Il teatro comico in Grecia e a Roma

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Universale Laterza 521

F. H. Sandbach

Titolo dell’edizione originale The Comic Theatre of Greece and Rome © 1977, Chatto & Windus, London Traduzione di Mario De Nonno

Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bart

IL TEATRO COMICO IN GRECIA E A ROMA

Editori Laterza

1979

Prefazione

Questo libro non intende semplicemente offrire una valutazione delle commedie tramandateci dall’antichità; esso si propone in realtà, come scopo principale, di spie­ gare che tipo di commedie si scrivevano allora, perché le si scriveva, come e quando esse erano messe in scena e quali erano le relazioni che le legavano al mondo in cui venivano rappresentate. Le informazioni in nostro possesso sulle condizioni materiali della rappresentazione scenica, sia che le si debba ricavare da fonti antiquarie che da dati archeologici, sono incomplete e spesso incerte, e gli esperti sono in disac­ cordo sulle conclusioni che si possono trarre dalle prime non meno che sull’interpretazione dei resti di antichi tea­ tri. Per evitare tuttavia di appesantire il testo con troppi « probabilmente », la mia esposizione sarà talora più dog­ matica di quanto sarebbe pienamente lecito; spero ad ogni modo di non aver dissimulato quanta incertezza gravi su importanti punti. Le prove di stampa sono state lette dal dott. Colin Austin, da Michael Meyer e dal prof. Moses Finley; grande è il mio debito nei loro confronti per quanto concerne correzioni, informazioni e suggerimenti. Ma degli errori eventualmente rimasti sono io solo responsabile. F .H . S.

Finito di stampate nel maggio 1979 nello stabilimento d’arti grafiche Gius. Laterza & Figli, Bari CL 20-1553-6

Ringraziamo per averci concesso di riprodurre le illustrazioni in bianco e nero: la - Metropolitan Museum of Art; lb - American School of Classical Studies di Atene; 2 - Musei vaticani; 3 - So­ cieties for thè Promotion of Hellenic and Roman Studies e Colle­ zione Moretti, Milano; 4 - British Museum.

VII

IL TEATRO COMICO IN GRECIA E A ROMA

Introduzione

Oggi noi conosciamo i nomi di quasi 250 commedio­ grafi greci la cui cronologia va dal sesto secolo a. C. al secondo d. C., e proprio alla fine del secondo secolo Ate­ neo, un erudito che aveva accesso alla grande biblioteca di Alessandria alle foci del Nilo, asseriva di aver letto 800 commedie composte in un lasso di tempo corrispon­ dente approssimativamente agli anni 400-325 a. C.: quanto di questa vasta ed ininterrotta produzione, testimone del ruolo svolto dal teatro comico nella cultura greca, ancor oggi sopravvive? Gli studiosi del tardo impero bizantino, cui dobbiamo la conservazione della letteratura greca classica, copiarono e lessero le opere di un solo commediografo, e cioè di quell’Aristofane che, in grazia della sua forza e versati­ lità, si era acquistato rinomanza nell’Atene della fine del quinto secolo a. C., in un periodo di stupefacente creati­ vità letteraria, artistica e filosofica illustrata dai nomi di Euripide e Fidia, Tucidide e Socrate; in seguito egli con­ tinuò a produrre ancora nei primi, oscuri anni del quarto secolo, quando la commedia ormai si avviava a svilupparsi in forme nuove. Su un totale di almeno quaranta sue commedie, undici giunsero nelle mani dei bizantini, fu­ rono da essi copiate e raggiunsero l’Italia; fu solo così che, quando Bisanzio cadde preda dei Turchi nel 1453, esse non corsero il rischio di perire del tutto. Degli altri autori, scomparsi al più tardi nel settimo o nell’ottavo secolo, in quell’epoca oscura in cui le opere letterarie furono guardate con sospetto, odiate, trascurate 3'

e distrutte, nulla si conservò se non parole isolate, versi singoli o brevi brani, pochi dei quali di più di otto o nove versi, citati da altri autori le cui opere per un qualche motivo sopravvissero, in particolare da grammatici e les­ sicografi, interessati al ricco vocabolario della commedia, al loro tempo per lo più obsoleto; fu così che sopravvis­ sero relitti delle opere di circa 120 altri commediografi. Tra questi ultimi, poi, taluni attrassero l’attenzidne di antologisti a caccia di massime moraleggianti e di ben tornite sentenze, mentre Ateneo, dal canto suo, pescò ampiamente nelle loro acque alla ricerca di passi con­ nessi con cibi, bevande, cuochi e conviti. Il materiale ricavato da fonti di questo tipo, per la prima volta raccolto in un’edizione completa nel 1839-41, inevitabilmente dava un’immagine distorta delle commedie perdute, che tuttavia potè in una qualche misura essere corretta grazie alla testimonianza delle venti commedie di Plauto e delle sei di Terenzio, autori latini del secondo secolo a. C. le cui opere sono adattamenti da originali greci per lo più appartenenti, senza dubbio, al periodo 325-250. Attraverso queste « versioni » latine, infatti, conservateci perché manoscritti prodotti nel quarto o quinto secolo d. C., quando ancora v’erano laici istruiti in grado di leggerle, furono conservati e copiati in mona­ steri medievali, ci si può fare un’idea abbastanza buona se non altro della trama degli originali cui esse si rifa­ cevano. Nel complesso però, ancora fino al principio del ven­ tesimo secolo, la conoscenza diretta della commedia greca si limitò, con trascurabili eccezioni, a quelle trasmesseci mediante i bizantini; proprio allora, tuttavia, una nuova fonte di conoscenze andava rivelandosi. Nel mondo antico i libri erano per lo più scritti su papiro, un materiale ricavato dalla lavorazione di una pianta egiziana, meno durevole della moderna carta di buona qualità ma in grado, se conservato in climi molto secchi, di resistere bene al tempo; tali erano appunto le condizioni climatiche in cui si vennero a trovare i cumuli di rifiuti o di macerie in 4

quello stesso Egitto che, dopo la conquista da parte di Alessandro Magno, era giunto ad avere una popolazione parzialmente ellenizzata, e così quando, circa cent’anni fa, cominciarono ad apparire chiari i possibili frutti di scavi in luoghi adatti, una gran massa di materiale papiraceo venne alla luce, soprattutto tra il 1895 ed il 1914 Nell’ambito di questo materiale, quasi ad attestare la popolarità goduta dalla commedia tra gli abitanti delle piccole cittadine dell’Egitto, un buon numero di pezzi risultò provenire da numerosi e svariati manoscritti con­ tenenti questo tipo di testi: nella maggioranza dei casi, si trattava di opere di quel Menandro (342-292) il cui nome nell’antichità era stato da alcuni critici accostato a quello di Omero. Il ritrovamento di maggior rilievo, ad ogni modo, si ebbe nel 1905, quando riemersero dician­ nove fogli parzialmente danneggiati ed altri frammenti sparsi di un manoscritto che rese possibile farsi un’idea complessiva di tre commedie menandree; una scoperta ancora più grande si ebbe nel 1958, quando fu rivelata l’esistenza di un altro manoscritto contenente ancora tre commedie dello stesso autore: la prima è completa, ed anche gran parte della seconda e più della metà della terza sono intatte. Diversi altri testi di considerevole estensione sono stati poi pubblicati a partire dal 1965, e queste nuove testimonianze hanno ampiamente esteso la nostra comprensione dell’opera di Menandro, oltre ad averci fornito una più vasta e valida base di confronto per la valutazione dell’originalità dei commediografi romani. In Grecia le esecuzioni pubbliche di opere dramma­ tiche facevano generalmente parte del programma ufficiale di una qualche festa religiosa; l’organizzazione era nelle mani delle autorità preposte alla festa, ed era inoltre abi­ tuale che le opere fossero presentate in competizione fra loro e che si assegnassero premi a quelle giudicate migliori. Non è detto, tuttavia, che le rappresentazioni dram­ matiche costituissero una caratteristica originaria delle feste nelle quali erano presenti. Senza dubbio esse fecero 5

fin dal principio parte del programma di feste di istitu­ zione relativamente tarda, come quelle istaurate in diversi luoghi nel corso del secolo seguente alla morte di Alessandro; ma ad Atene, per quanto la commedia si rappre­ sentasse in feste di grande antichità, essa non ricevette il patrocinio ufficiale prima del quinto secolo a. C. Per quanto riguarda le Lenee, dove la commedia mise sempre in ombra la tragedia, questo passo non fu compiuto che intorno al 440, mentre le Dionisie cittadine, in cui essa occupava una posizione subordinata, la accolsero fin dal 486. Riafferrare i sentimenti religiosi di civiltà passate è forse impossibile, ma probabilmente gli ateniesi del tempo pensavano che il Dioniso cui erano devoti condi­ videsse il loro gusto per le rappresentazioni drammatiche. I Greci amavano le gare e, se da un canto k compe­ tizioni atletiche alla corte di Alcinoo narrate ndVOdissea appaiono di carattere del tutto secolare, dall altro le quattro grandi feste religiose panelleniche di Olimpia, Delfi, Nemea e dell’Istmo di Corinto si incentravano appunto su una serie di gare di velocita ed altri concorsi, a Delfi, in particolare, le competizioni atletiche erano un’aggiunta successiva alle originarie gare musicali per flautisti, suo­ natori di lira e cantanti che con la stessa lira si accompa­ gnavano. Ad Atene in più di una festa si tenevano gare di corsa con fiaccole e, dopo l’espansione delle Panatenee voluta da Pisistrato nel sesto secolo furono messi in palio dei premi tanto per rapsodi che recitassero Omero e per esibizioni al flauto ed alla lira che per manifestazioni atle­ tiche o ippiche. Non c’è da meravigliarsi, dunque, che le rappresentazioni sceniche, una volta entrate nel program­ ma di due feste in onore di Dioniso, fossero considerate come un’occasione per gareggiare ancora. Le Lenee traevano il nome dalle donne in preda a possessione dionisiaca chiamate linai', non v è prova, tut­ tavia, che esse svolgessero ancora nel quinto secolo un ruolo nella celebrazione dei riti e, anzi, di sicuro sap­ piamo solo che si teneva una processione e che, dal 440, le competizioni teatrali entrarono a far parte del pro­

gramma. Tanto alla processione quanto alle rappresenta­ zioni sovraintendeva il « re », cioè quello dei nove magi­ strati annuali in cui si incarnava l’ultimo erede dell’antica monarchia; a lui i drammaturghi che ambivano a veder rappresentate le proprie opere « chiedevano un coro », ed egli ne assegnava sette, destinati rispettivamente a due tragedie ed a cinque commedie. Non sappiamo su quali basi tale scelta avvenisse: al momento di richiedere il coro i poeti di certo non avevano ancora completato le loro opere e, d’altra parte, talora si scelsero due comme­ die dello stesso autore. Il compito di fornire material­ mente i cori, uno per ogni dramma, ricadeva sulle spalle di cittadini abbienti che ne diventavano così, pur non prendendo parte alla vera e propria rappresentazione, i chorigoi, letteralmente i « capicoro »; era loro dovere reclutare i coreuti tra le persone capaci di cantare e dan­ zare, provvedere per i loro costumi e pagare un flautista che ne accompagnasse i canti ed un istruttore. Si trattava, in sostanza, di una di quelle « liturgie » (cioè « pubblici servizi »), richieste ai cittadini più ricchi, in occasione delle quali l’orgoglio civico e personale spesso impediva di lesinare sulle spese; non era difficile che, per una com­ media, si sborsassero cinquanta mine (il prezzo di dieci schiavi ben piantati), pur se rientrava nelle competenze del « re » Passoldare ed il pagare, a spese dello stato, l’attore protagonista; questi infine, a sua volta, può aver ingaggiato, in veste di capocomico, il resto della compagnia. L’organizzazione era in gran parte la stessa anche per le Dionisie cittadine, l’altra festa nazionale in cui si rap­ presentavano commedie, sebbene il magistrato addetto ad esse fosse non più il « re », ma Varchón epónymos-, an­ ch’egli era designato anno per anno e si chiamava « epo­ nimo » appunto perché il suo nome era adoperato nel calendario ateniese per identificare l’anno nel quale era stato in carica. Al contrario delle Lenee, la tragedia aveva qui il posto d’onore, ed occupava il teatro per tre giorni, in ciascuno dei quali si rappresentavano tre tragedie ed un dramma satiresco. Le commedie, in numero di cinque, 7

è probabile che venissero messe in scena tutte insieme in un giorno precedente 1 e, prima di esse, almeno una gior­ nata deve esser stata dedicata ai ditirambi, canti in onore degli dei eseguiti da cori di cinquanta membri, per i quali ciascuna delle dieci tribù in cui erano suddivisi i cittadini forniva due cori, uno di uomini adulti ed uno di ragazzi. Questi esecutori di ditirambi non erano certo dei pro­ fessionisti, ed è sorprendente che un così ampio numero di cittadini fossero attivamente impegnati, nelle Dionisie cit­ tadine, come concorrenti. I coreuti della tragedia e della commedia, d’altro canto, erano anch’essi semplici citta­ dini, e nulla prova che nel quinto secolo ricavassero dalle loro prestazioni un compenso che non fosse puramente morale; si trattava in sostanza, nella maggior parte dei casi, di una sorta di « dilettanti impratichiti ». Ciascun drammaturgo di cui si rappresentava l’opera riceveva un compenso, ma non si sa se il vincitore, oltre ad una ghirlanda d’edera, guadagnasse ulteriori premi ma­ teriali; per quel che riguarda il secondo ed il terzo posto, abbiamo qualche indizio che si trattava, come nelle gare odierne, di piazzamenti d’onore. Non solo i poeti erano in competizione tra loro, ma spesso anche gli attori pro­ tagonisti; alle Lenee un premio per il miglior attore comico sembra sia stato introdotto insieme alla commedia stessa, mentre alle Dionisie cittadine non pare ci sia stato nulla del genere almeno fino ad una data tra il 329 ed il 312 nonostante che, per la tragedia, gli attori fossero in gara fin dal 450 circa. L’attore vincitore non necessa­ riamente doveva aver fatto parte del cast della commedia vincente. Per concludere, si può aggiungere che non v’è 1 È dottrina tradizionale ritenere che durante la guerra del Peloponneso il numero delle commedie fu ridotto, per motivi di economia, a tre, e che esse vennero eseguite ciascuna dopo ogni dramma satiresco; un forte attacco a questa opinione, tuttavia, è stato portato da W. Luppe, « Philologus », CXVI, 1972, 53-75. Non ci è attestato direttamente che le commedie venissero pre­ sentate tra i ditirambi e le tragedie, ma i documenti ufficiali presen­ tano sempre i vincitori in quest’ordine: ditirambi dei ragazzi, diti­ rambi degli uomini adulti, commedia, tragedia.

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testimonianza, né letteraria né epigrafica, di un attore che abbia recitato sia tragedie che commedie su di un palcoscenico greco di qualsiasi epoca, e che non vi furono drammaturghi attivi in entrambi i campi: quando perciò Socrate, alla fine del Simposio platonico, costringe il poeta tragico Agatone ed il commediografo Aristofane ad am­ mettere che uno stesso uomo può scrivere tragedie e com­ medie, si tratta di nient’altro che di un provocatorio paradosso.

Capitolo primo UNA COMMEDIA AD ATENE

Dire che possediamo undici drammi del^ commedio­ grafo ateniese Aristofane è vero solo a metà: in realta noi possediamo le parole di undici commedie, ma il nudo testo non è la commedia. La commedia era una esecuzione singola nel teatro di Atene, recitata e rappresen­ tata da attori in costume ed in parte cantata,^ al suono di un flauto, da un coro di danzatori. Non ce testimo­ nianza che alcuna di queste undici commedie sia stata rappresentata più di una volta, tranne le Rane dei 4U0 a. C., e di quel caso si conservò il ricordo proprio m quanto eccezionale. L’esperienza vissuta dagli spettatori originari non è più per noi riconquistabile, le melodie che essi ascoltarono sono perdute per sempre, e la mag­ gior parte delle battute devono ormai essere spiegate, la qual cosa può servire a comprenderne il senso,_ ma non a far scattare la molla del riso. Con l’immaginazione, tut­ tavia, siamo in grado di ricostruire, almeno parzialmente, la scena e, aiutati dalle notizie e dagli accenni reperibili presso gli autori antichi, possiamo far molto per lar rivi­ vere le parole. Ci si può porre il palcoscenico davanti agii occhi della mente e vedere gli attori muoversi su di esso; per quanto poco questi fantasmi riescano a ricreare quel rapporto col pubblico ed a provocarne quella risposta emotiva senza la quale una commedia è un basco, per quanto la contagiosa ilarità della platea sia ora spenta e le allusioni ai fatti del giorno non eccitino le emozioni, dobbiamo almeno tentare di trasportarci dalla solitaria 11

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PORTICO PRIMO I !

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200 Piedi

50 Metri

Fig. 2: Pianta del Teatro di Pompeo a Roma. Fig. 1: Pianta del Teatro di Dioniso al tempo di Aristofane.

seggiola di casa nostra o della biblioteca ad un posto a sedere sull’affollato pendio di una collina d’Atene. L’anno è il 425 a. C. Siamo, per quanto le giornate abbiano già iniziato ad allungarsi, nel cuore dell’inverno, e la festa delle Lenee è tornata a rallegrare il popolo. La guerra del Peloponneso è in corso ormai da più di cinque anni, ed i contadini hanno sofferto i danni delle invasioni annuali; i raccolti sono andati distrutti, qua e là i tralci sono stati tagliati, gli olivi abbattuti, le case bruciate. Ogni anno le genti della campagna sono state obbligate a rifugiarsi dietro le mura che uniscono la città con il suo porto, il Pireo. L’egemonia sul mare, tuttavia, assi­ 12

cura ad Atene la supremazia sulle isole dell’Egeo, com­ merci a largo raggio, e tributi da parte degli « alleati » ad essa soggetti. Andiamo dunque, allo spuntar del giorno, con la massa del popolo, verso il teatro (fig. 1), non dimenti­ cando di portare con noi un cuscino e qualcosa da man­ giare, perché le rappresentazioni si susseguiranno senza interruzione per tutto il giorno. La platea è stata rica­ vata in una conca sulle pendici meridionali dell’Acropoli; gli ordini di posti superiori sono accessibili mediante un sentiero che corre in parte lassù in alto, ma noi entre­ remo al livello più basso, attraverso una delle parodoi, 13

o ingressi, che conducono presso le estremità delle file grossomodo semicircolari di posti a sedere in legno, e di qui ci arrampicheremo su per una delle serie di ripidi gradini che le intersecano. Dal nostro posto abbracciamo con lo sguardo, in basso, un’area circolare di terra bat­ tuta, attraverso la quale siamo passati: si tratta àùYorchè­ stra, o piattaforma per le danze, di circa 20 metri di dia­ metro, con al centro un altare in onore di Dioniso. Die­ tro Vorchèstra, sfiorandone la parte a noi più distante (o sovrapponendosi ad essa?), corre una bassa piattaforma, di cui possiamo solo congetturare le dimensioni, forse otto metri circa di lunghezza per tre di profondità 1. Pochi gradini connettono all’orchestra questa piattaforma, e ci interesserebbe sapere se essi formavano una sorta di breve scalone o le correvano tu tt’attorno. Dietro alla piatta­ forma, estendendosi da entrambe le parti ben al di là dei limiti di quest’ultima, vediamo una costruzione di grosse tavole di legno, la skènè, contenente i camerini. Le parodoi costituiscono dei passaggi tra essa e la platea. Al centro della skènè un’ampia porta a due battenti è la caratteri­ stica più notevole della sua facciata, e permette il pas­ saggio dall’interno dell’edificio alla zona destinata alla rappresentazione. Gli spettatori sono molto più numerosi di quelli di un teatro odierno; si tratta prevalentemente di ateniesi maschi, compresi diversi ragazzi, e devono essere almeno 15.000, cioè un terzo o più di un terzo degli adulti liberi di sesso maschile della città. Essi hanno pagato, per il 1 La descrizione del teatro riposa su dati archeologici di diffi­ cile interpretazione e molto discussi. Nel testo cerco di dare quella che io credo essere una sintesi molto probabile, accettata larga­ mente, anche se non unanimemente. C’è anche chi sostiene che le rappresentazioni alle Lenee, a differenza di quelle alle Dionisie cittadine (v. p. 26) non si tenessero affatto nel teatro. Questa situazione è tipica dei problemi che lo storico del dramma si trova ad affrontare. I più antichi scrittori classici, infatti, spesso tra­ scurano di far menzione di ciò che suppongono noto a tutti, mentre i più tardi possono essere sospettati di non possedere conoscenze più estese delle nostre e di ricorrere, come noi, a con­ getture. :

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loro posto a sedere, una somma all’appaltatore che li ha impiantati, ma i cittadini meno abbienti non vengono discriminati dalla loro povertà, perche un fondo di recente istituzione, il theòrikon, fornisce a questo scopo una sov­ venzione più che sufficiente a coprire i costi, cui^ ogni cittadino può attingere2. Metterci a sedere stretti ci farà piacere, perché così staremo più caldi; anche a mezzo­ giorno, infatti, la temperatura probabilmente non supe­ rerà gli 1Γ all’ombra; d’altra parte, tuttavia, sicuramente ci saranno degli sprazzi di sole, molto piacevoli su questo pendio rivolto a mezzogiorno. Il sacerdote di Dioniso fa finalmente il suo ingresso e, dopo aver fatto un’offerta sull’altare, prende posto al centro della prima fila, affiancato dagli altri personaggi cui spettano i posti riservati. Un araldo annunzia il titolo della prima commedia ed il nome del suo autore: sono gli Acarnesi di Aristofane3. Un personaggio, da solo, entra ora nell orchèstra dalla parodos alla nostra destra, indossando quello che risul­ terà essere il costume-tipo degli attori, e cioè una ma­ schera che copre l’intero volto ed una calzamaglia color carne lunga fino ai polsi e alle caviglie, imbottita alla pancia ed alle natiche, e con attaccato un fallo di dimen­ sioni esagerate, messo in piena evidenza da una_ tunica corta fuor di misura. Dalle sue parole, in versi ^come tutta la commedia, presto appare chiaro che ce lo si deve immaginare nella Pnice, l’area scoperta su di una bassa collina dove si teneva, almeno tre volte al mese, l’assem­ blea generale del popolo d’Atene. Egli comincia con al­ cuni lazzi rivolti contro il politico Cleone, contro Teo2 Questa è una semplice possibilità nel nostro caso, in quanto versamenti «teorici» sono attestati esplicitamente solo per le Dionisie cittadine, l’altra festa in cui c’erano esibizioni teatrali. 3 Si tratta di una supposizione arbitraria. La commedia fu presentata alle Lenee del 425, ma non conosciamo il suo posto preciso nel programma del giorno. Inoltre, per quanto il testo presupponga che gli spettatori sappiano che l’autore è Aristofane, l ’impresario fu in realtà, come per le due commedie precedent’ dello stesso autore, l’amico Callistrato, ed e quindi possibile che quest’ultimo e non Aristofane sia stato annunziato dall’araldo.

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gnide il tragediografo, contro due cantanti ed un flautista,, quindi si lamenta che il popolo è in ritardo per la riu­ nione: persino i suoi rappresentanti arrivano alla rinfusa all’ultimo momento e non pensano mai ad iniziative di pace; lui, invece, è sempre il primo ad arrivare, e siede lì « brontolando, sbadigliando, stiracchiandosi, spetezzan­ do, rimuginando, scribacchiando, strappandosi i capelli e rifacendo conti, guardando da lontano il suo podere, desideroso di pace ». Oggi è però venuto con il preciso intento di fare una scenata se non si discuterà appuntodelia pace. D ’improvviso ecco che l’assemblea è al completo e che un araldo invita gli oratori a parlare. Il primo è Anfiteo, che si presenta come il nipote della dea Demetra e si lamenta del fatto che, per quanto immortale, gli sia stata rifiutata una sovvenzione per coprire le spese di un viaggio a Sparta, dove egli si propone di concludere la fatidica pace. A dispetto delle proteste di Diceopoli — que­ sto risulterà più oltre il nome del personaggio comparsoper primo alla ribalta — Anfiteo viene però subito affer­ rato ed espulso dalla polizia, che ad Atene era formata da schiavi sciti. Prendono poi la parola degli ambasciatori appena tornati da una missione presso il re di Persia: essi si lamentano delle privazioni che hanno dovuto sop­ portare, pagati appena due dracme al giorno (il quadruplo del normale), costretti a bere in tazze d’oro vino non diluito, e nutriti a base di interi buoi arrostiti. Diceopoli punteggia il loro racconto con commenti scurrili. Un am­ basciatore introduce quindi Pseudartaba (in greco la prima parte di questo nome dall’aria persiana significa « falso »), la cui maschera è caratterizzata da un enorme occhio: egli è, in effetti, presentato come il funzionario cui si dava il nome di « Occhio del re ». Pseudartaba pronuncia due versi, il primo dei quali, inintelligibile, viene interpretato dall’ambasciatore come promessa di un aiuto finanziarioad Atene, mentre il secondo, in greco scorretto, suona all'incirca: « non dare soldi ». Interviene allora Diceo­ poli: « Dimmi, prima che ti faccia nero, i soldi il re ce li manda o no? »; l’« Occhio » fa segno di no. « Allora

gli ambasciatori ci stanno prendendo in giro? »; due « eunuchi », che accompagnano l’« Occhio », annuiscono, tradendo così la loro origine greca e facendosi ricono­ scere da Diceopoli per due noti effeminati, spesso messi in ridicolo nelle commedie. L’araldo infine annunzia che il consiglio invita l’« Occhio » a pranzo, e Diceopoli con­ segna ad Anfiteo otto dracme per andare a Sparta a con­ cludere una pace privata per sé e per la sua famiglia. L’araldo annuncia ora un messo che è stato presso il capo trace Sitalce. Egli fa entrare in scena una frotta di barbari perché siano assoldati come mercenari, e questi ultimi si avventano su Diceopoli per strappargli e divo­ rare l’aglio che si era portato appresso come condimento per il pasto. Protestando contro questo assalto e gridando di aver sentito una goccia di pioggia, Diceopoli provoca allora la sospensione dell’assemblea. A questo punto si precipita alla ribalta Anfiteo, dicendo di essere inseguito dagli uomini di Acarne, un grosso villaggio a nord di Atene, perché porta spondai da Sparta, e cioè, letteral­ mente, vino per libagioni, ma anche — è questo il senso traslato del termine — un trattato di pace. Diceopoli gusta dunque tre qualità di « vino », sceglie quella di più lungo invecchiamento e, passando attraverso una porta collocata nell’edificio che fa da sfondo, entra nella sua casa colonica, ora ad un tratto rappresentata dall’edi­ ficio stesso, con l’intenzione di celebrare le Dionisie cam­ pestri. Anfiteo esce di scena dalla parodos opposta a quella dalla quale è entrato. Non appena il palcoscenico si è vuotato, ecco che gli acarnesi, costituenti il coro della commedia, compaiono nell’orchèstra, in ventiquattro, vestiti di maschera e calza­ maglia, tunica e mantello, e intenzionati a linciare il tra­ ditore; essi si tirano tuttavia da parte all’apparire di una processione religiosa — sul tipo di quelle che si facevano per le Dionisie campestri — formata da Diceopoli, dalla figlia, che porta il sacro cesto, e da uno schiavo che so­ stiene in alto e ben diritto il fallo simbolico. Diceopoli esprime, in un canto, la gioia di esser tornato al suo vil­ laggio ed il piacere ancora maggiore di essersela spassata

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con una schiava sorpresa mentre gli rubava la legna. Gli acarnesi gli si avventano a questo punto contro, e la figlia, con lo schiavo, deve rifugiarsi in casa. Ma ecco che il metro cambia: non più trimetri giam­ bici ma, per la maggior parte, versi trocaici lunghi, fram­ misti a dei eretici ed a qualche anapesto4. Gli scambi di battute tra Diceopoli ed il coro (o il suo capo) sono per sessantadue versi distribuiti in maniera quasi perfet­ tamente simmetrica e vengono forse pronunciati col sot­ tofondo della musica di un flautista dalla lunga tunica entrato in scena insieme al coro. Questi suona un flauto a due canne, sostenuto ed accostato alla bocca da un nastro che gli gira tu tt’attorno alla nuca. Diceopoli risolve la situazione correndo in casa e venendone fuori con un sacco di carbone come ostaggio. Molti acarnesi erano carbonai, e l’espediente di Diceopoli parodizza il Telefo di Euripide, messo in scena tredici anni prima, in cui l’ostaggio era un bambino. Gli acarnesi si vedono a que­ sto punto costretti a permettergli di difendersi, cosa che egli propone di fare con la testa poggiata su di un ceppo; Telefo aveva detto che anche con il collo sotto la minaccia della scure non avrebbe taciuto, e Diceopoli mette ora in pratica, alla lettera, quella figura retorica. Ed ecco che l’attore si rivolge direttamente al pub­ blico e, tornando ai trimetri, ricorda come Cleone l’abbia trascinato davanti al Consiglio a causa della sua commedia dell’anno prima — è questo forse un coperto invito a non mostrare una così assurda suscettibilità nel caso che qualcuno tra gli astanti non gradisca quanto sta per sen­ tire. Per un momento l’attore ha preso il posto dell’au­ tore, ma subito, rientrando nel suo ruolo e prendendosi gioco di una pratica abituale agli imputati in tribunale, egli dice che deve vestirsi in maniera da apparire quanto più è possibile male in arnese. A tale scopo si rivolgerà ad Euripide, che era noto per aver introdotto nelle sue tragedie eroi cenciosi, abbattuti dalla malasorte. La porta centrale della scena rappresenta ora la casa di Euripide, 4 Per questi termini metrici v. Glossario, a p. 203.

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ed un servo risponde che il padrone a casa « c’è e non c’è ». Diceopoli insiste, ed il poeta allora, interrompendo la composizione di un dramma, accetta di farsi trasportar fuori sull’ekkykléma, una macchina mediante la quale, nelle tragedie, una piattaforma veniva spinta attraverso la comune così da rivelare un interno. In linguaggio tra­ gico Euripide accoglie, una ad una, le richieste che gli vengono fatte di costumi utilizzati nei suoi drammi, fin­ ché alla fine esclama: « Imbecille, tutta la tragedia mi saccheggi! ». Ma la tortura per lui ancora non è finita: « Ho dimenticato proprio quella cosa da cui tutte le altre dipendono — conclude Diceopoli — ; o dolcissimo e caris­ simo Euripidino, che mi venga un accidente se ti chiedo altro tranne una sola cosa, solo una cosa, una cosetta: dammi qualche mazzo di cicoria di quelli che ti lasciò tua madre! » 5. Vestito come un accattone, Diceopoli poggia final­ mente il capo sul ceppo e fa il suo discorso di difesa. Anch’egli, certo, odia gli spartani, ma qui si tratta di fare una guerra per delle sciocchezze. C’è stato, egli dice, un divieto di importazione di beni da Megara, ed una pro­ stituta è stata rapita da quella città; quelli di Megara hanno reagito rubando due altre prostitute dall’« azien­ da » di Aspasia, la mantenuta di Pericle, e quest’ultimo ha a sua volta risposto facendo approvare un provvedi­ mento volto a bandire i megaresi per terra e per mare. Gli spartani sono allora accorsi in aiuto dei loro alleati proprio come gli ateniesi si sarebbero precipitati alle armi per difendere il più piccolo degli alleati loro. Questo discorso divide gli acarnesi ed alcuni, ancora indignati, mandano a chiamare Lamaco, un popolare gene­ rale, che entra in assetto da combattimento. Diceopoli sulle prime finge di aver paura, poi accusa il generale di fare buoni affari con la guerra, a differenza della brava gente che combatte nei ranghi. « Democrazia, che devi sopportare! », prorompe Lamaco, ed esce, dichiarando che 5 Aristofane era ben lieto di ricordare che la madre di Euri­ pide aveva un tempo venduto verdure al mercato.

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combatterà sempre e dappertutto gli spartani. Diceopoli rientra allora in casa. Quanto segue ci riserva una sorpresa. Gli acarnesi si dichiarano infatti del tutto vinti, ma nello stesso tempo annunziano che devono ora spogliarsi per gli anapesti; gettati via i mantelli, essi avanzano verso di noi, gli spet­ tatori, mentre il loro capo pronuncia un lungo discorso in metro anapestico: Da quando il nostro principale fa il suo mestiere, non si è mai rivolto alla platea per vantarsi. I nemici però lo vanno calunniando in mezzo agli ateniesi, teste calde: dicono che prende in giro la città e insulta il Popolo. È costretto perciò a rispondere, davanti agli ateniesi, gente volubile. Il poeta sostiene che vi ha fatto più di un piacere: per merito suo non vi fate più ingannare dalle chiacchiere degli stranieri, non vi piace farvi adulare, di essere il più stupido paese. Una volta gli ambasciatori degli alleati, se volevano imbrogliarvi, comin­ ciavano a chiamarvi « coronati di viole ». Bastava dirlo, e subito vi accomodavate sulla punta delle chiappe: per via delle corone! Un altro, incensandovi, vi chiamava « scintil­ lante Atene »? Riusciva a tutto, con questo « scintillante »: un complimento buono per le acciughe! * Il discorso continua dicendo che la fama di Aristo­ fane ha raggiunto il re di Persia, e che questi ha dichia­ rato agli spartani che avrebbe vinto la guerra quella delle due parti che si fosse giovata delle critiche di un uomo di tal fatta. È per questo che ora essi chiedono la conse­ gna di Egina: la casa del poeta è lì e gli spartani vogliono catturarlo. Gli anapesti si concludono con sei versi brevi, recitati tutti d’un fiato, con i quali si provoca ed insulta Cleone. Riassumendo la propria personalità, poi, il coro canta, accompagnato dal flautista, una invocazione alle muse di Acarne, seguita da sedici versi trocaici declamati. Par* Le traduzioni da Aristofane sono di B. Marzullo (Aristofane, Le Commedie, Roma-Bari 19772); quelle da altri scrittori, qualora non se ne indichi l’autore, cercano di attenersi il più possibile all’interpretazione del Sandbach. [N .d T .].

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landò a mo’ di veterani delle guerre persiane, i coreuti si lamentano che dei giovani furbastri li prendano in trap­ pola e li imbroglino nei tribunali. Dopo un secondo canto, una protesta per il fatto che i combattenti di Maratona vengono ora trascinati in giudizio da dei furfanti, altri sedici versi seguitano le lamentele per quanto avviene nei tribunali. Diceopoli brevemente riappare per istituire un mer­ cato dove i peloponnesiaci, i megaresi ed i beoti possano commerciare con lui. Il primo a presentarsi è un mega­ rese affamato che spera di vendere due figlie travestite da « troierie »; ne segue una divertente scena condita, tra gli altri doppi sensi, dall’equivoco sulla parola greca per « troietta », che era anche un termine volgare per indicare le parti intime femminili. Si fa poi avanti uno spione, minacciando di denunciare il contrabbando di « maiali », ma viene scacciato, ed il coro si congratula con Diceopoli per l’assenza dal suo mercato di diversi ateniesi, accusandoli nello stesso tempo di colpe e vizi ripugnanti. Un beota, venuto a vendere anguille ed altre ghiottonerie, viene accolto come il benvenuto, e gli si pagano le merci regalandogli un’altro delatore, che vien legato, impacchettato e preparato per il trasporto come se fosse un vaso, un comune genere d’esportazione ate­ niese. Giunge quindi un messaggero da parte di Lamaco, chiedendo di poter acquistare una parte dei viveri por­ tati dal beota per festeggiare con essi le Antesterie — sono dunque trascorsi un paio di mesi senza che se ne sia fatta menzione — , ma riceve un rifiuto; Diceopoli porta infine dentro tutte le leccornie, dando così al coro la possibi­ lità di cantare un’altra coppia di canti simmetrici, uno contro la guerra e l’altro di benvenuto alla Pace, che appare alla ribalta nelle vesti di una bellissima donna. Mentre Diceopoli, di nuovo sul palcoscenico, fa pre­ parativi per il convito, ecco comparire un contadino, rovi­ nato dalla guerra, che gli chiede inutilmente una goccia di pace; poi è la volta di un giovanotto che reca, da parte di uno sposo, un piatto di carni tolte dal banchetto nu­ ziale, nella speranza che, scambiandolo con una coppa di 21

pace, quegli non debba abbandonare la sposa per andare alla guerra. Anche a quest’ultimo la pace viene però rifiu­ tata, mentre una damigella d’onore della sposa, dopo aver sussurrato un messaggio all’orecchio di Diceopoli, ottiene maggior successo. Si presenta infine in scena un messaggero per chiamare Lamaco a combattere alla fron­ tiera, mentre un altro reca a Diceopoli l’invito a pran­ zare col sacerdote di Dioniso. Un verso a testa, Lamaco chiede che gli si portino le singole voci dell’equipaggia­ mento militare e Diceopoli una serie di gustose vivande, e finalmente partono entrambi, l’uno per il fronte e l’altro per il pasto. Dopo un altro paio di canti corali diretti contro un chorègos che ha mancato di ricompensare i suoi cantanti con un invito a pranzo, ancora un messaggero annunzia (in una parodia dello stile tragico ricca di nonsense) che Lamaco è stato colpito; lo segue immediata­ mente il generale stesso, lamentando la sua ferita in lin­ guaggio tragico mentre Diceopoli, ritornato dal suo invito a braccetto di due ragazze, gli rifà felicemente il verso e poi, in chiusura, esce alla testa del coro, innalzando all’unisono con esso un inno di vittoria per la commedia. Ma la vittoria non è ancora assicurata, poiché devono seguire le altre commedie in gara. Solo alla fine della giornata i giudici renderanno pubblica la loro decisione. Essi sono stati prescelti con un sistema alquanto elabo­ rato. Prima della competizione il consiglio ha selezionato un certo numero di nominativi da ciascuna delle dieci tribù, e li ha messi rispettivamente in dieci vasi. I vasi sono stati sigillati alla presenza dei chorégoi per essere riaperti, solo poco prima delle rappresentazioni, nel tea­ tro stesso; il funzionario che presiede ha quindi estratto un nome da ciascun vaso ed i dieci così prescelti hanno giurato di giudicare imparzialmente. Una volta rappresen­ tate tutte le commedie, ciascun giudice metterà per iscritto il suo verdetto, classificandole in ordine di merito, e lo porrà in un’altra urna dalla quale il « re » estrarra, a caso, cinque giudizi. Saranno questi ultimi a decidere il risul­ tato finale, ed in effetti nel nostro caso Aristofane, un giovane di poco più di vent’anni, sarà coronato con la 22

ghirlanda d’edera del vincitore, relegando al secondo posto Cratino, il più grande dei commediografi della genera­ zione precedente; Eupoli, un altro astro nascente, si clas­ sificherà terzo. Rendendo a tal punto incerto quale dei voti avrebbe avuto un valore effettivo, la procedura tendeva a ridurre al minimo la possibilità che intimidazioni o lusinghe aves­ sero un peso nel giudizio; già agli inizi del quarto secolo — perlomeno — si riconobbe tuttavia che giudici parti­ giani e compromessi potevano trovar posto nell’originaria commissione esaminatrice. Poiché poi, d’altro canto, le diverse preferenze dei giudici venivano rese pubbliche, essi erano talora indotti a preporre alle proprie personali inclinazioni il successo popolare delle singole commedie. Platone, da filosofo, potè condannare tutto ciò, ma essi, da parte loro, non giudicavano cinque commedie sub spe­ cie aeternitatis, ma specifiche rappresentazioni di quelle cinque opere, ed uno degli obiettivi di ogni drammaturgo è quello di piacere ai suoi spettatori; quando ciò non accade è la commedia, in quella particolare occasione, che ha qualcosa che non va. Il resoconto della commedia alla quale abbiamo assi­ stito è stato necessariamente incompleto, e delle pure con­ getture rimangono il solo mezzo in nostro possesso per rappresentarci diversi dettagli. Non sappiamo, per esem­ pio, quanta parte dell’azione si svolgesse sulla piattaforma e quanto gli attori si muovessero nello spazio davanti ad essa; non sappiamo se tutte le comparse « mute » por­ tassero o meno il tipico costume da attore comico e la maschera. Quando il coro ha gettato via i mantelli per indirizzarsi all’uditorio, che fine hanno fatto? Questa parte della commedia veniva chiamata parabasis, cioè « avanzata », ed il nome si riferisce tanto al solo primo elemento, in genere formato da anapesti, quanto, più ampiamente, a tutto l’insieme comprendente i canti e le declamazioni in trochei. Si suppone generalmente che il coro si liberi dei mantelli per danzare meglio, ma se si cerca poi di precisare come e quando avveniva tale danza 23

non ritroviamo né accordo tra gli studiosi ne testimo­ nianze significative. Certo, dovevano essere importanti i movimenti del corpo e del capo, mentre non erano forse necessari movimenti delle gambe, ma anche così è diffi­ cile danzare e parlare nello stesso tempo. È per questo che alcuni autori moderni fiduciosamente affermano che i canti venivano eseguiti da una metà del coro, mentre l’altra metà danzava, che gli anapesti venivano declamati dal capo del coro come solista ed i versi trocaici dai capi dei due semicori; pur se dividere i cori fu forse una pra­ tica assai comune, essa ci è in realtà attestata con ben poca evidenza. Rimangono, ad ogni modo, alcune questioni sulle quali, nonostante la loro incertezza, si può dire qualcosa di più, e ad esse è perciò dedicata un’appendice finale.

Capitolo secondo ARISTOFANE

Delle circa trenta commedie scritte da Aristofane prima della fine del quinto secolo ce ne rimangono nove, e, tra di esse, quella alla quale abbiamo immaginato di assistere è, in un certo senso, tipica. I suoi elementi prin­ cipali ricorrono ripetutamente, pur presentandosi talora modificati e distribuiti diversamente nelle varie comme­ die; non mancano certo in queste ultime novità ed espe­ rimenti, ma gli Acarnesi, per quanto scritti a poco più di vent’anni, già rivelano chiaramente lo stile e la maniera del poeta. A questo proposito, l’argomento che può apparire più importante al lettore moderno è proprio quello intorno al quale basta dire il minimo indispensabile. Non è que­ sto il luogo per sottolineare ancora una volta tutti i pregi letterari di Aristofane: la fantasia, la varietà degli episodi, l ’abbondanza delle gags, la loro tempestività inattesa; di queste caratteristiche molte — se pur non tutte — po­ tranno rispecchiarsi in una traduzione. Nondimeno, ci sono altri elementi che in una versione non possono che andar persi: i giochi di parole, la parodia della tragedia dell’epoca, spesso oggi solo da sospettarsi a causa della perdita degli originali parodiati e, soprattutto, il fascino di certi passaggi lirici. L’obiettivo principale del presente capitolo è la con­ siderazione delle commedie di Aristofane non come parti, astoricamente intese, della letteratura mondiale, ma come elementi costitutivi della vita ateniese al tempo della guerra del Peloponneso. Per gli ateniesi la commedia era 25

un fatto importante: organizzata dallo Stato, sostenuta dalla generosità privata, essa entrava nel programma di due antiche feste religiose e stimolava tanto gli autori quanto gli attori di grido a gareggiare per i premi messi in palio. Gli Acarnesi, come si è visto, furono messi in ' scena alle Lenee di metà inverno; l’altra festa, le Dionisie cittadine, si teneva intorno alla fine di marzo. Poiché la stagione della navigazione iniziava in primavera, si tro­ vavano dunque ad Atene al tempo delle Dionisie uomini provenienti da tutte le città « alleate » sparse per l’Egeo, e più d’uno tra di essi, compresi quelli che avevano ver­ sato l’annuale tributo, trovava posto nel teatro. Nei suoi Babilonesi, rappresentati alle Dionisie l’anno prima degli Acarnesi, Aristofane aveva criticato i magistrati ateniesi alla presenza di questi « alleati », offrendo così l’oppor­ tunità a Cleone, che nella commedia era messo in ridi­ colo, di accusarlo davanti all’Assemblea di gettare discre­ dito sulla città. Non sembra che sia stata inflitta al poeta alcuna punizione, ma si può osservare che le Nuvole e gli Uccelli, altre commedie presentate alle Dionisie, come pure le Donne alle Tesmoforie (o Tesmoforiazuse)1, che possono esservi state rappresentate, si tengono più o meno lontane da delicati temi politici, e che la Pace (anno 421) non è critica nei confronti di Atene (vedi oltre, p. 36). Le Nuvole (423) sono un attacco a Socrate, ma la commedia potè essere pienamente gustata anche da chi non conosceva di persona il filosofo, perché il personag­ gio « Socrate » è qui un individuo che partecipa di tutte le stramberie che il pregiudizio popolare associava con gli intellettuali e che tiene una scuola in cui si può im­ parare come giustificare, anche davanti ad un tribunale, imbrogli e violenze. Gli Uccelli (414), per molti la com­ media più piacevole, mettono in scena due personaggi. Pistetèro2 ed Evèlpide, che, volendo fuggire dalla vita 1 Le Tesmoforie erano una festa religiosa. 2 Non condivido personalmente la fiducia con cui alcuni stu­ diosi difendono le loro diverse normalizzazioni di questo nome

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nella grande città di Atene, giungono nel paese degli uccelli; questi ultimi, vestiti non uniformemente, ma in modo da rappresentare ventiquattro specie diverse, for­ mano il coro. Gli uccelli in un primo momento attaccano i due, ma desistono quando vengono persuasi della possi­ bilità di edificare in cielo una città che, interrompendo i contatti tra uomini e dei, faccia sì che a questi ultimi si sostituiscano gli uccelli stessi. Detto fatto: fondata « Nefelococcugia », Pistetèro viene, per tutta la seconda metà della commedia, afflitto da una serie di visitatori pro­ venienti dalla terra (non specificatamente da Atene), che offrono servizi non desiderati o presentano richieste. Giun­ gono poi gli emissari degli dei: Iris, che viene insolentemente scacciata; Prometeo, non tanto un inviato quanto un traditore che, protetto da un parasole, ammonisce gli uccelli a tendere, nella loro lotta, alla consegna di Re­ gina, la graziosa fanciulla che custodisce i fulmini di Zeus; ed infine un’ambasceria plenipotenziaria formata dall’ari­ stocratico Posidone, da Eracle, incline ad accettare ogni condizione pur di andare presto a tavola, e dal dio bar­ baro Triballo, che si esprime in modo inintelligibile. Alla fine Posidone è messo in minoranza e Pistetèro, sull’aria di un canto nuziale, ritorna sulla scena con Regina al suo fianco come sposa. Euripide, l’obiettivo principale delle Donne alle Tesmo­ forie (411), era ben noto fuori d’Atene. In questa com­ media egli fa travestire da donna un parente per farlo partecipare di nascosto alla festa, interdetta ai maschi; lì — a quanto ha saputo — le celebranti si accingono a cospirare contro di lui per aver denunciato, attraverso i malvagi personaggi femminili delle sue tragedie, i loro difetti. Il parente va e parla in maniera ridicola in favore di Euripide, sostenendo che in realtà il drammaturgo ha passato sotto silenzio proprio alcune tra le più pregiudi­ zievoli verità sulle donne. Naturalmente viene scoperto, denudato e legato ad un asse! Nella seconda parte della tramandato nella forma Peisthetairos: Peithetairos, Peisetairos, Pisthetairos o Pithetairos.

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commedia assistiamo ad una serie di tentativi, da parte di Euripide, di liberare il parente, che si risolvono tutti in parodie di scene di tragedia euripidea, finché la guardia scita che tiene in custodia il prigioniero, e che parla un greco divertentemente scorretto, non viene adescato da una danzatrice 3, introdotta da Euripide nei panni di una vecchia mezzana. Le commedie destinate alle Lenee, al contrario delle precedenti, hanno generalmente un più stretto rapporto con la vita politica d’Atene. Nei Cavalieri (424), per esempio, l’attempato Demos (cioè il popolo ateniese) è caduto nelle grinfie del suo schiavo Paflagone (natural­ mente Cleone), che lo manovra a forza di corruzione e minacce. La Paflagonia era una regione dell’Asia Minore il cui nome richiama alla mente il verbo paphlazein, « gor­ gogliare e tartagliare ». Un secondo schiavo, che si è ten­ tati di identificare con il generale Demostene, ricorre all’aiuto dei giovani benestanti che formavano la caval­ leria ateniese, e subito questi entrano in scena « caval­ cando » cavalli impersonati da altri coreuti. Per deporre il Paflagone è necessario trovare qualcuno che lo superi in volgarità e mancanza di scrupoli, e la persona adatta viene individuata in un salsicciaio che, al termine di una lunga disputa a base di insulti reciproci e contrastanti promesse, ha infine la meglio sul Paflagone. Installatosi al potere, il salsicciaio ridona a Demos la giovinezza met­ 3 Per quanto non si abbiano esempi di attrici parlanti, non è impossibile che la parte di questo personaggio muto sia stata sostenuta da una giovane schiava nuda. Ci sono svariati esempi in Aristofane di personaggi muti di questo tipo, il cui ruolo implica l’eccitamento o (fuori di scena!) la soddisfazione di desideri ses­ suali. Talvolta dal testo si può inferire che le loro parti intime fossero visibili ed esercitassero la loro attrattiva: se tali personaggi fossero stati interpretati da giovanotti in calzamaglia, ciò avrebbe potuto provocare l ’ilarità del pubblico; un impresario, al contrario, può aver pensato che dei veri e propri nudi avrebbero costituito un gradito abbellimento della commedia. Del resto, diversi vasi del quarto secolo, prodotti per i greci d’Italia, mostrano danzatrici e ginnasi e nude in associazione con attori maschi con indosv calzamaglia e maschera.

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tendolo a bollire in un calderone — un metodo tradizionale da stregone — e, così, il demagogo capace di battere tutti i demagoghi si trasforma, improvvisamente e non senza incoerenze, in un riformatore capace di richiamare in vita il glorioso popolo protagonista della incorrotta democrazia di una volta, popolo giusto, saggio ed amante della pace. Le Vespe (422) sono una satira del sistema giudiziario ateniese. Filocleone (l’« amante di Cleone ») è tenuto chiuso in casa, per impedire che vada a sedere come giu­ rato in tribunale, da suo figlio Bdelicleone (l’« odiatore di Cleone »). Ad Atene le giurie dei tribunali erano af­ follatissime, formate, per le accuse pubbliche, normal­ mente da 501 membri, ma talora anche dal doppio. Que­ sti giurati venivano estratti di volta in volta da un corpo di circa 6.000 cittadini, registrati come disponibili a tali prestazioni, e per i quali il compenso per il servizio così svolto costituiva spesso una non trascurabile fonte di introiti; nelle loro mani era non solo il verdetto, ma anche la sentenza finale. Filocleone ama il potere che la condizione di giurato gli può dare sopra l’accusato, ed i suoi tentativi di fuga da casa occupano tutta la parte iniziale della commedia, finché i suoi compagni giurati, che formano il coro, non vengono a prenderlo per andare insieme in tribunale. Trovatolo imprigionato, essi si libe­ rano dei mantelli per mettersi in azione, mostrando così la loro vera natura di vespe, fornite di minacciosi pungi­ glioni. Alla fine le « vespe » vengono respinte e Bdeli­ cleone cerca di consolare il padre offrendogli di giudicare, a casa, una causa di carattere domestico, quella di un cane accusato di aver rubato del cibo. Sopraggiunta la sera, e chiusi ormai i tribunali, Filocleone viene spinto ad uscire per partecipare ad un banchetto, dal quale ritorna ubriaco, portando con sé una ragazza sottratta al convito, e inseguito da un uomo ed una donna da lui aggrediti, che minacciano di portarlo davanti ad un tribunale. I ripetuti attacchi a Cleone pongono diversi problemi. Erano dovuti a rancore per le sue reazioni nei confronti dei Babilonesi o a disaccordo con la sua politica? Ave­ vano o meno probabilità di essere accetti alla maggio­ 29

ranza del pubblico? Aristofane intendeva influenzare l’opi­ nione pubblica o semplicemente divertire gli spettatori con una macchietta? Non è lecito, in teoria, ritenere che ogni opinione espressa in una commedia coincidesse con quella del dram­ maturgo, e anzi non son poche le false interpretazioni del dramma greco proposte da studiosi che attribuivano all’autore punti di vista messi da questi sulla bocca di qualche personaggio; la commedia aristofanea, tuttavia, presenta caratteristiche tali da permetterci di individuare alcune di queste opinioni come proprie di Aristofane stesso, o almeno come quelle che egli desiderava che il pubblico considerasse per tali. La prima di queste carat­ teristiche consiste nel fatto che, negli anapesti che intro­ ducono la parabasis, il coro di norma non parla coeren­ temente al suo ruolo, ma afferma apertamente di farsi portavoce del poeta (vedi p. 20); la seconda caratteri­ stica è costituita dal frequente ricorrere di determinate idee e dalla frequente parodia di determinati uomini poli­ tici, mentre le opinioni contrarie — se pure se ne fa menzione — sono costantemente screditate e politici di diverso orientamento sfuggono agli attacchi: il poeta, cioè, non si presenta imparziale politicamente, ed anzi si può esser certi che Aristofane appariva, e voleva apparire, come un sostenitore di punti di vista ben precisi. Nulla prova, ovviamente, che tutto ciò non fosse altro che cinica simulazione, ma nulla, d’altra parte, lascia intuire una tale slealtà. Considerare il poeta come un maestro era tradizio­ nale, e più di una volta Aristofane reclama per se stesso un tale titolo in contesti non di scherzo. Per la prima volta tale concezione è espressa dal coro degli Acarnesi, quando proclama (v. 656) riferendosi al poeta: degli ateniesi si rivoltarono, e si visse nella generale _impres­ sione che l’estate del 412 avrebbe visto la vittoria finale (Thucyd. 8, 1). Ma così non fu. Gli ateniesi fecero sforzi eroici e, nonostante avessero perso l’indiscussa suprema­ zia sul mare, riuscirono a porre sotto il proprio controllo Samo ed il passaggio — di vitale importanza — delle navi recanti frumento dal Mar Nero. Nonostante tuttavia che gli avversari non fossero riusciti a sfruttare a fondo il loro vantaggio, le prospettive per Atene rimanevano minacciose, e se una pace immediata fosse stata possi­ bile, sarebbe certo stata accolta come la benvenuta. Ma una pace a condizioni ragionevoli era davvero a portata di mano? Gli elementi pur insufficienti offertici dall’in­ compiuto ottavo libro di Tucidide suggeriscono che, men­ 38

tre alcuni pensavano che si sarebbero dovuti aprire subito i negoziati, altri consideravano che questo sarebbe stato giudicato un segno di debolezza (tale in effetti fu poi la reazione del re spartano Agide), e che bisognava per il momento proseguire le ostilità. In circostanze del genere, richiamare l’attenzione sui disagi sofferti dalle donne a causa della separazione dai rispettivi mariti, impegnati nel servizio attivo alle armi, può aver avuto come intento di appoggiare il partito pacifista. Aristofane, tuttavia, non credeva certo che si potesse ottenere una pace accettabile a semplice richiesta, e tanto meno può aver supposto che il metodo da lui suggerito di far leva sui sensi fosse qualcosa di più di una fanta­ sticheria, per quanto spassosa. Le cittadine delle città belligeranti si mettono — con qualche riluttanza — d’ac­ cordo nel rifiutare ai propri mariti qualsiasi prestazione sessuale fin quando la pace non sarà stata conclusa. Ciò, in realtà, è incoerente, perché proprio poco prima esse si erano lamentate di esser private del sesso a causa del­ l’assenza dei mariti stessi, ma inconsequenzialità di tal fatta sono tipiche della commedia aristofanea: sciolto dall’impegno alla coerenza, il drammaturgo può libera­ mente sviluppare ogni spunto offertogli dalla fantasia. Le ateniesi in particolare vanno ancora oltre, occu­ pando l’Acropoli a dispetto della polizia e dei vecchi, che tentano di ristabilire l’autorità maschile. Privati dello sfogo sessuale gli uomini, che, ai fini della commedia, sembrano non aver mai sentito parlare di prostitute di condizione servile e tanto meno di quella masturbazione alla quale le donne, più pratiche, avevano intenzione di ricorrere, vengono immediatamente afflitti da erezioni con­ tinue, che il fallo connesso al costume degli attori può aver rappresentato in una forma esagerata. Un’ambasce­ ria, tormentata da quest’inconveniente, giunge allora da Sparta e le due parti, ricordandosi di come in altri tempi si siano offerte aiuto vicendevole, rapidamente raggiun­ gono un accordo; distratti dalle attrattive di una bella ragazza di nome Riconciliazione, anzi, spartani e ateniesi a mala pena si curano di discutere di rivendicazioni ter­ 39

ritoriali, e la commedia si conclude così tra canti e danze di gioia. Ma tutto ciò non è che un desiderio fantastico in un mondo di sogno. Gli ateniesi sarebbero stati ben felici che le loro mire imperialistiche fossero cancellate dal ricordo dei greci per essere sostituite da un sentimen­ tale riandare ai buoni, vecchi tempi, ma, una volta ter­ minata la festa, era con la realtà dei fatti che essi dove­ vano confrontarsi. Non sappiamo quale sia stata l’accoglienza riservata alla Lisistrata, e trarre conclusioni dal silenzio delle fonti può essere pericoloso, ma il motivo per cui nulla ci è testimoniato può benissimo essere che la commedia non si classificò tra le prime tre alle Lenee del 411. Come del resto gli altri autori della Commedia antica, Aristofane usò frequentemente ridicolizzare e malignare a proposito di contemporanei ancora in vita. Ci chie­ diamo dunque se tale pratica intendesse offenderli e dan­ neggiarli sul serio, stimolando un riso di disprezzo. E certo del tutto possibile prendersi amichevolmente gioco di qualcuno che si diverta egli stesso dello scherzo, ed anzi gli uomini politici arrivano a far collezione di pro­ prie caricature tracciate in questo spirito, ma personal­ mente nutro dei dubbi sul fatto che gli zimbelli di Ari­ stofane potessero apprezzare il risalto in cui egli li met­ teva o il fatto che il poeta non era mosso da malizia. « Divertirsi perché a qualcuno va male » è un sentimento per il quale i greci avevano un termine specifico {epichaìrekakia) e che certo gli spettatori di Aristofane avran­ no conosciuto e gustato. Le sue vittime vengono di volta in volta accusate di scrivere in maniera insipida, di^ codar­ dia, di effeminatezza, di omosessualità passiva, di adul­ terio, di puzzare, di estorsione, di peculato e di altri atti e qualità che non rientrano tra gli elementi di uno scherzo amichevole. Si può quindi supporre che le allusioni alla bruttezza fisica o all’obesità o alla povertà intendessero suscitare, a spese dell’uomo preso di mira, un riso cui quest’ultimo non poteva associarsi volentieri. Il concor­ rente della corsa con le fiaccole che, esausto, era arrivato 40

trascinandosi a fatica, sospinto da una pioggia di pacche da patte del pubblico, non avra certo gradito il ricordo di quella sua magra figura alla pari degli altri ateniesi, divertiti dalla sua umiliazione (Rane 1089 sgg.). Tra i personaggi attaccati da Aristofane tre sono ancora per noi figure vive, e cioè Cleone, Euripide e So­ crate. Nessun dubbio ci può essere sul fatto che egli odiasse il primo, tanto per motivi personali, poiché l’uomo politico, dopo il primo attacco, aveva tentato di restituire il colpo, quanto perché vedeva in lui un dema­ gogo venuto dal nulla, giunto al potere allettando il popolo a spese delle casse dello Stato, e per di piu un fautore della guerra e non della pace. Il fatto che Cleone reagì mostra che egli riteneva gli attacchi del poeta in qualche modo pericolosi, ma in sostanza non deve esser­ sene preoccupato eccessivamente dal momento che la plebe d’Atene non cessò di favorirlo. Mentre non è possibile scoprire nelle opere di Ari­ stofane nessuna sfumatura di simpatia per Cleone, ri­ guardo ad Euripide la questione non e altrettanto sem­ plice. Le accuse più serie che gli vengono rivolte puntano sul fatto che i suoi drammi sono pieni di donne dalla immorale condotta sessuale e che i suoi personaggi, ma­ schi e femmine, liberi e schiavi, parlano e ragionano troppo, facendosi portatori di idee nuove. Tutto ciò non solo viene considerato non-tragico, ma rappresenta, agli occhi di Aristofane, anche un cattivo esempio. E tut­ tavia Euripide può darsi che non abbia sentito una tale critica come avversa; in realtà egli voleva che le sue tra­ gedie fossero quel che erano, ed a molti esse piacevano proprio così. . Del resto, il frequente uso di versi di Euripide m con­ testi nuovi e paradossali o la loro citazione in forma leg­ germente distorta può essere addirittura preso per un complimento, poiché mostra con quanta attenzione Ari­ stofane ne ascoltasse e leggesse le tragedie, e fino a qual punto si può supporre che anche buona parte del pub­ blico avesse familiarità con esse. Il ripetuto scherzo sugli eroi straccioni, per esempio, adoperato anche da altri 41

commediografi, deve la sua comicità proprio all’iterazione, ed Euripide può in qualche modo aver acquistato credito per averne offerta l’occasione. Dal punto di vista intel­ lettuale è probabile che Aristofane addirittura disappro­ vasse la maniera euripidea di comporre tragedie, ma egli sarebbe stato pronto a condividere la battuta di Dioniso: « Considero Eschilo saggio, ma la mia delizia è Euripide ». Dal momento che Socrate è un eroe fisso per il mondo moderno, il trattamento riservatogli da Aristofane non viene talora preso per quel che appare. La storia imma­ ginaria raccontata nel Simposio platonico, secondo la quale furono entrambi presenti ad un banchetto in onore del tragediografo Agatone, un altro individuo di cui Aristo­ fane si prende gioco, viene considerata una prova della buona amicizia che avrebbe unito i tre. Nell 'Apologia, tuttavia, lo stesso Platone dichiara di credere che le Nuvole siano state causa di pregiudizio contro Socrate ed abbiano contribuito alla sua condanna; ed in realtà è difficile sfuggire alla conclusione che questa commedia intendesse danneggiarlo. Fu una innocua presa in giro la rappresentazione del filosofo come del capo di una scuola i cui alunni, chiusi dentro, venivano tenuti lontani dal­ l’aria aperta mentre il maestro era tutto intento a spie­ gare da quale estremità di una zanzara provenisse il ron­ zio, ad indagare l’orbita della luna, ed a montare in un cesto appeso per aria perché Se stavo a terra, dal basso scrutando le superne cose, nulla scoprivo. Egli è che la terra per forza trae verso se stessa l’umore del pensiero. Parimente occorre al crescione! Tutto ciò è infatti una caricatura dell’intellettuale come appare agli occhi dell’uomo comune, uno svitato malaticcio ed eccentrico tutto dedito ad infruttuose ricer­ che; ed il quadro, nel caso di Socrate, è semplicemente non vero, ma non lo rappresenta certo come pericoloso. Più seria fu per il filosofo l’accusa di venerare non Zeus ma le nuvole, l’aria ed il « turbine cosmico », ed ancora peggio fu il rappresentarlo come possessore di un « Di­ 42

scorso immorale » capace di mettere in rotta il « Discorso morale ». Non importa, infatti, che la contesa tra i due Discorsi sia condotta e conclusa in termini burleschi, dal momento che il Discorso immorale prevale quando co­ stringe il Discorso morale ad ammettere che ogni spetta­ tore è stato un effeminato e lo induce ad unirsi d’im­ pulso alla schiacciante maggioranza. Il pubblico in genere si diverte quando è fatto oggetto di insulti assurdamente esagerati, e gli ateniesi non avranno certo pensato che Aristofane approvasse il risultato della disputa. Le sue conseguenze divengono però evidenti quando il giovane Fidippide diviene allievo del vincitore — un allievo che di mala voglia si accorda con il maestro ma tradizional­ mente obbediente — ed arriva a battere il padre ed a provargli per giunta che si sta comportando bene. Questi sono i risultati dell’educazione socratica, e la commedia si conclude con un incendio doloso, ispirato dal dio Er­ mes, alla casa di Socrate, un attentato alla sua vita ed a quella dei suoi discepoli. Questa scena, non un’innocua presa in giro ma un incitamento alla violenza, fu inserita per la prima volta nella seconda, incompiuta versione della commedia, che nella redazione originaria aveva ri­ scosso un successo limitato, classificandosi al terzo posto. Pare quindi che Aristofane sperasse, inasprendo il suo attacco a Socrate, di guadagnarsi un favore maggiore e, nonostante che per noi rimanga dubbio se abbia condi­ viso fino in fondo i fraintendimenti popolari nei confronti del filosofo, è certo che, in quanto scrittore di teatro, egli vedeva bene che essi potevano essere utilizzati come ingredienti per scrivere una commedia di successo.

Capitolo terzo LA COMMEDIA ANTICA

Il termine « Commedia antica » si applica alle comme­ die prodotte ad Atene nel corso del quinto secolo a.C. L’anticliità considerò suoi esponenti di punta Eupoli, Cre­ tino ed Aristofane, assegnando senza alcun dubbio a que­ st’ultimo la palma del più grande. Per nostro conto, non siamo in condizione di valutare la fondatezza di questo giudizio, che portò alla conservazione di undici commedie di Aristofane e di nessuna degli altri. Eupoli, tuttavia, era ancora copiato e letto in Egitto nel ^quarto secolo d. C., e Cratino nel secondo o terzo, e ciò sicuramente tanto in grazia dei loro meriti letterari quanto dell’inte­ resse che essi avevano per gli ammiratori della grecità cl assica Nei Cavalieri (424 a. C.) Aristofane rese omaggio al vigore del Cratino di una volta, quando, come un torrente in piena, egli « trascinava con se querce e platani, e sradicava i suoi avversari », quando i suoi canti lirici entravano nel repertorio di ogni banchetto. Ma con l’an­ dar degli anni e col bere, il vecchio poeta si è ora rammolito e merita — propone Aristofane di esser messo in pensione al Pritaneo con vino gratis ed un posto^ fisso a teatro a fianco dello stesso Dioniso. Proprio 1 anno seguente, tuttavia, Cratino fece la sua rentree, battendo le Nuvole di Aristofane con la Pytinè (cioè la Damigiana). In questo dramma il poeta metteva in scena se stesso come marito di Commedia, e lasciava che quest’ultima si lamentasse di esser stata abbandonata a favore di Eb­ brezza: « Una volta ero sua moglie, ora non più ». Solo 45

il sopraggiungere degli amici del poeta riusciva ad indurre la moglie tradita a non intentargli causa per maltratta­ menti; qualche verso sopravvissuto suggerisce un piano per redimere il poeta traviato: Come si potrà farlo smettere di bere, dal troppo bere? Io lo so. Gli romperò i recipienti; a colpi di fulmini gli riduco in cenere le anfore e tutti gli altri vasi, sì che non gli resterà nemmeno un bicchiere per un quartino (trad. C. Del Grande). Alla lite sembra tuttavia che seguisse una riconcilia­ zione, quando qualcuno faceva notare che l’ispirazione di un poeta è nel vino, non certo nell’acqua. Oh! Signore Apollo, che fiume di parole! Fontane can­ tano, dalla bocca gli scrosciano dodici rivi: l’Ilisso è nella sua gola. Che potrei dire di più? Se non gli si chiude la bocca inonderà tutto coi versi (trad. C. Del Grande). La carriera drammatica di Eupoli ricade per intero nel periodo della guerra del Peloponneso; delle sue com­ medie, quattordici erano ancora note agli studiosi più tardi e, tra di esse, non meno di sette avevano conqui­ stato a suo tempo il primo premio. Sembra che egli abbia condiviso il disprezzo di Aristofane, del quale era prati­ camente coetaneo, per i nuovi « leader popolari » della democrazia, e pretendeva anzi di averlo aiutato nella com­ posizione dei Cavalieri (forse un’accusa di plagio), mentre Aristofane, dal suo canto, lo incolpava, nella versione rie­ laborata delle Nuvole (vv. 553-6), di aver alterato in ma­ niera infame i. Cavalieri stessi, per attaccare il demagogo Iperbolo, nella sua commedia Marikàs, « alla quale egli ha aggiunto, per farle ballare il kordax ', una vecchia ubriaca, un personaggio messo in scena già tanto tempo fa da Frinico ». Frinico era un altro contemporaneo, la cui prima commedia fu rappresentata nel 429. Non si può fare a meno di chiedersi se le opere rima1 Una danza triviale.

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steci di Aristofane possano essere considerate come tipi­ che della Commedia antica; per scarsi che siano i fram­ menti degli altri autori, ce n’è tuttavia a sufficienza per mostrare che in diversi aspetti egli o seguì una pratica preesistente o fece ciò che anche altri poeti suoi contem­ poranei stavano facendo. _ . . In primo luogo, è chiaro che i cori aristofaneschi si inserivano nel solco di una tradizione ormai affermata; assai frequentemente infatti il coro dava il nome alla commedia, e noi sappiamo di opere intitolate Capre, Gri­ foni, Formiche, Api ecc., corrispondenti alle Vespe, Uc­ celli e Rane di Aristofane. In altre commedie i coreuti erano — anche qui come talora in Aristofane trf v^" stiti da donne (Donne in fuga, Donne di Tracia, Vecchie), ed infine c’erano delle personificazioni paragonabili alle Nuvole: Ricchezze, Demi, Costumi. . . . Neppure la parabasis, l’interrompersi dell’azione m cui il coro si indirizza direttamente agli spettatori, era una invenzione originale di Aristofane, poiché essa appare in alcune commedie di Cratino, appartenuto ad una gene­ razione precedente, come pure in opere del suo coetaneo Eupoli e di altri con cui gareggiò; c’è anche sufficiente materiale per provare che non fu Aristofane il creatore di quello schema simmetrico, pienamente messo in evi­ denza nelle sue prime quattro commedie e negli Uccelli, formato da cinque elementi: 1) anapesti; 2) un canto {ddé); 3) sedici o venti versi trocaici lunghi (epirrhema); 4) un secondo canto (antddé); 5) altri sedici o venti versi trocaici lunghi (antepirrhéma). _ . Gli altri poeti usarono gli anapesti introduttivi, come anche Aristofane di solito fece, per parlare in prima per­ sona, lodando se stessi ed attaccando i rivali, e ci sono diversi passi in cui ci si scusa di questa pratica, che era dunque, a quanto pare, un’innovazione; è certo poco vero­ simile che essa sia stata una caratteristica originaria, e con ogni probabilità si trattò di un portato della competizione tra gli autori. Metricamente, gli anapesti non^ erano di rigore, tanto è vero che Eupoli talvolta li sostituì, come pure Aristofane nelle Nuvole, con un verso che porta il 47

suo nome, e non mancano tracce di altre possibili varianti. Anche di un altro schema formale ricorrente in molte commedie di Aristofane, per quanto non negli Acarnesi, si può congetturare un’origine anteriore al nostro poeta. Lo schema in questione appartiene a quella parte della rappresentazione comica che gli studiosi moderni chiamano agón (cioè « gara »). I rappresentanti di due diversi punti di vista vengono qui opposti l’uno all’altro, ed espongono a turno le proprie ragioni, interrotti da imbarazzanti inter­ venti per lo più da parte dell’avversario, ma anche da parte di un personaggio che si comporta da buffone. I loro discorsi, spesso conclusi da uno priìgos, cioè da un brano recitato senza prender fiato, sono entrambi intro­ dotti da un canto e da frasi di incoraggiamento del coro, il quale coro chiude anche talvolta 1’agdn stesso, emet­ tendo un verdetto. Nella sua forma più perfezionata, Yagón è quasi perfettamente simmetrico, e così negli Uc­ celli i due canti si corrispondono sillaba per sillaba, le frasi di incoraggiamento sono formate ciascuna da due tetrametri anapestici, ed ambedue i discorsi immediata­ mente seguenti, compresi gli interventi esterni, occupano sessantuno tetrametri anapestici, seguiti da sedici dimetri sempre anapestici. Ad esser precisi, questa commedia mostra, per così dire, la forma dell’agdn pur non presen­ tando una vera e propria contesa, dal momento che Pistetèro sostiene in entrambe le metà la stessa causa. Ma nei Cavalieri, dove il Paflagone ed il salsicciaio sono veri e propri avversari, la corrispondenza formale è solo di poco meno stringente. La maggioranza delle commedie di Aristofane con­ tiene allusioni politiche, e molte di esse nascono dalla situazione contingente e sarebbero inconcepibili senza di essa; che egli non fosse il solo a sentirsi coinvolto negli affari della città è mostrato in questo caso dai Demi di Eupoli. Scritti per essere rappresentati nel 412, subito dopo che il disastro di Siracusa aveva messo Atene di fronte ad una prospettiva di distruzione, essi mettevano in scena i grandi statisti del passato, richiamati dall’altro mondo per consigliare la città nell’ora del bisogno. Pos­ 48

sediamo alcuni enigmatici ma significativi frammenti della parabasis, ed anzitutto delYantddé: Poi dicono che Pisandro fu torturato2 ieri a colazione per aver rifiutato di nutrire uno straniero che non aveva cibo; e Pausone se la prese con Teogene perché aveva man­ giato a crepapelle con una delle sue navi, gli diede una basto­ natura una volta per tutte e lo torturò per benino; e Teo­ gene restò paralizzato a spetezzare per tutta la notte. Anzi­ tutto dunque dovrebbe essere torturato Calila, e con lui quelli dei Lunghi Muri, perché mangiano meglio di noi... È chiaro che ci si riferisce a tempi di restrizioni ali­ mentari; i primi due individui attaccati erano ben noti ghiottoni, ed il terzo era un ricco, mentre Pausone è men­ zionato da Aristofane due volte come un personaggio famelico, ed una volta è definito « un perfetto furfante ». L’antepirrhéma accusa un demagogo, forse Iperbolo, di non essere attico di nascita, di esser stato un « prosti­ tute » e di aver proposto di trattare come criminali alcuni generali che avevano consigliato di prestare maggiore at­ tenzione agli ammonimenti divini contro l’invio di una spedizione a Mantinea, probabilmente quella del 418, conclusasi con un insuccesso. Le beffe nei confronti di singoli individui erano una caratteristica comune a tutti i commediografi sui quali possediamo un numero sia pur limitato di testimonianze. Diverse tra le vittime di Aristofane le ritroviamo anche nei frammenti dei suoi rivali, ed almeno tre altri poeti fecero di Socrate il proprio obiettivo polemico. 11 fram­ mento 352 di Eupoli così suona: Odio anche Socrate, quel miserabile chiacchierone, che a tutto ha pensato tranne che a come procurarsi il pasto del giorno dopo. 2 II significato del termine greco è incerto. Personalmente preferisco riferirlo ad un qualche tipo di tortura, ma alcuni riten­ gono, non senza plausibilità, che esso significhi « sodomizzato »,

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I politici — Pericle, Cleone, Iperbolo ed altri — sono fortemente satireggiati. I critici più tardi non solo indi­ carono costantemente in questi attacchi personali una caratteristica di fondo della Commedia antica, ma ten­ dono anche a considerarli giustificati e salutari. Orazio scrive (Satire 1, 4, 1-5): I poeti Eupoli, Cratino ed Aristofane, e gli altri grandi che crearono la commedia antica, non si trattennero dallo stigmatizzare chiunque meritasse di essere segnalato come un cattivo soggetto o un ladro, o un adultero o un assassino, o un individuo malfamato per qualche altro motivo. Questa descrizione sembra adattarsi in particolare a Cratino che, secondo un tardo anonimo, « aggiunse uti­ lità al fascino della commedia denunziando i malfattori e punendoli nelle sue commedie con una pubblica basto­ natura ». Per quanto Orazio dia un’impressione esagerata degli intenti moralizzatori dei nostri commediografi e della perversità delle persone attaccate, egli non cade nell’er­ rore di considerare il loro atteggiamento come di affet­ tuosa canzonatura; essi intendevano, al contrario, sfrut­ tare fino in fondo l’impopolarità e l’eccentricità dei loro bersagli. Spesso Aristofane, una commedia dopo l’altra, si riferì ai vizi e ridicolizzò costumi ed azioni sempre delle stesse persone: è degno di nota il fatto che egli non fu il solo a fare ciò, ma che anche gli altri commediografi le fecero oggetto di attacchi. Quei personaggi erano diventati figure di repertorio del teatro comico, ed i riferimenti alle loro persone erano per questo, agli occhi del pubblico, i più efficaci. Alla gente piacciono le novità, ma anche ciò che è familiare è amato e se, alla fine, di quest’ultimo ele­ mento ci si può stancare, le sue attrattive sono però tutt ’altro che effimere. Agli spettatori ateniesi piaceva che si ricordasse, ad esempio, il loro disprezzo per Cleonimo — di cui si diceva che avesse gettato lo scudo dandosi alla fuga — ed essi non avranno badato a quante volte ne avevano già ascoltato la disavventura. 50

Allo stesso modo c’erano motivi di repertorio ripetuti di commedia in commedia, ed è qui facile trovare paral­ leli moderni nelle farse e nei fumetti di più basse pre­ tese: la suocera impicciona o il marito dominato dalla moglie e costretto a lavare i piatti in cucina. Più volte Aristofane afferma di non abbassarsi ad utilizzare un materiale così rudimentale, per esempio quando dice: Se il premio però lo devono dare, figlia di Zeus, a chi riesce il migliore commediografo del mondo, ed anzi il più famoso, il nostro poeta dice che ha diritto lui al massimo riconoscimento. Prima cosa: lui solo ha costretto gli avver­ sari a non sfottere gli straccioni, a non pigliarsela coi pidoc­ chiosi. Lui il primo ha sbattuto fuori a calci i soliti Eracli mangiapagnotte e morti di fame. L’ha fatta finita coi soliti schiavi, che scappano dopo un’imboscata o li suonano a do­ vere e in scena non fanno che spargere lacrime. Il tutto per­ ché un altro servo chieda, sfottendo per le mazzate: « Po­ veruomo, che ti è venuto sulla pelle? Si è avventata la frusta magari, e ti ha rovinato la schiena. Che incursione! ». Questi particolari motivi in realtà non ricorrono nella Pace, da cui è tolto il passo citato (vv. 734-47), ma la maggior parte di essi possono essere reperiti in altre sue commedie. Aristofane non fa a meno dei temi di reper­ torio utilizzati dagli altri commediografi, perché sa che il pubblico li ama. Forse egli faceva, però, poco affidamento sulla loro comicità intrinseca e preferiva utilizzarli solo come un elemento accessorio in scherzi di altra natura. L ’inizio delle Rane illustra questo atteggiamento: Dioniso entra con il suo schiavo Santia che, a cavallo di un somaro, porta, bilanciandolo con un’asta sulla spalla, un grosso fagotto. Santia Ne dico una delle solite, padrone? Ci ridono sempre, gli spettatori. Dioniso Quello che vuoi, perdio: ma non « Sono sfondato ». Fanne a meno: dà sui nervi. Santia Una più fina, magari? Dioniso Non « Sono fottuto », però! Santia Allora che? La dico, la spiritosaggine vera? 51

Dioniso vieta un paio di scherzi osceni, dopo di che Santia continua: « Allora che scopo ha, portare tutta que­ sta roba? Non posso nemmeno fare le solite cose di Frinico, Liei, Amipsia ». Senza dubbio quando poco dopo Santia esclamava: « Mi si sta rompendo... la spalla », il pubblico dovette scoppiare in una risata. C’è in Aristofane una gran massa di oscenità sessuali e talora scatologiche, ed i frammenti che abbiamo dei suoi contemporanei confermano la sua osservazione che anche essi vi indulgevano. Alcuni moderni hanno cercato di attenuare questo elemento ritrovando nell’oscenità rituale un’origine religiosa e sostenendo che essa, in particolare per le feste in onore di Dioniso, era tradizionale ed appro­ priata. Se in questa teoria c’è qualcosa di vero, gli spet­ tatori si saranno aspettali di essere intrattenuti in tal modo, perché quell’elemento aveva da sempre fatto parte del programma. Ciò che essi si attendevano, tuttavia, non era una cerimonia religiosa, ma un divertente spettacolo. Il senso greco della decenza non coincideva certo con il nostro, ma sicuramente per molti, se non per la mag­ gioranza, un qualche sentimento di pudore si ricollegava agli atti sessuali ed alla defecazione. Se esso non ci fosse stato, infatti, non ci sarebbe stato nemmeno bisogno di utilizzare, in letteratura, degli eufemismi al posto dei ter­ mini volgari. Proprio in quanto la Commedia antica greca parla dunque apertamente di parti del corpo ed atti mate­ riali che non erano probabilmente tra gli abituali soggetti di conversazione giornaliera, ciò può aver fornito uno sfogo alle inibizioni. E questo sfogo sarà stato tanto più grande quanto più questi atti saranno stati presentati, attraverso l’esagerazione e gli scherzi, come assurdi e ridi­ coli; in Aristofane c’è molto di tutto ciò. Ma la questione presenta anche un altro aspetto. Ap­ pare chiaro, infatti, che un uditorio del quinto secolo, o una gran parte di esso, era pronto a ridere di cose in

cui il lettore di questo libro non troverà probabilmente nessun motivo di divertimento, come l’incontinenza visce­ rale o la sodomia; possiamo apprezzare le battute a pro­ posito di questi argomenti, ma non li consideriamo diver­ tenti in se stessi. Allo stesso modo possiamo scherzare sui pazzi, ma non andiamo a visitare i manicomi per diver­ tirci, come pure i nostri antenati del diciottesimo secolo facevano. Aristofane non fu solo nemmeno nel suscitare ilarità parodiando la tragedia o alludendo ad essa. I suoi metodi sono ancora utilizzati dai comici moderni, ma egli godeva del vantaggio di avere un pubblico di veri frequentatori della tragedia, che assistevano con ogni probabilità a tra­ gedie nel corso della stessa festa e nello stesso teatro in cui le commedie venivano rappresentate. La forma più semplice di parodia era costituita dall’introduzione di ter­ mini tratti dallo stile tragico, che si serviva di molto ma­ teriale lessicale aulico ed estraneo all’attico ordinario. Messo in bocca ad un personaggio di infimo rango, un tale linguaggio appariva comicamente inadatto, specialmente se mescolato a frasi di tutti i giorni ed a collo­ quialismi. Talora si usavano metri destinati tradizional­ mente alla poesia seria, ed anche il trimetro giambico, il metro più comune per le parti dialogate, poteva essere costruito secondo le regole meno elastiche impiegate nella tragedia, così da suggerire un’incongrua elevazione stilistica. La parodia si fa più puntuale se da un tragediografo si riprendono singoli versi, tanto alla lettera (quando la burla consiste nel loro trasferimento in un contesto co­ mico) quanto con la sostituzione o l’aggiunta di una pa­ rola o di una frase con effetti di ridicolo stravolgimento. Quanto più un verso, nella sua nuova collocazione, pare cadere a proposito, tanto più tagliente è l’impatto dello scherzo e tanto più grande è l’ammirazione per l’abilità del comico. Un esempio assai riuscito e prolungato ci è offerto nelle Rane, quando Euripide si vede decretare la sconfitta da un Dioniso che si serve, per farlo, di versi da lui stesso scritti.

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Dioniso Coraggio, perdio: ma attento a non dire quella... Santia Quale?

Dioniso « Prendo cui l’anima inclina » 1468 Euripide Ricordati del giuramento, l’hai fatto sugli dei: portati me a casa, preferisci gli amici. 1470 Dioniso « La lingua giurò... »: io però scelgo Eschilo! Euripide Che combini, traditore fottuto?! Dioniso Io? Per me ha vinto Eschilo: perché no?! Euripide Mi guardi pure in faccia, dopo un’azione simile? Dioniso Che azione? Se la gente non si scompone! 1475 Euripide Animale, morto per sempre mi vuoi vedere? Dioniso « Chi sa che morire non sia la vera vita », ingozzarsi respirare, una fetida pelle dormire...? I versi 1471 e 1475 distorcono famosi versi euripidei: La lingua ha giurato, ma il cuore mai ha giurato e Cosa c’è di vergognoso, se chi l’ha fatto non la pensa così? Il verso 1477 si sa che è ripreso alla lettera; i versi 1469-70 hanno tutta l’aria di un’altra deformazione, e non sarebbe sorprendente se anche i versi 1468 e 1474 risul­ tassero tratti da Euripide. C’è un aspetto, tuttavia, per il quale le commedie di Aristofane rimasteci non offrono un quadro fedele della Commedia antica. Esse non rappresentano in pieno la sua ampiezza di temi ed in particolare non includono nessun esempio di burlesque mitologico. Opere di questo tipo godettero di una popolarità sempre crescente col tempo, e lo stesso Aristofane ne scrisse diverse, che tuttavia non ci sono pervenute. Per fortuna, la trama del Dionysalexandros di Gratino ci è, nel complesso, ben nota; in esso una parte della leggenda riferita di solito al principe troiano Paride, alias Alessandro, era trasferita al dio Dioniso. Il riassunto offertocene da un papiro così si esprime: ... Ermes esce. Essi (probabilmente dei satiri) parlano agli spettatori (cioè all’uditorio) a proposito dei poeti, e prendono 54

in giro Dioniso quando questi compare sulla scena... Era gli offre un’incrollabile dominio da despota, Atena fortuna in guerra, ed Afrodite gli promette di renderlo bellissimo ed affascinante. Egli giudica vincitrice quest’ultima e, dopo aver fatto vela alla volta di Sparta, se ne torna con Elena all’Ida (il monte di Troia); poco dopo viene a sapere che gli Achei (cioè i greci) stanno mettendo a ferro e fuoco il paese... Ales­ sandro. Nascondendo prontamente Elena in un cesto, si tra­ sforma in un ariete ed aspetta gli eventi. Arriva in scena Alessandro, li scopre ed ordina che siano entrambi condotti alle navi, intendendo riconsegnarli agli Achei. Ma Elena è riluttante ad andare e, impietositosi, Alessandro la prende allora in moglie, mettendo tuttavia alla porta Dioniso perché sia restituito. I satiri seguono il dio, dicendogli di non pren­ dersela e promettendogli che non lo abbandoneranno mai. Il riassunto si conclude con le parole: « Viene così messo alla berlina Pericle, insinuando che fu lui a por­ tare la guerra agli ateniesi ». Questa nota, che suggerisce una datazione della commedia al 430, è una testimonianza preziosa del fatto che i soggetti mitologici non esclude­ vano riferimenti politici contingenti. Un altro esempio di ciò ci è offerto dai Cheirones dello stesso autore (cioè Chirone e C.), frammenti dei quali si riferiscono, senza nominarli, a Pericle ed alla sua amante Aspasia: « Discor­ dia e il vecchio Crono giacquero assieme e generarono un potente tiranno, che gli dei chiamarono ‘ sollevatore di teste ’... e Lascivia generò per lui Era, una amante ‘ dal­ l’occhio di cagna ’ ». Zeus era chiamato « sollevatore di nubi » (nephelégeretàs) e Pericle, che aveva una nuca molto alta, è qui adombrato da kephalègeretàs, « solle­ vatore di teste »; Era veniva chiamata bodpis, « dall’oc­ chio bovino », appellativo rimpiazzato qui da kynópis, « dall’occhio di cagna ». Sembra ci siano state anche commedie che compren­ devano, in contrasto con le fantasie di Aristofane, _scene realistiche tratte dalla vita del tempo, e caratterizzate, piuttosto che da battute volgari, da una comicità sobria. A. B.

Sono uscita dal bagno mezza bollita, ed ho la gola secca. Ora ti do qualcosa da bere. 55

A Dio mio! Ho la bocca tutta impastata! B. Dove ti devo versare da bere? Nel bicchiere piccolo? A. No no, non nel piccolo! Mi fa sentire subito malata, da quando una volta bevvi una medicina in un bicchiere del genere. Riempimi il mio, presto, quello più grande. [...]

A. È imbevibile, Glice! d ic e Forse ci ho messo troppa acqua? A. Sbagliato! Non c’è che acqua! . Glice Cosa hai fatto? Maledizione a te, che misure hai usato. B. Due di acqua, mamma. Glice E di vino? B. Quattro. . . , j Glice Che il diavolo ti prenda! Avresti dovuto versar da bere a delle rane3. Queste battute sono tratte dalla Corianno di ^erecrate, scritta probabilmente durante la guerra del Pelo­ ponneso. Corianno, da identificarsi con ogni verosimi­ glianza nella A dei nostri versi, era una cortigiana, ma è incerto se essa fosse un personaggio realmente esistito ad Atene o del tutto inventato. Di Ferecrate ci è riferito che non indulse alle maldicenze ad personam e che tu più che altro un fertile ideatore di trame. Tutto ciò sug­ gerisce che egli sia stato un battistrada sulla via destinata ad essere percorsa dalla commedia nel secolo seguente. Sulle origini della commedia antica sono stati versati fiumi d ’inchiostro, ed alcuni critici, con i quali io stesso tendo a convenire, ritengono si sia trattato, in conside­ razione della estrema scarsità di testimonianze, di sforzi diretti per la maggior parte in direzione sbagliata. Le piu antiche commedie a noi conservate furono scritte cin­ quantanni dopo l’introduzione della commedia nelle Dionisie cittadine, e la loro forma può in una certa misura essere non tradizionale ma inventata da poeti del quinto secolo o anche precedenti. D ’altra parte, la commedia non

si formò certo dal nulla nel momento in cui ricevette il riconoscimento ufficiale. Aristotele sapeva, o congetturava, che c’erano state in precedenza commedie messe in scena per iniziativa privata, e che già queste possedevano forme proprie. Ma cosa esse fossero in concreto egli non lo dice (Poetica 1449b 1-3). Aristotele, alla ricerca delle origini della commedia ateniese, sembra aver puntato in due direzioni, e cioè da una parte al dialogo tra un coro di « canti fallici » ed il suo capo, dall’altra all’influsso del dramma siciliano, nel quale vedeva la fonte delle « trame ». Chiaramente, di­ cendo ciò, egli pensava ad Epicarmo che, a Siracusa, scrisse commedie in versi tra la fine del sesto e l’inizio del quinto secolo. Non v’è nulla, nei frammenti a noi rimasti della sua opera, che suggerisca l’uso di un coro da parte di Epicarmo, tranne pochi titoli al plurale, per esempio Persiani, Danzatori, Cittadini, Sirene, che pos­ sono però riferirsi benissimo a personaggi delle rispettive commedie. Molti dei suoi personaggi erano tratti dalla mitologia: Alcioneo, Amico, Busiride, Filottete, la Sfinge ecc.; quasi la metà, e forse più, erano di questo tipo. Eracle, ad esempio, era un personaggio che di per se stesso si prestava alla commedia; un eroe così forzuto, deve essere per forza un gran mangione: C’è da morire a vederlo mangiare! un ruggito si alza dalla sua gola, sfracassano le ganasce, i molari cigolano, i canini stridono, soffia dalle nari e sventola le orecchie (fr. 21). Altre commedie concernevano invece i tempi stessi di Epicarmo, come appare chiaro da questo estratto da una commedia intitolata Speranza (o alternativamente Ric­ chezza), in cui si anticipa la commedia ateniese dei tempi di Aristotele, tratteggiando quel tipo umano più tardi battezzato col nome di « parasita »:

3 Le proporzioni normali della mistura, in realtà, avrebbero dovuto essere due misure d’acqua ed una di vino. Bere vino puro o pressoché puro era considerato un segno di sregolatezza.

Per desinare con chi mi vuole basta che mi si inviti e, con chi non mi vuole, d’invito non c’è bisogno. Là sono il buffo della compagnia, faccio ridere molto, lodo chi offre il

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banchetto, e se qualcuno poi osa contraddirlo, l’insulto e mi ci sdegno. Così dopo aver mangiato e bevuto in abbondanza, vado via; e, senza un servo che mi porti la lucerna, muovo, inciampo, tutto solo nel buio; e, se m’incontro con la guardia di ronda, chiedo agli dei una sola grazia, che quelli si conten­ tino di frustarmi, e nulla più. Tornato a casa, mezzo pesto, dormo senza coperte; e non me ne accorgo, sino a che il vino bevuto mi ottenebra la mente (fr. 35; trad. B. Marzullo). Epicarmo fu di poco più anziano dei primi comme­ diografi ateniesi di cui conosciamo i nomi, e può quindi aver esercitato qualche influenza su di essi; ma questo è tutto quello che si può dire, e nulla conferma la teoria che il suo influsso sia stato determinante. La seconda origine aristotelica della commedia, e cioè il dialogo tra un coro « fallico » ed il suo capo, ha almeno il merito di spiegare la larga parte rivestita dal coro nella commedia ateniese. C’erano in Attica delle cerimonie nelle quali si esponeva un grosso fallo eretto, simbolo di ferti­ lità, e si eseguivano dei canti; coloro che vi prendevano parte non portavano tuttavia dei finti falli, accordandosi in ciò con i coreuti comici. Una cerimonia di tal fatta è rappresentata negli Acarnesi, ma solo incidentalmente, e non ha alcun ruolo in nessun’altra commedia. Semo, un autore originario dell’isola di Deio che scrive forse nel secondo secolo a. C., descrisse l’ingresso dei portatori di fallo in un teatro (non ci è detto di quale città), dove, dopo aver recitato dei versi, essi si precipitavano verso gli spettatori prendendosi gioco delle persone su cui tro­ vavano da ridire; e questo ci rimanda alla gran parte avuta dalle beffe personali nella Commedia antica. Nulla prova, tuttavia, che dei cori « fallici » abbiano mai scambiato battute con il loro capo, o che essi abbiano mai « reci­ tato », il che vuol dire rappresentato personaggi altri da se stessi. Si può allora sospettare che Aristotele, ritenendo che la tragedia fosse sorta dal dialogo tra un coro diti­ rambico ed il suo capo, abbia immaginato anche per la commedia un’origine parallela. Altrove lo stesso Aristotele ci riferisce che i mega­

resi, tanto quelli confinanti con Atene quanto quelli emi­ grati in Sicilia, pretendevano di aver dato origine alla commedia. I secondi, infatti, pare abbiano asserito che Epicarmo era stato dei loro prima di trasferirsi a Sira­ cusa, mentre è certo che i megaresi di madrepatria ebbero rappresentazioni comiche al tempo di quest’ultimo. Uno degli schiavi il cui dialogo apre le Vespe può alludere a qualcosa del genere quando dice agli spettatori di « non aspettarsi risate rubacchiate da Megara », e similmente Eupoli scrisse: « Eracle, questa tua beffa è oltraggiosa, megarese e del tutto insipida: come vedi, hai fatto ridere solo i bambini ». Recitare, e recitare per far ridere, è in effetti un’atti­ vità umana largamente diffusa: i bambini lo fanno spon­ taneamente. È di primo acchito probabile che una qualche forma di recitazione comica si sia realizzata in diverse città. Anche a Sparta « c’era una forma di scherzo comico di tipo antico... si soleva rappresentare ladri di raccolti, o un medico straniero, servendosi di un linguaggio sem­ plice e ordinario... e quelli che si dedicavano a questo tipo di gioco erano chiamati deikelistai [deikeliktai nel locale dialetto dorico] ». Ateneo, che ci riporta questa tradizione, aggiunge che c’erano « attori » del genere a Siracusa, a Tebe, in Italia ed altrove, e che essi avevano vari nomi tra i quali « improvvisatori » e « volontari ». A Sicione essi erano detti « portatori di fallo », a meno che il termine non voglia in questo caso significare « (uo­ mini) vestiti con il fallo », da confrontare quindi con gli attori ateniesi. Le rivendicazioni da parte di Megara sul­ l’origine della commedia possono essersi appoggiate su una persistenza locale di forme primitive di rappresenta­ zione drammatica, laddove ad Atene esse erano già state — nello stesso periodo — superate e dimenticate, col risultato che dell’origine primitiva della commedia ate­ niese non si conservasse più memoria. La parola « commedia » è in greco kòmoidia, cioè « canto del kómos », che vuol dire « baldoria »; una deri­ vazione alternativa da komi, « villaggio », già antica, è linguisticamente errata, ma è d’altro canto abbastanza

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probabile che i « villaggi » conoscessero le « baldorie ». Queste baldorie, connesse disinvoltamente a banchetti e bevute, si realizzavano attraverso danze, canti e proces­ sioni, e potevano ricondursi al culto per qualche dio, in particolare per Dioniso. I partecipanti a festini di tal fatta è probabile che adottassero molte e diverse maniere di divertirsi; poteva essere gustoso, per esempio, andare a cantare sboccate « serenate » sotto le finestre di qualche impopolare personaggio, o dare libero sfogo alle diffuse inclinazioni umane all’imitazione e alla parodia. In tale direzione è possibile ricercare un’origine plausibile per la commedia, e ciò spiegherebbe l’associazione di danzatori e cantanti con attori e la preminenza data alla presa in giro di singoli personaggi. Ci sono infine alcune testimonianze artistiche, non numerose, che possono però essere rilevanti. Diversi vasi ateniesi del tardo sesto secolo o dei primi del quinto mostrano gruppi di uomini travestiti allo stesso modo, talvolta mascherati, che danzano accompagnati da un flau­ tista. Essi sono mascherati da uccelli, o da donne, o uniti a coppie di cavaliere e cavallo; altri sono rappresentati su delfini o struzzi, o camminano sui trampoli, portando copricapi sciti. Gruppi così travestiti erano probabilmente caratteristici di qualche festa, ed in essi si possono vedere i predecessori di diversi cori della Commedia antica.

Capitolo quarto LA COMMEDIA NUOVA

« Commedia nuova » è il nome che, adottando la ter­ minologia degli eruditi antichi di età più tarda, anche noi diamo alle rappresentazioni non tragiche scritte nel periodo seguente alla morte di Alessandro. Le commedie di que­ sto tipo paiono aver avuto una struttura di base ricono­ scibile, accettata universalmente dagli autori e raggiunta attraverso un processo di sviluppo dalla Commedia antica. Esse erano infatti suddivise in cinque atti, divisi da inter­ ludi non organici rispetto all’azione che si rappresentava sulla scena ed eseguiti da un coro che non prendeva così parte alla commedia vera e propria. I testi, una volta pub­ blicati, accennavano alla presenza di interludi, ma non ne riportavano il contenuto. Per quanto riguarda gli attori, imbottiture e falli erano ormai armamentario del passato, ed il costume consisteva più semplicemente in sobri e convenzionali abiti del tempo, rappresentanti uomini e donne, liberi o schiavi, che ciascuno avrebbe potuto incon­ trare in una strada o in una casa di Atene. Le maschere, invece, erano ancora nell’uso; quelle degli uomini e delle donne giovani erano ben proporzionate, mentre quelle dei personaggi anziani e degli schiavi avevano lineamenti esa­ geratamente grotteschi. L’azione per lo più si svolgeva ad Atene, perché Atene era ormai il centro teatrale del mondo greco, centro verso il quale convenivano attori ed autori anche da altre città. In sé tuttavia le commedie avevano ben pochi riferimenti ai singoli ateniesi o a ciò che avve­ niva ad Atene, e trattavano anzi temi universali piuttosto 61

che locali; le trame erano, rispetto a quelle della Com­ media antica, realistiche. La transizione verso questa nuova forma ebbe luogo nel corso dei primi tre quarti del quarto secolo, ed alla produzione comica di quel periodo si giunse a dare il nome di Commedia di mezzo. In un tempo di modifiche ed esperimenti, tuttavia, una tale etichetta viene a rico­ prire un gruppo di opere assai variegato, così che, in realtà, nessuna precisa linea di divisione può essere trac­ ciata da una parte tra la Commedia di mezzo e la Com­ media antica e dall’altra tra la Commedia di mezzo e la nuova. Inevitabilmente, alcuni scrittori produssero com­ medie durante più di un periodo, ed in realtà gli unici due drammi greci sopravvissuti ai quali si possa apporre l’insegna di Commedia di mezzo sono di Aristofane. Queste commedie, le Donne all’assemblea (392?) e Fiuto (o Ricchezza, 388), conservano quell’elemento fan­ tastico che doveva più tardi sparire; nella prima le ate­ niesi, travestite da uomini, occupano l’assemblea e fanno passare una risoluzione con la quale si consegna nelle loro mani la direzione del paese; esse cercano di risolvere i problemi economici con l’introduzione della proprietà comune e quelli sessuali dando alle più vecchie un diritto di prelazione nei rapporti con l’altro sesso. Nessuna delle due riforme tuttavia — come è facile immaginare — si mostra un successo. Fiuto ha un finale più sereno, anche se meno giocoso: il dio della ricchezza, guarito dalla cecità, concede i suoi favori agli uomini in ragione dei loro meriti. L’interesse che entrambe le commedie mo­ strano nei confronti del povero è senza dubbio in rela­ zione alle reali condizioni economiche di Atene, una città che aveva perso una guerra e, con essa, un impero. La commedia non ha tuttavia ancora perduto le sue caratte­ ristiche di attualità, e ci sono ancora versi che deridono, talora ingenerosamente, singoli individui, spesso politici. I frammenti dei commediografi dello stesso periodo ci mostrano che questo interesse politico e di critica perso­ nale era ancora tu tt’altro che spento. Più tardi non si comprese che la scomparsa dell’elemento personale era

stata un processo graduale, e la si attribuì ad una qual­ che nuova disposizione di legge. « La libertà — scrisse Orazio — scivolò verso l’oltraggio, una colpa che deve essere repressa dalle leggi; la legge fu accolta, ed il diritto all’ingiuria fu rimosso » {Ars poetica 282-3). Di una tale legge non v’è tuttavia né testimonianza né traccia. Forse i poeti stessi ritennero prudente non attaccare dei potenti in grado di trascinarli per questo in tribunale, ma dal punto di vista giuridico la sola iniziativa volta a repri­ merne la libertà di espressione si ebbe nel 439, al tempo della rivolta di Samo, quando venne approvata una riso­ luzione che proibiva di mettere in ridicolo le persone singole; ed anch’essa venne revocata due anni più tardi, a crisi ormai chiusa. Qualcosa di simile fu tentato ancora nel 415 ma, se pure la proposta venne accolta, essa do­ vette essere annullata prima che gli Uccelli, nel 414, fos­ sero messi in scena. Il diritto alla satira ed alla beffa può essere stato sgradito ai politici, ma era apprezzato e custo­ dito dai poeti e dal popolo. La commedia, in realtà, non rinunciò mai al diritto di criticare in maniera diretta e personale, per quanto esso venisse sempre meno esercitato col passar del tempo. Menandro occasionalmente allude, nelle sue prime com­ medie, a uomini che erano ormai zimbelli di repertorio, e nell’ultimo decennio del secolo Filippide osò scrivere i seguenti versi a proposito di Stratocle, agente di Deme­ trio Poliorcete, il cui esercito manteneva al potere la fazione « democratica »:

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Egli, che ha preso l’Acropoli per una locanda e ci ha alloggiato delle cortigiane a fianco della dea vergine ... egli, per cui colpa il gelo morse le nostre viti, egli, per la cui empietà la sacra veste fu spezzata, quando trasferì ad un uomo gli onori divini. Tutto ciò, e non la nostra commedia, distrugge il popolo. Ma le due commedie di Aristofane mostrano altri elementi che erano nuovi e che si sarebbero sviluppati. Il linguaggio, anzitutto, è divenuto meno lussureggiante

che nelle sue prime opere, ed al vocabolario della strada si è sostituito quello della letteratura. Un’altra restrizione auto-imposta è che il luogo dell’azione drammatica non si sposta più con arbitraria libertà. Come già nelle Nuvole, la scena è costantemente all’esterno delle case apparte­ nenti ai personaggi, e questa doveva divenire d’allora in poi la prassi, nell’ambito di un più generale indirizzo naturalistico. Nelle Donne alle Tesmoforie e nelle Rane la parabasi era già stata tronca; nelle ultime commedie aristofane­ sche essa viene lasciata del tutto cadere. Si ritenne inoltre superfluo conservare le parole di alcuni dei canti corali, che sono perciò rappresentati nei nostri manoscritti dal­ l’espressione « piccolo pezzo del coro » o, con un’abbre­ viazione, appena « del coro ». Ciò che si cantò dovè essere nella sostanza, e forse anche nel complesso, disor­ ganico rispetto alla commedia stessa, e non possiamo nemmeno giurare che il poeta si fosse preoccupato di scri­ vere qualche parola di testo per questi canti; egli, anzi, può aver lasciato liberi i suoi coreuti di cantare quel che volevano. Questa progressiva non pertinenza del coro è illustrata dai primi canti del Fiuto, che sono del tutto estranei all’azione e potrebbero esser cantati da una qual­ siasi banda di ubriachi. I versi recitati dal capo del coro in queste commedie, tuttavia, per quanto non numerosi, sono ancora integrati nel testo, poiché il coro non era ancora, come sarebbe divenuto nella Commedia nuova, un semplice espediente per introdurre un arresto nel­ l’azione. Trame basate sulla mitologia, non rare nella Comme­ dia antica, divennero ancora più popolari nella Commedia di mezzo. Le ultime commedie di Aristofane, oggi per­ dute, Eolosicone e Cocalo, che furono presentate in gara a nome del figlio, erano di questo tipo. La prima pre­ sentava Eolo, il re dei venti, come un cuoco, mentre la seconda sembra aver implicato il racconto di come Mi­ nosse cretese, avendo perseguitato Dedalo fino alla corte di Cocalo, re di una città siciliana, annegasse in un bagno 64

caldo. Dopo un po’, tuttavia, gli spettatori è probabile che si siano stancati di queste caricature perché, a giudi­ care dai titoli che ci rimangono, esse occorrono solo rara­ mente tra i drammi della Commedia nuova. Le pieces mitologiche, tuttavia, hanno avuto una certa influenza sullo sviluppo della commedia; proprio in quanto i racconti mitologici erano i soggetti abituali della trage­ dia, è naturale che le relative parodie siano state influen­ zate dalla struttura di quest’ultima. Mentre la Comme­ dia antica si componeva spesso di una serie di scene liberamente unite assieme in una sequenza arbitraria, la tragedia tendeva ad una forma di trama più integrata, nella quale ciascun avvenimento scaturisse con apparente inevitabilità da quel che era successo prima. Il tratta­ mento umoristico delle storie mitologiche condusse senza dubbio all introduzione di scene non necessarie al pro­ gredire della trama, ereditate dalla tradizione comica, ma e anche probabile che esso abbia portato ad una certa aderenza di base allo schema tragico. Commedie di tal fatta, narrando una storia unitaria e continua, che non raggiungeva _prima della fine la svolta decisiva o il cul­ mine delTazione, avranno certo contribuito a rendere po­ polare questa struttura compositiva. Il primo passo in questo senso si può vedere già in Aristofane, mettendo a paragone gli Acarnesi, in cui Diceopoli ottiene e stipula la sua pace prima della parabasis e dopo di essa si limita semplicemente a goderne i benefici, con i Cavalieri, nei quali la lotta per liberare Demos dalle grinfie del Paflagone (cioè di Cleone) non si risolve che poco prima della fine. Ancora, il recupero anticipato della dea nella Race può essere messo in contrasto, nella Lisistrata, con il rin­ vio della soluzione fino alla penultima scena. La commedia si servì della tragedia anche per trarne dei motivi; Satiro, biografo di Euripide, scrisse: ... confronti tra moglie e marito, padre e figlio, schiavo e padrone, rovesciamenti inaspettati di circostanze, ratti di ver­ gini, bambini esposti, riconoscimenti attraverso anelli e colla­ nine; sono questi, senza dubbio, i principali elementi costi­ 65

tutivi della più recente commedia, e fu Euripide a portarli al massimo sviluppo. Con il termine « più recente commedia » egli proba­ bilmente intendeva tutto ciò che seguì alla Commedia antica. Chiamare le caratteristiche citate « i principali ele­ menti costitutivi », anche se riferito alla sola Commedia nuova, è un’esagerazione, ma esse erano di sicuro elementi costitutivi frequenti, ed è possibile che alcune siano state utilizzate per la prima volta parodisticamente, allo stesso modo in cui Aristofane parodiò una scena del Telefo di Euripide negli Acarnesi, e siano state poi trovate adatte alle trame più realistiche e « romantiche » che, gradual­ mente, divennero la norma. Mentre Platone poteva ancora riconoscere nella com­ media un elemento volto ad eccitare risentimenti e ran­ core (Filebo 50c), una generazione più tardi Aristotele la descriveva come la rappresentazione di personaggi in eriori la cui bruttezza era di tal fatta da muovere al riso piuttosto che alla pena (Poetica 1449a 32). Platone, si sa, fu ostile al dramma, mentre Aristotele lo guardo con simpatia1, ma la differenza tra i due è anche indicativa delle modifiche alla natura stessa della commedia realiz­ zatesi nel quarto secolo, modifiche per le quali, ad esem­ pio, ai caratteristici attacchi personali di un tempo si sostituì la caricatura di personaggi di fantasia. Una caratteristica di diverse opere della Commedia di mezzo lu così la satira di alcuni tipi sociali la cui importanza di­ venne, nel quarto secolo, sempre crescente; piu frequen­ temente erano messi in ridicolo i soldati mercenari, i cuo­ chi di professione e le cortigiane indipendenti. Tali figure, apparse forse in un primo momento come caricature di persone reali e viventi, si evolsero ben presto in perso­ naggi fittizi che esercitavano quei mestieri. L’impiego di mercenari era in quel tempo in aumento, 1 Sfortunatamente, la sua dettagliata trattazione della com­ media non ci è conservata.

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e l’attenzione si puntò sui loro comandanti professionisti. Il poeta comico amò rappresentarli come vanitosi, sbruf­ foni e volgari nell’ostentazione delle ricchezze recente­ mente acquistate attraverso i bottini. Essi potevano essere associati con un altro personaggio di repertorio, l’adula­ tore servile chiamato talvolta parassita; letteralmente la parola significa « uno che mangia accanto », ed era il titolo di quei sacerdoti che avevano parte delle vivande offerte alle divinità, ma il termine fu poi applicato per scherzo alle persone che ottenevano i propri pasti dalla liberalità dei ricchi patroni ai quali si asservivano. Non solo il parassita, ma anche la cortigiana poteva accom­ pagnarsi al soldato; essa era rappresentata come avida, infida ed insincera. Il soldato di minori pretese poteva accontentarsi della merce offerta dai proprietari di schiaveprostitute, uomini che esercitavano un altro mestiere i cui seguaci venivano disprezzati ed odiati. Il cuoco è il personaggio sul quale abbiamo più nume­ rose informazioni, poiché Ateneo cita molti discorsi di cuochi nei suoi Deipnosofisti (ovvero Eruditi a banchetto). Gli antichi greci non avevano un domestico specializzato nel cucinare; i loro pasti quotidiani erano semplici e, quando qualcuno che poteva permetterselo desiderava una pietanza più elaborata, ci si rivolgeva ad un cuoco di pro­ fessione. Queste persone non erano, almeno nella com­ media, degli schiavi, ma degli artigiani indipendenti di basso rango sociale; erano tuttavia costretti a lavorare con schiavi, sia che si trattasse dei loro propri assistenti che di membri delle famiglie presso cui erano impiegati. Alcuni, se non tutti, non erano attici di nascita, e prove­ nivano in genere dall’Asia Minore o dalla Sicilia, luoghi di grande rinomanza gastronomica. Nelle commedie, caratteristica dei cuochi è la curio­ sità, unita a loquacità ed orgoglio per la propria arte; essi rimasero popolari ancora presso molti poeti della Commedia nuova, che consentirono a lunghe tirate di cuochi di arrestare lo svolgersi delle trame. Le commedie di Aristofane spesso terminano con un festoso banchetto, una climax assai adatta ad una storia allegra, ed una tale 67

tradizione di convivialità ebbe lunga vita. Diverse trame della Commedia nuova conducono gradualmente ad un matrimonio con conseguente banchetto; oppure, se un giovanotto era legato ad una cortigiana, desiderava in genere offrirle delle piacevolezze. E così v’era spesso posto per un cuoco tra i personaggi di una commedia. Diverse statuette della prima metà del quarto secolo rappresentano degli schiavi nel costume da attori, masche­ rati, imbottiti e forniti di fallo, e questa è una prova della loro crescente importanza nella commedia di quel periodo. Aristofane non aveva fatto grande uso di schiavi, per quanto ci siano già nelle sue opere degli indizi che prefigurano ciò che sarebbe avvenuto. Nelle Rane le scene d’apertura sono costruite tutte sul rapporto tra Dioniso ed il suo schiavo Santia che, carico di bagagli, riesce alla fine ad invertire i ruoli col padrone. Nel Pluto lo schiavo Cartone, descritto dal suo proprietario come « molto fedele e molto ladro », ha una parte piu ampia di quella di qualsiasi altro personaggio umano, e da lui dipende Punità della commedia. È da esordi del genere che il ruolo dello schiavo si sviluppò; senza dubbio c’erano nella realtà degli schiavi che imbrogliavano i loro padroni e degli altri che li influenzavano. Gli spettatori, a teatro, amavano vedere tali fenomeni portati all’eccesso, e si divertivano ai furbi inganni dello schiavo e all’importanza che egli si arrogava. Certo non tutti gli schiavi della com­ media saranno stati di questo tipo; ce ne saranno stati senza dubbio altri piu sempliciotti, se non altro per far risaltare i primi. Abbiamo così davanti a noi un gruppo di personaggitipo intorno ai quali era possibile costruire trame di com­ medie i cui eventi, per quanto forse improbabili, non erano in se stessi, come invece spesso accade nella com­ media aristofanea, del tutto inverosimili. Un intreccio del genere ci è noto attraverso il Persa (il Persiano) del com­ mediografo latino Plauto se, come sembra probabile, egli lo adattò da un dramma greco scritto quando la Persia era ancora uno Stato indipendente (cfr. v. 506 sgg.), e cioè prima del 334 a. C. Uno schiavo, Tossilo, in assenza 68

del padrone, intreccia una relazione con una ragazza, Lemniselenide, la quale è nelle mani di un lenone chiamato Dordalo. Un altro schiavo, Sagaristione, che ha avuta affidata dal suo padrone una somma di denaro per acqui­ stare buoi, la dà a Tossilo, mettendolo così nella possi­ bilità di riscattare l’amata. Nel frattempo Tossilo ha pro­ gettato uno stratagemma: egli persuade un povero pa­ rassita, Saturione, ad imprestargli la figlia, e la fa quindi travestire da giovane araba. Sagaristione, mascherato da persiano, conclude infine l’operazione vendendola a Dor­ dalo e recuperando così il denaro pagato per Lemniselenide. A questo punto entra in scena Saturione ed accusa Dordalo del crimine di aver acquistato una libera ateniese. Gli schiavi, raggiunti da Lemniselenide e da un terzo schiavo giovane, si riuniscono infine a bere ed invitano lo scornato lenone ad unirsi a loro, facendolo oggetto di insulti verbali e di sgarberie materiali. C’erano probabilmente commedie migliori di questa, ma essa contiene elementi che trovano un riscontro in altre opere: uno schiavo che porta a buon fine uno stra­ tagemma per procurarsi del denaro; un parassita che si comporta disonestamente; uno straniero, col suo diso­ norevole commercio di donne, che si mette nei pasticci ed è umiliato; l’eroe che rimane in possesso della donna che ama e che ha espresso il suo amore per lui; la scena finale, che è di baldoria. Ma nessun parallelo si può tro­ vare per la figlia di Saturione, che recita in maniera molto convincente la parte di nobile araba prigioniera — sempreché si riconosca l’abilità degli arabi nel parlare le lin­ gue. Una furberia del genere sembra insolita per una fan­ ciulla ateniese; ma quale il padre, tale la figlia. Le trame della Commedia nuova fanno grande uso di motivi e personaggi che noi sappiamo risalire ad autori di un periodo precedente. C’erano senza dubbio anche delle novità, ma esse non erano destinate a rimanere pos­ sesso esclusivo dei rispettivi inventori. A più riprese in­ contriamo soldati, adulatori o parassiti, cortigiane e mezzane, negrieri e lenoni, cuochi con i loro assistenti, giovanotti innamorati, vecchi severi od avari, schiavi im­ 69

broglioni e schiavi fedeli, anziane mogli, nutrici e mer­ canti. A più riprese i motivi vengono ripetuti: _giovani ricchi rapiscono fanciulle povere, ma gli ostacoli che si frappongono alla loro unione vengono alla fine rimossi; neonati indesiderati vengono esposti (questa pratica tro­ vava ampio riscontro nella realtà), e poi soccorsi ed edu­ cati da genitori adottivi, in genere di umili condizioni (questa circostanza probabilmente si verificava meno di frequente); ancora bambini sono rapiti dai pirati; questa prole rapita o esposta viene, alla fine, riconosciuta e riac­ colta dai veri genitori; giovanotti squattrinati desiderano ragazze nelle mani di « commercianti » che ne fanno o intendono farne delle prostitute; degli schiavi aiutano a reperire il contante necessario per comprarle mediante espedienti diretti contro il possessore della giovane o con­ tro il loro stesso padrone; ancora schiavi vengono cor­ rendo alla ribalta o pieni di paura o con notizie inaspet­ tale; alle spose si danno considerevoli doti. « Nulla — scrisse il drammaturgo latino Terenzio — vien detto, che non sia stato già detto ». Tutti questi sono dati di fatto con i quali bisogna confrontarsi, ed alcuni critici hanno ritenuto di potere in base ad essi condannare la Commedia nuova come sterile e desolata ripetizione. Essi non hanno tuttavia compreso la natura dell’arte greca, che non cerca di impressionare con clamorose novità o con il rifiuto dei risultati acqui­ siti dalla generazione precedente, ma di scoprire nuovi modi di trattare i temi tradizionali. Non ci si lamenta che le case siano così spesso costruite con mattoni rossi, tegole, malta, vetro e tavole d’abete, né ci si augura che gli architetti mostrino originalità adottando^ altri mate­ riali, mattoni di plastica, rivestimenti di alluminio, vecchie bottiglie e legno di balsa. I motivi tradizionali furono trovati comodi per confezionare commedie, e perciò non vennero abbandonati, ma i poeti cercarono di servirsene in maniera nuova e mediante nuove combinazioni, non senza, talora, modificarli in maniera inaspettata. Una parte del piacere degli spettatori — se avevano visto altre com­ medie — stava proprio nel notare come gli elementi tra­ 70

dizionali venissero alterati e nel riconoscere allusioni ad essi. Se essi poi non erano mai stati a teatro, evidente­ mente i temi vecchi apparivano loro nuovi di zecca. A parte questo, gli elementi standard, che non si tro­ vano certo tutti in tutte le commedie, non costituirono che una parte del materiale comico. Nelle migliori opere della Commedia nuova il reale interesse è da una parte per le individualità dei personaggi e le loro relazioni reci­ proche, e dall’altra per l’evoluzione della trama, che si considerava determinata dalle reazioni di quei personaggi alle circostanze iniziali. È già stato osservato che i drammaturghi greci ama­ vano associare certe qualità a determinate professioni o mestieri. Alcune considerazioni fatte in propria difesa dal romanziere Fielding sono anche qui pertinenti: Tu devi sapere, amico, che ci sono certe caratteristiche comuni agli individui di ciascuna professione ed occupazione, e nel conservarle e, al tempo stesso, differenziarle nelle loro operazioni, sta una delle abilità del buon scrittore. Similmente si dica della sottile distinzione tra due persone che agiscono mosse dallo stesso vizio o da una stessa follia — distinzione che si trova in pochissimi scrittori e che altrettanti pochi let­ tori percepiscono (Tom Jones, libro X, cap. I; trad. D. Pettoello). Il drammaturgo greco sembra esser stato più speran­ zoso di trovare, tra i suoi spettatori, chi lo comprendesse; non sempre, tuttavia, egli ha incontrato tra i critici moderni la stessa comprensione. Caratteristica rilevante della Commedia nuova è il fatto che lo stesso nome vien dato, in differenti comme­ die, a diversi personaggi. Nel caso degli schiavi, la cosa è meno sorprendente, dal momento che anche nella vita reale non c’era una grande scelta di nomi per essi; li si chiamava, infatti, per lo più in base alla loro origine, per esempio Siro, « Siriano », o Geta, dal nome della tribù trace dei Geti. E così c’era un Davo — nome che indica una provenienza frigia — in almeno otto delle diciassette 71

commedie identificabili di Menandro di cui possediamo frammenti papiracei. Più notevole è il fatto che ci fosse una simile duplicazione di nomi anche per i liberi citta­ dini, per i quali nella realtà v’era abbondanza di nomi. Le stesse diciassette commedie hanno quattro giovani chiamati Moschione e tre chiamati Gorgia. Il primo e un nome « parlante », che vuol dire « piccolo torello », men­ tre tutti i Gorgia sono giovanotti di campagna. Allo stesso modo più di un vecchio porta il nome di Demea o La­ chete, o Smicrine nel caso che si tratti di individui troppo attaccati al denaro. Forse questi nomi di repertorio sono paralleli all’uso di maschere standard. Non sarebbe stato possibile inven­ tare una maschera individuale caratterizzante per ciascuno dei cento schiavi che avevano un ruolo nelle commedie di questo periodo; cento uomini reali hanno cento volti differenti, ma le maschere sono riproduzioni semplificate dei lineamenti umani, tendenti a mettere in risalto solo alcune caratteristiche. Era così naturale, oltre che conve­ niente, che certi tipi di maschera, una volta sperimenta­ tone l’impatto sul pubblico, si continuassero ad utilizzare in seguito. L’enciclopedista Polluce descrive quarantaquat­ tro modelli di maschere, attribuendone taluni a degli schiavi, altri a dei vecchi, altri a dei giovani e così via, e molti di questi modelli possiamo ancora riconoscerli in statuette o altre rappresentazioni artistiche. Allo stesso modo in cui l’auditorio sapeva che un Davo era uno schiavo, così soleva riconoscere nel portatore di un certo tipo di maschera uno schiavo, ad esempio se aveva capelli rossi stempiati, un colorito rubizzo, una larga bocca dalle labbra carnose ed era strabico. Sarebbe tuttavia troppo frettoloso supporre che coloro che confezionavano ma­ schere si attenessero strettamente alla lista di Polluce. La carenza di nomi individualizzanti potrebbe confer­ mare il pregiudizio che i personaggi della Commedia nuova manchino di individualità, ma a torto. Un nome che non indica altro che l’età e la condizione sociale non impedisce al drammaturgo di concepire il personaggio 72

come personalità individuale; l’amore per il denaro, ad esempio, può assumere diverse forme ed abbinarsi ad una moltitudine di altri tratti di carattere. I Moschioni menandrei, tranne la pratica o l’appetito sessuale, hanno ben poco in comune. Nella Perikeiromene (Trecce tosate) Mo­ schione è un vanitoso giovinastro che si considera con la fantasia un irresistibile donnaiolo; nella Donna di Samo Moschione invece si vergogna di se stesso ed è impaziente di sposare la fanciulla cui ha fatto torto. Ciò che rimane strano è come lo scrittore, che pure concepiva tali per­ sonalità individualizzate, non abbia poi dato loro nomi propri; ma anche in questo caso non si tratta di una que­ stione di principio, dal momento che talora Menandro ha ben adoperato nomi che nella vita reale erano insoliti e — per quanto ne sappiamo noi — erano unici nella commedia, come Cnemone, Chichesia, Trasonide. ^ Probabilmente ci si dovrà limitare a dire che c era una tendenza a dare ai personaggi nomi metricamente convenienti che nella tradizione teatrale si erano ormai associati a determinate figure o condizioni sociali, vecchi, giovani, donne maritate, nutrici o etere. Non era questa, tuttavia, una legge rigida. Alcuni dei nomi meno comuni sono di per se stessi adatti ai personaggi che li portano: Polemone, da polemos (« guerra »), e Stratofane, da stratos (« esercito »), è chiaro che saranno dei soldati; il nome Cnemone aveva in sé forse qualche riferimento che ora ci sfugge, e con Chichesia è probabile che ci si riferisca al fatto che il personaggio « si incontra » (kichein in greco) con la figlia perduta. Questi nomi, tuttavia, anche se hanno un preciso significato, sono tutti presi dalla vita quotidiana, e possono meglio essere paragonati all’Alworthy di Fielding che alla Lady Sneerwell di Sheridan o al Sir Politick Would-be di Ben Jonson *. * Allworthy, che è cognome non rarissimo nella realtà, vuol dire qualcosa come ‘ D eg n issim o m en tre Lady Sneerwell (da io sneer = « sogghignare »), e, a maggior ragione, Sir Politick WouldBe (would-be = « sedicente ») sono nomi completamente immaginari, da paragonare all’Azzeccagarbugli manzoniano [N.d.T.J.

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Molte opere della Commedia nuova hanno un « pro­ logo », la cui presenza, anzi, era forse la norma. Si trat­ tava di un discorso rivolto alla platea, che poteva essere pronunciato da uno dei personaggi, ma che era più fre­ quentemente messo sulle labbra di una figura divina — pratica questa ripresa dalla tragedia. La funzione del prologo consisteva nell’informare gli spettatori della situa­ zione da cui l’azione della commedia prendeva le mosse. Il drammaturgo moderno è costretto a contrabbandare queste informazioni nel dialogo e, se ad alcuni questa operazione di camuffamento riesce bene, ci sono viceversa delle commedie nelle quali i lunghi brani « espositivi » introdotti ad uso degli spettatori e non per necessità in­ terna risaltano particolarmente. Grazie alla tradizione nella quale si muoveva, invece, l’autore della Commedia nuova non aveva bisogno di ricorrere ad espedienti del genere. Nell’odierna pantomima alcuni personaggi, in partico­ lare la Dama, riconoscono palesemente la presenza degli spettatori; quest’ultima si rivolge loro perfino direttamente, esortandoli a cantare, e può invitare i bambini sul palcoscenico: nel Peter Pan essi vengono addirittura sfidati a gridare ad alta voce la loro fede nelle fate. Gli attori della commedia greca, accettando la presenza del pubblico ed il suo interesse per gli eventi che si succe­ dono sulla scena, hanno una relazione del genere con la platea. Poiché in realtà nessuno si aspettava che gli spet­ tatori intervenissero, che gridassero allarmi di pericolo, o dessero a personaggi male informati notizie che avreb­ bero potuto risultare loro utili, c’era in tutto ciò una curiosa finzione; ma gli attori dovevano rendere edotti gli spettatori di alcuni fatti indispensabili per compren­ dere la trama, e ciò veniva fatto senza imbarazzo ed aper­ tamente. Un personaggio nei guai ha così la possibilità di informare semplicemente l’uditorio delle sue difficoltà e delle sue riflessioni al proposito; un personaggio che ha fallito in un incarico racconterà appena arrivato agli spet­ tatori quel che gli è accaduto, e senza bisogno che il dram­ maturgo metta in scena qualcuno con cui possa dialogare. 74

Questo non vuol dire che i commediografi rifuggis­ sero, se ce n’era convenienza, dal moderno sistema di far parlare qualcuno con se stesso; talvolta, anzi, essi scris­ sero dei discorsi che potrebbero essere tanto soliloqui quanto parole rivolte al pubblico. Si può sospettare, tuttavia, che già gli attori antichi interpretassero tali brani nel secondo senso. La pratica ora descritta della conversazione unilaterale con la platea fece apparire naturale l’uso dei prologhi espositivi; in questo caso, la pratica che il parlante fosse una divinità era spesso imposta dalla necessità. La trama, infatti, poteva essere impostata in maniera tale che nes­ sun personaggio fosse a conoscenza di tutti gli antefatti necessari per comprendere la situazione, e proprio la sco­ perta di alcune circostanze in precedenza ignorate poteva anzi portare alla soluzione finale della commedia. Ma nonostante che tali circostanze fossero ignote ai perso­ naggi i cui affari costituivano il soggetto della commedia, il prologo aveva fatto in modo che esse non costituissero un segreto per gli spettatori. In questo elemento deve essere riconosciuta una carat­ teristica importante e sorprendente delle opere apparte­ nenti alla Commedia nuova. Il drammaturgo non si ser­ viva dell’espediente di conservare degli « assi nella ma­ nica » con cui stupire la platea, ed anzi egli la faceva in un certo modo partecipare all’onniscienza divina. GH spet­ tatori, nel momento in cui riconoscevano i malintesi e la cecità di uomini e donne di cui osservavano le sorti, pote­ vano godere della loro superiore conoscenza; allo stesso tempo essi sapevano anche che gli elementi in grado di assicurare il lieto fine c’erano, e che bastava solo che si combinassero tra loro. Le paure e le pene da cui i prota­ gonisti erano afflitti potevano così guadagnar loro sim­ patie, ma senza causare necessariamente ansietà tra gli spettatori che ne conoscevano l’infondatezza. Non solo infatti il pubblico sapeva che un lieto fine era possibile, ma il prologo divino talvolta si concludeva promettendolo esplicitamente; ed anche se questa rassicurazione non veniva data nella pratica, si era ben andati 75

a teatro per vedere una commedia, e le commedie fini­ scono sempre bene! Si poteva essere incerti su come sarebbe finita una « tragedia », ma una commedia doveva essere gratificante. Essa non poteva portare alla sconfitta finale o al fallimento di quei personaggi che si erano gua­ dagnati la simpatia del pubblico, mentre l’umiliazÌone dei « cattivi » soleva essere accettata con soddisfazione. Met­ tendo così le carte in tavola, l’autore rinunziava fin da principio ad uno dei principali mezzi di suspence: la con­ clusione non poteva essere incerta. Tutto ciò che andava perduto era la possibilità di lasciare l’uditorio al buio a proposito di un pezzo mancante del « puzzle », e cioè qualcosa destinato in ogni caso ad andar perduto nel momento in cui qualcuno vedeva o leggeva la commedia per la seconda volta. In cambio della perdita di questo semplice e non iterabile effetto, il commediografo gua­ dagnava però un ampio margine per l’ironia drammatica o per contrasti tra verità ed ignoranza o falsa credenza, elementi questi in grado di assicurare una fruizione meno effimera. Nonostante tuttavia che lo spettatore non fosse in apprensione circa il risultato, nonostante che egli sapesse che padre e figlia si sarebbero di nuovo uniti o che il gio­ vane avrebbe ottenuto la fanciulla amata, egli godeva di un altro tipo di suspence, quella di non sapere come que­ sti risultati sarebbero stati raggiunti, quale sarebbe stata la concatenazione di eventi necessaria per realizzarli. Ed è questa un’altra sfera nella quale la commedia imparò dalla tragedia. Quasi tutti, nel teatro, sapevano sicura­ mente che Oreste uccide la madre e l’amante di lei Egisto, ma ciò che eccitava l’interesse erano i passi che l’eroe avrebbe compiuto per arrivare alla vendetta. Non si po­ teva affatto esser certi che il suo primo piano, ad esem­ pio, sarebbe stato coronato dal successo. Nelle Coefore di Eschilo Oreste spiega come immagina di riuscire ad avvi­ cinarsi ad Egisto (vv. 560-76), ma nei fatti nulla avviene secondo le sue aspettative. Non di meno egli compie la sua vendetta. Nelle rispettive tragedie intitolate Elettra, poi, Sofocle ed Euripide trattarono entrambi la stessa 76

vicenda già affrontata da Eschilo, ma ciascuno a suo modo. Del pari quindi, se è vero che diverse commedie avevano una soluzione già preannunciata o che poteva facilmente essere prevista, questo non le destituiva di interesse. L in­ teresse reale consisteva infatti nel vedere come quelle conclusioni sarebbero state raggiunte. I più importanti esponenti della Commedia nuova lavorarono nel suo periodo iniziale, all’incirca tra il 320 ed il 280 a. C. L’ateniese Menandro, Difilo di Sinope sul Mar Nero e Filemone, che fu probabilmente un siracu­ sano, scrissero tutti nello stesso arco di tempo, mentre era ancora attivo il longevo Alessi, nativo di Turii, in Italia meridionale, che aveva iniziato la carriera intorno al 350. È importante riconoscere che non si trattò di un periodo politicamente tranquillo ad Atene, ma di anni di crisi e di sollevamenti. Il tentativo della città di giocare ancora una volta, dopo la morte di Alessandro Magno, un ruolo-guida nel campo militare, fungendo da cataliz­ zatore nella resistenza ai macedoni, si rivelò un fallimento, e nel 322 essa dovette arrendersi incondizionatamente ad Antipatro di Macedonia. Ma questo evento non significò la fine dell’attività politica ad Atene. ^ Fondamentalmente il popolo era diviso tra quelli che desideravano la sicurezza e si aspettavano di ottenerla e conservarla attraverso una leale accettazione del protettorato macedone, e quelli che speravano di riguadagnare l’indipendenza alleandosi con alcune delle altre forze che si disputavano l’eredità di Alessandro. Il primo partito aveva il sostegno di moltissimi tra i più ricchi membri della comunità, il secondo quello dei più poveri e dei fautori della democrazia — cioè di uguali diritti per tutti i cittadini. In un primo momento, la presenza di una guarnigione macedone al Pireo impose con la forza una rivoluzione che limitava il diritto di voto a coloro che _possedevano una proprietà del valore di almeno venti mine, non una grossa somma, ma tale da escludere — a quanto pare più della metà dei cittadini, cui per giunta fu vietato di 77

sedere nei tribunali; i tribunali — lo si ricordi — deci­ devano parecchi casi di natura in qualche modo « poli­ tica ». Ci fu poi una breve restaurazione democratica nel 318, che durò circa un anno; altri dieci anni di limitazioni nel diritto di voto terminarono nel 307, quando i demo­ cratici, riguadagnato il potere con l’aiuto di Demetrio Poliorcete, figlio di Antigono e signore dell’Asia Minore, tentarono, inizialmente con successo, un’azione militare contro i macedoni, conclusasi tuttavia in un disastro. L’intervento di Demetrio li salvò, ma più tardi la sua disfatta ad Isso nel 301 portò ad un contraccolpo pro­ macedone. Nel 298 il Poliorcete cominciò di nuovo ad interferire, ed i suoi avversari iniziarono ad ucciderne i sostenitori. Già i precedenti cambi di potere erano stati segnati da esecuzioni, esili o suicidi dei leader di maggior spicco: ora la guerra civile divenne aperta. I democratici si attestarono al Pireo mentre i cosiddetti moderati, gui­ dati dittatorialmente, sopportarono un lungo assedio nella città finché, nel 294, si arresero per fame. Ma l’altalena tra forze pro-macedoni e nazionalisti, che era anche una altalena tra ricchi e poveri, non finì lì, e continuò anzi intrecciandosi sempre più alla lotta tra gli eredi di Ales­ sandro, che controllavano allora le forze militari di mag­ gior peso. Tale altalena terminò solo nel 262 quando, sconfitta nella guerra intrapresa in seguito al decreto di Cremonide, Atene accettò finalmente il dominio mace­ done ed un governo conservatore formato da cittadini facoltosi. A tutti questi eventi si allude poco nella Commedia nuova, e poiché in essa la politica svolge un ruolo vera­ mente limitato, alcuni hanno supposto che la stessa poli­ tica ne svolgesse uno altrettanto marginale nella vita della maggior parte degli ateniesi; ma una tale conclusione è veramente frettolosa. Di Menandro stesso sappiamo che sfuggi a stento alla morte nel corso dei rivolgimenti del 307, ed una sua commedia non si potè rappresentare per­ ché la guerra civile aveva provocato la soppressione della festa nella quale avrebbe dovuto essere messa in scena. Atene, certo, non era più una potenza di primo piano, 78

e la politica ateniese non era più tale da costituire 1 inte­ resse primario degli storici del mondo di lingua greca; ma essa non perse d’altra parte importanza per gli ateniesì stessi, le cui vite etano da quelle vicende detenninate. Si trattava però di argomenti penosi, talora estre­ mamente penosi, di certo inadatti per il divertimento in un giorno di festa. Anche Aristofane aveva chiuso gli occhi davanti a diversi avvenimenti politici sgradevoli, e gli autori della Commedia nuova, generalmente parlando, chiusero gli occhi davanti alla politica nel suo complesso. In questo essi non fecero altro che seguire una tendenza chiaramente individuabile fin dal principio del quarto se­ colo; i poeti, in sostanza, sembrano aver sempre più tro­ vato l’ispirazione nella vita privata di tutti i giorni, ed aver sempre più evitato i riferimenti a politici in attività. I mutamenti del tardo quarto secolo, comunque, non lasciarono intatta la commedia. I ricchi furono sollevati dal fardello delle «liturgie», e questo provvedimento, non revocato dalla restaurazione democratica del 307, significò che i cori non vennero più retribuiti da privati cittadini; la produzione fu messa nelle mani di un pub­ blico ufficiale, 1’agónothetés, cioè « curatore delle gare ». Non si sa se questo cambiamento ebbe delle conseguenze per i drammaturghi, ma la cessazione, per coloro che erano stati privati del diritto di voto, dei pagamenti dal fondo teorico ebbe probabilmente come effetto 1 abbandono del teatro da parte dei meno abbienti e, in gene­ rale, del settore più semplice, meno educato e meno critico del pubblico; questo fattore avrà probabilmente incorag­ giato l’eliminazione di volgarità ed oscenità e 1 introdu­ zione di quelle caratteristiche « letterarie » che costitui­ scono uno dei principali pregi della Commedia nuova. Trascurate ormai le questioni pubbliche, i dramma­ turghi si volsero alla rappresentazione di alcuni aspetti della vita privata. Nella società della quale essi offrivano il quadro un ruolo di primo piano è svolto^ da persone appartenenti, come si direbbe oggi, a strati di reddito medio-alto. Si trattava di individui che possedevano al­ meno uno schiavo in famiglia, e spesso più d uno; sovente 79

essi avevano una fattoria (luogo in cui il lavoro manuale era socialmente accettabile), che però non ne costituiva la stabile residenza: i più ricchi sicuramente possedevano in aggiunta una casa in città. Affari all’estero vagamente descritti costituiscono un’altra fonte di redditi, e viaggi per commercio o per recuperare crediti sono comodi mo­ tivi per giustificare l ’assenza da casa del capofamiglia. Le famiglie non sono numerose; raramente si fa men­ zione di più di due figli, spesso un ragazzo ed una ragazza. Se entrambi i genitori sono ancora viventi, frequentemente i due sono in frizione. La ragazza è educata nella clausura degli « appartamenti femminili », dai quali sfugge solo per recarsi ad assistere alle feste religiose; le si darà una dote e la si concederà in sposa ad un marito scelto per lei da suo padre, il quale può mirare alla felicità della figlia, ma può anche desiderare semplicemente di favorire i propri interessi. Ai figli maschi un padre severo può chiedere di lavo­ rare nella fattoria, ma nella maggior parte dei casi essi paiono trascinare una vita oziosa per le strade della città; se così è, può capitare loro di vedere una fanciulla libera ad una festa, innamorarsene a prima vista e raggiungere infine il matrimonio. Più facile era però che i giovanotti stringessero una relazione con delle etere, e ciò richie­ deva denaro, che poteva essere fornito da un padre indul­ gente od ottenuto con l’inganno da un padre tirchio, con 1 aiuto in questo caso dello schiavo adibito al servizio particolare del padroncino. Tra questi due estremi si col­ locano poi quei giovani che intrattengono una relazione con una fanciulla libera alla quale hanno però accesso, o perché essa ha perduto i genitori e gli altri parenti o per­ ché è figlia di una povera vedova o di una donna abban­ donata dal marito, impossibilitata ad istaurare la clausura abituale nelle case più ricche, e disposta a permettere visite da parte dell’innamorato. Il giovanotto poteva nu­ trire fondati dubbi sull’eventuale consenso paterno al ma­ trimonio con una ragazza di tale condizione, ed il consenso era forse legalmente richiesto, ed in ogni modo necessario 80

nella pratica, dal momento che il figlio era finanziariamente dipendente. Sarebbe sciocco sostenere che nella società della Com­ media nuova si rispecchi totalmente la vita delle famiglie medie ateniesi. Si tratta, comunque, di un ritratto di fami­ glie possibili e forse non completamente insolite, che tut­ tavia è tu tt’altro che completo poiché concentra l’atten­ zione su attività, aspetti e relazioni umane ormai stan­ dardizzate come argomenti comodi e vantaggiosi per i drammaturghi. Si deve anche ricordare che, quand’anche questo tipo di società fosse stata la norma, i commedio­ grafi restavano liberi di mettere in scena personaggi che non si conformavano ad essa. Sappiamo che Monandro scrisse più di 100 commedie, e ci sono noti i titoli di oltre 200 opere di Antifane, uno scrittore della prima metà del quarto secolo. Anche nel caso-limite che questi poeti abbiano ottenuto un coro per ciascuna occasione tanto alle Lenee quanto alle Dionisie, appare chiaro che non vi poterono essere rappresentate neppure la metà delle loro commedie. Come spiegare tutto ciò? Alcuni titoli possono certo esser stati alternativi tra loro, e si può anche esser verificato il caso di un poeta che sia riuscito a veder accolte in una festa due opere, come accadde ad Anassandride nel 375 ed a Diodoro nel 286, ma lasciare aperte queste possibilità non risolve il problema. Siccome poi non è verosimile che si scrives­ sero commedie solo per venderne il testo ad un libraio, è di conseguenza probabile che tali opere venissero scritte nella speranza di vederle rappresentate anche in occasioni diverse dalle grandi feste ateniesi. È possibile, anzitutto, che si scrivessero commedie destinate ad altre città, in possesso di teatri ma carenti di talenti drammatici locali; il grande teatro di Megalo­ poli, che data intorno al 350, e quello magnifico di Epidauro, del 330 circa, furono certo destinati a rappresen­ tazioni drammatiche pienamente sviluppate, che tali loca­ lità saranno state costrette ad importare. Un altro sbocco 81

per i commediografi potevano essere le feste locali attiche, dal momento che diversi demi (cioè villaggi) di campagna possedevano teatri già dalla fine del quarto secolo. Il materiale in nostro possesso è scarso, ma in alcuni di questi luoghi è probabile che si rappresentassero com­ medie già nel quinto secolo. Un’iscrizione ritrovata ad Eieusi suggerisce decisamente che tanto Sofocle quanto Aristofane vi misero in scena delle opere: si trattò di « prime » o di repliche? e, se furono « prime », le si ripete in seguito ad una delle feste cittadine? A queste domande non possiamo sfortunatamente dare una rispo­ sta, ma non vi sono motivi a priori per cui una commedia non potesse esser rappresentata nel contado senza esser mai stata messa in scena ad Atene. Possediamo prove che in Attica si rappresentarono commedie in ben sette località esclusa Atene; gli attori erano probabilmente dei professionisti pagati, ma il coro era forse costituito da dilettanti. Come ad Atene, le com­ medie erano in gara tra di loro, e la competizione era organizzata dal demarco, il capo elettivo del villaggio, mentre i coreuti erano raccolti ed addestrati dai coreghi. Come ad Atene, c’erano premi e posti d’onore. Al Pireo, già all’inizio del quarto secolo, c’era un appaltatore che provvedeva di che sedersi e riscuoteva un « biglietto d’in­ gresso »; ad Acarne, verso la fine dello stesso secolo, il ricavato del biglietto d’ingresso pare andasse al demo. Non ci sarebbe nulla di sorprendente se nuove commedie fossero state talora scritte per feste così elaboratamente organizzate. Nella stessa Atene la Commedia nuova era rappresen­ tata in una ricostruzione dell’antico teatro, realizzata sotto l’influenza di Licurgo, figura politica di primo piano tra il 336 ed il 326, in un periodo in cui l’influenza mace­ done impediva spese di carattere militare. In quell’occa­ sione vennero istallati sedili in pietra fissi, ed in pietra venne costruito il nuovo edificio di scena, che andò a rimpiazzare il precedente. Questa nuova skénè aveva senza dubbio tre porte, che si aprivano su un palcoscenico leg­ germente rialzato rispetto all’orchestra e lungo circa 20

metri. Presso ciascuna estremità del palcoscenico una costruzione aperta su pilastri si proiettava dal muro di fondo, racchiudendo e delimitando così il campo d’azione degli attori. Attraverso queste strutture gli attori, pro­ venienti dalle parodoi, potevano raggiungere lo spazio scenico2. La maggior parte delle commedie richiedevano l’uso di due delle porte di scena per rappresentare gli ingressi di due case diverse. La terza, se non era necessaria per raffigurare ingressi di caverne o templi o, eventualmente, di una terza casa, poteva essere coperta. I moderni criteri simmetrici inducono alcuni studiosi a postulare che, qua­ lora ci fosse bisogno di due case in scena, erano le due porte laterali a venir utilizzate; le testimonianze antiche però — per quel che possono valere — affermano che la porta centrale, più ampia, era utilizzata per la casa del « protagonista » o primattore (Polluce 4, 124). In alcune città, poco dopo il tempo di Licurgo, si costruirono teatri secondo una pianta differente, alla quale anche il teatro di Atene fu più tardi adattato. Il palcoscenico venne per qualche motivo a noi ignoto innalzato al livello del piano superiore della costruzione di scena, che ne contava due, e poggiato su colonne che si erge­ vano in corrispondenza del piano inferiore; a quanto pare, almeno in alcuni casi, esso era coperto da un tetto agget­ tante. Il coro può esser rimasto nell’orchestra e la sepa­ razione averne simboleggiato l’inorganicità propria della commedia del tempo, oppure, ridotto a poche persone, può aver eseguito la sua parte, insieme agli attori, sul palcoscenico rialzato. Sembra che una scenografia nel senso moderno del termine sia stata introdotta proprio nel periodo del pal­ coscenico elevato. Ampi pannelli dipinti furono posti tra le porte che si aprivano su di esso, con differenti assorti-

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2 Queste strutture a colonne devono aver ostruito, a chi era seduto alle estremità della platea, la vista di alcune parti del palcoscenico, e questo induce a credere che la capienza massima del teatro, di circa 17.000 posti, non fosse sfruttata a pieno per le rappresentazioni drammatiche.

Delle iscrizioni ci testimoniano che, ad Atene, le com­ petizioni teatrali per commediografi e per attori comici continuarono almeno fino al 143 a. C., ed è possibile che esse si siano concluse solo nell’86, col sacco della città ad opera di Siila. Non è improbabile, tuttavia, che molti dei tardi drammaturghi — nessuno dei quali si guadagnò gran fama — si siano limitati a rielaborare elementi ormai tradizionali; questo sembra vero, per esempio, nel caso di Apollodoro di Caristo, che scrisse gli originali del Phormio e dell’Hecyra terenziani. La popolarità della commedia ci è attestata dal fatto che nel tardo terzo secolo il numero delle opere nuove presentate alle Dionisie venne portato da cinque a sei. Si usò anche ripresentare regolarmente una commedia vec­ chia, fuori concorso rispetto alle novità; la prima occa­ sione in cui ciò avvenne fu nel 339, mentre dal 311, data della rappresentazione del Tesoro di Anassandride, un poeta della Commedia di mezzo, tale procedura divenne la regola. In un anno intorno alla metà del terzo secolo

ci fu pure una gara tra vecchie commedie, vinta da un dramma di Difilo davanti ad uno di Menandro. Giunti alla metà del secondo secolo, tuttavia, divenne impossibile realizzare anno per anno il programma com­ pleto, ed in media, per quel che riguarda le Dionisie, si dovette procedere ad anni alterni. Questo evento annuncia in pratica la fine, per la commedia, della produzione nuova; conosciamo pochissimi nomi di scrittori attivi nel primo secolo e quasi nessuno per il periodo dopo Cristo. La rappresentazione di vecchie commedie non era tuttavia cessata, e la Teoforumene di Menandro potè essere vista, nel teatro di Dioniso, ancora nel 267 d. C. Atene non fu l’unico luogo dove si tennero compe­ tizioni teatrali. Se testimonianze di esse sopravvivono, lo si deve in gran parte al caso e, d ’altra parte, la notizia di una gara fra tragedie non implica necessariamente che ve ne fosse anche una tra commedie. Ma, per fermarci sul campo delle certezze, sappiamo che competizioni di commedie ebbero luogo in più di una dozzina di località, tra cui Delfi (dal 275 circa fino al primo secolo d. C.), Deio (284-170), Samo (secondo secolo) e la città beota di Orcomeno (primo secolo). Esibizioni di attori comici ci sono testimoniate in diverse altre città senza esplicito riferimento ad un’eventuale gara. La domanda di Plutarco: « Perché un uomo colto dovrebbe andare a teatro tranne che per vedere Menandro? », implica che, nella seconda metà del secondo secolo d. C. v’erano ancora occasioni per assistere a commedie dell’ateniese. Intorno alla metà dello stesso secolo Elio Aristide deprecava, in un’orazione al popolo di Efeso, la pratica di permettere che degli attori mettessero in ridicolo singoli membri della comunità cit­ tadina; il retore Aristide aveva una capacità tutta sua di evitare il riferimento ai fatti puri e semplici, ma lascia ad ogni modo trasparire che, ad Efeso, nelle commedie, vecchie o nuove che fossero, si ritrovavano elementi d’attualità. Questa attività drammatica diffusa ed ininterrotta, « la forma di cultura più popolare ed influente per diverse

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menti per la tragedia e per la commedia. Può essere rile­ vante tener presente questa possibilità di estendere con l’immaginazione la larghezza sui 20 metri della ribalta. Le porte di scena bisognava immaginarsele aperte su una strada di città, un vicolo di paese o uno spazio aperto in campagna, ed occasionalmente c’era in scena anche un tempio o la bocca di una caverna. Le case e questi altri luoghi occorreva immaginarli come vicini tra di loro, ma non necessariamente adiacenti, e lo scenario tra le porte avrà quindi suggerito questa distanza reciproca. A fronte di una tale elasticità di spazi c’era una ela­ sticità di tempi limitata. Fra un atto e l’altro bisogna spesso pensare che passi un lasso di tempo più lungo di quanto non durino di fatto gli intervalli occupati dalle prestazioni del coro. Non era, tuttavia, comune che l’azione di una commedia superasse l’arco di tempo fra un’alba ed un tramonto. E le parole della commedia spesso sotto­ lineano quanto si faccia o si debba fare in un solo giorno.

centinaia d’anni » 3, si associò con il sorgere di corpora­ zioni della gente di teatro (gli « Artisti di Dioniso », come solevano chiamarsi), che — come sappiamo — spesso fornirono attori per le varie feste. Le corporazioni più importanti furono quella d ’Atene e quella istmico-nemeica, rivali formatesi nel primo quarto del terzo secolo, e quella ionico-ellespontica, che sorse più tardi nello stesso secolo; altrove non mancarono corporazioni minori. Potevano far parte delle corporazioni non solo gli attori, ma anche poeti e coreuti, arpisti e flautisti, istruttori e costumisti, la cui attività non si limitava alla sfera del dramma ma comprendeva tutte le manifestazioni musicali che face­ vano parte delle feste. Le corporazioni della gente di teatro erano istituzioni importanti e rispettate. I loro membri godevano di pri­ vilegi come l’esenzione dalle tasse o dal servizio militare. In particolare i sacerdoti, scelti all’interno dell’associazione stessa, intorno al 125 a. C. avevano il diritto di portare 3 A. W. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 19682, 241. Numerosi frammenti papiracei di rotoli o di codici, cioè di libri simili ai nostri attuali, ritrovati in Egitto, mostrano che Menandro fu ampiamente letto fino al quinto secolo ed anche più tardi. Quello che è notevole è che ben pochi testi si curavano della comodità del lettore. Le didascalie di scena sono raramente presenti; l ’abitudine di porre in capo al testo una lista dei personaggi era ben lungi dall’essere diffusa, e, ciò che è ancora più sorprendente, la pratica di inserire i nomi dei personaggi che pronunciano le battute si fece strada solo molto lentamente. Le prime occorrenze di questa pratica sono in un manoscritto non più antico della fine del primo secolo d. C. ma, nonostante che essa divenisse sempre più frequente e sistematica col tempo, rimase a lungo n vita anche l’antico sistema di indicare il cambio di battuta sem­ plicemente mediante una breve linea estendentesi nel margine, posta sotto la prima lettera del verso nel quale, o alla fine del quale, il cambio si verificava, ed attraverso una coppia di punti ( : ) posta precisamente dove c’era cambio di interlocutore. Alcuni testi potevano non avere questi due punti, e sostituirli con un piccolo spazio. Nessuna meraviglia quindi se Dione di Prusa (inizi del secondo secolo d. C.), raccomandando ad un uomo ambizioso di studiare Menandro, lo mettesse in guardia dal cercare di leggere le commedie da solo e gli consigliasse di farsele rappresentare per evitare i problemi connessi alla lettura (18, 6).

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corone auree ed abiti purpurei in tutte le città, ed il Senato romano si scomodava ad intervenire nelle loro dispute. Per parte loro, essi multavano severamente quelli che si rifiutavano di recitare dove la corporazione li aveva destinati o di rispettare gli impegni presi. Più tardi, le corporazioni separate sembra si siano fuse in un’unica organizzazione « mondiale », citata per la prima volta in una lettera del 43 d. C. dell’imperatore Claudio, dalla quale si può tuttavia inferire che già Augusto ne aveva riconosciuto l’esistenza. Questo organo era ancora attivo al tempo di Diocleziano (285-305) che, per prevenire l’evasione fiscale da parte di individui ricchi che ne acqui­ stavano la qualità nominale di membro, restrinse l’esen­ zione dalle tasse ai veri professionisti.

Capitolo quinto MENANDRO

I posteri non nutrirono dubbi sulla preminenza di Menandro tra gli scrittori della Commedia nuova, e con­ dannarono il gusto dei contemporanei del poeta, perché solo otto volte gli fu assegnato il primo premio. Forse il tocco meno delicato di Difilo di Sinope o di Filemone di Siracusa — che gli studiosi posteriori gli affiancarono si da formare un trio di primo piano in questa forma di commedia — costituì un richiamo maggiore per le masse. Non vi sono tuttavia testimonianze che questi poeti riu­ scirono vincitori più volte di Menandro, poiché sul loro conto non sono registrate che tre vittorie a testa alle Lenee h Per quel che riguarda Menandro, poi, non sap­ piamo nemmeno quante volte gareggiò, e non si può pre­ sumere a priori che le sue commedie venissero sempre prescelte dall’arconte per le occasioni — circa cinquanta di numero — in cui, in teoria, egli poteva essere prefe­ rito; i meriti artistici, infatti, non saranno certo stati la sola considerazione da cui il magistrato si lasciava guidare nella cernita. Sappiamo, ad ogni modo, che i giudici lo classifica­ rono quinto ed ultimo alle Dionisie del 312 e del 311, e sono queste decisioni che — si può pensarlo — sareb­ bero difficili da difendere. Non necessariamente un grande artista è, nel suo tempo, sottovalutato, e questa conside­ razione ci spinge a ricercare le cause reali dell’insufficiente successo di Menandro. È possibile che la sua amicizia con1 1 I.G . I P 2325 col. x.

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Demetrio del Falero, l’impopolare « Sovrintendente alla città » imposto, tra il 319 ed il 307, dai macedoni, abbia creato, nei confronti delle sue commedie, un certo pregiu­ dizio, ma è forse più verosimile che esse non abbiano avuto successo perché i loro pregi non si rivelavano tutti ad una prima superficiale considerazione. Un noto aneddoto ci riporta la risposta data da Menandro ad un amico che si meravigliava del fatto che, nonostante le Dionisie fossero imminenti, il poeta ancora non aveva messo mano alla sua commedia: « In realtà la mia commedia è pronta; l’intreccio è ultimato, e non mi rimane che aggiungere l’incanto dei versi ». Questa replica non deve essere considerata come una svalutazione del­ l’elemento formale della commedia, ed anzi di esso si parla come di una sorta di incantamento in grado di affascinare l’ascoltatore. Menandro, in effetti, scrisse con una perizia superba, che purtroppo può essere apprezzata solo da chi è in grado di leggere l’originale in greco, e seppe variare finemente velocità, ritmi e livelli linguistici, così da adeguarli alla psicologia dei personaggi ed al mutare dei loro sentimenti. Nonostante poi che Menandro si sia costantemente servito del verso per rafforzare il significato delle sue battute, egli seppe conservare l’illu­ sione che i suoi personaggi stessero parlando come si parla in realtà, e cioè in tono colloquiale e secondo il carattere dei singoli individui. I dialoghi non si svolgono mai — come talora pare sia accaduto nel caso di Filemone — in greco letterario, a meno che non debbano rispondere ad un fine stilistico ben preciso, e quest’ultima considerazione è vera, in una qualche misura, anche nel caso dei tetrametri trocaici, nonostante che essi tendano ad un movimento meno irregolare rispetto ai più comuni trimetri giambici. L’eccellenza dello stile non implica tut­ tavia lentezza compositiva, poiché è chiaro che ci tro­ viamo di fronte ad uno di quegli autori dai quali spon­ taneamente sgorga un facile fiotto di poesia stilisticamente ammirevole. Ciò che l’aneddoto vuole far intendere, viceversa, è l’importanza fondamentale della trama, che non si riduce

semplicemente ai fatti che si verificano in scena; di im­ portanza assai maggiore sono, in realtà, i mezzi attra­ verso i quali questi fatti vengono presentati, perché, se è vero che il modo in cui i personaggi scelgono di agire determina il corso stesso degli eventi, tali mezzi vengono a comprendere anche la psicologia dei protagonisti del dramma. La capacità fantastica di creare dei personaggi è, conseguentemente, una parte del mestiere del comme­ diografo, ed anche da questo punto di vista Menandro si distinse. Le persone da lui messe in scena sono credi­ bili, coerenti e « vive », al punto che emozioni e pensieri, per quanto spesso inespressi palesemente, possono essere intuiti cogliendo gli indizi che trapelano dalle loro parole, ricche peraltro di sottintesi. L’azione è dunque portata avanti parallelamente attraverso azioni e discorsi che si adattano sempre a perfezione al carattere dei personaggi così delineati. Una buona trama si lascia gustare anche per i suoi pregi formali, cioè per i contrasti tra scene successive o tra personaggi e coppie di personaggi, per la simmetria e l’« effetto-specchio », per la bilanciata proporzione delle sezioni; queste ultime in particolare, se non vogliono ap­ parire inserite a forza, non devono mai essere fuor di posto. L’analisi delle commedie di Menandro mette in luce diversi esempi di una tale eleganza. Una delle diffi­ coltà che si incontrano nel costruire un intreccio consiste, come alcuni drammaturghi hanno confessato, nell’organizzare in maniera non artificiosa le entrate e le uscite dei personaggi; in Menandro tanto le une quanto le altre sono sempre plausibili, il che vuol dire che, se pure il momento in cui un personaggio entra o esce rimane sem­ pre ovviamente determinato dall’autore, il motivo di quel movimento raramente è lasciato in dubbio e, se pure non viene esplicitamente indicato, può essere con facilità in­ tuito. Le entrate e le uscite dei personaggi sono, così, reazioni naturali alle situazioni sorte nello sviluppo della trama, e non compaiono fattori estranei ed arbitrari, come il famoso orso che provoca l’uscita di Autolico ne II rac­ conto d’inverno di Shakespeare. È chiaro che le difficoltà

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connesse ad una tale organizzazione dello svolgersi della commedia aumentavano di molto se Menandro aveva lo svantaggio di non poter impiegare più di tre attori; ma su questo problema l’accordo è lungi dall’essere raggiunto. Nelle commedie di cui ci sono rimasti dei brani non ci sono scene nelle quali prendano la parola più di tre personaggi, anche se talora, oltre ai parlanti, ne restano sul palcoscenico uno o due che pure, in un altro momento, hanno pronunciato battute. I personaggi muti venivano in questo caso impersonati da « comparse » che indossavano le maschere precedentemente portate dai veri attori. La restrizione dei personaggi parlanti a tre compare anche nelle commedie menandree adattate da Plauto, e può essere applicata anche a quelle adattate da Terenzio: le modifiche introdotte da quest’ultimo, tuttavia, sono troppo discusse perché dalle sue opere si possano trarre prove irrefutabili. Tale restrizione è stata considerata da alcuni studiosi autoimposta, e dovuta o alle difficoltà — sicu­ ramente esagerate — di scrivere dialoghi a quattro voci, o a quelle di riconoscere, in un grande teatro all’aperto, chi stava parlando in un gruppo di attori mascherati, o ad una preferenza artistica per la semplicità. L’ultima spiegazione è la più difficile da combattere, perché l’accettare od il rifiutare la supposizione su cui è basata (che, cioè, quattro attori parlanti avrebbero offeso la sensibilità estetica di Menandro) dipende da un atto di pura e semplice intuizione; non può dunque essere van­ taggioso discuterne. Certamente le maschere impedivano allo spettatore di servirsi, per individuare chi parlava, del movimento delle labbra, ma le parole — come ancor oggi accade, più frequentemente che da noi, nelle regioni meridionali dell’Europa — potevano essere accompagnate da gesti in grado di facilitare l’identificazione. Se le cose andavano così, individuare chi in realtà stesse parlando non avrebbe dovuto essere più difficile nel caso di quat­ tro personaggi che in quello di tre, specialmente se i quattro erano divisi in due coppie, collocate forse ai lati opposti del palcoscenico ed impegnate ciascuna in un dia­ logo a parte. Ma di scene del genere non abbiamo esempi.

Si può anche osservare che non possediamo scene in cui uno dei tre personaggi che hanno partecipato al dialogo esca per essere immediatamente rimpiazzato da un quarto: una scena del genere, tuttavia, non avrebbe mai richiesto alPuditorio di operare una distinzione tra più di tre attori alla volta. La più ovvia spiegazione del fenomeno che stiamo esaminando consiste nel supporre che Menandro scrisse le sue opere in maniera tale da poter essere interpretate da compagnie di soli tre attori. Si sa che le compagnie che visitavano Delfi nel terzo secolo si componevano di tre attori, cinque o sette coreuti ed un flautista, e Menan­ dro, per quanto l’esistenza di compagnie così strutturate ai suoi tempi sia una pura congettura, può aver avuto in mente una troupe del genere. Poiché tuttavia diverse com­ medie menandree erano composte in vista di una « pri­ ma » in occasione delle grandi feste ateniesi, è possibile che la stessa limitazione fosse anche lì presente. Le com­ pagnie viaggianti, quindi, possono aver avuto tre attori proprio perché tale era il numero impiegato nell’esecu­ zione originaria. Si è generalmente d’accordo sul fatto che le tragedie venivano recitate da tre attori: la testimonianza esplicita di Aristotele trova innumerevoli conferme. D ’altra parte alcune commedie aristofanee ne richiedono un minimo di cinque, così che viene spontaneo chiedersi se la commedia non giunse forse ad accettare, in questo caso, una limi­ tazione originariamente propria della sola tragedia. È pos­ sibile che una regola del genere sia stata introdotta per­ ché i contendenti combattessero ad armi pari, nel senso che nessun drammaturgo doveva avvantaggiarsi della pos­ sibilità di servirsi di un più folto numero di attori. Poi­ ché l’attore principale, assegnato all’autore dalla sorte, era pagato a spese dello Stato e si serviva probabilmente di tali introiti per salariare i suoi assistenti, non è da escludersi che si sia cercato di proibire che attori od autori ricchi si servissero di una troupe più ampia della media. Tutto ciò, bisogna confessarlo, è speculazione. Se noi tuttavia assumiamo che le commedie venissero scritte per

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essere recitate da soli tre attori, guadagniamo una spie­ gazione del modo in cui alcune uscite erano regolate. Nel Dyskolos {Il bisbetico), ad esempio, Davo non accom­ pagna ai campi il padrone Gorgia e Sostrato, ma esce per primo, dicendo loro di seguirlo. Questo comportamento, perfettamente in carattere con il personaggio — uno stre­ nuo lavoratore desideroso di tornare alle sue fatiche — non fa avanzare l’azione di un palmo, ma è necessario per permettere allo stesso attore di rientrare immediata­ mente in scena, questa volta nel ruolo di Sicone. Nem­ meno Sostrato, del resto, esce poi con Gorgia, ma resta indietro e si rivolge al pubblico; la causa di ciò è che l’attore-Gorgia deve interpretare anche Geta, l’amico di Sicone, e, poiché si viene a sapere che Geta stesso è caduto sotto il peso del bagaglio che porta, ecco giustificato il tempo concesso all’attore per cambiarsi e ripresentarsi nel ruolo nuovo. Nel Sicionio Terone entra in scena per dire a Stratofane che il padre della fanciulla che l’altro ama è stato trovato ma, nonostante sia di carattere un curio­ sone, non ritorna alla ribalta con lui: l’attore doveva interpretare Stratofane stesso. Una limitazione degli attori a tre era dunque possi­ bile solo se le parti venivano di tanto in tanto scambiate, se, ad esempio, nella Samia {La donna di Samo) il ruolo di Parmenone veniva interpretato da un attore negli atti primo e quinto, e da un altro attore nell’atto terzo. In un teatro completamente realistico ciò sarebbe stato im­ possibile, ma il teatro di Menandro non era di quel tipo; già il fatto che gli attori portassero maschere è sufficiente a mostrare che la platea si accontentava di un realismo alquanto limitato. Portando la maschera di A era nor­ male che un attore diventasse A, poiché era attraverso la maschera piuttosto che attraverso la voce o la statura che A veniva riconosciuto. A parte questa considerazione di principio, gli scom­ pensi creati dalle differenze tra gli attori impersonanti lo stesso uomo potevano, volendo, esser ridotti al minimo; anzitutto, individui particolarmente alti o bassi potevano essere considerati inadatti al mestiere di attore; in secondo 94

luogo, quando l’attore differenziava le voci dei diversi personaggi da lui interpretati nella stessa commedia, egli si serviva certo, a tale scopo, di quell’arte imitativa, oggi un po’ fuori moda, che gli consentiva di mascherare la sua propria voce; la stessa tecnica deve essere stata sfrut­ tata dai differenti attori che recitavano la stessa parte: essi potevano entrambi o tutt’e tre parlare in modo simile, esattamente come potevano unificare i loro movimenti e gesti. In conclusione, deve essere sottolineato che gli argo­ menti favorevoli ad una limitazione a tre degli attori non sono cogenti poiché, in sostanza, il fatto che una commedia potesse venir recitata da tre soli attori non prova positivamente che essa così veniva recitata. Anche se tale limitazione fosse stata la regola ad Atene, è pos­ sibile che essa non fosse in vigore in altri luoghi, ed è anche possibile che nelle stesse feste ateniesi soffrisse delle eccezioni. La scoperta di un nuovo papiro potrebbe aprire una breccia nella norma, e già oggi abbiamo due o tre commedie latine, adattate da Difilo e Apollodoro, nelle quali non sono sufficienti semplici modifiche a ristabilirla. In quelle commedie, più di una dozzina, a proposito delle quali si può esprimere un giudizio, appare o certo o altamente probabile l’uso da parte di Menandro di una struttura articolata in cinque atti più un prologo espo­ sitivo. Le poche informazioni in nostro possesso sulla Commedia di mezzo rendono impossibile decidere se si trattasse di convenzioni già stabilite ed adoperate rego­ larmente o se fu il suo esempio a ratificare quanto pre­ cedentemente era stato solo sperimentato. Ad ogni modo, tuttavia, in questo caso come altrove Menandro deve essere visto come l’erede di una tradizione, all’interno della quale operava, ma alla quale apportava anche delle novità. Può esser stata, ad esempio, una sua personale iniziativa il dare, in diverse commedie, un posto alquanto sorprendente al « prologo », ponendolo dopo un dialogo di apertura; la situazione anomala si rivelava tuttavia ricca d’effetto, in quanto l’attenzione dell’uditorio veniva così 95

immediatamente afferrata da una scena emozionante, che rivelava parzialmente la situazione di partenza della com­ media ma che era anche intesa a mettere fuori pista gli spettatori. Essa mostrava infatti le circostanze come appa­ rivano ad uno o più personaggi; questi ultimi, tuttavia, ignoravano alcuni elementi determinanti che, una volta conosciuti dalla platea, avrebbero provocato un mutamento radicale nella risposta emotiva che gli spettatori davano a ciò che veniva loro presentato. La divinità che parla nel prologo, però, è meglio informata dei protagonisti stessi, ed è quindi in grado di rimettere sulla strada giusta il pubblico. Nella scena d’apertura dell’Aspis (Lo scudo) lo schiavo Davo riferisce la morte in una campagna militare del suo giovane padrone ed il mal dissimulato interesse mostrato dall’avido zio per il considerevole bottino del nipote. Solo in un secondo momento la dea Fortuna, protagonista del « prologo », non solo spiega per filo e per segno le rela­ zioni familiari tra i personaggi ed espone i piani dello zio per impadronirsi del patrimonio del nipote morto serven­ dosi del suo legittimo diritto di sposarne la sorella, nono­ stante che essa stia per andare in sposa ad un altro, ma rivela anche e soprattutto che il giovane è in realtà ancora vivo e che, dopo un periodo di prigionia, è sul punto di ritornare a casa; tutti gli sforzi dell’avido zio saranno dunque fatica sprecata. Anche nella Perikeiromene (Trecce tosate) il « pro­ logo » è posposto ad una scena d’apertura, che purtroppo non ci rimane ma che può essere ricostruita con una certa sicurezza nelle sue linee generali. Un soldato, di ritorno da una spedizione, si incontrava con lo schiavo che egli precedentemente aveva mandato avanti. Questi gli rife­ riva di aver sorpreso la sua giovane compagna mentre si lasciava baciare ed abbracciare sulla soglia di casa da un giovanotto. In preda ad un attacco di gelosia il soldato tagliava allora alla ragazza i lunghi capelli. Giungeva poi alla ribalta la dea Incomprensione a porre la questione in altri termini: la fanciulla sapeva in realtà che il giova­ notto era suo fratello, nonostante che questi lo ignorasse, 98

e c’era anche una spiegazione del come essi erano giunti ad incontrarsi e del perché la ragazza non aveva potuto rivelare al fratello le loro vere relazioni. Infine la dea prometteva che, nel seguito, i due avrebbero trovato la famiglia di appartenenza, e che tutto l’imbroglio si sarebbe risolto bene. Menandro non esitò a servirsi delle figure tradizional­ mente messe in caricatura dalla Commedia di mezzo, sol­ dati, cortigiane, cuochi e così via, ma non si accontentò di ripeterne semplicemente le caratteristiche tradizionali; quando si serviva di vecchi temi egli o ne faceva solo un elemento nella creazione di personaggi sostanzialmente individuali o li modificava, giungendo talora anche ad opporsi alla tradizione per ottenere, con la sua tratta­ zione di determinati soggetti, un effetto di sorpresa. Il cuoco era sempre stato rappresentato come un curiosone, un chiacchierone ed un borioso; Sicone nel Dyskolos mostra curiosità nel chiedere a Geta informa­ zioni sul sogno della sua padrona; non è propriamente verboso ma si serve, nel parlare a se stesso, di un voca­ bolario ricco di formule di giuramento e metafore, ed infine si vanta, anche se non della sua cucina, della sua ampia clientela e della propria abilità nel chiedere in prestito utensili. La sua presunzione è ben chiara dalla reazione alla caduta di Cnemone nel pozzo: Le ninfe lo hanno punito per conto mio, gli sta bene. Mai la scampa chi la fa a un cuoco! Il mestiere nostro è come se fosse sacro (trad. B. Marzullo). Il cuoco dell’Arpff, al contrario, che appare mentre abbandona e non, come al solito, mentre prende possesso del suo posto, si lamenta che le cose gli vanno sempre male. Il cuoco della Samia entra in scena con grande sfog­ gio di chiacchiere e di domande, ma viene costretto a tagliar corto; più tardi cerca con affettata benevolenza di intervenire quando Demea caccia di casa Criside. Tutti questi cuochi esibiscono o contraddicono le caratteristiche 99

tradizionali, ma lo fanno brevemente e con frasi ben inse­ rite nell’intreccio della trama e del dialogo. La stupidità, arroganza e volgarità del soldato di pro­ fessione, insieme all’abitudine congenita di ingigantire le proprie imprese, erano tutte certamente caratteristiche messe in bella mostra nel Kolax (L adulatofe) da quel Biante che costituì poi il modello del Trasone dell Eunuchus. I tre soldati che compaiono nelle commedie parzial­ mente sopravvissute, tuttavia, sono tratteggiati con sim­ patia. Nel Misumenos {L’odiato), ad esempio, il vero eroe della commedia è proprio quel Trasonide che, pazzo d’amore per una prigioniera in suo potere, non le torce un capello quando essa lo rifiuta e, generosamente, le concede la libertà senza riscatto all apparire del padre. Certo, egli aveva parlato delle sue imprese, e questo era un motivo tradizionale, ma si può supporre che ciò fosse necessario alla struttura della commedia, in quanto pro­ prio attraverso una di queste storie la fanciulla comincera a sospettare il soldato di averle ucciso il fratello; e non c’è neppure motivo di credere che egli, raccontandole, esagerasse, poiché lo stesso prologo ci parla del servizio da lui reso con onore. Anche nello Stratofane del Sicionio {L’uomo di Si­ done) non v’è traccia dei difetti tradizionali, ed anzi il suo modo di agire è pratico e deciso; egli non dimentica, per esempio, proprio nel momento in cui sembra sul punto di assicurarsi la fanciulla che ama, di dare ordini per l’acquartieramento agli uomini di cui e responsabile, e si può dunque credere che fosse un buon ufficiale. D al­ tro canto Polentone, nella Perikeiromene, non fa sfoggio né delle qualità tradizionali del soldato da commedia ne di quelle richieste sul campo; egli è sconsiderato, insicuro ed impulsivo, ma si attira la simpatia del pubblico per il suo smarrimento di fronte alla situazione da lui stesso creata con l’oltraggio alla donna che ama, per la sua dispe­ razione alla sola idea di perderla, per il suo compiacimento alla scoperta, da parte della ragazza, del fratello. Allo stesso modo la cortigiana egoista, avida, falsa ed infedele, nonostante che, senza dubbio, fosse una figura 100

comune nella vita di tutti i giorni, non era, secondo Menandro, il solo tipo umano che in quella professione si potesse trovare. Il poeta mette in scena un’ampia gamma di etere. Abrotono negli Epitrepontes {I contendenti) è ancora giovanissima ed ancora schiava, bella e buona d’in­ dole, ma proclive all’inganno, non solo per aiutare altri, ma anche nella speranza di guadagnarsi con qualche trucco la libertà. La Criside della Samia è più matura, ed è attac­ cata al piccolo che fa passare per suo; la sua bugia è rac­ contata con le migliori intenzioni, ma viola la lealtà da lei altrimenti mostrata all’uomo cui appartiene. Per altre caratterizzazioni dobbiamo volgerci agli adattamenti latini. La Bacchide dell’Heautontimorumenos {L’uomo che punì se stesso) è una « cercatrice d’oro » senza scrupoli, ma Taide, neìl’Eunuchus, si comporta con dignità quando, ingannata, vede apparentemente frustrati i suoi sforzi di far tornare Panfila incolume in famiglia. A dire il vero il suo movente non è puramente altruistico, poiché ella spera, così facendo, di acquistarsi l’amicizia e la prote­ zione dei parenti della ragazza, ma il mondo di Menandro, come il mondo reale, non è un mondo di individui ciechi ai loro interessi personali. Menandro non fu il primo ad abbandonare lo stereotipo dell’etera cattiva; già Antifane aveva scritto: L’uomo di cui io parlo vide un’etera che viveva alla porta accanto e se ne innamorò; lei era cittadina di nascita, ma senza tutore o parenti, ed aveva un carattere d’oro per bontà — una vera « compagna » 2. Altre donne fanno offesa a que­ sto nome — un nome davvero elevato — con la loro condotta. L’innovazione è giustificata qui dalla nascita cittadina della donna, mentre Menandro estese più oltre la sua simpatia umana. Egli tuttavia si adeguò a quella che pare esser stata una regola fissa nella Commedia nuova: una fanciulla di nascita cittadina deve o rimaner vergine fino al matrimonio o restar fedele al suo primo amante e spo­ sarlo non appena il matrimonio diviene possibile. 2 « Compagna » è il significato letterale della parola « etera ».

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In Menandro è notevole anche la presenza di uria. grande varietà di schiavi ben individualizzati e tratteggiati con una certa simpatia; egli non li considera puri e sem­ plici strumenti nelle mani del padrone o espedienti per intermezzi comici: essi agiscono, mossi da motivazioni proprie, all’interno di una struttura creata dalle azioni, qualità ed intenzioni dei rispettivi padroni, esercitando quindi un’influenza su quanto succede, pur senza dirigere gli eventi. Una tale rappresentazione, a quanto è dato supporre, non doveva deformare di molto la reale situa­ zione in molte famiglie d ’Atene. Questo metodo compositivo, che dà larga parte agli schiavi e sviluppa la loro personalità alla stessa scala di quella dei padroni, è una testimonianza dell ampiezza degli interessi e delle simpatie del poeta; egli non consi­ dera gli schiavi creature diverse dai liberi, poiché tutti gli uomini sono esseri umani, e l’attenzione dell’artista deve calarsi su ciascun uomo. È facile rilevare il contrasto con l ’impostazione di molti drammaturghi occidentali, nelle cui commedie i servi delle famiglie benestanti hanno in genere un ruolo del tutto sussidiario. Eccezioni come VAdmirable Crichton di Barrie ed il Figaro di Beaumarchais furono proteste contro chi riteneva esseri inferiori tutti gli appartenenti alle classi più basse, ma tali perso­ naggi non vennero presentati come esponenti tipici della loro condizione sociale: si tratta pur sempre di eccezioni, destinate a rimanere tali. Le recenti scoperte, se da un lato hanno arricchito la nostra conoscenza di Menandro, dall altro hanno reso sempre più diffìcile generalizzare sul suo conto esprimendo concetti assoluti. Le sue commedie sono come una grande famiglia di fratelli e sorelle, riconoscibili tutte come opera sua, aventi ciascuna determinate caratteristiche in comune con le altre, ma ognuna precisamente individualizzata. Plu­ tarco, tuttavia, vide in esse un elemento comune, Eros, l’amore. Il termine greco ha un significato che ricalca quello che ha nelle lingue moderne, senza pero coinci­ dere perfettamente; esso, infatti, è più strettamente asso­ ciato con la passione ed il desiderio sessuale, e talvolta 102

non significa nient’altro che questo. È facile, tuttavia, che esso si associ ad impulsi più altruistici, come rispetto, lealtà, generosità, desiderio che la persona amata sia felice. « Io so — dice Callippide nel Dyskolos — che ciò che dà sicurezza al matrimonio di un giovane è il fatto che è Eros che lo spinge a contrarlo ». Nonostante tuttavia che Eros sia in tutte le commedie una forza trainante dell’azione, non ne costituisce — al­ meno di solito — il soggetto principale. Come interesse centrale, infatti, esso sarebbe stato ristretto e limitante per l’autore, che già doveva soffrire le restrizioni ancora più ampie esercitate su di lui dai costumi sociali del tempo, che ostacolavano quasi del tutto i contatti tra giovani e fanciulle in età da matrimonio. Eros spesso mette in moto la commedia, come nel caso del Dyskolos, della Perikeiromene e della Samia, ma non sempre è, necessariamente, la causa originaria dell’azione. Nell’AipA questa causa è l’avidità di Smicrine, che trova poi resi­ stenza nel momento in cui viene a minacciare l’eros di Cherea. Il soggetto centrale del Dyskolos è la misantropia di Cnemone, di cui si mostra la poca utilità tanto per lui quanto per gli altri; uno dei soggetti secondari è però la desiderabilità dell’amicizia tra il ricco ed il povero, ed il reciproco aiuto che essi possono portarsi. Nella Samia il tema ricorrente sono le relazioni tra padre e figlio, le tensioni alle quali vengono sottoposte, ed il fatto che, alla fine, esse rimangono in piedi. L’originale degli Adelphoe di Terenzio, gli Adelphoi B, così chiamati per distin­ guerli dall’altra commedia di Menandro intitolata Adel­ phoi (Fratelli), rivolgono anch’essi molta attenzione al problema delle relazioni tra padre e figlio, mettendo a confronto due modi di educazione completamente diversi. Gli Epitrepontes sono una commedia dal contenuto straor­ dinariamente ricco, ma, nonostante che le varie scene si sviluppino ciascuna per proprio conto, la minaccia all’unità di azione è tuttavia annullata dall’abile connessione delle diverse parti alla situazione centrale, e cioè alle difficoltà insorte tra Carisio e la giovane moglie; egli ha saputo 103

che quest’ultima era incinta al momento del matrimoniò, e che ha in sua assenza esposto il bambino; di conse­ guenza si è ritirato a casa di un amico ed ha noleggiato un’etera, forse con l’obiettivo di costringere la moglie al divorzio e porre così fine al loro rapporto senza pregiu­ dizio per il suo buon nome. Il padre della donna, che non sa nulla del bambino, la incita a decidersi in questo senso ma ella, in una scena perduta che Carisio si trova casualmente ad ascoltare, rifiuta una tale soluzione. Aven­ do nel frattempo saputo di aver egli stesso generato, in seguito ad una violenza fatta in occasione di una festa, un figlio prima del matrimonio, Carisio si accorge di quanto spregevole sia la propria condotta nei riguardi della moglie, e si persuade di doversi riunire a lei. Solo una volta che questo mutamento d’animo si è operato assistiamo alla rivelazione che la ragazza da lui violentata era proprio sua moglie, e che il piccolo, nel frattempo recuperato, è quindi figlio di entrambi. Carisio e in scena solo per otto versi alla fine del quarto atto, ma il com­ plesso della commedia è incentrato su di lui e sul tema della fedeltà matrimoniale. È vero però che l’importanza che in alcune commedie hanno temi trascendenti gli interessi particolari degli indi­ vidui che li illustrano non deve indurci a cercare dapper­ tutto motivi del genere, poiché Menandro era uno scrit­ tore di commedie, non un sociologo, ed il suo interesse primario rimaneva la composizione di opere divertenti con una buona trama, come le Synaristosai (Un banchetto di donne) o il Dis exapaton (Doppio inganno), gli origi­ nali rispettivamente della Cistellaria (La scatoletta) e delle Bacchidi plautine. Dal momento che non c’è una regola fissa per scri­ vere commedie divertenti, non ci meraviglieremo di riscon­ trare in Menandro una considerevole varietà di forme. Il Sicionio sembra essere quasi del tutto serio, uno stimo­ lante dramma ricco di colpi di scena, che si innalza talora ad un livello stilisticamente più elevato di quanto nella commedia fosse abituale; nella Verikeiromene la scena in cui il padre riconosce la figlia da lungo tempo perduta 104

è composta in sticomitia, cioè per versi alternati, con 1 in­ tento allo stesso tempo di rappresentare la reciproca emo­ zione e di far risaltare divertenti imprestiti dal linguaggio tragico. In nessuna di queste commedie, ad ogni modo, c’è qualcosa che provochi un riso clamoroso, come le cita­ zioni tragiche deliberatamente assurde di Davo nelPArp/r. La Samia ha solo sei personaggi, uno dei quali, per di più, non influenza la trama; le Synaristosai paiono in­ vece averne avuti undici, senza contare il dio che parlava nel prologo, e ben sei tra di essi erano donne, che face­ vano la parte del leone in questa commedia sotto tale aspetto unica. Alcune commedie, come il Dyskolos — opera giovanile — ed i tardi Epitrepontes, raggiungono già nel quarto atto il punto in cui l’appagamento finale di Eros sembra assicurato e, dopo di ciò, presentano delle scene che portano avanti altri temi o che servono a concludere tra l’ilarità la commedia. Nel Misumenos e nel Sicionio il lieto fine per l’innamorato è posposto fin quasi al ter­ mine, e non v’è traccia di una conclusione in grado di far esplodere le risate di chiusura. Una tale varietà può indurre qualcuno a domandarsi se lo Stichus plautino non abbia con gli Adelphoi A di Menandro, che si dice ne siano l’originale, una relazione più stretta di quanto non si ritenga di solito dalla mag­ gioranza degli studiosi. Si tratta di una commedia pres­ soché senza trama, formata da otto scene o sketches con­ nessi tra di loro in maniera assai superficiale; queste scene, tuttavia, sono chiaramente articolate in cinque atti, la qual cosa suggerisce che Plauto, che per suo conto scriveva per delle rappresentazioni non intervallate, le abbia derivate già dal suo originale greco. Se così è, allora Menandro può per un qualche motivo, fretta o sperimentazione che sia, aver abbandonato in questo caso la sua abituale cura per la costruzione dell’intreccio. Per quanto sia impossibile trovare una commedia « ti­ pica » di Menandro, la Samia può servire come esempio del genere di cose che nelle sue opere ci si può aspettare di trovare. Il seguente riassunto, largamente sommario, 105

può dare solo un’idea assai sbiadita dei pregi della C 9 Ù 1media in questione, ed anche i brani tradotti non possono far altro che offrire il senso-base delle parole, senza tut­ tavia minimamente riprodurre l’abilità della versificazione. Anche se una resa in versi fosse stata tentata, essa sarebbe risultata insufficiente; il verso sciolto è infatti l’unica forma metrica moderna con la quale si possa rappresen­ tare il trimetro giambico greco ma, rispetto ad esso, ha troppo poche leggi. La Samia non ha bisogno che un dio introduca la platea a segreti ignoti ai personaggi umani, poiché non ce ne sono; una descrizione pressoché completa dei pre­ supposti dell’azione viene quindi data, in un monologo d’apertura, dal giovane Moschione. Accettare la presenza del pubblico non è per lui un problema e, senza difficoltà, inizia subito a raccontare (di essere il figlio adottivo di un ricco padre)3, educato di conseguenza ed in grado di aiutare gli amici più poveri. Demea, suo padre, ha fatto di lui un essere umano completo, ed egli cerca di mostrar­ gli riconoscenza mediante un comportamento irreprensi­ bile. Ad un certo punto, però, Demea è stato preso da una passione per una donna di Samo, un’etera, e, vergo­ gnandosi di un tale sentimento, ha cercato di nasconderlo. Moschione si è tuttavia accorto di tutto e, rendendosi conto che il padre, a meno di non riuscire a tenere la donna sotto diretto controllo, sarebbe certo stato distur­ bato da più giovani rivali (lo ha incoraggiato a mettersi in casa la donna, il cui nome è Criside. Partito per un viaggio all’estero con un poveruomo di nome Nicerato, suo vicino, Demea ha poi lasciato a casa la donna, fattasi nel frattempo amica della giovane figlia e della moglie di Nicerato). Tornato di corsa dalla fattoria — continua M oschione — ■ le trovai tutt’e tre riunite in casa nostra con delle altre donne

3 Nel testo come ci è pervenuto ci sono delle lacune; mi sono dunque servito di parentesi per racchiudere la materia di cui si può supporre la presenza, appunto, nei passi mutili.

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per celebrare la festa di Adone... Il rumore che facevano non mi fece prender sonno; sollevavano piante al soffitto, danza­ vano e vegliavano, sparse qua e là per la casa. E sito a dire il resto, per quanto forse vergognarsi non serva a nulla. E p­ pure m i vergogno. La fanciulla rimase incinta. D icendo questo vi ho d etto anche ciò che accadde prima. Ero in colpa e non lo negai. Andai spontaneamente dalla madre della ragazza e promisi di sposarla appena mio padre fosse tornato; lo pro­ misi solennem ente. Quando il piccolo nacque lo riconobbi, non m olto tempo fa. Per una felice coincidenza accadde che Criside (aveva poco prima partorito anch’essa un bambino, che presto era morto; ella prese allora in cambio il figlioletto della ragazza, e fu cosi che lo potem m o tenere con noi.

Il giovane a questo punto esce, e Criside viene fuori dalla casa: poco dopo ella) vede tornare Moschione, accom­ pagnato dallo schiavo Parmenone, che egli sembra aver incontrato casualmente. Parmenone gli dice di aver visto Demea e Nicerato di ritorno dai loro viaggi e lo invita ad aver coraggio ed a sollevare una volta per tutte la que­ stione del matrimonio. « Come? Ora che è giunto il mo­ mento mi sento tornare vigliacco, e mi vergogno di affron­ tare mio padre ». « Che ne sarà allora della ragazza che hai compromesso e di sua madre? ». A questo punto Cri­ side si fa riconoscere e, mentre Parmenone continua a spiegare i motivi per cui, a suo parere, il matrimonio deve assolutamente aver luogo, Moschione rientra in se e promette di mantenere l’impegno preso. I tre riconfer­ mano dunque il loro piano, secondo il quale Criside deve sostenere di essere la madre del bambino; Demea si arrab­ bierà 4 — dice Moschione — ma Criside è sicura che sarà una rabbia che sbollirà presto, poiché sa bene quanto egli la ami; cercherà quindi di fare ogni cosa per evitare che il bambino sia portato fuori di casa per essere tenuto a balia in qualche tenuta di campagna. (Parmenone e Cri­ side entrano poi in casa, mentre) Moschione si dirige verso qualche posticino tranquillo per « provare » ciò che 4 Demea non poteva supporre che Criside avrebbe concesso al bambino di vivere senza il suo assenso; ma il periodo di tempo in cui rinfanticidio era ancora possibile è ormai passato.

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dovrà dire al padre nel loro prossimo incontro. Il palcoscenico è dunque vuoto, ed entrano ora Demea e Nicerato, accompagnati dagli schiavi col bagaglio, felici di essere di nuovo a casa, ad Atene; Bisanzio ed il Mar Nero sono posti terribili:

Una sola conclusione si può trarre da queste battute, ed è che i due genitori si sono accordati su un matri­ monio tra i rispettivi figli. Il ricco Demea insiste sul fatto che l’idea è stata sua, e con grande tatto lascia che l’amico

povero creda che è il suo consenso ad essere richiesto. I timori di Moschione sono dunque senza fondamento, e la commedia sembra bell’e finita (nel momento in cui i due padri entrano nelle rispettive case). L’atto secondo è gravemente mutilo ma, mentre era facilmente prevedibile a questo punto che intervenissero delle complicazioni, non sembra proprio che ulteriori dif­ ficoltà sopravvengano prima della loro soluzione, ed an­ cora una volta la commedia pare così minacciata da una fine prematura. Moschione, di ritorno da un tentativo poco fortunato di « provare » la sua confessione, incon­ tra finalmente il padre, lo saluta e gli chiede il motivo del suo palese malumore. Demea gli risponde che ormai gli pare di avere una moglie, non più un’etera, poiché Criside gli ha fornito un figlio senza il suo consenso: che se ne vada al diavolo ora, però, lei ed il bambino! Mo­ schione si oppone esprimendo nobili sentimenti: « Chi di noi, in nome del cielo, è un legittimo e chi un bastardo, se è nato uomo? ». (Demea viene rapidamente persuaso a tenersi Criside ed il presunto figlio, ed altrettanto rapi­ damente scopre, con sorpresa, che Moschione già ama la fanciulla a lui destinata). Egli si accinge allora a chiedere a Nicerato l’assenso a che il matrimonio si svolga addirit­ tura in giornata e, mentre Moschione esce di scena, rapi­ damente ottiene il consenso dello stupefatto vicino emanda poi il perplesso Parmenone in cerca di un cuoco e di vivande al mercato. Nicerato, prima di seguire lo schiavo, passa a parlare della cosa con la moglie, dalla quale ci si aspetta qualche difficoltà. Atto terzo. Esce Demea e, in una lunga tirata di più di ottanta versi racconta al pubblico un inatteso sviluppo della situazione, che lo ha messo in agitazione ed in dub­ bio. Egli inizia descrivendo l’affaccendato scenario della propria casa, percorsa da un turbine di schiavi messi, in moto dall’ordine improvviso di preparare le nozze; si era tolto di mezzo il bambino adagiandolo su di un letto, dove giaceva strillando, ed i domestici si davano da fare alla ricerca di farina, acqua, olio e carbone. Lo stesso Demea stava dando una mano ed era andato in dispensa;

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Nicerato In quelle regioni ciò che più mi sorprendeva, De­ mea, era il fatto che talora non si poteva vedere il sole per giorni e giorni. Era come se una spessa caligine lo oscurasse. Demea No. Il buon vecchio sole, guardando da quella parte, non avrebbe potuto vedere nulla che ne valesse la pena, e così brillava per quella gente solo il minimo indispen­ sabile. Nicerato Per Dioniso, hai ragione! Demea Bene! Lasciamo che se ne preoccupi qualcun altro. Che ne pensi allora di quella cosa di cui stavamo par­ lando poco fa? Ovviamente Demea non crede alla sua meteorologia antropomorfica, e si diverte in realtà a spacciarla per buona a Nicerato, la cui semplicioneria viene così imme­ diatamente caratterizzata fin dal suo primo apparire in scena. Il brano serve anche a spianare la strada ad una situazione simile, in un contesto serio, alla fine del quarto atto, ma, in sostanza, tutto questo parlar del viaggio serve solo a far meglio spiccare, per contrasto, la risposta all’ultima domanda: Nicerato Ti riferisci al discorso sul matrimonio di tuo figlio? Demea Certo. Nicerato La penso sempre allo stesso modo. Fissiamo il giorno, e che tutto si svolga sotto i migliori auspici. Demea Siamo d’accordo, allora? Nicerato Per quel che mi riguarda, sì. Demea Anche per me va bene, e fin dal primo momento.

mentre si trova lì, ecco che una vecchia, un tempo sua schiava e nutrice di Moschione, scende per una scala dal piano di sopra nella stanza della tessitura, adiacente alla dispensa e vedendo il piccolo piangere senza che nessuno gli badi, non sapendo che io sono in casa e credendosi dunque padrona di chiacchierare in libertà, comincia con la solita solfa: « Figlio­ letto caro! », e: « Che tesorino!, e la mamma dov’è? », e lo bacia e se lo porta in giro per la stanza. Appena poi ha finito di piangere, dice a se stessa: « Povera me! Mi sembra ieri quando allattavo e vezzeggiavo Moschione piccolo così, ed ecco che ha già avuto un figlio tutto suo di cui mi possa occupare ». A questo punto entra dentro di corsa una ragazza: « Lava il bambino » le dice; « E che? Non ti puoi occupare del figlio mentre il padre si sposa? ». E subito l’altra « Stai parlando a voce troppo alta! Il padrone è in casa ». « Non sia mai! Dove? ». « In dispensa »; e poi, mutando voce: « Nutrice, la signora ti chiama », e: « Sbrigati! Presto! Non ne sa ancora nulla. Che fortuna! ». « O povera me », dice la vecchia, « quanto chiacchiero! », e si leva di mezzo, non so per andare dove. Allora uscii dalla dispensa precisamente nello stesso modo in cui proprio ora sono giunto qui, in tutta calma, come se non avessi ascoltato nulla e di nulla mi fossi accorto, e la vidi, la donna di Samo, mentre, fuori di sé, lo teneva tra le braccia e lo allattava: era chiaro che il bambino era suo, ma chi fosse il padre, se il figlio fosse mio o... no, signori, non lo dirò, non lo sospetterò, mi sto solo limitando ad esporvi i fatti, ciò che io stesso ho ascoltato, senza lasciarmi prendere dalla rabbia, non ancora, almeno. So bene che il ragazzo è sempre stato finora educato, e che si è mostrato nei miei confronti rispettoso come più non avrebbe potuto essere. D’altro canto, però, se penso che chi parlava era stata la sua balia, e che parlava senza sapere che la stavo ascol­ tando, e che l’altra al bambino gli vuol bene, che ha insistito per allevarlo personalmente, contro i miei desideri... mi sento del tutto fuori di me. Si tratta di un discorso ben congegnato: le frasi ini­ ziali preludono ad una qualche catastrofe, ma i vivaci dettagli che le seguono non contribuiscono a gettar luce al proposito fin quando essa non scoppia improvvisa sul capo degli spettatori, così come era avvenuto per lo stesso 110

Demea. Allora, per un’ironia della sorte, la sola cosa che questi crede di sapere viene ad essere precisamente quella in cui si sbaglia, ed egli, secondo uno schema di condotta che ritroveremo altrove, pur sforzandosi di rimanere calmo, alla fine esplode, in preda ad un’indignazione incontenibile. Al momento, tuttavia, Demea riesce a riacquistare l’autocontrollo proprio in concomitanza col ritorno di Parmenone dal mercato, provvisto di cibarie ed accom­ pagnato da un cuoco, alla cui loquacità lo schiavo pone un freno già prima di introdurlo in scena. Il padrone gli dice, una volta portato in casa il cuoco, di tornar fuori e, nel frattempo, preannunzia all’uditorio che intende estorcergli la verità; quando dunque Parmenone, pieno di baldanza, esce di casa rivolgendo a Criside le ultime raccomandazioni, gli spettatori possono gustare a pieno la sua improvvisa costernazione alle parole d’esordio del vecchio: « Stammi a sentire, Parmenone, ci sono diversi motivi per i quali non voglio esser costretto a frustarti », seguite dalla precisa richiesta: « Il bambino, di chi è? ». « È di Criside! ». « E chi ne è il padre? ». « Tu, a quanto lei dice ». A queste parole Demea esplode, dichiarando di sapere benissimo che si tratta del figlio di Moschione, come anche lui, Parmenone, sa perfettamente: tutti lo dicono! Parmenone allora non vede più speranza di sal­ vare il gioco e si prepara a spiegare tutto... ma sfortuna­ tamente comincia con queste parole: « Si voleva mante­ nere il segreto », e così Demea suppone che egli intenda « mantenere segreto il legame tra Moschione e Criside »; infuriato, il padrone manifesta allora allo schiavo la sua intenzione di marchiarlo a fuoco [letteralmente: tatuarlo] sul momento. Terrorizzato, Parmenone si affida alle gambe, lasciando solo sulla scena Demea che, con grande sforzo, riguadagna il controllo di sé. Ancora una volta egli si rivolge ora al pubblico: certo il figlio deve essere stato sedotto da Criside; l’impazienza di sposarsi mostrata da Moschione non è dovuta ad amore, ma al desiderio di sfuggire dalle grinfie dell’etera; tutta la sua condotta pre­ cedente mostra che egli non è tipo da comportarsi immo­ ralmente ed in maniera sleale.

Ma quella donna è una dannata sgualdrina. Demea, ora devi essere uomo: dimentica la tua passione per lei, poni fine al tuo amore, fa’ tutto ciò che puoi per tener nascosto, per il bene di tuo figlio, questo disgraziato incidente, e per prima cosa caccia di casa per direttissima la bella Samia. La scusa ce l’hai: si è tenuta il figlio. Non dare a vedere che ci siano altri motivi. Morditi le labbra e sopporta. Coraggio, e porta a buon fine il tutto.

il bambino è di Moschione, ma cerca di non darlo a vedere, Moschione, invece, crede ancora che Demea pensi di esserne il padre, e che Criside sia la madre.

A questo punto esce di casa il cuoco in cerca dello scomparso Parmenone, e Demea se lo toglie di torno con un uriaccio: « Fuori dai piedi! ». Il cuoco, stupefatto, lo sente poi strepitare dentro casa, e quindi entra in scena Criside, con in braccio il bimbo e seguita da Demea infu­ riato che, con violente parole, la caccia via; per due volte egli è sul punto di lasciarsi sfuggire la vera ragione del suo comportamento, ma entrambe le volte si frena: ovvia­ mente Criside non riesce a comprendere questa improv­ visa collera, ed i ben intenzionati tentativi del cuoco di far da paciere danno un tocco ridicolo alla scena in sé tragica, che si conclude con il rientro in casa di Demea e con la chiusura a chiave della porta. Nicerato, di ritorno dal mercato con una pecora macilenta, a proposito della quale si abbandona ad amarognole battute, fa, venendo a questo punto alla ribalta, uno stridente contrasto con il pianto di Criside; quando egli però la scorge e viene a sapere della condotta di Demea, la accoglie in casa per­ ché si sfoghi con sua moglie. Atto quarto. Nicerato entra in scena, arrabbiato per i lamenti cui le donne stanno indulgendo, un vero ma­ laugurio per il matrimonio; egli intende parlar chiaro con Demea, ma quasi subito incontra Moschione che, tor­ nando impaziente per il matrimonio, viene da lui a sapere che Criside è stata cacciata a causa del bambino. Entra poi in scena Demea, comunicando all’uditorio la sua inten­ zione di trangugiare il boccone amaro e di andare avanti col matrimonio. Moschione, che si è nel frattempo con­ sultato con Nicerato, si avvicina allora al padre, e ne segue una scena brillante, comica per il pubblico, ma spaventosamente seria per i protagonisti. Demea sa che

Moschione Dimmi, perché Criside è uscita e se n’è andata? Demea (tra sé) Lo ha mandato a trattare con me. È terriribile. (ad alta voce) Non è affar tuo, per Apollo, è una questione che interessa esclusivamente me. Basta con le assurdità, (tra sé) Sì, è terribile. Sono d’accordo per farmi del male. Moschione Che intendi dire? Demea (tra sé) È chiaro. Perché altrimenti intercederebbe in sua difesa? Avrebbe dovuto essere contento di quanto è successo. Moschione Cosa pensi che diranno i tuoi amici quando lo verranno a sapere? Demea Sono proprio i miei « amici » che aspetto, Moschione — Lasciami solo! Moschione Sarei un vigliacco se ti lasciassi fare. Demea Me lo impedirai forse? Moschione Ebbene sì. Demea Guardate, questo, è il massimo, questa è la cosa più terribile di tutte. Moschione Sì, non è giusto lasciarsi prendere così comple­ tamente dall’ira. Nicerato Questo è ben detto, Demea. Moschione Nicerato, va dentro e dille di uscir fuori subito. Demea Moschione, lasciami stare; lasciami stare, Moschione. Te lo dico per la terza volta. So tutto. Moschione Che « tutto »? Demea Non mi rivolgere la parola! Moschione Ma è necessario, papà. Demea È necessario? Non devo più essere padrone dei miei affari? Moschione Fallo per piacere mio. Demea Quale piacere? Mi stai chiedendo praticamente di andarmene da casa mia, lasciandola a voi due, bella cop­ pia. Lascia che il matrimonio vada avanti, lasciami portare avanti il matrimonio, se hai senno. Moschione Ma certo che te lo lascio fare. E voglio che con noi ci sia anche Criside. Demea Criside! Moschione È soprattutto per te che ti sto incalzando. Demea Come tutto potrebbe essere più chiaro? Apollo Loxia,

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ti chiamo a testimone, c’è qualcuno qui che ha congiurato con i miei nemici. Oh! Scoppierò per questo. M oschione Ma che dici? D em ea Vuoi che te lo spieghi? M oschione Certo. Dem ea Vieni qui, allora. M oschione Dimmi. D em ea Lo farò. (a bassa voce) Il bambino è tuo, lo so. L’ho sentito da Parmenone, che sa tutti i tuoi segreti. Così tutti i tuoi trucchetti con me non attaccano. M oschione Se dunque questo figlio è mio, che male ti ha fatto Criside? Come può esserne responsabile? D em ea Che dici! Ma non avete proprio scrupoli voi due? M oschione Che gridi? D em ea Che grido, fetente? E me lo chiedi? Dimmi, tu accetti le tue responsabilità ed osi guardarmi in faccia dicendolo? Hai dunque rotto completamente con me? M oschione Io? Come? D em ea « Come », dici? E ti sembra una risposta? M oschione Sì. Il fatto non è poi così terribile. Io penso, padre, che migliaia l’avranno fatto prima di me. D em ea Per Zeus, che faccia! Guarda, te lo chiedo davanti a tutti. Da chi l’hai avuto questo figlio? Dillo a Nicerato, se non ti sembra poi così terribile. M oschione Per Zeus, ma se lo dico a lui chiaro e tondo allora diventa sì terribile. Quando lo verrà a sapere si infurierà. Pare dunque che Moschione sia sul punto d’esser costretto a confessare che la madre del bambino è in realtà la figlia di Nicerato, quando questi, buon ultimo, capisce finalmente i sospetti di Demea e, sdegnato, si scaglia contro lo stupefatto giovane trattandolo come un delinquente peggiore dei più celebri personaggi incestuosi della mitologia, che sono per lui figure storiche. Incitando Demea alla vendetta si precipita poi nella propria casa per scacciarne la donna malvagia cui solo ora si è reso conto di aver offerto asilo. La sua assenza permette a Moschione di tentare di dissipare i malintesi del padre confessando la verità, ma Demea rimane scettico fin quando Nicerato, uscendo di casa da solo, barcollante, non annuncia, in un linguaggio che vorrebbe esser tragico, 114

di esser pazzo, colpito al cuore da un’inattesa calamità, e poi, con improvviso tracollo stilistico, di aver sorpreso sua figlia che allattava il bambino: Moschione allora, non osando stargli davanti, scappa via, mentre Demea cerca di prender tempo. « Forse faceva solo finta »; « No. Quan­ do mi ha visto è svenuta »; « Forse pensava... »; « Mi farai morire, tu, con questi “ forse ” »; « Sarà, ma a que­ sta faccenda non ci credo! ». Nicerato si riprecipita a capo­ fitto in casa, e Demea rimprovera se stesso per aver pro­ vocato una tale crisi: il suo amico è un uomo che non si fermerà di fronte a nulla; dall’interno lo sente urlare e minacciare di incenerire il bambino [per sbarazzarsi della prova del disonore della figlia] 5. Ma ecco che Nice­ rato è fuori di nuovo: « Criside ha convinto mia moglie e mia figlia a non ammettere nulla; si è attaccata al bam­ bino e non vuole lasciarlo: non meravigliarti se l’am­ mazzo! »; « Vuoi ammazzare la mia donna? »; « Certo, perché sa Lutto di tutto! »; « No, Nicerato, niente affat­ to! »; « Ma se ho voluto anche dirtelo prima! »; « È pazzo! », conclude Demea, mentre il vicino corre di nuovo dentro. [Nicerato, tuttavia, cercando di cancellare l’acca­ duto distruggendo il bambino, era a suo modo logico, e se per far ciò avesse dovuto uccidere anche Criside, che lo proteggeva, avrebbe in un sol colpo eliminato anche una possibile testimone. In realtà il nostro, lento com’è d’ingegno, non ha ancora messo in relazione Moschione con la figlia], Demea pensa allora che sia meglio dire la verità all’amico, ma prima che possa cominciare a farlo, ecco Criside scappar fuori col bambino, inseguito da Nicerato; e quando Demea le grida di rifugiarsi di corsa in casa sua, la donna non può credere alle proprie orecchie. De­ mea le deve così ripetere l’ordine due volte, e nel frat­ tempo venire alle prese con Nicerato, reclamando la pater­ nità del bambino. Impedito nel suo proposito iniziale, l’altro si propone allora di uccidere sua moglie, ma Demea a questo punto riesce a fermarlo e si offre di spiegargli 5 Spiegazioni e commenti sono aggiunti tra parentesi quadre. 115

i fatti. Alla lunga, finalmente ciò fa nascere in Nicerato il sospetto che il figlio dell’amico possa essere il respon­ sabile dell’« incidente » di sua figlia, e Demea allora, desi­ derando proteggere Moschione dal risentimento dell’altro e volendo, nello stesso tempo, attenuare il colpo al suo orgoglio, gli assicura che il ragazzo, per quanto innocente, sposerà lo stesso la giovane: essa, come Danae, deve essere stata vittima di un dio. Nicerato non è molto convinto, ma non sa nemmeno come opporsi ad una tale teoria e così, facendo di necessità virtù, rientra per com­ pletare i preparativi per le nozze. Ancora una volta, nulla sembra ormai frapporsi al matrimonio. Atto quinto. Ora però è Moschione che ritorna a casa e dichiara che, per quanto sulle prime non abbia provato che sollievo per essere stato liberato dal sospetto, pen­ sandoci su si è tanto arrabbiato col padre da perdere quasi il controllo di sé. Se non fosse stato per il suo grande attaccamento alla ragazza, egli non avrebbe dato a Demea un’altra occasione di sbagliarsi in tal modo, e se ne sarebbe immediatamente partito per qualche spedizione militare. Anzi, anche se in realtà non partirà, farà però finta di farlo, per far prendere al padre una bella paura ed insegnargli a comportarsi meglio in futuro. Prenden­ dosi molto sul serio il giovane si esprime in uno stile elaborato, prossimo a quello della tragedia; si ferma però all’ingresso di Parmenone, anch’egli immerso in profonde riflessioni: è stato sciocco a scappar via, perché non ha fatto nulla di male; con la nascita del bimbo lui non ha proprio niente a che fare: è Moschione che lo ha portato con sé, ed una donna della casa ne ha rivendicato la ma­ ternità. « Mi ha minacciato di marchiarmi a fuoco; l’avete visto benissimo. Non c’è nessuna differenza tra il subire ciò a ragione o a torto; non è in ogni caso una cosa fatta bene ». Moschione interrompe questo rimuginare ordinando al servo di andargli a prendere una spada ed un man­ tello da soldato e, mentre lo stupefatto Parmenone entra

in casa, già immagina che suo padre lo supplicherà di rimanere e che, dopo aver per un po’ rifiutato, alla lunga le sue preghiere saranno esaudite. Ma Parmenone ritorna senza aver adempiuto il suo compito; si è accorto infatti che sono entrambi in ritardo, che la festa nuziale è ormai a buon punto, e che è ormai ora di andar a prendere la sposa. A questo punto Moschione perde la calma e, col­ pendolo al volto, lo costringe a tornare indietro; solo dopo viene colto dall’orrido pensiero che il padre potrebbe non stare al ruolo assegnatogli, ma lasciarlo rabbiosamente andar via sul serio. Ormai, però, non è più possibile tornare indietro: Parmenone è già di nuovo in scena con spada e mantello, e riferisce per di più che nemmeno un cane gli ha chiesto cosa stesse facendo; a Moschione non rimane che per­ correre fino in fondo la propria strada, constatando che 10 stratagemma si è risolto in un fallimento, poiché tutta la messa in scena non è riuscita ad attrarsi l’attenzione di nessuno. Non appena tuttavia la speranza nell’arrivo di Demea è svanita, ecco che questi viene alla ribalta per un motivo del tutto differente, e cioè per cercare lo sposo scomparso. « Che ti passa per la testa di vestirti così? », esclama immediatamente alla vista del figlio, e prende subito dopo un atteggiamento che non corrisponde a nes­ suna delle due alternative previste da Moschione. Demea, infatti, gli dice di comprendere ed apprezzare 11 suo risentimento, ma nello stesso tempo lo invita a ricordarsi di tutto ciò che, fin dall’infanzia, si è fatto per lui: « Ti ho accusato ingiustamente; sono io ad esser caduto in un malinteso, io ad aver accumulato errori su errori, il pazzo sono stato io. Mentre però mi compor­ tavo male con gli altri, lo vedevi bene come mi preoccu­ pavo dei tuoi interessi: non ho fatto parola di nessuno di quei falsi sospetti, me li sono tenuti per me e non li ho tirati fuori per la gioia di chi ci vuol male. Tu però ora il mio errore lo stai rendendo di pubblico dominio, e stai chiamando altri a testimoni della mia follia. Non me l’aspettavo, Moschione, non ricordare il solo giorno

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della mia vita in cui sono stato completamente dalla parte del torto e dimenticare tutti quelli passati. Potrei dire di più, ma non voglio ». Moschione è troppo giovane per ribattere alla since­ rità di un rimprovero così coinvolgente, ed è sollevato dall’imbarazzo di una replica dalla comparsa di Nicerato, che cerca di mettersi in salvo dai tumultuosi preparativi nuziali della moglie. Questi, alla vista di Moschione, appa­ rentemente in procinto di abbandonare la casa paterna, propone di arrestarlo per violenze nei confronti della figlia. Il ragazzo, con vani tentativi di conservare una certa dignità, accoglie questo diversivo come una via di scampo dalla falsa situazione in cui si è venuto a trovare, ma a questo punto interviene Demea, consigliando a Nicerato di portar subito fuori la sposa. Rassicurato, l’amico accon­ sente, ed il lieto fine, tanto a lungo atteso e tanto spesso rimandato, viene così finalmente raggiunto. Questa è la trama della Samia. Consideriamone ora alcune caratteristiche di maggior rilievo. Anzitutto, nono­ stante che la commedia tragga nome da lei, e nonostante che ella ne sia un elemento strutturalmente essenziale e spesso di preminente importanza, la donna di Samo appare in scena solo per tre volte, e brevemente. Ciò offre ben poche occasioni per tratteggiarne il carattere, e tuttavia la sua figura è disegnata in modo da guadagnarsi una intensa simpatia. Nella prima scena la prontezza ad aiu­ tare la giovane coppia e l’ansietà per la sicurezza del pic­ colo sono messe in evidenza molto più della disponibi­ lità con cui il bambino viene attribuito a Demea, e non si sottolinea affatto che Criside, così facendo, favorisce i propri interessi. Gli insulti con i quali Demea la caccia poi di casa, se si considera che ella nulla sa delle loro motivazioni, le guadagnano tutto il nostro appoggio, e più oltre, minacciata da Nicerato, la donna di Samo mostra coraggio e lealtà insieme, non rinnegando la versione dei fatti concordata con Moschione e le altre donne. Con il quinto atto il personaggio della Samia svanisce nello sfondo, ed il matrimonio di Moschione, i cui preparativi 118

sono stati un tema di continuo riaffiorante lungo tutta la commedia, assume il carattere di un motivo di crescente importanza. La commedia aveva un titolo alternativo, Kèdeia, cioè Patto di matrimonio, ed esso è giustificato dal fatto che uno dei suoi temi è la maniera in cui questo matrimonio, da tutti auspicato, viene di volta in volta continuamente frustrato dalle passioni dei diretti inte­ ressati. Alternatamente, gli atti si aprono con dei monologhi indirizzati al pubblico, da parte di Moschione negli atti I e V, da parte di Demea nel terzo atto; quello del quinto atto, in accordo col ritmo più accelerato che la commedia prende man mano che si avvia verso la fine, è considere­ volmente più breve di quello del primo. Come Moschione, anche Demea ha due monologhi, nel suo caso entrambi nello stesso atto, ed anche qui il secondo è più breve. Gli atti secondo e quarto sono prevalentemente dialo­ gati, ma iniziano con brevi monologhi messi in bocca a due personaggi che, pur entrando in scena a breve distanza tra di loro, non si accorgono subito della presenza del­ l’altro. Nel quarto atto questo schema di inizio è allar­ gato grazie all’ingresso di un terzo personaggio che, men­ tre gli altri due conversano tra di loro, si esibisce anche egli nel suo breve monologo. Nella seconda metà della commedia è degno di nota il rapido succedersi di eventi e situazioni, che spesso inganna le attese dello spettatore. Lo stile di Menandro è di frequente assai economico, e richiede al pubblico una rapida e partecipata ricognizione di quanto sta succedendo. La maggior parte dei drammaturghi moderni, invece, pro­ cede in maniera più comoda. Si considerino ad esempio le seguenti battute tratte dalla scena d’apertura di She Stoops to Conquer (Ella s’umilia per conquistare) di Goldsmith: Sig.ra Hardcastle Maledizione! Ladri! Banditi! Ci hanno im­ brogliato, saccheggiato, rovinato, distrutto. Tony Che succede, mamma, che succede? Spero che non sia accaduto nulla a nessuno dei nostri cari familiari!

Sig.ra Hardcastle Ci hanno saccheggiato. Lo scrittoio è stato forzato, i gioielli sono stati portati via, ed io sono rovinata. In Menandro tutto ciò avrebbe potuto suonare: Hg-ra Hardcastle Ladri! Ci hanno derubato, rovinato. Tony Che succede, mamma? Spero che nessuno della fami­ glia... Sig.ra Hardcastle I gioielli sono spariti: sono rovinata. Menandro, tuttavia, è anche capace di variare l’anda­ tura e talvolta di mascherare la sua rapidità abituale con oziosi giuramenti e frasi parentetiche sul tipo di « per gli dei », o « dimmi ora ». Arriva anzi al punto di met­ tere in bocca ad una donna che entra in scena la triplice ripetizione nello stesso verso: « Oh che disgrazia! Che disgrazia! Che disgrazia! ». Per quanto la Samia non offra uno studio profondo dei caratteri, ciascun personaggio è tuttavia tratteggiato in maniera così verosimile che, pur non spiegando espli­ citamente i suoi sentimenti, è quasi sempre possibile im­ maginarne, al di là delle parole e del comportamento, le emozioni e le considerazioni che si tiene nel cuore; è pro­ prio questo il tipo di intuizione che ogni giorno noi stessi adottiamo nei confronti della gente, se solo abbiamo per essa un qualche interesse. Far ciò implica naturalmente una certa capacita di immaginazione, ma è anche vero che la parola parlata è più trasparente di quella scritta, e che senza dubbio l’attore interpretava il testo, dandogli forza e significato. Demea è un uomo che cerca di agire con calma, ma lo fa con evidente sforzo, così che la forzata repressione del suo temperamento ne rende più violente — quando si verificano — le esplosioni. Nei confronti delle persone di livello sociale pari al suo, cioè dei cittadini, egli si com­ porta in maniera rispettosa dei sentimenti altrui, diver­ tendosi, certo, a prendere in giro l’ingenuo Nicerato, ma trattandolo però sempre con tatto, consapevole della sua irascibilità. Lo schiavo Parmenone, invece, è per lui un 120

essere inferiore per il quale non si ha rispetto, da tenere sotto la minaccia delle frustate e cui si può raccontare una menzogna. Moschione condivide Patteggiamento pa­ terno e, spazientitosi per il ben intenzionato tentativo di Parmenone di portargli qualche novità, gli chiude la bocca a suon di botte. Non è chiaro se la commedia abbia una morale o non sia altro che un riuscito divertissement. Dal momento che lo stratagemma del bambino è la causa di tutti i guai di Demea, Criside, Moschione ed anche di Nicerato, la Samia potrebbe essere considerata un monito contro la frode, e con questa interpretazione ben si accorderebbe il fatto che anche la finta partenza di Moschione per la guerra lo mette alla fine in una situazione imbarazzante. Bisogna tuttavia riconoscere che, se la commedia fu scritta con tali intenzioni, l’effetto ne risulta indebolito proprio dalla considerazione che, senza l’inganno, il figlioletto dei due giovani, per occultarne la nascita illegittima, sarebbe stato senza dubbio esposto. Così, invece, il risultato finale è migliore di quanto non sarebbe stato se tutti si fossero « onorevolmente » rifiutati di affibbiare il piccolo a Demea come figlio. Anche la finzione di Moschione, in definitiva, conduce ad un utile chiarimento di idee tra lui ed il padre. Considerazioni non dissimili possono esser fatte a pro­ posito di altre commedie menandree. La Perikeìromene potrebbe esser diretta contro gli oltraggi causati da una eccessiva gelosia; ma è anche vero che senza il particolare oltraggio subito da Glicera essa non avrebbe mai ritro­ vato il padre né si sarebbe unita in matrimonio con Polemone. Dagli Epitrepontes si potrebbe trarre la lezione che marito e moglie devono dimostrarsi reciproca fedeltà; ma se Carisio avesse fin da principio aderito ad un così evo­ luto punto di vista non avrebbe mai riacquistato suo figlio. Le commedie di Menandro trattano sempre di almeno una famiglia benestante, e si concludono con l’acquisi­ zione, da parte di uno dei suoi membri, di una moglie o di un’amante. In questo contesto il denaro è impor­ tante, mentre non lo sono le occupazioni intellettuali, la letteratura, l’arte o la filosofia; per questo il commedio121

grafo è stato talora accusato di essersi confinato agli inte­ ressi ed alla moralità di una società di tipo borghese. Alcuni studiosi si sono spinti più oltre, ritenendo, ad esempio, che egli abbia rappresentato una società imma­ ginaria, « un mondo fuori dal tempo e dallo spazio, popo­ lato solo da fanciulle sedotte e da giovanotti frivoli, da schiavi furbastri, da depravati mezzani, da padri stupidi e così via, un mondo in cui ci sono solo amore e soldi ». L’erroneità di queste parole, che erano indifendibili anche quando furono scritte, ha ricevuto conferma da ogni nuova scoperta di testi menandrei. Sarebbe infatti altrettanto vero, e altrettanto falso nello stesso tempo, dire che il mondo del nostro poeta è popolato solo da fanciulle inno­ centi, da giovanotti pieni di buona volontà, da schiavi fedeli e da padri comprensivi; non ci sono però — biso­ gna ammetterlo — mezzani magnanimi. Il mondo di Menandro è un mondo reale proprio in quanto contiene una gamma completa di personaggi che vanno dal buono al cattivo, ed in quanto sono pochi i cattivi che non abbiano qualche tratto che li redima, così come pochi sono i buoni che non mostrino, umanamente, delle pecche. Altrettanto falso è che questo mondo conosca solo amore e soldi; esso non ignora certo l’amicizia, la lealtà, la gelosia, la risolutezza, il risentimento, la malignità, il rispetto umano e, insomma, tutta la fitta trama di passioni che dà sapore ai rapporti umani. È vero viceversa che il mondo di Menandro è un mondo selettivo, nel senso che, se noi consideriamo tutte le sue opere conservateci come costituenti un « mondo », ci troveremo di fronte ad un mondo nel quale determi­ nati eventi (in particolare violenze a fanciulle, rapimenti di bambini, ed il ritrovamento di figli da lungo tempo perduti), e forse determinati personaggi, come etere, sol­ dati e mercanti di schiave, ritornano con più frequenza di quanto non si verificasse nella vita quotidiana di Atene. In una sola commedia possiamo trovare associati un certo numero di questi elementi sovra-rappresentati, e l’accolta così costituita può dirsi statisticamente improbabile. Im­ probabile, ma non impossibile; si trattava in ogni caso 122

di eventi che potevano succedere, e di persone che era possibile incontrare dietro l’angolo di casa. Un dramma­ turgo non è tenuto a far della statistica. Aristofane aveva proclamato la sua intenzione di « am­ maestrare » e di « consigliare » gli ascoltatori, e la fun­ zione didattica del poeta, d’altra parte, aveva in Grecia una lunga tradizione alle spalle. Cosa era ancora vivo di quella tradizione al tempo di Menandro? È possibile che egli si sia proposto — per dirla con Orazio — di unire l’utile al dilettevole? Uno dei protagonisti dei Discorsi conviviali di Plutarco (712 B) pensava di sì, e ne lodava le « buone e semplici massime morali, che dolcemente ammorbidiscono anche l’indole più dura, modellandola in una forma migliore ». Tali massime, spesso singoli versi isolati, furono presto raccolte, a motivo delle moralità in esse espresse, da antologisti, e possono così aver influen­ zato coloro che le riascoltavano dal vivo, pronunciate sul palcoscenico. Tuttavia, come non sfuggì al personaggio plutarcheo, prese nel loro contesto esse non attirano su di sé l’attenzione, ma sorgono spontanee, ed in realtà, ad una ricerca anche piuttosto serrata, ne emergono meno di quante ci si aspetterebbe. Talora non mancano di una sfumatura d’ironia, come quando chi le pronuncia lo fa con comica serietà o fuori luogo o con malizia. La frase: « Muor giovane colui che al cielo è caro » potrebbe esser interpre­ tata come emblema di un rassegnato pessimismo o come una nobile consolazione, se non sapessimo che essa veniva pronunciata in realtà per provocare un vecchio. Il verso: « Sono un uomo, e penso che nulla di umano mi sia estra­ neo », spesso romanticamente lodato per la sua nobiltà, era in realtà messo in bocca ad un individuo curioso, che si dimostrava ignaro dei problemi di cuore del figlio e, una volta venutone a conoscenza, assai poco comprensivo. Più importante è la generale atmosfera morale di que­ ste commedie. Le malefatte non pagano, la cupidigia è presentata come turpe, virtù primarie sono la cortesia e la comprensione. L ’essere umano è una creatura debole, 123

incline a commettere errori, di cui la sorte si beffa, e tut­ tavia non vi è nulla di più bello di un uomo che vive come un uomo dovrebbe vivere, conscio dei suoi limiti e delle sue possibilità, generoso nel perdonare e nell’aiutare gli amici. Le virtù della vita privata sono richieste a ciascuno, e le commedie di Menandro danno la loro approvazione a chi le mette in pratica, la negano a coloro che non riescono a farle proprie, riservando il ridicolo per gli avidi, i tronfii, gli insinceri, e per i padri che hanno dimenticato cosa vuol dire esser giovani.

Capitolo sesto LE RAPPRESENTAZIONI DRAMMATICHE A ROMA I romani, per quanto siano alla fine giunti ad imporre il loro dominio sullTtalia, non ne costituirono all’inizio che una delle tante popolazioni, alcune delle quali erano culturalmente ben più progredite. Essi seppero tuttavia cogliere l’occasione di diventare, tanto nell’arte quanto nella religione ed in letteratura, dei grandi ricettori, e non di rado furono capaci di dare un nuovo indirizzo ed un carattere prettamente romano a quanto prendevano in prestito da altri popoli. Gli insediamenti greci lungo le coste della Sicilia e dell’Italia meridionale risalgono anche all’ottavo secolo, e le città in questione, al di là dell’indipendenza politica, ebbero parte della cultura della madrepatria. Le comunità più importanti furono Siracusa, il cui grande teatro è tut­ tora agibile, e Taranto, la Tarentum dei romani, capo­ luogo dell’Apulia. Più vicina a Roma era Napoli (Neapolis), dalla quale l’influsso greco si diffuse a nord, raggiungendo senza dubbio quella Roma il cui protettorato i napoletani avevano accettato fin dal principio del terzo secolo a. C. I tarantini, meno malleabili, dovettero essere vinti con la forza, forse già nel 272, mentre i siracusani, dopo aver stipulato dei trattati con Roma, se ne staccarono nel corso della seconda guerra punica, e furono anch’essi alla fine sottomessi nel 212. Ancora più prossimi a Roma erano gli Etruschi, secondo l’opinione corrente un popolo di invasori prove­ niente dall’Asia Minore, che costituivano la classe al po­ tere nel territorio posto al di là del Tevere, l’Etruria. La 125

loro lingua, nonostante si serva dell’alfabeto greco, rimane tu tt’ora per noi misteriosa. Essi furono clienti di riguardo per il più raffinato vasellame di produzione greca, e pre­ sto si familiarizzarono con la mitologia che ne costituiva la decorazione, e che istoriava anche gli oggetti di me­ tallo, così che si giunse, in un secondo momento, ad imi­ tazioni di modelli greci da parte degli artigiani locali. Anche gli etruschi vennero alla fine sconfitti, e la loro cultura di conseguenza si estinse, ma, nonostante ciò, essa esercitò a lungo un forte influsso su Roma. Un passo di Livio (7, 2), per quanto lo si possa sospettare di far grande uso di congetture, sembra conservarci la testimo­ nianza di un’origine etnisca delle prime rappresentazioni intese a divertire la folla. C’era a Roma un’antica festa annuale in onore di Giove, i Ludi Romani \ che cade­ vano in Settembre; in occasione di tali ludi si teneva una processione in onore della divinità seguita da una corsa di carri e da esibizioni di abilità equestre. Nel 363 a. C., secondo Livio, nella speranza di ingraziarsi gli dei, che avevano gettato sulla città una pestilenza,

sentarono dei ‘ pot-pourri ’ ricchi di musiche, con canti adat­ tati alla melodia del flauto e movimenti coerenti ad essi.

1 I Ludi, tradizionalmente ed inadeguatamente tradotti come « Giochi », erano pubbliche feste con un nucleo di cerimonie religiose. Ma, come in inglese gli holy days (letteralmente « giorni santi ») divennero holidays (« vacanze »), cosi a Roma il diver­ timento delle masse assunse un’importanza sempre crescente. 2 II nome Fescennino deriva dalla città etrusca di Fescennium; la natura dei versi fescennini rimane oscura.

Esibizioni del genere, nel complesso, vengono consi­ derate precedenti del dramma teatrale vero e proprio, ed un qualche supporto all’ipotesi che la loro origine sia da ricercarsi in Etruria è dato dalla circostanza che, proba­ bilmente, le parole latine per indicare il palcoscenico (scaina) e la maschera (persona) non sono altro che defor­ mazioni di stampo etrusco dei corrispondenti termini greci skènè e prosdpon. I riferimenti liviani ai lazzi improvvisati di giovani dilettanti sembrano, d’altro canto, un tentativo di fornire una remota paternità romana alle cosiddette commedie atellane (il nome deriva da quello della città campana di Atella). Esse, come ci è attestato da diverse allusioni plautine, erano ben familiari al pubblico romano della fine del III secolo a. C., e possono quindi esser state im­ portate anche molto prima di tale data; la loro lingua in origine era l’osco, un dialetto italico che difficilmente avrebbe potuto essere compreso, a Roma, dalle masse. Per essere adottate nel Lazio, dunque, tali commedie dovettero prima tradurre in latino il proprio dialetto, o almeno modificarlo considerevolmente. Come la Commedia dell’Arte, la Fabula Atellana si basava su un nucleo fisso di personaggi di repertorio, caratterizzati da maschere grottesche e da avidità, ghiottoneria e stravaganza. I nomi di alcune di queste « maschere » ci sono noti, e sono Maccus, Bucco, Pappus, Manducus, Dossennus. In una prima fase il dialogo sembra sia stato in larga parte im­ provvisato: sulla base di una situazione preventivamente convenuta, gli attori dilettanti solevano svilupparne gli aspetti mediante rozze battute e prese in giro. Fu solo agli inizi del primo secolo che Pomponio e Novio scris­ sero materialmente dei testi per gli attori di Atellane, e si trattò, a quanto pare, di brevi « pezzi » destinati a chiudere le rappresentazioni di giornate interamente dedi­ cate alla tragedia; titoli caratteristici sono Maccus locan-

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si mandarono a chiamare dall’Etruria degli attori che, dan­ zando al suono di un flauto, ma senza cantare essi stessi e senza mimare una qualsiasi rappresentazione del canto, si muovevano non senza grazia alla maniera etnisca. ^I giovani allora cominciarono ad imitarli, scambiandosi dei lazzi in rozzi versi; ed il loro gestire si accordava alle battute che pronunciavano. Agli esecutori professionisti indigeni si_ diede il nome di histriones, perché l’attore in etrusco era chiamato ister; essi non seguirono la pratica precedente (dei giovani dilettanti?) che consisteva nello scambiarsi versi irregolari, non rifiniti ed improvvisati, simili al fescennino12, ma pre­

dìere, Maccus soldato, Maccus in esilio, Bucco adottato, La sposa di Pappus, La capretta, I pressatori di feltri. I frammenti sopravvissuti di queste commedie di rado superano la misura del verso isolato, sono spesso di tono volgare, e si servono di un lessico molto insolito, proprio in virtù del quale ci sono stati conservati; ripetutamente può essere osservato il fenomeno dell’allitterazione. Un altro tipo di rappresentazione locale è quello testi­ moniatoci, a quanto pare, da diversi vasi dipinti dell’Ita­ lia meridionale, ed in particolare dell’Apulia, risalenti per lo più al IV secolo a. C.; molti di essi mostrano un pal­ coscenico basso, spesso fornito di cinque o sette gradini centrali d ’accesso (quando i gradini non appaiono, può semplicemente trattarsi di una semplificazione da parte dell’artista). Il palcoscenico è, in genere, sostenuto da puntelli lignei lisci e squadrati, ma talora si regge su dei pilastri circolari conclusi da capitelli; lo spazio sottostante, in alcuni vasi, appare ricoperto da tendaggi. Se la scena, protetta talora da una tettoia sporgente, non appare di solito molto ampia, ciò può essere dovuto alle limitazioni proprie della pittura su vaso. Qualora, come in molti vasi avviene, la parete lignea che si trova dietro il palcoscenico presenti, al primo piano, delle finestre alle quali si affacciano delle donne, allora possono essere in scena anche dei personaggi che, per raggiungerle, portano con sé una scala a pioli. Non manca, in alcuni casi, una porta riccamente decorata, posta da una parte forse per oppor­ tunità artistica, e cioè per lasciare libero il centro per le figure degli attori; sul muro di fondo, infine, sembra ci fossero attaccate maschere, ghirlande, coppe ed anfore, ma in questo caso è possibile che l’artista, senza tendere ad una rappresentazione realistica, si proponesse semplicemente di riempire gli spazi vuoti con oggetti utilizzati nella commedia stessa. Un problema non dissimile si ripre­ senta per i piccoli alberelli che talora troviamo disegnati, poiché essi possono essere tanto un puro e semplice espe­ diente per indicare che la scena si svolgeva all’aperto, quanto dei ramoscelli o gettoni realmente insinuatisi tra le tavole del palcoscenico; altari, sedie e tavoli erano,

viceversa, probabilmente veri e propri arredi di scena. Gli attori indossano calzamaglie, in genere poco attil­ late, e portano spesso un grosso fallo, imbottiture ed una maschera estremamente grottesca. Che essi fossero servi­ tori di Dioniso ci è dimostrato — a quanto pare — da diversi vasi che li rappresentano alla ribalta assieme al dio. Le scene di cui ci è così conservata una testimonianza figurativa sonò in gran parte parodie mitologiche, ma in parte anche scorci di vita quotidiana. Un vecchio cerca di trascinar via una donna da un giovane, che comunque fa maggior presa àu di lei; uno schiavo ruba del cibo; altri schiavi vengono incatenati e battuti. Nelle raffigura­ zioni mitologiche figura di primo piano è Ercole, ritratto come un ghiottone ed un bullo, che arriva a minacciare Apollo e perfino Zeus. Un divertente frammento mostra Aiace, secondo la tradizione il violatore di Cassandra, abbarbicato alla statua di Atena in un’atterrita ricerca d asilo, mentre Cassandra gli caccia le ginocchia nella schiena e gli butta via l’elmo; una sacerdotessa si fa da parte, inorridita. Per quanto i vasi in questione possano essersi ispirati a commedie ateniesi importate in Occidente nel periodo della Commedia di mezzo, più comunemente si sup­ pone, non senza plausibilità, che gli attori in essi raffi­ gurati fossero nient’altro che i fliaci dell’Italia meridio­ nale, che avevano qualche elemento in comune con i già citati deikeliktai spartani (v. p. 59), ed ai quali fu data dignità letteraria da Rintone di Taranto intorno al 300 a. C.; questi scrisse opere in versi per il loro repertorio, a noi note col nome di hilarotragoidiai (« tragedie alle­ gre »). Sfortunatamente, nulla prova un influsso dei fliaci sullo sviluppo del dramma a Roma, perché, se da un canto è vero che Livio Andronico (cui si dovè — secondo Tito Livio — la determinante introduzione dell’intreccio nelle rappresentazioni sceniche) fu forse greco di nascita, e cat­ turato a Taranto, dall’altro pare chiaro che il suo ambi­ zioso obiettivo fosse quello di introdurre i romani alla buona letteratura greca. Egli, infatti, tradusse l’Odissea

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nell’antico verso locale, in « saturni », e quando nel 240 mise in scena ai ludi Romani una tragedia ed una com­ media, le pur scarse testimonianze in nostro possesso ci suggeriscono che i suoi modelli furono la tragedia greca del periodo classico e la Commedia nuova sicuro e __ d’altro canto — che per entrambi questi tipi di rap­ presentazione scenica Andronico si servì di metri greci. Il suo esempio venne presto seguito da un italiano di nascita, Gneo Nevio, oriundo della Campania. Attivo dal 235 al 204 o 201, questi scrisse un poema epico ori­ ginale sulla prima guerra punica, qualche tragedia su sog­ getti greci ed uno o due drammi di argomento storico riguardanti temi romani; il più ed il meglio della sua produzione per il palcoscenico, tuttavia, fu nel campo della commedia. Ci sono rimasti i titoli di più di trenta sue commedie e, tra di essi, quasi la metà è rappresentata da titoli greci, noti spesso per essere già stati utilizzati da­ gli autori della Commedia nuova. E dunque probabile che Nevio, usualmente, traducesse _ originali greci, ma rimane possibile che talora egli si sia spinto a comporre commedie originali, ambientate in Italia: YAriolus (cioè L ’indovino) in cui si parlava, come sappiamo da un fram­ mento, di ospiti da (o ospitanti a) Preneste e Lanuvio, paesi vicino Roma, può essere stata una di queste (v. p. 143). . . . . Non è sorprendente che i romani, una volta iniziato 10 sviluppo di una propria produzione letteraria, si siano come di necessità trovati a dipendere dai prodotti alta­ mente evoluti dei greci; ciò che invece non è compietamente chiaro è come essi abbiano ottenuto non solo la conoscenza di quelle opere, ma anche le opere stesse. Probabilmente dalle città greche dell’Italia meridionale visitatori ed immigrati raggiunsero Roma e, tra di essi, ci furono forse anche persone nate nella stessa Grecia; è possibile che tali viaggiatori portassero con se dei libri. 11 fatto che non pochi romani colti fossero già nel tardo terzo secolo in grado di leggere il greco ci è suggerito dalla constatazione che Fabio Pittore, il primo storico romano, scrisse per l’appunto in greco, inaugurando una 130

moda destinata a trovar seguito ancora per un paio di generazioni dopo di lui. Comunque siano andate le cose, è certo che le opere di questi autori arcaici, pur essendo adattamenti da mo­ delli greci e trattando di mitologia greca se erano tragedie o rappresentando personaggi greci se erano commedie, trovarono un pubblico pronto ad accoglierle. Fin dal 214, ai ludi Romani, quattro giornate vennero dedicate alle rappresentazioni; le « Feste Plebee », istituite nel 220 e ricorrenti nel mese di novembre — prime di diverse festività volte a mantenere alto il morale del popolo nella seconda guerra punica — è possibile che abbiano fin dal­ l ’inizio compreso una giornata dedicata al dramma, per quanto la prima testimonianza in nostro possesso sia quella dello Stichus plautino per l’anno 200. Le « Feste della Grande Madre », una divinità di origine frigia, furono istituite nel 204 e si tenevano in aprile: fin da principio, probabilmente, esse furono caratterizzate, tra l’altro, dalle rappresentazioni. Non c’è prova, invece, che, almeno fino al 169, si siano messe in scena delle opere alle « Feste di Apollo », iniziate nel 212 con data in luglio, ma ciò può essere semplicemente dovuto al caso. A fianco di queste feste regolari vi erano altre opportu­ nità straordinarie per spettacoli drammatici, forse alle « Grandi Feste », che si celebravano irregolarmente per motivi particolari, e certamente in occasione dei « giochi funebri » in onore di eminenti personaggi. Questa crescita d’interesse da parte del pubblico incoraggiò senza dubbio le ambizioni del più originale tra tutti i drammaturghi latini, conosciuto più tardi dai romani col nome di Plauto, le cui più antiche commedie appartengono all’ultimo decennio del terzo secolo. Molti dei palcoscenici rappresentati sui vasi apuli (v. p. 143) danno l’idea di strutture temporanee, ed è certo che le opere di Nevio e di Plauto venivano rappresentate su di un palcoscenico ligneo non stabile, innalzato di fronte ad una costruzione a tre porte, sempre di legno ed anch’essa temporanea, nel cui interno gli attori si riu­ nivano e si vestivano. Di fronte a questo complesso 131

c’erano i posti a sedere, forse delle panche, di cui non sappiamo, per mancanza di testimonianze, precisare il numero; è probabile che alcuni spettatori fossero costretti ad assistere allo spettacolo in piedi dietro i posti a sedere. Dall’inizio del secondo secolo le file frontali vennero riservate per i senatori. Non ci fu a Roma un teatro fisso prima del 55 a. C., quando Pompeo ne costruì uno (v. fig. 2), associato ad un tempio in onore di Venere e provvisto di portici con colonne in cui gli spettatori potevano trovare riparo in caso di temporale; la platea pare abbia avuto una capienza di circa diecimila spettatori. Già nel 155, in realta, si era fatto un tentativo di erigere un teatro in pietra, ma l ’iniziativa fu « silurata » da chi riteneva immorale la stessa attività teatrale. Nel primo secolo, però, i teatri provvisori erano ormai divenuti molto raffinati: tende di lino proteggevano dal sole gli spettatori, c erano proba­ bilmente file sfalsate di posti a sedere montati su delle impalcature, e l ’edificio di scena era decorato a profu­ sione. Il teatro costruito dall’edile Emilio Scauro nel 58 è noto per la sua stravaganza; la relazione di Plinio il Vecchio al proposito, scritta circa 125 anni dopo, ingi­ gantisce forse la realtà, ma rimane significativa. Plinio ci riferisce che vi potevano prender posto ottantamila spettatori, e che aveva un edificio di scena a tre piani, il più basso marmoreo, quello di mezzo di vetro ed il superiore costruito in tavole dorate; tra le 360 colonne che lo decoravano si trovavano ben 300 statue bronzee. È chiaro che un edificio di scena così strutturato era architettonicamente simile a quelli dei più tardi teatri permanenti, tra i quali quello di Orange, nella Francia del Sud, ci è particolarmente ben noto. Essi avevano una orchestra semicircolare, posta di fronte ad una ribalta piu lunga del diametro del semicerchio stesso, che non veniva utilizzata come pedana di danza, ma per istallarvi i posti riservati (destinati a Roma ai senatori e rispettive fami­ glie). Dietro il palcoscenico si ergeva una costruzione decorata con file di colonne e fornita di porte al piano inferiore, ampia e spesso anche alta quanto la platea, 132

alla quale era unita, alle due estremità, da un’elevata struttura nella quale si inserivano gli accessi all’orchestra. Gli spettatori sedevano così in uno spazio che, con­ trariamente a quello dei teatri greci, era chiuso; ed anche il cielo, in alto, veniva tagliato fuori da tende; un teatro di piccole dimensioni, anzi, poteva essere anche coperto da un soffitto, come quello — costruito intorno all’80 a. C. — di Pompei. Si può congetturare che una strut­ tura del genere avesse preso piede a Roma già prima del 68 a. C., anno in cui un provvedimento legislativo di Otone concesse agli equites (categoria di cittadini cui era richiesto un reddito di 400.000 sesterzi) il diritto di occu­ pare i primi quattordici ordini di posti a partire dalYorchestra. L ’uditorio del primo secolo era rappresentativo di ogni classe sociale, e lo stesso sembra esser stato vero ai tempi di Plauto. L’ingresso era libero, poiché le spese venivano sostenute dagli edili incaricati di sovraintendere alla festa, i quali disponevano di alcuni fondi statali, ma li arrotondavano spesso a proprie spese, sperando che una tale generosità sarebbe stata ricompensata dagli elettori al momento della loro candidatura a più alte cariche. Scegliendo di rappresentare commedie tratte da raffinate opere di drammaturghi greci, gli edili evidentemente pun­ tavano al favore degli esponenti più intelligenti della cit­ tadinanza, per la quale rappresentazioni serie erano una esperienza relativamente nuova. Anche degli altri, tutta­ via, che erano liberi di accedere al teatro, bisognava tener conto, ed il prologo del Yoenulus (Il piccolo cartaginese) di Plauto, sia che fosse destinato alla prima rappresenta­ zione sia ad una replica, mostra cosa poteva accadere. Agli assistenti si chiede di non camminare davanti agli spetta­ tori e di non accompagnare nessuno a sedere mentre c’è un attore in scena, sottolineando che i ritardatari dovreb­ bero rimanere in piedi; gli schiavi non devono arraffare posti, ma lasciar spazio ai liberi, e si lascia esplicitamente intendere che, se scoperti, essi saranno cacciati via a suon di botte dagli ufficiali addetti forniti di verghe; le balie dovrebbero curarsi a casa dei bambini loro affidati, e non 133

portarli con sé a veder lo spettacolo, poiché essi, belando come caprette, daranno certamente disturbo; le donne maritate devono infine guardare in silenzio, ed in silenzio ridere, tenendo a bada le loro voci stridenti, e riservando le chiacchiere per quando saranno a casa. Non solo il pubblico aveva minori conoscenze e capa­ cità valutative — per quel che riguarda il dramma — di quanto fosse usuale in Grecia, ma esso mostrava anche minore rispetto per coloro che lo rappresentavano sulla scena. In Grecia tutti, nel cast, erano servi di Dioniso, e l’attore protagonista di ciascuna commedia vedeva il proprio nome registrato nei rendiconti ufficiali; a Roma, almeno fino al tempo di Cicerone, la maggior parte degli attori furono schiavi dai nomi greci, appartenenti in ge­ nere ad un libero che poteva egli stesso apparire sulla scena insieme a loro, e questa continuò ad essere la regola ancora nel primo secolo d. C.; già alla fine del terzo secolo a. C. tale norma si era forse affermata, poiché il prologo òtsÌÌ!Asinaria plautina, parlando della compagnia e del suo capo, usa parole comunemente riferite a schiavi ed al loro padrone; d’altra parte degli scherzi come quello alla fine della Cistellaria (« si toglieranno i costumi ed ogni attore che ha commesso un errore si prenderà una bat­ tuta »), se pure sono da considerarsi semplicemente degli scherzi, si muovono nella stessa direzione. C’erano tuttavia dei liberi che recitavano a fianco degli schiavi. Tito Pubblio Pellione, per esempio, ricoprì le parti di protagonista nello Stichus e nell’Epidicus di Plauto, e Lucio Ambivio Turpione si acquistò gran fama ai tempi di Terenzio. Gli attori, comunque, erano consi­ derati individui poco rispettabili: non si permetteva loro di servire nell’esercito, li si privava del v o to 3, ed erano soggetti alla coercitìo dei magistrati, vale a dire che pote­ vano essere battuti, imprigionati o esiliati a discrezione. Nonostante che l’imperatore Augusto avesse ristretto que­ st’ultimo diritto ai giorni della festa, egli stesso se ne 3 Queste limitazioni dei diritti civili non si applicavano agli attori delle Atellane.

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servì ancora per infliggere una pubblica fustigazione ad un uomo che, forse in un mimo (v. p. 144), aveva indotto una donna maritata a tagliarsi i capelli ed a sostenere la parte di pn ragazzo. È vero che alcuni attori — pochi — ottennero un appoggio in società, e tra di essi il più celebre fu PubHo Roscio Gallò, che, acquistatosi il favore di Siila, rice­ vette da lui Pammissione all’ordine degli equites e venne poi difeso da Cicerone, nel 67 o 66 a. C., in una causa riguardante uno schiavo-attore di cui Roscio era compro­ prietario; in alcuni ambienti, tuttavia, i rapporti di Siila con un uomo della sua professione vennero considerati un’enormità. Si potrebbe supporre che gli schiavi dai nomi greci parlassero un latino dall’accento forestiero ma, se ciò è vero, questo dovette essere un handicap non privo di ima sua provvidenzialità. Le più importanti commedie dei tempi della Repubblica romana, vale a dire fino alla metà del primo secolo a. C., furono infatti adattamenti da ori­ ginali greci, ed i loro personaggi erano ovviamente dei greci. Non sarà dunque apparso del tutto innaturale che questi ultimi parlassero in latino come dei greci. Un altro punto da sottolineare è che gli attori non tendevano, declamando le loro parti in versi ed assai spesso con un accompagnamento musicale, a dare l’illusione rigorosa di un parlato naturale ed ordinario. « Essi non pronunziano le parole », scrive Quintiliano (Inst. or. 2, 10, 13), « nella sitessa maniera in cui noi comunemente parliamo, poiché essa manca di arte, ma non si distaccano nemmeno molto da un enunciato naturale, poiché questo sarebbe un errore in grado di distruggere la mimèsi ». Nel mondo greco, come abbiamo visto (p. 92), i drammi della Commedia nuova venivano talora, e forse di norma, messi in scena da tre attori che moltiplicavano i propri ruoli, aiutati solo da un certo numero di com: parse mute. A Roma, invece, non c’erano limitazioni tanto strette, e troviamo quindi numerose commedie richiedenti almeno cinque attori parlanti. Non sappiamo tuttavia quanti se ne adoperassero effettivamente, dal momento 135

che nulla precisa l’estensione degli eventuali raddoppia­ menti di ruolo, pur verosimili a priori·, l’unica cosa sicura è che chi pronunziava il prologo poteva cambiarsi di costume e riapparire in scena nei panni di uno dei per­ sonaggi della commedia vera e propria. / L’esperienza moderna mostra che il pubblico è in grado di accettare la convenzione che piccoli mutamenti di costume, senza modifiche del trucco, sjàno sufficienti per far passare un attore da un ruolo all’altro. Non c’è dubbio che nel teatro greco gli scambi venissero facilitati dalPalterriarsi delle maschere, poiché era la maschera ad indicare quale personaggio di volta in volta veniva alla ribalta, ma non sappiamo se un tale espediente fosse possibile anche a Roma dal momento che, sfortunata­ mente, l’uso di maschere negli adattamenti romani da originali greci è una questione tuttora disputata che, pur di vitale importanza per la visualizzazione del teatro latino, non permette risposte troppo attendibili. È fuor di dubbio che gli attori che recitavano nei teatri dell’Italia meridionale commedie in greco fossero mascherati; sarebbe dunque naturale supporre che si por­ tassero maschere anche negli adattamenti in latino, spe­ cialmente se si considera che l’uso della maschera era tradizionale anche nell’autoctona Atellana. Diomede tut­ tavia, un maestro di grammatica del quarto secolo d. C., ci riferisce che le maschere vennero introdotte, per na­ scondere il suo strabismo, da Roscio, e che prima si por­ tavano semplicemente delle parrucche; una notizia del genere deriva forse da Varrone, lo studioso contempora­ neo di Roscio stesso, ed è stata avvalorata dal confronto con un passo del dialogo ciceroniano De oratore (3, 221), in cui si fa dire a Crasso: « Tutto dipende dall’atteggia­ mento del volto; esso, e solo esso, è il campo in cui si esercita il dominio degli occhi; tanto meglio per questo fecero!i nostri vecchi ad accordare perfino a Roscio una lode non altissima quando portava la maschera ». Una traduzione ugualmente possibile è però « perche portava la maschera », per quanto non sia necessario supporre, 136

basandosi su questo passo, che l’attore in questione non recitasse mai senza. D ’altro canto il commento a Terenzio derivato da Donato, Òhe va sotto il nome di questi ed è contempo­ raneo di Diomede, parla degli attori come se essi fossero stati mascherati «ancora» al tempo di Terenzio; il con­ trasto è con'le condizioni del quarto secolo d. C., quando le maschere erano state ormai abbandonate e, si può ag­ giungere, le parti femminili venivano interpretate da at­ trici. Coloro che prestano fede alla storia di Roscio pen­ sano che Donato, ignaro della verità, abbia arbitrariamente ritenuto l’uso delle maschere originario. I tentativi di precisare la credibilità di Diomede non riescono a raggiungere risultati sicuri. I riferimenti, nelle commedie stesse, al mutare dell’espressione del volto sono irrilevanti, perché frasi del genere si ritrovano anche nella commedia greca ed il pubblico poteva bene far uso della fantasia. Il motivo che avrebbe spinto Roscio ad adottare la maschera, trascinando con sé la propria compagnia, sembra d’altra parte futile, e non spiega perché altri casts, verosimilmente non strabici, si misero a portare maschere. Sì può solo pensare che essi trovarono tale pratica in una qualche maniera vantaggiosa, ma se essa era vantaggiosa è strano che non la si fosse accolta fin dall’inizio dai greci. NeWAmphitruo plautino Mercurio e Giove prèndono l’aspetto di Sosia ed Anfitrione, e per far si che il pub­ blico possa distinguerli dagli uomini che rispettivamente impersonano, Mercurio porta delle ali sul cappello e Giove una ciocca di capelU d’oro, segni che, .conie vien detto, spho invisibili agli altri personaggi. Si può da ciò arguire con una qualche plausibilità che, se davvero le maschere non ci fossero state, i segni distintivi sarebbero risultati superflui; può darsi tuttavia che essi fossero stati intro­ dotti a beneficio degli spettatori dalla vista meno acuta o — in un grande teatro — di quelli piu distanti. Infine, per quanto le maschere qui sarebbero state ancora più comode che nel caso dei Menaeehmi, dal momento che 137

nessuna compagnia includeva certo due paia di gemelli identici, La commedia degli errori di Shakespeare' mostra che esse non erano indispensabili. Nessuna delle considerazioni sopra esposte, e tanto meno altre, è sufficiente ad appianare la questióne. Nono­ stante che diversi studiosi non esitino ad accettare la testi­ monianza di Diomede, personalmente tenderei a non cre­ derle molto; se tuttavia il grammatico davvero trasse la sua storia da Varrone — e questo è poco più che una inferenza fondata sul fatto che diverse volte egli cita Varrone come un’autorità per altri argomenti — sarebbe difficile per noi non prestarle fede. Su di un’altra modifica alla prassi corrente greca degli inizi del terzo secolo non vi è fortunatamente nessun dub­ bio. Mentre le commedie di Menandro si articolavano in cinque atti separati da intermezzi eseguiti dal coro, l’as­ senza di un coro dal teatro romano significa che Plauto e Terenzio non scrissero in atti, ma per una performance continua, come è possibile che abbiano fatto — ma non ne abbiamo prove — i loro contemporanei greci. Nei testi moderni le commedie plautine sono divise anch’esse in cinque atti, ma tale divisione venne per la prima volta introdotta, in un’edizione del 1514, da Nicolò Angelio, che mise in pratica una proposta ·formulata nel 1500 da G . B. Pio. La divisione in atti di Terenzio, al contrario, risale all’antichità, anche se gli eruditi si trovarono in difficoltà nel costringere il poeta nei loro schemi. La scomparsa della struttura articolata in cinque atti mise i drammaturghi latini di fronte a dei problemi da risolvere. La commedia che essi venivano adattando si era servita degli intermezzi per marcare i passaggi di tempo: come fare, in assenza di intermezzi, a segnalarli? Nella maggior parte dei casi la difficoltà venne ignorata (e questa osservazione non implica nessun giudizio nega­ tivo sul fatto). È infatti del tutto possibile per il pub­ blico realizzare che, lasciando vuota per un momento la scena, si vuole indicare il trascorrere di un lasso di tempo. Anche Shakespeare scrisse per delle rappresentazioni con­ tinue, ed i suoi spettatori, moderni o elisabettiani, accet­ 140

tano o accettarono tranquillamente una tale convenzione; si tratta tuttavia di una convenzione nel suo caso tanto più facile ad accettarsi in quanto normalmente il pub­ blico deve immaginare che le scene successive si svolgano in luoghi diversi: la spaccatura spaziale facilita quella temporale. Trasportato con l’immaginazione da un posto ad un altro lo spettatore può con altrettanta facilità esser trasportato anche da un’ora all’altra. L’azione della commedia greca, invece, si svolgeva in una sola località, generalmente fuori dalle case di due dei personaggi, e se il testo fosse stato tradotto in latino senza apportarvi modifiche, il pubblico non avrebbe saputo, di fronte ad una scena vuota, se considerarla vuota per il tempo reale in cui gli attori erano assenti o se essa rap­ presentava per convenzione un periodo di tempo più lungo. Talvolta una frase posta all’inizio della scena se­ guente l’interruzione poteva indicare che era passato del tempo, ma gli autori latini sembrano più spesso aver dato per scontato che la questione del tempo « teatrale » non fosse una di quelle su cui gli spettatori si sarebbero rotti il capo, o che questi ultimi non avessero affatto un chiaro senso temporale. Questa noncuranza è clamorosamente illustrata dal trattamento cui Plauto sottopone, nelle Bacchides (Le sorelle Bacchidi), la divisione tra i primi due atti del suo originale, il Dis exapaton (Il doppio inganno). La comme­ dia plautina non lascia dubbi sul fatto che, verso la fine del primo atto, il Mosco menandreo usciva per andare al mercato, e che, poco più tardi, le due fanciulle, alle quali egli aveva proposto di intrattenere il pubblico, pru­ dentemente si ritiravano in casa al comparire di un rumo­ roso coro. L’intermezzo eseguito da quest’ultimo copriva il tempo necessario per recarsi al mercato, dal quale Mosco ritornava all’inizio del secondo atto. In Plauto Pistoclero (l’equivalente di Mosco) esce per il mercato al verso 100, e vien visto rientrare dalle fanciulle al 106; esse lo scambiano per qualche sconosciuto attaccabrighe e rientrano in casa, mentre egli entra in scena, con i suoi acquisti, al verso 110. È vero che le commedie di Me141

riandrò non richiedono una corrispondenza precisa tra il tempo « teatrale » e quello degli eventi che accadono fuori di scena, e che cinque versi di dialogo possono coprire ■ — fuori dalla vista degli spettatori — degli avvenimenti che di solito occupano almeno cinque minuti; ma intervalli più lunghi, come quelli di una visita al mercato o di un viaggio in campagna, vengono sempre coperti da un inter­ ludio corale: non c’è mai nulla che offenda il senso tem­ porale alla stessa maniera della citata scena plautina. Plauto stesso, comunque, fece talora qualche tenta­ tivo di superare le difficoltà causate dall’assenza di un coro, e il suo trattamento della divisione tra gli atti secondo e terzo della stessa commedia sopra considerata sarà descritto più oltre (v. p. 163). Nel Curculio egli si trovò ad affrontare una situazione in cui ben tre perso­ naggi lasciavano la scena alla fine del terzo atto e vi rien­ travano — qualche tempo dopo — all’inizio del quarto. La loro uscita e l’immediato rientro avrebbe potuto cau­ sare qualche confusione. La difficoltà venne superata fa­ cendo entrare in scena il choragus, in persona o forse rap­ presentato da un attore. Questi esordisce affermando che uno dei personaggi della commedia, che ha da poco lasciato il palcoscenico, è un tale furfante che ci sarà da stupirsi se si potranno riavere indietro da lui i costumi, e dopo questa battuta ■ — basata sull’identificazione del personag­ gio con l’attore — continua dicendo che, mentre tutti ne aspettano il ritorno, egli coglierà l’occasione per offrire al pubblico una specie di « guida di Roma ». Nello Pseudolus (v. 537) lo schiavo entra in casa per escogitare un piano d’azione promettendo che presto tornerà indietro e che nel frattempo gli spettatori saranno intrattenuti da un flautista. Qui è probabile che l’originale greco presen­ tasse una divisione tra atti ed un interludio corale, ma nulla suggerisce che tali interludi venissero usualmente rimpiazzati a Roma da un assolo di un flautista. L’esperi­ mento dello Pseudolus rimase unico ed irripetuto. Tali difficoltà, ovviamente, non sarebbero insorte se il teatro antico avesse posseduto — come quelli odierni — un sipario che si potesse abbassare indicando così il pas­ 142

saggio di tempo; degli spettatori poco sofisticati avreb­ bero potuto supporre, alla calata del sipario, che la com­ media fosse terminata. Una cortina in grado di separare l ’uditorio dalla ribalta non sembra sia stata inventata pri­ ma della fine del secondo secolo a. C., ed anche allora essa venne collocata in una fessura del pavimento per esser tirata su solo alla fine della commedia. Cicerone ci dice che questo era un metodo opportuno per concludere un mimo (v. p. 144) il quale, in quanto rappresentazione informale, era privo di una conclusione naturale. Che il sipario sia stato escogitato a questo scopo, tuttavia, non è che una congettura; a Roma esso era sontuosamente ricamato, e può dunque essere stato introdotto anche per dare al pubblico qualcosa da guardare prima delle com­ medie o tra una commedia e l’altra. Il sistema moderno di svelare il palcoscenico sollevando il sipario sembra sia stato scoperto prima della fine del secondo secolo d. C. Ci furono diversi tentativi — forse anche prima della metà del secondo secolo a. C. — di scrivere non solo commedie in latino, ma che trattassero anche temi e personaggi italici. Questo tipo di rappresentazione, per distinguerlo dalla fabula palliata (« commedia in costumi greci »), venne chiamata fabula togata (« commedia vestita di toga »); ovviamente non tutti i personaggi portavano l’uno o l’altro di questi due abiti, ma quelli che lo face­ vano erano sufficienti a rendere operante la distinzione. Commedie di questo tipo avrebbero potuto fornire molte informazioni agli storici della società, ma sfortu­ natamente per noi non ne sopravvivono che alcuni titoli, alcune brevi citazioni e degli occasionali riferimenti da parte di autori « antiquari ». A quanto pare, l’azione non si svolgeva mai a Roma, ma sempre in qualche piccola cittadina italica; per la maggior parte i personaggi erano tratti — a differenza di quelli della Commedia nuova — dagli strati più bassi della società. Nondimeno, non era comune che uno schiavo venisse presentato come più furbo del padrone: casi del genere potevano verificarsi in Grecia, non in Italia dove le cose erano ordinate me143

gito! Le donne — riflettendo in ciò un’altra differenza tra vita sociale greca e romana — possono avere svolto nelle togatae una parte più attiva di quanto non facessero nella maggior parte delle commedie greche. Seneca (ep. 8, 8) dice che le togatae avevano un ele­ mento di serietà tale da farle in una qualche misura innal­ zare ad un livello intermedio tra commedia e tragedia. I frammenti citati dai grammatici a motivo del loro lin­ guaggio colloquiale non suggeriscono nessuna elevazione stilistica, ma forse il filosofo si riferiva alla passione per le massime moraleggianti che si può ritrovare in questi autori. Lucio Afranio, all’incirca contemporaneo di Teren­ zio, che fu tra essi il più noto, ammise prestiti di frasi (e forse anche di situazioni) da Menandro; i suoi drammi quindi non furono di pura ispirazione italica, ma si avvi­ cinarono alle traduzioni dalla commedia greca. Le opere di Afranio vennero per lungo tempo messe in scena anche dopo la morte dell’autore. Il pubblico a Roma soleva spesso applaudire a scena aperta un verso di una commedia vecchia o nuova che potesse essere applicato a situazioni contingenti, e gli stessi attori, anzi, tendevano di proposito, in genere, a provocare tali rispo­ ste. Cicerone ci testimonia che nell’anno 57, sedendo G o­ dio a teatro, tutta la compagnia all’unisono indirizzò con­ tro di lui un verso de II simulatore di Afranio: « ... il corso e la fine della tua vita di vizio ». Questa « coralizzazione » di parole scritte per un at­ tore singolo indica che né gli attori né gli spettatori attri­ buivano grande importanza all’illusione scenica. Afranio era ancora recitato al tempo di Nerone, quando gli attori della sua commedia Incendio ottennero il permesso di conservare per sé il mobilio che essi salvarono da una casa in fiamme, forse realisticamente rappresentata. Un’altra forma di rappresentazione scenica, che dalla metà del primo secolo a. C. occupò un posto importante nel teatro romano, fu il mimo; esso trasse origine da attori, o troupes di attori, che si guadagnavano il pane rappresentando scene — recitate in prosa — tratte dalla vita o immaginarie; tra di essi c’erano uomini e donne,

tutti recitavano a piedi nudi e senza maschera, e nelle loro esibizioni pare che ci sia stata una frequente com­ ponente di sconvenienza. Col tempo il mimo entrò a far parte, in diverse feste, degli spettacoli finanziati ufficial­ mente, ed al tempo di Cicerone esso giunse ad essere uti­ lizzato come « comica finale » (exodium) dopo le tragedie, soppiantando in tale funzione le Atellane precedentemente in auge. La popolarità crescente del mimo condusse a dei tentativi, coronati da successo, di innalzarne il livello e di dargli forma letteraria, e gli autori iniziarono a com­ porre tali opere per iscritto, utilizzando i metri resi fami­ liari dalla commedia. Un cavaliere romano, Decimo La­ berio (106-43), si acquistò un grande favore di massa scrivendo in uno stile estremamente allitterante, utiliz­ zando il vocabolario e la grammatica delle classi più basse e venendo generosamente incontro all’appetito di queste ultime per le oscenità. Giulio Cesare, nel corso della sua dittatura, gli offrì una grossa somma a patto che appa­ risse sulla scena come attore in uno dei suoi mimi; se avesse rifiutato, avrebbe automaticamente ammesso l’inop­ portunità, per un uomo del suo stato, del tipo di attività letteraria da lui esercitato, se viceversa avesse accettato, si sarebbe potuto esporre all’accusa di esser pronto a fare qualsiasi cosa per denaro. Laberio scelse di interpretare l’offerta come un ordine cui non si potesse dir di no — « chi potrebbe negare qualcosa ad un essere cui gli dei concessero tutto? » — ma si vendicò della sua per­ duta dignità pronunciando, nel corso del mimo, i due versi:

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Inoltre, o romani, noi stessi distruggiamo la nostra libertà

e M olti deve temere colui che m olti tem ono.

Diversi lavori di Laberio portavano titoli già utiliz­ zati per commedie, ad esempio Aulularia, Gemelli, Piscator, e possono aver contenuto delle scene a quelle com­ medie ispirate. Titoli come Aquae calidae, Augur, Com-

pitalia, Sorores, Virgo, poi, richiamano le omonime fabulae togatae, ed anche qui si deve presumere una certa rela­ zione tra queste ultime ed il corrispondente mimo, per quanto non si possa affermare nulla di specifico su di esso. Publilio, giunto a Roma ancor giovane come schiavo dalla Siria, ricevuta la libertà ed un’educazione letteraria, si esibì prima per tu tt’Italia in mimi di propria composi­ zione, e sconfisse infine tutti coloro che erano convenuti a Roma nel 46 a. C. Di notevole in lui troviamo l’alto numero di ben tornite massime, espresse nel latino degli uomini di buona cultura. Se ciò non bastò a far sì che le sue opere venissero lette dai posteri, esse nondimeno, per i loro « granelli di saggezza », vennero dissezionate e ridotte ad un’antologia; questa, allargata con materiale spurio, ebbe un’ampia circolazione nell’Impero. Gli eru­ diti amavano citare le sue massime: O vita, così lunga per il misero, così breve per chi è felice!

e Il fasto ha bisogno di molto, la cupidigia di tutto e ancora Il rimedio per i torti è dimenticare. Gli antichi credevano che i poeti fossero maestri e così, una volta acquistata dignità letteraria, anche a que­ sta screditata forma di rappresentazione drammatica si fece servire la causa del progresso morale.

Capitolo settimo PLAUTO

Plauto, il più originale e vigoroso scrittore della com­ media latina, era originario della cittadina italica di Sarsina in Umbria, a metà strada tra la moderna Firenze e Rimini, e sottomessa dai romani una dozzina di anni prima della nascita del poeta. Non ci è possibile dire con certezza se Plauto fosse il suo vero nome o uno pseudonimo umori­ stico adottato per fini professionali \ né se egli fosse stato o meno attore prima di divenire scrittore; queste incerte questioni, pur aperte ad affascinanti discussioni, sono per fortuna poco rilevanti per lo storico del dramma. Nulla attesta esplicitamente che Plauto recitasse o mettesse per­ sonalmente in scena le sue commedie, ma egli dà senza dubbio una forte impressione di possedere piena cono­ scenza dei meccanismi del teatro per il quale scriveva: di fronte ad un pubblico privo di esperienza e non svel1 Plautus è un ben noto cognome, originariamente — come tanti — un nomignolo riferito a caratteristiche fisiche; esso signi­ fica infatti «dai piedi piatti». Planipes tuttavia, che vuol dire anch’esso « dai piedi piatti », era il nome, in un mimo, di un attore che non portava calzature. È dunque possibile che il nostro autore abbia adottato il nome di Plauto per suggerire una con­ nessione con quella semplice forma drammatica. In un prologo Plauto chiama se stesso — o viene chiamato — Maccus, ed in un altro Maccus (o Maccius) Titus; qui ci troviamo certamente di fronte ad un’allusione scherzosa realizzata con un gioco di parole, in quanto Maccus era uno sciocco di repertorio nell’Atellana e Maccius era invece un nome realmente usato. Le generazioni se­ guenti credettero che il drammaturgo si fosse chiamato Titus Mac­ cius Plautus; forse, ma non è inopportuna una certa dose di scetticismo.

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tissimo ad afferrare le situazioni, Plauto comprese la ne­ cessità di procedere più lentamente di quanto avrebbe fatto un autore greco, di ripetere le cose due volte, di introdurre richiami agli elementi essenziali dell’intreccio e soprattutto di non lasciare che gli spettatori si annoias­ sero mai. Il pubblicò romano non esigeva certo da una commedia organicità assoluta, né si aspettava che una data caratterizzazione rimanesse coerente per tutta l’opera, né tantomeno altre raffinatezze che può permettersi di richiedere solo un frequentatore di teatri capace di avere una visione complessiva dello spettacolo; ciò che vera­ mente era importante per Plauto si riduceva all’« effetto » immediato. Tutte e ventuno le commedie plautine pervenuteci sono adattamenti da originali greci2; tre di questi origi­ nali, e probabilmente un quarto, sono menandrei, due appartengono a Difilo, due a Filemone, ed uno a quanto pare ad Alessi, tutti autori da attribuire al periodo d’oro della Commedia nuova. Delle altre dodici pièces, poi, una sola è tratta da un’opera di un altrimenti sconosciuto Demofilo, mentre tutte le altre hanno originali anonimi. Non ci sono prove che alcuni di tali originali siano stati scritti da drammaturghi greci contemporanei o apparte­ nenti alla generazione immediatamente precedente Plauto; al contrario alcuni dei loro autori certamente vissero più di cento anni prima del Nostro, e possono anche essere stati membri del grande trio di quei tempi. È sfortunatamente per noi impossibile stabilire come Plauto sia entrato in possesso di queste commedie greche; esse possono aver fatto parte del repertorio degli Artisti di Dioniso, ma il fatto che questi ultimi visitassero i tea­ tri delle città greche dell’Italia meridionale non è molto di più che una congettura, pur plausibile, e non ci sono peraltro prove che Plauto abbia avuto rapporti di sorta non solo con essi, ma in generale con l’Italia meridionale. 2 La ventunesima, la Vidularia, sopravvive solo nel senso che un manoscritto isolato ce ne conserva circa cento versi, conside­ revolmente mutili.

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Forse furono gli attori per i quali egli scriveva ad otte­ nere in una qualche maniera i testi dei quali il poeta poi li riforniva. Sarebbe imprudente infine dare per scontato che Plauto ammirasse sempre le commedie che adattava o le ritenesse particolarmente adatte ai suoi fini; può darsi, viceversa, che egli si sia dovuto servire, senza possibilità di scelta, del materiale che di volta in volta riusciva ad avere sotto mano. Comunque siano andate le cose, gli autori greci for­ nirono a Plauto una larga messe di storie ingegnosamente costruite e di scene cariche di tensione drammatica. Nel momento in cui esse vennero « ricamate » e diversificate, nel momento in cui se ne moltiplicarono le facezie e se ne sfruttarono a fondo le possibilità comiche da parte di uno scrittore in possesso di instancabile vigore espressivo e di fertile abbondanza di linguaggio, ecco che si produsse un nuovo genere di rappresentazione popolare, in grado di soddisfare un’ampia gamma di gusti. La varietà è uno dei più ovvi espedienti per accatti­ varsi l’attenzione di qualsivoglia uditorio, ma la varietà metrica in particolare era divenuta di uso sempre più raro tra i greci, ed è possibile che nelle ultime commedie di Menandro essa fosse stata del tutto abbandonata al fine di mantenere un livello medio omogeneo; anche allora, tuttavia, rimasero degli intermezzi corali in grado di for­ nire una variazione di metro ed il fascino della musica. Privo del coro, Plauto reintrodusse questi due elementi nel corpo stesso delle sue commedie, aumentando — non si sa se per primo — il numero delle scene scritte in versi lunghi trocaici e giambici, che a Roma — comunque siano stati eseguiti in Grecia — venivano recitati con l’accom­ pagnamento di un flautista. Questa circostanza rende vero­ simile una realizzazione materiale del verso non del tutto simile a quella adottata dagli attori per i senari giambici (versi di sei piedi), privi di accompagnamento. Di certo si possono scoprire anche delle differenze nel linguaggio adottato: nei versi lunghi il vocabolario è spesso di tono più elevato, le frasi si servono di una gran profusione di parole, e si sfruttano tutte le opportunità di ottenere 149

effetti di suono: in particolare veniva soddisfatto il pia­ cere tutto romano per l’allitterazione. Non furono tuttavia solo questi gli espedienti metrici di cui Plauto si servì per raggiungere l’obiettivo della varietà. Molto più notevoli e caratteristiche della sua indi­ vidualità di scrittore furono infatti le scene composte in quei vari altri metri, per lo più eretici, bacchei ed ana­ pesti, che in Grecia erano stati associati col canto. Tali metri in Plauto, col passar del tempo, divennero sempre più comuni, al punto che, nella tarda Casina, se si esclude •dal computo il prologo, quasi la metà e molto più di un terzo della commedia è in metri lirici. Talora diversi metri sono adoperati in associazione, e ci possono essere — come nelle parti ùriche della tragedia greca — passaggi di ritmo da un verso all’altro. È abituale, oggi, chiamare queste scene cantica·, la parola fu adoperata da Cicerone, ma i tentativi dei tardi grammatici di definirne il significato sono confusi e ben poco utili; non è nemmeno certo che essa avesse per Cicerone lo stesso significato che ha per noi, e forse con cantica si indicava semplicemente tutto ciò che non era in senari giambici. La parola canticum deriva dal verbo canere, che noi traduciamo con « cantare », ma « can­ tare » può significare diverse cose, e così parliamo, per esempio, anche di una voce « cantilenante ». Un senso di canere che possiamo assumere come minimo comune de­ nominatore tra tutti gli altri è forse « parlare mettendo in evidenza intensità e ritmo dei suoni », ed è possibile che, nell’esecuzione, non vi fossero differenze di fondo tra i versi lunghi giambici e trocaici e ciò che noi chia­ miamo cantica. È certo che questi ultimi non venivano cantati a mo’ delle arie d’opera, poiché le parole singole erano impor­ tanti, e spesso addirittura essenziali per lo sviluppo della commedia; il cantante deve essersi concentrato di più sul risalto da dare al significato dei versi che sulle qualità musicali della sua « canzone ». Ci sono inoltre anche dei versi che una fitta concentrazione di consonanti rende alquanto ostici ad un’esecuzione cantata nel senso mo­ 150

derno del termine, ed almeno in questi casi l’enfasi deve essersi esercitata più sul ritmo che sulle note. Tuttavia, ci sono negli autori antichi dei passi che lasciano inten­ dere che queste parti « liriche » richiedevano maggiori sforzi vocali, e può dunque darsi che, in particolare nei numerosi monologhi, all’attore si richiedesse di eseguire un qualcosa che noi, senza esitare, definiremmo « canto ». Si può qui menzionare una strana storia narrataci da Livio: a Livio Andronico, che recitava di persona le sue commedie, venne a mancare, a causa dei ripetuti bis, la voce; in conseguenza di ciò il poeta ebbe il permesso di utilizzare uno schiavo che cantasse il testo mentre egli continuava ad impegnarsi con intatta energia in una mi­ mica muta. Questa — sostiene Livio — fu l’origine della consuetudine per cui qualcuno canta a tempo con i gesti dell’attore, mentre la voce di quest’ultimo viene riservata unicamente per le scene parlate 3. Anche se lo storico non ebbe alcuna opportunità di vedere di persona in scena drammi letterari, deve aver conosciuto uomini anziani abbastanza per avervi assistito, ma se egli credeva che fosse stata consuetudine abituale che uno cantasse mentre un altro mimava, in questo egli sicuramente si sbagliava, dal momento che Cicerone esplicitamente ci parla del canto del famoso attore Roseto. Si è molto discusso sui possibili precedenti dell’uso plautino dei cantica, ed a prima vista un’origine può essere ricercata nell’imitazione dei canti lirici — per lo più mo­ nodia — che divennero col tempo sempre più comuni nelle tragedie di Euripide. Plauto si servì spesso di tali forme per passi di tono elevato, tanto patetici quanto umoristici, nei quali un personaggio si lamenta della sua situazione, e lo stile è sovente singolarmente simile a quello dei lamenti seri che possiamo ritrovare tra i fram3 La prima parte della storia non è del tutto incredibile. A Londra, nel novembre del 1935, l’attore Lupino Lane, persa la voce, si servì di un’altra persona che recitasse la sua parte, mentre egli stesso la interpretava sulla scena. L’espediente risultò così divertente che non lo si abbandonò nemmeno dopo la guarigione di Lane.

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menti di Ennio, tragediografo principe della prima metà del secondo secolo. Entrambi gli scrittori fanno uso di allitterazioni ed assonanze; ma Plauto era il più anziano tra i due, e la cronologia vieta quindi di presumere che l ’iniziativa sia partita da Ennio. Quale che sia stata, ad ogni modo, l’origine dei can­ tica, è certo che essi danno alla commedia plautina un particolare sapore, e che questo potè essere gustato non solo dalla massa degli spettatori, che possiamo immaginare più propensi ad ascoltare un « musical » che una vera e propria commedia, ma anche da un uditorio più colto, in grado di apprezzare l’armonia con cui a mutamenti ritmici corrispondono mutamenti di stato d’animo o di soggetto. Con la varietà metrica e con l’uso di versi musicati Plauto introdusse nelle sue versioni di opere appartenenti alla Commedia nuova degli elementi che avevano fatto parte delle attrattive esercitate dalla Commedia antica sul suo diversificato uditorio; anche altri sistemi di sod­ disfare i più semplici gusti del suo pubblico ci riportano a caratteristiche già rilevate in Aristofane. Nulla mostra che Plauto abbia conosciuto le opere del commediografo ateniese, ma egli può aver trovato precedenti isolati negli autori della Commedia nuova; d ’altra parte, però, il poeta latino può aver agito indipendentemente, grazie alla sua conoscenza di ciò che in teatro incontrava le preferenze del pubblico; in ogni caso, se pure trovò qualche accenno nei suoi originali, egli giunse a svilupparlo ampiamente. Anzitutto, tra gli elementi che avvicinano Plauto alla Commedia antica, troviamo il « pepe » degli episodi con allusioni oscene, per lo più sessuali, spesso omosessuali, e basate largamente su giochi di parole dall’ambiguo signi­ ficato. Questi passi sembrano presentarsi più a casaccio di quanto non avvenga in Aristofane, e possono mancare del tutto in lunghe sezioni di testo; tra di essi un piccolo nu­ mero si addice al carattere di chi li pronunzia, ma nella maggior parte dei casi essi spiccano come interruzioni non conseguenti al corso degli eventi; l’attore si trasforma cioè per un momento in un « battutista » con il suo repertorio di facezie sporche.

Un divertimento di altro tipo era costituito dai giochi di parole, espediente ancora più rilevante in Plauto che nella Commedia antica. Questo genere di creazione verbale può esser fatto con intelligenza, può essere coerente al carattere di chi lo pronuncia, può essere infine ricco di significati sottintesi. Nulla potrebbe essere più efficace delle parole di Amleto:

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Un po’ più che cugino {kin) e un po’ meno che figlio (kind). Ma mentre è abbastanza credibile che un amante esclu­ so possa abbandonarsi ad amari giochi di parole rimpro­ verando i pessuli pessumi (cioè i « cattivissimi catenacci ») che lo tengono fuori, o che un parassita possa, gua­ tando l’agognato pranzo, accavallare sillabe su sillabe, quanta sumini apsumedo, quanta callo calamitas (« che scempio farò di poppe di vacca, che perdite infliggerò alle carni! »), spesso Plauto, viceversa, tende a null’altro che a creare effetti fonici accozzando parole tra loro simili. Si tratta, in questi casi, di veri e propri scherzi, irrilevanti per la trama o per la definizione del carattere del perso­ naggio; non mancano però giochi di parole più « surreali », e talora la somiglianza tra diversi termini costituisce la base di spiritose risposte, come quando un personaggio dice nihil sentio, e l’altro replica: non enim es in senticeto, eo non sentis-, lo scambio potrebbe così essere reso: (A) Non mi rendo conto di nulla. (B) Per forza: mica sei un contabile; perciò non ti rendi conto! Battute del genere non sono neppure oggi insolite in spettacoli comici di livello popolare. Le parole erano per Plauto una vera e propria gioia; non solo, infatti, egli si servì di un ricco vocabolario tratto dall’uso colloquiale, ma amò anche inventare nuovi com­ posti e derivati comici, e la sua inventiva e fantasia non lo abbandonò nemmeno nel trattamento dei nomi propri dei personaggi. La Commedia nuova, come s’è visto, si servì ripetutamente degli stessi nomi per personaggi dif-

ferenti; Plauto invece, dal momento che il suo pubblico non aveva familiarità con le convenzioni che riferivano ciascun nome ad un particolare « tipo », si adeguò alla solita pratica — abituale nel teatro moderno — di fornire a ciascun personaggio un suo nome particolare. In tutte e ventuno le sue commedie ci sono solo tre casi di dupli­ cazione di nome: due giovani schiavi chiamati Pinacium (cioè « Quadretto »), due giovanotti chiamati Carisio, e due vecchi chiamati Callide. In generale i nomi dei per­ sonaggi, con procedura a Plauto non insolita, possono es­ sere stati tratti supinamente dagli originali greci, e così ad esempio nelle Sorelle Bacchidi lo schiavo Lido conserva lo stesso nome che aveva nel Doppio Inganno di Menandro. E tuttavia, nella stessa commedia, l’altro schiavo, da Siro che era, diventò Crisalo, mentre i giovani Sostrato e Mosco mutarono i loro nomi nei meno triti Mnesiloco e Pistoclero. Se il primo era piuttosto comune nella vita reale, Pistoclero, nonostante sia un composto assolutamente possibile, non ci è altrimenti testimonato, e ciò illumina la pratica abituale di Plauto: molti dei suoi nomi sono genuini, molti possono però essere sue autonome invenzioni, costruite correttamente in base all’analogia con forme altrimenti note. Alcuni di questi ultimi, poi, si propongono di avere una qualche pointe, ed anche Pisto­ clero, ad esempio, non è che un leale (pistos) amico. Un soldato, che è probabilmente un parvenu, viene chiamato Terapontigono (« Figlio di serva »), nome teoricamente possibile ma improbabile e ridicolo. Un altro piccolo nu­ mero di nomi, anch’essi di formazione corretta, sono aper­ tamente comici: un parassita Artotrogo, « Rosicchiapagnotte », ed uno strozzino Misargiride, « Odiasoldi »; altri, come Pirgopolinice, « Abbattibaluardi », e Polimacheroplagide, « Menafendenti », che combinano irregolar­ mente tre elementi, trovano sì paralleli nei Tisamenofenippo e Panurgipparchide di Aristofane, e presumibilmente ebbero dei precedenti nella Commedia nuova, ma, al di là di ciò, furono con probabilità prodotti autonomi della fertile inventiva dello stesso Plauto, come lo splendido

Bumbomachide Clutumistaridisarchide, che nel suo am­ bito è un capolavoro. Questi nomi, che hanno certo più sapore per chi co­ nosce il greco, costituiscono solo un caso particolare del problema più vasto offertoci dall’occorrenza, nel testo plautino, di un numero abbastanza alto di parole di origine greca, cui viene talora data una desinenza latina, o che vengono addirittura composte con un elemento latino, per esempio thermopotasti (« hai bevuto qualcosa di caldo »). Si trattava di parole realmente utilizzate nel linguaggio popolare a Roma? Venivano forse adoperate per sottoli­ neare il fatto che i personaggi erano dei greci? Erano comprese dalla maggioranza degli spettatori o solo da una minoranza esigua? Si è tentati di chiamare in causa le com­ medie moderne in cui uno straniero parla per una o due battute nella sua lingua madre, che solo una parte del pub­ blico è in grado di comprendere, e poi, in considerazione delle circostanze, inizia ad utilizzare la lingua dell’autore, anche parlando con suoi connazionali, casomai con occa­ sionali ricadute in tipici riempitivi vernacolari, come il tedesco Donnerwetter. Sono però pochi i casi in cui un personaggio plautino pronuncia una frase in greco senza nessuna ragione apparente tranne il fatto di esser greco di nascita; d’altra parte, viceversa, troviamo diversi passi in cui si usano parole greche con la prospettiva manifesta che esse saranno comprese da molti del pubblico. Uno spettatore non si risentirà certo per la presenza di elementi che superano il suo grado di comprensione, purché essi non siano in numero eccessivo ed i suoi gusti vengano ade­ guatamente soddisfatti altrimenti. Un drammaturgo, d’al­ tra parte, non è tenuto a scrivere attenendosi al più basso livello presente nel suo uditorio. Ci sono parole italiane che hanno oggi un senso anche per spettatori inglesi che non potrebbero certo comprendere un’intera frase in ita­ liano e, d’altronde, l ’inglese sta invadendo con i suoi ter­ mini anche l’Italia. Si può dunque congetturare che greci, tanto schiavi quanto liberi in cerca di impiego o di com­ merci, fossero già abbastanza comuni a Roma da aver

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apportato un noteole contributo lessicale alla lingua latina corrente. Coerentemente con quanto sopra esposto, Plauto sem­ bra aver contato anche su una conoscenza elementare della mitologia greca da parte della maggioranza degli spetta­ tori. Che i suoi riferimenti ad essa venissero tradotti auto­ maticamente dall’originale greco senza preoccuparsi se sarebbero stati compresi o meno fu una teoria un tempo propugnata da studiosi incapaci di immaginare come lavora un drammaturgo di successo; l ’insostenibilità di una tale tesi è completamente provata dal fatto che i riferimenti mitologici si ritrovano non solo in quei passi che possono avere un’origine greca, ma anche in altri dichiaratamente di composizione plautina. Non c’è bisogno di supporre che ogni spettatore avesse sentito parlare, per esempio, di Argo, ma era sufficiente che molti fossero a conoscenza della sua leggenda; e per quelli che avevano la memoria un po’ corta, Plauto aggiunge un richiamo: « Se Argo fosse il loro custode, quell’Argo che era tutt’occhi e che una volta Giunone diede come guardiano a Io, non riuscirebbe nemmeno lui a sorvegliarli ». La familiarità con la mito­ logia greca sarà stata acquisita non solo attraverso contatti personali con i greci, ma anche mediante le rappresenta­ zioni correnti sulle opere d’arte, che venivano probabil­ mente spiegate ed almeno parzialmente comprese. L’arte e la mitologia greca, d’altra parte, erano state da lungo tempo accolte dagli etruschi, i vicini dei romani sull’altra sponda del Tevere, dai quali essi ricevettero forti influssi culturali. Un altro richiamo per il gusto popolare era costituito da scene in cui i protagonisti si scambiano insulti o mi­ nacce; questa, anzi, pare sia stata una forma di diverti­ mento assai comune in Italia: Orazio narra nella quinta satira del primo libro come il gruppo dei suoi amici, com­ prendente anche Mecenate e Virgilio, in viaggio si diver­ tisse una sera assistendo agli improperi scambiati tra due parassiti, un liberto ed un osco (si potrebbe, in riferi­ mento a ciò, pensare alle rappresentazioni osche di Atella), e ancora l’imperatore Marco Aurelio ricorda un’altra cena

in cui i convitati vennero allietati da un diverbio tra con­ tadini. Al gusto dei romani venivano poi incontro anche passi in cui gli schiavi subiscono minacce di maltrattamenti fisici terribili ed a volte esagerati fino alPimpossibile. Gli schiavi stessi, inoltre, prevedono o ricordano punizioni del genere, facendo frequentemente uso, per riferirvisi, di un linguaggio comico. Comune a tutto questo materiale plautino è la caratte­ ristica di puntare ad un effetto immediato, a sollecitare la risata senza riguardo per il procedere dell’azione scenica o per la coerenza della situazione e della personalità del personaggio che parla — tranne il fatto che scurrilità e scherzi assurdi vengono per lo più messi in bocca a schiavi e ad individui di rango sociale basso. Un motivo standard sviluppato a parte è quello dello « schiavo che corre », che spesso si precipita in scena a portare delle novità, facendo finta di farsi largo tra una invisibile folla che gli impedisce il passaggio. In un caso Plauto raddoppia l’as­ surdità facendo sì che un tale schiavo, portatore di infor­ mazioni che è necessario che il suo padrone venga a cono­ scere senza indugio, ritarda la comunicazione — una volta trovatolo — fin quando non ha terminato di indulgere ad un lungo cicaleccio (Mercator 111-75). Quando Plauto introduce scherzi che non hanno giu­ stificazione esterna, gli attori perdono ogni rapporto col personaggio che stanno interpretando; essi cessano di rap­ presentare degli ateniesi e diventano comici su un palcoscenico romano: « Non lo sai, donna, perché i greci chia­ mavano Ecuba una cagna? ». Uno schiavo, vantandosi dei successi ottenuti nell’ingannare il padrone e paragonan­ doli — con una metafora assai cara a Plauto — a vittorie militari, così conclude: « Non sto avendo un trionfo: è diventata una cosa così comune al giorno d’oggi! »; si tratta di un esplicito riferimento alla frequenza dei trionfi celebrati dai generali romani nella prima parte del secondo secolo, e forse in particolare all’anno 189, in cui ce ne furono non meno di quattro (Bacchides 1072). Sebbene dunque per Plauto sia poco importante il conservare a tutti i costi l’illusione scenica, ed egli sia

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pronto a metter da parte, sia pure temporaneamente, la trama, tuttavia non lo si può definire del tutto indiffe­ rente al racconto, ed anzi nelle sue commedie esso viene portato avanti con chiarezza, rendendo piano il progre­ dire dell’intreccio; per le linee generali di quest’ultimo Plauto era indebitato con l’originale greco e, particolar­ mente nelle commedie più antiche, si preoccupava di con­ trollare che gli spettatori le seguissero; nel Poenulus, per esempio, il trucco per ingannare il mercante di schiave viene spiegato per ben tre volte (vv. 170-87; 547-65; 591-603). Anche le interruzioni della trama provocate da scherzi vari possono essere considerate prove dell’impor­ tanza dell’intreccio. Per seguire i drammi di Menandro era necessaria un’attenzione sempre vigile, ed allo stesso modo scrissero probabilmente i suoi rivali; Plauto, con un uditorio cui non si potevano chiedere prestazioni del genere, fece sì che la commedia procedesse per passi più brevi degli organici atti dei suoi modelli. Infatti, dopo una sezione di non molto rilievo, egli spesso soleva ri­ prendere il filo della trama ripetendo una frase che aveva immediatamente preceduto l’inserzione. Per importante che fosse l’intreccio, Plauto si mostrò talora ben disposto a troncarlo di netto. Tanto per fare un esempio, nei Klerumenoì (I Sorteggiatiti) di Difilo una fanciulla libera veniva esposta, salvata ed allevata in una casa in cui tanto il padre quanto il figlio finivano per inna­ morarsi di lei; il padre sperava di averla per sé dandola in sposa ad uno schiavo compiacente, ma la moglie, pren­ dendo le parti del figlio, che era stato inviato lontano da casa, sosteneva la candidatura di un altro schiavo che, al ritorno del giovane, sarebbe stato anch’egli pronto a farsi da parte. Tutti i criteri analogici mostrano che, alla fine, la nascita libera della fanciulla veniva riconosciuta ed essa si univa al giovane con un legale matrimonio. Il prologo alla CasinaA dice tuttavia, nell’adattamento plautino: 4 II titolo originario era Sortientes, traduzione letterale del titolo del modello difileo. Il nome Casina pare sia stato dato alla commedia in occasione di una replica.

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Il giovane non tornerà in città oggi. Non lo aspettate. Plauto era contrario, e così interruppe un ponte sulla sua via. Il poeta latino si accontentò di concentrarsi sulle prime fasi della commedia, e cioè sulle manovre di marito e moglie e sulla sostituzione — se pure essa può essere attribuita a Difilo — di un uomo ad una donna nel letto in cui il padre si aspettava di trovare l’amata. Un altro sistema per alterare le proporzioni degli ori­ ginali appare in quelle commedie in cui — come è stato accertato con sicurezza — Plauto estese grandemente ed arricchì il ruolo di uno schiavo, dandogli più risalto di quanto non ne avesse avuto in greco. Tre di queste com­ medie, anzi, hanno come titolo il nome stesso dello schiavo, la cui parte era probabilmente sostenuta dal primo attore, come del resto deve essere accaduto per il ruolo di Crisalo nelle Sorelle Bacchidi45. Gli schiavi plautini sono di due tipi differenti, l’in­ gegnoso briccone ed il servo fedele. Il primo non solo conduce in porto l’intrigo escogitato dall’autore greco, ma si abbandona anche ad elaborate vanterie della propria ingegnosità, e l’esempio principe è ancora quel Crisalo che in un lungo canticum paragona se stesso ad Ulisse e gli altri personaggi alle varie figure che presero parte, nell’uno e nell’altro campo, alla guerra di Troia. Questi schiavi sono talora incredibilmente insolenti nei confronti dei propri padroni, secondo un modo di comportarsi che Plauto trova divertente attribuire a servi di quei greci che avevano strane idee circa la libertà di parola. L’one­ sto servitore, d’altro canto, spesso moraleggia a lungo sul rispetto dovuto ai propri padroni, sottolineando pensieri che saranno certo stati approvati al più alto grado dai possessori di schiavi presenti tra il pubblico. Plauto può aver trovato nei suoi originali accenni a questo elemento 5 Ad un certo punto Crisalo dice: «N on la cosa in sé, ma chi la fa mi punge sul vivo; VEpidicus è una commedia che amo come me stesso, ma a nessuna assisto più malvolentieri, se è Pellione a recitarla ». Per un attimo non è più Crisalo che parla, ma l’attore rivale di Pellione.

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che nelle sue commedie è così sviluppato, ma la premi­ nenza che egli gli diede era farina del suo sacco. La pubblicazione, nel 1968, di un papiro contenente frammenti di una sezione del Dis exapaton corrispondente a Bacchides 494-562 ha gettato nuova luce sul problema delPindipendenza plautina, poiché si è riscontrato che questi operò trasformazioni dell’originale del tutto inat­ tese. Per spiegare i precedenti del passo che ci interessa analizzare sarà sufficiente dire che in Plauto Mnesiloco, trovandosi ad Efeso per riscuotere del denaro per conto del padre, si è innamorato di un’etera, Bacchide, in pro­ cinto di partire per Atene, ed ha quindi scritto all’amico Pistoclero, rimasto a casa, chiedendogli di rintracciare la ragazza per poter, una volta tornato, riallacciare la rela­ zione interrotta. Pistoclero porta a termine il suo com­ pito, ma non può evitare di cader preda del fascino della sorella gemella di Bacchide, che si serve tra l’altro dello stesso nome. Mnesiloco dal canto suo, tornato a casa e venuto a sapere tutto ciò, è indotto non senza verosimi­ glianza a credere che la ragazza che ama sia divenuta l’amante dell’amico; prima di tale scoperta egli era inten­ zionato a riscattare Bacchide, liberandola da un contratto che la legava ad un soldato entrato in campo prima del loro incontro, e lo schiavo Crisalo aveva reso possibile finanziariamente tutto ciò raccontando al padre una falsa storia secondo la quale essi erano stati obbligati a lasciare ad Efeso il denaro riscosso. Plauto ha cambiato i nomi di tutti e tre i personaggi citati: in Menandro Mnesiloco si chiamava Sostrato, Pisto­ clero Mosco e Crisalo Siro. Sostrato, rimasto solo dopo esser venuto a conoscenza del supposto tradimento del­ l’amico, così riflette: Se n’è andato, dunque...6 Lei continuerà a tenerlo in pugno. Ma Sostrato fu la tua prima preda! — Lo negherà, non c’è nessun dubbio: è sfacciata a sufficienza! (Fa per av­ 6 Alcune parole, indicate dai puntini, sono andate perdute. Forse « manterrai la presa ».

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viarsi verso la porta della casa dove si trova Bacchide). Indie­ tro, Sostrato! Può persuaderti, parlandoci. Sono stato il suo schiavo (?)... ma che usi pure tutta la sua persuasione con me quando le mie tasche saranno vuote e non avrò più nulla. Darò a mio padre tutti i soldi. La smetterà di mostrarsi sua­ dente quando si accorgerà — come dice il proverbio — di star parlando ad un morto. Ora, anzi, vado subito da lui. A questo punto il padre torna dal mercato e Sostrato gli racconta che non c’era nulla di vero nella storia imba­ stitagli da Siro: « Dimentica tutto, e vieni con me a pren­ dere il denaro ». La coppia esce quindi di scena diretta in città, dove sono stati lasciati i quattrini, e così l’atto termina. Come si è comportato Plauto di fronte a questo testo? Se è piu carogna l’amico o Bacchide è opinione oltremodo incerta. Ha preferito lui, se lo tenga, per me non fa una grinza. Ma boia se quella non l’ha fatto con danno... mio, e nessuno creda più a un mio giuramento se non glielo faccio vedere 10 per bene... che l’amo. Farò in modo che non possa dire di aver trovato il suo zimbello. Adesso vado a casa e... sfilo un po’ di grana al genitore. Così gliela do. Mi vendicherò in mille modi. Spingerò le cose in modo che chieda l’elemosina... mio padre. Ma ci ho mente e anima limpide, che sto qui a cianciare del futuro? Amo, boia miseria, almeno così mi pare, se c’è una cosa che posso sapere. Ma piuttosto che appesan­ tirla d’una piuma col mio oro, meglio diventare il più accat­ tone degli accattoni. Boia miseria non dirà mai viva che sono 11 suo zimbello. Ho deciso di ridare tutto il contante a mio padre. Lei verrà a strofinarmisi quando sarò moscio e povero, ma non ne farò più conto che se narrasse favole ad un morto. Restituirò i soldi a mio padre, questo è positivo (trad. L. Canali). Aggiungendo che intende persuadere il padre a non infierire su Crisalo, Mnesiloco entra in casa. Il dialogo menandreo tra padre e figlio non ci è conservato: Plauto doveva far dei tagli per compensare gli allargamenti intro­ dotti nel testo, e pensò di potersi esimere dal tradurlo. Egli avrà certo notato che Nicobulo — questo è il nome del padre nelle Bacchides — era precedentemente andato 161

al foro e non era ancora ritornato, ma forse sperava che gli spettatori non se ne sarebbero accorti. Menandro lasciò che si intuisse dalle parole di Sostrato («Può persuaderti, parlandoci») che il giovane ancora subiva il fascino della ragazza; Plauto esplicita tutto ciò in una frase che colpisce per la sua chiusa inaspettata: « se non glielo faccio vedere io per bene... », il contesto suggerirebbe « che la rovino », ma, sorprendentemente, la conclusione è « che l’amo ». Compiaciuto per l’espediente, il poeta latino lo ripete due volte ancora, ottenendo così delle battute che non si armonizzano certo col carattere di Mnesiloco, ma servono solo a mettere in chiaro che egli è ancora pronto ad anteporre la ragazza al padre. La sua infatuazione è quindi confermata, per gli spettatori più tardi, dall’esplicita affermazione « io l’amo »; è questa un’ammissione che Sostrato non si e spinto a fare, in quanto nella sua mente la collera aveva ancora la meglio. Dopo aver dichiarato il suo amore, Mnesiloco esprime la determinazione a non lasciare che Bacchide metta le mani nemmeno su un’inezia del suo denaro, e tale conclusione del discorso non viene sufficientemente spiegata. Plauto modifica poi anche lo scopo del comportamento del giovane per quanto riguarda i quattrini. Mentre infatti Sostrato pensava all’effetto sulla ragazza (essa non avrebbe saputo che farsene di un poveraccio), Mnesiloco, il cui discorso è tutto incentrato su se stesso, pensa anche qui alla propria persona: se non possiede nulla egli non potrà rispondere agli adescamenti di Bacchide. Quasi tutto ciò che Sostrato diceva aveva riferimento al come /e/ si sa­ rebbe comportata, e la stessa preoccupazione per lei e per i suoi pensieri pervade un secondo soliloquio, che il gio­ vane pronunciava nell’atto seguente. Egli ^ritornava in scena con il padre, che ancora una volta si allontanava, e, rimasto solo, dava libero sfogo alla sua amarezza:

sé — tutti i soldi che le sto portando. « Certo, me li sta proprio portando, e generosamente per gli dei — chi potrebbe essere più generoso? —, e non me lo merito, forse? ». Final­ mente si è rivelata proprio per quella che una volta pensavo fosse — le si può esser grati di ciò — ed ora ho quasi pietà di quel pazzo Mosco. Da una parte sono infuriato, ma dal­ l’altra non lo posso considerare personalmente responsabile del torto che mi è stato fatto: la colpa è di quella donna, la più sfacciata di tutte! A questo punto Mosco stesso esce di furia dalla casa in cui si trovano le due sorelle. Mosco Allora, se lo sa che sono qui, in quale angolo della terra mi va cercando? — Oh, salute, Sostrato. Sostrato (cupo) Salute. Mosco Perché non mi guardi in faccia e te ne stai così tetro? E cos’è quel velo di lacrime nel tuo sguardo? Non avrai trovato qualche guaio inatteso al tuo ritorno, spero. Sostrato Sì. Mosco Allora, non me lo vuoi dire? Sostrato È un guaio che sta dentro casa, Mosco, lo sai. Mosco Che vuoi dire? Sostrato [una frase è perduta] Questo è il primo torto che tu mi fai. Mosco Io farti torto? Che il cielo non voglia, Sostrato. Sostrato Neppure io me l’aspettavo. Mosco Ma di che cosa stai parlando?

Sì, credo proprio che mi divertirei vedendo questa per­ fetta signora, questo mio amore, ora che ho le tasche vuote, rendersi attraente ed aspettare — « subito », dice tra se e

Qui termina il papiro, ma sembra probabile che il malinteso venisse a questo punto della commedia rapi­ damente chiarito. Plauto, che non disponeva di un coro che gli coprisse i lassi di tempo, non poteva — a spese della plausibilità ■ — far tornare in scena Mnesiloco subito dopo che era uscito per consegnare al padre l’oro e dar ragione delle fandonie dello schiavo. Non gli rimaneva quindi che anticipare l’entrata di Pistoclero; ed infatti, non appena Mnesiloco si ritira in casa sua, ecco che l’amico esce dall’altra casa, verso l’interno della quale ancora rivolge le parole di apertura:

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Prima di tutto farò la tua commissione, Bacchide: cercare Mnesiloco e portartelo qui con me. Ma strano che tardi tanto se ha avuto il mio messaggio. Andrò da lui a vedere se è in casa. Mosco non si perde certo in chiacchiere del genere né tantomeno mostra di aver bisogno che Bacchide gli dica cosa fare; il verso con cui entra in scena esprime infatti semplicemente la sua personale impazienza di incon­ trare l’amico da lungo tempo assente. Le faticose spiega­ zioni di Pistoclero, in realtà, servono a riempire — sia pur inadeguatamente — un periodo di tempo durante il quale si può supporre che Mnesiloco si sia incontrato con il padre. Solo così questi può alla fine ritornare in scena, e permettere a Plauto di riprendere il filo del discorso, sunteggiando gli avvenimenti fino alla fine dell’atto menandreo. Mnesiloco Ho ridato tutto l’oro a mio padre. Ora che sono tutto moscio vorrei incontrarla, la mia sdegnosa. Quanto mi ha fatto sudare mio padre per il perdono di Crisalo! Ma alla fine ho ottenuto che non ce l’avesse troppo con lui. Pistoclero Chi è, il mio amico? Mnesiloco È il mio nemico che vedo? Pistoclero Certo che è lui. Mnesiloco È lui. Ora l’abbordo e l’affronto. Pistoclero Salute, Mnesiloco. Mnesiloco Salute. Pistoclero Alla salute del tuo ritorno pranziamo insieme. Mnesiloco Non mi va un pranzo che mi smuove la bile. Pistoclero Hai trovato guai al tuo ritorno? Mnesiloco Un guaio dannato. Pistoclero La causa? Mnesiloco Uno che prima credevo un amico. Pistoclero Ce n’è molti così, li credi amici e poi li scopri traditori, a chiacchiere tuttofare ma in pratica menefre­ ghisti, parola da non fidarsene, invidiosi dei successi altrui, oziosi per non farsi invidiare. Mnesiloco Cavolo, li conosci bene, ci devi aver fatto degli studi. Ma aggiungi: carogne rovinate dalla loro carognaggine. Amici di nessuno, tutti loro nemici. Stupidi che cre­ dono di fregare il prossimo e fregano solo se stessi. Pro­ 164

prio come quel tizio che credevo amico come un altro me stesso. Ce l’ha proprio messa tutta per rovinarmi e per buttare in aria tutto il mio bene7. Pistoclero Davvero una carogna questo tizio. Mnesiloco A chi lo dici! Pistoclero Ma dimmi chi è! Mnesiloco Uno che è in buona con te. Se no ti chiederei di fargli tutto il male che puoi. Pistoclero Tu dimmi solo chi è. Poi dì pure che sono un vigliacco se non gli do in qualche modo una lezione. Mnesiloco È un cialtrone, ma è tuo amico. Pistoclero Tanto più dimmi chi è. Non ci tengo all’amicizia dei cialtroni. Mnesiloco Vedo che non posso proprio fare a meno di dir­ telo. Pistoclero, sei proprio tu che hai mandato a picco il tuo amico (trad. L. Canali). In Menandro Mosco, da intimo amico di Sostrato, si accorge subito che qualcosa non va, e Sostrato, a sua volta, viene rapidamente indotto a spiegare i motivi del suo risentimento. Per Plauto tutto ciò voleva dire per­ dere un’occasione d’oro di sfruttare un motivo che egli poteva benissimo aver trovato in qualche altra commedia: se Mnesiloco accusava l’uomo che secondo lui l’aveva of­ feso senza farne il nome, era possibile mettere in scena un Pistoclero che, non avendo nulla da nascondere, tra­ scinato dall’amico, parlasse involontariamente a condanna di se stesso (più precisamente, Pistoclero condanna non se stesso, ma l’uomo che Mnesiloco pensa che egli sia). La scena plautina è forse un po’ macchinosa, ma poteva tuttavia essere assai efficace una volta rappresentata, poi­ ché offriva alla platea l’occasione di divertirsi per le ripe­ tute incomprensioni di Pistoclero. Non si possono condan7 Questa tirata di Mnesiloco e quella, immediatamente pre­ cedente, di Pistoclero erano omesse in alcuni manoscritti tardoantichi, ed è dubbio se risalgano a Plauto (in questo caso esse potrebbero rappresentare un ripensamento da parte sua, in quanto, togliendole, non si apre nessuna lacuna) o se siano state inserite da qualcun altro in occasione di una replica. Quale che sia la verità, tali versi, di tono moraleggiante, tendevano palesemente Ά guadagnarsi l’approvazione di un uditorio del secondo secolo.

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nare questi passi solo perché non riflettono Menandro; il loro esplicito vigore li avrà resi più attraenti per un pubblico romano di quanto non sarebbero stati gli origi­ nali greci. Occorre però rendersi conto del fatto che Me­ nandro concepiva le figure dei due giovani del tutto diffe­ rentemente; il suo Mosco e sensibile e schietto, percepisce immediatamente la pena dell’altro e non gli avrebbe mai risposto con quattro versi pieni di pompose generalizza­ zioni sui falsi amici. Sostrato, per quanto non libero da risentimenti, non riesce tuttavia a vedere in Mosco un avversario, e getta la colpa sulla ragazza, non sul suo vecchio compagno. Plauto lavorava con motivi di reper­ torio, Menandro con figure vivide scaturite dalla sua per­ sonale fantasia. Ora che finalmente è possibile mettere a fronte un passo di Menandro con la corrispondente versione plau­ tina, abbiamo la prova che il drammaturgo latino — al­ meno nelle sue ultime opere — trattò con grande libertà gli originali di cui si serviva. E il problema non consiste solo nell’inserzione di facezie non essenziali in un testo più o meno fedelmente tradotto. Gli studiosi avevano già compreso che, quando un canticum (v. p. 150) rimpiaz­ zava una scena parlata, occorreva postulare delle varia­ zioni, ma non si erano ancora spinti tanto in là da cre­ dere che Plauto potesse aver dato nuova forma ad una scena pur lasciandola nel metro del parlato. Noi ora sap­ piamo che egli poteva rimodellare tanto dei monologhi quanto dei dialoghi essenziali allo sviluppo della trama, facendo sì che la nuova versione conservasse tutto ciò che era necessario affinché la commedia andasse avanti, ma introducendo una caratterizzazione sua propria. Il risultato di queste nuove testimonianze deve essere quello di mostrare che ogni sforzo di risalire da Plauto alle commedie greche che egli andava adattando e desti­ nato a scontrarsi con difficoltà maggiori di quanto qual­ cuno può aver immaginato. D ’altro canto, nel momento in cui appare provato che, sempre nelle Bacchides, la man­ canza di giustificazioni per i movimenti del padre è dovuta non a Menandro, ma al suo rielaboratore, ciò costituisce 166

ancora una pezza d’appoggio per coloro che ritengono imperfezioni del genere un’attendibile indizio di intervento plautino. Nonostante che però egli possa a ragione venir accusato in questo caso di negligenza, abbiamo senza dub­ bio nel complesso una nuova prova della indipendenza plautina: in definitiva, sembra che si debba considerare Plauto direttamente responsabile di una parte delle sue commedie molto maggiore di quanto non abbiano sup­ posto alcuni studiosi.

Capitolo ottavo TERENZIO

I posteri credettero che Publio Terenzio Afro fosse nato a Cartagine e che, portato a Roma come schiavo e ricevuta un’educazione liberale dal suo padrone Terenzio Lucano, fosse stato ben presto da questi reso libero. Essi possono aver avuto buoni motivi per prestar fede a tale ricostruzione, ma quest’ultima, dal suo canto, può benis­ simo essersi fondata semplicemente sul nome stesso del poeta. « Afro » vuol dire infatti « appartenente alle popo­ lazioni di pelle scura originarie del Nord-Africa »; un africano era di solito anche uno schiavo; ed uno schiavo manomesso riceveva il gentilizio del padrone. Il nome Afro, tuttavia, non indica necessariamente il luogo ^d’ori­ gine di chi lo porta o la sua nascita servile, ed anzi è atte­ stato a sua volta a Roma come gentilizio. Se veramente Terenzio venne dall’Africa, l’eccellenza del suo latino è notevole ma non priva di paralleli; Livio Andronico, il padre della letteratura latina, fu un greco; di Cecilio, il commediografo principe negli anni della giovinezza di Terenzio, ci vien detto che era uno schiavo proveniente dalla Gallia. Nel mondo moderno uomini che si siano conquistati fama letteraria scrivendo in una lingua diversa da quella materna non sono comuni, ma pure se ne potreb­ bero citare alcuni esempi. Ancora in vita, Terenzio venne accusato di aver rice­ vuto, nella composizione delle sue opere drammatiche, aiuti da parte di amici appartenenti alle famiglie più m vista del tempo. Nel prologo alla sua ultima commedia, gli Adelphoe (I fratelli), il poeta scrisse: 169

Queste malelingue dicono che uomini delle più famose famiglie^ lo aiutano e di continuo scrivono fianco a fianco con lui. Essi considerano ciò una violenta calunnia, ma egli giu­ dica viceversa la più alta delle lodi l’essere approvato da uomini che godono del vostro unanime consenso, ed anche di ^quello del popolo, di uomini, i cui servizi ognuno ha, all’occasione, sperimentato in guerra, in pace, negli affari. Questa difesa è tipicamente elusiva ed evasiva. Te­ renzio non accetta l ’accusa, ma neppure la nega; se avesse confessato che era vera — e può benissimo essere stata vera — si sarebbe potuto pensare che nei drammi che correvano sotto il suo nome non ci fosse di suo che una piccola parte, che egli non fosse che un puro e semplice prestanome di alcuni nobili; se l’accusa fosse stata falsa ed egli lo avesse apertamente dichiarato, i grossi personaggi coinvolti forse non avrebbero accolto bene la per­ dita di gloria letteraria, per quanto immeritata. Più tardi si diffuse ampiamente l’opinione che tali uomini includessero Scipione l’Emiliano e Gaio Lelio, e l ’ignoranza del fatto che il poeta non era più giovane di loro permise la scandalosa insinuazione che essi fossero mossi da pederastia nell’aiutarlo. Se quest’ultima accusa può essere respinta, l’ipotesi di una associazione letteraria, tuttavia, non deve necessariamente attirarsi da parte nostra lo stesso discredito. Le commedie di Terenzio vennero messe in scena dal 166 al 160, quando Scipione si tro­ vava tra i diciotto ed i ventiquattro anni circa, e non è del tutto inverosimile che il giovane aristocratico, inte­ ressato alla cultura greca, si sia dilettato a scrivere com­ medie pur senza in alcun modo ambire ad essere consi­ derato un drammaturgo di professione; parimenti possi­ bile e che Terenzio, secondo tutte le informazioni in nostro possesso non di molto più anziano, possa averne accettato la collaborazione ed il patronato. Occorre sottolineare con forza, comunque, che la con­ nessione con Scipione e la sua cerchia fu con ogni proba­ bilità già nell’antichità frutto di congettura, e che nes­ suna testimonianza attendibile sembra esserne mai soprav­ 170

vissuta, se è vero che un Santra, probabilmente contem­ poraneo di Cicerone, suggerì un trio di personaggi più anziani, osservando che, se Terenzio avesse avuto bisogno di aiuto, non si sarebbe certo rivolto a uomini più gio­ vani di lui. Nondimeno, la congettura accolta nell’anti­ chità può esser stata solida e sostenuta da una tradizione orale, ed è forse significativo che proprio gli Adelphoe, nel cui prologo si menzionano i presunti collaboratori, vennero rappresentati in occasione dei giochi funebri in onore di Lucio Emilio Paolo, organizzati per l’appunto da Scipione. In ogni caso l’appoggio di personaggi potenti, quali che essi siano stati, e forniti di interessi letterari, rende­ rebbe più facile comprendere la natura delle commedie di Terenzio, che fanno ben poche concessioni ai gusti del grande pubblico. Quando il nostro comincio a scrìvere> meno di trent’anni erano passati dalla morte di Plauto, e non sembra che i gusti e le consuetudini della maggio­ ranza del pubblico fossero cambiati di molto. Le prime due rappresentazioni dell’Hecyra {La suocera) furono dei fallimenti, ed il prologo alla terza, pronunciato dal prim’attore Turpione, ne spiega il perché: Ancora una volta porto davanti a voi La suocera, una commedia che non mi è stato mai possibile recitare tra il silenzio del pubblico; un naufragio l’ha^ sommersa. Il vostro apprezzamento ora, se si alleerà ai nostri sforzi, potrà metter fine a quel naufragio. La prima volta che cominciai a reci­ tarla, la gran rinomanza di alcuni pugili (cui si aggiunse l’attesa per lo spettacolo di un funambolo), 1accorrere dei sostenitori, il chiacchiericcio, le voci stridenti delle donne mi fecero abbandonare la scena prima della fine... La volli rappresentare ancora: il primo atto piacque,^ ma poi si sparse la voce che nel programma era inclusa un’esibizione di gla­ diatori; il popolo accorre accalcandosi, tumultuando e gri­ dando, lottando per i posti, e mentre ciò accadeva, io il mio posto non riuscii a mantenerlo. E tuttavia, a differenza di Plauto, Terenzio non fece quasi nessun tentativo di inserire nei suoi testi degli ele­ 171

menti che potessero soddisfare i gusti della massa degli spettatori: le sue commedie danno l’impressione di essere lo spettacolo che il pubblico « avrebbe dovuto » gradire piuttosto che uno di quelli ai quali esso era solito diver­ tirsi; e nonostante che in esse ci siano più versi lunghi accompagnati dal flauto di quanti se ne ritrovino in Menandro, quei canti metricamente variati che avevano ca­ ratterizzato le commedie di Plauto e che pare fossero ancora utilizzati da Cecilio sono ormai assenti. Non ci sono oscenità, giochi di parole, battaglie di insulti, non ci sono punizioni corporali da divorare con gli occhi: al contrario, troviamo un’azione concentrata, che procede risolutamente, attraverso un dialogo spesso rapido che richiede in genere allo spettatore, pena la perdita del filo del discorso, un’attenzione senza tregua. Le commedie di Terenzio somigliano più a quelle di Menandro che a quelle di Plauto, ed in realtà quattro volte su sei esse sono adat­ tamenti da originali menandrei, mentre negli altri due casi sono tratte da Apollodoro di Caristo, un seguace meno dotato del grande ateniese. Chiunque volesse dimostrare che Terenzio in realtà non abusava delle possibilità del suo pubblico potrebbe appellarsi al fatto che già Cecilio aveva mostrato una pre­ ferenza per le commedie di Menandro; per quanto ci è dato di vedere, tuttavia, questi non si mantenne fedele allo spirito del poeta greco. Aulo Gelilo, uno scrittore di argomenti miscellanei vissuto nel secondo secolo d. C., mette a confronto tre coppie di brani tratti dai due autori, scagliandosi contro la mancanza di gusto di Cecilio. Nel primo l’autore latino introduce di suo il vecchio motivo del marito della donna ricca che ne desidera la morte, e gli fa immaginare una scena nella quale la moglie si vanta di fronte alle coetanee ed alle parenti di esser riu­ scita, già vecchia, a costringere il marito a rinunziare ad un’amante giovane, cosa che le altre non hanno potuto fare neppure quando erano nel fiore degli anni; nel se­ condo Cecilio lascia che l’amico del marito lanci una gros­ solana frecciata a proposito del cattivo alito della donna, piu nell’intento — come nota Gellio — di strappare una 172

risata a tutti i costi che di mettere in bocca al personaggio parole coerenti con la sua caratterizzazione (Gellio accusa esplicitamente il poeta, a questo proposito, di essersi abbassato al livello del mimo). Le modifiche apportate da Cecilio non implicavano semplicemente l’aggiunta al testo greco di motivi tradizionali in grado di attirare l ’attenzione degli spettatori più rozzi; almeno nei passi citati da Gellio, egli tratta gli originali con grande libertà, mantenendo con essi una relazione non più stretta del minimo indispensabile e mostrando di non sentirsi tenuto a conservare uno stile colloquiale. Altri frammenti mo­ strano che spesso egli si servì abbondantemente dell’allit­ terazione, un espediente probabilmente assai vicino ai gusti popolari, allo stesso modo che la rima, utilizzata in Inghilterra nelle più antiche rappresentazioni drammatiche, ancor oggi ritorna in alcune sezioni delle moderne pan­ tomime. Terenzio, dal canto suo, tentò invece di trapiantare Menandro sul palcoscenico romano senza modifiche e ag­ giunte palesemente incoerenti con la qualità del testo greco. Nei prologhi egli parla esplicitamente di « arte let­ teraria », e, rivolto agli spettatori, proclama che si offre loro l’occasione di « rialzare il prestigio delle rappresen­ tazioni drammatiche ». L’ammirazione per Menandro, tut­ tavia, non fece sì che il poeta latino si accontentasse di una pura e semplice traduzione. L’epigramma secondo il quale era più facile rubare la mazza ad Ercole che un verso ad Omero venne attribuito a Virgilio, ma l’obiet­ tivo di questi fu non solo di prendere a prestito mate­ riale epico da Omero, ma anche di superarne, ovunque fosse possibile, l ’arte; allo stesso modo Terenzio, pur consapevole di non poter neppure sperare di riprodurre tutte le qualità di Menandro, può, nonostante ciò, aver tentato in alcuni casi di migliorare il modello. La più ovvia tra le modifiche da lui apportate, subito evidente a chiunque conoscesse gli originali, fu l’abban­ dono del convenzionale prologo espositivo e la sua sosti­ tuzione con un prologo adoperato per fini del tutto di­ versi. Recitato da un attore (forse sempre dal prim’attore), 173

che parlava in prima persona e non nelle vesti del per­ sonaggio che si preparava ad interpretare, esso offriva il nome della commedia, come già si verificava in alcuni prologhi plautini; per due volte Menandro è esplicita­ mente citato come autore dell’originale, ma un’altra volta vien detto che non c’è bisogno di nominare né il dram­ maturgo né l’autore che questi ha tradotto, dal momento che la maggioranza del pubblico sicuramente già li cono­ sce (presumibilmente la minoranza — se poi minoranza era — non si preoccupava di questi particolari). La parte maggiore del prologo, però, è dedicata alla difesa dell’uso fatto da Terenzio dei suoi originali ed alle repliche ad un critico, un più anziano commediografo che, per quanto non venga nominato, può essere identificato con un certo Luscio di Lanuvio. Una più antica tendenza a trasformare il prologo in un luogo in cui si faceva critica letteraria può essere intravista in un frammento di un autore greco nel quale il dio Dioniso si lagna di quelle verbose divinità che spie­ gano tutti i fatti che gli spettatori non riescono a capire. Subito dopo egli passa ad esporre per filo e per segno — a quanto pare — gli antefatti della sua commedia, ed il contrasto tra teoria e pratica è gustoso. È tuttavia a Terenzio che si deve il passo decisivo verso la separa­ zione tra prologo e commedia e l’abitudine di sfruttare il primo per esprimere, non per scherzo, considerazioni di metodo drammatico; tutto ciò era destinato ad avere effetti di lunga durata sul teatro europeo, come si può vedere dal Volpone o da Every Man in His Humour (Cia­ scuno nel suo umore) di Ben Jonson. Anche quando non c’è nulla di più di una semplice captatio benevolentiae, come in Shoemaker’s Holiday {La vacanza del calzolaio) di Dekker, o di spiritose frivolezze, come in She Stoops to Conquer (Ella s’umilia per conquistare) di Goldsmith, si deve riconoscere l’ascendente terenziano di questa forma di introduzione indipendente. Nel prologo delVAndria {La donna di Andro), che si basa sull’omonima commedia di Menandro, Terenzio af­ ferma di essere stato attaccato dal suo più anziano rivale 174

per avervi trasportato materiali tratti dalla Verinthia {La donna di Perinto) dello stesso autore: l’accusa è che non è lecito « saccheggiare » o « adulterare » le commedie. A tale accusa il poeta replica rivendicando i precedenti di Nevio, Plauto ed Ennio, e dichiarando che preferisce riva­ leggiare con la loro « negligenza » piuttosto che con l’« oscura diligenza » dei suoi detrattori. A quanto pare, Terenzio viene dunque ad accusare questi ultimi di pra­ ticare una fedeltà ai modelli che il pubblico, non certo formato da studiosi del dramma greco, non poteva apprez­ zare, mentre viene a sua volta accusato di deturpare com­ medie introducendovi parti estranee. Anche i suoi prede­ cessori — così il nostro si difende — hanno allo stesso modo « adulterato » le loro opere. Una commedia si può « adulterare » in vari modi; Terenzio lo ha fatto in un senso particolare, mescolando insieme parti di due commedie differenti per ricavarne una nuova k Per quel che riguarda in particolare VAndria, Donato, erudito del quarto secolo d. C., non era in grado di identificarvi molto materiale tratto dalla Verinthia, ma anche in due altre commedie, VEunuchus e gli Adelphoe, Terenzio, come ci vien detto nei prologhi, seguì il metodo di mescolare due originali. Gli effetti di tale operazione, chiaramente visibili in entrambe, sono più facili a com­ prendersi nella seconda. Nell’originale di Menandro il gio­ vane eroe, prima che l’azione inizi, ha rapito ad un mer­ cante di schiave una fanciulla per conto del proprio fra­ tello che ne è innamorato. Terenzio trovò in una com­ media di Difilo una vivace scena in cui si rappresentava un ratto del genere, lasciata da parte, chissà per quale motivo, da Plauto nel suo precedente adattamento, e de­ cise di colorire la sua commedia introducendovela tradotta alla lettera (così poco persuasivamente egli dichiara), in maniera tale da rappresentare con l’azione scenica ciò che in Menandro veniva solo raccontato. 1 Alcuni studiosi moderni usano appunto la parola contaminatio (‘ adulterazione ’) in questo senso ristretto, come termine tecnico.

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Questa decisione comportò per il poeta varie diffi­ coltà. Anzitutto, la scena difilea si svolgeva, al momento del ratto, davanti alla casa del lenone, e gli sforzi di que­ sti per opporvisi provocavano del tutto naturalmente la reazione del giovane. Nella commedia di Menandro, in­ vece, e di conseguenza in quella di Terenzio, l’abitazione del mercante di schiave non veniva rappresentata sul pal­ coscenico: la scena dovette quindi essere trasferita nella strada su cui si affacciava la casa del giovane, inseguito fin lì dall’avversario dopo l’irruzione. Ovviamente tale modifica richiese alcune alterazioni formali, ma anche così il dialogo rimane più adatto alla situazione primitiva. In secondo luogo Terenzio fu obbligato ad introdurre la scena difilea dopo il monologo d’apertura, che si trasforma ad un certo punto in un dialogo a due in cui il padre dei due giovani riferisce con indignazione che del ratto parla ormai tutta la città. Chiaramente egli non può es­ serne venuto a conoscenza prima che il figlio abbia avuto il tempo di condurre a casa la fanciulla, e ci troviamo dunque di fronte ad un’assurdità nella sequenza tempo­ rale dei fatti, su cui il pubblico deve chiudere gli occhi. Terzo, mettendo il lenone alle calcagna degli autori dell’incursione, Terenzio lo fa giungere alla casa del gio­ vane prima di quanto l’intreccio della commedia menandrea lo richieda, e lo lascia quindi in disparte, goffamente dimenticato, nel corso delle scene di spiegazioni tra i due fratelli. E c’è forse un quarto punto: la scena ripresa da Difilo termina con l’asserzione, da parte del giovane, che la fanciulla è in realtà non una schiava ma una donna libera. Di questo motivo non si fa più menzione oltre, e non è chiaro se Terenzio abbia lasciato nel testo, per non rinunciare ad un’elegante climax, una conclusione priva di agganci, o se egli abbia dato per sottinteso che l’escla­ mazione, falsa, era non più che un tentativo di mettere in imbarazzo il padrone della ragazza. Queste osservazioni sono sufficienti, credo, ad illu­ strare le difficoltà che offre il trasporto di una scena da una commedia all’altra; nonostante ciò ci fu un tempo in cui diversi studiosi credettero che tali trasposizioni

fossero state largamente adoperate da Plauto, ed in cui si suppose addirittura che questi, per ricavare una com­ media latina da due greche, avesse fuso insieme intere opere; oggi, al contrario, c’è chi sostiene che per Plauto il ricorso ad un tale espediente non sia mai neppure dimostrabile. Certamente, egli « adulterò » gli originali introducendovi materiali di sua invenzione, ma questo tipo di intervento non era lo stesso per cui Terenzio veniva biasimato, ed anzi si può sospettare che non senza un po’ di malafede questi si facesse scudo dell’esempio del predecessore. Non si può tuttavia negare del tutto che Plauto possa essersi rifatto, per alcuni supplementi, a commedie diverse da quella che al momento stava adat­ tando, anche se, in ogni caso, ciò che mise a frutto fu non tanto un modello da tradurre supinamente quanto una ispirazione di massima. Non conosciamo i motivi per cui Terenzio abbandonò il prologo espositivo, ed a tale proposito non si può fare molto di più che provare ad indovinare. Forse egli trovò poco verosimile che un personaggio spiattellasse senza remore la situazione d’apertura al pubblico, ma una tale spiegazione non appare del tutto convincente, se è vero che egli non mostra avversione per monologhi narrativi che siano inseriti nel corpo della trama, e che negli Adelphoe, la sua ultima commedia, gran parte dell’esposizione è contenuta in un lungo monologo d’apertura composto non come un momento di riflessione del personaggio, ma in forma di discorso al pubblico. Forse Terenzio riteneva più fruttuoso lasciare che gli spettatori condividessero la sorpresa dei personaggi nel momento in cui la verità veniva alla luce piuttosto che conceder loro fin dall’inizio una visione panoramica dei fatti in grado di abbracciare tutta la situazione. Ciascuno di questi due metodi è difen­ dibile; ciascuna delle due forme drammatiche ha i suoi vantaggi e svantaggi; è tuttavia da notare che il me­ todo terenziano di strutturare la commedia è quello che, d ’allora in poi, a teatro ha sempre predominato. Una cosa è tuttavia lo scrivere una commedia origi­ nale dandole una struttura di questo secondo tipo, ed

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un’altra è il modificare un dramma composto seguendo l’altro metodo, dandogli nuova forma. Nella misura in cui il prologo espositivo conteneva informazioni sugli ante­ fatti, necessarie perché le azioni dei personaggi fossero intellegibili, tali informazioni —■ una volta eliminato il prologo — dovevano pur essere fornite all’uditorio in altra maniera. Nel complesso, a dire il vero, Terenzio risolse non senza abilità il problema, riuscendo ad intro­ durre le opportune chiarificazioni laddove erano necessarie. Terenzio si comporta, rispetto ai nomi propri, in un modo che può essere considerato significativo del suo rapporto con i modelli: la maggior parte dei suoi perso­ naggi, infatti, porta nomi assai diffusi nella Commedia nuova greca, quasi tutti adatti ad un uso ripetuto, ed in realtà egli li itera ancor più di quanto non facesse Menandro; nelle sei commedie terenziane, così, ci sono tre vecchi Cremete, tre etere chiamate Bacchide, tre donne maritate di nome Sostrata. Poiché tuttavia pare che egli abbia costantemente rimpiazzato i nomi dell’originale greco con nomi nuovi, così facendo al tempo stesso dichiarava la sua aderenza ai metodi drammatici greci e la sua origi­ nalità nel trattare i modelli. Di tali modelli, comunque, ci è noto troppo poco per­ ché sia possibile farci un quadro completo delle novità introdotte da Terenzio. Un piccolo numero di elementi di confronto ci è offerto da Donato, e qualcosa può essere dedotto dallo studio strutturale delle commedie stesse e dalla conoscenza dei metodi compositivi menandrei. Ci sono tuttavia diversi casi in cui possiamo intuire l’obiet­ tivo del poeta, che era quello di arricchire il materiale originario con aggiunte greche nello spirito, talora riprese da opere greche, ma capaci anche di destare l’interesse di un pubblico di massa. Si è già visto, per esempio, come gli Adelphoe acquistarono una vivace scena d’azione, al­ quanto tumultuosa; consideriamo ora altri due drammi tratti da originali menandrei in cui ci sono aggiunte sicure. L’Andria mette in scena un giovane, Panfilo, che è innamorato di una fanciulla povera ed indifesa, Glicerio, ma cui il padre desidera dare in moglie la figlia di un

vicino, Filumena. Egli acconsente a queste nozze, rite­ nendo che alla fine esse saranno impedite da un ostacolo. Terenzio aggiunse alla trama un ulteriore motivo dram­ matico, forse di sua propria invenzione, forse preso da qualche altra commedia, nella persona di un secondo gio­ vane, amico di Panfilo ed innamorato di Filumena: la sua gelosia era un sentimento facile a comprendersi, e le complicazioni extra che Panfilo si trovava così ad affron­ tare potevano offrire agli spettatori nuove fonti di inte­ resse. Questa spiegazione dell’aggiunta è forse più proba­ bile di quella di Donato, che pensava che la si fosse intro­ dotta per non deludere Filumena (che non appare mai in scena) nel momento in cui Glicerio si rivela essere, alla fine, una seconda figlia del vicino e dunque una sposa altrettanto conveniente per Panfilo. Le aggiunte più nutrite sono quelle all’Eunuchus, in cui sono state introdotte le figure di Trasone e Gnatone, un soldato ed il suo parassita, ricavate per ammissione dello stesso Terenzio dal Kolax, un’altra commedia di Menandro, dalla trama del tutto diversa. A Trasone vien fatto svolgere il ruolo di rivale di un giovane ricco, Fedria, per le grazie della cortigiana Taide, ed egli rimpiazza qualche altro rivale, forse un soldato meno colorito, forse un mercante, presente nell'Eunuchos menandreo. Gnatone, viceversa, costituisce un personaggio del tutto addizio­ nale, eccetto che nel suo primo intervento, quando prende il posto di uno schiavo che in Menandro portava l’« eroi­ na » a casa di Taide come dono da parte del rivale. Il monologo d’ingresso, che descrive la sua tecnica perso­ nale di adulazione, è molto divertente, ma il divertimento è guadagnato a spese dell’altro personaggio affidatogli, che rimane in piedi in mezzo alla strada con le mani in mano mentre Gnatone parla. Una seconda scena divertente è fornita dai sessanta versi con cui Trasone fa il suo primo ingresso in campo; di essi più della metà non ha connessione con la trama dell’Eunuchus, ma serve solo ad esemplificare la fanfaro­ neria priva di gusto del soldato, istigato dal malizioso Gnatone, la cui ironia egli è troppo stupido per compren­

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dere. Tali versi sono sicuramente basati su del materiale tratto dal Kolax, benché non si possa determinare quanto strettamente quella commedia venisse seguita. L’ultima parte della scena, pur proseguendo nello stesso stile e caratterizzazione, è viceversa essenziale alla trama: Trasone grossolanamente invita Taide a pranzo e Gnatone gli suggerisce un metodo di ingelosire la donna che — l’udi­ torio lo capirà subito — sicuramente le procurerà grande imbarazzo; il parassita è furbo abbastanza per intuire che ciò non sarà certo ben accetto alla donna, ed il suo intervento deve essere opera di Terenzio, anche se il poeta potè trovare materiali da elaborare nella commedia di Menandro. Nel passo seguente lo schiavo di Fedria porta a Taide, da parte del suo padrone, il dono di un giovane schiavo e di un eunuco: all’insaputa però di Fedria, il suo fra­ tello minore, travestitosi, si è sostituito a quest’ultimo. Terenzio ha fatto anche qui delle modifiche, provocate dall’eliminazione del rivale presente néNBunuchos di Me­ nandro, che qui viene sostituito — come s’è detto — da Trasone (in coppia con Gnatone). L’estensione di tali modifiche non può essere precisata, ma almeno uno dei mutamenti è senza dubbio basato sul Kolax: Gnatone, all’improvviso, scoppia in una risata, e quando gli si chiede il perché, risponde di aver pensato ad una battuta del soldato a spese di un rodiese; questa, menzionata nella prima parte della scena precedente, era l’adatta­ mento di uno scherzo ancora conservatoci in un fram­ mento dell’originale greco. Trasone e Gnatone appaiono poi nella « scena d’as­ sedio », in cui vien fatto un tentativo — destinato a fal­ lire — di dare l’assalto alla casa di Taide per recuperare il dono inviato alla donna dal soldato. La scena non solo è divertente, in quanto si scontrano direttamente la mali­ zia del parassita e la codardia del soldato, ma presenta anche una vivace azione scenica nel momento in cui le « truppe » — consistenti in quattro schiavi — vengono disposte. Taluni spunti possono esser presi dal Kolax, ma questa non è più di una congettura; ciò che è certo è che

la « scena d’assedio » è una vivace sostituzione di qualche meno turbolento tentativo di recupero dell’« eroina » pre­ sente néll’Eunuchos menandreo. I due personaggi tratti dal Kolax riappaiono ancora una volta alla fine della commedia, e Gnatone combina un accordo tra Fedria ed il soldato per cui essi condivi­ deranno i favori di Taide: conseguenza di ciò è che però sarà il soldato a pagare, e Fedria, dal canto suo, accon­ sente a che Gnatone si trasferisca al suo servizio. Per quanto vi sia disaccordo in proposito, personalmente non ho dubbi nell’assegnare la ragione a coloro che conside­ rano terenziano questo finale. Nella prima parte della commedia, infatti, Fedria era stato rappresentato come violentemente geloso di Trasone, e Taide aveva promesso che avrebbe abbandonato il soldato non appena messa al sicuro l’« eroina », che essa sperava di restituire ai legit­ timi genitori. Il patto finale è invece brutalmente in disac­ cordo con questi loro rapporti, e per di più trascura del tutto la posizione di Taide. Essa è una cortigiana indipendente e di buon cuore, che si preoccupa sinceramente di riunire la fanciulla alla sua famiglia, anche se non senza un interesse personale, dal momento che spera di esser presa, in segno di gratitudine, sotto la loro protezione; ora che tale protezione è stata ottenuta, è assurdo che si disponga di lei alle sue spalle, come se fosse una schiava, e che la si condanni alle effusioni del ridicolo soldato solo perché Fedria possa godersela gratis. Un’assurdità minore, ma pur sempre un’assurdità, è che quest’ultimo debba poi accollarsi il mantenimento del pericoloso Gnatone. Con ogni probabilità questo finale venne tratto dal Kolax, in cui il rivale in amore di Trasone era, a diffe­ renza di Fedria, un giovanotto privo di risorse, e l’oggetto delle loro attenzioni una schiava, di cui poteva benissimo non essere necessario tener presenti le propensioni. La sicurezza da parte di Terenzio che la conclusione che egli diede al suo Eunuchus sarebbe stata ben accetta al pub­ blico romano, che ne avrebbe apprezzato l’ingegnosità divertendosi all’accettazione, da parte del soldato, di un cattivo affare e gustando il binomio realizzato dal gio­

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vane di successo ed economia, si basava su una difierenza profonda tra la società greca e quella romana. Almeno al tempo di Terenzio la meretrix portava un nome vergo­ gnoso, ed era disprezzata e tollerata come un male neces­ sario; l’etera greca, viceversa, pur senza idealizzarla troppo, era fin dal nome una « compagna », accettata come un utile membro della comunità. Il tipo migliore di etera, di cui Taide costituisce un esempio, poteva essere una donna non sprovvista di mezzi, fornita di spirito indipendente e di amor proprio; tutto ciò a Roma era incon­ cepibile. Un’altra commedia il cui finale fu, nell’opinione di alcuni, rimaneggiato da Terenzio per venire incontro al gusto romano sono gli Adelphoe, ed io credo che chi pensa così abbia ragione. Il tema è quello del contrasto tra due metodi per educare un figlio, l’uno permissivo e l’altro restrittivo. Nessuno dei due si dimostra del tutto privo di inconvenienti, ma Micione, il padre che pratica il primo sistema, è, fino all’ultimo atto, presentato in una luce favorevole come generoso, realista ed umano; quando egli ha occasione di impartire al figlio un com­ prensivo rimprovero, il giovane lo accetta riflettendo sul fatto che la loro relazione è più simile a quella tra amici o tra fratelli che a quella abituale tra padre e figlio, e decide di non far nulla che possa andare contro i desi­ deri del vecchio. L’altro padre, Demea, fratello di Mi­ cione, aspro e privo di gioia di vivere, viene a trovarsi in situazioni ridicole ed è indeciso di fronte ad un pro­ blema morale a proposito del quale Micione non ha esi­ tazioni: pur non essendo quello il matrimonio che per­ sonalmente avrebbe scelto, egli non dubita neppure per un momento che il figlio debba sposare la fanciulla povera che ama e che gli ha dato un erede. Nell’ultimo atto, all’improvviso, il « sergente di ferro » Demea dichiara in un monologo di essersi accorto che l’indulgenza è un buon sistema per acquistare popolarità, e che intende adottare tale metodo di comportamento per il piccolo tratto di vita che gli rimane; procede quindi,

in alcune spassose scene, a praticare un’affabilità ed una generosità nuove di zecca, ma non a sue proprie spese, bensì a discapito del fratello, cui affibbia come moglie una vedova. Nella commedia terenziana Micione si prova a resistergli debolmente, ma è così abituato a lasciare che tutti facciano come meglio credono, che deve alla fine accettare la sposa. Donato nota che in Menandro egli non faceva obiezioni al matrimonio, e se non si opponeva a ciò, alla più pesante delle richieste che gli venivano fatte, è improbabile che sollevasse difficoltà a proposito delle altre, nessuna delle quali era irragionevole. In Terenzio le sue obiezioni prive di nerbo tendono a mettere in risalto una mancanza di determinazione nel suo carattere. Infine, Demea ci spiega che il motivo della sua appa­ rente conversione era di mostrare che la popolarità di Micione non dipendeva dalla giustezza o dalla bontà o dalla verità del suo modo di vivere, ma solo dalla sua compiacente indulgenza, e si presenta come uno che sa riprendere, correggere e, se necessario, sostenere il gio­ vane; in conseguenza di ciò il figlio educato permissiva­ mente dichiara che ne accetterà d ’ora in poi la guida mo­ rale. Per quanto Molière, Lessing e Goethe abbiano tutti sentito la falsità di questa conclusione, l’interpretazione tradizionale è che essa intenda sostenere che la giusta forma di educazione è una via di mezzo tra rigidità e per­ missivismo. Nonostante il fascino che una tale posizione ha per coloro che son pronti a sottoscrivere questo punto di vista, non posso credere che a ciò si riducesse il mes­ saggio degli Adelphoe. I motivi del cambiamento di fronte del « sergente di ferro » devono essere quelli esposti nel monologo, e cioè la volontà di acquistarsi popolarità; è infatti una necessità drammatica imprescindibile che chi parla in un monologo esponga ciò che crede essere la verità, e la posizione che Demea prende in quella sede è del tutto incompatibile con l’indossare per breve tempo una maschera al fine di svelare la debolezza del sistema di vita del fratello. Ne consegue che Terenzio ha alterato la bilancia alla fine della commedia per tirar giù il piatto

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a favore dell’uomo la cui severa, laboriosa, parsimoniosa austerità si accordava con gli ideali romani più della disin­ volta gioia di vivere di Micione. Gli altri espedienti mediante i quali Terenzio arricchì i suoi originali erano, rispetto a quelli fin qui esaminati, relativamente superficiali. Nell’Eunuchus il poeta rese più nutrito il numero dei personaggi sdoppiando un’originaria parte singola in due ruoli, Pizia e D oria2, ed in altre commedie un personaggio è talora lasciato sul palcosce­ nico anche dopo il punto in cui, nell’originale greco, è prevedibile che uscisse. L’infrazione della regola dei tre attori (v. p. 93), insieme al fatto che i personaggi in que­ stione non svolgono alcun ruolo sostanziale nella seconda scena cui partecipano, servono da spia per tali modifiche. Talvolta la presenza continua in scena permette a costoro di ascoltare di nascosto monologhi di altri, e questa situa­ zione è sfruttata non poche volte da Terenzio. Un altro sforzo terenziano fu quello di ridurre il nu­ mero dei non-parlanti in scena: a degli schiavi, che nella commedia greca solitamente ricevevano ed eseguivano or­ dini in silenzio, vengono così concesse una o due battute. È tuttavia difficile dire se il motivo di questo comporta­ mento fosse un’intenzione realistica o semplicemente il desiderio di vivacizzare la scena, e le basi sulle quali si è voluto considerare Terenzio « realista » sono in realtà piuttosto deboli. Se — come credette forse Donato, ma come molti moderni negano — egli introdusse Antifone neìYEunuchus solo per dare un ascoltatore al racconto dello stupro perpetrato dal giovane travestito da eunuco, il motivo non fu certo una avversione di principio ai monologhi, che, al contrario, ricorrono frequentemente. Forse il poeta sentì come sconveniente per il trasgressore confidare direttamente agli spettatori qualcosa che molti di essi dovevano considerare un crimine. In nessun passo possiamo mettere a confronto le pa­ role di Terenzio con un brano esteso del modello greco, e questa circostanza ci impedisce di apprezzare le modifi­

che che egli apportò nei dettagli linguistici: a quanto pare egli amò interrompere i discorsi, rendere più rapidi gli scambi di battute e moltiplicare le interiezioni. L’unico confronto che possiamo istituire è quello che ci porta a determinare come Terenzio si differenzi da Plauto ed anche da Cecilio. Plauto sfruttò a pieno la predisposizione naturale del latino per l’assonanza, l’allitterazione e l’espressione a tutto tondo, quasi tautologica; Terenzio si impegnò con notevole successo a riprodurre le peculiarità dello stile menandreo, la sua flessibilità, semplicità e concisione, e questo nonostante che la lingua latina fosse, per raggiun­ gere tale scopo, uno strumento inadeguato in quanto for­ nito — se si escludono le parole volgari — di un voca­ bolario limitato e di una capacità ristretta di esprimere sfumature concettuali. Egli venne lodato da Cesare come « amante del linguaggio puro ». Il « linguaggio puro » era quello utilizzato dalle classi più elevate, educate con­ venzionalmente, e può esser stato il più prossimo equi­ valente, in greco, del livello medio di Menandro. Teren­ zio usò questo tipo di latino con grande abilità, astenen­ dosi quasi del tutto dal servirsi di parole straniere ed ottenendo, con la concisione, rapidità di espressione; non solo evitò infatti le ripetizioni, ma spesso troncò a mezzo le frasi, lasciando da parte un verbo o un soggetto che potevano essere sottintesi, ed arrivando talora a ridurle a singole parole. Il risultato è mirabile, e Cesare potè a ragione para­ gonarlo a Menandro; ma egli chiamò Terenzio « Menan­ dro dimezzato » e, parlando dei suoi scritti « gentili », si rammaricò che gli mancasse « potenza » o « forza » (vis). Ciò vuol forse dire che il suo stile è troppo uniforme, che manca di quegli alti e bassi che danno vita alla scrittura del suo modello greco permettendogli di rispecchiare ogni tipo di sentimento.

2 Ciò non è universalmente accettato.

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CONCLUSIONE

L’ultima replica, a Roma, di una commedia plautina, 10 Pseudolus, ci è testimoniata per i tempi di Cicerone e, per quanto sia pericoloso trarre conclusioni dal silenzio delle fonti, è abbastanza probabile che, nei secoli seguenti, 11 commediografo di Sarsina sia stato fatto oggetto di mag­ giori attenzioni da parte dei grammatici che degli attori. Quintiliano, però, scrivendo intorno al 90 d. C., menziona alcuni attori comici come se i loro nomi fossero ampia­ mente conosciuti, e lascia supporre che essi comparissero, mascherati, in commedie di Terenzio. È quindi possibile che nel periodo imperiale Terenzio sia stato più frequen­ temente rappresentato di quanto ci dicano le nostre scar­ sissime fonti, nonostante che, d’altro canto, si siano scritte in quel tempo solo occasionalmente commedie nuove, e per lo studio piuttosto che per la scena. Alcuni dei mano­ scritti medievali di Terenzio recano delle illustrazioni rap­ presentanti scene interpretate da attori mascherati; esse possono essere derivate dagli originali di un artista sco­ nosciuto del quarto secolo, che poteva a sua volta non aver mai visto di persona una rappresentazione, ma essersi limitato ad adattare disegni di epoca precedente. Donato, se gli si può prestare fiducia, ci dice che ai suoi tempi (ca. 350 d. C.) le parti femminili in Terenzio erano reci­ tate, senza maschera, da attrici. Non ci possono essere dubbi, tuttavia, sul fatto che a Roma il tipo di rappresentazione prevalente finì per divenire, mettendo da parte ogni pretesa letteraria, il mimo. Anche ai tempi di Plauto e di Terenzio una larga 187

parte del pubblico aveva gusti semplici e non raffinati, che non potevano esser soddisfatti dalle loro palliatae. Sotto Augusto, Orazio ci riferisce che gli ignoranti e gli ottusi, che costituivano la maggioranza, non si peritavano, nel bel mezzo di una commedia, di chiedere a gran voce l’esibizione di un orso o di pugilatori, poiché questo era ciò che la massa gradiva. Nel periodo imperiale i gusti di questa fetta di spettatori sembra siano stati ben soddi­ sfatti. Le esibizioni dei mimi, che non furono mai am­ messi nelle corporazioni degli Artisti di Dioniso, erano disprezzate dagli scrittori colti che ne fanno menzione, così che non abbiamo molti elementi per ricostruirle. Sembra tuttavia che siano state varie, e tali da abbrac­ ciare scenette e sketches da una parte, e dall’altra intrecci comprendenti diverse scene, nelle quali elementi ricorrenti erano canti, battute sporche, mariti ingannati, veleni, son­ niferi e quell’ingrediente sicuro per il successo teatrale rappresentato dagli animali ammaestrati. Se tuttavia il mimo riportò la vittoria sui palcosce­ nici, Terenzio acquistò un ruolo di primo piano nell’edu­ cazione; lo si faceva infatti leggere ai ragazzi tanto per il suo impeccabile stile latino quanto per l’atmosfera mo­ rale delle sue opere, mentre sulla sconvenienza di diverse azioni compiute dai personaggi si preferiva sorvolare. Con il diffondersi del cristianesimo, poi, i meno bigotti si tro­ varono obbligati ad adottare il sistema pedagogico pagano, e ad approvare perciò la lettura degli autori antichi più diffusi; troviamo così Terenzio citato da san Girolamo, da Agostino e da altri Padri, per quanto spesso si possa sospettare che la loro conoscenza di determinati versi pro­ venisse da raccolte antologiche piuttosto che dallo studio diretto dei testi. Il teatro in sé, comunque, fu quasi unanimemente con­ dannato, tanto in Oriente quanto in Occidente, e, se gli attacchi mostrano che si aveva in mente soprattutto il mimo, tuttavia anche con le commedie si fece di ogni erba un fascio. Per Tertulliano esse erano « istigatrici di concupiscenza, licenziose e prodighe », e continuava: « non dobbiamo accettare, quando è solo rappresentato a parole, 188

ciò che aborriamo quando viene concretamente fatto ». Presumibilmente, dunque, un certo numero di cristiani fu indotto a smettere di andare a teatro, ma molti, d’altra parte, continuarono a frequentarlo. La scomparsa della commedia dal palcoscenico fu in verità effetto di un abbassamento dei livelli di educazione piuttosto che del­ l’influenza della Chiesa. Terenzio continuò ad essere copiato e letto durante tutto il Medioevo; un dialogo composto forse nel settimo secolo e certamente non più tardi del nono lo mette a confronto con un detrattore al quale egli replica che tutti lo amano; nel nono secolo la monaca Hrosvitha di Gandersheim, addolorata per il fatto che coloro che si deli­ ziavano della dolcezza dello stile di Terenzio dovessero però di necessità « sporcarsi » imparando una serie di per­ versità, ne offrì un surrogato mediante delle commedie da lei stessa composte, scritte in una prosa chiara e vigorosa, che celebravano, invece della « vergognosa libidine di fem­ mine lascive », « la castità degna di lode di sante vergini ». Con il risorgere dello studio dei testi antichi Terenzio fu stampato, recitato e tradotto, e si contano almeno 446 edizioni complete delle sue opere tra il 1470 ed il 1600, per lo piu in Italia ed in Francia. Le rappresentazioni sembra che si tenessero principalmente nelle scuole, dove erano considerate uno strumento didattico per l’insegna­ mento del latino, ed in un primo momento vennero accolte anche nelle scuole dei gesuiti, donde tuttavia furono pre­ sto bandite. Vere e proprie messe in scena ebbero luogo in Italia fin dal 1476; Lutero non sollevò obiezioni a che la pratica si diffondesse in Germania; e in Inghilterra i ragazzi della St. Paul’s School recitarono il Formtone nel 1528 davanti al cardinale Wolsey, mentre quelli della Westminster School rappresentarono altre commedie di Terenzio al cospetto della regina Elisabetta nel 1569. Le rappresentazioni di Terenzio in latino divennero anzi, a Westminster, una tradizione, ed una tradizione che rego­ larmente si perpetua a tu tt’oggi. La prima traduzione completa in lingua inglese fu opera di un ecclesiastico puritano, R. Bernard (1598); Machiavelli tradusse in ita­ 189

liano YAndria, ed Ariosto ancora YAndria, YEunuco e Formione. Anche di Plauto si riconquistò la conoscenza, ma un po’ più tardi di Terenzio, ed in ogni caso meno ampia­ mente; in particolare in Francia le sue commedie non vennero apprezzate nella giusta misura, e Montaigne, che pure amava Terenzio, lo trovò volgare. Le sue opere si adattavano meglio ai gusti più forti degli inglesi, e Francis Meres arrivò a dichiarare nel 1598 che Plauto era consi­ derato « il miglior commediografo latino » (Palladis Ta­ mia: W its Treasury, p. xv). Di gran lunga più importanti delle « repliche » e tra­ duzioni furono le nuove commedie nelle varie lingue nazionali ispirate a Plauto e Terenzio. Nonostante che in un primo momento esse facessero uso di materiali tratti dalle commedie latine, i loro autori misero anche ampia­ mente a frutto la libera inventiva di ciascuno. È signifi­ cativo, per esempio, che mentre Plauto conservò alle sue commedie l’ambientazione originaria greca, essi di norma le trasferirono nelle rispettive regioni: questa nuova situa­ zione stimolava senza dubbio l’originalità. Shakespeare, è vero, lasciò che la sua Commedia degli errori, basata sui Menaechmì plautini, rimanesse ambientata in una città greca, ma nello stesso tempo allargò la trama non solo con materiale tratto dall’Amphitruo, che gli fornì 1 idea di mettere in scena servi indistinguibili di indistinguibili padroni, ma anche in molti altri modi, come ad esempio con lo sviluppare il personaggio di Luciana, la moglie, e con l’introduzione del mercante Baldassarre, entrambi dai nomi non greci. Il mutamento più importante, forse, consistè nell’intrecciare alla storia dei gemelli Menecmi quella di Egeone, in pericolo di vita quando la commedia si apre, libero e restituito alla moglie alla chiusura del sipario; tutto ciò fa infatti risuonare una nota di serietà che può di tanto in tanto essere chiaramente udita anche nel nucleo comico della commedia. Quarant’anni prima, tuttavia, il Ralph Roister Ooister (ca. 1553) di Nicholas Udall, rettore della Westminster School, già modifica personaggi tratti dal Miles gloriosus 190

e àaYYEunuchus perché si adattino alla loro nuova posi­ zione nella società inglese e, nonostante che il nome del parassita, Merrygreek, ne riveli palesemente le origini, l’autore, con l’aggiunta di altre figure di estrazione locale, riesce a produrre qualcosa che riflette genuinamente la vita inglese. Nonostante che gli scrittori in lingua vernacola abbiano avuto una fertile inventiva che li condusse presto a distac­ carsi nettamente dai loro antenati classici, essi tuttavia trassero da questi ultimi almeno tre lezioni, senza le quali il dramma moderno non sarebbe mai arrivato ad esistere. La prima fu quella di scrivere in prosa. Poiché infatti la prosodia di Plauto e Terenzio non era la prosodia comune della poesia più tarda, ma rifletteva meglio le realtà fone­ tiche della lingua latina, ancora nel sedicesimo secolo non si riconobbe che essi avevano scritto in versi. Liberato, grazie a questo errore, dalla tirannia del metro e del ritmo, il commediografo potè sviluppare quello stile che solo le flessibili cadenze della prosa rendono possibile. La seconda lezione consistè nel trattare i personaggi come esseri umani dotati di una propria individualità e non come figure simboliche o allegorie di temi astratti, quali essi erano stati nelle commedie medievali. La terza lezione, importante quanto la precedente, mostrò come costruire una trama, come far sì che le scene non si suc­ cedessero semplicemente Luna all’altra ma si sviluppas­ sero l’una dall’altra, e come dar forma ad una commedia attraverso una divisione in atti corrispondenti a diversi stadi nello sviluppo del racconto. Questo è quanto gli antichi scrittori di commedie avevano da insegnare a coloro che si preparavano a schiudere a questa forma di rappresentazione drammatica nuove vie.

Appendice ALCUNE QUESTIONI CONCERNENTI LA « COMMEDIA ANTICA »

1. C’era una qualche forma di scenografia? Aristotele (Poetica 1449a 18) credeva che la skenographia (letteralmente: pittura della skènè) fosse stata introdotta da Sofocle (morto nel 406-5). Nonostante che questa notizia possa riferirsi semplicemente alla pittura di uno sfondo fisso, forse architettonico, sulla facciata del1 edificio di scena, una simile spiegazione pare improba­ bile, dal momento che di una innovazione del genere si sarebbero di necessità giovati indiscriminatamente ideatore e concorrenti, o almeno quelli tra i concorrenti le cui tragedie erano ambientate davanti ad un palazzo o ad un tempio; offesi, d’altro canto, se ne sarebbero potuti a buon ragione mostrare coloro le cui opere si svolgevano in un accampamento militare o su di una spiaggia soli­ taria. Per questo molti hanno supposto che di volta in volta sulla skènè si applicassero come dei pannelli mobili, sui quali era dipinto uno sfondo conveniente all’azione delle diverse tragedie. Ma anche se un tale espediente fu in uso per la tra­ gedia, ciò non comporta che anche nella commedia di Aristofane si facesse uso di scenari dipinti, o che essi avrebbero potuto avervi un qualche significato. Mentre infatti la tragedia di norma osservava P« unità di luogo », la Commedia antica non è altrettanto legata a tali limi­ tazioni, ed anzi in essa l’azione muta talora ambientazione 193

senza nulla che lo giustifichi, e con l’incoerenza di un sogno. Così gli Acarnesi si aprono nella Pnice, poi si svol­ gono fuori dalla casa di Diceopoli in campagna, poi da­ vanti a quella di Euripide in citta, poi in una piazza di mercato privata, per concludersi infine davanti alle case di Diceopoli e di Lamaco. Non ci sono « tempi morti » da sfruttare per cambiare la scenografia così da adattarla alle ambientazioni di volta in volta differenti, ed anzi non c’è bisogno di scenari di sorta: è meglio affidarsi comple­ tamente all’immaginazione degli spettatori. Considerazioni simili potrebbero applicarsi alla maggioranza delle com­ medie aristofanee. Uno sfondo dipinto fisso raffigurante delle case sarebbe stato adatto, per tutta la loro durata, solo ai suoi due ultimi drammi conservatici, Le Donne all’assemblea ed il Fiuto, ma anche in questi casi esso non è in alcun modo necessario. 2. L ’uso del fallo e delle imbottiture era universale? Anzitutto occorre fare una netta distinzione tra attori e coro. Né il testo delle commedie né le scarsissime testi­ monianze figurative offrono infatti il benché minimo^ appi­ glio alla supposizione che i coreuti fossero imbottiti od equipaggiati con falli. Nella maggioranza delle commedie di Aristofane, anzi, ivi comprese le giovanili Rane, le Vespe e gli Uccelli, simili appendici erano per i membri del coro del tutto fuor di luogo. È vero che i_ coreuti dei drammi satireschi che seguivano le tragedie indossavano perizomi colorati con attaccati un fallo eretto ed una coda di cavallo, ma si trattava, in quel caso, di una forma drammatica completamente diversa. Le statuette della prima metà del quarto secolo pro­ vano invece che, in quel periodo, molti attori comici, e forse tutti quelli che interpretavano _ruoli di schiavo, avevano il fallo. Il testo stesso di Aristofane conferma questa circostanza per il vecchio Filocleone nelle Vespe e per il parente di Euripide nelle Donne alle Tesmoforie.

Quest’ultimo personaggio, una volta smascherato nel suo travestimento femminile e denudato, tenta, in una scena esilarante, di nascondere la prova della sua mascolinità spingendola avanti e indietro tra le gambe. Lo stesso attore poteva interpretare, nella medesima commedia, più di una parte, e se ad un certo punto doveva impersonare una donna, il fallo sarà stato celato dal vestito lungo. Tuniche lunghe, tali da coprire il fallo, possono averle portate anche alcuni personaggi maschili, e l’effeminato Agatone, nelle Donne alle Tesmoforie, certamente non aveva nulla in vista: l’assenza del pene, sottolineata dal parente di Euripide, veniva così resa evidente anche agli spettatori. Si è rilevato che nelle Nuvole Aristofane tentò di sba­ razzarsi di questo espediente; nella parabasi, infatti, il coro dice che la commedia non si presenta « con un pezzo di pelle cucito penzoloni davanti, rosso all’estremità e spesso, per far ridere i bambini ». Questo può significare che nella commedia non si vedevano falli (e se ciò è vero, le tuniche dei protagonisti possono non esser state arti­ ficiosamente accorciate), ma forse non si tratta che di una rinuncia a caricature troppo esagerate, e non si può nemmeno escludere che con quelle parole si intendesse semplicemente dire che gli attori portavano il fallo imbra­ cato, come è possibile vedere in alcune rappresentazioni figurative. Ci sono delle scene in cui i personaggi subiscono delle percosse, in particolare una nelle Rane in cui Dioniso ed il suo schiavo Santia, ridotti alla nudità (e cioè in calza­ maglia e fallo), vengono frustati per stabilire chi è il dio — questi, infatti, non dovrebbe sentire il dolore. Le imbottiture avranno permesso alle frustate di essere più realistiche. Il megarese affamato degli Acarnesi, tuttavia, per quanto possa aver avuto il ventre teso, non poteva certo essere inverosimilmente imbottito nelle altre parti del corpo. Le statuette del quarto secolo mostrano che, almeno allora, non tutti gli attori portavano imbottiture, ed è plausibile supporre che anche le commedie di Ari­ 195

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stofane, accanto a dei grassoni, mettessero in scena degli smilzi.

per tragedie, e non c’era motivo per cui la tragedia si dovesse sentire obbligata ad impiegare quelle porte late­ rali di cui la commedia, dal suo canto, aveva bisogno h

3. La « skènè » aveva tre porte o una sola? Nessuna tragedia suggerisce l’uso di più di una porta centrale a due battenti, e le commedie venivano messe in scena nello stesso teatro delle tragedie. Quando però que­ sto venne ricostruito da Licurgo tra il 338 ed il 330 a. C., lo si fornì certamente di tre porte di scena, di cui nor­ malmente due, e talora tutt’e tre, erano richieste dai drammi del tempo. È una questione disputata se già Aristofane si sia servito di più di una porta. Sarebbe ovviamente possibile rappresentare tutte le commedie aristofanesche servendosi di una sola porta d’ingresso alla scena, facendo accettare agli spettatori una convenzione secondo la quale la singola porta permette l’accesso di volta in volta a case differenti. L’immagina­ zione dell’uditorio, tuttavia, verrebbe certo messa a dura prova da quella scena degli Acarnesi (vv. 1097-1110, 11181125) in cui la stessa porta dovrebbe essere a più riprese, alternativamente, quella della casa di Diceopoli e quella della casa di Lamaco. Ci sono poi altre scene in cui, se ammettiamo che solo una porta fosse accessibile, il dram­ maturgo pare aver creato difficoltà superflue, e ci rife­ riamo in particolare alla seguente scena delle N u v o le Fidippide si rifiuta di diventare allievo di Socrate e si ritira nella propria casa; Strepsiade dichiara allora di voler fare egli stesso ciò che suo figlio non vuol fare, decide di aggre­ garsi di persona alla scuola del filosofo e batte quindi im­ mediatamente alla porta del « pensatoio ». È proprio la stessa porta per la quale Fidippide è passato solo sette versi prima? È vero che egli doveva per esigenze di trama uscire di scena, ma se c’era solo una porta a disposizione, perché non farlo uscire dal fianco del palcoscenico, come se avesse dovuto recarsi in città? A me pare che le pro­ babilità siano a favore delle tre porte. L’edificio di scena era costruito per essere usato tanto per commedie quanto 196

4. C’erano donne tra il pubblico? Senza dubbio alcune donne assistevano, all’inizio del quarto secolo, alle tragedie. Era possibile che, per quel che riguarda la commedia, ve ne fossero alcune anche alla fine del quinto? Un passo della Pace (vv. 962-7) sugge­ risce con forza la loro presenza: Trigeo Butta un pugno di orzo agli spettatori. Servo Fatto! Trigeo Già dato? Servo Sì, per Ermete: quanti spettatori ci sono, tutti ce l’hanno! T rigeo Ma le mogli, l’hanno preso? Servo Stasera, glielo danno i mariti! Il bandolo per intendere queste battute è che la pa­ rola ‘ orzo ’ (krithe) era anche un termine volgare per indicare il pene. Costruire ipotesi su una battuta è peri­ coloso, ma questa in particolare avrebbe perso forza se non vi fosse stata nessuna donna tra gli spettatori. Dal passo sopra citato si è voluto concludere che le donne sedevano in fondo alla platea, dove i semi lanciati dall’attore non avrebbero potuto raggiungerle, ma si tratta di un’illazione alquanto ridicola, poiché lo schiavo che grida « Fatto! » con tanta rapidità non avrà certo eseguito più di un solo gesto a mani vuote. Se il termine di rife­ rimento è dunque questo gesto del servo di Trigeo, le donne possono benissimo esser state sedute con le fami­ glie dei rispettivi mariti; nondimeno, tuttavia, può essere vero che esse in realtà sedessero in fondo alla platea. Non è probabile, in ogni caso, che le donne fossero in gran 1 Cfr. K. J. Dover, The Skene in Aristophanes, « Proceedings of thè Cambridge Philological Society», 1966, 2-17. 197

numero; la festa può essere stata per loro un’occasione di uscire dalle case, ma è verosimile che pochi mariti ab­ biano incoraggiato le mogli ad andare a vedere commedie, o siano stati disposti a pagar loro un biglietto. Molte donne, del resto, non avrebbero avuto alcun interesse per le allusioni politiche, poiché non conoscevano nemmeno le persone attaccate. È difficile poi dire quale sarebbe stata la loro reazione, tedio o shock, di fronte alle numerose oscenità, o se le avrebbero gustate meglio sedendo tutte insieme e separate dagli uomini. È ovvio che Aristofane scrisse per un pubblico di maschi, poiché nulla, nelle sue opere, è indirizzato direttamente alle donne; ma questo non significa che le donne erano escluse dal teatro. A maggior ragione, dal fatto che Menandro conclude tre commedie richiedendo l’applauso di uomini e ragazzi non si può a colpo sicuro dedurre l’assenza delle donne dalle rappresentazioni della Commedia nuova; esse possono essere state troppo poche per meritare una menzione, o il decoro può aver richiesto loro di astenersi da rumo­ rose approvazioni. Gli schiavi offrono, al pari delle donne, un problema di incerta soluzione. È presumibile che, prov­ visti di biglietto, avrebbero potuto entrare; ma in realtà a teatro ce ne saranno stati pochi. 5. Alcune maschere erano caricature di personaggi reali? Il problema sorge in riferimento a Lamaco e ad Euri­ pide negli Acarnesi, a Socrate nelle Nuvole, ad altri al­ trove. Quando persone viventi erano introdotte come per­ sonaggi nella commedia, si tentava di riprodurre o di met­ tere in caricatura i loro lineamenti reali? Aristofane stesso ci dice esplicitamente che il Paflagone dei suoi Cavalieri, simboleggiarne Cleone, non portava una maschera « da Cleone », e ce ne dà come motivo il fatto che il suo vero volto era così spaventoso che il « mascherato » non ce l’aveva fatta a riprodurlo; ma sarebbe sciocco servirsi di una battuta del genere come di una base per generalizzare circa l’uso di maschere individualizzate. 198

Chiaramente, se una maschera rappresentava la faccia di qualche persona vivente, lo doveva fare caricatural­ mente; il « mascherato » avrebbe dunque dovuto esage­ rare ciò che per un qualsiasi verso era rilevante, l’alto cocuzzolo di Pericle o il naso camuso di Socrate. È attra­ verso esagerazioni del genere che il moderno vignettista al tempo stesso distorce i suoi soggetti e li rende rico­ noscibili. Le difficoltà di fare una maschera che volesse essere non un ritratto ma il simbolo di un determinato individuo reale si può forse sopravvalutare, ma d’altro canto non deve essere presa sotto gamba, perché i volti di alcuni uomini sono così normali che non si prestano ad una caricatura. Forse Cleone era uno di questi.

GLOSSARIO

anapesto·, due sillabe brevi seguite da una lunga; v. metro, antepirrhema: sezione della parabasi (v. s.v.) simmetrica­ mente corrispondente all’epirrhema (v. s.v.). antode: sezione della parabasi (v. s.v.) simmetricamente corrispondente all’ode (v. s.v.). baccheo·. una sillaba breve seguita da due lunghe; v. metro, corego: letteralmente « capocoro »; in realtà non il leader portavoce del coro in scena ( = corifeo), ma il respon­ sabile dei costumi e dell’addestramento dello stesso. eretico: due sillabe lunghe intervallate da una breve; v. metro. demo: 1. uno dei gruppi, formati per lo più su base terri­ toriale, in cui gli ateniesi, dal punto di vista ammini­ strativo, erano suddivisi; l’appartenenza ad essi era ereditaria. 2. il centro locale del gruppo; in campagna, il « villaggio ». dimetro: un verso costituito da due unità metriche; v. metro. ditirambo: canto corale di origine religiosa, trasformatosi poi in un’esibizione di virtuosismo musicale. epirrhema: sezione della parabasi (v. s.v.) formata da sedici o venti tetrametri trocaici. etera: cortigiana, letteralmente « compagna ». Il termine abbraccia una gamma molto ampia di donne, schiave o libere; esse hanno, tutte, in comune il fatto che le loro relazioni con i rispettivi « amanti » erano intese come temporanee. fliaci: attori comici dell’Italia meridionale. 203

giambo: una sillaba breve seguita da una lunga; v. metro. liturgia·, un pubblico servizio richiesto, a turno, ai citta­ dini più ricchi; ad Atene le liturgie più onerose erano l’equipaggiamento, la manutenzione ed il comando di una nave da guerra per un anno e l’allestimento e l’addestramento di un coro che gareggiasse in occasione delle feste pubbliche. metro·, i metri antichi erano basati sulla divisione delle sillabe in lunghe (o « gravi ») e brevi (o « leggere »). Nella prosodia greca ed in quella latina del periodo classico le prime comprendono tutte le sillabe conte­ nenti una vocale lunga o un dittongo o che terminino con una consonante che ne preceda, nella stessa parola 0 nella seguente, un’altra. Esse vengono indicate me­ diante un trattino orizzontale (— ), mentre le sillabe brevi — tutte le altre — sono indicate mediante il segno U . Alcuni metri, tra cui la maggioranza di quelli ado­ perati nella commedia, traggono il nome dal « piede » che li caratterizza: giambico ( U — ), trocaico (__ U ), eretico (— U — ), bacchiaco ( U-------- ) ed anapestico ( U U — ). L’unità metrica, tuttavia, non era il « pie­ de », ma il cosiddetto metron. Il metron giambico era JJ — U — , dove U indica la possibilità, in quella sede, di una sillaba lunga o breve; tre di questi metra costituiscono un trimetro giambico, il metro di tutte le scene d’apertura delle commedie. Qualora si veri­ fichino diverse condizioni restrittive, due sillabe brevi possono essere sostituite ad una lunga. Il metron tro­ caico era — U — U , e comunemente ne troviamo rag­ gruppati quattro, con la sillaba finale dell’ultimo di essi soppressa. Questo insieme formava il tetrametro trocaico, indicato spesso nel testo come « verso tro­ caico lungo ». I drammaturghi romani ereditarono questi metri, ma apportandovi delle modifiche: una sillaba chiusa da una consonante non era necessariamente lunga, ed 1 piedi giambici o trocaici furono spesso sostituiti da 204

spondei (-------- ). Le cause di tali modifiche sono di­ scusse, ma la particolare scansione delle parole latine può essere abbastanza plausibilmente spiegata col fatto che esse, come quelle delle lingue moderne ma a diffe­ renza delle greche classiche, avevano un’accento di intensità, capace di influire sulla lunghezza od il « peso » delle sillabe non accentate. I commediografi scandivano ad orecchio, non secondo le regole del greco. ode·, canto corale costituente un elemento fisso della parabasi (v. s.v.). orchestra: piattaforma di danza, circolare nel teatro greco, semicircolare in quello romano. In quest’ultimo la si usava per installarvi i posti a sedere. parabasi: sezione della commedia del quinto secolo nella quale l’azione veniva sospesa ed il coro si rivolgeva direttamente agli spettatori. parasita·, un individuo che si guadagnava di che vivere rendendosi gradito, in qualità di adulatore, tuttofare o buffone, al suo patrono. parodoi: passaggi che conducevano all’orchestra o al pal­ coscenico, situati presso le estremità di una platea semicircolare o a ferro di cavallo. satiro: accompagnatore mitico di Dioniso, rappresentato in scena da un uomo nudo, ricoperto solo da una specie di perizoma cui erano attaccati un fallo eretto ed una coda di cavallo. senario·. « verso di sei piedi »; l’equivalente latino del trimetro greco. skèné·. edificio di scena, letteralmente « tenda ». I più antichi attori si servivano forse di una tenda come sfondo e come rudimentale « camerino ». tetrametro·, un verso costituito da quattro unità metri­ che; v. metro. trimetro·, un verso costituito da tre unità metriche; v. metro. trocheo: una sillaba lunga seguita da una breve; v. metro.

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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE

Per quel che riguarda gli studi moderni, la seguente lista è assai selettiva *. 1. Aristofane a) Commedie conservate: Lisisfrata (411) Tesmoforiazuse (Donne alle Tesmoforie) (411) Rane (405) Ecclesiazuse (Donne all’As­ semblea) (392) Fiuto (Ricchezza) (388)

Gli Acarnesi (425 a. C.) Cavalieri (424) Nuvole (423) Vespe (422) Pace (421) Uccelli (414)

b) Testi e traduzioni: Il miglior testo completo, non sempre soddisfacente: V. Coulon nella collezione Budé (Paris, 1928-30), con traduzione francese di H. van Daele. Aristofane, Le Commedie, edizione critica e traduzione a cura di R. Cantarella, Milano 1949-64. L’unico commento completo in inglese è quello di B. B. Ro* Questa bibliografia riproduce quella dell’originale inglese, con alcuni adattamenti all’ambiente italiano [N.d.T.]. 209

gers (London 1902-15); il suo testo, accompagnato da una linda e decorosa traduzione in versi, è ristampato nella col­ lana Loeb. Diverse commedie, in edizione critica e con com­ mento, sono disponibili in una serie della Clarendon Press: Clouds (Nuvole) (1965) a cura di K. J. Dover, Ecclesiazuse (1973) a cura di R. G. Ussher, Peace (Pace) (1964) a cura di M. Platnauer, Wasps (Vespe) (1970) a cura di D. MacDowell; altri volumi sono in programma. Altre edizioni utili: The Acharnians, a cura di W. J. M. Starkie, London 1909; Birds (Uccelli), a cura di W. W. Merry, Oxford 18963; Frogs (Rane), a cura di W. B. Stanford, London 1963; Knights (Cavalieri), a cura di R. A. Neil, Cambridge 1901. Alcune versioni moderne, concepite per essere rappresen­ tate sulla scena, si discostano di molto dal testo originario. In italiano si veda Aristofane, Le Commedie, a cura di B. Marzullo, Bari-Roma 19772. Celebre, ma datata, è la versione di E. Romagnoli, Bologna 19644.

c) Opere generali: K. J. Dover, Aristophanic Comedy, London 1972: aggior­ nato, originale, ampio; fornito di un’utile breve bibliografia. C. W. Dearden, The Stage of Aristophanes, London 1976. C. F. Russo, Aristofane autore di teatro, Firenze 1962. G. Murray, Aristophanes, Oxford 1933 è ricco di entusia­ smo, e ciò compensa alcune opinioni insostenibili. La più recente trattazione circa le idee politiche di Aristofane è in G.E.M. de Ste Croix, The Origin of thè Peloponnesian War, London 1972, appendix xxix, pp. 355-76, ricco di riferimenti alla bibliografia precedente.

Aspis (Lo scudo) Gheorgos (L’agricoltore) Dis exapaton (Il doppio in­ ganno) Dyskolos (Il bisbetico) Epitrepontes (I contendenti) Kolax (L’adulatore)

Misumenos (L’odiato) Perikeiromene (Trecce tosate) Samia (La donna di Samo) Sikyonios o Sikyonioi (L’uo­ mo [o Gli uomini] di Si­ done)

Solo il Dyskolos, apparentemente la commedia più antica, può essere datato (317 a. C.). Gli Epitrepontes e il Misu­ menos sembrano tardi. b) Testi e traduzioni: Testo: F. H. Sandbach negli Oxford Classical Texts (1972); Menandro, Le Commedie, edizione critica e traduzione a cura di D. Del Corno, I, Milano s.d. (mancano, tra l’altro, Dyskolos, Aspis, Samia, Sikyonios). Commento: A. W. Gomme e F. H. Sandbach, Menander, Oxford 1973; E. W. Handley, The Dyskolos of Menander, London 1965; Menander, Das Schriedsgericht (Epitrepontes), a cura di U. von Wilamowitz-Moellendorff, Berlin 1925. Menandro attende ancora un traduttore. Le edizioni delVAspis (Roma 1971) e della Samia (Roma 1972) di F. Sisti e quelle del Dyskolos (Roma 1970) e del Sikyonios (Roma 19722) di C. Gallavotti sono accompagnate da versioni; per il Dyskolos v. anche Menandro, Il misantropo, a cura di B. Marzullo, Torino 1959.

c) Opere generali: 2. Menandro a) Commedie di cui sopravvivono più di 100 versi in un’accettabile stato di conservazione:

T. B. L. Webster, An Introduction to Menander, Manche­ ster University Press 1974. A. Barigazzi, La formazione spirituale di Menandro, To­ rino 1965. AA.VV., Ménandre, Entretiens sur l’antiquité classique, XVI, Vandoeuvres-Genève 1969.

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3. Altri commediografi greci a) Testi e traduzioni: T. Kock, Comicorum Atticorum fragmenta, Leipzig 1880-8. G. Kaibel, Comicorum Graecorum fragmenta, voi. I, 1 (il solo pubblicato), Berlin 1899: drammaturghi dell’Italia meri­ dionale e della Sicilia. C. Austin, Comicorum Graecorum fragmenta in papyris reperta, Berlin-New York 1973, omette deliberatamente il più di Menandro. J. M. Edmonds, The Fragments of Attic Comedy, Leiden 1957-61, olire la versione inglese di un testo ben poco sicuro. Qualche traduzione da opere pervenuteci in frammenti è nel volume La commedia classica, a cura di B. Marzullo, Fi­ renze 1955. b) Opere generali: T. B. L. Webster, Studies in Later Greek Comedy, Manche­ ster University Press 19702. Ο. E. Legrand, Daos, Paris 1910. G. Norwood, Greek Comedy, London 1931; utile per informazioni sui poeti della Commedia antica oltre Aristofane. 4. Plauto

Asinaria (Gli asini)·. Demofilo, Onagos. Aulularia (Il vasetto): Menandro (?). Amphitruo Bacchides (Le sorelle Bacchidi)·. Menandro, Dis exapaton. Captivi (I prigionieri) Casina·. Difilo, Klerumenoi. Cìstellaria (La cassettina): Menandro, Synaristosai. Curculio Epidicus Menaechmi (I gemelli Menecmi) Mercator (Il mercante)·. Filemone, Emporos. Miles gloriosus (Il soldato fanfarone) Mostellaria (Il fantasma)·. Filemone, Phasma (?). Persa (Il persiano) Poenulus (Il piccolo cartaginese)·. Alessi, Karchedonios (?). Pseudolus Rudens (La gomena)·. Difilo. Stichus·. Menandro, Adelphoe A. Trinummus (Tre monete d’argento): Filemone, Thesauros. Truculentus Vidularia (Il baule)·, molto lacunosa. L’Asinaria, la Cìstellaria, il Mercator ed il Miles gloriosus sono probabilmente più antiche dello Stichus (200 a. C.). Al­ cuni indizi tendono verso una datazione delle altre commedie tra il 194 ed il 184; lo Pseudolus è del 191 e la Casina posteriore al 186.

b) Testi e traduzioni:

a) Commedie conservate: Nel primo secolo a. C. l’erudito Varrone compilò un elenco di ventuno commedie la cui paternità plautina era universal­ mente accettata, ed è presumibile che esse coincidessero con le ventuno che anche noi possediamo. La lista seguente offre il titolo corrente di ciascuna commedia e l’autore ed il titolo, se conosciuti, dell’originale greco. I titoli non tradotti sono nomi propri.

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Testo: W. M. Lindsay negli Oxford Classical Texts (2 voli. 1904-5); F. Leo (Berlin, 2 voli. 1895-6). T. Maccius Plautus, Bacchides, nota introduttiva e testo critico di C. Questa, Firenze 19752. Traduzioni italiane più recenti: Plauto, Le Commedie, a cura di C. Carena, Torino 1975; Tito Maccio Plauto, Tutte le commedie, a cura di E. Paratore, Roma 1976.

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c ) O p ere generali:

c) Opere generali: F. Arnaldi, Da Plauto a Terenzio, I, Napoli 1946. F. della Corte, Da Sarsina a Roma, Firenze 19672. E. Fraenkel, Elementi plautini in Plauto, Firenze 1960 (trad. di F. Munari di Plautinisches in Plautus, Berlin 1922, con aggiunte dell’autore). F. Leo, Plautinìsche Forschungen, Berlin 19122. E. Segai, Roman Laughter, Harvard University Press 1968, e vedi anche oltre, sotto « Il teatro romano ».

F. Arnaldi, Da Plauto a Terenzio, II, Napoli 1947. H. Haffter, Terenzio e la sua personalità artistica, intro­ duzione traduzione e appendice bibliografica di D. Nardo, Roma 1969. G. Norwood, The Art of Terence, Oxford 1923, può sti­ molare dissensi e riflessioni. F. Perelli, Il teatro rivoluzionario di Terenzio, Firenze 1973. M. Barchiesi, Un tema classico e medievale, Gnatone e Taide, Padova 1963.

5. Terenzio 6. Opere generali

a) Commedie:

a) Feste, teatri ed esecuzione: Andria (La donna di Andro), 166 a. C.: Menandro. Hecyra (La suocera), 165 e 160: Apollodoro. Heautontimorumenos (L’uomo che punì se stesso), 163: Me­ nandro. Eunuchus (L’eunuco), 161: Menandro. Phormio, 161: Apollodoro, Epidikazomenos. Adelphoe (I fratelli), 160: Menandro. Le date indicate sono probabili, non sicure. b) Testi e traduzioni: Testo: R. Kauer e W. M. Lindsay negli Oxford Classical Texts (1926). Edizioni commentate: G. P. Shipp, Andria, Melbourne I9602; R. H. Martin, Phormio, London 1959, e Adelphoe, Cambridge University Press 1976. Traduzioni italiane: Terenzio, Le Commedie, introduzione e traduzione di A. Ronconi, Firenze 1960; Terenzio, Le Com­ medie, a cura di B. Proto, Torino 1974.

H. C. Baldry, The Greek Tragìc Theatre, London 1971, [trad. it. I greci a teatro, Bari-Roma 1972], offre un breve ma eccellente panorama del teatro dell’Atene del quinto secolo. Tra i testi più completi e specialistici citiamo i seguenti: P. D. Arnott, Greek Scenic Conventions in thè Fifth Century BC, Oxford 1962. M. Bieber, The History of thè Greek and Roman Theatre, Princeton University Press 19612: generosamente illustrato, testo dogmatico, buona bibliografia. A. W. Pickard-Cambridge, The Theatre of Dionysus in Athens, Oxford 1946, è l’opera standard sul versante archeo­ logico. A. W. Pickard-Cambridge, The Dramatic Festivals of Athens, Oxford 19682 (a cura di J. Gould e D. M. Lewis) è un lavoro eccellente fornito di ampia bibliografia, che però richiede spesso la conoscenza del greco. G. M. Sifakis, Parabasis and Animai Choruses, London 1971. A. D. Trendall e T. B. L. Webster, Illustrations of Greek Drama, London 1971. T. B. L. Webster, Greek Theatre Production, London 19702.

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b) Origini della commedia: A. W. Pickard-Cambridge, Dithyramb, Tragedy and Co­ medy, Oxford 19622 (2a ed. a cura di T. B. L. Webster). INDICI c) Il teatro romano: W. Beare, The Roman Stage, London 19693: ampio e per lo più convincente, ma non sulla « legge dei cinque atti ». Breve bibliografìa. M. Bieber, op. cit. G. E. Duckworth, The Nature of Roman Comedy, Princeton University Press 1952: accurato e ricco di buon senso, dedica un istruttivo capitolo all’influsso sulla letteratura più tarda fino al dodicesimo secolo. Ampia bibliografia. E. Paratore, Storia del teatro latino, Milano 1957. d) Commedia nuova: W. G. Arnott, Menander, Plautus, Terence, Oxford 1975: aggiornata panoramica ricca di materiale bibliografico.

Indice dei nomi e delle cose notevoli

Acarne, 17, 20, 82. adattamenti e riprese di opere teatrali, 84, 144, 159, 170, 187, 189-90. Afranio, Lucio, 144. Agatone, 9, 42. agón (gara), 48. agònothetès (curatore delle gare), 79. Agostino, s., 188. Alessandria, biblioteca di, 3. Alessandro Magno, 5-6, 61, 77. Alessi, 67, 148, 213. Ambirò Turpione, Lucio, 134, 171. Amipsia, 52. anapesti, 20, 24, 47, 150. Anassandride, 81, 84. Andria, 190. Andronico, Livio, 129, 151, 169. Angelio, Nicolò, 140. Antesterie, 21. Antifane, 81, 101. Antipatro di Macedonia, 77. Apollodoro di Caristo, 84, 95, 172, 214.

appaltatori, 14-5, 82. Apulia, 125, 128. araldo, 15. archón epónymos, 7. Ariosto, Ludovico, 190. Aristofane, 3, 9, 11, 25-43, 45-55, 62-3, 66-8, 79, 82, 123, 152, 209-10; atteg­ giamento nei confronti del­ la pace, 35-9; opinioni po­ litiche, 29-32; Acarnesi·. 15, 25-6, 48, 58, 65; Ba­ bilonesi: 26; Cavalieri: 4546, 48; Coralo: 64; Don­ ne all’Assemblea: 62; Don­ ne alle Tesmoforie: 26, 64; Eolosicone: 64; Lisistrata: 38-40; Nuvole: 26, 42, 45-7, 64; Pace: 26, 51, 65; Pluto: 62, 64, 68; Rane: 11, 51, 53, 64, 68; Uccelli: 26, 47, 63; Ve­ spe: 59. Aristotele, 66, 93; sulle ori­ gini della commedia, 57-9. « Artisti di Dioniso », 86, 148, 188. Asia Minore, 67, 148, 188. 219

Aspasia, 19, 55. Atellane, v. Commedie Ateilane. Ateneo, 3-4, 59, 67. attacchi personali, 16, 22, 4043, 49-50, 54-6, 58, 60, 62-3, 67, 85, 144. atti, 98, 105, 140. attori, 12, 132, 159; vestia­ rio, 15, 23, 61, 68; reci­ tazione, 94-5, 134-5, 160; nei mimi, 144, 188; nu­ mero degli —, 92-5, 136-7, 183-4; status, 133-4; v. an­ che « Artisti di Dioniso » e maschere. attrici, 137, 144, 187. banchetto nuziale, 27, 37, 68, 109, 118. Barrie, James Matthew, The Admirable Crichton (L’in­ comparabile Crichton), 84. beati, 21, 36-7. Beaumarchais, Pierre-Augustin Caron de: il barbiere di Siviglia-, Il matrimonio di Figaro, 102. Bernard, Richard, 189. bizantini, studiosi, 3-4. Bucco, 127. buffone, 48. Callistrato, 15n. cantica, 150-2, 166. canti fallici, 57-8. canto, del coro, 20-1, 48-9, 64; degli attori, 22, 150-1, 159, 172. 220

caratteri dei personaggi, 6364, 90-1, 99-102, 120-2, 162-3, 165-6, 172, 181-2. Cecilio, v. Stazio. censura, 63. Cesare, Caio Giulio, 145, 185. chorègos, coreghi, 7, 22, 82, 203. commedia, etimologia del no­ me, 59; origini della —, 56-60. Commedie Atellane, 127-8, 135n, 136, 145, 156. comparse « mute », 23, 28n, 92, 184. competizioni teatrali, 5-8, 82, 84-5, 145. Corianno, 56. corifeo, capo del coro, 20, 25. coro, 7, 11, 47, 93; finanzia­ mento, 7; vestiario, 17, 60; danza, 23; decadimento del —, 64; canti, 20-1, 24, 48-9, 64. cortigiane, 56, 66-7, 100-1. Cicerone, Marco Tullio, 134135, 143-5, 150-1, 187; De oratore·. 136. Claudio, imperatore, 87. Cleone, 15, 18, 26, 50, 65, 198-9. Cleonimo 50. Clodio, Pulcro Publio, 144. Cratino, 23, 45, 47, 50; Cheirones, 55; Dionysalexandros, 54-5; Pytine, 45. Cremonide, 78.

cristianesimo, 188-9. cuochi, 67, 99, 111-2.

Diomede, maestro di gram­ matica, 136-40. Dione di Prusa, 86n. Dionisie cittadine, 6-8, 14n, 15n, 26-8, 81, 84; — cam­ pestri, 17. Dioniso, protettore delle rappresentazioni teatrali, devozione verso, 6, 14-5, 45, 52, 60, 85, 129, 134; personaggio umoristico nel­ la commedia 34, 52-4, 68, 174; v. anche Dionisie cit­ tadine e Artisti di Dioni­ so. ditirambi, 8, 58. Donato, 137, 175, 178-9, 183-4, 187. donne nel pubblico, 134, 197198; nelle opere teatrali, 39, 55-6, 62-3, 100-1, 104105. Dossennus, 127.

Davo, 71. dèi, come personaggi di com­ medie: Eolo, 64; Apollo, 129; Afrodite, 55; Atena, 55, 129; Era, 55; Ermes, 37, 43, 54; Iris, 27; Gio­ ve, 137; Mercurio, 137; Plutone, 33; Posidone, 27; Triballo, 27; Zeus, 27, 37, 55, 129. — come oggetti di venerazione: Apollo, 131; la Grande Madre, 131; Giove, 126; Venere, 132; Zeus, 42; v. anche Dionisio e Eracle. deikelistai (dorico: deikeliktai), 59, 129. Dekker, Thomas, Shoemaker’s Holiday (La vacanza del calzolaio), 174. Delfi, 6, 85, 93. Deio, 58, 85. demarco, 82. Demea, 72. Demetrio di Falero, 90. Demetrio Poliorcete, 63, 78. Demofilo, 148. Diceopoli, 16-22, 65. Difilo di Sinope, 77, 85, 89, 95, 148, 158, 175-6; Klerumenoi, 158. « dilettanti impratichiti », 8, 126-7. Diocleziano, 86. Diodoro, 81.

edificio di scena, v. skénè. edili, 142. Efeso, 85. Egitto, 5, 45. ekkyklèma, 19. Eieusi, 82. Elio Aristide, 85. Emilio Paolo, Lucio, 171. Emilio Scauro, M., 132. Ennio, Q., 152, 175. Epicarmo, 57-9. Epidauro, 81. equites, 133. Eracle, gran mangione, 27, 57, 129. 221

Eros, come interesse dell’azio­ ne, 103-4. Eros, 103. Eschilo, Coefore, 76. etruschi, 125-7. Eunuco, 190. Eupoli, 23, 45-50, 59; Demi, 47-8; Marikàs, 46. Euripide, 18-9, 27-8, 33-4, 53-4, 65-6; Elettra, 76; Telefo, 18, 66. Fabio Pittore, Q., 130. fabulae togatae, 143-4; palliatae, 143. fallo, 15, 17, 58-9, 61, 194-6. Ferecrate, Corianno, 56. Fescennini, 126 c n. feste religiose, 5-6, 21, 26 e n, 126, 131. Fielding, Henry, 71, 73. Filemone di Siracusa, 77, 89, 90, 148, 213. Filippide, 63. flautista 11, 18, 60, 93, 126, 142, 172. iliaci, 129, 157. Formione, 189-90. Frinico, 46. funzione didattica del poeta, 20, 30, 123, 146, 188-9.

Goldsmith, Oliver, She Stoops to Conquer (Ella s’umilia per conquistare), 119, 174. Gorgia, 72. Grecia, epoche oscure della, 3. guerra, atteggiamento di Ari­ stofane riguardo alla, 3540.

Ludi, rappresentazioni nei, 131. luogo, libertà di cambiamen­ to di, 17-9, 21-2, 26-7, 28, 33, 37, 193-4; manteni­ mento dell’unità di —, 29, 64. Luppe, W., 8n. Luscio di Lanuvio, 174. Lutero, Martino, 189.

hìlarotragoidiai (« tragedie al­ legre »), 129. Hrosvitha di Gandersheim, 189.

Maccus, 127-8. Manducus, 105. Marco Aurelio Antonino, 156. maschere, 15-6, 23, 61, 72, 127, 129, 136-7, 187, 198199. massime 123, 146. Mecenate, C., 156. Megalopoli, 81. Megara, 19, 59. Menandro, 5, 77-8, 81, 85, 86n, 89-124, 140, 144, 149, 172-6, 210-1; Adelphoi, 103, 105; Andria, 174-5; Aspis, 98-9, 103, 105; Bis Exapaton, 104, 141, 154, 160-6; Diskolos, 94, 99, 103; Epitrepontes, 101, 103, 105, 121; Eunuchos, 179-82; Kolax, 109, 180-1; Misumenos, 100, 105; Perikeiromene, 98, 100, 103-4, 121; Perinthia, 175; Samia, 94, 99, 101, 103, 105-21; Sikyonios, 94, 100, 105; Syma-

imbottiture, 15, 61, 194-5. incocrenza, 29, 39; v. anche luogo e tempo. ingresso, tariffe di, 15. Iperbolo, 49-50. Jonson, Ben, Every Man in bis Humour (Ciascuno nel suo umore)·, Volpone, 174. Laberio, Decimo, 145. Lachete, 72. Lamaco, 19-22. Lane, Lupino, 151n. Lelio, Gaio, 170. Lenee, 6-8, 14n, 15n, 26, 28-33, 81, 89. libri, composizione dei, 86n. Liei, 52. Licurgo, 82-3. Liturgie (pubblici servizi), 7, 79, 204. Livio, Tito, 126-7, 129, 151.

Gallo, Publio Roseto, 135-7, 151. Gelilo, Aulo, 172-3. gesuiti, scuole dei, 189. Geti, 71. Girolamo, s., 188. giudici, 22-3. 222

ristosai, 104-5; Theophorumene, 85. Meres, Francis, 190. metro, 18, 20, 24, 47-8, 53, 90, 130, 149-51, 191, 203205. mimi, 143, 145-6, 187-8. mitologia, messa in ridicolo, 54, 64, 129; mitologia gre­ ca in Plauto, 156. monologhi, 15-6, 18, 20, 7475, 106-7, 109-10, 119, 158-9, 160-3, 177-8. Montaigne, Michel Eyquem de, 190. Moschione, 72-3. motivi di repertorio, 51-2, 69-71. Napoli, 125. « Nefelococcugia », 27. Nevio, Gneo, 130-1, 175. nomi inventati, 154-5; — co­ muni, a diversi, 71-2; — individualizzanti, 72-3. Novio, 127. Orange (Francia meridionale), 132. Orazio, 50, 63, 156, 188. orchestra, 14-5, 132, 205. Orcomeno, 85. oscenità, 52-3, 152, 172, 188. osco, 127, 156. Otone, 133. palcoscenico, 14, 82-3, 128, 131-2.

223

Panatenee, 6. papiro, 4-5. Pappus, 127. parabasi, 20, 22, 33, 47, 64, 205. parassita, 57, 67, 69, 205. parodia, 18-9, 22, 28, 34, 40-1, 53-4, 66. parodoi, 13, 15, 83, 205. parole, giochi di, 17-8, 21, 172. Pellione Tito Publilio, 134. Pellione, Tito Publilio, Siro, 134, 146. Peloponneso, guerra del, 12, 35-9. Pericle, 19, 50, 54. personaggi femminili, inter­ pretati da uomini, 28n, 105, 144; v. anche attrici. personaggi-tipo, 50-1, 68, 70. Peter Pan, 74. Pio, Giovanni Battista, 140. Pistetèro, 26 e n, 27 e n, 48. Platone, 23, 66; Il simposio, 9. Plauto, Tito Maccio, 4, 92, 131, 141-2, 147-67, 171, 175, 177, 185, 190-1, 212214. Amphitruo, 137, 190; Asinaria, 134; Bacchides, 104, 141, 154, 157, 159166; Casina, 150, 158 e n; Cistellaria, 104, 134; Curculio, 142; Epidicus, 134, 159n; Menaechmi, 137, 190; Mercator, 157; Miles Gloriosus, 190; Persa, 61;

Poenulus, 133, 158; Pseudolus, 142, 187; Stichus, 105, 131, 134; Vidularia, 148n. Plutarco, 85, 102, 123. pnigos, 48. politica, 19, 26, 28, 48-9, 62-3, 77-9. Polluce, Giulio, 72, 83. Pompeo Magno, Gneo, 132. Pomponio, L., 127. posti a sedere, 13, 132-3, 197-8. premi, 5, 8, 82. prologhi 74-7, 95-8, 169-70, 173-5, 177-8. Pseudartaba, 16. pubblico, composizione del, 14, 32, 38-9, 133-4; intel­ ligenza, 35, 37, 133, 147148, 158, 171-2, 188; rea­ zioni, 31, 52-3, 136, 144, 159. Publilio, Siro, 146. Quintiliano, 135.

Marco

Fabio,

rappresentazioni sceniche; lo­ ro numero alle Dionisie, 6-8, 84; — alle Lenee, 6-7. Rintone di Taranto, 129. Santra, 171. Salsicciaio, 28, 48. scene dipinte, 83-4. Scipione, P. Cornelio, 170-1.

224

« schiavo che corre », motivo dello, 157. schiavi come personaggi sul­ la scena, 16-9, 28, 61, 6870, 72, 79, 98, 107, 116-7, 143, 157, 195-6; in Menandro, 102, 120-1; in Plauto, 157-60; attori a Roma, 134-5; — manomessi com­ mediografi, 146, 169; — spettatori, 133-4, 198. Semo di Deio, 58. senatori, 132. Seneca, Lucio Anneo, 144. Shakespeare, William, 140-1; La commedia degli errori, 112, 190; Il racconto d’in­ verno, 91. Sheridan, Richard Brinsley, 73. Sicilia, 57, 67. Sicione, 59. Siila, Lucio Cornelio, 84, 135. simmetria, 18, 20, 47, 119. sipario, 142-3. Siracusa, 57, 59, 125. skèné, 24, 82-3, 132, 193, 196-7. Smicrine, 72. Socrate, 3, 9, 26, 49. Sofocle, 82; Elettra, 76. soldati, 66-7, 109. Sparta, 17, 59. Stazio, Cecilio, 169, 172-3, 185. St. Paul’s School, 189.

225

Stratocle, 63. teatro: ad Acarne, 82; ad Atene, 13-5, 82; a Delfi, 85; a Deio, 85; ad Eieusi, 82; ad Epidauro, 81; ad Efeso, 85; ad Orange, 132; ad Orcomeno, 85; al Pi­ reo, 82; a Roma, 132; a Samo, 85. Tebe, 59. tempo, elasticità del, 17-8, 20, 26-7, 39. Teognide, 15-6. Terenzio Afro, Publio, 4, 70, 92, 137, 140, 169-85, 187191; Adelphoe, 103, 169, 171, 175-8, 182-4; Andria, 174-5, 178-9, 190; Eunuchus, 100-1, 175, 179-81, 183-4, 191; Heautontimorumenos, 101; Hecyra, 84, 171; Formione, 84, 189. Terenzio Lucano, 169. termini greci in Plauto, 155156; espressioni spiritose in Plauto, 153-4; v. anche parole, giochi di. Theòricon, fondo teorico, 15 e n, 79. tragedia, 7-9; influenza del­ la —, 65, 76-7, 104. trama, 64-5, 91-2, 104-5, 158, 191; troncamento del­ l’intreccio, 158. tribunali, 18, 29. Turpione, Lucio Ambivio, 134.

Udall, Licholas, Ralph Roister Doister, 190.

Virgilio Marone, Publio, 156, 173.

Varrone, Marco Terenzio, 136, 140. vestiario, v. attori e coro.

Westminster School, 189-90. Wolsey, Thomas, cardinale, 189.

Indice del volume

Prefazione Introduzione

v ii

3

I.

Una commedia ad Atene

11

II.

Aristofane

25

III.

La Commedia antica

45

IV.

La Commedia nuova

61

V.

Menandro

89

VI.

Le rappresentazioni drammatiche a Roma

125

VII. Plauto

147

V ili. Terenzio

169

Conclusione

187

Appendice. Alcune questioni concernenti la « Com­ media antica »

193

Glossario

201

Bibliografia essenziale

207

Indice dei nomi e delle cose notevoli

219

Annotazioni

volumi pubblicati

1/2

D. Mack Smith Storia d’Italia dal 1861 al 1958 3 E. Garin L'Umanesimo ita­ liano 4 R. Scotellaro L'uva putta­ nella - Contadini del Sud 5 G. Mosca Storia delle dottrine politiche 6 F. Chabod Storia dell'idea d'Europa 7 G. F. Moore II Cristiane­ simo 8 A. J. P. Taylor Le origi­ ni della seconda guerra mondiale 9 A. Labriola La concezione materialistica della sto­ ria, a cura di E. Garin 10 G. F. Moore L'Islamismo 11 L. Russo Personaggi dei Promessi Sposi 12/13 A. Tasca Nascita e avvento del fascismo 14/16 F. De Sanctis Saggi critici, a cura di L. Russo 17 T. De Mauro Storia lin­ guistica dell'Italia unita 18 L. Mittner L'espressioni­ smo 19 L. Chiarini Arte e tecni­ ca del film 20 D. Bertoni Jovine Storia dell'educazione popolare in Italia 21 E. Garin Scienza e vita civile nel Rinascimento italiano 22 Le Corbusier Maniera di pensare l'urbanistica 23 G. Abetti Esplorazione dell'universo

24/25 F. Chabod Storia del­ la politica estera italiana dal 1870 al 1896 26/27 G. Boccaccio II Deca­ meron, a cura di C. Sa linari 28 L. Russo Machiavelli 29 L. Spitzer Critica stilisti­ ca e semantica storica 30/31 H. Berve Storia greca 32 D ’Alembert-Diderot La fi­ losofia dell'Encyclopédie, a cura di P. Casini 33/34 E. Garin Cronache di filosofia italiana. 19001943 - Quindici anni do­ po. 1945-1960 35 E. Rossi Padroni del va­ pore e fascismo 36/37 I. Kant Critica della Ra­ gion pura, trad. di G. Gen­ tile e G. Lombardo-Radi­ ce, rivista da V. Mathieu 38 N. Sapegno Ritratto di Manzoni 39 G. Fiori Vita di Antonio Gramsci 40 L. Benevolo Introduzione ail’architettura 41 M. Duverger Introduzio ne alla politica 42 N. Pevsner Storia dell'ar chitettura europea 43/44 R. Viilari II Sud nella storia d’Italia 45 G. Mosca La classe poli­ tica, a cura di N. Bobbio 46 B. Munari Arte come me­ stiere 47 L. Russo Giovanni Verga 48 G. Macchia Vita avventure e morte di Don Giovanni

volumi pubblicati

49/50 A. Soboul La Rivolu­ zione francese 51/52 T. Tasso Gerusalem­ me liberata, a cura di L. Caretti 53 M. Gallo Vita di Mussolini 54 F. Chabod L'idea di na­ zione 55 M. Buonarroti Rime, a cu­ ra di E. N. Girardi 56 G. Luzzatto Per una sto­ ria economica d'Italia 57/58 G.W.F. Hegel Enciclo­ pedia delle scienze filoso­ fiche in compendio, trad. di B. Croce 59 G. Samonà L’urbanistica e l'avvenire della città negli Stati europei 60 E. Garin La cultura del Rinascimento 61 D. C. Hague-A. W. Stonier Breviario di economia 62 L. Sciascia Le parrocchie di Regalpetra - Morte dell’inquisitore 63 A. Momigliano Saggio su l’« Orlando Furioso » 64 K. Marx-F. Engels Scritti sull'arte, a cura di C. Sa­ linari 65 P. Chiarini Bertolt Brecht. Saggio sul teatro 66 L. Russo Letture critiche del Decameron 67 P.-J. Proudhon Che cos'è la proprietà? 68 J. Carcopino La vita quo­ tidiana a Roma all’apo­ geo dell’Impero 69 L. Moussinac II teatro dal­ le origini ai giorni nostri

70/82 G. De Ruggiero Storia della filosofia: 70/71 La filosofia greca; 72/73 La filosofia del Cri­ stianesimo; 74/75 Rina­ scimento, Riforma e Con­ troriforma; 76 L’età car­ tesiana; 77/78 L'età del­ l'Illuminismo; 79 Da Vico a Kant; 80/81 L’età del Romanticismo; 82 Hegel 83 F. Cumont Le religioni orientali nel paganesimo romano 84 F. Bacone Novum Organum, a cura di E. De Mas 85 U. Bosco Francesco Pe­ trarca 86 N. Kogan L'Italia del do­ poguerra 87 J. Rostand Maternità e biologia 88 R. Morghen Medioevo cristiano 89/90 K. Stanislavskij II la voro dell'attore 91 L. Benevolo Le origini dell’urbanistica moderna 92 A. Buzzati-Traverso L’uo­ mo su misura 93/94 G. Procacci Storia de gli italiani 95 F. R. Paci Vita e opere di James Joyce 96 E. Rossi II manganello e l'aspersorio 97/98 W. A. Williams Storia degli Stati Uniti 99/100 A. Schopenhauer I! mondo come volontà e rappresentazione

volumi pubblicati

101 K. Korsch Karl Marx 102 N. Hampson Storia e cul­ tura dell'illuminismo 103 M. Bloch Lavoro e tecni­ ca nel Medioevo 104 E. Mandel La formazione del pensiero economico di Karl Marx 105 G. Lefebvre Napoleone 106 V. Amoruso La letteratura beat americana 107 M. Leroy Profilo storico della linguistica moderna 108 L. Febvre Martin Lutero 109 L.E. Borowski-R.B. Jachmann - E. A. C. Wasianski La vita di Immanuel Kant 110/112 H. A. L. Fisher Storia d’Europa 110 Storia antica e me­ dievale; 111 Storia mo­ derna; 112 Storia con­ temporanea 113 H. Abosch La Germania in movimento 114 R. De Felice Le interpre­ tazioni del fascismo 115 H. Pirenne Maometto e Carlomagno 116 G. De Rosa II Partito po­ polare italiano 117 T. S. Ashton La rivoluzio­ ne industriale. 1760-1830 118 H. Laborit Biologia e strut­ tura 119 P. Wolff Storia e cultura del Medioevo dal secolo IX al XII 120 K. Kautsky La via al po­ tere 121 L. Colletti Ideologia e so­ cietà

122/124 D. Mack Smith Storia d'Italia dal 1861 al 1969 125 M. Tafuri L’architettura deH’Umanesimo 126 F. Chabod Lezioni di me­ todo storico 127 R. Romeo Risorgimento e capitalismo 128 W. G. Forrest Storia di Sparta. 950-192 a. C. 129 N. Chomsky Le strutture della sintassi 130 Condillac Trattato delle sensazioni, a cura di P. Salvucci 131/132 G. Manacorda II socia­ lismo nella storia d'Italia 133 P. Sylos Labini Problemi dello sviluppo economico 134 I. Kant Critica del Giudi­ zio, trad. di A. Gargiulo rivista da V. Verrà 135 L. Magnani Beethoven nei suoi quaderni di con­ versazione 136 O. Mannoni Freud 137/138 G. Duby L’economia rurale nell’Europa medie­ vale 139 C. Brandi La prima archi­ tettura barocca 140 R. Dahrendorf Classi e conflitto di classe nella società industriale 141 P. Chiarini Brecht, Lukécs e il realismo 142 A. Labriola Scritti poli­ tici. 1886-1904, a cura di V. Gerratana 143 D. Mack Smith Garibaldi 1 4 4 / 1 4 5 D. Puccini Romancero della resistenza spagnola

volumi pubblicati

146 T. De Mauro Introduzione alla semantica 147 G. Sorel Considerazioni sulla violenza 148/150 Aristotele Organon 151 F. de Saussure Corso di linguistica generale 152 G. Bocca Storia dell'Ita­ lia partigiana 153 G. De Rosa II movimento cattolico in Italia dalla Restaurazione all’età giolittiana 154 Platone Repubblica, a cu­ ra di F. Sartori 155 L. Russo Carducci senza retorica 156/163 B. Zevi Cronache di architettura 156 1 1/29: dal memorial alle Fosse Ardeatine a Wright sul canal grande (1954); 156 2 30/72: da) lo sconcio dei lungarni alla chapelle de Ronchamp (1954-55); 157 3 73/131: dalla celebrazione di Biagio Rossetti alia po­ lemica su Sant'Elia (19551956); 157 4 132/190: dall'lnterbau berlinese al­ l’opera di Utzon a Sidney (1957-58); 158 5 191/257: dall'Expo mondiale di Bru­ xelles all'Llnesco parigino (1958-59); 158 6 258/320: dalla scomparsa di F. LI. Wright all'inaugurazione di Brasilia (1959-60); 159 7 321/384: da La Tourette corbusieriana ai la­

boratori medici di Louis Kahn (1960-61); 159 8 385/451: dal piano di Kenzo Tange per Tokio alla battaglia per la di­ ga sullo Jato (1961-62); 160 9 452/518: dal con­ corso di Tel-Aviv/Jaffa al­ la Philharmonie di Scharoun (1963-64); 160 10 519/581: dal recupero del­ l’espressionismo al piano regolatore di Roma (196465) ; 161 11 582/637: dal­ la scomparsa di Le Corbusier al piano Pampus per Amsterdam (196566) ; 161 12 638/692: dal centro civico di Cumbernauld all’habitat di Moshe Safdie (1966-67); 162 13 693/759: dalla ricostru­ zione di Gerusalemme ai segni di James Stirling (1968-69); 162 14 760/ 824: dall'utopia del grup­ po Archlgram agli scio­ peri generali per la casa (1969-70); 163 Indici: nn. 1/824 164 A.F.K. Organski Le forme dello sviluppo politico 165/166 E. Rohde Psiche. Cui to delle anime e fede nell'immortalità presso i Greci 167 Ch. F. Hockett La lingui­ stica americana contem­ poranea 168 G. Barraclough Guida al­ la storia contemporanea

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Η. H. Read Geologia: In­ troduzione alla storia del­ la Terra 170 A. Martinet Elementi di linguistica generale 171 K. Korsch II materiali­ smo storico 172 F. Caffè (a cura di) Eco­ nomisti moderni 173 E. E. Evans-Pritchard In­ troduzione all' antropolo­ gia sociale 174 A. Leone de Castris Sto­ ria di Pirandello 175 P. Scoppola La Chiesa e il fascismo 176/177 M. Calvesi Le due avanguardie 176 Studi sul futurismo: 177 Informale - New Da­ da - Pop Art 178 I. Kant Critica della Ra­ gion pratica, trac), di F. Capra, r|v. da È. Garin, a cura di V. Mathieu 179 H. Pirenne Lè città del Medioevo 180 J. Piaget L'epistemologia genetica 181 Mi Fubini II Romanticismo italiano 182 F. Codino [a cura di) Miti greci e romani 183 J. Chasseguet-Smirgel La sessualità femminile 184 R. Owen Per una nuova concezione della società 185 A. Pincherle Introduzione al cristianesimo antico 186 L. Goldmann II dio nasco­ sto. Studio sulla visione tragica nei « Pensieri ■

di Pascal e nel teatro di Racine 187 B. Snell Poesia e società 188/196 Platone Opere com­ plete 188 Eutifrone - Apologia di Socrate - Critone - Fe­ done; 189 Cratilo - Teeteto - Sofista - Politico; 190 Parmenide - Filebo Simposio - Fedro; 191 Al­ cibiade primo - Alcibiade secondo - Ipparco - Gli amanti - Teage - Carmide - Lachete - Liside; 192 Eutidemo - Protago­ ra - Gorgia - Menone Ippia maggiore - Ippia mi­ nore - Ione - Menesseno; 193 Clitofonte - La Re­ pubblica - Timeo - Crizia; 194 Minosse - Leggi Epinomide; 195 Lettere Definizioni - Dialoghi spu­ ri; 196 Indici 197 B. Munari Artista e desi­ gner 198/200 J.-J. Rousseau Scritti politici, a cura di M. Garin 198 Discorso sulle scien­ ze e sulle arti - Discorso sull’origine e i fondamen­ ti della disuguaglianza Discorso sull’ economia politica; 199 Manoscritto di Gjnevra - Contratto so­ ciale - Frammenti politi­ ci - Scritti sul'Abate di Saint-Pierre; 200 Lettere dalla montagna - Proget­ to di costituzione sulla Corsica - Considerazioni

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sul governo di Polonia 201/202 A .J.P. Taylor L'Euro­ pa delle grandi potenze da Metternich a Lenin 203 N. Bobbio Saggi sulla scienza politica in Italia 204 L. Cortesi Le origini del Partito comunista italiano 205/211 G.D.H. Cole Storia del pensiero socialista 205 I. I precursori. 1789 1850; 206 II. Marxismo e anarchismo. 1850-1890; 207 111,1. la Seconda In­ ternazionale. 1889-1914; 208 III,2. La Seconda In­ ternazionale. 1889-1914; 209 IV,1. ComuniSmo e socialdemocrazia. 19141931; 210 IV,2. Comuni­ Smo e socialdemocrazia. 1914-1931; 211 V. Sociali­ smo e fascismo. 1931-1939 212 Aristotele Politica · Co­ stituzione degli Ateniesi, a cura di R. Laurenti 213 S. Moravia II ragazzo sel­ vaggio dell'Aveyron 214 G. W. F. Hegel Lettere, a cura di P. Manganerò, introd. di E. Garin 215 G. Petronio Parini e l'Il­ luminismo lombardo 216 H. Heine La Germania, a cura di P. Chiarini 217 AA. VV. L'opera e l'eredi­ tà di Hegel 218 E. Forcella-A. Monticene Plotone di esecuzione. I processi della prima guer­ ra mondiale

M.l. Finley La Grecia dalla preistoria all’età arcaica 220 H. Fichtenau L’impero ca­ rolingio 221/224 J. Locke Saggio sul­ l'intelligenza umana, trad. di C. Pel lizzi, introd. di C. A. Viano 221. libro I. Non esistono princìpi né idee innate; 222 libro II. Delle idee; 223 libro III. Delle paro­ le; 224 libro IV. Della conoscenza e della pro­ babilità 225 E. Sereni Storia del pae­ saggio agrario italiano 226 P. A. Brunt Classi e con­ flitti sociali nella Roma repubblicana 227/228 Voltaire Scritti filoso­ fici, a cura di P. Serini 227 Dalle « Lettere filo­ sofiche » - Trattato di me­ tafisica - Metafisica di Newton - Sul deismo Considerazioni sulla sto­ ria - Dai « Pensieri sul go­ verno » - Dai « Romanzi e racconti» - Dall'·Enciclo­ pedia » - Trattato sulla tolleranza - Dalle « Idee repubblicane » - Il filo­ sofo ignorante - L'A, B, C; 228 Dizionario filosofico Dai « Quesiti sull'Enciclo­ pedia » - Bisogna prender partito ovvero il principio d'azione 229 F. Ferrarotti (a cura di) Sociologia del potere

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H. C. Baldry I greci a tea­ tro 231 H. Heine Rendiconto pa­ rigino. 1831-1832, a cura di P. Chiarini 232/234 D. Mack Smith Storia della Sicilia medievale e moderna 235 V. Castronovo La stampa italiana dall'Unità al fa­ scismo 236 J. Piaget - R. Garcia Espe­ rienza e teoria della cau­ salità 237 L. Benevolo Le avventure della città 238 B. H. Warmington Nerone. Realtà e leggenda 239 P. Villani Mezzogiorno tra riforme e rivoluzione 240/241 Chr. Seton - Watson L'Italia dal liberalismo al fascismo. 1870-1925 242 E. Grendi Le origini del movimento operaio in­ glese 243/245 S. Mazzarino L’impe­ ro romano 246 R. Romeo II Risorgimento in Sicilia 247/248 G. Bocca Storia d’Ita­ lia nella guerra fascista 249/250 L. Einaudi II buongo­ verno. Saggi di econo­ mia e politica 1897-1954 251 /252 P. Portoghesi Roma barocca 251 Nascita di un nuovo linguaggio; 252 Consumo di un linguaggio 253 J. Piaget Le scienze del­ l'uomo

P. F. Lazarsfeld Introdu­ zione alla sociologia 255 St. J. Woolf (a cura di) il fascismo in Europa 256/257 D. Mack Smith II Ri­ sorgimento italiano 258 A. Bruschi Bramante 259/260 J. Laplanche - J.-B. Pontalis Enciclopedia del­ la psicanalisi 261/262 Th. A. Sinclair II pen siero politico classico 263/273 Aristotele Opere 263/4 Organon; 265 Fi­ sica - Del cielo; 266 Del­ la generazione e della corruzione - Dell'anima Piccoli trattati di storia naturale; 267 Parti degli animali - Riproduzione de­ gli animali; 268 Metafi­ sica; 269 Etica Nicomachea; 270 Grande etica - Etica Eudemia; 271 Po­ litica - Trattato sull'eco­ nomia; 272 Retorica Poetica; 273 Costituzio­ ne degli Ateniesi - Fram­ menti 274 E. Garin Medioevo e Rinascimento 275 B. Zevi Cronache dì ar­ chitettura 15 825/884: dall’apologià dì Las Vegas al Mummers Theater di Johan(1970-71) 275 B. Zevi Cronache di ar­ chitettura 16 885/952: dalle obliquità di Claude Parent al londl-

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276 277 278 279 280 281 282 283 284 285 286 287 288 289 290 291 292

nese Brunswick Centre (1971-72) B. Zevi Cronache di archi­ tettura. Indici: nn. 1/952 W. J. M. Mackenzie La scienza della politica H. G. Koenigsberger-G. L. Mosse L'Europa del Cin­ quecento A. Η. M. Jones Augusto N. Merker L'Illuminismo tedesco E. Bernstein I presupposti del socialismo e i compi­ ti della socialdemocrazia G. Farese Poesia e rivo­ luzione in Germania. 18301850 Gr. Bannock-R. E. BaxterR. Rees Dizionario di eco­ nomia C. Violante La società milanese nell'età preco­ munale R. Laurenti Eraclito F. Petrarca Sine nomine. Lettere polemiche e poli­ tiche, a cura di U. Dotti H. Gallas Teorie marxiste della letteratura M. Vovelle La Francia ri­ voluzionaria. La caduta della monarchia. 1787-1792 M. Bouloiseau La Francia rivoluzionaria. La Repub­ blica giacobina. 1792-1794 Aristofane Lisistrata, a cura di B. Marzullo J.-M. Poursin - G. Dupuy Malthus L. Canfora Teorie e tec­

nica della storiografia classica 293 R. Romeo Dal Piemonte sabaudo all'Italia liberale 294 J. Huizinga La scienza storica 295/296 G. Solari La filosofia politica 295 Da Campanella a Rousseau; 296 Da Kant a Comte 297 W. H. Stahl La scienza dei Romani 298/300 G. Basile UPentamerone 301 D. Dolci Esperienze a Partinico 302 Ch. R. Beye (a cura di) La tragedia greca. Guida storica e critica 303 R. De Fusco Storia dell’ar­ chitettura contemporanea 304 W. Binni Preromanticismo italiano 305 D. Mack Smith Vittorio Emanuele II 306 M. Detienne (a cura di) Il mito. Guida storica e critica 307 M.l. Finley Storia della Sicilia antica 308 R. Mandrou Dagli umani­ sti agli scienziati. Secoli XVI e XVII 309 P. Murialdi Come si leg­ ge un giornale 310/311 L. Villarl II capitali­ smo italiano del Nove­ cento 312 J. Vogt La repubblica ro­ mana

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313/314 R. Villari Storia del­ l'Europa contemporanea 315 G. Cavallo la cura di) Libri, editori al fascismo 319 C. Schmitt La dittatura 320 H. R. Trevor Roper Prote­ stantesimo e trasforma­ zione sociale 321/322 F. Jonas Storia della sociologia: 321 I. Dall’ Illuminismo alla fine dell'Ottocento; 322 II. L'età contempo­ ranea 323/324 A. J. P. Taylor Storia dell'Inghilterra contempo­ ranea 325 F. Di Franco il teatro dì Eduardo 326 B. Zevi Cronache di ar­ chitettura 17 953/1012: dall’inedito di Umberto Boccioni al­ l'autolesionismo della Triennale (1973-74) 326 B. Zevi Cronache di ar­ chitettura 18 1013/1080: dai « five architects » newyorkesi a Bernini plagiario (197475)

327/328 M. Dal Pra Lo scetti­ cismo greco 329/330 M. Fubini Dal Mura­ tori al Baretti 331/332 Diogene Laerzio Vite dei filosofi 333 M. Manieri Elia William Morris e l’ideologia del­ l'architettura 334 R. Bianchi Bandinelli In­ troduzione all’archeologia classica come storia deil'arte antica 335 L. Feuerbach Scritti filo­ sofici, a cura di C. Cesa 336 L. Caretti (a cura di) Manzoni. Guida storica e critica 337 R. Villari La rivolta anti­ spagnola a Napoli 338 B. Farolfi Capitalismo eu­ ropeo e rivoluzione 339 K. Lowith Hegel e il cri­ stianesimo 340 T. R. Malthus Primo sag­ gio sulla popolazione 341 R. Lenoble Le origini del pensiero scientifico mo­ derno 342 G. Grazzini Gli anni Set­ tanta in cento film 343/347 M. Daumas (a cura di) Storia della scienza: 343 I. Le scienze nel­ l’Antichità e nel Medio­ evo 344 II. Le scienze mate­ matiche e l’astronomia 345 ili. Le scienze del mondo fisico

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346 IV. Le scienze bio­ logiche 347 V. Le scienze del­ l'uomo 348 H. - J. de Vleeschauwer L'evoluzione del pensie­ ro di Kant 349 E. Garin Lo zodiaco della vita. La polemica sulla astrologia dal Trecento al Cinquecento 350/351 L. Colletti II marxi­ smo e Hegel: 350 I. Sui « Quaderni fi­ losofici » di Lenin 351 II. Materialismo dia­ lettico e irrazionalismo 352 E. A. Thompson Una cul­ tura barbarica. I germani 353/356 M. Duchet Le origini dell'antropologia: 353 I. Viaggiatori ed esploratori del Settecento 354 li. L'ideologia colo­ niale del Settecento 355 III. Buffon, Voltaire, Rousseau 356 IV. Helvétius e Di­ derot 357 W. Binni Poetica, critica e storia letteraria 358 V. Serge Vita e morte di Trotskij 359 E. Garin L’educazione In Europa. 1400/1600 360/361 G. Ritter La forma­ zione dell’Europa moderna 362/363 T. De Mauro Storia linguistica dell'Italia unita 364/365 Ph. Ariès Padri e figli nell'Europa medievale e moderna

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L. Quaroni Immagine di Roma 367 J. S. Mill Autobiografia 368/372 H.-C. Puech Storia delle religioni: 368 I. Egiziani e Sumeri 369 II. Da Babilonia a Zoroastro 370 III. Il mondo classico 371 IV. L'impero roma­ no e l’Oriente 372 V. Slavi, Baiti, Ger­ mani e Celti 373 J. Freund Pareto. La teo­ ria deH'equilibrio 374 E. Garin La cultura ita­ liana tra '800 e '900 375/376 P. Bayle Dizionario storico-critico 377/378 L. Febvre-H.-J. Mar­ tin La nascita del libro 379 B. Gentili Lo spettacolo nel mondo antico 380/381 C. Ghisalberti Storia costituzionale d’Italia. 1848-1948 382 P. Murray L’architettura del Rinascimento italiano 383 A. Petrucci (a cura di) Libri, editori e pubblico nell'Europa moderna. Gui­ da storica e critica 384 H. Dieckmann II realismo di Diderot 385 B. Munari Fantasia 386 G. S. Kirk La natura del miti greci 387 G. Maddoli (a cura di) La civiltà micenea. Guida storica e critica 388/389 F. Barone II neopo­ sitivismo logico

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412/413 G. Lichtheim L'Euro­ R. Villari Mezzogiorno e pa del Novecento. Storia contadini nell’età moderna e cultura 391 Condillac Trattato dei si­ 414/415 G. Tuccì Storia del­ stemi, a cura di Maria la filosofia indiana Garin 392 R. A. Hinde La natura del­ 416/418 H.-C. Puech Storia delle religioni: la comunicazione 416 X. Il Cristianesimo 393 R. A. Hinde La comuni­ medievale cazione animale 417. XI. Il Cristianesimo 394 R. A. Hinde La comuni­ moderno e contempora­ cazione non-verbale nel­ neo l'uomo 418 XII. Esoterismo, spi­ 395/398 H.-C. Puech Storia ritismo, massoneria delle religioni: 419 G. Cavallo (a cura di) 395 VI. Il popolo d'Israele Libri e lettori nel me­ 396 VII. Il cristianesimo dioevo. Guida storica e delle origini critica 397 Vili. Gnosticismo e 420 J. Habermas Storia e cri­ manicheismo tica dell’opinione pubblica 398 IX. L'IsIam 421/423 Aristofane Le com­ 399 G. Grazzini Gli anni S es­ medie, a cura di Bene­ santa in cento film detto Marzullo 400 F. De Stefano Storia del­ 424 M. Dal Pra La dialettica la Sicilia dall'XI al XIX in Marx secolo 425 C. Calarne (a cura di) 401 H. Gatti La poesia ro­ Rito e poesia corale In mantica inglese Grecia. Guida storica e 402/403 P. Melograni Storia po­ crìtica litica della grande guerra 426/428 G.W.F. Hegel Scien­ 404/405 G. Bocca Togliatti za della logica 406 G. Fiori Baroni in laguna. 429 G. Barraclough II crogio­ La società del malessere lo dell'Europa 407/408 V. Padula Calabria 430 G.E.R. Lloyd La scienza prima e dopo l'unità dei Greci 409 G. Petronio (a cura di) 431 J. Habermas Teoria e Teorie e realtà del ro­ prassi nella società tec­ manzo. Guida storica e nologica critica 432 G.W.F. Hegel Lineamen­ 410/411 E. d ecotti II tramon­ ti di filosofia del diritto to della schiavitù nel 433 R. De Fusco Segni, sto mondo antico

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ria e progetti dell'archi­ tettura 434 M. Daumas Breve storia della vita scientifica 435/436 Cartesio Discorso sul metodo 437/439 H.-C. Puech Storia delle religioni: 437 XIII. Religione vedica e induismo 438 XIV. Buddhismo In­ diano e Jainismo 439 XV. Tibet e Sud­ est asiatico 440 V. Quilici L’architettura del costruttivismo 441 G. Bachelard II nuovo spirito scientifico 442 G. Duby Le origini del­ l'economia europea 443/444 G. Vico La scienza nuova 445 G. Grazzini Cinema '77 446 M. Simon - A. Benoit Giu­ daismo e cristianesimo 447/448 A. Gambino Storia del dopoguerra. Dalla Li­ berazione al potere D.C. 449/450 C. De Seta La cul­ tura architettonica in Ita­ lia tra le due guerre 451 D. Hume Ricerche sull'in­ telletto umano e sui principii della morale 452/454 B. Zevi Cronache di architettura 452 19 1081/1130: dalla conferenza di Vancouver alla scomparsa di Aalto (1975-76); 453 20 1131/ 1180: dal bicentenario americano al Centre

UL Beaubourg (1977-78); 454 Indici nn. 1/1180 455 D. Hay Profilo storico del Rinascimento italiano 456/457 H.-C. Puech Storia delle religioni: 456 XVI. La Cina e la Corea 457 XVII. Il Giappone 458/459 D. Hume Trattato sul­ la natura umana 460 S. Bergia Einstein e la relatività 461 V. Knapp La scienza del diritto 462 E. Ennen Storia della città medievale 463 S. Moravia La scienza dell'uomo nel Settecento 464 J. Beattie Uomini diversi da noi 465/466 H.-C. Puech Storia delle religioni; 465 XVIII. I popoli senza scrittura, tomo I 466 XVIII. I popoli senza scrittura, tomo II 467 J. O. La Mettrie Opere filosofiche 468/470 J. Lyons Introduzione alla linguistica teorica: 468 I. Il linguaggio 469 II. La grammatica 470 III. La semantica 471/472 H.-C. Puech Storia delle religioni: 471 XIX. Colonialismo e neocolonialismo, tomo I 472 XIX. Colonialismo e neocolonialismo, tomo II

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497 T. Hobbes Behemoth 498/499 A. Manzoni I Promes­ si Sposi 500 G. Grazzini Cinema '78 474/486 W. Hingelmann - G. 501/502 G. Neppi Modona Ketterman - M. Hergt Sciopero, potere politico Geografia e storia del e magistratura. 1870-1922 mondo: 503 D. Hay La Chiesa nell’Ita­ 474 1. Europa lia rinascimentale 475 2. Mediterraneo 504 F. Boas L’uomo primitivo 476 3. URSS 505 A. Baraca, S. Ruffo, A. 477 4. USA Russo Scienza e Indu­ 478 5. Centroamerica stria. 1848-1914 479 6. Sudamerica 506 H. Miiller-Karpe Introdu­ 480 7. Africa zione alla preistoria 481 8. Vicino Oriente 507/511 F. M. Heichelheim 482 9. India Storia economica del 483 10. Sud-Est asiatico mondo antico: 484 11. Cina 507 I. La preistoria 485 12. Giappone 508 11. L'antico Oriente 486 13. Australia 509 III. La Grecia 487 Μ. I. Finley II mondo di 510 IV. La repubblica ro­ Odisseo mana 488 C. De Marzo Maxwell e 511 V. L'Impero romano la fisica classica 512 M. Vovelle Breve storia 489 T. Fiore Un popolo di della Rivoluzione francese formiche 490 B. Zevi Cronache di ar­ 513 R. Carnap, H. Hahn, O. Neurath La concezione chitettura scientifica del mondo. Il 21 1181/1228: da BrunelleCircolo di Vienna schi anticlassico alla Car­ 514/519 M. Lodi e i suoi ra­ ta del Machu Picchu gazzi: 491/492 Seneca I dialoghi 514 II Mondo 1 493 E. J. Hobsbawm II trionfo 515 II Mondo 2 della borghesìa. 1848-1875 516 II Mondo 3 494 N. Merola (a cura di) 517 II Mondo 4 D'Annunzio e la poesia 518 II Mondo 5 di massa. Guida storica 519 II Mondo 6 e critica 495 M. Freedman L’Antropolo­ 520 G. Russo Baroni e conta­ dini gia culturale 521 F.H. Sandback II teatro co­ 496 R. Villari Mezzogiorno e mico in Grecia e a Roma democrazia

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A. Saitta Profilo di 2000

anni di storia. I. Cristiani e Barbari