positivo, come nella donazione di organi. Siamo in presenza di un debito negativo. Perché? Perché il do­ natore non immagina di poter ricevere qualcosa dai donatari. E 10 stesso fenomeno si verifica passando dagli Estoni agli Armeni. Non siamo più in presenza di una struttura circolare. Il dono non ha alcuna possibilità di chiudersi, di ritornare. Al contrario, le due estremità della catena di dono si allontanano man mano che 11 numero di anelli aumenta, senza possibilità che appaia un «Gli

52 S. Rausing, L’impossible retour. Dons, aides et échanges dans le nord-est de l’Estonie, «Eth­ nologie française», 28 (1998), 4, pp. 525-531. 53 Ibi, p. 529. 54 Ibidem.

55 Ibi, p. 530. 56 Ibi, p. 529.

II. DONO F. II. DEBITO

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devo così tanto» positivo, riconoscente. Siamo in una struttura li­ neare di debito negativo, e non in uno strano cerchio di debito positivo. Si tratta di un legame sociale che si assottiglia un po’ alla volta. Sfortunatamente, questo caso-tipo è rappresentativo di una parte importante degli aiuti internazionali. Il destinatario che si ritrova in fondo alla catena, incapace di identificare un destinatario potenziale più bisognoso di lui, non è forse quello che si chia­ ma un escluso?

Conclusione

Nel dono, il debito è uno stato che può essere positivo o negativo. Quando è positivo, può essere reciproco, e allora scompare nei partner l’idea di sdebitarsi. Ognuno riceve più di quanto dona. Ma se questa idea sembra strana per l’approccio contabile dell 'ho­ mo oeconomicus, non è però estranea alla filosofia di numerose so­ cietà, né al pensiero occidentale. Si ritrovano dappertutto espres­ sioni di questo stato di debito positivo. E in primo luogo, non è forse il fondamento di ciò che Mauss chiamava ‘le prestazioni to­ tali’ nelle società arcaiche? Un superamento della replica negati­ va, della competizione, della rivalità nella ricerca del prestigio. Aristotele ci si avvicina con l’idea di philicC. Ispirandosi a Seneca e Aristotele, san Tommaso d’Aquino distingue il debito di giusti­ zia e il debito di amicizia: «Il debito della riconoscenza nasce da quello dell’amore, dal quale nessuno deve desiderare di essere as­ solto»58. Sarthou-Lajus59 riferisce che i Giapponesi distinguono il giri e l'amae. Mentre nel dono di tipo giri «l’impossibilità di pagare i propri debiti è accompagnata da un sentimento di vergogna», nell’awzenon ci sono più debiti. «Nel mondo deWamae, la dipen­ denza nei confronti di altri non crea debito, perché significhe­ rebbe rimettere in discussione la capacità di donare dell’altro». «La dipendenza non genera debiti, perché è riconosciuta come

87 Su questo punto, cfr. l’analisi di TEMPLE - Chabal, La Réciprocité et la Naissance des va­ leurs humaines, presentata nel cap. 10 su dono e giustizia.

88 Tommaso d’Aquino, Summa theol., II-ll, q. 107, a. 1, ad 3. 89 Sarthou-Lajus, L’Éthique de la dette.

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l’attrattiva »EI. »ONO

un valore che fonda Γ esistenza del dono gratuito. L’amae rende possibile una forma di dono che spezza la legge del debito»60. Per Seneca, ricevere bene è già restituire («libenter accipit, beneficium reddidisse»61'). Goux sottolinea che «se il dono accade in­ nanzitutto sul piano della buona volontà e dell’anima ben dispo­ sta, allora non è più possibile essere materialmente sconfitti (io: o vincitore) in uno scambio di doni»62. Il che «permette di disinne­ scare, di rendere inoperante la lotta di prestigio di tipo ‘potlàc analizzata da Mauss»63. Fare un bilancio di ciò che circola in sé non ha più alcun senso. Questo stato di debito non si riferisce più a un modello economico. Consente di pensare il debito positivo. L’impossibilità contabile che costituisce il debito reciproco po­ sitivo si rivela dunque un fenomeno sociale riconosciuto ovun­ que64. Ognuno riceve più di quel che dona. Ma questo non ricor­ da stranamente un altro rapporto sociale? Non è in effetti la defi­ nizione stessa di uno scambio commerciale riuscito65? In realtà, questa apparente somiglianza permette di ricordare tutta la diffe­ renza tra una transazione istantanea in cui il profitto reciproco elimina il debito e uno stato. Nella transazione commerciale, tut­ ti ricevono di più perché ognuno ha una preferenza per ciò che l’altro puntualmente offre. Ma quando la relazione tra due perso­ ne è in stato di debito reciproco positivo, il ‘ricevere di più’ si ap­ plica alla relazione, non si applica a una transazione specifica e al confronto di due beni specifici (ciò che circola). D’altra parte, ri­ spetto al fatto di tener conto puntualmente solo di ciò che circo­ la, il dono è al contrario uno stato di squilibrio permanente. In breve, in entrambi i casi, si vuole il ‘bene’ dell’altro, ma la parola possiede un senso diverso, addirittura opposto.

60 Sarthou-Lajus si basa su un autore giapponese (D. Takeo). Allo stesso modo, ricor­ da (ibi, p. 96) le analisi dell’induismo di Charles Malamoud, le quali «consentono di concepire un debito senza colpa». 61 Citato in Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 288.

62 Ibidem. 63 Ibi, p. 289. 64 Ciò non significa evidentemente che sia l’unico senso di ciò che circola sottoforma di dono. 65 Simmel, Filosofia del denaro.

CAPITOLO O LI AVO

Al di là del debito: l’identità

L’unico presente, l’unico dono è un frammento di te stesso1. Se si fa un dono, è per non dover offrire il proprio stesso essere; è per dire che ci si offre sotto questa forma disloca ta; il che evita un certo cannibalismo2.

La nozione ordinaria di debito negativo è insufficiente a rende­ re conto di quel che accade nella relazione di dono. Il debito po­ sitivo offre un primo schema di interpretazione globale del sen­ so del dono. Ma anche questo è insufficiente. L’idea di debito re­ sta ancora troppo legata al valore di ciò che circola: valore di scambio o valore d’uso. Quando si riceve un regalo, si considera unicamente il suo valore in sé. Spesso il suo valore per sé è mag­ giore e in parte indipendente dalla nozione di debito. E quel che abbiamo chiamato ‘valore di legame’. Così, nel suo studio sui regali di Natale, Caplow constata che «il tipico regalo delu­ dente è un abito della taglia sbagliata. Le donne sono particolar­ mente astiose quando ricevono un vestito troppo grande che pa­ re significare il fatto che il donatore le percepisce come ‘gras­ se’»3. Il messaggio recato dal dono in merito a ciò che il donato­ re pensa del destinatario rappresenta una dimensione essenziale del dono, una dimensione che in parte sfugge alla nozione di debito. Qualcos’altro è in gioco, a un livello ancora più significa­ tivo del debito, di cui questo è l’espressione. Il dono fa cadere le 1 R.W. Emerson, La fiducia in se stessi, tr. it. di P. Pignata, Ibis, Pavia 2003.

2 D. Sibony, Avec Shakespeare, Seuil, Paris 2003, p. 185. 3 CAPLOW, Rule Enforcement Without Visible Means. Christmas Gift Giving in Middletown, p. 1314.

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l’attrattiva dei. dono

maschere e rivela la persona45.È esaminando questa dimensione che capiremo meglio i suoi effetti negativi. Il che porterà, con Mauss, a rimettere in discussione la frattura assoluta soggetto-og­ getto e a far emergere qualcosa che .assomiglia aH’animismo. «Oggetti inanimati, avete dunque un’anima, che si affeziona alla nostra anima». Diventare il donatore0

Questa insufficienza ci è apparsa in primo luogo nello studio del­ la donazione di organi. Abbiamo constatato che i trapiantati pos­ sono esprimere uno stato di debito positivo. Ma abbiamo anche osservato un fenomeno singolare nel quadro del dono. Ammet­ tiamo con Shalins che, in genere, più il legame tra due persone è intenso, più ciò che circola tenderà a prendere la forma del dono, e più i doni saranno significativi. Ciò spiega l’importanza del do­ no nei legami primari, in quelli parentali e tra vicini. Se questo principio viene applicato alla donazione di organi che provengo­ no da donatori deceduti (dono cadaverico), normalmente do­ vremmo aspettarci che i trapiantati si augurino di stabilire legami intensi con coloro che hanno reso possibile un dono così immen­ so, letteralmente un dono di vita. Al contrario, si osserva una grande reticenza, nei riceventi, a sviluppare legami con la fami­ glia del donatore deceduto. I trapiantati sono in genere soddisfat­ ti della regola di anonimato stabilita dai responsabili del trapian­ to. Vogliono certo manifestare la loro gratitudine alla famiglia del donatore, il più delle volte con una lettera trasmessa dall’organiz­ zazione responsabile del trapianto, ma non desiderano stabilire legami personali con i membri della sua famiglia, ossia con coloro che hanno autorizzato questo dono, i ‘veri donatori’, in un certo senso, coloro che vivono la perdita. Perché? Molti credono che il debito generato da un dono si4 G. Shapiro, The Metaphysics of Presents: Nietzsche’s Gifts, the Debt to Emerson, Heidegger’s Values, in Schrift (ed.), The Logic of the Gift. Toward an Ethic of Generosity, pp. 274-291; citazione a p. 278. 5 Una versione più estesa di questo paragrafo è stata pubblicata con il titolo Le don audelà de la dette, «La Célibataire. Revue de psychanalise», 11 (2005), pp. 25-38; ripreso in «La Revue du MAUSS», 27 (2006), pp. 91-104.

AL DI LÀ DEL DEIMTO: I Ί|)| ΝΪΠλ

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mile sia talmente gl ande che temono le possibili richieste della fa­ miglia. «Gli dobbiamo molto, se non fosse anonimo, il donatore potrebbe venire a chiederci ciò che vuole», dice un ricevente ili midollo6. In che modo qualificare questa paura? Spesso viene in­ terpretata in termini materiali: domanda di denaro per esempio. Le famiglie tuttavia, in genere, non pensano a questo tipo di do­ mande, e sono pochi i riceventi che attribuiscono loro questa in­ tenzione. Tale interpretazione appare dunque insufficiente. Per­ ciò, di quale altra domanda avrebbero paura i riceventi? La nostra ricerca7, insieme a una rivista di letteratura sull’argomento, indu­ ce a pensare che la famiglia del donatore rappresenti, per il rice­ vente, una rete di persone per le quali la donazione di organi può significare che l’altro (il donatore) continua a vivere in lui. Si rac­ conta, ad esempio, della sposa di un donatore che è riuscita a identificare e ritrovare la persona che aveva ricevuto il cuore di suo marito. Questa persona accetta di incontrarla, e lei gli chiede soltanto una cosa: il permesso di appoggiare la testa sul suo petto per ascoltare il battito del suo cuore! Questo ci ha portati a pensare che i riceventi temano innanzi­ tutto che il donatore chieda loro di diventare in parte il ricevente. Hanno paura di essere ridotti al ruolo di semplici contenitori del cuore (o del fegato, ecc.) del donatore, e di essere cosi trasforma­ ti in uno ‘strumento’ della sua famiglia. Il rapporto con la fami­ glia del donatore è il legame più minaccioso per l’identità simbo­ lica del ricevente, perché la famiglia avrà la tendenza a vederlo co­ me una sorta di sacro contenitore della vita di uno dei suoi mem­ bri. Il suo sguardo sul ricevente è potenzialmente distruttivo della sua identità simbolica. Forse è questa la grande angoscia del rice­ vente: «Se il mio cuore è stato sostituibile, forse tutto di me è so­ stituibile, ‘me’ compreso...». Dunque non sarebbe il debito che inquieta i destinatari, come invece tende ad affermare la lettera­ tura sulla donazione di organi. La donazione di organi rivela for­ se una ragione profonda per non entrare in un rapporto di dono, una ragione che spiega il potere che il donatore acquisisce sul do­ natario, e che risiede nel pericolo di ricevere ciò che Marcel

6 F. Rabanes, Transplantations d’organes: identité et désirs du patient, «Le Journal des psychologues», 102 (1992), pp. 48-50; citazione a p. 50.

7 GODBOUT, Le Don, la Dette et l’identité.

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Mauss chiamava lo hau del donatore. «Bisogna vivere con lo hau di questo sconosciuto, senza poter scongiurare l’incantesimo. Il sentimento che l’organo trapiantato sia ancora carico dell’individualità del ‘donatore’ alimenta un folle interrogativo sull’identità di questo fantasma la cui morte ha significato per il trapiantato uno strano sollievo»8. E ciò che mostra l’autobiografia di una trapiantata9. Questo li­ bro è una straordinaria descrizione del processo per cui il rice­ vente passa dal debito negativo al debito positivo, dalla minaccia sull’identità al contributo positivo all’identità del ricevente. In una prima fase, lei sperimenta una perdita di identità. «Sono una trapiantata! [...] Un trapianto non è solo una trasformazione del­ la vostra identità. Esso diventa la vostra identità»10. Lei sogna di es­ sere il fantasma di qualcuno. Non crede di essere all’altezza del dono ricevuto e di poterlo far fruttare11. «Che choc sarà stato per il cuore di Tim [il suo donatore] svegliarsi nel corpo di una don­ na matura»12. Ma al termine di questo lungo processo, molti anni dopo il trapianto, afferma: «Invece di identificarmi con questo giovane essere che è dentro di me, cominciavo ad integrare il mio nuovo cuore nella mia personalità»13. Ciò che la donazione di organi mette allora in risalto è che la fonte del pericolo di ricevere riguarda più il rischio di perdere la propria identità che il debito stesso. Certo, il pericolo di un dono troppo grande è che si può domandare tutto a colui che ha rice­ vuto, ma questa formula tende ad essere interpretata in maniera troppo stretta, in termini di cose concrete che il donatore può chiedere al donatario. La cosa va ben al di là: gli si può chiedere tutto, incluso il fatto di non essere più se stesso, di essere qualcun altro e, nel caso della donazione di organi, di identificarsi con il donatore, di diventare il dono e di essere distrutto dal dono. D’al­ tra parte, ci si può chiedere se questa potenzialità negativa del do­ no non sia presente in tutti i doni particolarmente intensi e im-

8 Le Breton, La Chair à vif, p. 283. 9 Sylvia, A Change of Heart. 10 Ibi, p. 134.

11 Sulla mescolanza di gratitudine e di colpa, cfr. ibi, pp. 134-136. 12 Ibi, p. 160.

1S Ibi, p. 205.

AI. DI IÂ DEI. debito: l.'lDEN I IJiA

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portanti, come l’eredità14, e in tutti i casi in cui, come afferma un proverbio maori riportato da Mauss, «[i doni] sono pregati di di­ struggere l’individuo che li ha accettati»15. Sul piano biologico, l’identità (il codice genetico) dell’organo, lo sappiamo, comporta una reazione di rigetto da parte del sistema immunitario, da par­ te cioè del sistema biologico di sorveglianza degli intrusi. Tale fe­ nomeno avrebbe il suo equivalente sociopsicologico nella perdita di identità simbolica e nella paura di acquisire un’altra identità, quella del donatore. Come tratta questo problema il settore dei trapianti? Spesso i professionisti non sembrano riconoscere questa esperienza di do­ no, e tendono persino a negarla. In effetti, dal momento che una relazione simbolica con il donatore può generare nel ricevente un sentimento di debito negativo e talvolta addirittura una confusio­ ne identitaria16, ogni relazione simbolica con il donatore tende ad essere considerata da parte loro come patogena. Chi fa l’inter­ vento cerca dunque di neutralizzare il dono ricevuto, di oggetti­ vario. Per analogia con quel che succede a livello fisiologico, è co­ me se la tecnologia arrivasse a decodificare il DNA del donatore prima di prelevarne gli organi, o come se riuscisse a iniettare nel­ l’organo stesso da trapiantare un prodotto che lo neutralizzi, to­ gliendogli la sua unicità genetica prima di trapiantarlo nell’orga­ nismo ospite, in modo che il sistema immunitario di quest’ultimo non si senta minacciato e lo accetti come un qualsiasi ‘prodotto’. In altri termini, nello stesso modo in cui si riceve una merce. Come si raggiunge questo obiettivo? Applicando, per l’appun­ to, il modello economico commerciale17. Tale modello neutraliz­ za il valore di legame delle cose. Toglie agli oggetti ogni traccia di ciò che potrebbe collegarli alla personalità degli individui che li hanno prodotti. Questo fenomeno di oggettivazione è stato mes-

14 A. Gotman, L’économie symbolique des biens de famille, «Dialogue», 89 (1985), pp. 5873. 15 Mauss, Saggio sul dono, pp. 16-17. 16 S.A. Franke, Don, droit ou marchandise: le point de vue du receveur dans le don d’organes, in J. Saint-Armand (éd.), L’Allocation des ressources rares en soin de santé: l’exemple de la transplantation d’organes, ACFAS, Montréal 1997, pp. 131-147.

17 O il modello meccanicistico, o della risorsa scarsa: J.T. Godbout, Le don d’organes: une ressource rare?, in Saint-Armand (éd.), L’Allocation des ressources rares en soin de santé: l’exemple de la transplantation d’organes, pp. 13-30.

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so in evidenza da numerosi autori, ma specialmente da Simmel nella sua Filosofia del denaro: «Lo scambio economico strappa le co­ se dal loro significato affettivo»18. Il rapporto commerciale sper­ sonalizza totalmente ciò che viene dagli altri, in modo che ciò che è ricevuto può essere interamente ‘ripersonalizzato’ da chi lo ri­ ceve in funzione della sua propria identità, in funzione delle sue ‘preferenze’. E nel quadro di questo modello che i professionisti tentano di presentare ai riceventi gli organi trapiantati: come de­ gli oggetti spersonalizzati tanto quanto un prodotto industriale. Il corpo è una macchina. Il che spiega perché, come dicono al rice­ vente, un cuore è una pompa, un fegato è un filtro, ecc.: niente di più. Questa applicazione del modello meccanicistico nega ogni possibilità di trasformazione positiva del ricevente. Ma, a differenza dei consumatori - i riceventi nel sistema com­ merciale -, sono molti i riceventi di organi che non sono in grado di rappresentarsi il trapianto come un oggetto neutro. Alcuni ci riescono. Ma una parte considerevole tra loro fa esperienza di una condizione di debito, positivo in molti casi dopo un certo pe­ riodo, cosa che porta a domandarsi: se la lotta contro l’identità biologica sembra per il momento inevitabile a causa del fenome­ no del rigetto, perché aggiungere ad ogni costo la negazione del­ l’identità simbolica del donatore, logica che ha come fonte - e co­ me conseguenza - l’introduzione del modello meccanicistico nel dono? Perché voler negare l’esperienza vissuta da un certo nume­ ro di riceventi? Non sarà a causa di quella concezione contabile ed economicistica del debito descritta nel capitolo precedente? Secondo quella concezione, c’è solo un’unica soluzione di fronte al dono: pagarlo, liquidarlo, regolare i propri conti. Ora, questa soluzione è impossibile nella donazione di organi, perché «questa donazione di organi è così straordinaria da non poter es­ sere contraccambiata»19. Dal momento che questo debito non può essere ‘rimborsato’, viene considerato necessariamente come nefasto. L’unica soluzione è dunque negarlo, e, a tale scopo, ne­ gare ogni legame simbolico con il donatore, motivo per cui i pro­ fessionisti, come scrive Saint-Arnaud, ritengono che «soltanto i 18 Simmel, Filosofìa del denaro, p. 122.

19 Μ. Lock, Deadly Disputes: Ideologies and Brain Death in Japan, in R.C. Fox - LJ. O’­ Connell - SJ. Youngner (eds.), Organ Transplantation. Meanings and Realities, The University of Wisconsin Press, Madison 1996, pp. 142-167; citazione a p. 154.

AL ni ΙΛ DF.L DF.HITO: I «iKNIIIÀ

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inalati che adottano pei loro stessi il modello commerciale evita­ no i problemi psicologici legati alfimmagine di sé, o addirittura all’identità di sé, che il trapianto cardiaco suscita». In altri termi­ ni, di fronte a un dono del genere - dove è impossibile sottoscri­ vere l’obbligo di ricambiare il donatore -, l’unica soluzione sa­ rebbe negare il dono. Storicamente, il modello meccanicistico consentiva questa ne­ gazione. All’inizio i chirurghi credevano che bastasse effettiva­ mente installare bene l’organo (il ‘pezzo’) e sistemarlo come si deve perché l’operazione riuscisse. Questo modello ha comporta­ to per molti anni il fallimento del trapianto, finché la ricerca non ha messo in evidenza il fenomeno del rigetto e le sue conseguen­ ze. Una macchina non rigetta un pezzo, che cade se è avvitato o saldato male, ma evidentemente non viene rigettato. L’accumulo di rigetti ha dunque portato a riferirsi a un paradigma più organi­ co. Chi eseguiva gli interventi ha allora cercato, con gli immunodepressori, di neutralizzare le difese dell’organismo che riceve, invece di neutralizzare ciò che è ricevuto sul modello della dige­ stione20. Nella pratica medica e nella ricerca i professionisti si so­ no allontanati dal paradigma meccanicistico, ma non hanno smesso di pensare che sia l’unica metafora che conviene dare al ricevente. Hanno perciò continuato a ripetere al trapiantato che un cuore è una pompa e niente di più. Perché allora prendere tutti questi farmaci antirigetto, si chiede giustamente il ricevente? Una pompa non dovrebbe minacciare la mia identità biologica... Osservare il modo in cui la donazione di organi è ricevuta per­ mette di constatare che una parte importante dei riceventi rifiuta questa soluzione e il modello meccanicistico di riferimento. Essi vivono l’esperienza del dono. E vero che alcuni la vivono negati­ vamente. Ma altri no. Vivono una trasformazione, senza per que­ sto che la loro identità sia minacciata. Al contrario, ne sono con­ vinti, la loro personalità è amplificata. Assumono questo debito unilaterale e lo trasformano in desiderio di restituire, di donare a loro volta. Esiste dunque un’altra soluzione rispetto a quella di negare il dono in nome del debito e della perdita di identità: trasformarlo

20 Ci si può chiedere del resto perché non esistano più ricerche che mirano a neutra­ lizzare l’organo da trapiantare.

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L’ATTRATTIVA DEL DONO

in debito positivo e aiutare il trapiantato a vivere questa esperien­ za di arricchimento di sé, come un certo numero di riceventi spe­ rimenta malgrado il sistema ospedaliero. La neutralizzazione di quel che circola vale nel mercato o nello Stato, ma non si confà al dono. Mentre tutto quel che il paziente dovrebbe augurarsi per­ ché il trapianto riesca va nel senso di una neutralizzazione del­ l’organo, della sua banalizzazione, della sua ‘dimenticanza’, come si dimentica il resto del sistema neurovegetativo (e il cuore prima del trapianto...), e mentre il sistema ospedaliero fa di tutto per­ ché il paziente assuma questo atteggiamento, alcuni trapiantati sembrano compiacersi della personalizzazione simbolica dell’or­ gano, e lo investono della personalità del donatore. Invece di ‘funzionalizzare’ l’organo, di farne uno strumento, lo ‘pulsionalizzano’, volendo usare il linguaggio psicoanalitico21. Ne fanno un soggetto. Invece di entrare in un modello di auto-conservazione, invece di cercare di ‘conservarsi’, entrano nel dispendio, nella pulsione, nel dono. Ecco perché il trapianto di organi può essere considerato co­ me uno specchio ingranditore di quel che entra in gioco nel do­ no: la nostra auto-definizione, la nostra visione di noi stessi. La donazione di organi chiarisce in maniera estrema le due facce del dono che si esprimono nel rapporto del ricevente, da una parte con la famiglia del donatore, e dall’altra con il donatore decedu­ to. La famiglia del donatore vuole ritrovare il proprio dono nel ri­ cevente. Al limite, sogna che il ricevente diventi lo strumento del suo dono, diventi il suo dono. Ecco il pericolo che la donazione di organi mette in evidenza: al di là del debito, la donazione può di­ ventare una negazione assoluta dell’identità, dell’identità del do­ natario. Tuttavia, spesso succede il contrario, e nasce un rappor­ to simbolico che il ricevente stabilisce con il donatore stesso, in opposizione alla famiglia. La sua personalità, la sua individualità sono aumentate, migliorate, in un rapporto di debito positivo che lo spinge a donare a sua volta. Dal punto di vista scientifico, la metafora meccanicistica è de­ cisamente falsa. Se il cuore non fosse che una pompa, l’organi­ smo non lo rigetterebbe. Del resto, non rigetta nessuno dei nu-

21 Schwering, Don et incorporation. Les enjeux psychique de la transplantation d’organes, p. 224.

AL DITÀ DEL DEBITO: l.'lhl Νψ V

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merosi corpi estranei che il modello del cyborg sempre più gli so­ stituisce. Non rigetta gli oggetti. Ma in questo cuore che riceve, l’organismo - più precisamente il suo sistema di difesa, il suo si­ stema immunitario - non riconosce un oggetto, bensì un sogget­ to, riconosce il cuore di qualcuno. Questo debito di vita è una ri­ petizione del debito primordiale della nascita e, come quest’ulti­ mo, può diventare positivo. Laidlow22 presenta un caso di dono, in India, che non è senza analogie con questo bisogno di neutralizzare la donazione di or­ gani. Tra gli adepti dello jainismo, i rinuncianti, che vivono di do­ ni, arrivano o fanno finta di arrivare per caso in una casa. Si pre­ sentano sempre prima che la famiglia abbia cominciato a mangia­ re, ma nel momento in cui il pasto è pronto. Il pasto non è perciò preparato espressamente per loro. Gli ospiti offrono del cibo che i rinuncianti inizialmente rifiutano, protestando, ma che alla fine accettano, non ringraziando, né facendo alcun commento positi­ vo sul cibo. Essi ripetono poi la stessa scena in un’altra casa. Di ri­ torno da loro, mescolano tutto quel che hanno ricevuto e ne fan­ no un ‘bollito’ anonimo. Certo, la famiglia prepara spesso con molta cura il cibo che offre. Ma questa sostanza personalizzata vie­ ne trasformata in un prodotto anonimo e indifferenziato23. E in questo modo, ossia spersonalizzando al massimo il dono, che loro ritengono di evitare che il dan ricevuto trasporti i peccati del do­ natore, qualcosa di negativo, un karma24. Come nel caso della donazione di organi, il dono è sociale, ma non personale. Altrimenti è pericoloso. Questo modo di procede­ re non rappresenta forse l’ideale della donazione di organi? E co­ me se si arrivasse a spersonalizzare l’organo, a sbarazzarsi del DNA del donatore, cosa che lo renderebbe inoffensivo per il ricevente.

Ritorno a Mauss. L’idea moderna di hau La dimensione identitaria del dono ci riporta a un’idea-guida del Saggio sul dono, quella del dono come espressione dell’identità so-

22 Laidlaw, A Free Gift Makes No Friends, pp. 45-46. 23 Ibi, p. 53. 24 Ibi, p. 55.

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ciale. Come spiegare la forza che obbliga a restituire quando si è ricevuto? Questa è la domanda che Mauss si è posto a proposito del dono. E ha risposto facendo uso della nozione indigena di hau, così come viene presentata da un indigeno maori e che lui ha interpretato come un trasferimento di identità. Si tratta della parte più controversa del Saggio sul dono, quella che è stata più commentata. «In che modo - si chiede Goux qualcuno può trasparire in qualcosa? In che modo una cosa finita può presentifìcare, incarnare l’essere del donatore? E qui che ri­ siede il mistero o il paradosso del dono. Traspirazione dell’essere nell’avere, presenza ed esistenza di altri nella cosa finita»25. Per molti autori, la risposta che Mauss ha fornito è inaccettabile, per­ sino scandalosa. Perché si dona dopo aver ricevuto? A causa dello hau della cosa ricevuta, risponde Mauss, la quale contiene l’iden­ tità del donatore. «Anche se abbandonata dal donatore, [la cosa ricevuta] è ancora qualcosa di lui»26. «Regalare qualcosa a qual­ cuno equivale a regalare qualcosa di se stessi»27. Diversi autori hanno proposto la loro interpretazione delle parole del saggio maori28. Firth si chiede che cosa abbia preso a questo grande pen­ satore, uno spirito così moderno29. Che idea è quella di ricorrere a una nozione così confusa per spiegare la restituzione del dono, quando la paura delle sanzioni, il desiderio di ricevere di nuovo, in breve il controllo sociale o l’interesse sono sufficienti a render conto del fenomeno? Dal canto suo, Lévi-Strauss ha concluso che Mauss si è lasciato abbindolare dalla teoria indigena, invece di prenderne le distanze scientifiche. Poi, pur riconoscendo comun­ que il genio dell’autore del Saggio sul dono, non smette di tornare su questa teoria dello hau e sul presunto errore di Mauss. Così, 25 Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 267. 26 Mauss, Saggio sul dono, p. 18.

27 Ibi, p. 20. 28 Tra le più celebri: C. Lévi-Strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in Μ. Mauss, Teoria generale della magia e altri saggi, tr. it. di F. Zannino, Einaudi, Torino 2005, pp. IX-LIV; R. Firth, Economics of the New Zeland Maori, Government Print, Wellington 1929; Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle soci­ età primitive, A.B. Weiner, Inalienabile Possessions. The Paradox of Keeping-While-Giving, University of California Press, Berkeley 1992; Μ. Godelier, L’Enigme du don, Fayard, Paris 1996. 29 Citato da Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società pri­ mitive, pp. 160-161.

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Babadzan intitola il suo articolo Perfarla finita con lo hau, e si ram­ marica di constatare che Mauss credeva negli spiriti30. A questo proposito, sorgono spontanee due domande. In primo luogo: co­ me è possibile che un sociologo e antropologo di tale levatura ab­ bia commesso un errore così elementare, qualcosa che Mauss stesso ha senza dubbio insegnato a generazioni di studenti a non fare? In secondo luogo: perché, più di settantacinque anni dopo, questo passaggio resta tanto commentato, se è evidentemente fal­ so? Perché non si è passati ad altro? Quanto hau, quanto hau, come scriveva Pailine Taìeb nel Bulle­ tin du MAUSS già nel 1984! Personalmente, ignoro se Mauss abbia avuto ragione ad inter­ pretare in questo modo lo hau indigeno. Forse Sahlins, o LéviStrauss, o ancora Firth o un altro autore sono più vicini a quel che voleva veramente dire Ranapari, il saggio maori, motivo per cui sono portati a credere come Graeber che, «nella sua interpreta­ zione dello hau, lo stesso Mauss [...] ha creato una sorta di mito, e come per tutti i miti, quello di Mauss esprime qualcosa di essen­ ziale, qualcosa che sarebbe stato difficile esprimere in un altro modo. Altrimenti, la sua spiegazione sarebbe stata da molto tem­ po dimenticata»31. L’interpretazione di Mauss ha indicato un fe­ nomeno fondamentale, una dimensione del dono che ci coinvol­ ge tutti: il dono tocca l’identità dei partner. Questa idea del «potere che conferisce all’altra parte ogni cosa che sia stata in contatto con il contraente» appartiene certamente al mondo arcaico, dato che, come scrive Mauss, è «la consegueza della natura e del carattere spirituale della cosa data»32. Ma, lungi dall’essere soltanto arcaica, questa idea si ritrova curiosamente al centro della nostra concezione ordinaria del dono. «Il vaso è mia zia», dice un’ereditiera ad Anne Gotman33, facendole visitare il suo appartamento. E che cosa abbiamo constatato osservando persone beneficiarie di un dono che non ha nulla di primitivo, 30 A. Babadzan, Pour en finir avec le hau, «La Revue du MAUSS», 12 (1998), pp. 246260. 31 D. Grabber, Toward An Anthropological Theory of Value. The False Coin of Our own Dreams, Palgrave, New York 2001, p. 155.

32 Mauss, Saggio sul dono, p. 90. 33 A. Gotman, Le vase c'est ma tante. De quelques propriétés des biens hérités, «Nouvelle Re­ vue d’ethnopsychiatrie», 14 (1989), pp. 125-150.

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dono reso possibile dalla moderna tecnologia medica, il trapianto di organi? La paura di perdere la propria identità acquisendo quella del donatore. Più in generale, è l’idea del dono in sé che si ritrova a tutte le svolte del pensiero moderno sul dono e che spiega come questo possa essere pericoloso, come non sempre sia augurabile. «Il fatto è - scrive Mauss a proposito dei bramani - che il vincolo stabilito dal dono tra il donatore e il donatario è troppo forte per entram­ bi»34. Tale pericolo spiega come possa essere preferibile passare attraverso un altro sistema di circolazione. Così, il denaro per­ mette alle cose di circolare senza trasportare l’identità del dona­ tore, come già scriveva Montaigne quando esclamava che preferi­ va comprare una carica regale piuttosto che farsela offrire, infatti, comprandola, aggiungeva, «non dono altro che denaro; altrimen­ ti, è me stesso che dono»35. Ma «come si può donare se stessi attraverso il dono di una co­ sa?» si chiede Goux36. E risponde con l’idea di simbolo: «Se il do­ no è la presenza di qualcuno in qualcosa, allora l’oggetto donato (o il servizio offerto) prende in prestito la ricchezza inesauribile del simbolo e non il valore calcolabile della derrata»37. Questa è la risposta di Mauss: il simbolico, come ha mostrato Tarot38. E se, in­ vece che esser stato imbrogliato dall’interpretazione indigena, Mauss avesse all’inverso proiettato un’idea moderna su questa so­ cietà maori? E un tema costante degli scritti sul dono nella nostra società. «Anelli e altri gioielli non sono veri regali, ma hanno sol­ tanto la pretesa di esserlo [...] L’unico presente, l’unico dono è un frammento di te stesso»39. Vale dunque la pena prendere sul serio la teoria più contro­ versa di Mauss. Quando passano attraverso il dono, è come se gli oggetti avessero ancora un’anima, persino nelle nostre società, che pure hanno relegato l’animismo nelle società arcaiche. «Do­ po aver individuato la concezione indigena, occorreva sottoporla

34 Mauss, Saggio sul dono, p. 108.

35 Davis, The Gift in Sixteenth-Century France, p. 74. 36 Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 267. 37 Ibi, p. 268.

38 Tarot, De Durkheim à Mauss, l’invention du symbolique. 39 Emerson, La fiducia in se stessi.

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a una critica obicttiva, < hr pei mettesse di raggiungere la realtà soggiacente»'10. Ma qual è dunque la teoria soggiacente di Mauss quando parla di hau? E se fosse la teoria ordinaria del dono nella nostra società40 41? E se l’idea che, secondo Lévi-Staruss, Mauss ha erroneamente preso in prestito dal pensiero indigeno si ricolle­ gasse in realtà al nostro senso comune? Che cosa dice Mauss? Torniamo all’inizio del saggio. Quel die si osserva nelle società arcaiche, scrive, prende la forma del dono, assomiglia al dono, ma in realtà non lo è, perché c’è contraccam­ bio e obbligo di ricambiare42. Mauss si riferisce allora alla gratuità e al disinteresse, ossia a una concezione del dono che è comune nella nostra società. All’inizio oppone dunque in modo radicale ciò che gli etnologi osservano nelle società arcaiche, il contrac­ cambio obbligato, alla sua concezione di riferimento, il vero do­ no. Dire che ne ha solo la forma ma non la realtà significa defini­ re contemporaneamente il dono come libero e gratuito, significa mantenere questa definizione come riferimento. Per il Mauss del­ l’inizio del Saggio sul dono, il vero dono dev’essere libero e disinte­ ressato. E la sua posizione di partenza. Progressivamente, diventa meno certo, e finisce per mescolare la sua concezione teorica con quello che si osserva nella realtà: un insieme di libertà e di obbli­ go. E questo l’apporto principale di Mauss. Nel suo saggio, il fon­ damento morale viene spostato, grazie allo hau, dall’idea di libero e gratuito a quella di trasferimento di identità: un vero dono è un dono di se stessi, corrispondente all’ideale occidentale del dono di sé43. Come non riconoscersi nel pensiero maussiano del dono? Ecco perché l’idea di hau ha fatto scorrere fiumi di inchiostro: perché questa idea ci appartiene. Il Saggio sul dono parla costantemente del ‘vero dono’, del dono ideale, senza dirlo, salvo nella conclusione morale. Contrariamente a quel che crede LéviStrauss, l’idea di hau è tipicamente occidentale, è l’idea di dono

40 Lévi-Strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss, p. XLIII. 41 E anche la teoria cristiana del dono: «Prendete, questo è il mio corpo». «In termi­ ni antropologici, si può parlare di dono perfetto, perché il dono offerto è il donato­ re in persona», HÉnaff, Il prezzo della verità, p. 364.

42 Mauss, Saggio sul dono, p. 5. 43 Oggi ritroviamo questo fenomeno di trasferimento di identità sotto diverse forme, come le immagini di marca e gli oggetti appartenuti ai divi, soprattutto tra gli adole­ scenti.

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l’attrattiva del dono

di sé, cioè quel che più viene in mente all’individuo moderno quando gli si parla di dono. Aggiungiamo che il modello della circolazione del dono arcai­ co sviluppato da Mauss, fondato su tre momenti (dare, ricevere, ricambiare), non si ritrova da nessuna parte rappresentato come tale nelle società che lui osserva. Anche se si tratta beninteso di un’interpretazione eminentemente valida di ciò che Mauss (o più precisamente gli etnologi letti da Mauss) ha osservato, essa non corrisponde a una rappresentazione delle società arcaiche. Al contrario, la si ritrova nella nostra società. Identità e dono agli sconosciuti

Così lo spazio del dono è un luogo in cui si costruisce (o si di­ strugge) la nostra identità sociale. Il dono è una scena in cui si gioca continuamente la nostra identità. Questo gioco esige il ri­ schio. Il rischio del non-contraccambio, certo, ma più profonda­ mente il rischio del senso, il rischio della relazione, il rischio del­ l’identità. Che cosa ne è allora del dono agli sconosciuti, quello che Titmuss considera il dono moderno per eccellenza e che, nella sua celebre opera del 1972, ha come figura esemplare il dono del san­ gue? Per questo autore, le due grandi differenze tra dono moder­ no e dono arcaico sono l’anonimato e, di conseguenza, il fatto che il dono non crea legami personali e non implica reciprocità44. Non soltanto questo dono è fatto a degli sconosciuti, ma spesso, come sottolinea l’autore45, se si conoscono, «tanto il donatore quanto il donatario potrebbero rifiutare di partecipare al proces­ so per ragioni religiose, etniche o politiche»46. Al modello della comunità descritto da Mauss, Titmuss oppo­ ne quella che lui chiama «una comunità di estranei». A prima vi­ sta, Titmuss decostruisce interamente la concezione di Mauss ap­ plicando il suo schema al dono moderno del sangue e allo Stato. In questa comunità di estranei, dove si svolge il dono moderno

44 Titmuss, The Gift Relationship. From Human Blood Social Policy, p. 239.

45 Ibi, p. 74. 46 Ibidem.

■ Al. DI LÀ DU DI Itilo

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III \

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agli sconosciuti, non si troverebbe nessuna traccia di quel feno­ meno di trasferimento di identità. In primo luogo, notiamo che il suo modello non si applica a tutti i tipi di dono agli sconosciuti. Così, come abbiamo appena vi­ sto, l’esperienza vissuta dalle persone che hanno ricevuto un or­ gano non si spiega certo in base all’interesse né in base alla paura delle sanzioni, come invece scrive Titmuss. I trapiantati vivono be­ ne l’obbligo di ricambiare, pur col rischio di trasformazioni della loro identità e persino di attacco dell’identità del donatore. Dun­ que la questione che si pone è la seguente: è legittimo fare del do­ no di sangue il prototipo del dono agli sconosciuti nella società moderna? Non si potrebbe pensare, al contrario, che rappresenti un caso estremo in cui le manipolazioni del sangue (estrazione del plasma, ecc.) da parte degli intermediari finiscono per tra­ sformare il dono in un prodotto qualunque per il donatario e fi­ niscono per fare in modo che il dono di sangue non sia più un do­ no completo, perché non ricevuto come dono? Certo, il donatore dona, ma il donatario non riceve un dono, bensì un prodotto il più delle volte decomposto nei suoi diversi elementi, un prodotto diventato difficilmente identificabile con il donatore. Anche se sono state fatte poche ricerche sui riceventi di sangue, una recen­ te indagine va in questa direzione. La maggior parte dei riceventi incontrati lo riceve come un prodotto tra gli altri: «Fa parte di un tutto, insieme con le altre medicine»47. Il dono del sangue sarebbe dunque un’eccezione piuttosto che la regola48. In più, anche nel caso del sangue, il fenomeno di personalizzazione del dono non è totalmente assente. Nella sua ricerca, Henrion ha raccontato due casi (su dieci) in cui il feno­ meno di identificazione con il donatore malgrado tutto avveniva. «Sono convinta - afferma un’intervistata - che dopo la trasfusio­ ne sono stata influenzata nella mia evoluzione da questo corpo estraneo»49. Inoltre, alcuni tipi di dono dei prodotti del sangue non vengono inoltrati a una comune banca del sangue, perché 47 A. Henrion, L’énigme du don de sang. Approche ethnographique d’un don entre inconnus, tesi in informazione e comunicazione, Università de Liège, 2003, p. 103. 48 L. Anderson - D.A. Snow, L’industrie du plasma, «Actes de la recherche en sciences sociales», 104 (1994), pp. 18-23.

49 Henrion, L'énigme du don de sang. Approche ethnographique d’un don entre inconnus, p. 103.

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l’aitrattiva del dono

questo genere di prodotti non si conserva; devono passare diret­ tamente dal donatore al ricevente (anche se restano degli estra­ nei). Allora si presentano le caratteristiche abituali del dono: «Si vedrà spesso stabilirsi un rapporto emotivo tra il donatore e il pa­ ziente. La morte del paziente può evocare uno choc emotivo nel donatore»50. Le caratteristiche specifiche del dono del sangue si spiegano facilmente per il fatto che il ricevente non lo riceve come un do­ no. Ecco perché ci sembra che, in generale, e contrariamente a quel che fa Titmuss, non sia giustificato trarre conclusioni gene­ rali sul dono agli sconosciuti soltanto a partire dal dono del san­ gue. Crediamo al contrario che, il più delle volte, il dono agli sco­ nosciuti esprima anche l’identità sociale: quella del donatore e quella del donatario, anche se a un grado minore. Ancora oggi, nelle nostre società, la regola sarebbe, piuttosto, che «regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi»51. Lo hau è un concetto moderno! Il dono, anche tra sconosciuti, può rinforzare o distruggere l’identità del donatore e del donata­ rio. E quello che ora vedremo.

50 PJ. Hagen, Gift or Merchandise. Towards an International Blood Policy, Alan R. Liss Inc., New York 1982, p. 42. 51 Mauss, Saggio sul dono, p. 20.

CAPITOLO NONO

Il dono agli sconosciuti: un dono puro?

Nella prima parte abbiamo mostrato che l’interesse non ha biso­ gno di prove per venire riconosciuto: è sufficiente una spiegazio­ ne plausibile. L’importanza del dono nei legami primari è altret­ tanto facilmente riconosciuta: dall’amore per i propri figli si pas­ sa all’amicizia; la circolazione del dono nell’insieme dei legami primari è in fin dei conti abbastanza facilmente ammessa. Quel che rimane incomprensibile è il dono agli sconosciuti, soprattutto in termini di motivazione, tanto da essere considerato spesso inac­ cettabile come modo di circolazione delle cose. In altri termini, l’interesse individuale non ha bisogno di giustificazioni nel settore commerciale; l’interesse collettivo non ha bisogno di giustificazioni nel settore pubblico; il dono non ha bisogno di giustificazioni nei legami primari. Sono i tre principi che fondano questi settori della società. Il dono agli estranei, invece, ha bisogno di una giustificazione. Del resto, per renderlo plausibile, per trovargli delle ‘buone ragioni’, si è spesso fatto ricorso al dono nei legami primari, al dono alle persone vicine. Nella letteratura sulle motivazioni dei donatori agli sconosciuti, si considera come motivazione sufficiente il fatto che, per esempio, un parente abbia già avuto bisogno di sangue. Come dire che il legame primario è considerato come una spiegazione soddisfacente del dono a uno sconosciuto. Il che mostra bene a contrario che il dono agli sconosciuti non va da sé, che ha bisogno di ‘buone ragioni’, in mancanza delle quali genera sospetto. Il dono agli sconosciuti è il dono inclassificabile per eccellen­ za, il più vicino al dono gratuito esaltato dalle grandi religioni e nello stesso tempo il più moderno, dato che si svolge tra estranei che hanno pochi legami o ne sono del tutto privi; in breve, è il do­ no più paradossale, quello che può fare chiarezza sulla natura profonda di ciò che unisce il dono e il legame sociale, dal mo­

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L’ATTRATTIVA DEL DONO

mento che qui un legame debole consente un grande dono e im­ plica persino il dono della vita nel caso di alcuni atti di eroismo. Il dono agli sconosciuti ci sfida a comprendere la natura profonda del dono nella società moderna: prolungamento, complemento del sistema statale come hanno creduto Mauss e Titmuss, o al con­ trario sistema alternativo diverso ed essenziale di circolazione del­ le cose tra sconosciuti? In che modo viene presentato di solito? Opponendolo sia al dono nei legami primari sia al dono rituale delle società arcaiche. Ricordiamo la definizione del dono del giurista americano Eisen­ berg1, fondata sulla distinzione tra dono affettivo e dono morale. Dal canto suo, Hénaff2 mette anche in primo piano il senso mo­ rale e il carattere unilaterale del dono agli sconosciuti, per oppor­ lo in questo caso al dono cerimoniale studiato dagli etnologi, cioè al dono rituale di riconoscenza e di replica. Dono morale impersonale e dono affettivo personale; dono puro unilaterale e dono cerimoniale reciproco: ma è proprio vero che esistono fondamentalmente due sensi irriducibili che corri­ spondono, da un lato, al dono di riconoscenza, di replica, al dono agonistico e, dall’altro, al dono puro, gratuito, umanitario, unila­ terale, il cui modello sarebbe il dono del sangue alla Titmuss? Continuità o discontinuità? Vediamo i fatti. Un dono impersonale1 ?

Nel dono agli sconosciuti, il valore di legame è debole. Prevale il valore d’uso. Ma il valore di legame può comunque essere pre­ sente, e non solo: benché simbolico, può anche contare positivamente. Quando chi ha subito un disastro riceve dei viveri da sco­ nosciuti, si dà un’importanza evidente al valore d’uso, ma anche al valore di legame, nella misura in cui gli sconosciuti confortano i donatari sul fatto che altri esseri umani pensano a loro e donano qualcosa. Questi doni possono spingerli a donare a loro volta, co­ me si è constatato con la Croce Rossa etiope (cfr. cap. 6). Anche se nel dono agli sconosciuti l’intensità del legame è più debole,

1 Citato nella premessa. Eisenberg, The World of Contracl and the World of Gift, p. 823.

2 Hénaff, Il prezzo della verità.

II. DONO AGLI SCONCI#« Il II: UN DONO PURO?

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resta comunque piu importante che nel modo di circolazione sta­ tale o commerciale. Inoltre, anche se il dono agli sconosciuti si svolge spesso al tli fuori del legami sociali concreti tra donatore e donatario e si nu­ tre sopratutto di legami simbolici, la tendenza alla personalizza­ zione del legame è altrettanto presente. Si manifesta in modi mol­ teplici: importanza attribuita alla scelta del donatario (la Causa) da parte del donatore, esistenza di numerose fondazioni finalizza­ te a perpetuare il ricordo del donatore, ecc. Analizzando la filan­ tropia, Silber ha messo bene in evidenza questa caratteristica: «Lungi dall’essere separata dal dono, l’identità del donatore sem­ bra veramente lasciarvi un’impronta»3. Cita in proposito Andrew Carnegie, uno dei maggiori filantropi americani, il quale afferma che ciò che deve comandare la decisione del donatore è quanto gli sta più a cuore, perché «il suo cuore dovrebbe essere nella sua opera»4. Conclude affermando che c’è «una connessione profon­ da tra il dono e l’identità del donatore»5. Radley e Kennedy6 arrivano alla stessa conclusione dopo aver confrontato i comportamenti di tre gruppi sociali differenti (im­ prenditori, professionisti, operai) verso la filantropia: i doni di ca­ rità testimoniano contemporaneamente l’identità che i donatori si attribuiscono come gruppo e l’identità che loro attribuiscono ai donatari come gruppo. In un’indagine che riguardava un centi­ naio di ricchi donatori newyorkesi, Ostrower ha così dimostrato che i legami primari sono fondamentali per rendere conto della scelta delle organizzazioni alle quali donare. Infine, è altrettanto noto che i doni umanitari sono più facili da ottenere da coloro che hanno visitato il paese colpito dalla catastrofe. Non si tratta certo di ricondurre il dono agli sconosciuti al do­ no nei legami primari. Resta però la questione: che percentuale di doni agli sconosciuti rimarrebbe se ogni riferimento ai legami primari venisse eliminato? Così, al concerto offerto in beneficen3 I. Silber, La philanthropie moderne à la lumière de Mauss, «La Revue du MAUSS», 15 (2000), pp. 133-150.

4 A. Carnegie citato in ibi, p. 142. 5 Ibi, p. 141. 6 A. Radley - Μ. Kennedy, Reflections upon Charitable Giving: A Comparison of Individuals from Business. ‘Manual’ and Professional Backgrounds, «Journal of Community and Ap­ plied Social Psychology», 2 (1992), pp. 113-129.

I‘.Mi

l’attrattiva del dono

za dalla Fondazione del fegato, al quale assistevo perché conosco qualche malato di fegato, la presidente della fondazione aveva questo incarico perché il suo amico aveva subito un trapianto e, nel suo discorso, il tenente-governatore del Canada affermava di aver accettato di presiedere la serata perché uno dei suoi grandi amici era stato salvato da un trapianto. Il sentimento resta un motore importante del dono agli scono­ sciuti, anche se non è l’unico. Anche il senso del dovere gioca un ruolo, ma questo tipo di dono è spesso definito erroneamente in base a questa sola variabile. Il benefattore dona perché ha ricevu­ to, e dona a coloro che hanno un legame, reale o simbolico, con coloro dai quali ha ricevuto, dato che questo legame può esten­ dersi all’umanità intera. L’amore del lontano si radica sempre nel vicino. Bisogna comprendere la dinamica vicino-lontano come un continuum e vigilare affinché il lontano sia sempre radicato, in­ vece di cedere alla tentazione di farlo scaturire unicamente da princìpi universali, per quanto nobili e generosi siano, per quan­ to ‘gratuiti’. In ogni dono, c’è nel donatore un certo desiderio di legame7. Un dono morale senza replica ?

Conviene altresì superare il divario radicale tra il dono morale agli estranei e il dono sentimentale a chi ci è vicino. Che cosa ne è del dono cerimoniale studiato dagli etnologi? Hénaff non ha ra­ gione ad opporre questo dono di replica al dono morale? Citiamo ancora una volta Silber: «La filantropia moderna [... ] si svolge spesso, come accadeva nelle cerimonie arcaiche, nel quadro di at­ tività rituali festose come le cene, i galà...»8. Proprio come il dono cerimoniale, il dono filantropico è accompagnato da feste, dove è in gioco la riconoscenza, la replica e persino la competizione. Re­ sta però una differenza enorme: accade tutto tra donatori. Il do­ natario è tagliato fuori. Mentre le cerimonie arcaiche sono cen­ trate sul rapporto donatore-donatario, le cerimonie filantropiche 7 Cfr. il notevole lavoro di Pulcini: E. Pulcini, L’individuo senza passioni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, Bollati Boringhieri, Torino 2001. Cfr. anche Pulci­ ni, Assujetties au don, sujet de don.

8 Silber, La philanthropie moderne à la lumière de Mauss, p. 144.

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in genere riuniscono ed esaltano solo i ‘generosi donatori’, nel­ l’assenza dei donatari, lasciati da parte e ignorati durante questi potlàc moderni. Lo stesso modello si ritrova nei doni fatti ai prìncipi da parte del loro suddito. Anche qui la rivalità è presente so­ lo tra donatori, ma rovesciata: «Non si rivaleggia con un Califfo o con un principe. Si cerca di piacergli. [...] L’avversario non è di fronte, ma di fianco. [...] ci si misura con il proprio vicino e non con il proprio superiore»9. Nemmeno nel caso della filantropia, aggiungeremmo noi, ci si misura con il proprio inferiore, colui al quale si dona, perché lo si ritiene incapace di donare. In entrambi i casi, i donatori rivaleggiano tra loro: tra superiori o tra inferiori. Ciò non sarebbe comprensibile al pensiero arcaico del dono. Come si spiega questa differenza? Tra il dono cerimo­ niale delle piccole società e il dono filantropico è intercorsa la rot­ tura produttore-utente. Il dono filantropico si svolge nel quadro di questa rottura che abbiamo analizzato nella prima parte. Questo spiega perché tutto tende ad accadere tra produttori, nell’igno­ ranza dei destinatari. E il grande problema del dono agli scono­ sciuti: l’assenza di un rapporto comunitario (o la sua debolezza) si­ gnifica che ciò che circola si situa nel quadro della rottura produt­ tore-utente. La circolazione commerciale è dunque più adatta del dono a questo contesto, e dunque preferibile, dato che, come si è visto, in questo contesto e senza meccanismi che permettono un certo controllo dei destinatari il dominio dei produttori sugli uten­ ti e, mutatis mutandis, dei donatori sui donatari è inevitabile. Que­ sto pericolo è sempre presente nel dono agli sconosciuti. In tale contesto, il donatore può auspicare l’assenza di legame reale con il donatario, limitandosi al legame simbolico. Ma così facendo, i donatori tolgono al dono la sua possibilità di replica. Si accontentano del piacere solitario dell’atto di donare e si conso­ lano pensando alla purezza del loro dono che non si aspetta con­ traccambio da parte di un donatario sconosciuto. Se lo fanno in modo ostentato, allora si crogiolano nei rapporti con gli altri ‘grandi donatori’. Ecco un senso possibile del loro dono. In que­ sto contesto, la tendenza alla personalizzazione del dono, al tra­ sferimento di identità, presente qui come negli altri tipi di dono, è intrinsecamente pericolosa. Si tratta di una differenza essenzia­ 9 Benabdelali, Le Don e l’Anti-économique dans la société arabo-musulmane, p. 128.

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l'attrattiva del dono

le tra certi doni agli sconosciuti e il dono a chi è vicino o il dono cerimoniale. Questa differenza pone la questione della legittimità del dono agli sconosciuti.

Incapace di ricambiare «Non perdoniamo mai completamente a colui che ci obbliga scrive Emerson -, La mano che ci nutre corre il rischio di essere morsa»10. La munificenza competitiva schiaccia il donatario11. Malgrado tutti i suoi difetti, il mercato, lungi dallo schiacciare chi riceve, è al suo servizio, nella misura in cui chi riceve accetta di tramutarsi in consumatore e nella misura in cui la società gliene offre i mezzi finanziari. A queste condizioni, il venditore cerca piuttosto di schiacciare gli altri offerenti. E l’implacabile gioco della concorrenza, al servizio del ricevente-consumatore-cliente, che è sovrano. Il dono è pericoloso. Se l’identità può venire rafforzata, nella stessa misura può anche essere minacciata. Gli effetti negativi del dono possono certamente situarsi nei tre momenti del ciclo di­ stinto da Mauss. Il donatore può farsi accalappiare e può utilizza­ re il dono per fini illegittimi. Il suo dono può essere mal ricevuto e persino non ricevuto. Il rifiuto del donatario (più raro) è una volontà di umiliare il donatore, come ha visto bene Mauss quando scrive, a proposito dell’ospitalità: «ci si rivolge talvolta con timore ai propri invitati; infatti, se respingessero l’offerta, si manifeste­ rebbero superiori»12. Nella società arabo-musulmana classica, i sudditi amano ricevere i regali del principe. Questa logica del do­ no «sembra raccogliere l’unanimità. [Ma] dei santi o dei folli [...] rifiutano i doni del principe, il che è un modo di disconoscerlo. [...] Erano degli emarginati. [...] Erano tuttavia molto richiesti per le loro benedizioni, un dono insigne che loro non cercavano di monetizzare. Donavano, ma rifiutavano di ricevere»13. 10 Emerson, La fiducia in se stessi. 11 Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 278. 12 Mauss, Saggio sul dono, p. 70.

13 A. Kilito, in Benabdelali, Le Don e l’Anti-économique dans la société arabo-musulmane, p. 11.

lì. DONO AGLI SCONO.M 11*11 I N DONO PURO?

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Se il dono può essere sviato, pervertito in ogni momento del ciclo, se le sue tendenze all’eccesso sono sempre rischiose, resta pur vero che il momento del ricevere costituisce il punto critico. Gli effetti negativi più importanti del dono si collocano in questo secondo momento, che è determinante e definisce la piega che prenderanno l’intero ciclo e gli altri momenti. Anne Gotman” ha mostrato chiaramente in che modo la dilapidazione equivale a una sottrazione del dono e, più precisamente, a una sottrazione del ricere stesso. La dilapidazione ha la sua origine in un ‘rifiuto a ricevere’. Ingiustizia, umiliazione e perdita di dignità del donata­ rio sono la ragione per cui la società è passata dalla carità alla be­ nevolenza, poi alla fraternità e infine alla solidarietà e alla giusti­ zia14 15. Si è passati dal sistema del dono ai sistemi di sicurezza socia­ le. Questo modo di circolazione fondato sui diritti è preferibile al dono, anche se, dal punto di vista dei legami sociali, si tratta di si­ stemi di livello inferiore. Come mai il momento del ricevere può concentrare tutti que­ sti effetti perversi? Il più delle volte si risponde: perché il donata­ rio non può ricambiare. Sarebbe dunque l’assenza di contrac­ cambio che umilia il donatario nel dono agli sconosciuti. Questa risposta non considera altro che ciò che circola. Fedeli al nostro approccio, crediamo piuttosto che tutto dipenda dal senso di ciò che circola, che sia unilaterale oppure no. E quel che ci auguria­ mo di mettere adesso in evidenza, cominciando da questo com­ mento di un membro di un’organizzazione comunitaria che de­ plora le conseguenze nefaste del dono alimentare, facendo la se­ guente distinzione: «L’aiuto d’urgenza è molto importante, è il dono a lungo termine che bisogna combattere. [...] Perché più questo dono [...] diventa duraturo, in qualche modo istituziona­ lizzandosi, più si rischia che le persone aiutate lo percepiscano co­ me una conferma della loro incapacità personale, se non addirit­ tura della loro incompetenza»; perciò essi arrivano a «concepire come un diritto l’aiuto alimentare»16. Perché questo autore dà tanta importanza alla distinzione tra

14 A. Gotman, Dilapidation et prodigalité, Nathan, Paris 1995. 15 J. Pappas, Le XVIII siècle, de la charité à la fraternité, «Autrement. La Charité», 11 (1993), pp. 66-86.

16 Lachapelle, «Le Devoir», 9 novembre 1999.

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l’aitrattiva del dono

l’aiuto d’urgenza e quello che «diventa duraturo»? L’aiuto d’ur­ genza è altrettanto unilaterale dell’aiuto alimentare che diventa duraturo. La distinzione pertinente non è dunque a questo livel­ lo. E nello spirito, è nella perversione del dono che si instaura in qualcuno quando il dono lo definisce e lo conferma come inca­ pace di donare. Il dono unilaterale è negativo quando significa per il donatario che non può donare, contribuire. Alcuni doni unilaterali hanno questo senso, ma altri no. E quel che presume l’autore distinguendo i due tipi di aiuto. Pur essendo altrettanto unilaterale dell’altro, il primo non intacca la capacità di donare del donatario, perché il suo bisogno unilaterale di ricevere è defi­ nito come temporaneo e circostanziale e come qualcosa che non ha niente a che vedere con la sua persona. Il donatario non è de­ finito come qualcuno con una incapacità permanente di donare. E per lo stesso motivo che nemmeno il fatto di ricevere del san­ gue è umiliante. Il problema non è perciò nell’unilateralità reale, ma nel senso di ciò che circola, così come viene percepito dal do­ natario. Il problema è nello spirito del dono. Ciò significa che non esiste una categoria di dono unilaterale, cioè un dono che si ferma al donatario, un dono che si spegne al momento del ricevimento. Un dono del genere è mutilo se non invita il donatario a donare a sua volta. Questo ciclo può essere molto lungo, come ha messo in evidenza il dono della Croce Ros­ sa etiope. Ma il dono non deve mai comunicare all’altro che lui non è in grado di donare. Come nota Anne Gotman a proposito dell’ospitalità, è impor­ tante «mettere chi arriva nella condizione di donare»17, che è l’e­ satto opposto di quel che fanno molti grandi donatori. Se la vo­ lontà di rendere questo dono positivo è presente, esistono allora molti modi di liberare il donatario da questo potenziale debito negativo. Come non ricordare qui l’intervento di quel personag­ gio che è Babbo Natale nel dono ai bambini? Babbo Natale è co­ me il sole. Entrambi donano senza ricevere. E la caratteristica più specifica di Babbo Natale nell’universo del dono: dona senza rice­ vere e senza problema. Non esiste se non come donatore, non fa nient’altro che apparire, donare dei regali e sparire, attraverso il camino o in un altro modo. Questo sconosciuto può servire a di­ 17 Gotman, Le sens de l’hospitalité, p. 252.

II. DONO Alili SI :< >N< >M ’till I N (MINO PURO?

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minuire l’impatto negativo ilei regali a senso unico. Del resto, tor­ se non è innocente il fatto che i bambini smettano di credere a Babbo Natale quando cominciano a fare loro stessi dei regali ai loro genitori. Babbo Natale esprime l’ingrediente essenziale del dono: il fatto che egli venga dal nulla, che sia un’apparizione e non un prodotto, cosa che precisamente lo rende magico. Si pone però una questione: perché i genitori non dicono ai loro bambini di ricambiare Babbo Natale? Perché in questo caso non insegnano loro la generosità, come in generale fanno quan­ do il bambino riceve qualcosa da un’altra persona? Perché Babbo Natale non riceve mai niente e perché va bene così per tutti? For­ se perché questi primi regali fatti ai bambini vogliono essere una ripetizione e un ricordo del dono della vita che essi hanno appe­ na ricevuto, vita che è matrice di ogni dono, senza contraccam­ bio, dono che non si può far altro che trasmettere. I regali di Bab­ bo Natale sono come le ombre di questo dono primordiale. «Alla fin fine, tutti i doni non sono altro che ombre del dono originario degli dei - il dono della nostra esistenza»18. Esso rappresenta il primo dono, il dono senza debito, Dio, il mitico personaggio del dono senza replica. Babbo Natale è una risposta al problema del dono unilaterale, risposta sfortunatamente non generalizzabile. In realtà, questo principio per cui si trasferisce il dono su un terzo viene applicato più spesso di quanto si pensi, anche se in modi diversi. Il dono può essere inquadrato, giustificato in base a qualcos’altro, classifi­ cato come eccezionale oppure trasformato in diritto quando lo Stato se ne fa carico. A queste condizioni, ciò che circola può esprimere positivamente il legame sociale. L’atteggiamento del donatore è ugualmente importante.

Ruolo degli intermedian

I problemi legati agli intermediari sono noti da sempre. Corru­ zione19, dirottamento del dono, sparizione del dono. Già nel XII 18 Μ. Osteen (ed.), The Question of the Gift, Routledge, London 2002, p. 20. 19 Dove finisce il dono moralmente accettabile, dove comincia la corruzione? La que­ stione non è di oggi, nemmeno di ieri. In un’opera intitolata appunto Bribes (tangen­ ti), Noonan scrive, a proposito della cultura biblica: «Il problema è inerente a una

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l’attrattiva del dono

secolo, Ramban diffidava degli intermediari. «Nessuno - scrive dovrebbe contribuire ad un’opera caritatevole se non conosce la competenza del responsabile e la fiducia che può avere nei suoi confronti»*20. Qui insistiamo piuttosto su un aspetto che più rara­ mente viene messo in evidenza: il loro ruolo positivo di cuscinetto {buffer) tra donatore e donatario. In quanto responsabili della di­ stribuzione dei doni, gli intermediari giocano molti ruoli nella mente dei donatori, tra cui quello di ‘primo donatario’21. Giocan­ do questo ruolo, fanno spesso in modo che il dono diventi accet­ tabile (ricevibile) dal donatario cui il dono è destinato, perché so­ no loro - gli intermediari - che sollecitano, loro che fanno la ri­ chiesta e loro che possono così assorbire in qualche misura la po­ tenziale dimensione negativa del dono quando significa, per il donatario, impossibilità di donare. Gli intermediari rendono perciò possibile l’introduzione di un quarto momento nel dono, quello della domanda. In linea gene­ rale, colui che attende un dono non lo chiede. Ora, nel dono agli sconosciuti, i donatari chiedono. Non chiedono ai donatori, ma agli intermediari. E gli intermediari chiedono a loro volta ai do­ natori, fanno delle ‘campagne di sottoscrizione’, difendono la Causa. Non chiedono per se stessi. Inoltre, sono spesso pagati per farlo, e il loro intervento si situa dunque nel quadro commercia­ le22. Siccome non chiedono niente per sé, la domanda perde la dimensione negativa abituale. Quindi si tratta di un ruolo fonda­ mentale, che costituisce un adattamento notevole del dono alle società fondate sulla rottura produttore-utente. Gli intermediari delle organizzazioni hanno la funzione di spersonalizzare il dono, di rendere il donatore anonimo, e perciò di diminuire il suo ca-

cultura che non ha stabilito una chiara distinzione tra la tangente e il dono» (Noo­ Bribes, p. 27). Natalie Davies è dello stesso avviso a proposito del dono nel XVI se­ colo in Francia: «I doni erano ovunque nella politica francese» (Davis, The Gift in Sixteenth-Century France, p. 85). «Dove comincia la corruzione?», si chiede (ibi, p. 88).

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20 R.H. Bremner, Giving. Charity and Philanthropy in History, Transaction Publishers, New Brunswick-London 1996, p. 18. 21 Come ha mostrato Henrion, dopo aver intervistato dei donatori di sangue: « [La Croce Rossa] può fungere da intermediario, ma anche [...] da primo ricevente, al­ meno nella mente dei donatori regolari» (Henrion, L’énigme du don de sang. Approche ethnographique d’un don entre inconnus, p. 99).

22J.T. Godbout, Consommateurs de don set producteurs de Causes. La philanthropie et le mar­ ché, «Revue internationale de psychosociologie», 4 (1997), 8, pp. 119-126.

II. DONO AGI.I SCONOSCIUTI: UttlDONO PURO?

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rattere nocivo per il donatario quando quest’ultimo si considera incapace di donare a sua volta. La domanda di dono diventa senza pericolo per il donatario perché sono gli intermediari che assorbono l’aspetto negativo della domanda. Il che spiega perché «l’atto di chiedere, o di sol­ lecitare [...] gode ormai di una legittimità senza precedenti e si svolge in piena chiarezza, attraverso l’intermediazione di potenti strutture organizzative e professionali che gli sono proprie»23.

Giustizia e solidarietà nel dono La sola presenza degli intermediari è però insufficiente per elimi­ nare gli aspetti negativi di questo tipo di dono. Tutto dipende dal senso che danno al loro gesto. Un donatore può, per esempio, mettere l’accento sulla norma di giustizia. Così, nessuno mette­ rebbe in dubbio che l’opera dell’Abbé Pierre (scomparso il 22 gennaio 2007) è sotto il segno del dono. Tuttavia, lui affermava continuamente che non faceva altro che rimediare a delle ingiu­ stizie. «Non siamo un’opera di beneficenza», diceva, arrivando a dichiarare: «E una questione di giustizia [...] siamo dei vigliacchi se ne facciamo una questione di beneficenza»24. «Se è vero che siamo una comunità di estranei, che cosa pos­ siamo fare d’altro se non dare la priorità alla giustizia?»25. Tutto accade allora come se fosse possibile applicare il principio di giu­ stizia allo spirito del dono, come se i due non solo andassero d’ac­ cordo, ma in certi contesti si completassero. Il principio di giusti­ zia dispensa il donatario dal principio di reciprocità. Il paradosso, come vedremo, raggiunge allora il suo culmine, perché l’Abbé Pierre comincia in primo luogo a chiedere ai più bisognosi... di donare! Tale atteggiamento è vicino allo spirito di solidarietà. La soli­ darietà trasmette un duplice messaggio: ti dono perché siamo si­ mili e, di conseguenza, non è detto che non possa avere anch’io 23 Silber, La philanthropie moderne à la lumière de Mauss, p. 145. 24 Citato da B. Eme, L’institution communautaire: de la réhabilitation à la réinsertion ? Analy­ se socio-institutionnelle de l’Union centrale des communautés Emmaus, CRIDA-I.SCI, Paris 1992, p. 7. 25 Sandel citato da Chanial, Justice, don et association, p. 277.

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l’attrattiva del dono

bisogno di te. Il contraccambio è dunque sempre possibile, per­ ché so che tu faresti la stessa cosa se fossi io al tuo posto. Abbiamo visto quanto questa visione fosse realistica e quanto il donatario avesse la memoria lunga con il dono dell’Etiopia al Messico e, in misura minore, nel caso della tempesta di ghiaccio in Québec.

Il piacere di donare Il donatore può così ritenere di ricevere una gratificazione nel fatto stesso di donare. In un’altra epoca, il dono dava sollievo alla coscienza. Nella morale protestante, come ha analizzato Weber, «un freddo adempimento del dovere è eticamente superiore alla sentimentale filantropia»26. Ai giorni nostri, è il piacere del dono ad essere messo in primo piano. Alla fine di una conferenza sul dono organizzata per alcuni volontari, un uomo si è avvicinato al microfono e mi ha detto: «Io non capisco perché Lei parla di do­ no a proposito del volontariato. Per me, non si tratta di dono. Lo faccio per il mio piacere». Così facendo, dava un duplice dono al donatario: il servizio concreto che gli offriva e il fatto di dispen­ sarlo da un contraccambio che forse non era in grado di dare. Co­ sì neutralizzava, almeno parzialmente, la potenzialità distruttiva del dono per il donatario. Questi sentimenti possono essere considerati come dei con­ traccambi del dono? Certo, ma tale contraccambio non viene dal donatario. E una distinzione essenziale, perché fa perdere al do­ no la sua dimensione di sfida, che non si situa più nella logica del­ la replica, perdendo così un elemento importante del suo valore di legame. In qualche modo si tratta di un dono incompleto. Ma questo male minore può avere come conseguenza il fatto di ren­ dere il dono accettabile per il donatario. Che sia per piacere o per dovere, ciò che conta è che il donatore dispensa il donatario dall’obbligo di donare a sua volta quando non è possibile. Parados­ salmente, ciò che conta è di non farlo per il donatario ogni volta che quest’ultimo si trova nell’impossibilità di entrare nel gioco della replica. Tale atteggiamento non può però sopprimere il de­ siderio del donatario di donare a sua volta, motivo per cui questo 26 Weber, L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, p. 323, nota 253.

II. ΠΟΝΟ ACL! SCONOSCIUTI: I* »ONO PURO?

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modo di donare agli sconosciuti costituisce un male minore. Re­ sta preferibile che il contraccambio venga dal donatario. Cosa che avviene anche secondo diverse modalità, che giocano tutte sul senso di ciò che circola. Così, il contraccambio può collocarsi nel legame stesso, nel valore di legame. Una persona che benefi­ cia dei servizi di un volontario ci diceva: «Gli piace venire a tro­ varmi, lo so». Questo contraccambio appartiene ad una catego­ ria superiore al caso-tipo di prima. Il piacere di donare viene qui attribuito al donatore dal donatario stesso, altro modo di entrare - o di dispensarsi dall’entrare? - nel gioco della replica.

Mettere in primo piano il contributo del donatario Alcuni intermediari mettono l’accento sull’utilità del donatario. Un’organizzazione di collocamento per non vedenti afferma di lavorare in uno spirito di efficienza, di plusvalore per le aziende e non di carità verso i ciechi. «Un handicappato cambia l’atmosfera di un’azienda, non avete idea. E una forza», mi dice il direttore dell’organizzazione27, che mette in primo piano solo l’utilità dei ciechi, il loro contributo, ciò che loro donano piuttosto che quel­ lo che lui dona loro. I ciechi sono molto contenti di questo approccio. Sono soddi­ sfatti perché in realtà si dà loro ciò di cui sono privi, ovvero la pos­ sibilità di donare. Non sono più considerati soltanto come dei do­ natari bisognosi di aiuto. Questa meta-intenzione di aiutare le persone non vedenti è presente, ma è taciuta. E mettendo in pri­ mo piano il valore d’uso dei donatari piuttosto che il valore di le­ game del dono che, spesso, una persona dona di più. E donando apparentemente di meno che dona di più. Come si è visto, le ap­ parenze sono importanti nel dono. Rendere a Dio

Tradizionalmente, «la dimensione spirituale [del dono cristiano] permette anche di neutralizzare gli effetti perversi di un dono 27 Colloquio HEC, settembre 1998.

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l’attrattiva del dono

unilaterale. Il donatore non attende nulla [...] dall’altro, e tutto da Dio»28. Sfortunatamente, i fatti hanno mostrato che questa eli­ minazione del donatario comporta spesso degli effetti perversi. Come aggiunge Chanial, «il modello caritatevole dev’essere de­ nunciato non solo quando si riduce a una semplice aritmetica del­ la salvezza, ma allo stesso modo quando si abbandona a un amore puro, che non esprime nient’altro che un misticismo individuali­ sta, in cui ogni essere conosce soltanto se stesso e Dio»29. Il rapporto coloniale è un caso-tipo esemplare di questa moda­ lità di rapporto con il donatore. In generale, i colonizzatori - mis­ sionari inclusi - avevano la tendenza a non provare alcuna grati­ tudine verso gli indigeni. AI momento del loro soggiorno nella Nouvelle-France (Canada),Jacques Cartier e gli altri Europei non dimostrano mai riconoscenza verso le popolazioni autoctone: «Cartier era riconoscente a Dio, non a Donnacona»30. Una delle grandi figure della colonizzazione del Canada da parte della Francia fu Marie de l’incarnation, che arriva per salvare i selvaggi. Secondo Suzanne Robert31, lei viene sicuramente a dare senza prendere in considerazione, senza immaginare un secondo di po­ ter ricevere qualcosa da loro, salvo la salvezza eterna di cui loro possono essere gli strumenti. I giovani Amerindi di cui si occupa sono letteralmente spogliati della loro identità per accogliere quella del donatore. Un esempio tra gli altri: «Lei insegna a ricamare a quelle ra­ gazze del popolo rinomate per la loro arte del ricamo! [...] Marie de l’incarnation, anche lei famosa ricamatrice, [...] avrebbe do­ vuto riconoscere il carattere esclusivo ed eccezionale del ricamo amerindio e chiedere piuttosto alle sue ospiti di svelarle i loro se­ greti»32. Ma, per questa grande mistica, era impensabile immagi­ nare di poter ricevere una cosa qualsiasi da loro. Marie de l’incar­ nation illustra il potere distruttore del dono quando attacca l’i­ dentità del donatario definito come privo di qualsiasi valore che non sia quello di destinatario potenziale delle offerte del donato­ 28 Chanial, Justice, don et association, p. 307. 29 Ibi, p. 330. 30 Davis, The Gift in Sixteenth-Century France, p. 82. 31 S. Robert, Mère Marie de la Désincarnation ou le mysticisme qui tue les autres, «Libérté», 43 (2001), 2, pp. 125-140.

32 Ibi, p. 128.

IL DONO AGLI SCONOSCIUTI: 1*1 DONI > PURO?

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re, in uno ‘scambio’ che nega il valore di tutto ciò che egli può donare. L’aiuto al Terzo mondo di oggi è cambiato di molto? Diane Fairchild, che lavora da molti anni per una ONG, definisce così il dono umanitario: «Il dono umanitario si caratterizza come quello che esclude per definizione e di fatto la capacità del donatario di ricambiare e di rispondere al dono. [...] Che cosa ricambiare a qualcuno che non vuole niente in cambio?»33. «E donando - af­ ferma Serge Latouche in L’Occidentalizzazione del mondo- che l’Occidente acquista il potere e il prestigio che generano la vera de­ strutturazione culturale»34. Ricordiamo infine la storia degli Svedesi che donano agli Esto­ ni35, riportata nel capitolo sul debito. Ecco un’illustrazione esem­ plare di doni mal ricevuti che includono tutte le questioni: identi­ ficazione, umiliazione, rifiuto di ricevere da parte del donatore. La figura di Erendira, nel libro di Gabriel Garcia Marquez (L’in­ credibile e triste storia della candida Erendira e della sua nonna snatura­ ta), il cui debito è per sempre insolvibile, non è forse la migliore allegoria del debito internazionale, del volto negativo di questo debito di partenza che diventa per sempre insolvibile, ricollegan­ dosi all’antico stato di debito denunciato da Nietzsche?

Il donatario dona Ecco alcuni tristi esempi di doni negativi agli sconosciuti. Per il fatto di essere unilaterali? Certo, ma innanzitutto, e più profon­ damente, perché il donatore definisce l’altro come incapace di donargli qualsiasi cosa, e non perché il donatario non ha niente da donare. Ancora una volta, importa il senso di ciò che circola. Ogni do­ no agli sconosciuti è però lontano dall’avere questo senso. Certe organizzazioni hanno un notevole successo nei confronti di colo­ ro che la società definisce come incapaci di contribuire a qualco­ ss D. Fairchild, Don humanitaire, don pervers, «La Revue du MAUSS», 8 (1996), pp. 294300; citazione a p. 295.

34 S. Latouche, L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria, tr. it. A. Saisano, Bollati Boringhieri, Torino 1992, p. 71. 35 Rausing, L’impossible retour. Dons, aides et échanges dans le nord-est de l’Estonie.

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l’attrattiva del dono

sa. Lo spirito dei donatori è qui in totale opposizione con l’atteg­ giamento delle organizzazioni che abbiamo appena descritto. Ta­ li associazioni si rivolgono a coloro che vengono chiamati gli esclusi, i più bisognosi, o ancora i tossicodipendenti, quelli che hanno ‘toccato il fondo’, come dicono gli Alcoolisti Anonimi. Per mettere in evidenza questo punto, chiediamoci brevemente in che modo procedono queste organizzazioni.

Gli A.A.

«Mauss non poteva certo immaginare che, undici anni dopo la pubblicazione del Saggio sul dono, due Americani di mezza età, al­ colisti, avrebbero messo in piedi un’organizzazione basata su delle reti sociali e fondata sul dono»36. Anche se vengono spesso critica­ ti, gli Alcoolisti Anonimi - e i numerosi gruppi di aiuto reciproco che a loro si ispirano - riescono dove altri hanno fallito37. Nel 1990 il numero dei membri è stato stimato intorno a due milioni38. Come spiegare questo risultato? Gli A.A. ritengono che il pri­ mo passo, per un alcoolista, consista nel riconoscere che ha biso­ gno degli altri per uscirne. «Abbiamo riconosciuto la nostra im­ potenza di fronte all’alcool», scrive uno dei fondatori39. Così fa­ cendo, l’alcoolizzato è indotto a definirsi come donatario senza perdere la sua dignità, abbandonando così l’individualismo narci­ sistico dell’essere-senza-debito, analizzato da Sarthou-Lajus, e che è tipico dell’alcoolizzato, il quale afferma di poter smettere di be­ re se vuole. L’ultima tappa consiste nell’aiutare altri alcoolizzati. Dopo aver ricevuto, l’alcoolizzato è invitato a donare a sua volta. Y'homo oeconomicus prende, Y homo donator riceve e dona. In un lavoro sui gruppi di aiuto reciproco, Borkman conclude 36 L.d.A. Mota, A ajuda mùtua nos grupos de alcoolicos anónimos, Paulus, Sâo Paulo 2004, p. 183. 37 Cfr. Godbout - Caillé, Lo spirito del dono, pp. 89-95; Pulcini, L’individuo senza passio­ ni. Individualismo moderno e perdita del legame sociale, pp. 221-223.1 fondatori erano pro­ testanti: cfr. K. Makela (ed.), Alcoholics Anonymous as a Mutual-Help Movement. A study in Eight Societies, The University of Wisconsin Press, Madison 1996. L’influenza prote­ stante appare specialmente in questa idea che non se ne può uscire da soli. La di­ stanza rispetto ai professionisti è pure un’idea importante, soprattutto tra i battisti, come si è visto nel cap. 3.

38 Makela (ed.), Alcoholics Anonymous as a Mutual-Help Movement. A study in Eight Soci­ eties, p. 3. 39 Citato in ibi, p. 117.

II. DONO A(U.I S< :N»»S< Il ' 11 I'N DONO PURO?

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che queste organizzazioni trasformano le vittime in persone < he aiutano: «Self-Help/Mutual Aid [...] changes 'victims' into helpers»*'. Questi gruppi hanno capito che il primo desiderio di chi ha toc­ cato il fondo è donare, e che il non-riconoscimento di questo bi­ sogno è la causa principale degli effetti negativi del dono morale, in primo luogo tra i più bisognosi, tra ‘quelli che hanno toccato il fondo’. Emmaus Senza essere un gruppo di aiuto reciproco, il Movimento Eni maus ne possiede lo spirito e ne condivide molti aspetti. Nell in verno del 1954, a Parigi l’abbé Pierre lancia un appello ai France si perché aiutino i senza tetto. Il Movimento si colloca in un con­ testo di dono, anche se ha sempre rifiutato di fondarsi sulla carità. Nel suo preambolo, il manifesto del movimento afferma di essere nato «dall’incontro tra uomini che hanno preso coscienza [...] delle loro responsabilità sociali di fronte all’ingiustizia e uomini che non possiedono più ragioni per vivere, [...] gli uni e gli altri decidono di unire le loro volontà e i loro atti per aiutarsi recipro­ camente»40 41. Inoltre, il fondatore dei compagni di Emmaus ama raccontare che il movimento è cominciato un giorno che un ten­ tato suicida, uscendo di prigione, è venuto a chiedergli aiuto. L’abbé Pierre gli ha risposto: «Vieni prima ad aiutarmi a trovare un alloggio a queste famiglie che sono sulla strada, poi ci occupe­ remo di te». Questa persona è diventata il suo più vicino collabo­ ratore e ha contribuito alla nascita del Movimento. Invece di of­ frire qualcosa a un tentato suicida che veniva a chiedergli aiuto, l’abbé Pierre gli ha chiesto piuttosto di venire ad aiutarlo. «Senza riflettere, senza calcolo, ho fatto, per così dire, il contrario della beneficenza», scrive l’abbé Pierre commentando questo episo­ dio42. Il mito fondatore delle comunità di Emmaus postula che persino i più bisognosi hanno in primo luogo bisogno di donare piuttosto che di ricevere.

40 TJ. Borkman, Understanding Self-Help Mutual Aid, Rutgers University Press, New Brunswick (New Jersey) 1999, p. 194. 41 Emmaus, Manifeste universel du Mouvement Emmaus, Emmaus France, Paris 1969.

42 H. Le Ru, De Vamour au management, Emmaüs en héritage, Les Editions ouvrières. P.i ris 1986, p. 19.

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L’ATTRATTIVA DEL DONO

Che siano i gruppi di aiuto reciproco o Emmaus, in entrambi i casi, tali organizzazioni si rivolgono a chi non ha niente da perde­ re e gli chiedono di... donare. Considerare l’insieme di ciò che circola

Per il fatto di avere un valore di legame più debole, che cede il passo al valore d’uso, il dono agli sconosciuti, nelle nostre società, si colloca in parte nel quadro della rottura produttore-utente, e dunque si lega con gli altri modi di circolazione. La redistribuzio­ ne da parte dello Stato e il dono agli sconosciuti appartengono al­ la circolazione il cui senso è la solidarietà con chi è nel bisogno. Essi dipendono dalla circolazione-spartizione piuttosto che dalla circolazione-riconoscenza. Con il mercato e lo Stato moderni (so­ no nati insieme, come ha mostrato Polany), e in parte grazie an­ che al dono agli sconosciuti, i membri della società si vedono li­ berati dall’obbligo di riconoscenza nella circolazione delle cose e, in parte, dal dovere del sostegno diretto ai vicini indigenti. Le co­ se finiscono per circolare in modo massiccio in nome di altri prin­ cipi, come i diritti, il profitto, l’interesse. La circolazione è libera­ ta dagli obblighi del legame, essendo sottomessa agli obblighi del­ la legge: legge del contratto commerciale (niente amici in affari, non ci sono amici per Γhomo oeconomicus), legge dei diritti colletti­ vi (nemmeno lo Stato ha amici, tutti sono trattati in modo eguale dall’homo aequalis). La spartizione e lo scambio diventano regolati dalla legge. Situato nel quadro d’insieme di ciò che circola, diventa chiaro che il senso del dono agli sconosciuti è più legato alla spartizione che al dono di replica. A questo riguardo, ricordiamo che quando Malinowski, nel suo celebre studio sul dono presso i Trobriandesi, menziona il dono agli sconosciuti (che lui chiama dono puro) per paragonarlo al dono arcaico, non lo paragona spontanea­ mente al dono cerimoniale (il kuhi), ma ai servizi che i membri di queste società si prestano vicendevolmente nel quadro dei legami primari. «Per dono puro intendiamo l’atto con cui una persona dona un oggetto o offre un servizio senza attendere né ricevere nulla in cambio. Questo tipo di dono non si incontra spesso nella vita tribale trobriandese. [...] Le [...] elemosine o atti di carità non esistono dal momento che un individuo nell’indigenza viene

IL DONO AGLI SCONOSfrlll ll I N DONO PURO?

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soccorso da tutti i suoi·1'. Malinowski paragona dunque il dono agli sconosciuti (dono puro) nelle nostre società con i servizi e con la spartizione presso i Trobriandesi. Se volessimo fare della genealogia, nel senso di voler capire e paragonare il senso di ciò che circola nelle diverse società, i rega­ li dipenderebbero (‘discenderebbero’) soprattutto dal dono di ri­ conoscenza, la redistribuzione e il dono agli sconosciuti dipende­ rebbero soprattutto dalla spartizione e il commercio dallo scam­ bio immediato. «Il dono - ripete Hénaff- non è né l’antenato del commercio [...] né l’alternativa a esso»*44. E giusto. Ma il dono agli sconosciuti non è a sua volta l’antenato del dono cerimonia­ le, bensì un prolungamento di quella tendenza a soccorrere un individuo nell’indigenza. Tutte le società - e non soltanto quelle occidentali - conoscono il dono ai poveri, alla vedova e all’orfa­ no45 nella misura in cui, in una data società, esistono dei poveri e il sistema di parentela rende possibile l’esistenza di vedove e di or­ fani. Il primo filantropo fu Prometeo. Per amore dell’umanità (phi los anthropon), donò il fuoco agli uomini. Perché mai le grandi re­ ligioni (cristiana, musulmana, buddista... ‘umanitaria’) hanno adottato questo principio filantropico? Perché si è passati dal so­ stegno ai membri della società - che esiste in ogni società - al­ l’aiuto alle altre società, arrivando fino all’‘amore’ per l’umanità intera? Tale è la domanda che questo tipo di dono fa porre, e non quella di capire come si sarebbe passati dal dono cerimoniale al dono umanitario, dal kula al dono puro. Questa estensione ac­ compagna la presa di coscienza dell’appartenenza alla specie umana che si è prodotta con le grandi religioni occidentali e orientali e che oggi prosegue con loro, ma anche senza di loro. E nel quadro di questa eredità che si può capire la specificità del dono agli sconosciuti. Certo, in ogni dono l’identità è in gio­ co, e, dunque, la possibilità di schiacciare l’altro è sempre presen­ te. Ma il dono agli sconosciuti ha una dimensione collettiva, mo­ rale, più importante del dono nei legami primari. Dipende in par­ te dal dovere. Motivo per cui vi si applicano certe regole che non

4S Malinowski, Argonauti del pacifico occidentale, vol. I, p. 190. 44 Hénaff, Il prezzo della verità, p. 163. 45 Noonan, Bribes.

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d'attrattiva del dono

convengono al dono nei legami primari. Del resto, è quel che ri­ conosce la tradizione giuridica della common law, che tratta questi doni in modo diverso. Tende a renderli legalmente esecutivi, ob­ bligando le persone a rispettare le promesse, a differenza delle promesse fatte nel contesto dei legami primari46. Perché? Per il fatto che, in questo tipo di dono, afferma Eisenberg, la relazione tra il donatore e il donatario non è affettiva, perciò esso compor­ ta una dimensione di politica sociale47. Il che pone di nuovo, in ultima analisi, la questione della legittimità del dono agli scono­ sciuti. La legittimità del dono agli sconosciuti

Come giustificare il dono agli sconosciuti nelle nostre società? Non dovrebbe dipendere interamente dalla redistribuzione stata­ le, non dovrebbe essere interamente assunto dai diritti? La rico­ noscenza non dovrebbe essere esclusivamente pubblica, per evita­ re quegli effetti perversi della carità giustamente denunciati da molti secoli? Una spartizione tra sconosciuti, con un debole valo­ re di legame, non tende ad essere umiliante, arbitraria, ingiusta, inopportuna, non pertinente? Il dono agli sconosciuti pone il problema della circolazione del dono in una società fondata sulla rottura produttore-utente. In tale quadro, lo Stato e il mercato dispongono di meccanismi importanti che attribuiscono diritti all’utente, a chi riceve. Nella filantropia, in compenso, il donatore non è sottomesso alla con­ correnza; non è il cliente ad essere sovrano, è il donatore, il ‘grande donatore’. Del resto, è tra di loro che si fanno compli­ menti. Certo, i donatori si preoccupano - sempre di più - del­ 46 Eisenberg, The World of Contract and the World of Gift, p. 857.

47 Ibi, p. 861. Questa dimensione di politica sociale mostra bene l’intreccio tra il dono agli sconosciuti e le politiche pubbliche. Motivo per cui tentare di generare l’attuale circolazione del dono agli sconosciuti a partire unicamente dalla circolazione-rico­ noscenza, indipendentemente dal valore d’uso di quel che circola, significa ingan­ narsi sulle condizioni iniziali. In questo tipo di dono, la dimensione di riconoscenza non è certamente assente. Ma, lungi dall’essere la causa di quel che circola, la rico­ noscenza può contenere delle fonti di elementi perversi che fanno sì che possa esse­ re preferibile, per il donatario, passare attraverso intermediari o trasformare il dono in diritto.

II. DONO AGLI SCONOSCIUTI: UNUXJNO PURO?

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l’efficacia dei loro doni48, e si aspettano un rendimento. Ma co­ me può essere valutato questo rendimento senza un certo pote­ re del donatario? Potere commerciale del consumatore, o pote­ re politico del cittadino? Il rendimento è definito in pratica co­ me ciò che risponde alle preferenze dei donatori, e non a quel­ le dei donatari, come nel modello commerciale, dove il profitto deriva in parte dalle preferenze dei consumatori. Nella lettera­ tura sulla filantropia49, ci si riferisce spesso alla comunità, cioè a un luogo in cui il legame produttore-utente consentirebbe que­ sto potere di chi riceve. Nel contesto del dono agli sconosciuti, però, il legame comunitario di appartenenza è ben sottile, e la comunità è un luogo fortemente simbolico, se non addirittura mitico. È la grande differenza con il dono nel legame primario. E per questa ragione che, in questo tipo di dono, lo Stato e il cittadino lavorano insieme? Si può anche considerare il fatto che, donando in benefìcienza, il cittadino adempia a una missione dello Stato, cosa che quest’ultimo riconosce formalmente rendendo questi doni detraibili dalle tasse, di modo che ogni volta che viene fatto un dono agli sconosciuti, lo Stato dona a sua volta (o direttamen­ te alle organizzazioni - Gran Bretagna -, o attraverso detrazioni di imposta per i donatori - Stati Uniti, Canada, Francia...). Lo Stato si attribuisce anche un diritto d’ispezione su questi doni, ri­ conoscendo le istituzioni filantropiche che hanno un tale statuto. Arriva persino a riconoscere alcune organizzazioni intermediarie (United Way, Centraide) che raccolgono i doni, decidono come assegnarli alle società di beneficenza, assolvendo così la sua stessa funzione, giocando cioè il ruolo di cui teoricamente essa ha il mo­ nopolio, ma senza la sua legittimità. Ora, la questione che si pone è: perché un’organizzazione non eletta avrebbe una pertinenza più grande dello Stato nell’assolvere questa funzione di donospartizione e di redistribuzione? E se lo Stato riconoscesse in questo modo i suoi limiti, cioè il fatto che il dono, persino quello agli sconosciuti, e malgrado tutti i rischi che comporta, possiede questa capacità di veicolare un va-

48 Μ. Abélès, Nouvelles approches du don dans la Silicon Valley, «La Revue du MAUSS», 21 (2003), pp. 179-197; citazione a p. 195.

49 Ibidem.

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l’attrattiva del dono

lore di legame superiore50 allo Stato? Certo, molte volte la diffe­ renza è sottile, e talvolta negativa. Tuttavia, nonostante questa di­ stanza tra donatore e donatario introdotta dagli intermediari, permane la tendenza alla personalizzazione che prima abbiamo descritto51. Queste istituzioni - come un tempo le Chiese, e un po’ ancora oggi - diventano sempre più importanti, anche se il più delle vol­ te il legame è solo simbolico; esse rendono comunque il dono agli sconosciuti diverso dai rapporti commerciali e burocratici. «Que­ sta emozione - la virtù propria del dono privato - nessun prelievo pubblico [...] può incarnarla ed esprimerla. [...] Lo Stato [...] rende fragile la socievolezza democratica scoraggiando forme di impegno e di partecipazione civica»52. Come ricordava Goodin: «Più il governo prende il posto delle associazioni, più gli individui dimenticano l’idea di associazione e chiedono l’aiuto del gover­ no»53. Contrariamente a quel che pensava Titmuss54, lo Stato può diminuire la propensione a donare nei cittadini e nelle associa­ zioni. Questo spiega senza dubbio il fatto che i due tipi di orga­ nizzazioni presentati prima, che si rivolgono, in modi diversi, ai bisognosi, tengono prima di tutto alla loro autonomia finanziaria in rapporto allo Stato. Nel caso di Emmaus, Le Ru constata «la scelta risoluta di sfuggire al circuito dell’assistenza attraverso il ri­ fiuto dei fondi pubblici di funzionamento»55. Quanto agli A.A.,

50 Questo spiega perché nel dono è meno facile (anche se è più facile nel caso del do­ no agli sconosciuti che in quello fatto ai vicini) fare come si fa con lo Stato, ritenen­ do che, una volta pagate le tasse, non si sia più responsabili, non si debba più niente a nessuno, come scriveva Polany (Polany, La grande trasformazione, p. 250). 51 Questa tendenza si trova persino in certi intermediari, come dimostrano i loro ten­ tativi (Centraide) di creare legami diretti tra donatori e donatari e la pressione co­ stante a favore dei doni diretti, opposti allo spirito statale.

52 Chanial, Justice, don et association, p. 286. 53 R.E. Goodin, Moral Atrophy in the Welfare State, «Policy Sciences», 26 (1993), pp. 6278; citazione a p. 64.

54 Titmuss ha mostrato chiaramente, al contrario di quel che afferma Arrow su questo punto, che l’introduzione del principio commerciale ha un effetto negativo sul dono di sangue. Ma anche lo Stato può produrre questo effetto (Arrow, Gifts and Ex­ changes, pp. 13-18). Cfr. P. SINGER, Altruism and Commerce: A Defense of Titmuss against Arrow, «Philosophy and Public Affairs», 2 (1973), 3, pp. 312-320. 55 Le Ru, De l’amour au management. Emmaüs en héritage, p. 56. Quando una persona decideva di restare nella comunità, era addirittura costretta a rinunciare al RMI (Re­ venu minimum d’insertion: reddito minimo di inserimento, assegno versato in Francia

II. DONO AC.I.I SCONOSCIUTI: I * DONO PURO?

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loro rifiutano qualsiasi dono che non provenga da chi ne è mem­ bro: «Ogni gruppo degli A.A. deve coprire interamente le sue spe­ se, rifiutando contributi esterni»56. Il postulato del dono è fondatore di un contratto sociale non statale, un’alternativa al contratto sociale di Hobbes. Come scrive Sahlins, gli scambi sociali devono recare in se stessi elementi di ri­ conciliazione, e non solo di sfida57. E il fondamento del modello comunitario senza rottura, ma aperto e perciò rischioso, il che spiega perché spesso si preferisca lo Stato. Ma al di fuori dello Sta­ to, questo tipo di scambio prosegue oggi in mille modi. Dopo tan­ ti secoli di Stato e di mercato, abbiamo conosciuto i limiti della ri­ conoscenza pubblica e stiamo comprendendo i limiti dell’espan­ sione commerciale. Lo scambio moderno deve ritrovare questa dimensione politica non statale, dal momento che ora conoscia­ mo i limiti dei due modelli fondati sulla rottura.

Il dono agli sconosciuti è un dono

Perché donare a qualcuno con cui non abbiamo nessun legame diretto e che sembra a prion: incapace di ricambiare, di entrare nel grande gioco della replica? Perché i Messicani hanno donato agli Etiopi nel 1953? Perché voler aiutare l’altro? Per identificazione al donatario con cui il donatore condivide la stessa causa, gli stes­ si valori. Ecco una prima risposta. Ma anche: perché si è ricevuto. E il caso degli Etiopi e, chissà, forse anche dei Messicani. Ritrovia­ mo così il grande movimento ciclico del dono e la forza del prin­ cipio di reciprocità. E sempre l’identità ad essere in gioco. Certo, la componente di ‘replica’ è meno importante, mentre la dimen­ sione morale e di ‘aiuto’ è più presente. Ma è una questione di grado. E un dono di replica, fatto però ad altri rispetto a quelli che ci hanno donato. Ogni dono è un dono di riconoscenza e moa chi ha più di 25 anni ed è senza lavoro [n.d.t.]). (F. Liégard, La conquête de la digni­ té ou comment la richesse vient aux hommes d’Emmaüs, in A. CAILLÉ (éd.), Matériaux pour servir à un paradigme du don, Commissariat général du Plan, Paris 1996, pp. 47-73; ci­ tazione a p. 60). 56 Alcooliques anonymes, Manuel de services A.A., Service de la littérature A.A. du Québec, Montréal 1982, p. 90. 57 Μ. Sahlins, The Spirit of the Gift, in Schrft (ed.), The Logic of the Gift, pp. 70-99; citazione a p. 95.

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l’attrattiva del dono

rale in proporzioni diverse. Talvolta, la debole possibilità di repli­ ca conduce ad aggirare la forza del principio di reciprocità per evitare gli effetti negativi del dono che si ferma al donatario, cosa che mette bene in mostra la sua presenza come tensione, come principio che invita l’altro a donare. Queste astuzie per non colpire negativamente l’identità del donatario, questi aggiramenti della regola di reciprocità tipici del dono agli sconosciuti non possono essere correttamente interpre­ tati se non si tiene conto, attraverso il modello di Mauss, dell’insieme di ciò che circola in una società. Si ritrovano tutte le regole. E sempre questione di trasferimento di identità, di riconoscimen­ to dell’altro, di preoccupazione per non schiacciare il donatario, per non fargli perdere la faccia. Il dono morale ha bisogno talvol­ ta di essere negato come dono per essere all’altezza. Perché? Per­ ché anche in questo caso sono in gioco l’identità, il riconosci­ mento, anche se la dimensione morale è più importante che nel dono cerimoniale o nel dono fatto a livello dei legami primari, dove prevale il sentimento. Lungi dal potersi applicare soltanto al dono cerimoniale delle piccole società del passato, questo modello di dono è utile per comprendere il dono agli sconosciuti. Esso rimanda ai tratti spe­ cifici del dono morale, tratti che mirano a compensare gli effetti negativi del principio di replica quando quest’ultimo è impossibi­ le da applicare. Lo spirito del dono morale può senza dubbio es­ sere diverso dal puro dono di replica. L’interesse per l’altro - l’al­ truismo - è più accentuato nel dono morale, anche se non è as­ sente nel dono di replica, salvo quando è fatto unicamente per la gloria del donatore, dono monco che conduce al disordine del potlàc e alla distruzione pura e semplice di ciò che circola (che perciò smette di circolare), facendo perdere la faccia al donata­ rio. In tutti i tipi di dono, qualcosa circola secondo regole simili che non si possono snobbare. Il senso del dono varia, ma le rego­ le di Mauss si applicano. Il riconoscimento per identificazione è comune tanto al dono morale quanto al dono di replica, malgra­ do il fatto che ciò che circola nel dono morale abbia un carattere molto più utilitarista. «Siete dei nostri». Questo messaggio accomuna tutti i tipi di dono. Ma può essere oscurato, deformato dall’incapacità di repli­ care, e può persino essere completamente negativo e significare: voi non siete niente se non siete come noi, dovete essere come

Il DONO ACI I SCONOSt II II I tyPQNO PI IRÒ?

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noi e non essere più quello che siete. Ciò accade quando, andan­ do al di là dell’incapacità di donare del donatario, ci si trova di fronte al rifiuto di ricevere del donatore. In questo caso, il dono agli sconosciuti, così come il dono interpersonale, equivale a un desiderio di possedere l’altro, di appropriarsene. Il messaggio di solidarietà, di riconoscimento di identità simile, viene rovesciato e si trasforma in esigenza di negazione della propria identità. Il donatore riconosce nel donatario soltanto la propria identità. Il riconoscimento è sempre in gioco nel dono. Esso è più importan­ te della replica. E un invito a far parte. Se, come si è visto, esisto­ no dei mezzi per aggirare la necessità della replica, la preoccupa­ zione di riconoscimento reciproco è inaggirabile, e la sua nega­ zione comporta gli effetti negativi più gravi. Per evitarli, bisogna comprendere questo dono in un modo diverso dal dono morale unilaterale che obbedisce soltanto alle regole del dono puro. Il dono agli sconosciuti è un dono nel senso maussiano, ma non è un dono puro. Forse è addirittura il dono più ‘impuro’, nella mi­ sura in cui spesso si colloca, nelle nostre società, tra il diritto e il dono. Per il donatario, è il dono più pericoloso. Non è nemmeno un dono unilaterale, quando lo si osserva in cicli abbastanza lun­ ghi. Come ogni dono, invita il donatario a donare a sua volta.

Fare del donatore un Dio Siamo molto lontani dalla problematica di filosofi come Derrida, il quale vieta in qualche modo al donatario di essere riconoscen­ te, il che diventa una condizione del dono. Altrettanto lontani dalla grandiosa visione del dono in Nietzsche, che non lascia nes­ suno spazio al donatario, condannato a perdere la faccia. Nietz­ sche descrive un mondo in cui tutti devono essere donatori, senza ricevere. «“Siate restii nell’accettare! Onorate per il fatto di accet­ tare!” - questo io consiglio a coloro che nulla hanno da donare. Io però sono un donatore: volentieri io dono, come amico agli amici. Gli estranei e i poveri colgano da sé il frutto del mio albero: ciò fa meno vergogna»58.

58 F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere di Friedrich Nietzsche, Edizione italiana diretta da G. Colli - Μ. Montinari, vol. VI, tomo 1, a cura di

2 IH

l’attrattiva del dono

L’incapacità di replica è la posizione sociale peggiore che la volontà di potenza elargisce, cosa che Nietzsche, avendo lui stesso biasimato la vittima, non sembra aver riconosciuto. La pietà di Nietzsche è dello stesso tipo del dono che conferma l’altro nella sua incapacità di donare*59. L’impossibilità di pensare il dono pu­ ro deriva dal fatto che, essendo senza legame, non è concepito co­ me un fenomeno relazionale, ma unicamente come un movimen­ to esclusivo del donatore. Tale visione del dono è incompleta. Nietzsche ne rappresenta il prototipo con Zarathustra e l’amore del remoto60, senza legame, non solo senza preoccupazione del contraccambio, ma soprattutto senza preoccupazione del donata­ rio. «Simile all’oro, luccica lo sguardo di colui che dona»61. In Nietzsche, il donatario non può essere che lontano, un punto al­ l’orizzonte, un’astrazione, perché, non appena si materializza, è fatto oggetto di pietà e umiliato. Nietzsche non vede altro che il gesto grandioso del donatore solitario che necessariamente schiaccia il donatario nel gesto stesso di donare. Nietzsche ha mai saputo ricevere? «Io non conosco la felicità di colui che prende; e spesso ho sognato che nel rubare, più che nel prendere, dovesse essere beatitudine»62. Il suo disprezzo per la pietà, per quanto giustificato, è anche una negazione del dona­ tario. Nietzsche è l’illustrazione più tragica della potenza distrut­ tiva del dono, del movimento puro del donatore che, non trovan­ do donatari, perché li annienta con tutta la sua potenza distrutti­ va, ritorna indietro come un boomerang verso il donatore, di­ struggendo anche lui. «E la vita stessa mi ha confidato questo se­ greto. “Vedi, disse, io sono il continuo, necessario superamento di me stessa”»63. Nietzsche perde la ragione davanti allo spettacolo di un cavallo che viene maltrattato. Il dono puro è un’esasperazione del donatore a discapito del donatario e della relazione. E il nobile isolamento del gesto del Μ. Montinari, Adelphi, Torino 1973, p. 105. Notiamo di sfuggita che Nietzsche segue in questo caso i precetti di Seneca e di Ramban. 59 Sarthou-Lajus, L’Éthique de la dette, pp. 179-180.

60 «Amici, non l’amore del prossimo vi consiglio: io consiglio l’amore del remoto» (Nietzsche, Così parlò Zarathustra, p. 71). 61 Ibi, p. 88.

62 Ibi, p. 127. 63 Ibi, p. 139.

II. DONO AGLI SCONOSCI! ni: GODONO PURO?

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donatore. E fare del donatore un Dio. L’opera di Richard64 illu­ stra tale approccio. Per questo filosofo è il donatore a determina­ re ciò che il donatario deve ricevere, e, anche se si sbaglia, se è fat­ to per l’altro è un dono. In breve, è solo l’intenzione che conta65. Notevole è la somiglianza con il modello del rapporto professio­ nista-utente descritto nella prima parte, dove l’utente è a priori considerato come incompetente, ignorante, incapace di conosce­ re i suoi veri bisogni. L’aporia del dono puro riproduce la supe­ riorità infinita del donatore che il mercato, e specialmente la teo­ ria neoclassica, ha messo in discussione con la teoria delle prefe­ renze e la sovranità del consumatore che ne deriva. La sovranità del consumatore, ricordiamolo, è una rivoluzione molto profon­ da. Essa si oppone alla visione biblica. Nel dono, il donatore sce­ glie il dono che il donatario riceverà. Certo, il donatario può ren­ dere nota la sua insoddisfazione. Ma non è lui, idealmente, a de­ cidere, dato che la posta in gioco è appunto che il donatore indo­ vini, che conosca le preferenze del donatario. Il dono ideale esiste quando il donatario esclama: «Ma come hai fatto a sapere che era proprio ciò che volevo?». E non solo quando le attese del donato­ re sono soddisfatte.

Conclusione Nella prima parte abbiamo visto che, con farrivo del modello commerciale e della sovranità del consumatore, l’idea del dono puro viene continuamente contestata, e il dono non potrà mai più essere lo stesso. Il dono puro non è un modello di dono com­ pleto, perché è un dono solitario. Il dono puro perciò non crea legame sociale. E quel che mostra il teologo Sequeri in un testo straordinario a proposito della tendenza «a fantasticare di un ‘do­ no puro’, perfettamente estraneo ad ogni forma di scambio, vin­ colo, [...] tensione drammatica. [...] Un dono siffatto non esiste e non può esistere: né come relazione affettiva, né come espe­ rienza morale. Al massimo si dà come apparenza del gadget pub-

64 Richard, Nature et formes du don.

65 Anche se afferma il contrario (ibi, p. 10) e menziona (p. 107) «il bisogno che l’al­ tro, in quanto altro, prova».

220

D'ATTRATTIVA DEL DONO

blicitario, o come mistica di un’auto-conferma narcisistica (e ulti­ mamente dispotica) della propria autosufficienza. E la controfi­ gura nichilista del dono, non la purezza ideale della sua verità»66. In tutti i pensatori del dono puro unilaterale, il donatore mo­ nopolizza l’attenzione. «La generosità ha come condizione l’in­ gratitudine dell’altro» ha scritto Lévinas (cfr. cap. 5). Il che signi­ fica che la mia unica chance di essere generoso in questo mondo è quella che io sia l’unico ad esserlo e che tutti gli altri siano in­ grati! Strana posizione! E il problema di Nietzsche e di tutti colo­ ro che concepiscono il dono a partire unicamente dal gesto del donatore, e non come una relazione. Ma dal punto di vista del do­ natario, il grado più elevato del dono non è, al contrario, quello che lo invita a donare a sua volta, il dono dell’Abbé Pierre e degli A.A., piuttosto che quello di Marie de l’incarnation e degli Svede­ si? Il dono morale non si ricollega allora al dono di replica, quel­ lo che lancia una sfida all’altro, ma senza togliergli la possibilità di raccoglierla? Il senso ultimo di ciò che si riceve è il dono. Ne ri­ sulta che quando qualcuno dona ritenendo il donatario incapace di donare o rifiutando che anche lui doni, avvelena il suo dono, obbligando l’altro a percepirsi soltanto come donatario, perciò tutto il debito negativo e gli effetti perversi del dono derivano da questo senso che priva il donatario di ogni identità sociale. Gli effetti negativi del dono si collocano perciò a livello del senso, e non in relazione a ciò che circola in una direzione o l’al­ tra. Il dono umanitario e tutti quei doni voluti e considerati dai donatori come unilaterali sono lungi dall’essere il tipo puro del dono, l’ideale del dono come ama pensarlo l’ideologia occidenta­ le. Ma questa visione è recente. Come si è visto, non è quella di Se­ neca. E nemmeno quella di un rabbino che, nel XII secolo, defi­ niva così il grado più elevato del dono67: «Aiutare una persona nel bisogno a diventare auto-sufficiente». Il più bel dono che si può fare a una vedova è un marito, e all’orfano un genitore. 66 P. Sequeri, Dono verticale e orizzontale: fra teologia, filosofia e antropologia, in G. Gas(a cura di), Il dono. Tra etica e scienze sociali, Edizioni Lavoro, Roma 1999, pp. 107-156; citazione a pp. 152-153. Su questo punto importante, cfr. PULCINI, L’individ­ uo senza passioni, pp. 201-202; Eisenberg, The World of Contract and the World of Gift, pp. 823-824.

parini

67 Moses ben Maimon (1135-1204), citato in Bremner, Giving. Charity and Philanthropy in History, pp. 17-18. Cfr. anche Salamon, Ramban’s Ladder. A Meditation on Generosità and Why It Is Necessary to Give.

CAPITOLO DECIMO

Il terzo del dono: dono e giustizia

Il dono non è un semplice trasferimento, esso stabilisce una mediazione. Inventerebbe il terzo se già non esistesse. [.··] Quel che si dona è il dono stesso; e questo dono non lo si ha, è il simbolo di un’assenza1.

Il dono pensato come unilaterale rappresenta una visione monca, perché il dono contiene un invito a donare a propria volta. Que­ sto fenomeno sociale fondamentale ha portato numerosi autori a concludere che il dono può essere compreso solo se lo si conce­ pisce non come un rapporto binario tra un donatore e un dona­ tario, ma come una struttura ternaria. E quello che Godelier ha chiamato Γ«enigma del terzo»2. Tale questione del terzo è onni­ presente nella riflessione sul dono, a cominciare da Mauss con lo hau. Che cosa sarebbe dunque questo terzo del dono, che, a dif­ ferenza del terzo nei modelli individualista e olista, non dev’esse­ re vincolante? In effetti, come ha ben analizzato Sahlins, a diffe­ renza delle teorie del contratto sociale, «il dono non specifica una terza parte che stia al di là e al di sopra degli interessi distinti di chi contratta»3. Tra gli autori che si pongono tale questione, molti rispondono che il terzo del dono è la giustizia. E il caso di Descombes e di Tempie.

1 Sibony, Avec Shakespeare, p. 151.

2 Godelier, L’Enigme du don, pp. 42-43. 3 SAHLINS, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, p. 175.

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I.'ATTRATTIVA »EI. »ONO

Il terzo secondo Descombes

Ricordiamo che, per Descombes, «la descrizione di un atto di do­ nare è una descrizione intenzionale». E una descrizione che va al di là dei meri fatti. «L’intenzionalità è il rapporto di intenzione percepito o posto tra qualche cosa (per esempio, questi fiori), e qualche cosa (quella persona alla quale sono destinati)»4. Citan­ do Pierce, Descombes stabilisce allora l’equivalenza tra l’intenzio­ ne e la legge. In altri termini, dalla necessità, per descrivere un at­ to di donare, di superare la descrizione dei meri fatti, egli giunge alla necessità della legge: «Donare consiste nel fatto che A fa di C il proprietario di B secondo la Legge. Prima che si possa parlare di un dono qualsiasi, bisogna che vi sia in un modo o nell’altro una legge - anche se dovesse essere la legge del più forte»5. «Lasciando da parte l’intenzione, la descrizione che si attiene ai meri fatti lascia da parte il dono stesso. [...] Quindi è evidente che non ci possa essere un fatto triadico del dono né si possa co­ gliere un fatto senza presupporre un’istituzione o una legge»6. Perché, secondo questo autore, è necessario introdurre tale idea di legge? Perché altrimenti, per rendere conto del fatto che il do­ no non è solo una mera descrizione, ci si riduce alla ‘risposta mentalista’, che consiste nel «cercare nelle teste di A e di B ciò che non è stato trovato negli spostamenti fisici che si sono succe­ duti durante questa piccola operazione. La presenza nella testa di A di un pensiero ‘io dono C a B’, associata al gesto di deporre C, costituirebbe questo gesto in un’azione di donare. Questo pensiero attualmente presente allo spirito del soggetto animerebbe il ge­ sto, gli darebbe il suo senso»7. Ora, questa risposta è inaccettabile, perché «questo modo di parlare [...] rischia di farci considerare gli attori dell’azione come degli interpreti di un avvenimento na­ turale. [...] L’attore non starebbe agendo, ma starebbe assistendo attentamente a diversi movimenti fisici [...] che lui dovrebbe ca­ ricare di un senso»8. Si tornerebbe così a una sorta di separazione

4 Descombes, Le istituzioni del senso, p. 302. 5 Ibidem.

6 Ibi, pp. 302-303. 7 Ibi, p. 303. 8 Ibidem.

Il TERZO DEL DONO: DONO I GIUSTIZIA

223

radicale tra ciò che circola e il senso di ciò che circola, una ‘diadizzazione’ del dono, cosa che è inaccettabile. Ecco perché l’au­ tore introduce la necessità della legge. «Dire che vi è una legge, è introdurre l’infinito (potenziale). [...] la determinazione in cau­ sa è logica, non causale o fisica»9. Per non introdurre tale rottura tra il senso (nella testa dei pro­ tagonisti) e i fatti, facendo così del legame tra i due una sorta di relazione causale, l’autore afferma che «il contesto che fa di que­ sto atto un’azione di donare è istituzionale» (legge o istituzione sono in questo caso equivalenti). E tale contesto istituzionale che dà un senso al dono per il fatto che lo iscrive nell’avvenire, nelle «conseguenze significanti», nel tempo. La legge introduce «il contesto necessario a produrre delle conseguenze significanti»10. Da questa necessità, Descombes conclude che «per quanto ri­ guarda il dono, la sua condizione è che vi sia un’alterità sufficien­ te tra il soggetto della donazione e il soggetto della ricezione. In altri termini, il dono può aver luogo soltanto in seno ad un ordine di giustizia, il quale può costituirsi soltanto tra persone autono­ me»11. «In un’altra terminologia - scrive Descombes - [...] per­ ché A possa essere descritto come donante C a B, bisogna che i meri fatti si producano nel contesto di una regola del dono»12. Descombes postula in seguito diversi gradi di libertà in questo at­ to, il che «spiega perché la descrizione fisica del dono non arriva a restituire il fatto che ciò che succede sia effettivamente un do­ no»13. In breve, per Descombes, «ciò che deve essere dato, prima che incominci una transazione, è una regola»14. E la regola «non è una causa efficiente della condotta, [... ] ma una norma che la gente segue perché vuole»15. Questa idea di una legge anteriore al gesto, una legge che sa­ rebbe dunque esterna agli agenti, una legge che, di conseguenza, si impone loro in un certo modo, fa problema. Come rendere conto, in questo contesto, della constatazione che nelle nostre so­ 9 Ibi, p. 304.

10 Ibi, p. 305.

11 Ibi, pp. 305-306. 12 Ibi, p. 306. 13 Ibi, p. 308. 14 Ibi, p. 324.

15 Ibi, p. 325.

»

.

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l’attrattiva del dono

cietà il dono sembra aver bisogno di infrangere la regola e persi­ no di fare a meno di qualsiasi riferimento esplicito a una legge? E perlomeno in questo modo che è vissuto dai soggetti: un ‘vero’ dono è quello che si allontana dalle regole e dalle convenzioni so­ ciali. E vero che, per infrangere la regola, bisogna pure che esista. Ma abbiamo visto che il gioco con la regola è un elemento impor­ tante del dono. Deve avere un senso. Se il terzo del dono è la leg­ ge, bisognerebbe precisare le caratteristiche di questa legge che tengono conto del dono. Ma vediamo innanzitutto come Descombes applica i suoi concetti a Mauss e all’idea di hau, lo spirito della cosa donata. Per Descombes, Mauss ritiene che il suo compito sia quello di descrivere, di «esplicitare la regola che seguono gli indigeni e ren­ dercela comprensibile»16. Mauss è un fenomenologo. Si oppone così a Lévi-Strauss, che vuole spiegare, trovare delle cause. Descombes rimprovera a Lévi-Strauss di cercare una causa efficiente dell’obbligo di donare. «Non c’è [...] da cercare in una causa ef­ ficiente il principio di spiegazione di un’obbligazione»17, perché questo modo di procedere equivale a «passare dall’intenzionale al naturale, dai fatti ideologici ai meri fatti» o ancora a voler «rag­ giungere la realtà soggiacente - si direbbe volentieri l’infrastruttura - dietro l’epifenomeno ideologico indigeno»18. Così facen­ do, Lévi-Strauss passa «da una questione su una regola a una que­ stione su una forza»19 e cerca di trascrivere l’una nell’altra. In al­ tri termini, egli tratta ogni teoria del dono come un’ideologia, cioè come un fenomeno mentale da spiegare attraverso fenomeni reali, mediante cause. Per Lévi-Strauss, un’obbligazione «non è veramente ciò, un’obbligazione (una regola riconosciuta), è una costrizione sentita (in modo allora mistificante) come un’obbli­ gazione da rispettare»20. Questa riduzione non è ammissibile, da­ to che, come mostra Descombes, lo hau non è una teoria fisica, ma una nozione giuridica secondo cui il dono è una relazione triadica. Inoltre, questa riduzione è mentalista e separa perciò l’intenzionale dal reale. 16 Ibi, p. 316. Ibi, p. 317. 18 Ibidem. 19 Ibi, p. 320. 20 Ibi, p. 321.

II. TERZO DEL DONO: DONO I GIUSTIZIA

225

Nella sua critica a I .évi-Strauss, Descombes inette in evidenza la necessaria libertà del dono. Egli esamina minuziosamente la na­ tura del carattere «libero e obbligatorio a un tempo» del dono maussiano. Ma poi si pone la domanda: se il dono non ha causa, come può la legge essere già lì prima del dono, come può essere esteriore al dono? Qual è lo statuto di una simile istituzione di do­ no? Dove comincia la costrizione, dove finisce l’obbligo? Non è forse vero che più si pone la legge come già lì, prima del dono, più essa si avvicina alla costrizione, cosicché si tende a metterla nella testa dell’agente prima del gesto, ricadendo così a propria volta nella trappola mentalista? Per evitare questa trappola, pur affermando che nel dono c’è legge, occorre che, in un certo mo­ do, la legge non sia esteriore al gesto del dono. In breve, se non si vuole cadere nella spiegazione causale, di ti­ po fisico, infrastrutturale o mentalista, facendo come Lévi-Strauss che cerca «nelle regole coscienti (la cui necessità è deontica) [...] l’effetto di meccanismi (la cui necessità è naturale, fisica)»21, la legge dev’essere immanente gesto del dono. Per illustrare questa affermazione, riprendiamo il celebre esempio del rituale del vino nelle osterie del sud della Francia, riportato da Lévi-Strauss e ri­ preso da Decombes che lo interpreta nél modo seguente: «Essen­ do servito prima del mio vicino, io gli devo una riparazione e, per aiutarlo ad attendere, gli verso un po’ del mio vino»22. Questa in­ terpretazione mette in evidenza tutta la difficoltà dell’idea di leg­ ge applicata al dono. In effetti, la questione che si pone è: perché mai gli dovrei qualcosa per il fatto di essere servito prima del mio vicino? E altrettanto verosimile e perfettamente ragionevole rite­ nere di non dovergli niente, almeno nel senso di un’ingiustizia; soprattutto non gli devo ‘riparazione’, come afferma Descombes. Se c’è ingiustizia, non dipende da me. Non sono in debito, dato che non c’entro proprio niente nel fatto di essere stato servito pri­ ma del mio vicino. Qui sta tutto il problema del rapporto con la regola nel dono. Non gli devo niente. E del resto è essenziale al dono, perché se gli dovessi qualcosa nel senso di una legge di giustizia, se gli «dovessi riparazione», come afferma Descombes, il gesto che faccio non

21 Ibidem.

22 Ibi, p. 333.

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l’attrattiva del dóno

sarebbe più, appunto, un gesto di dono. Non avrebbe più lo stes­ so senso. Il mio vicino potrebbe esigere riparazione, idea poco plausibile nel contesto, dal momento che, come giustamente ha scritto Sahlins, «il dono concerne soltanto la volontà e non il di­ ritto»23. Se c’è regola, non si tratta perciò di una regola di giusti­ zia, è una regola che creo nello stesso momento in cui pongo l’at­ to. La regola non c’è prima, oppure è ‘fluttuante’, e se si chiedes­ se agli agenti se c’è una regola, se si chiedesse loro se si sentono obbligati a fare questo gesto, direbbero senza dubbio di no e pro­ testerebbero. Che cosa bisogna fare per rendere conto di quel che succede a questa tavola, per descrivere correttamente questo fatto sociale di dono che osserviamo ed esplicitare la regola che i partner sembrano seguire, rendendocela intelligibile, così come Mauss ha fatto a proposito dello hau? E se fosse sufficiente eliminare la parte della frase di Descombes «gli devo riparazione», e dire sem­ plicemente: «Essendo servito prima del mio vicino, per aiutarlo ad attendere, gli verso un po’ del mio vino». Non è forse com­ pleto? Ma perché Descombes sente il bisogno di aggiungere «gli devo riparazione»? Per trovare una ragione, una causa del suo gesto, un’intenzione del dono? Ma non appena si trova un’inten­ zione esteriore al gesto del dono, il dono sembra ridursi ad altro, e ci sfugge. Descombes termina il suo capitolo sul dono affermando che «le regole esistono ovunque soltanto se la gente reputa che esse debbano [...] essere applicate»24. Ora, è appunto il problema del­ le regole del dono. E vero che esse non possono essere inconsce, come scrive Descombes, ma possono rimanere implicite, possono esistere senza essere nominate, possono non essere rispettate, e inoltre tutto ciò può persino costituire una regola del dono25! Il rapporto del dono con le regole comincia ad essere compre­ so una volta riconosciuto che un rapporto con la regola deve pur esserci, e che però questo rapporto non è riducibile a nient’altro: 23 Sahlins, L’economia dell'età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, pp. 175-176.

24 Descombes, Le istituzioni del senso, p. 337. 25 Su questo tema, cfr. Jullien, Strategie del senso in Cina e in Grecia, specialmente il te­ ma dell’allusione. Cfr. anche Caplow, Rule Enforcement Without Visible Means. Christmas Gift Giving in Middletown.

II. TERZO DEI. DONO: DONO E GIUSTIZIA

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né a una struttura int onse ia, né ad un rapporto di forza fisica, né ad una costrizione lagaie, né ad un rapporto di fatto. Descombes inette molto bene in evidenza questa caratteristica fondamentale del dono, ma anche lui tende a ridurlo a un rapporto di giustizia. Una volta ammesso questo, che cos’è il dono? In altri termini, in che modo tutto questo si articola nel caso del rapporto di dono? Quale ne è la regola? Non è la regola di giustizia. Non è un’istitu­ zione nel senso abituale del termine. Si tratterebbe di un’istitu­ zione fluttuante? In sintesi, Descombes non ci convince che il ter­ zo sarebbe un’istituzione come la giustizia. Tempie e Chabal ci riusciranno?

Il terzo secondo Tempie e Chabal Anche Tempie e Chabal26 pongono la questione del terzo, della ‘struttura ternaria’ del dono. Il loro punto di partenza è di nuovo Mauss e lo hau. Il saggio maori Ranapiri «crea il paradosso di un ciclo ternario là dove ci si aspettava una simmetria bilaterale»27. Qual è questo terzo? Lo studio approfondito di tale questione presso i Greci e gli Jivaros consente a Tempie e Chabal28 di ri­ spondere distinguendo quattro gradi di legame sociale, ciascuno un superamento dialettico del precedente. Il primo grado è la vendetta. La reciprocità negativa della ven­ detta è cieca, «esige simmetria, uguaglianza e simultaneità»29. «Si tratta di omicidi programmati»30. Anche solo per questo carattere automatico, ‘programmato’, la vendetta costituisce un modello diverso dal dono. Quest’ultimo non è un sistema meccanico; il ruolo della libertà è importante. L’uguaglianza delle mosse avvici­ na molto la vendetta al modello commerciale dell’equivalenza. In realtà, è una specie di grado zero del dono. La vendetta è trascesa, superata dalla reciprocità positiva ago­ nistica. Tale rivalità onnipresente nel dono fatto per la reputazio26 TEMPLE - Chabal, La Réciprocité et la Naissance des valeurs humaines. 27 Ibi, p. 67. 28 Pur ispirandoci al loro lavoro, prendiamo le distanze dalle loro conclusioni, dato che questi autori ritengono, come Descombes, che il terzo del dono sia la giustìzia. 29 Ibi, p. 108.

30 Ibi, p. 109.

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l’attrattiva del dono

ne e il prestigio, senza preoccuparsi per chi riceve, viene da questi autori analizzata molto bene presso i Geci e gli Jivaros. Ma abbia­ mo visto che lo stesso fenomeno poteva anche essere messo in evi­ denza nell’analisi della fdantropia moderna dove, spesso, si tiene conto solo del desiderio di donare. L’unico riconoscimento che conta è quello del proprio desiderio31. Il dono agonistico è a sua volta superato dalla reciprocità sim­ metrica di un primo tipo, fondata sulla giustizia. La giustizia è un terzo esterno agli agenti che regola la circolazione in funzione dell’uguaglianza o della proporzionalità (giustizia distributiva, proporzionale, commutativa...)32. Questa volta, i desideri del do­ natore e del donatario vengono presi in considerazione. «Alla dia­ lettica della gloria, in cui si gareggia in generosità per acquisire prestigio, viene preferita quella della giustizia, in cui si tiene con­ to del bisogno dell’altro»33. «Il motore della reciprocità positiva, il prestigio, rimane ma si trasforma in sentimento della giustizia»34. Ma che cos’è la giustizia? Partendo da Aristotele, Tempie e Chabal affermano: «Il giusto è l’uguale»; «Ma la disuguaglianza, così come l’uguaglianza, non esistono in sé, si definiscono unicamen­ te in rapporto a un termine di paragone, da un lato, e in rappor­ to ad altri, dall’altro lato»35. E esattamente il terzo che questi au­ tori cercano, che Mauss cercava. E vero che «proprio della giustizia [...] è di far intervenire al­ tri»36, ed altri come terzo. Ma il terzo della giustizia è esterno ai partner. Citando Courtois, Temple e Chabal scrivono, a proposito di Aristotele: «La giustizia commutativa non si basa su degli scam­ bi tra enti identici ma tra enti equivalenti in rapporto a un terzo termine»37. Ora, si può tener conto dell’altro in molti modi, ad esempio secondo uno spirito di giustizia, certamente. Ma la cosa non finisce qui, perché se lo si fa per la giustizia, non lo si fa per lui; ‘perché è lui’, per amicizia. Del resto, Tempie e Chabal am­ 31 H. L’Heuillet, Réponse à Alain CaiUé, présentée au Colloque sur le don, La Salpétriè­ re, Paris 2005.

32 Temple - Chabal, La Réciprocité et la Naissance des valeurs humaines, pp. 225-226. 33 Ibi, p. 239. 34 Ibi, p. 182.

35 Ibi, p. 194. 36 Ibi, p. 195. 37 Ibi, p. 243.

IL TERZO DEL DONO: DONO E GIUSTIZIA

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mettono che, in Aristotele, quest’ultimo caso-tipo non compare con la giustizia, dal momento che, «con la giustizia, la relazione di reciprocità è ancora pietrificata nel formalismo della legge»38. E nella philia che Aristotele troverà il fondamento del dono. Ora, che cos’è la philidì «Coloro la cui amicizia si fonda sulla virtù bru­ ciano ognuno del desiderio di fare del bene per l’altro»39. E il de­ bito reciproco positivo, stabilito non in virtù della giustizia, ma grazie a un sentimento per l’altro. E il quarto supermanto che conduce al dono reciproco. Il terzo, è la relazione: Anspach Ma allora che cosa ne è del terzo? Dove è andato a finire? Non si torna a una struttura binaria? Nella realtà, i donatori hanno orro­ re del terzo. Il ricorso a un terzo (obbligazione, convenienza, co­ stume...) non è un ‘vero dono’, dicono. Se finora si è ammesso che il terzo non è la giustizia e che dev’essere in qualche modo immanente, che deve provenire dalla relazione, non potrebbe darsi che sia la relazione stessa? E la tesi di Anspach. «Una rela­ zione di reciprocità non può ridursi a uno scambio tra due indivi­ dui. Ogni volta emerge un terzo trascendente, anche se questo terzo non è nient’altro che la relazione stessa che si impone come attrice protagonista»40. Si tratta di un’idea ingegnosa per trovare una soluzione libe­ rando gli attori. Tale idea si ricollega a quella del bene che circo­ la al servizio del legame, costituendo un elemento inaggirabile in questa riflessione. Ma è sufficiente? Per rispondere a questa do­ manda, distinguiamo tra il dono interpersonale e il dono agli sco­ nosciuti. Nel dono interpersonale diretto, come un legame di amicizia accompagnato da molteplici doni di vario tipo (regali, servizi, ospitalità), saremmo soddisfatti se dicessimo: «Non dono per te, ma per la relazione»? La celebre risposta di Montaigne -«Perché è lui, perché sono io» - non sarebbe più adeguata e più conforme a un’autentica relazione di amicizia, se fosse stata: «Per­

38 Ibi, p. 197. 39 Aristotele in ibi, p. 199.

40 Anspach, A buon rendere, p. 7.

2.30

l’ati rattiva del dono

ché è la relazione»? Peraltro, nel dono agli sconosciuti, spesso c’è un terzo ben identificato. La relazione è concretamente rappre­ sentata dagli intermediari. Loro sono il terzo. Ma se questo terzo si rende autonomo rispetto al donatore e al donatario, se riesce a sovrastarli e ad imporsi, questa relazione non rientrerebbe più nell’ambito del dono, ma in quello del diritto, come il sistema sta­ tale quando è passato dal dono alle tasse. Il terzo non è la giustizia

Queste considerazioni consentono perlomeno di concludere che il terzo non è la giustizia. Storicamente, l’arrivo della giustizia è servito a correggere alcune disuguaglianze fondamentali tipiche del dono caritatevole. Ma il dono va al di là della giustizia: esso non è ‘giusto’. Non c’è niente di giusto nel dono. Se il mio com­ mercio funziona meglio di quello del mio vicino perché mi piace socializzare con i clienti e far loro del regali, cosicché i miei clienti mi ‘ricambiano largamente’, mentre il mio vicino condu­ ce onestamente, ma a fatica, il suo commercio perché non ne ri­ cava nessun piacere, ciò è ingiusto. Più si dona e più si riceve. Questa logica del dono si oppone tanto alla giustizia commutati­ va quanto a quella distributiva. Del resto, tale aspetto non redi­ stributivo del dono in rapporto allo Stato è stato spesso analizza­ to e denunciato41. Si dona non per rispettare una norma di giustizia, ma perché si ha voglia di donare e perché donare fa esistere. Quando questo modello non funziona, quando uno dei partner non può donare, quando il dono non spinge il donatario ad entrare nella logica della replica, ma al contrario nega la sua capacità di donare, allo­ ra deve intervenire la giustizia per evitare il dominio o lo sfrutta­ mento42. La giustizia è superiore al cattivo funzionamento del do­ 41 A.E. Komter, Reciprocity as a Principle ofExclusion, «Sociology», 30 (1996), 2, pp. 299316; B. Schwartz, Why Altruism Is Impossible and Ubiquitous, «Social Service Rewiew», 67 (1993), 3, pp. 374-387; J.-P. Dumont, Approche anti-utilitariste de la coopération en si­ tuation de travail, tesi in gestione, Ecole des hautes études commerciales, 2002.

42 Certamente la frontiera tra il dono e la giustizia non è sempre chiaramente stabili­ ta. Così, Françoise Piotet osserva che, in un’azienda, è quando le regole del dono non venivano rispettate che i lavoratori si interessavano alle ingiustizie (congresso AISLF, Tours 2004).

IL TERZO DEI. dono: DONO E GIUSTIZIA

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no, cosa che è molto frequente, ma essa non è superiore al dono in sé, come aveva già scritto Aristotele. Proprio questo non è stato riconosciuto quando si è voluto attribuire al sistema di giustizia tutti i ruoli del dono sotto forma di uno Stato-provvidenza onni­ presente. Così facendo, veniva sminuito un insieme di attività umane. Certo era necessario - lo è sempre - far intervenire il principio di giustizia, superiore alla reciprocità agonistica, ogni volta che il rapporto è disuguale. Il rapporto di diritto è non sol­ tanto differente, ma costituisce una rottura in rapporto al dono, motivo per cui lo Stato e il dono non sempre si rinforzano reci­ procamente, come abbiamo visto nel capitolo precedente. Superando il dono di rivalità fatto per la gloria, la giustizia è dunque anch’essa superata dalla philia, dove non c’è più un terzo esterno, anche se c’è ancora un terzo. Donatori e donatari appar­ tengono al medesimo insieme che li fonda e che essi fondano, al medesimo movimento. E ciò che Tempie e Chabal chiamano ‘re­ ciprocità simmetrica’. «La reciprocità simmetrica è [...] propor­ zionale all’Essere per non esserlo al prestigio. Ora, la più alta espressione di tale gerarchia instaura l’infinitezza della grazia»43. La reciprocità simmetrica è al di là della reciprocità in senso stret­ to, perché non si ricambia più, non si fa altro che donare. Tutto ciò circola in ogni direzione, ma niente di quel che circola è con­ traccambiato in ragione di quel che prima era circolato. L’alter­ nanza non funziona più. La circolazione delle cose è l’affermazio­ ne e l’espressione dell’appartenenza ad un medesimo insieme simbolico. E il terzo del dono, molto diverso dal terzo della giusti­ zia. E lo stato di debito reciproco positivo. E in questo caso che si può dire con Lefort che «non si dona più per ricevere, ma affin­ ché l’altro doni»44. E ancora: il termine ‘per’ non è probabilmen­ te azzeccato. Si dona, ciò dona (ça donne). Il dono viene perciò sempre da altrove, persino se è immanen­ te. Il donatore non è mai l’unica fonte del dono (figura del dono narcisistico). Il donatore è sempre un mediatore, un intermedia­ rio, come mostra il caso-tipo dell’artista (cfr. cap. 16). Tale strut­ tura ternaria è evidente in tutte quelle esperienze in cui il dona-

43 Temple - Chabal, La Réciprocité et la Naissance des valeurs humaines, p. 247. 44 C. Lefort, L’échange et la lutte des hommes, «Les Tempes modernes», 64 (1951), pp. 1400-1417; citazione a p. 1415.

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l’attrattiva del dono

tore sente che la cosa viene da lui, dal più profondo di sé, ma nello stesso tempo e in modo altrettanto profondo sente che vie­ ne da altrove. La stessa struttura la si ritrova nei racconti45. E il dono dell’artista. «La vita è ringraziamento, gratitudine»46. E il terzo del dono, che avvolge i partner, è la grazia (charts) che fa sì che, al contempo, «il dono può essere gratuito e la reciprocità necessaria»47. Il dono è un salto quantico fuori dalle regole e, da questa an­ golatura, si opporrà sempre alla giustizia, come la philia in Aristo­ tele, che non ha bisogno della giustizia, mentre l’inverso non è ve­ ro. «E se gli uomini sono amici non c’è nessun bisogno della giu­ stizia, ma, se sono giusti, hanno inoltre bisogno dell’amicizia»48. La giustizia è una struttura ternaria, certo, ma ‘oggettiva’. Misura, confronta e non ha niente a che vedere con la grazia. Quando un’autorità - la giustizia - accorda la sua grazia, lo fa precisamen­ te malgrado le norme di giustizia, al di fuori della giustizia. Il col­ pevole non viene prosciolto, il che sarebbe un atto di giustizia. È graziato, il che è un dono. Nel caso della giustizia, il terzo è ester­ no, mentre il dono è innanzitutto una struttura di appartenenza, immanente ai partner. Il terzo del dono è ciò cui appartengono i donatori, e i donata­ ri specifici. E ciò che questi ultimi generano attraverso i doni che si fanno, è ciò che ci ha così tanto donato e che non si potrà mai ri­ cambiare, è ciò che fonda il principio di debito reciproco positivo, quell’esuberanza permanente, quell’eccesso che è la vita49, il che spiega perché l’apprendimento della giustizia è diverso dall’ap­ prendimento del dono. La parte di torta offerta ‘generosamente’ al compagno che arriva in ritardo al pranzo di compleanno è di­ versa dalla giusta ripartizione della torta tra i compagni già pre­ senti. La giustizia permette di uscire dal dono fatto per la gloria, ma non consente di accedere alla grazia, che è al di là della giusti­ zia. «Quando [...] si agisce per ‘equità’, solo per essere giusti, e l’a­ 48 F. Flahault, Identité et reconnaissance dans les contes, «La Revue du MAUSS», 23 (2004), pp. 31-56.

46 Temple - Chabal, La Réciprocité et la Naissance des valeurs humaines, p. 203. 47 Ibi, p. 217.

48 Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Μ. Zanatta, 2 voll, BUR, Milano 1999, vol. II, p. 705 (VIII, 1, 25). 49 G. Bataille, La parte maledetta, tr. it. di F. Serna, Bollati Boringhieri, Torino 1991.

Il· TERZO DEI. dono: DONO E GIUSTIZIA

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gire è giustamente aggiustato, è adattato e misurato caso per caso, la sua virtù langue nel suo carattere puntuale. [...] L’intenziona­ lità dell’effetto [...] mantiene l’effetto alla sua superficie»50.

50 F. Jullien, Trattato dell’efficacia, tr. it. di Μ. Porro, Einaudi, Torino 1998, p. 142.

CONCLUSIÓNI'.

Dono e istituzione

La questione del terzo pone ancora una volta il problema dell’in­ certezza: come pensare un fenomeno che crea indecisione, inde­ terminazione come condizione della sua esistenza, un fenomeno che fa emergere l’incertezza invece di cercare di ridurla? Come pensare formalmente quel che per definizione è di troppo, quel che eccede, che volontariamente sfugge alla sfera della necessità? Normalmente, il pensiero parte dall’incertezza, dal rischio, e cer­ ca di ridurli. Tutte le situazioni sociali analizzate dalla teoria dei giochi, tutte le teorie formali obbediscono a questa logica. Il com­ portamento tipico che emerge dal dono è l’indecisione. Ma è vo­ luta dagli agenti, mentre l’incertezza è in genere un risultato non voluto. È pensabile? Potrebbe essere che il dono come modello riveli il momento fondatore del rapporto dell’attore sociale con la re­ gola, la legge, la giustizia, l’istituzione, la morale? Questo mo­ mento fondatore della società non dev’essere pensato come qualcosa che ha avuto un inizio, ma un’origine (nel senso di Mancini)1: si tratta di un momento continuo nel senso in cui la società ha bisogno che i suoi membri auto-istituiscano continuamente le regole che presiedono alle loro azioni, le quali poi ver­ ranno formalizzate in regole di giustizia, commutativa o altro. In tal senso, il dono non è la morale, ma ne è il fondamento. Non l’inizio, come afferma Nietzsche cominciando la sua Genealogia della morale, ma il suo fondamento permanente. È esteriore, ma non obbliga davvero se non è anche interiore, ‘interiorizzato’, come si usa dire. Che cosa significa questo? In che modo un membro di una so-

1 R. Mancini, Il dono all’origine, in G. Ferretti (a cura di), Il codice del dono, Istituti Edi­ toriali e Poligrafici Internazionali, Pisa-Roma 2002, pp. 187-217.

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l’attrattiva del dono

cietà interiorizza un’obbligazione? I sociologi inciampano da sempre su tale questione. Essa li mette a disagio perché indeboli­ sce la loro posizione di fronte agli economisti, che non hanno bi­ sogno di porsi una questione del genere, dato che il postulato del­ l’interesse passa per una risposta. Ciò che l’osservazione del dono permette di constatare è il fatto che gli attori sociali interiorizza­ no l’obbligazione facendo come se ne fossero gli autori, autori della regola che si impone loro. Questo fenomeno non è certa­ mente tipico del dono, ma nel dono è a tal punto accentuato che gli agenti cambiano la regola non appena hanno l’impressione che sfugga loro, che non significhi più a sufficienza il legame tra di loro e cominci a significare troppo il legame agli altri esterni al­ la relazione. In altri termini, non appena essa si istituzionalizza. Ecco perché né la giustizia, né un terzo esterno, e nemmeno la relazione stessa in quanto entità separata dai soggetti sembrano rispondere alla questione del terzo. Nessuna soluzione è comple­ ta, forse semplicemente perché non c’è soluzione. Trovare una ri­ sposta a queste domande non significherebbe tornare ancora una volta a cercare delle garanzie impossibili da definire nel dono? L’incertezza essenziale al dono non riguarda soltanto il contrac­ cambio, si applica anche al senso del dono. Non si applica soltan­ to a ciò che circola, ma anche al senso di ciò che circola. Assicu­ rarsi del senso di ciò che circola significa ancora una volta soddi­ sfare questo bisogno di eliminare l’incertezza, di trovare una so­ luzione a un problema che non ne ha. Il legame sociale, nella misura in cui è strutturato a livelli diffe­ renti, si situa ad una certa distanza dal dono concepito come quel momento inafferrabile in quanto è un puro movimento, e non un ‘momento’, appunto, in cui il movimento si ferma per diventare istituzione. Il dono non è perciò il legame, in quanto quest’ulti­ mo è istituzione, oppure è in via di istituzionalizzazione. Motivo per cui quel che si svolge sotto i nostri occhi osservando il dono, piuttosto che l’istituzione stessa, sono le istituzioni in costante svi­ luppo, l’istituzione dal vivo, il ribollimento istituzionale, il movi­ mento incessante di creazione di regole e di trasgressione delle regole, appunto perché non diventino delle istituzioni nel senso abituale del termine, cioè relativamente esterne al soggetto, fossilizzate e talvolta trascendentali. L’azione degli agenti deve sempre essere da loro percepita co­ me in parte dipendente da loro, e non come obbediente a un’isti-

DONO E ISTITUZIONE

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tuzione, il che non significa che loro ne sarebbero gli unici auto­ ri. In un certo senso, ne sono gli autori. Ma solo in un certo senso, perché essa non è da loro ‘prodotta’. Non siamo nel modello del­ la produzione, ma in quello dell’apparizione, dell’incompletezza fondamentale. Di Dio? Del Grande Altro? «Ogni pensiero dell’au­ tonomia del mondo umano sembra dover incontrare sul suo cam­ mino [...] questo tema della mancanza, dell’incompletezza, dell’esteriorità»2. «Da Rousseau a Tönnies, da Nietzsche a Weber, da Heideggere a Strauss, queste inquietudini [della società moder­ na] esprimono invariabilmente il sentimento di una perdita, di una mancanza, di una dissoluzione»3. «Il dono non è un semplice trasferimento, esso dispiega una mediazione. Inventerebbe il ter­ zo, se non eistesse già. Penso al bambino che vede arrivare il pa­ dre con delle caramelle. Se l’istanza mediatrice manca, arraffa tutto: “Sono mie!”. Un giorno il padre, per ‘protestare’ contro questa violenza, si è seduto tranquillamente a gustarsi le caramel­ le: “Buone davvero”. [...] Non sapeva come comunicare il fatto che ciò che si dona è il dono stesso; e questo dono non lo si ha, è il simbolo di un’assenza»4. Il terzo del dono è al contempo esterno e interno al dono. E endogeno. Fa uno strano circolo, come la democrazia. Strano cir­ colo, perché una volta eliminato il referente esterno, come evita­ re di cadere nella semplice autoreferenzialità? Come scrive Sar­ tre, è il dono che consente all’umanità di sfuggire al narcisismo distruttore: «Una delle strutture essenziali del dono è il riconosci­ mento della libertà degli altri: il dono è occasione [...] di trasfor­ mare ciò che è stato dato in un’altra creazione e quindi in un al­ tro dono»5. Ciò spiega perché il dono dev’essere avvicinato applicandovi quello che Simmel chiamava il pensiero circolare: «un elemento presuppone un secondo, ma questo presuppone a sua volta il pri-

2 J.-P. Dupuy, Introduction aux sciences sociales. Logiques des phénomènes collectifs, Édition Marketing, Paris 1992, p. 28. Cfr. Anche J.-P. Lebrun, Un monde sans limite. Essai pour une clinique psychanalytique du social, Érès, Ramonville Saint-Agne 1997, pp. 218-219. 3 E. Delruelle, Le Consensus possibile. Le différend éthique et politique chez Arendt et Haber­ mas, Ousia, Paris 1993, p. 7.

4 SlBONY, Avec Shakespeare, p. 151. 5 J.-P. Sartre, Quaderni per una morale, tr. it. di F. Scanzio, Edizioni Associate, Roma 1991, p. 167.

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l’attrattiva del dono

mo. Mentre in campi più ristretti ciò costituisce un sofisma che in­ valida tutto, in campi più generali e più fondamentali è l’espres­ sione inevitabile dell’unità nella quale confluiscono quei due ele­ menti, e che nelle nostre forme concettuali non si può esprimere diversamente che mediante la costruzione del primo sul secondo e al tempo stesso del secondo sul primo. Così i nostri rapporti si sviluppano sulla base di una reciproca conoscenza l’uno dell’altro e questa conoscenza si sviluppa sulla base dei rapporti di fatto, in­ trecciandosi indissolubilmente e indicando, in virtù del loro alter­ narsi nell’azione sociologica reciproca, quest’azione come uno dei punti in cui l’essere e il rappresentare lasciano percepire em­ piricamente la loro misteriosa unità»6.

6 G. Simmel, Il segreto e la società segreta, in In., Sociologia, tr. it. di G. Giordano, Edizioni di Comunità, Milano 1989, pp. 291-345; citazione a p. 293.

PARTE TERZA

Dono e altri modelli

Introduzione

Finora abbiamo presentato il sistema d’azione del dono e il suo ‘strano circolo’, lontano dal contratto, fondato sul senso di ciò che circola, sul principio di reciprocità, sul debito, la repli­ ca, il riconoscimento, l’identità. Abbiamo anche visto che il dono è una relazione ternaria, ma che il terzo del dono non è la giustizia. Lo strano circolo della reciprocità conduce a postulare il do­ no. È un candidato plausibile, ci chiedevamo all’inizio della parte precedente, non per rimpiazzare il postulato dell’interesse e il modello economico, ma per collocarsi accanto, talvolta al di so­ pra, talaltra al di sotto di esso? Per rispondere a questa domanda, rimane da mettere in evidenza in modo più sistematico la sua fe­ condità, la sua capacità di apportare un nuovo chiarimento sui fe­ nomeni sociali, la sua capacità di rendere conto della realtà socia­ le quando viene confrontato con altri approcci. Finora l’abbiamo confrontato con il paradigma economico dominante. Ma esistono diversi modelli meno ‘radicali’ dell’azione umana. Pur essendo individualisti, tali modelli intendono tener conto di una conce­ zione dell’individuo più sociale, allontanandosi così daU’homo oeconomicus duro e puro. Si tratta in qualche misura dei modelli in­ termediari tra la teoria della scelta razionale e il dono. Nella prima parte abbiamo avuto occasione di sottolineare l’interessante idea di ‘buone ragioni’ di Raymond Boudon e della sua concezione di razionalità allargata1. Boudon si scaglia per

1 Boudon ha scritto diversi testi su questo tema. Qui utilizziamo soprattutto quello pubblicato nel capitolo 1 del suo Trattato di sociologia (Boudon, a cura di, Trattato di so­ ciologia) e i suoi articoli sulla rivista «Sociologie et sociétés» (BOUDON, Théorie du choix rationnel ou individualisme méthodologique). Abbiamo discusso più ampiamente la possi­ bilità di applicare tale approccio al dono in J.T. Godbout, Les ‘bonnes raisons’ de don­ ner, «Anthropologie et sociétés», 19 (1995), 1-2, pp. 45-56.

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DONO E ALTRI MODELLI

l’appunto contro la facilità con cui i sociologi, per spiegare un fe­ nomeno, ricorrono all’obbedienza cieca alla tradizione, oppure a una spiegazione che fa appello a forze oscure che superano l’at­ tore, che si tratti dell’inconscio individuale, dell’alienazione o di una struttura elementare inconscia, che permette a Lévi-Strauss di ridurre il dono a uno scambio. Queste spiegazioni suppongono troppo facilmente degli attori irrazionali o incomprensibili da parte dell’osservatore, che talvolta non nasconde un certo di­ sprezzo per le popolazioni osservate. Il ricercatore, afferma Boudon, deve superare queste false spiegazioni e fare tutto ciò che può per identificare le ragioni che consentono di comprendere il comportamento di un attore e la logica della sua azione. E quel che Boudon chiama il ‘postu­ lato di razionalità’. Tale razionalità è molto più estesa della ra­ zionalità strumentale. In effetti, essa include tutte le ‘buone ra­ gioni’ (che possono essere morali, religiose, ecc.) che hanno fat­ to un attore in un certo modo, con l’esclusione soltanto delle passioni. Nella prima parte concludevamo che tale allargamento della nozione di razionalità, che in fin dei conti consiste nell’estendere l’idea di preferenza all’osservazione dell’insieme dei comporta­ menti, non riesce ad uscire dalla linearità del modello della razio­ nalità strumentale. L’analisi del dono presentata nella parte pre­ cedente consente di aggiungere che una certa irrazionalità costi­ tuisce invece un ingrediente essenziale del fenomeno del dono, il quale è legato a quei comportamenti cui non è possibile applica­ re in modo interamente soddisfacente la formula di Boudon: ‘X aveva buone ragioni per fare Y, perché...’. Questo risultato non è la conseguenza di un fenomeno di proiezione del ricercatore, ma scaturisce dall’analisi del dono stesso, sia a livello dei comporta­ menti degli attori, sia a livello del discorso e delle credenze che li accompagnano. Rimarrà sempre un residuo nel dono, una follia, un eccesso, dato che una delle leggi del dono è quella di infrangere le regole che il sistema sociale stabilisce a suo riguardo. Tale eccesso, quasi per definizione, sfuggirà sempre al paradigma dell’individualismo metodologico. Dal momento che è il dono stesso ad esigerla, questa irrazionalità porta a concludere, ad un altro livello, che nel dono è razionale essere irrazionali, o ancora, per riprendere la formulazione di Boudon, che ‘X ha buone ragioni per essere irra-

INTRODUZIONE

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zionale quando dona, perché questo si iscrive nella logica stessa del dono’. Ciò consente perlomeno di mostrare che non si con­ clude alla parziale irrazionalità del dono per cattive ragioni, quel­ le che Boudon consapevolmente denuncia. Ci si può anche chiedere se non si possa arrivare alla strana si­ tuazione in cui, pur constatando l’esistenza di buone ragioni per donare - diverse da quelle del contraccambio anticipato -, sarem­ mo nell’impossibilità di interpretare queste buone ragioni nel quadro del paradigma dell’individualismo metodologico, ossia il paradigma stesso che fonda questa ipotesi feconda della ricerca delle buone ragioni. Il senso del dono sarebbe diverso dalle buo­ ne ragioni; supererebbe la ricerca di ragioni, mentre in questo pa­ radigma, le espressioni ‘ritrovare il senso dei comportamenti’ e ‘rendere conto delle ragioni di un’azione’ sono considerate come equivalenti2. Sentirsi superati da quel che passa attraverso di noi: questa è l’esperienza del dono. Per capire tale esperienza, l’osser­ vatore si sente stretto nel paradigma delle ragioni, il che non si­ gnifica che si tuffi nell’irrazionale, bensì nell’al di là della regola, dell’interesse, della morale. Un’interpretazione del genere dipende piuttosto da un ap­ proccio fenomenologico? L’esperienza del dono obbliga a supe­ rare la dicotomia costrizione-buone ragioni stabilita da Boudon, dato che la spiegazione basata sulle buone ragioni si sostituisce vantaggiosamente alla spiegazione basata sulla tradizione, cosa che molto spesso è vera. Con il dono, la tensione obbligazione-li­ bertà non costituisce un’alternativa, ma è al centro dell’esperien­ za, e le conferisce il suo senso. L’osservazione del dono sembra condurre a postulare l’esistenza di uno spazio sociale rilevante tra quello della tradizione e delle convenienze, da una parte, e quel­ lo delle buone ragioni, dall’altra, il quale però non si esaurisce in essi e non ne è una pura combinazione. Questo spazio potrebbe essere quello dell’/iomo strategicus defi­ nito dall’analisi strategica di Michel Crozier? O ancora quello del­ la teoria di giochi, così come è stata sperimentata nel celebre di­ lemma del prigioniero? E quello che esamineremo in questa par­ te. Tali approcci conducono a delle teorie interessanti, ma non riescono a rendere conto del dono. Perché? E la questione che 2 Boudon (a cura di), Trattato di sociologia, p. 36.

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DONO E ALTRI MODELLI

poniamo. Nella parte che segue applicheremo il modello del do­ no a diversi fenomeni sociali, che vanno dal mondo degli affari a quello dell’arte. Speriamo in questo modo di poter mettere in evidenza la per­ tinenza, la fecondità e la generalità del modello del dono.

CAPITOLO UNDICESIMO

Dono e analisi strategica

L’essere umano è razionale, utilizza infatti dei mezzi per arrivare a un fine. Tra questi mezzi, alcuni tengono conto degli altri attori e si adattano alle reazioni degli altri esseri umani. Tali mezzi sono chiamati strategici. Questa capacità di elaborare delle strategie fa dell’essere umano un homo strategicus, come scrive Michel Cro­ zier1. Questa visione dell’azione umana va al di là del puro homo rationalis del modello dominante. Tale allargamento del modello classico è sufficiente per permettere di comprendere alcune que­ stioni sull’interesse e sul disinteresse, sul senso di ciò che circola? Per Coleman, attualmente nelle scienze umane si affrontano due «principi di ordine naturale»: quello della razionalità strumenta­ le, in base al quale la non-razionalità è senza spiegazione, e quello della non-razionalità, in cui è la razionalità a diventare inspiegabi­ le. «Siamo al centro di un grande dibattito - afferma Coleman [...] a proposito dei rispettivi meriti di questi due princìpi»2. Questa posizione è lungi dall’essere condivisa da tutti i sociolo­ gi. In II potere e la regola, Erhard Friedberg precisa la sua posizione di fronte a coloro che, opponendo la motivazione utlitarista ad al­ tre motivazioni umane, tentano di suscitare quello che, secondo lui, costituisce un falso dibattito. Per Friedberg, la ‘razionalità li­ mitata’, concetto proposto da March e Simon3 e punto di parten­ za della scuola dell’analisi strategica in sociologia, sarebbe la solu­ zione ai problemi suscitati da questo dibattito. «Nella misura in cui è limitata, la razionalità non è più riconducibile ad un ragio­ namento utilitarista e meramente strumentale. [...] Per [la razio­ nalità limitata], non si può più distinguere tra l’uomo calcolatore 1 Μ. CROZIER, Finale, in Pavé (éd.), L’Analyse stratégique, pp. 373-399. 2 Coleman - Fararo (eds.), Rational Choice Theory, p. XV. 3 J.G. March - H.A. Simon, Les Organisations, Dunod, Paris 1965.

24fi

DONO E ALTRI MODELLI

e quello generoso, tra l’uomo interessato o quello disinteressato, tra l’uomo cinico e l’uomo morale, nella misura in cui ragioni uti­ litaristiche e ragioni morali si frammischiano sempre nelle condi­ zioni reali dell’azione. A tal punto che diventa illusorio, privo di interesse, se non controproducente (in una prospettiva di ricer­ ca) voler separare tali aspetti»4. Ne conclude che il ricercatore non deve mai postulare i motivi ex ante, ma soltanto dedurli dal­ l’osservazione ex post. Noi condividiamo questa posizione. Se è arbitrario distinguere tra gli individui generosi, da una parte, e gli egoisti, dall’altra, e se è vero che le motivazioni non devono in nessun caso essere defi­ nite ex ante, allora il ricercatore dovrebbe aspettarsi di trovare ex post degli intrecci variabili di motivazioni secondo diversi fattori che restano da spiegare. Ora, nelle ricerche fondate sull’analisi strategica, si ritrova quasi sempre soltanto un motivo ex post, cioè l’interesse dell’attore. Come spiegare il fatto che sia questo l’uni­ co movente dell’azione umana che rende conto di tutti i giochi e di tutte le strategie dell’ homo strategicus, mentre ex ante viene affer­ mato che c’è sempre un intreccio di motivazioni? Come è possibi­ le che l’istinto strategico di cui parla Crozier non si applichi ad al­ tro che al movente utilitarista (nel senso di ‘interessato’) dell’a­ zione? Questa presa di posizione teorica (non definire niente ex ante) non potrebbe essere puramente teorica, dato che, in prati­ ca, colui che la enuncia non ritrova mai ex post questo intreccio di cui parla, ma solamente l’intenzione utilitarista? I risultati invali­ derebbero questa posizione teorica? Sono possibili due spiegazioni. La prima è che l’analisi strate­ gica osserva dei sistemi d’azione, dei giochi in cui tale movente utilitarista si rivela dominante, mentre gli altri sono sufficiente­ mente secondari da non influenzare in modo significativo il siste­ ma d’azione. La spiegazione basata sull’interesse si rivela allora sufficiente per rendere conto del sistema d’azione in questi casi precisi. Il modello si applicherebbe perciò soltanto a certi sistemi d’azione di cui bisognerebbe precisare i parametri, cosa che non è mai esplicitamente fatta da parte dei sostenitori di questo ap­ proccio. Al contrario, questi ultimi hanno sempre avuto la ten-

4 E. Friedberg, Il potere e la regola. Dinamiche dell’azione organizzata, tr. it. di A. Tanese, Etas, Milano 1994, p. 163.

ΠΟΝΟ Ι·. ANALISI STRATI«;« Λ

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(lenza a volerne estendere l’applicazione ad ogni sistema di azio­ ne, anche se, nei fatti, questi studiosi si concentrano soprattutto su organizzazioni della sfera economica: organizzazioni di produ­ zione, burocrazie pubbliche o private, organizzazioni composte di attori le cui poste in gioco sono contrastanti e che sono obbli­ gati a cooperare, e perciò a preoccuparsi dell’interesse dell’altro per raggiungere i propri obiettivi. L’altra spiegazione è che queste motivazioni esistono, ma la metodologia utilizzata o gli apriori dei ricercatori non hanno con­ sentito di metterli in evidenza. La cosa non è impossibile, dato che Friedberg, pur riconoscendo con Etzioni l’importanza di altri moventi dell’azione, afferma di non poter «non provare un certo disagio [...] [sapendo] che i buoni sentimenti [...] servono spes­ so a mascherare un innato egoismo che vuole nascondersi a se stesso»5. Questo sentimento è senza dubbio condiviso a diversi gradi da ogni ricercatore in scienze umane, come abbiamo visto nella prima parte6. Friedberg ne conclude giustamente che è una ragione di più per non postulare le motivazioni ex ante, ma de­ durle soltanto ex post. Potrebbe darsi allora che questo malessere7 abbia condotto il ricercatore ad eliminare praticamente gli altri moventi dell’azione? Non ho una risposta, ma so che, nelle nostre ricerche8, abbiamo constatato ex post l’esistenza di sistemi d’azio­ ne in cui il movente non utilitarista è sufficientemente rilevante da influenzare le regole del gioco. Questi sistemi d’azione possie­ dono caratteristiche differenti da quelle dei sistemi in cui domina il movente utilitarista. Certamente queste motivazioni coabitano con altre più utilitariste, come afferma Friedberg, ma il dosaggio è assai diverso da quello che si ritrova nelle analisi strategiche. Tale questione del dosaggio o dell’importanza relativa delle di­ verse motivazioni sembra tuttavia esterna all’analisi strategica. Do­ po aver affermato ex ante che c’è un intreccio di motivazioni, si eli­ mina la questione e, come per caso, ex post non appare altro che la motivazione 'self-interest'. Stranamente, siamo noi che abbiamo

5 Ibi, pp. 163-164.

6 Frank, Passions within Reason. The Strategic Role of the Emotions, p. 21. 7 Che conduce all’ipocrisia, cosciente o ‘strutturale’ - come dice Bourdieu -, del do­ no.

8 Godbout, Le Don, la Dette et l’Identité.

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constatato nelle nostre ricerche questo dosaggio di cui Friedberg afferma teoricamente resistenza, ma che empiricamente non constata mai. Lungi dall’essere ‘privo di interesse’, come peraltro afferma, tale dosaggio ci sembra una variabile pertinente, e persi­ no fondamentale, per rendere conto del gioco degli attori in una società. Ancora di più: sul piano normativo, le motivazioni non utilitariste costituiscono un ingrediente importante della qualità dei sistemi di gioco esistenti in una data società. «Esse contribui­ scono a stabilire giochi umani migliori», come scrive Michel Cro­ zier, fondatore di questo approccio in sociologia delle organizza­ zioni (cfr. infra). Crozier fa allora riferimento agli eroi. Ma questa affermazione ha un campo di applicazione molto più vasto; concerne, a gradi diversi, tutti coloro che compiono un gesto in uno spirito non strategico in seno a un sistema d’azione qualsiasi. Se un membro di un’organizzazione va a stringere la mano a qualcuno semplicemente perché è contento di vederlo, egli è suscettibile di accre­ scere quel che Crozier chiama la ‘qualità del gioco’ in questo si­ stema d’azione. Il dono accresce la qualità dei giochi umani, pur restando il resto invariato. Ma la nozione di qualità - di valore di­ verso - viene difficilmente presa in considerazione nel quadro della neutralità necessaria all’analisi strategica. Si tratta dunque di un modello di applicazione limitata, come Crozier riconosce alla fine del colloquio dedicato alla sua opera9. Tuttavia, in questi ultimi anni, la scuola crozieriana di analisi strategica ha tentato di allargare il suo campo di applicazione ad ogni sistema di azione, col richio di perdere la sua specificità, come ha mostrato bene Thoeing: «Il mercato, la famiglia, i movimenti sociali, non sono più considerati come delle configurazioni sociali specifiche»10. Friedberg afferma che la nozione di razionalità limitata per­ mette di rinviare alla fine del processo di ricerca «ogni categorizzazione delle razionalità, delle cause e degli interessi che sotto­ stanno ai comportamenti»11. Ora, tenuto conto dei risultati ai quali arriva al termine del processo di ricerca, rimangono dei

9 Crozier, Finale. 10J.-C. THOEING, How Far Is Sociolog) of Organizations Still Needed?, XIII colloquio EGOS, Budapest 1997, p. 13.

11 Friedberg, Il potere e la regola, p. 164.

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dubbi sulla neutralità di questa nozione in riferimento ai motori dell’azione umana, dubbi che portano a chiedersi se in realtà la razionalità limitata non li respinga decisamente fuori dalla ricer­ ca. E come se tale approccio consentisse di cogliere bene questa dimensione dell’azione umana che si riduce alle strategie, cioè al­ l’uso degli altri come mezzi, ma si lasciasse sfuggire il resto12. E quel che ora desideriamo mettere in evidenza. Nella prima parte abbiamo dimostrato che lo schema econo­ mico delle preferenze, apparentemente neutrale, era in realtà orientato verso certi valori. Serebbe lo stesso per l’attore strategi­ co, che cerca sempre di guadagnare13? «Ciò che determina [l’at­ tore] è la possibilità di ottenere un guadagno, un aumento, una promozione, un vantaggio materiale o morale»14. In altri termini, tali argomenti vengono abitualmente definiti come razionalizza­ zioni. I risultati delle indagini condotte con il modello dell’anali­ si strategica obbligano a constatare che tale modello contiene una prospettiva, introduce una linearità nel rapporto fine-mezzo, che è tipica della razionalità strumentale. Esso trasforma tutto in mez­ zo per un fine utilitaristico: accrescere il potere dell’attore, il suo controllo sull’organizzazione o più in generale sul suo ambiente, diminuire le incertezze, guadagnare. In fin dei conti, il modello dell’analisi strategica trasforma tut­ to - e soprattutto il legame sociale - in capitale, per utilizzare un vocabolario alla moda. Ogni legame sociale diventa un capitale, cioè un mezzo per un altro fine, ossia potere o ricchezza. Ma il le­ game sociale non è mai un fine. Lungi dall’essere neutrale, come pensa Friedberg, tale modello è a disagio (come Friedberg stesso) di fronte ad ogni altra motivazione dell’azione umana: questo di­ sagio tende a fargli considerare ogni legame sociale non strumen­ tale come un’ipocrisia o come un’alienazione. I risultati emprici mostrano che i limiti della razionalità non risolvono niente a que­ sto riguardo, contrariamente a quel che lui afferma. Come ha mo­ strato Vandenberghe15 - e ben prima di lui Simmel -, il fatto di 12 Questo ‘resto’ viene recuperato dalle analisi di Sainsaulieu e di Kuty... cosa che ri­ conosce Crozier, ma non Friedberg. 13 Ibi, p. 165.

14 Ibi, p. 20.

15 Vandenberghe, Vne histoire critique de la sociologie allemande: aliénation et réification, vol. I, Marx, Simmel, Weber, Lukàcs.

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considerare un’alienazione ogni altra motivazione ad eccezione di quella dell’interesse è una conseguenza teorica necessaria del­ la visione strategica dell’uomo, e ciò trova conferma nei risultati di ricerca della scuola dell’analisi strategica. Mentre il crollo dello schema marxista lasciava sperare che na­ scesse un nuovo paradigma, in grado di tener conto della profon­ dità e della complessità dell’azione umana, al contrario si è visto come la razionalità strumentale del capitale, tipica del marxismo, si diffondesse in modo certamente più sottile, ma ancor più uni­ versale, fino ad estendersi ad ogni sfera dell’azione umana. L’a­ micizia è un capitale culturale o sociale, la competenza un capita­ le tecnico o scientifico, ecc. Ogni legame sociale si trasforma in mezzo per un fine utilitaristico: ieri la potenza economica; oggi il potere sugli altri (ricordiamo che qui non si tratta di un giudizio sul potere, che è spesso presente e non è necessariamente negati­ vo, come Crozier e Friedberg hanno abbondantemente scritto e messo in evidenza, sebbene il fatto che esso possa essere positivo non giustifichi che sia l’unica cosa di cui tener conto). Gli altri so­ no dei mezzi. Non è dunque esatto concludere, come fa Friedberg, che il ra­ gionamento organizzativo «non poggia su nessuna ontologia o metafisica dell’Attore»16. Friedberg afferma - ancora sul piano teorico - che il potere non è che un mezzo tra gli altri, una varia­ bile di cui ogni attore deve tener conto, e che anche le affinità e i poteri morali giocano un ruolo importante. Non si tratta, scrive, di «fondare una nuova teoria delle motivazioni sulla ricerca del potere. Alla base di questo discorso non vi è affatto la visione di una sorta di homo politicus che cercherebbe di massimizzare il pro­ prio potere, allo stesso modo con cui Y homo oeconomicus di un tem­ po avrebbe dovuto massimizzare i suoi profitti»17. Tuttavia il pro­ blema enunciato prima riemerge: com’è possibile allora che, in tutte le ricerche empiriche effettuate sulla base di questo model­ lo, non si ritrova sempre la stessa variabile, non si vedono altro che attori impegnati a stabilire delle strategie per accrescere il lo­ ro potere? Freidberg definisce l’istinto strategico di Crozier come un sem-

16 Friedberg, Il potere e la regola, p. 169. 17 Ibi, pp. 197-198.

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plice istinto esistenziale (non diventare un semplice strumento nelle mani del sistema e degli altri), e non come un movente per l’azione18. E una definizione molto interessante. Sottolinea il fat­ to che l’attore è innanzitutto preoccupato dall’idea di non essere utilizzato come mezzo dagli altri, di non essere altro che un ele­ mento di una strategia per gli altri. E per non essere usato come un mezzo, adotta un atteggiamento strategico e cerca di usare gli altri come mezzi. Avere un atteggiamento strategico di fronte a qualcuno significa considerarlo come mezzo piuttosto che come fine. Riprendiamo lo stesso esempio. Se si stringe la mano a qual­ cuno perché si è contenti di vederlo, non c’è strategia. Il modello non si applica dunque a questo comportamento. Ma se la stretta di mano viene data per ottenere un favore, essa diventa un mezzo, e altrettanto lo diventa la persona (non solo e non necessaria­ mente, beninteso). L’‘istinto esistenziale’ di non voler essere usa­ to come mezzo è dunque, positivamente, il bisogno di essere con­ siderato come fine, in modo cioè che il legame con l’altro sia vo­ luto per se stesso e non sia una mera strategia. L’analisi strategica afferma l’esistenza teorica della stretta di mano non strumentale, ma in pratica non la incontra, perché for­ se essa esiste solo nei sistemi sociali che l’analisi strategica non studia, come l’amicizia, l’amore, ecc. Quel che implicitamente viene affermato è che se questi rapporti di amicizia vengono col­ locati in contesti organizzativi, o più in generale in sistemi d’azio­ ne dotati di poste in gioco - per esempio, se due amici diventano concorrenti o si mettono a lavorare nella stessa ditta -, allora la stretta di mano diventa principalmente strumentale. L’analisi strategica è senza dubbio pertinente nell’esatta misu­ ra in cui le sfide-obiettivo di potere sono rilevanti nei sistemi so­ ciali osservati. Il suo postulato implicito è che più queste sfide­ obiettivo sono presenti, più determinano l’attore, più quest’ulti­ mo si comporterà come un attore strategico, più il suo istinto strategico risalterà. E vero che se tra due persone non c’è posta in gioco, esse possono amarsi di un amore tenero... e affidarsi l’uno all’altro, come ha osservato Simmel analizzando i rapporti tra estranei19. Già solo questa constatazione riduce perciò la ge-

18 Ibidem. 19 Cfr. Simmel, La metropoli e la vita dello spirito.

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neralizzazione possibile del modello, ridimensionandolo e ren­ dendo illegittimo il tentativo di farne un modello generale appli­ cabile ad ogni sistema d’azione sociale. Ma allora il pensiero stra­ tegico deve necessariamente occupare sempre più spazio ed eventualmente tutto lo spazio, a seconda dell’importanza delle poste in gioco? Al punto da escludere ogni approccio non strate­ gico? Deve eliminare il dono, l’atto non strategico? Questa do­ manda viene trascurata da Friedberg, tranne che nelle sue metaaffermazioni a priori che abbiamo riportato prima, ma che in se­ guito non si ritrovano più. C’è in questo pensiero una sorta di continuum implicito in cui si collocherebbero i rapporti umani. Meno ci sono poste in gioco, meno il modello strategico si appli­ ca, più gli attori si considerano tra loro come fini e non solo co­ me mezzi. E viceversa. Questo schema non consente di rendere conto della dinamica esistente tra l’azione strategica e non strategica negli attori, dina­ mica che è lungi dall’essere trascurabile, persino nei sistemi d’a­ zione organizzati. In parte è proprio lei che rende conto del cam­ biamento, fenomeno che massimamente interessa l’analisi strate­ gica. Più in generale, in quanto modello di riferimento principale degli attori, è vero che il modello del dono si applica piuttosto a sistemi sociali diversi da quelli analizzati dall’analisi strategica. Già questo è un limite rilevante rispetto alla tendenza, prima no­ tata, verso la generalizzazione ad ogni sistema d’azione. Eppure, anche nelle organizzazioni in cui l’analisi strategica è pertinente, degli elementi non strategici possono assumere un’importanza non trascurabile. Non trascurabile, ma trascurata dall’analisi stra­ tegica a causa dei suoi postulati. Questa contestazione si basa su numerosi studi, come i lavori di Akerlof20. I lavori dell’analisi strategica sono anch’essi molto eloquenti. Esiste in effetti un tipo di interazione essenziale per l’a­ nalisi strategica, ma di cui il modello del dono ci sembra rendere meglio conto: è quello del sistema d’interazione esistente tra il ri­ cercatore e l’organizzazione che lui studia, interazione che si tro­ va all’origine stessa della scoperta del modello dell’analisi strate­ gica. Vediamo come lo stesso Michel Crozier descrive l’origine del

20 G.A. Akerlof, Labor Contracts as Partial Gift Exchange, in Id. (ed.), An Economic Theo­ rist’s Book of Tales, Cambridge University Press, Cambridge 1984, pp. 145-174.

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suo modello di analisi. Nel corso di un intervento al colloquio di Cerisy a lui dedicato, egli riporta l’esperienza fondamentale che lo ha indotto a sviluppare il suo approccio. Si tratta di un’indagi­ ne condotta nel 1954 tra alcune impiegate di un’organizzazione pubblica, dove lui stesso ha effettuato i colloqui. Ne parla come di un’esperienza emotiva molto arricchente, gratificante, affascinan­ te. Si era «appassionato ad ascoltare e [...] loro si erano appassio­ nate a parlare. [...] Non avevo l’impressione di dover chiedere qualcosa. [... ] Erano loro che mi ringraziavano per aver dato loro l’occasione di parlare»21. Al momento di redigere il rapporto, af­ ferma: «Nessuno mi aveva chiesto questo rapporto, ma avevo l’im­ pressione di saldare un debito»22. Parla di ‘cambiamento’ e persi­ no di ‘illuminazione’23 (virgolette di Crozier). Più avanti, descrive le sue prime ricerche con i suoi collaboratori come ‘un’esperien­ za gratificante’, e aggiunge: «Si conduce un altro e ci si sente con­ dotti da lui. La filosofia implicita [...] del CSO (Centro di sociolo­ gia delle organizzazioni) deve molto a [questa] scoperta»24. E dunque possibile procedere ad un’analisi strategica di tali esperienze. Ma toccherebbero l’essenziale? Se un sociologo delle organizzazioni interpretasse l’incontro di Crozier con le impiega­ te unicamente in termini strategici, saremmo soddisfatti? Lo stes­ so Crozier sarebbe soddisfatto? Non si tratta qui di negare che, quando venivano intervistate, «quelle signorine e quelle signo­ re»25 cercavano di approfittarne, dicendo cose che un giorno avrebbero potuto aiutarle nelle loro rivendicazioni e negoziazioni con i datori di lavoro, né che Crozier aveva intenzione di appro­ fittare di questi colloqui, di utilizzarli come mezzi. Significhereb­ be negare l’evidenza. Ma sulla base della testimonianza dello stes­ so Crozier, l’essenziale non è accaduto a questo livello. Limitarsi a questo tipo di analisi significherebbe dunque tralasciare ciò che ha indotto Crozier a innovare e sviluppare il suo metodo. Ci fu un incontro tra persone, tra attori, che non si sono consi-

21 Μ. Crozier, De l’état de jeune intellectuel à la profession de chercheur en sciences sociales, in Pavé (éd.), L’Analyse stratégique, pp. 80-96; citazione a p. 85. 22 Ibi, p. 86. 23 Ibidem. 24 Ibi, p. 89. 25 Ibidem.

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derati soltanto come mezzi per gli uni e per gli altri. Ci fu un’e­ sperienza relazionale non strumentale. Ci fu una relazione voluta per se stessa, per il piacere della relazione. Inoltre, è proprio per­ ché gli effetti non erano voluti che sono stati più rilevanti. Tutti gli attori erano «appassionati, gli uni di parlare, l’altro di ascolta­ re». Gli effetti positivi sono accaduti, sono apparsi nel momento stesso in cui non venivano più ricercati. Persino in un sistema d’a­ zione in cui esistevano poste in gioco rilevanti, il legame non stra­ tegico non solo non è stato trascurabile, ma sembra addirittura avere esercitato un’influenza determinante sulla relazione e sul suo output, in questo caso la scoperta del modello dell’azione stra­ tegica! Quali sono, secondo Crozier, le caratteristiche di questo siste­ ma d’azione? Si tratta di un rapporto non contrattuale: «Noi non sappiamo qual è il cliente, è questo il problema. Il cliente è que­ sto insieme e non sappiamo veramente come esiste e se veramen­ te esiste. Non possiamo stabilire contratti perché non abbiamo in­ terlocutore»26. E un rapporto fondato sulla fiducia: Crozier insiste continuamente sulla necessità di creare un clima di fiducia27. «Ascoltavo le persone. [...] La loro fiducia mi sosteneva. [...] E la loro fiducia dava fiducia a me stesso. Ero condotto»28. E un rapporto non strumentale: il ricercatore non userà gli at­ tori come mezzi: «Le persone si fidano solo se pensano che non si andrà ad usare i risultati per manipolarli»29. In altri termini, il ri­ cercatore fa loro implicitamente la seguente proposta: apritemi la vostra zona di incertezza, datemi la chiave, ma io non la userò; fa­ te il contrario di quel che la mia teoria dice che siete supposti fa­ re, cioè mantenere segrete le vostre zone di incertezza, di paura, cosicché non vi possa controllare, e tentare di scoprire le mie per controllarmi meglio. E un rapporto di debito: «Il successo dell’intervistatore si ha quando l’intervistato vi lascia dicendo: “La ringrazio”»30. Colui

26 Crozier, Finale, p. 385. 27 Ibi, p. 386. 28 Ibi, p. 392. 29 Ibi, p. 387. 30 Ibidem.

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che dona riceve. Eccoci dunque di fronte a un rapporto di debito reciproco positivo! Questi rapporti umani di grande qualità, magnificamente de­ scritti da Crozier, cominciano precisamente là dove si esce dalla strategia, là dove si fermano il pensiero, il modello, l’atteggia­ mento, l’approccio, l’analisi, l’istinto strategico, e dove si ritrova­ no tutte le caratteristiche del modello del dono! L’analisi strategi­ ca, pur essendo pertinente e pur avendo fatto progredire enor­ memente la nostra comprensione dell’azione organizzata, resta ad un livello che non le consente di raggiungere l’attore lì dove mette in gioco la sua identità. «Se vogliamo seguire la negoziazio­ ne valoriale [che concerne i valori] nei suoi complessi percorsi, lì dove gli attori modellano e rimodellano la loro identità, è neces­ sario disporre di concetti complementari [all’analisi strategi­ ca]»31. Ora, quando si tratta di ‘modellare e rimodellare la pro­ pria identità’, quando la relazione tra gli attori raggiunge quella zona che supera il mero gioco strategico del guadagno di potere (il che accade quasi sempre, sebbene a gradi diversi), allora, lo abbiamo visto, ciò che circola tra gli attori tende a prendere la forma del dono.

L’apporto dell’analisi strategica Noi non neghiamo affatto l’importanza dell’analisi strategica. Co­ me mostra Kuty a partire dalla riflessione storica sulle nozioni di interesse e di valore, tale approccio ha riconciliato gli interessi e i valori. «La prima teorizzazione dell’interesse non è stata innanzi­ tutto economica, ma politica. [...] Machiavelli [...] è stato il pri­ mo teorico esplicito della nozione di interesse [...]. Con II Princi­ pe, ha inizio la querelle esplicita sulla legittimità di questa nozio­ ne»32. E, per Machiavelli, essa è legittima in quanto è necessaria al principe che deve conservarsi. Il fine legittimo è mantenere lo Stato, mantenersi (al potere per il principe, nella concorrenza per l’im­ prenditore, come dirà Weber). Ed è legittimo adottare i mezzi ra-

31 Kuty, La Négotiation des valeurs, p. 279; cfr. anche R. Sainsaulieu, L’Identité au travail, Fondation nationale des sciences politiques, Paris 1985. 32 Kuty, La Négotiation des valeurs, p. 28.

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zionali per giungervi. Eccoci ritornati alla teoria delle scelte razio­ nali nella sua versione ‘consequenzialista’33: non è un principio morale a giustificare l’azione, ma le sue conseguenze, i suoi risul­ tati. O piuttosto, le conseguenze diventano l’unico principio mo­ rale. «Il fondamento (legittimo) dell’interesse è conservarsi»34. L’istinto di conservazione diventa il fondamento della morale. «L’uomo non vuole perdersi, non vuole scomparire, è animato da una volontà di sopravvivenza»35. Con Montesquieu compare l’i­ dea di equilibrio tra gli elementi di un sistema sociale, idea che accresce ulteriormente il ruolo dell’interesse. «Questa idea fon­ damentale di autoregolazione interna rinvia alla concezione di un macchinario sociale. [...] Questa idea di autoregolazione at­ tribuisce un posto accresciuto, se non esclusivo, agli interessi di contro ai valori»36. Come abbiamo visto nella prima parte, è la vo­ lontà di fare a meno dei valori per far funzionare la società a con­ durre alla nozione di interesse come motore unico dei comporta­ menti, motore sufficiente e desiderabile, che rimpiazzerà vantag­ giosamente le passioni. Per reazione, questa evoluzione provocherà una rottura tra i valori e gli interessi e porterà alla concezione classica del legame interesse-valore. Il sistema valoriale inquadra la logica degli inte­ ressi37: i valori si ritrovano come a strapiombo rispetto agli inte­ ressi. In opposizione a questa concezione, Kuty mette in evidenza l’apporto rilevante dell’analisi strategica con l’introduzione dell’i­ dea di negoziazione: «La negoziazione, concetto centrale di una società democratica [...], riguarda tanto gli interessi quanto i va­ lori. La posizione teorica contemporanea è ‘immanente’: rinun­ cia ad ogni statuto trascendente dei valori e mostra la costruzione, da parte dell’attore, dei suoi interessi e identità al centro dell’a­ zione»38. Così facendo, l’analisi strategica esce dal modello meccanici­ sta. Ne conseguono delle analisi raffinate e appassionanti delle

33 Cfr. qui la prima parte. 34 Ibi, p. 31. 35 Ibidem.

36 Ibi, p. 87. 37 Parsons citato in ibi, p. 150. 38 Ibidem.

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organizzazioni, a partire da concetti e da un modello che ricono­ sce la libertà dell’attore (in opposizione al modello meccanicista o a quello con una tendenza troppo marcatamente olista), a par­ tire dalle nozioni di regole del gioco, di regolazione, di logica d’a­ zione, di zona d’incertezza: «Quali che siano gli sforzi messi in campo, è impossibile eliminare tutte le fonti di incertezza all’interno di un’organizzazione»39. Crozier arriva a pensare che que­ sto non sarebbe nemmeno augurabile. «Non si contiene il potere cercando di sopprimerlo [...], ma consentendo ad un numero sempre maggiore di persone di entrare nel giro dei rapporti di potere con più autonomia, più libertà e più possibilità di scelta»40. Egli sviluppa una visione positiva del potere: «Il potere diventa un mezzo per creare la cooperazione tra gli attori»41. Come scrive an­ cora Kuty, dopo molti altri, «l’analisi strategica è una sociologia della libertà»42, e Crozier qui si avvicina addirittura all’idea di li­ bertà degli altri tipica del dono: «Motivare [gli altri] significa dare potere su di sé, in un gioco a somma positiva»43. Nondimeno la questione che si pone è: in che modo, senza uscire dall’analisi strategica, si possono conciliare queste conside­ razioni con quell’altra idea secondo cui ogni potere si acquisisce riducendo la zona d’incertezza degli altri, dunque riducendo la loro libertà? Tutte le analisi strategiche si basano su questa idea. Solo un esempio. A proposito della circolazione di informazione, Crozier e Friedberg scrivono: «Informare gli altri [...] significa scoprirsi, rinunciare a degli atous che si sarebbero potuti contrat­ tare, ed infine rendersi vulnerabile ai tentativi di controllo da par­ te degli altri»44. Questa citazione presenta una logica di riduzione del potere dell’altro attraverso la non-informazione. Non è facile da conciliare con l’idea di potere come mezzo di cooperazione. Da un lato, il gioco di potere è a somma positiva. «Crozier scon­ volge le abitudini intellettuali [...]: dal suo punto di vista, l’attore è sempre vincitore»45. Dall’altro lato, si presume che ogni attore 39 Crozier citato in ibi, p. 177.

40 Crozier - Friedberg, Attore sociale e sistema, p. 302. 41 Kuty, La Négotiation des valeurs, p. 152. 42 Ibi, p. 213. 43 Ibi, p. 204.

44 Crozier - Friedberg, Attore sociale e sistema, p. 85, nota 65. 45 KUTY, La Negotiation des valeurs, p. 209.

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voglia limitare il potere dell’altro, che è percepito unicamente co­ me mezzo per accrescere il proprio potere. Come scrive Bauman: «[Questa prospettiva] non sembra attribuire alPessere con altri’ un particolare significato. [...] Gli ‘altri’ vengono dissolti [...] in quel vasto territorio in cui si collocano le forze che orientano in una particolare direzione le scelte dell’attore o ne limitano la li­ bertà»46. Se questa idea viene soppressa, il sistema d’azione perde il suo movente nel quadro dell’analisi strategica; al contrario, in un mo­ dello di dono, l’aumento della libertà e della zona di incertezza è iscritto nel cuore del sistema, nel punto esatto in cui il pensiero strategico delle organizzazioni pone la riduzione della zona di in­ certezza. Il ruolo giocato dal non-rispetto delle regole in ogni mo­ dello illustra bene questa differenza. Nell’analisi strategica, lo scarto rispetto alle regole viene tolle­ rato: è un adattamento necessario. Così, in un’analisi dei produt­ tori bretoni di carciofi, Crozier scrive: «Il modo migliore di con­ servare la fiducia che rende possibile il mantenimento delle rego­ le del mercato era quello di tollerare qualche infrazione a queste regole»47. All’opposto, nel dono, il non-rispetto delle regole pos­ siede lo statuto di meta-regola. Costituisce una prova dell’interes­ se per l’altro, che è invece assente nell’attore strategico. Certo, in questo modello di azione l’interesse collettivo viene raggiunto, ma attraverso il gioco degli attori, come sovrappiù. E un effetto di composizione della ricerca degli interessi particolari da parte di ciascun attore. La cooperazione e il raggiungimento degli interes­ si collettivi sono il prodotto non voluto e positivo del persegui­ mento degli interessi individuali. Qui è il modello di Adam Smith che viene applicato. «L’attore, volente o nolente, perseguendo i suoi obiettivi, realizza nello stesso tempo quelli degli altri e anche quelli dell’insieme»48. La sociologia di Crozier è dunque una so­ ciologia degli interessi nel senso in cui «non fa intervenire i valori degli attori per comprendere le loro azioni»49.

46 Z. Bauman, Modernità e olocausto, tr. it. di Μ. Baldini, Il Mulino, Bologna 1992, p. 245. 47 Μ. Crozier, The Relational Boundaries of Rationality (ciclostile non datato), p. 8.

48 Kuty, La Negotiation des valeurs, p. 235. 49 Ibi, p. 236.

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Questa assenza dell’altro si spiega con il fatto che l’analisi stra­ tegica assume il postulato di Machiavelli riguardo al motore del­ l’azione nell’attore: conservarsi, guadagnare, mantenersi, accre­ scere il proprio potere50. «L’accento è messo sul guadagno»51. Come si situa il dono in rapporto a questa necessità di conser­ varsi? Affermando la necessità di un altro postulato, di un altro istinto oltre quello strategico, un istinto che fa sì che gli attori, in certe situazioni, relazioni sociali, sistemi d’azione, cerchino l’inte­ resse dell’altro. Questo postulato fonda un sistema d’azione in cui la libertà e la zona di incertezza giocano un ruolo positivo, cosa che l’analisi strategica, per l’appunto, non consente. Esso suppo­ ne che il bisogno di conservarsi, tipico degli animali52, sia com­ pletato dal desiderio di fiorire, di innalzarsi, di essere riconosciu­ to. L’uomo tende infatti «non a conservare Inesistenza’ statica dell’organismo, ma ad accrescere e arricchire la vita dell’io in tut­ te le sue forme»53, motivo per cui, se il modello strategico è ade­ guato per identificare i blocchi dell’organizzazione, il modello del dono sarebbe necessario per rendere conto del processo di sblocco della situazione e dunque, come si vedrà, per compren­ dere il cambiamento. Ciò non significa che in realtà Crozier trascuri queste dimen­ sioni: egli si situa però al di fuori di questo modello, intervenendo con la sua saggezza, che è abbastanza grande da fargli rinunciare al suo modello quando necessario. Così Crozier afferma che l’in­ tervento del sociologo e l’informazione che comunica agli attori «li conducono, se così si può dire, a una meta-relazione, che con­ sente un gioco diverso. [...] Nel gioco antico, le stesse persone hanno paura, si proteggono e si paralizzano»54, cercano di con­ trollare la loro zona di incertezza e ridurre quella degli altri in

50 Su questo punto, cfr. Crozier - Friedberg, Attore sociale e sistema, p. 37.

51 Kuty, La Négotiation des valeurs, p. 151. 52 E ancora. Portmann sostiene che Γ auto-presentazione sia un comportamento fon­ damentale della vita, inclusa la vita animale, indipendentemente dalle sue funzioni riproduttive. Cfr. J. Dewitte, Pour qui sait voir, «La Revue du MAUSS», 14 (1999), pp. 41-59.

53 V. Jankélévttch, Introduction a G. Simmel, La Tragédie de la culture et autres essais, Pe­ tite Bibliothèque Rivages, Paris 1988, p. 15.

54 Crozier, De l’état de jeune intellectuel à la profession de chercheur en sciences sociales, p. 381.

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conformità al modello dell’analisi strategica, obbediscono soltan­ to agli istinti strategici. Ma in che modo allora l’intervento del so­ ciologo riesce a determinare questo passaggio a una meta-relazio­ ne? E sufficiente l’informazione? No. Ci vuole il tipo di relazione che Crozier descrive così bene e con emozione, come si è visto. Ci vuole un gesto, il gesto del dono, di fiducia unilaterale. «Dai, fa’ un gesto», si dice a persone che si ritrovano in una situazione bloccata. Compi un gesto, quello che darà l’avvio al nuovo pro­ cesso, quello che garantirà la transizione di fase... Crozier parla di sorpresa, addirittura di colpo di scena55. Nessuno, dice Crozier, sa quando e come si produca questo scatto. E questo l’ingredien­ te che manca al modello dell’analisi strategica per uscire dal cir­ colo vizioso della riduzione delle zone di incertezza a vantaggio di un gioco aperto che arriva addirittura ad augurare l’incertezza.

Il cambiamento e la resistenza al cambiamento Ignorando questa dimensione dinamica degli attori, ci si condan­ na a non comprendere il cambiamento, né le ‘buone ragioni’ della ‘resistenza al cambiamento’, tema costante dell’analisi stra­ tegica. Il dono è un motore importante del cambiamento nel se­ no stesso delle organizzazioni, come anche Crozier riconosce a proposito di certi atti eroici. «Gli impegni solitari e i sacrifici per delle cause che non generano ricompense [relational reward] sono molto rari. Ma esistono. Possono essere compresi come fonti di innovazione. Fanno appello a un livello superiore di costruzione relazionale e ai valori. [...] Aiutano a mettere in campo dei gio­ chi umani migliori»56. E detto tutto. Si tratta di estendere questo ragionamento a comportamenti non eroici, a un regalo, alla stretta di mano data senza secondi fini, per fare il passo e capire che ogni sistema d’azione ha bisogno di questi gesti non strategi­ ci, la cui presenza in un sistema concreto d’azione migliora i gio­ chi umani, sia che l’importanza delle poste in gioco sia la stessa sia che cambi. Bisogna dunque superare l’universo strettamente strategico

55 Ibi, pp. 383-384.

56 Crozier, The Relational Boundaries of Rationality, pp. 11-12.

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per entrare in contatto con i valori, i problemi d’identità e persi­ no con il cambiamento, dato che, come scrive Reynaud, «affinché < i sia cambiamento, occorre che gli attori trovino la forza di agire al di là delle strategie e delle regole stabilite»57. E quanto Crozier, attraverso i suoi interventi, incita costantemente gli attori a fare, con una competenza ineguagliata. Li spinge ad uscire dal suo mo­ dello, e tenta di metterli in condizione di farlo. Nella sua descri­ zione degli incontri con gli attori, Crozier presenta i risultati del­ la sua ricerca - restituzione agli attori essenziale al suo metodo di intervento - e si prefigge di far uscire l’attore dall’esclusivo riferi­ mento strategico, di dargli fiducia sufficiente perché non pensi soltanto a conservarsi, affinché si apra a un progetto, agli altri, ac­ cettando positivamente l’incertezza, la libertà dell’altro, invece di cercare soltanto di ridurla per paura di perdere, di perdersi. «Le persone non faranno ciò che le porterà a perdere»58, ripete giu­ stamente Crozier. Ma, nello stesso tempo, cerca di condurli su un terreno in cui avranno abbastanza fiducia per rischiare di perde­ re, un terreno in cui faranno una specie di salto nell’ignoto (dal punto di vista strategico) verso ‘migliori giochi umani’, invece di rinchiudersi nello statu quo protettore, accontentandosi di ‘man­ tenere lo stato’. Crozier riconosce l’esistenza di rapporti poco strategici, ma so­ lo in relazioni dove non ci sono poste in gioco, come i rapporti tra estranei che non rivedremo mai più. Sembrerebbe dunque che per lui esista una legge che afferma che più le poste in gioco tra gli attori sono importanti, più questi tenderanno verso il modello de\V homo strategicus. Senza dubbio ciò è vero, fatta salva ogni altra cosa... Ma bisognerebbe aggiungere che questo riguarda sistemi stabili senza cambiamento. Lo stesso Crozier lo riconosce nella sua analisi dell’eroe fatta dal Centro di sociologia delle organizza­ zioni, uno dei suoi primi colloqui di ricerca. In realtà, ogni volta che descrive un cambiamento importante, ci si può chiedere se il cambiamento sia stato possibile perché gli attori hanno obbedito al modello del dono piuttosto che a quello dell’analisi strategica. Oppure perché hanno avuto come riferimento dei concetti e dei valori del modello del dono (fiducia, debito, ecc.) e non dei con-

57 Citato da Kuty, La Negotiation des valeurs, p. 259. 58 Crozier citato da Paradeise, Analyse stratégique et théorie de la décision, p. 200.

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DONO E ALTRI MODELLI

cetti dell’analisi strategica (riduzione delle incertezze, potere, ecc.). O ancora perché, più precisamente, il modello di riferi­ mento del dono, ad un certo punto, ha avuto la meglio in alcuni attori di questo sistema d’azione.

Conclusione

Mentre, per Friedberg, l’idea di razionalità limitata dissolve l’op­ posizione paradigmatica sollevata da Coleman e la rende un falso problema, noi abbiamo cercato di mostrare come l’analisi strate­ gica sia spesso una sorta di clone dell’homo oeconomicus applicata ai rapporti di potere. Si può dunque concludere che, osservando dei sistemi d’azione senza gli apriori dell’analisi strategica, ma ap­ plicando e prendendo sul serio quel che suggerisce Friedberg - cioè considerare ex ante che ogni comportamento è un miscu­ glio complesso di motivazioni -, il ricercatore scoprirà altri siste­ mi d’azione, e sarà indotto ad attribuire un posto centrale alla questione seguente: gli attori si considerano reciprocamente sol­ tanto come mezzi oppure no? Certo, la risposta non è facile, e bi­ sogna navigare costantemente tra l’ingenuità e il cinismo nell’a­ scolto degli attori. A questo riguardo, ‘l’ascolto simpatetico’, così caro a Crozier59, è molto prezioso, così come tutto un insieme di metodi che provengono dall’analisi strategica, ma che possono essere utilizzati introducendo nel gioco Vhomo donator. Ciò significa che per questo noi poniamo degli attori pura­ mente ‘altruisti’, in opposizione agli ‘egoisti’ dell’analisi strategi­ ca? L’esame del ruolo del dono nella teoria dei giochi permetterà di rispondere di no a questa domanda.

59 Crozier, De l’état de jeune intellectuel à la profession de chercheur en sciences sociales; cfr. anche Μ. Crozier, Ma belle époque, 2 voll., Fayard, Paris 2002, t. 1.

CAPITOLO DODICESIMO

Né egoismo, né altruismo: il dono e la teoria dei giochi1

Il dono intrattiene con il gioco un rapporto ambiguo. Come ri­ corda Hamayon2, il gioco è stato tendenzialmente vietato dalla Chiesa in Occidente. Questo fatto ha influenzato probabilmente le particolari caratteristiche che il dono ha assunto e la sua deriva verso il dono puro. Eppure il gioco è considerato oggi da nume­ rosi autori come un modo di interagire fondamentale3, e anche come un modo per studiare la società, il legame sociale, come ri­ corda Borges parlando della «serietà del bambino che gioca». Corradini4 sottolinea che il bambino passa dal giocattolo al gioco quando capisce e accetta che può essere più divertente lasciar an­ dare il suo giocattolo e farlo circolare, condividere il suo pallone col rischio di perderlo piuttosto che tenerselo per sé. La qualità del gioco può dipendere in parte da questo atteggiamento dei giocatori a lasciar andare, e il gioco può perciò essere visto come un modo per imparare a donare. Tuttavia, affinché il gioco conservi un senso (perlomeno i gio­ chi non cooperativi e puramente competitivi - i giochi a somma zero)5, una delle regole di base è che non ci deve essere dono. Questa regola è ancora più importante dell’obbligo di rispettare le regole. In realtà, è il modo peggiore di imbrogliare. O piutto­ sto, è al di là dell’imbroglio, perché se il giocatore imbroglia lo fa

1 Ua versione diversa di questo capitolo, recante lo stesso tìtolo, è stata pubblicata in «La Revue du MAUSS», 20 (2002). In quell’occasione, Philippe Chanial ha fatto alcu­ ne osservazioni che hanno migliorato il presente testo. 2 R. Hamayon, L’épingle du jeu, «La Revue du MAUSS», 12 (1998), pp. 103-121. 3J. Huizinga, Homo ludens, tr. it. di C. van Schendel, Einaudi, Torino 2002.

4 L. Corradini, Un dono allo Stato?, in A. Mastrantuono (a cura di), Oltre i diritti, il do­ no, Fondazione Italiana per il Volontariato, Roma 2001, pp. 185-196. 5 Per i giochi che non sono a somma zero, la sperimentazione arriva a conclusioni di­ verse, creando tutto l’interesse per una teoria del dono; cfr. più avanti.

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ancora per guadagnare, e non guadagna donando (salvo che co­ me mezzo). Non può mai imbrogliare avendo come fine quello di far guadagnare un altro giocatore6. Il dono in effetti sopprime ogni interesse per il gioco. Lo dissolve e costituisce inoltre un’in­ giustizia per gli altri giocatori. Questa duplice caratteristica del gioco - nello stesso tempo strumento fondamentale di cooperazione e modello di azione fondato sull’interesse e la razionalità strumentale - spiega l’attua­ le infatuazione per la teoria dei giochi in tutti coloro che si augu­ rano di estendere il modello dell’interesse all’insieme dei com­ portamenti umani, che diffidano dell’altruismo e preferiscono at­ tribuire il funzionamento della società sulla base dell’interesse. Questo atteggiamento è comune a tutti i moderni, sebbene a gra­ di diversi. D’accordo con Arrow, essi ritengono, il più delle volte giustamente, anche se con rammarico, «che non bisogna esaurire con noncuranza questa risorsa rara che è la motivazione altrui­ sta»7. Con rammarico, perché se, per ipotesi, questo altruismo ge­ neralizzato esistesse, permetterebbe di alimentare la cooperazio­ ne tra i membri di una società. Disgraziatamente, siccome questo altruismo è impossibile, ma bisogna malgrado tutto cooperare, ci si chiede allora in che modo degli egoisti possano arrivare a farlo. A partire dai lavori di Axelrod sul dilemma del prigioniero, tenteremo di non darla vinta né al postulato egoista né a quello altruista, e cercheremo di mostrare che entrambi trascurano il problema della fiducia, fondamento del modello del dono.

La cooperazione tra egoisti

Puramente teorica e astratta fino al 1980, la teoria dei giochi ha dato luogo in seguito a una proliferazione di esperienze8. In che modo degli egoisti riescono a cooperare? Tale questione è al cen­ tro dell’interesse suscitato dalla teoria dei giochi tra gli economi­

6 Certi giochi di carte, come il truce argentino, accettano che si giochi con la regola deH’imbroglio, che diventa una meta-regola. Ma a partire dal dono non si possono mai rispettare le regole del gioco.

7 Arrow, Gifts and Exchanges, p. 22 (cfr. qui la prima parte). 8 Sigmund - Fehr - Novak, The Economics ofFair Play.

NÉ EGOISMO, NÉ ALTRUISMO

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sti e gli psicologi. Da molti decenni la teoria dei giochi sviluppa modelli di cooperazione fondati suH’egoismo e sul self-interest?. Sono state realizzate innumerevoli esperienze che ruotano so­ prattutto intorno al celebre dilemma del prigioniero. Ricordia­ mone la struttura di base: se entrambi confessano, saranno con­ dannati a 5 anni di prigione. Se nessuno confessa, saranno con­ dannati a 2 anni. Ma se soltanto uno dei due confessa, quello che confessa verrà liberato, mentre l’altro sarà condannato a 10 anni. Questa situazione induce i due prigionieri a confessare e ad esse­ re condannati a 5 anni9 10, mentre avrebbero potuto cavarsela con una pena di 2 anni soltanto scegliendo entrambi di non confessa­ re, a condizione di fidarsi abbastanza dell’altro per credere che farà la stessa scelta. I risultati di queste esperienze hanno dato luogo a moltepli­ ci interpretazioni, spesso contraddittorie. Per alcuni, come Axel­ rod11, esse mostrano che si può fare a meno del dono per scam­ biare, per cooperare e instaurare sistemi di reciprocità tra mem­ bri di una società: la cooperazione può nascere da strategie pura­ mente interessate. Per altri, al contrario, il dilemma del prigio­ niero mette in evidenza l’insufficienza della teoria della scelta ra­ zionale, basata sul postulato dell’interesse. E la tesi dell’opera di Cordonnier12, per il quale il dilemma del prigioniero non può es­ sere risolto in altro modo se non attraverso il dono. «Fidarsi inte­ ramente o diffidare interamente»: ecco - scrive anche Alain Cail­ lé - la soluzione ante litteram che Mauss dava al dilemma del pri­ gioniero13. Tra gli innumerevoli autori che hanno scritto sul dilemma del prigioniero, Axelrod è quello che si è più direttamente interessa­ to al problema. Come la maggior parte dei teorici dei giochi, egli considera la cooperazione unicamente come mezzo utilizzato da egoisti razionali per guadagnare, che in questo caso significa rice­ vere di più secondo un calcolo oggettivo. La preferenza egoistica 9 Modelli cioè che non si basano sull’autorità, né sulla pressione sociale o la sanzione sociale inerente al contratto. 10 Nei termini della teoria dei giochi, questa soluzione è stabile, dominante, ma è sot­ to-ottimale. La soluzione ottimale è che nessuno dei due confessi.

11 Axelrod, Giochi di reciprocità. 12 Cordonnier, Coopération et réciprocité. 1S Caillé, L’Anthropologie du don, p. 50.

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si confonde qui con l’interesse, volendo usare la distinzione di Schmidt (cfr. nota 52, p. 277). Il postulato di Axelrod è che, se c’è dono, l’altro giocatore cercherà necessariamente di trarne profit­ to. Per assunto, il donatore si fa sfruttare, perde sempre e perciò sparisce, se si trova di fronte a qualcuno che obbedisce solo al suo interesse14. Per ogni giocatore, l’altro è definito come un puro mezzo per raggiungere il proprio obiettivo; ne segue la questione di Axel­ rod: fin dove è possibile arrivare nella cooperazione tra egoisti? Egli riconosce che, se i giocatori giocano soltanto una volta (one shot game), la cooperazione tra egoisti non è possibile, e la ‘solu­ zione’ di Mauss trova applicazione. Come gli altri teorici dei gio­ chi, egli si rende conto che, «quando i giocatori non sono chia­ mati a incontrarsi di nuovo, la strategia della defezione è l’unica che sia stabile»15. Ma quel che interessa ad Axelrod sono le situa­ zioni in cui i giocatori ripetono più volte il gioco. Si è allora do­ mandato quali fossero le strategie migliori e, per rispondere a questa domanda, ha immaginato una competizione tra compu­ ter. Ha così proposto a un certo numero di universitari specialisti della teoria dei giochi16 di partecipare a un torneo di computer. Ognuno doveva fornire ad Axelrod una serie di regole (la strate­ gia). A partire da queste diverse strategie, Axelrod ha fatto ‘gio­ care’ il computer opponendo ciascuna strategia alle altre17. Con­ frontando questi risultati, è riuscito a mostrare che, in questo ti­ po di gioco, una delle strategie vincenti è quella del colpo su colpo (tit for tat). La regola che il giocatore adotta è la seguente: coope­ rare al primo colpo, poi fare esattamente quel che fa l’altro gio­ catore («colpo su colpo prevede la cooperazione alla prima mossa e l’uniformarsi, per le successive, alla scelta operata subito prima 14 Ritroviamo qui il problema del modello del dono unilaterale: se non c’è contrac­ cambio, i donatori scompaiono secondo una legge elementare dell’evoluzione (Frank, Passions within Reason. The Strategic Role of the Emotions).

15 Axelrod, Giochi di reciprocità, p. 70. Ma i fatti contraddicono questo enunciato (cfr. più avanti, Limiti e problemi). 16 Quattordici persone hanno sottoposto una strategia, rappresentando le seguenti discipline: psicologia, economia, scienza politica, matematica e sociologia. 17 Ogni giocatore affronta successivamente tutti gli altri partecipanti al torneo, cosa che in inglese viene chiamata round robin. Axelrod ha aggiunto altre due parti: ogni input sottoposto (strategia) giocava anche contro se stesso e contro un programma che distribuiva a caso la scelta di cooperare o meno.

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dall’altro giocatore»)18. La fiducia in questo caso viene utilizzata soltanto come una sorta di test dell’altro, con posizione di ripie­ go immediato e automatico in caso di non-cooperazione, il che minimizza le perdite. E una strategia stabile, che in un gioco ripetuto ha la meglio su tutte le altre. Ora, questa strategia è una strategia cooperativa, che offre continuamente all’altro la possibilità di cooperare, pur penalizzandolo se non coopera. Nei giochi ripetuti, si tratta di una strategia che ogni essere vivente unicamente alla ricerca del proprio interesse è in grado di adottare. Come Axelrod mette in evidenza, tale struttura di cooperazione è molto importante nella società. E una strategia vincente per entrambi i partner, il che spiega la sua universale diffusione. Il colpo su colpo è un meccani­ smo che funziona da solo, e, al limite, persino senza aver bisogno della collaborazione dei giocatori. Questi saranno portati a sce­ gliere tale strategia quasi inconsciamente. Per Axelrod, la reci­ procità è una struttura di contraccambio non obbligatoria dal punto di vista contrattuale, e non necessariamente cosciente.

Un vincitore che perde

C’è una caratteristica di questa strategia cooperativa che deve atti­ rare la nostra attenzione. Nel corso delle numerose esperienze condotte da Axelrod, i giocatori che hanno adottato questa strate­ gia hanno sempre fatto un punteggio meno buono (o nel miglio­ re dei casi un punteggio uguale) del loro avversario. «Eppure - si rende conto Axelrod - il colpo su colpo non era mai riuscito in nes­ sun incontro a far meglio dell’awersario diretto!»19. Chi adotta ta­ le strategia è perciò perdente di fronte al suo avversario. Non può essere altrimenti perché per definizione è l’altro giocatore che fa defezionare il primo, perché chi adotta la strategia del colpo su col­ po non defeziona mai per primo. Dunque la strategia del colpo su colpo può al massimo uguagliare il punteggio del suo avversario. (Il che succede se l’avversario adotta la sua stessa strategia: nessun giocatore allora defezionerà mai). Chi adotta questa strategia non 18 Axelrod, Giochi di reciprocità, p. 23. 19 Ibi, p. 97.

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può mai guadagnare di fronte a ogni avversario considerato sepa­ ratamente. Se questa strategia è risultata malgrado tutto vincente di fronte a tutte le altre, ciò dipende dal fatto che, al termine del torneo, il punteggio medio dell’insieme delle parti giocate con la strategia colpo su colpo è superiore a quello della media dei gioca­ tori che hanno adottato una strategia diversa. In breve, proprio mentre ognuna delle altre strategie ha la meglio in ogni partita sul colpo su colpo, il colpo su colpo ha la meglio su tutte le altre quando si accumulano i guadagni successivi ottenuti nell’insieme del tor­ neo. «La strategia TIT FOR TAT ha vinto il torneo, non già batten­ do gli avversari diretti, bensì sollecitando nell’altro giocatore, di volta in volta, un comportamento che consentisse a entrambi di conseguire il successo»20. Se ha vinto, è perché tutti quelli che hanno adottato una strategia alternativa al colpo su colpo hanno fat­ to complessivamente un punteggio più basso. Voi vincete perché è il punteggio migliore che avreste potuto fare contro i giocatori che adottano una strategia diversa. E davvero la strategia ad essere vincente, e non il giocatore individualmente preso. E come se l’i­ niziatore del colpo su colposi sacrificasse per l’insieme dei giocatori, ai quali permette ad ogni partita di avere la meglio su di lui, au­ mentando così la somma delle vincite offerte a tutti. Paradosso: in fin dei conti, chi vince è quello che si sacrifica di più.

Una morale utilitarista Benché il dono sia assente e il giocatore non si comporti moral­ mente21, Axelrod conclude che questa strategia è morale nel sen­ so che tutto accade come se il giocatore fosse molto morale. «Co­ sì TIT FOR TAT massimizza il proprio guadagno promuovendo l’interesse reciproco invece che sfruttando l’eventuale debolezza altrui: l’uomo etico non potrebbe far di meglio»22. Si tratta di una morale dei risultati e non dei fini, che esiste in ogni essere vivente capace di strategia. Secondo Axelrod, può persino svilupparsi nei batteri. E quel che affascina così tanto di questa strategia, che

20 Ibidem. 21 Ibi, p. 115.

22 Ibi, p. 117.

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sembra soddisfare due condizioni contraddittorie della teoria uti­ litarista enunciate da Alain Caillé: «La dottrina utilitarista si orga­ nizza a partire da due proposizioni difficilmente conciliabili: la prima stabilisce che gli esseri umani sono degli egoisti razionali, e non devono essere considerati altro che così. La seconda li obbli­ ga moralmente a sacrificarsi sull’altare del maggior numero, ob­ bligandoli ad essere ‘altruisti’»23. Come assicurare che degli egoisti, pur essendo egoisti, agisca­ no facendo la felicità del maggior numero? Ecco la questione cui il teorico utilitarista vuole rispondere, ed è ciò a cui Axelrod sem­ bra arrivare, dimostrando che gli egoisti possono riuscire a colla­ borare. Il colpo su colpo risolverebbe il problema di Rousseau, che ritie­ ne necessario forzare gli uomini ad essere liberi24? Nelle espe­ rienze di Axelrod, i giocatori riescono a cooperare senza essere forzati, senza contratto, senza ‘sovrano’ che li obbliga e senza es­ sere - è il postulato - altruisti. «Quel che soprattutto è interessante - scrive Axelrod - è quan­ to siano minime le ipotesi da formulare circa gli individui e l’am­ biente sociale [...]. In primo luogo non è necessario che gli indi­ vidui siano dotati di raziocinio, in quanto il processo evolutivo consente alle strategie più efficaci di prosperare anche se i gioca­ tori non sanno né come né perché. In secondo luogo non è ne­ cessario che i giocatori si scambino messaggi o promesse: non hanno bisogno di parole, perché sono le azioni a parlare per loro. Ancora: non è necessario ipotizzare la fiducia tra i giocatori, in quanto già basta il ricorso al criterio della reciprocità a rendere improduttiva la defezione. Non è indispensabile neppure l’altrui­ smo: le strategie efficaci sono in grado di indurre alla cooperazio­ ne anche gli egoisti. Infine non è assolutamente necessario il cen­ tralismo autoritario: la cooperazione fondata sulla reciprocità può benissimo far da gendarme a se stessa»25. «Fondamento della

23 Caillé, L’Anthropologie du don, p. 168. 24 Come afferma Runciman: «In assenza di sanzione, ciascun prigioniero è condotto, a causa del perseguimento del proprio interesse, a rompere il contratto che pure av­ vantaggia entrambi. Ciò rende plausibile l’idea di Rousseau che bisogna forzare gli uomini ad essere liberi» (W.G. Runciman - A.K. Sen, Games, Justice and the General Will, «Mind», 74, 1965, pp. 554-562; citazione a pp. 555-556).

25 Axelrod, Giochi di reciprocità, p. 144.

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cooperazione non è, insomma, la reciproca fiducia, bensì la pre­ vedibile durata del rapporto»26. Altri lo chiamano ‘calculative trust'2’1. Qui il termine ‘fiducia’ non indica altro che la probabi­ lità di un certo comportamento nel partner, indipendentemen­ te dai suoi sentimenti o dalle sue qualità intrinseche, indipen­ dentemente persino dalla sua coscienza. In realtà, la fiducia non entra forse nemmeno in gioco28. Una strategia del genere appartiene al mondo del dono? Sono possibili due posizioni: 1. La strategia del colpo su colpo rientra nel campo del dono: non c’è garanzia di contraccambio, perciò è un dono. Essa soddi­ sfa la condizione minimale che definisce il dono. 2. La strategia del colpo su colpo non rientra nel campo del dono, perché non c’è nient’altro che ricerca dell’interesse individuale, reciprocità fondata sull’equivalenza e ‘punizione’ automatica al turno seguente se non c’è contraccambio immediato, cosa che è molto lontana dalla reciprocità che si applica al dono (cfr. cap. 6).

Se c’è dono, si tratterebbe davvero di un caso limite. La strategia del colpo su colpo non ne possiede lo spirito. In effetti, pur senza credere che il dono esiga un sentimento altruista, è lecito dubita­ re che una strategia che non tiene conto dell’altro (o della rela­ zione con l’altro), se non nella misura in cui serve al proprio in­ teresse, rientri in questo spirito. Il punto di partenza non è fon­ dato sull’idea che il dono possa implicare il dono; al contrario, l’intera strategia è centrata sulla convinzione che il dono implichi lo sfruttamento e che occorra reagire, mostrando la propria vo­ lontà di cooperare unicamente perché è nel proprio interesse. In effetti, ripetiamolo, secondo i postulati di questa teoria, la gene­ rosità non può implicare altro che lo sfruttamento. Come ripete continuamente Axelrod, «i conflitti inutili possono certamente

26 Ibi, p. 151. 27 «Mi fido di te perché calcolo che il tuo beneficio a breve termine derivante da una defezione opportunistica non vale quanto ti frutterà la cooperazione a lungo termi­ ne» (J.D. Montgomery, Toward a Role-Theoretic Conception of Embeddness, «American Journal of Sociology», 104, 1998, 1, pp. 92-125). 28 Questa posizione è contestata da numerosi autori, come A. OrlÉAN, La théorie éco­ nomique de la confiance et ses limites, in R. Läufer - Μ. Orillard (éds.), La Confiance en question, L’Harmattan, Paris 2000, pp. 59-77.

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essere evitati grazie alla generosità, ma la generosità è un invito a farsi sfruttare»29. E precisamente il problema che questa strategia del do ut des pretende di risolvere. Axelrod ha mostrato chiara­ mente che questa soluzione poteva essere adottata dai giocatori senza spirito del dono. E una strategia fondata sulla più semplice reciprocità. Si è visto che una simile concezione di reciprocità non è un modello di scambio proprio del dono. Certo, il giocatore comincia con la cooperazione, con l’essere gentile, ‘generoso’, scrive Axelrod, offrendo i seguenti consigli a chi vuole guadagnare in un prisoner’s dilemma gamer. «1. Non essere invidioso. 2. Non essere il primo a defezionare. 3. Ricambia sia la cooperazione sia la defezione. 4. Non peccare d’astuzia»30. Il gio­ catore utilizza a minima lo spirito del dono come mezzo al mo­ mento del suo primo turno. Ma la cosa si ferma qui. In seguito, è il colpo su colpo. Il colpo su colpo viene presentato come la struttura minimale di cooperazione, l’unica che possa emergere da perso­ ne egoiste. E molto diversa dal «fidarsi interamente o diffidare in­ teramente» di Mauss. L’affermazione di Caillé («Ecco la soluzio­ ne ante litteram che Mauss dava al dilemma del prigioniero»)31 si applica soltanto ai giochi a un solo turno, che non sono di com­ petenza del colpo su colpo. Pertanto la questione si pone: ci può essere dono senza spirito del dono? Anche se Axelrod per descrivere questa strategia usa concetti dal sapore ‘altruista’, e anche se è vero che la strategia che comincia col donare, che usa il dono come mezzo, prevale su tutte le altre, essa non dipende da una struttura di dono. Senza dubbio il giocatore ‘dona’ al primo turno, ma questo gesto è con­ dizionato dal controdono del donatario, e sarà automaticamente interrotto se non c’è contraccambio. Ora, come scrive Caillé, «il dono non dev’essere pensato senza l’interesse o al di fuori di que­ sto, ma contro l’interesse strumentale. E quel movimento che, ai fini dell’alleanza o (e) della creazione, subordina gli interessi strumentali agli interessi non strumentali. Alle passioni»32. Tale

29 R. Axelrod - D. Dion, The Further Evolution of Cooperation, «Science», 242 (1988), pp. 1385-1390; citazione a p. 1387.

30 Axelrod, Giochi di reciprocità, p. 95. 31 CAILLÉ, L’Anthropologie du don, p. 50. 32 Ibi, p. 127.

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‘movimento’ è chiaramente assente in questo caso. Il gesto del giocatore non è altro che un mezzo. E subordinato agli interessi strumentali. Alla base della struttura del dono, c’è quel paradosso del contraccambio tanto più importante quanto più non è voluto, il che nega lo spirito del gesto puramente strumentale, usato co­ me mezzo. Resta pur vero che, a minima, bisogna che uno dei due gioca­ tori faccia quel primo gesto - una sorta di sacrificio - per innesca­ re il processo del do ut des. La figura del primo dono33, eterna­ mente diverso da tutto ciò che accadrà in seguito, qui è presente, persino in questo modello che non rientra nel campo del dono. In tal senso, in principio c’è sempre il dono. Il dono puramente strumentale che il do ut des di Axelrod rappresenta ne sarebbe un caso limite.

Limiti e problemi Senza costrizione, senza autorità. Senza contratto, senza fiducia, senza altruismo, senza dono: la strategia del colpo su colpo funziona completamente da sola. Axelrod riconosce però i limiti di questa strategia e la sua incapacità a risolvere numerosi problemi sociali. Così, il colpo su colpo non può mettere fine al ciclo della vendetta, dal momento che la regola di base è punire ogni volta che l’altro punisce (salvo la prima volta): «Il guaio di colpo su colpo è che, una volta iniziata, la faida rischia di protrarsi a tempo indetermina­ to»34. Inoltre, questa soluzione non è valida per i giochi one-shot. Infine, Axelrod ammette che i giochi sarebbero di qualità ben mi­ gliore se l’altruismo fosse realmente presente nell’intenzione dei giocatori, e non soltanto come risultato del gioco35. Egli adotta la definizione classica delfaltruismo tra gli economisti: «il fenome­ no per cui l’utilità personale risente positivamente dell’effetto del

33 G. Simmel, Excursus sulla fedeltà e la gratitudine, in In., Sociologia, pp. 498-509: cfr. p. 507; A.W. Gouldner, L’importanza di qualcosa in cambio di nulla, in In., Per la sociologia. Rinnovo e critica della sociologia dei nostri tempi, tr. it. di S. Pappalardo, Liguori, Napoli 1977, pp. 330-378.

34 Axelrod, Giochi di reciprocità, p. 117. Axelrod chiaramente menziona l’Albania. 35 Ibi, p. 90.

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benessere del prossimo»3637 . «L’altruismo — afferma - è motivo d’a­ zione»87. Esce allora completamente dal suo modello affermando che «un ottimo sistema per favorire la cooperazione nella compa­ gine sociale è quello di insegnare ai soggetti della collettività a preoccuparsi del bene del prossimo»38. Ma allora, non siamo più nel caso del dilemma del prigioniero. Al contrario, come lui stes­ so aggiunge subito, nel quadro di un gioco del prigioniero, l’al­ truista verrà sfruttato39. E il suo postulato, come si è visto. Si pongono molti problemi, sia sul piano teorico sia su quello empirico. Innanzitutto, in che modo il primo atto di cooperazio­ ne è veramente possibile? In questo caso si tratta di un problema puramente teorico, dato che i fatti sono lì: tra i giocatori che ri­ spondono all’appello di Axelrod, alcuni adottano questa strategia del colpo su colpo, e si tratta dei vincitori. Inoltre, lo scopo di Axel­ rod non era quello di dimostrare che il colpo su colpo è la migliore forma di cooperazione possibile, ma soltanto che la cooperazione è possibile e può persino svilupparsi tra egoisti (il titolo originale del libro non è forse The Evolution of Cooperations). L’autore rico­ nosce anche che questa cooperazione è minimale e che, introdu­ cendo una certa dose di altruismo, - questo ingrediente strano, questa ‘risorsa rara’40 - essa aumenterebbe. Tuttavia, in nota ag­ giunge: «L’altruismo è talmente difficile da spiegare nel contesto della coscienza pubblica»41. Resta il fatto che nella realtà, come mostrano le innumerevoli esperienze realizzate dagli psicologi intorno al dilemma del prigio36 Ibi, p. 115. 37 Ibidem.

38 Ibidem. 39 Questa posizione è contestata da alcuni autori: P. KOLLOCK, The Logic and Practice of Generosity, «American Sociological Review», 61 (1996), pp. 341-346; citazione a p. 341; cfr. anche E.B. Reeves - T.C. Pitts, Cooperative Strategies in Low-Noise Environments, «American Sociological Review», 61 (1996), pp. 338-341.

40 Arrow, Gifts and Exchanges. 41 Axelrod, Giochi di reciprocità, p. 182. Sul piano teorico, ricordiamo anche la legge dell’induzione retrograda (enunciata da D.L. Luce - H. Raiffa, Games and decisions. Introduction and critical survey, John Wiley & Sons, New York 1957, pp. 97-102), da cui segue che, anche nei giochi ripetuti, i giocatori sceglieranno di non cooperare. Ma, come concludono questi autori, quando il gioco del prigioniero viene ripetuto («ite­ rated», pp. 97-102) è comunque ragionevole pensare che i giocatori coopereranno. Non è ragionevole fare altrimenti (p. 101). E ciò malgrado la legge dell’induzione re­ trograda, da loro ben spiegata (pp. 98-99). E quello che constata Axelrod.

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DONO E Α1.ΓΚΙ MODELLI

niero, gli individui cooperano, persino nei giochi one-shot, e molto di più che nella strategia minimale del colpo su colpo: «Il numero dei soggetti che cooperano nei giochi one-shot è relativamente elevato [...], mai sotto il 40% e talvolta al di sopra del 60%»42. «Centinaia di esperienze con il dilemma del prigioniero, o altri giochi che ri­ compensano il comportamento egoista [self-interested} a scapito del gruppo, mostrano che una significativa proporzione dei parteci­ panti (dal 25 al 35%) manifesta un rifiuto ostinato ad agire in mo­ do unicamente interessato, persino in condizioni di anonimato e in assenza di punizione da parte del gruppo. Tale comportamento cooperativo può raggiungere 1’85% se i ricercatori autorizzano lo scambio tra i giocatori, o altre procedure che consentono di accre­ scere il sentimento di identificazione al gruppo»43. Questi giocatori cooperano dunque molto di più di quanto la teoria preveda, attribuendo talvolta più importanza a considera­ zioni che dipendono dal legame piuttosto che da ciò che circola, fino a sembrare capaci di ritenere che la generosità non sia sol­ tanto uno stimolo allo sfruttamento, ma possa anche rappresenta­ re un invito... alla generosità, atteggiamenti che li collocano per­ ciò in un altro modello, quello del dono. Essi realizzano l’auspicio di Axelrod (e di Crozier), e passano a giochi di qualità supe­ riore, realtà che Axelrod fatica a spiegare. La sua diffidenza e quella della maggior parte degli economisti (cfr. la parte I) sem­ brano dunque poco fondate, anche se non bisogna passare all’al­ tro estremo e contare unicamente sulla generosità per sviluppare la cooperazione, e anche se non è il caso di negare che ci sentia­ mo sempre su un terreno più sicuro facendo appello contempo­ raneamente all’interesse dell’altro e alla sua generosità. Ciò che queste migliaia di esperienze contraddicono non sono i risultati di Axelrod, ma il suo postulato, che vuole che la genero­ sità sia molto rara e porti quasi sempre allo sfruttamento. Toc­ chiamo forse la vera contraddizione di questo approccio: fondate alfinizio sull’interesse egoista in nome del realismo, queste espe­ rienze mostrano che, nella realtà, questo postulato rende scarsa­ mente conto del comportamento degli attori.

42 Fehr - GÄCHTER, Reciprocity and Economics: The Economie Implications of Homo Reciprocans, p. 845.

43 Mansbridge (ed.), Beyond self-interest, p. 17.

NÉ EGOISMO, NÉ Al.TRUISMO

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Dono e reciprocità

Rimane essenziale riconoscere che, al di fuori del mercato e del dono, esistono molteplici forme di scambo (scambi non com­ merciali)44 e persino di cooperazione e reciprocità, senza auto­ rità esterna, contrariamente a quel che credeva Hobbes. Ciò che Axelrod mette in evidenza è fondamentale, e si colloca al­ l’opposto della struttura di reciprocità menzionata il più delle volte nel mondo del dono, vale a dire la reciprocità del dono agonistico. Saremmo dunque in presenza di almeno due strut­ ture stabili e forti di reciprocità: il colpo su colpo e il dono agoni­ stico45, che implica un rilancio del dono e costituisce la figura rovesciata del colpo su colpo. Si tratta forse di due figure estreme della reciprocità? Ciò che a partire da qui occorre mostrare è il fatto che, osser­ vando la società, si scoprono altre strutture ugualmente stabili, ma fondate direttamente sul dono, e non sulla reciprocità del ti­ po colpo su colpo. Queste forme contraddicono addirittura il colpo su colpo. Fanno saltare uno dei postulati del modello, quello che afferma che la generosità induce automaticamente allo sfrutta­ mento. Questo nuovo modello afferma che la generosità può in­ durre alla generosità. In un contesto egoista, l’individuo tende ad assumere un atteggiamento egoistico, ma, in un contesto genero­ so, avrà la tendenza ad assumere un atteggiamento generoso. Nessuna società può sopravvivere senza quest’altro modello, co­ me lo stesso Axelrod chiarisce, ricordando che il colpo su colpo non potrebbe mettere fine a situazioni come il ciclo della vendetta. Le caratteristiche e l’importanza di questo modello alternativo sono state presentate nella parte precedente. Il suo valore è verificato empiricamente. 1. Innanzitutto, come si è visto, dalle migliaia di esperienze de­ gli psicologi sullo stesso dilemma del prigioniero. Tali constata­ zioni non valgono soltanto nelle società liberali. Alcuni ricercato­ ri hanno testato dei giochi simili al dilemma del prigioniero in quindici piccole società (cacciatori-raccoglitori o equiparati). La loro conclusione è chiara: «L’assioma dell’egoismo non è accerta44 Testart, Échange marchand, échange non marchand. 45 Boilleau, Conflit et lien social. La rivalité contre la domination.

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DONO E AU RI MODELLI

to in nessuna delle società studiate»46. «In nessuna società i com­ portamenti degli attori si conformano, anche solo grossolana­ mente, al modello canonico dell’interesse puramente interessato [purely self-interested] »47. 2. Come mostreremo nella parte seguente, anche nel mondo degli affari l’importanza del dono è grande, e specialmente la pratica abituale dei regali a fine contratto, ossia un comporta­ mento contrario alla previsione della strategia del colpo su colpo. Secondo Axelrod, in effetti, quando questa prospettiva di azioni future svanisce, il colpo su colpo evidentemente termina, e allora non resta che ricorrere all’autorità esterna48. 3. Dal fatto che molti individui non si comportano come free ri­ ders, come egoisti, quando potrebbero49, nel corso di interazioni abituali e spesso non ripetute, come il caso della mancia. Il colpo su colpo non spiega perché così tanti attori sociali, in molteplici si­ tuazioni in cui i giocatori non si rivedranno mai più, donano co­ munque, senza che alcuna autorità esterna li obblighi (salvo un’‘autorità morale’, la pressione sociale, che indichiamo in ter­ mini di norme interiorizzate). 4. Dal fatto che il dono può mettere fine alla vendetta, cosa che il colpo su colpo non può fare, come Axelrod riconosce. 5. Infine delle situazioni sociali fondamentali, come la paren­ tela e altre reti primarie, in cui le regole che governano la circola­ zione delle cose sono molto distanti dal colpo su colpo50.

Il modello di cooperazione di Axelrod è una figura intermedia tra Yhomo oeconomicus e V homo donator, che spiega numerose intera­ zioni sociali, ma non rende conto di un insieme di altre interazio­ ni che dipendono dal dono. E senza dubbio fondamentale con­ stare, con Axelrod, che la cooperazione può svilupparsi negli es­ seri viventi senza autorità esterna e senza altruismo. Ma è altret­ tanto importante notare, sempre con Axelrod, che essa non basta per far funzionare una società umana. 46 Henrich (ed.), Foundations of Human Sociality: Economie Experience and Ethnographic Evidence from Fifteen Small-Scale Societies, p. 49.

47 Ibi, p. 5.

48 Axelrod, Giochi di reciprocità, p. 130. 49 Ibi, p. 86.

50 Godbout, Le Don, la Dette et l'identité.

NE EGOISMO, NE ALTRUISMO

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L'altruismo come soluzione ?

Normalmente si ritiene che l’altruismo possa essere una soluzio­ ne al dilemma del prigioniero. Axelrod, pur mirando a mostrare che la reciprocità può fare a meno dell’altruismo, riconosce che quest’ultimo è un potente amplificatore della reciprocità. L’intro­ duzione delle preferenze altruiste nel modello toglierebbe addi­ rittura ogni interesse al gioco del prigioniero, mostrando che l’al­ truismo può essere vantaggioso, cosa che andava da sé, essendo la ragione stessa dell’interesse per questo gioco. A prima vista, l’al­ truismo sopprime la ragione stessa per cui ci si interessa a questo gioco e si sono fatte così tante esperienze. Come scrive Schmidt, «il dilemma del prigioniero è risolvibile con un po’ di altrui­ smo»51. Ma nemmeno l’altruismo è senza paradossi. Per metterlo in evidenza, ricordiamo la distinzione fatta nella prima parte tra in­ teresse e preferenza. Siamo in presenza, scrivevamo, di qualcosa di calcolabile in anticipo (l’interesse) e di un elemento intera­ mente soggettivo (le preferenze). Nel quadro della teoria dei gio­ chi, Schmidt lo enuncia così: «Per interesse, bisogna intendere i guadagni o le perdite materiali o morali che ogni giocatore può ricavare dagli esiti possibili del gioco. Si tratta in qualche modo di un dato oggettivo. Le preferenze derivano da un giudizio globale che i giocatori danno sugli esiti del gioco, classificandoli in un or­ dine completo. Un apprezzamento di questo tipo è esclusivamen­ te soggettivo»52. Ricordiamo anche qualche nozione elementare della teoria dei giochi. Per esprimere il fatto che la strategia adottata dai pri­ gionieri egoisti non porta alla soluzione più vantaggiosa per en­ trambi, si dice che questa soluzione, sebbene dominante (fre­ quente), non è ottimale, è sotto-ottimale. Se le preferenze dei gio­ catori vengono modificate introducendo nel modello delle prefe­ renze altruiste, si constata che i giocatori optano allora per la so­ luzione ottimale e i due prigionieri si ritrovano con una pena di due anni invece che di cinque. Ora, questa soluzione è senza dub­ bio ottimale per dei giocatori egoisti che preferiscono due anni di

51 C. SCHMIDT, La Théorie des jeux. Essai d’interprétation, PUF, Paris 2001, p. 18. 52 Ibi, p. 77.

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DONO E ALTRI MODELLI

prigione anziché cinque. Ma, dato che per arrivare a questo risul­ tato oggettivo (interesse) le preferenze dei giocatori hanno dovu­ to essere modificate introducendo delle preferenze puramente altruiste53, contemporaneamente anche l’ordine di preferenza degli esiti viene modificato, e questo esito, da ottimale, diventa sotto-ottimale. Se si mettono due altruisti al posto di due egoisti, ossia due gio­ catori che preferiscono il bene dell’altro al proprio, allora, per ognuno, la soluzione preferita sarebbe che l’altro venga liberato e che lui stesso sconti la pena massima di dieci anni. Siccome en­ trambi mettono questa preferenza in cima alla lista, entrambi sce­ glieranno la soluzione ‘non colpevole’, e si ritroveranno tutti e due con una pena di due anni, cioè la soluzione ottimale per de­ gli egoisti, che però è diventata una soluzione sotto-ottimale per degli altruisti, a causa del cambiamento che si è prodotto nell’or­ dine delle preferenze, dato che ciascuno avrebbe preferito pren­ dersi dieci anni per liberare l’altro. Passando così dalla misura oggettiva degli interessi dei giocato­ ri egoisti alla nozione soggettiva di preferenza dei giocatori, si constata che la soluzione ottimale viene facilmente raggiunta, te­ nendo conto soltanto degli interessi, ma non lo è se si tiene conto delle preferenze. Postulando delle preferenze altruiste nei gioca­ tori, questi ultimi raggiungeranno facilemente la soluzione otti­ male e non la soluzione di equilibrio, dominante, ma sotto-ottimale. Il dilemma apparentemente esiste solo a condizione di po­ stulare delle preferenze egoiste. Siccome la soluzione ottimale cambia con il cambiamento delle preferenze, ci si ritrova in realtà con lo stesso dilemma, poiché dei grandi altruisti - è il postulato potrebbero benissimo preferire restare dieci anni in prigione per liberare l’altro, e se entrambi la pensano così (per esempio una madre e suo figlio), nessuno confesserà sperando che l’altro lo farà, ed entrambi si ritroveranno condannati a due anni, ossia cer­ tamente la soluzione ottimale, in termini di interesse (‘oggettiva­ mente’), ma non in termini di preferenze, perché essa non corri­ sponde alla loro prima scelta.

5S Ciò non è puramente teorico. Al posto dei due prigionieri ‘classici’, si può per esempio immaginare una madre e suo figlio che si ritrovano in prigione, entrambi preferendo la liberazione dell’altro come prima scelta.

NÉ EGOISMO, NE Al TRUISMO

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Il dilemma del prigioniero consente così di illustrare le trap­ pole dell’altruismo, denunciate dagli economisti. In tal senso Derrida54 ha ragione nel pensare che l’ideale, per un altruista, è fare affari con un egoista. Nel dilemma del prigioniero, quando si tiene conto delle preferenze, entrambi i giocatori raggiungono la soluzione ottimale soltanto in un caso tipo: in presenza di un egoista e di un altruista, e a condizione che questo fatto sia noto a entrambi.

L’inafferabile fiducia

Riassumiamo. Postulando l’egoismo, ci si confronta con il fatto che l’egoismo è meno vantaggioso dell’altruismo. Postulando l’al­ truismo, si trova una soluzione al dilemma con un ‘gioco di ma­ gia’: lo si risolve - se così si può dire - per defmzione. Apparente­ mente. Ma non si raggiunge l’ottimo in funzione delle preferenze di ognuno. La soluzione è sotto-ottimale tanto per due egoisti quanto per due altruisti, perché le preferenze non sono più le stesse. Cosa concludere? In entrambi i casi, la questione della fiducia viene evitata. Per spiegare il fenomeno, si fa a meno della fiducia. Nella fiducia c’è il rischio; c’è la presenza della libertà, dell’incertezza. Ma tutti i modelli di spiegazione sembrano incapaci di integrare la libertà. Non appena si spiega, la libertà Mene eliminata e, con essa, la fi­ ducia. Questa soluzione salta letteralmente al di sopra del proble­ ma della fiducia. Una volta passata dagli interessi egoistici alle preferenze altruiste, non per questo la fiducia si rivela più neces­ saria. Il giocatore sa con certezza che l’altro è altruista. Ora, fidar­ si non è piuttosto dire a se stessi: «Non so con certezza quel che è, né come agirà, ma corro il rischio»? Fidarsi è fare un’ipotesi otti­ mista su una persona, senza certezza. Non c’è fiducia nella prefe­ renza egoista per arrivare alla soluzione ottimale; ma non c’è nemmeno nella preferenza altruista. In entrambi i casi, l’incertez­ za viene soppressa, ed è per questa ragione che si arriva a un pa­ radosso. Alla fin fine, si giunge alla conclusione che il dilemma del pri­ 54 J. Derrida, Donare il tempo. La moneta falsa, tr. it. di G. Berto, Cortina, Milano 1996.

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DONO E ALTRI MODELLI

gioniero è contenuto nei suoi postulati. In fin dei conti, il para­ dosso consiste forse nel fatto che il gioco reale sfugge costantemente alla teoria dei giochi, perché i suoi differenti scenari, po­ stulati e strategie hanno come conseguenza quella di ridurre l’in­ certezza, di eliminare il rischio dell’interazione, del legame socia­ le. Questo rischio non è una preferenza, ma un atteggiamento. Il rischio della fiducia è un’incertezza. Una teoria può veramente includere lo stato di incertezza? Sembra che persino la teoria dei giochi sia incapace di farlo. Ogni ‘soluzione’ cui la teoria dei gio­ chi perviene consiste nel mettere fine all’incertezza. E senza dub­ bio quel che Schmidt vuole dire quando scrive: «Le cose sono ri­ solte prima che il gioco cominci. [...] I giocatori fanno la figura dei manichini. [...] Tali personaggi diventano dei giocatori nel senso della teoria dei giochi nel preciso momento in cui non de­ vono più giocare nell’accezione abituale del termine»55, il che spiega senza dubbio il fatto che i risultati sperimentali siano al­ quanto diversi da quanto predetto dalla teoria. Non è facile pensare la libertà implicata dal ‘gioco’ della fi­ ducia. Il postulato del dono comporta lo stesso problema? No, dato che non per questo nega il postulato dell’interesse. Non stabilisce che all’inizio gli attori saranno altruisti o egoisti. Afferma che esi­ stono entrambe le possibilità. Accresce l’incertezza. Qui sta la dif­ ferenza. Nella vita reale, i giocatori sono sia egoisti sia altruisti e, per quanto li riguarda, questo miscuglio è più o meno noto e più o meno incerto. Sono questi giocatori che il dono cerca di pren­ dere in considerazione. E un’illusione? E possibile arrivare a pen­ sare queste situazioni altrimenti che moralmente, altrimenti che presentando ciò che dovrebbero fare in rapporto a dei princìpi o in ragione di norme interiorizzate alle quali obbedirebbero? E un’illusione tentare di comprendere ciò che fanno senza ridurli a meri egoisti o meri altruisti? Il dono cerca di pensare gli attori sociali e la loro azione così come sono, così come ce li mostrano non la teoria dei giochi, ma le esperienze concrete che applicano la teoria dei giochi. Questi attori si collocano in un paradigma individualista o olista? E la questione che porremo per concludere questa parte. 55 Schmidt, La Théorie des jeux. Essai d’interprétation, pp. 68-69.

CAPITOLO TREDKlESIMC )

Né individualismo, né olismo

Il dono come sistema d’azione

In questa parte il modello del dono è stato in primo luogo breve­ mente discusso chiedendosi quali fossero le ‘buone ragioni’ per donare, cioè applicando l’approccio dell’individualismo metodo­ logico sviluppato specialmente da Raymond Boudon. L’approc­ cio a partire dal dono è stato poi confrontante con V homo strategicus dell’analisi strategica e con Vhomo ludens della teoria dei gio­ chi, visto attraverso il dilemma del prigioniero. Tanto questo con­ fronto con altri modelli quanto la caratterizzazione del dono ef­ fettuata nella parte precedente fanno risultare, in un primo tem­ po, una proprietà importante del dono che lo avvicina a questi al­ tri modelli, a dispetto delle differenze: il modello del dono è un sistema d’azione nel senso in cui, come per il modello commer­ ciale, una volta stabilito un postulato psicologico sul motore del­ l’azione, il modello precisa come gli individui vengono spinti ad agire in un certo modo, con una certa logica. Di conseguenza, una volta stabilito il postulato del dono, il modello non ha biso­ gno di ricorrere a delle costrizioni esterne al soggetto, non più della teoria della scelta razionale, una volta stabilito il postulato del self-interest. A questo proposito, dunque, il modello del dono si comporta piuttosto come la teoria delle scelte razionali, la cui «grande forza - afferma Scialli - è tentare di rendere conto dell’ordine sociale e della solidarietà facendo appello il meno possibile all’interiorizza­ zione delle norme da parte degli attori»1. Avendo stabilito Γ homo donator, il modello del dono osserva la dinamica del sistema d’a-

1 Sciulli, Weakness in Rational Choice Theory’s Contribution to Comparative Resear­ ch, p. 161.

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DONO E ALTRI MODELLI

zione generata da questo postulato, senza introdurre necessaria­ mente altri fattori come la cultura, la tradizione, le norme, i valo­ ri, salvo per specificare le modalità di applicazione del modello. In quanto ‘motore psicologico delfazione’, il postulato del do­ no è altrettanto legittimo di quello dell’interesse e altrettanto per­ tinente per rendere conto dell’azione degli agenti. Si tratta di un modello in cui questi ultimi saranno portati a donare nelle condi­ zioni proprie del dono. Una di queste condizioni è la libertà degli attori, come nel mercato. Sotto questo aspetto, esso appartiene al gruppo dei modelli individualisti, il che induce alcuni autori a concludere che questo modello è «vicino, talmente vicino da es­ sere tratto in inganno, [...] dalle proposte più radicali dell’indivi­ dualismo metodologico»2. Ricordiamo perciò in che cosa, malgrado tutto, differisce profondamente. Il modello del dono possiede la sua dinamica specifica, diversa da quella degli altri sistemi d’azione. Come ogni modello di azio­ ne, deve basarsi su una teoria del funzionamento degli individui, deve postulare ciò che Coleman chiama «una teoria psicologica delle molle dell’azione individuale»3. Non serve solo un sistema, occorre un’energia, un motore per far circolare le cose. «Nulla [... ] si compie al mondo senza passione. [... ] Ogni teoria sociolo­ gica vuole comprendere a suo modo perché tale passione sorga e come trasformi un ammasso di individui in una collettività auten­ tica»4. Per esempio, è il ruolo giocato dal carisma in Weber5. Il modello del dono ha dunque esso stesso bisogno di una teoria psicologica, ed è lì che non solo differisce dalla teoria delle scelte razionali, ma vi si oppone. Non parte dall’homo oeconomicus, dal postulato unico dell’interesse. Pone anche un homo donator. Una volta stabilito questo postulato psicologico, gli attori agiscono in funzione della logica del sistema in cui sono iscritti, sistema di cui peraltro sono gli autori. Il debito, reciproco o meno, positivo o negativo, la libertà dell’altro, il gioco con le regole, sono elemen­ ti che derivano dal postulato iniziale dell’Aomo donator, così come 2 S. Vibert, La communauté est-elle l’espace du dont, «La Revue du MAUSS», 24 (2005), pp. 339-365; citazione a p. 350.

3 Coleman - Fararo (eds.), Rational Choice Theory: Advocacy and Critique, p. XI. 4 Moscovici, La fabbrica degli dei, pp. 32-33. 5 Ibi, pp. 167-168.

NÉ INDIVIDUALISMO, NI· OLISMO

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la riduzione delle zone di incertezza deriva dal postulato dell’Aomo strategicus. Queste regole costituiscono, così come scrive Co­ leman, «le strutture degli incentivi cui l’individuo viene con­ frontato»6. Per mettere in evidenza questo punto, torniamo al paragone con l’analisi strategica. Nella presentazione della sua teoria dell’analisi strategica, Mi­ chel Crozier afferma, lui stesso, che questo modello è un sistema d’azione7. In entrambi i modelli, gli attori sono posti all’inizio co­ me liberi. Tale ingrediente - la libertà - non è una proprietà indi­ viduale degli attori, ma un’esigenza del sistema in cui sono collo­ cati. Gli stessi individui agiscono in maniera diversa a seconda del sistema d’azione in cui sono inseriti, dal momento che, per ri­ prendere le parole di Coleman, si trovano di fronte a incentivi dif­ ferenti. Così, l’analisi strategica è fondata sul postulato dell’istinto strategico, sull’uomo strategicus, mentre il sistema del dono sull’Aomo donator. Di conseguenza, la logica del sistema d’azione spin­ gerà gli attori a limitare la libertà degli altri là dove domina Y homo strategicus, mentre quella di un sistema di dono inviterà gli attori ad accrescerla. Il modello del dono è dunque l’unico a valorizza­ re la libertà degli altri. Ciò si manifesta soprattutto in rapporto al­ le regole. E possibile rendere conto delle caratteristiche del sistema del dono se si pone la necessità, per gli attori, di accrescere la libertà, la zona di incertezza del sistema, al fine di accrescere il valore del gesto che l’altro farà. Questa proprietà non fa parte della logica dell’analisi strategica e perciò non è presente nei «sistemi d’azio­ ne concreti»8 che essa studia, il che non significa che non se ne ri­ trovino talvolta degli elementi. Ma il nocciolo duro dell’analisi strategica si basa sulla riduzione della zona di incertezza. Se si pri­ va il modello di questa regola, esso perde molta della sua forza, come accade alla teoria della scelta razionale se le si toglie il mo­ vente dell’interesse, conservando solo quello della razionalità. Certo, tutti questi sistemi sono tipi ideali, e l’analisi della realtà

6 Coleman - Fararo (eds.), Rational Choice Theory: Advocacy and Critique, p. XI. 7 Come si è visto nel capitolo dedicato all’analisi strategica. Crozier parla di «sistema d’azione concreto» (Crozier - Friedberg, Attore sociale e sistema, pp. 203-208). 8 Ibidem.

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mostra un miscuglio variabile di questi diversi modelli. Tuttavia, in un sistema sociale la cui norma di riferimento è il dono, la sua logica sarà dominante, mentre nelle organizzazioni rette da un al­ tro principio (il mercato, la burocrazia) questi elementi non sa­ ranno assenti (dato che il dono è presente in tutti i sistemi sociali, persino nel mondo degli affari), ma non giocheranno lo stesso ruolo. Il postulato del dono, crediamo, consente al sistema d’azione che ne deriva di rendere conto di un insieme di comportamenti rilevanti, ma che nessun altro modello sociologico o antropologi­ co è riuscito finora a integrare. Così, «il mondo ‘arcaico’ - scrive Richard - non ha avuto e nemmeno ha la minima idea del perdo­ no»9. E quel che ricava dalla sua lettura degli antropologi. Ma è la visione degli antropologi, oppure è reale? Se Richard avesse per­ corso la letteratura sociologica come ha fatto per l’antropologia, senza dubbio avrebbe concluso che il mondo moderno non ha, nemmeno lui, ‘la minima idea del perdono’! Tra gli attori sociali, il perdono non esiste, perché i sociologi non l’hanno mai incon­ trato. Il perdono non esiste nelle scienze umane. Per le scienze umane (la sociologia, l’antropologia, l’economia, la scienza poli­ tica), il moderno e l’arcaico sono o degli attori strategici che per­ seguono il loro interesse, o degli attori che giocano dei ruoli de­ terminati dal loro rituale e dal controllo sociale. Questi due mo­ delli si oppongono da sempre e, da qualche decennio, quello che domina è l’approccio strategico e la teoria della scelta razionale. L’analisi delle buone ragioni per donare ha dimostrato che l’individualismo non riesce a uscire dal postulato dell’interesse. Più profondamente, è ricordandosi che il dono è un modello ter­ nario che può essere identificata la sua rottura rispetto all’individualismo metodologico. L’‘individuo’ homo donatore un essere in debito. Non tutto comincia da lui. Anzi, in realtà, niente comincia da lui. Egli dona perché ha ricevuto. Come scrive Pulcini, «chi do­ na rompe l’illusione cartesiana della propria autosufficienza e ri­ conosce il proprio stato di mancanza costitutiva. [...] Solo chi ri­ conosce di essere stato l’oggetto di un dono può donare»10. Que­ sto è il postulato che comporta tutte le differenze nel funziona­

9 Richard, Nature et formes du don, p. 121. 10 Pulcini, Assujetties au don, sujet de don, pp. 335-336.

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mento del modello e che induce un autore come Serge Latouche a scrivere: «Siamo proprio obbligati a ricorrere all’olismo per fon­ dare l’homo donator»1 *. Dono e olismo: tipi di legame e tipi di circolazione

Per certi aspetti, il dono appartiene alla ‘famiglia’ dei modelli in­ dividualisti. Ma, in base al suo postulato di un essere in debito e a ciò che implica, esso ha, per così dire, ‘un piede nell’olismo’. Noi siamo però convinti che il dono non riesca a trovare davvero il suo posto né nelle teorie sociologiche di tipo olista, né nell’indi­ vidualismo metodologico. «Né olismo, né individualismo», come scrive Alain Caillé11 12. Il che pone in definitiva la questione dei rap­ porti tra dono e legame sociale, che finora non abbiamo fatto al­ tro che sfiorare. Fin dalla sua nascita, la sociologia elabora alcune tipologie di legami sociali. Tradizionalmente ha affrontato il legame sociale a partire da un modello binario: comunità e società (Tönnies), so­ lidarietà organica e solidarietà meccanica (Durkheim), legami primari e legami secondari (Park e la scuola di Chicago)13. Oggi questa tipologia ha preso la forma esasperata dell’opposizione tra olismo e individualismo, a sua volta fondata sull’opposizione tra obbligo e interesse. Queste classiche tipologie delle scienze umane raramente di­ stinguono tra il legame e ciò che circola. Esse integrano alcuni elementi che riguardano il modo con cui le cose circolano e delle caratteristiche del legame come tale, senza preoccuparsi di distin­ guerli. Ora, anche se il dono è inserito nel legame e spesso è al

11 Riunione del MAUSS, Parigi, giugno 1997. Cfr. anche S. Latouche, Le don est-ίΙΓA.utre paradigme?, «La Revue du MAUSS», 12 (1998), pp. 311-322. Beninteso, se si defini­ sce l’olismo come il riconoscimento del fatto che l’umano «non esiste se non fabbri­ cato socialmente» (ibi, p. 313), la questione non si pone neanche: il dono dipende dall’olismo. Noi intendiamo piuttosto per olismo una società che concepisce i suoi membri come appartenenti a un insieme che li supera, una concezione sensibile alla dimensione comunitaria della società. Cfr. citazione di Tönnies p. 290. 12 A. Caillé, Ni olisme, ni individualisme méthodologique. Marcel Mauss et le paradigme du don, «La Revue du MAUSS», 8 (1996), pp. 12-58. 13 Cfr. Y. Grafmeyer -1. Joseph (éds.), L’Ecole de Chicago. Naissance de l’écologie urbane, Aubier, Paris 1990.

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suo servizio, il legame non è il dono. Il legame è un modo di rela­ zione, mentre il dono è un modo di circolazione. Esistono diversi modelli di circolazione e di relazione. Il modello commerciale, la redistribuzione, il dono, la spartizione, sono dei modelli di circo­ lazione. Sul piano analitico, la distinzione è importante. Nelle de­ finizioni classiche del legame sociale14, i due concetti sono intrec­ ciati. Quale rapporto c’è tra il legame e ciò che circola a proposito del dono? E pertinente, persino impossibile, fare questa distin­ zione evitando una continua contaminazione dei concetti? Per capire ciò che circola sotto forma di dono, si è visto che occorre­ va cercarne il senso nel legame. Il tipo di legame non è neutrale in rapporto al tipo di circolazione. Ci sono delle affinità. Quando la relazione è voluta per se stessa, come nel caso del legame pri­ mario, ciò che circola tende inevitabilmente a prendere la forma del dono. Il dono ha una preferenza per il legame primario e per ciò che, a partire da Tönnies, è stato chiamato ‘il modello comu­ nitario di legame sociale’. Viceversa, quando il legame con l’altro è strumentale (legame secondario), la circolazione commerciale tende più naturalmente ad imporsi. L’interesse è, per così dire, il ‘marchio di commercio’ del rapporto commerciale. Ma non sa­ rebbe esatto concludere, sulla base di queste affinità, che esiste un rapporto strettamente univoco tra un tipo di dono e un tipo di legame, che a un certo tipo di dono corrisponde un tipo preci­ so e fisso di circolazione. Per quanto riguarda il dono, è vero che tutti i tipi di circolazione ne hanno bisogno, cosa che verrà mo­ strata nel caso estremo del dono nel mondo degli affari (cfr. cap. 15). Ma la sua importanza non è ovunque la stessa e il suo ruolo può cambiare. Il dono è infatti strutturante a livelli diversi. A se­ conda dei casi, sono altre le logiche che predominano: l’interes­ se, senza dubbio, ma anche la norma di giustizia, o altri motori dell’azione, che probabilmente sono altrettanto numerosi delle passioni stesse. La distinzione di Tönnies tra comunità e società permette di concludere che la circolazione sulla base del dono, senza dipen14 Per non parlare delle più recenti, come quella di Fiske, che propone di definire quattro forme elementari di socialità («four elementary models of relating to people»), tut­ te definite da modi di circolazione (Fiske, The Four Elementary Forms of Sociality: Fra­ mework for a Unified Theory of Social Relations, p. 715).

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etere propriamente da un unico tipo di legame sociale, presenta nondimeno delle affinità particolari con il modello comunitario fondato sul legame primario. Pertanto la questione si pone: dato che questo modello considera gli agenti come appartenenti a un tutto che li supera, la circolazione attraverso il dono dipende ne­ cessariamente dal modello olista? Nel caso di risposta affermativa, non ci ritroviamo di fronte all’opposizione obbligo-interesse, con cui oggi si identifica questa tipologia classica, che vede il dono dal lato dell’obbligo, o addirittura della costrizione? Lasciamo il certo per l’incerto, abbandonando il modello individualista e le sue va­ rianti ‘ammorbidite’, per sottometterci a qualcosa che non solo ci supera, ma che ci sarebbe imposto? Certo, l’interesse non spiega tutto, perché ci sono le norme, le regole, la morale. Concepite co­ me delle obbligazioni esteriori, le norme rinviano l’immagine di valori imposti da fuori, di cui subito abbiamo voglia di liberarci. Ritroviamo allora il problema dell’interiorizzazione delle norme. Per le scienze sociali esiste il comportamento libero, ma raziona­ le, e ci sono gli altri, che sono più o meno determinati. Gérard Varet e Passeron esprimono perfettamente questa alternativa: «Non tutti i comportamenti sono utilmente analizzabili in termini di ra­ zionalità (o di non-razionalità) d’azione. Un comportamento può essere istintivo, impulsivo, riflesso, ripetitivo, ecc., in breve, co­ stretto nel suo avvio così come nelle sue modalità da ogni sorta di determinazioni»15. In altri termini, per alcuni autori, ci sono, da un lato, le azioni cui è possibile applicare la nozione di razionalità e che hanno «come punto in comune quello di supporre sempre - e di esigere per avere un senso - che agli attori venga offerta una scelta», e, dall’altro lato, un dominio dell’azione umana in cui la nozione di scelta non è pertinente. Una simile alternativa lascia il dono fuori da ogni categoria. In effetti, si è mostrato che il dono è libero e che, in quanto sistema d’azione, prende le distanze in rapporto alle norme interiorizza­ te. Ma abbiamo visto che è anche non razionale, almeno nel sen­ so della razionalità strumentale. Ricordiamo ad esempio che, se­ condo il modello della razionalità strumentale, più la decisione è importante, più ci si deve aspettare una ricerca intensa di infor­

15 Gérard-Varet - Passeron (éds.), Le Modèle et l’Enquête. Les usages du principe de ratio­ nalité dans les sciences sociales, p. 17.

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mazioni pertinenti prima che sia presa16. E sicuramente esatto per certe decisioni. Ma non per il dono. Bisogna perciò superare questa opposizione anche metodologica tra olismo e individuali­ smo17. Elster riassume bene questo ostacolo scrivendo: «Se il vizio degli economisti è di comprendere tutto in funzione degli inte­ ressi, il vizio sociologico è di vedere nell’uomo l’esecutore passivo di norme sociali»18. Il dono non trova posto in nessuna di queste categorie. Non possiede nessuno di questi due vizi. Per pensare il dono, occorre dunque aggiungere una terza categoria: le emozio­ ni. «L’interesse, le norme sociali e le emozioni costituiscono, mi pare, i tre grandi moventi dell’azione umana»19. Ricollegandosi a Durkheim, Elster afferma: «Secondo me, l’aspetto più fondamen­ tale delle norme è il loro ancoraggio nella vita emotiva, l’impulso che ricevono dall’affettività»20. Quindi, come definire e classificare le emozioni? Elster, anche lui, le iscrive nel «pre-sociale, nel reattivo: una follia senza metodo»21. E dell’ordine del riflesso, es­ sendo la norma sociale «la follia elevata a sistema»22. Elster, Scheff23, Elias24, sono tutti autori che hanno attribuito una gran­ de importanza alle emozioni, ma che si fermano alle emozioni ne­ gative come la vergogna e il risentimento. Soltanto coloro che riconoscono le emozioni positive possono comprendere la libertà del dono e rendere conto di tale feno­ meno. Una certa libertà è una caratteristica necessaria del dono. E presente, anche se a livelli diversi, in tutti i tipi di dono e in tut­ ti i tipi di società. E precisamente in questo modo che gli osser­ vatori occidentali caratterizzano le società amerindie prima del­ l’arrivo degli etnologi25. Gli etnologi sembrano spesso dubitarne, 16 Elster, Rationalité et normes sociales: un modèle pluridisciplinaire, p. 140. 17 Caillé, L’Anthropologie du don. 18 Elster, Rationalité et normes sociales: un modèle pluridisciplinaire, p. 144. 19 Ibi, p. 148. 20 Ibi, p. 147.

21 Ibidem. 22 Ibidem.

23 TJ. Scheff, Rationality and Emotion: Homage to Norbert Elias, in Coleman - Fararo (eds.), Rational Choice Theory: Advocacy and Critique, pp. 101-119. 24 N. Elias, Il Processo di civilizzazione, tr. it. di G. Panzieri, Il Mulino, Bologna 1996. 25 Uno dei maestri di Adam Smith nel 1773 scriveva: «Questo scrittore ha notato che i popoli in mezzo ai quali egli ha viaggiato nel Nord America non riferivano mai atti

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ma si è visto che Mauss, pur relativizzando l’ingenuità di questo atteggiamento, ritorna a questa idea essenziale, anche se è insuf­ ficiente. L’olismo è necessariamente costrittivo, se non addirittura ‘rea­ zionario’26? E la questione posta dal dono. La libertà propria del dono è senza dubbio diversa dalla libertà contrattuale. Se il dono dipende in parte dal paradigma olista, esso ci obbliga però a con­ siderare un’appartenenza a un insieme più vasto che non sia co­ strittivo. Illustriamo questa affermazione. Come ogni cittadino maschio del Québec, quando ero giovane giocavo a hockey. Vici­ no a casa mia c’era una pista di pattinaggio gestita dal comune. Ci andavamo molto di rado. Nella strada dove abitavo avevamo co­ struito una pista di pattinaggio tutta nostra. Ogni inverno la rifa­ cevamo. I più anziani erano responsabili dell’annaffiamento, e tutti si spartivano la rimozione della neve. Giocavo quasi tutte le sere, con un minimo di equipaggiamento. Giocavo per diletto, pur essendo estasiato nel constatare i miei progressi. Oggi, anche il figlio dei miei amici gioca a hockey. In strada non c’è più nessuna pista di pattinaggio. A sei anni, tutte le do­ meniche mattina, alle 10.15 si reca in un modernissimo centro sportivo situato a molti chilometri da casa sua, dove un allenatore professionista gli insegna a pattinare e a maneggiare il disco. L’o­ biettivo primario di questo ‘esercizio’ è imparare, progredire. D’altra parte, lui non gioca: si allena. L’equipaggiamento comple­ to da hockey (caro) è obbligatorio. Suo padre deve accompagnar­ lo in macchina e tornare a prenderlo due ore dopo. Ecco due modelli di legame sociale. Da un lato, un modello comunitario27, strutturato su legami primari, e, dall’altro, un mo­ di generosità o di cortesia alla nozione di dovere. [...] Lo spirito con cui danno o ri­ cevono doni è lo stesso di quello osservato da Tacito fra gli antichi Germani: sono compiaciuti per questi doni, ma non li considerano materia di obbligazione» (A. Fer­ guson, Saggio sulla storia della società civile, tr. it. di A. Attanasio, Laterza, Roma-Bari 1999, p. 83). 26 «Per Nisbet [1984 (1966)] tutta la sociologia del XIX secolo si leva contro la filoso­ fia contrattualista dei Lumi: pertanto, la comunità avrebbe un aspetto olista e persino ‘reazionario’» (KUTY, La Negotiation des valeurs, p. 257).

27 Si tratta di un modello di dono? L’auto-organizzazione dei giovani non è veramen­ te un modello di dono, né un modelo commerciale, beninteso. E una sorta di comu­ nità, ma abbastanza aperta, dove il dono gioca sicuramente un ruolo strutturante. Nelle nostre società esistono diversi tipi di legame posti tra l’obbligo e l’interesse, che il modello binario non consente di cogliere bene. Come scrive Latouche, «esiste una

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dello di legame secondario, fondato sul contratto e sugli status di produttore e utente. Nella sociologia binaria classica, l’intensità e la continuità servono spesso a distinguere questi due tipi di lega­ me. Tönnies diceva infatti che «la teoria della società muove dalla costruzione di una cerchia di uomini che, come nella comunità, vivono e abitano pacificamente l’uno accanto all’altro, ma che so­ no non già essenzialmente legati, bensì essenzialmente separati, rimanendo separati nonostante tutti i legami, mentre là rimango­ no legati nonostante tutte le separazioni»28. I due tipi di legame sono legami sociali, ma, nella misura in cui il legame sociale esige, per definizione, una certa intensità di attaccamento, si tende, nel­ la stessa misura, a considerare il legame primario l’unico ‘vero’ le­ game sociale. I sociologi definiscono spesso questo legame prima­ rio (o il modello comunitario) come non libero (al limite, l’indi­ viduo scompare nel ‘comunitarismo’), in opposizione al legame secondario, che sarebbe il regno della libertà. Ora, esiste una differenza importante tra un legame sociale li­ bero e il fatto di essere liberi (liberati) da ogni legame sociale; tra essere inseriti in un legame sociale libero e liberarsi dei legami so­ ciali. Poniamo la questione: in quale dei due modelli il giovane giocatore di hockey è più libero? E difficile rispondere, se non di­ cendo che dipende tutto dal punto di vista e dal tipo di libertà che ognuno valorizza. In rapporto alle istituzioni, il primo model­ lo è più libero, dato che sono i giocatori che stabiliscono le loro regole; si tratta di un modello autoregolato, autonomo, come di­ grande diversità tra le forme di scambio non mercantile» (S. Latouche, L’altra Africa. Tra dono e mercato, tr. it. di A. Saisano, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 186). La co­ scienza del fatto che abbiamo bisogno degli altri, di quello che sono e non solo di ciò che hanno, è importante in numerose relazioni. E quello che Tocqueville chiama Tinteresse ben compreso’. «Accanto al mercato, la morale dell’interesse bene inteso fonda una società debole, senza dubbio, ma forse essenziale. Questo scambio gene­ ralizzato [...] è quasi anonimo e mira a un legame sociale volontariamente esile. [...] Contrario all’ordine mercantile, non per questo è estraneo aH’utilitarismo» (ibi, p. 65). Cfr. anche Kuiy, La Négptiation des valeurs. Aggiungerei che questo legame è for­ se il prodotto, la conseguenza non voluta e positiva del modello commerciale. La pre­ senza del mercato è forse ciò che lo rende possibile. Esso si colloca tra il mercato e il legame sociale forte. Dunque non è possibile ricondurre l’intero studio del legame sociale al dono. Questo costituisce una specie di principio troppo forte. Alla tipologia classica legame forte e legame debole (Μ. Granovetter, The Streghi of Weak Ties, «American Journal of Sociology», 78, 1973, 6, pp. 1360-1380), bisognerebbe forse ag­ giungere la distinzione legame ricco e legame povero.

28 Tönnies, Comunità e società, p. 83.

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rebbe Castoriadis. Ma alcuni individui mal sopportano forse gli obblighi che il gruppo non manca di darsi per funzionare. Inol­ tre, è sicuramente più facile iscriversi a un centro sportivo che di­ ventare membro di un gruppo di strada. Al centro sportivo il cit­ tadino ha un rapporto di utente con un’istituzione che produce il servizio: paga (o sono le nostre tasse che pagano se è un’istituzio­ ne pubblica) e beneficia del servizio. Una volta iscritto, in com­ penso deve sottostare a diversi regolamenti che non sono stati fat­ ti per lui; inoltre il bambino è dipendente dai suoi genitori per ac­ cedere al luogo. Al contrario, nel modello autoregolato i membri controllano tutto collettivamente. Non sono gli altri che decido­ no quando giocano, per quanto tempo, chi giocherà con chi, ma sono loro. Potrà esistere un leader autoritario che diminuisce la libertà di ciascuno, e un nuovo arrivato dovrà senza dubbio passa­ re attraverso alcuni rituali prima di essere accolto: non gli basta presentarsi e pagare per accedere al servizio. Il legame secondario tende dunque elfettivamente a liberare l’individuo da ogni legame personale. Ma il legame primario (o il modello comunitario) può essere altrettanto libero nella misura in cui questo tipo di rapporto non è imposto a quelli che lo vivo­ no, e si instaura secondo la struttura di autorità che lo caratteriz­ za. Non può essere definito libero o non libero in sé o a prion. D’altra parte, è spesso più libero in rapporto alle istituzioni se­ condarie di quanto non lo sia il legame secondario stesso, ma è meno suscettibile di venire applicato a tutti senza sottoporre a ves­ sazioni la loro libertà a causa della maggiore intensità che impli­ ca. La conclusione è chiara: nei due casi-tipo vi è una certa libertà e alcune obbligazioni; questi due modelli non possono dunque essere caratterizzati dal loro grado rispettivo di libertà. Eppure, è quello che spesso fanno le scienze sociali, confon­ dendo la libertà esistente nel legame e la libertà di uscire dal le­ game. Sicché, mentre questa tipologia era concepita dai suoi fon­ datori in interazione dinamica, tale tipologia dinamica, senza dubbio sotto l’influenza delle grandi ideologie che si sono oppo­ ste nel XX secolo, - comuniSmo e liberalismo -, ha finito per tra­ sformarsi in una opposizione sterile tra individuo libero e società costrittiva. Questa evoluzione ha portato M'impasse teorica che costituisce l’opposizione individualismo-olismo. Il dono dipende dall’olismo? Un’affermazione del genere è ammissibile, dato che il dono - persino il dono agli sconosciuti, se

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DONO E ALTRI MODELLI

non è corrotto, come si è visto - tende a creare un rapporto co­ munitario. Occorre tuttavia eliminarne le dimensioni di costrizio­ ne sul soggetto che spesso caratterizzano l’olismo. Come? Ricor­ dandosi della nostra riflessione sul ruolo del terzo nel dono, che non è la giustizia, dato che la giustizia è un terzo esterno. L’oli­ smo si presenta spesso con questa dimensione di un terzo esterno alla relazione, che esercita su quest’ultima un potere costrittivo. Non è stato notato a sufficienza che, a questo riguardo, è simile al mercato, che è in ugual misura fondato su un terzo esterno ai par­ tecipanti, quella mano invisibile che si impone loro e fissa i prez­ zi, cioè le condizioni quantitative del loro scambio. Olismo e individualismo sono dunque dei modelli ternari in­ clusivi di un’istanza che si impone al rapporto tra i soggetti. Ora, l’analisi della struttura ternaria del dono ha permesso di scom­ porre gli elementi del legame per mostrare che il terzo del dono è immanente. Tale caratteristica consente di riconoscere l’impor­ tanza della dimensione comunitaria nel dono, ma alleggerita del­ la sua dimensione di costrizione esterna all’individuo.

PARTE QUARTA

La fecondità e la pertinenza del modello del dono

CAPITOLO QUATTORDICESIMO

Ritorno sul dono e il mercato L’imprenditore come donatore

Nelle parti precedenti siamo convinti di aver mostrato la perti­ nenza dell’approccio basato sul dono utilizzando i nostri risultati di ricerche sulla parentela, sulla donazione di organi, sul dono agli sconosciuti, così come i lavori sempre più numerosi di autori che applicano i concetti del dono a diversi fenomeni sociali. In quest’ultima parte ci auguriamo di evidenziare la dinamica del do­ no nella società attuale a partire da due casi tipo molto lontani tra loro. Ci chiederemo in primo luogo quale importanza abbia il do­ no aH’interno del settore commerciale. Vedremo poi in che modo il dono possa aiutare a capire il fenomeno della creazione, artisti­ ca o scientifica, così come oggi viene interpretato e vissuto. L’abbiamo davvero fatta finita con il mercato? Alla luce di tutte queste caratteristiche del dono, non potremmo concludere di­ cendo che il dono, come abbiamo detto, non ha niente a che ve­ dere con il modello commerciale, ma al contrario che molto semplicemente si è trasformato, che senza dubbio ha preso la forma commerciale, ma che è ancora il dono ad essere il motore dello sviluppo capitalista? Che l’imprenditore fa continuamente dono di novità, eccesso, che vive nel rischio... Questa descrizione della circolazione delle cose separata dal legame sociale, che noi attribuiamo al mercato, si applicherebbe allora più al modello burocratico che al modello commerciale. Persino le descrizioni del funzionamento di alcune microsocietà africane non manca­ no di richiamarci quelle dei nostri uomini d’affari. «Prestare, prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, ordinare, consegnare, informarsi, suppongono incontri, visite, ricevimenti, discussioni. Tutto ciò richiede un tempo considere­ vole e occupa una parte importante della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno e al gioco. [...] I compiti esecutivi vengono spesso eseguiti letteralmente nei mo­

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LA FECONDITÀ E LA PERTINENZA DEL MODELLO DEL DONO

menti persi»1. Latouche descrive così un sistema informale afri­ cano. Ma che cosa bisogna escludere per descrivere la vita quoti­ diana di un uomo d’affari moderno o postmoderno? Il rendi­ mento dell’azionista potrebbe persino costituire un’applicazione dello hau di Mauss, se è esatta l’interpretazione che ne dà Sahlins: «Lo hau di un bene è il suo frutto. [...] Del dono di una per­ sona non deve avvantaggiarsi un’altra e quindi i frutti di un dono devono essere restituiti aH’originario detentore»2. Da questo punto di vista, ricordiamo innanzitutto la superio­ rità dell’economia capitalista sull’economia comunista, per il fat­ to che essa ha preso atto della incrinatura comunitaria che ha portato alla rottura produttore-utente fondatrice della società moderna. Di conseguenza, non pretende di conoscere in anticipo i ‘bisogni’ del cliente. Il capitalismo, come scrive Goux, è «sospe­ so all’incertezza»3. Fu il grande errore dei regimi comunisti quel­ lo di rifiutare di riconoscere la situazione di ignoranza, e dunque di incertezza, fondamentale del produttore, che non appartiene più allo stesso ‘mondo’ del cliente, in un sistema che passa dal­ l’ordinativo alla domanda4. Questa situazione di ignoranza toglie al produttore ogni legittimità di definire i bisogni e i desideri del consumatore. Di fronte a questa incertezza, l’imprenditore capi­ talista rischia; ama gli eccessi, e il suo atteggiamento non è privo di analogie con il dono agonistico di rivalità, come ha mostrato benissimo Bataille nella sua classica analisi del piano Marshall. Ba­ taille presenta questo progetto di uno Stato capitalista come un immenso potlàc che i paesi socialisti sarebbero stati totalmente in­ capaci di concepire5. L’imprenditore può per questo motivo essere qualificato come donatore? Riconosciamo che si tratta di un giocatore e che il gio­ co ha qualche legame di parentela con il dono. L’imprenditore corre un rischio, offre senza garanzia di restituzione, sperando che questa offerta venga ricevuta, comprata all’occorrenza, cioè 1 S. Latouche, La monnaie au secours du social ou le social au secours de la monnaie: les SEL et l'informel, «La Revue du MAUSS», 9 (1997), pp. 260-272; citazione a p. 262.

2 Sahlins, L’economia dell’età della pietra: scarsità e abbondanza nelle società primitive, p. 166.

3 Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 192.

4 Gouldner, La classe moyenne et l’esprit utilitarie. 5 Bataille, La parte maledetta·, cfr. anche Schrift (ed.), The Logic of the Gift.

DONO E MERCATO: L’IMPRENDITORE COME DONATORE

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scelta dal consumatore tra innumerevoli altre offerte. Ê vero che in fin dei conti si instaura un increbile sistema di fiducia e si svi­ luppa un sistema di debito, che comporta una «bancarizzazione della vita»6. Questo sistema è interamente fondato sulla moneta, sulla sua liquidità, la sua fluidità, sul dilazionamento permanente. «Ciò che regola la traccia, ciò che comporta il movimento della differita, è la circolazione sempre più complicata, derivata, indi­ retta, di un debito mai saldato»7. Questo sistema non manca di far venire in mente quello delle prestazioni totali di cui parla Mauss8. In entrambi i casi, il ‘produttore’ non consuma niente di quel che produce e riceve tutto dagli altri. Vende tutto quel che produce e compra tutto quel che consuma. Abbandona dunque la sua sorte nelle mani degli altri. Saremmo in un sistema di dono che non dice il suo nome? E la tesi di Gilder. «All’origine del capitalismo c’è l’atto del dare, il do­ no»9. «Il capitalismo consiste nel fornire un bene senza contro­ partita immediata»10. Anche la meta-regola del dono, che consiste nell’infrangere le regole, trova il suo equivalente nel sistema com­ merciale. Quest’ultimo si basa teoricamente sulla legge dell’offer­ ta e della domanda, ma, come se non bastasse, il sistema commer­ ciale è il più bizzarro di tutti i sistemi, nel senso che funziona teo­ ricamente secondo dei principi che tutti i suoi membri si attivano per eludere in continuazione. Tale comportamento è non soltan­ to ammesso, ma fa parte delle regole del gioco. Ogni agente, in­ dividualmente, cerca costantemente di trovare un’astuzia per elu­ dere il suo avversario e ingannare il mercato, il che è precisamen­ te la legge del mercato. Rischio, incertezza, debito, trasgressione delle regole. Come negare che c’è di che interrogarsi? Saremmo accecati dalle cate­ gorie antiche, saremmo nel dono? Come scrive Goux, «se l’ogget6 Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 229. 7 Ibi, p. 228. 8 «La prestazione totale fa sì che due clan siano vincolati da un contratto perpetuo; ciascuno deve tutto a tutti gli altri membri del suo clan e a tutti quelli del clan con cui è in rapporto. Il carattere perpetuo e collettivo che tale contratto presenta fa di esso un vero e proprio trattato [...]. La prestazione si estende a tutto, a tutti, a tutti i mo­ menti» (Μ. Mauss, Manuale di etnografia, tr. it. di G. Bettolini, Jaca Book, Milano 1969, p. 170); cfr. anche Mauss, Saggio sul dono, p. 9.

9 Gilder, Ricchezza e povertà, p. 39. 10 Ibi, p. 43.

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to commerciale non è innanzitutto un’invenzione che risponde a una domanda preliminare, ma un oggetto che deve creare un de­ siderio, [...] nutrire una passione nuova e inspiegabile, l’imprenditore è un artista. Più precisamente, è un artista di avanguar­ dia»11. «Il capitalismo si immagina e si legittima attraverso l’estetizzazione. [...] La decostruzione radicale e inaugurale che giun­ ge a riconoscere la frivolezza del valore si prolunga in un immagi­ nario del capitalismo che proclama il valore della frivolezza»12. L’economia neoclassica disfa il valore di legame, lo rende frivolo. Sotto questo aspetto, possiede una delle dimensioni essenziali del dono: l’inatteso, il gratuito (nel senso di non funzionale), una certa follia, elemento che si oppone totalmente a tutta la sua di­ mensione contabile, di equivalenza quantitativa, messa in eviden­ za soprattutto da Weber. Si tratta di un sistema di dono? Ricordiamo in primo luogo che, contrariamente a quel che afferma Gilder, pochi agenti economici sono imprenditori così come lui li definisce, e ancora meno creatori, e numerosi sono gli intermediari che non fanno altro che approfittare delle creazioni degli altri e delle buone occasioni: speculatori, intermediari che senza dubbio giocano un ruolo utile, ma che sono ben lontani dalla creazione, qua­ lunque sia il senso attribuito a questo termine. Per uno Steve Jobs (fondatore di Apple), che ha sviluppato il personal compu­ ter nel suo garage, quanti burocrati, opportunisti, PDG13 e reti si arricchiscono a spese degli azionisti e dei lavoratori, persino quando i risultati dell’azienda sono mediocri? Inoltre, anche l’imprenditore-creatore agisce in vista del profitto. Questo ‘do­ no’ è per definizione interessato. E il senso delle sue azioni, di quel che fa circolare. Nel migliore dei casi, è il grado più basso del dono. Al di là di queste considerazioni psicologiche, sulle quali tor­ neremo, ricordiamo che noi concepiamo il dono come un siste­ ma d’azione che possiede una sua dinamica specifica. Tale visione del dono conduce a dare risalto a due differenze sistemiche fon­ damentali tra il dono e il sistema commerciale.

11 Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 307. 12 Ibi, p. 308.

ls Presidente-Direttore Generale [n.d.t.].

DONO E MERCATO: L’IMPRENDITORE COME DONATORE

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L’altra faccia del sistema Innanzitutto, la circolazione commerciale delle cose si inserisce in un sistema di equivalenza generale che, lungi dal favorire l’ecces­ so, lo esclude. Appena fabbricato e ‘lanciato’, il prodotto, diventa­ to merce, prende il suo posto tra le altre merci. Il suo valore gli vie­ ne attribuito per confronto e differenza (Simmel); si inserisce in un preciso sistema di equivalenza contabile, senza referente e sen­ za eccedenza. Non esiste più «surplus possibile, che oltrepassi il va­ lore economico misurabile»14; non esiste più «extra»15, quel sup­ plemento tipico del dono, una grazia che viene da altrove. Il siste­ ma commerciale collega le cose tra loro, senza le persone. Data l’attribuzione di un unico senso, il senso calcolabile, e di un unico valore, il valore commerciale, non c’è più la possibilità di mettere qualcosa di sé in quel che circola, di aggiungervi la propria iden­ tità, a meno di non uscire dal sistema commerciale. Questo siste­ ma orizzontale non è in grado di ‘innalzare’ e acquisire una terza dimensione. In altri termini, lungi dall’essere nell’incertezza e nel rischio, «la quantificazione commerciale [...] elimina ogni incer­ tezza»16, dove potrebbe inserirsi il dono, ed esprimersi il legame. Partendo dal romanzo di Ramuz, Farinet, il falsano, Goux mo­ stra meravigliosamente come l’equivalente generale, senza refe­ rente ultimo, elimina questa dimensione. L’oro fabbricato da questo falsario (che è esistito) finisce paradossalmente per diven­ tare «più vero del vero»17. In effetti, «Farinet dona più» del valore del suo oro. «Dona qualcosa di sé attraverso l’oggetto»18. Qualco­ sa che gli è stato in primo luogo trasmesso attraverso un dono. «Non si dona nulla finché non si dona se stessi», scrive Ramuz al­ la fine di questo romanzo19, dopo Mauss, Emerson e tanti altri (cfr. cap. 8). Nel sistema commerciale, invece, tale supplemento è inesistente; non c’è più posto per inserire qualcos’altro oltre le merci in quanto merci.

14 Ibi, p. 259.

15 Cheal, The Gift Economy. 16 Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 264. 17 Ibi, p. 263.

18 Ibi, p. 264. 19 Ibi, p. 265.

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ΙΛ FECONDITÀ E LA PERTINENZA DEL MODELLO DEL DONO

Rischio del legame, rìschio del bene

Questo ci permette di tornare all’imprenditore e ci porta alla se­ conda differenza. E vero che l’imprenditore rischia. Ma non ri­ schia altro che i suoi beni. Mentre il donatore, quanto a lui, ri­ schia la relazione. L’imprenditore rischia il valore commerciale. Il donatore rischia il valore di legame. Il che spiega perché il capita­ lista non dona. Investe, piazza e aspetta il suo rendimento, mentre il donatore, se e quando attende il contraccambio, non per questo attende un rendimento. Chi ‘piazza’ il proprio denaro può ri­ prenderlo e rivendere le sue azioni quando vuole, senza alcun ri­ guardo per chi riceve. E una categoria che qui non è pertinente. Da questa caratteristica deriva una differenza essenziale. Anche se è vero che talvolta l’imprenditore, come si è detto, ‘rischia tutto’ lanciando la sua impresa allo scopo di offrire qualcosa che, lui lo spera di cuore, sarà pure ricevuto da qualcuno, sarà accettato dal potenziale destinatario, e anche se è vero che, come nel dono, sia­ mo in un mondo di incertezza (in rapporto al mondo dell’ordina­ tivo), resta una differenza essenziale nella misura in cui ricevere si­ gnifica in questo caso acquistare. Il che vuol dire che il contrac­ cambio coincide col fatto stesso di ricevere. Non ci sono tre mo­ menti, come nel modello maussiano del dono, ma soltanto due. Per l’imprenditore, il contraccambio diventa garantito nel preciso momento in cui si riceve. Il rischio e l’incertezza, certamente co­ muni al dono e al mercato, non si collocano al medesimo livello. Nel dono, il rischio è nel modo di ricevere. Nel mercato, l’incer­ tezza si situa a monte, nel fatto che il prodotto sarà o meno rice­ vuto. E un rischio del ricevere, non della relazione. Il giocatore rischia in rapporto al caso. Il capitalista rischia in rapporto al ricevere. Il donatore, quanto a lui, si prende il rischio della relazione. La posta in gioco non sta nel fatto di ricevere o meno, come nel mercato, dove tutto, per l’imprenditore, si con­ centra nell’acquisto da parte del consumatore. Nel dono, non è il donatario ad aver preso la decisione che fa sì che riceva, ma il do­ natore. Il donatario non deve comprare. Questa operazione in cui, nel mercato, si gioca tutto, nel dono è inesistente. Le inquie­ tudini del donatore non hanno niente a che vedere con quelle del venditore. In che modo il mio dono viene ricevuto? si chiede il donatore. Come un dono, come qualcosa di dovuto? Gli piacerà il mio dono? Si sentirà umiliato? Donerà a sua volta? Che cosa do­

DONO e mercato: l’imprenditore come donatore:

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nerà? Che significato avrà il suo contraccambio? E le domande che il donatario si pone sono parallele a quelle del donatore: per­ ché mi ha fatto questo dono? Come, quando, quanto gli devo da­ re in cambio? Come manifestare la mia riconoscenza? L’impren­ ditore se ne infischia assolutamente di tali questioni. Non sono pertinenti. Non vuole nemmeno sapere se il suo prodotto sarà uti­ le, se verrà utilizzato o semplicemente gettato in pattumiera. Vuo­ le semplicemente che sia comprato e pagato. E qui che sta la dif­ ferenza tra il ‘rendere’ del dono e il ‘rendimento’ economico del­ l’imprenditore. Nel dono il ‘rendimento’ è relazionale. Ogni dono è dono di sé, il che esclude il sistema commerciale. E questo tema dell’identità a rendere conto del fatto che il dono non è possibile in un sistema univoco come l’economia neoclassi­ ca. Non appena l’imprenditore ‘lancia’ un prodotto sul mercato, mette in circolazione una cosa e persino un servizio, che si separa da lui e si fossilizza, cominciando la sua vita indipendente dal suo creatore. Acquisendo un prezzo, il prodotto si appiattisce pren­ dendo posto nel sistema orizzontale di equivalenza generale. Cir­ cola nel mondo univoco, piatto, indefinitamente estensibile dello spazio commerciale. L’offerente ne riceve dei dividendi, dei pro­ fitti, dei rendimenti, calcolati secondo il valore commerciale, cioè il valore delle cose tra loro. Per l’uso reale che ne fa, una volta ac­ quistato il prodotto, cioè una volta uscito dal mercato, il destina­ tario può senza dubbio sovrainvestire l’oggetto di svariati sensi e persino trasformarlo in dono, che esprime il legame. E anche ve­ ro che il mercato può giocare su questi sovrainvestimenti simboli­ ci operati dal consumatore. L’attuale ritorno alfimportanza della marca (da distinguere dalla compagnia, dunque dal produttore) è a questo proposito un fenomeno affascinante. L’adolescente (e l’adulto...) che ostenta la marca della sua T-shirt riceve qualcosa dell’identità del ‘donatore’; riceve la sua identità e se ne ritiene nobilitato. Dunque ci sono possibilità di fenomeni simili al dono. Una volta uscito dal sistema commerciale, l’oggetto intraprende una nuova vita, ridiventa simbolo, immagine, figura, dono. Tale immagine può addirittura essere quella, prestigiosa, del donato­ re, che si riflette su chi riceve20, anche se l’offerente può sfruttare questo fenomeno. Nondimeno resta il fatto che l’imprenditore 20 Graeber, Toward An Anthropological Theory of Value. The False Coin of Our own Dreams.

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non è un donatore e che il sistema capitalista di circolazione del­ le cose non è un sistema di dono. Ciò significa che il dono è assente da questo sistema concreto, che gli uomini d’affari ignorano il dono e che tale sistema in via di globalizzazione arriverà a sopprimere il dono dei legami sociali? E la concisione pessimista di Goux: «Lo scambio di equivalenti è senza memoria e senza promessa [...], senza fedeltà e senza im­ pegno. [...] Questo dispositivo crea un legame asociale»21. La sua generalizzazione minaccia la società, «perché il legame si intrat­ tiene soltanto su ciò che non è scambiabile, sulla sovversione co­ stante del contratto, sulle reciprocità incalcolabili e asimmetriche che definiscono costantemente ogni equazione sinallagmatica: l’amore, l’odio, la promessa, la dimenticanza, la gratuità, la mor­ te»22. Per questo autore, il sistema dell’equivalenza generale sen­ za referente, «lo statuto divenuto puramente simbolico dell’equi­ valente generale»23, si è imposto a tal punto che ogni membro della società non ha più altra scelta che quella di definirsi in base a esso. «Quello che era apparso come il semplice medium transi­ torio di una relazione vivente [...] diventa ora un ordine simboli­ co irriducibile, che costituisce i soggetti stessi invece di trasfor­ marli»24. «È il crollo dell’utopia [...] come dissoluzione augurabi­ le e possibile della mediazione regolatrice, del terzo»25. « [La mo­ neta diventa] una scrittura che regola la circolazione infinita del debito senza che nessuna quadratura dei conti, senza che nessuna trasparenza istantanea delle contabilità possa essere pensabile»26. Questa conclusione pessimista non è sicuramente priva di fon­ damento. Tuttavia, persino nel mondo degli affari abbiamo con­ statato che la presenza del dono è facilmente rilevabile. Se la figu­ ra dell’imprenditore non appartiene al mondo del dono, gli uo­ mini d’affari non sempre seguono questo modello, tutt’altro.

21 Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, pp. 295-296. 22 Ibi, pp. 299-300.

23 Ibi, p. 300. 24 Ibidem. 25 Ibi, p. 301.

26 Ibi, p. 303.

CAPITOLO QUINDICESIMO

Ritorno sul dono e il mercato1 Quando gli uomini d’affari si fanno dei regali

È vero che a prima vista l’osservazione del mondo commerciale attuale e della sua evoluzione porta a dar ragione a Goux. Sareb­ be sorprendente pensare che la frenesia di ‘pulizia commerciale’ che oggi scuote il pianeta non sia cominciata dalla piazza stessa del mercato. Motivo per cui si può credere che se il dono persiste nei rapporti commerciali, si accontenta di un ruolo strumentale. In effetti, se nelle altre sfere sociali è normale che legame sociale e circolazione delle cose siano collegati, così come è normale che se il dono è soltanto strumentale viene piuttosto mal visto, nel mondo commerciale è perfettamente legittimo e normale che il dono sia un mezzo per raggiungere un altro fine, commerciale, ti­ pico del ‘mondo degli affari’. In altri termini, per parafrasare We­ ber, il mondo dell’economia ha il monopolio legittimo sul dono strumentale, sul dono fatto per fini interessati, sul dono come mezzo per accrescere l’utilità del donatore e non quella del do­ natario. Per cominciare a svelare il ruolo del dono nel mondo com­ merciale, abbiamo analizzato il contenuto di alcune riviste di affa­ ri2. E stata interrogata una banca dati di più di mille riviste di af­ fari, usando le seguenti parole-chiave: corporate gift, giving, business etiquette, employee awards, incentives, holidays & special occasions. Que­ sta operazione ci ha fornito un corpus di una ventina di articoli sul tema del regalo d’affari. Nel mondo degli affari, la razionalità

1 Una versione più lunga di questo capitolo è stata pubblicata in «La Revue du MAUSS», 15 (2000), pp. 278-295. 2 Per la maggior parte americane e di lingua inglese (cfr. la bibliografia alla fine del capitolo, pp. 323-324). Questo lavoro è stato effettuato da Marie-Pierre Labbé, in col­ laborazione con Sandra Ann Franke. La traduzione delle citazioni inglesi è di Johan­ ne Charbonneau.

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LA FECONDITÀ E LA PERTINENZA DEL MODELLO DEL DONO

strumentale è regina. In seno a questo universo, in che cosa il re­ galo si dimostra uno strumento utile e persino necessario?

Importanza quantitativa e forme del dono Sembra proprio che il fenomeno dei regali d’affari sia ciclico. Se­ condo Waits3, negli Stati Uniti gli uomini d’affari avrebbero co­ minciato alla fine del XIX secolo a donarsi dei regali di Natale, la cui frequenza, ma anche il valore, sarebbero aumentati fino al 1920. Da quel momento, un movimento inverso avrebbe portato a una diminuzione rilevante dei regali d’affari, fino alla loro sosti­ tuzione con delle cartoline di auguri. All’epoca, «le riviste di uo­ mini d’affari suggerivano tre criteri ai loro lettori per decidere se offrire oppure no dei regali: 1 ) solo i partner d’affari che si cono­ scono personalmente si scambino dei souvenir [remembrances]; 2) lo scambio sia l’espressione di una vera stima [personal regard]; 3) si scambino delle cartoline di auguri senza valore economico, piuttosto che regali suscettibili di passare per delle tangenti»4. In queste righe si sente l’influenza dei riformatori sociali, preoccu­ pati di eliminare il dono dai rapporti commerciali e di limitarlo ai rapporti personali, per evitare soprattutto ogni rischio di corru­ zione. Quando si sarebbe prodotto un cambiamento di ciclo? Non abbiamo indicazioni precise su questo punto, ma è certo che at­ tualmente stiamo assistendo al dispiegarsi della fase crescente di un ciclo. Da qualche decennio, in effetti, il numero e il valore dei regali d’affari aumentano, e le aziende specializzate in questo set­ tore si moltiplicano.

«In Francia, il mercato del regalo d’affari [...] aumenta di più del 4% dal 1995»5. «Circa il 50% delle aziende ha fatto dei regali nel 1992»6. «Malgrado le recessioni, la pratica dei regali d’affari non

3 Waits, The Modem Christmas in America. A Cultural History of Gift Giving. 4 Ibi, p. 79. 5 L. N’Kaoua, L’art et la manière de faire plaisir à ses clients, «L’Usine nouvelle», 27 no­ vembre 1997, 2619, pp. 80-81; citazione a p. 80.

6 «Incentive Marketing», 1993.

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smette di diffondersi. Le società che hanno risposto all’indagine FACTS hanno detto di aver offerto 103 regali dal costo medio di 63 dollari, cioè una somma di circa 6500 dollari. Il fenomeno rap­ presenta nel suo insieme quasi due miliardi di dollari; in rappor­ to all’anno scorso, è aumentato del 6,3%»7. «Si dedicano delle somme sempre più elevate ai regali d’affari: più di un miliardo e mezzo di dollari secondo un’inchiesta del 1989»8. Questa pratica è diventata in realtà una strategia d’impresa: «L’anno scorso, qua­ si la metà delle compagnie [...] ha fatto dei regali, in confronto a solo il 36% nel 1979. [...] Il 68% ha dichiarato che i regali d’affa­ ri erano per loro uno strumento di promozione molto efficace»9. Nel 1997, il 42% delle aziende ha speso meno di 10.000 dollari in regali e il 38% tra 10.000 e 100.000 dollari. Alcuni hanno investi­ to di più: il 14% tra 100.000 e 500.000 dollari, 1’1% tra 500.000 e 1 milione di dollari e il 5% più di 1 milione di dollari. A che cosa serve tutto questo denaro? Che cosa circola in que­ sti scambi? Come abbiamo fatto altrove10, distingueremo qui i re­ gali, i servizi e l’ospitalità. I più antichi regali aziendali sono i cibi prelibati. Nel 1996 un’indagine concludeva che restano il terzo regalo d’affari più popolare negli Stati Uniti. Questo regalo dev’essere lussuoso, «personale senza essere intimo». I prodotti menzionati più spesso sono lo champagne, il salmone affumicato, i cesti di frutta in in­ verno, il cioccolato. Oltre il cibo, altri oggetti hanno un carattere altrettanto lussuoso: l’argento, il cristallo, la penna di marca, la porcellana. I servizi vengono menzionati raramente, salvo quando sono of­ ferti in cambio di un servizio reso, per esprimere ad esempio la gratitudine di qualcuno a cui è stata «aperta una porta»11. Al contrario, il regalo sotto forma di ospitalità (una pratica che gli Americani chiamano corporate hospitality) è in rapido aumento.

7 «Incentive Marketing», 1993, p. S2. 8J. Levine, Even Santa Had Helpers, «Sales and Marketing Management», agosto 1989, pp. 56-62; citazione a p. 56.

9 «Incentive Marketing», 1993, p. SI.

10 Godbout - Charbonneau - Lemieux, La Circulation du don dans la parenté. 11 «The American Salesman», 1997.

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Sarà «una sera all’Opera, un pomeriggio al Roland-Garros o un ricevimento conviviale»12. «Due o tre partite di golf, qualche se­ minario sulla vendita integrato nell’orario di un soggiorno bre­ ve ma gradevole in un posto chic, ecco ciò che invita quasi a col­ po sicuro a moltiplicare le performance nel corso dell’anno che comincia»13. I regali sono ‘efficaci’? La letteratura sui regali d’affari parla abbondantemente del rendimento economico dei regali e cele­ bra il loro effetto sui profitti. I massaggi ad esempio vengono pre­ sentati come «un regalo meraviglioso, insostituibile per l’impiega­ to, ma utile anche per il capo, perché il pomeriggio, al ritorno da una seduta di massaggio, l’impiegato è più produttivo»14. Il rega­ lo d’affari fa aumentare il fatturato? Sì, affermano i redattori di queste riviste, basandosi su alcune ricerche, tra cui una effettuata in un’azienda in cui i clienti erano stati divisi in tre gruppi: «I clienti del gruppo 1 hanno ricevuto semplicemente una lettera di ringraziamento. Quelli del gruppo 2 hanno ricevuto, oltre alla let­ tera, una penna-matita di colore argento (del valore di 20 dollari al dettaglio). Stessa cosa per quelli del gruppo 3, ma la penna-ma­ tita era di color oro (e valeva 40 dollari). [...] Sono state realizza­ te vendite più elevate ai clienti che avevano ricevuto un regalo, in particolare quello in oro»15. Il problema della corruzione

Malgrado questa infatuazione per il regalo d’affari, la corruzione continua a sollevare inquietudini che possono spingere le azien­ de a vietare tale pratica (al modo delle burocrazie pubbliche): «Sono molte le aziende [...] che limitano l’importanza dei regali che i loro impiegati possono accettare, perché temono la corru­ zione o il millantato credito»16. Il divieto puro e semplice rasenta 12 N’Kaoua, 1997, p. 81. 13 «Marketing», 1998. 14 K. TYLER, Give Gifts that Count, «HR Magazine», dicembre 1998, pp. 60-67; citazione a p. 64.

15 K. Gines, The Guide to Corporate Gift Giving, «Incentive Marketing», New York, agosto 1998, pp. 1-28; citazione a p. 2.

16 Gines, 1998, p. 3.

DONO E mercato: gli uomini d’affari si fanno dei regali

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l’imposizione di paletti precisi. N’Kaoua1' nota che «all’IBM, gli impiegati non possono accettare nessun regalo» e riporta questa testimonianza: «Avevamo l’ordine di non accettare nulla che non potessimo contraccambiare. Eccezionalmente, potevamo ricevere una cosuccia da niente, a condizione di non sentirci mai in debi­ to». Quando la politica aziendale vieta tutti i doni, al donatore de­ sideroso di manifestare il suo apprezzamento viene suggerito di offrire un regalo collettivo (per esempio, «un cesto di cibi preli­ bati, che tutto il personale potrà spartire»), o anche di fare un do­ no all’opera di carità preferita dal destinatario17 18. Gli articoli che denunciano la corruzione abbondano e pongo­ no senza mezzi termini un problema molto vasto, che si riversa su quello della concorrenza sleale: «Si stima che le compagnie ame­ ricane spendano tra 100 e 150 milioni di dollari all’anno in tan­ genti, malgrado i divieti della legge; le aziende che rispettano la legge si priverebbero così di un centinaio di affari conclusi che rappresentano 45 miliardi di dollari»19. In Inghilterra, una commissione di studio è stata così portata a raccomandare, nel suo rapporto, l’aggiornamento della legisla­ zione sulle tangenti e il millantato credito: «I doni di ospitalità che mirano alla conclusione di un affare dovrebbero essere consi­ derati come un’infrazione, come del resto, secondo il parere del­ la Commissione, il fatto di accettare dei regali»20.

Norme, etichetta, regole

Rispetto ai doni scambiati nel resto della società, in che modo e secondo quale logica circolano i regali d’affari? Quanto, a chi e quando si deve donare? Di regola, sembra che un regalo «non su­ peri mai il 3 o 4% di quanto il cliente ha fatto guadagnare all’a17 N’Kaoua, 1997, p. 80. 18 Gines, 1998, p. 3. 19 T.S. Chan - R.W.Armstrong, Comparative Ethical Report Card: A Study of Australian and Canadian Manager’s Perceptions of International Marketing Ethics Problems, «Journal of Business Ethics», 18 (1999), pp. 3-15; citazione a p. 3.

20 B. Beyuzlas, Law Reformers Target ’Corrupt’ Corporate Gifts, «Marketing», 5 marzo 1998, p. 1.

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zienda»21. Ma il valore monetario attribuito al regalo da parte del suo destinatario conta ancora di più... e può addirittura servire da argomento di vendita: «Ecco un’ottima ragione per offrire de­ gli articoli in pelle di marca Coach, perché nei negozi non li si trova a buon prezzo»22. Quando donare? Gli ‘specialisti’ suggeriscono spesso di uscire dal rituale del Natale e donare in modo spontaneo, inatteso, per fare una sorpresa: «Nessuna legge - consiglia Gines - vi obbliga a riservare i regali al periodo delle Feste»23. «Spesso i regali restano più a lungo nella memoria quando non erano attesi»24. Aggiunge Davis: «Avranno tanto più senso per il loro destinatario quanto più avranno l’aria di essere stati comprati in modo estemporaneo, per una ispirazione»25; «la sorpresa, l’estasi, la riconoscenza: tali sono i sentimenti che un regalo d’affari dovrebbe idealmente su­ scitare»2627 . A chi devono andare i regali d’affari? A tutte le persone con cui il donatore ha personalmente a che fare nell’esercizio della sua at­ tività, «dalla segretaria al responsabile delle vendite, perché il rega­ lo è votato ad esprimere sinceri ringraziamenti»2'. Settantacinque anni fa, lo abbiamo visto, si consigliava all’uomo d’affari di limitare i suoi regali alle persone che conosceva personalmente; oggi, al contrario, gli si suggeriscono dei mezzi indiretti di donare quando i regali sono vietati dall’azienda del destinatario (per esempio do­ nando a un’opera di carità che quest’ultimo apprezza). A livello più generale, tutte le regole sembrano rispondere a un obiettivo fondamentale: mostrare al destinatario che il dona­ tore tiene a lui, si interessa a lui: «Show that you care», si ordina al donatore. Questi raggiungerà tale obiettivo facendo del regalo una cosa unica e personalizzata, che corrisponde ai gusti del do­ natario. A questo scopo sono finalizzati la scelta del regalo, la sua presentazione e il modo di offrirlo. 21 N’Kaoua, 1997, p. 81. 22 «Incentive Marketing», 1997, p. 7.

23 Gines, 1998, p. 3. 24 Ibidem.

25 S. DAVIS, The Art of Corporate Gift Giving, «Incentive Marketing», New York, agosto 1996, pp. 3-18, 1996, p. 4.

26 «Incentive Marketing», 1997, p. 3.

27 Levine, 1989, p. 58.

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La scelta: prendere tempo

Il donatore deve prendere tempo e mostrare che si è preso del tem­ po: «I vostri regali devono riflettere il tempo che avete dedicato a cercarli»28. «Ci vuole più di una lista e soldi per comprare il rega­ lo di Natale che conviene. Ci vuole tempo»29. «Non tutti i regali toccheranno il cuore e l’anima del destinatario, ma tutti devono manifestare che ci avete messo del tempo a trovarli»30. «Costantemente, l’orologio ricorda al suo proprietario i sentimenti del do­ natore»31. Il regalo deve avere un carattere eccezionale. Conviene com­ prare agli impiegati «delle cose che loro non si comprerebbero», spiega Tyler32, specialista di marketing. Il regalo non dev’essere in relazione con il posto occupato dall’impiegato, ma deve rispon­ dere a un desiderio personale da parte sua: «Gli articoli più sti­ mati erano associati alla loro vita fuori ufficio». Il regalo deve inoltre essere ‘unico’, ‘personalizzato’33: «Fate vedere ai vostri impiegati il valore che attribuite alla loro indivi­ dualità scegliendo un regalo che loro sono gli unici a poter ap­ prezzare»34. L’argomento vale anche per i clienti: «I regali devo­ no avere un carattere personale, proporzionato ai gusti, ai valori e agli interessi del destinatario. Attesteranno così che vi siete presi del tempo per conoscerlo meglio»35.

Tutto sta nella presentazione La presentazione del regalo non ha meno importanza. Alcuni ar­ rivano a dire che «è tutto»: «Essa esprime la vostra stima verso il destinatario e mostra che avete investito del tempo per abbellire il presente che gli offrite. La maggior parte dei negozi farà per voi una confezione regalo»36. 28 «Incentive Marketing», 1997, p. 4.

29 Levine, 1989, p. 56. 30 Davis, 1996, p. 5. 31 Gines, 1998, p. 5. 32 Tyler, 1998. 33 Ibidem. 34 Ibidem.

35 Davis, 1996, p. 4. 36 Tyler, 1998.

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Perlomeno, si ritiene che conta quanto il contenuto: «La pre­ sentazione delle cibarie offerte come regali d’affari ha quasi al­ trettanta importanza delle cibarie stesse»37. «Lina bella confezio­ ne [...] fa di un bel regalo uno splendido presente»38. Anche gli specialisti danno dei consigli in proposito: «Come confezionerete i vostri regali così da renderli memorabili?»39. A chi si augura di fare impressione, Sforza40 suggerisce di «avvol­ gerli in banconote (vere) appena stampate da uno o due dolla­ ri»! Tyler41 celebra il ‘piccolo tocco’ che la confezione aggiunge, l’intenzione che esprime. Gines42 si dilunga sull’impressione da creare negli impiegati: «Le aziende danno spesso delle gratifi­ che in denaro ai loro impiegati. Anche in questo caso, Stewart consiglia di metterci del sentimento, aggiungendo un piccolo tocco. Una gratifica è una bella cosa [...], dice, ma non è straor­ dinario inserire le banconote tra due biglietti di teatro o tra due biglietti d’aereo per Hawaï, o nasconderli in un cesto guarnito di caffè o tè esotico?». Infine, la presentazione non sarebbe completa se le ragioni esplicite del regalo non ne facessero parte: «Per ogni regalo, prendete il tempo di scrivere una piccola nota personale da ag­ giungervi. [...] Con sincerità, esprimete degli auguri pieni di ca­ lore e precisate la ragione del vostro gesto»43. «Non dimenticate il bigliettino, che trasmetterà il vostro pensiero e i vostri sinceri sen­ timenti. Dovrà esporre con chiarezza e semplicità la ragione per cui fate il regalo»44.

Tra personalizzazione e standardizzazione Un’infinità di suggestioni tendono a rendere il regalo unico, a di­ stinguerlo, a dargli un tocco personale. Si può personalizzare

37 N. SFORZA, Apples & Oranges, «Incentive Marketing», New York, settembre 1997, pp. 92-98; citazione a p. 96.

38 Gines, 1998, p. 5. 39 «The American Salesman», 1997, p. 10.

40 Sforza, 1997, p. 95. 41 Tyler, 1998, p. 67. 42 Gines, 1998, p. 2. 43 «Incentive Marketing», 1997, p. 7.

44 Davis, 1996, p. 7.

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l’oggetto stesso oppure il modo di donarlo. È possibile per esem­ pio farvi stampare il logo della compagnia, ma alcuni trovano questa pratica di cattivo gusto. Nello stesso spirito abbiamo visto come non bisogna dimenticarsi di aggiungere al regalo una paro­ la o un biglietto, preferibilmente scritto a mano; al contrario, se il tempo o l’abilità fanno difetto, una cartolina graziosamente stam­ pata è una felice soluzione di scorta45. In certi casi, una parola di apprezzamento personale che viene da un superiore costituisce in se stessa un regalo46. Infine, si potrà andare personalmente a portare il proprio regalo (colmo della delicatezza), o farlo conse­ gnare da un corriere (seconda scelta migliore)47. Se si utilizza la posta, non si può scegliere altro che una corrispondenza di pri­ ma classe; anche le aziende private di corrispondenza fanno l’af­ fare48. Se il contesto si presta, si può tentare il tutto per tutto e inviare un ‘messaggio cantato’, che sarà consegnato a domicilio da un cantore abbigliato con un costume adatto alla circostanza49. Dowling50 cita un’azienda che ha indotto la preoccupazione di individualizzare la presentazione dei propri regali, fino al punto di ordinare un centinaio di addobbi natalizi per decorarli tutti in maniera diversa. I limiti alla personalizzazione dei regali Per personalizzare un regalo bisogna conoscere il donatario in modo più intimo di quanto supponga un’ordinaria relazione d’affari. Ma i regali troppo personali - profumi, articoli da toilet­ te, cosmetici - possono essere percepiti come un’indiscrezione, addirittura come un’intrusione nella vita privata del destinatario51. Possono essere contrari all’etichetta. E vietato donare vestiti (dominio di pertinenza della vita privata e, a questo titolo, chiuso 45 Gines, 1998, p. 4. 46 Tyler, 1998, p. 67. 47 Gines, 1998, p. 5. 48 «Incentive Marketing», 1997, p. 11. 49 «The American Salesman», 1997, p. 11.

50 Μ. Dowling, The Back-End of Business Gifts. Preparing for the Operational Demands of Corporate Gifts, «Operations and Management», dicembre 1997, pp. 41-51; citazione a p. 41.

51 Tyler, 1998, p. 62.

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all’azienda), a meno che non si tratti di una T-shirt con il logo del­ la compagnia. Da un altro punto di vista, la personalizzazione sempre più spinta del regalo comporta, per l’azienda, un investimento cre­ scente in tempo e denaro: di qui la tentazione costante di sempli­ ficare e standardizzare e dunque di spersonalizzare, cercando qualcosa che vada bene per tutti. La popolarità del cristallo, della porcellana e dell’argento possono essere visti in quest’ottica. L’ultimo stadio della spersonalizzazione sembra però venire raggiunto con il certificato-regalo e il buono d’acquisto, diventati una pratica ben consolidata nel dominio dei regali d’affari. «Il buono d’acquisto è di gran moda»52. Gli assegni-regalo sono ugualmente diffusi: ristoranti, palestra, golf, abbonamento allo zoo per chi ha bambini, eventi sportivi e culturali, va bene tutto. A proposito dei coupon di invito senza importo, un uomo d’affari fa notare: «Invitare i propri clienti a cena senza imporre la propria presenza non manca di prestigio»53. Le aziende specializzate nei regali d’affari fabbricano persino dei cataloghi che basta far per­ venire ai partner cui si vuole offrire un regalo, cosicché siano loro stessi a scegliere! «Grazie al programma Choose-Your-Gift di Bennett Brothers, Ine., è facile fare regali. Offriamo una galleria di articoli che co­ prono una gamma di tredici prezzi, da 16 a 1000 dollari. [...] I de­ stinatari riceveranno per posta il nostro catalogo Choose-Your-Gift adatto alla circostanza e alla stagione. Sarà sufficiente che indichi­ no la loro scelta sul certificato pre-indirizzato e che lo spediscano. [...] Niente di più semplice: il destinatario sceglie il suo regalo»54. Certo, lasciando che il destinatario scelga su un catalogo, ci si mostra preoccupati di non deluderlo55. Ma questa soluzione co­ moda e standardizzata si situa all’opposto dei principi sopra enunciati. Secondo alcuni autori, la spersonalizzazione ci fa scivo­ lare verso la perdita del senso e della funzione essenziale del do­ no: «Un vestito che hanno tutti non è di nessuno: le persone si sentono come dei numeri. Un regalo ben pensato è un riconosci­ 52 C. Fargeot, Cadeaux d’entreprise: pour perpétuer le lien social, «Liaisons socialesLemensuel», novembre 1996, pp. 74-76; citazione a p. 76.

5S N’Kaoua, 1997, p. 80. 54 Davis, 1996, p. 23. 55 Levine, 1989, p. 60.

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mento dell’individualità dell’impiegato». «L’ideale è variare, tor­ nare ogni tanto ai regali tangibili che rinforzano il legame sociale e l’animazione della collettività»56. Il regalo deve rispettare i valori del destinatario

Non solo bisogna evitare che il destinatario si senta un numero, ma occorre altresì rispettare i suoi valori. Motivo per cui l’alcool e il tabacco, ad esempio, sono proscritti, soprattutto negli Stati Uni­ ti, dal monento che potrebbero passare per un’incitazione all’alcoolismo o al tabagismo57. Analogamente, se l’azienda opta per dei regali alimentari, deve stare attenta a non urtare le abitudini dei destinatari. Infine, malgrado la grande differenza tra i valori e i gusti delle donne e degli uomini, non è consigliato differenziare i regali in funzione del sesso, per non essere accusati di sessismo. La non-reciprocità Come deve reagire il beneficiario di tutte queste elargizioni? L’u­ nico obbligo del destinatario è quello di ringraziare, segnalando la sua riconoscenza. La principale manifestazione di riconoscenza consiste senza dubbio nel mantenere la relazione, considerando­ la non soltanto come una relazione commerciale da cui ci si al­ lontana quando fa comodo e in piena libertà. Dunque in questo caso non si pone il problema della spirale del dono del tipo potlàc, e i problemi di eccesso sono secondari, se non completamente as­ senti. Il destinatario può sempre - è vero - paragonare ciò che ve­ de con quello che ha ricevuto l’anno prima o con quello che altri clienti o partner hanno ricevuto... La letteratura consultata - è interessante sottolinearlo - men­ ziona solo una volta il tema della reciporocità: «Non siate imba­ razzati se vi viene offerto un regalo e voi non avete niente da dare in cambio. Ringraziate e aspettate di trovare un’occasione per ri­ cambiare, nel giro di qualche mese»58. Ci si limita peraltro a sot­ tolineare l’importanza di ringraziare.

56 Fargeot, 1996. 57 Tyler, 1998. 58 Davis, 1996, p. 13.

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IA FECONDITÀ F. IA PERTINENZA DEL MODELLO DEL DONO

Sincerità: il paradosso di Carnegie L’importanza che in queste riviste d’affari viene attribuita alla sin­ cerità non manca di stupire: «Il regalo appropriato, inviato al mo­ mento opportuno, testimonia un interesse sincero per il destina­ tario. [...] Se i sentimenti non sono autentici, il vero significato del regalo sparisce completamente»59. Questa dimensione dev’es­ sere presente soprattutto a Natale: «Durante il resto dell’anno, i regali sono un mezzo per farsi presenti alla memoria delle perso­ ne cui li si offre, ma i regali nel tempo delle Feste dovrebbero es­ sere l’espressione di una gratitudine sincera. Motivo per cui non bisogna mai iscrivere il logo dell’azienda sul regalo. [...] È un ge­ sto volgarmente commerciale»60. In effetti, «per il donatore, il piacere cui dà luogo e la gratitudine sincera che gli viene espressa sono un regalo»61. Dunque ritroviamo qui il ‘paradosso del contraccambio’ ana­ lizzato nella seconda parte: questi autori attribuiscono infatti an­ che moìta importanza al ‘rendimento’ del regalo d’affari. Il regalo deve fruttare, ma nella sincerità, senza che l’utilità ne sia il motivo principale. Il regalo d’affari diventa davvero un’arte: «Il dono do­ vrebbe essere un piacere e provenire da un desiderio sincero di testimoniare stima. La padronanza di quest’arte vi procurerà un rendimento decuplicato, in relazioni solide, in lealtà e in buona volontà»62. «Il valore sentimentale di un regalo non ha prezzo. [...] E uno strumento efficace per fare affari»63.

Il senso del regalo Per quali ragioni gli uomini d’affari donano? Secondo un son­ daggio circa le ragioni per donare: il 62% delle aziende fa regali per ringraziare i clienti, il 56% per aumentare il fatturato, il 43% in riconoscenza al valore degli impiegati e il 12% al fine di ri­ spondere alle attese del personale. Un autore tenta di riassumere 59 Davis, 1996, p. 4. 60 Levine, 1989, p. 60. 61 Gines, 1998, p. 3. 62 «Incentive Marketing», 1997, p. 3. 63 «The American Salesman», 1993, p. 3.

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le funzioni del regalo d’affari: «Congratularsi: per una promozio­ ne, per una nascita [...]; celebrare: un compleanno, una data im­ portante nella storia dell’azienda o nella vita del destinatario [...]; motivare: in vista di un obiettivo personale o professionale difficile da raggiungere, di un compito poco attraente [...]; pro­ muovere: se stessi, il proprio prodotto, i propri servizi [...]; ralle­ grarsi: durante il corso di una grave malattia, un periodo all’ospe­ dale [...]; presentare delle scuse»64. Un esame sommario degli ar­ ticoli mostra che questo riassunto non è esaustivo.

Ringraziare, non promuovere «Nulla dice grazie in modo più gradevole di un bel pacchetto di buon caffè»65. La funzione che più spesso viene attribuita ai rega­ li d’affari è quella dei ringraziamenti alla clientela. «Gli impren­ ditori fanno dei regali per ringraziare i loro clienti, sperando al contempo che continuino a fare affari con loro; è questa la loro ragione principale»66. Il dono, tuttavia, deve servire a ringraziare per ciò che è stato ricevuto, non per sollecitare67. Tra le due intenzioni si colloca, se­ condo alcuni, il confine che separa il dono dalla corruzione: «Un presente offerto a una relazione d’affari molto ricca di promesse, ma con la quale non è ancora stato messo in gioco niente di con­ creto, può facilmente avere l’aria di una tangente»68. E anche una questione di tatto: «Se si tratta di ringraziare dei clienti importan­ ti, non fate stampare il logo della vostra azienda sul regalo. Non è il momento di fare pubblicità o promozione»69.

Allacciare e mantenere le relazioni Il regalo è anche un mezzo per creare o rinforzare dei legami: tra venditori e clienti, tra impiegati e capi. Secondo Davis70, «nel mon­ 64 Davis, 1996, p. 5. 65J.M. Steinauer, Fantastic Fare, «Incentive Marketing», New York, settembre 1996, pp. 67-74; citazione a p. 67. 66 Ibidem.

67 Levine, 1989, p. 58. 68 Ibidem. 69 «Incentive Marketing», 1993, p. S8.

70 Davis, 1996, p. 3.

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do degli affari, si basa tutto sulle relazioni». Un dono può costitui­ re un inizio per stabilire un legame71. Il dono permette di allaccia­ re legami, ma anche di mantenerli: «Il regalo d’affari è uno dei mezzi migliori per far sapere che si attribuisce importanza alla re­ lazione, [...] le strategie di dono di regali possono contribuire al rafforzamento delle relazioni d’aifari esistenti, crearne di nuove, ispirare sentimenti di lealtà, alimentare le buone volontà»72.

Riparazione, perdono Il regalo costituisce un mezzo per risarcire i consumatori per un bene o un servizio difettosi. Assolve anche una funzione riparatri­ ce. Le compagnie aeree, per esempio, utilizzano questo mezzo per risarcire i loro clienti quando si verifica un ritardo di volo. Comunicare il legame

Che cosa tenere a mente di tutti questi ruoli giocati dal dono nel contesto degli affari? «Un regalo è un segno affettivo», afferma N’Kaoua73. In linea generale, il regalo è al servizio del legame. Al­ cuni articoli del nostro corpus riguardano quasi esclusivamente questo argomento: il regalo è «un’occasione per mostare ai vostri impiegati quel che pensate di loro, per testimoniare loro il vostro apprezzamento». Il dono serve prima di tutto a comunicare qual­ cosa a proposito della relazione: «Mettete un pensiero nel vostro regalo [...]; stabilire buone relazioni è la principale ragion d’es­ sere dei regali d’affari»74. In linea generale, il regalo serve a dire all’altro che la relazione con lui è importante, che lui per noi con­ ta, che ci piace fare affari con lui, ma anche che è una risorsa {as­ set) : «Un regalo natalizio scelto con attenzione mostra ai vostri im­ piegati che li considerate come un apprezzabile attivo»75. «Sce­ gliete un regalo che esprimerà il vostro messaggio»76. Questo cri71 Sforza, 1997, p. 94. 72 Davis, 1996, p. 3. 7S N’Kaoua, 1997, p. 80. 74 Gines, 1998, p. 3. 75 Tyler, 1998, p. 60. 76 Gines, 1998, p. 3.

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terio, lo si è visto, è messo completamente da parte da alcuni con­ sulenti che propongono di inviare un catalogo al destinatario per­ ché lui stesso scelga il suo regalo. Anche se non sempre è voluto, il regalo esprime altresì, o piut­ tosto rivela, l’identità del donatore, e manifesta la sua conoscenza dell’identità del donatario. «Quel che donate riflette quel che sie­ te»77. «Il regalo d’affari è assai rivelatore della personalità dell’or­ ganizzazione che lo offre»78. Di quale identità si tratta? Identità professionale, personale, sessuale, intima? Dell’identità personale - si dice -, ma non inti­ ma. E un gioco delicato quello di rispettare la vita privata pur re­ stando sul piano personale. Il dono nella sfera commerciale e nella società

Somiglianze In modo soprendente e straordinario, il dono funziona nel mon­ do commerciale così come altrove nella società, e in generale il suo senso è identico a quello nei rapporti non commerciali: il dono è al servizio del legame. Più precisamente, nel mondo degli affari ri­ troviamo le seguenti caratteristiche, simili a quelle che il dono possiede in altri contesti nella società, e ritenute spesso opposte alle regole abituali del mercato. • Il tempo

Nel mondo degli affari, «time is money», diceva Benjamin Frank­ lin. Ma nel dono, chi offre non deve risparmiare il suo tempo. «Lasciare una traccia», dice il sottotitolo di un articolo79. Il dono deve sopravvivere nel tempo. «Ci vuole più del denaro per com­ prare un buon regalo. Ci vuole tempo»80. Questa caratteristica oppone il dono al modello dello scambio commerciale, che è im­ mediato (clear). Secondo Peter V. Edmund (expert in corporate field), l’iscrizione del dono nel tempo è anche la principale mi77 Gines, 1996, p. 4. 78 «The American Salesman», 1993, p. 9. 79 «L’Usine nouvelle», 1997, 2584.

80 Levine, 1989.

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sura del suo impatto: «Il regalo di quest’anno sarà o no memora­ bile?»81. Reintrodurre il tempo, lasciare una traccia, forse è la ragion d’essere principale del dono nel mercato, la ragione per cui que­ st’ultimo non può fare a meno del dono malgrado il fatto che il dono contraddica i suoi princìpi. • L’espressione dell’identità Attraverso la personalizzazione del dono, il modo di confezionar­ lo, di presentarlo, di offrirlo, il dono esprime l’identità, quella del donatore e quella del donatario. Tale caratteristica fondamentale della circolazione mediante il dono è presente nel mondo degli affari.

• Regole e norme Le regole e le norme del dono sono spesso in ugual misura le stes­ se sia nel mondo degli affari sia negli altri settori; nelle pagine precedenti gli esempi non mancano: presentazione, confezione, sorpresa, uscita dal rituale (non fare regali solo a Natale...). Co­ me per il dono negli altri settori, nell’universo degli affari la rico­ noscenza appare in se stessa come un modo di contraccambiare, e più precisamente essa è un dono: « Their sincere appreciation and gratitude can be a gift in itselffor the giver [Il loro apprezzamento e la loro sincera gratitudine possono rappresentare un regalo per il donatore] »82. Ma esistono anche delle differenze tra la piazza del mercato e il resto della società.

Differenze • La finalità Mentre in generale nel dono regna la legge dell’implicito, una delle regole del regalo d’affari è rendere sempre esplicito lo scopo del regalo. E la differenza più evidente e più importante. Se in effetti il dono è al servizio del legame, il legame è al servi­ zio del profitto, del fatturato. Come potevamo aspettarci in

81 «The American Salesman», 1997.

82 Gines, 1998, p. 3.

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questo settore, è la razionalità strumentale ad essere messa in primo piano. Il dono deve fare la parte del mezzo. «I regali d’affari sono al servizio della commercializzazione dell’azienda, così come la confezione, il servizio alla clientela e la pubbli­ cità»83. In altri termini, per l’azienda il dono è un’azione di marketing come un’altra, che fa parte della ‘vendita della propria immagi­ ne’. Ed è efficace. Ma in questo contesto abbiamo ritrovato il paradosso di Car­ negie, dato che, per essere efficace, il dono dev’essere fatto ‘sin­ ceramente’. Meno si ha di mira il contraccambio, più quest’ulti­ mo rischia di essere rilevante. • Reciprocità La reciprocità concepita come ricerca di equivalenza (cfr. cap. 6) tra ciò che circola è sorprendentemente assente. Non vi è ricerca di equivalenza e in un certo modo è stupefacente, poiché è la ba­ se stessa del sistema commerciale. L’unico obbligo del destinatario è ringraziare. Tale giudizio può sembrare ingenuo. In effetti, si può far no­ tare che il contraccambio stia nel fatto che gli impiegati conti­ nuano eventualmente a produrre bene o di più, o i clienti a comprare altrettanto o di più. Ma questo è veramente un con­ traccambio? Se il prodotto fosse soddisfacente e concorrenziale, il cliente cui viene offerto un regalo avrebbe comunque conti­ nuato a procurarselo. Viceversa, se il prodotto fosse insoddisfa­ cente, il cliente dovrebbe smettere di comprare malgrado il re­ galo offertogli, dato che, se continua a comprare, il regalo di­ venta moralmente corruzione e commercialmente una cattiva decisione d’affari, che non rispetta le leggi del mercato. Conclu­ sione: il regalo d’affari dev’essere totalmente inutile! Perlome­ no è quello che dicono le leggi e le norme del mercato, così co­ me gli autori degli anni ’30. «Avendo ricevuto regali di valore da parte di relazioni d’affari, [...] i destinatari erano fortemente pressati a proseguire i loro scambi con i donatori, anche se non ricavavano il loro migliore profitto. Erano indotti [...] a sospen­ dere in parte i criteri del mercato che normalmente guidano le

83 «The American Salesman», 1997.

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loro relazioni d’affari»84. Questo tema sembra oggi essere scom­ parso dalle riviste d’affari. Il dono nel mercato è dunque in sé un paradosso: il dono non può che essere inutile, e quindi entra in contraddizione con la re­ gola d’oro degli affari, che vuole in ogni modo che il destinatario continui a fare affari con il donatore se per lui è redditizio e smetta nel caso contrario. Il dono non serve perciò a niente, se non even­ tualmente a corrompere la regola del mercato se, a causa di questo gesto, il destinatario continua a fare affari anche se non è nel suo interesse. Favorendo dei produttori inefficienti, il regalo falsa la concorrenza. Inoltriamoci nel ragionamento: secondo la mera re­ gola commerciale, il fatto di offrire un regalo costituirebbe una prova che il donatore non si ritiene abbastanza conveniente per conservare il cliente senza fargli un regalo, e che dunque il destina­ tario (il cliente che riceve un regalo), lungi dal rallegrarsi, dovreb­ be farsi delle domande sulla sua relazione d’affari con il donatore, ed eventualmente mettervi fine (tenendosi i regali evidentemen­ te...). In perfetta logica commerciale, il dono dovrebbe dunque es­ sere vietato, regola che peraltro esiste in numerose aziende. Ma i regali d’affari sono fatti per ringraziare, riaffermano con pazienza le aziende di produzione di regali, le uniche in questa storia di cui si vedono chiaramente gli interessi e la razionalità economica. D’altra parte, è interessante constatare che, per molti autori, la linea imprecisa che separa il dono dalla corruzione si trova tra il ringraziamento e la sollecitazione. Si ribatterà: che co­ sa ci sta a fare il ringraziamento in una relazione d’affari? Ringra­ ziare di che cosa? Comprando il prodotto del donatore, il cliente non ha agito per rendergli un servizio, ma nel suo stesso interes­ se; questo del resto è senza dubbio ciò che lo stesso venditore si è sfinito per fargli capire. Allora perché ringraziare? Questo sem­ plice gesto non introduce un dubbio sul valore stesso del prodot­ to che il donatore ha venduto al cliente? Il fatto che il regalo d’af­ fari conosca oggi un tale favore non genera un dubbio più globa­ le sulla qualità attuale di quel che è prodotto, sull’efficienza del si­ stema, dato che sembra ci sia bisogno di sorreggere lo scambio commerciale introducendovi proprio ciò che costituisce una ne­ gazione della legge dell’offerta e della domanda? 84 Waits, The Modem Christmas in America. A Cultural History of Gift Giving, pp. 78-79.

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L’aporia del dono nel mercato

Al centro del settore della società che più la nega, ritroviamo così la forza del dono, proprio quando ci si dovrebbe aspettare soltan­ to che il dono abbia un ruolo strumentale e che si limiti a far par­ te della caterva delle astuzie di imprenditori abili a convincere i loro interlocutori in una negoziazione. Tuttavia, se certamente gioca tale ruolo, il dono non si limita a questo. E come se il mercato - persino lui - avesse bisogno del do­ no per ‘dire’ quel che ha da dire, per assicurare la comunicazione tra i diversi agenti economici, per diminuire i costi frizionali, di­ rebbero gli economisti. Perché? Per dire cosa? «Mi piace il suo prodotto», certo, ma anche: «Grazie, Lei è importante per me, so­ no contento di fare affari con lei, di averla come collaboratore e ciò, indipendentemente o in più di quel che questa relazione mi frutta finanziariamente». Come mai il regalo è considerato, persi­ no in questo universo ufficialmente utilitarista e self-interested, il mezzo migliore (più di una lettera, più di uno scambio verbale) per far conoscere il piacere della relazione? In una certa epoca i riformisti americani erano riusciti a generalizzare l’uso della car­ tolina di auguri in sostituzione al regalo. Ma il regalo è tornato e oggi trionfa di nuovo. Nel mondo degli affari, il dono riesce a sopravvivere malgra­ do una contraddizione etica che normalmente gli sarebbe fata­ le. Infatti, da una parte, il mondo commerciale è l’unico luogo nella società in cui la regola dell’equivalenza è la norma, non soltanto pratica, ma anche morale. La ragion d’essere del lega­ me che si stabilisce tra due uomini d’affari, o tra un venditore e il suo cliente, è che ciascuno riceva, a livello individuale, più di quanto dà. Ognuno sacrifica qualcosa che ha più valore per l’al­ tro che per sé oppure, altro modo di dirlo, riceve qualcosa che ha più valore per lui che per l’altro. La ricerca da parte di ognu­ no del proprio interesse, senza riguardo per altre considerazio­ ni, non soltanto viene ammessa: essa è la norma, è, per così dire, obbligatoria85. Ne segue che ogni agente che non rispetta que­ sta regola può essere sospettato di non attenersi al valore che l’oggetto ha per ciascuno, e dunque al confronto tra le cose che 85 Godbout, Le Don, la Dette et l’Idmtité, cap. 1.

322

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circolano (valore di scambio). Introduce ‘altre considerazioni’. Secondo la teoria economica, il dono non può e non deve esi­ stere nello scambio commerciale, perché tutto deve avere la sua equivalenza. Al limite, persino la cartolina di Natale non ha ra­ gion d’essere secondo i principi dell’economia neoclassica e della razionalità strumentale. La cartolina - e tanto più il regalo non può essere considerata altro che un tentativo di sviare le leggi del mercato, e dunque di diminuire l’efficienza del sistema nel suo insieme introducendo il clientelismo, le tangenti, la cor­ ruzione. Eppure, la letteratura degli affari permette di constatare che il mercato ha bisogno del dono. Regali, inviti, doni alle organizza­ zioni, sono il premio quotidiano degli uomini d’affari. Il discorso contro i regali d’affari di cinquanta anni fa, oggi è sorprendente­ mente marginale, in un’epoca in cui i princìpi e le norme del mercato tendono tuttavia a diffondersi all’insieme di ciò che cir­ cola tra gli esseri umani, mentre si deplora l’estensione della cor­ ruzione e si moltiplicano gli scandali finanziari. Perché il dono sembra malgrado tutto indispensabile in questo mondo fondato sulla sua negazione? Essenzialmente per comunicare, per stabilire, mantenere, rafforzare i legami tra business associates. In altri termini, il dono è presente nel mercato per le stesse ragioni per cui lo è al di fuori. Ora, per adem­ piere a questa missione e raggiungere questi obiettivi, il dono ha le sue regole specifiche, che contraddicono le regole com­ merciali: assenza di equivalenza, personalizzazione, sentimen­ to nel donatario che il dono è stato fatto per lui e non in vista di uno scambio, ecc. E queste regole valgono anche per il re­ galo d’affari. Altrimenti non siamo in presenza di un vero do­ no o, più prosaicamente in questo settore, c’è un tentativo di corruzione. Il dono nel mondo commerciale non può avere al­ tre etichette se non quelle dell’ipocrisia o del tentativo di cor­ ruzione. Ma allora, perché utilizzare il dono e non un altro modo di comunicare, visto che il dono è oltretutto problematico e sem­ pre suscettibile di comportare delle complicazioni, di essere ma­ le interpretato, di creare delle noie per tutti, molto più che in altri settori della società? Agli occhi dei manager canadesi e au­ straliani «i regali, i favori e i servizi, gli inviti, sono il problema etico citato più spesso, e la corruzione su larga scala è il proble­

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ma etico più grave»86. Perché utilizzare questo mezzo se tutto lo vieta? Sarà forse che il dono rimane necessario, addirittura indi­ spensabile, per comunicare certe cose, per conservare la fidu­ cia, per assicurare le condizioni preliminari a uno scambio com­ merciale riuscito? LISTA DELLE RIVISTE D’AFFARI ANALIZZATE Anonimo, Business Gifts for 1997: Memorabile or Forgettable?, «The Ameri­ can Salesman», 1997, pp. 9-11. Anonimo, Fine Giftware, «Incentive Marketing», New York, aprile 1992,

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86 Chan - Armstrong, Comparative Ethical Report Card: A Study ofAustralian and Canadi­ an Manager’s Perceptions ofInternational Marketing Ethics Problems, p. 3.

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LA FECONDITÀ E IA PERTINENZA DEL MODELLO DEL DONO

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67.

CAPITOLO SEDICESIMO

Il dono, l’arte e la scienza1

L’imprenditore non è un donatore. Eppure c’è dono nel mondo degli affari, dove donare è tutta un’arte. Goux concludeva che l’imprenditore è un artista, addirittura d’avanguardia! Queste considerazioni rimandano al tema della creazione, che si tratti di arte o di scienza. Noi pensiamo che il modello del dono consenta di chiarire sia l’esperienza artistica sia quella scientifica. Da quan­ do tali fenomeni sono stati socialmente riconosciuti, grossomodo dal Rinascimento, in questi due campi esiste uno strano rapporto tra il produttore e l’utente. Dalla richiesta dei nobili alle manife­ stazioni surrealiste e dadaiste, alla pop art, alle attuali richieste go­ vernative, fino all’arte «allo stato gassoso»2, le concezioni dell’arte hanno conosciuto continue modifiche e discussioni. Cionono­ stante resta il fatto che questo mondo non pare obbedire all’in­ sieme delle normali regole che governano il modello commercia­ le moderno e il rapporto produttore-utente che suppone, così co­ me è stato analizzato nella prima parte.

Una stona antica L’avvicinamento arte-scienza non è nuovo. Ricordiamo che la no­ zione di arte così come oggi viene intesa risale al Rinascimento, e che a quell’epoca arte e scienza erano molto vicine, dato che l’ar­ te aveva «la duplice funzione di un mestiere che poteva essere im­ parato e di una scienza oggettiva»3. Due secoli più tardi, i fonda­

1 Una versione più estesa di questo capitolo è stata pubblicata in «La Revue du MAUSS», 24 (2004), pp. 224-241.

2 Y. Michaud, L’Art à l’état gazeux. Essai sur le triomphe (U l’esthétique, Stock, Paris 2003. 3 Y Robillard, Vous êtes tous des créateurs ou le mythe, de l’art, Lancôt, Montréal 1998, p. 37.

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tori della sociologia come Aguste Comte e Saint-Simon davano grande importanza agli artisti e agli scienziati, un’importanza, per così dire, complementare. Nella religione che hanno voluto fon­ dare, gli artisti dovevano concepire i futuri possibili, mentre gli scienziati e gli industriali dovevano realizzarli4. Gli artisti avevano un ruolo di avanguardia. Ma dopo due secoli, le condizioni socia­ li e lo statuto degli artisti e degli scienziati sono cambiati di molto. E la loro evoluzione è stata diversa.

Lo scienziato Lo scienziato è diventato un ricercatore. Si è professionalizzato. Spesso è un funzionario dello Stato o delle sue organizzazioni af­ filiate, oppure un impiegato di una grande azienda, responsabile o tecnico di ricerche. Come le libere professioni, quella scientifi­ ca è riuscita a sfuggire in parte al mercato. In campo scientifico, l’atto di creazione è stato messo al riparo dal meccanismo com­ merciale grazie alla società. La ricerca - si dice - dev’essere finan­ ziata indipendentemente dai risultati immediati, indipendente­ mente dalle sue applicazioni, dalle sue ‘ricadute’. Che lo scienzia­ to non produca niente è ammesso, anche se (e perché...) la sua attività è sempre più all’origine di tutto quel che si produce. Cer­ to, non si può negare l’importanza delle pressioni che vanno in direzione contraria, e sono numerose le proteste e le denunce dei ricercatori che difendono la loro libertà attaccata dalle grandi corporazioni o dal potere politico. Eppure, malgrado tutto, grazie a questa distinzione tra la scienza e le sue applicazioni, la scienza in parte sfugge ancora alla tirannia dell’utile, che oggi, dopo la ri­ voluzione neoclassica, non significa altro che rispondere ai desi­ deri dei consumatori, ben lungi dall’utilità o dai bisogni reali. In breve, lo scienziato si è guadagnato il diritto di essere rico­ nosciuto soltanto dai suoi pari, mentre, come vedremo, l’artista resta in parte sottomesso al mercato. In che modo lo scienziato è riuscito a farsi riconoscere uno statuto del genere? In che modo la creazione viene riconosciuta in campo scientifico? Attraverso un processo di legittimazione relativamente indipendente dal pubblico, che si basa sulla norma di verità esprimibile nella for­ mula: «Se quello che dico è esatto, ne segue allora che un tale fe­ 4 Grabber, Toward An Anthropological Theory of Value. The False Coin of Our own Dreams.

II. DONO, L’ARTE E LA SCIENZA

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nomeno si produrrà in tale maniera». Se lo spazio - come pensa­ va Einstein - è deformato dalla matèria, ne segue allora che se un corpo è posto al centro di un triangolo formato da un raggio lu­ minoso, la somma degli angoli di tale triangolo sarà inferiore a 180 gradi. Gli astronomi hanno potuto verificare diversi anni più tardi la correttezza di questa affermazione. Tale procedura autorizza e legittima un mondo di produttori autonomi, indipendenti rispetto al pubblico. In campo scientifi­ co, malgrado tutte le pressioni in senso contrario, la società attua­ le pone come condizione di riconoscimento del creatore la verifi­ ca empirica o logica della sua scoperta, così come viene attestata dai suoi pari5. Così, soltanto qualche centinaio di specialisti nel mondo capiscono la dimostrazione del ‘grande teorema di Fer­ mat’ recentemente scoperta da Wiles6. Il che non ha impedito a Wiles di diventare famoso e di venire riconosciuto come colui che ha fatto questa dimostrazione. Spesso si ignora persino in che co­ sa consista, ma questo non impedirà che tale dimostrazione venga universalemente considerata come un exploit. Le sono stati dedi­ cati libri, trasmissioni televisive, reportage. Il mondo intero ha fi­ ducia nei duecento specialisti che attestano questa creazione. Lo ‘scienziato’ è salvato dal riferimento alla verità, contemporanea­ mente fonte e condizione di quella indipendenza in rapporto al pubblico. E senza dubbio un limite aH’immaginazione ed è certo che, quando un ricercatore scrive un articolo in cui deve fondare ogni asserzione e dimostrare allo stesso tempo che è diversa da ciò che gli altri hanno detto prima di lui (di qui le interminabili bibliografie che spesso si sono trasformate, grazie all’informatica, in name dropping) e conforme ai risultati empirici della ricerca, ha solo da invidiare la libertà del romanziere, il quale - così gli sem­ bra - può far dire quel che vuole ai suoi personaggi. Anche se poi intuisce che in parte si tratta di un’illusione e che questa libertà in rapporto al giudizio dei pari l’autore la paga molto cara, dato che il romanziere, in quanto artista, deve piacere al pubblico e, a que­ sto fine, è costretto a passare dal mercato.

5 II che non vuol dire che ogni scoperta che soddisfa queste condizioni sarebbe ac­ cettata dalla società. 6 L. Hua - J. Rousseau, Fermat a-t-il démontré son grand théorème'?, L’Harmattan, Paris 2002, p. 12.

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L’artista

In effetti, il mondo dell’arte ha conosciuto un’altra evoluzione. A differenza dei professionisti e degli scienziati, l’artista non ha sta­ tuto professionale. Lungi dal far parte di una corporazione, si è lui stesso affrancato dalle costrizioni corporative nel momento in cui è apparso come categoria sociale nel caso delle arti plastiche. Tutti quei meccanismi che in numerosi settori della società pro­ teggono il produttore dal mercato gli vengono rifiutati, oppure è lui stesso a rifiutarli; o ancora, se esistono, non sono propriamen­ te ciò che lo definisce come artista. Contrariamente alle libere professioni o alle professioni scientifiche, non è un diploma di Belle Arti o di arte drammatica che lo consacra pittore o attore. E un sistema complesso, dove i pari giocano certamente un ruolo non trascurabile - per la concessione delle sovvenzioni, il soste­ gno dello Stato o la decisione di pubblicare un libro -, ma dove, in ultima analisi, è il cliente che decide o, più precisamente, il pubblico, questa entità apparsa con la democrazia moderna7. No­ nostante vari tentativi, l’artista non è potuto sfuggire al cliente nello stesso modo dello scienziato8. Grazie a quel riferimento ri­ conosciuto alla verità indipendentemente dalle sue applicazioni, il ricercatore può creare tranquillamente, anche se con dei limiti sempre più rilevanti, mentre l’artista deve sottomettersi material­ mente a coloro che comprano le sue opere. Nel mondo dell’arte non c’è una comunità di produttori equivalente alla ‘comunità scientifica’. Il mondo dell’arte comprende attori più o meno esterni al produttore: l’editore per lo scrittore; il mondo dei musei, pre­ sente dal momento della comparsa dell’artista e dell’opera d’ar­ te9; un certo discorso sull’arte, che è esso stesso un’arte, al quale è necessario aderire per essere considerato un artista in una data epoca; i pari certamente e, aH’estremità della catena, il cliente. Tutti questi attori formano ciò che viene chiamato ‘il mercato dell’arte’.

7 Come si è visto nel cap. 3. 8 Parlo del mondo dell’arte così come il pubblico lo percepisce. Ci sono probabil­ mente diversi mondi dell’arte oggi, alcuni dei quali molto più chiusi su se stessi e più lontani dal loro cliente di quanto descritto qui.

9 E. Pommier, Winckelmann, inventeur de l’histoire de l’art, Gallimard, Paris 2003.

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Una strana merce Se si parla di mercato dell’arte, ciò significa che l’opera d’arte viene considerata una merce, contrariamente alla scoperta scien­ tifica, che è un bene pubblico10. Nella società attuale, non si può dubitare che lo sia. Nello stesso tempo, non si può fare a meno di avere la sensazione che non si tratta di una merce ‘ordinaria’, e anche che non è soltanto una merce. Questi due aspetti dell’o­ pera d’arte possono essere illustrati dai seguenti commenti di un giornalista del «Time», di qualche anno fa: «L’arte contempora­ nea - scrive - è semplicemente diventata un valore monetario»11. Secondo questo giornalista, l’opera d’arte è diventata in modo quanto mai evidente una semplice merce. Tuttavia, nello stesso articolo, si inquieta a proposito delle opere d’arte acquistate dai Giapponesi e che lasciano gli Stati Uniti: «Ogni volta, l’impres­ sione è che siano sprofondate in un abisso». Qui l’opera d’arte non ha più niente a che vedere con una merce. Perché, per qual­ siasi altra merce, lo stesso giornalista si sarebbe al contrario ralle­ grato nel vedere aumentare le esportazioni americane verso il Giappone. La questione che si pone è: che cosa ‘produce’ (o crea) l’arti­ sta per suscitare un sentimento simile? Che cosa contiene questa ‘merce’ perché una tela come Les Iris venga donata dal suo autore al fratello, ma venduta un secolo più tardi per 54 milioni di dolla­ ri, pur senza avere per nulla aumentato la sua ‘utilità’, né la sua rarità? Di recente, in Giappone, il prezzo di un quadro si è più che decuplicato da un giorno all’altro dopo che gli esperti lo han­ no autenticato come l’opera di un grande pittore. A quale univer­ so può appartenere un prodotto del genere, un universo in cui, con tutta evidenza, c’è sopravvalutazione dell’artista a scapito del­ l’opera12? Duchamp ha spinto questa logica all’estremo definen­ do l’opera come ciò che l’artista decide che sia. Tale fenomeno sembra tipico della nostra società. In effetti, gli antropologi han­ no spesso osservato il contrario nelle società arcaiche, dove l’au­ tore dell’opera è il più delle volte sconosciuto, chi conta e chi at-

10 Non parliamo delle applicazioni, regolate dai brevetti. 11 «Time», 27 novembre 1989, p. 43.

12 Robillard, Vous êtes tous des créateurs ou le mythe de l’art, p. 98.

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tribuisce il valore delle opere sono i nomi di coloro che le possie­ dono13. (Non c’è forse qualcosa di simile in Duchamp, ma appli­ cato all’artista, dato che è quest’ultimo a conferire a un oggetto qualsiasi lo statuto di opera d’arte, cosa che pone la questione del modo in cui si acquisisce tale statuto?). Questo valore mitico della firma non ha equivalenti nella scienza. Si pensa male di una scoperta o un teorema - o anche di un’idea filosofica - che improvvisamente acquisti un valore del genere perché il suo autore è stato identificato. Il caso del grande teorema di Fermat lo illustra bene. Quando quel matematico, tre secoli fa, ha annotato a margine di un manoscritto che aveva sco­ perto la prova di tale teorema ma che non aveva abbastanza spa­ zio per presentarla, lo si è certamente preso sul serio a causa del­ la sua reputazione, ma per tre secoli non si è smesso di cercare la prova, senza mai considerarla come acquisita. Osservando più da vicino, si nota che questa ‘merce artistica’ e i suoi produttori hanno molte caratteristiche strane, caratteristi­ che che avvicinano il mondo dell’arte a quello della scienza.

Pencolo: cliente! L’artista, così come la società lo ha progressivamente costruito da quattro secoli, è qualcuno che si dedica interamente alla sua crea­ zione, al suo prodotto, senza preoccupazioni utilitaristiche - a dif­ ferenza dell’artigiano - e senza pensare alla clientela. Di qui quel­ la nozione di avanguardia per proteggere la sfera della creazione, che può essere definita come una sorta di ripiegamento sui pro­ duttori equivalente a quel che si è visto nel mondo scientifico, sebbene non venga riconosciuto allo stesso modo dalla società. L’artista ha la sensazione che il mercato uccida la creazione. Egli afferma il suo rifiuto di fare arte ‘commerciale’. E malvisto un ar­ tista che ingaggia una ditta di marketing per determinare quel che produrrà. Anche se non è ciò che accade in realtà, l’artista sogna di fabbricare un prodotto in modo assolutamente indipendente dal cliente.

13 Graeber, Toward An Anthropological Theory of Value. The False Coin of Our own Dreams, p. 185.

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Ecco un primo tratto che lo avvicina allo scienziato e lo distin­ gue dagli altri produttori di questa società, sottomessi ai moltepli­ ci intermediari collocati tra loro e agli utenti finali dei prodotti. Il rischio, evidentemente, è che nessuno compri perché non accede al riconoscimento del pubblico. L’artista che riesce è quello che si fa comprare, ma senza vendersi, cioè senza fare come la maggioran­ za dei produttori moderni14. Niente di più malvisto che pensare di comprare un’opera d’arte in funzione di un qualsiasi arreda­ mento, piuttosto che in funzione dell’opera stessa. Del resto, l’ar­ tista che accetta commissioni del genere rischia di vedere abbas­ sarsi rapidamente la sua quotazione sul mercato. All’inverso è l’artista infelice, che però non si prostituisce, quello che rifiuta di rispondere alle domande del cliente. Bisogna che ci siano artisti infelici e poveri per dimostrare che quelli che riescono non si sono venduti. In questo senso, l’opera d’arte è il risultato del rifiuto radicale di certi produttori di abbandonarsi ai venditori nell’atto di fabbricazione. La nozione di avanguardia ne fu l’illustrazione più estrema, e anche la perversione. Per l’avan­ guardia contava solo l’approvazione della comunità dei produtto­ ri, cioè quella degli altri artisti. Avere successo, per l’avanguardia, era una prova del fallimento. Il che non è privo di analogia con il fenomeno del ricercatore considerato troppo popolare e perciò malvisto dai suoi colleghi. In tutti i produttori moderni è sempre grande la tentazione di ricostruire la comunità perduta e di ripie­ garsi su quella. Soltanto la comunità scientifica si è vista accorda­ re questo privilegio.

Il modo di produzione

Una seconda caratteristica del lavoro dell’artista lo avvicina al ri­ cercatore: l’importanza attribuita al processo stesso di produzione, e soprattutto al legame tra il prodotto e il produttore. Si tratta qui di un contrasto radicale con il modo moderno di parlare della produzione in cui si insiste sul fatto che il sistema produce ‘com­ pletamente da solo’, cioè indipendentemente dal produttore, grazie all’autonomia della macchina e, con la robotica, anche del­ l’intero sistema di macchine integrate. 14 II che non impedisce che altri possano venderlo, organizzare delle campagne di promozione, ecc. perché ci ‘credono’.

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Questo spiega perché, se l’artista è malvisto quando ‘vende’ il suo prodotto, lo si incoraggia nondimeno a parlare del modo con cui ha prodotto. L’artista produce in una specie di stato di grazia, di esaltazione che affascina l’amatore - nome dato al cliente, ci torneremo -, e che sta all’opposto della produzione moderna. Difficilmente vanterà la bellezza della sua tela, ma facilmente de­ scriverà quello che ha provato quando l’ha realizzata, il problema che si è posto e la soluzione che ha trovato. Questa caratteristica è così importante che si trasmette agli altri che intervengono nel si­ stema, al mercante d’arte e persino al cliente, che attribuiranno molta importanza al modo con cui il prodotto è stato realizzato e agli stati d’animo di colui che lo ha prodotto. Nell’ambiente arti­ stico, è abituale leggere e ascoltare frasi come «il modo in cui si arriva a un’opera è spesso più interessante dell’opera stessa». Esse manifestano questa importanza assegnata al modo di produzione, importanza che non è ammessa nel moderno sistema di produ­ zione. Con una eccezione: quella del mondo scientifico dove, per l’appunto, il modo di arrivare a un risultato - cosa che viene chia­ mata ‘metodologia’ - è essenziale. Questa esigenza della creazio­ ne scientifica è una specie di norma implicita nella creazione arti­ stica, ma inesistente altrove. L’amatore d’arte

Questo discorso conduce a una terza caratteristica, conseguenza delle altre due. Nella società moderna, il produttore e il consu­ matore costituiscono due mondi in tutto e per tutto separati e contrapposti. Il luogo del loro incontro è il mercato. Nel sistema artistico, al contrario, il cliente condivide i valori del produttore. Gli piace pensare che procurandosi un’opera (qui non si tratta nemmeno più di ‘prodotto’) partecipa in un modo qualsiasi alla comunità degli artisti. Amando l’arte e incoraggiando gli artisti, si sente anche lui un po’ artista. Il cliente non può modificare il pro­ dotto15, perché deve rispettare l’opera (e il suo autore), cioè non deve per l’appunto trattarlo come un prodotto. E questo non vale

15 In senso stretto, questo si applica tutt’al più solo alle arti plastiche, perché una gal­ leria può commissionare dei quadri di un dato formato. Ma non chiederà mai di met­ tere «un blu un po’ più scuro»... E un cliente non oserebbe mai prendere un pen­ nello per aggiungere un po’ di blu a una tela di cui pure è proprietario.

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solo per il cliente, ma anche per tutti gli intermediari: anche se con le opere fanno soldi, essi devono condividere questo sistema di valori, devono ‘credere’ agli artisti che loro espongono, difen­ derli (come loro ‘pupilli’). Forse è per questa ragione che il clien­ te del prodotto artistico viene designato con il termine di ‘amato­ re d’arte’, ossia colui che ‘ama’ l’arte. E interessante notare che nella società attuale è l’unico campo (insieme all’amatore di vi­ ni...) in cui l’espressione ‘amatore’ non si applica a un produtto­ re (in contrapposizione al professionista, per designare una pro­ duzione di qualità inferiore a quella professionale - «È solo un di­ lettante!»). In campo artistico, il termine designa al contrario un cliente, come se, in questo modo, venisse assimilato ai produttori, rifiutando la rottura altrove presente tra produttori e consumato­ ri, tipica della modernità. Un ’esperienza di dono

Nonostante tutte le differenze tra la creazione in campo scientifi­ co e quella in campo artistico, esiste dunque una somigliaza es­ senziale: anche se in modo diverso, entrambe sfuggono in parte al rapporto ordinario produttore-consumatore gestito dal mercato e tipico della nostra società. In mancanza di una comunità di pro­ duttori simile alla comunità scientifica, l’artista tenta costantemente di creare un rapporto comunitario dello stesso tipo tra lui e il cliente, che diventa l’‘amatore d’arte’. In questo modo si au­ gura di sfuggire alle leggi del mercato e alla rottura moderna tra il produttore e l’utente. E come se per creare occorrese sottrarsi al mercato. Perché questa negazione del fossato tra chi produce e chi con­ suma, questo rifiuto di sottomettersi al giudizio sovrano del con­ sumatore? Perché questo bisogno di ricostituire una specie di co­ munità, un rapporto comunitario, reale o fittizio, come se gli arti­ sti non appartenessero completamente a questa società, come se dipendessero in parte da un altro sistema? Mi piacerebbe suggeri­ re la seguente risposta: perché la creazione appartiene all’univer­ so del dono, e il sistema di produzione commerciale ha bisogno di controllare il produttore e negare il dono. Perché? Perché il dono è incontrollabile, persino per il suo autore: in un certo mo­ do gli sfugge. Il donatore vive una duplice esperienza: è un’espe­

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rienza molto personale, ma nello stesso tempo ha la sensazione che la cosa si metta in moto, senza sapere da dove venga. Certa­ mente ha lavorato molto, ma succede qualcosa, fuori dal suo con­ trollo. Egli entra in un certo stato, in un altro stato: è l’estasi, let­ teralmente. Lo sportivo vive un’esperienza simile. Si abbandona, si lascia andare, e tutto accade improvvisamente, da solo. La cosa viene da altrove, pur essendo profondamente sua. L’artista è colui che possiede un dono, e l’atto artistico è l’atto di ricevere, di tra­ smettere questo dono al produttore, poi al cliente-amatore. In effetti, mi pare che tutti questi tratti dell’artista che abbia­ mo appena descritto acquisiscano senso in rapporto all’esperien­ za della creazione, la cui evidenza si impone tanto nel momento della produzione quanto nei legami con il cliente. Il prodotto, l’o­ pera d’arte, è considerato il risultato dell’ispirazione. In certi mo­ menti, l’artista produce in un specie di stato di esaltazione che non deve essere disturbato. E in questo stato che l’opera prende forma e che idealmente non deve essere influenzata, se non da lui. In realtà, l’opera d’arte non è un prodotto. Non si colloca nel moderno sistema di produzione. L’artista riceve qualcosa che tra­ smette. Emozione estetica, bellezza, illuminazione, qualunque sia il nome dato a questo supplemento, è qualcosa di essenziale; e senza questa convinzione l’opera non sarebbe altro che un pro­ dotto, e l’artista avrebbe da lungo tempo raggiunto il rango dei produttori moderni svalutati, la cui attività è ‘ridotta in frantumi’ dalla divisione del lavoro. Questa emozione che circola tra lui e il cliente spiega tutte le caratteristiche prima descritte. E ciò che fa del mondo artistico una comunità composta di amatori che condividono una medesi­ ma convinzione: il rispetto dell’opera. Questo supplemento non ha un equivalente monetario. Nella trasmissione dell’arte, il dena­ ro è sempre un veicolo insufficiente. Ogni artista di scena si aspet­ ta di ricevere, oltre al suo prezzo o al suo cachet, riconoscenza, gra­ titudine, come per un dono, appunto. E ciò che esprimono gli ap­ plausi dopo un concerto, segno che la comunione artista-meloma­ ne c’era effettivamente e che l’emozione è stata davvero trasmes­ sa, cosa che nessun cachet, per quanto elevato, potrebbe fare da sé. L’artista ha ‘dato qualcosa di sé’ nella sua opera e si aspetta che il destinatario faccia lo stesso. Ogni dono è dono di sé. Non è più un produttore, è un autore. Un creatore. Non si accontenta del mi­ glior prezzo possibile, ottenuto ‘a qualunque costo’.

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Tutto ciò si trasmette al processo stesso di produzione: i gesti ripetuti dell’operaio sulla catena di montaggio lo escludono dal prodotto; al contrario, i brani continuamente ripetuti del pianista gli permettono di penetrare nell’opera. Gli uni escludono, gli al­ tri includono. Gli uni rinchiudono nel peso dei gesti, gli altri libe­ rano, facendo accedere ad altro. Un celebre episodio dei Tempi moderni di Charlie Chaplin illustra in maniera straordinaria que­ sta differenza: è quello in cui la ripetizione dei gesti e l’aumento del ritmo sulla catena di montaggio finiscono per far ‘perdere lo spirito’ al personaggio, il quale, diventato pazzo, si mette a tra­ sformare questi gesti ripetitivi in una danza; fa arte per liberarsi, ‘offrendosi’ come spettacolo. Crea. E si fa arrestare e imprigiona­ re... Questo episodio mostra chiaramente perché l’artista abbia così tanto bisogno di proteggersi quando entra in contatto con i suoi clienti attraverso Fintermediario del mercato. Il fatto è che con l’industrializzazione si è fatto di tutto per svalutare colui che produce. Per molto tempo, in modo esplicito e intenzionale, la competenza dei produttori è stata ridotta e trasferita a un inter­ mediario che controlla il prodotto. Il sistema di produzione indu­ striale tende a declassare ogni produttore che si lascia influenzare dal suo cliente. L’artista è colui che resiste a questa evoluzione16. Siccome il sistema di produzione reale distrugge il produttore, l’artista non vi si può iscrivere. Non può sottomettersi al cliente senza tradire la convinzione in cui crede, che è la condizione stes­ sa della sua produzione. La società moderna ha trasformato la ca­ tena che andava dall’artista all’opera e poi all’utente in una cate­ na che va dal produttore al prodotto e poi al consumatore. All’ar­ tista non resta che rintanarsi in una terza catena: dall’artista all’o­ pera e poi all’amatore. Di qui i rapporti complessi e ambigui tra gli artigiani e gli artisti nella società attuale. Ecco perché è essenziale che la maggioranza degli artisti viva miseramente - o per niente - della propria arte. In Francia, nel 1999, i tre quarti degli artisti plastici dichiarano dei redditi infe­ riori a 15.000 euro l’anno17. L’artista povero è una specie di mar­

16 Vi resiste soprattutto in modo individuale, mentre gli altri produttori si sono difesi collettivamente, attraverso corporazioni professionali, sindacati, ecc. Ma questi ultimi non sono riusciti a resistere alla distruzione del senso del lavoro. 17 «Le Monde», 19 settembre 2003.

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tire del sistema di produzione moderno. Per vivere della propria arte, bisogna farlo in modo molto ‘ricco’. In realtà, non devono esistere legami tra il valore commerciale dell’opera e la quantità di lavoro compiuto dall’artista. Il numero di artisti che vive della propria produzione con un reddito medio deve restare un’ecce­ zione, sotto pena, per l’artista, di ‘perdere la sua anima’. Egli rie­ sce a fare quello che tutte le società si augurano di realizzare ri­ spetto al sogno della modernità: approfittarne senza perdere la propria anima. A quale prezzo? Quello della povertà per la mag­ gioranza di loro, della grande ricchezza per un’infima minoran­ za. Cioè a condizione che non ci sia nessun legame tra il prezzo dell’opera e il lavoro prodotto. Riusciamo forse a capire finalmente lo strano statuto dell’arti­ sta e dello scienziato in questa società: loro non appartengono a questa società. Il cerchio è chiuso. Dipendono dal sistema del do­ no. Nella società moderna, soltanto alcuni esseri ritenuti eccezio­ nali - quelli di cui si dice (spesso post mortem) che hanno il dono, o il genio - hanno accesso a quel diritto di dare un senso al gesto di produrre. Perché devono restare l’eccezione? Semplicemente perché il sistema di produzione, essendo stato costruito sulla ne­ gazione del dono, sulla rottura tra il produttore e il consumatore e la sottomissione del primo, sprofonderebbe. L’artista è contem­ poraneamente l’eroe e il martire del sistema di produzione mo­ derno, colui che paga molto cara la sua resistenza alla modernità, la sua appartenenza al sistema del dono proprio all'interno della sua produzione e la sua fede nel fatto che le cose e i prodotti han­ no un’anima, che non si può fare quel che si vuole con gli ogget­ ti, come tagliarli in pezzi, che bisogna rispettarli, qualunque sia il senso dato a questa parola. Il rispetto delle cose

L’artista resiste al mercato per le stesse ragioni di tutte le società che entrano in contatto con il mondo moderno. Ricordiamo la reazione del sindaco di una comunità inuit cui veniva proposta la commercializzazione della carne di caribou: «Sapete, abbiamo una lunga storia con i caribou, possiamo far loro questo?» (cfr. cap. 2). Per far entrare il caribou in un circuito commerciale, spazializzato, bisogna innanzitutto privarlo della sua rete temporale,

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della storia della sua relazione con gli Inuit; bisogna trasformarlo in oggetto, farlo a pezzi e venderlo, esattamente come è stato fat­ to per l’atto di produzione moderno. Trasformare un essere in oggetto significa semplicemente portargli via il suo passato. Il mercato ha bisogno di fare a pezzi le culture locali per farle circolare nel mondo globale; ha bisogno di rimpiazzare il tempo con lo spazio. Questa necessità moderna di trasformare tutto in oggetto fa risaltare la specificità dell’artista: come il sindaco del villaggio inuit, egli pensa che non si possa fare quel che si vuole con gli esseri che ci circondano, che bisogna rispettarli. Perché? Come gli Inuit, è portato a credere che le cose hanno un’anima. L’artista testimonia forse il fatto che l’animismo è l’unica filosofia che rispetta le cose e l’ambiente, una filosofia appropriata allo spirito del dono che circola nelle cose, che la modernità ha elimi­ nato. L’opera d’arte è un dono perché il dono, come ricorda Claude Lefort18, è ciò che ci conferma gli uni gli altri che non sia­ mo delle cose. L’artista ricorda all’individuo moderno che, qua­ lunque cosa faccia, se vuole che le cose abbiano un senso, è con­ dannato a una forma qualsiasi di animismo. Per comprendere questo strano personaggio, è sufficiente ricollocarlo nelle società in cui è normale non separare le cose dal loro contesto e dal loro passato, dove è normale dare un senso agli oggetti che vengono fabbricati, quel senso che è superfluo e nocivo dal punto di vista della modernità, la quale ci chiede di distaccarci da tutto ciò che ci lega per essere sempre pronti, come le merci, a circolare dap­ pertutto. E sufficiente ricollocarlo nelle società dove gli esseri vengono rispettati, dove ci si chiede, come gli Inuit, se «possiamo far loro questo». E così lontano dalla nostra società? Eppure è la reazione del giornalista del «Time» che, vedendo un’opera d’arte lasciare il suo paese alla volta del Giappone, ha l’impressione che sia «sprofondata in un abisso»! Egli si chiede, in fondo, se abbia­ mo il diritto di «far loro questo». Nonostante la globalizzazione commerciale, la società crede ancora nel mito dell’arte. E persino - che paradosso! - una condizione del successo del mercato del­ l’arte, il cui valore commerciale sprofonderà il giorno in cui il mondo dell’arte smetterà di crederci. In questa società, alcuni autori resistono dunque alla mercifi­ 18 Lefort, L’échange et la lutte des hommes.

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cazione di certi doni, anche quando questi doni sono in parte as­ sunti dal sistema commerciale. Gli artisti e gli scienziati resistono alla loro trasformazione in produttori e mantengono il loro statu­ to di autori, di artisti, di ricercatori, in breve di creatori liberi in rapporto ai loro clienti, ai consumatori, ai finanziatori. Qui la lo­ gica del dono non è soltanto presente, ma dominante. Ricordia­ mo di che logica si tratta. La logica del dono Contrariamente alla logica commerciale in cui il cliente è sovrano, il creatore è sottomesso - o piuttosto si sottomette - a un’altra for­ za che lo supera. E un’obbligazione, senza dubbio, ma un’obbligazione interiore, un’obbligazione che libera, che non solo non sem­ bra provenire dalla società, ma sembra spesso opporvisi. E la ra­ gione per cui tutte le società - ma in special modo i regimi totali­ tari - considerano l’arte e la scienza come potenzialmente sovver­ sive e cercano di controllare tanto gli artisti quanto gli scienziati. Ma, nonostante tutti gli inconvenienti, tutti i rischi, tutte le criti­ che, le vessazioni, le emarginazioni, le condanne, l’artista e lo scienziato continuano. Proseguono la loro ricerca, trasportati da una singolare ossessione, da una misteriosa obbligazione.

Nella scienza In campo scientifico, Galileo ne è il classico esempio. Ma, come ha magnificamente mostrato Koestler in I sonnanbuli19, l’ostina­ zione di Keplero, nella stessa epoca, è ancora più affascinante. Ke­ plero è uscito dall’‘ossessione del cerchio’20 che dominava il pen­ siero fin dai Greci. O, più precisamente, ha osato. Perché l’idea che la terra giri intorno al sole non era nuova; ma che non descri­ va un cerchio perfetto, quanto piuttosto un’ellisse, ecco qualcosa che era rigorosamente impensabile, che nessuno aveva osato pen­ sare, nemmeno Galileo, benché i risultati dei suoi calcoli avessero condotto a una tale conclusione. A dispetto di tutti, Keplero ha 19 A. Koestler, I sonnambuli. Storia delle concezioni deliuniverso, tr. it. di Μ. Giacometti, Jaca Book, Milano 1982. 20 Ibidem.

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osato pensare l’ellisse. A dispetto di tutti, Darwin ha osato pensa­ re Involuzione. A dispetto di tutti, Freud ha osato pensare la ses­ sualità infantile. A dispetto di tutti, Spinoza ha osato scrivere che Dio era la Natura. Keplero, Darwin, Freud, Spinoza: in tutti ritro­ viamo la medesima ostinazione che precede la celebrità quando accade prima della morte. Non ci vuole soltanto immaginazione, ma più ancora, forse, coraggio. I grandi creatori sono anche degli eroi, che osano fare certe ipotesi che cambiano la faccia del mon­ do, che conducono a trasformare il paradigma dominante. Nell’arte

Questa obbligazione è presente anche nell’artista. Quanti artisti muoiono poveri e sconosciuti! Proseguono la loro strada, nono­ stante tutto, a dispetto di tutti, e non riescono a fare qualcos’altro, qualcosa che potrebbe piacere ai loro contemporanei. Non rie­ scono a rispondere alla domanda, anche se spesso potrebbero far­ lo senza nessuna difficoltà. Piuttosto, obbediscono a questa «ne­ cessità interiore»21. E quale artista si è mai rifiutato di riconoscere l’importanza dell’ispirazione? Quale artista non ha detto che essa veniva da altrove? L’ispirazione conduce a opere in cui l’artista non è altro che uno strumento del dono che ha ricevuto22. Che sia l’artista, il ricercatore (o anche lo sportivo), il momen­ to della creazione è lo stesso. Vivono tutti la stessa esperienza, con la stessa intensità. Conoscono tutti quella sensazione di sentirsi superati da quel che accade loro. Il musicista e il ballerino ripeto­ no finché non hanno più l’impressione di ripetere, ma di essere abitati, di essere diventati uno strumento al servizio di qualcos’al­ tro, di creare. Essere superati da quel che accade attraverso di noi: è così che abbiamo definito l’esperienza del dono. La crea­ zione non è un’esperienza individualista, bensì un’esperienza co­ munitaria. Dire che questo viene da altrove significa riconoscere un debito, significa situarsi in un sistema di debito. L’esperienza della creazione è un dono perché non è narcisistica. Il creatore è sempre qualcuno che trasmette. Soltanto il produttore moderno si immagina, paradossalmente, di essere l’unico autore, di essere all’origine di tutto. Il vero creatore sfugge al proprio gesto; non 21 Kandinsky, Lo spirituale nell'arte, p. 96. 22 Ibi, p. 97.

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può dunque essere controllato e i suoi gesti possono ancora me­ no venire ‘ridotti in briciole’. Motivo per cui tende sempre a ricostituire una comunità. Lo scienziato riesce a legittimare la sua comunità di produttori indi­ pendentemente dal pubblico. L’artista deve invece passare attra­ verso il sistema commerciale: la galleria, il diritto d’autore, il pub­ blico. Ma nulla vale di più, per uno scrittore, della lettera di un lettore che dimostra di avere perfettamente compreso la sua ope­ ra. Una testimonianza del genere non ha prezzo, anche se, poi, bisogna pur vivere. Non ha prezzo perché il dono è stato ricevuto senza essere deformato e, siccome ogni dono è un dono di sé, è l’identità del donatore ad essere di nuovo presa in considerazione quando un dono non viene rispettato. Ecco perché, come scrive Suzanne Jacob, «un dono che non riesce ad essere scambiato sen­ za accettare di venire sfigurato risulta tossico per il donatore»23. Coraggio, ossessione, dovere di seguire il proprio destino. In campo scientifico, Keplero è uscito dal cerchio; in campo artisti­ co, Picasso è uscito dalle forme stabilite. In entrambi i casi, il crea­ tore deve imporsi al pubblico. Ma nella scienza il giudizio dei pa­ ri è sufficiente affinché lo scienziato sia consacrato presso il pub­ blico. Questa è la differenza, ed è ciò cui l’avanguardia in campo artistico aspira, ciò che le piacerebbe imporre: come nelle scien­ ze, fare a meno del pubblico o, che è lo stesso, far sì che il pubbli­ co sia costituito dai pari, i conoscitori, e non da quello che abi­ tualmente chiamiamo il ‘pubblico’, ovvero un’entità esterna al processo creativo, composta da un insieme di attori (critici, galle­ ria, editori, amatori) e che è giudice del risultato. La creazione scientifica ha visto riconosciuto questo diritto ad essere valutata unicamente dai pari come condizione sufficiente per essere rico­ nosciuta dal pubblico. I ricercatori se la cavano meglio degli arti­ sti24. Perché, anche se la scienza, contrariamente all’arte, mate­ rialmente non produce nulla, in compenso è sempre più un pre­ supposto di tutto quello che viene prodotto. Indirettamente, vie­ ne ritenuta responsabile, grazie alle sue scoperte, dello sviluppo tecnologico, cioè dell’infinita quantità di prodotti che invadono

23 S. JACOB, L’écriture souveraine (testo presentato al Congresso di orientamento dell’Unione delle scrittrici e degli scrittori del Québec, Maison des écrivains, 2002). 24 Anche se certamente alcuni artisti sono altrettanto sostenuti e protetti dallo Stato.

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le nostre vite e che appunto fanno sì che non viviamo più in un mondo di dono - dove le cose appaiono - ma in un mondo di prodotti, dove le cose sono fabbricate da noi. Le sementi sterili di Monsanto sono il prodotto della scienza. Da questa angolatura, arte e scienza creano due mondi radi­ calmente contrapposti. Anche se il processo di creazione è simile, le loro conseguenze sulla società sono completamente diverse. Ma questa diversità fondamentale non sta nel momento della creazione, la quale si trova a monte delle conseguenze sulla so­ cietà; sta piuttosto nell’applicazione. Essa non è priva però di in­ fluenza sul processo di creazione. Perché, per la scienza, l’aver fat­ to riconoscere25 dalla società questa differenza tra il momento della creazione e il momento dell’applicazione - e di averle fatto accettare che le applicazioni siano il frutto della libertà di ricerca e che la società deve sempre lasciare liberi i ricercatori (cosa che non è per nulla evidente: le scoperte scientifiche prive di applica­ zione sono molte) - è ciò che dà al ricercatore uno statuto diffe­ rente da quello dell’artista. Gli scienziati sono riusciti a far am­ mettere l’idea che, sebbene perseguano degli scopi inutili, posso­ no eventualmente essere utili. Mentre è molto più difficile am­ mettere che, come scriveva Oscar Wilde, l’arte è inutile, e dunque essenziale. Eppure, come si è visto nella prima parte, è da molto tempo che l’economia non è più fondata sull’utile. E da molto che il mercato risponde a dei desideri, e contribuisce a crearli, in­ vece di accontentarsi di rispondere a dei bisogni. Forse è per questa ragione che la storia del XX secolo ha per­ messo di constatare che, nonostante tutti i suoi difetti, il sistema commerciale è preferibile a un sistema di gestione interamente statale. Rispetto a quest’ultimo, il capitalismo possiede una delle dimensioni importanti del dono: l’inatteso, il gratuito (nel senso di non-funzionale); è abitato da una certa follia. Per di più, que­ sto aspetto si oppone totalmente alla sua dimensione contabile e alle sue equivalenze quantitative. Il sistema capitalista è compo­ sto, a un’estremità, di imprenditori un po’ folli, fantasiosi, amanti del rischio, un po’ artisti, che sognano di soddisfare i fantasmi, le passioni e le follie di consumatori, che si collocano all’altra estre­ mità; tra questi due estremi si pone un sistema di circolazione e di

25 Riconoscimento sempre da difendere, come indica il dibattito sui brevetti.

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LA FECONDITÀ E LA PERTINENZA DEL MODELLO DEL DONO

equivalenza quantitativa implacabile, freddo, preciso, che gestisce i loro rapporti, mercificando ogni creazione. Quando il creatore viene travolto da questo intermediario senza immaginazione, è soffocato, e perde rapidamente ogni capacità di creazione, per­ ché tale sistema non rispetta l’opera e dunque distrugge l’identità del creatore. Il che spiega perché l’artista tenga tanto al fatto che il prezzo delle sue opere non sia legato al tempo del lavoro, sfug­ gendo così alla designazione di prodotto ‘commerciale’. Come lo stregone: «Per quel che riguarda il pagamento di un esorcista, ho incontrato due possibilità: o si fa pagare molto caro, o è molto economico. In entrambi i casi, mi pare che il prezzo venga chiesto in opposizione agli scambi economici ordinari: l’esorcismo o non ha prezzo, oppure è carissimo»26. «Siamo tutti dei creatori»

In questo capitolo ho voluto esprimere l’idea che fondamental­ mente il processo di creazione è sempre lo stesso. Einstein e Pi­ casso: entrambi inseguono una visione e hanno l’audacia di anda­ re contro gli schemi dominanti. Entrambi cercano di comunicare la loro esperienza. L’esperienza creativa è un’esperienza di dono, e, come ogni dono, tende ad essere condivisa. Ognuno vuole con­ dividere questa esperienza, comunicarla, donare a sua volta. Ma questa esperienza di dono difficilmente è accettabile dal sistema di produzione moderno, che tende a negare ogni dimensione creativa nel produttore. Ognuno si difende a modo suo, il che fa sì che queste esperienze non incontrino le stesse condizioni di le­ gittimazione e di riconoscimento sociale. L’esperienza di creazione scientifica è legittimata dai pari, mentre l’esperienza artistica è legittimata in parte dai clienti, an­ che se gli artisti sognano e aspirano allo stesso tipo di legittima­ zione, cosa che specialmente la nozione di avanguardia rivela. Ma è poi così diverso oggi in campo scientifico, con la sovraspecializzazione, con le «dodici persone che sono le uniche al mondo a ca­ pire il mio articolo...» e che si riuniscono annualmente nei con-

26J. Favret-Saada, Les Mots, les Morts, les Sorts. La sorcellerie dans le Bocage, Gallimard, Pa­ ris 1977, p. 255 (nota).

II. DONO, L’ARTE E LA SCIENZA

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gressi scientifici? La differenza è che questo tipo di riconoscimen­ to è socialmente accettato nel caso della scienza, mentre l’artista deve battersi continuamente. Di qui una certa ambiguità sociale circa i criteri di legittimazione dell’esperienza creativa in campo artistico e la tendenza a riferirsi a criteri sviluppati e riconosciuti socialmente per la scienza. Nell’arte, c’è confusione tra l’amatore competente e il pubblico, mentre nella scienza la distinzione tra lo scienziato e il divulgatore è molto più chiara. Il ricercatore si è guadagnato il diritto di sottrarsi al rapporto produttore-utente sottomettendosi alla ‘verità’ così come viene definita dai suoi pari. L’artista ha proceduto diversamente: ha tra­ sformato il rapporto produttore-utente in una comunità di ‘ama­ tori d’arte’. Non potendo sottrarsi al rapporto con la clientela, l’artista sublima tale rapporto facendo in modo che il cliente e tutti gli altri agenti del sistema di produzione artistica siano in co­ munione con la sua esperienza creativa, che del resto è sempre più l’unico obiettivo dell’arte attuale, priva di opera propriamen­ te detta, ma fatta di installazioni, di performance che mirano es­ senzialmente a un’esperienza interattiva in cui ‘lo spettatore fini­ sce l’opera’. Il proprietario di gallerie si dichiara al servizio del­ l’artista, mentre l’imprenditore proclama che lui è al servizio de­ gli azionisti. L’artista sogna uno statuto equivalente a quello del ricercatore. Questa comunità artistica è ristretta, spesso elitaria, con la tenden­ za a chiudersi in se stessa, rifiutando ogni giudizio esterno, come dimostra la nozione di avanguardia. Abbiamo mostrato perché in parte ha ragione nel contesto di questa società moderna. Ma è au­ spicabile riservare la capacità di creare a un piccolo gruppo? Per­ ché - ci chiedevamo prima - devono rimanere l’eccezione? Nella misura in cui non fosse più necessario istupidire il lavoratore, pri­ vandolo del senso del suo lavoro, la società potrebbe liberare le proprie energie creative invece di soffocarle. «Siamo tutti dei crea­ tori»: tale potrebbe essere il motto di questa nuova società. Per Robillard27 e altri autori, la concezione dell’arte apparsa nel Rina­ scimento è destinata a scomparire contemporaneamente alla so­ cietà moderna. Per essere rimpiazzata da che cosa? La scomparsa dell’esperienza artistica, la scomparsa del dono in una società 27 Robillard, Vous êtes tous des créateurs ou le mythe de l’art.

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ΙΑ FECONDITÀ E LA PERTINENZA DEL MODELLO DEL DONO

post-umana28, ο al contrario la sua generalizzazione? L’arte, non avendo più un’esistenza specifica, diventerebbe un’attività diffusa in tutta la società - «allo stato gassoso», direbbe Michaud29. E la stessa cosa che credono alcuni artisti, quelli che regolarmente proclamano la morte dell’arte. Bisognerebbe discutere qui di tut­ to il movimento della pop art. Andy Wahrol non affermava che una transazione finanziaria riuscita è un’opera d’arte? La morte dell’arte affinché tutti noi diventiamo degli artisti, cioè dei creato­ ri; affinché la società consenta a ciascuno dei suoi membri di ma­ nifestare la propria capacità di creare, simbolizzata nel mondo dell’arte dal pezzo unico, ‘gratuito’, non funzionale, non utile? Il momento della creazione

L’analisi del processo creativo e delle condizioni della sua conva­ lida e del suo riconoscimento rivela l’importanza del dono in que­ sta esperienza. E possibile che le condizioni sociali oppure il pro­ cesso sociale che legittima la creazione si modifichino. Ma in fin dei conti, ci si può chiedere se la creazione sia un processo. Forse designa piuttosto quel momento in cui il processo si interrompe e fa posto al dono, all’apparizione e alla scoperta di qualcosa di inatteso, alla visione di una forma, di un’idea, di una relazione: la doppia elica, la quarta dimensione... Questa visione interrompe il lungo processo di ricerca, il lavoro paziente, ossessivo, coraggio­ so del creatore, al quale ritornerà perché molto spesso tale visio­ ne è sfumata, imprecisa e, in un primo tempo, gioca soprattutto un ruolo di motivazione nuova a riprendere e proseguire questo laborioso processo fino alla prossima apparizione. Parlare della creazione significa tentare di circoscrivere questo momento, qua­ lunque sia il suo campo di attività. Dico ‘circoscrivere’, dato che è difficile spingersi più in là e afferrarlo. Tale momento sfugge al processo di ricerca. Come dice il regista italiano Castellucci: «Se si trova una cosa lì dove si pensa di trovarla, è una falsa scoperta. Se si cerca, non si trova niente. Ma si deve cercare»30. 28 Fukuyama, La fine della storia e l’ultimo uomo. 29 Michaud, L’Art à l’état gazeux. Essai sur le triomphe de l’esthétique. 30 «Le Monde», 21-22- settembre 2003.

CONCLUSIONE

Il dono come utopia

Si tratta di una concezione romantica dell’arte e della scienza? Un’utopia? In un certo senso, siamo tutti sicuramente dei creato­ ri. E, come scrive Goux, l’imprenditore è un artista1. Tuttavia, se la creazione è un’esperienza di dono e se, come abbiamo suggerito nella conclusione della seconda parte, il dono rivela il momento fondatore del rapporto dell’attore sociale con la regola, con la leg­ ge, con l’istituzione, allora questa idea è in parte un’utopia. Per­ ché non è possibile che tutti siano allo stesso livello. Soltanto alcu­ ni membri di una società, per carattere, per contesto sociale e sto­ rico, si situano al centro di questo incessante movimento di crea­ zione di regole e di trasgressione delle regole. Di questo ribolli­ mento istituzionale. L’esperienza di dono è ciò che fa sì che le isti­ tuzioni restino viventi. L’esperienza creativa sostituisce la transe e tutte quelle esperienze estatiche di comunicazione con un altro mondo che esistono in tutte le società. Anche se tutti hanno biso­ gno di partecipare a questo movimento, non tutti lo fanno allo stesso modo e con la stessa intensità. La società ha anche bisogno di istituzioni nel senso classico del termine. Di stabilità, di ordine e di individui che ne siano responsabili. Abbiamo suggerito che i grandi creatori sono degli eroi, e, come tutti gli eroi, vivono delle esperienze fuori del comune e ritornano per comunicarcele2.

1 Cfr. cap. 14 (Goux, Frivolité de la valeur. Essai sur l’imaginaire du capitalisme, p. 307).

2 Campbell, The Power of Myth, p. 41.

CONCLUSIONE GENERALE

L’invito al dono

Soprattutto diffidiamo, signori, dei nostri primi gesti, dice­ va un diplomatico ai suoi pari, sono quasi sempre dei bei gesti1.

Fenomeno sociale il cui studio è stato praticamente lasciato agli etnologi per buona parte del XX secolo, il dono è oggi un im­ portante cantiere di ricerca e di riflessione. Dono del sangue, do­ nazione di organi, dono agli sconosciuti, dono nei legami fami­ liari, senza dubbio, ma anche presenza del dono in settori della società in cui il principio del dono non è considerato a priori co­ me importante. Nel corso di queste pagine abbiamo menzionato i lavori di ricercatori sempre più numerosi che utilizzano il mo­ dello del dono per comprendere certi fenomeni sociali2. Nella parte precedente abbiamo tentato di mostrare la sua importanza nel mondo degli affari, così come nel mondo dell’arte e della scienza. L’importanza del dono sembra adesso evidente. Esso co­ stituisce uno dei princìpi essenziali per comprendere la società contemporanea.

Uscire dal modello standard

Noi non pretendiamo tuttavia né di aver raggiunto una teoria uni­ ficata né di volerlo fare, contrariamente a ciò che propone il mo­ dello standard. Senza dubbio, sotto l’influenza delle grandi ideo­ logie che si sono contrapposte nel XX secolo - comuniSmo e libe-

1 Nietzsche, Frammenti postumi. 2 Rimando qui il lettore interessato a «La Revue du MAUSS» che regolarmente ag­ giorna lo stato dei lavori sul dono.

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CONCLUSIONE GENERALE

ralismo -, la riflessione sui legami sociali elaborata dai fondatori delle scienze umane ha finito per trasformarsi in una sterile op­ posizione tra individuo libero e società costrittiva. Tale evoluzione ha portato a\V impasse teorica costituita dall’opposizione indivi­ dualismo-olismo3: nella sua forma estrema, questa opposizione fi­ nisce per designare l’individuo senza la società o la società senza l’individuo. Da qualche anno, il dominio di una delle branche di questa opposizione ci ha fatto assistere, nel campo delle scienze sociali, a quello che potremmo chiamare un tentativo di teoria unificata della società e dei legami sociali. Questa teoria della scelta razio­ nale è stata presentata nella prima parte. Mentre il pensiero clas­ sico si basava su una tipologia binaria, tale approccio difende l’i­ dea che un solo tipo di legame sarebbe veramente pertinente, quello fondato sulla razionalità strumentale. Il resto viene relega­ to al rango degli istinti, dei riflessi, o addirittura dei comporta­ menti non umani. Modello unico, dunque, che tuttavia non eli­ mina le radici dell’opposizione tra individualismo e olismo. In realtà, questo modello standard non fa che rafforzare la sterilità dell’opposizione, riducendo l’olismo a una visione dell’individuo determinato in tutto e per tutto dalla società. Questo approccio è ancora presente nelle scienze sociali, spe­ cialmente con la nozione di capitale sociale, ovvero una concezio­ ne del legame sociale come capitale. Il fatto di designare l’inten­ sità del legame sociale con il termine di ‘capitale’ significa che es­ so è ancora una volta considerato come uno strumento (un mez­ zo), di cui ci si domanda che cosa ‘produce’. Ora, un legame so­ ciale di qualità non è per l’appunto uno strumento. E voluto per se stesso. Ed è precisamente quando è voluto per se stesso che è più fecondo, più suscettibile di generare altro. E il grande para­ dosso del legame sociale, che la nozione di capitale sociale non consente di afferrare, dato che trasforma una dinamica circolare in un rapporto lineare. La dinamica del legame sociale tende così a sfuggire continuamente ai modelli fondati sulla razionalità stru­ mentale, motivo per cui questo tentativo di unificazione, basato sul modello preso in prestito dalle scienze economiche, ci sembra sempre più mostrare oggi i suoi limiti. Il legame sociale si nutre di 3 Caillé, L’Anthropologie du don.

l’invito ai. dono

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suspense, di sorpresa e spontaneità, di supplemento che giunge in modo imprevisto, di ingredienti di cui la teoria unificata non può rendere conto. In realtà, forse il legame sociale ha semplicemen­ te (spesso) orrore del rapporto fine-mezzo, e non si lascia afferra­ re da teorie formali incapaci di riconoscere la dualità produttoreutente tipica della modernità. Per pensare oggi l’individuo sociale, è necessario prendere le distanze da ogni modello unico. Ciò spiega come mai si assiste al fatto che la teoria unificata viene rimessa in discussione. La socioeconomia è stata una pioniera in questo campo. Altri approcci hanno ammorbidito le ipotesi forti della teoria unitaria della scel­ ta razionale. Citiamo le diverse varianti dell’individualismo meto­ dologico, e anche il concetto di ‘razionalità limitata’, punto di partenza di numerosi modelli teorici, tra cui quello dell’analisi strategica nella sociologia delle organizzazioni. Abbiamo esaminato questi approcci. Sono fecondi, compresi quelli fondati principalmente sull’interesse. Il movente dell’inte­ resse è fondamentale, così come la libertà di uscire dal legame. Una società moderna in cui fosse sempre necessario passare dal legame primario per accedere ai beni sarebbe invivibile. L’indivi­ duo moderno si è talmente abituato al fatto di accedere a un’infi­ nità di beni con un minimo di legami (il rapporto commerciale monetario e il rapporto burocratico e professionale) che difficil­ mente potrebbe sopportarlo. Questo tipo di individuo sociale è ora parte integrante della società. Occorre dunque sostenere l’importanza dei modelli di analisi fondati sul legame secondario, strumentale. Allo stesso modo, però, è importante contestualiz­ zarlo e prendere coscienza del suo carattere parziale e riduttivo. Il legame sociale è oggi al servizio della quantità infinita di beni che circolano. Ma non è altro che questo. Occorre uscire dalla strumentalità e tornare a una riflessione su ciò che abbiamo chiama­ to «il legame sociale voluto per se stesso». Così facendo, bisogna anche resistere alla tentazione di ripie­ garci sul legame puro. In altri termini, pur riconoscendo l’impor­ tanza di questo legame voluto per se stesso, occorre evitare di non vedere altro che il legame depurato di tutto ciò che circola, al ri­ paro dalla circolazione delle cose, abbandonata perciò al modello economico. E ciò che si è avuto la tendenza a fare in sociologia. Né il legame puro, né il legame puramente strumentale. Oc­ corre ripensare il rapporto tra il legame e ciò che circola. E, più

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CONCLUSIONE CENERAI.E

precisamente, bisogna raccogliere la sfida di pensare questo lega­ me voluto per se stesso, ma in rapporto a ciò che circola. In altri termini, non bisogna lasciare lo studio della circolazione delle co­ se agli economisti. Invece di prendere in prestito dall’economia il suo modello di circolazione delle cose per poi applicarlo ai lega­ mi sociali, come ha fatto la tendenza unitaria, perché non rove­ sciare la prospettiva e applicare le nostre riflessioni sul legame so­ ciale allo studio del senso della circolazione delle cose? Marcel Mauss è all’origine di questo approccio, che porta in modo naturale a riflettere su ciò che circola sotto la forma del do­ no. Il dono non è un tipo di legame. Ma è perfettamente eviden­ te che il dono è una forma di circolazione delle cose che ha a che fare con il legame. Studiare il dono oggi significa affermare che la disciplina economica non ha più il monopolio dello studio della circolazione delle cose e che, d’ora in avanti, le scienze sociali non si accontenteranno più di chiedere in prestito i suoi modelli per comprendere i legami sociali. Oseranno sviluppare altri mo­ delli, che possono venire applicati tanto a ciò che circola quanto ai legami, ai legami così come ai beni e ai rapporti tra i legami so­ ciali e ciò che circola. E la sfida che il Movimento anti-utilitarista nelle scienze sociali (MAUSS) tenta di raccogliere.

L’impensabile ‘homo donator’ Il modello del dono presentato in questo lavoro deriva da questo approccio. Mentre, in genere, nella società moderna vengono ri­ conosciute soltanto due forme principali di circolazione delle co­ se - il mercato e lo Stato, basati su due principi: l’equivalenza e l’uguaglianza (o la giustizia) e fondanti due figure di individuo sociale: Y homo oeconomicus e Γ homo aequalis-, nel quadro di un ap­ proccio di questo tipo emerge una figura nuova di individuo so­ ciale: quella dell’Aomo donator. Tale figura è impensabile non sol­ tanto nel modello standard, ma, più in generale, in tutti gli ap­ procci più o meno fondati sulla razionalità strumentale. Così co­ me, in rapporto al legame, il modello standard ci conduce all’mpasse del legame puro, cioè depurato di ciò che circola, allo stesso modo, a proposito del dono, tale modello non può concepire al­ tro che il dono puro, cioè senza contraccambio, unilaterale. Nella prima parte abbiamo visto il perché: per il modello standard,

l’invito ai. dono

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quando si vuole comprendere un comportamento, si cerca solo l’interesse, e si smette di cercare quando si è trovato che l’interes­ se era una spiegazione verosimile. Così facendo, si attribuisce uno statuto privilegiato alla spiegazione basata sull’interesse. Questa non obbedisce ai canoni della spiegazione scientifica, dal mo­ mento che confonde due fasi del ragionamento: in un primo tem­ po, stabilire la plausibilità dell’esistenza di un fenomeno e dimo­ strare poi la sua esistenza. L’interesse è l’unica spiegazione per cui è sufficiente che ciò che si trova sia plausibile affinché venga considerato come dimo­ strato. Per tutte le altre motivazioni, per tutti gli altri sensi dell’a­ zione, bisogna in più dimostrarlo empiricamente. E ancora: il ri­ cercatore sospetta sempre che ci sia un interesse nascosto e conti­ nuerà a cercarlo... finché non troverà qualcosa di plausibile, il che fa sì che la teoria dell’interesse, come scrive Terestchenko, «ha sempre in serbo una spiegazione plausibile»4. I limiti della benevolenza

L’homo strategicus va da sé; anche Y homo oeconomicus, certo. E Γ ho­ mo donatori I ricercatori osservano il comportamento di dono molto presto nei bambini: «Spesso il bambino piccolo stabilisce o ristabilisce il contatto con gli altri [...] con un comportamento di offerta»5. «E facile constatare in tutti i bambini piccoli che, quan­ do comincia il processo di differenziazione nella seconda metà del primo anno, iniziano anche [...] a donare. Un genitore entra nella stanza, loro gli porgono un oggetto che si trova lì vicino». L’autore conclude: «[Il dono] non sarebbe l’espressione della moralità più o meno elevata dei donatori, bensì della capacità psi­ cologica di sopportare la separazione e di trovare il piacere del le­ game nella differenziazione»6. Il dono esiste persino negli anima­ li allo stato brado7. Che cosa impedisce il riconoscimento di que4 Terestchenko, Égoisme ou altruisme?, p. 333. 5 H. Montagner, Il bambino e la comunicazione. Come gesti, atteggiamenti, vocalizzi diven­ tano messaggi, tr. it. di G. Pavan, Boria, Roma 1980, p. 65.

6 Dumont, Approche anti-utilitariste de la coopération en situation de travail, pp. 349-350. 7 J. Moussaieff Masson - S. McCarthy, Quando gli elefanti piangono. Sentimenti ed emozioni nella vita degli animali, tr. it. di L. Sosio, Baldini & Castoldi, Milano 1996; F. De

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CONCLUSIONE GENERALE

sto fenomeno allo stesso titolo dei comportamenti più evidente­ mente egoisti? Un primo ostacolo al suo riconoscimento è psicologico ed epi­ stemologico: l’individuo occidentale concepisce ormai soltanto teorie psicologiche unificate dell’azione e sotto forma di teoria della scelta razionale*8. Mary Douglas constata che «la cultura oc­ cidentale [...] rifiuta l’idea di un ‘io’ multiplo, idea che le altre civiltà considerano normale»9. In un quadro del genere, non è fa­ cile immaginare più moventi dell’azione individuale. Eppure, Y homo donator non è un’idea nuova. Senza risalire a Seneca, al Cristo o alla compassione buddista, e volendo restare al pensiero moderno, i pensatori scozzesi come Hutcheson10 e gli utilitaristi come Mill ritenevano che la benevolenza fosse qualcosa che an­ dava da sé. Mill descrive così ‘il sentimento morale’: «Quel senti­ mento naturale e potente [...] che costituisce la forza della mo­ rale utilitaristica»11. Dopo Schopenhauer, anche Nietzsche rico­ nosceva la forza di questo sentimento, anche se solo per combat­ terlo... E che cosa c’è di così sbalorditivo nel credere che l’essere umano abbia bisogno tanto di ammirare quanto di essere ammi­ rato, di amare e di essere amato, di cooperare e di entrare in competizione12? Tutti questi autori, nonostante le loro differenze, sono concor­ di nel riconoscere negli esseri umani una tendenza naturale alla benevolenza e alla compassione. Tali sentimenti costituiscono certamente un motore importante di alcuni doni. Tuttavia, un dubbio sorge. In quale misura Y homo donator appartiene a questa scuola di pensiero? In quale misura l’attrattiva del dono, che è sta­ to l’oggetto di questo libro, dipenderebbe unicamente da questo sentimento da sempre riconosciuto? Qual è, a questo proposito,

WAAL, Naturalmente buoni. Il bene e il male nell’uomo e in altri animali, tr. it. di L. Montixi Comoglio, Garzanti, Milano 2001.

8 C. GREGORY, Savage Money. The Anthropology and Politics of Commodity Exchange, Har­ vard Academics, Amsterdam 1997, p. 111.

9 Μ. Douglas, Come pensano le istituzioni, tr. it. di P.P. Figlioli, Il Mulino, Bologna 1990, p. 156. 10 F. Hutcheson, L’origine della bellezza, tr. it. di W. Bucelli, Aesthetica edizioni, Paler­ mo 1988.

11 B. Valade, Justice sociale, Encyclopaedia Universalis, 1998. 12 B. Cannone, Admirer, «La Revue du MAUSS», 12 (1998), pp. 409-410.

L’INVITO Al. DONO

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10 statuto dell’Aomo donator? Se torniamo all’insieme delle caratte­ ristiche del dono, così come risultano dalle analisi del fenomeno presentate nelle pagine precedenti, non possiamo fare altro che constatare che una parte rilevante di ciò che è stato osservato co­ me circolante sotto forma di dono non corrisponde esattamente a questa corrente di pensiero e non dipende da questo sentimento. 11 dono non equivale a quella tendenza alla benevolenza che fon­ da la morale, né alla pietà o alla compassione di Schopenhauer denigrata da Nietzsche. A questo proposito, ricordiamo l’impor­ tanza del principio di reciprocità e le numerose illustrazioni di questo principio presentate nel corso di questo libro, e in partico­ lare nel capitolo dedicato a questo argomento. Quei casi tipo so­ no ben lungi dal dipendere tutti dalla compassione e da quei sen­ timenti appena evocati. Fanno appello a una moltitudine di pas­ sioni (per utilizzare il vocabolario degli autori classici) che varia­ no a seconda del contesto: onore, prestigio, immagine di sé... Il desiderio di donare sembra situarsi al di là, o in parte accanto alla compassione, e la logica di questo sistema d’azione sfugge in par­ te alla tradizione della benevolenza. La simpatia di Adam Smith Sorprendentemente, tale questione non può essere chiarita da nessuno all’infuori del fondatore dell’economia politica. L’auto­ re di La ricchezza delle nazioni riconosce l’esistenza della benevo­ lenza, ma dubita della sua importanza come motore dell’azione, il che spiega perché preferisca fondare la società su qualcosa di più sicuro. L’interesse? Senza dubbio, come afferma senza mezzi termini: «Non è certo dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro pranzo, ma dalla consi­ derazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla lo­ ro umanità, ma al loro egoismo»13. Ma Adam Smith si limita alla spiegazione basata sull’egoismo come motore dell’azione umana? Come hanno mostrato tanti autori, ciò significherebbe dimenti­ care l’altra importante opera del fondatore dell’economia politi­ ca. Per A. Smith, una società fondata unicamente sull’egoismo

ls

Smith, La ricchezza delle nazioni, p. 73.

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CONCLUSIONE GENERALE

conduce alla violenza, degenera nello stato di guerra di tutti con­ tro tutti descritto da Hobbes. Ricordiamo la prima frase della Teo­ ria dei sentimenti morali: «Per quanto l’uomo possa esser supposto egoista, vi sono evidentemente alcuni principi della sua natura che lo inducono a interessarsi alla sorte altrui e gli rendono ne­ cessaria l’altrui felicità, sebbene egli non ne ricavi alcunché, ec­ cetto il piacere di constatarla»14. Come mostra Dupuy15, lo stesso interesse non è una forza isolata che farebbe ostacolo alle passio­ ni, come invece vorrebbe l’interpretazione abituale di tutta una scuola. L’egoismo è una passione come un’altra. In realtà, Adam Smith riconosce l’esistenza di più motori dell’azione umana. Nel­ la Teoria dei sentimenti morali, distingue le passioni egoiste, le pas­ sioni asociali e le passioni sociali. La benevolenza e la compassio­ ne appartengono a quest’ultimo tipo. Adam Smith riconosce per­ sino l’importanza della relazione per la relazione, del legame vo­ luto per se stesso: «Vi è una speciale soddisfazione nella consape­ volezza di essere amati, che è più importante, per una persona [...] di ogni vantaggio che egli possa aspettarsi di ricavarne»16. Come conciliare tutte queste idee17? In realtà, in A. Smith le passioni non sono, propriamente parlando, il motore dell’azione. Piuttosto, volendo proseguire la medesima analogia, sarebbero in un certo senso l’energia di cui il motore ha bisogno, e che dun­ que è alla radice dell’azione. Dupuy mostra che per A. Smith il ve­ ro motore dell’azione è la simpatia, la quale ‘contiene’ l’interesse. L’interesse è ‘contaminato’ (Dupuy) dalla simpatia18. «La parola simpatia [...] può [...] essere usata, senza molta improprietà, per denotare il nostro sentimento di partecipazione per ogni passio­ ne, quale che sia»19. La simpatia non è né l’egoismo, né la bene­ 14 A. Smith, Teoria dei sentimenti morali, tr. it. di Μ. Cozzo, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1991, p. 5.

15 Dupuy, Introduction aux sciences sociales. Logiques des phénomènes collectifs. 16 Smith, Teoria dei sentimenti morali, p. 49. 17 Esiste tutta una letteratura sulle apparenti contraddizioni tra le due grandi opere di Adam Smith, su quello che è stato chiamato ‘il problema di Adam Smith’, che un autore ha recentemente chiamato «la doppia antropologia di Adam Smith» (C. Marouby, Pour une économie de la sympathie. Propos sur la double anthropologie d’Adam Smith, «Finance & the Common Good/Bien Commun», 22, 2005, pp. 18-24).

18 Per un’analisi accurata di questo operatore che è la simpatia e del raddoppiamen­ to che implica, cfr. Dupuy, Introduction aux sciences sociales. Logiques des phénomènes col­ lectifs, capp. 6, 7 e 8.

19 Smith, Teoria dei sentimenti morali, p. 8.

l’invito al dono

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volenza. La simpatia è il dispositivo attraverso il quale le passioni operano. «E il principio innato che porta ogni essere umano a identificarsi con i suoi simili»20. La simpatia è un ‘operatore’: «Un operatore non è un principio; la simpatia non è una passione. E un processo che deve potersi ripetere in ogni momento della ge­ nesi. Non c’è bisogno di dargli un supporto, ontologico (la sim­ patia universale) o psicologico (l’affettività). Basta esporne la mo­ dalità operativa»21. In che cosa queste considerazioni si applicano al dono? Questa idea di operatore rende conto di ciò che abbiamo constatato nel­ la riflessione sul dono come sistema d’azione, riflessione che ci ha portati a concludere, con Hénaff, che «la relazione di dono pos­ siede il sorprendente potere di instaurare un legame più forte dei sentimenti che lo accompagnano»22. Da dove viene questo potere situato al di là dei sentimenti, delle passioni e degli interessi? L’at­ trattiva del dono non è una causa, e non è nemmeno un senti­ mento. Come ricorda Descombes, il dono non appartiene al cam­ po dei ‘meri fatti’. E se il dono, come la simpatia in Adam Smith, fosse un operatore, ovvero un postulato che rende conto della di­ namica di un sistema d’azione, come il postulato dell’interesse o quello dell’istinto strategico? Spesso alimentato dalla benevolen­ za, non si basa dunque interamente su quella, dato che attinge la sua energia anche dagli altri sentimenti morali e dalle passioni. E come se A. Smith avesse già individuato due secoli fa i meccanismi che le neuroscienze stanno scoprendo. Questi meccanismi possie­ dono la rilevante caratteristica di basarsi principalmente su dei processi automatici: «Noi ci rappresentiamo gli scopi degli altri nei termini dei nostri propri scopi, anche senza esserne piena­ mente coscienti. Senza pensarci, i sentimenti che percepiamo ne­ gli altri attivano automaticamente delle reti del nostro cervello che rappresentano anche i nostri sentimenti. Dunque condividia­ mo automaticamente i sentimenti degli altri. Di conseguenza, da­ to che i nostri sentimenti ed emozioni determinano in maniera ri­ levante le nostre motivazioni ad agire, il nostro comportamento 20 Marouby, Pour une économie de la sympathie. Propos sur la double anthropologie d'Adam Smith, p. 22. 21 Μ. Malherbe, Adam Smith et l’idée d’une science morale, «Revue philosophique», 4 (2000), pp. 407-421; citazione a p. 412.

22 Hénaff, Il prezzo della verità, p. 208.

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CONCLUSIONE GENERALE

sarà automaticamente sensibile agli altri (other-regarding), a meno che tale impulso verso gli altri non venga inibito»23. Anche se le ricerche sul cervello riescono a mettere meglio in evidenza che «We are wired to cooperate» (cfr. cap. 6), questi dati bio­ logici resteranno sempre da interpretare. Noi abbiamo proposto che all’origine ci sia quello stato di debito che è inscritto nella no­ stra storia fin dalla nascita. Siamo ben consapevoli che qui si trat­ ta di un dato culturale, che non è una causa, che nulla costringe un membro di una società a sentirsi in debito per il fatto di essere nato, nulla che lo obblighi a concepire la vita come un dono. Nel suo lavoro su Marcel Mauss, Tarot mostra che con Mauss si accede all’idea che il simbolo è un motore dell’azione, che dun­ que non ci sono solo l’utilità e l’interesse24. Tarot analizza in che modo, nel XX secolo, i primi antropologi inglesi hanno compreso il dono. Per spiegare il dono, Tylor «si rifà [...] all’“atto quasi in­ fantile di donare per donare” (Tylor), senza preoccuparsi dei sen­ timenti che il dono risveglierà nel donatario. Per Tylor, dunque, il dono è proprio un fatto primitivo, con tutte le connotazioni evoluzioniste del termine a quell’epoca. È una specie di fatto-matrice che poggia su una base indipendente»25. Per Robertson Smith, al contrario, il dono non è primitivo, perché suppone il diritto di proprietà26. Non si può donare altro che ciò che si possiede in proprio. Ciò che è primo, secondo questo autore, è l’istinto di conservazione.

Conservarsi o spendersi La coppia conservarsi-perdersi si ricollega alla coppia bisognodesiderio e all’opposizione funzionale-pulsionale degli psicoana­ listi27. Conservarsi o spendersi? Ecco ciò che, al di là dei senti­

23 Singer - Fehr, The Neuroeconomics of Minds Reading and Empathy, p. 243. 24 Tarot, De Durkheim à Mauss, l’invention du symbolique. Cfr. soprattutto pp. 240, 243, 248, 347-348, 350.

25 Ibi, p. 589. 26 Ibi, p. 590. 27 SCHWERING, Don et incorporation. Les enjeux psychique de la transplantation d’organes, pp. 223 ss.

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menti, è in gioco nell’accettazione o nel rifiuto deWhomo donator. Persino negli animali non è possibile postulare che l’organismo non abbia altra funzione che quella di conservarsi. Numerosi au­ tori28 hanno dimostrato l’importanza dell’autopresentazione, dell’apparire, dell’ other-regarding che potrebbe venire contrapposto al self-regarding. Per il biologo svizzero Adolf Portmann, «accanto alla conservazione dell’individuo e della specie, l’auto-presentazione dev’essere considerata come un fatto fondamentale del vivente, come un dato ultimo di questi organismi»29. Negli esseri umani, in definitiva, l’attrattiva del guadagno e il desiderio di accumulazio­ ne spesso non sono altro che un mezzo che ha come scopo finale il dono, il dispendio. Come scrive Nietzsche: «I fisiologi dovrebbe­ ro riflettere prima di dire che ‘l’istinto di conservazione’ è l’istin­ to principale di ogni essere organico. Il vivente vuole innanzitutto spendere la sua forza: la ‘conservazione’ è solo una conseguen­ za»30. «E nel vivente che è possibile dimostrare con maggiore evi­ denza che tutto viene fatto non per essere conservato, ma per ac­ crescere»31. «È necessario criticare - scrive Merleau-Ponty - (’assi­ milazione della nozione di vita alla nozione di perseguimento di un’utilità, o di un proposito intenzionale»32. Anche il macellaio di A. Smith: se vende della carne di qualità più nel suo interesse che in quello del suo cliente è anche per far vivere la sua famiglia, of­ frendole nutrimento, certo, ma anche vacanze, regali, follie, ec­ cessi. Per fare dei regali ai suoi amici, alle persone a lui vicine. Questo macellaio ha dunque anche dei ‘sentimenti morali’. La sua vita e la sua razionalità non finiscono quando esce dalla sua macelleria. Al contrario, si caricano di un meta-senso rispetto al modello economico. Quel meta-senso che può essere presente con i suoi ‘migliori’ clienti. Lo stesso ragionamento si applica al cliente che compra la sua carne. In sintesi, come scrive Dupuy, l’interesse è contaminato da altre logiche d’azione. 28 Μ. Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, tr. it. di ???, Bompiani, Milano 2003; F. De Waal, La politica degli scimpanzè. Potere e sesso tra le scimmie, tr. it. di Μ. Cerletti Novelletta, Laterza, Bari 1984; Portmann, cfr. J. Dewitte, L’émergence d’un symbo­ lisme animal (d’après Merleau-Ponty), riunione del MAUSS, 1997.

29 Portmann, citato da Dewitte, Pour qui sait voir, p. 54.

30 Nietzsche, Frammenti postumi. 31 Ibidem. 32 Citato da Dewitte, L’émergence d’un symbolisme animal (d’après Merleau-Ponty), p. 2.

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CONCLUSIONE GENERALE

Produrre o apparire

L’importanza di questi riferimenti funzionali e ‘conservatori’ rive­ la di nuovo il dominio dei modelli deterministi nelle scienze so­ ciali. Nel corso di queste pagine abbiamo constatato la difficoltà di pensare, o persino semplicemente di riconoscere, l’incertezza che alberga nel cuore del comportamento degli attori sociali. E come se le scienze sociali, per spiegare la società, avessero attra­ versato quattro tappe ed elaborato quattro tipi di modelli corri­ spondenti ad altrettanti atteggiamenti rispetto al fenomeno del­ l’incertezza, allontanandosi progressivamente dalla funzionalità e dal determinismo33. All’inizio, il modello di riferimento è unicamente meccanici­ sta. L’incertezza viene controllata meccanicamente. Ogni istitu­ zione, ogni comportamento degli attori, corrisponde a una fun­ zione ben precisa e gioca un ruolo predeterminato nella ‘macchi­ na’ sociale. Questo tipo di modello meccanicistico è incapace di riconoscere l’autonomia dell’attore. E il modello olistico estre­ mo, la ‘solidarietà meccanica’, direbbe Durkheim, modello di una società di formiche in cui tutto è prodotto e niente appare. Con l’arrivo del taylorismo viene riconosciuta una certa inde­ terminazione. A proposito degli attori, comincia ad essere utiliz­ zato il termine ‘decisione’, il che implica un certo ‘gioco’ nella macchina. Ma per ciascun problema esiste ancora una buona so­ luzione (one best way), e la decisione dev’essere presa da quelli che la conoscono, dai migliori. Così, l’incertezza pare controllata. Si tratta delle teorie elitarie della decisione. In un terzo tempo, che corrisponde alle grandi indagini della sociologia del lavoro, i ricercatori riscoprono l’importanza del­ l’insieme degli attori e il loro margine di gioco. L’incertezza viene riconosciuta come fenomeno fondamentale e intrinseco in ogni organizzazione umana. La razionalità è limitata. Si tenta di ridur­ re l’incertezza canalizzandola all’interno di strategie. E in questo quadro che si situa l’apporto dell’analisi strategica e del suo con­ cetto centrale di riduzione delle zone di incertezza. Quella che si sviluppa è una sociologia della libertà, fondata sul gioco. Ma que­

33 Su questa evoluzione nel campo delle scienze umane, cfr. Kuty, La Négotiation des valeurs, pp. 213 ss.

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sta libertà non è voluta dagli attori, che costantemente tentano di ridurre la libertà degli altri. E il modello del dono quello che permette di assumere piena­ mente l’incertezza e l’indeterminazione dei sistemi d’azione. Qui l’incertezza è volontaria e positiva. Il modello del dono ha un bi­ sogno sistematico della libertà dell’altro e, a tal fine, gli attori so­ no portati a infrangere le regole del gioco. Non lo fanno per er­ rore o per imbroglio, ma perché si tratta di una meta-regola del gioco. E in questo momento che il pensiero abbandona davvero il mondo meccanicistico della produzione per entrare nel mondo dell’apparenza e della trasformazione. Quel che non c’era, im­ provvisamente c’è, non previsto, senza essere prodotto. L’appari­ re si oppone al produrre. Che differenza c’è tra produrre e apparire? Apparire suppone l’assenza di controllo su ciò che avviene. Apparire può essere visto dalla prospettiva di chi appare o in quella di chi vede l’apparizio­ ne, dello spettatore. Così, la verità appare al ricercatore; essa non viene prodotta, contrariamente ai risultati della ricerca. I risultati sono prodotti, la verità appare, come ha messo in evidenza l’esa­ me del fenomeno della creazione a partire dal dono (cfr. cap. 12). Ciò che è prodotto non può più apparire, a meno di chiu­ derlo in una confezione per farlo riapparire trasformato in rega­ lo. La produzione è una manipolazione interamente controllata di ciò che c’era già, di ciò che era già apparso. La produzione eli­ mina l’apparizione. E per questa ragione che non crediamo più alle apparizioni. Siamo condizionati dal nostro sistema di produ­ zione, che ci ha indotti a credere che soltanto ciò che viene pro­ dotto esiste e ha un valore. La teoria del Big Bang sostituisce una visione del mondo che utilizza il modo dell’apparizione con una costruita sul modo della produzione. Essa non cambia la questio­ ne deH’origine dell’universo. Qualcosa deve pur essere apparso perché il Big Bang si producesse.

Lo stesso dono ? Il dono è dunque una forza che sfugge alla logica produttiva e che dipende soltanto in parte dai sentimenti. Ma questo «potere sorprendente» (Hénaff) è ovunque lo stesso? L’elemosina fatta a un mendicante ha qualcosa a che vedere con il potlàc, con il rega-

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CONCLUSIONE GENERAI .E

lo di Natale, con l’invito a cena dell’uomo d’affari? Ecco la do­ manda che gli analisti si pongono. Secondo la maggior parte de­ gli autori, esisterebbero dei tipi di dono irriducibili l’uno all’altro, e per molti, l’altro tipo semplicemente non c’entra col dono. Do­ no unilaterale, morale, altruista, gratuito, puro, da un lato; dono agonistico, cerimoniale, di replica, di riconoscenza, dall’altro; do­ no arcaico e dono moderno; dono a chi è prossimo e agli estranei sconosciuti. Per gli uni (Lévinas, Derrida), il dono più morale, il solo vero dono è il dono senza contraccambio, mentre gli altri af­ fermano che questo dono non è proprio un dono34. Tale dibattito può essere ricondotto alle seguenti categorie: dono morale o dono di replica; dono ai prossimi o agli estranei. Operando queste distinzioni, Hénaff ha fatto ampiamente pro­ gredire il dibattito, compiendo, grazie alla sua concettualizzazio­ ne del dono, un taglio radicale con il modo commerciale di cir­ colazione, pur conservando questa separazione tra i due tipi di dono. Noi abbiamo avanzato fin dall’inizio l’ipotesi che occorreva pensarli insieme, che la soluzione al grande paradosso del dono - il paradosso del contraccambio - stava forse qui. Pensarli insie­ me, ma distinguere sempre ciò che circola dal senso di ciò che cir­ cola. Tale distinzione è stata il nostro filo conduttore. Speriamo di aver mostrato in queste pagine l’importanza di tale distinzione per comprendere il dono e i problemi che la sua assenza compor­ ta. A che cosa siamo arrivati? Ricordiamo il percorso. Dopo aver preso, in un primo tempo, le distanze rispetto al modello dominante di spiegazione della circolazione delle cose, abbiamo presentato, e poi analizzato, alcune caratteristiche tipi­ che della circolazione basata sul dono: debito, identità, terzo im­ manente. Anche gli aspetti negativi del dono sono stati messi in evidenza. Abbiamo poi messo alla prova il modello del dono, con­ frontandolo, da una parte, con diversi modelli di analisi e di teo­ rie (analisi strategica, teoria dei giochi...) e mostrando, dall’altra, la sua fecondità, attraverso l’applicazione dei suoi concetti a vari fenomeni sociali (creazione artistica e persino mercato e capitali­ smo). Lungo tutto questo percorso, abbiamo constatato - o per­ lomeno abbiamo cercato di dimostrare - che le caratteristiche es­ 34 Boilleau, Conflit et lien social. La rivalité contre la domination. Su questo punto, cfr. I. Silber, Entre Marcel Mauss et Paul Veyne. Pour une sociologie historique comparée du don, «Sociologie et sociétés», 36 (2004), 2, pp. 189-205.

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senziali del dono si applicano a tutte le sue forme, e abbiamo di­ mostrato ciò soprattutto attraverso casi-tipo presi tanto nel passa­ to che nel presente, nelle altre società (piccole società arcaiche, società arabo-musulmana classica...) come nella nostra. Contro chi definisce il vero dono in base al non-contraccambio, questa riflessione sulle caratteristiche del dono ci ha portati a pensare che tale maniera di accostarsi al dono sia la causa di tutti i malintesi. Analizzando i tre momenti del dono a partire dal mo­ dello maussiano, senza mai dimenticare la distinzione tra il senso di ciò che circola e ciò che circola, abbiamo constatato in diversi modi i numerosi effetti perversi del dono che si vuole senza con­ traccambio (cioè non l’assenza di contraccambio, ma il non-contraccambio voluto da parte del donatore). Tale dono implica una negazione del donatario, e per questa ragione è incompleto. Te­ nendo conto del debito e dell’identità, siamo così indotti a rimet­ tere in discussione quel tipo di dono unilaterale cui Hénaff con­ trappone il dono di replica e a ritenere che ogni dono deve com­ portare, in un modo o nell’altro, un elemento di replica. Il dono che si vuole senza contraccambio non è un tipo di dono, ma un caso eccezionale, eccezionalmente pericoloso. Il dono più ‘altrui­ sta’ è quello che accorda all’altro la capacità di replica, che gli re­ stituisce la capacità di donare a sua volta. Il dono puro unilaterale è invece un dono narcisistico, e non un dono altamente morale. Sopprime infatti la struttura ternaria di ogni dono, togliendo al­ l’altro la sua capacità di proseguire il ciclo del dono, la sua possi­ bilità di entrare nella danza, e dunque si tratta di una forma in­ completa e potenzialmente perversa di dono. Il dono che si inter­ rompe con la ricezione ne è una forma monca. Perciò non è giu­ stificabile fare del dono unilaterale un tipo generale di dono; an­ cora meno lo è il fatto di considerarlo il dono morale per eccel­ lenza, designandolo come un dono puro. Il dono morale offre al donatario la possibilità e la capacità di donare a sua volta, e quan­ do questa possibilità viene compromessa dalle circostanze, abbia­ mo visto che il donatore inventa diverse modalità per rimediare a questa situazione. Ciò spiega perché il dono agonistico, che è unicamente in fun­ zione della gloria del donatore, che fa perdere la faccia e distrug­ ge l’identità dell’altro, è assimilabile al dono puro. Le due logiche (dono puro e dono agonistico di tipo potlàc) non sono distinte né opposte. Esse funzionano all’interno di una medesima dinamica,

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CONCLUSIONE GENERALE

di una medesima struttura con equilibri e squilibri diversi a se­ conda del contesto. Il dono cerimoniale analizzato dagli etnologi comporta, come il dono moderno, due facce, o più precisamente si colloca sempre da qualche parte su un continuum tra due estre­ mi: da una parte, «gesto di sfida e di seduzione in vista dell’al­ leanza»35; dall’altra parte, gesto di sfida che mira a schiacciare l’altro, negando la sua capacità di replica, come illustrano certe forme di potlàc. Questo continuum dappertutto. Anche nel ca­ so del dono moderno. E, nonostante il carattere esotico di nume­ rosi costumi e rituali di dono descritti dagli etnologi, abbiamo vi­ sto quanto i loro princìpi siano simili. Il dono moderno non ap­ partiene alla categoria del dono unilaterale, per la buona ragione che una categoria del genere non esiste. Quando è unilaterale, il dono tende a negare l’altro, invece di offrirgli i mezzi per donare. Per aspetti opposti, il dono del filantropo moderno, che vuole il suo nome scritto in lettere d’oro sul monumento che ha fatto eri­ gere, può avere lo stesso senso del dono agonistico delle società arcaiche, quando arriva alla distruzione di ciò che è donato. Il fi­ lantropo vuol far perdere la faccia al suo donatore concorrente, e non considera nemmeno il donatario, assente dalle feste che ac­ compagnano il dono dei grandi donatori moderni. Queste due forme di dono si collocano al grado più basso del­ la gerarchia morale del dono. Il dono morale più ‘morale’ è quel­ lo che offre la capacità di replica. Un dono altruista non è perciò un dono unilaterale. Riconosce l’altro nella sua capacità di dona­ re e rappresenta un invito a farlo. Come scrive molto bene Hénaff, occorre «mantenere fino in fondo il concetto di riconosci­ mento»36. Così facendo, «ritroveremmo nell’azione generosa quel gesto di sfida - quel bel rischio - che è [...] all’inizio e al cuo­ re del dono cerimoniale»37. Ma nella filantropia il desiderio di ri­ conoscimento si gioca spesso tra donatori, nella più grande indif­ ferenza rispetto al donatario, che non fa parte del gioco. Quale contrasto con un dono tanto semplice come quello di offrire il proprio posto su un autobus a una donna incinta! Apparente­

35 Μ. HÉNAFF, Métamorphoses du don: continuités et discontinuités. Réponses à Jacques God­ bout, «La Revue du MAUSS», 24 (2004), pp. 441-450; citazione a p. 447. 36 Ibi, p. 449. 37 Ibidem.

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mente questo dono è unilaterale. Ma non nega la capacità di do­ nare da parte del donatario, anzi la riconosce. Si tratta di un gesto di riconoscimento del suo dono alla società. Noi doniamo a no­ stra volta agli altri perché loro hanno già donato o doneranno. Siamo sempre nella catena del dono. E gli handicappati? E l’ele­ mosina? Ecco dei doni giustamente problematici, doni che causa­ no disagio e imbarazzo. E abbiamo constatato che i doni più ap­ prezzati dagli handicappati sono proprio quelli che riescono a fa­ re in modo che essi possano donare a loro volta, quelli in cui si chiede loro di contribuire, come fa il Movimento dell’Abbé Pierre o chi trova un lavoro agli handicappati, insomma tutti coloro che li fanno entrare nel movimento di replica, nella danza del dono. Il passaggio dal dono unilaterale al dono di replica è dunque in realtà un’ingiunzione morale, e il dilemma del dono gratuito è forse addirittura il problema morale del nostro secolo. C’è un modo migliore per uccidere un uomo - si chiede Félix Ledere che pagarlo per non fare niente? L’elemosina ai mendicanti li in­ coraggia a rimanere nel loro stato, dicono i conservatori, non sen­ za qualche ragione. Ma dobbiamo per questo lasciare che qualcu­ no muoia di fame, rispondono i progressiti, con almeno altrettan­ te ragioni? Il modello del dono ci insegna che, moralmente, que­ sto dono, anche se talvolta è necessario, è il più basso nella gerar­ chia dei doni, il più incompleto. E quello che interrompe il ciclo del dono. Perché mai allora è stata così forte la tendenza a fare del dono gratuito unilaterale non solo un modello di dono, ma il modello del dono per eccellenza, puro, morale e altruista? Perché, confondendo ciò che circola e il senso di ciò che circola, si crede sempre, e falsamente, che la prova dell’intenzione morale stia nell’assenza di contraccambio. In che modo, si chiedono conti­ nuamente i moralisti del dono, siamo sicuri della qualità dell’in­ tenzione? E loro rispondono: con l’assenza di contraccambio. Ora, lo studio del dono mostra non soltanto che può esserci con­ traccambio e ‘purezza’ dell’intenzione, ma inoltre, e soprattutto, che non è possibile, e neppure auspicabile, giungere a una cono­ scenza perfetta dell’intenzione, o piuttosto delle intenzioni, per­ ché il dono si basa sull’incertezza e la fiducia. Cosa che in diversi modi abbiamo messo in evidenza, utilizzando soprattutto il di­ lemma del prigioniero. Donare, ripetiamolo, significa assumersi il rischio della relazione. Il modello del dono assume la libertà si­

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CONCLUSIONE CENERAI .E

stemica, cioè non soltanto la propria, ma anche quella degli altri. Motivo per cui è il modello più lontano dai modelli meccanicisti­ ci e deterministici. Il dono è un invito. Nell’idea di invito - che ci allontana dall’obbligo e soprattutto dalla determinazione - sta tutta l’ambi­ guità e la ricchezza della circolazione attraverso il dono. Un invito a che cosa? A ricevere, certamente; alla replica, anche; ma innan­ zitutto a far parte, ad appartenere, ad esistere come essere vivente («a way of involving ourselves in the process of being alive»), come scri­ ve Julie Salamon38. Al momento degli attentati dell’ll settembre, l’autrice racconta che gli occupanti di un centro per mendicanti sono stati portati ad aiutare delle vittime che fuggivano dal World Trade Center. «Normalmente ignorati, evitati o beneficiari di aiu­ ti, la rottura dell’ordine abituale aveva fatto sì che venissero invi­ tati a partecipare agli scambi umani, al pari degli altri»39. Il dono è ovunque. Persino nei rapporti commerciali, poche sono le transazioni importanti che avvengono senza che circolino dei doni sotto diverse forme, non sempre morali: inviti, regali, tangenti... Come i ricchi Romani, i più grandi businessmen dona­ no. Un uomo d’affari deve saper donare e ricevere. Doni interes­ sati? Spesso, certo, ma saranno tanto più interessanti quanto me­ no saranno interessati! Uno dei più grandi imprenditori e filan­ tropi americani, Andrew Carnegie, ha scritto che chi muore ricco ha fallito la sua vita. Talvolta il dono arriva addirittura fino al pun­ to di volare in aiuto dello Stato! Esiste in Italia un’Associazione per la riduzione del debito pubblico (ARDEP), per aderire alla quale occorre fare un dono simbolico alla fondazione per la ridu­ zione del debito pubblico. In sette anni, la fondazione ha riunito 300 membri e ha raccolto una dozzina di milioni di lire (il debito pubblico italiano era di 2 milioni e mezzo di miliardi). Il presi­ dente ritiene che, attraverso il dono, si possa forse «attivare un cir­ colo virtuoso nel rapporto tra lo Stato e i cittadini»40. Ecco ciò che lo studio delle regole di funzionamento del dono ha mostrato. Tali regole e principi sono presenti in tutti i tipi di do­ 38 Salamon, Ramban ’s Ladder. A Meditation on Generosità and Why It Is Necessary to Give, p. 146. 39 Ibi, p. 246.

40 Corradini, Un dono allo Stato?, p. 147.

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no. A tal punto che possiamo ora sostenere che, qualunque sia la società o l’epoca, il dono è il dono. Il dono non è la spartizione, non è un investimento, non è uno scambio di cose equivalenti. Il dono è un sistema di debito che tocca l’identità dei partner. Cer­ to, possiede dei sensi o uno spirito diverso: spirito interessato, spi­ rito altruista, spirito festoso. Presso i Trobriandesi, accanto alle ce­ rimonie del kula, c’è anche l’aiuto ai bisognosi, mentre da noi, ac­ canto all’aiuto ad un amico, c’è il regalo di Natale e il dono uma­ nitario. Ma, qualunque sia il suo spirito, qualsiasi siano le forme e i rituali, il dono è il dono perché vi si ritrovano, a diversi livelli, la posta in gioco dell’identità, l’invito alla replica, il sentimento di debito, la necessità di trasgredire le regole. In altri termini, esiste un modo di circolazione delle cose le cui caratteristiche fonda­ mentali sono presenti dappertutto, anche se queste forme sono varie e talvolta decisamente sorprendenti. Abbiamo avanzato l’i­ dea che questo ‘bisogno’ di donare provenisse dal fatto che tutti noi siamo, all’inizio, in stato di debito. E dunque che la nostra identità si costruisce nella misura in cui rendiamo attivo ciò che abbiamo ricevuto, donando a nostra volta. Dono puro, da un lato, mercato puro, dall’altro: i due miti complementari dell’occidente. E se oggi ci si accorgesse che que­ sti due modi di pensare la circolazione delle cose, che da qualche secolo hanno caratterizzato l’Occidente cristiano, da quando la rottura produttore-utente si è approfondita, fossero in fondo en­ trambi impensabili, dal momento che nessuno dei due è in grado di rendere conto in maniera soddisfacente di ciò che accade in uno scambio? Né egoismo, né altruismo. I due modelli eliminano il rischio della relazione, come dimostra il dilemma del prigionie­ ro. A partire dal momento in cui in una società viene istituita la coppia produttore-cliente, non c’è più una risposta semplice alla domanda: in che modo rispondere alla domanda reale? Nella so­ cietà attuale, esistono almeno quattro modelli di risposta: il mo­ dello commerciale, il modello professionale, la democrazia rap­ presentativa, il modello del dono puro. Il modello commerciale

Abbiamo visto nella prima parte che il rapporto cominci« i.il«· < in qualche modo generato dalla rottura produttore-utente. Esso 11 conosce la legittimità delle domande del cliente, costitiiemlol« i

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CONCLUSIONE GENERALE

giudice ultimo di un prodotto che egli può andare a cercare dove meglio crede, in base alle sue preferenze. Ma la necessità di pro­ durre sempre di più lo porta a trasformare il cliente in consuma­ tore, forzato ad assorbire una produzione obbligatoriamente sem­ pre in aumento. Il modello professionale

Le libere professioni sono riuscite a sfuggire al potere che il cliente nonostante tutto detiene nel rapporto commerciale. Es­ se adottano un’ideologia basata sul servizio, affermando di esse­ re al servizio dei loro clienti e di non essere motivati dal profit­ to. Senonché, pretendono di rispondere ai veri bisogni ‘scienti­ ficamente’ identificati, e impongono in modo autoritario (auto­ rità della scienza) i loro saperi, invece di rispondere a una do­ manda che pensano di conoscere apriori. Trascurano il valore di legame, mentre, ‘scientificamente’, il legame ha degli effetti, da­ to che l’effetto placebo degli interventi medici non è più da di­ mostrare. La democrazia

Come il rapporto commerciale, la democrazia rappresentativa ri­ conosce in ultima analisi il potere dell’utente-cittadino. Gli attri­ buisce il potere non di cambiare prodotto, ma di cambiare il pro­ duttore attraverso il meccanismo elettorale, il quale costituisce contemporaneamente un mezzo per influenzare la natura del prodotto partecipando alla sua produzione, e dunque si ispira in parte al principio commerciale. Ma si basa anche sul principio di appartenenza, dato che, per esercitare questo potere, è necessa­ rio essere riconosciuti come cittadini, come membri o aderenti a questa società. Il modello del dono puro Il modello del dono è fondato sul principio comunitario. Esso manifesta l’appartenenza e la rafforza. Ma nel contesto della rot­ tura produttore-utente l’ideologia del dono puro unilaterale tra­ sforma spesso il gesto di inclusione in gesto di esclusione, spez­ zando la spirale del dono, interrompendo la dinamica di replica del donatario per trasferirla ai produttori tra di loro.

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*

Ogni modello ha le sue debolezze. - Il modello commerciale: volendo rispondere alle preferenze, i venditori finiscono per imporre ai consumatori i loro prodotti. - Il modello professionale: volendo rispondere ai veri bisogni ‘scientificamente’ identificati, i professionisti impongono (auto­ rità della scienza) i loro saperi invece di rispondere alla domanda, che pensano di conoscere a priori, e di considerare il valore di le­ game. - Il modello della democrazia: ispirandosi tanto al principio commerciale quanto a quello comunitario, la democrazia rappre­ sentativa contiene potenzialmente le debolezze di entrambi que­ sti modelli (potere autoritario o deriva comunitaria). - Il modello del dono puro: volendo rispondere alle disgrazie del mondo, i filantropi impongono mediante la gratuità la loro concezione di felicità. Perdita e sacrificio Tutti i giorni sono presenti alla nostra mente diverse logiche: la logica del dono, quella dell’accumulazione, quella del consumo, quella della conservazione. Trattenere o lasciar andare; spende­ re, dilapidare, sprecare o accumulare; preservarsi o rischiare; ri­ tirarsi o esporsi. La teoria della scelta razionale è l’utopia nevro­ tica del controllo totale, la negazione dell’esperienza dell’ab­ bandono, dell’esperienza fondatrice della fiducia, che è al cuore del legame sociale. Vincere la propria paura e fidarsi, non ag­ grapparsi, lasciar andare, mollare la presa, nascere. «Non avere paura, fidati di me», dice la madre al bambino che si abbandona a ciò che gli capiterà, esce dalla madre, poi da se stesso, si inseri­ sce nel mondo, nelle reti umane e così supera se stesso. «L’ego -scrive Sartre - è per perdersi; è il dono»41. E precisamente ciò che nega la razionalità strumentale. L’istinto di perdersi. Ciò che accade attraverso di noi, ciò che ci attraversa, non deve in­ terrompersi con noi. E vero che, in ogni dono, c’è un elemento di sacrificio che sta nel fatto di lasciar andare qualcosa, di ab­ bandonarlo senza compensazione, contrariamente allo scambio 41 Sartre, Quaderni per una morale, p. 405.

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CONCLUSIONE GENERALE

economico in cui c’è «compensazione reciproca degli oggetti, [...] un sacrificio contro un guadagno»42. Ma il dono consiste proprio in questo, nel superare la perdita per viverla come un dono, cioè come una pienezza più grande, come un accesso a qualcosa che sta al di là degli oggetti. L’accesso al mondo simbo­ lico, pensa Mauss. Il che spiega perché «il simbolo maussiano del simbolo - scrive Tarot - non è la parola o il fonema, è il do­ no»43. In tal senso, il dono ingloba il sacrificio, ne rappresenta un superamento, anche se ogni dono lo suppone44. Per Lévi-Strauss, la proibizione dell’incesto consente il legame. La rinuncia alla sorella apre all’altro e consente l’accesso al sim­ bolico. In principio era la rinuncia, definita come il superamento della perdita. Donare significa necessariamente rinunciare a qual­ cosa. Donare bene significa rinunciare con gioia a qualcosa che ci è caro. Affinché l’uomo possa diventare uomo, deve forse consi­ derare il sacrificio totale simbolizzato nella Bibbia da Abramo:. momento dell’abbandono assoluto, della rinuncia totale, persino al proprio figlio. Ma questo è intollerabile, così si passa al simboli­ co: il simbolo appare, l’ariete sostituisce Isacco, il regalo sostitui­ sce il sangue, è il simbolo del sangue che si deve donare. «L’unico presente, l’unico dono è un frammento di te stesso. E un dono del tuo sangue che mi devi offrire»45. «L’essere dell’uomo, prima che essere sostanza, è relazione. In questa relazione ciascuno vive ‘una piccola morte’ di sé. [...] Non entro in un rapporto se non attraverso la ‘perdita’. Accettare di perdersi implica una tolleran­ za attiva, l’intollerante si preserva, fa economia di se stesso, vive di sé con sé: è un piccolo commerciante che capitalizza un grande prodotto che è il sé. E un direttore di prigione il cui prigioniero è proprio il suo sé: ipseì»46. Dalla nascita alla morte, tutto accade co­ me se rinunciassimo a un oggetto come condizione per accedere a una qualità di vita superiore: il bambino accetta di lasciar anda­ re il suo pallone, passando così dalla tappa del giocattolo solitario 42 SlMMEL, Filosofia del denaro, p. 12.

43 Tarot, De Durkheim à Mauss, l’invention du symbolique, p. 644. 44 Su questo punto, cfr. Caillé, L’Anthropologie du don, cap. 6, e Scubla, che attribuisce la primazia al sacrificio (L. Scubla, Fondement symbolique et fondement sacrificiel des so­ ciétés humaines, «La Revue du MAUSS», 12, 1998, pp. 41-65).

45 Emerson, La fiducia in se stessi. ‘‘Sj.-G. Bidima, La Palabre. Une juridiction de la parole, Michalon, Paris 1997, pp. 40-41.

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a quella del gioco interattivo. Donare significa ripetere l’espe­ rienza necessaria di rinuncia a quella che ci ha donato la vita e si­ gnifica anticipare l’esperienza ineluttabile di rinuncia alla vita. Occultare la morte è dimenticarsi di vivere. Donare è vivere.

II

L’essere umano è sociale, emerge dal legame sociale, il che com­ porta una pulsione verso gli altri, un desiderio, un interesse per gli altri, diverso dall’interesse per sé, diverso dall’interesse per gli altri beni e diverso anche dalla pulsione a conservarsi. Ecco ciò che bisogna riconoscere per uscire dal modello dell’interesse. Ri­ conoscere un modello dell’azione umana intrinsecamente rela­ zionale e, dunque, diverso dall’homo oeconomicus, il quale, pur es­ sendo anche lui relazionale, non lo è intrinsecamente, ma stru­ mentalmente: è composto di individui che non cercano la rela­ zione per se stessa, la relazione per la relazione, ma la relazione per il prodotto, il legame per il bene, e non il legame per il lega­ me. Il modello del dono tenta di rendere conto di questa avidità dell’umano per il legame sociale. Tale questione non va a genio al modello commerciale. Sulla scorta di Marcel Mauss, noi pensiamo che la «forza che spinge a donare» rappresenti uno dei fenomeni sociali più affa­ scinanti. Ma il dono non è tutto: non è giusto, non sempre è au­ spicabile, non sempre è morale. Motivo per cui, ripetiamolo in conclusione, non riteniamo auspicabile rimpiazzare il paradigma neo-liberale dominante. Nemmeno auspichiamo che tutti i rap­ porti sociali siano regolati dal dono. Se una società funzionasse soltanto in base al dono, sparirebbe velocemente dalla carta geo­ grafica, dato che si farebbe raggirare da chiunque decidesse di sfruttare questo suo atteggiamento, ma anche perché sfinirebbe i suoi membri, essendo ogni società dotata di un insieme di mecca­ nismi per funzionare in modo parzialmente automatico e per as­ sicurare la circolazione delle cose tra i suoi membri. Noi vogliamo soltanto che il dono prenda il posto che gli spetta, accanto ad al­ tri modelli. Il dono è una forma elementare della circolazione delle cose in ogni società, che impedisce agli umani di diventare delle cose. «Nella solitudine, l’individuo si sente investito dal reale; è [...] perso nelle appartenenze. Donando, spezza il legame che lo uni­ sce alla cosa, ma questa negazione è vera solo se un altro la rico­ nosce effettuandola a sua volta. [...] Gli uomini, in un’identica

372

CONCLUSIONE GENERALE

operazione, quella del dono, si confermano reciprocamente di non essere delle cose»47. Questo libro non ha fatto altro che ten­ tare di mettersi al servizio di questo pensiero di Claude Lefort, per far apparire quelle ‘evidenze invisibili’ allo spirito moderno, il quale ha la tendenza a credere solo alla forza ben visibile dell’in­ teresse nella società. Per quest’ultimo, il dono è tanto inverosimi­ le quanto lo era la gravitazione per Newton. «E inconcepibile - af­ fermava - che la materia bruta inanimata, senza la mediazione di altra cosa che non sia materia, agisca su un’altra materia senza mutuo contatto»48. Cosa che non gli ha impedito di misurare tale forza, facendo l’ipotesi di una sostanza invisibile che collega le co­ se tra loro, cui nessuno oggi crede più. Il dono appare ogni volta che il tutto è più della somma delle parti, ogni volta che si entra in un altro stato, in comunicazione con una fonte di energia scono­ sciuta, donata e non prodotta. Che viene da dove? E forse l’ener­ gia che era lì prima del Big Bang, da tutta l’eternità... I fisici di oggi postulano una quantità di energia di cui non si vede alcuna traccia, che chiamano energia nera. Osservando ciò che circola tra gli esseri umani, alcuni ricercatori constatano che i principi e le leggi del modello di spiegazione dominante non sono suffi­ cienti a rendere conto di una parte rilevante di ciò che circola in una società. Allora postulano un altro motore, ‘l’energia nera so­ ciale’ della circolazione delle cose, fanno l’ipotesi del dono e cer­ cano di esplorarlo. Cominciano appena, e niente prova che po­ tranno andare molto lontano. In effetti, si può pensare che l’os­ servazione del dono deformi il dono e persino lo dissolva, ancor più dei fenomeni fisici che vengono deformati per il fatto di esse­ re osservati. Questo lavoro è una specie di ricerca del senso di ciò che oggi circola. Ma «la ricerca del senso non si spiega, si racconta»49. In ultima analisi, il dono dunque non si spiega, poiché tutto è nel suo senso. Spetta a quelle grandi storie, che sono i miti, raggiun­ gere il senso ultimo delle cose50. Per chi dubita ancora dell’im­ portanza del dono, ricordiamo in conclusione che, secondo il mi47 Lefort, L’échange et la lutte des hommes, p. 1415. 48 Citato da Koestler, I sonnambuli, p. 501. 49 T. Hentsch, Raconter et mourir, Les Presses de l’université de Montréal, Montréal 2002, p. 350.

50 Campbell, The Power of Myth.

l’invito al dono

373

to di origine della cultura giudeo-critiana, il male viene introdot­ to nel mondo attraverso un dono che Èva avrebbe dovuto rifiuta­ re. E il primo omicidio deH’umanità è la conseguenza di un dono che Dio ha rifiutato. Caino e Abele hanno offerto a Yahweh quan­ to avevano di più bello. Dio ha accettato il dono di Abele e rifiu­ tato quello di Caino. Fuori di sé per la rabbia, Caino uccide suo fratello. I teologi non sanno perché Dio rifiuti il sacrificio di Cai­ no, mentre accetta quello di Abele. Abele, pastore, sacrifica senza dubbio il suo agnello più bello, ma Caino, agricoltore, offre i suoi migliori frutti e ortaggi. «Che Dio preferisca la carne alla verdura non è mai sembrata una spiegazione adeguata di tale rifiuto divi­ no»51. Su questo avvenimento capitale, su questo primo dono non accettato della storia dell’umanità, la Bibbia è silenziosa. E tutta­ via questo rifiuto comporta il primo omicidio, un omicidio fratri­ cida. Inoltre, alla domanda di Caino, Dio accetta di mitigare la sua pena. Non c’è niente di chiaro. Non viene donato niente nel dono. Ma questo episodio mette in evidenza che il pericolo prin­ cipale del dono è, per il donatore, che il dono venga ricevuto ma­ le. Questa affermazione è valida per tutti i tipi di dono, fin dall’i­ nizio dell’umanità.

51 Bremner, Giving. Charily and Philantrophy in History, p. 11.

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Finito di stampare nel mese di aprile 2008 da Litografia Solari Peschiera Borromeo (MI)