La scienza e l'arte. Nuove metodologie di ricerca scientifica sui fenomeni artistici

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La scienza e l'arte. Nuove metodologie di ricerca scientifica sui fenomeni artistici

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Nato nel 1932 ad Alessandria, UMBERTO ECO compie i suoi studi a Torino dove si laureerà in Filosofia. Dopo aver tenuto corsi liberi di Estetica alla facoltà di Lettere di Torino ed esser stato incaricato di Teoria della Forma alia facoltà d’Architettura di Firenze, insegna Semiotica alla facoltà d’Architettura di Milano. Attualmente insegna Comunicazioni di Massa alla facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna. Membro del comitato direttivo della rivista cc Semiotica » e direttore della rivista (c VS », collabora inoltre a « Nouvelle Revue Frangaise », cc Time Literary Supplement », cc Tel Quel », cc II Verri », cc Rivista di Estetica, Semiotica, Linguistica », ecc. È autore di numerosi saggi tra cui ricorderemo II problema estetico di Tommaso d9Aquino (1956), Sviluppo delVestetica medievale (1959), Opera aperta (1962). La struttura assente (1968), Le forme del contenuto (1971) tradotti nelle principali lingue europee.

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Nato a Madrid nel 1932, ERNESTO GARC1A CAMARERO si laurea in Matematica all’Università di Madrid. Prosegue gli studi a Roma dove nel 1955, all’Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo del CNRS, compie le prime ricerche sulla programmazione e Fi inpi ego dei computers. Dopo aver insegnato alle università di Buenos Ayres e di Bahia Bianca (Argentina), di Asunción (Paraguay) e di Fernam­ buco (Brasile), è attualmente vice-direttore del Centro di Calcolo all’Università di Madrid. Autore di numerosi articoli sul linguaggio della programmazione, sulla computer art e sulla storia della scienza, è impegnato ora allo sviluppo d’una teoria scientifica sul disegno e sull’automatizzazione dei processi del disegno applicati in particolar modo all’architettura.

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INTRODUZIONE RICERCA SCIENTIFICA E RICERCA ARTISTICA

Nello studio dei fenomeni « più vicini all’essenza dell’uomo », come si usa dire riferendosi all’arte, al linguaggio, alla politica, ecc., acca­ de spesso che si configurino storicamente due vie: da un lato ci si richiama aH’unicità di tali fenomeni, alla loro portata lirica, irri­ petibile, si tende a pensarli come espressione di una « volontà » o di « un’anima che sdegna di lasciarsi rinchiudere in aridi schemi » e leg­ gi fisse; dall’altro ci si propone di studiarli nei loro aspetti formali, di scoprirne le regolarità e quindi le leggi di funzionamento, se non la spiegazione causale. Il primo atteggiamento si può definire umanistico, ed ha come versione estremistica il culto reazionario della « Tradizione » e del mistero nelle attività umane, estrema degenerazione del romantici­ smo; il secondo, che chiamerei scientifico, oltre a versioni estremi­ stiche di tipo positivistico, si è sviluppato in diverse direzioni a seconda dei vari oggetti teorici, dal marxismo alla logica matematica. È chiaro che entrambi tali atteggiamenti hanno una giustificazione e, salvo le loro versioni aberranti, una distinta utilità cognitiva rispetto ai fenomeni che studiano: ormai la questione delle due culture sembra definitivamente superata, anche per ciò che concerne le scienze umane. Questo libro si pone nell’ambito dell’atteggiamento che ho chiamato scientifico, ed intende illustrare le nuove tecniche di comprensione e di descrizione dei fenomeni artistici da un punto di vista sistematico e formale che sono state elaborate in questi ultimi anni, partendo da varie discipline generali, semiotica e teoria dell’informazione, linguistica trasformazionale e cibernetica. L’idea di una ricerca scientifica intorno ai fenomeni artistici non è certo nuova nella nostra tradizione culturale, fin dalla Poetica di Aristotele e dai canoni di proporzioni presenti nelle arti figurative greche. In sostanza una scienza dell’arte ha come presupposto prin­ cipale la fiducia che i fenomeni estetici siano analizzabili razional-

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mente o, almeno, non siano totalmente e irriducibilmente irrazionali. Per tutto un lungo periodo della cultura occidentale non c’è rigida distinzione tra arte, scienza e filosofia: la filosofia e scienza per Aristotele e per tutti gli scolastici (questo concetto è talmente dif­ fuso che il nome della moderna scienza sperimentale al suo sorgere sarà « Filosofia naturale », e così continuerà a chiamarla, ad esem­ pio, Newton; ma la scienza è interpretazione immaginativa, essen­ zialmente non quantitativa del mondo, e quindi si avvicina moltis­ simo alla prassi artistica; a sua volta l’arte è recta ratio factibilium e l’estetica tende a confondersi con la scienza nella fisica della luce. Ovviamente questa indistinzione non è mai stata totale, e si possono trovare molti esempi che la smentiscono; essa poi si è verificata più al livello della presa sociale di coscienza dei fenomeni, che al livello di questi ultimi, tanto che noi siamo in grado di distinguere con il nostro bagaglio teorico i fatti dell’arte antica da quelli della scienza e della filosofia certamente meglio di quanto non sapessero fare i contemporanei, che non disponevano fra i loro strumenti critici di una netta opposizione culturale dei tre ambiti. È solo con il XVII secolo che una tale opposizione prende ad affer­ marsi, con la nascita della scienza sperimentale, da un lato, e dal­ l’altro con l’affermarsi delle poetiche dell’ingegno, del gusto, del sentimento. Si verifica cioè, all’apparenza, una scissione decisiva tra prassi scien­ tifica ed estetica, che proseguono sulla propria strada, l’una attuando un progetto sempre più rigoroso ed esplicito di comprensione razio­ nale e matematica dell’universo, l’altra esaltando la soggettività del­ l’artista. Non è certo questo il luogo per tentare un’analisi delle vicissitudini, dell’affermarsi e delle crisi di queste tendenze, e delle loro profonde motivazioni sociali ed economiche. La distinzione tra ambito artistico e scientifico viene comunque vis­ suta sempre più come opposizione, tanto che i tentativi ottocenteschi d’applicare in qualche modo la metodologia scientifica non alla pra­ tica, ma solo allo studio dei fenomeni estetici comportarono una notevole carica polemica, come risulta anche dal saggio di B. Rauen. I temi dell’opposizione, teorizzati in maniera complessiva dalle filo­ sofie romantiche e idealistiche da Schelling a Croce, sono entrati nel patrimonio dei luoghi comuni della nostra cultura: l’artista libero creatore, divino artefice, genio sregolato agisce senza metodo rispondendo solo a se stesso del suo operare, mentre lo scienziato, con la sua metodologia pubblica, coglie gli schemi della realtà, senza infingere ipotesi, e quindi in qualche modo impoverisce la realtà 10 ■

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per studiarla. Si tratta d’immagini del tutto banalizzate e povere di contenuto, che non hanno mai corrisposto alla realtà dei fatti o alla coscienza dei più avveduti fra artisti e scienziati, ma che sono state lungamente vendute dai mezzi di comunicazione di massa. An­ che su questo piano una polemica è senza dubbio superflua, e tali schemi sono in via di dissoluzione. Ma la scissione tra prassi arti­ stica e scientifica, così clamorosamente tematizzata, in opposizione, ad un’analisi ulteriore si dimostra un’ipotesi insufficiente a spiegare i fatti, molto più appariscente che sostanziale. Non è diffìcile infatti trovare i momenti d’una solidarietà che non ha mai cessato di colle­ gare in forma più o meno esplicita i due ambiti tra di loro e più in generale con la società. Il modo più facile per trovare gli elementi che possono appoggiare una tale tesi è l’esame storico, in cui risal­ tano chiaramente svolgimenti paralleli e coincidenze: basta pensare, ad esempio, alla crisi contemporanea in cui entrarono la concezione della scienza e quella dell’arte intorno all’inizio del nostro secolo. Voglio però limitarmi a mettere in rilievo un unico elemento di convergenza tra scienza ed arte moderne, che è di notevole impor­ tanza proprio perché segna anche il momento del loro distacco, nei termini che sono stati appena precisati. Quest’elemento è lo speri­ mentalismo. Che la scienza moderna sia sperimentale, che lo sperimentalismo da Bacone e soprattutto da Galileo in poi sia il suo carattere essenziale, non possono esservi dubbi: il metodo scientifico ha i suoi momenti cruciali nell’ipotesi e nell’esperimento. D’altro canto anche l’arte moderna si costruisce come esperimento; se tale carattere è dichiarato esplicitamente da appena qualche de­ cennio, non è difficile vedere che esso è sempre presente, dopo il Rinascimento. Si sarebbe tentati a questo punto d’insistere sul parallelo e di met­ tere in rilievo, ad esempio, le omologie indubbiamente esistenti tra le grandi ipotesi scientifiche e le cosiddette poetiche nel campo arti­ stico. Ma prima di spingermi troppo oltre in questo discorso è opportuno discutere brevemente le posizioni che arte e scienza hanno rispetto all’intera struttura sociale e il modo in cui queste condizio­ nano le loro relazioni. Fondamento e motivazione decisiva delle attività sovrastrutturali come arte o scienza e della loro forma è la base, la struttura economico-sociale (mezzi produttivi e rapporti di produzione). Non v’è dubbio quindi che il criterio fondamentale, il concetto portante delle attività sovrastrutturali come la scienza e l’arte è Vutile, il loro 11

interesse sociale. Arte e scienza sono, e sono ciò che sono, in quanto utili, perché presentano un interesse sociale. D’altro canto entrambe vantano la loro purezza, il loro disinteresse, addirittura una relativa inutilità. Non si tratta qui di riproporre ancora le vecchie questioni solita­ mente mal impostate della neutralità della scienza, dell’impegno artistico, della possibilità d’una produzione culturale alternativa. Basta notare semplicemente che in effetti la scienza non s’identifica con la tecnologia, l’arte con la retorica dell’ideologia del potere. Esiste realmente una contraddizione tra la necessaria utilità dei fenomeni sovrastrutturali non con l’ideologia della neutralità e del disimpegno ma con il fatto della generalità e della « purezza » dell’atti­ vità scientifica e artistica: la società nel suo sviluppo sembra aver bisogno di conoscere la realtà in maniera non tecnologica, « pura »; e di formulare i messaggi autoriflessivi, non immediatamente prag­ matici, « puri » dell’arte. Le ragioni di questa situazione vanno certamente cercate nel senso che l’utile, per essere praticamente realizzato, dev’essere preceduto dalla mediazione di altre attività, quelle che tradizionalmente costi­ tuiscono cc le categorie del vero e del bello » e che stabiliscono dire­ zioni e limiti astratti del suo sviluppo. La tecnologia, come realizzazione dei mezzi produttivi all’interno d’un determinato sistema di rapporti di produzione, trova segnati i suoi limiti e le sue direzioni di sviluppo nella costruzione d’un modello astratto del reale su cui operare, cioè la scienza: il mondo delle macchine è espresso e anche preparato nella concezione di fondo (ideologica e ipotetica) dell’universo-macchina e, soprattutto, nello sviluppo della meccanica razionale e della fisica meccanicistica, che è verificata dal duplice rapporto con la realtà del mondo e gli interessi sociali di classe cui deve servire. L’ideologia, o l’autocoscienza di classe della società come rapporti di produzione, ha bisogno di trovare indicazioni di tendenza e limiti astratti nell’arte come costruzione di modelli generali del sociale nei due sensi della forma dell’espressione e del contenuto dei messaggi. Così il romanzo ottocentesco tratta contenuti borghesi nella forma di un dio che è l’autore, che miracolosamente fa di tutte le storie individuali una storia sociale, rendendo tangibile l’idea dell’armo­ nizzazione delle molecole deìVhomo oeconomicus in un’armonia pre­ stabilita che è quella del liberalismo borghese... In sostanza quindi in entrambi i momenti l’utile per realizzarsi deve costruire il vero o- il bello e lo fa attraverso una mediazione, un’ipo­ tesi generale, un modello astratto che non è più solo utile, e che non 12

è ancora bello o vero. In un caso (scienza) si tratta di verificare l’adeguatezza di quest’ipotesi generale da un lato alla natura che ha come oggetto, dall’altro alla società che deve servire; nell’altro caso (arte) va verificata l’adeguatezza dell’ipotesi al sociale strutturale e al sociale sovrastrutturale. Nel caso della scienza la singola ipotesi esplicativa risente dei mo­ delli culturali presenti, estendendoli in modo analogico, generaliz­ zando, ecc. Nel caso dell’arte l’identità parziale di soggetto ed oggetto la rende ambigua ed autoriflessiva. Si vede a questo punto come sono giustificabili le analogie tra i due campi di cui parlavo prima a proposito di sperimentalismo ed ipo­ tesi: si ha un’utilizzazione d’alcuni meccanismi psicologici fondamentali dell’uomo (curiosità, gioco, ecc.) a fini d’utilità sociale, attra­ verso la costruzione di momenti intermedi ed ipotesi esplicative che si pongono tra la scienza e la tecnica, tra l’arte e l’ideologia. Se a questo punto riprendiamo in esame il problema che ho esposto in precedenza, quello cioè della connessione profonda esistente tra attività artistica e attività scientifica, esso ci si ripresenta spogliato dai pericoli metafisici che prima lo minacciavano, non corriamo più il rischio di considerare arte e scienza come due articolazioni o momenti d’un qualche Spirito, ma andiamo piuttosto alla ricerca di analogie profonde ed omologie di struttura tra metodologia estetica e metodologia scientifica. Perciò il discorso svolto in quest’introduzione non vuole assolutamente fornire una definizione complessiva — anche solo approssi­ mata — d’arte o di scienza, ma solo indicare le premesse fondamen­ tali per l’applicazione del metodo scientifico alla conoscenza dei fenomeni estetici. Non interessa quindi un’eventuale identità di sostanza tra arte e scienza, bensì tutta una serie di questioni connesse con la posizione occupata da queste due diverse forme sovrastrutturali in relazione alla struttura sociale sottostante, con il tipo d’atteggiamento gnoseo­ logico nei confronti del reale che l’attività artistica e quella scien­ tifica implicano, e così via. Prima di concludere questo discorso è il caso di notare un’ultima relazione di similarità tra lavoro scien­ tifico ed estetico: entrambe queste attività hanno come caratteristica essenziale quella di progettare, di dar senso, di trasformare la realtà; di ridurre, cioè, oggetti e fatti in significati sociali. Arte e scienza si possono dire quindi semiotiche del reale, sono momenti della ca­ pacità tipicamente umana e tipicamente sociale di dare senso al mondo, attraverso la prassi cognitiva ed il lavoro. 13

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I motivi d’analogia che sono emersi finora dovrebbero essere ulte­ riormente approfonditi e portati a un livello di studio sistematico. Ma non è questo lo scopo di questo libro : in esso ci si propone invece di mostrare quali siano e come si applichino le metodologie scientifiche più moderne di ricerca sui fatti estetici. Basta quindi aver mostrato l’infondatezza della tradizionale opposizione tra arte e scienza. Nella costruzione di quest’antologia si è dovuto compiere una scelta tra le varie discipline scientifiche che si occupano dei fatti artistici: il criterio seguito è stato quello d’escludere le ricerche più tradizio­ nali, quelle che ormai hanno sviluppato la loro analisi dei processi artistici da molto tempo. Si tratta principalmente delle cosiddette scienze umane (psicologia, sociologia, psicanalisi, ecc.). I contributi all’antologia, oltre ad essere tutti inediti salvo quello di Umberto Eco, riguardano discipline ancora generalmente mal cono­ sciute, specialmente nella loro applicazione all’arte, su cui possono invece dare notevoli contributi di conoscenza. Pur assumendomi integralmente la responsabilità dell’impostazione e dei contenuti del testo, intendo ringraziare alcune persone senza di cui la sua realizzazione non sarebbe stata possibile: oltre all’edi­ tore con il quale abbiamo concepito questo volume ed agli autori per la loro pazienza, il prof. Gillo Dorfles, cui devo molte idee illuminanti, il prof. Umberto Eco e il dott. Gabriele Usberti, con cui ho discusso proficuamente alcune parti del testo.

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BREVE STORIA DELLE ESTETICHE SCIENTIFICHE

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La forma più semplice, più tradizionale, e insieme più ambiziosa di scienza dell’arte è l’estetica, almeno nella sua concezione classica, appunto di scienza tout court dell’arte. Alla sua nascita, o piuttosto alla nascita del suo nome,1 inventato da Baumgarten alla metà del XVIII secolo, l’estetica era definita come gnoseologia inferior o, più chiaramente, come scientia cognitionis sensitivae. Ma già Vico aveva parlato d’una logica poetica e il concetto o forse il mito d’una disciplina filosofica e perciò universale e necessaria e perciò scientifica_dell’arte si può far risalire, con più o meno chiarezza e consape­ volezza, _alle .origini greche della filosofia occidentale. Dopo Baum­ garten la scientificità dell’estetica, pure ambiguamente negata da Kant, è recepita generalmente. Le trattazioni idealistiche d’estetica si caratterizzano proprio per questa loro pretesa scientificità specu­ lativa, da Hegel, che inizia le sue Lezioni di estetica discutendo il suo assunto di dare una trattazione scientifica del bello e dell’arte, fino ai suoi più tardi epigoni, come Croce, che parla di scienza dell’arte, a carattere filosofico. È contro questa tradizione che Helmholz, Lipps, Fechner. Birkhoff tentarono di reagire proponendo delle estetiche scientifiche o. me­ glio, degli approcci scientifici all’estetica, che fossero caratterizzati da quelle metodologie empiriche e matematizzate che caratterizzano la pratica moderna delle scienze. Si tratta, in sostanza, del tentativo d’un’operazione analoga a quella che è stata alla base della psico­ logia moderna: staccare dal corpo della filosofia e dai suoi metodi una delle sue parti tradizionali e modellarla consapevolmente se­ condo l’immagine della fisica, a sua volta sviluppatasi dopo essersi sottratta al servaggio filosofico; riproporre ancora una volta, in un campo diverso, il motto di Newton Hipoteses non fingo; realizzare, cioè, una disciplina sperimentale del « bello ». Si tratta, com’è chiaro, d’un programma tipicamente positivista e forse anche ingenuamente positivista, che però ha una grande im­ portanza, non per i suoi risultati assai discutibili, ma proprio come programma. Vi sono infatti implicite tutta una serie d’affermazioni e di rinunce che, anche per l’ininterrotto procedere della prassi arti-

1 È chiaro che una riflessione sistematica sui problemi dell’arte era pre­ sente ben prima di Baumgarten e di Vico, anche se essa non aveva in­ fluenza sull’epoca e sui problemi che interessano qui. Cfr., ad esempio, sull’esistenza di tale riflessione nel Medio Evo U. Eco II problema estetico in S. Tommaso, Bompiani, 1970 con l’appendice che rileva alcune interes­ santi (e preoccupanti) analogie tra problematiche e medievali e strutturaliste.

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stica, sono state acquisite alla coscienza critica nel corso di questo secolo: così la rinuncia alio spirituale, al_genio e agli altri canoni dell’interpretazione romantica del fatto..artistico, la rivendicazione dell’empiricità e della .materialità dell’esperienza-estetica, il rifiuto del contenutismo in favore d’un’analisi formale, la considerazione dell’opera d’arte come un fatto complesso, da smontare nelle sue componenti elementari per studiarne il comportamento e l’efficacia. Nella realizzazione d’un programma così nuovo e audace per il pe­ riodo in cui è stato formulato, inevitabilmente si sono sovrapposti elementi limitativi, scorie metafisiche e premesse molto impegnative ma inavvertite. Così, nella determinazione empirica e quantitativa del « bello », gli studiosi che hanno elaborato le estetiche scienti­ fiche sono partiti dall’identità, d’origine kantiana, tra cc bello » e universalmente piacevole, ma hanno finito poi in pratica col restrin­ gere una tale determinazione universale al gusto d’un’epoca, d’un paese, e soprattutto d’una classe, passando in questo modo da una ricerca generale sulla rilevanza estetica delle forme prima ad un’in­ volontaria sociologia del gusto, sia pure quantificata secondo para­ delle formulazioni non metri astratti, per giungere in definitiva descrittive ma normative. Attraverso questo tipo di ricerca, sono stati poi costretti a trascurare tutti quei caratteri dell’oggetto estetico che ne costituiscono l’aspetto comunicativo, a non accorgersi che gli elementi d’un’opera d’arte vi si trovano sempre in situazione, presi funzionalmente e non sostanzialmente; non hanno potuto vedervi Fambiguità, la polisemicità, l’apertura che la caratterizzano. Ma queste osservazioni critiche, che sono riprese nel saggio che Birgid Rauen ha dedicato all’argomento, non possono farci sottovalutare l’importanza di coloro che, in definitiva, hanno fondato il concetto stesso di scienza empirica dell’arte.

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La problematica di base d’un’estetica operante con metodi scientifici non riguarda unicamente questioni percettive. Non si tratta cioè so­ lamente d’analizzare, dal punto di vista fisiologico e psicologico, i meccanismi percettivi del ricevente, spettatore o ascoltatore che sia; di stabilire le condizioni nelle quali egli giudica belli degli insiemi ordinati di elementi, suoni, parole, rumori, linee, colori, ecc.; e non si tratta solamente di scoprire in seguito una formula matematica che « misuri » il grado di tale ordine. Ogniqualvolta noi procediamo in questo senso, partiamo implicitamente da certi presupposti con­ siderati sufficientemente dimostrati o intesi come postulati universali, dai quali comunque viene tratta giustificazione per il nostro modo di vedere e di procedere: sono questi la concezione generale che abbia­ mo dell’arte e il complesso di sensazioni ed effetti che ci attendiamo da un’opera d’arte o da un oggetto estetico. La questione d’un’estetica scientifica non si pone quindi unicamente nei termini di quanto i suoi metodi siano adeguati e i suoi risultati soddisfacenti; vanno esaminate pure, e forse in primo luogo, la con­ sistenza e la validità di quei presupposti da cui essa parte acritica­ mente e che assume tacitamente come ovvii o tali da non dover esser messi in discussione. Quali sono dunque tali presupposti che stanno alla base delle inda­ gini intraprese a partire circa dalla metà del secolo scorso e che con­ sistevano nell’applicare concetti e metodi propri alle scienze esatte all’ambito della creazione artistica o, più in generale, del bello? Da quale impostazione generale, da quale concezione dell’arte, della sua essenza e dei suoi effetti traggono origine e quale nesso sussiste tra tale impostazione generale e la giustificazione che i singoli autori apportano esplicitamente per il loro modo di procedere o comunque lasciano intravedere nelle loro esposizioni? Sarà mio intento nelle pagine che seguono di mettere in luce i fattori comuni ai presupposti di Helmholtz, Fechner, Lipps e Birkhoff (per nominare i maggiori rappresentanti d’un’estetica scientifica del pas­ sato), per quanto diversi possano essere i metodi di cui i singoli studiosi si avvalgono e le conclusioni a cui giungono; questi presup­ posti, nei tentativi più recenti intrapresi allo scopo di sviluppare le teorie da un punto di vista moderno e alla luce del progresso mani­ festatosi nelle scienze esatte, costituiscono ancor oggi un insieme di concetti e concezioni base, raramente diagnosticati come tali ma accettati aprioristicamente come fossero veri e universalmente validi. Un’indagine sulla validità di tali presupposti è un compito imposto non solo dalla scientificità di cui tutti i tentativi di questo tipo si 18

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rivestono, ma pure dallo sviluppo che le arti hanno avuto negli ultimi tempi. Quel carattere sperimentale, provvisorio, frammentario, transitorio offertoci da molte opere d’arte della nostra epoca; la soggettività di certi altri lavori, soprattutto nell’ambito dell’arte figurativa, creati primariamente con lo scopo di stimolare nel fruitore una partecipa­ zione attiva e concreta, ormai non consentono più di parlare dell’ope­ ra d’arte come d’un oggetto chiuso e finito che sia in tutte le sue parti elaborato e sottoposto ad un unico principio formativo. E per­ tanto non consentono più di concepire il processo fruitivo come prevalentemente passivo, ove l’ascoltatore o lo spettatore non apporta nulla di proprio alla struttura precostituita, una volta che l’artista o comunque il producente l’abbia definitivamente terminata. Concezio­ ne questa che peraltro era decisiva per l’elaborazione delle teorie estetiche menzionate, le quali si prefiggevano o di fornire della per­ cezione e sensazione del bello una spiegazione psicologica univoca o di misurarne addirittura la portata alla mano di vari metodi matematici. Se Helmholtz/ per esempio, conclude in base alle sue indagini sulle sensazioni uditive che alla conformità secondo ragione dell’evento fisico misurabile (onde sonore) corrisponda una conformità secondo ragione della percezione nell’ascoltatore e che proprio in questo ren­ dere manifesto l’intrinseca conformità secondo ragione della natura consista l’essenza dell’arte, lo fa nella convinzione che in questa com­ ponente oggettiva, cioè in tutto ciò che è passibile d’indagine, misura e descrizione scientifiche, s’esaurisca completamente l’opera d’arte, e che essa venga rispecchiata fedelmente, senza perdite ed equivoci, nell’« immagine », nel « segno » soggettivi del percipiente, quanto alla sua struttura, regolarità e ragionevolezza. Il percipiente non con­ tribuirebbe in nulla alla configurazione fisica; spetta quindi esclusi­ vamente alle scienze della percezione e della fisica di rilevare la con­ formità secondo ragione di tale configurazione e di dimostrare così perché il bello fosse bello.

1 Hermann Ludwig Ferdinand von Helmholtz (1821-1894), medico e fisiologo, inventore dell’oftalmoscopio e delPoftalmometro, scopritore di numerose leggi e particolarità del sistema neurofisiologico umano, diede contributi importanti an­ che alla fisica con i suoi studi sul principio della conservazione dell’energia e sulla termodinamica. Le sue indagini sulla fisiologia e psicologia della percezione visiva e quella uditiva lo condussero a questioni di natura- estetica e gnoseolo­ gica. Le sue concezioni sulle caratteristiche e lo svilupparsi dell’intuizione dello spazio accesero un violento dibattito tra i seguaci ortodossi di Kant e gli stu­ diosi di fisiologia e di matematica. 19

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mente sullo stimolo, ad identificare, ad esempio, ampiezza ed intensità del suono, cioè dei concetti psicologici, con i loro correlati fisici (cosa che ai giorni nostri non appare più legittima come ha tentato di dimo­ strare S. S. Stevens: cfr. nota n. 7). Le indagini che Fechner intraprese nell'ambito della percezione visiva (percezione dell’intensità di luce, della differenza nella lunghezza di linee, ecc.) lo portarono a concludere che tale legge di Weber, che da lui era stata ulteriormente sviluppata e generalizzata nella sua veste matematica, dovesse essere valida per l’intero dominio dell’attività psichica. « A priori e da un punto di vista generale non può esser negato che lo spirituale in genere riveli dei rapporti quantitativi. » 8 L’estetica pertanto viene a far parte, nella sua suddivisione dell’area scientifica, della cosiddetta psicofisica esterna la quale appunto si occupa del rapporto di dipendenza tra stimolo e sensazione e con questo della quantificazione dello spirituale; in tale contesto l’este­ tica è vista come una scienza esatta che in analogia con quelle natu­ rali, limita ai fatti elementari ed ai rapporti misurabili, presentan­ dosi come « estetica dal 'basso» (secondo la terminologia fechneriana) in contrasto con la tradizionale « estetica dall’alto » che l’autore ri­ tiene poco fruttuosa in quanto pura speculazione filosofica. La sua estetica sperimentale, stesa in due scritti fondamentali,9 as­ solve però solamente la parte, per così dire, programmatica d’una tale estetica dal basso, limitandosi per di più ad elaborare dei punti di vista generali, delle norme, direttive e metodi da seguire, dedu­ cendo anche da alcune osservazioni singole e da qualche test speri­ mentale delle conclusioni finali, senza pretendere però di costituire una teoria esatta, basata su fatti misurabili, alla maniera delle scienze naturali. È per questa ragione che Fechner intitola le sue esposizioni con un termine analogo a quello di prolegomena, indicando con que­ sto trattarsi d’alcune ricerche di base per un’estetica esatta futura, della cui possibilità egli è fermamente convinto. Nel contesto che seguiamo è particolarmente importante tenere pre­ sente llipotesi di fondo che_JPgchngr fornisce come spiegazione del .piacere e deFclispiacere estetico. E questa la supposizione che le onde della luce o quelle sonore comu_ nichinò al~~nervoJotticò q~a~queilo~uditivo~delle -vibrazioni periodiche; Ja supposizione inoltre che unTconfigurazione di colori, un brano 8 Cfr. Elemente der Psychophysik. 9 Zur experimentalen Asthetik, Leipzig, 1872 e Vorschule der Asthetik, Leipzig, 1876.

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musicale, una forma visiva possano piacere soltanto qualora tali vi­ brazioni complesse dei nervi stiano in rapporto, commensurabile /tra eli lóro;: La sensazione di piacere e quella di dispiacere sono ricondotte in una tale concezione, alla stregua di tutti i fenomeni dell’attività psichica, a vibrazioni nervose, mentre la commensurabilità assurge a conditio sine qua non del?emergere di stati emotivi positivi. Con ciò essa si presenta, nell’ambito della visione eudaimonistica fechneriana, anche come un ideale morale, come obiettivo dell’agire umano, dal momento che l’uomo è visto dall’autore alla luce d’un continuo tendere verso condizioni di piacere. Il piacere, certo, può avere origine da differenti cause, può manifestarsi con delle in­ tensità differenti; tuttavia vi sarebbe qualcosa di comune alla base d’un cibo gustoso, d’uno stato d’animo vitale e felice, d’un’opera d’arte piacevole; se così non fosse, conclude Fechner, se non vi fosse da designare qualcosa d’identico, perché allora l’esigenza d’un de­ nominatore, d’un termine comune nell’uso del linguaggio? L’estetico, cioè il piacere derivante da una configurazioae-di-stimoli sensoriali, il vero, cioè il piacere dato da ciò che è privo d^ contrad­ dizione. e l’utile, il piacere connesso con le conseguenze pratiche d’un’azione o un evento, si presentano dunque-come dei differenti aspetti in cui uno stato emotivo identico può manifestarsi. Qual è il modo dunque con cui, secondo Fechner, un’estetica dal basso deve procedere per determinare che cosa piace, perché esso piace e perché in fondo ha diritto di piacere? Dal momento che non è ancora possibile, così argomenta l’autore, misurare con i mezzi a disposizione delle scienze esatte i « quanta del piacere », cioè l’attività corporea ossia, nel nostro vocabolario, gli impulsi nervosi, che stimolati dall’esterno danno luogo alla sensa­ zione del piacere, e fino a quando ciò non sarà possibile, l’estetica dal basso è costretta a servirsi del metodo sperimentale dei test per separare ciò che piace da ciò che dispiace; e precisamente partendo da forme semplici come il quadrato, il rettangolo, croci per l’ambito visivo, procedendo poi in una seconda fase di lavoro a stabilire quali elementi abbiano ricevuto più giudizi di preferenza e definire tali rapporti come i « rapporti norma » perché preferiti da una maggio­ ranza di persone colte. Secondo Fechner tale procedimento ha il secondo vantaggio di discriminare tra gusti buoni e gusti cattivi sempre in base al « gusto norma » della maggioranza; chi infatti ha rivelato di possedere, di fronte a forme semplici come quelle elencate sopra, un gusto cattivo, tanto più rivelerà di possederlo per le forme più complesse. 25

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La convinzione che esista un gusto migliore, uno peggiore ed uno ottimo, che bello non fosse solo ciò che piace ma ciò che dovrebbe piacere ed ha diritto di piacere fa parte dei presupposti su cui ripo­ sano le estetiche scientifiche che si sono avute finora. Una teoria infatti che si prefigge di ricercare unicamente nell’oggetto e nella sua disposizione la causa del suo piacere, e che si mette inoltre a stabilire delle relazioni univoche tra un determinato ordinamento di colori, di forme, parole e suoni e le sensazioni connesse di bello, meno bello, bello al massimo è convinta in fondo che esista un massimo di bel­ lezza, un bello assoluto il quale possa venir determinato matemati­ camente o comunque esattamente. Non solo Helmholtz e Fechner implicitamente partono da questo presupposto ma, come vedremo, anche Lipps nei suoi studi psicolo­ gici e Birkhoff in quelli matematici; del resto pure i tentativi recenti d’un’estetica matematica intrapresi da Max Bense in Germania 10 e da A. A. Moles in Francia 11 rivelano un’impostazione di base che in sostanza non è molto differente. Certo, queste teorie riconoscono che i giudizi e le sensazioni sogget­ tivi possono variare considerevolmente da persona a persona; tutta­ via tali divergenze individuali nel giudizio sono viste sempre come « deviazioni » da un gusto norma rappresentativo per ciò che in fon­ do sia bello e debba piacere. Oggi tale gusto norma non è più identificato, come avevano fatto Helmholtz e Fechner, con il gusto delle persone colte; eppure le teorie recenti che abbiamo menzionato non sembrano condividere la concezione che ad ognuno piace ciò che gli può piacere in base all’ambiente sociale e culturale in cui egli vive, in base alla forma­ zione che egli ha avuto per tramite della scuola, dell’educazione pro­ fessionale, ecc. e all’informazione che egli riceve ogni giorno ed ogni ora per tramite di quell’ambiente; in base quindi al repertorio di segni che gli è familiare e che per lui è significativo, che egli può com­ prendere; un modo di vedere, questo, impostoci dalla situazione at­ tuale in cui si trovano sia il consumo dell’arte sia quello di tutti i vari media (dal giornale strutturato in modo tale da essere compren­ sibile ad una determinata cerchia di lettori solamente, al fumetto, al servizio televisivo, ecc.). Una tale accentuazione differente del pro­ cesso estetico o comunicativo in genere comporta naturalmente l’equi-

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10 I suoi scritti fondamentali sono raccolti nel volume Aesthetica, Baden-Baden, 1965. 11 Cfr. Théorie de Vinformation et perception ésthétique, Paris, 1958. 26

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3,36 0,27 0,00 3,36 11,35 17,22 35,83 16,99 9,94

Fig. 2. Alcuni rettangoli che Fechner presentò a delle persone colte. In basso la tabella della distribuzione percentuale dei giudizi proferiti dai gruppi di uomini (m) e di donne (f). La colonna r dà i rapporti fra i Iati dei vari rettangoli, di cui quello n. 7 con il rapporto di sezione aurea manifesta avere il valore più alto di piacevolezza.

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parazione di tutte le reazioni e di tutte le sensazioni che le persone abbiano di fronte agli oggetti percepiti e ai messaggi ricevuti, reazioni e sensazioni che in tal modo vengono a trovarsi tutte su uno stesso livello, con la stessa ragione d’esistere. Ammettere però che le cose stanno così, significherebbe rinunciare a priori ad ogni tentativo di misurare il bello direttamente sull’ogget­ to e di frazionarlo secondo una scala di valori, nonché al tentativo di formulare delle leggi percettive generali ed univoche a cui si conformi in ogni modo l’emergere d’un sentimento estetico. Da un lato Helmholtz e Fechner non giungono, nei loro contributi ad un’estetica scientifica, alle conclusioni estremiste d’un Lipps e un Birkhoff o a quelle delle correnti moderne che fanno direttamente uso (o lo auspicano comunque) d’una formula matematica atta se­ condo gli studiosi in questione a misurare i gradi del bello e del piacevole; se Fechner distribuisce rettangoli, cerchi e croci secondo dei valori di piacevolezza ottenuti mediante la percentuale dei giudizi positivi e negativi proferiti dai soggetti ed esprime inoltre la sua convinzione che in un giorno futuro sarà possibile misurare i quanta del piacere direttamente nel sistema nervoso, egli è tuttavia consa­ pevole delle difficoltà che insorgono ad un’estetica scientifica dalla presenza del fattore associativo, delle determinazioni concomitanti quali l’idea, la funzione, il contenuto d’un’opera o un messaggio, che accompagnano la percezione soprattutto se dalle forme elemen­ tari si passa a quelle più complesse. Un’arancia, ad esempio, si distinguerebbe da una sfera dello stesso colore per via delle associazioni del sapore, delle condizioni climati­ che e regionali in cui è maturata, ecc.; in tal modo essa formerebbe un centro dal quale possono dipartirsi diversi processi associativi; tutte queste associazioni, per quanto multiformi ed individuali, pro­ cederebbero tuttavia in una determinata direzione e farebbero parte in un certo qual modo dell’essenza dell’oggetto da cui hanno preso origine. Ne consegue che nella vasta gamma delle associazioni differenti a seconda dell’individualità, del tempo e del luogo, vi siano certe che non avrebbero ragione d’esistere perché connesse solo indirettamente con l’oggetto; in genere però, dice l’autore, le associazioni più impor­ tanti « sono imposte all'uomo dalla natura generale delle condizioni umane, terrene e cosmiche, per cui, ad esempio, nessuno può pren­ dere l'espressione della caducità per quella della forza e della salute, nessuno l'espressione della bontà per quella della malizia ». Per quanto riguarda il piacere derivante da tali associazioni stimolate da un oggetto, Fechner lo ritiene giustificato solo qualora esso risulti 28

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avere un effetto positivo sia rispetto alle conseguenze pratiche che ne possono derivare sia rispetto a tutte le altre relazioni in cui viene a trovarsi. Solo nel caso che queste condizioni siano soddisfatte, un oggetto può esser considerato veramente ed oggettivamente bello. Helmholtz vede il contributo che la scienza può dare alla teoria delle belle arti prevalentemente nel rendere manifesto, nel trarre alla luce i legami interni, le regolarità proprie ad un’opera d’arte o un intero ambito artistico; regolarità che costituirebbero l’ultima ragione della sua bellezza, del suo agire in senso estetico. 1 Tali regole non sono date, dice l’autore, all’intelletto consapevole; né l’artista mentre crea l’opera, né il fruitore mentre la contempla o l’ascolta, sanno della loro esistenza; proprio su questo riposerebbe infatti l’effetto ultimo dell’arte, di comunicare cioè l’immagine d’un universo dominato in tutte le sue parti dalla legge e dalla ragione non alla sfera consapevole e all’intelletto, ma a quella inconsapevole dell’intuizione. Il fatto che noi sottoponiamo un’opera d’arte ad una disamina cri­ tica, giudicandola tanto più grande quanto più riusciamo a scoprire in essa delle connessioni intime ed armoniche tra le singole parti, dimostrerebbe, secondo l’autore, che sarebbe possibile procedere ad un’analisi oggettiva del bello, conoscere e comprendere le leggi e le regole su cui esso riposa, percepite ed applicate intuitivamente. Allo stesso modo di Fechner, Helmholtz è convinto vche quando una persona esprime un giudizio come bello, o piacevole nei confronti d’un’opera d’arte, questo non sarebbe suo affare personale, giacché noi ci attendiamo e pretendiamo da ogni altro spirito umano che egli serbi al bello lo stesso riconoscimento che noi gli serbiamo Nel ricercare tale intima ragionevolezza dell’opera d’arte Helmholtz si limita alla disamina delle condizioni fisiologiche e psicologiche della percezione nelle quali avviene il processo di fruizione e che contribuiscono in massima misura unitamente alle caratteristiche fisi­ che alla sua piacevolezza. Certo, e Helmholtz è il primo ad ammet­ terlo, esse non spiegano l’effetto totale d’un’opera d’arte; lo svilup­ parsi del sistema musicale tonale armonico non si spiegherebbe cioè solamente in base alla costruzione dell’orecchio umano e al suo speci­ fico modo di funzionare; tale sistema, dice Helmholtz, è anche un principio stilistico che — almeno fino ad un certo grado — è stato scelto liberamente in una data epoca e in un determinato ambito 12 Cfr. Die Lehre voti den Tonempfindungen als physiologische Grundlage fur die Theorie der Musik, Braunschweig, 1863. 29

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culturale del mondo. Eppure le leggi fisiologiche dell’orecchio avreb­ bero avuto un ruolo preponderante nel costituirsi di questo principio stilistico manifestatosi nella musica occidentale. Tale ruolo preponderante è analizzato dall’autore nella sua opera famosa Die Lehre von den Tonempfindungen 13 di cui appunto la consonanza e la dissonanza musicale quali risultati di processi fisiolo­ gici costituiscono il problema centrale. Prima di Helmholtz, nel XVIII secolo, i due fenomeni erano stati riconosciuti come dipendenti dai rapporti razionali tra i suoni e le loro armoniche; Rameau e D’Alembert avevano ricondotto l’esistenza delle armoniche a un dato di fatto insito nella natura delle cose, senza poter spiegare la loro origine, e definito bella perché naturale la teoria delle relazioni armoniche basata su di esse. Tali rapporti razionali avevano ispirato ad un altro studioso, Leonhard Euler,14 delle speculazioni filosofiche sull’ordine in genere: bello sa­ rebbe per noi ciò in cui ravviseremmo della perfezione, e ordine sa­ rebbe null’altro che perfezione, realizzata in minor o maggior grado; l’anima umana trarrebbe un piacere speciale da rapporti semplici perché essa riuscirebbe a comprendere questi più facilmente. Con una tale teoria, così arguisce Helmholtz, però non si spiega come mai l’anima umana sia in grado di riconoscere tale ordine; e appunto il grande merito di questo studioso è quello d’aver tentato di stabi­ lire i meccanismi percettivi che permettono di captare l’ordine musi­ cale o in genere sonoro. Non possiamo in questo contesto esporre più da vicino le sue teorie anatomiche e fisiologiche che concernono l’orecchio e il suo modo di funzionare; la sua ipotesi è in poche parole che il nervo uditivo ter­ minerebbe con una serie di fibre ciascuna delle quali vibrerebbe soltan­ to a una data frequenza — di modo che la vibrazione fisica complessa sarebbe frazionata durante il processo uditivo nelle sue componenti semplici, in accordo col teorema di Fourier il quale dal punto di vista matematico-fisico statuisce la proprietà dei suoni d’essere de­ scrivibili come la somma di semplici grandezze periodiche. La con­ sonanza viene spiegata nell’ambito d’una tale ipotesi come una stimo­ lazione continua del nervo in cui o non si verificano dei battimenti o i battimenti eventualmente risultanti dai rapporti irrazionali fra le frequenze con cui vibrano le singole fibre non disturbano perché 13 È infatti la prima opera in cui si tenta di fornire con un metodo scientifico ed empirico un fondamento fisiologico della teoria della musica. 14 Cfr. Leonhard Euler, Tentamen novae theoriae musicae, Petropoli, 1739.

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troppo lievi per essere percepiti. La dissonanza, di contro, è vista come una stimolazione discontinua, intermittente, causata appunto da rap­ porti irrazionali tra le frequenze delle fondamentali o delle armoniche di uno, due o più suoni; essa avrebbe un effetto spiacevole sull’orec­ chio a causa del sopravvenire di fenomeni di stanchezza, irritazione e refrattarietà. La piacevolezza della consonanza sarebbe garantita quindi da dati di fatto fisici e fisiologici. Su tale principio della consonanza e della dissonanza, cioè della mag­ gior o minor parentela tra i suoni, riposerebbe l’intero sistema della musica tonale; tuttavia l’autore ammette che, trovandosi a livello non più di singoli suoni ma d’un sistema musicale intero, il confine tra consonanza e dissonanza non può esser stabilito con tanta nettezza e precisione. « La quantità di dissonanza che Vascoltatore è disposto a sopportare come mezzo d'espressione musicale, dipende dal suo gusto e dalla sua assuefazione; ne consegue che il sistema di scale, di tonalità e dei loro rapporti ormonici non risulta soltanto da leggi naturali invaria­ bili, ma è stato c sarà soggetto, nei suoi aspetti estetici, ad un continuo cambiamento. » La parte comunque preponderante che l’apparato fisiologico dell’orec­ chio avrebbe nello svilupparsi di tale sistema musicale sarebbe data dalla facoltà di discernere tra rapporti razionali e rapporti irrazio­ nali, tra accordi armoniosi ed accordi non armoniosi; mentre il ten­ dere verso l’armoniosità, il sentire e percepire questa come unica­ mente piacevole, rimane anche per Helmholtz il principio conduttore dell’attività psichica dell’uomo. Un tentativo analogo a quello d’indagare scientificamente perché il bello musicale sia bello, è fatto da Helmholtz-per la pittura.15 Anche qui sarebbero dei princìpi fisiologici-percettivi a.spiegare per­ ché un quadro abbia su di noi quell’effetto che secondo l’autore è e dev’essere peculiare alla pittura: trasmettere all’ossejrvatore un’im­ pressione chiara e vivida degli oggetti rappresentati, eppure essere qualcosa di più d’una semplice imitazione o trascrizione della natura. Gli oggetti dovranno apparire privi di tutta la « zavorra >> del casuale, dell’accidentale e dell’inessenziale, fornendo invece l’immagine di qualcosa di tipico ed ideale come non si potrà mai trovare nella

realtà. 15 On thè relations of optics to painting, im Popular lectures on sdentile subjects, London, 1873.

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Quali sono ora i mezzi di cui il pittore si serve a questo scopo e come riesce egli a controbilanciare lo svantaggio iniziale risultante dal fatto di dover rappresentare oggetti tridimensionali su una su­ perficie piana? Il genio artistico, dice Helmholtz, applica inconsapevolmente le leggi dell’ottica e tra di loro quella fondamentale che è la legge di WeberFechner. Uno dei mezzi più importanti per dare l’illusione prospetti­ ca, tridimensionale consiste appunto nella resa dell’illuminazione che gli oggetti presentano ad una data angolazione visiva. Ora con la scala di colori a disposizione del pittore è impossibile trascrivere fedel­ mente tutte le gradazioni d’intensità di luce che si riscontrano nella realtà. Data la legge di Weber-Fechner è però sufficiente conservare il rapporto tra le differenti intensità di luce offerte dagli oggetti. Così sia per la rappresentazione d’un deserto sia per quella d’un paesaggio lunare il pittore si serve dello stesso colore bianco nel rendere l’og­ getto di volta in volta più chiaro, malgrado l’intensità della luce del sole sia di 800.000 volte maggiore di quella della luce lunare. Ma ciò che importa è che in entrambi i casi il rapporto tra l’oggetto più chiaro e l’oggetto più scuro sia lo stesso che è reperibile in natura. Esiste poi per Helmholtz un secondo fattore, esso pure di natura fisiologica, che viene in aiuto al pittore: il fatto cioè che verso gli estremi della percezione la legge di Weber-Fechner si era manifestata non valere più a causa del sopravvenire di fenomeni di stanchezza e d’insensibilità del nervo. Ciò significa che nella realtà oggetti molto chiari o molto scuri sono visti chiari o scuri tutti alla stessa stregua malgrado esistano notevoli differenze nella frequenza delle onde di luce. Per questo motivo la necessità di conservare il rapporto reale fra le differenti intensità di luce vale solo per un ambito medio. Gli oggetti che si trovano inondati da luce abbagliante come avviene nel deserto sono resi dal pittore quasi tutti chiari alla stessa maniera; quelli d’un paesaggio lunare quasi tutti scuri; si aggiunge a ciò una differente sensibilità del nervo ottico nei confronti dei vari colori: con l’aumento dell’intensità di luce, la sensazione del rosso e del giallo si rafforza in misura maggiore che non quella verso il blu e il verde, di modo che la luce più chiara tende per l’osservatore verso una tinta giallognola, la luce smorzata verso una tinta bluastra. An­ che tale fattore viene sfruttato dal pittore: il quale aggiunge del giallo agli oggetti in pieno sole, del blu a quelli illuminati dalla luna. Anche, .la_pi ttur-a- - rivela dunque allo scienziato della percezione un ordine intimo dell’universo, un procedere di esso secondo determinate leggi che la scienza trae alla luce _e. trasporta-nella sfera,del "sapere

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i razionale^ Il concetto di ordine è comunque un concetto centrale per glDstudiosi che abbiamo fin- qui esaminato'~Esso"pefò'appare privo di qualsiasi connotazione metafisica-o-cosmiea^ bordine si statuisce come il risultato di meccanismi percettivi e fisiologici, la cui esten­ sione può essere stabilita esattamente. Ordine scientifico, dunque, com’è evidente nel passo citato di Fechner in cui egli espone la sua ipotesi di fondo riguardo alla natura del piacere: che questo dipenda da rapporti commensurabili tra le frequenze di vibrazione dei nervi. Tutto ciò che è ruvido, chiassoso, angoloso, contorto, non omogeneo, dice lo stesso autore in uno dei suoi scritti estetici,16 tutte le stimolazio­ ni discontinue e intermittenti, sono spiacevoli. La connessione unitaria del molteplice infatti è annoverata tra i princìpi estetici fondamentali. Sia Fechner come Helmholtz però postulano per l’arte al di là dell’or­ dine razionale degli elementi fisici un « riferimento superiore » ed ideale, una spiritualità e conformità secondo ragione, insita in tutte le cose, che troverebbe espressione sensibile nell’ordine misurabile con metodi scientifici. Tale aspetto ideale è scomparso del tutto nei successivi rappresentanti di estetiche scientifiche di cui mi vorrei occupare: in essi la sensa­ zione estetica di piacere dipende in modo diretto ed immediato dai rapporti razionali percepiti consapevolmente o intuitivamente, i qua­ li dunque per la loro stessa natura, e non per essere l’espressione tan­ gibile di qualche principio fondamentale dell’universo, danno luogo ad essa. Il postulato dell’ordine, inteso come tratto essenziale e primario dell’arte, appare come un ulteriore presupposto di base delle esteti­ che scientifiche, accanto alla convinzione che esista un bello assoluto ed oggettivo e alla concezione della passività del processo fruitivo. Infatti solo se l’ordine è concepito come una distribuzione particolare d’elementi, fra i quali esistano delle relazioni esprimibili sulla base di determinate leggi scientifiche, fisiologiche o psicologiche, solo in tal caso si può passare ad una disamina matematica di esso, misurar­ lo, paragonarlo, farlo corrispondere ad una scala di valori numerici che indichino la portata e l’estensione della sensazione di piacere concomitante. D’altro canto è legittimo chiedersi se noi, di fronte alla situazione particolare della nostra coscienza e di fronte ai nuovi canali e mezzi di comunicazione complessi e differenziati, siamo autorizzati tuttora a vedere nell’ordine e nell’armonia le categorie primarie del fatto estetico. 16 Vorsebuie der Asthetik, Leipzig, 1876. 33

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O piuttosto Porciine, nel senso in cui esso è concepito dagli studiosi che ci interessano in questo contesto, cioè come Pespressione d’una impostazione generale e d’un’attitudine fruitiva passiva, contempla­ tiva e idealizzante, non appare come una categoria subordinata e solo parzialmente rilevante di fronte agli aspetti molteplici dei modi di comportamento e della produzione artistica odierni? Lipps 17 rappresenta per così dire l’apice della concezione meccanici­ stica a cavallo del secolo. Per lui l’ordine — nei rispetti delle forme spaziali — diviene il concorso e l’interazione di forze meccaniche. La sua Raumàsthetik (estetica dello spazio) del 1897 costituisce il tentativo di ricondurre l’effetto estetico delle forme geometriche alla percezione di tali leggi meccaniche. Non solo tale posizione, ma an­ che la concezione generale su ciò che è la realtà caratterizza la nuova situazione in cui venivano a trovarsi le scienze naturali verso la fine del secolo. Mentre Helmholtz si serviva di termini quali conformità secondo ragione e Fechner fu indotto dalle sue osservazioni sulla natura del­ l’attività psichica a supporre l’esistenza d’un’anima e una coscienza universale che contenessero tutte le anime e le coscienze individuali, deducendo non solo l’esistenza d’un principio divino e d’una vita dopo la morte, ma anche quella d’una vita psichica delle piante, Lipps fa menzione solamente a forze e leggi meccaniche su cui riposa tutta quanta la realtà. In un certo qual modo tali forze meccaniche rivelano ancora qual­ che traccia di spiritualità, d’idealizzazione: e precisamente nei passi in cui l’autore vide la loro manifestazione nella natura come un gioco arbitrario ed incontrollabile svolgentesi secondo le leggi del caso. Un albero per esempio sarebbe bello perché la sua forma sarebbe il risul­ tato di questo libero agire il quale si manifesterebbe con regolarità in quanto questo è il modo consueto in cui tale gioco appare all’oc­ chio umano. Al contrario, nelle forme geometriche belle le forze meccaniche si estrinsecherebbero in modo puro ed immediato. Le leggi di tali forze sono date all’uomo, secondo Lipps, per mezzo dell’esperienza: esse rappresentano così un sapere inconsapevole che si riflette nella loro applicazione pratica, quando si corre, si cammina, si nuota, ma pure quando si percepiscono e si giudicano delle forme geometriche.

17 Theodor Lipps (1851-1914), professore di filosofia e psicologia a Monaco, so­ stenitore d’una psicologia intesa come analisi introspettiva delle forme dello spirito. S’occupò in vari scritti della psicologia del bello. 34

Per quale ragione, per esempio, una colonna di stile dorico, un vaso greco sono belli? Per quale ragione essi agiscono esteticamente? Secondo Lipps essi lo sono per un duplice motivo. In primo luogo essi sono oggetto d’un’interpretazione meccanica. Le forze, cioè, che in queste forme sono presenti e che secondo l’esperienza sono neces­ sarie per dare origine ad esse, sono percepite inconsapevolmente nel loro interagire e concorrere: nella colonna dorica, ad esempio, la forza che tende verso l’alto e contrasta l’azione della forza gravita­ zionale; e inoltre la forza che è causa della sua delimitazione in senso orizzontale, forza che però non dà l’impressione d’un dilatarsi, d’un cedere in tutte le direzioni quanto quella d’una condensazione, d’una concentrazione dello spazio, rafforzando in tal modo la tensione della struttura eretta. Nel vaso invece alla forza di gravità e a quella opposta ad essa si aggiungerebbe una terza che costringe la seconda costantemente a deviare dal suo percorso rettilineo dando luogo alla curvatura specifica. In un secondo momento le forme geometriche vengono sottoposte ad un’interpretazione estetica. Ciò significa, da un lato, che esse ven­ gono considerate secondo l’interrelazione delle parti, vengono guar­ date come un tutto, un insieme unitario in cui ogni forza si attua liberamente secondo le proprie leggi senza contrasti ed impedimenti. Il principio che governerebbe la percezione umana è, secondo l’autore, quello della considerazione unitaria, in cui s’instau­ rano delle relazioni tra le parti e la forma completa; solo se le forze meccaniche presenti in essa danno la sensazione di potersi verifi­ care secondo le condizioni iniziali, liberamente e senza costrizione, solo allora, dice Lipps, una forma può esser detta bella. Essa infatti è sottoposta durante tale fase del processo percettivo ad una psichificazione: ciò significa che essa è connessa e paragonata immediata­ mente ed inconsapevolmente a stati psichici analoghi; e solo uno stato psichico armonioso e incontrastato può dar luogo a sentimenti di piacere. Una forma leggera, ad esempio, oppure una forma che esprime un grande dispendio d’energia meccanica ci richiamerebbero a degli stati o a delle azioni di natura simile e alla loro carica emotiva: alla sen­ sazione gioiosa di sentirsi leggeri oppure a quella che accompagna un notevole sforzo di volontà. Di fronte all’energico innalzarsi della colonna dorica ci verrebbe in mente il nostro stesso innalzarci che ci rende felici; pertanto noi sim­ patizziamo, dice Lipps, con l’azione della colonna. E così ogni piacere derivante da forme spaziali ed ogni piacere estetico in genere sarebbe null’altro che un sentimento di simpatia che rende felici. 35

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18 George David Birkhoff (1884-1944), matematico americano, professore alle università di Wisconsin, Princeton e Harvard. Oltre ai suoi contributi notevoli in varie branche della matematica moderna, egli è noto per i suoi tentativi d’ap­ plicare la matematica non solo all’estetica ma anche all’etica. I suoi scritti sono raccolti nei tre volumi Collected Mathematical Papers, New York, 1950. 19 Matbematics: Quantity and Order, Science Today, 1934, in: Collected Ma­ thematical Papers, cit.

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Per quale ragione piace un oggetto? è la domanda che si pone anche Birkhoff. Ora la sensazione.del piacere estetico è vista dall'autore come la fase finale d’un processo percettivo che ha inizio con un affa­ ticamento: la„stimolazione„degli_prgani sensoriali la quale implica concentrazione ed attenzione sun,oggetto.Ìn questione, e in particolare degli adattamenti motori da parte dei muscoli che mettono persosi dire l’oggetto a fuoco. Tutta quanta ^uest’attivitàr^l'accompagnata da uno stato di tensione che possiede, secondo l’autore, un torte of feeling, un valore emotivo,.piuttosto-negative). Durante-questa-fase iniziale verrebbe percepita-la complessità.-dell’oggetto:.. in_caso„dei poligoni o in genere di forme geometriche questa è costituita dal nu­ mero dei lati che gli occhi devono ^seguire nel loro andamento; nel caso d’una melodia dal numero delle note;-fin quéllò'-d’unavpoesia dal numero delle lettere pronunciate o pronunciabili distintamente. A queste percezioni della complessità s’accompagnerebberoJn seguito delle associazioni, anch’esse contraddistinte da_jin_t.one~o.f, feeling positivo, negativo o neutro. La somma finale di tali associazioni ri­ specchierebbe l’ordine dell’oggetto. Infatti sarebbero proprioJe rela­ zioni d'ordine (quali la simmetria, l’equilibrio, ecc.)" a-suscitare le associazioni menzionate. La terza ed ultima fase del processo percettivo elargisce finalmente il compenso per tanta fatica: la sensazione del piacere estetica Questa aumenterebbe con il crescere dell’ordine, ma diminuirebbe con il crescere della complessità. In tal modo la formula per la mi­ sura estetica d’un oggetto si presenterebbe come una funzione del rapporto di O (ordine) a C (complessità):20 M = O/C Come applica Birkhoff questa formula matematica al caso concreto? Siccome egli ritiene il metodo empirico come l’unico modo di proce­ dere valido per un’estetica analitica, egli si mette a ricercare i cosid­ detti fattori estetici che siano, a suo giudizio, propri delle singole classi d’oggetti, poligoni, sagome di vasi, liriche brevi, melodie sem­ plici, ecc. Naturalmente egli è consapevole che nell’arte esistono anche altri valori che non_siano_quellijlelle mere relazioni d’ordine: come, per esempio, quelli.che egh chiama i valori intuitivi, oppurOTcontenuto d’un’opera d’arte (in contrappQsizione alla^fòfma che rappresenterebbe- ir valqri- nqn-intuitivi). Soltanto per mezzo d’un’analisi scien20 Cfr. A Mathematical Approach to Aesthetics, Scientia, 1931, in: Collected Mathematical Papers, cit. 39



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tifica di questi ultimi, così egli afferma in modo un poco ambiguo, i primi si troverebbero liberati. L’atto percettivo, cioè la relazione tra una distribuzione misurabile e la sensazione concomitante, appare in una tale concezione estremamente semplificato e privato d’ogni ambiguità (qualità ritenuta da Birkhoff anzi controproducente agli effetti estetici); l’associazione è un mero riconoscere di relazioni d’ordine, privo della ricchezza di memorie, ricordi, rappresentazioni, contenuti emotivi e cognitivi che ancora Fechner le attribuiva; l’armonia e la simmetria misurabili di­ vengono delle categorie-norma la cui percezione e valutazione può cer­ to variare da individuo ad individuo, che in ogni caso sono tipiche per il comportamento medio del normal observer. L’autore stesso presentò la sua classificazione dei poligoni, che egli aveva elaborato in base alla formula ed al procedimento suesposto, a due classi di studenti universitari paragonando in seguito i singoli giu­ dizi estetici proferiti da essi con i suoi valori matematici. Il fatto che egli vide confermata da una percentuale notevole degli studenti la pro­ pria gerarchia matematica, significa che per lui il normal observer non costituisce soltanto una media statistica, ma anche il rappresentante reale d’un gruppo di persone normali, il cui comportamento percetti­ vo e valutativo sarebbe in fondo quello giusto, essendo ogni altro da classificare come anormale. Per dare un’idea più completa di quello che era il metodo birkhoffiano e la sua concezione del bello, o meglio di ciò che doveva esser bel­ lo e lo era appunto per l’osservatore normale, riporterò più dettaglia­ tamente il modo in cui egli elaborò i valori numerici dei poligoni21 (le sue analisi sia di liriche inglesi sia di brevi melodie presupporebbero infatti delle nozioni linguistiche oltre che compositive che non è pos­ sibile fornire in un ambito così ristretto). _I fattori estetici che Birkhoff.Jtitiene d’importanza esclusiva per tale _classe d’oggetti sono cinque e precisamente la simmetria verticale op­ pure "quella assiale, quella di rotazione, l’equilibrio,. ih fattore HV il quale determina quanti lati deFpoligono vengono a situarsi sulle linee orizzontali e verticali d’una réte'sovrimposta; finalmente un fattore negativo F,. il quale concerne la forma nel suo complesso ed è dato dal numero di volte con cui una semiretta che parte dal centro « ta­ glia^» il poligono. Tutti quanti questi fattori esprimono ciò che Bir­ khoff ritiene indispensabile perché un oggetto possa esser definito « bello » oppure « estetico »i jinita^(data dalla simmetria verticale), equilibrio;'^unitarietà (^spressa dal fattore HV), sensazione di solidità^ 21 Cfr. Polygonal Forms in: Collected Mathematical Papers, cit. 40

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Fig. 4. Alcuni fra i 90 poligoni « calcolati » da Birkhoff rispetto alle loro misure estetiche con l’aiuto della formula M = O/C. Le misure riportate in basso rivelano una « curva di piacevolezza » discendente a partire dal quadrato, con il massimo di « bellezza » fino al triangolo ad angolo retto e alla figura in basso a destra, che secondo i criteri birkhoffiani sarebbero brutti. 41

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(fattore F) écfeguaglianza deUepartTisimmetria di rotazione). Inoltre egli postula per ogni oggetto estetico l’esistenza d’un centre, un point d’intérét, par lequel on peut convenablement terminer la considération de l’objet (dans la mélodie la note fondamentale, etc.). Nei rispetti dei poligoni tale centro è presente se la forma possiede simmetria verticale. A questi fattori vengono fatti corrispondere arbitrariamente, secon­ do il peso che Birkhoff ritiene essi abbiano nel tutto, dei valori nu­ merici che rappresenterebbero il tone of feeling positivo, negativo o neutro delle associazioni connesse con essi; la loro somma, rapportata al numero dei lati, darebbe la misura della bellezza dell’oggetto. Così, per esempio, alla simmetria verticale Birkhoff associa i valori 1, se essa è presente nella forma, 0 se è assente, all’equilibrio i valori 1 oppure -1, ecc. Fra i valori finali ottenuti in tal modo il quadrato risulta possedere quello più alto, essere quindi il poligono più bello. È interessante no­ tare a questo proposito che Fechner giunse nel corso dei suoi test spe­ rimentali al risultato opposto: il quadrato veniva rigettalo dalla mag­ gioranza dei soggetti come il poligono più monotono, più povero, più secco, ecc. Birkhoff è fermamente convinto che questi cinque fattori di cui abMamo_parlato,_cp.rrispondancL_a JaUi^ psicologici, vale a dire a quelle relazioni d’ordine che hannoJl peso maggiore' heH’atto percettivo di qualsiasi poligono; l’eguaglianza dei lati e degli angoli, per esempio, sarebbe indifferente dal punto di vista estetico. Non vorrei tentare in questo breve contesto' una risistemazione e quanto meno una critica delle teorie e dei metodi birkhoffiani, che richiederebbe una fondata e dettagliata analisi dei processi percettivi e dei comportamenti estetici; mi limiterò a rilevare come i presuppo­ sti degli studiosi precedentemente esaminati sembrano persistere in Birkhoff in modo diluito e al contempo portati agli estremi. Essi, cioè, non appaiono più ancorati saldamente ad una concezione gene­ rale e meditata dell’uomo e del mondo; d’altro canto l’ordine e il processo percettivo sono ridotti a mere relazioni matematiche, la par­ tecipazione del soggetto ad un puro « registrare » di essi, la separa­ zione tra forma e contenuto è priva d’ogni problematicità, l’associa­ zione definita come l’instaurarsi di un tone of feeling positivo, ne­ gativo o neutro diventa un vagliare quantitativo tra i singoli fattori d’ordine e il tutto. A certe relazioni d’ordine inoltre viene attribuita arbitrariamente una posizione primaria, la decisione sulla loro impor­ tanza, sul loro peso è fatta a priori, in un secondo momento soltanto i risultati vengono sottoposti a dei soggetti che sono giudicati dei 42

normal observer se confermano la teoria, delle eccezioni laddove se ne allontanano. Tutto questo ci mostra quanto le concezioni fondamentali che stanno alla base delle estetiche scientifiche esaminate siano diventate in Birkhoff dogmatiche e aproblematiche: la concezione è che alle gran­ dezze oggettive corrisponda quantitativamente e, quindi, qualitativa­ mente la sensazione soggettiva che perciò può esser misurata direttamente sull’oggetto; questa concezione comporta una generica indif­ ferenza verso i problemi della differenziazione del ricevente, del pro­ cesso di ricezione dovuto all’ambiente socio-culturale in cui avviene e dal modo in cui i canali di comunicazione sono sfruttati e manipo­ lati; l’unico problema rimane, in un’impostazione come quella di Birkhoff, il metodo pratico, la formulazione matematica, una volta che i propri criteri del bello siano stati assunti non come risultati duna situazione storica, e quindi sempre arbitrari, ma come corri­ spondenti a dei fatti psicologici e percettivi. Con queste ultime osservazioni siamo ritornati alla questione da cui le nostre riflessioni hanno preso inizio: ciò che oggi appare impor­ rante di fronte ai metodi più sottili della matematica moderna che si è visto si possono applicare agli oggetti dell’arte, è la disamina di questi presupposti fondamentali che ho cercato di puntualizzare nel corso della mia esposizione. Si tratta d’analizzare in modo preliminare se e quanto ciò che il percipiente riceva sia simile al messaggio che l’artista ha trasmesso o voluto trasmettere; se l’opera d’arte o l’og­ getto estetico inoltre si esaurisca veramente in questa componente oggettiva e non sia (almeno oggi e in certi casi) anche ciò che l’os­ servatore e l’ascoltatore si sente stimolato a farne; infine se l’ordine e in genere l’armonia, la simmetria, l’unità nella molteplicità, l’uni­ tarietà, ecc., quali fattori contemplati e percepiti passivamente, sia­ no veramente gli obiettivi primari che l’arte può o deve prefiggersi. Evidentemente la risposta a queste domande non può esser fornita soltanto da analisi di teoria percettiva. Non è sufficiente trovare delle leggi fisiologiche e psicologiche che possano confermare, completare o confutare, con l’aiuto dei metodi progrediti e delle apparecchiatu­ re più precise che la scienza oggi ha a disposizione, quelle trovate da Helmholtz, Fechner o Lipps. Le questioni estetiche suesposte conver­ gono in ultimo in un problema di rilevanza: di ciò che la nostra per­ cezione ci trasmetta come rilevante, in questa specifica situazione sto­ rica, in cui ci troviamo, e in questo specifico luogo dell’universo, ove con universo non vorrei intendere soltanto qualcosa di spaziale-geografico, ma includervi anche la Umwelt spirituale, sociale, culturale, 43

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politica nella quale viviamo. Infatti, cosa ci insegnano gli scritti d’un Helmholtz, un Fechner, un Lipps e un Birkhoff se non che la per­ cezione non è solo un fenomeno fisiologico e psicologico ma è anche un fenomeno, in cui i nostri organi sensoriali selezionano nella mas­ sa degli stimoli provenienti dalFesterno ciò che per il soggetto in questione (e non solo per il normal observer) è rilevante nella sua situazione specifica. Noi non dubitiamo che Lipps in effetti vide la colonna dorica come una configurazione che s’innalza in ogni mo­ mento di nuovo per il percipiente, che si dilata in senso orizzontale ma in modo tale che questo cedere alla forza gravitazionale appaia come una resistenza elastica la quale a sua volta non farebbe che po­ tenziare Fattività erettiva della colonna facendola apparire più eretta, più alta ancora. Il problema centrale è quindi quello di che cosa noi oggi vediamo e sentiamo di fronte ad una configurazione visiva, un pezzo musicale e se a questo vedere e sentire sia appropriato un metodo matematico di misura.

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Kurd Alsleben

L’ESTETICA DELL’INFORMAZIONE E L’EMANCIPAZIONE DELLA COSCIENZA SENSIBILE

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Delle estetiche scientifiche della fine del secolo scorso e dei primi anni di questo si pongono come eredi più o meno consapevoli quegli studiosi contemporanei che si dedicano all’elaborazione delle teorie che si usa raggruppare sotto il nome di estetiche dell’informazione. Anch’essi infatti studiano la possibilità di realizzare un criterio matematizzato, e cioè, in ultima analisi, una misura che esprima le caratteristiche formali degli oggetti estetici. Il criterio fondamentale cui fanno riferimento tutte queste teorie per l’elaborazione dei loro strumenti di misura è la teoria matema­ tica dell’informazione, elaborata negli Stati Uniti durante la seconda guerra mondiale da alcuni studiosi, tra cui i più importanti sono Shannon e Wiener, per valutare l’efficacia degli strumenti di comu­ nicazione e descrivere coerentemente tutti i fenomeni connessi alla trasmissione d’informazioni. Il concetto fondamentale della teoria è quello d’identificare l’informazione d’un messaggio con la sua capacità di ridurre l’incertezza del destinatario, e cioè con la quan­ tità di altri possibili messaggi che egli avrebbe potuto ricevere al posto di quello o, dal punto di vista dell’emittente, col numero delle scelte compiute per inviare quel messaggio. Non è questo il luogo per discutere il significato e le conseguenze della teoria dell’informazione, o anche per illustrarne i termini, che del resto sono tratteggiati nel saggio di Alsleben qui di seguito, ma è opportuno esporre qualche considerazione che illustri certe diffi­ coltà non della teoria (che è tra le più solidamente fondate della scienza moderna) ma dell’estetica dell’informazione. In primo luogo l’incertezza del destinatario e la possibilità di scelte dell’emittente, per essere supposte identiche e misura dell’informa­ zione del messaggio, devono esser rapportate ad un codice, ad un repertorio di possibilità: un messaggio (quando parliamo di mes­ saggio in questi contesti, usiamo la parola in senso ampio: come qualsiasi cosa suscettibile di portare informazione) un messaggio non può essere costituito d’una cosa qualsiasi o d’un evento qua­ lunque (in quanto tali imprevedibili e conduttori quindi d’infinita informazione) ma solo di oggetti o eventi all’interno di classi deter­ minate. Di conseguenza non qualunque cosa può essere un messaggio, o può portare informazione, almeno nel senso della teoria. L’universo dell’informazione o, almeno, l’universo dell’informazione misurabile è finito. In secondo luogo quest’universo dev’essere precostituito e strutturato da un codice, che ci dia il modo d’associare in maniera significativa la classe dei messaggi ad una classe di probabilità. Questo si può ottenere o associando le probabilità ai segni elementari che even46

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tualraente compongono il messaggio, o associando ai messaggi qual­ cos’altro, rispetto cui sappiamo misurare le possibilità di scelta, e quindi l’informazione. Così, tra le due frasi: «Napoleone è morto a Sant’Elena » e « Napoleone non è morto a Sant’Elena )) possiamo misurare la differenza d’informazione studiando la frequenza delle lettere (o delle parole) in questione nella lingua italiana, e allora è banalmente più informativa la seconda. Oppure possiamo fare ri­ ferimento a certe aspettative contenute nel nostro codice culturale, che ci dicono che la seconda proposizione è molto più inaspettata della prima, e quindi più informativa, potendo essere o una sensa­ zionale scoperta storica, o la prova definitiva dell’ignoranza storica di qualcuno, o darci molte altre informazioni che la prima, banale, non ci darebbe. Per trarre pieno profitto dal nostro esempio biso­ gna aggiungere che per un marziano, il quale sapesse solo che Napo­ leone era un imperatore francese, e che Sant’Elena è un’isola del­ l’Atlantico, ma ignorasse tutto della morte di Napoleone, la prima proposizione sarebbe molto più informativa della seconda, non solo in funzione del rapporto della superficie di Sant’Elena e della Terra, ma anche della sua aspettativa che gli imperatori francesi muoiano in Francia. L’interpretazione secondo le nostre aspettative su Napoleone, che fa uso dei nostri repertori culturali, utilizza un codice semantico; quella che tiene conto solo delle probabilità d’occorrenza e di concor­ renza di lettere e parole, utilizza un codice sintattico. Bisogna notare ancora che la comunicazione avviene spesso su uni­ versi strutturati da più codici, embricati o sovrapposti. Un caso tipico è quello della lingua, dove in prima approssimazione si so­ vrappongono un codice fonemico (che determina in ultima istanza quella che ho chiamata prima « frequenza delle lettere » d’un testo scritto) e un codice morfemico (che a sua volta è alla base della distribuzione delle parole) e certamente altri codici che non interes­ sano qui. È chiaro che se ci troviamo in una situazione del genere, di sovrap­ posizione di codici, sia sintattici sia semantici, e ci interessa l’infor­ mazione complessa che viene comunicata e non un problema inge­ gneristico come, ad esempio, quello dell’ampiezza di banda necessa­ ria alla fedeltà della trasmissione, dobbiamo riferirci sempre al co­ dice più complesso. Così per quanto riguarda una frase della lingua, sarà sempre opportuno riferirsi all’inaspettatezza, o all’informatività dei morfemi, piuttosto che a quella dei fonemi, che ovviamente sarà quantitativamente superiore (ad esempio è chiaro che «mam­ ma )) ci darà meno informazione, nel senso sopra precisato, della 47

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Chiocciola di Pascal Cardioide

a< k

(v. fig. 5).

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(a + b) cos t — b cos

a + b

t

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y = (a + b) sen t — b sen

t

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che per b = a dà la cardioide a b = — dà la nefroide 2 Ipocicloide

b

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x = (a — b) cos t + b cos

b b

a y — (a — b) sen t — b sen

b

che per a b =

b =

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dà l’asteroide trilatero dà l’asteroide

4

Ovali di Cassini (x2 + y2)2 — 2c2x2 4- 2c2y2 4- c4 — a4 = 0 che per a2 < c2 (v. fig. 6) dà la lemniscata di Bernouilli (v. fig. 7) a2 = c2 (v. fig. 8) c2 < a2 < 2e2 Rosacee Q — k sen m & Curve di Lissajous x = a sen (mt 4- p) y = b sen (nt 4 q)

(v. fig. 9) 139

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Una collezione di curve ornamentali è stata edita dal « Palais de la Découverte » di Parigi; ne riproduciamo di seguito alcuni esempi. El-Milick ottiene come combinazione di due parabole l’equazione

24x = (V3 ± a/15 — y)2 (V5 + \/l5 + y)2 la cui rappresentazione viene data nella fig. 10.

Fig. 10

141

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In egual forma, per combinazione d’ima parabola semicubica e d’una parabola, s’ottiene l’equazione

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216x = (36 ± y V^y) (3 ± il '

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8 — 2y) 2

rappresentata nella fig. 11.

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Fig. 11 Curve d’equazione in coordinate polari 6 = cos a0 + b ! -

studiate da Moritz, sono presentate nella stessa collezione per valori particolari di a e b. Nelle figg. 12, 13, 14 diamo la rappresentazione delle curve corri­ spondenti alle seguenti equazioni

7 Q =

COS ---- 0

2 1 1 Q = cos — 0 H- — 3 9 9 7 Q = cos — & H------. 4 3 142

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Così pure appartengono alla stessa collezione le curve studiate da Gyllstrom, ottenute rappresentando alcuni integrali particolari d’equa­ zioni differenziali determinate, per esempio la

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d# Q------ = tg 4 are tg sen #

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! C un’estetica analitica. Se esiste un sottoinsieme C’ C e un algoritmo (non deter­ minato) G : C’ -> W tale che G (x) e S (x) per ogni x e C’, allora diciamo che G è un’estetica generativa. Dal punto di vista della generazione di opere si tiene conto che, es­ sendo finito il numero di opere di Zo distinguibili dall’occhio umano, è possibile costruire un algoritmo capace di produrle tutte sistemati­ camente che chiameremo « generatore universale » U. Se vogliamo, tuttavia, che questo generatore sia utilizzabile praticamente, dobbiamo ridurre il numero delle sue produzioni; ciò è pos­ sibile sia costruendo un generatore ristretto U’ = (PS, U) 162

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dove PS indica una preselezione degli elementi di Z (a, b, r, D); sia mediante U” = (U,S) dove S indica un criterio per selezionare le opere generate da U. La soluzione migliore sarà quella d’usare un metodo misto, facendo U”' = (U’,S) che significa una preselezione negli elementi del generatore univer­ sale, ciò che già comporta una riduzione nelle produzioni; su queste viene usato infine il selettore per ottenere opere molto determinate. Con questi concetti, Nake ha costruito un esempio concreto in cui include anche le idee d’estetica dell’informazione di Max Bense. 4. Da parte nostra (25-27), considerando la produzione artistica come un linguaggio, crediamo che il modello linguistico ci possa esser d’aiuto per analizzare e generare opere plastiche. Dal punto di vista linguistico si distinguono chiaramente due aspetti: la sintassi e la semantica. Benché esse siano profondamente vincolate luna al­ l’altra, la sintassi per il suo aspetto formale e per la sua più diretta tangibilità materiale è più semplice da studiare, in particolare nelle opere estetiche la cui significazione slitta con frequenza tra i piani della razionalità. Dal punto di vista sintattico i linguaggi sono attualmente studiati con gradi di formalizzazione costantemente crescenti seguendo due diverse direzioni a seconda che si tratti della generazione o del rico­ noscimento di frasi. Per il primo caso sono state composte le gram­ matiche generative e per il secondo automi formali, essendo accop­ piati per ogni linguaggio, com’è naturale, la grammatica e automi ad esso associati. Dal punto di vista formale, definire un linguaggio significa dire quali tra le frasi che si possono formare con un alfabeto VT dato, appar­ tengono al linguaggio stesso. Sono necessari quindi un alfabeto o vo­ cabolario e alcune regole di concatenazione per formare con le let­ tere parole e frasi. Se L* è l’insieme di tutte le frasi possibili for­ mate con le lettere di VT, un linguaggio particolare sarà L c L*. Una grammatica generatrice di L, sarà data da G =

{V, R, P}

dove Y = VT U Vnt, R è un insieme di regole di produzione 163

della forma

« + P

P

P —► Y + p —> y a => P | y a

=> /j,

dove a, 0, y S VN, p* Vt; e un simbolo P e VN, a partire dal quale s’iniziano le diverse produzioni. Possiamo brevemente esprimere questo sistema mediante G = {Vn, Vt, R, P} che ci definisce le diverse partizioni che possiamo realizzare in P con la struttura G. Le regole del tipo a => p —► v e a => p \ y 164

ci danno le

relazioni posizionali e d’aggruppamento, mentre le regole del tipo a => n (VT) ci danno indicazioni qualitative sul colore o sulle forme che debbono sostituire, una volta terminata la produzione, ogni simbolo non terminale. Vediamo alcuni esempi. Esempio 1. - Sia il sistema G= { {P, A, B}, {a, b}, R, P} dove a = , b = e R viene dato dalle regole seguenti P => A —► B A => A | A B => B A A => a B => b alcune tra queste produzioni sono: 1. - a) p=>a^b=>((a;a)-^b)=> = > ((A| (A| A) ) —v B) => = > ( (A ì A | A) (B -> A) ) = > = > ( (A | A | A) —>■ ( (B —A) —>■ A) ) = > = > ( (A | A | A) —(B —>■ A —(A | A) ) = > = > ((a|a|a)—>(b—>a—>-(a|a))) che hanno tra le altre le rappresentazioni grafiche equivalenti date nella fig. 41. Fig. 41

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con Palbero biordinato corrispondente dato nella fig. 42.

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Fig. 42

1. - b) P =>A-*B=>((A|A|A|A)->(B-*(A|AJA) -> ( A | A | A) ) => => ( (a l a a | a) —► (b —► (a j a | a) —> (a ja ja) )

1

due grafici equivalenti di questi, possono essere i grafici rappresentati in fig. 43. Fig. 43

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166

con l’albero biordinato dato nella fig. 44.

A P A A

A

B

A

A,

A

A B

A

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A' A

B

’A

A

A A' A

Fig. 44

Esempio 2. - Sia la grammatica G = { {P, B, N}, {b,n},R,P} dove l’alfabeto di base è b =

n =

e le regole di produzione date da P => B ->N B => B |N N => N — B B => b N => n Una produzione particolare può essere la seguente: P=>B—vN=>(B|N)—v(N—>B) = > = > ( (B | N) ; (N —► B) ) ->- (N -> (B | N) ) => = > ( (b \ n) i (n —>■ b) ) —>• (n —> (b | n) ) 167

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Un paio di rappresentazioni equivalenti saranno quelle date in fig. 45.

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Fig. 45

il cui albero biordinato è quello che appare nella fig. 46. -

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Esempio 3. - Diamo nella tavola seguente la descrizione strutturale di 38 opere di Mondrian composte tra il 1921 e il 1933. Le regole usate per la descrizione sono: P => A->A P => A 4 A A => A-+A A => A | A Tale descrizione non tiene conto della metrica e del colore dei qua­ dri, pertanto non diamo alfabeto terminale. In alcuni casi diamo due descrizioni per risolvere l’ambiguità causata dall’esistenza di due linee che dividono completamente uno stesso rettangolo in senso orizzon­ tale e verticale. Anno

N.*

1921 1922

321 322

1922 1922 1922 1922 1922

323 324 325 326 327

c. 1922

328

1925

329

c. 1927

330

1926

331

Produzione P = > ( (A 1 A)—»-(A i (A->A) ) \ (A—*A—>-A) P = > ( (A-K A | A) )->( A->A) ) | ( ( (A->A) | A)—K (A-A) | A) ) P = > ( (A l A ; A)—>-(A 4 (A-*A) ) 4 (A-+A) P = > ( (A 4 A) 4 (A—>-A) )-►( (A 4 A) 4 (A->A) P = > (A 4 A 4 A)->( (A 4 A) 4 (A->A))—>-(A 4 A) P = > (A 4 A 4 A)—*■( ( (A 4 A)—>-A) 4 (A—*-A) ) P = > ( A 4 A 4 A)—►( ( A->A) 4 ( ( A 4 A)—>( A 4 A 4 A) ) ) P = > (A 4 A 4 A)—>-( (A--A) 4 ( (A 4 A)-»(A 4 A 4 A) ) ) P = > ( A 4 A 4 A)—>•( ( A-»A) 4 (A->-(A 4 A) ) 4 (A—►A) ) ) P = > (A 4 A)—( (A—>A.) 4 ( (A 4 A)-KA 4 A) ) P = > (A^A-*A) 4 (A-K (A 4 A)—>(A 4 A) ) ) P = > (A 4 A)—>(A 4 ( (A 4 A)—>A) ) P = > (A—>A) 4 (A^( (A 4 A)-*A) ) P = > ( A 4 A 4 A)-*(A 4 ( (A—>A.) 4 A) ) P = > (A—>A) 4 ( (A—vA—>A) 4 (A—>A.) ) P = > ( (A->A) 4 (A—vA—vA) 4 (A->A)

* Il numero si riferisce alla numerazione delle figure del libro: M. Seuphor: Piet Mondrian, life and work, New York. H. N. Abrams, s. a.

169

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1927 332 P = > (A 4 A | A)—>-(A | A | (A^A) )->(A 4 A) 1927 333 r332 1927 334 P=>(A-*A) |(A-+A-*A) j(A-vA) P = > (A | (A—>A) 4 A)—>-(A 4 A | A) 1927 335 P = > (A—>A) | (A | A)-K (A—>A) 4 (A—vA) ) ) P = > (A | A i A)—*(A ; ( A-*A) i ( A-*A) ) 1928 336 P = > (A-»A) 4 ( ((A 4 A)—*A) {(A—>A.—*A) ) -A) P = > (A 4 ( (A i A)—*A) | (A^A-*A) )->(A j A) 1929 337 P = > (A—»A) 4 ( (A 4 A 4 A)—KA | (A—>A.)—*A) P = > (A 4 A | A ; A)—KA | ( (A | (A-kA) )-+A) 1925 338 P = >(A^A)|(A^(A4 A) ) P = > (A j A)—>-(A 4 A 4 A) 1927 339 P = >(A->A)4( (A4(A-»A) )-+A) P = > ( A 4 A 4 ( A—>A) )—v(A 4 A) 1928 340 P = > (A 4 A)—>(A 4 (A 4 (A->A) )—>A.) P = > (A—>A) 4 (A^( (A 4 ( A->A) )--»A) 1929 341 P = > (A 4 A 4 A)->(A 4 (A—KA 4 A) ) ) P => ( (A 4 A)-*A) 4(A-KA-KA 4 A) ) ) 1929 342 P = > (A 4 A 4 A)—K (A—>A) 4 A) P => (A—>A—>A) 4 ( (A 4 A)—>A) 1929 343 - 341 1929 344 P =>(A4 A 4 A)^(A 4 (A-+A) ) P => ( (A 4 A)->A) 4 (A-^A—A) 1929 345 P => (A 4 A)—KA 4 ( (A 4 A)->(A 4 A) ) P => (A—>A) 4 (A-K (A 4 AMA 4 A) ) 1929 346 P =» (A 4 A)-KA 4 ( (A4(A-*A) )—(A4A) ) ) P => (A-A) 4 (A-K (A 4 (A-»A) )—*-(A 4 A) ) ) 1930 347 P =>(A4 A)->(A4( (A4A)->(A4 A4 A) ) P => (A-+A) 4 (A-K (A 4 A)—KA 4 A 4 A) ) 1930 348 P => (A 4 A)-KA 4 ( (A 4 A)-*(A 4 A 4 A) ) P => (A—>A)—v(A—K (A 4 A)—>(A 4 A 4 A) ) 1930 349 P => (A 4 A 4 A 4 A)—KA 4 (A—>-(A 4 A) ) P => (A 4 A 4 A—►A) 4 (A-KA 4 (A 4 A) ) 1930 350 349 1931 351 P =>(A4 A4 A)->(A4(A-vA) ) P => ( (A 4 A)—kA) 4 ( A->A->A) 1930 352 - 351 1931 353 = 348 1932 354 = 345 1932 355 s 345 1932 356 P =>(A4A)-KA-KA4A) ) P => (A-*A)->(A—KA 4 A) ) 170

1933

357

P => ( A | A | A)—>( A \ A) P => (A^A)|( (A| A)—A)

1933

358

P => ( A j A | A)—►( A j A | A) P => ( A->A)—( (A i A)^(A | A) )

6. Abbiamo fin qui considerato la scomposizione d’una superficie P in altra guardando alla sua relazione topologica, senza tener in conto alcuno la proporzione in cui tale scomposizione si effettuava. E’ pos­ sibile prendere in considerazione questa situazione facendo regole di produzione della forma A => MP N„ A => MP | Nq che indicano che la variabile A risulta suddivisa rispettivamente da una linea verticale e orizzontale, in modo tale che le aree delle superfici formatesi dalla scomposizione siano proporzionali a p/q. In base a tale convenzione la grammatica risulta definita come segue G = {VN, VT, R, P} dove R è della forma R = {a=>/3p->Vq; a => 0,4 y„; a => u} dove a s V,n; /3, y 6 VN;

h s

VT; p, q, sono numeri.

Consideriamo, per esempio, la grammatica: G => {VN, VT, R, P} con Vn => {P, A, B, C} Vt => {n; b} e le regole P => A => B => A => B => C =>

siano: Al —► B2 A2 | CI B1 ! A3 B1 —CI b n

una produzione è: P => Al —v B2 => = > (A2 | Cl) 1 (B11 A3) 2 => = > ( (B1 ->C1)|C1) 1 ->-(Bl|(Bl -vCl) 3)2 => = > ( (bl —► ni) | ni) 1 -> (bl i (bl -> ni) 3) 2 171

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un’altra produzione è: P => Al —> B2 = > (B1 —► Cl) 1 —► B2 = > ( (B11 A3) 1 -> Cl) 1 -> (B11 A3) 2 = > ( (B11 (B1-*C1) 3) 1 —► Cl) 1 —► (B11 (B1 3)2

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Cl)

= > ( (bl | (bl —► ni) 3) 1 ->nl) 1 ^ (bl | (bl -> ni) 3)2 i cui grafici sono dati in fig. 47

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Fig. 47

: e gli alberi corrispondenti sono quelli che appaiono in fig. 48. P .

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Ugo Volli

MATEMATICA E VALORI ESTETICI

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A prima vista può sembrare poco opportuno inserire la matematica tra le discipline scientifiche che più fruttuosamente possono fornirci delle indicazioni per la comprensione dei fenomeni estetici ed arti­ stici. Due possono essere i principali fondamenti teorici per un tale atteggiamento negativo, e in un caso o nell’altro si tratta di posizioni tradizionalmente consolidate nel patrimonio del pensiero occidenta­ le. In primo luogo si può richiamare una classica distinzione tra i due ambiti, regioni o « facoltà » dell’uomo, che in termini altrettanto tradizionali si possono chiamare ragione e intuizione, o intelletto e sensibilità, estremizzandone l’opposizione nei termini proposti già in Platone: l’arte apparterrebbe alla seconda sfera, mentre la mate­ matica esprimerebbe più d’ogni altra scienza la prima; nessun rap­ porto se non accidentale si potrebbe istituire tra i due termini. Il secondo tipo d’obiezione possibile alla proposta di prendere in considerazione la matematica come possibile fonte d’informazioni sui fenomeni estetici, consiste nell’opporre a questa prospettiva il carattere astratto della matematica, il suo non essere legata a questo o quell’oggetto specifico, che non sia essa stessa come suo proprio oggetto. La matematica sarebbe cioè, in un discorso del genere, troppo astratta per aver rapporti con l’arte, o con qualsiasi oggetto estraneo al suo ambito, inferiore al suo grado di generalità; almeno la matematica « vera », non le nozioni scolastiche che evidentemente sono fornite di notevole utilità pratica. Entrambe queste argomen­ tazioni non sono prive d’un loro valore e meritano attenzione, legate come sono tra loro e a tutta una concezione della prassi matematica e di quella artistica. Non è però opportuno affrontarne la discussione in via preliminare, ma è forse preferibile mostrare le possibilità d’un raffronto fruttuoso tra i due ambiti e vederne quindi in pratica la validità. Del resto si tratta d’ipotesi che corrono per tutto questo libro, e di cui questo tenta di proporre un superamento.

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Vediamo quindi quali rapporti si possono ritrovare tra matematica e mondo dell’arte. Una prima relazione piuttosto superficiale tra i due ambiti si è verificata più volte storicamente nell’attenzione dedi­ cata agli stessi oggetti, cioè nello studio matematico di fenomeni e strutture comunemente utilizzate a fini estetici da un lato, e nello sfruttamento artistico di risultati matematici dall’altro. Un esempio del primo caso è il rapporto tra prospettiva rinascimentale e geome­ tria proiettiva. La geometria proiettiva studia le proprietà invarianti delle configurazioni geometriche rispetto ad una proiezione da una sorgente puntiforme su un piano comunque disposto. Ad esempio, sono proprietà proiettive « essere una retta », « essere un punto », 180

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« giacere su )) ed il « birapporto )) tra quattro punti su una retta, cioè, se i punti sono A B C e D, la quantità (AB) • (CD) / (BC) • (AD). È chiaro che la prospettiva rinascimentale è un’applicazione dei princìpi della geometria proiettiva; ma la sua applicazione pratica ed anche i trattati che ne davano una teoria abbastanza completa, precedono di circa due secoli la fondazione della geometria proiet­ tiva, ad opera di Pascal (1623-1662) e, soprattutto, di G. Desargues (1593-1662), che non a caso era anche un architetto.1 Il caso inverso è meno frequente, ma se ne può trovare più d’un esempio nella storia della musica, dalla scoperta tradizionalmente attribuita a Pitagora che gli accordi sono piacevoli in relazione alla semplicità dei rapporti numerici delle note che li compongono, alla scala temperata, che è costituita sulla base di calcoli complessi. È chiaro però che questo tipo di rapporti tra i due ambiti è estre­ mamente superficiale e non molto significativo. Si tratta infatti in un caso delPutilizzazione tecnologica dei risultati matematici, non diversa dall'uso della chimica dei pigmenti in pittura, o delle leggi della statica in architettura; nell’altro caso si è di fronte ad una identità d’oggetto altrettanto superficiale di quella che unisce, nella Scuola di Atene, Raffaello e la storia della filosofia. Se tutti i contatti Ira mondo matematico e mondo artistico si limi­ tassero a questi, non avrebbe senso parlare in generale dei rapporti tra i due ambiti. Ma i legami sono stati storicamente più intensi ed importanti: in particolare scienziati ed artisti hanno spesso ritenuto di poter descri­ vere e spiegare fattori estetici come l’armonia, l’eleganza e lo stesso concetto chiave di bellezza attraverso la determinazione di rapporti matematici delle parti dell’oggetto estetico tra di loro e con il tutto. È questa un'idea tipica del pensiero greco, che però non è più scom­ parsa in tutta la cultura occidentale. Proprio in Grecia,2 infatti, vengono compilati i primi elenchi di proporzioni del corpo umano, che poi vennero variamente ripresi, ad esempio da Leonardo. Questo tipo di tentativi, comunque, non si è limitato alle propor­ zioni del corpo, ma è stato esteso anche ai princìpi dell’architettura, già da Vitruvio, e poi a tutti i fenomeni estetici, in particolare dalle

1 Sulle origini della geometria proiettiva, cfr. N. Colerus: Piccola storia della matematica, Mondadori, 1960 e L. T. Bell: 1 grandi matematici, Sansoni, 1966. Per il problema generale che implica la storia del pensiero matematico, L. Geymonat: Storia del pensiero scientifico e filosofico, Gar­ zanti, 1970. 2 Cfr. Bairati: La simmetria dinamica, Edizioni del Politecnico di Milano. 181

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ricerche d’« estetica scientifica », di cui si parla in un altro articolo di questo libro.3 Non è questo il luogo di discutere la validità di simili concezioni, che oggi però hanno perso gran parte del loro fascino agli occhi dei teorici, anche se non degli artisti. È noto infatti quanto concezioni del genere informino tutta l’opera, ad esempio, di Mondrian. Il rapporto armonico che è stato più spesso riproposto in campi diversi, e cui in effetti si approssimano molte opere d’arte classiche e moderne, è la cosiddetta sezione aurea, che si verifica tra due segmenti quando la lunghezza del maggiore ha col minore la stessa proporzione che questo ha con la differenza tra i due. A questo rapporto corrisponde il numero irrazionale 1/2 (V"5 — 1), che si sviluppa nella successione di Fibonacci: 1/1, 1/2, 2/3, 3/5, 5/8, 8/13... Si è discusso molto sulla presenza d’un tale rapporto oltre che in opere d’arte come il Partenone anche in natura, per esempio nella disposizione delle foglie o fillotassi di certe piante e nella forma di alcune conchiglie. Le spiegazioni d’un’indubbia costanza intorno a questi valori di svariati fenomeni sono state diverse, e spesso si è cercato d’invalidare l’importanza della sezione aurea con misurazioni più accurate, che inevitabilmente hanno mostrato deviazioni da questa norma. In ogni caso la teoria della sezione, vera o falsa, o com’è più probabile, solo parzialmente e approssimativamente vera, in questo discorso inte­ ressa soprattutto non per il suo contenuto specifico, ma perché com­ porta, come ipotesi di fondo, l’esistenza d’un terreno comune d'in­ teresse tra arte e matematica. Se il canone della figura umana e il principio della sezione aurea fossero veri, e cioè naturali, la cosa avrebbe scarso interesse ai fini del riconoscimento d’un rapporto tra matematica ed arte; proprio il fatto di riconoscerli oggi almeno parzialmente arbitrari e convenzionali, ci consente d'ipotizzare un progetto matematico di certi fenomeni artistici. Se il Partenone non è costruito rispettando almeno approssimativamente la sezione aurea solo perché questo rapporto è in sé bello e necessario, possiamo pen­ sare che il rispetto d’una tale proporzione rientri tra le condizioni estetiche che il suo costruttore (o per lui la tradizione) si è posto (come la rima in un sonetto) e quindi accettare la possibilità che i codici artistici siano parzialmente matematici. Lo stesso discorso vale poi per la musica, dove la relatività storica dei giudizi di con­ sonanza e dissonanza degli accordi non può non farci riflettere che 3 Si vedano gli articoli di B. Rauen e K. Alslebon e la bibliografia ivi riportata. 182

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la scoperta iniziale di Pitagora significava solamente in parte una scoperta, ma in parte anche un programma, una poetica per la musica, come ci è sempre più chiaro dopo decenni di musica non tonale. Il rischio comportato da questo tipo di programma matematizzante è abbastanza implicito nelle osservazioni svolte. C’è sempre la ten­ tazione di confondere l’esattezza e l’assolutezza d’una formulazione matematica con una sua metafisica pretesa verità, d’affermare che la sezione aurea o il sistema tonale, o la prospettiva rinascimentale sono artistici per loro natura, per la loro intelligibilità, chiarezza ed evidenza. C’è, insomma, la possibilità di dimenticare, o mettere tra parentesi, l’operazione di progettazione matematica che c’è stata, o perlomeno di tralasciarne il carattere arbitrario per giungere a formulazioni normative. Di solito a quest’operazione si dà una giu­ stificazione naturalistica, che afferma che le stesse strutture mate­ matiche si trovano in fenomeni naturali e questo ne dimostra la giustezza. L’estrema deformazione di quest’argomento è quella che giustifica la prospettiva paragonandola alla fotografia, senza ricor­ dare che questa è stata progettata per ottenerla, attraverso determi­ nati sistemi ottici. v Notevoli possono essere però anche i vantaggi dei progetti matemalizzanti in arte, sia perché essi dissipano i pregiudizi d’una totale contrapposizione tra prassi razionale e prassi estetica, sia perché permettono d’aver chiare le operazioni d’arricchimento e di rot­ tura che si vengono compiendo sul codice estetico. Nell’analisi di questi fenomeni, comunque, restiamo nell’ambito del­ le poetiche, dei programmi artistici, che sono sistemi di valori e che quindi non possono a loro volta venir valutati, se non a posteriori, ed in base a criteri di adeguatezza empirica nelle realizzazioni.

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Esiste però un altro livello a cui la matematica può dare un contri­ buto alla conoscenza dei fenomeni estetici. Oltre permettere la formulazione di programmi artistici e il loro ritrovamento nelle ope­ re, la matematica può indicare le possibilità astratte di realizzazioni estetiche, può fornire una combinatoria formale dei fenomeni este­ tici. L’oggetto estetico infatti, come s’è visto nel capitolo sulla se­ miotica, è sempre strutturato, essenzialmente strutturato, e si di­ stingue dalle altre cose del mondo proprio perché tende a richia­ mare l’attenzione sulla sua configurazione, sul modo in cui è fatto. Le strutture s’intrecciano e si rispecchiano a diversi livelli, ma co­ stituiscono un’unità, rinnovano un modulo unitario in maniere diverse, modificandolo senza perderne l’identità. 183

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È proprio su questo tipo d’operazioni che lo studio matematico può incidere in maniera fruttuosa. Uno degli ambiti più importanti, e forse anche delle definizioni della matematica, è infatti lo studio delle configurazioni e delle invarianze, nel loro aspetto più astratto. Uno studio matematico delle strutture artistiche non può allora darci la ricetta per costruire un oggetto estetico, o anche solo per com­ prenderlo, ma può invece darci delle indicazioni per capire quanti e quali tipi astratti di strutturazione esso può assumere, a prescin­ dere dalle limitazioni, dai riferimenti semantici, dai contenuti di partenza d’un determinato codice. Se cioè si ammette, come qualunque estetica non completamente idealistica e romantica può fare, che all’arte è essenziale la mani­ polazione di forme, strutture, configurazioni; la matematica, che com­ prende nel proprio dominio lo studio astratto delle proprietà gene­ rali di enti del genere, ha un rapporto profondo con tutti gli oggetti dell’arte, analogo a quello che, ad esempio, lega al diritto l’antropo­ logia, la sociologia o, meglio, una scienza generale dell’ideologia e delle sovrastrutture. Tra l’altro proprio questo legame permette 1 isti­ tuzione di quei rapporti più superficiali a cui ho già accennato. Non esiste oggi, ovviamente, un sistema matematico che si sia pro­ posto questo scopo, o gli sia già adeguato, ma senza sforzo possiamo trovarne dei frammenti abbastanza vasti o degli esempi soddisfa­ centi. Per render più concreto tutto il discorso ed esemplificarlo, si può usare il concetto di simmetria.4 Originariamente, nel pensiero greco, « summetria » ha il significato di « commensurabile » e contiene anche in sé l’idea del giusto mezzo, ma ben presto assume un significato estetico. Già Vitruvio scrive che la (C simmetria risulta dalla propor­ zione... la proporzione è la commisurazione tra il tutto e le varie parti che lo costituiscono ». Simmetria diventa così sinonimo d’ar­ monia e proporzione, e assume il valore d’un concetto estetico ab­ bastanza importante nell’ambito di tutte le arti, perché riesce ad esprimerne almeno parzialmente la strutturazione e le omologie tra i livelli. Ma la simmetria è anche un concetto matematico che, pur essendo periferico e di non decisiva importanza, ha relazioni con concetti importantissimi dell’algebra moderna. Prima di discutere la defini­ zione matematica della simmetria ed i suoi rapporti con i problemi

4 Cfr. H. Weyl: La simmetria, Feltrinelli, 1962 e B. Segre: La simmetria e la scienza in «Le Scienze», a. II, n. 14 deirottobre 1969. 184

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estetici, bisogna fare qualche premessa terminologica.5 Tra due in­ siemi, ed in particolare nello spazio tra due figure, sussiste una cor­ rispondenza biunivoca, quando si può istituire una relazione che as­ soci ad ogni elemento del primo uno ed uno solo del secondo, ed una relazione inversa che associ ad ogni elemento del secondo insieme uno ed uno solo del primo. Nello spazio una corrispondenza biuni­ voca, o trasformazione, si dice congruenza se associa ad ogni seg­ mento un segmento d’eguale lunghezza o, come si può anche dire, lo muta in uno d’eguale lunghezza. Le trasformazioni che lasciano in­ variate le congruenze nel dominio su cui operano, si chiamano automorfismi. Si vede facilmente che le congruenze sono in particolare automorfismi. Per chiarire il concetto di automorfismo si può usare la definizione di Leibniz, secondo cui « due figure automorfe sono indistinguibili se ognuna è considerata per se stessa ». Così sono automorfi un edificio ed il suo plastico, due triangoli equilateri anche di lato diverso, due quadrati in posizioni diverse, anche se uno è ruotato d’un certo angolo rispetto all’altro, il negativo e il positivo d una fotografia, il guanto destro ed il sinistro d’uno stesso paio, ecc. (ili automorfismi, cioè le trasformazioni che lasciano invariate la struttura dello spazio, non sono altro che la precisazione rigorosa «lei concetto di similitudine della geometria elementare, come le con­ gruenze lo sono del concetto di figura eguale. In termini elementari, è chiaro perché tutte le congruenze sono automorfismi, ma non vi­ ceversa: tutte le figure eguali sono simili, ma non è vero l’inverso. Le congruenze, cioè gli automorfismi che non mutano le dimensioni delle figure, sono o proprie (traslazioni) o improprie (riflessioni). Tutte le traslazioni e le rotazioni nello spazio sono esempi del pri­ mo tipo, mentre le immagini speculari (camera oscura, specchi, scar­ pa destra e sinistra, vite destra e sinistra) esemplificano il secondo tipo di congruenze. Si può dimostrare che qualunque congruenza deriva dall’applicazione d’un numero arbitrario di riflessioni, e che se questo numero è pari, si tratta d’una congruenza propria, o tra­ slazione, se è dispari si tratta di una congruenza impropria, cioè d’una riflessione. È necessario definire ancora il concetto di gruppo: un gruppo è un

5 Le nozioni di teoria degli insiemi e di algebra di cui qui si fa uso si possono reperire facilmente in qualsiasi manuale. Cfr., ad esempio, M. Zamansky: Introduzione allalgebra e alVanalisi moderna, Feltrinelli, 1966, cap. II e, a livello molto più elementare, M. Pavan: Introduzione alla matematica moderna, Varesina Grafica Editrice, 1970. 185

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insieme qualsiasi sul quale sia stata definita un’operazione di composizione e che goda di alcune proprietà: l’insieme dev’essere chiu­ so rispetto a quell’operazione, il che significa che applicandola ad elementi qualsiasi del gruppo si ottiene come risultato ancora un elemento dell’insieme, ed uno solo. L’ctperazione dev’essere associa­ tiva, cioè se x, y, z sono elementi del gruppo e ° è il segno d’opera­ zione (x°y)°z dev’essere eguale a x°(y'z). Deve esistere un elemento o unità 1 tale che l’x sia eguale a x l e sia eguale a x. Deve esistere infine per ogni elemento x del gruppo un elemento x_1 inverso tale che x°x_l sia eguale a x_,"x e cioè all’unità 1. Se una parte d’un grup­ po gode al suo interno delle stesse proprietà si dice che è un sotto­ gruppo del gruppo dato. È facile vedere che nello spazio le trasfor­ mazioni sono un gruppo e così gli automorfismi, le congruenze, le congruenze proprie, essendo l’uno sottogruppo dell’altro. Non sono un gruppo invece le congruenze improprie, che applicate un numero pari di volte producono traslazioni e quindi non godono della pro­ prietà di chiusura. Queste considerazioni ci permettono di dare una definizione mate­ matica di simmetria: nello spazio euclideo le congruenze che lascia­ no immutata una configurazione qualsiasi formano un gruppo e de­ finiscono il grado di simmetria di questa configurazione. È chiaro che il grado di simmetria dipende dalle dimensioni che prendiamo in considerazione. Su una retta sono possibili solo tra­ slazioni d’una lunghezza data, o riflessioni rispetto a un punto posto anch’esso ad una determinata distanza. Si possono poi ridurre an­ che le traslazioni ad un numero pari di riflessioni: in particolare una traslazione di lunghezza a è equivalente a due riflessioni consecutive rispetto a due punti posti rispettivamente a distanza 1/5 a e 2/3 a, o 1/2 a ed a, o in infiniti altri modi differenti. Nel piano oltre alle traslazioni in linea retta sono possibili anche le rotazioni (di grado n a seconda dell’angolo 360°/n della rotazione che fa tornare la figura su se stessa) e le riflessioni rispetto ad una retta. Per il fatto che le congruenze improprie non costituiscono un gruppo, tutte le simmetrie bidimensionali sono riconducibili a un numero pari o dispari di riflessioni rispetto ad una retta. Nello spa­ zio tridimensionale sono anche possibili le riflessioni rispetto ad un piano e le rotazioni rispetto ad una retta. Anche qui sono sufficienti le riflessioni. Si può ancora notare che le riflessioni d’una dimen­ sione si ottengono nella dimensione superiore con una rotazione: la riflessione rispetto ad un punto con la rotazione bidimensionale, la riflessione rispetto ad una retta con una rotazione tridimensionale. 186

Di particolare interesse sono le simmetrie che costituiscono un reti­ colo spaziale, quelle cioè che formano dei gruppi ciclici finiti e pos­ sono coprire lo spazio: si dimostra che esiste un numero finito di gruppi di tali simmetrie e cioè 17 a due dimensioni e 32 a tre di­ mensioni. E questo il motivo per cui i tipi diversi di decorazioni cicliche e simmetriche sono in numero finito, ed incidentalmente va detto che nell’arte araba sono usati tutti; ed è finito il numero delle forme di cristallizzazione possibili. Che rapporto ha un concetto di simmetria così definito con quello estetico da cui siamo partiti?6 Non si tratta evidentemente della stessa cosa, la precisione è maggiore ma l’ambito del discorso è certo più ristretto. Non si tratta di due concetti disgiunti: posso parlare di simmetria d’un edificio o d’una statua nell’un caso e nell’altro dicendo la stessa cosa. Il concetto di simmetria dalla matematica è precisato, definito e quindi ristretto; ma ne è anche spiegato e chia­ rito. Fenomeni estetici, anche se relativamente semplici come i fregi dei vasi e dei templi greci, le decorazioni persiane e soprattutto ara­ be, il merletto, i rivestimenti in mattonelle di muri e pavimenti, eco., ne risultano più comprensibili. Bisogna tener presente che que­ sto tipo d’analisi della simmetria non è limitato allo spazio tridi­ mensionale: è molto facile concepire estensioni pluridimensionali per comprendere regolarità più complesse, come il colore nei suoi toni e timbri in pittura. Ma è anche possibile pensare a spazi astratti pluridimensionali per analizzare analoghi fenomeni nelle arti non visuali. Così, ad esempio, la musica presenta evidenti regolarità che dovrebbe essere possibile rappresentare approssimativamente già solo immaginando uno spazio tridimensionale con un asse per il tempo, e gli altri due per l’altezza e l’intensità del suono. D’altro canto il concetto di simmetria non è tra gli strumenti più potenti d’analisi che la matematica può mettere a disposizione dello studio dei feno­ meni estetici. Questo accade perché con esso si studiano le proprietà di trasformazioni identiche, che sono ovviamente assai poco com­ plesse. Già allargando il campo del discorso a tutti gli automorfismi, che pure conservano tutte le proprietà affini, e quindi compren­ dendo le similitudini, le possibilità di comprensione dovrebbero es-

6 II problema dei rapporti tra concetti formalizzati ed intuitivi, cioè essen­ zialmente il problema dell’adeguatezza, è centrale nella logica moderna. Anche se in questo caso non si tratta di formalizzazione vera e propria ma di precisazione rigorosa dei concetti, valgono le considerazioni dell’introduzione di Maria Luisa Dalla Chiara Scabia in Modelli sintattici e seman­ tici delle teorie elementari, Feltrinelli, 1968. 187

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sere maggiori. Secondo la classificazione di Felix Klein ad un maggiore grado di complessità vi è poi la geometria alfine, che mantie­ ne la lunghezza di segmenti collineari risultando dalla proiezione per mezzo di raggi paralleli su uno schermo comunque allineato, e la geometria proiettiva.

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Entrambe hanno un riscontro nell’arte che le utilizza per ottenere effetti prospettici. Ma man mano che si riducono le proprietà inva­ rianti queste diventano più « profonde » ed essenziali ed indicano i limiti fondamentali ed i criteri cui devono rifarsi tutte le omologie formali. C’è poi la topologia, dove sono invarianti solo le proprietà che non risentono d’una deformazione continua, per cui, ad esem­ pio, tutte le figure bidimensionali chiuse semplici s’equivalgono, e ia teoria degli insiemi di punti, dove rimane solo la corrispondenza biunivoca. È evidente che la matematica non può ambire a costituire un’assio­ matica, o peggio un criterio di valore per l’opera d’arte, ma io credo che anche un discorso limitato come quello svolto sinora dimostri come almeno una parte del messaggio estetico, il suo significante o meglio la sua forma dell’espressione, può essere compresa molto più a fondo se è affrontata con strumenti matematici più potenti e raffi­ nati della semplice misurazione per trovare questo o quel rapporto « armonico ». La matematica, insomma, può dirci probabilmente molte più cose sui criteri generali della costruzione di forme e con­ figurazioni di quante non se ne possano scorgere nel momento, pur indispensabile, della percezione intuitiva dell’oggetto estetico, o nel­ la sua ricostruzione psicologica o sociologica. Bisogna insistere, però, sull’impossibilità di misurare o valutare con questi strumenti i va­ lori e gli oggetti estetici, per diversi motivi. In primo luogo codici, connotazioni, riferimenti semantici, valori emotivi rimangono al di là dell’attenzione matematica, mentre sono parte integrante, anzi essenziale della costituzione dell’oggetto este­ tico. Vi è poi il fatto che l’indagine matematica non può vertere fruttuosamente sulla singola opera, ma sulle caratteristiche astratte d’intere classi di fenomeni estetici. Ci si può chiedere quale sia la ragione, il principio fondante della possibilità di rapporti comunque così intensi tra arte e matematica. Al di là dell’ovvia presenza d’una tradizione storica che risale al pensiero pitagorico, si può ritenere che esistano delle cause più generali, connesse alla natura delle due stesse attività. Non bisogna innanzi tutto scordare che la matematica non è nuova a rapporti particolarmente intensi con altre attività, essenzialmente 188

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con le scienze naturali, cui ha fornito modelli epistemologici e cri­ teri sulla forma del discorso, oltre, ovviamente, alla sua capacità di calcolo. Si è già accennato nel corso del discorso ad alcune analogie tra il tipo di prassi del matematico e dell’artista. Il messaggio estetico è essenzialmente autoriflessivo, o, in altri termini, l’opera d’arte è essenzialmente volta a richiamare l’attenzione sulla sua struttura, sul modo in cui è fatta. La matematica dal canto suo ha tra i suoi strumenti più potenti l’attenzione alla forma dei suoi messaggi, che è la base per i processi d’astrazione e generalizzazione che la carat­ terizzano. Non a caso la forma tipica dei messaggi scientifici è pro­ prio quella matematica, e non a caso la logica moderna è logica matematica. Per riprendere in altra forma lo stesso argomento, l’oggetto estetico è sempre strutturato, analizzabile in configurazioni, e, come s’è det­ to. la matematica ha tra i suoi oggetti privilegiati proprio lo studio delle configurazioni. L’ovvio problema che si pone a questo punto è se le configurazioni estetiche abbiano solo lo stesso nome di quelle matematiche o se esistano delle somiglianze più fondate. È sempre difficile paragonare un concetto vago e impreciso con uno formalizzato, inserito in un contesto rigoroso e questa è la medesima difficoltà che abbiamo già incontrato a proposito del concetto mate­ matico e di quello estetico di simmetria, che infatti sono casi parti­ colari dei due tipi di configurazioni. Si tratta cioè d’un problema d’adeguatezza, che non è possibile ri­ solvere in astratto, ma solo provando in che misura le caratteristi­ che del concetto formale si adattino alle qualità intuitive delle con­ figurazioni estetiche. Se comunque partiamo dal principio metodologico per cui allo sco­ po di spiegare percezioni estetiche sia pure intuitive, « liriche », per­ sonali, non possiamo adottare concetti altrettanto oscuri e soggettivi, per cui insomma le qualità dell’opera d’arte devono avere una strut­ tura oggettiva, anche se molto complessa, indipendenti dall’cc ani­ ma » e dal ; -i

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L’immaginazione e la ragione scientifica si sono oggi alleate per mi­ surarsi con l’opera e con i topici della cultura convenzionale ed uma­ nista. L’immaginazione fauve vs. l’intuizione colta o educata; la ra­ gione vs. il razionale. E non è certo la prima volta che la ragione e l’immaginazione si associano per intuire nuove dimensioni o pro­ porre alternative di fronte al dominio del « razionale » e dell’« intui­ tivo » che sanziona sempre il regno del costituito. La cultura e l’arte umaniste, le cui ultime formulazioni consistevano in un dosarsi equilibrato e prudente d’esistenzialismo, marxismo, per­ sonalismo ed avanguardismo, sembrano esser esplose sotto l’effetto dei loro due estremi. Sono state infatti contestate da due atteggia­ menti apparentemente opposti ma intimamente collegati. Da una par­ te si è assistito al sorgere d’un atteggiamento più razionale, « scienti­ fico », oggettivo o freddo: romanzo oggettivo, disegno industriale; ricerca visiva, strutturalismo, generazione automatica di forme pla­ stiche per mezzo di calcolatori o strutturazione d’esigenze architet­ toniche in base agli assiomi della teoria degli insiemi, ecc. Dall’altra è apparso un atteggiamento più caldo che rompeva con l’equilibrio dì quell’arte o di quella cultura: pop, living theatre, storicismo e neo barocco architettonico italiani, free jazz, moda post-Mary Quant, pro­ poste di vita estetico-erotica, ecc. L’irruzione nel mondo culturale di questi due fronti d’uno stesso esercito ha provocato la crisi delle frontiere che sino a poco prima di­ videvano i concetti di arte ed uso, di arte e vita, di autore e consu­ matore, di mezzo e messaggio. Le cose insomma cominciano ad essere un po’ meno chiare e definite e lo testimoniano il ritorno a forme artistiche più vicine alla « festa » che allo « spettacolo » (l’oracolo ci ammonisce: « siate spettacolo gli uni degli altri »); la compren­ sione della creazione artistica più come « provocazione » che come univoca « informazione », e dell’artista più come tecnico dei mezzi che come profeta dei messaggi; la tendenza ad esercitare l’immagi­ nazione non solo nell’attività « artistica » ma anche nella vita dome­ stica, politica ed ideologica, e ad utilizzare la scienza o la tecnica per svegliare l’arte dal « sonno umanista » in cui si era immersa poco dopo essersi svegliata dal « sonno dogmatico ». Queste due tendenze del resto sono in un certo rapporto con due funzioni dell’arte, chiaramente distinguibili. Infatti l’apparizione d’una nuova arte assolve sempre quanto meno a due funzioni. Da una parte, cerca di trovare un nuovo linguaggio che si accordi e corri­ sponda effettivamente ai nuovi contenuti vissuti e che finora hanno dovuto essere espressi in un linguaggio nato da una realtà diversa, 202

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linguaggio che non ha la vitalità necessaria per trasmettere i nuovi messaggi, e che tende ad attenuare il carattere innovatore di ciò che con esso si dice.1 Dall’altra tuttavia l’arte nuova non pretende di tro­ vare un linguaggio che s’accordi alla realtà esistente ma un linguag­ gio che cerchi precisamente di contestare questa realtà e le forma­ zioni sovrastrutturali ad essa corrispondenti. Di qui l’ambiguità delle grandi opere — della piazza del Campidoglio di Michelangelo, ad esempio — che realizzano una complessa sintesi d’entrambe le fun­ zioni mettendo in ridicolo le decodificazioni quasi sempre univoche dei teorici dell’arte. Ebbene in questo « saggio » voglio insistere solo sul primo aspetto o direzione di questa rottura prodotta oggi nei confronti dell’arte ra­ zionale ed intuitiva che culminò, paradossalmente ma non meno logi­ camente, nel teatro dell’assurdo o nella pittura informale. Tratterò dunque della rottura fredda che dissolve i limiti tra oggetto d’arte e oggetto d’uso, tra lo spettatore come voyeur e lo spettatore come bricoleur o manipolatore. Rimando quindi ad un’altra occasione la discussione della rottura complementare — e più apertamente con­ testativa — che comincia a cancellare i limiti tra esperienza estetica ed esperienza vitale. Mentre la prima insiste sul fatto che l’arte è — o dev’essere — oggetto d’uso, la seconda sottolineerà che ogni uso o attività è — o dev’essere — arte. Entrambe, tuttavia, sembrano ten­ dere verso una stessa direzione: fenomeno che, parafrasando Kierkeaard, potremmo chiamare « il superamento estetico dell’arte e della cul­ tura » di tradizione rinascimentale. Fare ed ornare Storicamente l’oggetto simbolico precede il vero e proprio oggetto utile, come il linguaggio « poetico » precede la prosa vera e propria o come, in generale, lo scambio di valori precede lo scambio di puri

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1 Fu il fine che si proponeva ciò che Mannheim ha chiamato il Nahrealismus dei Paesi Bassi; ciò che rese indispensabile l’invenzione della pittura ad olio: essa sola infatti poteva raggiungere quel grado di perfezione nel cogliere i par­ ticolari che questo stile esigeva. Il fatto che Tapparizione di nuove realtà o « messaggi » produca una trasformazione dei « mezzi » non è d’altra parte un fenomeno limitato al mondo artistico: furono le esigenze della contabilità in­ trodotte dal capitalismo che imposero, secondo quanto ci riferisce Max Weber, la sostituzione della numerazione latina (con cui è difficile fare una somma senza confondere parecchie decine) con le cifre arabe; come fu lo sviluppo della fisica e della matematica che bandì definitivamente il latino dai libri di scienza poiché, come dice Voltaire nel prologo ai Principia di Newton, « il latino non posse­ deva più termini per esprimere le verità scientifiche che mancavano agli antichi ». 203

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segni.2 Solo lentamente nel corso della storia, si vanno differenziando gli aspetti utili, magici, simbolici, ornamentali, ecc.... sino a giungere alla produzione d’oggetti specializzati: oggetti specificamente cultu­ rali o artistici. Le regole magiche che all’inizio presiedono alla costruzione di tutti gli edifici, si concentrano così a poco a poco in alcuni di essi (chiese, cimiteri, ecc.) e, all’interno delle stesse case, in oggetti determinati (icone, ecc.) lasciando ormai libera da interferenze non propriamente utilitarie la costruzione della casa o della capanna.3 Parallelamente, l’ornamento è in origine parte integrante degli oggetti o delle costru­ zioni, come constatiamo nelle forme scultoree della piramide di Chichén Itzà, nei capitelli romanici o nei motivi degli specchi cinesi Huai e dei bronzi Schang. Solo Varie colta giunge a separare l’ornamento dalla elaborazione dell’oggetto stesso e fa di quest’ornamento un og­ getto indipendente: un’opera d’arte. Innanzi tutto conviene dare uno sguardo d’insieme a questo processo per rivelare la continuità delle sue fasi. 1°) Con il Rinascimento, e dal Rinascimento in poi, l’ornamento fi­ gurativo si emancipa e diventa quadro, pura rappresentazione. Con la progressiva divisione del lavoro, la produzione d’oggetti e la crea­ zione d’opere d’arte diventano attività sempre più indipendenti che si richiamano ad oggetti sempre più distinti finché l’Accademia delle Belle Arti consacra ufficialmente la loro distinzione nel XVIII secolo. 2°) Ma la rappresentazione libera, senz’altro criterio nell’elaborazione che se stessa, finiva — doveva finire — col dissolversi nella sua stes­ sa perfezione formale.

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3°) Si veniva così sviluppando l’arte non figurativa che comportava la libertà del primitivo ornamento astratto (la scoperta che i colori e le forme di cui si componeva l’oggetto primitivo sono interessanti in se stessi), libertà a cui si giunse tuttavia solo con l’esaurirsi della autonomia dell’ornamento figurativo. 2 C. Levi-Strauss: Language and thè Analysis of Social Laws (Traci, it. Linguag­ gio e società in Antropologia Strutturale, pp. 70-83, Milano, Il Saggiatore, 1966). « Ed è perciò » commenta Levi-Strauss « che la posizione delle donne (delle donne che son valori e non meri segni culturali) nella nostra società d può offrire un’immagine valida del tipo di relazioni che hanno potuto esistere, in un periodo molto antico dello sviluppo del linguaggio, tra gli esseri umani e le parole... relazioni di scambio di valori e non di segni. » 3 L. B. Alberti consiglia di riservare le forme più perfette e simboliche, come il cerchio, per le chiese; le forme regolari e strette per gli edifici pubbl'id. Sólo nelle case private, dice, si possono accettare le forme gratuite e liberé. 204

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4°) Ma come la figurazione autonoma si risolveva in astrazione così l’astrazione libera si risolveva a sua volta in oggetto. Con ciò il ciclo sembra chiudersi: Telaborazione estetica o simbolica che un giorno divenne autonoma sembra risolversi, ancora una volta, nell’elabora­ zione degli oggetti. Semplificando, si può rappresentare il processo con un diagramma. OGGETTO

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i Elaborazione formale o ornamentale dell’oggetto: Arte Primitiva

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Le forme pure dell’arte non figurativa in cui culminava l’autonomia dei l’arte colta tendevano inevitabilmente ad acquistare uno status og­ gettivo. L’arte dell’oggetto era giunta alla pienezza del realismo dive­ nendo arte-oggetto, arte in sé, avvertendo ormai con ciò che il suo destino era di tornare alla primitiva integrazione con la produzione degli oggetti. La cosa tuttavia non risultò, né deve risultare, tanto semplice. E non fu così: 1°) perché l’ultima arte colta tentò tutti gli espedienti possibili per evitare questa reintegrazione alla realtà, che si apriva come un abisso ai suoi piedi nel momento della massima illusione d’autonomia. Ma, soprattutto:

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2°) perché durante questo periodo, e come contropartita della pro­ gressiva autonomia delPornamento rispetto alla elaborazione d’ogget­ ti o utensili, si dimenticò del tutto la loro elaborazione formale. Opere d’arte, da una parte, e dall’altra produzione in serie di beni, utensili ed edifici abominevoli: è questo il panorama degli anni della prima rivoluzione industriale, che Mumford ha chiamato « inferno paleo tecnico ». E il peggio fu quando, nel corso del secolo scorso e agli inizi di questo, si tentò di porre rimedio a questa bruttezza con l’« abbellimento » delle macchine da cucire o dei telai con fiori, frutti o amorini; con la « decorazione » delle facciate a base di « motivi » o ornamenti tratti indiscriminatamente dai più diversi stili. La situa­ zione, a pensarci bene, era tanto singolare quanto mostruosa: Tela­ borazione estetica dei prodotti che un giorno divenne indipendente 205



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come « opera d’arte » pretendeva ora d’« abbellire » i prodotti, ma seguendo i canoni che sviluppò nella sua autonomia, senza « mesco­ larsi » con essi né intervenire nella loro elaborazione, ma aggiungen­ do loro un « tocco di grazia e di libertà »: il fiore della macchina da cucire o il partenone della facciata, e più tardi, già nella nostra epoca, lo « stile » di Arp o Brancusi nel portacenere e nel rasoio. La confusione a questi due livelli fa sì che il « ritorno all’oggetto » non sia oggi un compito chiaro né semplice, e spiega la confusione dei nostri artisti quando cercano di fare qualche passo avanti. Voglio dire che bisogna tornare ad un’integrazione dell’ornamento con la produzione stessa degli oggetti come quella che esiste nelle società « incoscienti » o « primitive » prima che l’ornamento divenisse indipendente. Ma a questo proposito bisogna dichiarare subito che non si tratta: 1°) di tornare a forme tradizionali d’elaborazione né 2°) di predicare una rinascita dell’arte applicata.4 Vediamo più det­ tagliatamente questi due punti.

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L'alleanza dell'arte primitiva e dell'arte scientifica di fronte all'arte umanista

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Non si tratta di piangere un paradiso perduto o un originario stato di natura. Nella nostra società si presentano, è vero, squilibri e contrad­ dizioni, ma non dobbiamo dimenticare che solo nelle società primi­ tive — anonime e chiuse — le differenti manifestazioni culturali si dirigono spontaneamente — come gli « elementi » della fisica aristo­ telica — verso il loro « luogo naturale ». Quando sorgono comuni­ tà umane strutturate più razionalmente, si verifica immediatamente la possibilità di disadattamento o di sfasamento. L’equilibrio è in questo tipo di società una creazione deliberata della comunità stessa e non un suo sostegno « geologico » o « organico ». La perfetta coerenza dell’arte e delle sue funzioni in una società come la sumera o la boscimana doveva rompersi in Grecia. Solo ad Atene potevano nascere quegli artisti sovversivi che attentarono contro i princìpi che reggevano la polis e che Platone pretendeva di mandare in esilio; come solo col risveglio del Rinascimento poteva spezzarsi la sintesi « organica » di arte e società del Medio Evo. L'attività dell’uomo è sempre meno riflesso automatico ed univoco 4 Ecco perché abbiamo messo tra virgolette il termine « ornamentale » quando lo abbiamo applicato all’arte implicata nel diagramma precedente. 206

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delle condizioni oggettive, ma proprio per questo, può trasformare in maniera decisiva queste condizioni. La possibilità di pensare un nuovo ordine è così il fondamento d’ogni disordine, ma anche d’ogni progresso. « Pour bouger » dice A. Sauvy, « pour progresser, il faut ètre toujours comme à le sky, en train de perdre Véquilibre. » Oggi, finalmente, l’ordine e l’equilibrio « naturali » sono stati infranti. Non è dunque tempo di lamentare la perdita di quell’ordine ma di co­ struire un ordine nuovo che superi il paradosso estetico in cui ci tro­ viamo: il paradosso d’un mondo brutto disseminato di belle opere d’arte. E tuttavia si tratta proprio di trovare nella nostra società quella sin­ tesi dell’utile e del simbolico, del pratico e del bello, che scopriamo nelle società primitive anteriori alla presa di coscienza dell’arte come fine in se stesso e come creazione soggettiva. Alcuni artisti, architetti e disegnatori, hanno creduto che per ottenere ciò occorreva eliminare ogni riflessione ed ogni analisi per abbandonarsi alla creazione spon­ tanea, in cui il loro genio avrebbe incontrato le forme d’attività e l’equilibrio « naturali » delle società incoscienti. In questo modo, co­ me ha detto Alexander, « cercavano d’evitare l’insicurezza della co­ scienza di sé, mantenendo disperatamente la sicurezza dell’innocenza. Ma l’innocenza » prosegue Alexander, « è perduta; e una volta per­ duta non può essere recuperata. La perdita esige attenzione e non rifiuto ».5 Le società primitive producono infatti forme adeguate perché la loro struttura è omeostatica: le forme sono elaborate man mano che sor­ gono i bisogni e non può verificarsi né la gratuita invenzione d’una forma né la sua estensione ad ambiti in cui sarebbe inadeguata, nel contesto d’una tradizione rigida che ne limita la fluidità e la gene­ ralizzazione.6 D’altra parte pure limitate sono le possibilità d’invenzione gratuita e d’applicazione di « soluzioni universali » a causa della scarsità dei ma­ teriali utilizzabili e della scarsa informazione che si possiede circa i metodi o i processi seguiti altrove: limitate in definitiva dal fatto che queste società non hanno mai più possibilità che bisogni. In esse, 5 Ch. Alexander, Notes on thè Synthesis of Form, p. 10. 6 In queste società tanto la nascita d’un albino che l’arrivo d’uno straniero, l’incesto commesso da un membro della tribù o l’adozione d’una tecnica o d’una forma nuova, « sono percepite come cause d’inquietudine e di grandi disgrazie per tutto il gruppo, poiché sono contatti con l’impuro, un affacciarsi sul mondo che sfugge alle regole; il mondo in cui tutto è possibile, dove tutto si trasforma e nulla è garantito » (J. Cazeneuve: Bonheur et Civilisation, p. 184).

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scriveva Ortega, « l’uomo ha l’impressione che il cerchio delle sue possibilità trascenda appena quello dei suoi bisogni. Ciò che l’uomo può fare coincide quasi perfettamente, a suo sentire, con ciò che deve fare. Ed è molto esiguo il margine di scelta che gli resta ».7 Le forme dei suoi prodotti rispondono quindi sempre ai suoi bisogni (funzio­ nali, simbolici, ecc.) come la forma del nido o dell’alveare risponde ai bisogni del passero o dell’ape. La nostra intuizione tuttavia non è già diretta e predeterminata e proprio per questo chi ad essa si richiama non trova automaticamente quell’equilibrio naturale. « Nelle società sviluppate » come di­ ce ancora Ortega, « l’uomo ha l’esperienza che la vita non si defi­ nisce esclusivamente per i suoi bisogni ma che anzi, superandoli, con­ siste nelle sue possibilità: che oggi vi sono più cose, più possibili con­ quiste di quelle di cui si ha bisogno. »8 Appare allora la necessità della scelta e la possibilità del lusso e dello squilibrio. Nel disegno, concreta­ mente, le soluzioni non si elaborano, come nelle società primitive, se­ guendo la struttura stessa del problema e in un costante e fluido fedback da parte della forma rispetto alle esigenze esteriori d’ogni ge­ nere (pratiche, suntuarie, simboliche, ecc.) che essa deve soddisfare. La mancanza d’una tradizione relativamente rigida che renda impos­ sibili le variazioni gratuite, lo straordinario numero d’esigenze da soddisfare e di soluzioni possibili da adottare,9 come l’esigenza d’in­ ventare o di copiare una soluzione totale al problema (a differenza del primitivo cui basta « continuare » l’elaborazione della forma d’un oggetto che ereditò dai suoi padri e trasmetterà ai suoi figli), tutto ciò fa sì che la possibilità di creare forme inadeguate sia molto mag­ giore di allora. Ma se oggi non abbiamo né il tempo, né la tradizione, né il contatto immediato con i problemi che avevano i nostri antenati — se non siamo, come loro, immersi nel processo naturale stesso — abbiamo, come contropartita, migliori fonti d’informazione per conoscere quali esigenze una forma debba soddisfare, migliori procedimenti per « trat7 J. Ortega Y Gasset, Origen y Epilogo de la Filosofìa, p. 101. 8 Ibid., p. 103. 9 « L’antica arte della costruzione utilizzava solo pietra, legno e terra cruda o cotta. Questi materiali avevano già una forma definita che predeterminava in un certo qual modo le forme dell’arte che le utilizzava. I materiali e le tecniche nuovi al contrario rendono possibile ogni tipo di forme e l’artista si trova in una completa libertà al cui esercizio è poche volte preparato. » Come prosegue Ch. Lalo, « l’assenza di limitazione libera tanto il buono come il cattivo gu­ sto... ed era più facile essere discreto — diciamo pure classico — prima di oggi » (Les Structures Maitresses de la Beauté Industrielle, p. 28). 208

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tare » quest’informazione, e migliori metodi formali per analizzare la struttura dei problemi; problemi che noi viviamo già dall’interno ma che possiamo ora analizzare dal di fuori. E solo con questi stru­ menti otterremo che le nostre soluzioni si adattino alla struttura stessa dei nostri problemi come le soluzioni delle società primitive si adattavano ai propri. Difatti se, come pensano gli strutturalisti, la struttura è sia la legge d’intelleggibilità che la legge di formazione degli oggetti, può aver successo solo quel piano di lavoro basato su un pro­ gramma che rifletta realmente la struttura del problema che si cerca di risolvere. E solo il perfezionamento scientifico nell’elaborazione dei programmi di disegno, pensa Alexander, ci permetterà d’analizzare rigorosamente la complessa struttura dei nostri problemi e di pro­ durre « forme adeguate » come le forme delle società primitive. O impostazione scientifica, dunque, o impostazione incosciente, primi­ tiva, fauve: l’unico metodo condannato oggi all’insuccesso è quello intuitivo, accademico ed « umanista » che presiede all’elaborazione delle forme dal Rinascimento ad oggi.

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Parlando di parole: « L'arte applicata »

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Tornare alla primitiva integrazione non vuol dire però che si debba fare «arte applicata » o « decorazione ». « Arte applicata » e « deco­ razione » sono pratiche e concetti nati dall’epoca in cui l’elaborazione estetica degli oggetti era divenuta già indipendente — quadro, sta­ tua — o pretendeva di « truccare » gli oggetti con « aggiunte » de­ corative, o tutt’al più intervenendo nelle « rifiniture » ma senza im­ mischiarsi nella loro elaborazione. Ed è importante che ci si renda conto fino a qual punto i concetti associati ai termini « arti applicate » o « decorative » siano collegati alla nostra concezione dell’arte come « opera d’arte » indipendente; sino a qual punto siano deformati il nome e la pratica dell’arte « im­ plicata » così come si presentano in un’epoca d’arte indipendente. 10 Il fenomeno per lo più è generale. Anche se in un modo inconscio, molti dei nostri concetti e delle nostre attività presuppongono una situazione, uno sfondo che non è mai neutro, su cui spiccano. Ciò che s’intende per « pedone », « campione oro », « viveri » o « cero » dipende da un mezzo determinato, rispettivamente, dall’automobile, da un sistema economico, dalla penuria o dal culto religioso. Solo, 10 II termine « arte implicata » fu introdotto da E. Souriau, per quanto il senso del termine in quest’autore sia differente da quello che ha nel nostro contesto. 209

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in questi elementi l’uomo diventa « pedone »,11 l’oro « campione oro », l’alimento « viveri » e la candela « cero ». Ebbene il concetto complementare o « sfondo » da cui concepiamo oggi l’arte applicata è r« opera d’arte » nel suo significato tradizionale, ed è proprio per questo che riesce così difficile capire, in un’epoca in cui il nostro « elemento artistico naturale » è ancora l’opera d’arte, che cosa sarà — che cosa è già — questa nuova arte che interviene nell’elabora­ zione degli oggetti. Consideriamo ancora l’arte « applicata » che si propone o si applica a qualcosa, come il concetto contrario d’« opera d’arte », dell’arte che non si propone né applica nulla. Per questo dobbiamo smettere di parlare dell’« arte applicata » e impostare il problema così come si presenta nel suo contesto o struttura attuale invece di definirlo e di pensarlo con una definizione che comporta già la soluzione che gli si diede in un’altra struttura. D’altra parte, l’ingiustizia o l’equivoco sarà presto il contrario. Co­ me durante il suo regno l’« opera d’arte » rinascimentale ha imposto i suoi canoni nella valutazione delle opere primitive o « applicate » (trasformando nei suoi musei le prore delle barche, gli scettri dei re o le maschere degli stregoni in opere d’arte) così il giorno in cui la nuova arte integrata diverrà parte dell’arte tout court dell’epoca, le opere d’arte rinascimentali saranno a loro volta intese ed utilizzate secondo i canoni di questa nuova arte. Situata in un ambiente architettonico o domestico moderni l’opera d’arte rinascimentale si apprezzerà allora per la sua « gratuità »; gratuità che non sarà altro che un carattere acquisito nel suo nuovo contesto; un prodotto della lettura che ne facciamo oggi. In un’epoca d’immaginazione e comportamento sempre meno repressi (o per lo meno, repressi in maniera meno apparente o convenzionale) già un poco annoiati dall’attenuarsi dei limiti e dall’universale « impudici­ zia » (stanchi di bei designs, di livings, di discoteques e di happenings) si sentirà senza dubbio una tenerezza particolare per questi prodotti della repressione pura, ma che erano anche, e proprio per questo, puro messaggio estetico. Ma questo ci farebbe già entrare nel tema della seconda rottura la cui soluzione. come nei romanzi o nei comics a puntate, « si cono­ scerà al prossimo numero ». O, semplicemente, nei prossimi anni. 11 Per questo C. A. Doxiadis riferendosi alle zone della città in cui viene proi­ bita la circolazione dei veicoli non parla di settori pedonali (pedestrian sectors) ma semplicemente di settori umani (human sectors). La sfumatura terminolo­ gica introdotta da Doxiadis elimina le immagini associate al termine « pedone » e potrebbe, a mio parere, essere adottata con profitto nel linguaggio dell’urba­ nistica. 210

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finito di stampare nel mese di gennaio 1972 dalla Litografia Lescbiera Via Maniago, 8 - Milano

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