La tradizione del comico Letteratura e teatro da Dante a Belli 8811598125

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La tradizione del comico Letteratura e teatro da Dante a Belli
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no] LA TRADIZIONE DEL COMICO L’eros l’'osceno la beffa nella letteratura italiana da Dante a Belli

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NINO BORSELLINO

La tradizione del comico Letteratura o da Dante Belli

GARZANTI

Prima edizione: aprile 1989

ISBN 88-11-59812-5

© Garzanti Editore s.p.a., 1989 Printed in Italy

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PREMESSA

Più che a un’astratta nozione teorica, i saggi qui raccolti fanno riferimento a una pratica letteraria e teatrale che ha fondato e sviluppato, in Italia forse più che altrove, un’originale e

fervida tradizione del comico. Le indagini prescelte ne esaminano alcune tipologie e varianti di più o meno accertato valore, talora di non consolidata conoscenza, dalle origini all’ Ottocento, con maggiore concentrazione di interessi per il Rinascimento. Che poi esse possano essere coerentemente ricondotte al filo rosso teso dalla «questione» che apre il volume e ai percorsi di lettura che vi sono segnati, sarà il lettore a giudicare. L’autore può solo riconoscervi la trama di esperienze e occasioni di studio circoscritte, per i titoli qui presenti, in poco meno di un ventennio ma riannodabili con altre precedenti confluite in raccolte di testi comici e anche di critica e filologia applicate allo stesso ambito di ricerca. E non ha resistito alla tentazione, recuperando l’ordito, di dare a vari particolari un’evidenza maggiore, apportando qualche integrazione, diminuzione o ritocco. Il riscontro bibliografico con la pubblicazione originaria è indicato, per la prima parte (IL COMICO. TEORIE E TIPOLOGIE), alla fine della trattazione complessiva e, per la seconda (LETTERATURA E TEATRO), in calce ai singoli pezzi. N.B.

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1 - COMICO E TRAGICO

Sembrano lontani i tempi in cui il comico appariva come una manifestazione naturale o artistica troppo imprevedibile per non controllarne gli effetti contagiosi, morali e sociali, di là da quelli più immediatamente ludici. Eppure ancora negli anni °50 era necessario rivendicare i suoi diritti; e Vitaliano Brancati

denunciava la persistente paura del comico «come di un potere diabolico», l’ostracismo alla funzione civile della derisione, a

«una lucida intelligenza fornita di disgusto e di ironia», perfino da parte della cultura meno conformista. «La nostra stessa filosofia, quella più libera e polemica, — constatava, — ha assegnato alla commedia un posto secondario».' È certo comunque che oggi il rapporto del comico col tragico appare invertito, non solo nella letteratura ma anche nella vita, pur se si riaffacciano periodicamente nello scenario pubblico della società dei simulacri e della comunicazione di massa spettacolari petizioni in favore di ideali eroici e tragici di ritorno. Da oltre un secolo nella letteratura anche chi ha nutrito l'ambizione più alta di ricostituire il legame tra coscienza e destino — col proposito a volte vistosamente inattuale di rimettere in discussione quella drammatica circostanza che fino a ieri si chiamava condizione umana — ha dovuto affrontare il rischio di trasformare il tragico in un’infrazione comica, dando una forma inedita alla tragedia rispetto al suo statuto di commemorazione rituale di un evento extraumano, divino all’origine. Ancora in un’età di accertato declino del tragico Hegel poteva affermare come «il tema proprio della tragedia originaria sia il divino, ma non il divino che costruisce il contenuto della coscienza religiosa come tale, bensì il divino quale compare nel mondo, nell’agire individuale, senza rimetterci però in questa realtà il suo carattere sostanziale e senza vedersi mutato nel

proprio opposto». Pur negandolo Hegel intravedeva 11

nella

mondanizzazione del divino l’emergere del suo opposto, il comico, che ne avrebbe trasformato la sostanza etica con la quale quel carattere prioritario del tragico si manifestava. In prospettiva la nascita del dramma moderno e la sua teorizzazione, da

De Sanctis a Luk4cs, Benjamin, Szondi, lungo la coordinata hegeliana della cultura europea, potrà essere più tardi interpretata oltre che come la reincarnazione della tragedia in vesti borghesi come l’antimurale della dissoluzione del tragico dentro il comico. Non diversamente la progressiva mondanizzazione ovvero prosaicizzazione borghese dell’epico aveva fatto emergere e poi stabilizzare il genere ovunque vincente dell’età moderna, il romanzo. E dramma e romanzo sono stati promossi a referenti estetici del pensiero moderno. La promozione del comico a carattere epocale di una cultura, fuori dalle circostanze che possono provocare in ogni momento l’incontenibilità artistica del fenomeno, non altrimenti

dall’incontenibilità fisiologica del riso, era invece, all’interno di quel quadro di riferimenti valutativi etico-sociali prima che antropologici, ancora inattuale. Il contenuto della filosofia hegeliana, la sua cristologia seppure radicalmente antropomorfizzata, racchiude una vicenda di colpe e riscatti individuali che dalla fenomenologia dello spirito si trasmettono alla fenomenologia del sociale, dentro la quale anche gli eventi della storia si presentano una prima volta come tragedia, vale a dire terrore, orrore e catarsi, e una seconda volta, ripetendosi e degradandosi, come farsa, secondo la nota sentenza marxiana.' È significa-

tivo che De Sanctis, l’hegeliano forse più cosciente della funzione artistica e intellettuale del comico, abbia risolto il rapporto serio/comico nel Rinascimento nello schema di un’opposizione dialetticamente fruttuosa, in un’interagenza di positivo e nega-

tivo, secondo una valenza che rende merito alla tipologia di una cultura intrinsecamente derisoria ed irridente dei suoi stessi valori, ma che non è ancora unificatrice, come invece lo è in età

romantica e postromantica il binomio ideale-reale, sempre nella prospettiva desanctisiana. È vero, la dialettica dello spirito applicata alle forme doveva

generare anche un'estetica del brutto. Ma Rosenkranz, che per primo sì avventurerà in quell’indagine,” non seppe sciogliere l'autonomia formale del comico che lasciò in prestito al deforme. Dallo sviluppo del realismo doveva piuttosto maturare una 12

nozione di comico che non si dissociasse dalla totalità che il concetto di realismo, quanto quello di idealismo, incorpora ontologicamente e pragmaticamente. Quando Erich Auerbach ne ripropose la sua analisi su basi sociolinguistiche e su una campionatura non consueta che invera gli episodi ultimi con le premesse aurorali della mimesi realistica,’ il comico si ritrovava

già di fatto legittimato in quel multisecolare processo di umanizzazione della letteratura che resta inconcepibile fuori dal suo confronto con la realtà. Eppure nemmeno il realismo, passando nel corso dell’Ottocento dalla sua fase espansiva a quella egemonica, generò una poetica del comico. Semmai la rinuncia al sublime tragico passa attraverso l’ironia, l’humour, il grottesco e finanche la farsa

trascendentale: modalità del romantico e maschere del suo disagio storico ed esistenziale che iscrivono il comico nell’anagrafe del tragico quotidiano e più tardi della psicopatologia della vita quotidiana. La condizione comica, comunque

antieroica,

propria del personaggio moderno (come del resto del poeta moderno, albatros catturato e trivializzato), è sentita e compatita, non più percepita e derisa. E sentimento e compassione stanno alla base della poetica più cosciente della dissociazione del personaggio rispetto ai valori morali convenzionali e ai risultati più conclamati della scienza: la poetica dell’ Umorismo, il testo in cui Pirandello rimette in discussione il rapporto romantico tra comico e tragico.’ Sentimento e compassione bloccano inoltre l’effetto nullificante del riso ed esorcizzano quella demonizzazione del reale che già Baudelaire individuava, e paventava, dentro il comico.’ Del riso infatti, della sua sguaiataggine incontrollata, la modernità continua ad avere timore; e non var-

rà, a favorirne gli eventuali compromessi sociali, la funzionalità correttiva assegnatagli da Bergson come «castigo» delle «rigidità» del carattere, dello spirito, del corpo, rispetto alle quali il comico diventa esercizio di un dominio intellettuale di gruppo

che mette a tacere la sensibilità." L’inferiorità del riso non poteva essere riscattata se non da atti di trasgressività propri del radicalismo nichilista. Nietzsche

proclama che la verità del sapiente deve essere confermata da una risata. Ma il riso di cui il filosofo parla è il riso superiore, degli dèi; è indifferente alla comicità che si manifesta nella situazione o nel carattere. L’orgia dionisiaca che sta alla base 13

della tragedia (e tragica è la tensione oracolare nietzscheana verso l’oltreumano) è anche la fonte di una totale estetizzazione della realtà a cui il riso fa da premessa. Ma ai fini del comico si tratta di un riso improduttivo, già carico di quell’energia negativa, di pura violazione, che Georges Bataille teorizzerà rivendicando appunto l’improduttività, il dispendio del comico assoluto come situazione limite, affine al suo concetto di erotismo, e concentrandovi una volontà di spossessamento interiore, che è,

di fatto, esperienza tragica»." Piuttosto che in Bataille, in cui nietzscheanismo e hegelismo compiono lo sforzo di sorreggere una concezione divaricante del comico rispetto all’universo economico limitato e produttivo del sociale, l’idea nietzscheana della sovranità del riso diventa programmatica delle avanguardie alle soglie del secolo, del futurismo in particolare, del suo ostentato attivismo. Ma il riso futurista è il ghigno della sfida e della provocazione che accompagna la nascita di un sublime antitradizionale e deve dare la forza di uccidere il passato sul quale il presente misura ancora i suoi valori. Il comico che ne deriva è infatti esibizionistico, ri-

chiama l’attenzione sul comportamento del gruppo, sulla mascherata che esso offre anziché sugli oggetti da ridicolizzare. Solo sfuggendo alla mitologia della macchina, seppure attraversando il futurismo, era possibile far coincidere le ragioni di un soggetto ludico e la ludicità oggettiva della materia comica. Insomma (ma l’esempio ha un valore puramente indicativo), la poetica del Controdolore e la comicità in atto dell’opera di Palazzeschi sono in questo senso fenomeni di svolta in cui s’incrocia la trasgressività futurista con l’ironia crepuscolare. E su un versante della letteratura ancora meno incline all’ideologia del riso programmatico sarà Svevo a dare forma comica alla libido esistenziale del borghese, ai lapsus della coscienza infelice che svelano contraddittoriamente le motivazioni stesse della vita. L’avventura dell'avanguardia, non solo di quella storica, dimostra, se ce ne fosse bisogno, l’antiprogrammaticità del comi-

co. A differenza del tragico che si afferma programmaticamente con un richiamo a valori che inaugura o commemora, il comico è pervasivo; se ne potenziamo il coefficiente intenzionale e ce ne serviamo come di un’insegna ideologica gli conferiamo un titolo di serietà assoluta, cioè sciolta da quell’intreccio col serio che lo fa ogni volta emergere e che talora addirittura ri14

pristina. Il comico dichiara i suoi valori specificandosi nelle sue modalità sociali e espressive, ma il suo assoluto non è il comico

stesso (a quale evento prioritario: extraumano, divino, potrebbe infatti richiamarsi?), è semmai il riso. Ma il riso è appunto una manifestazione di sovranità sugli eventi e non s’identifica necessariamente con le modalità del comico. Per questo forse è rimasta finora controversa la questione della legittimità estetica del comico, mentre sono considerate più lecite le sue determinazioni classiche di poetica e di retorica: ironia, parodia, satira,

umorismo." Sembrerebbe impossibile a questo punto, nel confronto tra comico e tragico, parlare di cultura del comico. E invece essa è uno dei tratti che caratterizza la nostra epoca. Una spiegazione mutuata dalle teorie delle simulazioni istituzionalizzate, dei si-

mulacri e della perdita del senso, infine dallo stesso edonismo con cui si manifesta il passaggio dal moderno al postmoderno, sarebbe una facile generalizzazione ed anche una scorciatoia storica.’ La simulazione programmata dell’arte, la recita della stessa quotidianità consacrerebbero addirittura la maschera co-

mica, la sua faccia di menzogna. Ma è poi vero che il comico sia figura dell’inautentico? Semmai, per stare alla nostra età,

esso è stato in tempi difficili un alibi dell’autentico, una finzione necessaria per esempio contro un sublime posticcio, imposto e spettacolarizzato nei regimi totalitari. A questo processo di desublimazione della cultura va più verosimilmente ricondotta l’attuale fortuna del comico, e anche il lavorio teorico che ne

ha rinsaldato il credito per il presente e per il passato. La teoria psicogenetica, che mette capo al saggio freudiano del 1905 sul Witz,"* si integra con quella sociogenetica o storico-antropologica, che ha incoraggiato dopo la grande inchiesta di Bachtin sul mondo di Rabelais una serie di indagini sulla letteratura carnevalizzata, e con la teoria dell’argomentazione di Perelman e della Olbrechts-Tyteca che ha valorizzato la funzione retorica del comico come segno di comunicazione sociale e indizio di

realtà psichica."

Si potrà discutere a questo punto se il comico pertiene più all’ambito della comunicatività che a quello dell’espressività, con le relative distinzioni fra comico ingenuo e intenzionale ovvero irriflessivo e riflessivo. Ma è certo che il riconoscimento della sua legittimazione culturale come manifestazione di un’i15

stanza collettiva (il gioco, la festa, il carnevale) che diventa la fonte di un immaginario artistico, o come emergenza di una realtà psichica disinibita da un atto di linguaggio, è garantito dallo strumento che segnala e insieme organizza il nostro comportamento discorsivo. Questo strumento è la retorica, e forse esso basta a significare il comico, a riacquisirne la tradizione, ad aprirci lo spazio di un’interpretazione nel presente, di là dagli effetti che provocano il riso. Che cosa conteneva il libro perduto della Poetica d’ Aristotele su cui indagano e favoleggiano gli interlocutori del Nome della Rosa di Umberto Eco? L'ipotesi che vi fosse formulata un’estetica positiva del comico, seminatrice di una scandalosa verità mondana, è seducente; perciò la sua distruzione dolosa spiegherebbe la minorità sociale e artistica del comico nella società cristiana rispetto al tragico.” Ma si può anche supporre che il filosofo richiamasse la nostra attenzione sulla differenza tra i due universi psicologici e mentali, fra il tragico, dominio del dover essere (rispetto al destino), campo dell’ideologia, e il comico, luogo del casuale e del vario, morfologia dell’imprevedibile (anche se esteticamente regolato). Perciò le questioni che il comico eventualmente pone si risolvono anzitutto in questioni di stile. Che queste risultino poi inscindibili dalle questioni di storia, collettiva e soggettiva, da una semantica che ne rilevi il senso, è appunto quanto può venir fuori da un’esplorazione a ritroso nella tradizione italiana, almeno finché non si riconosca-

no, nella somma di tante tipologie e morfologie, dalle origini al Rinascimento, le fondazioni moderne del comico.

NOTE

_ 1 Cfr. v. BRANCATI. // comico nei regimi totalitari (1954), e i precedenti Appunti sul comico (1952), in I borghese e l’immensità. Scritti 1930-1954, a cura di S. De Feo e G. A. Cibotto, Milano 1973, pp. 376-81.

_ 2 G.w.F. HEGEL, Vorlesungen iber die Asthetik (postume, 1836-38); poi Asthe-

tik, 1955 (trad. it. Estetica,Torino 1967, p. 1337). 3 Cfr. n. BORSELLINO, De Sanctis e il teatro: una metafisica del dramma, in A.

MARINARI (a cura di), Francesco De Sanctis un secolo dopo, Bari 1985, II, pp. 611-22. _ 4 La battuta apre Der Achtzehnte Brumaire des Louis-Napoleon (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, 1852). Ma nell’Einleitung del 1843 alla Kritik der hegelschen Rechtsphilosophie (Critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione) Marx aveva riconosciuto la funzione positiva e liberatrice della commedia rispetto alla tragedia. L’inciso marxiano è posto in epigrafe del volume di G. FERRONI, //

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comico nelle teorie contemporanee, Roma 1974, che ricostruisce il dibattito novecentesco. Ma si vedano anche del Ferroni i più recenti Frammenti di discorsi sul comico, nel volume da lui curato Ambiguità del comico, Palermo 1983, pp. 15-79. 5 Cfr. F. pE sancTis, Storia della letteratura italiana, a cura di N. Gallo, in Opere, a cura di C. Muscetta, VIII, Torino 1958, pp. 449 sgg. (cap. x11. // Cinquecento).

6 Cfr. J. K. F. ROSENKRANZ, Asthetik des Hisslichen, 1853 (trad. it. di R. Bodei, Estetica del brutto. Bologna 1984). _7 Cfr. e. AUERBACH, Mimesis. Dargestellte Wirklichkeit in der abendlindischen 109go 1946 (trad. it. Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Torino 8 Cfr. L. PIRANDELLO, L’umorismo, Lanciano 1908; 2° edizione aumentata, Firenze 1920. Sul saggio si è addensata negli anni una folta bibliografia. Si veda almeno la varietà di contributi sull’argomento in P. D. GIOVANELLI (a cura di), Pirandello saggista. Atti del Convegno di studi del Centro nazionale di studi pirandelliani (Agrigento, dicembre 1981), Palermo 1982. 9 «Le rire est satanique, il est donc profondément humain», (CH. BAUDELAIRE, De l’essence du rire et généralement du comique dans les arts plastiques (1855), in Euvres, a cura di Y.-G. Le Dantec, II. Cursosités esthétiques, Paris 1932, p. 171. E si vedano anche le osservazioni nello stesso volume sui caricaturisti e la caricatura). 10 H. L. BERGSON, Le rire. Essai sur la signification du comique (1900). Mi servo della recente ristampa della traduzione italiana del 1916, Bari 1982, con prefazione di B. Placido. 11 «Il comico assoluto, — commenta Derrida, — è l’angoscia di fronte al dispendio a fondo perduto, di fronte al sacrificio assoluto del senso: senza recupero e senza riserva» (J. DERRIDA, L’écriture et la difference, 1967; trad. it. Torino 1971, p. 333). Nella tensione angosciosa del riso di Bataille culmina il desiderio inappagato di Nietzsche: «Oh, fratelli, udii un riso che non era di uomo, - è ora mi consuma una sete, un desiderio nostalgico, che mai si placa» (F. W. NIETZSCHE, Also sprach Zarathustra. Ein Buch fiir Alle und Keine, 1883-85; trad. it. Così parlò Zarathustra, in Opere complete, a cura di G. Colli e M. Montinari, VI / 1, Milano 1973?, p. 194). Un raccordo funzionale dei frammenti di teoria del riso dell’opera di Bataille (L’expérience intérieure, Le coupable ecc). in G. FERRONI, // comico cit., pp. 117-43. Da aggiungere la prefazione del 1956 al racconto Madame Edwarda, firmato con lo pseudonimo Pierre Angélique, dove Bataille rimette in questione il rapporto piacere/riso e rivendica la gravità tragica dell’erotismo. 12 Si veda il non expedit di B. croce, Di un caso di antimetodica costruzione dottrinale. La teoria del comico (1934), in Ultimi saggi, Bari 1948°, pp. 280-89. Del 1903 è già un intervento su L’umorismo (in Problemi di estetica e contributi alla storia dell’estetica italiana, Bari 1949‘, pp. 281-91) e del 1909 la recensione al saggio pirandelliano (in Conversazioni critiche, serie I, Bari 1942°, pp. 44-48). 13 Cfr. il capitolo conclusivo di J. BAUDRILLARD, L’échange symbolique et la mort, 1976 (trad. it. Milano 1979) dedicato alla linguistica saussuriana e freudiana, e in J.-F. LvoTARD, La condition post-moderne. Rapport sur le savoir, 1979 (trad. it. Milano 1981) la difesa del paradosso e del paralogismo. 14 s. FREUD, Der Witz und seine Beziehung zum Unbewussten, 1905 (trad. it. // motto di spirito e la sua relazione con l'inconscio, introduzione di F. Orlando, Torino 1975). È il testo freudiano che con la precedente 7raumdeutung (L’interpretazione dei sogni, 1900) e la meno valorizzata Psychopathologie des Alltagslebens (Psicopatologia della vita quotidiana; 1901) offre le maggiori sollecitazioni alle elaborazioni teoriche del comico. Meno rilevanti le monografie e i saggi di

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psicoestetica e psicocritica (cfr. 1n., Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio, Torino 1969). Notevole il contributo italiano all’epistemologia del comico di Francesco Orlando (cfr. soprattutto Lettura freudiana del «Misanthrope» e due scritti teorici, (Torino 1979). Ma vanno ricordati almeno gli studi di cH. MAUroN, Psychocritique du genre comique, Paris 1964, e le applicazioni del metodo freudiano allo studio della caricatura di E.H. Gombrich e E. Kris (cfr. per un ragguaglio bibliografico d’insieme AA. vv., «Comico e caricatura», in Enciclopedia universale dell’arte, III, Venezia-Roma 1958, coll. 750-66). 15 Cfr. m. Mm. BACHTIN, Tvorcestvo Fransua Rable i narodnaja kul’tura srednevekov}a i Renessansa, 1965 (trad. it. L’opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso,

carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino 1979). La traduzione di altri saggi e contributi teorici di Bachtin (Problemy poetiki Dostoevskogo, 1963, trad. it. Dostoevskij. Poetica e stilistica, Torino 1968; e Voprosy literatury 1 estetiki, 1975, trad. it. Estetica e romanzo, Torino 1979) ha favorito in Francia e in Italia una fioritura di approcci bachtiniani alla letteratura. 16 L. OLBRECHTS-TYTECA, Le comique du discours, 1974 (trad. it. Milano 1977), estende alla fenomenologia retorica del riso la teoria generale enunciata in collaborazione con Chaiîm Perelman nel 7raité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique, 1958 (trad. it. Torino 1976). 17 «Il comico è una faccenda difficile, - scrive Umberto Eco nella prefazione all’estrosa raccolta di articoli del biologo G. CELLI, La scienza del comico, Roma 1982, - a capirlo si è risolto il problema dell’uomo su questa terra». E intanto promette (ma la promessa è per il medioevo largamente soddisfatta dal suo romanzo) un libro senile sull'argomento. Fuori dalle ipotesi, per il momento, sul contenuto del libro aristotelico perduto, cfr. la materia raccolta e analizzata da A. PLEBE, La teoria del comico da Aristotele a Plutarco, Torino 1952, e In., La nascita del comico nella vita e nell’arte degli antichi Greci, Bari 1956. Anche per il pensiero del medioevo la poetica del comico soffre di un’altra inadempienza, quella di Dante che vi aveva riservato una trattazione specifica, come risulta dal De vulgari eloquentia (II, rv, 6, a cura di A. Marigo e P. G.

Ricci, Firenze 1957’, p. 192): «Si vero comice, tunc quandoque mediocre, quandoque humile vulgare sumatur; et huius discretionem in quarto huius reservamus ostendere». («Se poi con comico stile, si prenda in questo caso ora il volgare mezzano, ora l’umile; e come si debba fare questa scelta mi riservo di mostrare nel libro quarto di quest’opera»).

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2 * LA GALASSIA

DEL

COMICO

Più che un territorio definito da certi confini, il comico è una

galassia soggetta alle dilatazioni, come alle contrazioni, della sua massa. Qui è da riconoscere un’altra differenza rispetto al tragico. Il tragico è un firmamento di stelle fisse; ha una luce che non si altera; la sua sostanza s’identifica con la sua forma

ormai inattuale (la struttura della tragedia, lo stile sublime) e

paradossalmente, in questa sua fissità, esso esprime una qualità generale, indipendentemente dalle circostanze storiche che l’hanno motivato e anche da quelle geografiche in cui si produce, insomma fuori dal suo quando e dal suo dove. Infatti la nostra adesione alla sventura non è condizionata da fattori storici e ambientali; e l'emozione estetica per una sofferenza ben simu-

lata supera i confini nazionali. Da qui l’elevazione del tragico, e in Italia (col Breme e i romantici, e poi Leopardi, fino ad Ungaretti) anche del patetico, a categoria etica universale. Il comico, quando non assume una maschera che cancelli ovvero renda iperbolici i segni di riconoscimento locali, quando non si traduca in puro significante scenico (lazzi, gags mimiche, clownerie), è più legato alla particolarità del costume e più ancora della lingua, ed è quindi suscettibile di perdere la sua efficacia nel tempo e nello spazio: è inesportabile, come dice Eco.' Ma la sua energia è inestinguibile,° quali che siano le sue motivazioni e invenzioni ed anche le sue difficoltà. Queste potranno sembrare futili, ma vanno ricordate. Lo scrittore di tragedia, lamentava un antico commediografo, «è assolutamente il più

fortunato dei poeti. Anzitutto la sua trama è familiare agli spettatori ancor prima che si comincino a recitare i versi: non occorre altro se non qualcosa che faccia ricordare. Basta che io dica “Edipo”, e loro sanno tutto il resto: suo padre era Laio, sua madre Giocasta; inoltre i nomi dei suoi figli e delle sue figlie, che cosa egli ha fatto e che cosa gli avverrà... Noi poeti comici non disponiamo di tali risorse». 19

Il comico perciò non raccoglie una memoria collettiva, né fa riferimento a un astro maggiore su cui misurare le proprie distanze. Il suo nucleo originario è un buco nero, un vortice in cui precipita la sua prima essenza: il riso. Essa consiste, come è stato più volte ricordato,' in una sorpresa o nell’annullamento di un’attesa: per chi ride la sorpresa è uno shock inoffensivo ovvero compensativo di una minaccia latente, che può prodursi perciò solo in un sistema di relazioni, entro un ambito sociale e

produttivo. E ciò anche se si ride di un riso «minore», da soli per un pericolo eluso (mulini a vento scambiati per giganti, il cigolio di una porta socchiusa da un gatto, non dal temuto assassino): perché è la nostra soddisfazione di scampati che ci fa ridere, cessata la paura dell’altro. Si potrebbe dire che la paura condiziona anche il tragico; e infatti un eden alterato comicamente o tragicamente nella sua equità di natura non è immaginabile. Il riso e le lacrime non possono farsi vedere nel paradiso delle delizie, constatava Baudelaire dopo aver affermato che il riso umano è intimamente legato all’incidente di una caduta antica, d’una degradazione fisica e morale.’ Ma è vero che su Adamo ed Eva incombeva un destino tragico; ed è impensabile che cedendo alla tentazione essi si mettessero a ridere. Non sappiamo quando gli uomini abbiano scoperto il comico. Se ridevano nel loro stato felice, quel riso manifestava un’innocenza e una concordia imperturbate, al riparo da ogni sorpresa. La differenza tra comico e riso è messa in evidenza da questo scarto tra malizia e innocenza, ed è in questo senso esemplificata dalla Divina Commedia, dove il comico invade l’inferno e il riso pervade il paradiso (lasciando al purgatorio la libertà di un gioco allusivo alla materialità del primo e alla spiritualità dell’altro). Altra volta quel riso innocente si rinnova quando l’adulto pargoleggia col bambino. E infatti, se regrediamo a una condizione infantile, il tempo produttivo s’interrompe e il riso rivela di nuovo uno stato di concordia, senza disparità di livelli. Ma è una concordia già eccitata, non più quieta, come in una festa. Scendendo dal cielo alla terra, è da questa interruzione del tempo, vale a dire dalla festa, che si dovrà partire se si vuole

tentare di individuare il comico nella sua essenziale tipologia, insomma classificarlo, come è opportuno, nelle sue varie forma-

lizzazioni. E perciò dobbiamo rifarci ancora a Bachtin, quanto 20

meno all’«impostazione del problema» che introduce al suo libro su Rabelais.° Alla festa — forma primaria della cultura umana — Bachtin volse la sua attenzione dopo essere arrivato alla conclusione che il sistema di immagini di Rabelais, «2/ più democratico fra i capifila della nuova letteratura», si spiega fuori della tradizione letteraria, collocandolo al «giusto posto nell’evoluzione millenaria della cultura popolare», la cui unità di stile è sancita dalla cultura carnevalesca. La storia del riso tra Medioevo e Rinascimento, così come Bachtin la ricostruisce, è dominata dal carnevale che impone la sua cultura e le sue leg-

gi, formalizzando le feste agricole e cittadine e invadendo i livelli culturali superiori, carnevalizzando la letteratura. Che il suo scrupolo classificatorio lo induca a segnalare forme e generi ancora estranei alla festa nel discorso familiare e di piazza provocato dal contatto quotidiano (ingiurie, spergiuri, bestemmie, blasons popolari) significa che l’eterogeneità morfologica del riso (stretta nella tripartizione riti e spettacoli, letteratura carnevalizzata, estemporaneità plateale e familiare) riflette un unico aspetto, quello comico, della realtà ludica, comunque esso si formalizzi. Il principio del riso su cui questa realtà si regge svela il dualismo del mondo, la presenza accanto al mondo ufficiale di un secondo mondo (il gioco) e di una seconda vita (la recita). Quanto alla festa, il suo affrancamento è storico. Se negli stadi primitivi della civiltà s’integrava con la sacralità e l’ufficialità, essa si è poi sempre più distinta in un suo ambito esprimendo col carnevale l’esigenza di una liberazione temporanea contro le sanzioni gerarchiche, religiose e sociali. Nella logica del carnevale sono latenti tutte le forme carnevalesche: il mondo alla rovescia, parodia della vita normale, si esprime nelle feste dei folli, nelle sotzes, nelle proclamazioni dei roîs pour rire, nella figura del buffone. A lui è consentito di esprimere permanentemente quella logica di là dai limiti temporali del carnevale, e il suo riso non è un fenomeno di comico isolato,

motivato da una reazione individuale; è un riso di festa, popolare e universale perché si espande a tutti i partecipanti; ma è anche ambivalente: allegro e beffardo, nega e afferma, seppellisce e risuscita. Questa ambivalenza è iscritta nella topografia

del comico carnevalesco, nella localizzazione in basso dove è

posto il principio materiale e corporeo della vita. Da quel fon21

do si genera la sua imagerie, quella forma carnevalesca che Bachtin chiama «realismo grottesco» e che impone un suo canone rispetto a quello classico, anzi dà il via a una tenace tradizione di letteratura realistica, il cui campo «negli ultimi tre secoli del suo sviluppo è letteralmente disseminato di frammenti del realismo grottesco». Nell’immaginazione grottesca è ambivalente anche il rapporto con il tempo e il divenire: essa incorpora la ciclicità della vita biologica sentita negli stadi primitivi e la linearità della storia percepita in quelli più evoluti. Ma siamo già alla conciliazione rabelaisiana del bruto e del sapiente, del materiale e dello spirituale. Il ventre del gigante è il crocevia in cui convergono natura e storia; è il non-luogo della letteratura che riscatta la totalità di anima e corpo che Bachtin vagheggia, ed è anche il non-luogo del suo dialogismo, l’utopia di una verità plurima che reincarna col romanzo moderno la perduta ambivalenza carnevalesca in forma plurivoca e polifonica.” La priorità antropologica e culturale assegnata da Bachtin alla festa e l’insistenza sul carnevale come principio unificante del comico hanno il merito di disegnare uno schema genetico della storia del riso anche sotto l’aspetto del linguaggio. È una storia che continua, seppure degradata e frammentata, oltre la rottura dell’unità della cultura popolare, ma resta una storia parziale, dell’immaginazione grottesca, benché quella bachtiniana sì presenti nel confronto con quelle classiche, da Aristotele a Bergson, come una teoria generale. Le altre teorie, che possiamo chiamare «ristrette», partono invece da fondamentali distinzioni categoriali sulle quali generalmente si concorda: situazione, carattere, parola. Le modifiche introdotte da Bergson, isolando il «carattere» e distinguendo «forme e movimenti» da una parte e «situazioni e parole» dall’altra, accentuano le caratteristiche del comico quotidiano anziché di quello formalizzato (e letterariamente formalizzato) e ribadiscono la nozione

bergsoniana di rigidità di meccanismo che definisce il fenomeno.® Resta comunque canonico lo schema tripartito, peraltro il più funzionale a una pur elementare tassonomia di forme e significati che qui è opportuno sottolineare. Il comico di situazione è transitorio; può essere determinato o dall’alterazione di uno stato normale (un comandante che inciampa mentre passa in rassegna le truppe, ma anche l’incon-

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tro a una cerimonia di due donne abbigliate allo stesso modo) ovvero da un equivoco: uno scambio di cappelli (che è un errore involontario), uno scambio di persona (che può essere una beffa procurata: per esempio dalla moglie che si sostituisce alla donna che il marito si prepara a godere). Il comico di carattere è invece permanente; consiste in un difetto o in una difformità di comportamento ed è legato alla persona che lo incarna, a una sua particolarità o anche bruttezza che genera il ridicolo (ma senza essere, avverte Aristotele, doloroso ed essenziale, sen-

za provocare sofferenza), e proprio per questa permanenza del comico etico il repertorio dei caratteri dei moralisti a partire da Teofrasto è pronto ad essere tradotto in repertorio teatrale. Quanto al comico di parola, converrà prescindere dalle parlate caratterizzanti ed espressive (in senso ridicolo) e restringer-

ne, per la sua immediata comprensione, l’enorme portata alla tipologia del motto di spirito che, rispetto alle altre tipologie, mette subito in evidenza la modificazione di un rapporto. Quale che sia la sua interpretazione, la classificazione freudiana ne sottolinea i fattori fondamentali: la tecnica (verbale o concettuale), lo scopo (innocente o tendenzioso), la natura (triviale o

profonda).! Ne deriva una retorica del comico e su questa base uno studio delle sue funzioni letterarie, perché il motto di spirito è già anche nella pratica un atto di linguaggio che interrompe la trasmissione comunicativa: nei termini di Jakobson, esso attrae l’attenzione sul messaggio." Ma è poi vero che neppure il comico formalizzato è una costellazione fissa; è anch’esso una galassia dai confini dilatabili. E non è un genere, ma abita nei tre generi classici: l’epico, il lirico, il drammatico, e li degrada (il che non vuol dire che ne riduce il quoziente estetico). Le forme di questa degradazione portano vari nomi: parodia, ironia, mimo, beffa, umorismo, sa-

tira; il tempo le modifica e ne caratterizza il contenuto ludico fino ad espanderlo nel tragico. La storia del comico è appunto una vicenda di modificazioni; e forse più d’ogni altra la letteratura italiana ce ne dà il grafico sensibilissimo delle oscillazioni, sin dalle origini.

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NOTE

1 Cfr. u. Eco, Z/ comico e la regola, in «Alfabeta», III (1981), 21, p.ò. 2 Cfr. H.- L. BERGSON, Le rire cit., trad. it. p. 42: «Ora, la fantasia comica è

veramente una energia vivente, singolare pianta che ha germogliato rigorosamente sulle parti rocciose del suolo sociale, in attesa che la cultura le permettesse di gareggiare con i più raffinati prodotti dell’arte». 3 La lamentazione è attribuita allo scrittore comico Antifane: cfr. w. K. WIMSATT jr e c. BROOKS, Literary Criticism. A short History, 1957 (trad. it. Breve storia dell’idea di letteratura in Occidente, I, Torino 1973, p.34).

4 Cfr. per tutti L. OLBRECHTS-TYTECA, Le comique du discours cit., trad. it. pp. 16 sgg. 5 Cr. CH. BAUDELAIRE, De l’essence du rire cit., pp. 167-68. 6 M.M. BACHTIN, 7vorcestvo Fransua Rable cit., trad. it. pp. 3-68 (Introduzione).

Il discorso sulla festa e sul gioco va coronato col richiamo a J. HuIzINcA, Homo ludens, 1938 (trad. it. Torino 1949), e R. cAILLOIS, Les jeux et les hommes. (Le masque et le vertige), Paris 1958. Si veda anche J. EHRMANN, L’homme en jeu (1969) (trad. it. in A. SANTACROCE (a cura di), // gioco nella cultura moderna, Cosenza 1979). A livello mitologico e archetipico la giocosità rabelaisiana offre a Karl Kerényi e C. Gustav Jung suggestive occasioni di raffronto col ruolo del trickster e del briccone del ciclo narrativo degli indiani Winnebago del Nordamerica. Cfr. P. RADIN, C.G. JUNG e K. KERENYI, Der Gottliche Schelm, 1954 (trad. it. Z Briccone divino, Milano 1965).

7 M.M. BACHTIN, 7vorcestuo Fransua Rable cit., trad. it. pp. 4 e 5. 8 Cfr. in particolare ., S/ovo v romane (1934-35) (trad. it. La parola nel romanzo, in Estetica e romanzo cit., pp. 67-230). 9 H. L. BERGSON, Le rire cit., capp. 1 € Il. 10 Cfr. ARISTOTELE, Dell’arte poetica, 5, 1, a cura di C. Gallavotti, Milano 1974, p. 17. 11 Cfr. s. FREUD, Der Witz cit., sezione A. Parte analitica.

12 Cfr. r. JaKoBson, Closing Statements: Linguistics and Poetics, 1958 (trad. it. Linguistica e poetica, in Saggi di linguistica generale, Milano 1966, pp. 81 sgg). La

convergenza di linguistica e psicanalisi è testimoniata dagli atti del convegno del 1980 sulla «comunicazione spiritosa »: si veda F. FORNARI (a cura di), La comunicazione spiritosa. Il motto di spirito da Freud ad oggi, Firenze 1982.

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3 - UN NUOVO LUDO

Nel vestibolo dei primi secoli lo storico che abbia già investigato le tracce e valutato i documenti più arcaici del volgare (magari non trascurando spiritosi formulari sopravvissuti in indovinelli e fescennini o il motteggio visualizzato del fumetto romano di San Clemente") si trova davanti a due porte di ingresso alla letteratura: la porta del comico e quella del tragico, che per il momento separano le due culture dei chierici e dei laici, se non proprio due società. Si tratta ovviamente di monumenti di stile, non abbozzi di una civiltà nascente, che segnalano le tendenze estetiche e spirituali di un’epoca: diciamo, per attenerci agli esempi più noti, il Contrasto di Cielo d’Alcamo e il Cantico delle creature. De Sanctis, come si sa, entrò per la porta

del comico, subito con in mano la rosa («fresca e aulentissima») che lo accompagnerà nel suo tragitto secolare;° e sarebbe troppo facile arguire che fu una scelta laicistica, quasi per assegnare allo sviluppo del volgare letterario, dovendo optare tra immanenza e trascendenza, una patente di terrestrità. Quali che siano state le prime inclinazioni del suo itinerario, le ragioni manifeste erano altre, tutte interne all’espressività di un testo ancora contrassegnato dai caratteri della primitività, ma già capace di restituire nei «movimenti drammatici», «nell’andamento vivo e rapido del dialogo» e in una forma «quasi impersonale» il «ritratto immediato e genuino di quel tempo»; meglio ancora, di far intravedere i momenti fondamentali di una realtà linguistica che emerge da un lungo processo di decomposizione del latino con la veste comica, pluricromatica dell’arlecchino dialettale mentre lascia individuare il processo successivo di ricomposizione unitaria, insomma l’abito nazionale della lin-

gua d’arte.’ «La realtà naturale-culturale, —

è stato detto, —

è ludica.

Nessuna trascendenza ne forza il senso». Il mimo di Cielo appartiene forse a questa realtà che penetra col privilegio di una 25

carnevalizzazione permanente concessa al buffone educato — il giullare autore, ma anche il «canzoneri» attore di questa commedia della seduzione — all’interno di un mondo cortigiano, come quello dei Siciliani, fortemente formalizzato, anzi let-

terariamente grammaticalizzato. Certo, appartiene all’ambito della naturalità ludica l’insistenza sulla schermaglia tra il dongiovanni e la finta ritrosa che ritarda e insieme accentua il godimento cui sono entrambi disposti. Ma le parole non simulano un rituale erotico, movimenti di una danza di avvicinamento;

sono appunto drammatiche, disegnano attraverso il dialogo dei caratteri, ritagliano l’evento galante da un quadro di vita che i due interlocutori rievocano con una fitta serie di allusioni circostanziate ma anche favolose. La spersonalizzazione è una qualità del Contrasto che non rintracciamo in testi consimili del Duecento. Anche la canzone del Castra Fiorentino, la pastorella «recte atque perfecte ligatam», secondo la pagella dantesca del De vu/gari eloquentia (II, 1), composta in improperium della parlata marchigiana, è di fatto un vanto, non tanto diverso dai molti che infiorano il repertorio esibizionistico dei giullari. Il comico delle origini è caratterizzato finanche con asprezza dalla vanteria del giullare, dell’attore che riscatta con l’abilità mimetica e musicale, posta dapprima al servizio del trovatore e della sua poesia, la sua identità sociale mai di fatto riconosciuta. Il parodismo è il suo strumento

preferito, e su di esso s’intona facilmente il gusto giullaresco della contraffazione, ma è anche un’attestazione di superiorità spinta ai limiti dell’irriverenza. L’avventura del giullare è inseparabile dalla storia sociale e religiosa del medioevo, ma anche da quella letteraria. Se ne troveranno pochi (oltre l’autore del Contrasto, il senese Ruggieri Apugliese, un «dottore» peraltro, come egli stesso si dichiara, che si abbassa a giullare di professione per sfida dispettosa) da elevare al rango di scrittori, né emerge un corpus personale che caratterizzi una carriera letteraria. Eppure il giullare trasmette nel Duecento quella teatralità istrionica con la quale s’inscena il «nuovo ludo», e non solo quello dantesco di Malebolge. Si dirà che non si possono confondere i livelli. I poeti realistici, giocosi, comici, burleschi, come che sia possibile definirli, sono

rimatori d’arte che esemplificano moduli delle artes dictandi, trasferiscono caricandoli della rissosità municipale e del loro 26

ostentato autobiografismo la materia e i topoi di una poesia latina eslege che i goliardi avevano diffuso nell’intera area romanza: l’eros postribolare, il vino, il gioco; quel gusto insomma dell’esibizione gaglioffa, dispettosamente adolescenziale, polemicamente regressiva che Cecco Angiolieri condensa nel suo manifesto di scapigliato col noto trinomio: la donna, la taverna, il dado. Ma il «nuovo ludo», lo strano, bizzarro e disonesto spettaco-

lo sul quale Dante richiama, come il prologante di un teatro da fiera, l’attenzione del lettore («O tu che leggi, udirai nuovo ludo»°), ha preso forma nella nascente letteratura in volgare per diretta contaminazione con l’esperienza istrionica del giullare, con lo sfruttamento attoriale, mimico quindi, e verbale, della sua mortificazione d’autore, infine della sua dannazione esi-

stenziale e artistica. La parodia era stata fino ad allora l’esercizio più virtuosistico della rimeria giullaresca, spinto al limite dell’enigmistica (il Detto del gatto lupesco è un bestiario parodistico? il Mare amoroso una frottola parodica dell’ ascetismo? e l’espressionismo della Canzone d’Auliver è pura contraffazione?”), e si era rinverdita con le serie antifrastiche dei sonetti di Cenne intonati a ridosso di quelli di Folgore: enueg contro plazer. Ma la forma primaria e caratterizzante dei poeti comici è la tenzone, espressione della loro aggressività per lo più esplicita, ma talora introiettata, come appare dalla sezione più saturnina del canzoniere angiolieresco. Cecco è un maestro del trobar comico. Nei suoi sonetti la retorica tenzonistica degli improperia e dei vituperia è funzionale a un autoritratto di scioperato paradossalmente tragico. Non c’è bisogno di scomodare le maschere romantiche del tedio esistenziale e dello spleen, neppure il maledettismo di un Rutebeuf o di un Villon col quale la consanguineità scapigliata è più accertabile; ma fatto sta che l’autoritratto non restituisce la fisionomia

linfatica del virtuoso di una tastiera comica che attende l’applauso, quanto piuttosto la posa malinconica del bizzarro che fa ridere per il suo cruccio infantile, esasperatamente filiale a dispetto del suo odio antipaterno, di gaudente frustrato che però non sa ridere. È un umor nero che intacca solo le apparenze, non la sostanza, dei rapporti umani, dalla famiglia all’amore alle gerarchie sociali; per questo il dramma resta sommerso mentre emerge la difformità comica. 204

Ma i limiti del comico di Cecco possono essere segnati solo in

alto, nel confronto con l’incontinenza tenzonistica di Dante, e

non del Dante «begolardo», suo contendente in schermaglie rimate e forse troppo corrivo ai battibecchi di città e di quartiere. Il metro su cui valutarlo è il tenzonismo di Malebolge, che è peraltro una dismisura. In basso ci sono le mosse di scomposto duellante di un Rustico di Filippo, che pure dava prova di un’altra virtù giullaresca, quella della caricatura zoomorfa che, frenata da un gusto più divertito e meno risentito dell’osservazione, avrebbe potuto popolare una variegata fattoria fiorentina degli animali. (Ma anche per un’ efficace rappresentazione del bestiario fiorentino bisogna rinviare alla Commedia). Per il resto l’icasticità di Cecco nel monologo declamatorio o nella botta e risposta del contrasto amoroso sì stempera negli altri rimatori con l’esercizio comico di ca/lidae iuncturae, accumuli ver-

bali o copiae dicendi, allitterazioni e figure etimologiche e rime aspre e rare.” E quanto ai temi, nella messa in gara del suo maledettismo, con estensione ad altri rimatori affini della sua protervia filiale, come nel conterraneo Meo de’ Tolomei.

Un tenzonismo sfrontato e scurrile aveva dato sfogo alla «bassa voglia» di Dante. Ma quando e quanto a lungo? Lo scambio con Forese di sonetti infamanti è un episodio forse cooperante alla prospettiva di riscatto della Commedia, certo all’elevazione di valore della commedia, evento di mutazione dal-

l’infelicità alla felicità, sul «nuovo ludo», sul comico turpe destinato a restare senza esito. La memoria di quel tenzonismo, che è per Dante distrazione della coscienza e degradazione dell’agonismo tragico, resta viva nel percorso che il pellegrino compie e tinge le sue gote ogni volta del rossore della vergogna. Senza questa memoria apparirebbe inspiegabile il suo indugio partecipe alle «corte parole» e pur al suono di un motto dei negligenti dell’antipurgatorio, e solo enfaticamente precettistica la sanzione di Virgilio che lo induce alla tacita ammissione di un vizio persistente, però sempre emendato dal paterno perdono. Ed anche più su, quasi al culmine del tragitto purificatore, una drammaturgia di ammicchi tra il seguace e la guida, che volge in gioco la nostalgia di Stazio, conserva la consuetudine ingentilita della complicità ironica e derisoria. Si aggiunga nel

paradiso la trasfigurazione della rosa «carnale», cantata in un’opera illegittima e tanto fervidamente sensualistica come 7/ 28

Fiore, in rosa mistica: atto finale della commedia di Dante stesso, che celebra, forse anche nel titolo del poema, la felice mutazione del protagonista dalla degradazione comica alla sublimi-

tà del riscatto spirituale. La memoria psicologica del comico è nella Commedia volutamente rimossa tra occultamenti e allusioni; ma prepotente è la sua memoria poetica che rimette in gioco drammaticamente i contenuti ignobili della tenzone con una ripresa retoricamente potenziata di quelle aspre modalità «teppistiche», ma col di-

stacco ora del regista, e ancora dell’attore, dalle tentazioni di

un protagonismo ludico pronto a varcare i divieti posti all’aggressività impietosa, come colonne d’Ercole della solidarietà creaturale. Questa messinscena del turpe, questa radicale demonizzazione dell’umano, occupa tutto il distretto di Malebolge, la più vasta sezione del poema dilatata per più di un suo terzo. L'inchiesta di Bachtin sul realismo carnevalesco prerabelaisiano ha trascurato questa inconvertibile campionatura di grotteschi demoniaci e carnevaleschi, e la sua omissione, intenzionale o preterintenzionale che la si giudichi, collega certo meglio la storia del riso tra medioevo e Rinascimento allo schema popolare dell’ambivalenza morte-resurrezione. Il grottesco di Malebolge, infatti, esaspera solo il primo termine del rapporto, la morte, e insieme esalta il dominio di Dante sul delirio carne-

valesco. Ma resta l’interpretazione desanctisiana di questa fondamentale esperienza dantesca, che surroga ancora il vuoto

dell’ inchiesta bachtiniana.!° Fervida come una spirale nei suoi rivolgimenti descrittivi e teorici, l’analisi di De Sanctis sembra alla fine allentare una

prima troppo inaugurale di la commedia, dei suoi stessi

decisa vibrazione che gli detta la definizione Malebolge:«La forma estetica di questo mondo è rappresentazione de?’ difetti e de’ vizi». Sulla base riscontri si preferirebbe in realtà una definizione che mettesse in evidenza l’inconciliabilità di quei difetti e la forma

stravolta

della mimesi

comica,

da mistero

grottesco,

piuttosto che da commedia. Infatti, come la sua lettura stessa chiarisce, in questo scenario di «natura sformata... piccola, in rovina e in putrefazione», dove Ulisse «è una piramide piantata in mezzo al fango», dove «il comico penetra da tutti i lati, traendosi appresso il lordo, l’osceno, il disgustoso», la commedia non ha spazio, e non c’è posto per l’ingenuità dei Sancio e 29

dei don Abbondio, «eccellenti caratteri comici». La coscienza

del vizio dei dannati di Malebolge non più sradicabile genera la loro deformazione bestiale, lo stravolgimento dei lineamenti individuali che trasforma le persone in specie peccaminose (seduttori, ladri, barattieri, ecc.), in oggetti orrendamente re-

versibili con gli strumenti della pena. Questa coscienza spegne il riso. Dante avrebbe potuto liberarlo attraverso la caricatura, «la regina delle forme comiche», isolando un «contromodello» del tipo ideale. Ma non può obliarsi nella sua materia, ne teme la compromissione. La rassegna desanctisiana dei peccatori di frode mette in evidenza tutti i gradi del comico, dal sozzo di Taide al tenzonismo plebeo di mastro Adamo al buffonesco dei barattieri fino al sublime di Vanni Fucci («l’umano divenuto bestiale e idealizzato come tale»), passando per l’ironia, l’arma con cui il diavolo, prefigurazione di Mefistofele, distingue il contrasto tra l’essere e il parere. In questo dramma Dante non può calarsi fino in fondo, nemmeno «lungo il pendio dell’ingiuria» quando inveisce contro Niccolò mm. La sua trincea è il sarcasmo, che però non deve «rimanere nel particolare e nel personale», ma «purificare e consumare se stesso», farsi «voce di verità, espressione impersonale della coscienza». Perciò il comico di Malebolge «è posto ed è sciolto», vive quando Dante se ne libera, «mutato il riso in collera». Vale la pena di ricordare la conclusione cui mette capo il percorso desanctisiano sul comico dantesco: «Rimane un fondo comico che aspetta ancora il suo artista. Pure in quella materia appena formato vive immortale il suo nero cherubino». L’artista del comico non tarderà ad arrivare; ma De Sanctis sembra

pensare di più al «nero cherubino». Il recupero di questa figura resta affidato a un evento ancora lontano, quando tra classicismo e romanticismo il débat medievale tra anima e corpo e ragione e verità sarà riattualizzato faustianamente, come tema dell’orgoglio intellettuale, e di nuovo in epoca moderna la drammaturgia della dannazione metterà in scena la tenzone tra uomo e destino.

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NOTE

1 Cfr.i testi raccolti in E. MONACI Crestomazia italiana dei primi secoli (18891912), nuova edizione aumentata a cura di F. Arese, Roma-Napoli-Città di

Castello 1955. 2 Cfr. G. DEBENEDETTI, Commemorazione del De Sanctis (1934), in Saggi critici, nuova serie, Roma 1945, p.19: «Non so se nessuno abbia mai osservato che il professor De Sanctis cammina attraverso i secoli centrali della letteratura italiana, attraverso quei secoli che più drammaticamente impegnano le sorti del suo ideale— cammina, dico, con una rosa in mano». In realtà l’ipostasi vale anche per i secoli inaugurali. Cfr. anche Gc. Pozzi, La rosa in mano al professore, Fribourg 1974. 3 F. DE SANCTIS, Storta della letteratura italiana cit., pp. 3-14.

4 J. EHRMANN, L’homme en jeu cit., trad. it. p. 32. 5 Cfr. le due fondamentali raccolte coeve: M. MARTI (a cura di), Poeti g10così del tempo di Dante, Milano 1956, e M. viraLE (a cura di), Rimatori comicorealistici del Due e Trecento, Torino 1956. 6 Inferno, xx11, v.118.

7 Cfr. c. CONTINI (a cura di), Poeti del Duecento, Milano-Napoli 1960, 1, pp. 285-93; 1, pp. 483-500, 507-11. 8 La retorica comica è analizzata in dettaglio da M. vITALE, Introduzione alla raccolta da lui curata Rimatori comico-realistici cit., in particolare pp. 28-48. 9 Cfr. c. CONTINI, /ntroduzione all’edizione da lui curata de // Fiore e Il Detto d’Amore attribuibili a Dante Alighieri, Milano 1984. 10 Cfr. r. DE SANCTIS, Storza della letteratura italiana cit., pp.165 segg., cap. vii. La «Commedia» (da cui sono tratte le citazioni seguenti), che raccoglie spunti e argomenti elaborati per le lezioni torinesi (1853-55) e zurighesi (1856-59) su Dante (Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, in Opere, a cura di C. Muscetta, V, Torino 1955). Sulla classificazione desanctisiana del comico dantesco richiama l’attenzione R. WELLEK, A History of Modern Criticism, IV. The Later Nineteenth Century, 1965 (trad. it. Storia della critica moderna (1750-1950), rv. Dal realismo al simbolismo, Bologna 1969, pp. 132-33). Per altri aspetti connessi al tema cfr. p. DELLA TERZA, Comico e commedia nella critica di Francesco De Sanctis, in G. FERRONI (a cura di), Ambiguità del comico cit., pp.

135-147.

Si

4 * IL COMICO

ALLO

SCOPERTO:

IL MODELLO

DECAMERONIANO

Il contromodello caricaturale, come che l’abbia realizzato

Dante in Malebolge, resta nella sua evidente intenzionalità polemica un esempio di comico mortificato dal modello che sottintende, dall’esemplarità tragica che informa la vicenda sacrificale del cristiano e dà al riso altra luce. Invece il comico è a sua volta un modello solo che sciolga il suo essere dal dover essere che lo mortifica e si offra come una fenomenologia del vivente senza altre remore se non quelle della sua mimesi, tutte interne alle ragioni dell’arte che lo legittimano. Questa scoperta del comico, questa rivelazione del suo valore, si deve, come si sa, a Giovanni Boccaccio. Nel Decameron, dove quel valore si manifesta per intero, Boccaccio non enuncia un’idea generale del comico, mentre nel corso dell’opera ne mette in rilievo, senza interventi personali, la varia morfologia. Ma la difesa della sua erotologia, con cui interrompe a capo della quarta giornata le sequenze narrative, rivolgendosi, come nel proemio, alle donne, si serve di un argomento (oltre che di un’arguta esemplificazione novellistica) che di riflesso chiarisce la motivazione quanto meno psicologica della sua disinibizione comica: E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora più che mai mi vi disporrò, per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrà alcuno con ragione, se non che gli altri e io, che v’amiamo, naturalmente operiamo: alle cui leggi, cioè della natura, voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano. Le quali forze io confesso che io non l’ho né d’averle disidero in questo, e se io l’avessi, più tosto a altrui le presterei che io per me l’adoperassi.'

Il paradigma della natura con cui cooperare, indipendente32

mente dalle istanze della perfettibilità morale proprie del cristiano, introduce già con tanto anticipo, e certo senza ricorso alle procedure analitiche dell’inconscio, il rapporto tra dispendio e risparmio di energia che, secondo Freud, sta alla base del Witz. Di tutta la tradizione ovidiana dell’ars amatoria, filtrata attraverso l’intepretazione ambivalente, remunerativa e punitiva, del trattato di Andrea Cappellano, poi defluita nell’erotismo galante, passionale e sublimante della lirica cortese, dai provenzali agli stilnovisti, Boccaccio acquisisce il motivo della dedizione alla donna come manifestazione del desiderio che pervade tutta la letteratura, anzi la fonda all’origine, come dimostrava la sua stessa decennale esperienza di scrittore, da Napoli a Firenze. La lotta contro i Falsembianti, gli ipocriti che ostacolano nel Roman de la Rose l'approccio al vagheggiato fiore, era ancora attuale. Dante ne aveva già fatto materia di un suo poema comico-erotico, se è appunto attribuibile alla sua giovinezza, fervida tanto di edonismo come di misticismo, l’iniziativa di trasferire quel mistero d’amore nella forma lirico-narrativa italiana del sonetto. Ma la lotta ora poteva essere ingaggiata direttamente, con le risorse dialettiche ed espressive del comico senza più ricorrere all’allegorismo di quel pur insinuante testo libertino. Il culto erotico di Boccaccio s’accompagna al riso, e per questo è inscindibile dal comico. L’amore represso o tragicamente concluso non funge mai da exemplum morale di passione punita (a meno che il conseguimento del piacere non comporti una volontà malefica, un inganno); è semmai un exemplum negativo di fanatica intolleranza del desiderio; è un disvalore. Le lagrime

di eros sono un evento eccezionale tra i piaceri onesti della brigata; e infatti nel calendario del Decameron il tema dei tragici amori occupa una sola giornata: sintomaticamente la quarta, come a fornire una prova di serietà e compassione a riscontro dell’atto di devozione erotica scandalosamente gioiosa recitato

nel prologo. Per il resto anche l’amore cade sotto il dominio del comico. Il culto preumanistico della poesia in cui Boccaccio s’era educato, la sua assidua dimora con le Muse in Parnaso, aveva

favorito la rimozione dalla letteratura delle tante ipoteche finalistiche, e la liberazione dei suoi contenuti, quali che fossero, anche se indotti da una materia impoetica e da un’immagina33

zione popolare. Il comico si avvale di questa promozione della letteratura a valore autonomo e primario dell’esperienza artistica, di questa coscienza intellettuale dell’arte che s'ammanta finanche del fervore mistico della renovatio. Nell’itinerario dantesco da uno stato di corruzione ad uno di purezza il comico turpe delle bolge infernali dà espressione a un rimosso depositato nell’inconscio collettivo, a una realtà fantasmatica che prende corpo in uno spettacolo di sfrenate esibizioni: il «nuovo ludo», col quale lo spettatore arriva a compromettersi come attore, ma per esorcizzarlo. Nella prospettiva decameroniana invece il comico è un compromesso ludico che si attua a livello individuale, e con piena responsabilità etica, tra vissuto e narrato,

nella sfera del dicibile. Per questo l’autore non può assegnarsi altra funzione che quella di lasciarlo esprimere attraverso la delega consegnata ai personaggi che si assumono il compito di evocarlo con tutta la sua evidenza fattuale distribuendosi le parti per ottemperare a una regola preventivamente concordata, non per personale compromissione. Si fonda così lo statuto civile del comico che coincide con il suo statuto teatrale: una brigata di onesti giovani instaura temporaneamente un secondo ordine fittiziamente civile valido solo al suo interno e con una durata limitata all'esecuzione di tutte le recite programmate. Il teatro di fatto non sarà altro che l’estensione alla società reale dello spettacolo, di là dalla ficta societas del Decameron, di questa primaria intesa ludica. Ma non era ancora tempo di trasferire il profano visibilmente sulle scene. La profanizzazione della letteratura ha per il momento il suo luogo deputato nella novella. Già prima del Decameron, motti, aneddoti, exempla, conti morali storici mitologici, tutto il ventaglio delle forme narrative romanze, e perfino le cronache, avevano rivendicato di fatto l'autonomia del bel parlare prima che del ben giudicare: nella prosa novellistica l’istanza fabulatoria faceva aggio sull’impegno edificante. Boccaccio raccoglie ed esalta questa istanza dilatando a misura delle situazioni e dei personaggi la retorica del comico, sviluppando tutte le possibilità di profanizzazione del linguaggio. E si tratta di una retorica che ha assimilato molto più dei dettami scolastici delle artes dictandi la lezione dello sperimentalismo dantesco. Qui è il co-

mico che «ditta dentro», e via via mette in atto tutti i registri

stilistici di contatto e di deformazione, di aumento e riduzione

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di tensione, per la provocazione dell’effetto scenico oltre che verbale della parola. Per virtù dei parlanti e con la complicità degli uditori si attua una stretta simbiosi tra scrittura e pronuncia. Essa sollecita nel lettore l’interferenza dell’orecchio con l’occhio: dell’ascolto, che percepisce le inflessioni recitative del narrato e il suo dialogismo, con la lettura mentale, che asseconda la linearità del dettato ma ne appiattisce l’espressività. Il comico decameroniano prende risalto dalla teatralizzazione del tessuto narrativo, dal continuo scambio tra diegesi e mimesi. È un risultato che Boccaccio poteva ottenere solo nella novella, l’unico genere narrativo che si aprisse fino ad allora a rappresentare tutti i livelli della realtà. Tra la prosa del Decameron e le prose dei romanzi, // Filocolo e la Fiammetta, in cui

Boccaccio s’era avventurato in passato, la differenza non è solo retorica, vale a dire tra un registro del parlato e uno del declamato non più invadente. Nella versione medievale il romanzo non può accogliere che l’avventura di un eroe, eccezionale seppure abbassata al piano sentimentale; la novella è notizia del mondo, aggrega la varietà dei casi e delle persone e la stessa pluralità del parlare, non seleziona in alto o in basso la materia del narrare. Prendendo corpo nelle novelle decameroniane la mimesi comica diventa una totalità rappresentativa: enciclopedia degli stili, ma anche enciclopedia del reale, con una reciprocità di contatto tra i due piani tanto stretta che sarà difficile ripristinarla nello sviluppo del genere novellistico.’ In una storia del comico ricostruita per ritagli significativi, quale è quella che si sta tentando di tracciare, va sottolineata questa filogenesi letteraria. Al suo interno il modello più illustre di ars comica si realizza col Decameron, quando la forma del volgare, con la Commedia, si è rivelata tutt’intera, e via via che la cultura collabora a riannodare, senza distinzioni di comico e di

tragico e senza opposizione di esperienze pur diverse (Petrarca e Boccaccio), i fili interrotti delle due culture, pagana e cristiana. Ma anche l’eterogenesi, per quanto sfuggente alle verifiche circostanziate, va sondata se non altro per indizi. Per esempio sul coefficiente di aggressività tenzonistica che caratterizza il nuovo ludo dantesco e predantesco e la sua relegazione a esercizio plebeo praticato senza la delimitazione «alta» del comico eticamente e socialmente regolato del Decameron. L’altercatio servile all’inizio della sesta giornata sembra in questo senso conte35

nere una funzione parodistica delle vecchie, ormai desuete tenzoni municipali. E infatti viene ricacciata in cucina, nella bolgia in cui quei litigi farseschi fermentano, mentre fornisce all’onesta brigata, per contrapposizione, la materia dei motti che nobilita gli improperia e vituperia e riduce nella sfera del compromesso verbale, civile e psicologico, l’aggressività degradante della tenzone. Il motto è arte del bel parlare («parlante» è detta semplicemente monna Nonna de’ Pulci) e del mordere senza lacerare.

E il repertorio esibito dai novellatori della sesta giornata mette in luce una civiltà del comico maturata come civiltà fiorentina. Rispetto ai tempi di Dante il municipalismo dell’età di Boccaccio appare meno rissoso. Resta semmai, e si accentua, la distinzione quanto meno culturale tra chierici e laici. Il mondo del Decameron appartiene a un’età di ormai maturo laicismo, anche se la profanizzazione della letteratura non coincide con quella della società. Ma l’anticlericalismo non resta un’occasione aggressiva per moralistiche invettive; diventa motivo comico di rappresentazione che fa da sostegno al principio della supremazia naturale. Tanto più esasperata quanto più mascherata d’ipocrisia o esaltata dall’autorità di cui essi godono, la farsa della carnalità dei chierici richiama tutto intero il grande spettacolo di denudamento allestito dal Decameron. Istinti e pensieri sono messi allo scoperto con una licenza carnevalesca che tocca tutte le categorie del sociale; ma la parola comica è compensativa: allargando il campo metaforico, espone al compiacimento estetico l'oggetto via via denudato; genera per ogni personaggio e per ogni situazione quello scambio tra fatto e detto che fonda oltre che un codice di rappresentazione mimetica, onnicomprensiva della realtà, il codice etico del comico, la sua moralità letteraria. E tuttavia questa legittimazione formale di una nuova eticità profana, seppure garantita dagli statuti di una brigata onorevole ma pur sempre istrionica e carnevalesca, non era sufficiente. Il dominio edenico del comico decameroniano è delimitato sul fondo dall’orrido della peste che corrompe la natura e i costumi. L’autore ha dovuto attraversare questa soglia per raggiungerlo e per accompagnarvi i lettori. Ma la soglia del tragico non è il peccato né una punizione da dolorosamente riscattare, è un’apocalisse, una devastazione collettiva. Sulle sue cause 36

naturali o divine Boccaccio non si pronuncia, si limita a riferirle; ma certo la calamità dà figura, proprio per le sue immani proporzioni e i suoi effetti devastanti, all’ineluttabilità dei destini individuali. I termini a questo punto si invertono: tolte le prospettive provvidenzialistiche, il tragico resta solo morte, distruzione, corruzione, e il comico non è più uno stato di avvilimento umano, la bizzarra sirena che distrae e mortifica, ma è riscatto dalla morte, vita, e quindi anche arte, che si rigenera.

La biografia del comico è irreversibile: sviluppa una forma che resta inalterata nell’opera che la contiene e trasmette i suoi caratteri ad altre forme cui fa da modello e che, come avviene,

via via la alterano. Ma la biografia dei comici, i creatori di quella forma, è spesso macchiata da un destino di reversibilità: il destino di Belli dopo la stagione dei Sonetti, e di Manzoni dopo l’entusiasmo compositivo del romanzo, e di Boccaccio dopo il Decameron. Una replica del grande spettacolo, distinto fra il teatro in atto delle novelle e la coreografia cerimoniale della cornice, non era prevedibile di là dal tempo previsto tra un esodo dalla cattività della peste e un ritorno in città con l’estinzio-

ne del morbo. Ma lo sfogo atrabiliare del Corbaccio non può essere iscritto nell’esperienza letteraria di Boccaccio come un esercizio minore della sua ars comica. Quel libello è il suo Secretum, la ritrattazione della sua erotologia, un’oratio accusatoria che

fa la palinodia dell’orato defensoria della quarta giornata, con cui la sua devozione sensualistica alle donne si nobilitava nel culto della poesia. Col supporto della satira classica, delle intemerate misogine di Giovenale, il comico ora è messo al servizio della polemica d’ascendenza patristica contro il malefico corpo femminile, strumento di adescamenti labirintici, allettamenti di lisci e belletti che mascherano deformità, e di profumi che coprono effluvi di ghiottonerie, di sporche sentine. L’unità tra eros e riso, tra comico e carnalità è messa in crisi da un testo

vendicativo che inaugura all’interno delle molteplici scritture comiche lo stile della prosa ingiuriosa. Riemerge la retorica dell’improperium medievale. Ma la prospettiva rinascimentale disegnata dal Decameron avrà, a dispetto del controcanto intonato dal suo stesso autore, ben altra fortuna nella storia del comico.

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NOTE

1 c. BoccacciIO, Decameron, 1v, Introduzione, 41-42, a cura di V. Branca, in Tutte le opere, rv, Milano 1976, p. 352. 2 Cfr. N. BORSELLINO, «Decameron» come teatro (1974), in Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal « Decameron» al «Candelaio», Roma 1974, pp. 1-33. 3 «Enciclopedia degli stili»: formula usata per la Commedia da G. CONTINI, Un nodo della cultura medievale: la serie «Roman de la Rose» - «Fiore» - «Divina Commedia», in v. BRANCA (a cura di), Concetto, storia, miti e immagini del Medio Evo, Firenze 1973, p. 522. 4 G. BoccaCCIO, Decameron cit., vi, 3. Le regole del motto sono fissate all’inizio della novella.

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5 - PROTEO:

LE MASCHERE

DELL’IRRISIONE

Il potere demiurgico del comico emerge col Decameron dal mondo inferiore in cui era relegato e si insedia in quello superiore. Nella nuova dimora, superiori, vale a dire umani, sono

anche gli strumenti del demiurgo: l’intelligenza asseconda la fortuna e riduce a buon esito i rischi della peripezia, la beffa designa momentaneamente una vittima ma aumenta il potenziale ludico dell’esistenza, un gioco di parole o di pensieri, calembour o motto, media le tensioni e ricompone i rapporti alterati. L’abnorme grottesco così si decompone. Nell’immaginario comico del Decameron è la vita stessa che si manifesta grottescamente e non c’è spazio per un secondo livello di realtà mostruosa con cui eventualmente familiarizzare, ridendo. L’opposizione bachtiniana tra canone grottesco e canone classico è qui di fatto superata, perché l’uno comprende l’altro. Non per questo la demiurgia del comico restringe il suo potere: sono i realta comici del passato, le loro sostanze infere, che si dissolvono, per l’effetto dissolvente della parola che li riduce virtuosisticamente a puri logogrifi. Il dominio del comico decameroniano è infatti il linguaggio, e perciò esso è anche dominio dello spirito.

Va sottolineato il carattere spirituale del comico rispetto alla naturalità del riso. Esso induce, dispone al riso, può travestire il

serio in ridicolo, degradarlo in vergognosa volgarità e immoralità, ma anche giovare all’apprendimento del serio: da qui la perplessità a partire da Platone tra la condanna dei suoi effetti nocivi e il riconoscimento di quelli dialetticamente positivi.' Questo meccanismo di provocazione del serio è il riso intenzionale, l’irrisione; il suo supporto è la maldicenza e la sua forma compiuta appunto il comico, anzi le forme del comico, dalle minori (epigramma, facezia) alle maggiori (satira, dialogo, commedia). L’irrisione fu l’arma preferita dagli umanisti, che l’usarono per esercizio di motteggi poetici in latino — con le 98

modalità che furono di Catullo e di Marziale, maestri dell’epigramma (e l’epigramma è un motto codificato su misure prosodiche e dentro un rigido sistema grammaticale) —, più spesso nell’acre libellistica in cui sfogavano una litigiosità talora implacabile, alimentata da contrasti ideologici, letterari, religiosi, ma anche da motivi personali di concorrenza e di carriera. Quanto alla facezia,” la retorica del sermo brevis, della riduzione dell’enunciato narrativo a pura enunciazione, del dettato discorsivo a semplice rubrica, bastava a giustificarne il suo impiego nella lingua morta e in quella viva. La curiosità per l’inedito nei fatti e nei detti della vita ordinaria, che alimenta la facezia, è un di più rispetto a quella preminente de/ectatto retorica: specie per un Bracciolini, i cui interessi di scopritore erano ben più

pressanti nei campi inesplorati della filologia. Semmai è il detto memorabile che acquista, nell’ordine del discorso umanistico garantito dalla collaborazione tra intelligencija e potere, una valenza comica esemplare. Nel Rinascimento l’arguzia è parte dell’esercizio del potere. Anche Machiavelli darà un contributo alla sua memorizzazione, benché ne denunciasse la pericolosa illusorietà: Credevano i nostri principi italiani, prima ch’egli assaggiassero i colpi delle oltremontane guerre, che a uno principe bastasse sapere negli scrittoi pensare una acuta risposta, scrivere una bella lettera, mostrare ne’ detti e nelle parole arguzia e prontezza, sapere tessere una fraude... volere che le parole loro fussero responsi di oraculi; né si accorgevano i meschini che si preparavano ad essere preda di qualunque gli assaltava.'

Questa vanagloria del principe umanista apparirà chiara più tardi. Intanto, nei tempi stretti delle scaramucce letterarie e ideologiche, l’irrisione è lo strumento di offesa e difesa del ceto intellettuale emergente; ma nei tempi lunghi della cultura rinascimentale, risalendo al Petrarca e poi passando per Alberti, Pontano, Machiavelli, Erasmo e Bruno, fino a Galilei, attraverso le coordinate europee del razionalismo umanistico, essa è ri-

cerca di verità. L’irrisione non può tener conto degli ammonimenti sui limiti etici del motto. Boccaccio aveva voluto ricordare, per bocca di una sua novellatrice, «essere la natura de’ motti cotale, che essi, come la pecora morde, deono così mordere

l’uditore e non come ’1 cane: per ciò che, se come il cane mor40

desse il motto, non sarebbe motto ma villania». E aggiungeva che «è da guardare e come e quando e con cui e similmente dove si motteggia»:* un allegato, questo, che consente, a secon-

da delle circostanze, anche un incremento di mordacità. Gli

umanisti si attennero preferibilmente alla prima prescrizione mettendo a partito i precetti della retorica antica del riso, da Cicerone a Quintiliano. Nei primi decenni del Cinquecento, tra il De sermone di Pontano e Z/ Cortegiano di Castiglione, una grammatica del comico, del discorso comico, si va costruendo, quan-

to meno per normalizzare la sua pratica sociale, prima che letteraria. Ma si tratta appunto di valorizzare la sua incidenza mondana nell’ambito delle stesse etichette di corte o di salotto,

e più in là con estensione a tutta la civile conversazione: l’ideale di convivenza cui si ispira l’etica mondana del Rinascimento. Nello scrittoio dell’umanista, invece, il comico non può essere regolamentato; esso è diventato un mezzo insostituibile di approccio alla verità. E non è da chiedere quale verità, dal momento che a un principio di fede si è sostituito un principio di ragione, alla teologia un’euristica tradotta di volta in volta in metodo critico. Il socratismo, che alimenta la folta produzione dialogistica, è la tattica discorsiva tendente alla cancellazione progressiva dell’errore; il criticismo, che dalla filologia si estende all’etica, contribuisce a convertire le istanze ideali in principio di realtà e prepara la nota dichiarazione di Machiavelli nel xv del Principe sulla maggiore convenienza ad «andare dietro alla verità effettuale della cosa, che all’immaginazione di essa» (anche nella sfera degli eventi quotidiani oltre che politici, come dimostra La Mandragola); l’ironismo, che ispira tante opere di Alberti e di Pontano, solleva il sipario del mondo superiore e inferiore mostrando le maschere del potere, dell’ideologia e della superstizione, e già apre verso la scena illusionistica del poema di Ariosto, alla grande magia del Furzoso; infine il tema della follia, anzi della compensazione tra le due follie, la follia del

mondo e la follia per conoscere il mondo — figura parodistica di una dialettica a rovescio —, porta alla coscienza le più flagranti contraddizioni di un’età che pur esalta la ragione: l’intolleranza e l’abuso nell’ordine religioso e politico, il dogmatismo e il pedantismo in quello culturale. Sembrerà paradossale (e il paradosso è forma privilegiata del razionalismo umanistico), ma la polemica contro le ma41

schere del mondo è condotta con altre maschere, con le ma-

schere del discorso, prima fra tutte l’ironia, forma principe della simulazione. Si è detto che l’ironia è non solo arte di mentire ma menzogna reale, insomma una finzione parziale che dovrebbe far accettare l’universo della menzogna totale in cui viviamo e che rende fertile il terreno su cui fiorisce la cultura,

mentre favorisce gli stessi rapporti di convivenza.” Ma l’ironia è un artificio che non dà a se stesso attestati di sincerità; li impone piuttosto agli altri quando contrappone alle molte simulazioni etiche sociali sentimentali la sua simulazione controllata: strumento di conoscenza o richiamo alla coscienza critica contro la falsa coscienza, se non rivelazione di verità.

Il comico degli umanisti non coincide con la mimesi comica del Decameron; ha una matrice intellettuale, logocentrica, e perciò è costretto ad allegorizzare piuttosto che a rappresentare. Alberti si serve degli dèi per parlare degli uomini, e Momo, il briccone divino del suo romanzo satirico, incarna una figura di trasformazione, mutandosi alla fine da Momus

in humus e da

semiuomo in donna. Nell’Olimpo la sovranità divina si sbarazza della sua presenza perché non sopporta il biasimo che egli impersona e lo esilia tra gli uomini dove regna tuttavia la stoltezza, ma dove gli sarà comunque possibile esercitare con l’arroganza del denigratore la critica all’arroganza del potere. La satira politica di questo bizzarro pastiche narrativo-filosofico ha, come è stato accertato, motivazioni personali, legate all’esperienza romana di Alberti durante il pontificato di Eugenio Iv, qui ridicolizzato nel Giove faccendone, monarca velleitario. Ma si tratta di significati contingenti destinati a smarrirsi già nel Cinquecento quando il Momus, più volte stampato nell’originale e in volgarizzamenti, in Italia e in Spagna, acquistò fortuna come prototipo di romanzo picaresco.° Il carattere proteiforme del personaggio, briccone e vagabondo, portatore di verità che cela e rivela a capriccio, consentiva un’assimilazione dell’opera in chiave romanzesca. Infatti il senso del romanzesco è iscritto nell’avventura, nei suoi avvolgimenti e rivolgimenti; ma l’avventura, mentre sembra svelarlo, lo allontana e lo na-

sconde. Di questa elusività lità epica, vive già alle sue Proteiforme e picaresco gomentazione umanistica

del senso, di questa ironia della finaorigini il romanzo moderno. è anche lo schema euristico dell’arrisalente alla mescolanza farsesca 42

della cosiddetta satura menippea, e soprattutto al modello più a lungo resistente, quello dei Dialoghi di Luciano. Rispetto al modello platonico, il dialogo lucianeo offriva il vantaggio di trasferire il dibattito filosofico e morale fuori dal convito intellettuale o dall’accademia, di farlo originare da una casualità di incontri quotidiani tra persone di varia estrazione sociale, come in una scena di commedia; oppure di proiettarlo in una geografia immaginaria e straniante, come il regno dei morti del Charon del Pontano o di un meno ambizioso Dialogo del Cammelli.’ Anche il viaggio lunare e planetario percorso dall’immaginazione letteraria da Ariosto fino a Leopardi, e oltre, comincia con questi capricci retorico-filosofici. E da qui cominciano i viaggi della fantafilosofia e le escursioni in Utopia (anche se a produrre un effetto di straniamento non era necessario abbandonare le terre conosciute). Un vagabondo è anche l’eroe epico, errante appunto, dei poemi cavallereschi, e un picaro proteiforme l’eroe briccone che devia l’attenzione sulle sue bravate di ribaldo e sulla sua sfacciata professione di cinismo. Siamo nel mondo di Margutte. Qui non c’è scompenso: l’ideologia del personaggio, cioè il suo materialismo di ghiottone, coincide con i suoi atti. Scompenso c’è semmai nel mondo di Pulci e nel corpo informe del suo poema. Nel Morgante l’epica conserva le sue finalità ideali e l’eroe realizza per l’unità della fede il suo martirio, mentre un diavolo, reincarnazione in positivo del «nero cherubino»

dantesco,

svela in nome di Dio stesso l’insensatezza della contrapposizione tra le fedi e quell’idea evangelica di tolleranza che garantisce il riscatto dei pagani come dei cristiani. Astarotte è un diavolo che riceve l’imbeccata da Marsilio Ficino, dall’ecumeni-

smo della cultura laurenziana sentita perfino tragicamente. (Non sarà casuale che l’unico autentico scrittore tragico di quell’età, il Poliziano, drammatizzi

nell’Orfeo il sacrificio del

poeta pacificatore alla furia dell’intolleranza orgiastica). Ma la nova religio è incongrua in una storia dove caratteri situazioni opposizioni sono distinzioni dettate dalla tipologia della contrapposta crociata cavalleresco-religiosa, non da una rigenerazione di senso del tema tradizionale. E infatti l’originalità comica del Morgante è racchiusa nel suo automatismo designificante, nel meccanico moltiplicarsi di una materia epica ridotta a un grado zero di eroicità, e non tanto per la riduzione 43

delle gesta cavalleresche a episodi avventurosi, quanto per la sua trasformazione in materia linguistica, di cifra plebea. Roncisvalle, il luogo del martirio e della vittoria dei paladini, non è che «un tegame», «un certo guazzabuglio ribollito», è il trionfo di un’orrida gastronomia di carcasse saracene destinate alle orge dell’inferno: E’ si faceva tante chiarentane,

che ciò ch’io dico è di sopra una zacchera, e non dura la festa mademane,

crai e poscrai, e poscrigno e posquacchera come spesso alla vigna le romane; e chi sonava tamburo, e chi nacchera, baldosa e cicutrenna e zufoletti,

e tutti affusolati gli scambietti.*

La dilatazione furbesca dell’inserto descrittivo rivela da quali tentazioni fosse sollecitata la musa bizzarra di Pulci e quanto la sua vocazione vocabolistica, deformante, lo apparentasse alla

tradizione toscana delle ciurmerie poetiche, allo stile del miglior fabbro del parlar cifrato: al Burchiello. Anche il Morgante può essere ridotto tutto insieme a nonsense, come un sonetto del Burchiello. Ma ci domandiamo: il nonsense è solo un emblema sonoro che accozza una materia verbale irrelata e perciò provoca stupore e riso? Nel caso del Burchiello, quanto meno, il dubbio è stato insinuato da uno dei suoi più acuti lettori.° Le sue cifre, irriducibili a una verificabilità empirica del rapporto tra verba e res, lo sono molto meno a un’interpretazione di secondo livello, simbolica, dove l’evocazione puramente nomina-

le, de-contestualizzata, di oggetti, persone e figurazioni rinvia a una rete di allusioni polemiche e satiriche e, soggettivamente, a una condizione di disagio esistenziale dove quella evocazione diventa incubo, minaccia: Sospiri azzurri di speranze bianche mi vengon nella mente e tornan fuori, seggonsi a piè dell’uscio con dolori, perché dentro non son deschetti o panche."°

Si sospetta un retroscena onirico in questo accumulo simmetrico, ma senza riscontri, di sostanze e predicati. La cornice me-

trica del sonetto lascia intatti, anzi ingigantisce, gli aggregati di 44

un’immaginazione grottesca, che però non subisce più, come nell'immaginario medievale, mortificazioni di coscienza e turpi marchiature

morali.

È vero, come

i suoi coevi umanisti dai

quali resta tanto lontano, anche Burchiello gioca con le maschere dell’irrisione, ma irride la ragione stessa del poetare. Questa volta Proteo è nient’altro che la poesia: contaminando i

più imprevedibili referti della realtà e deprivandoli di senso co-

mune, il vecchio dio delle mutazioni entra ed esce dalla scena retorica dell’inconscio e si sottrae alle interrogazioni appagando solo uno stravagante divertimento.

NOTE

1 Cfr. A. PLEBE, La nascita del comico cit., pp. 230-35. L’ambivalenza del comico è anche sottolineata da cICERONE, De oratore, 1, 248 e 216-19, e da QUINTILIANO, /nstitutio oratoria, vi, 3, 75. 2 Cfr. G. FERRONI, La teoria classicistica della facezia da Pontano a Castiglione, in «Sigma», nuova serie, xm (1980), 2-3, pp. 69-96; F. TATEO, // lessico dei «comici» nella facezia latina del Quattrocento, in AA.vv., I classici nel Medioevo e nell’Uma-

nesimo. Miscellanea filologica, Genova 1975, pp. 93-109; In., La raccolta delle «facezie» e lo stile «comico» di Poggio, in AA.vv., Poggio Bracciolini nel VI centenario della nascita (1380-1980), Firenze 1982, pp. 207-33. 3 N. MACHIAVELLI, L'Arte della guerra, in Tutte le opere, a cura di M. Martel-

li, Firenze 1971, pp. 388-89. 4 c. Boccaccio, Decameron cit., vi, 3, 3-4. 5 Cfr. G. ALMANSI, Amzca ironia, Milano 1984. 6 Cfr. L.B. ALBERTI, Momus o del Principe, a cura di G. Martini, Bologna

1942. Cfr. gli studi su L. B. Alberti di E. GARIN, Rinascite e rivoluzioni. Movimenti culturali dal XIV al XVIII secolo, Bari 1975, pp. 131-96, e per il Momus in particolare: R. KLEIN, Le thème du fou et l’ironie humaniste (1963) (trad. it. in La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, Torino 1975, pp. 477-97). [Si veda ora l’edizione critica e traduzione, Momo o del Principe, a cura di R. Consolo, introduzione di A. Di Grado, presentazione di N. Balestrini, Genova 1986]. 7 Loi a le sue poesie. Cfr. A. CAMMELLI, / sonetti faceti, a cura di E. Percopo, Napoli 1908. 8 1. PULCI, Morgante xxvu, 56, in Morgante e Lettere, a cura di D. De Rober-

tis, Firenze 1962, p. 828. Sugli aspetti ideologici e allegorici, oltre che letterari dell’opera del Pulci, cfr. P. oRviETO, Pulci medievale. Studio sulla poesia volgare fiorentina del Quattrocento, Roma 1978. I Ln 9 A. TARTARO, Burchiello, dell’immaginazione grottesca, in Il manifesto di Guittone e altri studi fra Due e Quattrocento, Roma 1974, pp. 139-52. Cfr. anche D. DE ROBERTIS, Una proposta per Burchiello (1969), in Carte d'identità, Milano 1974, . 105-35. dA 10 Sonetti del Burchiello, del Bellincioni e d’altri poeti fiorentini alla burchiellesca, London [ma Livorno] 1757, p. 63.

45

6 - MAESTRO

PASQUINO

E MONNA

COMMEDIA

«S’i avessi l’ingegno del Burchiello», esclamava un secolo dopo Francesco Berni lamentando la sua incapacità di soddisfare il gusto un po’ sadico e un po’ pettegolo dei suoi più obbliganti lettori: la richiesta di cronache rimate e cantafavole delle sue

«noie»

di factotum

in trasferta:

maltempo,

malincontri,

malalbergo. Per altri soggetti, tipi e situazioni da porre in caricatura, invocava lo «spirito bizzarro del Pistoia», poeta in veste di pitocco.' Antonio Cammelli detto il Pistoia aveva messo insieme un folto canzoniere di varietà poetiche in cui il manierismo del poetare «alla burchia» s’alterna ad altre maniere; erotismo, bozzettismo mimico e caricaturale, parodismo: ma con

notevoli scarti in alto, verso il sarcasmo politico e la satira anticlericale, e finanche con impennate di indignazione patriottica contro la viltà italiana, rare in quei tempi ormai declinati verso la servitù nazionale. Insomma il Pistoia non era quel pitocco che i suoi autoritratti vogliono tramandare. E un pitocco non era neppure Berni, che come il Burchiello e il Pistoia, ma anche come Ariosto, denunciava con compiacimento autopunitivo la sua condizione di servitore di due padroni, la corte e la poesia. Ma il duplice richiamo valeva come un riconoscimento di

fatto della tradizione moderna del comico, che ostentava quei panni miserabili. Questa tradizione s’era rinnovata nel Cinquecento fissando altri standard metrici della poesia giocosa: sonet-

ti allungati in sonettesse (con code a volte interminabili, di cometa), capitoli in terza rima per ciurmerie narrative e sermoni paradossalmente morali o autoderisori, a seconda dei pretesti. Ariosto nelle Satzre raccoglie quel modello di vivace colloquialità, ma non si mostra incline allo sproloquio su temi futili o equivoci. L’equità oraziana, cui si ispirava, temperava le occa-

sioni autobiografiche con le ragioni morali, l’attrazione per il dettaglio con la coscienza di un insieme in cui ogni frammento 46

di realtà prenda rilievo, e quell’equilibrio lo distingueva dalla moltitudine dei rimatori giocosi, definendo anche le misure classicistiche della sua poesia comica. A Berni invece fu assegnato un magistero comico ufficiale, dapprima in ambiente fiorentino, poi nazionale ed anche extranazionale, dopo che le raccolte curate da Antonfrancesco Grazzini detto il Lasca provvidero al recupero delle opere del maestro insieme ad’ altre dei seguaci e al recupero supplementare della contigua tradizione delle poesie carnascialesche, fiorita nel pieno Quattrocento con Lorenzo il Magnifico e nella sua cerchia.’ Il repertorio bizzarro si incrementava anche col contributo dell’antipetrarchismo, ma con tematiche tanto innocue da essere accettate dalla cultura ufficiale in piena Controriforma. Intanto lo stile comico s’irrigidiva in genere, e le accademie bernesche moltiplicatesi fin oltre l’Ottocento su basi municipali e con innesti dialettali continuavano a favorirne l’esercizio fino a rendere stucchevoli pietanze nel passato appetitose. Nel Cinquecento il comico stava divenendo una pratica sociale, satirica e arrogantemente ludica, che era stata posta sotto

il patronato di maestro Pasquino, simulacro della critica e della maldicenza, espressione del malumore popolare, ma anche voce profetica della verità. Anche Pasquino ha figura di pitocco; è un torso marmoreo, corroso dal tempo quasi a testimoniare la corrosione della storia e la riduzione della Roma pontificia a

rudere della grandezza antica. Per questo la sua ottica è deformante, crudelmente

estraniante, come

la comicità impietosa

dei «capricci» di Berni. Lo svuotamento degli oggetti e delle persone, degli eventi e delle situazioni, la corrosione dei significati di cui la materia poetica è convenzionalmente carica, è uno dei risultati cui perviene la poesia bernesca. L’altro è quello esattamente opposto, della sovradeterminazione dell’ovvio, dell’esasperazione degli stessi dati puramente nominali, però con analoga conclusione iperbolica, per eccesso o per difetto, di vanificazione dei significati. Si tratta comunque di una materia che resta corrotta per sempre, indipendentemente dagli umori passeggeri che l’hanno permeata. Invece le pasquinate si consumano nel breve tempo della cronaca, e per questo il loro recupero ha oggi un valore esclusivo di documento, al contrario del loro nume tutelare che conserva un rilievo di monumento. Infatti la familiarità irrispettosa, insolente, di Pasquino col po47

tere e i suoi riti aveva dato al comico un’inconsueta autorità sociale, nei contenuti e nel linguaggio. Berni assimila la retorica del travestimento dissacrante di Pasquino, ma lascia cadere le ambizioni oracolari dei pasquinisti. Anzi, nel Dialogo contra i poeti, azzera polemicamente le funzioni alte della poesia, legittimando di fatto solo gli sfoghi inerti del verseggiare, la sua antiprogrammaticità di poeta controvoglia, per poltroneria.* Insomma, per Berni, Pasquino non era quel profeta col quale s'andava sempre più identificando il meno anonimo dei pasquinisti, Pietro Aretino, e al quale rende omaggio anche Teofilo Folengo, alias Merlin Cocai, nel suo mastodontico poema ridicoloso, nel Ba/dus. Pasquino è qui raffigurato ormai vecchio di ritorno dal paradiso e in viaggio verso l’inferno, dove spera d’aprire con maggiore fortuna che in cielo una taverna per pontefici, prelati, re e duchi e marchesi e baroni, troppo di rado accolti tra i beati: Hi sunt, qui riccas faciunt, pinguesque tavernas; hi sunt, qui spendunt et possunt spendere scudos. Procuratorem si quemquam forte videbam, sive potestatem, advocatum, sive nodarum,

vix illud credens clamabam: — O grande miracol!° Addestratosi

a Roma nelle tre arti della cucina, della buffo-

neria e della ruffiania, il Pasquino maccheronico ha fatto esperienza del mondo e può vantare titolo di profeta: «Ego sum pratica mundi», afferma con solennità, e ai suoi interlocutori increduli fornisce le sue ormai note credenziali: «Si praestanda fides sanctis est ulla prophetis, / crede Pasquino schietto savioque prophetae. / Quidquid ait Credo est, quam sancta Ecclesia cantat».° Un taverniere non è un intruso nella grande cucina di Merlino nella quale le grasse Camene di Bengodi manipolano e cuociono maccheroni con cui imboccare il panciuto poeta e dare sempre nuovo fiato alla sua umile piva. Il comico di piazza alimenta l’estro goliardico del maccheronico, espande fuori dai confini del parodismo umanistico padovano tardo-quattrocentesco le risorse ridicolose del suo espressionismo grottesco e la stessa voracità narrativa della macchina eroicomica. In quel calderone di avventure cavalleresche, picaresche e magiche, di azioni nobili e ribalde, amalgamate dalla farcitura

del maccheronico e non certo dalla teleologia epica del prota48

gonista, Pasquino è un intingolo, una salsa romana che dovrebbe far gustare meglio la buffonesca condanna dei chierici e dei signori. Il punto d’osservazione del monaco Folengo è infatti periferico rispetto alla centralità degli scrittori gravitanti nell’urbe cattolica che valorizzano l’esperienza del mondo di Pasquino e il suo titolo millenaristico di profeta; ma il personaggio è anche a distanza autorizzato a rivelare dall’aldilà e alle soglie dell’inferno la corruzione e dannazione dei potenti. Con Pasquino, a Roma, al centro della cristianità corrotta, si colloca invece Pietro Aretino. «Uomo schietto e puro», come si presenta in una Farza del ’20, Aretino si fa riconoscere il suo potere di pasquinista di favorire o rovinare le carriere cortigiane, insieme a una sanzione di equità satirica, dallo stesso papa Leone x, al quale un’anonima commedia del ’21 fa dichiarare che Pietro «’l bene e ’1 male in lingua sciolta domina». Ma le ambizioni del giovane scrittore sono incontenibili: ad Aretino non basta il dileggio personale e il ruolo mascherato di pubblicista manipolatore dell’opinione; perciò eleva le funzioni comiche di Pasquino contrapponendo più nettamente la piazza al palazzo, la città alla corte. L’esperienza del mondo vuole aprirsi allo spettacolo del mondo. Anziché provocare una maldicenza, un motto, una caricatura, Pasquino vuole dare una forma

comica all’irrisione: la forma della commedia, doppio simbolico della vita, realtà simulata degli eventi umani, tanto più vera della realtà quanto più il falso della scena, il travestimento istrionico, esaspera i caratteri e le situazioni reali. Il prologo della Cortigiana, il testo del 1525 poi rielaborato nel ’34, non esita ad attribuire a Pasquino tanto la paternità dell’opera quanto quella del genere commedia. L'attribuzione premia la carriera di uno scrittore affermatosi fin lì con l’esercizio dei vituperia, e insieme consacra l’istanza morale, di verità, che fa fiorire la retorica di quel genus turpe, una volta che essa è

trasferita all’interno di un organismo letterario di ben altro prestigio rispetto al repertorio satirico fino ad allora praticato. La commedia è un genere spurio: sposa la disonestà, l’insolenza che esibisce nei confronti del pubblico e dei personaggi con l’onestà dell’arte; è bastarda, come un bastardo è Pasquino, nato

in Parnaso, secondo la favolosa genealogia del Prologo, da un poeta toscano e una musa bergamasca, la quale fa becco «ser Apollo», come fanno le altre «madonne Muse bellissime» che il 49

povero poeta-gentiluomo s’era portato con sé nel sacro monte. Questa origine bastarda autorizza l’uso di un vocabolario fuori della norma, antipetrarchesco, antinormativo, di una lingua che non può adeguarsi al toscano, la «dolce lingua di monna

Laura» tanto cara al Petrarca da fargli imporre la sua autorità; essa invece asseconda il parlato e i vari parlari, come Pa-

squino stesso, che cicala in tutti i dialetti e in tutti gli idiomi del mondo, con la coscienza che «circa el parlare non c’è pena niuna, salvo se non se dicessi el vero».

Nel nome di Pasquino tornano così i conti del plurilinguismo ed anche della varietà di comportamento, lieto e collerico, ca-

sto e impudico, contegnoso e temerario di Monna Commedia Cortigiana, che ha preso in prestito dalle corti stesse la sua arroganza e il suo umore capriccioso. Ma il patrocinio di Pasquino sulla commedia si esaurisce con questa prima antagonistica prova del teatro di Aretino. La messinscena delle illusioni cortigiane aveva infatti ancora bisogno della copertura di una vox populi con piena risonanza sociale; e del resto quella primogenitura di Pasquino era un’usurpazione fatta con violenza, con la rabbia appunto di un bastardo. Ma la regina delle forme comiche, la commedia, aveva già tratto la sua autorità di genere nobile (nella prassi artistica ancora più nobile della tragedia) dal consenso che la società cittadina e cortigiana aveva dato al modello ludico elaborato dalla cultura umanistica. La simbolizzazione scenica degli eventi quotidiani inverava a un livello mediocre, di standard borghe-

se, la visione istrionica del mondo che gli umanisti avevano altrimenti rappresentato: il gioco delle maschere, il dominio della passione sulla ragione e anche in conclusione, nel lieto fine garantito alla peripezia comica, il ripristino dell’ordine sociale naturale e razionale per poco sconvolto. Nella prospettiva umanistica è più stretta la concordanza tra mondo e teatro manifestata con la permeabilità del reale propria del linguaggio antisublime della commedia. Il sublime tragico invece separa per la sua eccezionalità i due termini del rapporto, impone un’alternativa alla ordinarietà del vissuto, di cui il teatro comico si fa

specchio, benché con un’evidenza deformante. Di più, la tragedia ha un senso irreversibile; non concilia pianto e riso, come fa la commedia: «Ché certo, — dirà Bruno nel Prologo del Candelato, — contemplando quest’azioni e discorsi col senso d’Eracli50

to o di Democrito, arrete occasion di molto o ridere o piangere».° Al topos dei due filosofi corrisponde il motto dell’umorismo bruniano: «In tristitia hilaris, in hilaritate tristis». Ma certo sul-

la scena della commedia il pianto è preparazione del riso, della catarsi comica. Su questa scena l’istrionismo della lingua mette in mostra

tutte le sue risorse, e la mimesi verbale si impone, ancora più di quella gestuale (del resto meno ricostruibile), come lo strumento espressivo della rappresentazione comica. Il comico dei linguaggi asseconda la caratterizzazione dei tipi, distingue i livelli culturali e sociali, promuove il dialetto a una funzione letteraria e rappresentativa fino ad allora inedita e forse impensabile senza una retorica attoriale, di personificazione e interpretazione linguistica. Il contenitore classicistico, il modello plautino, entro il quale lo schema simbolico dell’azione comica si sviluppa, si mostra capace di funzionare come una struttura temporale e spaziale che acquisisce l’imprevedibilità del gioco scenico. Ma è soprattutto la pronuncia individuale, l’interferenza delle varie parlate nella fabula, insomma la performance linguistica, ridondante e ritardante, del personaggio, a funzionare come

reagente stilistico dello spettacolo: anche laddove la beffa sembra concentrare tutta l’energia comica dell’evento scenico e sviluppare il suo dinamismo, per esempio nell’incontestabile capolavoro del repertorio cinquecentesco, nella Mandragola. La beffa è qui tramata distribuendosi tra i vari affiliati alla congiura amorosa e quindi dilata i tempi dell’azione; ma lo spettacolo comico si incrementa per effetto di un’elocuzione caratterizzante che richiama l’attenzione sul personaggio e insieme arricchisce di motivazioni satiriche il movente beffardo. Più compatto lo spettacolo nel dominio dialettale dell’opera di Ruzzante. Laddove il regime linguistico è interamente solidale, esso non registra scarti fra i tempi della performance, tra fabula ed elocuzione, diegesi e mimesi. Il ritmo dei dialoghi è cadenzato sulla pronuncia del personaggio-attore nel tempo breve di un atto conclusivo, non rallentato da antefatti. Qui è il dialetto, la sua inaudita espressività, che mette in luce la condizione ridicola e insieme esistenziale e figurale del personaggio, anche quella grottescamente tragica del feroce Bilora, l’assassino che prepara il suo gesto irreparabile, più che nell’esaltazione passionale, nel crescendo parossistico di una concitazione moSÌ

nologante col quale costituisce la sua maschera teatrale di eroe della vendetta. Nella Moscheta e nelle altre commedie il comico verbale si distribuisce nei tempi lunghi della vicenda, tra indugi preparatori, rallentamenti e accelerazioni, gags e funambolismi che iscrivono la vicenda nell’articolazione ludica delle occasioni di spettacolo. Nel teatro di Ruzzante il dialetto riceve tutt’intera la delega del comico. Alla lingua colta, ai suoi parlanti (il «moscheto» contrapposto al «pavan»), è riservata solo quella parte del comico dell’azione, consolatorio più che ridicolo, che risarcisce dei danni o delle pene iniziali e compone o ricompone nel lieto fine il gioco delle mutazioni svolto in negativo e in positivo. A partire da Ruzzante si chiarisce in prospettiva la funzione storica dei dialetti italiani come idiomi ridicoli, e non solo sulla

scena. Un regime di parità plurilinguistica, dopo la maturazione del volgare in area toscana, non s’era mai di fatto realizzato. Nella seconda metà del Quattrocento il vitalismo delle lingue locali aveva addirittura mostrato la tendenza all’aggregazione regionale: koiné lombarde e venete convivevano, se non concorrevano, con la koiné dominante del toscano, e intanto proliferavano nella contaminazione di italiano e latino le lingue artificiose come il maccheronico e il polifilesco: chimere, certo, di

culture a circuito chiuso, che comunque si traducono in sistemi espressivi lirici e narrativi e in parlate di scena. Ma il dialetto, laddove rivelava con più evidenza i suoi caratteri municipali o rurali, era segnato da un marchio di anormalità degradante, di contraffazione spontaneamente comica. Con Ruzzante invece il dialetto s’afferma come lingua di identificazione di un soggetto e di una comunità partecipi di una condizione naturale prima che sociale. La remora della parlata contraffatta permane ancora nella concezione linguistico-naturale del Beolco di cui si fa portavoce la sua maschera, il suo alter ego scenico, letterario e finanche biografico, il villano Ruzzante: e basti in proposito sottolineare la distorsione della «naturalità» in «snaturalité» che condensa la pronuncia ambigua e il senso della poetica ruzzantiana. Ma si tratta di una contraffazione accettata in anticipo per segnalare la distanza tra campagna e città e l’incomunicabilità dei due mondi. Ed è il mondo naturale che s’appropria della funzione comica, anche come tipologia del suo statuto culturale e perfino come utopia di un riso innocente al riparo I

dalle passioni. La fattoria dell’«Allegrezza» visitata in sogno da Ruzzante, cioè dal Beolco stesso che la descrive agli amici," celebra l’eden di una buona massaia che concilia col riso i mondi separati, la città e la campagna. Con Aretino e con Ruzzante siamo di fronte a due diverse espressioni di radicalismo comico: La cortigiana converte l’improperium cittadino in uno spettacolo di raggiri intercalato da moralità anticortigiane; la poetica ruzzantiana, quali che siano le forme in cui si incarna (pastorale, commedia urbana, mariazo, dialogo, monologo paradossale ovvero orazione), è una coerente professione di rusticità, nei contenuti (fame, carestia, sesso,

guerra e sue devastazioni, rivendicazione di una legge e finanche di una religione della campagna contro il predominio della città) e nella lingua (quel ruvido spessore del pavano, esasperatamente realistico e grottesco). Perciò il mondo comico di Ruzzante è, più che socialmente, antropologicamente irriducibile; rappresenta un’alternativa, una seconda vita, si direbbe con Bachtin. La tradizionale satira del villano aveva finora tentato di esorcizzare questa realtà separata; invece il modello scenico ruzzantiano di identificazione con la rusticità impone quel mondo alla cultura della città, seppure inevitabilmente come maschera ludica convertibile in parodismo. Il radicalismo aretiniano resta invece, con tutto il carico della sua aggressività, un fenomeno interno a questa cultura: come l’«immoralismo» machiavelliano della Mandragola, l’erotismo scandalosamente visualizzato della Venexiana e, più in là, ai margini del secolo, la farsesca ritorsione morale di Bruno nel furfantesco intrigo del Candelaso. Ma si tratta di esemplari unici e perfino irregolari di individuali carriere d’autore piuttosto che copioni di repertorio: punte del grande iceberg decameroniano interamente riemerso nel teatro comico del Cinquecento, come decameron teatrale. Monna Commedia non ha l’arroganza di mastro Pasquino: favorisce il compromesso tra il lecito e l’illecito, l’onesto e il disonesto, il sacro e il profano, infine tra pudore e oscenità; e ottiene così, con la complicità del pubblico e, prima ancora, delle

istituzioni cittadine e cortigiane che la tutelano, il riconoscimento del significato sociale del comico. Per questo aspetto la funzione della commedia nella storia del comico è incomparabile con quella della novella: il teatro è un’esperienza immedia50

tamente sociale e, se espansiva e coinvolgente, capace di dare alla cultura un’immagine epocale e di siglarne la forma storica all’insegna di una civiltà teatrale. Ma è incomparabile anche la sua possibilità di riuso, anzi di attualizzazione dell’universo narrativo. La tradizione del Decameron è documentata certo nello sviluppo del genere novella nel corso di due secoli. Però il modello si rivela uno schema inerte quando si tenta di riprodurlo nella sua totalità di vissuto e di narrato, di cornice e racconto; vive invece nella sua frantuma-

zione tematica: beffe, motti e più tardi intrighi di romanzo. Un capolavoro, la quattrocentesca Novella del Grasso legnatolo, testimonia questa possibilità di rigenerazione parziale, «spicciolata», del comico decameroniano — in questo caso col suo aspetto più perfido, per l’esasperazione di elementi «perturbanti» come la pazzia e il «doppio», comuni ad altre novelle.'! Masuccio e poi Lasca, e per altro verso un incomparabile stilista come il Firenzuola, dimostrano l’impossibilità di ripristinare il disegno e la struttura del Decameron; mentre Bandello con la sua illimitata inchiesta nella fenomenologia delle passioni inaugura una nuova stagione narrativa e semmai altre modalità di conversione del racconto dalla pagina alla scena, in senso tragico

piuttosto che comico." La commedia, al contrario, può visualizzare l’istanza dram-

matica e spettacolare di quel modello e dare efficacia scenica alla pronuncia decameroniana, rigenerare il tessuto verbale multidimensionale di quella comicità, mettere in atto infine i codici stessi del comico contenuti nei vari registri espressivi in cui si articola il linguaggio del Decameron: i diversi livelli dialogici (intradiegetici oltre che mimetici), la distonia verbale della coppia comica, i crescendi di ambiguità della retorica derisoria, burlesca e parodistica. E, quanto all’osceno — ingrediente indispensabile della comicità teatrale decameroniana —, lo scambio tra denominazione sessuale e allusività metaforica accresce il potenziale erotico del testo scenico e conferma l’intesa «galeotta» col pubblico invocata da Boccaccio in esordio dell’opera; più in particolare, come ribadiscono i prologhi delle commedie cinquecentesche, tra l’autore e le donne. Nei prologhi, nelle argomentazioni racchiuse in queste frottole talora spinte al limite del puro effettismo giullaresco, va colta nel Cinquecento la poetica del ridicolo teatrale, non certo spigolando nella 54

precettistica aristotelica de ridiculis, nella selva dei trattati e delle lezioni accademiche.' Può forse bastare per tutti il chiarimento fornito da Machiavelli nel prologo della Clizia, tanto equilibrato nel suo postulato oraziano quanto invece appare dettato da una dismisura autobiografica il prologo della Mandragola, captatio nient’affatto conciliante per un dispettoso «badalucco» che non esita ad incrinare l’accordo tra il delectare con il docere, qui accortamente perseguito: Sono trovate le comedie per giovare e per dilettare alli spettatori. Giova veramente assai a qualunque uomo e massimamente a’ giovanetti conoscere l’avarizia d’un vecchio, il furore d’uno innamorato, li

inganni d’un servo, la gola d’uno parassito, la miseria d’un povero, l’ambizione d’un ricco, le lusinghe d’una meretrice, la poca fede di

tutti li uomini: de’ quali esempi le comedie sono piene, e possonsi tutte queste cose con onestà rappresentare ma volendo dilettare, è necessario muovere li spettatori a riso, il che non sì può fare mantenendo il parlare grave e severo; perché le parole che fanno ridere sono o sciocche o iniuriose o amorose. È necessario pertanto rappresentare persone sciocche, malediche o innamorate, e perciò quelle comedie che sono piene di queste tre qualità di parole sono piene di risa, quelle che ne mancano non truovono chi con il ridere le accompagni."

Queste istruzioni per l’uso del comico hanno un’efficacia limitata alla grande stagione del classicismo militante. L’onestà decameroniana di Monna Commedia è precaria. Più in là l’equilibrio tra profitto e diletto, tra disciplina etico-sociale e licenza espressiva si altera. Il significante s’affrancherà dal peso dei significati, ridurrà al minimo la funzione della parola che li rappresenta e li genera. Ma sarebbe insensato limitarsi a commemorare i fasti decameroniani della commedia. Sulla perdita dei significati della parola nasce, col marchio del professionismo italiano, l’esperanto teatrale della commedia dell’arte, e un comico «assoluto» dilata di là dalle sue sedi sceniche istituzionali e di là dai limiti storici di quell’esperienza, dentro le forme vecchie e nuove dello spettacolo colto e popolare, fino al teatro d’avanguardia, e al cabaret, al circo, al cinema.

6),

NOTE

1 F. BERNI, Poesie e prose, a cura di E. Chiorboli, Genève-Firenze 1934, p. 95 e, per il richiamo al Burchiello, p. 152. 2 Cfr. Il primo libro dell’opere burlesche di M. Francesco Berni..., Firenze 1548; I sonetti del Burchiello, et di Messer Antonio Alamanni, Firenze 1552; Tutti 1 trionfi, carri, mascherate o canti carnascialeschi..., Firenze 1559. Si veda anche Cc. PREVITERA, La poesia giocosa e l’umorismo, 1. Dalle origini al Rinascimento, Milano 1953°, in particolare pp. 237-431. 3 Cfr. v. MARUCCI, A. MARZO € A. ROMANO (a cura di), Pasquinate romane del

Cinquecento, presentazione di G. Aquilecchia, Roma 1983. 4 Cfr. F. BERNI, Dialogo contra i poeti, in Poesie e prose cit., pp. 267-89. 5 MERLIN COCAI, Ba/dus, xx, vv. 332-36, in Le maccheronee, a cura di A. Luzio, Bari 1911, 1, p. 86.

6 Ibid., p. 87, vv. 281-83. 7 N. BORSELLINO, Introduzione a P. ARETINO, Ragionamento. Dialogo, a cura di P. Procaccioli, Milano 1984, e infra, pp. 120-146; più in generale, m., La letteratura anticlassicista, in c. MUSCETTA (a cura di), La letteratura italiana. Storia e

testi, rv/1. Il Cinquecento. Dal Rinascimento alla Controriforma, Bari 1973, pp. 541678. 8 P. ARETINO, La cortigiana (prima redazione), in Teatro, a cura di G. Petrocchi, Milano 1971, p. 659.

9 c. BRUNO, // candelato, in N. BORSELLINO (a cura di), Commedie del Cinquecento, 1, Milano 1967, p. 308. 10 Cfr. RUZZANTE, Lettera a Marco Alvarotto dal 6 gennaio 1536, in 7eatro, a cura di L. Zorzi, Torino 1967, pp. 1226-43. 11 A. MANETTI, «Vita di Filippo Brunelleschi» preceduta da «La Novella del Grasso», edizione critica a cura di D. De Robertis e G. Tanturli, Milano 1976. Cfr. N. BORSELLINO, L'architetto e il legnaiolo. La prospettiva incrociata nella «Novella del Grasso», in AA.vv., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, 11. Umane-

simo e Rinascimento a Firenze e Venezia, Firenze 1983, t. 1, pp. 283-95. 12 Su Bandello cfr., per limitarci alla bibliografia più recente, gli atti del convegno su Matteo Bandello novelliere europeo, Tortona 1982; su Firenzuola, M. GUGLIELMINETTI, La cornice e il furto. Studi sulla novella del Cinquecento, Bologna 1984; su Masuccio Salernitano, s. s. NIGRO, Le brache di san Griffone. Novellistica

e predicazione tra Quattrocento e Cinquecento, prefazione di E. Sanguineti, Bari 1983. 13 I quattro volumi di B. WEINBERG (a cura di), Trattati di poetica e retorica del Cinquecento, Bari 1970-74, si aprono con un De comedia libellus (1511) di Vittore Fausto e raccolgono testi parzialmente o interamente dedicati al comico di Trissino, Bonciani, De Nores, Riccoboni e altri. 14 N. MACHIAVELLI, Clizia, in Tutte le opere cit., p. 892.

56

7 - TEATRI

DELLA

SCRITTURA,

TEATRO

DEL

MONDO

Nei Capricci del bottaio di Giovan Battista Gelli, in uno dei dialoghi che l’insonne Giusto intrattiene con la sua anima sul far del mattino, c'è una testimonianza che avvalora il primato di

Boccaccio, indipendentemente dalla sua assunzione a auctor della letteratura moderna col decreto bembiano delle Prose della volgar lingua: Io mi ricordo già sentir dire che messer Constantino Lascari, quel Greco di chi questi moderni fanno sf grande stima, usò di dir nell’orto de’ Rucellai, a tavola, dove erano presenti molti gentili uomini, che

ne è forse ancora vivo qualcuno, che non conosceva il Boccaccio inferiore ad alcuno loro scrittore greco, quanto alla facondia e al modo del dire, e che stimava il suo Cento novelle quanto cento de’ loro poeti.'

Il giudizio avvalora una situazione di fatto. Il decameronismo della letteratura italiana del Cinquecento è un flusso incontenibile. Nella novella è una presenza istituzionale e per ciò stesso più rigida, nella commedia è uno stile che diventa forma e sostanza del nuovo spettacolo; ma nel vario repertorio delle scritture in prosa si disloca con tutti i suoi registri retorici, come paradigma di tanti procedimenti discorsivi, ed anche come termine di confronto concorrenziale, sfida per nuove scritture e riscritture. Ma ci domandiamo se si tratta solo dell’applicazione di un dettato prosastico, del trasferimento del principio d’imitazione dall’ambito della latinità umanistica a quello del volgare. In realtà anche per il modello dello stile sublime questa restrizione non spiegherebbe la rinascita di Petrarca e la prassi e la durata del petrarchismo: a partire dagli Asolan: un’idea, che si può sbrigativamente indicare nella mondanizzazione sociale dell’eros platonico, giustifica ed eleva le motivazioni tragiche individuali del lirismo amoroso. Tanto meno costrittivo, al paragone col Canzoniere, il rapporto della letteratura cinquecente5

sca col Decameron, oscillante tra imitazione e invenzione. Quel meccanismo di proliferazione verbale o verbigenerazione comica," già pienamente messo in opera da Boccaccio, è in realtà una mimesi di secondo grado, una rappresentazione linguistica (e perciò, ovviamente, organizzata) della varietà della natura. «La natura istessa de la cui semplicità son secretario mi detta ciò che io compongo, e la patria mi scioglie i nodi de la lingua, quando si raggroppa ne le superstizioni de le chiacchiere forestieri», scriveva Aretino in una celebre lettera del 1537.° In

questo manifesto del suo antipedantismo e anticlassicismo Aretino contrappone al discepolato dell’arte la pratica naturale dello scrittore e nobilita l’estro capriccioso e l’«allegrezza» del comico elevandolo al rango dello stile sublime ispirato dal furor poetico: «O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanil senza campane».* Ma capricci, ghiribizzi, vogliono essere considerati anche molti libri di riflessione morale religiosa politica, quasi stravaganze intellettuali per affermare verità altrimenti impronunciabili. Fra i più importanti, / capricci del bottaio e La Circe di Gelli, dialoghi farciti di facezie e argomentazioni ridicole per conclusioni gravi, e perfino // Principe, «libro vivente», come lo definì Antonio Gramsci, certo per la sua permanente tragicità, eppure caratterizzato nelle sue sprezzature dialettiche, nell’intonazione sarcastica degli stilemi e degli aforismi da quegli elementi di singolarità bizzarra che già al suo tempo avevano pro- . curato fama di stravagante al suo autore e molto più tardi il giudizio, per altri versi anch’esso strambo, in realtà argutamente secentesco, del manzoniano

don Ferrante:

mariolo sì, ma

profondo. Nel senso più proprio, non in quello scherzosamente riduttivo usato da Machiavelli per il suo trattato, il capriccio lettera-

rio è un tipo di composizione che associa l’estrosità dell’invenzione e dell’argomentazione alla deformazione grottesca delle immagini, talora all’oltranzismo verbale, con effetti di iperrealismo, piuttosto che di realismo. Senza mai prendere consistenza di genere (nemmeno nel senso in cui si dice di un dipinto che è pittura di genere), il capriccio occupa uno spazio molto ampio della letteratura cinquecentesca, in poesia (per tutte le va58

rietà della rimeria burlesca e satirica) e soprattutto in prosa. È

un mezzo di seduzione del lettore; dà un colorito umorale alle scritture, anche a quelle d’intento speculativo, e vivacizza l’in-

classificabile produzione di libelli, paradossi, libri omnibus e bazar spesso reclamizzati da titoli sorprendenti e accattivanti, raccolte di lettere autentiche ed anche fittizie che, sfruttando il

successo divistico di quelle aretiniane, simulano un rapporto confidenziale del pubblico con lo scrittore-personaggio e con gli altri personaggi chiamati in causa. Tre le sue clamorose iniziative editoriali Aretino aveva preso anche quella di far uscire dal privato la lettera familiare e di organizzarla per montare un suo palcoscenico personale di «secretario del mondo», «oracolo della verità», ma anche per rendere testimonianza della sua coscienza letteraria e perfino dei

suoi umori, addirittura dei suoi sentimenti. Ma per Aretino non esisteva una frivacy di scrittore; semmai la pubblicità della sua corrispondenza lo induceva a valorizzare il ductus familiare per esibire la sua «virtù» stilistica nel paragone con antichi e mo-

derni. Per altri invece è proprio l’àmbito ristretto dei destinatari o la segretezza di un rapporto esclusivo col corrispondente ad eccitare gli umori comici: autoparodistici, maliziosamente indiscreti, incontenibilmente pettegoli e beffardi, ed anche franca-

mente indecenti. Machiavelli, certo il corrispondente più incline all’autoritratto comico, ha coscienza della contraddizione

tra la sua immagine pubblica di uomo di governo e quella segreta che rivelava ai suoi complici corrispondenti. Per questo, scrivendo a Francesco Vettori sentiva il bisogno di giustificare la loro «bassa voglia» di indiscrezioni maliziose, confidenze

erotiche personali o estese alle equivoche consuetudini di comuni amici: Chi vedesse le nostre lettere, honorando compare, et vedesse la diversità di quelle, si maraviglierebbe assai, perché gli parrebbe hora che noi fussimo huomini gravi, tutti volti a cose grandi, et che ne’ nostri petti non potesse cascare alcuno pensiere che non avesse in sé honestà et grandezza. Però dipoi, voltando carta, gli parrebbe quegli noi medesimi essere leggieri, incostanti, lascivi, volti a cose vane. Questo modo di procedere, se a qualcuno pare sia vituperoso, a me pare lauda-

bile, perché noi Jmitiamo la natura, che è varia, et chi imita quella

non può essere ripreso.

59

Il principio della giustificazione naturale è tanto più necessario quanto più oltre, di là dalla decenza, si è spinti dal piacere della confidenza. Ma laddove l’onestà fa da argine può essere sufficiente una giustificazione retorica che parifica, secondo la ricetta di Annibal Caro, il più esperto epistolografo del secolo, la scrittura familiare al parlare. È stato acutamente notato che le lettere del Caro «costituiscono un surrogato “comico” della realtà (nel senso retorico-medievale dell’espressione) che in tanto permette all’intellettuale di interessarsi a un numero pressoché illimitato di argomenti in quanto questi vengono ridotti (0 minimizzati) alla dimensione del gusto e della volubilità personale, diventano soggetti di piacevole e disobbligante conversazione tra “uomini da bene”».° Non sempre però il disobbligo dalla gravità discorsiva è funzionale alla riduzione o nullificazione di temi e significati seri. L’autobiografismo spesso esasperato del corrispondente conduce ad escursioni di tono, dalla denigrazione all’esaltazione, dall’umiliazione alla sublimazione (l’ingaglioffimento in taverna e la nobilitazione nello scrittoio di un Machiavelli, che prima si fa selvatico per dispetto alla fortuna poi si promuove ad esempio di virtù); un omaggio alla grandezza altrui può indurre a una pacata e ironica autoconsapevolezza (la contrapposizione «lauro»-«auro» in una lettera dell’ Aretino al Bembo, che chiarisce i meriti del mestiere lette-

rario). Ma il disobbligo è ancora più funzionale all’arte del dialogo, forma privilegiata del capriccio, ai meccanismi della sua disinibizione comica, spinta oltre i limiti etico-sociali della commedia. Se ci limitiamo ai contenuti razionali, possiamo dire che anche i dialoghi di corte, di salotto o d’accademia hanno un’incancellabile

tramatura

comica,

come

del resto, fuori dalla

struttura del dialogo, tutti quei manuali di comportamento e buone maniere in cui l’esemplificazione aneddotica è un ingrediente indispensabile della retorica argomentativa, del comico del discorso. L’espressività arguta del Galateo non è solo una caratterizzazione colloquiale del parlante. Il «vecchio idiota», a cui Della Casa affida l’istruzione mondana del giovanetto, non

è poi tanto illetterato da non ricorrere a puntuali citazioni colte; il suo bozzettismo fa tesoro della lezione boccacciana dello

stile icastico che propizia anche il più severo precetto. Sarebbe inutile aggiungere rilievi sulla disinibizione tanto controllata 60

degli interlocutori del Cortegiano: il motto, la facezia, la preterizione, gli omissis fungono nel signorile ritrovo da cerimoniale retorico che informa la grazia del conversare, anche del più elevato, e la intona a riso concorde. Ma in tutti questi casi è una situazione, non una condizione comica che va rilevata. /nventio ed elocutio della retorica dialogica prevedono interferenze ridicole, ironiche parodistiche satiriche, tanto nei «dialoghi civili e costumati» quanto in quelli

«speculativi»: le forme canoniche catalogate dal Tasso in un Discorso sull’arte del dialogo, che comunque sottolinea l’istanza teatralistica della forma dialogica classica, da Platone a Cicerone.’ Quanto ai dialoghi «immorali», la loro collocazione in un enfer, in una biblioteca del proibito dove non è facile classificarli, precede la condanna dell’Indice. Gelli stesso, che pure professa una spiritualità naturale, associa in un’aspra censura opere di diversa ispirazione: una Cortigiana (probabilmente il Ragionamento e il Dialogo di Aretino) tanto impudica da guastare perfino «l’onestà di Lucrezia Romana», e il Dialogo dell’Usura, di cui conosce forse solo il titolo, se attribuisce all’innominato

autore (che è poi il grave letterato Sperone Speroni), contro le sue intenzioni morali quanto meno manifeste, la forza di cor-

rompere «la liberalità di Alessandro Magno»." Certo, la fabulazione dialogica è intrinsecamente ambigua nella sua plurivocità, ma il fervore immoralistico di molti dialoghi erotici e osceni è talmente esplicito da imporre a volte, piuttosto che il gioco delle interpretazioni, pronunciamenti dello stesso autore: disconoscimenti, occultamenti o ritrattazione

dell’opera. Alessandro Piccolomini fece in tempo a correggere nella seconda fase della sua carriera di intellettuale, dedicata

agli studi di filosofia naturale e morale e coronata da onori ecclesiastici, un'immagine di spregiudicato edonismo, testimoniato, più che da un suo riconosciuto magistero di drammaturgo,

dalla Raffaella: titolo compendiario (dal nome della ruffiana interlocutrice) del Dialogo de la bella creanza de le donne, vale a dire

della pratica prudente dell’adulterio femminile." Il cenacolo

senese di cui Piccolomini era autorevolissimo socio, l’aristocrati-

ca Accademia degli Intronati, praticava «ameni studi» di letteratura e di società e come officina del comico teatrale aveva acquistato un incontrastato prestigio. Ma il libertinismo erotico, che quel teatro mascherava con un rituale di provocazioni 61

galanti e pentimenti per pubbliche o private denigrazioni del sesso femminile, si espresse senza remore nella Raffaella. La solidarietà libertina del gruppo consentiva la prevaricazione dell’onestà e liceità dei convenzionali dialoghi amorosi, pur con quegli espedienti di scarto e inganno, di dribbling sugli argomenti, che servono ai praticanti del comico per sfuggire agli assalti dell'avversario, comunque per condurre a buon esito una rischiosa partita. La trasgressività del comico ha bisogno di complicità. Dietro l’impudicizia di un altro dialogo, La Cazzaria, ancora di un se-

nese, l’Arsiccio Intronato Antonio Vignali," c’è la misoginia del sodalizio allora alle origini e un’intesa omosessuale presto occultata, per far valere poi, nei testi controriformistici dell’ Accademia, un’ininterrotta tradizione di onesti svaghi di società. L’immaginazione fallica e scatologica non conosce forse niente di più grottesco della Cazzaria, né di più intemperante nell’esaltazione, quanto si voglia parodistica e paradossale, di un razionalismo naturalistico che sconfina in aperta irreligiosità. Priapee e libelli postribolari in prosa e in rima affollano nella prima metà del Cinquecento il sottobanco della produzione libraria. Il riso che provocano è espressione talora d’imbarazzo,

alibi di altri compiacimenti. Eppure il comico, la realtà alternativa che alimenta l'immaginario cinquecentesco, poteva prendere forma anche da questa sua estrema trivializzazione. E fu Aretino ancora una volta a comprendere che le sorti dell’osceno avrebbero potuto congiungersi a quelle del comico. Perciò si lasciò alle spalle l’illustrativismo pornografico dei suoi $0netti lussuriosi e propose il contromodello etico e sociale della civile conversazione, appropriandosi proprio di quella degradazione triviale della materia erotica, anzi esasperandola. Nel Ragionamento e nel Dialogo, capolavori della letteratura comica del Cinquecento, puttane e ruffiane sono assunte a ruolo primario di uniche interlocutrici della conversazione, mentre le donne

occupano tutto lo spazio morale della memoria autobiografica che ricostruisce le tappe di un’esemplare carriera sessuale e sociale di monaca, maritata e prostituta attraverso la quale il mondo si manifesta a rovescio, nella sua follia.

Questa celebrazione iperbolica del vizio è funzionale a una comica mago mundi riflessa da una retorica plebea che valorizza tutte le possibilità mimetiche del linguaggio, orali visive gestua62

li: il teatro del mondo si converte in un teatro della scrittura che pretende a un’evidenza visionaria, più vera del vero. A questo punto le possibilità espressive del comico sembrano tutte realizzate. Pasquinate e capricci berneschi, maccheronico e dialetto, parlato epistolare, espressionismo sessuale e plebeo compongono una somma di teatri retorici che la commedia ridistribuisce nel gioco ordinato dei suoi addendi, nell’interrelazione dei codici di scena. Eppure tutti questi teatri, che la tradizione poi solo in parte manterrà in vita o recupererà, restano, anche nel loro assommarsi, nel computo complessivo della letteratura comica rinascimentale, repliche parziali del teatro del mondo. L’istrione, il demiurgo del comico, può dilatare il particolare fino alla dismisura, al punto che la sua immagine della realtà, la sua parzialità, può essere scambiata per una totalità.

Ma è un errore ottico a cui siamo indotti per l’effetto dilatante della scrittura, di una finzione che si sovrappone alla realtà ovvero al mondo apparente. Per allargare quella veduta fatalmente ristretta lo sguardo del demiurgo avrebbe dovuto coincidere con quello di Dio, l’evidenza della parola identificarsi con quella dell’oggetto e il comico rivelarsi con una sua qualità formale superiore ancora inedita, di piena trasparenza della realtà. Questo modello, unico del resto, di rappresentazione divina anziché demoniaca del comico, la poesia italiana può vantarlo: è l’Orlando Furioso. Si esita ad assegnare al capolavoro dell’Ariosto una qualificazione che è sentita come riduttiva della serietà dell’arte e più ancora della serietà con cui Dio osserva, se pure non inscena, il teatro del mondo: come se già la mimesi comica del Decameron non avesse riabilitato quella serietà. Divino è semmai un attributo dell’ironia, qualità spirituale superiore, e pertanto di dominio, che consente il controllo del comico come del tragico. Ma Ariosto non dissimula soltanto; simula anche una realtà immaginaria. Negli esordi e nei rari interventi a

commento della narrazione gioca col lettore a rimpiattino, richiama l’attenzione su di sé e subito dopo si nasconde ricac-

ciandosi nella vegetazione labirintica del romanzo, dove l’oggettività della simulazione comica prevale sulla soggettività della dissimulazione ironica che si esercita su un registro di variazioni morali e autobiografiche, e non certo a spese della realtà mitica che la poesia evoca. Ma in entrambi i casi l’ironia è un mezzo che mette in evidenza il sistema ideologico e narrati63

vo della elusività proprio del Furioso. Elusiva è la motivazione epica che si risolve in romanzesca, ed elusivi l’intreccio di azioni e situazioni e il rapporto tra i personaggi, anzi i personaggi stessi, in pieno accordo con l’elusività dei significati. Angelica elude le smanie di tutti i suoi amanti: la foia di un lascivo eremita come l’amorosa inchiesta del castissimo Orlando; ed elude

se stessa uscendo di scena derisoriamente, rovesciata a gambe all’aria dal suo furioso spasimante che la scambia per una giumenta. Bradamante è elusa da Ruggiero, Gabrina elude la sua bruttezza, Marfisa riversa la sua energia nella litigiosità. E lo stesso Orlando delude, quando rinsavisce, l’ansia degli amici

che lo hanno strettamente annodato prima di fargli annusare il filtro, sorridendo come il Sileno virgiliano per quello che ora gli appare uno scherzo e sciogliendosi con un pacato appello, con un «Solvite me», da tutto il passato." Gli elementi del sistema ariostesco appaiono tutti concordi, sul piano della forma e su quello del contenuto. A differenza di tutte le scritture comiche fin qui elaborate il Fur:oso non produce un ipertesto, una lingua caratterizzante o deformante che testimoni con la separazione degli stili la separazione del ridicolo dal serio. La lingua del poema assorbe senza cedere a seduzioni espressivistiche l’ormai matura omogeneità artistica del volgare e la risolve nella fluidità di un narrato che s’accorda pienamente col parlato. La lingua del comico acquista così un’intonazione unitaria e nazionale. Allo stesso modo, a livello strutturale,

la simultaneità degli eventi, che corrisponde al policentrismo dell’azione, disloca su vari episodi l’attenzione del lettore e attenua il processo di coinvolgimento con le singole storie. Il cronotopo del Furioso non coincide col cronotopo della Commedia dantesca, dove, come argomenta Bachtin," la simultaneità, cioè la

collocazione degli eventi in una dimensione spaziale ed extratemporale, rivela il loro significato eterno. È il cardine narrativo, semmai, di una visione del mondo espressa dalla mancanza

del centro, dall’errare stesso dei personaggi. Nella luna dove si accumulano gli emblemi di quell’errare, e di quell’errore che è la stessa pazzia del mondo, Astolfo non raccoglie che un segreto da rivelare al suo ritorno in terra: il segreto della poesia come maschera della irraggiungibile verità, menzogna della storia che però tiene uniti gli uomini in un superiore rapporto sociale. Elusivo alla fine con la sua stessa funzione di poeta, Ariosto la64

scia che il mondo si manifesti come spettacolo, senza farsi condizionare dalle risorse e dalle remore del comico, dalla sua attrazione verso il basso, verso gli inferi dove continuavano a fermentare i teatri della scrittura comica. Non è casuale che all’autore del Furioso si debba anche la fondazione della commedia regolare. Ariosto non fu un grande commediografo, ma un’accorta regia domina lo spettacolo del poema e domina anche il /udus comico, iscritto ora, come nel Decameron (ma senza variazioni di scrittura), in una rappresentazione poetica onnicomprensiva che ne cancella le manifestazioni più effimere. Se è qui il segreto della sintesi ariostesca, è giusto che De Sanctis abbia salutato nell’Orlando Furioso V’avvento della «nuova letteratura sotto il duplice aspetto positivo e negativo». Va comunque precisato che si tratta di una sintesi tanto ammirata quanto unica, e non solo per ragioni generali, per il fatto che ogni risultato estetico è inseparabile dalle sue premesse individuali, ma per l’irripetibilità di quel momento dell’arte rinascimentale in cui, come sottolinea Bachtin (dando prova di un hegelismo più accentuato, se possibile, di quello desanctisiano), «il privato e l’universale sono ancora fusi in una unità contraddittoria». Da un vertice di classicità come quello toccato dal Furioso le contraddizioni hanno tuttavia un rilievo postumo. Una vicenda s’era intanto pienamente sviluppata, e perciò non vale far riferimento alle variazioni più immediate in

Italia del comico postrinascimentale, alle sue limitazioni nell’età della Controriforma e poi alla macchina della letteratura barocca che tiene separati l’eroico dall’eroicomico, la poesia giocosa dalla seria, il dialetto dalla lingua. Nella lunga durata la parola del comico, da Dante ad Ariosto, aveva acquistato un

valore esemplare. Poi, con tutte le sue modificazioni contestuali, la storia riprende. In una prospettiva spaziale e temporale più dilatata, che abbraccia il teatro e il romanzo ed investe anche la lirica, il comico riemerge ancora col suo doppio ruolo demiurgico, di scissione e di ricomposizione. E da Cervantes a Shakespeare, da Molière a Goldoni e oltre, negli sviluppi più prossimi della letteratura e della cultura moderna, il comico resta, come alle origini, una chiave insostituibile di lettura dell’immaginario, antropologico ed estetico, ma anche una chiave interpretativa degli atti compiuti o mancati della coscienza storica, sociale e individuale.

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NOTE

1 c.B. GELLI, Dialoghi. I capricci del bottaio. La Circe. Ragionamenti sulla lingua, a cura di R. Tissoni, Bari 1967, p. 50. : 4 2 Cfr. c. cELATI, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Torino

1975, in particolare pp. 34-37. Ma si raccomanda soprattutto la storia del riso ripercorsa in prospettiva bachtiniana nel saggio Da: giganti buffoni alla coscienza infelice, pp. 81-151. 3 P. ARETINO, Lettera a Ludovico Dolce del 25 giugno 1537, in Lettere. Il primo e il secondo libro, a cura di F. Flora con note storiche di A. Del Vita, Milano 1960, p. 194. 4 Ibid., p. 193. 5 N. MACHIAVELLI, Lettera a Francesco Vettori del 31 gennaio 1515, in Tutte le opere cit., p. 1191. 6 c. MUTINI, «Caro, Annibale», in Dizionario biografico degli Italiani, xx, Roma 1977, p. 501. 7 Cfr. N. MACHIAVELLI, Lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre 1513, in Tutte le opere cit., pp. 1158-60. 8 P. ARETINO, Lettera a Pietro Bembo del 9 agosto 1538, in Lettere cit., p.

504: «A me bisogna trasformare digressioni, metafore e pedagogarie in argani che movano e in tanaglie che aprano. Bisognami fare si che le voci de i miei scritti rompino il sonno de l’altrui avarizia, e quella battezzare “invenzione” e “locuzione”, che mi reca corone d’auro e non di lauro». 9 Cfr. 7. Tasso, Discorso sull’arte del dialogo, in Prose, a cura di E. Mazzali,

Milano-Napoli 1959, pp. 331-46. 10 c.B. GELLI, Dialoghi cit., p. 45.

11 Se ne veda l’edizione compresa in A. DI BENEDETTO (a cura di), Prose di Giovanni Della Casa e altri trattatisti cinquecenteschi del comportamento, Torino 1970, pp. 421-506.

12 A. VIGNALI (ARSICCIO INTRONATO), La Cazzaria, a cura di P. Stoppelli, introduzione di N. Borsellino, Roma 1984 [e infra pp. 83-97]. 13 tistico mento» nico e 14

G.W.F. HEGEL, Asthetik cit., trad. it. pp. 75-81, sottolinea il carattere ardi «genialità divina» dell’ironia, condannata tuttavia come «autogodidell’Io romantico. Notevole in questo contesto la distinzione fra irocomico. L. arIosTO, Orlando Furioso xxx1x, 60, in Tutte le opere, a cura di C. Se-

gre, I, Milano 1964, p. 1019.

15 poetike poetica 16 17

Cfr. M.M. BACHTIN, Formy vremeni i chronotopa v romane. Oterki po istorideskoj (1937-38) (trad. it. Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di storica, in Estetica e romanzo cit. pp. 231-405, in particolare pp. 303-305). F. DE SANCTIS, Storza della letteratura italiana cit., p. 459. M.M. BACHTIN, 7vorcestuo Fransua Rable cit., trad. it. p. 29.

[La sezione IL COMICO. TEORIE E TIPOLOGIE è tratta da Letteratura italiana, v: Le Questioni, Einaudi, Torino 1986, pp. 419-457]

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II LETTERATURA E TEATRO

1 - L’ARCHITETTO E IL LEGNAIOLO. LA PROSPETTIVA INCROCIATA NELLA «NOVELLA DEL

GRASSO»

1. In letteratura a Filippo Brunelleschi è toccato lo speciale quanto immeritato privilegio di inaugurare la sezione dedicata alla Poesta della Crestomazia italiana di Giacomo Leopardi. Ma lo «scherzo» Ad una fanciulla con cui si apre l’antologia leopardiana è un sonetto di falsa attribuzione. E del resto, se confrontato

con l’altro sonetto brunelleschiano — questo di sicura attribuzione —, la risposta all’invettiva di Giovanni Gherardi da Prato contro il «folle» progetto della curvatura della cupola di Santa Maria del Fiore, la distanza tra una facilità maliziosamente galante e un faticoso exploit satirico-concettuale appare addirittura insormontabile. Come verseggiatore Brunelleschi non risulta capace di agevoli manipolazioni stilistiche; ma quanto a scherzi era certo un maestro, per di più pericoloso. In quest'ambito appunto, nell’ambito di un accaduto via via riela-

borato dalla memoria narrativa col rimpianto di non poter uguagliare il racconto di Filippo, si colloca la presenza letteraria del grande artista. Brunelleschi è infatti l’artefice-fabulatore di una burla rimasta famosa nella Firenze del suo tempo per la sua audace macchinazione e in seguito per aver dato materia a un’altrettanto famosa tradizione novellistica in versi e in prosa, la Novella del Grasso legnatwvolo. La beffa è nota attraverso un numero eccezionalmente elevato di versioni elaborate nel corso del xv secolo, tra il 1430 e il

°90. Sono stati catalogati: a) dieci manoscritti in prosa sostanzialmente analoghi formanti la cosiddetta Vulgata; b) una redazione in prosa (il Palatino 200) sensibilmente diversa dalla Vulgata; c) un poema di Bartolomeo Davanzati dipendente dalla Vulgata; d) un poema di Bernardo Giambullari dipendente dal Palatino 200; e) una stesura tre volte più ampia delle altre, databile al 1489 e attribuita concordemente a Antonio Manetti. Dantista, matematico e architetto, «ricercatore di no-

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tizie d’ogni genere spettanti la città» come lo qualifica Michele

Barbi, Antonio di Tuccio Manetti (1423-97) è anche il supposto autore di una Vita di Filippo Brunelleschi scritta in funzione della novella, come dichiara lo stesso autore, per dare, come in una razo provenzale, al destinatario del racconto, Girolamo Be-

nivieni, notizia più estesa della vita e dell’opera dell’artista scomparso da oltre un quarantennio: un artista a quanto pare, da riscoprire e rivalutare in sintonia con la civiltà del classicismo militante dell’età laurenziana, liberandone la memoria da

eventuali ipoteche di attardato goticismo. Si tratta di circostanze competitive non trascurabili a livello interpretativo, benché spetti agli storici della cultura artistica fiorentina giudicarne la fondatezza.! 2. Quanto alle altre circostanze invece, quelle più pertinentemente narrative, serve all’analisi della novella memorizzare i fatti, e ovviamente nella rielaborazione del Manetti, la versione

più isolabile dalla tradizione, non solo perché la chiude, ma per

la sua complessità strutturale e per l’incrocio dei significati affioranti e nascosti nel testo, comunque rivelati da due prospettive interferenti, quella del Brunelleschi e quella del Grasso. Ridotta all’osso, La Novella del Grasso è una «giarda» o «natta» catalogabile nel repertorio eterogeneo raccolto nel vecchio libro di Domenico Guerri dedicato a un’opinabile, o quanto meno variabile, Corrente popolare nel Rinascimento. Ne rievoca una del 1409 giocata da «certa brigata e compagnia di più uomini da bene, così di regimento, come maestri d’alcune arti miste e d’in-

gegno, quali sono dipintori, orefici, scultori e legnaiuoli e simili artefici»: una vendetta beffarda contro un componente della stessa brigata, Manetto Ammannatini detto il Grasso, maestro di tarsie e intagli, per assenza ingiustificata a una periodica cena della domenica, quella volta in casa di Tomaso Pecori, «uomo molto da bene e solazzevole e d’intelletto». Filippo ha l’iniziativa della beffa. Propone di far credere al Grasso d’essere divenuto un altro e prepara la congiura. Prima dell’ora di chiusura va a trovarlo in bottega, ma si fa chiamare precipitosamente a casa per un improvviso, finto malore della madre. Si chiude invece in casa del Grasso, approfittando dell’assenza della madre di lui, recatasi in campagna, alla Polverosa, per un bucato e altre faccende, e lascia fuori dalla porta 70

l’amico imitandone la voce e minacciandolo. Costretto ad aggirarsi nei dintorni, il Grasso incontra altri complici della beffa: dapprima Donatello, il grande scultore, che lo saluta chiamandolo Matteo, poi gli ufficiali della Mercatanzia, che lo arrestano identificandolo con un Matteo Mannini, reo di insolvenza.

In prigione continuano a chiamarlo Matteo, e l’influente Giovanni Rucellai finge di conoscerlo per tale. Il Grasso si sfoga allora con un giudice letterato (forse Giovanni Gherardi da Prato) trattenuto anch’egli come insolvente, che lo conforta allegando mitologici esempi di metamorfosi per rendere credibile il caso e presagire un ritorno all’identità perduta. Arrivano quindi i fratelli di Matteo, e il maggiore rimprovera il Grasso per il suo comportamento; fanno finta d’aver pagato i debiti e lo portano a casa loro, dove il Grasso, accettando di apparire Matteo, mangia e riceve la visita di un prete che lo esorta a non intestardirsi a credersi il Grasso. Nella notte, dopo essere stato alloppiato, è infine portato a casa e disteso sul letto dalla parte dei piedi. Svegliatosi soddisfatto della fine dell'avventura ma ancora incerto, il Grasso va in bottega e trova tutto fuori posto e capovolto, come ora è capovolto il racconto che i fratelli di Matteo, arrivati in bottega, gli fanno ascoltare, cioè lo strano caso del loro fratello, il quale crede di essere il Grasso. Anche Filippo e Donatello, in Santa Maria del Fiore, dove il Grasso li ritrova, confermano e commentano tra loro l’incredibile storia,

e Matteo stesso, sopraggiunto d’intesa, rivela i sogni misteriosi da lui fatti mentre stava in villa e nei quali egli assumeva la forma di un altro. Il Grasso tace pur sospirando, e Filippo rinvia gli amici allusivamente a un appuntamento conviviale insinuando sospetti più consistenti nel beffato. Alla fine, recatosi alla Polverosa e trovatavi ancora la madre, il Grasso ha co-

scienza di tutto l’inganno. Mortificato, decide di andare con maestro Pellegrino delle tarsie a lavorare in Ungheria, mentre

la brigata riprende le cene e si diverte per la riuscita della beffa. Ma il Grasso fa fortuna in Ungheria al seguito del condottiero Pippo Spano. Torna di tanto in tanto a Firenze e racconta a Brunelleschi le cose passate nella sua mente durante la beffa; è accolto nella brigata con onore, sicché la beffa viene raccontata e replicata da Filippo e raccolta da altri, ma con la coscienza da parte di tutti che solo il Brunelleschi resti depositario dell’intera storia, come il Manetti dichiara concludendo:

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E ciascuno che la udì da lui, afferma che sia impossibile el dirne ogni particolare come ella andò, sicché qualcuna delle parti molto piacevoli non sieno rimaste dietro, come la raccontava Filippo e come ella era stata invero. Perch’ella fu raccolta, poi che Filippo morì, da alcuni che l’udirono più volte da lui; come fu uno che si diceva Antonio di Matteo da le Porte, da Michelozzo, da Andreino da San Gimignano, che fu suo discepolo e sua reda, dallo Scheggia, da Feo Belcari, da Luca della Robbia, da Antonio di Migliori Guidotti, e da Do-

menico di Michelino e da molti altri; benché a suo tempo se ne trovassi scritto qualche cosa, ma non era el terzo del caso, e in molti luoghi frementata e mendosa. E ha forse fatto questo bene, ch’ella è stata cagione che la non si sia interamente perduta. A Dio sia grazia. Amen.

3. Con questi allegati testimoniali prodotti alla fine della novella la versione Manetti si propone a sua volta come depositaria di una tradizione orale e scritta fatalmente ridotta a trascrizioni parziali dopo la morte del Brunelleschi (1446), ma insieme si fa garante della storicità della beffa. Non è del resto una storicità che possa essere revocata in dubbio dalla messa in rilievo di una fonte tematica riconoscibile in situazioni analoghe a quelle provocate dal doppio Mercurio-Sosia dell’ AmphAitruo plautino. Ripreso in «commedia elegiaca» da Vitale di Blois nel xn secolo, il tema era da qui passato con grande fortuna nel poema quattrocentesco Geta e Birra di Ghigo Brunelleschi e può aver avuto un influsso «fattuale» oltre che letterario sulla pratica sociale delle burle, per quel coefficiente intellettualistico, d’azzardo sperimentale, che un «uomo di meraviglioso ingegno ed intelletto», come era per unanime riconoscimento Filippo di ser Brunellesco, poteva cogliere appunto nel motivo dell’identità espropriata. Semmai, laddove è richiamata, la fonte acquista nella Novella valore di supporto alla credibilità di una vicenda che ha bisogno per lo stesso protagonista di certificazioni autorevoli, anche se autoderisorie: «Ohimé! sarei io mai Calandrino, ch’io sia si tosto diventato un altro senza essermene avveduto?», si chie-

de già sulle prime il Grasso, «stupefatto e come smemorato» per l’assurdità della sua situazione, non certo perché Calandrino, anche a una conoscenza approssimativa del Decameron, risulti vittima di analoghe situazioni. E dai rinvii esemplari del giudice, suo compagno di prigione, a metamorfosi ben altrimenti avvilenti di uomini in animali bruti — l’Atteone ovidia-

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no, il Lucio di Apuleio, i compagni di Ulisse imbestiati da Circe — trae sospiri di conforto, oltre che ancora di stupore. Il giudice, ormai partecipe della beffa che prontamente sospetta, allega alla «lezione delle antique» un’esperienza delle «cose moderne»: un caso analogo a quello del Grasso e di Matteo, abbattutosi su un suo «lavoratore», di scambio di identità. E tut-

tavia lo cita ma non vi insiste, perché bastano le favole antiche a riversare sulla realtà un indizio di verosimiglianza, comunque a provocare processi di identificazione esemplare, a cominciare dall’identificazione forse non priva di ironico autocompatimento che il Grasso stabilisce con disinvolta approssimazione tra la sua disavventura e quella di Calandrino. Ma la storicità, che ambientazione e personaggi della beffa assicurano, non può essere ridotta ai dati cronachistici. Forse essi sono perfino ricostruibili, ma in definitiva appaiono irrilevanti rispetto all’intenzionalità che la beffa esprime all’interno

del quadro culturale del nascente umanesimo artistico, vale a dire di una cultura che si definisce anche in relazione a rapporti di solidarietà professionale tra esperienze personali e di gruppo. È un’intenzionalità che il testo manettiano ancora sulla distanza di mezzo secolo conserva, tanto più poi se la sua lettura non venga dissociata dalla Vita del Brunelleschi che l’accompagna, e dichiaratamente come corollario. Nella chiave di una tipologia della cultura, qual’è quella laurenziana, neoplatonica, ficiniana del Manetti, la beffa — come aveva già rivelato da un decennio il Morgante, molto meglio che il più prossimo repertorio di Motti e facezie del piovano Arlotto — aveva riacquistato l’esemplarità decameroniana; era ridiventata, al di là della sua coloritura locale, di aneddoto cittadino, un’occasione rivelatri-

ce, ma anche una testimonianza inquietante di «virtù». 4. A differenza delle altre varianti della tradizione, dove l’e-

nunciato comico resta separato dalle circostanze che appaiono rievocate piuttosto che costruite in sincronia narrativa, nella versione Manetti la beffa coincide con la messa in atto di procedimenti discorsivi. Strutturalmente, la novella è scandita in

tre tempi: un antefatto, la successione delle sequenze concordanti con le fasi della congiura, l’epilogo. Si potrebbe parlare di teatro narrativizzato sul fondamento di una distribuzione 73

per edicole sceniche dello spazio-tempo del racconto, come nei dispositivi della sacra rappresentazione. Brunelleschi, come ingegnere e inventore di macchine per quelle feste cittadine, li conosceva bene; qui però può manovrarli con ancora maggiore libertà realizzando quello che là, nella scena apparente, con i più sofisticati dispositivi, restava impossibile. André Rochon, che al funzionamento oltre che ai significati della beffa ha dedicato cure molto attente, ha potuto suddividere l’azione in nove episodi con ulteriore ariticolazione scenica interna: 1) Cena iniziale: 2) Il Grasso lasciato fuori di casa; 3) Suo arresto; 4) Il Grasso in prigione; 5) A Santa Felicita: 6) Ritorno a casa; 7) Discussioni di S. Maria del Fiore; 8) Rivelazione della beffa; 9)

Epilogo. L’interdipendenza tra spazi esterni e interni è nello svolgimento narrativo molto stretta: piazze e strade, chiese, dimore, botteghe, carcere, fissano l'ambientazione cittadina di

questo «mistero»; danno risalto alla sua fiorentinità reale, percepita e sottolineata da tutti i lettori della novella, ma anche a quella simbolica, visibilmente e funzionalmente espressa dalla grande fabbrica, da S. Maria del Fiore, spazio della centralità intellettuale della beffa, dei suoi incrementi psicologici e della sua rielaborazione mentale. La forma principe del discorso umanistico, il dialogo, qui diventa, e non a caso, caratterizzante. Ma trattandosi di una beffa, non di una commedia di equivoci che provochi preterintenzionalmente una catena di errori, l’intreccio di fili che trasmette programmaticamente l’inganno deve essere costantemente controllato in rapporto ad un sistema di simulazione che coinvolge beffatori e beffato. Attorno al Grasso si ordisce una congiura, ma per il suo successo non è necessario che tutti i personaggi agiscano allo stesso livello di consapevolezza. Essenziale è che una crisi d’identità si determini nella vittima, e a ciò possono servire i due personaggi-coadiutori: un giudice intelligente che con la sua dottrina alza il quoziente di verosimiglianza (favolosa) della storia, e un prete persuasore, che esorta la vittima alla remissività col proposito — questo sì, ingenuo — di evitare danni sociali e familiari. Con l’uno e l’altro il Grasso simula, ovvero dissimula, come

del resto, dopo le prime reazioni fa con tutti, perché anch'egli è via via consapevole dei danni che potrebbe provocare a se stesso, forse irreparabilmente, e perciò mette in atto i suoi meccanismi di difesa. I protagonisti, Filippo e il Grasso, sono congiunti 74

anche a distanza da questo contatto di simulazione. L’uomo di genio sta tentando /’impossibile della metamorfosi simulata e deve contare, se non sull’intelligenza, sulla prudenza del suo antagonista, sul suo buonsenso sopravvivente all’incertezza e alla paura della perdita di sé, per tessere, dopo averlo ordito, l’inganno. La patente di genialità attribuita nel tempo a Brunelleschi sembra legata al suo audace sperimentalismo. Nella Vita del Manetti si recupera la memoria dell’opinione comune. Si sottolinea la circostanza che nell’intreccio delle esperienze artistiche della Firenze del primo Quattrocento Filippo intervenisse sempre a proporre gli accorgimenti più rischiosi: tanto rischiosi da autorizzare più tardi il Vasari a supporre che il grande architetto temesse di essere preso per pazzo. La tradizione della beffa al Grasso legnaiuolo non conserva tracce di dubbi così inquietanti, non rivela mai incrinature nella sicurezza mentale di Filippo, né può indurci a sospettare che di quel gioco d’inganni avrebbe potuto essere alla fine vittima proprio lui invece del Grasso. Ma nell’opinione pubblica quella ricerca dell’impossibile suscitava, oltre che il sospetto di uno squilibrio, un’avversione forse non circoscrivibile alla pedantesca invettiva di Giovanni Gherardi. L’autore di quel composito artefatto che è il Paradiso degli Alberti accusava Brunelleschi di voler «lo ’ncerto altrui mostrar visibile», ammonendo che «ragion non dà che la cosa impossibile / possibil facci uom sine substanza», e per suo conto si dichiarava certo che quella mente «fola» poco sapesse «ordire e vie men tessere». Filippo replicava che «l’uom saggio non ha nulla d’invisibile, / se non quel che non è, perc’ha mancanza», e gli rinfacciava il pregiudizio («falso pensier») che gli impediva di veder ciò «che l’arte dà quando natura invola»: rivendicando in altri termini una virtù naturale che lo sollecitava e insieme lo autorizzava alla sperimentazione. «Adunque — conclude beffardamente e orgogliosamente — i versi tuoi convienti stessere, / c'hanno rughiato in falso la carola, / da poi che ’l

mio “impossibil” viene all’essere».° Si direbbe che Manetti non conoscesse questa tenzone, altrimenti non avrebbe introdotto il Gherardi nella veste di giudice e con funzioni di alleato, seppure imprevedibile, della trama ordita dal Brunelleschi. A meno che non passasse volutamente ro)

sotto silenzio la polemica per sottolineare un tacito accordo. Infatti, facendo intervenire nell’azione un uomo di dottrina come il Gherardi, intermediario dei dibattiti dottrinali e letterari del

primo umanesimo fiorentino, il Manetti sembra voler estendere di là dalle consorterie professionali il consenso alla genialità del Brunelleschi, fino ad implicare nel gioco i circoli culturali di maggiore prestigio cittadino e più diffidenti nei confronti dell'avanguardia artistica. È evidente che la beffa poteva comunque essere iscritta a distanza tra i progetti di un’intelligenza votata al rischio del fallimento, come il progetto per la curvatura della cupola di S. Maria del Fiore. Per la sua riuscita Filippo ha bisogno del Grasso, della sua testimonianza dei mutamenti mentali-psichici prodotti da quei nuovi, strani casi. Ha bisogno della narrazione speculare della beffa così come è stata vissuta nella mente del beffato. Solo così essa alla fine si attua: per il concorso di entrambi. In parità dunque, se proprio vogliamo dare un punteggio alla partita. 5. L’interesse suscitato dalla versione Manetti della Novella va posto certamente in relazione alla messa in opera di una serie di valori psicologici e intellettuali non facilmente riscontrabili nella novellistica postdecameroniana. Il fatto che si sia arrivati a sintonizzare una burla tanto circoscrivibile nei suoi supporti storici e ambientali sull’onda di un pirandellismo molto anticipato e sia pure «da ridere» come fece, vivo Pirandello, Arturo Pompeati, significa che la vicenda interna più che quella esterna del Grasso ha potuto evocare situazioni da relativismo della coscienza, una condizione esasperante del personaggio, al limite di un suo auto-riconoscimento come maschera. Ma si tratta di casi estremi di iperdecodificazione, seppure per effetto di suggestioni e impressioni congiunturali. Resta il fatto che a livello dell’analisi del racconto l’azione, svolta in coinci-

denza con l’attuarsi della beffa, non copre tutti i possibili significati della novella. La beffa, che ha un’esplicita motivazione iniziale ma nessuna finalità o altro vantaggio fuori dalla sua riuscita, genera il comico, cioè ne determina le situazioni, ma fa

affiorare nell’indugio della soluzione e con la messa in scena dell’apparato della simulazione (l’intesa tra personaggi, figure 76

e oggetti) una rete di micro-significati che dirottano l’attenzione verso realtà situazionali latenti. È lecito in definitiva domandarsi: la beffa opera solo in funzione del comico, del riso che il narratore suscita in proporzione alla sua capacità di rievocarla, o è anche un rito su cui si organizza una novella di trasformazione, addirittura di guarigione, e perciò anche penitenziale? Un esame, del resto già avviato, del lessico della Novella, in

particolare dei lemmi della pazzia (impazzito, bizzarro-bizzarria, invasare, infuriare, smarrirsi, smemorarsi, confusione, sogno, fantasia,

ambiguità) e della ragione — questi più vincolati alle qualità del Brunelleschi (al suo ghigno, al suo saper vedere il pelo nell'uovo) — può aiutare a contenere la fuoriuscita dei significati dall'ambito semantico che storicamente li sostiene. Ma certo le interpretazioni prendono rilievo da un insieme che è nello stesso tempo operativo e narrativo; rende conto di un avvenimento «solazzevole» e lo coordina, oltre che nella sua materialità, dall’interno

dei personaggi sui quali esso agisce più direttamente: il beffatore e il beffato, ovvero il carnefice e la vittima. Da questo punto di vista la Weltanschauung laurenziana e ficiniana di cui Manetti è partecipe può aver influito a valorizzare le coordinate psicologiche del racconto; quasi che, trasferita in interiore homine, la beffa sì faccia rivelatrice, oltre che di virtù operativa, di potenzialità conoscitive e mitiche che la natura affida all’uomo per il suo riconoscimento più profondo e per il suo perfezionamento. Ma l’antropocentrismo neoplatonico resta nel racconto un dato segnaletico solo implicito, di cui l’opera si avvale per riflesso del suo autore. La rilevanza antropologica del tema della pazzia è invece esplicitamente manifestata dal testo, nell’evidenza che hanno figure, oggetti e situazioni della realtà truccata. Per il Grasso la prospettiva che usualmente regola i rapporti con le persone e le cose è alterata da una mascheramento volontario di cui egli è consapevole solo alla fine. La realtà resta la stessa e gli atti ubbidiscono alla logica convenzionale delle funzioni sociali, ma la modificazione della sua identità lo relega in una dimensione separata dalla quale egli può uscire solo fittiziamente, accettando la maschera, fingendo di stare al gioco.

Il mondo è quindi fuori dai cardini, pur rimanendo inalterato nelle sue strutture e nei suoi rapporti. Si rimette in sesto invece quando la prospettiva è visibilmente alterata, quando il x

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Grasso si risveglia a casa sua «dappiè del letto» anziché da capo, corre in bottega, dove vede «tutte le masserizie travolte», gli strumenti della sua arte fuori posto, come in un vignetta di genere fiamminga; e tuttavia, pur nella meraviglia per quel mondo alla rovescia, rientra felicemente «in signoria d’ogni sua cosa», in «possessione de sue cose», e si potrebbe aggiungere di se stesso. I due momenti — la roba e il sé — sono inscindibili,

ed è impensabile una sopravvivenza dell’identità del Grasso fuori dal rapporto con ciò che gli appartiene. La prova era stata dura per il legnaiuolo Manetto Ammannatini: uomo «semplice», ma di una semplicità non sciocca, percepibile solo dagli «uomini sottili», comunque «piacevolissima persona», anche se non immune da «qualche sua bizzarria», di che anche «e’ sentiva qualche pochetto», come si precisa nell’antefatto. E la beffa era stata rischiosa. Era stata portata avanti al limite della provocazione di una pazzia reale: un limite che sarà valicato solo più tardi in letteratura dall’implacabilità vendicativa e distruttiva dei protagonisti più beffardi delle Cene del Lasca. In questo senso la Novella resta un documento inquietante. Introduce un dubbio sull’uso della ragione e sulla sua valorizzazione in chiave neoplatonica, come principale contrassegno della dignitas hominis: quasi che sia proprio la ragione, non il sonno della ragione, a produrre mostri. Per quanto si possano forzare i contenuti della Novella entro linee interpretative che facciano capo per esempio all’esegesi del rapporto pazzia-ironia in ambito umanistico, messo in luce da Robert Klein nelle sue perlustrazioni interdisciplinari su La forma e l’intellegibile, o alla nozione di letteratura carnevalizzata divulgata dalla ormai nota inchiesta di Michail Bachtin su Rabelais e la cultura popolare, va sottolineato ciò che è proprio del

tema del pazzo nella Novella, ciò che ideologicamente essa manifesta o sottintende. La conclusione è a questo riguardo inequivocabile. Tanto nel contesto storico della beffa quanto in quello rievocativo del narratore di età laurenziana la follia resta un disvalore, una sconfitta irreparabile. Ed essa è valutabile su un parametro di identità sociale, molto di più che privata, individuale.

6. Solo tenendo conto dell’accordo maturato

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all’interno di

una cultura «testualizzata», nei termini introdotti dalla tipolo-

gia Lotman-Uspenskij, nella quale insomma misura dei valori è la ragione, si può penetrare nella psicologia del Grasso. L’irrisione del Momus albertiano non aveva ancora intaccato quel valore, e forse non si percepiva ancora la minaccia di una cultura «grammaticalizzata» che spiega in prima istanza l’elogio erasmiano del «iucundus quidam mentis error». La psicologia del Grasso è sempre condizionata dalla paura dello scandalo e della degradazione sociale. Una paura duplice: prima per il rischio della perdita del senno, poi per la perdita della credibilità, essendo divenuto, come beffato, la favola cittadina. Ed è

proprio quella paura che gli dà la capacità di esercitare la prudenza, con cui evita pericolose escandescenze, e la simulazione,

che gli consente di non interrompere il contatto con gli altri. La forza di rompere i legami con la città e di trovare nell’esilio le occasioni del riscatto è in funzione di quella paura, generatrice di prudenza, vale a dire di virtù privata e sociale. La rilevanza socio-economica degli strumenti della beffa non va trascurata. La «brigata e compagnia di uomini da bene, così di regimento come maestri d’alcune arti miste e d’ingegno, quali sono dipintori, orefici, scultori, e legnaiuoli e simili artefici», ospiti, come si precisa all’inizio della Novella, «in casa di Tomaso Pecori, uomo molto da bene e solazzevole e d’intellet-

to, appresso del quale egli erano perché di loro pigliava piacere grandissimo», procede nella sua azione servendosi di tutte le connessioni istituzionali che definiscono un establishment: Mercatanzia e Giustizia, Chiesa e Università, in gioco anch’esse con le figure del prete e del giudice legista e letterato. Altrettanto rilevante la concordanza degli strumenti della beffa e del potere con i valori di richiamo messi in evidenza dal testo: famiglia, lavoro, denaro, onore, tempo, che riconducono ad un°etica bor-

ghese dell’uso e del profitto, in cui ingegno e sperimentazione appaiono strettamente vincolati al successo ma anche a una garanzia di coesione. Con queste carte di credito sociologiche un’interpretazione della brigata come gruppo di pressione, quasi una lobby degli artisti, che fa del rito conviviale un’occasione di controllo inter-

no e all’esterno traveste ludicamente una volontà di affermazione sociale, può essere sociologicamente legittimata. Ma può anche pretendere alla legittimità una lettura politica che indi79

chi nella memoria narrativa della beffa il riflesso comico della storia di un gruppo la cui coesione è minacciata dall’indisciplina di un suo componente peraltro di secondo grado — un artigiano stimato ma senza prestigio intellettuale e tuttavia capace di negarsi alla socialità per un «bizzarro» desiderio di isolamento — ma è salvata da una serie di manovre fittizie, dalla

simulazione burlesca di una condanna. Infine — e per questo senso la versione Manetti col suo corollario, la Vita di Filippo Brunelleschi diventa un testo cogente — l’interpretazione di una beffa tanto indiziata di gratuità, o quanto meno di esasperazione, dei suoi meccanismi e di inadeguatezza rispetto alla sua motivazione conviviale, può circoscrivere ulteriormente l’ambito della sua indagine e concentrare i sospetti sulle persone prime del racconto, il persecutore e il perseguitato. La Novella in questo caso esprimerebbe una tensione per concorrenza professionale: rivelerebbe l’antagonismo artistico testimoniato proprio dalla Vita tra Filippo e un’altra personalità di primo rango della cultura artistica fiorentina, Lorenzo Ghiberti, di cui il

Grasso sarebbe la maschera degradata. Che la Novella, come che sia dei suoi più sintomatici riscontri politici sociali economici, riveli una drammaticità latente che la prospettiva brunelleschiana del comico, comunque verificata, non riesce a emarginare, è un dato sul quale converge una pluralità di letture che fa a gara con la pluralità dei sensi prodotta da questo testo, ambiguo sotto la sua superficie narrativa quanto la realtà nel cervello del Grasso. Nello scherzo si scarica cer-

tamente una tensione tra amici. Freudianamente sarebbe possibile intendere la beffa come un Witz prolungato che produce un effetto di scarico e un piacere che esalta via via la forza individuale e del gruppo e consente di superare reciproche inibi-

zioni. Ma è un piacere dal quale alla fine non può essere esclusa nemmeno la vittima, pena la minaccia all’integrità del gruppo stesso, soprattutto — ed è quel che più conta — pena la disintegrazione del senso ultimo del racconto. La versione Manetti raccoglie la memoria narrativa di un fatto e insieme la verifica e la riorganizza. Le pagine terminali sono sotto questo aspetto ineliminabili. La beffa si è conclusa, eppure resta la necessità di narrarla specularmente, di ricostruirla non più nella sua evidenza effettuale dalla parte di Brunelleschi, ma appunto in interiore homine, nella «mente del 80

Grasso»: «imperò che la maggiore parte delle cose da ridere

erano state, come si dice, nella mente del Grasso». La subitanea

fuga del beffato prima a Bologna, con nelle orecchie le risate dei crocchi cittadini sul suo caso, poi nella lontana Ungheria, sigla la buona riuscita di un esperimento sull’uomo portato avanti con «la cautela e l’ordine di Filippo», ma anche con un’implacabilità che resta — bisogna ribadirlo — un dato inquietante. Invece, la «buona ventura», l’ascesa del legnaiuolo a «maestro ingegneri» (un doppio di Brunelleschi in una provincia orientale dell'impero umanistico), la sua fama come «maestro Manetto da Firenze», con cui riacquista e aumenta i valori minacciati — prestigio artistico-sociale e denaro —, non sono i corollari di un lieto fine, previsto semmai dalla convenzione teatrale più tarda, della commedia cinquecentesca, non da quella novellistica, decameroniana e comunque tre-quattrocentesca. Sono conclusioni che evidenziano l’incrocio della prospettiva del Grasso nella costituzione del racconto, cioè della prospettiva a rovescio. Spostando l’attenzione della brigata, dell’artefice-narratore, infine del lettore, sull’asse mentale del

personaggio, la novella della beffa si trasformava in meta-novella e denunciava l’impossibilità della giarda di soddisfare

narrativamente a se stessa senza la sua realtà speculare, senza la complicità del Grasso ormai pienamente riscattato: E venne poi in Firenze più volte in ispazio di più anni per più mesi per volta; e alla sua prima venuta, sendo dimandato da Filippo della cagione della partita di Firenze in tanta furia e sanza conferire nulla con gli amici, ordinatamente gli disse questa novella ridendo continovamente, con mille be’ casi dentrovi, che erano stati in lui propio, che

non si poteva sapere per altri, e dello essere el Grasso e del non essere, e s’egli aveva sognato, o se sognava quand’egli ramemoriava el passato; di condizione che Filippo non n’aveva mai pel passato rìsone sì di buon cuore come fece questa volta.

La beffa era ormai diventata una commedia «dello essere... e del non essere», dell’irrealtà quotidiana che continuava a lasciare sul passato e sulla memoria del Grasso l’ipoteca del sogno, anche quando i fatti erano finalmente distanti e più non bruciavano. Filippo sa di avere dato di più che una dimostrazione della sua vittoria sull’impossibile; sa di aver dato vita a un personaggio: «Lascia pur fare — dirà in conclusione al Grasso — 81

questa ti darà più fama che cosa che tu facessi mai o con lo Spano o con Gismondo, e si dirà di te di qui a cento anni». La dichiarazione convalida ancora in ultima istanza la funzione della novella come exemplum dello sperimentalismo del Brunelleschi. Ma per la prospettiva postuma dei lettori, per la nostra ancora più labile coscienza della reversibilità tra vissuto e rivissuto, tra vita e sogno, infine tra l’io che pensa e l’io che narra,

manca poco perché quella orgogliosa affermazione di creatività non faccia uscire proprio l’artefice della beffa dalla scena del racconto. A quel punto, al punto in cui la versione Manetti lascia il posto nel tempo all’alea della ricezione, insomma alle trasformazioni dell’identità del testo nella lettura, vi resterebbe

in piena luce il personaggio. Divenuto tale proprio per il suo destino di vittima, egli potrà appropriarsi della vicenda narrandola in prima persona: come una storia che ormai gli appartiene tutta intera, nell’esperienza e nella scrittura, in esclusiva.

NOTE

1 Cfr. A. MANETTI, «Vita di Filippo Brunelleschi» preceduta da «La Novella del Grasso», ed. critica di D. De Robertis, con introd. e note di G. Tanturli, Mila-

no, Il Polifilo 1976. È il testo di cui mi valgo per le citazioni. Tutta la materia (tradizione, genesi della versione Manetti e suoi significati, storia della critica) è stata sistematicamente ripresa e discussa da André Rochon: Une date importante dans l’histoire de la «beffa»: «La Nouvelle du Grasso legnaiuolo», in AA.VV., Formes et significations de la «beffa» dans la littérature italienne de la Renaissance (deuxtème série), Parigi, Centre de Recherche sur la Renaissance 1975, pp. 211376. Questa mia offerta augurale a Vittore Branca fa riferimento, laddove è puntualmente indispensabile, all'ampia schedatura critico-bibliografica del saggio del Rochon. o pr Lirici toscani del ‘400, a cura di A. LANZA, Roma, Bulzoni 1973, pp.

[In Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, m*, Firenze, Olscki, 1983, pp. 283-295]

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2 * LA CAZZARIA

A chi non s’accontenti di radunare sotto la grande tenda di Bachtin & Co. tutte le manifestazioni di arte carnevalizzata, La Cazzaria, dialogo del senese Antonio Vignali, in accademia Arsiccio Intronato, potrebbe dare una risposta all’eventuale domanda se l’osceno sia in letteratura una categoria autonoma o soltanto una variante ossessiva di quell’erotismo che generalmente la pervade. Oscena — si potrebbe dire a lettura ultimata — è quell’opera che esibisce gli organi genitali senza mascherarli, nominandoli. Un fallo in maschera (si tralasci l’imperdonabile calembour) sarà personaggio anch’esso, ma di un reperto-

rio limitrofo tra i tanti che i cataloghi dei librai, mischiando necessariamente le carte, registrano col cartellino «erotica». Del resto, è un personaggio relativamente recente. Stando ai documenti plastici, grafici e iconografici più antichi, non sembra che greci e latini avessero ritegno per la sua esibizione protesa, l’unica poi di fatto scandalosa; che, anzi, ne traessero voti significherà che lo consideravano tutt’altro che osceno, se obscenus

era vocabolo reprobante, con implicita notazione di malaugurio. Rivendicare al fallo un diritto di parola (soggettivo e 0ggettivo, come nome e come oggetto di nominazione discorsiva) può essere considerato un impegno culturale di età moderna, in quei territori dell’umanesimo, quanto meno, in cui il naturalismo allignava meglio dell’idealismo. Sentenziava Leonardo: «E’ pare che a torto l’uomo si vergogni di nominarlo, non che di mostrarlo, anzi sempre lo copre e lo nasconde, il quale dovrebbe ornare e mostrare con solennità,

come ministro». L’autore della Cazzaria deve aver sentito parossisticamente quell’imperativo. Ma non solo lui, giacché il suo dialogo testimonia della solidarietà di un gruppo, di un clan societario, di una intellighenzia umanistica concorde, almeno all’inizio, in una professione di spregiudicatezza. A Siena, 83

nei primi decenni del Cinquecento, l'accademia, la massima forma istituzionale della cultura del Rinascimento, aveva asse-

gnato al discorso osceno un valore e una funzione, allentando proprio per questo quel ritegno al quale, con tutto il permissivismo che vantiamo, siamo legati ancora noi, se non altro passan-

do dal parlato allo scritto, e dal quale dobbiamo pur derogare se si decide di parlare di un testo dove le parti-che-non-si-nominano sono gli attori dell’intera trama discorsiva e delle sue fabulae; dove i genitali, anzi le componenti maschili, femminili e

neutre dei due sessi, occupano interamente lo spazio della fabulazione dialogica e narrativa, autonomamente e con tutta la loro rilevanza nominale univoca, senza variazioni eufemistiche e

metaforiche, occultamenti ironici, giochi di parole. Ma vale poi la pena parlarne? Il testo restaurato che la nuova edizione della Cazzaria ci offre, quasi inaugurando una filologia della tradizione oscena sottratta alla pur benemerita curiosità degli amateurs e connaisseurs, ci dice molto di più di quanto la sua «indecenza» sùbito esibisce, e con piena padronanza della scrittura. Il fallo messo a nudo non è più solo se stesso, sesso che si manifesta divertendo o provocando, e neppure figura propiziatoria. Esso maschera a sua volta una storia che è alla fine, col suo abbassamento triviale, grottesco, carnevalesco,

vicenda ideologica, molto di più che documento di costume. Un'analisi anche sommaria della struttura e dei temi del dialogo consente infatti di riconoscerla, di far emergere il sottotesto.

La Cazzaria è introdotta da una finzione burlesca giocata su un rapporto di complicità tra vita accademica e scrittura. La dedica con cui il Bizzarro (Marcello Landucci all’anagrafe) offre il dialogo al Moscone Intronato (Giovan Francesco Franceschi) dà la giustificazione di una sua prima divulgazione tra amici. Stando in casa dell’Arsiccio (il Vignali) in attesa di una donnetta «lorcia» promessagli dall’amico, il Bizzarro scopre rovistando nella biblioteca il dialogo dove l’Arsiccio avrebbe trovato «tutte le ragioni de le circonstanze del fottere»; lo trafuga e lo manda al Moscone, ghiotto di simili ragionamenti. Il dialogo sì svolge tra l’autore e il Sodo, il giovane Marc’ Antonio Piccolomini, che fa professione, oltre che di disciplina legale e di lettere volgari e latine, di filosofia. Questa, a parere dell’Arsic84

cio, «non è altro che cognizione de le cose naturali», pertanto anche scienza di ciò che appare disonesto e ripugnante ed è invece naturalissimo e necessario. Una perorazione in favore dell’argomento sottolinea la novità del trattato, che scolasticamente è avviato da una quaestio clamorosamente triviale: perché i coglioni non entrano nella potta o nel culo. Ridotto alla sua carcassa speculativa, il dibattito tra i due amici può essere riportato a un elenco di quaestiones, del resto rubricate in margine per l’opportuna memorizzazione. Fra tutte, e in definitiva scegliendo a caso, basti ricordarne alcune per esemplificazione: di che materia sia composto il cazzo, con relativa sua glorificazione; perché i frati abbiano trovato la confessione, e connesso attacco antifratesco e anticlericale; perché il culo non sia peloso, con i privilegi e le lodi dello stesso; perché sia peloso il pettignone e si dica contro natura usare le donne dietro; sulla priorità del cazzo o della potta nella creazione; sulla tirannia dei cazzi e sulle rivolte degli altri organi con ridistribuzione finale dei poteri e delle funzioni, parità dei culi divisi equamente tra i due sessi, punizione dei coglioni, chiusi nei sacchi come servi ribelli e condannati all’esclusione dal godimento: il che scioglie, storicamente piuttosto che filosoficamente, la quaestio iniziale. Rispetto all'impianto diatribico, da trattazione scientifica popolare di evidente intonazione parodistica, il contenuto effettivo del dialogo è quello di un conte philosophique d’ispirazione libertina, carico di finalità ideologiche e politiche. La sessuologia dell’Arsiccio è insieme naturalistica e visionaria. Parte dalla premessa che ciò che è naturale è razionale e perciò attacca gli «spigolistri», i moralisti bacchettoni e soprattutto frati e preti che di fatto praticano la natura ma non ne chiedono le ragioni. Tra i progetti letterari dell’Arsiccio c'è un Lumen pudendorum (palese controcanto osceno delle scritture agiografiche) comprendente tre parti: De la genealogia e battesimo del cazzo; De la natività e opera della potta; De la vita e passione del culo. Con le più ovvie pudende maschili e femminili è iscritto anche l’unisessuale culo, come è naturale per un sodomita che non esita a dichiararsi tale e si propone anzi di trattare — ma in latino per una diffusione più ristretta e meno rischiosa — «gli atti segreti de la sodomia»: un breviario, si direbbe, per l’iniziazione a una consorteria, o massoneria ante litteram, dell’omosessualità. Nelle

pratiche sodomitiche è intanto coinvolto il Sodo, contestual85

mente, nel corso del dialogo che, per suggerimento dell’Arsiccio, viene trasferito in letto, dove i due amici alternano o intrec-

ciano le argomentazioni filosofiche con gli argomenti di una sessualità esplicitamente attiva, forse dimostrativa dell’iniziazione.

Nella Cazzaria, o «viluppo di cazzi», come la definisce enfaticamente il dedicatario, il predominio del fallo è egemonico. Ma nel dialogo si celebra anche il trionfo del culo, un trionfo che in età classica sarebbe testimoniato dal nome del più monumentale edificio di Roma, il «Culiseo», quanto dire culi-seggio, quindi sede principesca, come i seggi nobiliari in cui era divisa la nobilissima Napoli. Ma la perfezione del cazzo è sancita all’origine: dall’impossibilità di determinare la materia di cui è composto, dal suo essere «mistero» su cui resta aperta, non senza sottigliezze teologiche, la discussione. Rispetto alla potta poi, il fallo ha ciò di cui l’altra è priva. L’Arsiccio si rifà al mito platonico della concreazione androgina, del maschio e della femmina, alla generazione di Ermafrodito, aggiungendo con l’autorità di Pietro Bembo, che l’uomo ritirandosi dal corpo indiviso porta con sé appiccicata, come prominenza fallica, quella terra che è sottratta alla donna determinando

il buco, il vuoto da

riempire. Il potere fallico non deve però trasformarsi in tirannia. La parte più sorprendente del dialogo è l’ultima, quella politica in cui si allegorizza la fondazione di una ordinata costituzione aristocratica alla fine di una lunga vicenda di soprusi e di lotte tra gli organi sessuali e, al loro interno, tra organi di varia dimensione e prestanza. La scrittura a questo punto muta registro, da trattatistica sì trasforma in storico-narrativa, e i genitali assumono sempre più caratteristiche umane e sociali agendo come personaggi di una grottesca messinscena del progresso, dalla ferinità alla civiltà. L’esito istituzionale della lotta è pur sempre una fallocrazia, ma temperata nella rappresentatività delle tre nazioni, cazzi, potte, culi, con esclusione dai diritti di cittadinanza dei testicoli, in altri termini della plebe manovrabile dal-

la demagogia e incline all’anarchia, mentre l’iniziale atteggia-

mento misogino si converte nell’apprezzamento della parte femminile per la funzione pacificatrice tra le fazioni svolta dalle potte. Che il gioco nasconda una sostanziale serietà di propositi è 86

ipotesi più che legittima. Il buon governo fallocratico riflette l'ideologia aristocratica degli accademici Intronati, anche nella polemica assidua che l’Arsiccio svolge contro le ricchezze e in favore delle professioni liberali, delle arti, dello studio disinte-

ressato, della stretta collaborazione tra latino e volgare. Ma forse si può andare più in là e leggere tutto il dialogo nella chiave di questa sua ultima parte esplicitamente politica, tentando di identificare nella cruenta cronaca delle lotte sociali e di fazione della dilaniata repubblica senese l’occasione della singolare mascherata accademica che prende il nome di Cazzaria. Stoppelli, cui va il merito della riesumazione del testo e di una dedizione tanto intelligente quanto discreta, svela in nota alla sua edizione il retroscena dei conflitti politici e sociali allegorizzati impudicamente dall’Arsiccio, e su di essi perciò basterà rinviare al suo commento. Ma la biografia dell’opera, il suo destino di libro stampato, e

forse sùbito con divulgazione clandestina, mi sembra strettamente legata a un’oscenità che doveva far dimenticare le motivazioni politiche più contingenti e insieme esibiva una volontà di scandalo che la rendeva intollerabile. Per questo l’autore per primo si adoperò perché fosse dimenticata. E di fatto, soprattutto contro la sua divulgazione in Italia, ci riuscì. Le copie della Cazzaria sono certamente rare. L’edizione in ottavo conservata nell’ex Enfer della Bibliothèque Nationale di Parigi (numero 565 del catalogo Apollinaire) è senza data e luogo di stampa, ma reca sotto il titolo una nota del bibliografo settecentesco Giuseppe Molini con l’indicazione Venezia 1531. Il Manuel du libraire et de l’amateur de livres del Brunet (Paris 1860, col.1708) ‘segnala anche un’edizione napoletana, la princeps, di cui però non restano esemplari, databile tra il 1528 e il 1530. L'interesse editoriale si rianimò soltanto nel secolo scorso, e fuori dai confi-

ni nazionali, in Francia e in Germania. Nel 1863 apparve a Cosmopoli (Bruxelles) un’edizione anonima, in realtà curata da E. Cléder, il quale l’anno dopo ripubblicò a parte l’introduzione come Notice sur l’Académie des Intronati. Se ne servì per la sua traduzione in francese con testo italiano a fronte Alcide Bonneau, che pubblicò l’opera a Parigi nel 1882. Nel 1924 uscì a Stoccarda la prima edizione tedesca a cura di G. Vorberg con 87

postfazione dello psicanalista Wilhelm Stekel e nel 1963 una traduzione senza testo italiano e nome del curatore presso la Gala Verlag di Amburgo. In Italia invece nessun’altra stampa, oltre quella del 1531. La memoria dell’opera fu presto rimossa, e durò poco più quella del suo autore, nonostante l’impegno di riabilitazione degli accademici senesi. A Siena Vignali figurava tra i letterati di prestigio come socio fondatore dell’Accademia degli Intronati; godeva fama di piacevolezza mondano-intellettuale a dispetto della sua figura deforme, che pure può avergli esasperato il gusto della provocazione. Ma verso la fine del 1530 volle o fu costretto a lasciare la patria, probabilmente per aver «offeso troppo altamente la maestà della gentilissima città di Siena», come si disse poi a proposito di quel libro (nella prefazione de // Meschino detto il Guerrino, opera attribuita a Tullia d’Aragona). Fu nomade in Italia e Spagna al servizio di prelati, quasi ad emendare il suo passato anticlericalismo. Una commedia, La Floria, edita postuma nel 1560, non lo segnalò, e giustamente, come scrittore di

teatro; fu ricordato più per una Lettera piacevole in proverbi inviata a «una gentilissima signora» nel mese degli asini, e dunque nel maggio, del 1557. Quanto alla Cazzaria, scritta tra il ’25 e il ’26, si preferiva mascherarne anche il titolo, come si farà molto più tardi nell’Ercolano di Benedetto Varchi. Solo uno scrittore, Nicolò Franco, che pagherà con l’impiccagione, ormai in piena Controriforma, i suoi peccati di insolenza, la chiamerà in causa nella Priapea. L’Arsiccio figura in un sonetto come un devoto a Priapo, cui dedica lo stesso dialogo, ma di fatto per bollare l’ex maestro del Franco, ora antagonista odiatissimo, Pietro Aretino, con una patente di sodomia. Priapo, io son l’Arsiccio Arcintronato, e nell’intronataggine il maggiore, ch’oggi per farti un profumato onore un mio libretto in dono t’ho recato. Qui son tutti i cazzi d’ogni stato, cazzi da poco e cazzi da valore, cazzi da donne vedove e da suore,

cazzi da granmaestri e da prelato. Cazzi da non toccar se non co’ guanti, cazzi da donna quando si marita, e cazzi scarsi, e cazzi traboccanti.

E per far la Cazzaria ben fornita

88

vi son cazzi a millioni, e quanti Pietro Aretino n’ha provati in vita.

La stoccata finale antiaretiniana è giustificata dal fatto che la Priapea è, come si sa un vituperium dell’ «arcidivino Pietro Aretino flagello de’ cazzi», anziché dei principi. Nei Ragionamenti non è ricordata La Cazzaria. Si potrebbe supporre che il Vignali per la sua attuale condizione di esiliato e per non nuocere all’attività della sua accademia, ormai assurta a rinomanza ex-

tramunicipale soprattutto come grande organismo teatrale, preferisse il silenzio allo scandalo. È certo comunque che il percorso compiuto dal dialogo osceno dall’accademia alla ficaia, dalle dimore signorili dei gentiluomini senesi agli orti suburbani delle prostitute e ruffiane romane dell’Aretino, testimoniava di un mutamento radicale nel trattamento ideologico e stilistico della materia. Per non parlare della trasformazione più importante compiuta alla fine del percorso: il passaggio dell’iniziativa dialogica dagli uomini alle donne, che nell’una e nell’altra opera si escludono reciprocamente dal rapporto interlocutorio, a differenza dei dialoghi di corte o di salotto, dove la donna quanto meno ispira, e regge talora, la civile conversazione. Tuttavia La Cazzaria non nasce sul vuoto della letteratura oscena. Nel dialogo l’Arsiccio cita col titolo La Cortigiana (che ci porta, ma con altro significato, alla nota commedia romana dell’ Aretino, comunque qui fuori gioco) «un’operetta [...] ove sì pongono infiniti modi di fottere». È difficile precisare a quale testo alluda. In due operette divulgate con lo stesso titolo: il poemetto La puttana errante del patrizio veneziano Lorenzo Venier e lo pseudo-aretiniano Dialogo di Maddalena e Giulia, quegli esercizi non mancano, come alla strofe 32 dell’Errante: «c'ha

fatto il gamb’in collo e la giannetta, / i ranocchi, la grue, la potta indietro, / la chiesa in campanile e la staffetta, / con il cazzo dinanzi, il cazzo dietro». Ma il rapporto tra La Cazzarta e la contigua produzione oscena resta imprecisabile nell’incertezza dei dati cronologici. È una circostanza interessante che Siena sia nel poemetto del Venier il punto d’approdo della protagonista, alla fine del suo viaggio d’istruzione puttanesca per tutta l’Italia. A Siena la puttana errante (canto mi, ottave 104 sgg.) è addottorata con lode perché scioglie dubbi su quella stessa materia che già forse 89

formava argomento accademico d’intrattenimento ludico prima della Cazzaria e che poi, con La Cazzaria, come dichiara il titolo, diventerà tema esclusivo, si direbbe ossessivo, e certo non futilmente burlesco, di dibattito. Ma La puttana errante si iscrive

meglio nella linea di sviluppo aretiniana dell’osceno. Per la sua evidente elaborazione scientifico-filosofica — sia pure paradossale, e con l’avallo classico dei paradoxa degli stoici antichi — il dialogo dell’Arsiccio non è associabile alla pubblicistica pornografica in senso stretto. A partire dai Sonetti lussuriosi composti per una serie di incisioni erotiche di Marc’Antonio Raimondi intorno al 1525 a Roma, era stato Aretino a promuoverla, soprattutto trasferendosi nella più tollerante Venezia. Qui ebbero più facile corso operine postribolari come la Zaffetta dello stesso autore della Puttana errante, Lorenzo Venier, e altre di dubbia attribuzione: La tariffa delle puttane, il Ragiwona-

mento dello Zoppino (sulla vita e la genealogia di tutte le puttane di Roma), i Dubbi amorosi, correntemente associati ai Sonetti lussuriosi, con l’assimilazione dell’altra Puttana errante in prosa, ov-

vero Dialogo di Maddalena e Giulia. Lateralmente una più esigua produzione con marchio sodomitico sì riallaccia, anziché alla letteratura pornografica veneziana, alla Cazzaria: un poemetto in diciotto ottave che ruba appunto il titolo al dialogo dell’ Arsiccio e sì trascina come appendice una Persuasiva efficace per coloro che schifano la delicatezza del tondo, in sette strofe. Si tratta di un’insulsa imitazione alla quale si allinea a distanza di due secoli l’ancora più insulso Libro del perché, mentre una partecipe adesione ai risvolti biografici della Cazzaria ha un inedito e anonimo dialogo tra Arsiccio e Sodo (conservato nella Biblioteca Vaticana) dedicato al racconto in prima persona delle esperienze sodomitiche del Sodo. La fortuna dell’opera coincide inevitabilmente con la sua trivializzazione, che collabora di fatto alla scomparsa del testo originario. Il suo occultamento era del resto voluto proprio dagli eredi dell’Arsiccio, dagli Intronati delle generazioni successi-

ve a quella dei fondatori dell'accademia, cui il Vignali apparteneva. Un’indiscrezione in questo senso potrebbe apparire l’allusione di Scipione Bargagli a una produzione «d’alcune novelle e d’altri ragionamenti d’amore» dell’Arsiccio contenuta nel 90

dialogo 7! Turamino, ovvero del parlare e dello scrivere sanese, laddove l’interlocutore più autorevole, Verginio Turamini (donde il titolo) svolge l’elogio del padre fondatore dell’accademia, pren‘ dendo spunto dalla Lettera piacevole in proverbi: Nella piacevolissima e argutissima lettera dell’Arsiccio padre vostro, Vignale, tessuta tutta quanta con sì leggiadro e nuovo artificio di vulgari proverbi, apparisce non oscuro il dir naturale e piano della sua patria, ancora che, quando la distese in carta, ne fosse stato oltr’a vinticinque anni lontano, dimorando in buon grado a’ servigi del re Filippo in Ispagna. Piaciuto fosse a Dio ch’ei havesse spiegato e si fossero vedute le carte empite da lui de’ suoi vivaci concetti o de’ suoi pellegrini spiriti nella nostra lengua sanese; ché si vedrebbe stile di lui e dettatura da piacer non poco a’ più dilicati gusti, come ne rende fede il saggio rimastone d’alcune poche novelle e d’altri ragionamenti d’amore, che da voi se ne fa riserbo ancora come di cose care. Io ho

udito forse prose il suo

dire a di que’ buon vecchi Intronati che fra’ loro Accademici né tra altri di patria non conobber persona nata meglio a dettar vulgari e con migliore stile de l’Arsiccio, se v’havesse indirizzato principale studio. (Ed. a c. di L. Serianni, Roma 1976, vn 23-25).

Sarebbe vano invece cercare tracce della Cazzaria in documenti ufficiali come le Orazioni di Scipione Bargagli: quella in lode delle accademie pronunciata nel 1569 e l’altra per la riapertura dell’Accademia degli Intronati nel 1603. Meno che mai potevano farne cenno i suoi 7rattenimenti, dove Scipione intona la rievocazione del «bel costume antico» all’elogio del pacato edonismo che già il fratello Girolamo aveva celebrato nel Dialogo de’ giuochi (edito nel 1572), come memoria forse ormai irrecuperabile dei «piacevoli studii» e della civile conversazione tra gentiluomini e dame, in uso nell’età piena dell’accademia. Il Dialogo de’ giuochi è in realtà un’anti-Cazzaria; vuole recuperare una tradizione d’arte, di cultura e di vita, di cui il principato mediceo e la chiesa tridentina non abbiano ragione di dubitare, che anzi possano avvalorare. Per questo l’immagine della società accademica che vi è disegnata può essere letta attraverso lo sguardo vigile e sospettoso del potere, dunque come un’immagine rassicurante. Nel 1568 Cosimo 1 emanava il decreto di chiusura di tutte le congregazioni culturali, ed è probabile che la produzione di quei due Bargagli vada, in parte almeno, interpretata in funzione della revoca di quel decreto, per

la riapertura dell’accademia che significava la conservazione 91

del prestigio intellettuale e artistico di Siena dopo la perdita della sua libertà. Per la realizzazione di questo progetto La Cazzaria sarebbe apparsa un precedente troppo pericoloso, di cui era opportuno far perdere le tracce. Di fatto il silenzio dei Bargagli, cioè la memoria volontaria dei restauratori dell’accademia sintonizzata su una supposta tradizione di onesti costumi, agì anche a distanza. Può valere in proposito un riferimento a un’ esperienza personale. Qualche decennio fa cominciai a leggere nella produzione letteraria e teatrale degli Intronati una sottostante storia di intellettuali partecipi dei conflitti religiosi politici sociali del pieno Rinascimento italiano. Più oltre non si poteva andare mancando l’anello iniziale con il quale la catena del destino collettivo del sodalizio e dei destini individuali si ricomponesse. Ora la riesumazione della Cazzaria consente di riallacciare la storia alle origini, di leggere nel palinsesto dell’accademia la preistoria proibita e cancellata dei fondatori, il documento nascosto del loro «immoralismo», fin qui tra-

scurato o travisato. Per una ricognizione storico-culturale di questo tipo la fortuna più recente della Cazzarza, per quel poco che essa è stata letta e studiata, non registra alcun contributo. L’interesse, finora esclusivamente d’ambito francese e tedesco, è, come è prevedibile, molto diversamente orientato, sia che confermi la passione

antiquaria ereditata in Francia da Apollinaire per gli incunaboli della letteratura erotica sia che metta in luce un’attenzione maturata in ambienti freudiani per la storia della sessualità. Invece, il retroterra mondano-culturale degli Intronati può spiegare — fatta salva la radicale spregiudicatezza del tema e dell’argomentazione che è propria del Vignali — l’iniziativa del dialogo osceno. Per questo è necessario insistervi. La fama degli intrattenimenti accademici di Siena è conse-

gnata soprattutto ai risultati letterari e scenici di un teatro comico che a partire dagli anni trenta influenzò tutta la drammaturgia italiana e, direttamente o per mediazioni novellistiche, anche quella straniera, specie elisabettiana. L’aspetto più interno, societario, di quell’attività è affidato invece, come si è accennato, al tardo Dialogo de’ giuochi che nelle vegghie sanesi si usano

di fare di Girolamo Bargagli, dove è conservata la memoria di un onesto edonismo praticato in una consuetudine di eleganti rapporti di dame e gentiluomini. Ma La Cazzaria testimonia di 92

consuetudini ben diverse all’origine dell’accademia, ed è ovvio che in epoca tridentina esse dovevano essere taciute. L’oscenità del dialogo non è un episodio letterario isolato. Gli interlocutori citano qua e là frammenti di una produzione poetica priapesca attribuendola in gran parte a uno dei massimi intellettuali senesi, Claudio Tolomei: frantumi di una forse perduta rimeria in volgare che evidentemente correva parallela alla tradizione umanistica della Priapea, più al riparo, con la sua copertura erudita e filologica, da eventuali condanne. Ma ancora più frequenti sono le allusioni alla misoginia del sodalizio e a intese omosessuali neppure simulate. La solidarietà misogina è un atteggiamento che dura certamente fino al carnevale 1531, quando il Vignali aveva appena abbandonato Siena. In quella stagione gli Intronati presentarono come opera collettiva la commedia Gl’/ngannati, che apre la loro grande attività teatrale e insieme chiude la fase originaria, esclusiva, dell’accademia letteraria. La commedia è dedicata al

pubblico femminile come atto di riparazione di un rituale ancora misogino, la festa allegorica e musicale // Sacrificio, della notte dell’Epifania dello stesso anno. Da allora in poi la vita accademica è strettamente connessa a un rapporto complice e galante con le donne. E non è certo un caso che — indipendentemente dalle attestazioni che in questo senso offrono subito il teatro e, più tardi, la memorialistica di Girolamo Bargagli e la novellistica del fratello Scipione — a quindici anni circa dalla Cazzaria l’opera che caratterizza la nuova fase, forse ancora più spregiudicata, della fenomenologia erotica degli Intronati è la fervida Raffaella o Dialogo de la bella creanza de le donne (1539) del più originale e autorevole letterato e drammaturgo del gruppo, Alessandro Piccolomini, voltosi in età matura alla filosofia e al-

la matematica, infine alla prelatura. Rispetto al libertinismo: naturalistico della Cazzaria l’immoralismo espresso dalla Raf faella, e dichiarato in prima persona dal Piccolomini stesso nel prologo dell’opera, rivela più insinuanti intenzioni dissacratorie: si manifesta come ammaestramento antifrastico delle donne sposate, incitamento all’adulterio da praticare nascostamente, con prudenza. Il teatro senese aveva escluso la beffa coniugale dai suoi temi, pur valorizzando l’erotismo giovanile e, in senso beffardo, quello senile. Piccolomini isola una scena di commedia non iscrivibile nel repertorio pubblico degli Introna98

ti e, dando risalto, anche nel titolo, alla ruffiana seduttrice e

alle sue argomentazioni in favore dell’infedeltà, rivendica dalla parte delle donne una legittimità erotica extraconiugale, che rovescia in positivo l’irrisione moralistica dei dialoghi aretiniani. Ancora una volta, comunque, è la forma dialogo che esprime la spregiudicatezza più rischiosa degli Intronati. Molti anni più tardi, nel 1572, quest’uso del dialogo sarebbe stato impossibile. Della rievocazione e ricostruzione del «bel costume antico» da parte di Girolamo Bargagli vanno però messi

in evidenza alcuni indizi tacitamente allusivi alla Cazzaria, le

prove, anzi, ex silentio della presenza del vecchio dialogo nel nuovo. Intanto, una scelta che non può essere casuale. L’occasione per la stesura del Dialogo de’ giuochi è legata alla tappa compiuta a Siena dal Sodo in viaggio per Venezia, cioè di Marc’Antonio Piccolomini, proprio l’interlocutore-complice della Cazzaria, ormai anziano e al servizio di un cardinale. Affi-

dandogli la memoria degli onesti passatempi, Bargagli lo fa titolare di una implicita palinodia e gli fa autenticare una versione cortese e antiideologica della storia dell'accademia. Il Sodo nomina l’Arsiccio in quanto autore di un innocuo documento della sua attitudine allo scherzo, la Lettera piacevole in proverbi, già ricordata, ma tace sul resto. Tuttavia dall’Arsiccio Bargagli toglie la struttura del dialogo per quaestiones rubricate ai margini del testo, che giochi societari. del Vignali non che essa restava

però converte in enumerazione e titolazione dei L’imitazione dimostra se non altro che l’opera

era considerata un futile pretesto di oscenità, un modello di svolgimento argomentativo, in-

dipendentemente dal contenuto delle argomentazioni. L'ideologia della Cazzaria infatti non era effimera. L’abbiamo già detto: il dialogo è più un racconto filosofico che uno sfogo irresponsabilmente osceno, e l’attrezzatura scientifica per questa esplorazione, condotta in modo tanto invadente, nel territorio del sesso è di matrice aristotelica, esalta il principio della cognizione razionale della natura e perciò dell’amore naturale. Già Dante nel diciassettesimo del Purgatorio distingueva l’amore di natura da quello d’animo. Ma l’attenzione al sesso è qui la spia di un libertinismo religioso che si manifesta oltre che come satira, facezia, aneddoto anticlericale, come professione di empietà che trascina il sacro nella parodia, lo degrada calandolo all’interno di scritture comiche e irridenti. Dio è in questa para94

dossale storia naturale dell’uomo il Maestro, il Demiurgo. Gli appellativi dicono abbastanza per classificare l’Arsiccio e La Cazzaria in una mappa del libertinismo cinquecentesco che è ancora arduo disegnare. E dicono molto a questo proposito le vicende dell’accademia senese, il destino dei soci di maggiore prestigio intellettuale: un destino europeo più ancora che nazionale, coinvolto nella storia maggiore e drammatica del cristianesimo riformato, ove si pensi alle esperienze religiose fuori dai confini italiani dei due grandi riformatori senesi Lelio e Fausto Sozzini. Questo intreccio di sacro e profano (a dir poco) appare chiaro a distanza, mentre ancora negli anni venti quel libertinismo poteva apparire confinato in una prassi accademica non priva di compromissioni biografiche, poteva testimoniare di un uso paradossale della scrittura. Le giustificazioni per quest’uso non mancavano: basti per tutte la fortuna dei dialoghi di Luciano in età umanistica e l’assimilazione dell’impudenza di linguaggio dei cinici. La Cazzaria chiama in causa Orazio, Marziale, i centoni della Priapea, rimpolpati da schiere di letterati tra i quali il Bembo, e poi Burchiello e Boccaccio. Ma è vero che i meccanismi dell’osceno messi in moto dall’Arsiccio sono diversi. Rivelano interferenze non contraddittorie della tradizione bassa dei fabliaux e di quella culta di commedie e dialoghi in latino prodotti dai cenacoli goliardico-umanistici. L’insistenza sui genitali è d’obbligo, stando al titolo dell’opera, così come il rilievo sessuale assegnato al deretano non solo in quanto orifizio ma in quanto figura, forma, per di più nobile, come la sfera. Ma il compiacimento, quasi il vagheggiamento delle funzioni corporali, la sovreccitazione scatologica e coprolalica si iscrivono in un contesto in cui il cibo, il suo gusto e l’ossessione fagica pro-

pria di tanti testi comici, sono dati irrilevanti e quindi non giustificano funzionalmente quella corrività. Si potrebbe essere indotti a concludere che l’immaginazione oscena dell’Arsiccio è riconducibile a un processo involutivo che testimonia soprattutto di coinvolgimenti libidici e interne pulsioni irrisolte, insomma di un fenomeno di regressione, e che come lettori basta, se si vuole, sintonizzarsi con quel meccanismo regressivo senza sondare gli eventuali significati ideologici della mascherata sessuale. Senonché la volontà di trasgressione intellettuale ètroppo chiaramente esibita perché il dialogo resti 99

confinato nel ghetto delle testimonianze biografiche, a futura memoria di eventuali indagatori e collezionisti di perversioni sessuali. Anche la contaminazione tra narrato e vissuto dei due interlocutori, la loro «depravazione», rinvia a posizioni di gruppo che caratterizzano, a quanto si può supporre, un’ideologia accademica. Resta da valutare la qualità letteraria di questo immaginario regressivo e trasgressivo. Vignali estende la caratterizzazione di Priapo come fallo parlante a tutti gli altri organi che entrano in scena nel dialogo; seziona e personifica le parti del corpo che interferiscono nell’azione, fino alle mani, che operano, come è

ovvio, in funzione dei genitali, e con esclusione del viso, quindi di eventuali interferenze dall’alto di ogni espressività antropomorfica che alteri questa commedia delle parti basse. In questo senso il suo iperrealismo non ha confronti con consimili mascherate uterine o priapesche di epoche successive: con i «gioielli indiscreti» di Diderot, il «lui» di Moravia, il «protagonista» di Malerba. Nella resa artistica l’allegoria è certo rischiosa, e rischiosamente grottesca se sessuale; genera monotonia, sazietà, tanto più quando l’autore è posseduto, come l’Arsiccio, im-

placabilmente e feticisticamente, dal suo oggetto. Per questo è un’allegoria che va decifrata storicamente, non esclusivamente nelle sue implicazioni psicologiche personali, riportandola all’interno di una storia eterodossa di vicende intellettuali di cui essa segna forse il punto di partenza, fin troppo scandaloso e licenzioso per non essere cancellato. Ma fuori da rigide catalogazioni va anche giudicato il dialogismo della Cazzaria. Bisogna trascurare a questo proposito modelli di articolazione dialogica ben altrimenti elaborati, dagli albertiani Libri della famiglia al coevo Cortegiano, in cui lo scam-

bio delle opinioni è indispensabile e produce effetti di verosimiglianza tanto ambientale e sociale quanto caratteriale e fisiono-

mica. La Cazzaria è piuttosto un’opera di iniziazione all’uso indiscriminato della vita sessuale col supporto di una legittimazione filosofica svolta in chiave di razionalismo naturalistico. L’interlocutore è necessario perché quell’iniziazione si attui, non perché i suoi interventi collaborino a una dimostrazione conclusiva. Anche La Raffaella è un dialogo d’iniziazione erotica, con la differenza però che corre tra la messinscena di un rito accademico che vuole testimoniare di una raggiunta spre-

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giudicatezza d’opinione e di comportamento e il ritratto di un’esperienza in atto che fa della seduzione l’occasione di un mutamento e di un autoriconoscimento sentimentale. A distanza semmai s’intravedono altri riti d’iniziazione sessuale: la lussuria organizzata in regime dispotico delle /20 giornate di Sodoma, insomma il sistema di Sade. Ma per omologare su quel metro la filosofia dell’Arsiccio e la sua pratica sodomitica bisognerebbe elevare ad esponente l’edonismo immoralistico degli Intronati, tradurlo in Vizio, dargli il valore di un’entità sopraffattrice e capovolgere il senso attribuito alla natura, da Bene in Male. Il libertinismo accademico del Vignali vuole semmai professare un accordo con i disegni della natura. La fallocrazia della Cazzaria non è potenza distruttrice, è un principio d’energia che mira alla regolazione dei rapporti di forza nel pubblico e nel privato. A partire dal Momus di Alberti la cultura dell’umanesimo aveva acquisito come strumento di riflessione e di conoscenza la stravaganza dell’invenzione e dell'opinione. L’Arsiccio Intronato se ne serve fino a un limite estremo di insolenza impudica, come pure era inevitabile nel momento in cui una storia del corpo veniva a sostituirsi alla storia dello spirito e un razionalismo genitale tentava di far valere le sue argomentazioni. Eppure la finalità era nella cultura del tempo comune, benché già forse inattuale: per doxa o paradoxa, si collaborava ancora a un progetto laico di civile conversazione. [Introduzione a La Cazzaria, testo critico e note a cura di P. Stoppelli, Edizioni dell’Elefante, Roma

1984; riprodotta in parte nella tradu-

zione tedesca dell’editore K.G. Renner, Monaco 1988.]

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3 - MORFOLOGIE NEL TEATRO

DEL COMICO

DEL CINQUECENTO

In un confronto multilaterale sulla commedia e la comicità nell’Europa del Cinquecento è d’obbligo richiamare l’attenzione sul primato dell’Italia: un primato forse più tacitamente accettato che verificato nelle sue premesse culturali e nei suoi sviluppi formali. Non si tratta di rinnovare, come ai tempi in cui gli studi comparati potevano servire talora a questo scopo, pretesti per accademiche rivendicazioni d’orgoglio nazionale. Ciò che qui è in gioco è piuttosto la questione tutt’altro che incidentale delle origini e delle successive storie (resta da vedere se convergenti o divergenti) del teatro moderno. Infatti le fondazioni europee del teatro moderno — credo che ormai questo sia un dato non revocabile — furono poste in Italia e nel Cinquecento. La prima civiltà teatrale dopo l’antichità classica, nel senso di un insieme di elementi spettacolari che restituiscano l’immagine epocale di una cultura e più specificamente drammaturgici, relativi a una prassi e a una teoria del teatro, è quella che si sviluppa in Italia nei primi decenni del secolo xvi, a un’altezza cronologica del Rinascimento in cui quella civiltà appare nella sua pienezza e si rivela con tutti quegli aspetti formali che ancora oggi la fanno riconoscibile. Che cosa caratterizza intanto quell’epoca in quanto civiltà teatrale? Un crescente interesse storico-critico ed anche scenico per quella esuberante stagione (paragonabile, fuori da ogni confronto circostanziato, all’età elisabettiana) ci ha ormai messo al riparo dalle classificazioni più riduttive della drammaturgia rinascimentale, paralizzanti soprattutto nei confronti di un genere particolarmente inventivo, come la commedia. I tempi della scuola storico-positiva sono passati, e il suo fondamentale contributo d’erudizione e di filologia è stato acquisito; ma sono cambiati, come era necessario, i modi di interpretazione. Il vincolo esclusivo dell’imitazione dell’antico è stato rimosso e l’oriz98

zonte dei modelli e delle esperienze si è allargato, con la conseguenza di un riconoscimento d’originalità per un repertorio che appare sempre meno uniforme via via che le acquisizioni aumentano. Ma su alcune premesse conviene porre meglio l’accento. Su questa, intanto. Il Rinascimento è la prima epoca della storia del teatro moderno in cui si stabilisca un rapporto tra autore e pubblico. Perché il teatro si qualifichi come una realtà artistica e nello stesso tempo sociale è indispensabile che questo rapporto si istituisca e che si qualifichi nel confronto tra tradizione e innovazione: in un’esperienza che è insieme letteraria e linguistica, quindi istituzionale, e che ha la sua verifica nella dimensione del sociale, cioè appunto nel rapporto dell’autore col pubblico. Nessun'altra esperienza artistica ha forse come il teatro un’analoga possibilità di verifica. Neppure nella nostra epoca — l’epoca della «riproducibilità tecnica», dell’opera d’arte riprodotta — cinema e televisione con tutti i loro meccanismi di valutazione quantitativa, indici d’ascolto e di frequenza, possono trasmettere una sensazione altrettanto reale del rapporto tra autore e pubblico, come del resto tra il livello della norma linguistico-letteraria e lo scarto dell’innovazione indotta proprio dal teatro per la pressione interlocutoria che il testo drammatico, comico soprattutto, esercita dalla scena e la successiva inci-

denza sugli standard letterari. Da questo punto di vista la civiltà teatrale del Rinascimento, e in particolare del Cinquecento, non solo reintroduce, dopo le grandi stagioni classiche greca e romana, l’esperienza sociale del teatro, ma produce una drammaturgia nuova; vale a dire la serie di generi canonici che hanno costituito a lungo il codice della cultura teatrale internazionale. Si sa come si articola la drammaturgia a partire dal Cinquecento: commedia, tragedia, tragicommedia, favola pastorale, melodramma... L’Europa è di fatto invasa dalle forme del teatro italiano cinquecentesco. Esse molto più tardi — ormai alla fine del Settecento — verranno messe in crisi teoricamente oltre che nella prassi, dove la crisi si manifesta molto prima. L’iniziativa ha un’eccezionale rilevanza storica. Infatti, essa s’iscrive

in un processo di mutamento della cultura che comporta una più generale messa in crisi del rapporto tra passato e presente. 99

Tutto questo matura nell’orizzonte di quella cultura che chiamiamo Romanticismo. Ma fino a quell’età, e poi per certi aspetti oltre quell’età, le forme che resistono sono quelle del teatro rinascimentale. E basti pensare alla grande fortuna del melodramma. Ciascuna di queste forme ebbe una specifica funzione: creò il genere, ed esso col suo specifico linguaggio drammaturgico venne trasmesso a tutti i nascenti teatri europei almeno finché, nel 1808, A.W. Schlegel nelle Vorlesungen iiber dramatische Kunst und Literatur affrontò il problema del teatro antico e moderno e modificò il rapporto tra passato e presente, mettendo anche in crisi la specificità dei generi. Ma quelle forme non erano una tradizione inerte. Con lo schema classicistico esse erano portatrici di un principio di concorrenza attiva tra tradizione e sperimentazione. Si può dire, nonostante il Barocco, che fino alle soglie del

Romanticismo la cultura europea si sia espressa nella sua varietà restando dentro l’orizzonte del classicismo. Ma la ricchezza di motivazioni con cui il classicismo matura proprio dall’interno dell’Umanesimo è tale da consentire alle tendenze più sperimentali, e finanche marginali, di intaccare gli stessi suoi principi. Fondamentalmente, però, esso è il linguaggio comune su cui l’Europa fissa le sue interrelazioni d’arte e di cultura. E conviene ricordare che nel suo movimento d’espansione europea il classicismo parte dall’Italia e giunge alle altre nazioni del continente, mentre è l’Europa, poi, che restituisce all’Italia quella cultura. Sicché l’Italia, importando quanto di creativo aveva già esportato, congela la sua tradizione e affronta in ritardo la crisi del sistema classicistico rischiando di ritardare anche la formazione di una cultura moderna. La vicenda del classicismo coinvolge anche quella del teatro. Ma la fortuna della commedia italiana cinquecentesca è argomento troppo vasto per non essere lasciato alla competenza delle indagini settoriali, nei singoli ambiti linguistici territoriali. Voglio solo mettere l’accento su un fenomeno che forse non è stato sufficientemente

valutato, cioè sull’interferenza

e sulla

mediazione del cosiddetto teatro professionistico. Cosa intendiamo per teatro professionistico? Quando parliamo di teatro rinascimentale, ci riferiamo fondamentalmente a un teatro di corte o di città, comunque a strutture e modalità d’organizzazione che, se non sono propriamente riferibili a iniziative di di100

lettanti, certo non hanno i caratteri del professionismo teatrale. Quest'ultimo è definibile sul valore economico che uno spettacolo assume in relazione al pubblico che paga lo spettacolo o al committente che lo offre. Il teatro professionistico è lo spettacolo dell’attore, grande protagonista del «teatro teatrale», assolutamente autonomo, vale a dire, storicamente, della commedia

dell’arte. La commedia dell’arte genera da una parte la mortificazione del cosiddetto teatro letterario o di parola (detto sbrigativamente, l’avvento dell’attore stabilisce subito un codice scenico fondamentalmente mimico che può essere facilmente acquisito senza particolari sforzi di acclimatazione linguistica), ma esalta, dall’altra, il teatro all’italiana creato dalla tradizio-

ne drammaturgica rinascimentale. E commedia all’italiana si chiamerà d’allora in poi la commedia dell’arte, cioè della professione istrionica, degli attori. È necessario studiare meglio gli itinerari e i contatti dei comici in Europa per circa due secoli, dalla fine del Cinquecento a metà del Settecento, per capire in che modo il teatro professionistico espande, pur mortificandolo nella sua preminente funzione verbale, il grande teatro di parola che si era sviluppato in pieno Rinascimento. Per conto mio non potrei andare oltre ad alcuni sondaggi che ho fatto personalmente, per esempio sugli itinerari di Tiberio Fiorilli detto Scaramuccia, l’attore più famoso con Domenico Biancolelli, detto Dominique, tra quanti operarono in Francia nel Seicento.' Proprio in Francia fu determinante la presenza di Scaramuccia. Pur nella sua inconsapevolezza letteraria, l’attore Fiorilli agì in maniera efficace nel determinare gli orientamenti del teatro comico dell’età classica, di Luigi xrv. E basti pensare al rapporto Fiorilli-Molière. Se si prende il Recue:! compilato dall’Arlecchino Evaristo Gherardi (Le 7héatre ou Le Recueil général de toutes les Comédies et Scènes frangaises jouées par les Comédiens italiens du Roy, 1701), quella grande raccolta di canovacci e commedie ci consente di recuperare una massa di testi sia nella loro linearità, nella loro scrittura, sia nella ricostruzione degli spettacoli che Gherardi era in grado di fare attraverso la memoria pubblica che se n’era conservata e la sua memoria personale che, come risulta da molti luoghi del Recuezl, doveva essere vivissima. Quella raccolta è nello stesso tempo il documento di un teatro del passato e la testimonianza delle nuove esperienze 101

del teatro professionale, dell’affermazione del teatro teatrale, spericolato, libero dai vincoli, dall’egemonia della parola. Inoltre quella raccolta testimonia ancora del fatto che la commedia

dell’arte, almeno nell’epoca di Luigi xrv, non avrebbe raggiunto i risultati che il pubblico e la cultura dell’epoca le riconosceva, e la storiografia poté poi confermare sui residui documenti, se non ci fosse stata un’intensa collaborazione tra l’attore italiano e il nuovo teatro comico francese: la collaborazione che si sviluppò nel contatto stretto, nello stesso edificio teatrale, tra Scaramuccia e Molière, tra una scuola viva di recitazione e il laboratorio scenico di un autore-attore. Quei testi certamente ereditano un passato italiano ma trasmettono anche un presente francese, e probabilmente in prospettiva delineano un futuro che arriva fino a Goldoni. Una storia, dunque, delle forme teatrali del Cinquecento,

che non sia solo esemplificata sui testi letterari ma tenga conto delle esperienze complementari e dei processi reali che sulla scena definiscono via via nel tempo quel fenomeno complesso che è il teatro, ci induce, da una parte, a fissare un inizio e a

precisare i caratteri originari e costitutivi di un’esperienza multilaterale, dall’altra, a valutarli nel loro mutamento storico. In

altri termini, essa ci porta a cogliere quello che resta del teatro di una volta, delle origini del teatro moderno, valutabile nei percorsi effettivi che un teatro compie fuori dagli scrittoi e dalle accademie attraverso la sua incarnazione scenica, ovvero del-

l’attore in scena. Il percorso di Tiberio Fiorilli, tardo rispetto al limite secolare di questa nostra esplorazione, è comunque indicativo dell’avvenuto congiungimento della linea portante italiana alle altre linee che disegnano il diagramma del teatro europeo, non soltanto francese. Ma, come è stato possibile che determinate forme fiorissero entro una civiltà teatrale, e nella coincidenza sostanziale, di cui abbiamo parlato, tra prassi e teoria? Non faccio qui riferimento alla precettistica più normativa e neppure alle discussioni di merito, cioè di stile, di lingua, di etica e di ideologie, di poetica insomma che l’attività drammaturgica via via produce. Mi riferisco ad un accordo complessivo tra l’immagine del mondo (imago mundi) quale si elabora nel pensiero di un’epoca, e l’im-

magine del mondo quale si manifesta di fatto sulla scena. Come sarebbe stato possibile questo accordo senza lo schema co102

noscitivo dell’Umanesimo, della ritrovata Aumanitas, antagoni-

stico allo schema teocentrico della divinitas, proprio del pensiero medievale? L’humanitas sarà l’insegna dei teatri del mondo, come quella che era incisa sul più celebre oggi per noi, perché reso famoso dalla presenza di Shakespeare, il Globe di Londra: «Totus mundus agit histrionem». Il che doveva significare che il mondo provoca l’istrionismo, la necessità del teatro, ma che nello stesso tempo la scena è l’immagine del mondo, è specchio di vita. Il rispecchiamento mondo-teatro è tipico della visione umanistica. Mundana scaena era per gli umanisti il mondo: e inversamente il teatro poteva condensare, col procedimento che è proprio della rappresentazione in quanto simbolo, i sensi della vita, che il mondo, manifestandosi in un ventaglio di accadimen-

ti, può offrire ma non raccogliere e coordinare. Quanto alla commedia, è anche una scoperta umanistica che il quotidiano, il mediocre, finanche il basso, comunque l’antisublime, non sia

affatto un modo degradato di rappresentare il mondo, anzi è in un certo senso la più rischiosa e avventurosa delle rappresentazioni del mondo, appunto perché il sublime delimita un’eccezionalità, mentre il mediocre dà il ritmo del vissuto. La tragedia è l’azione alta, di personaggi elevati, la mimesi del destino di potenti, la commedia è la mimesi del quotidiano. E l’avventura del quotidiano non è forse l'avventura dell’arte moderna, che passa attraverso il romanzo e incorpora la poesia — anche col paradosso, tipico della poesia moderna, di un linguaggio sublime che deve adattarsi ai contenuti sentimentali dell’idillio o alla condizione antieroica del soggetto lirico? I percorsi di questa vicenda sono infiniti, ma si può affermare che essi hanno a che fare sempre con la vicenda della commedia. Il destino del personaggio romanzesco è imprescindibile da una qualificazione comica o umoristica. Mentre sul versante tragico non è altrettanto riconoscibile un processo di interrelazione; e mondo e teatro restano incomunicabili, come l’assoluto dei destini ecce-

zionali è incompatibile col relativo dell’esistenza quotidiana. Dunque, senza lo schema umanistico, senza la dimensione «mediocre» dell’humanitas contrapposta a quella sublime della

divinitas, il mondo non sarebbe entrato nella scena e la scena

non sarebbe entrata nel mondo. Il che poteva comportare l’assorbimento di una tematica dell’umanesimo che era stata fino 103

ad allora poco valorizzata. Il tema, per esempio, della variabili tà, che si fa poi coscienza della apparente volubilità delle cose. Il principio umanistico della variabilità del mondo, cui aderiscono Ariosto e Aretino, quando entra in rapporto con la ricer-

ca di certezze nuove nel Rinascimento declinante, e in particolare con lo schema gnoseologico, addirittura cosmologico, che Giordano Bruno traduce nell’inquietante comicità del Candelato, diventa avvertimento di un inganno, coscienza di un’apparenza; e la commedia a sua volta diventa mimesi di un mondo apparente. A questo punto la commedia del mondo, mentre mobilita tutte le forze del ridicolo per inscenare la farsa della volubilità e vanità umane, ci indica che altrove, in una dimen-

sione in cui il pensiero si fa partecipe del divino, c’è un principio di stabilità, e intanto, sul piano della rappresentazione del mondo, ci consente di staccarci dalla vanità delle passioni umane, di coglierne la pazzia. Il tema della pazzia, che nell’Or/ando Furioso, in versione epi-

co-romanzesca, aveva trovato la sua formulazione artistica più piena, entra nella commedia, e la commedia è insieme rappresentazione della pazzia e denuncia della pazzia. L’idea-forza del Rinascimento, l’humanitas, attraversa a questo punto i vari momenti di un’avventura dell’Umanesimo che è anche quella dei movimenti intellettuali meno ufficiali: del libertinismo, del-

l’evangelismo, del pensiero eterodosso, a partire da Leon Battista Alberti e poi attraverso Erasmo fino agli eretici e utopisti, fino a Bruno, ormai ai limiti estremi e fatali del Rinascimento.

In ambito più strettamente teatrale il tema della pazzia — anche nel senso dell’elogio erasmiano — comporta la nobilitazione del giullare, del foo/. L’accademia, che autorizza la comme-

dia come genere letterario, incorpora il giullare con tutto il carico della sua imprevedibilità oscena diabolica carnevalesca e lo eleva di grado inserendolo nel rapporto, che la commedia rinascimentale appunto istituisce, tra il mondo qualificato e stabile della cultura e quello quotidiano e imprevedibile del vissu-

to: nello spazio della città, proprio del teatro comico. Lo spazio è il dato fondamentale per il riconoscimento dell’evento teatrale. A mio parere esso non si costituisce unicamente quando noi lo vediamo visibilmente figurato nella scena. C'è un'istanza drammatica (e spaziale) del testo che preme sulla nostra attenzione di lettori e agisce mentalmente su di noi per104

ché quel testo sia proiettato dentro uno spazio, a teatro. Non abbiamo bisogno d’andare a teatro per immaginare che cosa è

uno spazio teatrale. Ma certo la messinscena è un’azione complessiva che ci fa riconoscere fisicamente ciò che abbiamo intuito o creduto di percepire mentalmente; attualizza la parola nei rapporti interpersonali e interstrutturali instaurati appunto dal teatro in quanto scena. Ma, storicamente, lo spazio del teatro moderno è nato dallo spazio della commedia rinascimentale, la scena italiana, vale a dire dalla prospettiva. La scena italiana prospettica, all’aperto, praticata ovviamente non senza eccezioni, costituisce lo spazio simbolico di una simulazione, oltre che di una mimesi, del reale. Lo spazio della scena rinascimentale indica comunque un rapporto con la città, ma anche con il potere; stabilisce in altri termini le dimensioni cittadine della commedia, dà alla commedia un aspetto ben preciso che è definito dal contesto urbano, reale e simbolico, in cui converge una peripezia — tanto più se questa non riflette unicamente un’avventura, isolata, personale, ma è la peripezia di una categoria o classe, della borghesia, colta appunto nel suo vissuto quotidiano. Ma vorrei venire all’argomento più specifico, alle morfologie del comico. E mi richiamo al fatto che nel 1508 fu rappresentata a Ferrara La Cassaria di Ludovico Ariosto, indicata generalmente come l’evento scenico inaugurale, la nascita della commedia nuova: della commedia che poi fu chiamata, senza sua colpa, «erudita». Nei termini vulgati da un saggio di metodologia storiografica di H.R. Jauss, potremmo dire che la rappre-

sentazione del 1508 stabilisce un tipico «orizzonte d’attesa». Infatti, per giungere a quell’evento scenico c’era già stato un pubblico che, pur addestrato a rappresentazioni d’impegno scolastico e anche cortigiano non aveva ancora avuto occasione di

assistere a uno spettacolo che rivelasse la nuova forma, la forma commedia di una civiltà teatrale ormai matura. Ariosto attua questa forma in linea con le aspirazioni di quel classicismo militante dei primi decenni del Cinquecento che va distinto dal classicismo trionfante della seconda metà del secolo, in quanto impegnato a dare corpo a un’immagine della cultura rinascimentale che si era concettualmente affermata ma non ancora sviluppata pienamente come esperienza e modello della civiltà letteraria del volgare. Nell’ambito di questo classicismo militante, o d’avanguardia, Ariosto ripristina e attualizza le forme 105

antiche della commedia, come modelli di valore insieme rappresentativo e conoscitivo. Per comprendere questo intreccio di nuovo e di antico ed anche di rappresentazione sensibile e contenuti significativi, giova il concetto di «forma simbolica» introdotto da Ernst Cassirer e utilizzato soprattutto dagli storici dell’arte del Warburg Institut per l’iconografia, più in particolare da Erwin Panofsky, il quale l’ha adattato alla prospettiva pittorica, con le conseguenze che ne discendono anche per il teatro, essendo la prospettiva un elemento fondamentale, e non solo visivo, della drammatur-

gia rinascimentale. Acquisendo la nozione al teatro, possiamo dire che la fabula latina è nella riproposta semantica del Cinquecento una forma simbolica, attraverso la quale «un particolare contenuto spirituale viene connesso ad un concreto segno sensibile e intimamente identificato con questo». Sono le parole con cui Panofsky definisce la forma simbolica della prospettiva. Il modello plautino-terenziano può essere in questo senso perfettamente attualizzato e si può indicare a questo punto la morfologia con cui si realizza quello schema. Ne elenco qui le componenti fondamentali: 1) La scena unica, visualizzata come scena urbana, cioè come dimensione cittadina e borghese. (Tuttavia, rispetto all’antica, la scena rinascimentale è particolareggiata nella sua proiezione pittorica e poi plastica: cioè non è un contenitore standard, come lo spazio rappresentativo proposto dai teatri dell’antichità: è una scena che senza essere tutta realisticamente determinata, apre uno spazio sensibile dentro il quale agisce il personaggio e si manifesta la situazione). 2) La divisione del testo teatrale in scene e atti. Si tratta di procedimenti di comodo. Ogni scena si definisce per inquadrare le presenze dei personaggi, secondo una partizione che resta invariata fino agli scenari cinematografici. E quanto alla divi-

sione in atti, va ricordato che essa fu introdotta più tardi rispetto alla prassi della fa/lata, per una prescrizione dell’Ars poetica di Orazio, secondo la quale il testo teatrale non doveva essere superiore né inferiore ai cinque atti. La norma forse fu accolta con spirito scolastico dai commediografi del Cinquecento per la commedia regolare (mentre la farsa è in tre atti e il dialogo è un atto unico), ma consente l’integrazione della vicenda comica nella festa. Non dimentichiamo che la commedia non è un

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evento scenico isolato; è iscritto nella festa, e la festa non è di per sé un’azione ma un avvenimento, che nella versione rinasci-

mentale prevede qualcosa di più dei cantica della palliata: inter-

mezzi musicali e danzati con apparati scenografici sempre più vistosi. Il che significa recupero di una totalità spettacolare,

della totalità dello spettacolo rinascimentale. Basti pensare quale importanza avessero acquistato a Ferrara, già nel Quattrocento, la pratica e la teoria della danza e a Firenze nel secondo Cinquecento la messinscena degli intermezzi donde s’origina la stagione barocca del melodramma. 3) La situazione. È il momento in cui si instaura e poi si articola il conflitto drammatico, che nello schema plautino si concentra nel conflitto generazionale tra vecchi e giovani e conseguenti ostacoli all’amore ed equivoci da rimuovere. 4) La tipologia. Il catalogo di base prevede in prima istanza una distinzione sociale tra servi e padroni non necessariamente in opposizione, poi gli éthe, i caratteri, disegnati in funzione di una morale e di una psicologia aderenti all’opinione comune: giovani innamorati e vecchi anch'essi innamorati (e perciò disapprovati e derisi), cortigiane e più raramente donne di altro stato, parassiti, soldati, straccioni.

5) La struttura verbale. È questo il dato supremo della elaborazione drammatica, e potremmo dire poematica, del testo teatrale. La tecnica della fa/liata viene restaurata nel teatro in volgare col suo sistema di battute incrociate per la mimesi del parlato e insieme come occasione di creazione linguistica. Il teatro è infatti creazione linguistica. Tale era in Plauto, e come tale è un’occasione che i commediografi del Cinquecento non vogliono perdere. Ma, oltre che del parlato, esso è anche mimesi del pensato, nei soliloqui, negli a parte. Il confronto tra la scrittura drammaturgica del Cinquecento e quella dell’età che sta a ridosso, dei tardi decenni del Quattrocento, quando declinava il teatro umanistico e si manifestava come un eccezionale esemplare di tragedia, profana e mitologica, l’Orfeo del Poliziano, mostra subito un dato significativo: la commedia del Cinquecento si istituisce linguisticamente scavalcando le esperienze pregresse, compresa quella del Poliziano (che, con la sua alternanza di canto amebeo e monologo non dava vita a un intreccio drammatico in senso vero e proprio) e si ricongiunge al modello latino. 107

Tuttavia questo è soltanto lo scheletro, è la morfologia ossea della commedia del Cinquecento. È stato detto a proposito delle arti visive e della triade Brunelleschi-Masaccio-Donatello che il Quattrocento compone lo scheletro della grande arte rinascimentale,

mentre

il Cinquecento,

a partire dalla nuova

triade Raffaello-Bramante-Michelangelo, vi aggiunge la carne e ne perfeziona il corpo. È naturalmente uno schema che vale come pura metafora. Ma, se pensiamo al teatro, questo confronto diventa un dato verificabile. Perché di fatto, nella mor-

fologia del teatro comico del Rinascimento, la forma che abbiamo chiamato simbolica, plautina e terenziana, resta uno scheletro, mentre la sostanza narrativa e verbale viene colta altrove, proviene in altri termini da un grandissimo modello, dal

Decameron di Giovanni Boccaccio. A questo punto si dovrebbe aprire un capitolo particolare di questa storia teatrale, che invece chiudo subito rinviando ad alcuni interventi da me fatti in altre circostanze sul «Decameron» come teatro e sulla commedia del Cinquecento come «Decameron» teatrale del Rinascimento.® Indico rapidamente la trasformazione di questa morfologia plautina per interferenza decameroniana. Partiamo dal prologo. Questo momento preliminare dello spettacolo si trasforma dall’interno dopo che Boccaccio aveva sottolineato che un rapporto privilegiato, e di complicità, si istituisce nella letteratura «amena» con il pubblico femminile. Le donne diventano l’interlocutore immediato e complice di un movimento che va dalla scena alla sala o platea, e il prologo diventa un numero teatrale a sé; ha ben poco a che fare col prologo plautino, semplice cafptatto o dichiarazione di fonti o sintesi anticipata dell’argomento; diventa un numero vertiginoso per effettismo verbale e anche mimico e incamera l’estrosità della giulleria medievale, la quale era già entrata nel Decameron ricostituendosi come esperienza di linguaggio. Anche la situazione, di cui abbiamo parlato, e che è fondamentalmente determinata dal contrasto vecchi-giovani, si trasforma in vicenda, storia, addirittura talora in romanzo. Così il fatto rinvia a un an-

tefatto, la scena allude a un retroscena. E questo significa fondazione del personaggio. Il personaggio a teatro è inconcepibile se noi non immaginiamo alle sue spalle una storia. Nel momento in cui il personaggio arriva sulla scena (e forse non c’è bisogno, per renderci con108

sapevoli di questa realtà, del chiarimento paradossale fornito da Pirandello con i Sei personaggi in cerca d’autore) c'è una storia che deve essere rievocata, e per rievocarla è necessaria la voce mediata di un autore. Ora, tutto questo è già avvenuto quando la commedia del Cinquecento, per esempio con La Mandragola di Machiavelli, ha introdotto il personaggio. A sua volta, però, il personaggio rinvia a una più generale tipologia, arricchita rispetto a quella canonica plautina dagli incrementi della caratterizzazione sociale, regionale e nazionale e volta spesso in satira e caricatura.

La tipologia ci immette infine nel problema del linguaggio: in una dimensione linguistico-espressiva che non è più omologabile sullo schema delle sticomitie o dell’incrocio di battute tipiche della grande verve plautina. Essa va recuperata nei termini della nuova invenzione verbale e mimica, propria della fraseologia boccacciana e manifestamente rivelata dal dibattito sulla preferenza da accordare al verso o alla prosa, con predominio in commedia di quest’ultima in quanto riproduzione o simulazione più prossima del parlato. Gli interlocutori della commedia latina giocano prevalentemente allo scoperto; l’equivocità è espressa e dichiarata. Questo non avviene nella commedia del Cinquecento dove il gioco, generatore del ridicolo, si svolge a carte coperte, con la complicità del pubblico, come si giocava a carte coperte all’interno del grande repertorio del Decameron. L’effetto si sviluppa proprio su questo crescendo di ambiguità, doppi e tripli sensi, su un gioco che spesso (si veda il repertorio cinquecentesco più beffardo, di Machiavelli, Aretino, Ruzzante) non si scopre neppure alla fine, nella pacificazione conclusi-

va del lieto fine. Nasce così il grande linguaggio comico, che si trasmetterà anche all'Arte, e da lì anche a Molière e alle ingegnosità shakespeariane. Esso è fondato su un codice di incomunicabilità, inaugurato dalle coppie comiche del Decameron, fatto proprio dalle coppie servo-padrone, furbo-sciocco, pedanteignorante della commedia, e consegnato fino ai nostri giorni al cabaret, al circo, al varietà, infine al cinema e alla televisione.

Il rapporto sfalsato dei linguaggi, le parole ridicole e in maschera, producono il riso per effetto di una distonia piuttosto che di una sintonia, con la conferma appunto della loro incomunicabilità. Il Decameron, però, significava ancora di più per il teatro. La 109

nuova commedia, infatti, dura quanto dura il Decameron nella

cultura del Rinascimento, quanto dura addirittura il rapporto stretto tra significato e significante dentro quella cultura. Quando la cultura ufficiale dell’Italia controriformistica, tri-

dentina, comincia a censurare il Decameron la borghesia non può più riconoscersi nella forma commedia come in uno specchio in cui si osserva e nello stesso tempo si giudica o critica. Era inevitabile che tutto questo avvenisse. Il grande gioco beffardo della commedia era improntato al Decameron. Censurato il testo di Boccaccio, contrastata la via del comico decameroniano — spregiudicatamente irridente, erotico, osceno, anticle-

ricale, infine libertino —, per un meccanismo di difesa ludico e culturale il teatro destituisce di significati responsabili l’azione scenica e sviluppa le infinite possibilità dell’arbitrio comico, perfeziona nel vuoto dei contenuti il grande gioco. È la fondazione del teatro del professionista, dell’attore che si affranca dall’autore, cioè dal responsabile coordinatore del gioco. L’attore libera il significante, lo porta lontano dall’Italia. E tocca a noi, eredi di questa storia, di questa vicenda di trasformazioni teatrali, riconoscere nel teatro del significante la memoria di un significato intimamente legato alla grande stagione del Decameron teatrale, e perciò dello spettacolo comico del Cinquecento, italiano ed europeo.

NOTE

1 Cfr. più avanti, in questo volume: Percorsi della commedia dell’arte: Scaramuccia da Napoli a Parigi. 2 Sono raccolti nel volume Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal «Decameron» al «Candelaio», Roma

1974.

[In «Studi di letteratura francese», vol. 177, 1983, pp. 7-18 (dedicato a «Commedia e comicità nel Cinquecento francese e europeo»)]

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4 - L’EROS

IN SCENA.

NOTA

SU «LA VENEXIANA»

Non saprei dire se altre letterature, quanto meno in Europa, possono contendere alla letteratura italiana il primato dei capolavori recuperati, e neppure se questo sia poi un primato di cui ci si possa vantare, e non invece la testimonianza di una secolare disattenzione e, peggio, di colpevoli pregiudizi. Annotava Antonio Gramsci nei Quaderni del carcere: «Il modo di giudicare la letteratura del Cinquecento secondo determinati cànoni stereotipati ha dato luogo in Italia a curiosi giudizi e limitazioni di attività critica che sono significativi per giudicare il carattere astratto della realtà nazionale-popolare dei nostri intellettuali. Qualcosa ora sta cambiando lentamente, ma il vecchio reagisce».' La nota prendeva spunto proprio dalla scoperta nel ?28 dell’anonima Venexiana® e dei primi effetti prodotti dallo scoppio ritardato di quel testo imprevedibile, per il momento riservato dal suo scopritore, l’infaticabile segugio di testi veneti Emilio Lovarini, agli eruditi, ai pochi lettori della «Nuova scelta di curiosità letterarie inedite e rare». La vigilanza giacobina che Gramsci esercitava dietro le sbarre sulla pubblicistica accademica e militante aveva posto il dito su un articolo della «Nuova Antologia» dove lo storico ed editore della commedia italiana antica di più estesa competenza, Ireneo Sanesi, mostrava il suo disappunto per un’opera non riducibile negli schemi del teatro erudito da lui stesso ribaditi e irrigiditi, e perciò le applicava un cartellino di commedia in svendita, fuori moda, di taglio novellistico medievaleggiante, quando invece i modelli della drammaturgia plautina furoreg-

giavano in corti e accademie.’ A disagio negli inquadramenti categoriali del Sanesi s’era trovato anche Ruzzante, la rivelazione più entusiasmante del teatro del Cinquecento, l’autore-attore in fama di «divino» ai suoi tempi, poi lasciato in giacenza nelle grandi riserve della letteratura dialettale. «È interessante notare — osservava anco111

ra Gramsci — questo doppio filone del ‘500: uno veramente nazionale-popolare (nei dialetti, ma anche in latino), legato alla novellistica precedente, espressione della borghesia; e l’altro aulico, cortigiano, a-nazionale, che però è portato sugli scudi dai retori». La forzatura sociologica, e più ancora politica, è evidente in queste provvisorie conclusioni. Ma conta di più oggi registrare l’effetto Venexiana su un nesso di problemi gramsciani destinato a grande fortuna postuma, in cui la questione della lingua (perfino la rivalutazione del latino) s’intreccia con quella degli intellettuali e con le proposte di letteratura nazionale. Del resto, anche i Quaderni del carcere vanno segnati sul conto dei recuperi, magari a distanza ravvicinata nel confronto con altri capolavori del Cinquecento non necessariamente dialettali: i Ricordi di Francesco Gucciardini e la Vita di Benvenuto Cellini, per limitarci a vere scoperte piuttosto che elencare tante riesumazioni antiquarie. Nella critica, sul momento, La Venexiana produceva altri ef-

fetti, oltre il risentimento del Sanesi e il pronto intervento di Gramsci, e prima della sua fortuna sulle scene a partire dal 1940. Per esempio, per il vantaggio che ne trasse subito, nel ’30, Benedetto Croce con la cattivante discorsività del suo celebre saggio, Intorno alla commedia italiana del Rinascimento,' dove La Venextana veniva a confermare le ragioni teoriche e critiche del suo fastidio per le schedature categoriali e i ristagni‘ storiografici. Di là dalle contrastanti valutazioni, il testo ritrovato entrava

nel patrimonio della più florida età del teatro italiano e lo incrementava proprio in forza della sua irregolarità. E forse era presto per affermare più radicalmente la funzione preminente degli irregolari per il recupero moderno della commedia classica, detta regolare: Aretino e il Machiavelli della Mandragola, oltre a Ruzzante e all’Ignoto veneziano (o veneto?) autore de La Venexiana, infine Giordano Bruno.

Prese corpo quella rivendicazione negli anni cinquanta, in piena stagione gramsciana della storiografia marxista, anche teatrale, e contribuì al revival del repertorio cinquecentesco, offerto d’allora in poi all’avidità crescente di critici filologi registi teatranti.’ Nell’interpretazione e sulla scena l’invadenza del dialetto, del plurilinguismo, dell’immoralismo decameroniano,

del comico carnevalizzato cominciò ad esercitare un potere di suggestione molto più forte della forma aristotelica, spaziale e 112

temporale, e dell’ideologia classicistica che si sforzava di contenerla. L’irregolarità è così diventata l’istanza espressiva della commedia a specchio di una natura che quel contenitore prospettico esasperava, e non solo per le sollecitazioni incontenibili e deformanti del riso. Ma rispetto a quel modello La Venexiana esibisce un di più di irregolarità: insomma proprio la sua estraneità. I punti di contatto col modello in verità sono deboli: la distinzione in cinque atti, facilmente alterabile quando la scansione non era (come non è più ora) iscritta nel tempo di una festa riempito da canti, musiche e balli, oltre che dallo sviluppo scenico di una storia; l’interdipendenza tra servi e padroni, ineliminabile per la verosimiglianza di un gioco scenico che si realizza solo attraverso mediazioni e complicità sociali (ma in questa trama di amori incrociati il protagonista, Iulio, è solo, indifeso, e infatti monologa). Tutto il resto imprime alla Venexiana un marchio di illegittimità scenica che neppure un eventuale accertamento di paternità potrebbe toglierle. La fabula è, come è stato generalmente notato, una tranche de vie, un momento narrativamente irrelato, anziché una vicenda

d’amore alterata e poi ricomposta nell’ordine naturale e sociale, oppure una trama da beffa. Che un giovane straniero arrivi

in città e determini un contagio erotico, o un’occasione di burle ai danni del suo provincialismo, della sua incauta disponibilità di innamorato, è una situazione novellistica tipica della commedia rinascimentale. Nella Calandria un giovanetto greco in abiti femminili fa smaniare e godere una gentildonna romana malmaritata; nella Mandragola un parigino riscatta con la complicità dello stesso marito la sensualità repressa di una sposa fiorentina; nella Cortigiana un messer Maco senese, arrivato a

Roma in cerca di affermazioni amorose e cortigiane, diventa la vittima di un pittore spietatamente beffardo. Ma la situazione è, a sua volta in funzione di un mutamento che ingloba una morale comica: le nozze finali, la correzione o condanna di una deformità, come la foia senile e, al contrario, il compimento

dell’amore dei giovani insoddisfatto. L’Ignoto lascia invece interrotta ai preliminari di un rischioso convegno l’avventura veneziana di Iulio, passato dalle braccia di una domina «vidua» matura e impaziente a quelle di una domina «nupta» più giovane e risentita. La trama si identifica con i due momenti delLS

l'avventura e si chiude in faccia allo spettatore al chiudersi del-

la camera da dove, supponiamo, Iulio uscirà all’alba, dopo una

seconda notte d’amore, pronto a recitare un precipitoso addio a Venezia, fattasi ora per lui troppo minacciosa. Ma un valete et plaudite l’autore per tramite suo o di altri non potrebbe chiederlo, per ubbidire al rito della commedia. Letta nella chiave fornita dal prologo, La Venextana dovrebbe essere piuttosto una «moralità», l’exemplum forse ispirato a un piccante scandalo aristocratico, messo a nudo non senza malizia antiveneziana (come suggerisce una stringente inchiesta di

Giorgio Padoan),° comunque presentato come correttivo degli incoercibili effetti dell'amore sul «femineo sexo» fatalmente offuscato dai sensi per la «parvità del suo intellecto». In questa chiave di lettura il maschio conteso appare invece viziato da un’eccessiva inclinazione a quella dolce vita che egli cerca di propiziare chiamando in causa, al suo apparire in scena, Dio stesso,

e che Bernardo, il sentenzioso facchino, giustifica come

aspirazione generale: «A’ ’1 nol gh’è om ch’a’ nol gh’ plasi “vita dulcedo”». Ma anche la sua disponibilità intellettuale è eccessiva; contrassegna la sua ricerca del piacere come una prova («Lo experimentar è cosa bellissima per aver avvantaggio in cognoscer» )che asseconda i capricci di una fortuna «sempre viziata, or avara, or prodiga» e impone quelle cautele che lo fanno andare agli appuntamenti d’amore ridicolmente corazzato, come un cavaliere in cerca del Graal. Ma anche le regole della «moralità» erotica sono in questo dramma sconvolte. Contrariamente a quanto avviene nella Celestina, il grande incunabolo del teatro spagnolo conosciuto in traduzione italiana dal 1505; o nella Storia di due amanti di Enea

Silvio Piccolomini (poi papa Pio n), la vicenda non si risolve in tragedia. Eros domina anche quelle storie. Esse faranno prudere, ammette Piccolomini, per abbondanza di situazioni anche

un inguine vecchio e stanco («hanc inguinis egri canitiem prurire faciam nec fingam, quando tanta est copia veri»), coinvolgeranno il lettore nella condizione degli amantes-amentes, in quell’accecamento dell’intelletto che è figurato da Cupido fanciullo faretrato e bendato contro il quale le forze dell’intelletto valgono poco tanto più nelle donne, come ricorda l’Ignoto. Il quale, perciò, premette un avvertimento ai suoi reali o potenziali spettatori (tutti di sesso maschile?): «E guardative che, im114

parando amore, lo pigliate con l’intellecto e non col senso, però che de scienza deventarebbe doglia». Ma nella Venexiana — occorre ribadirlo — i personaggi non sono interlocutori di un dibattito morale che impone per la loro azione la punizione o il riscatto, e quindi il compianto, come in tragedia; o anche, laddove le responsabilità appaiono meno gravi, la conciliazione finale per beffa o per accordo, come in commedia. Eros ha qui, nella sua rappresentazione visibile e tattile, un’evidenza scenica piena e incondizionata. La sequenza del convegno notturno tra Angela e Iulio nell’atto terzo, preparata da una fervorosa simulazione omosessuale tra padrona e serva nell’atto primo, resterebbe un’azione drammatica senza altra relazione che con se stessa se non fosse per quel tanto di estraniante che il commento di un vecchio dall’inguine stanco e della maliziosa Nena, chiusi in cucina come scolte in vedetta,

determina tra una pausa e l’altra degli amplessi. L’amore che al culmine della parabola decameroniana della commedia rinascimentale, nel Candelao,

è ormai una riconqui-

sta intellettuale ottenuta al termine d’una beffa che rischiava di farlo apparire solo come un ridicolo e dissennato invasamento, nella Venextana è ancora una condizione esistenziale che rende istantaneamente credibili parole e gesti. L’Ignoto lo rappresenta direttamente, come manifestazione di un fervore naturale in

cui mimica e affabulazione coincidono senza scarti di significato. È vero, il teatro del Cinquecento non ha niente di simile. Innamorati declamano la loro passione, rievocano in scena l’amore altrove goduto, secondo un dettato delle artes amand: per il quale l’amore è pienamente goduto solo se è raccontato; personaggi meno nobili mimano atti erotici ma in funzione di qualcos’altro, per ingannare un terzo presente alle manovre, per un gioco licenzioso di equivoci. Disinteressatamente, come partecipazione senza risvolti comici a un rito autosufficiente, l’amore è agito e visualizzato soltanto nella Venextana: non diversamente da come ci ha abituato a percepirlo il cinema, con i migliori esemplari della filmografia erotica, nella simultaneità dell’immagine e della parola; ma con più prepotenza di rappresentazione (com’è ovvio sulla scena), quasi come una eventualità drammatica assoluta che può lasciare interrotta la trama, infrangere quello sviluppo narrativo che a noi appare misteriosamente inconcluso. 115

Questa istanza, che pretende a un valore conoscitivo, di erotismo vissuto o comunque rivissuto, spiega forse la più evidente atipicità della Venexiana: l’anomalia del congegno scenico, vale a dire la sostituzione della scena unica con un apparato multiplo che prevede la possibilità di inquadrare «per stacco» (come ha precisato Roberto Alonge)" gli interni delle case di Angela e di Valiera (per giunta in spaccato verticale, con ambienti sovrapposti) e gli esterni delle calli in prossimità topografica. Che questa anomalia scenica sia un episodio incidentale, che riveli una personale attitudine alla libera reinvenzione del sistema sperimentato dalla commedia classicistica, è ipotesi più che plausibile se però è sostenuta dalla convinzione che l’Ignoto è scrittore eccezionalmente consapevole delle possibilità latenti del teatro cinquecentesco per la pressione esercitata dalla situazione novellistica,

romanza

all’origine, sul calco umanistico

della scena antica, all’aperto. Il prologo affida a «mimi» la responsabilità di recitare «senza vergogna» quello «che da sé è da passar sotto silenzio»: una storia («non fabula non comedia ma vera historia», commenta un’annotazione finale del manoscrit-

to) che porte e pareti proteggono dall’indiscrezione della città, senza tuttavia poterne alla fine evitare la divulgazione. Le essenziali didascalie latine danno rilievo solo a una sintomatica suppellettile, il letto, luogo deputato dell’incontenibile Angela. Ma tutto il resto si ricava dalle battute di un dialogo che non concede niente agli stereotipi del repertorio: gli odori perfino, a parte gli arredi, all’interno e, all’esterno, le quinte architettoni-

che e gli approdi lagunari, il fumo nei canali tra la notte e l’alba di una Venezia percorsa a piedi o in gondola, città abitata, dunque, piuttosto che celebrata sul fondale di una scena urbana, in compendio. A Venezia, appunto, le grandi figurazioni mitologico-borghesi di Tiziano avevano introdotto veneri nude in dimore di lusso sotto cortine sovrastate di Cupidi e sopra guanciali rassettati da serve vigilanti sullo sfondo. E in letteratura le cortigiane di prestigio nei dialoghi di Aretino e nelle novelle di Bandello hanno altrettanta evidenza. Il teatro comico non aveva alzato il sipario sul retroscena di uno spazio interno, domestico; aveva solo tentato di evocarlo; per esempio, nel sogno dell’attore del prologo del Bibbiena, che invisibile assiste ai preparativi per la recita in casa degli spettatori, o nei racconti di Nicia e di Calli116

maco dopo la notte degli amori e degli inganni cui mette capo la trama della Mandragola. Più in là di tutti, in questo gioco di interferenze, tra un interno che non si rappresenta e un esterno dove la scena proibita si racconta, e perfino con più impudicizia, era andato Machiavelli. E mi domando se quella sua grande commedia di una corruzione che prepari una rigenerazione non sia stata tenuta presente dall’incognito autore della Venexiana per il piacere di ribaltare il rapporto tra i sessi. L’iniziativa è ora in mano alle donne, e il tramite per il primo adescamento è un modesto persuasore, un bergamasco gutturaloide anziché «un frate mal vissuto» esperto in eloquenza come fra Timoteo; un facchino, che però sa esibire la carta di credito della sua fede ghibellina per vincere i timori del «duchesco» Iulio, turista milanese in gita nella repubblica confinante. La prudenza che Iulio professa contro i rischi della sua avventura è improntata a un machiavellismo forse non convenzionale. Colpisce il suo elogio dell’esperienza a vantaggio della conoscenza e, più, la ripresa — si direbbe dal Principe — di un noto avvertimento di buon governo, di una formula con cui egli rintuzza le minacce di vendetta della superba Valiera: «Non sète offesa né in l’onor né in la roba da me, che io sappi». Ma la stessa Valiera all’inizio del terzo atto mostra di partecipare di quel machiavellismo, sfacciatamente e per dispetto: «L’è mana che no se cata cusì per tuto, questi fii che par anzoli. E po’ el xè forestier che se ne puòl piar piasèr, e po’ va fuora, che no ti sta sempre in gli ochii» (È manna che non si trova così dappertutto, questi ragazzi che paiono angeli. E poi è forestiero, che se ne può prendere piacere, e poi va via, che non ti sta sempre su gl’occhi). Sarà machiavellismo di riporto, ma è provocante; e induce a sfogliare ancora il dossier degli indizi, delle attribuzioni. Fra i nomi proposti per l’identità dell’autore, quello del Fracastoro fatto da Lovarini è apparso poi improbabile e si è preferito orientare la ricerca nella cerchia veneziana di Aretino o tra gli amici ed emuli di Ruzzante, se non altro per il peso della competenza teatrale da questa parte, per la consonanza con le disinibizioni libertine del clan aretiniano da quell’altra, e in entrambi i casi tenendo conto dell’ipoteca dei dialetti dall’Ignoto padroneggiati con disinvoltura.’ Ma la candidatura del veronese Girolamo Fracastoro (un Hieronimus sottoscrive il libro, non 117

si sa se come autore o copista), dell’umanista che travestì nei panni mitologici di un elegante poema latino l’incubo della sifilide, del medico precursore della patologia dei contagi, del filosofo di un ispirato trattato sulla poesia, quel nome, insomma, venuto su per primo, può richiamare ancora la nostra attenzione su una cultura certamente di matrice naturalistica, che spiega la spregiudicatezza con cui la fenomenologia dell’eros è rappresentata nella Venexiana. Quell’interno dove il corpo si teatra-

lizza, esprimendosi senza remore e fuori dalle regole della drammaturgia codificata, è il segno di una infrazione teatrale imposta da una tensione razionale che ha già infranto, manifestandosi come dialogo potenziato e quindi come teatro, lo schermo dell’etica. E le argomentazioni del prologo ne rendono testimonianza, contraddicendo il testo scenico che non racco-

glie altri ammonimenti se non a tutela della vita e del piacere. La Venexiana non sarà di Fracastoro, ma ha un marchio di

irregolarità che non è soltanto letteraria. Chi la compose forse interruppe un diverso ordine di opere e di pensieri perché aveva trovato nel teatro e nell’espressività naturale del dialetto la forma mimetica, insostituibile quanto irrappresentabile, dell’a-

more. E quella forma non l’aveva sperimentata per profitto di carriera teatrale, ma in accordo col giovane protagonista, come «cosa bellissima per aver avvantaggio in cognoscer».

NOTE

1 Letteratura e vita nazionale, Torino 1950, pp. 70-71. 2 La Venexiana. Commedia di ignoto cinquecentista, Bologna 1928. 3 I. SANESI, La Venexiana, in «Nuova Antologia», Lxrv (1929), pp. 273-281. 4 Cfr. «La Critica», xvi (1930), pp. 97-99, e Poesia popolare e poesia d’arte, Bari 1933, pp. 299-301. 5 Per il rapporto tra interpretazione storico-critica e interpretazione scenica può servire il mio intervento su Tradizione e tradimento, nel vol. Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal “Decameron” al “Candelaio”, Roma 1976, 1 ed., pp. 230-242. 6 La Venexiana: non fabula non comedia ma vera historia, (1967), nel vol. Momenti del Rinascimento veneto, Padova 1978, pp. 284-346. Cfr. anche l’introduzione del Padoan alla sua edizione critica con traduzione e commento della commedia (Padova 1974), per la quale ha restaurato nel titolo, La Veniexiana, la grafia del codice della Biblioteca Marciana in cui è con altre commedie conservata. Ma si è tornati volentieri alla grafia più vulgata. 7 Gito dall’edizione a cura di Maria L. Doglio, con un saggio di L. Firpo, Torino 1973, p. 24.

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8 Crisi delle strutture e strutture della crisi nella «Veniexiana», in Da Dante al Novecento. Studi critici offerti... a Giovanni Getto, Milano 1970, pp. 209-244. 9 Cfr. per le diverse proposte o suggerimenti di attribuzione: E. LOVARINI, prefazione all’ed. in ventiquattresimo, La Venexiana, Firenze 1947, p. 26 sgg.; € G. PADOAN, articolo e introduzione citati.

[Col titolo Z/ retroscena scoperto o la scena proibita, ne La Venexiana, programma per lo spettacolo del Teatro di Roma, con la regia di M. Scaparro, Teatro Argentina 14 dic. 1984]

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5 - SPAZI DELL’OSCENO:

L’IMMAGINARIO

DI PIETRO

ARETINO

Forse non è più il caso insistere sull’effetto di scandalo che s’associa, ormai solo per convenzione, a ogni ricordo di Pietro Aretino. Il tempo ha reso giustizia alla letteratura, al demone sedentario che occupa la mente anche dei più inquieti scrittori del Cinquecento. Quale scandalo, del resto? Quello che in tutte le epoche è messo in luce da un’incriminazione reciproca dell’opera e della vita coinvolge Aretino molto meno di tanti altri provocatori, praticanti o vittime dell’alleanza tra Letteratura e Male, da Sade ai decadenti, ai primi e agli ultimi maudits: Genet, Pasolini, Mishima... Non che Pietro possa arrogarsi il beneficio di una probità di vita in favore della pagina lasciva; anzi. Ma, con tutto il carico del suo invadente protagonismo, un posto per sé tra il pubblico poteva riservarselo, da spettatore di un teatro della scrittura, spinto tuttavia ai limiti dell’irrappresentabile. Per questo, una sua interpretazione in chiave di «scapigliatura», con connessi coinvolgimenti di genio e sregolatezza, resta improponibile. Vale di più, sul piano delle corrispondenze a distanza, una sanzione dannunziana di contabilità in pareggio: ho quel che ho donato. La differenza che corre tra comico e tragico, umile e sublime conta poco. D’Annunzio può richiamare Aretino per

ciò che costituì davvero materia di scandalo a quel tempo: non l’oscenità, la pornografia, il linguaggio disinibito della sua opera più resistente, ma un successo imprevedibile rispetto agli standard sociali del letterato, ai curricoli formali dello scrittore

in Italia, giocato personalmente, e con accorta regia, fin dall’inizio. Che il fenomeno resti meritevole di attenzione sociologica, e non solo di sociologia letteraria, è ovvio. Colpisce, infatti,

la parte di protagonista che Aretino poté vantare per unanime riconoscimento di ammiratori e avversari, non solo nella lette-

ratura, ma in generale nella vita artistica, politica e religiosa del pieno Rinascimento. 120

Almeno tre elementi concorrono ad assegnare alla biografia di Pietro Aretino un rilievo singolare, anche nella società letteraria del primo Cinquecento, aperta come forse nessun’altra alle avventure individuali. Intanto, la sua origine oscura, «di basso sangue», come egli stesso ammetteva, ormai vantandosene, in una lettera del 1553, ma certo prima sentendone il peso, se aveva scorporato dal nome il patronimico e conservato una ge-

nerica identità cittadina; poi una fama precoce e tutt’altro che provinciale, raggiunta assai prima che sicuri risultati di scritto-

re la giustificassero, e diffusa con iniziative provocatorie che svegliano, con la copertura di un apparente anonimato, curiosità e opinioni contrastanti e fanno nascere il personaggio in anticipo sul letterato; infine la sua autonomia, il suo status di scrit-

tore «libero», assolutamente eccezionale a quel livello professionale e con quella influenza sociale, insomma impensabile, se non per una serie di circostanze favorevoli, da Aretino abilmente sfruttate, fuori dalle sedi istituzionali del potere e della cultura rinascimentale: curia, corte, magistrature cittadine.

Molto più che dalla materia dei suoi scritti più satirici, ingiuriosi, sfacciatamente minacciosi o radicalmente osceni, lo scan-

dalo Aretino nasceva dal rilievo esterno assunto dalla sua avventura di scrittore, contrariamente allo scandalo Machiavelli

che s’origina tutto dall’opera. Ed è singolare, per restare al confronto, che l’antimachiavellismo sia una manifestazione di co-

scienza, di cultura alta, tanto di intellettuali di regime quanto di opposizione, e con altri valori, etici politici utopistici; mentre

l’antiaretinismo testimonia principalmente di un’invidia sociale, è segno dell’irrequietezza di un ceto letterario emergente e instabile, di concorrenti o aspiranti all’eredità delusi di una mancata affermazione. Che la produzione di Aretino entrasse presto, come quella di Machiavelli, nell’indice dei libri proibiti,

che già prima l’autore e l’editore dovessero mascherare i dati di pubblicazione delle opere più audaci, il Ragionamento e il Dialogo, dando inizio essi stessi a una loro lunga diffusione clandestina, era in età controriformistica una condizione inevitabile. Ma, in vita, la sua consacrazione come «divino» lo scrittore po-

té esibirla con attestati plurimi di elevata autorità letteraria e artistica, ma anche politica e religiosa: da Ariosto a Bembo a Carlo v a Francesco 1 a Tiziano e Sansovino, fino al riottoso

Michelangelo e all’austera Vittoria Colonna, per non dire di 121

una schiera di minori potenti, laici ed ecclesiastici. La sua dissacrazione come

«infame» circolava invece in forma di libelli,

improperi, leggende, nell’ambito di una pubblicistica polemica ad effetto, alla quale collaboravano anche letterati di prestigio ex o finti amici (Fortunio Spira, Girolamo Muzio, Paolo Giovio), ma soprattutto scrittori infastiditi da quell’arrogante successo. Tra questi un vero poeta, ma per «poltroneria», come Francesco Berni, e gli emuli e i «creati» in attesa di riconoscimenti o già in disgrazia: Nicolò Franco, Anton Francesco Doni.

La libellistica antiaretiniana ebbe alla fine ragione dei riconoscimenti dovuti a un inequivocabile magistero letterario e artistico, come

delle enfatiche

glorificazioni

del

«moralista»,

«profeta», «evangelista», «flagello dei principi», che giustificano il ritratto con cui Tiziano ne tramandava la carnosa e sontuosa immagine. Contro un attestato di seria competenza professionale rilasciato dal Dialogo della pittura che Lodovico Dolce intitolò all’ Aretino, contro i documenti di una cosciente poetica naturalistica e anticlassicistica messa a confronto con le maggiori esperienze e riflessioni del classicismo rinascimentale, l’anonima Vita dell’infame Pietro Aretino, i Sonetti e La Priapea del Franco, il Terremoto del Doni hanno avuto nel tempo più facile ascolto, e la leggenda dell’«impostore», addirittura dell’«anticristo», è entrata a colorire la storia del costume cinquecentesco, della società gaudente, dissoluta, cinica che conviveva con

la decadenza e continuava a provocarla. È vero che il capitolo della fortuna letteraria e ideologica dell’ Aretino, oltre il suo tempo e oltre i confini nazionali, è ancora incompleto. Un dato però è certo: quella biografia tanto alterata e devastata dall’attrazione del proibito, oltre che dall’avversione morale, andava restaurata per rimuovere dall’interesse critico, o semplicemente di lettura, imbarazzanti condizionamenti esterni. L’erudizione settecentesca, con la ricostruzione

documentaria, seppure parziale, del conte Giammaria Mazzuchelli, e quella tardo-ottocentesca, con le ricerche e ricostruzioni di A. Graf, A. Luzio, V. Rossi, hanno collaborato a far emer-

gere da quella biografia i dati più oggettivamente accertabili,

avviando anche il lavoro delle attribuzioni e della filologia. Che la rivalutazione critica tra i due tempi dell’erudizione si fosse inaugurata, con un capitolo intitolato a Pietro Aretino nella Storia della letteratura italiana del De Sanctis, era la conse-

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guenza di una revisione storiografica in atto del Rinascimento e più in particolare del Cinquecento, di cui proprio De Sanctis si faceva, in una prospettiva ideologica molto dilatata, il più consapevole portatore. Fare di Pietro un protagonista del secolo con Ariosto e Machiavelli, sottolineare in un profilo restituito al naturale la funzione storica e sociale del personaggio, significava ribadire un’interpretazione di quell’età fuori dai canoni correnti del secolo aureo, nella contrapposizione tra serio e comico e nella triplice distinzione tra coscienza, immaginazione e riso. De Sanctis cita il capolavoro aretiniano, il Ragionamento, ma le sue remore morali gli impediscono di analizzarlo, come fa invece con le commedie. Sarebbe inutile segnalare la fortuna odierna di quel testo per constatare la distanza incolmabile che ci separa da un’età desanctisiana per altri aspetti non tanto lontana. È forse vero che una Aretino-Renaissance può giovarsi degli effetti culturali dei nuovi comportamenti sessuali. Ma questa è considerazione che interessa la storia del costume in prima istanza, e in seconda può interessare la parabola della letteratura erotica definitivamente uscita dalla clandestinità. Stando invece alle ragioni più specifiche della critica, il fenomeno ha altre motivazioni, ed una convergente e sempre più intensa attenzione linguistica e filologica, oltre che largamente letteraria, sull’opera aretiniana, ha contribuito a farle emergere. Esse vanno colte nell’immaginario dell’Aretino dove l’osceno circoscrive uno spazio privilegiato. Che esso sia abitato dalla sua lussuria è ovvio, ma non è altrettanto ovvio, nel confronto

con tanto osceno di marca aretiniana che si è nei secoli prodotto, che un’arte lo domini e ne metta in luce tutte le possibilità di visione antitetica della realtà, come se l’occhio del corpo rivendicasse per la prima volta la sua capacità esclusiva di percezione senza farsi condizionare dall’occhio della mente. Una rilettura di Aretino non saltuaria, non aneddotica, vale ancora

per quanto quella vista corporea, quella tensione del voyeur ha saputo rivelare, anche fuori da quei limiti organici, da quello spazio materiale.

La vita e la produzione Pietro Aretino nacque il 20 aprile 1492 ad Arezzo: «in uno 123

spedale con animo di re», scriverà nel gennaio 1537 in una lettera con la quale sollecita per interposta persona una pensione dal re di Francia e giustifica le sue insistenze con la necessità delle sue povere origini e insieme con la regalità della sua natura prodiga e liberale, incapace di adattarsi alla povertà. Il padre, un calzolaio di nome Luca (forse Del Tura), era sposato

con una donna di più elevata condizione, Margherita Bonci, di cui Pietro rievoca nelle Lettere l’onestà e la bontà; ma si è supposto che fosse figlio illegittimo di un gentiluomo, Luigi Bacci; ed è certo che con i coetanei della famiglia Bacci fu legato da stretti vincoli di crescita e forse di educazione.

Prestissimo,

quattordicenne appena o quindicenne, lasciò la città, forse in fuga, per aver scritto un sonetto contro le indulgenze, e si stabilì a Perugia. Vi fece apprendistato di poeta e anche di pittore, stando all’autopresentazione contenuta nell’Ofera nova, le rime d’esordio stampate a Venezia nel 1512. Ma delle sue prove pittoriche non è rimasta traccia, e lo stesso Aretino preferì poi dimenticare quel giovanile esercizio artistico, evidentemente infruttuoso. Il suo trasferimento a Roma è del 1517 circa, dopo una probabile tappa a Siena, con frequentazione del vivace ambiente intellettuale di quella città. A Roma entrò al servizio del potente banchiere Agostino Chigi, acquistando rapida notorietà mondana nel clan mediceo di papa Leone x e la protezione del cardinale Giulio de’ Medici, poi papa Clemente vii. Più che a una grama produzione di rime serie e facete, parzialmente valutabili nel recupero che ne fece lo stesso Aretino nella terza giornata del Dia/ogo, comunque indifferenziate rispetto alla mediocre rimeria in volgare della sua cerchia artistico-letteraria, il suo successo cortigiano era legato a un diffuso timore per la sua maldicenza, insomma già alla sua capacità di irrisione personale, se non ancora di satira, con cui potevano essere giocate nella corte leonina, tanto aperta alla beffa e al dileggio, reputazioni e carriere. «Dio ne guardi ciascun da la sua lingua», invoca il dialogante di una Farza, databile intorno al ’20 e attribuibile allo stesso Aretino, che comunque, a dispetto di quell’inclinazione maledica, vi fi-

gura come «uomo schietto e puro». Il suo potere è confermato da una commedia anonima del 1521, dove a papa Leone addirittura si fa dichiarare che Pietro «’1 bene e ’1 male in lingua sciolta domina». Ma la sua fama crebbe a livello nazionale tra 124

il 1521 e il °22, durante il conclave dal quale uscì eletto il rigido prelato olandese Adriano di Utrecht, quando si unì al coro del-

le invettive dei clienti medicei e lo sopravanzò impegnando tutte le sue risorse aggressive nelle «pasquinate», individuabili come sue anche nell’anonimato di quelle satire popolari. La partenza di Aretino da Roma prima dell’insediamento del nuovo pontefice dimostra che la satira cortigiana e popolare sì era identificata nella sua persona e che il rischio di ritorsioni pontificie diventava attuale. Ma il viaggio che lo porterà a Mantova, con tappe a Firenze, Bologna e altri centri, varrà di fatto a consolidare la sua fama nelle città e corti dell’Italia centrale e settentrionale, mentre a Roma il silenzio di Pasquino dà ancora più risalto alla sua funzione di «segretario» ovvero di portavoce degli umori anticuriali e insieme di audace provocatore e critico dei potenti. Dovunque la sua presenza fu propiziata dalla protezione del cardinale de’ Medici. Ma l’apprezzamento per la sua «giocosa affabilità et peregrino et raro ingegno, le dolcissime proposte et argute risposte», da parte del marchese Federico Gonzaga che lo trattenne a Mantova più a lungo del previsto, risulta tutt’altro che effimero se confrontato con un’amicizia che dura tutta la vita a dispetto di inevitabili dissapori. Ancora più stretta, e forse legata a fervori e dissipazioni di gioventù (come tra gli scespiriani Falstaff e il principe Enrico), l'amicizia con Giovanni de’ Medici (dalle Bande Nere), presso il quale Aretino si reca due volte nel 1523, a Reggio, dove il condottiero aveva posto il campo. Il «grand’utile et onore» che trae dalla familiarità con principi e «gran maestri» sono per il momento esclusivamente legati al suo fascino personale, alla sua piacevolezza spinta al limite della buffoneria. Le pressioni che i duchi di Ferrara e di Urbino fanno al Gonzaga per averlo presso di loro non possono essere motivate dalla sua scarna produzione di questo periodo, per esempio una Confessione di Pasquino a Fra” Mariano con cui riprende il dileggio anticuriale, soprattutto contro Adriano vi, ma con gusto più pettegolo che aggressivo. In realtà Aretino è ancora un Pasquino in trasferta che aspetta di rientrare in sede per riprendere e potenziare la sua funzione. Alla fine del ’23, dopo l’elezione di Clemente vu torna infatti a Roma e tenta più prestigiose affermazioni cortigiane. Il suo ruolo vuole essere ora politico senza abbandonare l’esercizio sa-

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tirico al quale lo tiene stretto la sua vocazione popolare e l’immagine che l’opinione gli ha ormai assegnato. Aretino dappri-

ma si produce in poetiche invocazioni alla concordia dell’Europa cattolica e inviti a una comune guerra santa contro il turco,

in una Laude di Clemente VII e in una canzone di Esortazione alla pace tra l’Imperatore e il Re di Francia; poi abbraccia con entusiasmo la causa dell’alleanza con Francesco 1, specie dopo averlo incontrato nel gennaio 1525 e averne ricevuto attestazioni d’amicizia che lo convincono di poter svolgere compiti di consigliere tra il papa e il sovrano. Il servizio diplomatico cortigiano gli assicura già onori, come il titolo di cavaliere di Rodi, e gratificazioni economiche guadagnate anche con mediazioni d’opere d’arte — per esempio, un ritratto di Leone x di Raffaello e una copia del Laocoonte per mano di J. Sansovino inviati al Gonzaga — affidategli per la sua riconosciuta perizia di connaisseur. Ma lo spazio vitale dell’Aretino era piuttosto la città che la corte, il luogo dell’avventura individuale contrapposto a quello della ritualità, della fissazione dei ruoli, della simulazione. Del resto lo splendore non l’abbagliava né si faceva illusioni rispetto alle sue ambizioni, incontenibili, anche ai livelli più alti, dentro strutture istituzionali. La conversione di corte in morte, sottolineata in scritti successi-

vi, già gli sì rivelava, come in una danza macabra di burattini, con comica drammaticità. Per questo la sua prima opera che manifesta un impegno letterario non effimero e occasionale, la commedia Cortigiana, vuole essere un’esaltazione e insieme una

promozione delle funzioni di Pasquino a castigatore di tutta la corte romana. Scritta nel ’25, la commedia rimase per il momento tra le carte segrete dell’Aretino, così come ebbe diffusione clandestina la sua più impudente iniziativa di quegli anni, la serie dei Sonetti lussuriosi, composta per i rami erotici incisi da Marc’Antonio Raimondi sui disegni di Giulio Romano. I Sonetti sono l’incipit della produzione pornografica aretiniana. Sembravano alludere ad amori di prelati e prostitute, e forse anche per questo, oltre che per la loro sorprendente immoralità, suscitarono la dura reazione del datario pontificio G.M. Giberti, capo del partito riformatore. Pietro contrattaccò con un contegno provocatore che indusse l’autorevole prelato a consentire, se non a disporre, nella notte tra il 28 e il 29 luglio l’attentato di cui fu esecutore un suo famiglio, Achille Della Volta. Aretino 126

scampò alle gravi ferite che il pugnalatore gli inferse, ma si era troppo compromesso per poter contare sulla protezione papale. Anziché attendere giustizia, fu costretto a lasciare Roma nella prima metà dell’ottobre 1525 per un distacco forse momentaneo nelle intenzioni, ma divenuto poi definitivo. Raggiunse Giovanni dalle Bande nere, comandante in capo delle forze italiane della Lega di Cognac, e lo seguì nelle operazioni militari con quella devozione affettuosa ed esclusiva di «padre, fratello, amico e servo», che gli dettò un eccezionale reportage: la lettera del dicembre 1526 sulle ultime ore del Medici, carica di conte-

nuta commozione e della vivacità tipica del suo stile «naturale». Ai primi del ’27 era a Mantova, ma per un breve soggiorno, anche se l’ospitalità del Gonzaga era splendida e gratificante. Però la prospettiva di un ruolo ufficiale di poeta di corte non lo seduceva, anzitutto per la sua inettitudine, da lui stesso per primo denunciata, a celebrazioni epico-cavalleresche di imitazione ariostesca tentate col poema in ottave Marfisa e rivelatesi nel tempo tanto fallimentari da indurlo a non risparmiare il poema dal fuoco, ad eccezione dei primi tre libri pubblicati. Doveva però preoccuparlo di più la persistente ostilità della curia romana che avrebbe potuto provocare rischiosi voltafaccia del marchese Federico, dal quale tuttavia continuava a ricevere sinceri attestati di ammirazione. A distanza aveva ripreso ad attaccare aspramente i cardinali e lo stesso Clemente vu in un incompiuto Judicio over pronostico de mastro Pasquino quinto evangelista de l’anno 1527, valutabile a posteriori come una profezia del Sacco di Roma del maggio di quell’anno. L’avvenimento, traumatico per tutto il mondo cattolico, fu per Pietro l’occasione della rivincita che aspettava, in previsione di un trionfale rientro nell’urbe. Ma la vittoria non gli fu per il momento riconosciuta, e Aretino si sfogò con una violenta frottola anticuriale,

Pax vobis brigata. Intanto, nel marzo aveva ospitalità, quella della Serenissima, e forse mente maturato la sua scelta anticortigiana. Per tutto il rimanente trentennio della sua sua residenza di scrittore: un titolo che d’ora

accettato un’altra aveva definitiva-

vita Venezia fu la in poi pienamente

gli compete e che era rimasto celato da una notorietà mondana e libellistica equivoca e contagiosa. Arca di Noè, come Pietro la chiamava, meta di molti proscritti, modello di stabilità e libertà, l’antica repubblica oligarchica divenne un luogo privilegia127

to per la sua insofferenza alla servitù cortigiana: un luogo scelto tempestivamente alla vigilia del Sacco, quando gli eventi politici e religiosi cominciavano ad ispirare alla curia romana e alle corti italiane direttive culturali molto più severe. La protezione del doge Andrea Gritti e quella mai venutagli meno del Gonzaga tutelavano un prestigio che via via sì accresceva con le opere e soprattutto con la sua infaticabile capacità di tessere una rete di relazioni con i maggiori e minori sovrani dell’epoca perfino con gli infedeli, con Ibrahim pascià che lo invitava a Costantinopoli, e infine di nuovo con Clemente vi e il suo più feroce avversario il Giberti, con i quali poté riconciliarsi onorevolmente. I donativi che sapeva procurarsi in cambio di elogi, ritrattazioni o silenzi, il consenso spesso vistosamente accordato alla sua autoesaltazione a «divino» e «flagello de’ principi», consacrata dall’Ariosto nell’edizione definitiva del ’32 dell’Orlando Furioso (xLvI, 14), gli diedero la possibilità, tranne in rari

periodi, di vivere secondo un suo ideale di fasto privato che tuttavia favoriva il suo impegno letterario. Il sodalizio con le imprese tipografiche veneziane in notevole espansione, la rete di relazioni artistiche allacciate con tutta la penisola, la sua capacità di pronto intervento letterario e pubblicistico gli assicuravano la possibilità di trarre dal «sudore degli inchiostri», cioè dal suo mestiere di scrittore libero, sciolto da soggezioni cortigiane, quegli eccezionali vantaggi di cui egli andava orgoglioso e che lo facevano vantare di essere ricercato nella sua dimora sul Canal Grande come un sovrano ed anche come «segretario del mondo», confidente e consigliere di potenti ed umili. La sua nuova condizione sedentaria promosse intanto una produzione ininterrotta nei generi più vari, in prosa e in versi. Tra il °27 e il ’30 lavorò alla composizione del Maresca/co, la sua commedia stampata per prima, nel 33; la Cortigiana in una stesura notevolmente rielaborata apparve l’anno dopo, quando

pubblicò anche il Ragionamento della Nanna e della Antonia e, senza remore per un’imbarazzante contiguità di osceno e sacro, i Salmi e la Passione di Gesù, seguiti nel ’35 dall’Humanità di Cristo in tre libri, rielaborati e ristampati in quattro nel 1539. Del ’36 è il Dialogo nel quale la Nanna insegna a la Pippa; del ’37 la stampa del primo volume delle Lettere; del ’38 del Genesi e del Ragionamento delle corti. Sono del 1539-40 altre due opere sacre, la Vita di Maria Vergine e la Vita di Caterina vergine, cui s'aggiunge nel ’43, 128

ancora un’agiografia, la Vita di San Tomaso. Al teatro Pietro dà

ancora tre commedie, La Talanta e Lo Ipocrito nel ’42, Il Filosofo

nel ’46, l’anno in cui pubblica la sua unica tragedia, L’Orazia. Incerta la datazione delle prose aneddotiche e digressive raccolte col titolo Carte parlanti (1543-45), mentre si dispongono nel tempo i suoi esperimenti di poesia cavalleresca, popolaresca, giocosa, amorosa (i tre canti dell’incompiuta Marfisa, i due delle Lagrime d’Angelica, le ottave dell’Astolfeida, Li primi due canti dell’Orlandino, gli Strambotti alla villanesca, i Capitoli, le Stanze per la Strena), e occasionalmente emergono, come forzato tributo ad esigenze encomiastiche o a richieste non eludibili di potenti, i suoi grami prodotti di verseggiatore politico e religioso. L'escursione da basso a alto, da comico a tragico, da profano a sacro, che le scritture aretiniane mettono in evidenza riflette-

va peraltro la condizione personale di Aretino scrittore e anche l’intreccio delle sue relazioni culturali. I suoi rapporti letterari si estendevano dal clan di poeti e prosatori erotici e popolareggianti, con al centro il patrizio Lorenzo Venier, all’altro Pietro, l’autorevole Bembo, che non dimenticò un violento intervento aretiniano contro un suo giovane detrattore, Antonio Brocardo,

nel 1531, e accettò con lui un rapporto da uguali. Nel dibattito sulle arti tutta la cultura umanistica riconosceva all’Aretino, al-

l’outsider senza regolare formazione scolastica, una competenza di fatto illimitata. Semmai era qualche isolata e irriducibile personalità artistica, come Michelangelo, ad opporre, dopo qualche frettoloso consenso, un fin-de-non-recevoir ai suoi tentativi, anche insistenti, di direzione del gusto e alla sua riconosciuta autorità di critico d’arte, testimoniata non solo dal sodalizio ve-

neziano con Tiziano e Sansovino ma anche dal Dialogo della pittura intitolato l’Aretino di Ludovico Dolce, unico forse tra i suoi

protetti rimastogli fedele. L’avversione al suo magistero, a un inammissibile successo, esplose, infatti, proprio tra i suoi seguaci, tra gli imitatori del suo poligrafismo, della sua pratica dello scrivere. Ma i tentativi dello sventurato Nicolò Franco, destinato in

pieno rigore controriformistico all'impiccagione proprio per il suo velleitarismo libertario di matrice aretiniana, e quelli del bizzarro e ingegnoso moralista Anton Francesco Doni, di trascinare nell’ignominia un maestro di «virtù» ora bollato come «anticristo», furono destinati sul momento al fallimento. La vi-

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ta dell’infame Aretino era divenuta ormai l’esistenza di un grande borghese, senza uffici pubblici e insegne cavalleresche e nobiliari (ma con prospettive addirittura cardinalizie), eppure con un potere di propaganda fino ad allora mai realizzato. Gli onori regali che l’imperatore Carlo v gli rende in un pubblico incontro a Peschiera nel ’43, quando scende da cavallo e gli chiede di essere accompagnato, non valgono solo come compenso della scelta definitivamente compiuta dall’Aretino in suo favore nel 1536: sanciscono il riconoscimento della funzione del letterato come formatore di opinione, non solo come ornamento intellettuale e rappresentanza cortigiana. E questo spiega il rapporto comunque amichevole che lo scrittore può ancora tenere col grande avversario dell’imperatore, con Francesco 1. Quanto al resto, al tenore della sua vita privata, Aretino poteva esaltare tutti i vantaggi edonistici della sua piccola corte borghese, senza per questo far professione di dissoluto. Cinico laddove entrassero in gioco i suoi interessi, vendicativo, benché

senza ostinazione, fu anche sollecito con gli amici e i protetti e tenero con le due figlie battezzate Adria e Austria in onore di Venezia e degli Asburgo, con le quali conobbe i piaceri della paternità, senza farsi attrarre dai doveri del matrimonio, peral-

tro generalmente considerati contrastanti con ozi e negozi del letterato. Anche in questo ambito domestico, e non solo per libertinismo, Aretino rivelava di essere partecipe anzitutto della sua condizione e vocazione di scrittore, della professione libera che aveva fondato. Morì a Venezia a sessantaquattro anni, il 21 ottobre 1556: per «una cannonata d’aplopexia», scrisse al duca Cosimo l’ambasciatore fiorentino (per un incontenibile eccesso di riso, come Margutte, insinuavano i suoi detrattori). Poetica e opere

Un personaggio come Pietro Aretino, nel quale l’uomo e l’attore coincidono senza remore etiche e psicologiche, non poteva trascurare di dare una rappresentazione di se stesso, in pubblico e in privato. Le Lettere sono il suo palcoscenico personale, la scena sulla quale resta presente per un ventennio (dal primo volume pubblicato nel °37 all’ultimo apparso postumo nel ’57) la sua immagine di scrittore e con la quale egli valorizza le sue 130

quotazioni. Aretino vi recita a più riprese la parte del personaggio d’eccezione: come libero cittadino della Serenissima, affrancato dalla servitù cortigiana («Io, che, nella libertà di cotanto Stato, ho fornito d’imparare a esser libero, refuto la corte in eterno, e qui faccio perpetuo tabernacolo agli anni che mi avanzano»); come «virtuoso», l’artista eccellente, il restaurato-

re dei diritti della «virtù», verso il quale tutti gli altri artisti hanno un debito di riconoscenza («Io ho scritto ciò che ho scritto per grado de la vertù, la cui gloria era occupata da le tenebre de l’avarizia dei signori. E, inanzi ch’io cominciassi a lacerargli il nome, i virtuosi mendicavano l’oneste commodità de la vita, e se alcun pur si riparava da le molestie de le necessità, otteneva ciò come buffone e non come persona di merito»); come «oracolo de la verità» e «secretario del mondo» («A me vengono turchi, giudei, indiani, franciosi, tedeschi e spagnuoli... Ognuno mi viene a contare il torto fattogli da tal principe e da tal prelato»); infine come retore istintivo, seguace della «pratica naturale», non per disprezzo «a lo studio de l’arte», ma pro-

prio in ragione della funzione «economica» che egli ha assegnato al suo mestiere di scrivere: «A me», confessa a Pietro Bembo, «bisogna trasformare digressioni, metafore e pedagogarie in argani che movano e tanaglie che aprano. Bisognami far sì che le voci dei miei scritti rompino il sonno de l’altrui avarizia, e quella battezzare “invenzione” e “locuzione”, che mi reca corone d’auro e non di lauro». Al Dolce dichiarava: «io son più tosto profeta che poeta», e infatti come poeta preferiva restituire in cambio di qualche ducato la «cesta di corone» che egli immagina gli sia donata in un burlesco Parnaso visitato in sogno. Questa lettera del ’37 resta tra le sue più riuscite prove di scrittura. In questo senso le Lettere sono per l’Aretino una grande occasione, colta magistralmente molto presto, come testimonia il racconto «sceneggiato» della morte di Giovanni dalle Bande Nere, del ’26. I suggerimenti forniti dai suoi corrispondenti, dagli eventi pubblici e privati egli sa raccoglierli e svolgerli con la disinvoltura colloquiale di una prosa antiacca-

demica che gli consente di passare dall’elogio privato al panegirico politico, dal manifesto o pamphlet o ragguaglio letterario alla consulenza artistica e al «ricordo» o consiglio o ammonimento; dall’invettiva personale all’amabile invito; dalla notizia

familiare al racconto descrittivo, al «ghiribizzo», al «capricLal

cio». E un capriccio è la celebre lettera a Tiziano dell’aprile 1544 con la «veduta» di Venezia colta da una finestra sul Canal grande sui due piani descrittivi della regata che l’attraversa e, in profondità, il gioco coloristico e luminoso di un’atmosfera accesa dal tramonto: un capolavoro di pittoricismo sentimentale che ricorda scorci lagunari di Carpaccio e anticipa il vedutismo settecentesco. Le Lettere sono inoltre un attestato della coscienza letteraria di Aretino, della sua poetica, che è anche la più ingegnosa e, per certi aspetti, la più radicale espressione dell’anticlassicismo cinquecentesco. La critica ha finora oscillato circa il rilievo da assegnare alla riflessione di Aretino su questioni di poetica. A dargli credito sono stati più gli storici dell’arte che quelli della letteratura, semmai più interessati, a cominciare soprattutto dal Vossler, ai registri di una lingua e di uno stile di marchio fortemente personale, mentre gli storici del teatro hanno sottolineato le posizioni polemiche e antiistituzionali del commediografo. L’individuazione poi di uno spartiacque tra Rinascimento e Controriforma (G. Petrocchi), Rinascimento e Manierismo (P. Larivaille), tradizione e innovazione (G. Innamorati) riba-

disce l’interesse per la funzione epocale di Aretino e l’attenzione agli elementi consapevoli della sua esperienza di scrittore. Il fatto che siano espresse con vivacità antiscolastica, non toglie valore alle argomentazioni di poetica aretiniana, così come essa in particolare si manifesta nell’ammonimento dato all’esordiente Franco in una lettera giustamente famosa del giugno 1537. «O turba errante», dichiara con tono oracolare Aretino contro i

pedanti che irrigidiscono l’arte con l’osservanza di regole e precetti, «io dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual si sta nel furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanil senza campane». L’esaltazione della natura — capriccio fantastico, invenzione allegra, offerta incondizionata di

forme — s’oppone qui al privilegio accordato all’arte dalla cultura alta del classicismo rinascimentale, come misura riordina-

trice, dentro una superiore armonia, della varietà e del disordine della natura; il principio del «furore», come forza, entusiasmo dell’ispirazione individuale volge un concetto della tradizione platonica, filtrata dal ciceroniano De oratore, verso esiti

antispiritualistici, di concorrenza mimetica dell’arte con le for132

me della natura. Anche il modello letterario, la tradizione, di-

venta in questo rapporto un’offerta di immagini e concetti, non una prescrizione. L’antipedantismo di Aretino non nega infatti il valore umanistico dell’imitazione, ma respinge l’autorità di quanti «la trasfigurano in locuzione, ricamandola con parole tisiche in regola». La scrittura è per Aretino disegno, figura, rilievo, capacità di togliere gli esempi «dal vivo e vero», e la natura è per lui «una compagnona badiale che ci si sbraca». Contro questa felicità del comporre non possono valere freni retorici e grammaticali, tanto meno quando lo scrittore si realizza in pieno, come «scultor di sensi e non miniator di vocaboli». Freni Aretino non metteva di fatto alla sua baldanza di «antiletterato» (qualifica tuttavia equivoca, sulla quale non conviene insistere). Cimentandosi con i generi più disparati, in «volumi divoti e allegri, secondo i subietti», egli è sempre sicuro di poter mettere a partito «la dote che si ha ne le fasce». Se la sfida non gli riesce in una serie di esperimenti cavallereschi e romanzeschi ed anche nella produzione poetica burlesca, i suoi fallimenti non vanno presi a dimostrazione di una sua inettitudine alla composizione in versi. La riuscita dell’Orazia documenta invece di una vittoria contro i pedanti ottenuta da un letterato irregolare proprio sull’arduo terreno della tragedia, dello stile alto che affaticava i più ambiziosi scrittori del Cinquecento. Ma è certo che il suo «mestiere» l’Aretino lo rivelava soprattutto nella prosa, perfino nelle scritture sacre, dove alla mancanza di ispirazione sopperiva con uno sfoggio di decorativismo che rilanciava i contenuti della letteratura edificante venendo incontro alle attese controriformistiche. Che proprio l’Aretino si assumesse questo compito di pubblicista cattolico non deve stupire. La sua logica di artista libero coincide con la logica del massimo profitto artistico. In un momento di particolare congiuntura religiosa egli seppe intuire e precedere la richiesta dei potenti ed offrì un modello di stile sacro improntato a manierismo popolare, comunque in notevole anticipo sul teatrali-

smo tipico della produzione sacra del Seicento. Il primato della natura suonava come un’esortazione a produrre letteratura, una volta affrancato il talento dalla scuola. Scapigliati, incolti, irregolari, poligrafi, giornalisti, avventurieri

della penna, come sono stati variamente classificati i seguaci di

Aretino, erano in realtà con Aretino stesso letterati originati e

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mossi dal grande flusso del volgare nel Cinquecento che garantisce l’ascesa degli uomini nuovi della letteratura italiana, della borghesia letterata, e coinvolge, in una produzione accelerata dalle nuove imprese editoriali che provocano e sfruttano la richiesta di mercato, un pubblico espanso oltre i limiti delle piccole società cortigiane e accademiche. Gli eventi politici e religiosi, piuttosto che le regole, smentiranno presto, in piena età tridentina, le illusioni create da una cultura affluente, in piena

espansione. La carriera letteraria di Pietro Aretino si poté compiere al limite di questa risacca. Dire che fu carriera di un pubblicista significa limitarne i risultati valutabili anche in riferimento a precise scelte. Ma è certo che l’attività del libellista, benché in sé caduca e condizionata dal costume del tempo, è inscindibile dai traguardi raggiunti in seguito dallo scrittore. Il primo, per esempio, quello delle commedie, porta ben segnata la maschera di Pasquino, la mutila effige marmorea nei pressi di Piazza Navona, convertita da insegna di certami poetici, in latino e poi in volgare, in anonimo banditore di satire malediche anticuriali, le pasquinate appunto, redatte per lo più nella forma del sonetto caudato. A Pasquino è attribuito nel prologo della prima inedita Cortigiana lo stile da vituperium della commedia, e se Aretino rielaborandola nove anni più tardi se ne attribuisce nel nuovo prologo tutt’intera la responsabilità, come di un organismo letterario che ormai appartiene al curriculum di uno scrittore di teatro, non per questo la maschera scompare dalle battute più aggressive di questa rappresentazione degradata della corte e delle illusioni cortigiane: Pasquino infatti ricompare, per essere ancora una volta glorificato nella Talanta, nell'avventura amorosa e ancora cortigiana di un fatuo veneziano a Roma. Il teatro comico di Aretino reca il segno, anche laddove i motivi di beffa sono svolti senza asprezza, del genus turpe che ne aveva presieduto la nascita. Ma, allontanandosi il bersaglio immediato di un’agitata esperienza romana, carica di risentimenti fastidi impazienze, l’intonazione aggressiva scopre la maniera, mette in luce l’intenzione di ribadire una fama di flagellatore dei costumi, divenuta marchio d’autore. Ancora nel Marescalco la materia cortigiana suggerita da una

burla di palazzo, benché ridotta all’ambito provinciale della Mantova gonzaghesca, anima il divertimento di cui fa le spese il misogino protagonista con le risorse polemiche e inventive 134

della commedia d’esordio. Poi la corte è, con Roma e con Pa-

squino, un richiamo memoriale: della sua memoria teatrale. Il teatro di Aretino ha del resto bisogno di questa memoria. Nelle migliori commedie aretiniane c’è una notevole difformità rispetto alla drammaturgia regolare del secolo. L'autore è mol-

to meno coinvolto dalla fabula che dal vissuto, dalla messinscena multilaterale, disarticolata, della città popolata da una tipologia maniacale, rivelata oltre che dal comportamento abnorme del personaggio ridicolo, da un fitto intersecarsi di commenti aneddoti allusioni, di ragionamenti morali e bizzarri. Nel teatro aretiniano, insomma, la scena non coincide con l’azione;

ma quello che altrove è un difetto strutturale, qui è segnale dell’interferenza, talora prepotente, dell’autore. Tuttavia il difetto si manifesta più platealmente quando viene meno l’intervento satirico immediato, e lo sforzo di adeguarsi al gusto corrente degli intrecci romanzeschi o amorosi, con relativi antefatti e agnizioni, appare più pressante. Nell’/pocrito, nella Talanta e soprattutto nel Filosofo la giustapposizione del meccanismo novellistico sulla mera incidentalità tipologica e rappresentativa resta allo scoperto. Aretino è cosciente ormai dell’insignificanza del gioco teatrale. La smarrita conclusione di Liseo nell’/pocrito: «todos es nada»... «nada es todos», sembra voler vanificare l’intera vicenda, costretta nei termini dell’intrattenimento istituzionale.

Ma la battuta, in forma dimezzata e sempre spagnoleggiante, di riporto proverbiale (« 7odo è nada»), aveva già intercalato un racconto della seconda giornata del Dialogo. La sua replicazione non può essere trascurata: lascia cadere anche fuori da quei contesti un suggerimento d’interpretazione generale, quasi che il cinismo, sottolineato dal De Sanctis, non fosse che la masche-

ra di un radicale pessimismo che lo nobilita, del disagio di un «pessimista di razza», come Bontempelli ebbe a definire Aretino, gratificandolo di un pathos forse improbabile. «Ragionamento» e «Dialogo» Il Ragionamento e il Dialogo sono l’opera in cui una professione di pessimismo sembrerebbe inequivocabile. Ma qual è la posizione dell’autore al suo interno? Lo schema è quello del dialogo morale e pedagogico, parodisticamente stravolto dai bassi temi 195

di conversazione e dal compito paradossale, affidato alle sconce

interlocutrici, di essere rispetto a quella materia nello stesso tempo partecipi e castigatrici. Esso può fungere perciò da alibi, come in tanti altri dialoghi dell’epoca dove l’autore può dire: non sono dove credete che sia, sono dove credete che non sia

(stando alla formula che per l’alibi d’autore suggeriva R. Barthes). Le intenzioni di Aretino espresse alla fine della bizzarra dedica del Ragionamento a Bagattino, la sua scimmia (un dedicatorio che non può essere compromesso da un contenuto tanto lascivo), sono improntate ad un moralismo terapeutico, convenzionalmente satirico: la sua «penna di fuoco» sarà «quel ferro crudelmente pietoso col quale il buon medico taglia il membro infermo perché gli altri rimanghino sani». Ma la rappresentazione non coincide con la condanna: la sua tenuta è anzitutto quella della scrittura comica e di un osceno continuamente provocato piuttosto che condannato. Il Ragionamento e il Dialogo sono opere che la tradizione ha unificato, a partire dallo stesso autore che le cita talora come Capricci o con una delle due intitolazioni. A parte le più trasandate divulgazioni editoriali, è poi prevalso il titolo complessivo di Ragionamenti finché il testo critico curato da G. Aquilecchia (1969) non ne ha proposto uno più decameroniano: Sez giornate. Ma forse è opportuno ripristinare per un’analisi più ravvicinata della materia dialogica e narrativa e delle sue finalità le denominazioni d’origine, rispettivamente del 1534 e del 1536. Il Ragionamento illustra attraverso l’esperienza personale della Nanna, che la racconta alla ruffiana Antonia, i tre stati sociali delle donne: monache, maritate, puttane, a ciascuno dei quali

corrisponde una giornata di dialogo. Essi si svolgono in una vigna di proprietà della Nanna, sotto una ficaia, rifugio estivo contro i calori dell’estate di Roma, dove l’interlocutrice protagonista ritorna ad abitare al culmine della sua carriera di libertina, con dimora alla Scrofa. Di fatto il Ragionamento è un racconto teatralizzato, con una uditrice che commenta, incalza e

fa da spalla, ma non svolge un ruolo argomentativo. Gli episodi contemplati nella prima giornata inscenano la precoce iniziazione sessuale della Nanna, novizia in un monastero-bordello,

dove la norma è la cancellazione d’ogni ritegno, e i tempi sono scanditi per giustapposizione di eventi illustrati come in una pittura murale, parlante per di più: dalla grande abbuffata 136

inaugurale tra monache e monaci, alla visione della camera istoriata con i miracoli postribolari di una santa Nafissa, all’orgia col vescovo, cui la protagonista assiste attraverso una fessura della sua cella sverginandosi con un fallo vitreo avuto in dono alla fine del convito. Il seguito alterna situazioni voyeuristiche e pratiche erotiche con un baccelliere che accompagna la Nanna per tutto il convento e le fa dono di uno speciale breviario, un libricciolo con le dipinture dei sollazzi delle monache. Una sortita dal convento in compagnia di un frate che la conduce alla recita privata di una commedia costerà però alla fanciulla la punizione del cavallo, la flagellazione sulle natiche in uso nelle scuole per gli scolari indisciplinati; ma sarà anche il pretesto per un intervento della madre in suo soccorso e per la sua smonacazione. La seconda giornata s’apre con la personificazione parodistica di un’Aurora adultera, che fa becco con il Sole, dodici volte,

quante le ore del giorno, lo sposo rimbambito, l’antico Titone. Infatti, argomento sono i tradimenti delle maritate. A Nanna per il matrimonio la verginità viene rifatta col sangue di un cappone scannato, ma non l’onestà perduta in convento. «Ogni cosa è meglio che marito» dichiara la moglie di un mercante: un prete, un romito, un «affumato» pedagogo, un villano, dieci servi, una banda di violentatori addestrati al «trentuno», vale a dire alla copulazione collettiva, un venditore ambulante, un or-

ribile prigioniero, ladro bestemmiatore assassino, con cui dividere la prigionia. La Nanna ormai partecipa della morale del tradimento coniugale fino all’uxoricidio. Le varianti novellistiche di quest’unico tema sono svolte come nella prima giornata, nell’alternanza del narrato tra fatti vissuti, visti o uditi, quasi

ad allargare con una casistica virtualmente interminabile il quadro della corruzione domestica, più sfrontata della monacale. Nella terza giornata, il passaggio della Nanna allo stato di puttana, al termine di un itinerario dannifico anziché salvifico, che procede nel senso contrario della Maddalena penitente, comunque in opposizione allo schema della convertita, il racconto si concentra sulla vita della protagonista. Ma ora il sesso perde il suo valore assoluto, di stimolo vitale, in favore dell’avidi-

tà; al principio del piacere si sostituisce quello della realtà, dell’interesse economico che garantisce un mestiere piuttosto che 107

produrre desiderio. La casa di Tor di Nona, dove la protagonista prende residenza con la madre, si apre agli incontri con una clientela di vario rango, dalla quale Nanna trae profitto con un gioco sempre più esperto di adescamenti e inganni. La sua carriera di libertina si è conclusa vantaggiosamente; ma il parere di Antonia, richiesto dal quesito iniziale che motiva la lunga confessione (a quale dei tre stati avviare la giovanissima Pippa) e improntato a una morale antifrastica, risponde alla contrologica del paradosso rivelata da un’esperienza che impone la scelta più degradata del machiavellismo, la necessità di essere «onorevolmente cattivi»: «il mio parere è che tu faccia la tua Pippa puttana: perché la monica tradisce il suo consagramento, e la maritata assassina il santo matrimonio; ma la puttana

non la attacca né al monistero né al marito: anzi fa come un soldato che è pagato per far male, e facendolo non si tiene che lo faccia, perché la sua bottega vende quello che ha a vendere...». Assolto il compito di ricognizione nei tre stati della donna e di una scelta professionale che assoggetta il desiderio a una necessità, il sesso al suo sfruttamento economico, l’Antonia può

uscire di scena per lasciare il posto alla Pippa, la fanciulla da istituire nel puttanesimo. Il Dialogo è appunto una institutio, un de officis della prostituta novizia, in cui però la lezione coincide con l’esemplificazione, anche nella terza e ultima giornata, supplemento al bizzarro trattato che integra la rassegna della vita e costumi della puttana con quelli della ruffiana, il galateo dell’amore venale con quello della seduzione. Aretino in questa seconda parte entra più direttamente a contatto con la materia, quanto meno non trascura di farsi evocare esplicitamente o allusivamente. Già nella dedica, rivolta non più alla sua scimmia ma a un privato gentiluomo (ancora per non compromettere potenti dedicatari nello scandalo dell’opera), Pietro indica la sua autorità di scrittore, indugia in dichiarazioni di poetica, dettate ormai a posteriori dai risultati stilistici del Ragionamento, improntati ad una particolare applicazione dell’ut pictura poesis: quindi, sulla sua passione per la resa pittorica, sul suo «sforzo di ritrarre le nature altrui con la vivacità che il mirabile Tiziano ritrae questo e quel volto», sulla sua rapidità compositiva

che gli fa dichiarare «tutto è ciancia, eccetto il far presto e del suo». 138

Come amico, confidente di cortigiane, Aretino disegna nella prima giornata, attraverso i precetti della Nanna, l’educazione della puttana onesta, i modi della sua conversazione e del suo adattamento a una tipologia di clienti di varia origine nazionalee regionale e di varia caratterizzazione. Il successo della puttana si misura nell’accordo tra sorte e arte, e poiché sulla prima non si può influire, èla seconda che va coltivata. Ma questa va difesa dalle furfanterie degli uomini. La seconda giornata è speculare rispetto alla casistica degli inganni delle donne descritti nel Ragionamento. Le beffe del barone «romanesco», dello scolaro, del «fottivento», del puttaniere, la violenza di un «arci-

trentuno», svolgono una funzione d’avvertimento, del resto riassumibile nella norma che la puttana non può cedere al sentimento. L’amore è la sua pazzia e la sua rovina, e non è un caso che questa parte si concluda con una storia tragica, in un acme addirittura di pateticità, con la Pippa che viene meno per la commozione del racconto, come Dante alla pietà dei due cognati. La proposta di due ruffiane, la Comare e la Balia, di rallegrare la giovinetta con la rievocazione delle loro ruffianerie interviene a questo punto come una soluzione strutturalmente felice. La terza giornata del Dialogo è una farsa finale in cui madre e figlia fanno da spettatrici. Non è tanto il registro linguistico che qui muta, quanto l’attitudine a incorporare, di là dalla fenomenologia della seduzione e corruzione professionale, una varietà di temi umili, uno sciocchezzaio di pregiudizi usanze tradizioni popolari e, continuamente intercalato (come nei trattati d’amore le rimerie petrarchistiche), un repertorio di componimenti poetici giocosi e amorosi, dove Aretino si compiace di confondere la sua produzione giovanile con quella anonima di verseggiatori per la memoria e di trasmissione orale. Dietro il divertimento c’è anche altro: il male che guasta la vecchiaia delle ruffiane: il mal francese, e poi gli sfregi, la povertà. Ma Aretino vuole chiudere l’opera in decrescendo, perché l’effetto comico di questi suoi «capricci», come egli stesso li chiama, non si alteri, risuoni pacatamente con gli ultimi saluti della piccola brigata femminile: «una buona sera» e «buona sera e buono

anno» — congedi flebili pronunciati in anticlimax. Più che un esemplare di letteratura pornografica, nel senso letterale di opera di contenuto puttanesco (come il poemetto La 139

puttana errante di Lorenzo Venier), il Ragionamento e il Dialogo sono un unicum che neppure i loro classici modelli, i Dialoghi delle cortigiane di Luciano, riescono a spiegare, chiusi come sono in uno schema bozzettistico e finanche idillico. L'impianto ideologico si spiega più per contrasto dell’affabulazione bassa (del basso materiale esplorato da fondamentali ricognizioni di M. Bachtin, che tuttavia trascurano il contributo aretiniano) alle argomentazioni alte, ispirate al platonismo più ascetico o più mondano, della trattatistica rinascimentale. L’impudicizia si afferma qui come sistema autosufficiente in senso morale ed artistico, così come negli Asolani del Bembo e nel Cortegiano del Castiglione il sistema della cortesia si afferma nella sua chiusa dimensione etico-sociale ed erotico-spirituale. Ciò che colpisce e incrementa lo scandalo non è tanto la materia quanto il suo trattamento, la sua netta originalità strutturale rispetto alla corrente produzione libellistica sulla vita e sui costumi delle prostitute, spesso equivocamente moralistica, come lo pseudo aretiniano Ragionamento del Zoppino. La trasformazione della cortigiana, da richiamo puramente funzionale del codice sessuale a personaggio, s’era attuata in commedia; e più ancora, ai tempi dell’Aretino e per merito dello stesso Aretino commediografo, la trasformazione della ruffiana in personaggio. Anche la novellistica e poi la lirica danno testimonianza degli splendori, non solo delle miserie, delle cor-

tigiane. In più, due testi spagnoli pubblicati in Italia, un capolavoro, la tragicommedia Celestina di Ferdinando de Rojas tradotta da Alfonso Hordognez e stampata più volte a partire dal 1505 e 1506, e il romanzo dialogato £/ retrato de la Lozana Andalusa di Francisco Delicado, del 1528, offrivano modelli di esem-

plari carriere libertine e corruzioni ruffianesche oltre che pretesti narrativi, che possono aver influito sulla struttura dialogiconovellistica dell’opera aretiniana, così come del resto influivano su altri testi licenziosi o galanti ma non pornografici: un capolavoro sull’arte della seduzione come la Raffaella di Alessandro Piccolomini (1539) e il più tardo e convenzionale Specchio d’amore di Bartolomeo Gottifredi, tuttavia inconcepibili, l’uno e l’altro, senza il precedente di Aretino. Nel Rinascimento lo spazio dell’osceno non è esclusivamente occupato dalla pornografia. Nei Sonetti lussuriosi pornografia e osceno coincidono, se è vero che quel kamasutra romanesco il140

lustra accoppiamenti tra prelati e puttane; ma il Ragionamento dimostra che l’osceno invade tutte le condizioni del rapporto uomo-donna fino alla sua degradazione a meretricio. E neppure l’osceno è materia di esclusiva pertinenza della letteratura irregolare: pervade tutto il territorio della letteratura d’intrattenimento, dal poema cavalleresco al teatro, alla novella. Ma come espressione di un culto fallico libertino, s'era rivelato con un singolare dialogo accademico degli Intronati di Siena, La

Cazzaria di Antonio Vignali soprannominato l’Arsiccio Intronato. Aretino certo conosceva quel testo ridotto presto in clandestinità, considerati i suoi costanti rapporti con quel sodalizio di gentiluomini-letterati assurti poco dopo a notorietà internazionale per il loro magistero drammaturgico. Ma non ne adottò né l’ideologia libertina, rigida fino all’empietà, né il meccanismo dialogico che contamina trasgressione e depravazione, narrato e vissuto, insistendo su un’ossessività genitale che arriva alla personificazione degli organi sessuali e all’allegoria. Nella breve parabola del dialogo osceno del Cinquecento la differenza tra La Cazzaria e il Ragionamento è segnata da una parte dal livello aristocratico degli interlocutori, stretti da connivenze sodomitiche e segrete finalità politico-religiose, dall’altra da una intenzionale degradazione sociale dei personaggi — coppia comica piuttosto che interlocutori — cui Aretino affida, coerentemente con il loro stato, la pronuncia triviale della conversazione. L’importanza storico-letteraria dei dialoghi aretiniani sta qui, nell’aver fondato lo statuto sociale della letteratura oscena, anche topologicamente, trasferendo la cornice dall’accademia alla ficaia. Nel Ragionamento e nel Dialogo la vigna e il fico alla cui ombra le interlocutrici prendono posto è funzionalmente niente di più che un /ocus amoenus, come il castello di Asolo, il palazzo ducale

di Urbino, gli Orti Oricellari di Firenze. Ma la vigna e il fico sotto il quale il proprietario va a sedere significano pace e prosperità, stando alla Bibbia. E sotto il fico il re e le regine degli umili regni si diceva amministrassero giustizia. Aretino come scrittore coglieva nella vite una immagine di fecondità («la natura è simile a una vite carica di grappoli», scriverà al Doni, «e l’arte prodotta da lei il palo che la sostiene»); come lettore e divulgatore delle Scritture, ne avrà percepito le significazioni, celebrate dal Lotto della cappella Suardi a Trescore e dal Ruz141

zante della Littera all’Alvarotto. Il valore simbolico della cornice dei dialoghi puttaneschi come segno del benessere e dell’umile, e sconcia, regalità della Nanna, non può sfuggire, e le attestazioni dell’Antonia stanno là a ribadirne l'evidenza. Ma la suggestione più forte per l’ambientazione doveva venirgli dal Decameron, dai poggi in cui la brigata fiorentina si insedia distribuendo a turno titoli di re e regine. Niente di traumatico, come la peste fiorentina, e nessuna sublimazione paesaggistica; solo una vigna fuori porta per ripararsi dal solleone romano e nessuna interferenza descrittiva nel racconto. Ma l’ambientazione s’iscrive nella coerenza strutturale e formale dell’opera in nome della quale Aretino non esita a esibire la sua concorrenza con Boccaccio e addirittura a vantare un primato: «Perdonimi il Centonovelle:



esclama

l’Antonia,

ammirata

dai racconti

della Nanna — egli si può andare a riporre. — Questo non dico io: — replica con prudenza la narratrice — ma voglio che egli confessi almeno che le mie son cose vive, e le sue dipinte». La coincidenza tra esperienza e narrato nell’autobiografia della protagonista giustifica una tanto orgogliosa affermazione.

Lo schema dialogico-trattatistico si manifesta nella complicità compiacente delle interlocutrici come il mondo degradato che viene descritto e commentato fino a determinare effetti di ipnosi e di eccitazione; ma si risolve di fatto nelle situazioni narrati-

ve condotte al limite dell’esasperazione grottesca e ripugnante. Una scrittura plebea, voracemente espressionistica, parodistica, gestuale (quindi visiva), dilaga per un continuo impulso deformante e mimetico in tutta l’opera di là da ogni convenzione retorica e condizionamento vernacolare, e la sua riuscita è tanto

più elaborata e fiorita proprio in ragione della sua oscena dismisura. Piuttosto che introdurre una nozione troppo onnicomprensiva di manzerismo, è preferibile rifarsi per una scrittura tanto magmatica a quella più stringente, con la sua incalzante istanza di deformazione,

di espressionismo, ormai riconoscibile

come tendenza linguistico-letteraria del Cinquecento anche su altri versanti: il maccheronico di Folengo, il dialetto di Ruzzante. Ma vale anche l’istanza dell’edonismo sottolineata da C. Segre. Aretino gioca con la sua materia su vari registri espressivi e (come è stato notato da G. Patrizi) anche con vari generi letterari. Contraffà il parlare «puntato» delle preziose ridicole,

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la madonna-schifa-il-poco, la madrema-non-vole, il periodare elaborato dei bembisti e i cincischiamenti verbali dei vagheggi-

ni infarinati di letteratura; si fa beffe delle censure linguistiche, delle pedanterie, dei petrarchismi e boccaccismi d’accatto; abbonda in similitudini strabocchevolmente attinte al mondo naturale e animale, talora celate dal richiamo allusivo, favolistico

mitologico folcloristico; incorpora nei racconti brandelli di realtà vissuta, di «cose viste»; chiama in causa personaggi reali e proverbiali; passa in rassegna «diverse generazioni» di uomini e tipologie sociali, nazionali e regionali; s'abbandona anche al gusto compositivo, alessandrino, del quadretto adorno, im-

preziosito dalla cura descrittiva dei particolari, come nelle pitture giustamente celebri di un’addobbatissima celletta monacale e di un coltivatissimo romitorio nella prima e nella seconda giornata del Ragionamento. La sua mimesi parodistica si impegna stilisticamente con la Commedia, convertendo in pochade V’incipit aurorale di Purgatorio 1x e, in un elaboratissimo rifacimento narrativo della seconda giornata del Dialogo, con l’Eneiwde, trasferendo nell’attualità e travestendo canagliescamente in «un barone romanesco, non romano, uscito per un buco del sacco di Roma, come escano i topi», il pio Enea e il suo tradimento di Didone. Ma è nel confronto col Decameron che la sua prova di scrittore osceno va valutata. Aretino non perde l’occasione di polemizzare con i succubi della fruderie lessicale, riprendendo argomenti rivendicativi propri del naturalismo rinascimentale e della stessa poetica della natura di Boccaccio. «Cento volte ho pensato», dice per interposta persona, «per che conto noi ci aviamo a vergognare di mentovare quello che la natura non s'è vergognata di fare». E Antonia rimprovera la Nanna nella prima giornata del Ragionamento perché in luogo di parlare alla libera e dire «cu’, ca’ po’ e fo», si esibisce in una serie di variazioni sostitutive del vocabolario sessuale. Ma la Nanna respinge l’invito di dire sì al sì e no al no, adducendo una ragione di com-

portamento onorevolmente cortigiano: «Non sai tu che l’onestà è bella in chiasso?» In realtà Aretino ha colto in Boccaccio l’efficacia oscena della parola travestita e si fa maestro anche lui di arte allusiva, rinunciando alla soluzione stilisticamente più

triviale, della denominazione diretta, che pure poteva tentare il

suo gusto della trasgressione. Finge perciò omissioni ed eufemi143

smi per ricavarne imprevedibili effetti metaforici, accumula serie sinonimiche per lo stesso oggetto provocando dilatazioni iperboliche della descrizione e sfruttando oltre ogni limite effettistico l'amplificazione del referente osceno, così come nel racconto si serve dell’effetto di cumulo con un calcolato intento di coinvolgimento del lettore nella sovrapposizione delle situazioni. Non è da escludere peraltro che i dialoghi fossero destinati anche a una recitazione di salotto. Su una recita in casa sua del Dialogo di amore di Sperone Speroni c’è una precisa testimonianza dello stesso Aretino in due lettere del giugno 1537; e certo il testo platonizzante dello Speroni non è confrontabile con la mimica drammatica dei capricci aretiniani. Una loro lettura che tenga d’occhio la retorica del recitare è tutt’altro che ingiustificata; si deve anche prestare l’orecchio (come ha fatto G. Ferroni) alle voci dell’istrione. Ma la contestualità retorica è inscindibile da un’intertestualità semantica e insomma dall’ideologia del moralista, o meglio dell’immoralista. Una specie di religione del sesso sembra affiorare da una sentenziosità tanto apodittica quanto indimostrabile. «Io ti dico», afferma solennemente la Nanna, «che noi nasciamo di carne e in su la carne muoiamo; la coda ci fa e la coda ci disfà».

La sentenza può arrogarsi un diritto di verità naturale, fisiologica, e la conclusione sembra convalidare col linguaggio di una sibilla da postribolo il senso tragico che molto più tardi Georges Bataille assegnerà all’erotismo come «conferma della vita fin dentro la morte». Ma forse Aretino stravolgeva rivelazioni dell’Apocalisse: io sono l’alfa e l’omega, il principio e la fine; trasferendo però il potere di vita e di morte a un demonio: poiché la coda è certo il fallo che richiama un attributo grottesco del diavolo. La tentazione di tracciare uno schizzo del sistema aretiniano, come quello di Pierre Klossowski per il sistema di Sade, potrebbe anche sedurre, specie se si isolano alcuni episodi dove l’eccesso naturale, insofferente di regole civili, si manifesta più ostentatamente, con sinistre caratterizzazioni dei personaggi, per esempio il ribaldo prigioniero che spinge due donne al sacrilegio e all’assassinio in forza del suo magnetismo genitale, nella seconda giornata del Ragzonamento. Senonché il racconto aretiniano non esce mai dai confini del comico, si ri-

solve in uno spettacolo carnevalesco in cui l’attrazione priape144

sca agisce come principio di rigenerazione vitale e il satanismo è la maschera sguaiata che libera dall’orrore con la risata. La natura si afferma qui come forza immorale, ma la società civile e religiosa non può reprimerla del tutto; è costretta a ve-

nire a patti, a familiarizzare col diavolo. La funzione correttiva una volta assegnata da Aretino a Pasquino ora è passata a Priapo. Il dio della fertilità (anche dell’orto, che testimonia della prosperità puttanesca) presiede a questo ciclo di vita e di morte, dove la vicenda singola della Nanna s'inserisce con la forza di un impulso naturale teso a sopravvivere a dispetto di ogni costrizione sociale e di ogni ritegno etico e spirituale. Ma il suo curriculum di libertina, toccando alla fine un traguardo di acclamata

meretrice, testimonia anche di un affrancamento

dalla soggezione a Priapo e pretende a un valore di esemplificazione morale in forza di un diverso principio di identificazione. Risolvendosi in professione, il sesso diventa strumentale a una logica economica, e la vulva, non più il fallo, domina i rapporti sociali. Attraverso la sua esperienza, il mondo si è rivelato alla Nanna per quello che è: «mondo guasto», «mondaccio», dove il mestiere di meretrice diventa professione di donna onesta che «non la attacca né al monistero né al marito» e trarne profitto significa svelare alla società la sua cruda fisionomia di grande postribolo. Questa mago mundi postribolare non è solo parodistica; è la rivelazione comica di una dismisura, di una disarmonia; del-

l’impossibilità di ridurre la realtà fisica al principio di armonia e di ordine spirituale superiore celebrato dalla cultura ficiniana con tutte le sue varianti mondane. Perciò Roma, punto di partenza e di arrivo della Nanna, non è un approdo fittizio: è il centro di quel mondo guasto, propagandato come centro dell’unità spirituale. Una volta era caput, ora è coda mundi, aveva già detto Boccaccio e ripete Aretino nella Cortigiana. La commedia di Pasquino resta il testo complementare delle giornate puttanesche. Roma entrava nel teatro della memoria di Pietro Aretino smussata dei risentimenti più personali e l’esperienza biografica si trasformava in quella letteraria. Componendo il Ragionamento, dilatandone poi la materia nel Dialogo, Aretino agiva con un disinteresse artistico che mai aveva rivelato con altrettanta dedizione. Da un libro dedicato a una scimmia, per dispetto contro impossibili vantaggi, non po145

teva attendersi che un successo equivoco e una rischiosa clandestinità. Ma non seppe trattenere l’irrisione che negli anni aveva accumulato e volle rappresentarla deliberando di lasciare (a futura memoria del Belli — del suo grande erede romano) il primo monumento plebeo del comico e dell’osceno. [Introduzione a: Pietro Aretino, Ragionamento- Dialogo, a c. di P. Procaccioli, Garzanti, Milano 1984, pp. vi-xxx, cui segue un’utilissima «Guida bibliografica» del curatore]

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6 - SULLA MEMORIA TEATRALE: I PROLOGHI DELLA «CORTIGIANA»

1. Comincerò col porre una domanda. Quando indichiamo alcuni punti di riferimento spaziali — città, corte e, dovremmo aggiungere, campagna — per recuperare quasi in loco la forma intera dello spettacolo rinascimentale, vogliamo sottintendere che il teatro non è solo dramma, cioè, aristotelicamente, «mimesi di un’azione», ma anche memoria visiva, mimesi di uno

spazio reale oltre che di un tempo reale? Certo, il teatro italiano fino a Goldoni fu anche questo, e tale continua a volerci apparire nel sopravvivente repertorio dialettale, dove tuttavia la localizzazione linguistica coincide spesso con una coloritura folclorica, con una caratterizzazione esotica del quotidiano, ed è perciò stesso spazio irreale. Invece in Goldoni Venezia costituisce ancora un amalgama festivo e feriale sia dello spazio interno (/ rusteghî) sia di quello esterno (// campiello), quasi a testimoniare che le due dimensioni del teatro borghese, quella all’aperto della scena italiana e quella al chiuso della commedia classica francese, possono convivere nella memoria cittadina del poeta comico. Infatti a teatro, anche a teatro, lo spazio è memoria; magari simulata nell’attualità di un accadere presente, simultaneo per chi agisce e per chi assiste. Così quanto meno, per venire al nostro tema, lo spazio si manifesta nelle commedie di Pietro Aretino, laddove ovviamente esso è espressamente evocato da inconfutabili segnali verbali e iconici: soprattutto nella prima e nella seconda Cortigiana, nel Marescalco e nella Talanta. Vale la pena indugiare seppure per poco su una scena, la terza dell’atto primo, di quest’ultima commedia, dove un procedimento illusionistico visivo-prospettico e mimico-verbale assegna allo spazio un valore simbolico di attualizzazione e di memorizzazione. Di quella scena è protagonista messer Vergolo, veneziano, che porta nel nome un blasone decameroniano di fatuità.' 147

«Son venuto ad abitare in Roma con la brigata solum perché — confessa a Ponzio, romanesco — Marchetto mio figliuolo unico possa, o per sua virtù o per mio dispendio, ottenere qualche grado di quegli che si acquistano e che si comprano in corte». Intanto fa il galante con la cortigiana Talanta e impiega il suo tempo in ammirare le grandi «manifatture» architettoniche e artistiche dell’urbe pagana e cattolica. Anticaglie e monumenti moderni molto distanti fra loro — Pantheon e Colosseo, San Pietro, Colonna di Traiano e Torre della Milizia, Tabula-

rium, Arco di Settimio e Templum Pacis (ossia Basilica di Massenzio) — sono tutti disposti davanti a lui nella prossimità fittizia di una prospettiva che garantisce effetti di vicinanza e lontananza e soprattutto consente di adattare alle misure brevi del tempo teatrale quelle lunghe del percorso cittadino coperto da messer Vergolo a dorso di una mula cavalcata goffamente, come fosse una gondola. Fin qui l’illusionismo spazio-temporale funziona a vantaggio della contrapposizione comica tra Roma e Venezia e della canzonatura del fatuo veneziano. Ma la cavalcata mette capo in Parione alla statua di Pasquino, alla mutila effigie cui la città attribuiva il compito di esprimere i propri malumori cortigiani, clientelari e popolari, a quel Momo marmoreo che mascherava l’aggressività satirica e scandalistica di Pietro e ne diffondeva e amplificava il messaggio per tutta Roma. Servo e padrone si mostrano delusi davanti a quella corrosa figura: «Egli mi pare un sasso, padrone», osserva Scrocca; e messer Vergolo più solennemente: «Minuit presentia fame». Ma Ponzio a suo modo chiarisce la differenza tra l’immagine reale e il suo valore simbolico: «Il caso suo, messer Vergolo, se gli nasconde in bocca,

come il fuoco in ne le pietre». «È dunque invisibilium il suo furore?», domanda stupito l’altro. «E di che sorte!» conclude l’a-

stuto interlocutore.* La Talanta fu scritta nel 1542 per una grande associazione

teatrale, la Compagnia della Calza, che la rappresentò con scena ed apparato del Vasari. Aretino trova modo di celebrare l'avvenimento proprio nella stessa scena m dell’atto 1, sfruttando un vivace effetto di straniamento: Scrocca e messer Vergolo lamentano che essendo essi a Roma perdono l’occasione di assistere alla «commedia de la Compagnia de la Calza» (cioè la stessa 7alanta che stanno recitando), per la quale «un messer

148

Giorgio d’Arezzo, di etade di un xxv anni, ha fatto una scena e uno apparato, che il Sansovino e il Tiziano, spiriti mirabili, ne

ammirano». Veneziano ormai da quindici anni, doppiamente in gloria come «divino» e come «flagello de’ principi», Pietro esalta il primato teatrale della Serenissima, del resto innegabile in età pretridentina, e intanto recupera da lontanto lo spazio della sua prima rischiosa avventura di intellettuale eslege e di letterato irregolare memorizzata dalla presenza della sua controfigura di pietra, dal volto sfigurato di Pasquino. Che quel sasso nasconda ancora del fuoco è solo una vana minaccia. La Roma dipinta dal giovane Vasari si è ricomposta in una prospettiva rasserenante. Non sappiamo se una tela ne coprisse il volto fino all’apparizione degli attori come nella scena della prima, inedita Cortigiana, il testo, questo sì bruciante, del 1525. In ogni caso il pubblico veneziano non avrebbe potuto supporre, come tanti anni prima quello romano, che «ci fussi sotto la torre di Babilonia», quando invece, rassicura divertito il prologo, «sotto ci era Roma»: Vasari non vi aveva rappresentato quell’accumulo sghembo di monumenti piazze chiese strade osterie che la tela della prima Cortigiana sembra fare confusamente intravedere. Meno che mai si sarebbe trovato di fronte all’immagine di una città fatiscente, desolata dal saccheggio, quale appare nella scena della seconda Cortigiana. Purgati «i suoi peccati in mano de li Spagnuoli», Roma si è

di fatto ricomposta sulle sue misure classiche. Anzi nel ’42, sotto Paolo mi, è un cantiere di nuove sistemazioni farnesiane, come

appare nello spaccato di Campo di Fiori che Annibal Caro rappresenterà di lì a un anno negli Straccioni col fervore di chi partecipa a lavori in corso. In questo spazio rimesso in ordine Pasquino ha perduto la sua funzione. In compenso Aretino ne acquistava un’altra, più ambiziosa, che da tempo esibiva e propagandava. Nel suo teatro questa trasformazione è iscritta nei tempi di una composizione; è testimoniata da un’impossibile coincidenza, tra rappresentazione attuale e memoria di uno spazio.

2. Niente forse quanto i prologhi della Cortigiana può far misurare il percorso compiuto dall’ Aretino come scrittore e come intellettuale fino al traguardo veneziano. La prima versione 149

della commedia — il prologo lo afferma senza equivoci — è opera di Pasquino, la seconda — anche in questo caso il prologo è inequivoco — è opera «di profeti e di vangelisti»: «è trama di Pietro Aretino». Che significa questo passaggio dalla maschera al volto, dall’alter ego all’autore? Esso registra intanto un risultato sociale, la fine di una condizione di precarietà rischiosamente giocata con una serie di iniziative letterarie garantite, parzialmente, da un anonimato tutt’altro che indecifrabile: una Farza, sonetti, una «disperata», la stessa Cortigiana, in-

somma l’attività romana di Pietro Aretino, poeta libellista, satirico, comico.’ «Io avevo imparato — esordisce l’Istrione 1 della Cortigiana 1525 — un certo proemio, diceria, sermone, filostoc-

cola, intemerata o prologo che se sia, e ve ’1 volevo recitare per amor de un mio amico, ma ognun mi vuole in pasticci. Ma se voi siate savii, plaudite et valete». Uno sbrigativo congedo dovrebbe sostituire per prudenza una diceria certo non innocua, una lavata di capo, una «intemerata», che lo metterebbe a re-

pentaglio di essere «crucifisso». Per molto meno «un messer Mario romanesco» lo ha minacciato, un Ceccotto genovese lo ha assaltato, «una certa monna Maggiorina» in fama di strega ha mandato contro di lui grida al cielo, infine un messer Lorenzo Luti, senese, ha cacciato mano ad un coltello. Sappiamo che di lì a poco il coltello fu usato con brusco vigore e serio annuncio di ulteriore danno, tanto che Pietro pensò bene di abbandonare Roma. Era la fine del luglio 1525; la Cortigiana era ancora fresca d’inchiostro, e la vendetta paventata dall’Istrione, sia pure per altra mano, non si era fatta attendere. È vero, l’attentato fu un atto punitivo non imputabile alla petulanza di Pasquino, ma alla sortita scandalistica dei Sonetti lussuriosi, più ancora a un contegno provocatorio che nessuno, meno che mai un parvenu sia pure di genio, poteva permettersi, specie quando era in gioco la riforma morale della Chiesa. I colpi di pugnale inferti su commissione o col consenso di un prelato austero quanto implacabile sancivano insomma la fine di un mandato popolare e di un’impunità tacitamente garantita dalla protezione papale. Intanto il prologo andava recitato. L’Istrione n, incaricato di esporre la trama, insiste perché ciascuno faccia l’ufficio che gli compete dal momento che egli non vuole gettare via l’«argomento, serviziale, cristero». «La serie sinonimica — commenta 150

a questo punto il primo editore della commedia, Giuliano Innamorati* — corrisponde a quella precedentemente usata dall’Istrione del Prologo» (proemio, diceria ecc.). Bisogna aggiungere che mentre «argomento» è deviato in «serviziale» e «cristero» (clistere) per lo sfruttamento burlesco ormai corrente della terminologia medica ippocratea, «prologo» è nella congerie la definizione tecnica che valorizza il carattere ambiguo di questo numero teatrale oscillante tra propiziazione e provocazione del pubblico col quale l’autore, per suo tramite, scende a contatto. La diceria della prima Cortigiana forza lo schema della provocazione fino al limite della tollerabilità ludica. Le chiamate in causa di persone reali, l’allusione circostanziata a un esercizio rischioso di pubblica derisione e maldicenza intonano il proemio alla retorica del vituperium. Perché il genus turpe si sviluppi con forza fino a un’acme in cui l’invectiva si rovescia in laudatio l’aggressione deve avere un bersaglio immediato: la «turba di sfaccendati» che corre allo spettacolo come era corso a un’esecuzione capitale di congiurati antipapali, con la differenza — aggiunge il prologo — che «almen quando quel medico da Verzelli e i compagni si squartorno, e’ si sapeva per due giorni inanzi per che e per come». La brutalità del richiamo a un cruento episodio di repressione pontificia vale come avvertimento intimidatorio nei confronti di quella tumultuante udienza: la commedia non è puro divertimento irresponsabile; nasconde altre finalità: «Sarà qualche satrappo che dirà essere venuto per avere qualche piacere dalla commedia, come se la commedia non avesse altra facenda che farlo ridere». L’«altra facenda» taciuta dal prologo non sarà poi diversa dalla funzione satirica e correttiva generalmente assegnata alla commedia. Ma l’Istrione ha bisogno di antagonisti feroci, come un domatore di circo, per valorizzare il suo rischio. Già subito,

senza aspettare che l’azione cominci, potrebbe vituperare quelli che non staranno in silenzio ad ascoltare. Non lo farà perché altrimenti tutti scapperebbero per la vergogna e «monna comedia» rimarrebbe sola, senza pubblico, quindi nell’impossibilità di essere recitata. In realtà tutti vogliono rimanere a perder tempo: piccoli clienti di curia che invece dovrebbero pensare a pagare la pigione e il salario del «famiglio», ingraziarsi il maggiordomo, andare a cena o dire le devozioni, ma anche signori e reverendi che sopportano «le some de’ beneficii per andare 151

dietro a le favole», per correre alle commedie.° Pur di assistervi,

non si curano di stare a disagio, quando a San Pietro, se messi nelle stesse condizioni perfino per l’ostensione del volto Santo, chiederebbero a «Messer Domenedio» di tornare un’altra volta. Tanta calca per vedere una favola, cioè una rappresentazione scenica. Il successo sembra registrato di mala voglia, ma a questo punto il gioco può essere svelato. L’Istrione ha fatto un po’ lo smargiasso per burlare gli spettatori «nobilissimi, costumati e virtuossi» che affollano la sala e che la «ciancia» ha preso per modello. Infatti il suo nome è La Cortigiana, la commedia del cortigiano, rispecchiamento scenico della sua mediocre avventura sociale.’ Annunciato, esibito con spavalderia tra omissis e allusioni, il

vituperium non ha voluto prendere corpo; si è risolto anzi in captatio. Ma l’intemerata sospesa sul capo del pubblico è servita a qualcosa che soddisfa molto più del gusto della maldicenza: ad imporre una presenza in teatro, quella di Pasquino finora petulante in sonettesse, e a introdurre uno stile di commedia. Tra gli esemplari della nuova drammaturgia che Aretino tenne presenti, la Mandragola mi pare occupi il primo posto: per l’aggressività che anima il prologo, per l’irrisione della favola drammatica che non risparmia nessun valore corrente e che spiega anche le puntuali imitazioni.’ Eppure a Pietro la commedia di Machiavelli doveva apparire troppo indiziata di autobiografismo, finanche di moralismo. Per il momento egli preferiva dare la delega a un alter ego marmoreo, a una vox populi; si celava nell’anonimo fustigatore della corte romana, garantendosi libertà di parola col sostegno della solidarietà cittadina. L'attribuzione a Pasquino della Cortigiana premiava una carriera segnata all’inizio dal gusto accademico del certame poetico, poi dalla polizza maledica e dal repertorio satirico dei sonetti caudati; ma anche recuperava la prima immagine di aspirante cortigiano disegnata nella Farza con i deboli tratti del genus humile virgiliano, con le facili risorse del dialogo mimico e la cadenza elementare delle rime al mezzo. Al culmine di questa carriera c’è un organismo letterario finalmente elaborato come rappresentazione totale, con azioni situazioni personaggi: una composizione «difficile», una commedia, che tuttavia non rinnega le sue spurie origini, dalla letteratura e dalla strada. Essa è «per padre toscana e per madre 152

da Bergamo», un ibrido di due razze, un sangue misto, come il

suo autore, Pasquino il bastardo. «Bastardo è egli, questo è certo» afferma il prologo. Ne fa prova la sua lingua che indica una forte escursione tra il massimo della proprietà ed eleganza toscana e il minimo della rozzezza bergamasca, ossia facchinesca. Nato in Parnaso, ma dall’illecito parto di una delle nove muse, non da Apollo, egli può vantare in forza della sua illegittimità un vocabolario antipetrarchistico: niente «sonetti lascivi, unti, liquidi cristalli, unquanco, quinci e quindi, e simili coglionerie, cagion che madonne muse non si pascono si non d’insalatucce fiorentine». La musa giace anemica sul giaciglio del petrarchismo; ma certo, ammette il prologo, lo stile irraggiungibile di «ser Petrarca» impone d’«andare dietro a le autorità sua»; altro stile tuttavia è lo stile della commedia, perché «circa al parlare non c’è pena niuna, salvo se non se dicessi el vero». Che la commedia fosse la dimensione contestuale del parlato

anziché un’ulteriore occasione testuale di scrittura, che fosse il

luogo in cui la lingua degli istituti letterari veniva a verificare la sua proponibilità effettuale, Aretino lo sapeva sin da questa prima prova. Di suo, di propriamente suo, aggiungeva una petizione di verità: la professione del vero vantata da Pasquino. Quanto al resto, l’Istrione dell’Argomento si incarica di prevenire le critiche a supposte infrazioni della norma: la verosimiglianza delle beffe è garantita dalla circostanza «ch’in corte si vegono tutto il dì miracoli assai maggiori»; la duplicità dell’azione («doe comedie in una medesima scena nascere e morire» ) è un atto di soperchieria cortigiana, di Mona Comedia Cortigiana, «molto più temeraria che la prosomptione»; la frequenza eccessiva del protagonista in scena è sintomo della sua pazzia lasciata sfogare «perché Roma è libera»; la novità del parlare «fuor di comedia», vale a dire: lo spazio concesso ai molti «ragionamenti» o dibattiti che interrompono l’azione, è correlativa alla novità del comportamento moderno («perché se vive a un’altra foggia qui, che Atene non si faceva»); infine — Oquesto l’argomento decisivo — «colui che ha fatto la novella oe omo di suo capo, né lo riformaria il Vescovo di Chieti». La sfida non va sottovalutata. Gian Piero Carafa, trent'anni

dopo papa col nome di Paolo rv, aveva con San Gaetano Thiene fondato l’ordine dei teatini e sviluppato un’azione riforma153

trice che infastidiva l’ambiente cortigiano. Chiamarlo in causa in quella animata circostanza significava farsi portavoce baldanzosamente di quel fastidio che gli altri si limitavano a mormorare e solo Pasquino s’attentava di esprimere. Se si pensa che il pontificato di Paolo 1v significherà il trionfo dell’Inquisizione, si potrebbe leggere nella dichiarazione sprezzante che chiude bruscamente l’Argomento una testimonianza di indisciplinabilità resa a futura memoria. Sul momento però la sfida sembra piuttosto un’orgogliosa difesa di privilegi cortigiani e diritti cittadini. In questo senso non ci dovrebbero essere dubbi sulle intenzioni morali e non ancora ideologiche di questa prima iniziativa teatrale di Pietro Aretino. In altri termini La Cortigiana non è l’anticommedia delle corti, ma la commedia della corte romana, una rappresentazione dall’esterno, dalla città, che apre brutalmente, squarcia anzi l’interno, il ventre del Palazzo dove domina l’ingordigia e il capriccio e la gente che lo affolla è destinata ad essere spinta in basso dai pochi fortunati che restano in alto: verso quella bocca d’inferno che è il «tinello», descritto rabbiosamente dal Rosso nell’atto quinto.! Del resto, l’immagine della corte-ventre non è anticipata dall’ Argomento quando stizzosamente risponde al Prologo che ha riempito il suo «cristero» di merda? Imbrattare l’uditorio era solo lo scherzo di un aspirante cortigiano. Ma Aretino era compromesso con quella ignobile materia; ci stava ancora dentro. 3. Nove anni più tardi, quando decise di togliere la commedia dalla clandestinità, Pietro non riconosceva più come attuali le ragioni di quel vituperium. Alla tenzone tra gli istrioni sostituì un più breve dialogo senza distinzione di prologo e argomento tra due figure che escono dal coro degli spettatori, piuttosto che dei recitanti: un Forestiere e un Gentiluomo." L'attacco del primo interlocutore unisce subito la lode di un «gran maestro» con quella del «pomposo apparato». La celebrazione dell’autore giunge più tardi, al culmine di una serie decrescente di attribuzioni in funzione elogiativa che servono anche a porre in più netta evidenza il blasone letterario di Pietro con quel titolo di profeta e vangelista che lo sopravanza su tutti gli altri stemmi. Le lodi che immediatamente seguono, di principi laici ed eccle-

siastici hanno così il crisma della verità e dell’indicazione parsi154

moniosa, di pochi eletti. Non varrebbe la pena di soffermarsi ancora su questo dialogo tanto povero di provocazione e anche di risorse verbali e mimiche in confronto col precedente se la sparizione dell’istrione fosse soltanto un sacrificio reso a circostanze di rappresentazione ormai molto diverse: al nuovo pubblico veneziano, cittadino piuttosto che cortigiano, che è fuori dalla commedia, e non si contempla più né si identifica nei soggetti comici. Ma quella sparizione testimonia anche il congedo di Pasquino dal prologo e dall’autore e la sua sostituzione con la figura anagrafica e individualmente potenziata dell’Aretino, cioè con l’autore che promette di far udire «cose di profeti e di vangelisti». Non bisogna trascurare in tanta enfasi encomiastica certi segnali retorici che servono a colorire l’autoritratto veneziano di Pietro. Per esempio una figura di preterizione, dopo la lode di tre altri «gran maestri» sbrigativamente ricordati dal Gentiluomo come «Lorena, Medici e Trento». Il Forestiere finge di stupirsi: «Ma perché non diceste il cardinal de’ Medici, il cardinal di Lorena e il cardinal di Trento?». «Per non assassinargli il nome con quel cardinale», replica il Gentiluomo. «Oh, bel passo!», commenta l’altro divertito. Si ricordi un'analoga provocazione antitoscana di Dante nel canto x1v del Purgatorio (vv. 2530) che nasconde, in quel caso, con una perifrasi il nome d’Arno a due nobili spiriti di Romagna: «Perché nascose / questi il vocabol di quella rivera, / pur com’uom fa dell’orribili cose? / ... Non so; ma degno / ben è che il nome di tal valle pera». L’imprecazione dantesca non sarebbe rievocabile in un contesto letterario tanto diverso se non fossero in gioco anche qui come nel canto del Purgatorio «le donne e’ cavalier, li affanni e li agi» che ne invogliava anche l’imitazione ariostesca in apertura di poema. Del resto Dante era già stato evocato direttamente come scrittore inalterabile per la sua terribilità poche battute prima per bocca del Forestiere: Può far Domenedio che i poeti ci diluvino come i Luterani?; se la selva di Baccano fosse tutta di lauri, non basterebbe per coronare i crocifissori del Petrarca, i quali gli fanno dir cose con i lor comenti, che non gliene fariano confessare dieci tratti di corda. E buon per Dante che con le sue diavolerie fa star le bestie in dietro, ché a quest’ora saria in croce anch'egli."

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Ma se imitatori e commentatori hanno paura di misurarsi con Dante, Aretino non si fa scrupolo di parodiarlo all’inizio della seconda giornata del Ragwnamento: La Nanna e la Antonia si levaro appunto in quello che Titone becco rimbam»bito volea ascondere la camiscia alla sua signora perché il giorno roffiano non la desse nelle mani del Sole suo bertone: che di ciò accorta, strappandola di mano al vecchio pazzo, lasciandolo gracchiare ne venne a lui più imbellettata che mai, risoluta di farsi chiavare alla barba sua. x. volte e di tal cosa farne rogare ser Oriuolo notaio pubblico."

Maestro di arte allusiva, Aretino sviluppa qui in farsa della gelosia la prima terzina di Purgatorio rx, che ha già del resto una coloritura coniugale comica («La concubina di Titone antico / già s'imbiancava al balco d’oriente, / fuor delle braccia del suo dolce amico»), in cui anche Ariosto aveva colto un implicito ammiccamento canzonatorio: «Era ne l’ora che le chiome gialle / la bella Aurora avea spiegate al Sole, / mezzo scoperto ancora e mezzo ascoso, / non senza sdegno di Titon geloso» (Orl. Fur. x1, 32, 5-3). È poco forse per parlare di dantismo comico aretiniano, e tanto meno di un’incidenza della Commedia nella

riscrittura di quella commedia romana, quasi fosse possibile integrare il treatment decameroniano della seconda Cortigiana, puntualmente verificabile, con un treatment dantesco.'* Ma il modello del poeta esule, fustigatore dei vizi, correttore dei potenti, depositario di un messaggio riformatore, certo dovette lusingare il fuggiasco Pietro. Allettato dapprima e poi deluso da una corte splendida ma provinciale come quella dei Gonzaga a Mantova, finalmente anch'egli fa parte per se stesso e diventa libero scrittore cittadino di una repubblica che nell’atto n (sc.

vil, 5) della Cortigiana 1534 è esaltata come esempio di libertà e di giustizia; come la «Città Santa e il paradiso terrestre». Nella Cortigiana 1525 la meta del servitore deluso era sempre la corte, Mantova, «dove la eccellenzia del marchese Federico non nega

el panne a niuno»: meta comunque provvisoria in attesa che Clemente vir «acconci le cose del mondo, non sol d’Italia» e

che rilevi «la virtù, come fece Leon suo fratello». Dopo il ’27 la scelta è definitiva. In un'Italia «imputtanita» da guerre pesti carestie immoralità Aretino rinuncia ai percorsi avventurosi, allettanti finché potevano coincidere con quelli di un condottie156

ro come Giovanni dalle Bande nere, e sfugge alla sirena ingannevole della corte. Dirà un interlocutore del Ragionamento delle

corti (1538):

Io ho inteso da le croniche che la Corte si chiamava Morte, e perché la ciurma impaurita da sì crudel suono non si poteva far trottare a servirla, la riverenza sua messe il C in luogo de lo M.'

Sfuggendo a quel funebre incanto è più facile per Aretino recuperare le ciance e le pazzie cortigiane, tanto quelle mantovane e vigilate dall’alto del Marescalco, quanto quelle romane e in-

controllabili in basso della Cortigiana. Pasquino è estromesso dal prologo, ma è valorizzato molto più di prima all’interno della commedia. All’interno della prima Cortigiana è presentato infatti come colui che ha per natura «una lingua che taglia» ed è per arte «Poeta di porco in la ribecca» (1. 24.4). Si tratta in quest’ultimo caso di una qualificazione enigmatica che nessuno, a quanto mi risulta, ha sciolto perché forse non è decifrabile se non come linguaggio cifrato, di gergo furbesco.'’ Comunque, nella seconda Cortigiana la funzione di Pasquino è storicamente e letterariamente precisata: maestro Pasquino è «uno che ha stoppati dietro signori e monsignori», vale a dire ha ridotto a mal partito i potenti, è insomma flagello di principi e, in quanto artista, «lavora al torno di poesia» (1. 22.5); il che significa letteralmente che esercita la sua satira in versi, ma con l’aggiunta espressiva del lavoro al tornio che accentua l’asprezza di quell’esercizio poetico. Tra i prodotti del laboratorio di Pasquino sono citati nell’atto m (8.4) alcuni campioni esemplificativi, gli incipit di una serie di sonetti, mentre alla fine, nell’atto v (15.11), è ricordata la festa ormai soppressa di Pasquino, il 25 aprile, giorno di San Marco e della grande processione alla chiesa del santo. Infine, Pasquino è il castigatore irriducibile delle corti, è colui che «sempre ne parlò e ne parlerà» (m. 7.18). La sua funzione aggressiva è dunque potenziata dentro il nuovo spazio della memoria romana, e i suoi detti anticortigiani sono incisi più fortemente in lapide perché riflettano meglio la sentenza dell’autore. Quanto alla descrizione del ventre della

corte, una regia molto più accorta nello sfruttare l’insieme e i particolari di quello spaccato infernale indica un sostanziale incremento di gusto iperbolico e visionario ma anche la capacità L57

di dominare, come nel Ragzonamento, il movimento di una scrit-

tura ormai incontenibile. Nel 1534 La Cortigiana è diventata piena rappresentazione e memoria di un’avventura. Anche la sua anomalia drammaturgica non ha più bisogno di lunghe giustificazioni, perché è opera di un letterato cui è riconosciuto il diritto all’irregolarità linguistica e strutturale, di uno scrittore che può strapazzare la lingua perché il toscano, il fondamento della nuova grammatica, è suo dalle fasce, mentre il suo stile è furor, dote originaria,

oltre che pretesto continuo di innovazione e di concorrenza col

passato.” Ma la nuova Cortigiana è anche la verifica di una diwvinazione. Lontano da Roma, Aretino aveva diffuso un Judicio over pronostico de mastro Pasquino quinto evangelista del anno 1527, una delle sue trovate di libellista destinate a non sopravvivergli se esse non fossero inscindibili dai risultati del letterato. Il pronostico rimastoci frammentario pare contenesse l’annuncio del Sacco imperiale, evento non catastrofico per le strutture monumentali dell’urbe cattolica ma traumatico certamente per la vita artistica e di corte e le prospettive di ripresa in tempi brevi. Aretino comunque non volle sottovalutare il significato apocalittico di quell’evento che confermava il suo prestigio di «astrologo» e «profeta divino», riconosciutogli subito dal marchese di Mantova, e la giustezza della sua scelta cittadina, anticortigiana." Si trovava peraltro tra le sue carte inedite o censurate un testo comico suscettibile di essere interpretato come un presagio. Eppure La Cortigiana fu tenuta in serbo per quasi dieci anni. Troppi per una revisione che non alterava le circostanze storiche e ambientali che reggono la fabula, per un revival della Roma medicea, ancien régime. Aretino avrebbe potuto esumarla come immagine di un mondo pazzo, senza disciplina e senza catene, prima del castigo luterano e delle restaurazione. Ma come scrittore «libero», con ambizioni dantesche, di proscritto se non

di esule, non poteva rinunciare a un’occasione di personale punizione e di vendetta. La Cortigiana del ’34 risente di questo conflitto tra autore e opera. Nonostante gli aggiornamenti e le allusioni a una Roma popolata di ciance, in cui «tutte le cose vanno alla lunga, eccetto il ruinarsi» (V. 25.10), e a parte la radicalizzazione della polemica anticortigiana e del linguaggio comico-teatrale, l’opera resta condizionata dalla memoria spazio-temporale della città 158

di Pasquino. All’autore è riservata una parte «fuor di commedia», quella del prologo, ed egli la recita non più coinvolgendo il pubblico nello spettacolo (e anche dopo lo spettacolo con l'appuntamento a Ponte Sisto datogli nel congedo della prima

Cortigiana) ma lasciandolo nel suo «luogo ... bello e alteramente adorno», fuori dalla scena in cui s’affaccia una Roma irriconoscibile. «Questa è Roma? misericordia, io non l’avrei mai riconosciuta», esclama il Forestiere. «Io vi ricordo — ammonisce il

Gentiluomo, alias Pietro — ch’ella è stata a purgare i suoi peccati in mano de gli Spagnuoli, e ben n'è ella ita a non star peggio». Poi i due presentatori dello spettacolo si tirano da parte per lasciare entrare in scena lo sciocco protagonista. Ma l’autore non sa ancora rinunciare a una frecciata vendicativa in prima battuta:

«In fine Roma

è coda mundi», esordisce messer

Maco. «Capus voleste dir voi», lo corregge il servo. Infatti in quei termini di meraviglia s’era espresso dieci anni prima il padrone: «Per certo che Roma è capus mundi». Una volta era lo stupore del provinciale che intonava il ritmo dell’azione; ora è un lapsus, un lapsus apparentemente innocuo di marca boccacciana:” quanto basta per il distacco ironico dell’autore e del pubblico da una materia non più attuale, per segnare la distanza tra lo spazio dell’avventura intellettuale e quello della memoria teatrale, per misurare il percorso compiuto da Roma a Venezia.

NOTE

1 Cfr. Decameron, rv, 2.12, vi 4.6. Per la Talanta come per le altre commedie indispensabile il contributo di m. BARATTO, Commedie di Pietro Aretino, del 1957, poi in 7re studi sul teatro (Ruzzante, Aretino, Goldoni), Vicenza 1964, pp. 135-142. Sull’apparato e l’invenzione scenica dello stesso Aretino cfr. ora G. FERRONI, Le voci dell’istrione. Pietro Aretino e la dissoluzione del teatro, Napoli 1977, pp. 205-216. 2 P. ARETINO, Teatro a c. di c. PETROccHI, Milano 1971, pp. 353-58. Citerò d’ora in poi da questa edizione che include la redazione romana della Cortgiana, datata verosimilmente tra il febbraio e il luglio 1525 e conservata in un codice magliabechiano della Biblioteca Nazionale di Firenze. P. LARIVAILLE nella sua folta e scrupolosissima ricostruzione monografica (L’Aretin entre Renaissance et Maniérisme. 1492-1537, Université de Lille, 1972, t. 1, pp. 105 e 110, t. 11, p. 881, n.85) sposta di due anni, al 1527, la redazione dell’apografo e fa supporre un intervento non più «romano» dell’autore su un testo ancora abbozzato. Ma l’unico passo che imporrebbe questa postdatazione è tutt’altro che vincolante. Il richiamo del prologo a «la buona e santa memoria de l’Ar-

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mellino» non è personale ma per un soggetto interposto, «la Marca», che svela l’ironia del compianto, del resto avvertibile per l’inciso successivo: «con reverenza parlando». Non era necessario che il cardinale Francesco Armellini morisse (nel ’27) perché i marchigiani ricordassero la sua «buona e santa memoria», cioè le sue malefatte di tesoriere pontificio e le richiamassero alla mente dei romani presso i quali il prelato aveva acquistato altrettanta avversione col suo nuovo ufficio di camerlengo. La convinzione del Larivaille è funzionale all’avvertimento, che egli dà poco dopo, di non trarre conclusioni rischiose sull’attività letteraria e politica dell’Aretino nel 1525 da un testo che non le autorizzerebbe. Cfr. anche p. 112: «Aussi, loin d’ètre la violent réquisitoire qu'elle deviendra plus tard, la Cortigiana de 1525 rest-t-elle avant tout fielleux mais prudent plaidoyer fro domo, une sorte d’autobiographie modérément polemique doublée d’une tentative plus ou moins consciente d’exorciser la faillite imminente de sept années d’effort». 3 Il LARIVAILLE, Op. cit., t. 1, pp. 62-65, ha messo in dubbio la paternità aretiniana della Farza, affermata dal primo editore del componimento, Vittorio Rossi (in appendice a Pasquinate di Pietro Aretino ed anonime per il conclave e l’elezione di Adriano VI, Palermo-Torino 1891). Ma mi sembrano resistentissimi gli argomenti di G. INNAMORATI (Tradizione e invenzione in Pietro Aretino, Messina-Firenze 1957, pp. 125-135) in favore dell’attribuzione. Aggiungerei alcuni echi di memoria interna, meccanismi ripetitivi d’autore che rinviano dalla Cortigiana alla Farza: p.e. l’associazione Pasquino-Coliseo (cfr. farza v. 42; Cortigiana 1 red., 1, xxIv, 3-4) e l’identica caratterizzazione di Aretino e di Pasqui-

no come lingue taglienti (Farza, v. 244; Cortigiana 1 red., loc. cit.). 4 Cfr. La Cortigiana, a c. di G. INNAMORATI, Torino 1970, p. 135, n. 5.

5 Cfr. Prologo, 5: «Ma voi non volete star quieti; orsù ch'io vi chiarisco ch’io vi vitupererò tutti; per Dio!, per Dio!, che se non fate silenzio ch’io sciorrò el cane e dirò: el tal è agens, el tal è patiens. E se non ch'io ho rispetto a monna comedia, che rimarebbe sola, io publicarei tutti i deffetti vostri...».

Mi pare che ecceda il senso di questa concessione al pubblico la lettura che ne fa Mario Baratto (La commedia del Cinquecento, Vicenza 1977, n ed., p. 71): «il che significa: se vi aggredissi direttamente, non potrei fare la commedia, perché non potrei più attenermi alle regole dell’organismo alla cui elaborazione mi propongono di contribuire». Credo che qui non siano in gioco i principi della drammaturgia cinquecentesca, semmai i limiti pubblici dello scandalismo. La minaccia, «sciorrò el cane», implica solo un’idea di fuga da

parte degli aggrediti e, da parte di chi recita, il rischio del teatro vuoto. Di «un rabbioso fastidio» per «il carattere rituale dello spettacolo», di coscienza della «assurdità di questa convocazione “rituale”», è indotto a parlare, a commento dello stesso passo, il Ferroni, vol. cit., pp. 41-42. E già Innamorati (introd. a La Cortigiana, ed. cit., p. 11) aveva indicato nel prologo aretiniano «un inedito esorbitante spettacolo di controcommedia», estendendo poi la qualifica di «controcommedia» (p. 17) a tutt’intero il testo. Radicalizza questa posizione fino a rovesciarne il rilievo dato a supposte intenzioni programmaticamente antistituzionali, M. Tonello nel suo importante contributo linguistico (Lingua e polemica teatrale nella «Cortigiana» di Pietro Aretino, in AA.vV., Lingua e strutture del teatro italiano del Rinascimento, pres. di G. FOLENA, Padova 1970, p. 214): «La prima Cortigiana non è un fatto letterario: è piuttosto un episodio di vita civile, un gesto di sfida beffarda rivolto a una società che di lì a poco dovrebbe espellerne violentemente l’autore». Quanto alla svalutazione politico-letteraria da parte di Larivaille della fase romana di Aretino, in connessione con problemi di datazione (della Cortigiana 1) e di paternità (della Farza), cfr. supra, nn. 1 e 2.

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6. commento dell’Innamorati (p. 136, n. 29) assegna a «favole» il senso di «vane illusioni». Ma il valore tecnico del termine (favola comica, commedia) è testimoniato poco dopo: «A fé che c’è tale che sta a un sinistro strano; e per che cosa?, per vedere una favola». 7 Ancora Innamorati (p. 136, n. 37) preferisce intendere il nesso «a contemplazione vostra» come «per voi, per il piacere, il diletto vostro», riducendo a mossa cerimoniosa l’ironia implicita nella presentazione di una «ciancia» nata contemplando appunto il comportamento dei cortigiani e perciò intitolata La Cortigiana. Forse è nel vero Larivaille (op. cit., t. 1, p. 883, n. 89) secondo il quale qui Aretino «joue scienment sur les deux sens possibles de l’expression». 8 Una palese reminiscenza è nella scena xvi dell’atto m il dialogo tra il guardiano d’Araceli e Aloigia. Interessante nella revisione del ’34 (1, xn) il ritocco del personaggio del guardiano, messo subito in evidenza come frate Timoteo nella Mandragola. Per quanto riguarda i criteri compositivi dei due commediografi, vale la distinzione di Guido Davico Bonino: «Machiavelli è il commediografo della funzionalità estrema... Arétino, all’opposto, è scrittore della prodigalità e della dispersione». Cfr. l’introduzione a // teatro italiano. La commedia del Cinquecento, t. 1, Torino 1977, p. xxx. 9 Cfr. l’efficace conclusione dell’Innamorati alla sua introduzione più volte citata: «L’uomo che nel 1522 aveva già detto, et pour cause: “E poi in Roma ognuno è l’Aretino” poteva bene assumersi la responsabilità di far parlare Roma per sua bocca, nel 1525, babelicamente, restituendo alla vita la immagine totale di una pazzia collettiva bloccata, irrimediabile». 10 Per la riscrittura di questa scena (xm dell’atto v) nella seconda redazione (xv, stesso atto) cfr. le mie notazioni in Anticlassicisti del Cinquecento, Bari 19453, pp. ‘24-29! 11 Cortigiana, prologo, in P.A., Teatro, cit., pp. 97-100. 12 Prologo, 3. La polemica contro i commentatori di Petrarca è qui molto più contratta che nel prologo della Cortigiana I, dove non si fa peraltro cenno a Dante. L’allusione al «diluvio» dei luterani riprende l’invettiva contro Lutero svolta nella dedica in omaggio all’azione repressiva del vescovo di Trento e incorpora forse una citazione petrarchesca da Canzoniere, cxxvm, 28-30: «O diluvio raccolto di che deserti strani, / per inondar i nostri dolci campi!». 13 Ragionamento Dialogo, a c. di P. Procaccioli, intr. di N. Borsellino, Milano 1984, p. 73. Si veda anche nella Giornata Terza (ed. cit., p. 146) l’utilizzazione ancora parodistica e oppositiva del binomio Dante-Petrarca: «NANNA. Quattro altre volte, prima che ci levassimo, il suo cavallo andò fino al mezzo del camin di nostra vita. ANTONIA. Sì disse il Petrarca. NANNA. Anzi Dante. ANTONIA. O il Petrarca? NANNA. Dante, Dante». ea i [Per un’interpretazione dell’uso parodistico dei classici latini e volgari cfr. ora P. PROCACCIOLI, Per una lettura del «Ragionamento» e del «Dialogo» di Pietro Aretino, in «Rassegna della letteratura italiana» xc1 (1987) 1, pp. 46-65]. 14 Cfr. il mio Aretino e Boccaccio. Conclusioni sulla scrittura scenica dal Cinquecento, in Rozzi e Intronati. Esperienze e forme di teatro dal «Decameron» al «Candelato», Roma 1976, n ed., pp. 211-228. i 15 Il Ragionamento delle Corti, a c. di G. BATTELLI, Lanciano 1914, p. 11. Sul dialogo aretiniano cfr. A. QUONDAM, La scena della menzogna. Corte e cortigiano nel «Ragionamento» di Pietro Aretino, in «Psicon», I, 1976 (1977), n. 8-9, pp. 4-23. Riprende e integra la fantasiosa etimologia G. BARGAGLI nella Pellegrina, 1, 8,

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attribuendola all’innamorato Terenzio, travestito da pedante: «Uomo di corte! indignum facinus. Se voi aveste revolute tante carte quante ho fatto io, avreste trovato come la corte, ab initio si appellava morte, ma perché gl’uomini perterefatti da questo nome, si astenevano dalle aule regali, i magnati, mutata prima lettera m in c, la chiamavano corte. Ma in questo modo ancora portende mala cosa, quasi che faccia le vite de gli uomini corte e dia loro anche ricompense corte» (Commedie del Cinquecento, a c. di n. BORSELLINO, Mi-

lano 1962, vol. 1, p. 456). 16 La nota di Innamorati (ed. cit., p. 142, n. 101) denuncia un’oggettiva difficoltà interpretativa: «Quanto a poeta di porco, non saprei intendere se non forse nel senso di proclamatore delle altrui porcherie. Il che, del resto, suonerebbe bene con il programma polemico dell’Aretino, così come non stonerebbe ad esso il richiamo alla «ribecca», cioè allo strumento popolaresco delle stornellate, delle proclamazioni coram populo di storie divertenti e salaci». Azzardo l’ipotesi che «ribecca» anziché essere omologata su «ribeca», potrebbe fungere da spia gergale. Cfr. il verbo «rebeccare», «ribeccare», nel senso di capire, cogliere a volo, registrato dai dizionari del furbesco, p.e. in quello di Teseo Spini e nel Modo nuovo de intendere la lingua zerga, riprodotti in // libro dei vagabondi, a c. di P. CAMPORESI, Torino 1973. «Poeta di porco in la ribecca» potrebbe valere: poeta di straordinaria intelligenza. Per «ribeccare» cfr. anche il commento di Angela Casella alla Cassarza (in prosa), 1, vm, 15, in L. ARIOSTO, Commedie, a c. di A. CASELLA, G. RONCHI, E. VARASI, Milano 1974, p. 999, n. 83. Per l’atteggiamento di Aretino nei confronti del furfantesco è fon-

damentale la «memoria» del 1967 di G. AQUILECCHIA, Pietro Aretino e la lingua zerga, ora in Schede di italianistica, Torino 1976, pp. 153-169. 17 Il concetto di furor è enfatizzato nell’ammonimento ai pedanti contenuto nella celebre lettera a Nicolò Franco del 25 giugno 1537: «O turba errante, io ti dico e ridico che la poesia è un ghiribizzo de la natura ne le sue allegrezze, il qual sì sta nel furor proprio, e mancandone, il cantar poetico diventa un cimbalo senza sonagli e un campanil senza campane» (Pietro Aretino, Lettere. Il primo e il secondo libro, a c. di F. FLORA e A. DEL vira, Milano 1960, vol. 1, p. 193).

18 Cfr. la lettera del Gonzaga datata 28 maggio 1527, riprodotta in A. LUZIO, Pietro Aretino nei suoi primi anni a Venezia e la corte dei Gonzaga, Torino 1888, e ora in Larivaille, of. cit., t. n, p. 911, n. 52.

19 Decameron, V. 3.4: «In Roma, la quale come oggi è coda così già fu capo del mondo». Cfr. in proposito Rozz: e Intronati, cit., pp. 220-221.

[In Z/ teatro italiano del Rinascimento, Edizioni di Comunità, Milano 1980, pp. 225-240]

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7 * SCHEDE BOCCACCISMI

PER BANDELLO: E MACHIAVELLISMI

1. Avrei forse dovuto ridurre al singolare i termini di confronto indicati nel titolo. Questo sondaggio intorno alla presenza di Boccaccio e Machiavelli nel novelliere bandelliano non vuole tanto esibire i risultati di un censimento più o meno provvisorio quanto rendere conto di un percorso di lettura trasversale che può correggere schemi interpretativi correnti (forse so-

lo da poco messi in crisi) secondo i quali l’autore delle Novelle sembrerebbe assolutamente immune nella sua incontinenza narrativa da irrequietezze formali e tanto più ideologiche. Invece Boccaccio, da un parte, gli rivelava una dimensione di scrittura inaccessibile per un narratore che voleva ostinatamente restare dentro i confini della narrazione, vale a dire della «memoria del mondo»,' Machiavelli, dall’altra, gli manifestava

un limite della ragione per Bandello invalicabile: l’occasione, offerta allo scrittore dalla stessa «memoria del mondo», di una

nuova radicale analisi della natura degli uomini e della storia, che avrebbe incrinato la sua ideologia. Schedare boccaccismi e machiavellismi è servito alla fine a suggerirci questa conclusione e, in un ambito di più stretta pertinenza narrativa, a mettere in rilievo le modalità bandelliane del comico e del tragico.

Sappiamo intanto che il territorio entro cui resta confinata un’opera tanto immane come le 214 Novelle è quello delle res

piuttosto che dei verba. Non è un caso che nella pur folta bibliografia bandelliana manchi un consistente contributo linguistico e stilistico e, di più, che le edizioni più autorevoli, del Brognoli-

go e del Flora, non abbiano generato glosse e commenti, insomma le indispensabili pettinature della trama formale ed espressiva del testo. Certo le analisi retoriche verranno, anzi sono già in corso. Ma sembra di capire che esse privilegino con l’argomentazione discorsiva la messinscena di un apparato tematico 163

e ideologico piuttosto che i procedimenti formali. Vero è del resto che a questo proposito risultano condizionanti le disarmate e disarmanti ammissioni dello stesso Bandello. Ricordiamole rapidamente. Nell’appello della parte prima, «Ai candidi e umani lettori», l’autore attribuisce alla defunta

Ippolita Sforza, moglie di Alessandro Bentivoglio, la responsa-

bilità di aver messo in moto un meccanismo narrativo che, una

volta avviato, egli non può più interrompere. D'ora in poi asseconderà le occasioni del narrare e soddisferà le esortazioni degli amici a pubblicare le sue trascrizioni del reale in novella.® Questa preliminare disponibilità all’occasione consente a Bandello di giustificare l’assenza di un ordine che presieda alla costituzione del corpus novellistico e alla successione tematica, ma anche la mancanza di stile. La sua lingua non è, egli afferma, il «fiorentin volgare» di Boccaccio, dal momento che egli non è né fiorentino né toscano, ma lombardo. D’altra parte Bandello non ci dice neppure che lingua sia la sua, anche se noi constatiamo che si tratta di uno standard fiorentino che l’autore controlla con estrema prudenza, al punto da limitare al minimo le escursioni espressionistiche, idiomatiche e dialettali eventualmente affioranti nel parlato dal narrato, addirittura segnalando preventivamente gli scarti dalla norma con la messa in evidenza delle intrusioni più caratterizzanti. Nell’età di Bandello la polemica sugli stili, entro e fuori le linee segnate dal dibattito sulla lingua, era vivacemente sostenuta dalle tendenze centrifughe della cultura letteraria cinquecentesca. Plurilinguismo, espressionismo dialettale, sperimentale e maccheronico avevano trovato modo di rivelarsi proprio in area lombardo-veneta. Ma sul terreno del confronto con Boc-

caccio solo Aretino poteva vantare un attestato di originalità e azzardare una gara in campo comico in nome della sua padronanza del toscano sin dalle «fasce». Quanto a Bandello, quella gara era impossibile, e il suo lombardismo non comportava rivendicazioni di primato regionalistico, come in Folengo o Ruzzante, e neppure adesioni a sperimentalismi da laboratorio tardo-umanistico d’ascendenza polifilesca. Di una sua trascorsa solidarietà allo stile apuleiano di certi prodotti della letteratura neolatina, come la Calipsychia del Radino, troverà modo di fare ammenda nella dedicatoria della novella n della parte m, dove accetta la condanna di quello stile bollato come «feccia dell’e164

loquenza latina» dal cardinale Domenico Grimani, difensore

del «candido e purissimo latte de l’eloquenza ciceroniana». La conversione al ciceronianesimo è in sintonia con la sua

opzione per un volgare letterario d’irradiazione toscana, consolidato dalla lezione di modelli illustri e dall’esperienza moderna fatta propria dai grandi letterati non toscani del Quattrocento terminale e del primo Cinquecento, dal Sannazaro al Bembo all’Ariosto. Del resto la sua formazione umanistica lo portava verso soluzioni linguistiche unitarie che di fatto gli aprivano gli spazi europei nei quali furono prontamente assimilate le Novelle. La rinuncia a ogni tentazione di marginalità o particolarismo espressivo, l’adozione di uno standard narrativo nazionale su base toscana sono certo elementi fortemente coadiuvanti per la fortuna europea di Bandello, di quel Bandello novelliere europeo dal quale si diramano tanti percorsi del racconto e del teatro nell’età moderna, finanche della poesia, come testimonia un recente confronto a distanza tra Bandello e Baudelaire pro-

posto da Jean Starobinski.* Fuori da ogni possibilità soggettiva di confronto restava invece per Bandello il Decameron, modello per la sua opera insieme produttivo e inattingibile. Per la sua iniziativa di narratore egli sceglieva altre ragioni. Nel rapporto stile-storia che ogni scrittura intenzionalmente mimetica, narrativa o teatrale che sia,

istituisce con la realtà Bandello privilegia il secondo termine. L’«istoria», come egli dichiara a conclusione del proemio delle Novelle, può dilettare «in qualunque lingua ella sia scritta». Come dire che nella partita di scambio con lo stile la storia fa aggio sulla lingua, l’inedito sull’edito, come vuole la brigata di dotti gentiluomini e dotte gentildonne della dedicatoria di 1 21 che rifiuta la proposta di Girolamo Cittadino di leggere una o due novelle del Boccaccio per intrattenimento e decide in favore del nuovo: «di quelle o istorie o novelle che così non sono divolgate».° L’excusatio del proemio Bandello la riprende più volte, per esempio nella prefazione alla parte terza dove ribadisce la sua origine «gotica» e chiede di essere perdonato delle imperfezioni di lingua chiamando in causa la patavinità di Livio e le critiche finanche a Virgilio e Omero. Di fatto, tuttavia, un problema di scrittura si poneva nel momento in cui egli si faceva mediatore dell’«istoria». Lasciare a crudo i fatti era impossibile. 165

Intanto nell’alternanza delle due dimensioni del reale, il co-

mico e il tragico, che le Novelle acquisiscono e sviluppano, s’înseriva l’alternanza dei rispettivi registri e quindi una messa in rilievo di procedimenti stilistici. Ma più in generale è nel passaggio dall’ordine dell'immaginario, che include la «istoria», a quello del simbolico, nel quale si esercita il discorso e si articola la scrittura, che le questioni di storia, di racconto, diventano

anche questioni di stile: chiamando in causa codici ideologici e codici letterari, insomma modalità di descrizione e di rappresentazione proprie della civiltà rinascimentale. 2. Alcuni esempi diventano a questo punto d’obbligo. La novella im della parte 1 svolge il tema antagonistico della beffa femminile e della controbeffa maschile evidentemente ispirato (ma con pacificazione amorosa dopo la rivincita) a due novelle della giornata vii del Decameron: della vedova Elena e dello scolare Rinieri (vn) e della palermitana Jancofiore alle prese col giovane mercante Salabaetto (x), tuttavia con più precise rispondenze in altri corpi novellistici, /! Pecorone di ser Giovanni Fiorentino (11 2) e Le piacevoli notti dello Straparola (vi). È un’avventura raccontata col gusto calcolato della simmetria. Eleonora per sottrarre Pompeio all’ira del marito rientrato inaspettatamente in casa nasconde il fastidioso amante, al quale non ha concesso alcun favore, sotto una ricca veste di velluto

posta su una cassapanca. Poi per fargli prendere un solenne spavento sfida il marito a provare la lama di una spada appena acquistata su quei panni, indicando l’altezza del taglio prima nelle gambe poi nelle cosce quindi nel collo dell’atterrito Pompeio; finché non interrompe quello spietato divertimento allontanando il marito dalla stanza e congedando l’amante con la minaccia di lezioni ancora più dure ove non la smetta di sollecitarla. Ma a una ritorsione provvede ora Pompeio. Si finge mortalmente infermo e ottiene che la donna vada a visitarlo nella sua splendida dimora. Qui la costringe a consentire al suo amore, poi attua la vendetta. Fa entrare nella splendida alcova dove la donna giace nuda sotto le lenzuola venticinque gentiluomini della città convocati preventivamente come per un estremo addio, in articulo mortis, ed offre lo spettacolo della salutifera medicina: quel bel corpo nudo lentamente scoperto dai 166

piedi al collo, appena agitato per la vergogna e per il timore della completa rivelazione.” La novella è giustamente celebre. Colpisce la simmetria delle due partite giocate dagli amanti-avversari sullo stesso schema del corpo costretto all’immobilità, ma con mosse opposte: occultamento e simbolica castrazione nel primo turno, denudamento e minaccia di scandalo nel secondo. Ma ciò che incide il racconto nella memoria è un effetto di realtà prodotto dall’evidenza rappresentativa e figurativa delle situazioni piuttosto che dal meccanismo delle beffe. L’irrequietezza mimica del primo atto è determinata dall’incalzante dialogo con un personaggio ignaro del gioco e scioccamente spavaldo; la messinscena del quadro narrativo nel secondo si risolve nello spettacolo dello sguardo, del desiderio di quei gentiluomini protesi verso quel corpo vibrante via via denudato. Come nella Venere di Tiziano (a Dresda), un nudo riempie qui un interno e impone uno stato di sospensione: enigmatica nell’organista del dipinto, rischiosamente inclinato all’indietro forse per cogliere in quella forma prepotente e inattingibile l'armonia che continua a ricercare sulla tastiera, esplicita negli astanti bandelliani, sensibilmente provocati da quel gioco. Basterebbe questa capacità di riempire di carne lo scheletro del racconto e di distribuire gli effetti di scena a fugare ogni ipotesi di goticismo attardato per Bandello e a ribadire la sua collocazione nel pieno della cultura artistica rinascimentale. E gioca a questo fine, sul versante descrittivo, l’ambientazione di marca decameroniana messa in evidenza da prestiti precisi, come i diffusi profumi del «legno aloè e augelletti cipriani», aromi orientali prelevati dagli armadi della siciliana Jancofiore, che impreziosiscono l’apparato erotico-galante di Pompeio. Si potrebbe dire che il calco decameroniano sia qui usato in funzione di raffinata suppellettile descrittiva, come un pezzo d’arredamento, non diversamente dai quadri «di man di maestro Lionardo da Vinci» che adornano «mirabilmente» le pareti della camera da letto di Pompeio. Ma nella novella incontriamo il primo degli stereotipi decameroniani con valenza oscena ovvero libidica: «svegliar tal che dormiva», variazione di «fece tale in piè levare che si giaceva» e di «risvegliandosi tale che non era chiamato» di Decameron vin v 11 67 e 1x x 18. Sono in realtà formule che affolleranno le novelle comico-eroti167

che di Bandello fino a capovolgere i termini del rapporto stileistoria a favore del primo. Sicché, insomma, sarà lo stereotipo accattivante a determinare la necessità del racconto. Tutto il repertorio boccaccesco degli amori etero e omo-sessuali è riutilizzato nelle quattro parti delle Novelle, e spesso, si direbbe, per rievocare situazioni e personaggi del Decameron ormai divenuti proverbiali. Ma si tratta di un materiale perlopiù inerte, che ha bisogno del richiamo all’insuperato modello per provocare il riso: come nella novella n della parte ni, dove la descrizione di uno stratagemma e di una postura erotica di un parrocchiano è omologata sull’incantesimo di donno Gianni a comare Gemmata (Decameron rx) che Bandello scambia con Zita (personaggio in Boccaccio appena rievocato), senza però smarrire il ricordo delle metafore lubriche, come rivela la va-

riazione del decameroniano «piuolo col quale egli piantava gli uomini» in «piuolo col quale si sogliono piantar gli uomini». Di fatto, il domenicano sembra rievocare quelle formule con gusto partecipe e soddisfatto: «pestare il mortaio», «scuotere il pelliccione», entrare con «messer Mazza in possessione del Montenero» (m 2) e soprattutto la preferita, e four cause, «cacciare il diavolo in ninferno», inserita anche in un contesto in-

congruo, vale a dire tragico, come la novella dedicata agli uxoricidi di Enrico vi d’Inghilterra (m 62). Sul versante dell’osceno, le sue risorse sono piuttosto voyeuristiche che espressive, con tendenza a dilatare figure e oggetti fino a determinare effetti di enormità oppure a implicare il lettore in processi di regressione determinati dall’insistenza su particolari scatologici e su un’aneddotica fitta di materia escrementizia, malodorante. Gli effetti di enormità definiscono una

dimensione priapesca e quindi di foia femminile: rivelano la presenza implicita, più che esplicita, del Ragionamento e del Dialogo di Pietro Aretino nel repertorio decameroniano delle Novelle. La capricciosa Zanina, moglie del bergamasco Gandino, «se ne stava tutto °’] dì in camera con il Petrarca, le Centonovelle o

il Furioso... ne le mani, o leggeva la Nanna o sia Raffaella dell’Aretino», si precisa nella novella 34 della parte 1. La sovrapposizione dell’operetta di Alessando Piccolomini, il Dialogo della buona creanza delle donne al Ragionamento della Nanna e dell’Antonia non deve ingannare, perché la sua iscrizione tra le opere aretiniane, forse involontaria, serve come segnale d’appartenenza a 168

un repertorio libertino. Bandello doveva aver pratica con la produzione scandalistica dell’Aretino che tuttavia cita solo in questo luogo e, per interposti personaggi (Nanna e Pippa), ancora in un altro (1 52). È interessante che qui, alla fine di una storia di orrori materni, di cui è protagonista una nuova Medea, la nobile novellatrice senta il bisogno di svolgere una maliziosa difesa del sesso femminile chiamando in causa, senza nominarlo, Aretino e l’immoralismo delle sue puttane e Boccac-

cio, direttamente, per il misoginismo del Corbaccio, ovvero Labirinto d’amore: Bastivi per ora quanto ve n’ho detto. Né sia poi alcuno che presuma biasimare il sesso nostro con dire: — La tale ha fatto e detto. — Biasimi chi vuole la Nanna e la Pippa e chi fa il male, e particolarmente vituperi qual si sia, se cosa ha fatto che meriti biasimo, ma non morda il sesso, ché se Giuda tradì Cristo, non sono per questo tutti gli uomini traditori. Se Mirra e Bibli furono ribalde, non sono l’altre così. Il sesso maschile e de le femine è come un orto che fa erbe d’ogni sorte. Quando tu sei nel giardino, cògli le buone e non dir male de l’orto. Messer Giovanni Boccaccio, perché una donna non lo volle amare, compose il Labirinto, ma pochi ci sono che lo leggano. Deveva dir ma-

le di quella e lasciar l’altre. E chi sa che quella donna non avesse cagione di non amarlo?

Bandello si guarda bene dall’ammettere debiti con l’Aretino, mentre può esibire quelli con un’auctoritas come il Boccaccio del Decameron, screditando però l’astio vendicativo della sua satira antimuliebre. Certo è comunque che le dimensioni dell’osceno bandelliano sono di tipo priapesco-aretiniano, quindi fortemente caratterizzate in senso iconico, ma senza l’ebollizione linguistico-espressiva che è propria delle scritture erotiche di Pietro Aretino. I meccanismi del comico bandelliano sono spesso inceppati dalla stereotipia decameroniana e invece esaltati, anzi dilatati, dall’interferenza aretiniana, come testimonia una no-

vella in questo senso esemplare, la m 46, che visualizza tra le battute di un dialogo a doppi sensi, motteggiatore, l’attrazione di una gentildonna greca per l’enormità sessuale di un giovane pescatore. Il registro comico rivela più di quanto faccia quello tragico, e proprio nell’intonazione del racconto osceno, la condizione, non dico il limite, di Bandello scrittore: una condizione peraltro, come s’è visto, cosciente, che deriva dall’attitudine ad assecondare la sua incontenibilità di fronte al racconto, ad ele-

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vare la storia a principio di narrazione, anziché valorizzare lo stesso meccanismo del racconto: che è, per quanto attiene al comico, un meccanismo eminentemente linguistico, costituzionalmente ambiguo. E in definitiva si può dire che la difficile riutilizzazione e attualizzazione del Decameron nelle Novelle conferma risultati di analisi pluridirezionali sulla fortuna di Boccaccio. Essi spostano dalla novella alla scena, alla scena effettiva, quella della commedia rinascimentale, il luogo della rinascita decameroniana: in un decameron teatrale che traduce la scrittura narrativa in pronuncia scenica.” Bandello, ripeto, ne era cosciente. Quando nella parte rv introduce la memoria del Gonnella, buffone di Nicolò d’Este, e

delle sue «piacevolezze», l’elogio del Boccaccio e del suo incommensurabile magistero stilistico si fa ancor più pieno: «... io dico ingenuamente che non sono così trascurato — arriva ad affermare — che non conosca apertamente che io non sono da esser, non dirò agguagliato, ma né pure posto nel numero di quelli cui dal cielo è dato potere esprimere l’ombra del suo leggiadro stile. Ma mi conforta — aggiunge — che la sorte di questi accidenti non potrà se non dilettare, ancora che fosse iscritta in lingua contadinesca bergamasca» (rv 22, dedicatoria). Il pregiudizio nei confronti del dialetto gli faceva velo. Ma, una volta maturata l’opzione per il volgare, il confronto non poteva essere eluso, a scanso di equivoci sulle sue ambizioni. E tuttavia quell’inaccessibilità stilistica lo tentava. Paradossalmente, il modello per lui inimitabile gli indicava la misura del suo narrare, la possibilità di creare un doppio della realtà, ovvero dell’accaduto, nella narrazione. Ed era una misura che

egli conquistava senza risparmio, mettendo il suo boccaccismo nel conto delle prove.

3. Il rapporto con Boccaccio e subordinatamente con Aretino e aretiniani non coinvolge comunque tutti i procedimenti del comico in Bandello. Due volte almeno il narratore aveva trovato una misura diversa, mutuata dalla commedia.

Si tratta di

due esempi che vanno citati perché implicano nel gioco narrativo intellettuali di prestigio quali Pietro Bembo e Niccolò Machiavelli. La burla sviluppata ai danni del Bembo da un pittore travestito con i panni di un vecchio parente del grande lettera170

to, zotico e petulante (1 10), prende lo spunto dalle beffe di pittori burloni più proverbiali, quelle di Bruno e Buffalmacco «al povero Calandrino e a quel valente medico maestro Simone da Villa»; ma può vantare in questo caso un attestato di superiorità dal momento che il burlato è tutt’altro che «uomo semplice e di nuovi costumi». Anticipando un commento sulle modalità stilistiche con cui la burlesca vicenda sarà rievocata, il narrato-

re aveva sentenziato: «Ma le novelle si scriveno secondo che accadeno, o almeno deverieno esser scritte non variando il soggetto, se bene con alcun colore s’adorna». In effetti, il comico qui è esaltato dalla particolare coloritura ambientale, dalla evidenza quasi palpabile del vissuto, finalmente insomma da una penetrazione indiscreta nel quotidiano, come accade di avvertirla nelle lettere di Machiavelli al Vettori: Comegli fu in sala, parlando schietto il parlar veneziano dei nicoletti, abbracciò il Bembo dicendo: — Lodato sia Iddio, Zenso mio, che

avanti ch'io mora ti veggio la Dio mercé sano — si chiamano l’un l’altro «Zenso» se hanno un medesimo nome; — e con questo lo basciò forte lasciandogli un poco di bava sul viso. E perché sappiate come era vestito, udite. Egli aveva indosso una toga a la ducale che già fu di scarlatto e alora era scolorita e pelata che se le vedeva tutta l’orditura, e non aggiungeva a un gran palmo ai piedi. Aveva poi una cornetta che si chiama da’ veneziani «becca», di panno morello, più vec-

chia che la madre di Evandro e in alcuni luoghi stracciata. La berretta era a la veneziana, unta e bisunta fuor di misura. Le calze erano ne

le calcagna lacerate, con un paio di pantofole che i veneziani chiamano «zoccoli», si triste che i diti dei piedi per la rottura de le calze pendevano fuori. Messer Gian Battista l’abbracciò e gli disse: — Magnifico, voi ci avete fatto torto a non venir a smontar qui in casa nostra,

ché essendo parente del signor Bembo, sète padrone di noi altri. —

Un Bembo più vero del vero, dunque. Così come nella dedicatoria a Giovanni de’ Medici della novella xL della parte 1 un Machiavelli più vero del vero è messo a nudo nel vano tentativo di disporre le milizie del famoso condottiero, capitano della lega di Cognac, attestato col suo esercito sotto Milano: Egli vi deveria sovvenir di quel giorno quando il nostro ingegnoso messer Niccolò Macchiavelli sotto Milano volle far quell’ordinanza di fanti di cui egli molto innanzi nel suo libro de l’arte militare diffusamente aveva trattato. Si conobbe alora quanta differenza sia da chi

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sa e non ha messo in opera ciò che sa, da quello che oltre il sapere ha più volte messe le mani, come dir si suole, in pasta e dedutto il pensiero e concetto de l’animo suo in opera esteriore, perciò che sempre il pratico ed essercitato con minor fatica opererà che non farà l’inesperto, essendo l’esperienza maestra de le cose, di modo che anco s'è veduto alcuna volta una persona senza scienza, ma lungamente essercitata in qualche mestieri, saperlo molto meglio fare che non saperà uno in quell’arte dotto ma non esperimentato. Niente di meno quel dotto benissimo ne parler4 e disputerà dottamente. Messer Niccolò quel di ci tenne al sole più di due ore a bada per ordinar tre mila fanti secondo quell’ordine che aveva scritto, e mai non gli venne fatto di potergli ordinare. Tuttavia egli ne parlava si bene e si chiaramente e con le parole sue mostrava la cosa esser fuor di modo si facile che io che nulla ne so mi credeva di leggero, le sue ragioni e discorsi udendo, aver potuto quella fanteria ordinare. E son certo, se messo mi vi fossi, che sarei stato come un picciolo augello al vischio còlto, che quanto più si dimena e s’affatica d’uscire de la pania assai più s’invischia e miseramente intrica. Ora veggendo voi che messer Niccolò non era per fornirla cosi tosto mi diceste: — Bandello, io vo’ cavar tutti noi di fasti-

dio e che andiamo a desinare. — E detto alora al Macchiavelli che si ritirasse e lasciasse far a voi, in un batter d’occhio con l’aita dei tamburini ordinaste quella gente in vari modi e forme con ammirazione grandissima di chi vi si ritrovò.

Ha osservato Adelin Fiorato che l’aneddoto sulla inabilità pratica del dotto teorico dell’Arte della guerra deriva probabilmente dalla scena 1x dell’atto rv della Mandragola) dove del resto la beffarda impresa è predisposta da Ligurio secondo schemi militari che sembrano già parodiare quelli disegnati nel trattato. In questo caso si tratterebbe di una burla postuma nei confronti di uno scrittore che Bandello loda come facondo dicitore e tuttavia tenta di esorcizzare come spietato analista del male nella novella Lv della parte m. Sono convinto che la Mandragola (come del resto altri testi teatrali, per esempio // Marescalco dell’Aretino) abbiano avuto un notevole peso sulle Novelle bandelliane. A parte un calco minimo di I 2: «i sangui non si confanno insieme», che rinvia alla dichiarazione di Ligurio a Callimaco: «il tuo sangue si confà col mio» (Mandragola, 1 3), resta il fatto che la novella xL introdotta dall’aneddoto machiavelliano mette in gioco «parole simulate» forse in omaggio all’arte machiavellica della simulazione, e soprattutto inscena una situazione di beffa adulterina con iniziativa femminile per la futura organizzazione della relazione fra gli amanti che ricorda abbastanza strettamente il

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comportamento risoluto e le disposizioni finali di Lucrezia convertita all’amore nella commedia di Machiavelli. Ma in definitiva del triplice Machiavelli, «istorico, comico et

tragico», come si sottoscriveva l’ex segretario fiorentino in una nota lettera al Guicciardini, quello che s'impone sia pure per squarci sulla scena delle Novelle è il grande teorico, cioè il tragico, e lo storico: l’autore del Principe e dei Discorsi (che costituiscono, come testimonia la dedicatoria di m 55, un tema di dibattito), ma anche dell’Arte della guerra e delle Istorie fiorentine. È sintomatico che sia proprio quel monumento della nuova storiografia a fornire il tema d’apertura delle Novelle,"° dell’intero corpus. Bandello afferma, come s’è già sottolineato, d’avere rac-

colto le novelle senza un ordine prestabilito. Ma una simile ouverture di tono grave sulla divisione di Firenze in guelfi e ghibellini, e più in generale sulla decadenza della nobiltà come effetto dell’incontinenza passionale, denuncia una volontà compositiva: se non una strategia di narratore, un espediente tattico perché il lettore sia preparato a considerare il variare dei casi e a prenderne diletto con un esempio che serva da ammaestramento. Bandello è orgoglioso di vivere in un’età che non teme il confronto con le antiche. Per questo egli depreca — nella dedicatoria della celebre novella di Giulia di Gazuolo (1 8) — «che non v'è chi si diletti di scriver ciò che a la giornata avviene», che delle belle cose non si tenga «registro come fanno i mercadanti di lor scritture» — aggiunge nella xxxIv della parte 1. Ma è anche vero che questo uomo terenziano, quale Bandello si compiaceva di dichiararsi," deve via via constatare la terribile malignità dei tempi fino a condensare nella dedicatoria della novella Lxn della parte m una storia di «varii e fortunevoli casi», di straordinarie «subite mutazioni» nell’ordine delle

cose «divine» e in quello delle «mondane»: insomma un precipitare di discordie religiose politiche civili ormai irrevocabile. Il modello della prosa machiavelliana, dei rapidi scorci narrativi del Principe e dell’ultima parte dell’Arte della guerra, ha lasciato certamente le sue tracce su queste pagine cariche di una tensione drammatica eccezionale nel novelliere bandelliano. Ma Bandello non può accettare l’irriducibilità alla misura del senso comune dell’implacabile logica machiavelliana. La sua disponibilità terenziana all’umano lo trascinava verso «gli acuti ed ingegnosi Discorsi de l’arguto Niccolò Macchiavelli» e in e)

particolare a discutere la terribile sentenza del capitolo xxvII del libro 1: «Sanno rarissime volte gli uomini esser al tutto tristi od al tutto buoni» (1 55). Ma doveva respingerne la scandalosa conseguenza, secondo la quale una malizia che «ha in sé grandezza o è in alcuna parte generosa» deve essere lodata e onorata. A sua volta come corollario della sua confutazione antimachiavelliana Bandello allega un fiacco exemplum di empietà eccessiva («Infinita malvagità d’un dottore in beffarsi del demonio, come se non fosse inferno né paradiso», recita il titolo della novella Lv), così come nella x1 della parte rv a corollario della condanna di Cesare Borgia, sottolineata nella dedicatoria e poi all’inizio del racconto (quasi in controcanto col capitolo vi del Principe), riprende il motivo, ormai canonico della tragedia italiana dopo l’Ecerinis di Albertino Mussato, della crudeltà diabolica del tiranno della Marca trevigiana, Ezzelino da Romano. Tutto l’incipit, anzi il lungo esordio morale della novella Lv, va letto nella chiave di un antimachiavellismo ormai cre-

scente. Francesco Torre, il narratore, parla ancora con grande rispetto dell’autore dei Discorsi e del Principe, con cui esita di ve-

nire a disputa, ma è costretto a rintuzzare opinioni a suo parere paradossali e certamente pericolose. Egli conosce bene «la condizione de la debole e fragilissima natura umana inclinata e pronta al vizio, senza che abbia maestri che ce lo insegnino». Per questo sono stati ordinati i predicatori, per tener rinfrescata la memoria del bene operare, per riprendere e vituperare le azioni malvage. «Io non posso nel vero se non ammirare, lodare e commendare l’acutezza de l’ingegno del Machiavelli — aggiunge il narratore ribadendo l’elogio della dedicatoria —; ma desidero in lui un ottimo giudicio e vorrei che fosse stato alquanto più parco e ritenuto e non così facile ad insegnar molte cose triste e malvage, da le quali molto leggermente se ne poteva e doveva passare, tacendole e non mostrandole altrui, come fa in diversi luoghi». L’invito alla prudenza s’accorda con il principio formulato in apertura di novella, secondo il quale il male va conosciuto ma non praticato né insegnato: l’intelligenza critica di Machiavelli insomma andrebbe posta al servizio del predicatore, vale a dire del domenicano (quindi dello stesso

Bandello, se egli non fosse tanto attratto dalla debole e fragilissima natura umana), per sostenere la fatica dell’uomo a compiere il bene. 174

Un machiavellismo obliquo attraversa il grande corpo delle

Novelle bandelliane. Benché confutato, il maestro riconosciuto

del realismo etico e politico, il teorico della verità effettuale alimenta il folto repertorio delle azioni umane senza degradarle a petulanti exempla di premesse predicatorie. Si può dire anzi che, quanto alle conseguenze che è possibile trarre da quelle azioni, la morale di questo frate, teologo e poi prelato provinciale, è sostanzialmente laica: non rinvia ad altra autorità che non sia quella che si fonda su una responsabilità intellettuale e sentimentale, su un controllo dei nostri atti come garanzia contro i guasti che minacciano una vita civile gerarchicamente ordinata. La funzione del predicatore esaltata nella novella Lv sembra contraddire questa morale laica, corrente nella narrazione piuttosto che enunciata. Ma la seduzione machiavelliana non poteva essere contrastata con le forze inadeguate dell’uomo terenziano, dell’equilibrata disponibilità all’umano. Da qui la delega al potere religioso. Del resto una messa in questione dell’immagine del potere politico e spirituale non era per Bandello accettabile. Che il male fosse connaturato

all’esercizio dell’autorità e necessario,

come pensava Machiavelli, per la rivelazione di una virtù eccezionale indirizzata a un bene personale e collettivo non era un assioma che un narratore, per quanto spregiudicato nell’ambito di un’etica convenzionale, potesse far proprio, anche senza tira-

re in ballo i dogmi emergenti della Controriforma. Il male secondo Bandello toccava tutti i livelli dell’umanità ed era tanto più evidente nei potenti che negli umili. Per questo andava conosciuto individuandone e manifestandone le conseguenze tragiche. Ma il tragico era per lui iscritto in una fenomenologia delle passioni dove il condizionamento politico contava poco se pure non era irrilevante. Contava di più la fatale soggezione dell’uomo all’appetito concupiscibile, la meno nobile delle facoltà dell'anima stando alla dottrina platonica, simboleggiata nel Fedro con l’immagine dell’auriga-anima razionale che governa il generoso cavallo irascibile e il riottoso concupiscibile. Tanto più grave che a questa forza ingovernabile siano soggetti i potenti nei quali gli umili si specchiano. Ma i loro vizi non mettono in causa un principio d’autorità né sono traducibili nei termini di un’analisi critica della prassi politica quali quelli fermati senza cedimenti al moralismo nel Principe. 175

Come Boccaccio sul piano inventivo ed espressivo, così Machiavelli su quello ideologico offriva un repertorio di situazioni limite. Ma Bandello individua in questi casi eccezionali la pre-

senza del capriccio, della bizzarria, l’irriducibilità dell’istinto e

della concupiscenza alla ragione, cui s’ispira per contrasto la società di gentildonne e gentiluomini messa in scena nelle lettere dedicatorie. In definitiva il confronto con Machiavelli fornisce un’indicazione sintomatica: conferma il trionfo dell’irrazionale che già la critica ha segnalato come un dato rilevante delle Nove/le.'? Un dato che proietta l’opera di Bandello verso dimensioni culturali ormai fuori del Rinascimento. Ed è un confronto che chiarisce anche i limiti di una scrittura intenzionalmente votata alla registrazione onnicomprensiva dell’accaduto, quasi sopraffatta dall’invadenza del reale. Ma infine è un confronto che spiega il senso della fortuna europea di Bandello novelliere, del Bandello tragico fatto proprio dal teatro elisabettiano, incomprensibile senza la presenza di Machiavelli, come dire della tragedia storica dell’Italia, sullo sfondo.

NOTE

1 Cfr r. FLORA, introduzione a Tutte le opere di Matteo Bandello, Milano

1934, vol. 1, pp. xvI-xrx. Ma si veda ancora per il rapporto realtà-racconto il saggio di G. GETTO, // significato del Bandello (del 1955), raccolto in Immagini e problemi di letteratura italiana, Milano 1966. Avverto che le citazioni dalle Novelle vanno riferite all’ed. a c. di G. BROGNOLIGO, Bari 1928, voll. 5, 1 ed. riveduta.

2 Novelle, ed. cit., 1, pp. 1-2. 3 Un’elegante lettera latina accompagnava come prefazione l’edizione milanese del 1511 della Calipsychia di Tommaso Radini Tedeschi. Cfr. c. coDI, Per la biografia di Matteo Bandello, in «Italia medievale e umanistica», xI (1968), pp. 257-92. 4 J. STAROBINSKI, Bandello e Baudelaire (Il principe e il suo buffone), in «Paragone», xxxI (1980), 364, pp. 3-15. 5 Novelle, 1, p. 260 6 Cfr. L. DI FRANCIA, Alla scoperta del vero Bandello, in «Giornale storico del-

la letteratura italiana», LxxvIn (1921), Lxxx (1922), p. 6 (per i riscontri che qui interessano), LKxxI (1923). 7 Novelle, 1 pp. 42-55. 8 Si vedano in proposito i miei due contributi: «Decameron» come teatro e Aretino e Boccaccio: conclusioni sulla scrittura scenica del Cinquecento, raccolti in Rozzi ei Esperienze e forme di teatro dal «Decameron» al «Candelaio», Roma 1976, I ed.

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9 A. CH. FIORATO, Bandello entre l’histoire et l’écriture, Firenze 1979, p. 354. 10 Cfr. Istorie fiorentine, 1 2-3 e Di Francia, art. cit. Ma anche c. AGOSTIcAROSCI, Il Machiavelli in alcune novelle di Bandello, in «Giorn. stor. d. letteratura

italiana», LxIv (1914), pp. 172-82. 11 Novelle, 1 17, p. 210. 12 Mi limito a ricordare due titoli sintomatici: M. SANTORO, L’irrazionale nel territorio dell'umano: Bandello, in Fortuna e prudenza nella civiltà letteraria del Cinquecento, Napoli 1961, e s. BATTAGLIA, L'ingresso dell’irrazionale, in Mitografia del

personaggio, Milano 1968.

[Nel vol. miscellaneo Matteo Bandello novelliere europeo, Tortona 1982, pp. 231-241]

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8 - TRAGICOMMEDIA

DI BENVENUTO

1. Questo centenario della morte di Benvenuto Cellini dovrebbe indurre a una dichiarazione di morte presunta, a constatare la cessazione di fatto del «caso» Cellini. Oggi, a quattro secoli dalla morte dell’artista, ma a poco più di due dalla sua scoperta come autore di una singolarissima autobiografia, è possibile affermare che Cellini non costituisce più un caso, che da tempo la sua opera letteraria — la Vita soprattutto, e il contorno delle Rime e dei Trattati, fatalmente destinati a restare in

penombra — è concordemente passata agli atti della corrente storiografia con un cartellino di classicità che nessuno ormai sa-

rà tentato di strappare. Certo, la fine del caso comporta dei rischi. L’irregolare: per dirla col Vasari, il «terribilissimo» Cellini,' affetto, più di tanti

altri suoi compagni d’arte, da «un certo che di pazzia e di salvatichezza»,° una volta promosso a classico, non può evitare la destinazione della sua opera di scrittore nei musei della critica né la collocazione del suo libro tanto effervescente in scaffali di riguardo adibiti all’omaggio rituale del lettore. Ma dobbiamo rammaricarci di un simile evento? Direi piuttosto che dobbiamo compiacercene. Obbiettivamente, intanto, va rilevato che l’evento era inevitabile, considerate le condizioni di estrema ricettività, per non dire l’attitudine consumistica, anche nei con-

fronti dei prodotti artistici del passato, della nostra cultura. Soggettivamente, come partecipi più o meno attivi dei lavori in corso, volti a ristrutturare i quadri della nostra storia letteraria, aggiungeremo che si tratta di un sicuro risultato, di un sintomo rassicurante di spregiudicatezza critica, restia a limitare in parametri autoritari e normativi la fenomenologia, ricca e imprevedibile, delle opere che si usa ascrivere alla classicità. Del resto, questa promozione a classico era nei desideri dello scrittore. Anzi, Benvenuto desiderava una promozione imme178

diata, e per questo s’era affrettato a inviare all’autorevole concittadino Benedetto Varchi il manoscritto dell’autobiografia perché l’altro vi applicasse la sua «maravigliosa lima» di Accademico fiorentino. Fu una fortuna che egli si imbattesse subito in un lettore perspicace. Varchi capì immediatamente che quel «simplice discorso della vita» non avrebbe sopportato indorature o restauri a stucco e neppure cauti approcci per indirizzare la compagine linguistica a uno stato di norma. Il grammatico optò per l’irregolarità, per l'anomalia, pur di salvare la «verità», cioè il dato dell’esperienza rivissuta, che altrimenti, diceva,

«non apparirebbe». Nella storia della critica celliniana le motivazioni del suo rifiuto a limare l’autobiografia, sufficientemen-

te ricostruibili con la lettera di ringraziamento del Cellini del 22 maggio 1559, sì iscrivono come il primo giudizio di merito; e noi aggiungiamo che si tratta di un giudizio che, sottolineando i

diritti della «verità», orienta verso l’interpretazione della Vita come documento.’ Non sappiamo però se la tutela dell’integrità del manoscritto celliniano da parte del Varchi non fosse anche garantita dai dubbi che oggettivamente l’accorto letterato poteva nutrire circa le possibilità che l'autobiografia avrebbe avuto sul momento d’essere pubblicata. Non va trascurato il fatto che «con il Varchi — come ribadisce da ultimo Rudolf von Albertini — ha

inizio la storiografia cortigiana del principato» e che nella prospettiva della sua Storza fiorentina «alla repubblica demagogica e tirannica e alla tirannide di Alessandro — mi servo sempre delle parole di von Albertini — egli può contrapporre il governo giusto e legittimo di Cosimo».* Ora, la Vita, senza costituire un pericolo per le istituzioni politiche e religiose, considerato il suo carattere assolutamente e dichiaratamente a-ideologico, era per un altro verso un testo incomodo e sconveniente. L’ottica ravvicinata della ricostruzione memorialistica metteva a nudo impudicamente il comportamento dei potenti, e proprio di Cosimo in particolare, per il quale forniva un’immagine di monarca instabile e capriccioso, contrastante con la equanime regalità di Francesco 1 e alternativa rispetto al ritratto apologetico tracciato dal Varchi. Di fatto, proprio perché istituiva la possibilità di un discorso sulle corti, memorialistico, non trattatistico, la Vita finiva per apparire una palese smentita dei modelli storiografi-

ci cortigiani oltre che della varia letteratura sulla «civile con179

versazione» di corte o d’accademia, dei precetti umanistici de officiis, de regimine principis, de arte regnandi e di quelli successivi, d’impronta assolutistica e tridentina: insomma, una volta pubblicato, il libro avrebbe assunto il rilievo tutto naturale, non il

rilievo programmaticamente aggressivo tipico per esempio delle scritture di Pietro Aretino, di un anticodice della regalità e dei doveri cortigiani. La Vita, scritta tra il 1558 e il 1566, rimase interrotta con

l’accenno di un viaggio a Pisa compiuto dal Cellini nel 1562. Non mi pare che di questa brusca interruzione dell’autobiografia si sia data una soddisfacente spiegazione, neppure da parte di Enrico Carrara, il quale per primo vi ha posto attenzione

con un acume critico che gli ha consentito di capovolgere gli schemi tradizionali di lettura di un’opera in apparenza troppo facile.” Eppure si tratta di circostanze che possono essere opportunamente valutate senza deviare dagli scritti stessi del Cellini. Questi sono in tal senso estremamente fertili non solo di ipotesi, ma anche di esplicite testimonianze. Benvenuto, interrompendo la narrazione della sua vita, non rinuncia alle sue ambizioni di

scrittore. I Trattati, il Dell’oreficeria e il Della scultura, scritti tra il

1565 e il 1567 e pubblicati nel ’68, stanno lì appunto a dimostrarlo. Si aggiunga che questi manuali d’arte non sono un’iniziativa autonoma e affatto irrelata con le ragioni che presiedono alla composizione della Vita, come si potrebbe supporre se si sopravvaluta la loro funzione tecnico-didattica. La loro genesi empirica è certamente professionale, ma l’impulso che induce il Cellini a comporli è dichiaratamente autoapologetico e autobiografico. «Conosciuto quanto e’ sia dilettevole a gli uomini il sentire qualche cosa di nuovo — scrive nell’introduzione al Dell’oreficeria, — quest’è stata la prima causa che mi ha mosso a scrivere; e la seconda causa (forse la più potente) è stata che sentendomi fortemente molestare lo intelletto per alcune mie fastidiose cause, le quali in questo mio piacevole discorso modestamente io le farò sentire, e son certo che le moveranno i lettori

grandememte a compassione, e a sdegno non piccolo ancora

con la causa di tal causa».° La evidente sconnessione sintattica — qui accentuata proprio dallo sforzo, insostenibile per Cellini, di distribuire in esor-

dio di discorso parallelismi, antitesi e replicazioni — non intacca minimamente il rilievo dato alle parti ben predisposte di 180

questo enunciato giustificativo. «La causa di tal causa», il retroscena cioè che getta luce sulla composizione di queste opere, è svelata dall’autore più innanzi, nel pieno di una trattazione particolare (sui lavori di minuteria), con l’urgenza di chi sente che non può più tenerla serrata dentro il petto (cito quasi alla lettera) ed è «forzato» di dirla.’ Siamo in presenza di uno sfogo al quale, come lettori, siamo anche sollecitati a partecipare con lo sdegno e la compassione. L’artista qui racconta dell’improvviso voltafaccia di Cosimo

nei suoi confronti, nel 1554, due

giorni dopo il suo rientro a Firenze da una gita-pellegrinaggio in Toscana successiva al discoprimento del Perseo e durata una settimana. Benvenuto chiede licenza di tornare in Francia, e

Cosimo né gliela concede né gliela rifiuta, chiudendosi in un enigmatico malanimo che non poteva non risultare sorprendente dopo il recente entusiasmo per il Perseo acclamato dallo stesso principe, dai letterati e dal popolo fiorentino. «Se non che — conclude il Cellini —, standomi così disperato, e reputato che questo mio male venissi dagli influssi celesti che ci perdominano, però io mi messi a scrivere tutta la vita mia e l’origine mio e tutte le cose che io avevo fatte al mondo; e così scrissi

tutti gli anni che io avevo servito questo mio glorioso signore duca Cosimo. Ma considerato poi quanto e principi grandi hanno per male che un loro servo dolendosi dica la verità delle sue ragioni, io rimediai a questo; e tutti gli anni che io avevo servito il mio signore il duca Cosimo, quegli con gran passione, e non senza lacrime, io gli stracciai e gitta’gli al fuoco, con salda intenzione di non mai più scrivergli. Solo per giovare al mondo, e per essere lasciato da quello scioperato, veduto che m'è impedito il fare, essendo desideroso di render grazie a Dio

in qualche modo dell’essere io nato, da poi che m'è impedito il fare, così io mi son messo a dire».®

Tralascio i dati che smentiscono le dichiarazioni ottimistiche premesse, non senza forzature, alla narrazione della Vita, e mi

fermo sul dato più rilevante in questa confessione che mescola finzione e verità con pari calore emotivo, cioè sul riferimento all’interruzione dell’autobiografia. Benvenuto afferma pateticamente di avere stracciato e bruciato, «con grande passione e non senza lacrime», tutta la parte relativa ai suoi rapporti col duca; in realtà questa parte è conservata integra nel manoscritto. Ma resta il fatto che la decisione di sospendere la narrazione 181

autobiografica era stata presa e che l’interruzione non può essere accettata come una circostanza spiegabile con l’umore bizzarro dell’artista, quando invece si tratta di una cosciente rinuncia compensata dalla rettifica del tiro apologetico. Cellini, in altri termini, punta ora su più concrete possibilità di riabilitazione mantenendo l’interferenza dei dati biografici all’interno di un’opera molto poco compromettente come il trattato d’arte. I trattati, infatti, furono pubblicati con l’imnprimatur della bene-

volenza principesca chiamata in causa dall’artista nelle dediche delle sue prime edizioni ai figli di Cosimo, Ferdinando e Francesco. Ma l’autobiografia, non suscettibile per ovvie ragioni di una pari benevolenza, lasciata scoperta all’attacco dei malevoli dopo la scomparsa del ragguardevole amico dell’autore, di Benedetto Varchi, morto nel 1565, rimase per volontà dello stesso Cellini incompiuta ed inedita. Così l’autocensura dell’artista, precedendo la censura, inevitabile, del potere principesco, impedì l’apertura immediata di un caso Cellini, rinviandola di due secoli. Quando, nel 1764, Giuseppe Baretti lo dichiarò aperto nel numero ottavo della

«Frusta letteraria», tornando a parlare della Vita dopo un accenno già fattone sulla stessa rivista, la singolarità del fenomeno Cellini si rivelava in modo tutto diverso da come avrebbe potuto rivelarsi nell'ambiente cortigiano di Cosimo. L’autobiografia, stampata finalmente nel 1728, non aveva prodotto sul momento reazioni critiche di rilievo. Il rinvenimento da parte del naturalista Antonio Cocchi, curatore della prima edizione, passava agli atti dell’erudizione toscana con la grigia sanzione del referto accademico, condito di moralismo; fu proprio questa patente difformità tra la vivacità pittoresca del materiale rinvenuto e l’insipidezza del discorso allegato («cosa insulsa e melensa» secondo l’aspro recensore) a provocare l’umore critico del Baretti.° La Vita acquista nella pagina della «Frusta» un rilievo eccezionale. Ne riassumo i riconoscimenti fondamentali: 1) è il libro più «dilettevole a leggersi» che abbiamo nella nostra lingua; 2) esibisce una pittura di carattere lasciata al naturale: Benvenuto, dice Baretti sorvolando indulgentemente sui suoi delitti, «si dipinse ... come sentiva d’essere, cioè animoso

come un granatiere francese, vendicativo come una vipera, su-

perstizioso in sommo grado, e pieno di bizzarria e di capricci; galante in un crocchio d’amici, ma poco suscettibile di tenera 182

amicizia; lascivo anzi che casto; un poco traditore senza credersi tale; un poco invidioso e maligno; millantatore e vano, senza sospettarsi tale; senza cirimonie e senza affettazione; con

una dose di matto non mediocre, accompagnata da ferma fiducia d’essere molto savio, circospetto e prudente»; 3) fornisce un

inedito quadro d’ambienti e di personaggi mostrati crudamente come appaiono a uno sguardo confidenziale e domestico; 4) è anche un documento di valore antropologico, «un libro bello e unico nel suo genere e che può giovare assai ad avanzarci nel riconoscimento della natura dell’uomo»."° Il caso Cellini qui si configura come prodotto della sua a-tipicità linguistica, letteraria e antropologica; ma si tratta di una a-tipicità che consente allo scrittore una piena acclimatazione in ambiente settecentesco. In un tempo di massima fortuna per le scritture autobiografiche e memorialistiche, divenute un terreno di incontro egualitario delle più diverse esperienze (filosofiche religiose politiche sociali scientifiche erotiche), fu facile l’acquisizione europea della Vita celliniana, imitata da Casanova nella Storta della mia fuga dai Piombi, adocchiata certo frequentemente da Alfieri, consacrata dalla traduzione di Goethe, utilizzata nei romanzi italiani di Stendhal, riverniciata come

spettacolo caleidoscopico di vita cortigiana dopo la pubblicazione dei Mémotrs di Saint-Simon. Come era facile che accadesse ad un’opera così radicalmente soggettivistica nell’identificazione del narratore col protagonista, il personaggio Benvenuto ebbe la meglio sullo scrittore Cellini. Pretesto d’invenzioni romanzesche, testimonianza di rito

per i redattori di inchieste storiche sulla moralità e sulle credenze del Rinascimento (anche per il maggiore fra tutti, Jacob Burckhardt), occasione fin troppo allettante per gli svaghi umanistici della psicopatologia criminale fine-ottocento, l’uomo Cellini ha conservato spavaldamente la sua fisionomia antropologica eccezionale pur attraversando territori culturali diversi, seminati di fermenti illuministici romantici positivistici. Intanto lo scrittore, che prima dell’uomo aveva suscitato l’entusiasmo del Baretti, che edizioni sempre più accurate riproponevano alla lettura, preparando l’intervento filologicamente risolutivo di Orazio Bacci sul manoscritto Mediceo-Palatino 234,"

che si avvantaggiava, infine, dell’apporto dei molti restauri eruditi compiuti sull’artista, specie per merito del monumentale 183

contributo di Eugène Plon,"' lo scrittore, dunque, restava oggetto di un interesse critico incidentale, benché tutt’altro che an-

gusto. Nella Storia della letteratura italiana di De Sanctis Cellini penetra di scorcio con l’energia stendhaliana di un «avventuriere», l’ultimo degli avventurieri del Rinascimento, «potentissimo di forza e di vita interiore», da giudicare come scrittore nella prospettiva di un anticlassicismo spontaneamente dissa-

cratore." Per i puristi è un serbatoio idiomatico di lingua naturale, come lo sarà più tardi per Ruggiero Bonghi, ostinato nel cercare una soddisfacente risposta al quesito lasciatoci in eredi-

tà: «perché la letteratura italiana non sia popolare».'* Bisogna riconoscere nel tentativo di valutazione psicologica dello stile di Cellini compiuto nel 1899 dal giovane Vossler! il segno più manifesto di un’inversione di tendenza: si parte ora dallo stile per arrivare all'uomo, dando pieno credito all’aureo motto di Buffon, «lo stile è l’uomo», che qualche anno prima anche il Bacci aveva adottato come insegna di un suo breve ragguaglio su Cellini prosatore. Il rilievo concettuale polemica-

mente attribuito a quell’analisi da Benedetto Croce"! per smentire la validità teorica dei principi di sintassi e stilistica psicologiche di Gustav Gròber, cui s’ispirava il Vossler, finirono col trasferire il caso Cellini dall’antropologia all’estetica. Croce s’occupò della Vita, come ebbe a dichiarare egli stesso nel fitto carteggio col Vossler,!” per il valore esemplificativo che essa assumeva in relazione alle questioni che lo impegnavano intensamente proprio in quegli anni e che andavano convergendo nella pubblicazione, nel 1902, dell’ Estetica. Rifiutando la distinzione vossleriana all’interno del contesto stilistico della Vita tra una forma logico-analitica, particolarmente ostile, secondo Vossler, all’antintellettualismo di Cellini e una forma sintetico-

artistica aderente invece alla sua capacità istintiva di sentire e rappresentare la realtà affettiva, Croce mentre ribadiva l’improponibilità di ulteriori distinzioni empiriche oltre quella categoriale tra espressione e non-espressione, suggeriva di riportare il giudizio ai contenuti sentimentali del mondo celliniano. Tommaso Parodi raccolse prontamente il suggerimento sviluppando una sua definizione di Cellini «vivace scrittore incolto e grande artista senz’essere letterato» che presupponeva una visione deformata dell’autobiografia celliniana come testimonianza della «compiacenza senile», della «soddisfazione tran184

quilla dell’ormai in pace popolano», il quale si lascia trascinare dal piacere di raccontare le sue avventure con uno stile «affa-

stellato... d’accessori... sempre formicolante di molteplici memorie»:'° interpretazione di cui il Carrara fece, credo definitivamente, giustizia. È merito del Carrara aver fatto notare alcune sintomatiche coincidenze proprie di questa fase di promozione letteraria della Vita celliniana. Il saggio del Parodi ha alle spalle la prima edizione critica e la prima edizione scolastica dell’autobiografia, approntata per la Biblioteca carducciana sempre dal Bacci: l’integrazione filologica, che elevava Benvenuto al rango degli auctores, e la mutilazione pedagogica, che lo immetteva nelle scuole, operavano con finalità convergenti, sol-

lecitavano entrambe un’accoglienza cordiale per un eslege divenuto «uomo di buoni sentimenti». Così arrivò a chiamarlo Edmondo De Amicis sulle colonne di una rivista a larga diffusione, qual era «La lettura», dove, facendo propria la brusca sentenza di Vittorio Imbriani, che «la lingua è di chi la strapazza», lo propose persino come uno scrittore da imitare.” A questo punto il caso Cellini può considerarsi davvero chiuso con la sanzione estetica filologica linguistica e il consenso degli strumenti di divulgazione popolare. Di rimbalzo, com'è naturale, maturavano altre esigenze, quelle che ancora una volta il Carrara enunciava con esemplare chiarezza distinguendo tra due momenti di approccio all’opera, tra «quello che fu detto della Vita» e «quello che la Vita ci dice». Credo che non si detragga alcun merito ai cellinisti che lo hanno seguito se si afferma che quella svelta e incisiva messa a punto, contenuta nell’introduzione a un’edizione abbastanza divulgata del libro, è stata il crogiolo più intensamente reattivo delle successive argomentazioni sullo stile della Vita, sulla sua genesi, sullo sviluppo tematico, sulla sua struttura narrativa. Se mi limito a ricordare

tra tutti Bruno Maier, è solo perché nella necessaria incompletezza o, se si vuole, nella tendenziosità di questo mio rapido ragguaglio le scelte cadono fatalmente sulle consonanze. Insomma, per quel tanto che ancora mi propongo di dire, l’insistenza da parte di un così attivo cellinista sulla genesi polemica 6 autoapologetica della Vita e sulla sua dominante intonazione «seria e drammatica» ha il valore di un allegato difensivo e insieme dialettico.” 185

2. Non mi sentirei d’avere assolto al compito di rivisitare l’esperienza e i risultati di Benvenuto Cellini scrittore se a un rendiconto in buona parte condizionato da «quello che fu detto della Vita» non facessi seguire anch’io un’aggiunta più esplicita su «quello che la Vita ci dice». Non intendo avanzare proposte nei termini costrittivi e un po’ intimidatori dell’attualità. Ma non posso trascurare l’incidenza che il libro celliniano potrebbe avere oggi, in un sistema di decodificazione che tende a privilegiare l’autonomia dei testi e a emarginare la presenza dell’autore, come opera seriamente indiziata di responsabilità lettera-

rie. Uno dei problemi affrontati nelle recenti indagini sulle forme narrative, per esempio dagli americani Scholes e Kellogg in La natura della narrativa, è quello relativo all'impatto dell’autobiografia nel romanzo. Nello sviluppo delle strutture narrative, nella secolare vicenda delle reciproche interferenze e delle trasformazioni, infine in una prospettiva multilaterale di Weltliteratur, l’autobiografia celliniana assume la rilevanza di un prototipo formale che appunto Scholes e Kellogg non esitano a riconoscerle, sia pure per sottolineare oltre alle concordanze le discordanze con le espressioni autobiografiche successive.” Ma è inevitabile che in una così affascinante ricerca onnicomprensiva il punto di sutura di queste varie forme, l’elemento di condensazione di tanti fenomeni paralleli, sia rinviato probabilisticamente a un ipotetico incontro all’infinito, all’individuazione di un momento originario, di una arché che contenga in essenza la realtà dei fatti posteriori. Per quanto mi riguarda, mi tengo stretto ancora all’assioma vichiano secondo cui «natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise»: una «degnità» che, a mio parere, può suggerirci anche la spiegazione del fenomeno in esame. La nascita del romanzo modernoè fissata ormai abbastanza concordemente in un arco di tempo che va dal Lazzarillo de Tormes al Don Chisciotte, tra l’umile vicenda del picaro e l'impossibile avventura dell’ingenzoso hidalgo. In entrambi i casi il romanzo matura su una situazione di conflitto tra individuo e società, sul

sentimento di una vita degradata da cui il ficaro cerca di riscattarsi alternando mestieri e espedienti nel tentativo di integrarsi socialmente, mentre l’hidalgo se ne allontana ostinandosi a co-

gliere nell’opacità dell’esistenza quotidiana la trasparenza dei sogni eroici. Anche l’autobiografia del Cellini matura, ormai è 186

chiaro, alle soglie di questa coscienza conflittuale. Ed è sintomatico il fatto che la sua resa narrativa partecipi a tal punto dei procedimenti del racconto picaresco, a cominciare dalla forma autobiografica, da indurre spesso gli storici di quella fortunata produzione a segnalare tra gli esempi corrispondenti in area italiana la Vita di Cellini.?* La dimensione avventurosa e furfantesca è infatti l’aspetto più noto dell’autobiografia celliniana. Benvenuto è rissoso e se ne compiace. Le giustificazioni che trova per i suoi delitti e le sue bravate non sono sempre riportabili alla logica della vendetta o del diritto di difesa. L’assassinio dell’uccisore del fratello (1, 51), quello dell’orefice Pompeo (1, 72) vi possono rientrare; molto meno quello del maestro delle poste a Siena (11, 4), meno che mai la lezione inflitta all’avaro albergatore sulla strada per Ferrara (1, 79), vera esibizione di marioleria marguttesca rivissuta col gusto burlesco del commento comico e del ritratto caricaturale, oppure la violenza esercitata sulla sua modella parigina, l’infedele Caterina, che Benvenuto sottopone con implacabile regolarità sempre alle «medesime busse», lasciandola «tutta lacerata, livida e enfiata»

tra intervalli conviviali fatti in segno di pace e «piacevolezze carnali» (11, 28 sgg.). Cellini è anche disponibile alle più varie esperienze. Ha fretta di uscire dall’anonimato della bottega e di procacciarsi una rispettabilità professionale, ma indulge al piacere della beffa equivoca in banchetti di tipo petroniano, quasi a farsi rilasciare quegli attestati di inventore di burle che un secolo prima avevano reso popolare il suo concittadino Filippo Brunelleschi (1, 30); fa l’artigliere durante il Sacco di Roma vantandosi della morte di grandi condottieri imperiali e facen-

dosi benedire questi omicidi e tutti quelli che avrebbe fatto «in servizio della Chiesa apostolica» con un «patente crocione», concessogli allegramente da Clemente vu (1, 24-37); pratica la negromanzia in sedute notturne al Colosseo dove gli appaiono i

diavoli di Malebolge in un’atmosfera orrida che viene dissolta parodisticamente da rumori e effluvi triviali, non altrimenti che nella Commedia dantesca (1, 64); esibisce al castellano di Castel Sant'Angelo doti miracolistiche che lo farebbero capace di

volare dalla prigione (1, 107); s’inizia col più devoto fervore spiritualistico alle pratiche ascetiche nel carcere di Tor di Nona fino ad accedere alla visione di Dio (1 117 sgg.). Ma sarebbe fuorviante insistere sulla componente avventu187

rosa e su quella comica di queste sequenze di racconto e forzar-

ne l’incidenza per arrivare all’iscrizione della Vita nei ranghi di un particolare genere narrativo. Accontentiamoci di affermare che la Vita ci fa assistere al passaggio dalla biografia al romanzo. Cellini inaugura una struttura narrativa nuova, trasforma l'autobiografia da itinerarium spirituale, racconto di una metamorfosi morale o religiosa (forma rimasta tipica da Apuleio a Sant'Agostino e Petrarca) in rappresentazione di se stessi, mimesi della propria azione. Detto in termini scolastici, nella Vita la coincidenza tra ethos (il personaggio) e praxis (l’azione) è piena, molto più che in Montaigne, il quale pochi anni dopo s’accingerà a fare di sé la materia del suo libro, accettandosi interamente come oggetto della sua rappresentazione con la complicità ironica di quegli «argomenti attenuanti» che gli fanno vedere in ogni uomo, in ogni esistenza anche bassa e senza splendore «la forma intera dell’umana condizione».?° Per Cellini non è così. I suoi casi sono memorabili proprio perché eccezionali, come eccezionale è lui stesso. Se è possibile individuare nella Vita lo schema di una poetica celliniana, bisogna coglierlo in quel nesso di «accaduto» e di «inaudito» che costituisce la ragion d’essere della novella in età rinascimenta-

le.?® Cellini è convinto che tutti i suoi avvenimenti sono interessanti: per questo non esita a lasciarsi trascinare dalle digressioni, calandosi ogni volta interamente nel racconto. Ma se l’episodio lo trascina, se l’occasione narrativa è da lui assecondata

con tanta naturalezza da incidere nei procedimenti della sua bizzarra affabulazione fino a determinare un calo netto dell’ipersintatticità e la progressiva acquisizione di modi colloquiali ed espressivi pianamente retorici, non per questo è necessario concludere che la Vita si ridimensiona nel suo sviluppo sulla prevalenza del «gusto episodico» a spese della cronaca artistica” e neppure che l’«elemento comico-novellistico» ha la fun-

zione di «costituire una specie di contrappeso ideale», di «distensiva parentesi» nella compattezza di quel «libro serio e drammatico». Si possono prendere con le dovute riserve le giustificazioni che Benvenuto adduce in favore delle sue «digressioni» come narrazioni necessarie a far capire la sua «travagliata vita», ma è certo che, raccontando, egli non pensava d’indulgere al piacere irresponsabile di «favellare» o, peggio, di «cicalare», sebbene di tenersi fedele all'impegno di «ragiona188

re»; secondo la distinzione che egli amava fare dei modi dell’espressione umana. Distinzione che linguisticamente può apparire una trovata rozzamente ingegnosa, ma che di fatto serve a ribadire la piena concordia tra l’esperienza vissuta dall’uomo e dall’artista e quella rivissuta dallo scrittore.” Proprio questa immedesimazione col flusso degli avvenimenti, proprio il fatto che nella Vita il punto di vista del narratore s'accordi pienamente con quello del protagonista, ha indotto a leggervi la testimonianza di una perfetta integrazione tra natura e arte, una spavalda professione di individualismo rinascimentale che consente all’artista di superare le sue remore letterarie e di raccontare il tempo vissuto quasi rivivendolo in presa

diretta mentre detta al garzone di bottega le sue memorie senza curarsi troppo di proporzionarne temi e sviluppo. «Questo modo di procedere — avrebbe potuto dichiarare anche lui, come Machiavelli in una nota lettera a Francesco Vettori — se a qualcuno pare vituperoso, a me pare laudabile, perché noi imitiamo la natura, che è varia; e chi imita quella non può essere ripreso». In realtà, il conflitto da cui si origina la condizione autobiografica non è annullato; si è trasferito dall’interno all’esterno, coinvolge non i meccanismi psichici che in Cellini sono automaticamente regolabili, ma il rapporto con le forze esterne: destino, fortuna, società. Il piacere di raccontare è fuori dubbio; ma si tratta pur sempre di un «badalucco dispettoso e strano» come quelli che ancora Machiavelli si prendeva non sapendo «dove voltare il viso» per non poter mostrare con altre imprese la sua virtù. La virtù era il mito di Benvenuto. Nel suo scarno vocabolario concettuale il termine ricorre con ininterrotta frequenza, carico di significazioni ideologiche e affettive. I virtuosi, «gli uomini unici nella loro professione come Benvenuto — aveva decretato Paolo mm — non hanno da essere ubrigati alla legge». Accadrà invece che proprio quel papa lo farà rinchiudere nel carcere di Castel Sant'Angelo e poi in quello duro di Tor di Nona, donde lo libererà nella crisi di rigetto di una sua periodica «crapula assai gagliarda». 3! La virtù è il salvacondotto che gli assicura un soggiorno principesco a Parigi nel castello del Petit-Nesle e la dimestichezza di Francesco 1. «Mon ami — gli dice un giorno lo splendido monarca —, io non so qual s’è maggior piacere, o quello d’un principe l°aver trovato un uomo sicondo il suo cuo-

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re, o quello di quel virtuoso l’aver trovato un principe che gli dia tanta comodità, che lui possa esprimere i suoi gran virtuosi concetti». «Io risposi — aggiunge Benvenuto — che se io ero quello che diceva sua Maestà, gli era stato molto maggior ventura la mia». «Diciamo che la sia eguale», conclude magnanimo il re. E tuttavia questa autorevole sanzione di eguaglianza tra sovranità e genialità non eviterà a Cellini tribolazioni e offese. Non gli risparmierà, oltre l’invidia (inevitabile) degli artisti concorrenti, l’avversione della favorita del re, le chiamate in giudizio per accuse infamanti lanciategli da una sgualdrina che si finge timorata, gli attentati alla sua persona, gli obblighi più severi della sudditanza che lo costringeranno a lasciare la Francia quasi in fuga tra i pericoli di una tempesta che sembra tormentarlo con furia punitiva. Sarà infine la sua virtù a farlo accogliere da Cosimo con parole tanto incoraggianti che lo vesti-

rono — dice Benvenuto — «di falsa isperanza».” Sappiamo ormai quali furono i reali rapporti tra quel principe che, secondo Cellini, aveva «più modo di mercatante che di duca» e quel «terribile uomo», come a sua volta lo chiamava Cosimo,” osti-

nato nell’ascriversi privilegi speciali di immunità. Resta da sottolineare il fatto che questa colorita casistica di confronti eccezionali non può essere interpretata come il risultato di una spinta puramente fabulatoria che porti lo scrittore ad ingigantire il particolare episodico e novellistico. Nel contesto autoapologetico della Vita questa aneddotica ha una precisa finalità: mette in risalto l’interdipendenza tra virtà (intesa come genio artistico) e potere, e indica nell’incomprensione dei potenti la causa della decadenza dell’arte. «La causa di fare gli uomini virtuosi — scrive Cellini in un passo del trattato Dell’oreficeria che precede immediatamente lo sfogo personale che ho citato all’inizio — si è quando e’ s’abbatte in un’età, nella qual sia un buon principe che si diletti di tutte le sorti di virtù». Cosimo il Vecchio, esemplifica Benvenuto, dette a Brunelleschi, Donatello e Ghiberti l’occasione di rivelarsi; sotto Lorenzo il Ma-

gnifico «si fece il maraviglioso Michel’Agniolo Buonaroti», e questi poté poi «dar saggio della sua gran virtù» per il favore accordatogli da Giulio n, un papa che non solo si dilettava, ma

s’intendeva d’arte, al punto da indurre Bramante, «pittoruccio di poco credito», a darsi «alla bella maniera dell’architettura» cui era per natura grandemente inclinato; Leone x e Francesco 190

I «feciono a gara a chi più gran virtù ralluminava»; Clemente vu infine «stimava e pregiava assai» le virtù, «ma egli ebbe tante aversità inel suo papato e dalla patria sua, che egli non potette favorirle nel modo che era il suo buono animo».® Lo schizzo di storia dell’arte rinascimentale disegnato da Cellini rivela l’ingenua boria del parvenu, l'incapacità dell’intellettuale non avvezzo ad analisi circostanziate e mediazioni ideologiche, che non sa fare i conti con se stesso. Non possiamo sottrarci alla tentazione di fargli noi questi conti. I parametri sociologici divulgati da Arnold Hauser per spiegare la posizione dell’artista nel Rinascimento” mi paiono pertinenti anche alla posizione di Cellini: comunque possono aiutarci a chiarirla. Nel pieno Cinquecento proprio quando i rapporti tra arte e potere si personalizzano al massimo per effetto dell’accresciuta domanda da parte delle corti europee, la condizione dell’artista diviene più evidentemente subalterna. La sua ascesa sociale, economica e culturale s'è realizzata con la solidarietà degli umanisti e della nuova categoria dei critici, i quali presiedono alla nascita del libero artista, valorizzano cioè l’ex artigiano, affrancato dalla corporazione e dalla bottega. Viene esaltata l’individualità, l’eccellenza intellettuale, di cui è compiuta espressione il «maraviglioso» Michelangelo. La biografia michelangiolesca redatta dal Condivi (1553) e le biografie del Vasari (prima edizione parziale 1550) consacrano appunto il culto della personalità artistica. Cellini non può aspirare a consacrazioni di tipo michelangiolesco e provvede da sé alla celebrazione della sua individualità, sublimando la sua condizione come quella del virtuoso che non ha altri obblighi se non quelli impostigli dalla sua virtù. In realtà si tratta, come abbiamo già visto, di una condizione estremamente precaria, propria di un artista elevato di rango, da orafo a scultore per residenze regali e logge principesche, che può esaltarsi con orgoglio pensando alla sua statua colloca-

ta «nel mezzo fra una di Michel’Agniolo e di Donato»? e che però alla fine non ha più uno spazio operativo, proprio per questa personalizzazione del suo rapporto col principe committente, il quale non gli consente nemmeno di dolersi della sua disgrazia e di opporre «la verità delle sue ragioni». Ma su questa precarietà nasce lo scrittore. E nascono le pagine «eroiche» della fusione del Perseo, tese titanicamente tra il

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climax dell’arduo esperimento, dei sospetti, della febbre, dei deliri, e l’anticlimax del lieto convito finale consumato

«sur un

banchettaccio» con tutta la brigata, alle prese di un rustico

piatto d’insalata.” Appellandosi direttamente al pubblico e captandone la complicità con formule esplicite d’ingraziamento («benignissimi lettori», «piacevolissimo lettore»), lo storico di se stesso si istituisce

come personaggio, chiede che lo si ascolti non solo come artista ma per la lotta che ha sostenuto contro i malvagi influssi celesti, contro le offese degli uomini e del destino, e chiede anche

solidarietà con le sue bravate di virtuoso e di avventuriero. Senza averne coscienza Benvenuto dava all’autobiografia un contenuto tragicomico che è tipico del romanzo moderno. Per questo i fatti di quella che egli chiama la sua «vita travagliata» si dispongono tutti nel libro con pari necessità. narrativa, costruendosi sulla misura del protagonista che li vive, non su quella dell’opera da lui realizzata come artista, che essi dovrebbero illustrare. E noi non ci domandiamo se siano veri o falsi, probabili o improbabili, dal momento che ci siamo assuefatti a considerarli sequenze di un destino romanzesco. Per uno scarto della nostra attenzione dimentichiamo gli obblighi storici della biografia e assecondiamo gli impulsi fantastici del romanzo che ne ha preso il posto. Se questo scambio di funzioni tra cronaca e narrativa, se questa alternanza di tragico e comico nel racconto di un destino contano qualcosa nella formazione delle

moderne strutture letterarie, non possiamo fare a meno di assegnare allo scrittore Benvenuto Cellini, all’autore della Vita, l’importanza che storicamente gli compete.

NOTE

1 «Ora se bene potrei molto più allargarmi nell’opera di Benvenuto, il quale è stato in tutte le sue cose animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo, e persona che ha saputo pur troppo dire il fatto suo con i principi, non meno che le mani e l’ingegno adoperare nelle cose dell’arti, non ne dirò qui altro, atteso che egli stesso ha scritto la vita e l’opere sue, ed un trattato dell’oreficeria e del fondere e gettar di metallo, e della scultura con molta più eloquenza ed ordine che io per avventura non saprei fare» (G. vASARI, Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, a cura di G. MILANESI, Firenze 1881, t. vi, p. 623). 2 Cfr. vasari, Vita di Raffaello da Urbino, ed. cit., Firenze 1879, t. 1v, paso 15:

«... la maggior parte degli artefici stati insino allora si avevano dalla natura

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recato un certo che di pazzia e di salvatichezza, che oltre all’avergli fatti astratti e fantastichi, era stata cagione che molte altre volte si era più dimostrato in loro l’ombra e lo scuro dei vizi, che la chiarezza e lo splendore di quelle virtù che fanno gli uomini immortali». . 3 Il testo della lettera al Varchi si può leggere in 8. ceLLINI, Opere, a cura di 8. mAIER Milano 1968 (donde tolgo anche le successive citazioni): «Da poi che vostra Signoria mi dice che cotesto simplice discorso della vita mia più vi soddisfa in cotesto puro modo, che essendo rilimato e ritocco da altrui; la qual cosa non apparirebbe tanto la verità quanto io ho scritto, perché mi son guardato di non dire nessuna di quelle cose che con la memoria io vada a tentone, anzi ho ditto la pura verità, lasciando gran parte di certi mirabili accidenti, che altri che facessi tal cosa ne arebbe fatto molto capitale; ma per avere aùto da dire tanto gran cose e per non fare troppo gran vilume, ho lasciato gran parte delle piccole [...]. ora vi priego che non vi curiate di legger più innanzi, e me lo rimandiate [il libro], serbandovi il mio sonetto [il sonetto introduttivo alla Vita], ché quello desidero che senta un poco la pulizia della vostra maravigliosa lima». 4 R. VON ALBERTINI, Firenze dalla repubblica al principato. Storia e coscienza poli tica (trad. di C. Cristofolini), Torino 1970, pp. 339-46. 5 Cfr. l'introduzione del caRRARA all’edizione da lui curata della Vita (Torino 1926, 2 voll.), specie le pp. xxII-xxx1v (rist. a cura di G.G. FERRERO, ivi 1959). 6 Opere, cit., p. 623. 7 «Io promessi inel principio del mio libro di dire parte della causa che movea a scrivere questo volume, la qual causa io dissi che moverebbe gli uomini a grande sdegno del caso e compassione di me: avenga che ora io non lo posso più tener serrato dentro al mio petto, e son forzato a dirlo» (Opere, cit., p7.13): 8 Opere, cit., pp. 717-8. 9 Dopo la stampa della princeps (a Napoli, ma con la falsa indicazione di Colonia e senza data), il Cocchi ripubblicò la sua prefazione alla Vita nei Discorsi toscani, parte Ii, Firenze, Bonducci,

1762, pp. 183-8, i quali offrirono

l’occasione per gli interventi barettiani nella «Frusta». 10 Cfr. «La frusta letteraria», a cura di L. PICCIONI, Bari 1932, vol. 1, pp.

203-4. 11 B. CELLINI, La vita, testo critico e note storiche per cura di 0. BACCI,

Firenze 1901. 12 E. PLON, Benvenuto Cellini, orfèvre, médailleur, sculpteur: recherches sur sa vie, sur son oeuvre et sur les pièces qui lui sont attribuées, Paris 1883. 13 F. DE SANCTIS, St. d. lett. ital., a cura di N. caLLO, Torino 1966, vol. 1,

pp: 659-60. nl ] 14 Perché la letteratura italiana non sia popolare in Italia. Lettere critiche a Celestino Bianchi, in Opere di R. BONGHI, vol. 11, a cura di F. ToRRACcA, Milano 1933, 1 Agia pp. 264-5, 319. 15 x. vossLER, Benvenuto Cellini’s Stil in seiner Vita. Versuch einer psycologischen Stilbetrachtung, Halle a. S. 1899 (estr. dai Beitràge zur Romanischen Philologie, | «Festgabe fir Gustav Gròber»). 16 B. CROGE, Problemi d’estetica, Bari 1949, rv ed., pp. 148-50. Un successivo intervento, Su/ Cellini scrittore, è raccolto in Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento, ivi 1952, vol. m, pp. 168-70. 17 Carteggio Croce-Vossler. 1899-1949, Bari 1951, pp. 2, 7-8, 12-5. 18 7. PARODI, La «Vita» del Cellini, in Poesia e letteratura, a cura di B. CROCE,

Bari 1916, pp. 201-38.

193

19 Nell’introd. all’ed. cit. della Vita, pp. xx1-xx11. Del Carrara si veda an-

che l’acuto, benché discutibile, intervento sul Manzerismo letterario in Benvenuto

Cellini, in «Studj romanzi», x1x, 1928, pp. 171-200, e l’agile monografia Celli ni (1500-1571), Torino 1938. 20 «La lettura», apr. 1903, pp. 289-93. | i 21 Questo schema d’interpretazione del Maier è particolarmente evidente nell’introd. all’ed. cit. delle Opere di Cellini (pp. 9-30), ma è già presente nella monografia Umanità e stile di Benvenuto Cellini scrittore, Milano 1952, preceduta e seguita da altri contributi, tra cui l’indispensabile Svolgimento storico della cri-

tica su Benvenuto Cellini scrittore, p. 1, Trieste 1950, p. n, ivi 1951. Per gli studi più recenti sul Cellini cfr. la folta nota bio-bibliografica di c. corDIÈ, in Opere di B. CASTIGLIONE, G. DELLA CASA e B. CELLINI, Milano-Napoli 1960, pp. LIILxIx, e le bibliografie di E. CAMESASCA e N. BORSELLINO per il Dizionario biografico degli Italiani, xxm, 1979, s.v. 22 La funzione dell’autore come elemento necessario alla lettura è revocata in dubbio da Foucault con interrogativi radicali che farebbero presagire la sua scomparsa dall’orizzonte dell’opera. Cfr. la conferenza-dibattito Che cos'è un autore?, in M. FOUCAULT, Scritti letterari, a cura di C. Milanese, Milano 1971, pp. 1-21. 23 R. SCHOLES € R. KELLOGG, La natura della narrativa (trad. di R. Zelocchi), Bologna 1970, pp. 193-5, 270-2, 318-9. Tra i narratori italiani, Cellini ha in questa trattazione l’incidenza maggiore. 24 Cfr., per esempio, A. CASTRO, Perspectiva de la novela picaresca, in Hacia Cervantes, Madrid 1957, p. 114 e nota («Hacia 1558, Benvenuto Cellini narra las cosas importantes que le habian acaecido; poco antes, Làzaro relata a su modo las experiencias humanas en que ha intervenido») e TH. HANRAHAN, S.J., La mujer en la novela picaresca, Madrid 1967, p. 24 («La autobiografia... era pràcticamente inexistente en la edad media, y signiò siéndolo hasta poco después de escrito el Lazarillo, cuando aparecieron las obras de Benvenuto Cellini y de Eneas Silvio»). Sui procedimenti narrativi del proto-romanzo picaresco cfr. D. PUCCINI, La struttura del Lazarillo de Tormes, in Annali delle Facoltà di Lettere e Filosofia e Magistero dell’Università di Cagliari, estr. dal vol. xx, 1970. Più in generale, sui fenomeni inerenti alla trasformazione del personaggio romanzesco nell’ambito della narrativa medievale e rinascimentale, cfr. s. BAT-

TAGLIA, Mitografia del personaggio, Milano 1968. 25 La centralità degli Essazs nella prospettiva del moderno realismo ha ormai una dimostrazione «classica» nel saggio di E. AUERBACH, L’humaine condition, in Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale (trad. di A. Romagnoli e H. Hinterhàuser), Torino 1956, pp. 294-326. La genesi autobiografica del romanzo è stata localizzata proprio in Cellini, e in Defoe, anche da Cesare Pavese in una nota di diario del 1937 (Z/ Mestiere di vivere, Milano 1964, p. 78): «L'origine autobiografica del pensiero raccontato nelle tue poesie, va parallela con l’origine autobiografica del romanzo oggettivo, quale l’hai scoperta in Cellini e Defoe. Lo staccare la realtà in racconto in terza persona è un raffinamento di tecnica, ma comincia sempre (?!) col presentare una realtà attraverso un io (autobiografia)». Più di recente l’autobiografia è stata vista come condizione strutturale del romanzo, come una sorta di «graphie incessante» in cui colui che racconta riconosce la propria identità. Cfr. JfeAN THIBAUDEAU, Le roman comme autobiographie, in «Tel Quel», 1968, n. 34, pp. 67-74. 26 Tipica in questo senso la posizione del Bandello: «Mirabili nel vero son tutti quei casi che fuor de l’ordinario corso del nostro modo di vivere a la giornata accadeno, e spesso quando gli leggiamo ci inducono a meraviglia, ancora che talvolta molti uomini, non avendo riguardo alla santità de l’isto-

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ria che deve esser con verità scritta, come leggono una cosa che abbia del mirabile o che lor paia che non deverebbe esser di quel modo fatta, dicono: — Forse non avvenne così, ma chi questo fatto scrisse l’ha voluto a modo suo ea

(Novelle 1,51, lettera dedicatoria; ed. FLORA, Milano 1952, vol. 1, p.

27 Cfr. m. PoMILIO, Gusto episodico e coscienza letteraria nella «Vita» di Benvenuto Cellini, in «Convivium» 1951, pp. 667-725. 28 B. MAIER, introd. a B.C., Opere, cit., p. 25. 29 La distinzione tra favellare, cicalare, ragionare è particolarmente cara al

Cellini il quale trova modo di argomentarla in più luoghi (nella Vita, nel trattato Dell’oreficeria, e nel discorso Sopra la differenza nata tra gli scultori e pittori, ecc.) con qualche arguta variante ma sempre con rilievo polemico. Cfr. Opere, cit., p. 310 («Signori mia, egli è più d’una mezz’ora che voi non restate di domandarmi di favole e di cose, che veramente si può dire che voi cicalate, o che voi favellate. Modo di dire, «cicalare», che non ha tuono, o «favellare»,

che non vol dir nulla: sì che io vi priego che voi mi diciate quel che voi volete da me, e che io senta uscir dalle bocche vostre ragionamenti, e non favole e cicalerie»); pp. 687-8 («Lo Iddio della natura ha concesso a l’uomo in questo suono del modo della voce quattro differenzie, le quali son queste. La prima si dice il ragionare, qual vuol dire la ragion delle cose; la seconda si usa dire parlare, qual vuol dire parolare, che son questi che dicono parole di sustanzia e belle l’un l’altro, che se bene le non sono la ragione stessa delle cose, queste parole mostrano la via del ragionare; la terza si dice favellare, la qual voce si è il dire delle favole e cose con poca sustanzia, ma sono piacevole alcune volte, e non ingiuriose: la quarta voce si è quella che si dice cicalare, la qual voce usano quegli uomini che non sanno nulla, e vogliono con quelle mostrare di sapere assal...»); p. 867 («... noi abbiamo tre voci diverse l’una da l’altra; delle quali tre io non mi voglio servire se non della prima, la quale si è il ragwonare, ciò è dar la ragione di quello che io ho voluto dire. L’altre due voci sono favellare e cicalare: l’una si è dir favole; e cicalare si è il cigolare delli uccelli, il quale non ha tuono nessuno né con nulla si accorda, se bene e’ non si discorda; questo sì è un mormorio, il quale se bene non consuona, ancora non dissuona: di modo che quelle sono favole, ciò è favellare; e questo cicalare è una armonia di sogni»). 30 Opere, cit., p. 233.

SERIO pio/1. 32 Ibid., p. 434. 33 Ibid., p. 497. 34 Ibid., p. 596. Il giudizio su Cosimo si legge, benché fortemente cassato, nell’originale della Vita. Cfr. l’ed. a cura di BACCI, cit., p. 328. 35 Z/bid., pp. 710-2. 36 A. HAUSER, Storia sociale dell’arte (trad. di A. Bovero e M.G. Arnaud), Torino 1967, n ed., vol. 1, pp. 339-68; 1n., // manierismo. — La crisi del Rinascimento e l’origine dell’arte moderna (trad. di C. e A. Bovero), Torino 1965. Qual-

che flash molto illuminante sulla condizione di Cellini artista e scrittore ha scattato c. DIONISOTTI nel saggio La letteratura italiana nell’età del Concilio di Trento, raccolto nel vol. Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967, pp. 183-204. 37 Opere, cit., p. 716. 38 I/bid., pp. 538-46.

[Col titolo Cellini scrittore per il Convegno sul tema Benvenuto Cellini artista e scrittore dell’Accademia dei Lincei, Roma-Firenze, 8-9 febbraio 1971; pubblicato nel Quaderno n. 177, Roma 1972, pp. 17-31]

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9 - MARINO DALLA FRANCIA

Masticava poco o niente di francese Giambattista Marino quando, prima dell’estate 1615, giunse a Parigi su invito della regina madre Maria de’ Medici e del suo favorito Concino Concini, il potente e odiato maresciallo d’Ancre. Ma sapeva approfittare anche della sua ignoranza, per esempio facendosi erogare mille anziché cinquecento scudi d’oro dal tesoriere dello stesso Concini, e respingendo il rimprovero d’essersi comportato da imbroglione napoletano con la scusa d’aver capito male e d’aver rischiato anche di rimetterci. Tuttavia è almeno strano leggere, all’inizio del vivacissimo ragguaglio di vita parigina inviato «di Parigi 1615» al cappellano sabaudo Lorenzo Scoto, che non gli pareva poco intanto aver appreso ou? e nani, sì e no, «poiché quanto si può dire al mondo consiste tutto in affirmativa e negativa». Per uno scrittore che usava la parola senza ritegno, come un’irresistibile occasione di spettacolo illusionistico, quella dichiarazione ha senso solo se la interpretiamo come un’implicita e provocatoria ammissione del suo gioco, il grande gioco verbale di cui egli era maestro riconosciuto, acclamato e parimenti avversato come nessun altro al suo tempo. Del resto, arrivando in Francia dopo sette anni di corte torinese presso Carlo Emanuele 1, che non gli aveva risparmiato tra splendidi favori principeschi una lunga permanenza in prigione, Marino aveva appreso meglio l’arte della reticenza, e con essa la capacità di travestire in codice burlesco i risultati dell’esperienza e le personali opinioni o, eventualmente, le necessità di sfogo. Il viaggio da Torino l’aveva raccontato al poeta Arrigo Falconio in una lettera che fa concorrenza sul piano dell’invenzione comica a questo reportage parigino. Precede immediatamente la lettera allo Scoto, e si gustano entrambe come momenti di un’avventura biografica rivissuta ironicamente con molti ammiccamenti alla tradizione del genere parodistico e sa196

tirico. Il viaggiatore vi registra i vari disagi nel passaggio delle Alpi: cavalcature di mule e ronzini con ossature e «carcame delle coste» allo scoperto che gli rompono il «tafanario» (nella lettera successiva più solennemente rievocato come «Monteritondo» e «prior di Culabria»); locande popolate di topi («Non parlo poi della Topica che quella notte studiai») tutti «di razza gigantea», dediti ad intrecciare «la danza trivigiana con la nizzarda» e al giuoco del pallone; pagliericci attraversati da cimici e pulci («Luca e Luigi Pulci al cigolar delle tavole componevano a tutte l’ore sonetti mordaci») e ricoperti di «lenzuola soffritte in brodo lardiere e bollate del marchio del signor marchese». Il gioco iperbolico della «noia» burlesca è evidente. E infatti il testo entra, con altre epistole di tono consonante, nella sezione burlesca delle Lettere (anche nell’edizione del 1966 curata da Marziano Guglielminetti). Comunque la sua riuscita va attribuita a quell’effet de réel segnalato da Barthes, che ci induce per esempio ad assegnare un credito di sincerità al macabro episodio dell’impiccato, anche se il cadavere contro il quale il poeta va a sbattere il naso sembra riprodurre una figura tolta dai tarocchi: «Né mi par cosa da tralasciare, fra le notabili che mi avvennero, l’urto ch’io diedi col naso ne’ piedi d’un impiccato, che, standosene ciondoloni in un’arbore, faceva di se stesso una grottesca in campo azzurro». Vicende eroicomiche insomma, che però agli infortuni alternano pause da paese di Cuccagna, a Chambéry, e qualche impegno poetico cortigiano (un panegirico della regina d’intento propiziatorio) a Lione, in quel «cittadone» che è «un mondo di gente, di trafichi e di ricchezze».

Infine, nella capitale, la conclusione soddisfatta di quella «memorabile istoria itinerale», tuttavia non senza un moto di sgomento una volta entrato in «questi vastissimi abissi di Parigi». Tra «mutazioni continue, guerre civili perpetue, disordini senza regola, estremi senza mezo, scompigli, garbugli, disconcerti e confusioni» la Francia della reggenza medicea sembrava non promettere niente di sicuro al poeta cortigiano che vi andava per consacrare la sua fama europea dopo quella naziona-

le. Da lì a due anni, con la maggiore età di Luigi xm, Concini sarà fatto fuori e Richelieu riorganizzerà l’autorità centrale insidiata dalle opposizioni religiose e baronali, oltre che dalle guerre esterne. Eppure Marino continuerà a prosperare, a star sano e «quod peius, ricco come un asino» — ammette egli stes19%

so —, impiegando nel collezionismo d’arte i guadagni conseguiti con l’immane impresa dell’Adone; in ogni caso con un’accortezza che il suo ultimo erede in Francia, Gabriele D’ Annunzio,

non mostrerà, col suo accumulo di debiti, di possedere. La prudenza politica e l’arte cortigiana della reticenza gli avevano giovato, a costo di qualche sacrificio dei suoi piaceri della maldicenza che in passato gli avevano procurato colpi di pugnale e ire di sovrani. Stretto, all’inizio entro quelle inquietanti circostanze, Marino si limita nella sua lettera a segnalare l’anomalia della Francia, il caso politico di una nazione che le discordie civili dovrebbero distruggere mentre «per miracolo», stranamente, «la tengono in piedi». Non diversamente un viaggiatore straniero guarderebbe oggi al caso italiano, al miracolo di «un paese senza», magari con petulanti allegati di socio-economia e politologia. Marino invece scopre in quel paradosso la logica carnevalesca del mondo, anzi mondaccio, «alla rovescia» e il teatro quotidianamente allestito della «stravaganza». I sessi si scambiano, quanto meno in apparenza, le parti; un sistema iperbolico della moda impone un carico di elementi posticci dalla testa

ai piedi che s’accordano con la permalosità dei cavalieri, rissosi «per ogni mosca che passa» (come nei 7re moschettieri), e con un'etichetta fittamente cerimoniosa che intreccia inchini e riverenze coi tempi lunghi di un balletto di corte. Ma poi il cerimoniale si rivela solo una fatua schermaglia cortigiana. Nella pratica le donne si lasciano sbaciucchiare in pubblico da tutti e trattare con la più grande libertà; i nobili, maschi e femmine, fanno tutto il giorno gozzoviglie con gran consumo di vino e cibarie. Insomma, «la nobiltà è splendida, ma la plebe è tinta in berettino»: è, in altri termini, di un grigiore cadaverico. Nel traffico della città infuria l’insolenza dei «signori lacché» e il fracasso assordante dei carrettieri. I pitocchi, mendicanti e insieme furfanti, affollano come zanzare fastidiose i crocicchi e le

chiese. Al Pont-Neuf si concentra il mercato delle prostitute, senza togliere niente agli altri bordelli, perché a Parigi «per tutto se ne trova». Anche il clima è stravagante. Le quattro sta-

gioni sì danno il turno nel corso di una giornata, e la pioggia è il miglior tempo che faccia perché lava le strade e scioglie il fango che s’attacca agli abiti più tenace del mal francioso. In questo mondo della stravaganza anche le parole vanno in 198

maschera. «L'oro s’appella “argento”. Il far colazione si dice digiunare”. Le città son dette “ville”. I medici “medicini”. I VESCOVI “vecchi” [éveques]. Le puttane “garze” [garces]. I ruffiani maccheroni” [maquereaux]. Il brodo “un buglione” [bowi/on], come se fussero della schiatta di Goffredo. Avere una “botta” in su la gamba vuol dire uno stivale». Il contrario, insomma, di quel che vale la parola in Italia, dove il pene o membro virile, «quella facenda per cui si consuma la robba e la vita», nessuno sì sognerebbe di chiamarlo «vitto» (v:) e il fottere non potrebbe essere, per inconsapevole e prematuro sadismo, tradotto in dar delle sferzate (fouetter). Con Berni alle spalle e Boccaccio a portata di mano (a Parigi non tralascia di procurare per gli amici copie proibite del Decameron) Marino sottopone le parole alla verifica della pronuncia comica e ne dichiara tutta la risibile inconseguenza rispetto alle cose. A facilitarne la deformazione parodistica gli serve anche la sua anima in barocco. Ma vale di più in questo caso la tradizione dell’iperrealismo rinascimentale che in terra francese consuona col grottesco di Rabelais e in prospettiva fa

scorgere il teatralismo dialettale, il «commedione» di Giuseppe Gioachino Belli. Questo bizzarro spaccato di società parigina testimonia forse di un umore dispettoso nascosto nel divertimento. Il poeta cortigiano sa che la sua scommessa di gloria va tentata altrove: nelle capitali dei grandi stati nazionali europei, non più nei principati seppure ancora splendidi della penisola. Per prendere il posto epocale del Tasso (che aveva a sua volta lasciato un ritratto della Francia e di Parigi onesto e circostanziato, senza tentazioni di bizzarria); per poter orgogliosamente vantare, come il suo modello Pietro Aretino, di saper convertire il lauro in auro, Marino deve prodursi con la sua opera alla corte di Francia come un attore dell’arte in tournée. La diaspora dei poeti italiani nelle corti europee, che porta a Vienna Metastasio e ancora a Parigi Goldoni, s'inaugura con lui, anche se Marino non intende consentire con quel destino e già nella lettera allo Scoto annuncia il suo ritorno, peraltro rinviato di otto anni, al 1623. A Parigi era arrivato da Torino, ma veniva da più lontano: da Napoli, donde, anch’egli per tappe, era giunto prima Giordano Bruno e di lì a poco giungerà il grande attore Tiberio Fio199

rilli, detto Scaramuccia, maestro di Molière. Ma Giambattista

non voleva farsi parigino. Parigi per gli italiani sarà un mito da Belle époque. Per Marino era ancora una partita giocata in trasferta nell’attesa di rientrare carico d’onori nella sua città. Ne era fuggito via come un manigoldo, benché già in fama di poeta, e ora avrebbe fatto in tempo a rientrarvi e a domandarsi, nei residui due anni di tranquilla esistenza, se Parigi era valsa un Adone. La lettera allo Scoto registra il primo tempo della sua avventura francese. Ma, anche se non ne conoscessimo precedenti e circostanze, essa resta lì come testimonianza della sua scrittura

comica felicemente ritmata sul passo doppio dell’osservazione e dell’invenzione. [Introduzione a Giambattista Marino, Parigi /6/5 con litografie originali di Fabrizio Clerici e trad. francese di Jacques Audiberti, Edizioni dall’Elefante, Roma 1981]

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10 - PERCORSI

DELLA

SCARAMUCCIA

COMMEDIA

DA NAPOLI

DELL’ARTE:

A PARIGI

1. Il percorso italo-francese segnalato nel titolo non ha alcuna pretesa, va detto subito, di ricostruzione biografica in senso materiale. Le tappe del grande attore Tiberio Fiorilli, detto Scaramuccia, fino al suo arrivo a Parigi intorno al 1640 sono percorribili solo sul tracciato forse più immaginario che reale della Vie de Scaramouche che il Mezzettino Angelo Costantini pubblicò a Parigi nel 1695 e che il suo collega, l’Arlecchino Evaristo Gherardi bollò di falsità e rozzezza nell’Avertissement del 1701 al 7hédtre italien, la raccolta dei testi dei comici italiani

in Francia alla quale sarò obbligato di fare frequente riferimento.' In questo mio tentativo di catturare l’omba dell’attore più celebre tra quanti agirono in Francia nel secolo xvi Napoli e Parigi sono piuttosto due coordinate linguistiche di un testo scomparso: lo spettacolo dell’arte, che tutti noi, esploratori più o meno attivi del continente teatrale, ci ostiniamo a ricercare su

testimonianze grafiche e iconografiche fatalmente incongrue, con la speranza di ridisegnare almeno la mappa di quell’irrag-

giungibile eldorado. Sappiamo quale valore mitico continua a mantenere soprattutto per le esperienze sceniche d’avanguardia ma anche per le più avanzate e interdisciplinari ricerche di drammaturgia il fenomeno della commedia «improvvisa», «a soggetto», «di zanni», insomma quella commedia «italiana» ovvero «dell’arte» alla quale con efficace tautologia è stata assegnata la qualifica di «teatro teatrale»: come a dire, un teatro senza residui storici

ideologici letterari, senza contenuti e significati, in cui il gesto incorpora la parola e la cancella, il movimento assimila la danza e la musica, infine la rappresentazione rispecchia solo se stessa, e la simulazione è un atto autosufficiente, non vincolato

ai riscontri della realtà. I vagheggiamenti romantici e simbolisti delle maschere sono fatti troppo recenti e tuttora immanenti alla pratica teatrale 201

perché valga la pena di rievocarli, mentre quelli populisti, pur godendo di scarso credito critico, sono tanto connessi alla memoria antropologica e nazionale (e più in particolare meridionale) dell’Arte, così come agli archetipi della comicità all’italiana, che sarebbe vano volerli scalzare. Ancora oggi, comunque,

la maschera resta, anche nelle più meditate (e perciò stesso infedeli) riproposte dell'Arte, un «segno» che porta lontano dalla messinscena della realtà, verso la ricerca di una identità perduta, di cui l’attore conserva la memoria storica o sociologica della straordinaria avventura, durata più di due secoli, del professionismo, e il regista quella simbolica del puro linguaggio teatrale. Ma accanto al «mito» dell'Arte, non destinato ad esaurirsi,

rimane ancora molto terreno per la storia. Anzitutto per la storia documentaria dello spettacolo, delle sue fasi e dei suoi protagonisti, prima che per nuove interpretazioni dopo quelle ormai classiche che si aprono proprio in Francia con i due figurati volumi di Maurice Sand, Masques et bouffons del 1860, e proseguono in tutte le aree culturali toccate dalla presenza storica o mitologica del fenomeno: in Italia con studi e documenti che passano attraverso il vaglio critico ed erudito di Benedetto Croce e per altre vie poi mettono capo a una Storta della Commedia dell’Arte di Mario Apollonio (1930), finora insuperata; in Germania con sondaggi che affondano nell’archeologia culturale, come il Pulcinella di A. Dieterich (1897) e Der Mimus di H. Reich (1903); in Russia, nel 1914, con una fervida Commedia

dell’Arte di K. MiklaSevski), ovvero il più familiare C. Mic della versione francese del ’27; infine in Inghilterra con l’uso geniale, benché tendenzioso, della maschera che fa Gordon Craig in funzione del suo teatro assoluto (e alla quale ispira la sua fortunata rivista The Mask), non senza influenzare interven-

ti successivi di A. Niccol (1927) e K.M. Lea (1934). Ora, in Italia quanto meno, sembra prevalere l’istanza della filologia: per il recupero più esteso, dopo tante parziali iniziative, di scenari manoscritti e a stampa, una volta che sia stato programmato il censimento del patrimonio residuo. E, tuttavia, col limite che l’oggetto di studio impone. Perché, applicata a testi e documenti che trasmettono la memoria piuttosto che la forma di un evento, la filologia è qui condannata a funzione sussidiaria in quell’archivio di indizi per la ricostruzione del te202

sto-spettacolo sul quale il sipario dovrà alzarsi anche per forza d’immaginazione.’ 2. Ricordare a questo punto un modello francese di storia documentaria e valutativa, L’esprit de la Commedia dell’arte dans le théatre frangais di Gustave Attinger (1950),' diventa quasi un richiamo d’obbligo per ritornare al tema specifico di questo mio intervento. Anche per Attinger, infatti, la presenza di Tiberio Fiorilli sulle scene parigine è un dato fondamentale per chiarire molti aspetti del rapporto tra due esperienze teatrali limitrofe, la commedia italiana e la commedia francese, non solo del rapporto esclusivo Scaramuccia-Molière. Gli accertamenti cronologici ci danno in realtà un calendario di presenze assidue del nostro attore in Francia: dal 1640 al ’48, finché i torbidi della

Fronda non inducono la compagnia di attori-cantanti, che Scaramuccia aveva formato con B. Locatelli (Trivellino), Brigida Bianchi (Aurelia), Marco Romagnesi (Orazio), ad interrompere le recite nella sala del Petit-Bourbon e a rientrare in Italia;

dal 1655 al ’59 — dopo una breve incursione parigina nel ’53 — di nuovo al Petit Bourbon dove la compagnia, composta dalla moglie Isabella Del Campo (Marinetta) e dalla coppia Fiorillo (Giambattista e Beatrice), agiva in alternanza con quella di Molière; dal °61 al °64, ancora in alternanza con Mo-

lière, ma al Palais-Royal dopo la demolizione della sala del Petit-Bourbon e con una «ditta» di maggiore prestigio di cui facevano parte l’Arlecchino Domenico Biancolelli — il grande Dominique —, la moglie Orsola (Eularia), Beatrice Fiorillo (Diamantina), G.B. Turri (Pantalone), G.A. Lolli (Dottore), G. Bendinelli (Valerio), G.A. Zanotti (Ottavio); infine dal °70 fino alla morte che lo colse nel dicembre 1694, ultranovantenne, al culmine di una vecchiaia ormai inquieta. L’abbandono della

prima moglie rimasta dal ’64 in Italia, una serie di liti giudiziarie con una seconda moglie, giovanissima e dissoluta che fu costretto a sposare dopo averla messa incinta e con un figlio scapestrato che egli arrivò a fare imprigionare, gli stessi rapporti con la compagnia da cui pretese sempre la paga anche quando non ne fu più attivo, sono tutti dati che ci trasferiscono dalla scena teatrale al retroscena esistenziale di Fiorilli, divenuto su-

bito materia romanzesca. 203

Ma in definitiva anche il calendario delle presenze potrebbe non dire molto. I comici italiani avevano inaugurato in Francia

da oltre cinquant’anni la stagione teatrale dell'Arte con le tournées delle prime grandi compagnie, nobilitate ancora dai blasoni d’accademia, quasi a togliere al nuovo fenomeno del professionismo istrionico, che legava uomini e donne in una comune impresa d’arte e di guadagno, ogni sospetto di infima giulleria. Era l’epoca d’oro dei Gelosi, dei Confidenti, degli Uniti, de-

gli Accesi, in cui s'impone lo stile dei «lombardi», innamorati o zanni che fossero: dallo Scala (Flavio) al Martinelli (Arlecchino) e al Cecchini (Frittellino), dall’Andreini (Lelio) al Barbieri (Beltrame) e poi alle signore Isabella, Vittoria, Diana, Valeria ecc. L’istituzione a Parigi nel 1653 dell’antica compagnia della Comédie italienne, ufficialmente riconosciuta, protetta e sov-

venzionata, è impensabile fuori dall’azione svolta dai comici lombardi per l’affermazione di uno stile scenico e di un repertorio comunque di prestigio. Nella vita di questo organismo, di cui Scaramuccia non arriva a vedere la forzata dissoluzione nel 1697 con la persecuzione decretata da un monarca ormai succube di scrupoli bigotti, converge anche la vicenda scenica oramai matura di Tiberio Fiorilli, che tuttavia non vi sì risolve interamente. Scaramuccia infatti è l’attore meno riconducibile, tra tutti i compagni dell’Arte, a una storia del teatro italiano separata del teatro francese. Con lui, col napoletano, il rapporto tra i due teatri, rimasto con i lombardi distinto nel confronto a distanza tra due stili — lo stile della letteratura e quello della scena —, diventa per la prima volta un rapporto di reciprocità. Dopo Napoli, Parigi è la seconda patria di Scaramuccia. È la città per la quale non esita a lasciare, in un’età in cui la nostalgia delle origini si fa, declinando gli anni, più pungente, la famiglia e gli onori conquistati in corti italiane ancora splendi-

de. Ma a Parigi la sua arte — egli sembra saperlo — può ricevere oltre agli attestati di popolarità anche la sanzione di un magistero che andava oltre i confini del puro professionismo «attorico» lasciando il suo segno su un teatro che non si esauriva nell’esperienza effimera della scena. In Francia questo teatro c’era; fioriva quella cultura comico-teatrale che è imprescindibile dalla presenza dell’autore: una cultura che in Italia s'era spenta nel giro di un secolo dopo aver fondato la forma 204

moderna dello spettacolo. È comprensibile che anche per un buffone napoletano, Parigi valesse più di una delle tante «piazze» italiane; fosse il luogo privilegiato dell’incontro col pubblico e del confronto col teatro d’autore.

3. Quanto

alla napoletanità di Scaramuccia,

si potrebbe

obiettare che qui si dà per certa la testimonianza anagrafica di un biografo inattendibile come il Mezzettino. In realtà la notizia sulle origini dell’attore quale è tramandata dalla Vie si può ritenere ben fondata se non altro in considerazione del fatto che il Gherardi, severissimo nell’invalidare la serie di racconti di furfanteria, ne avrebbe subito svelato la falsità per dimostrare sui dati di partenza l’infondatezza romanzesca della pseudo-

biografia. Invece l’Arlecchino accetta di fatto non solo l’ascendenza napoletana di Scaramuccia ma anche quella familiare che fa di Tiberio un figlio d’arte nato da un attore e autore di grande prestigio in Italia e forse non solo in Italia: Silvio Fiorillo, celebre capitan Matamors e creatore, secondo un'ipotesi storicamente molto stringente tra quante ne corrono sull’origine della maschera, del personaggio di Pulcinella.” Alle sue origini e all’apprendistato nella compagnia paterna resta certamente legata la fisionomia esteriore del personaggio Scaramuccia, di questo servo austero nel suo costume di piccolo cortigiano controriformista contrastante con la divisa vistosamente pavonesca del capitano, suo padrone: la testa serrata tra un collarino e un basco che accentuano il colorito grigio cenere dal volto lasciato nudo, senza maschera, e in mano al posto dell’arma, una chitarra che dichiara immediatamente la rinuncia alla scaramuccia da cui prende il nome e, di contro, la sua of-

ferta come giullare pronto a cantare, danzare e saltare, eventualmente a far interloquire un pappagallo appollaiato sulla spalla. Ma il pappagallo è forse soltanto un’occasionale variante buffonesca nella scarna attrezzatura di scena esibita da Scaramuccia, quasi a dispetto del rigore luttuoso dell’abito che faceva dire a Molière di una notte buia: «Le ciel s’est habillé ce soir en Scaramouche» (Le Stcilien, sc. 1). Perché in realtà la fama di Scaramuccia resta legata a quella straordinaria espressività mimica che nel viso concentra tutte le variazioni emotive e nel

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corpo vince ogni peso. Era una fama che non toccava solo l’attore, ma sconfinava nella moda. In Francia infatti, molto più che in Italia, Scaramuccia diventò subito materia di aneddoti, tramandati, oltre che dalla solita Vie, dalla più attendibile H:-

stoire dei frères Parfaict° e confermati anche da ritrovamenti documentari. Appena arrivato a Parigi dove l’aveva chiamato Mazarino, era già in familiarità con i sovrani se è vero che tenne un giorno in braccio il delfino, il futuro Luigi x1v, allora di due anni, divertendolo con i suoi lazzi, e soprattutto se ebbe per padrini del suo secondo figlio un abate e una dama di corte in rappresentanza di Mazarino e di Anna d’Austria, come risulta dall’atto di battesimo del 1644. Più tardi la sua effigie cominciò ad essere riprodotta in pittura, in stampa e in marmo, e Scaramuccia nel pieno della sua attività poteva guardare compiaciuto la sua figura che entrava finanche nelle case private come ornamento di caminetti, mobili e arredi, oltre che nella già ricca iconografia dell’Arte. D'altra parte la biografia francese di Fiorilli non è tutta iscrivibile nella cronaca di una felice ascesa teatrale e popolare. Nella stretta familiarità con il sovrano si coglie il sintomo di una reciprocità di rapporti insieme esaltante e pericolosa. Da una parte essa è il segno della fascinazione dell’attore che attrae nel suo circuito ludico un potere su cui grava, come in poche altre epoche, un modello di esemplarità principesca; dall’altro rivela l’estensione del controllo regale sul teatro fino alla sfera privata, di là dalla rigida vigilanza esercitata, soprattutto a partire dal regno di Luigi xrv, attraverso i «gentilhommes de la chambre du roi» curatori delle sovvenzioni statali e perciò sovraintendenti al repertorio delle singole compagnie. La tutela però non è solo sorveglianza. Garantisce l’attore contro le minacce esterne, ecclesiastiche ed eventualmente popolari, e nello stesso tempo nobilita la professionalità del teatro promuovendo il buffone ad attore. Che in Fiorilli persistesse, pur tra tanti attestati di successo e di stima, la condizione avvilente del buffone, non è supposizione di gusto romantico. Mario Apollonio insiste, nel ritratto inquietante di Scaramuccia che disegna nella Storza del teatro italiano, su testimonianze meno sfruttate e più avvilenti: su un Fiorilli tedioso questuante, senza onore né vergogna, pronto alle finte lagrime e alla menzogna, messo alla porta senza pietà dalla granduchessa di Toscana;

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sulla sua condizione di commediante e buffone posta in rilievo dall’impietoso diarista che registra la morte del figlio durante un disastroso temporale a Firenze, aggiungendo solennemente che «gli uomini sanno fare le commedie, e Dio le commedie e le

tragedie».

Ma dalla scena, fuori dalla vita, si proietta l’immagine del grande attore ammirato dalla corte e dalla città: come ribadisce con foga Angelo Costantini adattando a Fiorilli la misura del classicismo sociologico con cui Boileau giudica, sul doppio parametro cour/ville proprio della commedia, la grandezza e il limite di Molière. È certo comunque che l’attore resta impresso nella memoria dei contemporanei con un rilievo che trascende il divertimento buffonesco. Che nella figura di Scaramuccia si condensasse un sovrasenso teatrale, un di più di valore metafisico piuttosto che fisico, è un’ipotesi suggerita da Giovanni Macchia attraverso un intreccio di citazioni incidentali che recuperano la memoria intellettuale oltre che materiale lasciata dall’attore: da La Rochefoucauld a Madame de Sévigné e Racine (il quale progettava testi comici per Scaramuccia) fino alle Pensées di Pascal.” Qui, in contrasto con la loquacità del Dottore, il

silenzio di Scaramuccia sembra farsi inquietante. «Scaramouche qui ne pense qu’à une chose» è un’immagine che smentisce i luoghi comuni della comicità italiana. Essa costringe il pubblico a scrutare dentro quella concentrazione bizzarra eppure profonda, persino ossessiva; a interrogarsi sulla solitudine incongrua del buffone, come di fronte all’immobilità allucinata e irresistibile di Buster Keaton. 4. L’intrusione di Scaramuccia nelle Pensées ci trasferisce definitivamente dalla memoria esterna a quella interna dell’arte comica: nel linguaggio dell’attore. Del resto lo stesso Costantini ci fornisce a questo proposito i dati ricostruttivi essenziali, su cui concordano le altre numerose testimonianze. Il Mezzettino mette in risalto che Fiorilli fu uno dei più perfetti attori di pantomima; che recitava con gli occhi più che con la parola e accordava il suo eloquio ai gesti. «Si può dire anche — dichiara nella Prefazione — che tutto parlava in lui: i piedi, le mani, la testa e che il minimo suo atteggiamento era da lui creato a ragion veduta»: non mancando di sottolineare la circostanza ca-

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pitale della sua fama in Francia, la confessione di Molière di dovere a lui tutta la sua mimica. Sono risultati eccezionali, ma

ottenuti a dispetto di alcune serie limitazioni, se è vero che fu di vista corta e sordo dell’orecchio sinistro, un po’ deforme per una spalla più grossa dell’altra, benché dritto e agile fino alla vecchiaia, e soprattutto tardo nella parola che stentava di emettere. Si aggiungano i dati caratteriali: avarizia collera diffidenza, in contrasto con una straordinaria vivacità di fantasia,

e ne viene fuori un ritratto tutt'altro che armonico, giocato sul contrasto tra arte e vita in cui resta sottintesa la possibilità che il teatro offre alla natura di liberarsi dai suoi impacci pratici e umorali e di esprimersi felicemente in una varietà di simulazioni.° Simulare, contraffare uomini e animali, era un altro ingrediente scenico e buffonesco di Scaramuccia. In quanto buffone, egli si serviva, stando a Costantini, della comicità canora trivia-

le fatta di ragli, miagolii e altre imitazioni animalesche con cui gli zanni intercalavano canzoni burlesche e grottesche. In quanto attore, puntava più in alto, alla definizione del personaggio: «contre-fazoit par son Art / si bien le triste et le gaillard, / si bien le fou, si bien le sage, / bref, tout différent personnage», cantava Loret in un couplet della Muse historique intonato come necrologio per la notizia della presunta morte di Scaramuccia in riva al Rodano tra l’estate e l’autunno del 1659. Ma il personaggio era forse soltanto una creazione involontaria dell’arte di Scaramuccia. La sua dimensione scenica è circoscritta psicologicamente non certo da determinazioni precostituite, dal carattere, ma dal circuito ossessivo della situazione che vincola la figura a una serie di reazioni elementari e proprio per questo parossistiche. Nella Table de Scaramouche, il canovaccio conservatoci dai Parfaict nell’Histoire du Thédtre italien (1753), Scaramuccia è colui che non riesce a mangiare. Terrori

improvvisi gli impediscono continuamente di attingere alla tavola abbondantemente imbandita e lo obbligano a divincolarsi e saltare in mezzo a scoppi misteriosi. Una storia italiana si profila dietro quei lazzi. Il napoletano aveva portato infatti nella cornice fastosa di Versailles e sulle tavole dei teatri parigini lo sketch della fame inappagata che accompagna con la sua riserva d’angoscia il repertorio della comicità partenopea; uno sketch che ha inesauribili riprese in età molto più prossima a noi, col vagabondo chapliniano, ma anche con i ben nutriti 208

borghesi di Bufiuel coinvolti in paradossali circostanze che impediscono di soddisfare la mondanità dei riti conviviali. A una elementarità parossistica ci richiama anche la testimonianza principe dell’arte di Scaramuccia, quella contenuta nel Recueil del Gherardi. Ciò che colpisce in quella raccolta è la sproporzione tra la presenza di Scaramuccia limitata nei sei tomi dell’edizione 1701 a ruoli di supporto, mai di protagonista, e il panegirico che il Gherardi stesso fa dell’attore dopo aver descritto gli effetti inevitabili della sua arte mimica in una famosa «scène d’épouvante» di Colombine avocat pour et contre. Poiché la didascalia dell’Arlecchino è il testo chiave, il passe-partout con cui si tenta di ridare corpo all’ombra di Scaramuccia, giova anche in questo contesto rileggerla: «On y voit Scaramouche qui, après avoir raccomodé tout ce qui il a dans la Chambre, prend sa Guitare, s’assied sur un Fauteuil, et en

Joue en attendant que son Maître arrive. Pasquariel vien tout doucement derrière luy, et par dessus ses épaules bat la mesure; ce qui épouvante terriblement Scaramouche. En un mot, c’est icy ou cet Incomparable Scaramouche, qui a esté l’ornement du Théàtre, et le

modele de plus Illustres Comediens de son temps, qui avoient appris de luy cet Art si difficile, et si necessaire au Personnes de leur caractere, de remuer les passions et de les savoir bien peindre sur le visage; c'est icy, dis-Je, où il fasoit pàmer de rire pendant un gros quart d’heure, dans une Scene d’épouvantes, où il ne proferoit pas un seul mot. Il faut convenir aussi, que cet excellent Acteur possedoit à un si haut degré de perfection ce merveilleux talent, qu’il touchoit plus de coeurs par les seules simplicitez d’une pure nature, que n’en touchent d’ordinaire les Orateurs les plus habiles, par le charmes de la Rhetorique la plus persuasive. Ce qui fit dire un jour à un grand Prince qui le voyoit joiier à Rome, Scaramuccia non parla, e dice gran cose: Scaramouche ne parle point, et il dit les plus belles choses du monde...»."

Una considerazione generale intanto, dopo questa citazione, peraltro parziale, della didascalia del Gherardi. Per capire lo scarto tra la limitata presenza di Scaramuccia nei testi del Théàtre italien e il rilievo che ha il grande attore in questo elogio vale la pena ricordare che il Recue:! non è lo «zibaldone» dei vecchi comici dell’arte che conservano scenari di uno o più autori senza l’ambizione di ricostruire il testo-spettacolo. Gherardi aspira ad una ricostruzione totale del repertorio degli Italiani e perciò conserva

tutto, anche

in forma

compendiaria,

rico-

struendo le scene mute con lunghe didascalie che consentono, 209

come nel caso della scena citata, gli interventi del collettore in luogo dell’autore (nel caso, Nolan de Foutouville). Quanto alla insoddisfacente elaborazione letteraria di quei testi, egli aveva messo le mani avanti nell’ Avertissement. Le pièces italiane, aveva dichiarato, non si dovrebbero stampare. La ragione sta nel fatto, aggiungeva, che i comici italiani, a differenza dei francesi, non apprendono niente a memoria, che a loro basta per recitare una commedia averne visto il soggetto prima d’entrare in scena, poi assecondare il compagno in un concertato di battute e di azioni che valorizza tutta la compagnia. Allora, perché pubblicare quei testi? Le ragioni vanno cercate altrove: nell’attacco sferrato, sempre nell’ Avertissement, contro

C. Cotolendi,

autore dell’Ar/equiniana

e di un Supplement au

Thédtre italien (cioè al primo volume apparso nel 1694), e contro il Costantini, accusato dal Gherardi d’essere autore di nome

non di fatto della Vie; nel rifiuto esplicito di inserire nella raccolta testi per maschere da fiera, come i Gradelins e i Polichinelles; nell’intento polemico di riabilitare l'Arte, i suoi comici e

la loro funzione teatrale in Francia a pochi anni di distanza dalla chiusura del Théàtre italien e forse con la prospettiva di una riapertura (che di fatto avvenne molti anni dopo, nel 1716). Sono tutte circostanze che spiegano la decisione presa dall’Arlecchino di ampliare la raccolta e dare maggiore rilievo alla figura di Scaramuccia. Fiorilli, ricorda Gherardi nella didascalia di Colombine, aveva goduto del favore e dell’amicizia di tutti i principi che l’avevano conosciuto, specie di Luigi xIv, «notre Invincible Monarque», e forse, se non fosse morto, «la

Troupe italienne seroit encore sur pied». Non si poteva continuare ad affidare la memoria di Scaramuccia a detrattori volontari o involontari come il Costantini. Bisognava tentare di ricostruire l’arte dell’attore nell’insieme in cui operò senza far da protagonista (funzione che la commedia dell’arte esclude) e proprio col suo silenzio, ma con efficacia maggiore del più esperto degli oratori. Per questo, Scaramuccia entra al pari degli altri suoi compagni, nella struttura di un testo a stampa — il Recuei! — che rinvia al testo di scena. Gherardi è forse il primo tra gli attori dell’arte a comprendere la funzione sociale del testo scritto, della letteratura, infine del libro, anche per chi nella pratica aveva doppiato lo scoglio della scrittura rivelando la felicità del com210

porre recitando. Ma per far maturare questa coscienza letteraria era stata necessaria una condizione di crisi, di precarietà: la persecuzione regale che aveva messo in forse l’avvenire del professionismo, non più soltanto della commedia italiana, ma di tutto il teatro. Queste circostanze spiegano l’azione postuma del Gherardi e di altri comici in disarmo. Senza di essa anche la memoria della più fertile stagione dell'Arte in Francia rischiava di scomparire.

5. L’elogio dell’attore italiano svolto nell’Avertissement del Gherardi chiarisce in gran parte l’interesse che Molière manifestava per Scaramuccia. Gherardi afferma che il comico italiano recita «sur le champ», in altri termini improvvisa; si serve più dell’immaginazione che della memoria; nasconde l’arte con l’arte, come i bravi pittori. Di contro gli attori che recitano «par coeur» sono come scolari, puri echi, privi tanto di naturale quanto d’arte. La condanna della pratica recitativa dei Francesi risulta da questa contrapposizione evidente, benché implicita. Ed è una contrapposizione che sottolinea di fatto la differenza, che proprio la commedia improvvisa rendeva pienamente palese, tra l’uso tradizionale della declamazione, fondato su un’assimilazione scolastica dell’oratoria, e l’uso moderno della recitazione intona-

to sulla mimesi del parlato, propria dello stile comico, piuttosto che sulla retorica tragica che imponeva le intonazioni alte del declamato. Nell’ Impromptu de Versailles (1663) Molière, dialogando delle tecniche dell’attore, intesse l’elogio del «naturel». Si è tentati di affermare che questa presa di posizione sia maturata dopo anni ormai di convivenza con Scaramuccia nella sala del PetitBourbon, dove anche egli si esibiva come attore oltre che come autore. A differenza del Fiorilli, però, Molière non era un figlio d’arte e doveva scoprire negli altri quel segreto della recitazione dal quale avrebbe anche ricavato materia per la creazione dei suoi caratteri. Con Scaramuccia, del resto, egli condivideva un difetto particolarmente vistoso per un attore impegnato all’inizio in parti tragiche, in cui, a quanto pare, non eccelleva e che poi infatti abbandonò: quell’esitazione della parola, quella balbuzie che Costantini segnala tra i limiti fisici di Scaramuc-

ZAR

cia, ma che per Molière significava compromettere l’effetto preminentemente declamatorio della tragedia. La commedia, come luogo scenico del parlato, consentiva invece di superare quell’impasse iniziale, e Scaramuccia intanto poteva insegnargli, se non l’abilità acrobatica e pantomimica in cui eccelleva sopra ogni altro comico italiano, «ces gestes contrefaits, cette grimace affreuse» che Molière ripeteva allo specchio (come ci mostra un’acquaforte di L. Weyen del 1670) nel tentativo di imitare quella straordinaria tensione espressiva, propria delle scene d’immobilità e di silenzio dove, come dice Attinger, «l’art du mime pur commence, qui sait tout dire sans parler».!* Il magistero di Scaramuccia su Molière è stato forse esagerato e solidificato come un topos dell’apologetica del grande attore. Ma l’iscrizione posta in calce a un antico ritratto di Scaramuccia: «Il fut le maître de Molière / et la nature fut le sien»," allude nell’epigraficità dell’encomio a un’esperienza che dobbiamo considerare fondamentale nella carriera teatrale del commediografo francese. Evidentemente nella simulazione pantomimica Molière coglieva modi di rivelazione della natura; nel movimento in superficie delle passioni, che Fiorilli agitava in silenzio sul volto, l’identità profonda del personaggio. Ma quell’iscrizione va a senso unico; non testimonia una reciprocità di rapporti che altre fonti mettono in evidenza. Per esempio, proprio quella «comédie en trois actes», Colombine avocat pour et contre, che contiene incidentalmente l’elogio dell’arte di Scaramuccia e, nell’ultima scena dell’atto 1, una genealogia burlesca del personaggio, da zanni napoletano, che lo fa «figlio di Tammero e Catammero Cocumero Cetrulo e de Madama

Papera Trentova, e parente del Messere Unze, Dunze e Trinze e Quiriquarinze e de Nacchete, Stacchete, Conta Cadece e de Tabruna, Tabella, Casella, Pagana, Zurfana, Minoffa, Catoffa

e Dece Minece».! Più che agli scenari ispirati al tema del «convitato di pietra» (con uno dei quali aveva esordito lo stesso Scaramuccia meritandosi alla prima prova solo un piatto d’uova sode e poi cibi più prelibati), la commedia sembra riprodurre lo schema del Dom Juan messo in scena vent'anni prima. Arlequin ha perduto qui la sua condizione di servo: è un nobile dongiovanni inseguito dalla Spagna a Parigi da Colombine, sua promessa sposa, che si finge donna Anna dopo essersi allontanata dall’Italia in

212

compagnia del fedele Pasquariel. Solo che a differenza dell’eroe molieriano, Arlequin, farfallone piuttosto che empio, sarà alla fine perdonato obbligandosi a sposare Colombine. Il soggetto serve ad introdurre nel meccanismo scenico multiplo, tipico del repertorio italiano, una serie di lazzi che prevedono musiche e danze e valorizzano tutto il cast, ma soprattutto esaltano la funzione della avventurosa protagonista. Colombine si traveste continuamente per mettere alla prova la fedeltà di Arlequin, poi si rivela minacciandolo ogni volta con una «chiusetta» italiana: «Perfido traditore / m’avrai negli occhi / se non m°hai nel core». Organizza con Pasquariel trucchi spaventosi per indurre l’amante a pentirsi, infine si esibisce nel gran coup de théatre dell’ultima scena dell’ultimo atto svolgendo in veste d’avvocato due opposte arringhe, prima contro poi in favore di Arlequin. A questo punto Scaramouche, il mimo imprevedibile, l’attore del silenzio, è uscito di scena per lasciare il posto alle lunghe tirate oratorie della maschera che si prende gioco, prima del lieto fine, di giudici e di nobili, ridotti a incoerenti marionette manovrate dalla parola. Ma, se è vero che l’ormai ottantenne Fiorilli era il direttore di questi spettacoli dei «Comediens italiens du Roy» in cui l’incoerenza s’afferma per esaltare l’effetto del singolo numero, non basterà limitarsi a constatare la differenza sostanziale tra lo schema drammaturgico di Scaramuccia, che resta quello del «lazzo», cioè del pezzo comico isolato dall’insieme, e quello di Molière, che invece costruisce il personaggio e il carattere in coerenza con la trama e con la verosimiglianza dei comportamenti. Di là dalla rispondenza tematica del Dom Juan, Colombine contiene altre non irrilevanti rispondenze interne che toccano il rapporto servo-padrone, così intrinseco alla commedia dell’arte e a quella molieriana. Mi limito in prima lettura a segnalare il lamento di Pierrot che nell’atto mi accusa Arlequin, suo padrone, incriminato di misfatti dongiovanneschi, di volersi fare impiccare per non pagargli il salario. Chi potrebbe negare che si tratta di una variazione del più celebre lamento — «Mes gages! mes gages! mes gages!» — con cui Sganarelle commenta la punizione di Dom Juan e chiude la commedia? Forse l’uno e l’altro risalgono più lontano, alle prime irruzioni del servo sulla scena e alla durezza di un rapporto che il divertimento non incrina. Fatto sta, comun213

que, che leggendo i testi del Recue:/ si è tentati di supporre che per Scaramuccia, come in genere per i comici italiani che agirono a Parigi nell’ultimo trentennio del secolo xv, l’esperienza scenica di Molière non sia passata invano, così come per Moliere e altri autori di quella grande età teatrale era stata risolutiva la presenza degli Italiani a Parigi. Vorrei dire alla fine che fu anche per loro, oltre che per il grande commediografo, un’esperienza, anzi una concorrenza rischiosa. Richiama la nostra attenzione l’ultimo argomento con cui Molière nella Préface del 1669 al Tartuffe si difende dai suoi ipocriti censori e contrattacca. Vale la pena insistervi. Molière rievoca uno scambio di battute tra Luigi x1v e il Grand Condé alla fine della rappresentazione di Scaramouche ermite otto giorni dopo la proibizione del Tartuffe. Uscendo dalla sala, il re domanda al suo principe: «Je voudrais bien savoir pourquoi les gens qui se scandalisent sì fort de la comédie de Molière ne disent mot de celle de Scaramouche?»; à quoi le prince répondit: «La raison de cela, c’est que la comédie de Scaramouche joue le ciel et la religion, dont ces messieurslà ne se soucient point; mais celle de Molière les joue eux-mémes; c'est ce qu’ils ne peuvent souffrir»."

Certo, nei tempi brevi, la spiegazione risulta ineccepibile. Assistendo al Tartuffe la società degli ipocriti avvertiva immediatamente la minaccia («de te fabula narratur») e si appellava

all’autorità. Invece la burla di Scaramuccia, per quanto audace, poteva apparire senza immediati destinatari. L’attore-buffone poteva permettersi quanto non era consentito all’autoreattore. Ma a distanza quella minaccia alla religione in nome della natura, del corpo, degli istinti, apparve insostenibile proprio al potente monarca che già allora si stupiva della tolleranza accordatale. Quanto a Scaramuccia, egli ebbe la fortuna di non subire la persecuzione riservata dal suo re ai suoi compagni. Morendo qualche anno prima, aveva concluso in tempo, miracolosamente in tempo, la sua avventura di napoletano a Parigi, e la sua memoria restava a testimoniare il momento magico della commedia italiana in Francia, prima del suo declino,

protratto a lungo nel tramonto del vecchio regime.

214

NOTE

1 Cfr. Le Théatre italien ou Le Recueil général de toutes les Comédies et Scènes frangaises jouées par les Comédiens italiens du Roy, Amsterdam, 1701, xm1 ed. Riproduce in 6 tomi l’edizione definitiva (Paris, 1700) che contiene 55 pièces, ma vi aggiunge l’Avertissement, testo polemico e dichiarazione di poetica drammaturgica di notevole rilievo. La Vie de Scaramouche di A. COSTANTINI fu ristampata con introduzione e note di L. MOLAND, Paris, 1876, dopo varie ristampe e traduzioni settecentesche e ottocentesche. Una moderna traduzione italiana è quella di M. BoNFANTINI, ed. con nota introduttiva di G. DAVICO BONINO, Torino, Einaudi, 1973.

Una sintesi biografico-critica su T. FIORILLI è contenuta nella mia voce in Enciclopedia dello spettacolo, Roma,

1958, vol. v, coll. 366-368, cui rinvio per

una rapida rassegna della testimonianze e la bibliografia essenziale. [Vanno ora segnalati con particolare evidenza il saggio di G. Macchia, qui più oltre riscontrato, e quello di L. DE NARDIS, Gli occhiali di Scaramuccia, in «Nouvelles de la République des Lettres», 1983, 1, pp. 7-19, che testimonia del rinnovato interesse per il grande comico].

2 È auspicabile un ordinato ragguaglio della letteratura critica della commedia dell’arte, che tuttora manca. Spunti suggestivi di ripensamento offrono comunque gli interventi di M. BARATTO, F. MAROTTI, M. INES ALIVERTI, L. MARITI, R. TESSARI, F. MASTROPASQUA, L. ZORZI, F. TAVIANI al convegno di studi

del Centro per la sperimentazione e la ricerca teatrale di Pontedera (maggio 1976), raccolti nel volume Alle origini del teatro moderno: la commedia dell’arte, a c. di L. MARITI, Roma, Bulzoni, 1980. Dei vari interventi del croce si cita intanto il più discorsivo, Intorno alla commedia dell’arte, in Poesia popolare e poesia d’arte, Bari 1932 (richiama precedenti contributi crociani e di altri studiosi italiani e stranieri). Particolarmente attiva in Italia la saggistica sulla commedia dell’arte tra Otto e Novecento. Tra i collaboratori di 7he Mask va ricordato M. scHERILLO, autore di un volu-

me di «studi e profili» (La commedia dell’arte in Italia, Roma, 1884) apprezzato dal Croce. 3 A F. MAROTTI, editore di // Teatro delle Favole Rappresentative di Flaminio scALA (Milano, 1976, 2 vol.), si deve in particolare la promozione di un lavoro d’officina (nell’Istituto di Storia del teatro e dello spettacolo dell’Università di Roma, fondato da G. Macchia) in favore di una ripresa d’attività per la costituzione del corpus dei testi dell'Arte e di una più articolata storia documentaria (per la quale un notevole contributo è offerto da F. TAVIANI, La commedia dell’arte e la società barocca. La fascinazione del teatro, Roma, Bulzoni, 1969). Ma si tengano presenti, oltre alle vecchie raccolte di A. BARTOLI, F. NERI, E.

PETRACCONE, quelle più recenti di v. PANDOLFI, La commedia dell’arte. Storia e testi, Firenze, Sansoni antiquariato, 1957-1959, 5 voll.; s. spapA, Domenico Biancolelli ou l’art d’improviser. Textes, documents, introduction, notes, présenté par F. DELOFFRE, Naples, Institut Universitaire Oriental, 1969; G. COLAJANNI, Les scenarios franco-italiens du ms. 9329 de la BN, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1970. legal

[Si sono aggiunti frattanto altri rilevanti contributi: R. TESSARI, La maschera

e l’ombra, Milano, Mursia, 1981; F. TAVIANI - M. SCHINO, // segreto della commedia dell’arte, Firenze, La Casa Usher, 1982; c. MOLINARI, La commedia dell’arte, Mi-

lano, Mondadori, 1985].

3 i 4 Reprint, Genève, 1969. 5 Cfr. B. croce, Pulcinella e le relazioni della commedia dell’arte con la commedia popolare romana, in Saggi sulla letteratura italiana del Seicento, Bari, 1948°, p. 192-

215

201 (ma il contributo è del 1898). Va ricordato col Croce che la prima immagine complessiva della comicità napoletana è quella diffusa dalla celebre seLs rie di incisioni dei Balli di Sfessania di Jacques caLLOT (1622). 6 FR. et CL. PARFAICT, Histoire de l’Ancien Thédtre Italien, depuis son origine en France, jusqu’à sa suppression en l'année 1697, Paris, 1753. Le varie testimonianze sono raccolte e integrate col repertorio iconografico nel noto dizionario dell’attore LUIGI RASI, / comici italiani, Firenze, 1897-1905, 2 voll. 7 M. APOLLONIO, Storia del teatro italiano, Firenze, 1954’, vol. n, p. 53-62. La documentazione biografico-aneddotica è già tutta in RASI, of. cit., ad vocem. 8 G. MACCHIA, // silenzio dell’attore, in Il silenzio di Molière, Milano, Monda-

dori, 1975, p. 11-19. La citazione di Scaramuccia, «pur presente nei manoscritti — precisa Macchia —, non fu ammessa nella prima edizione delle Pensées e fa il suo primo ingresso soltanto nell’edizione Faugère del 1846». 9 Cfr. La Vie..., cap. xxv. 10 Cfr. Colombine..., a. 11, sc. vi, in Le Thèatre Italien, ed. 1701, cit., t. 1 p.

308-309. 11 Arlequiniana ou les bons mots, les histoîres plaisantes et agréables recueillies des conversations d’Arlequin, Paris, 1694; Supplement du Théatre Italien..., Bruxelles, 1697. 12 G. ATTINGER, 0. cit., p. 172-175, cui rinvio in generale per la valutazione dei rapporti Molière-Scaramuccia. Ma cfr. in proposito le testimonianze sull’attore e la sua fortuna contenute in L. MOLAND, Molière et la comédie italienne, Paris, 1867; Mm. corsi, Scaramuccia, maestro di Molière, in Rivista italiana del dramma, ui (1939), xvi, p. 70-94. L’incisione di wEYEN è riprodotta da L.F. BOULANGER DE CHALUSSAY nell’Elomire hypocondre con intenti denigratori nei

confronti dell’apprendistato scenico dell’anagrammato Molière. 13 La planche e il distico in RASI, / comici italiani, cit., vol. 11, ad vocem. 14 La genealogia divenne modello di scritture goliardiche dedicate a Sca-

ramuccia (cfr. RASI cit., vol. 1, p. 891). Genealogie analoghe d’intonazione burlesca sono presenti oltre che nei canovacci dell’Arte, in testi del teatro comico cinquecentesco (cfr. due commedie cronologicamente molto distanti come L’Anconitana di RUZZANTE e Le Stravaganze d’amore del romano Cristoforo CASTELLETTI, della fine del sec. xv1). Quanto all’origine della maschera, Luigi RICCOBONI (Histotre du théatre Italien, Paris 1731, t. 11, p. 315) sottolinea che l’abito è un’imitazione di quello spagnolo usato a Napoli da magistrati e militari e che il personaggio aveva in Italia il carattere del Capitano, mentre in Francia fu piegato a ogni ruolo ed era nello stesso tempo fanfarone e poltrone. Ma con funzioni di servo Scaramuccia è già presente nello scenario di F. scaLA // Marito e nella commedia // Finto marito del 1618. 15 Ha sottolineato il valore di questo aneddoto, con cui si chiude la Préface, G. MACCHIA in La Letteratura francese. Dal Rinascimento al Classicismo, Firenze Sansoni/Accademia, 1970, p. 458 (un’opera che insiste molto opportunamente sulla presenza della commedia dell’arte nella cultura teatrale francese del Seicento).

[In Le théatre italien et l'Europe.

XV-XVII' siècles, a c. di Ch. Bec e I.

Mamczarz, Presses Universitaires de France, Parigi 1983, pp. 111-1 24]

216

11 - coLponi 1980 (IN MARGINE A UN CONVEGNO)

Temevamo d’essere stati impazienti. Non abbiamo voluto aspettare per organizzare un incontro su Goldoni le scadenze centenarie più prossime: il 1993 o, ancora più in là, il 2007! Può darsi che a quelle date ci si ritrovi. Ma intanto, scaduti i vent’anni che ci separano dalla pubblicazione degli atti del convegno veneziano del 1957, s’imponeva, non per cedere a facili richiami di celebri puntate romanzesche, come ci ricordava in esordio Mario Baratto, una prima riflessione sulle iniziative (stavo per dire «avventure») sceniche e critiche di maggior rilievo in questo interregno. Abbiamo avuto ragione. Il confronto generazionale, tra la vecchia e la giovane guardia del goldonismo militante, e quello settoriale, tra cattedra e scena, più in

generale tra metodi strategie tattiche d’approccio a Goldoni, non sono stati mai elusi. Ora siamo in grado di estendere il confronto fin dove nei tempi brevi dell’organizzazione non siamo potuti arrivare. Quando sarà possibile ci serviremo degli strumenti linguistici e filologici messi nel frattempo in opera per uno studio più ravvicinato dei testi goldoniani, come ci ha informato con ricchezza di dati e puntualità di rilievi esemplificativi Nicola Mangini. E bisognerà anche giovarsi del contributo degli addetti stranieri ai lavori dell’interpretazione e eventualmente della messinscena assenti a questo appuntamento per i limiti insuperabili della nostra impresa: con l’eccezione dell'amico Krzysztof Zaboklicki dell’università di Varsavia, fortunatamente capitato in Italia per parlarci, come ha fatto nel suo equanime ragguaglio, di un Goldoni «marginale», del suo esotismo.

Carne al fuoco ne è stata messa molta dal momento che nessuno, tanto negli interventi programmati quanto in quelli provocati, si è sottratto a responsabilità presenti e passate. Già del

DIV

resto la relazione introduttiva ci ha subito avvertito di un’impaginazione personale del bilancio dei vent'anni, dell’urgenza di una pluralità di letture, di un passaggio obbligato dal teatro ai teatri goldoniani, come a sancire la fine delle interpretazioni totalizzanti e l'avvento di un’epoca sperimentale piuttosto che astrattamente metodologica e ideologica. Questa apertura di Baratto al pluralismo delle interpretazioni è apparsa a Giuseppe Petronio sintomatica di una rischiosa inclinazione al «libertinaggio». Senza essere titolare di una relazione, Petronio ha fatto per tutta la durata del dibattito la parte quanto meno del deuteragonista, evitando la difesa d’ufficio dell’ideologismo storicistico degli anni cinquanta, anzi denunciandone con spregiudicatezza i limiti: ottimismo (prospettivistico, alla Lukàcs); scarso approfondimento delle varietà dell’illuminismo cui l’esperienza di Goldoni veniva intrecciata; mito della continuità nazional-popolare; schemi di sociologia applicata allo scrittore anziché al testo. Ma, quanto alle responsabilità dei giovani critici o degli anziani che li assecondano, Petronio è stato irriducibile: l’assenza di senso storico e filo-

logico, giustificabile, a suo parere, nell’attività dei registi, per i quali il testo sarebbe niente altro che una felice occasione di ricreazione, è inammissibile a livello d’interpretazione critica, cui non compete licenza di trasferire schemi validi per la comprensione di epoche successive in età goldoniana. I problemi che ora ci affliggono o deliziano (contraddizioni dello sviluppo capitalistico; criticismo sociologico degli strumenti di comunicazione e riproduzione di massa) brontolavano forse all’orizzonte, ma non per un Goldoni che nella sua Venezia declinante (al nostro sguardo, è ovvio, non al suo) progettava e realizzava le riforme artistiche di una società borghese in ascesa. Nella fase preilluministica, di cui il teatro goldoniano renderebbe testimonianza,

ragion mercantile e diritti del cuore, di là dagli ostacoli che fanno grato il lieto fine, trovano un felice accordo. Questo incomparabile risultato di equità, pur non cedendo alla favola stucchevole di papà Goldoni, cerchiamo di non sciuparlo — sembra averci avvertito Petronio — col nuovo, forse altrettanto

stucchevole cliché di un Goldoni nevrotico. Ma un convegno che nasce tra tante provocazioni di regia e tante suggestioni di teatrologia non è poi la sede più adatta per estirpare il principio di contraddizione: la pianta con le radici. 218

Già Baratto, per quanta professione di pluralismo abbia civilmente enunciato ed esercitato in dialogo, non si è sottratto alla responsabilità di proporre sul terreno che più gli è congeniale, la storia dell’autore, una scansione della carriera teatrale goldoniana in cui la sperimentazione del triennio ’48-’51, gli anni da lui detti della «drammaturgia di Venezia», è posta a confronto con le fasi successive ricche di rinvii interni, anzi interio-

ri, ma anche di rilievi caricaturali non privi di ferocia (da Notte pariniana quasi), fino alla conquista di uno stile sicuro, che non lo metterà però tanto al sicuro dai cedimenti e dalle oscillazioni, dato l’alto quoziente di adattabilità al mercato dell’autore drammatico. In questa mappa dei teatri goldoniani è elevata ad esponente più la pratica della mobilità, l’esperienza, che il principio di contraddizione. Questo invece ha dominato senza remore con-

cordatarie e profferte di compromesso tutti i livelli d’argomentazione di Bartolo Anglani, in funzione di relatore e sempre in azione come interlocutore. Per Anglani la storia va fatta di contropelo (col rasoio di Benjamin e facendo i conti con la falsa coscienza degli scrittori) e più nella sua proiezione nel futuro che con la prospettiva del passato. La metodologia marxista del 1957 ha messo agli atti con Manlio Dazzi la sociologia delle classi, con Franco Fido il rapporto testo-destinatario, con Petronio l’individuazione di un teatro nazionale borghese, con Baratto la biografia artistico-intellettuale come paradigma di storia teatrale. Ora è tempo di cogliere nella recensione dei dati biografici il nesso delle contraddizioni: la posizione di Goldoni rispetto a e dentro i rapporti di produzione dai quali egli trae la sua qualifica di Autore; il contrasto tra l’ideologia «repressiva» della riforma e il rischio della messa in scena delle stesse contraddizioni, donde si genera il capolavoro, La locandiera. Bisognerebbe forse chiedere ad Anglani qualche supplemento delucidatore della sua formula suggestiva ma contratta che

fa dell’autosoppressione del teatro nella Locandiera il trionfo del teatro. Ma è certo che rispetto a e dentro quella celebre locanda (luminosa o buia?) come intorno alla sua padrona (prodigio d°equilibrio femminile o soggetto nevroticamente instabile?) si sono giocate le partite della Contraddizione tra etica della Produzione (e del lavoro) e spreco del Desiderio. Mario Missiroli, forte di un risultato scenico conseguito in uno spazio tutto chiuso e 2109

angusto tra faccende e schermaglie esemplate su Hogarth piuttosto che su Longhi, ha potuto rievocare il suo training preliminare sull’inconscio e sulla coscienza di Mirandolina come figlia che disattende col Cavaliere la Figura Paterna ma poi la riconquista promovendo Fabrizio da servo a padrone. E Raffaele Morabito, ovviamente senza attestati di esperienza scenica, ha

proposto un’idea di ricomposizione dei conflitti sull’asse del linguaggio (la parola che sostituisce altre più effimere benché con-

crete soddisfazioni) con allegata rivalutazione a livello di bottega delle norme rinascimentali del comportamento cortigiano. Ma, se si risale dall’ultimo «grottesco» di Giancarlo Cobelli al realismo splendente di Luchino Visconti, i turbamenti di Mirandolina potrebbero sintonizzarsi, rinunciando al romanzo della nevrosi, con le smanie esistenziali di una qualsiasi delle sorelle cecoviane: come ha ricordato Aggeo Savioli ricostruendo vent'anni di pazienze e impazienze goldoniane sulle scene italiane. Il «cecovismo» di Goldoni, inseparabile dalle memorabili realizzazioni di Giorgio Strehler, è una forma ormai classica della scena italiana. Come la forma commedia dell’arte, an-

ch’essa legata alla storia strehleriana con l’Arlecchino e alla preistoria squarziniana con / due gemelli veneziani (e adottata come carta di credito di Goldoni a tutte le latitudini). Ma il recupero delle forme goldoniane risponde all’invito di

Baratto ai teatri goldoniani? Per onorarlo il regista continui a fare il critico e il critico a fare il regista, come di fatto avviene stando al paradosso constatato con simpatia dallo stesso Baratto. Da regista, per un eventuale spettacolo dove l’armatura abbia una volta tanto maggiore evidenza dell’arredo, Ludovico Zorzi ha richiamato l’attenzione sulle strutture e i meccanismi dell’Arte che il testo goldoniano assimila e ribadisce; mentre Franca Angelini, attraversando il territorio delle commedie veneziane con le maschere del carnevale in mano, le ha via via

distribuite fissando la topologia di una festa che si urbanizza e infine si teatralizza per un uso del carnevale come lezione di teatro, ed ha così fornito il materiale per la messa in opera di un dge d'or al tramonto, dove l’evento carnevalesco si rispecchia nella casa dalla città e nella città dalla casa. Franco Fido ha convogliato tutte le circostanze esterne della stagione parigina di Goldoni dentro il circuito della memoria di Venezia. Costretto a riciclare la macchina degli scenari per un pubblico che non 220

può mostrarsi solidale con la riforma del mestiere di attore e il ripristino dell’istanza scenica della parola, Goldoni ci appare nel ritratto di Fido capace di scommettere ancora a distanza con gli spettatori veneziani e apre per loro, quando le ombre del moralismo e della vecchia commedia sembrano insidiarlo,

un gioco imprevedibile di equivoci amorosi dalle stecche di un

irrequieto ventaglio.

In senso traslato quel piccolo oggetto da salotto era stato evocato da Anglani per definire assiomaticamente il teatro, se non ricordo male, un ventaglio di tensioni e contraddizioni. Ma Squarzina nella relazione-proiezione sulle sue regie goldoniane ne ha rivelato addirittura il potere sciamanico attribuendo al Ventaglio vero e proprio il valore di metafora sull’eguaglianza (chi possiede quell’oggetto annulla provvisoriamente le distinzioni di classe) e sulla magia del quotidiano. A questo punto il principio di contraddizione, di cui pure Squarzina non ha fatto risparmio implicandovi il Goldoni dei Mémoires e delle Prefazioni e annodandovi il filo della sua esperienza goldoniana dai Rusteghi a Una delle ultime sere di Carnovale alla Casa nova, sembra aver lasciato il posto alla sorpresa della Rivelazione. Perché nel Ventaglio l'elemento dionisiaco, ovunque latente in Goldoni, si esaspera e la nevrosi si collettivizza senza privilegiare un carattere rispetto alla normalità, con la prevedibile assimilazione nella memoria di tutti dell’Eros e dello Stupore che l’oggetto in gioco ha magicamente indotto. Sintomaticamente siamo col Ventaglio alla fine degli appuntamenti di Goldoni col pubblico e del nostro qui con lui. Un congedo che lascia in sospeso qualcosa, come molto, s7 licet, lasciano in sospeso queste conclusioni.

Una particolare conclusione però può essere considerata più salda, indipendentemente dai risultati specifici di questo nostro incontro. Ogni nuova riflessione o esperienza fatta su Goldoni, sulla pagina o sulla scena, è un contributo di cui la nostra cultura è debitrice nei confronti della commedia o meglio del comico. Ci stiamo abituando forse solo da poco alla sua piena rivalutazione. Finora in Italia come altrove la nascita del nuovo in letteratura come in teatro è stata tenuta a battesimo dalla tragedia: anche da Nietzsche, che pure sostituisce Dioniso ad Apollo, anche da Freud, in cui il Witz gioca ancora una partita

impari con l’Edipo, anche e più da Marx, per il quale è Prome221

teo l’eroe liberatore, se la tragedia non si ripete in farsa. Persino i manifesti dell'avanguardia futurista hanno preferito innalzare la bandiera del sublime, quindi del tragico quotidiano e proclamare l’agonismo della macchina. Né il primato del Linguaggio, così implicato con i meccanismi del comico, ha a tutt'oggi rivendicato con la neoavanguardia, passando dalle rivendicazioni di poetica all’opera in atto, una rinascita del riso. Senonché, da ultimo presso di noi, Michail Bachtin ci è venuto in soccorso, ed è difficile ormai rimuovere l’ipoteca comica da lui messa su tutta la letteratura moderna. Ma quanto a Goldoni, come inserire il suo «naturale» nella storia bachtiniana del riso, tanto carnale e insieme tanto intellettuale? Tra le nostre ipotesi non è mancato il suggerimento del «grottesco»; ma a un «basso materiale» goldoniano nessuno giustamente ha

finora pensato. Infatti, la dimensione del comico in Goldoni è meno circoscrivibile; è fatta di elementi fulviscolari, piuttosto che di organiche coesioni. Per primo Gasparo Gozzi nella sua entusiastica cronaca dei Rusteghi aveva individuato col supporto di una citazione dantesca quel particolare e nuovo effetto di realtà che la commedia emana: Allogate sono poi in essa commedia tutte le circostanze con isquisita proporzione... perché appunto come raggio di sole... penetrato pel fesso della finestra, ove a te par vòto e nulla, ti fa apparire una lunga striscia di minute particelle in perpetuo movimento, così l’ingegno dell'Autore illumina e ti fa vedere mille minute circostanze che tu non avresti immaginate, nonché vedute.

In proiezione l’ottica di Gozzi ci fa apparire più chiare altre minute circostanze che interessano il teatro e il romanzo (forse

più questo che quello) nel suo sviluppo in Italia. Quel pulviscolo, quella visione e animazione lenticolare dell’esistenza che rifà illusoriamente il Mondo nel Teatro, riempie gli interni e gli esterni della commedia goldoniana, spezza e riannoda il concertato delle battute, e non solo in dialetto. Questo movimento molecolare che coinvolge azione e personaggi spiega le consonanze da noi sentite a distanza con il ritmo e le voci del teatro di Cecov. Ma forse dovrebbe farci più accorti dell’assimilazione goldoniana di Manzoni, di Verga (nell’illusorietà naturalistica del dialogo dei Malavoglia), di Svevo nella Coscienza di Zeno, dove un istintivo goldonismo funge più della psicanalisi da corret-

282

tivo della nevrosi. E quanto a Eduardo, non so se si sia mai pensato al segreto goldoniano di quei sussurri e gridi con cui l’attore rende familiarmente autentico il suo arrovellio pirandelliano d’autore. Se è consentita anche a me una constatazione di corrente sociologia, dirò alla fine che la borghesia non ha favorito la promozione del comico a valore istituzionale al pari del tragico, e con esso ha limitato il valore storico del suo Goldoni. Noi col nostro intreccio di opinioni e valutazioni su vent’anni d’interpretazione e di messinscena abbiamo contribuito in queste giornate di lavoro a invertire la tendenza. Ma resta ancora la possibilità di segnalare fuori dai consueti tracciati la presenza di Goldoni nella letteratura moderna, non solo nella critica e nella

regia. Su questo debito non ancora saldato, tra tanti crediti acquisiti, è forse opportuno in conclusione richiamare più del solito l’attenzione. [Pubblicato come Conclusioni al convegno di studi del Teatro di Roma (aprile 1980) su L’interpretazione goldoniana. Critica e messinscena, a c. di N. Borsellino, Officina Edizioni, Roma 1982, pp. 264-270.]

220)

12 - «LI TEATRI DE ROMA»

1. Il sonetto che introduce a questa perlustrazione teatrale con e su Belli ha una data sintomatica,

15 gennaio 1832, la

stessa segnata in calce al sonetto caudato Le cchiese de Roma. Il gemellaggio teatro-chiesa non è certo casuale; ribadisce la circostanza che, per la plebe romana, e il poeta-custode del suo «monumento», sacro e profano, spettacolo e rito sono strettamente contigui, si sovrappongono e si confondono nella promiscuità dell’urbe cattolica. Il sonetto è uno spaccato della scena romana. Dà notizia dei teatri aperti nella stagione del carnevale 1831-32 e in parte del relativo repertorio: LI TEATRI DE ROMA!

Otto teatri fanno in sta staggione De carnovale si mme s’aricorda: Fiani, Ornano, er Nufraggio, Pallaccorda,

Pasce, Valle, Argentina e Ttordinone. Crepanica nun fa, manco er Pavone, Ma cc’è invesce er Casotto: e ssi ss'accorda

Quello de le quilibbrie e bball’in corda, Caccia puro Libberti er bullettone. Nun ce sò Arcidi grazziaddio quest'anno, Ché st’Arcidi sò arte der demonio,

E cquer che ffanno vede è ttutto inganno.

Io però, si Ddio vò, co Mmanfredonio Vad’ a Ppiazzanavona, che cce fanno La gran cesta der gran Bove d’Antonio.

Come documento storico il sonetto è stato ovviamente utilizzato per la ricostruzione della vita teatrale romana in anni in

224

cui Belli era in piena attività poetica. Le note d’autore ce ne danno un essenziale ragguaglio che può essere integrato con altre fonti ma anche col rinvio interno ad altri sonetti d’argomento analogo. Il Fiano, l’Ornani, il Nufragio (poi della Fenice) agivano con spettacoli di burattini e marionette; il Pallacorda e il Pace ospitavano commedie e drammi popolari e dialettali; il Valle era teatro drammatico e per solito d’opera buffa; l’Argentina anch’esso drammatico e d’opera regia, e così il Tordinona, ormai in decadenza, come testimoniano altri sonetti. Il

Capranica e il Pavone non erano ancora agibili in quella stagione; agiva invece il Casotto, la scena vagante del burattinaio Gaetano Santangelo, detto Ghetanaccio, reincarnazione lignea di Pasquino, frequentatissimo in piazza Navona. Per completare anche con le previsioni, si annuncia come probabile l’accordo tra impresario, equilibristi e ballerini sulla corda che consentirebbe la pubblicazione del cartellone («bullettone») del Teatro d’Alibert o delle Dame, senza però esibizioni di Alcidi ovvero Ercoli, atleti circensi che peraltro in quegli anni si esibivano al Corea, anfiteatro collocato al Mausoleo d’ Augusto, che

l’anonimo spettatore del sonetto non aggiunge tuttavia al quadro e al calendario degli spettacoli. Invece la sua opzione finale per il Teatro Ornani di piazza Navona ci precisa in trascrizione deformante il titolo di una recita di marionette, una storia di paladini che, al di là della documentazione sugli spettacoli di quel carnevale, ci autorizzerebbe a togliere a siciliani o napoletani il primato dell’opera dei pupi. Sintomaticamente povero risulta in questo ragguaglio teatrale il repertorio drammatico. La revisione ecclesiastica infieriva sui copioni, particolarmente su quelli satirici, al punto che una battuta che conteneva un «quarant’ore» come semplice indicazione di tempo era modificata con un prolungamento fino a «dieci giorni», per evitare sospetti di irriverenza nei confronti di pratiche devozionali. Tempi duri correvano per il maggior commediografo romano del primo Ottocento, Giovanni Giraud, tra la proibizione dell’Ajo nell’imbarazzo (1807) e la rappresentazione del Ga/antuomo per transazione (1841). I sonetti 315 e 492, dell’8 gennaio e del 27 novembre 1832, rivelano l’assimi-

lazione proverbiale di due personaggi farseschi della giraudiana Casa disabitata, i vecchi Eutichio della Castagna e Sinforosa

sua moglie, deformati in «zor Uticchio e Zzinfarosa», per il di-

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vertimento grottesco intorno alla nozze bianche «de le ssciabbole» ovvero «de li sguallerati». Ma si tratta di un richiamo al Giraud più inoffensivo. Maggiore risalto ha ovviamente l’opera lirica. La coppia dei sonetti 321-322 ci introduce a una serata al Tordinona dalla parte della scena, osservata da una comparsa, uno scavatore del Foro romano con funzioni di soldato nell’opera // Zadig («er zicch’e zacche») del maestro Vaccai e nel ballo // pirata del maestro Piglia. L’osservazione è distraente: dirige lo sguardo sulla buca del suggeritore («er zoffione»), «agguattato / drent’un zoffietto immezz’a ttante pracche», e su un nuovo lampadario a forma di tegame («intigamato»), poi concentra l’attenzione sul primo ballerino, il signor Priora, bravissimo ma tanto impudico nell’esposizione di «zinne» e «quarti» che «ggni donna coll’occhi se lo sprama». La sua fama di ermafrodito fa scattare come una molla il tema del sonetto 323, Li manfroditi, e l’in-

vidia per il bel dono concesso dal Signore a questi «capricci» sessuali di fare l’amore da maschi e da femmine, a dispetto di tanta onesta virilità mortificata: LI MANFRODITI

Li manfroditi sò (ggià cche tte preme De stillatte er ciarvello in st’'antra bbega), Sò ppe ffattucchieria de quarche strega Ommini e ddonne appiccicati inzieme. Loro sò mmaschi e ffemmine medeme, E ssi jje viè er crapiccio d’annà in frega Cazzo e ffreggna Je sta ccas’e bbottega Pe ddà ar bisoggno e ppe rrisceve er zeme.

Quer poté appiccicasse e ffà ll’amore Co cchiunque te capita davanti, Nun te pare un ber dono der Ziggnore? All’incontrario poi tanti e ppoi tanti, Gente lescit’e oneste e dde bbon core Nun troveno a scopà mmanco li santi.

Per cogliere un giudizio dalla parte del pubblico (quattro spettatori grevi ma non proprio di facile contentatura) bisogna arrivare al gennaio dell’anno successivo, il 1833, al sonetto 778, 226

La commedia de musica, dove si decreta l’insipienza dei balli ma si

esalta la bravura di ballerine e canterine. Ma già nel febbraio 1832 e nel dicembre dello stesso anno i sonetti 400 e 678 potevano registrare messinscene di più alto impegno musicale al Valle e ancora al Tordinona:

due melodrammi di Donizetti,

Gli esiliati di Siberia, accolti con «un tibbidoi / d’apprausi ar machinista e a Ddozzinetti», e l’Anna Bolena, che si presta invece, per la sua inevitabile deformazione in «Bbalena», a variazioni surreali sulla eventualità di una consacrazione principesca e cristiana di quella «bestiola piccinina». Il risalto che ha l’opera nella vita teatrale romana non presenta comunque caratteristiche diverse da quelle di altri centri anche periferici dell’Italia della Restaurazione. Dieci anni prima Leopardi aveva manifestato al fratello Carlo la sua insoddisfazione per gli spettacoli di Roma, più noiosi che a Recanati. Ma, a parte il fatto che a Leopardi lo spettacolo puro, senza altro interesse che la stessa tecnica spettacolare o l’occasione del trattenimento mondano, sembrava «cosa noiosissima» e a parte speciali apprezzamenti, come per una Donna del lago di Rossini all’ Argentina, va considerata la circostanza che la frequentazione leopardiana dei teatri nel primo soggiorno romano, del °22, fosse abbastanza limitata. Alle recite del burattinaio Filippo Teoli nella maschera di Cassandrino, rievocata con divertimento nei Paralipomeni (1834), il poeta avrà assistito proprio nella stagione 1831-32 alla quale risale il sonetto 255 del Belli, Li bburattini. Stendhal v’era andato qualche anno prima e ne lascia il ricordo in Rome, Naples et Florence; ma la memoria di Leopardi, così precisa nei particolari, non sembra emergere da lontano; coincide con il tempo e la forma dello spettacolo di «cquer boccetto» di Cassandrino nel son. 255: LI BBURATTINI

Checca, sei stata mai ar teatrino De bburattini in der Palazzo Fiano? Si vvedi, Checca mia, tiengheno inzino Er naso com’ e nnoi, l’occhi e le mano. C'è ll’Arlecchin-Batocchio, er Rugantino, Er Tartajja, er Dottore, er Ciarlatano; Ma cquer boccetto poi de Casandrino, Non c’è un cazzo da di, ppare un cristiano!

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Jeri pe la ppiù ccorta io sce sò annata Incirca ar tocco de la vemmaria,

C’allora s’ariopre l’infornata. E ppoi cor pesator de pescheria. — Co Ppipp’ e Ppeppe Menica e Nnunziata, Ce n’annassimo a ccena all’osteria.

Quanto allo spettatore belliano, il suo repertorio privilegiato è comunque quello del teatro delle marionette, di cui il sonetto 344, Er Teatro Pasce, offre una varietà di titoli a memoria dello

storico a venire del teatro popolare: la gran battaglia del gran re dei Mori contro Orlando paladino, Pulcinella finto spadaccino e disperato tra i creditori, Traccagnino servo di due padroni, il gran carro di Fetonte, «Muzzio-Sscivol all’ara e Orazzio ar ponte». S’aggiunga il Rugantino di Ghetanaccio del sonetto 473, Er diavolo, alle prese con la moglie Rrosetta e con un demonio che appare, con effetti di illuminotecnica infernale, dal

fondo del Casotto per essere imbrigliato dall’arguto e insolente fantoccio: ER DIAVOLO

Un giorno Rugantino der casotto, Liticanno un goccetto co la mojje Pe vvia de scerte bbuggere de vojje, Perze la fremma e jje gonfiò un cazzotto. «Diavolo porta via sto galeotto Che mme sfraggella indove cojje cojje», Strillò Rrosetta: e, tràcchete, se ssciojje

Un lampo, e scappa er diavolo de sotto. Cqua Rrugantino, appena c’ussci ffora, Je disse: «Avete mojje voi, sor diavolo?» E er diavolo arispose: «Nonziggnora».

Ma ddannoje un’occhiata ar capitello, Repricò ll’antro: «Nonziggnora un cavolo! Cuesta nun è ccapoccia da zitello».

La marionetta belliana non ha la grazia antigrava, l’innocenza che sublima la gravità della ragione, insomma il valore metafisico esaltato in un celebre paradosso di Kleist. È intanto 228

il burattino agitato dal basso piuttosto che la marionetta manovrata con leggerezza dall’alto. Il suo spessore fisionomico — un «grugno» plebeo — induce a tentare rapporti di analogia tra i

parlanti dei Sonetti e la maschera, il fantoccio, come tra il ma-

rionettista o burattinaio e lo stesso poeta: quasi Belli fosse il Ghetanaccio di un Casotto dove possono agire tutte le maschere della società, non solo quelle della tradizione popolare, aggressiva quanto si voglia, ma innocua. Non voglio però anticipare suggerimenti di lettura teatrale dei Sonetti. Resta ancora da completare l’inventario degli spettacoli offerto dai sonetti del °32 con altre indicazioni che provengono da anni contigui: rappresentazioni sacre per la festa dei morti dell’ Arciconfraternita della Morte (Er dua de novemmre, 230), da collegare più a

distanza, nell’aprile 1834, a una Scena [cena] de Bbardassarre, recita forse pasquale; a processioni e cortei carnevaleschi, se è lecito allargare lo spettacolo alle strade e alla piazza, oltre i con-

fini degli edifici teatrali stabili o mobili. Un’integrazione al materiale di cronaca prodotto dai sonetti del ’32 è anche necessaria per caratterizzare una componente fondamentale dell’immagine belliana della vita teatrale romana: il pubblico. La filza dei sonetti 789-794, tutti del 30 gennaio 1833, mette in scena lo spettatore che litiga per la scomodità dei posti, si lamenta che al Valle abbiano soppresso la «piccionara», va in sollucchero per le «zinnette bianche» delle figuranti. È uno spettatore isolato piuttosto che il portavoce di un pubblico, o ancora di più, di una società teatrale, come quella che pure tumultuosamente si coglie nelle Olter desgrazzi di Carlo Porta, dove l’atmosfera, gli umori, la partecipazione collettiva dell’indisciplinabile loggione, a dispetto delle disavventure coniugali del protagonista, fanno già rappresentazione, indipendentemente da quello che avviene in scena. Lo spettatore di Belli instaura invece un rapporto individuale con la scena o col pubblico, in sala, nei palchi, in loggione: quasi a rivendicare, di qua dal luogo deputato alla recita, la sua priorità di recitante nel mondo, e tanto più in teatro. Eppure questo spettatore è assiduo, è il tifoso della scena, vive delle commedie. Infatti il calendario gregoriano, della Roma di Gregorio xvi, copriva l’anno tra quaresima e carnevale con la commedia divina e quella celeste, «tra Ppurcinella e Iddio senza divario», come dice il più conclusivo e corrosivo dei

209)

sonetti sul teatro del ’32, il 521, un testo che proietta la finzione

scenica fuori dal circuito rituale dello spettacolo e sancisce la promiscuità sacro-profana dell’urbe: ER PRIMO

DESCEMMRE

Chiuso appena l’apparto teatrale Stanotte la Madonna entra in ner mese: E ffra cquinisci ggiorni pe le cchiese Principia la novena de Natale. E ddoppo, ammalappéna se sò intese Le pifere a ffini la pastorale, Riecco le commedie e ’r Carnovale: E accusi sse va avanti a sto paese.

Poi Quaresima: poi Pasqua dell’Ova: E, ccom’è tterminato l’ottavario, Aricomincia la commedia nova.

Pijja inzomma er libbretto der lunario, E vvedi l’anno scompartito a pprova Tra Ppurcinella e Iddio senza divario.

Tuttavia, in questa Roma che fa il pieno di teatro non poteva esserci posto per un Belli commediografo. Non c’era posto per Giraud e neppure per Goldoni e Molière, tanto meno per lui. Belli è in partenza una vittima della censura; e noi possiamo supporre che il suo rigoroso esercizio di censore a partire dal 1852, svolto con uno zelo che non esitava a sacrificare Ver-

di e Rossini, sarà valso da vendetta contro il suo mancato ap-

puntamento col teatro, come un sacrificio imposto al pubblico che egli non aveva potuto raggiungere, per il suo sacrificio di scrittore. È vero però che da quel sacrificio si generava il sonetto belliano: e proprio nella forma teatrale che questa misura aurea della lirica italiana veniva ad assumere con lui.

2. È quasi superfluo parlare di teatralità a proposito dei Sonetti. Il carattere teatrale della forma sonetto è generalmente sottolineato dalla critica belliana, non solo negli interventi che hanno affrontato più in dettaglio l'argomento.’ Si potrebbe aggiungere che è quasi un’ovvietà parlare di teatralità per la pro-

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duzione letteraria in dialetto, benché sondaggi sistematici su questo rapporto non se ne conoscano. Piuttosto che la lingua dell’autore, il dialetto è il parlato, il medium espressivo di un interlocutore popolare attraverso il quale l’autore garantisce il suo distacco. Per questo il dialetto può essere considerato depositario di una teatralità naturale. L’eccezione di Meli è semmai in relazione a una innaturalità dei contenuti poetici dell’ Arcadia, rispetto ai quali la semplicità del dialetto agisce come fattore di attenuazione dell’artificio. Quanto a Di Giacomo, la soggettivizzazione lirica di un repertorio melico, canoro, occulta l’istanza teatrale traducendola in musica. E certo il destino del dialetto è oggi in poesia diverso. Indica piuttosto un recupero di arcaicità linguistica, di significanti inediti e anticonvenzionali, in grado di riabilitare i significati. Resta il fatto che Belli esalta la potenzialità scenica del sonetto, in primo luogo chiudendovi dentro la scena di Roma. Tutta Roma è spettacolo, non solo quando il sipario si apre sulle quinte barocche delle piazze, soprattutto di piazza Navona: «una campaggna» che è anche «un treàto, una fiera, un’allegria». Roma attualizza anche (come del resto denuncia la terzina finale proprio di Piazza Navona, del son. 844) la metafora teatrale del potere, con la messinscena dei suoi attori e dei suoi strumenti, dallo spettacolo dell’autorità sacerdotale alla pratica punitiva del torturatore o del boia: PIAZZA

NAVONA

Se pò ffregà Ppiazza-Navona mia E dde San Pietro e dde Piazza-de-Spaggna. Cuesta nun è una piazza, è una campaggna, Un treàto, una fiera, un’allegria.

Va’ dda la Pulinara a la Corzia,

Curri da la Corzia a la Cuccaggna Pe ttutto trovi robba che sse maggna, Pe ttutto ggente che la porta via. Cqua cce sò ttre ffuntane inarberate: Cqua una gujja che ppare una sentenza: Cqua se fa er lago cuanno torna istate.

Cqua ss’arza er cavalletto che ddispenza

201

Sur culo a cchi le vò ttrenta nerbate,

E ccinque poi pe la bbonifiscenza.

Diversamente dalla Parigi di Balzac, dalla Londra di Dickens, dalla Pietroburgo dei racconti di Gogol e anche dalla Milano di Porta, la Roma di Belli esce fuori da quei Mirabilia Urbis (in vernacolo Miracole de Roma), che sono i Sonetti, in proiezione scenica: in forza di un’enunciazione teatrale svolta in dialogo o in monologo. E l’immagine complessiva che il lettore memorizza è quella già fissata — con l’Aretino della Cortigiana e dei Ragionamenti, col Caro degli Straccioni, col Berni dei capitoli e dei sonetti — dalla tradizione comica e satirica: l’immagine della città-ventre, che fornisce al Pasquino, all’anonimo parlante del sonetto 731, la materia di una commedia a braccio: ER VENTRE

DE VACCA

°Na setta de garganti che rrameggia E vvò ttutto pe fforza e cco li stilli: Un Papa maganzese che stangheggia, Promettennosce tordi e cce dà ggrilli. ’N’armata de Todeschi che ttraccheggia E cce vò un occhio a ccarzalli e vvestilli: Un diluvio de frati che scorreggia E intontissce er Ziggnore co li strilli. Preti cocciuti ppiù dde tartaruche: Edittoni da facce un focaraccio: Spropositi ppiù ggrossi che ffiluche: Li cuadrini serrati a ccatenaccio:

Furti, castell’in aria e ffanfaluche: Eccheve a Rroma una commedia a bbraccio.

Basterebbe il mascheramento in commedia improvvisa di questo 1mproperium a giustificare la qualificazione teatrale ormai corrente di «commedione» data all’intero corpus romanesco di

Belli; dove peraltro il termine non è rintracciabile. Quando nel 1944 Antonio Baldini l’adottò per una antologia dei Sonetti ritagliata su una scansione dantesca in tre cantiche non erano state approntate concordanze belliane e neppure ci si poteva giovare dell’indice delle voci redatto da Muzio Mazzocchi Alemanni 232

per l’edizione Vigolo. La dichiarazione di Baldini secondo cui il titolo era «preso in prestito allo stesso Belli»? sarà stato accolto col beneficio dell’inventario linguistico dei Sonetti. In realtà il malizioso curatore faceva allusione a un Belli più segreto, all’estensore dei tre «bollettoni» per il teatro romanesco conservati autografi fra i manoscritti della Biblioteca Nazionale Vittorio Emanuele e rivelati due anni prima da Ceccarius in una miscellanea di studi belliani.' In uno di questi, l’«Avviso straordinario pe la serata de... febbraio 1835» al Teatro Pallacorda, dove si recitavano Le tresteverine, si legge: «In fin de fine se pò chiamà un commedione con tanto de rognoni, scritto cor quinni e quinnici, che la ggente fanno a pugni per sentillo». Si trattava molto probabilmente dello spettacolo per il quale sei spettatori si stipano (ma «com'e ssei Papi») nel palchetto di proscenio, «dove se sente comichi e ssoffione / e se gode l’orchestra quann’accorda», come recita il sonetto 1475 del 3 febbraio 1835 (Er parchetto commido). Dunque, il titolo «commedione» Belli lo dava a una delle tante commedie romanesche con musica, ma avrebbe potuto darlo ai suoi Sonetti, al suo commedione clandestino, in cui dava sfogo alla sua vocazione scenica, e si vorrebbe dire alla sua mancata missione teatrale.

3. A quella vocazione e a quella missione ubbidisce la maschera del plebeo, il personaggio parlante dialogante monologante narrante, il doppio dell’io scrivente: anche se la forma sonetto — forma peraltro adibita a racconto, addirittura a piccolo romanzo — non è tutta riconducibile alla struttura impli-

cita della teatralità. Ma in definitiva possiamo far nostra una conclusione di Muscetta: «La nostalgia infinita del teatro che si sente, si può dire, in ogni sonetto di Belli, doveva contenersi in

quattordici versi».’ E infatti quel giro strofico stretto basta nel sonetto 581 del 9 dicembre 1832 a dar vita, e con un ex abrupto, a una combinazione («concubbinazione») da commedia dell’i-

pocrisia, dove un Molière fin troppo esplicito sembra incontrarsi a distanza con un Manzoni profanizzato: LA CONCUBBINAZIONE

«Ma, Eminenza, si vvò, llei pò aggiustalla:

M'’ajjuti pe l’amor de la Madonna!

208

Sta supprica che cqui ggià è la siconna, E intanto ho ffame e ddormo a Ssanta Galla».

A ste parole, da una stanzia ggialla Entra e ttrapassa una gran bella donna, Eppo’ un decane co ’na conca tonna E un ber cuccomo pieno d’acqua calla. Er Cardinale me se fesce rosso Com’un gammero cotto, a sto passaggio; E nnun zeppe ppiù ddi: «Fijjo, nun posso». Ma ccome je sscennessi allora un raggio Dar celo, pe llevammese da dosso Stese er riscritto, e sse n’annò ar bon viaggio.

Alla messinscena dei sonetti provvede spesso del resto lo stesso Belli, come un regista che aggiusta la mimica e intona la dizione del lettore-attore. In questo senso bisogna fare attenzione alle note d’autore con funzione di didascalia. Per esempio, l’avvertenza al v. 8 del sonetto 484, Lo specchio, del 25 novembre 1832, che «nel profferire questa parola /tant:/, si deve colla mano destra sul braccio sinistro accennare una misura». Ma un’attenzione ancora maggiore dovrebbe richiamare la pronuncia della parola belliana, non in riferimento alla fedeltà della trascrizione grafica del romanesco che coinvolge criteri di resa editoriale, ma in funzione di un’ortoepia teatrale che restituisca oltre alla mimica la voce del personaggio. Non ho molta esperienza di letture belliane, ma non credo che sia possibile uniformarle su uno standard di pronuncia dialettale. La recita dei Sonetti deve prevedere l’applicazione della pronuncia del personaggio al recitante, non del recitante al personaggio. Per non allontanarci troppo dai confini della nostra campionatura cronologica, basti arrivare al sonetto 726 dell’11 gennaio del ’33, Er ciurlo (l’ubriaco), che impone tutti gli stratagemmi della voce

alterata dall’ebrietà. Di questa esigenza Belli si mostra consapevole. «L’ortoepia ne° Romaneschi — scrive nell’Introduzione — non cede in vizio alla grammatica: il suono della voce è cu-

po e gutturale: la cantilena molto sensibile e varia. Tradotta la prima nella ortografia de’ miei versi, mostrerà sommo abuso di lettere» (p. cLxxxv). Si ascolti allora, con questa avvertenza dell’autore, quel sonetto: 234

ER CIURLO

Sbozza pissciona, che cco cquer scuffiotto Me pari un mostacciolo de Subbiaco, Cosa te vai sciarlanno co Cciriàco Ch’io stammatina sò ccotto e stracotto? Pe un po’ de bbrillo e ttrillo e dd’allegrotto Te la potria passà, mma nnò ubbriaco. Senti l’erre: io de té mme ne stracaco,

E strafrego, e strabbuggero, e strafotto. Vòi ’n’antra prova tu cche nnun è vvero Chio sii sporpato? io sciò la provatura D’un bon cavicchio da slargatte er zero.

Nò, nnò, cciumàca, nun avé ppavura: Pe tté ppuro un’armata è un monistero. La tu° schifenzaria te fa ssicura.

Una rilettura dell’Introduzione in funzione della teatralità belliana presenta in realtà molti appigli, e forse è inutile richiamarli tutti. Richiamerò solo quelli che più mi sembrano avvalorare una coincidenza di poetica e poesia. Innanzi tutto l’immagine dei sonetti come numeri di un grande copione: «Ed errato andrebbe chi giudicasse essersi da me voluto porre in scena questo piuttosto che quel rione, ed anzi una che un’altra special condizione d’uomini della nostra città. Ogni quartiere di Roma, ogni individuo fra’ suoi cittadini dal ceto medio in giù, mi

ha somministrato episodii pel mio dramma» (pp. CLKXXIV-v). Poi i meccanismi espressivi della mimesi: «Un dialogo inciso, pronto ed energico: un metodo di esporre vibrato ed efficace;

una frequenza di equivoci e anfibologie» (p. cLxxxv): insomma la ricerca di uno stile in cui non si riconosca la distinzione retorica dei generi; che assimili la lezione dell’endecasillabo tragico alfieriano, la sua vibrazione, energia, incisività, per imprimere maggiore efficacia al gioco delle parole in maschera proprio del comico. «Di qui — prosegue Belli — la inopportunità nel mio libro di filastroccole poetiche. Distinti quadretti, e non fra loro congiunti fuorché dal filo occulto della macchina, aggiungeranno assai meglio al fine principale, salvando insieme i lettori dal tedio di una lettura troppo unita e monotona. Il mio è un volume da prendersi e lasciarsi, come si fa de’ sollazzi,

239

senza bisogno di progressivo riordinamento d’idee. Ogni pagina è il principio del libro: ogni pagina è il fine». Il «filo occulto della macchina» è dunque il dispositivo scenico fisso, il modello della scena belliana che fa funzionare nel breve giro metrico del sonetto, di questo glorioso parametro della tradizione lirica italiana, i meccanismi di un’azione teatrale.

5. È probabile che quei meccanismi Belli stesso li facesse funzionare in prima persona quando leggeva i suoi sonetti. Le poche testimonianze superstiti di letture d’autore fanno pensare a un’impassibilità inalterabile, alla maniera di Keaton, come al-

tri grandi comici del passato che tentiamo di far rivivere con i riscontri della nostra esperienza. Ma forse l’attore Belli rivelava, come Molière, i sintomi della sua ipocondria. «Conosco — scriveva in una lettera del 26 febbraio 1839 — il tasto della ilarità. Tocco quello, ed esso fa l’ufficio suo. Io rimango intanto

freddo e malinconico».° L’impassibilità è una qualità classica dei grandi comici, che preferiscono non farsi cogliere allo scoperto. Ma nel caso di Belli sottolinea anche il suo intento di conservazione del «monumento» e la sua distanza da una lingua senza miglioramento, così come non era migliorabile la plebe stessa di Roma. «Favella tutta guasta e corrotta... non italiana e neppur romana, ma romanesca», questo è il noto referto di Belli sul dialetto. La distinzione tra romano e romanesco risale forse ad Aretino, do-

ve serve a qualificare una reincarnazione parodistica di Enea nella veste di un «barone romanesco, non romano», seduttore

da strapazzo, e la chiarisce, suppongo, proprio in confronto a una classicità ormai irreparabilmente corrotta. Il monumento — la plebe stessa quale si manifesta con la sua lingua nei Sonetti — si trasforma perciò, per questo guasto su cui Belli insiste, in rudere, nell’anticaglia in cui già l’aveva trasformato Berni, infine in un enorme Pasquino. Come quel corroso tronco marmoreo, statua parlante senza volto, il plebeo di Belli ha il vantaggio dell’anonimato; eppure la sua professione di verità è un vizio, un segno della sua corruzione. Così la prospettiva del comico sì rovescia; e l’istanza di autenticità e naturalità garantita dal dialetto, a partire da Ruzzante fino a Goldoni, ora si degrada in vituperio. Ma è vero che l’Introduzione testimonia di uno sforzo di conci-

236

liazione, che andrebbe iscritto nei processi di trasformazione seguiti da Bachtin per sottolineare la fenomenologia ironica del comico nel Romanticismo, in confronto con quella del Medioevo e del Rinascimento: vale a dire il rapporto tra oggettivazione della materia e soggettivizzazione dell’autore.’«Io non vo’ già presentar nelle mie carte la poesia popolare, ma i popolari discorsi svolti nella mia poesia». Belli non dice di più nell’Introduzione, e lascia inattaccata una bipolarità sulla quale continuiamo a interrogarci. Il realismo grottesco resta ancora la forma poetica che riscatta il basso corporeo, materiale. Ma il riso è nei Sonetti solo una forza liberatrice, non rigeneratrice, quindi limitata, iscritta nel tempo dell’enunciazione, della maschera che enuncia e del soggetto che trascrive. Per questo la maschera belliana ha sempre impresso su di sé un sintomo di morte, e non in quanto presagio di una rinascita, come nel grottesco rabelaisiano 0 comunque rinascimentale secondo Bachtin, ma in quanto condizione innata e immanente al quotidiano. La maschera ne è cosciente, e una delle sue risorse di sopravvivenza è il disprezzo, la sconcezza beffarda, addirittura arbitraria. Che altro è se non disprezzo la stravaganza del vecchio bizzarro del sonetto 621, il quale si maschera da dottore della commedia dell’arte più per escludersi dispettosamente dal carnevale che per parteciparvi? LA MMASCHERA

Sibbè cche in vita sua cuann’ebbe er pranzo Mai nun potessi arimedià dda scena, È stato sempre una gran testa amena,

E nn’ha avute de bbuggere d’avanzo.

Oggi ch'è bbiocco e nnun po’ ffà ppiù er ganzo, Dà in cojjonella e nnun ze mette in pena; E ’ggnicuarvorta che sse sente in vena Pe ffanne delle sue trova lo scanzo. Ggiuveddi ggrasso sto gallaccio vecchio Co ccerti scenci che jje diede un prete Se vesti dd’abbataccio mozzorecchio. Eppoi se messe un specchio ar culiscete Co ste parole cqui ssott’a lo specchio: Ve tiengo a ttutti indove ve vedete.

2204

L’allegria livida di questa «gran testa amena» mette in sospetto. Ci domandiamo se non sia la maschera del poeta, di un Belli che esprime la sua sfida di scrittore con un travestimento di carnevale. Ma il dispetto non gli basta, e neppure l’indignatio. Il proposito documentario, anzi monumentario, dichiarato nell’incipit dell’Introduzione recupera molto meglio l’istanza rappresentativa dei Sonetti. Ma solo in estensione, perché il linguaggio in maschera della plebe, la carnevalizzazione della parola, spingeva Belli oltre la rappresentazione, di là dalla registrazione e trascrizione del reale. Proprio a questo fine bisognava sfruttare tutte le risorse sceniche del sonetto. Il sonetto era diventato la scansione teatrale,

liberamente utilizzabile, di una grande commedia romana. E del teatro aveva assunto la cadenza scenica, come frammento

di uno spettacolo allestito già in anticipo, su una compresenza ineludibile di Vita e Morte, sulla reciproca convertibilità dell’allegro e del lugubre; di una commedia destinata a concludersi in un tempo incerto, addirittura a proiettarsi in un ma? «che te squinterna»; il maz che nel sonetto del ’46, La morte co la coda, diventa la filastroccola insulsa dell’eterno, più insulsa d’un sonetto caudato. Ma questo nella prospettiva incalcolabile dell’anima. Nella storia del corpo iscritta da Belli, come da tutta la grande tradizione comica italiana, nel corpo della storia, resta

la prospettiva teatrale in un tempo forse lontano forse vicino: una recita da Fiano o Ornani, perfino da casotto per bambini, per una scena di Giosafat, dove una folla d’angeli frastornanti, i buttafuori addetti a spegnere le luci, appare a darci la buona sera e il finale di tutto. È la «sonajjera d’angioli» del sonetto 273, un componimento del novembre 1831, che tuttavia può segnare l’atto terminale e anche quello introduttivo del Commedione: ER GIORNO

DER

GIUDIZZIO

Cuattro angioloni co le tromme in bocca Se metteranno uno pe ccantone

A ssonà: poi co ttanto de voscione Cominceranno a ddi: «Ffora a cchi ttocca». Allora vierà ssù una filastrocca

De schertri da la terra a ppecorone, Per rripijjà ffigura de perzone,

238

Come purcini attorno de la bbiocca. E sta bbiocca sarà Ddio bbenedetto, Che ne farà du’ parte, bbianca, e nnera: Una pe annà in cantina, una sur tetto.

All’urtimo usscirà ’na sonajjera D’angioli, e, ccome si ss’annassi a Iletto, Smorzeranno li lumi, e bbona sera.

NOTE

1 Son. 341 dell’ed. Vigolo. Cfr. G. G. BELLI, / sonetti, a cura di GIORGIO VIcoro, 3 voll., Milano 1952. La numerazione va riferita sempre a questa edi-

zione, così come il rinvio alle pagine dell’/Introduzione belliana che la precede. 2 Mi limito a ricordare ACHILLE MANGO, La «teatralità» nei sonetti, in G. G.

Belli (1791-1863). Miscellanea per il centenario, a cura di LUIGI PALLOTTINO e ROBERTO VIGHI, Roma

1963, pp. 61-66, e MARIO VERDONE, // Belli nel mondo

dello spettacolo, in AA.VV., Studi belliani, ivi 1965, pp. 175-89. 3 Cfr. Er commedione, a cura di ANTONIO BALDINI, Roma 1944, p. XIX dell’introduzione. 4 CECCARIUS [GIUSEPPE CECCARELLI], / «bollettoni» per il teatro romanesco, in G. G. Belli, Roma s. a. [ma 1942], pp. 88-103 della II edizione. Ora sono ristampati in Belli romanesco. L’Introduzione, gli appunti, le prose, le poesie minori, a cura di ROBERTO VIGHI, Roma 1966, pp. 526-44 (in particolare pp. 529-30). 5 CARLO MUSCETTA, Cultura e poesia di G. G. Belli, Milano 1961, p. 596. 6 c. c. BELLI, Lettere Giornali Zibaldone, a cura di GIOVANNI oRIOLI, Torino 1962, p. 337. 7 MICHAIL MICHAJLOVIÉ BACHTIN, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, trad. it. di miLI ROMANO, Torino 1979 (cfr. l’introduzione).

[Da Letture belliane. I sonetti del 1832, Istituto di studi romani, Bulzoni editore, Roma 1982, pp. 83-97]

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INDICE

DEI NOMI

Adriano vi (A. di Utrecht) 125 Agosti-Garosci, C. 176n Agostino d’Ippona, santo 188 Alberti, L.B. 40, 41, 42, 45n, 79,

96, 97, 104

Albertini, R. von 179, 193n Alessandro Magno 61, 179 Alfieri, V. 183

Alighieri, D. 18n, 26, 28, 29, 30, 31n, 32, 33, 34, 43, 65, 94, 143, 155, 156, 158, 161n, 187 Almansi, G. 45n Aliverti, M. Ines 215n

Alonge, R. 116 Ammannatini, M. (detto il Grasso legnaiuolo) 69-82 Andrea Cappellano 33

133; #1945 1359136013758) 139, 140, 141, 142, 143, 144, 145, 146n, 147, 148, 149, 150, 1515815205315 47 01550156: 15/3£1583;:159n; 160n,#161n; 162n, 164, 168, 169, 170, 172, 1601993 2323236 Ariosto, L. 41, 43, 46, 63, 64, 65, 66n,,104, 1057 121, %123,012% 128, 162n, 165 Aristotele 16, 22, 24n, 113, 147 Arlotto (A. Mainardi, detto il Piovano A.) 73 Arnaud, M.G. 195n Asburgo (famiglia) 130 Attinger, G. 203, 212, 216n

Audiberti,J. 200n

Andreini, G.B. 204

Andreino da San Gimignano 72 Angelini, F. 220 Angélique, P. (pseud. di G. Bataille) 17n Angiolieri, Cecco 27, 28

Anglani, B. 219, 221 Anna d’Austria 206 Antifane 24n Antonio di Matteo de le Porte 72 Apollinaire, G. 87, 92 Apollonio, M. 202, 206, 216n Apuleio 73, 164, 188 Aquilecchia, G. 56n, 162n, 136 Arese, F. 31n Aretino, P. 48, 49, 50, 53, 56n,

58, 59, 60, 61, 62, 66n, 88, 89, 90, 104, 109, 112, 116, 117, EOS 1211228123 01250120, 70812821294 1502131133

241

Auerbach, E. 13, 17n, 194n Auliver 27 Bacci, L. 124 Bacci, Oè 185;01847 185, 193n, 195n Bachtin, M.M. 15, 18n, 20, 21, 22, 24n, 29, 53, 64, 65, 66n, 7, B0N140,22212399239n Baldini, A. 232, 239n Balestrini, N. 45n Balzac, H. de 232 Bandello, M. 54, 56n, 116, 163, 164, 165, 167, 168, 169, 170, 172, 173,174, 175, 176, 194n Baratto, M. 159n, 160n, 215n, 21),218; 2197220 Barbi, M. 70 Barbieri, N. 204 Baretti, G. 182, 183, 193n

Bargagli,

G.

91692,

093804;

Boulanger

de Chalussay,

L.F.

161n Bargagli, S. 90, 91, 92, 93 Barthes, R. 136, 197 Bartoli, A. 215n Bataille, G. 14, 17n, 144 Battaglia, S. 177n, 194n Battelli, G. 161n Baudelaire, Ch. 13, 17n, 20, 24n, 165 Baudrillard,J. 17n

216n Bovero, A. 195n Bovero, C. 195n Bracciolini, P. 40 Bramante (Donato di Pascuccio d’Antonio, detto), 108, 190 Branca, V. 38n, 82n Brancati, V. 11, 16n Breme, L.A. Gattinara di 19

Bec, Ch. 216n Belcari, F. 72

Brocardo, A. 129

Belli, G.G. 37, 141, 199, 224, 2293622101229 12902319232; 9310234, 235236,23/,5238; 239n Bembo, P. 60, 66n, 86, 95, 121, 129, 131, 140, 165, 170, 171 Bendinelli, G. 203 Benivieni, G. 70 Benjamin, W. 12, 219 Bentivoglio, A. 164 Bergson, H.L. 13, 17n, 22, 24n Berni, F. 46, 47, 48, 55n, 56n, 122,-199;‘2325236 Bianchi, B. 203 Biancolelli, D. (detto Dominique) 101, 203

Brooks, C. 24n Brunelleschi, F. 69, 70, 71, 72, 75, 76, 77,80, 81382,.1083£107 190 Brunelleschi, G. 72 Brunet, J.-Ch. 87 Bruno, .G. 40,..50; 51, 53750n; 104, 112, 199 Buffon, G.-L. L. 184 Bufiuel, L. 209

Biancolelli, O. 203

Callot, J. 216n

Bibbiena (Bernardo Dovizi, detto) 116 Boccaccio, G. 32; 33; 34; 36,137, 38n, 40, 45n, 54, 57, 58, 60, 9501083110, 414261430145; 163, 164, 165, 168, 169, 170, 171,199

Camesasca, E. 194n

Brognoligo, G. 163, 176n

Burchiello (pseud. di Domenico di Giovanni) 44, 45, 46, 55n,

95 Burckhardt, J. 183 Caillois, R. 24n

Cammelli, A. (detto il Pistoia) 43, 45n, 46 Camporesi, P. 162n Carafa, G.P. (papa Paolo iv)

153, 154

Carlo v, 121 Caro, A. 60, 66n, 149, 232

Bodei, R. 17n Boileau, N. 207 Bonci, M. 124 Bonciani, F. 56n Bonfantini, M. 215n Bonghi, R. 184, 193n Bonneau, A. 87

Carpaccio, V. 132 Carrara, E. 180, 185, 194n Casanova. G. 183 Casella, A. 162n Cassirer, E. 106 Castelletti, C. 216n

Bontempelli, M. 135 Borgia, C. 174 Borsellino, N. 16n, 38n, 66n, 161n, 194n, 223n

Castiglione, B. 41, 140 Castra Fiorentino 26 Castro, A. 194n Catullo 40

56n,

242

Ceccarius (G. Ceccarelli) 239n Cecchini, P.M., 204 Cecov, A. 222

233,

Celati, G. 66n Celli, G. 18n Cellini, B. 112, 178, 179, 180, 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188, 189, 190, 191, 192, 193n, 194n, 195n Cenne della Chitarra, 27 Cervantes, M. de 65 Chaplin, Ch. 208 Chigi, A. 124 Chiorboli, E. 55n Cibotto, G.A. 16n Cicerone 41, 45n, 61, 132, 165 Cielo d’ Alcamo 25 Cittadino, G. 165 Cléder, E. 87 Clemente vii 125, 127, 128, 156, 187, 191 Clerici, F. 200n Cobelli, G. 220 Cocchi, A. 182, 193n Colajanni, G. 215n Colli, G. 17n Colonna, V. 121 Concini, C. 196, 197

Condé, L. n di (detto il Gran C.) 214 Condivi, A. 191 Consolo, R. 45n Contini, G. 31n, 38n Cordié, C. 194n Corsi, M. 216n Cosimo 1 de’ Medici 91, 130, 179, 181, 182, 190, 195n Costantini, A. 201, 207, 208, 210, D192145n Cotolendi, C. 210

Craig, G. 202 Croce, B. 17n, 112, 184, 193n, 202, 215n D'Annunzio, G. 120, 198 Davanzati, B. 69 Davico Bonino, G. 161n, 215n

249

Dazzi, M. 219 De Amicis, E. 185 Debenedetti, G. 31n De Feo, S. 16n

De Filippo, E. 223 Defoe, D. 194n

Del Campo, I. 203 Delicado, F. 140 Della Casa, G. 60 Della Robbia, L. 72 Della Terza, D. 31n Della Volta, A. 126 Deloffre, F. 215n Del Tura, L. 124 Del Vita, A. 66n, 162n Democrito 51 De Nardis, L. 215n De Nores, G. 56n De Robertis, D. 45n, 56n, 82n

De Rojas, F. 140 Derrida,J. 17n De Sanctis, F. 12, 17n, 25, 29, 30, 31n; 65)166ny 1224]2330135: 184, 193n Di Benedetto, A. 66n Dickens, Ch. 232 Dieterich, A. 202 Di Francia, L. 176n Di Giacomo, S. 231 Di Grado, A. 45n Dionisotti, G. 195n

Doglio, M.L. 118n Dolce; L: 66n, 122, 129,131 Domenico di Michelino 72 Dominique + Biancolelli, D. Donatello (Donato de’ Bardi, detto) 71, 108, 190, 191 Doni, A.F. 122, 129, 141 Donizetti, G. 227

Eco, U. 16, 18n, 19, 24n Ehrmann, J. 24n, 31n Enrico vm 168 Eraclito 50 Erasmo da Rotterdam 40, 79, 104 Este, Niccolò d’ 170 Eugenio 1v 42

Ezzelino da Romano

174

Falconio, A. 196 Fausto, V. 56n Ferrero, G.G. 193n Ferroni, G. 16n, 17n, 31n, 45n, 144, 159n, 160n Ficino, M. 43, 145 Fido, F. 219, 220, 221 Fiorato, A.Ch. 172, 176n Fiorilli, T. > Scaramuccia Fiorillo, B. 203 Fiorillo, S. 205 Firenzuola, A. 54, 56n Firpo, L. 118n Flora, F. 66n, 162n, 163, 176n, li05n Folena, G. 160n Folengo, T. 48, 49, 56n, 142, 164

Folgore da San Gimignano 27 Fornari, F. 24n Foucault, M. 194n Foutouville, N. de, 210 Fracastoro, G. 117, 118 Franceschi, G.F. (in accademia: Moscone Intronato) 84 Francesco 1 121, 126, 130, 179, 189, 190 Franco, N. 88, 122, 129, 132, 162n Freud,S, 15: 17n324n;:33:221

Galilei, G. 40 Gallavotti, C. 24n Gallo, N. 17n, 193n Garin, E. 45n

Gelli, G.B. 57, 58, 61, 66n Genet, G. 120 Getto, G. 176n Gherardi, E. 101, 201, 205, 209,

BI0R2I.I Gherardi, G. (Giovanni da Prato) 69; 713:75;:76

Giovanelli, P.D. 17n Giovanni dalle Bande Nere + Medici, Giovanni de’ Giovanni Fiorentino, ser 166 Giovenale 37 Giovio, P. 122 Giraud, G. 225, 226, 230

Gismondo (Sigismondo di Lussemburgo, imperatore) 82 Giulio n 190 Giulio Romano (G. Pippi, detto) 126 Godi, C. 176n

Goethe, J.W. 183 Gogol’, N.V. 232 Goldoni, C. 65, 102, 147, 199, 217,218, 121922207 221082224 2234230236 Gombrich, E.H. 18n Gonnella 170 Gonzaga (famiglia) 156, 162n Gonzaga, F. 125, 126, 127, 128, 158, 162n Gottifredi, B. 140 Gozzi, G. 222 Graf, A. 122 Gramsci, A. 58, 111, 112 Gregorio xvi 229 Grimani, D. 164 Gritti, A. 128 Gròber, G. 184 Guerri, D. 70 Guglielminetti, M. 56n, 197 Guicciardini, F. 112, 173 Guidotti, A. di Migliori 72 Hanrahan, Th. 194n Hauser, A. 191, 195n Hegel, G.W.F. 11, 12, 16n, 66n Hieronimus 117 Hinterhàuser, H. 194n

Hogart, W. 220 Hordognez, A. 140 Huizinga,J. 24n

Ghetanaccio (G. Santangelo, detto):225,228, 229 Ghiberti, L. 80, 190 Giambullari, B. 69 Giberti, G.M. 126, 128 Giorgio d’Arezzo + Vasari, G.

Ibrahim pascià 128 Ignoto veneziano 112, 114, 115, 116, 117

244

Imbriani, V. 185 Innamorati, G. 132, 151, 160n 161n

Macchia, G. 207, 215n, 216n bj

Jakobson, R. 24n Jauss, H.R. 105 Jung, C.G. 24n Keaton, B. 207, 236

Kellogg, R. 186, 194n Kerényi, K. 24n Klein, R. 45n, 78 Kleist, H. von 228 Klossowski, P. 144 Kris, E. 18n

56n, 58, 59, 60, 66n, 109, 112, L67121): 23:91:52 #1634:170) 172, 173, 174, 175, 176, 189 Maier, B. 185, 193n, 194n, 195n Mamczarz, I. 216n Manetti, A. 56n, 69, 70, 72, 73, 75, 76, 77, 80, 82n Mangini, N. 217 Mango, A. 239n Mannini, M. 71 Manzoni, A. 37, 222, 233

Marigo, A. 18n Marinari, A. 16n Marino, G. 196, 197, 198, 199,

Landucci, M. (in accademia: Bizzarro) 84 Lanza, A. 82n Larivaille, P. 132,

Machiavelli, N. 40, 41, 45n, 55,

159n,

il

160n,

161n, 162n La Rochefoucauld, F. de 207 Lasca (A. Grazzini, detto il) 47,

54, 78 Lascaris, C. 57 Lea, K.M. 202 Le Dantec, Y.-G. 17n Leonardo da Vinci 83 Leone x 49, 124, 190

200 Mariti, L. 215n Marotti, F. 215n Martelli, M. 45n Marti, M. 31n Martinelli, T. 204 Martini, G. 45n Marucci, V. 56n Marx, K. 12, 16n, 112, 221 Marziale 40, 95 Marzo, A. 56n

Masaccio (Tommaso di ser Giovanni Cassai, detto) 108 Mastropasqua, F. 215n Masuccio Salernitano (Tommaso Guardati, detto), 54, 56n

Leopardi, C. 227 Leopardi, G. 19, 43, 69, 227 Livio 165

Mauron, Ch. 18n Mazarino, G. 206 Mazzali, E. 66n Mazzocchi Alemanni, M. 232 Mazzuchelli, G. 122

Locatelli, B. 203 Lolli, G.A. 203

Longhi, P. 220 Lorena, cardinal di 155

Loret, Jean 208 Lotman, J. 79 Lotto, L. 141

Medici, Cosimo de’ (C. il Vecchio) 190 Medici, Ferdinando de’ 182 Medici, Francesco de’ 182 Medici, Giovanni de’ (dalle Bandes Nere) 125. 12713173152, 171 Medici, Giulio de’ 124, 155 Medici, Lorenzo de’ (detto il Magnifico) 47, 190 Medici, Maria de’ 196

Lovarini, E. 111, 117, 119n Luciano 43, 95, 140

Luigi xm 197 Luigi x1v 101, 102, 206, 210, 214 Lukàcs, G. 12, 218 Lutero, M. 161n Luti, L. 150 Luzio, A. 56n, 122n, 162n

Lyotard, J.-F. 17n

245

Meli, G. 231 Metastasio, P. 199 Mezzettino —> Costantini, A. Mic, C. > MiklaSevskij, K. Michelangelo Buonarroti, 108, 121, 129, 190, 191 Michelozzi, M. 72 MiklaSevskij, K. 202 Milanese, C. 194n Milanesi, G. 192n Mishima, Y. 120 Missiroli, M. 219 Moland, L. 215n, 216n Molière 65, 101, 102, 109, 200, 203205720782 11 12423219; 214, 216n, 230, 233, 236 Molinari, C. 215n Molini, G. 87 Monaci, E. 31n Montinari, M. 17n Morabito, R. 220 Muscetta, C. 17n, 31n, 56n, 233, 239n Mussato, A. 174 Mutini, C. 66n Muzio, G. 122 Neri, F. 215n

Niccol, A. 202 Nietzsche, F.W. 13, 14, 17n, 221

Parfaict, F. 206, 208, 216n Parini, G. 219 Parodi, T. 184, 185, 193n Pascal, B. 207 Pasolini, P.P. 120 Patrizi, G. 142 Pavese, C. 194n Pecori, T. de’ 70 Percopo, E. 45n Perelman, Ch. 15, 18n Petraccone, E. 215n Petrarca, F. 35, 40, 50, 57, 139, 153, 161n, 188 Petrocchi, G. 56n, 132, 159n Petronio, G. 218, 219 Piccioni, L. 193n Piccolomini, A. 61, 93, 140, 168

Piccolomini, E.S. (papa Pio 1) 114 Piccolomini, M.A. (in accademia: il Sodo) 84, 85, 90, 94 Piglia (maestro di musica) 226 Pippo Spano (Filippo Scolari, detto) 71, 82 Pirandello, L. 13, 17n, 76, 109 Placido, B. 17n

Platone, 39, 61, 132, 175 Plauto 51, 107, 108, 111 Plebe, A. 18n, 45n Plon, E. 184, 193n Poliziano (Agnolo

Ambrogini,

Nigro, S.S. 56n Novella del Grasso legnaiuolo 69-82

detto il) 43, 107 Pomilio, M. 195n Pompeati, A. 76

Olbrechts-Tyteca, L. 15, 18n, 24n Omero 165 Orazio 95, 106 Orioli, G. 239n Orlando, F. 17n, 18n Orvieto, P. 45n Ovidio 33, 72

Pontano, G. 40, 41, 43

Padoan, G. 114, 118n, 119n Palazzeschi, A. 14 Pallottino, L. 239n Paolo m 149, 189 Pandolfi, V. 215n

Pulci, Luigi 43, 44, 45n, 197

Porta, C. 229, 232 Pozzi, G. 31n Previtera, C. 56n

Priora (ballerino) 226 Procaccioli, P. 56n, 146n, 161n Puccini, D. 194n Pulci, Luca 197

Quintiliano 41, 45n Quondam, A. 161n

Panofsky, E. 106 Parfaict, C. 206, 208, 216n

Rabelais, F. 15, 21, 22, 199 Racine, J. 207

246

Radin, P. 24n Radini Tedeschi, T. 164, 176n Raffaello Sanzio 108 Ragionamento del Zoppino 140 Raimondi, M. 90, 126 Rasi, L. 216n Reich, H. 202 Ricci, P.G. 18n Riccoboni, L. 56n, 216n

Sa 19

205, 206, 207, 208, 209, 210, 211,212; 213, 214,:216n Scheggia (G. Guidi, detto lo) 72 Scherillo, M. 215n Schino, M. 215n

Schlegel, A.W. 100 Scholes, R. 186, 194n Scoto, L. 196, 199, 200

(A.-E. du P., duca di)

Rochon, A. 74, 82n Romagnesi, M. 203

Segre, C. 66n, 142 Sévigné, M. de Raboutin-Chantal marchesa di 207 Sforza, I. 164 Shakespeare, W. 65, 103, 109, 125 Sozzini, F. 95 Sozzini, L. 95

Romagnoli, A. 194n Romagnoli, S. 31n

Spada, S. 215n Speroni, S. 61, 144 Spini, T. 162n Spira, F. 122 Squarzina, L. 221

Romano, A. 56n Romano, M. 239n Ronchi, G. 162n

Rosenkranz, J.K.F. 12, 17n Rossi, V. 122, 160n Rossini, G. 227, 230 Rucellai (famiglia) 57 Rucellai, G. 71

Starobinski,J. 165, 176n Stazio 28

Ruggieri Apugliese 26 Rustico di Filippo 28 Rutebeuf 27 Ruzzante (A. Beolco, detto il) 51, 0255550409111, 112,117, 141, 142, 164, 216n, 236

Stekel, W. 88 Stendhal (pseud. di H. 183, 227 Stoppelli, P. 66n, 97 Straparola, G. 166

Beyle)

Strehler, G. 220 Svevo, I. 14, 222 Szondi, P. 12

Sade, D.-A.-F. de 97, 120, 144 Tanturli, G. 56n, 82n Tartaro, A. 45n Tasso, T. 61, 66n, 199 Tateo, F. 45n Taviani, F. 215n Teofrasto 23

Saint-Simon, L. de R. de 183

Sand, M. 202 Sanesi, I. 111, 112, 118n Sanguineti, E. 56n Sannazaro, I. 165

Sansovino (Jacopo Tatti, detto) I213.120Y129x149 Santacroce, A. 244

Santangelo, G. > Ghetanaccio Santoro, M. 176n Savioli, A. 220 Savoia, Carlo Emanuele 1 di 196 Scala, F. 204, 215n, 216n Scaparro, M. 119n Scaramuccia (T. Fiorilli, detto) #0138102:2200:2201203;7204,

247

Teoli, F. 227 Terenzio 173 Tessari, R. 215n Thibaudeau, J. 194n Thiene, G. 153 Tissoni, R. 66n Tiziano Vecellio 116, 121, 122, 129, 132, 138, 167 Tolomei, C. 93 Tolomei, M. de’ 28 Tonello, M. 160n

Vignali, A. (in accademia: Arsic-

Torraca, F. 193n Trento, cardinal di 155 Trissino, G.G. 56n Tullia d'Aragona 88 Turamini, V. 91 Turri, G.B. 203

cio Intronato) 62, 66n, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 90, 92, 93, 94, 95, 96, 97, 141 Vigolo, G. 232, 239n Villon, F. 27 Virgilio, 28, 143, 165 Visconti, L. 220 Vitale, M. 31n Vitale di Blois 72

Ungaretti, G. 19 Uspenskij, B. 79

Vorberg, G. 87

Vaccai, N. 226 Varasi, E. 162n Varchi, B. 88, 179, 182, 193n Vasari, G. 75, 148, 149, 178, 191, 192n Venexiana, 53, 112-118 Venier, L. 89, 90, 129, 139 Verdi, G. 230 Verdone, M. 239n

Vossler, K. 132, 184, 193n

Weinberg, B. 56n Wellek, R. 31n

Weyen, L. 212, 216n Wimsatt jr, W.K. 24n Zaboklicki, K. 217 Zanotti, G.A. 203 Zelocchi, R. 194n Zorzi, L. 56n, 215n, 220

Verga, G. 222 Vettori, F. 59, 66n, 171, 189 Vighi, R. 239n

248

INDICE

GENERALE

Premessa I

.

IL COMICO. TEORIE E TIPOLOGIE Comico e tragico La galassia del comico Un nuovo ludo Il comico allo scoperto: il modello decameroniano Proteo: le maschere dell’irrisione Maestro Pasquino e Monna Commedia

a VI NODO IM Teatri della

lan!Leni

* LETTERATURA

scrittura, teatro del mondo E TEATRO

L’architetto e il legnaiolo. La prospettiva incrociata nella «Novella del Grasso» La Cazzaria Morfologie del comico nel teatro del Cinquecento L’eros in scena. Nota su «La Venexiana» Spazi dell’osceno: l’immaginario di Pietro Aretino Sulla memoria teatrale: i prologhi della «Cortigiana» Schede per Bandello: boccaccismi e machiavellismi Tragicommedia di Benvenuto Marino dalla Francia DO 5 Percorsi della commedia dell’arte: scaramuccia da DNINDUIAOIHIN Napoli a Parigi Goldoni 1980 (In margine a un convegno) 11 «Li teatri de Roma» 12 a

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Indice dei nomi

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LA TRADIZIONE DEL COMICO N. Borsellino 1a ed. - Garzanti (MI)

Ogni esemplare di quest'opera che non rechi il contrassegno della Società Italiana degli Autori ed Editori deve ritenersi contraffatto

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L'interesse che si è da tempo concentrato sul comico ha offerto alla cultura del Novecento molta materia di studio, dall’antropologia alla psicologia alla critica letteraria, ispirando perfino fortunate invenzioni romanzesche. Mancava tuttavia un disegno sistematico e analitico della nostra tradizione nella letteratura e nel teatro che integrasse la storia bachtiniana del riso nella grande prospettiva europea. Un saggista che ha già fornito in questo ambito importanti contributi raccoglie ora un'originale sintesi tipologica della comicità dal Medioevo al Rinascimento e dei suoi valori repressi o espressamente rivendicati. | singoli saggi della seconda parte del volume spingono l'indagine sui modelli creativi maggiori e minori dell’«antitragedia» italiana fino alle soglie della contemporaneità. | temi della beffa, dell’eros e dell’osceno si intrecciano con le morfologie del comico e del tragicomico nel dialogo e nella drammaturgia come nella narrativa e nell’autobiografia. E si inscena con testi come la Novella del Grasso, la Cazzaria, la Venexiana, con Aretino Bandello Cellini Marino Goldoni Belli e con la biografia di Scaramuccia, celebrato maestro di Molière, un appassionante teatro della scrittura, che è anche teatro del mondo.

Nino Borsellino insegna letteratura italiana nell'università «La Sapien-

za» di Roma. Particolarmente intensa la sua attività di studioso del Rinascimento. Ha pubblicato fra l’altro una raccolta di Commedie del. Cinquecento (1962-1967), un volume di ricerche dal Decameron al Candelaio (Rozzi e Intronati, 1974), monografie su Machiavelli, Ariosto, Gli anticlassicisti (1973) e il saggio Orfeo e Pan. Sul simbolismo della pastorale (1986). Tra i lavori su Otto e Novecento, un’edizione di scritti desanctisiani (Verso i/ realismo, 1965) e i volumi Storia di Verga (1982), Ritratto di Pirandello (1983), Il socialismo della «Ginestra». Poesia e poetiche leopardiane (1988).

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ISBN 88-11-59812-5

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«(prezzo di vendita.al pubblico)

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