La trappola e la nudità. Le testimonianze, i giudizi, le reazioni di alcuni fra i più grandi scrittori contemporanei di fronte al potere

Gabriel García Márquez, Heinrich Böll, Jean-Paul Sartre, Philip Roth, Maria Vargas Llosa, Eugenio Montale, Alberto Morav

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Italian Pages 264 [274] Year 1974

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La trappola e la nudità. Le testimonianze, i giudizi, le reazioni di alcuni fra i più grandi scrittori contemporanei di fronte al potere

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POLITICA E SOCIOLOGIA

Walter Mauro-Elena Ckmentelli

LA TRAPPOLA E LA NUDITÀ Lo scrittore e il potere

Rizzoli Editore

Proprietà letteraria riservata © 1974 Rizzoli Editore, Milano

Prima edizione: ottobre 1974

Raul, ti ricordi? Ti ricordi, Rafael? Federico, ti ricordi sotto terra.*. PABLO NERUDA

INTRODUZIONE

Bastava la Tua corposità a opprimermi... Acquistasti ai miei occhi un alone misterioso, come tutti i tiranni, il cui diritto si fonda sulla loro persona, non sul pensiero. Dalla Lettera al padre di Franz Kafka

Prima di affrontare il problema del rapporto fra lo scrittore e il potere, che costituisce l’epicentro dal quale si diparte la struttura di questo libro di incontri e di confessioni di alcuni fra i maggiori scrittori del nostro tempo, sarà opportuno chiarire il sensore il significato che il termine "potere” è andato assumendo sotto vari aspetti, ma soprattutto attraverso la triplice distinzione di Max Weber fra potere razionale, tradizionale e carismatico. Di fronte a tale problema, può risultare importante il recupero del concetto di ”interconnessione” del sociale che ha improntato tutta l’opera weberiana, anche come sforzo di intendere il potere sia quale « rapporto interpersonale sia come attributo di una collocazione o posizione oggettiva giuridicamente o informalmente codificata»1. E tale puntualizzazione può riuscire ancora più utile se si riflette intorno all’incertezza terminologica che ha accompagnato il voca­ bolo ”potere” fin dai tempi più antichi, da Platone si potrebbe dire, al punto da giustificare la definizione di Ferrarotti di "concetto-paravento” come diretta conseguenza di una tradizio­ nale ambiguità concettuale e di una utilizzazione pericolosamente acritica. Nella triplice distinzione weberiana dunque, se da un canto può individuarsi l’esigenza di una lettura correttamente storica, localizzabile cioè al momento della crisi della Germania guglielmina, come sostiene legittimamente il Ferrarotti, d’altro lato può riconoscersi un indice di lettura in grado di fornire la chiave per penetrare al vivo degli infiniti, talvolta insolubili problemi che il rapporto stesso pone, sia sul piano della vita e della sopravvivenza del cittadino che dell’artista e dell’intellettuale. Quando Max Weber parla dei ”tre tipi puri” del potere legittimo o razionale, tradizionale e carismatico, tende evidentemente a realizzare una 7

interconnessione, si diceva, in grado di conglobare e diversificare al contempo, e anche di affrancarla da qualsiasi possibile sug­ gestione psicologica, malgrado qualche non corretta interpreta­ zione del suo pensiero, ma d’altronde c’è da aggiungere, e si avrà modo di chiarire meglio la natura accattivante della sua conce­ zione, che nei riguardi dello scrittore, ed è questo il punto focale della nostra indagine, non si può del tutto escludere l’incidenza che un approccio psicoanalitico del problema finisce per determi­ nare, al di là ovviamente delle intenzioni weberiane. Il potere razionale si definisce come tale, evidentemente, « quando poggia — afferma Weber — sulla credenza nella legalità di ordinamenti sta­ tuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere in base ad essi »2, laddove invece si può parlare — prosegue Weber — di potere tradizionale « quando poggia sulla credenza quotidiana nel carattere sacro delle tradizioni valide da sempre, e nella legittimità di coloro che sono chiamati a rivestire una autorità»3 e infine di carattere carismatico «quando poggia sulla dedizione straordinaria al carattere sacro o alla forza eroica o al valore esemplare di una persona, e degli ordinamenti rivelati o creati da essa»4. È chiaro che nel primo caso la forma di obbe­ dienza si instaura sulla base di una legalità formale delle prescri­ zioni, mentre nel secondo la forma del rapporto risulta più a monte dell’altra, lungo l’arco cioè di una obbedienza fondata sulla persona del signore in virtù di una designazione affidata alla tradizione e da questa consegnata alla realtà di una esistenza, e nel terzo caso infine, il senso della mediazione finisce per assumere il ”carisma”, appunto, della fiducia personale consegnata dalla rive­ lazione, dall’eroismo, dall’esemplarità. Ha ragione Weber ovvia­ mente quando sottolinea che il potere carismatico, in quanto straordinario, finisce per contrapporsi frontalmente sia al potere razionale soprattutto di tipo burocratico, sia a quello tradizionale, soprattutto quando quest’ultimo assume le connotazioni della patriarcalità e della patrimonialità: è come contrapporre raziona­ lità ad irrazionalità. Ma il carattere coercitivo, e repressivo in senso lato, assume via via configurazioni sempre più coinvolgenti, fino ad una totale inglobazione dei tre momenti, nella vita dell’in­ dividuo. Per tornare al concetto di potere legale, è evidente che il problema si pone in termini di razionalità, secondo l’intuizione di Weber, e ciò consente di liberare immediatamente il terreno della discussione da tutte quelle forme di potere, fascismo e nazismo soprattutto, che fondano la propria dottrina sull’irrazionale, su

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quella degenerazione vale a dire dell’idealismo romantico ‘che conduce diritto al dramma dell’annientamento della ragione. Il problema invece diventa importante, e come sappiamo angoscioso, quando si affronta sul versante di una concezione liberatoria, e quindi razionale, come il socialismo. Nella disamina che fa Lenin intorno alla società classista nei rapporti con lo Stato, egli ricorda certe afférmazioni di Engels oltremodo interessanti, poiché centrano il problema dell’idea fondamentale del marxismo sulla funzione storica e sul significato dello Stato in quanto pro­ dotto e manifestazione degli antagonismi inconciliabili tra le classi. Secondo Engels dunque — il brano, nella traduzione di Lenin, è tratto dall’opera del 1894 L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato — « lo stato non è affatto una potenza imposta alla società dall’estèrno e nemmeno la realtà dell’idea etica, l’immagine e la realtà della ragione, come afferma Hegel. Esso è piuttosto un prodotto della società giunta a un determinato stadio di sviluppo, è la confessione che questa società si è avvolta in una contraddizione insolubile con se stessa, che si è scissa in antagonismi inconciliabili che è impotente a eliminare. Ma perché questi antagonismi queste classi con interessi economici in con­ flitto, non distruggano se stessi e la società in una sterile lotta, sorge la necessità di una potenza che sia in apparenza al di sopra della società, che attenui il conflitto, lo mantenga nei limiti del­ l’ordine; e questa potenza che emana dalla società, ma che si pone al di sopra di essa e che si estranea sempre più da essa, è lo Sta­ to»5. Lo Stato quindi come momento liberatorio, e non come fenomeno di ”estinzione” : a tale proposito, e nell’ambito di questa dicotomia, il discorso di Lenin si fa polemico nei confronti di coloro che riducono il pensiero di Engels e di Marx ad una for­ mula secondo la quale ”lo Stato si estingue” in contrapposizione alla dottrina anarchica dell’a abolizione dello Stato»: il che significa ridurre la concezione stessa dello Stato marxista entro i confini di un opportunismo «utile solo alla borghesia», sostiene Lenin. Una chiarificazione del problema, in un senso più moderno ed anche per le ricche e numerose implicazioni che comporta nel rapporto che più ci compete al momento fra intellettuale e potere, ci viene da Gramsci, quando affronta il problema di fondo della relazione stato-cittadino alla luce di una lucida interpretazione del pensiero di Machiavelli, non rivisitato grossolanamente come teo­ rico di una tirannide irrazionale, ma come fruizione di un pen­ siero critico che finisce per porre il problema essenziale del ”mo­

derno principe”. Esiste infatti un ”cesarismo” progressivo e uno regressivo, e mentre il primo si verifica ”quando il suo intervento aiuta la forza progressiva a trionfare sia pure con certi compro­ messi e temperamenti limitativi della vittoria”, il secondo si rea­ lizza «quando il suo intervento aiuta a trionfare la forza regres­ siva, anche in questo caso con certi compromessi e limitazioni che però hanno un valore, una portata e un significato diversi che non nel caso precedente»®. E Gramsci prosegue citando gli esempi di Cesare e di Napoleone I come momenti di un cesarismo progres­ sivo, Napoleone III e Bismarck come fenomeni di cesarismo regressivo. Ma laddove il filosofo marxista riesce ancor meglio a chiarire il suo pensiero, anche nei confronti della distinzione di Engels, è nella polemica con Curzio Malaparte, quando a propo­ sito della pubblicazione del volumetto malapartiano sulla Tecnica del colpo di stato, al concetto dello scrittore tostano: «Tutto nello stato, nulla fuori dello stato, nulla contro lo stato» (in simbiosi col concetto « dove c’è la libertà non c’è lo stato »), egli contrap­ pone la distinzione del termine di ”libertà” non come ”necessità” ma nella sua accezione comune di libertà politica, ossia di stampa eccetera: per cui appare chiara la consequenzialità dalla proposi­ zione di Engels sul passaggio dal regno della necessità al regno della libertà. Di qui la definizione gramsciana di Stato-veilleur de nuit o ”Stato-carabiniere”, occupato soltanto a mantenere l’Ordine e a garantire il rispetto delle leggi, secondo una definizione di Lassalle. Un concetto questo, che finisce talvolta per coincidere con il concetto dello Stato etico, e che costringe l’intellettuale a porsi l’interrogativo gramsciano: «La concezione dello Stato gendarme-guardiano notturno non è poi la concezione dello stato che sola superi le estreme fasi corporativo-economiche7? ». A questo punto subentra l’altro problema della ”necessità” storica che coinvolge per intero la figura dell’artista e del suo rapporto con il potere, sul quale si ritornerà fra poco, ancora con il sussi­ dio di Gramsci, che ha posto il tema in modo estremamente moderno e attuale. Si deve ancora sottolineare, a proposito del concetto di transi­ zione dalla democrazia formale a quello della democrazia sostan­ ziale, la dicotomia metodologica fra Lenin e Gramsci che ha for­ nito al Ferrarotti lo spunto per intéressanti considerazioni. Anzi­ tutto il sociologo contesta la tesi di Salvadori, secondo il quale «sia Gramsci che Lenin che Trotsky affermarono, contempora­ neamente alla libertà di pensiero delle masse e degli intellettuali, il compito del partito rivoluzionario di tenere à bada, per mezzo di

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un’azione di lotta e di direzione ideologica, le espressioni dell’arte e della scienza che nelle loro implicazioni dessero luogo a ten­ denze conservatrici e reazionarie»’; e poi, muovendosi dalla con­ vergenza dei due intorno alla fiducia che nutrono nella via e nel metodo rivoluzionario della lotta di classe, marca i toni e le sfu­ mature del loro ”volontarismo” e della loro convinzione della rivoluzione come ”compito storico”, finisce per connotare chiara­ mente le profonde divergenze lungo gli stadi intermedi che a quelle comuni conclusioni debbono portare, sottolineando lo strumentalismo del partito di fronte alla rivoluzione nella conce­ zione leninista, laddove invece Gramsci centra l’intero suo discorso sul partito politico rivoluzionario inteso come ”novello principe” nel significato che Machiavelli si sforzava di dare al tema centrale dell’ascesa al potere, e conclude: «Mentre in Lenin la questione fondamentale è in primo luogo la presa del potere politico centrale, per Gramsci la questione fondamentale consiste nel garantire il farsi del processo rivoluzionario come lotta quoti­ diana che tende alla conquista del potere, ma nel contempo socia­ lizza alla base il potere stesso, spostando i termini cji forze reali a poco a poco, nelle lotte su scala aziendale e comunitària, a favore delle grandi maggioranze oppresse»9. Di qui il rifiuto gramsciano di ogni atteggiamento dogmatico o fideistico che conduce diritto a formulazioni irrazionali e prevaricanti, e l’assunzione invece, come fa giustamente notare ancora il Ferrarotti, della ”forte richiesta gramsciana di una nuova cultura”, richiesta che ha subito le più singolari deformazioni e alterazioni nel giudizio critico intorno al pensiero del filosofo comunista. Per tornare al discorso più generale, e indirettamente alla triplicità weberiana, sarà interessante introdurre il concetto di ”arena del potere” cui allude Harold Lasswell, il quale definendola come « la situazione composta da coloro che domandano il potere o che fanno parte del campo del potere»10 finisce per allargare l’area di giudizio e di definizione ad una sfera d’azione più vasta di quanto non comporti il solo problema del potere politico, o almeno la presenza indispensabile di uomini politici, in ciò conva­ lidato e dal concetto di ”preminenza” come formulazione del cosiddetto ”godimento del potere” è da talune sollecitazioni di Tawney quando osserva come la discussione dei problemi che il potere determina e provoca è risultata il più delle volte condizio­ nata, e pregiudicata, « dal fatto che si è concentrata l’attenzione su alcune delle sue manifestazioni ad esclusione di altre»11. Il Tawney infatti, lungo l’arco di un tracciato speculativo fortemente

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decentrato, arriva a concludere: « I fondamenti del potere variano da età a età, col variare degli interessi che motivano gli uomini, e col variare degli aspetti della vita ai quali essi attribuiscono un’im­ portanza preponderante. Fonte del potere è stata la religione, il valore e il prestigio militare, la forza dell’organizzazione professio­ nale, il controllo esclusivo di certe forme di conoscenza e di abi­ lità, come quelle del mago, dello stregone, del giurista»12. Quando Max Weber parla di ”potere tradizionale” come legit­ timità che si fonda sulla base di antichi ordinamenti e poteri di signoria, accanto ad altre forme di compressione che interessano in misura minore il nostro discorso, introduce i concetti di geron­ tocrazia, di patriarcalismo e di patrimonialismo, laddove soprat­ tutto i primi due finiscono per fondersi all’interno del nucleo domestico assommandosi nella figura prevaricante, in senso tradi­ zionale, del padre cui si deve rispetto e reverenza, al punto da condividerne le idee e cedere passivamente alla sua volontà. Fa notate giustamente Weber come « non disponendo di un Appara­ to”, egli è ancor più dipendente dalla volontà di obbedienza dei membri del gruppo»13, e quindi si deve parlare di Consociati” più che di ”sudditi”. E d’altro canto, proprio in virtù di queste connotazioni, tale tipo di potere è l’unico a non possedere in sé quel carattere liberatorio insito invece nel potere politico di tipo socialistico o in quello religioso di tipo cristiano, nella preistoria evidentemente del loro progressivo degenerare. « Padre e figlio si incontrano sulla stessa strada troppo stretta per due uomini. Bisogna che uno ceda il posto all’altro»14: da tale considerazione si è mosso l’intervento di René Girard nel corso del Convegno organizzato nel 1965 a Royaumont dall’isti­ tuto di Sociologia della Università Libre di Bruxelles e dall’EcoZ* Praiique des Hautes Etudes di Parigi, durante il quale il momento di interdisciplinarietà fra Marx e Freud, attraverso la spirale hege­ liana, è venuto fuori lungo l’arco di un concreto rallronto proble­ matico. Sul filo dell’incontro e della verifica fra l’individuale e il sociale, le strutture antropologiche dell’immaginario hanno rin­ tracciato un fertile terreno d’incontro e di comunicazione con la concretezza e il realismo su cui si muove la concezione marxistica della vita e dell’arte. Di qui la legittimazione di talune facoltà di individuazione delle caratteristiche repressive del patriarcalismo come capacità di proiezione su un versante molto più vasto e pregnante del paleomarxismo schematico e pregiudiziale. Ma torniamo a René Girard: per le sue affermazioni riguar­ danti il rapporto padre-figlio, egli si muove dal mito di Edipo Re,

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e precisamente dal momento in cui,: ispirato dall’oracolo, Laio allontana con la forza Edipo per paura che questi prenda il suo posto sul trono di Tebe e nel letto di Giocasta; e di conseguenza, ancora su ispirazione dell’oracolo, Edipo allontana altrettanto violentemente Laio e prende il suo posto sul trono di Tebe e neh letto di Giocasta. Tale parabola conduce Girard alla considera­ zione primaria che «desiderando ciò che desidera il padre, e pos­ sedendo poi ciò che egli possiede, per sempre e dovunque, il ngljo vuole impadronirsi dell’essere del padre»: il rapporto fra il ”sé” e TAltro appare evidente e va collocato alle radici stesse del dissi­ dio: il che significa che il momento della pietà filiale e quello della rivolta finiscono per legarsi ad una stessa origine. Il clima sotteso di angoscia che circola all’interno della Lettera al padre di Kafka si deve identificare anche in tale condizione della psiche del soggetto nei confronti del patriarca: «Avrei avuto bisogno di qualche inco­ raggiamento, di un po’ di gentilezza, che mi si aprisse un poco il cammino, invece tu me lo nascondevi, sia pure con la. buona intenzione di farmene imboccare un altro». E Montale dirà, nel corso del nostro colloquio: «La mia famiglia non è stata tiran­ nica, anzi potrei fare un appunto che lo è stata poco, troppo poco, perché si sono completamente disinteressati di me...». ’Il padre quindi finisce per muoversi entro un’area mediata di felicità e di infelicità nei confronti del figlio, i due si ritrovano in luoghi diffe­ renti, e soprattutto agiscono in due regioni assolutamente distinte e separate dell’esistenza. La loro divergenza può anche assumere il carattere di provvisorietà, soprattutto laddove va a collocarsi ”la circolarità del mito”, afferma ancora Girard, per cui all’inizio c’è un padre della vita quotidiana, ed è Polidio, e un padre del desi­ derio e del divieto, ed è Laio: una struttura questa che finisce per rovesciarsi al momento della fuga, convalidando così il concetto della continua inversione sulla quale si fonda, appunto, la circola­ rità del mito. Non solo: l’insistenza con cui Sofocle sottolinea i ” difetti” di Edipo, un carattere aggressivo e collerico, serve a configurare il rapporto lungo un arco di mediazione fra meccanicità e dialettica che non é in grado di compiere una precisa scelta, e deve perciò muoversi entro quella sfera di ambiguità per cui « il figlio non sa mai di essere per suo figlio esattamente ciò che suo padre fu per lui ». Il momento di maggior frizione, e quindi di più arduo rap­ porto, sta nel mezzo, nella facoltà cioè di possedere il dominio del passaggio oppositivo dal meccanico al dialettico. E in questo fran­ gente, il pericolo prospettato da Girard risulta chiaro e indubita-

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biler «Instaurare l’ordine dialettico, vedere in tale ordine se non una realtà per lo meno una esigenza fondamentale nell’ordine culturale, porre il principio di una reciprocità senza limiti è come destinare gli uomini ai più spaventosi conflitti »l5. È abbastanza facile, a questo punto, concludere che « amat e il figlio in quanto figlio significa vedere in lui un possibile rivale, venerare il padre in quanto padre è già meditare sulla sua scomparsa». È a questo punta» a tale svolta della statuizione, che interven­ gono quelli che Girard definisce possibili ”palliativi”, ma che non possono essere ritenuti soltanto come tali, pena lo scadimento di tutto il livello di guardia del discorso. È vero infatti, come sostiene Girard, che «possiamo considerare il sacrificio di Abramo come momento essenziale della fondazione di una cultura patriarcale », per cui Abramo stesso finisce per identificarsi in un altro Laio, ma è altrettanto vero che la matrice stessa del potere carismatico cristiano si muove entro un’area diversa e pertanto possiede in sé ulteriori ragioni di verifica. Nel momento stesso in cui l’ado­ lescente sfuggito al potere tradizionale, si intrica nelle spire del potere carismatico finisce per reperire nuove e diverse ragioni di esistere, e lucidamente è già in grado di individuare la violenta dicotomia fra il Cristianesimo originario e le sue forme degene­ ranti e controriformistiche. La testimonianza più evidente di questo passaggio, il lettore potrà trovarla nelle parole dramma­ tiche di Mary McCarthy: ma al di là della documentazione di una scrittrice, risulta evidente il momento del passaggio da un rap­ porto diretto e depurato da ogni inquisitoria manifestazione repressiva, ad una stagione, invece, in cui proprio tali componenti prevaricanti finiscono con il prendere il sopravvento. Malgrado ogni buona intenzione di estendere il discorso, è ancora ad uno scrittore che dobbiamo ricorrere: e mentre Mary McCarthy ci for­ nisce i dati di un rapporto che via via traligna nell’intimidazione, Francois Mauriac a sua volta rappresenta la testimonianza di un recupero totale delle origini come matrice spirituale in grado di restituire alla fede religiosa tutto il suo carattere liberatorio, socia­ listico. Il tempo presente, il cattolicesimo dissenziente e le più avanzate forme di insegnamento religioso, si configurano come una precisa documentazione dello sforzo di liberazione e di affrancamento da un rituale e da una sacralità che aveva finito con il fuorviare le coscienze, provocando problemi e crisi dramma­ tiche, comparabili appunto alle degenerazioni del socialismo. Superato il momento del quia dantesco come invito dogmatico al­ l’acquiescenza, e il. tragico momento inquisitorio della Controri­ 14

forma, l’insegnamento religioso tende oggi a liberarsi proprio di quella prevalenza carismatica che per secoli lo aveva caratterizzato come riconoscimento falsamente spontaneo dei dominati, con­ cesso, sottolinea Weber, in base alla "prova” che nasce dalla fede nella rivelazione, dalla venerazione dell’eroe e dalla fiducia nel capo. È quindi il presupposto del ”dovere” ad alterare i termini del rapporto. E se è vero quanto afferma Lasswell che «la costri­ zione è l’esercizio di influenza attraverso la minaccia di privazioni, e l’allettamento l’esercizio di influenza attraverso la promessa di vantaggi », allora il carattere drammatico che viene ad assumere il rapporto carismatico traspare in tutta la sua violenta prevarica­ zione, come minaccia di punizione e come promessa di premio. Né si deve trascurare, al di là del puro e semplice rapporto merito-premio, il carattere emozionale del rapporto stesso, anche quando l’ordine gerarchico si individua nella dualità profetadiscepolo, poiché viene a mancare la sequenza, logica nel potere politico, dell’assunzione e della destituzione, per cui non resta che la resa o la fuga. Non pochi saranno i nostri amici che nel corso delle conversazioni parleranno di ”fuga” a proposito del potere religioso, proprio in virtù dell’assenza di regole che possano governarlo. Ha ragione perciò Weber ancora, quando sottolinea la contrapposizione del potere carismatico, in quanto straordina­ rio e irrazionale, a quello legale-politico, di tipo razionale e ancora di più a quello tradizionale-patriarcale e patrimoniale o di ceto. C’è da chiedersi, infine, a conclusione del discorso teorico inteso come necessaria premessa al tema che ci siamo proposto, per quale ragione la ribellione al potere carismatico ha trovato, nel mondo moderno, una maggiore possibilità di sviluppo, un’a­ rea più malleabile di quanto non sia accaduto, tutto sommato, nei confronti del potere politico e patriarcale: la ragione sta forse nel carattere permanentemente rivoluzionario che il concetto di carisma ha finito per avere, in obbedienza alla sua stessa origine che si identificava con un vero e proprio rovesciamento del passa­ to: «A differenza della forza egualmente rivoluzionaria della ratio, il carisma può rappresentare — sottolinea Weber — una trasforma­ zione dall’interno, può cioè costituire un mutamento, fondato sulla necessità o sull’entusiasmo, delle direttrici di pensiero ed azione in base ad un orientamento del tutto nuovo delle posizioni di fronte a tutte le singole forme di vita e di fronte al mondo»16. Al cospetto delle forme di democrazia diretta e di partecipazione di base che caratterizzano il nostro tempo, il potere carismatico ha

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finito per cèdere ad un maggior potenziale di scardinamento di quanto non sia stato possibile alle manifestazioni del potere burocratico, più soggetto a regole di tornaconto e di strategia politica, o patriarcale, fortemente legato al potere politico, almeno nelle sue interne strutture.

« Qualcuno doveva aver calunniato Joseph K. poiché senza che avesse fatto alcunché di male una mattina venne arrestato » : dal celebre avvio del racconto forse più sconvolgente della letteratura moderna, Il processo di Kafka, ha cominciato a prendere forma e coscienza il senso di smarrimento, e di incredulità, dell’intellettuale di fronte alla repressione che il potere ha esercitato su di lui, in ogni tempo. Al di là di precedenti, e successive forme apparenti di collaborazione, identificabili via via attraverso i mutevoli e problematici aspetti del mecenatismo o del cortigianesimo, il nodo del problema* ha sempre finito con il riconoscersi nello sdegno di Alfieri quando alla corte di Vienna assistette alla metastasiana ”genuflessioncella” d’uso. Mai tuttavia una presa di coscienza, fondata sulla propria capacità di- marcatura dell’attività deformante del rapporto scrittore-potere, aveva rintracciato un cosi vasto e incisivo indice di angoscia esistenziale come nel caso dello scrittore praghese, e nei confronti del potere familiare e al cospetto dell’ottusità, e del rifiuto della ragione e dell’intelligenza, da parte del potere politico. C’è da aggiungere che certi recenti studi psicocritici hanno fornito strumenti di conoscenza e di indi­ viduazione della realtà fenomenica del rapporto quanto mai utili all’indagine strutturale intorno a tutta la vasta e possibile conglo­ bazione di elementi adatti all’interpretazione degli stati d’animo e dei riflessi della coscienza dell’artista. Ancora al Convegno di Royaumont del 1965, Charles Mauron affrontò il tema della for­ mazione del ”mito personale” nello scrittore, giungendo a con­ clusioni oltremodo interessanti che servono anche a penetrare più profondamente nei risvolti dell’opera d’arte come rispecchia­ mento, freudiano e marxista al contempo in questo caso, di una prevaricante realtà esterna. Il discorso di Mauron è molto chiaro e vale la pena di riferirlo almeno in quella parte che riguarda la funzione del mito personale nella creazione letteraria: «Esso — afferma il Mauron — rappresenta un campo di forze psichiche, una specie di matrice immaginativa sé vogliamo, spogliando però l’espressione di tutto ciò che ha di statico. La matrice attira, accoglie, ordina tutta una serie di materiali, ricordi od oggetti,

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provenienti dai contenuti della coscienza e, quindi, dalla espe­ rienza del mondo proprio dell’artista; nel caso dello scrittore essi possono riguardare anche le sue letture e le sue osservazioni. Bisogna inoltre sottolineare che il fantasma dominante vive nella interiorità dello scrittore e si evolve nel tempo, di opera in opera, secondo influenze esterne o interne ». Il che significa, in virtù del rifiuto del concetto di staticità nella matrice immaginativa, collo­ carsi già al di là dell’idea romantica di intellettuale di categoria nietzschiana, e individuare invece al vivo del rispecchiamento dell’umanó il senso drammatico delle cose chic l’artista soffre e vive fra le pieghe della coscienza. Non soltanto: ma vuol dire anche fornire all’immaginazione, al sogno, quei connotati di sovversione che liberano automaticamente la fantasia poetica da ogni possibile compromissione narcisistica e reazionaria, in funzione di una dinamica liberatoria* in grado di inserirla di diritto nella facoltà dialettica della storia. Per tornare ancora per un momento a Mauron, resta da sotto­ lineare l’importanza che egli attribuise agli scritti giovanili del­ l’artista, localizzabili proprio alla svolta durante la quale l’ado­ lescente mette in opera meccanismi particolari di difesa contro l’angoscia, in forza dei quali riesce a crearsi una barriera, un muro di cinta fondato sull’acquisizione di una autonomia mate­ riale e morale (e Carlo Levi insisterà fortemente sul termine di autonomia nel nostro incontro), che rappresenta il primo passo verso la conquista di uno status sociale e la fondazione di un foco­ lare privato, prospettive queste angosciose che sottolineano il difficile, tormentoso passaggio dall’ambiente familiare, quasi sempre repressivo, a quello di gruppi piu estesi che servono ad ingigantire il concetto di repressione. « L’immaginazione — afferma ancora Mauron — fonte di disegni ideo-affettivi ne viene necessariamente stimolata. I fantasmi formatisi in questo periodo paiono anche più pregni di significato e più durevoli di qualsiasi altro. Non dobbiamo neanche dimenticare, poi, che la spinta puberale riattiva l’Edipo e con esso tutte le precedenti fissazioni, tutta la serie dei conflitti che portarono all’Edipo »18: a condizione tuttavia, e lo stesso Mauron convalida questa esigenza, che si tenga nel debito conto l’ambiente sociale e culturale entro cui si svi­ luppa tale consapevolezza, con tutto l’universo dei suoi stimoli e dei suoi divieti, dei desideri e delle paure che popolano di incubi la fase incubatrice dell’artista, ci si perdoni il voluto bisticcio. A tale proposito, e per entrare ancora più nel vivo della mate­ ria di questo libro, ci soccorrono due brani autobiografici che

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Peter Weiss scrisse fra il 1961 e il 1962, Abschied von den Eltem e Fluchtpunkt™, poiché essi forniscono alcune chiavi interpretative di estremo interesse per comprendere e individuare ancor meglio le ragioni di una liberazione, di una sorta di anarchia verbale che nell’attività drammaturgica di Weiss hanno trovato la loro più compiuta espressione. Nell’arco di un complesso conflitto privato e familiare, Weiss finisce per andare ancora oltre il dramma del rapporto kafkiano tra padre e figlio, poiché accentua i termini del divario e della rottura lungo le strutture di una diversificazione sociopolitica, oltre che umana. In tal senso l’illuminismo e la luci­ dità razionale di Weiss risultano abbastanza consequenziali alla natura stessa della sua condizione di ebreo e di antiborghese, vis­ suto all’indomani della stagione kafkiana, alle matrici dolorose della più cupa notte d’Europa, quella del nazismo è delle persecu­ zioni politiche da esso messe in opera. Ecco quindi che il conflitto privato diventa in lui pubblico e impegna tutte le componenti del vero e del reale, in un determinato distacco dalle ambiguità del monologo e della contemplazione interiore. Il senso primordiale dell’educazione, con tutti i sobbalzi di coscienza e la durezza scon­ volgente di brutali scoperte sessuali e psicologiche, si confonde lungo più ampie spirali, si da impegnare a fondo tutti i comporta­ menti esterni dell’uomo. La rivolta che lo spingerà fino al ”punto di fuga” nasce e si sviluppa irrazionalmente, senza quelle compo­ nenti filosofiche che ad esempio agiscono sulla ribellione camusiana. In Weiss infatti, il contingente già filtra e si dissolve allo stato deH’immaturità infantile, per cui l’assurdo e la ribellione al­ l’equivoco balzano fuori da una situazione e da una condizione preistorica che non possiede più àncore di salvezza, dal momento che vive e si muove lungo i paesaggi allucinati di una terra bru­ ciata e senza orizzonti. La reazione, letteraria senza dubbio ma anche umana e psicologica, e perciò più fredda e decantata pur nell’onda calda del sentimento, alla morte del padre, è abbastanza sintomatica di un’abdicazione totale, di un rifiuto tenace a misu­ rare i termini della realtà con un metro diverso da quello irrazio­ nale dell’adolescenza (e tale condizione ritroveremo nelle parole di Monique Lange, nel nostro incontro con lei e con Goytisolo, a proposito della morte della madre), e di una lucidità ormai acqui­ sita, poiché ha trovato proprio nell’infanzia gli strumenti della consapevolezza. Lungo tale difficile incrocio, insolubile in termini filosofici, si inserisce la realtà solutoria della seconda parte del­ l’autobiografia, il ”punto di fuga” che va subito a confondersi con l’individuazione dell’io nascosto dietro il muro dell’rncompren18

sione sociale e ideologica. «Arrivai a Stoccolma 1’8 novembre 1940», ricorda Weiss ad apertura del secondo tempo della sua educazione sentimentale. Qui, liberatosi della famiglia e apparen­ temente affrancato da ogni sorta di tirannide, finisce per ritrovarsi subito ingabbiato fra le spire delle contraddizioni e delle più dif­ formi sollecitazioni. A chi osservi la sua pittura in quegli anni appare chiaro come l’ansia della ricerca sia di continuo frenata e svariata da esigenze evasive che inutilmente lo scrittore si sforza di comprimere entro i confini della logica e della dialettica: è l’Eu­ ropa, con tutto il grande fardello di dolore e di crisi che si sta trascinando dietro. La dialettica del vano e dell’assurdo riesce allora a prendere il sopravvento su ogni possibile concretezza della vita e dell’impegno politico, e la preistoria, nel momento stesso in cui diventa storia e contemporaneità operante, si traduce in egoismo puro, in una sorta di individualismo che ha ormai supe­ rato in pieno il superomismo romantico, e va invece a riconoscersi nell’esigenza di fondo di reperire una libertà assoluta lungo le strutture mitiche del pensiero. Sarà vano l’amore, come sarà vano il ricordo struggente della tragedia del popolo ebraico in cui va a naufragare la propria matrice domestica, e a nulla servono le parole dell’amico Hoderer, una sorta di socratica punta del dilemma e della silloge quest’ultimo, per veder di sradicare l’intel­ lettuale e l’uomo dal proprio connaturato egoismo. La liberazione sarà il linguaggio, punto di fuga che recupera il punto di parten­ za : nel momento in cui Peter Weiss restituisce alla memoria le sue facoltà di rimarginazione, isolandole al contempo da ogni dete­ riore attività contemplativa, anche l’autobiografia viene meno per c edere il posto alla biografia e alla nascita primordiale dello scrit­ tore. Alla ricognizione e all’individuazione del linguaggio, auten­ tica e sola ragione di vita e di sopravvivenza, si chiarisce il passato c si determina il presente e il futuro, attraverso una via di recu­ pero e di riscatto che si riconosce nell’acquisizione stessa della libertà: «La libertà era assoluta, io potevo perdermi in essa e in essa potevo ritrovarmi, potevo abbandonare tutto, ogni sforzo, ogni solidarietà, e potevo cominciare a parlare. E la lingua che ora veniva spontanea era quella che avevo imparato all’inizio della mia vita, la lingua naturale che era il mio strumento, ( he sola ancora mi apparteneva e che non aveva più niente a che fare col paese nel quale ero cresciuto. In quel momento la guerra era superata e io avevo ormai alle mie spalle gli anni della fuga ai quali ero sopravvissuto. Potevo parlare, potevo dire ciò che volevo dire e forse qualcuno mi ascoltava, forse al­ 1/

tri mi avrebbero parlato e io li avrei capiti»10. Tale condizione di creatività artistica, collocabile in una sfera di mediazione fra conscio e inconscio, con la fase del linguaggio interpretata come momento liberatorio conclusivo, ha le sue matrici fondamentali in certa psicologia classica dell’ottocento tedesco, e massimamente in talune proposizioni estetiche di Schel­ ling, proiettate poi, ad esempio, nell’opera poetica di Schiller, il cui sforzo creativo, ' intermediato nell’arte come gioco, finiva poi per riconoscersi nell’esigenza primaria di rintracciare il filo segreto del cosiddetto ”istinto sensibile” condizionato in modo assoluto dal cerchio razionale condotto dalle forze dominanti. L’urto fra soggettività e realtà assume connotazioni dialettiche ben precise nel momento in cui si giunge all’intuizione hegeliana della ”necessità” dell’arte come derivazione e conseguenza della preca­ rietà del reale: un filone questo, che da taluni essenziali presup­ posti della Scuola di Francoforte finisce per penetrare nei con­ gegni del pensiero di Marcuse, soprattutto in Eros e civiltà, laddove égli considera «l’arte come una liberazione simbolica in forme sublimate di bisogni repressi»21. Ha ragione Vittorio Saltini quando rivendica appunto alla filosofia tedesca classica la pater­ nità22 del concetto di ”ritorno del represso” che invece Francesco Orlando attribuisce globalmente a Freud23, privandola in tal modo di quelle facoltà di sviluppo di un’estetica scientifica che deve rintracciare ragioni di incontro e di derivazione piuttosto che motivi di isolamento. D’altro canto, c’è da rilevare il carattere a volte illuminante del lavorio critico svolto da Orlando già in un saggio precedente dedicato ad una pregnante lettura freudiana della Phédre'. e proprio muovendosi da quelle posizioni, il critico sviluppa il concetto del bisogno non soltanto di recuperare il represso da parte della letteratura, ma anchè la conseguente esi­ genza di ”trasgredire”, attraverso l’individuazione di taluni punti essenziali, fra i quali basterà sottolineare da una parte « il ritorno del represso come presenza di contenuti censurati dalla repres­ sione sociale che grava sul sesso», dall’altra «il ritorno del represso come presenza di contenuti censurati da una repressione ideologico-politica»24. Il caso di Fedra, il cui desiderio di pec­ cato risulta di continuo azionato dalla molla di una repressione sociale che finisce per proiettarsi in una forma di repressione ideologica, può ritenersi esemplare ed esemplificante, come d’altronde sostiene Orlando, e si configura senz’altro come forza propedeutica suscettibile di ulteriori sviluppi di una dire-; zione non isolatamente freudiana, ma in grado invece di arric­ 20

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chirsi dei contributi essenziali di altre forze di convergenza. Proprio tale, facoltà di irradiazione legittima la necessita di ritornare al primitivo rapporto fra scrittore e potere, nella sua triplice accezione, soprattutto all’impatto che l’idea di letteratura ha subito di fronte al rifiuto della trasgressione, e alla punizione di essa massimamente quando si configura come privilegio del­ l’immaginazione. Sgomberato il terreno dalla possibilità di un rapporto scrittore-potere politico in una società di tipo capita­ listico che slitta verso forme di perversione come il nazismo e il fascismo (poiché in questi casi la repressione dell’intellettuale nasce e si sviluppa come struttura connaturata al carattere stesso che il potere è andato assumendo), è chiaro unto d’insinuare che anche se io posso essere uno scrittore esiiato... forse... dagli Stati Uniti, lasciami girare il concetto e dire che non sono tanto esiliato dal mio paese quanto il mio paese lo è da me. Vorrei ancora aggiungere, vorrei aggiungere che voce di popolo — come diciamo noi in America, no? — è voce di Dio. E allora voglio dire che non conosco un solo negro nel mio paese che non sia atterrito al pensiero del destino comune nei prossimi quattro anni. E questa è voce di popolo: siamo nei guai. Ma quando dico che il mio paese è esiliato da me, intendo questo: e cioè che per quanto io esisto in assoluto, io esisto nei termini di una storia che l’America ha sempre negato e su cui ha sempre mentito. Una storia che l’America ha essa stessa esiliato: io non sono in esilio, io sono nel mondo, e questo è molto di più di quanto non possa dire per l’America. Il mio esistere vuol dire vivere, agire e reagire, scrollarmi di dosso il sistema ”bianco” e lottare perché il tempo e la ribellione lo distruggano. Il discorso ci sta portando tendenziosamente verso un tema più vasto : quello del rapporto fra uno scrittore, negro per giunta — è questa una distinzione che il tempo ha reso inevitabile — e il potere politico... A me sembra che la radice di quello che noi chiamiamo potere politico abbia ancora una volta a che fare con il popolo, il che significa con la coscienza del popolo: non quello che il popolo ha, e nemmeno quello che fa o quello che vede. La sostanza di una vita è determinata da ciò che a quella vita dice sì e da ciò che le dice no. E sappiamo tutti molto bene che la coscienza somiglia un po’ al livello delEacqua: si alza e si abbassa. Sappiamo anche che è molto difficile essere coscienti, che sarebbe poi un altro modo di dire responsabili. Il compito di uno scrittore è implicato con il problema della coscienza del popolo. Il popolo lo genera; egli viene dal popolo; il popolo può anche non riconoscerlo, ma ha bisogno di lui. Perciò lo genera. Egli lo mette a disagio, in difficoltà, in crisi — e questa è la sola forza e la sua unica speranza —, ma se sei a disagio sei costretto a muoverti, a spostarti da una parte all’altra. Quando una nazione sonnecchia, si assopisce, essa è in pericolo. Ed è compito del poeta svegliarla. Dopo di che è il popolo a svolgere quello che chiamiamo attività politica. Ma è il poeta che lo sveglia. Ecco il rapporto...

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Sì, ma in questo tuo discorso si potrebbero ora coinvolgere anche i paesi del­ l'America latina... baldwin So benissimo che cosa vuoi dire, so benissimo che cosa intendi. È difficile rispondere, in quanto potrei dire subito, si, certo... Ma non sarebbe tutto... Noi abbiamo una trappola... la trappola... Siamo tutti nella stessa trappola... E sotto il peso, il tacco chiodato dello stesso padrone. Ma è anche vero, drammati­ camente vero, che io non conosco a fondo nessuno al di sotto del confine nordamericano. Non conosco i loro giorni, non conosco le loro notti, non conosco le loro vite intrappolate. Però so bene chi approfitta di quelle vite e so benissimo che l’intera America Latina è in realtà una enorme, tragica piantagione: esiste, e si vuole che esista, allo scopo di proteggere gli interessi del Nordamerica. E per rifarmi a quanto dicevo prima, come i denti di un topo che distrugge una casa, non lo senti, non lo vedi, eppure un giorno la casa crolla, e questi stringe d’assedio la casa... Tutto questo si adatta a tanti paesi, specialmente se pensi al Vietnam che rivela così chiaramente quali siano gli intenti dell’occidente. Tutti sono nigger ormai... tutti sono niggerl C’è gente in America Latina, c’è gente in Italia, c’è gente in tutto il mondo che ne è pienamente consapevole: ma nessun impero ha mai imparato l’unica cosa che un impero dovrebbe imparare, e cioè che il popolo lo crea e il popolo lo distrugge. Un impero non è un impero: esso è potente in quanto necessità del popolo. Il popolo avrà soddisfatte le proprie esigenze in un modo o nell’altro. Non siamo nati per essere usati come carburante, per un’economia in sfacelo... sì, un’economia in sfacelo... ed è un modo di vivere immorale, ste­ rile, criminale. Io credo... in qualcosa che è in ogni essere umano, qualcosa che ha sempre cambiato il mondo...

Torniamo ora al tuo lavoro: i tuoi discorsi finora sono stati fortemente calati nella dura realtà che ci circonda. Ma la fantasia dell'inventore di sto­ rie quale spazio occupa in te, come si riaggancia alla tua infanzia... baldwin Beh, devo dire che la domanda è dura e difficile... Non lo so, non saprei con esattezza dove realtà e fantasia s’incon­ trino e dove si dividano. Sono stato ragazzo un tempo, e attra­ verso la mia adolescenza corre la mia memoria, ma potrebbe anche essere una fantasia. Ma dove ciò che chiamiamo fantasia e ciò che chiamiamo realtà si incontrano davvero? Esse s’incon­ trano in una frase, oppure si incontrano in un fatto, ma

vediamo... tu vedi qualcosa, o magari qualcosa vede te, non so... tu vedi qualcosa e non puoi fare a meno di andargli incontro. È la tua vita... ma anche l’aspetto della tua morte. E ti muovi, nel modo in cui devi muoverti, e tutto quel movimento ha l’aria di una fantasia, ma invece è in movimento, e quindi è una realtà. Poi, a poco a poco non hai più vent’anni, non ne hai più trenta e tutta quella fantasia ha fatto in una determinata realtà si e no una o due apparizioni... gillespie

E nel mio caso non hai più nemmeno quaran­

tanni... baldwin Capisco cosa vuoi dire, Dizzy, molto crudele, non è vero? Neanch’io ho più quarantanni. Ma entrambi abbiamo alle spalle un bel mucchio di quello che ha l’aspetto di fantasia, quando avevamo ventanni e ancor più quando ne avevamo sedici. Dizzy non è più un quarantenne, e questa non è una fantasia, è vita, e la realtà di quella vita ha aiutato a creare altre vite: ecco la realtà. Io non sono sicuro che esista una cosa come la fantasia, io credo che la fantasia sia pura follia. E la realtà è pure vicina... Dizzy è li che cammina su una corda tesa e non c’è nessuna rete sotto di lui. Quando hai venti anni, trent’anni, ti alzano la rete, te l’alzano continuamente. Ma quando ne hai cinquanta, l’età di Dizzy e la mia, la rete — se pure ce n’è una — è così lontana sotto di te che non ci cascheresti mai dentro. Però c’è altra gente dietro di te, una lunga fila, bene o male che sia, la tua autentica realtà, e tu devi sentirti responsabile di questo, devi accettarlo, se sei responsabile — in parte responsabile — della creazione di un nuovo vocabolario di cui gli altri, non tu, impareranno a servirsi. Ecco come tenere alta la fede da una generazione all’altra, ecco come tutti potremo sopravvivere, specie i negri d’America il cui principale linguaggio fu il silenzio, che il mondo chiama musica, quella musica, ti prego di prendere nota, di prendere nota, che è l’unica dalla quale non puoi sfuggire ovunque nel mondo...

Siamo allora finiti nella musica jazz, tu stesso hai stabilito un rapporto fra parola e suono, e quindi bisogna tornare alla tua preistoria, alla ricerca delle ragioni interiori che ti hanno scagliato nell’occhio del ciclone, al centro di questa musica... baldwin Questo è un discorso facile... Ma vorrei rendere più precisa la tua osservazione. Questa musica si chiama jazz per delle

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ragioni molto speciali, e qui potrei anche non parlare come scrit­ tore. La parola jazz all’inizio, fu una parola dei bianchi, una parola oscena per indicare quello che gli inglesi definiscono rap­ porto sessuale. Questo fu il primo uso che si fece del termine. I negri se ne appropriarono, poiché essi erano le principali vittime e i principali praticanti di quello che gli inglesi chiamano rap­ porto sessuale. I negri catturarono questa musica... ...fu perciò una diversa forma di ribellione al potere... baldwin ...certo, nacque dallo scontro frontale fra due modi di vivere. Due moduli di vita che sono — consentitemi di essere molto duro, ma ne stiamo discutendo questa sera — incompatibili. Un modo di vivere che asserisce che il signor Colombo, Cristoforo Colombo, la cui impronta si estende al Nordamerica, in America, in quello che noi oggi chiamiamo America, portò con sé in Spagna molti indigeni. Chi venne assassinato, chi morì, chi arrivò sano e salvo in patria, in Spagna, a dimostrazione che quei luoghi erano abitati, che vi era della gente. Ma quello che morì... i cristiani... quello che fu assassinato, fu una grande, grande azione da parte dei cristiani quando lo spedirono diritto filato in Cielo, e i cristiani hanno sempre giustificato cosi i loro delitti. Hanno sal­ vato tutta l’Africa spedendoci tutti dritti filati in Cielo... C’è qual­ cosa di estremamente malato in una gente che può credere in una cosa simile, e vivere in questa opinione per generazioni e genera­ zioni. Una malattia dentro le ossa. Ma fammi tornare a quanto mi avevi chiesto. Come scrittore io sono nato ad un linguaggio che mi combatteva, mi ostacolava ad ogni passo. Io non sono Sha­ kespeare e le preoccupazioni della lingua inglese non sono le mie preoccupazioni: pure quella era la mia sola arma, il mio solo stru­ mento. E perciò nella prospettiva di poter essere uno scrittore, io avevo letto tutto: davvero... intorno ai sedici anni io avevo letto tutto. Ma poi ho smesso di leggere e mi sono messo ad ascoltare. E allora mi sono reso conto — mentre percorrevo la strada, la quarantaduesima strada, ascoltando ogni cosa, ascoltando, ascol­ tando, ascoltando — che la parola jazz viene dall’Auction Blok, e cosi io. E quello che Dizzy cercava di dire, e Louis cercava di dire, e King Oliver cercava di dire, e tutte quelle molte migliaia che parlavano mentre peccavano al buio, creavano un popolo in mezzo al quale crearono me. Io ho cominciato a imparare a scri­ vere ascoltando come cantava Bessie. E così posso sentire mio padre, mia madre, i miei figli e ogni cosa intorno a me: ho

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cominciato a sentire la lingua di una gente che il mondo diceva non aver alcuna voce. Ecco, allora il jazz è un linguaggio, e investe e coinvolge tutto e tutti, la parola come il suono, Dizzy, e la tua esperienza di musicista adesso può chiarire, ancor meglio, quello che ha detto Baldwin... gillespie Noi tutti, musicisti di jazz, poeti, scrittori, pittori, tutti noi cerchiamo di creare il capolavoro, il capolavoro è la vita... Ed essi allora creano qualcosa che scaturisce dalla vita, che esiste, che mi commuove, che taglia via tutto il superfluo e scende giù al nodo, a quello che è davvero grande, essenziale. E quello che scrive James mi commuove proprio per questo, perché il lin­ guaggio che usa è quello'che*ha vissuto, e che io stesso ho vissuto, così che in esso possono identificarsi molti, e molti e molti nostri giovani negri si possono identificare in questo linguaggio. Non sanno nulla di Shakespeare, o di Ernest Hemingway... James, capisci... ti arriva dritto, è qualcosa, è la mia musica, se io posso raggiungere... se io posso raggiungere la mia gente con la mia musica. Vedi, la nostra musica si è sviluppata attraverso molte evoluzioni... ha vissuto molti momenti, ma quello che rappresenta il tempo d’incontro, la stagione della saldatura, è il gospel, vedi, quanto più ti allontani dal gospel, tanto più ti allontani dal... da quello che noi intendiamo quando diciamo jazz, quando ora diciamo musica: quello è la spina dorsale, quello è la qualità fon­ damentale della nostra musica e noi cerchiamo solo di dipingere un quadro con questo... noi cerchiamo di fare lo stesso con la musica e questa continua a svilupparsi, a evolversi... E quando sento dire che il jazz sta tornando, la prima cosa che chiedo è: dov’era andato? E sempre stato qui, perché è una tale forza nelle nostre vite che non potrà mai andar via...

...non solo nelle vostre vite, ma in quelle di tutti, di ogni essere umano; perché quando la poesia è umana, nasce da un essere umano, raggiunge tutti, raggiunge ognuno di noi, non ti pare, Dizzy? gillespie ...credo di sì... Vedi, è abbastanza ironico il fatto, nella storia, che i negri negli Stati Uniti abbiano contribuito alle uniche cose durature nella storia americana, James...

baldwin No, no, no, non solo in America, non soltanto in America... Sapevo quello che dicevo quando prima ho affermato

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che la musica creata dai negri, o dallo scontro fra negri e bianchi, è l’unica musica che non puoi semplicemente ascoltare. Vai a Tokyo e senti Dizzy, e la ragione è che non si tratta di una moda, ma di un bisogno. La gente ne ha bisogno, ecco perché esiste. È una musica scaturita da qualcosa che il mondo occidentale dovrà pur capire un giorno... È una musica che nasce da una nudità totale...

VASSILIS VASSILIKOS

Parigi. Quartiere Latino. Anno Sesto dell’era fascista dei colonnelli greci. Vassilis Vassilikos da quel tempo fa la spola tra Roma, la Francia e tanti altri paesi democratici che raccolgono la sua pena di esule. Una pena che non compare manifestamente sul volto di Vassilis e di Mimi, la moglie che lo segue ovunque: è un ragazzo allegro, che sta vivendo da alcuni anni un’avventura forse sor­ prendente per lui, e certamente eccezionale, in grado di rinvigo­ rirne la struttura morale. Il nostro colloquio si svolge inevitabil­ mente sul filo di una tensione umana e civile abbastanza diversa e nuova, poiché le ferite sono ancora aperte e bruciano sulla pelle dell’emigrazione greca, e soprattutto dello scrittore che ha una memoria lucida e scattante («Una sera del maggio 1963 a Salo­ nicco un motocarro targato 49981 investì il deputato Grigoris Lambfakis») e l’ha utilizzata testardamente per mettere insieme una delle più agghiaccianti testimonianze dei crimini del fascismo greco. Racconta di quegli eventi, della sua casa a due passi dal luogo del delitto con calma e pacatezza, come di un referto da consegnare al giudizio della storia: ma quando parla di Lambrakis l’occhio si illumina, assume folgorazioni nuove e difformi, è come toccato da una forza magica e suggestionante che ne scom­ piglia la coscienza (« Non vedo in che cosa è diversa la marcia della pace da una processione antica o bizantina. Abbiamo con noi il santo: Grigoris Lambrakis. Non è forse un miracolo suo il fatto che questa strada che l’anno scorso ha percorso da solo quest’anno sia stipata di migliaia di persone?»). Ma Vassilis non è solo lo scrittore di Zeta\ ha pubblicato in Francia un libro di racconti, Le fusil harpion in cui la Grecia del­ l’esilio e della Resistenza si trasfigura e si affabula fino ad assu­ mere fattezze e sembianze poetiche, e talvolta simboliche che, 73

anziché fuorviare e distrarre dalla tragedia, ne acutizzano i momenti drammatici, ne puntualizzano la condizione umana, la contraddizione di fondo, l’ottusità che si traveste di una continua, tenace patina di brutalità (« Nelle nostre città regna ancora il clima del Processo di Kafka, in cui una mattina due misteriosi poliziotti arrestano a casa sua Joseph K. senza comunicargli il motivo e mal­ grado l’innocenza gli gettano sulle spalle il peso di un delitto mai commesso»). Ma sul viso di Vassilis, durante il nostro incontro, non è stato difficile scorgere quella felicità segreta che viene da una congeniale vocazione di scrittore: i libri pubblicati e quelli da pubblicare, persino quelli da scrivere, magari utilizzando quella gran congerie di materiali umani che è andato accumulando negli anni, diventano allora davvero un farmaco, una sorta di alterna­ tiva di fraternità con gli uomini e con l’espressione, che salva, riscatta, riconduce alla lucentezza della ragione laddove il buio della tirannide uccide e distrugge, come un esercito di cavallette.

È assai strana l’atmosfera di un paese che ti consente di creare, scrivere una cosa e non un’altra...

Dunque, Vassilis, il nostro discorso ha il suo epicentro nel potere, politico o familiare che sia, non importa. Vorremmo cominciare proprio di qui, dal momento in cui ti sei trovato a doverti scontrare contro una prima forma di eventuale prevaricazione, magari negli anni dell’adolescenza...

In un mondo in rovina non esiste un vero e proprio potere contro cui si possa urtare, in effetti non ci sono poteri: il potere è la distruzione, l’ingiustizia, la catastrofe... Ma un po’ alla volta, con il passare degli anni, e con la ricostruzione come si diceva allora, con il piano Marshall e tutti gli aiuti esterni, mentre il paese ritrovava una fittizia tranquillità, l’immagine del potere è andata identificandosi con quella del padre, perché è appunto il padre, nei paesi in cui la famiglia è ancora il nucleo più impor­ tante della società, ad incarnare il potere: dal modo di prendere la frutta in tavola alla maniera di disporre del corso della giornata... Una equivalenza quasi kafkiana...

Infatti... Proprio a quell’epoca lessi la lettera al padre di Kafka, una lettura che mi impressionò profondamente: e non per una questione analogica, perché Salonicco non ha niente a che vedere con Praga, ma perché anche lui si scontrava con lo stesso potere quasi mitico che è il potere paterno... E si sa bene, quando si subisce il potere paterno, si diventa un altro uomo... Chi poi segue la madre è ancora un altro tipo di uomo... Non voglio pro­ nunciarmi su quale sia il migliore, non intendo fare delle valuta­ zioni, ma io per esempio ho sentito molto nella commedia Erano tutti miei figli di Arthur Miller, questo grosso conflitto tra padre e figlio. Di questo conflitto risente il mio primo libro che si intito­ 7J

lava I racconti di Giasone, in cui tutto era costruito intorno al con­ flitto di Giasone contro il padre, in quanto Giasone si trovava di fronte al problema se lasciare la propria dimora, il suo regno, per andare in cerca di cose nuove, il vello d’oro che simboleggiava la vita, la libertà, la sensualità, o restare e farsi strada in patria: cioè a dire succedergli. Allora io mi sono battuto aspramente contro questa idea di successione, e capisco che ognuno riprende da capo la propria vita, da zero... Ecco perché ho descritto Giasone che se ne va di casa, per delle ragioni... insomma rompendo definitiva­ mente col potere paterno, cioè tagliando il cordone ombelicale che lo univa al passato...

Abbiamo parlato di questo rapporto senza ancora far cenno alla tua infanzia e al clima in cui essa andò sviluppandosi...

La mia infanzia è strettamente legata alla guerra, la guerra mondiale... Tutto quello che posso ricordare dei miei primi anni, fra i sette e i quindici, sono i bombardamenti, la fame, la guerra, il rovesciamento di valori che mutano da un giorno all’altro. La Resistenza in Grecia è stato un fatto molto importante, com’è noto, come d’altronde in Polonia, in Jugoslavia, e la Resistenza io l’ho veduta con gli occhi di un bambino, in un tempo in cui tutto sembra ingrandito, perché quando le si guarda dal basso le cose assumono una dimensione mitica... La separazione forzata da un mio amico ebreo, perché io sono nato a Kavala ma abitavo a Salonicco, durante la guerra, mi ha marcato in profondità, perché io mi sono reso conto di questa separazione soltanto molti anni dopo. Cioè a dire, io ho vissuto tale esperienza, ho veduto come fu trasportato con quella grossa fascia gialla sul braccio attraverso quella lunga via che è un po’ come la vostra via Appia, e solo molti anni dopo, alla fine della guerra, sono andato a chiedere quando tornava e mi hanno risposto che non sarebbe più tornato. Faccio questo esempio, perché esso ha inciso molto profonda­ mente su di me e alcune cose che ho vissuto da bambino, le ho vedute attraverso questa lente un po’ deformante dell’infanzia. Ecco, si può dire che appartengo a quella generazione che ha acquisito un modo diverso di vedere le cose, un modo che è un marchio destinato a durare per tutta la vita. Sì, ma torniamo ai tuoi libri. Dopo le tue prime esperienze, tu hai vis­ suto la sconvolgente avventura di Zeta, in cui ti sei trovato di fronte ad 76

uno dei più infami delitti politici commessi dal fascismo... Parliamo un po' del lavoro di preparazione di questo libro-denuncia... Non è stato molto difficile raccogliere il materiale che esisteva già nei giornali, ed era ormai in possesso di gente che viveva— e alcuni vivono ancora adesso — e per giunta in un’atmosfera che spingeva e autorizzava a scrivere un libro del genere. È assai strana l’atmosfera di un paese che ti consente di creare, scrivere una cosa e non un’altra... Gli anni dal 1963 al 1967, gli anni successivi alla morte di Lambrakis, e prima del colpo di mano dei colonnelli, furono tempi in cui in Grecia si aveva l’impressione di una libertà presso che totale... Non c’era mai stato, nella nostra storia più recente, negli ultimi anni, un clima come quello di distensione e di aspirazione verso la libertà... Così ho raccolto il materiale necessario: la mia casa, cioè la casa dei miei genitori, era a cin­ quanta metri dal luogo del delitto... Poi i vicini... io sono vecchio di Salonicco e li conoscevo molto bene, sapevo bene di tutto questo mostruoso underworld che sotto la maschera di piccoli e poveri lavori artigianali nascondeva una fìtta rete di informatori della polizia... Poi ho potuto avere accesso, ho potuto prendere visione del dossier del giudice istruttore, ovviamente senza che lui ne sapesse nulla, e tutto questo mi ha aiutato a mettere insieme quanto mi occorreva. Quello che voglio dire adesso, ed è forse la prima volta che lo dico, e... poiché ormai sono passati molti anni, e posso dirlo, è che c’è molto di inventato nel mio libro, non è un documentario al cento per cento, come si crede, ma c’è una grossa parte di libera creazione artistica, che prende le mosse da avveni­ menti reali ma poi si distende lungo un montaggio e una ispira­ zione più indipendenti.

Ecco, adesso il problema si è spostato sul tema dello scrittore in esilio, che ti coinvolge insieme a tanti altri... E allora, in che consiste per te lo scrittore in esilio, e tu ti senti direttamente implicato in questa umana con­ dizione. ..

Per me essere uno scrittore in esilio rappresenta ancora un fatto abbastanza nuovo e singolare: ho trentotto anni, i primi trentatré li ho vissuti nel mio paese, e perciò ne restano cinque di esilio... Ecco perché è un’esperienza nuova, che non riesco ancora bene ad analizzare, e a vivere. Ma c’è anche un altro discorso da fare: a mio giudizio, il concetto di esilio non esiste, non si può parlare di esilio negli ultimi vent’anni. Per esempio, l’esilio degli 77

inizi del secolo, quello di Joyce a Zurigo o di Hemingway o di Henry Miller a Parigi, o di Mann e Brecht in America e in altri paesi, o di... il suicidio di Zweig, l’avventura umana di tutti questi personaggi non ha nulla a che vedere con l’esilio dei nostri giorni... E strano a dirsi, ma non esiste un vero esilio in un’Eu­ ropa dove ci sono mezzo milione di lavoratori greci in Germania; non esiste esilio in Francia o in Italia dove ci sono tremila studenti greci nelle università... È insomma un mondo che consente rapidi scambi e rapidi contatti... E quindi tutta la teoria dell’esilio è fal­ sa: essa non appartiene alla nostra epoca e io stesso non me la sento di considerarmi uno scrittore in esilio, mi considero uno scrittore che vive fisicamente fuori della sua patria, che pubblica i suoi libri fuori della sua patria, in greco, ma che è in patria molto più di quelli che ci sono fisicamente, perché loro non possono parlare, non possono scrivere, hanno paura d’incontrare della gente... è così... scusatemi della brutalità con cui dico queste cose, ma io non sono affatto uno scrittore in esilio, nel vero senso della parola... Lo sono, si, nel senso fisico, ma non in quello reale... Ma la condizione dell'intellettuale greco oggi impone un più ampio discorso... Ecco, adesso siamo arrivati al nodo del problema, poiché si tratta ora dell’intellettuale greco in patria... In Grecia c’è adesso quello che c’era in Italia al tempo del fascismo: la censura, una censura molto rigida ed evoluta al tempo stesso, sviluppata nel senso che si può tradurre quasi tutto, tutto, ma non si può scri­ vere niente di quanto riguardi quello che realmente accade in Grecia. Noi abbiamo oggi in Grecia una grande fioritura di case editrici giovani, le quali vivono quasi esclusivamente di traduzioni. Per esempio: non è proibito pubblicare il processo di Regis Debray in Bolivia, ma è vietato pubblicare il processo di un resistente greco in Grecia... La polizia è riuscita a infiltrarsi dovunque, e ciò ha provocato un problema che non è soltanto politico, ma anche letterario. Ecco perché i miei colleghi in Gre­ cia, coi quali io sono sempre in contatto, si trovano spesso nel­ l’impossibilità di esprimersi direttamente e sono costretti a mascherarsi da scrittóri, diciamo latino americani, a parlare di un Boliguay, una via di mezzo fra Bolivia e Paraguay, evitando di dire che ciò che vanno scrivendo accade in Grecia; e questo ci dimostra l’impossibilità... il dover ricorrere ad un secondo lin­ guaggio d’invenzione, che è quello dei significanti, diverso da

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quello dei significati di chi vive all’estero come me, per non incap­ pare nelle maglie della censura... E allora, in tali condizioni, che significa essere un intellettuale... Essere un intellettuale... in questo momento, io credo che la parola « greco » mi disturba un poco : non esistono intellettuali greci per me, non esistono intellettuali italiani, o russi o cechi, siamo tutti nello stesso sacco e ci troviamo tutti nella medesima impossibilità, nell’assoluta impotenza di agire con le nostre opere, comunque siano, non possiamo fare altro che tenere desta l’opi­ nione pubblica, perché davanti a noi c’è questo mostro, lo si chiami complesso industro-militare, lo si chiami burocrazia dell’Est, che affossa, distrugge tutti gli sforzi che gli intellettuali com­ piono... Essere un intellettuale greco... per me non esiste diffe­ renza con un intellettuale turco o spagnolo, il grado è diverso, il grado del passato forse è diverso... Per esempio, un intellettuale spagnolo ha trentacinque anni di fascismo alle spalle, mentre un greco ne ha cinque: ciò determina differenze nella qualità della reazione, della ribellione, ma si tratta sempre dello stesso problema... È lo scrittore impotente, lo ripeto, di fronte al potere...

C’è però in te anche un problema puramente letterario, che vorremmo considerare: esiste in verità un certo scarto di rapporto tra fantasia e realtà prima e dopo l’avvento dei colonnelli...

Mi dispiace, ma per me l’avvento dei colonnelli non è una data che possa considerarsi così importante come la nascita di un mostro. E un avvenimento molto importante per il mio paese, ma per me non segna una linea di demarcazione nel mio lavoro di scrittore... Cioè... si... incide su di me in quanto scrittore, ma non sul rapporto tra fantasia e realtà. Certo, hai ragione nel senso che tale evento ha rappresentato uno shock capace di distruggere ogni immaginazione e di spingere lo scrittore a rivolgersi verso tutto quanto gli succede intorno, ma secondo me questo non può cam­ biare fondamentalmente il rapporto tra realtà e fantasia perché io penso che tale rapporto esista sempre in effetti; come diceva Dostoevskij non c’è nulla di più fantastico del reale... In questo senso quando scrivevo cose un po’ poetiche e simboliche come la Trilogia, era perché esisteva una certa censura* da noi a quel tempo che non mi consentiva di scrivere le cose diversamente... Io 79

quindi non credo affatto alla fantasia: come ha detto Gide, per esempio, che aveva un talento da microbiologo e non da scrit­ tore... io mi sento nell’assoluta impossibilità di raccontare delle favole. La verità è un’altra: ciò che è stato veramente distrutto dall’avvento dei colonnelli non è stato il rapporto tra fantasia e realtà, ma quello tra scrittore e pubblico. Ed è questo che mi col­ pisce più che il senso di realtà e di fantasia di un’opera letteraria. Questo rapporto, questo dialogo che per me è tanto importante, che deve esistere tra uno scrittore e il suo pubblico, distrutto per delle ragioni del tutto pratiche, cioè a dire perché i libri non pos­ sono più circolare, sono vietati dalla censura... e poiché la Grecia è un piccolo paese di 8 milioni di abitanti di cui solo un dieci per cento legge libri, questo piccolo pubblico che scompare mi fa molto male... ed è in questo che l’avvento dei colonnelli mi ha maggiormente colpito, più che nel rapporto veramente creativo esistente fra uno scrittore e la sua opera.

JUAN GOYTISOLO

Parigi. Rue Poissonnière. Dietro l’angolo, sul Bl. St. Denis, la folla domenicale scorre come un fiume in piena, fa la fila davanti ai cinema, qualche uomo solo in cerca di conforto indugia davanti alle locandine del Mayol per gli ultimi strip-teases del secolo. Dal­ l’abbaino di Juan Goytisolo e di Monique Lange, i comignoli tanto cari a Mimi e Rodolfo si inseguono fitti fino alla Tour Eiffel lontana, confusa nella nebbia. Sono altri tempi: la casa di Juan al­ l’ultimo piano, questo « attico » di antiche stagioni romantiche, ospita un esiliato politico di Spagna che ha optato per la vita e per Monique Lange, scrittrice francese dalla vita avventurosa (Indo­ cina, colonialismo, la Parigi della Resistenza, quella di Pompidou...). Le lunghe ramblas in fuga verso il mare di Barcellona si riflet­ tono negli occhi di Juan che può rievocarle solo nella parola, magari nei manoscritti spagnoli che gli capitano fra le mani per l’editore Gallimard (« Noi spagnoli sopportiamo con difficoltà di star lontano dalla Spagna»): è una nostalgia contraddittoria, perché il desiderio di fuga ha vinto su ogni altro sentimento (« L’Europa significava per me una cura disintossicante necessaria per tornare a essere me stesso »), provocando a sua volta inquietu­ dini e implicazioni anche di genere letterario, se è ben verificabile oggi il passaggio da un crudo realismo (« La pazzia e la tuberco­ losi si nutrono di questi poveri esseri ed ho l’impressione che cer­ chino di nascondersi al nostro passaggio » —scriveva in Campos de Nijar\ ad una letteratura dell’immaginazione in cui questo ter­ mine assume un preciso significato rivoluzionario, come alterna­ tiva al potere («Per me l’immaginazione è sovversiva»). Ma l’estremo lembo di Spagna, l’Almeria, la Chanca dolente e stra­ volta dalla miseria (« Il sole si tinge di rosso e la fauna del quar­ ti

tiere si moltiplica. La Chanca si desta lentamente, ancora intorpi­ dita dal caldo. Gli uccelli volteggiano sui torrioni dell’Alcazaba, mentre gli abitanti invadono le strade, chiamandosi con grida») sbalzano in primo piano come l’ultimo ricordo di una giovinezza perduta. Ci chiedono notizie dell’Italia, degli amici italiani, Juan e Monique (« Mi pare che la vostra narrativa sia in crisi, è finita la stagione dei Pavese e dei Vittorini...», dice Juan), ma il discorso finisce presto per cadere sulla Sicilia, dove i due hanno fatto un memorabile viaggio, che Monique ha descritto in un racconto recente, Cannibales en Sitile («Arrivammo a Segesta alla fine del pomeriggio. Il tempio ci apparve attraverso un mare di pecore avana che un pastore faceva rientrare prima di notte. Segesta era stupefacente di serenità in mezzo ai cactus, gli aloe e gli olean­ dri ») ; ma tragedie terribili si affacciano alla mente con ossessiva frequenza, è il tema che abbiamo scelto per la nostra conversa­ zione che ci spinge in quell’abisso senza fondo, e allora i nomi rimbalzano tragicamente, rotolano come teste mozze nel grande cesto del boia: Neruda, Allende, Dubcek, la Spagna di Franco, i palestinesi, le comunità stritolate, i genocidi...

La mia ribellione assunse una forma assai semplice e magari non molto eroica che potremmo meglio definire desiderio di fuga... ecco... desiderio invincibile di scappare.

Tu vivi da molti anni in esilio a Parigi, e la Spagna ormai si presenta per te soltanto attraverso i riflessi opachi e tristi del ricordo, di una filtrata memoria. Il discorso sul potere pertanto ti coinvolge direttamente, si sconta nella tua stessa vita. E allora cominciamo a parlare della prima forma di potere contro cui ti è accaduto di scontrarti... juan ...è una condizione che credo debbano affrontare tutti i bambini, quella del primo incontro, e scontro, con il potere. Questo potere normalmente assume l’aspetto del potere familiare, si può dire, del potere paterno, o materno che sia. Nel mio caso particolare questo incontro con il potere ha delle precise e pecu­ liari caratteristiche, dovute al fatto che mia madre morì quando ero molto giovane e che mio padre era già in età avanzata, dopo una sequela ininterrotta di malattie e di sofferenze. Tutto ciò fece sì che io non avvertissi mai una pesante autorità su di me, fino al momento in cui andai a scuola. Dapprima fu una scuola di Gesuiti, poi dei Fratelli della dottrina cristiana, e lì ebbi davvero una prima presa di coscienza rispetto a quella forma di potere, voglio dire un senso di colpevolezza davanti a un potere che mi schiacciava, e ritengo di esserne rimasto segnato nel profondo come probabilmente accadde a tutti i ragazzi della mia età che si trovarono a dover sopportare quel tipo di educazione dominante nella Spagna degli Anni Quaranta...

...questo dove, a Barcellona?... juan ...sì, a Barcellona, dove ho frequentato il liceo... Una delle prime forme di ribellione contro questo potere fu semplicemente il fatto di sollevarmi contro alcune di quelle norme che ci

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venivano imposte e fra l’altro di perdere ogni fede religiosa che mi ha poi portato ad un ateismo militante... dapprima segreto, poi militante appunto... negli ultimi anni del liceo e quindi in quelli universitari. .Insomma, io voglio riferirmi... la prima forma più ovvia del potere fu nel mio caso concreto il sistema educativo che in Spagna era niente altro che un sistema repressivo, poiché non mi educò, ma mi represse. Tutta l’educazione che ho ricevuto dopo si è orientata precisamente contro questa repressione... ...più che un potere familiare, fu allora un potere religioso, questo di cui parli... juan ...sì, fu esclusivamente religioso, cioè voglio dire che non avevo a quel tempo nessuna coscienza né del potere politico né della politica in genere, e questo finché non entrai all’Università. Nell’ambiente borghese dove sono cresciuto non si parlava di politica, io ignoravo del tutto l’esistenza di problemi sociali e politici, non se ne parlava intorno a me, e quello che io sentivo nella mia prima ribellione fu semplicemente un sentimento di rivolta contro un potere religioso che mi opprimeva...

...ci pare il caso di chiamare in causa Monique, a questo punto... per Juan il mondo dell’infanzia, l’urto contro il potere ha significato anche impatto contro una repressione di tipo non tanto familiare, quanto scolastico, nella configurazione, insomma, del collego come è concepito in Spagna. Per te, evidentemente i problemi sono stati diversi perché la tua vita si è svolta in un contesto diverso, e pertanto il rapporto stesso è stato probabilmente di altro genere...

Monique ...era un rapporto sentimentale, una visione della miseria dall’angolazione di una bambina borghese, tenuta nel­ l’ovatta, con una famiglia molto generosa, ma che mi impediva... reazionaria. Erano ebrei, l’antisemitismo era allora qualcosa di sottile, e io ero davvero sprovveduta politicamente, appunto perché ero tenuta al riparo da tutto, e non scoprii l’ingiustizia e la miseria che in modo sentimentale, assolutamente non come realtà di repressione... ...tutto questo dove stava accadendo?...

Monique ...a Parigi, la mia infanzia l’ho trascorsa a Parigi fino ai tredici anni, dopo di che mi trasferii in Indocina dove mia

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madre si era risposata, e vi rimasi fino ai miei 19 anni. La mia prima presa di coscienza politica quindi, l’ho acquisita in India, e d’improvviso tutti quelli cui mi andavo legando erano comunisti, indù militanti che avevano passato tutta la vita in prigione, uomini che mi hanno fatto comprendere in modo folgorante... assolutamente, che la mia visione sentimentale della vita non ser­ viva affatto agli altri... ...ritorniamo un po' indietro, Monique, al rapporto con i genitori... Monique ...riguarda l’ultimo libro che ho scritto... credevo che non sarei stata più capace di scrivere dopo aver parlato della morte di mia madre. In una certa serata in casa di amici, a Parigi, qualcuno fece apparire la droga: io ebbi una reazione assolutamente isterica. Mi sentii chiedere perché reagissi in maniera simi­ le: risposi che in Cina mi avevano fatto prendere quella cosa spa­ ventosa che è l’oppio, e per questo della droga avevo una specie di terrore. Quella stessa sera, tornata a casa, iniziai a scrivere un libro che pensai di intitolare La ragazza e la droga... dopo che l’ebbi scritto, mi resi conto che non avevo parlato della droga ma di Dio, perché riandando allo sconvolgimento che mi provocavano, drogandosi, i miei genitori, avevo ritrovato tutti i miei mistici sconvolgimenti...

...Hai fatto cenno a tua madre. La sua morte tragica ha provocato in te un trauma violento dal quale è venuto fuori uno dei tuoi racconti più sensi­ bili, Une dròle de voix... Monique ...c’è un antefatto... ero rimasta molto colpita durante una visita al cimitero dei Cappuccini: non so perché, m’impressionò il fatto che per la prima volta la morte non presen­ tasse un aspetto macabro ma comico. E io dopo che avevo vissuto fisicamente e moralmente la morte di mia madre, mi rendevo ora conto che quasi si trattava d’una questione, diciamo di digestione morale. Mi dissi che trattare di cose simili era di pertinenza del linguaggio psicoanalitico... mi dissi che in seguito mi sarei resa conto, che avrei ricordato tutto... Ma ormai non potevo più ritor­ nare a quelle che furono alcune divergenze con mia madre, perché il solo e semplice ricordo delle sue sofferenze mi faceva impaz­ zire... 8)

E così è nato il racconto Une dróle de voix...

Monique ...la relazione che si stabilì fra me e mia madre, come del resto avviene sovente fra madre e figlia, non è facilmente comprensibile, e può anche sfiorare se vogliamo l’idea di potere. Durante la malattia, quando io non potevo più aiutarla, non potevo più far nulla per lei, un rapporto estremo d’amore nacque fra noi. Ella comunicava con me su dei bigliettini: il tumore alla gola non le permetteva di parlare... e io allora finii per scoprire in me una specie di passione per mia madre... anche se ci eravamo volute sempre bene, non me n’ero mai resa conto. Quando morì, la voce mi si incrinò, un medico mi disse che tutto ciò era nor­ male, che la mia voce si era incrinata perché io avevo letteral­ mente vissuto il tumore alla gola di mia madre. Ecco perché il titolo, Une dróle de voix...

Riprendiamo il discorso con te, Juan, dove l’avevamo interrotto per lasciar parlare Monique della sua dura esperienza. Eravamo al contatto con il mondo borghese. Bene, quello nella tua famiglia era soltanto un mondo, diremo ovattato, un po’ come per Monique ma in termini diversi, un uni­ verso del quale non ti rendevi conto probabilmente, non ne avevi che una vaga e lontana percezione. Ma tale contatto evidentemente assunse aspetti diversi e più drammatici negli anni universitari... si può dedurre leggendo certi tuoi romanzi, soprattutto La Isla... juan ...beh, fu un processo graduale. Al momento del mio ingresso all’università, come è naturale, incominciai a entrare in contatto con persone appartenenti a ceti sociali diversi fra loro e pressappoco intorno ai ventidue, ventitré anni, come ho detto, presi a interessarmi di politica, a leggere libri politici di ispira­ zione marxista. E allora cominciai anche a considerare la chiesa spagnola non più come un caso isolato, ma come un qualcosa facente parte di un complesso e tale complesso era simbolizzato dal regime spagnolo. A partire da questa data, da questi anni uni­ versitari, quando incominciavo a scrivere^ nacque il mio interesse per la politica, con il desiderio di rifiutare, e di combattere, secondo i periodi, questo sistema di potere tanto oppressivo per fa mia sensibilità.

...Fu allora che hai sentito davvero per la prima volta, in modo consa­ pevole insomma, e coscienziale, una ribellione profonda nei confronti di un 86

vero e proprio potere politico... Parliamo un po' delle circostanze che l’hanno provocata... juan ...è difficile dire... credo di aver sempre sentito uno stato di profonda insoddisfazione nei riguardi della società in cui vivevo, insoddisfazione, per cominciare, verso il nucleo familiare, poi verso quello educativo in cui vivevo, infine verso la società spagnola nel suo insieme. La mia ribellione assunse una forma assai semplice e magari non molto eroica che potremmo meglio definire desiderio di fuga... ecco... desiderio invincibile di scap­ pare. Posso dire che dacché... non so... da quando ho avuto uso di ragione, diciamo da quando avevo quattordici o quindici anni, ho avuto coscienza di vivere in un paese che per me non era gra­ devole e posso dire che tutti i miei sogni miravano al giorno in cui avrei potuto lasciare questo paese. E quando quest’occasione si presentò davvero, lo lasciai e non sono più tornato a viverci.

...Certe tue allusioni portano il discorso sul tema della letteratura. Tu hai esordito con un tipo di narrativa fortemente realistica e concreta, radi­ cata nel vero e nel mondo dei diseredati... juan ...di fatto un certo periodo della mia attività letteraria può inserirsi in pieno, diciamo, nel quadro di questo realismo, soprattutto quello relativo agli anni fra il 1955 e il 1965. Questo era il naturale risultato di una reazione nei confronti di un paese dove, per il fatto di non esservi libertà di stampa, libertà di infor­ mazione, libertà di esporre la verità, si finiva con il cercare con ogni mezzo di esporre un tipo di realtà ch^ il pubblico normale di altri paesi democratici troverebbe sui giornali. Io feci presente diversi anni fa che il realismo di un certo periodo della letteratura spagnola si giustificava con il desiderio di esporre, che tutti gli scrittori avevano, di denunciare una realtà che il lettore normale non trovava sui giornali. Ciò spiega abbastanza, credo, tutto il carattere, la grandezza e i limiti di questo tipo di realismo. Debbo dire che questo periodo, in cui mi sforzavo di riprodurre la realtà che vedevo o avevo veduto in Spagna prima che me ne andassi, ebbe fine alcuni anni dopo. Si trattò per me del compimento di un dovere civile che oggi considero esaurito.

Tu hai spesso proceduto sui due binari della narrativa e della sag­ gistica, di frequente coinvolgendo l’una e l’altra... Al di là dei risultati artistici, tuttavia, c’è un problema interiore che è importante per il nostro

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discorso... stiamo pensando a quel memorabile libro articolato in due tempi, La Chanca e Campos de Nijar... juan ...sono due problemi diversi. Nel periodo realista, diciamo che il mio desiderio di riflettere la realtà spagnola, si spinse a seguire questo tipo di réportage, come accade in Campos de Nijar e in La Chanca, in cui mettevo a nudo, per esempio, la condi­ zione di abbandono e di desolazione di determinate popolazioni o regioni della Spagna. Però, circa le possibilità di espressione che mi vengono suggerite dal romanzo o dal saggio, è difficile rispon­ dere... soprattutto in questi ultimi dieci anni la ricerca letteraria creatrice e la ricerca critica sono legate in modo indissolubile... credo che Luna sia complementare all’altra. Così come credo che oggi non si possa essere buon poeta senza essere anche buon cri­ tico, allo stesso modo credo che sia sempre più difficile essere un buon romanziere senza essere contemporaneamente un buon cri­ tico. Per me sono due aspetti complementari di uno stesso lavoro...

L'attuale rifiuto del realismo, da parte tua, almeno nei suoi aspetti più ortodossi, presuppone un tuo diverso orientamento verso altre forme di espressione... il discorso potrebbe portarci fino alle rive dell’immagmazione come si configura oggi... juan ...beh, credo che le persone che hanno letto, per esem­ pio, la Revindicación del Conde Don Juliàn risponderanno molto bene a questa domanda per la semplice ragione che si tratta ora di non limitarsi alla critica della società spagnola, ma di scendere alla radice delle cose, alla radice della storia di Spagna. A misura che andavo meditando, ad esempio, sulla durata di questo regime spagnolo, su come era possibile che un fenomeno del genere per­ sistesse, mi vidi costretto a riflettere un poco sulla storia della Spagna in generale, e arrivare alla conclusione abbastanza deso­ lante che non era un’eccezione ma piuttosto una regola. Allora trovai assurdo fare una critica superficiale di questo regime quando era necessario andare alla radice delle cose. Radici che implicavano un’analisi della storia di Spagna, della cultura spagnola... questo fu il proposito al momento di scrivere la Revin­ dicación del Conde Don Juliàn, che è un tentativo di psicanalisi nazio­ nale, di trarre fuori tutta quella congerie di demoni, di repressioni rinchiuse, compresse dal discorso ufficiale spagnolo...

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...e quindi rientra in tale piano anche la tua ricerca su quell’autore poco noto che fu José Maria Bianco White, dall’inglese in cui si espri­ meva... juan ...certamente, perché la sorpresa nel leggerlo è stata per me assoluta. Era davvero straordinario trovarmi a leggere per puro caso su riviste e pubblicazioni del tutto disperse, dimenticate, pubblicate in Inghilterra all’inizio del secolo scorso, l’opera di uno spagnolo che diceva sulla Spagna le stesse cose che io stavo dicendo, che io stavo pensando. Questo mi fece... mi aiutò molto a vedere questa continuità di una Spagna repressiva, che aveva reso impossibile la vita a Bianco White, costringendolo ad andar­ sene a vivere altrove e altrove morire e che costringe anche me a vivere e chissà a morire lontano dal mio paese.

Avevamo insinuato il discorso sull’immaginazione, sulla fantasia poetica come alternativa al realismo di cui si parlava, e tu hai eluso. Dobbiamo tor­ narci un momento... juan ...non sfuggo... io credo che la fantasia svolga un ruolo importante, in quanto essa è per principio negatrice dei dogmi. Sarà utile osservare come il sospetto in cui l’inquisizione spagnola teneva la letteratura d’invenzione sia stato sintomatico, e infatti uno dei primi sforzi della suddetta Inquisizione fu quello di estir­ pare l’immaginazione dalla Spagna. Voglio dire: mentre la lettera­ tura spagnola era sommamente fantasiosa fino a Cervantes, da Cervantes in poi si registra la morte di tutta questa dimensione fantastica che non riapparirà più in Spagna, fino al ventesimo secolo. Questo mi pare sia una prova in più dell’importanza da attribuire all’elemento immaginativo, quello utopico se vogliamo, nei confronti di ogni potere, di ogni sistema...

...è una forma di gioventù, sia pure letteraria... juan ...l’immaginazione?... sì, di gioventù e anche di libertà, di indipendenza. Voglio ancora ritornare a Bianco White per rimarcare che in un suo articolo pubblicato in Inghilterra e intito­ lato Del piacere delle immaginazioni inverosimili, egli parla dell’apatia immaginativa di cui soffrivano gli spagnoli e sogna una nuova let­ teratura ricca di fantasia e libera da qualsiasi dogma inquisitorio.

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Ma c'è inevitabilmente un rapporto tra la fantasia, l'immaginazione di cui tu parli e la realtà, altrimenti il discorso si fa pericoloso... juan ...il rapporto realtà-fantasia... potrei citare un esempio abbastanza valido che portava Carlos Fuentes: l’imperatore Montezuma, l’imperatore messicano, era così geloso del suo potere che aveva ordinato di giustiziare le persone che sognavano. Io credo che tutti i tiranni coscienti dovrebbero far uccidere i sognatori, dal momento che il sogno è qualcosa che sfugge al potere assoluto che tutto vuol controllare. In realtà, di fronte alla tendenza della società contemporanea sempre più orientata verso una specie di totalizzazione onnimoda sia per il tipo di burocrazia capitalistica di stampo americano che di burocrazia di marca sovietica, io credo che il bisogno di immaginazione si faccia sempre più forte e urgente oggi.

Diciamo allora che in questo lemma, nel motto de La vida es sueno c'è la formulazione di una rinuncia, una forma di paura, o piuttosto una più vera e autentica identificazione... juan ...il caso di Calderón è molto diverso... quando Calderón diceva La vida es sueno, la sua definizione coinvolgeva una con­ cezione teocratica in cui tutto il mondo risultava ordinato. Il tipo di immaginazione che io difendo non poggia su alcuna teogo­ nia... semmai è la negazione di qualsiasi ordine o concezione... è un’immaginazione essenzialmente sovversiva.

Ci siamo allontanati forse troppo, torniamo alla Spagna di oggi, alla Spagna del consumismo e del cosiddetto benessere... può essere utile per riportarci ad una più attuale condizione... juan ...ho molto poco da aggiungere ad un articolo che scrissi e pubblicai sull’Exjbr^s nel 1964 e che fu il mio ultimo arti­ colo politico, dove esponevo chiaramente quello che sta acca­ dendo adesso. È un articolo che mi è capitato di rileggere recente­ mente e non mi sentirei di cambiare una virgola perché tutto quello che dicevo è accaduto. Quando lo pubblicai, esso mi valse l’indignazione generale e attacchi da ogni parte: fino allora ero stato attaccato energicamente da tutta la destra spagnola; quando apparve questo articolo, tutta la sinistra, tutti i miei amici mi si scagliarono contro, accusandomi di disfattismo... Avrei preferito che avessero avuto ragione i miei amici e che io mi fossi sbagliato

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peccando di pessimismo: ma i fatti, purtroppo, sono sempre pes­ simisti. Dal '64 ad oggi, dieci anni dopo... il rapporto fra lo scrittore e il potere non è cambiato, anzi dovunque c'è un ulteriore deterioramento... juan ...io mai... la mia opinione personale è che lo scrittore non deve mai associarsi al potere, in alcun modo, nemmeno quando verso questo potere provasse simpatia: per lo meno non schierarsi incondizionatamente da quella parte. Ci sono governi con i quali mi sento più o meno identificato, diciamo per certe lotte di liberazione, per la causa dei palestinesi, e diciamo pure che ci sono stati governi con i quali mi sono sentito identificato, che poi nella pratica hanno fallito, penso al caso di Dubcek in Cecoslovacchia, o al caso di Allende in Cile. Ma neanche in questi casi credo che l’intellettuale debba schierarsi incondizionatamen­ te: deve invece conservare la propria indipendenza ed esercitare la sua possibilità di critica...

Ci pare, Monique, che tu stia approvando quello che dice Juan...

Monique ...si, trovo molto giusto quello che ha detto Juan, penso che abbia ragione... no... lo scrittore non ha nulla da spar­ tire con il potere... ho il senso di quanto sia minima l’opera di uno scrittore, ma ritengo che la denuncia deve essere sempre tenuta viva... Anche a proposito dell’immaginazione, della fanta­ sia, volevo dire qualcosa... certo è anacronistico rifugiarsi in ogni sorta di fantasia. È per questo che io sono convinta che viviamo un’era del tutto a-letteraria, in cui i letterati non sanno che far­ sene di se stessi e della propria letteratura... Ma poi c'è l'urto con la vita, con la realtà, con il potere che si insinua... Tu hai vissuto questa esperienza in modo ben diverso da Juan, nella Fran­ cia di ieri e di oggi, eppure siamo convinti che il peso del potere lo hai sen­ tito ugualmente...

Monique ... certo... l’ho sentito nella vergogna per il raz­ zismo... nel fatto di essere francese. Ieri ho ascoltato Pompidou parlare di Allende: ne ho provato vergogna... non si tratta tanto di una vergogna per i fatti specifici della Spagna o del Cile... ieri per esempio ho preso un taxi, quello che mi sono sentita dire mi ha dato un gran senso di vergogna... noi qui non corriamo i rischi 21

degli spagnoli o dei cileni, ma è in noi la vergogna di essere irri­ mediabilmente dei borghesi in una società come questa. È un sentimento di vergogna verso il razzismo e l’impressione che il mondo non progredisce affatto, e avevo molte più illusioni venti anni fa... l’evoluzione è minima, insignificante, lentissima.

WITOLD GOMBROWICZ

Vence. Un paesino delle Alpi Marittime, un po’ sopra Nizza. È un luogo di silenzi e di misteri un po’ ossessivi, in cui Witold Gombrowicz ha vissuto splendidamente, come in una reggia ricca di vezzeggiamenti, fino alla morte, che lo colse il 24 luglio del 1969. Il nostro incontro con lo scrittore polacco ha preceduto di non molto la data della sua scomparsa, e trasse occasione da certe pagine illuminanti del suo Diario, sulle quali volevamo compiere una « verifica » più diretta, meno mediata sulla pagina. Il risultato fu sorprendente, nel senso che lo scontroso aristocratico, protago­ nista della letteratura polacca d’emigrazione, nulla ha tralasciato per attaccare e giustificarsi, per correggere e infierire, attraverso un magma confuso, caotico forse (« C’è nella coscienza » scriverà nel Diario riferendosi a Cosmo « qualcosa che la trasforma in una trappola per se stessa»), ma comunque autentico e liberatorio, in cui l’universo di un’anarchia intellettuale scontata perpetuamente sulla pagina, appunto, trova il suo riscatto morale nell’alternativa della vita e nella pena stessa del vivere. Più di una volta Gombrowicz è andato a urtare contro il proprio destino di uomo e di scrittore (« Irruzione banale di una assurdità logica. Scandaloso »), durante il nostro incontrocolloquio, ma ogni volta che l’impatto registrava il sobbalzo impazzito della lancetta di una bussola precaria, l’universo della ragione diventava un aggancio inevitabile, un ritorno-recupero nella capsula-madre degli oggetti (« Nell’infinità dei fenomeni che accadono intorno a me, ne isolo uno. Scorgo per esempio, un portacenere sul tavolo »), e al contempo un tentativo ancora più vibrato di immergersi nell’assurdità della vita fino a condizionarsi dentro le sue brutali strutture. Per pochi scrittori l’attrito con il potere risultò più disastroso

che con questo aristocratico di Varsavia (« Ogni polacco che viag­ gia all’estero è un conte», scrisse Dostoevskij, e gli amici del Café Rex non mancarono di farlo notare allo scrittore...), per il quale ogni forma di suggerimento intellettivo dovette rappresentare un affronto alla logica totale di un’intelligenza che chiedeva aiuto ad Hegel più per costruirsi un alibi autorevole che per stabilire un rapporto. Forse la realtà fu per lui quanto di più ossessivo potesse immaginarsi, e quel suo respirare affannosamente, quasi a voler denunciare un’asma forse appena percettibile, appare oggi come il tragico vezzo di un ingegno inquieto e corroso dal vizio della sto­ ria...

L’aristocrazia mi perseguitò fin dall’infanzia e andò popolandosi di creature mostruose, una specie di ansia ossessiva che mi costringeva a lunghe riflessioni, duri ripensamenti...

Vogliamo cominciare a parlare della cosiddetta letteratura in esilio? È un tema nel quale molti sono stati coinvolti...

Bene, bisogna prima intendersi sul significato delle parole... Letteratura in esilio, significa tante cose, e riguarda una gran quantità di scrittori... poiché si può essere in esilio soltanto con la mente e lo spirito e continuare a vivere in patria... Ci sono gli esempi di Kafka, di Rimbaud... e se ne potrebbero fare tanti altri. Una volta io risposi all’articolo di uno scrittore rumeno, Cioran, chiarendo il mio pensiero anzi sviluppandolo in modo da non tornarci più sopra... Ma ora vedo che l’argomento ritorna e io, come scrittore emigrato polacco, dovrò ripetermi, ritornare su quei motivi e dire di nuovo che non è affatto vero che lo scrittore esiliato finisce con il trovarsi del tutto distaccato dalla sua società umana e letteraria. Proprio in quella risposta a Cioran, io sostenni il contrario, e cioè che l’improvviso sbalzo nell’universo dell’emigrazione può rappresentare una suggestione positiva, uno slancio a produrre della buona letteratura... E non soltanto per la libertà che si conquista di poter pensare e agire e scrivere in piena autonomia, come meglio si crede, ma anche per la possibilità di guardarsi dentro con maggior cognizione, per quanto ho detto prima... uno si sente come affrancato dalle ipoteche della storia, dai vortici dell’ideologia, della politica, della vita comunitaria... Lo scrittore è uomo dal temperamento forse fragile, che ha paura degli eccessi di libertà, come dei mutamenti che le condizioni esterne possono determinare in lui, sfigurandone i connotati spiri­ tuali... Eppoi, distinguiamo subito l’artista dall’intellettuale... nei paesi socialisti tale distinzione è ambigua, anzi non esiste affatto, il rapporto con la società è univoco, con tutte le conseguenze... e

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allora io dico che l’artista esiliato, trapiantato altrove e fuori dell’é&’te, vive un’esperienza che lo investe direttamente, e gli pone i problemi della vita e dell’arte in modo netto e brutale, sente la pressione della vita, dicevo rispondendo a Cioran... E facevo anche l’esempio del conte fallito, che si rende conto di quanto siano inutili le manie e le mode da salotto, quando il salotto non esiste più: e allora, in questo caso, resta l’alternativa tra l’impegno realistico e basta, e la condanna all’isolamento...

Questo discorso riguarda anche il concetto di aristocrazia della lettera­ tura, d'altronde ben presente in certe pagine del Diario...

Certo, è vero, l’aristocrazia mi perseguitò fin dall’infanzia e andò popolandosi di creature mostruose, una specie di ansia ossessiva che mi costringeva a lunghe riflessioni, a duri ripensa­ menti, insomma ad una mitologia prematura che io mi illusi di poter superare con l’approdo alle rive della ragione... ma dovetti rendermi conto che era vero il contrario, essa rivelava i caratteri dell’invincibilità... Me ne accorsi quando andai in Argentina, povero e senza alcun aiuto e credetti di poter far valere il mio bla­ sone, la mia illustre genealogia e non ne ottenni altro che deri­ sione... Era inevitabile... Forse sbagliavo... Certo che un libro come L’homme révolté di Camus, quando lo lessi, mi dette molto da riflettere, arrivo a dire che mi fece precipitare in una crisi tre­ menda, proprio per i problemi della coscienza individuale che mi proponeva, senza risolverli, secondo me, poiché appunto... tale coscienza non possiede in sé la possibilità di redimere il mondo... Ecco, era il problema dei requisiti e delle facoltà risanatrici della coscienza che quel libro andava prospettandomi, ma con quali alternative? Una logica dura e spietata: «Io l’ho ucciso, perché voi mi avreste ucciso se io non avessi ucciso lui », commentavo, a lettura finita, nel mio Diario, seguendo la logica terribile dei nostri tempi, come il pesce sornione che segue inconsapevole la scia della nave... Forse Camus mi fece comprendere a quali equivoci poteva condurre l’eccesso di individualismo, e quindi il concetto di aristocrazia fondato sull’astratto... No, assolutamente... la rivolta non è ’Taffermazione del valore”, bisogna cercare altrove, convincersi che ci muoviamo su un terreno minato, in uno stato di semi-incoscienza che significa a volte cecità totale, disumanizza­ zione dell’individuo...

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Siamo allora arrivati al rapporto, anzi all’urto fra intellettuale e comu­ niSmo...

Certo, parliamone pure, è il tema di fondo di questa nostra conversazione, come potrebbe sfuggire all’analisi, e non perché io sia un emigrato polacco, ma perché il problema riguarda tutti gli intellettuali, dentro e fuori della patria... ma soprattutto gli artisti... Mi rendo conto che il terreno sul quale vado a cammi­ nare è pieno di pericoli e di trabocchetti che potrebbero per­ dermi, distruggermi, isolarmi ancora di più, nella coscienza s’in­ tende, come io la concepisco...L’artista si è lasciato troppo spesso prendere in giro dalle varie filosofie che hanno dominato la nostra epoca, abbiamo perduto di vista la ”nostra” verità per rin­ correre quella degli altri, dei politici, dei burocrati, e tale situa­ zione ci ha cacciato in un pozzo senza fondo dal quale è difficile venir fuori... Io sono convinto, e sempre di più vado convincen­ domi, che noi artisti rappresentiamo la ragione, di fronte alle astrazioni del pensiero scientifico che vorrebbe inserirci nella sfera dei concetti, mentre dobbiamo preoccuparci di esistere nel­ l’universo dell’individuo e in quest’ultimo operare, agire, combat­ tere la nostra lotta con noi stessi... D’altronde, il comuniSmo fa parte dell’aria che respiro e non posso liberarmene così facil­ mente, non mi è concessa la fuga, che significherebbe incapacità di opposizione... Prendete un libro come Le Communisme di Dionys Mascolo, in cui si affronta proprio questo problema... Ne ho par­ lato a lungo nel mio Diario: gran parte di quello studio indaga sul dramma degli intellettuali che hanno generato e aderito al comu­ niSmo, per poi lasciarsi divorare, impotenti a reagire... Ha un bel teorizzare Mascolo intorno all’infallibilità di certe ricette che gli consentirebbero di guarire i mali del mondo, la contraddizione resta e anzi si verifica chiaramente proprio nel momento in cui il grido del trionfo sembra soffocarla: da un lato l’assoluta certezza del proprio giudizio, ma subito dopo, dall’altra, il confronto con se stessi, la constatazione e la verifica della propria impurità... Chi potrà mai stabilire qual’è il giusto modello per l’umanità? Queste affermazioni ci portano diritto al concetto di libertà...

Qui sta il punto... Già scrissi come l’osservazione di un mio lettore mi aprì la mente verso la differenza fra il mio concetto di libertà e quello marxista... Ricordo ancora quella frase... diceva: « La libertà che ci viene proposta nel suo diario è molto più

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autentica e vera di quella accademica e forzata che ci propone Sar­ tre»... Ecco, questa fu la frase che mi convinse delle divergenze profonde fra la libertà dell’artista e quella dell’intellettuale, l’una, problema che riguarda l’istinto, l’altra che coinvolge l’intelletto comprimendolo e riducendolo a semplice entità prigioniera... È un rapporto che riguarda anche il cattolicesimo, ne ho parlato più volte, ma qui voglio chiarire meglio il mio pensiero... Come il comunista, anche il cattolico, il credente, è convinto di possedere la verità, eppure rappresenta e prospetta un diverso modulo di convivenza, consente all’uomo quell’autonomia di atteggiamento verso un’idea che potrà essere un pretesto, una mistificazione, ma resta pur sempre un’alternativa che significa anche sapienza equi­ librata, ben calcolata di tutti gli intelletti che non si abbassa mai fino a divenire stoltezza... E inoltre, questa considerazione, che ho appena finito di fare, mi porta ad un maggiore equilibrio fra il divino e l’umano, che è problema tutto mio, per il quale il più che posso dire è che c’è una bella differenza fra chi crede e coloro che vogliono credere... Anche questo ho scritto nel Diario, press’a poco in questi termini...

Parliamo un po’ allora dei problemi dell'arte, del rapporto con la realtà, dello sforzo dell'artista di essere ad ogni costo se stesso, di fronte al potere... Questo discorso impone una premessa che riguarda la Polonia e i polacchi... Forse non esiste al mondo un popolo che senta e soffra più intensamente di quello polacco, la sua, diremmo polonità... È un caro fardello che tutti ci trasciniamo dietro, e por­ tiamo nascosto nel cuore, quando ci troviamo nell’occhio del ciclone del potere, come quando in un prato osserviamo il volo di un uccello... Forse ciò dipende da una maggior libertà di reazione al cospetto della realtà, che tuttavia non serve a frenare lo slancio di un popolo che vuol essere Europa, malgrado tutto concorra ad isolarlo in un ghetto che Europa non è più... Una volta, preso dalla concitazione del discorso con cui invitavo i polacchi a non « rincorrere continuamente l’Europa », li scongiurai di non cercar mai di diventare dei Matisse polacchi, e aggiunsi: «Dalle vostre manchevolezze non potrà mai nascere un Braque », e giocai sul fatto che ”manchevolezza” in polacco si dice brak... Ma non era soltanto un gioco di parole, voleva essere un’esor­ tazione agli altri e anche a me stesso, e alla mia tendenza a sen­ tirmi continuamente un Mosè che cerca di gonfiarsi fino a scop­

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piare... Una specie di megalomania che mi è stata spesso rimpro­ verata, ed è stata usata senza parsimonia dai miei avversari . 1 E invece, io ci rido sopra e non me ne preoccupo perché tale atteg­ giamento, è molto polacco certo... ma mi consente di rifugiarmi dentro un universo liberatorio assoluto, in cui la zona del sogno rappresenta una specie di porta d’ingresso verso l’intrico del sim­ bolo e verso l’area della realtà da cui dovrò dedurre e ricavare le fonti stesse del mio esprimermi. È una tecnica che ho usato molte volte nei miei romanzi, in Transatlantico come in Ferdydurke, ma soprattutto nel primo. Pian piano, senza correre pericoli, percor­ rendo il sentiero del sogno e del viaggio nel misterioso e nel­ l’inconsapevole, mi son trovato nel gorgo che desideravo, in Polo­ nia, forte di una libertà espressiva che ignoravo finora e che mi ha •permesso, in un’ansia tanto liberatoria e attraverso un’assoluta anarchia creativa, di parlare come volevo, di dire tutto quello che volevo... senza mentire... Ecco il gioco dell’equilibrio, e anche l’antidoto dell’artista di fronte al potere... creare liberamente, immergendosi nella fantasia, nel sogno, nell’irresponsabilità, a condizione di saper rientrare sulla via maestra del reale, della coscienza e della padronanza di se stesso... Ecco da dove nasce la lotta fra l’artista e l’opera che cerca di sfuggirgli come un cavallo imbizzarrito... ma bisogna che il cocchiere resti ben piantato in cassetta e arrivi sano a destinazione, se vuole salvarsi... Per questa ragione ho scritto una volta che il mio atteggiamento nei riguardi della Polonia si ricava dal mio atteggiamento verso la forma, qualcosa che io cerco di evitare, ma in cui mi sento immerso in modo cosi completo da non riuscire poi più a venirne fuori, a liberarmene... È come la realtà che ti prende per la giacca e ti impone di tornare fra gli uomini, dopo che l’aristocrazia dell’arte ha cercato di isolarti... Che fare?... non è un problema facile...

Questo discorso potrebbe riguardare anche la poesia...

Sì, ma fino a un certo punto... Io scrissi una volta un articolo intitolato Contro i poeti, che provocò tante polemiche e discussioni, e anche reazioni, soprattutto da parte dei poeti... Forse la reazione è derivata dal fatto che io mettevo in guardia l’umanità di fronte ai pericoli di un « crepuscolo che si giustifica solo storicamente » e di un ”canto” che presuppone soltanto ammirazione ed Ascol­ to”. In verità, è il problema solito, dell’approccio con la realtà su rive tempestose e difficili, irte di scogli... Voglio dire che il poeta cerca di realizzarsi all’interno di un’elaborazione artistica che gli

impedisce una più libera assuefazione con quella zona neutra in cui l’arte si confonde con la vita e si fa essa stessa vita. La domanda che il poeta dovrebbe porsi è sgradevole, ma deve por­ sela ugualmente: «Fino a che punto sono convenzionali, o veri, viventi, i versi che sto scrivendo?». E ancora: «Sono gli altri ad adularmi, o non sono forse io che adulo me stesso, obbedendo alla ”menzogna” della poesia?». Probabilmente, è stata l’inge­ nuità di una fede totale e assoluta a provocare e a favorire certe condizioni che hanno poi spinto la poesia verso il terreno difficile del monologo fine a se stesso... La poesia oggi richiede l’ingenuità del bambino, ma anche la furbizia e l’astuzia di chi deve conoscere i limiti della vita e della storia: voglio dire che la cosa più impor­ tante resta quella di essere uomo prima che poeta...

HEINRICH BOLL

Roma. Anno di grazia del Premio Nobel. La figura allungata, da santone georgiano, di Italo Alighiero Chiusano fa contrasto con quella più tornita e tutta renana di Heinrich Boll, stimolato a rispondere su temi e motivi che gli sono familiari, il cattolicesimo, Willy Brandt, il potere religioso della chiesa e quello politico, così presente e inevitabile in un intellettuale che ha visto scorrere sulla sua terra il ciclone hitleriano. Ha fatto tanti mestieri prima di andare a far parte del ” Gruppo 47”, come fiancheggiatore, ama dire, per evitare che lo si coinvolga in esperienze captanti (« Quando mi interrogano sulla mia professione, mi sento imba­ razzato; divento rosso, balbetto, io che altrimenti sono noto per essere un uomo disinvolto. Invidio la gente che può dire: faccio il muratore... »). In una Germania che lentamente va ricucendo il lembo strap­ pato della coscienza, ”essere” scrittore significa vivere e giustificare una presenza giorno dopo giorno, senza respiro: deriva forse da questo l’urgenza della letteratura in scrittori come Boll, come Gunther Grass, come Peter Weiss: ma il problema di fondo finisce per essere quello tutto mitteleuropeo del­ l’identificazione, di un’autócollocazione storica e umana che deve lottare con tutte le proprie forze contro i fantasmi dell’equivoco e della mistificazione (« Murke sapeva che la sua paura era senza ragione...»): sono i rintocchi funerei di un nazismo scontato nel grumo dell’esistenza, nutrito di falsi miti e di continue, tenaci depravazioni (« Pareva credessero che uno stupido potesse diven­ tare intelligente e una mezzasega un leone, solo che gli piantassero in qualche parte decorativa deH’uniforme una qualsiasi patacca possibilmente meritata...»). L’impegno politico di Boll, la sua adesione a Willy Brandt e la

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sfrenata campagna elettorale condotta in suo favore, fatti sorpren­ denti, e per taluni sconcertanti, in uno scrittore, per giunta tedesco, trovano una precisa ragion d’essere appunto nella preistoria dell’uomo prima che del narratore, della formazione umana prima che di quella intellettuale: e allora si spiega e si comprende un’ansia di fondo che sommuove le radici di una vita fino ad elevarla al rango di una letteratura che deve porsi un com­ pito di salvezza e di rigenerazione per l’uomo. La struttura por­ tante per Boll, una stratificazione di tragedia dietro il velo appa­ rente, è l’ironia, la satira, il fatto mimetico che confluisce e cir­ conda la realtà fino a renderla credibile (« Se lo humour ha ancora una giustificazione in letteratura, la sua umanità può consistere soltanto in questo : nel riuscire a presentare in tutta la loro serietà quello che la società considera aberrazioni»). Una foto di gruppo che scandisce il mistero di una Germania caduta e risorta nei gorghi rischiosi del benessere.

Io credo che la politica abbia bisogno della fantasia e che un autore debba saper smitizzare e sdemagogizzare un concetto com’è appunto quello di patria.

Per Heinrich Boll l’etichetta discutibile di scrittore cattolico è stata molto spesso utilizzata per definire non soltanto una tematica, ma anche una con­ dizione della coscienza e della vita... ...Ho sempre respinto le due definizioni, cattolico e cristiano, se applicate a me e in quanto scrittore. Questo perché nel mio paese, il classico paese della Riforma, esse contengono un deciso elemento confessionale e militante. Frattanto, anche per ciò che riguarda me stesso in quanto uomo, non sono più disposto ad accettare questi due termini perché — e anche questo è tipico della Germania, specie di quella federale — il cristianesimo e soprat­ tutto il cattolicesimo politico hanno avuto un ruolo negativo dopo la guerra, forse più che sotto il nazismo. Esso infatti, attraverso il partito che si richiama al cristianesimo^ ha trasformato ciò che sarebbe potuto essere il vero cristianesimo in una filosofia e ideo­ logia quasi esclusivamente del possesso, della proprietà, del capi­ talismo. Ciò è avvenuto in maniera così decisa che ormai mi ver­ gogno di definirmi così, in Germania... Stranamente la cosa cam­ bia quando mi trovo all’estero, diciamo in Irlanda, in Francia, persino in Olanda e naturalmente in Italia o in Jugoslavia. Per­ sino nell’unione Sovietica io mi sento molto cattolico... mi sento molto cattolico: anche per questo, io non posso fare ciò che molti considererebbero un atto coerente, cioè uscire dalla Chiesa. Non vorrei rinunciare alla positività di una comunione, di una comu­ nicazione con coloro che vivono in quei paesi che per lo più sono poveri... La mia religiosità attuale è questa... io non dubito mini­ mamente dell’incarnazione del Figlio di Dio e la scopro in quasi tutti gli uomini, perché in tutti io ravviso come delle particole del Figlio dell’Uomo. Sarà magari una concezione mistica, ma io non

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so essere religioso che in senso mistico. In questo senso non soffro del mio allontanamento dalla Chiesa in quanto corporazione, organizzazione: mi sento vicinissimo invece anche alle forme più antiquate di pietà. Per esempio, una contadina portoghese che reciti il rosario, mi tocca da vicino, perché io sono fatto di mate­ riale cattolico, e lo so benissimo. Sono cresciuto in una regione dove persino le patate sono cattoliche, non voglio negarlo questo, né lo potrei, ma l’istituzione Chiesa mi è ormai estranea. È una situazione specificamente tedesca, di questo paese della Riforma e del capitalismo introdotto in maniera cruenta... forse in Italia è diverso, e mi piacerebbe discuterne con uno scrittore italiano che si trovi nella stessa condizione... ...questa interpretazione così autentica di una fede presuppone un giu­ dizio severo e impietoso sui destini del mondo, sulla tragedia esistenziale dell "umanità odierna...

...Vedo il mondo pieno di violenza, e i poteri costituiti sono concordi nel ravvisare la violenza solo negli oppressi, ai quali peraltro non si lascia altra possibilità che quella di usare appunto la violenza. La guerra, la colonizzazione, le imprese missionarie, la violenza usata con Tarma economica, il commercio delle armi: tutto questo non viene considerato violenza... Sì, invece, quella che gli oppressi usano per liberarsi. Ci sarebbe una speranza: quella di dare agli oppressi un modo di liberarsi senza ricorrere alla violenza, ma io non vedo da nessuna parte che agli oppressi per motivi politici, economici e talvolta religiosi, si offra altra via d’uscita che quella della violenza. E intanto i potenti continuano a dichiararsi assolutamente estranei all’uso di essa. Anche qui vedo che le religioni istituzionali hanno fallito, predicando la pazienza e l’aldilà per gli altri, mentre chi cosi predica è già consolato in questa vita, e può aspettare con pazienza. Questa costrizione alla violenza è diffusa in tutto il mondo, anche se non sempre essa viene praticata con la pistola in pugno. Questo quadro non certo roseo andrà aggravandosi ancora di più con gli anni, fino a prospettare una rappresentazione tragica dell’uomo del Duemila... ...l’uomo del Duemila... mancano ormai meno di trent’anni... lo vedo boccheggiare in cerca di aria, di acqua, di terra, di fuoco... Temo però che nel Duemila anche questi elementi pri­

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mari verranno amministrati capitalisticamente, cioè avremo gente che farà incetta d’aria e la venderà a caro prezzo. Sì, alla gente verranno concesse libertà d’ogni genere, ma la gente non saprà come usarle, per mancanza d’aria, che costerà al metro cubo più di un’automobile... di questo sono convinto... a meno che anche l’ecologia nel mondo non venga amministrata secondo giustizia... Perché i poveracci dovranno continuare a lavorare là dove si tro­ vano, anche se non avranno da respirare, mentre gli altri potranno andare a vivere in campagna, o magari sulla luna. Ecco secondo me, il problema numero uno del Duemila e degli anni seguenti... Questo quadro così pessimistico sul futuro deVuomo, non impedisce allo scrittore Boll di battersi generosamente per la vittoria di Willy Brandt e del suo partito... E inoltre potrebbe apparire contraddittoria questa battaglia con le caratteristiche di un uomo in fondo estremista, radicale... Forse la società tedesca di oggi esigerebbe mutamenti più radicali e profondi... ...Mi limito a parlare dell’Europa occidentale e della Repub­ blica federale tedesca. Credo che in Europa ogni mutamento radi­ cale sia impossibile, perché condurrebbe irrimediabilmente alla guerra. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica che hanno vinto la seconda guerra mondiale hanno più o meno imposto il loro sistema politico alle due parti d’Europa da loro dominate. Nes­ suna delle due grandi potenze permetterà che nell’ambito della zona da loro controllata avvengano cambiamenti sostanziali senza che si scateni una guerra. Esempi classici, all’Est la Cecoslovac­ chia, il cui esperimento di mediazione fra i due sistemi è stato brutalmente stroncato; a Ovest, la Grecia, la Turchia, il Porto­ gallo, e in certa misura la Spagna, dove gli americani, contraria­ mente alla loro ideologia della libertà, sostengono dei regimi fascisti e addirittura terroristici. Per questo non credo che nem­ meno nella Repubblica federale tedesca sia possibile un cambia­ mento radicale di sistema politico. Willy Brandt, come Cancelliere di uno stato germanico, è addirittura una sorpresa sensazionale: non sono mai stato molto viziato dai cancellieri germanici, e anche se lo fossi Brandt resterebbe una figura prestigiosa. Perciò ho fiducia in lui. Non credo, certo, che abbia la possibilità e il desiderio di ribaltare tutto il nostro sistema politico... non è più giovanissimo e ha esperienze molto pesanti alle spalle... ma nel suo partito e anche in altri, vedo delle forze che potrebbero con­ durre a termine questo rinnovamento pacifico. Giova anche il

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fatto che l’alternativa a Brandt è abbastanza preoccupante, sia come persona che come programmi, ma la cosa essenziale è quanto di positivo, di promettente, io vedo in Brandt stesso e nelle forze che lo affiancano... ...questo vuol dire che il ruolo dello scrittore, dell’intellettuale, nella lotta politica deve essere determinante... il gioco del potere lo riguarda e lo coinvolge...

...Il presupposto della nostra azione politica — e questo vale anche per i tre anni precedenti — è che siamo in contatto perma­ nente con Brandt, oltre che con alcuni suoi ministri e consiglieri politici. Parliamo insomma, discutiamo insieme... non di problemi letterari, certamente... quelli li risolviamo da noi... ma di questioni politiche e sociali. Io credo che questo tipo di colla­ borazione possa aiutare un uomo politico, e anche uno scrittore, senza che si corrompa, perché può contribuire a chiarire le idee. Per esempio, il concetto di patria, così importante per noi che abbiamo tanti profughi dalle loro terre originarie, noi intellet­ tuali, insieme con gli uomini politici, abbiamo cercato di chiarirlo e di definirlo meglio per togliergli ogni fiele aggressivo. Io credo che la politica abbia bisogno della fantasia e che un autore debba saper smitizzare e sdemagogizzare un concetto com’è appunto quello di patria. Una cosa che ho osservato e che negli ultimi anni mi ha molto occupato, è che nei paesi dominati ideologicamente — e anche le democrazie occidentali per me sono rigidi stati ideo­ logici — si va sempre più perdendo il concetto di grazia. Ora, nei paesi sia dell’Est che dell’ovest, gli oppositori vengono non solo perseguitati e incarcerati — il che potrebbe essere anche legittimo — ma trattati senza alcuna dimensione di umorismo, di compren­ sione, di capacità di intendere l’uomo. Questo va tanto più ricer­ cato in un paese come la Germania federale che si è vista imporre dall’esterno la democrazia, anche *se poi l’ha accettata come una cosa ben sua e naturale. Questo compito, lo ammetto, non molto popolare, spetta agli intellettuali. E in questo io vedo il valore della nostra azione politica. E mi auguro che continui, senza che né i politici né gli intellettuali si corrompano a vicenda. C’è qualcosa dunque nella vita di cui non si stanca mai e ci sono invece altre cose che detesta... vediamole un momento...

...non mi stanco mai della vita stessa, in tutte le sue compo­

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nenti. La vita umana è fatta di amare, respirare, bere, parlare... parlare molto insieme. Amo vedere il sole che sorge, ma anche il sole che tramonta, due cose bellissime... Mi piace andare a letto la sera, penso con gioia alla colazione del mattino dopo... Persino la pioggia è bella, non so separare tutte queste cose... amo la vita nel suo complesso... Quello che detesto di più? La costrizione, ogni tipo di costrizione, addirittura un fatto patologico. Ogni cosa che mi venga imposta, anche una piccola cosa — ad esempio dover andare in banca, o qualcosa di simile — può essere un vero tor­ mento per me. Forse dipende dal fatto che per quasi tredici anni sono vissuto sotto una coercizione totale, e prima ne ho sofferte di altra natura: costrizione religiosa, familiare... Spero almeno io di non esercitare un’azione coercitiva su nessuno...

...C? da chiedersi in che misura tutto ciò abbia influito sullo stile del romanziere e inoltre quali letture possano aver determinato una forma così tornita e densa come quella che traspare dalle opere di narrativa di Boll...

...indubbiamente alcuni scrittori, tedeschi e non, hanno eserci­ tato un certo influsso su di me, è innegabile, dopo le solite letture scolastiche... vediamo... Kleist ad esempio... ma dal punto di vista formale... Chi mi ha colpito per primo in senso spirituale è stato Dostoevskij, e poi Bernanos, Chesterton... Influenze direi inconsa­ pevoli, almeno fin quando dopo la guerra cominciai a scrivere io stesso, ispirandomi appunto a quei modelli. Credo però che la mia evoluzione formale, per quanto riguarda il ritmo, il taglio delle scene, la condensazione, il colore, sia soprattutto influenzata dalla musica e dalla pittura: non tanto da questo o quel pittore o musicista, e nemmeno in modo che io possa analizzare, ma sta di fatto che la forma compiuta di un brano musicale o di un quadro entro la sua cornice, hanno influito sulla mia forma creativa più che alcuno scrittore al mondo. Probabilmente debbo molto anche al cinema che da giovane, e anche dopo la guerra, ho frequentato molto: senza dubbio ha significato molto, non solo per me ma per molti scrittori tedeschi dopo il 1945, il cinema neorealista ita­ liano... mi ha restituito la dimensione del vero... ...possiamo dunque chiudere il nostro incontro dedicando a qualcuno il successo e la buona riuscita delle sue opere...

...a tutti coloro che sono come me... degli esseri umani e basta.

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ILJA EHRENBURG

Parma. Congresso stendhaliano. Una delle ultime apparizioni in pubblico di Ehrenburg, prima della morte. Il tronco del super­ stite, che ha resistito a tempeste civili e umane di ogni genere, è inaridito dagli anni e dal tedio della vita; la parola invece reagisce alle sollecitazioni, anche se il vizio assurdo della reticenza, del dire e non dire, rimane persistente con i sintomi di un morbo inguari­ bile, che ha subito un aspro processo di assuefazione. La biografia squarciata di Ilja, del resto, intrecciata a quelle dei Boris, degli Isaac, dei Vladimir, e perché no? degli Stalin e dei Berija, è il più duro sintomo dei tempi, ma è al contempo il simbolo di una lotta condotta sul filo della coscienza e del continuo, tenace impatto con la vita («...detesto l’indifferenza, le tendine alle finestre, la durezza e la crudeltà dell’isolamento))). È difficile incontrare un personaggio più di questo sopraffatto dagli anni e dai ricordi, che si affollano massicci alla mente: il volto è già come contratto dall’immobilità incipiente, qualche goccio di whisky fa il resto, ma la mente è lucida, rammenta ogni cosa, sembra un diario aperto sullo strapiombo della storia: il concetto del potere, d’altronde, ha un significato particolare e diverso per quest’uomo che ha vissuto giorno dopo giorno rivolu­ zione, stalinismo, disgelo, contraddizioni ed equivoci, subiti con l’immobile orrore di chi non crede ai propri occhi, è convinto di aver male interpretato una frase, una decisione, un pensiero. Eppoi, l’incubo del potere che si ingigantisce nel fluire degli anni, i pogrom di Kiev, r ”essere ebreo” scontato fino aH’ultima stilla che via via si trasfonde in un ”essere uomo” altrettanto duro e difficile da sopportare, di fronte all’ingiustizia degli uomini. Forse lo ha salvato il suo ”cosmopolitismo”, una forza misteriosa e inspiegabile che ha sempre fornito Ilja di una lucidità sensibile,

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unica struttura portante capace di offrire a chi si è smarrito il filo conduttore di una spirale che conduce alla logica (« gli arbitri di Berija erano realmente senza limiti »), anche quando l’accusa è di ”senza patria” e i persecutori incalzano all’uscio di casa (« Ogni notte mi attendevo una scampanellata...»). Di tutto questo parlammo con Ilja a quel convegno ormai lon­ tano, al tramonto di una biografia tra le più ardue e difficili della storia europea di questo secolo: dalle risposte del sopravvissuto, più che levarsi la voce di un trapassato, sembra emergere il senso stesso della storia con i suoi errori, le sue fatalità, la sua incredi­ bile nemesi : a testimoniare che una forza inadeguata riesce anche a resistere quando è sostenuta dall’esigenza di vivere, e soprattutto quando si arricchisce del privilegio della poesia.

I miei genitori parlavano in ebraico, quando non volevano farmi capire qualcosa.

C'è una frase del tuo diario, Ilja, che colpisce fortemente e fa riflettere su tutta la tua vita, un'esistenza tormentata e impegnata fino all'estremo nella difesa degli umili da una parte e della letteratura dall'altra: e Quanto a me, la paura l'ho provata non sui vari fronti, non in Spagna, non sotto i bombardamenti, ma in tempo di pace, nell'attesa di una scampanellata o di un colpo all'uscio...». ... è vero... quando bussano alla porta, ancora oggi che sono vecchio continuo a provare un senso di sgomento, si riaffacciano alla mente ricordi terribili, incancellabili, mi appaiono gli anni di Kiev, si rispecchiano nella memoria i momenti dei pogrom, le tra­ gedie e il genocidio di migliaia di persone... Kiev è la mia città natale, vi sono nato nel 1891, l’anno della fame... i russi non pos­ sono dimenticarlo... c’erano Tolstoj e Cechov che si prodigavano ad aiutare i poveri e gli affamati, ma la gente moriva per le strade in gran quantità... Io provengo da una famiglia borghese ebrea molto attaccata alle tradizioni, ma desiderosa di liberarsi presto dalle angustie dei ghetti: ci provò mio padre, a frequentare una scuola russa, e mio nonno, un tipo duro e inflessibile, non gliela perdonò mai... arrivò a maledirlo... Cominciai da allora a sentire il peso della violenza, della sopraffazione, fìsica e ideologica, e me la sono poi trascinata dietro negli anni: i miei genitori parlavano in ebraico, quando non volevano farmi capire qualcosa, l’ho già detto nel diario... ma a ricordarlo qui si riaccende una sensazione nuova e imprevedibile, mi rendo conto ancora di più di far parte di una generazione di mortificati, di umiliati, di insultati... al punto che tutto ciò finiva per sembrarmi giusto, normale, evi­ dente, salvo poi a reagire, a ribellarmi alla regola dell’altra guan­ cia che sentivo ripetermi dalla nutrice... Le prime ribellioni le ebbi no

a scuola... ma anche in casa, quando sentivo parlare del pogrom di Kisinev, ad esempio, mi ribellavo inconsapevolmente... avevo solo dodici anni, ma sentivo già sulle spalle il peso della "male­ detta questione ebraica"...

Ma torniamo per un momento a Kiev, alla tua città, l’urto, l’impatto degli ebrei contro i persecutori si verificò lì in modo drammatico...

Certo, Kiev è stato il primo amore... me lo ripeteva sempre il poeta Gudzenko... eppure ho vissuto poco in quella città, ma quando mi è capitato di vedere le sabbie di Babij jar dove i tedeschi uccisero migliaia di ebrei durante uno dei più spaventosi pogrom della storia, mi è sembrato di non aver mai lasciato quella terra... li attirarono con un inganno, invitandoli a presen­ tarsi con gli indumenti e la carta di riconoscimento... fu una lunga marcia di vecchi, donne, bambini trucidati poi dopo essere stati denudati... sì, le sabbie di Babij jar non le dimenticherò facil­ mente... era facile prenderne tanti, Kiev allora rigurgitava di ebrei... dovette essere terribile, notti interminabili di paura e di fughe disperate... tanti scrittori si occuparono di questi fatti, delle torture ancora rudimentali di allora... senza camere a gas gli aguz­ zini si sbizzarrivano in mille macabri giochi, dalla violenza ai bam­ bini al marchio sulla fronte, la stella a cinque punte... forse allora è nata in me la vocazione... o la predestinazione?... del sopravvis­ suto, una parola che non mi piace ma mi compete, poiché per tutta la vita ho cercato un punto d’incontro e di legame fra la giustizia e la bellezza, fra un nuovo ordine sociale e l’arte... l’ho scritto più volte... ho parlato di due Ehrenburg, l’uno persecutore dell’altro per tutta la vita... ed era inevitabile che fosse cosi... del resto basta confrontarmi con il personaggio del mio libro Secondo giorno, Safanov... che s’impicca perché costretto a tacere su tante cose... prendi gli "anni deH’arbitrio", come io li ho chiamati... tanti amici finirono in carcere... Babel è morto fedele alle proprie idee, che io ora addirittura ignoro, non saprei dire come la pen­ sava e perché è finito in quel modo... e io stesso tante volte potevo finire allo stesso'modo, prima delle denunce contro Stalin del XX congresso... potevo finire come tanti altri ebrei perseguitati, come Michoels per esempio, che era stato l’organizzatore più acceso e fervido del Comitato ebraico antifascista... e fu ucciso misera­ mente, e dopo la morte fu di nuovo condannato a subire la simu­ lazione di Berija... Questo episodio mi fa ricordare un mio arti­ colo del 1948 sulla Pravda, sulla "questione ebraica", in cui citavo 111

anche Stalin, il quale sosteneva che l’antisemitismo è una soprav­ vivenza del cannibalismo... ma poi le cose andarono diversamente... In fondo, il mio "essere ebreo" è una ragione di vita, e mi ha spinto a girovagare di continuo per tutto il mondo, a Parigi, in Italia, in Spagna... Veniamo allora ai vagabondaggi nel mondo, agli amici conosciuti dovunque, ai sodalizi letterari... In fondo, l’idea di letteratura è nata in te proprio attraverso tutti i viaggi che ti hanno dato una visione cosmopolitica della vita e dell’arte, anche se la grande madre Russia è sempre restata nel cuore...

Mi ritrovai a Parigi, la prima volta, dopo aver fatto parte delle prime organizzazioni studentesche legate alla figura di Lenin... Era il 1909 se non erro... ci fu anche un processo, fui giudicato in contumacia, mentre ero in Francia... vi rimasi più a lungo del pre­ visto, provocando un gran dolore a mia madre, ma il mondo parigino degli emigrati, quasi tutti raccolti per le vie del Quartiere Latino, mi attirava troppo perché potessi rinunciarvi... e poi a Parigi avrei conosciuto tutta la cultura europea, le avanguardie, i caffè letterari frequentati da personaggi che già immaginavo configurati nella mia mente... Ma in quel momento, arrivato da poco, era il gruppo bolscevico che si riuniva sulla Avenue d’Orléans, che mi interessava... Non impiegai molto tempo a raggiun­ gere il luogo dell’assemblea... riconobbi subito Lenin... ebbi per­ sino un dialogo con lui durante i lavori, mi rispose gentilmente, mi chiese da dove venivo, gli raccontai le mie vicende, la mia prima avventura rivoluzionaria, il carcere, e lui mi lasciava parlare senza interrompermi mentre io osservavo attentamente la sua testa, come scolpita nella roccia, qualcosa che non dimenticherò mai, ne ho parlato anche nel diario... La mia vita a Parigi si svol­ geva molto intensamente... ricordo tutto benissimo, le persone, i fatti, le cose... L’universo degli emigrati era straordinario, ricco di vita, di fermenti... Unamuno, Neruda, Toller... Era un continuo miscuglio di vita e di letteratura, tutto fatto di letture e di incontri... Ho viaggiato molto, ma gli anni di Parigi restano troppo scolpiti nella memoria, rappresentano il segno di una con­ tinua alternativa di pensiero, ma significarono anche il velo del dubbio, il nodo del dilemma, l’amarezza dell’urto fra politica e letteratura, fra la libera espressione dell’arte, e le dure esigenze della lotta politica... Un nodo insolubile, difficile da sciogliere... che mi ha inseguito per tutta la vita... Come dimenticare i giorni 112

parigini con Max Jacob, la sua passione intensa per l’arte, per la vita, le sue traduzioni delle mie poesie... e poi la sua morte, ucciso dai tedeschi dopo essere stato per pochissimo tempo un sopravvis­ suto di Auschwitz... Jacob, con Picasso, è ancora il simbolo più vivo delle possibilità concesse all’arte di esprimere i risvolti, le pieghe più profonde della realtà...

... torniamo un momento agli Amici degli Anni Venti, quelli di Mosca, i personaggi tragici della Rivoluzione, quell’intelligentsija insomma che si trovò esposta ai più drammatici rischi... Io credo che il discorso potrebbe limitarsi a due figure gran­ dissime, Majakovskij e Pasternak, anche se di tanti altri potremmo parlare, di Babel per esempio, o di Mandel’stam, e quindi del­ l’interpretazione del potere da parte dell’artista, un problema duro da risolvere, l’ho detto poco fa, e legato ad una tale sequenza di eventi da sommergere chiunque... Mandel’stam era del parere di provare, di rischiare con un gran colpo di timone a fen­ dere le acque dell’oceano... sono parole sue... le ricordo bene perché le ho citate spesso... a ricordare, diceva, che la terra ci è costata dieci cieli... Ma era difficile far comprendere ad un uomo come Pasternak queste cose... Nel corso di tutti questi anni, abbiamo attraversato periodi di grande amicizia e altri di distacco, di freddezza... forse per quel suo egocentrismo che non riuscivo a comprendere... È strano il fatto che ci conoscemmo proprio in un momento in cui io attraversavo una crisi e lui era pieno di allegria... forse perché stava elaborando uno dei suoi libri più suggestivi... Ho scritto che dopo l’incontro, durante il quale reci­ tammo tanti versi, me ne andai con la testa piena di suoni... è vero... fu una sensazione inspiegabile, che ancora oggi non so spiegarmi... Ma a rifletterci ora, mi rendo conto che andava nascendo in me un’idea di letteratura che mi avrebbe procurato dei guai... D’altronde, l’inconciliabilità fra l’arte e la vita, capivo che non era problema che lo riguardava, a differenza degli altri simbolisti di quel tempo. Del resto, sono questi i temi che uniscono e dividono irrimediabilmente gli artisti... E il potere, lo stato, finisce poi per fare il resto... La storia dell’amicizia e degli screzi fra Majakovskij e Pasternak è tutta piena di questi problemi... Potrei citare tanti episodi... I più importanti li ho rac­ contati nel diario... ma il momento indimenticabile, che voglio ora solo ricordare, fu una loro riconciliazione a Berlino, ardente e impietosa... io restai con loro tutto il giorno fino alla sera quando 113

Majakovskij recitò alla Casa delle arti e si rivolse continuamente all’amico... E voglio ancora ricordare il pianto dirotto di Pasternak alla morte del poeta amico... Erano due fanciulli... aveva ragione Eluard... Quello che dici ora non può che spingerci fino al rapporto fra arte e potere, non solo attraverso le figure dei poeti di cui abbiamo parlato, ma anche coinvolgendo altri personaggi...

Un mio libro, Jutio Jurenito, che scrissi nel 1921 e fu pubblicato l’anno dopo, è abbastanza interessante per questo nostro discorso... A un certo punto il protagonista parla dei problemi dell’arte, della radice anarchica che l’arte stessa possiede, dei peri­ coli legati all’eresia, al sovversivismo... Ecco il punto... L’indivi­ dualità dell’arte urta contro il potere, lo stravolge, convince alla persecuzione... In Russia c’è una infinità di casi del genere... Ricordo Zdanov, uomo di fiducia di Stalin, che pretendeva di insegnare durante i congressi degli scrittori come dovesse essere la letteratura sovietica, che cosa dovesse descrivere... e anche ai com­ positori di musica spiegava come doveva essere la loro musica, la loro espressione artistica... provocò delle crisi terribili in tanti scrittori... non dimenticherò mai Zoscenko stanco e avvilito sul viale Puskin, e Anna Andreevna come schiacciata dalle sciagure, eppure molto dignitosa nel suo ingegno offeso... Mandel’stam ed Essenin per esempio... del primo ho già parlato... a chi poteva dar fastidio con quella sua aria umile, con l’aspetto di chi ha paura di tutto e vive nell’incubo della morte?... Il caso di Essenin fu diverso... Essenin era all’apice della gloria quando s’impiccò, amava la poesia, ma era tutt’altro che un candido esteta... il suo dissenso aveva una origine diversa, non riusciva a far conciliare la poesia con la produttività, ma aveva un suo modo tutto personale e fascinoso di essere presente nella vita e nella storia... era forse l’artista che più di ogni altro spingeva a pensare al destino miste­ rioso dell’arte... una volta Lunacarskij mi disse che il comuniSmo non avrebbe mai portato all’uniformità, bisognava lottare contro questa tendenza, contro tali forme di livellamento, che portavano l’artista verso la creazione di un modello unico... i poliziotti di cui parla Gogol ne\YIspettore generale esistono veramente, bisogna difendersi da questi personaggi... Io stesso sono stato costretto a difendermi in ogni modo, e non solo dai miei nemici, ma dagli stessi compagni che non riuscivano ad avere una serena visione dei problemi dell’arte... Julio Jurenito per esempio è stato ber­ 114

sagliato senza sosta, forse perché in quel libro, e in tanti altri mici scritti, io mostravo tutta la paura del protagonista, e la mia, di fronte ad ogni possibile irreggimentazione dell’attività creativa dell’uomo... Ma in me tutto questo non contrastava affatto con la mia vocazione rivoluzionaria...

Stiamo parlando di tante figure importanti, di tanti amici che hanno riempito la tua vita, ma ora vorremmo aprire un po' il discorso su-alcuni tuoi libri, per esempio La tempesta e II Disgelo; in fondo sono quelli che ti hanno fatto conoscere dovunque nel mondo e ti hanno coinvolto in tante polemiche...

Per molto tempo, anche quando l’ultimo nazista era in fuga verso Berlino, non sono riuscito a scrivere sulla guerra: conti­ nuavo a starci dentro come se essa per me continuasse al­ l’infinito... È una sensazione che ho cercato di descrivere nel dia­ rio, anche in quella parte, un intero volume, tutta dedicata alla guerra e alle mie esperienze drammatiche nel grande conflitto... Più passavano i giorni, i mesi, e più mi sentivo ingolfato nei campi di battaglia, privo di quel minimo di distacco dell’animo che consente allo scrittore di filtrare gli eventi attraverso il setaccio spesso della storia... passarono alcuni anni, fu nel 1946 che cominciai a scrivere La tempesta dopo averci pensato per due anni, dopo aver viaggiato a lungo... il viaggio a Lenigrado fra le rovine della città martoriata fu indimenticabile, la gente vagava smarrita, ricordo che neppure una eclissi di sole riuscì a distrarre quella gente, un ragazzo di dieci anni ricordava gli spari uditi durante l’invasione... si preoccupava poco di astronomia... Ma ne La tem­ pesta non c’era soltanto la guerra: vi erano anche storie di ingiustizie, di persecuzioni patite durante gli anni che precedettero la guerra. Intervenne la censura, fece parecchi tagli, alcune parti risultarono mutilate, altre incomprensibili... nel mio diario io chiamo queste disavventure politiche ”errori di stampa”... Inter­ venne anche Stalin, meno duramente di quanto io non preve­ dessi... Allora era onnipotente, io lo chiamavo ”il padrone”, proprio come si fa con gli esseri che non possono essere mai chia­ mati per nome... Dante, per esempio, non nomina mai Dio nel suo poema... Ma ritorniamo a quegli anni, anzi a quelli succes­ sivi... Al Disgelo... fu il libro della speranza, della fiducia recupe­ rata, scritto in un periodo di grande smarrimento in Russia, mentre la gente ancora non riusciva a rendersi conto che un mito stava tramontando e non doveva essere rimpiazzato da nessun 11)

altro... Era difficile convincere gli altri, più che mai i compagni... quando apparve mi procurò amarezze infinite... al congresso degli scrittori se ne parlò come di un libro da rifiutare... un verdetto senza appello... quanto di peggiore potesse capitarmi, come del resto mi era accaduto più volte parlando dei problemi dell’arte con amici, compagni, uomini del mio tempo... prendiamo il problema del decadentismo, della grande poesia moderna... è quello su cui mi sono arrovellato più a lungo, e in fondo riguarda direttamente il rapporto fra arte e potere... abbiamo ricordato le idee di Zdanov, e le travagliate esistenze di Zoschenko, di Pasternak, di Majakovskij... ma bisognerebbe ricordare anche tutti gli scontri e le polemiche a proposito del rapporto fra arte e scienza: ricordo lo scóntro che ho avuto con studiosi di cibernetica sulle pagine di una rivista sovietica... il potere cibernetico aveva decre­ tato la morte dell’arte... ...fermiamoci ancora su quest'ultimo tema... tu hai conosciuto tanti poeti in tutto il mondo... come reagivano a questi discorsi...

... una volta Cechov disse che la medicina era la sua vera e legit­ tima sposa e la letteratura la sua amante... ma erano tempi in cui il rapporto era diverso... ricordo il mio incontro con Arghezi, il grande poeta romeno considerato un decadente, un individua­ lista... ebbene, resistette e continuò per la sua strada, e venne anche per lui il tempo del disgelo come per tanti altri superstiti, pochi, me compreso... Gli arbitri del potere sono stati infiniti, la persecuzione dei ”cosmopoliti” per esempio, fu tragica davvero, e coinvolse tante persone, molti innocenti, io stesso ne fui coinvolto e furono giorni molto duri, cancellavano il mio nome dagli arti­ coli... erano i tempi di Beria, che commise soprusi incredibili... ecco perché ho scritto del mio terrore, della mia paura quando bussavano alla porta, lo facevano con tutti i ”nemici del popolo” e nei duri anni dello stalinismo ero considerato così... scrissi per­ sino a Stalin, e misi in movimento una catena di ipocrisie senza fine... Ma è inutile parlare di tutto questo, sono cose molto note... voglio solo finire col ricordare che giunto agli ultimi anni di vita, posso dire di aver condotto tante battaglie, vinte o perse non importa, tranne quella combattuta con me stesso, con la mia coe­ renza di uomo...

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FRANCOIS MAURIAC

Roma. La più grande sala del Campidoglio. Francois Mauriac sente il peso degli anni e ne rende partecipe chi lo ascolta. Parla a fatica in un’atmosfera rarefatta e quasi assente, e affronta problemi gravi, la sopravvivenza dei popoli dell’Africa nera, i destini dell’uomo ancora così coinvolto e intricato nell’odio raz­ zista. La figura è minuta, una sorta di impercettibile potenziale di vitalità entro il quale più che mezzo secolo di lotte civili e umane si nasconde oggi come una miccia che nessuno riesce del tutto a disinnescare. Gli applausi dell’ufficialità lo sfiorano appena mentre con sorprendente abilità guadagna una porta che lo sot­ trae agli obblighi del cerimòniale. Ci vorrà un po’ di tempo prima che si possa* riallacciare il filo del discorso interrotto dal battito delle mani, in un ambiente diverso, isolato, in cui Mauriac torna ad essere il personaggio umile e modesto che incontrammo anni fa nella redazione del Figaro, epicentro ancora una volta di altri destini e di altre battaglie. Il discorso si apre sul suo Cristianesimo, era inevitabile, sul suo essere con Dio sulla terra in una condizione di partecipazione morale ed umana che lo ha visto a fianco di tanti peccatori (Ut unum sint è la sua sintesi giovannea...), dei grandi atei della storia (« Io credo alla vita eterna, ma non ho mai immaginato il para­ diso cristiano in compagnia delle genti oneste. Non mi è mai venuto in mente che in cielo io possa conoscere personalmente Pascal o Racine, o Mozart o Maurice de Guérin... »), ma anche insieme a tutti i combattenti per la libertà, ai Paulhan, ai Guéhenno, ai Cassou, e ovviamente con i Maritain e i Bernanos, nello sforzo di crocifìggersi con essi, a difesa dei perseguitati dalle barbare mitologie, spesso persino paludate di cristianesimo falso ed equivoco. La sua fede nell’uomo, se ha avuto il suo viatico ini­

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ziale nell’adolescenza e in un’educazione spirituale fortemente marcata, ha trovato poi la sua verifica nell’impatto umano contro le perversioni più dure e brutali del potere politico. La degenera­ zione della Francia lo spinse a considerare il generale De Gaulle una sorta di demiurgo capace di restituire alla sua terra una fun­ zione di grandeur che i tempi hanno provveduto a ridimensionare duramente. Ma anche questo gettarsi a capofitto a difesa e prote­ zione di un uomo-salvatore, calato prodigiosamente sulla terra a sanare le ferite dell’Indocina, dell’Algeria, del fascismo irrazio­ nale, è servito alla storia per fornire ancora più precisi contorni umani allo scrittore forse più lacerato e tormentato del Nove­ cento, ad un intellettuale che, proprio nelle giustificazioni che reca a difesa del potere politico, finisce poi per scoprire la propria nudità inerme al cospetto dei colpi spietati e severi che la storia infligge agli uomini di buona volontà.

È difficile ridurre al silenzio uno scrittore, neanche una forza soprannaturale ci riuscirebbe, neppure Dio lo ridurrebbe al silenzio.

A questo punto di una intensa vita di uomo e di scrittore, vorremmo da lei prima di tutto un bilancio, vogliamo invitarla a gettare uno sguardo lucido e sereno aU’indietro, verso i tempi cruciali del suo incontro con la vita... ...è facile e difficile nello stesso tempo rispondere, e riprendere un discorso che per tante ragioni è sempre stato al centro della mia esistenza. Sarebbe semplice dire che non posso rimproverarmi nulla, ma in questo caso la mia ferma posizione di fronte a Dio e alla fede profonda che mi ha sorretto acquisterebbe il senso di un rapporto pacifico e tranquillo, contrastante in modo duro ed ambiguo con l’attività di tanti anni, morale, religiosa, civile... Invece, dirò che nei miei rapporti col mondo, mi ha sempre soste­ nuto la necessità di testimoniare... ecco mi ha guidato l’ansia della testimonianza... Questa esigenza fondamentale mi ha condotto molte volte al centro di una lotta inflessibile, dalla quale sono uscito qualche volta sconfitto, qualche altra vincitore, ma nei due casi sempre sorretto dalla certezza di dover verificare ogni mia azione di fronte a Dio, al cospetto cioè di una fede mai rinnegata, anche quando forse ho creduto, nella mia fiducia di cristiano, di offenderlo. Io debbo tutto al mio cattolicesimo, a Gesù Cristo, l’alternarsi in me della gioia di una presenza e dell’angoscia di un’assenza: è stato questo il duplice tema della mia vita, il peccato e la grazia, oltre che l’argomento di tanti miei libri...

Parliamo allora un po’ del concetto di peccato nella sua opera... ...si deve distinguere fra il modo d’intendere tale concetto da parte di un romanziere, di un uomo di lettere insomma, e di un filosofo... più volte mi è capitato di discuterne con Maritain.

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Voglio dire che mentre il romanziere non può fare a meno di sta­ bilire una connivenza con il peccato, per il filosofo o il moralista è facile ammonire che si deve scrivere senza connivenza... per il romanziere esiste la necessità di raccontare le umane vicende con tutto quanto di orribile, di crudele, di tormentoso esse compor­ tano, e in tutto questo il peccato domina e possiede gli animi, poiché l’arte ha il compito di rendere ben visibile all’occhio di chi legge la contraddizione del mondo, affinché il momento del riscatto, l’attimo dell’amore puro risulti poi più alto, come una difficile conquista. Molte pagine del mio Journal sono dedicate a questo tema: una volta ho polemizzato con tutti quelli che accu­ sano gli scrittori di veder tutto nero, di descrivere sempre e conti­ nuamente la cattiveria degli uomini. A costoro io ho risposto ricordando che esiste uua letteratura che dipinge di rosa il mondo, che distribuisce i sogni a larghe mani, che si sforza di far dimenticare la realtà... a nessuno si può impedire di cercare nel­ l’arte e nella letteratura il motivo per evadere, per giustificare la propria assenza dal mondo. Ma coloro che fanno questa scelta debbono anche tener conto che per molti scrittori la vocazione, è proprio così che scrissi nel Journal, consiste nell’ansia di conoscenza, nella scienza dell’uomo... Certo, i lettori potranno rifiutare di seguire lo scrittore su questa strada, nella sua ricerca, ma la protesta di chi ci accusa di veder tutto nero è ipocrita, inac­ cettabile. Ecco perché il tormento, l’alternativa della mia vita di romanziere è stato sempre il duplice momento del peccato e della grazia, due tempi d’incontro che hanno sempre avuto il loro tema di unione nella speranza, quella che Péguy chiamava ”la Speranza bambina”, che non può davvero essere morta nei cuori degli uomini, anche se ci accade ogni giorno di assistere all’offesa, al vilipendio della speranza...

...una speranza che è nata in lei evidentemente negli anni del­ l’adolescenza, al tempo dei primi incontri con questa fede inesausta e ine­ sauribile... È un modo per chiedermi di ricostruire la mia autobiografia... sarebbe un discorso lungo e anche difficile, richiederebbe troppo tempo... e poi nei miei libri non ho fatto altro che cercare, frugare nella memoria senza mai conoscere la parola ”oblio”: credo che sia un sostegno indispensabile alla vita di uno scrittore questo richiamo continuo, insistente... Se volete approfondire le ragioni di questa ricerca, cercatele in un mio libro, Commencements d’une

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vie, in cui descrivo la mia infanzia a Bordeaux, le vacanze con la famiglia, i primi anni di collegio... da quel libro vengono fuori i motivi di un’educazione nutrita purtroppo da un’assenza, quella di mio padre, che morì quando io ero appena nato... rimasta vedova, mia madre con noi, cinque figli, cambiò casa, per cui non ho alcun ricordo neanche della casa dove visse nostro padre... ma di mia madre il ricordo è vivo, lucidissimo, una donna singolare che ci insegnava continuamente l’amore, la speranza, e che tutta­ via ci aveva abituati ad una fede assoluta, forse chiudendoci un po’ ad esperienze più vaste, più autonome... L’apertura verso un più libero mondo la raccolsi negli anni del collegio, quando cominciai a vivere di un cristianesimo confrontato ormai sulle let­ ture profane, sui dubbi e i tormenti della poesia... sì la poesia, un esercizio di quegli anni i cui riflessi si possono leggere nei versi di Mains jointes e di Adieux à l’Adolescente, due libri verso i quali sono stato piuttosto severo negli anni della maturità... In quei versi c’era un’enfasi, una emozione che velava continuamente la ragione, il senso più profondo della mia fede, molti anni dopo mi è sembrato come di aver disperso nell’emozione bruciante del rapporto con Dio un capitale immenso, sconfinato... Il sentimento della purezza ad esempio, così celebrato, così invocato, mi preclu­ deva l’ardore della lotta vera e autentica, quella dello spirito del mondo e dello spirito di Dio... Del resto, questo problema l’ho riversato in molti miei personaggi, nel giovane eroe di Désert de Vamour, Raymond Courréges, per il quale la crisi della pubertà assume gli aspetti tormentosi della sofferenza e della rivolta, e ancora di più si può intendere quello che voglio dire attraverso la figura di Yves in Le mystère de Frontenac, in cui descrivo la nascita del poeta nei gorghi sensibili dell’adolescenza e tra le illumina­ zioni di una fede, di un Dio sul quale il giovane orgoglioso cominciava a misurare la dimensione del proprio potere... Ecco un dramma che mi ha riguardato direttamente, la scoperta, nel corso della vita, della tensione continua fra l’amore del mondo e l’amore di Dio... Un tormento che ha provocato un senso di rivolta fin dalla mia infanzia: in collegio venivo punito perché rifiutavo di giocare con i miei compagni, e in casa il mio solo desiderio era di avere una stanza tutta per me, nella quale poter riconoscere me stesso, individuarmi... ecco perché ritrovavo me stesso solo in campagna, durante le n)ie lunghe passeggiate fra il canto delle cicale e gli abbagli del sole, e allora, in quei momenti, nasceva in me lo sbalordimento, la ribellione del confronto con me stesso, che pure avevo tanto desiderato. Il significato profondo

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della Fede è nato certo da questi scontri con me stesso, dal senso di solitudine che mi veniva dalla natura, dagli alberi, dalle cose che mi circondavano. Una volta scrissi che Cristo ha creato il dramma dell’uomo gettandoci in un’avventura che gli uomini prima dell’incarnazione avevano appena presentito: in realtà il Cristo non ha sconfitto soltanto la morte, egli ha sopraffatto anche la solitudine umana. Il suo potere finisce per diventare inestinguibile e lo scrittore realizza una lotta liberatoria che si identifica nella sua capacità di penetrare nel dramma e di ricon­ durlo alla luce in tutta la sua facoltà drammatica: la battaglia fra l’uomo che costruisce romanzi e il cristiano che vive nella luce del Cristo è dura e spietata, l’ho descritta nelle figure di Bob Lagave e di Pierre Cornac in Destini, un libro molto significativo per com­ prendere il radicalismo di certe mie posizioni, anche politiche, e il rigore assoluto della mia fede religiosa...

...ma è impossibile scindere in lei i due personaggi, l’uno rappresenta l’integrazione dell’altro... torniamo alla necessità della testimonianza, e quindi all’esigenza dell’impegno politico che si è manifestato in lei sempre, ad ogni occasione in cui la dignità dell’uomo è stata offesa... ...com’è possibile tenersi ”au-dessus de la mèlée”, osservare senza partecipare? È nella sostanza stessa del Cristianesimo l’in­ vito alla partecipazione. Osservare dall’alto la moltitudine dei tor­ turati fa parte delle ideologie che hanno rinnegato il Cristo nella sua essenza più pura e illuminante... La mia posizione in difesa della Spagna libera, dei negri, dei resistenti contro il nazismo, dei perseguitati politici in Russia ha sempre lo stesso senso e lo stesso significato, è un discorso che si protrae all’infinito, purtroppo, anche oggi diventa necessario parlare in difesa delle comunità oppresse, dei popoli dell’Africa. Nel mio libro, diciamo della clandestinità, Cahier Noir, io ho scritto che non è malgrado la fede, ma a causa della loro fede che i cristiani operano e agiscono en pieine mélée. Nel Cahier noir io uso parole dure contro il vostro Machiavelli, in nome del quale sono stati compiuti i più grandi crimini della storia, che hanno privato l’uomo di quella idea nuova le bonheur, di cui parlava Saint-Just un secolo e mezzo fa. Oggi più che mai, e son passati molti anni da quando io scrissi il Cahier, la felicità è un bene perduto per l’Europa... Allora io mi trovai impegnato insieme a tanti uomini della Resistenza che ave­ vano ideologie diverse dalla mia, ma la lotta contro Hitler, contro l’uomo del destino partorito dalla Grazia, fu uguale per tutti e ci 122

impegnò come uomini e come scrittori. Ritorniamo al concetto dell’artista, alle ragioni del suo continuo staccarsi e recuperare i destini dell’uomo, ogni volta che il richiamo dei perseguitati, degli affannati, dei torturati lo ammonisce a realizzare anch’egli il proprio destino. Una volta, a proposito delle lacerazioni alle quali lo scrittore va incontro nella sua vita, proprio in virtù di quella incertezza che lo pone in bilico fra una parte e l’altra della fron­ tiera, feci il nome di Racine come esempio di una vita condotta drammaticamente nell’alternativa fra l’impegno nei gorghi delle passioni umane e la rinuncia alle passioni... la rinuncia di Racine fu molto meno semplice di quanto non si creda... È difficile ridurre al silenzio uno scrittore, neanche una forza soprannaturale ci riuscirebbe, neppure Dio lo ridurrebbe al silenzio, l’ho scritto in Dieu et Mammon...

... questa esigenza di parlare, di pesare continuamente il prezzo della parola, è alla radice di una protesta, di una denuncia che impegna total­ mente Fuomo... e lei oggi è impegnato al fianco di De Gaulle in modo totale...

...Goethe definì la vita politica un ”intrico di errori e di vio­ lenze”, scrissi nel mio Bloc-Notes alcuni anni fa. Per chi detiene il potere la vita non è facile, si tratta di convincere e di dominare nello stesso tempo, e la battaglia per ridurre al silenzio le passioni che si agitano neH’animo è dura. Quando udii parlare De Gaulle, a molti anni di distanza dai nostri primi incontri, mi resi conto che era l’uomo indispensabile per la Francia, il solo in grado di restituirle il senso del proprio destino nell’Europa: fra la miseria e la grandezza della politica, egli ha scelto la seconda ipotesi, l’ha fatta sua ed è andato avanti senza timori, nella certezza di potersi riconoscere nella Francia, in un paese che ha visto via via dissol­ versi il senso della propria presenza lungo un abisso senza fondo che l’ha spinta di avventura in avventura sull’orlo della dissolu­ zione. Ma la mia posizione nei confronti di De Gaulle è troppo nota, perché io debba insistervi. Voglio invece concludere ricor­ dando e sottolineando la mia idea del rapporto fra l’artista e la vita politica: ne ho parlato sul Bloc-Notes prendendo spunto da una frase di Jacques de Lacretelle il quale aveva scritto sul Figaro Littéraire che l’artista, quando si lascia coinvolgere nella ragnatela della politica, finisce per agire come un ragno. Lacretelle parlava a proposito del passato ”comunista” di André Gide: e io rispon­ devo ricordando una lunga fila di scrittori che avevano vissuto 12)

una vita di continua, persistente passione politica, e citavo, ricordo ancora, il libro di Gide, Le retour d’URSS, come uno dei gesti più coraggiosi che uno scrittore abbia mai fatto: e conclu­ devo col ricordare che le più grandi opere letterarie sono state legate, quasi sempre, ai destini di uomini che hanno vissuto al­ l’unisono con il loro popolo, nel bene e nel male, accompagnan­ dolo con le sue sofferenze, i suoi dolori.

JEAN-PAUL SARTRE

Primo tempo. Parigi. Rue des Cannes. 1947. Uscita da poco dal conflitto che l’aveva sconvolta, e rigenerata nel clima purificatorio della Resistenza, la Francia di quegli anni viveva il suo dramma storico nel modo più congeniale al suo temperamento e alla sua natura, come vocazione infrenabile all’avanguardia. Per giungere al club Les Lorientais la via non era facile: anzi, proprio i tortuosi e stretti corridoi per arrivarci davano a questa sorta di tempio del jazz un aspetto quasi religioso, come di bacchico culto, in cui l’officiante era quel Claude Luter che resterà una figura inconfon­ dibile della Parigi del dopoguerra, insieme a Boris Vian e a tutti coloro che si lasciarono coinvolgere da un clima e da una musica che sapeva esprimere meglio di qualsiasi altra la disperazione del­ l’uomo sopravvissuto ad una catastrofe storica. Per quei corridoi ci si ritrovava in pochi iniziati, i soli capaci di arrivare fino alla porta del ”tempio”: i più si smarrivano nel buio di quei meandri, e si contentavano di udire il fioco lamento del clarino di Claude o il rauco trombone di Tyree Glenn. Appena dentro la cave, invece, il lontano e confuso universo dei suoni diventava lucido e bal­ zante, e lo squillio limpido delle frasi di un blues picchiava contro le pareti di pietra per rimbalzare stordito contro il fondo della cantina. Era appunto lì, in quel punto, che si ritrovavano tutti i reduci del ”Deux Magots” e del ”Café de Flore”: si stava in piedi sulle sedie e sui tavoli, e Paul Eluard, Queneau, Michel Leiris e Jean-Paul Sartre erano sempre fra i primi, anch’essi come travolti dal raz-de-marée di Sister Kate o di Muskrat Ramble. Era certo spetta­ colo inconsueto vedere i padri del surrealismo e del­ l’esistenzialismo contagiati dall’epidemia sonora di una musica allucinante in cui il gran cuore della Francia pareva ritrovare le sue vecchie pulsazioni, dopo anni di doloroso letargo: ed era forse

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il mezzo espressivo più adatto, in quel momento, per rintracciare quel comune fondo di dolore e di pena, che sembrava come ingi­ gantito fra un ” glissando” e un ”vibrato”. Secondo tempo. Roma, 1959. Come tutti gli anni da un po’ di tempo, Sartre trascorre il suo mese estivo da noi, un po’ per lavo­ rare in pace, senza telefono, e un po’ perché gli piace aggirarsi fra caffè e monumenti romani, che forse gli servono anche per sot­ trarsi momentaneamente all’inferno della Quarta Repubblica. È un momento di intensa elaborazione filosofica, sta nascendo la Critique de la raison dialectique, che uscirà l’anno dopo, e stanno nascendo alcune fra le avventure drammaturgiche più impegnate, fra cui Les Séquestrés d'Altona, una pièce in cui Sartre si immerge nella sua totalità. L’incontro che segue avvenne appunto in quel­ l’anno concitato per la vita politica e la società francese, e avrebbe perduto certo di attualità se non avesse toccato certi punti cruciali del pensiero di Sartre proiettabili nel presente, nella posizione che oggi il filosofo ha assunto nella svolta ancora più drammatica forse, che il mondo sta attraversando. La conversazione, come si vedrà, tocca alcuni aspetti del problema dell’essere, della lettera­ tura, della condizione dello scrittore al momento della creazione artistica («Lo scrittore non prevede, né fa congetture: progetta »), della condizione del negro nel suo rapporto con l’universo di repressione che ancora, più che mai, lo circuisce più che circon­ darlo, che si proiettano nel presente con una forza e una capacità di convergenza di eccezionale portata storica e morale. Sartre in quell’occasione fu molto cortese, si sottopose volentieri al dia­ logo, evitando solo certe polemiche roventi, e spesso laceranti, che lo avevano coinvolto in quegli anni (« O Sartre, pqurquoi étesvous si triste?» — gli mormorava Mauriac dalle colonne de L’Express... e ancora «Mio caro Camus, la nostra era un’amicizia difficile, ma io ne sentirò la mancanza... Visto che lei oggi la rompe, vuol dire che doveva rompersi» — aveva scritto Jean-Paul all’ex amico nel 1952), e invece accalorandosi sulla condizione presente della Francia, ad un anno di distanza dall’elezione ”coatta” del generale De Gaulle. Terzo tempo. Albergo Nazionale. 1973. Un muro di cinta impe­ netrabile veglia sulla solitudine e sulla pace di Jean-Paul Sartre. Un portiere inflessibile alla parola d’ordine sartriana continua a ripetere con monotonia allucinante che il cliente riceve solo quelli di Potere Operaio: non servono a nulla i ricordi del club Les Lorientais o degli altri incontri. L’imperativo purtroppo assume gli aspetti della categoricità. Ogni tentativo di ”aggiornamento”

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risulta inutile, e forse anche superfluo, poiché molte delle radici del Sartre di oggi, a volerle scorgere fra le righe, finiscono per essere vive e presenti nell’incontro di allora. Certo, ci ha salvati l’avveduta pignoleria con cui abbiamo conservato quei lontani appunti, qui riprodotti alla lettera, comprese le virgole: altrimenti non restava che iscriversi al P.O....

Se lo scrittore scrive per sé, non ha ragione di esistere, poiché il suo rapporto con la pagina si esaurisce nel concetto del soliloquio.

Esattamente un anno fa il generale De Gaulle conquistava il potere con un'operazione politica che molti hanno interpretato come un vero e proprio colpo di stato. In quell’occasione, anzi alla vigilia di quella discutibile vota­ zione, dalle colonne dell "Express, Jean Paul Sartre lanciava il suo duro anatema contro tale manovra, chiamando a raccolta non solo gli intellettuali di Francia, ma tutti i cittadini della Quarta Repubblica moribonda: e Hanno voluto ridurci al rifiuto puro e semplice. Raggruppiamoci e diamo un senso a questo rifiuto. Il nostro no alla monarchia deve significare Assemblea Costituente. Al generale De Gaulle e a quelli che lo circondano, noi diremo: "Siamo d’accordo con voi su un punto: la Quarta Repubblica è morta e non vogliamo risuscitarla! Ma non tocca a voi fare la repubblica. Tocca al popolo francese nella sua piena e intera sovranità’’». Ad un anno di distanza, vediamo prima di tutto se è mutata la posizione di Sartre su questo problema...

La posizione mia e degli intellettuali francesi di fronte al potere di De Gaulle, oggi, non è certo cambiata. Ognuno con­ serva e difende la propria opinione e gli eventi contribuiscono a rafforzare queste posizioni, molto difformi. La realtà più grave rimane comunque l’impotenza ad agire di un uomo su cui peserà sempre la responsabilità di aver conquistato il potere con un colpo di stato, al di fuori del consenso popolare. Un capo che si impadronisce dello stato alla maniera di De Gaulle, non potrà mai venir fuori da quei legami che volutamente si è posti. Il problema algerino può essere risolto solo con trattative democra­ tiche e con un referendum con cui il popolo possa esprimere libe­ ramente, senza coercizioni di nessun genere, il proprio sacrosanto diritto alla vita e alla libertà... 128

...sì, ma per tornare alla posizione degli intellettuali francesi, c'è da dire che non tutti sono sulle sue posizioni. Ci sono André Malraux e Fran­ cois Mauriac ad esempio che si sono schierati dalla parte di De Gaulle: Mauriac lo ha addirittura definito 'Vangelo della sinistra"...

...non mi piace parlare dei miei colleghi scrittori, soprattutto quando sono assenti... preferisco non affrontare questo argo­ mento, tanto più che su riviste e giornali in questo momento non si parla d’altro... Del resto, si può allargare il discorso evitando di parlare delle persone... Voglio solo dire, a proposito di Mauriac, che molti anni fa, scrivendo di un suo lavoro, La Fin de la Nuit, parlavo di peccato l’orgoglio come di uno sforzo di rifiuto di applicazione della teoria della relatività, in quel caso all’universo del romanzo. E aggiungevo che non esiste un posto per l’osserva­ tore privilegiato, né si può scegliere soltanto la conoscenza asso­ luta e l’assoluta potenza di Dio... ... bene, allarghiamo il discorso, per esempio al concetto di intellettuale così come viene inteso nel suo rapporto con la Storia e con la lotta di classe... È un tema sul quale si è soffermato spesso...

...l’antitesi padrone-operaio si è radicalizzata evidentemente attraverso forme e manifestazioni dell’essere che non possono essere trascurate. Per il padrone insomma, l’operaio rappresenta l’Altro assoluto nel quale si deve insinuare l’inquietudine: e la consapevolezza della propria emarginazione diventa un problema fondamentale per l’Altro, appunto, costretto a lottare aspramente contro il ”manicheismo borghese”, un concetto che va rifiutato nel suo travestimento umanistico. Ma tale rifiuto non può muo­ versi nell’astrazione, che significherebbe per l’Altro, l’operaio, supina accettazione del proprio disumanizzarsi. E allora, il rifiuto stesso deve assumere le caratteristiche di un vero e proprio uma­ nesimo, alla cui base agiscono quegli stessi elementi privilegiati che il borghese ha fatto propri, di cui si è impossessato, come l’in­ telligenza, la cultura, la propria capacità di scienza e di conoscenza. È a questo punto che l’operaio deve sottrarre al bor­ ghese la facoltà di individuarsi-nella ricerca cosciente della verità dell’uomo, della verità in senso assoluto insomma. Liberatosi dal­ l’ipotesi positivista, all’operaio si prospetta la duplice scelta della cristallizzazione nella solitudine dell’ignoranza e della cattiva volontà o della reinvenzione della Ragione, ipotesi quest’ultima che gli consente il rifiuto di ogni razionalità analitica. Sono queste 122

le strutture attraverso le quali la classe oppressa deve muoversi nella sua azione sugli intellettuali della piccola borghesia, vera propaggine della classe capitalista: attraverso cioè l’assunzione di una nuova produzione dell’universale come esigenza in grado di realizzare un lavoro di corrosione nei confronti dell’incompleto umanesimo prodotto dalla borghesia come classe. L’imprecisa definizione di Marx e dei marxisti dell’affascinamento della pic­ cola borghesia intellettuale da parte del proletariato è stata spesso la causa di tanti scompensi passati e presenti. Lo stesso concetto di burocrazia e di centralismo del mondo socialista, soggetto a tante contraddizioni ed esposto a tanti equivoci, si inserisce in questo discorso soprattutto per quanto riguarda i! rifiuto, nell’URSS, il misconoscimento di ogni Ragione dialettica: voglio dire che ad una realizzazione immatura della dittatura del proletariato, che ha portato verso tanti errori e tanti crimini, ha fatto seguito un supe­ ramento negativo che ha spinto verso il progressivo deperimento dello stato a vantaggio di un Compromesso bastardo”, è una mia definizione, fra il gruppo attivo sovrano e la serialità passiva. Potranno nascere negli anni a venire nuove società socialiste, ma dovranno tenere conto di tale lezione negativa: dell’impossibilità cioè da parte del proletariato di esercitare una dittatura, per l’im­ possibilità stessa che il gruppo possa costituirsi in iperorganismo, sotto qualunque cielo.

L'umanesimo insito in tale concezione dell'oggetto finisce per coinvolgere la concezione della storia... ...l’impossibilità di ”rifugiarsi nella storia” è un concetto che ho elaborato negli anni passati, in rapporto alla nozione di ”totalità”, un concetto quest’ultimo in prospettiva, beninteso, cioè vir­ tuale, non ancora realizzato in noi, il che significherebbe ricerca comune di totalizzazione. Rifiuto della storia quindi, in questo senso, come frontiera ultima dèlia borghesia da contrapporre a Marx: è accaduto spesso di veder contrapporre tale prassi a quella marxista, e i tempi e la logica hanno dimostrato la falsità di tale immagine della storia: non si può eliminare il marxismo sbandie­ rando l’impossibilità di ”andare oltre”... ...e la letteratura? Che funzione si deve attribuire alla letteratura in tale contesto... vogliamo anche riferirci a tutto quanto si afferma nel saggio Che cos’è la letteratura? che apparve nel 1947... 150

...torniamo al concetto di totalità, ma in un altro senso, nel significato soggettivo... quando si scrive si pensa che la letteratura sia ”tutto”, è inevitabile. Il problema consiste nel vedere fino a qual punto la letteratura possa colmare la distanza che la separa dalla vita: voglio dire che per cambiare la vita dell’uomo è neces­ saria una rielaborazione, una ristrutturazione della società che fatalmente spinge la letteratura in secondo piano. E allora è com­ pito dello scrittore cercare di ridurre la distanza che lo allontana dalla vita. Nel mio teorizzare intorno all’impegno in letteratura, il mio intento era proprio quello di affidare più seri e importanti compiti allo scrittore e non certo per isolarlo ancor più di quanto le storie letterarie non abbiano fatto. In quel saggio del ’47 mi chiedevo perché e per chi si scrive: la domanda permane nei tempi difficili che stiamo attraversando, che la Francia sta attra­ versando... non potrebbe essere diversamente... L’assunzione di responsabilità civili ed umane da parte dello scrittore, nei con­ fronti della vita intellettuale nei paesi socialisti come di fronte alla guerra d’Algeria, o all’elezione di De Gaulle, resta un problema fondamentale. Allora io scrivevo che uno dei compiti principali di chi scrive, di chi sta creando un prodotto artistico, è quello di ritenersi essenziale nei riguardi del mondo, di inserirsi nel vivo dei drammi dell’uomo: se non si tiene conto di questa ragione dialet­ tica, la letteratura perde ogni suo significato. L’oggetto letterario, dicevo, è una singolare trottola che esiste in funzione del movi­ mento che compie, cioè in quanto capace di stabilire un rapporto di lettura: al di là di tutto questo, rimangono dei segni neri su un foglio di carta. Ecco perché ho sempre lottato contro la conce­ zione e l’interpretazione della letteratura come qualcosa di amorfo e di isolato ; se lo scrittore scrive per sé non ha ragione di esistere, poiché il suo rapporto con la pagina si esaurisce nel concetto del soliloquio: l’atto creatore supera il concetto di incompletezza nel momento stesso in cui riesce a creare un rapporto, una facoltà di incontro con una entità esterna. Il problema quindi non è quello del rapporto fra arte realista e arte formale, com’è stato posto allo scrittore sovietico: ma quello di possedere in sé gli strumenti, le armi per svelare il mondo e quindi proporlo alla coscienza del let­ tore per farlo riconoscere come essenziale alla totalità del­ l’essere... insisto sul concetto di totalità poiché lo ritengo essen­ ziale, come fondamento della propria autonomia. E autonomia non significa solitudine: anche su questo punto ho discusso abbastanza in quel saggio: a mio giudizio, la solitudine delKartista non solo dissimula e mistifica il rapporto reale con il 151

grande pubblico che legge, ma offende anche il più ristretto pub­ blico degli specialisti. Dire che si scrive per se stessi significa far dello scrivere un’operazione di astrazione metafisica, una specie di preghiera fine a se stessa, del tutto estranea al tipo di comunica­ zione che è fondamentale per lo scrittore. A questo proposito, citavo il caso di Flaubert, il quale riconosce alla borghesia il diritto di governare, non la riconosce cioè come classe oppressiva, ma come logica classe fruibile del suo prodotto letterario. E ricor­ davo ancora che quando Flaubert dice che egli definisce borghese tutto ciò che pensa bassamente, non fa che fornire l’interpreta­ zione psicologica e idealistica di una classe da un versante ideolo­ gico che contraddittoriamente è quello stesso che egli pretende di rifiutare. Ecco cosa intendo per solitudine dello scrittore ... ma attenzione a non confondere quanto dico con una difesa della let­ teratura dogmatica, poiché in quel caso subentra il concetto del­ l’alienazione... la letteratura si aliena quando non realizza la propria autonomia e invece si sottopone ai rigori del potere tem­ porale o di una ideologia, vale a dire quando da una naturale funzione di ”fine” slitta verso una interpretazione di ”mezzo”...

... questa concezione della letteratura coinvolge evidentemente anche la nozione di immaginazione... ...certamente... anche su questo ho teorizzato al di là della più limitata condizione della letteratura... ma il discorso è pertinente. Una coscienza che ”immagina” si muove in sincronia con il mondo, ”sta” nel mondo, e in quanto tale si lascia cogliere in un momento concreto della realtà e in una fase individuale della propria coscienza. Ecco perché immaginazione non è astrazione, ma un modo, una componente funzionale e funzionante del­ l’essere... Il potere empirico e sovrapposto della coscienza non c’entra, non ha nulla a che vedere con l’immaginazione, che obbe­ disce invece, ancora una volta, al concetto di totalità, poiché in quest’ultimo realizza e riconosce la propria libertà... si presenta come un autentico superamento della sfera del reale come fatto di coscienza, quest’ultima intuitiva ovviamente di qualcosa: non si può intuire il nulla, perché «il nulla è nulla» e basta... Pensate su quale base di concretezza il poeta negro costruisce la propria fan­ tasia immaginativa: ne ho parlato ampiamente nell’introduzione all’antologia della Nuova poesia negra e malgache che usci verso la fine degli Anni Quaranta a proposito di una poesia di Aimé Césaire, ma il discorso può comprendere tanti altri poeti. Quando 152

Césaire obbedisce alla propria immaginazione cerca di dare un senso alla "negrità” della sua pelle, inventando la dualità poetica fra il giorno e la notte: la notte allora diventa assenza, rifiuto, il nero cessa di assumere le caratteristiche di un colore e diventa la dissoluzione del chiarore posticcio che discende dal cielo bianco. La sua Verità il negro potrà costruirsela soltanto sulla distruzione dell’Altro, vincendo cioè l’aspetto privativo delle tenebre: solo a questa condizione la libertà potrà assumere il colore della notte...

EUGENIO MONTALE

Milano. Via Bigli. Nell’assopimento del giorno festivo la città inquieta sembra quasi placarsi sotto una coltre di assenza: l’occu­ pazione la fanno le carrozzelle domenicali e i padri di famiglia a riposo. Da pochi giorni la via dove abita Montale è isola pedo­ nale, i silenzi picchiano contro le dure pareti della vecchia Milano d’altri tempi, come asserragliata, ormai che l’ultimo tubo di scap­ pamento ha esaurito il suo fiato, e i sussulti della rivoluzione arri­ vano attutiti, lontani. Ci apre la strada verso il salotto del poeta la fedele domestica che veglia in una casa tutta addensata nel grumo dei ricordi. Mentre parla, Montale ha negli occhi una luce demo­ niaca, è molto divertito di quanto va dicendo, ogni malignità scagliata nel microfono si riflette in un compiacimento che finisce per tradursi in una infinita malinconia (« Vissi al cinque per cento, non aumentate — la dose. Troppo spesso invece piove — sul bagnato. »). Il discorso, il dialogo è fitto e filtrato sul tono del variabile, con qualche andante mosso che desta alcune perplessità: d’al­ tronde il poeta ha una forte vocazione per il canto, l’ha sempre avuta, lo sanno bene gli inquilini di via Bigli, e quando quest’ul­ timo si traduce in versi, finisce per conservare intatta una carica sonora che par quasi astrarre e isolare. Ad ascoltarlo si rischia davvero di finire in uno stato di narcosi cosciente, di fuga dal tempo umano e terreno, per svariare entro un’area metafisica che esclude ogni possibile inganno della realtà (« Se qualcosa ci resta, appena un si — diciamolo, anche se con occhi chiusi.»): fra noi che provochiamo e il poeta che subisce con una passività che sconcerta poiché nasconde un sotteso filo di ribellione, c’è l’ombra, scespiriana?, di Malvolio, l’incubo della realtà cacciato dalla porta e insinuatosi fra gli interstizi della finestra. Il perso­ 154

naggio Malvolio è incivile con la pesantezza dei suoi richiami al reale, ma invitante non appena i rumori del mondo si affacciano e picchiano contro i muri tappezzati di libri e di quadri: e il poeta si difende, reagisce, aggredisce, protegge la propria invisibili tà” dagli sguardi indiscreti e amletici dell’emblema del vero (« Non si trattò mai d’una fuga — ma solo di un rispettabile — prendere le distanze»), chiede giustificazioni che la vita non può dare... Non è molto distante da via Bigli quella via Fatebenefratelli dove ha sede la Questura milanese, dinanzi all’ingresso c’è sempre una corona di fiori e nei giorni di festa i milanesi vanno in pellegrinaggio dalla periferia a deporre un fiore, a chiedere ragione di vittime innocenti. Forse il tonfo della tomba ha raggiunto, attutito, l’uni­ verso montaliano, destandolo da un sonno disperato e crudele.

Il fascismo mi ha covato destando il sentimento di avversione naturalmente perché il covato qualche volta odia o si illude di odiare il suo tutore.

Cfé un filo segreto che congiunge alcuni temi del Diario ’71 e ’72 a quel Satura che ha significato una svolta, quasi un sobbalzo di coscienza fran­ tumato nello stremato rigore del linguaggio...

In Satura ci sono già delle poesie che fanno parte di questo Diario diciamo, e altre no perché in Satura ci sono poesie di varie stagioni, di vari tempi naturalmente... ma le ultime fanno già pre­ sagire quello che sarà poi questo Diario... Il Diario è nato in un periodo di malattia... io ero un po’ assediato a casa, scrivevo questi appunti in uno stato d’animo evidentemente un po’ diverso dal solito, tanto che non mi preoccupavo di sapere se era o non era poesia e mi accadeva a volte anche di scrivere due pezzetti, due poesie in un giorno, anche tre mi pare... me l’ha un po’ cortese­ mente rimproverato, mi pare Falqui, in una recensione... Scrivevo queste cose senza preoccuparmi di sapere poi che cosa in realtà venisse fuori. È un’operazione un po’ come quella che faceva Fre­ goli... ma alla fine dello spettacolo lo spettatore, senza trasferirsi affatto, anzi restando fermo in poltrona, vedeva il rovesciamento completo dello spettacolo e quindi si vedeva come faceva Fregoli a cambiare faccia, vestito, così da simulare trenta o quaranta perso­ naggi, di solito in piedi, nello spettacolo per tre ore insomma. Si vedono mezzi quasi meccanici... un po’ lo spettacolo della poesia visto dal laboratorio attraverso il laboratorio... ma queste non erano nemmeno delle intenzioni, sono intenzioni che io mi do ora, così, in realtà non avevo nessuna intenzione, dico la verità... non avevo nessuna intenzione... sempre assediato in camera, uscivo pochissimo e malissimo, prendevo questi appunti e li scri­ vevo...

IH

Ma all’interno del Diario dei due anni sono avvertibili divergenze, mutazioni, novità che denunciano l’evolversi di uno stato d’animo, di una condizione... ...no, no, no... forse nella seconda parte ci sarà una maggior presa di coscienza di questo esperimento, diciamo, ma in realtà la via presa era quella e se continuasse, ma non credo che avverrà, non cambierebbe molto. Il linguaggio può sembrare prosastico perché... io ho scritto su questo un appunto uscito sul Corriere... mi rifacevo al vecchio quesito se lo stile sia l’uomo o sia la cosa. In questo caso non c’è dubbio che mentre nei primi libri c’è l’uomo e in subordine anche la cosa, ora in quest’ultimo la cosa di prepotenza ha accampato i suoi diritti... le cose che ho detto certamente possono piacere o no, ma non credo che si potevano dire in altro modo, ecco... non ho trovato il linguaggio adatto... Attraverso queste novità si potrebbe individuare la ricerca e l’identifica­ zione di un bersaglio... per esempio nella figura di Malvolio... Malvolio rappresenta... non lo so, un personaggio... qualcuno ci si è riconosciuto, ma io non credo di aver pensato proprio a lui esattamente... È il mio opposto, l’intellettuale molto diverso da me, quanto diverso... non dico che sia detestabile, forse sono detestabile io, ma insomma lo vedo dall’altra parte della sponda. Poi l’ho anche camuffato in Benvolio nella seconda parte del libretto ed era più benevolente la cosa. È un interlocutore, un interlocutore che ha molti difetti, che possono forse essere anche i miei, ma siccome io li vedo nell’altro e non li vedo in me, natural­ mente il bersaglio diventa questo Malvolio o Benvolio che sia... Ieri è venuto a trovarmi un irlandese, un irlandese che però è nato a Genova stranamente e parla con forte accento genovese... si chiama O’ Neil, Edward O’Neil ed è sostanzialmente un musicista e un musicologo soprattutto, e lui ha molti appunti su questo Dia­ rio proprio di natura musicale... lui trova che queste poesie sono molto più musicali delle prime, mentre esteriormente parrebbe il contrario. Ha trovato puntualmente, verticalmente nei singoli versi, sia anche orizzontalmente nel loro succedersi, ha trovato degli echi, delle armonie che secondo lui hanno un valore musi­ cale molto interessante... E anche questo non è del tutto sponta­ neo... sapevo bene che un po’ di musica c’entrava per forza, ma questo fatto rilevato da uno che non conosco quasi e che ha lavo­ rato per conto suo su questi versi mi ha fatto molto piacere, tanto 737

più che si tratta di un musicista molto aggiornato e molto prepa­ rato.

...torniamo a Malvolio come emblema anche del potere, deiraìter ego... vorremmo rivangare nel passato, nel rapporto fra Montale, intellet­ tuale e poeta e il potere sotto qualsiasi forma di manifestazione, domestica, politica... ...il potere domestico cosa sarebbe, la famiglia?...

...certo, la famiglia... ...no, quella non è stata tirannica, anzi potrei fare un appunto che lo è stata poco, troppo poco, perché si sono completamente disinteressati di me, però era anche giustificato... la mia famiglia era una famiglia non ricca ma benestante e si ammetteva implici­ tamente che l’ultimo, quello che si chiama anche volgarmente cacanido, dovesse essere dispensato dal lavoro, soprattutto poi dal lavoro commerciale diciamo, industriale, e se questo aveva la debolezza di scrivere poesie, pazienza, tanto nessuno se ne sarebbe accorto, nessuno se ne sarebbe mai occupato. Mio padre si rifiutò anche di comperare il mio libro della prima vecchia edizione, lo ignorò ancora nella edizione Gobetti, ne ebbe notizia in seguito e andò dal libraio Treves — c’era allora una libreria Treves — e quando vide che costava quindici lire — ma erano 400 copie sol­ tanto, numerate — allora depose il libro e rinunciò all’idea di comprarlo e anche di leggerlo... Quindi il potere della famiglia non ci fu, anche troppo poco dico la verità, perché avrei anche potuto trovarmi nei pasticci con questa scarsa tutela, diciamo così, abbandonato alla mia libertà... avrei scoperto che l’uomo ha pochissimo desiderio di essere libero e invece si parla sempre di libertà... L’uomo non ha nessuna voglia di essere libero. Qualche volta può anche prendere una via individuale per poi pentirsene magari, ma in realtà l’uomo desidera essere protetto, covato in qualche modo, o dalla società o dal capufficio, o dal direttore generale, o dal ministero, o dal duce, da qualcuno. Insomma l’uomo sta molto bene quando è guidato perché ha uno scaricò di coscienza, non ha più colpa di nulla, non è responsabile di niente, insomma l’uomo desidera molto essere covato... Il fascismo mi ha covato, destando il sentimento di avversione naturalmente, perché il covato fra l’altro qualche volta odia o si illude di odiare il suo tutore... ma mi ha anche perseguitato modestamente facendomi 158

perdere l’impiego... mi ha anche proposto per il confino, ma poi non ci sono neanche stato al confino, fra l’altro... ...però ne sentiva il peso...

...quando il fascismo cadde ne fui molto soddisfatto, però era diverso... cadere per una guerra perduta era inevitabile... quindi non è che gli italiani si siano ribellati al Duce, francamente non ho questa impressione. Alcuni, pochi, si sono ribellati rischiando anche la pelle — uno o due diciamo... ma gli italiani hanno accet­ tato brontolando, dissentendo magari, imprecando, ma poi con una certa tranquillità, e passività, hanno deciso che essere guidati da un uomo che fa funzionare le ferrovie, che abolisce lo sciopero, naturalmente non era poi tanto male questa tirannia secondo l’o­ pinione comune che ho sentito intorno a me. Attualmente tutti si parla molto di questo misterioso slitta­ mento di testate di giornali, un grande scandalo... questo può anche darsi, non lo so, però c’è da osservare una cosa, che il gior­ nalista che cessa di appartenere a una famiglia privata e che viene invece tutelato più o meno da grandi enti, più o meno parastatali, ha dei grossi vantaggi. Per la prima volta non teme di essere licen­ ziato, non sarà mai più licenziato, nessuno gli dirà di lavorare molto... saranno certo aumentati gli stipendi sulla media, diciamo, sulla base degli alti stipendi dei superburocrati, per non restare indietro avranno stipendi forti, pensioni notevoli, prote­ zioni di ogni genere. Quindi il giornalista individualmente credo che da questo slittamento di testate può trarre degli auspici molto favorevoli. Quanto alla libertà del pensiero, non so, il pensiero privato certamente continuerà ad esistere, in parte potrà esistere anche il pensiero espresso, velatamente, cosi in forme non troppo crude e quindi lo slittamento delle testate è un attentato a una libertà che nessuno vuole sostanzialmente; e poi, non ci sarà nessun atten­ tato, credo... non so se questa costatazione è molto triste q molto gaia, non lo so... forse il lato negativo è che ci saranno molti geni e pur essendo migliorate le condizioni economiche, ci sarà l’esca per lamentarsi, per fare le vittime, per chiedere sempre un tratta­ mento non solo economico ma anche morale migliore.

Ora siamo un po’ usciti dal seminato... e vorremmo rientrare nel­ l’universo della poesia montaliana... c’è chi vede ad esempio un più stretto IH

rapporto fra le ultime poesie e i versi primi, addirittura preistorici di Accordi e in parte di Ossi di seppia...

...rapporto con le prime, quelle che io ho chiamato Accordi e pastelli no, direi di no, che non ci sono rapporti....direi di no... tanto che non avrei nessuna voglia di ristamparle... Ne Gli ossi di seppia c’era ancora qualche stralcio, qualche nota di romanticismo che poi è andata perduta... dunque non metterei un rapporto vero, non mi pare... erano poesie molto giovanili quelle, ora le poesie del Diario hanno tutto fuorché il carattere di poesie giova­ nili, semmai avranno il carattere sclerotizzato di poesie senili, questo non lo so, non posso dire...

...maforse esisteva un Malvallo anche ai tempi di Ossi di seppia e de Le occasioni... Nel 1925 certo saranno esistiti dei Malvolio, ma non davano molti segni di vita... non credo...

...e quindi il rapporto con la realtà esterna era diverso... Che cosa intendete per realtà esterna...

...il mondo, il paesaggio, gli uomini...

Il paesaggio l’ho quasi abbandonato, così come pittura, come suite di notazioni paesistiche perché in fondo ci vivevo dentro, era quasi lo sfondo di tutto... ora invece l’ho quasi del tutto lasciato... appunto dicevo... è un diario di chi è asserragliato, assediato nella propria stanza, il paesaggio non c’è più, si può sentire cantare un grillo notturno, la voce di un avvinazzato, ma l’esterno, il mondo esterno è ridotto molto, molto... Ci sono ad esempio due poesie romane, una strada piena di spazzatura e basta... tutto è ridotto al minimo... Nel Trionfo della spazzatura c’è una ragazza che abita in uno splendido appartamento, ma per arrivarci bisogna percorrere un vicolo sempre pieno di spazzature giorno e notte... non una spazzatura degli scioperanti, ma proprio stanziale, permanente, istituzionale... Qui l’ho chiamata Chantal, altrove la troverete con un altro nome... questo è il primo approccio. Nel secondo questa ragazza che non si chiama più Chantal, diventa una specialista di gioielli, lavora da Bulgari... c’è ancora... credo... c’è ancora... è una ragazza che... ma questo non si può dire al microfono... stavo per dire il nome di persone che non vogliono essere citate... 140

MIGUEL ANGEL ASTURIAS

Puerto Pollensa. Una piccola baia, un borgo marinaro che alla luce in dissolvenza del crepuscolo, assume i toni astratti di un acque­ rello sbiadito, fuori del tempo. In rada, poche barche e accanto alcuni pescatori intenti alle reti, mentre altri se ne intravedono in mare, già salpati per la pesca notturna e diretti verso gli isolotti che fanno da corona a Mallorca, ora quasi inghiottiti dalla foschia, uno dei quali — lo raccontava poco fa Camilo José Cela — ha per unici abitanti due capre, maschio e femmina: forse i proto­ tipi destinati a ripopolare della propria specie, pressoché estinta, il mondo. Si cammina lungo il porticciolo, con Miguel Angel e Bianca, sua moglie, poi ci sediamo su un muricciolo di fronte al mare senza colore. Un incontro pacato con due cari amici che solo pochi anni fa, quando vi abitavano quasi in incognito, eravamo abituati a vedere quotidianamente a Roma e con i quali vien fatto subito di ricordare volti ed episodi di una vita a lungo comune, le felici serate trascorse insieme nelle trattorie di Trastevere o nelle nostre case dove si improvvisavano rapide cene, dizioni di versi, dispute politico-letterarie, baldorie spensierate con il contrap­ punto di tanghi, corridoi, soleares, stornelli. Erano tempi diffìcili, quelli, che solo una grande forza interiore restituiva a una chiarità di fede e a un impegno di lotta. Proprio in una di quelle serate — quasi in coro diamo voce alla memoria — stavamo con l’orecchio attaccato a una radiolina che comunicava i nomi dei vincitori dei Premi Nobel di quell’anno; anche Rafael Alberti e Maria Teresa erano con noi. Quando sen­ timmo pronunciare il nome di Miguel Angel restammo muti qualche secondo, tutti e sei, poi ci abbracciammo e fu un gro­ viglio di mani, di bocche ridenti, di occhi lucidi... Guardiamo ora il profilo assorto e bronzeo, da divinità Maya, di Miguel Angel e 141

quello capriccioso, settecentesco di Bianca, la cui linea europea ha accolto la grazia luminosa delle trine rioplatensi: la gloria del mondo non ha alterato in nulla il franco, aperto incanto di una coppia per la quale il culto dell’amicizia rimane al primo posto nella scala degli autentici valori umani. Anche se oggi ci si incontra di rado, è sempre facile riprendere il discorso interrotto, al punto in cui lo avevamo lasciato l’ultima volta. E riallacciare il filo di un’intesa che le cose del mondo, mettendo di continuo in luce ora in un punto ora in un altro della nostra tormentata terra il volto ottuso del carnefice e quello piagato della vittima, ren­ dono più tenace e diritto. Lontano ormai da tanti anni dal suo Guatemala, Miguel Angel ha sempre inciso nella sua carne india il segno scottante del mais (« Noi siamo fatti di mais, e se vendiamo quello di cui siamo fatti, facciamo mercato della nostra stessa carne... L’apparenza è quella che cambia, ma se parliamo della sostanza, altrettanto carne è un figlio come un campo di mais... »). La simbologia non ha bisogno di chiarimenti, così come i fantasmi della sua cosmogonia nutrita alle radici dalla linfa di generazioni avvilite nella loro cultura, nella loro laboriosa quotidianità, sorgono ancora dalla terra ad alimentare uno spirito di rivolta, a ricordare agli uomini di oggi le servitù del passato per incitarli a liberarsi di quella presente («... un mozzicone di albero abbattuto da una tempesta, imputri­ dito dal tempo, divorato dalle formiche, e del quale restava sol­ tanto, come un’orma di fantasma, il profilo lasciato nel sotto­ bosco, dove era crollato schiantando gli arbusti»).

Quando arrivava gente a far visita, chiudevano ancora di più le porte e spesso si portavano questi conoscenti in sala da pranzo, altre volte si cercavano gli ultimi patios.

C’è un tuo libro, Miguel Angel, in cui tu ricordi gli anni duri della ditta­ tura del Senor Presidente, che coincidono con la tua data di nascita, circa. È forse il caso di cominciare il nostro colloquio proprio di lì, da quella stagione che hai vissuto nell’adolescenza... Si, la mia adolescenza in rapporto al potere politico si caratte­ rizza molto presto, direi sin dall’infanzia... A quel tempo esisteva in Guatemala una dittatura che si era instaurata nel 1898, e io nasco nel 1899, l’anno appresso. Sono rimasto come marcato da questa dittatura, poiché durante la mia adolescenza ho visto di tutto, soprattutto fatti di questo tipo, per esempio: tutte le porte di casa mia, che era una casa grande, erano sempre costantemente chiuse, le finestre altrettanto... sempre. E ciò vuol dire che anche ad avere una casa grandissima, con molte porte e molte finestre e molti patios, si conduceva una vita da reclusi, conventuali, come in clausura. Tutto questo per il terrore che ispirava la dittatura di don Manuel Estrada Cabrerà, che è poi la dittatura narrata nel mio libro El senor Presidente... In queste case tutte serrate, di clau­ sura, i familiari si muovevano in gran segreto, silenziosi e guar­ dinghi. Io ricordo sempre che i miei genitori, quando arrivava gente a far visita chiudevano ancora di più le porte e spesso si portavano questi conoscenti in sala da pranzo, altre volte si cerca­ vano gli ultimi patios, perché ce n’erano molti, come dicevo, sem­ brava di stare a Siviglia... in modo da rimanere il più lontano pos­ sibile da dove si poteva essere ascoltati. La mia prima impressione pertanto fu che tra la gente che veniva a far visita ai miei genitori e i miei genitori esisteva un rapporto che mi sfuggiva, ma era un rapporto di conversazione segreta in cui si evitava di usare alcune parole... che so... invece di dire il Presidente, si diceva l’uomo... 143

l’uomo ha detto, l’uomo ha fatto, l’uomo è venuto, l’uomo pensa di fare questo o quest’altro. Oltre a ciò, in circostanze particolari, in momenti di persecuzione per esempio, la conversazione, anche fra i miei genitori, cessava, gli amici non venivano più, e magari si ricorreva a incontri apparentemente casuali, come all’uscita dalla messa... però c’era un’inquietudine che io avvertivo, che percepivo e assorbivo, un’aria d’intrigo che produsse in me quello stato di paura che si riscontra poi in El serìor Presidente. Io credo che El serìor Presidente è un romanzo in cui esiste qualcosa che non può essere creato letterariamente, qualcosa che deve essere prodotto dalla psicologia della persona, dalla sua infanzia, dalla sua ado­ lescenza marcata a fuoco. E infatti in El serìor Presidente la gente avverte il timore, il panico che sono riuscito a trasfondere, come ho detto non letterariamente, non coscientemente, ma inconscia­ mente traducendo quello che avevo sentito da bambino, o quando ero adolescente. Questa prima parte del mio rapporto con il potere pubblico, insomma, è il rapporto con un potere onnipotente, con un potere in grado di togliere la vita a qualsiasi cittadino, con un potere che veniva esercitato in maniera dittatoriale. Passata l’adolescenza, posso dire che il mio contatto con il potere pubblico fu eia princi­ pio quello che chiamerei un urto più profondo, in questa forma: io ricordo che cominciavo i miei studi universitari quando in una delle chiese di Città del Guatemala, la chiesa di San Francisco, un prete si mise a fare una predica in cui velatamente attaccava la dit­ tatura del signor Presidente. In questa predica, quando poi ne leggemmo il testo, trovammo che magari non si trattava di un attacco molto forte, molto chiaro, però in quel momento di ten­ sione, in tali circostanze, quando quest’uomo era già da quasi 18 anni al governo, qualsiasi parola pronunciata in modo audace, che aveva come bersaglio questo supremo personaggio, acquistava ai nostri occhi il timbro di un’impresa coraggiosa. Quel sacerdote dal pulpito censurava quello che accadeva, diceva che in Guate­ mala c’erano molti uomini che avevano molte donne e i vari figli naturalmente non crescevano cristianamente, così come allo stesso tempo non avevano genitori legalmente riconosciuti... Tutto questo veniva attribuito immediatamente a Estrada Cabrerà, il signor Presidente, che aveva un’infinità di donne e di figli. Oltre a ciò quel sacerdote parlava della mancanza di libertà esistente in alcuni paesi, della mancanza di carità cristiana e di tanti altri aspetti che toccavano direttamente la situazione politica. A quel­ l’epoca arrivò in Guatemala una compagnia di attori spagnoli e fra 144

le rappresentazioni che annunciarono, mi ricordo, in un teatro che era chiamato Teatro Variedades, c’era la famosa opera Los mohicanos de Paris. La sera del debutto di questa pièce, mia madre mi disse: «Vacci in poltrona», che è un posto importante, mi dette i soldi per acquistare una poltrona, ma io raggiunsi gli stu­ denti, i miei compagni, e ce ne andammo tutti in quello che si chiama ”il paradiso”, ”la piccionaia” insomma, e lì stavamo tutti insieme... e il teatro era gremito fino all’inverosimile e lo spetta­ colo cominciò con tutto l’apparato scenico dei Mohicani però al­ l’improvviso viene in scena un mohicano vestito con il suo costume, che in certo modo somigliava, e a noi sembrò che somigliasse al prete della predica. E allora un tipo che era in mezzo a noi, un certo Pedro Garcia, che lavorava in una tipografia cattolica, si alzò in piedi e gridò, rivolto al personaggio in scena (il prete della predica si chiamava Pinol), gli gridò: «Padre Pinol perdonaci, perché noi non abbiamo fatto niente per cacciare il tiranno ». Appena pronunciata questa frase il teatro si vuotò in un lampo, tutti se ne andarono di corsa come a voler dire: «Non abbiamo sentito nulla, non sappiamo, non fategli caso... ». Mentre il teatro si vuotava, noi studenti vedemmo entrare la polizia, affer­ rare quel poveretto, portarselo via a manganellate. Noi restammo ancora un po’, poi ce ne andammo anche noi, ma a duecento metri vedemmo che c’erano dei poliziotti su una strada... la strada era quasi ostruita, ma noi continuammo a camminare, ci presero e ci portarono a quella che si chiamava la caserma N. 2, dove c’e­ rano dei sotterranei, delle segrete, una prigione che fu distrutta nel 1920, ma che era veramente terrificante, buia, davvero tragica. Qui noi studenti rimanemmo prigionieri per diciassette giorni più o meno : e fu lì che io sentii quella conversazione che si trova nel capitolo intitolato Discorsi nell'ombra del senor Presidente, in cui la tesi della rivoluzione prevale su quella della preghiera e della ras­ segnazione. C’era già nel mondo studentesco dei miei tempi questa sensazione che si dovesse fare la rivoluzione contro il signor Presidente... Ma torniamo ai giorni di prigione, furono diciassette giorni vissuti in un luogo lugubre, sporco, schifoso, tragico, dove c’erano delinquenti comuni, politici, c’era di tutto... questo fu il contatto diretto con il potere pubblico, si può dire con la repressione, vale a dire con una forza alla quale non ci si poteva rivolgere e accadde che molti miei compagni, familiari e amici, venissero tutti insieme a casa mia per fare petizioni, telegrammi al signor Presidente perché ci lasciasse liberi. Alcuni, e mio padre fra questi, risposero di no, che bisognava conservare la 141

coscienza della propria dignità di uomini, e cosi dopo 17 giorni ci lasciarono liberi dopo averci accompagnato all’ufficio del capo della polizia che ci fece una lunga predica, cercando di dimostrarci come il governo rispettasse di più la gente che cammi­ nava diritta... ... quindi il potere politico, condizionandoti a livello psicologico, costrin­ gendoti ad una vita di frustrazione e di paure, ha finito per influenzare anche la tua opera di scrittore, il tuo rapporto con il mondo esterno. In te insomma il rapporto fantasia-realtà si presenta con dei caratteri molto avvincenti e sensibili...

...io credo che in questo caso esistono due cose: da una parte c’è quello che potremmo chiamare la realtà, e nel senor Presidente appare questa realtà, è un fatto che si racconta direttamente... però nello stesso tempo c’è l’immaginazione, una specie di vago sogno onirico intorno a questa realtà. In quel romanzo è possibile notare un continuo sforzo di ricambio fra la realtà durissima della vita politica del tempo e d’altro canto un sogno costante, per­ sistente... Un critico francese ha ben centrato il problema, quando, parlando del Senor Presidente, ha rilevato che pur essendo un libro cosi atroce, così privo di speranza, addirittura inumano, un libro che tocca la totale inferiorità dell’uomo, c’è un fatto che lo salva: sempre nei vari capitoli l’autore parla del cielo, delle stelle e in questo modo costringe chi è già piegato e dolente a sol­ levare gli occhi al cielo, il che significa un momento in cui una qualche speranza trova posto... per questo io credo che abbia influito l’aspetto politico, perché l’essere scrittore non ti consente di allontanarti isolandoti dagli avvenimenti del paese... io credo che non si possa essere uno scrittore apolitico in paesi dove esistono problemi cosi sanguinanti e terribili. Si sente il peso, il potere filtra e si insinua, domina la satrapia costante, la violazione dei diritti, l’insicurezza delle persone... e in tanti miei libri c’è tutto questo... lo si può scorgere per esempio in Los ojos de los enterrados, in cui costantemente si vede la situazione dei cittadini o in Uomini di mais, in cui si assiste alla ribellióne degli indigeni che difendono il mais e la rivolta viene soffocata nel sangue e nel fuoco per l’intervento dei soldati del governo. Voglio dire che nella mia opera appare di continuo il poliziotto, il soldato, lo sfruttatore che colpiscono di continuo i cittadini, insultandoli e degradandoli... e quindi sono romanzi in cui appare la realtà del­ l’uomo che viene privato di tutti i suoi diritti... Nel Senor Presi­ li

dente, per esempio, lo vediamo quando il generale esce sorridente dalla casa del favorito che gli ha detto, quando lui gli dice: « Sono innocente»; «Tanto peggio, perché se lei fosse un assassino, potrebbe star tranquillo, perché chi è un assassino sta tranquillo dal momento che il presidente della repubblica dispone di lui, e nell’attimo in cui lo tradisce può mandarlo in galera con la scusa che è un assassino»...

...in questa tua penetrazione nelVuniverso di dolore del tuo mondo un posto importante ha la comunità indigena... ...dobbiamo tornare ancora al Senor Presidente...è il libro mio più sensibile al problema del potere. Bene, il Signor Presidente esige molte vite, moke facce, molte teste tagliate... e fra le cre­ denze degli indigeni c’è quella del furto del fuoco.. Il fuoco... nelle tribù si racconta che si perse e allora venne il dio dei sacrifici esigendo che in cambio del fuoco si sacrificassero vite umane, e cosi si aprì una strada per la conquista del fuoco che è un po’ la conquista del sole. In questo caso io credo che le forme della teocrazia indigena influiscono sul piano di una leggenda terribile, una leggenda di urto costante persino in un contesto magico, mitico come quello di cui stiamo parlando... ...per questa ragione allora, tu metti sempre l’uomo in primo piano, Cuorno e le sue vicende, i suoi urti, al centro di un paesaggio che finisce per avere una funzione accessoria, e al contempo integrante della sua uma­ nità...

...in realtà, io credo che nel romanzo latino-americano, e spe­ cialmente nella mia narrativa, il paesaggio fa parte del personag­ gio... non si può, scrivendo un romanzo delle Ande, non si può trasferire questo mondo cosi autonomo e complesso a un romanzo della Pampa, così come un romanzo dei graridi fiumi dell’Amazzonia, dell’Orinoco, non si può trasportare in un romanzo, diciamo dei Caraibi. Insomma, il paesaggio è intima­ mente unito alla persona, esiste una fusione e cosi anche il pae­ saggio, la natura, da noi non sono ancora dominati dall’uomo, e allora accade che tutti gli elementi sono scatenati... in luoghi in cui non si era mai sentito parlare di un vulcano, per esempio in Messico, un bel giorno la terra cominciò a ribollire e ci si rese conto che esisteva un vulcano... voglio dire che si tratta di terre in formazione, e sono in formazione anche gli uomini, creano e 147

ricreano continuamente modi di vita che si realizzano o non si realizzano, modi di esistere che stentano ad amalgamarsi, e quando poi il senso della comunità sembra aver vinto, la natura s’incarica di distruggere tutto quanto è stato costruito cosi fatico­ samente: città, seminagioni... L’indigeno quindi, deve continuamente difendersi... gli abiti degli indigeni che hanno sulla schiena disegnato un sole, sulle maniche la luna, qua e là stelle... questi abiti hanno una spiegazione: l’indigeno si sente solo e abbando­ nato, ancora in balia della natura, e perciò si rifugia in questi sim­ boli che stanno a significare la protezione degli dei, dei suoi dei. L’indigeno è ancora un uomo terrorizzato dalla natura, che ha bisogno di tutte queste protezioni per poter esistere, per poter vivere, per potersi svegliare al mattino dopo il sonno notturno...

...questo tuo discorso di frustrazione e di schiavitù investe anche il lin­ guaggi0, ovviamente. In America Latina si parla prevalentemente lo spagnolo, ma questa lingua ha subito una grossa evoluzione, è diventata qualche altra cosa. Nel tuo caso particolare poi, c’è addirittura una crea­ zione continua... Insomma la parola castigliana è divenuta diversa, più concentrata, quasi un'altra voce...

...accade questo: per l’indigeno la parola è qualcosa di essen­ ziale, anzitutto perché l’indigeno è convinto che con le parole si creano le cose... quando un indigeno dice ”albero”, egli crede di aver creato o di essere sul punto di creare un albero. Quando dice ”cane”, lo stesso. Questo, per un verso. D’altro canto, la parola è sacra perché è il veicolo che avvicina l’uomo all’orecchio degli dei. Gli dei, secondo quanto raccontano le leggende dei Maya, crea­ rono l’uomo, ma i primi uomini che vennero creati non erano un gran che, dicono, nel senso che non parlavano. Gli dei avevano bisogno della parola, la parola pronunciata dagli uomini per venerarli, e allo stesso tempo per divertirli e intrattenerli, solle­ vandoli dal tedio in cui si trovavano. Cosi la parola finisce per tra­ dursi in musica per essi, ma questa musica deve essere precisa, deve esprimere sentimenti elevati, cose e fatti della natura... ecco perché essi hanno della parola un concetto che coinvolge l’idea di precisione. Ma c’è di più: nei racconti che si fanno, poiché l’indio non dice che una persona è morta, ma che è scomparsa, allora c’è un viaggio sotterraneo molto simile a quello degli Egizi... in questo viaggio a Chivalba, che è il luogo della sparizione, in questo viaggio che fa l’anima attraverso le ombre, dopo la scom­ parsa, essa arriva in un luogo che si chiama del crocicchio dei 148

quattro sentieri, quello bianco, quello verde, il rosso e il nero, e a questo punto si deve avere molta sicurezza nelle parole con cui si risponde, perché vi sono voci che gli domandano e uno deve rispondere immediatamente e con estrema precisione le parole giuste per seguire il sentiero che lo porti, non all’inferno, ma a una specie di paradiso in cui essi credono. Perciò è necessario conservare questo concetto della parola oltre la morte. E c’è ancora un altro aspetto: quando uno visita una località indigena, si accorge che tutte le donne si chiamano Maria e tutti gli uomini Juan. Perché? Perché non possono dare il nome esatto del marito o della moglie, poiché se lo danno, quello che viene a sapere il nome e lo pronuncia, si impadronisce della persona che lo porta. Ecco la ragione per la quale 11 nostra lingua si costruisce con parole e non con frasi. Nella lingua spagnola vediamo che si forma il periodo, con ampio uso di aggettivi, congiunzioni, pre­ posizioni che lo allungano e lo complicano: nella nostra maniera di costruire la prosa, ci limitiamo alla frase e al punto, e cosi via, concentrando molti concetti magari in un’unica parola... ...tutto quanto hai detto, e la realtà di un'espressione che si esplica oggi in te lontano dal Guatemala, ti porta probabilmente a considerarti uno scrittore in esilio... ...io credo che la nostra letteratura, la letteratura ispanoameri­ cana, già ereditata dalla letteratura spagnola, è già stata una lette­ ratura di esiliati. Essa comincia con Tinca Garcilaso de la Vega che venne esiliato dal Perù e scrisse i suoi libri per difendere la situazione degli indios. È il primo esule di sangue misto che sia mai esistito, perché fu già un incrocio dello spagnolo e della donna india. Allora questo meticcio venne bandito dal Perù e scrisse i suoi libri in esilio. Poi c’è un poeta guatemalteco, Rafael Andibar, che scrisse tremilaquattrocento esametri latini in dieci canti che recano il titolo Rusticano mexicana: era un poeta espulso dalla sua terra perché era un gesuita ai tempi di Carlo III, il libro lo scrisse in Italia, a Bologna. In quest’opera vediamo che Andibar abbandona la forma descrittiva dei poeti per addentrarsi nella polemica discussione intorno alla situazione dell’indiano, o, come lui diceva, dell’indigeno. E ogni volta che fa riferimento agli spagnoli, li chiama semplicemente Hispani. Perché? Perché vuole difendere gli indigeni e allo stesso tempo intende presentarli in Europa come individui estremamente industriosi, capaci, abili, quali sono poi nella realtà. Un altro grande scrittore della nostra 149

America, Andrés Ballo, scrisse il suo famoso libro, La situa, fuori del Venezuela, forse in Cile o forse in Inghilterra dove si trovava esiliato, e ancora tanti altri scrittori... Sarmiento scrisse in Cile i suoi celebri libri, Marti in Guatemala, in Messico e a New York, tutti i principali scrittori sono stati gli autori di una letteratura d’esilio...

CARLOS FUENTES

Parigi. Di nuovo a rue Poissonnière, qualche piano sotto Juan Goytisolo e Monique Lange. Carlos Fuentes occupa da qualche tempo ma per poco ancora — l’appartamento lasciatogli in gestione dalla figlia di Monique, al terzo piano dello stesso pa­ lazzo dove, all’attico, vivono la scrittrice francese e Juan. Ne ha fatto il suo studio, Carlos, il suo angolo di raccoglimento, il suo tempio provvisorio: fra pochi giorni, siamo al settembre 1973, prenderà il volo per il Messico con la giovane moglie e il piccolo Carlos Rafael di appena un mese. Non fa davvero torto al suo nome, Carlos, sorgente Nw^fuente di entusiasmo e irruenza creati­ va: così lo ricordavamo quando a Roma, in tempi non troppo lontani, era l’animatore, l’epicentro delle nostre rumorose riu­ nioni in cui la letteratura ovviamente dominava, ma in un clima scoppiettante di allegria e condito da canzoni di ogni provenienza e ritmo (e nel poso doble Carlos era imbattibile...). Si era imposto rapidamente nel nostro ambiente letterario, così reticente e ambiguo, e avaro di cordialità, con la forza e il garbo della sua personalità esuberante, ricca di calore e di simpa­ tia umana, ma soprattutto illuminata da un estro che rivelava a prima vista una autentica vena d’artista. Non è cambiato affatto in questi anni e ora, qui a Parigi al vertice della carriera letteraria, giovane, affabile e brillante, con appena qualche spruzzo di bianco alle tempie, parte tranquillo ad esporre le sue idee, a pro­ porre le sue soluzioni con la lucidità razionale e la fluidità discor­ siva che costituiscono la sua più immediata caratteristica ecomplementano la maturità della visione critica che da sempre accom­ pagna il suo impegno creativo, sì da far di lui, oltre che uno dei romanzieri più validi e geniali, forse il massimo teorico della neonarrativa latinoamericana. La sua sorridente sicurezza non cede m

neanche di fronte aìVimpasse che un insospettabile esaurimento delle pile, con forzato arresto della registrazione, provoca nel nostro animato colloquio. Una corsa sotto la pioggia battente di Parigi, fino all’angolo del Bl. St. Denis, e il Nagra ricaricato è pronto ad accogliere di nuovo il tracciato nitido di questo novello Farinata, che riprende impassibile laddove si era interrotto il suo discorso lucido e razionale (« Per me i valori nascono dalla contin­ genza, dall’onta, dalla volgarità, dal salto nella terra incognita nella quale l’unica immortalità è quella del nostro desiderio e degli oggetti effimeri che lo sostengono... »), nel corso del quale i temi toccati si protraggono all’infinito e non risparmiano nulla e nessuno, coinvolgono la globale totalità dell’arte («Berdjaev, mi pare, diceva che Marx e Nietzsche si dividono il mondo... »). È un peccato che Carlos debba correre a Orly a rilevare un amico in arrivo dal Messico: avremmo fatto, altrimenti, le ore piccole...

Al ribelle viene concesso un palcoscenico, gli si proiettano dei riflettori, si spera che il ribelle si bruci naturalmente sotto le luci al neon che lo investono.

Dunque Carlos, parliamo di potere, è questo il tema della nostra conversa­ zione, in tutti i modi con cui si manifesta e incrocia la vita dello scrittore Fuentes, legale, tradizionale, carismatico, per usare la distinzione di Max Weber. Probabilmente i primi incontri li hai fatti durante l’adolescenza, e non è stato un potere politico, legale, forse tradizionale, familiare, paterno... ...no, pensa un po’... devo dire una cosa: io non ho problemi con la mia famiglia, vado d’accordo con i miei, che hanno sempre rispettato la mia vocazione, la mia libertà, ho solo motivi di grati­ tudine nei loro confronti, non c’è mai stato nessuno scontro, nes­ sun conflitto, se così lo possiamo definire, che io ricordi... Il primo conflitto invece, e certo vi meraviglierete di quanto sto per dire, non appartiene alla mia adolescenza ma alla mia infanzia, ed è un conflitto politico... incredibile... io sono cresciuto fuori del Messico, poiché mio padre era diplomatico di carriera, e fra il ’34 e il ’40 è stato consigliere dell’ambasciata del Messico a Washin­ gton. Io ho frequentato le scuole negli Stati Uniti e allora il mio primo conflitto nacque dalla constatazione che ero circondato dal­ l’ostilità, e quindi mi resi conto che dovevo affrontare qualcosa, che la vita non era certo un letto di rose... Tutto ciò risale all’anno 1938 quando Làzaro Càrdena espropriò il petrolio in Messico e aH’improwiso la mia vita nella scuola nordamericana diventò per me impossibile. Dall’amico di tutti che ero, mi trasformai in un bambino messicano maledetto, comunista, che bisognava pic­ chiare, insultare: « ... You come from that damn comunist country, Mexico, that stole all our wells... »: fu la prima volta che mi resi conto che il mondo non era affatto piacevole e perfetto, e che bisognava combattere, che c’era gente nemica. Ecco perché il primo riferimento a quanto mi state chiedendo coincide con la IH

coscienza della mia nazionalità, della mia radice culturale, e infatti ricordo ancora che a quell’epoca stessa — avevo nove anni — mio padre mi portò a vedere un film sulla "indipendenza” del Texas, che si intitolava Men of conquest con Richard Dixon, vecchio attore, e allora, al momento dell’episodio di Alamo, io possedevo già una coscienza nazionalista talmente feroce che mi alzai in piedi gri­ dando « Viva Mexico, mueran los gringos ! », e fui cacciato malamente dalla sala. Più tardi, devo dire che il conflitto successivo lo ebbi nella scuola religiosa in Messico. Prima, durante l’infanzia, avevo fre­ quentato solo scuole laiche, sia a Washington che a Santiago del Cile e Buenos Aires; quando feci ritorno nel Messico, a 16 anni, le scuole migliori erano quelle religiose e andai a finire in una governata dai padri maristi, e lì di nuovo cominciarono gli scontri con le gerarchie, o piuttosto, direi, sentii per la prima volta assai duramente l’urto con la gerarchia in questa scuola. Ricordo molto bene che quei religiosi si rifiutavano di commemorare l’anniversa­ rio della nascita di Benito Juàrez, e infatti Juàrez, com’è noto, fu il Presidente che separò la Chiesa dallo Stato, secolarizzò i beni ecclesiastici... Allora, per la prima volta in quella scuola, con un gruppetto di amici creammo una cellula e ogni volta che ricorreva l’anniversario di Benito Juàrez disertavamo le lezioni come un atto di protesta, il che non mancava di provocare delle gravi conse­ guenze. Per me fu come entrare in un mondo che non conoscevo che mi spaventò molto e mi traumatizzò tremendamente. C’era un professore, un fratello marista, che tutti gli anni, immancabil­ mente, il primo giorno di scuola arrivava in classe con un giglio bianco in mano e diceva: « Ragazzi, questo giglio che vedete è un giovane cattolico prima di andare al cinema o di baciare una ragazza», quindi gettava il giglio in terra, lo calpestava, ci faceva sopra una specie di balletto, lo risollevava ridotto uno straccio e diceva: « Questo è invece un giovane cattolico dopo che è andato al cinema e ha baciato una ragazza: tutti a confessarsi! ». E noi andavamo a confessarci... era un mondo di corvi neri...

Allora diciamo che hai vissuto l'urto contro il potere politico senza accorgertene o almeno nell’impossibilità di teorizzarlo, e per giunta in un tipo di società, quella nordamericana, che non era la tua... C’è da vedere, da individuare il momento in cui hai potuto precisare i termini e le ragioni del conflitto, se c’è stato... ...Tanto per cominciare, voglio dire subito che io sono uno 114

scrittore e che mi occupo di letteratura; perciò non c’è nulla di f)iù lontano dal potere e dalla politica della letteratura: poiché la etteratura tende all’universale e la politica è invece quanto di più particolare possa esistere. E allora, dal momento che non mi chiamo né Henry Kissinger né Ciu En lai, se parlo di politica parlo di quella concreta del mio paese che è il mio campo d’a­ zione. A questo punto io faccio una certa distinzione fra la mia attività di cittadino e la mia attività di scrittore. Cioè io credo che, come principio, il fatto di scrivere si oppone al fatto di esercitare il potere. Perché qualsiasi tipo di potere — non importa di che natura e a quale periodo storico appartenga — tende a presentarsi in modo unitario, a servirsi del linguaggio per fini propri, mentre al contrario lo scrittore tende invariabilmente a diversificare e a pluralizzare la vita umana e a liberare il linguaggio. Voglio dire... si, esistono due linguaggi e resta da vedere a quale di essi uno si attiene: c’è il linguaggio di Pericle e quello di Sofocle, c’è il lin­ guaggio di Filippo II e quello di Cervantes, c’è il linguaggio di Diaz Ordaz e quello di Octavio Paz, c’è il linguaggio di Sartre e quello di Pompidou, c’è il linguaggio di Stalin e quello di Mandel’stam, c’è il linguaggio di Hitler e quello di Thomas Mann... Si, indubbiamente questa disparità esiste... tuttavia come scrittori, ci interessiamo alla politica, a parte l’attività cittadina... le metto da parte per il momento. Io credo che il mio interesse per la politica venga dalla convin­ zione che la politica è la concretizzazione del transitorio, la con­ cretizzazione del concreto — mi si passi il bisticcio — è quanto di più concreto esista. Intanto lo scrittore cerca di essere sempre un po’ il Copernico del suo mondo, di andare più in là, di ridimen­ sionare la realtà, di dire: non è vero, il mondo non è piatto, non sta in cima a una tartaruga, non finisce in una cateratta universale, non siamo il centro del mondo... Siamo sempre in questa ten­ sione, in cui lo scrittore intende aumentare la realtà, proiettarla più in là, mentre la politica la concretizza al massimo. Ma io penso che questa tensione è utile soprattutto al romanziere, no? Io mi domando che ne sarebbe di Balzac o di Dostoevskij senza questa tensione. C’è il Balzac visionario e c’è il Dostoevskij metafisico, ma sono in tensione, una tensione terribile con la società, con la politica, con la storia del loro tempo : il risultato si chiama La commedia umana e si chiama I Demoni. Cioè è assai proficua questa tensione, questa polarità. Credo d’altro canto, poiché siamo in tema, che la posizione esplicita di uno scrittore nei confronti della politica ha poco a che fare con quello che 77/

scrive... Balzac, di cui stavamo parlando poco fa, si dichiarava monarchico, reazionario, cattolico, era in una posizione politica esplicitamente dichiarata, e tuttavia sappiamo che senza La comme­ dia umana di Balzac non si sarebbe scritto... Qual’è questa linea di demarcazione? È indubbio che fra gli scrittori più rivoluzionari, letterariamente, del secolo ventesimo si trovano Lawrence, Pound, Eliot, scrittori dichiaratamente reazionari. In quanto scrittori che si dicono rivoluzionari, possono essere in molti casi scrittori cultu­ ralmente e letterariamente reazionari, la maggior parte degli scrit­ tori del realismo socialista per me, senza dubbio... Esistono, voglio dire, tutte queste tensioni all’interno dell’opera stessa, nel fatto stesso di scrivere. Però, detto questo, voglio anche aggiun­ gere un’altra cosa: la mia attività di cittadino... è qui che non posso vantare alcun privilegio speciale per il semplice fatto di essere uno scrittore. Credo che in questo ho piena libertà di scegliere una posizione, di cambiarla, di sfumarla, di agire insomma da cittadino all’interno di una umanità. È chiaro: io sono messicano, e in un paese come il Messico, in tutti i paesi del­ l’America Latina che sono stati paesi dove il potere è stato eserci­ tato in modo dispotico, dogmatico e monolitico, che ha escluso per il suo stesso peso tutte le altre manifestazioni dell’opinione, in questi paesi, dicevo, la società civile di cui parlava Gramsci molto intelligentemente, praticamente non esiste, è estremamente fra­ gile... e allora io credo che lo scrittore, proprio per essere tale, nei paesi latinoamericani, esercita una funzione politica e sociale molto importante che è quella di integrare una società civile capace di resistere al potere o ai poteri tradizionali, di scardinarli a poco a poco, di minarli e di promettere o preparare qualcosa di nuovo... Sì, credo questo... e credo anche che in America Latina lo scrittore esercita in vasta misura una funzione informativa che non possono esercitare i mezzi di informazione addomesticati o inesistenti, non vi pare? E questo, non perché qualcuno fra noi romanzieri giovani si propone di sedersi in cattedra e pontificare, educare, come pretendevano di fare alcuni romanzieri del passato. Questa integrazione di cui parlo e che mi interessa molto, della società ad opera dei suoi scrittori e artisti, io la considero partico­ larmente urgente e valida in America Latina, proprio per quello che è stata la storia latinoamericana nel suo insieme. Per esempio, voi in Europa, alcuni paesi più altri meno, avete una storia assimi­ lata, la Francia, poniamo, ha evidentemente una cultura del tutto assimilata... Invece uno scrittore in America Latina si volge indietro e si imbatte in quattro secoli di silenzio. Un francese si 116

gira indietro e sente che la sua storia gli appartiene, l’ha assimi­ lata. Io credo che questo ha molto a che vedere con lo stato inani­ mato, moribondo, del romanzo in Francia, oggi, un romanzo cioè che si pone solo problemi teorici di decantazione del linguaggio, problemi tecnici. Dico: non che non esistano più dèi conflitti o conflitti in rapporto alle strutture del potere... io credo che i due ultimi narratori francesi siano stati Céline e Genet: un carnefice e una vittima, un fascista e un perseguitato, vero?... mi pare significativo. Per tornare in America Latina, dico che da noi avviene esatta­ mente il contrario: uno scrittore ha alle sue spalle, dicevo, quattro secoli di silenzio. Per cominciare le culture indie furono oggetto di genocidio da parte della Spagna: furono praticamente distrutte. Subito dopo la colonia spagnola cercò di instaurare nelle terre passate in suo dominio le strutture feudali, moribonde nella stessa Europa, le stesse gerarchie della Spagna di Filippo II, della Con­ troriforma. Così uno degli esempi più laceranti e significativi fu quello della suora messicana Juana Inés de la Cruz, la grande poetessa, una donna che cominciò a parlare dei suoi sogni, delle sue realtà, delle sue fantasie, e per questo venne costretta al silen­ zio dalle autorità vicereali, dalle autorità ecclesiastiche. Fu cosi che un grandissimo poeta smise di scrivere versi a trent’anni. Questa è stata la storia della colonia in America Latina: non esiste memoria di quello che fu la colonia. Questo fatto già di per sé ci crea un conflitto assai grave di tipo manicheo e abbastanza angoscioso, perché è chiaro, abbiamo questa tendenza a vedere la Conquista come uno stupro del Continente, e a glorificare il mondo indio perduto e a perdere la misura delle cose, nonché la misura di quello che siamo. Perché, in fin dei conti, non possiamo rinnegare una parte di noi stessi: parliamo spagnolo, è questo un elemento unificatore della nostra cultura, e lo è anche della nostra unione politica futura e tuttavia viviamo in preda a una serie di traumi che non abbiamo risolto, in gran misura perché non li abbiamo scritti, perché dobbiamo deciderci a riscrivere la storia dell’America Latina, la storia che non sta nei discorsi, nei problemi, nelle costituzioni, nelle menzogne degli ultimi quattro secoli, ma che emerge dall’opera dei suoi scrittori. Io ho sempre apprezzato, e adesso più che mai, l’opera di Pablo Neruda, ho sempre detto che Neruda ha rimandato le caravelle in Spagna: la sua è stata la risposta culturale dell’America spagnola alla Conquista spagnola, ha assommato la totalità di questa storia, ci ha restituito la parola e l’ha restituita alla Spagna. Si può discutere, è chiaro, quanto in

possa avere influito Neruda sui grandi poeti della generazione di Alberti, di Prados, di Aleixandre, di Cernuda, ma indubbiamente c’è in Neruda questa decisione di nominare tutto, di riscattare tutto che ha un’influenza primaria sui nostri romanzi che sono di ampio respiro, perché, a differenza degli scrittori del nouveau roman, noi sentiamo di avere moltissimo da dire... tutto quello che non è stato detto in quattro secoli di storia. E questo è già una nuova struttura di potere, di potere sociale, se vogliamo, di fronte alle strutture tradizionali del potere ecclesiastico o militare o poli­ tico in America Latina. Voglio cioè dire che secondo me uno scrit­ tore latinoamericano, per il semplice fatto di essere tale, e vi includo anche uno scrittore come Borges, è un rivoluzionario... ... allora, si potrebbe trarre la conclusione, ci riferiamo ad un punto in particolare del tuo discorso, che per voi l'immaginazione poetica è fonda­ mentale, è cioè una forma di contestazione rivoluzionaria del potere, anche nel suo rapporto con la realtà...

...guarda, per tornare a quello che abbiamo appena detto, senza immaginazione non possiamo riscattare quel passato di cui parlavamo. L’immaginazione è un elemento essenziale per recupe­ rare il passato. Ecco perché parlavo di Neruda, del Neruda di Las Alturas de Macchu Picchu, e potrei ricordare l’immaginazione di Carpentier in Los passos perdidos o, per portare un esempio storico più valido, in El siglo de las luces, è ancora l’immaginazione di Garcia Marquez in Cien Arìos de Soledad. Come recuperare questo pas­ sato, se non mediante uno sforzo immaginativo? Non abbiamo documenti, non possiamo scendere per la strada a intervistare l’uomo del secolo XVI Ro l’indio massacrato nel secolo XVI. Dob­ biamo appellarci alla nostra immaginazione più profonda, non c’è altro da fare: altrimenti questo passato non lo riscatteremo mai. E se non lo riscattiamo, non avremo un presente valido, e se non abbiamo un presente valido, non avremo nemmeno un futuro...

...in questo quadro rientra anche Velemento onirico che, ad esempio, proprio nella tua opera è più presente che altrove... ...si, ma non solo nella mia opera, in molte altre opere lati­ noamericane, perché in America Latina non furono assassinati solo dei corpi, ma anche i sogni: dobbiamo riscattare anche i sogni... dobbiamo dare presenza e attualità anche ai sogni, a quei sogni. 1J8

Questo è una sorta di appello storico che nella tua opera di scrittore non ha tardato a manifestarsi... vorremmo parlare con te del cammino percorso per arrivare a tale approdo... ...nel mio caso particolare, io sono un figlio della rivoluzione messicana, sembra quasi un insulto, no?... Sono nato l’anno in cui venne assassinato Obregón, sono cresciuto sotto la presidenza di Càrdenas, ho veduto il tradimento all’opera di Càrdenas e il Mes­ sico dimenticare i suoi sogni, le sue fantasie rivoluzionarie, per consegnarsi a una politica di ’’sviluppismo”, vantaggiosa per una minoranza, crudele e di sfruttamento per la maggior parte degli abitanti del mio paese e inoltre sono un figlio di Città del Messico : questi due fattori mi portarono a scrivere quello che è forse il primo romanzo ”urbano” postrivoluzionario del Messico, La regiòn transparente, in cui metto in evidenza tutti questi conflitti e queste contraddizioni... ...anche in La morte di Artemio Cruz vuoi mettere in evidenza un problema del genere... ...certo... ma quel libro nasce da una ossessione trinitaria di cui io ho sempre sofferto... A me interessa molto la storia dell’ere­ sia, perché...

...è un'altra forma di potere... ...si, perché la radice etimologica della parola eresia significa ”scegliere”: l’eretico è colui che sceglie, no?... contro la chiesa che impone. E allora lo studio dell’eresia per me è stato molto importante sempre e ritengo essenziale a sua volta nello studio dell’eresia, il problema trinitario, e perciò io ho concepito l’istante della morte di Artemio Cruz come un istante trinitario diviso in tre, in un ”tu”, un ”io”, un ”egli”, che sono un pre­ sente, un passato e un futuro... un’imminenza di futuro nell’at­ timo stesso dell’agonia. Questo in quanto alla struttura; in quanto al contenuto... è uno dei più vecchi contenuti nella storia del romanzo, la vicenda del rivoluzionario convertito in arrivista e in uomo di potere.

Adesso allarghiamo il discorso, Carlos, al di là della tua opera, e tor­ niamo al tema del nostro incontro, magari proiettandolo nel nostro tempo. Fermiamoci cioè sul rapporto attuale fra scrittore e potere, sia da un punto 7LP

di vista ideologicamente capitalista, sia dal versante di un'ideologia, diciamo di tipo socialista...

...è un tema che richiederebbe una conferenza di due ore almeno per rispondere. Cercherò di essere più breve... Intanto, voglio ripetere una cosa: e cioè io credo che in qualunque regime lo scrittore, nello scrivere, sta minando il carattere monolitico al quale sempre tende il potere. Insomma, va pluralizzando, diver­ sificando una società. I modi con cui il potere si difende, da questo altro polo molto particolare e a lunga scadenza qual è l’arte, la letteratura, sono vari: io ritengo che i sovietici siano molto brutali e i nordamericani molto sottili, no?... che le loro forme di espressione o di castrazione siano formalmente diverse, anche quando l’intenzione finale coincide. Dico, a me pare straor­ dinario, naturalmente, che negli Stati Uniti, in un caso come quello di Watergate la stampa abbia un ruolo così importante, l’indipendenza del potere giuridico si esprime, e finisce per argi­ nare il potere politico. Ma d’altro canto sappiamo che queste limitazioni al potere non intaccano il vero potere della società nordamericana che sono i suoi grandi monopoli, le sue enormi concentrazioni, che oggi sono ormai plurinazionali e ci minac­ ciano tutti, europei e uomini del terzo mondo. Per cui ho la sen­ sazione che la libertà d’espressione negli Stati Uniti si trasformi rapidamente in una merce: al ribelle viene concesso un palcosce­ nico, gli si proiettano dei riflettori, si spera che il ribelle si bruci naturalmente sotto le luci al neon che lo investono. Detto questo, insisto nel dire che per l’avvenire, la difesa di certi valori che il dogma dei cattivi apprendisti di Marx definisce libertà borghese, per me è essenziale per edificare un autentico socialismo. Io credo che la libertà d’espressione, la libertà di stampa, la libertà di manifestazione, la libertà di opposizione, sono libertà insite nel­ l’uomo, libertà conquistate durante le rivoluzioni borghesi e talora snaturate dal regime capitalistico, ma che debbono passare a far parte integrante del regime socialista. Ricordo in proposito la grande difesa della libertà di stampa fatta nel momento oppor­ tuno da Karl Marx. D’altro canto credo sia stato un peccato che la rivoluzione socialista sia avvenuta per la prima volta in Unione Sovietica, in un paese cioè dove è sempre mancata questa ten­ sione, questa polarità fra il potere e la società, che invece ha carat­ terizzato l’Europa. Per esempio, sappiamo che in Russia c’era l’u­ nione totale fra chiesa e stato, il famoso cesaropapismo, e Stalin ha un po’ continuato a ristrutturare questa antica tradizione: di 160

modo che assistiamo in Unione Sovietica a una forma di perver­ sione dell’autentica democrazia socialista in nome di una tradi­ zione nazionale oscurantista che viene da molto lontano. Spero che quanto sto dicendo non intacchi la chiarezza della mia posi­ zione: io voglio una società socialista con libertà umane... ...forse è stata realizzata in Cina...

...non conosco abbastanza la realtà cinese per poterne parlare. Ma insisto nel dire che Marx parlava del socialismo come di un risultato finale dello sviluppo capitalista in una società industrializzata, in una società progredita. Mao Tsetung sta capitalizzando un paese con una enorme massa contadina, e una grande povertà... sono due casi estremamente diversi. Senti, Carlos, tu hai nominato Stalin, hai parlato di certe degenerazioni che hanno finito col provocare delle vittime, soprattutto fra gli scrittori, fra gli artisti, lo sappiamo... Mentre parlavi, ci veniva in mente una polemica che si è accesa di recente in Italia, fra Moravia e altri scrittori e uomini di cultura, perché Moravia fa una distinzione precisa e netta fra intellettuale e artista... ne ha parlato anche nel nostro incontro a proposito del rapporto con il potere politico. Insomma secondo Moravia, mentre Cartista obbedisce a un tipo di anarchia del pensiero, al contrario l’intellettuale è un politico... vogliamo dire che Moravia considera Stalin un intellettuale, per esempio, e certi fenomeni politici una conseguenza dell’intellettualismo... Sentiamo un po’ cosa ne pensi...

...no, no, no... io pur volendo bene e rispettando molto Alberto Moravia che è anche mio amico, non sono d’accordo con questa distinzione. Io credo che piuttosto ci sia una differenza fra ideologi e cittadini. È la differenza che farei io. Temo molto gli ideologi, perché in gran misura credo che l’ideologia, come la religione, sia un rifugio, sia una Chiesa per anime sbandate e deboli che vanno in cerca di benedizione. Il cittadino invece è colui che non propone ipoteche per il futuro, ma soluzioni nel presente, soluzioni concrete, pratiche, immediate. Io credo che la sinistra in Messico — e parlo del caso specifico della mia terra — la sinistra messicana è prostrata e non agisce proprio perché è malata di ideologia, non è capace di operare in modo concreto, pratico, cittadino, giorno per giorno, assomma piccole vittorie al fine di raggiungere grandi mutamenti, ma finisce per esigere l’a­ pocalisse, è malata di apocalisse, cioè è malata di ideologia. Io 161

ritengo invece che l’artista, per tornare alla distinzione di Moravia, assomiglia al cittadino nel senso che sa affrontare problemi concreti e risolverli, no?... Non è diverso dal poeta: un poeta si serve concretamente della parola, un romanziere si serve concreta­ mente della parola, un pittore si serve concretamente della pit­ tura. E lo stesso deve fare un cittadino. Mentre un ideologo, che poi sarebbe l’intellettuale di cui parla Moravia, tende a un’enorme astrazione e a una confusione fra l’azione politica reale e possibile e un sogno apocalittico le cui conseguenze, se lo si applicasse oggi, non si vedrebbero. Mi riferisco ancora al caso del Messico. ... il discorso riguarda anche il linguaggio, lo stile, ci porta cioè a misu­ rare fino a qual punto una forma di potere politico possa spingere uno scrit­ tore a mutarsi nell’espressione...

...certo, non c’è dubbio che nella misura in cui esiste una risposta dello scrittore stesso, il linguaggio si modifica... Credo che senza una presa di posizione politica Brecht non avrebbe scritto come Brecht, Neruda non è lo stesso Neruda prima della guerra civile spagnola e dopo: il Neruda delle Venti poesie d’amore e una canzone disperata non è lo stesso Neruda del Canto General. Indubbiamente esiste questa tensione che per me è benefica. Ma voi mi state chiedendo forse se il potere può prostituire il linguag­ gio? Se è questo che volete sapere, evidentemente sì, lo vediamo tutti i giorni a cominciare dalla stampa quotidiana. Abbiamo parlato molto del presente, parliamo un po’ del futuro, giochiamo per un momento a fare i profeti... c’è stata una irruzione massic­ cia del mondo latinoamericano, finora alquanto sconosciuto o almeno trascu­ rato prima degli ultimi dieci anni. Indubbiamente tutto ciò avrà delle riper­ cussioni... sembra quasi che ci sia una fretta sintomatica da parte di voi scrittori dell’America Latina, un’ansia di manifestarsi, di offrire il senso della propria presenza nel mondo... ...sì, e si spiega. Il nostro mondo è estremamente fragile e transitorio e basta guardare a quanto sta accadendo in Cile per esserne consci. Bisogna aver fretta perché domani può arrivare Pinochet e distruggere la casa di Neruda e mettere in carcere gli scrittori e uccidere mezzo mondo, perché questa figura del tiranno, dello stivale dell’oppressore è stata la costante della storia latinoamericana, le eccezioni a questa regola sono molto scarse, la vita umana, la vita civile in America Latina è stata assai rara; con­ 162

tinuiamo nella lotta che ha definito in un suo titolo Sanniento nel secolo scorso: Civiltà e barbarie. Siamo permanentemente di fronte a questa scelta elementare, non vi pare?... Prima quasi di operare una scelta fra capitalismo e socialismo, dobbiamo • scegliere fra civiltà e barbarie, fra il creare una comunità e stabilire una convi­ venza o vivere sotto lo stivale, nella tortura, nell’oppressione e nella resa al dominio degli Stati Uniti. Queste sono le opzioni reali, immediate in America Latina. Di qui la nostra fretta, sap­ piamo che le nostre penne sono altrettanto fragili e transitorie nella nostra società. * Quindi è un volere richiamare l’attenzione di questa vecchia Europa che è sempre e ancora il centro del mondo, sul grande problema dell’Ame­ rica Latina...

...sì, ma con scarsi risultati però. Perché ieri il signor Pompidou ha detto che quello del Cile era un affare interno dei cileni e che Allende era destinato al fallimento. Certo: Allende era desti­ nato al fallimento, Dubcek era destinato al fallimento, l’unica a non essere destinata al fallimento è l’egemonia delle superpotenze alle quali si riferiva il signor Pompidou nelle sue dichiarazioni sul Cile. Per tutto quanto hai detto, pare che tu ti consideri uno scrittore in esi­ lio...

...no, no, no, affatto... qui torniamo al problema del citta­ dino. Io ho svolto un lavoro politico nel mio paese, mi sono opposto a molti regimi messicani, soprattutto all’ultimo, quello di Diaz Ordaz che perpetrò il massacro di Tlatel Olco e non mi sento affatto in esilio, dal momento che vado e vengo dal mio paese e in questo momento per di più sento che nel mio paese c’è un governo che rappresenta almeno una minima difesa dell’indipen­ denza del Messico nei confronti delle pretese degli Stati Uniti. Quindi, tutto mi sento fuorché un esiliato, piuttosto compro­ messo in favore o contro tutto quello che esiste nel mio paese e inoltre vivo parecchio tempo dell’anno in Messico... mi trovate a Parigi quasi per caso... ...però vieni spesso in Europa, come tanti altri scrittori latinoameri­ cani... Ne abbiamo incontrati tanti... Cosa rappresenta per te questo vec­ chio, decrepito continente... 163

...moke cose... una difesa contro certe forme dell’imperialismo nordamericano, non a livello di governi, ma di cultura europea. Dobbiamo sapere che è anche nostra, che è un’arma in più che abbiamo per difenderci. Per questo l’Europa è cosi importante per noi. Per me in particolare essa rappresenta la pos­ sibilità di una prospettiva nei confronti del mio paese. L’Europa insomma mi dà molte cose che l’America Latina non può darmi e di cui ho bisogno come nutrimento spirituale per vivere... altri­ menti sarei rachitico no?... Ho bisogno di cinema, di concerti e di molte altre cose che in America Latina non esistono. Però... però... non cambierei per nulla al mondo il momento in cui vado a discutere con gli studenti messicani o vado a visitare un villaggio indio per partecipare dei problemi di quella gente... Beh... è un modo di vivere, di avere due cose...

GABRIEL GARCÌA MÀRQUEZ

Roma. Il Jolly Hotel, appena emergente sul corso d’Italia dal fitto riparo degli ultimi pini di Villa Borghese, era forse l’unico albergo romano dove potesse inquattarsi Gabriel Garcia Màrquez. Per di più, per accedervi, bisogna scendere, non salire, qualche rampa di scale sfociante in una hall poco illuminata che aggiunge un tocco in più all’atmosfera di complotto che — certo per un notevole contributo di suggestione — presiede al nostro incontro. Un incontro privilegiato, comunque, data la ben nota riottosità dell’autore di Cent'anni di solitudine nei riguardi delle interviste e dei giornalisti che — dobbiamo dargliene atto — non gli hanno sempre reso troppo buoni servigi (« Quando scendo da un aereo, rimbambito dai tranquillanti e dal whisky e con tutto ciò ancora terrorizzato, posso dire qualsiasi cosa; ma questo non dà diritto a nessuno di riportarla su un giornale»). Quello della paura, del sospetto, non è che uno dei tanti lati della simpatia umana di questo scrittore che, da una primitiva circospezione, non esita poi ad aprirsi al piacere del contatto con la gente, non appena ciò gli sia reso possibile dal tipo di persona che si trova davanti. L’in­ contro è formalmente ineccepibile, ma un senso di disagio è avvertibile sul principio dalle aue parti, aggravato dalla comparsa del Nagra e del microfono, altro ordigno che Gabo, insieme agli aerei e agli ascensori, mostra di non gradire, ma al quale si adatta di lì a poco, molto cortesemente, per sbloccare una situazione fat­ tasi difficile. Non ci siamo mai sentiti tanto innaturali e glielo diciamo. Questa confessione finisce col dissipare del tutto la neb­ bia che non ha assolutamente motivo di essere. Ci scopriamo accomunati dai segni d’acqua: lui è un Pesci inconfondibile e ci tiene. Ci viene in mente una frase contenuta in un suo abbozzo di autobiografia: «Il mio segno è quello dei Pesci e la mia donna, 70

mia moglie, è Mercedes. Sono queste le due cose più importanti accadutemi nella vita, perché grazie ad esse, per lo meno al momento, sono riuscito a sopravvivere scrivendo». Una delle tante frasi buttate lì, "quasi” per scherzo. Ma in realtà Gabo scherza di rado e dietro la sua maschera di bandolero assonnato, nei suoi occhi duri e invalicabili, c’è una razza —o magari più razze — di uomini che soffrono e si ribellano, c’è una lotta antica che si innesta e si completa nella lotta attuale di tutta l’America Latina giunta alla svolta decisiva della sua storia: «Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche. Il mondo era così recente, che molte cose erano prive di nome, e per citarle bisognava indicarle col dito». Dietro lo schermo della satira, del grottesco di cui si cinge la figura del colonnello Aureliano Buendia (« Nel soffocante salotto buono, vicino allo spettro della pianola insudariata con un len­ zuolo bianco, il colonnello Aureliano Buendia non si mise quella volta dentro il circolo di gesso che avevano tracciato i suoi aiu­ tanti di campo »), c’è l’intero universo stravolto del potere politico che si pietrifica nei gorghi della putredine e dell’impassibilità: (« Due giorni dopo, il colonnello Gerinaldo Màrquez, accusato di alto tradimento fu condannato a morte. Sprofondato nella sua amaca, il colonnello Aureliano Buendia fu insensibile alle sup­ pliche di clemenza»). Il contrappunto tragicamente vero alla finzione letteraria è tutto nelle parole di Gabo all’indomani della morte di Allende e della tragedia cilena: «Non è possibile cam­ biare la forma del mondo senza provocare terremoti della terra... Il Cile non era ”un caso speciale”, anzi era il paese latino­ americano più vulnerabile, perché dominato dal romanticismo della legalità. Adesso il Cile si è svegliato, e io credo che si sia svegliato per sempre.. I militari e la reazione cilena adesso impa­ reranno quanto pesa questa salma».

Aureliano Buendia è un uomo che si va deteriorando, a misura che acquista potere.

Con te, Gabo, non possiamo che partire da Cent’anni di solitudine, anzi dal tuo concetto della solitudine, che è individuale, ma sotto un certo aspetto particolare... Sì... ciò implica tentare un’analisi critica della mia stessa opera, cosa che cerco di non fare in genere... Però l’osservazione mi pare interessante, nel senso che non è la solitudine individuale il punto, ma una certa solitudine, diciamo collettiva, la quale tut­ tavia proprio per il fatto di essere tale, marca l’individuo uno per uno, no?... cioè a dire... si tratta comunque di una metafora... penso che ci sia una metafora in questo, che ciascuno dei Buendia arrivava a riconoscersi con gli altri da quel... quell’aria di solitu­ dine, press’a poco sta scritto così, di ognuno di essi. È una cosa però che va ancora più lontano, io credo che vada più lontano nella metafora del mercoledì delle Ceneri, in cui li segnano con la croce sulla fronte e restano marcati per sempre. Insomma, questa idea, non so se conscia o meno, che io porto avanti dall’inizio del libro, e cioè che essi si distinguono da una comune aria di solitu­ dine, fa un passo in più nel momento in cui sono marcati ormai materialmente con una croce, vero?... Ebbene, questi sono tutti aspetti poetici, diciamo, conseguenze poetiche della battuta d’ini­ zio, che in fin dei conti è ciò che mi interessa ed è che in realtà in Cent'anni di solitudine, e probabilmente lungo tutta la mia opera, più o meno nascosta o più o meno visibile, la solitudine si pre­ senta come l’opposto della solidarietà... e questo è il punto che acquista già quasi un carattere politico e che perciò trovo interes­ sante, dato che non si tratta per così dire di una definizione lirica della solitudine, ma acquista a mio parere un peso politico una solitudine intesa come l’opposto della solidarietà. Ed ecco che 167

sotto questo aspetto tutto il dramma della frustrazione dei Buendia, dal principio alla fine, per me è dovuto alla mancanza di soli­ darietà... Però si deve allargare il discorso, è una mancanza di solidarietà che non resta circoscritta nella famiglia Buendia, ma investe una più ampia società, tutto il loro mondo, portandoli alla catastrofe. Questa serie di frustrazioni, di cui sono vittime, ha delle mani­ festazioni individuali molto chiare, in quanto si tratta di una famiglia incapace di amare. È stato detto... qualche critico è arri­ vato a confondere questa incapacità con l’impotenza in amore... È una incapacità invece, una cosa del tutto diversa, lo vediamo chia­ ramente nella vita sessuale del colonnello Aureliano Buendia, per esempio, che è un uomo che fa all’amore al buio, è un uomo che dimentica, non sa con chi lo fa, è addirittura un caso di frustra­ zione permanente, non ti pare? Ebbene, questo fatto, portato su un altro piano, io credo che sia il motivo delle sue sconfitte in guerra... infatti, il modo stesso in cui egli imposta e conduce tutte le sue guerre, denuncia i motivi personali, quasi emotivi, che lo spingono, ma alla fine egli non riesce a organizzare un gran movi­ mento di solidarietà, cioè di antisolitudine: in questo caso, avrebbe condotto le sue guerre per altra via, ed è ovvio che anche il romanzo allora avrebbe seguito una strada diversa e sarebbe tutt’altra cosa...

Ecco, allora, ritorniamo un momento, Gabo, al mondo dell'adolescenza, a quegli anni che rappresentano in fondo un primo urto contro il potere... Vogliamo dire, insomma, quando hai subito per la prima volta questo senso di frustrazione che ha poi creato il rapporto tra solida­ rietà e solitudine... è importante parlar di questo proprio per la contrappo­ sizione di cui parlavi... ...certo, è vero... non ci avevo pensato mai... allora devo pro­ vare a ”farmi memoria”, perché non mi ero mai posto la domanda intorno al momento in cui è cominciata la... cioè ho avuto coscienza del potere, dell’esistenza del potere, e la coscienza che il potere era qualcosa nella vita di una persona, qualcosa che poi non lo abbandonerà mai più. È strano che non mi sia mai venuto in mente di rintracciare l’origine di quello che assolutamente credo sia il tema principale dei miei libri. E proprio adesso ho terminato un romanzo che si riferisce esclusivamente al problema del potere, ed è strano che ci ho pensato per molti anni senza mai pormi il problema dell’origine... cioè del mio primo

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contatto con questa realtà. Beh, vedi, c’è una cosa, ogni volta che penso alla mia infanzia, a quel momento della mia vita, non so se penso davvero alla mia infanzia o ai miei libri... perché per me sono del tutto mescolati insieme... e ti dirò di più, molte cose che all’inizio erano inconscie ora sono entrate nella coscienza, cioè a dire io le vedo, nei miei libri, adesso so qual’è l’origine, nella mia infanzia, di ognuna di queste cose. Per esempio, io vivevo in questa casa di Aracataca, il paese dove sono nato,in una casa molto, abbastanza simile a quella dei Buendia... È una casa molto importante nella mia vita, e infatti la prima volta che mi misi a scrivere Cent'anni di solitudine, lo avevo intitolato La casa, perché era tutto centrato in essa, e pensavo che non mi sarei mai allonta­ nato dalla storia che riguardava la casa. I miei genitori vivevano altrove e mi avevano lasciato con i nonni e una sorella più piccola di me. Scrissi Cent'anni di solitudine, e solo dopo averlo scritto venni a sapere che questa mia sorellina mangiava la terra. E questo sta nel libro... Io non me ne ricor­ davo, non me ne ricordavo coscientemente... Ora, il fatto strano è che in questa casa, negli anni in cui ci vivevo, non ebbi mai evi­ dentemente, me ne rendo conto adesso, non ebbi mai la coscienza dell’esistenza del potere nel mondo. Non so se perché era gente troppo vecchia, e i nonni di solito non esercitano una forte auto­ rità sui bambini, anzi gliele danno tutte vinte. Dove invece credo di aver avuto per la prima volta questa sensazione di autorità, di potere, fu a scuola. E stranamente, non tanto da parte dei maestri nei confronti degli alunni, ma da parte degli alunni più grandi, dei più forti nei confronti dei più piccoli e dei più deboli. Cioè, è una cosa a cui penso mentre sto parlando, perché non ci avevo pensato mai, ma è senz’altro a scuola la prima volta in cui ho avuto coscienza che esisteva un potere che veniva esercitato in certi casi contro una persona.

Tu ne hai coscienza ora, ma stai rivelando a te stesso prima che a noi, che la scuola per te si identifica con l'inizio di un vero e proprio disagio... E quindi se ne deduce che la scuola è stato un incubo per te...

...non so se il motivo è questo, ma io la scuola l’ho sempre detestata: fin dal primo giorno ho scoperto che ero felice e diciamo pure libero nella casa dei nonni, mentre non ero libero, ero infelice, e sottoposto a una repressione che non gradivo affatto, a scuola. Questa infelicità arrivava ad essere persino pau­ ra: paura, intendo dire, l’idea che ci fosse qualcuno che mi impo­ 169

neva qualcosa, qualcuno che poteva obbligarmi a compiere la sua volontà. Si... era paura, ed è continuata tutto il tempo in cui sono andato a scuola. Di una cosa poi avevo addirittura un sacro ter­ rore, degli esami, del maestro, l’onnipotente, che sa tutto, che ti chiama e vuole che tu risponda, non quello che pensi tu delle cose, ma ciò che lui pensa. Di conseguenza sono sempre stato un ottimo studente: in primo luogo era una maniera di combattere questa paura del potere, e secondariamente volevo evitare di dover ripetere un anno per poter uscire da tutto questo quanto prima, ecco perché per contrasto sono arrivato ad essere sempre un ottimo studente, il fine era quello di liberarmi il più presto possibile da questo incubo. E sono rimasto, per cosi dire, anche se poi non è tanto grave in fondo... sono rimasto traumatizzato da tutto questo al punto che nel momento in cui potei uscire dalla scuola, dall’università, non ne ho voluto sapere più di trovarmi in una situazione in cui mi vengano rivolte delle domande... ...vedi la nostra abilità di farti parlare senza chiederti nulla...

...non sono nemico delle chiacchiere fra amici... e invece sono refrattario alle interviste, alle registrazioni, alle conferenze, a far lezione insomma... Anzi, guarda, io sono felice, straordinaria­ mente felice, quando riesco a mettere insieme un gruppetto di poche persone con cui parlare allo stesso livello, senza che nes­ suno voglia imporre la sua volontà, senza che ci sia potere in questo, insomma una specie di democrazia a tre, a quattro... È curioso dove mi sta portando questo discorso, perché, come è normale, da qualche anno a questa parte, le università mi invitano continuamente e io allora mi rendo conto, cioè... io dico sempre di no. E dico di no per un concetto che io ritengo vero: io non credo che esista alcuna comunicazione possibile fra una persona seduta da questo lato del tavolo, che sa tutto, e venti persone dal­ l’altra parte che non sanno niente... Inoltre queste venti persone che stanno dall’altra parte, non sono venti in realtà, ma una sola, formano un corpo ostile, e giustamente ostile, contro quello che sta da questa parte. Non c’è comunicazione, non c’è possibilità di accordo, non è possibile insegnare niente con il metodo con cui si sta insegnando e si è insegnato fino adesso: il professore che sa tutto e gli alunni che non sanno niente e vanno a bere il sapere di quel signore che è seduto li, il quale non ha niente da imparare dagli altri. Questo è completamente... 170

...ma ora tutto questo è cambiato; e d'altronde il rapporto era giunto ad un tale grado di saturazione e di ipocrisia, che la contestazione è maturata rapidamente: e forse qualcuno di noi l'ha anticipata...

...beh, stavo appunto dicendo di essere arrivato a questa con­ clusione molto prima che tutto questo avvenisse nel mondo, prima che tutto questo finisse... È curioso che analizzando me stesso io mi' domandavo come potevo risolvere la questione, perché è chiaro che è importante che io veda gli studenti... E allora è andata cosi: a Barcellona una professoressa di letteratura ispano-americana mi chiese di avere un incontro con i suoi alunni. Io le spiegai la mia perplessità e le dissi: «Cerchiamo di risolverla così... Quanti sono i suoi alunni?» le chiesi. «Quaran­ ta » mi rispose. E io faccio : « Io ne vedrò quattro per dieci volte e non alfUniversità, ma in un caffè ». E così per dieci lunedì di fila, alle cinque del pomeriggio mi sono incontrato con quattro ragazzi per volta e ci siamo presi un caffè insieme, ognuno pagando il suo. È stata un’esperienza straordinaria, abbiamo parlato di tutto un po’, di cinema, di musica, finendo col parlare di letteratura, dei miei libri, dei libri di altri autori... Alla fine eravamo diventati amici... Ho finito col diventare praticamente amico personale di tutti, però cosi, per gruppi. E mi rendo conto in questo momento, perché voi mi avete spinto a pensarci, mi rendo conto che proba­ bilmente sono arrivato a questo punto «per aver cominciato a scuola ad avere l’idea che la vita non poteva essere così...

...ma poi la scuola è diventata potere politico, il discorso quindi si estende e ingigantisce... Beh... visto che mi sono messo a fare il critico con voi, imma­ gino che questo può essere un... può essere la spiegazione... voglio dire che evidentemente la mancanza di solidarietà è già chiaris­ sima in questo esempio che ho portato della scuola. Si, lo vedo molto chiaramente, e comprendo che tutto questo può ingigan­ tirsi e investire tutta la società...

... interrompiamo un momento questo discorso ed entriamo su un terreno più letterario... Di questo parleremo dopo... ...sì, per me è più comodo... appunto... 171

...ecco, il rapporto tra realtà e fantasia... Cioè, c'è stato in te un primo incontro con un tipo di letteratura, quella kafkiana, per esempio, labirintica, no? difficile. E poi rincontro con Faulkner e Camus, che hanno rappre­ sentato, lo hai dichiarato tante volte, i tuoi punti di riferimento... Ora, vediamo un po' questo rapporto tra Macondo che è questa geografia della coscienza da una parte, e quella contea della Louisiana in cui Faulkner ha ambientato tanti libri e in cui domina la dinastia degli Snopes...

...dunque, prima di tutto, ecco, non bisogna dar troppo peso alle mie dichiarazioni, perché come vedete, generalmente, le faccio in preda al terrore e con una gran voglia di farla finita, così che io ho dichiarato qualche volta tutto questo, e probabilmente è vero, e probabilmente in questa conversazione ci rendiamo conto che, sì, è proprio vero quello che ho detto... però io non vorrei pren­ dere come punto di partenza nessuna mia dichiarazione, e invece riesaminare le cose dal principio. Prendiamo un punto di partenza che è questo: a scuola, evidentemente, io ho sempre avuto una preferenza per la letteratura. Cioè, non c’è dubbio che fra l’aritmetica e la letteratura preferivo quest’ultima. Dirò di più, sono sempre stato un gran lettore di poesia e continuo a esserlo. A dire il vero, il mio contatto con la letteratura è stata la poesia... E come succede sempre — è un dato curioso che mi piace annotare qui — uno entra nella poesia grazie ai cattivi poeti. Voglio dire che se uno studente di scuola media a dodici anni incontra Mallarmé o Rimbaud o Ungaretti, io credo che la poesia non gli interessi, se non vi è preparato, la poesia non può interessarlo. E allora comincia coi cattivi poeti, con quelli che fanno tatatà-tatatà-tatatà e tutto questo gli piace, crede che sia poesia, si immerge total­ mente in quel mare di pessima poesia e per questa strada finisce con lo scoprire quella buona... Ecco perché la cattiva poesia finisce per essere necessaria, indispensabile, in quanto permette l’accesso... alla buona poesia. Stavo dicendo insomma, che le mie letture sono sempre state poetiche e... non pensavo, non ho mai saputo se sarei diventato uno scrittore o no: non è escluso che abbia scritto dei versi, di quelli che si perdono così... Continuavo a leggere, e verso i diciotto, diciannove anni, quando già ero all’Università, una sera mi misi a leggere La metamorfosi di Kafka. È un episodio che non dimenticherò mai, perché io arrivai alla pen­ sione per studenti dove abitavo, indossai il pigiama, mi misi a letto, aprii il libro e lessi una frase che dice: «Quella mattina, svegliandosi, Gregorio Sanza si ritrovò trasformato in un gigan­ tesco insetto ». In quel preciso istante io decisi di essere scrittore. 172

E un istante che io..., voglio dire se mi metto a pensarci bene, attentamente, potrei precisare nella data e nell’ora... Perché quando lessi quella frase io dissi a me stesso: «Ah, se questa è la letteratura, allora si...». Perché io non sapevo che questo era valido in letteratura... se questo è valido... io credevo che ci fos­ sero delle cose proibitive nello scrivere, per cui quando invece vidi che era possibile, dissi, allora sì, mi interessa farlo... il che significa che in un modo o nell’altro dormiva dentro di me il desi­ derio di far qualcosa che non avevo il coraggio di mettere in atto, perché c’era una repressione, diciamo, di tipo retorico, tutt’intorno a me, cioè io fino allora ero vissuto in un ambiente in cui la letteratura era qualcosa di molto meno audace, di molto più accademico e tradizionale di tutto questo. Esisteva qualcosa che non me lo aveva permesso e che evidentemente era l’ambiente sociale e culturale in cui vivevo. Non mi aveva permesso di com­ prendere quale fosse il genere di letteratura che volevo fare o che avrei voluto fare. Perciò in quel momento cominciò per me, nella mia vita, diciamo la coscienza che era possibile in letteratura lavo­ rare con questo raro ricambio di realtà e fantasia, una confusione per cui non si sa mai dove cominci l’una e finisca l’altra. E non perché io lo abbia inventato, ma perché nel leggere quella frase di Kafka credo di aver avuto rapidamente coscienza che tutti i ricordi della mia infanzia, tutto quello che mi interessava nella vita, che mi piaceva, che mi pareva valesse davvero la pena di scrivere e raccontare, e che mi era successo, che avevo visto succedere, era questo, era una cosa che non si sa molto bene, una realtà che pare fantasia e una fantasia che pare realtà. Tutto il mondo della mia infanzia è pieno di questo, tutta l’America Latina è così.

...ecco allarghiamo di nuovo il discorso al mondo delVinfanzia nel­ l’America Latina... L’infanzia in America Latina è un andare e venire dalla realtà alla fantasia, in primo luogo perché... perché la vita stessa è così in quei paesi, e poi perché i più grandi ingannano i più piccoli, allontanandoli dalla realtà... Per esempio, c’è un caso concreto, che è l’estremo e per questo lo cito, dell’ascesa al cielo di Remedios La Bella in Cent’anni di solitudine. Io ho creduto davvero per molti anni che una ragazza fosse stata assunta in cielo in corpo e anima. Ci ho creduto tutto il tempo della mia infanzia perché in casa, nella casa dei miei nonni se ne parlava, si diceva di una... beh in realtà adesso so che si trattava di una ragazza scappata col 17}

fidanzato e scomparsa per sempre. Ma la famiglia, per lavare l’onta e mantenere... insomma perché non fosse una pubblica ver­ gogna, sparse la voce e sostenne con la maggiore naturalezza pos­ sibile che era salita in cielo in anima e corpo. E c’è una cosa che è molto triste e anche molto bella: capitò che qualcuno dicesse alla madre: «Ma tu sei pazza, se lo sanno tutti che non è cosi...» — « Però se la Vergine Maria è andata in cielo in corpo ed anima e tutto il mondo lo crede, perché non devono credere me?». Dunque stavamo dicendo che a partire da quel momento Kafka divenne il mio autore-chiave e che la lettura di Kafka mi mise sulla strada della letteratura, e mi fece prendere la decisione di essere uno scrittore... però mi resi subito conto che non sarei diventato un poeta... no... non avrei scritto versi, non avrei scritto opere di teatro, ma romanzi: cioè avrei raccontato delle cose come quelle che raccontava Kafka. E cosi mi misi al lavoro, cominciai a scrivere sul serio racconti. Erano dei racconti molto confusi, metafisici, malamente kafkiani diciamo, perché già lavorando in questo senso mi si presentò il problema della tecnica. Una cosa è sapere che cosa vuoi raccontare, e un’altra è sapere come raccon­ tarla, qual è il veicolo, è un apprendistato, qualcosa che si impara solo scrivendo... Io credo che solo scrivendo si impari a scrivere... È a questo punto, Gabo, che forse è intervenuto Faulkner, quando è nato per te il problema dell'espressione...

...ci sto arrivando... ci sto arrivando perché è chiaro, voglio dire che esaminando attentamente i miei libri risulta molto chiaro in che momento ho letto Kafka e ho cominciato a scrivere, e quando si sovrappone la lettura di Faulkner. Dunque, se con Kafka avevo capito che cosa bisognava scrivere, con Faulkner capii come bisognava scrivere, e la cosa strana è che io non credo che tante coincidenze riscontrabili fra alcuni libri miei e di Faulkner siano dovute a un’influenza diretta di questo scrittore, ma a quel tanto di simile che esiste, e io ne ebbi coscienza, fra il mondo del Sud degli Stati Uniti e quello dove ero cresciuto. La cosa poi non è così difficile da stabilire come pare, perché Aracataca, il mio paese, era il posto dove si trovava la Compagnia Bananera. Era un paese che all’inizio praticamente non esisteva, e che crebbe e si sviluppò sotto l’impulso della Compagnia; perfino l’architettura è la stessa del Sud degli USA. Un paese con una influenza nordame­ ricana molto definita, e io trovavo d’improvviso nei libri di Faul­ kner descrizioni di strade, di case, di botteghe, del tutto uguali a 174

quelle della mia infanzia: cosa che ebbi modo di verificare moki anni dopo, durante un mio viaggio nel Sud degli Stati Uniti in cui avevo come guida i libri di Faulkner, e riscontrai che era esatta­ mente uguale al mondo e all’ambiente in cui ero cresciuto. Può darsi che ci sia nei miei libri un’influenza letteraria di Faulkner, ma la cosa che mi colpì fu questa coincidenza, e pensai che se questo mondo era uguale al mio, potevo raccontarlo con gli stessi mezzi letterari. Questa mia esperienza con lo scrittore americano è stata assai curiosa, perché fu cosi grande l’aiuto che ne ebbi da farmelo considerare come un dio, per me non esisteva altro. Ora vedo la cosa con più obiettività, continuo a pensare che sia uno dei massimi scrittori di tutti i tempi, forse il maggior romanziere di questo secolo, ma non mi appassiona più come prima. E direi che mi piace sempre meno... ...andiamo adesso verso il futuro... e ritorniamo al discorso che ave­ vamo interrotto e di cui il tuo nuovo libro, L’autunno del patriarca, è un'emblematica espressione... cioè torniamo al problema del dispotismo e del potere politico...

...dispotismo si, ma non nei confronti di una società, bensì rivolto contro lo stesso despota che lo esercita. Insomma, per semplificare, vorrei dire questo : ne La mala ora si apre un discorso che mi ha interessato sempre, ed è quello del potere... cioè in questo romanzo, in forma rudimentale, il problema già esiste perché c’è un alcalde che viene mandato a sottomettere una popo­ lazione e non si sa come finisce con l’essere lui stesso sottomesso dal popolo. Poi è evidente che questo discorso continua nel per­ sonaggio del colonnello Aureliano Buendia... Aureliano Buendia è un uomo che si va deteriorando a misura che acquista potere... E la domanda rimasta in sospeso per me, come scrittore, nel risol­ vere il personaggio di Buendia è: che cosa sarebbe successo se invece di perderle le guerre, le avesse vinte e fosse arrivato al potere... Non mi interessava tanto sapere come sarebbe divenuta Macondo con un colonnello Buendia al potere, ma come sarebbe stato lui stesso, una volta arrivato al potere, che cosa gli sarebbe successo. E la risposta a questa domanda è praticamente L'autunno del patriarca. È la vita, diciamo, una meditazione sulla vita intima, e la psicologia, e la vita emotiva di un dittatore, già in là con gli anni: c’è chi ha parlato di duecento settanta anni, di duecento cin­ quanta, in realtà l’età non è indicata, è un uomo vecchissimo che da tanto tempo è al potere. A me non interessa tutta la sua vita, 17)

ma solo l’autunno, cioè a dire il momento in cui comincia a decli­ nare, quando lui entra in una specie di limbo che è, io credo, il limbo del potere assoluto... Io ho lavorato molto su questo libro, 10 avevo cominciato prima di Cent'anni di solitudine.,, ma no... non andava, e adesso capisco perché, perché era un’inversione del­ l’ordine del discorso... Ma adesso funziona... Debbo solo rileg­ gerlo dopo averlo lasciato riposare per un po’. Debbo lasciarlo riposare, per acquistare una certa distanza e vederlo in una prospettiva, dato che si tratta di un libro azzardato, nel senso che mi interessava troppo il discorso sulla solitudine del potere... Il problema è tutto qui: la definizione, perché la solitudine del potere io la intendo come la perdita totale del senso della realtà... E la definizione da cui io parto : come si possa perdere del tutto il senso della realtà nel potere assoluto, si perde perché si alterano i canali d’informazione, ed è lo stesso meccanismo del potere, la stessa burocrazia ad alterarli... Fin dall’inizio era questo che mi interessava mettere a fuoco, ma era anche la principale difficoltà del libro, cosi come quello che ritardò la stesura di Cent'anni di solitudine fu trovare il tono. Il materiale lo avevo tutto, perché esisteva, anche il metodo lo avevo inquadrato, ma mi mancava il tono: quando lo trovai, Cent'anni di solitudine divenne un romanzo...

...sono quindi sopravvenuti problemi di stile, di tecnica letteraria...

...esattamente... Ne L'autunno del patriarca è insorto un problema di stile, perché se io lo raccontavo con uno stile classico, tradizionale, con una struttura più o meno accademica, conven­ zionale, non ne sarebbe sortita che una biografia in più di un dit­ tatore dei Caraibi. Falsa, ma una biografia... E qualsiasi altra autentica, reale, sarebbe stata migliore di questa mia, perché la realtà in America Latina, e soprattutto a livello del potere dei dit­ tatori dei Caraibi, arriva a forme assolutamente fantastiche e del tutto inconcepibili. Perciò io mi sono documentato leggendo tutto quello che ho potuto trovare sui dittatori in generale e su quelli dei Caraibi in particolare... Volevo leggere tutto per farmi un’i­ dea, senza però utilizzare nessun aneddoto, era quasi una lettura di difesa, proprio per non avere appigli concreti e inventare tutto 11 libro, partendo tuttavia da una conoscenza storica acquisita. L’unica arma in mio potere per combattere contro la realtà, in questo caso, era la letteratura, era la poesia. E così questo mondo crudele, questo mondo sanguinario, questo mondo spaventoso 17 6

che è l’universo del dittatore, è trattato in modo assolutamente lirico, e il libro si presenta come un poema in prosa: un poema in prosa di quattrocento cinquanta pagine...

...ma anche nel racconto di Eréndira esiste un problema del genere, magari più allusivo, simbolico, perché è concentrato su un potere domestico, familiare... ...il pericolo in Eréndira era proprio questo, che tutto potesse apparire simbolico, tanto è evidente l’allusione, anche se alla fine si tratta di un vero e proprio colpo di stato. Infatti, alla fine, l’im­ pressione è che Eréndira non liberi se stessa, ma piuttosto si impadronisca, assuma il potere della nonna. Ma questo racconto è di molto anteriore, in quanto è l’ampliamento di uno spunto già esistente in Cent'anni di solitudine.

ERNESTO SABATO

Roma EUR. La geometria della civiltà dei consumi investe e coin­ volge, con il suo asettico universo, uomini e cose come in una spira mortale. « È il quartiere dell’angoscia », ci dice all’orecchio Ernesto Sabàto, da poco sbalzato da un mostro all’altro, dalla Buenos Aires alienata (« La psicanalisi trionfa e il porteno se** ne serve come il pane... ») a questo lembo di non-Roma che stravolge e imperversa, di continuo riproponendo lo schema arido dei destini. Sabàto è con noi, in una stanza vuota dell’istituto Latino-Americano di cui è ospite per qualche giorno, ha avuto un incontro con il pubblico romano nella Sala delle Conferenze, si diverte a ripassare il suo ita­ liano, già vissuto in famiglia («una delle tante famiglie italiane emigrate in Argentina») e chiacchierando con noi, dal congegno del potere passa a parlare di tutto, di Solzenitstin e del Cile, di Guevara e di Borges, dell’infanzia e ideila prima attività politica. I tre nodi della sua angoscia affiorano continuamente come fantasmi inaccessibili e .ricorrenti: politica, letteratura, scienza, anarchia, comuniSmo, metafisica, il gabinetto scientifico di Joliot Curie a Parigi, che lo accolse una volta in fuga da Mosca, lui dele­ gato ufficiale della gioventù comunista argentina. Si coglie a volo il peso specifico della parola scandita e razionale (« Questa feroce lucidità che ora posseggo è come un faro che mi consente di proiet­ tare un raggio intensissimo di luce su vaste regioni della mia memoria »), e allora la letteratura cessa di isolarsi nel mondo di una metafisica astratta, per assumere i contorni concreti di un reale proiettato in avanti lungo i sentieri che sui crinali del vero, dello ”sperimentato” conducono fino alla terra bruciata del nulla (« Ci vollero anni perché potessi oltrepassare le barriere esterne. E così, a poco a poco, con forza grande e paradossale, come quella che in un incubo ci fa muovere incontro all’orrore, andai penetrando in quei 178

proibiti territori in cui incomincia a regnare l’oscurità metafisica, qua e là intravedendo, dapprima in modo indistinto, come fuggevoli dubbi e fantasime, poi con maggiore e terribile precisione, tutto un mondo di esseri abominevoli»). Si precisa il senso della letteratura attraverso un vasto arco proiettivo che compromette ogni gesto umano, intrica la mente e impegna sottilmente, e per intero, il civile legame tra l’uomo stesso e la storia. Dall’abisso senza fondo dell’inconscio emerge il filo della ragione come univoca zattera di salvezza di fronte al naufragio urbano («Dopo New York... Buenos Aires è la città più mostruo­ samente alienante del mondo...»), il pozzo della solitudine si riempie fino al margine dei rigurgiti frantumati della realtà (« Sen­ tii una specie di vertigine, persi i sensi e sprofondai in un caos, ma alla fine riuscii a riprendermi con uno sforzo enorme e cominciai a riunire i fili della realtà che parevano volersene andare alla deri­ va. Una specie di àncora. Proprio cosi: come se fossi obbligato ad ancorare la realtà, ma come se la nave fosse composta da molti pezzi scomponibili e prima dovessi legarli tutti insieme e poi get­ tare una robusta àncora perché il tutto non andasse alla deriva»). Tutto l’uomo è in discussione nella ”metafora delle tenebre” che si scioglie soltanto con il difficile viaggio al fondo della notte, negli inferi senza scampo dell’immanente, e illuminante, ragione.

Il ragazzo che muore torturato per non confessare si converte in una testimonianza assoluta dell’umanità ed è grazie a lui che si può continuare a vivere.

Per uno scrittore come te, Ernesto, il momento dell’urto contro il potere, famigliare presumibilmente, deve esserti restato lucido della memoria, anche in virtù nella tormentata razionalità del tuo discorso letterario... Bene, credo che in tutti o in quasi tutti i casi, il conflitto iniziale è con il padre. Nel mio caso particolare, credo che sia stato molto decisivo, perché mio padre era estremamente severo. Era italiano, un montanaro, voi sapete che i montanari sono gente molto dura in genere, e io ho sofferto molto, credo che tutti noi figli, ma parti­ colarmente gli ultimi due, eravamo undici figli maschi... tutti maschi, e gli ultimi due, uno dei quali ero io, hanno sofferto molto, per la presenza e l’atteggiamento generale, per l’educazione che ricevevamo, quella che effettivamente ora si chiama, nel linguaggio d’oggi, la figura patema su di noi potente e forte. Di modo che, direttamente o indirettamente, coscientemente o incoscientemente, credo che la mia prima ribellione sia stata quella contro il padre: tutte le altre ribellioni che ho avuto nella mia vita credo derivino da questa. L’autorità paterna per me fu ”la” autorità. E tutta la mia vita — io la esamino retrospettivamente... lo faccio spesso e intensa­ mente in questi ultimi anni — penso sia stata caratterizzata da un atteggiamento di ribellione... Voi sapete bene che ribelle è una cosa e rivoluzionario un’altra... bene, io sono stato un ribelle tutta la vita... e credo che morirò continuando ad esserlo. Voglio dire: non ho potuto mai accettare nessuna specie di autorità... non dico che sia un bene, ha anche un suo lato umano, però è così. Questo per quanto riguarda il mio primo atteggiamento nei confronti del potere, quello paterno, appunto. Più tardi, credo che la mia seconda ribellione, cronologicamente parlando, perché spiritualmente credo sia sempre la stessa cosa... sono ipostasi del medesimo 180

fenomeno inconscio... la mia seconda ribellione è stata contro quella che possiamo chiamare la società borghese. Mio padre pos­ sedeva una piccola fabbrica, non era una gran fabbrica, era un bor­ ghese, certo, ma non un gran borghese, in nessun modo... ma il mio cuore — per dire così, con una metafora tanto logora — era sempre della parte degli oppressi, e continua ad esserlo, siano ope­ rai, negri, ebrei, vietnamiti, donne... non mi è mai piaciuta l’op­ pressione...

... è una sorta di repulsione che ha remote origini...

... è un disgusto più che politico, o meno che politico, è un disgusto spirituale, non sopporto l’oppressione di nessuna specie. Non sopporto l’oppressione degli animali, per esempio, detesto gli zoo. Nel mio ultimo romanzo c’è un capitolo intero su un analfa­ beta che fa la filosofia dei giardini zoologici. Detesto soprattutto la prigionia dei grandi animali ingabbiati, i leoni per esempio, che sono animali così nobili... e cosi innocenti, non sopporto questa indegna coartazione, questo incarceramento... Dunque, la seconda ribellione fu di natura politica, nei confronti del potere borghese. Ma state attenti, perché credo che questo sia significativo, ciò non avvenne in un movimento organizzato, assoluto come il comu­ niSmo. Il mio primo moto fu di avvicinarmi agli anarchici. Il movi­ mento anarchico in Argentina era molto forte, dalla fine del secolo fino al 1930... l’anarchia europea, soprattutto quella spagnola e ita­ liana, ebbe un grosso centro a Buenos Aires... Buenos Aires, dopo Barcellona, è stata la città anarchica più forte del mondo, arrivò ad avere due quotidiani anarchici La Protesta e La Antorcha. Questo fu il mio approccio al movimento anarchico... avevo diciassette anni quando mi accostai agli anarchici argentini. C’era un grande anar­ chico con il quale entrai in contatto, si chiamava Di Giovanni, un italiano, Severino Di Giovanni, anarchico molto noto in Argentina che fu fucilato nel 1930. Io mi misi in contatto con lui e con la gente che lo circondava e presi parte a molte azioni anarchiche. L’anar­ chismo aveva — lo sapete, è inutile spiegarlo a degli italiani perché l’Italia è il paese in cui l’anarchismo ha avuto più forza, più influenza — aveva molte caratteristiche, c’erano molte forme di anarchia, molte specie di anarchici... c’erano i tolstoiani, pacifisti, ma all’altra estremità c’erano anche i terroristi... beh, io ero legato ai terroristi... di modo che la ribellione in me assumeva le forme più violente, quasi di violenza fisica... Iti

È stato un vero sobbalzo di coscienza allora, quello che ti ha spinto contro la sopraffazione politica, nei confronti del sottile gioco del potere politico... Il tuo incontro con gli anarchici ha significato questo, evidentemente... ... certo, si è verificato fra i sedici e i diciassette anni, al momento della crisi dell’adolescenza. Vedrete come nel mio ultimo romanzo tutto questo viene riproposto in due ragazzi, quasi ado­ lescenti, che sono ribelli e cercano... per cosi dire, l’assoluto. L’as­ soluto non lo si può cercare in forma astratta, cioè i grandi problemi metafisici non si impostano mai per astrazioni. Questo può valere per un trattato filosofico... negli esseri umani si impostano in forma politica per esempio... L’assoluto può essere, che so io, cercare la società ideale, lottare contro la menzogna, diciamo così, no?... La menzogna ideologica, tutte le forme di ideologia, tutte le forme di mistificazione... l’adolescente rifugge dalla mistificazione, sente, fiuta la mistificazione, possiede una spe­ cie di sesto senso, spirituale, che gli indica quanto sia ipocrita una società. Cosi che la ribellione contro l’ipocrisia e la ricerca diventa ansia di verità, della Verità con la V maiuscola, no?... bene, in questo romanzo, ci sono due ragazzi che cercano la verità, sono due ribelli, è il problema della crisi dell’adolescenza: il ragazzo viene educato con l’idea della verità e arriva un momento in cui vede che tutto è falso, che sono tutte mistificazioni, che gli hanno mentito, i genitori gli hanno mentito, la società gli ha mentito, i giornali mentono, l’università mente... Se il ragazzo possiede qualità spiri­ tuali può avvenire una grossa esplosione: può suicidarsi, uccidere qualcuno, buttare una bomba, entrare in un partito politico... attenzione... il discorso è importante... io credo che la ribellione dei giovani sia un fenomeno che... è più che un fenomeno sociale, a volte superclassista... ci sono ribellioni classiste per altri motivi che sappiamo, scioperi, lotte per il salario, ma ve ne sono altre che vanno al di là delle classi. In fin dei conti, nemmeno il complesso di Edipo è un complesso classista, esiste in società diverse fra loro, esisteva all’epoca di Edipo, come tutti sappiamo, esiste anche nella società capitalista e in quella comunista. Ma dobbiamo ammettere che vi sono fenomeni umani che stanno al di sopra della semplice caratterizzazione classista... ma torniamo al nostro discorso... credo che questa ribellione abbia coinciso con la fine della mia ado­ lescenza e credo sia significativo che io sia stato un anarchico. Poi, i libri, i contatti con altri compagni più grandi, lo sviluppo del movi­ mento comunista mi fecero comprendere — o credetti di compren­ dere — che l’anarchia era un vicolo cieco e che il comuniSmo era il 182

movimento organizzato che doveva rimpiazzare il terrorismo... fu così che entrai nel movimento comunista. A questo punto, il tuo discorso ci conduce fino alle soglie del rapporto fra letteratura e politica, e di scorcio al potenziale di incidenza che in tale incontro ha avuto la tua attività scientifica, che ha occupato buona parte della tua vita...

... vedete, tutto questo è tremendamente collegato e fram­ misto... non si può far qualcosa di esclusivamente logico... la vita è complicata e non obbedisce alle regole della logica, né al principio di contraddizione... la vita è un insieme di contraddizioni. Io perso­ nalmente mi sono sempre mosso fra violente contraddizioni... entrai nel movimento comunista, per necessità spirituale... per motivi analoghi entrai nel mondo della scienza. Avevo avuto un’in­ fanzia assai caotica, molto cupa, e la scienza, quando la scoprii... la geometria... avevo tredici anni... il primo teorema mi rivelò una sorta di mondo sicuro, trasparente, chiaro, insomma la caratte­ ristica del mondo platonico, eterno, incorruttibile. Io vivevo osses­ sionato dalla transitorietà, dalla putrescenza, dalla mistificazione, reagivo contro tutto questo... e chiaramente il mondo della mate­ matica non poteva che soggiogarmi... incontravo un universo vero e puro. Studiai la matematica per questo, come tutte le cose che ho fatto, io non ho studiato per convenienza, ma per una necessità spi­ rituale. Incontrai una specie di oasi... e più tardi quando entrai nel movimento politico ed ebbi la grossa crisi dopo cinque anni di comuniSmo, quando iniziarono i processi di Mosca e io mi trovavo a Bruxelles, ero già combattuto da dubbi filosofici e politici a pro­ posito dello stalinismo... ero segretario della gioventù comunista argentina allora... dovevo andare in Russia alla scuola leninista, e invece fuggii a Parigi, dove venni aiutato da un trotzkista che si chiamava Etchebehere, una gran persona che poi morì nella guerra di Spagna, in un carro armato. Sebbene io non fossi trotzkista, non lo sono mai stato, era naturale che nel fuggire dallo stalinismo mi avvicinassi al trotzkismo. Ma l’aiuto di Etchebehere fu un fatto umano incommensurabile, non politico. Non avevo da mangiare, dovetti dormire, all’inizio, sulle panchine delle piazze di Parigi... venne l’inverno, fu un inverno molto duro... in quel momento di caos tutto un mondo mi si sbandava intorno, perché il comuniSmo mi aveva dato una specie di sistema di coordinate, apparentemente solido... nello sgretolamento di questo sistema di coordinate, nel­ l’entrare di nuovo in pieno caos... sentii di nuovo la necessità di 185

tornare alla scienza, a questa zattera di salvezza. Così quando potei far ritorno in Argentina, dopo vari mesi, rientrai a quell’istituto di Fisica dove avevo abbandonato i miei studi. E li studiai in un modo direi parossistico, come per fuggire da tutta una realtà che mi aveva tormentato e terminai i corsi laureandomi in Fisica... poi ebbi una borsa di studio per lavorare a Parigi, con i coniugi Joliot Curie al­ l’istituto del Radio, nel 1938, prima della guerra...

...ma anche quella continuò ad essere un'esperienza politica... ... fu anche un’esperienza politica, perché l’istituto Joliot, tutti i Joliot, erano un nucleo di uomini di scienza fortemente politiciz­ zati. Fra gli altri c’era Bruno Pontecorvo, che poi andò in Inghil­ terra e di li fuggi in Russia! ! c’era anche un altro italiano De Bene­ detti, che credo ora si trovi negli Stati Uniti. Insomma c’era un gruppo di gente, fra cui lo stesso Joliot che ebbe notevole parte durante la guerra, nella Resistenza. Nel trovarmi di nuovo nel mondo della scienza, allora, svolsi lavori di radiazioni atomiche e di relatività, cominciai a capire che questa era stata una fuga da parte mia, che nemmeno questa era una soluzione, era invece una fuga verso un mondo platonico... e capivo frattanto che il mondo vero, il mondo in carne ed ossa, era fuori, in attesa, e io avevo in un certo modo tradito me stesso. Ebbi allora un’altra reazione, opposta: mi •'vicinai al surrealismo... lì a Parigi... cioè al mondo opposto a quello della scienza... dal mondo della chiarezza a quello del­ l’oscurità, dal mondo della ragione pura a quello dell’irragione, dell’inconscio, del mito e della fantasia...

...fu il momento dell'amicizia con André Breton... ... si, fu allora che conobbi Breton, e diventai molto amico di Dominguez, un pittore surrealista, famoso perché fu quello che strappò l’occhio a Victor Brauner: questo incidente compare nel mio ultimo romanzo, dove ritornano tutte le mie vecchie osses­ sioni. Fu allora che io ebbi il mio contatto vitale con il surrealismo, ma nemmeno questo fu un contatto libresco... vissi l’avventura sur­ realista soprattutto con Dominguez che a mio avviso fu forse uno dei pochi surrealisti che visse davvero quell’esperienza. Questo pit­ tore spagnolo fu davvero per me una specie di paradigma del movi­ mento surrreale, non era un mistificatore come Dalì, era un surrea­ lista autentico,,, e per me fu una specie di esempio all’interno di un’esperienza nella quale soffrii molto... mi lacerai del tutto... 184

...forse perché cercavi un punto di contatto tra surrealismo e marxismo, che forse esiste...

... beh, in quel momento mi ritrovai al crocicchio di molte vie di cui si sta parlando con voi, politica, arte, scienza. Io venivo dal marxismo e venivo dalla scienza: quest’ultima mi aveva coinvolto profondamente, avevo studiato non soltanto la fisica, le origini della fisica al tempo dei comuni italiani, cioè a dire alla comparsa della classe borghese, un fatto che coincide con la storia del pen­ siero scientifico. Di fronte a tutto ciò vi era il surrealismo, al quale arrivai forte di questa doppia esperienza, marxista e scientifica. Tanto il marxismo quanto la scienza hanno dei punti di contatto perché provengono tutti e due dal pensiero moderno e dalla com­ parsa della classe borghese... mi trovavo all’improvviso di fronte ad un movimento ribelle e oscuro che aveva a che vedere non con la scienza ma con l’inconscio... è a mio avviso il polo opposto del marxismo e della scienza. Voi mi chiederete: ma allora come si spiega che il manifesto di Breton parla di materialismo dialettico ? Io posso rispondere in due parole, che mi pare un fatto delirante : 10 ho avuto una grande amicizia per Breton, lo considero un magnifico poeta, ma credo che quel suo documento sia delirante... non esiste alcuna possibilità coerentemente filosofica di accoppiare 11 surrealismo con il materialismo dialettico, è un’assurdità senza fine... ... e allora torniamo al tema dell’incontro fra politica e letteratura...

... certo... ma questo preambolo era indispensabile, dal momento che tutto nella mia vita è andato confluendo verso quello che finalmente sono stato. Voglio dire che quello che io sono adesso è il risultato di tutte quelle esperienze umane di lettura, di uomini, di dottrine, di vita, di movimenti rivoluzionari, fino ad arrivare a quello che sono adesso. Io non sono arrivato alla lettera­ tura per motivi strettamente letterari, tutto in me è stato torbido e complicato e contradditorio, sono arrivato alla letteratura per non esplodere, per non morire: la mia esperienza letteraria è stata qual­ cosa come la necessità di esprimere tutto questo caos nel quale mi ero mosso e di dare sfogo non solo alle mie idee, ma alle mie osses­ sioni piu profonde e più inesplicabili. Il vantaggio della letteratura sulla filosofia è che mentre la filosofia opera con concetti puri e con pure ragioni, la letteratura opera con la totalità dello spirito umano, vale a dire con concetti ma anche con intuizioni, con 18)

ragioni ma anche con irragioni, con gli elementi diurni del­ l’esistenza, ma anche con gli elementi notturni dell’esistere, con i deliri, con i sogni, con le ossessioni arcaiche... tutto... perciò io credo che se esiste un’attività dello spirito in quest’epoca di crisi totale dell’uomo che può dare l’espressione globale della crisi stessa, non è la filosofia né nessun’altra attività, meno che mai la scienza, bensì la letteratura d’invenzione. Il tuo discorso ci ha spinto fino al margine del rapporto tra immagine e realtà, in un'opera come la tua che è stata più volte definita metafisica. Il baratro dell’evasione è lì a due passi... ti devi difendere... e con quali mezzi...

Ho detto prima che i problemi metafisici dell’uomo, del­ l’esistenza umana, cioè il problema della solitudine, della morte, il senso dell’esistenza, dell’angoscia, sono problemi metafisici, e quindi metastorici perché esistevano fin dal tempo degli antichi romani, dei greci, durante la rivoluzione francese, ed esistono ora. E in quanto tali hanno a che fare con la condizione ultima del­ l’uomo: per essere mortale, l’uomo muore tanto in una società capitalistica come in una società comunista... la solitudine si sconta in qualsiasi società. Ma questi problemi, ovviamente, non si prospettano in astratto, bensì in concreto, in individui in carne ed ossa, che vivono in una determinata società, in un’epoca storica. E allora si colorano e assumono le caratteristiche dell’epoca. Non è la stessa cosa la solitudine nella città di New York oggi di quella che si può patire in un villaggio o in una piccola cittadina greca: sono due cose diverse: cioè a quel punto interviene l’inserimento della storia nei problemi permanenti dell’uomo. Evidentemente l’uomo è un essere storico da questo punto di vista, l’uomo ha due strati, quello biologico, e su questo essere naturale si costruisce l’essere culturale che possiede un senso storico, su questo non c’è dubbio, no? Quindi, i problemi metafisici compaiono nella letteratura dove i personaggi sono sempre carnali, di modo che in letteratura i problemi metafisici si incarnano appunto, e allora per esempio, il problema della ribellione cui accennavo all’inizio si presenta in forma diversa in un ribelle che diventa comunista da quella che poteva essere la ribellione all’epoca dei greci. E così va a vedere, discute su Stalin, discute su Trotzkij, sulla rivoluzione latinoameri­ cana... i problemi dei miei romanzi sono metafisici, quindi, ma incarnati... Nei due romanzi precedenti e in questo che sta per uscire anche in Italia, il mio terzo libro, ci sono due ragazzi: uno 186

svolge un’azione nel movimento guerrigliero, nonostante ciò io credo che dal suo dramma personale si possa trascendere fino ad impostare il più generale problema della ribellione e del potere... ma non come potrebbe costruirsi un’opera filosofica dove tale problema può essere analizzato, ma come cosa viva e drammatica, perché il ragazzo viene torturato e ucciso con le torture... ... si imposta così il problema trascendente della tortura e della morte...

... esattamente, voglio darvi un esempio molto semplice che vi rivelerà quello che ho voluto esprimere in quest’ultimo romanzo Abaddon, el exterminador. Supponiamo l’epoca dello stalinismo e che qualcuno muoia in Argentina, uno studente com’ero io in epoca stalinista muore torturato per delle idee che poi, venti anni dopo, si riveleranno come idee errate. Mi ha sempre preoccupato questo problema perché io tutto questo l’ho vissuto... ma l’impostazione è questa: io ora mi rendo conto, dopo tanti anni, se scrivendo un romanzo sono arrivato a sentire, a comprendere che le cose stanno cosi: non importa che l’idea sia errata, l’idea può essere relativa, però accettare la tortura e morire per un’idea è un fatto assoluto. Il ragazzo che muore torturato per non confessare si converte in una testimonianza assoluta dell’umanità ed è grazie a lui che si può con­ tinuare a vivere... perché altrimenti l’esistenza sarebbe un’assoluta porcheria... Ed è qui che acquista tutto il suo significato il problema della morte. Non fa nulla che le idee possano essere discutibili o addirittura sbagliate, il fatto è assoluto, inamovibile, e ci serve per vivere. Ora, questi sono i problemi che io imposto e allora vien fuori la metafisica, una parola che ha cattiva stampa, soprattutto dal punto di vista marxista. Ma nonostante ciò, neo­ marxisti come Sartre hanno ricorso spesso alla parola metafisica per caratterizzare certi problemi ultimi della condizione umana, come la solitudine, la morte, la libertà, l’angoscia. Il che mi sem­ brava vero e giusto. Per tornare alla parola in questione, l’accusa di fondo è quella di fuga dalla realtà, come voi dicevate... nulla di tutto questo, è tutto l’opposto, la sola maniera per raggiungere la più profonda realtà degli esseri umani sta nella sua capacità di trascendenza metafisica. Perché continuiamo a leggere Dostoevskij o Tolstoi? Perché ci commuove ancora gente che in fin dei conti viveva in un’altra realtà? La Russia del secolo passato? Perché i problemi ultimi che Dostoevskij imposta sono sopranazionali e sopratemporali. Lo studente povero che in Delitto e castigo uccide con una sbarra la vecchia usuraia, in prima istanza è il problema di 187

uno studente povero di San Pietroburgo della metà del secolo scorso. Ma perché continua ad attrarci oggi? È evidente: perché ci sono aspetti dell’uomo che sono permanenti e soprastorici. Il com­ plesso di Edipo supera la storia, e cosi l’adolescente ribelle, la soli­ tudine, la morte... questi sono gli attributi che deve assumere una grande letteratura... altrimenti restiamo nella pura e semplice cro­ naca giornalistica, o nel migliore dei casi in una letteratura vera­ mente politica...

... ecco allora che il tema dell’ossessione riemerge da tutto quanto stai dicendo, soprattutto attraverso quel processo di identificazione che nel Rap­ porto sui cechi in Sopra eroi e tombe diventa momento cruciale della tua stessa capacità espressiva... ... le ossessioni... io credo che uno scrittore... dicevo prima che sono arrivato alla letteratura ossessionato, voglio dire che non sono un professionista della letteratura, ora vivo dei miei libri, ma non ho scritto per vivere dei miei libri... ho scritto per sopravvivere e per trovare un senso all’esistenza, per riesaminarmi e riesaminare il mio inserimento nel mondo. Non sono scrittore professionista, piuttosto ho con la letteratura professionale il rapporto che può avere un guerrigliero con un colonnello dell’esercito regolare. Io mi considero una specie di guerrigliero della letteratura : commetto molti errori, la mia letteratura è molto irregolare, grezza, quello che mi preoccupa è la salvezza dell’uomo, non... come dire?... la storia della letteratura... no... questo non mi preoccupa affatto... Dirò di più... io penso... sempre mi ha ossessionato un’idea di Nietzsche che dice che si può arrivare a scrivere qualcosa di impor­ tante nel momento in cui la letteratura ci fa schifo. A me la lettera­ tura fa schifo: non so se arriverò a scrivere qualcosa di importante, ma lo schifo per la letteratura resta... detesto la letteratura per la letteratura... per me essa è soltanto una ricerca di verità e di salvezza per l’uomo altrimenti non serve a niente... Mi chiedete delle osses­ sioni... ebbene, d’accordo con quello che ho appena detto, io scrivo quasi esclusivamente sulle mie ossessioni. D’altro canto, io penso, come diceva Kierkegaard, che più uno affonda nel proprio cuore più affonda nel cuore di tutti, di tutta l’umanità... cioè a dire questa dialettica esistenziale fa si che nell’affondare nella nostra soggetti­ vità affondiamo nell’umanità intera, perché in fin dei conti non viviamo soli, vivere è convivere, l’individuo solitario non esiste, l’uomo vive in comunità. Ogni coscienza è ipso facto una coscienza sociale, lo sappiamo, nella quale ogni letteratura per individualista 188

che possa apparire a prima vista, per ossessiva e delirante che possa sembrare, è anche una maniera di rendere testimonianza di un’e­ poca e di una società. Kafka, per fare un esempio illustre, non parla di scioperi, di ferrotranvieri per esempio, nella sua opera, nel Pro­ cesso... tuttavia credo che rimarrà come una delle testimonianze più forti della grande crisi occidentale. In tal senso sono convinto che il rapporto fra letteratura e politica possa prospettarsi... altrimenti sarebbe un rapporto falso e superficiale... Le ossessioni hanno a che vedere naturalmente con le forze, con gli strati più profondi della personalità, che sono al di sotto e che sono il fondamento delle cose esterne. Non si possono spiegare... le ossessioni... si pos­ sono descrivere... diciamo fenomenologicamente come fa la lette­ ratura. Se mi chiedete che cosa volessi dire con Rapporti sui cechi... io non lo so davvero... posso solo dire che in quel brano è tutto ciò che so e sento... e ognuno leggendolo verrà scosso in modo diverso, seppure verrà scosso. È un’intuizione che si riceve per canali che non sono razionali, per cosi dire, si ricevono nel plexus Solaris. Credo che questa sia la missione dell’arte, e lo strumento dell’arte è potente proprio per questa ragione. Non si scrive un romanzo con la sola testa, si scrive con tutto il corpo... la testa interviene, è ovvio, ci sono anche idee nel romanzo, però ci sono ossessioni, deliri, sogni. Ora, queste ossessioni sono fondamentali per la salvezza... vedete... la letteratura d’ossessione è imparentata con il sogno, è più vicina al sogno che alla filosofia, per esempio, logicamente. Si è provato in ricerche fisiologiche che se a un uomo si impedisce di sognare, lo si interrompe ogni qualvolta stia sognando, lo si porta al limite della follia... il sogno salva l’uomo dalla pazzia... è il rovescio della vita quotidiana, è un fatto antagonico, non è il riflesso della quotidianità, è un atto antagonico... il povero diavolo sogna di essere re, che so io, presidente della repubblica, un gran guerriero... è un atto antagonico... la letteratura anche... credo davvero che questa sia la missione fondamentale della letteratura: è come il sogno... nel romanzo si sogna per la comunità... proibire la letteratura o tentare di irregimentarla è condannare la comunità a una specie di follia... ... stiamo a un passo dall’interpretazione marxista della psicoanalisi...

... c’è qualcosa anche di questo, certo, io credo che Freud abbia una buona parte di verità, come del resto Marx... e non c’è motivo di opporre una cosa all’altra... sono verità complementari, che devono essere sintetizzate in una concezione superiore... cioè la 189

società da una parte, l’individuo dall’altra, le strutture economicopolitiche da una parte, le prestrutture di tipologia veramente umana dall’altra... ... vuoi dire le prestrutture deirinconscio..,

... l’inconscio... certo. I grandi archetipi, i grandi complessi che sono di tutti i tempi. La conciliazione di questo è indispensabile per arrivare a comprendere il problema... Quanto stai dicendo ci riconduce alia filigrana più essenziale della tua tematica, la solitudine urbana, fenomeno che fa seguito a quel tema su cui tanta letteratura argentina ha insistito, la solitudine della pampa, dell’uomo delle sconfinate pampas, le praterie dove alligna un diverso tipo di aliena­ zione... si può dire tu non abbia sentito il fascino dell’universo gauchesco dalla prigione metallica di Buenos Aires...

... io sono un uomo della Buenos Aires di oggi... Buenos Aires è una città mostruosa di circa nove milioni di abitanti... è la città alie­ nata per eccellenza... forse dopo New York è la città più alienata del mondo, dove tale problema, dell’alienazione e quindi della solitu­ dine è reale e potente, marca l’individuo, e perciò si affaccia in un modo o nell’altro nella letteratura... Un critico italiano, mi pare, segnalò l’idea della solitudine, del labirinto nella mia opera; nonostante la profonda differenza fra me e Borges c’è qualcosa fra noi due in comune, il problema metafisico e del labirinto... Ora benché io sia un abitante di Buenos Aires, di una città mostruosa dicevo, va detto anche che questa città non è stata edificata sul nulla, ma su un paese preesistente che era il paese del gaucho... Ma il gaucho viveva in una diversa solitudine, quella della pianura infinita, in quella specie di metafora del nulla che è il deserto. Così che il gaucho ebbe, sin dall’inizio, questa tendenza un po’ metafisica e religiosa che la solitudine conferisce all’uomo... di fronte al deserto... pensate... le tre grandi religioni occidentali nacquero nel deserto... la religione ebraica, cristiana, maomet­ tana... il deserto è la matrice del sentimento religioso... e allora questo sentimento di nostalgia, di solitudine e tale tendenza metafisica si verificano in Argentina sin da questo inizio. Perché l’Argentina, al contrario del Messico o del Perù, era un territorio vuoto che poi si riempì di emigranti... e a questo punto comparve la città e con lei un nuovo tipo di solitudine... 190

... e su questa solitudine stratificata ha attecchito il peronismo... è un rapporto importante che ci riporta al tema di fondo dell’urto fra scrittore e potere... tu hai scritto un saggio sul peronismo E1 otro rostro del pero­ nismo... e oggi il peronismo è tornato...

... era una specie di ”lettera aperta” a un uomo che era stato ministro e che aveva scritto un libro sul peronismo. In quella let­ tera io mettevo in chiaro, o credevo di farlo, alcune cose. Il peronismo era caduto nel 1955 e quasi tutti gli intellettuali, tutti ad eccezione di due o tre, erano stati antiperonisti... ma lo fummo per motivi diversi... l’antiperonismo di Borges non era il mio... Borges aveva paura del comuniSmo, vedeva nel peronismo una forma di socialismo : io invece ero antiperonista perché ho sempre rifiutato il potere assoluto e la persecuzione poliziesca... e Peron esercitò il potere assoluto, ricorse alla persecuzione poliziesca e molti uomini vennero torturati e uccisi. Per me il problema della tortura, l’ho già detto, è un problema assoluto, non relativo. Perciò io dovevo per forza essere contro Peron. Ma appena caduto Peron, la rivoluzione trionfante divenne uno strumento al servizio delle classi privilegiate argentine... e allora, in quel momento io fui dalla parte della classe peronista che... voi lo sapete... che devo dire... è tutta la classe operaia argentina peronista... Nonostante ciò in quella lettera aperta io distinguevo - o mi sforzavo di distinguere — fra il lato positivo del peronismo che era un movimento socialistico — poiché per la prima volta la classe operaia argentina aveva rag­ giunto una forma di potere, e veniva esercitata la giustizia sociale, e si andavano verificando trasformazioni profonde, economiche e politiche, a favore dell’indipendenza argentina nei confronti del­ l’imperialismo —- e il lato negativo del peronismo, conseguenza quest’ultima della matrice fascista di Peron, fautore di uno stato totalitario che perseguitò gli uomini che non condividevano le idee peroniste e che fini con l’essere un regime corrotto... quando Peron cadde... io cercai di separare le due cose e mossi in difesa della classe diseredata argentina, quella operaia, ma indicando al con­ tempo che c’er^no molte ragioni, tanti motivi per essere contro Peron... Passarono cosi diciotto anni in cui successivi governi, legali o illegali, pretesero di poter ignorare il peronismo che era un fatto assolutamente evidente, perché significava la metà del paese e in primo luogo tutta la classe operaia. Quasi il novantacinque per cento della classe operaia era stato ed è peronista. Insomma tutti i regimi che seguirono, con tutti i mezzi, legali o illegali ripeto, impedirono l’accesso della classe operaia ai poteri cui legittima­ 191

mente aspirava... finché non si è aperto questo spiraglio con le libere elezioni, in cui il peronismo naturalmente ha vinto con largo margine. I giovani formatisi in questo lungo periodo, che non ave­ vano conosciuto il primo peronismo e che lo avevano idealizzato, vedendo in Peron qualcosa come il vessillifero della rivoluzione nazionale, non considerarono con sufficiente chiarezza gli aspetti negativi della persona-Peron... e credo che quanto sta accadendo adesso, in questo momento, in Argentina, stia aprendo gli occhi ai giovani... ora il peronismo è diviso in due grandi frazioni, una di destra e una di sinistra, la sinistra è tutta la gioventù e la parte ope­ raia più rivoluzionaria, la destra sono i dirigenti sindacali, alcuni dei quali hanno caratteristiche fasciste come credo lo stesso Peron... è una lotta spietata, muoiono tutti i giorni delle persone, la destra cerca di impadronirsi di tutte le leve politiche per non dare la possibilità alle sinistre di prendere il potere. Questo è un pro­ cesso dinamico nel quale possono accadere molte cose: la morte di Peron che può avvenire in qualsiasi momento può scatenare in Argentina o una guerra civile o per lo meno episodi molto cruenti... perché le due fazioni sono armate, sono dei veri eserciti... Inoltre, di fronte a tutto questo c’è l’esercito regolare che in questa lotta io direi che vede con simpatia la fazione di destra, com’è logico aspettarsi, per la struttura stessa dei militari... poi ci sono gli altri partiti, il partito radicale che rappresenta una buona parte della classe media, assai meno numerosa in Argentina, ed è, per dirla in termini europei, un partito di centro-sinistra.

... una situazione che pone il problema del socialismo in America Latina... un'esperienza vissuta da due soli paesi — uno ancora la sta vivendo — Cile e Cuba... parliamo prima dell'esperienza cubana. In Claves politi cas tu riporti una corrispondenza con Che Guevara, che d'altronde era argentino...

... Guevara è... ho una grande ammirazione per Guevara... ammiro sempre la gente che è capace di lottare e soprattutto di morire per un ideale... perfino nel caso di uomini che non condivi­ dono le mie idee. Io ho sempre rispettato quelli che sacrificano la propria vita per i propri ideali... Nel caso di Guevara a maggior ragione perché gli ideali di Guevara sono in gran parte i miei... Anche se era più giovane di me, apparteneva a una generazione successiva, mi è profondamente vicino per molti motivi, sia perché era argentino, un argentino tipico, sia per aver intrapreso un’a­ zione cosi ardita, così dolorosa ed eroica... andò a Cuba per vivere IH

la rivoluzione... la realtà latinoamericana è molto diversa, non è univoca, bensi multivoca. Cuba non ha gli stessi problemi dell’Argentina, l’Argentina è un paese con una classe media molto forte, con un proletariato totalmente urbano, non ha contadini come il Perù o la Bolivia o il Guatemala. Di modo che l’esperienza cubana, per importante che sia, non poteva rappresentare un modello per l’Argentina... la prova è che il cammino argentino è molto diverso, il cammino del peronismo non ha niente a che vedere con quello. Quanto alla mia corrispondenza con Guevara, fu sul peronismo perché anche Guevara era antiperonista : era uno studente e come tutti gli studenti era contro Peron... e proprio in una mia lettera a Guevara, verso il 1958, non ricordo bene, gli dicevo che lui era stato assente per tanti anni dall’Argentina e non confondesse il movimento peronista cosi come lo aveva conosciuto in giovinezza con quello che era realmente... e mi rispose con una lettera molto bella e importante... quella che avete letto...

... c'è stata poi l'esperienza cilena finita tragicamente... deve aver significato molto per voi scrittori argentini un dramma così sconvolgente... ... beh... quello che è accaduto in Cile è un episodio terribile e drammatico... particolarmente doloroso per persone come me che avevano creduto — e magari crediamo ancora — nella possibilità di portare avanti anche in America Latina — persino in America Latina — una forma di socialismo mediante procedimenti democra­ tici e non mediante dittature... Credo che si possa — e forse si debba — produrre una trasformazione profonda come quella che esige la realtà attuale del mondo e in particolare la realtà latinoamericana con strumenti che garantiscano la libertà. Libertà legittima: questo è appunto quello che io ho scritto quando Allende mi invitò, quando assunse il potere, insieme ad altri intellettuali, ad assistere al Congresso degli scrittori... io non potei andare... ero malato allora... e mandai una lettera, un messaggio che conoscete: in quel­ l’occasione io distinguevo fra libertà legittime e illegittime perché su questo tema si fanno troppi sofismi. Si dice spesso che la libertà è una storia borghese... un momento... ci sono libertà e libertà... la libertà di un uomo come Solzenitsin, nel dire la ”sua” verità, è una libertà legittima... la libertà della ITT, nel corrompere i governi dell’America Latina, nel rovesciare presidenti eletti e infine nell’uccidere o nel fare uccidere un uomo come Allende, è una libertà illegittima. Se io mi trovo a casa mia e nella casa accanto si sta tor­ turando un bambino io ho... non il diritto, il dovere di intervenire 195

per impedire che ciò accada... cioè... se io con la storia della libertà individuale non intervengo, sono una carogna... qui la libertà ha i suoi limiti... ciò però non significa affatto che non dobbiamo pen­ sare alla libertà... ci si deve pensare sempre... io voglio giustizia sociale e libertà, non voglio né la pseudolibertà senza giustizia sociale, né giustizia sociale senza libertà. Fare una rivoluzione san­ guinosa per avere domani una società come quella russa, mi pare un grosso equivoco.

... e rintellettuale che funzione può avere in tutto questo..,

... io non credo che un intellettuale debba implicarsi in questo tipo di operazione... Nel caso del Cile io — e con me molti — vedevo la possibilità di portare una società al socialismo attraverso una democrazia e con i tre poteri in esercizio, legislativo, giudiziario, esecutivo. Se Allende ha fallito, dobbiamo stare attenti a non incor­ rere nell’errore di credere che sia fallito perché ciò venne rispetta­ to : Allende ha fallito per altri motivi, in politica non esiste il terzo incomodo, esistono il quarto, il quinto, il sesto incomodo, ci sono molte varianti. Il fallimento di Allende è stato il risultato di un insieme di fatti che sarebbe lungo esaminare, però credo che se Allende avesse svolto una politica più energica, pur senza rinun­ ciare ai mezzi legali, se avesse avuto le possibilità materiali, se la sinistra non fosse stata tanto divisa, se in seno al suo governo non ci fossero stati tanti contrasti di idee totalmente opposte, con gruppi che realmente sembravano provocatori, l’esperienza cilena sarebbe stata assai diversa. Voglio dire, la sola esperienza cilena non prova assolutamente, ne sono convinto, che il cammino del socialismo debba fatalmente passare per il sentiero della dittatura...

MARIO VARGAS LLOSA

Barcellona. Ramblas affollate in fuga verso il mare. Sorprende la figura elegante di Mario Vargas Liosa appena usciti dalla lettura di un libro come La ciudad y los perros, in cui il motivo della violenza sembra dominare la pagina come un mostro devastatore che attinge di continuo forza e vigore dalla spirale delle contraddizioni, degli equivoci, delle ambiguità. Quando parla di sé e dei suoi libri, riesce ad isolarsi e a coinvolgere tutta la sua biografia privata, infit­ tita di episodi molto noti ormai, che fanno parte del personaggio così come l’Europa lo ha conosciuto in questi anni, dopo il suc­ cesso dei suoi libri. È cosi sicuro di sé, delle proprie idee, della sua presenza nella geografia letteraria latinoamericana, che sorprende il ricordo degli anni della fanciullezza, il primo incontro con un padre creduto morto e improvvisamente riapparso sul mare verti­ cale della vita: il contrasto si fa pungente soprattutto quando si pensa ad una esperienza come quella del romanzo ambientato nel Collegio Leoncio Prado, a Lima, dove Mario andò a studiare da Arequipa, sempre in Perù, dove era nato trentasette anni fa, o agli anni del primo sodalizio con i compagni di scuola (« Fu un anno terribile. Ebbi allora il mio primo scorcio del mondo degli adul­ ti...»), seguito poi da una più terribile avventura umana («Mio padre pensò che il Leoncio Prado avrebbe fatto di me un uomo... Per me fu come scoprire l’inferno...»). Ma ad osservarlo bene mentre parla senza mai correggersi, senza equivocare neanche un concetto, si scopre la sicurezza di chi ha vissuto un’infanzia privilegiata (« Ero un bambino viziatissimo, presuntuosissimo, cresciuto, faccio per dire, come una bambi­ na... »), poi stravolta da un’adolescenza e da una maturità difficili, in cui aprire gli occhi sul mondo assume il significato di una libera­ zione, e al contempo di una convergenza verso l’universo comuni­ 19 J

tario degli oppressi. Allora, la letteratura diventa una esigenza di fondo (« fu per me come lo sfogo alla rivolta che nutrivo contro il Leoncio Prado »), non un antidoto o un sollievo ai mali del pre­ sente, ma un consegnarsi repentino ai dolori del mondo utilizzando un’arma che l’America Latina ha ragione di considerare ancora valida e importante. Se gli strumenti del potere coartano e incan­ creniscono le coscienze, alla letteratura spetta il compito, il dovere, dice Liosa, di restituire alle coscienze stesse tutto quanto il potere, sotto qualunque forma, ha sottratto. Così si spiega quel senso, che pare ambiguo, di odio-amore verso Lima («per la borghesia limegna esser uno scrittore o un artista è solo un pretesto per fare il pederasta o il fannullone...»), che si risolve poi in una esi­ genza segreta di recuperarla, nel buio degli anni e a tanti chilo­ metri di distanza.

Lima rappresenta la testa di un ragno gigantesco, una testa che domina e centralizza...

Quando si parla di letteratura latino-americana, il termine "esilio” ricorre con molta frequenza. Eppure la letteratura d'esilio che gli scrittori emigrati dalla Bolivia, dal Perù, dalla Colombia esprimono, è di una estrazione tutta particolare... Realmente, nel mio caso, ma anche in altri casi, di molti scrit­ tori latino-americani che vivono all’estero, si può dire che l’assen­ tarsi fisicamente dal proprio paese non ha in alcun modo rappre­ sentato una rottura con le proprie tradizioni o le problematiche nazionali, per quanto riguarda l’opera. Semmai, è accaduto il con­ trario... Per molti di noi, l’allontanarsi dal proprio paese è servito piuttosto per una presa di coscienza della propria realtà e per un’assunzione del carattere nazionale. Direi che questo, per esem­ pio, è il caso di uno scrittore come Julio Cortàzar, il quale finché rimase in Argentina, fece una letteratura che potremmo chiamare esoterica, nel cui dominio tematico viveva una realtà che non era argentina; ma poi andò a Parigi, dove cominciò a scrivere racconti e romanzi che esplicitamente trattavano della realtà, sia sociale che storica, culturale argentina... Nel mio caso, non credo vi sia mai stata una rottura, ma al contrario, il fatto di vivere in Europa mi ha dato una prospettiva maggiore di quella che è la mia realtà... È indubbio tuttavia che il vivere lontano ha contribuito e che la mia esperienza si è modificata con l’apporto di una congerie di tradi­ zioni e di elementi, di tipo culturale, vitale, che probabilmente si riflettono su quello che scrivo... Ma fino a questo momento, tutto quello che ho scritto, così come i progetti che ho in mente e che ancora non si sono realizzati sulla pagina, sono direttamente vinco­ lati alla mia realtà. Finora non ho concepito il piano di scrivere una storia che non sia specificamente situata nel Perù o non si riferisca a 197

persone e problemi peruviani... Io non penso che uno scrittore abbia l’obbligo morale di scrivere esclusivamente sui problemi del proprio paese, ma nel mio caso questo è accaduto: forse perché finora le esperienze più ricche, più stimolanti che ho avuto dal punto di vista letterario sono quelle che si richiamano alla mia realtà... Ecco, Mario, tu hai parlato insistentemente di una tua realtà... E allora vorremmo ricordarti che il critico tedesco Gùnter Lorenz, propriofacendo rife­ rimento alla tua "realtà verbale"parla di un terminus technicus della let­ teratura ispano-americana...

Io credo che uno dei privilegi della letteratura sia quello di poter fondare in una unità, aH’interno di un sistema di per sé uni­ tario, elementi, o piani, o livelli che nella realtà viva, non in quella letteraria, sono rigidamente divisi. È quello che si verifica nei confronti del tempo... La letteratura può muoversi nel tempo con una libertà assai maggiore di quella con cui si muovono gli esseri umani nel tempo reale. Accade lo stesso con lo spazio: una storia può spostarsi nello spazio con un ritmo che nella realtà non è concesso agli esseri umani. Io credo quindi che nel complesso di un romanzo si verifichino delle convergenze di elementi che nella realtà sono separati e che tutto questo possa avvenire in virtù della parola, cioè grazie al verbo, che è lo strumento ma anche il fine della letteratura, in qualche modo. Penso che il termine "realtà verbale" sia una nozione applicabile a tutti gli scrittori indistinta­ mente, se il destino della letteratura è quello di dire la propria ric­ chezza, o la propria povertà, la verità o la menzogna, che in definitiva si muovono nel campo specifico della parola, del verbo... Io quindi accetto ben volentieri questo concetto della "realtà verbale" applicato alla mia opera, ma credo che sia un concetto talmente vasto da abbracciare tutta la letteratura: poco operante in sede particolare, mentre in sede generale mi pare che serva a ben definire quello che è letteratura e ciò che separa la realtà "reale" dalla realtà letteraria, o realtà verbale... Nel caso concreto di uno scrittore, penso che bisognerebbe accedere a una nuova definizione per individuarne e centrarne la personalità, la singolarità... A mio avviso, è altrettanto realtà verbale quella che scaturisce dall’opera di un Garcia Màrquez, di quella che scatu­ risce dall’opera di un Carlos Fuentes, di un José Donoso... 198

Ma torniamo al primo discorso, quello della particolare letteratura d'e­ silio espressa dagli scrittori latino-americani... Ci interessa anche il problema dello scrittore, nel tuo caso peruviano, rimasto in patria...

Vi sono scrittori che non sono mai usciti dal proprio paese e che hanno ugualmentte prodotto una letteratura d’esilio, così come vi sono scrittori che hanno vissuto a lungo in esilio e che hanno prodotto una letteratura profondamente radicata... Voglio ricordare, per quanto riguarda il Perù, il curioso caso di un poeta come José Maria Eguren, un poeta simbolista degli inizi del secolo che non si allontanò mai dalla sua terra, e credo addirittura da Lima, e nessuno potrebbe pensarlo, leggendo la sua poesia, perché è una poesia che ha come ambiente, quasi integralmente, un mondo nordico, un mondo di valchirie, di personaggi dall’e­ sistenza puramente letteraria nelle saghe nordiche, islandesi... E non sono nordici soltanto i personaggi, ma lo è il paesaggio, il clima, che nulla hanno a che vedere con il Perù... E nel caso con­ trario, Tinca Garcilaso de la Vega che passò quarant’anni della sua vita lontano dal Perù, mentre tutta la sua opera è integral­ mente legata alla realtà peruviana e i commentari reali degli Incas sono considerati come il manuale della ”peruvianità”, la prima manifestazione profondamente indigena che vi sia in letteratura... Penso quindi che l’esilio o la stabilità di uno scrittore non abbiano niente a che vedere con la presenza fisica nella propria realtà... In certi casi il paese marca molto profondamente uno scrittore, al punto che esserne lontano o vicino non porterà alcuna differenza: sempre scriverà su di esso. In altri casi, la sensi­ bilità, il temperamento allontanano profondamente uno scrittore dalla sua realtà, almeno nei confronti dell’aneddotico, dell’imme­ diato, e l’opera tende a non riflettere aneddoticamente e imme­ diatamente quella realtà. Non c’entra nulla la presenza fisica o la distanza fisica dal proprio mondo... Il dialogo ci ha portato a lima, all’epicentro del tuo libro La città e i cani: "Lima l’orrenda”, secondo Sebastiàn Salazar Bondy, o ’Torribile Lima” come la vide Melville in Moby Dick: