La strada più impervia. Boccaccio fra Dante e Petrarca 9788884556868, 8884556864

Senza nulla togliere alla grandezza di Petrarca, dovremmo forse dubitare delle sue prospettive di giudizio sull'ami

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La strada più impervia. Boccaccio fra Dante e Petrarca
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Marco Veglia

LA STRADA PIU IMPERVIA BOCCACCIO FRA DANTE E PETRARCA

EDITRICE ANTENORE ROMA-PADOVA· MMXIV

Senza nulla togliere alla grandezza di Petrarca, dovremmo forse dubitare delle sue prospettive di giudizio sull'amico Boccaccio, che, s'intende, scelse la strada letteraria che piu gli era congeniale. Per farlo, gli abbisognavano non soltanto le qualità che possedeva copiose, ma le avvedutezze che doveva acquisire con la maturità e l' esperienza. Per conciliare Dante e Petrarca egli non poteva che assumere il ruolo del discepolo chiosatore e del cultore di reliquie letterarie. Con una umiltà, talvolta cosi esibita da essere non meno goffa della pretesa petrarchesca di non conoscere la Commedia, con la maschera dello scrittore-commentatore che si dichiarava terzo fra cotanto senno, Boccaccio riusci a essere fedele a se stesso e, nel contempo, ad affermare la propria «differenza», a salvaguardarla e a nutrirla. La sua «terza strada», tanto faticosa e impervia quanto originale, è per ciò stesso quella di una letteratura conciliante e inclusiva, che non poté e non volle rinunciare a innestare Petrarca sul tronco di Dante, né a mostrare il volto grifagno di Dante tra le ombre e le verzure di Valchiusa.

Marco Veglia insegna Letteratura italiana all'Università di Bologna. Studioso di Dante e di Boccaccio, cui ha dedicato due volumi (fl corvo e la sirena, 1998; La vita lieta, 2000 ), si è dedicato a lungo anche alla letteratura del tardo Ottocento, in particolare a Carducci (da ultimo, con un'edizione di testi della giovinezza, Carducci e San Miniato, 2010, e col commento a Rime e Ritmi, 2011), a Lorenzo Viani (Racconti, 2008), a Giovanni Pascoli (2012), non senza aperture alla storia della cultura, per gli intrecci fra letteratura e medicina nelle figure di Augusto Murri e di Bartolo Nigrisoli, del quale ha appena curato Parva. Scritti autobiografici (2014).

AREZZO E CERTALDO Francisco Rico Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca) Paola Vecchi Galli Padri. Petrarca e Boccaccio nella poesia del Trecento Marco Veglia La strada piu impervia. Boccaccio fra Dante e Petrarca Natascia Tonelli Piaceri e veleni dell'amicizia. Petrarca lettore di Boccaccio (in preparazione)

ISBN 978-88-8455

Prezzo del volume: € u,oo

~ Il

9 788884 5561

AREZZO E CERTALDO Collana diretta da GIAN MARIO ANSELMI, LOREDANA CHINES, PAOLA VECCHI GALLI (Alma Mater Studiorum, Università di Bologna, Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica)

In copertina: Filippo Balducci (Iv Introd.), disegno del Boccaccio dal codice autografo del Decameron: Berlino, Staatsbibliothek, Preussischer Kulturbesitz, ms. Hamilton 90, c. 47Y.

Marco Veglia ,

LA STRADA PIU IMPERVIA BOCCACCIO FRA DANTE E PETRARCA

i

EDITRICE ANTENORE ROMA-PADOVA ·MMXIV

Volume pubblicato con il contributo dell'ALMA MATER STUDIORUM- UNIVERSITÀ DI BOLOGNADIPARTIMENTO DI FILOLOGIA CLASSICA E ITALIANISTICA

ISBN 978-88-8455-686-8 Tutti i diritti riservati- All rights reserved Còpyright © 2014 by Editrice Antenore S.r.l., Roma-Padova. Sono rigorosamente vietati la riproduzione, la traduzione, l'adauan1cnto, anche pa~iale o per estratti, per qualsiasi uso e con qualsiasi mezzo effettuati, sel1Za la ·nreventiva autorizzazione scritta della Editrice An tenore S.r.L Ogni abuso sarà perseguito a norma di legge.

The power to guess the unseen from the seen, to trace the implications of things, to judge the whole piece by the pattern, the condition of jèeling life, in genera!, so completely that you are well on your way to knowing any particular corner of it- this cluster of gifts may almost be said to constitute experience, and they occur in country and in town, and in the most differing stages of education. If experience consists of impressions, it may be said that impressions are experience, just as (have we no t seen it?) they are the very air we breathe. Therefore, if I should certainly said to a novice, >, cit.

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coglitore>> di un polittico di immagini di Petrarca. Dalle testimonianze che seguono sarà forse possibile osservare, da un altro punto di vista, la «versione ufficiale>> che, di sé, ci ha lasciato il maestro dell'Umanesimo europeo. Ciò è tanto piu significativo se accogliamo il rilievo, affidato da Francisco Rico ai suoi Ritratti allo specchio, secondo il quale Petrarca è presente nelle opere del Boccaccio piuttosto come amico e maestro, che come autore. S'intende che, nella boutade, Rico non vuole omettere il rilievo della presenza di riferimenti boccacciani allo scrittore Petrarca, ma suggerisce che quest'ultimo affiori e dimori, nella pagina dell'amico, piuttosto come praeceptor, come fonte autorevole di colloqui spirituali, di suggerimenti e suggestioni, insomma come guida morale, che come poeta. Perché? Quali tensioni mai del tutto sopite continuarono ad allignare tra due amici che pur sinceramente si amavano? 2. Consideriamo alcuni indizi e cominciamo il nostro cammino dagli anni dei Libri mei peculiares e della Mavortis, per poi approdare a quelli del De vita, della Posteritati e del Decameron, con l'intenzione di concludere con gli anni Settanta e con un codice (si tratta del146 B del Balliol College di Oxford) che sembra racchiudere in sé, quasi in effigie, tutto il cammino, in nessun modo uniforme e scontato, delle vite parallele di Petrarca e Boccaccio.! La sequela dei Libri mei peculiares può essere raffrontata alle informazioni che, circa sei anni piu tardi, si possono ricavare da uno dei dictamina napoletani di Giovanni

Su questo manoscritto, con profitto, si leggano le schede descrittive di NrcHOLAS MANN, Petrarch manuscripts in the British Isles, in« Italia 7

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Boccaccio, la Mavortis milex extrenue, del1339. 8 Petrarca, lo sappiamo, nella versione ufficiale che darà di sé «post Iubileum», come hanno appunto dimostrato in via definitiva gli studi di Francisco Rico, 9 batterà l'accento sulla propria immagine di filosofo cristiano, di sapiente, che verrà affidata a quella Posteritati che risente, in talune sue parti, del boccacciano De vita et moribus Francisci Petracchi de Florentia'o (il quale, secondo Renata Fabbri,

Medioevale e Umanistica», XVIII (1975), pp. 353-55 e di MONICA BERTÉ, in F. PETRARCA, Senile v 2, a cura di MoNICA BERTÉ, Firenze, Le Lettere, 1998, pp. 33-35. Sul rilievo del codice per una rilettura critica dei rapporti fra Boccaccio e Petrarca, cfr. MARco VEGLIA, corvo e la sirena. Cultura e poesia del> del Petrarca, nel> di componimenti giovanili, cui si riferisce la Fam. I 1, era di diverso genere letterario, ed era stata composta in latino e in volgare(« Quod genus, apud Siculos, ut fama est, non multis ante seculis renatum, brevi per omnem italiam ac longius manavit ... »: I 1, 6). Una tale quantità di scritture giovanili(« mille, vel eo amplius, seu omnis generis sparsa poemata seu familiares epistolas»), sgradite ormai a Francesco non perché prive di bellezza ma perché troppo coinvolte nelle ambages del mondo (« non quia nichil in eis placuisset, sed quia plus negotii quam voluptatis inerat»), vennero affidate, come s'è già ricordato, alla lima di Vulcano (I 1, 79). Che si trattasse, in larga parte, di poemi ed epistole, di poesie e prose, nate tra la Francia e Bologna, non parrebbe da dubitarsi. La stessa cifra del «negotium>>, sotto la quale vengono raccolte le composizioni di quella «prima etade>>, testimonia l'inclinazione di Francesco per una letteratura non ancora segnata dalla linea cristiana e sapienziale, distaccata del «mundus», che sarà caratteristica, invece, della renovatio successiva al Giubileo.

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Se la lettera cui rispondeva la Fam. XXI 15 non ci è l?iunta, se ne possono intuire però alcune affermazioni. E bastevole osservare in controluce, per dir cosi, l' epistola di Petrarca. Fin dal principio, con un'esattezza che gli consente l'affermazione dell' autonomia della propria linea umanistica, egli definisce e circoscrive il magistero di Dante - «popularis quidem quod ad stilum attinet, quod ad rem haudubbie nobilis poete » (§ 1) - alla sola poesia volgare. Casualità? Quando ne rievoca l'esilio, vissuto in comune con il padre Petracco, Francesco coglie di nuovo l'occasione per tracciare confini ben netti intorno alla grandezza del poeta fiorentino, ricordandone lo «stilus in suo genere optimus » (§ 9). Quindi, piuttosto che negare l'innegabile, Petrarca si impegna a rimpicciolire l'icona di Dante, a tributargli onori ascritti al solo terreno del «parlar materno ». Difficile credergli, ad esempio, quando afferma che da giovinetto non lo lesse perché si cimentava allora nella poesia volgare, e non voleva esserne influenzato. « Ea vero michi obiecte calumnie pars altera fuerat, cuius in argumentum trahitur quod a prima etate, que talium cupidissima esse solet, ego librorum varia inquisitione delectatus, numquam librum illius habuerim, et ardentissimus semper in reliquis, quorum pene nulla spes supererat, in hoc uno sine dif.ficultate parabili, novo quodam nec meo more tepuerim» (§ 10). Poiché Avignone e Montpellier non dovettero certo pullulare di copie della Commedia, una simile affermazione, riferita alla «prima etas » di Petrarca, trova forse appigli storici nella città della prima diffusione manoscritta del poema dantesco: agevole, dunque, da reperire in Bologna. Un altro fatto si può forse indurre dalle argomentazioni della Fam. XXI 15. Boccaccio, scrivendo a Petrarca,

La strada piu impervia toccò certamente il punctum dolens della poesia latina di Dante C§ 22): 45 Nam quod imer laudes dixisti, potuisse illum si voluisset alia stilo uti, credo edepol- magna enim michi de ingenio eius opinio est - potuisse eum omnia quibus intendisset; nunc quibus intenderit, palam est. Et esto iterum: intenderit, potuerit, impleverit; quid tandem ideo? Que ve inde michi invidie et non potius gaudii materia? Petrarca, che non invidiava nemmeno Virgilio, avrebbe dovuto invidiare Dante, che correva sulla bocca dei tintori e degli osti? C§ 22). Per l'unica volta nella lettera, Francesco sembra quasi irritarsi per le insinuazioni di Giovanni. È evidente che Boccaccio deve aver pizzicato un nervo scoperto dell'amico, col riferimento alla grandezza e versatilità di Dante in utroque stilo. Di Dante- confessa invece Francesco egli non fa che discorrere bene, con lode: «magna enim michi de ingenio eius opinio est)). Soltanto si permette di pronunciare un giudizio, che, a sua volta, ci suggerisce che forse egli ne conobbe le egloghe e che, se le conobbe, ciò accadde verosimilmente, come lasciava intendere del resto il passo del De vita sulla vocazione bolognese del Petrarca letterato nelle sue nervature contestuali, nella città dello Studio C§ 24-25) Iurato michi fidem dabis, delectari me hominis ingenio et stilo, neque de hoc unquam me nisi magnifice loqui solituro. Unum est quod scrupolosius inquirentibus aliquando

Per questo e per il passo che segue della Fam. xxr 15 si veda ancora PETRARCA, Opere, pp. 1132-33. 45

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respondi, fuisse illum sibi imparem, quod in vulgari eloquio quam carminibus aut prosa clarior atque altior assurgit; quod neque tu neges, nec rite censenti bus aliud quam laudem et gloriam viri sona t . .. . uno in genere excelluisse satis est. Que cum ita sint, sileant, queso, qui calunniam struunt; at qui forte calumniantibus crediderunt, hic, si libet, iudicium meum legant. Nei carmi latini e nelle prose, Dante non raggiunse quindi l'eccellenza che consegui nella poesia della Commedia. E meglio anzi avrebbe fatto ad appagarsi di eccellere in un sol genere di poesia. Questo, secondo Francesco, nemmeno Boccaccio e i lettori provvisti di sano giudizio potevano negarlo.

s.

Nel prossimo capitolo indugeremo sul rapporto fra i due amici negli anni della composizione del Decameron, ovvero nel decennio piu spigoloso e teso che la loro amicizia abbia conosciuto. Fin d'ora, tuttavia, possiamo riportare un giudizio sintetico su quella stagione, tale da delineare il contesto sul quale proiettare le osservazioni che verremo compiendo. Cosi ha scritto Paola Vecchi Galli: 46

In quest'arco cronologico Petrarca licenzia il Canzoniere « Correggio », e Boccaccio il Decameron. Entrambi hanno raggiunto una consapevolezza che dà loro titolo per mettere ordine al passato, anche recente, della letteratura in lingua italiana. Entrambi sanno dove vogliono parare: Boccaccio alla codificazione di una letteratura fiorentina che attraversi e moltiplichi in nuovi generi il modello comico di Dante, includendo Petrarca; Petrarca al profilo umanistico, selettivo e bilingue,

46

Padri , p. 47·

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della nuova cultura, che abbracci le proprie rime italiane e onori il debito dantesco senza farsene travolgere (è la linea, per intenderei, della canzone «delle citazioni», RVF7o). Come si vede, nessuna convergenza di propositi, ma due distinti obiettivi.

Negli anni Sessanta, invece, il rapportò fra Giovanni e Francesco mutò, ma non scomparve l'inclinazione di Boccaccio a inserire, negli elogi dell'amico, un fastidioso granellino di sabbia, una nota stridente rispetto alla iconografia che Petrarca imbastiva di sé. Un'importante conferma, a titolo d'esempio, delle implicazioni storicoculturali di certe zone d'ombra del Petrarca ci viene, poco oltre la metà degli anni Sessanta, dalla xv egloga del Buccolicum carmen di Boccaccio. Conviene rileggerne l'esposizione del tema nell'epistola a Martino da Signa (Epist.

XXIII 29-30 ):

Quintadecima egloga dicitur Phylostropos, eo quod in ea tractatur de revocatione ad amorem celestium ab amore illecebri terrenorum; nam Phylostropos dicitura «phylos», quod est «amor», et «tropos», quod est «conversio». Collocutores duo sunt, Phylostropus et Typhlus. Pro phylostropo ego intelligo gloriosum preceptorem meum Franciscum Petrarcam, cuius monitis sepissime rnichi persuasum est ut ornissa rerum temporalium oblectatione mentem ad eterna dirigerem, et sic amores meos, etsi non plene, satis tamen vertit in melius. Typhulus pro me ipso intelligi volo et pro quocunque ali o caligine rerum mortalium offuscato, cum «typhlus» grece, latine dicatur «orbus».

L'amore eccessivo per le cose del mondo, aggravato da passioni disordinate, era qualificato in modo tutt'altro che generico. Si legge nell'egloga, appunto, l'afferma-

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zione capitale che entrambi i poeti avevano appartenuto alla scuola di Epicuro, pastor Epy, indicata con l'innesto di quell'immagine dantesca (interitum menti pariter eu m corpore cunctis), che di per sé lumeggiava, nei silenzi del passato di Petrarca, un'esperienza laica e naturalis, aperta alla piu alta cultura e poesia del suo tempo (a Guglielmo di Ochkam, si può ben dire ricordando la Mavortis, come pure a Dante, se ripensiamo alla Bologna del1320-1326 e all'ostinato silenzio della Fam. XXI15 ... )Y La militanza epicurea di Giovanni e Francesco, dichiarata quasi trent'anni dopo l'esercizio napoletano, testimonia di nuovo, per un verso, la veridicità del dictamen e, per l'altro, innesta la formazione di Petrarca in territori nient'affatto scontati, sia sul versante letterario, sia su quello filosofico. 48 Con siffatte premesse, d'altronde, s'intende bene che perfino l'aneddoto del monito del Petroni, che profetizzava morte eterna per i due amici, acquista un rilievo del tutto speciale, non soltanto, come al solito si crede, per Boccaccio, ma per lo stesso Petrarca. In gioco vi era il significato di un'intera biblioteca, della quale Boccaccio, se stiamo alla Sen. I 5, si voleva liberare. La Sen. I 5, 47 VEGLIA, n corvo e la sirena, pp. 19-42. Ripresi ed ampliai la tema>, pp. 15-56, tica dell'epicureismo nel primo capitolo di «La vita lieta > per poi svolgerlo in relazione al Decameron nei due ca pp. successivi, pp. 57-143· 48 Di diverso parere è l'autorevole saggio di ZYGMUNT G. BARAN-

SKI, Boccaccio and Epicurus, in Caro Vitto. Essays in memory of Vittore Branca, edited by jiLL KRAYE & LAURA LEPSCHY, in collaboration

with Nicolajones, «The Italianist », 2 7, special supplement, 2 , 2007, pp. 11-27, che si sofferma dapprincipio sulle mie posizioni, ricordate nella nota precedente, ma limitando il mio concetto di epicureismo al primo capitolo del libro.

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dopo una paradossale consolazione all' amico, cui suggerisce di non temere nulla, a condizione di non scrivere di Giove adultero, di Mercurio lenone, ma dei Santi e della Vergine e di Cristo, si offre di acquistare i volumi dei quali Boccaccio avesse voluto privarsi ... Con una ipocrisia che al Boccaccio doveva sembrare mortificante, Francesco gli diceva che non era affatto vero che l'esercizio letterario fosse causa di perdizione; era bastevole che esso si presentasse con un'orientamento cristiano. Che cosa avrà mai pensato dell' amico Francesco un Boccaccio impegnato, da tempo, a riflettere sui temi della Genealogia? Di là dall'aneddotica, è chiaro che nella biblioteca del Boccaccio, come un tempo in quella del Petrarca, dovevano esservi volumi che testimoniavano la formazione > o, in declinazione petrarchesca, col «dolce tempo della prima etade » (medio sub adolescientie fervore). Che, per di piu, lo «starting point » delle Familiari e del Decameron fosse la medesima peste del1348 (all'alba del1350 risale la Fam. I 1, sulla quale Giovanni poté ragionare con l'amico), ' 8 avrebbe dovuto suggerire un riesame

vulgarium .fragmenta "• I-III), negli «Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa "• Classe di Lettere e Filosofia, s. m, n. xvm, pp. 1071-104; Id.,« Ubi puer, ibi senex>>. Un libro de Hans Baron y el« Secretum" de 1353, in «Quaderni Petrarcheschi >>, rx-x (1992-1993), pp. 165238. Assai rilevante, per la linea seguita in queste mie pagine, è poi il recente saggio di Rico, n nucleo della « Posteritati " e le biografie di Petrarca, in Motivi e forme delle 11 Familiari", pp. 1-19. ' 7 Cfr. M. VEGLIA, n corvo e la sirena, cit. E vd. inoltre Rico, La dataci6n (petrarquesca) del 11 Corbaccio "• ora, col titolo n11 Secretum" di Boccaccio, nei Ritratti allo specchio, pp. 97-131. 8 ' Si ricorra sempre, per disquisire dei tempi delle lettere petrarchesche, al prezioso volumetto di ERNST H. WILKINS, Petrarch 's Correspondance, Padova, Antenore, 1960.

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delle composizioni parallele dei due amici nell'arco degli anni Cinquanta.'9 Allo stesso modo, la durezza di Boccaccio nell'Ep. x, che contrastava Petrarca e diffidava del suo magistero (Giovanni diffidava, in particolare, dell'immagine che scaturiva dalla poesia latina del Petrarca), affiancata com'è dalla rivendicazione coeva della propria libertà di studioso e di scrittore che nella povertà scorgeva la garanzia piu efficace della propria indipendenza intellettuale (Ep. IX), ci presenta un Boccaccio saldo e battagliero, lesto e agguerrito nel sostenere idee, nell'a.ffi:-ontare temi, nel dibattere questioni, che si ponevano coscientemente agli antipodi dell'umanesimo petrarchesco, sia nei riferimenti culturali, sia nella loro traduzione politica. L'Ep. rx a Zanobi da Strada del13 aprile 1353 (libertaria e pauperistica), l'appena ricordata epistola x al Petrarca-Silvano (scritta da Ravenna il18 luglio 1353), l'Introduzione alla Quarta Giornata, come pure certe pagine del De casibus sul trionfo compiuto dalla Povertà ai danni della Fortuna (come si legge, appunto, nell' epistola IX e, implicitamente, nella sferzante lettera al Petrarca 'milanese' e nell'atrio stesso della IV Giornata), sollevano questioni che ne pongono in spicco la contiguità tematica (contrastiva), quando non l'intreccio temporale, specie fra il1353 e il1355, col Petrarca. 20 Se stiamo alle osservazioni della Auzzas, dobbiamo ricordare che «già alla fine di luglio, o ai primi di agosto, cominciarono 9 ' ROBERTA ANTOGNINI, fl progetto autobiografico delle « Familiares >> di Petrarca, Milano, LED, 2008. 20

Per le lettere di Boccaccio si fa riferimento all'edizione e al commento che ne ha procurato GINETTA AuzZAs, in G . BoccACCIO,

Tutte le opere, vol. v 1.

Petrarca e la genesi del Decameron

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ad arrivare a Petrarca lettere di protesta» da Zanobi, da Giovanni Aghinolfi, dal Nelli: «Un cittadino di Firenze, Gano del Colle, gli inviò addirittura un giullare di nome Malizia con l'incarico di recitargli un sonetto con cui lo si esortava a lasciare la tirannica Milano»." A Boccaccio, che del cenacolo fiorentino era forse il piu indignato, Francesco non rispose, nell'attesa che il clima ritornasse, come accadde, piu sereno. E se il 2 ottobre, per l'arrivo in Firenze di un manipolo di epistole petrarchesche, si raccolsero Francesco Nelli, Lapo da Castiglionchio e Boccaccio, ciò sta a significare semplicemente che i rapporti si ricucirono, diventarono nuovamente civili e cordiali, che l'amicizia prevalse sulle distinzioni od opposizioni ideologiche, che la considerazione della poesia del Petrarca meritava di essere svincolata dalle contingenze della politica: lo stesso può dirsi del cenacolo petrarchesco promosso da Boccaccio in Ravenna, nell'estate stessa del1353, con Donato degli Albanzani, Giovanni Conversino, Guglielmo da Ravenna e Menghino Mezzani. 22 Uno sguardo a quegli anni e a quei problemi lascia intendere che il Decameron, in particolare nelle argomentazioni dell'Introduzione alla Quarta Giornata, serbi chiara traccia di un orientamento culturale non compatibile con quello del Petrarca (dovremo del resto giungere al1359, come abbiamo ricordato sulla scorta di Paola Vecchi Galli, per ritrovare fra i due amici un clima di affinità simile a quello del1350-52). Che ciò accada senza residui livori, senza animosità, ma con un silenzio non meno preciso sul,, Ibid., p. 792, in particolare le nn. 34 e 35. , Ivi. La testimonianza del1365, nella quale secondo la AuzZAs (p. 793) si troverebbe enunciato un pentimento di Boccaccio per r epi-

La strada piu impervia l'amico e maestro all'interno del Decameron, testimonia che quelle pagine di autodifesa del libro furono forse vergate da Boccaccio dopo il luglio del1353. L'ammirazione per Francesco non si tradusse allora in sudditanza, ma nella volontà di conciliarne il retaggio con quello di Dante e, a un tempo, con la propria esperienza di scrittore. La lettera al Pizzinga lascerà del resto trasparire una severa censura retrospettiva del comportamento di Zanobi da Strada, ancora elogiato nella primavera del1353 nell'Ep. rx, ma già deprecato all'altezza del1355, per il suo allineamento alla politica dell'imperatore Carlo IV (Petrarca, anche per questi aspetti, si trovò, piuttosto che con Boccaccio, in sintonia con Zanobi, tanto da scrivergli un biglietto di rallegramenti, seppur generico, dopo l'incoronazione poetica ricevuta da Carlo IV nel1355, sull' esempio della propria ottenuta nel1341). L'isolamento culturale che Boccaccio esibisce nell'Introduzione alla Quarta Giornata, dove si dimostra pauper et liber, si spiega bene in un periodo successivo al1353. 23 Petrarca stesso, dopo il1355 e l'incoronazione di Zanobi, come ha ricordato Vinicio Pacca sulla scorta del Foresti, non prosegui oltre nella strada della poesia latina, dedicandosi o alle prose stola del18 luglio 1353, vale per il momento in cui è pronunciata, non per prospettive culturali da retrodatare di un decennio o piu ancora. 3 ' ANTONIO ENZO QuAGLIO, Francesco Petrarca, Milano, Garzanti, 1967, pp. 16-17, per il Petrarca in rapporto con Carlo IV, che visitò a Praga, accogliendo nel maggio del 1358 la preghiera dei Visconti, che intendevano caldeggiare la pace di Milano, minacciata dalla lega veneziana e dal marchese di Monferrato. Dal1353 sin quasi alla fine degli anni Cinquanta non è dato ravvisare ravvicinamenti su questo versante, cosi cruciale per Boccaccio da coinvolgere un'idea stessa di letteratura.

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latine, o alla poesia in volgare. 24 Nelle tensioni successive all'Ep. x non si può che ravvisare un percorso intrecciato, una sorta di chiasmo, dove, mentre Boccaccio difende il volgare e Petrarca il latino, si giunge all'evidenza di un Boccaccio che continuerà a scrivere poesia latina e trattati latini ascoltando il Petrarca prosatore, ma nel contempo perseguendo un progetto culturale non omologabile a quello dell'amico, mentre Petrarca proseguirà sino alla morte a limare e correggere le proprie poesie italiane. Quanto allora, nella decisione di Petrarca di dedicarsi alla poesia in parlar materno, poté pesare l' ossessionante esortazione di Boccaccio a cimentarsi con Dante? Quanto, nella decisione di Boccaccio, poté pesare la ripetuta esortazione di Petrarca a non tralasciare il vetus iter dei classici? Quali che fossero le ragioni che condussero a un simile stato di cose, è certo che gli anni fra il1353 e il 1355, per Boccaccio come pure per Petrarca, furono cruciali. Da una parte e dall'altra, da Firenze e da Milano, sarebbe uscita una nuova letteratura. 2. La genesi del Decameron va pertanto restituita ai suoi luoghi e ai suoi tempi, senza escluderne quel Petrarca che dal1351 fu onnipresente, non meno del «miglior fabbro» della Commedia, nelle opere e nei pensieri di Giovanni Boccaccio. Dall'umanesimo cristiano del Petrarca, non meno che da Dante e dalla tradizione cortese, Boccaccio s'era formato un'idea di letteratura, la quale poteva attingere alla Fam. x 4, alla Commedia, al proprio Trattello non meno che alla Pro Archia. Nel1349, ancor fresco di

24

PACCA, Petrarca, P-147 (per il richiamo a FoREsTI, ibid., p. 174, n. 92).

So

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canonicato padovano, Francesco Petrarca riusci a mettere gli occhi sugli scritti di Albertino Mussato, che, in polemica col domenicano professore di teologia Giovannino da Mantova, aveva sostenuto l'equazione di poesia e teologia. Boccaccio, dal canto suo, venne a conoscenza dell'epistola di Francesco a Gherardo quando si recò in visita all'amico, in Padova, nella primavera del1351, quando Petrarca, con la Posteritati, coi primi sonetti del Canzoniere, con Nel dolce tempo, con il proposito comune di dare avvio a una nuova letteratura dopo la catastrofe del1348, si trovò concorde con l'amico nell'adibire una personale e letteraria renovatio. «E da allora alla fine della vita» Boccaccio replicò, scrisse Giuseppe Billanovich sul tema della teologia poetica, «con la sua solita fedeltà ostinata, quegli argomenti del maestro: in uno dei suoi zibaldoni, nelle successive redazioni del Trattatello in laude di Dante, nella Genealogia e in fine nel Commento alla Commedia».25 Gli argomenti che sostenevano l'equazione fra poesia e teologia, del resto, erano destinati a raccogliere nel Trecento una vasta, seppur contrastata, fortuna. In nome della teologia, non meno che in obbedienza al temporalismo pontificio, Guido Vernani aveva, nel De reprobatione, condannato il Dante della Monarchia, accusato di essere

25 GIUSEPPE BILLANOVICH, Pietro Piccolo da Monteforte tra il Petrarca e il Boccaccio, in Petrarca e il primo umanesimo, p. 474. Sia la Fam. x 4, sia l'epistola metrica n 10, 188-91, secondo Billanovich, si formarono grazie alla lettura e meditazione petrarchesca dei testi della polemica padovana, che oppose Mussato al domenicano Giovannino da Mantova, nonché del commento di Guizzardo da Bologna e di Castellano da Bassano all'Ecerinis.

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«phantastice poetizans et sophista verbosus ».26 In verità, non sappiamo affatto se già prima Boccaccio non avesse intrapreso, chino su Dante, meditazioni simili a quelle che, con impareggiabile chiarezza per lo studio dei testi di Petrarca, poté compiere poi a Padova e che continuerà a svolgere al ritorno in Firenze. Quel che è certo, perché verrà ribadito piu tardi dalla lettera a Iacopo Pizzinga, è che, per Boccaccio, fu Dante a indicare la via, anche al Petrarca che la percorse con altri mezzi e con altri fini, del significato autentico e originario della poesia («quid sit poesis et circa quod eius versaretur offitium»: Ep. XIX 26). Secondo quell'epistola, Boccaccio stesso imboccò, sotto la tutela di quei «duo luminaria magna», una strada tutta sua, quale precursore («previus viam arripui»), seguendo l'esempio della Commedia e sforzandosi di conformarle il magistero di Petrarca. 27 Di certo, la lettera al Pizzinga lascia intendere che il magistero di Petrarca, per il versante specifico dell'identità fra poesia e teologia, s'innestava su riflessioni che l'amico Giovanni, per proprio conto, con lo stimolo possente di Dante e di fermenti dell'ambiente napoletano, aveva già intrapreso. 28 Sul terreno di una riflessione poligenetica sul valore sacrale della letteratura si venne cioè a innestare l'esempio e l'insegnamento del Petrarca, che fin dal principio (fin dai

26

Per i riferimenti a Vernani, a Francesco da Fiano, al Dominici e al Salutati si ricorra ancora, anche per la bibliografia implicita, al Billanovich, Pietro Piccolo da Monteforte, pp. 473-75. 27 Da meditare è il saggio di F. R:rco, Petrarca eilMedioevo, pp. 39-50. 28 Il primato dantesco nel dispiegamento del valore della , pp. della cc Posteritati », cit.

223-27

e, in aggiunta,

n nucleo

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nizione delle parti strutturali del Decameron, nelle zone cioè di raccordo e giuntura che racchiudono in un disegno unitario i fragmenta delle cento novelle. Analogo è il discorso che si potrebbe fare per la Posteritati: «Per il suo concepimento e per i suoi primi abbozzi, tutti gli elementi di giudizio coincidono nel suggerire il periodo compreso tra il1347 e il1353 ». 34 Non è inverosimile supporre che dopo il soggiorno padovano Boccaccio abbia ricavato, da Petrarca, lo spunto per un'opera di rinnovamento e ridefinizione di singoli e slegati componimenti passati, che egli aveva cominciato, da qualche tempo, a scrivere o a correggere. Tutto, in verità, lascia credere che l'originalità del Decameron non si possa intendere se non in rapporto dialettico con la posizione del Petrarca e col modo, che i due amici osservavano, di affrontare analoghe questioni. Dalla famosa Fa m. IV 1 sull'ascesa al monte Ventoso è attestata la volontà di Petrarca di mettere ordine nelle esperienze trascorse e nelle pagine ad esse legate: «Nondum enim in portu sum, ut securus preteritarum meminerim procellarum. Tempus forsan veniet quando eodem quo gesta sunt ordine universa percurram ... » (rv 1, 19-20). Nei colloqui di Padova (o con la forza derivante dalla loro suggestione), dove non è da escludere che Petrarca poté forse conoscere alcuni scritti del Boccaccio o averne precisa notizia, l'amico fiorentino gli dové prospettare - sulla linea topica della navigazione per mare - una condizione simile, già da lui posseduta, se è vero che nel Proemio egli si presenta giunto ormai

34

fl nucleo della,, Posteritati », p. 19.

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a terra, «in por tu», per dirla con la Posteritati, non smarrito cioè nei «cupi pelaghi» (cosi ilDecameron: Proemio, 5), « securus >> nel ricordo delle passate bufere (« ut securus >> , cosi nel linguaggio dell'epistola ai posteri, «preteritarum meminerim procellarum »). Come poi nel Petrarca, cosi nel Boccaccio questa sicurezza dai naufragi (che, ovviamente, richiama un'immagine celebre al principio della Commedia: Inf r 22-27) è l'antefatto di un ordinamento, a partire dal1348, dei racconti, delle poesie, delle lettere, dei trattati («quando eodem quo gesta sunt ordine percurram»). 35 Un linguaggio simile, tramato sugli archetipi del viaggio e del naufragio, diviene piu determinato di quanto possa a un primo sguardo sembrare, se non altro per le circostanze di luogo e di tempo nelle quali i due amici si trovarono a confrontarsi, a cominciare dall'incontro di Padova (con l'apocalisse della pestilenza individuata come spartiacque delle loro vite letterarie). n Petrarca della Posteritati, avvicinandosi al quarantesimo anno, sentiva di doversi liberare dall'amore, dalla poesia che lo aveva cantato, di doversi presentare come sapiente e filosofo cristiano, oppugnando la dottrina e l'arroganza dei medici, degli averroisti, di tutti quei pensatori moderni che, a suo giudizio, negavano o minacciavano la grandezza della vera poesia e della vera civiltà. n Boccaccio del Proemio al Decameron (da collocare intorno Cosi R.! co, n nucleo della « Posteritati "• p. 1T «È esattamente in questo arco di tempo che, nel novembre del1349, troviamo documentata per la prima volta l'esistenza di una trascrizione in ordine della poesia volgare, e che per la prima volta ci risulta, nel febbraio del1353, che anche le lettere latine in prosa venivano trascritte in ordine ». 35

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al 1350-52, o alla prima parte del 1353, proprio alla luce, direi, dei suoi tratti petrarcheschi), che si avvicina al quarantesimo suo anno di vita, raggiunto proprio nell'anno, anzi nei mesi, del suo piu intenso scontro e sdegno con Petrarca (1353), con il cantiere ancora aperto del libro di novelle, si dichiara ormai sciolto dall'imperio della passione, nel Proemio, nonché desideroso di donare leggerezza ai lettori e alle lettrici, a rimedio della gravezza della storia e di quella che fu un tempo, nella sua «prima giovinezza», la sua cupa affiizione (Proemio, 3). Per conseguire un tale scopo, tuttavia, egli non rinnegava le passioni, né la poesia che le aveva espresse, né si allontanava dalla cultura del suo tempo. La distinzione del suo percorso da quello di Francesco, nel Proemio, non si era ancora tradotta in fattura. Boccaccio poteva, certo, patire il silenzio di Petrarca su Dante, poteva esortarlo a interromperlo, poteva perseguire una via letteraria distinta da quella di Petrarca, ma continuava a venerare l'amico, a guardarlo come uno specchio di perfezione, a maggior ragione dopo l'esperienza di Padova, dove aveva vissuto mirabili giorni di umana e letteraria pienezza. Il passo della Posteritati che tratta della tirannide della passione amorosa, scritto in sottesa polemica, secondo Rico, con un passo del De vita, è meritevole di essere riportato nella sua interezza (Posteritati, 7-8): 36 Amore acerrimo sed unico et honesto in adolescentia laboravi, et diutius laborassem nisi iam tepescentem ign.em mors acerba sed

36

Sulla Posteritati cfr. Codici latini del Petrarca nelle biblioteche fiorentine, a cura di MICHELE FEo , Firenze, Le Lettere, 1991, pp. 203-4 (scheda n° 163). Né si dimentichi KA.RL ENENKEL, A Criticai Edition

Petrarca e la genesi del Decameron utilis extinsisset. Libidinum me prorsus expertem dicere posse optare quidem, sed si dicam mentiar. Hoc secure dixerim: me quanquam fervore etatis et complexionis ad id raptum, vilitatem illam tamen semper animo execratum. Mox vero ad quadragesimus etatis annum appropinquans, duro adhuc et caloris satis esset e t virium, non salurn factum illud obscenum, sed eius memoriam omnem sic abieci, quasi nunquam feminam aspexissem. Quod inter primas felicitates meas numero, Deo gratias agens, qui me adhuc integrum et vigentem taro vili et michi semper odioso servitio liberavit.

L'età, gli studi, la «fatica» dell'amore durante l' adolescenza, la libertà dalla costrizione della passione definiscono un quadro contestuale preciso, dove l'atto stesso, o il proposito, di svincolarsi dalla passio è l'antefatto ideale del progetto letterario intrapreso (sicché al «liberavit» di Petrarca corrisponde, nel Proemio, con una congruenza che travalica la casuale affinità lessicale o tematica, la boccacciana presa di coscienza del cammino letterario nuovamente imboccato: «ora che libero dir mi posso»: Proemio, 7). Si tratta, in fin dei conti, di elementi che ritornano pure nel sonetto proemiale del Canzoniere. R. vf 1, in effetti, ci rappresenta un Petrarca che è solo «in parte» un« altr'uom » da quello della giovinezza: analoga situazione riscontriamo nel Proemio al Decameron. Dal piano of Petrarch's «Episola posteritati» with an English translation, pp. 24381. Con profitto, si può ricorrere a F. PETRARCA, Lettera ai posteri, cit., che, per il testo, con minimi correttivi, riprende quello di P.G. R:!ccr, che qui si adotta, Sul testo della "Posteritati », a sua volta corretivo di quello fissato da E. CARRARA, L'epistola" Posteritati" e la leg-

genda petrarchesca, già ricordato nel primo capitolo.

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delle intenzioni a quello della scrittura, le autobiografie sub specie amoris trascorrono poi, nell'uno e nell'altro scrittore, da R.v.f 1 al Proemio, all'identica esigenza di recolligere i frammenti letterari della vita passata, per cosi inquadrarli in un racconto unitario. A meglio determinare il rapporto fra i testi interviene l'inserzione, in entrambi, del tema dell'amicizia e della gratitudine, che non passerà se non per morte: esso emerge non meno nella Posteritati, in riferimento a Stefano Colonna (« Qui viri excellentis amor et affectus usque ad vite eius extremum uno erga me semper tenore permansit; et in me nunc etiam vivit, neque unquam desinet nisi ego ante desiero»: Post., 22) che nel Proemio al Decameron, addirittura con le stesse parole: «né passerà mai» [neque unquam desinet], scrive Boccaccio della gratitudine per gli amici, «se non per morte» [nisi ego ante desiero]. I paragrafi della Posteritati incontrati piu sopra (§§ 7-8) paiono quindi strettamente affini a quest'altra pagina del Proemio, con una rispondenza cosi diffusa da escludere - mi pare la poligenesi dei temi (Proemio, 3): Per ciò che, dalla mia prima adolescenza injì.no a questo tempo oltre modo essendo acceso stato d'altissimo e nobile amore, forse piu assai che alla mia bassa condizione non parrebbe, narrandolo, si richiedesse, quantunque appo coloro che discreti erano e alla cui notizia pervenne io ne fossi lodato e da molto piu reputato, nondimeno mi fu egli di grandissima fatica a sofferire, certo non per crudeltà della donna amata, ma per soverchio fuoco nella mente concetto da poco regolato appetito: il quale, per ciò che a niuno convenevole termine mi lasciava contento stare, piu di noia che bisogno non m'era spesse volte sentir mi facea.

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Se, nel Proemio, smettessimo di concentrarci sulla sola indicazione di «novelle, o favole o parabole o istorie che dire le vogliamo» (§ 13), ci accorgeremmo che tutta la prima parte di quel vestibolo del Decameron è, di fatto, una fedele versione boccacciana, seppur autonoma nei concetti, della Posteritati, ed è insomma un proprio De vita et moribus . In altre parole, se Petrarca ricordava la «fatica» dell'amore nell'adolescenza («in adolescentia labaravi»), rapportandola al tempo presente di un letterato quasi quarantenne («ad quadragesimum etatis annum appropinquans »), non si può far di meno che riconoscere nel Boccaccio uno stesso abito, laddove ragiona sull'imperio subito dalla passione «dalla mia prima adolescenza in.fino a questo tempo», il quale ultimo «tempo» del resto, per un Boccaccio che scriveva queste pagine fra il1350 e la primavera del1353, era anch'esso « appropinquans » al suo quarantesimo anno d'età (appunto, il1353). S'intende perciò che il «soverchio jùoco nella mente concetto da poco regolato appetito>> del Proemio perde il carattere di metafora generica e si contestualizza, invece, in una stagione precisa e in un determinato rapporto culturale, all'interno di una sequela di tratti omogenei a quelli del Petrarca. Quel« soverchio fuoco», incastonato in un Proemio che declina in modo del tutto personale una tela comune di pensieri che lo affratella alla Posteritati e all'esordio del Canzoniere, si spoglia d'ogni ipotetica e fortuita convergenza. Nel Boccaccio, l'amore non era stato vinto da «niuna forza di proponimento o di consiglio », nemmeno da «vergogna evidente»: diverso era il giudizio su di sé che aveva pronunciato Petrarca in R. v.f1, 11-12: «di me medesmo meco mi vergogno; l et del mio vaneggiar vergogna è 'l frutto».

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Il decorso del tempo e la raggiunta maturità consentono di recuperare il sentimento d'amore, nel Decameron, come una parte delle «cose mondane », un atto di vita nella vita: Nella qual noia tanto rifrigerio già mi porsero i piacevoli ragionamenti d'alcuno amico e le sue laudevoli consolazioni, che io porto fermissima opinione per quelle essere avvenuto che io non sia morto. Ma si come a Colui piacque il quale, essendo Egli infinito, diede per legge incommutabile a tutte le cose mondane aver fine, il mio amore, oltre a ogn' altro fervente e il quale niuna forza di proponimento o di consiglio o di vergogna evidente, o pericolo che seguir ne potesse, aveva potuto né rompere né piegare, per se medesimo in processo di tempo si diminui in guisa, che sol di sé nella mente m'ha al presente lasciato quel piacere che egli è usato di porgere a chi troppo non si mette ne' suoi piu cupi pelaghi navigando; per che, dove faticoso esser solea, ogni affanno togliendo via, dilettevole il sento esser rimaso.

Lo stesso, fatte e mantenute le debite proporzioni, vale pure per Petrarca. I pollini e i concetti, le suggestioni e i testi di Dante e di Petrarca confluivano cosi nella definizione di un racconto che avrebbe rifondato il mondo con l'audacia di quello che Franco Cardini defini, taluni anni fa, in pagine riproposte di recente in un agile e prezioso volumetto, un «Genesi laico »/7 una prosa di romanzo stesa in forma di «co media» (horribilis al principio, lieta infine). Dopo il1351, mentre il Petrarca phylosopus della svolta «post Iubileum» negava la sudditanza alla passione, 37 FRANCO CARDINI, Le cento novelle contro la morte. Giovanni Boccaccio e la rifondazione cavalleresca del mondo, presentazione di MARIO MARTELLI, Roma, Salerno, 2007 .

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attaccava i medici, dissimulava la conoscenza della Commedia, ripudiava il passato cortese e la cultura che lo aveva alimentato, e sosteneva l'identità di letteratura e teologia secondo una linea umanistica ben viva e tenace nell' ambiente che fu di Albertino Mussato, all'insegna di una «gravitas » nella quale veniva identificata la figura morale dello stesso scrittore, un Boccaccio fedele a Petrarca non piu di quanto lo fosse a Dante, al passato cortese e a se stesso (specie dopo il luglio del1353), nonché a quella cultura «naturale» cui rimarrà legato sino agli anni piu tardi, veniva altresi adibendo l'esigenza di renovatio e di unità strutturale agli sparsi frammenti della sua opera di narratore, faceva i conti col proprio passato e con la propria sudditanza all'amore, non ripudiava la tradizione di Dante, di Cino e di Cavalcanti, ed allestiva, cosi facendo e cosi pensando e cosi scrivendo, un'opera che sul «grave e noioso principio>> della peste del 1348 - il medesimo terminus a qua, ripetiamolo, delle Familiares- innestava un'etica a un tempo austera e cortese, non disgiunta dalla festa, dalla allegrezza, dal «piacere» (il diverso atteggiamento verso quest'ultimo, nel Decameron dove esso rimane « dilettevole», e nel Canzoniere dove esso diviene un «breve sogno», è invece un punto che testimonia una profonda mancanza di omogeneità fra i percorsi di Giovanni e Francesco anche prima dell'Ep. x, a specchio del resto di un diverso atteggiamento verso l'amore). 4· Un altro aspetto sul quale riflettere, per meglio intendere la cesura del1353, è il tema della povertà. La sola immagine che il Boccaccio lasci di sé nell'Introduzione alla Quarta Giornata, è ricalcata sulla libertà di colui che, essendo povero, di nulla può essere privato dal volgersi

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della Fortuna: onde il filo diretto che lega quella parte del Decameron a larghe porzioni dei primi libri del De casibus virorum illustrium e all'Ep. 1x. 38 Il De casibus, a sua volta, sembra accogliere spunti sui quali Boccaccio rifletteva in quel torno di tempo. Nelle Enarrationes in Psalmos, donate a Petrarca nel1355,J9 leggiamo una sentenza che, a quanto pare, se accettiamo la datazione proposta da Zaccaria, filtra nel De casibus (avviato forse nello stesso 135557, almeno per la redazione A) e nel Decameron.40 Quand' anche si pensi, come è legittimo, a un insorgere, in contesti affini, di analoghi pensieri, è nondimeno significativo che si possano triangolare opere, diciamo cosi, sapienziali o erudite, con il capolavoro del Boccaccio. Nelle Enarrationes, che Boccaccio conosceva ben prima di donare a Petrarca l'attuale Par. lat. 1989 il1o aprile 1355 (il commento agostiniano era del resto noto a Tedalda della Casa, all'Acciaiuoli, al Niccoli, al Salutati, e ne circolavano persino volgarizzamenti), Agostino sentenziava: 4'

38 Sul De Casibus , si considerino ora le osservazioni di EMANUELE ROMANINI nel catalogo Boccaccio autore e copista, pp. 189-191, con l'aggiunta delle schede 37 e 38 (di TOMMASO GRAMIGNI, pp. 192-194) e 39 (di SILVIA ScrPIONI, pp. 194-95). Si veda poi V. ZACCARIA, Boccaccio narratore, storico, moralista, mitograjò, Firenze, Olschki, 2001. 39 G . BILLANOVICH, Petrarca, Boccaccio e le" Enarrationes in Psalmos '' • in Petrarca e il primo umanesimo, pp. 68-96. Per il passo agostiniano qui appresso ricordato, vd. il Commento ai Salmi, a cura di MANLIO SIMONETTI, Milano, Mondadori, 1988, p. 168. 40 G . BoccACCIO, De casibus virorum illustrium, a cura di PIER GIORGIO RiCCI e VITTORIO ZACCARIA, cit. 4 ' Su questo codice, cfr. la scheda di IRENE CECCHERINI, in Boccaccio autore e copista , pp. 372-373 e le o sservazioni di M ARCO BAGLIO, ibid., pp. 373-74·

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«Sed ille qui terrenus est etiam motus est, id est tamquam pulvis quem proicit ventus a facie terre». Boccaccio, che al termine « terrenus >> attribuiva, come pure al lemma « carneus», un valore pregnante e storicamente innovativo, 42 ne aveva tratto un concetto già caro alla tradizione della filosofia naturale, a lui del resto familiare per autori come Bernardo Silvestre e Alano di Lilla (del primo, Boccaccio s'era ricopiato la Cosmographia nel Laur. 33.31). Nel De casibus (IV XIII 1), sulla traccia di quell'immagine veniva affrontato, per esempio, un tema che ritroveremo rispecchiato nel Decameron nell'icona della« minuta polvere »: 43 Non salurn circa celsos exercet Fortuna vires, quin imo sepe, iocari avida, levi vento ex humili fimo tritas paleas tollens, in amplissirnas nubes et monstruosas fere convertir aliquando, quibus postquam non nunquam rutili solis obtexit faciem, et horribili sono pavidis mortalibus pregrandes timores incussit, quasi satiata ludo, quod extulerat repente solvens, diffundit in pluviam: qua nescio utrum dicam an teretes persepe lavari vias, an fetidas repleri cloacas. Nel florilegio di sentenze tratte da Seneca che Boccaccio andava ricopiando a propria edificazione spirituale (nell'aprile del1353 l'Ep . IX a Zanobi da Strada è esplicita in proposito: « Seneca medio cum paupertate conveneram»: Ep. IX 45), sotto la rubrica De beatitudine et homine beato vel felici, egli annotava: « Que potest esse felicitas 4' Per questi aspetti, nonché per la loro rilevanza nella definizione di un'antropologia boccacciana, rimando a M. VEGLIA," La vita lieta >~, pp. 95-143 (in particolare, pp. 118-21). 43 De casibus virorum illustrium, p. 340 (il cap. tratta De Agatocle Syculorum rege).

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proprior? Redige te ad parva ex quibus cadere non possis». 44 L'immagine dovette riuscirgli preziosa, se è vero che nell'epistola a Pietro Piccolo da Monteforte (Ep. xx 1315), scritta molti anni piu tardi, egli avrebbe confessato quanto segue:45 Et utinam non uti nubes nimio repleta spiritu et in brevissimum Iomen, esto clarissimum, effusus e vestigio evanescam! Hic me timor angit, ut te, vir indite, deprecer ut caveas ne te nimis unpellat amor in me laudem, nam ipse sepe deos horninesque fefellit. Lauda parce, queso, velis magisque ut incognitus sed tutUS consista m in pulvere, quam ex verticibus montium a vehementia Jorsan evellar et resolvar in auras.

Nel Decameron, dove Boccaccio fronteggiava l'invidia dei censori malevoli, che avevano guardato con disprezzo alle sue nugae volgari, egli riproponeva pensieri congeneri, laddove si dichiarava stupito di tanta acredine e di tanta Jllalevolenza: credeva, in effetti, «che lo 'mpetuoso vento e ardente della 'nvidia non dovesse percuotere se non l'alte torri e le piu levate cime degli alberi: ma io mi truovo della mia estimazione ingannato» (IV Introd., 2). Un'immagine .. Oltre a 11 La vita lieta>>, ci t., si vedano: GIUSEPPE VELLI, Seneca nel 11 Decameron», nel «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXVTII (1991), pp. 321-34; A.M. CosTANTINI, Studi sullo Zibaldone Magliabechiano. 11. nflorilegio senechiano, in ((Studi sul Boccaccio», VTJJ (1974). pp. 79.v6. Per ulteriori approfondimenti bibliografici, nonché per il meritO specifico del saggio, LucA CARLo Rossi, Sul motto di Cavalcanti in 'Dee'. VI 9, nel vol. miscellaneo L'antiche e le moderne carte. Studi in rnemoria di Giuseppe Billanovich, a cura di ANTONIO MANFREDI E CARLA MARIA MoNTI, Roma-Padova, Antenore, 2007, pp. 499-517 (p. 509 , nn. 17 e 19) . •, BoCCACCIO, Epistole, p. 678.

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tradizionale e perfino vulgata, come quella del vento ragguagliato alla possanza della Fortuna, ripensata e rivissuta con intima partecipazione rispecchiava dunque il volto dell'autore. Merita senz' altro una riflessione l'incrocio fra queste pagine e la prima parte del De casibus, dove, al centro della riflessione di Giovanni, sta appunto il volgersi della Fortuna, non genericamente declinato ma orientato all'ammonizione di tutti gli ambiziosi che godevano a tal segno della buona sorte e della propria cupidigia di ricchezze che non ne meditavano l'esiguità e la fragilità, secondo argomenti che echeggiavano al principio della novella di Alatiel. Soltanto la libertà, identificata ormai con la povertà, come nell'epistola a Zanobi del13 aprile 1353, rappresentava per Boccaccio la garanzia di poter dominare, con serenità imperturbabile, i rivolgimenti della Fortuna (nel De casibus, non meno che nel Decameron, si ha pertanto un Paupertatis et Fortune certamen).46 Ecco, dunque, la straordinaria chiusa dell'Introduzione alla Quarta Giornata C§ 40): per ciò che io non veggo che di me altro possa avvenire che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove la porta in alto e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degl'imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, piu giu andar non può che il luogo onde levata fu.

Per intendere le riflessioni di Boccaccio sulla povertà, e per meglio afferrarne il carattere autobiografico, che rimonta alla frequentazione giovanile di Andalò del Negro, è da rileggere il Paupertatis et Fortune certamen che apre il terzo libro del De casibus virorum illustrium, pp. 192-200. 46

La strada piu impervia La leggerezza povera e libera di Boccaccio, tramata di amore per la vita e per le sue bellezze, da non negare o conculcare (onde la scaturigine della « novelletta » di Filippo Balducci), diveniva cosi la miglior risposta agli invidiosi e, insieme, il punto piu remoto da qualsiasi esaltazione epica delle avventure mercantili (Ibid., 42): Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano: e ne' lor diletti, anzi appetiti corrotti standosi, me nel mio, questa brieve vita che posta n'è, lascino stare. Con« piacevole animo», insomma, Boccaccio contrastava i « soffiamenti )) dei suoi avversari, consapevole della verità di quello « che sogliano i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti)) (siamo del tutto sulla linea concettuale, e cronologica, della lettera a Zanobi da Strada e di quella, di poco posteriore, fortemente avversa al Petrarca). La polvere che il vento sollevava« a facie terre)), espressione di un libero «homo terrenus )), diveniva tanto leggera da essere indifferente alla gravezza dei rivolgimenti della Fortuna. A questa, nel De casibus, con accenti decameroniani, si rivolgerà appunto la Povertà (m i, 8):47 Nunquam me ipsa pressisti: ego, dum spante mea tua omnia abdicavi, omnem orbem te invita concessi, et ex serva libera loquor femina, quam dum, tuis exuta laqueis, ad inferos deiecisse putasti, ad superos prudentem elevasti nescia. Verum minas has tuas regibus inice; rnichi quidem, etsi vacua cutis

47

Ibid., p. 196.

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sit, tantus animi vigor est ut nedum illas timeam; immo arbitrar, si luctam ineas, te conterere. Non meraviglia perciò che il ritratto di Petrarca affidato alla lettera del luglio 1353, tramato sull'avidità di ricchezze, fosse intonato su caratteri che si trovavano agli antipodi della vita lieta e savia trascorsa a Padova dai due amici (Ep. x 27-28): Hic solitudinum commendator egregius atque cultor, quid multitudine circumseptus aget? quid tam sublimi preconio liberam vitam atque paupertatem honestam extollere consuetus, iugo alieno subditus et inhonestis ornatus divitiis faciet? quid virtutum exortator clarissimus, vitiorum sectator effectus, decantabit ulterius? Ego nil aliud nasco quam erubescere et opus suum dampnare, et virgilianum illud aut coram aut secus cantare carmen: « Quid non mortalia pectora cogis l auri sacra fames? ». Agli occhi di Giovanni, con una oscillazione fra l'estate del1353 e la primavera del1355, che registra il dono delle Enarrationes in Psalmos a Petrarca, l'amico Francesco aveva perso credibilità. Solo si poteva nutrire vergogna per la sua caduta e condannarne la cupidigia, la vanità («Ego nil aliud nasco quam erubescere et opus suum dampnare »: Ep. x 28). A maggior ragione Boccaccio doveva dolersi quando ricordava, o per diretta lettura o ex auditu, l'elogio della frugalità che il bifronte Petrarca-Silvano aveva affidato alla Posteritati (§ 5): 48

48

PETRARCA,

Lettera ai posteri, ed.

VILLANI,

pp. 36-38.

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Divitiarum contemptor eximius: non quod divitias non optarem, sed labores curasque oderam, opum comites inseparabiles. Non michi, ut ista cura esset, lautarum facultas epularum: ego autem tenui victu et cibis vulgaribus vitam egi letius, quam cum exquisitissimis dapibus ornnes Apicii successores. Convivia que dicuntur - cum sint commessationes modestie et bonis moribus inimice - semper michi displicuerunt. Laboriosum et inutile ratus sum ad hunc finem vocare alias, nec minus ab aliis vocari; convivere autem cum amicis adeo iocundum, ut eorum superventu nil gratius sumpserim. Nichil michi magis quam pompam displicuit, non salurn quia mala et humilitati contraria, sed quia difficilis et quieti adversa est.

Un altro elemento allora (insieme con l'amore, l'età, gli studi, la gratitudine per gli amici e le loro «laudevoli consolazioni») viene pertanto ad associare, nel tempo, in un percorso che va dall'affinità del Proemio alla contrapposizione che si registra nella Quarta Giornata, Boccaccio e Petrarca. Con la differenza ulteriore che, nel primo, la misura, la frugalitas dell' auctor non si imponeva ai suoi personaggi, non ne condizionava l'amore per la vita, secondo quell'epicureismo culturale sul quale ho avuto modo, a lungo, di soffermarmi altrove. 49 Eleganza, raffinatezza cortese, delicati cibi, ottimi vini, musica, canti, balli, dimore aristocratiche e giardini di geometrica e seducente bellezza, apertura alle vicissitudini della terra, intelligenza degli uomini, disponibilità piena a quel vero «stile cognitivo» rappresentato dal riso, dalla comicità, 5° un costante plazer, un diletto pensato e cercato, gover•• «La vita lieta,,, pp. 15-56. 50 PETER L. BERGER, Homo ridens. La dimensione comica dell'esperienza umana, trad. it., Bologna, Il Mulino, 1997, pp. 23-39.

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nato con lieta disciplina e leggiadria: tutto questo rappresentava la risposta al male, l'antropologia quotidiana di una brigata di giovani che aveva scelto di raccontare il mondo (senza rinunciare alla gioia, alla festa, alla costanza della ragione) ed era disposta, per non infrangere la misura e l'equilibrio della loro «fraterna! dimestichezza», a ritornare verso la città di Firenze e a lasciare la pace che avevano raggiunto. Nella diversità di ideali che sembra distinguere l'etica pauperistica del Boccaccio della Quarta Giornata, piuttosto radicale se collimata alle epistole IX e x, dai suoi dieci giovani, aristocratici, ricchi, eleganti, raffinati (cui certo era molto piu affine il Boccaccio cortese e galante del Proemio), è dato nondimeno accertare un terreno condiviso, che consiste nella comune coscienza che il dominio intelligente della vita presupponga una condotta che separi la libera coscienza dell'uomo da ciò che, nella stessa vita, è piu fugace e passeggero, piu agevolmente soggiogato dai rivolgimenti della Fortuna. Se stiamo al discorso di Panfilo in apertura della novella di Alatiel (II 7, 3-6), che è una sorta di compendio del De Casibus o un suo incunabolo, la brigata si doveva condurre secondo una sorta di usus pauper delle ricchezze che pur lietamente e gioiosamente godeva: Malagevolmente, piacevoli donne, si può da noi conoscer quello che per noi si faccia, per ciò che, si come assai volte s'è potuto vedere, molti estimando se essi ricchi divenissero senza sollecitudine e sicuri poter vivere, quello non solamente con prieghi a Dio domandarono ma sollecitamente, non recusando alcuna fatica o pericolo, d'acquistarle cercarono; e, come che loro venisse fatto, trovarono chi per vaghezza di cosi ampia eredità gli uccise, li quali, avanti che arricchiti fossero, amavan la vita loro. Altri di basso stato per mille pericolose ba t

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taglie, per mezzo il sangue de, fratelli e degli amici loro saliti alr altezza de, regni, in quegli somma felicità esser credendo, senza le infinite sollecitudini e paure di che piena la videro e sentirono, cognobbero, non senza la morte loro, che nell'oro alle mense reali si beveva il veleno. Molti furono che la forza corporale e la bellezza e certi gli ornamenti con appetito ardentissimo disiderarono, né prima d" aver mal disiderato s"avidero, che essi quelle cose loro di morte essere o di dolorosa vita cagione. E acciò che io partitamente di tutti gli umani disiderii non parli, affermo niuno poterne essere con pieno avvedimento, si come sicuro da fortunati casi, che da, viventi si possa eleggere: per che, se dirittamente operar volessimo, a quello prendere e possedere ci dovremmo disporre che Colui ci donasse, il quale solo ciò che ci fa bisogno cognosce e puolci dare.

Per lo scrittore delrintroduzione alla Quarta Giornata, la fede nella verità e libertà della letteratura coincideva con la difesa del proprio stile di vita, anch-' esso orgogliosamente povero, al contrario di quello petrarchesco. Sicché, la difesa della natura della poesia, quale si trova nel Trattatello e nella Fam. x 4, viene rifusa e calata nell,umanesimo riformista e volgare del Decameron (ibid., 37-38): Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so, se non che, volendo meco pensare quale sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne dimandassi, m,aviso che direbbono: «Va cercane tralle favole». E già piu ne trovarono tralle loro favole i poeti, che molti ricchi tra' lor tesori, e assai già, dietro alle loro favole andando, fecero la loro età fiorire, dove in contrario molti nel cercar d'aver piu pane, che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che piu? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro, non

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che la Dio mercé ancor non mi bisogna; e, quando pur sopravenisse il bisogno, io so, secondo l'Appostalo, abbondare e necessità sofferire; e per ciò a niun caglia piu di me che a me.

Ancora una volta, questo magnanimo Boccaccio, che mostra siffatta franchezza nel percorrere una via letteraria tutta sua, si colloca (piuttosto che fra il1348 e il1352) fra il 1353 e il 1355, con gli stessi caratteri del dittico di lettere della primavera-estate del1353. Queste «favole», non sovrapponibili a quelle del Proemio, hanno la stessa identica natura di quelle invocate nei testi che, su quel tema appunto, Giovanni aveva letto e composto. Una volta assunta la prospettiva di una renovatio vitae nessuno iato era ammissibile, tanto meno nessuna palese contraddizione, tra verba e res, tra letteratura e condotta personale. Con buona pace di Francesco. 5· Un altro aspetto ci consente di tracciare un parallelo fra il Decameron e la « contraria via» percorsa all'epoca dal Petrarca. La critica dell'inclinazione di Boccaccio ad amare le giovani donne, cui lo scrittore risponde con virile sprezzatura nell'Introduzione alla Quarta Giornata, si sposa però, nei suoi «morditori», ad argomenti (intorno al 1353) di natura squisitamente letteraria. In effetti, «quegli che contro alla mia età parlando vanno» (Boccaccio si trovava allora nel suo quadragesimus etatis annus) si erano dimenticati che egli si collocava orgogliosamente sulla via dei piu grandi poeti toscani delle generazioni precedenti e che intendeva serbarsi fedele alla loro dottrina d'amore. Sulla scorta del Billanovich, 5' 5

'

Petrarca letterato, p. 157.

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dovremo forse abituarci a cogliere in questi riferimenti un riflesso della presenza controversa e problematica di Petrarca nella genesi e nello svolgimento del Decameron. Voglio dire che, trattando un tema come questo, squisitamente petrarchesco e anzi costitutivo del progetto stesso del Canzoniere, ma intonandolo a propositi difformi da quelli dell'amico, Boccaccio non poteva che tacere scientemente il nome di Petrarca, sia perché l'amico era contrario alle tesi sostenute nel Decameron, sia perché, intorno al 1353, Francesco riusciva ai suoi occhi non credibile affatto, per nulla autorevole. La risentita reazione fiorentina dinanzi al 'tradimento' del Petrarca, quando si pensi a un Boccaccio che doveva pur preoccuparsi di un pubblico di lettori avveduti cui indirizzare la propria opera volgare, spiega altresi l' opposizione ai capisaldi dell'umanesimo petrarchesco (repetita iuvant: età, studi, conversione, liberazione dalla lussuria e dalla cultura in lato senso romanza) che si trova nell'Introduzione alla Quarta Giornata. Dopo tutto, il successo del libro e la sua retta interpretazione non potevano dipendere da umanisti incapaci di vivere con fierezza l'appartenenza alla tradizione moderna della letteratura fiorentina. La stessa orgogliosa rivendicazione di un canone toscano, nel1353, significava proiettare il Decameron verso un mondo, una cultura, una tradizione, diciamo pure una città, che erano ben distinti dalla via seguita, a Milano, da Francesco Petrarca. 52 Che vi fosse un tale proposito nel Boccaccio si può indurre da un rapido raffronto fra il canone di poeti

51

P. VECCHI GALLI, Padri, pp. 40-52.

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della Quarta Giornata e ciò che, nel merito, Francesco aveva scritto e Giovanni aveva letto e meditato, con tutta verosimiglianza nell'incontro padovano del1351. È molto probabile che la canzone petrarchesca delle citazioni, Lasso me (R.vj7o), 53 se non è da collocare dopo il 1350-1351, come non parrebbe opportuno, sia stata fra i testi che Boccaccio aveva conosciuto nella sua dimora padovana.S4 Ne viene che, se la rileggiamo con il «ragionevole occhio» del Boccaccio, essa risulta tutta contesta di ragionamenti contrari a quelli affidati al prologo della Quarta Giornata. Gli autori ricordati nel Decameron sono, con una congruenza che già al Billanovich faceva sospettare l'esclusione di ogni causalità, i medesimi che Petrarca rammenta in Lasso me, con l'eccezione dello stesso Petrarca di Nel dolce tempo della prima etade e dello pseudo-Arnaut Daniel. La differenza è che, mentre nel Canzoniere la tradizione d'amore viene ricordata e superata al tempo stesso per approdare alla dimensione autobiografica, si dica pure agostiniana, che si rispecchia nel libro di rime, non meno che per consentire a Francesco di allontanare da sé, nella svolta «post Iubileum », voci non piu da lui sentite come congeniali e fraterne, nel Decameron quelle esperienze poetiche si innestano sulla linea autobiografica, petrarchesca, del Proemio, ma ribadiscono la lunga fedeltà di Boccaccio alla poesia toscana piu illustre. Essendo «libero» dal «soverchio fuoco» delMARCO SANTAGATA, Per moderne carte. La biblioteca volgare di Petrarca, pp. 327-62. 54 FRANCESCO PETRARCA, Canzoniere, a cura di MARCO SANTAGATA, Milano, Mondadori, 1996, p. 347: dove Santagata osserva che non si deve per rimproverare lo smarrimento del Boccaccio: «l'una è la tua età, la seconda sono gli tuoi studi» (Corb.118). 57 Quanto alla prima, «le tempie già bianche e la canuta barba» lasciavano supporre un Boccaccio «fuor delle fascie» e approdato ai suoi «anni quaranta» (Corb.

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l'Introduzione alla Quarta Giornata, vd. MARCO VEGLIA, corvo e la sirena, pp. 43-58. 56 M . VEGLIA, corvo e la sirena, pp. 19-42. 57 GIOVANNI BOCCACCIO, Corbaccio , a cura di GIORGIO PAOOAN, Milano, Mondadori, 1994, p. 462 (Tutte le opere, vol. v 1).

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con un riferimento preciso, a lungo frainteso con la data di composizione del Corbaccio stesso, al1353, quindi al tempo, si può ora aggiungere, dell'Introduzione alla Quarta Giornata e dell'opposizione a quel Petrarca sotto la guida spirituale del quale, invece, la favola misogina sarà composta intorno alla metà degli anni Sessanta. 58 A distanza di tempo, quindi, soffermandosi sul nodo culturale petrarchesco legato al quarantesimo anno d'età e volendo fare ammenda dei propri trascorsi errori, Boccaccio indicherà nuovamente il 1353 come un periodo non conformato agli ideali del suo amico e precettore. Le questioni morali che Boccaccio riteneva ancora da risolvere e da superare negli anni Sessanta ci dimostrano, con l'evidenza di una conferma retrospettiva, quanto nel1353 Boccaccio si fosse consapevolmente allontanato dalla guida di un Petrarca che appariva ai suoi occhi, presso i Visconti, destituito di qualsivoglia autorevolezza. Gli avversari di Boccaccio, quindi, a tre anni dalla svolta «post Iubileum» di Francesco, sostenevano che Giovanni, per età e per studi, avrebbe dovuto tenere un'altra via nell'esercizio delle humanae litterae. Tutto il discorso sulle Muse (da intendere come poesia 'alta', piu degna quindi della volgare e, insomma, latina) sembra via via identificare, se non un interlocutore preciso della risposta polemica di Boccaccio, quanto meno un ambiente culturale e letterario che si conformava, punto per punto, a concetti antitetici a quelli esibiti dal Decame119 ),

58

Su questi aspetti e problemi, nel fitto intreccio con Petrarca, si vd. ancora R:Ico, n" Secretum ''di Boccaccio, cit.

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ron. 59 Non è perciò casuale che il ragionamento sulla 'cultura' delle Muse segua, per amplificazione e chiarimento, non per contrasto, quello su Cavalcanti, Dante e Cino da Pistoia. La biblioteca classica, non meno di quella romanza e di quella naturale, nell'asserita armonia tra i vari rami della «parva libraria» del Boccaccio, 60 sta perciò alle radici della proposta di renovatio strutturata nelle finalità e nei percorsi narrativi del Decameron (Iv Intr., 35):

Che io con le Muse in Parnaso mi debbia stare, affermo che è buon consiglio, ma tuttavia né noi possiamo dimorar con le Muse né esse con essonoi. Se quando avviene che l'uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare: le Muse san donne, e benché le donne quel che le Muse vagliano non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle, si che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere; senza che le donne già mi fur cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furono di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que' mille; e forse a queste cose scrivere, quantunque siena umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse e in onore della somiglianza che le donne hanno ad esse; per che, Perfino ERNST RoBERT CURTIUS, Letteratura europea e Medioevo latino, trad. it., a cura di ROBERTO ANTONELLI, Firenze, La Nuova Italia, 1992, p. 266, non coglie appieno l'intrepidezza naturalis del discorso boccacciano sulle Muse affidato al Decameron. 6 ° Cfr. ANTONIA MAZZA, L'inventario della > sono la verità umana, imperitura, della letteratura, le « istorie >> sono, all'altezza della Quarta Giornata, il dotto laboratorio dello scrittore, le fonti, i modelli, i riferimenti, le citazioni, lo spessore allusivo della parola: tutto quell'universo letterario, tangibile e certo, quindi storico, verificabile, che sta a monte della creazione narrativa e che ne definisce, a un tempo, le tecniche di composizione, con una sorta di fondo intrinseco di storicità (nell'inventio come pure nello stile). Esse non indicano soltanto le «novelle>> che hanno per protagonisti alcuni personaggi storici (che, come tali, sono suffragati da auctoritates), quanto la verità sperimentabile, nelle« cose di questo mondo», di ciò che le novelle rappresentano.

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I medesimi racconti, insomma, sono «favole>> quando vengano considerati nel senso della verità generale della letteratura, sono «istorie » quando se ne consideri la possibile verisimiglianza e, soprattutto, la consistenza artistica, storica, l'arte di composizione. Sono «parabole », poi, non solo perché incastonate in un racconto o romanzo principale, secondo il modello evangelico, ma soprattutto perché possono essere lette per « cognoscere quello che sia da fuggire e che sia similmente da seguitare>> (Pr., 14). La narrazione del caso di Filippo Balducci, che non è definita da Boccaccio una novella ma «parte d'una», ci mostra, di là da ogni dubbio, che tutte e cento le narrazioni sono, per lui, «novelle », e che tali sono quando, oltre alla narratio vera e propria, contengono un proemio e una conclusione, come in effetti presentano i racconti del Decameron e il Decameron stesso, che si snoda non per nulla sul modello di una orazione retorica (con tanto di proemio, narrazione, confutatio delle tesi avverse, conclusione). 62 Di tale rilievo è in effetti la nuova determinazione che ricevono i termini del Proemio a ridosso dell'apologo giocoso di Filippo Balducci, che un riferimento di queste «favole» alla letteratura volgare, se su questa via si volesse proseguire, senza per ciò contrastare con il sistema delle complesse argomentazioni del Boccaccio della Quarta Giornata, conferirebbe all'uso di questa letteratura un valore assoluto, non inferiore a quello della letteratura classica. Giovanni, quindi, sarebbe per questa via ancor piu audace: sono le Muse Per uno svolgimento di queste affermazioni, che mi propongo di ampliare e approfondire in altra sede, rinvio a M. V EGLIA, « La vita lieta », pp. 245-70 62

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infatti, per lui, che assomigliano alle donne, non queste che si prodigano per emularle. Le civiltà possono quindi «fiorire» con Ovidio, Virgilio, Agostino e Girolamo, ma anche con il Novellino, 63 con Dante e col Decameron. Senza dire, poi, che nella Conclusione dell'Autore la «teologia poetica» inscritta nella genesi dell'opera giungerà alla finale proclamazione di identità fra le lettere della Scrittura e le novelle del libro. Ce ne dobbiamo forse stupire, in un libro chiamato Decameron, allusivamente conformato alla tradizione patristica che commentava le giornate bibliche della fondazione del mondo, sorto negli anni nei quali il suo autore metteva mano alla prima redazione del Trattatello in laude di Dante? Se, di contro, si continua a ignorare questa perigliosa assunzione, in dimensione laica, delle istanze del riformismo religioso, che si accentuano fin quasi a radicalizzarsi nel passaggio dal principio alla fine dell'opera, non si può intendere la consapevolezza di Boccaccio di aver allestito un'opera «infiammabile», piacevole, divertente, acuta, ma paragonabile al vino, al fuoco, alle armi (Conci., 9-10): Chi non sa ch'è il vino ottima cosa a' viventi, secondo C inciglione e Scolaio e assai altri, e a colui che ha la febbre è nocivo? direm noi, per ciò che nuoce a' febricitanti, che sia malvagio? Chi non sa che il fuoco è utilissimo, anzi necessario a' mortali? direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville 63

La forma delle novelle, nessuna esclusa, resta quella delle ora-

tiones . Importante è la voce di ANDREA BAITISTINI, Retorica, nel Lessico critico decameroniano, a cura di RENzo BRAGANTINI e PIER MAsSIMO FORNI, Milano, Bollati Boringhieri, 1995, pp. 320-43. Per gli altri aspetti, per i riferimenti a Dante e alla tradizione retorica, vd . «La vita lieta ,, pp. 267-68, n . 27.

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e le città, che sia malvagio? L'arme similmente la salute difendon di coloro che pacificamente di viver disiderano, e anche uccidon gli uomini molte volte, non per malizia di loro, ma di coloro che malvagiamente l'adoperano. Solo la compiaciuta consapevolezza di aver creato qualcosa di nuovo e pericoloso, un Galeotto leggero arditamente coniugato con la gravitas di un Decameron proteso alla creazione di un novus ordo con lo strumento di una nova progenies di dieci giovani fiorentini, poteva giustificare un'asserzione del genere. Sta quindi al lettore onesto, che non legga per solo diletto come facevano i due cognati di Romagna nel canto v dell'Inferno, interpretare con limpidezza la forza del libro (Concl., 11-13): Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola: e cosi come le oneste a quella non giovano, cosi quelle che tanto oneste non sono la ben disposta non posson contaminare, se non come il loro i solari raggi o le terrene brutture le bellezze del cielo. Quali libri, quali parole, quali lettere san piu sante, piu degne, piu reverende che quelle della divina Scrittura? E si sono egli stati assai che, quelle perversamente intendendo, sé e altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in sé medesima è buona a alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e cosi dico delle mie novelle. Del resto, ciò rispondeva a tal segno a sue profonde convinzioni che le tarde Esposizioni, nel difendere la Scrittura, useranno non casualmente espressioni analoghe a quelle appena incontrate per il libro di novelle (Esp. vn, all., 43-44): Ora si suole ... spesse volte dire per li laici la Scrittura avere il naso di cera, e per ciò i predicatori e i dottori, secondo che

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lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in quella. La qual cosa non è vera: per ciò che la Scrittura di Dio non ha il naso di cera, anzi l'ha di diamante: del quale non si può levare né vi si può appiccare alcuna cosa, né si può rintuzare, si come quella la quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo; ma puossi piu tosto dire questi cotali avere il cuore, lo 'ntelletto e lo 'ngegno di cera, e per ciò vedere con gli occhi incerati; e come sono fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, cosi par loro sia fatta la Scrittura; non conoscendo che la varietà de' sensi è quella che n'apre la verità nascosa sotto il velo delle cose sacre, la quale noi aver non potremmo, se sempre volessimo dare ad una medesima cosa un medesimo significato. Il lettore del Decameron, come quello della Scrittura, non deve in alcun modo torcere e tirare il testo a significare ciò che vuole. Soprattutto, quando lo faccia, egli non deve pretendere che l'esito della forzatura esegetica rappresenti un'immagine veritiera del libro (Conci., 14): Chi vorrà da quelle malvagio consiglio e malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno a alcuno, se forse in sé l'hanno, e torte e tirate fieno a averlo: e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che utile e oneste sien dette o tenute, se a que' tempi o qualle persone si leggeranno per cui e pe' quali state son raccontate. La varietà delle forme, la disposizione dei temi da un principio « grave » a un « finale leggero » (« io non so n grave, anzi son io si lieve, che io sto a galla nell'acqua»: Conci. dell'Aut., 23), non meno della pluralità tematica adibita da Boccaccio alla rappresentazione della molteplicità del reale («Conviene nella moltitudine delle cose diverse qualità di cose trovarsi»: ibid., 18), a sua volta

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exemplum della naturale imperfezione degli uomini, delle cose, della natura, dei libri stessi(« Niun campo fu mai si ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l'erbe migliori»: Conci., 18), corrispondono perfettamente a una rifondazione del mondo all'insegna di quella « comedia » per la quale, con molta opportunità, Gabriella Albanese ha richiamato la definizione !asciatane dal Policraticus di Giovanni di Salisbury. La latitudine della vera commedia- per Dante non meno che per Boccaccio- è cosi quella dell'intero mondo: «Comedia est vita hominis super terram ... Tanta est area eius quantus est orbis». 64 Quale migliore definizione per il capolavoro del Boccaccio? Col riso e con la festa, con la magnanimità e con la beffa, con le passioni e con l'intelligenza di viverle e di governarle, il Decameron aveva condotto le «favole», col viatico della loro dimensione comica, a inoltrarsi in territori nei quali non era giunta la «teologia poetica» di Dante e del Petrarca. Non meraviglia allora, rispetto alla dialettica costitutiva del libro nella tensione permanente fra gravitas e levitas, fra tragedia e commedia, che lo sguardo di Francesco, posandosi sull'opera dell'amico per tradurne la novella di Griselda, quasi ne sdegnasse la parte comica e lieve, leggera e giocosa: la quale, in effetti, Francesco non poteva e non voleva capire, tanto lontana essa era dagli orizzonti delle sue opere letterarie. Conta perciò, per quel che ora ci interessa, che Petrarca percepisse 64 !OANNIS SARESBERIENSIS Policraticus, edidit KATHARINE STEPHANIE BENEDICTA KEATS-ROHAN, Turnholt, Brepols, 1993, pp. 190-96. Il passo è citato da GABRIELLA ALBANESE, La corrispondenza fra Petrarca

e Boccaccio, p. 73, n. 51.

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il Decameron secondo i tratti della « comedia » e ne ribadisse, cosi facendo, i caratteri antitetici alla propria linea umanistica (Sen. XVII 3): 65 Delectatus sum ipso in transitu; et si quid lascivie liberioris occurreret, excusabat etas tunc tua dum id scriberes, stilus, idioma, ipsa quoque rerum levitas et eorum qui lecturi talia videbantur. Refert enirn largiter quibus scribas, morumque varietate stili varietas excusatur. Di nuovo, l'età di Boccaccio (etas tunc tua dum id scriberes) al tempo del Decameron, inscindibile dagli studi, delineava un quadro incompatibile, se non per rare novelle, con l'umanesimo cristiano del Petrarca. A una tale prospettiva abbiamo visto conformarsi il Corbaccio intorno alla metà degli anni Sessanta, con la lucidità retrospettiva di datare il problema affrontato nel libello - un amore sconveniente all'età e agli studi di Boccaccio - al 1353, annus terribilis. 66 7. Su un altro aspetto il commento dantesco ci consente di acquisire alcune certezze sulla natura del Decameron. La memoria della familiare a Gherardo, riversata nelle Esposizioni, salda infatti l'esegesi dantesca alla Genealogia, all'opera dell'amico e allontano decisivo incontro del1351 (Esp . I, litt., 73):

65

Per la xvn 3 e la xvn 4 si vd. GIOVANNI BoccACCIO-FRANCESCO PETRARCA, Griselda, a cura di LucA CARLO Rossi, Palermo, Sellerio, 1991. 66 Oltre al mio ncorvo e la sirena, si veda il saggio di Rico, n« Secretum" di Boccaccio, piu volte rammentato.

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... è da sapere, secondo che il mio padre e maestro Francesco Petrarca scrive a Gherardo, suo fratello, monaco di Certosa, gli antichi Greci, poi che per l'ordinato movimento del cielo e mutamento appo noi de' tempi dell'anno e per altri assai evidenti argomenti, ebbero compreso uno dovere essere colui il quale con perpetua ragione dà ordine a queste cose, e quello essere Idio, e tra loro gli ebbero edificati templi e ordinati sacerdoti e sacrifici, estimando di necessità essere il dovere nelle ablazioni di questi sacrifici dire alcune parole, nelle quali le laude degne a Dio e ancora i lor prieghi a Dio si contenessero, e conoscendo non essere degna cosa a tanta deità dir parole simili a quelle che noi, l'uno amico con l'altro, familiarmente diciamo, o il signore al servo suo, costituirono che i sacerdoti, li quali eletti e sommi uomini erano, queste parole trovassero.

Alla difesa a oltranza della poesia, anche e soprattutto da coloro che male interpretando Platone volevano i poeti banditi dalle città, Boccaccio concedeva una sola eccezione, rappresentata da coloro che Platone voleva giustamente esclusi dalle umane istituzioni: ovvero, «una spezie di poeti cornici, li quali, per acquistare riccheze e il favore del popolo, componevano lor comedie, nelle quali fingevano certi adultèri e altre disoneste cose perpetrate dagli uomini» (Esp . I, litt., 84). A ridosso della morte misuriamo insieme la coerenza e la distanza di Boccaccio dall'ardimentosa « teologia poetica» del Decameron. Con l'eccezione della brama di ricchezze, le parole delle Esposizioni ci conducono, dopo tutto, al centro del Decameron, che si proponeva di rifondare il mondo con la piacevolezza della « comedia )). Il prencipe Galeotto conteneva, è vero, « adultèri e altre disoneste cose)) che, al cimento con una «corrotta mente)) o con un lettore male avveduto, potevano risultare pericolose. Esistevano - questo

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La strada piu impervia

era il punto che doveva affliggere Boccaccio - lettori in grado di comprendere, attraversando l'opera (ipso in transitu), quanta novità, quanta franchezza d'apertura alla «vita hominis super terram » vi fosse nella coniugazione della gravitas con la levitas, della letizia con la severità morale, della comicità, dell'ironia, con la probità e con l'alta cultura, della tragedia con la beffa, della passione giocosa con la festa dell'intelletto e con la naturalezza della morale? Esistevano lettori o lettrici che, al cimento col Decameron e alcune sue novelle, non sentissero sollecitata la propria« corrotta mente»? Forse Boccaccio ne cominciava a dubitare. O, forse, ne aveva sempre dubitato, se è vero che le copie del Decameron anteriori al1375 sono poche e tutte riconducibili, secondo Marco Cursi, a lettori che fossero stati in rapporto con Boccaccio, a dimostrazione che egli intendeva quasi controllarne la diffusione, calibrarla. 67 Simili pensieri riaffiorano nell'epistola a Mainarda Cavalcanti del1373 (Ep. XXII), dove raccomanda all'amico di non mettere tra le mani delle sue donne di casa le «nugae » del Decameron, che potevano incitarle a pensieri e azioni disoneste. La pericolosità del libro, identificata con il suo dono di « alleggiamento », spaventava il suo autore (Ep. XXII 19-25), ma, nel contempo, ne ribadiva ancora l' audacia progettuale. Le accuse che un tempo lo indignavano venivano assunte come verità: perché preoccuparsi Si legga, su questi problemi, l'intervista a MARCO CuRSI: http: l l www.gliscritti.it l approf/2o07 l conferenze l cursi290907 .h nn (consultato i114 / t / 2014). E si ricorra al suo volume fl Decameron: scritture, scriventi, lettori. Storia di un testo , cit. Su di esso, recensendone il rilievo, mi soffermai in