La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951 9788806223502, 880622350X

All'inizio del 1950 la Rai assegnò a Elsa Morante l'incarico di critico cinematografico per un programma radio

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La vita nel suo movimento. Recensioni cinematografiche 1950-1951
 9788806223502, 880622350X

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Elsa Morante

La vita nel suo movimento Recensioni cinematografiche 1950-1951 A cura di Goffredo Fofi

«L’evasione non è per me» a Carlo, e ricordando Cesare

Il primo film che vide bambina, mi disse in un pomeriggio d’estate seduti alla Casina Valadier, non lontano da dove abitava in via dell’Oca, era un film muto e parlava di automobili. Elsa Morante aveva una memoria di ferro, ricordava perfettamente interi canti della Commedia, tante poesie, tante canzoni e un mare di aneddoti che la riguardavano o riguardavano gli scrittori, gli intellettuali che aveva conosciuto ma anche persone qualsiasi, storie qualsiasi che poi “qualsiasi” non erano mai. Quando scrisse La Storia le fui di qualche aiuto con i miei, di ricordi, ovviamente infantili (nel 1943-45 avevo dai sei agli otto anni) ma che, come credo valesse per chi era bambino in quegli anni, erano molto forti ed erano di chi era spaventato da tutto e forse per questo era curioso di tutto, memore di tutto. Mi chiese quale fosse il primo film di cui avessi memoria. Era Vivere con Tito Schipa, nella sala di un paese di provincia, piazzato sulle spalle di mio padre, nel caldo di una folla venuta dalla campagna, senza piú posti a sedere come sempre accadeva alle proiezioni della domenica pomeriggio. Fu sfogliando molti anni dopo una rivista di cinema che una foto mi richiamò le uniche immagini che ne ricordavo: un signore in piedi su una barca che canta per una gentile ed elegante signorina in organza, mollemente adagiata come in un salotto (era Caterina Boratto, che piú tardi Fellini volle in due dei suoi film, invecchiata e ancora bellissima; la barca era certamente tenuta ferma in qualche piscina da un tecnico fuori campo, per le scene ravvicinate). Elsa si divertiva a questi ricordi e li confrontava con i suoi. Del suo primo film ricordava il titolo e che era americano: Scusi se le faccio mangiare polvere. Cercando sui dizionari, fu facile individuarlo: il titolo originale era Excuse My Dust e il protagonista Wallace Reid, aitante divo del muto che per qualche anno rivaleggiò in fama con Douglas Fairbanks, in ruoli affini. Le automobili, quando Elsa era bambina, erano ancora rare, e le bravate dei film hollywoodiani erano dette, come accadeva ancora negli anni Cinquanta, «americanate». Elsa Morante non era avara dei suoi ricordi, e volentieri esaudiva le mie innumerevoli curiosità, che riguardavano piú gli scrittori e poeti che avevo letto, gli italiani e qualche straniero, che non la gente del cinema. Aveva, per esempio, ricordi molto precisi dei suoi incontri con due poeti che veneravo, Auden e Dylan Thomas – e il primo l’aveva fatta arrabbiare perché una sera, nelle abituali cene di gruppo in trattoria, aveva chiesto proprio a lei se per caso sapeva in quale punto del lungotevere avrebbe potuto trovare dei ragazzi; e di Thomas, che ammirava, disse che purtroppo le volte che l’aveva visto era sempre abbastanza ubriaco. Aveva conosciuto quasi tutti gli italiani a cui mi ero appassionato, da Palazzeschi a Barilli, da Bontempelli alla Aleramo eccetera, e naturalmente da Moravia a Pasolini. Su Moravia, furono altre scrittrici di cui fui amico, Anna Maria Ortese e Paola Masino, a darmi notizie e pareri contrastanti, ma Moravia l’avevo conosciuto (tramite Marco Bellocchio) già prima di conoscere Elsa e mi ero fatto di lui una mia idea, come dello stesso Pasolini, che mi era stato presentato da Paolo Milano nel 1958 e di cui avevo letto con vera passione Le ceneri di Gramsci e con piú curiosità che entusiasmo Ragazzi di vita (lo scrittore italiano in cui mi ero piú riconosciuto al tempo dell’adolescenza era Vasco Pratolini, che aveva narrato vite di giovani non diverse da quelle del mio ambiente; ne diventai piú tardi amico, e lo accompagnai su sua richiesta e col permesso di Elsa nella clinica in cui ella passò gli ultimi mesi della sua vita: non mi fu concesso di assistere al loro colloquio, ma alla fine, partito Vasco, Elsa disse: «È venuto Pertini, è venuto Pratolini, che

voglio di piú?»). Di Moravia e di Pasolini, due persone per lei cosí importanti, si poteva parlare anche male, ed era lei a indicarne per prima i difetti, ma poi regolarmente si alterava e mi aggrediva: «Hai mai scritto qualcosa come Gli indifferenti, tu? No. E allora taci!» Solo lei poteva criticarli, reputandosi brava quanto e piú di loro, e aveva assolutamente ragione. Di Moravia critico cinematografico diceva che era troppo saggio e troppo didascalico e che voleva spiegare tutto, anche se ne ammirava la chiarezza del giudizio, e il fatto che riconducesse il film (piú l’argomento che la forma, dicevo io) a un contesto e a una problematica culturali e sociali sui quali i critici di mestiere avevano opinioni superficiali e schierate. In questo aveva piú che ragione: si leggono o rileggono molto volentieri le recensioni di film fatte dai «letterati» degli anni Quaranta-Sessanta, e ci appaiono quasi sempre ideologiche e saccenti, per non dire ignoranti, quelle dei critici accreditati, pesantemente ideologici. Si imparava molto di piú, e non solo e non tanto di cinema, frequentando «firme» come quelle di Alvaro, Flaiano, Pratolini, Palazzeschi (che contrapponeva spregiudicatamente i musical americani e Totò ai «ladri di biciclette»), Brancati, Fortini, Calvino, Arbasino o leggendo certi estemporanei sfoghi gaddiani contro il neorealismo. A questo elenco di nomi va certamente aggiunto il suo: come critico di cinema appartiene a quel tempo e a quella «scuola», anche lei è un «letterato al cinema», che vede del cinema la forza di una rappresentazione capace di influire sulla società in modi piú risoluti e profondi della letteratura, nel bene e nel male; anche lei, pur cosí autonoma nella sua idea di arte, coglie poco delle novità formali di un autore, mentre sa individuare con molta precisione la visione che lo regge, le idee che lo guidano o da cui si lascia guidare. Le riesce anzi piú e meglio che ad altri, perché la sua sensibilità e la sua apertura mentale, la sua curiosità del mondo e dei modi di narrarlo dimostrano una freschezza ed esprimono una sensibilità che altri non hanno, e il suo è uno sguardo femminile, mentre i critici erano tutti maschi, ma soprattutto piú esigente del loro. Prese molto sul serio, per esempio, nel 1950, l’incarico di critico cinematografico radiofonico (una recensione alla settimana, che altri leggeva), accettato anche perché retribuito – in un’epoca in cui la radio era ancora solo pubblica e alternava con una qualche accortezza il superficiale e il profondo, la distrazione e l’ammaestramento. Tuttavia, come si vedrà, dall’interno di un preciso sistema di potere, che era poi quello democristiano negli anni della «guerra fredda». Ma prima di rileggere queste recensioni e discuterne la qualità, ancora qualche ricordo, scegliendo tra quelli piú significativi riguardanti il cinema. Elsa non nascondeva il suo apprezzamento per l’opera di Visconti e per Visconti medesimo, a cui io, al tempo (gli anni tra il ’68 e i primi Ottanta), non risparmiavo gli strali, da giovane critico intransigente ed eccessivo. Come in altri casi, riesco a giustificare la mia severità solo con l’età e con il fatto di sentirmi, allora, e ahimè, portavoce di una cultura che partiva dai giovani e si voleva e pensava nuova, e che era bensí vicina, nella sua parte migliore, a quella in cui Elsa aveva creduto scrivendo Il mondo salvato dai ragazzini, il libro che fu all’origine della nostra amicizia. In modi diversi, vivemmo il successivo disincanto e disamore soffrendone e dandone spiegazioni, derivandone giudizi che non furono sempre comuni, io piú «da dentro il movimento», lei piú lucidamente e duramente «da fuori», ma era comune l’insofferenza verso i compromessi i fanatismi le ottusità dei nuovi raggruppamenti politici, e soprattutto il loro crescente culto della violenza come unica strada (Brecht: «solo violenza aiuta | dove violenza regna»), che sembravano a entrambi parodie dei vecchi modelli

invece che un loro superamento. Tornando a Visconti, gli interventi generosi e instancabili di Elsa perché La terra trema fosse considerato per quel che valeva (li si può leggere in appendice a questo volume) erano appassionati, ma anche acutissimi, per esempio nelle considerazioni su cosa il neorealismo avrebbe dovuto essere. Di Visconti, in quegli anni, Elsa era stata innamorata e non lo nascondeva e, come succede ma come io ancora ignoravo, avere amato la stessa persona può creare una solidarietà con altri che l’hanno amata, ed era questo a giustificare la sua amicizia – telefonica, a distanza – con Anna Magnani. Quando la Magnani morí, dissi a Elsa quanto l’avessi ammirata e quanto mi sarebbe piaciuto conoscerla e Elsa mi rimproverò: «Bastava me lo dicessi, e saremmo usciti una sera con lei». Fu allora che mi raccontò in modi piú espliciti della sua passata infatuazione per Visconti, e mi disse che il titolo del film di Visconti che piú avevo amato e che ancora piú amo, Bellissima, visione chiara del “popolo” in tempi di ricattatorio populismo zavattiniano, glielo aveva dato lei, ed era il nome della bambola di “Cateri’ dalla trecciolina”, l’eroina del “romanzo” che aveva scritto da bambina. Non parlava volentieri delle sue esperienze dirette con il mondo del cinema, non erano state entusiasmanti: un soggetto sul finire degli anni Trenta e già in tempo di guerra (Il diavolo), molto convenzionale, o la sceneggiatura postbellica di un film sull’annuale concorso, allora celeberrimo, per Miss Italia scritta con e per Lattuada, a cui chiesi piú tardi ragguagli, quando entrai in confidenza con lui e con Carla Del Poggio, altra buona amica; il film che fu piú tardi realizzato con quel titolo, con la Lollobrigida, non ha nulla a che fare nella sua convenzionalità e superficialità con l’analisi di personaggi femminili dell’Italia di allora a cui pensavano Elsa e Lattuada. Ci furono poi i tentativi di collaborazione con Zeffirelli, che mi spiegai pensando a Visconti, e il film realizzato da L’isola di Arturo non colse affatto la profondità e la delicatezza, cioè la poesia, del romanzo. A Roma era impossibile non avere a che fare con la gente del cinema, diceva Elsa, che aveva però gusti precisi ed entusiasmi certi per le opere come per le persone, per esempio per il lungo documentario di Bellocchio e amici sulla malattia mentale, Matti da slegare. Non amava la gente del cinema, frequentava solo qualche giovane prima che diventasse importante e venisse accolto nella famiglia dei “cinematografari”. Della sua antipatia per il mondo del cinema si trova traccia nel progetto di romanzo poi abbandonato ma a lungo pensato, Senza i conforti della religione, che avrebbe dovuto essere la storia di due fratellastri uno dei quali, quello non simpatico, uomo di cinema. Rifiutò un giorno in piazza del Popolo a Vittorio De Sica, che ci rincorse in mezzo alle macchine (la piazza serviva ancora in parte da parcheggio, ed Elsa mi invitò con un gesto imperioso ad allontanarmi), i diritti cinematografici di La Storia, che finirono dopo la sua morte nelle mani di Luigi Comencini (per la tv) perché Elsa aveva molto amato il suo Pinocchio. Quando uscí La luna di Bernardo Bertolucci, mi chiese di vederlo subito al posto suo, il primo giorno della programmazione, per poter giudicare se era stato tratto, come sospettava, da un racconto dello Scialle andaluso che aveva piú volte rifiutato di cedere al giovane regista amico, e in effetti il soggetto del film aveva qualche attinenza con quello del racconto anche se ne divergeva poi molto. Con Bernardo, che aveva conosciuto ragazzo, i rapporti si erano guastati non so perché. E c’era, ovviamente, Pasolini – una pietra d’inciampo obbligata per tanti di noi, e anche per Elsa, che, dopo una vicinanza e una sintonia grandissimi, se n’era allontanata (meglio, era stato lui ad allontanarsene) quando Elsa lo aveva sollecitato a lasciar libero Ninetto di sposarsi e, ma questa mi sembrò una giustificazione molto parziale, per le loro diverse idee sul ’68. Con Pasolini io ebbi, come

tanti, incontri e scontri, ma ricordo quanto fosse contento di sapere da Elsa che il Decameron, che avevo visto insieme a lei e di cui lei aveva scelto, come per gli altri suoi film, le musiche, mi era molto piaciuto, e ricordo che, nella sua abituale generosità, quando seppe da Elsa che avevo dei problemi economici con la rivista che dirigevo, le disse di farmi vivo perché mi avrebbe volentieri aiutato, nonostante le nostre divergenze; ma io, orgoglioso e sciocco, non lo feci. Sull’amicizia tra Elsa e Pier Paolo tanti hanno scritto e si sa ormai quasi tutto. Elsa recitò in Accattone e si occupò del commento musicale del Vangelo, di cui seguí da vicino la lavorazione ma, stranamente, ebbe nei confronti del film realizzato qualche perplessità, mentre non l’ebbe nei confronti di La ricotta, che collocava la tragedia della Croce nella volgarità della vita quotidiana: la realtà (la poesia) contrapposta alla irrealtà (la volgarità, ma piú tardi avrebbe aggiunto la bomba atomica e la televisione). Del Vangelo disse invece (rispondendo a un questionario) che le aveva procurato insieme ammirazione e delusione. Ammirazione [...] perché mi è sembrato un risultato magistrale. E delusione perché, a dire il vero, il film sul Vangelo che io avevo sognato era assai diverso da questo. Era per intenderci in poche parole, un film in cui i protagonisti non avevano nessuna aureola visibile; e che in conseguenza forse i cattolici avrebbero giudicato eretico.

Sic et simpliciter. Ho sempre pensato che il meglio delle idee e delle analisi e delle polemiche di Pasolini gli venisse dall’esempio del radicalismo di Elsa, dai suoi giudizi netti e motivati; ho sempre visto Elsa come un esempio di ostinata ricerca di verità oltre ogni compromesso (salvo quelli inevitabili per ogni vita, pena l’isolamento o la follia) e Pasolini come, soprattutto negli anni del successo, convinto di una funzione pubblica da svolgere, e però disilluso dal contesto che si affermava, sempre piú cupo, soffrendo infine di una impossibilità di coerenza che gli costò alla fine un prezzo terribile, e non era invero facile stare nel mondo assumendovi un ruolo di estrema responsabilità e di estrema difficoltà. Il distacco tra Elsa e Pasolini non fu mai totale, il dialogo tra loro continuò fino alla fine nonostante fosse difficile, cosí come non fu mai totale, ma è piú comprensibile, quello con Moravia (che le telefonava ogni mattina verso mezzogiorno, e mi trovai io qualche volta a rispondergli invece di Elsa o di Lucia, l’angelica cameriera sorrentina di Elsa) mentre mi pareva lo fosse quello con Laura Betti, di cui parlava malvolentieri. Ma mi sembrava contenta che io la frequentassi, nonostante il tremendo carattere di Laura e il suo gusto della provocazione, che allontanavano i piú narcisi. In realtà, superata una prima fase, Laura si rivelava una donna piú fragile e piú dolce di quanto non volesse sembrare, e portava molto rispetto agli amici di cui si fidava. Ho pianto la sua morte quasi quanto quella di Elsa – donne forti alle quali so di dovere molto, come ad altre donne forti della mia vita. Vidi con Elsa Zabriskie Point, che le sembrò una favoletta simpatica e fragile; non era una fan di Antonioni e neanche di Bergman, per lei troppo astratti e “frigidi”, e dichiarava una certa diffidenza verso i trabocchetti di un cinema di eccessivo intellettualismo. Al cinema, peraltro, ormai da tempo si annoiava, e le piacque la definizione «napoletana» cui feci ricorso per sintetizzare un giudizio su un film di cui tutti parlavano benissimo e che valeva assai poco: «carta conosciuta» (la carta da gioco troppo consumata dall’uso). Ricordo con molto divertimento un giorno che incontrammo per strada Calvino, e ci si sedette in un bar a discutere di quel che avevo scritto di Ultimo tango a Parigi. La portai una volta a vedere al Planetario un vecchio film di Sternberg, molto molto kitsch, I misteri di Shanghai, il cui erotismo (Gene Tierney!) mi aveva sconvolto da ragazzino. Le sembrò una sciocchezza, ma mi giustificò citando l’entusiasmo di Bill Morrow per i vecchi film: «The

Forties! The Forties!» Eccetera. Alcuni film di giovani ero io a segnalarglieli, e lei ne era curiosa ma il suo giudizio era nettissimo, sapeva vedere e soprattutto sapeva capire. La prima distinzione, da cui tutto discendeva, era: «ha qualcosa da dire», «non ha niente da dire». La sua franchezza era in entrambi i casi assoluta. Amava molto i film di Carmelo Bene, come il suo teatro, anche se era Carlo Cecchi il suo punto di riferimento privilegiato per quanto riguardava il teatro (e vedere con lei le farse di Petito genialmente messe in scena dal giovane Carlo e dai suoi giovani amici fu sempre una grande festa). Aveva sofferto, mi disse, del rifiuto della Rai di finanziare il film che Carmelo voleva fare dalla Serata a Colono, protagonista Eduardo. Troppo costoso, disse la Rai quando Eduardo, sapendo che non si sarebbe trattato di un film indipendente ma che avrebbe avuto quel tipo di produzione, chiese un compenso adeguato ai suoi standard. Il film non si fece, e io, da spettatore e da critico, ancora ne soffro. Pensiamoci: il testo, Morante; la regia: Carmelo; il protagonista: Eduardo. Mai si potrà perdonare l’ottusità di quei funzionari, pensando a quanto spendevano per certe imbecilli (e rimbecillenti) passerelle d’intrattenimento. E dire che, rispetto a quelli di allora, i funzionari di oggi sono molto ma molto peggiori! Un pomeriggio d’estate, sul terrazzino di via dell’Oca dove ogni anno Elsa faceva fiorire dei grandi girasoli, mi fu concesso di prendere in mano una cartellina con le «veline» delle sue recensioni cinematografiche, forse l’unico ad avere avuto questo privilegio da quando le aveva scritte e consegnate a uno speaker radiofonico. Piú ancora che oggi, mi sbalordí che io avessi visto quasi tutti i film di cui aveva scritto, nei due cinematografi del mio paese (aperti a turno dal lunedí al venerdí, una settimana l’uno e una l’altro, ed entrambi il sabato e la domenica) e che di quasi tutti avessi ricordi molto precisi. Questo mi permetteva di confrontare i suoi giudizi e i miei ricordi. Sapevo come la sua breve collaborazione con la Rai era finita perché me l’aveva raccontato piú volte: aveva criticato (peraltro rispettosamente) un film di guerra italiano di quelli dove la nostalgia degli eroismi bellici mal nascondeva la nostalgia del ventennio fascista. Il film era Senza bandiera di Duilio Coletti. I funzionari Rai, piú realisti del re e piú democristiani di De Gasperi, rifiutarono di trasmettere la sua scheda e l’attività di critico cinematografico di Elsa Morante finí lí. Il buffo fu, mi aveva già raccontato, che quando lei inviò una lettera di protesta a qualche giornale, il produttore del film Luigi Freddi, ex gerarca ed ex primo cittadino di Cinecittà, tra i primi artefici del cinema italiano del ventennio ma tutt’altro che sciocco e con qualche velleità d’autonomia, le fece recapitare nella portineria di via dell’Oca un mazzo di rose con un biglietto in cui le diceva piú o meno: «Mi rincresce tantissimo, ma io non c’entro niente». Di Elsa, e di alcune altre persone, soprattutto donne, della cui amicizia ho goduto anche se non ne ho abbastanza profittato (e oggi, da vecchio, so che le persone che mi hanno dato di piú sono lei e Aldo Capitini) potrei scrivere a lungo e parlare per ore. Ma se mi sono dilungato con i ricordi è perché di tutti i suoi contatti e rapporti «ufficiali» con il mondo del cinema nonché, diffusamente, degli scritti raccolti in questo volume, ha trattato con accademica acribia Marco Bardini: nel suo Elsa Morante e il cinema (ETS, Pisa 2014) è possibile trovare tutte le informazioni sinora accessibili. È probabile che Elsa avrebbe sottoscritto queste considerazioni di Ennio Flaiano, fatte sul finire degli anni Cinquanta: Il cinema non è arte, anche nel migliore dei casi. Nessun film mi ha mai commosso o potrà seguitare a commuovermi per tutta la vita (faccio i grandi nomi, tanto per capirci) come una sonata di Bach, due versi di Leopardi, di Catullo, un ritratto di Raffaello, un capitolo di Tolstoj o di Manzoni. Il film migliore mi

commuove per un anno, tre, dieci, poi scopre i suoi limiti, rivela la sua natura, le spurie necessità che lo hanno prodotto, la permanenza nelle sue immagini di una realtà non trasfigurata ma che il tempo rende goffa o incomprensibile addirittura. Il film migliore sfida appena la generazione seguente e quella che l’ha prodotto, poi diventa “documento”.

Il cinema può certamente essere arte, ma la sua condanna è l’effimero – anche se Flaiano non metteva in conto l’evoluzione dei mezzi di riproduzione tecnica di un’opera che oggi permettono di vedere e rivedere quasi tutti i film che piú abbiamo amato e apprezzato, che piú ci hanno impressionato. Come far critica, dunque, se queste sono le premesse? Il programma di Elsa possiamo trovarlo in una sua intervista a «l’Unità» del capodanno 1950, dove Elsa parla bensí di letteratura e non di cinema: una critica sincera, disinteressata, colta, rispettosa del lavoro altrui, e aperta a quel che c’è di vivo nei libri. Una critica guarita dalla grettezza dello squallore libresco e della superficialità che distingue buona parte dei nostri letterati, per i quali mettere in un libro un impegno di vita e non solo del fumo, pare una colpa.

I film non sono i libri, ma la maggior parte dei film e dei libri (oggi la massima parte) sono merci e “pubblicità” per i valori e i modelli che preme al potere di diffondere, e solo la minor parte (minima) pretendono a una funzione piú alta e piú radicale, sia artistica che sociale. Nell’anno di grazia 1950, cinque anni dopo la fine di un massacro mondiale e dentro uno slancio economico condizionato dalla guerra fredda e che prelude a un benessere che ha alienato le coscienze in modi sempre piú invasivi e totalizzanti, scrivere di libri o di film ha somiglianze obbligate. E impone ancora una volta a chi vuol farlo di scegliere un campo: se mettersi dalla parte di chi accetta il potere e condivide i suoi messaggi o invece sentirsi responsabili nei confronti di tutto o quasi tutto. E impone di cercare, nella severa e inquieta ricerca della verità e nella cosciente e sensata scelta della comunicazione, un lettore/spettatore/ascoltatore che apprezzi/goda/capisca cos’è bello (cioè, avrebbe detto Elsa, reale), e capisca che anche di lui si tratta, nelle opere e in chi cerca di spiegarle. L’effimero e la superficialità. Un cinema che scava e che cerca, un cinema d’autore come quello che si sarebbe affermato non molti anni dopo che Elsa ebbe scritto le sue recensioni radiofoniche, era ancora raro. Le ragioni dell’industria e della comunicazione prevalevano su quelle dell’arte, eppure di arte si trattava, di un’arte che aveva la sua ragion d’essere proprio nella comunicazione e nell’immediatezza del suo rapporto con lo spettatore, e nel fatto di parlare piuttosto al suo inconscio che alla sua ragione. Saper riconoscere, quando c’era, l’originalità del linguaggio di un film era un’operazione piú delicata e difficile di quanto non sia oggi, proprio perché il concetto di «cinema d’autore», o pasolinianamente di «cinema di poesia», sarebbe arrivato solo con le nouvelles vagues e con la conquista, da parte dei registi che volevano essere Autori, di un potere e di un’autonomia inusitati, e di una coerenza tra l’ideazione e la realizzazione del film. Il caso Orson Welles, un antesignano, e il modo in cui la Morante seppe apprezzarlo, dimostrano la solidità dei suoi gusti, la pregnanza delle sue intuizioni. Recensendo il Macbeth dice chiaro e tondo – negli anni in cui lo si giudicava su «Rinascita», sotto una firma molto autorevole, un autore di «torte barocche avvelenate dal cattivo gusto» – di avere «grandissima stima delle eccezionali qualità di Orson Welles, ingiustamente misconosciute qui in Italia, da molti, per superficiale sufficienza e scarsa attenzione. Le prime opere di Orson Welles recano il segno sicuro della genialità, sia pur disordinata, e, per la originale scoperta di nuovi mezzi espressivi, hanno fatto scuola nel cinema. Ma l’esuberanza, che è

una ricchezza nativa di questo regista, è anche il suo pericolo» e «il disprezzo delle tradizioni, e l’assenza di ogni peso culturale, che dapprincipio costituivano una forza per Welles, formano ora la sua insufficienza» perché, sottolinea Elsa, «Ai capolavori si deve la massima riverenza», e il Macbeth di Welles le appare come «una volgarizzazione disinvolta […] di quella effervescenza drammatica che faceva la forza genuina di Citizen Kane». Nella considerazione di un poeta, quale Elsa era, per l’arte come la cosa piú vicina alla religione, e perfino per l’arte come religione, era certamente meglio che il cinema lasciasse in pace i capolavori delle arti maggiori, e cercasse altrove la sua originalità – e la cercasse proprio nel campo della comunicazione. Si veda su questo anche la stroncatura che fece della Madame Bovary hollywoodiana di Vincente Minnelli – di cui seppe vedere l’affinità con il musical nella grandiosa scena del ballo. E le sue riflessioni su un film invece importante come la Manon di Clouzot, nel suo rapporto con il capolavoro di Prévost, che ogni nuova generazione (questo lo aggiungo io), dovrebbe leggere e meditare. Ma, in ogni caso, Elsa si affretta ad aggiungere che altro è il romanzo e altro è il film, anche quando è bello. È curioso che il caso abbia unito l’uscita nelle sale, e la conseguente «cronaca» congiunta di Elsa, di due film cosí diversi tra loro come Manon e Il cammino della speranza di Germi, che però ben rappresentano i due modi essenziali di uscire da una tragedia come quella di una guerra mondiale: la disperazione (il nichilismo) dei Clouzot, e la speranza nonostante tutto dei Germi (e del neorealismo). Nella storia del cinema e piú ancora nella storia delle società ha prevalso la speranza, una nuova fiducia nel futuro. Ma cos’hanno allora in comune questi due film? Dice Elsa che essi ci mostrano la tragedia degli uomini singoli, i quali vorrebbero amare, o godere, o lavorare, o semplicemente sopravvivere, secondo il naturale istinto dell’uomo, e che vengono mortificati e travolti nella tragedia collettiva del mondo attuale. In cui, per usare un paragone assai vecchio, il destino individuale dell’uomo ha la stessa parte che ha, in un ciclone, un fuscello di paglia.

Di fronte allo «scandalo della Storia», Elsa Morante non può che propendere per la prima constatazione, piú vicina a Clouzot che a Germi (e al neorealismo). Dunque: il film come strumento della cultura di massa, ma in una visione molto esigente della cultura di massa, che tratti in modo adulto le questioni che affronta, e che non si fossilizzi nei «generi». Sopporta i western, pur vedendone l’esteriorità, e sa riconoscere l’impronta dei grandi registi (ad esempio il John Ford di Bill sei grande!) anche nei loro film minori, ma detesta i gialli, genere «appartenente a quella famiglia di passatempi di cui fan parte, per esempio, il gioco della canasta, o le parole incrociate» e ricorda che ci sono «dei passatempi migliori delle parole incrociate, della canasta, o degli spettacoli gialli». E i melodrammi americani della «felicità in scatola»: Allo stesso modo che una massaia americana può, coi cibi in iscatola, improvvisare un pranzo completo, cosí un regista americano può, con la formula della felicità in iscatola, improvvisare un film, ben dosato nei suoi ingredienti, e di sapore non deplorevole, seppure un po’ scipito.

Di questi film, non resterà allora che discutere la morale che essi trasmettono, su temi importanti anche di vita quotidiana, di moralità quotidiana, e insomma sul loro aspetto, diciamo cosí, educativo, di fornitore di modelli. I piú stereotipati di tutti sono ovviamente quelli dell’American way of life, estranei alla complessità dei comportamenti umani di cui gli europei riescono molto piú spesso a dar conto. Dei «temi importanti» del cinema americano a messaggio (in quegli anni il cinema che il pubblico italiano poteva vedere era o italiano o americano, con una fortissima prevalenza dei titoli americani) vede un particolare, che rompe la ripetitività delle analisi e dei messaggi, una presenza nuova ed

esplicita, quella della psicanalisi: «È significativo il fatto che, quasi ad ogni film americano di serio impegno che dobbiamo qui commentare, dobbiamo necessariamente citare Sigmund Freud» (a proposito di Odio). Ma sa anche apprezzare di Tutti gli uomini del re di Robert Rossen il valore della denuncia della corruzione politica. Perché davvero «il bene non può nascere dal male», come vi dice uno dei protagonisti. Se nella maggior parte dei film si doveva per forza constatare che «l’ambizione dell’originalità non ha tormentato il regista», è anche vero che, quando qualche ambizione c’è ed è risolta in modo intelligente, è lei la prima ad accorgersene, molto meglio dei critici ufficiali del suo tempo. Per esempio nel caso del cinema inglese – e com’è bello trovare un critico che sapeva apprezzare il valore della coppia Powell-Pressburger e del colore nel cinema! e un film decisamente trascurato come L’amore segreto di Madeleine di David Lean, splendido ritratto dell’epoca vittoriana. Elsa apprezza anche Disney, anche la fiaba è cultura!, e la Cenerentola che porta la sua firma, di cui apprezza proprio la capacità di far del cinema fiaba, di illustrare una fiaba. La prova che la fiaba, ancora una volta, funziona: «I bambini presenti alla proiezione davano evidenti dimostrazioni di divertirsi moltissimo». Una Morante non seriosa o condizionata dalle mode non poteva che essere critica anche nei confronti del cinema italiano piú «portato» dalla cultura di sinistra e «progressista» – alla quale sapeva comunque di appartenere, seppur nella sua anarchica marginalità – che era quello del neorealismo. Venerando La terra trema (anche per amor di Visconti, certo, ma piú ancora, io credo, per amore di Verga, uno dei suoi scrittori piú amati) ma con qualche diffidenza verso Ladri di biciclette, e con molta diffidenza per lo zavattinismo dominante. Leggiamo quanto scrive in questo brano lucidissimo – che l’accosta a Palazzeschi e soprattutto a Gadda! – a proposito di Domenica d’agosto e della sua amata Roma: premesso che il nostro cinema propone storie «che temono l’originalità come la bestia piú pericolosa» e propongono sempre la morale del buon senso e del lasciar vivere, [...] i nostri registi provano gusto a ignorare tutto quel che c’è di barocco, di maestoso, di sanguigno non solo nell’architettura di Roma, ma, anche, nel popolo romano. Essi ci mostrano (e valga uno degli esempi piú illustri, Ladri di biciclette) quasi sempre i romani come della gentaccia alla buona e rassegnata

e contrappone alla Roma del neorealismo, decisamente, la Roma del Belli, i romani del Belli. Ma andando oltre Roma, vede come «questi films», dice, «pecchino tutti, anche i migliori, di qualunquismo: che è, con la bomba atomica e altri mali, fra le peggiori calamità del secolo». Nella cartellina dei suoi scritti di cinema, figura una paginetta (forse di risposta a qualche questionario) che sul neorealismo dà un giudizio per molti aspetti conclusivo e che vale la pena di riportare quasi integralmente. Pur riconoscendo «nella moderna storia del cinema» l’importanza del neorealismo cinematografico e i suoi valori spettacolari, morali, sociali, artistici, solo poche opere valgono davvero, perché: In quasi tutte, il raggiungimento della piena espressione poetica (e anche umana), è ostacolato da due impedimenti principali: il materialismo, e il sentimentalismo. Questi due caratteri [...] sono, del resto, fra i vizi principali degli Italiani, anche non artisti.

Chiarisce che «realismo e materialismo non sono affatto la stessa cosa» e che il realismo a cui pensa è quello degli Omero, dei Cervantes e dei Tolstoj (ma anche, dice, degli Hoffmann e dei Poe!), mentre intende per materialismo un criterio limitativo, che si ferma su certi aspetti superficiali della vita, trascurandone la profondità e la ricchezza essenziali, che sono, invece, proprio l’oggetto e la giustificazione dell’arte. Quanto al

sentimentalismo, fra esso e il sentimento corre la stessa differenza che fra il similoro e l’oro.

Nei due maestri della corrente neorealista, De Sica e Rossellini, «si ritrovano quasi sempre, in diverso grado, i due difetti sopra lamentati», in Rossellini, spesso, il sentimentalismo, e in De Sica il materialismo. Di Miracolo a Milano giudica con aperta ironia le prese di posizione sul film che si scatenarono nelle avverse parti politiche: tanto rumore per un film che «crede [...] nelle fate» e nel genere umano. In Roma città aperta, nonostante i grandi pregi del film, vede «una convenzionalità che non risponde ai veri sentimenti del popolo, ma piuttosto a un sentimentalismo di maniera. Se c’è una classe nella quale i sentimenti non sono falsati dal convenzionalismo, questa è proprio il popolo». Ma Germania anno zero? e Europa ’51? Elsa avrebbe dovuto sentir vicine alla sua sensibilità queste opere, quantomeno la seconda per la comune folgorazione della scoperta di Simone Weil, condivisa al tempo da pochissimi. Mi rincresce non averne mai parlato con lei, anche perché negli anni Sessanta e Settanta la forza di Rossellini si era assai diluita e i suoi compromessi lo avevano reso, per molti di noi, piú distante. Si parlò spesso invece di Simone Weil, e molti di quei discorsi li ho ritrovati nella figura del Davide di La Storia, un romanzo di cui ho avuto la fortuna di seguire la stesura, ma anche di subire le tensioni che ne conseguivano, settimana per settimana. Elsa Morante sapeva vedere, sapeva capire – anche attraverso il cinema, peraltro una delle chiavi piú istruttive per giudicare un’epoca –, i suoi condizionamenti come le sue libertà. Pensosa ma non seriosa, anzi vitale e allegra, è questa giovane Elsa cinematografica che apprezza di un tardo film di Capra soltanto che vi figurasse un galletto di nome Caruso, che è poi il nome che avrebbe dato all’ultimo dei suoi amati gatti: le vie dell’inconscio sono infinite! Sa anche valutare l’apporto al film degli attori, con apprezzamenti che riguardano in particolare gli italiani, nei quali sa vedere una componente essenziale del cinema «for the millions» di cui i critici «seri» del tempo di scuola idealistica tenevano pochissimo conto, incapaci di uno sguardo antropo-sociologico sul rapporto che passa tra un film e il suo pubblico, mediato appunto dagli attori. Qui sono soprattutto gli italiani, anzi quasi soltanto loro, a stimolare la sua attenzione: Fabrizi, Totò, Eduardo (ai margini delle critiche radiofoniche si è ritrovato tra i ritagli che Elsa conservava perfino un suo rapido e acuto ritratto di Massimo Girotti), e poi i divi e le dive, e perfino gli attori che si prestavano in Italia al meccanico lavoro del doppiaggio: la Judy Holliday di Nata ieri ebbe la fortuna di venir doppiata da Rina Morelli ed Elsa se ne accorse, e vide l’importanza di questo abbinamento nel successo italiano del film. Ma sugli attori vale la pena di anticipare un brano di queste cronache che li riguarda e li spiega. Elsa li divide in tre categorie: ci sono quelli «che la natura ha provveduto di un intúito straordinario e di un ricchissimo temperamento, cosí che possono, con la medesima naturalezza e passione, trasformarsi nei personaggi piú diversi» e sono «strumenti prodigiosi» per «rendere ogni sentimento umano». Ci sono quelli che piuttosto che attori sono dei personaggi, che si fanno personaggio, come lo Charlot di Chaplin, che è «attore, [...] poeta e regista, sa inventare lui stesso, intorno al proprio personaggio, il mondo e le vicende ideali». Ci sono infine coloro che la natura non ha provveduto né di un carattere singolare e prepotente, né di grandi mezzi espressivi; ma soltanto (nel caso migliore), di una voce gradevole, buona pronunzia, e buona volontà. Piú che interpretare un personaggio, essi declamano, con maggiore o minore grazia od enfasi, il testo della loro parte.

Con una certa cattiveria, conclude: «A quest’ultimo genere [...] appartengono quasi tutti i presenti attori italiani», mentre quelli della prima categoria «non attecchiscono volentieri nel nostro clima». Della seconda, invece: «Disponiamo [...] di buoni ed anche ottimi esempi», e paragona Eduardo a Charlot, ma ricorda anche Magnani e Fabrizi. E altri avrebbe potuto piú tardi aggiungerne Sordi. Si leggano in particolare le sue considerazioni sull’attore comico, nella scheda su Totò sceicco. Se non si è cultori della storia, anche minore, del cinema come spettacolo popolare, in grado dunque di apprezzare anche quel che Elsa Morante dice di film minori e dimenticati (perlopiú giustamente), dei film di tutti i giorni – in un’epoca in cui il cinema era la forma di spettacolo piú frequentata e c’erano le prime, seconde e terze visioni, c’erano d’estate le arene, e i cinema parrocchiali e i festival dell’Unità e un film aveva una vita pubblica di sette anni, e gli italiani vedevano almeno un film la settimana e spesso di piú e la scelta era vastissima, centinaia di titoli nuovi ogni anno – si consiglia di affrontare queste critiche da un altro punto di vista. Se si è letto e amato non solo l’opera narrativa e poetica della Morante ma anche quella saggistica e giornalistica, dove ha espresso le sue idee con una sorta di pervicace ostinazione morale insistita su due fronti: quello di aiutare il lettore, comunicandogli le sue riflessioni e acquisizioni, a capire-vedere, ad andare oltre le apparenze, a cercare radici e verità, e quello di attirarlo nel suo «gioco» grazie alla chiarezza del suo discorrere, tuttavia solido e intransigente (che Capitini avrebbe definito da persuasi), allora si possono anche individuare, cercando ed estraendo da queste cronache, occasionali e su commissione, degli scampoli estemporanei di saggezza che hanno attinenza con i suoi interventi piú motivati, anche questi occasionali, per esempio con quelli, certamente piú meditati e ambiziosi, raccolti in Pro o contro la bomba atomica. È la stessa persona a scrivere, a parlarci con la sua consueta e tranquilla sicurezza delle proprie convinzioni. E ci si potrebbe divertire – ma il verbo divertire, benché adeguato, è riduttivo – a trascegliere e mettere in fila questi scampoli, per ritrovare l’inconfondibile voce di un poeta vero, di un saggista vero, di quelli che sanno vedere-capire e sanno accostarci al cuore delle cose. Si direbbe che per la Morante ogni occasione sia buona per tornare ai temi veri di quegli anni: un brutto e ipocrita film hollywoodiano per parlare della bomba atomica e lamentare che esso presenti «i sacerdoti di questa invenzione [come] patrioti», o un mediocre film italiano per parlare del lager, «Una delle invenzioni moderne, [...] senza dubbio la piú disumana, giacché in essa si esprime, con la maggior compiutezza possibile, quel noncurante disprezzo dell’uomo, e del suo destino individuale, che è il precipuo carattere morale del nostro secolo». Anche il cinema doveva essere per Elsa arte e religione. L’arte che ha davvero apprezzato è quella che rima con religione, che si confonde con la religione. Nel suo elogio di un film di dubbio valore – ma bisognerebbe rivederlo – come Dio ha bisogno degli uomini di Jean Delannoy, ha un peso importante che vi si tratti proprio di religione, del bisogno di religione anche in un ambiente rozzo e «barbarico». Non appena se ne offra il caso, nelle Cronache questa parola ritorna, ed è al centro della paginetta reperita nella cartellina dei suoi interventi sul cinema, che il lettore troverà in fondo a questo libro ma che mi piace mettere a conclusione di questa rapsodica introduzione alla loro lettura, perché mi sembra sia questa l’unica conclusione possibile, e l’unica, probabilmente, che Elsa avrebbe approvato: Poco piú di dieci anni fa, io facevo la critica cinematografica per la

RAI;

per una mia fatale

incompatibilità coi dirigenti di quell’istituto, fui costretta a dimettermi dal posto; e da allora, vado al

cinema assai raramente. Difatti, l’evasione non è per me; per il poco tempo che mi è dato in questa vita, io non cerco altro che la realtà, intendendo questa parola nel suo significato dovuto, e cioè: sostanza profonda e viva delle cose, di là dalla superficie labile e volgare delle apparenze. Volgare, già, mi piace insistere su questo aggettivo; poiché, per me, irrealtà è sinonimo di volgarità, e dunque, di cosa insana e ripugnante. Ai films, come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana, io chiedo la realtà, e cioè un impegno assoluto e disinteressato verso la vita. Vado a vedere solo i films che mi promettono questa realtà; e si capisce che questi films non sono molti. Impegno assoluto e disinteressato verso la realtà della vita significa, poi, religione. Giacché, evidentemente, la realtà della vita non consiste nella povera convenzione del tempo e dello spazio in cui si muove la nostra singola esistenza individuale; ma nella ragione ultima delle cose, fuori dallo spazio e dal tempo e da ogni individuale interesse pratico. È ovvio che il valore della religione sta in simile significato; e nient’altro che questo naturalmente ripetono tutti i testi divini: dalle Upanishad ai discorsi di Budda, fino al testo piú alto di tutti, e cioè il Vangelo cristiano. Mi vergogno, anzi, di ripetere qui, in queste troppo povere parole, simili cognizioni elementari ed eterne; ma il fatto è (sembra di sognare) che oggi si sentono degli adulti, provvisti di educazione, e di studi, e di mezzi, ed eletti a cariche ufficiali e a responsabilità gravissime: i quali discutono di religione, ignorando, si direbbe, addirittura il significato essenziale e universale di questa parola. Ma tornando ai films: fra i pochi films che vado a vedere senza ripugnanza, io metto, naturalmente, ai primi posti i films di Pasolini. E questo non certo per l’amicizia fraterna che mi lega a questo autore (amicizia che considero uno dei massimi onori a me toccati nella vita); ma perché, fuori da ogni mio affetto personale, in tutta la sua opera Pasolini si rivela come uno fra le pochissime persone viventi nel nostro tempo dotate di sentimento religioso. Anzi in lui sembra addirittura incarnarsi il dramma della coscienza religiosa contemporanea. GOFFREDO FOFI

Nota al testo. Le recensioni cinematografiche riportate in questo volume sono trascritte dai dattiloscritti originali conservati nel Fondo Morante donato dagli eredi Carlo Cecchi e Daniele Morante alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma, tranne la scheda su La terra trema, un dattiloscritto senza indicazione di data e di cui non si è riusciti a individuare il luogo di un’eventuale pubblicazione, scritta presumibilmente in occasione della presentazione del film al festival di Venezia del 1948, o per la sua uscita nelle sale, nel maggio 1950. L’ordinamento delle recensioni segue la sequenza ipotizzata da Marco Bardini, sulla base delle date di uscita dei film, nel suo volume Elsa Morante e il cinema, ETS, Pisa 2014, pp. 155-57. Gli appunti e i frammenti collocati in Appendice sono stati scelti anch’essi fra i materiali del Fondo Morante della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma. I titoli sono redazionali. Sono state conservate le oscillazioni grafiche della Morante, sono stati corretti solo gli evidenti refusi di battitura.

La vita nel suo movimento

Domenica d’agosto Domenica d’agosto, Italia 1950

REGIA:

Luciano Emmer

SOGGETTO:

Franco Brusati, Cesare Zavattini, Giulio Macchi, Luciano Emmer

Sergio Amidei

SCENEGGIATURA:

Sergio Amidei,

INTERPRETI: Anna Baldini, Vera Carmi, Emilio Cigoli,

Ave Ninchi, Marcello Mastroianni, Franco Interlenghi, Elvy Lissiak, Mario Vitale, Massimo Serato, Anna Di Leo, Pina Malgarini, Anna Medici, Andrea Compagnoni PRIMA ITALIANA: 18 febbraio 1950 (a Roma il 7 marzo).

Luciano Emmer, il quale aveva già dimostrato la sua intelligenza di regista con alcuni notevoli documentari, si presenta adesso al giudizio del pubblico con un film che sta a mezza strada fra il film di fantasia e il documentario. Ora, a nostro parere, il difetto principale di questo film, che non manca tuttavia di qualità promettenti, è questo: che la parte inventata è tutta smorzata, e resa grigia, da un documentarismo di marca modesta e spicciola. Un documentarismo che chiameremmo dialettale, se non temessimo di essere ingiusti verso l’arte dialettale, che ha dato in Italia opere di cosí grande potenza e umanità. Domenica d’agosto ci descrive quello che i cronisti dei quotidiani usano chiamare esodo in massa dei bagnanti romani verso le spiagge di Ostia. Il regista segue fedelmente, dall’alba al tramonto, una giornata estiva di vacanza del popolo di Roma; e ai motivi, diciamo cosí, corali, si alternano nel film le scene di vita familiare e singola. Con un procedimento non nuovo, ma sempre attraente ed efficace, il regista sceglie, quasi a caso, fra l’affannosa folla domenicale, alcuni singoli personaggi della città, mostrandoci, per ciascuno di loro, questo passeggero momento del loro destino. Sono destini che talvolta s’intrecciano, e talvolta s’ignorano, e sempre s’ignoreranno, l’uno con l’altro. E sono momenti, per l’uno idilliaci, per l’altro patetici o drammatici o addirittura tragici. Un tal procedimento ha numerosi esempi nel passato, fin dai tempi ormai lontani di Grand’Hôtel e di Carnet di ballo; e si può credere che, in questi tempi di vita collettiva, ne avrà altri in futuro. Esso offre all’autore il vantaggio di dare a ciascuna vicenda, anche la piú banale, un valore universale e simbolico; e d’altra parte lo fa incorrere nel rischio di uno spezzettamento dell’azione, allorché le singole vicende non sono legate fra loro da una comune armonia, che dia a tutto il racconto un significato riconoscibile. Alla conclusione, insomma, di questi racconti di vite parallele ci dev’essere una morale, che sarà fatalistica, o cristiana, o pessimistica, o ottimistica, secondo le intenzioni e il credo dell’autore. In Domenica d’agosto incontriamo la servetta scacciata dalla padrona perché il fidanzato (bravissimo giovane del resto, e pronto a sposarla) l’ha resa madre. Incontriamo l’impiegato dai teneri, delicati sentimenti oppressi dalla vita d’ufficio. E la ragazza ambiziosa, che spinge, incoscientemente, il fidanzato sulla via del furto e della prigione. E la popolanina vanitosa che, sospintasi fin dentro la spiaggia dei signori, vi intreccia un idillio con un ragazzo da lei creduto almeno un principe, e che invece si rivela poi per il figlio di uno stagnino, suo vicino di casa. Tutte queste storie non son certo originali, né vogliono esserlo: si direbbe anzi che temono l’originalità come la bestia piú pericolosa. Quanto alla morale del film, è, la morale del buon senso e del lasciar vivere, una morale per famiglie. Riguardo al popolo romano, protagonista principale del film, giova notare che in questo film di Emmer esso ci appare ancora una volta sotto un aspetto che sembra il piú caro alla maggior parte dei nostri registi di films romaneschi. Forse per una legittima reazione ai tempi in cui l’Inno al sole rimbombava nelle piazze, i nostri registi provano gusto a ignorare tutto quel che c’è di barocco, di maestoso, di sanguigno non solo nell’architettura di Roma, ma, anche, nel popolo romano. Essi ci mostrano (e valga uno degli esempi piú illustri, Ladri di biciclette) quasi sempre i romani come della gentuccia alla buona e rassegnata. Ora si confronti questa Roma con quella, per esempio, di Gioacchino [sic] Belli. Si confrontino i

popolani di Gioacchino Belli, quali egli ce li mostra nella loro miseria, nelle risse, nell’amore, nella invettiva e nello scherno, coi popolani dei nostri films in romanesco. E si vedrà come questi films pecchino tutti, anche i migliori, di qualunquismo: che è, con la bomba atomica e altri mali, fra le peggiori calamità del secolo. Fatta questa doverosa difesa del popolo romano, ci pentiamo però di averla fatta. Ricordiamo infatti che la platea del «Cinema Corso» la quale, alla prima di Domenica d’agosto mostrò di gustare freneticamente le familiari immagini dei bagnanti obesi sulla spiaggia di Ostia o il resoconto della partita di calcio, fischiò invece, fuor di sé, dalla noia, un breve e pregevole documentario dello stesso Emmer che precedeva il film. E nel quale sullo schermo apparivano le incantevoli immagini del pittore Goya, commentate dai suoni squisiti di Segovia chitarrista.

Edoardo, mio figlio Edoardo, mio figlio (Edward, My Son),

GB-USA

1949

REGIA:

George Cukor

SCENEGGIATURA:

Donald Ogden Stewart,

dalla commedia di Robert Morley e Noel Langley INTERPRETI: Spencer Tracy, Deborah Kerr, Ian Hunter, Mervyn Johns, James Donald, Leueen MacGrath PRIMA ITALIANA: 15 marzo 1950.

Fra le giustificazioni addotte dai cittadini dei paesi civili per farsi perdonare le mancanze ai propri doveri sociali, e morali, una delle piú abusate, e facilmente smerciabili, è quella dei figli e della famiglia. Un cassiere di banca, il quale, fuggito con la cassa, si giustifichi poi dicendo: «l’ho fatto per i miei figli», non viene per questo assolto dal Tribunale. Ma innumerevoli uomini e donne credono sufficiente un simile motivo per assolversi, di fronte alla propria coscienza, di ogni sorta di scorrettezze, di compromessi, e magari anche di delitti. In realtà, la famiglia non è altro, come tutti sanno, che la forma piú elementare di società organizzata; e il tradire, in nome della famiglia, la piú vasta società di cui tutti facciamo parte, non è che un segno di egoismo: di un egoismo condannabile quasi quanto l’egoismo individuale. Questo è quanto ci vuol dimostrare il regista George Cukor nel suo film Edoardo, mio figlio; e, non fosse che per tale intento, il film merita un attestato di serietà e di dignità che lo distingua dai soliti mediocri films in serie. I quali per lo piú non pretendono di dimostrare, né di condannare, e nemmeno di celebrare un bel niente; ma soltanto di fare incassare ai produttori il maggior numero di milioni possibile, adeguandosi ai gusti e alla morale di un pubblico piuttosto facile. Edoardo mio figlio è la storia della carriera di Arnoldo Boult, che da modesto impiegato diventa Lord e miliardario. La sua fortuna incomincia con un incendio doloso da lui appiccato a un magazzino di sua proprietà allo scopo di riscuotere il premio dell’Assicurazione. Da questo punto, egli non ha piú nessuno scrupolo; e si fa strada attraverso la frode, il tradimento e il delitto, senza mai cadere, grazie alla sua bravura, nella condanna della legge, mentre che le persone delle quali lui si serve lasciano in questo suo gioco la libertà e la vita. Ora ogni volta, accingendosi a tradire un complice o un amico, o a frodare il prossimo, o ad abbandonare allegramente una amante devota al suo tragico destino, egli enuncia con una specie di candore il motivo che, a suo vedere, dovrebbe giustificare qualsiasi azione da lui commessa: «Lo faccio per mio figlio Edoardo». Cosí, in nome di Edoardo, egli spinge al suicidio il proprio socio e la propria amante; e condanna alla infelicità la propria moglie e il proprio migliore amico. Causando, alla fine, la rovina dello stesso Edoardo; che, avvezzato dal padre a soddisfare ogni capriccio e a non trovare nessun limite alla licenza, muore, in un incidente causato dalla sua stessa incoscienza e leggerezza, all’età di ventitre anni. Ora, mentre la madre non sopravvive a lungo alla morte del figlio, il padre invece, che aveva proclamato ad ogni occasione la propria idolatria per il ragazzo, si consola abbastanza facilmente della sua morte, cercando in essa, anzi, qualche nuovo argomento per soddisfare la propria vanità. Con questa notazione psicologica abbastanza sottile gli autori del film ci rivelano che in realtà, per Arnoldo Boult, come per altri suoi simili, l’amore paterno non era stato che un pretesto onde soddisfare senza scrupoli il suo egoismo feroce e insieme quasi candido, la sua avidità di comando e di potere, e la sua criminalità. Questa intenzione degli autori viene confermata dal fatto che essi non ci mostrano mai sulla scena il personaggio di Edoardo, che rimane una specie di fantasma o di simbolo. Cosí che gli spettatori possono conoscere senza schermi né deviazioni, nella sua nuda freddezza e aridità, la feroce psicologia del protagonista.

Il quale, nonostante la scusa di Edoardo, si apparenta alla fine ad altri protagonisti di films americani presentatici come esempi di un individualismo spietato: ad esempio Citizen Kane o il Grande campione. Bisogna dire a questo proposito che Spencer Tracy, pur dimostrando ancora una volta, in questo film, i suoi mezzi eccellenti, non è dotato né dell’estro creativo, seppur disordinato, di Orson Welles, né, tanto meno, delle straordinarie qualità interpretative di Kirk Douglas, protagonista del Grande campione. Si apprezza in Tracy la maschera efficace e la sicurezza dei mezzi, ma gli si rimprovera un certo convenzionalismo e facilità di effetti. Ottima e commovente nella parte della moglie Deborah Kerr, e perfetti tutti gli altri interpreti. Quanto al regista George Cukor, egli si mostra abile nel raccontare, ma privo d’ispirazione; per cui il suo film risulta una macchina ben costruita, ma senza valore artistico.

Donne senza nome – La grande minaccia Donne senza nome, Italia 1950 REGIA: Géza von Radványi SCENEGGIATURA: Géza von Radványi, Liana Ferri, Corrado Alvaro, René Barjavel, Géza Herczeg, Fausto Tozzi

INTERPRETI:

Simone Simon, Valentina Cortese, Françoise Rosay,

Vivi Gioi, Irasema Dilián, Gina Falckenberg, Liliana Tellini, Gino Cervi, Mario Ferrari, Umberto Spadaro, Carletto Sposito, Lamberto Maggiorani, Fausto Tozzi PRIMA ITALIANA: 23 marzo 1950.

La grande minaccia (Walk a Crooked Mile), SCENEGGIATURA:

George Bruce

INTERPRETI:

USA

1948

REGIA:

Gordon Douglas

SOGGETTO:

Bertram Millhauser

Louis Hayward, Dennis O’Keefe, Raymond Burr, Louise Allbritton, Carl

Esmond, Onslow Stevens PRIMA ITALIANA: 23 marzo 1950.

La civiltà contemporanea offre ai narratori degli spunti che chiameremmo nuovi e originali, se tali aggettivi, usati qui, non potessero sembrare ironici. E l’ironia, in questo caso, è veramente fuori posto. Una delle invenzioni moderne che propone in maggior copia argomenti di osservazione e di racconto è il campo di concentramento. Se non la piú distruttiva, questa è, delle invenzioni moderne, senza dubbio la piú disumana, giacché in essa si esprime, con la maggior compiutezza possibile, quel noncurante disprezzo dell’uomo, e del suo destino individuale, che è il precipuo carattere morale del nostro secolo. Dopo le testimonianze veridiche di coloro che hanno fatto, di persona, la tragica esperienza dei campi, vi sono stati, sia nella letteratura che nel cinema o nel teatro, varii autori che hanno tratto spunto dalla vita degli internati per opere di fantasia. Di questi autori, alcuni hanno trovato nella crudeltà del soggetto l’occasione per dar prova di un realismo spietato; altri invece si sono adoperati a dimostrare come l’intima realtà dell’uomo, e il suo singolare destino, si salvino anche nelle condizioni piú umilianti. Questa seconda, nobile intenzione, va riconosciuta al regista Geza Radvanyi. Nel suo film Donne senza nome egli ci descrive la vita di un campo di profughe respinte da ogni nazione, senza piú nome, né patria, né famiglia. Fra le varie figure che si muovono nella vita promiscua del campo, v’è quella di una iugoslava, sulla quale il racconto s’indugia particolarmente. Questa donna, dopo aver visto il marito cadere ucciso nel tentativo di fuga dalla patria, muore di parto nel campo di concentramento. Una guardia del campo, per evitare all’innocente la sorte dei figli di nessuno, si assume generosamente la paternità del bambino, e il film si chiude sull’ottimistica visione dell’infante biancovestito e della faccia bonaria di Gino Cervi, che interpreta la parte della guardia pietosa. La buona volontà del regista e dei suoi collaboratori e interpreti è evidente in tutto il film. Il quale però, insieme con un realismo piuttosto ingenuo, dà prova di sentimentalismo piú assai che di vero sentimento. I personaggi della vicenda, sopratutto le donne, che nella evidente intenzione del regista dovrebbero essere esemplari, peccano spesso di una puerilità di concezione cui si deve l’involontario umorismo di certe scene drammatiche. In tutto il film si avverte il sapore di un particolare internazionalismo, che fa pensare a certi romanzi mitteleuropei che furono di moda nell’altro dopoguerra. Vivi Gioi, Valentina Cortesi [Cortese], Simone Simon, Françoise Rosay e le altre interpreti si prodigano con generosità e bravura per dare sostanza drammatica ai loro personaggi. Anche il film La grande minaccia s’ispira a un argomento squisitamente attuale: l’invenzione della bomba atomica, divenuta per gli Stati Uniti un segreto di stato, cosí che i sacerdoti di questa invenzione sono dei patrioti, e coloro che ne svelano le formule sono dei traditori. Ci è difficile conciliare l’idea romantica del patriottismo con quella della scienza

atomica; ad ogni modo, sarà compito dei futuri psicologi di spiegare simili contrasti. Quanto a noi, apprezziamo l’abilità del regista Douglas nel narrarci con razionalità e freddezza documentaria questa storia di spionaggio, di tradimento, e di indagini poliziesche. Per i suoi pregi narrativi, questa storia fa pensare ad altri consimili films quasi documentari, quali La città nuda. Come in detti films, anche in questo gli eroi sono i bravi poliziotti americani. Anzi, il film si conclude con un breve, patetico discorso, nel quale si raccomanda al popolo americano di stare tranquillo, ché, se i suoi scienziati inventano la bomba atomica, ci sono poi i suoi bravi poliziotti che ne proteggono il segreto e vegliano sulla sicurezza del cittadini. Cosí tutto va per il meglio nel migliore dei mondi possibili, come si legge in Candido.

Le schiave della città Le schiave della città (Lady in the Dark),

USA

1944 REGIA: Mitchell Leisen SCENEGGIATURA: Frances Goodrich, Albert

Hackett, dalla commedia musical di Moss Hart, canzoni di Ira Gershwin (parole) e Kurt Weill (musica) INTERPRETI: Ginger Rogers, Ray Milland, Warner Baxter, Jon Hall, Phyllis Brooks, Barry Sullivan, Mischa Auer

PRIMA ITALIANA:

30 marzo

1950.

Ignoriamo se il titolo del film Le schiave della città sia la fedele traduzione del titolo originale americano, ovvero sia stato coniato per l’occasione dai nostri traduttori. Si sa che i nostri traduttori, nell’applicare nuovi titoli a films stranieri, seguono spesso dei criteri misteriosi; or per quanto riguarda il titolo qui in esame, sia che essi ne siano gli autori o no, è misterioso non solo il criterio che l’ha ispirato, ma il senso del titolo stesso. A prima vista infatti, questo titolo non ha assolutamente nessun rapporto coll’argomento del film, il quale descrive, aiutandosi coi fantastici colori del technicolor, le sofferenze, la cura e la guarigione di una signora americana ammalata di nevrosi. L’ipotesi piú verisimile è che Le schiave della città sia un titolo simbolico; esso sta a significare, forse, che le malattie di nervi son piú diffuse fra le signore di città, imprigionate nelle reti della metropoli, che non fra le floride contadine. Ciò è vero senz’altro; come anche è vero che le nevrosi fanno piú vittime fra gli industriosi, repressi cittadini dei paesi nordici, che non nel libero e solare mezzogiorno. Nel nostro paese, per esempio, accade spesso di sentir dire di qualcuno: è un nevrastenico, con lo stesso tono con cui si direbbe è un antipatico è un seccatore. Come se la nevrastenia non fosse un male, anzi uno dei mali piú dolorosi, e non andasse curata al pari della febbre o del mal di denti. Ad ogni modo, è un fatto, e forse un privilegio, dovuto in parte alla naturalezza dei costumi meridionali, e in parte alla povertà, che fra gli Italiani i nervi non sono presi abbastanza sul serio. A ciò si deve la scarsa notorietà e diffusione che hanno ancora oggi, nei nostri paesi, le teorie psicanalitiche, le quali invece, in altre nazioni, fanno ormai parte della scienza spicciola popolare. Ciò è dimostrato dalla frequenza con cui la psicanalisi offre in America, argomento al cinema, che è il divertimento piú popolare che esista. Di films che traggano argomento dalla teoria di Freud per mettere in scena vicende drammatiche o amene, ricordiamo, per esempio La fossa dei serpenti, Sogni proibiti, L’uomo dei miei sogni, e altri. Ultimo arrivato, in Italia almeno, questo Le schiave della città; che, se si può dire senza dubbio inferiore ai films citati, è tuttavia uno spettacolo ben congegnato e divertente. Assistiamo, in esso, alla storia di Ann, la bella e ancor giovane direttrice di una grande rivista di mode. Fin dai tempi della sua adolescenza, Ann ha avuto cura di nascondere, anche a se stessa, la propria femminilità sotto fogge e atteggiamenti virili. Per esempio, fra tutte le mutevoli e affascinanti forme di vestiti care alle donne, essa ha scelto una volta per tutte il tailleur, tagliato nella forma piú rigida e austera (quella che i sarti sogliono chiamare classica) e composto del piú severo e maschio tessuto inglese. Su questi suoi tailleurs, come suprema proclamazione di virilità, Ann ama spesso ostentare un orologio a catena, di quelli che i nostri nonni solevano portare nel taschino del panciotto. E non basta: dai suoi modi, Ann ha bandito per sempre ogni grazia e civetteria, comportandosi in ogni istante come un fierissimo principale, di quelli a cui i modesti impiegati americani volgono, con voce tremante, l’appellativo di Boss. Tutto procede cosí, per il meglio, e la rivista va a gonfie vele; ma purtroppo, sotto le sue corazze di lana inglese, la povera Ann è infelice; tanto infelice, che sarebbe certo tratta al suicidio o alla pazzia, se non venisse in buon punto, a salvarla, un medico psicanalista. Grazie a questo mago, noi conosceremo i segreti pensieri e i sogni della direttrice. I quali ci rivelano, che essa, in realtà, non è un Giove né

un Marte, e neppure una Minerva o una Diana, ma una Ebe, o, al massimo, una Tersicore, musa della Danza. Il suo massimo desiderio sarebbe di danzare, vestita di veli e di merletti; e inoltre, ella è innamorata. Di chi? Non del devoto Giorgio, e nemmeno di Garson, il divo inseguito da tutte le donne; ma di un suo impiegato, individuo un po’ andante e grossolano, il quale prende il suo posto sulla sedia direttoriale, facendola ruzzolare per terra. Ginger Rogers impersona con grazia la parte della direttrice, e cosí Ray Milland quella del modesto uomo dei suoi sogni. I sogni di Ann sono la parte piú ricca e divertente del film, e non mancano di grazia e di fantasia, sebbene in essi si faccia eccessivo spreco di nebbie fumogene. Il technicolor è mediocre; e i vestiti femminili, tanto piú che la protagonista è la direttrice di una rivista di mode, peccano, a nostro vedere, di una certa assenza di gusto.

Madame Bovary Madame Bovary,

USA

1949 REGIA: Vincente Minnelli SCENEGGIATURA: Robert Ardrey, dal romanzo di Gustave Flaubert

INTERPRETI: Jennifer Jones, Van Heflin, Louis Jourdan, Christopher Kent (Alf Kjellin), James Mason, Gene Lockhart,

Gladys Cooper PRIMA ITALIANA: 15 aprile 1950.

In una libera democrazia, come s’insegna fin dai primi anni ai bambini delle scuole, la libertà di ogni singolo cittadino è naturalmente limitata dal rispetto per i diritti e le libertà altrui. Il godimento delle libertà individuali, secondo ogni evidenza, diventerebbe presto impossibile in un paese dove, poniamo, ciascuno fosse libero di aggredire il prossimo e di strappargli il portamonete facendo, quindi, libero uso di quanto vi si contiene. Questa norma è cosí universalmente nota che, davvero, non sarebbe il caso di ricordarla. Senonché, mentre tutti la riconoscono allorché si tratta di proteggere la proprietà del portamonete, certuni sembrano ignorarla allorquando è in gioco una proprietà che, a nostro parere, è fra tutte la piú intangibile: e cioè, la proprietà delle opere dell’ingegno. E ci duole dover annoverare, fra questi ultimi, i cittadini di un paese che pone, a fondamento della vita civile, il legittimo esercizio della libertà e i diritti individuali: vogliamo dire l’America. Gli scrittori e gli artisti di tutto il mondo sanno come, in America, libri o films vengano spesso tagliati, ridotti e adattati senza consultare l’autore, sopratutto se questi è straniero. Figuriamoci poi che cosa succede quando l’autore è morto: ed è, purtroppo, il caso di Gustave Flaubert, autore di Madame Bovary. Tutto questo discorso è servito, infatti, di preambolo alla piú grave critica che moviamo al film di cui dobbiamo occuparci oggi: appunto, Madame Bovary, l’ultimo film tratto dal capolavoro flaubertiano, e diretto dal regista Vincente Minnelli. Non ignoriamo che l’espressione cinematografica è tutt’altra cosa da quella letteraria, e che quindi un libro, se trasposto sullo schermo, va sottoposto ai necessari adattamenti. Questo, però, non giustifica affatto i mutamenti gratuiti, e le aggiunte inutili e goffe che si notano in questa ultima versione cinematografica del celebre romanzo. Tanto piú che, se tutte le opere dell’ingegno meritano rispetto, ai capolavori si deve la massima riverenza. Ecco perché, malgrado le splendide qualità di recitazione di Jennifer Jones e le innegabili qualità di regía di Vincente Minnelli, questo film non può se non irritare, dal principio alla fine, ogni persona colta e che rispetta la cultura. La libertà usata in questo film nei confronti del romanzo famoso, appare tanto piú inopportuna in quanto il film rievoca l’intera vicenda di Emma Bovary come una difesa fatta dal Flaubert stesso al cospetto dei giudici francesi, che accusavano di immoralità il suo libro. Era dunque, piú che mai, il caso di rispettare al massimo le intenzioni del grande scrittore. Invece, gli autori del film incominciano col falsare gli stessi protagonisti del romanzo: peggio di tutti, Charles Bovary, di cui Flaubert ha saputo fare uno dei personaggi poeticamente piú validi di tutte le storie letterarie, e che qui invece viene presentato, non si sa perché, in modo del tutto diverso. La poesia del personaggio flaubertiano viene proprio dal suo esser condannato, senza sua colpa, alla mediocrità e al fallimento; se Emma persegue ideali lontani e irraggiungibili, Charles è condannato ad aver sempre sotto gli occhi il proprio ideale, non meno irraggiungibile, anzi addirittura incomprensibile per lui. Questo ideale di Charles è Emma stessa; e la sottomessa, religiosa devozione di Charles a tale suo idolo misterioso è, nel romanzo, argomento di una grande e umana commozione. Invece, nel film americano, il marito di Emma diventa un assertore convinto e petulante della propria mediocrità, che sventola addirittura, talvolta, come un’eroica bandiera. Un simile atteggiamento potrà apparire magari legittimo e rispettabile, ma non ha niente a che

fare con quello del Bovary flaubertiano, e questo rapporto falsato fra i due coniugi viene a falsare la figura stessa di Emma. Di piú, il film presenta solo di sfuggita, e quasi ignora, il personaggio del farmacista Homais. Ora un’Emma Bovary senza Homais è come un Don Chisciotte senza Sancio. Non parliamo poi di tutti gli errori di ambiente, le stonature, e le incongruenze di questa Bovary americana. Il ballo in casa dei nobili di provincia diventa qui una specie di rivista hollywoodiana (l’assurda trovata della rottura dei vetri vale come numero finale della rivista). Emma, la povera, ambiziosa moglie del medico di paese, si veste come Rita Hayworth. E via di seguito. Jennifer Jones è sempre la incantevole attrice che tutti conoscono. Van Heflin, invece, a parte gli errori del suo personaggio, non ha saputo dare a Charles Bovary e al suo infelice amore per Emma, nessuna espressione commovente e umana. Quanto all’attore che impersona la parte di Rodolfo, il bello del film, abbiamo dimenticato il suo nome, e siamo soddisfatti di averlo dimenticato.

La terra trema La terra trema, Italia 1947

REGIA:

Luchino Visconti

SOGGETTO:

Luchino Visconti, da Giovanni Verga

SCENEGGIATURA:

Luchino Visconti, Antonio Pietrangeli INTERPRETI: Antonio Arcidiacono, Giuseppe Arcidiacono, Giovanni Greco, Nelluccia Giammona, Agnese Giammona, Venera Bonaccorso, Nicola Castorina, Rosa Catalano, Rosa Costanzo, Alfio Fichera, Carmela Fichera, Rosario Galvagno, Ignazio Maccarone, Giovanni Maiorana, Antonio Micale, Maria Micale, Concettina Mirabella, Angelo Morabito, Pasquale Pellegrino, Alfio Valastro, Antonio Valastro, Lorenzo Valastro, Raimondo Valastro, Santo Valastro, Sebastiano Valastro, Francesco Valastro, Salvatore Valastro, Giuseppe Vicari, Maria Vicari, Salvatore Vicari PRIMA PROIEZIONE PUBBLICA ITALIANA: maggio 1950.

Il grande avvenimento della settimana, a Roma, è stato la proiezione del film La terra trema di Luchino Visconti. Dal punto di vista artistico, che, evidentemente, nella storia del cinema, come in quella di ogni altra arte, è il punto di vista piú importante, questo film è certo l’opera piú pregevole e originale prodotta dal cinema italiano in questo dopoguerra. Che per far conoscere al pubblico un simile film siano occorse delle polemiche, delle proteste sui giornali, e che, infine, esso sia stato proiettato nella stagione morta, è un malinconico segno del poco conto in cui son tenuti, in Italia, l’ingegno e la cultura degli italiani. Ancor piú triste è il constatare che nemmeno la parte piú eletta della società italiana, vale a dire quella che suole occupare le poltrone numerate delle salette per spettacoli d’eccezione, sia stata ritenuta d’intelletto abbastanza capace da conoscere questo film nella sua integrità. Forse, per farglielo conoscere, sarebbe stato utile di intramezzarne la proiezione con qualche sketch comico, o canzonetta sentimentale, o altro cibo leggero; cosí da sollevare quei cervelli privilegiati, stanchi delle lunghe partite di bridge o di canasta, dalla fatica di stare al cinema non solo per divertirsi, ma per conoscere un’opera d’arte. Invece, questa soluzione pratica non è venuta in mente a nessuno; e del film, che nell’edizione originale durava circa tre ore e mezza, è stato dato al pubblico, secondo la voga del nostro secolo, una specie di digest; il quale, come tutti i digest, non può non falsare e menomare la qualità e il significato dell’opera. L’interesse, tuttavia, che, pur cosí menomata, questa suscita nella critica e nel pubblico intelligente, è testimonianza del suo valore. Gli artisti della specie del regista Luchino Visconti sono destinati a lavorare da soli e contro corrente. Alcuni anni fa, quando il cinema italiano si cullava nell’Arcadia dei commendatori in idillio con le loro segretarie, l’uscita di Ossessione sconcertò tutti gli spiriti littorii e timorati. Si accusava il film di realismo che, in quell’Arcadia, pareva un vizio. Senonché, ecco apparire piú tardi, sulla strada segnata da Visconti, i films italiani realisti del dopoguerra, divenuti famosi in tutto il mondo. Già questo realismo provvidenziale scadeva ad un nuovo estetismo e a una maniera, quando Visconti preparò La terra trema; dove, senza piú accontentarsi del crudo realismo, si cerca di esprimere il vero, che è la sostanza di ogni poesia. L’esiguo tempo a noi concesso non ci permette di parlare come si dovrebbe de La terra trema. Quel che non vogliamo tralasciare, è la curiosa accusa di estetizzante lanciata al film da alcuni critici. È strano come gli eccessi del realismo abbiano viziato anche dei palati sensibili; al punto che, senza accorgersi che proprio nel realismo risiede ormai l’estetismo contemporaneo, accusano di estetismo tutto ciò che non è crudamente realista, confondendo addirittura con l’estetismo la lirica o la poesia. Fino al secolo scorso, si ritenevano personaggi degni di tragedia soltanto i re, i principi e i loro pari; i poveri, tutt’al piú, potevano essere personaggi da commedia o da farsa. Si direbbe che un rimasuglio di

questa convenzione è rimasto attaccato a certuni dei nostri critici, allorché li si sente rimproverare al film di Visconti di descrivere i poveri in questo modo. «Come!» sembran dire questi critici scandalizzati, «mostrarci dei poveri che non si esprimono unicamente con parolacce! Dei poveri il cui ideale non è unicamente il pane e fagioli quotidiano o il ritrovamento d’una bicicletta rubata, ma qualcosa di piú ambizioso, di piú lontano, e magari oscuro alla loro stessa coscienza, che li spinge alla rovina! Dei poveri i quali non formano una pittoresca razza a se stante, ma partecipano alla comune tragedia umana, di cui il paesaggio siciliano, che è a sfondo di tutto il film, esprime meglio di ogni altro il senso grave e amaro!» Queste le peggiori colpe rimproverate al film dai critici. Quanto al rimprovero di lentezza che altri gli fanno, non comprendiamo questo rimprovero. Sarebbe lo stesso che rimproverare all’Adagio di una Sinfonia di non essere un Allegro. A noi sembra anzi che il tempo di questo film (parliamo dell’edizione integrale) sia la sua qualità originale, che ha valore di scoperta; e che da questo tempo nascano le sue piú straordinarie rivelazioni poetiche.

Odio Odio (Home of the Brave), Laurents ITALIANA:

USA

1949

REGIA:

Mark Robson

SCENEGGIATURA:

Carl Foreman, dalla commedia di Arthur

INTERPRETI: James Edwards, Douglas Dick, Steve Brodie, Lloyd Bridges, Jeff Corey, Frank Lovejoy

PRIMA

25 maggio 1950.

I pregiudizi razziali, come quelli sociali e altre simili aberrazioni dell’intelligenza umana, sono, per gli urti e i contrasti che ne derivano, argomento di grande efficacia drammatica. Un tale argomento è della massima attualità in un paese come l’America, dove convivono uomini di razze e climi diversi. E infatti in America piú che altrove i pregiudizi razziali hanno ispirato la letteratura, il teatro e il cinema. L’arte, per il suo significato universale, e per la sua virtú di toccare i sentimenti oltre che l’intelletto, può essere (se di ispirazione sincera, e non dettata dalla volontà, o da un interesse, o da un’imposizione), un ottimo mezzo di propaganda contro i pregiudizi. I quali, come le malattie, hanno le loro epoche di fioritura, e le loro epoche di declino. I pregiudizi sociali sono in declino, come la tisi, mentre che i pregiudizi razziali, come il cancro, sono in pieno vigore. Poiché la religione e l’arte, operando con efficacia solo sugli uomini migliori, non bastano a sfatare i pregiudizi, è intervenuta la scienza. Le teorie socialiste hanno dato una bella scossa ai pregiudizi sociali. E si spera che le moderne scoperte psicologiche ne diano una altrettanto salutare a quelli razziali. Ciò è quanto ci propone il film Odio, diretto da Mark Robson. È significativo il fatto che, quasi ad ogni film americano di serio impegno che dobbiamo qui commentare, dobbiamo necessariamente citare Siegmund [sic] Freud. Si direbbe che, da qualche tempo a questa parte, gli Americani vanno riesaminando tutti i possibili motivi del dramma o della tragedia umana alla luce delle teorie psicanalitiche. Come il film di cui trattammo la settimana scorsa, anche Odio, di cui ci occupiamo oggi, studia un complesso d’inferiorità. E, a proposito dei pregiudizi razziali, esso ci propone il seguente problema: «Chi è piú gravemente malato di complesso d’inferiorità: Moss, il soldato negro, avvezzo fin dall’infanzia, a portare fra i bianchi, la propria differenza di colore come una vergogna; oppure, Teddy, il soldato bianco, che non può fare a meno di rinfacciare a Moss la propria pretesa superiorità, ad ogni occasione?» Il dottore che, nel film ha in cura il povero Moss ci risponde: Il malato piú grave è Teddy. Il bisogno di affermare ad ogni occasione la propria superiorità non è se non la difesa di un grave inferiority complex. Per cui se, ad esempio, le madri tedesche, prima fra tutte la madre di Adolfo Hitler, invece di coltivare nei propri figlioli l’isterismo della grandezza, li avessero messi fin dall’infanzia in cura da un buon psichiatra, nessuno avrebbe sentito parlare di Herr Hitler. Il quale sarebbe forse un oscuro e scipito disegnatore di cartoline per i turisti, abitante in qualche angolo di una Germania intatta, nobile e affabile come la Germania del tempo di Goethe. La storia del negro Peter Moss, narrata nel film Odio, per il suo stesso intento di essere una storia esemplare, pecca in qualche punto di convenzionalità. Cosí i caratteri dei protagonisti (il buono e generoso Finch, il perfido Teddy, il Maggiorino troppo giovane, l’anziano bonario) fanno pensare ai personaggi del libro Cuore di De Amicis. Ciò, si badi, non va detto a loro discredito. Il fascino, anzi, dei personaggi di questo film dal fondo modernissimo e freudiano, sta spesso proprio nella loro psicologia da ragazzi. È in quel modo ingenuo e puerile di comportarsi, pure nei dispetti crudeli o nei contrasti drammatici, quasi che il tempo della scuola non fosse ancor finito per loro. Questo tipo particolare di uomo-ragazzo è precipuamente americano; come di ottima qualità americana è la recitazione degli attori, a cui va in gran parte il merito della vivezza del film. Il racconto della

spedizione dei quattro protagonisti in un’isola del Pacifico è condotto con efficacia; come pure con efficacia convincente è descritta l’angoscia del negro, ammalatosi di un senso di colpa dopo la morte del suo amico Finch. Fra gli altri, tutti ottimi interpreti, il protagonista negro, per la sua grazia e la sua commozione umana, è senza dubbio l’attore piú notevole.

Mostra Retrospettiva del Cinema – Stasera ho vinto anch’io Stasera ho vinto anch’io (The Set-Up),

USA

1949

REGIA:

Robert Wise

SCENEGGIATURA:

Art Cohn, da una poesia di

Joseph Moncure March INTERPRETI: Robert Ryan, Audrey Totter, George Tobias, Alan Baxter, James Edwards, Wallace Ford PRIMA ITALIANA: 4 febbraio 1950 (a Roma il 25 maggio).

La settimana ora trascorsa, in queste nostre cronache del cinema, va messa senz’altro fra le settimane fauste, e un tal fatto è tanto piú gradevole, in quanto, nella stagione estiva, è piú inaspettato. Anzitutto c’è stata, ad opera del davvero benemerito Circolo Romano del Cinema, la Seconda Mostra Retrospettiva del Cinema, che ci ha permesso di vedere, o di rivedere, dei vecchi capolavori, fra cui, per citarne solo pochi, i sempre splendidi Incrociatore Potiomkin di Eisenstein [La corazzata Potëmkin di Ejzenštejn], il Diario di una donna perduta di Pabst, e Femmine folli di Erich von Stroheim. Simili mostre retrospettive richiederebbero un lungo discorso; ci accontenteremo qui di notare il rimpianto per l’arte muta che esse suscitano negli amatori del cinema come arte. Tralasciando ogni altra considerazione piú particolare, basterebbe, a farci rimpiangere i films muti, il tanto maggior campo che essi lasciavano all’immaginazione. Si veda, per esempio, nell’Incrociatore Potiomkin, quanto la stupenda e famosa scena della carica della folla acquista di tragicità in quel silenzio irreale. E in Femmine folli, quale risalto ha nel dialogo, fatto di espressioni piú che di parole, la straordinaria mimica di Stroheim. Come si sa, i poeti non devono dire tutto, ma lasciare un margine all’immaginazione. L’arte del cinema, la cui poesia ci giunge soprattutto attraverso il senso della vista, ci guadagna certamente a non esser parlata. E questa è la ragione, per citare un caso recente, della maggior bellezza che, ad esempio, il film di Visconti La terra trema aveva nella edizione originale parlata in dialetto siciliano. Questa bellezza, pare impossibile, derivava in parte dal fatto, sgradito allo spettatore volgare, che il dialogo non era del tutto comprensibile. Cosí che, piuttosto che la traduzione della mimica in parole, suonava come un accompagnamento naturale, e quasi musicale, alla mimica stessa. Passando ora ad altro argomento, parliamo dell’ultimo film veduto in questa settimana: Stasera ho vinto anch’io. Il regista Robert Wise dà prova, in questo film, di alte qualità artistiche e umane, ma anche di un certo gusto per la crudeltà, giacché l’argomento è dei piú crudeli. Un pugnatore invecchiato, che per vent’anni ha sperato inutilmente il grande successo, riesce ad abbattere l’avversario in una partita impari ed eroica, la quale, senza ch’egli lo preveda, dovrà essere la sua ultima partita. Infatti, uno speculatore che aveva pagato il suo manager per la sua sconfitta, si vendica della delusione e del danno patito aggredendolo, alla fine dello spettacolo, in compagnia di alcuni compari: i quali, dopo una lotta disperata, gli schiacciano la mano destra con un mattone, cosí che non potrà battersi mai piú. L’azione si svolge quasi tutta sul ring o nei suoi retroscena; e la sua durata è di un’ora e mezza, equivale, cioè, alla durata reale del film. Qui gioverebbe ripetere quanto già si ebbe a dire la scorsa settimana, e cioè della maggiore efficacia che viene alle rappresentazioni drammatiche dall’unità di luogo, di tempo e di azione. Il film di Wise deve in gran parte la sua potenza alla semplicità e naturalezza del suo ritmo narrativo e delle sue scene. Lo squallore della vita moderna, in questo dramma, tutto moderno, del pugilatore fallito, è espresso magistralmente anche dai tetri esterni della povera strada con le scritte luminose, e dal sordido interno della cameretta d’albergo di quart’ordine, dove la moglie del pugile aspetta il suo ritorno preparando la cena coi cibi in scatola. Il film si chiude con una scena di affetto e di tenerezza familiare: il pugile non combatterà piú, rinuncerà per sempre ai suoi sogni di grandi guadagni e di gloria; ma avrà ritrovato, in

compenso, la vita tranquilla dei comuni mortali, al fianco di sua moglie, che non dovrà, piú, ogni sera, tremare per lui. Robert Ryan, nella parte del pugilatore, pur senza creare un personaggio, interpreta ottimamente il suo dramma. Gentile e patetica Audrey Totter nella parte della moglie. Il titolo italiano Stasera ho vinto anch’io si riferisce, appunto, alla vittoria sentimentale di quest’ultima, mentre che il titolo originale americano metteva l’accento sul dramma individuale dell’eroe. È da tutti riconosciuto il generico ottimismo degli Americani; ma i nostri traduttori cinematografici sono, evidentemente, ancor piú ottimisti.

L’uomo, questo dominatore L’uomo, questo dominatore (The Male Animal ), USA 1942 REGIA: Elliott Nugent SCENEGGIATURA: Julius e Philip Epstein, Stephen Morehouse Avery dalla commedia di James Thurber e Elliott Nugent

INTERPRETI:

Henry Fonda, Olivia De

Havilland, Jack Carson, Eugene Pallette, Joan Leslie, Don DeFore, Hattie McDaniel PRIMA ROMANA: 12 luglio 1950.

Se, agli occhi di una bella ragazza, siano qualità piú virili il vigore intellettuale o la forza dei muscoli; e se, in sostanza, il Principe Azzurro assuma, nei sogni delle ragazze, a preferenza le sembianze di un campione dell’ingegno o di un campione sportivo: ecco uno dei quesiti che ci propone il film di Elliott Nugent: L’uomo, questo dominatore. La risposta piú ovvia a un tale quesito è, naturalmente: A seconda dei gusti. Sono noti, per esempio, i successi che ebbe, fra le dame del suo tempo, il poeta Gabriele D’Annunzio, sebbene fosse d’aspetto piccolo e mingherlino. È noto pure d’altra parte che una delle ragioni addotte da Rita Hayworth per la sua separazione da Orson Welles fu l’eccessiva intelligenza del marito, e come, ad esempio, la dea Venere preferisse Marte al geniale Vulcano. Si può addurre tuttavia, a giustificazione di Venere, che mentre Marte si distingueva, oltre che per il suo valore, per la sua grazia fisica, Vulcano invece era vecchio, e si distingueva fra gli dei per la sua figura orrida e contraffatta; e questo, per la dea della bellezza, non poteva essere un difetto trascurabile. La stessa giustificazione che può addurre per Venere non potrebbe certo valere per Olivia de Havilland, protagonista del film L’uomo, questo dominatore, nel caso che Olivia, fra il professore d’università e il campione di rugby che si disputano il suo cuore, scegliesse il secondo. Ciò per fortuna, e ad onore di Olivia, non avviene; ma che Olivia possa, in qualche momento, esitare fra i due, è un fatto che resterà sempre un mistero per ogni spettatrice provvista di cuore e d’occhi. La virtú, infatti, che può talora fare apparire un campione di rugby piú affascinante di un professore non è crediamo, soltanto la gloria derivante dai campionati; bensí il benefico effetto che gli esercizi sportivi e la vita all’aria aperta sogliono esercitare sulla bellezza. Gli esercizi sportivi producono elasticità dei muscoli, armonia dei movimenti, splendore dell’occhio e disinvoltura nelle maniere; mentre che gli studii son causa di pallore, di calvizie, di ingobbimenti precoci e di timidezze micidiali. Questa è la norma solita; ma essa non vale, evidentemente, per i due rivali del film di cui si parla. Infatti, mentre che il Professore, marito di Olivia, è un giovanotto dall’aspetto, piú che presentabile, addirittura attraente, soprattutto quando si toglie gli occhiali; il campione di rugby, al contrario, che per poco non gli ruba il cuore di Olivia, è una specie di flaccido bisonte con un viso che lo fa sembrare una tartaruga, e, per di piú, tormentato da un raffreddore cronico che è l’unica sua civetteria. E qual è la crisi che rischia di gettare Olivia nelle sue braccia? Semplicemente il fatto che, in una partita di boxe, egli mette il Professore knock out. Ah, Olivia, Olivia! Se tutte le donne andassero soggette a crisi di questo genere, il giorno che, Dio non voglia, il loro marito venisse investito da un autocarro, esse si innamorerebbero dell’autocarro. Il quale fenomeno, oltre ad essere insolito pur fra gli esempi delle peggiori anormalità, sarebbe un capriccio volgare e inopportuno, con tutto il rispetto che portiamo alla civiltà meccanica. Per fortuna, il marito di Olivia si riscatta della sua vergognosa sconfitta alla boxe con una conferenza all’università durante la quale, coraggiosamente, legge a voce alta in pubblico una lettera dell’anarchico Vanzetti, malgrado le minacce dei reazionari. Ciò gli vale, oltre che gli onori del trionfo da parte della studentesca, anche la riconquista di sua moglie, la quale gli esprime la propria estasi coniugale con la frase seguente: «Prima eri solo carino, adesso sei magnifico!» Che cosa non avrebbe pagato il povero Socrate per sentirsi dire

una frase simile da Santippe, magari nell’istante supremo in cui beveva la cicuta! Ma purtroppo, egli dovette accontentarsi delle sole gioie dell’amicizia e della filosofia. Il pubblico rideva spesso al film L’uomo, questo dominatore. Ciò si doveva, speriamo, piuttosto all’aria refrigerata della sala, che faceva dimenticare la canicola esterna, che non a una vera convinzione.

Il canto dell’uomo ombra Il canto dell’uomo ombra (Song of the Thin Man),

USA

Nat Perrin su personaggi creati da Dashiell Hammett

1947 REGIA: Edward G. Buzzell

SCENEGGIATURA:

Steve Fisher,

INTERPRETI: William Powell, Myrna Loy, Keenan Wynn, Dean

Stockwell, Gloria Grahame, Leon Ames, Patricia Morison, Ralph Morgan PRIMA ROMANA: 1o ottobre 1950.

Talvolta, durante i riposi dell’ormai trascorsa estate, ci svagammo la mente cercando d’immaginare a quale specie di film sarebbe toccato in sorte di venire da noi discusso per primo, alla ripresa autunnale di queste nostre cronache. «Sarà», ci chiedevamo, «un film dell’ordine qualunquistico sentimentale, di quelli cosí in voga in Italia in questi ultimi anni, destinati a far delirare le platee di tutto il mondo su questa ammirevole filosofia della nostra grande famigliola italiana? O sarà invece un film quasi-documentario americano sui gangsters, uno di quei documentari geometrici, duri e trasparenti come il cristallo, intesi a celebrare la ineluttabile perfezione della macchina made in U.S.A.? Sarà un film giallo? O un giallo-psicanalitico? O un comico-sentimentale-psicanalitico? O un film di briganti nostrano, fatto in famiglia? Oppure una grande opera neo-realista, di quelle in cui fin l’ultimo dente tremolante del nonno ubriacone non viene risparmiato dalla macchina da presa. La quale ce lo descrive ingigantito, in tutte le sue cavità misere e dolenti, convinta con ciò di svelarvi la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità? Sarà un brillante filmrivista? o un grande film storico in costume? E se fosse... un capolavoro? Se toccasse proprio a noi, il primo giorno della nostra ripresa, di annunciare al mondo l’apparizione di un capolavoro?» Dopo tante fantasticherie, non fu certo senza curiosità e trepidazione che ci recammo ieri a vedere il primo film cui doveva toccare di venir da noi discusso oggi, all’inizio della nuova stagione cinematografica. Si tratta di un film di nazionalità americana, opera del regista Buzzell. Il suo titolo Il canto dell’uomo ombra ci faceva prevedere forse un film assai raffinato, ispirato magari alle filosofie esistenzialiste; oppure un film misterioso sull’aldilà, sia pure uno di quegli aldilà con telefoni, ascensori e tutti i comforts moderni, cari agli autori contemporanei. Invece, ci ingannavamo; e si trattava, per di piú, proprio di un genere di film al quale non avevamo mai pensato: il genere giallo-brillante. Come vuole la discrezione in simili casi, non ne raccontiamo qui la trama, per non privare di tutto il bello e di tutto il gusto coloro che intendono andare a vederlo. Per dare un’idea di questo film, ricorreremo a un’immagine. Lo paragoneremo cioè, a quegli american-drinks che, in varie ricette e sotto varii nomi, vengono preparati nei bars dei grandi alberghi per esilarare la giovinezza elegante. I componenti di questi drinks sono tutti di ottima qualità: gin delle migliori marche, ottima angostura, vero pepe di Caienna, e magari ostriche freschissime. Ma poi, chissà perché, questa mescolanza, a berla, fa venire il mal di stomaco. Tornando ora al Canto dell’uomo ombra, non si può negare che i suoi componenti sono di qualità garantita. Il regista Buzzell, sebbene non toccato dalla grazia, sa fare con disinvoltura il proprio mestiere. La coppia William Powell - Myrna Loy è quella solita amabile coppia, maturatasi nello spirituale elemento della squisitezza borghese, e della quale tutti apprezziamo la naturalezza nel recitare e i modi veramente distinti. La trama è esattamente come si deve, e cioè l’assassino, che viene rivelato all’ultima scena, è proprio quell’individuo al quale nessuno aveva pensato, eccettuati quegli spettatori che, per loro disgrazia, erano entrati nel cinema verso la metà della seconda parte. Per condire, come vuole la ricetta, il fondo tragico poliziesco di qualche sapore gentile, o piccante, non mancano le canzonette cantate da bellissime ragazze in abito da sera, con una voce un po’ rauca e morbosa. Non mancano il cagnolino spiritoso, e il bel ragazzino petulante, adatti a

commuovere i cuori. Non manca il giovanotto scemo, che parla in gergo, né il giovanotto trasognato, il tipo dell’innocente. I dialoghi sono bravi e spiritosi, e le toilettes originali (segnaliamo un tailleur di lustrini che Myrna indossa, con ispirazione assai problematica, per recarsi, all’alba, a un’indagine poliziesca). Insomma, non gli manca niente a questo film, eppure, chi sa perché, esso ci ha procurato una malinconia molto vicina all’ipocondria. E ci scusiamo per non potere offrire nulla di meglio, in questa giornata inaugurale, ai nostri cortesi ascoltatori.

Figaro qua, Figaro là Figaro qua, Figaro là, Italia 1950 REGIA: Carlo Ludovico Bragaglia SCENEGGIATURA: Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Vittorio Metz, Marcello Marchesi, dalla commedia di Beaumarchais e dall’opera di Rossini Barzizza, Renato Rascel, Guglielmo Barnabò, Luigi Pavese, Franca Marzi, Mario Castellani

INTERPRETI:

Totò, Isa

PRIMA ITALIANA:

12 ottobre

1950.

Il personaggio di Figaro, nato dall’ingegno del grande commediografo del settecento Pierre Augustin de Beaumarchais, merita, per la sua vivezza e originalità, la fama e gli onori dei quali ha sempre goduto. Con lui, presentandolo prima nella commedia Il Barbiere di Siviglia e poi nella nuova commedia Le nozze di Figaro, il Beaumarchais rinnova la figura classica del servo furbo e intrigante, dandole grazia ed eleganza, spirito e libertà di linguaggio: tutte qualità che, prima, sembravano un privilegio specifico dei padroni. Nelle Nozze di Figaro, poi, troviamo nel nostro Figaro addirittura un principio di rivolta, e delle aspirazioni che oggi chiameremmo democratiche; per cui, a quanto si dice, Napoleone ebbe a definire la suddetta commedia la Rivoluzione in marcia. Tutti sanno, poi, quali nuove grazie e finezze acquistasse questo amabile personaggio quando fu adottato dall’opera buffa, e cantato da musicisti quali Mozart e Rossini. Anzi, grazie a questi genii, Figaro divenne da allora, precipuamente un personaggio musicale. Cosí che non si può nominare questo personaggio senza sentirsi risuonare all’orecchio le argute e incantevoli note mozartiane: Se vuol ballare – Signor Contino – il chitarrino – le suonerò... oppure la famosa presentazione rossiniana Largo al factotum – della città, recante, pur nella sua festosa leggerezza, una colorita corposità, tutta italiana. Quanto ai personaggi, poi, che, dal fausto giorno della sua nascita, hanno circondato Figaro, è inutile rievocare qui le grazie e le finezze di Cherubino e di Rosina, le ridicolaggini di Bartolo e di Basilio, eccetera. Con simili echi e immagini nella mente, ci siamo recati a vedere il film Figaro qua, Figaro là, dove Figaro è impersonato dal grande comico Totò sotto la regia di Carlo Ludovico Bragaglia. Una nuova presentazione cinematografica del famoso personaggio ci appariva, dati i precedenti storici, impresa assai coraggiosa e impegnativa. Ci figuravamo il nostro amico Bragaglia, di cui tutti conoscono il gusto e la passione per l’arte, curvo per mesi e mesi su testi e spartiti, e intento a studii di storia e di costume, prima di accingersi al lavoro. Quanto a Totò, il principe comico e il comico principe, ci figuravamo che questo eccellente attore avesse dovuto subire, prima di iniziare questo film, una di quelle crisi tormentose cui vanno soggetti i degni attori quando devono interpretare un personaggio famoso, e che ha avuto, prima di loro, interpreti eccellenti. Che Figaro sarà, ci chiedevamo, questo nuovo Figaro di Bragaglia e Totò? Mozartiano o rossiniano? Temevamo perfino che qualche germe rivoluzionario (ci riferiamo, naturalmente, alla rivoluzione francese), potesse, attraverso l’indiavolato spirito del Beaumarchais, attaccarsi a questi due ottimi e pacifici artisti. Invece, per questo film Bragaglia e Totò si sono ispirati soltanto al seguente ragionamento, che, per la verità, non è nuovo in simili casi: «Totò» hanno pensato «è un attore popolare, che attira il pubblico qualsiasi cosa faccia. Figaro è un nome popolare. Mettiamoli insieme, uniamoli a qualche altro nome caro agli spettatori di riviste popolari, e poi buttiamo giú il film come capita. Tanto, il pubblico accorrerà lo stesso, e quel che conta è fare molti soldi». Il ragionamento si è dimostrato giustissimo. Per la proiezione di Figaro qua, Figaro là, la sala (sebbene il film si desse contemporaneamente in parecchie sale), rigurgitava di gente.

E questa gente non finiva piú di applaudire, e si torceva dalle risate, a tutte le bravure di Totò e a tutte le trovate degli autori del film. Rideva cioè alle smorfie, ai contorcimenti, alle spinte e piattonate, ai capitomboli, e alle torte di panna gettate in faccia. Rideva alle strombonate del capitano Matamoro, e rideva alle battute, di cui la piú spiritosa è la seguente: Incontrandosi con un Maggiore, Totò lo abbraccia e gli dice: «Caro Signor Maggiore, siamo colleghi! Sono Maggiore anch’io!» «Ah, sí» risponde il Signor Maggiore, «e di che arma?» «Dell’arma di papà» «E di che corpo?» «Del corpo di mammà» «Ma che maggiore sei?» «Sono il maggiore dei miei sette fratelli». Insomma, i conti degli autori di questo film sono tornati alla perfezione. In questi conti, evidentemente, i nostri autori non si preoccuparono del giudizio della critica, di cui a loro non importa nulla. E allora, non si offenderanno se la critica, per il loro film, preferisce astenersi dal giudizio.

Domani è troppo tardi Domani è troppo tardi, Italia-Francia 1950

REGIA:

Léonide Moguy

SCENEGGIATURA:

Oreste Biancoli, Giuseppe Berto,

Paola Ojetti, Léonide Moguy, Alfred Machard dal romanzo di Machard Printemps sexuel

INTERPRETI:

Anna Maria

Pierangeli, Gino Leurini, Vittorio De Sica, Lois Maxwell, Gabrielle Dorziat, Ave Ninchi, Carlo Delle Piane PRIMA ROMANA: 19 ottobre 1950.

Il film Domani è troppo tardi del regista Léonid Moguy è stato premiato a Venezia ed ha senza dubbio meritato questo riconoscimento. In un’epoca, infatti, in cui buona parte dei registi e produttori non mira ad altro che a mettere sul mercato dei films commerciali, senza nessun riguardo né alla reputazione, né al gusto, né, Dio ne guardi, all’arte, è già consolante di potere discutere seriamente un film, riconoscendone il serio impegno e l’ottimo intento. Tali meriti vanno senz’altro riconosciuti al regista di Domani è troppo tardi e ai suoi collaboratori; anche se il valore umano e artistico del film risulta troppo povero in confronto alla poetica ricchezza dell’argomento trattato. Argomento del film è la crisi dell’adolescenza: di quell’età, cioè, in cui la metamorfosi che avviene nel fanciullo lo getta in preda ai piú gravi e misteriosi turbamenti, nel momento stesso che il suo cuore, per la promessa dell’amore prossima ad avverarsi, si apre ai sentimenti piú gentili. È questo forse l’argomento piú delicato e complesso fra quanti se ne offrono a poeti e ad artisti: esso è stato tentato e svolto in varie opere, alcune delle quali indimenticabili. Il presente film fa di questo argomento un problema educativo prima che un tema di poesia: esso vuol dimostrare, cioè, come la crisi dell’adolescenza, soprattutto nell’inquietante vita attuale, possa concludersi nella tragedia, se l’educazione del fanciullo è sbagliata. L’errore, sempre secondo il regista, consiste sopratutto nell’ignoranza in cui son tenuti i fanciulli riguardo alle relazioni sessuali. Poiché l’innocenza assoluta, in tempi di films di radio e di civiltà collettiva, non è piú possibile, il regista consiglia la franchezza assoluta. Altrimenti la mente del fanciullo cadrà in una confusione piú inquietante di qualsiasi consapevolezza. [...]

Cristo fra i muratori Cristo fra i muratori (Give Us This Day),

GB

1949 REGIA: Edward Dmytryk SCENEGGIATURA: Ben Barzman, John Penn,

Hans Székely dal romanzo di Pietro Di Donato

INTERPRETI:

Sam Wanamaker, Lea Padovani, Kathleen Ryan, Bonar

Colleano, Charles Goldner PRIMA ROMANA: 28 ottobre 1950.

Già altre volte, in queste cronache, avemmo occasione di ricordare come, durante molti secoli, in arte e in letteratura soltanto i re o i personaggi d’alto rango furon considerati degni di fare da protagonisti in drammi e tragedie. Fra la gente umile, fra i servi, si potevano trovare, tutt’al piú, personaggi da commedia o da farsa. Come se le cure materiali, le fatiche, i problemi della vita pratica quotidiana, a cui sono soggetti i poveri, vietassero a costoro quegli alti ideali, quelle ambizioni, quelle lotte fra l’istinto e la coscienza, che sono gli argomenti proprii della tragedia umana. Per fortuna, una simile leggenda è tramontata, cosí che è ormai superfluo dimostrarne le ragioni e gli errori. La storia di re Lear, che, nella sua vecchiezza, si trova solo sulla terra, senza piú il suo regno, senza un affetto, e senza un sasso dove posare la testa, non è piú tragica della storia dei Malavoglia, della loro barca, e della casa del Nespolo. Tocca al poeta di farci intendere, dietro l’apparente modestia degli oggetti, quella misteriosa inquietudine, quell’aspirazione a cose grandi e sconosciute, insomma quella poesia, che può trovarsi in ogni uomo, a qualsiasi classe sociale appartenga. Nel suo stupendo racconto Un cœur simple Flaubert ci narra la storia di una vecchia domestica, la quale, per un suo bisogno inappagato di affetti, finisce con l’affezionarsi a un pappagallo, fino ad adorarlo, e a confonderlo con le immagini divine. Questa povera serva di Flaubert è uno dei [personaggi] piú poetici e profondi che la letteratura ci abbia dato. L’errore di molti artisti e scrittori, e proprio, specialmente, di quelli che amano considerarsi sociali consiste spesso nel mostrarci i poveri, i contadini, gli operai, come una specie di bruti, i quali, dopo l’appagamento delle loro esigenze materiali, non abbiano nessun’altra esigenza. Con le migliori intenzioni del mondo, questi artisti non si accorgono come sia arretrato e convenzionale questo loro concetto dell’uomo. Un tale limite, per esempio, a nostro avviso, faceva il difetto di Ladri di biciclette, film per altri versi pregevolissimo. Mentre che il superamento di questa convenzione è pregio di films quali ad esempio Il traditore, La terra trema, o le opere di Charlot: films molto diversi fra loro, ma tutti poeticamente validi. Edward Dmytryk, regista del film Cristo fra i muratori ha sentito una simile esigenza poetica, e nel film si avverte la nobile intenzione di esprimerla. L’argomento è fra i piú adatti per descrivere, con dignità e profondità di tragedia, la sorte delle classi umili. È la storia di un operaio, combattuto fra gli affetti familiari e le giovanili inquietudini, fra le difficoltà materiali e le esigenze della coscienza; fino al giorno che la sua tragica morte, avvenuta per il crollo di un edificio a Nuova York, mette fine a tutti i suoi dissidii e a tutte le sue speranze. Il film è di alta qualità e ben raccontato; e se esso non raggiunge del tutto quei risultati artistici che ci si poteva aspettare, ciò non è dovuto a cattiva volontà del suo autore, ma ai suoi mezzi espressivi, i quali, soprattutto nei momenti piú tragici della storia, toccano l’argomento soltanto in superficie, senza riuscire a darcene il valore essenziale e profondo. Si veda, per esempio, la scena della morte del protagonista, al cui vistoso orrore non corrisponde un’adeguata forza e compassione umana. Anche là dove si dovrebbe, coi mezzi della espressione cinematografica, approfondire le apparenze della vita e cercare, nelle vicissitudini del protagonista, il senso del suo destino e di quello dei suoi simili, la fotografia non riesce al suo compito, o talvolta, per riuscirvi, si vale di mezzi già usati e visti

altrove. Un altro difetto, a nostro avviso, sta nell’attore che impersona il protagonista: i cui mezzi, buoni per le scene idilliche con la sposina, o per quelle scherzose con gli altri operai, non sono sufficienti ad esprimere i difficili contrasti drammatici e l’angoscia morale. Nel dialogo si nota qualche puerilità. Con ciò non vogliamo certo disconoscere i meriti di questo film (e magari ci toccasse vederne sempre di simili). Vogliamo solo discuterlo, come ogni lavoro che si rispetta. Una immagine poetica, sensibile e ricca di grazia è quella della sposa Nunziata, impersonata dalla nostra Lea Padovani; la quale rivela in questo film delle ottime qualità umane e di attrice.

Occupati d’Amelia Occupati d’Amelia (Occupe-toi d’Amélie), Francia-Italia 1949

REGIA:

Claude Autant-Lara

SCENEGGIATURA:

Jean

Aurenche, Pierre Bost dalla commedia di Georges Feydeau INTERPRETI: Danielle Darrieux, Jean Desailly, Julien Carette, Grégoire Aslan, Jean-Pierre Mocky, Roland Armontel PRIMA ROMANA: 2 novembre 1950.

Gli eroi della commedia Occupati d’Amelia (scritta una quarantina d’anni fa dal Feydeau e portata oggi sullo schermo dal regista Autant-Lara), sono: uno zio di provincia sempliciotto e gioviale, un giovane scapestrato, un ufficialetto marziale e libertino, un pomposo principe da operetta, e, infine, Amelia, una ragazza di quelle che, come suol dirsi, fanno la vita, ragazza di mente e di condotta leggéra, ma che serba tuttavia la fanciullezza del cuore. Se a questi personaggi principali s’aggiunge il padre di Amelia (un nano cinico e frivolo, che sfrutta la figliola senza mai perdere il suo tono burbanzoso), il fratello di Amelia (uno scemo impiegato dalla sorella come cameriere), e una donna fatale velata, nessuno potrà negare che sono presenti, al completo, tutti i personaggi necessarii alla riuscita di una buona pochade stile millenovecentosei. Quanto alla trama, dati i personaggi, l’autore non dovette certo penare troppo per inventarla, essa era lí, pronta e necessaria come il fato. Lo zio di provincia, convinto, non si sa per quale equivoco, che il suo scapestrato nipote sta per prender moglie, arriva con un assegno di due milioni di franchi, da consegnare al nipote solo dopo avvenute le legittime nozze. Come fare? Lo scapestrato, il quale non ha nessuna intenzione di sposarsi davvero, ma d’altra parte non vuol perdere i due milioni di franchi, concerta, d’accordo con l’ufficialetto, suo fido amico, un finto matrimonio. E chi sarà la complice impostora che accetterà di far la parte dell’ingenua, pura sposina? Amelia, proprio lei, la frivola e corrotta Amelia. Tutti vedono quale sapore gustoso abbia un simile scherzo. E attraverso scene movimentate, a cui variamente partecipano anche la dama fatale velata e il principe da operetta, si arriva alla beffa del matrimonio. Dopo il quale, si seguono vari colpi di scena. Prima, con grave costernazione del giovane scapestrato, si scopre che il matrimonio, creduto finto, era vero. Poi, con sollievo del suddetto eroe, si viene a scoprire che il matrimonio non era affatto vero, ma proprio finto. Conclusione: Amelia, e il giovane scapestrato, non sono sposati affatto, ma nel frattempo hanno scoperto di amarsi. Essi partono per Venezia, senza l’assegno di due milioni di franchi, ma provvisti, per loro consolazione, di un magnifico brillante, donato ad Amelia dallo zio di provincia per il suo falso fidanzamento. L’epoca di questa commedia è come si è detto, il primo novecento, epoca universalmente nota come il regno del cattivo gusto. Lo stile dell’arredamento nasceva da un ibrido connubio fra il languido oriente e la grassa borghesia occidentale. Le belle signore sembravano ispirarsi, per la foggia delle loro toilettes, non tanto all’harem, quanto piuttosto al pollaio, e andavano in giro sfoggiando, fra occhiate perverse, bellissime creste, bargigli e ruote, come amabili tacchini. Non parliamo dei signori, i quali si distinguevano, oltre che per la loro baldanza e il loro libertinaggio, per la comicità del loro abbigliamento, soprattutto quando si presentavano in négligé. Tale era il tempo e il gusto del mediocre Feydeau, autore della mediocrissima pochade Occupati d’Amelia. Ma un simile tempo, e un simile gusto non potevano non eccitare la fantasia di un regista intelligente e sensibile come Autant-Lara. Già in altri films, questo regista si distinse per il piacere sottile, fatto di umorismo e di rimpianto, col quale rievoca i tempi passati. La vecchia pochade di Feydeau offre innumerevoli spunti alla sua ispirazione, e diventa, grazie al suo spirito vivo e accorto, uno spettacolo assai gustoso anche, e soprattutto, per gli spettatori piú avveduti. Questi potranno gustare le sue ironiche

allusioni, e la spiritosa accuratezza della scenografia. Gli altri si divertiranno alle comiche peripezie dei personaggi, e quindi tutti usciranno dal cinema contenti e soddisfatti. Sebbene la qualità del film sia soprattutto merito del regista, vanno lodati per la loro ottima recitazione tutti gli attori, fra cui Danielle Darrieux, Carette e Desailly sostengono le parti principali.

Segreto di Stato Segreto di Stato (State Secret),

GB

1950

REGIA E SCENEGGIATURA:

Sidney Gilliat, dal romanzo di Roy Huggins

INTERPRETI: Douglas Fairbanks jr, Glynis Johns, Herbert Lom, Jack Hawkins, Walter Rilla

PRIMA ROMANA:

17 novembre

1950.

Se l’intenzione del produttore e regista Sidney Gilliat, nel girare il film Segreto di Stato era quella, lodevolissima, di suscitare nell’animo dello spettatore l’orrore per i regimi dittatoriali, non si può certo dire che egli abbia saputo giovarsi delle possibilità che l’argomento gli offriva. Se, invece, egli voleva fare una satira delle dittature, anche in questo caso non si può dire che l’effetto risponda alle intenzioni, giacché, mentre lo spunto è satirico, la vicenda, poi, è svolta con uno stile drammatico. In sostanza, l’emozione (se di emozione si può parlare) che sa darci questo film si avvicina piú che altro a quella che può darci un mediocre film poliziesco, mescolato di elementi operettistici e di qualche garbato accento di humour. Sono questi pochi accenti di humour, per l’appunto, i soli pregi che possano ripagare lo spettatore della serata persa e del prezzo del biglietto. Un famoso chirurgo americano, di nome Marlowe, viene attirato, con uno stratagemma, nel paese immaginario di Vosnia, paese dominato da un dittatore, il quale, se ben ricordiamo, risponde al nome di Generale Viva o Siva [Nivo]. Or la ragione vera, e inconfessabile, per cui il chirurgo è stato attirato nel paese, è una gravissima malattia, che ha colpito proprio il Generale Viva in persona, e per cui l’unica speranza è l’intervento del chirurgo protagonista. Grazie alla maestria di quest’ultimo, l’intervento riesce, ma, ahimè, il Generale muore in seguito all’operazione di una trombosi. Alla morte del generale hanno assistito soltanto i suoi fidi, oltre al malcapitato dottor Marlowe. Ma bisogna che il popolo non sappia nulla di questa morte, perché altrimenti il regime, che si fonda solo sul prestigio personale del Generale Viva, crollerebbe senza dubbio. In conclusione, è urgente sopprimere il testimone importuno, e cioè l’americano dottor Marlowe, e sopprimerlo con intelligenza e con astuzia, onde evitare fastidi col Governo Americano. Il film ci fa assistere, per l’appunto, a un gioco a rimpiattino fra la polizia di stato dittatoriale, che vuol sopprimere l’innocente dottor Marlowe, e lo spaurito dottor Marlowe, che non vuole assolutamente venir soppresso. Tale duello si svolge nell’ameno paesaggio di Vosnia, un paesaggio che richiama alla mente piuttosto la stagione della villeggiatura che l’incubo delle ère dittatoriali. Quanto agli abitanti, poi, di Vosnia (se si escludono le grinte marziali dei gerarchi e dei poliziotti), son tutta gente rubiconda e ridanciana, con la faccia, tutt’al piú, del furfante o della spia, ma che non sembra affatto rimpiangere la libertà perduta. Il personaggio meglio riuscito del film è un tipo di levantino o di balcanico che esercita la professione del contrabbando di valuta, e a cui si devono le sequenze piú gustose del film. La trama del quale non manca di sentimentali conforti, giacché, per volontà del destino, il dottore fuggiasco si trova ad essere unito, nella fuga, con una ballerinetta del varietà; ballerinetta che, dopo la fausta conclusione della vicenda, diventerà sua moglie. Or questa conclusione matrimoniale, piuttosto fatta indovinare che detta, è la faccenda meno convincente del film. Non si riesce infatti a capire per quali misteriosi richiami ormonici la ballerinetta e il dottore si sentano indotti a legare insieme i loro destini. Mentre che, infatti, la ballerinetta è una specie di bambolina savia e salace, che vedremmo volentieri unita in matrimonio con un tipo, mettiamo, come Gary Cooper, il chirurgo è un gentiluomo di mezza età, dall’aria freddina e un po’ sfocata, il quale somiglia esattamente a un nostro amico di Torino, il letterato Alberto Rossi. Comunque sia, il proverbio dice: La Madonna li fa, e poi li accompagna.

Il personaggio del dottore è interpretato, con uno stile discreto e amabile, da Douglas Fairbanks Jr. E la ballerinetta da Glynis Johns, la quale fa pensare a quella ballerinetta sul filo di cui si parla in una fiaba di Andersen. Da questo film si trae una sola conclusione consolante; e cioè una nuova conferma che, in Inghilterra (il film è di produzione inglese), le dittature attecchiranno assai difficilmente. Il regista infatti sembra non avere neppure un sospetto di quella che è la vera atmosfera di un paese tenuto sotto dittatura. Atmosfera che si può riassumere in due parole: terrore e squallore. Il solo senso di squallore che ci viene da questo film è dato dall’assenza della genialità. Ma il genio è un dono di Dio. Quanto al terrore, grazie al cielo, almeno nella presente occasione ci è stato risparmiato.

Manon – Il cammino della speranza Manon, Francia 1949 REGIA: Henri-Georges Clouzot SCENEGGIATURA: Henri-Georges Clouzot e Jean Ferry da Manon Lescaut dell’abate Prévost

INTERPRETI:

Cécile Aubry, Michel Auclair, Serge Reggiani, Gabrielle Dorziat, Raymond

Souplex, Henri Vilbert, Simone Valère, Michel Bouquet PRIMA ITALIANA: settembre 1949 (a Roma il 19 novembre 1950).

Il cammino della speranza, Italia 1950 REGIA: Pietro Germi SCENEGGIATURA: Pietro Germi, Federico Fellini, Tullio Pinelli dal romanzo Cuori negli abissi di Nino Di Maria

INTERPRETI:

Raf Vallone, Elena Varzi, Saro Urzí, Saro Arcidiacono,

Franco Navarra, Liliana Lattanzi, Mirella Ciotti PRIMA ITALIANA: 22 novembre 1950.

Da quando abbiamo iniziato queste cronache, ci è capitata di rado una settimana fortunata come questa, in cui gli amatori del buon cinema hanno da scegliere fra varie opere, tutte degne d’esser viste. E ci dispiace che il poco tempo a noi concesso non ci permetta di parlare di ciascuna di esse come meriterebbe. Il film Manon del francese Henri-Georges Clouzot e il film Il cammino della speranza dell’italiano Pietro Germi, sebbene diversissimi come argomento e come ispirazione, hanno tuttavia uno spunto che li accomuna. Entrambi, cioè, ci mostrano la tragedia degli uomini singoli, i quali vorrebbero amare, o godere, o lavorare, o semplicemente sopravvivere, secondo il naturale istinto dell’uomo, e che vengono mortificati e travolti nella tragedia collettiva del mondo attuale. In cui, per usare un paragone assai vecchio il destino individuale dell’uomo ha la stessa parte che ha, in un ciclone, un fuscello di paglia. Del film Manon, concesso finalmente al pubblico italiano con un ritardo non certo lodevole, si è già troppo parlato perché noi presumiamo di dirne, qui, qualcosa di nuovo. Il personaggio di Manon Lescaut è uno dei personaggi immortali della letteratura; uno dei piú vivi, piú belli, piú affascinanti personaggi che mai poeta abbia saputo dipingere. Da quando Prévost le dette vita, Manon ha ispirato gli artisti e le menti piú sensibili di ogni tempo. Stavolta, è il regista Henri-Georges Clouzot che l’ha scelta a protagonista di uno dei suoi films. E poiché, come tutti sanno, Clouzot è uno dei massimi poeti del cinema contemporaneo, l’opera non poteva non offrirci uno straordinario interesse e delle bellezze singolari. Dal suo settecento nativo, epoca sempre umana seppure talvolta feroce, Clouzot ha trasportato la gentile Manon nel disumano mondo moderno. Egli è riuscito a renderci convincente questa trasposizione, a fare acclimatare Manon in questo mondo cosí nuovo per lei, e soprattutto, prodigio davvero insolito, a conservare a questo personaggio, nella sua versione cinematografica, la grazia e la freschezza originarie. In Cécile Aubry, da lui scoperta, Clouzot ha trovato la Manon ideale. E quando si sia detto tutto questo, si è fatta al film la maggior lode possibile. Il film non manca, però, di difetti, e non ha toccato, certo, l’altissima qualità poetica del Corvo, capolavoro di Clouzot, se non in alcuni tratti, e, particolarmente, nel finale. Il quale, contrariamente all’opinione di molti, ci sembra uno dei piú bei pezzi di poesia che mai ci abbia dato il cinema. In esso il paesaggio, i personaggi, il sentimento, si accordano stupendamente ad esprimere quel realismo fantastico e allucinato, che è il carattere proprio del grande Clouzot. Nel Cammino della speranza Pietro Germi ci descrive una specie di esodo biblico di un gruppo di siciliani, donne, uomini, e bambini, dal loro selvatico paesino dove non si dava ad essi la possibilità di guadagnarsi il pane, fino alla Terra promessa della speranza e del lavoro, che in questo caso è la Francia. Nel film, che per certe suggestioni di paesaggio e di dramma ricorda i motivi di La terra trema di Visconti, si ammira la forza dignitosa e la

coerenza dello stile, e la verità e commozione umana di certe sequenze. Solo in pochi casi, il sentimentalismo prevale sul sentimento, e una specie di moralismo un po’ arido e didattico sostituisce l’alta morale, e il senso religioso che è nel soggetto. Questo moralismo è, a nostro vedere, il limite di Pietro Germi, il quale, peraltro, è certo uno dei registi piú dotati del cinema italiano. Come già al film In nome della legge nuoce a questo la finale enunciazione della tesi. L’arte può anche servire a una dimostrazione, ma questa deve nascere spontanea dalla vita e dalla verità delle immagini, e non venire dichiarata e circoscritta dentro rigidi schemi, che mortificano la poesia. Ad ogni modo, il nobile impegno morale e artistico di questo film può dirsi raggiunto, e in esso Pietro Germi ci conferma l’alta qualità del suo lavoro e della sua ispirazione. Lo secondano ottimamente Raf Vallone, Elena Varzi e gli altri interpreti.

Winchester ’73 – Dodici lo chiamano papà Winchester ’73, Stuart N. Lake

USA

1950 REGIA: Anthony Mann

SCENEGGIATURA:

Borden Chase, Robert L. Richards dal romanzo di

INTERPRETI: James Stewart, Shelley Winters, Dan Duryea, Stephen McNally, Charles Drake, Millard

Mitchell, Tony Curtis, Rock Hudson PRIMA ROMANA: 1o dicembre 1950.

Dodici lo chiamano papà (Cheaper by the Dozen),

USA

ricordi di Ernestine Gilbreth Carey e Frank D. Gilbreth jr

1950

REGIA:

INTERPRETI:

Walter Lang

SCENEGGIATURA:

Lamar Trotti, dai

Clifton Webb, Myrna Loy, Jeanne Crain, Mildred

Natwick, Edgar Buchanan PRIMA ROMANA: 30 novembre 1950.

Chi voglia ritrovare, sotto forma di spettacolo senza troppe pretese e accessibile anche a una borsa modesta, due miti cari alla civiltà americana: il mito dell’avventura e quello della felicità, si rechi a vedere due films della settimana, entrambi americanissimi e caratteristici nel loro genere: il primo si intitola Winchester ’73 e il secondo Dodici lo chiamano papà. Winchester ’73 appartiene al genere western. Dopo avere piú volte proclamato la nostra simpatia per questo genere di films, non vorremmo venir sepolti sotto un diluvio di westerns, ché in tal caso, evidentemente, con tutta la miglior volontà del mondo, la nostra simpatia verrebbe messa a dura prova. Per ora, dall’inizio della stagione ad oggi, siamo appena al secondo o al terzo western: la nostra simpatia ancora resiste. Winchester ’73 è un perfetto esemplare del suo genere. Ci ritroveremo l’eroe senza macchia e senza paura, il perfido e crudele brigante, la damigella procace rapita in groppa a un cavallo, e, in piú, ad aggiungere una nota di psicologia piú complicata, un personaggio patetico di cavaliere vigliacco. Ci ritroveremo un seguito di turbinose cavalcate, di epiche sparatorie, di assedii da tenerci col respiro sospeso, il tutto dentro i paesaggi desolati e rocciosi che sono il quadro naturale di simili gesta. Alla fine, v’è un emozionante duello fra due fratelli, finito con la sconfitta del piú cattivo che precipita, ucciso, da un’altissima rupe. Al posto dell’antica, fatata spada di Orlando, viene qui usato, come pretesto a drammatiche sequenze, un ottimo e glorioso fucile che i cavalieri si contendono fra loro. James Stewart e Shelley Winters sono gli eroi principali della vicenda. Dopo tante emozioni, gioverà alla nostra salute di andare a riposarci con un po’ di felicità. Si tratta, per dir le cose come stanno, di quella particolare felicità in iscatola, di marca inconfondibilmente americana, e che porta scritto, sopra una spiritosa etichetta colorata al technicolor, la dicitura: film comico-sentimentale. Questo genere di pellicola combina il sentimento dei romanzi rosa con un leggero e innocuo umorismo. Per cui la dicitura comico-sentimentale vi darà la garanzia che si tratta di un divertimento onesto e adatto alle famiglie. Esso non rattristerà la mente dei vecchi, non esalterà quella delle ragazze, e non turberà i bambini. Nelle storie comico-sentimentali gli amori sono lievi e digeribili come acqua zuccherata; le madri sono gaie e giovanili come fanciulle, e le rughe sui loro volti sono come le venature sui petali delle rose; i padri sono del tipo burbero-benefico, ma piú benefico che burbero. I bambini sono tutti ben coloriti e ben pasciuti, e si esprimono con quelle spiritosaggini che vanno dritte al cuore della platea, e fanno esclamare: Oh, oh, che adorabile furfantello! Le ragazze sono in gamba, e, insomma, che volete di piú? Detto tutto questo, dobbiamo deplorare che il film Dodici lo chiamano papà, non si possa dire, nel suo genere, appunto, comico-sentimentale, uno dei lavori piú riusciti. Anzitutto, il primo errore è stato nello scegliere l’attore che sostiene la parte del protagonista. Clifton Webb, che ammirammo in Governante rubacuori e in Mister Belvedere va in collegio, non

ha decisamente la vocazione del padre, né, tanto meno, del padre di dodici figli. Quel suo distacco dagli eventi terrestri, quel suo dignitoso e astratto cinismo non si accordano coi doveri e le responsabilità di un capo di famiglia. Questa inopportunità poteva dar luogo, è vero, a contrasti gustosi; ma purtroppo lo sceneggiatore del film non ha saputo approfittare dell’occasione. Le trovate sono tutt’altro che geniali, e il dialogo è cosí melenso che la protagonista Myrna Loy, con quel suo volto spiritoso e un po’ appassito, sembra dire: Ma guardate che parte mi fanno fare! Il regista Walter Lang, che non va confuso, occorre dirlo, con un ben altro regista dello stesso cognome, si muove in quest’aria melensa con tranquilla naturalezza. Quanto ai dodici ragazzini, danno prova di solerzia e di doveroso entusiasmo, ma sospettiamo che, in fondo al cuore, non siano troppo convinti né della loro parte, né, sia detto col dovuto rispetto, del loro padre.

Totò sceicco Totò sceicco, Italia 1950

REGIA:

Mario Mattoli

SCENEGGIATURA:

Marcello Marchesi (ispirata dal romanzo Atlantide di Pierre Benoît)

Agenore Incrocci, Furio Scarpelli, Vittorio Metz, INTERPRETI:

Totò, Tamara Lees, Aroldo Tieri, Laura

Gore, Arnoldo Foà, Mario Castellani, Riccardo Billi, Carlo Croccolo, Ubaldo Lay, Raimondo Vianello, Giacomo Furia, Aldo Giuffrè, Pietro De Vico PRIMA ROMANA: 7 dicembre 1950.

L’argomento della comicità nell’arte, o anche semplicemente nel cinema, è certo fra gli argomenti piú interessanti, ma che richiederebbe un discorso troppo lungo per queste nostre cronache. Rimanderemo perciò ad altra occasione le molte considerazioni che vengono alla mente su questo soggetto ogni volta che si vede un film del comico Totò; e che valgono naturalmente anche per l’odierno Totò sceicco, il piú recente lavoro di questo attivissimo attore. Ci limiteremo perciò a qualche considerazione sull’attore comico. A differenza degli attori drammatici o tragici, i quali (come norma almeno, se non sempre nella pratica) son capaci d’interpretare personaggi diversi, l’attore comico è lui stesso un personaggio, o per dir meglio una maschera, e i vari argomenti dei films ch’egli interpreta non sono che dei pretesti per far ritrovare questa maschera (sempre fedele a se stessa) impegnata in diverse vicende; e per ottenerne l’effetto che gli affezionati si attendono, e cioè di far ridere. Un tale effetto può nascere da contrasti psicologici ricchi d’intelligenza e di finezza, da giochi sottili e allusivi; oppure da contrasti e giochi piú grossolani, nel qual caso l’attore comico non è molto diverso da un clown. Guardate per esempio uno degli attori comici piú giovani e piú famosi della presente generazione: Danny Kaye. Il personaggio ch’egli rappresenta non ha nessuna parentela col pagliaccio. È un giovane piacente, gentile, amabile, timido, e spesso turbato da quelle complicazioni del cuore e della mente che sono ormai popolarmente note col nome di complessi freudiani. Malgrado questi insidiosi complessi, egli però conserva intatta la sorgente della sua giovanile, anzi fanciullesca giocondità. Le donne lo amano per lo piú di un amore protettivo e materno, e la vita, al pari delle donne, non sa essergli troppo ostile, per cui le sue storie hanno per solito qualità di grazia e di ottimismo. Evidentemente, gli effetti comici, nei films di questo attore, non saranno mai di una qualità troppo vistosa o turbolenta, e neppure soffriranno di monotonia; ma offriranno sapori svariati, e grati anche ai palati troppo sensibili. Guardiamo invece un attore caro al vecchio cinema muto: Buster Keaton. La comicità di questo attore nasceva dal contrasto fra gli avvenimenti turbinosi in cui si trovava coinvolto e l’impassibilità perenne della sua faccia. Egli è come una marionetta in un mondo umano, che ne fa il suo zimbello e la sua vittima. La comicità di tale situazione è piuttosto meccanica e monotona. Una rara specie di comicità è quella che, per le singolari qualità umane dell’attorepersonaggio, dà alla situazione apparentemente ridicola un valore quasi di tragedia. È il caso di Charlot e (sebbene, s’intende, entro limiti piú familiari) del nostro Eduardo De Filippo. Ma in questi casi, veramente, non si dovrebbe piú parlare di attore comico. Il personaggio di Totò ha qualche parentela con quello di Eduardo De Filippo, non foss’altro per esser tutti e due napoletani. Entrambi hanno dello straordinario popolo di Napoli, quella particolare generosità e adattabilità, e quella specie di filosofia, grazie alla quale, in ogni circostanza, il napoletano si comporta da gran signore. Senonché, Eduardo ci rivela l’intelligente e profonda malinconia, e il grave sentimento del destino, che si nasconde sotto la secolare pazienza del suo popolo; mentre che Totò si accontenta degli

effetti comici del suo personaggio. E per meglio ottenerli, si giova, talvolta anche troppo, della sua maschera animatissima e della sua vivacissima mimica meridionale. Mentre che, per gli altri films, va citato come il regista, per i films comici, tutti imperniati intorno all’attore-personaggio, è a questo che va attribuita la responsabilità e il merito. È questa la ragione per cui degli attori come Charlot, e il nostro Eduardo De Filippo, son soliti ideare e dirigere essi stessi i loro films. Nel caso di Totò, come già dicemmo altre volte, i registi si assumono quasi sempre una parte, non soltanto secondaria, ma, in certi casi, addirittura poco onorifica. Fidandosi esclusivamente sulle virtú mimiche dell’attore, essi gli montano intorno le situazioni piú abusate, piú melense e piú volgari, nella certezza, che, tanto, la partecipazione di Totò assicura il successo. Va riconosciuto a questo Totò sceicco una maggior cura dell’allestimento scenico, una maggiore pulizia e ricchezza dei costumi (che di solito, nei films di Totò, sembrano una mostra della straccioneria), e, infine, una regia piú decorosa e una fantasia piú intelligente. Alcune battute, al solito, fanno torto ai nostri sceneggiatori, ma alcune trovate, come quella del miraggio del gelataio nel deserto, sono addirittura spiritose. Gli attori intorno a Totò recitano bene la loro parte. La regia è di Mattòli.

Cenerentola Cenerentola (Cinderella), USA 1950 REGIA (disegni animati): Wilfred Jackson, Hamilton Luske, Clyde Geronimi (e Walt Disney) PRODUZIONE: Walt Disney PRIMA ITALIANA: 8 dicembre 1950 (a Roma il 21 dicembre).

Una delle attrattive piú affascinanti della giovane arte del cinema è il suo potere di dare nuova vita e realtà alle figure della letteratura, della storia, e della leggenda. Anzi, nel campo della letteratura il suo potere è tale da far temere a molti che il cinema debba un bel giorno addirittura soppiantare la letteratura narrativa, come ha già in parte soppiantato il teatro; e cioè, che un bel giorno la gente dalla mente pigra e passiva, che forma la maggioranza del pubblico, preferisca andare a vedere i libri piuttosto che leggerli. Quel giorno, gli Shakespeare, i Tolstoj e i Flaubert dovranno scrivere sceneggiature invece che tragedie o romanzi; o addirittura, invece che alle lettere, si daranno alla regia. Alcuni scrittori moderni hanno già preso questa strada, per esempio Mario Soldati, e, recentemente, Curzio Malaparte. In attesa di un simile giorno, che evidentemente non ci auguriamo, non c’è, diremmo, scrittore di romanzi o di racconti che non provi soddisfazione a vedere i personaggi e le vicende dei propri libri realizzati, come suol dirsi, dallo schermo. E non c’è lettore che non sia curioso di vedere tradotti in immagini Don Chisciotte, Madame Bovary, o Oliver Twist; anche se la traduzione cinematografica è spesso delusiva. Di singolare interesse e attrattiva sono le traduzioni cinematografiche di opere letterarie del genere fantastico. Infatti, grazie ai suoi particolari mezzi espressivi, il cinema può dare illusione di realtà al mondo dell’inverosimile e dei piú strani prodigi. Se però, un regista, e degli attori in carne ed ossa, possono dar vita sullo schermo, per esempio, al dottor Jekyll o al Barone di Münchhausen, non si può fare lo stesso quando si entra nel mondo delle fiabe popolari infantili. Questo mondo, infatti, è formato di una sostanza cosí leggera e delicata da non sopportare contaminazioni col mondo degli oggetti reali. Ecco, dunque, per le favole del cinema, i cartoni animati: dei quali è re Walter Disney. Disney deve la sua fama sopratutto ai suoi personaggi di animali. Fra i bambini, i personaggi di Topolino o Paperino non sono ormai meno famosi di Pinocchio, o di Peter Pan. Forse, Disney deve alla sua fanciullezza, trascorsa in una fattoria, il suo gusto vivace e attento per il mondo degli animali. Egli però non si è limitato ad essere l’Esopo del cinema; fin dal principio, com’era logico, fu tentato a far rivivere attraverso i cartoni animati i personaggi delle fiabe popolari, animando sullo schermo il mondo favoloso di Perrault e dei fratelli Grimm. Il suo piú grande esperimento in questo senso fu Biancaneve e i sette nani, dove egli per la prima volta componeva, coi cartoni animati, un vero film della durata normale di uno spettacolo. In Biancaneve il paesaggio, la vita degli animali e delle piante sono rappresentati con ricchezza d’invenzioni e anche con poesia; ma la fantasia e talvolta anche il gusto peccano nell’invenzione dei personaggi umani, i quali tradiscono una certa melensaggine e leziosaggine convenzionale. Qui sta, di solito, il limite di Disney. Questo autore non potrà rendervi, nei suoi cartoni né l’arguzia saporita e sostanziosa del toscano Collodi, né lo spirito sottile del Perrault, né la fantasia germanica dei fratelli Grimm. Le sue favole, anche quelle piú immaginose e avventurose, tradiscono sempre un fondo bonario e casalingo, che in certi casi forma la grazia e anche la poesia di Disney; ma che lo fa invece fallire quand’egli affronta dei temi i quali richiedano poteri d’immaginazione piú alti e misteriosi. A ciò si deve il fallimento dell’ambizioso film Fantasia, il quale, a parte l’assunto (assai poco convincente) di rappresentare con immagini e simboli le composizioni musicali, risulta

addirittura irritante per la sua presunzione, e spesso offende addirittura il gusto. Il cartone che abbiamo visto ieri rappresenta la famosa fiaba di Cenerentola. Questa fiaba ha ispirato già compositori di musica e di balletti e il personaggio di Cenerentola è, piú che un’immagine, quasi un simbolo nel mondo delle leggende infantili. In questo film, Disney dimostra un notevole progresso nell’invenzione dei personaggi umani. Le figure della madre maligna e delle sorelle brutte e invidiose, come pure quelle della fata madrina, del re gaudente e stizzoso e del granduca cerimonioso e annoiato sono descritte con vivezza e arguzia. Anche il personaggio di Cenerentola è disegnato con maggior grazia e vivacità che non le solite belle dei cartoni animati. Una amabile fantasia ispira i paesaggi e le visioni, come quella della miracolosa berlina di Cenerentola che attraversa il paesaggio notturno verso la luminosa festa del Palazzo Reale. I bambini presenti alla proiezione davano evidenti dimostrazioni di divertirsi moltissimo.

Tutti gli uomini del re Tutti gli uomini del re (All the King’s Men), Penn Warren

USA

1949 REGIA

E SCENEGGIATURA:

Robert Rossen, dal romanzo di Robert

INTERPRETI: Broderick Crawford, Joanne Dru, Mercedes McCambridge, John Ireland, John Derek,

Shepperd Strudwick PRIMA ROMANA: 28 dicembre 1950.

Per un uomo dalla mente sana, il quale si sforzi di comprendere la psicologia dei suoi simili, senza togliere ad essi la propria stima, il fenomeno della dittatura è ancora piú sconcertante di quello della monarchia la piú assoluta. Infatti, se è sempre deplorevole e ridicolo che un uomo assuma, agli occhi dei propri simili, le prerogative di un Dio, il monarca rappresenta ancora qualcosa che può rassomigliare a un’idea. In lui gli scriteriati sudditi adorano, piú che la sua persona singola, il simbolo di una istituzione. E ciò è ben significato dalla frase che saluta la morte di un sovrano: Il re è morto, viva il re. Il dittatore, invece, non rappresenta altri che se stesso. E se è difficile immaginare che un uomo, in possesso delle proprie facoltà, accetti e sopporti la parte di un Dio, ancor piú difficile è di immaginare in quale stato siano le facoltà di coloro che gli assegnano una tal parte. Il fenomeno dunque va studiato da due punti di vista: quello del soggetto e quello dell’oggetto. E l’oggetto, a differenza di quanto molti potrebbero supporre, è proprio il dittatore, il quale spesso non è se non lo strumento di una brama collettiva di credere e di obbedire, magari a un fantoccio. È questo, appunto, il fenomeno che lo scrittore americano Robert Penn Warren ha esaminato nel suo romanzo Tutti gli uomini del re, dal quale il regista Robert Rossen ha tratto il film omonimo. Che il Warren consideri il dittatore come una specie di fantoccio è dimostrato anche dal titolo, tratto dall’ultimo verso di una quartina inglese, dove si racconta di un certo Humpty Dumpty, il quale, precipitato dall’alto di un muro, dove sedeva, si ruppe la testa: cosí che neppure tutti gli uomini e tutti i cavalli del re potranno piú rialzarlo. Ora, se non erriamo, il personaggio di Humpty Dumpty è, per l’appunto, un pupazzo. E tale, è, in fondo, Willy Starkie [Willie Stark], protagonista del libro di Warren e del film di Rossen. Non certo affascinante all’aspetto, e per di piú ignorante, ottuso, volgare, Willie Starkie è, in fondo, anche ingenuo, sebbene in lui l’ingenuità sia doppiata d’astuzia, come avviene spesso nelle menti grossolane. Dapprincipio le sue intenzioni non sono neppure malvage; sebbene, in realtà, a un uomo simile non si possano attribuire intenzioni rispettabili, né buone, né malvage, poiché in lui manca del tutto quella impalcatura morale, sulla quale la buona volontà umana può costruire un edificio durevole e degno dell’uomo. Usato all’inizio da politicanti senza scrupoli, proprio come un fantoccio, per i loro fini, ben presto egli sfugge dalle loro mani, trovando dei complici assai piú sicuri e piú validi negli ingenui che le applaudono e gli dànno il loro voto. E come riesce ad ottenere la fiducia di costoro, a farsi credere da costoro il loro benefattore, il vero rappresentante del popolo? Semplicemente presentandosi come tale, e urlando piú forte degli altri, e ingannando i suoi complici inconsapevoli con dei benefici che solo in apparenza servono al loro bene, ma che in realtà mirano solo ai suoi interessi ambiziosi. La prova è che, mentre parla in nome del popolo, egli non esita a mettersi d’accordo, pur di riuscire, con gli avversari stessi che dovrebbe combattere. E dispone pure, naturalmente, di una sua povera filosofia, che compendia in questa frase: Il bene nasce dal male. Ognuno riconosce in questa frase una versione popolaresca dell’altra: Il fine giustifica i mezzi, che è stata cosí funesta alla civiltà. Con questo bel principio morale come bandiera, il nostro Willie Starkie adotta come armi preferite la corruzione e la menzogna. I soli che lo conoscono veramente sono i suoi intimi, suo padre, sua moglie, suo figlio, ma i poveretti non possono parlare. E dall’altra parte c’è

una folla di volontari della servitú, di povera gente senza giudizio imbottita dalla retorica, e di donnicciòle isteriche, che fanno il gioco di Willie Starkie. La verità è che il bene non può nascere dal male. Esso sarà un bene soltanto apparente, superficiale e passeggero, che tornerà fatalmente al male, e al peggiore dei mali. Per fortuna dei concittadini di Willie Starkie, nel suo caso un tale fato inevitabile viene fermato a tempo dalla revolverata provvidenziale di un uomo libero, che fa precipitare il fantoccio ai piedi del muro. Il libro di Penn Warren ha meritato il Premio Pulitzer, che è il massimo premio letterario americano; e il film di Robert Rossen, tratto dal libro stesso, ha vinto tre premi Oscar, che sono, come si sa, il massimo riconoscimento dato ai films in America. In verità, se non si possono riconoscere al film dei meriti artistici eccezionali, Tutti gli uomini del re si può tuttavia considerare un ottimo lavoro. Il regista Robert Rossen sa raccontare con un’asciuttezza, e una semplicità di mezzi, che danno grande efficacia al racconto. Broderick Crawford non potrebbe rappresentare meglio la parte del piccolo aspirante dittatore. E tutti gli altri attori, in particolare John Ireland, Joanne Dru, e Mercedes McCambridge, vivono egregiamente la loro parte.

L’amante indiana L’amante indiana (Broken Arrow),

USA

1950 REGIA: Delmer Daves SCENEGGIATURA: Albert Maltz (con lo pseudonimo di

Michael Blankfurt, per via della «caccia alle streghe» del senatore McCarthy) dal romanzo Blood Brother di Elliott Arnold INTERPRETI:

James Stewart, Debra Paget, Jeff Chandler, Will Geer, Jay Silverheels PRIMA ROMANA: 6 gennaio 1951.

La vita e le imprese di quel popolo che, dal colore della sua pelle, vien detto dei Pellirosse, sono, fin dal tempo di Cristoforo Colombo, un seducente oggetto d’interesse per la gente civilizzata; al punto che i Pellirosse sono arrivati a far parte dei miti infantili. È questo un mito che resiste, sebbene la popolazione degli indigeni d’America vada scemando di numero e di potere; e per sincerarsi della resistenza di questo mito, sarebbe bastato un breve giro per le botteghe di balocchi in questi giorni di festa. Fra i doni piú desiderati dai ragazzi e piú venduti dai commercianti, si contavano numerosi costumi da pellirosse completi di arco e frecce e del fiero diadema di penne. Un tal costume rievoca subito alla nostra mente il mondo leggendario della fanciullezza, imprese eroiche, truci imboscate, e nomi fatidici di capi, quali Occhio-di-falco, Unghia-di-tigre, e simili. Quando un argomento o un personaggio affascinano durevolmente la immaginazione dei fanciulli, si può esser sicuri che, in qualche modo, merita rispetto e ammirazione. Dopo tanti films riguardanti la conquista del West, e che ci mostravano i caratteri di barbarie e di ferocia di Pellirosse, il film L’amante indiana, diretto da Delmer Daves, ci mostra le qualità umane, il senso dell’onore, l’arguzia e la cortesia, insomma, la vera civiltà dei fieri Apaches. È questo uno dei pregi del film, il quale, pur non avendo grandissime pretese artistiche o spettacolari, riesce a interessare e a commuovere dal principio alla fine. L’amante indiana racconta la coraggiosa iniziativa di Tom Jeffords, un giovane americano idealista e avventuroso. Il quale, dopo le lunghe lotte fra gli Americani e gli Indiani per la conquista americana del West, decide di metter fine a tanti e inutili massacri inducendo gli Apaches ad una pace onorata, che metta su un piano di uguaglianza vinti e vincitori, e ispiri negli uni e negli altri una reciproca fiducia. Per ottenere ciò, egli affronta una impresa che agli occhi dei suoi compagni scettici significa una morte sicura: e cioè si reca, solo col suo cavallo, nel villaggio del fiero nemico, il temutissimo capo degli Apaches. È sua intenzione di presentarsi a costui non come rappresentante dei conquistatori stranieri, ma come uguale e amico. Parlandogli, nella lingua dei Pellirosse, ch’egli ha imparato nel frattempo a tale scopo, il linguaggio della comprensione e della fratellanza umana. Il risultato di questa impresa è il piú soddisfacente che si potesse sperare. Il capo degli Apaches, appena si vede trattato non come una bestia feroce, ma come un uomo, rivela le proprie qualità di profonda saggezza, di signorilità e di umana simpatia. E mostra di poter dare quanto a civiltà, qualche lezione perfino ai suoi civilizzatori. Oltre alla sua leale amicizia, il giovane e bravo Americano trova nel suo villaggio anche l’amore. E dopo poche lune, egli si sposa nel villaggio stesso, e secondo il rito indigeno, con una giovane e bellissima pellirosse. La incantevole Debra Paget, che impersona la sposa indiana, è senza dubbio la principale attrattiva di questo film. L’ingenua grazia del suo volto, che esprime con tanta semplicità la tenerezza, l’innocente fiducia e la dedizione, sa dare a questa storia d’amore una sincera commozione umana, e un sapore fantastico nel tempo stesso. Si veda per esempio la scena del matrimonio, e la partenza dei due sposi a cavallo verso la capanna costruita apposta per la loro luna di miele. James Stewart ha quell’aspetto simpatico, e quei modi onesti e fiduciosi, che ci vogliono

per la sua parte; ma il suo dolore, alla morte della sposina, risulta un po’ di maniera. Il capo Apaches è proprio la figura dell’eroico guerriero, savio e paterno, quale può sognarla un ragazzo romantico. Il dialogo è quasi sempre grazioso e naturale. Il technicolor non è niente di straordinario, ma è gradevole. E lodevole è l’assunto antirazzista del film. Il regista Daves sa raccontare la sua favola con una convincente naturalezza.

Continente nero Continente nero (Savage Splendor),

USA

1949

REGIA:

Lewis Cotlow e Armand Denis. Commento: Richard Hansen

PRIMA ROMANA: 9 gennaio 1951.

I viaggiatori dei tempi passati, e in ispecie quelli dell’epoca romantica (ai quali i viaggi e i ricordi eran grande argomento d’ispirazione), solevano annotare le loro impressioni di viaggio in diari o anche, se erano abili disegnatori, in albums di disegni. Cosí usavano fare (per citare, fra innumerevoli esempii, due esempi illustri), Stendhal e Goethe. Il piacere pregustato dei grandi racconti che, al ritorno, si potranno fare agli amici sedentari, è una delle soddisfazioni di chi viaggia; e non certo l’ultima. Anzi, secondo il poeta Montale, col quale avemmo la fortuna di viaggiare insieme una volta, questa è la principale, e forse l’unica soddisfazione vera del viaggiatore. L’invenzione della macchina fotografica ha fornito una specie di specchio magico ai viaggiatori nostalgici o pedanti. «Fermiamo l’attimo fuggente» sembra il motto dei turisti che viaggiano con la loro Kodak a tracolla. Ma i viaggiatori piú raffinati non si accontentano piú della macchina fotografica; essi viaggiano con la macchina da presa. I loro diari di viaggio potranno giovarsi cosí di uno strumento assai piú preciso e fidato che non la parola. E grazie a questo strumento, nessuno, al loro ritorno, potrà accusarli di raccontare delle frottole, come avveniva ai tempi di Marco Polo. Il film Continente nero, è, per l’appunto, una specie di diario cinematografico di due viaggiatori: Armand Denis e Lewis Cotlow. Essi partirono in viaggio per l’Africa allo scopo di catturare esemplari di belve africane per i giardini zoologici spopolati dalla guerra. Li accompagnò un operatore: Joseph Braun, fornito di tutto l’attrezzamento necessario per una perfetta ripresa cinematografica dei luoghi e delle avventure; e non per una semplice ripresa in bianco e nero, ma al technicolor. Già altre volte i paesaggi e i costumi africani erano stati ritratti dalla macchina da presa; e tutti ricordano le straordinarie documentazioni di Africa parla. Ma è questa la prima volta che si possono vedere sullo schermo, dal vero, i colori fantastici del paesaggio africano. Possiamo cosí accompagnare questi avventurosi cacciatori di belve mentre percorrono, sui loro autocarri, le foreste, i villaggi e le pianure dal Congo al Kenia; e vedere con loro l’altissima forma azzurrina del Kilimangiaro, e le bizzarre figure nere della flora africana lungo le rive color d’ocra. Grazie all’invenzione ingegnosa d’una barca col fondo di vetro, possiamo prender parte perfino alla vita subacquea degli ippopotami, di cui scorgiamo le forme gigantesche giacere o muoversi in fondo al fiume azzurrastro come pesci irreali in un acquario. Vedremo pure le goffe danze delle giraffe, e il banchetto dei leoni rossi intorno a una zebra striata. Finito il banchetto, i leoni, ormai sazi, sono innocui e famigliari, e vengono a strisciarsi come gatti contro il nostro autocarro. A loro succedono, nel banchetto, gli avvoltoi, che scendono a centinaia sulla carcassa della zebra, per fuggire al passaggio dell’autocarro, urlando come streghe impaurite. Gli episodi piú interessanti del film sono la visita ai Pigmei, l’incoronazione del re del Congo e la caccia al rinoceronte. Chi ha viaggiato in Africa sa che i Pigmei sono il popolo piú gentile e piú felice della terra. Questo film dà qualche esempio della loro cortese ospitalità, delle loro abitudini festose e della bizzarra, ma tuttavia amabile, civetteria delle loro donne. Quanto al re del Congo, egli si distingue fra tutti i suoi sudditi, non foss’altro, per il suo peso, che supera certamente il quintale e mezzo. Su questa mole regale, i sudditi hanno posto una mole ancor piú pesante di ornamenti e di gioielli dai colori piú fantasiosi. Ma il privilegio piú curioso di questo re è il suo sedile, che è un sedile naturale; e cioè uno

dei suoi fedeli sudditi, il quale, accovacciato per terra, sopporta sulla propria schiena, il peso monumentale del suo sovrano. La caccia al rinoceronte è forse l’episodio piú straordinario del film, giacché ci fa assistere al duello fra un rinoceronte e un autocarro. Nel corso di questo duello, l’autocarro a un certo momento ha la peggio, giacché va a finire con le ruote all’aria. Ma il rinoceronte alla fine viene sconfitto, e, preso al laccio, e legato con corde, viene issato sull’autocarro vittorioso e trasportato verso la perpetua prigionia. Il technicolor, pregio principale di questo film, è di qualità gradevole, e gli episodi, pur se non coordinati fra loro, offrono tutti un interesse singolare allo spettatore.

Bill sei grande! Bill sei grande! (When Willie Comes Marching Home), USA 1950 REGIA: John Ford SCENEGGIATURA: Richard Sale, Mary Loos, da un articolo di Sy Gomberg

INTERPRETI:

Dan Dailey, Corinne Calvet, Colleen Townsend, William Demarest,

James Lydon PRIMA ROMANA: 12 gennaio 1951.

Una delle qualità indispensabili alla interezza morale di un uomo, alla perfezione estetica di un’artista [sic], e, infine, alla civiltà di un popolo, è il senso di umorismo. Shakespeare aveva cura che una vena di umorismo s’infiltrasse sempre, per qualche via, anche nelle sue tragedie. Un popolo che non sapesse sorridere anche delle proprie vittorie assumerebbe fatalmente, nella storia, un aspetto rigido e feroce che contrasta con l’ideale umano della vera grandezza. E perfino i santi, se mancano di umorismo, finiranno col diventare delle figure severe e astratte, e non rimarranno vivi nel cuore della gente. Come ogni vero artista, John Ford, uno dei massimi registi della nostra epoca, possiede, vicino alle altre sue qualità, un vivo senso di umorismo. Esso si nota apertamente, o si lascia scoprire, in tutte le sue opere; e si deve anche ad esso la vivezza e verità psicologica dei suoi personaggi, e la virile semplicità della sua arte. Nelle sue opere piú famose, come Il traditore, La pattuglia sperduta, Ombre rosse, John Ford ha fatto le sue grandi prove di poeta epico e tragico. Stavolta, ha voluto esercitare soltanto le sue facoltà umoristiche, in un’opera minore, una specie di divertimento, che, se naturalmente è di un valore meno importante e piú leggero, e non pretende di venir classificata fra i capolavori, non è indegna tuttavia del nome di John Ford. Il film Bill sei grande! ha, innanzitutto, il grande merito di riposarci dell’enfasi e della teatralità di molta propaganda. Non di rado, i films di propaganda offendono lo spettatore dignitoso, anche, e tanto piú, se lo trovano consenziente con gli scopi finali che intendono perseguire. Infatti, essi hanno spesso l’aria di considerare lo spettatore come un poveretto dal cervello non cresciuto, a cui si possono dare a intendere ogni sorta di leggende impossibili nella realtà umana, e infliggere, per di piú, i racconti piú noiosi e improbabili, pretendendo ch’egli applauda, per non tradire la causa. È questa una vera scuola dell’ipocrisia e della melensaggine, ed è doloroso vedere degli uomini in buona fede che si fanno maestri di una simile scuola. Il film Bill sei grande!, ci racconta la storia di un eroe americano dell’ultima guerra. Senonché, per nostra fortuna, questo eroe non ci viene presentato, come spesso accade, nell’aspetto di un sublime fantoccio, una specie di Pierino della sublimità, magari ammirevolissimo, ma tutt’altro che amabile di sicuro. Bill, l’eroe di questo film, è un giovanotto semplice e piuttosto sciocco, un provinciale dalle gambe molto lunghe, ma dall’immaginazione molto modesta. Il quale, dopo aver fatto, per due anni di guerra, contro ogni sua intenzione e con sua grande rabbia, la figura dell’imboscato, diventa eroe quasi suo malgrado, e compie le sue piú storiche imprese durante una grandissima sbornia. Questo non toglie affatto, si badi, che, in fondo, la sostanza del suo carattere sia veramente quella di un eroe; giacché ognuno ha la sorte che si merita, e Bill non avrebbe potuto fare quello che ha fatto se non fosse stato un eroe, qual è. Né gli toglieremo questo suo merito per la ragione che, vinto da umana debolezza, egli si lascia andare a bere un po’ troppo vino francese. Dalla sua nativa provincia, dove vegeta coccolato dalla madre e dalla fidanzata, e sermoneggiato da un padre austero, conformista e un po’ scemo, il nostro eroe compie in tre giorni tutta la sua epopea. In tre giorni, egli parte in volo dall’America all’Europa. Per essersi addormentato in volo, e non aver udito a tempo il segnale di lasciare l’apparecchio,

va a calarsi col suo paracadute, in piena macchia, in mezzo a un gruppo di partigiani francesi. Riconosciuto da loro come amico, grazie a un esame che rivela la pietosa mediocrità, ma tuttavia la schiettezza americana, della sua cultura, rimane per varie ore nascosto in una tomba insieme ai suoi compagni. Indi partecipa con essi a una finta festa di nozze, da loro organizzata per ingannare i tedeschi, e durante la quale i suoi compagni si ubriacano per finta, ma lui si ubriaca per davvero. Cosí, ciondolante e stupefatto, viene imbarcato su un antisommergibile, con l’incarico di presentare un importantissimo documento al generale Eisenhower. Dopo di che, viene riportato in volo a Washington, e di qui, rieccolo alla sua cittadina nativa, per esservi finalmente onorato come un trionfatore. La vita della cittadina di provincia americana è descritta con uno spirito sottilmente realistico e con senso d’arte immaginoso. E nel racconto dei tre epici giorni di Bill si sente, come suol dirsi comunemente, l’unghia del leone, vale a dire di John Ford.

Angelo tra la folla Angelo tra la folla, Italia 1950

REGIA:

Leonardo De Mitri (e Francesco De Robertis)

SCENEGGIATURA:

Ottavio Alessi,

Sandro Paternostro, Matilde Sleiter, Gianpaolo Callegari, Leo Cattozzo, Vinicio Marinucci, Giorgio Prosperi

INTERPRETI:

Angelo Maggio, Umberto Spadaro, Isa Pola, Dante Maggio, Luisella Beghi PRIMA ITALIANA: 10 novembre 1950 (a Roma il 19 gennaio 1951).

La vita delle grandi città, illustrata per mezzo di diversi episodii, che valgano a descriverne la vita molteplice e le varie classi sociali, è stata argomento di piú di un film in Italia e fuori. Si tratta, naturalmente, di films diversissimi fra loro sia nell’intento che nei risultati artistici; ma il procedimento seguíto per comporli non è troppo diverso dall’uno all’altro. Quasi tutti questi films cominciano con una veduta panoramica della grande città che poi ci sarà mostrata nei suoi segreti e nei suoi anfratti; e in tutti c’è un pretesto o motivo centrale che lega insieme, piú o meno ingegnosamente, i diversi episodii e personaggi. Nei films americani, questo motivo centrale è spesso la caccia e la cattura dei gangster. Esso è un ottimo pretesto per farci ammirare, nel suo insieme e nei suoi singoli ingranaggi, la macchina turbinosa ed esatta della civiltà degli Stati Uniti. In questo genere, i registi d’America ci hanno dato delle opere magistrali: nelle quali hanno saputo esprimere la triste poesia delle grandi città moderne con uno stile preciso e distaccato che non cade, però, nelle sciatterie della cronaca; e con un realismo che non decade negli eccessi del verismo. Gli italiani, che furono già nel passato maestri di classicità, non hanno mai saputo ritrovare, nell’arte del cinema, la serenità e la misura dell’arte classica. Con ciò non si vogliono certo negare l’efficacia e la bellezza di tante opere del moderno cinema italiano; si vuol solo osservarne il suo carattere. Per esempio, nel genere di films su cui ci intratteniamo oggi, gli Italiani ci hanno dato opere eccellenti di scuola neorealistica, e che peccano talvolta degli estetismi veristici proprii di questa scuola; e ci hanno dato altre opere che peccano di qualunquismo cronachistico o di sentimentalismo, sebbene non siano prive di pregi. Come pretesto per tali films sulla vita delle grandi città, gli Italiani preferiscono di solito un motivo sentimentale o familiare, tali per esempio la bicicletta rubata in Ladri di biciclette o la vacanza collettiva sulle spiagge in Domenica d’agosto. Il film Angelo fra la folla di Leonardo De Mitri appartiene, come genere, ai films di cui si parla, che ci illustrano con diversi episodii la vita delle grandi città; ma in esso non troviamo né quegli intenti sociali, né quelle ricerche di stile, che giustificano gli altri films di questo genere. I pretesti che legano fra loro i diversi episodii qui sono due (che poi si annodano e si confondono fra loro): e cioè, un delitto iniziale, di cui si ricerca il colpevole, e il vagabondaggio di un piccolo mulatto sperduto per le vie di Roma. Di simili pretesti, però, il regista non sa valersi né per una acuta analisi della società, né per singolari trovate. Non pochi episodii ci ricordano episodii analoghi (ma espressi con ben maggiore efficacia), di Ladri di biciclette: per esempio, la casa del ragazzo scapestrato, la casa d’appuntamenti, la chiesa. Quanto allo stile di questo film, esso non ha troppe pretese di essere uno stile: si accontenta di raccontare alla buona, e con una superficialità mite e scorrevole. Gli si deve tuttavia riconoscere il pregio di non annoiare e di saper tenere desta l’attenzione dello spettatore. In sostanza, Angelo fra la folla va messo nella categoria dei gialli sentimentali. Come giallo, esso ricorre a casi e a colpi di scena altrettanto provvidenziali, quanto, non di rado, improbabili. E ci pare che la lunghissima schiera di sceneggiatori chiamati per mettere insieme questa macchina sia sproporzionata alla modestia dei suoi congegni. Quanto agli

effetti sentimentali, essi sono affidati ad Angelo, il piccolo mulatto celebre già, prima che uscisse questo film, per le sue molte biografie e fotografie apparse sui giomali. Per fortuna, il piccolo Angelo non è un bambino prodigio; ché il fenomeno dei bambini prodigio spesso ci dà un senso di pena per il bambino, e un senso di ribellione per gli adulti che lo fanno lavorare. Il piccolo Angelo, per sua e nostra fortuna, non recita ma si limita a vivere sulla scena la sua semplice vita di bambino, muovendosi con piena naturalezza, come nella sua esistenza di tutti i giorni.

Margherita da Cortona – Romanzo d’amore Margherita da Cortona, Italia 1950

REGIA:

Ludovici, Edoardo Nulli, Nino Scolaro

Mario Bonnard

SOGGETTO E SCENEGGIATURA:

Mario Bonnard, Cesare Vico

INTERPRETI: Maria Frau, Mario Pisu, Aldo Nicodemi, Isa Pola, Tino Buazzelli,

Giovanni Grasso, Galeazzo Benti PRIMA ITALIANA: 22 febbraio 1950 (a Roma il 27 gennaio 1951).

Romanzo d’amore, Italia-Francia 1950

REGIA:

Duilio Coletti

SOGGETTO E SCENEGGIATURA:

Coletti, Suso Cecchi D’Amico, Fulvio Palmieri, Antonio Pietrangeli

INTERPRETI:

Charles Rutherford, Vira Silenti, Heinz Moog, Harry Hardt, Elena Altieri

Aldo De Benedetti, Duilio

Danielle Darrieux, Rossano Brazzi,

PRIMA ITALIANA:

9 dicembre 1950 (a Roma il 27

gennaio 1951).

Questa settimana cinematografica è caratterizzata da films italiani (o quasi), di genere storico (o quasi). Margherita da Cortona è la biografia alquanto romanzata, di una santa. Per narrarci questa vicenda edificante, il regista Mario Bonnard si ispira piuttosto alla maniera dei romanzi d’appendice che a quella della Leggenda aurea. Dobbiamo confessare che, al posto suo, noi avremmo preferito fare il contrario, ma, come dice il proverbio, sui gusti non si discute. Romanzo d’amore, diretto da Duilio Coletti, è un film fatto in collaborazione italofrancese, e interpretato da Rossano Brazzi e da Danielle Darrieux. Argomento di questo film è la riesumazione di un amore del principio di questo secolo. Si tratta, cioè, dell’amorosa vicenda, famosissima a quell’epoca, di Luisa di Sassonia e del musicista Enrico Toselli. Le romanze di questo musicista, di cui le nostre nonne e le nostre madri andavano pazze, risultano, al vaglio della critica musicale, alquanto mediocri. Che il Toselli piacesse molto alle signore del suo tempo, e magari alle signore di sangue reale, questa è un’altra faccenda, alla quale nessuno potrebbe opporre argomenti ragionevoli. E, anche qui, non ci resta che ripetere il proverbio: sui gusti non si discute. Evidentemente, il nostro simpatico attore Rossano Brazzi, nell’interpretare la figura del Toselli, ha voluto ispirarsi alla mediocrità definitiva di questo personaggio, e, in tal senso, oseremmo dire che ha un poco ecceduto. Il suo Toselli appare, sempre, assai piú preoccupato del proprio modo di girare gli occhi, o di portare il cappello, che dei sentimenti di chi gli è vicino, o delle melodie prorompenti che, come suol dirsi, gli urgono nell’anima. Quanto a Danielle Darrieux, la sua Luisa di Sassonia somiglia piuttosto a una borghesuccia capricciosa che a una regina di temperamento nevrotico-passionale. In conclusione, la passione dei due amanti, in questa sua versione cinematografica, ci convince assai poco. A spegnerne i probabili ardori contribuisce in gran parte anche il dialogo; il quale, soprattutto nelle scene d’amore e di passione, è cosí deliziosamente ovvio, da far pensare che vi sia in vendita, nelle librerie, sottobanco, una specie di Segretario Galante ad uso dei nostri sceneggiatori. In sostanza, il romanzo di Enrico e di Luisa si direbbe scelto dal regista Coletti, piuttosto che come argomento, come pretesto per una ricostruzione di un mondo fastoso principiodi-secolo. In tale ricostruzione, il regista non mostra intenzioni polemiche, e neppure nostalgiche; ma soltanto una fedeltà accurata, e un certo gusto per gli eccessi ornamentali. L’accuratezza della scenografia e dei costumi va riconosciuta senz’altro a questo film, e ne va reso merito agli autori e ai produttori. Ma, proprio perché si tratta di un lavoro serio e accurato, e fatto con una certa spesa, e non senza qualità di mestiere, non si riesce a capire perché, fra tanti possibili argomenti, si sia scelta proprio questa storia fredda e convenzionale, raccontata e recitata senza partecipazione né convinzione. Non vorremmo a nessun costo esser giudicati pessimisti, ma le nostre recenti esperienze ci fanno temere che il cinema italiano si metta su una via sbagliata: e ciò va detto proprio per la stima che

portiamo ai nostri artisti e ai nostri registi. Il dopoguerra è stato, come si sa, il periodo eroico del cinema italiano. I produttori sembravano ansiosi di rivelare i nuovi talenti, i registi miravano soprattutto alla osservazione e alla ricerca della verità, che è il cammino piú sicuro della poesia. Gli attori cercavano con tutta la migliore volontà di liberarsi del birignao caratteristico dell’epoca dei telefoni bianchi; gli sceneggiatori, infine, lavoravano con l’impegno e l’entusiasmo dei novizi. I risultati furono quelli che tutti ammirammo, e che fecero onore all’Italia in tutto il mondo. Oggi, invece, si nota (e siamo i primi a desiderare di sbagliarci) da una parte, una insistenza sul genere che ebbe già successo, trattato, però, con superficialità e con intenti commerciali; e dall’altra, una riesumazione di motivi abusati e insignificanti, un ritorno a luoghi comuni, e una diffusa ispirazione sentimentale-deamicisiana. Soprattutto, è ormai un caso rarissimo la ricerca del nuovo, quel che è peggio, si nota un distacco totale, e quasi ostentato, del cinema dalla cultura italiana. Quanto ai soggettisti e sceneggiatori, dobbiamo supporre (dato che sono sempre i medesimi), che si dedichino a quattro o cinque films contemporaneamente; tanto che, oramai, potrebbero costituire una Società Anonima della Sceneggiatura Nazionale, e fare magari di questo genere un monopolio di stato, come si fa per i tabacchi. Ad ogni modo, sappiamo che i nostri registi piú seri sono al lavoro con impegno e onestà di intenti; e aspettiamo con fiducia le loro prossime prove.

L’amore segreto di Madeleine L’amore segreto di Madeleine (Madeleine),

GB

1950

REGIA:

David Lean

SCENEGGIATURA:

Stanley Haynes, Nicholas

Phipps da un fatto di cronaca del 1857 a Glasgow INTERPRETI: Ann Todd, Ivan Desny, Norman Wooland, Leslie Banks, Barbara Everest, Elizabeth Sellars PRIMA ROMANA: 2 febbraio 1951.

Nel grande numero di films di tutte le nazioni che siamo tenuti a vedere, i films inglesi non sono molti; ma, di questi pochi, quasi nessuno si lascia dimenticare facilmente. Anzitutto (a differenza di gran parte dei registi, anche ottimi, degli altri paesi), i migliori registi inglesi, e i loro collaboratori, si preoccupano piuttosto dei propri doveri verso l’arte che non dell’effetto che faranno sul pubblico. Tale rara disposizione si avverte, con indicibile sollievo dei nostri spiriti mortificati, fin dalle prime scene dei loro films: e il risultato è una qualità di nobiltà e di misura, di accuratezza dei particolari e di finezza psicologica, quale di rado si riscontra nell’arte cinematografica. Giacché quest’arte viene spesso trattata da coloro che la professano come una giumenta da fatica, piuttosto che come un cavallo di razza. Gli Inglesi invece la trattano col rispetto che essa merita, non meno di qualsiasi altra arte: e sia lode a loro per questo. Nel cinema inglese non si nota quell’assenza di esigenze culturali, anzi quel dannoso, e (a lungo andare) disastroso distacco dalla cultura che si nota spesso nel cinema di altri paesi (per esempio del nostro). Al contrario, nella struttura dei films inglesi si avverte che i loro autori sono essi stessi (com’è giusto e logico che sia, e come dovrebbe essere dovunque), uomini di cultura; e che hanno interessi in tutti i campi della cultura del loro paese. Basti pensare alla splendida opera di Laurence Olivier, e notare la differenza di qualità che distingue tale opera da quella, anche eccellente, di altri paesi. Uno dei registi migliori del presente cinema inglese è David Lean. Il suo nome è legato soprattutto al famoso film Breve incontro, dove la poesia dei personaggi oscuri e degli umili oggetti della vita quotidiana veniva rivelata con una rara purezza e sobrietà di mezzi. Si trattava, certamente, di poesia minore; ma il suo valore autentico era innegabile. L’amore segreto di Madeleine, di cui ci occupiamo oggi, è, anch’esso, opera di David Lean; e ci conferma la sensibilità, e le originali qualità di osservazione, di questo ottimo artista. Il film rievoca la misteriosa vicenda di Madeleine Smith, ragazza di nobile famiglia vissuta, circa un secolo fa, in Iscozia. Questa ragazza, sulla cui purezza e onorabilità nessuno sospettava nella sua società e nella sua famiglia, sul punto di unirsi in matrimonio con un gentiluomo che l’ama, viene accusata d’improvviso di assassinio. Un giovane francese, di basso rango sociale e di attitudini morali piuttosto equivoche muore avvelenato nella sua povera camera ammobiliata di un modesto quartiere di Glasgow. Le lettere di Madeleine a questo giovane, e le testimonianze al processo, oltre a dimostrare senza dubbio alcuno che il giovane era l’amante della insospettata Madeleine, fanno nascere dei legittimi dubbii sulla sua innocenza nel delitto. Tuttavia, malgrado numerose apparenze che la accuserebbero di assassinio, il senso di responsabilità e di giustizia dei giurati scozzesi la fa assolvere per insufficienza di prove. Dunque, Madeleine era colpevole o no? Il mistero è rimasto insoluto per sempre. La storia ci dice che Madeleine Smith è morta vecchissima nel 1926, dopo una vita assai regolare, dedicata ai figli e ai nipoti. Essa è rimasta, dunque, un personaggio enigmatico, ed è proprio la sua ambiguità, e non la curiosità di scoprire il suo segreto, che tenta la sensibilità poetica di David Lean. La sottigliezza del suo gioco sta proprio nella sua intenzione di lasciare fra le ombre del dubbio il segreto di questa fanciulla di un secolo fa. In una delicata rievocazione di luoghi e di costumi, con un uso intelligente e sensibile dei mezzi fotografici, Lean si diverte a

giocare con l’oscura psicologia della sua protagonista. Ora ci dà un indizio, subito fugato; ora allude a inconfessati e contraddittorii disegni di Madeleine; ora illumina d’improvviso, ed ora riveste di conturbante ambiguità e ipocrisia i sentimenti di lei. La sua conclusione, infine, è la medesima dei giudici: questa ragazza misteriosa, dall’apparenza delicata ma dal carattere straordinariamente forte, capace di nascondere le proprie passioni e di rimanere impassibile durante il processo che deciderà della sua vita; questa ragazza è, o non è, un’assassina. A David Lean in sostanza non importa gran che di saperlo; ed egli non pensa neppure da lontano a darci un film giallo. Se dall’argomento stesso nascono, inevitabilmente, degli effetti drammatici, essi sono quasi contro le intenzioni del regista. Il quale vuol servirsi di questo antico dramma solo come di un pretesto per giocare con amabili ombre. La maschera di Ann Todd, che, coi suoi tratti sottili e aguzzi, esprime volta a volta la passionalità e la doppiezza, la durezza e la trepidazione, la sottomissione e l’audacia, aiuta il regista nel suo gioco.

Miracolo a Milano Miracolo a Milano, Italia 1951 REGIA: Vittorio De Sica SCENEGGIATURA: Cesare Zavattini, Vittorio De Sica, Suso Cecchi D’Amico, Mario Chiari, Adolfo Franci, da Totò il buono di Zavattini

INTERPRETI:

Franco Golisano, Emma Gramatica,

Brunella Bovo, Paolo Stoppa, Guglielmo Barnabò, Anna Carena, Virgilio Riento, Erminio Spalla, Arturo Bragaglia, Alba Arnova PRIMA ITALIANA: 8 febbraio 1951.

Uno dei poteri piú invidiabili che possiede il cinema, in confronto agli altri mezzi di espressione artistica, è il potere di dar forma visibile a ogni sorta di favole e di prodigi. Mentre che gli altri artisti, anche i piú fantastici, devono necessariamente accontentarsi di espressioni astratte, o tenersi nei loro limitati mezzi umani, il regista dispone di una macchina miracolosa, grazie alla quale può suscitare in immagini convincenti, gli aspetti dell’irrealtà e del sogno. Fu proprio questa virtú magica della macchina da presa che sedusse, al tempo di Lumière e di Méliès, i primitivi del cinema; i quali si servivano di essa per esplorare il mondo dell’impossibile e della mitologia. L’arte italiana è, per sua natura, un’arte realistica; e anche le sue favole sono impastate di buon senso realistico. Basti pensare alle Avventure di Pinocchio, dove le invenzioni favolose hanno un carattere educativo, e, pur nello straordinario, serbano una bonaria fisionomia terrestre. A conferma di tale qualità dell’arte italiana, la scuola che ha dato fama al cinema italiano contemporaneo è neo-realistica. Ora, uno dei maestri di tale scuola, Vittorio De Sica, è stato tentato dalle grazie della fiaba. Miracolo a Milano è una fiaba, e la novità del genere è, per chi apprezzi l’arte di De Sica, il primo motivo di curiosità e di interesse in questo film. Nel quale, diciamolo subito, la qualità piú apprezzabile è proprio quell’aria di leggerezza, e anche di superfluità, che è, appunto, un carattere delle fiabe, e che il film (seppure con intenzioni moralistiche e di apologo), serba dal principio alla fine. Per questo, ci sembrano peccare, se non d’altro, di un eccesso di zelo, quei critici i quali, seguendo le loro opposte concezioni politiche, hanno dato davvero troppo peso (per lodarle o per deplorarle) alle intenzioni satirico-sociali di questo film, da essi considerato addirittura una specie di bandiera della lotta di classe. Non diciamo che simili intenzioni manchino del tutto nell’opera di De Sica; ma esse prendono, qui, il sapore amabile e innocuo, ch’è proprio delle fiabe. Del resto, il contrasto fra i ricchi e i poveri non fu sempre argomento della favolistica infantile? I ricchi di De Sica somigliano piuttosto al burattinaio di Pinocchio, e all’Orco di Puccettino, che non ad una espressione polemica e parziale della società capitalistica (quale vorrebbero vedervi alcuni giornali di destra). Per sua stessa dichiarazione, De Sica si è ispirato, per questo film, all’arte di Charlot e di Clair. E un confronto con questi due grandi maestri del cinema (soprattutto, nella tecnica, con Clair), viene spontaneo vedendo Miracolo a Milano. L’arte cinematografica di De Sica ha raggiunto, in questo film, una sottigliezza, una delicatezza, e una bravura, straordinarie, e davvero degne di tanti maestri. Quanto allo spirito particolare di quest’opera, esso è, naturalmente, tutto diverso da quello che ispira un Chaplin o un Clair. E De Sica non sarebbe (pur nei suoi limiti), un poeta originale, se cosí non fosse. Naturalmente, anche in quest’opera, com’è evidente e ovvio, c’è spirito di fronda. Ma ogni poeta si esprime secondo il proprio genio e la propria ispirazione. De Sica non possiede né il razionalismo volteriano di Clair né la ribelle disperazione di Charlot. De Sica non può fare della satira, ma, al massimo può fare dell’ironia o dell’arguzia. Giacché, in luogo della crudeltà (anche se profondamente umana), che serve alla satira, in lui predomina la pietà. In luogo dell’impassibile spirito di osservazione, in lui predomina la simpatia. L’evidente sentimento di giustizia, che anima la sua poesia, è, in lui, illuminato

dalla speranza, piuttosto che amareggiato dalla rivolta. In fondo, malgrado tutto, De Sica crede nei suoi simili, e (si direbbe da questo film), anche nelle fate. A proposito di un suo magnifico e amarissimo film (Monsieur Verdoux), Charlie Chaplin ebbe a dire: «Il mio film è amaro, perché i tempi sono amari». Dal tempo di Monsieur Verdoux, non si può certo dire che i tempi si siano raddolciti; ma se dovessimo dare un motto al recente Miracolo a Milano, dovremmo dargli il motto evangelico: Beati i poveri in ispirito, perché di essi è il regno dei cieli. Come conclusione alla sua storia, De Sica fa emigrare tutti i suoi straccioni, in volo, verso il Paradiso. Il quale, secondo ogni evidenza, non è un Paradiso progressivo, ma proprio il Paradiso degli angeli, e delle fate madrine, che forniscono miracoli ai loro figliocci diseredati. Ottimi tutti gli attori, fra cui Francesco Golisano, Paolo Stoppa, e Brunella Bovo. Amabile e spiritosa la sceneggiatura e il dialogo.

Miracolo a Milano – Ritorna la vita Ritorna la vita (Retour à la vie), Francia 1949

SOGGETTO E SCENEGGIATURA

di tutti gli episodi: Charles Spaak, meno

l’episodio diretto da Clouzot, sceneggiato da Clouzot e Jean Ferry.Il ritorno di Antonio (Le retour d’Antoine) Georges Lampin

INTERPRETI:

François Périer, Patricia Roc.Il ritorno di Jean (Le retour de Jean)

REGIA:

REGIA:

Henri-Georges

Louis Jouvet, Léo Lapara, Jo Dest. Il ritorno di René (Le retour de René)

REGIA:

Jean Dréville

INTERPRETI:

Noël-Noël, Madeleine Gérôme, Jean Croué. Il ritorno di Louis (Le retour de Louis)

REGIA:

Jean Dréville

INTERPRETI:

Serge Reggiani, Elisabeth Hardy, Cécile Didier, Paul Frankeur. Nell’edizione italiana manca l’episodio Le

Clouzot

INTERPRETI:

retour de tante Emma REGIA: André Cayatte INTERPRETI: Bernard Blier, Jane Marken, Lucien Nat, Héléna Manson PRIMA ROMANA:

20 febbraio 1951.

Avvertiamo i nostri ascoltatori che Martedí scorso la trasmissione della nostra cronaca cinematografica, riguardante il film di De Sica Miracolo a Milano fu interrotta prima del tempo per ragioni tecniche della R.A.I. Poiché in tal modo il nostro discorso sul film risultava monco e inadeguato, ripetiamo qui in succinto la parte che allora non fu potuta trasmettere, scusandoci per l’involontaria omissione. Dopo aver fatto qualche considerazione generale sui films di genere fantastico e favoloso, e aver notato lo scarso contributo che l’arte italiana, realistica per sua natura, può dare a questo genere, passavamo a considerare questa moderna fiaba del realista De Sica. La quale, ci sembra, va presa come una leggera e gradevole fiaba, e non certo come la severa satira sociale che altri, per opposte polemiche di partito, hanno voluto vederci. Osservando quindi le evidenti influenze (dichiarate dallo stesso De Sica), di Clair e di Chaplin in questo film, concludevamo dicendo: «Naturalmente, anche in quest’opera, com’è chiaro e ovvio, c’è spirito di fronda. Ma ogni poeta si esprime secondo il proprio genio. De Sica non possiede né il razionalismo volteriano di Clair né la ribelle disperazione di Chaplin. De Sica non può fare della satira, ma, al massimo dell’ironia o dell’arguzia. Giacché in luogo della crudeltà (anche se profondamente umana), che serve alla satira, in lui predomina la compassione. In luogo dell’impassibile spirito di osservazione, in lui predomina la simpatia. l’evidente sentimento di giustizia, che anima la sua arte, è, in lui, raddolcito dalla speranza, piuttosto che irritato dalla rivolta. I suoi cattivi sono dei simboli, non degli uomini. In fondo, De Sica nutre una fiducia generale (e talvolta un po’ generica), per suoi simili, e (si direbbe da questo film), anche per le fate. A proposito di una sua magnifica e amarissima opera (Monsieur Verdoux), Chaplin ebbe a dire: Il mio film è amaro, perché i tempi sono amari. Dall’epoca di Monsieur Verdoux, non si può certo dire che i tempi si siano raddolciti nel mondo. Ma se dovessimo dare un motto al recente Miracolo a Milano, gli daremmo il motto evangelico: Beati i poveri in ispirito, perché di essi è il regno dei cieli. Come conclusione alla sua storia, De Sica, fa emigrare tutti i suoi straccioni, in volo, verso un aldilà; il quale, secondo ogni evidenza, non è un Paradiso progressivo, ma proprio il Paradiso degli angeli, e delle fate madrine, che forniscono miracoli ai loro figliocci diseredati». Compiuto, adesso, sebbene in ritardo e a puntate, il nostro dovere verso l’illustre regista e verso la nostra coscienza di critici, passiamo al film di questa settimana: Ritorna la vita. Il quale meriterebbe maggiore spazio di quello che resta oggi alla nostra cronaca. Ritorna la vita (perché poi non Ritorno alla vita, come nel titolo originale?), ci descrive il ritorno al loro paese di quattro reduci, già prigionieri di guerra. Opera dei registi Clouzot, Dréville e Lampin, con la supervisione di Clouzot, quest’ottimo film si raccomanda subito per una qualità, che è il massimo pregio della buona cinematografia francese: quella, cioè, di dare

un certo credito all’intelligenza del pubblico. Troppe volte il cinema di altri paesi sembra guidato dal concetto che lo sviluppo cerebrale del suo pubblico si sia fermato, all’incirca, all’età dei giardini d’infanzia. Il cinema francese invece presuppone di rivolgersi se Dio vuole, a individui adulti, dotati d’intelligenza e di spirito razionale. Sebbene la conclusione di questo film sia, in definitiva abbastanza ottimistica, vi predominano le notazioni pessimistiche; ma sulla felicità (come avverte in principio del film una didascalia, e come sa ogni buon poeta), non c’è nulla da raccontare. La varietà degli episodi (indipendenti uno dall’altro ma non discordanti fra loro) dà grande vivezza e amenità di racconto a questo film. Un eccesso di enfasi diminuisce l’efficacia nell’episodio del torturatore tedesco; e in quello della sposina tedesca si nota una certa convenzionalità nella descrizione della vita provinciale. Graziosissimo e divertente è l’episodio del barman notturno. E assai bello o spiritoso quello dell’ammaestratore di cani, interpretato, con sottile e umana intelligenza, dall’attore Noël-Noël. Il film è evidentemente antibellicista; ma non parte con intenzioni esplicite di propaganda. Per questo è piú efficace e, sebbene non privo di amarezza, incoraggia alla comprensione e alla concordia.

Prima colpa Prima colpa (Caged),

USA

1950

SCENEGGIATURA: Virginia Kellogg

REGIA:

John Cromwell

SOGGETTO:

Virginia Kellogg e Bernard C. Schoenfeld

INTERPRETI: Eleanor Parker, Agnes Moorehead, Hope Emerson, Jan Sterling, Ellen

Corby, Lee Patrick, Jane Darwell PRIMA ROMANA: 24 febbraio 1951.

Fra i problemi sociali che piú preoccupano gli uomini di buona volontà, fiduciosi del progresso umano, v’è in prima linea quello dei Riformatorii, dei Penitenziarii, delle Carceri, e insomma dei cosiddetti Istituti di pena. In realtà, nessun uomo ha il diritto di procurar pena a un altro uomo, e gli Istituti di Pena non dovrebbero esistere. In loro luogo, dovrebbero istituirsi delle Case di rieducazione, dove la inclinazione al delitto venga curata come una malattia psichica, e dove anche coloro che si sono resi colpevoli d’una infrazione o di un crimine vengano trattati col rispetto dovuto all’uomo. È questa la causa per cui da anni si battono, in ogni paese civile, con le armi della religione, della scienza, e dell’arte, degli uomini d’ingegno e di buona volontà. In alcuni paesi, questi uomini sono riusciti anche ad ottenere dei risultati apprezzabili; ma purtroppo, la loro causa è ancora lontana dalla vittoria. Infatti, se vi è nel mondo, a onore della razza umana, chi provvede alla soppressione degli Istituti di pena per i criminali, vi è pure chi provvede addirittura alla creazione di Istituti di pena per gli innocenti: i quali istituti vengono contraddistinti col nome di campi di concentramento o di annientamento (che parole amabili, e squisitamente moderne!) E ancora oggi, nella maggior parte del mondo, quelle che, secondo il voto dei suddetti uomini giusti, dovrebbero essere degli Istituti di rieducazione per i criminali, sono invece degli Istituti di diseducazione definitiva, e di degradazione. Usare di tutti i mezzi di diffusione di cui dispone la civiltà moderna per combattere la causa ora esposta, è, ovviamente, il dovere di ogni uomo civile. E poiché fra i mezzi di propaganda piú potenti vi è, oggi, il cinema, va subito approvato e applaudito ogni film che si proponga come scopo una cosí nobile battaglia. Il film Prima colpa dovrebbe appartenere a quest’ordine di films. Diciamo, dovrebbe perché, evidentemente, ogni opera che si proponga di migliorare o riformare la società deve possedere almeno due requisiti: primo, l’onestà delle intenzioni, e secondo l’efficacia degli effetti. Se a questi due requisiti si aggiungono, poi, delle qualità artistiche positive, allora il film va accolto addirittura con entusiasmo. Il film Prima colpa non ci entusiasma: vogliamo dire che, dal punto di vista artistico, il suo effetto ci sembra negativo. Quanto ai suoi intenti di riforma sociale, non siamo del tutto convinti della sua efficacia. Infatti il regista John Cromwell (di cui ricordiamo opere di alta qualità artistica, fra cui il bellissimo Schiavo d’amore) si è abbandonato oltre misura, in questo suo Prima colpa, alle seduzioni dell’estetica neo-veristica. Il primo effetto di tale estetica è quello di mostrarci l’uomo non nel suo aspetto piú nobile ed essenziale, vale a dire come una sostanza animata dal pensiero, e dal sentimento; ma alla guisa di un fenomeno quasi esclusivamente fisiologico e animalesco. Per un film che si propone, appunto, il contrario; e cioè, di dimostrare che gli uomini non vanno mai trattati come animali, ma con tutto il rispetto dovuto all’uomo, ci sembra che una tale estetica sia proprio la meno adatta. Prima colpa ci racconta la storia di una giovinetta; la quale, entrata nel reclusorio femminile per effetto di un delitto non commesso da lei, ancora ingenua e innocente nell’anima, ne esce invece corrotta e degradata. La storia è quanto mai adatta a svegliare nel pubblico la pietà e la rivolta: che sono i sentimenti piú adatti a svegliare le esigenze di

una riforma. Peccato che, per effetto della sua estetica sbagliata, questo film non sembri rivolgersi ai sentimenti del pubblico; ma sembri, soltanto, accanirsi a provocare delle sensazioni sgradevoli e repulsive. L’eccessivo insistere su particolari fisici; il compiacimento tutto materialistico di certi primi-piani; la scarsa analisi del dramma umano delle recluse a vantaggio di un gusto tutto esteriore per le espressioni convenzionali della degradazione, della malattia e della follia: ecco gli effetti del neo-verismo, che diminuiscono l’efficacia drammatica del film, e quindi la sua efficacia di propaganda sociale. Il film rimane, tuttavia, un’utile denuncia delle condizioni di certi Istituti di pena. E quindi la sua opera può riuscire salutare e opportuna, sebbene soltanto in parte.

Noi che ci amiamo Noi che ci amiamo (Our Very Own),

USA

1950

REGIA:

David Miller

SOGGETTO E SCENEGGIATURA:

F. Hugh Herbert

INTERPRETI: Ann Blyth, Farley Granger, Joan Evans, Jane Wyatt, Ann Dvorak, Natalie Wood, Donald Cook PRIMA ROMANA:

3 marzo 1951.

Noi che ci amiamo, film americano diretto da David Miller, ci presenta un caso che, seppure non nuovo nella narrativa fino dai tempi piú antichi, è sempre, tuttavia, ricco di motivi drammatici, e propone, ad ogni epoca, nuove interpretazioni. Gail, una bella e brava ragazza, allevata fra le piú amorevoli cure in una onesta famiglia borghese, giunta all’età di diciotto anni scopre che questa famiglia, in realtà, non è la sua vera famiglia. Coloro che essa amava e che l’amavano come veri genitori in realtà sono solo i suoi genitori adottivi; le sorelle, a cui si sentiva teneramente legata pur fra i naturali dispetti e litigi, non hanno con lei nessun legame di sangue. E la sua nascita fu conseguenza di un peccato di gioventú di una signora, la quale, a giudicare dal suo aspetto e dalle sue maniere, deve, di peccati, averne commessi un bel numero. Costei, nell’età matura, si è sposata con un uomo della stessa società, alquanto alla buona, a cui lei medesima appartiene. E poiché il marito ignora quel suo particolare peccato di gioventú, a cui si deve l’accidentale nascita di Gail, la povera Gail si vede respinta dalla propria madre vera, a cui s’era presentata con trepido cuore dopo la scoperta delle proprie origini. Il dramma di Gail, che si sente d’un tratto quasi intrusa nella famiglia che credeva la sua, come un cúculo cresciuto nel nido d’altri, avrebbe offerto, a un narratore dell’Ottocento, lo spunto per un grave romanzo a sfondo umanitario-sociale, quali se ne sono letti parecchi. A un moderno psicologo-intimista il medesimo dramma offrirebbe argomento per sottili ricerche psicanalitiche; da cui nascerebbero personaggi conturbanti, ombrosi, e per sempre impigliati nella rete della loro adolescenza. Insomma, il problema psicologico affrontato dal regista David Miller non è affatto un problemino da scuola elementare, da affrontarsi a cuor leggero e da risolversi facilmente con qualche capriccio, qualche schiaffo bonario, e qualche battuta divertente. Senonché, per fortuna del pubblico che cerca nel cinema un divertimento poco impegnativo, il film Noi che ci amiamo appartiene di diritto al genere comico-sentimentale. Questo genere possiede [un] ritrovato magico che altra volta avemmo occasione di chiamare la felicità in iscatola. Allo stesso modo che una massaia americana può, coi cibi in iscatola, improvvisare un pranzo completo, cosí un regista americano può, con la formula della felicità in iscatola, improvvisare un film ben dosato nei suoi ingredienti, e di sapore non deplorevole, seppure un po’ scipito. L’amaro dramma dell’adolescente Gail, inscatolato in tal modo e mescolato con giuste dosi di zucchero, di latte e di zibibbo, acquista cosí il sapore della cucina casalinga standard; un sapore non certo inebriante, ma che non può nuocere nemmeno al palato di un bambino. Il naturale turbamento dell’anima di Gail si confonde in una specie di balletto familiare, fra la novità della televisione in salotto, le gite sulla macchina fuori-serie dell’amica, i bei vestiti da sera, e gli ovvii dialoghi sulla spiaggia col fidanzato atletico. La conclusione del film è il ritorno, non soltanto pratico, ma anche sentimentale, di Gail alla sua famiglia adottiva. Giacché, per l’uomo, i sentimenti che contano soprattutto non sono quelli di origine fisiologica, che si ritrovano anche fra gli animali, ma quelli di adozione. E cioè, i nostri veri parenti non sono coloro a cui siamo uniti solo da legami di sangue, ma coloro a cui siamo uniti dalla simpatia, dai gusti e dall’affetto confermatosi attraverso le comuni esperienze. Cosí pure la nostra vera patria, piú che dal luogo della nostra nascita, è determinata dal luogo in cui troviamo un terreno propizio per il nostro

sviluppo individuale e sociale, e per il libero fiorire delle nostre speranze. Questa morale del film di David Miller, che, evidentemente, non può essere contestata da nessun uomo intelligente, civile e di giudizio maturo, è la qualità piú nobile e sostanziosa di Noi che ci amiamo. Peccato che essa venga enunciata in uno dei soliti discorsetti scolastici, pronunciato dalla protagonista, in veste di capoclasse, in occasione della sua licenza liceale. Il discorsetto, tenuto in presenza del Preside, dei Professori, dei colleghi studenti e della parentela, viene accolto con le solite effusioni e i soliti battimani, dopo i quali, risolti felicemente tutti i tràumi giovanili dei protagonisti, le famiglie se ne ritornano a casa felici e contente. Ann Blyth, Ann Dvorak, Farley Granger e gli altri attori, recitano con la perfezione convenzionale che è propria di questo genere.

Macbeth – Amleto Macbeth,

USA

1948

REGIA, SCENEGGIATURA:

Orson Welles, dal dramma di Shakespeare

Jeanette Nolan, Dan O’Herlihy, Edgar Barrier, Roddy McDowall

PRIMA

INTERPRETI:

Orson Welles,

ITALIANA: anteprima al Festival del Cinema di

Venezia, settembre 1948; nelle sale il 9 marzo 1951.

Amleto (Hamlet),

GB

1948

REGIA:

Laurence Olivier

SCENEGGIATURA:

Alan Dent, Laurence Olivier, dalla tragedia di

William Shakespeare INTERPRETI: Laurence Olivier, Jean Simmons, Eileen Herlie, Felix Aylmer, Basil Sidney, Norman Wooland, Peter Cushing, Anthony Quayle PRIMA ITALIANA: anteprima al Festival del Cinema di Venezia, settembre 1948; nelle sale il 28 gennaio 1949.

L’adattamento cinematografico di un’opera nata per il teatro è sempre un’impresa pericolosa per un regista che intenda fare delle opere d’arte, e non degli esperimenti o delle imprese divulgative popolari. Non occorre ripetere, infatti, che il teatro e il cinema sono due arti assolutamente diverse. L’espressione teatrale si affida alla parola, e alla presenza dell’attore, che di questa parola dev’essere quasi l’incarnazione vivente; per il resto, e cioè per la scenografia, il fàscino del teatro risiede proprio nella gran parte che esso lascia all’immaginazione dello spettatore. Il cinema, invece, si esprime soprattutto attraverso l’immagine, anche se è parlato. I grandi registi, infatti, sanno usare la parola e il suono come una specie di commento musicale, che valga a rendere piú intensa la suggestione dell’immagine. Naturalmente, un qualche influsso reciproco fra teatro e cinema è inevitabile; e alcune recenti regíe teatrali devono parte del loro singolare potere espressivo a delle idee suggerite dall’esperienza cinematografica, allo stesso modo che molti registi e attori del cinema si giovano utilmente delle loro esperienze teatrali. Ma questo non significa che l’una delle due arti possa sostituire l’altra. L’adattamento cinematografico di un’opera di teatro diventa ancor piú difficile quando l’opera in questione è un capolavoro della poesia, quale una tragedia di Shakespeare. Qui infatti la parola ha una eterna vita in se stessa, fuori da ogni incarnazione o rappresentazione teatrale. Che uso potrà farne un regista del cinema? In qual modo potrà trovare delle immagini adeguate, non dico a tradurre visivamente quella parola, ma sia pure soltanto ad accoglierla o a commentarla? Un tentativo felice di questo genere è stato l’Enrico V di Laurence Olivier. Dove l’immagine colorata è una specie di vivente sfondo iconografico alla splendida parola di Shakespeare. Ma la felicità dell’Enrico V non si ritrova già piú nell’Amleto dello stesso Olivier; che risulta un’opera ibrida, e in gran parte presuntuosa, nonostante la preparazione culturale, il senso di misura e il gusto del grande attore-regista inglese. Orson Welles ha voluto darci anche lui, adesso, un suo Shakespeare, che abbiamo veduto ieri sera all’Ariston, in serata di gala. Anche lui regista e attore nel tempo stesso, ha scelto per sé la tragedia di Macbeth. E la sua scelta si capisce. Infatti la tragedia di Macbeth esprime meglio di ogni altra opera il senso disperato della delittuosa ambizione umana, che si distrugge da se stessa; e il grande rumore e furia della vita, che non significano nulla. Ora, un simile sentimento delle ambizioni umane e della vita furono la prima intuizione del giovane Orson Welles, al tempo di Citizen Kane. Abbiamo grandissima stima delle eccezionali qualità di Orson Welles, ingiustamente misconosciute qui in Italia, da molti, per superficiale sufficienza e scarsa attenzione. Le prime opere di Orson Welles recano il segno siRcuro della genialità, sia pur disordinata, e, per la originale scoperta di nuovi mezzi espressivi, hanno fatto scuola nel cinema. Ma l’esuberanza, che è una ricchezza nativa di questo artista, è anche il suo pericolo. Allo

stesso modo, il disprezzo delle tradizioni, e l’assenza di ogni peso culturale, che dapprincipio costituivano una forza per Welles, formano ora la sua insufficienza. Nell’accingersi a portare sullo schermo una tragedia di Shakespeare, un regista dovrebbe ripetersi ad ogni istante un detto già citato in altre occasioni in queste cronache, e cioè: Ai capolavori si deve la massima riverenza. Questo detto è stato sempre presente a Laurence Olivier, durante la lavorazione dell’Enrico V, e anche durante quella, seppur meno fortunata, dell’Amleto. Ora, ci sembra che Orson Welles si sia cimentato nel Macbeth, senza la riverenza necessaria. Assistiamo qui a una specie di volgarizzazione disinvolta (ridotta spesso a temeraria faciloneria), di quella effervescenza drammatica che faceva la forza genuina di Citizen Kane. Non che manchino in questo film, in alcuni momenti, i segni di forti qualità espressive. Ma, per lo piú, il virtuosismo fotografico, il gioco audace delle ombre e delle luci, la sovrapposizione delle immagini e delle voci, sono qui usati ad ottenere degli effetti piuttosto volgari, che stonano con la suprema nobiltà della parola di Shakespeare, e ne disturbano il senso tragico, invece di commentarlo. La voluta drammaticità, tutta esteriore, delle scene, che vorrebbe alludere continuamente alla tragica sorte dei Macbeth, risulta convenzionale, e, con la sua presenza continua, diventa alla lunga un’intrusione fastidiosa. Anche la recitazione degli attori avrebbe dovuto ispirarsi a una meditazione dei valori intimi della parola, prima che alla ricerca dagli effetti. Macbeth rimane tuttavia un’opera interessante; e da Orson Welles ci aspettiamo sempre fiduciosi, un’opera di vera poesia.

La saga dei Forsyte – Il sentiero del pino solitario La saga dei Forsyte (That Forsyte Woman), USA 1949 REGIA: Compton Bennett SCENEGGIATURA: Jan Lustig, Ivan Tors, James B. Williams, Arthur Wimperis, dal primo volume della Saga dei Forsyte di John Galsworthy, The Man of Property INTERPRETI:

Greer Garson, Errol Flynn, Walter Pidgeon, Robert Young, Janet Leigh PRIMA ROMANA: 16 marzo 1951.

Il sentiero del pino solitario (The Trail of the Lonesome Pine),

USA

1936

REGIA:

Henry Hathaway

SCENEGGIATURA:

Horace McCoy, Grover Jones, Harvey Thew, dal romanzo di Henry J. Fox INTERPRETI: Sylvia Sidney, Fred McMurray, Henry Fonda, Nigel Bruce, Spanky McFarland PRIMA ROMANA: 16 marzo 1951.

Abbiamo visto, in questa settimana, due films a colori: uno, La saga dei Forsyte, del regista Compton Bennett (dal popolare romanzo di Galsworthy), è per noi nuovo. Il secondo, invece, Sentiero del pino solitario di Hathaway, è una ripresa. Sebbene il cinema a colori non abbia ancora oggi raggiunto risultati artistici definitivi, il colore, in un film, è sempre un’attrattiva per noi. Il cinema è l’arte piú giovane e piú rivoluzionaria, e la sua storia procede con un ritmo rapido, conforme al macchinismo dell’epoca moderna. Per le altre arti, il tempo si misura a secoli; per il cinema, si misura a decenni, se non addirittura a lustri, o ad anni. I primitivi del cinema risalgono a meno di cinquant’anni fa; e gli ultimi trent’anni hanno veduto le due massime rivoluzioni fino ad oggi compiute dal cinema: quella del suono, e quella del colore. La rivoluzione del suono (sebbene anche in questo campo dobbiamo attenderci i progressi naturali in un’arte cosí giovane e viva), è ormai un fatto compiuto. I divi del cinema muto, ancora avvinti ai fasti della loro epoca, ci sono stati presentati proprio in questi giorni, nel famosissimo Viale del tramonto, come i sopravvissuti patetici, e spesso tragici, di una storia ormai defunta. La parola e il suono fanno ormai tutt’uno con l’immagine; e, superato ormai il periodo sperimentale, i registi si servono di questi nuovi mezzi per approfondire, nelle loro opere, i valori artistici ed espressivi. Non cosí può dirsi riguardo alla rivoluzione del colore. Fuori di qualche rara eccezione, fra le quali in primo luogo va l’Enrico V di Olivier, non si può dire che fino ad oggi il mezzo del colore sia servito ad approfondire l’espressione o a dare maggior valore artistico ad un film. Quasi sempre, al contrario, ove si guardi un film dal punto di vista artistico, il colore falsa ed impaccia le ricerche espressive del regista. Cosí che i maggiori successi, nel campo dell’arte cinematografica, sono ancora in bianco e nero. Ciò perché i registi sono ancora, perciò che riguarda il colore, alla fase delle ricerche tecniche. La rivoluzione del colore è tuttora in atto. Essa non potrà non portare a risultati straordinari, se si pensa che il cinema è l’arte realistica per eccellenza, e piú di ogni altra arte vale come documento di un’epoca. In tal senso, le rivoluzioni possibili nella tecnica del cinema, dopo quella del suono e del colore, sono ancora numerose, e permettono all’immaginazione le previsioni piú fantastiche. Rivedendo Il sentiero del pino solitario, film a colori che risale a piú di dieci anni fa, ci si rende conto degli scarsi progressi compiuti da allora ad oggi dal nuovo mezzo espressivo del colore. Il piú forte realismo ottenuto da allora ad oggi in questo campo si direbbe che nuoce alla poesia invece di giovarle. Grazie ai toni attenuati della fotografia a colori, nel Sentiero del pino solitario, il colore non offende mai l’immagine come in altri films, girati anche in epoche posteriori e anche da ottimi registi. Siamo grati al technicolor, in questo film, se non altro perché ci rivela l’azzurro degli occhi di Sylvia Sidney, a cui si deve tanta parte della viva grazia di questa attrice. La ripresa del Sentiero del pino solitario è una riprova che un film artisticamente valido,

rimane tale anche attraverso gli anni. Difficilmente si possono dimenticare alcune scene, come quella del selvaggio analfabeta, della stirpe dei Doniver [Tolliver], che inchioda a un uscio una splendida farfalla col lancio di un coltello; o molte scene d’amore; o le scene col piccolo Pucci, fino alla sua morte. I personaggi di questo film, splendidamente interpretati sopratutto da Sylvia Sidney e da Henry Fonda (Fred Mac Murray, invece, rimane un po’ il tipo del bravo ragazzo americano convenzionale), sono spesso delle vere e proprie intuizioni poetiche. Se fosse provvisto di una piú profonda sensibilità espressiva e di un maggior senso tragico, Hathaway avrebbe potuto fare di questo film un capolavoro. Esso rimane tuttavia un’opera pregevole, piena di potenza e di misura. La saga dei Forsyte rientra invece nella piú modesta categoria dei films onesti (se si tolgano i tradimenti commessi in danno del bravo Galsworthy). In esso il colore vale a meglio rievocare certe grazie dell’epoca vittoriana. E la vicenda, a far valere l’arte dell’attrice Greer Garson.

Dio ha bisogno degli uomini Dio ha bisogno degli uomini (Dieu a besoin des hommes), Francia 1950 REGIA: Jean Delannoy SCENEGGIATURA: Jean Aurenche e Pierre Bost dal romanzo Un recteur de l’Île de Seine di Henri Queffélec

INTERPRETI:

Pierre Fresnay,

Madeleine Robinson, Daniel Gélin, Andrée Clément, Jean Brochard PRIMA ITALIANA: anteprima al Festival del Cinema di Venezia, settembre 1950; nelle sale romane il 24 marzo 1951.

Dio ha bisogno degli uomini, film francese di Jean Delannoy, è stato meritatamente premiato nell’ultimo festival di Venezia. È infatti una delle opere piú notevoli e originali nella produzione cinematografica, pur cosí interessante, di questo dopoguerra. L’argomento scelto dal regista, tratto da un romanzo di Henry de Queffelec [Henri Queffélec], è, già di per se stesso, di una qualità inquietante e singolare. La vicenda ci riconduce a circa un secolo fa; ma (come ci avverte una didascalia all’inizio del film) l’immaginazione, in questo caso, non deve far molto lavoro per risalire indietro di un secolo. Il teatro della vicenda, infatti, è uno di quei luoghi di cui la storia sembra dimenticarsi, lasciandoli confinati in una loro perenne infanzia barbarica. Qui il delitto, l’espiazione, l’assoluzione, la morte, trovano ancora una spiegazione in formule elementari; le quali, pur nella loro primitiva rozzezza, hanno tuttavia le loro ragioni nella profonda coscienza umana, e nell’umano bisogno della redenzione e della fede. Siamo in un’isola di scoglio al largo della costa brètone: una striscia di terra cosí stretta che spesso è travolta, come una barca, dalle tempeste marine. Il luogo sembrerebbe inabitabile, e frequentato solo dai gabbiani nelle loro soste. Invece, ha sede in esso un villaggio di pescatori, i quali, piú che delle magre risorse della pesca, vivono di pirateria. Attirano, cioè, le navi di passaggio, per farle naufragare sugli scogli, e quindi saccheggiarle, e spogliare i naufraghi, di cui le salme vengono abbandonate al mare. Questi disgraziati, che nel continente son considerati peggio che selvaggi, sono tuttavia dei cristiani; e nel mezzo dell’isola hanno eretta, con bizzarro amore, la loro chiesa, costruita, come dice una scritta, con la virtú di Dio e con la fatica dell’uomo. Senonché, i ministri di Dio abbandonano, uno dopo l’altro, l’isola maledetta, e la chiesa rimane senza sacerdote, la canonica vuota. V’è rimasto solo Tommaso, il sagrestano, il quale raffigura, in questo film, quello che, nella narrativa dostoievskiana, è il personaggio dell’Idiota: dell’uomo, cioè, che unisce all’innocenza e alla semplicità di cuore una profonda intuizione religiosa. Quest’uomo sente che, senza la speranza cristiana, espressa nei riti, nelle celebrazioni, nei Sacramenti, i suoi sciagurati concittadini saranno davvero perduti; e allora, serbando, pure attraverso straordinarie illuminazioni, la sua nativa umiltà, si assume, seguíto da tutto il suo popolo, le funzioni sacerdotali. Fino al giorno che un vero sacerdote sbarca nell’isola, a riportare l’ordine in quel gregge sperso. Il personaggio del sagrestano è interpretato da Pierre Fresnay. La qualità di quest’attore sta nella evidenza (o diremmo addirittura nella vistosità) drammatica, piú che nella discrezione. Ma a questa eloquenza, tutta latina, del gesto, della maschera, dello sguardo, nessuno può negare una singolare intelligenza e una grandissima forza espressiva. Qualcosa di simile può dirsi della regia di Delannoy. C’è chi ha rimproverato qualche eccesso di teatralità a questa regía. Ma noi non rimprovereremo al teatro la teatralità, purché non discenda nella volgarità o nella bassa retorica. Il che non si nota mai in questo film, grazie al quale Delannoy può dirsi davvero un grande regista. Dal gioco contrastante del bianco e del nero, usato sempre con genuino vigore espressivo, Delannoy ottiene degli effetti di pura ed essenziale poesia. Per trattare la singolare materia di questo suo film egli dispone di una tecnica adeguata; alla psicologia elementare dei suoi personaggi risponde il

disegno netto, senza mezzi-toni, della sua fotografia. E il selvatico paesaggio dell’isola brètone ritrae con efficacia non comune gli stati drammatici, e mistici, di questi eroi, non meno dei loro volti, cosí ricchi di nativo vigore e di sensibilità. Una lode particolare va anche al dialogo; il quale rivela non soltanto un’ottima tecnica della sceneggiatura, ma anche il dono raro dell’intelligenza. Assai efficace è anche il commento musicale.

Terra di giganti – Il caimano del Piave Terra di giganti (Sons of Matthews), Australia 1949 REGIA: Charles Chauvel SCENEGGIATURA: Maxwell Dunn, Charles e Elsa Chauvel ROMANA:

INTERPRETI:

Michael Pate, Wendy Gibb, John O’Malley, Thelma Scott, Ken Wayne, Tommy Burns

PRIMA

31 marzo 1951.

Il caimano del Piave, Italia 1951 Sarazani

INTERPRETI:

REGIA:

Giorgio Bianchi

SCENEGGIATURA:

Fulvio Palmieri, Oreste Biancoli, Fabrizio

Milly Vitale, Frank Latimore, Gino Cervi, Franco Golisano, Ludmilla Dudarova, Harry Feist, Gina

Falkenberg, Gino Leurini, Fausto Tozzi, Nyta Dover PRIMA ITALIANA: 7 marzo 1951 (a Roma il 31 marzo 1951).

Il film Terra di giganti del regista Charles Chauvel è la storia di una famiglia di colonizzatori impiantatisi in Australia sul finire dell’800. Esso incomincia con le imprese del capostipite Matteo Donevan, bel giovane dalla nera barba romantica, sbarcato per primo in quelle terre inesplorate, in compagnia della sua giovane moglie. E si conclude con la visione di una lunghissima tavolata, a capo della quale, fra una schiera di figli e nuore, figlie, generi e nipotini, sta la ormai vecchia, ma sempre forte e serena vedova Donevan. Gli esterni di questo film sono stati girati dal vero fra i fiumi, le foreste e le montuose colline australiane, i cui nomi stessi, per la loro qualità immaginosa, evocano la poesia di un mondo ancor vergine, e ancora abitato dai miti. Una bella e limpida fotografia ci rende pienamente la bellezza ora serena e felice, ora drammatica e talora tragica, di questo paesaggio primitivo. E il fascino del film risiede in ciò: che essa accoppia la qualità epica di una vicenda di pionieri a quella intima e graziosa di una storia familiare. Le eroiche scene di esterni, le lotte di Matteo Donevan e dei suoi figli contro la siccità e il fuoco, contro la foresta e i puledri selvaggi, si avvicendano con interni pieni di gentilezza e di umorismo. Tali il bagno della piccola Katy; i dialoghi fra i Donevan ancora bambini la vigilia di Natale; la scena in cui Katy giovinetta lavora in cucina e le fa compagnia, simile a un gatto casalingo, un piccolo canguro, ecc. Cosí pure, ricche di spontaneo vigore e di freschezza sono le scene fra i giovani Donevan, quando, cresciuti e diventati dei belli e robusti ragazzi, scherzano con la madre, si disputano fra loro, sospirano le belle ragazze bionde del piano, ecc. Una sensualità innocente, adatta a quel paesaggio intatto e ancor barbaro, anima le scene d’amore; ed efficaci, nella loro semplicità, sono la scena della morte di Micky, il fratello minore, o le guerre dei due fratelli rivali, Barney e John. Questo film non è un capolavoro; esso non si distingue né per una grande originalità d’invenzioni, né per bravure tecniche. Ma si sente che fra il regista Charles Chauvel e il mondo, e i personaggi del suo film, l’incontro è stato felice, pieno di sincerità e di simpatia. Ciò basta a rendere affascinante e convincente la vicenda del film. Quando la giovane Katy, che lavora come un uomo a disboscare e a dissodare dalla mattina alla sera, dice: «Sono felice», lo spettatore cittadino, dalla sua poltrona di platea, avverte un sincero sentimento d’invidia. E segue non senza un certo rimpianto le vicende di un mondo in cui l’uomo è intento alla lotta contro i suoi nemici naturali: il fuoco, la tempesta, gli animali selvaggi.

Il caimano del Piave, diretto da Giorgio Bianchi, vuole narrarci un eroico episodio della nostra guerra del 1915-18. Il «caimano» è un genere di coccodrillo che vive nei grandi fiumi di America, in particolare nel Rio delle Amazzoni. Nel film, questo soprannome sta ad indicare un giovane, che compie un servizio d’informazioni attraversando il Piave a nuoto, e comunicando cosí con gli Italiani della zona occupata. L’idea era buona e ricca di spunti drammatici. E recandoci a vedere il film, ci destava interesse e commozione l’idea di rivedere quel mondo ancora familiare a noi, eppure lontano. E quella guerra vittoriosa, che

è l’epica dei nostri padri: nella quale essi si comportarono con tanto onesto amor patrio, e tanto eroismo. In verità, questa epica italiana meritava un poeta migliore di quel che non si dimostrino, nella presente occasione, gli autori di questo film. La vicenda, e i personaggi, sono descritti nel modo piú convenzionale; e al posto dei sentimenti veri che animano gli uomini e le donne allorché si vive la tragedia della guerra, non troviamo qui che un sentimentalismo dolciastro e di maniera, tanto meno verisimile quanto piú crede di commuoverci con dei luoghi comuni e dei sentimenti belli e fatti. La fotografia non si eleva dal tono delle cartoline illustrate. E gli attori fanno del loro meglio. Ma Gino Cervi, pur essendo da noi riconosciuto per quell’ottimo e sensibile attore che tutti conoscono, non ci pare molto convincente nella parte di un animatore di «caimani». Il Golisano, che conoscemmo nel film Miracolo a Milano, raffigura qui un personaggio che pare uscito corpo e anima da un libro di lettura per la Seconda Classe.

Donne e briganti Donne e briganti, Italia-Francia 1950 Novarese, Nicola Manzari

SOGGETTO E SCENEGGIATURA:

Mario Soldati, Pierre Lestringuez, Vittorio Nino

INTERPRETI: Amedeo Nazzari, Maria Mauban, Paolo Stoppa, Jacqueline Pierreux, Jean

Chevrier, Enrico Viarisio, Giuseppe Porelli, Nando Bruno, Ada Dondini, Guido Celano PRIMA ITALIANA: 3 novembre 1950 (a Roma il 13 maggio 1951).

La classe dei nostri produttori di films (della quale ormai tutti conoscono il sommo disinteresse, l’alto grado di cultura, lo spirito di sacrificio, e la fedeltà esclusiva all’Arte), si distingue ancora per un’altra virtú, e cioè per un affetto indulgente, e diremmo paterno, verso il nostro pubblico. Tutti i capricci del pubblico, anche se puerili e stravaganti, vengono soddisfatti fino alla sazietà, e magari all’indigestione. Il pubblico vuole Totò? E i produttori si affannano a dargli Totò vestito da sceicco, da Figaro, da imperatore, e da sposa. Il pubblico apprezza gli spettacoli di rivista? E i produttori, chiamano a raccolta le girls e le miss di tutta Italia, e con l’aggiunta di qualche idea geniale e di pochi metri di stoffa, allestiscono delle riviste spettacolose. Al pubblico è piaciuto Il bacio della morta? E allora, senza sosta, si lavora a dargli La vendetta della defunta, La mano della trapassata, e via di seguito. Non vorremmo offendere i sentimenti paterni dei nostri produttori, ma dobbiamo ricordare ad essi che l’eccessiva indulgenza è pericolosa, come insegnano i migliori trattati. Adesso è la volta dei briganti. Pare che i briganti piacciano al pubblico, e le Case di produzione, secondo il solito, non si risparmiano. Si chiama un regista compiacente, qualche sceneggiatore dotato di fantasia, infine l’ottimo e insostituibile Amedeo Nazzari, e si prepara un altro film di briganti. I briganti, si sa, hanno il loro senso dell’onore. Un brigante ancora vivente ha recentemente protestato, non sappiamo con quale fondamento, contro alcune inesattezze storiche riscontrate in una sua biografia (fornita del resto di buone qualità artistiche) apparsa or non è molto sui nostri schermi. Il film Donne e briganti, ultima fatica di Mario Soldati, ha invece a protagonista il famoso Fra Diavolo, il quale è morto da quasi un secolo e mezzo. Egli perciò non è piú in grado di protestare, ma avrebbe buoni pretesti per farlo, giacché l’esattezza storica non è fra le qualità di questo film. Fra le esigenze della storia, e quelle dell’arte, noi parteggiamo per le seconde. Vale a dire che qualche capriccio della fantasia, ricamato sul ruvido canevaccio della storia, non ci offende, se può servire a qualche buon effetto poetico. Gli sceneggiatori di Donne e briganti non hanno certo risparmiato la loro facoltà inventiva; ma purtroppo non siamo rimasti convinti della necessità artistica dei loro capricci. In questo film riconosciamo tutti i motivi del romanticismo piú innocente e familiare: la trovatella di stirpe reale, il tradimento, la sostituzione di persona, il trionfo dei buoni e la punizione dei malvagi. Senza dubbio, è proprio l’ingenuità tradizionale di questi motivi che è piaciuta all’intelligenza maliziosa di Mario Soldati; la quale si fa riconoscere in varie, maliziose allusioni. Simili sequenze, appunto, nelle quali si sente che il regista si diverte a raccontare le sue frottole, e sembra ammiccare agli spettatori avveduti, sono le meglio riuscite del film, e non mancano di vivacità e grazia. Esse non bastano, però, a salvare il film. E neppure certe buone fotografie, e la bonarietà di certe battute alla napoletana, riscattano Donne e briganti dalle manchevolezze e dagli arbitrii del racconto, dalla debolezza delle parti sentimentali, e dallo scialbo colore dei personaggi, soprattutto di quelli femminili. Soldati, come sempre, tiene in serbo le proprie qualità di artista per una migliore occasione. Amedeo Nazzari rappresenta con la sua solita, simpatica generosità la parte del brigante. Il buon Paolo Stoppa veste

ancora una volta la divisa del cattivo. La prima donna ci lascia un po’ freddi. Anche il personaggio della vivandiera, che vorrebbe essere assai gustoso, ci lascia [...]

Cielo tempestoso Cielo tempestoso (The Clouded Yellow),

GB

1950

REGIA:

Ralph Thomas

SCENEGGIATURA:

Eric Ambler, Janet Green

INTERPRETI: Trevor Howard, Jean Simmons, Sonia Dresdel, Barry Jones, Kenneth More, André Morell, Eric Pohlmann PRIMA ROMANA:

18 maggio 1951.

Nell’accingerci a parlare del film Cielo tempestoso, diretto da Ralph Thomas, dobbiamo prima confessare che proviamo, in genere, una certa antipatia per quei libri e quegli spettacoli che vengono comunemente detti «gialli». Essi cominciano, per solito, con la sinistra visione di un assassinato. Il fascino del loro mistero non va piú in la delle circostanze misteriose. Come stimolo alla nostra intelligenza, ci propongono la scoperta di un criminale. E dopo averci trascinato per un paio d’ore attraverso uffici di questura, e quartieri malfamati, in compagnia di gente equivoca, la massima soddisfazione che sanno darci è uno smacco alla nostra presunzione. Infatti, essi possono vantarsi di un ottimo successo solo se, all’ultima scena, ci rivelano che l’assassino non era per niente affatto quell’individuo al quale avevamo pensato noi. Infine, la loro màcchina orripilante e il loro thrilling si riducono, per solito, a un passatempo alla buona, appartenente a quella famiglia di passatempi di cui fan parte, per esempio, il gioco della canasta, o le parole incrociate. Ebbene, dite pure di noi che siamo sofistici, fanatici, male avvezzi; dite di noi quel che vi pare, ma noi conosciamo dei passatempi migliori delle parole incrociate, della canasta, o degli spettacoli gialli. Conosciamo, è vero, delle composizioni di questo genere nelle quali il gioco fantastico e psicologico è cosí sottile e geniale da toccare l’arte e la poesia. Simili racconti (si pensi, per esempio, al Doppio delitto nella via Morgue o alla Lettera rubata di Edgar Allan Poe), meritano d’esser chiamati, non piú racconti gialli, ma racconti d’oro. A questo punto, ci domandiamo: Il film Cielo tempestoso del regista inglese Ralph Thomas, è un film d’oro? Senza esitazione rispondiamo: NO! Allora, è un giallo della specie piú volgare? Per onestà dobbiamo rispondere: Nemmeno. Esso, infatti, ha l’ambizione di darci qualcosa di piú di un qualunque thrilling, o brivido. È composto con criterii scientifici, e si giova di due scienze: la scienza poliziesca e la psicanalisi. Come all’origine di un delitto commesso in circostanze misteriose c’è un assassino nascosto, cosí all’origine di una nevrosi c’è nascosto, un tràuma. Il film di Thomas ci presenta il caso di una fanciulla accusata ingiustamente di un delitto, e, per di piú, affetta da nevrosi. E ci propone un doppio problema! Scoprite l’assassino, e scoprite il tràuma. Questa doppia indagine è condotta su due cammini paralleli. Infatti, ogni spettatore edotto di psicanalisi avvertirà che in questo film le immagini, gli strumenti e le circostanze del delitto e dell’indagine sono spesso dei simboli psicanalitici. Alla fine, poi, si arriva a scoprire che il vero assassino è pure, nel tempo stesso, l’autore del tràuma che causò la nevrosi alla fanciulla protagonista. L’amore, impersonato dal simpatico attore Trevor Howard, guida questa malcapitata fanciulla verso la salvezza e la libertà, e, nel tempo stesso, verso la guarigione. E vel guida attraverso cammini misteriosi, angosciosi, complicati, al modo stesso che sono misteriose, angosciose e complicate le vie per le quali il medico guida il malato alla scoperta del suo subcosciente. La fotografia è ottima. Quanto al brivido, non si può negare che il regista Thomas ha saputo darcelo: noi stessi, a nostro dispetto, in qualche punto siamo sobbalzati sulla sedia. Malgrado tutto questo, il film è mediocre. Quanto alla cara e bella Jean Simmons, non se ne dirà mai abbastanza bene; ma l’aspettiamo in una parte degna di lei, come la sua prima Ofelia.

La gioia della vita La gioia della vita (Riding High), USA 1950 REGIA: Frank Capra, remake di Strettamente confidenziale, 1934 SOGGETTO: Mark Hellinger SCENEGGIATURA: Mark Hellinger, Robert Riskin, aggiornata da Melville Shavelson e Jack Rose INTERPRETI: Bing Crosby, Coleen Gray, Charles Bickford, William Demarest, Oliver Hardy, James Gleason, Frances Gifford, Ward Bond PRIMA ROMANA: 26 maggio 1951.

Pur non considerando i nostri doveri di critici, chi avrebbe potuto trattenerci dal correre al cinema dove si annunciava un film diretto da Frank Capra, intitolato La gioia della vita, e che veniva definito sui manifesti il film che vi farà felici? Il nome di Frank Capra è legato ai ricordi piú allegri e amabili della nostra adolescenza. Alle nostre compagne di scuola, Accadde una notte piaceva come, alle nostre nonne, la fiaba del principe azzurro. Infatti, i tempi erano già alquanto disincantati, e i Principi Azzurri delle nostre compagne amavano assumere aspetti atletici, facevano per mestiere i giornalisti da strapazzo, e si adornavano, per piacere ai loro cuori, di gags o trovate umoristiche. Accadde una notte, di Frank Capra, è un film del 1934. Alla stessa epoca, se non erriamo, appartiene un altro film dello stesso regista, dal titolo Strettamente confidenziale, in cui si esalta una vita disinteressata, disinvolta, e non sempre sicura del domani, a discredito dell’esistenza ricca, ordinata e gretta degli uomini d’affari. Non dissimile da questo è lo spunto dell’odierno La gioia della vita; ed è tale spunto, evidentemente, che ha consigliato ai nostri traduttori il titolo italiano del film, che nell’originale è intitolato diversamente. In realtà, la gioia della vita, che dovrebbe, secondo il titolo, tingere questo film dei suoi colori affascinanti, appare qui piuttosto mortificata, spenta e non molto convincente. L’odierno cavaliere della bohème e dell’avventura, impersonato da Bing Crosby, ha un volto un poco invecchiato, stempiato, tirato, e non sembra molto persuaso né della propria spensieratezza né delle proprie canzoni. La sua principessa, la grassottella e semplice Coleen Gray, ha perso fin gli ultimi ricordi di quella grazia romantica che distingueva le principesse dei Cavalieri di ventura. Le sue grazie si limitano, qui, a qualche lagrimuccia sparsa su un pollo arrosto riuscito male, e ad altri suoi simili, e lodevoli, scrupoli d’infermiera e di massaia. Neppure la partecipazione straordinaria di Oliver Hardy, che fa in questo film un’apparizione fuggevole, non ci suggerisce, con le sue mossettine e la sua voce in falsetto, la gioia della vita, ma quasi un sentimento di malinconia. In fondo, il personaggio piú avventuroso di questo film, almeno nell’aspetto, è proprio il padre banchiere, che dovrebbe invece rappresentare l’immagine stessa della grettezza e della pedanteria. Proprio a lui, invece, solo a lui, gli autori del film hanno dato una fisionomia scapigliata e ribelle da vecchio corsaro. In conclusione, il film ci avrebbe interamente disillusi, e, diciamolo, anche un poco annoiati, se non ci fosse, a risollevarne il grigiore, la partecipazione di due attori non appartenenti alla specie umana: e cioè un cavallo di nome Bill, e un galletto di nome Caruso. Il cavallo Bill, giovane, spensierato ed eroico, è il vero protagonista del film. La sua bellezza, la sua festosa allegria, la sua innocenza, esprimono davvero la gioia della vita, e basta la sua presenza sullo schermo per allargarci il cuore. Quanto al galletto Caruso, fra i tanti personaggi comici di questo film, è il solo che sia riuscito a farci ridere. E comprendiamo perfettamente che l’intelligente cavallo Bill gli conceda la sua massima amicizia e simpatia. Caruso è forse, in questo film, la sola trovata brillante di Frank Capra, già famoso come brillantissimo inventore di gags. A parte i meriti di Bill e di Caruso, il film è interessante per la rappresentazione che ci dà

dei concorsi ippici, del mondo degli allevatori e appassionati di cavalli, e dei drammi e rivalità delle scuderie. La corsa finale, con la magnifica vittoria e morte di Bill, è descritta con grande bravura, e riesce a sollevare ad ansia e commozione il nostro spirito, che aveva sonnecchiato durante le scene precedenti. Gli attori, grazie alla loro tecnica esperta, impersonano bellamente le figure alquanto risapute dei loro eroi.

Femmina diabolica Femmina diabolica (Doña diabla), Messico 1949

REGIA:

Tito Davison

SCENEGGIATURA: Edmundo Báez, Tito Davison, Luis Fernández Ardavín

SOGGETTO:

Luis Fernández Ardavín

INTERPRETI: María Félix, Víctor Junco, Crox

Alvarado, Perla Aguiar, José María Linares-Rivas PRIMA ROMANA: 16 giugno 1951.

L’attrice María Félix, impersonando la protagonista del film Femmina diabolica del regista Davison, richiama, come suol dirsi, agli onori delle platee, un personaggio che da vari anni in qua pareva oscurato da un’eclissi: e cioè, il personaggio della donna fatale. Ai tempi del suo massimo splendore, il fenomeno delle donne fatali dette da pensare a fisici, a medici, a psicologi, ad artisti, e soprattutto a coloro che Stendhal usa chiamare le anime tenere, e che, ovviamente, si presumono essere le prime vittime del fascino sterminatore delle donne. Chi attribuiva un tale fenomeno a una irradiazione molecolare, chi a un patto col diavolo, chi ad un irresistibile scatenarsi della volontà di potenza (la stessa che, nel campo virile, produce i dittatori). Altri, infine, con criterio piú malizioso, davano la spiegazione seguente: Ogni donna, essi dicevano, fornita di gioventú e di grazie naturali, può diventare fatale, appena lo voglia. Basterà ch’essa elegga i proprii patiti o corteggiatori non fra la progenie del vittorioso Marte, o dello splendido Apollo, o dell’immenso Giove; ma fra i diseredati nipoti del vecchio e contraffatto Vulcano, del misero Tersite, o anche del sapiente Socrate, il quale (come lealmente riconoscevano i Greci), era, sí, buono, ma non era bello. Dei signori di tale stampo, avvezzi a considerarsi derelitti nelle feste della galanteria, perderanno facilmente la testa! Vogliamo vedere, però (soggiungevano quei maliziosi), la medesima bella donna misurarsi, non diciamo con Giacomo Casanova o con Napoleone Bonaparte, ma semplicemente con un giovane campione di tennis, provvisto di piacevole aspetto, e libero da qualsiasi senso d’inferiorità, o da mortificazioni di qualunque specie. Questa sarà la prova della donna fatale. Questa maliziosa teoria, evidentemente, si adatta solo ad alcuni casi: dal numero dei quali va escluso, per esempio, il caso di Cleopatra, o quello di Elena di Troia. Pur senza nessuna malizia da parte nostra dovremo, invece, comprendere nel suddetto numero il caso di Angela, l’eroina del film Femmina diabolica diretto dal regista Davison. Ogni volta che Angela si trova di fronte a signori in ancor giovane età, e di aspetto appena passabile, è un disastro! Da essi, non ottiene che disamore, vilipendio e sfruttamento. La poverina si vendica, allora, di costoro, su personaggi piú anziani e meno dotati dalla natura, che a sua volta trascura, vilipende e sfrutta. Non sappiamo se fosse nelle intenzioni del regista di provare questa particolare limitatezza del fascino di Angela. Ciò che secondo ogni evidenza egli vuol dimostrarci è solo che Angela, la quale da fanciulla fu degna del suo nome, in seguito a una delusione d’amore è diventata una Erinni. Tuttavia, nel deserto del suo cuore rimane pur sempre un’oasi di purezza: l’affetto per sua figlia, per la quale essa sogna un destino opposto al suo: niente donna fatale, insomma. E qual è il motivo musicale che, durante tutto il film, dovrà simboleggiare la purezza della figlia, in contrasto con l’empietà della madre? Indovinate: l’Ave Maria di Gounod! Come per la scelta di questo motivo, cosí pure per la scelta dei luoghi l’ambizione dell’originalità non ha tormentato il regista. Le vendette della femmina diabolica si svolgono fra i soliti scenari cari alle donne fatali del buon vecchio tempo: intorno a tavolini di roulette, in appartamenti sontuosi, fra monocoli e marsine, ecc. La vicenda si svolge in un Messico, che, se si eccettua il folclore di qualche canzone alla spagnola, somiglia straordinariamente a certi centri mondani mediterranei, al punto che ci pareva di riconoscere, fra quei signori, dei villeggianti della Marina Piccola a Capri. María Félix attraversa simile vicenda fra le

rovine da lei stessa causate, coi capelli ala-di corvo giú per le spalle, i bellissimi occhi assassini, e la pelliccia di visone azzurro. Peccato che tutto ciò non basti per essere una grande attrice.

Non c’è passione piú grande Non c’è passione piú grande (Jolson Sings Again),

USA

1949 REGIA: Henry Levin SOGGETTO

E SCENEGGIATURA:

Sidney

Buchman, dalla vita di Al Jolson, seguito di The Jolson story di Alfred E. Green (1946) INTERPRETI: Larry Parks, Barbara Hale, William Demarest, Ludwig Donath, Tamara Shayne PRIMA ROMANA: 16 giugno 1951.

Col sopravvenire della stagione calda, coloro che esercitano la professione di critico cinematografico devono raccogliere tutte le risorse della loro fede e del loro equilibrio per non cader vittime di uno scetticismo scoraggiante, o addirittura, di un pessimismo nero. L’estate, per loro, è davvero un punto di noia, per esprimerci con le parole del poeta Arturo Rimbaud. E se non ci fossero, a ristorarli, i saporiti festivals del cinema retrospettivo, o i raffinatissimi festivals internazionali, il loro pessimismo potrebbe arrivare fino a una leggera mania di persecuzione. I nostri ascoltatori non ignorano forse che i rotoli di pellicola cinematografica, per la loro forma che ricorda quella di una focaccia, vengono, in gergo, detti pizze. Ora, ispirandoci a questa immagine casalinga e domenicale, diremo che i cuochi di Hollywood o delle altre Cine-città di tutto il mondo, ogni volta che una pizza è riuscita male, o non è cresciuta, o è scipita, o è bruciata, o è poco cotta, la mettono in serbo per l’estate. Per cui, in tale stagione, il critico esperto si aggira fra i manifesti cinematografici con un lieve senso di angoscia che lo stringe allo stomaco. Invano i manifesti vorrebbero lusingarlo promettendogli una impressionante vicenda di passione e di gelosia nelle solitudini del deserto: oppure la lotta di due cuori uniti nell’amore piú sconvolgente. Egli sa già quale delusione, quale tradimento lo aspettano dietro quelle promesse. E si riduce in una sala provvista d’impianto d’aria condizionata per godere, almeno, di un qualche refrigerio fisico nella sua mortificazione morale. Il technicolor Non c’è passione piú grande, diretto da Henry Levin, ci si annunciava come il film che fa vibrare le corde piú sensibili del vostro cuore. Eravamo rassegnati a sentir vibrare, nel nostro cuore, soltanto le corde piú sensibili, lasciando dormire, fino a una migliore occasione, quelle piú difficili e ritrose. Non chiedevamo, dunque, nulla di piú delle modeste vibrazioni a noi promesse. Non c’è passione piú grande ci descrive, in technicolor, alcuni episodi della vita del famoso cantante Al Jolson. Naturalmente, l’occasione è buona per farci sentire alcune delle sue canzoni. Confessiamo che, nel genere delle canzoni, noi amiamo sopra tutte le altre le canzoni napoletane; dopo le quali vengono quelle spagnole e quelle francesi. Le canzoni americane, in cui l’oggetto dell’amore viene per lo piú chiamato baby, e i sentimenti amorosi vengono, per solito, alquanto rarefatti, ci lasciano piú freddi. È come, poniamo, un succo di grape-fruit conservato in scatola, al paragone di un bicchiere di vino di Capri e di Bordeaux. Rimanevano, per toccare le corde piú sensibili del nostro cuore, le molte risorse offerte a un regista che si accinge a narrarci, in tecnicolor [sic], la vita di uno degli artisti piú festeggiati e piú popolari del suo tempo. Ma non ci sembra che il regista Henry Levin abbia fatto buon uso di queste risorse. Anche le scene del tempo di guerra in cui si vede Al Jolson, ormai in declino, cantare per i soldati, col cuore amareggiato e la salute già minata; anche queste scene, che offrirebbero tanti argomenti umani e drammatici, rimangono a boccheggiare nel clima melenso, spento del film. Il vero Al Jolson era, senza dubbio, piú affascinante dell’attore Larry Parks; altrimenti, il suo enorme successo resterebbe fra i misteri della storia. Quanto al technicolor, possiamo apprezzare il suo impiego nel cinema quand’esso serve a rivelarci i colori fantastici del sole di mezzanotte, o dei leggendari

costumi di Mae West e di Marlène [sic]. Ma vi pare che valga la pena di impiegare macchinari tanto costosi per mostrarci, al vero, i colori di un divano falso Impero, o di una cravatta à pois rossi e blu, o di una camicia da uomo a righine rosa?

Duello a Berlino Duello a Berlino (The Life and Death of Colonel Blimp), Pressburger sul personaggio creato da David Low

GB

1943

REGIA E SCENEGGIATURA:

Michael Powell e Emeric

INTERPRETI: Roger Livesey, Anton Walbrook, Deborah Kerr, John

Laurie, James McKechnie PRIMA ROMANA: 22 giugno 1951.

Riconoscere i proprii torti è uno dei primi doveri degli uomini d’onore. Nelle nostre cronache di martedí scorso, accusavamo la stagione estiva di offrire ai critici cinematografici soltanto delle pellicole di scarto e senza interesse. Ed ecco, a smentire le nostre accuse, il film Duello a Berlino, primizia di questa settimana, in technicolor. I nomi dei due registi, Michael Powell e Emeric Pressburger, ci promettevano già in ogni caso (anche a voler essere pessimisti), una immancabile festa per gli occhi e per l’immaginazione. La grazia, la fantasia, il gusto delicato del colore, sono le qualità ormai provate del geniale duetto Powell-Pressburger. Non è la prima volta che questi due artisti lavorano insieme. Alla loro collaborazione, arricchita dal concorso di ottimi tecnici e artisti del colore, si devono alcuni fra i migliori films della produzione inglese, fra i quali il piú notevole fu Scala al Paradiso. In questo film, la maestria tecnica e l’ispirazione poetica si componevano in effetti di un realismo sobrio e immaginoso e di una fantasia misurata e sorprendente. È curioso, a tale proposito, notare un fatto, e cioè: la storia dell’arte inglese (pur vantando, anche in questo campo, dei nomi ottimi), non può vantare un primato, né una particolare eccellenza, nella pittura. Nella cinematografia a colori, invece, gli artisti inglesi si sono dimostrati, fino ad oggi, i primi del mondo. Essi sono, forse, i soli, che abbiano saputo usare il colore con effetti di vera poesia. Basti citare, a prova di questo, l’Enrico V di Laurence Olivier. Duello a Berlino, non è un capolavoro, e non tocca certamente l’altezza artistica di altre opere di Powell e Pressburger. Ma è un’opera di finissima qualità, piena di misura e di grazia, e nella quale il colore è espressione non soltanto di un sapiente gusto pittorico, ma anche di poesia. Si vedano alcuni paesaggi romantici della Germania d’anteguerra, e la scena del duello all’alba, e il festoso, amabile spettacolo della birreria. Questo film è insomma, come avevamo avuto ragione di prevedere, una gentile festa per gli occhi. Esso ci racconta la storia di due giovani ufficiali, uno inglese e uno tedesco, i quali, nel beato anno millenovecentodue, sono condotti dalle circostanze a battersi a duello. Da questo duello ha origine, fra loro, una carissima e fedele amicizia, la quale durerà per tutta la loro vita, resistendo a tutte le tragiche avventure corse dall’Europa in questo ultimo mezzo secolo. Il film accompagna le vicende dei due amici fino all’epoca presente; e ce li mostra nell’ultimo quadro, mentre, oramai vecchi, conversano insieme davanti alle rovine della casa di uno di loro, riandando ai tempi passati. Il mondo della loro giovinezza è travolto; ma il reciproco affetto, nei loro cuori, è rimasto uguale. Un gentile (seppure inconfessato), legame fra i due amici, attraverso le loro lunghissime separazioni e il passare degli anni, è il loro amore per una stessa donna, divenuta, all’epoca del loro duello a Berlino, moglie del tedesco. L’inglese, dopo quell’epoca, non la rivedrà mai piú; ma ne serberà in cuore, per tutta la vita, l’immagine amata, che serberà per lui, tutte le grazie della giovinezza. Questa immagine, egli la ricercherà sempre in tutte le donne che accompagneranno il suo destino. Cosí sua moglie, destinata a spegnersi giovane, sarà, per un bizzarro favore della sorte, una donna dalle sembianze quasi identiche a quelle della giovinetta amata a Berlino. E cosí pure la sua autista-segretaria, che accompagna i suoi ultimi giorni, sarà quasi una perfetta copia di lei. Questo grazioso fantasma del primo amore, che ritorna nel film, ha forse, nell’intenzione

dei due registi, un significato. Vuol forse rappresentare l’ideale dell’amicizia e della giovinezza, che neppure le piú cupe tragedie storiche possono offendere, e serba intatta la sua grazia fiduciosa? Non si capisce bene, e questa incertezza, che non riesce a una vaghezza poetica, ma soltanto a una insufficienza e inconseguenza d’espressione, è forse il difetto principale del film. Il quale nella seconda parte, piú debole, delude un po’ le promesse della prima. Esso è, tuttavia, un buon film, e degli attori principali (Deborah Kerr, Anton Walbrook, e Roger Livesey), non si sa chi lodare di piú.

I viaggi di Gulliver I viaggi di Gulliver (Gulliver’s Travels), USA 1939. Film a disegni animati REGIA: Max e Dave Fleischer SCENEGGIATURA: Dan Gordon, Cal Howard, Tedd Pierce, Edward Seward, Isadore Sparber dal romanzo di Jonathan Swift PRIMA ROMANA: 5 ottobre 1951.

Abbiamo ieri ripreso il nostro lavoro di cronisti cinematografici recandoci a vedere I viaggi di Gulliver, cartoni animati technicolor eseguiti sotto la direzione di Dave Fleischer. Il libro omonimo, di cui questo technicolor riprende l’episodio piú famoso, fu, come tutti sanno, il capolavoro di Jonathan Swift, scrittore anglo-irlandese del secolo decimosettimo, maestro dell’arte della satira. Fra tutti gli amari scritti di Jonathan, I viaggi di Gulliver è certo il piú amaro. Le favolose avventure del medico di bordo Gulliver nel paese dei nani, in quello dei giganti, e in quello dei cavalli sapienti, sono allegorie di cui Swift si serve per condannare tutte le attività umane: sia le attività sociali e politiche come quelle del pensiero. Egli vuol dimostrarci come l’importanza delle istituzioni, l’Augusta Maestà dei monarchi, la grandezza degli ideali, non siano che valori convenzionali, e come basti un rovesciamento delle proporzioni per conoscerne la vera futilità. Lilliput, il paese in cui gli abitanti non superano i due centimetri di statura, è una parodia delle monarchie europee del tempo di Swift con i loro intrighi, le lotte dei partiti, le assemblee, le guerre: tutte faccende molto serie per i lillipuziani, ma non per Gulliver che sta fra loro come una gigantesca montagna e spinge la loro flotta con un soffio. D’altra parte, per variare la prospettiva, e divertirsi perfidamente al gioco delle proporzioni, poco dopo Jonathan Swift ci mostra come il medesimo Gulliver, cosí possente a Lilliput, appaia un infimo gingillo a Brobdingnag, il paese dei giganti, i cui abitatori misurano circa duemila metri d’altezza. Non basta: per demolire, oltre che gli usi e le costumanze, anche l’essenza propria dell’uomo, e cioè la ragione, il perfido Jonathan attribuisce quest’altissimo dono degli dèi non già alle creature umane, ma ai cavalli. Viaggiando nel paese dei cavalli filosofi, Gulliver impara da questi saggi quadrupedi la vera nobiltà dell’esistenza, e, per contrasto, la sostanziale bestialità dei suoi propri simili, gli uomini, che al paese dei cavalli fanno la parte, appunto, delle bestie. Come si vede, è difficile incontrare un autore piú pessimista di Jonathan Swift; né certo, scrivendo il suo capolavoro, i Viaggi di Gulliver, Jonathan intendeva di scrivere un libro di amena lettura per i bambini delle scuole elementari. Invece, il satirico destino di questo scrittore satirico ha voluto che il suo buon Gulliver diventasse un personaggio classico della letteratura infantile, in compagnia di Pinocchio, di Alice e di Peter Pan. Dopo aver fatto, infinite volte, degna figura nelle vetrine delle strenne e sugli alberi di Natale, è questa la volta, per Gulliver, di pavoneggiarsi sui cartoni animati. Questo film di Fleischer si limita, come abbiamo detto, a raccontarci la piú famosa avventura di Gulliver, e cioè il suo viaggio nel paese di Lilliput. Tutte le acri punte, le brucianti allusioni, i perfidi commenti del racconto di Swift sono dileguati. Il film di Fleischer non è che un’arguta favoletta, fra sentimentale e moraleggiante; e, sebbene, dal punto di vista artistico, risulti alquanto mediocre, tale non appariva, certamente, ai bambini dai quattro ai nove anni di età che ieri affollavano la sala del cinematografo. Un coro di innocenti risate puerili acclamava le scene piú gustose dello spettacolo: il corpo gigantesco di Gulliver al quale i lillipuziani danno la scalata per mezzo di corde, di gru e di macchine complicatissime: il palazzo che crolla al colpo di rivoltella di Gulliver; il re dei lillipuziani che fugge atterrito alla vista di un piede di Gulliver, ecc. Che effetto avrebbero fatto, queste infantili risate, all’amaro scrittore Jonathan Swift, se, per caso, egli avesse potuto udirle, nascosto fra il pubblico? Osiamo dire che gli avrebbero urtato i nervi. Infatti, se Jonathan non risparmiava i suoi strali alla

umanità adulta, si può affermare che ancor piú antipatica gli pareva l’età immatura dell’uomo. La sola presenza dei bambini gli dava il mal di testa; e in un suo famoso scritto sul miglior impiego che si può fare dei bambini, egli seppure ironicamente, proponeva di mangiarli. Ecco dunque, adesso, questo mangia-bambini diventato uno dei padri del mito infantile, in compagnia dei fratelli Grimm, di Salgari e di Collodi. Giusta punizione di uno scrittore pessimista.

Lebbra bianca Lebbra bianca, Italia 1950

REGIA:

Enzo Trapani

SOGGETTO E SCENEGGIATURA:

Enzo Trapani, Giuseppe Mangione,

Leopoldo Trieste, Adriano Bolzoni INTERPRETI: Amedeo Nazzari, Ermanno Randi, Lois Maxwell, Juan de Landa, Umberto Spadaro, Sofia Lazzaro (Sophia Loren) PRIMA ROMANA: 12 ottobre 1951.

Lebbra bianca, film di Enzo Trapani, è la storia di un giovanotto dal cuore semplice, il quale discende dal suo paese nativo a Roma, per far visita a una sua sorella impiegatasi come cameriera in questa città. La sorella, però, è misteriosamente scomparsa; e dopo molte ricerche avventurose e drammatiche, tutte vane, il giovane viene infine a conoscere la tragica sorte della disgraziata, caduta nella triste cerchia dei trafficanti di droghe. Durante le sue vane ricerche, il giovanotto conosce un’altra ragazza, ch’è anch’essa, come la sorella uccisa, vittima e complice del funesto esercito dei trafficanti. La ragazza ama, riamata, il giovanotto, e in quest’amore si redime. Le molte e diverse intenzioni del regista che ha girato questo film sono evidenti. Peccato che, fra tante, il regista non abbia saputo sceglierne una, la piú adatta al suo temperamento, e tenersi fedele ad essa dal principio alla fine. Le intenzioni sono la migliore qualità e, nel tempo stesso, il peggior difetto di questo film. La mescolanza di troppi ingredienti rischia di combinare un pasticcio. La prima intenzione del film è nobilmente morale: Lebbra bianca vorrebbe, cioè, fare un’utile propaganda contro il funesto uso degli stupefacenti e delle droghe, e contro coloro che vivono di questo commercio. Per tale suo intento, l’opera di Enzo Trapani richiama alla mente dei films quali, per esempio, Giorni perduti o La fossa dei serpenti; ma ahimè non regge certo al confronto. Si pensi con quale spietato rigore, e, al tempo stesso, con quanta umana drammaticità è seguíta la rovina del protagonista alcoolizzato in Giorni perduti; e al potere di suggestione che hanno le scene allucinanti (magari un po’ troppo insistite) nella Fossa dei Serpenti. Il fatto è che i registi di questi due films (a parte il loro eccezionale talento), sapevano quel che volevano e avevano l’onestà e il coraggio delle loro intenzioni. In Lebbra bianca invece il fine propagandistico-sociale ha quasi l’aria d’essere nient’altro che un pretesto per offrire al pubblico una specie di romanzo giallo, il quale ora si tinge di nero, alla Dostoievsky [sic], ed ora di un rosa da biblioteca per famiglie. L’intenzione commerciale, di attirare l’interesse del pubblico con l’argomento scandalistico, è innegabile in questo film. Ora, a parte il merito discutibile di simile intenzione, anche un film scandalistico può riuscire artisticamente efficace. Ma Lebbra bianca è girato su una sceneggiatura oltremodo ingenua. La trama, sebbene ispirata a un fatto di cronaca accaduto realmente, appare improbabile e incongrua: tanto è vero che l’arte, se vuole convincere e commuovere, dev’essere piú vera della stessa realtà! In questo film, il regista Trapani tenta una estetica (insolita nel cinema italiano contemporaneo) che potremmo chiamare realistico-romantica. In questo senso, bisognerebbe rendergli merito; ma anche qui, il risultato non risponde all’intenzione. Un’enfasi romanticheggiante, tutta di maniera, si sovrappone, in Lebbra bianca, a un realismo di marca romanesca, a cui si aggiunge un poco di gangsterismo all’americana. Si veda la scena nel locale equivoco notturno, e gli ingenui espedienti fotografici di cui si serve il regista per evocare un’atmosfera di maledizione. In verità, i poeti maledetti non hanno mai ben attecchito nel nostro clima. I nostri Baudelaire si chiamarono Lorenzo Stecchetti. Non avremmo dedicato a Lebbra bianca un cosí lungo discorso, se non fosse che questo film esprime abbastanza bene una confusione d’idee che è, oggi, il carattere piú

notevole del nostro cinematografo. Sia colpa dei produttori senza scrupoli, o degli sceneggiatori mestieranti, senz’arte e senza ambizione, o anche dei registi, il fatto è che il nostro povero cinema sta ricadendo nel fenomeno provinciale. Confrontati a lavori esteri, anche mediocri, i nostri films si direbbero il prodotto di una civiltà infantile. E siccome invece la nostra civiltà ha compiuto l’età del giudizio, tutte le nostre espressioni artistiche (compreso il cinema in tempi non lontani), ne hanno dato la prova, sarebbe il caso che gli uomini del nostro cinema guardassero onestamente la propria coscienza e la realtà. Se non altro, per carità di patria. Detto ciò, e ritornando a Lebbra bianca, non vogliamo dimenticare gli attori di questo film, in particolare Lois Maxwell, ed anche Ermanno Randi, che hanno dato dei loro personaggi una buona e onesta interpretazione.

Nata ieri Nata ieri (Born Yesterday), commedia omonima di Kanin ROMANA:

USA

1950 REGIA: George Cukor

SCENEGGIATURA:

Albert Mannheimer, Garson Kanin, dalla

INTERPRETI: Judy Holliday, William Holden, Broderick Crawford, Howard St. John

PRIMA

20 ottobre 1951.

Il contrasto fra la violenza armata e il diritto inerme ha sempre offerto dal tempo dei tempi, un argomento inesauribile a saggisti e filosofi, drammaturghi e poeti. Esopo trasse da questo argomento la sua famosa favola del lupo e dell’agnello, la cui morale è chiara anche alla mente dei bambini; e non oseremmo affermare che, dai tempi di Esopo, le cose, in pratica, siano molto cambiate. Se non in pratica, però, in teoria la posizione dell’agnello è migliorata senza dubbio, grazie alla stampa e agli altri mezzi di diffusione della cultura. Disarmare la violenza, e insegnare ai deboli e agli ignoranti come si usino le armi della ragione, è certo il piú degno compito possibile per una mente illuminata e non facile a scoraggiarsi. La commedia Nata ieri dello scrittore Kanin, portata oggi sullo schermo dal regista Cukor, è un nuovo apologo sull’argomento del lupo e dell’agnello. Ma, mentre la favola di Esopo termina con la vittoria del lupo, questo apologo moderno, invece, termina con la vittoria dell’agnello; e insomma, la violenza bruta, stavolta, deve darla vinta alla giustizia e alla ragione. Al posto dell’agnello, lo scrittore Kanin mette in scena un’ochetta: e cioè una ragazza la quale, sebbene abbia compiuto i ventinove anni di età, per leggerezza e ignoranza ha arrestato il suo sviluppo mentale, su per giú, all’età di tre anni. Quanto al lupo di Kanin, esso differisce dal lupo di Esopo nel senso che, mentre questo dimostrava un certo genio dei cavilli, e sapeva mascherare le sue sopraffazioni con una certa quale apparenza di giustizia, il lupo di Kanin invece non è buono neppure a questo. Oseremmo dire, se la frase non suonasse irriverente, che egli è un lupo in buona fede, convinto, cioè, che la forza brutale ha ragione contro tutti. Come arma e scudo a tale sua buona fede, a buon conto, nella sua piccola corte, egli tiene sempre vicino un furbo avvocato. Il lupo, in questo apologo americano, è arrivato alla prestigiosa e dorata posizione di re degli stracci: un signore cosí ricco che non sa neppure piú il conto del proprio denaro, e che tuttavia si sforza di arricchire ogni giorno di piú, per una specie, diremmo, di esercitazione atletica piuttosto che per una vera coscienza capitalistica. Il re degli stracci è impersonato dall’attore Broderick Crawford, che già vedemmo nella parte di aspirante dittatore in Tutti gli uomini del re. Questo magnifico attore ha nella faccia il proprio destino artistico: le sue mascelle, il suo naso da pugilatore sono quanto di meglio si può trovare per impersonare i dittatori pubblici e privati. E anche stavolta, Broderick Crawford crea il suo personaggio con uno stile insuperabile. Ma il grande personaggio, la grande trovata di Nata ieri è Judy Holliday, colei che impersona l’ochetta. La grazia spiritosa e allusiva con la quale essa rende i caratteri del suo personaggio dà un sapore delizioso a tutto il film. Un’ottima ispirazione teatrale, è, poi, questo personaggio, fatto di indolenza e di civetteria, di malizia non ancora cosciente e di riposta aggressività. In questo fuoco che sonnecchia nell’anima di Judy, un giovanotto, innamoratosi di lei, suscita la scintilla della coscienza morale. Alla scuola del suo innamorato, Judy incomincia a schiarirsi le idee sui riguardi della violenza e del diritto, dei lupi e degli agnelli, e, in breve, acquista uno spirito democratico. Essa riconosce nel suo Broderick, che la dominava con la prepotenza e il denaro, al posto del creduto grand’uomo, un volgarissimo re degli stracci. E, piantato in asso Broderick, parte col suo innamorato alla riscossa di tutti gli agnelli e di tutti gli adulti nati ieri, che attendono di essere divezzati.

Questa moderna versione della Bella addormentata nel bosco si giova, nella edizione italiana, di un ottimo doppiaggio; e in questo, la lode principale va a Rina Morelli, che ha saputo con grande bravura rendere la voce della protagonista. Il che, nel presente film, era della massima importanza, giacché il carattere originale di Judy Holliday risiede in gran parte nella sua voce bizzarramente puerile. Piú che del cinema vero e proprio, il film Nata ieri è del teatro portato sullo schermo. In tal senso, Cukor ha fatto un ottimo lavoro, e le risorse cinematografiche, vale a dire il dinamismo e l’uso dei particolari, dànno una efficacia ancor maggiore che sul teatro a questa fortunata commedia di Kanin.

Catene del passato Catene del passato (Smilin’ Through),

USA

1941 REGIA: Frank Borzage SCENEGGIATURA: Donald Ogden Stewart, John

Balderston, dalla commedia di Jane Murfin e Jane Cowl

INTERPRETI:

Jeannette MacDonald, Gene Raymond, Brian

Aherne, Ian Hunter PRIMA ROMANA: 27 ottobre 1951.

Il regista Frank Borzage ha saputo meritare uno dei posti importanti (seppure non proprio dei primi), nella storia del cinema americano. Ai tempi piú gloriosi di Hollywood, quando la scuola americana si assicurava il primato nel mondo non soltanto per i suoi progressi tecnici, ma anche per la sincerità e l’umanità delle sue opere, il nome di Frank Borzage ricorre spesso, e si fa sempre onore. Il pericolo di Borzage fu sempre, fin da principio, il sentimentalismo: anche nei suoi films migliori, questo pregevole regista cammina sempre sull’orlo della convenzionalità, ma si salva dal pericolo con delle notazioni di una sensualità delicata e di un vero e poetico sentimento. Fra il sentimento e il sentimentalismo corre la stessa differenza che fra l’oro e il similoro, fra la buona pittura e la volgare oleografia. Naturalmente, come ci sono gli inesperti che prendon per oro puro tutto ciò che luccica, o per dipinti d’autore le oleografie del rigattiere, cosí esistono coloro i quali, o per semplicità di cuore o per una nativa inclinazione alla rettorica, si entusiasmano e commuovono ai falsi sentimenti. Ma un artista che cerchi il successo spacciando per buoni dei sentimenti falsi commette la stessa buona azione di chi vende la patacca al buon provinciale o all’ignorante venuto dalla campagna. Naturalmente, non vogliamo davvero mettere Frank Borzage in questa categoria di galantuomini. Di lui si dirà invece che, nella sua bottega, oltre ai gioielli autentici, egli fornisce anche di quei gioielli detti di fantasia, vale a dire appariscenti, e magari ben lavorati, ma falsi. Anche simili gioielli possono riuscire gustosi e spiritosi, e trovare i loro amatori: purché essi vengano dati, e acquistati, per quel che sono, vale a dire roba di poco conto, e onesta chincaglieria. Bisogna, insomma, che l’orefice sia sincero, e il cliente smaliziato. Detto tutto questo, dobbiamo, seppure con rincrescimento, dichiarare che Catene del passato (un film di Frank Borzage, di fattura non recente, ma dato in questi giorni sui nostri schermi), anche come gioiello di fantasia o modesta chincaglia, è riuscito alquanto male. Lo diciamo a malincuore, perché sappiamo apprezzare anche i gioielli di fantasia purché tengano il loro posto. Ma incominciamo dalla prima attrice di questo film Jeannette MacDonald. Non vogliamo certo deprezzare la grazia di questa attrice solo perché non è piú acerba: anzi, è nostra opinione che il vero fàscino di una donna incominci dopo compiuti i trentacinque anni. Ma come pretendere che Jeannette presti le sue innegabili grazie al personaggio della protagonista, che è una giovinetta sui diciotto anni? È vero che si tratta di un gioiello di fantasia ma anche con la fantasia non si può esagerare. I bellissimi occhi di Jeannette riflettono gli splendori di una estate ricca e consapevole, ma non piú le ingenue trasparenze della primavera. Quanto al resto, Catene del passato somiglia a quelle canzonette nelle quali luna fa rima con bruna, cuore con amore e le stelle sono paragonate a fiammelle. È una specie di storia di Giulietta e Romeo, ma a lieto fine, affinché gli spettatori ingenui non piangano troppo. E vi si possono vedere fanciullette che saltano fra i fiori, vecchi cimiteri inglesi, distinte abitazioni vittoriane, e fantasmi in abito da sposa. Vi sono magioni abbandonate, e coperte di polvere con la spinetta che tace e la grande pendola a muro fermàtasi all’ora della catastrofe; baronetti infelici che si danno al bere; e nobili manifestazioni patriottiche. C’è il vecchio di rigidi principii, il pastore bonario (sant’uomo, amico di famiglia) e la fedelissima domestica, che ha visto nascere i signorini.

Vi sono bufere, con fòlgori che schiantano alberi secolari, e idillii sotto la luna, in barca, dove l’amato rema, e l’amata canta. Tutto questo in un technicolor da cartolina colorata. Il carattere piú originale di questo film è che, mentre di solito, nei films americani, anche mediocri, gli attori recitano bene, qui invece gli attori recitano come dei modesti filodrammatici (se si tolga Jeannette MacDonald, che conosce il suo mestiere, e recita, con buona fede commovente, la sua parte di eroina da romanzo a fumetti). Altra originalità: sebbene vi siano, nel film, padri e figli, gravi tràumi, fenomeni ereditarii, e disgrazie mortificanti, non vi si trova nemmeno un sospetto di psicanalisi. Ci dispiace di non trovare nient’altro di originale in questo film; ma abbiamo fatto del nostro meglio.

Cameriera bella presenza offresi... Cameriera bella presenza offresi..., Italia 1951

REGIA:

Giorgio Pastina

SCENEGGIATURA:

Scarpelli, Aldo De Benedetti, Federico Fellini, Ruggero Maccari, Nicola Manzari, Tullio Pinelli

Agenore Incrocci, Furio INTERPRETI:

Elsa Merlini,

Gino Cervi, Giulietta Masina, Alberto Sordi, Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, Vittorio De Sica, Isa Miranda, Milly Vitale, Aroldo Tieri, Aldo Fabrizi, Enrico Viarisio, Carlo Ninchi, Bella Starace Sainati PRIMA ITALIANA: 3 novembre 1951.

Non sono pochi, come si sa, coloro che escludono il cinema dal numero delle arti belle. E l’argomento da essi preferito, a sostegno della loro opinione, è il seguente: «Un’opera d’arte (essi dicono), è il prodotto misterioso, delicato dell’intuizione individuale dell’artista. Come si può sperare che la grazia, la freschezza di questa intuizione originale si salvino in un film, che è opera di tanti collaboratori (non sempre d’accordo fra loro), ha per suoi strumenti dei macchinari complicati, ed è sempre limitata da interessi estranei alla poesia?» Come i nostri ascoltatori sanno oramai da tempo, noi non siamo affatto d’accordo con questi detrattori del cinema. L’argomento ora esposto, infatti, se fosse davvero inconfutabile, porterebbe a negare la qualità di opera d’arte non soltanto ai films, ma anche, per fare un esempio, alle architetture e ai melodrammi. La Basilica di San Pietro o il Falstaff sono anch’essi frutto della collaborazione di piú ingegni; e richiedono, per venire effettuati, l’uso di macchine e di strumenti. Perfino nelle arti piú semplici, fra l’ispirazione dell’artista e la sua espressione c’è sempre di mezzo un qualche strumento. L’importante è che l’artista sappia conoscerlo e farne buon uso. Lo scultore sceglie un modello, e se ne serve per esprimere la sua idea artistica, usando la pietra e lo scalpello; e il regista, allo stesso modo, si serve della natura, degli attori, del copione che sono la materia della sua arte; e usa come strumento la macchina da presa. Naturalmente, se il soggetto è sbagliato, i collaboratori non vanno d’accordo, e gli attori non sono capiti bene, allora il film non sarà un capolavoro; ma la colpa, in tal caso, non è del cinematografo. D’altra parte, se l’ispirazione manca al regista, né i soggettisti esperti, né i migliori attori, né gli operai coscienziosi potranno dar valore artistico a un film. E questo è un’altra riprova della giustezza della nostra opinione. Vi sono dei casi in cui, per fare un film, si mette in moto mezzo mondo: decine di soggettisti e sceneggiatori, gran numero di attori celebri, e i piú diversi argomenti di spettacolo. E il risultato è: Molto rumore per nulla. Tutti noi conosciamo e ammiriamo il talento di attori quali Eduardo, Peppino e Titina De Filippo, Elsa Merlini, Fabrizi, Giulietta Masina, Isa Miranda, Vittorio De Sica. Ebbene, li potrete ammirate tutti, con l’aggiunta di Alberto Sordi e di altri non meno bravi, nel film: Cameriera bella presenza offresi... diretto da Pàstina. Uno dei nostri piú celebri commediografi, e i nostri sceneggiatori piú quotati, hanno scritto il soggetto per questa grande orchestra di attori. È un soggetto a episodi, sul genere, per intenderci, del famoso Carnet di ballo, o del nostro piú recente Domenica d’agosto di Emmer. Questo genere può dare degli ottimi effetti se i vari episodi sono uniti da un motivo comune, e bene armonizzati dal senso della misura e delle belle proporzioni. Ogni episodio dev’essere di per sé caratteristico e singolare e servire, nel tempo stesso, a un’unica tesi. Si ricorda, a questo proposito, il film francese Ritorno alla vita [Ritorna la vita], dove ogni episodio era affidato a un regista diverso. Il difetto del film di Pàstina sta anzitutto nel soggetto: i vari episodi e personaggi sono di maniera, e si affidano al gioco scenico di attori di sicuro successo, senza cercare di piú. Il nesso che unisce questi episodii è puramente casuale: si tratta di una cameriera in cerca di

lavoro che capita successivamente in ambienti diversi, e, su questo, il film potrebbe continuare all’infinito. Il racconto risulta piuttosto confuso e disarmonico, e si direbbe che i bravi attori vanno avanti per loro conto. L’osservazione realistica dei costumi e della società, che sembrerebbe il fine piú naturale di un lavoro come questo, qui manca del tutto. La casa del borghese agiato impersonato da Fabrizi, sembra una casa di popolani, e la protagonista cameriera, impersonata da Elsa Merlini, sembra una signora della buona borghesia. Il bravo e spavaldo alpino pare un cantante di varietà, e la cantante già famosa (Titina De Filippo), ci convince solo per la bravura di Titina, ma, per quel che riguarda il testo della sua parte, potrebbe essere una vecchia duchessa un poco nevrastenica. Il solo personaggio d’accordo con se stesso è quello del famoso attore-regista impersonato da De Sica; ma anch’esso non esce dalle sue convenzioni. Si dirà che simili critiche son di troppo per un film come questo, il quale ha soltanto pretese commerciali, non artistiche. Ma è proprio la modestia delle pretese che guasta il nostro cinema.

Signori, in carrozza! Signori, in carrozza!, Italia-Francia 1951

REGIA:

Luigi Zampa

SOGGETTO E SCENEGGIATURA:

Scarpelli, Ruggero Maccari, Aldo Fabrizi, Luigi Zampa (e Vitaliano Brancati, Pierre Brives)

Agenore Incrocci, Furio INTERPRETI:

Aldo Fabrizi,

Peppino De Filippo, Sophie Desmarets, Julien Carette, Vera Nandi, Marisa Merlini, Anna Vita, Giovanna Ralli, Nando Bruno, Ernesto Almirante, Checco Durante PRIMA ROMANA: 10 novembre 1951.

Già altra volta, discorrendo sull’arte di recitare, osservammo, ci sembra, come si possano distinguere tre categorie di attori. Alla prima appartengono quegli attori che la natura ha provveduto di un intúito straordinario e di un ricchissimo temperamento, cosí che essi possono, con la medesima naturalezza e passione, trasformarsi nei personaggi piú diversi. Un’attrice che sappia essere stasera Giulietta, e domani sera Lady Macbeth; o un attore che sappia una volta far piangere il suo pubblico interpretando la tragedia di re Lear, e un’altra volta scuoterlo e turbarlo interpretando quella di Amleto: ecco i grandi attori ideali, al quale ogni scrittore di teatro sogna di affidare le proprie opere, come a strumenti prodigiosi, che sanno rendere ogni sentimento umano. Alla seconda categoria appartengono quegli artisti, i quali, piú che veri e propri attori, sono dei personaggi. Ad essi non si può chiedere di interpretare le diverse figure create dagli scrittori e dai poeti, giacché essi non sanno esprimere che un solo personaggio, che è poi il personaggio di se stessi. Per simili attori conviene scrivere drammi e commedie su misura, e l’esempio piú straordinario, in questo genere, è quello di Charlot, il quale, essendo, oltre che attore, anche poeta e regista, sa inventare lui stesso, intorno al proprio personaggio, il mondo e le vicende ideali. Alla terza categoria, infine, appartengono coloro che la natura non ha provveduto né di un carattere singolare e prepotente, né di grandi mezzi espressivi; ma soltanto (nel caso migliore), di una voce gradevole, buona pronunzia, e buona volontà. Piú che interpretare un personaggio, essi declamano, con maggiore o minore grazia od enfasi, il testo della loro parte. A quest’ultimo genere (dobbiamo riconoscerlo), appartengono quasi tutti i presenti attori italiani. Quanto ai grandi attori della prima categoria, essi non attecchiscono volentieri nel nostro clima. Disponiamo, invece, di buoni ed anche ottimi esempi di artisti della seconda categoria, quella, cioè, dei personaggi che interpretano se stessi. Oltre che dal loro personaggio, che si ripete, il limite di questi nostri attori è definito dal loro mondo, che è, per lo piú, un mondo dialettale. Togliete uno di questi artisti dalla loro Roma, o dalla loro Napoli, fateli parlare in italiano invece che in dialetto, ed essi non si ritrovano piú, le loro virtú espressive si smorzano. Il piú grande dei nostri artisti, in questo genere, è Edoardo [Eduardo] De Filippo, il quale (salvando, naturalmente, le proporzioni), è un caso analogo a quello di Charlot. Altri buoni esempi di questo genere sono Anna Magnani e Aldo Fabrizi. ll film piú recente di questo ultimo attore, Signori, in carrozza!, ne conferma le ottime qualità. Accanto a Fabrizi, Peppino De Filippo, altro interprete del film, non merita minor lode: egli sa creare, con la sua parte, un carattere vero, e quanto mai gustoso. Di questo film va lodata anzitutto la sceneggiatura, che è ricca di trovate e condotta con buon ritmo narrativo. Non vi mancano, è vero, le inverisimiglianze e le incongruenze, ma esse sono accettabili in una storia di questo genere, una specie di commedia di maschere, dove ogni episodio è pretesto a incontri e battute comiche. La comicità del film, sebbene di marca famigliare, è di qualità buona e non cade mai nella volgarità. Il regista, Luigi Zampa, conferma qui le sue qualità di buon narratore o di osservatore attento della realtà italiana. Quanto a Fabrizi (che ha collaborato anche alla sceneggiatura), questo nostro attore ha agio in questo film di esprimere felicemente il proprio personaggio: il buon romano burbero,

paterno, cui l’esperienza dell’età matura ha insegnato la tolleranza e la pazienza, e a cui lo scetticismo nativo non impedisce l’affettuosa generosità. Un personaggio, insomma, proprio di quella razza che ispirava i sonetti di Gioacchino [sic] Belli. È un film che fa buon sangue, perché fa sinceramente ridere. Un po’ fiacchi e convenzionali i personaggi e gli ambienti parigini. Buone, però, per il loro ritmo, anche certe scene parigine, come quella del ballo dei negri e quella di Fabrizi condannato a consumare due pranzi interi in due ristoranti diversi.

Senza bandiera Senza bandiera, Italia 1951 REGIA: Lionello De Felice SOGGETTO: Luigi Freddi SCENEGGIATURA: Franco Brusati, Giorgio Prosperi, Lionello De Felice, Jacopo Comin, Nantas Salvalaggio, Giuseppe Zucca

INTERPRETI:

Vivi Gioi, Massimo

Serato, Umberto Spadaro, Paolo Stoppa, Carlo Ninchi PRIMA ITALIANA: 4 ottobre 1951 (a Roma il 10 novembre 1951).

La lotta fra lo spionaggio e il controspionaggio in tempi di guerra ha offerto piú volte argomenti di racconto al cinema. I film su questo soggetto vengono a prendere necessariamente certi modi proprii alla narrativa gialla, ma l’emozione suscitata abitualmente negli spettatori dalle avventure poliziesche acquista, in tali film, un diverso valore, per la posta ch’è in gioco fra i protagonisti. Non si tratta, qui, infatti, di semplici drammi individuali, ma degli interessi di nazioni e di popoli. Perciò, non di rado, il movimento del dramma ha inizio da uno spunto patriottico, che può essere una ispirazione autentica, oppure, invece, soltanto un pretesto per nobilitare una storia emozionante. Nel film Senza bandiera, diretto da Lionello De Felice, lo spunto patriottico non è un pretesto; al contrario, appare che il regista intende soprattutto celebrare le valorose imprese del controspionaggio italiano (durante la guerra del ’15-18), attraverso una storia che possa interessare lo spettatore con le sue risorse drammatiche e spettacolari. Una folla di attori, per buona parte fra i piú noti, lavora in questo film, e ognuno di essi s’impegna con serietà e convinzione nel proprio compito, non meno del regista, il quale ha gran cura dei particolari e l’evidente ambizione di non cader mai nella sciattezza. Questo, unito alla buona fotografia, dà un decoro esteriore a tutto il film. Il quale, però, ha un difetto iniziale nella sceneggiatura, che non sa bene districarsi nelle complessità della storia, e perde buone occasioni di effetti drammatici, dandoci cosí un racconto freddo, qua e là slegato e poco chiaro. Una didascalia, all’inizio del film, avverte che questo prende lo spunto da un’impresa compiuta veramente da nostri ufficiali di marina durante la guerra del ’15, ma aggiunge che la storia vera, nel film, è stata liberamente rielaborata dalla fantasia. Siamo, per solito, difensori della libertà della fantasia; ma, nel caso presente, dobbiamo deplorare che gli autori di Senza bandiera abbiano preferito la via della fantasia a quella della realtà. Siamo convinti, infatti, che se essi si fossero ispirati, per creare i loro personaggi, ai veri protagonisti di una impresa cosí valorosa e fantastica, certo i protagonisti del loro film sarebbero degli uomini, vivi e appassionanti. Mentre che, invece, gli eroi di Senza bandiera appaiono delle semplici astrazioni; come se l’eroismo non fosse il segno di una umanità piú intensa e ricca, ma privasse, invece, il carattere umano di ogni freschezza e spontaneità. Siamo d’accordo: è difficile mettere in scena degli eroi, cosí come è difficile esprimere dei sentimenti universali nella loro bella naturalezza originaria, senza le contaminazioni della rettorica. Uno dei sentimenti universali che piú difficilmente si salvano dalla rettorica è l’amor di patria. Guardate, nella scena finale di Senza bandiera, il primo piano di Massimo Serato, la sua giovane testa che si staglia contro il cielo fra un garrire di vessilli e lo squillare delle trombe! Sembra un manifesto pubblicitario per i sentimenti sublimi; come se tali sentimenti richiedessero la réclame! Vivi Gioi, nella parte della protagonista, si muove con grazia e disinvoltura. Questa nostra attrice rivela il suo talento soprattutto quando si tratta di esprimere emozioni agitate e disordinate: nel pianto, nella rabbia, nelle crisi isteriche. Meno convincente, e un po’ fredda, appare, invece, quando si tratta di esprimere affetti piú delicati e sottili. La parte meglio riuscita di questo film è quella del famoso scassinatore di casseforti

tratto fuori dalla galera per collaborare coi protagonisti nella conquista di importantissimi documenti. Questa parte ha tratti gustosi e capaci di interessare il pubblico, il quale infatti, l’altra sera, durante la proiezione del film, mostrava di apprezzarli molto. Pur trattandosi piuttosto di una macchietta che di un vero carattere, il personaggio dello scassinatore è riuscito nel suo genere. Ben condotta, e girata bene, è pure la scena dell’apertura della cassaforte, che risulta, nel film, il punto di maggior tensione drammatica.

Appendice

La censura della RAI Roma, 20 novembre 1951 Caro direttore, poiché, in data di oggi, io ho creduto opportuno di cessare le mie Cronache del Cinema trasmesse settimanalmente dalla RAI, Le sarò grata se vorrà pubblicare la lettera di dimissioni da me inviata per l’occasione alla direzione della RAI, affinché siano noti i motivi della mia decisione. Ecco il testo della lettera: «Spett. Direzione della RAI, Roma. «In seguito alla mancata trasmissione della mia Cronaca del Cinema odierna, riguardante il film Senza bandiera, La prego di voler prender nota, da parte mia, di quanto segue; e stimo opportuno, prima di tutto, di fissare qui per iscritto i precedenti della questione, certo già noti alla S. V. Ill.ma. «Già quindici giorni, all’incirca, prima dell’uscita di detto film, io ricevetti dalla RAI (come certo la S. V. non ignora) una telefonata di stile ufficioso, in cui mi si pregava di occuparmi del film stesso nelle mie Cronache settimanali. Una simile telefonata, del tutto insolita, mi stupí un poco. Da quasi due anni, infatti, io tenevo alla RAI la rubrica Cronache del Cinema, e, com’è naturale, avevo seguito sempre e unicamente il mio personale criterio nella scelta dei film da recensire, senza che gli uffici della RAI mi dessero consigli né s’intromettessero nel mio lavoro. Evidentemente, la RAI considerava l’uscita di Senza bandiera, film diretto da De Felice, e prodotto dalla Elfo Film (Luigi Freddi), un avvenimento di tale importanza, da giustificare l’eccezione. «A questo invito telefonico, io risposi, com’era logico aspettarsi, che non avrei certo mancato di vedere il film, secondo il mio dovere di critico cinematografico; e che, se esso fosse apparso nei giorni di mia pertinenza (come la S. V. sa, io mi occupavo dei film usciti dal venerdí al lunedí di ogni settimana, mentre che la critica dei film usciti dal martedí al giovedí spettava al collega Bizzarri), avrei naturalmente recensito il film, se lo ritenevo degno d’interesse (non essendo infatti possibile, nel breve tempo concesso alla rubrica, di esaminare tutti i film usciti, tanto io che il critico Bizzarri usiamo scegliere, per le nostre Cronache, quelli da noi ritenuti piú interessanti). «Un paio di settimane all’incirca dopo questa prima telefonata, fu annunciata la uscita di Senza bandiera per un sabato, giorno di mia pertinenza. Due giorni avanti la prima del film, nuova telefonata ufficiosa, a me, della RAI. In tono allusivo e riverenziale, si insisteva ancora presso di me a favore del film Senza bandiera, di cui mi si nominava il produttore, Luigi Freddi, informandomi che il Direttore in persona aveva a cuore il film. Un poco stupita dell’insistenza, risposi che mi pareva, su questo film, d’essere già d’accordo e che non avevo nulla di nuovo da aggiungere a quanto avevo già detto. «Mi recai dunque a vedere il film, che è un lavoro, come ognuno può constatare, di mediocre valore artistico, sebbene diretto con cura e recitato con impegno. Gli episodi patriottici ed eroici del racconto, e cioè i piú impegnativi, risultano freddi, slegati e retorici. I meglio raccontati, e piú vivaci, sono gli episodi minori, sugli scassinatori di casseforti. Essendo comunque il Senza bandiera indiscutibilmente il film di maggior rilievo uscito nei giorni di mia pertinenza, io ne preparai la recensione per la solita Cronaca del martedí. È ovvio dire che, come tutte le mie Cronache, essa si ispirava alla massima imparzialità, serenità e obiettività, manteneva il dovuto rispetto all’educazione e alla misura, e non offendeva persone né istituzioni di sorta. Ognuno, del resto, potrà constatarlo leggendone il

testo, di cui conservo la copia. «Ma, evidentemente, questa mia onesta recensione scontentava, non so perché, le esigenze degli zelanti uffici della RAI. Da poco essa era stata consegnata a questi uffici, e mancava un’ora appena alla trasmissione, allorché dovetti rispondere a una nuova telefonata della RAI. Al solito, in tono ufficioso mi si interpellava per informarmi di un nuovo ed improvviso regolamento della RAI secondo il quale si dovevano attenuare le punte critiche nelle recensioni radiofoniche. Rimasi interdetta all’urgenza di simile comunicazione, giacché mai, prima, ero stata informata dell’esistenza possibile di un simile regolamento, né mai avevo ricevuto il minimo appunto alle mie punte critiche, essendomi venute, al contrario, soltanto delle manifestazioni di apprezzamento, sia da parte della RAI, sia da parte del pubblico. Ad ogni modo, risposi che prendevo atto della informazione, riservandomi le mie future decisioni in merito. Ma era fuor di questione, soggiunsi, che la nuova norma non poteva in nessun modo riguardare la recensione di Senza bandiera, da me già scritta e consegnata alla RAI. Al contrario, mi si rispose, il nuovo regolamento andava applicato immediatamente, e proprio a questa recensione; la quale poteva essere trasmessa soltanto con delle opportune modifiche. Dichiarai che questo era inammissibile: o trasmettere la recensione cosí come io l’avevo scritta, o non trasmetterla affatto. La RAI ha preferito attenersi a questa seconda condizione. Per cui, oggi martedí, la Cronaca del Cinema non ha avuto luogo. «In seguito a questo episodio, del quale non ho ricevuto nessuna spiegazione che soddisfi la mia coscienza, e che offende non soltanto me, ma tutte le persone della cultura, è chiaro che non è piú, d’ora innanzi, possibile la libera e onesta espressione delle proprie opinioni attraverso la Radio. Per cui, con rincrescimento, devo comunicare alla S. V. che da oggi io lascio la mia rubrica alla RAI. Con osservanza, ELSA MORANTE». Mi sembra, caro direttore, che questi fatti, benché misteriosi, meritino di non rimanere sconosciuti. Lascio a Lei di spiegarli. ELSA MORANTE

La spiegazione è semplice: il nuovo presidente della RAI Cristiano Ridomi, pubblicista democristiano ed ex-capo ufficio stampa del presidente del Consiglio, ha creduto opportuno ripristinare alla Radio i sistemi di protezione a favore degli amici, in vigore ai tempi dell’EIAR, della Cultura Popolare e di Luigi Freddi. Pubblicato nella rubrica «Lettere scarlatte», in «Il Mondo», 1o dicembre 1951, p. 10.

[«Non cerco altro che la realtà»] Poco piú di dieci anni fa, io facevo la critica cinematografica per la RAI; per una mia fatale incompatibilità coi dirigenti di quell’istituto, fui costretta a dimettermi dal posto; e da allora, vado al cinema assai raramente. Difatti, l’evasione non è per me; per il poco tempo che mi è dato in questa vita, io non cerco altro che la realtà, intendendo questa parola nel suo significato dovuto, e cioè: sostanza profonda e viva delle cose, di là dalla superficie labile e volgare delle apparenze. Volgare, già, mi piace insistere su questo aggettivo; poiché, per me, irrealtà è sinonimo di volgarità, e dunque, di cosa insana e ripugnante. Ai films, come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana, io chiedo la realtà, e cioè un impegno assoluto e disinteressato verso la vita. Vado a vedere solo i films che mi promettono questa realtà; e si capisce che questi films non sono molti. Impegno assoluto e disinteressato verso la realtà della vita significa, poi, religione. Giacché, evidentemente, la realtà della vita non consiste nella povera convenzione del tempo e dello spazio in cui si muove la nostra singola esistenza individuale; ma nella ragione ultima delle cose, fuori dallo spazio e dal tempo e da ogni individuale interesse pratico. È ovvio che il valore della religione sta in simile significato; e nient’altro che questo naturalmente ripetono tutti i testi divini: dalle Upanishad ai discorsi di Budda, fino al testo piú alto di tutti, e cioè il Vangelo cristiano. Mi vergogno, anzi, di ripetere qui, in queste troppo povere parole, simili cognizioni elementari ed eterne; ma il fatto è (sembra di sognare) che oggi si sentono degli adulti, provvisti di educazione, e di studi, e di mezzi, ed eletti a cariche ufficiali e a responsabilità gravissime: i quali discutono di religione, ignorando, si direbbe, addirittura il significato essenziale e universale di questa parola. Ma tornando ai films: fra i pochi films che vado a vedere senza ripugnanza, io metto, naturalmente, ai primi posti i films di Pasolini. E questo non certo per l’amicizia fraterna che mi lega a questo autore (amicizia che considero uno dei massimi onori a me toccati nella vita); ma perché, fuori da ogni mio affetto personale, in tutta la sua opera Pasolini si rivela come uno fra le pochissime persone viventi nel nostro tempo dotate di sentimento religioso. Anzi in lui sembra addirittura incarnarsi il dramma della coscienza religiosa contemporanea.

[Prima stesura del testo precedente] Da quando (piú di dieci anni fa) per una mia fatale incompatibilità coi dirigenti di quell’istituto, fui costretta a dimettermi dalla mia funzione di critica cinematografica della RAI, io vado al cinema assai raramente. Difatti, ai films come ai libri, come alla pittura, come a ogni altra espressione umana, io chiedo una realtà, intendendo questa parola nel suo significato dovuto, e cioè: valore intimo e assoluto delle cose, di là dalla superficie ibrida, labile e comune delle apparenze. Vado a vedere solo i films che mi promettono la realtà, o almeno una esplorazione attenta e illuminata verso le sue limpide regioni. E si capisce che simili films non sono molti. Irrealtà è sinonimo di volgarità, e realtà è sinonimo di poesia. Gli ignoranti e i filistei (fra cui si contano la maggioranza dei critici comunisti) confondono il reale col suo opposto; e un simile equivoco, spesso intenzionale, nutre la degradazione angosciosa dei nostri contemporanei. Persuasi d’essere molto realisti, si alienano dal reale, e cioè dal motivo segreto e inesauribile della vita, per tenersi alla falsificazione delle apparenze come dire all’irrealtà. La realtà è sempre viva, vera e pura, l’irrealtà è mortuaria, assurda e ripugnante. Irrealtà è sinonimo di volgarità, e realtà è sinonimo di poesia. Un impegno assoluto e disinteressato verso la realtà della vita [qui si interrompe].

La terra trema Un amico, dopo aver assistito alla proiezione di La terra trema ha detto: «È il piú bel film ch’io abbia mai visto». Io gli ho risposto che sono dello stesso sentimento. Per tradurre questo sentimento in una opinione ragionata, dovrei rivedere il film una seconda volta; ma pare non sia possibile, purtroppo, di rivederlo nella sua integrità. La qualità che mi fa distinguere La terra trema da altri films, e anche dai migliori, è la seguente: i films di cui parlo, anche quelli che mi procurarono, durante lo spettacolo, una commozione e ammirazione sincera, avevano poi, se vi ritornavo con la memoria piú tardi, un che di fittizio, e un sospetto di artificio. Per quanto grande fosse l’arte del regista, e la bravura degli attori, e l’allestimento delle scene, l’effetto, sebbene splendido, aveva un carattere ibrido: come se i vari elementi naturali, artificiali, artistici e meccanici che servono a un’opera cinematografica non potessero mai confondersi nella semplicità della bellezza. E fosse vera quella opinione volgare che afferma: «Il cinema non è arte». È un fatto che un regista deve possedere, oltre al proprio talento, un grande coraggio, anzi eroismo, per mettere d’accordo la tribú dei produttori, degli attori, dei mestieranti, le vanità, gli interessi in contrasto, e tutti gli altri ingombri con cui ha da fare durante il lavoro del suo film, rimanendo sempre d’accordo con se stesso. E certo, attraverso imprese tanto complicate, è difficile non offendere la scontrosa e affascinante grazia della poesia. La quale di rado assiste i registi, mentre che si può suscitare, magari, col semplice suono di una chitarra, o con pochi segni di matita su un foglio. Questa grazia consolante, La terra trema la possiede senza dubbio. Il duro lavoro di preparazione, di ricerca, di allestimento, che un tale film ha certamente richiesto, non lascia in esso nessuna traccia, come avviene nelle opere felici. E nessuna ostentata bravura d’attore, né letteratura di dialogo, né macchinosità di regia viene a turbare i modi semplici e distesi di questo racconto appassionato. Chi consideri le difficoltà del lavoro cinematografico, potrà riconoscere quanta audacia, e umiltà di fronte alla vita, e onestà di fronte all’arte, siano occorsi al regista per un lavoro cosí insolito. L’ambizione di Luchino Visconti nell’accingersi a questo lavoro, è stata (se non mi sbaglio), la piú ardua, sebbene la piú felice, che possa ispirare un artista: di guardare, cioè, alla realtà umana, e solo alla realtà, con l’animo libero e attento di chi la guardasse per la prima volta. E di ritrarre con assoluto disinteresse e abbandono, senza ricerche di effetti, né propositi di successo volgare, né retoriche di nessun genere, le fatiche inquiete degli uomini in mezzo alla misteriosa natura, e i loro sentimenti perenni e spontanei. Cercando di intendere, attraverso questa semplice realtà studiata con amore, la prima ragione della storia o tragedia umana e dei suoi miti. La fedeltà del regista a un simile disegno è stata cosí rigorosa ch’egli ha deciso di comporre il suo film con immagini non dell’artificio, ma della vita stessa. Non ha voluto servirsi né di teatri, né di attori, né di sceneggiatura; e, scelta a protagonista della sua storia una immaginaria famiglia di pescatori siciliani (ispirandosi, come si sa, ai «Malavoglia»), è partito per Acitrezza, disposto non tanto a scoprire, quanto a riconoscere laggiú gli eroi della sua scelta. La quale non era certo stata casuale. C’è sempre un destino che dispone gli incontri degli artisti coi proprii eroi. Ma mentre i poeti e i romanzieri devono accontentarsi di incontri immaginari, a Luchino Visconti è toccata la invidiabile ventura di vivere fra i propri personaggi incarnati. Fra i pescatori, i padroni e le ragazze di Acitrezza, egli ha trovato ’Ntoni, e Nedda, e gli altri suoi personaggi; e questo felice incontro testimonia la verità della loro vicenda e della sua ispirazione.

[...] li ha persuasi a rivivere, con naturalezza quasi miracolosa, la vicenda del film, e ad inventarne il dialogo, nell’atto stesso che la scena si svolgeva. Cosí nel loro film essi parlano il dialetto familiare del loro paese. Le stanze, le strade, il porto dove essi agiscono, sono le vere povere stanze loro, le vere viuzze della loro Acitrezza, il loro vero mare siciliano, meraviglioso di giorno e di notte. Il regista ha guardato questo paesaggio straordinario con una specie di antico stupore, ed è entrato nelle casupole dei suoi eroi con una volontà rigorosa del vero, ma pure con un rispetto quasi religioso. A ciò si deve la strana bellezza del film, che pure nel suo realismo assoluto serba una qualità severa e casta, senza mai cadere nei verismi convenzionali. E, pur seguendo ora per ora la vita quotidiana dei pescatori di Acitrezza, non sa mai di documentario. A questo punto, bisogna parlare dell’accusa di lentezza e di monotonia che è stata fatta al film. Non so come si possa parlare di monotonia a proposito di un film che racconta (e il racconto, malgrado la novità dei mezzi, è di stile classico nell’ordine, nella chiarezza e nella misura), la drammatica decadenza di una famiglia dalla speranza alla rivolta e alla rovina. E questo fra vicende di amori e di ambizioni capaci di interessare o commuovere lo spettatore semplice. Quanto alla lentezza è un fatto che il film nella sua edizione integrale dura due ore e mezza; le quali non sono poche per uno spettacolo (anche se coloro che le trovano eccessive non giudicano troppe le tre ore, per esempio, di Via col vento, solo perché questo è un film di qualità corrente e privo di valori artistici). Senonché, in quelle due ore e mezzo (durante le quali sullo schermo si svolgono vicende che nella realtà devono durare almeno molti mesi), non si ha la coscienza, propria di un lettore o di uno spettatore, di dover adeguarsi a un tempo convenzionale, ma si ha l’illusione di assistere all’ininterrotto svolgersi della vita. Una tale illusione si deve proprio alla lentezza singolare delle scene, la quale è mi sembra, la sostanza stessa di questo film, ed ha valore di scoperta di un nuovo tempo cinematografico. Ogni narratore, come si sa, ha una sua propria misura del tempo, che in certi casi segna una vera scoperta (come ad esempio in Joyce o in Proust). Ora, nel cinema che è l’arte di mostrarci le immagini della vita nel suo movimento, una nuova esperienza del tempo, se artisticamente valida, ha una importanza particolare. Perciò la edizione tagliata e mutilata che, a quanto mi dicono, si prepara per la programmazione di La terra trema non si potrà fare senza offendere la sostanza stessa di questo film e la sua qualità nuova e pregevole. Anche il doppiaggio in lingua italiana, che, a quanto pare, è inevitabile per le esigenze commerciali dello spettacolo, non potrà non falsare il valore del film. I cui personaggi, come s’è detto, piú che recitare la loro parte, la rivivono con naturalezza, dialogando fra loro nel loro dialetto nativo. Con un effetto di spontaneità cosí singolare che perfino le loro timidezze, le loro momentanee goffaggini, non suonano mai stonate, ma al contrario commuovono come naturali espressioni della vita. Ora non si pretende che La terra trema venga proiettato in edizione integrale e originale per la grande massa degli spettatori; ma si vorrebbe almeno che una tale edizione venisse proiettata in una sala, per quella parte del pubblico che desidera conoscerla e può apprezzarla, come si fa per le edizioni originali di alcuni films stranieri. Quei critici che hanno rimproverato alle voci di La terra trema di parlare in dialetto siciliano, vale a dire di essere le voci vere dei pescatori protagonisti, dimenticano curiosamente che un tempo il cinema era l’arte muta, e che pure l’assenza del dialogo non impediva affatto di comprendere la trama del film né di gustare il gioco delle sue ombre magiche. In questo film, le voci, colte immediatamente nella loro naturalezza, valgono

quasi da commento musicale, e sono cosí molto piú efficaci (pur se si perde il significato di alcune parole), che non una traduzione prosaica e artificiosa. Per me, si potrebbe fare a meno anche di quella voce-didascalia, che espone a intervalli, in italiano, l’andamento del racconto. Questa specie di poema cinematografico si racconta da sé, anche senza spiegazioni. Una prova della autenticità poetica di questo lavoro è che (come avviene per le opere originali e indimenticabili, le quali nascono spesso da uno spontaneo motivo iniziale piuttosto che da un piano ben congegnato), alla fine, piú delle drammatiche vicende del racconto, rimane nella mente il suo motivo. Il quale, presente in tutto il film ma non traducibile in parole, somiglia alla fantastica malinconia del paesaggio siciliano, immagine del destino misterioso e della umana speranza. I ritorni mattutini delle barche da pesca, e le donne affaccendate nelle piccole stanze dei pescatori. I volti rotondi, un po’ selvatici delle belle ragazze e quelli intenti, macerati delle madri. Le sabbie e le colline bruciate con gli inseguimenti e incontri d’amore, dove un senso di antico idillio, e una affettuosità teneramente umana si mischiano con una sensualità innocente e amara. La grande leggenda della libertà, e i miti dei disgraziati. La soggezione umiliante e la rivolta giovanile. Alla fine, la rovina e la disperazione dell’orgoglio. Tutti i momenti del film ripetono quel motivo. Che ritorna, quale una spiegazione musicale, nelle voci enfatiche, carnali e dolenti dei suoi poveri eroi. Sono certa che La terra trema segna una data importante nella storia dell’arte cinematografica. Mi basta di sapere questo, poiché non sono un critico, e lascio ai critici competenti di denunciare i difetti del film, il quale, come tutte le cose umane, avrà pure i suoi difetti. Ciò che meraviglia, è vedere come la maggior parte dei competenti di cinema in Italia, non abbia finora dimostrato di intendere la importanza eccezionale di questo lavoro, che si sarebbe detto, ad ascoltare i loro giudizi, poco piú di una geniale stravaganza. Si capisce d’altra parte che per i mediatori e i mestieranti del cinema italiano (i quali si adoperano oggi meglio che possono ad avvilire la fama del film italiano all’estero, a corrompere il gusto del pubblico italiano e ad inebetirne l’intendimento), fare un’opera d’arte e di vera poesia per aver la gioia e l’onore di farla, sia una stravaganza.

Dati riguardanti: La terra trema Il film, avuti tutti i visti di censura che sono d’uso, fu proiettato la prima volta, nella sua versione originale, al Festival di Venezia del 1948, dove ricevette uno dei Premi Internazionali. Poiché, nella sua versione originale, a causa della sua lunghezza e del parlato in dialetto siciliano, fu dichiarato dai distributori di difficile programmazione, esso fu ridotto nelle normali proporzioni della presente edizione, e doppiato in lingua italiana. (E sarebbe stato opportuno, invece, di programmarlo nella sua edizione originale, dato che aveva ottenuto un importante premio, almeno in qualche sala di capienza limitata, come si fa per le versioni originali dei films stranieri). Ridotto nella presente edizione commerciabile, ma pur essa pregevolissima, e liberato quindi dagli ostacoli che, a detta dei distributori, si opponevano alla sua programmazione, il film venne invece rifiutato dalla maggior parte dei distributori, e da tutti quelli di Roma, in primo luogo dall’ENIC, e poi dai distributori minori, i quali sono tutti piú o meno legati da qualche interesse con l’ENIC (che è, di fatto, l’ente statale di distribuzione dei films). Per essere esatti (e qui sta il fatto piú grave) il film era già in programma al Fiamma e in altre due sale piú grandi della città di Roma, tanto che per diversi giorni ne fu fatta la presentazione durante il programma. Senonché, venne l’ordine improvviso di togliere la presentazione, e l’ENIC (cui appartenevano le sale dove doveva proiettarsi il film) rifiutò di proiettarlo. L’on. Andreotti, interrogato, disse che non intendeva interessarsi della faccenda. In altre città d’Italia, si riuscí, sebbene a stento e in sale periferiche, a proiettare il film (p. es. Milano, Genova e Trieste, dove il film, attualmente, riscuote un grande successo, e tiene il cartellone da tre settimane). A Bologna, un distributore che dimostra interesse al film, offre ad un gestore di sale ENIC il 50% in piú del suo guadagno fisso giornaliero, pur di avere la sala e di proiettare il film. Il gestore ENIC rifiuta di dare la sala. A Venezia e a Napoli, il film viene dato di Lunedí (giornata notoriamente pessima), e annunciato per soli due giorni. In genere, in tutte le città dove si è riusciti a programmarlo, esso viene ammesso solo nelle sale di seconda visione, come si suole per gli spettacoli di basso livello. Quanto alla piazza di Roma, essa si rifiuta, come già si è detto, di proiettare il film, senza darne le ragioni. (N. B. Il regista del film, Luchino Visconti, è noto per le sue idee di sinistra, e il film ha un contenuto sociale, descrivendo le difficili condizioni di vita dei pescatori siciliani).

Proiezioni clandestine Caro Direttore, poche sere or sono, alla presenza di alcuni artisti, scrittori e critici, venne proiettato a Roma, in una piccola sala privata, il film La terra trema di Luchino Visconti. Questo film descrive, attraverso la storia di una povera famiglia, la difficile vita dei pescatori siciliani; è quindi, come suol dirsi, un’opera di contenuto sociale. Ma a noi, come a persone di cultura e di mente libera, in un’opera d’arte piú che il contenuto interessa il valore artistico. Ora, pur fra le critiche e le discussioni che naturalmente suscita ogni viva espressione dell’ingegno, tutti i presenti alla proiezione furono concordi nel riconoscere un’indiscutibile validità artistica a quest’opera di Visconti. La quale, per le sue qualità, e per il suo profondo impegno, fa onore al cinema italiano. Del resto, non siamo certo noi i primi a riconoscere i meriti di questo film, che suscitò, alla sua prima apparizione, un grandissimo interesse, e si ebbe uno dei Premi Internazionali al Festival di Venezia del 1948. Ma non è questo il luogo per degli apprezzamenti estetici, che vanno fatti in sede critica, e dopo che il film vien reso noto al pubblico. Ora, appunto, ci sembra strano, che il pubblico di Roma non deva aver diritto a vedere un film provvisto di titoli come quelli su citati; e che per conoscerlo, com’è accaduto ai firmatari di questa lettera, si deva ricorrere a delle proiezioni quasi clandestine. Il fatto è che, sebbene adattato alle esigenze commerciali e fornito dei visti di censura, questo film ha incontrato e incontra, in Italia, la massima difficoltà per la sua diffusione. Anche nelle città che si son decise a presentarlo, esso è stato dato in cinema periferici o di seconda visione, in giornate morte, e senza lanci pubblicitari. A Roma, poi, tutti i distributori e gestori si sono rifiutati di ospitarlo nelle loro sale. L’ENIC pareva dovesse darlo inizialmente, in tre delle sue sale, tanto che, in quei giorni, il film fu annunciato durante lo spettacolo. Senonché, d’improvviso e inspiegabilmente, gli annunci furono sospesi, e il film scomparve dai programmi. Non vogliamo qui indagare sulle ragioni che possono aver consigliato un simile atteggiamento. E prevediamo già le possibili risposte dei distributori e gestori di sale. Quel che risulta evidente, è in ogni caso, lo scarso senso di civiltà, e di rispetto per i valori dell’arte italiana, dimostrati da coloro che soprastanno agli spettacoli cinematografici in Italia. Tutti sanno l’importanza acquistata oggi dal cinema nel campo della cultura. Fra i firmatari di questa lettera, vi è chi, esercitando la critica cinematografica, assiste ogni settimana a varii film, pochissimi dei quali buoni, la maggior parte mediocri, e non pochi pessimi. Fra questi ultimi, molti non sono neppur difendibili dal punto di vista commerciale. Ora, ci sembra davvero strano che, mentre si trovano a Roma delle sale disposte a dare al pubblico di questa roba, l’opera di uno dei primi registi italiani deva venire sottratta al pubblico. E ci sembra difficile che si possano dare, a giustificazione di un simile atteggiamento, delle ragioni che non appaiono dei pretesti. Grazie e molti saluti.

Corrado Alvaro Carlo Levi Elsa Morante Alberto Moravia Umberto Morra Toti Scialoja Lettera collettiva pubblicata in «Il Mondo» il 20 maggio 1950.

[Neorealismo] La scuola neorealistica italiana, della quale tutti conoscono l’importanza nella moderna storia del cinema, ha dato, dal suo primo formarsi fino ad oggi, molte opere di validità indiscutibile, non solo dal punto di vista dell’effetto spettacolare, ma anche sul piano morale e sociale, e per la loro sostanza artistica. Tuttavia, a riguardare tutte queste opere con criterio imparziale e assoluto, non si potrà negare che solo pochissime di esse meritano di rimanere non soltanto come testimonianze di un’epoca e di una scuola, ma come vere opere d’arte. In quasi tutte, il raggiungimento della piena espressione poetica (e anche umana), è ostacolato da due impedimenti principali: il materialismo, e il sentimentalismo. Questi due caratteri, che a prima vista potrebbero sembrare contrastanti, e che invece si ritrovano cosí spesso insieme, sono, del resto, fra i vizi principali degli Italiani, anche non artisti. Inutile ricordare qui una verità ovvia per chiunque abbia intendimento d’arte, e cioè che realismo e materialismo non sono affatto la stessa cosa. Il realismo è un modo di espressione (si potrebbe addirittura arrivare all’affermazione che è il solo modo di espressione legittimo per l’arte narrativa; e che tutti i grandi narratori, da Omero fino a Cervantes, a Tolstoj, ed anche a Hoffmann e a Poe, usavano, ciascuno secondo il proprio genio, uno stile realistico). Il materialismo invece è un criterio limitativo, che si ferma su certi aspetti superficiali della vita, trascurandone la profondità e la ricchezza essenziali, che sono, invece, proprio l’oggetto e la giustificazione dell’arte. Quanto al sentimentalismo, fra esso e il sentimento corre la stessa differenza che fra il similoro e l’oro. Riguardiamo, adesso, alcune opere fra le piú pregevoli, e di maggior successo, della scuola neorealistica italiana, e precisamente di due maestri di tale scuola: Rossellini e De Sica. In entrambi questi maestri si ritrovano quasi sempre, in diverso grado, i due difetti sopra lamentati. E spesso, diversamente da quel che si supporrebbe a prima vista, quel che piú guasta, in Rossellini, è il sentimentalismo, e quel che piú guasta, in De Sica, è il materialismo. Riguardiamo, per esempio, del primo, Roma città aperta. Non vorremo certo deprezzare il valore di questo film, sia per il suo interesse documentario che per la sua commovente forza narrativa, e per la sostanza nobile del dramma rappresentato. Ma l’argomento popolare, e cioè fornito naturalmente di una qualità di emozione semplice, universale, e immediata, è qui trattato con una convenzionalità che non risponde ai veri sentimenti del popolo, ma piuttosto a un sentimentalismo di maniera. Se c’è una classe nella quale i sentimenti non sono falsati dal convenzionalismo, questa è proprio il popolo.

[Massimo Girotti] Lo studio di un viso d’attore è l’esercizio d’una scienza fantastica: perché sul viso di un attore si può ritrovare il disegno, e perfino il nome, dei suoi personaggi. Massimo Girotti conosce i grandi successi; ma la fatua soddisfazione del successo ha risparmiato il suo viso. Al suo viso imbronciato, interrogante e pensoso, non basta (e non importa) d’essere giovane e d’esser bello. È scontento. Forse perché il suo personaggio ideale, lui, non l’ha incontrato ancora. Come sarà questo personaggio? Gli occhi di Massimo rispondono: «Avrà la mente giovane, fiduciosa». E la fronte: «Ma il cuore tormentato, adulto». La bocca dice: «Indolenza e malinconia». I sopraccigli: «Memoria e severità». E il sorriso (che si vede pur nella serietà) confessa: «Alla fine, la cosa piú bella del mondo è lasciarsi incantare». Che nome avrà questo personaggio? Adolfo? Werther? Antonio? Amleto? Fra simili specchi incantatori, caro Massimo, scegli il tuo; e lasciati incantare da lui, anche se farai dispetto all’arte neorealista. Dalla cartella Volti del cinema italiano, Carlo Bestetti Edizioni d’Arte, Roma 1952.

[Bozza di risposta a un questionario] 1) Non avendo veduto che una piccola parte dei films enumerati nel questionario, la risposta sulle mie preferenze avrebbe un valore relativo. Non trovo però citato nel questionario uno dei piú bei film da me visti non solo nel 1964, ma sempre. È il giapponese Fuochi sulla pianura (del quale ignoro la data di produzione, ma a Roma è stato dato nel 1964) . 1

2) Onestamente, non vedo analogia tra l’Antonioni e il Bergman se non una certa frigidezza di temperamento, che effettivamente noto nell’uno e nell’altro. Quanto alle due opere citate, non mi sembrano le migliori prove di questi due autori (di Antonioni, prediligo ancora la prima parte della Notte e di Bergman, ancora Il volto) e che nessuna esprima l’alienazione (o gli altri aspetti singolari) della vita contemporanea. A quanto ne avrei capito io, Deserto rosso descrive, in bei colori un poco arbitrari ma non piú di quelli delle normali tecniche fotografiche) le vacue oziose giornate di una signora di scarsa intelligenza la quale conserva ancora una psicologia da harem: e Silenzio gli ultimi deliranti giorni di una tisica, i cui sensi sono perversamente e disperatamente eccitati dal male; e che, come possente (?) espressione di un’epoca, ricordano piuttosto Strindberg o comunque il Liberty. 3) Per quanto mi riguarda Il Vangelo secondo Matteo mi ha procurato insieme ammirazione e delusione. Ammirazione, perché (tenuto conto anche del poco tempo e delle altre difficoltà sostenute dal Pasolini nell’eseguirlo) mi è sembrato un risultato magistrale. E delusione perché, a dire il vero, il film sul Vangelo che io avevo sognato era assai diverso da questo. Era per intenderci in poche parole, un film in cui i protagonisti non avevano nessuna aureola visibile; e che in conseguenza forse i cattolici avrebbero giudicato eretico. Quanto all’esigenza del PCI di un dialogo coi cattolici non so cosa rispondere, perché una simile esigenza è per me oscura, [qui alcune parole incomprensibili] come del resto altre esigenze del PCI. Devo confessare però che io, nella mia propria persona, mentre che non troverei cioè difficoltà a dialogare con un cristiano o con un maomettano (?) [trovo] assai difficile dialogare sia coi cattolici che coi comunisti del PCI, ma può darsi che loro due invece sappiano intendersi; il che, ripeto [manca una seconda pagina]. 1. Il titolo originale è Nobi, un film sull’abiezione cui può condurre la guerra in chi la combatte, diretto nel 1959 da Kon Ichikawa, il regista di L’arpa birmana, e tratto da La guerra del soldato Tamura di Shōhei Ōoka. [N.d.C.].

Su La ricotta Andai a vedere in proiezione privata il film La ricotta pochi giorni dopo che Pasolini aveva terminato di girarlo. E mi avvidi fin dalle prime scene che quel film, per il suo argomento eccezionale, richiedeva, da parte dello spettatore, un impegno insolito. Dunque, ne seguii con molta attenzione la trama, che qui espongo: Su una collina campestre, presso Roma, un regista cinematografico dei nostri giorni si prepara a girare per un suo film a colori, la scena della crocifissione di Cristo. Si tratta di un cineasta famoso, provvisto d’intelletto e di esperienze culturali, e anche di una qualità artistica raffinata; ma sprovvisto, evidentemente, di una coscienza etica. Difatti, nel momento stesso che, intervistato da un giornalistucolo, denuncia con parole brave la misera irrealtà della società contemporanea non si rifiuta intanto lui medesimo di servire a tale irrealtà, usando anzi il giusto pessimismo come un pretesto alla sua propria accidia, che gli nega ogni reale intervento nel mondo e ogni immediata simpatia con la vita. E cosí, invece di buttarsi disperatamente a tentare coi propri mezzi, e cioè con l’arte, un qualche riscatto della realtà umana che sa oggi tanto minacciata, il nostro personaggio ricorre, nell’espressione artistica di cui è responsabile, a schemi già fatti, a immagini usate e di maniera. La sua coscienza non ignora, per esempio, che la crocifissione di Cristo è in se stessa la tragedia piú sublime che mai si sia data al mondo; ma invece di interrogare, per raffigurarla direttamente, il proprio, reale sentimento (umano e religioso) e la propria, umana esigenza del sublime, lui non trova di meglio che rifarsi ai modelli dei grandi manieristi della pittura, ricopiandone, con cura oziosa e esteriore, le pose (composizioni), i colori, i panneggiamenti. Se tale è il capitano, che sarà la ciurma? Gli attori chiamati all’azione sono ovviamente quelli che ogni giorno offre la piazza: da una parte, divi ridicolmente presuntuosi e stolidi, e dall’altra, povere comparse raccogliticce. Gente «alienata» o spersa (usa a ricevere, dal mattino alla sera, per tutto nutrimento dello spirito, i degradanti prodotti delle fabbriche televisive, o filmistiche, o canzonettistiche ecc.) certo non ci può aspettare da loro che si preparino a recitare la Passione di Dio con un fervore simile a quello dei primitivi interpreti dei drammi sacri! Dimenticando addirittura il significato dell’«Actus tragicus» che si avviano a rappresentare, come a una comune intrapresa cinematografica: la quale, per l’uno o per l’altro, correntemente significa o una battaglia per la carriera, o un affare pecuniario, o una esibizione mondana, o infine un espediente per rimediare i pasti della giornata. Cosí, negli intervalli della posa, la diva smania per il suo prestigio o per il suo cagnolino, il regista, per l’appunto, si concede a interviste scettico-sataniche. Gli angeli e i santi del comparsame, in gara coi macchinisti, si scambiano le abituali battute di quel gergo rivoluzionario-qualunquistico che, dai tuguri del sottoproletariato, è ormai scaduto fino alle signore. E i piú giovani della comitiva – non essendo, per loro fortuna, ancora del tutto snaturati – ricorrono al twist o addirittura a uno spettacolo di spogliarello concesso dalla Maddalena. E che altro dovrebbero fare (poveri figli)? Lo sfogo del sesso, del ballo sono le ultime manifestazioni naturali, e quindi ancora le piú pure – a loro lasciate in un simile mondo. [Stracci] Nel caso dell’azione, poi, non mancano gli incidenti inevitabili in tal sorta di lavoro. La sistemazione delle croci sul Calvario è una sfacchinata chiassosa; la diva, pensosa dei propri effetti fotogenici piú che del pianto di Maria, deve ripetere la posa piú volte. Il ladrone sbaglia le battute; il giovane generico, che impersona il crocifisso, male sistemato sulla croce, addirittura scivola giú in terra. Per un errore, al posto del poco di

musica barocca scelto dal regista, per l’accompagnamento viene messo un ballabile attuale ecc. ecc. [bozza incompiuta]

Mauro Bolognini – Elsa Morante

Bolognini, lei è uno dei registi italiani che piú hanno avvertito l’influenza della letteratura nel cinema, ma come mai lei si è rivolto cosí spesso ad opere letterarie per fare un film?

D’AVACK

Per due ragioni. In primo luogo, almeno all’inizio per la mancanza di letterati nel cinema. Il cinema aveva degli uomini validi, ma erano soltanto degli sceneggiatori. Fra uno scrittore e uno sceneggiatore esistono delle differenze, naturalmente, senza voler fare delle accuse a nessuno. Uno scrittore fa dei personaggi, uno sceneggiatore fa delle maschere. Quindi, da parte mia c’era il desiderio di rinunciare a delle maschere, a dei cliché, cosí come me li fornivano gli sceneggiatori, e ricorrere invece a degli scrittori che potessero darmi dei personaggi, in questo senso, cioè delle persone che non fossero buone o cattive dall’inizio alla fine, ma che si contraddicessero, che avessero diversi volti: cioè che fossero intrisi di quella ricchezza che uno scrittore possiede e che difficilmente si trova in uno sceneggiatore.

BOLOGNINI

Lei dice che voleva portare nel cinema dei personaggi. Bene. Ma questi personaggi non poteva configurarseli da solo, crearli senza l’aiuto di altri, sia che fossero sceneggiatori o scrittori?

D’AVACK

Certamente. Ma quando mi son servito dei romanzi non mi sono mai affidato interamente ad essi. Anzi, son sempre stato tacciato di averli rovinati o, quantomeno, profanati. In realtà, per me erano dei pretesti, e quando ho scelto dei personaggi li ho scelti con delle ragioni precise. Corrispondevano a quanto avevo in mente di fare; mi legavo a loro; ed essi appartenevano anche ad una mia autobiografia. Naturalmente partivo da un determinato punto per fare poi il «mio» personaggio. Prendevo il Brentani di Svevo, ma costruivo il «mio» Brentani. Oppure Agostino: ma nel personaggio del film non c’è soltanto quello di Moravia, ci sono tante cose mie autobiografiche, ci sono quelle di Parise, ecc. Ora, il punto essenziale è che, normalmente, i registi fanno tutti cosí, anche se non sempre lo dimostrano, se non sempre denunciano la fonte da cui traggono la loro ispirazione. Ci sono films importantissimi che hanno una ricchezza di fonti, anche se poi sono firmati da un solo autore. Io non ho nessuna preoccupazione di denunciare completamente un’unica fonte: se ne può avere una o cento, quelle che sono nell’aria, nella nostra cultura d’oggi

BOLOGNINI

Signora Morante, ma lei non crede che un regista che si rivolge ai personaggi di un romanzo usandoli solo come pretesti, raggiunga proprio quegli stessi risultati degli sceneggiatori, tanto deprecati da Bolognini, rischiando di costruire anch’egli delle «maschere»?

D’AVACK

Rispondo indirettamente. Io credo che se un regista legge un libro e crede che questo libro sia affine alla sua sensibilità e possa ispirarlo a fare un bel film abbia perfettamente ragione di farlo. Naturalmente questo film non potrà mai corrispondere esattamente al libro, perché lo scrittore e il regista sono due artisti diversi. Mi sembra che il rapporto sia simile a quello che si instaura fra il libretto di un grande poeta e la musica di un musicista. Naturalmente si tratta di due diverse ispirazioni e quindi non si può pretendere una fedeltà assoluta. Nessun scrittore può incolpare il regista di non restituire esattamente il libro nel film. Quello che si deve chiedere al regista è di non falsare volontariamente il significato ideologico e morale del libro. Ma non si può presumere di ritrovare nel film la stessa atmosfera del libro: in tal caso sarebbe una

MORANTE

prova negativa; vorrebbe dire che il regista non è un artista originale. Io perdonerei fin dal principio a un regista di fare un’opera originale da un mio libro, purché rimanesse idealmente fedele ad esso. Per quanto riguarda gli sceneggiatori, non credo che si possa essere sceneggiatori se non si ha il dono del narratore. Per scrivere dei dialoghi, per montare dei personaggi, anche se presi da un libro, bisogna possedere l’arte dello scrittore. Fare lo sceneggiatore non è un mestiere, come il ragioniere, l’impiegato di banca o il farmacista. Purtroppo in Italia accade che ci sono dei ragionieri che si mettono a fare gli sceneggiatori.

Quindi sarebbe augurabile che gli scrittori cominciassero a scrivere anche per il cinema?

D’AVACK

Sarebbe desiderabile, ma è difficile. Uno scrittore non si adatta a lavorare per un prodotto, come il film, che è espressione di un altro, del regista. Se non fosse per motivi economici, io stessa non mi adatterei a fare una sceneggiatura per un’opera che non mi appartiene. Non ho voluto metter mano neanche alla sceneggiatura de L’isola di Arturo, perché non riesco a lavorare piú su un mio libro, una volta scritto. I miei stessi personaggi diventano per me infrequentabili. BOLOGNINI Anch’io sono convinto che i romanzieri non scriveranno mai per il cinema. Non esiste un atteggiamento onesto nei riguardi del cinema da parte degli scrittori. C’è un atteggiamento molto approssimativo. Nessun scrittore dedicherebbe un anno di lavoro a una sceneggiatura, come lo dedicherebbe a un suo romanzo. Questo noi lo avvertiamo. E, in questi casi, è senz’altro preferibile che un regista lavori da sé mettendo in un film solo quello che gli appartiene, cioè la sua autobiografia. MORANTE

Ma, signora Morante, lei non crede che il cinema possa influenzare anche inconsciamente il narratore a scrivere per immagini cinematografiche?

D’AVACK

Io spero che non succeda. Sarebbe un pericolo. Ogni arte ha il suo linguaggio. Non credo, inoltre, che uno scrittore che si rispetti corra questo rischio. Questo pericolo può forse esistere per degli scrittori mediocri; uno scrittore serio e «impegnato» non pensa a un film, mentre scrive il suo libro.

MORANTE

Bolognini, invertiamo la domanda. Non crede che il regista riferendosi ad un libro, corra il rischio di fare un’opera troppo letteraria? BOLOGNINI Io penso che il pericolo esista. Fuoco fatuo è un pezzo di letteratura. D’AVACK

Personalmente mi sento molto libero di fronte a un testo letterario e cerco sempre di fare un film. Il pubblico rifiuta la letteratura, ma ho visto che ha partecipato con calore ai miei films, che pure erano tratti da libri. Allora vuol dire che si trattava di cinema vero e proprio. La differenza, insomma, tra un film e un libro è proprio questa: che un grande libro deve essere scritto per una élite. La raffinatezza di un libro, la qualità eccezionale di un libro è affidata a un pubblico particolare; un grande film è esattamente il contrario, deve essere realizzato per un pubblico vastissimo. Quando un film è fatto per un pubblico scelto ed esiguo, è sempre un film volgare.

Da quali ragioni fu dettata la sua scelta di tradurre sullo schermo un romanzo cosí difficile come «Senilità» di Svevo? BOLOGNINI Senilità è uno di quei libri che mi hanno «seguito» sempre. Confesso di essere legato a Senilità da moltissimi anni, quasi da quando ho cominciato a leggere. D’AVACK

E, le dirò, io non solo dimentico i miei films, ma vorrei non averli fatti e non potrei mai rifarli; invece vorrei rifare sempre Senilità. Non sono contento di come l’ho fatto, non sarei contento se lo rifacessi; vorrei rifarlo per tutta la vita. C’è qualcosa, nella vita,

che ci colpisce a tal punto che non ci se ne libera piú. Però, l’ultima spinta, determinante, a convincermi di fare il film fu proprio la collaborazione con Parise, anch’egli legato a questo libro in maniera particolare. Avevamo fatto una storia che vagamente ricordava un po’ Senilità. E a questo punto tanto valeva ricorrere al romanzo. Infatti ci siamo liberati dalla preoccupazione di profanarlo, come suol dirsi; una preoccupazione che, d’altra parte, io trovo perfettamente inutile. Naturalmente sono stato accusato con violenza di questo, come se io soltanto ricorressi ai romanzi. Intorno a me non vedo che registi che ricorrono ai romanzi, ma sembra che questa colpa sia soltanto mia: sembra che solo io abbia usato romanzi per i miei films.

Perché la critica formula proprio quest’accusa nei suoi riguardi? BOLOGNINI Non lo so. Per esempio, prendiamo la Viaccia. La partenza è naturalmente il D’AVACK

testo di Pratesi, però è stato rifatto completamente e io ho cercato di mettere nel film la mia esperienza di studente di architettura, nella rievocazione di una certa Firenze, la mia esperienza personale nel contatto con i contadini: ho passato la mia infanzia vicino alla gente che ama la terra. Avevo la collaborazione, importantissima, di Pratolini, che si sovrappose a Pratesi e che pensava proprio ad un film che era qualcosa di assolutamente diverso dal libro...

Signora Morante, venendo al suo libro «L’isola di Arturo» tradotto sullo schermo, a noi pare che Damiani ne abbia fatto un’altra cosa. Secondo lei, è un film riuscito?

D’AVACK

Il caso Damiani è un po’ particolare in questo senso: io so, anche perché ho parlato con lui, che Damiani apprezzava molto il mio libro, ma onestamente credo che fra me e lui ci sia un’enorme differenza nel modo di vedere il mondo e la vita. Sebbene Damiani non abbia assolutamente inteso essere infedele al libro, fatalmente è stato troppo infedele, non nel senso dei fatti o dei rapporti, ma nel senso di vedere il mondo del libro. Mi pare insomma che fra me e Damiani non ci sia nessuna affinità artistica tale che giustifichi la scelta da parte sua di un libro come L’isola di Arturo. Questo non significa che io non apprezzi il film; ma esso ha un significato che non ha nulla a che vedere con quello del libro. Il film ha un significato moralistico che era quanto di piú opposto al libro. Il solo errore volontario di Damiani è stato quello di prendere una ragazza americana per la parte di Nunziatella, una tipica napoletana. Scrivendo L’isola di Arturo io volevo fare un’opera come il Flauto magico, naturalmente con le dovute proporzioni, cioè la storia di un ragazzo che passa attraverso tutte le prove dell’esistenza umana per acquistare il diritto di essere uomo, e quindi eroe. Questo invece nel film non risulta, risulta piuttosto un rapporto moralistico fra un padre e un figlio e che suona rimprovero per il padre. Io non intendevo questo.

MORANTE

D’AVACK

Bolognini, perché lei non fa films di fantasia, senza rivolgersi a romanzi?

Perché non trovo nessuna differenza. Se esiste questa fonte che è la biblioteca, questa fonte di ispirazione, di pretesti, perché non servirsene? Ma vorrei fosse chiaro che io non ho mai preso un libro per rifarlo, ma sempre come occasione per un’altra opera che fosse, possibilmente, riuscita. Quando ho fatto il Bell’Antonio, non ho minimamente pensato di «rifare» nei suoi termini esatti il libro di Brancati, tanto è vero che il film è tutto cambiato. L’emozione che la letteratura mi ha dato la conservo sempre, ma non vi resto legato. Adesso, ad esempio, sto preparando un film tratto da un libro...

BOLOGNINI

D’AVACK

Ancora un libro?

BOLOGNINI

... Sí! Non posso dirvi di che libro si tratti. Comunque è un romanzo italiano

contemporaneo, importante, il cui protagonista è un uomo. Io ne sto facendo un nuovo soggetto in cui il personaggio non è piú maschile, ma femminile: è una donna. E, sebbene questo artificio possa sembrare volgare, son sicuro che non tradirò la prima impressione che ho avuto dalla lettura del libro, anche se poi cambierà la facciata, diciamo, della vicenda. Questo per dire che il libro costituisce solo lo spunto, la partenza di un film. Insomma, le proprie storie si possono prendere dove si vuole: dalla cronaca, dalla realtà, dalla propria vita o in biblioteca.

Non crede, signora Morante, che l’aria delle biblioteche sia malsana e stagnante per il cinema?

D’AVACK

Non credo, perché non credo a questa separazione fra le arti. Quello che non approvo è che si affidi a caso un romanzo, per motivi commerciali, a un regista che non abbia scelto quel romanzo, per ragioni di ispirazione personale. Invece questo caso, oggi, è sempre piú frequente.

MORANTE

Bolognini, le ricordo che Fellini diceva che le biblioteche servono per gli «altri», per gli «artisti» c’è la vita. Che ne pensa?

D’AVACK

Fellini probabilmente ha ragione per sé. Ad ogni modo non è vero che Fellini non legga e non abbia dentro di sé le biblioteche e i musei. Naturalmente egli li digerisce in una certa maniera, col suo talento. Forse la mia posizione può darsi che sia ingiusta, oggi, perché il cinema è l’ultima cosa viva che esiste e quindi dovrebbe essere piú vicino alla vita. Probabilmente, per quanto mi riguarda, ho avuto bisogno di passare per la biblioteca per arrivare alla vita; Fellini v’è arrivato subito, ma può darsi che alla fine arriverà in biblioteca.

BOLOGNINI

Da Massimo D’Avack, Cinema e letteratura, Canesi, Roma 1964, pp. 59-65.

Il libro All’inizio del 1950 la Rai assegnò a Elsa Morante l’incarico di critico cinematografico per un programma radiofonico settimanale. La Morante era molto interessata al cinema (aveva anche avuto esperienze dirette in occasione della sceneggiatura di un film di Lattuada) e prese molto sul serio questo incarico. Finché un giorno i funzionari Rai rifiutarono di mandare in onda una sua recensione in cui criticava un film italiano di guerra (Senza bandiera di Duilio Coletti) accusandolo di nostalgie fasciste. Elsa non tollerò la censura e, dopo meno di due anni, interruppe la collaborazione. Ora le quarantasette schede scritte in quel biennio 1950-51 sono state raccolte da Goffredo Fofi e vengono qui pubblicate per la prima volta. Vi sono recensiti i film dell’adorato Visconti, quelli di Orson Welles giudicati tra luci e ombre («eccezionali qualità del regista», «torte barocche avvelenate dal cattivo gusto»), e poi John Ford, Vincente Minnelli, Clouzot, Germi e tanti altri, maggiori e minori. Con un’appassionata prefazione dello stesso Fofi che, anche a partire dai ricordi personali, traccia il complesso rapporto della scrittrice con il cinema. E in appendice altri brani inediti della Morante sul cinema, sul suo ambivalente rapporto col neorealismo, sul suo apprezzamento dei film di Pasolini…

L’autrice Di

ELSA MORANTE

(Roma 1912-1985) Einaudi ha pubblicato tutti i romanzi: Menzogna e sortilegio, L’isola di Arturo, La

Storia e Aracoeli; Lo scialle andaluso e i Racconti dimenticati; Il mondo salvato dai ragazzini; il testo teatrale La serata a Colono; le poesie di Alibi; il Diario 1938; e Le straordinarie avventure di Caterina. Lettere di e a Elsa Morante sono raccolte in L’amata, a cura di Daniele Morante.

Della stessa autrice ·

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Menzogna e sortilegio L’isola di Arturo · Lo scialle andaluso Il mondo salvato dai ragazzini e altri poemi · La Storia · Aracoeli · Diario 1938 · Racconti dimenticati · Alibi · L’amata · La serata a Colono · Aneddoti infantili Le straordinarie avventure di Caterina ·

© 2017 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino Per la cura della presente edizione © 2017 Goffredo Fofi Published by arrangement with Agenzia Santachiara In copertina: locandina del film La terra trema, regia di Luchino Visconti, 1948. (Foto © Universalia Film / Album / Mondadori Portfolio). Questo ebook contiene materiale protetto da copyright e non può essere copiato, riprodotto, trasferito, distribuito, noleggiato, licenziato o trasmesso in pubblico, o utilizzato in alcun altro modo ad eccezione di quanto è stato specificamente autorizzato dall’editore, ai termini e alle condizioni alle quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla legge applicabile. Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata di questo testo cosí come l’alterazione delle informazioni elettroniche sul regime dei diritti costituisce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla Legge 633/1941 e successive modifiche. Questo ebook non potrà in alcun modo essere oggetto di scambio, commercio, prestito, rivendita, acquisto rateale o altrimenti diffuso senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo. www.einaudi.it Ebook ISBN 9788858425015