«La tigre e la neve» di Roberto Benigni. Parole poetiche e immagini d'autore 8880636731, 9788880636731

Può un film essere anche una fittissima antologia di testi poetici e letterari? È il caso del film "La tigre e la n

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«La tigre e la neve» di Roberto Benigni. Parole poetiche e immagini d'autore
 8880636731, 9788880636731

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IL PORTICO. BIBLIOTECA DI LETTERE E ARTI 156.

Sezione: MATERIALI LETTERARI

Maria Chiara Cugusi

“La tigre e la neve” di Roberto Benigni Parole poetiche e immagini d’autore

LONGO EDITORE RAVENNA

ISBN 978-88-8063-673-1

© Copyright 2011 A. Longo Editore snc Via P. Costa, 33-48121 Ravenna Tel. 0544.217026 - Fax 0544.217554 e-mail: [email protected] www.longo-editore.it All rights reserved Printed in Italy

PRESENTAZIONE

di Lia Fava Gazzetta

È per me un vero piacere che l’ottima dissertazione di laurea magistrale di Maria Chiara Cugusi abbia trovato l’accoglienza editoriale caratterizzata dalla nota aper­ tura, intelligenza e lungimiranza dell’editore Longo, nella collana II portico, di in­ discussa e collaudata qualità. Il lavoro di rilevante livello scientifico e metodologico della Dott. Cugusi si in­ serisce con originalità in un campo di studi molto interessante e sempre più attuale, che riguarda la traduzione, la quale, per dirla con George Steiner, si trova dentro «al cuore della comunicazione umana» (G. Steiner, Dopo Babele, Milano. Garzanti. 2004, p. 10). In tal senso l’idea stessa di traduzione e il processo che la incarna e la realizza sempre più affronterà una problematica che sconfina da un orizzonte stret­ tamente linguistico. La dott. Cugusi affronta un settore molto specifico di tale problematica che mette a confronto letteratura e cinema, cogliendo il delicato percorso di traduzione dalla parola all’immagine filmica ed evidenziando l’importanza di un momento di me­ diazione assolutamente fondamentale come quello della sceneggiatura. Solitamente, com’è noto, il pubblico che assiste ad una proiezione cinemato­ grafica non conosce o non prende in considerazione la sceneggiatura del film, men­ tre essa rappresenta un passaggio ineliminabile ed insostituibile verso il film. Nel caso in cui si tratti per di più di un film tratto da un’opera letteraria o che comun­ que si serva di fonti letterarie per esprimere il proprio stesso messaggio, la sceneg­ giatura rappresenta una tappa, quasi un delicatissimo filtro, per la trasformazione in oggetto visivo / film, di ciò che in letteratura è affidato alla parola. Nel caso singolare del film di Roberto Benigni, il testo letterario si è presentato quasi nella forma di un caleidoscopio, in quanto molte sono le fonti poetiche alle quali il regista ha attinto, come a volere dare simbolicamente forza all’idea che la poesia in quanto tale, da dovunque essa provenga e a chiunque appartenga, dà bel­ lezza alla vita e, nella fattispecie, aggiunge vita al film stesso. Il poeta Mario Luzi, recentemente scomparso, in un suo pregevole e finissimo saggio dal titolo Leopardi, Dante o della Modernità (Roma. Editori Riuniti, 1992), a proposito della parola poetica dantesca così si esprimeva: «Dall’interno del­ l’esperienza, dalle contraddizioni, dalla dura prova integrale vissuta senza riparo o riserva mentale Dante faceva nascere insieme alla rappresentazione il grande sup­ plemento di significato che la parola può svelare e conferire al mondo» (ivi p. 15).

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Presentazione

L’opera filmica di Benigni ci dice proprio questo, perché sembra nascere da questa stessa consapevolezza, dalla ricerca cioè di quel “supplemento di significato’’ che la poesia conferisce alla realtà e dalla coscienza che esso, una volta che sia stato messo in circolazione dal poeta, possa appartenere a tutti. Da tale angolatura risulta fortemente simbolica l’operazione di “appropriazione” delle parole dei poeti, che il regista ha inteso condurre e che la sceneggiatura ha pre­ disposto. Viene infatti offerta allo spettatore/lettore l’occasione di scoprire, o se si vuole di intravvedere, di assaporare, quel “di più” di significato che —nel fluire della vita, con tutti i suoi inquieti andirivieni, gli sfasati obbiettivi, gli snervanti puntigli, o la sua perpetua erranza nel mistero della storia - la poesia continua a dare all’uomo come occasione di felicità. Ciò intende proporre Benigni col suo film attraverso quell’impegno di tradu­ zione che ne è la fondamentale modalità di espressione e che si produce, quasi come una sorta di mise en abìme, nella stessa trama del film. È merito di Maria Chiara Cugusi avere enucleato e penetrato, dentro l’ampio orizzonte del tradurre, il punto cruciale e l’intimo valore della sceneggiatura rispetto al film, con finezza di analisi, competenza e possesso di strumenti ermeneutici. Tale analisi si è posta come occasione di partenza per un’indagine che alla resa dei conti è andata oltre la sceneggiatura stessa, dando conto della complessità costruttiva del film ed ancor più del fascino di una poetica dell’opera d’arte ad essa sottesa, che con­ tribuisce ad illuminare il lettore sull’intero orizzonte creativo di Roberto Benigni, il quale sempre più con le sue opere è venuto affermando il valore simbolico e vitale della poesia. Il titolo di un recente film, Lost in translation, ha in qualche modo messo sul­ l’avviso lo spettatore rispetto a ciò che nel percorso di traduzione fra due o più lin­ guaggi può rischiare di essere perduto, qui invece Benigni ci dimostra in concreto, con la sua stessa operazione filmica, che la traduzione in sé possa costituire, per tor­ nare di nuovo a Steiner, l’atto stesso della «percezione dell’intenzione di signifi­ care» e che il passaggio attraverso testi molteplici o la loro stessa metamorfosi in immagini, nell’incontro tra parola e visione, possa rappresentare un arricchimento della prospettiva di ricezione ed allargare i confini, sempre per qualche verso polisemici, misteriosi ed imprevedibili, del messaggio, specie del messaggio poetico. A questo libro dunque, che non fa certamente parte di quei moderni “libri im­ provvisati” cui faceva mesto e sconsolato riferimento il Tristano leopardiano defi­ nendoli libri che «per lo più si scrivono in minor tempo che non ne bisogna a leggerli», ma che invece è il frutto valido dell’impegno serio ed entusiasta di una gio­ vane studiosa, auguro di tutto cuore di essere letto ed apprezzato da molti lettori, ap­ passionati tanto di cinema quanto di poesia.

PREMESSA

Le reazioni della critica di fronte alla pellicola La tigre e la neve di R. Benigni (2005) non furono univoche: apprezzamento e freddezza (quando non stroncatura) procedettero di pari passo, sia dopo l’anteprima che dopo la diffusione nelle sale cinematografiche. Ciò, perché si colse una forma di debolezza registica contrappo­ sta a una grande performance personale di Benigni-attore, due elementi considerati difficilmente conciliabili. Il giudizio, di qualunque segno fosse, si basò sulla visione del film, non sulla lettura della Sceneggiatura, che invece è secondo me assolutamente indispensabile per una corretta valutazione. Si identificarono essenzialmente due ragioni della debolezza strutturale del film: da un lato, l'irreale rappresentazione di ciò che costituisce il sottofondo stesso del­ l’azione, la seconda Guerra del Golfo, rappresentazione che sarebbe fortemente con­ dizionata dal desiderio di non urtare la sensibilità di un pubblico potenzialmente molto importante quale quello statunitense; dall’altro, l’eccessiva presenza del­ l’elemento ’letteratura’, che non risulterebbe sufficientemente amalgamato e inte­ grato nell’azione filmica. Inoltre, passò quasi inosservato l’elemento del ’simbolismo’, pur molto presente e importante. Il fatto è che il film introduceva delle novità nel modo di procedere di Benigni in quanto regista1. Nella parabola dell’attività dell’artista toscano, considerata nel

1 Per comodità, fornisco in nota i dati biografici essenziali di Roberto Benigni. Nato nel 1952 a Misericordia, in provincia di Arezzo, debutta in teatro nel 1970 nello spettacolo II re nudo di Schwarz; lavora a Roma nel teatro sperimentale con la compagnia Beat 72, in collaborazione con Lucia Poli; nel 1975 G. Bertolucci scrive per lui il monologo Ctoni Mario fu Gaspare di Giulia, un pezzo di grande suc­ cesso teatrale. Ancora per il teatro seguiranno numerose interpretazioni, per esempio varie ‘puntate’ di Tuttobenigni (1981, 1983, 1995-1996), varie letture dantesche (1990, 2007) e così via. Altrettanto numerose le sue interpretazioni come attore cinematografico: basterà ricordare qui il suo esordio in Berlinguer ti voglio bene, 1977, con la regia di G. Bertolucci (riprende il personaggio di ‘Ciotti Mario’); poi La luna, 1979. Tuttobenigni, 1986, entrambi con regia dello stesso Bertolucci; La voce della luna, 1989, con regia di Fellini; Il figlio della pantera rosa, 1993; Asterix e Obelix contro Ce­ sare, 2000; per non parlare delle interpretazioni fornite nelle pellicole da lui stesso dirette. Queste ultime possono essere così sintetizzate: esordio in regia nel 1983, con Tu mi turbe, poi, in collaborazione con M. Troisi, Non ci resta che piangere, 1984; ancora. Piccolo diavolo, 1988: Johnny Stecchino, 1991; // mostro, 1994; La vita è bella. 1997; Pinocchio, 2002 (dal 1988 in poi. Benigni collabora con V. Cerami nell’allestimento delle sceneggiature); infine, nel 2005, ancora in collaborazione

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Premessa

suo complesso, possiamo identificare un ‘prima’ e un ‘poi’. Nella prima fase Beni­ gni si basa essenzialmente su un’interpretazione fondata sulla gag, sulla mimica, sul­ l’atteggiamento del volto, sulla ‘corporeità’ e, contemporaneamente, fornisce le prime prove di regia, che si situano sulla stessa lunghezza d’onda2. La fase successiva si apre con La vita è bella, del 1997, e Pinocchio, del 2002. Nel primo di questi film. Beni­ gni decide di affrontare un tema di grande portata socio-politica e civile, la persecu­ zione degli ebrei da parte del nazismo. Qui gli aspetti oggettivamente drammatici dei fatti convivono con aspetti ironici che sono tipici dell’autore: non perché egli voglia sminuire la gravità delle cose, ma perché vuol rendere nella pellicola quella commi­ stione di toni che è quasi inevitabilmente sempre presente nel vissuto quotidiano del­ l’individuo. Comunque, per la prima volta Benigni si confronta con un tema di grande impegno e si stacca dai suoi ‘modi’ precedenti. Qualche anno dopo, nella pellicola dedicata a Pinocchio. Benigni cambia ulteriormente registro: questa volta manifesta la volontà di trasporre e adattare in film un testo letterario classico, in un momento storico-culturale in cui la tendenza alla trasposizione/adattamento di letteratura in pellicola si manifesta, in Italia, in non pochi autori3. Per la prima volta Benigni si è voluto misurare, sul set, con il fatto letterario. Con La tigre e la neve, del 2005, il regista ha tentato un’operazione ancora di­ versa e, forse, culturalmente più complessa: rifacendosi alle due esperienze prece­ denti, ha cercato di conciliare l’attenzione verso un tema di grande impatto (come in La vita è bella) - addirittura questa volta relativo a eventi contemporanei - con l’interesse per il fatto letterario (come in Pinocchio). Ma nel caso specifico l’istanza letteraria non si traduce nella classica trasposizione di un unico testo (di solito, ro­ manzo o dramma), concepito in origine come testo letterario, a film4, ma nella crea­ zione di un ‘centone’ di frammenti di opere letterarie organizzati in una nuova unità. Inoltre, in numerose circostanze gli spezzoni poetici e, in senso più lato, letterari sono inseriti in un contesto connotato in modo diverso rispetto a quello originario: per esempio, nel caso macroscopico della scena iniziale tutta una serie di citazioni poetiche d’amore sono inserite in un contesto ‘straniante’5 che ne attenua la forza ‘patetica’: ci troviamo dunque di fronte a una forma di ‘riduzione’/‘interpretazione’ più che di ‘adattamento’ di un testo letterario di partenza. In sostanza, l’aspetto ‘letterario’ della pellicola è costituito fondamentalmente da un gran numero di vere e proprie ‘citazioni’ d’autore; esso fu colto dai recensori, ma non adeguatamente indagato. Si può giungere ad affermare che la sceneggiatura.

con Cerami per quanto riguarda la sceneggiatura, La tigre e la neve, che costituisce l'oggetto preciso della mia ricerca. 2 Rinvio ai lavori di Celli (2001) e della Borsatti (2001), citati in bibliografia. Qui si troverà anche la ricostruzione dell’itinerario che ha portato Benigni dall’attività teatrale a quella filmica, dal pal­ coscenico (teatrale, fi bilico, televisivo) alla macchina da presa come regista. 3 Si veda il quadro d’assieme tracciato, in breve, da A. Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’a­ dattamento da letteratura a cinema, Milano, Il Castoro, 2004, p. 49. 4 Come invece si verifica in Pinocchio. Per i vari tipi di ‘adattamento’ classico - borrowing o 'presa a prestito’; intersection o ‘intersezione’ ; fidelity of transformation o ‘fedeltà della trasformazione’ rinvio alle osservazioni d’assieme di Fumagalli, op. cit., pp. 85 sgg. (con bibliografia). 5 Cfr. più avanti, pp. 24, 92, 102.

Premessa

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curata da R. Benigni e V. Cerami, in certe sezioni è addirittura intessuta di citazioni degli autori più disparati, fornendo un esempio inequivocabile di transcodifica del testo letterario in quello filmico. Lo stesso Benigni ndV Introduzione premessa alla Sceneggiatura sottolinea questo aspetto, sollecitando la curiosità intellettuale del lettore e dello spettatore, che è chiamato così (se vuole) al doppio impegno di seguire i fili della trama e. contemporaneamente, decodificare i modi letterari che sotto­ stanno a essa. E mio intendimento cercare di chiarire i meccanismi letterari cui hanno fatto ri­ corso gli estensori della Sceneggiatura nell’allestire il loro lavoro, fermo restando che, anche se mi sono soffermata essenzialmente sulla Sceneggiatura stessa, non ho trascurato, come è ovvio, l’aspetto filmico cui essa sottosta; tanto più non potevo trascurarlo, in quanto esiste qualche discrepanza tra la Sceneggiatura e il parlato del film. Per raggiungere il mio scopo, ho fornito prima una breve sinossi del film; poi ho raccolto ordinatamente gli originali cui hanno attinto gli sceneggiatori6, allo scopo di presentare in modo organico e con l’ampiezza necessaria i contesti letterari di partenza e di identificare nel contempo il tipo di transcodifica effettuato ai fini del­ l’impiego delle fonti letterarie nel nuovo contesto fìlmico. Successivamente, ho cer­ cato di capire quali scelte letterarie abbiano operato i due coautori e quale tipo di impostazione abbiano adottato per finalizzare tali scelte, sia in funzione dell’even­ tuale caratterizzazione dei personaggi, cui volta per volta le ‘citazioni’ vengono at­ tribuite, sia in relazione al contesto delle azioni filmiche. Nell'Appendice ho raccolto, per comodità del lettore, una serie di recensioni, susseguitesi nel corso del tempo. Spero che il risultato cui approda la mia ricerca possa portare a una valutazione più equilibrata della ‘letterarietà’ del lavoro di Benigni e Cerami e, con ciò stesso, alla formulazione di un più equo giudizio su esso. Non posso chiudere queste pagine introduttive senza un sentito ringraziamento alla Prof.ssa Lia Fava Guzzetta; a Lei devo sia il suggerimento del tema stesso sia una serie di consigli, che hanno contribuito a rendere meno imperfetto il mio la­ voro, fermo restando che soltanto a me va imputata qualunque pecca.

Cagliari, dicembre 2010

6 Basandomi naturalmente in primo luogo sul materiale che essi stessi hanno fornito in Sceneg­ giatura. pp. 163 sgg., che peraltro è possibile integrare o rettificare su alcuni punti, come dirò più avanti, al momento opportuno.

BREVE NOTA BIBLIOGRAFICA

Preliminamente, avverto che nel corso del lavoro convenzionalmente, per brevità, indico con Sceneggiatura il volumetto di R. Benigni - V. Cerami, La tigre e la neve, Torino, Einaudi, 2006; a integrazione, ho utilizzato le interviste rilasciate dai pro­ tagonisti del film, inserite nel DVD prodotto da Melampo Cinematografica 2005.

Per il resto, mi limito qui a ricordare (a) qualche saggio relativo alla figura di Be­ nigni e (b) alcuni testi relativi alla ‘teoria e tecnica’ della sceneggiatura, utili ai fini della ‘dissezione’ e all’interpretazione ‘fìlmica’ della pellicola da me presa in esame.

a) Benigni Cristina Borsatti, Roberto Benigni, Milano. II Castoro cinema, 2001.

C. Celli, The Divine Comic. The Cinema of Roberto Benigni, Lanham, Mary­ land, and London, The Scarecrow Press, 2001. S. Masi, Roberto Benigni, Roma, Gremese, 1999. Stefania Parigi. Benigni, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1988.

G. Simonelli - G. Tramontana. Datemi un Nobel! L’opera comica di R. Benigni, Alessandria, Falsopiano, 1998. b) Saggi sulla sceneggiatura

J. Campbell, L’eroe dai mille volti, trad, ital., Milano, Feltrinelli, 1984 (ed. ori­ ginale New York. Pantheon Books, 1949).

A. Fumagalli, I vestiti nuovi del narratore. L’adattamento da letteratura a ci­ nema. Milano, Il Castoro, 2004.

R. McKee, Story - Contenuti, struttura, stile, principi della Sceneggiatura, trad, ital., Roma, International Forum Edizioni, 2000. G. Pescatore, L’ombra dell’autore. Teoria e storia dell’autore cinematografico, Roma, Carocci, 2006. Linda Seger. Come scrivere una grande Sceneggiatura, trad, ital., Roma, D. An­ dino ed.. 2004 (ed. originale Hollywood. Samuel French Trade, 199411).

I.

ANALISI DEL FILM LA TIGRE E LA NEVE

Il protagonista del film La tigre e la neve, Attilio de Giovanni, è un professorepoeta maniaco di letteratura e. in particolare, di poesia, invischiato suo malgrado in una guerra che lo trascende, di fronte al cui dramma le sue reazioni rasenterebbero il ridicolo se a un certo punto egli non mostrasse, inaspettatamente, capacità di adat­ tamento e risorse di spirito tali da assurgere a dimensioni ‘eroiche’. Per usare una distinzione che si è ormai imposta nei lavori relativi alla sceneggiatura1, potremmo dire che in Attilio si realizzano sia il ‘desire’ che il ‘need’: egli mira nel concreto a salvare la moglie che versa in gravi condizioni di salute (è questo il ‘desire’) e rie­ sce a farlo grazie alla profonda convinzione che la poesia è la chiave per dominare la realtà (questo è il ‘need’).

Sinossi del film2: La vicenda si svolge a Roma. Attilio De Giovanni è un poeta e insegna all’Uni­ versità (scena 7 A). Separato dalla moglie, ha due figlie, cui è legato da un ottimo rapporto ed è innamorato di una donna che ogni notte sogna di sposare (scene 1, 7, 19); la donna sognata. Vittoria, nella realtà è la sua stessa moglie che, profonda­ mente delusa e ferita a causa di una relazione extra-coniugale del marito (come ap­ prenderemo nel corso del film, scena 77), ha interrotto il rapporto matrimoniale. Attilio è poeta e inguaribile sognatore: nella scena 6 rievoca, con le figlie, il mo­ mento in cui. tredicenne, ebbe coscienza della sua vocazione poetica, grazie ai sen­ timenti nati in lui quando un uccellino gli si posò su una spalla; nella scena 7 A sostiene entusiasticamente che fonte della poesia è il sentimento d’amore, che tra­ smette felicità in ogni circostanza della vita. Anche Vittoria si occupa di letteratura ed è impegnata nella stesura della bio­ grafìa del più grande poeta iracheno contemporaneo. Fuad, a sua volta amico di At­ tilio (scena 9). Attilio e Vittoria si incontrano per caso in occasione di un recital di Fuad (scena

1 Per opera di John Truby, cfr. Fumagalli, op. cit., pp. 18-19: ‘desire’ è l’obiettivo esterno, cosciente, dichiarato, esplicito; ‘need’ è invece il bisogno profondo, che sta alla base dell’azione. 2 Per le pagine che seguono mi baso fondamentalmente sui lavori di Campbell, della Seger, di McKee e di Fumagalli citati in bibliografia. Il ragionamento e la terminologia si basano sulla traspo­ sizione del mito del ‘viaggio dell’eroe’ dalla letteratura al cinema.

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Capitolo primo

9); in questa circostanza la donna sembra cedere al corteggiamento dell’ex-marito (scene 10. 10 A-D. 11-14, 14 A-L, 15, 15 A)3, ma poi sul più bello decide di allon­ tanarsi da lui e pronuncia una frase che si rivelerà ricca di sottintesi nel seguito della trama filmica: infatti, con riferimento a La tigre e la neve (titolo della raccolta delle poesie di Attilio), dice: "quando la [cioè: una tigre sotto la neve] vedrò, staremo in­ sieme tutta la vita!” (scena 14 K). Siamo nel 2003, alla vigilia dello scoppio del secondo conflitto iracheno. Fuad, da molti anni residente a Parigi, decide di tornare a Baghdàd, per stare vicino al suo popolo in un momento così difficile; Vittoria lo segue per poter continuare il proprio lavoro di biografa. Colpita alla testa nel corso di un bombardamento, ricoverata in ospedale, entra in un coma apparentemente irreversibile (scene 23-25).

Finisce qui il primo ‘atto’ del film. In esso l’eroe ha avuto come antagonista, pa­ radossalmente, proprio la donna che egli ama. Nel secondo atto si alza la posta in gioco con il coma di Vittoria, che segna il primo punto di svolta: da questo momento Attilio, grazie alla ‘chiamata’ (nel nostro caso, in senso stretto la chiamata telefonica di Fuad!), si batterà non solo per l’amore di Vittoria, ma per salvare la vita alla donna amata. Contemporaneamente cambia lo scenario: non più Roma, ma Baghdàd in­ vestita dalla guerra. Attilio non sarà più lo ‘sbadato’ di prima, o meglio, continuerà a esserlo, ma riscatterà continuamente questo suo difetto con una insospettata ca­ pacità d'azione che lo porterà a superare le difficoltà. Assisteremo dunque all’ini­ zio della ‘maturazione dell’eroe’, propiziata anche da Fuad in veste di ‘mentore’4. Informato dall’amico Fuad della sciagura capitata a Vittoria, Attilio fa l’impos­ sibile per raggiungere la città in guerra. Si finge chirurgo per partire con la Croce Rossa, dato che i voli per Baghdàd sono tutti cancellati, e giunge effettivamente in Irak (scene 26-27-28, 28 A-C, 29); ma a un centinaio di chilometri dalla capitale il suo convoglio sanitario viene bloccato fino a nuovo ordine. Attilio non si perde d’animo, si fa lasciare in mezzo al deserto, rimette in funzione un autobus in panne e infine, esaurita la benzina, alle porte di Baghdàd riesce a raggiungere comunque l’ospedale grazie all’amico Fuad (scene 30, 30 A-C, 31, 31 A, 32, 33, 33 A-G). Vittoria è in fin di vita, non è più cosciente, benché Attilio, in modo surreale, si comporti come se la donna fosse in sé e lo sentisse e capisse (scene 33bis-34); la me­ dicina che potrebbe salvarla non è disponibile. Senza lasciarsi scoraggiare dalla pro­ gnosi infausta dei sanitari locali, Attilio si prodiga in ogni modo per sottrarre alla morte la donna amata: dopo aver constatato che tutte le farmacie sono vuote e sbar­ rate (scene 35 A-36), si fa condurre da Fuad a casa di un vecchio farmacista, Al-Giumeili, nella speranza di ottenere i suggerimenti del caso (scene 37, 37 A, 38, 39). La speranza si avvera, Attilio ottiene la ricetta per un preparato artigianale, che costi­ tuisce il pendant dello ‘strumento magico’ di proppiana memoria. Per preparare il

3 Queste scene nel loro complesso costituiscono una scena-sequenza. Per la definizione e l’esem­ plificazione in merito si può rinviare a Linda Seger, Come scrivere una grande Sceneggiatura, trad, ital., Roma, D. Audino ed., 2004 (ed. originale Hollywood, Samuel French Trade, 199411), pp. 64-66 4 II termine e il concetto correlato risalgono a Campbell.

Breve analisi del film “La tigre e la neve”

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farmaco sono necessari ingredienti di difficile reperimento, ma, muovendosi tra campi minati e posti di blocco, alla fine, dopo mille peripezie, Attilio riesce a met­ tere a punto, con metodi e prodotti di fortuna (una glicerina fatta in casa da lui stesso e da Fuad), il medicinale necessario, corroborato dall'impiego di bombole d’ossi­ geno fortunosamente trovate; soprattutto, sta costantemente vicino all’inferma in modo da farle sentire la propria presenza affettuosa (scene 40, 41, 42, 43). Vedendo che la salute di Vittoria non fa progressi (scene 45, 47, 49, 50), Attilio confessa la sua impressione che Vittoria sia morta: registriamo dunque il meat point (‘evento drammatico centrale’)5 con f incontro simbolico con la morte, che pare se­ gnare la sconfitta dell’eroe. Tuttavia Attilio reagisce alla malasorte, prende in prestito la motocicletta del me­ dico curante e decide di raggiungere, fuori da Baghdàd, il campo della spedizione umanitaria italiana per procurarsi altri e più adeguati medicinali per Vittoria e per l’ospedale (scene 51, 52, 52 A-E, 53, 54, 55). Affrontate varie tragicomiche peripe­ zie (al posto di blocco americano viene scambiato per un terrorista suicida imbot­ tito di esplosivo anziché di medicine, scena 56), porta a termine l’impresa e procura quanto è necessario per salvare Vittoria, ma non è presente al risveglio dal coma della donna (scena 59). Avvertito del ‘miracolo’ della guarigione da parte del medico (scene 62, 63, 64, 65), corre da Fuad, che però nel frattempo si è impiccato nel suo stesso giardino, per il dolore della situazione in cui versa la patria (scene 60-61,67). Simbolicamente, At­ tilio ha vinto le avversità, mentre le avversità (concretizzatesi nella triste situazione dell’Irak) hanno ucciso Fuad. La breve scena 67 si svolge in un ambiente violente­ mente battuto dal vento - anche questo, un simbolo: l’eterno fluire delle cose -, con porte e finestre che da un colpo di vento, appunto, vengono chiuse bruscamente, con il buio che di conseguenza piomba sulla scena - ancora un simbolo, per cui tramite il ‘rito’ della porta che si chiude viene raffigurata una scelta irreversibile (nel nostro caso, l’abbandono della vita terrena). Catturato e imprigionato per un equivoco dai soldati americani (scene 68, 69, 70, 71)6, Attilio dovrà aspettare ancora qualche tempo prima di poter rientrare in Italia e viene fatto prigioniero proprio quando Vittoria, ormai fuori pericolo, torna a Roma, senza sapere chi sia stato il suo salvatore. La guarigione di Vittoria segna il secondo e definitivo punto di svolta e. unita­ mente alla morte di Fuad (= sparizione del ‘mentore’, che ha portato a termine il compito di aiutare il protagonista) e al rilascio di Attilio, che superando le difficoltà ha compiuto la missione che si era prefisso, chiude il secondo ‘atto’ del film, la parte ‘bellica’, che ha favorito la ‘maturazione’ di Attilio-eroe. In esso il protagonista ha avuto come antagonista non un individuo, ma ‘la guerra’ in quanto situazione di crisi; e a tale situazione è riuscito a sottrarsi, salvando la donna del cuore. L’azione si sposta nuovamente a Roma, donde era partita, e si apre il terzo e ultimo ‘atto’, in

5 Definizione di Campbell. 6 Non escluderei che si possa cogliere nella prigionia del poeta Attilio un’allusione a quella del poeta americano Pound, sospettato dai suoi connazionali di essere antiamericano e perciò internato.

Capitolo primo

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cui il protagonista completa la sua maturazione grazie anche all’attuazione dell’arco di trasformazione della co-protagonista: ci troviamo dunque di fronte a un finale chiuso7, che prevede il ritorno dell’eroe al mondo ordinario con il possesso di una nuova auto-consapevolezza.

Una volta tornato a Roma, Attilio viene posto in carcere per insolvenza (scene 72, 73), il giorno dopo viene rimesso in libertà. Vittoria, in via di guarigione, rien­ tra a sua volta in Italia in momento imprecisabile; mentre è al volante della sua auto, vede in un pulviscolo biancheggiante di pollini, simile a neve, una tigre fuggita dal vicino zoo (scena 76) e ritorna con la memoria alla condizione posta in precedenza al marito per un’eventuale riappacificazione. Attilio fa visita alle figlie e alla loro madre, nella scena 77 che segna lo scioglimento dell’azione: Vittoria, convalescente, non sa che a salvarla è stato Attilio, e lui, rivedendola, non glielo dice; come lei non dice a lui di aver appena avuto la strana e impensabile visione di una tigre sotto la neve. Due fatti del tutto imprevisti si verificano durante la visita di Attilio: un uc­ cellino si posa sulla spalla di Vittoria, come tanti anni prima uno se ne era posato sulla spalla di Attilio bambino, accendendo l’istinto poetico del piccolo; inoltre, la catenella recata al collo da Attilio sfiora il volto di Vittoria e riporta alla memoria della donna l’identica circostanza verificatasi nell’ospedale di Baghdàd. Il primo dei due fatti accende la fantasia poetica della donna, il secondo svela a Vittoria l’identità del suo salvatore. Questi fatti hanno una precisa conseguenza, non aper­ tamente ‘dichiarata’ ma adombrata in modo non equivoco: Vittoria recupererà il sen­ timento d’amore nei confronti di Attilio e riprenderà la vita in comune con lui. La scena finale si configura come un concentrato di temi precedenti, organiz­ zato in modo da convogliare azioni e sentimenti verso un’unica direzione, il ripri­ stino del rapporto tra Vittoria e Attilio: confessione, reale questa volta (non ‘sognata’, come nelle scene 1/7/19), d’amore di Vittoria per Attilio; rinuncia, da parte di At­ tilio, a quella relazione extra-matrimoniale che aveva minato i rapporti con la mo­ glie; assunzione di Vittoria nel mondo poetico ideale di Attilio (simboleggiato dall’uccellino, segno appunto di mondo poetico); identificazione, da parte di Vitto­ ria, di Attilio come suo salvatore. Nel complesso la scena, a lieto fine, segna il trionfo dell’eroe e lo scioglimento dell’azione, cioè ‘il gran finale’ del linguaggio tecnico. Quello che ho indicato sopra è il plot fondamentale; parallelamente a esso si svi­ luppano due sub-plot8. Il primo sub-plot riguarda la relazione extra-coniugale tra Attilio e Nancy Brow­ ning, giovane docente sua collega. Tale relazione viene presentata (nella scena 7 A) come qualcosa che non può più continuare, perché interferisce con il mai sopito amore di Attilio per Vittoria (scena 14); Nancy lo capisce, e discretamente sparisce dalla vita di Attilio, nella scena 18. Dobbiamo considerare che in un momento pre­ cedente, non raffigurato espressamente ma dato implicitamente per noto, la rela-

7 Terminologia di McKee. 8 Terminologia della Seger.

Breve analisi del film “La tigre e la neve”

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zione, fortemente osteggiata da Vittoria, aveva determinato la rottura tra moglie e marito (scena 77, Sceneggiatura, pp. 158-159), dunque aveva raggiunto il momento culminante. Tenendo conto di ciò, emerge che il sub-plot costituito dal rapporto Attilio-Nancy segna nell’azione filmica una parabola discendente, in opposizione alla parabola ascendente del plot principale, rapporto Attilio-Vittoria (una parabola che prevede l’evoluzione dalla freddezza della donna al ricongiungimento dei due sposi). Il secondo sub-plot riguarda la lunga sequenza di telefonate, effettuate nei mo­ menti meno opportuni, dell’avvocato ad Attilio (scene 4, 16, 22, 46,48, 69): in esso è contemplato un finale ben preciso, negativo per Attilio (a causa delle sue inadem­ pienze, sottolineate dall’avvocato, Attilio appena rientrato dall’Irak viene arrestato, scena 72); questo finale negativo ha lo scopo di sottolineare che di fronte alla salute di Vittoria tutto per Attilio è secondario. Le telefonate cadono in momenti in cui At­ tilio è ‘distratto’ da circostanze più urgenti (e drammatiche): hanno dunque funzione ‘straniante’, ‘ironica’ in senso aristotelico, per suscitare la temporanea ilarità dello spettatore e distoglierlo dalla gravità della situazione. Attraverso la sequenza delle telefonate, si è portati a porre in rapporto due realtà parallele eppur reciprocamente lontanissime e inconciliabili, una quotidiana e ‘normale’ (una causa giudiziaria pen­ dente sul capo di Attilio), l’altra eroica (l’azione di Attilio volta a salvare Vittoria).

La vicenda dell’amore di Attilio per Vittoria è una storia ‘romantica’, anzi addi­ rittura una specie di storia ‘stilnovistica’; e Attilio è una specie di inguaribile so­ gnatore, calato in una realtà che lo trascende e lo schiaccia, ma di cui egli riesce a avere ragione grazie alla convinzione profonda che ‘la vita è, comunque, bella e degna di essere vissuta’. Ma l’ambiente, a differenza dell’indole di Attilio, è tutt’altro che romantico. Le contraddizioni che si verificano talvolta nei comporta­ menti di Attilio sono determinate proprio dalla profonda differenza di condizione del protagonista e dell’ambiente: in questo senso possiamo parlare di aspetti ‘tragico­ mici’ del personaggio e della vicenda. Basteranno pochi esempi: Vittoria è ricove­ rata in ospedale in corna, ma Attilio le si rivolge come se ella fosse in condizioni di assoluta normalità; Attilio con grande concentrazione recita la preghiera del Padre Nostro, ma durante la recita si dimena per uccidere una mosca fastidiosa nel ma­ landato ospedale di Baghdàd; Attilio è carico di innocui medicinali, ma la situa­ zione in cui versa fa sospettare che egli sia imbottito di micidiali esplosivi, e così via.

IL LE CITAZIONI LETTERARIE PRESENTI NEL FILM LA TIGRE E LA NEVE. FONTI E CONTESTI

NelV Introduzione alla sceneggiatura del film La tigre e la neve Benigni in modo brillante anticipa su un piano ‘teorico’ la prassi che applica nella sceneggiatura stessa (e dunque nel film). Per ‘giustificare’ il fatto che nel film siano sparse a piene mani citazioni più o meno ‘coperte’ di tanti autori, moderni e meno moderni, l’autore formula il con­ cetto paradossale, ma del resto riconducibile al pensiero post-moderno, che l’origi­ nalità è impossibile (tutto è stato già detto) e che pertanto è meglio saccheggiare le opere altrui; anche perché comunque - e ciò è un po’ meno paradossale - citare un passo vuol dire appropriarsene anche mentalmente, implicitamente adattandolo a se stessi e quindi modificandolo, creando così qualcosa di nuovo. Ma ciò che preme qui sottolineare, è che per esprimere questi concetti Benigni fa ricorso proprio a una serie di citazioni a cascata, ciascuna delle quali ne attira altre, anticipando in tal modo le procedure applicate concretamente nel testo della sceneggiatura e fornendo una specie di ‘lezione per mezzo dell’esempio concreto’. Un segno di questo filo anticipatore può essere identificato nel fatto che alcuni degli autori ‘saccheggiati’ nell’introduzione sono gli stessi che vengono ripresi anche nella sceneggiatura: Qoélet, Cervantes, Valéry, Prévert. Tutto ciò giustifica pienamente la ricerca delle fonti letterarie, da cui le citazioni sono tratte. Io qui indicherò1, autore per autore, le citazioni inserite nella Sceneggiatura, avendo di mira due scopi: da un lato, identificare la funzione originaria del testo di partenza, attraverso un inquadramento di esso nell’opera da cui è stato estrapolato per essere sfruttato nella Sceneggiatura; dall’altro, verificare con quali modalità e intenti il testo così estrapolato sia stato successivamente inserito nel contesto di ar­ rivo, evidenziando se nell’azione filmica ci sia o no una modificazione dell’origi­ naria contestualizzazione, e per quale motivo.

1 In ordine alfabetico, per mera comodità di ricerca.

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Capitolo secondo

1. Le citazioni letterarie vere e proprie

La quantità più cospicua delle citazioni è attinta alla tradizione letteraria in senso stretto. Adonis (Ali Ahmad Sa‘id Esber)2 Damasco, in Un riparo nel fulmine in Me­ mo ria del vento, pref. di G. Conte, trad, di Valentina Colombo, Parma, Guanda 20052, p. 64

Sceneggiatura, p. 134, battuta di Fuad

Damasco carovana di stelle su una stuoia verde due mammelle di braci e arance. Damasco il corpo appassionato sul suo giaciglio come l’arco e la mezzaluna apre in nome dell’acqua la bottiglia dei giorni, ogni giorno volteggia nella tua orbita notturna cade nel tuo vulcano affamato vittima sacrificale. E gli alberi dormono intorno alla mia stanza il mio viso è una mela il mio amore un cuscino, un’isola...

Se solo tu arrivassi. Se solo tu arrivassi. Damasco frutto e guanciale della notte.

il cielo di Baghdad è il guanciale della notte.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 183.

In Sceneggiatura, p. 134, all’ammirata contemplazione del cielo notturno di Baghdàd da parte di Attilio, Fuad definisce quel cielo come il “guanciale della notte”, facendo ricorso a un passo di una lirica del poeta siriano Adonis. La lirica è Damasco, lirica tipica del modo di poetare di Adonis: pubblicata nel 1968, nella raccolta Un riparo nel fulmine (sezione di II teatro e gli specchi), costi2 Nato in Siria, presso Latakia, nel 1930; considerato uno dei maggiori poeti arabi contemporanei. Opere più importanti: / canti di Mihyàr il damasceno (1961), // teatro e gli specchi (1968), Tomba per New York (1971), Le analogie e le origini (1980), Prologo alla storia dei Re di Taifa, Questo è il mio nome, Siggil.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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lui see un esempio di quei componimenti in cui il poeta identifica un determinato luogo con il proprio stato d’animo/sentimento. Se Beirut è la città in cima ai pensieri di Adonis, come massimo esempio del luogo di difficilissima pluralistica convivenza di civiltà e culture diverse. Damasco, luogo degli studi del poeta in gioventù, pre­ sente nel titolo stesso della raccolta di liriche del 1961 I canti di Mihyàr il dama­ sceno, è città a sua volta vagheggiata dal poeta, ricordata poeticamente, oltre che nella nostra lirica, anche in altra poesia dallo stesso titolo (Damasco, appunto) e ap­ partenente alla medesima raccolta Un riparo nel fulmine, inserita a p. 89 dell’edi­ zione da me utilizzata3. In entrambe le liriche la città di Damasco è poeticamente definita per via di ardite metafore (come è proprio dei modi poetici di Adonis): “Da­ masco / frutto e guanciale della notte” nel testo che qui interessa, "Damasco è l’om­ belico di un gelsomino / gravido / che diffonde la sua fragranza” nel testo omonimo Damasco. Ma v’è di più: nel testo utilizzato da Benigni la città di Damasco è legata al sentimento d’amore: “due mammelle di braci e d’aranci”, “il corpo appassionato sul suo giaciglio”, “il mio amore [sottinteso è] un cuscino..“se solo tu arrivassi, / se solo tu arrivassi”: dunque Adonis identifica Damasco con l’amore e pertanto in­ direttamente manifesta il suo affetto per la città. Nella Sceneggiatura non si parla di Damasco, bensì di Baghdàd; ma facendo ri­ corso a un ipotesto in cui si esprime il sentimento d'amore per la città di Damasco, Fuad allusivamente manifesta per la propria città, Baghdàd, il medesimo sentimento d’amore (non si dimentichi che, in seguito, egli si uccide per la disperazione, quando vede la sua città distrutta!): dunque coerentemente la definizione di “guanciale della notte” può essere trasposta dalla Damasco di Adonis alla Baghdàd di Fuad. Naturalmente non sfugge la poeticità della definizione, del resto anticipata dal poetico e ‘montaliano’ “baluginare” usato, fuori battuta, allap. 133 della Sceneggia­ tura per descrivere proprio il cielo di Baghdàd, e confermata poco dopo, ancora in bocca a Fuad, dalla citazione di un passo metaforico di Azzàwi. Un ulteriore motivo di interesse è costituito dal fatto che Adonis è poeta che cerca di costruire un ‘ponte’ di comprensione tra Occidente e Oriente, per superare la dif­ fidenza degli integralismi: orbene, non è sicuramente casuale che una sua lirica sia riecheggiata in un momento in cui il cielo di Baghdàd è percorso dalla sinistra tra­ iettoria di missili e bombe e in un contesto in cui, subito dopo, si fa riferimento alla confusione delle lingue e delle civiltà nel simbolo della Torre di Babele: quasi che la realtà voglia smentire la speranza (che può venire anche dalla poesia).

Dante Alighieri4 Convivio in Opere minori di Dante Ali­ Sceneggiatura, p. 25, battuta di Attilio ghieri. IL Convivio a cura di F. Chiappelli e E. Fenzi, Torino, UTET. 1986; il passo che interessa, IL cap. I. 3, è a p. 104

3 Memoria del vento, pref. di G. Conte, trad, di Valentina Colombo, Parma, Guanda 20052. 4 È superfluo soffermarsi su Dante, il massimo poeta, in assoluto, della letteratura italiana. Basterà accennare, in funzione di quanto è detto poco sotto, nel testo, che II Convivio è opera dottrinale in 4 trat­ tati, compostane! periodo 1304-1307.

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Capitolo secondo

... dico che, sì come nel primo capitolo è narrato, questa sposizione conviene essere litterale e alle­ gorica. E a ciò dare a intendere, si vuol sapere che le scritture si possono intendere e deonsi esponete massimamente per quattro sensi. L’uno si chiama letterale [e questo è quello che non va a ciò che suona la parola fittizia, sì come ne’ le favole dei poeti. L'altro si chiama allegorico] e questo è quello che si nasconde sotto ’1 manto di queste favole, ed e poi dite la verità con delle belle è una veritade ascosa sotto bella menzogna; sì menzogne, falsi! come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire c[om]e lo savio uomo con lo strumento de la sua voce faccia mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faccia muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte: e coloro che non hanno vita ragionevole al­ cuna sono quasi come pietre.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 174.

Di Dante è ripresa nella Sceneggiatura, p. 25 la celebre e importante trattazione relativa ai livelli dell’interpretazione dei testi. Si sa che Dante nel secondo trattato del Convivio, prima di proporre l’interpre­ tazione della sua canzone Voi che ’ntendendo il terzo del movete, affronta una di­ scussione teorica sui quattro sensi delle scritture, cioè sui quattro livelli esegetici delle scritture stesse: ‘senso letterale’, ‘senso allegorico’, ‘senso morale’ e ‘senso anagogico’. Questa quadripartizione è onnipresente negli autori medievali, con una funzione ben precisa: spiegare i testi sacri. Ciò che più preme a Dante è la distinzione tra senso ‘letterale’ e senso ‘allego­ rico’. Senso letterale è quello che non supera il valore del testo ‘inventato’ in sé; senso allegorico è il senso dottrinale che si nasconde sotto il senso letterale. Tutta­ via, a sua volta l’interpretazione allegorica nella visione di Dante poteva essere di due tipi, a seconda che fosse la ‘allegoria dei teologi’ o la ‘allegoria dei poeti’5: l’al­ legoria dei teologi presuppone la realtà storica dei fatti testamentari e coglie in essi l’anticipazione figurale di quanto si verificherà in seguito; invece la ‘allegoria dei poeti’ non presuppone la verità storica dei fatti narrati - infatti ai poeti è concessa la libertà di inventare - , ma consiste nel cogliere la verità nascosta sotto le favole poetiche (“una veritade ascosa sotto bella menzogna” dice testualmente Dante).

5 Sulla distinzione cfr. A. D’Andrea, L' ‘allegoria dei poeti’. Nota a Convivio II. 1, in Dante e le forme dell’allegoresi a cura di M. Picone, Ravenna. Longo Editore. 1987. pp. 71-78. Ma sui vari livelli esegetici esiste ricca bibliografia: basterà citare B. Nardi, Nel mondo di Dante, Roma 1944. pp. 55-61; F. Tateo, Questioni di poetica dantesca, Roma 1972, pp. 107-113, etc.

Le citazioni letterarie nelfilm ‘‘La tigre e la neve ”

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Dante sostiene apertamente, nel passo che ho citato per esteso, di essere inte­ ressato ad applicare proprio l’allegoria dei poeti: non per mero caso adduce, come esempio di verità nascosta, quella che si cela sotto la celeberrima favola mitologica di Orfeo che con il suo canto ammalia e trascina il creato. Ora, nella Sceneggiatura è proprio a questo secondo tipo di allegoria che fa ri­ ferimento Attilio nella sua lezione di poesia agli studenti: “dite la verità con delle belle menzogne, falsi!”: solo che, scherzosamente, Attilio invita gli studenti a men­ tire, a essere falsi, purché sotto queste menzogne si celi una verità nascosta, come è caratteristico della poesia: in altre parole, ironicamente Attilio rovescia l’angolo visuale: anziché dire che i poeti raccontano cose non vere, alla cui base tuttavia sta la verità nascosta, egli paradossalmente invita i suoi uditori a dire la verità men­ tendo, perché così facendo diventeranno poeti, dato che è caratteristica dei poeti raccontare cose non vere da interpretare in modo da ricavarne il vero. Wystan Hugh Auden6 Funeral Blues, in Collected Poems, ed. ital. Blues in Sceneggiatura, p. 96, battuta di At­ memoria, in La verità, vi prego, sull ’amore [titolo ori­ tilio ginale Tell Me the Truth About Love], con introduz. di I. Brodskij. Milano, Adelphi, 1994 (15aed. 2004). pp. 62-64 Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono, fate tacere il cane con un osso succulento, chiudete i pianoforti, e tra un rullio smorzato portate fuori il feretro, si accostino i dolenti.

(E se muore lei, per me tutta que­ sta messa in scena del mondo che gira....) possono pure smontare e portare via... Possono schiodare tutto, arrotolare tutto il cielo, cari­ Incrocino aeroplani lamentosi lassù carlo su un camion con rimorchio, E scrivano sul cielo il messaggio “Lui è Morto”, possono spengere questa luce bel­ allacciate nastri di crespo al collo bianco dei piccioni, lissima del sole che mi piace tanto i vigili si mettano guanti di tela nera. tanto... E lo sai perché mi piace tanto? Perché mi piace lei illumi­ Lui era il mio Nord, il mio Sud, il mio Est ed Ovest, nata dalla luce del sole... tanto. Si la mia settimana di lavoro e il mio riposo la dome­ possono portar via tutto: questi nica, tappeti, queste colonne, questi pa­ il mio mezzodì, la mezzanotte, la mia lingua, il mio lazzi, la sabbia, il vento, le rane, i cocomeri maturi, la grandine, 7 canto; del pomeriggio, maggio giugno pensavo che l’amore fosse eterno: e avevo torto. luglio, il basilico, le aquile, il Non servon più le stelle: spegnetele anche tutte; mare, le zucchine... Le zuc­ imballate la luna, smontate pure il sole; chine...

6 Nato a York nel 1907, morto a Vienna nel 1973. Opere significative sono Poems (1930). The Ora­ tors (1931). Another Time (1940). The Age ofAnxiety’ (1948), The Shield ofAchilles (1955); inoltre una serie di saggi, soprattutto negli anni ’60 e ’70. Esponente di spicco del movimento letterario dei ‘Trentisti’, ideologicamente impegnato sul versante di sinistra in politica, sul versante anti-repressivo in ri­ ferimento a fatti di costume e sociali (Auden fu omosessuale in un periodo in cui tale condizione era passibile di condanna da tutti i punti di vista).

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Capitolo secondo

svuotatemi l’oceano e sradicate il bosco; perché ormai più nulla può giovare.7

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 180.

Il testo di Auden ripreso non in citazione diretta, ma in parafrasi da Attilio nella battuta a p. 96 della Sceneggiatura risale agli anni ’30 (tra 1932 e 1939), dunque alla prima fase della produzione del poeta, allora aderente al movimento dei ‘Trentisti’, e fa parte di una serie di testi poetici che in qualche modo pre-sentono il disastro della guerra8. I blues sono testi poetici tristi per natura; Funeral blues non fa eccezione, è in­ fatti testo che lamenta una morte, la morte di una persona amata; e presenta ritmi di ‘ballata popolare' tipicamente americana (Auden visse per lunghissimo tempo negli USA. prendendone anche la cittadinanza), quasi che fosse stata scritta per essere musicata, ma insieme presenta anche un tono incisivo e tagliente, il tono drastico di quella tragica conclusione che è la morte. Nella lirica il poeta invita tutti a sospen­ dere qualunque attività per rendere omaggio alla persona defunta, la cui morte com­ porta l’annullamento del mondo circostante per coloro che l’hanno amata; l’annullamento del singolo comporta l’annullamento dell’essere. Il tutto espresso da un lato con linguaggio dimesso (“isolate il telefono, / fate tacere il cane con un osso succulento ...”), dall’altro con ardite metafore (“spegnete le stelle, / imballate la luna, smontate pure il sole”), due elementi il cui accostamento stridente rende l’incertezza della condizione umana. La contestualizzazione di Sceneggiatura, p. 96 presenta qualche modifica ri­ spetto all’originale: oltre all’ovvio mutamento di referente (Attilio parla della fi­ gura della moglie, e dunque di un rapporto d’amore eterosessuale, mentre Funeral Blues è canto di amore omosessuale), è diversa la situazione: infatti Funeral Blues è lirica d’amore in morte di qualcuno, lirica che si ripiega sul passato partendo dalla registrazione di un fatto appena accaduto; invece le parole di Attilio sono in forma di deprecazione (“se muore lei...”), nella speranza che un certo fatto luttuoso non si verifichi, perché il suo verificarsi porterebbe Attilio alla totale indifferenza nei confronti del mondo intero; proprio in ossequio a tale intento deprecatorio la Sce­ neggiatura inclina verso un tono prosaico, non esente da spunti comico-paradossali (“si possono portar via ... 7 del pomeriggio, maggio ..., il basilico.... il mare, le zuc­ chine...”), che abbassa volutamente il livello del pathos.

7 Stop all the clocks, cut off the telephone, /Prevent the dog from barking with a juicy bone, /Si­ lence the pianos and with muffled drum / Bring out the coffin, let the mourners come. // Let aeroplanes circle moaning overhead/Scribbling on the sky the message “He Is Dead",/Put crèpe bows round the white necks of the public doves, / Let the traffic policemen wear black cotton gloves. //He was my North, my South, my East and West, / My working week and my Sunday rest, /My noon, my midnight, my talk, my song; /1 thought that love would last for ever: I was wrong. // The stars are not wanted now: put out every one; / Pack up the moon and dismantle the sun; / Pour away the ocean and sweep up the wood; /For nothing now can ever come to any good. 8 L’osservazione è di I. Brodskij in W.H. Auden, Collected Poems, nell’ed. ital. La verità, vi prego, sull’amore, con introduzione di I. Brodskij, Milano, Adelphi, 1994. pp. 12 sgg.

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Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

Va comunque rilevato un particolare ‘strutturale’ non secondario: la parafrasi di Auden nella Sceneggiatura è inquadrata, prima dell'inizio e dopo la fine, dalla du­ plice menzione della “glicerina” come rimedio per la malattia di Vittoria: il testo di ispirazione audeniana acquista dunque nella Sceneggiatura la funzione di inter­ mezzo, che ‘sospende’ temporaneamente l’azione, per cui viene totalmente recupe­ rata strutturalmente la funzione (già presente in Auden) di canto-preghiera funebre anche nella battuta di Attilio. Ma vi è un secondo elemento di interesse. Funeral Blues fu inserito da Mike Newell in una scena del suo film Quattro matrimoni e un funerale (1994): durante il rito funebre per la morte di un personaggio maschile, omosessuale, uno dei suoi amici, per ricordarlo, cita i versi del nostro testo, attribuendoli a un poeta omoses­ suale (tale fu infatti, per tutta la vita, Auden). Dunque, gli autori della nostra Sce­ neggiatura trovano il passo di Auden citato nella sceneggiatura di un altro film: pertanto oltre alla reminiscenza letteraria gioca nella nostra Sceneggiatura anche una forma di citazione-omaggio al regista Newell, in riferimento a un'opera appar­ tenente alla medesima forma d’arte (un film che implicitamente allude a un altro film). E’ un ragionamento che vale anche, sia pur a livello meno ‘impegnato’, a pro­ posito della ripresa metafilmica della sceneggiatura di Les enfants du Paradis (Sce­ neggiatura. p. 25) e di quella di II buono, il brutto e il cattivo (Sceneggiatura, p. 52).

Fadel Azzawi9 L’ultimo Irak, in Intifada. Antologia della poesia Sceneggiatura, p. 134, battuta di araba contemporanea, a cura di M. Lamsuni. Ci­ Fuad vitavecchia, Prospettiva, 2004, p. 30

Ogni notte metto l’Irak sul mio tavolo pizzico le sue orecchie finché i suoi occhi lacrimano di gioia. Un altro inverno freddo invaso dagli aerei e soldati seduti sul bordo di una collina che aspettano una Storia che si alzi dall’oscurità del lago, un fucile alla mano che spara angeli che si esercitano alla rivoluzione. Ogni notte metto la mia mano sull’Irak, che sfugge tra le mie dita come un soldato che scappa dal fronte.

Sembra che sparino angeli!

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 183.

9 Nato in Irak, esule a Berlino; ha ispirato la figura del poeta Fuad, uno dei protagonisti di La tigre e la neve.

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Capitolo secondo

Pubblicata nel 2004 in un’antologia della poesia araba contemporanea, portata alla ribalta dalla attenzione dei media e dell’opinione pubblica per la situazione di contrapposizione di ‘civiltà’ che caratterizza oggi il mondo, la poesia L’ultimo Irak di Azzàwi reca in sé proprio i tratti di tale situazione, con particolare riferimento alla guerra irachena. Pertanto la scelta di essa nel contesto filmico, in una scena relativa appunto a tale guerra, pare del tutto coerente; si possono porre a fronte, a conferma, il passo “Un altro inverno freddo invaso dagli aerei” della lirica e la didascalia della scena corrispettiva nel film, “quella bellezza del creato è percorsa da missili e bombe”. Tuttavia nella citazione il passo del poeta è modificato: Azzàwi scrive “un fucile alla mano / che spara angeli / che si esercitano alla rivoluzione”, mentre Fuad poe­ ticamente dice “sembra che sparino angeli”; ma il referente profondo è comune, la guerra (che porta da una lato alla moltiplicazione degli ‘angeli della rivoluzione’, dall’altro agli angeli che sparano), anzi in particolare la guerra irachena - L’ultimo Irak è il titolo della poesia di Azzàwi, Baghdàd è il luogo in cui parla Fuad e a cui si riferisce la Sceneggiatura. Samuel Beckett10 Serena III in Ossa d’eco, in Le poesie, trad, ital., con Sceneggiatura, p. 9. battuta di introduzione di G. Frasca, Torino, Einaudi, 1999 [ed. Vittoria originale Echo’s Bones in Collected Poems, London, Calder, 1986], p. 52 Imprimi questo schizzo di bellezza su questa tavolozza Oh! manciata di bellezza... potrebbe chi può dirlo essere l’ultimo

O lascia lei che è il paradiso e poi felpa imeni sui tuoi bulbi oculari oppure sul Butt Bridge arrossa di vergogna il diverso declinare di queste mammelle drizza in su la tua luna tua e soltanto tua su su fino alla stella della sera vieni meno sopra l’arcigasometro lì suH’incamato nuovo fiammante di Misery Hill vieni meno sulla piccola porpora casa delle preghiere qualcosa come il cuore di Maria sul Bull e Pool Beg che mai s’incontreranno almeno in questo mondo da poi che sfrecci via fra l’impennarsi degli steli

10 Nato a Dublino nel 1906, rifugiato durante la Seconda Guerra Mondiale negli anni 1942-1945, morto a Parigi nel 1989; uno dei massimi drammaturghi del XX secolo, autore di drammi scritti indif­ ferentemente in inglese e in francese. Opere più importanti: Oroscopata (1930), Ossa d’eco (1935), Aspettando Godot (1949), L’innominabile (1950). Malone muore (1951), Finale di partita (1955), L’ul­ timo nastro di Krapp (1960), Giorni felici (1961), Non io (1971), Improvviso deU’Ohio (1982). Che dove (1983).

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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sbriglia sul Victoria Bridge ecco una buona idea rallenta sguscia giù per Ringsend Road Irishtown Sandymount esita incerto trova il Fuoco d’Inferno gli appartamenti Merrion siglati da un trilione di sigma il Dito di Gesù Cristo Redentore Figlio di Dio ragazze riprese a spogliarsi ecco una buona idea sul frangivento e flutti di Bootersgrad la marea che monta i grigi gabbiani nel panico accelerano i granelli di sabbia nel rovente tuo cuore nasconditi ma non nella Rocca e resta in azione resta in azione11.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 166.

La lirica beckettiana ripresa allusivamente in una battuta di Vittoria (Sceneggia­ tura. p. 9), dal titolo Serena III, è inserita nella raccolta Echo’s Bones, pubblicata nel 1935 a Londra in 327 copie; un’opera tardo-simbolista della prima fase di Beckett, in cui l’autore stesso denunciava, con un po’ di civetteria, qualcosa di ‘costruito’ (in una lettera del ’32)12. La lirica condivide con altre della stessa raccolta sia temi che soluzioni formali: da un lato, infatti, presenta il poeta in qualità di “instancabile fre­ quentatore di fondali cittadini (Dublino, Parigi, Londra) come luoghi precipui della propria esclusione”13; dall’altro, è intessuta di “soluzioni formali vertiginose”, di “costruzioni sintattiche soggette a improvvise diversioni”, su un “ritmo sfacciata­ mente capitombolante” e soprattutto si sviluppa con il “consueto sfoggio di pen­ sieri fecondi e volizioni remote”14. Tuttavia nel caso specifico nella Sceneggiatura si perde questa ricchezza se­ mantica perché manca una qualsiasi forma di voluto riadattamento alla situazione filmica: viene ripresa la metaforica battuta iniziale - forse per via di ‘memoria incipitaria’ - senza nessun aggancio situazionale al nuovo contesto: infatti mentre la lirica beckettiana costituisce la descrizione di un paesaggio, Vittoria la cita in una dichiarazione d’amore.

11 Fix this pothook of beauty on this palette/you never know it might be final // or leave her she is paradise and then/plush hymens oil your eyeballs // or on Butt Bridge blush for shame / the mixed de­ clension of those mammae / cock up thy moon thine and thine only / up up up to the star of evening / swoon upon the arch-gasometer / on Misery Hill brand-new carnation /swoon upon the little purple / house ofprayer / something heart ofMary / the Bull and Pool Beg that will never meet / not in this world // whereas dart away through the cavorting scapes / bucket o 'er Victoria Bridge that's the idea / slow down slink down the Ringsend Road / Irishtown Sandymount puzzle find the Hell Fire // the Merrion Flats scored with a thrillion sigmas /Jesus Christ Son of God Saviour His Finger/girls taken strippiti that’s the idea/ on the Bootersgrad breakwind and water/ the tide making the dun gulls in a panic / the sands quicken in your hot heart/ hide yourself not in the Rock keep on the move/keep on the move. 12 Citata nell’introduzione di G. Frasca in S. Beckett. Le poesie, trad, ital., con introduzione di G. Frasca,Torino, Einaudi. 1999 (ed. originale Echo’s Bones), p. XIX. 13 Cito direttamente parole di Frasca, op. cit., p. XVIII. 14 Anche in questo caso cito da Frasca, op. cit., p. XIX.

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Capitolo secondo

Gustavo Adolfo Bécquer15 Qué es poesia? In Rimas, edición de José Luis Cano, Madrid, Letras Hispanicas, 1986, p. 61, num. XXI

Sceneggiatura, p. 24. battuta di Attilio

“Che cos’è la poesia?” mi dici mentre fissi nei miei occhi i tuoi occhi azzurri. “Che cos’è la poesia?” E tu me lo chiedi? La poesia... sei tu!15 16

Cos’è la poesia non chieder­ melo più, guardati nello spec­ chio, la poesia sei tu!

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 171.

Poeta romantico di seconda generazione e tipicamente intimista, di ispirazione umbratile per sua stessa confessione17, amante della poesia breve, morto a 34 anni (nacque nel 1836), bohémien durante un certo periodo della sua esistenza18, Bécquer fonde nelle sue Rimas, risalenti al periodo 1858-1860, due filoni fondamentali, la poesia romantica tedesca e il canto popolare andaluso. Egli stesso nelle Cartas Li­ terarias a una mujer sostiene che poesia è l’insieme delle sensazioni, anche le più minute e meno definibili, e dei suoni, con anticipazione di posizioni che verranno formulate da altri qualche tempo dopo. La brevissima lirica Qué es poesia pone in modo fulminante (una maniera poe­ tica che è tipica di tutte le Rimas) il rapporto tra poesia e sentimento provato per la persona amata: l’amata è l’incarnazione stessa dell’amore19. Che si tratti di convin­ zione profonda del poeta è provato dal fatto che Bécquer non solo in altra lirica, la num. XXXIX. riprende con qualche variazione il concetto (“finché esiste una bella donna / la poesia vivrà”), ma che, soprattutto, ripete se stesso nell’incipit delle Car­ tas literarias, dove rivolgendosi a una donna afferma “la poesia sei tu, ti dico, per­ ché la poesia è sentimento e il sentimento si identifica con la donna”). La citazione becqueriana è adeguatamente contestualizzata: Attilio tiene la sua le­ zione universitaria e disquisisce sull’essenza stessa della poesia: in questo quadro de­ finitorio cita il passo di Bécquer perché in esso trova suggerita l’identificazione della poesia con l’amore, che Attilio stesso fa propria poco dopo, ancora nel medesimo con­ testo della lezione (“se non vi innamorate è tutto morto...”, dirà subito dopo Attilio); e nel citare il passo Attilio lo modifica leggermente in modo da inserirvi una rima “cos’è la poesia non chiedermelo p i ù, guardati nello specchio, la poesia sei t u”, 15 Nato a Sevilla nel 1836, morto a Madrid nel 1870. Opere: Rimas (1858-1860), Leyendas, Car­ tas Literarias a una mujer. 16 / Qué es poesia? dices mientras / clavas en mi pupila tu pupila azul, / Qué es poesia ? 6 Y tu me lopreguntas?/Poesia... eres tu! 17 Nella prefazione al volume di cantares La soledad di A. Ferràn: il testo di Bécquer. una specie di ‘manifesto’ letterario della sua poetica, è citato alle pp. 24 e 31 dell’ed. delle Rimas da me utilizzata, curata da J. L. Cano (cit). 18 Per una sintesi della figura di Bécquer basterà il rinvio a G. Mancini, Storia della letteratura spagnola, Milano, Feltrinelli, 19674, pp. 585-589. 19 Bécquer nel periodo di composizione delle Rimas era innamorato (non corrisposto) di Julia Espin.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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quasi per fornire una specie di ‘lezione per mezzo dell’esempio concreto’, a illu­ strazione del fatto che si legge proprio in una poesia la definizione della poesia (con atteggiamento tipicamente autoreferenziale). Karin Boye20 Il ricordo in Almanacco dello specchio n. 11, Milano, Mondadori, 1983, poi in Nuvole in Poesie, a cura di Daniela Marcheschi, Firenze, Le Lettere, 1994. p. 35

Sceneggiatura, p. 9, battuta di Vittoria

Quieta voglio ringraziare il mio destino: mai ti perdo del tutto. Come una perla cresce nella conchiglia, così dentro di me germoglia dolcemente il tuo essere bagnato di rugiada. Se infine un giorno ti dimenticassi allora sarai tu sangue del mio sangue allora sarai tu una cosa sola con me lo vogliano gli dei.

L’attimo in Almanacco dello specchio n. 11, Milano, Mondadori, 1983, poi in Per l'albero in Poesie cit., p. 93

... lo vogliano gli dei.

Sceneggiatura, p. 9, battuta di Vittoria

Nessun cielo di una notte d’estate senza respiro giunge così profondo nell’eternità, nessun lago, quando le nebbie si diradano, riflette una calma simile come l’attimo -

quando i confini della solitudine si cancellano e gli occhi diventano trasparenti e le voci diventano semplici come venti e niente c’è più da nascondere. Come posso aver paura? Io non ti perderò mai.

Io non ti perderò mai...

Entrambi i passi sono citati come fonti in Sceneggiatura, p. 166.

20 Nata a Goteborg nel 1900; esponente del movimento pacifista ‘Clarté’; ossessionata dalla sua con­ dizione di bisessuale, spesso in preda a crisi depressive, muore suicida nel 1941. Opere: Nuvole (1922), Terre nascoste (1924), Ifocolari (1927), Per l’albero (1935). Kallokain (1940), I sette peccati capitali ( 1941, in edizione postuma).

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Capitolo secondo

Come posso dire, in I sette peccati capitali in Poesie, a Sceneggiatura, p. 8, battuta di cura di Daniela Marcheschi, Firenze, Le Lettere. 1994, Vittoria p. 131 (poi in L’altro sguardo. Antologia delle poetesse del Novecento, a cura di G. Davico Bonino e Paola Mastracola, Milano, Mondadori, 1996. p. 206)

Come posso dire se la tua voce è bella. So soltanto che mi penetra e mi fa tremare come una foglia e mi lacera e mi dirompe.

... e mi lacera e mi dirompe.

Cosa so della tua pelle e delle tue membra. Mi scuote soltanto che sono tue, così che per me non c’è sonno né riposo, finché non saranno mie.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 165.

La presenza di Karin Boye è una delle più cospicue nella Sceneggiatura, dato che questa poetessa è citata per tre volte, con riferimento a tre sue liriche - una presenza paragonabile (sul piano numerico) a quella di Montale. Va detto subito che la scelta, nella Sceneggiatura, delle poesie della Boye è per­ fettamente funzionale, dato che esse sono sempre poste in bocca a Vittoria, in oc­ casione della sua dichiarazione d’amore rivolta a Attilio: infatti, sono tre liriche in cui il tema d’amore - anche corposamente tìsico - è del tutto dominante. Il ricordo, pubblicata nella raccolta poetica Nuvole del 1922, è la lirica più ’par­ lante’ nel senso indicato or ora: infatti la poetessa immagina di rivolgere parole d’amore all’uomo con cui si sta congiungendo, ma attenua il realismo del fatto con una lunga poetica metafora, “come una perla cresce nella conchiglia, / così dentro di me / germoglia dolcemente il tuo essere bagnato di rugiada”, per concludere con l’augurio “lo vogliano gli dei” ripreso appunto da Vittoria. L’augurio finale segna il momento del ricordo d’amore, un ricordo che è presente anche in altra lirica, L'at­ timo (nella raccolta Per l'albero, del 1935). una lirica in cui il tema d’amore è col­ locato su uno sfondo naturale di grande apertura e di immobile calma - la quiete è una componente tipica della Boye; ricorre anche nella poesia ricordata poco sopra. Il ricordo, “quieta voglio ringraziare il mio destino” e come in II ricordo, anche in L’attimo il momento del ricordo si colloca in chiusura, “io non ti perderò mai” (perché mi ricorderò di te), e anche in questo caso Vittoria nella Sceneggiatura ri­ prende proprio la chiusura, poeticamente sfumata. Come posso dire (pubblicata postuma nella raccolta I sette peccati capitali nel 1941) è lirica in cui è affacciato il tema delle pene d'amore descritte nei loro effetti sul fisico dell’innamorato, una formulazione della cosiddetta ‘sindrome saffica’21. 21 Facilmente ipotizzabile nella Boye in considerazione della sua dimestichezza con le letterature classiche.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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L’ ‘io’ poetico si rivolge direttamente al suo innamorato (o innamorata?)22 descri­ vendo il profondo turbamento che le caratteristiche fisiche di lui (o di lei) suscitano sul suo animo (parla della “tua voce”, della “tua pelle”, delle “tue membra”), ag­ giungendo in conclusione di lirica il tema del ‘possesso’ erotico (“per me non c’è sonno né riposo, / finché non saranno mie”). Uno degli effetti del turbamento, “mi di­ lacera e mi dirompe”, è ripreso da Vittoria nella sua dichiarazione d’amore a Attilio. Parole di una poetessa ‘innamorata’, dunque, poste in bocca a Vittoria che Atti­ lio dipinge proprio come donna innamorata, quale egli la vorrebbe, almeno, e quale la ricorda (appunto II ricordo è titolo di una delle liriche riecheggiate !) e quale in­ vece al presente lei non è più.

Hermann Broch23 Quando ci abbracciavamo, in L’epoca d'oro della poe­ Sceneggiatura, p. 9, battuta di sia austriaca, a cura di E. Pocar con una introduzione di Vittoria C. Magris, Milano, Guanda, 1978, pp. 188-191

Quando ci abbracciavamo, trottavano, fuori, i cavalli dell’Apocalisse. Non li abbiamo sentiti? Oh, sì, li sentimmo, ma lo strepito era tanto lontano che a noi parve solo un disagio, un grosso titolo di giornale, una voce alla radio.

Quando mi baci trottano fuori i cavalli dell’Apocalisse.

Alle calcagna li avevo già avuti una volta, per miracolo gli ero sfuggito incolume, incolume, sì, e perciò non conta nulla la morte che allora avevo ormai alla gola. Io sono uno fra tanti.

Grossi titoli di giornali e notizie radio formavano le pareti della caverna dove stavamo, e il soffitto era rosso per le fiammate delle città che bruciavano intorno. Non ci piaceva vederle, ma quando alzavamo lo sguardo le vedevamo per forza.

Non per viltà chiudevamo gli occhi e non per indifferenza del dolore altrui non volevamo ascoltare; non per poter fuggire volevamo star soli,

22 Ho ricordato poco sopra che la Boye era bisessuale, come risulta largamente dalla sua biografia. 23 Nato a Vienna nel 1886; arrestato perché ebreo nel 1938. liberato si rifugiò negli USA, ove morì nel 1951; dedicò la sua opera letteraria all’indagine sul declino dei valori portanti della società. Opere principali: trilogia di romanzi / sonnambuli (1888 Pasenow, ossia il romanticismo; 1903 Esch, ossia l’a­ narchia; 1918 Huguenau, ossia il realismo), 1931-1932; La morte di Virgilio, 1945, etc.

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Capitolo secondo

ma forse perché ognuno deve cercare colui cui vada un estremo pensiero quando importa che la morte non sia del tutto insensata.

Oh, non dover morire di morte assurda! molti son già guariti da grave malore o sfuggiti altrimenti alla morte, ma soltanto chi è stato davanti alla porta, dietro alla quale uomini vengono bestialmente torturati, sicché senza io debbano andare a morire, solo costui sa cosa sia l’assurdità. Così toccò a me, e forse tu lo hai sospettato quando mi stavi cercando.

Altrimenti non sarebbe stato possibile che ci abbracciassimo, benché di fuori trottassero i cavalli dell’Apocalisse, e sapessimo che i loro zoccoli spaccano crani come fossero noci.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 166.

Quando ci abbracciavamo, testo che io cito dall’antologia della poesia austriaca curata da E. Pocar24, è lirica di Broch a sfondo autobiografico. Infatti il poeta, se­ gnalatosi in precedenza, nel 1931-1932, con la trilogia di romanzi intitolata I son­ nambuli (Pasenow, ossia il romanticismo; Esch, ossia l’anarchia; Huguenau, ossia l’oggettività), in cui aveva dipinto il decadimento di valori delle diverse classi sociali della Germania, nel 1938 fu arrestato perché ebreo dalle SS tedesche nella Stiria, ove si era ritirato, e fu liberato solo grazie all’intervento di alcuni amici influenti (in se­ guito alla liberazione fuggì negli USA e non rientrò più in patria). Proprio a questo pericolo corso e a successivi momenti bellici egli allude nella nostra lirica, là dove dice di essere sfuggito a chi voleva prenderlo e dove presenta un quadro della di­ struzione del mondo e dell’assurdità del morire in guerra senza una ragione, nel mo­ mento in cui uomini torturano uomini e si perde la propria identità personale. Nel quadro angosciato della distruzione disumana l’amore è visto come il solo modo di superare la mancanza d’identità: senza questa funzione salvatrice l’amore non sarebbe altrimenti concepibile quando l’assurdità della guerra cancella ogni va­ lore con l'irruzione dei ‘cavalli dell’Apocalisse’ che tutto abbattono. Dunque, poe­ sia d’amore calata in un inquietante contesto bellico. Nella Sceneggiatura la frase incipitaria della lirica è riportata molto da vicino a p. 9, in bocca a Vittoria, “quando mi baci trottano fuori i cavalli dell’Apocalisse”; ma il significato dell’originale viene modificato. Infatti nel testo di Broch l'espressione 24 L'epoca d’oro della poesia austriaca a cura di E. Pocar, con una introduzione di C. Magris, Mi­ lano, Guanda, 1978, pp. 188-191.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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ha valore meramente temporale, ‘il nostro amore cadde in periodo di guerra, quando i cavalli dell’Apocalisse minacciavano morte e distruzione’ (nell’ultima strofe, “spaccano crani come fossero noci”), dunque ‘il nostro amore coincise con un pe­ riodo in cui la guerra, apparentemente lontana, in realtà coinvolgeva tutto e tutti’ ; in­ vece nel testo della Sceneggiatura la medesima espressione designa, analogamente alla parte precedente dell’intervento di Vittoria (ove si legge “la vertigine mi si porta via”, con riferimento a Attilio), lo sconvolgimento dei sensi che i baci di Attilio ar­ recano a Vittoria, ‘quando mi baci, il mondo fuori per me è come se fosse sottoso­ pra’. L'immagine dello sconvolgimento passa dunque, in bocca a Vittoria, dal mondo esterno a quello interiore. George Biichner25 Woyzeck in Teatro. La morte di Danton - Leonce e Sceneggiatura, p. 92, battuta di Lena - Woyzeck a cura di G. Delfini. Introduzione di G. Fuad Guerrieri, Milano, Adelphi, 2000, p. 147

(Camera di Maria)

MARIA. Prova a toccarmi, Franz! Preferirei avere un coltello nel corpo che la tua mano addosso. Mio padre non ha osato darmele, quando avevo dieci anni, per­ ché lo guardavo. WOYZECK. Puttana! Ma no, dovresti avere qualcosa ad­ dosso! Ogni uomo è un abisso, a uno gira la testa se Ogni persona è un abisso, ven­ ci guarda dentro... Se fosse vero! E lì che sembra gono le vertigini a guardarci l’innocenza. Ma allora, innocenza, devi averci un dentro! segno addosso. Lo so io? Lo so? Chi lo sa?

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 180.

DÌ questo autore tedesco, scienziato, drammaturgo, rivoluzionario e come tale perseguitato politico, anti-idealista e materialista, morto giovanissimo nel 1837, al­ l’età di 24 anni, nella Sceneggiatura, p. 92, in bocca a Fuad, è ripresa una battuta tratta dal dramma Woyzeck, composto nel periodo tra il 1835 e il 1837 e pervenu­ toci frammentario e allo stato di semplice abbozzo. Si tratta di un dramma allucinato, in cui trova spazio lo scontro, tipico di Biichner, tra diurno e notturno, tra operare e fantasticare, tra coscienza e subcosciente25 26.

25 Nato nel 1813 presso Darmstadt, morto a Zurigo nel 1837; drammaturgo e studioso di scienze naturali, rivoluzionario, perseguitato politico; opere: La morte di Danton (1835), Leone e e Lena (1835), Lenz (1835), Woyzeck (1835-1837). 26 Così si esprime G. Guerrieri in G. Biichner, Teatro. La morte di Danton - Leonce e Lena - Woyzeck a cura di G. Dolimi. Introduzione di G. Guerrieri, Milano, Adelphi, 2000, p. XV. - Per il testo del Woyzeck uso anche l’edizione, corredata di introduzione, traduzione e note, di G. Schiavoni, Milano. BÙR, 1995.

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Capitolo secondo

Lo spunto per l’opera venne allo scrittore da un fatto di cronaca del tempo, l’ese­ cuzione di tal J.C. Woyzeck, processato e condannato per l’omicidio passionale della sua amante; il processo fu seguito dalle cronache criminali e scientifiche e colpì la fantasia dello scienziato Buchner. Woyzeck è un soldato nullatenente, con un figlio illegittimo a carico; oggetto di vilipendio del suo superiore, del dottore, di tutti; sofferente di allucinazioni; tor­ mentato dai tradimenti continui della sua convivente; con tutto ciò, gran ‘pensa­ tore’. Scoperto un fresco tradimento dell’amante, la apostrofa con le farneticanti parole “Puttana! Ma no, dovresti avere qualcosa addosso! Ogni uomo è un abisso, a uno gira la testa se ci guarda dentro... Se fosse vero! E lì che sembra l’innocenza. Ma allora, innocenza, devi averci un segno addosso. Lo so io? Lo so? Chi lo sa?”, tali da esprimere efficacemente lo sconvolgimento dell’uomo, uno sconvolgimento che lo porta di lì a poco a pugnalare a morte la donna. Proprio queste parole, nella forma “Ogni persona è un abisso, vengono le vertigini a guardarci dentro”, vengono riprese da Fuad, nella Sceneggiatura. Il contesto del Woyzeck è aggressivo nella sua drammaticità, quello della Sceneggiatura è più narrativo e mira a creare stupore, non dramma; ma lo scopo della battuta è identico nei due testi, definire la natura in­ decifrabile dell’animo umano, un abisso in cui è impossibile penetrare tanto è psi­ cologicamente complesso; tanto complesso, da rasentare continuamente la stranezza o addirittura la follia.

Giorgio Caproni27 Pensatina dell’antimetafisicante in Ciarlette nel ri­ Sceneggiatura, p. 135, battuta di dotto in II conte di Kevenhiiller in L’opera in versi, Fuad edizione critica a cura di L. Zuliani. Introduzione di P. V. Mengaldo. Cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei, Milano, Mondadori, 20003 ( 19981), p. 675 Un’idea mi frulla, scema come una rosa. Dopo di noi non c’è nulla. Nemmeno il nulla, che già sarebbe qualcosa.

Dopo di noi, Attilio, non c’è nulla. Nemmeno il nulla, che già sarebbe qualcosa!

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 184.

La Pensatina dell’antimetafisicante è una brevissima poesia inserita nella rac­ colta Ciarlette nel ridotto, a sua volta facente parte de II conte di Kevenhiiller, che raccoglie liriche composte tra 1979 e 1986, quando Caproni era intorno alla settan­ tina.

27 Nato a Livorno nel 1912, morto a Roma nel 1990. Opere principali: Finzioni ( 1943), II seme del piangere (1959), Il passaggio d’Enea (1965), Congedo del viaggiatore cerimonioso (1965), Il muro della terra (1975), Il franco cacciatore (1982), // conte di Kevenhiiller (1986), etc.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve”

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La raccolta è dunque opera dell’età avanzata, in cui il poeta mostra alcuni tratti formali nuovi rispetto alla produzione precedente: si è sotto lineata28 in essa una con­ traddizione, carica di forza e energia, tra “l’estrema riduzione del discorso [...] e in­ vece l’invenzione di una vera e propria ‘storia’ messa in scena in modi tra teatrali e narrativi”. In questa raccolta hanno spazio forme di ’antirealismo’ e di nichilismo che, già presenti in momenti anteriori - per esempio nella raccolta II muro della terra, precedente di una dozzina d’anni (1964-1975) - ora si espandono. Del resto, la critica ha evidenziato la coesistenza di “tranciami dichiarazioni d’inesistenza e di appercezioni esattissime di frammenti della realtà”29 come uno dei momenti unifi­ canti dell’intero arco poetico caproniano, da una raccolta all’altra. La lirica che ci interessa, costituita da soli cinque versiceli, “Un’idea mi frulla, / scema come una rosa. / Dopo di noi non c’è nulla. / Nemmeno il nulla, / che già sarebbe qualcosa”, tipicamente nichilista, esprime il concetto del nulla totale: un concetto formulato in modi drastici ma “con versi affabili”, secondo il giudizio di Calvino30, perché Caproni “il nulla non lo scopre improvvisamente per strada con un terrore d’ubriaco” ma lo scopre perché “con lui convive giornalmente e lo dà per scontato”31. Nella ancor più breve lirica immediatamente successiva alla nostra, in­ titolata Pronta replica, o ripetizione (e conferma), Caproni afferma: “E allora sai che ti dico io ? / Che proprio dove non c’è nulla / - nemmeno il dove - c’è Dio”32, ne­ gando dunque il concetto espresso nella nostra, secondo la sua tipica “logica bina­ ria”33. Se passiamo alla Sceneggiatura, troviamo a p. 135. in bocca a Fuad, la battuta “Dopo di noi, Attilio, non c’è nulla. Nemmeno il nulla, che già sarebbe qualcosa!” la cui stretta dipendenza dal passo di Caproni non ha bisogno di essere dimostrata, tanto è evidente. La battuta di Fuad è un segno di rassegnazione disperata di fronte al nulla; Attilio risponde con una battuta scherzosa (“Ma guarda ... a me mi piace esserci”) che si oppone alla battuta dell’amico o comunque la corregge; orbene pro­ prio questa ‘correzione’ costituisce il corrispettivo della ‘correzione’ apportata da Caproni stesso alla sua lirica. Dunque la ripresa del contesto caproniano è anche più profonda di quanto non appaia al primo colpo d’occhio. Non è secondario rilevare che la citazione caproniana fornisce ad Attilio lo spunto per riaffermare la propria incrollabile fede nella vita, che è bella e degna di essere vissuta anche nelle condizioni più avverse (affermazione che costituisce, in ultima analisi, l’essenza stessa del messaggio di La tigre e la neve).

28 Da parte di P.V. Mengaldo in G. Caproni, L’opera in versi, edizione critica a cura di L. Zuliani. Introduzione di P.V. Mengaldo. Cronologia e bibliografia a cura di Adele Dei. Milano. Mondadori, 20003 (19981), p. XXXIV. 29 Cito da Mengaldo, op. cit., p. XL. 30 Riportato in Mengaldo, op. cit., pp. XLII-XLIII. 31 Anche queste sono parole di Mengaldo, op. cit., pp. XLII-XLIII. 32 II testo nell’ed. di L. Zuliani da me usata (cfr. sopra, la n. 28) è a p. 676. 33 Ancora una definizione di Mengaldo. op. cit., p. XLIIL

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Capitolo secondo

Vincenzo Cardarelli34 Adolescente, in Opere a cura di Clelia Martignoni, Milano, Mondadori, 1981, pp. 9-1035

Su te, vergine adolescente, sta come un’ombra sacra. Nulla è più misterioso e adorabile e proprio della tua carne spogliata. Ma ti reciudi nell’attenta veste e abiti lontano con la tua grazia dove non sai chi ti raggiungerà. Certo non io. Se ti veggo passare a tanta regale distanza, con la chioma sciolta e tutta la persona astata, la vertigine mi si porta via. Sei l’imporosa e liscia creatura cui preme nel suo respiro l’oscuro gaudio della carne che appena sopporta la sua pienezza. Nel sangue che ha diffusioni di fiamma sulla tua faccia, il cosmo fa le sue risa come nell’occhio nero della rondine. La tua pupilla è bruciata del sole che dentro vi sta. La tua bocca è serrata. Non sanno le mani tue bianche il sudore umiliante dei contatti. E penso come il tuo corpo difficoltoso e vago fa disperare l’amore nel cuore dell’uomo! Pure qualcuno ti disfiorerà, bocca di sorgiva. Qualcuno che non lo saprà, un pescatore di spugne,

Sceneggiatura, p. 8, battuta di Vittoria

E se penso al tuo corpo, difficol­ toso e vago, la vertigine mi si porta via.

E se penso al tuo corpo, diffi­ coltoso e vago, la vertigine mi si porta via.

34 Pseudonimo di Nazareno Caldarelli, nato nel Maremmano nel 1887, morto a Roma nel 1959; nel 1919 fondò (e dal 1920 diresse) la rivista La Ronda. Opere principali: Prologhi (1916). Giorni in piena (1934), Cielo sulle città (1939), Poesie (1936, 19422), Sole a picco (1952). 35 Per l’aspetto delle varianti testuali in Cardarelli cfr. Clelia Martignoni in V. Cardarelli, Opere, a cura di Clelia Martignoni, Milano, Mondadori, 1981, pp. 1109-1110; in particolare, in relazione alla no­ stra lirica, “Tu ti darai, tu ti perderai” si legge nell’edizione in Prologhi, del 1916; nell’edizione prece­ dente, del 1913, Cardarelli aveva scritto “tu la [cioè la gioia] darai, tu la perderai”. Cfr. Martignoni, op. cit., pp. XXVI e XXXVII n. 1.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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avrà questa perla rara. Gli sarà grazia e fortuna il non averti cercata e non sapere chi sei e non poterti godere con la sottile coscienza che offende il geloso Iddio. Oh sì, l’animale sarà abbastanza ignaro per non morir prima di toccarti. E tutto è così. Tu anche non sai chi sei. E prendere ti lascerai. ma per vedere come il gioco è fatto, per ridere un poco insieme. Come fiamma si perde nella luce, al tocco della realtà i misteri che tu prometti si disciolgono in nulla. Inconsumata passerà tanta gioia! Tu ti darai, tu ti perderai, per il capriccio che non indovina mai, col primo che ti piacerà. Ama il tempo lo scherzo che lo seconda. non il cauto volere che indugia. Così la fanciullezza fa ruzzolare il mondo e il saggio non è che un fanciullo che si duole di essere cresciuto. La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 165.

Rimorso, in Opere citt., p. 57

Sceneggiatura, p. 62, battuta di Nancy

Ti porto in me come il mare un tesoro affondato. Sei il lievito, il segreto d’ogni mio male, o amore a cui non credo. Amore che mi segui oltre ogni limite, ovunque, come un cane fedele segue un padrone ingrato. Ti fuggo invano. Poi che meno ti penso più mi opprimi, rimorso, celato affanno.

Sarai sempre con me, dentro di me, come nel mare un tesoro af. fondato!

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Capitolo secondo

Tu certo un giorno mi raggiungerai nella morte. Là. riposato e cheto, il tuo buon Genio mi assisterà. Voglio dormire all’ombra

del suo tremendo sorriso.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 179.

La lirica A dole scende fu pubblicata per la prima volta nel 1913 da Cardarelli gio­ vane poeta, ventiseienne, poi nel 1916 e infine, nell’edizione definitiva delle Poesie, fu posta dall’autore in posizione liminare36, quasi simbolo anticipatore dell’intera raccolta37. Ed effettivamente come simbolo può essere presa, essendo considerata dalla critica un grande prodotto dell’ispirazione cardarelliana38. Nella lirica l’autore propone il problematico rapporto tra uomo e donna, denun­ ciando l’atteggiamento della donna che prima suscita il desiderio dell’uomo, poi lo tiene nell’incertezza continua: dunque la donna presentata come un essere miste­ rioso, imprevedibile, insondabile — un tema, questo, che ricorre anche altrove nelle opere di Cardarelli39. Contemporaneamente la lirica celebra il fascino della bellezza adolescenziale, tema, anche esso, variamente trattato dal poeta. I due temi sono for­ mulati in Adolescente con un linguaggio aulico e controllato, che prevede termini quali “vergine adolescente”, “ti reciudi nell’attenta veste”, “se ti veggo passare / a tanta regale distanza”, “con la chioma sciolta”, “l’oscuro gaudio della carne”, “il corpo difficoltoso [= irraggiungibile] e vago”, etc., tutti rientranti nella più pura tra­ dizione poetica italiana (Cardarelli, non si dimentichi, fondò la “Ronda”). Nella Sceneggiatura, p. 8 vengono poste in bocca a Vittoria due brevi espres­ sioni tratte dalla lirica, “la vertigine mi si porta via” e “e penso come il tuo corpo / difficoltoso e vago / fa disperare l’amore”, in ordine inverso rispetto al modello e fuse in frase unica e coerente, “e se penso al tuo corpo, difficoltoso e vago, la ver­ tigine mi si porta via”: la fusione prova che nel caso specifico il testo cardarelliano è stato oggetto non di citazione ‘meccanica’, ma di attenta cura e rielaborazione. Nel riuso da parte della Sceneggiatura si rileva anzitutto una ‘inversione delle parti’, nel senso che mentre in Cardarelli l’uomo si rivolge alla donna, nel film si re­ gistra esattamente il contrario; inoltre in Cardarelli il referente è visto come qual­ cosa di sfuggente (la donna inarrivabile per chi le si rivolge), nella Sceneggiatura il referente è già ben disposto alla piena accettazione della ‘dichiarazione’ di Vittoria; ma ciò che determina l’ironia presente nel contesto d’arrivo - in opposizione alla di­

36 Da Giorni in piena (1934) in poi. 37 La lirica era molto cara a Cardarelli stesso: dopo la prima pubblicazione del 1913, l’autore la ripubblicò nella raccolta Prologhi, nel 1916: cfr. Martignoni, op. cit., pp. XXVI e 1007-1008. Il testo cardarelliano presenta affinità con vari passi di Bacchetti, come rileva ancora la Martignoni, op. cit., p. XXVI cit 38 Basterà il cenno della Martignoni, op. cit., p. LII. 39 Parzialmente accostabile alla nostra è, per esempio, Il sonno della vergine, del 1931.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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sincantata amarezza di quello di partenza - è la tipologia stessa del referente, un in­ dividuo di aspetto fisico non pari a quello descritto nella lirica cardarelliana (non si dimentichi che nella scena filmica Attilio è rappresentato in abbigliamento intimo e in atteggiamento straniante rispetto alla situazione ‘solenne’ in cui versa). Se dun­ que è del tutto funzionale l’uso delle parole cardarelliane, la situazione del ‘con­ torno’ ne determina una deviazione ironica. La seconda lirica utilizzata nella Sceneggiatura (p. 62, battuta di Nancy), Ri­ morso, risale al 1933 (poi riedita nella raccolta Giorni in piena del 1934) ed è molto più breve e lineare della precedente. Anche essa poesia d'amore, esprime il con­ cetto che l’amore può essere tormento che accompagna fino alla morte, un tormento intimo da cui non ci si può liberare: particolarmente efficaci in tal senso sono pro­ prio quelle parole iniziali, “Ti porto in me come il mare / un tesoro affondato”, che vengono riprese da Nancy in battuta rivolta a Attilio, “sarai sempre con me, dentro di me, come nel mare un tesoro affondato!”. Anzi, nella battuta della Sceneggiatura il senso del passo cardarelliano è enfa­ tizzato lungo la direzione dell’amore inteso anche in senso fisico (con me, dentro di me): oltre al cambiamento del referente (in Cardarelli un uomo si rivolge a una donna che è l’incarnazione dell’amore stesso, non corrisposto; nella Sceneggiatura una donna si rivolge a un uomo che ella ama), assistiamo anche a un cambiamento di angolo visuale, perché Nancy dice ad Attilio che lei non lo dimenticherà mai, lo terrà sempre dentro di sé, non con un sentimento di rimorso (come si legge nel testo di partenza), ma con un sentimento d’amore40.

Gabriele d’Annunzio41 La pioggia nel pineta in Alcyone in Versi d’Amore e di Gloria, edizione diretta da L. Anceschi, con intro­ duzione di L. Anceschi; interessa qui il vol. II, a cura di Annamaria Andreoli, Milano, Mondadori, 1984, pp. 465 sgg., w. 1-15, 29-32, 125-128 Taci. Su le soglie del bosco non odo parole che dici umane; ma odo parole più nuove che parlano gocciole e foglie lontane. Ascolta. Piove

non in Sceneggiatura, p. 57, ma solo nella scena filmica corri­ spondente, in bocca a Attilio

Piove!...

40 Sulla stessa linea sta la battuta shakespeariana che Nancy pronuncia contestualmente a quella cardarelliana nel momento di congedarsi definitivamente da Attilio (Sceneggiatura, p. 61). 41E quasi inutile soffermarsi sulla figura di d’Annunzio (1863-1938), data la sua notorietà. Basterà ricordare, in funzione del discorso svolto nel testo, che le Laudi (donde è tratta la poesia in esame) furono composte tra il 1899 e il 1903; previste originariamente in sette libri (ciascuno intitolato dal nome di una delle mitiche Pleiadi), furono pubblicate in realtà in soli tre libri, Maia nel 1903, Elettra e Alcyone nel 1904.

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dalle nuvole sparse. Piove su le tamerici salmastre ed arse, piove su i pini scagliosi ed irti, piove su i mirti divini

Capitolo secondo

Piove sulle tamerici...

su la favola bella che ieri t’illuse, che oggi m’illude, o Ermione. // ...// ...// su la favola bella che ieri m’illuse, che oggi t’illude,

sulla favola bella che ieri mi il­ luse, che oggi ti illude, o Er­ mione!

o Ermione.

Questa citazione manca nella Sceneggiatura, cfr. poco sotto.

Di d’Annunzio, il film (non la Sceneggiatura, come ho ricordato or ora) riprende la celebre poesia alcionia La pioggia nel Pineta che è, come si sa, una delle più riu­ scite e notevoli liriche del poeta. La stesura risale all’estate del 1902, un momento di felicissima vena creativa di d’Annunzio: tremila versi composti per il libro III delle Laudi, 1’Alcyone appunto, contemporaneamente alla stesura di versi per altre sezioni delle Laudi e all’elabo­ razione di opere di altro genere; come descrisse d’Annunzio stesso in un’intervista comparsa sulla “Tribuna” del 11 dicembre del 190242, le Laudi prevedevano sette libri, dedicati ciascuno a una delle Pleiadi, ciascuno costituito da tremila versi, per un totale di ventunmila versi; di questi libri, erano pronti, alla data, i primi tre. inti­ tolati, rispettivamente, Maia, Elettra e Alcyone', il terzo libro, cioè appunto il nostro, in particolare veniva definito da d’Annunzio “idillico e ditirambico”43. Esso venne consegnato alle stampe verso la fine del 1903 e pubblicato, unitamente a Elettra, nel 1904; riedito da solo nel 1908, poi nel 1927 nell’Edizione Nazionale degli Opera Omnia dannunziani e varie volte in seguito. Se le caratteristiche fondamentali della poesia dell'AZcyone sono l’elencazione, l’iterazione, la similitudine e la metamorfosi44, si può dire senza rischio di esser smentiti che La pioggia nel pineta, recando in sé tutte queste caratteristiche, costi­

42 Traggo la notizia dell’intervista da Annamaria Andreoli in G. d’Annunzio, Alcyone, ed. cit., II, p. 1168. 43 Così d’Annunzio nella citata intervista (sopra, nota n. 42). 44 Sintesi in Andreoli, op. cit., p. 1161.

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tuisce uno splendido concentrato della poesia alcionia; e l’osservazione vale anche quando si ricordi che il poeta in questo libro tende a presentarsi “come organo che registra la nascosta armonia della natura e propone quindi la propria poesia anche, e non solo paradossalmente, alla stregua di un evento naturale”45: se la pioggia nel pinete reale è un fatto di natura, altrettanto lo è la lirica che ha immortalato quel fatto. Una studiosa46 ha sottolineato di recente le cadenze iterative tipiche del lin­ guaggio innografico-ieratico47; per non parlare del celeberrimo ‘ritornello’ dei vv. 29-32 “piove [...]/ su la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude, / o Ermione” e vv. 125-128 “piove [...]/ su la favola bella / che ieri / m’illuse, che oggi t’illude, / o Ermione” (questo secondo caso in chiusura di lirica, dunque in posi­ zione ‘forte’), in cui sottilmente il poeta rovescia, in contrappunto, i referenti (“ieri / m’illuse, che oggi t’illude” di fronte a “ieri / t’illuse, che oggi m’illude”). E gli esegeti hanno concordemente sotto lineato la musicalità che percorre l’intera lirica48. Il ‘ritornello’, che ho citato sopra, è la breve sezione della lirica che viene ripresa da Attilio non nella Sceneggiatura, ma direttamente nell’azione filmica; anzi non solo è ripresa, ma è proprio citata ad verbum, non in un contesto discorsivo più ampio, ma da sola, dunque in qualche modo enfatizzata. Il contesto ‘atmosferico’ d’arrivo è del tutto coerente rispetto a quello di partenza, perché d’Annunzio parla della piog­ gia e Attilio constata che piove; tuttavia esiste una profonda differenza tra il conte­ sto poetico dannunziano, che prevede che il poeta si rivolga serenamente e quasi ‘panicamente’ a una donna, Ermione, che l’accompagna (sia pur fittiziamente) in un bosco, e quello del film, che vede Attilio rivolgersi, deluso e arrabbiato, a una Er­ mione donna per lui inesistente, o meglio solo letterariamente esistente. Proprio la ci­ tazione del nome della donna irreale costituisce la spia della letterarietà del procedimento: si ponga a confronto contrastivo il modo completamente diverso adot­ tato in Sceneggiatura, p. 8, ove Vittoria nel riuso di un passo di Schwitters personalizza la citazione e l’adegua perfettamente al nuovo contesto (cfr. sotto, p. 72). La citazione dannunziana nell’azione filmica ha preso il posto di un’altra cita­ zione inserita nella Sceneggiatura. Nel testo scritto, infatti. Sceneggiatura, p. 57, la battuta di Attilio suona “Piove! ... Il pleut! ... Il pleure dans mon coeur come il pleut sur la ville”49 e racchiude in sé la citazione abbreviata e leggermente modifi­ cata, in lingua originale, di una lirica di Paul Verlaine dal titolo Romances sans pa­ roles, che suona: "Il pleure dans mon coeur, / comme il pleut sur la ville. / Quelle est cette langueur / qui pénètre mon coeur?”50, citazione del tutto adeguata a espri­ 45 Parole della Andreoli, op. cit., p. 1165. 46 Andreoli, op. cit., pp. 1209 e 1211. 47 “Taci... non odo ... ma odo ... Ascolta. Piove ... Piove su ... piove su ... piove su ... su ... su... piove su ... piove su ... su ... su ... su... Odi... Ascolta ... Ascolta, ascolta. ... Non s’ode ... Or s’ode ... Ascolta... E piove ... Piove su ... E piove su ... piove su ... su ... su ... su”. 48 Cfr. per esempio le osservazioni di Ancesclii in op. cit., p. LXXXII e quelle di Andreoli, op. cit., p. 1211 (con bibliografia precedente). 49 “Piove! ... Piange nel mio cuore come piove sulla città”. 50 La lirica costituisce il num. Ili di Romances sans paroles, comprese nella raccolta Arlettes oubliées, e risale al 1874 (Sens 1874, poi Paris 1887 ); la si può leggere per esempio in P. Verlaine, Romanze senza parole, trad, a cura di C. Viani, Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 22-23. In traduzione: “Piange nel mio cuore / come piove sulla città. / Cos’è questo languore / che s’insinua nel mio cuore?”.

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Capitolo secondo

mere Io sconforto di Attilio. Nel film vero e proprio non c’è traccia di questo passo francese. Possiamo cercare di ipotizzare perché il testo verlainiano sia stato sosti­ tuito con quello dannunziano: fermo restando che entrambe le liriche di riferimento sono appropriate grazie al rinvio alla ‘pioggia’, si può osservare che nel testo dan­ nunziano al tema della pioggia s’aggiunge la presenza della donna, Ermione, esat­ tamente come nella implicita situazione filmica di Attilio (presenza di Vittoria); forse proprio questa ‘compresenza’ può aver orientato la scelta operata a livello sce­ nico. Ma non va taciuto che la citazione verlainiana pare più appropriata al conte­ sto della Sceneggiatura / film, proprio per il tono - tra elegia e ‘spleen’ - che corrisponde a quello di Verlaine.

Paul Éluard51 La tua bocca dalle labbra d'oro, in Poesie, Introdu­ zione e traduzione di F. Fortini, Torino, Einaudi. 1981 (= 1955), pp. 118-119

Sceneggiatura, p. 55, battuta di Attilio

Bocca di labbra d’oro tu non sei in me per ridere così perfètto è il senso dei tuoi detti di aureola che le mie notti d'anni, di gioventù e di morte odon vibrar la voce tua nel brusio del mondo.

In quest’ alba di seta dove vegeta il freddo la lussuria in pericolo va rimpiangendo il sonno, nelle mani del sole i corpi che si destano han brividi se pensano di ritrovare i cuori. Ricordi di foreste verdi, nebbia ove affondo, gli occhi ho su me richiusi, sono tuo, tutta la vita mia ti ascolta né distruggere

Ti vedo dappertutto, tutta la mia vita ti ascolta...

so Ì terribili ozi che il tuo amore mi crea.52 La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 177.

La lirica La tua bocca dalle labbra d'oro fu aggiunta da Éluard alla raccolta Mourir de ne pas tnourir (“Morire dell’impossibilità di morire”) nel momento in cui tale raccolta, già edita nel 1924, fu ripubblicata con una serie di ampliamenti nel 51 Pseudonimo di Eugène Grindel; nato a Parigi nel 1895, morto nel 1952. Esponente del Surreali­ smo. Opere: Morire dell'impossibilità di morire (1924), Capitale del Dolore (1926), Gli occhi fertili (1936), La rosa pubblica (1934), Il poema ininterrotto (1946), Poesie politiche (1948), etc. 52 Ta bouche aux lèvres d'or n’est pas en moi pour rire / et tes mots d’aurèole ont un sens si par­ fait/ que dans mes nuits d’années, de jeunesse et de mart/j’entends vibrer ta voix dans tons les bruits du monde. // Dans certe nube de soie où vègete le froid / la luxure en perii regrette le sommeil, / dans les mains du soleiI tons les corps qui s’èveillent/ grelottent à l’idée de retrouver leur coeur //Souve­ nirs de bois vert, brouillard où je m 'enfonce, /j’ai refermé les yeux sur moi, je suis à toi, /tonte ma vie t’écoute et je ne peux détruire/ les terribles loisirs que ton amour me crée.

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1926, quando il poeta era trentenne, sotto il titolo significativo di Capitale del Do­ lore. E una raccolta che cade nel momento surrealista del poeta; raccolta in cui, come qualcuno ha evidenziato53, convivono due tendenze apparentemente contrastanti: im­ magini di felicità e immagini di desolazione dell’io personale del poeta. Immagini di felicità che si traducono in sole, luce, giorno, identificazione del poeta con la donna di cui è innamorato; immagini di desolazione che si concretizzano invece nell’amore notturno: una fusione di elementi opposti che prelude alla maturità del poeta54. E la fase surrealista di Eluard, ho ricordato sopra; ma il poeta non rifugge dall’innestare la ‘novità’ sulla ‘tradizione’: uno studioso55 cita proprio vari versi della no­ stra lirica (i versi “odo vibrar la voce tua nel brusio del mondo”, “la lussuria in pericolo va rimpiangendo il sonno”, “né distruggere / so i terribili ozi che il tuo amore mi crea”) per documentare la volontà e la capacità del poeta di attenersi non solo alla metrica tradizionale, ma anche alla tradizionale concezione della donna come tra­ mite verso il mondo (una concezione, quest’ultima, destinata a svilupparsi in seguito nella produzione éluardiana56). In questa concezione della donna s’inserisce a pieno titolo il verso “sono tuo, / tutta la vita mia ti ascolta”, che sintetizza appunto la fusione dell’ ‘amata’ con I’ ‘io’ poetico, quasi un verso programmatico; appropriatamente nella Sceneggiatura, p. 55, il verso è posto in bocca a Attilio nel momento di trasporto in cui egli confessa a Vit­ toria di averla seguita nascostamente dappertutto nei suoi movimenti per le città ita­ liane (anche se subito dopo il momento della confessione quasi ‘intimista’ viene il momento della disillusione e della rabbia di Attilio per il brusco allontanamento di Vittoria).

Nàzym Hikmet57 L'addio in Fuori dal carcere in Poesie d’amore, Mi­ lano. Mondadori, 2002, pp. 36-37

Sceneggiatura, pp. 9 e 22, battuta di Vittoria

L’uomo dice alla donna t’amo e come: come se stringessi tra le palme il mio cuore, simile a scheggia di vetro che m’insanguina i diti quando lo spezzo follemente. 53 Fortini in op. cit., p. 28. 54 Ancora Fortini, op. cit., p. 30. 55 Fortini, op. cit., p. 30. 56 Cfr. ancora Fortini, op. cit., pp. 32 sgg. 57 Nato a Salonicco nel 1902 da famiglia aristocratica turca, nel 1921 si recò a studiare a Mosca, ove aderì al comuniSmo; rientrato clandestinamente in Turchia nel 1928, nel 1938 fu condannato a 28 anni di reclusione, ma dopo 12 anni fu liberato, nel 1950, e espatriò in URSS, dove morì (a Mosca) nel 1963. Opere: 835 righe (1929), L'epopea dello sceicco B. figlio del Kadì di Simavna (1936), In que­ st’anno 1941, Ma è mai esistito Ivan Ivanovic? (1956), La spada di Damocle (1960), Poesie d'amore (poesie del periodo 1933-1963: divise nelle sezioni Lettere dal carcere, Fuori dal carcere, In esilio).

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Capitolo secondo

L'uomo dice alla donna t’amo e come: con la profondità dei chilometri con l’immensità dei chilometri cento per cento mille per cento cento volte f infinitamente cento. La donna dice all’uomo ho guardato con le mie labbra con la mia testa col mio cuore con amore con terrore, curvandomi sulle tue labbra sul tuo cuore sulla tua testa. E quel che dico adesso l’ho imparato da te come un mormorio nelle tenebre e oggi so che la terra come una madre dal viso di sole allatta la sua creatura più bella. Ma che fare? I miei capelli sono impigliati ai diti di ciò che muore non posso strapparne la testa devi partire guardando gli occhi del nuovo nato devi abbandonarmi.

Amici, ecco qui che la terra, come una madre, allatta la sua creatura più bella.

La donna ha taciuto si sono baciati un libro è caduto sul pavimento una finestra si è chiusa.

E così che si sono lasciati.

La fonte è citata in Sceneggiatura, pp. 168, 170.

La poesia L'addio è inserita in Fuori dal carcere, sezione della raccolta completa Poesie d’amore del poeta turco Hikmet. Il titolo stesso Fuori dal carcere è auto­ biografico, dato che nel 1938 il poeta, che aveva aderito alle idee del partito comu­ nista dell’URSS, fu condannato in Turchia a lunga pena detentiva, che scontò fino al 1950; uscito dal carcere, dopo qualche mese decise di espatriare in Unione So­ vietica e fu pertanto costretto a lasciare a Istanbul la moglie Munevvér, cui dedicò

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appunto le poesie scritte ‘fuori dal carcere’ (come suona il titolo della raccolta). Nella lirica ripresa nella sceneggiatura il poeta immagina un colloquio d’amore tra un uomo e una donna - cioè, nella realtà, tra il poeta e sua moglie un collo­ quio che è una reciproca dichiarazione d’amore, ma che si conclude tristemente con la forzata separazione dei due (“la donna dice all’uomo /[...] devi partire / guar­ dando gli occhi del nuovo nato / devi abbandonarmi. // La donna ha taciuto / si sono baciati / un libro è caduto sul pavimento / una finestra si è chiusa. // È così che si sono lasciati), esattamente come capitò a Hikmet nella vita vissuta. Nella professione d’amore della donna per l’uomo si legge, tra l’altro, “e oggi so / che la terra / come una madre / dal viso di sole / allatta la sua creatura più bella”, ripreso quasi alla let­ tera nella battuta di Vittoria, Sceneggiatura, p. 9 (poi ripetuta ivi, a p. 22), con con­ testualizzazione linguistica e tematica del tutto coerente, dato che sia nel testo di partenza che in quello d’arrivo una donna-moglie dichiara il proprio amore per fuorno-marito. Tuttavia il ‘contorno’ in cui è inserita la battuta (nella scena filmica Attilio è rappresentato in abbigliamento intimo e in atteggiamento stremante rispetto alla situazione ‘solenne’ in cui versa) conferisce un’involontaria sfumatura ironica alle parole di Vittoria. Va tenuto presente che nella lirica le parole della donna sono rivolte all’uomo nel momento dell’addio/separazione, mentre nella Sceneggiatura preannunciano l’ini­ zio di un rapporto matrimoniale: dunque la funzione delle parole è identica nei due contesti (esaltazione della persona amata, che non ha pari nel creato), mentre il con­ testo complessivo è diverso (separazione vs unione). Raffaele La Capria58 La neve del Vesuvio, cap. V Le pa­ iole, Milano, Mondadori, 1997, pp. 43 ss., soprattutto pp. 44-45

Sceneggiatura, pp. 20-21, racconto di Attilio alle figlie

C’erano aiuole verdi lì intorno, e alberi, e statue con personaggi mitologici ed eroi. Notò che il verde delle aiuole era diventato in un solo giorno più verde e anche gli alberi non sembravano così sparuti. All’ improvviso su quel verde si posò una macchia gialla, un canarino, e stette fermo a due passi da lui. Tonino lo guardò trattenendo il fiato, era vicinissimo, e lui non osava fare il minimo gesto. Inaspetta­ tamente il canarino volò sulla sua spalla e rimase lì per un

Era una cosa straordinaria! C’era un boschetto... Loro si misero lì a parlare, e io andai in questo boschetto. A un certo punto lo sapete che successe?... Un uccellino, all’improvviso, mi vola vicino e ... Tah! Si ferma qui, sulla spalla!... Aveva scelto me in tutto il mondo... e continuava a cantare. Io facevo finta d’es­ sere un albero, non mi muovevo... ero così, guardate... non mi muovevo. Ho cominciato a sentire il cuore che mi batteva, anzi, mi sbatteva dentro il petto. Ma l’emo­ zione... l’emozione di quell’uccellino che stava in cielo... che non si possono toccare... era venuto lui da me, ce l’avevo lì... ma era bello, ma bello... cantava tranquillo sulla mia spalla! Ero così emozionato che c’avevo paura!... Poi è volato via. Sarà stato qualche secondo, ma a me

58 Nato a Napoli nel 1922, scrittore, saggista e sceneggiatore. Opere principali: Ferito a morte, 1961; Amore e Psiche, 1973; La neve del Vesuvio (1977, 1988), e altre.

Capitolo secondo

46 lungo momento. Come mi batte il cuore!, pensò Tonino sopraffatto dal­ l’emozione - lo sentirà battere anche luì e scapperà. Il canarino volò via. Beh, in fondo cos’era?, pensò poi per calmare quel batticuore, era un cana­ rino, un semplice canarino fuggito da una gabbia e ancora incapace di li­ bertà, non hai mai visto un canarino? Ma quello s’era posato sulla sua spalla, c’era rimasto per un po’.

sembrava un’eternità dall’emozione che avevo. Son corso, ho fatto una corsa per raccontarlo alla mamma. Dicevo: «Ora quando le racconterò questa cosa chi sa che farà, non ci crederà di sicuro!». È una cosa che nel mondo... «Mamma, mamma!». Sono arrivato lì a diecimila... ero tutto sudato, pol­ veroso. La mamma era bella, c’aveva un vestito rosso: «Attilio, che è successo, bambino mio?». Le dissi: «Mamma, mamma! [...] Non te lo riesco ne­ anche a dire, un uccellino mi si è posato qui sulla spalla... c’è stato un’ora... un uccellino!».

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 169.

Da un breve romanzo di La Capria, La neve del Vesuvio, pubblicato nel 1977 (poi nel 1988), viene l’idea del racconto di Attilio, riportato in Sceneggiatura, pp. 20-21. Attilio, interrogato dalle figlie su come si diventi poeta, racconta un episodio della sua infanzia, identico a quello ideato nel cap. V del romanzo di La Capria, in­ titolato Le parole. Nel romanzo un bimbo è protagonista di un ’prodigio’ (tale è ai suoi occhi): un uccellino che si posa sulla sua spalla; cerca poi di razionalizzare tra sé l’episodio come può fare un adulto (“Beh, in fondo cos’era?, pensò”), senza pe­ raltro riuscirvi: ai suoi occhi l’episodio resta comunque eccezionale. Nella Sceneggiatura Attilio racconta alle figlie un episodio identico, capitato a lui stesso quando era piccino, per esemplificare concretamente come da un fatto mi­ nuto vissuto intensamente, in modo da far battere il cuore, possa nascere l’atteg­ giamento che porta alla poesia. A conclusione del racconto, dopo aver evidenziato l’entusiasmo da lui provato da bimbo, sottolinea per contrasto come sua madre, sen­ tito il fatto, lo minimizzò sul piano razionale, cancellando inavvertitamente l’entu­ siasmo del bimbo - con contrapposizione tra fantasia poetica del bimbo vs fredda considerazione della realtà da parte dell’adulto. Dunque, nonostante l’assoluta identità del fatto raccontato, diverso è il risultato ottenuto: se le differenze sul piano formale sono imputabili alle esigenze fìlmiche (diversamente da quanto si verifica nel romanzo, nella Sceneggiatura Attilio-bimbo parla con la madre in discorso diretto, perché il discorso diretto ‘drammatizza’ l’azione), altra e più profonda è la differenza di finalità del racconto, che nella Sce­ neggiatura si carica di precisa valenza letteraria: solo il bimbo (il pensiero va al ‘fanciullino’ pascoliano, naturalmente) ha la capacità di aderire pienamente alla realtà nascosta e di dare spazio ed espressione al sentimento che ne consegue, dun­ que riesce a sentire poeticamente, mentre l’adulto è ormai sordo ai messaggi della natura: pertanto - è questa la risposta di Attilio alle figlie - per essere poeti bisogna essere bambini o ritornare bambini. Questa dichiarazione di poetica ne precede un’altra, che Attilio formulerà durante la lezione universitaria posta in scena poco dopo: la poesia non nasce dall’esterno, ma dall’interiorità e per essere poeti è indispensabile nutrire sentimenti d’amore.

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Vivian Lamarque59 Questa quieta polvere, VI, in Una quieta polvere in Poesie 1972-2000, con introduzione di Rossana De­ dola, Milano, Mondadori, 2002, pp. 169-170

Sceneggiatura, p. 135, battuta di Attilio

Poiché non potevo fermarmi per la Morte lei gentilmente si fermò per me quando muoriamo noi non è come quando muoiono gli altri si vede l’ultimo oggetto della nostra vita e nient’altro Questa Quieta Polvere fu Signori e Signore io non sono morta io sono nata, il 19 aprile 1946

sono viva credo i rami sulla mia mano sono pieni di convolvolo io non vorrei essere così affezionata un poco meno

Hai il coraggio di seguirmi ? — chiese - sono la Morte la prima volta egli mi chiese posso togliermi la giacca? io gli dissi naturalmente prendeva uno per la manina gliela staccava, prendeva un altro per la manina gliela spezzava che l’amore mio essendo bellissimo 1 abbiano rapito degli Dèi invidiosi? attento se hanno gli occhi aperti i draghi dormono se li hanno chiusi sono svegli

se un giorno l’amore mio ritornerà io sarò felice oh i sagrati - disse il vento è quasi sempre da lì che rapisco i miei prediletti

io li ho visti i morti è impossibile guardarli tanto per questo li mettono sotto terra 59 Pseudonimo di Comba Proverà Pellegrinelli, nata presso Trento nel 1946 come figlia illegittima. Opere: Teresino (1981), Il signore d'oro (1986), Il signore degli spaventati, Poesie dando del Lei, Questa quieta polvere (1996).

Capitolo secondo

48 io non voglio essere messa sotto terra là manca l’aria anche se si è morti

oh i sagrati - disse il vento — è quasi sempre da lì che rapisco i miei prediletti quando muoriamo noi non è come quando muoiono gli altri

si vede l’ultimo oggetto della nostra vita poi si viene messi sotto terra e nienf altro, nemmeno un movimento impercettibile il mattino dopo che si è morti non ci si può svegliare la vita è finita è incominciata la morte

poiché non potevo fermarmi per la Morte lei gentilmente si fermò per me

anche da morta mi ricorderò i ricordi mi ricorderò sempre di quando ero viva

Io son sicuro che anche da morto mi ricorderò sempre di quand’ero vivo!

l’amore mio quando lo toccavo ero felice. La fonte è citata in Sceneggiatura, p, 184.

Il poemetto di Vivian Lamarque Questa quieta polvere, della cui sezione VI in Sceneggiatura, p. 135 (in bocca a Attilio) sono citati due degli ultimi versi (“anche da morta mi ricorderò i ricordi / mi ricorderò sempre di quando ero viva”), risale al 1996. E poemetto intessuto di citazioni, in larga misura attinte alla tradizione fia­ besca, sia italiana che straniera (soprattutto Afanasjev, Andersen, etc.). Citazione è il titolo stesso dell’operetta: infatti This quiet Dust / was Gentlemen and Ladies suona l’inizio del componimento 813 di Emily Dickinson, ripreso appunto con Que­ sta quieta polvere e successivamente ripreso, ancora più da vicino, nella sezione VI. strofe III. del poemetto, "Questa Quieta Polvere/fu Signori e Signore”. Come giu­ stamente è stato rilevato60, le numerose citazioni (53 in tutto, distribuite nelle 9 se­ zioni del poemetto) sottolineano la tendenza alla dispersione e alla perdita di centro d’equilìbrio vitale che costituisce la caratteristica (nata da ragioni biografiche e esi­ stenziali) della Lamarque. La battuta di Attilio di Sceneggiatura, p. 135, “io son sicuro che anche da morto mi ricorderò sempre di quand’ero vivo!”, costituisce la trascrizione, molto vicina al­ l’originale, di due versi della Lamarque; una ripresa la cui ‘fedeltà’ può essere spie­ gata anche sulla base della considerazione che dal punto di vista ‘tecnico’, per usare questo termine un po’ riduttivo, la fittissima presenza di citazioni consuona con

60 Da parte di Rossana Dedola, op. cit., p. X.

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l’analogo procedimento onnipresente nella Sceneggiatura di Benigni-Cerami che a noi interessa. Tuttavia la contestualizzazione dell’uno e dell’altro testo non è del tutto simile: mentre infatti nel poemetto di partenza i versi si inseriscono in un contesto marcatamente funerario. Attilio piega la citazione a esprimere una forte carica vitale.

Le Mille e una notte Le mille e una notte a cura di E Gabrieli, Torino. Ei­ naudi, 1948, voi. Il, p. 324 (notte 35 la)61

Sceneggiatura, p. 133, battuta di Fuad

Si racconta che un uomo di Baghdad possedeva molti beni e abbondanza di danari; perdette il suo patrimo­ nio, cambiò condizione e si ridusse a non possedere più niente: riusciva a mangiare soltanto faticando du­ ramente. Una notte mentre dormiva, afflitto e amareg­ giato, vide in sogno uno che diceva: - La tua fortuna si trova al Cairo, parti e valla a cercare! Andò al Cairo, vi giunse di sera e andò a dormire in una moschea. Vicino alla moschea c’era una casa, e Iddio decretò che una banda di ladroni entrasse nella moschea per penetrare da quella nella casa. Sentendo muovere i ladri, la gente della casa si svegliò e co­ minciò a gridare, e il capo della polizia accorse con i suoi uomini. I ladri fuggirono, e la polizia entrò nella moschea; trovarono l’uomo di Baghdàd che dormiva, lo presero, e gliene diedero tante coi randelli da ridurlo quasi in fin di vita. Lo misero in prigione e ce lo ten­ nero tre giorni, poi il capo della polizia lo fece com­ parire e gli domandò: - Di che paese sei? - Di Baghdàd - E per che motivo sei venuto al Cairo? - Rispose; Ho visto in sogno uno che mi diceva: “la tua fortuna è al Cairo: parti !” e arrivato al Cairo ho trovato la for­ tuna promessa in quelle bastonate che mi hai fatto dare... - Il capo della polizia scoppiò in tale una ri­ sata che gli si vedevano i molari e gli disse: - Imbe­ cille! Io in sogno ho visto tre volte uno che mi diceva: “A Baghdàd c’è una casa nella tale via, fatta così e così; nel suo cortile c’è un giardinetto, in fondo al giar­ dino c’è una vasca e sotto la vasca danari, una somma enorme. Valla a prendere!”. Io non mi sono mosso, e tu invece, stupido come sei, per un sogno confuso che hai avuto, ti sei messo a viaggiare da un paese all’al­ tro! - Gli diede poi dei soldi, dicendo: - Servitene per tornare a casa. Prese quei soldi e tornò a Baghdàd. Ora la casa di

Mohammed el-Magrebi abitava al Cairo in una casetta dove c’era un giardino, un fico e una fon­ tana. Era povero. S’addormentò e sognò un uomo bagnato zuppo che si tolse una moneta d’oro di bocca e gli disse; “La tua fortuna è in Persia, a Isfa­ han... troverai un tesoro ... vai!”. Mohammed si svegliò e partì di corsa. Dopo mille pericoli arrivò a Isfahan! Qui, cercando di man­ giare, stanco morto, venne scam­ biato per un ladro. Lo picchiarono con canne di bambù e quasi l’ammazzarono. Fino a quando il capitano gli domandò: “Chi sei, da dove vieni, perché sei qua?”. Quello disse la verità: “Ho sognato un uomo zuppo che mi ha ordinato di venire qua perché avrei trovato un tesoro. Bel te­ soro, le bastonate!” Il capitano fece una risata e gli disse: “Scemo, e tu credi ai sogni? Eh ... Io ho sognato tre volte una po­ vera casa del Cairo dove c’è un giardino e oltre il giardino un fico e oltre il fico una fontana e sotto la fontana un tesoro enorme! Ma io non mi sono mai mosso da qui, scemo! Vattene, credulone!”. L’uomo tornò a casa, e sotto la fontana del suo giardino dissot­ terrò il tesoro!

61 Da notare che per una svista in Sceneggiatura, p. 182 il racconto è indicato come n. 451 anziché 351.

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Baghdàd che il capo della polizia gli aveva descritto era proprio la casa di quell’uomo. Appena tornato scavò sotto la fontana trovò molti danari. Così Dio gli diede la ricchezza, e questo è un caso meraviglioso. La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 182.

Non è possibile qui soffermarsi sulla problematica di un’opera quale Le mille e una notte62. Basterà un breve cenno alla novella della notte 351, cui fa preciso rife­ rimento Fuad nella Sceneggiatura, p. 13363. Nella raccolta araba il racconto ha funzione piuttosto chiara, appena mascherata dal gusto del romanzesco (come si verifica innumerevoli volte nella raccolta): sot­ tolineare da un lato come la fiducia ingenua venga premiata (nella figura dell’ ‘uomo di Baghdàd’), dall’altra come l’uomo sia talvolta cieco nel non vedere dove sia il suo bene (è il caso del capo della polizia). Essa è simbolo della condizione umana: l’uomo cerca di realizzare le sue aspirazioni nei modi più disparati e poi, invece, ne trova dentro di sé la realizzazione. Nella Sceneggiatura vengono apportate alcune modifiche nelle indicazioni locali dell’originale, ma il nucleo del racconto non viene minimamente intaccato. Rispetto all’originale, nella Sceneggiatura la funzione della citazione-adatta­ mento pare quella di evidenziare la forza captante della propria ‘casa’ (nel senso più ampio del termine): Fuad, il narratore, spiega tramite la favola il motivo per cui egli abbia deciso di tornare in patria in un momento di grave pericolo, in cui sa­ rebbe stato forse più ‘saggio’ starne lontano. Se è così, si deve concludere che la contestualizzazione di arrivo è diversa da quella di partenza. Si potrebbe interpretare in altro modo: sia l’ignoto ‘uomo’ iracheno dell’origi­ nale, sia Fuad hanno il loro percorso di vita segnato dal destino che li chiama a tor­ nare al punto di partenza: l’iracheno, per trovarvi il benessere, Fuad per trovarvi la morte (anche se ancora egli non lo sa). Anche in questo caso, tuttavia, le due con­ testualizzazioni non sono sovrapponibili. Del tutto appropriato risulta, comunque, l’aver posto il racconto delle Mille e una notte in bocca a un arabo, per di più poeta. Antonio Machado64 Proverbios y canta res in Poesias completas ed. M. Alvar, Madrid, Espasa-Calpe, 1997. n. XLVI

Sceneggiatura, p. 100, battuta di Fuad

62 Mi limito a rinviare all’introduzione di F. Gabrieli alla traduzione de Le mille e una notte, Torino, Einaudi, 1948, vol. I, pp. XV-XXXIX e alla sintesi proposta dallo stesso F. Gabrieli, La Letteratura araba, Firenze, Sansoni-Accademia, 1967. pp. 247 sgg. 63 La fiaba nella Sceneggiatura è narrata minutamente da Fuad, mentre nel film è solo citata, non narrata. 64 Nato a Sevilla nel 1875, morto profugo in Francia nel 1939. Opere: Soledades (1903), Campos de Castdia (1912), Nuevas Condones (1925), Sonetos.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ” Stanotte ho sognato di sentire Dio che mi gridava: “All’erta! Poi era Dio che dormiva e io gli gridavo. “Sveglia”.65

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Un po’ [sott. ho dormito stanotte], su que­ sta poltrona. Ho sognato che entravo in una stanza e c’era Dio che dormiva e io gli dicevo: “Sveglia! Sveglia!”.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 181.

Il brevissimo testo di Machado n. XLVI di Proverbios y cantares, sezione della più ampia raccolta Campos de Castilla, presenta tutte le caratteristiche della poesia machadiana66: sul piano formale, staticità della situazione, condizione di solitudine, tendenza a ripetere sempre le stesse parole per creare una tematica fondamentale che attraversa costantemente tutta la lirica; sul piano contenutistico, una forma di scetti­ cismo religioso che trova anche altre espressioni nei Proverbios. Il testo che ci interessa, pubblicato nel 1912, inserisce il divino nel momento oni­ rico, come si verifica anche nei testi XXI, XXVIII, XXXIII della raccolta (anche con identità di formulazione verbale)67; esprime il concetto che l’uomo e Dio sono in con­ tradditorio, senza che Dio abbia dominio totale sull’uomo; è un Dio ‘sfuggente’ quello che è posto in scena, anzi non è nemmeno ‘posto in scena’ perché è solo sognato. Buona parte di questo testo è riprodotta da Fuad, Sceneggiatura, p. 100. Alla do­ manda di Attilio, se abbia riposato, Fuad risponde - citando appunto il testo machadiano - “Un po’ [sott. ho dormito stanotte], su questa poltrona. Ho sognato che entravo in una stanza e c’era Dio che dormiva e io gli dicevo: Sveglia! Sveglia!’’, per eviden­ ziare la propria attività e impegno nell’assolvere un determinato compito (preparare la pozione curativa per Vittoria), un impegno che deve surrogare o sostituire la spe­ ranza nell’intervento divino, visto che Dio ha gli stessi limiti che ha anche l’uomo. Vladimir Vladimirovic Majakovskij68 Marina da guerra in amore in A piena voce. Poesie e poemi, a cura di Gio­ vanna Spendei, Milano, Mondadori, 1996 (= 1989), p. 53

Sceneggiatura, p. 55, battuta di Attilio

65 Anoche soné que ola / a Dios, gritandome: jAlerta!’ / Luego era Dios quieti dormia/y yo gritaba: jDespierta!’. 66 Rinvio direttamente alle sintetiche osservazioni di Mancini, op. cit., pp. 650-654. 67 Nel nostro testo: Anoche soné que ota...\ in n. XXI l’inizio suona Ayer soné que vela ...; in n. XXXIII, parallelamente Soné a Dios... . 68 Nato in Georgia nel 1893; teorico del futurismo russo (il ‘manifesto’ risale al 1912); aderisce alla Rivoluzione d’Ottobre nel 1917; poeta ‘ufficiale’ e propagandista della Rivoluzione, progressivamente si staccò dai compagni per aderire, nel 1930, alla Associazione Russa degli Scrittori Proletari; morto sui­ cida a Pietroburgo nel 1930. Opere: Io (1913), La nuvola in calzoni (1915), Il flauto di vertebre (1916), Semplice come un muggito (1916), L’uomo (1917), Lenin (1925), Bene! (1927), A piena voce (1930).

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Van sui mari scherzando in crociera il torpediniero e la torpediniera. E come la vespa s’attacca col miele, così la torpediniera fedele.

In questo momento. Vittoria... se tu potessi ve­ dere il cuore che c’è qui, ora... c’ho una flotta di cacciatorpediniere sottomarine... che bombar­ dano tutti i ventricoli di profondità e mi circum­ navigano il cuore.

E per il torpediniero, infinita è la felicità della vita.

Ma li scoprì con gli occhiali sul naso un riflettore pedante, per caso. Una sirena fece la spia, denunziandone a tutti la scia. Fuggì via la torpediniera, come al vento della bufera.

Ma il torpediniero ormai stanco, poverino, fu colto nel fianco. Sull’oceano ora va la preghiera della vedova torpediniera.

Dava forse agli uomini noia quella loro semplice gioia?

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 177.

Lettera al compagno Kostròv da Parigi sulla Sceneggiatura, pp. 9, 22 e 63, battuta di Vit­ sostanza dell 'amore, in A piena voce. Poesie toria e poemi, cit., pp. 137 sgg. Scusatemi dunque,

compagno Kostròv, con larghezza di spirito a voi propria, se parte delle strofe assegnatemi per Parigi io sciuperò per la lirica.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve’’ Immaginate: entra

una bella nella sala, adorna

di pellicce e di collane. Io

la prendo per mano e le dico (in modo giusto

o sbagliato?):

Compagna, io sono di Russia, ben noto nel mio paese, ho veduto ragazze più leggiadre, ho veduto ragazze più snelle. Alle ragazze piacciono i poeti. Io sono arguto, ho una voce squillante e le abbaglio con belle parole, per poco che prestino orecchio. Non mi lascio acchiappare su un’inezia, su un’effimera coppia di sentimenti. Io sono infatti per l’eternità ferito dall’amore e mi trascino a malapena. Per me l'amore non si misura con le nozze. Ha cessato d’amarmi? E svanita. Compagna, in sommo grado me ne in fischio delle cupole. Ma perché scendere a particolari? Smettete gli scherzi, mia bella, non ho vent’anni, ma trenta... con una codina. L’amore

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Capitolo secondo

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non è nel bollire più sodo,

non è nell’essere bruciati come carboni, ma in ciò che sorge dalle montagne dei petti sopra le giungle dei capelli. Amare significa correre in fondo al cortile e sino alla notte corvina con l’ascia lucente tagliare la legna, giocando con la propria forza. Amare è sciogliersi dalle lenzuola strappate dall'insonnia, gelosi di Copernico lui, e non il marito d’una Maria Ivànovna considerando proprio rivale, Per noi l’amore non è paradiso terrestre a noi l’amore annunzia ronzando che di nuovo è stato messo in marcia il motore raffreddato dal cuore. voi con Mosca avete rotto il filo gli anni sono distanza. Come potrei spiegarvi questa situazione? Sulla terra luci sino al cielo.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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Nel cielo azzurro stelle

sino al diavolo S’io

non fossi poeta, sarei diventato un astrologo La piazza leva frastuono, le vetture si muovono, io cammino, scrivendo versi nel mio taccuino. Sfrecciano le auto per la via, ma non mi gettano a terra. Gli intelligenti capiscono quell’uomo è in estasi. Uno stuolo di sogni e di pensieri mi riempie sino all’orlo. Qui anche agli orsi crescerebbero le alette. Ed ecco da una mensa dozzinale, quando ogni cosa è al colmo del fervore, dalla gola alle stelle si alza la parola come su una cometa d’oro. La sua coda è distesa brilla e splende il suo piumaggio, perché due innamorati scorgano le stelle della loro pergola di lilla Per sollevare e condurre e trascinare coloro la cui vista è indebolita.

Oh, amore... uno stuolo di sogni e di pen­ sieri mi riempie fino all’orlo.

Ogni cosa è al colmo del fervore. Dalla mia gola alle stelle si alza la parola, come una cometa d’oro.

Capitolo secondo

56 Per troncare le teste dei nemici come una caudata sciabola sfavillante. Trattenendo me stesso, come a un convegno, sino all'ultimo battito del petto, tendo l’orecchio: l'amore riprende a ronzare, umano, semplice. Fuoco, uragano ed acqua s’avanzano con un sordo brontolio. Chi saprebbe dominarsi? Potete? Provateci.

La fonte è citata in Sceneggiatura, pp. 169, 170, 179.

Poeta rivoluzionario nella vita come nell’arte - fu infatti esponente di spicco delle avanguardie russe, con particolare riferimento al Futurismo -, Majakovskij compose la breve poesia Marina da guerra in amore nel 1915, cioè nel periodo del maggior impegno futurista (come prova l’insistente riferimento a oggetti tipici della ‘modernità’ delle macchine; il manifesto del Futurismo russo risale al 1912) e del­ l’amore per Lilja Brik. Citata solo allusivamente in Sceneggiatura, p. 55 in una bat­ tuta di Attilio (“c’ho una flotta di cacciatorpediniere sottomarine...”, con adattamento volutamente distorto dell’originale sul piano linguistico)69, è lirica che costituisce un misto di Futurismo (dal punto di vista del codice linguistico-stilistico: due navi da guerra che procedono in formazione quasi che fossero reciprocamente innamorate, a simboleggiare l’amore) e di antimilitarismo (l’affondamento della nave nemica come atto gratuito, che comporta perdite di vite umane); testo basato su tutta un’unica metafora per esprimere il concetto dell’amore, tormentato quando viene ostacolato. In bocca a Attilio, il testo assume la funzione di metafora che esprime, per via di scherzosa esagerazione, di tipo espressivo, lo stato d’animo gioioso dell’uomo che incontra la sua donna (l’intera battuta significa infatti sem­ plicemente “il cuore mi batte forte”). Diverso il discorso a proposito della lirica Lettera al compagno Kostròv da Pa­

69 Le cacciatorpediniere sono antisommergibili, non sottomarine di per sé, ovviamente.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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rigi sulla sostanza dell’amore. Majakovskij elaborò il testo in periodo compietamente diverso rispetto al testo precedente, dopo la sua adesione alla Rivoluzione Russa. Tra i molti versi commissionatigli dal partito in funzione di propaganda nel 1927-1928 (nel 1927 cadde il primo decennale della Rivoluzione d’Ottobre), egli concepì anche la nostra lirica, in forma di lettera da Parigi (ove effettivamente il poeta si fermò nel 1927), in un momento in cui era innamorato di un’emigrata russa a Parigi, Tatjana Jakovleva. E’ un testo che, eccezionalmente e in deroga alla pro­ duzione tipica in questo periodo di vita, secondo la sua stessa ammissione70, fau­ tore dedica al tema amoroso-poetico, raggiungendo anche punte di genuina ispirazione71 formulate con espressioni arditamente metaforiche. Proprio questi spunti poetici sono inseriti nella Sceneggiatura per tre volte, pp. 9, 22, 63, sempre in bocca a Vittoria, che li utilizza in sequenza per manifestare reiteratamente il suo amore ad Attilio, dunque con perfetta coerenza tra i contesti di partenza e di arrivo; la ripetizione stessa della battuta conferisce alla reminiscenza una ‘presenza’ parti­ colare (più avanti, pp. 92, 108), che costituisce testimonianza dell’efficacia del passo di Majakovskij agli occhi di chi lo cita.

Osip Èmil’evic Mandel’stam72 0. Mandel’stam, Tristia in Cinquanta poesie a cura Sceneggiatura, p. 9, battuta di Vit­ di R. Faccani. Torino, Einaudi, 1998, pp. 49 e 51 toria Io so la scienza dei commiati, appresa fra lamenti notturni a chiome sciolte. Stan ruminando i buoi, dura l’attesa: ultim’ora di veglia delle scolte cittadine. E mi piego al rito della notte del gallo, quando - in spalla il carico di strazio del viaggio - guardavano lontano umidi occhi, e piangere di donne al canto si univa delle muse.

Chi, alla parola “commiato”, sa quale distacco giungerà per noi fra poco, che cosa presagisce lo strepito del gallo mentre la fiamma arde sull’acropoli, e perché all’alba di una vita nuova, mentre il bue rumina pigro nell’andito, il gallo, araldo della vita nuova, sulla cinta muraria le ali sbatte?

70 “Scusatemi / dunque, / compagno Kostròv, / con larghezza di spirito / a voi propria, / se parte / delle strofe assegnatemi per Parigi / io / sciuperò / per la lirica”. 71 “Uno stuolo di sogni / e di pensieri / mi riempie / sino all’orlo”', “ogni cosa è al colmo del fer­ vore, ! dalla gola / alle stelle / si alza la parola / come su una cometa d’oro”. 72 Nato a Varsavia nel 1891; oppositore di Stalin, arrestato nel 1938, deportato a Vladivostok, dove morì nel 1938. Opere: Pietra (1913, 1916, 1923), Tristia (1922), Il secondo libro (1923), 1921-1925 (1928), inoltre i postumi Quaderni moscoviti (poesie del 1930-1934), Quaderni di Voronez (poesie del 1934-1937).

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E amo il filato, amo la tessitura: il fuso ronza, va su e giù la spola. Guarda: scalza, leggera come fosse peluria di cigno, Delia già incontro mi vola! 0 gramo ordito del vivere nostro, che povera è la lingua della gioia! Tutto fu in altri tempi. Tutto sarà di nuovo. Solo ci è dolce l’attimo del riconoscimento.

Capitolo secondo

Oh, com’è scarna la lingua della gioia!

Ma così sia: giace in un terso piatto d’argilla una translucida figura, come una pelle stesa di scoiattolo, e a scrutare la cera una ragazza è curva. Non sta a noi trarre auspici sul greco Èrebo: la cera è per le donne ciò che è il bronzo per E uomo. Noi sfidiamo la sorte da guerrieri; destino è ch’esse traendo auspici muoiano.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 167.

Tristia è lirica del 1918, successivamente inserita nell’omonima raccolta pub­ blicata nel 1922. E lirica che pare quasi un simbolo degli spostamenti continui ef­ fettuati in vita dal poeta73: essa infatti programmaticamente si apre con “io so la scienza dei commiati”, per proseguire poi con l’elenco di tutti i disagi, fìsici e psi­ chici, che comporta il mutamento di sede: il viaggio reca soprattutto il dolore del di­ stacco (“fra lamenti notturni”; “in spalla il carico di strazio / del viaggio”; “o gramo ordito del vivere nostro”) e l’incertezza della novità (“all’alba di una vita nuova”; “tutto sarà di nuovo”). Il tono della lirica è dunque permeato di tristezza, ‘nobilitato’ per dir così dalle reminiscenze classiche74, ma non per ciò attenuato. Di fronte al cumulo delle tristezze, la gioia non riesce a esprimersi, “che povera è la lingua della gioia!”: questa esclamazione è fatta propria da Vittoria, Sceneg­ giatura, p. 9 “Oh, com’è scarna la lingua della gioia!”, in riferimento alla piena del sentimento d’amore che ella non riesce a esprimere adeguatamente nei confronti di Attilio. I contesti sono nettamente diversi: in bocca a Mandel’stam, l’esclamazione indica una forma di sconforto, mentre in bocca a Vittoria esprime il senso di felicità.

73 La frequenza di questi viaggi emerge chiaramente dalle brevi note biografiche tracciate da bac­ cani, op. cit., pp. XIX sgg. 74 “Ultim’ora di veglia delle scolte / cittadine”; “che cosa presagisce lo strepito del gallo / mentre la fiamma arde sull’acropoli”; “Delia già incontro mi vola”; “non sta a noi trarre auspici sul greco Èrebo”. Il titolo stesso Tristia è attinto alla raccolta ovidiana di poesie dall’esilio intitolata appunto Tris­ tia (“Tristezze”).

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Le citazioni letterarie, nel film “La tigre e la neve”

Eugenio Montale75 Portami il girasole ch’io lo trapianti in Ossi di sep­ pia in Tutte le poesie a cura di G. Zampa. Milano, Mondadori, 19913 (= 1984), p. 34

Sceneggiatura, p. 9, battuta di Vit­ toria

Portami il girasole ch’io lo trapianti nel mio terreno bruciato dal salino, e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti del cielo l’ansietà del suo volto giallino. Tendono alla chiarità le cose oscure, si esauriscono i corpi in un fluire di tinte: queste in musiche. Svanire è dunque la ventura delle venture.

Portami tu la pianta che conduce dove sorgono bionde trasparenze e vapora la vita quale essenza;

portami il girasole impazzito di luce.

tu, girasole impazzito di luce...

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 167. Dora Markus in Occasioni in Tutte le poesie cit., p.

130 Sceneggiatura, p. 9, battuta di Vit-

toria

Fu dove il ponte di legno mette a Porto Corsini sul mare alto e rari uomini, quasi immoti, affondano o salpano le reti. Con un segno della mano additavi all'altra sponda invisibile la tua patria vera. Poi seguimmo il canale fino alla darsena della città, lucida di fuliggine, nella bassura dove s’affondava una primavera inerte, senza memoria. E qui dove un’antica vita si screzia in una dolce ansietà d’Oriente,

75 Uno dei massimi esponenti del Novecento italiano, su cui è inutile soffermarsi a lungo. Nato a Genova nel 1896, morto a Milano nel 1981; dopo la guerra, nel 1945, aderì al Partito d’Azione. Opere principali: Ossi di seppia (1927); Occasioni (1939); La bufera e altro (1956); Satura (1971); Quaderno di quattro anni (1977).

Capitolo secondo

60 le tue parole iridavano come le scaglie della triglia moribonda. La tua irrequietudine mi fa pensare agli uccelli di passo che urtano ai fari nelle sere tempestose: è una tempesta anche la tua dolcezza, turbina e non appare, e i suoi riposi sono anche più rari. Non so come stremata tu resisti in questo lago d’indifferenza ch’è il tuo cuore; forse ti salva un amuleto che tu tieni vicino alla matita delle labbra,

al piumino, alla lima: un topo bianco. d’avorio; e così esisti!

è una tempesta anche la tua dol­ cezza.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 168.

Xenia II, 5 in Satura in Tutte le poesie cit., p. 309

Sceneggiatura, p. 48, battuta di Attilio

Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino. Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. Il mio dura tuttora, né più mi occorrono le coincidenze, le prenotazioni, le trappole, gli scorni di chi crede che la realtà sia quella che si vede.

ho sceso milioni di scale dandoti il braccio e ora che non ci sei è il vuoto a ogni gradino...

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio non già perché con quattr’occhi forse si vede di più. Con te le ho scese perché sapevo che dì noi due le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, erano le tue.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 175.

Nella Sceneggiatura è ripreso per tre volte Montale, di cui vengono citate tre li­ riche diverse, appartenenti a momenti successivi della produzione montaliana: Por­ tami il girasole eh 'io lo trapianti che risale al 1923, pubblicata in Ossi di seppia nel 1927; Dora Markus da Occasioni, datata al 1926 e 1939, pubblicata in Occasioni nel 1939; Xenia II, 5 (Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale), del 1967, pubblicata in Satura nel 1971. Portami il girasole eh 'io lo trapianti è il sesto componimento degli Ossi e risale al 192376; è uno dei più noti componimenti di Montale. Consta di tre brevi strofe: 76 Per l’esegesi si può rinviare alle pagine di S. Ramat. Montale, Firenze, Vallecchi, 19682, pp. 4243 e M. Forti, Eugenio Montale: la poesia, la prosa di fantasia e d’invenzione, Milano, Mursia, 1973, pp. 75-76.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ”

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nella prima il poeta chiede un girasole per trame forza consolatoria, visto che que­ sto fiore, data la sua caratteristica di volgersi per cercare instancabilmente il sole, è un simbolo di speranza; nella seconda strofe il poeta ‘teorizza’ sul perché il girasole segua sempre il sole: esso, come tutti i corpi privi di luce propria, ‘tende alla luce’ come a fonte di vita. La terza strofe si ricollega alla prima, dopo il “cuneo teoretico” (Ramat) della seconda: viene ribadita, anaforicamente, la richiesta del fiore, simbolo stesso della vita con la sua sete di luce, richiesta enfatizzata dalla definizione del fiore in quanto “impazzito di luce”, punto nodale della lirica e “indimenticabile acuto” (Ramat), “una delle massime invenzioni emblematiche” dell’intero poetare montaliano. Nella Sceneggiatura, p. 9, Vittoria si rivolge a Attilio con le parole “tu, girasole impazzito di luce, ogni volta che i tuoi occhi si sollevano, si accende il firmamento”. Dunque, come per Montale la sua ispiratrice è paragonabile al girasole, così anche per Vittoria Attilio ricopre in apparenza la funzione usuale del fiore-girasole, che è, montalianamente, portatore di speranza; ma, a ben guardare, la forza di Attilio è di­ versa, e superiore, nei confronti di quella del girasole: mentre, infatti, il girasole orienta la sua corolla verso la luce del sole, per Vittoria è il girasole-Attilio che, lungi da attingere luce dal sole, dà egli stesso luce al firmamento. Doppio rovescia­ mento, dunque: la donna che si rivolge all’uomo (il contrario di ciò che si verifica in Montale) e, soprattutto, l’iperbolica enfatizzazione della forza d’amore grazie a cui Attilio non segue gli elementi della natura, ma li domina. Come il precedente, anche Dora Markus è uno dei testi più noti di Montale77. La lirica, che fa parte della raccolta delle Occasioni (pubblicata nel 1939), fu compo­ sta in due momenti diversi e lontani l’uno dall’altro; le prime tre strofe nel 1926, le ultime nel 1939, quasi a cornice del complessivo periodo di composizione dell’in­ tera raccolta delle Occasioni. Occasionata in modo del tutto accidentale dalla ri­ chiesta di Bobi Bazlen, che accompagnò la richiesta stessa con la fotografia delle gambe di una donna non specificata (in realtà, appunto Dora Markus), la lirica fu av­ viata da Montale nel 1926, poi interrotta e ripresa, molti anni dopo, in omaggio però non più alla medesima donna, ma a Gerti, donna conosciuta personalmente dal poeta a Lucca; nella fantasia montaliana le due donne ‘ispiratrici’ si fondono come un unico ‘fantasma’. Tra la prima e la seconda parte della lirica intercorrono differenze e scarti, rilevati da Montale stesso nella nota alla lirica78. A noi interessa qui solo la prima parte del componimento, nella cui terza strofe si legge “è una tempesta anche la tua dolcezza”, ripresa in Sceneggiatura, p. 9 (bat­ tuta di Vittoria). Questa prima parte del testo ha un avvio ‘fiabesco’, per poi passare progressivamente a forme di simbolismo che culminano nel ricorso tipicamente montaliano agli oggetti simbolici / amuleti, “forse / ti salva un amuleto che tu tieni / vicino alla matita delle labbra, / al piumino, alla lima: un topo bianco, / d’avorio; e così esisti!”79, e che inquadrano Tirrequietudine di Dora: proprio tale atteggia­

77 Si vedano, per esempio, Forti, op. cit., pp. 148 sgg.; Ramat, op. cit., pp. 95-96. 78 Cfr. Forti, op. cit., pp. 148-149 e p. 204 nota 42; Ramat, op. cit., p. 95. 79 Coralli, ventaglio, giade, gemme sono alcuni degli ‘amuleti’ montaliani, riferiti soprattutto a Clizia: cfr. S. D’Arco Avalle, Tre saggi su Montale, Torino, Einaudi, 19703 (19651), pp. 45 sgg.; O. Macri. Re-

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mento di irrequietudine costituisce il modello di quello di Attilio, evidenziato da Vittoria. Nella battuta riportata in Sceneggiatura, p. 9 le parole di Vittoria, rivolte a Atti­ lio, “è una tempesta anche la tua dolcezza” evidenziano come l’irrequietezza di At­ tilio sia vista affettuosamente da Vittoria: dunque il contesto montaliano (l’irrequietezza di Dora è vista come un atteggiamento da considerare con affetto) è rispettato, pur con il rovesciamento determinato dal fatto che l’irrequietezza del­ l’uomo è evidenziata dalla donna mentre in Montale è l’uomo (il poeta) che evi­ denzia l’irrequietezza della donna. Dunque l’irrequietudine di Dora costituisce il ‘modello’ poetico di quella di Attilio. Xenia II, 5, quinto componimento della raccolta Xenia II, sezione di Satura, ri­ sale al 1967 e costituisce a sua volta un ‘pezzo’ antologico. Xenia sono ‘doni ospi­ tali’ (tale è il significato del termine come titolo di una delle raccolte di epigrammi di Marziale) che Montale dedica poeticamente alla moglie morta, ‘Mosca’; il n. 5 di Xenia //rievoca la condizione particolare del poeta e della moglie: quando essi scendevano insieme le scale, la moglie, quasi cieca, aveva bisogno della guida ‘ma­ teriale’ del marito, ma in realtà nella sua cecità era lei che vedeva meglio le cose della vita e quindi orientava, regolava la vita del poeta. Il milione di scale indica il lungo periodo passato in vita coniugale, periodo che tuttavia nel ricordo post mor­ tem pare brevissimo80. La ripresa dei versi iniziali montaliani, ‘‘Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino”, ri echeggiati più avanti, nella seconda strofe della lirica, “ho sceso milioni di scale dandoti il brac­ cio”, da parte di Attilio, Sceneggiatura, p. 48, è perfettamente adattata al nuovo con­ testo, dato che Attilio si rivolge a Vittoria; anzi, la battuta è ancora più pertinente perché è inserita in un discorso tutto affettuoso che il marito rivolge alla moglie nel momento in cui entrambi salgono le scale. Naturalmente non sfugge la differenza che Montale si rivolge alla moglie morta, mentre Attilio si rivolge a Vittoria non solo viva, ma con cui addirittura spera di poter nuovamente avviare il rapporto matrimo­ niale attualmente interrotto; probabilmente proprio per ‘esorcizzare’ questo diverso riferimento nel film la battuta è accompagnata da uno scivolone di Attilio, che quasi cade e dunque suscita il sorriso del lettore/spettatore, in modo da stemperare la ten­ sione del momento. Comune al poeta e ad Attilio il senso smarrito di vuoto in una vita non più condivisa con la compagna. Da un certo punto di vista, la funzione della ci­ tazione montaliana è analoga a quella di Auden, di cui ho detto sopra, p. 24. Ma il debito di Benigni-Cerami nei confronti di Montale va oltre queste cita­ zioni evidenziate dagli autori stessi. Infatti in Sceneggiatura, p. 133, in una dida­ scalica per la scena (dunque fuori battuta), si legge “è il cielo notturno, inzeppato di stelle, vicine e lontanissime, alcune delle quali baluginano dolcemente”, a pro-

altà del simbolo. Poeti e critici del Novecento italiano. Firenze, Vallecchi, 1968, pp. 89 sgg.; Ramai, op. cit., pp. 272-274; D. Isella in E. Montale, Finisterre (versi del 1940-1942) a cura di D. Isella, Torino, Einaudi, 2003, pp. 18 sgg. e 32 sgg. 80 Per l'atteggiamento chiaramente allegorico assunto da Montale in questo xenion cfr. per esem­ pio le pagine di Forti, op. cit., pp. 371-372.

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve”

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posito del cielo che subito dopo, per bocca di Fuad, viene definito poeticamente con parole di Adonis (Sceneggiatura, p. 134); orbene ‘baluginare’ è verbo poetico, usato proprio da Montale in Vecchi versi (1926), “... faro che baluginava sulla / roccia del Tino”81. Che Montale sia ben presente nella Sceneggiatura non stupisce, in considerazione dell’importanza del poeta nel panorama italiano del Novecento. A conferma di ciò, si può citare anche un altro fattore, che emerge da una considerazione di più ampia por­ tata. Nella scena 7 A, relativa alla ‘lezione di poesia’ impartita da Attilio ai suoi alunni, il docente a un certo punto (Sceneggiatura, p. 24) ammonisce che “non esiste una cosa più poetica di un’altra” (e aggiunge, subito dopo, due citazioni contigue, una da Coc­ teau. l’altra da Bécquer); e esemplifica con una serie di termini del tutto prosaici, ‘ter­ mosifone’, ‘tram in ritardo’, etc., quali possibili oggetti di trattazione poetica. Ora, come non ricordare che proprio Montale impiega nelle sue liriche termini in sé banali, cui egli riesce a infondere insospettata poeticità nel contesto in cui li inserisce?

Elsa Morante82 Lettera, in Alibi, Milano, Garzanti, 1988 (= Milano. Lon­ ganesi, 1958), p. 31

Sceneggiatura, p. 9 + p. 8, entrambe battute di Vittoria

Tutto quel che t’appartiene, o che da te proviene, è ricco d’una grazia favolosa: perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime. L’invidia mia riveste d’incanti straordinari i miei rivali: essi vanno per vie negate ai mortali, hanno cuore sapiente, cortesia d’angeli. E le lagrime che mi fai piangere sono il mio bel diadema, se l’amara mia stagione s’adorna del tuo sorriso.

Tutto quello che ti appar­ tiene è ricco di grazia, per­ fino le tue amanti, perfino le mie lagrime [...].

Stupisco se ripenso che avevo tanti desideri e tanti voti da non sapere quale scegliere. Ormai se cade una stella a mezzo agosto, se nel tramonto marino balena il raggio verde, se a cena ho una primizia nella stagione nuova, o m’inchino alla santa campana dell’Elevazione, non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome, o parola che mi apri le porte del paradiso.

Sgocciolo il tuo nome ..., parola che mi apre le porte del paradiso.

Nel mio cuore vanesio, da che vi regni tu,

81 Passo ripreso da Ungaretti in Ultimi cori, n. 27 “balugina da un faro / verso cui va tranquillo / il vecchio capitano” ( 1952-1960). Naturalmente il verbo ‘baluginare’ non è solo in Montale, come prova la documentazione raccolta in S. Battaglia, Grande dizionario della lingua italiana. II, Torino, UTET, 1962 (1980), p. 24; tuttavia l’uso montaliano agli occhi degli sceneggiatori è indicativo, perché si in­ serisce nella conoscenza dell’opera di Montale che traspare dalla Sceneggiatura. 82 Nata a Roma nel 1912, morta nel 1985. Nel 1941 sposò Alberto Moravia, da cui si separò nel 1962. Scrittrice soprattutto di romanzi. Opere: Menzogna e sortilegio (1948), L’isola di Arturo (1957), Lo scialle andaluso (1963). La storia (1974), Arneodi (1982); in poesia. Alibi (1958).

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le antiche leggi del mondo sono tutte rovesciate: l’orgoglio si compiace di umiliarsi a te, la vanità si nasconde davanti alla tua gloria, la voglia si tramuta in timido pudore, la mia sconfìtta esulta della tua vittoria, la ricchezza è beata di farsi, per te, povera, e peccato e perdono, ansia e riposo, sbocciano in un fiore unico, una grande rosa doppia.

Ma la frase celeste, che la mia mente ascolta, io ridirti non so, non c’è nota o parola. Ti dirò: tu sei tutto il mio bene, ad ogni ora questa grazia di amarti m’è dolce compagnia. Potesse il mìo affetto consolarti come mi consola, o tu che sei la sola confidenza mia!

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 167, limitatamente alla prima parte (“tutto quello che ti appartiene è ricco di grazia, perfino le tue amanti, perfino le mie lagrime”); per quanto ri­ guarda la seconda parte (“sgocciolo il tuo nome .... parola che mi apre le porte del para­ diso”), in Sceneggiatura, p. 165 gli Autori giurano che questa è una citazione, ma non riescono a ricordare da dove sia stata tratta; io ho identificato la fonte appunto nel testo della Morante,

La poesia Lettera, composta dalla Morante nel 1946, fu successivamente inse­ rita nella raccolta lirica Alibi, pubblicata nel 1958; una delle poche poesie compo­ ste dalla scrittrice, molto più incline, per sua stessa ammissione, alla prosa. È un testo redatto come se fosse una lettera poetica. La forma epistolare, anche se immaginaria, consente un effetto di distanziazione che sarebbe invece escluso dalla presenza (anche se immaginaria) dell’ interlocutore; rende più libera la mani­ festazione dei sentimenti (“le antiche leggi del mondo sono tutte rovesciate: ... ”). Per tale ragione la lirica costituisce una specie di confessione aperta dello stravol­ gimento dell’essere causato da un amore esclusivo che si concentra su un unico og­ getto (“non ho che un voto solo: il tuo nome, il tuo nome”). Il discorso della Morante si fa pregnante là dove elemento umano e elemento di­ vino paiono accavallarsi83: se, per esempio, espressioni come “perfino i tuoi amanti, perfino le mie lagrime” o “potesse il mio affetto consolarti come mi consola” ri­ portano nettamente alla sfera umana, altre, come “m’inchino alla santa campana dell’Elevazione” o “parola che mi apri la porta del paradiso” sono più ambigue. Grazie a tale atteggiamento, la lirica riesce a esprimere un senso di amore travol­ gente che trascina e modifica in profondità la natura stessa dell’essere. Proprio tale atteggiamento è evidenziato nelle parole della lirica che Vittoria fa sue nelle battute di Sceneggiatura, p. 9 (“tutto quello che ti appartiene è ricco di grazia, perfino le tue amanti, perfino le mie lagrime”: l’inizio della poesia moran83 II pensiero va, con le dovute differenze, alla ripresa del tagoriano Gitanjali nella Sceneggiatura (per cui cfr. p. 75).

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tiana) e p. 8 (“il tuo nome..., parola che mi apre le porte del paradiso”), battute for­ mulate in due momenti diversi, pur ravvicinati, e in ordine inverso rispetto all’originale. Il fatto che nella Sceneggiatura la lirica sia ripresa per due volte, e la seconda in una misura che abbraccia più di un concetto, dimostra quanto il testo morantiano sia stato apprezzato dagli estensori della Sceneggiatura stessa. Comunque sia, la ricontestua­ lizzazione nel testo di arrivo è coerente rispetto al testo di partenza da tutti i punti di vista, sia per quanto riguarda i contenuti (appassionata dichiarazione d’amore di uno dei due partner per l’altro), sia per quanto riguarda le parti del mittente e destinatario (nella Sceneggiatura è una donna che parla, come in Alibi è una donna che scrive).

Pablo Neruda84 Giochi ogni giorno, in Poesie d’amore e di vita a cura di G. Conte, Sceneggiatura, p. Parma. Guanda. 2001 (= 2006), pp. 24-27 53, battuta di Attilio Giochi tutti i giorni con la luce dell’universo. Esile visitatrice, tu giungi nel fiore e nell’acqua. Sei più di questa testolina bianca che stringo come un grappolo tra le mie mani ogni giorno.

Non assomigli più a nessuna da quando ti amo. Lasciati distendere tra ghirlande gialle. Chi scrive il tuo nome con lettere di fumo tra le stelle del sud? Ah, lasciati ricordare conferì allora, quando ancora non esistevi. D'un tratto il vento ulula e colpisce la mia finestra chiusa. Il cielo è una rete stracolma di pesci d’ombra. Qui convergono tutti i venti, tutti. La pioggia si spoglia.

Passano uccelli in fuga. Il vento. Il vento. Io posso contrastare solo la forza degli uomini. Il temporale travolge in mulinelli foglie scure e scioglie tutte le barche ormeggiate ieri sera nel cielo. Tu sei qui. Ah tu non fuggi. Tu mi risponderai fino all’ultimo grido. Raggomitolati accanto a me come se avessi paura. Eppure, talora, un’ombra strana ti è passata negli occhi. E ora, anche ora, piccola, mi porti rami di caprifoglio, e persino i tuoi seni profumano.

84 Nato a Parrai (in Cile) nel 1904; esiliato nel 1948, poi rientrato in patria e morto a Santiago nel 1973. Poeta, diplomatico e politico. Opere: Venti poesie d'amore e una canzone disperata ( 1924), Re­ sidenze sulla terra (1931. 1933, 1935), Canto generale (1950), / versi del Capitano (1952), Odi ele­ mentari (1954), Cento sonetti d’amore (1959), Memorial de Isla Negra (1964), La fine del mondo, etc.

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Mentre galoppa il vento triste uccidendo farfalle io ti amo e la mia felicità morde la tua bocca di prugna.

Quanto ti sarà costato abituarti a me, alla mia anima solitaria e selvaggia, al mio nome che tutti evitano. Tante volte abbiamo visto splendere l’astro baciandoci gli occhi e piegarsi sul nostro capo i crepuscoli in ventagli giranti. Le mie parole ti sono piovute addosso come carezze. Amo da tempo ormai il tuo corpo di madreperla assolata. Ti credo persino signora dell'universo. Ti porterò dai monti fiori allegri, copihues, nocciole scure e ceste silvestri di baci. Voglio fare con te Quello che la primavera fa con i ciliegi.8586

Voglio fare con te ciò che fa la prima­ vera coi ciliegi.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 176. Nella lirica Giochi ogni giorno, pubblicata nel 1924 nella raccolta Venti poesie d’amore e una canzone disperata9,6, Neruda presenta tutte le caratteristiche tipiche del suo mondo poetico: l’impiego della metafora87, il contatto tra sensualità indivi­ duale e anima delle cose, l’eros visto come comunione panica88. E poesia d’amore sensuale: vi è ricordato l’atto d’amore, simboleggiato dalla primavera che, portatrice di fertilità e capacità fecondante, fa fiorire i ciliegi: dunque rapporto stretto tra uomo e natura, una forma di panismo marcatissima, in particolare, proprio nei due versi 85 Juegas todos los dt'as con la luz del universo. / Sutil visitadora, llegas en la flory en el agua. / Eres mas que està bianca cabecita que aprieto/ corno un radino elitre tnis manos cada dia. //A nadie te pareces desde queyo te amo. /Déjame tenderle entre guirnaldas amarillas. / Quièti escribe tu nombre con letras de hunio entre las estrellas del sur?/Ah déjame recordarte còrno eras entonces, cuando aun no existias. // De pronto el viento aulla y golpea mi ventano cerrada. / El cielo es una red cujada depeces sombrios. /Aqui vienen a dar todos los vientos, todos. /Se desviste la lluvia. //Pasan huyendo los pajaros. / El viento. El viento. /Yo sólo puedo luchar contra lafuerza de los hombres. / El tempo­ ral arremolina hojas oscuras / y suelta todas las barcas que anoche amarraron al cielo. // Tu estas aqui. Ah tu no huyes. / Tu me respondents hasta el ultimo grito. / Ovillate a mi lodo corno si tuvieras miedo. /Sin embargo alguna vez corrió una sombra extrana por tus ojos. //Ahora, ahora también, pequena, me traes madreselvas, y tienes hasta los senos peifumados. /Mientras el viento triste galopa mu­ tando mariposas / yo te amo,y mi alegria muerde tu boca de cintela. // Guanto te habrd dolido acostumbrarte a mi, /a mi alma sola y salvaje, a mi nombre que todos ahuyentan. /Hemos visto arder tantas veces el lucerò besandonos los ojos/y sabre nuestras cabezas destorcerse los crepuscolos en abanicos girantes. / Mis palabras llovieron sobre ti acariciandote. /Amé desde hace tempo tu cuerpo de nacar soleado. /Hasta te creo duetia del universo. /Te trae ré de las montanasflores alegres, copili ues, / avelianas oscuras, y cestas silvestres de besos. // Quiero hacer contigo / lo que la primavera hace con los cerezos. 86 Poi in P. Neruda. Poesie d’amore e di vita a cura di G. Conte. Parma, Guanda. 2001 (= 2006), pp. 24-27. 87 Per esempio “chi scrive il tuo nome con lettere di fumo tra le stelle del sud?”; “abbiamo visto [...] / piegarsi sul nostro capo i crepuscoli in ventagli giranti”; “amo [...] il tuo corpo di madreperla assolata”. 88 Cfr. Conte, op. cit., pp. VI-VII (e pp. VII-Vili).

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conclusivi, “voglio fare con te / quello che la primavera fa con i ciliegi”, che sono ripresi nella Sceneggiatura, p. 53, posti in bocca a Attilio. Nel nuovo contesto la citazione (effettuata ad verbum) ha funzione sdrammatiz­ zante nei confronti della situazione in cui versa Attilio: Attilio, all’oscuro della pre­ senza di Nancy in casa sua, porta a casa anche Vittoria; resosi conto del ‘pasticcio’, cerca di rimediare, piegando la citazione - che in sé costituisce una offerta d’amore - a funzione ironica e scherzosa, mirante a ‘distrarre’ Vittoria e a convincerla di es­ sere l’unica referente delle sue attenzioni. Dunque il sentimento panico della na­ tura, possente nel modello, diventa lieve e ironico nella Sceneggiatura: come altre volte nella Sceneggiatura, le parole sono le stesse, ma il loro valore è diverso.

Abu I-Fath ‘Omar ibn Ibrahim al-Khayyan89 Quartine (Roha'iyyat)

Sceneggiatura, p. 24, citazione in didasca­ lia; Sceneggiatura, p. 26, lettura da parte di Attilio

Nulla io so del mare, della luna, ma sol del vivere, del vivere son certo e salvare una vita, solo una, vai più che popolare tutto un deserto.

Nulla io so del mare, della luna, ma sol del vivere, del vivere son certo e salvare una vita, solo una, vai più che popolare tutto un deserto.

Non ho avuto la possibilità di accedere al testo originale. La citazione non è registrata come tale nella sezione della Sceneggiatura dedicata alle fonti (pp. 165 sgg.).

La quartina di ‘Omar al-Khayyàn, che ho riportato sopra ad verbum, viene scritta alla lavagna in traduzione da una studentessa e letta da Attilio durante la sua lezione sulla poesia, Sceneggiatura, pp. 24 e 26. Il testo non si presta a una contestualizza­ zione, per le modalità stesse con cui viene menzionato; si può solo osservare che. come nel caso della lirica di Pound letta da Fuad in Sceneggiatura, p. 30, anche que­ sta volta Attilio formula un giudizio di alto apprezzamento sulla validità poetica della breve lirica.

Sandro Penna90 Il vegetale in Poesie, a cura di C. Garboli, Milano, Garzanti, 1989, pp. 57-59

Sceneggiatura, p. 162, didascalia conclu­ siva

Lasciato ho gli animali con le foro

89 Poeta, filosofo, matematico persiano, nativo del Khoràsàn ( 1048-1132), autore, per ciò che qui in­ teressa, di Quartine di vario argomento e di grande varietà di impostazione; le Quartine furono divulgate in Occidente grazie alla traduzione inglese di E. Fitzgerald (1895); oggi ne abbiamo una traduzione in spa­ gnolo per opera di A. Calleja, Buenos Aires 1989, e in portoghese (digitale) per opera di A. Braga, 2003. 90 Nato a Perugia nel 1906, morto a Roma nel 1977. Omosessuale, trasferì questa condizione di vita nella propria produzione poetica. Opere: Poesie (1939 e 1956), Una strana gioia di vivere (1956), Croce e delizia ( 1958), Stranezze (1976), II viaggiatore insonne (1977).

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mille mute voli inutili forme. Respiro accanto a te, ora che annotta, purpureo fiore sconosciuto: assai meglio mi parli che le loro voci. Dormi fra le sue verdi immense foglie, purpureo fiore sconosciuto, vivo come il lieve fanciullo che ho lasciato dormire, un giorno, abbandonato all’erbe. La veneta piazzetta, antica e mesta, accoglie odor di mare. E voli di colombi. Ma resta nella memoria - e incanta di sé la luce - il volo del giovane ciclista volto all’amico: un soffio melodico: “Vai solo?”

Io vivere vorrei addormentato entro il dolce rumore della vita.

Qualche momento dopo, Attilio ripassa da­ vanti al cancello senza voltare lo sguardo, sempre con la gabbietta vuota e aperta in mano. Va a passo veloce e a testa bassa, come se si vergognasse. Poi più niente. Oltre quel cancello aperto, nel silenzio, si sente appena il dolce rumore della vita.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 184.

Il testo poetico di Penna ripreso in Sceneggiatura, p. 162, costituito da vari fram­ menti raccolti sotto il titolo complessivo II vegetale, è inserito nella raccolta di Poe­ sie risalenti al periodo 1927-1938 (è lo stesso periodo di composizione delle Occasioni montaliane). Si tratta di un testo in cui, come nella lirica di Neruda ripresa altrove nella Sce­ neggiatura, è presente un forte senso panico della natura: un “fiore purpureo” che ricorda al poeta (omosessuale, non si dimentichi) un “lieve fanciullo” e, in modo più sfumato per il passar del tempo, “il volo / del giovane ciclista”. Il poeta si sente tutt’uno con i suoi ricordi e inserito, insieme con essi, nel mondo che lo circonda; la conclusione è dichiaratamente ispirata dal senso panico della natura, “io vivere vor­ rei addormentato / entro il dolce rumore della vita”, quasi una meraviglia di vivere; il rumore della vita è “dolce” forse perché, come si potrebbe evincere dalla sezione precedente del testo, viene dopo la soddisfazione erotica91. Dunque è una lirica in cui trionfa uno dei due poli fondamentali della sensibilità permiana, quello del­ l’espressione “panica, solare, luminosa dell’io”92; e, in modo tipicamente penniano, è una “poesia del ricordo” (Mengaldo)93 . come prova l’espressione “resta / nella me­ moria [...] il volo / del giovane ciclista”. 91 Dico ‘forse’ perché la cosa non è affatto sicura: infatti Penna tratta una “tematica totalmente trasgressiva” (come l’omosessualità) con un “linguaggio non trasgressivo”, per usare le parole di P. V. Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, Milano, Mondadori, 1986 (= 1978), p. 737. 92 Così Garboli, op. cit., p. Vili. 93 Mengaldo, op. cit. in nota 91, p. 737.

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La sezione conclusiva della lirica è ripresa ad verbum nella didascalia finale della Sceneggiatura (dunque al di fuori della parte dialogata), “oltre quel cancello aperto, nel silenzio, si sente appena il dolce rumore della vita”; in entrambi i contesti la frase è conclusiva di testo; in entrambi i contesti è segno di conclusione positiva di una vicenda (per Penna, lo si è già detto; per la Sceneggiatura, le scene precedenti, a cominciare da quella in cui inaspettatamente la tigre compare di fronte a Vittoria, risolvendo positivamente la condizione ‘impossibile’ posta altrove9495 , prefigurano il felice scioglimento di tutti i nodi).

Ezra Pound95 Song in A lume spento in Personae, in Opere scelte a cura dì Mary de Rachelwitz, introduzione di A. Ta­ gliaferri, Milano, Mondadori, 1970, p. 13

Sceneggiatura, p. 30, il testo viene letto nell’originale da parte di Fuad

Love thou thy dream All base love scorning, Love thou the wind And here take warning That dreams alone can truly be, For ’tis in dream I come to thee.96

Love thou thy dream All base love scorning, Love thou the wind And here take warning That dreams alone can truly be, For ’tis in dream I come to thee.

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 175.

La poesia Song, citata nella stesura originale in Sceneggiatura, p. 30 nel recital di Fuad, fu composta da Pound nel 1908 ed entrò a far parte di A lume spento, a sua volta inserita come sezione a sé nella più ampia raccolta Personae (1908-1920), pubblicata in edizione definitiva a New York nel 1926. Al momento della stesura della lirica. Pound aveva 23 anni, un periodo di vita

94 Nella scena 14 K, Sceneggiatura, p. 51, Vittoria dice a Attilio che tornerà a stare con lui quando vedrà una tigre sotto la neve a Roma, cioè quando si verificherà qualcosa di impossibile. Alla conclu­ sione del film, scena 76, p. 153 della Sceneggiatura, quella condizione ‘impossibile’ si attua concreta­ mente (benché in modo metaforico) e ciò prefigura il lieto fine della vicenda d’amore tra Attilio e Vittoria. 95 Nato nell’Idaho nel 1885; accusato di tradimento negli USA, in occasione della Seconda Guerra Mondiale, come simpatizzante del fascismo, e chiuso in carcere-ospedale per lungo tempo; morto a Ve­ nezia nel 1972. Poeta e critico d’avanguardia, aderente all’‘Imagismo’, poi al ‘Verticismo', personalità di grandissimo rilievo nel panorama del modernismo internazionale. Opere principali: A lume spento (1908), Personae (1910), The Spirit of Romance (1910), Canzoni (1911), Sonetti e ballate di Guido Cavalcanti (1912), Hugh Selwyn Mauberley (1920), Poems (1921), Cantos (1917-1970: in vari periodi, Malatesta Cantos, A Draft of the Cantos 17-27, Pisan Cantos, Section Rock-Drill...), etc., inoltre nu­ merosissimi importanti saggi relativi a tutti i settori della produzione artistica (tra l’altro, alla lettera­ tura e cultura cinesi). 96 “Ama il tuo sogno / ogni inferiore amore disprezzando, / il vento ama / ed accorgiti qui / che sogni solo possono veramente essere, / perciò in sogno a raggiungerti m’avvio”: è questa la traduzione fornita da G. Ungaretti, oggi stampata in E. Pound, Song, canzone, traduzione di G. Ungaretti, con una xilografia di L. Passerini, Milano, Ed. del Buontempo, 1991.

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in cui egli stava avviando la sua rivoluzione ‘imagista’, in attesa di sviluppare poi quella rivoluzione ‘modernista’ che avrebbe contribuito a renderlo uno degli im­ prescindibili punti di riferimento della cultura intemazionale. La raccolta in cui Song è inserita, A lume spento, al momento della pubblicazione, nel 1908 a Venezia, a spese dell’autore, ebbe una tiratura di 100 esemplari - un destino iniziale che ri­ corda Il porto sepolto ungarettiano -, dunque venne considerata dal poeta come un’opera altamente sperimentale. Coerentemente con la poetica imagista, la lirica è caratterizzata da grande brevità e essenzialità e da una fortissima ricerca di musi­ calità, come nel caso del testo coevo Motif', e il tema del song è affrontato altre volte da Pound in questi anni, come prova il confronto con Vana (sia Motif che Vana sono liriche inserite, come la nostra Song, nella raccolta A lume spento). Nella Sceneggiatura il testo viene presentato, come citazione ‘secca’, a una cer­ chia ristretta di spettatori in occasione di una ‘lettura pubblica’ svolta da parte di un poeta, dunque testo di un poeta letto da un altro poeta; tuttavia, per quale motivo sia stato scelto proprio questo testo, non un altro, non risulta del tutto chiaro, anche a causa della mancanza (voluta, per esigenze di copione) di un contesto più ampio, dato che all’arrivo di Attilio e dell’amico il recital sta per concludersi, con il con­ gedo dal pubblico da parte di Fuad in partenza per 1’ Irak. Va tuttavia ricordato che At­ tilio manifesta il massimo apprezzamento per la lirica oggetto della lettura, per cui possiamo pensare che il testo sia stato inserito come pezzo ‘antologico’ (il commento di Attilio, in Sceneggiatura, p. 25, è indicativo: “hai sentito che bellezza quella poe­ sia? ... da spaccare”): una conferma di ciò potrebbe venire dal fatto che il testo poundiano attirò l’attenzione di Ungaretti, che ne fornì una splendida traduzione97. Kurt Schwitters98 An Anna Blume in Anna Blume Dichtungen, in Anna Blume und Sceneggiatura, p. 8, ich. Die Gesammelten “Anna Blume”-Texte, herausgegeben von E. battuta di Vittoria Schwitters, Ziirich, Die Arche, 1965, p. 46 O tu amata dei miei ventisette sensi, io ti amo! Tu di te te a te, io te, tu me. Noi? Ma questo (detto tra parentesi) non c’entra. Chi sei tu, donna dai mille aspetti? Tu sei... sei tu? - la gente dice, che saresti, - lasciala dire, non sa come sta in piedi un campanile. Porti il cappello sui tuoi piedi e cammini sulle mani, sulle mani tu cammini. Ehi, i tuoi vestiti rossi, segati in pieghe bianche. Rossa io amo Anna Blume, rossa, io amo te! Tu di te te a te, io te, tu me. Noi?

97 Io ho trascritto tale traduzione sopra, nella nota precedente, in calce alla citazione dell’originale poundiano. 98 Nato a Hannover nel 1887. nel 1937 emigrò in Norvegia, nel 1940 in Inghilterra, ove morì nel 1948. Scrittore e pittore, esponente dei movimenti espressionista e dadaista; fondatore del movimento artistico ‘Merz’. La sua produzione letteraria è costituita da Anna Blume Dichtungen (1919).

Le citazioni letterarie nel film “La tigre e la neve ” Questo (detto tra parentesi) sta meglio nella fredda brace. Rosso fiore, rossa Anna Rossa, come dice la gente? Indovinello: 1. Anna Rossa ha un uccello 2. Anna Rossa è rossa. 3. Che colore ha l’uccello? Blu è il colore dei suoi capelli gialli. Rosso è il tubare del tuo verde grillo. Tu ragazza nel vestito di casa, tu cara verde bestiola, io amo te! - Tu di te a te, io te, tu me; - Noi? Ma questo sta meglio (detto tra parentesi) nella cassetta della brace. Anna Rossa I, A-n-n-a, io sgocciolo il tuo nome. Il tuo nome gocciola come morbido sego di bue. Lo sai, Anna, lo sai già già? Ti si può leggere anche da dietro, e tu, tu la più splendida fra tutte sei da dietro come davanti A-n-n-a. Sego di bue gocciola sulla mia schiena,

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Attilio de Giovanni ... oh, At-ti-Iio - de - Gio-van-ni, io sgocciolo il tuo nome.

Anna Fiore, bestiola gocciolata, io amo te."

La fonte è citata in Sceneggiatura, p. 165.

Il testo di riferimento di Schwitters, cui accenna la Sceneggiatura p. 165, è An Anna Blume 1, inserito nella raccolta Anna Blume Dichtungen, del 1919. In quel periodo Schwitters, trentaduenne, svolgeva fondamentalmente attività di pittore ed era entrato nell’orbita dell’Espressionismo e del Dadaismo; successiva­ mente fondò il movimento ‘Merz’ (che ebbe anche un organo ufficiale nella rivista omonima, pubblicata dal 1923 al 1932). La ‘poetica’ prevista dal Dadaismo nei testi scritti si manifesta tramite l’accostamento di frammenti di parole e frasi del più ba­ nale linguaggio quotidiano, spesso non reciprocamente collegate (il corrispettivo poetico dei collages pittorici creati con pezzetti di legno naturale, pettini, biglietti del

99 O du, Geliebte tneiner siebenundzwanzig Sinne, ich liebe /dir! - Du deiner dich dir, idi dir, dii mir. - Wir?/Das gehort (beilaufig) nicht hierher. /Wer bist du, ungezàhltes Frauenzimmer? Du bist - bist / du ? - Die Lente sagen, du wàrest, — lofi sie sagen, sie wissen / nicht, wie der Kirchturm steht. / Du trdgst den Hut aufdeinen Filjìen und wanderst auf die / Haride, aufden Hànden wanderst du. / Hallo deine rotea Kleider, in weifie Fatten zersagt. Rot/liebe ich Anna Blume, rot liebe ich dir! — Du deiner dich dir, / ich dir, du mir. - Wir?/ Das gehort (beilaufig) in die kalte Glut. / Rote Blume, rote Arma Blume, wie sagen die Lente? /Preisfrage: 1. Anna Blume hat einen Vogel, /2. Anna Blume ist rot. /3. Welche Farbe hat der Vogel ? / Blau ist die Furbe deities gelben Haares. /Rot ist das Girreti deities grli­ nen Vogels. / Du schlichtes Madchen im Alltagskleid, du liebes griines / Tier, ich liebe dir! - Du deiner dich dir, ich dii; du mir, - / Wir?/Das gehort (beilaufig) in die Glutenkiste./Anna Blume! Anna, a-n-na, ich tronfie deinen Namen. / Dein Name tropfì wie weiches Rindertalg. /Weifit du es, Anna, weifit du es schon?/Man kann dich aneli von hinten leseti und du, du HerrVlichste von alien, du bist von hinten wie von vorne: / “a-n-n-a". / Rindertalg traufelt streicheln iiber meinen Riicken./Anna Blume, du tropfes Tier, ich liebe dir!

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Capitolo secondo

tram e simili). Proprio di tali tendenze risente la nostra lirica - che del resto Schwit­ ters stesso definisce ‘dadaista’100 forse la lirica più significativa e famosa di Schwitters dal punto di vista indicato or ora101, tanto famosa da diventare, appena pubblicata, una specie di ‘ritornello’ ripetuto a ogni angolo di strada102. Colpiva so­ prattutto l’enfatica ‘sillabazione’ deH’idionimo della donna (“A-n-n-a [...] A-n-na”), idionimo di cui il poeta scherzosamente sottolineava la caratteristica di poter essere pronunciato indifferentemente da sinistra a destra o alla rovescia, da destra a sinistra, caratteristica questa che si ritrovava anche nell’aspetto fisico della donna, bellissima sia vista davanti che vista da dietro103: e proprio questa sillabazione re­ stava impressa nell’immaginario collettivo104. Non stupisce che appunto questo tipo di enfatizzazione della pronuncia del nome volutamente scandito tramite sillabazione, quasi per consentire la più sicura identi­ ficazione del destinatario del messaggio d’amore, si incontri nella battuta di Vitto­ ria rivolta a Attilio, in Sceneggiatura, p. 8; si noti che la nuova contestualizzazione è del tutto adeguata: l’idionimo del contesto di partenza, coerente al proprio posto, viene sostituito con altrettanta coerenza con l’idionimo adeguato al contesto di ar­ rivo: dall’invocazione nei confronti di ‘A-n-n-a Blume’ si passa a quella indirizzata a ‘At-ti-li-o de Gio-van-ni’. Inversione delle parti nei protagonisti del duetto: in Schwitters è il poeta che si rivolge alla donna vagheggiata, nella Sceneggiatura è la donna (p. 8, battuta di Vit­ toria) che si rivolge all’amato. William Shakespeare105 When, in disgrace with fortune in Sonetti trad. ital. a cura di A. Serpieri, Milano, Rizzoli, 1998 (= 1991, 1995), p. 124, sonetto 29

Sceneggiatura, p. 61, battuta di Nancy

When, in disgrace with Fortune and men’s eyes, I all alone beweep my outcast state, And trouble deaf heaven with my bootless cries, And look upon myself and curse my fate, Wishing me like to one more rich in hope, Featured like him, like him with friends possessed, Desiring this man’s art, and that man’s scope, With what I most enjoy contented least,

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