La psicologia di Dante
 9788855292498, 9788855292009, 8855292498

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La psicologia di Dante
Il dualismo di Dante

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Georg Simmel La psicologia di Dante A cura di Francesco Valagussa

C an o n e e u r op eo

Collana diretta da: Andrea Tagliapietra

Comitato scientifico: Giovanni Bonacina, Catherine Douzou, Nicola Gardini, Helmut Karl Kohlenberger, Leonel Ribeiro dos Santos.

Canone europeo | 5

Georg Simmel La psicologia di Dante Traduzione italiana e cura di Francesco Valagussa

Pubblicazione del Centro di Ricerca Interdisciplinare in Storia delle Idee (CRISI) e del Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine (ICONE)

Titolo originale Dantes Psychologie, 1884

© 2021, INSCHIBBOLETH EDIZIONI, Roma. Proprietà letteraria riservata di Inschibboleth società cooperativa, via G. Macchi, 94 - 00133 - Roma www.inschibbolethedizioni.com e-mail: [email protected] Canone europeo ISSN: 2533-1329 n. 5 - giugno 2021 ISBN – Edizione cartacea: 978-88-5529-249-8 ISBN – Ebook: 978-88-5529-200-9 Copertina e Grafica: Ufficio grafico Inschibboleth Immagine di copertina: Particolare dell’affresco della cappella di San Brizio (Duomo, Orvieto), Luca Signorelli (1450-1523)

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Nota del traduttore

Si presenta in queste pagine la prima traduzione italiana del saggio di G. Simmel, Dantes Psychologie, apparso su «Zeitschrift für Völkerpsychologie und Sprachwissenschaft», XV, 1884, pp. 18-69 e 239-276. L’articolo risulta già provvisto di un ampio numero di note, tramite cui Simmel segnala i vari passi danteschi adoperati nel corso del suo studio. Dal momento che il testo annovera alcune citazioni tratte da altri autori, oppure brevi accenni – in italiano e in latino – a termini caratteristici del lessico dantesco, privi però di un riferimento testuale, si è provveduto a integrare l’apparato riportando per esteso il contenuto dei testi citati, emendando i pochi refusi presenti nel testo simmeliano e segnalando tutte le occorrenze in cui l’autore abbia adoperato direttamente vocaboli in lingua italiana all’interno dell’opera. Per distinguerle dalle note originali di Simmel, tutte le aggiunte e integrazioni del curatore si trovano tra parentesi quadre. Per ogni passo dantesco citato dall’autore il lettore troverà indicato tra parentesi tonde il numero di volume in numero romano e il numero di pagina in numeri arabi, che si riferiscono alle seguenti edizioni:

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I = Dante Alighieri, La divina commedia, a cura di S.A. Chimenz, UTET, Torino 2003, vol. I. II.1 = Dante Alighieri, Opere minori, a cura di G. Barberi Squarotti, S. Cecchin, A. Jacomuzzi, M.G. Stassi, UTET, Torino 1983, vol. II.1 (Vita nova, De vulgari eloquentia, Rime ed Ecloge). II.2 = Dante Alighieri, Opere minori, a cura di F. Chiappelli, E. Fenzi, A. Jacomuzzi, P. Gaia, UTET, Torino 1997, vol. II.2 (Il convivio, Epistole, Monarchia e Questio de aqua et terra).

La psicologia di Dante

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Prima parte

1. Psicologia storica Tra gli ambiti specialistici in cui si divide il campo della filosofia forse nessuno – quanto alla sua essenza e quindi anche alla sua storia – risulta così intimamente connesso al proprio presente a livello di epoca e di popolo come lo è la psicologia. In tal senso il suo contatto con l’aspetto più immediato dell’uomo e l’impossibilità, sul lungo periodo, di distogliere lo sguardo dall’empirico costituiscono dei fattori decisivi. Le teorie meta­ psicologiche si riferiscono più spesso all’esperienza diretta, e devono quanto meno anticipare la verifica empirica rispetto alle altre parti della metafisica. Siccome la psicologia è la dottrina di ciò che si trova realmente nell’anima, e siccome avanza perlomeno la pretesa di esibire in tutti i propri enunciati un contesto generale che sorga, almeno in parte, dall’esperienza del reale, o che comunque dovrebbe confluire in essa – la storia della psicologia è un documento prezioso nell’archivio della psicologia della storia, anche se alterato a seconda delle qualità dei suoi autori. A un esame più attento, questa considerazione conduce innanzitutto al doppio valore che ogni testimonianza, consapevolmente storica, di un presente può vantare: non solo ci offre un

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proprio contenuto fattuale, ma è essa stessa un elemento del proprio tempo e, di conseguenza, ci consegna un’immagine non soltanto oggettiva, ma anche soggettiva dei propri caratteri – o, più esattamente, si potrebbe invertire l’ordine: quel contenuto fattuale riceve infatti la propria forma, e spesso anche più di essa, dalla soggettività, in cui si riflette in maniera più o meno offuscata, mentre questa stessa soggettività è un prodotto non contraffatto del suo contesto temporale. E quindi, se abbiamo compreso gli stretti rapporti in cui la psicologia, secondo il proprio carattere empirico, si trova rispetto a ciò che chiamiamo storico, allora è chiaro quale valore la sua storia debba assumere, per la storia dello spirito umano, in entrambi i rapporti. E un’ulteriore intensificazione di questi stessi rapporti si offre a partire dalle sue connessioni con la dimensione empirica: non deve limitarsi a quei teoremi costruiti sulla base della tendenza scientifica a costituire un sistema, bensì può e deve considerare quale sua materia anche le espressioni psicologiche che si trovano al di fuori della storia della filosofia in senso stretto. Infatti, là dove si tratti dell’osservazione del reale, vale a dire dell’osservazione oculare che reca in sé l’acutezza e il delicato equilibrio di una determinata epoca, l’enunciato di un poeta o di uno storico assume la medesima importanza di quello di un filosofo.

2. La posizione storica di Dante Anche solo a partire da queste osservazioni generali non è forse privo d’importanza raggruppare le esternazioni psicologiche di Dante e, collegando quelle che si richiamano tra loro, mostrare come il mondo interiore si sia configurato nella sua testa. L’importanza e l’interesse, tuttavia, mi sono sembrati

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crescere in una progressione inimmaginabile mentre esploravo le connessioni che si presentavano tra i vari elementi del personaggio di Dante dal punto di vista della storia universale e quelli della sua psicologia. Tanto più chiara diventa la posizione di Dante nella storia dello spirito umano quanto più ci si accorge che il suo significato non consiste soltanto nell’aver creato nuovi elementi culturali – oltre ai suoi meriti poetici –, ma anche nell’aver raccolto quelli già esistenti in una forma classica, eternamente dotata di senso: tanto più giustificato apparirà allora anche il peso che attribuiamo alle sue opinioni e osservazioni in quell’ambito peculiare. Proprio perciò è necessario, tuttavia, portare avanti il nostro tema fondamentale mediante alcune note storiche su di lui, a carattere introduttivo.

3. L’anno 1300 Durante le grandi epoche di transizione a livello spirituale, politico e sociale, alle menti dei singoli individui pare ovvio non soltanto unificare in se stesse i due risvolti del dissidio storico – ambire al nuovo senza però abbandonare il vecchio – ma, anche in quegli ambiti periferici rispetto alla tendenza centrale vera e propria, tali menti propendono facilmente verso opinioni di carattere dualistico, che risultano bloccate e insieme si sviluppano per via di contrapposizioni; in epoche simili i sistemi di pensiero vengono coinvolti in movimenti che si estendono ben oltre il loro nucleo originario. Se dunque studiamo epoche di questo genere a partire da singoli individui, ne otterremo un’immagine tanto più chiara quanto più lasceranno emergere le tendenze in maniera differenziata, e quanto più il nuovo e il vecchio si uniscono nelle loro menti, o nel senso di una contraddizione inconscia, di un dualismo, oppure nel corso di uno sviluppo che procede per contrasti. Quello di Dante era innanzitutto un tempo in cui nei rapporti politici così come in numerosi rap-

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porti culturali, gli ordinamenti del Medioevo non erano ancora del tutto tramontati, e quelli dei tempi moderni non ancora del tutto operanti. L’impero si vedeva quasi totalmente privo della propria forza ideale e di quella manifesta a causa delle lotte con il papato e del particolarismo egoistico dei popoli, per quanto giustificato; il principio di nazionalità era già pienamente presente negli animi, ma incapace di prender parola o di entrare in azione dal momento che i vari territori si trovavano fatalmente scissi nella maniera più nociva in principati, città e fazioni; il papato alla fine era intervenuto nel commercio mondano con interessi dinastici e dettati dall’avidità, e naturalmente anche la sua autorità religiosa ne risultava intaccata – così si presenta il quadro del mondo, soprattutto italiano, attorno al 1300. Così come in queste epoche di transizione tanto violente anche gli ambiti più isolati – l’abbiamo già notato dianzi – tendono a stare in contatto, allo stesso modo anche nel campo dell’arte la rigida tradizione ha cominciato a cedere il passo a una svolta verso la verità della natura; basti pensare a Cimabue e a Giotto, a partire da cui una serie continua di sviluppi conduce alle vette più alte del Rinascimento; soprattutto però all’interno della scienza – all’epoca ce n’era soltanto una – accanto ai frutti maturi e troppo maturi di sviluppi precedenti si trovano al contempo gli impulsi verso innovazioni filosofiche di ampia portata; e con l’apparenza, e persino la sincera convinzione, di rimanere pienamente all’interno di ciò che era concesso e richiesto sul piano teologico, anche un Duns Scoto stava affilando le armi che in seguito sarebbero state agevolmente rivolte contro la religione con effetti letali. Ciò che, però, qui ci interessa maggiormente è il contrasto tra il pensiero scolastico e quello mistico, entrambi, uniti e separati, raggiungono il proprio culmine in quest’epoca. Quale sia stato il corso storico dello sviluppo della filosofia medievale, come al rifiuto dell’aristotelismo abbia potuto far seguito la sua riabilitazione, perché in esso siano state scoperte, almeno in parte, le verità cristiane, o almeno si sia creduto

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di poterle accordare razionalmente con esso – tutto questo è abbastanza noto; qui importano innanzitutto le differenze di mentalità tipiche della filosofia medioevale. Infatti, l’unico impulso che caratterizza κατ’ἐξοχήν la Scolastica è quello di conoscere le cose, in particolare quelle che si trovano al di là dell’empirico, attraverso i concetti e la loro connessione logica; questa conoscenza, tuttavia, viene sempre percepita soltanto come qualcosa di mediato e imperfetto che, tanto soggettivamente quanto oggettivamente, punta ancora a qualcosa di immediato: e questo è il mistico. In contrasto con il pensiero discorsivo, la mistica rivendica una contemplazione diretta del soprannaturale, ascendendo o identificandosi ad esso; l’Assoluto si rivela ad essa nella propria essenza e nelle proprie determinazioni, e precisamente attraverso un atto indipendente dai sensi veri e propri così come dall’intelletto. Le religioni rivelate in quanto tali si basano ovviamente su modalità di pensiero mistiche, mentre il pensiero concettuale, almeno secondo la propria tendenza, si trova in contrasto – anche se non sempre totale – rispetto ad esse, sul piano psicologico e spesso anche sul piano logico. Come rivela un rapido sguardo alla storia della filosofia dell’epoca, queste due tendenze erano ampiamente rappresentate ai tempi di Dante, in particolare sotto forma di un compromesso, e nel caso del più eccellente maestro dantesco, Tommaso d’Aquino, entrambe risultavano abbondantemente sviluppate, spesso in maniera estrema.

4. Il contrasto tra intelletto e indole In poche parole, abbiamo a che fare con il contrasto tra l’autonomia dell’intelletto e un’indole religiosa, aperta all’intuizione del divino, contrasto in cui vediamo muoversi anche Dante. Troviamo in lui le spiegazioni più sottili, puramente formali

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ed eloquenti, in base a cui crede chiaramente di rintracciare nell’intelletto la sola fonte della verità, e d’altra parte, con un completo rifiuto del pensiero logico, pieno d’umiltà, sprofonda nell’abisso di un abbandono mistico a Dio. L’esame dei suoi scritti sul piano contenutistico e cronologico ha ormai mostrato che questi differenti punti di vista sono essenzialmente distribuiti su periodi diversi della sua vita. Durante tutta la sua giovinezza, fino alla morte di Beatrice, sembra aver provato una devozione ingenua che, insieme alla sua inclinazione idealizzante verso di lei, ha determinato la sua natura etica e intellettuale. In seguito alla morte di Beatrice, invece, privato dell’oggetto per cui i suoi sentimenti potevano sempre di nuovo tornare a infiammarsi, per così dire orfano e infelice riguardo alla propria vita sentimentale, si rivolse maggiormente alla realtà dell’esistenza, in particolare agli interessi politici, ma al contempo, come si può ben capire, nella sua vita interiore l’intelletto è diventato l’elemento dominante rispetto al sentimento. Quello che abbiamo di lui relativamente a questo periodo mostra la più arida adesione alla Scolastica, l’aspirazione a dirimere le questioni più importanti con il pensiero puro, senza che l’altra strada venisse intrapresa in qualche modo per trovare risposte. Più tardi, però, quando i suoi sforzi lo avevano convinto dell’inadeguatezza di tutto ciò che è terreno, delle carenze morali e in parte anche intellettuali della ragione che poggiava solo su se stessa, allora cambiò strada e cercò di nuovo nel totale affidamento al divino e alle sue mistiche rivelazioni il nucleo di tutta la verità, di tutto ciò che risulta valido sul piano etico e spirituale.

5. Contraddizioni in Dante Appare ovvio che la differenza tra queste tendenze non ha mancato di influire sulle convinzioni psicologiche di Dante e che le asserzioni presenti in un’opera saranno talvolta in aper-

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ta contraddizione con quelle di un’altra. Benché queste differenze, in base a quanto detto, non siano dovute a una vera e propria contraddizione nella sua natura, bensì unicamente al suo sviluppo, non credo però sia opportuno giustapporle l’una all’altra senza uno sguardo retrospettivo sul loro nesso cronologico, né dedurre da esse un vero e proprio dualismo nelle sue convinzioni. Ciò che mi spinge in questa direzione è soprattutto il fatto che non intendo scrivere un capitolo di “dantologia”, bensì di psicologia della storia; se Dante è in grado di esemplificare le correnti dello spirito di un popolo, allora, se si ha in mente soltanto questo, è irrilevante se le differenze si trovino in lui nello stesso momento o in momenti diversi; Dante è soltanto l’espressione più compiuta dello spirito dell’epoca, in cui entrambe le tendenze corrono l’una accanto all’altra. Quello che conta qui non è il periodo in cui le abbia rappresentate, bensì il fatto che le abbia rappresentate in generale e certamente tale fenomeno, assai frequente anche per altri versi, non deve indurci a pensare che nel periodo successivo Dante ripudi i propri percorsi precedenti. Ma anche questa stessa vittoria della scienza mistica e immediata di Dio sulla mera ricerca guidata dall’intelletto, come egli stesso ha esplicitato chiaramente alla fine del Purgatorio, ma che forse si trova già nel complesso del poema, è stata interpretata in maniera troppo netta. I rimproveri che Beatrice, il simbolo dell’intuizione ricevuta per grazia divina, gli rivolge in quell’occasione, relativamente al suo essersi allontanato dalla retta via, non significano che la dottrina della Scolastica sia falsa, bensì che risulta incompleta, non significano che avrebbe dovuto rinunciarvi del tutto, ma che se ne era occupato in modo troppo esclusivo. Anche sul piano puramente fattuale, però, quella differenza, così come viene presentata nei suoi scritti, è minore di quanto ovviamente non sia sembrato alla sua coscienza. Nell’aristotelismo, e in generale in ogni teoria che creda di poter scandagliare l’essenza delle cose attraverso il pensiero puro, attraverso la mera connessione logica dei

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concetti, s’insinua una buona dose di misticismo, anche se non religioso; il contraltare oggettivo più netto al misticismo non è il razionalismo, bensì l’empirismo; la differenza tra i primi due concetti nominati, nonostante la sua importanza storica, per molti versi è solo immaginaria – anche se qui possiamo soltanto accennarvi. Ma anche viceversa, l’opera dell’ultimo periodo della sua vita, la Commedia, per molti versi è catturata da uno spirito autenticamente scolastico; anche il suo misticismo è attraversato da una tendenza fredda e razionale; in mezzo alle somme visioni paradisiache spesso c’imbattiamo in dispute che non ci sorprenderemmo di trovare nel più sottile degli scolastici o addirittura, forma poetica a parte, nello stesso Christian Wolff.

6. Dualismo Quel che abbiamo menzionato, di per sé distante dal nostro argomento, risulta necessario per allontanare le riserve che potrebbero essere avanzate nei confronti di una valutazione comparativa di tutti gli scritti danteschi. Siamo tanto più legittimati nel dedurre da questo un unico dualismo fondamentale di Dante, in quanto vedremo come anche le sue ultime e più mature convinzioni comportino esse stesse un dualismo sotto vari aspetti. Nell’idea della sua monarchia universale, nella convinzione che la moralità dei singoli debba essere condotta a un livello ideale attraverso la supremazia regolata dello Stato e della Chiesa, si rivela il suo carattere medievale; nell’assoluta indipendenza reciproca di Chiesa e Stato, che è il suo primo assioma, nella rivendicazione di una piena equiparabilità tra loro, in quanto prodotti diretti delle proprietà fondamentali del microcosmo, emerge per la prima volta con pieno vigore e chiarezza una delle idee più importanti dell’età moderna. Oltre a queste tensioni antitetiche a fondamento della sua essen-

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za si trova, però, un dissidio inconciliabile nel coordinamento incondizionato dei due poteri; se la Chiesa deve prendersi cura della vita ultraterrena, e però lo Stato deve prendersi cura di quella terrena, siccome quella dipende dalla totalità delle nostre azioni qui in terra, i due ambiti non sono affatto separati; tanto meno a motivo del fatto che il papato, nonostante le assicurazioni di Dante in senso contrario, in base alla posizione che egli stesso gli ha assegnato, risulta più vicino al principio divino che al potere terreno, e quindi ha potuto rivendicare una supremazia assoluta con la conseguenza che la gerarchia ha sempre saputo farsi valere per se stessa; anche qui, dunque, un dualismo inconciliabile. Tuttavia, quell’enfasi sulla piena equiparabilità tra Chiesa e Stato, anche se sul piano pratico risulta troppo astratta, è molto significativa e necessaria come passaggio da un’epoca che faceva prevalere il versante spirituale verso un’epoca che assumeva come principio il versante terreno dell’antitesi: affinché il piatto più alto della bilancia diventasse quello più basso, bisognava prima passare dal punto di equilibrio. E infine, riguardo all’individuo Dante, si nota spesso la divisione del suo pensiero tra formalismo concettuale scolastico o dogmatismo ed esperienza di vita. A uno sguardo che abbracciava con pari acutezza gli abissi più cupi dell’anima criminale e le vette più eteree di un misticismo estatico, e a quella rarissima genialità che solleva il velo sui moventi più intimi degli uomini, sovente si unisce un pregiudizio incomprensibile, tipico delle formule scolastiche tradizionali e principi spesso formulati in modo del tutto prevenuto. In generale era un visionario, un entusiasta e un rigido dottrinario al contempo – un connubio che si ritrova molto spesso, soprattutto tra personalità che operano in politica e in particolare in personalità attive sul fronte d’opposizione. Per quanto lo riguarda, tuttavia, nel campo della psicologia in particolare si deve notare che le sue domande astratte sembrano chiaramente acquisire per lui

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un interesse maggiore solo quando vengano collegate a quelle empiriche; perciò relativamente alla rappresentazione della sua psicologia abbiamo il diritto di attenerci al suo versante empirico. Nessun ambito, ad eccezione della politica, è trattato da lui con colori così vividi come quello dell’animo umano. Proprio perché ha dispiegato chiaramente qui di fronte a noi l’intero patrimonio delle proprie esperienze ed essendo così pienamente figlio del proprio tempo – nel senso che il bambino più dotato combina e potenzia dentro di sé le qualità dei genitori – proprio per questo la sua psicologia è così particolarmente preziosa, e perciò la sua psicologia, nel senso più alto del termine, costituisce un contributo non solo alla storia della psicologia ma anche alla psicologia della storia. E quest’ultimo punto di vista, in quanto centrale, fa sembrare irrilevanti tanto le differenze cronologiche tra le varie idee dantesche, quanto anche il fatto che siano originali o mutuate da altri. È stato sottolineato piuttosto spesso come tutte le proposizioni scientifiche più generali dell’opera di Dante siano tratte dalla scienza del suo tempo, e come quasi nulla fosse da ascrivere alla sua originalità se non la loro forma poetica e alcune osservazioni empiriche che ne seguono. Se però si considera Dante soltanto come rappresentante di un’epoca, e la sua personalità soltanto nella misura in cui è l’espressione di certi principi generali, non importa da dove abbia tratto queste determinate concezioni, ma solo che le abbia. Precisamente questo lo rende così straordinariamente adeguato al nostro scopo: è talmente impregnato della forma mentis del proprio tempo che sul piano della teoria si trova nei più stretti rapporti con il contenuto della coscienza della propria epoca, ma al contempo sa scrutare entro la dimensione empirica in maniera fine e prevalentemente autonoma. Quel che Dante potrebbe anche aver preso da altri l’ha fuso con la propria personalità e nella propria personalità a tal punto che solo la ricerca filolo-

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gica dantesca può avere interesse a separarlo. Considerandolo soltanto in generale come una personalità spirituale, come colui che esprime in sé e nel modo più compiuto certe idee della storia universale, siamo legittimati a considerare la sua visione complessiva come autonoma solo per quanto riguarda il suo contenuto1.

7. L’anima: unitariamente L’anima sussiste solo in quanto è qualcosa di unitario; l’anima razionale, donata da Dio, attira nella propria sfera le altre facoltà naturali (quella sensibile e quella vegetativa), le fonde in sé all’insegna della propria peculiare unità. Di contro all’altra concezione (platonica), che attribuisce all’uomo diverse anime, Dante sostiene empiricamente che quando una sensazione gioiosa o dolorosa o anche soltanto una percezione accattivante fa il proprio ingresso nella coscienza, tutte le altre capacità dell’immaginazione vengono escluse2. Questo non impedisce di assumere la separatezza delle facoltà dell’anima e la loro compiuta sostanzializzazione: la memoria muove l’immaginazione al fine di rendere presente il passato3. Dove, però, è chiamata in causa la facoltà dell’anima, dove è presente una

1.  Cito le Opere minori secondo l’edizione di Fraticelli, e soltanto la Vita Nova secondo l’edizione del Witte. [Cfr. Opere minori di Dante Alighieri, a cura di P. Fraticelli, Barbera, Firenze 1961. Cfr. inoltre La Vita Nova di Dante Alighieri, a cura di C. Witte, Brockhaus, Leipzig 1876]. 2.  Purg. IV, 1. [Purg. IV, 1-4 (I, p. 347): «Quando, per dilettanze o ver per doglie / che alcuna virtù nostra comprenda, / l’anima bene ad essa si raccoglie, / par ch’a nulla potenza più intenda»]. 3.  V. N. 16. [V. N. XVI, 2 (II.1, p. 99): «quando la mia memoria movesse la fantasia ad imaginare quale Amore mi facea»].

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forte impressione sensoriale, gli altri sensi sembrano spenti4, e così l’immaginazione può prendere il sopravvento su di noi in maniera così totale che non ci accorgiamo nemmeno di uno squillo di tromba5; in questo caso l’anima non è più completamente se stessa, la coscienza («un’alma sola, / che vive e sente e sé in sé rigira»6) l’abbandona; l’opposto si ha quando l’anima è intera7. Ecco perché per Dante, per il quale l’unitarietà della personalità assume così grande valore, l’intero8 acquista anche un significato morale; ciò che è fedele a se stesso, non viene corrotto da nient’altro se non da ciò che si trova nella propria natura: «Mardocheo, / che fu al dire ed al far così ’ntero»9. Ma chi non possiede la capacità di questa concentrazione, colui nel quale rampollano pensieri sempre diversi, l’uno dopo l’altro, non conseguirà alcuno scopo, perché l’energia dell’uno annullerà quella dell’altro10. E la meta più alta – per il singolo, e così pure per la collettività – è conseguire l’unità; infatti dobbiamo sforzarci di assomigliare a Dio, e Dio è perfettamente unitario11.

4.  Purg. XXXII, 1 [Purg. XXXII, 1-3 (I, p. 598): «Tant’eran li occhi miei fissi e attenti / a disbramarsi la decenne sete, / che gli altri sensi m’eran tutti spenti»]. 5.  Purg. XVII, 13. [Purg. XVII, 13-16 (I, p. 459): «O imaginativa che ne rube / tal volta sì di fuor, ch’uom non s’accorge / perché dintorno suonin mille tube, / chi move te, se ’l senso non ti porge?»]. 6.  Purg. XXV, 74. [Purg. XXV, 74-75 (I, p. 536)]. 7.  [In italiano nel testo]. 8.  [In italiano nel testo]. 9.  Purg. XVII, 29. [Purg. XVII, 29-30 (I, p. 459)]. 10.  Purg. V, 16. [Purg. V, 16-18 (I, pp. 355-356): «ché sempre l’uomo in cui pensier rampolla / sovra pensier, da sé dilunga il segno, / perché la foga l’un dell’altro insolla»]. 11.  Mon. I, 10. [Mon. I, 10, 5 (II.2, p. 563): «Le cose non sopportano di essere disposte male; ora la pluralità dei principati è un male; quindi il principe deve essere uno solo». Cfr. Aristot. Metaph., XII, 10, 1076 a 3-5].

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8. Memoria Questa concentrazione, tuttavia, non è necessario che sia totalmente interna, può riguardare bensì, come già accennato, anche un oggetto esterno; così l’anima è intera12 quando risuona una musica, perché allora gli spiriti vitali cessano quasi completamente la propria attività e «la virtù di tutti quasi corre allo spirito sensibile che riceve lo suono»13; così anche un desiderio può essere tanto passionale da renderci quasi incapaci di parlare d’altro14. Il temperamento passionale e intenso di Dante doveva essere particolarmente incline a un simile fervore; solo che la frequenza e l’universalità con cui parla del blocco della rappresentazione quando ci si eleva verso l’unità mostra tuttavia come lo spirito generale dell’epoca potesse benissimo esservi incline, e come le estasi del misticismo potessero esserne state non meno causa che conseguenza. Dante ha anche osservato, e lo esprime in termini del tutto universali, che quando c’immergiamo in una visione al massimo grado di intimità non possiamo più ricordarla in seguito15; ha osservato anche che il dolore associato a un pensiero può essere tanto grande che il pensiero stesso scompare dalla coscienza16, e che la violenza di due idee simultanee può inibirle in modo tale da impedire a entrambe di giungere a espressione17. Il primo di

12.  [In italiano nel testo]. 13.  Co. II, 14. [In realtà si tratta di Co. II, 13, 24 (II.2, p. 141)]. 14.  Purg. XXIII, 60. [Purg. XXIII, 60 (I, p. 517): «ché mal può dir chi è pien d’altra voglia»]. 15.  Par. I, 7. [Par. I, 7-9 (I, pp. 623-624): «perché appressando sé al suo desire, / nostro intelletto si profonda tanto, / che dietro la memoria non può ire»]. 16.  V. N. 40. [In realtà si tratta di V. N. XXXIX, 3 (II.1, p. 149): «E molte volte avvenia che tanto dolore avea in sé alcuno pensero, ch’io dimenticava lui e là dov’io era»]. 17.  Par. IV, 16. [Par IV, 16-18 (I, p. 650): «E disse: “Io veggio ben come ti tira / uno e altro disio, sì che tua cura / se stessa lega sì che fuor non spira”»].

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questi fenomeni trova la propria ragione psicologica nel fatto che, con la più intensa dedizione a un oggetto, tutte le altre idee se ne allontanano al punto tale che non si verificano associazioni; di modo che questa idea successivamente non trova alcun supporto, il che spiega la difficoltà della sua riproduzione. In realtà quando ritiene che l’impossibilità di ricordarsi in seguito delle visioni che aveva avuto dopo essere asceso alle sfere più alte sia dovuta al fatto che lo spirito in quello stato trascende la dimensione umana e quindi, dopo esservi tornato, non raggiunge più quella condizione18, si tratta soltanto di un’espressione poetica per questo processo – benché intesa da lui stesso in maniera molto seria. Proprio lo stesso fenomeno si verifica per la medesima ragione psicologica anche quando un’idea per la sua novità spicca completamente su tutte le precedenti, cosa che pure aveva già notato19.

9. Immortalità L’immortalità dell’anima è per lui un dogma evidente che non ha bisogno di essere discusso né di essere fondato; molto brevemente dice: «Suo cimitero da questa parte [all’Inferno] hanno / con Epicuro tutt’i suoi seguaci, / che l’anima col corpo morta fanno»20. Allo stesso modo, tra gli eretici troviamo anche quel cardinale che in punto di morte aveva detto: «Se c’è 18.  A Cangrande, 28. [Epistola XIII, 28 (II.2, p. 465): «E per capire ciò è da sapere che l’intelletto umano in questa vita, per la connaturalità e affinità che ha alla sostanza intellettuale separata, quando s’eleva, s’eleva tanto, che dopo il ritorno manca la memoria per aver trasceso la facoltà umana»]. 19.  V. N. Son. XI. [Verosimilmente si tratta di V. N. XXI, 4, Son. IX, vv. 1214 (II.1, p. 110): «Quel ch’ella par quando un poco sorride, / non si po’ dicer né tenere a mente / sì è novo miracolo e gentile»]. 20.  [Inf. X, 13-16 (I, p. 89)].

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un’anima, l’ho persa con i ghibellini»21. Se l’anima è certamente un dono diretto di Dio22, dev’essere un peccato contro di lui dubitare della sua immortalità o addirittura della sua esistenza. Anzi, negare quest’immortalità è addirittura un atto di stupidità, una contraddizione: siccome molti hanno già rinunciato alla vita terrena in vista dell’Aldilà, allora l’uomo, invece della creatura più perfetta, quale è in realtà, sarebbe quella più imperfetta. Se però, aggiunge, l’elemento immortale in noi sia corporeo o incorporeo, su questo le opinioni si dividono23. Ha dovuto difendere l’immortalità con tanto maggior zelo in quanto sentiva che per lui era un’esigenza esplicita del proprio cuore scambiare la miserabile vita terrena con quella celeste24.

10. Corpo e anima Per Dante il rapporto tra corpo e anima nella sua più intima essenza, per lo meno secondo la sua intenzione cosciente, è un rapporto puramente dualistico, anche se in senso teologico-

21.  Inf. X, 13, 120. [Inf. X, 118-120 (I, p. 97): «Dissemi: “Qui con più di mille giaccio: / qua dentro è ’l secondo Federico, / e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio”»]. 22.  Purg. XXV, 71. [Purg. XXV, 70-72 (I, p. 535): «lo motor primo a lui si volge lieto / sovra tant’arte di natura, e spira / spirito novo, di vertù repleto»]. 23.  Co. II, 9. [In realtà Co. II, 8, 15 (II.2, p. 127): «La quale non potemo perfettamente vedere mentre che ’l nostro immortale col mortale è mischiato; ma vedemolo per fede perfettamente, e per ragione lo vedemo con ombra d’oscuritade, la quale incontra per mistura del mortale con l’immortale»]. 24.  Purg. XXIV, 77. [Purg. XXIV, 76-78 (I, p. 526): «“Non so” rispuos’io lui “quant’io mi viva, / ma già non fia ’l tornar mio tanto tosto, / ch’io non sia col voler prima a la riva»].

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metafisico lo spirito è la causa ultima anche della dimensione naturale25. Quando la formazione del bambino nel grembo materno è giunta a tal punto che può già muoversi e percepire a livello animale, Dio si rivolge a lui, compiaciuto di una tale opera d’arte della natura, e v’infonde un nuovo spirito, l’effettiva facoltà superiore dell’anima – mentre la parte materiale è formata solo da una materia già esistente e in punto di morte si separa assolutamente da quella26; così anche l’anima morta forma la propria natura umbratile a partire dall’aria circostante27. Nonostante questa diversità di origine, di scopo e di natura, l’anima risulta intimamente connessa al corpo, s’impadronisce di ciò che trova già formato in vista di un complesso relativamente unificato; così come nel vino il calore del sole si unisce al succo nella vite, l’anima si risolve nelle varie membra formate in vista di vari scopi, come Dio moltiplica la propria bontà nelle stelle28. Anche l’infusione dello spirito avviene soltanto quando il cervello del feto è completamente sviluppato, e dunque il corretto funzionamento dell’intelletto dipende da questo organo così 25.  A Cangrande, 21. [Epistola XIII, 21 (II.2, p. 459): «Ogni essenza, eccetto la prima, è causata […] ciò che è causato lo è dalla natura o dall’intelletto, e ciò che è causato dalla natura, lo è conseguentemente dall’intelletto, poiché la natura è opera dell’intelligenza»]. 26.  Purg. XXV, 55. [Purg. XXV, 49-55 (I, p. 534): «e, giunto lui, comincia ad operare / coagulando prima, e poi avviva / ciò che per sua matera fe’ constare. / Anima fatta la virtute attiva / qual d’una pianta, in tanto differente / che questa è in via e quella è già a riva, / tanto ovra poi, che già si move e sente». Cfr. anche Purg. XXV, 70-72 (I, p. 535)]. 27.  [Cfr. Purg. XXV, 94-96 (p. 537): «così l’aere vicin quivi si mette / in quella forma che in lui suggella / virtualmente l’alma che ristette»]. 28.  Par. II, 133. [Par. II, 133-138 (I, p. 640): «E come l’alma dentro a vostra polve / per differenti membra e conformate / a diverse potenze si risolve, / così l’intelligenza sua bontate / multiplicata per le stelle spiega, / girando sé sovra sua unitate»].

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importante; se, dalla nascita o per via di una lesione, il corpo e soprattutto il cervello è danneggiato, questo porta con sé anche una carenza mentale, stupidità e follia29. (Ciò naturalmente non gli impedisce, nella sua poesia, di far dimorare l’anima nel cuore: «Io vi dirò del cor la novitate, / come l’anima trista piange in lui»)30. Nel cervello risiede lo “spirito animale”31, ed è qui che gli spiriti sensitivi portano le loro percezioni32. Il fatto che, tuttavia, al di là di una dipendenza generale della dimensione spirituale da quella materiale, qua e là la netta differenza concettuale tra i due quasi sparisca si spiega con la natura della sua poesia, in cui la dimensione corporea è costantemente vicaria in chiave simbolica di ciò che viene inteso in senso letterale o spirituale. Perciò è fuori di dubbio che l’anima, pur essendo sostanziale33, per lui sia la forma del corpo34 e contrassegna gli spiriti degli altri regni con il termine forme35 –

29.  Co. IV, 15. [Co. IV, 15, 17 (II.2, p. 269): «può essere la mente non sana: quando per difetto d’alcuno principio da la nativitade, sì come mentecatti; quando per l’alterazione del cerebro, sì come sono frenetici»]. 30.  Canz.: Voi che intendendo [Co. II, Canzone Prima, vv. 10-11 (II.2, p. 101)]. 31.  [In italiano nel testo]. 32.  V. N. 1. [In realtà V. N. II, 5 (II.1, p. 71): «In quello punto lo spirito animale, lo quale dimora ne l’alta camera ne la quale tutti li spiriti sensitivi portano le loro percezioni»]. 33.  Co. III, 2. [Co. III, 2, 4 e 6 (II.2, p. 157): «Ciascuna forma sustanziale procede da la sua prima cagione. […] E quanto la forma è più nobile, tanto più di questa natura tiene; onde l’anima umana, che è forma nobilissima di queste che sotto lo cielo sono generate, più riceve de la natura divina che alcun’altra»]. 34.  Par. IV, 54. [Par. IV, 52-54 (I, p. 652): «Dice che l’alma alla sua stella riede, / creando quella quindi esser decisa / quando natura per forma la diede»]. 35.  Purg. IX, 58. [Purg. IX, 58 (I, p. 394): «Sordel rimase e l’altre gentil forme»].

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mentre la stessa parola in altro contesto non designa soltanto la forma meramente esterna del corpo36, bensì appunto il corpo, e in quanto è ciò in cui lo spirito si esprime acquista una forma visibile, adeguata37; il corpo terreno, in contrasto con la forma meramente umbratile, viene designato come “forma d’ossa e di polpe”38. E così si riscontrano anche varie formule espressive che quasi fanno congetturare come quell’ombra di materialismo che spesso accompagna lo spiritualismo estremo si proietti anche sul suo cammino. «Pur mo’ venìeno i tuoi pensier tra i miei / con simile atto e con simile faccia, / sì che d’intrambi un sol consiglio fei»39. «E io: “Sì come cera da suggello, / che la figura impressa non trasmuta, / segnato è or da voi lo mio cervello”»40. L’impotenza per cui la mente non riesce ad accogliere alcuna impressione viene contrassegnata come chiusura della stessa41; evidentemente Dante pensa al processo spirituale in maniera del tutto analoga a quello fisico; non si tratta di un materialismo, che sarebbe un dogma filosofico assunto consapevolmente, in aperto contrasto con lo spiritualismo, bensì qualcosa di più ingenuo, che una teoria della conoscenza imperfetta produce in ogni epoca e presso tutti i popoli. – Nei sogni che facciamo verso il mattino, però, lo spi36.  Inf. XXV, 101. [Inf. XXV, 100-102 (I, p. 231): «ché due nature mai a fronte a fronte / non trasmutò sì ch’amendue le forme / a cambiar lor materia fosser pronte»]. 37.  Purg. XXV, 99. [Purg. XXV, 97-99 (I, p. 537): «e simigliante poi alla fiammella / che segue il foco là ’vunque si muta, / segue lo spirto sua forma novella»]. 38.  Inf. XXVII, 73. [Inf. XXVII, 73-75 (I, p. 249): «Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe / che la madre mi diè, l’opere mie / non furon leonine, ma di volpe»]. 39.  Inf. XXIII, 28 [Inf. XXIII, 28-30 (I, p. 209)]. 40.  Purg. XXXIII, 79 [Purg. XXXIII, 79-81 (I, p. 615)]. 41.  Inf. VI, 1. [Inf. VI, 1-2 (I, p. 55): «Al tornar de la mente, che si chiuse / dinanzi a la pietà de’ due cognati»].

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rito dovrebbe staccarsi maggiormente dalla sua base sensibile e produrre così immagini quasi divine, veridiche42.

11. Luce e senso della vista Luce e senso della vista hanno un effetto l’una sull’altro come un corpo su un altro43; la facoltà della vista, lo spirito visivo44, corre incontro quando la luce lo penetra45, chiaramente a motivo del fatto che l’occhio stesso per lui è “solare”; egli stesso lo chiama luce46, e quando invece la luce dev’essere mediatrice tra oggetto e soggetto47, si tratta di una contraddizione solo a parole, ma non se si considera la sua concezione nella propria interezza. Per inciso, nella Vita Nuova48 fa un uso assai più ampio degli spiriti rispetto alle altre opere. Non è inverosimile che ciò sia connesso al carattere psicologico del libro, con il 42.  Purg. IX, 13. Inf. XXVI, 7. [Purg. IX, 13-18 (I, p. 391): «Ne l’ora che comincia i tristi lai / la rondinella presso a la mattina, / e forse a memoria de’ suoi primi guai, / e che la mente nostra, peregrina / più da la carne e men dai pensier presa, / a le sue vision quasi è divina»; Inf. XXVI, 7 (I, p. 235): «Ma se presso al mattin del ver si sogna»]. 43.  Par. XXX, 46. [Par. XXX, 46-49 (I, p. 905): «Come subito lampo che discetti / li spiriti visivi, sì che priva / da l’atto l’occhio di più forti obietti, / così mi circonfulse luce viva»]. 44.  [In italiano nel testo]. 45.  Par. XXVI, 70. [Par. XXVI, 70-72 (I, p. 864): «E come a lume acuto si dissonna / per lo spirto visivo, che ricorre / a lo splendor che va di gonna in gonna»]. 46.  Par. XXXI, 30. [Par. XXXI, 28-30 (I, p. 913): «Oh trina luce, che in unica stella / scintillando a lor vista sì li appaga, / guarda qua giù a la nostra procella!»]. 47.  Purg. VI, 45. [Purg. VI, 45 (I, p. 365): «che lume fia tra il vero e lo intelletto»]. 48.  [Così in italiano nel testo].

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sentimento lirico giovanile che si sforza di personificare ogni cosa: «là per me viveva l’albero, la rosa»»49; così come, all’interno dello spirito popolare, sono tratti assai correlati quelli che costituiscono la fiaba e gli spiriti50 del genere, allo stesso modo in un spirito individuale quella giovinezza poetica, che ha tanto in comune con le epoche in cui si componevano fiabe e con i tratti dello spirito popolare, può risultare particolarmente incline a tali personificazioni. Quando Beatrice si avvicina, “uno spirito d’amore distruggendo tutti gli altri spiriti sensitivi”51 spinge fuori quegli “spiriti del viso”52 e si colloca al loro posto53. Lo stesso processo viene descritto nel settimo e nel quattordicesimo sonetto; come sia possibile per Amore uccidere tutti gli spiriti, lasciando in vita soltanto quelli visivi, ma come anche questi vengano espulsi dai loro organi (strumenti)54, Dante confessa di non essere in grado di spiegarlo a chi non sia lui pure innamorato; chiunque sia, però, non ha bisogno di alcuna spiegazione. Gli “spiriti d’amore”55 emanano anche dagli occhi di Beatrice e penetrano nel cuore di chi la guarda56. È semplice notare come persino l’espressione costruita in maniera poetica e figurata abbia un fondamento da

49.  F. Schiller, Die Ideale, v. 29, in Id., Gesammelte Werke, a cura di R. Netolitzky, Mohn, Gütersloh 1955, vol. II, p. 856. 50.  [In italiano nel testo]. 51.  [In italiano nel testo]. 52.  [In italiano nel testo]. 53.  V. N. 11. [V. N. XI, 2 (II.1, p. 86): «E quando ella fosse alquanto propinqua al salutare, uno spirito d’amore, distruggendo tutti li altri spiriti sensitivi, pingea fuori li deboletti spiriti del viso»]. 54.  [“Strumenti” in italiano nel testo]. 55.  [In italiano nel testo]. 56.  V. N. Canz. I, 4. [In realtà V. N. XIX, 12, Canzone I, vv. 51-52 (II.1, p. 105): «De li occhi suoi, come ch’ella li mova, / escono spirti d’amore infiammati, / che feron li occhi a qual che allor la guati»].

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intendere seriamente. Quello “strumento” in un altro passo è chiamato «nervo, per lo quale corre lo spirito visivo»57. D’altra parte, quando in una canzone – l’abbiamo già sottolineato – afferma: «Io vi dirò del cor la novitate, / come l’anima trista piange in lui / e come un spirto contr’a lei favella»58 – Dante è perfettamente consapevole del fatto che tanto “anima” quanto “spirito” possono significare solo pensieri, tuttavia “anima” significa ciò che riempie completamente l’anima, in relazione a cui tutto il contenuto dell’anima si trova in perfetto accordo, e che quindi in un certo senso la rappresenta: «siccome chiamare solemo la cittade quelli che la tengono e non quelli che la combattono; avvegnachè l’uno e l’altro sia cittadino»59. In passi di questo genere, “spirito” è un pensiero singolare.

12. Uomo e Dio D’altra parte, nonostante tutta la mistica e la trascendenza, nell’idea di Dante secondo cui tutti i nostri pensieri sono effigiati in Dio, come nel suo eterno specchio, si trova un tratto di carattere sensibile. Una determinazione più precisa di questo rapporto, infatti, andrebbe in contro a delle oscillazioni; in alcuni luoghi sembra che i pensieri siano anteriori in Dio rispetto a noi, o che perlomeno abbiano la propria origine in lui – così come il nostro spirito in generale è solo un singo57.  Co. II, 10. [In realtà Co. II, 9, 5 (II.2, p. 128): «E questo è però che ’l nervo per lo quale corre lo spirito visivo». In italiano nel testo]. 58.  [Co. II, Canz. I, 10-12 (II.2, p. 101). In italiano nel testo]. 59.  Co. II, 7. [In realtà Co. II, 6, 8 (II.2, p. 121): «Ma però che ancora l’ultima sentenza de la mente, cioè lo consentimento, si tenea per questo pensiero che la memoria aiutava, chiamo lui anima e l’altro spirito; sì come chiamare solemo la cittade quelli che la tengono, e non coloro che la combattono, avvegna che l’uno e l’altro sia cittadino». In italiano nel testo].

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lo raggio del suo60; in altri passi, specialmente dove egli ha in mente il libero arbitrio, i pensieri dovrebbero sorgere nel nostro spirito e soltanto riflettersi nel suo occhio onnicomprensivo61. S’intenda questo come si vuole, in ogni caso i nostri pensieri dovrebbero trovarsi nello spirito divino in maniera tale che gli spiriti del Paradiso, che vivono nella sua visione, leggano in lui i pensieri di tutti gli altri esseri. Anche se lo si assume in chiave ancora altamente simbolica, la possibilità anche soltanto di adoperare una tale immagine mostra quanto poco si ritraesse spaventato di fronte a una modalità di pensiero di carattere materialistico; infatti è troppo poeta, è troppo un italiano alle soglie del Rinascimento, troppo lontano da quell’astrazione in cui un pensiero simile poteva magari balenare in mente a un Malebranche, per non farsi un’idea del tutto concreta e sensuale dell’essere contenuto in Dio, del rimirare in lui le idee; se gli fosse risultato impossibile, l’intera espressione sarebbe mancanza di gusto, anzi addirittura un’assurdità. Proprio in questo modo sensibile di concepire un evento interamente spirituale si trova in realtà ciò che è autenticamente mistico; infatti, quando in generale chiamiamo mistica una concezione, essa contiene un nesso tra le cose che non può essere messo in rapporto ad altro a causa di differenze generali; ciò che caratterizza la mistica, ossia il fatto che risulti del tutto incomprensibile tanto ai sapienti quanto agli stolti, deriva proprio dalla contraddizione stessa che la costituisce.

60.  Par. XIX, 52, XI, 19. [Par. XIX, 52-54 (I, p. 796): «Dunque nostra veduta, che conviene / essere alcun de’ raggi de la mente / di che tutte le cose son ripiene». Par. XI, 19-21 (I, p. 715): «“Così com’io del suo raggio resplendo, / sì, riguardando nella luce eterna, / li tuoi pensieri onde cagioni apprendo”»]. 61.  Par. XVII, 37, XV, 61. [Par. XVII, 37-39 (I, p. 778): «La contingenza, che fuor del quaderno / de la vostra matera non si stende, / tutta è dipinta nel cospetto eterno». Par. XV, 61-63 (I, p. 758): «Tu credi ’l vero, ché in minori e’ grandi / di questa vita miran ne lo speglio / in che, prima che pensi, il pensier pandi»].

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In un passo, relativamente a quell’essere contenuto in Dio che consente di fare luce sul dualismo tra libero arbitrio e qualsiasi concetto coerente di Dio – uno degli aspetti più significativi della natura dualistica di Dante – il poeta adopera questa interessante similitudine: «Tu credi che a me tuo pensier mei / da quel ch’è primo, così come raia / da l’un, se si conosce, il cinque e ’l sei»62; e in un altro passo si dice che chi vede Dio in lui vede tutte le cose come gli spiriti mortali vedono che in un triangolo non possono esserci due angoli ottusi63. Ne segue che i pensieri umani (e tutte le cose in generale) in realtà sarebbero in Dio proprio come i diversi “modi”64 nell’unità della sostanza spinoziana, ossia procedendo logicamente da essa piuttosto che essere reali in essa in quanto differenti; appare emblematico appunto il caso del paragone matematico. Qualcosa di mistico, ma anche di formidabile, si trova in questa idea secondo la quale i nostri pensieri, nell’istante in cui li pensiamo, non solo nascono anche in Dio, bensì esistono in Lui in quell’eternità (atemporalità) che è propria delle verità matematiche. Le sue tendenze spiritualistiche in generale non gl’impediscono di riconoscere la modalità di conoscenza sensibile e l’esperienza quali punti di partenza necessari per tutto il sapere umano; questa conoscenza gli serve però proprio per sottolineare la nullità di tutto il sapere terreno di fronte a quello trascendente. La nostra conoscenza prende avvio dai sensi65, la nostra capacità d’intendere deve ricevere dalla percezione sensibile ciò di cui deve appropriarsi in chiave spirituale – ana62.  Par. XV, 55. [Par. XV, 55-57 (I, p. 758)]. 63.  Par. XVII, 13. [Par. XVII, 13-15 (I, p. 776): «O cara piota mia, che sì t’insusi / che, come veggon le terrene menti / non capere in triangol due ottusi»]. 64.  [In italiano nel testo]. 65.  Co. II, 5. [In realtà Co. II, 4, 17 (II.2, p. 115): «Poi che non avendo di loro alcuno senso (dal quale comincia la nostra conoscenza)»].

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logamente a come, secondo lui, ogni amore all’inizio è naturale e quello spirituale fa il suo ingresso in esso soltanto per elevarlo alla sfera di ciò che è veramente umano, come vedremo in seguito. Proprio il fatto che solo la percezione sensibile può garantire la sicurezza, lo induce a chiamare l’uomo ancora dotato di corpo, in contrapposizione alle nature fatte di ombra, uomo certo66. L’immaginazione stessa può ottenere il proprio contenuto solo attraverso la sensibilità, a meno di un miracolo trascendente67. Questa, naturalmente, è una debolezza dell’indole umana, e solo per causa sua la rivelazione divina procede in maniera antropomorfica, per esempio aggiungendo a Dio mani e piedi68; solo attraverso segni (sensibili) possiamo riconoscere la volontà divina, poiché nemmeno la volontà dei nostri simili ci è nota direttamente, bensì soltanto attraverso tali segni69. La vita terrena è in generale un esserci sensibilmente70, cosa che chiaramente dev’esser considerata in modo oggettivo e bisogna assumere che significhi l’esistenza percepibile a livello sensibile, tangibile; d’altra parte, la vita è chiamata

66.  Inf. I, 66. [Inf. I, 65-66 (I, p. 8): «“Miserere di me” gridai a lui, / “qual che tu sii, od ombra od omo certo.”»]. 67.  Purg. XVII, 13. [Purg. XVII, 13-16 (I, p. 459): «O imaginativa che ne rube / tal volta sì di fuor, ch’uom non s’accorge / perché dintorno suonin mille tube, / chi move te, se ’l senso non ti porge?»]. 68.  Par. IV, 40. [Par. IV, 40-45 (I, p. 651): «Così parlar conviensi al vostro ingegno, / però che solo da sensato apprende / ciò che fa poscia d’intelletto degno. / Per questo la Scrittura condescende / a vostra facultate, e piedi e mano / attribuisce a Dio, ed altro intende»]. 69.  Mon. II, 2. [Mon. II, 2, 8 (II.2, p. 619): «Non c’è da meravigliarsi se la volontà divina debba conoscersi per mezzo di segni esterni, dal momento che anche la volontà umana non può essere percepita, all’infuori del soggetto volente, se non per mezzo di segni esteriori»]. 70.  Inf. II, 15. [Inf. II, 13-15 (I, pp. 15-16): «Tu dici che di Silvio il parente, / corruttibile ancora, ad immortale / secolo andò, e fu sensibilmente». “Sensibilmente” in italiano nel testo].

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«vigilia de’ vostri sensi»71, dove evidentemente i sensi devono essere intesi come caratteristici della vita in senso soggettivo. Se consideriamo insieme le due cose, si potrebbe forse definire l’esistenza terrena in senso dantesco come quella in cui percepiamo e siamo percepiti con la totalità dei sensi. Ecco perché nelle nostre menti, che sono imprigionate dagli organi del corpo, le verità ultraterrene non penetrano in nessun altro modo se non in quanto la luminosità stessa viene percepita comunque anche attraverso le palpebre chiuse72 e, in generale, si dice che “nostro intelletto non puote salire”73 a quelle cose a cui non ha accesso la facoltà sensibile dell’immaginazione come, ad esempio, le sostanze prive di materia, e così anche gli angeli74; come vedremo, Dante non rimane sempre coerente sul piano espressivo, e nemmeno nella sostanza: in un passo dice che, per quel poco che si possano conoscere le cose soprannaturali attraverso la ragione, ciò tuttavia procura un piacere maggiore delle molte cose certe che il senso ci insegna75. Presso le creature angeliche, che sono pura intelli71.  Inf. XXVI, 114. [Inf. XXVI, 114-117 (I, p. 242): «a questa tanto picciola vigilia / de’ nostri sensi ch’è del rimanente / non vogliate negar l’esperienza, / di retro al sol, del mondo sanza gente». “Vigilia de’ vostri sensi” in italiano nel testo]. 72.  Co. II, 5. [In realtà Co. II, 4, 17 (II.2, p. 115): «sì come afferma chi ha li occhi chiusi l’aere essere luminoso, per un poco di splendore, o vero raggio, come passa per le pupille del vispistrello: non altrimenti sono chiusi li nostri occhi intellettuali, mentre che l’anima è legata e incarcerata per li organi del nostro corpo»]. 73.  [In italiano nel testo]. 74.  Co. III, 4. [Co. III, 4, 9 (II.2, p. 165): «la fantasia non puote a certe cose salire – però che la fantasia nol puote aiutare, ché non ha lo di che – sì come sono le sustanze partite da materia; de le quali senza alcuna considerazione di quella avere potemo, intendere non le potemo né comprendere perfettamente»]. 75.  Co. II, 3. [Co. II, 3, 2 (II.2, p. 108): «E avvegna che quelle cose, per rispetto de la veritade, assai poco sapere si possano, quel cotanto che l’uma-

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genza, la facoltà sensibile dell’udito è completamente sostituita da un “intendere per intelletto”76. Tuttavia Dante non avrebbe potuto rimanere completamente fedele né a quell’idea né a quest’ultima: in un altro passo la beatitudine celeste è posta nel sentiendo (più avanti nel “vedere”!) veritatis principium77. La “ragione”78, che Dio c’ispira, è «dinudata da materia»79 e quindi, anche in base al disegno dantesco, già qui sulla terra, non ha bisogno di alcuna mediazione sensibile per compiere le proprie operazioni. Sintomaticamente, qui per la prima volta notiamo l’irrealizzabilità interiore di quel dualismo che costituisce il punto di partenza e così pure la meta del pensiero e della volontà di Dante, quella separazione assoluta nella vita della nostra anima tra il trascendente e ciò che è terreno e sensibile; poiché infatti ciò che è sommo e ciò che è infimo si trovano nel medesimo in un rapporto eterno, più stretto e inseparabile dell’intreccio di trama e ordito, non è possibile separarli in alcun modo. Se Dante divide tutto ciò che esiste tra un regno di natura e un regno della grazia divina, quello corrispondente alla nostra facoltà sensibile, questo corrispondente alla nostra ragione, allora è chiaro che la nostra vita reale deve oscillare ambiguamente a metà tra i due, poiché la differenza generale tra i due si fa beffe di tutti i tentativi di unificazione. Preso com’è nel suo dogma non si ren-

na ragione ne vede ha più dilettazione che ’l molto e ’l certo de le cose de le quali si giudica secondo lo senso»]. 76.  [In italiano nel testo]. 77.  A Cangrande, 33. [Epistola XIII, 33 (II.2, p. 469): «e che quella vera beatitudine consiste nel conoscere il principio di verità». “Conoscere” traduce qui il latino in sentiendo]. 78.  [In italiano nel testo]. 79.  Co. III, 2. [Co. III, 2, 14 (II.2, p. 159): «però che l’anima è tanto in quella sovrana potenza nobilitata e dinudata da materia, che la luce divina, come in angelo, raggia in quella»].

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de nemmeno conto della contraddizione tra il carattere divino della nostra “ragione”80 e la necessità di riempirla di contenuti sensibili; ne è ben consapevole, anche solo a motivo del fatto che l’origine divina di quella parte dell’anima è per lui la cosa più importante e la prima cosa che deve essere tenuta ferma in ogni circostanza, appunto come prova del dualismo metafisico dell’essere, attestato sul piano psicologico. La separazione e la classificazione delle facoltà si precisa sempre più: l’intelletto superiore viene determinato dalle ragioni, l’inferiore dal vultus experientiae81. Certo che a lui – e a lui in maniera particolare! – è rimasta nascosta la verità che soltanto Kant doveva esprimere, ossia che anche le funzioni più alte della nostra mente servono unicamente a rendere possibile l’esperienza. Siccome appartengono certamente all’essenza del suo sistema, quelle differenze fondamentali nelle anime non possono essere annullate da quella sorta di mitigazione che viene offerta in un passo preciso, secondo cui diversi gradi all’interno dell’essente dovrebbero essere riconosciuti solo in maniera del tutto generale, e secondo cui nell’ordine spirituale delle cose c’è tanto poco un salto così come non c’è nell’ordine sensibile: sarebbe piuttosto un passaggio graduale dalla natura angelica attraverso la natura umana alla natura animale82. Nondimeno, per le sue caratteristiche, questo passo è degno di nota: una concezione formidabile lo porta a superare i propri dogmi e i loro limiti.

80.  [In italiano nel testo]. 81.  Mon. I, 18. [In realtà Mon. I, 16, 5 (II.2, p. 607): «Non cerchi di risanare l’intelletto superiore con verità irrefragabili, né quello inferiore con i dati dell’esperienza». “Vultus experientiae” in latino nel testo]. 82.  Co. III, 7. [In realtà Co. III, 7, 6 (II.2, p. 176): «e tra l’angelica natura, che è cosa intellettuale, e l’anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l’uno a l’altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l’anima umana e l’anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuni non sia»].

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La limitatezza umana comporta anche che il sapere e la scienza si realizzino in noi solo attraverso la memoria83 che egli, rispetto a tutte le altre facoltà mentali, dice “che non erra”84, il che implica anche la limitatezza della nostra mente. Siccome noi percepiamo solo a livello sensibile e l’impressione dei sensi in quanto tale termina presto, è necessario tenere a mente le idee per poter riunire quelle affini in vista della conoscenza; gli angeli, che vedono Dio eternamente e in lui hanno davanti agli occhi la somma dell’esistente senza tempo e senza mutamento, non hanno bisogno di memoria85. La “Prudenza”86, al contrario, deve avere tre occhi, perché per essa l’essenziale è ponderare il passato, il presente e il futuro87. Eppure era già troppo vicino alla soglia di un tempo che avrebbe riportato i propri ideali dal cielo in terra per non sentire che questa esistenza sensibile, con tutte le sue imperfezioni e debolezze, possedeva tuttavia parecchie qualità preziose. Lo si può evincere non solo dal suo fervore nell’auspicare la realizzazione delle cose terrene per le quali ha speso la propria vita, e non soltanto dalla dottrina secondo cui, dopo la risurrezione della carne, «la nostra persona più grata fia per esser tutta quanta»88; ma, dopo che uno spirito del Paradiso gli ha conte-

83.  Par. V, 41. [Par. V, 41-42 (I, p. 659): «ch’è non fa scïenza, / sanza lo ritenere, avere inteso»]. 84.  Inf. II, 6. [Inf. II, 6 (I, p. 15): «che ritrarrà la mente che non erra»]. 85.  Par. XXIX, 76. [Par. XXIX, 76- 81 (I, pp. 897-898): «Queste sustanze, poi che fur gioconde / de la faccia di Dio, non volser viso / da essa, da cui nulla si nasconde: / però non hanno vedere interciso / da novo obietto, e però non bisogna / remorar per concetto diviso»]. 86.  [In italiano nel testo]. 87.  Purg. XXIX, 132. [Purg. XXIX, 132 (I, p. 576): «d’una di lor ch’avea tre occhi in testa»]. 88.  [Cfr. Par. XIV, 43-45 (I, p. 747): «Come la carne gloriosa e santa / fia rivestita, la nostra persona / più grata fia per esser tutta quanta»].

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stato questa dottrina, continua in questo modo: «Tanto mi parver subiti e accorti / e l’uno e l’altro coro a dicer “Amme!”, / che ben mostrar disio de’ corpi morti; / forse non pur per lor, ma per le mamme, / per li padri e per li altri che fuor cari / anzi che fosser sempiterne fiamme»89. Anche la scena bella e toccante di Stazio e Virgilio rientra in questo novero; quando quello scopre di essere di fronte a Virgilio, si china per baciargli i piedi, ma Virgilio lo ferma: «Siamo entrambi solo ombre»90. E lui gli risponde: «Or puoi la quantitate / comprender dell’amor ch’a te mi scalda, / quand’io dismento nostra vanitate, / trattando l’ombre come cosa salda»91. In questi passaggi risuona con un flebile tono elegiaco il fatto che anche a chi è chiamato alla beatitudine manca ancora qualcosa che soltanto l’esistenza fisica può offrirci. E, per quanto la carne umana92 spesso possa anche guastarsi, la venerazione dei genitori, uno dei comandamenti più sacri, si basa tuttavia esclusivamente sul fatto che la nostra carne viene da loro93.

13. Parlare e pensare Tra le imperfezioni della vita, avverte in modo particolarmente doloroso l’incapacità del linguaggio di esprimere adeguatamente pensieri e sentimenti. In un passo dice: «E s’io avessi in 89.  Par. XIV, 61. [Par. XIV, 61-66 (I, pp. 748-749)]. 90.  [Purg. XXI, 130-132 (I, p. 502): «Già s’inchinava ad abbracciar li piedi / al mio dottor, ma elli disse: “Frate, / non far, ché tu se’ ombra ed ombra vedi”»]. 91.  Purg. XXI, 130. [Purg. XXI, 133-136 (I, p. 502)]. 92.  [In italiano nel testo]. 93.  Professione di Fede, 401. [Cfr. Professione di fede, in Dante Alighieri, Opere minori, a cura di P. Fraticelli, Barbera Bianchi, Firenze 1856, vol. I, p. 401: «Sopra ogni cosa qui tra noi mondana, / Che a Padre e a Madre noi rendiamo onore / Perché da loro abbiam la carne umana»].

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dir tanta divizia quanta ad imaginar, ecc.»94. La nostra mente ha maggior capacità di pensare che di parlare; e più capacità di parlare che di esprimersi chiaramente95; ci sono molte cose che vediamo attraverso il nostro intelletto, ma per le quali non ci sono affatto segni linguistici96. Certo, il linguaggio deve condividere la generale imperfezione dell’uomo, perché serve a farci sperimentare attraverso di esso ciò che ancora non conosciamo97 e la condizione d’ignoranza è caratteristica dell’essere terreno rispetto agli esseri celesti, che posseggono una conoscenza assoluta nella contemplazione di Dio; perciò gli angeli non hanno un linguaggio, perché non hanno bisogno di comunicare nulla gli uni agli altri98. L’importanza incomparabile del linguaggio per noi, tuttavia, non gli sfugge affatto; non solo, in base alla sua origine, viene direttamente da Dio99, ma è anche uno strumento necessario per le nostre idee, tanto quanto il cavallo lo è per il soldato – e così come il miglior soldato ha bisogno del miglior cavallo, così la migliore idea ha bisogno del

94.  Par. XXXI, 136. [Par. XXXI, 136-137 (I, p. 919)]. 95.  Co. III, 4. [Co. III, 4, 3 (II.2, p. 163): «però che la lingua mia non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona»]. 96.  A Cangrande, 29. [Epistola XIII, 29 (II.2, p. 467): «Infatti vediamo mediante l’intelletto molte cose cui mancano i segni linguistici»]. 97.  Co. I, 2. [Co. I, 2, 7 (II.2, p. 70): «le parole sono fatte per mostrare quello che non si sa»]. 98.  V. E. I, 2. [V. E. I, 2, 3 (II.1, pp. 381-383): «È evidente pertanto che gli angeli non hanno affatto bisogno di quel segno che è il linguaggio, perché possiedono per manifestare i loro gloriosi pensieri una prontissima e ineffabile capacità intellettuale: grazie a essa si rivelano totalmente l’un l’altro di per se stessi, o forse si conoscono in quello Specchio fulgentissimo in cui sono tutti riprodotti nella loro somma bellezza e in cui tutti ardentemente si specchiano»]. 99.  V. E. I, 5. [V. E. I, 5, 2 (II.1, p. 395): «volle tuttavia anche che l’uomo parlasse, perché nell’esplicarsi di un dono così grande fosse glorificato Colui che gratuitamente l’aveva donato»].

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linguaggio più perfetto100; il linguaggio riesce a conseguire la cosa più potente che si possa immaginare in generale, vale a dire smuovere il cuore dell’uomo101; e Dante vuole che persino la saga di Orfeo venga intesa soltanto allegoricamente nel senso che il saggio con la sua voce fosse in grado di domare e dirigere cuori rozzi e crudeli che somigliavano ad animali e pietre102. Quindi il suo pessimismo sul linguaggio non è totale; Dante perlomeno riconosce che le parole si dirigono verso i loro oggetti, che in esse si nasconde una saggezza ancestrale103, anzi la potenza della dolcezza della semplice parola “Amore” è così grande che non ci si può immaginare se non che ciò che Amore compie sia dolce104. In un punto, però, rimarca una differenza tra le cose e la loro espressione linguistica: che da premesse false si può trarre una conclusione corretta; poiché il vero in sé non può mai seguire dal falso, allora sono

100.  V. E. II, 1. [V. E. II, 1, 8 (II.1, p. 465): «La lingua poi è strumento necessario per il nostro concetto proprio come il cavallo lo è per il cavaliere; ora, i migliori cavalli si convengono ai migliori cavalieri, e perciò, come si è detto, ai migliori concetti si converrà la miglior lingua»]. 101.  V. E. I, 17. [V. E. I, 17 (II.1, p. 453): «Qual maggiore potere infatti della possibilità di cambiare il cuore umano e di far volere chi non vuole e disvolere chi vuole, come ha fatto e fa questo volgare?»]. 102.  Co. II, 1. [Co. II, 1, 3 (II.2, p. 104): «sì come quando dice Ovidio che Orfeo facea con la cetera mansuete le fiere, e li arbori e le pietre a sé muovere; che vuol dire che lo savio uomo con lo strumento de la sua voce faria mansuescere e umiliare li crudeli cuori, e faria muovere a la sua volontade coloro che non hanno vita di scienza e d’arte; e coloro che non hanno vita ragionevole alcuna sono quasi come pietre»]. 103.  V. E. II, 3. [V. E. II, 3, 9 (II.1, p. 477): «Una prova delle nostre affermazioni è evidente davanti ai nostri occhi: solo nelle canzoni si trova infatti tutto ciò che dalla vetta della mente dei poeti illustri è fluito alle loro labbra»]. 104.  V. N. 13. [V. N. XIII, 4 (II.1, p. 92): «lo nome d’Amore è sì dolce a udire, che impossibile mi pare che la sua propria operazione sia ne le più alte cose altro che dolce, con ciò sia cosa che li nomi seguitino le nominate cose»].

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soltanto i segni del vero che possono emergere dai segni del falso105. Era naturale che un poeta, dovendo inventare la propria lingua configurandola in vista di scopi del tutto nuovi, e quindi dovendo per così dire plasmare una nuova lingua, avvertisse nella maniera più profonda tanto la forza quanto i limiti dell’espressione linguistica; per Dante il linguaggio assume un valore tale da fargli ritenere che un’opera poetica tradotta sarebbe del tutto priva di bellezza e di armonia106; era poi tipico della natura di Dante rendersene perfettamente conto. A tal proposito si deve evidenziare come le frasi di encomio verso il linguaggio si trovino nelle opere precedenti, mentre quelle in cui ce ne si lamenta si trovino nella Commedia. Nel poema arriva anche ad ascrivere alla prosa una maggiore espressività rispetto alla poesia107, mentre nei testi pregressi cercava nei poeti i modelli che gli scrittori di prosa avrebbero dovuto seguire e rifiutava espressamente il contrario108. Ma Dante concepisce anche l’essenza della lingua come un ramo di quel

105.  Mon. II, 6. [In realtà Mon. II, 5, 24 (II.2, p. 649): «Infatti, se da una premessa falsa si giunge in qualche modo ad una conclusione vera, ciò avviene accidentalmente, nel senso che quella verità è introdotta dalle parole del sillogismo, poiché il vero di per sé non deriva mai dal falso, e tuttavia le parole che esprimono il vero possono talvolta derivare da parole che esprimono il falso»]. 106.  Co. I, 7. [Co. I, 7, 14 (II.2, p. 83): «E però sappia ciascuno che nulla cosa per legame musaico armonizzata si può de la sua loquela in altra trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza e armonia»]. 107.  Inf. XXVIII, 1. [Inf. XXVIII, 1-3 (I, p. 253): «Chi porìa mai pur con parole sciolte / dicer del sangue e delle piaghe a pieno / ch’i’ ora vidi, per narrar più volte?»]. 108.  V. E. II, 1. [V. E. II, 1, 1 (II.1, p. 461): «Di solito sono però sono i prosatori a desumere tale volgare dai rimatori e, a quanto pare, la produzione in versi resta come modello agli scrittori in prosa, e non viceversa: fatto, questo, che sembra conferirle una certa superiorità»].

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dualismo che per lui costituisce il mondo: siccome gli esseri umani sono infinitamente diversi gli uni dagli altri, hanno bisogno di un mezzo di comunicazione; tuttavia, attraverso il semplice movimento, come gli animali, non riescono a intendersi a sufficienza, né tantomeno riescono a farlo in modo puramente spirituale come gli angeli; dunque quel mezzo di comunicazione dev’essere sia “razionale” che “sensuale”109, ma questo è la lingua, che come suono è sensibile, ma in quanto dotata di significato è spirituale110. Quell’incapacità umana di raggiungere con la lingua un oggetto immane si estende però anche alla pura capacità di pensare: «E quel che mi convien ritrar testeso / non portò voce mai, né scrisse incostro, / né fu per fantasia già mai compreso»111. Dante chiede alle Muse di aiutarlo, poiché dovrebbe cantare cose che sarebbe difficile anche solo pensare tra sé e sé112; così come il suo linguaggio non è in grado di esprimere i suoi pensieri, allo stesso modo spesso sono questi stessi a risultare incapaci di ragionare in modo chiaro sulla sua donna113; rientra in questo novero anche l’incapacità da parte del nostro intelletto, cui già si accennava, di pervenire a cose per raggiungere le quali la fantasia non può prestarci aiuto. La fantasia è 109.  [“Razionale” e “sensuale” in italiano nel testo]. 110.  V. E. I, 3. [V. E. I, 3, 2 (II.1, p. 389): «Se dunque tale segno fosse solo razionale, non potrebbe passare da una ragione ad un’altra; se invece fosse soltanto sensibile non potrebbe ricevere concetti da una ragione né recarli ad un’altra»]. 111.  Par. XIX, 7. [Par. XIX, 7-9 (I, p. 794)]. 112.  Purg. XXIX, 41. [Purg. XXIX, 40-42 (I, p. 570): «Or convien che Elicona per me versi, / e Urania m’aiuti col suo coro / forti cose a pensar mettere in versi»]. 113.  Co. III, 3. [Co. III, 3, 13 (II.2, p. 162): «E dico “move sovente cose che fanno disviare lo ’intelletto”. E veramente dico; però che li miei pensieri, di costei ragionando, molte fiate voleano cose conchiudere di lei che io non le potea intendere, e smarrivami, sì che quasi parea di fuori alienato»].

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per lui il potere della rappresentazione sensibile, ossia dell’unica rappresentazione chiara; e, senza che lui stesso ne abbia una chiara consapevolezza, gli oggetti a cui gli è impossibile giungere col pensiero sono soltanto quelli che si originarono nel puro intelletto e quindi recano in sé delle contraddizioni rispetto a una possibile concezione sensibile. Non gli viene ancora in mente che la difficoltà d’immaginare sostanze immateriali e altri oggetti che non possono essere dati empiricamente sia dovuta unicamente al fatto che sia stato possibile crearli soltanto trascurando le condizioni necessarie per una rappresentazione chiara e distinta. Forse il cambiamento perpetuo cui sono soggette le lingue è la ragione della loro imperfezione; come esempio di tale imperfezione Dante cita la differenza nella denominazione del bene sommo114. Dunque la “grammatica”115, l’immutabile lingua latina, è stata adottata tramite consenso116; solo le lingue volgari conservano quella diversità, e solo la lingua del cuore è uguale per tutti117. L’infinita diversità, il perpetuo cammino che il genere umano presenta sotto ogni aspetto si rivela tanto più radicato nella natura delle lingue, in quanto chiaramen-

114.  Par. XXVI, 133. [Par. XXVI, 133-138 (I, pp. 868-869): «Pria ch’io scendessi all’infernale ambascia, / I s’appellava in terra il sommo bene, / onde vien la letizia che mi fascia; / e El chiamò poi: e ciò convene, / ché l’uso de’ mortali è come fronda / in ramo, che sen va e l’altra vene»]. 115.  [In italiano nel testo]. 116.  V. E. I, 9: [V. E. I, 9, 11 (II.1, p. 419): «Da questa considerazione furono mossi gli inventori della lingua “grammaticale” – la qual “gramatica” non è appunto altro che un genere di linguaggio inalterabile identico a se stesso in tempi e luoghi differenti. Questa lingua, essendo stata fissata nelle sue regole dal comune consenso di molti popoli, non appare soggetta all’arbitrio del singolo: di conseguenza non può essere variabile»]. 117.  Par. XIV, 88. [Par. XIV, 88-90 (I, p. 750): «Con tutto il core e con quella favella / ch’è una in tutti, a Dio feci olocausto, / qual convenìasi a la grazia novella»].

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te improntato a una connessione peculiare tra il popolo e la sua lingua: Dante divide i popoli secondo la parola che adoperano per il “sì”118, caratterizza l’Italia come il paese “dove ’l sì si parla”119; dopo aver descritto l’italiano romano come il più terribile, continua: «il che non è strano, perché anche nei loro brutti usi e costumi i Romani appaiono più lerci di tutti gli altri popoli»120.

14. Diversità degli uomini Quella diversità del genere umano rientra tra le convinzioni più importanti e marcate di Dante. Su di essa ha fondato in gran parte la necessità del suo impero mondiale, e ha basato essa stessa su elementi empirici e metafisici. Che ogni essere umano nasca con una disposizione del tutto peculiare, sia capace di operare unicamente in una determinata direzione e non possa discostarsene senza un enorme danno, questo è per lui il fondamento su cui si costruisce lo Stato e che lo rende necessario. Solo da parti differenti si può – e però si deve anche – formare un tutto, se tutti devono trovare il necessario complemento. «Ond’egli ancora: “Or di’: sarebbe il peggio / per l’uomo in terra, se non fosse cive?”. / “Sì” rispuos’io; “e qui ragion non cheggio”. / “E può elli esser, se giù non si vive / diversamente per diversi offici?”»121. La diversità dei popoli nel loro complesso dipende essenzialmente dalla loro posizione

118.  V. E. I, 8. [V. E. I, 8, 5 (II.1, p. 409): «infatti alcuni per affermare dicono oc, altri oil, altri sì, come fanno per esempio Ispani, Francesi e Italiani»]. 119.  [Cfr. Inf. XXXIII, 79-80 (I, p. 306): «Ahi Pisa, vituperio de le genti / del bel paese là dove ’l sì suona»]. 120.  [V. E. I, 9, 2 (II.1, p. 427). In latino nel testo]. 121.  Par. VIII, 115. [Par. VIII, 115-119 (I, p. 692)].

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geografica (Dante vorrebbe addirittura attribuire la bassezza di un carattere popolare alla “sventura del luogo”122, che, naturalmente, può significare sia la cattiva natura di una località sia una maledizione della zona); i loro caratteri si differenziano così tanto che alcuni sono destinati a governare e altri a servire – come avviene anche per i singoli individui123. Il monarca supremo dovrebbe quindi emanare soltanto le leggi che pertengono al genere umano in quanto tale; i re subordinati dovrebbero poi riceverle da lui e formularle secondo le varie esigenze legate all’individualità del singolo popolo. Continua infatti con un paragone interessante: «così come l’intelletto pratico, per arrivare alla conclusione relativa all’azione, riceve dall’intelletto speculativo la premessa maggiore sotto cui sussumere l’azione particolare, che è il suo oggetto proprio, per concludere al giudizio particolare su tale azione»124. Il rapporto risulta più o meno simile a quello che dice a proposito delle lingue la cui universalità, possibilità e forma in quanto lingue in generale ci è data da Dio, mentre ci viene lasciata la formazione del linguaggio individuale125. Nonostante questo tentativo di riconciliare l’universale e il particolare, nel riconoscimento 122.  Purg. XIV, 37. [Purg. XIV, 37-39 (I, p. 433): «virtù così per nimica si fuga / da tutti come biscia, o per sventura / del luogo o per mal uso che li fruga». “Sventura del luogo” in italiano nel testo]. 123.  Mon. II, 7. [In realtà Mon. II, 6, 7 (II.2, p. 653): «Per questo noi vediamo che alcuni individui ed anche alcuni popoli sono nati con l’attitudine a comandare, ed alcuni altri con l’attitudine ad essere soggetti ed a servire, come il Filosofo dimostra nella Politica». Cfr. Aristot. Pol., I, 5, 1254 b 16 – 1255 a 3]. 124.  Mon. I, 16. [In realtà Mon. I, 14, 7 (II.2, pp. 595-597). In latino nel testo]. 125.  [Cfr. V. E. I, 6, 4 (II.1, pp. 399-401): «affermiamo che insieme con la prima anima fu concreata da Dio una ben determinata “forma” di linguaggio […] Proprio di questa forma si servirebbe la lingua di ogni parlante, se per colpa dell’umana presunzione essa non fosse stata dispersa, come si mostrerà più avanti»].

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della peculiare individualità dei popoli sta affilando l’arma che finirà per annientare l’idea del suo impero mondiale.

15. Predestinazione e libertà Ciò che però la diversità degli individui produce, ciò che effettivamente rende l’uomo «un animale instabilissimo et va­ riabilissimo»126, Dante non lo cerca in fattori esterni, ma soltanto nella Divina Provvidenza, che ha affidato a ciascuno determinate attitudini per determinati scopi. «Gl’intelletti che muovon queste stelle»127 hanno orientato le radici della nostra attività in direzioni diverse. Perciò uno nasce Solone, l’altro Serse, uno Melchisedec, l’altro Dedalo128. (In questi esempi sembrano venirci offerte le diramazioni principali dell’esistenza umana superiore: il saggio, il principe, il sacerdote, l’artista; si noti la raffinatezza dell’ordine di successione!). La natura, che per i mortali è come il sigillo per la cera, esercita la propria arte senza fare distinzione tra le stirpi; così accadde che Esaù nel momento del concepimento già si separi da Giacobbe e che Romolo discenda da un padre così misero che sia meglio ascriverlo a Marte129; questa cognizione, unita al suo senso di giustizia, può averlo indotto, in un periodo in cui l’odio politico veniva sempre esteso, di per sé, all’intera famiglia, a 126.  V. E. I, 9. [V. E. I, 9, 6 (II.1, p. 415). In latino nel testo]. 127.  [Par. VIII, 109-110 (I, p. 691): «se gl’intelletti / che movon queste stelle». In italiano nel testo]. 128.  [Cfr. Par. VIII, 124-126 (I, p. 692): «per ch’un nasce Solone e altro Serse, / altro Melchisedèch e altro quello / che, volando per l’aere, il figlio perse»]. 129.  [Cfr. Par. VIII, 130-132 (I, pp. 692-693): «Quinci addivien ch’Esaù si diparte / per seme da Iacòb; e vien Quirino / da sì vil padre, che si rende a Marte»].

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rivolgere una reprimenda del tutto particolare contro i Pisani per aver ucciso anche i figli di Ugolino130. – «E se ’l mondo là giù ponesse mente / al fondamento che natura pone, / seguendo lui, avrìa buona la gente. / Ma voi torcete a la religione / tal che fia nato a cingersi la spada, / e fate re di tal ch’è da sermone: / onde la traccia vostra è fuor di strada»131. Tutta la realtà effettuale emana dalla potenza divina, ma il suo timbro ideale non può imprimersi sempre con la stessa perfezione a causa della diversità della materia e dell’intenzione divina: così lo stesso albero porta frutti differenti, e noi nasciamo con doni spirituali differenti. Dobbiamo tendere e dobbiamo cercare la nostra perfezione soltanto in ciò che è appropriato alla nostra condizione132; e di conseguenza Dante intende dire che ogni essere appare tanto più gentile quanto più mostra la propria peculiare qualità! Tanto più l’uomo è barbuto, quanto più il viso della donna è liscio, ecc.133. Ogni natura occupa una determinata posizione all’interno dell’ordine cosmico, questa è più vicino alla propria sorgente originaria, quella più lontana; e così si dirigono verso porti diversi, attraverso il grande mare dell’essere, ognuno con l’istinto che gli è stato dato per guidarla134. 130.  Inf. XXX, 87. [In realtà Inf. XXXIII, 87-89 (I, p. 307): «Ché se ’l conte Ugolino aveva voce / d’aver tradita te de le castella, / non dovei tu i figliuoli porre a tal croce»]. 131.  Par. VIII, 115. [In realtà Par. VIII, 142-148 (I, pp. 693-694)]. 132.  Par. XIII, 67. [Par. XIII, 67-69 (I, p. 740): «La cera di costoro e chi la duce / non sta d’un modo; e però sotto ’l segno / ideale poi più e men traluce»]. 133.  Co. I, 12. [Co. I, 12, 8 (II.2, p. 97): «sì come ne la maschiezza essere ben barbuto, e nella femminezza essere ben pulita di barba in tutta la faccia»]. 134.  Par. I, 109. [Par. I, 109 (I, p. 630): «Ne l’ordine ch’io dico sono accline / tutte nature, per diverse sorti, / più al principio loro e men vicine; / onde si muovono a diversi porti / per lo gran mare dell’essere, e ciascuna / con istinto a lei dato che la porti»].

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In questa dottrina psicologica della predestinazione non è difficile scorgere un doppio impulso. Per un verso, infatti, esprime il riconoscimento incondizionato dell’individualità, del diritto della personalità e del suo dovere; ogni costrizione che si contrappone all’istinto naturale, al tratto originariamente peculiare dell’essenza stessa dell’individuo, fa inorridire. Benché questo possa essere definito il versante illuminato e progressista, d’altra parte nasconde un modo di pensare dogmaticamente rigido, completamente antipsicologico. Infatti siamo assolutamente legati all’ambito cui il conio divino ci ha assegnato sin dall’inizio, ci troviamo fissati in una posizione, e solo in questa, non molto diversamente da come l’indù lo è alla propria casta; l’infinita complicazione delle attitudini psichiche provocata inevitabilmente dall’attività rivolta ad aspetti diversi, spesso eterogenei; lo sviluppo che si snoda attraverso fasi diverse, spesso contrapposte; la forza dell’educazione e della volontà, che sono in grado e in diritto di plasmare anche le abilità e di indirizzarle verso obiettivi empiricamente desiderabili; infine la circostanza per cui ogni nato si ritrova a priori l’infinito come sfera di attività, dalla quale il suo essere finito è solo empiricamente separato – tutto questo viene semplicemente ignorato. Il decreto divino ha assegnato a tutti il proprio posto, allontanarsi dal quale è in ogni caso un delitto. Così la durezza che caratterizza la concezione del mondo medievale si manifesta nella maniera più inesorabile proprio là dove sembrava già annunciarsi la mentalità dell’epoca moderna. Con la sua affermazione della libertà umana questa dottrina cade in contraddizioni evidenti. Qui intendo soltanto sottolineare ancora l’ingiustizia implicita nel fatto che le attitudini che ci vengono accordate abbiano non soltanto orientamenti diversi, ma anche valori assoluti diversi; cosicché una nobilitazione al di fuori delle doti congenite, l’esigenza di un’aspirazione ideale infinita per tutte le anime, si trova completamente

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al di fuori di questa dottrina. Questa istanza che, soprattutto dopo Kant, certamente ci appare come la condizione fondamentale di ogni sforzo, in particolare di quello morale, e che dopo l’atto supremo rimane ancora ben lontana dal suo ideale più alto (come riconosce Dante per quelli artistici, e lo vedremo nel prosieguo), proprio allora è stata completamente rimossa, dalla concezione cattolica, mediante la dottrina relativa all’inutilità delle opere buone dei santi. Come già sottolineato, però, questa dottrina della predestinazione si combinava perfettamente con la sua idea di Stato, che non può realizzarsi altrimenti se non attraverso una simile prevaricazione; la costruzione di questo impero mondiale, in cui dovrebbe essere esclusa la competizione tra individui e popoli ingenerata da identiche caratteristiche, è possibile soltanto se ogni individuo occupa un posto ben preciso che non possa essere desiderato da nessun altro, se ha luogo un’infinita diversità e al contempo la garanzia di permanere in essa. Riguardo a quella, tuttavia, Dante osserva che tutti gli esseri umani, in quanto appartenenti a un unico genere, possono essere ricondotti a Cristo, l’essere umano per antonomasia che, per così dire, è la loro misura e la loro idea135, e osserva che in noi, come esseri umani in generale, si dà un elemento semplice, umano κατ’ἐξοχήν, che costituisce l’unità di misura per il nostro giudizio reciproco136. Per quanto riguarda quest’ultimo, ossia la durata e la sicurezza in tutte le cose umane, Dante

135.  Mon. III, 11. [In realtà Mon. III, 10, 7 (II.2, p. 741): «Il fondamento infatti della Chiesa è Cristo, d’onde le parole dell’Apostolo ai Corinzi: “Nessuno può porre un fondamento diverso da quello che è stato posto, cioè Gesù Cristo”»]. 136.  V. E. 1, 16. [V. E. I, 16, 3 (II.1, p. 449): «In quanto agiamo come uomini in senso assoluto, abbiamo dunque come indice la virtù (intendendola in senso generale): infatti rispetto ad essa giudichiamo buono o cattivo un uomo»].

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adotta empiricamente le convinzioni più negative. Il suo sguardo profondo conosceva l’esitare e il vacillare dell’uomo malgrado l’apparenza di stabilità che lo circonda nel singolo istante; gli Stati mutano al pari degli individui e il singolo se ne rende conto soltanto con difficoltà perché la sua vita è troppo breve rispetto a quella di uno Stato137. Nessun evento conforme a ragione è mai stato permanente a causa delle vicende umane, che ruotano così come il corso del cielo; il costume dei mortali è come una foglia su un ramo: una va e altre vengono138. Tutto questo però non viene interpretato esclusivamente in chiave pessimistica, poiché il suo dualismo, che non può radicarsi saldamente né in cielo né in terra, a volte considera la fragilità della dimensione terrena, di cui si lamenta, e altre volte la considera come necessaria per la natura umana: al momento lo spirito del mondo lascia che il vano possesso dei beni passi da un popolo all’altro, da una stirpe all’altra, anche se lo spirito umano intende difenderli – un popolo governa e l’altro sprofonda – questi cambiamenti non conoscono tregua, e la necessità li accelera139. Siccome però il tempo attraversa l’accadere scorrendo in un flusso inarrestabile, dobbiamo sforzarci di adoperarlo quanto più possibile; Dante stesso era uno spirito troppo colmo e attivo perché l’uso corretto del tempo non gli apparisse di sommo valore: in un passo ammonisce che il giorno non sorgerà

137.  Par. XVI, 67. [Par. XVI, 67-69 (I, p. 770): «Sempre la confusion delle persone / principio fu del mal de la cittade, / come del corpo il cibo che s’appone»]. 138.  Par. XXVI, 127. [Par. XXVI, 127-129 (I, p. 868): «ché nullo effetto mai razionabile, / per lo piacere uman che rinovella / seguendo il cielo, sempre fu durabile»]. 139.  Inf. VII, 79. [Inf. VII, 79-81 (I, p. 67): «che permutasse a tempo li ben vani / di gente in gente e d’uno in altro sangue, / oltre la difension di senni umani»].

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mai più140, e che l’uomo più sa e più è ferito dalla perdita di tempo141; anzi, quasi tutte le nostre preoccupazioni e i nostri disagi dovrebbero quindi trovare la propria origine nel fatto che non sappiamo come adoperare il tempo in modo adeguato142, anche se l’uso del tempo non deve mai essere affrettato, non deve mai degenerare in fretta, poiché quest’ultima toglie la decenza (onestade) a ogni azione143. Abbiamo però consapevolezza del corso del tempo soltanto se lo spirito non è fortemente preso in occupazioni estrinseche144; questo e quel rapporto con la dimensione pratica – in particolar modo è Virgilio il rappresentante della mondanità, che ci spinge sempre a fruirne – le conferisce un carattere in un certo senso soggettivo, che si esprime più chiaramente nell’affermazione secondo cui la mano del cielo non opera né lentamente né rapidamente, ma che ci appare tale a seconda che l’attendiamo con speranza o con paura145. I due principi sopra citati – l’eterno mutamento in tutte le cose terrene e la nuova creazione di ogni singola anima – forniscono il fondamento metafisico alla sua convinzione, acquisita em140.  Purg. XII, 84. [Purg. XII, 84 (I, p. 420): «pensa che questo dì mai non raggiorna»]. 141.  Purg. III, 78. [Purg. III, 78 (I, p. 343): «ché perder tempo a chi più sa più spiace»]. 142.  Co. IV, 2. [Co. IV, 2, 10 (II.2, p. 218): «E tutte le nostre brighe, se bene veniamo a cercare li loro principii, procedono quasi dal non conoscere l’uso del tempo»]. 143.  Purg. III, 10. [Purg. III, 10-11 (I, p. 339): «Quando li piedi suoi lasciar la fretta, / che l’onestade ad ogn’atto dismaga»]. 144.  Purg. IV, 7. [Purg. IV, 7-9 (I, p. 347): «E però, quando s’ode cosa o vede / che tegna forte a sé l’anima volta, / vassene il tempo e l’uom non se n’avvede»]. 145.  Par. XXII, 16. [Par. XXII, 16-18 (I, p. 821): «La spada di qua su non taglia in fretta / ne tardo, ma’ ch’al parer di colui / che disiando o temendo l’aspetta»].

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piricamente, secondo cui la destrezza umana raramente viene ereditata: così vorrebbe colui che la dona, affinché la si richieda a lui146. Non è alla stirpe in quanto tale, bensì agli individui che Dio dona il seme della nobile virtù147. In base al mero corso della natura, certamente la prole percorrerebbe sempre la stessa strada del genitore, a meno che non intervenga la divina Provvidenza, che sceglie i propri strumenti senza riguardo alla loro origine148. Così pure il vanto degli antenati e la gloria delle origini anche del sangue più nobile devono essere guardati con disprezzo, e dove vi attribuisce comunque importanza (come nel De Monarchia; e si trova all’interno di questo contesto psicologico il passo in cui dichiara il volgare più nobile perché è più vecchio149) è appunto soltanto il suo dualismo – la rappresentazione dei diversi aspetti di una stessa cosa può anche appartenere a tempi diversi – a non essere in grado di mettere nel giusto rapporto i punti di vista della prospettiva teologica con i fatti di un’esperienza del mondo. La nobile discendenza è un mantello che si accorcia presto se non ci si mette stoffa ogni giorno150, e pieno di rimorso Umberto di Santa Fiora confessa: «L’antico sangue e l’opere leggiadre / de’ miei maggior

146.  Purg. VII, 121. [Purg. VII, 121-123 (I, p. 379): «Rade volte resurge per li rami / l’umana probitade, e questo vole / quei che la dà, perché da lui si chiami»]. 147.  Co. IV, 20. [Co. IV, 20, 5 (II.2, p. 280): «ché ’l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe, ma cade ne le singulari persone, e, sì come di sotto si proverà, la stirpe non fa le singulari persone nobili, ma le singulari persone fanno nobile la stirpe»]. 148.  Par. VIII, 133. [Par. VIII, 133 (I, p. 693): «Natura generata il suo cammino / simil farebbe sempre ’a generanti, / se non vincesse il proveder divino»]. 149.  V. E. I, 1. [V. E. I, 1, 4 (II.1, p. 381): «La più nobile di queste due lingue è il volgare, sia perché fu la prima a essere usata dal genere umano, sia perché tutto il mondo ne fruisce»]. 150.  Par. XVI, 7. [Par. XVI, 7-9 (I, p. 765): «Ben se’ tu manto che tosto raccorce; / sì che, se non s’appon di dì in die, / lo tempo va dintorno con le force»].

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mi fer sì arrogante, / che, non pensando alla comune madre, / ogn’uomo ebbi in despetto tanto avante, / ch’io ne mori’»151. Con tutte le armi fini e rozze, persino le più rozze, attacca chi nega che un “vil generante” possa avere un “nobile generato”152; perché la stirpe diventa nobile solo attraverso le singole persone che ne fanno parte, ma non le persone attraverso la stirpe, e c’è nobiltà dove c’è virtù, non la virtù dove c’è la nobiltà153. E a questo contesto sono strettamente legate le sue varie concezioni pessimistiche sull’onore e la fama mondana: Oh vana gloria dell’umane posse! com poco verde in su la cima dura, se non è giunta dall’etati grosse. Credette Cimabue ne la pintura tener lo campo, e ora ha Giotto il grido, sì che la fama di colui è oscura.  Così ha tolto l’uno all’altro Guido la gloria della lingua; e forse è nato chi l’uno e l’altro caccerà del nido.  Non è il mondan romore altro che un fiato di vento, ch’or vien quinci e or vien quindi, e muta nome perché muta lato. Che voce avrai tu più, se vecchia scindi  da te la carne, che se fossi morto  anzi che tu lasciassi il “pappo” e ’l “dindi”  pria che passin mill’anni? Ch’è più corto spazio all’eterno, ch’un muover di ciglia al cerchio che più tardi in cielo è torto. 151.  Purg. XI, 61. [Purg. XI, 61-65 (I, p. 410)]. 152.  Co. IV, 14, 15. [In realtà Co. IV, 15, 2 (II.2, pp. 265-266): «Ove è da sapere che, se uomo non si può fare di villano gentile o di vile padre non può nascere gentile figlio, sì come messo è dinanzi per loro oppinione, che de li due inconvenienti l’uno seguire conviene»]. 153.  Co. IV, 19, 20. [In realtà Co. IV, 19, 5 (II.2, p. 278): «è nobilitade dovunque è vertute, e non vertute dovunque nobiltate»].

57 Colui che del cammin sì poco piglia dinanzi a me, Toscana sonò tutta;  e ora a pena in Siena si pispiglia,  ond’era sire quando fu distrutta  la rabbia fiorentina, che superba  fu a quel tempo sì com’ora è putta. La vostra nominanza è color d’erba, che viene e va, e qui la discolora per cui ella esce della terra acerba.154

Ma anche qui si trova il dualismo, benché sia consapevole e voluto: «“Omai convien che tu così ti spoltre” / disse ’l maestro; “ché, seggendo in piuma, / in fama non si vien, né sotto coltre; / sanza la qual chi sua vita consuma / cotal vestigio in terra di sé lascia, / qual fummo in aere ed in acqua la schiuma”»155. Per i dannati la fama postuma sulla terra è di grandissimo valore, è per antonomasia “quel che qui si brama”156. Brunetto Latini non desidera altro che consigliargli il suo Tesoro, “nel quale io vivo ancora”157; spesso spinge i personaggi a farsi riconoscere da lui attraverso la promessa di render noto il loro nome nel mondo superiore. Così il ricordo della sua stessa fama è anche l’ultima sollecitazione che escogita per l’imperatore Alberto158. Certo, queste parole sono tutte pronunciate all’Inferno, dove sono riuniti insieme i rappresentanti della mondanità corrotta, mentre nella sfera più pura del Purgatorio le anime sono più umili: Oderisi d’Agobbio riconosce di buon grado i meriti di Franco

154.  Purg. XI, 91. [Purg. XI, 91-117 (I, pp. 412-414)]. 155.  Inf. XXIV, 46. [Inf. XXIV, 46-51 (I, p. 219)]. 156.  [Cfr. Inf. XXXI, 125 (I, p. 288). In italiano nel testo]. 157.  Inf. XV, 119. [Inf. XV, 119-120 (I, p. 142): «sieti raccomandato il mio Tesoro / nel qual io vivo ancora, e più non chieggio»]. 158.  Purg. VI, 116. [Purg. VI, 114-117 (I, p. 370): «“Cesare mio, perché non m’accompagne?” / Vieni a veder la gente quanto s’ama! / E se nulla di noi pietà ti move, / a vergognar ti vien della tua fama»].

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Bolognese, cosa che non avrebbe mai fatto in vita a causa della sua sete di gloria159, e Virgilio ha paura di fare il proprio nome a Stazio, che lo celebra senza riconoscerlo160. Ma che questa sfrenata ricerca mondana della fama e della gloria non comporti peccato in quanto tale è dimostrato dai gironi più profondi dell’Inferno, dove i peccatori più reietti non ne vogliono più sapere nulla; perlomeno metà dell’anima di Dante è permeata dall’intento di giustificarla, come risulta evidente non soltanto dai passaggi citati dianzi, ma anche da uno del Paradiso: «Però ti son mostrate in queste rote, / nel monte e ne la valle dolorosa / pur l’anime che son di fama note, / che l’animo di quel ch’ode, non posa / né ferma fede per essemplo ch’aia / la sua radice incognita ed ascosa, / né per altro argomento non paia»161.

16. Illuminazione e salvezza Le concezioni relative alla forza e alla dignità della mente umana in generale si regolano in totale consonanza con l’ambivalenza della concezione relativa al valore della fama dell’anima individuale. Dante ne coltiva le idee più alte, nella misura in cui la subordinazione al principio divino non conosce limiti; come sopra, le concezioni della dignità si manifestano maggiormente nel Purgatorio e nel Paradiso, mentre quelle sulla forza campeggiano nell’Inferno. Fa vagare per l’inferno «per

159.  Purg. XI, 82. [Purg. XI, 82-87 (I, pp. 411-412): «“Frate” diss’egli “più ridon le carte / che pennelleggia Franco bolognese: / l’onore è tutto or suo, e mio in parte. / Ben non sare’ io stato sì cortese / mentre ch’io vissi, per lo gran disio / de l’eccellenza ove mio core intese»]. 160.  Purg. XXI. [Purg. XXI, 103-104 (I, p. 501): «Volser Virgilio a me queste parole / con viso che, tacendo, disse “Taci!”»]. 161.  Par. XVII, 136. [Par. XVII, 136-142 (I, p. 784)].

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altezza d’ingegno»162 Cavalcante dei Cavalcanti, che certamente fu ateo. La mente sa come superare il disagio fisico, e d’altra parte l’immaginazione della mente tormenta più del dolore fisico163; ma proprio a motivo di questa violenza la mente è anche l’arma più spietata della malvagità164. Così sottolinea anche la sete di conoscenza di Ulisse, manifestando chiaramente una certa immedesimazione: «né dolcezza di figlio, né la pièta / del vecchio padre, né ’l debito amore / lo qual dovea Penelope far lieta, / vincer poter dentro da me l’ardore / ch’io ebbi a divenir del mondo esperto, / e de li vizi umani e del valore […] / Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir vertute e canoscenza»165. Per lui la conoscenza, la speculazione filosofica, è uno degli scopi sommi e migliori per i quali la Bontà divina ci ha chiamati all’esistenza166; anch’egli era colmo di quella sete di conoscenza che animava le menti più nobili del Medioevo, Anselmo di Canterbury in testa – si trattava però di un assillo, di quell’impulso verso la conoscenza a motivo del quale Lucifero, che altrimenti sarebbe 162.  Inf. X, 58. [Inf., X, 58-60 (I, pp. 92-93): «piangendo disse: “Se per questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno, / mio figlio ov’è? Perché non è ei teco?”». “Per altezza d’ingegno” in italiano nel testo]. 163.  Inf. XXIV, 52; XXX, 64. [Inf. XXIV, 52-54 (I, p. 219): «E però leva su: vinci l’ambascia / con l’animo che vince ogni battaglia, / se col suo grave corpo non s’accascia». Inf. XXX, 68-69 (I, p. 275): «ché l’imagine lor vie più m’asciuga / che ’l male ond’io nel volto mi discarno»]. 164.  Inf. XXXI, 55. [Inf. XXXI, 55-57 (I, p. 284): «ché dove l’argomento de la mente / s’aggiunge al mal volere ed alla possa, / nessun riparo vi può far la gente»]. 165.  Inf. XXVI, 94. [Inf. XXVI, 94-99 e 118-120 (I, risp. pp. 241 e 242)]. 166.  Mon. I, 4. [In realtà Mon. I, 3, 3 (II.2, pp. 533-535): «Infatti l’ultimo fine presente nell’intenzione del creatore, in quanto creatore, non è l’essenza creata, ma l’operazione propria di quell’essenza, e di conseguenza non esiste l’operazione per l’essenza, ma l’essenza per l’operazione. […] Quindi la facoltà più alta dell’uomo […] è quella di conoscere per mezzo dell’intelletto possibile»].

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stato il più nobile degli angeli, si era allontanato da Dio. Nella gerarchia dei nostri doni spirituali l’interesse per la teoria, il potere conoscitivo della mente, è superato soltanto dal libero arbitrio, ovviamente non senza mostrare, in alcuni passi, qualche perplessità riguardo a questa prevalenza. Nella scienza si manifesta la perfezione ultima della nostra anima e lì tocca la sua massima felicità; siamo soggetti per natura a tendere verso di essa; l’anima s’innamora letteralmente della verità, Dante chiama le dimostrazioni e le controversie gli occhi della filosofia (presentati nella figura di una donna) che penetrano nel nostro animo; nella sua perfezione, la filosofia è il compimento dell’amore vicendevole e dell’amicizia tra l’anima e la saggezza. E benché lo studio rechi con sé molti dubbi, tuttavia questi scompaiono di fronte alla verità come la nebbia davanti al sole. Certo, non sono in molti a potersi dedicare alla ricerca della verità, e Dante adduce quattro diversi motivi che lo impediscono: difetti fisici, umiltà dell’anima, cura della famiglia e dello Stato, la quale «convenevolmente a sé tiene degli uomini il maggior numero»167, e infine la distanza fisica da un luogo in cui poter studiare168. Coloro che ora, però, possono 167.  [In italiano nel testo]. 168.  Co. I, 1, II, 16, III, 12. [Co. I, 1, 3-4 (II.2, pp. 65-66): «Dentro da l’uomo possono essere due difetti e impedimenti: l’uno da la parte del corpo, l’altro da la parte de l’anima […] Di fuori da l’uomo possono essere similmente due cagioni intese, l’una de le quali è induttrice di necessitade, l’altra di pigrizia. La prima è la cura familiare e civile, quale convenevolmente a sé tiene de li uomini lo maggior numero, sì che in ozio di speculazione esser non possono. L’altra è lo difetto del luogo dove la persona è nata e nutrita, che tal ora sarà da ogni studio non solamente privato, ma da gente studiosa lontano». Co. II, 15, 4 (II.2, pp. 147-148): «E là dove dice: “Chi veder vuol la salute / faccia che li occhi d’esta donna miri”, li occhi di questa donna sono le sue demonstrazioni, le quali, dritte ne li occhi de lo ’ntelletto, innamorano l’anima, liverata da le contradizioni». Co. III, 12, 4 (II.2, p. 195): «ché, sì come sopra si dice, Filosofia è quando l’anima e la sapienza sono fatte amiche, sì che l’una sia tutta amata da l’altra»].

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dedicarsi alla formazione della propria mente, coloro che sopravanzano gli altri per intelletto, domineranno anche sotto ogni altro aspetto, in particolare nella vita politica169; Dante è senz’altro un aristocratico e disprezza profondamente la “gente grossa”170 che vegeta in un’esi­stenza animale senza la luce della conoscenza. A quel tempo, tuttavia, il livello d’istruzione e di conoscenza dei ceti inferiori dev’essere stato di una pochezza quasi inimmaginabile; Dante descrive in maniera molto fine la capacità di discernere come ciò che manca in particolare ai ceti popolari, e ne rende ragione mediante il fatto che essi, fin dalla loro giovinezza, si sono dedicati a un unico mestiere e perciò non possono pervenire a quell’esercizio versatile che la formazione delle qualità intellettuali – ma anche di quelle morali – richiede171. Sembra mancare loro, diremmo noi, la formazione di categorie unificanti, proprio questo dato di fatto di carattere psicologico crea anche la differenza fra le anime eccellenti e quelle che si trovano in posizione meno elevata, per cui la meraviglia in quelle non dura così a lungo come in queste172; e tutto ciò si trova perlomeno in connessione col fatto che le menti eccellenti non vengono vincolate dalle consuetudini, che non sono tali menti a essere determinate dalle leggi, bensì le leggi a esser determinate da queste menti173. 169.  Mon. I, 4. [In realtà Mon. I, 3, 10 (II.2, p. 541): «Già da questo si comprende chiaramente l’affermazione della Politica che “gli uomini dotati di vigoroso intelletto sono per natura dominatori degli altri”». Cfr. Aristot. Pol., I, 2, 1252 a 31]. 170.  [Cfr. Inf. XXXIV, 92 (I, p. 318). In italiano nel testo]. 171.  Co. I, 11. [Co. I, 11, 6 (II.2, p. 93): «però che occupate dal principio de la loro vita ad alcuno mestiere, dirizzano sì l’animo loro a quello per forza de la necessità, che ad altro non intendono»]. 172.  Purg. XXVI, 71. [Purg. XXVI, 71-72 (I, p. 543): «ma poi che furon di stupore scarche, / lo qual nelli alti cuor tosto s’attuta»]. 173.  A Cangrande, 2. [Epistola XIII, 2 (II.2, p. 441): «Infatti quelli che vivono con intelletto e ragione, dotati di una certa divina libertà, non sono co-

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Qui la dimensione legata alla teoria risulta strettamente connessa a quella morale, e in altri luoghi diventa addirittura il veicolo di quest’ultima. Così, l’unico mezzo per salvare Dante dalla “follia”174 della vita, dalla minaccia del vizio, è quello di mostrargli i regni dell’Aldilà; per lui la causa di molti difetti sul piano etico risiede nel fatto che la maggior parte degli uomini veda solo il lato esteriore delle cose (perché rincorre il senso e non la ragione): ne seguirebbe che a volte sono avidi, a volte sazi, ora gioiscono per piaceri da nulla, ora si rattristano per dolori da nulla, a volte si presentano come amici, a volte come nemici175; in alcuni passi viene fatta luce sulla natura degli angeli176, e la beatitudine consiste in una visione di Dio, vale a dire – senza forzare il senso della parola – in un’attività legata alla teoria. In relazione al suo interesse per l’aspetto teoretico, è anche degno di nota che, là dove mette in rilievo i limiti della conoscenza umana, prosegua in questo modo: «ché se possuto aveste veder tutto, / mestier non era parturir Maria»177; qui emerge come egli scorga una connessione tra l’illuminazione operata da Cristo e la sua opera di redenzione. I dannati vengono indicati come coloro che hanno perduto “il ben dell’intelletto”178; quest’ultimo può essere inteso direttamente

stretti da nessuna consuetudine; e non è meraviglia, poiché non essi sono diretti dalle leggi, ma piuttosto le leggi da essi»]. 174.  [In italiano nel testo]. 175.  Co. I, 4. [Co. I, 4, 5 (II.2, p. 75): «Questi cotali tosto sono vaghi e tosto sono sazii, spesso sono lieti e spesso tristi di brevi dilettazioni e tristizie, tosto amici e tosto nemici»]. 176.  Par. XXIX, 60. [Par. XXIX, 58-63 (I, pp. 896-897): «Quelli che vedi qui furon modesti / a riconoscer sé dalla bontade / che li avea fatti a tanto intender presti; / per che le viste lor furo esaltate / con grazia illuminante e con lor merto, / sì ch’hanno ferma e piena volontate»]. 177.  Purg. III, 37. [Purg. III, 38-39 (I, p. 341)]. 178.  [Cfr. Inf. XIII, 18 (I, p. 25). In italiano nel testo].

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come Dio, nella misura in cui possederlo e conoscerlo rappresenta il bene supremo della nostra ragione; oppure può essere preso alla lettera, nel senso che, in caso di allontanamento da Dio, ne segua anche un annebbiamento della ragione in quanto tale. In tal caso, dunque, la dimensione morale sarebbe, al contrario, un veicolo di quella teoretica ma, ancora una volta, in vista di una sublimazione di quest’ultima. Peraltro questo ricorda Platone, per il quale la virtù è una conoscenza ma che, d’altra parte, trova necessaria una sublimazione morale per superare gli errori teoretici. Per Dante la dimensione morale risulta così strettamente connessa a quella della teoria che egli – qui naturalmente emerge il vero, rigido dogmatico – considera letteralmente l’avversario sul piano della teoria un autentico criminale e in alcuni passi vorrebbe rispondergli a coltellate invece che a parole179; tuttavia, è anche il “mal amor”180 delle anime che fa apparire la via torta come dritta181. Anzi, a un certo punto dice addirittura che il senno rientra in realtà tra le virtù morali, poiché mostra la strada sulla quale esse vengono acquisite e senza la quale non possono sussistere182 e per la sua etica il libero arbitrio vero e proprio poggia sulla “virtù che consiglia”183, sull’intelletto che giudica il bene e il male.

179.  Co. IV, 14. [Co. IV, 14, 5 (II.2, p. 263): «E se l’avversario volesse dicere che ne l’altre cose nobiltà s’intende per la bontà de la cosa, ma ne li uomini s’intende perché di sua bassa condizione non è memoria, rispondere si vorrebbe non con le parole, ma col coltello a tanta bestialitade»]. 180.  [Cfr. Purg. X, 2 (I, p. 399), in realtà: «malo amor». In italiano nel testo]. 181.  Purg. X, 2. [Purg. X, 1-3 (I, p. 399): «Poi fummo dentro al soglio della porta / che ’l malo amor dell’anime disusa, / perché fa parer dritta la via torta»]. 182.  Co. IV, 17. [Co. IV, 17, 8 (II.2, p. 274): «avvegna che essa sia conduttrice de le morali virtù e mostri la via per ch’elle si compongono e sanza quella essere non possono»]. 183.  [Cfr. Purg. XVIII, 62 (I, p. 469). In italiano nel testo].

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Di contro però a un approccio così fiero verso la conoscenza e il senno umani se ne trova uno più umile; non dobbiamo pretendere nulla dalla nostra mente, perché la sua vista è malata e noi non siamo altro che vermi orrendi da cui prenderà forma l’angelica farfalla184; e con tutto il nostro ingegno non possiamo giungere alla pace del Regno di Dio, se essa non viene a noi185. Ma la conoscenza che dovrebbe completare quest’imperfezione del nostro sapere non viene determinata in maniera univoca; non è affatto chiaro se l’incompiutezza concerna soltanto la parte inferiore del nostro sapere, che è mediata dalla sensibilità e dalle vie strettamente naturali della conoscenza, ma non vale per la parte razionale, quella donata da Dio – o se anche quest’ultima, sino a che rimaniamo sulla terra, sia trascinata nell’oscurità generale dell’essere terreno. In base alla coerenza del suo approccio teologico, ai passaggi visti sopra e alla necessità, rimarcata in precedenza, della sensibilità in vista della conoscenza, si dovrebbe optare per la seconda, e Dante afferma in maniera assolutamente chiara che noi come “umana gente”186 dobbiamo accontentarci del modo più imperfetto della cognizione, quello a posteriori187. In contrasto con tutto questo, però, vediamo che in Paradiso Dante scioglie i misteri più complessi del mondo, benché ciò avvenga sotto forma di un’illuminazione divina, e quando poi dice: «Io veggio ben che già mai non si sazia / nostro intelletto, se ’l ver non lo illu184.  Purg. X, 121. [Purg. X, 121-126 (I, p. 406): «O superbi cristian, miseri lassi, / che, dalla vista della mente infermi, / fidanza avete ne’ retrosi passi, / non v’accorgete voi che noi siam vermi, nati a formar l’angelica farfalla, / che vola alla giustizia sanza schermi?»]. 185.  Purg. XI, 7. [Purg. XI, 7-9 (I, p. 407): «Vegna ver’ noi la pace del tuo regno, / ché noi ad essa non potem da noi, / s’ella non vien, con tutto nostro ingegno»]. 186.  [In italiano nel testo]. 187.  Purg. III, 37. [Purg. III, 37 (I, p. 341): «State contenti, umana gente, al quia»].

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stra / di fuor dal qual nessun vero si spazia»188 – in tal modo, tuttavia, si ammette che già qui sulla terra la nostra mente sia in grado di conoscere ciò che in generale è conoscibile. Questa, in generale, è l’essenza della Scolastica, ossia il fatto che essa riconosce l’incompiutezza della nostra conoscenza sul piano della teoria, ma in realtà è compenetrata dall’idea di possedere indiscutibilmente le verità ultime. Due cose, però, rimangono salde in Dante e nei suoi sostenitori, ovvero che la ragione umana non sia in grado di conoscere attraverso la forza insita nella propria essenza ciò che è sommamente conoscibile, ma necessiti di una particolare illuminazione dall’alto, che non è ancora data affatto tramite quell’infusione di vita da parte dello spirito divino in generale, bensì deve sopraggiungere in ogni singolo caso; la sete di conoscenza, infatti, è connaturata, ma può essere soddisfatta unicamente in chiave sovrannaturale189. E, seconda cosa, i misteri ultimi della divinità non possono essere compresi intellettualmente nemmeno con l’illuminazione più alta e neppure dagli angeli stessi. Tra questi si annoverano in particolare la Trinità e la condanna dei pagani, anche qualora mostrino la massima perfezione sul piano morale. Ora, questa è la mentalità che ha trovato la propria espressione più esatta nel credo quia absurdum. Non si dimentichi mai che l’accento qui cade esclusivamente sul credo, che quindi dev’essere assunto in contrapposizione a intellego oppure a scio; ciò che è conforme alla ragione, ciò che corrisponde alle leggi dell’empiria e della logica, questo sono in grado di conoscerlo, perciò semplicemente non ho bisogno di crederci. In Dante c’è un passo che esprime questo senso di saggezza in una for188.  Par. IV, 124. [Par. IV, 124-126 (I, p. 656)]. 189.  Purg. XXI, 1. [Purg. XXI, 1-3 (I, p. 494): «La sete natural che mai non sazia / se non con l’acqua onde la femminetta / sammaritana dimandò la grazia»].

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ma singolare: «Parere ingiusta la nostra giustizia / nelli occhi de’ mortali è argomento / di fede e non d’eretica nequizia»190. Questo passaggio non può che assumere il significato seguente: tanto più le peculiarità di Dio appaiono ai nostri occhi prive di mistero, comprensibili e analoghe a quelle umane, quanto più è facile per noi convincerci di esse; se nei suoi atti ci si facesse in contro una forma di giustizia vincolata ai nostri concetti, questa sarebbe una prova formale del fatto che egli possiede questa peculiarità. Allora però questo cadrebbe al di fuori dalla sfera della fede; e il merito della fede nella giustizia divina consiste proprio nel fatto che non ne abbiamo una salda conoscenza, che ci accontentiamo non di conoscerla, ma di voler soltanto credere ad essa. Meno pretendiamo di capirlo, più profondamente riconosciamo la nostra subordinazione a Dio; più facilmente, invece, potremmo pensare di somigliare allo spirito che comprendiamo. Gli scolastici non erano mai arrivati a pensare che, in base alla sua sostanza, la fede in Dio potesse essere scossa in generale da un dubbio simile e se questo non è il caso, allora esso si mostra tanto più forte quanto più per la nostra mente risulta difficile e ripugnante digerirlo. Psicologicamente questa mentalità risulta di grande interesse, tanto per l’acuta consapevolezza dei limiti della nostra comprensione, quanto per il modo in cui quest’ultima dovrebbe essere integrata dalla fede. L’esistenza effettiva degli oggetti di questi misteri della fede costituisce il presupposto dogmatico con cui ora la nostra capacità conoscitiva deve fare i conti. Il tentativo di una comprensione intellettuale viene abbandonato sin dal principio; se il peccatore cristiano più incallito guadagna la beatitudine eterna pentendosi all’ultimo momento, mentre il pagano più immacolato, eticamente integerrimo, dev’essere condannato all’oscurità eterna e a struggersi in mezzo ai tor-

190.  Par. IV, 67. [Par. IV, 67-69 (I, pp. 652-653)].

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menti, questo non può risultare assolutamente coerente col nostro concetto di giustizia; rimane una contraddizione insolubile, anzi, per noi è addirittura un’assurdità che un pagano che non ha mai potuto sentir parlare di Cristo venga considerato un «ribellante a la sua legge»191. La fede scolastica si estende in tal modo non soltanto alle cose per le quali manca la dimostrazione, ma anche a quelle di cui è dimostrabile il contrario. Per noi quello è l’unico senso in cui possiamo a ragione mantenere un atto di fede, e perciò la differenza di mentalità delle due epoche e, di conseguenza, nella loro psicologia, si mostra qui con la massima acutezza. Il concetto di fede deve aver avuto un contenuto del tutto differente rispetto al nostro; non si pensa affatto che idee come giustizia e ingiustizia, la cui unificazione è richiesta nell’esempio cui abbiamo accennato, si escludano reciprocamente non solo sul piano logico ma, proprio per questo, anche a livello psicologico. La psicologia è talmente ingarbugliata nei dogmi che ha assunto all’interno delle proprie convinzioni scientifiche le pure e semplici parole, il cui contenuto non può essere realizzato affatto, ma di cui il senso comune si era appagato poiché la Chiesa le aveva stabilite. Certo, per quanto deboli possano essere i singoli anelli del pensiero dantesco, si può però perlomeno mostrare come essi si concatenino ovunque l’uno con l’altro; per quanto in termini psicologici oggettivi l’osservazione obiettiva e il presupposto dogmatico si confondano tra loro, in termini psicologici soggettivi si può vedere ovunque una connessione, e ogni pensiero reca l’impronta di una mente a tutto tondo, benché invischiata in contraddizioni, che lo rende riconoscibile come appartenente ad essa. Anzi, la signoria assoluta di Dio trova la propria formulazione più marcata nel fatto che alle sue azioni non si deve applicare alcuna unità di misura conforme

191.  Inf. I, 125. [Inf. I, 125 (I, p. 13)].

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all’intelletto umano; anche se in un approccio del tutto oggettivo, in questa visione si vede un tratto dello spirito feudale del Medioevo: il signore si trova in assoluta contrapposizione rispetto al suddito, qui non serve l’esame delle ragioni, bensì semplice obbedienza; e in realtà la superiorità teorica e pratica dello spirito divino su quello umano non può essere caratterizzata da nulla di più marcato di quell’esemplificazione. Se l’intera concezione delle cose fosse così teocentrica, allora si tratterebbe giustamente non soltanto di un sacrilegio contro Dio ma anche di una contraddizione, di un’assurdità; tutta la morale emana da Dio, e tra i suoi precetti figurano il rivolgergli preghiere, essere battezzato, ecc. Leggi che devono essere rispettate, come tutte le altre prescrizioni etiche; e chi non le rispetta perde di conseguenza la propria beatitudine al pari di chi non adempia gli altri doveri del singolo individuo; l’uomo non può vantare diritti di fronte a Dio; da questo punto di vista, la “ribellion”192 citata dianzi, che ci sembra assurda, assume un significato letterale perfettamente legittimo. E che l’essenza di tutto ciò che è terreno richieda una tale supremazia e una simile subordinazione è il principio cardinale di Dante. Il suo Dio non è diverso dall’intero mondo, come il suo imperatore e il suo Papa non sono diversi dai membri loro sottomessi. Il suo Dio assume un carattere monarchico, del resto non può essere diversamente con un dio personale; l’intero principio monarchico di Dante ricorda per certi versi quello di Macchiavelli e ancor più quello di Hobbes: quello che il monarca fa è giusto, perché è giusto quello e soltanto quello che fa: «Cotanto è giusto quanto a lei [alla prima volontà ch’è per sé buona] consuona»193.

192.  [In italiano nel testo]. 193.  Par. XIX, 88. [Par. XIX, 86-88 (I, p. 798): «La prima volontà, ch’è da sé bona / da sé, ch’è sommo ben, mai non si mosse. / Cotando è giusto quanto a lei consona»].

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17. Governo del mondo La fondazione del potere dell’Imperatore e del Papa, però, è più profonda, anzi, è addirittura di carattere psicologico. Come sarà spiegato più avanti, nel caso di Dante, la valutazione della condizione terrena è assolutamente pessimistica. Il mondo è del tutto miserabile e corrotto, e andrebbe dritto verso la rovina dietro il fascino ingannevole della dimensione terrena se “briglia e freno” non la disciplinassero; i mortali sono così facilmente seducibili che un buon inizio non offre la benché minima garanzia di un buono sviluppo successivo; quindi deve esserci un capo che perlomeno sia in grado di distinguere le torri della vera città194; proprio perché non c’è nessuno lì a governare, il genere umano prosegue sulla strada sbagliata, così dice Dante dopo una descrizione assolutamente pessimistica della moralità umana195. Anche solo per frenare i desideri degli uomini, per opporre un argine esterno ai loro impulsi peccaminosi, serve un Imperatore e un Papa196. Ci dev’essere un unico sovrano in ogni ambito per tenere insieme le direzioni infinitamente diverse e divergenti dell’esistenza umana; poi194.  Purg. XVI, 92. [Purg. XVI, 91-96 (I, p. 454): «Di picciol bene in pria sente sapore; / quivi s’inganna, e dietro ad esso corre, / se guida o fren non torce suo amore. / Onde convenne legge per fren porre; / convenne rege aver che discernesse / della vera città almen la torre»]. 195.  Par. XXVII, 127. [Par. XXVII, 127-129 (I, pp. 878-879): «Fede e innocenza son reperte / solo nei pargoletti; poi ciascuna / pria fugge che le guance sian coperte»]. 196.  Mon. III, 4, 15. [Mon. III, 4, 14 (II.2, p. 711): «e pertanto siffatti poteri sono dei rimedi contro l’infermità prodotta dal peccato». Mon. III, 15, 9 (II.2, p. 775): «tuttavia la cupidigia umana indurrebbe a dimenticarli, se gli uomini, come cavalli spinti dalla loro bestialità a percorrere vie traverse, non fossero trattenuti sulla retta strada “con la briglia e il freno”. Per questo l’uomo ebbe bisogno di una duplice guida, in corrispondenza del duplice fine, cioè del Sommo Pontefice, per condurre il genere umano alla vita eterna e dell’Imperatore, per dirigere il genere umano alla felicità terrena attraverso gli insegnamenti della filosofia»].

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ché, così come il singolo essere umano deve cercare l’unitarietà tanto del proprio essere fisico quanto di quello spirituale, e così come questa stessa unificazione costituisce la meta più bella per la famiglia e per la singola città, allo stesso modo l’intero genere umano deve tendere verso l’unificazione, e perciò deve esserci un unico sovrano che tenga insieme il tutto, così come lo spirito nel singolo individuo dirige le sue forze verso un unico fine, quello della felicità197. Per conseguire questo scopo finale per la collettività, tuttavia, serve soprattutto la pace, e questa rinvia ancora una volta a un impero mondiale in cui non possano più esserci faide198, dal momento che lo scopo di una tale comunità non può che essere il bene di ciascun singolo individuo199. Perché – qui la dogmatica più fosca viene fatta risplendere dalla liberalità più luminosa e più gioiosa – non sono i cittadini in funzione dei consoli, né il popolo in funzio197.  Mon. I, 7, 17. [Mon. I, 7, 2 (II.2, p. 553): «Pertanto, come i raggruppamenti parziali della società umana si inquadrano ordinatamente in essa, così essa deve inquadrarsi ordinatamente nel tutto di cui fa parte; ora i raggruppamenti parziali si inquadrano ordinatamente nella società umana per il fatto che sono retti da un unico capo, come si può facilmente rilevare da quanto detto sopra». In realtà Mon. I, 15, 8 (II.2, p. 603): «ogni concordia dipende dall’unità esistente nelle volontà; ora il genere umano, quando esiste nella sua condizione perfetta, costituisce una specie di concordia (infatti, come un singolo uomo in perfette condizioni di spirito e di corpo costituisce una certa concordia, e altrettanto dicasi di una famiglia, di una città e di un regno, così lo è anche tutto quanto il genere umano)»]. 198.  Mon. I, 5. [Mon. I, 5, 8 (II.2, pp. 549-551): «Se infine consideriamo un regno particolare, il cui fine è identico a quello della città, ma con una maggior sicurezza per la conservazione della tranquillità, è necessario che vi sia un solo re che regni e governi, altrimenti non solo i sudditi non conseguono il loro fine, ma anche il regno va in rovina, secondo il detto dell’infallibile Verità: “Ogni regno diviso in se stesso andrà in rovina”». Cfr. Lc 11,17]. 199.  Mon. II, 5. [Mon. II, 5, 2 (II.2, p. 635): «se, d’altra parte, il fine di ogni società è il bene comune degli associati, bisogna ammettere necessariamente che il fine di ogni diritto è il bene comune, e che è impossibile ci sia un diritto che non miri al bene comune»].

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ne del re, bensì, all’opposto, i consoli in funzione dei cittadini, il re in funzione del popolo; e quindi anche se il console e il re respectu vie sono i signori degli altri, tuttavia respectu termini sono loro ministri; e il monarca supremo in modo particolare dev’essere considerato senza dubbio ministro di tutti200. Dunque qui dove si tratta di sviluppare la parte del suo sistema che gli è più propria, Dante sa come ergersi a una valutazione imparziale dei rapporti umani; sa come fondare in maniera razionale e priva di pregiudizi ciò che di fatto si accorda con la peggiore dogmatica – ma che, come credo fermamente, è stato anche influenzato da quest’ultima. La somiglianza con Macchiavelli e con Hobbes è inconfondibile; anche loro non vogliono le loro monarchie per via di pregiudizi lealisti o dogmatici, bensì per il vantaggio dell’insieme, che vedono nella signoria assoluta di un singolo individuo: affinché il principe possa essere il ministro di tutti, deve essere il loro sovrano assoluto; anche loro desumono le proprie ragioni dalla natura universale dell’umanità e parimenti basano le proprie conclusioni sul pessimismo morale. E se nel caso di Dante la forma di questo regime mostra un’affinità inquietante con la signoria di Dio sul cosmo, se l’idea relativa alla necessità di una signoria sull’umanità si divide in un ramo empirico-razionale e uno dogmatico-sovrannaturale, in questo riconosciamo ancora una volta il fondamento dualistico della natura di Dante, che non conosceva ancora alcun confine netto tra ciò di cui poteva rendere ragione con i fatti e ciò di cui poteva rendere ragione solo tramite un dogma. Perciò non ha perseguito

200.  Mon. I, 14. [In realtà Mon. I, 12, 11-12 (II.2, pp. 585-587): «Infatti non i cittadini sono in funzione dei consoli, né il popolo del re, ma, al contrario, i consoli sono in funzione dei cittadini, e il re del popolo […] Dal che risulta evidente che il console o il re, sebbene siano signori degli altri riguardo ai mezzi, sono invece ministri degli altri riguardo al fine, e in modo particolare lo è il Monarca, che va ritenuto indubbiamente il ministro di tutti»].

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la fondazione della propria monarchia in chiave psicologicopessimistica con la medesima coerenza degli altri due; vuole ancora che il suo regno universale sia governato dall’amore201! E in un passo afferma addirittura che ogni uomo è per natura amico dell’altro202; cosa che, però, contrasta nel modo più netto possibile col punto di partenza della teoria di Hobbes: homo homini lupus203. È anche facile notare, a partire da ragioni interne, come tali punti di vista ottimistici, a differenza di quelli pessimistici acquisiti per via empirica, rechino in sé un carattere a priori e più superficiale; basti pensare alla maniera quasi incredibile tramite cui il formalismo concettuale scolastico ha tacitato la propria conoscenza della natura umana in virtù dell’assunto che il monarca, siccome avrebbe posseduto ogni cosa, sarebbe stato libero da ogni desiderio! – Certamente le sue esperienze insieme alla natura arida della Scolastica, piena di disprezzo per il mondo, incidono sulle sue opinioni in qualche modo contrastanti sul valore della vita e degli esseri viventi. I mortali sono semplicemente descritti come “miseri”204, la notte è per eccellenza ciò che libera gli uomini dalle loro fatiche205, ed è significativo per lui che molto spesso il discorso cominci con 201.  Mon. I, 11. [Mon. I, 11, 13 (II.2, p. 573): «Perciò la persona che è capace di raggiungere il più alto grado di retto amore può attingere il massimo livello di giustizia; ora, questa persona è il monarca; quindi, con il monarca si instaura, o può instaurarsi, il massimo grado di giustizia»]. 202.  Co. I, 1. [Co. I, 1, 8 (II.2, p. 66): «Ma però che ciascuno uomo a ciascuno uomo naturalmente è amico»]. 203.  Th. Hobbes, De Cive, a cura di B. Warrender, Clarendon Press, Oxford 1983, p. 73; tr. it., Elementi filosofici sul cittadino, a cura di N. Bobbio, UTET, Torino 1948, p. 52. 204.  Par. XXVIII, 2. [Par. XXVIII, 2 (I, p. 881): «de’ miseri mortali aperse ’l vero». “Miseri” in italiano nel testo]. 205.  Inf. II, 1. [Inf. II, 1-3 (I, p. 15): «Lo giorno se n’andava, e l’aere bruno / toglieva li animai che sono in terra / dalle fatiche loro»].

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“Ah!”206. La vita è una dura milizia207, e sarebbe somma follia non scambiarla volentieri con quella celeste208; Dante è così dimesso nella propria concezione della felicità da identificarla con la mera soddisfazione209, e individua nella pace la più alta beatitudine raggiungibile210. Tutti i piaceri che la terra ci può offrire ci sembrano incompleti perché nessuno è così grande da soddisfare la sete di perfezione del nostro essere211. I beni terreni effimeri, che dipendono dalla fortuna, sono dunque privi di valore212, ed è insensata questa cura dei mortali: «chi dietro a iura, e chi ad aforismi / sen giva, e chi seguendo sacerdozio, / e chi regnar per forza o per sofismi, / e chi rubare, e chi civil negozio; / chi nel diletto della carne involto / s’affaticava, e chi si dava all’ozio, / quando, da tutte queste cose sciolto, / con Beatrice m’era suso in cielo / cotanto gloriosamente

206.  V. E. I, 4. [V. E. I, 4, 4 (II.1, p. 391): «È dunque ragionevole che, come dopo la trasgressione commessa dal genere umano ogni uomo comincia a parlare dicendo “ahi”, così colui che precedette tale trasgressione abbia invece iniziato con gioia»]. 207.  Par. V, 117. [Par. V, 115-117 (I, pp. 664-665): «O bene nato a cui veder li troni / del triunfo eternal concede grazia / prima che la milizia s’abbandoni»]. 208.  Par. XIV, 25. [Par. XIV, 25-27 (I, p. 746): «Qual si lamenta perché qui si moia / per viver colà su, non vide quive / lo refrigerio dell’eterna ploia»]. 209.  Co. III, 8. [Co. III, 8, 5 (II.2, pp. 179-180): «e intra li altri di quelli lo più nobile e quello che è inizio e fine di tutti li altri, sì è contentarsi, e questo si è essere beato»]. 210.  Par. V, 61. [In realtà Purg. V, 61-63 (I, p. 358): «voi dite, e io farò per quella pace / che dietro a’ piedi di sì fatta guida / di mondo in mondo cercar mi si face»]. 211.  Co. III, 6. [Co. III, 6, 7 (II.2, p. 173): «e questo è quello desiderio che sempre ne fa parere ogni dilettazione manca; ché nulla dilettazione è sì grande in questa vita che a l’anima nostra possa torre la sete, che sempre lo desiderio che detto è non rimagna nel pensiero»]. 212.  Inf. VII, 61. [Inf. VII, 61-63 (I, pp. 66-67): «Or puoi veder, figliuol, la corta buffa / de’ ben che son commessi alla Fortuna, / per che l’umana gente si rabbuffa»].

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accolto»213. Così anche ogni essere umano, fintanto che si trova in terra, in qualche modo è macchiato da una passione, o da un difetto fisico, dai tiri del destino, dalla vergogna dei parenti214. Solo ai dannati la vita sulla terra sembra naturale come “bella” e “lieta”215; ma se l’Inferno viene detto “mal mondo”216 e il cielo viene chiamato “mondo pulcro”217, allora per contro il mondo terreno è “mondo fallace”218, per così dire il peggiore nel mezzo tra i due, e infatti gravita attorno al primo.

18. Pessimismo Ma questo pessimismo generale si basa senz’altro su un pessimismo etico; la miseria del mondo è generata dalla peccaminosità del genere umano, il nostro aggravio dai nostri vizi219. 213.  Par. XI, 1. [Par. XI, 1-12 (I, pp. 714-715): «O insensata cura de’ mortali, / quanto son difettivi sillogismi / quei che ti fanno in basso batter l’ali! / Chi dietro a iura, e chi ad aforismi / sen giva, e chi seguendo sacerdozio, / e chi regnar per forza o per sofismi, / e chi rubare, e chi civil negozio, / chi nel diletto della carne involto / s’affaticava, e chi si dava all’ozio, / quando, da tutte queste cose sciolto, / con Beatrice m’era suso in cielo / cotanto gloriosamente accolto»]. 214.  Co. I, 4. [Co. I, 4, 10 (II.2, p. 76): «Quando è l’uomo maculato d’una passione, a la quale talvolta non può resistere; quando è maculato d’alcuno disconcio membro; e quando è maculato d’alcuno colpo di fortuna; e quando è maculato d’infamia di parenti o d’alcuno suo prossimo»]. 215.  [Cfr. Inf. XV, 57 (I, p. 138): «vita bella» e Inf. XIX, 102 (p. 177): «vita lieta». “Bella” e “lieta” in italiano nel testo]. 216.  [Cfr. Inf. XIX, 11 (I, p. 171). “Mal mondo” in italiano nel testo]. 217.  [Cfr. Inf. VII, 58 (I, p. 66). “Mondo pulcro” in italiano nel testo]. 218.  [Cfr. Par. X, 125 (I, p. 712) e Par. XV, 146 (I, p. 765). “Mondo fallace” in italiano nel testo]. 219.  Inf. XIX, 104. Par. XIII, 108. [Inf. XIX, 104 (I, p. 177): «ché la vostra avarizia il mondo rattrista». Par. XIII, 108 (I, p. 742): «ai regi, che son molti, e i buon son rari»].

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In effetti, abbiamo avuto soltanto la forza di peccare; ci manca la forza per espiare quegli stessi peccati220; il peccato avviene tutto in una volta, ma le forze crescono verso il bene solo poco per volta221, anzi, in un passaggio la vita è definita addirittura come un “posse peccar”222. La volontà buona fiorisce davvero nell’uomo, ma la pioggia eterna della “cupidigia”223 ne rovina i frutti224; tale è la ricerca della ricchezza, e quest’ultima in sé è soltanto una maledizione per l’umanità, perché promette sempre soddisfazione solo a patto di aver già raggiunto un certo livello; in realtà non la concede mai, e induce a procedere sempre oltre, provocando una sete febbrile al posto di una pienezza ristoratrice. In generale, il desiderio umano aumenta sempre con la sua soddisfazione. E la ragione è questa: la meta finale di tutto il desiderare è Dio, per dir così la base della piramide dei nostri desideri, rispetto alla quale noi partiamo dal vertice, sicché procedendo dobbiamo abbracciare aree sempre più ampie; poiché in nessuna cosa troviamo proprio tutto quello che bramiamo, cerchiamo dunque sempre di più e sempre più lontano – così il pellegrino crede di trovare un albergo in ogni casa che incontra; così la meta dei desideri del ragazzo è prima una mela, poi un uccello, poi un bel ve-

220.  Par. VII, 97. [Par. VII, 97-100 (I, pp. 681-682): «Non potea l’uomo ne’ termini suoi / mai sodisfar, per non potere ir giuso / con umiltade obediendo poi, / quanto disobediendo intese ir suso»]. 221.  Par. XVIII, 58. [Par. XVIII, 58-60 (I, p. 788): «E come, per sentir più dilettanza / bene operando, l’uom, di giorno in giorno, / s’accorge che la sua virtute avanza»]. 222.  Purg. XI, 90. [Purg. XI, 88-90 (I, p. 412): «Di tal superbia qui si paga il fio; / e ancor non sarei qui, se non fosse / che, possendo peccar, mi volsi a Dio». “Posse peccar” in italiano nel testo]. 223.  [In italiano nel testo]. 224.  Par. XVII, 121. [In realtà Par. XXVII, 121-123 (I, p. 878): «Oh cupidigia che i mortali affonde / sì sotto te, che nessuno ha podere / di trarre li occhi fuor dalle tue onde!». “Cupidigia” in italiano nel testo].

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stito, un cavallo, una donna, un po’ di ricchezza, poi ricchezza maggiore, ecc. E quasi sempre quest’ultima è acquisita in maniera ingiusta e scellerata225. Si può ancora scorgere un certo ottimismo nella disposizione secondo cui i gironi dei dannati diminuiscono di dimensione con la crescente gravità del reato, e nell’affermazione seguente: «Contra miglior voler, voler mal pugna»226. L’introduzione al poema, tuttavia, assume un peso ancora maggiore se effettivamente deve rappresentare, e non vi è dubbio al riguardo, la condizione generale del mondo e della vita; la minaccia costante dei peccati rappresentati dai tre animali, e di venir annientati da essi, può essere evitata soltanto per via di uno speciale intervento celeste; e la disposizione dei luoghi mostra già un contesto fatale: la vita stessa, già di per sé infernale («poco è più morte»!227), sembra trovarsi molto prossima all’Inferno. E così come ogni delusione nasce a partire da un’aspettativa, ossia un pessimismo di tal genere nasce sulla base di un idealismo morale, allo stesso modo, come già detto, Cristo è per Dante colui che è assolutamente puro, per così dire l’“uomo in sé” a cui tutti possono essere ricondotti, in quanto loro misura e idea. Dante preferisce rivolgere le proprie condanne morali contro intere città e popoli. I Tedeschi gli risultano assolutamente avidi228, i Francesi vanitosi229, gli Italiani completamente corrot-

225.  Co. IV, 11, 12. [In realtà Co. IV, 12, 16 (II.2, p. 257): «Onde vedemo li parvuli desiderare massimamente un pomo; e poi, più procedendo, desiderare uno augellino; e poi, più oltre, desiderare un bel vestimento; e poi lo cavallo; e poi una donna; e poi ricchezza non grande, e poi grande, e poi più»]. 226.  Purg. XX, 1. [Purg. XX, 1 (I, p. 484). In italiano nel testo]. 227.  Inf. I, 7. [Inf. I, 7 (I, p. 4). In italiano nel testo]. 228.  Inf. XVII, 21. [Inf. XVII, 21 (I, p. 154): «e come là tra li Tedeschi lucri»]. 229.  Inf. XXIX, 123. [Inf. XXIX, 121-123 (I, pp. 269-270): «E io dissi al poeta: “Or fu già mai / gente sì vana come la senese? Certo non la francesca sì d’assai!”»].

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ti230; tra le città naturalmente è Firenze quella di cui dipinge le peculiarità con le tinte più fosche, sul cui “ingrato popolo maligno”231 accumula ogni indignazione per la depravazione morale. I Bolognesi si caratterizzano per la loro avarizia232, i Lucchesi per la loro fraudolenza233, i Senesi per la loro vanità, che supera persino quella dei Francesi; Pistoia, Pisa e Genova sono così depravate che il poeta si augura la loro completa distruzione234. – Assumendo un’ottica che si potrebbe quasi definire di psicologia dei popoli, Dante ha abbracciato con lo sguardo le peculiarità delle varie unità nazionali e politiche e le loro condizioni. Sa che la cosa assolutamente necessaria per il singolo individuo è l’esser membro di una collettività, cittadino di uno Stato organizzato235, benché non nasconda il fatto che la condizione del singolo Stato sia quella di dover tramontare, allo stesso modo di quella personale, come si è già visto dianzi. Eppure – qui irrompe già lo spirito moderno – malgrado la necessità di essere cittadino, non devono soffrirne le giuste esigenze dell’anima individuale; nonostante il più intenso amore per Firenze, in quell’incomparabile lettera

230.  Purg. VII. [I, pp. 372-380]. 231.  [Cfr. Inf. XV, 61 (I, p. 138)]. 232.  Inf. XVIII, 63. [Purg. XVIII, 58-63 (I, pp. 165-166): «E non pur io qui piango bolognese; / anzi n’è questo luogo tanto pieno, / che tante lingue non son ora apprese / a dicer “sipa” tra Sàvena e ’l Reno; / e se di ciò vuoi fede o testimonio, / rècati a mente il nostro avaro seno»]. 233.  Inf. XXI, 41. [Inf. XXI, 41-42 (I, pp. 191-192): «ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo; / del no per li denar vi si fa ita»]. 234.  Inf. XXV, 10, XXXIII, 79. [Inf. XXV, 10-12 (I, p. 226): «Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi / d’incenerarti sì che più non duri, / poi che in mal far lo seme tuo avanzi?». Inf. XXXIII, 79 (I, p. 306): «Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese là dove ’l sì suona, / poi che i vicini a te punir son lenti»]. 235.  Par. VIII, 115. [Par. VIII, 115-117 (I, p. 692): «Ond’elli ancora: “Or dì: sarebbe il peggio per l’uomo in terra se non fosse cive?” / “Sì” rispuos’io; “e qui ragion non cheggio”»].

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all’amico fiorentino236, Dante rinuncia al ritorno in patria, che gli era stato offerto a condizioni ignominiose: ad ogni modo la vista delle stelle e i suoi studi gli rimangono praticabili ovunque! Anzi, in uno slancio sublime di orgoglio, che ovviamente scaturisce dal dolore più profondo ma rassegnato nei confronti della propria città natale, afferma: «noi invece che abbiamo per patria il mondo, come i pesci il mare»237. Una malinconia profonda pervade le sue convinzioni relativamente alla situazione pubblica, e con grandissimo dolore ne avverte la graduale depravazione238, di cui ravvisa nel sovrappopolamento delle città un fattore essenziale, che per esse è altrettanto esiziale quanto la sovralimentazione lo è per il corpo; in particolare, però, esprime questo pessimismo in quella grande allegoria della storia del mondo: l’osserva sotto le sembianze di un vegliardo, che guarda da est a ovest, indicando in tal modo la direzione del corso della storia. Le sue singole membra indicano le diverse età: la testa è d’oro fino, il petto e le braccia sono d’argento puro, il corpo è di rame fino ai fianchi; da lì in giù è tutto di ferro, tranne il piede destro che è d’argilla – e si regge in particolare proprio su di esso – questa è chiaramente la condizione attuale in cui si trova la storia del mondo e che fa temere un crollo imminente. Oltre a questo, però, un’incrinatura corre dal collo attraverso tutto il corpo, e lascia fuori solo la testa (l’età dell’oro); attraverso di essa scorrono lacrime che il corpo emette e che poi formano i fiumi dell’Inferno239. – Le 236.  [Epistola XII, 2 (II.2, p. 435): «mi fu comunicato riguardo al decreto da poco emanato in Firenze sull’assoluzione dei banditi che se volessi pagare una certa quantità di denaro e volessi patire l’onta dell’offerta, e potrei essere assolto e subito ritornare»]. 237.  V. E. I, 44. [In realtà V. E. I, 6, 3 (II.2, p. 397)]. 238.  Par. XV, 97. [Par. XV, 97-99 (I, p. 761): «Fiorenza dentro dalla cerchia antica, / ond’ella toglie ancora e terza e nona, / si stava in pace, sobria e pudica»]. 239.  Inf. XIV, 103. [Inf. XIV, 103-117 (I, pp. 131-132): «Dentro dal monte sta dritto un gran veglio / che tien volte le spalle inver Damiata / e Roma

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lacrime dunque sono l’esito più rilevante del corso del mondo, dalle origini a oggi. Da una valutazione storico-psicologica così pacata senza dubbio trapela di tanto in tanto l’orientamento del suo dogma: il popolo romano – così pensa Dante – ha sottomesso il mondo con le intenzioni più pure e disinteressate, avendo in mente soltanto il bene comune240!

19. Psicologia politica Nell’ambito del sapere politico-psicologico rientrano anche quei rapporti di somiglianza, più volte menzionati, che l’anima individuale intrattiene con il tutto, in particolare l’esigenza di ricondurre lo Stato all’unità dei suoi elementi, così come per l’anima è necessario unificare il più possibile le sue varie facoltà, e inoltre la consapevolezza che l’ordine dei componenti del suo impero mondiale debba essere confrontato con quello delle facoltà psichiche, e che entrambi richiedano una signoria suprema, senza limiti e unitaria; che i caratteri delle collettività, al pari di quelli degli individui, possiedano le

guarda come suo speglio. / La sua testa è di fino oro formata, / e puro argento son le braccia e il petto, / poi è di rame infino alla forcata. Da indi in giuso è tutto ferro eletto, / salvo che ’l destro piede è terra cotta; / e sta su quel più che su l’altro eretto. / Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta / d’una fessura che lagrime goccia, / le quali, accolte, foran quella grotta. / Lor corso in questa valle si diroccia: / fanno Acheronte, Stige e Flegetonta; / poi se van giù per questa stratta doccia»]. 240.  Mon. II, 5. [Mon. II, 5, 5 (II.2, p. 637): «Ora, che il popolo romano, nel sottomettere il mondo, intendesse realizzare il bene pubblico, lo dimostrano chiaramente le sue imprese nelle quali, bandendo ogni cupidigia, che è sempre nemica della repubblica, e dimostrando di amare la pace universale e la libertà, quel santo, pio e glorioso popolo sembra aver trascurato il proprio interesse, al fine di procurare quello pubblico per la salvezza del genere umano»].

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proprie qualità del tutto peculiari e distinte che permettono loro di svolgere funzioni altrettanto specifiche nel cosmo, e soltanto queste; che alcuni individui siano nati per governare, altri per servire, ecc. In questo contesto si noti che, così come Dante intende l’anima individuale quasi come specchio dell’anima del volgo, allo stesso modo la storia della città di Roma gli appare come specchio dell’intera storia del mondo, perfettamente in relazione ai suoi alti e bassi, al suo fiorire e alla sua depravazione241. Il nesso fondamentale che Dante stabilisce, tuttavia, tra l’organizzazione dell’anima umana e quella della collettività consiste nel suo principio delle due forze; non soltanto dev’esserci un sovrano di tutti, che è per l’umanità quello che è un principio generale dell’anima, che viene unificata da quest’ultimo, bensì, come nell’uomo abitano due nature, allo stesso modo dev’esserci un sovrano per ciascuna di esse, cosa indotta dalla separazione assoluta tra le due e capace di rappresentarla all’esterno. In realtà, la necessità – in senso dantesco – di un Papa e di un Imperatore, rispetto a cui quello dominava l’aspetto interiore dell’esistenza umana, mentre questo dominava quello esteriore, sta insieme e cade insieme con la necessità di adottare quel dualismo assoluto in chiave antropologica. L’uomo, infatti, deve consistere di due nature, una naturale e sensibile, l’altra razionale, donatagli da Dio, e ciascuna deve seguire una strada totalmente divergente rispetto all’altra e dunque ha bisogno di una guida particolare. Si ammette senz’altro che all’inizio gli impulsi divini non differiscano affatto da quelli naturali, al pari degli steli del grano, che sono anche molto simili nel momento in cui germinano, ma che in seguito si sviluppano in maniera totalmente diversa; così pure ammette come l’istinto di autoconservazione sia comune a entrambi i versanti 241.  Inf. XIV, 105. [Inf. XIV, 105 (I, p. 132): «e Roma guarda come suo speglio»].

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del nostro essere242. Quanto al resto, però, in rapporto alla loro origine, come già detto, divergono in base ai propri obiettivi, ossia la felicità terrena e celeste, e secondo i propri percorsi, vale a dire la vita attiva e quella contemplativa. Gli errori di cui soffre questa dottrina sono già stati segnalati in precedenza. Di conseguenza, la “vita civile”243, che costitui­ sce l’opposto della “vita contemplativa”244, e che deve essere soggetta all’Imperatore, dovrebbe essere totalmente di natura sensibile – mentre invece non serve rammentare che richiede anche le più alte funzioni dell’intelletto, cosa che anche Dante certamente non avrebbe negato. Se si vuole che il coordinamento e la reciproca indipendenza dell’impero e del papato siano così perfetti come vorrebbe Dante, entrambi infatti devono diramarsi a partire da quell’unico punto che è Dio245, allora le due facoltà dell’anima su cui si fondano – per cercare di essere brevi – dovrebbero essere parimenti indipendenti l’una dall’altra e di uguale importanza per la nostra vita; secondo Dante, però, non è questo il caso, piuttosto il sensibile è decisamente subordinato al razionale, anzi, è in sé assolutamente animale, e riceve la propria qualità in quanto peculiarità umana soltanto attraverso l’avvento di quel che Dio gl’ispira; 242.  Co. IV, 22. [Co. IV, 22, 5 (II.2, p. 287): «E sì come ne le biade che, quando nascono, dal principio hanno quasi una similitudine ne l’erba essendo, e poi si vengono per processo dissomigliando; così naturale appetito che de la divina grazia surge, dal principio quasi si mostra non dissimile a quello che pur da natura nudamente viene, ma con esso, sì come l’erbate quasi di diversi biadi, si somiglia»]. 243.  [In italiano nel testo]. 244.  [In italiano nel testo]. 245.  Ai Principi e ai Popoli d’Italia, 5. [Epistola V, 5 (II.2, p. 379): «il quale benché gli sia stato concesso da Dio il castigo temporale, tuttavia per specchiare la bontà di quello da cui come da un punto si biforca la potestà di Pietro e di Cesare, punisce volentieri la sua famiglia, ma più volentieri la commisera». “Velut a puncto bifurcate” in latino nel testo].

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Dante riconosce questa superiorità anche quando dice: tutto è per natura o per intelletto; ma indirettamente tutto è per quest’ultimo, a motivo del fatto che la natura è anche opus intelligentiae246; e benché il lato attivo e quello contemplativo della nostra natura conducano entrambi alla felicità, Dante tuttavia aggiunge: quella è buona, ma questa è ottima247. E ancora più forte è il detto seguente: «due perfezioni abbia l’uomo […] la prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono»248. Così come, quindi, in base alla funzione, questa parte dell’anima si situa al di sopra di quella, e così come la vita religiosa, anzi, la vita ultraterrena si situa al di sopra di quella terrena – allo stesso modo il Papa dovrebbe collocarsi altrettanto al di sopra rispetto all’Imperatore. L’errore fondamentale del sistema, accanto alla separazione assoluta e genetica delle facoltà dell’anima, consiste proprio nella confusione tra lo spirituale e il religioso; se lo spirito viene da Dio, allora esso rientra sotto il potere di scomunica da parte dell’autorità religiosa, il coordinamento richiesto manca del necessario fondamento, e il dualismo deve cadere in un monismo spiritualistico – così come, anzi, ogni teismo in generale, se lo si prende sul serio, si trasforma in panteismo; riguardo a tali affermazioni, però, non si può pretendere una prova più lampante di quella che sta nell’idea di Dante secondo cui il desiderio di Dio rende ogni cosa ciò che è249. Se, però, 246.  A Cangrande, 21. [Epistola XIII, 21 (II.2, p. 459): «ciò che è causato, lo è dalla natura o dall’intelletto, e ciò che è causato dalla natura, lo è conseguentemente dall’intelletto, poiché la natura è opera dell’intelligenza». “Opus intelligentiae” in latino nel testo]. 247.  Co. IV, 17. [Co. IV, 17, 9 (II.2, p. 274): «l’una è la vita attiva, l’altra la contemplativa; la quale, avvegna che per l’attiva si pervegna, come detto è, a buona felicitade, ne mena ad ottima felicitade e beatitudine»]. 248.  Co. I, 13. [Co I, 13, 3 (II.2, p. 98). “La prima lo fa essere, la seconda lo fa essere buono” in italiano nel testo]. 249.  Par. XX, 77. [Par. XX, 76-78 (I, p. 808): «tal mi sembiò l’imago de l’imprenta / de l’eterno piacere, al cui disio / ciascuna cosa qual ell’è diventa»].

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noi stessi prendiamo in considerazione il fatto che il razionale, in base alla propria sostanza, pur emanando da Dio, tuttavia diverge nelle proprie funzioni – da un lato s’indirizzava verso le cose terrene, e dall’altro lato verso il divino – allora esso continua sempre a oscillare tra cielo e terra, essendo di natura troppo divina, per non contraddire i fatti, e però di natura troppo terrena, per non contraddire la sua pretesa origine. Si pensi alle conseguenze complicate e contraddittorie che questa separazione deve comportare per l’immortalità. Il tratto marcatamente dualistico, che questa separazione dei due principi dell’essere implica, trova espressione anche nella tendenza di Dante a respingere l’antropomorfizzazione dell’essenza divina. Pur enfatizzando continuamente, ad esempio, l’amore come ciò che muove il motore immobile, Dante – come si continuerà a dimostrare nel prosieguo – riconduce con fare deciso questo amore dalla dimensione psicologica a quella metafisica; allo stesso modo, il concetto di “giustizia”250, attribuito allo spirito divino, mantiene qualcosa di mistico e di metafisico che stempera in maniera sostanziale l’antropomorfismo che vi è insito; in tal modo la sua essenza viene chiamata “viva giustizia”251, “giustizia sempiterna”252, la si identifica con Dio stesso, mentre dall’altra parte viene nuovamente menzionata come serva del sommo Signore253; il suo concetto assume anche una dimensione più ampia, che oltrepassa quella antropologica,

250.  [In italiano nel testo]. 251.  Par. VI, 121. [Par. VI, 121-123 (I, pp. 674-675): «Quindi addolcisce la viva giustizia / in noi l’affetto sì, che non si puote / torcer già mai ad alcuna nequizia». “Viva giustizia” in italiano nel testo]. 252.  Par. XIX, 58. [Par. XIX, 58-60 (I, p. 797): «però nella giustizia sempiterna / la vista che riceve il vostro mondo / com’occhio per lo mare, entro s’interna». “Giustizia sempiterna” in italiano nel testo]. 253.  Inf. XXIX, 55. [Inf. XXIX, 55-57 (I, p. 266): «là ’ve la ministra / de l’alto sire infallibil giustizia / punisce i falsador che qui registra»].

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come accade, benché senza dubbio in misura molto maggiore, al concetto di “amore”254. In altri passi è direttamente impegnato a scongiurare l’umanizzazione degli attributi divini: «Regnum coelorum violenza pate / da caldo amore e da viva speranza, / che vince la divina volontate; / non a guisa che l’uomo a l’uom sobranza, / ma vince lei perché vuol esser vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza»255. La bontà divina, completamente libera dall’invidia, lascia che i propri effetti eterni emanino da sé: ciò che sorge direttamente da essa non è soggetto alle leggi della natura; (per via del peccato) la natura umana risulta «dissimile al sommo bene»256. Spesso si mette in risalto come la Parola di Dio sopravanzi infinitamente tutto ciò che essa stessa ha prodotto, cosicché anche la natura umana, anzi addirittura quella angelica, si riduce a un misero ricettacolo di quel bene che è infinito e può servire soltanto come misura a se stesso257. È già stato menzionato il passo in cui Dante mostra come la raffigurazione umana di Dio, tramite cui la tradizione lo rappresenta, sia dovuta esclusivamente alla debolezza dell’immaginazione umana. Nel passo in cui assegna la dimora a Dio in cielo, aggiunge subito: «non circunscritto, ma per più amore / ch’ai primi effetti di là su tu hai»258. Dunque non vi è assolutamente

254.  [In italiano nel testo]. 255.  Par. XX, 94. [Par. XX, 94-99 (I, p. 809)]. 256.  Par. VII, 64. [Par. VII, 64-66 e 79-80 (I, pp. 680-681): «La divina bontà, che da sé sperne / ogni livore, ardendo in sé, sfavilla / sì che dispiega le bellezze eterne. […] Solo il peccato è quel che la disfranca, / e falla dissimile al sommo bene»]. 257.  Par. XIX, 40. [Par. XIX, 40-45 e 49-51 (I, p. 796): «Poi cominciò: “Colui che volse il sesto / a lo stremo del mondo, e dentro ad esso / distinse tanto occulto e manifesto, / non poté suo valor sì fare impresso / in tutto l’universo, che ’l suo verbo / non rimanesse in infinito eccesso. […] e quinci appar ch’ogni minor natura / è corto recettacolo a quel bene / che non ha fine a sé con sé misura»]. 258.  Par. XI, 1. [In realtà Purg. XI, 1-3 (I, p. 407)].

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nulla di contraddittorio se in un passo (Par. II, 127-44)259 tende a comprendere l’organizzazione del cielo stellato per mezzo della potenza divina tramite l’analogia con l’anima umana e le sue manifestazioni. Entrambi i termini dell’analogia risultano parimenti soggetti al principio metafisico della materia e della forma, e in tal modo l’anima umana viene elevata più di quanto il divino venga sminuito.

20. Idea di Dio A ciò si lega una serie di riflessioni, che però intendo perlomeno abbozzare. Ho l’impressione che Dante si sforzasse di tenere lontana l’idea di Dio in particolare dai sentimenti umani, non riconoscendo a Dio alcuna qualità psicologica vera e propria; e mi sembra che qui si possa trovare un sintomo significativo della trasformazione interiore che era accaduta nel cristianesimo fin dalle origini. Infatti, erano proprio gli attributi psicologici a caratterizzare il Dio cristiano rispetto agli antichi pagani. Per via del temperamento mediamente sanguigno e collerico dei suoi popoli, l’antichità aveva individuato gli attributi dei propri dei essenzialmente nella dimensione esteriore: in essi il divino si riferiva a forme di attività, di cui gli dei venivano concepiti come massima realizzazione o come

259.  [Par. II, 127-144 (I, pp. 639-640): «Lo moto e la virtù de’ santi giri, / come dal fabro l’arte del martello, / da’ beati motor convien che spiri; / e ’l ciel cui tanti lumi fanno bello, / de la mente profonda che lui volve / prende l’image e fassene suggello. / E come l’alma dentro a vostra polve / per differenti membra e conformate / a diverse potenze si risolve, / così l’intelligenza sua bontate / multuplicata per le stelle spiega, / girando sé sovra sua unitate. / Virtù diversa fa diversa lega / col prezioso corpo ch’ella avviva, / nel qual, sì come vita in voi, si lega. / Per natura lieta onde deriva, / la virtù mista per lo corpo luce / come letizia per pupilla viva»].

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protettori; ciò che fanno, più di ciò che sono, contrassegna la loro essenza ed è oggetto di culto. Il cristianesimo, il cui carattere risultava più malinconico (era appunto la religione dei sofferenti e degli oppressi), concepiva anche il principio divino come maggiormente legato all’interiorità e lo dotava di qualità specificamente psicologiche. Come il valore e l’essenza della religiosità per il cristiano consisteva nel fatto che il suo cuore parlava a Dio, così egli parlava anche al cuore del suo Dio; e nella personalità di Cristo questi sentimenti puramente umani, attribuiti a Dio, vengono documentati con la massima chiarezza. Tanto più però questa Chiesa cresceva in estensione e potere, quanto più l’idea di Dio si elevava dalla posizione all’interno dei cuori a quella al di sopra dei cuori, e al posto del rapporto personale immediato con Dio, agevolato dall’identità del contenuto psicologico, subentrò la mediazione del sacerdozio. Perciò nello sforzo di Dante di ricondurre le qualità psicologiche di Dio alla dimensione metafisica, totalmente sovrumana, ravviso questa tendenza benevola verso la gerarchia, di cui però, in quanto tale, Dante non era affatto consapevole, gli era stata bensì semplicemente infusa come tradizione. – Là dove nella dottrina cristiana si trovano fattori psicologici che ne sono caratteristici in quanto tali, Dante se ne è appropriato nella maniera più intima; come l’idea secondo cui la beatitudine del Paradiso consiste nella visione di Dio260. Quasi tutte le altre religioni situano la beatitudine in elementi decisamente più fisici: la religione cristiana cerca la beatitudine in una funzione del senso che, in base al rozzo senso comune, ha bisogno della minima mediazione fisica, come risulta già dalle molte espressioni, riferibili direttamente a lui, tramite cui vicariare la dimensione spirituale (visione, chiaro,

260.  Ad esempio Par. XXVIII, 109. [Par. XXVIII, 109-111 (I, p. 890): «Quinci si può veder come si fonda / l’esser beato ne l’atto che vede, / non in quel ch’ama, che poscia seconda»].

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ecc.). A quel tempo, anche nella scienza, si considerava generalmente lo sguardo come l’unico senso su cui la luce agisse senza alcun’altra intromissione della materia. A questo proposito, nel corso della propria vita, Dante tende di nuovo verso le idee cristiane più pure, dal momento che queste erano già arrivate a un altissimo grado di superficialità nella traduzione in chiave sensibile delle gioie del Paradiso, benché si fossero legate principalmente allo sguardo e all’udito. – Inoltre, è sempre un segno di attitudine psicologica il fatto che egli assegni il massimo peso allo stato d’animo del peccatore di contro agli strumenti di grazia della Chiesa; Guido di Montefeltro non viene salvato dalla promessa di assoluzione del Papa, con la quale questi gli ha carpito il suo cattivo consiglio: «ch’assolver non si può chi non si pente, / né pentére e volere insieme puossi, / per la contradizion che nol consente»261; e, d’altra parte, la scomunica non è in grado di provocare la dannazione eterna qualora il peccatore si penta interiormente anche solo quando ormai è in fin di vita262, e nello stesso passaggio parla del potere assolutorio della vergogna relativa a un’ingiustizia commessa263 – cui attribuisce il massimo valore per la vita morale264 –, e del principio secondo cui chi non è religioso non

261.  Inf. XXVII, 118. [Inf. XXVII, 118-120 (I, p. 252)]. 262.  Purg. III, 133; V, 107. [Purg. III, 133-135 (I, p. 346): «Per lor maladizion sì non si perde, / che non possa tornar l’eterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde». Purg. V, 106-108 (I, p. 360): «Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lacrimetta che ’l mi toglie; / ma io farò dell’altro altro governo»]. 263.  Purg. V, 20, Inf. XXX, 142. [Purg. V, 19-21 (I, p. 356): «Che poteva io ridir, se non “Io vegno”? / Dissilo, alquanto del color consperso / che fa l’uom di perdon tal volta degno». Inf. XXX, 142-144 (I, pp. 279-280): «“Maggior difetto men vergogna lava” disse ’l maestro, “che ’l tuo non è stato; / però d’ogne trestizia ti disgrava”»]. 264.  Co. IV, 25. [Co. IV, 25, 3 (II.2, p. 301): «E però la vergogna è apertissimo segno in adolescenza di nobilitade»].

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può espiare con obblighi esteriori; per la religiosità infatti non serve l’abito religioso, poiché Dio “non vuole religioso di noi se non il cuore”265; infine parla dei valori che attribuisce alla confessione della colpa.

265.  Co. IV, 28. [Co. IV, 28, 9 (II.2, p. 315): «perché Dio non volse religioso di noi se non lo cuore»].

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Parte seconda

1. Determinazioni etiche Con queste asserzioni entriamo nell’ambito delle norme etiche. Il loro principio fondamentale è l’affermazione della libertà umana; Dante non s’impegna in una discussione del puro dato di fatto, in una disputa dettagliata contro l’opinione contraria; né vi sarebbe alcun rapporto particolare tra questa discussione della più metafisica di tutte le domande e il nostro compito; ma gli interrogativi a cui cerchiamo risposte di carattere psicologico riguardano il modo in cui questa libertà prefissata si manifesti nello sviluppo della vita dell’anima, e la maniera in cui si accordi con le altre determinazioni del sistema. Innanzitutto si rammenti che il libero arbitrio in noi è innato ed è il dono più grande che Dio ci abbia concesso nella sua generosità creatrice, quello massimamente conforme alla sua bontà, e che lui stesso considera il più prezioso1. Questa posizione significativa e singolare del libero arbitrio, che scaturisce dal suo senso profondamente morale, è connessa alla disposizione secondo cui i primissimi atti di volontà, “l’affetto 1.  Par. V, 19. [Par. V, 19-22 (I, p. 658): «Lo maggior don che Dio per sua larghezza / fesse creando ed alla sua bontate / più conformato e qual ch’e’ più apprezza, / fu della volontà de la libertate»].

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de’ primi appetibili”2, non provengono ancora dal libero arbitrio, non sono ancora soggetti a imputabilità sul piano etico. E qui in effetti s’intendono per un verso le prime pulsioni infantili, per l’altro i germi, per così dire, i primi differenziali di tutti gli atti di volontà in generale; l’emergere dell’inclinazione segue leggi puramente naturali, non possiamo farci nulla se qualcosa stuzzica il nostro desiderio; questo è un mero dato di fatto psicologico. La libertà, e con essa la responsabilità, consiste dunque soltanto nel fatto che possiamo cedere ai primi impulsi involontari oppure sopprimerli; «di necessitate / surga ogni amor – di ritenerlo è in voi la podestate»3; questo “ritenere”4 può assumere il doppio significato, di mantenere oppure di trattenere, di impedire, e sospetto che l’espressione ambigua sia stata scelta di proposito. La forza che attua tutto questo, che deve sorvegliare la soglia del consenso (a un’inclinazione originatasi), viene contrassegnata come «virtù che consiglia»5. Dunque è l’intelletto che giudica il bene e il male, e a cui poi segue la volontà: il liberum arbitrium è il liberum de voluntate iudicium; il iudicium, però, è una specie via di mezzo tra l’apprensione e il desiderio dell’oggetto, e libertà significa in realtà l’indipendenza del iudicium dall’appetitus6. (In questo passo l’apprensione include quella prima

2.  [Cfr. Purg. XVIII, 57 (I, p. 469)]. 3.  [Purg. XVIII, 70-72 (I, p. 470). In italiano nel testo]. 4.  [In italiano nel testo]. 5.  Purg. XVIII, 55. [In realtà Purg. XVIII, 62-63 (I, p. 469): «innata è la virtù che consiglia, / e dell’assenso de’ tener la soglia»]. 6.  Mon. I, 14. [In realtà Mon. I, 12, 2 (II.2, pp. 579-581): «Molti infatti arrivano ad affermare – e dicono il vero – che il libero arbitrio è il libero giudizio circa la volontà. […] Perciò io affermo che il giudizio sta in mezzo tra la semplice conoscenza e l’appetito: dapprima infatti si apprende l’oggetto, poi si giudica se l’oggetto appreso è buono o cattivo e infine si raggiunge o si fugge l’oggetto. Quando il giudizio muove totalmente l’appetito senz’essere per nulla prevenuto da questo, allora è libero; quando invece il giudi-

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inclinazione). All’interno di questo contesto rientra anche il fatto che per caratterizzare gli esseri dotati di libero arbitrio è sufficiente dire appunto che sono “intelligenti”7, e che tutto il volere è basato originariamente sulla nostalgia della luce divina che splende attraverso ogni cosa e che dal volere degenerato viene soltanto “mal conosciuta”8. Se, però, in base a questo modo di pensare, si desidera solo ciò che viene riconosciuto come buono, allora in questo sviluppo non c’è posto per la libertà del volere. La rappresentazione si fa strada attraverso la prima ascesa, l’inclinazione involontaria connessa ad essa, il giudizio relativo alla sua bontà o alla sua malvagità e l’accettazione o il rifiuto che ne deriva – ma non è chiaro il vero e proprio punto cruciale in cui il libero arbitrio cominci a insediarsi. Da tale percezione può germogliare l’enfasi sul valore dell’abitudine per l’agire morale: la buona abitudine rende superflua, in un certo senso, la decisione della volontà in relazione al singolo caso9. La colpa, forse, consiste soltanto nel fatto che difficilmente si può sistemare il libero arbitrio all’interno di una rappresentazione psicologica; il suo concetto è così oscuro, così al di fuori rispetto a tutto ciò che è tangibile e comprensibile che, se si tratta di dare una spiegazione di

zio è messo dall’appetito, che in qualsiasi modo lo previene, allora non può essere libero, poiché non si determina più da sé, ma è servilmente determinato da un altro»]. 7.  [In italiano nel testo]. 8.  Par. V, 10, 23. [Par. V, 10-12 (I, p. 658): «e s’altra cosa vostro amor seduce, / non è se non di quella alcun vestigio, / mal conosciuto, che quivi traluce». Par. V, 22-24 (I, p. 658): «fu della volontà la libertate; / di che le creature intelligenti, / e tutte e sole, fuoro e son dotate». “Mal conosciuta” in italiano nel testo]. 9.  Purg. XVI, 77. Co. IV, I8. [Purg. XVI, 76-78 (I, p. 453): «e libero voler, che se fatica / nelle prime battaglie col ciel dura, / poi vince tutto, se ben si notrica». Co. IV, 18, 1 (II.2, p. 275): «Nel precedente capitolo è determinato come ogni vertù morale viene da uno principio, cioè buona e abituale elezione»].

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ciò che accade sul piano psichico, in realtà da esso non si può far cominciare nulla; in conclusione, dobbiamo accontentarci della semplice assicurazione che Dante fosse lì, e nondimeno tutte le sue argomentazioni a riguardo non possono – e forse non vogliono nemmeno – dissipare quel carattere mistico di cui il libero arbitrio si riveste, già solo per via della propria stessa origine, direttamente a partire da Dio.

2. Libero arbitrio In ogni caso, è certo che il cielo deve dare avvio alle nostre azioni (iniziare): «Lo cielo i vostri movimenti inizia; / non dico tutti, ma posto ch’i’ ’l dica, / lume v’è dato a bene e a malizia»10. Qui risalta pienamente l’incertezza dell’intera dottrina; mentre crede fermamente che Dio ci dia l’impulso verso il bene11, tuttavia nutre dubbi sul fatto che anche le azioni cattive possano avere origine in lui, per quanto debba ammettere che ci sono addirittura delle nature malvagie12. Innanzitutto, cerca di accomodare le cose tramite dei paragoni: ciò che non cresce dalla radice naturale può sempre essere innestato; il timbro migliore non sempre produce il miglior sigillo se la cera non è buona, ecc. Solo lui però si vede spinto a concludere che non può mai essere propriamente cattivo il volere, bensì soltanto l’oggetto a cui è orientato dalla facoltà di giudizio. Dunque qui 10.  Purg. XVI, 73. [Purg. XVI, 73-75 (I, p. 453)]. 11.  Par. I, 127. [In realtà Par. I, 124-126 (I, p. 631): «e ora lì, come a sito decreto, / cen porta la virtù di quella corda / che ciò che scocca drizza in segno lieto»]. 12.  Co. IV, 22. [Co. IV, 22, 12 (II.2, p. 289): «E però nullo è che possa essere scusato; ché se da sua naturale radice uomo non ha questa sementa, ben la puote avere per via d’insetazione. Così fossero tanti quelli di fatto che s’insetassero, quanti sono quelli che da la buona radice si lasciano disviare!»].

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ci si trova evidentemente di fronte al misconoscimento del fatto che, al fine di determinare l’oggetto del volere, è necessario tuttavia anche un atto di volontà (uno scrupolo che si rivolge persino contro quel primo avvio delle nostre azioni che viene da Dio; dal momento che anche il “ritenere”13, l’interdizione o la prosecuzione delle azioni stesse, è nondimeno un atto di volontà, che quindi è riferibile a Dio invece che alla nostra libertà); in secondo luogo, tuttavia, non essendo necessarie spiegazioni ulteriori per l’aspetto psicologico, una simile scissione tra contenuto e forma del volere, che mostra quanto Dante sia condizionato dalla propria metafisica, risulta assolutamente inammissibile. L’inserimento di componenti sempre nuove nei percorsi della volontà spinge soltanto la questione verso un’istanza ulteriore. Ad essa poi si mescolano altre difficoltà di ogni genere, come il pessimismo morale di Dante, che nega all’anima la capacità di rivolgersi autonomamente al bene, e considera bensì necessari la legge e i governanti (che in un certo senso vengono concepiti come sovraterreni) per trattenerla e guidarla; e poi l’influenza degli astri, con cui si identifica l’intero complesso di ciò che è ineluttabile; tutte queste cose, assieme all’intervento della grazia divina e del libero arbitrio, costituiscono i fattori del destino umano. I primi due, tuttavia, non sono capaci di fare altro se non creare, per così dire, un buon terreno; se poi questo non viene coltivato bene (dal volere), tanta più potenza vi è insita, quanto più s’inselvatichisce e produce frutti sempre più velenosi14. Da ultimo, anche la libertà umana dev’essere al servizio dei più alti scopi divini, e proprio figurandosi di essere assolutamente indipendenti, 13.  [In italiano nel testo]. 14.  Purg. XXX, 109. [Purg. XXX, 109-111 e 118-120 (I, pp. 586-587): «Non pur per ovra delle rote magne / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne […] Ma tanto più maligno e più silvestro / si fa ’l terren col mal seme e non cólto, / quant’egli ha più di buon vigor terrestro»].

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anzi addirittura di agire contro il volere di Dio, siamo soltanto mezzi per i suoi scopi; «e chi e sapendo e volendo s’è ribellato alla volontà divina, per essa militi non sapendo né volendo»15.

3. Il battesimo La difficoltà maggiore che il libero arbitrio trova all’interno del sistema dantesco consiste però nel dogma della necessità del battesimo al fine della beatitudine, di cui si è già discusso in precedenza, ma che qui va menzionato ancora una volta, nel contesto delle determinazioni etiche; tanto maggiore è il valore che Dante ascrive al libero arbitrio, e tanto più chiaramente asserisce che l’uomo non possa essere biasimato relativamente al non potere e al non sapere, bensì solo ed esclusivamente in rapporto al non volere16 – quanto più ci si dovrebbe aspettare che la ricompensa e la punizione dipendano soltanto dalla morale. Non si può concepire la cosa in forma più netta di quanto non faccia lui stesso: «“Un uom nasce sulla riva / de l’Indo, e quivi non è chi ragioni / di Cristo né chi legga né chi scriva; / e tutti suoi voleri e atti buoni / sono, quanto ragione umana vede, / sanza peccato in vita od in sermoni. / Muore non battezzato e sanza fede: / ov’è questa giustizia che ’l condanna? / Ov’è la colpa sua, se ei non crede?”»17. E, in realtà, costui non viene condannato a una pena, ma non si aspetti alcuna ricompensa nell’Aldilà; l’uomo più eccellente, più saggio, più valido 15.  Ai fiorentini, ai principi e ai popoli d’Italia. [In realtà Epistola VI, 3 (II.2, p. 391). In latino nel testo]. 16.  Co. I, 2. [Co. I, 2, 6 (II.2, p. 69): «Ancora: del non potere e del non sapere ben sé menare le più volte non è l’uomo vituperato, ma del non volere è sempre, perché nel volere e nel non volere nostro si giudica la malizia e la bontade»]. 17.  Par. XIX, 70. [Par. XIX, 70-78 (I, pp. 797-798)].

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trova soltanto l’ombra di un’esistenza grigia, priva di gioia e di dolore, mentre i bambini cristiani, prima ancora che siano maturati a qualsiasi atto di volontà, godono della felicità eterna. Bastavasi nei secoli recenti, con l’innocenza, per aver salute, solamente la fede de’ parenti.  Poi che le prime etadi fuor compiute, convenne ai maschi a l’innocenti penne per cincuncidere acquistar virtute; ma poi che ’l tempo della grazia venne, sanza battesmo perfetto di Cristo, tale innocenza là giù si ritenne.18

Si è già discusso della posizione occupata da questa discrasia tra il percorso celeste e i nostri concetti di giustizia, una discrasia che diventa tanto più lampante quanto più Dante stesso ne parla chiaramente, sottolineando come la ratio humana19 di per sé non possa riconoscere come giusta la condanna dei gentili20. Qui il dogma sopravanza ampiamente il modo di pensare psicologico; infatti, come quest’ultimo in teoria si sforza di comprendere la vita dell’immaginazione esclusivamente a partire dalle sue qualità immanenti e dai suoi processi più semplici, così anche nell’etico – e in questo ambito in modo del tutto particolare – può riconoscere soltanto ciò che si trova effettivamente nella nostra anima come concetto etico, come ideale per quanto mi riguarda; perciò non ammetterà mai una concatenazione di con18.  Par. XXXII. [Par. XXXII, 76-84 (I, p. 926)]. 19.  [In latino nel testo]. 20.  Mon. II, 8. [In realtà Mon. II, 7, 4 (II.2, pp. 655-657): «Vi sono poi dei giudizi di Dio ai quali la ragione umana, pur non potendo giungere con le proprie forze, si eleva tuttavia con l’aiuto della fede in quelle verità rivelateci nelle Sacre Scritture, come per esempio questa: che nessuno, per quanto perfettamente dotato di virtù morali ed intellettuali, tanto secondo l’abito che secondo l’atto, può salvarsi senza la fede, dato che non abbia mai sentito parlare di Cristo»].

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cetti come quella qui presentata, che effettivamente non può essere pensata in maniera coerente. Inoltre, si deve riconoscere, ammettendo certamente anche il dualismo che vi è insito, come Dante, quando nel limbo apprende la condizione degli spiriti magni, sia colto da un vivido dolore per il loro destino21. Il medesimo tratto fondamentale del dogma, tuttavia, mantiene il proprio valore anche in base al versante opposto. Così come a Dio, secondo una disposizione inammissibile, è riservata la facoltà di tormentare gli uomini più eccellenti con eterni e iniqui struggimenti, allo stesso modo anche il merito del cristiano che più si è contraddistinto non basta per ottenere il sommo grado di beatitudine celeste. Dipende pur sempre dalla buona volontà e dalla grazia di Dio quanta beatitudine intenda donare alle singole anime; per l’anima la visione di Dio è così grande «quant’ha di grazia sovra suo valore»22. Così viene anche piegato più volte e infranto ad maiorem Dei gloriam23 il principio secondo cui la condizione dell’anima nell’Aldilà dovrebbe assolutamente corrispondere a quella di questo mondo.

4. Voti In questo complesso di disposizioni etiche rientrano anche quelle relative ai voti24. Il voto è il sacrificio volontario del li21.  Inf. IV, 43. [Inf. IV, 43-45 (I, p. 37): «Gran duol mi prese al cor quando lo intesi, / però che gente di molto valore / conobbi che in quel limbo eran sospesi»]. 22.  Par. XIV, 41; XXVIII, 112. [Par. XIV, 41-42 (I, p. 747): «e quella è tanta / quant’ha di grazia sovra suo valore». Par. XXVIII, 112-113 (I, p. 890): «e del vedere è misura mercede, / che grazia partorisce e buona voglia»]. 23.  [In latino nel testo]. 24.  Par. V. [Par. V, 25-27 (I, pp. 658-659): «Or ti parrà, se tu quinci argomenti, / l’alto valor del voto, s’è sì fatto / che Dio consenta quando tu consenti»].

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bero arbitrio e precisamente in relazione a qualsiasi oggetto. Questa materia del voto, determinata in un primo tempo, poi può essere sostituita da un’altra, e il merito davanti a Dio rimane il medesimo, sia che si tratti dell’oggetto originale sia che si tratti di un altro, a patto che il suo valore non risulti inferiore a quello che gli veniva offerto. Perciò la cosa essenziale e più meritoria del voto è la volontà (di conseguenza, anche il peccato non era quello di mangiare dell’albero della conoscenza in sé, bensì la volontà malvagia ivi attestata25), cioè la rinuncia a se stessi, la volontà di non voler più essere liberi di volere in relazione a un determinato oggetto, in un certo senso la propria abnegazione. L’oggetto, in quanto determinato, possiede peraltro solo un valore quantitativo, nella misura in cui indica esclusivamente quanto sia completo quell’atto di volontà. Qui si potrebbe già percepire quasi un bagliore dell’etica formale di Kant, dove pure la volontà viene dapprima scissa da ogni oggetto esterno per poi diventare oggetto a se stessa. Qui non si sta predicando soltanto il solito «voluisse sat est»26, si tratta bensì proprio della giustificazione di questa frase: in realtà, la volontà è l’essenziale nel voto, ma non solo perché è colei che offre, bensì proprio perché è anche ciò che viene offerto. Se il senso del voto si esaurisse nella sua formula – voglio compiere questo o quel particolare atto –, il valore dell’atto reale rispetto all’atto di volontà potrebbe apparire come un fattore altrettanto importante. Se, però, l’essenza del voto consiste nel fatto che ci viene concesso il diritto di adoperare il libero arbitrio in un determinato caso (la conseguente impossibilità di fare qualcos’altro coincide esteriormente con la necessità

25.  Par. XXVI, 115. [Par. XXVI, 115-117 (I, p. 867): «Or, figliuol mio, non il gustar del legno / fu di per sé la cagion di tanto esilio, / ma solamente il trapassar del segno»]. 26.  [Prop., II, 10, v. 6; tr. it. Elegie, a cura di G. Namia, UTET, Torino 1973, p. 300: «nelle grandi cose è sufficiente anche solo averle volute»].

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di fare questa determinata cosa, ossia col contenuto del voto), allora ciò che si sacrifica è proprio la volontà, ossia la possibilità di volere altrimenti; e perciò gli oggetti del voto soggiacciono a differenze quantitative solo entro una certa misura, dal momento che, in base questa deduzione, il voto dipende propriamente molto più da ciò che è escluso che non da ciò che è incluso. Il valore psicologico, il valore effettivamente morale del voto, emerge soltanto alla luce di questa considerazione, secondo cui il voto è una restituzione a Dio del più prezioso tra i doni divini, ossia il libero arbitrio, e soltanto alla luce di questa considerazione si può intendere perché sia consentito di modificare gli oggetti del voto. Questo alto valore del libero arbitrio sul piano metafisico trova un suo corollario in quello della libertà empirica, nell’odio contro la tirannia e l’oppressione dell’uomo da parte di altri uomini. Con profonda indignazione Dante lamenta la tirannia in Italia27 e Virgilio dice di lui: «Libertà va cercando ch’è sì cara, / come sa chi per lei vita rifiuta»28 – e lo dice a Catone, che deve tutta la propria collocazione di particolare spicco all’interno del poema esclusivamente alla sua aspirazione verso la libertà, cui ha sacrificato la sua vita e di cui era considerato a quel tempo come il più nobile rappresentante. Questa libertà, però, è l’opposto dell’anarchia, che Dante considera la cosa più dannosa e vergognosa; la vera, suprema libertà consiste piuttosto nell’obbedire volentieri alle leggi. Anzi, siccome le leggi sono propriamente connaturate all’uomo, e dunque gli appartengono, noi addirittura seguiamo la nostra natura, ossia siamo effettivamente liberi, soltanto quando agiamo se-

27.  Purg. VI, 124. [Purg. VI, 124-126 (I, p. 370): «Ché le città d’Italia tutte piene / son di tiranni, e un Marcel diventa / ogni villan che parteggiando viene»]. 28.  Purg. I, 71. [Purg. I, 71-72 (I, p. 328)].

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condo la legge29. Anche qui risuona di nuovo una lieve eco dell’etica kantiana.

5. Carattere In considerazione dello stretto nesso che il libero arbitrio intrattiene con la sostanza dell’io, di cui costituisce non soltanto la dignità ma anche la personalità, tramite cui si distingue dalla catena della connessione causale naturale in quanto elemento consapevole – qui si deve sottolineare sin da subito il valore che Dante assegna alla fermezza e alla costante unitarietà del carattere. Dante si è reso perfettamente conto dell’importanza di questa peculiarità e la sottolinea in se stesso non meno che in tutte le persone in cui la trova. Alla profezia di Brunetto Latini risponde: sappiate che la mia coscienza (che una volta chiamava “la buona compagnia”, «che l’uom francheggia / sotto l’asbergo del sentirsi pura»30) è pura, sono preparato a ogni destino, qualunque esso sia. «Non è nuova alli orecchi miei tal arra: / però giri Fortuna la sua rota / come le piace, e ’l villan la sua marra»31 (ciò vuol dire che quella per me non ha maggior significato di questa). «Vien dietro a me, e lasciar dir le genti /– gli dice Virgilio – sta come torre ferma, che non crolla / già mai la cima per soffiar de’ venti; / ché sempre l’uomo

29.  Ai fiorentini. [Epistola VI, 5 (II.2, p. 395): «Né v’accorgete, poiché siete ciechi, che è la cupidigia a dominarvi […] e impedirvi d’obbedire alle santissime leggi, che sono fatte a immagine della giustizia naturale; l’obbedienza alle quali, se lieta, se spontanea, non solo è dimostrato che non è schiavitù, ma a chi sagacemente consideri è chiaro che è la stessa suprema libertà. Infatti che cosa altro è questa se non la libera traduzione della volontà nell’atto che le leggi facilitano ai propri seguaci?»]. 30.  Inf. XXVIII, 115. [In realtà Inf. XXVIII, 116-117 (I, p. 261)]. 31.  Inf. XV, 91. [In realtà Inf. XV, 94-96 (I, p. 140)].

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in cui pensier rampolla / sovra pensier, da sé dilunga il segno, / perché la foga l’un dell’altro insolla»32. Dante ha attribuito il massimo valore all’unitarietà dell’essere umano, risolutamente orientata verso un’unica meta, e lui stesso l’ha provato; l’essere “intero”33, totalmente uno, è ciò che conta per lui; e così egli stesso si caratterizza chiaramente in maniera molto calzante quando in Purgatorio dice a Sapia che non teme quasi per nulla, dopo la sua morte, la punizione per l’invidia, ma teme di soffrire quella per l’orgoglio34. Anche tramite Cacciaguida, Dante mette in risalto la propria condizione solitaria e risoluta, e lui stesso conferma il proprio amore intrepido per la verità35. La fiera consapevolezza di agire rettamente ci solleva anche nella miseria senza alcuna colpa36 e persino nel peccatore più reietto, Bruto, riconosce chiaramente con un certo rispetto la solidità di carattere37. Dante pretende però nel modo più radicale la forza di carattere morale; le monache che sono state rapite con la forza dal convento e maritate non appaiono comunque del tutto irreprensibili, e inoltre non hanno approfittato del primo momento libero da costrizioni dirette per fare

32.  Purg. V, 13. [Purg. V, 13-18 (I, pp. 355-356)]. 33.  [In italiano nel testo]. 34.  Purg. XIII, 133. [Purg. XIII, 133 (I, p. 430): «“Gli occhi” diss’io “mi fieno ancor qui tolti, / ma picciol tempo, ché poca è l’offesa / fatta per esser con invidia volti. / Troppia è più la paura ond’è sospesa / l’anima mia del tormento di sotto, / che già lo ’ncarco di là giù mi pesa”»]. 35.  Par. XVII, 64, 118. [Par. XVII, 64-65 (I, p. 780): «che tutta ingrata, tutta matta ed empia / si farà contra te». Par. XVII, 118-120 (I, p. 783): «e s’io al vero son timido amico, / temo di perder viver tra coloro / che questo tempo chiameranno antico»]. 36.  Par. VI, 140. [Par. VI, 140-142 (I, p. 676): «e se ’l mondo sapesse il cor ch’elli ebbe / mendicando sua vita a frusto a frusto, / assai lo loda, e più lo loderebbe»]. 37.  Inf. XXXIV, 66. [Inf. XXXIV, 66 (I, p. 316): «vedi come si storce! E non fa motto!»].

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di nuovo ritorno in convento; una volontà effettivamente risoluta – cosa certamente rara – non può essere affatto piegata, assomiglia bensì al fuoco che, tenuto piegato mille volte, mille volte divampa verso l’alto; e adduce come esempi i caratteri di San Lorenzo e Muzio Scevola38. Così come disprezza i personaggi piccoli e privi di risolutezza che inseguono il successo39 – di cui sottolinea in particolare l’enorme numero40 –, così anche la folla che vive nella ristrettezza della propria visione gli sembra condurre più un’esistenza animale che una da essere umano e gli sembra che, priva di carattere, come le pecore, faccia tutto ciò che le si dà a intendere41. D’altra parte, però, sa anche che alla fine la propria valutazione non possa mai essere quella corretta, perché l’amor proprio – malgrado sia il punto di partenza di ogni altro amore42 – non ci consente mai di vedere come ognuno, al pari di un mercante disonesto, misuri le proprie virtù con il cubito piccolo e i suoi difetti con quello grande43; l’amor

38.  Par. IV, 73. [In realtà Par. IV, 76-84 (I, p. 654): «ché volontà se non vuol, non s’ammorza, / ma fa come natura face in foco, / se mille volte violenza il torza. / Per che, s’ella si piega assai o poco, / segue la forza: e così queste fero, / possendo rifuggir nel santo loco. / Se fosse stato lor volere intero, / come tenne Lorenzo in su la grada, / e fece Muzio alla sua man severo»]. 39.  Purg. VI, 1. [Purg. VI, 1-3 (I, p. 363): «Quando si parte il gioco della zara, / colui che perde si riman dolente, / repetendo le volte, e tristo impara»]. 40.  Inf. III, 55. [Inf. III, 55-57 (I, p. 27): «e dietro la venia sì lunga tratta / di gente, ch’io non avrei creduto / che morte tanta n’avesse disfatta»]. 41.  Per esempio Co. I, 11. [Co. I, 11, 9 (II.2, p. 93): «Questi sono da chiamare pecore e non uomini; ché se una pecora si gittasse da una ripa di mille passi, tutte l’altre l’andrebbero dietro»]. 42.  Co. III, 1. [Co. III, 1, 5 (II.2, p. 154): «E a questo deliberatamente tre ragioni m’informaro: de le quali l’una fu lo proprio amore di me medesimo, lo quale è principio di tutti li altri, sì come vede ciascuno»]. 43.  Co. I, 2. [Co. I, 2, 9 (II.2, p. 70): «Onde avviene che ciascuno ha nel suo giudicio le misure del falso mercatante, che compera con l’una e vende con

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proprio, però, è la cosa più inopportuna e riprovevole che ci sia44 (certo è un detto della giovinezza!). Peraltro, è davvero meraviglioso come questo spirito a suo modo così chiuso in sé stesso, aristocraticamente fiero, il cui disprezzo per le anime inferiori erompe ovunque, esprimendo in varie occasioni il desiderio di non venir compreso da troppi45, poco tempo dopo la sua morte goda di una popolarità che, agli occhi di Petrarca, lo scredita enormemente: Dante sarebbe stato celebrato da peregrini, locandieri e osti, mentre invece le sue aspirazioni, quelle del Petrarca, rimangono prive di una tale popolarità, perciò augura a se stesso buona fortuna46. – Così Dante sa anche che non si addice alla vera nobiltà ascoltare bisticci meschini, e quando lo fa in un’occasione, poi si vergogna così tanto che Virgilio fatica davvero molto a calmarlo47; e sottoli-

l’altra; e ciascuno con ampia misura cerca lo suo mal fare e con piccola cerca lo bene»]. 44.  V. N. 29. [In realtà V. N. XXVIII, 2 (II.1, pp. 131-132): «non è convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fae»]. 45.  V. N. 19. [V. N. XIX, 22 (II.1, pp. 107-108): «tuttavia chi non è di tanto ingegno che per queste che sono fatte la possa intendere, a me non dispiace se la mi lascia stare, ché certo io temo d’avere a troppi comunicato lo suo intendimento pur per queste divisioni che fatte sono, s’elli avvenisse che molti le potessero audire»]. 46.  Ep. Fam. ed. Fracassetti XXI, 15. [F. Petrarca, Lettera XV. A Giovanni Boccaccio, in Lettere di Francesco Petrarca. Libro XXI, a cura di G. Fracassetti, vol. IV, Firenze, Le Monnier 1866, p. 394: «E se questo di Tullio, di Demostene, di Virgilio, di Omero avvien nelle scuole, e fra gli uomini che di lettere fan professione, che credi tu del nostro Poeta possa accadere fra gl’idioti, nelle piazze e nelle taverne»]. 47.  Inf. XXX, 130. [Inf. XXX, 130-135 (I, p. 279): «Ad ascoltarli er’io del tutto fisso, / quando il maestro mi disse: “Or pur mira! / che per poco che teco non mi risso”. / Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira, / volsimi verso lui con tal vergogna / ch’ancor per la memoria mi si gira»].

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nea come la piena dignità delle azioni vada persa per la fretta48 e insieme mette in evidenza la tranquillità dello spirito nobile che lo spavento e lo stupore non possono mai dominare a lungo49. Come tende ad accadere, la forte consapevolezza di sé continua in lui anche a livello teorico; così, ad esempio, tutta la Vita Nuova è una finissima scomposizione dei momenti d’amore quale solo un alto grado di introspezione può realizzare.

6. Guida di vita Malgrado tutta la severità e la fierezza del proprio carattere, che egli stesso sottolinea, tuttavia la sua natura non risulta affatto estranea alla bontà e alla tenerezza di cuore. Un’anima nobile, dice, non cerca scuse ma trasforma la volontà dell’altro nella propria, non appena si sia palesata50; a una richiesta opportuna non si deve rispondere, ma piuttosto soddisfarla51; anzi, è già segno di rozzezza quando si vede il bisogno anche soltanto di attendere la richiesta52. Conosce l’effetto benefico

48.  Purg. III, 10. [Purg. III, 10-11 (I, p. 339): «Quando li piedi suoi lasciar la fretta, / che l’onestade ad ogn’atto dismaga»]. 49.  Purg. XXVI, 71. [Purg. XXVI, 71-72 (I, p. 543): «ma poi che furon di stupore scarche, / lo qual ne gli alti cuor tosto s’attuta»]. 50.  Purg. XXXIII, 130. [Purg. XXXIII, 130-132 (I, p. 618): «Come anima gentil, che non fa scusa, / ma fa sua voglia de la voglia altrui / tosto che è per segno fuor dischiusa»]. 51.  Inf. XXIV, 76. [Inf. XXIV, 76-78 (I, p. 221): «“Altra risposta” disse “non ti rendo” / se non lo far; ché la dimanda onesta / si dee seguir con l’opera tacendo»]. 52.  Purg. XVII, 59. [Purg. XVII, 59-60 (I, p. 461): «ché quale aspetta prego e l’uopo vede, / malignamente già si mette al nego»].

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della semplice pietà su un animo afflitto53 e pensa che la vista delle cariatidi che sorreggono pesanti strutture architettoniche in posizione china debba suscitare in ogni osservatore un vero e proprio moto di pietà54. Si avverte anche una sensibilità fine e delicata nel fatto che Dante, a differenza di Virgilio, vuole sapere qualcosa sulla discesa di Cristo nel Limbo, e addirittura non designa tale fatto col suo nome, ma vi accenna soltanto55. La stessa tenerezza si esprime nel disgusto che nutre per la guerra, e questo disgusto in lui certamente non è un esito diretto o indiretto della viltà, come accade in molti altri casi; solo quando ogni possibile mediazione attuata attraverso la ragione e la bontà viene delusa può aver luogo lo scontro tra i singoli e tra i popoli56, e si lamenta del fatto che il genere umano aspiri a beni la cui natura comporta che essi possano essere goduti esclusivamente in solitudine, estromettendo gli altri57. Offre anche

53.  V. N. 15, 28, 29. [V. N. XV, 8 (II.1, p. 98): «ne l’ultima dico perché altri dovrebbe avere pietà, e ciò è per la pietosa vista che ne li occhi mi giugne». In realtà V. N. XXVI, 10, Sonetto XIII, vv. 1-2 (II.1, p. 128): «Vede perfettamente onne salute / chi la mia donna tra le donne vede»; V. N. XXVII, 4, Sonetto XIV, vv. 9-12 (II.1, p. 130): «poi prende Amore in me tanta vertute, / che fa li miei spiriti gir parlando, / ed escon for chiamando / la donna mia per darmi più salute»]. 54.  Purg. X, 130. [Purg. X, 130-134 (I, p. 406): «Come per sostentar solaio o tetto / per mensola tal volta una figura / si vede giugner le ginocchia al petto, / la qual fa del non ver vera rancura / nascer ’n chi la vede»]. 55.  Inf. IV, 49. [Inf. IV, 49-50 (I, p. 37): «“uscicci mai alcuno, o per suo merto / o per altrui, che poi fosse beato?”»]. 56.  Mon II, 10. [In realtà Mon. II, 9, 3 (II.2, p. 669): «Ma bisogna sempre tener presente che a tale rimedio si deve ricorrere come ultima istanza quando si è costretti dalla necessità della giustizia, e solo dopo aver tentato tutti gli altri mezzi per decidere la vertenza, così come, per quanto riguarda la guerra, bisogna prima esperire tutte le vie della discussione e solo in ultima istanza ricorrere al combattimento»]. 57.  Purg. XIV, 86. [Purg. XIV, 86-87 (I, p. 436): «O gente umana, perché poni il core / là ’v’é mestier di consorte divieto?»].

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una spiegazione sottile del concetto di “pietà”58, scendendo in profondità nei nessi psicologici tra sentimenti: «E non è pietà quella che crede la volgare gente cioè dolersi dell’altrui male; anzi è questo un suo speziale affetto, che si chiama misericordia, ed è passione; ma pietade non è passione, anzi una nobile disposizione d’animo, apparecchiata di ricevere amore, misericordia e altre caritative passioni»59. Come ulteriore delimitazione di questo tratto di orgoglio ineguagliabile, si devono rammentare le prescrizioni e gli esempi di saggezza, per nulla rari nel suo caso. Si esprime in questi termini: «Sempre a quel ver ch’ha faccia di menzogna / de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el pote, / però che sanza colpa fa vergogna»60. Anche se l’aspetto etico dell’osservazione può suscitare delle perplessità, l’aspetto psicologico tuttavia viene esaminato molto correttamente: in realtà, quando raccontiamo una storia che altrimenti dovremmo assumere come implausibile, avvertiamo una tacita sensazione di disagio, che può essere pienamente ricondotta a un senso di vergogna, dal momento che la forma della falsità mediante l’appercezione – per certi versi – consente a quella sensazione, che normalmente si genera dopo aver pronunciato una vera e propria falsità, di sorgere, ma in maniera attenuata. Il “fa vergogna”61 potrebbe certamente essere inteso e tradotto anche in riferimento agli ascoltatori con “metterlo in imbarazzo”; dove poi la coerenza dell’intero precetto sarebbe ancora più chiara; in tal senso si esprime anche una certa saggezza di vita, piuttosto condiscendente, applicando il proverbio: «ne la chiesa coi santi / e in taverna co’ ghiottoni!»62. 58.  [In italiano nel testo]. 59.  Co. II, 11. [In realtà Co. II, 10, 6 (II.2, pp. 130-131). In italiano nel testo]. 60.  Inf. XVI, 124. [Inf. XVI, 124-126 (I, p. 150)]. 61.  [In italiano nel testo]. 62.  Inf. XXII, 14. [Inf. XXII, 14-15 (I, p. 199)].

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Inoltre risulta strano come, per dissimulare la propria passione per Beatrice, Dante corra appresso ad altre donne in un modo che – pur considerando il carattere platonico di simili relazioni – era destinato addirittura a comprometterle o per lo meno a generare in loro illusioni che avrebbero potuto condurre a delusione e sofferenza; e Dante racconta questa mancanza di riguardo per loro con un’ingenuità che mostra davvero la distanza tra la vita sentimentale di allora e quella di oggi63. La stessa cosa accade nella considerazione seguente: ogni persona è in qualche modo macchiata da una passione, un difetto fisico, un tiro del destino, o da vergogna dei parenti64. Tutto ciò lo fa apparire personalmente nella luce più sfavorevole, ma ciò si manifesta solo nei rapporti personali, e perciò un uomo particolarmente importante deve limitarli il più possibile65; in una forma leggermente diversa la stessa idea di base afferma che «a l’amico dee l’uomo lo suo difetto contare strettamente, e nullo è più amico che l’uomo a sé; onde ne la camera de’ suoi pensieri se medesimo riprender dee e pianger li suoi di-

63.  V. N. 5, 9, 10. [V. N. V, 1 (II.1, p. 77): «e nel mezzo di lei e di me per la retta linea sedea una gentil donna di molto piacevole aspetto, la quale mi mirava spesse volte, maravigliandosi del mio sguardare, che parea che sopra lei terminasse». V. N. IX, 1 (II.1, p. 83): «Appresso la morte di questa donna alquanti die avvenne cosa per la quale me ne convenne partire de la sopraddetta cittade e ire verso quelle parti dov’era la gentile donna ch’era stata mia difesa». V. N. X, 1 (II.1, p. 85): «Appresso la mia ritornata mi misi a cercare di questa donna che lo mio segnore m’avea nominata ne lo cammino de li sospiri»]. 64.  [Cfr. il passo già citato: Co. I, 4, 10 (II.2, p. 76): «Quando è l’uomo maculato d’una passione, a la quale talvolta non può resistere; quando è maculato d’alcuno disconcio membro; e quando è maculato d’alcuno colpo di fortuna; e quando è maculato d’infamia di parenti o d’alcuno suo prossimo»]. 65.  CO. I, 4. [Co. I, 4, 11 (II.2, p. 76): «E questo è quello che per che l’uomo buono dee la sua presenza dare a pochi e la familiaritade dare a meno, acciò che ’l nome suo sia ricevuto, ma non spregiato»].

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fetti, e non palese»66. Certamente questo contraddice la sua attiva propensione all’amicizia e la sua spiegazione della medesima, secondo cui gli amici sono, per così dire, parti di un unico insieme, poiché possiedono un unico volere e un unico non-volere67. Anche questa è una sorprendente condiscendenza rispetto alle circostanze, ovvero il fatto che Virgilio lusinghi Anteo in maniera formalmente cortese per ottenere un favore da parte sua68, e che egli sfrutti il ricordo di Marzia69 quando chiede a Catone di ammetterlo alla montagna della purificazione, cosa per cui senz’altro viene debitamente rimproverato da quest’ultimo; è possibile che questa strategia sia addirittura un tratto caratteristico di Virgilio, in quanto rappresentante del mondano, di ciò che è conforme all’intelletto. Risulterebbe, tuttavia, in contraddizione anche con l’odierno sentimento di nobiltà il fatto che Dante stesso abbia quasi maltrattato Bocca degli Abati forzandone il nome70, mentre in un altro passo – mostrando anche qui il dualismo del suo essere – col più tenero dei sentimenti si rammarica del fatto che, inconsapevolmente, abbia causato dolore a un peccatore71.

66.  Co. I, 2. [Co, I, 2, 5 (II.2, p. 69)]. 67.  Co. I, 6. [Co. I, 6, 5 (II.2, p. 80): «con ciò sia cosa che li amici siano quasi parti d’un tutto, però che ’l tutto loro è uno volere e uno non volere»]. 68.  Inf. XXXI, 115. [Inf. XXXI, 115-123 (I, p. 288): «“O tu che nella fortunata valle, / che fece Scipion di gloria reda, / quand’Annibal co’ suoi diede le spalle, / recasti già mille leon per preda, / e che se fossi stato all’altra guerra / de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda / ch’avrebbe vinto i figli della Terra»]. 69.  [Cfr. Purg. I, 78-79 (I, p. 329)]. 70.  Inf. XXXII, 103. [Inf. XXXII, 103-108 (I, p. 298): «Io avea già i capelli in mano avvolti, / e tratti li n’avea più d’una ciocca, / latrando lui con li occhi in giù raccolti, / quando un altro gridò: “Che hai tu, Bocca? / non ti basta sonar con le mascelle, se tu non latri? qual diavol ti tocca?”»]. 71.  Inf. XIII, 51. [Inf. XIII, 50-51 (I, p. 119): «ma la cosa incredibile mi fece / indurlo ad ovra che a me stesso pesa»].

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7. I peccati Nella nostra discussione della parte etica della psicologia dantesca passiamo ora a illustrare le sue idee sui peccati umani. Come è noto, qui troviamo uno dei punti più difficili ma anche più interessanti dell’esposizione di Dante; si tratta della questione relativa al rapporto tra le pene e le espiazioni imposte alle anime nell’Aldilà e i loro peccati in questo mondo. Se infatti, come scrive Dante stesso, il soggetto dell’intera opera è l’uomo, in quanto costui, in virtù del libero arbitrio, anzi in base al merito o alla colpa, soggiace alla giustizia che ricompensa o punisce72, e se si può discernere la proporzione tra l’azione e la punizione su cui ha basato le proprie descrizioni di questa stessa giustizia, allora è evidente che da queste dovrebbero risultare importanti acquisizioni riguardo alla sua concezione della natura psicologica delle azioni umane. Innanzitutto, qui si pone la questione relativa al grado di realtà che Dante ha associato alla propria concezione dei regni ultraterreni. I destini delle ombre in essi contenute, descritti da Dante, sono soltanto un’allegoria della loro condizione mondana? La forma di quella visione è soltanto un velo che, sollevato, deve mostrare la vera natura dell’essere morale? Oppure si è fatto l’idea che esista un Inferno, benché non del tutto identico, ma comunque simile, vale a dire un Inferno orientato secondo i medesimi principi? Si deve notare fin da subito che le due visioni non si escludono tra loro; come è stato affermato e realizzato in modo geniale, Dante può benissimo aver concepito la vita dell’Aldilà come una continuazione lineare e uno sviluppo di quella terrena, cui semplicemente è

72.  A Cangrande, 2. [Epistola XIII, 11 (II.2, p. 451): «E se il soggetto di tutta l’opera presa allegoricamente è l’uomo secondo che meritando e demeritando per la libertà d’arbitrio è soggetto alla giustizia del premio e del castigo, è manifesto che in questa parte questo soggetto è limitato, ed è l’uomo secondo che meritando è soggetto alla giustizia del premio»].

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stata rimossa la patina illusoria e il peccato è documentato in tutto il suo abominio, mentre le sue gioie apparenti vengono riconosciute per ciò che sono realmente, ossia come tormenti interiori – al pari di quella sirena scorta nella visione onirica di Dante73, cui bisogna soltanto strappare le vesti per poter capire che il suo corpo sta marcendo ed è in stato di putrefazione. Le numerose relazioni che è possibile trovare tra la qualità interiore di ogni peccato e la pena a esso corrispondente rendono questa visione molto coinvolgente. Mi risulta tuttavia impossibile condividerla; per quanto profondo e grandioso sia il pensiero secondo cui il peccatore già in questa vita non raccolga alcun lieto frutto, bensì soltanto un confuso tormento, uno strazio struggente nel suo essere più intimo, di modo che anche l’Inferno non dev’essere altro che la continuazione, per così dire lo sviluppo naturale e la perpetuazione di questa condizione – non posso riconoscere tutto questo come psicologicamente vero. Spesso accade che le condizioni immanenti del peccato, e soprattutto la coscienza, ingannino il peccatore riguardo al piacere auspicato, ma in un numero infinito di casi, in effetti, non è così. Dante stesso deve aver assistito a troppi momenti di trionfo dell’ingiustizia, troppo spesso ha visto le effettive soddisfazioni – per lo meno temporanee – del peccato per voler collegare senz’altro ad esso la sensazione della pena. Basti pensare al “tempo felice”74 goduto da Francesca e Paolo nel loro amore peccaminoso, al fatto che il goloso Ciacco designa la propria esistenza terrena come “vita serena”75, e 73.  Purg. XIX, 7. [Purg. XIX, 7-9 e 31-33 (I, pp. 474-476): «mi venne in sogno una femmina balba, / ne gli occhi guercia, e sovra i piè distorta. […] L’altra prendea, e dinanzi l’apria / fendendo i drappi, e mostravami ’l ventre: / quel mi svegliò col puzzo che n’uscia»]. 74.  [In italiano nel testo]. 75.  Inf. VI, 51. [Inf. VI, 49-51 (I, p. 58): «Ed egli a me: “La tua città, ch’è piena / d’invidia sì che già trabocca il sacco, / seco mi tenne in la vita serena”». “Vita serena” in italiano nel testo].

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infine si pensi alla coscienza orgogliosa ed esaltata che riempie Odisseo nel suo empio viaggio, in cui varca i confini stabiliti da Dio76. Perciò dalla natura della punizione infernale non si può trarre alcuna conclusione diretta sulla sensazione soggettiva che Dante credeva accompagnasse il peccato. Come mera continuazione della condizione già sperimentata sulla terra, persino il concetto di “giustizia”77, che è caratteristico dell’Inferno, non risulterebbe affatto pregnante. Al posto di una semplice continuazione della sensazione, preferirei adottare in generale un rapporto che può essere designato come una trasposizione diretta dell’atto in sensazione; la pena infernale è il riflesso dell’atto attraverso il mezzo della sensazione; è l’atto stesso, ma tradotto dall’azione in sofferenza. La sensazione non si collega al peccato in seno al peccatore, bensì noi cogliamo la sua stessa natura esterna e psicologica quando prendiamo in considerazione le torture infernali. Risulta tuttavia molto corretto il fatto che la tempesta in cui i lussuriosi vagano senza pace sia un’immagine della loro passione; però sulla terra non ne avvertono ancora il dolore, bensì soltanto all’Inferno, che li punisce attraverso ciò con cui hanno peccato; quel che hanno fatto volontariamente e per il loro stesso piacere, ora devono soffrirlo contro la loro volontà e come loro tormento. Per addurre qualche altro esempio: gli ipocriti devono trascinarsi in cappe di piombo oltremodo pesanti, che all’esterno si presentano d’oro abbagliante – dunque costoro devono continuare anche qui a caricarsi umilmente e volontariamente dei fardelli cui sulla terra si sottomettevano solo al fine di essere guardati e lodati – ma ora la sensazione è diventata massimamente dolorosa. Quando coloro che hanno versato sangue innocente vengono fatti bollire in un fiume di 76.  Inf. XXVI. [Inf. XXVI, 107-108 (I, p. 242): «quando venimmo a quella foce stretta, / dov’Ercule segnò li suoi riguardi»]. 77.  [In italiano nel testo].

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sangue, questa pena non significa altro se non che l’atto è diventato una sensazione, poiché sulla terra si sono già bagnati di sangue. Questo nesso emerge ancora chiaramente negli avari e nei prodighi, che si affannano sotto fardelli, in coloro che dubitano dell’immortalità, costretti in bare roventi, nei suicidi che hanno perso la propria forma e sono stati trasformati in alberi, e ancora negli adulatori immersi in fosse di sterco, negli indovini con la testa girata all’indietro, nei ladri che si rubano la propria forma l’uno con l’altro, nei traditori congelati in un lago di ghiaccio; e quando Virgilio si rivolge a Capaneo, che si era ribellato alla divinità in una feroce ripicca: «in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito»78, anche qui si vede come il castigo infernale consista nel fatto che l’atto (qui mentale) di questa vita terrena prosegue nell’Aldilà, non più come atto però, bensì come sensazione di dolore. In qualche misura questo principio fondamentale del castigo ricorderebbe il taglione («così s’osserva in me lo contrappasso!»79) ma assume un carattere assai più interiorizzato e profondamente psicologico. Non intendo però nascondermi che questo tentativo di spiegazione riesce senza forzature soltanto con un gran numero di pene infernali e che da questo punto di vista, così come da ogni altro, è possibile delineare un’assoluta congruenza, senza artificialità, tra peccati e pene. E benché una ricerca più approfondita e stringente possa rilevare un nesso sempre più stretto e pieno di connessioni tra loro (per quanto sempre e soltanto con una maggiore o minore verosimiglianza), per il momento tuttavia rimango dell’opinione che questo nesso non sia configurato secondo uno schema continuo; non riesco a rintracciare l’affinità tra il castigo dei ruffiani che sono fla-

78.  Inf. XIV, 63. [Inf. XIV, 63-64 (I, p. 129)]. 79.  Inf. XXVIII, 142. [Inf. XXVIII, 142 (I, p. 262)].

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gellati dai diavoli e quello dei falsari che soffrono di idropisia. Perciò non rinunceremo a scoprire nessi sempre più profondi tra peccati e pene, probabilmente però dovremo negare per sempre la presenza di un principio assolutamente unitario per questi rapporti.

8. L’Inferno Da questo punto di vista, è semplice scorgere quale grado di realtà Dante ascrivesse al proprio Inferno; se non è possibile rintracciare, per così dire, la tonalità in cui esso debba essere soltanto trasposto per risultare in sintonia con il mondo terreno, allora è chiaro che non può essere pienamente soltanto una sua allegoria. Con questo, però, non si contesta il fatto che in ogni riga dell’Inferno si esprima una considerazione diretta di questo mondo. L’Inferno, nella configurazione indeterminata che gli aveva dato la Chiesa, semplicemente come luogo di punizione per i peccati, senza dubbio ha assunto per lui una precisa realtà; e ora egli adopera questa idea per presentare le proprie opinioni e le proprie tendenze, che naturalmente si riferiscono soltanto a questo mondo, non diversamente dal modo in cui Goethe si è servito della saga di Faust. Là dove e nella misura in cui sia possibile esprimere tali intenzioni con la massima chiarezza e la massima forza all’interno della forma presentata, egli lo ha fatto senza vincolarsi in tutto e per tutto a un identico nesso di comparazione. Non vedo alcun motivo per cui qui si dovrebbero nascondere ancora particolari relazioni metafisiche, quando invece si può trovare un valore e una profondità psicologica davvero soddisfacenti indagando empiricamente i nessi che si possono rintracciare tra ogni singolo peccato e la sua pena. Per questi nessi, però, posso rimandare interamente all’ottimo saggio di Scartazzini nel quarto volu-

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me del «Dante-Jahrbuch», pagine 273-35480, al quale si può aggiungere ben poco a questo proposito. È molto più facile rispondere a tale domanda per il Purgatorio. Perché se, come spiega Dante stesso, lo scopo dell’intero poema è quello di sollevare gli uomini dalla condizione di miseria, in questa vita, e condurli alla condizione di felicità81 e se questo si ottiene, come già si è accennato, attraverso la descrizione del destino che l’uomo deve aspettarsi al di là della vita in base alle proprie azioni – allora è facile vedere come le pene infernali, nella loro inconciliabile grossolanità, debbano operare in questo senso in maniera molto più intensa. Assumono anche peso maggiore rispetto alle pene del Purgatorio, proprio perché sono fini a se stesse, mentre il Purgatorio è solo una condizione temporanea, sempre trasposta dal pensiero verso la beatitudine che seguirà. Già solo per questa ragione, le torture dell’Inferno vengono descritte in modo molto più raffinato, molto più dettagliato e occupano uno spazio molto più ampio rispetto a quelle del Purgatorio. Oltre a questo, però, il principio della pena risulta totalmente differente. All’Inferno dipende solo dalla giustizia oggettiva; il peccato, come atto già compiuto, viene punito nella persona del colpevole senza alcun riguardo ulteriore e solo per amore della giustizia; nel Purgatorio, per contro, è in funzione della guarigione del peccatore; il peccato è come fosse una schiuma sulla coscienza, che può essere sciolta soltanto tramite un esercizio quotidiano di penitenza, in maniera tale che la coscienza non trovi in se stessa più nulla di torbido e perciò ri-

80.  Cfr. J.A. Scartazzini, Über die Congruenz der Sünden und Strafen in Dante’s Holle, in «Dante-Jahrbuch», XIV, 1877, pp. 273-354. 81.  A Cangrande, 15. [Epistola XIII, 15 (II.2, p. 453): «il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità»].

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sulti matura per ricevere la beatitudine82. Dunque anche qui viene praticata la giustizia, ma allo scopo di migliorare l’anima, una giustizia che può fare ancora qualcosa di buono, a differenza che all’Inferno – “giustizia e speranza”83 rendono più sopportabili le torture del Purgatorio84. Perciò verrà richiesto soltanto un equivalente del peccato: l’anima deve fare ciò che, peccando, ha omesso di fare sulla terra, oppure la sua stessa purificazione verrà raggiunta rappresentando simbolicamente in essa l’essenza del peccato; poiché ciò che conta qui è l’aspetto puramente psichico, soltanto “desiri ed altri affetti”85 costituiscono il destino dell’anima in Purgatorio86. Ecco perché i superbi giacciono chinati sotto pesanti pietre, agli invidiosi hanno chiuso gli occhi con un filo, gli iracondi sono avvolti in un fumo denso (cosa che rende impossibile il divampare della passione, dal momento che nasconde ogni oggetto, o addirittura rappresenta la prigionia dell’anima in un cieco furore), gli accidiosi si affrettano, gli avari giacciono legati sulla terra a cui hanno vincolato tutti i loro desideri in questo mondo, i golosi sono afflitti da fame e sete, i lussuriosi camminano in un mare di fiamme – sia che ciò simboleggi l’essenza della loro passione, sia che significhi riparare ad essa, dal momento che sulla terra hanno lasciato che le loro passioni ardessero all’ester­no in maniera peccaminosa, pro-

82.  Purg. XIII, 88. [Purg. XIII, 88-90 (I, p. 428): «se tosto grazia resolva le schiume / di vostra coscienza sì che chiaro / per essa scenda della mente il fiume»]. 83.  [In italiano nel testo]. 84.  Purg. XIX, 76. [Purg. XIX, 76-78 (I, p. 479): «O eletti di Dio, li cui soffriri / e giustizia e speranza fan men duri, / drizzate noi verso li altri saliri»]. 85.  [In italiano nel testo]. 86.  Purg. XXV, 106. [Purg. XXV, 106-108 (I, p. 537): «Secondo che ci affliggono i disiri / e gli altri affetti, l’ombra si figura; / e quest’è la cagion di che tu miri»].

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curando loro un sollievo indecoroso e perciò adesso devono sopportarlo in maniera ancora più intensa. Psicologicamente, questa maniera di pensare risulta molto più interessante nel suo complesso rispetto alle pene patite all’Inferno; queste infliggono meramente dolore esteriore, il tormento del Purgatorio è una penitenza accettata volontariamente e con gioia87. Il momento del pentimento sincero per il peccato, che dipende interamente dal libero arbitrio, costituisce il primo passo, quello decisivo, per essere ammessi al Purgatorio, e quindi poi al cielo; perciò, più si indugia su di esso, più a lungo l’anima deve attendere prima di essere ammessa alla purificazione88. Così come le pene all’Inferno sono di natura esteriore, allo stesso modo contano anche di più dell’azione esteriore; all’Inferno è del tutto irrilevante se le anime si pentano oppure no. Nel Purgatorio, al contrario, i peccati vengono considerati esclusivamente in relazione alla depravazione spirituale da cui derivano; il peccato appare soltanto come un peso per l’anima che dev’essere rimosso gradualmente. Per questo l’anima sente già in se stessa, nel momento in cui è stata assolta, di poter ascendere verso cornici più alte, sino a raggiungere finalmente la condizione d’innocenza paradisiaca, da cui anche lei è partita e da cui adesso, dopo essere passata per la caduta e l’elevazione, sale al cielo. Molto più che non all’Inferno, la pena in Purgatorio può essere vista solo come simbolo di una condizione dell’anima dal momento che, proprio qui, anche una simile condizione costituisce l’obiettivo finale di tutta la giustizia che qui viene praticata, mentre là quest’ul87.  Purg. XXIII, 72. [Purg. XXIII, 72 (I, p. 518): «io dico pena, e dovrei dir sollazzo»]. 88.  Purg. IV, 127. [Purg. IV, 127-132 (I, p. 354): «Ed egli: “O frate, l’andar su che porta? / ché non mi lascerebbe ire ai martiri / l’angel di Dio che siede in su la porta. / Prima convien che tanto il ciel m’aggiri / di fuor da essa, quanto fece in vita, / perch’io indugia al fine i buon sospiri”»].

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tima è fine a se stessa. Se anche si volesse intendere il Purgatorio solo come un’allegoria dell’anelito dell’uomo verso una condizione migliore e verso l’elevazione, questo senz’altro non si troverebbe in contraddizione tale con le azioni compiute, come invece per l’assunzione corrispondente nel caso dell’Inferno, né possiederebbe però un significato così profondo; è naturale che l’anima pentita già sulla terra cerchi di rimediare ai propri peccati, nel dolore e nella rinuncia. In base alle differenze descritte, non soltanto le suddivisioni dei peccatori nell’Inferno e nel Purgatorio si configurano in modi differenti, ma vengono anche stabilite teorie del peccato molto diverse per ciascuno di questi regni. I peggiori peccatori dell’Inferno sono classificati nella maniera seguente89: ogni atteggiamento malvagio e di odio verso il cielo trova la propria destinazione finale in un’ingiustizia, e reca danno sia con la violenza sia con l’inganno. Siccome però l’astuzia è quella forma di iniquità particolarmente congeniale all’uomo, risulta particolarmente sgradita a Dio. La violenza può essere rivolta contro tre persone: contro Dio, contro se stessi e contro il prossimo, e in particolare contro lui stesso oppure contro ciò che gli appartiene. I malfattori contro il prossimo sono assassini, predoni, tiranni, ecc. Gli atti di violenza contro se stessi consistono in suicidio e dissipazione. Infine, un atto di violenza si può commettere contro la divinità nella misura in cui la si rinneghi nel cuore e si bestemmi e si disprezzi la natura e i suoi beni; tra questi ultimi che agiscono contro la natura ci sono i sodomiti e gli usurai; siccome la natura promana da Dio, ma l’opera dell’uomo promana dalla natura, e l’usuraio agisce contro entrambi – non svolgendo il proprio mestiere in maniera semplicemente conforme alla natura, né recando be89.  Inf. XI, 22. [Inf. XI, 22-24 (I, p. 100): «D’ogni malizia, ch’odio in cielo acquista, / ingiuria è il fine, ed ogni fin cotale / o con forza o con frode altrui contrista»].

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neficio all’uomo – in tal modo pecca direttamente contro Dio. Per quanto concerne l’iniquità perpetrata attraverso l’astuzia, la si può commettere sia contro chi nutra una particolare fiducia verso qualcun’altro sia nel caso in cui ciò non accada; quest’ultima non fa che troncare il vincolo d’amore che la natura ha creato, e precisamente mediante l’ipocrisia, l’adulazione, la stregoneria, la falsificazione, il furto, la vendita di uffici, la ruffianeria, l’inganno e cose turpi del genere. Nell’altro caso, però, oltre all’amore naturale, si trascura anche l’amore personale, per mezzo del quale è possibile la fedeltà e la fiducia tra gli individui; perciò nel punto più esterno dell’Inferno i traditori vengono tormentati eternamente.

9. Purgatorio Aggiungiamo subito la suddivisione dei vizi come è presentata nel Purgatorio90: l’amore (in senso più ampio, si veda in seguito) è il seme di ogni virtù e di ogni azione che meriti una pena. Siccome l’amore non può mai distogliere l’attenzione dal bene del proprio soggetto, tutte le cose sono al sicuro dall’odio rivolto contro se stessi. E siccome nessun essere può venire separato dal primo di tutti, né può essere pensato completamente da solo, non può esserci un impulso a odiarlo. In tal modo, il male a cui si tende può essere soltanto quello del prossimo. E, in effetti, tale impulso sorge in tre modi nell’animo: alcuni spe-

90.  Purg. XVII, 103. [Purg. XVII, 103-114 (I, pp. 463-464): «Quinci comprender puoi ch’esser convene / amor sementa in voi d’ogni virtute / e d’ogne operazion che merta pene. / Or, perché mai non può da la salute / amor del suo subietto volger viso, / da l’odio proprio son le cose tute; / e perché intender non si può diviso, / e per se stante, alcuno esser dal primo, / da quello odiare ogni effetto è deciso. / Resta, se dividendo bene stimo, / che ’l mal che s’ama è del prossimo; ed esso / amor nasce in tre modi in vostro limo»].

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rano di avere successo attraverso l’oppressione del loro stesso prossimo e, unicamente per questa ragione, vogliono scalzarlo dalla sua posizione di rilievo (orgoglio). Un altro teme di perdere potere, favori, onore e gloria quando un altro vi assurge, e ciò risulta tanto spiacevole per lui che desidera il contrario (l’invidia). Un terzo, infine, è così sconvolto per l’ingiustizia subita che brama la vendetta e quindi trama il male contro il proprio prossimo (la rabbia). Un’altra categoria di peccatori è costituita da coloro che in effetti cercano un bene, ma nella maniera scorretta. Innanzitutto, ciò accade quando si cerca la conoscenza o l’acquisizione dei beni veri e supremi in maniera indolente e inetta, e in secondo luogo quando l’anima si dedica troppo a quei beni che non contengono la vera felicità: il denaro, l’ingordigia, la lussuria. La prima e decisiva differenza tra le due sistematizzazioni è indicata dai loro punti di partenza: all’Inferno è il “fine d’ogni malizia”91, lo scopo e il vertice della malvagità, ossia l’atto, l’ingiustizia effettivamente accaduta; il Purgatorio, per contro, parte dall’amor, che è sementa92 delle azioni, vale a dire dal mero atteggiamento. All’Inferno il principio è oggettivamente etico, le pene vigono, per così dire, in rapporto al peccato, ma non alla persona, perché quest’ultima laggiù è del tutto indifferente; perciò Dante esprime spesso la propria grande venerazione per persone i cui singoli peccati sono collocati nei gironi più profondi dell’Inferno. Minosse, che determina le pene dell’Inferno, è appunto soltanto un “conoscitor delle peccata”93, punisce la persona per il singolo peccato, mentre 91.  [Cfr. Inf. XI, 22-23 (I, p. 100): «D’ogni malizia ch’odio in cielo acquista / ingiuria è il fine». “Il fine d’ogni malizia” in italiano nel testo]. 92.  [Cfr. Purg. XVII, 104 (I, p. 463): «amor sementa in voi d’ogni virtute». “Amor” e “sementa” in italiano nel testo]. 93.  [Cfr. Inf. V, 9 (I, p. 45): «e quel conoscitor de le peccata». “Conoscitor delle peccata” in italiano nel testo].

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nel Purgatorio si tratta di purificare l’intera personalità; in questo il principio è psicologico, e di conseguenza non viene punito tanto l’atto reale quanto l’atteggiamento da cui ha avuto origine. Se il mio sentire non m’inganna, nel primo sistema le azioni peccaminose gli si sono presentate innanzi prima, e poi Dante ha creato per esse un principio di suddivisione, mentre nel secondo sistema il motivo psicologico (inclinazione al bene e al male) risultava antecedente, e da esso soltanto in un secondo momento venivano dedotte in maniera più logica le possibili degenerazioni dell’anima e le azioni peccaminose che ne conseguono. Da questa preponderanza della dimensione reale ed esteriore nel primo caso, e di quella logico-psicologica nel secondo, si evince come nel primo lasci molto a desiderare soprattutto la suddivisione, nel secondo il contenuto. L’incompletezza sul piano psicologico e la forzatura di entrambi gli schemi non necessitano di argomentazioni ulteriori; sulla risoluzione delle singole contraddizioni che spiccano in tali schemi si veda il saggio di Witte, Dantes Sündesystem, nelle sue Dante-Forschungen94. In questa sistematizzazione del peccato, tuttavia, si segnala in modo particolare, se visto in connessione con il sistema metafisico dantesco nel suo complesso, quel dualismo che da un punto di vista logico dovrebbe cadere nel monismo. Non si capisce come “amor”95 possa essere in generale qualcosa di malvagio in base al passaggio seguente: «l’eterna luce, / che, vista, sola e sempre amore accende; / e s’altra cosa vostro amor seduce, / non è se non di quella alcun vestigio, / mal conosciuto, che quivi traluce»96. Tanto poco Platone, in

94.  [In realtà, cfr. K. Witte, Dante’s Sündesystem in Hölle und Fegefeuer, in «Dante-Jahrbuch», XIV, 1877, pp. 373-404]. 95.  [In italiano nel testo]. 96.  Par. V, 8. [Par. V, 8-12 (I, p. 658)].

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un caso analogo, è in grado di rendere comprensibili la materia e il male, quanto poco Spinoza può dedurre una qualsiasi differenziazione all’interno della sua sostanza, altrettanto poco Dante riesce, accanto al proprio Dio, che è dotato di potere assoluto e di bontà, ad assegnare una posizione certa a un principio morale malvagio. Ogni principio assoluto al di là del mondo, sia esso di carattere fisico o etico, contiene appunto una contraddizione perché l’Assoluto non ha nulla di fronte a se stesso e di conseguenza può essere soltanto uno con ciò che, in base alla premessa, gli è subordinato o coordinato. Se si prende in considerazione questo fatto, e al contempo però le caratterizzazioni dantesche dei singoli peccati e dei peccatori, allora non si riuscirà a rendere coerente il peccato nel suo significato né come qualcosa di positivo né come qualcosa di negativo. Sui singoli peccati siano consentite ancora le seguenti considerazioni. Il male che viene inflitto al prossimo per pura malizia, per la gioia che si prova nel commettere iniquità, non trova posto nel sistema; ma in un altro passo egli sa – cosa che si trova in stretto rapporto con tutto questo – come anche solo la mera uguaglianza tra uomini malvagi diventi causa d’invidia97. Del resto, scorge invidia in particolare nelle corti dei principi; la chiama la meretrice che non ha mai tolto gli occhi di dosso dalle dimore dei principi, la rovina di tutti98. – Nella sodomia sono cadute in particolare persone di alto livello sul piano spirituale; ai suoi occhi il resto della grandezza della personalità non è affatto intaccato da questo vizio. L’avarizia, al contrario, corrompe la personalità in misura molto elevata e viene ascritta soprattutto 97.  Co. I, 4. [Co. I, 4, 6 (II.2, p. 75): «La seconda si vede per queste ragioni: che la paritate ne li viziosi è cagione d’invidia»]. 98.  Inf. XIII, 64. [Inf. XIII, 64-67 (I, pp. 120-121): «La meretrice che mai da l’ospizio / di Cesare non torse li occhi putti, / morte comune, delle corti vizio, / infiammò contra me li animi tutti»].

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agli ecclesiastici. «La vostra avarizia il mondo attrista, / calcando i buoni e sollevando i pravi»99; la cieca avidità strega gli uomini; e in tal modo si rivolge soltanto agli oggetti sbagliati, lasciando che colpisca come un bambino che muore di fame e scaccia la balia100. – Di Gerione, l’emblema per antonomasia dell’inganno, offre la seguente descrizione simbolica e spirituale: «Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti, e rompe i muri e l’armi; ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!» […] La faccia sua era faccia d’uom giusto, tanto benigna avea di fuor la pelle, e d’un serpente tutto l’altro fusto; due branche avea pilose infin l’ascelle; lo dosso e ’l petto e ambedue le coste dipinti avea di nodi e di rotelle. Con più color, sommesse e sopraposte non fer mai drappi Tartati né Turchi, ne fur tai tele per Aragne imposte.101

10. I sentimenti Rivolgiamoci ora verso quel che possiamo acquisire da Dante per la conoscenza psicologica dei sentimenti. Innanzitutto balza agli occhi come i sentimenti dolorosi siano quelli su cui elabora le osservazioni più commoventi, tratte dalla verità più profonda. L’immersione psicologica capace di penetrante efficacemente nell’essenza della sofferenza prende voce nelle famose parole 99.  Inf. XIX, 104. [Inf. XIX, 104-105 (I, p. 177)]. 100.  [Cfr. Par. XXX, 139-141 (I, p. 910)]. 101.  Inf. XVII, 1. [Inf. XVII, 1-3 e 10-18 (I, pp. 153-154)].

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di Francesca da Rimini e nel racconto di Ugolino102, che devono essere letti nella loro interezza per farsi un’idea della forza, simile a quella di Shakespeare, con cui è in grado di oggettivare le proprie esperienze degli abissi del dolore. Anche in altri passaggi adopera quell’esperienza secondo cui non c’è dolore più grande che ricordare il tempo felice nella miseria103: il falsario Adamo di Brescia, che, afflitto dalla malattia e struggendosi per una goccia d’acqua, lamenta come «Li ruscelletti che de’ verdi colli / del Casentin discendon giuso in Arno, / facendo i lor canali freddi e molli, / sempre mi stanno innanzi, e non indarno, / ché l’imagine lor vie più m’asciuga / che ’l male ond’io nel volto mi discarno»104. Le sue descrizioni della felicità risultano molto più oscure e generiche. – Dante sa anche che, a livello quantitativo, la sensibilità è ripartita in maniera diversa dalla natura105 e che un essere, più è compiuto, e più profondamente avverte il bene e la sofferenza106. Ha anche osservato che le ore serali fanno sorgere sentimenti particolarmente malinconici e dolorosamente struggenti107; e inoltre che quando un infelice si vede compatito, è tanto più probabile che cominci a lamentarsi e a piange-

102.  Inf. V, 88-138, XXXIII, 37-75. [I, rispettivamente pp. 51-54, e 304-306]. 103.  [Inf. V, 121-123 (I, p. 53): «“Nessun maggior dolore / che ricordarsi del tempo felice / nella miseria”»]. 104.  Inf. XXX, 64. [Inf. XXX, 64-69 (I, p. 275)]. 105.  Purg. XV, 33. [Purg. XV, 31-33 (I, p. 443): «Tosto sarà ch’a veder queste cose / non ti fia grave, ma fieti diletto / quanto natura a sentir ti dispose»]. 106.  Inf. VI, 107. [Inf. VI, 106-108 (I, p. 62): «Ed egli a me: “Ritorna a tua scienza, / che vuol, quanto la cosa è più perfetta, / più senta il bene, e così la doglienza”»]. 107.  Purg. VIII, 1. [Purg. VIII, 1-6 (I, p. 380): «Era già l’ora che volge il disio / ai navicanti e intenerisce il core, / lo dì c’han detto ai dolci amici addio; / e che lo novo peregrin d’amore / punge, s’e’ ode squilla di lontano / che paia il giorno pianger che si more»].

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re – come se, aggiunge, stesse provando pietà per se stesso108. E conosce il sollievo che lacrime e lamenti procurano al dolore, e come questo aumenti quando ci si privi di quelli109 o quando la rabbia feroce interiore li sopprime110; all’opposto, serve una grande energia (virtù) per evitare di manifestare gli affetti111. È naturale che abbia rimarcato particolarmente spesso quanto l’esternazione degli affetti rechi sollievo allo spirito – evidentemente, per la stessa ragione psicologica, gli sembra che nell’uomo parlare sia in generale cosa più umana del sentire112! – dal momento che egli stesso documenta all’esterno in maniera forte e spudorata i sentimenti di un vivace temperamento collerico, ricordandoci l’ingenuità degli sfoghi emotivi nell’antichità con i quali, tuttavia, possono coesistere perfettamente la suddetta pace interiore e la legalità della natura nobile. «Io, che pur da mia natura / trasmutabile son per tutte le guise»113, dice di sé; soltanto nella Vita Nuova, com’è naturale in età così giovane,

108.  V. N. 36. [In realtà V. N. XXXV, 3 (II.1, p. 143): «quando li miseri veggiono di loro compassione altrui, più tosto si muovono a lagrimare, quasi come se di se stessi avendo pietà, io senti’ allora cominciare li miei occhi a volere piangere»]. 109.  Inf. XXXIII, 112. [Inf. XXXIII, 112-114 (I, p. 308): «levatemi dal viso i duri veli, / sì ch’ïo sfoghi ’l duol che ’l cor m’impregna, / un poco, / pria che ’l pianto si raggeli»]. 110.  Inf. XIV, 63. [Inf. XIV, 63-66 (I, p. 129): «“O Capaneo, in ciò che non s’ammorza / la tua superbia, se’ tu più punito: / nullo martiro, fuor che la tua rabbia, / sarebbe al tuo furor dolor compito”»]. 111.  Co. III, 8. [Co. III, 8, 10 (II.2, p. 181): «cioè grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna, di nulla di queste puote l’anima essere passionata che a la finestra de li occhi non vegna la sembianza, se per grande vertù dentro non si chiude»]. 112.  V. E. I, 5. [V. E. I, 5, 1 (II.1, p. 395): «Noi infatti crediamo che per l’uomo sia più umano farsi sentire che sentire, purché si faccia sentire e senta in quanto uomo». “In homine” e “humanius” in latino nel testo]. 113.  Par. V, 98. [Par. V, 98-99 (I, pp. 663-664)].

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si vergogna di lasciare che si ascoltino gli scoppi veementi della propria passione, anche se in essa canta le sue Canzoni «per isfogar la mente»114. Confessa apertamente la propria terribile angoscia, quando Gerione lo porta a Malebolge115; riferendosi alla propria emotività colma di passione ed esternata con passione, si deve menzionare anche il suo senso di vergogna quasi eccessivo116, la pietà molto spesso lo porta alle lacrime, in un’occasione lo commuove addirittura a tal punto da farlo cadere come morto117, e la posizione china assunta da una persona pensierosa in lui si trasforma nella figura di mezzo arco di ponte118; e così anche la sua stessa indole energica e attiva gli fa sembrare così terribile la punizione degli ignavi, che vagano all’infinito, senza ricompensa e senza dolore, respinti dal cielo e dall’Inferno, tanto che egli stesso ritiene addirittura invidiabili le pene di quest’ultimo rispetto a quella squallida esistenza119. – Immediato come il pianto, però, è, almeno teoricamente, anche il riso, che Dante definisce come la «corruscazione de la dilettazione de l’anima»120; in nature più ingenue entrambi dovreb-

114.  V. N. 45. [In realtà V. N. XIX, 4, Canzone 1, vv. 1-4 (II.1, p. 103): «Donne ch’avete intelletto d’amore, / i’ vo’ con voi de la mia donna dire, / non perch’io creda sua laude finire, / ma ragionar per isfogar la mente»]. 115.  Inf. XVII, 106. [Inf. XVII, 106-108 (I, p. 159): «Maggior paura non credo che fosse / quando Fetòn abbandonò li freni, / perché ’l ciel, come pare ancor, si cosse»]. 116.  Inf. XXX, 133. [Inf. XXX, 133-135 (I, p. 279): «Quand’io ’l senti’ a me parlar con ira, / volsimi verso lui con tal vergogna, / ch’ancor per la memoria mi si gira»]. 117.  Inf. V, 140. [Inf. V, 140-142 (I, p. 54): «l’altro piangeva, sì che di pietade / io venni men così com’io morisse; / e caddi come corpo morto cade»]. 118.  Purg. XIX, 40. [Purg. XIX, 40-42 (I, p. 477): «Seguendo lui, portava la mia fronte / come colui che l’ha di pensier carca, / che fa di sé un mezzo arco di ponte»]. 119.  [Cfr. Inf. III, 46-66 (I, pp. 27-29)]. 120.  Co. III, 8. [Co. III, 8, 11 (II.2, p. 181)].

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bero essere completamente indipendenti dalla volontà121; ma in Paradiso le emozioni, chiaramente molto diverse, si esprimono tramite un sorriso122; qui però il sorriso serve più come simbolo trascendente, analogo al rischiarare e all’amore. In generale, l’anima si mostra nel modo più chiaro tramite gli occhi e la bocca, dove le tre nature dell’uomo (la vegetativa, la sensibile e la razionale) hanno, per così dire, giurisdizione123. Infine, vi è la musica, in cui la sensazione fluisce tanto quanto, all’opposto, sa risvegliarla facendola oscillare tra gioie e dolori124, ma sa anche attenuarne la tempesta troppo veemente. Dante s’immagina che la violenza della musica sia tanto grande, come se di quando in quando distogliesse gli spiriti vitali dalle loro funzioni; quando l’anima la sente, si blocca completamente in se stessa e la potenza di quegli spiriti vitali si precipita, per così dire, verso l’organo dell’udito che riceve il suono125; e in Purgatorio Dante

121.  Purg. XXI, 106. [Purg. XXI, 106-108 (I, p. 501): «ché riso e pianto son tanto seguaci / a la passion di che ciascun si spicca, / che men seguon voler ne’ più veraci»]. 122.  Ad esempio XVI, 14 e XVII, 36. [Par. XVI, 13-16 (I, p. 766): «onde Beatrice, ch’era un poco scevra, / ridendo, parve quella che tossìo / al primo fallo scritto di Ginevra». Par. XVII, 34-36 (I, pp. 777-778): «ma per chiare parole e con preciso / latin rispuose quello amor paterno, / chiuso e parvente del suo proprio riso»]. 123.  Co. III, 8. [Co. III, 8, 6 (II.1, p. 180): «E però che ne la faccia massimamente in due luoghi opera l’anima – però che in quelli due luoghi quasi tutte e tre le nature de l’anima hanno giurisdizione – cioè ne li occhi e ne la bocca, quelli massimamente adorna e quivi pone lo ’ntento tutto a fare bello, se puote»]. 124.  Purg. XXIII, 11. [Purg. XXIII, 10-12 (I, p. 514): «Ed ecco piagnere e cantar s’audie: / “Labia mea, Domine” per modo / tal, che diletto e doglia parturie»]. 125.  Co. II, 14. [In realtà Co. II, 13, 24 (II.2, p. 141): «Ancora: la Musica trae a sé li spiriti umani, che quasi sono principalmente vapori del cuore, sì che quasi cessano da ogni operazione: sì è l’anima intera, quando l’ode, e la virtù di tutti quasi corre a lo spirito sensibile che riceve lo suono»].

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sente un canto, «con sì dolci note, / che fece me a me uscir di mente»126. Soprattutto però esprime magnificamente l’effetto della musica, che placa tutte le sofferenze e le passioni, di fronte al suo amico, il cantore Casella, che ritrova in Purgatorio, in parole che già mediante il loro suono esprimono quel timbro della musica meravigliosamente sereno e rasserenante, che egli avvertiva nel profondo: […] «Se nuova legge non ti toglie memoria o uso all’amoroso canto che mi solea quetar tutte mie voglie, di ciò ti piaccia consolare alquanto l’anima mia, che con la sua persona venendo qui è affannata tanto!». Amor, che nella mente mi ragiona cominciò egli allor sì dolcemente che la dolcezza ancor dentro mi sona»127.

11. Amore Qui e altrove abbiamo già toccato il sentimento che, per estensione così come per intensità, si trova in cima alla lista di quelli che formano gli ingranaggi essenziali all’interno dell’apparato psicologico del poema, ossia l’amore. In Dante il concetto di “amore”128 risulta però molto più ampio di ciò che la parola “amore” designa normalmente; comprende tutto ciò che chiamiamo impulso, e in gran parte anche ciò che chiamiamo vo-

126.  Purg. VIII, 14. [Purg. VIII, 14-15 (I, p. 381)]. 127.  Purg. II, 106. [Purg. II, 106-114 (I, pp. 337-338)]. 128.  [In italiano nel testo, mentre nell’occorrenza successiva Simmel adopera Liebe].

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lontà. Viene designato come “amare”129 la condizione mentale in cui qualcosa ci sembra desiderabile sotto qualsiasi aspetto; perciò questo concetto viene coinvolto nella discussione sul libero arbitrio e in quella relativa al vizio, venendo generalizzato riguardo a tutto ciò che è fisico e metafisico. La definizione generale di amore si trova nel passo seguente: «L’animo, ch’è creato ad amar presto, / ad ogni cosa è mobile che piace, / tosto che dal piacere in atto è desto. / Vostra apprensiva da esser verace / tragge intenzione, e dentro a voi la spiega, / sì che l’animo ad essa volger face; / e se, rivolto, in ver di lei si piega, / quel piegare è amor, quell’è natura / che per piacer di novo in voi si lega. / Poi, come ’l foco movesi in altura / per la sua forma ch’è nata a salire / là dove più in sua materia dura, / così l’animo preso entra in disire, / ch’è moto spiritale, e mai non posa / fin che la cosa amata il fa gioire»130. È chiaro come questa spiegazione, che collima con quella della volontà data in precedenza, al pari di quest’ultima non generi una vera e propria comprensione psicologica o anche soltanto metafisica del proprio oggetto; si illustra soltanto come l’amore sia l’inclinazione verso un oggetto la cui rappresentazione l’abbia addirittura infiammato – vale a dire essenzialmente un idem per idem. Ciò che provoca l’amore è quel che viene riconosciuto come buono; la forza del nostro amore risulta proporzionale alla pienezza del bene in ogni cosa131. E questa visione conduce a un’altra definizione di amore, più interessante sul piano metafisico: in tutto ciò che è terreno, e in particolare nell’anima umana, un raggio dell’essenza divina viene modificato in misura maggiore o minore attraverso gli elementi che si inter-

129.  [In italiano nel testo]. 130. Purg. XVIII, 19. [Purg. XVIII, 19-33 (I, p. 467)]. 131.  Par. XXVI, 28. [Par. XXVI, 28-30 (I, p. 861): «Ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende, / così accende amore, e tanto maggio / quanto più di bontade in sé comprende»].

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pongono tra i due; la nostra anima aspira all’unione con quella fonte del nostro essere in modo così naturale «per lo suo essere fortificare»132. E siccome il divino si esprime nelle perfezioni della natura umana, tendiamo naturalmente all’unione con gli altri tanto più, quanto più ne riconosciamo la perfezione, e noi chiamiamo questa unione amore133. Il carattere universale dell’amore si esprime chiaramente su base metafisica, senza cui – come Dante afferma esplicitamente – non vi è mai stato né creatore né creatura134, e che viene formulato in maniera ancora più intensa, certamente però offuscando ancora di più la determinatezza del concetto nella considerazione seguente. Ogni essere ha un amore naturale che gli corrisponde: gli elementi ai loro luoghi specifici (la terra verso il proprio centro, il fuoco verso l’alto), quelli prima uniti insieme, come i metalli, crescono nel luogo della propria origine, le piante ancor più chiaramente, gli animali provano amore verso gli uomini e tra di loro, gli uomini verso le cose perfette e degne; dal momento che l’uomo, “per la sua nobiltà”135, possiede qualcosa della natura di tutti questi esseri, può avere tutti questi “amori”136 e li ha. Infatti, come corpo semplice, tende verso il basso, come corpo composito ama il luogo della propria nascita

132.  [Co. III, 2, 7 (II.2, p. 157): «e però che ’l suo essere dipende da Dio e per quello si conserva, naturalmente disia e vuole essere a Dio unita per lo suo essere fortificare». “Per lo suo essere fortificare” in italiano nel testo]. 133.  Co. III, 2. [Co. III, 2, 9 (II.2, p. 158): «Questo amore, cioè l’unimento de la mia anima con questa gentil donna, ne la quale de la divina luce assi mi si mostrava, è quello ragionare del quale io dico»]. 134.  Purg. XVII, 91. [Purg. XVII, 91-92 (I, p. 462): «“Né creator né creatura mai” / – cominciò ei – “figliuol, fu sanza amore”»]. 135.  [Co. III, 3, 5 (II.2, p. 161): «E però che l’uomo – avvegna che una sola sustanza sia tutta [sua] forma – per la sua nobilitade ha in sé natura di tutte queste cose, tutti questi amori puote avere e tutti li ha». “Per la sua nobilitade” in italiano nel testo]. 136.  [In italiano nel testo].

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(Anteo!), in virtù dell’anima vegetale è incline a certi alimenti, non tanto perché siano gustosi quanto perché risultano nutrienti; secondo la sua natura sensibile e animale, l’uomo ama «secondo la sensibile apparenza»137; e questo amore ha bisogno in modo del tutto particolare di una guida «per la sua soperchievole operazione nel diletto massimamente della vista e del tatto. E per la quinta e ultima natura, cioè vera umana, e, meglio dicendo, angelica, cioè razionale, ha l’uomo amore a la verità e a la virtute; e da questo amore nasce la vera e perfetta amistade»138. Nel complesso, tuttavia, ci sono soltanto due tipi di amore specificamente diversi che Dante pone in risalto: l’amore naturale, che collima con gli impulsi involontari sopracitati e “l’amore d’animo”139 che proviene dal libero arbitrio. Sul piano del contenuto, non c’è differenza tra i due, e proprio perciò non coincidono comunque con le differenze sopraccitate tra l’amore della natura umana inferiore e quello della natura umana superiore, benché dovrebbe essere così. Per contro, un’altra descrizione di tale distinzione collima con quella: la natura avrebbe stabilito un vincolo d’amore tra gli uomini, e poi ne sarebbe stato aggiunto un altro, «di che la fede spezial si cria»140; e tuttavia chiaramente noi chiamiamo amore solo quest’ultimo. Secondo la prima deduzione, però, anche l’amore più nobile deve passare attraverso la condizione di quello naturale, mentre secondo l’altra ne è specificamente separato. La sciagurata scissione tra il naturale e lo spirituale, 137.  [Co. III, 3, 10 (II.2, p. 162): «E per la natura quarta, de li animali, cioè sensitiva, hae l’uomo altro amore, per lo quale ama secondo la sensibile apparenza, così come bestia». “Sensibile apparenza” in italiano nel testo]. 138.  Co. III, 3. [In italiano nel testo. In realtà, secondo il testo dantesco, Co. III, 3, 10 (II.2, p. 162) in vista della “soperchievole operazione” l’amore non ha bisogno di una guida, bensì «ha mestiere di rettore»]. 139.  [In italiano nel testo]. 140.  Inf. XI, 61. [Inf. XI, 61-63 (I, p. 104): «Per l’altro modo quell’amor s’oblia / che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto, / di che la fede speizal si cria»].

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che in Dante coesiste accanto alla garanzia dell’assoluta unità dell’anima, non può che condurre a simili ambiguità. Accanto a ciò si trova un utilizzo della parola in senso più strettamente metafisico: così come l’amore si rivela in generale quale forza motrice dell’anima – la danza anche delle altre virtù teologali si regola in base al canto della carità141 – allo stesso modo dev’essere anche l’impulso che mette in movimento il macrocosmo, al modo in cui la cosa è già preparata nei cinque significati del concetto. Dal punto di vista psicologico, qui è presente un processo trascendente simile a quello tramite cui Schopenhauer trasforma la volontà nel principio fondamentale. L’amore mette in moto le intelligenze celesti, attraverso l’amore Dio governa il mondo, anzi, Dio è l’amore stesso142. E così come Dio ama tutte le cose e perciò le sostiene nel loro essere, allo stesso modo ogni creatura lo ama, nella misura in cui lo riconosce143. L’amore è il principio e il fine che tiene insieme la costruzione del mondo. Tuttavia, senza disapprovarla chiaramente, Dante cita anche l’idea di Empedocle secondo cui l’amore è capace di trasformare l’universo in caos144. E questo non contraddice per nulla gli altri effetti dell’amore, se lo si concepisce soltanto nel senso complessivo inteso da Dante, in quanto forza in generale, in quanto principio che muove 141.  Purg. XIX, 128. [In realtà Purg. XXIX, 121-123 e 127-129 (I, p. 576): «Tre donne in giro da la destra rota / venian danzando; l’una tanto rossa / ch’a pena fora dentro al foco nota; / […] E or parean da la bianca tratte, / or da la rossa; e dal canto di questa / l’altre toglien l’andare e tarde e ratte»]. 142.  Par. XXXIII, 145. [Par. XXXIII, 145 (I, p. 939): «l’amor che move il sole e l’altre stelle»]. 143.  Par. XXVI, 28. [Par. XXVI, 28-30 (I, p. 861): «Ché ’l bene, in quanto ben, come s’intende, / così accende amore, e tanto maggio / quanto più di bontade in sé comprende»]. 144.  Inf. XII, 40. [Inf. XII, 41-43 (I, p. 110): «tremò sì, ch’io pensai che l’universo / sentisse amor, per lo qual chi creda / più volte il mondo in caos converso»].

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in generale e da cui può derivare la pienezza delle azioni più diverse. Niente e nessuno ne è escluso, in esso ogni soggetto è anche oggetto, ogni oggetto anche soggetto – persino la filosofia è considerata come un rapporto d’amore reciproco tra anima e saggezza145. Questa reciprocità già nella dimensione metafisica dell’amore ci conduce a un punto di vista successivo sotto cui dobbiamo considerarlo: l’amore in senso ordinario, quello da persona a persona, e in particolare tra uomo e donna. Anche questo amore, secondo Dante, è basato sulla reciprocità, quasi come nel mondo fisico colpo e contraccolpo si condizionano tra loro, e secondo la sua esperienza psicologica l’amore è prodotto dall’amore: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»146. «Io vidi una di lor tràrresi avente / per abbracciarmi, con sì grande affetto, / che mosse me a fare il simigliante»147. «Amor, / acceso di virtù, sempre altro accese, / pur che la fiamma sua paresse fore»148. Non posso rinunciare alla convinzione che il carattere un tempo decisamente più sensuale dell’amore, rispetto a quello d’oggigiorno, abbia facilitato enormemente tale reciprocità. L’elemento romantico dell’amore moderno si basa essenzialmente sul fatto che risulta come qualcosa di spontaneo da entrambe le parti, emergendo dall’inconscio. E ora lo si paragoni a Boccaccio, anche là dove non stia abbozzando caricature dell’immoralità; quanto raramente, in proporzione, l’eroe e l’eroina della storia s’innamorano indipendentemente l’uno dall’altro; l’amore nasce soltanto in uno dei due, ma quasi sempre gli ri-

145.  Co. III, 12. [Co. III, 12, 4 (II.2, p. 195): «ché, sì come sopra si dice, Filosofia è quando l’anima e la sapienza sono fatte amiche, sì che l’una sia tutta amata da l’altra»]. 146.  Inf. V, 103. [Inf. V, 103 (I, p. 52)]. 147.  Purg II, 76. [Purg. II, 76-78 (I, p. 336)]. 148.  Purg. XXII, 10. [Purg. XXII, 10-12 (I, p. 503)].

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esce di accenderlo anche nell’altro, di modo che, in realtà, i rapporti psicologici sembrano essere stati tali che Dante potrebbe dire con effettiva legittimità: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona»149. È ovvio che l’amore rivolto soltanto all’elemento sensuale viene ricambiato più facilmente, dal momento che per la soddisfazione sensuale servono appunto soltanto due persone di genere diverso, mentre per una reciproca complicità a livello spirituale sono richieste condizioni molto complicate e quindi assai più rare. Quell’amore sentimentale, iperspirituale per una Beatrice, una Laura – passioni per così dire “platoniche” – che, peraltro, non ha precluso ai poeti rapporti decisamente sensuali, anche nello stesso arco di tempo, è soltanto la reazione naturale al suddetto carattere di rozza sensibilità, il rovesciamento dualistico verso l’estremo opposto, che risultava necessario prima che l’idea di un’armoniosa equiparazione di entrambi i fattori, quello sensibile e quello spirituale, potesse essere colta nelle epoche successive; e a partire dall’ultima frase del Convivio, III, 3, che abbiamo citato dianzi, Dante riconosce l’amore per Beatrice appunto unicamente come amicizia. – Così come abbiamo visto che l’idea mistica del riflesso dei pensieri in Dio contiene una vena materialistica, allo stesso modo anche quel carattere sensuale dell’amore getta la propria ombra su di esso nelle spiegazioni più astratte: siccome l’amore è sempre diretto a una volontà di possesso, il suo scopo è rappresentato come un possedere, come qualcosa di pratico – la potentia concupiscibilis è la sedes amoris150 – la mente non può trovare pace sino a quando non gode dell’oggetto amato; perciò l’amore, come Dante lo

149.  [Inf. V, 103 (I, p. 52)]. 150.  A Cino da Pistoja. [Epistola III, 3 (II.2, p. 369): «poiché dunque la potenza concupiscibile, che è sede dell’amore, è una potenza sensitiva, è manifesto che dopo la cessazione di una passione dalla quale è tradotta in atto, è conservata per un altro»].

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conosceva e lo riconosceva, malgrado tutta la rassegnazione e la spiritualizzazione della propria inclinazione verso Beatrice, risulta infinitamente lontano da quel sommo concetto di amore espresso nelle parole: «Se ti amo, a te cosa importa?»151. Ciononostante, la differenza morale tra i popoli e le epoche è riconducibile a un’area molto delicata che difficilmente può risultare accessibile in maniera esatta alla ricerca storica – ma a me sembra che tale legittimità sussista, per lo meno a livello di accenno. Parimenti si dica riguardo a un secondo contrasto tra le anime di un’epoca, che fa seguito a questo sentimento secondo cui l’amore produce sempre amore; com’è interessante, in effetti, il confronto con il detto di Heine: «Se vuoi essere amato da me, devi trattarmi en canaille»152. Come appare sana e pura la reciprocità dantesca dell’amore di fronte a una sensibilità sovrastimolata in modo così innaturale e interiormente avvelenata! È però essenzialmente il medesimo tratto psicologico che, rispetto ai sentimenti delle epoche precedenti, attira l’uomo moderno sulle vette della natura più selvaggia, e preferibilmente là dove risulta più impraticabile, per così dire, più impervia. Nondimeno, ci sono molti tratti dell’autobiografia sentimentale di Dante che ci paiono sorprendentemente attuali; costui, in effetti, è perfettamente consapevole della natura problematica di una simile passione, che lo spinge verso Beatrice e tuttavia la vista di lei lo colma del più grande strazio153. Con la medesima forza irresistibile con cui l’amore fa pulsare, per così dire, il cuore del mondo, esso governa anche nel mon-

151.  Cfr. W. Goethe, Wilhelm Meisters Lehrjahre, IV, 9, in Id., Werke. Hamburger Ausgabe, a cura di E. Trunz, vol. VII, DTV, München 2000, p. 235. 152.  Cfr. H. Heine, Ideen. Das Buch Le Grand, in Id., Sämtliche Schriften, a cura di K. Briegleb, vol. III, Hanser, München-Wien 1976, p. 259. 153.  V. N. 16. [V. N. XVI, 10, Sonetto IX, vv. 12-14 (II.1, p. 100): «e se io levo li occhi per guardare, / nel cor mi si comincia uno tremoto, / che fa de’ polsi l’anima patire»].

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do del cuore. Fu grazie all’amore verso Beatrice che Dante si è elevato al di sopra della «volgare schiera»154, l’amore si afferma anche al di là della vita, e la sua forza tiene ancora insieme, come ombre, quelli che unì nel corso della vita155; il segreto della poesia consiste nel fatto che si scrive come amore ispira e solo aggrappandosi ad esso si può raggiungere il sommo grado nell’arte della poesia156; l’amore vanta un potere tale che alla vista della sua amata tutta l’ostilità che Dante reca nel proprio cuore contro qualcuno scompare e perdona chiunque lo abbia mai offeso157. Dante confessa come in lui l’amore abbia seguito la vista come al fulmine segue il tuono, come abbia scacciato tutti gli altri pensieri e l’abbia trasformato in una creatura priva volontà, al servizio della sua passione158. Certo però c’è un altro passo che non si armonizza con questo: «non subitamente nasce amore e fassi grande e viene perfetto, ma vuole

154.  Inf. II, 104. [Inf. II, 103-105 (I, p. 22): «Disse: – Beatrice, loda di Dio vera, / ché non soccorri quei che t’amò tanto, / ch’uscì per te della volgare schiera?»]. 155.  Inf. V, 103. [Inf. V, 103-105 (I, p. 52): «Amor, ch’a nullo amato amar perdona, / mi prese del costui piacer sì forte, / che, come vedi, ancor non m’abbandona»]. 156.  Purg. XXIV, 52. [Purg. XXIV, 52-54 (I, p. 525): «E io a lui: “I’ mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando”»]. 157.  V. N. 11. [V. N. XI, 1 (II.1, p. 86): «Dico che quando ella apparia da parte alcuna, per la speranza de la mirabile salute nullo nemico mi rimanea, anzi mi giugnea una fiamma di caritade, la quale mi facea perdonare a chiunque m’avesse offeso»]. 158.  A Moroello Malaspina. [Epistola IV, 2 (II.2, pp. 371-373): «Infatti come ai baleni diurni seguono subito tuoni, così appena vista la fiamma di questa bellezza l’Amore terribile e imperioso mi occupò […] ed empiamente sbandì, come sospette, le assidue meditazioni, con cui indagavo tanto le cose celesti quanto le terrestri; e infine, affinché l’anima non si ribellasse più contro di lui, incatenò il mio libero arbitrio, sicché devo volgermi non dove io, ma dove lui vuole»].

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tempo alcuno e nutrimento di pensieri»159; e anche nella Vita Nova si dice che Amore lo domina «per la vertù che li dava la mia imaginazione»160. Questa è proprio una di quelle contraddizioni che la sua psicologia spesso ci offre, ma che appunto spesso reca testimonianza delle varie e spregiudicate osservazioni con cui ha scandagliato la vita, la quale in realtà rivela fenomeni per più versi chiaramente contraddittori e tra loro contrapposti. Dante adopera quell’elemento di consuetudine nell’amore per spiegare il diritto del primogenito, un diritto sostenuto dal più squisito spirito psicologico: siccome infatti si tende a entrare nell’unione più intima con colui che nell’immaginazione è l’unico del suo genere, allora il primo figlio è quello connesso più strettamente con l’immaginario del padre, è il più prossimo a lui e quindi è il più amato; e in conformità a tutto ciò è sorta presso i popoli l’abitudine di nominare appunto il primo figlio quale erede dei propri beni161. Tuttavia, Dante stesso offre una spiegazione estremamente scolastica, costruita su teorie metafisiche, quando Cino da Pistoia gli chiede se l’anima possa passare dalla passione per un oggetto a quella per un altro. Dante coglie molto bene, sul piano teorico, la mancanza di fedeltà, ma questo non gli impedisce, benché non provi altro che pietà verso Francesca da Rimini, di pronunciare le parole più dure contro l’infedeltà e l’immoralità delle donne. Il fuoco dell’amore in una donna dura poco, se non è mantenuto sempre sensualmente ecci-

159.  Co. II, 2. [Co II, 2, 3 (II.2, p. 106)]. 160.  [V. N. II, 7 (II.1, p. 72)]. 161.  Co. I, 12. [Co. I, 12, 4 e 7 (II.2, p. 96): «Tanto è la cosa più prossima quanto, di tutte le cose del suo genere, altrui è più unita: onde di tutti li uomini lo figlio è più prossimo al padre. […] La sopra detta cagione, cioè d’essere più unito quello ch’è solo prima in tutta la mente, mosse la consuetudine de la gente, che fanno li primogeniti succedere solamente, sì come più propinqui e perché più propinqui, più amati»].

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tato, «se l’occhio o il tatto spesso non l’accende»162; esprime sdegno per i costumi spudorati delle donne del proprio tempo e promette loro la pena più dura163. Così come svaluta l’attitudine etica delle donne, però, la stessa cosa vale per la loro attitudine intellettuale; innanzitutto pensa che certamente in Paradiso Adamo abbia proferito delle parole, e non Eva, dal momento che non si può dare per scontato che qualcosa di così eccellente come il linguaggio provenga da una donna164. Dante caratterizza il volgare comune come quello che parlano anche le mulierculae165. In un passo afferma addirittura anche che avrebbe voluto parlare alle donne, ma non proprio a tutte, bensì soltanto alle donne gentili, e non a quelle che non sono altro che femmine166.

162.  Purg. VIII, 76. [In realtà Purg. VIII, 78 (I, p. 385)]. 163.  Purg. XXIII, 94. [Purg. XXIII, 94-96, 100-102 e 106-108 (I, p. 519): «Ché la Barbagia di Sardigna assai / ne le femmine sue più è pudica / che la Barbagia dov’io la lasciai. / […] nel qual sarà in pergamo interdetto / a le sfacciate donne fiorentine / l’andar mostrando con le poppe il petto. […] / Ma se le svergognate fosser certe / di quel che ’l ciel veloce loro ammanna, / già per urlare avrien le bocche aperte»]. 164.  V. E. I, 4. [V. E. I, 4, 3 (II.1, p. 391): «Tuttavia, per quanto nei testi si trovi che la prima a parlare fu la donna, è però più ragionevole credere che sia stato invece l’uomo, ed è anzi inconseguente pensare che un così eccellente atto del genere umano non sia proceduto dall’uomo prima che dalla donna»]. 165.  A Cangrande, 10. [Epistola XIII, 10 (II.2, pp. 449-451): «al modo d’esprimere, è il modo piano e umile, perché la lingua volgare in cui discorrono anche le donnette»]. 166.  V. N. 19. [V. N. XIX, 1 (II.1, pp. 102-103): «e pensai che parlare di lei non si convenia che io facesse, se io non parlasse a donne in seconda persona, e non ad ogni donna, ma solamente a coloro che sono gentili e che non sono pure femmine»].

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12. Anima animale Da ultimo, alcune osservazioni su ambiti più isolati. Nelle sue opinioni sull’anima animale non si può nascondere una certa contraddizione; in teoria Dante esclude da essa tutto ciò che è etico e razionale, dal momento che le manca completamente il libero arbitrio; d’altronde, però, osserva che c’è tanto poco un salto nell’ordine spirituale delle cose così come in quello naturale, che in realtà si verificherebbe un passaggio graduale dalla natura angelica attraverso la natura umana verso quella animale, anche se a livello generale dovrebbero essere riconosciuti gradi diversi167. E poi ha un occhio troppo fine e poetico, una sensibilità troppo spiccata per il senso della bellezza e dell’idillio per non notare nell’animo animale i prodromi della vita morale e sensazioni puramente umane: «Come l’augello, intra l’amate fronde, / posato al nido de’ suoi dolci nati / la notte che le cose ci nasconde, / che, per veder li aspetti disiati / e per trovar lo cibo onde li pasca, / in che gravi labor li sono aggrati, / previene il tempo in su aperta frasca, / e con ardente affetto il sole aspetta, / fiso guardando pur che l’alba nasca / così la donna mia stava eretta»168. E inoltre, il seguente passaggio, in cui ancora una volta il tono della lingua è importante per rappresentare la sensazione: «Quale allodetta che in aere si spazia / prima cantando, e poi tace contenta / de l’ultima dolcezza che la sazia, / tal mi sembiò l’imago de l’imprenta»169. Relativamente al cambiamento d’epoca, peraltro, non è privo d’importanza il fatto che il suo Inferno non abbia spazio per i torturatori

167.  Co. III, 7. [Co. III, 7, 6 (II.2, p. 176): «e tra l’angelica natura, che è cosa intellettuale, e l’anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l’uno a l’altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l’anima umana e l’anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuno non sia»]. 168.  Par. XXIII, 1. [Par. XXIII, 1-10 (I, pp. 830-831)]. 169.  Par. XX, 73. [Par. XX, 73-76 (I, p. 808)].

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di animali. – Dante sa anche osservare il carattere delle piante e farne un simbolo per l’elemento psichico; così, secondo l’interpretazione di Witte, «il giunco flessibile che si piega al frangersi delle onde che circondano la riva del monte Purgatorio170 è un simbolo inconfondibile di umile penitenza»171. E confronta sottilmente il sospiro di sollievo dopo un attacco di angoscia con lo spuntare e il crescere dei fiori, che si sono piegati e chiusi davanti alla gelata notturna e alzano di nuovo la testa al mattino quando il sole li illumina172. Secondo la sua metafisica, tuttavia, l’anima umana è un’anima vegetale nel primo periodo del suo sviluppo embrionale, con l’unica differenza che quella continua a svilupparsi mentre questa ha già raggiunto il proprio fine173. D’altronde però l’esistenza animale gli serve come allegoria e come simbolo delle peggiori qualità dell’anima umana. Dal momento che l’anima umana, in base alla sua metafisica, non è altro che l’anima animale, con l’aggiunta della parte razionale; qualora questa parte più nobile viene corrotta dall’iniquità morale o intellettuale, essa deve ridiscendere nuovamente alla condizione di quella animale. Siccome però è proprio un dovere dell’uomo preservare quel sommo dono di Dio, la “vita bestiale”174 non è più la condizione d’innocenza degli animali,

170.  Purg. I, 103. [Purg. I, 100-103 (I, p. 330): «Questa isoletta intorno ad imo ad imo, / là giù colà dove la batte l’onda, / porta de’ giunchi sovra ’l molle limo»]. 171.  [Cfr. Dante Alighieri’s Göttliche Komödie, tr. ted. di K. Witte, Decker, Berlin 1865, p. 589]. 172.  Inf. II, 127. [Inf. II, 127 (I, p. 23): «Quali i fioretti, dal notturno gelo / chinati e chiusi, poi che ’l sol l’imbianca, / si drizzan tutti aperti in loro stelo»]. 173.  Purg. XXV, 52. [Purg. XXV, 52-54 (I, p. 534): «Anima fatta la virtute attiva / qual d’una pianta, in tanto differente, / che questa è in via e quella è già a riva»]. 174.  [In italiano nel testo].

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bensì designa un’esistenza positiva, viziosa e ignobile. Gli animali non possiedono il libero arbitrio, dal momento che la loro facoltà di giudizio è sempre determinata dai loro desideri175; se questo accade anche nell’uomo, allora egli è dominato solo dai desideri animali e perciò è possibile che i singoli animali diventino simboli di vizi individuali, come molto spesso accade nella Divina Commedia. Nella schiavitù del male la volontà viene volontariamente abolita; sarebbe interessante tenere insieme tutto questo con la discussione svolta in precedenza in relazione ai voti.

13. L’arte Le sue opinioni sull’arte, benché solo accennate in maniera occasionale, non sono prive d’interesse sul piano psicologico. La bellezza di un oggetto dovrebbe basarsi sul fatto che le sue parti corrispondono l’una all’altra opportunamente; infatti l’armonia di queste parti ci offre una piacevole sensazione (piacimento) ed è per questo che chiamiamo “bello” quell’oggetto176. Il punto di vista qui è interamente soggettivistico-psicologico, così come là dove egli mostra che l’intero scopo del proprio poema consiste nel condurre le persone dalla condizione di mi-

175.  Mon. I, 14. Co. II, 8. [In realtà Mon. I, 13, 7 (II.2, p. 591): «e ammesso che solo la cupidigia corrompe il giudizio e ostacola la giustizia, ne consegue che solo il monarca può avere, assolutamente o più di tutti, la miglior disposizione per governare». In realtà Co. II, 7, 3 (II.2, p. 123): «Dirittamente dico, però che lo pensiero è proprio atto de la ragione, perché le bestie non pensano, che non l’hanno»]. 176.  Co. I, 5. [Co. I, 5, 13 (II.2, p. 79): «Quella cosa dice l’uomo essere bella cui le parti debitamente si rispondono, per che de la loro armonia resulta piacimento». “Piacimento” in italiano nel testo].

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seria a quella di beatitudine (come si è già visto dianzi)177. Per quanto concerne il punto di vista dell’artista, incontriamo un numero maggiore di momenti in cui lamenta la difficoltà del procedere artistico e di una chiara consapevolezza dei propri limiti: ogni artista deve arrestarsi all’altezza del suo ideale ultimo (ultimo suo)178! Abbiamo già spiegato sopra quanto fortemente avverta l’inadeguatezza del linguaggio nell’esprimere le più alte intenzioni artistiche. E altrettanto bene Dante sa – e questo certamente vale unicamente per la sua epoca, la quale soltanto era in cammino verso l’Altissimo – che nel corso dello sviluppo culturale la fama di ogni artista viene superata ben presto da quella del successivo, che solo l’avvento dei tempi barbari lo fa rimanere all’apice della fama179. In particolare dalla descrizione dei rilievi marmorei che trova nel Purgatorio (canti X e XII) si evince una raffinata concezione artistica. Devono essere così meravigliosi che non solo Policleto, ma persino la natura stessa avrebbe dovuto provare vergogna e rassegnarsi di fronte ad essi180. L’influenza di Giotto forse gli fa cercare la massima perfezione dell’opera d’arte nella verità della natura, nella chiarezza e nel vigore dell’espressione: si sarebbe potuto giurare che quelle figure vivessero e parlassero, quel che dicono è così chiaro, espresso nei

177.  [Epistola XIII, 15 (II.2, p. 453): «Il fine del tutto e della parte è rimuovere i viventi in questa vita dallo stato di miseria e condurli allo stato di felicità»]. 178.  Par. XXX, 31. [Par. XXX, 31-33 (I, p. 904): «ma or convien che mio seguir desista / più dietro a sua bellezza, poetando, / come all’ultimo suo ciascuno artista». “Ultimo suo” in italiano nel testo]. 179.  Purg. XI, 91. [Purg. XI, 91-93 (I, p. 412): «Oh vana gloria dell’umane posse! / com poco verde in su la cima dura, / se non è giunta dall’etati grosse!»]. 180.  [Purg. X, 31-33 (I, p. 401): «esser di marmo candido e adorno / d’intagli sì, che non pur Policleto, ma la natura lì avrebbe scorno»].

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loro volti, come il sigillo appare nella cera. Il canto, l’incenso del sacrificio gli pare così realistico che due sensi si trovano sempre in disaccordo su di esso: l’orecchio dice “non cantano”, e però l’occhio dice: “ma sì che cantano”, e altrettanto accade tra il naso e gli occhi181. In effetti, la descrizione delle persone e delle scene risulta della massima vivacità, eppure è eseguita in maniera tale da non far dimenticare che si tratta della descrizione non di una realtà bensì di un’opera d’arte, e testimonia come Dante abbia riflettuto sulle leggi dell’arte, su ciò che in essa sia possibile e possente; invero ci assicura abbastanza spesso che queste immagini sarebbero apparse esattamente come la realtà stessa, tuttavia si nota in modo chiaro come non sia il realismo crudo a deliziarlo, bensì appunto unicamente il fatto che si presenti in forma artistica. Per quanto concerne l’essenza della poesia e la maniera di raggiungere il suo vertice, Dante indica due strade per farlo, che egli stesso ha seguito e che caratterizzano ancora una volta il dualismo della sua natura e del suo tempo. Ciò che è più perfetto nella poesia, così ritiene, si raggiunge attraverso la devozione diretta al sentimento; alla domanda su come sia possibile per lui cantare cose così dolci come nessun poeta prima di lui abbia mai fatto, Dante risponde: «I’ mi son un, che quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando»; la sua penna andrebbe direttamente “di retro al dittator”182. In un altro passo, però, spunta la Scolastica, che nulla sa del valore della pura genialità riguardo alla poesia, e

181.  [Purg. X, 58-63 (I, pp. 402-403): «Dinanzi parea gente; e tutta quanta, / partita in sette cori, a’ due miei sensi / facea dir l’un: “No”, l’altro “Sì, canta”. / Similemente al fummo de gl’incensi / che v’era imaginato, li occhi e ’l naso / e al sì e al no discordi fensi»]. 182.  Purg. XXIV, 52. [Purg. XXIV, 52-54 e 58-60 (I, p. 525): «Io veggio ben come le vostre penne / di retro al dittator sen vanno strette, / che de le nostre certo non avvenne»].

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per essa ciò che è conforme alla razionalità ne esaurisce l’autentica essenza. Chi vuole cantare solo cose semplici può tranquillamente abbeverarsi in Elicona e incominciare a suonare; ma colui che intende cantare una canzone ha bisogno di arte e di studio assiduo, e non si affida al solum ingenium183. Così, nella Vita Nova Dante mostra l’origine delle proprie poesie, mentre nel Convivio le spiegazioni puramente razionali dei loro contenuti. Ogni licenza poetica – così pensa – ogni espressione figurata dev’essere considerata in maniera tale che dietro di essa si possa trovare un significato conforme a ragione184. In tal modo Dante esprimeva, benché non contemporaneamente, i differenti versanti della propria individualità poetica con un’introspezione ineccepibile; e forse possiamo considerare questo caso come tipico di una psicologia che, in quanto teoria, s’intreccia nel modo più stretto con i reali vincoli psichici del proprio autore, e che senz’altro condivide il tratto fondamentale della propria essenza con la sua: quel dualismo in cui le correnti spirituali divergenti dell’epoca, nella sua personalità potente e geniale, per così dire tagliente e somma, venivano raccolte insieme all’insegna di una coscienza sistematica prima di separarsi per sempre.

183.  V. E. II, 4. [V. E. II, 4, 9-10 (II.1, p. 483): «e quando intende cantare questi temi puri e semplici, o vuol esprimere ciò che da essi discende direttamente e semplicemente, beva ai fonti d’Elicona, tenda al massimo le corde della lira e cominci poi a muovere sicuramente il plettro. Ma che fatica e impresa raggiungere come si conviene, questa cautela e questo discernimento. Non si ottengono infatti senza avere alacrità d’ingegno, senza mostrare assiduità nell’arte e senza possedere dottrina». “Solum ingenium” in latino nel testo]. 184.  V. N. 25. [V. N. XXV, 8 (II.1, p. 125): «degno è lo dicitore per rima di fare lo somigliante, ma non sanza ragione alcuna, ma con ragione la quale sia poi possibile d’aprire per prosa»].

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Postfazione

Il dualismo di Dante di Francesco Valagussa

quel ver c’ha faccia di menzogna.1

1 La comprensione di un’epoca può essere paragonata a un’opera pittorica: «anche quando cerca solo di riprodurre realisticamente il dato, crea sempre una connessione, un’articolazione e una chiarificazione reciproca degli elementi dell’oggetto visibile, che prescindono totalmente dalle forze reali che producono questo oggetto»2, si tratta invece di generare un tessuto cromatico i cui fili non hanno corrispettivo nelle cause naturali oggettive. L’immagine che ne risulta è una totalità che coltiva con la realtà un rapporto analogo a quello che il ritratto o il quadro paesaggistico intrattengono con il proprio oggetto: «non descrivono la cosa come realmente era, perché non si può descrivere il tutto. Una scienza della totalità dell’accadere è esclusa non solo per l’impossibilità di dominarla quantitativamente, ma proprio perché le mancherebbe un pun-

1.  Inf. XVI, 124. 2.  G. Simmel, Die Probleme der Geschichtsphilosophie, Duncker & Humblot, Leipzig 19052, p. 108; tr. it. di G. Cunico, I problemi della filosofia della storia, Marietti, Genova 2001, p. 112.

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to di vista, che è necessario al nostro conoscere per formare un’immagine»3. Negli scritti di Dante Simmel scopre un affresco della vita, un “quadro del mondo” attorno al 1300: non intende scrivere un capitolo di “dantologia”, ma un saggio di psicologia della storia. La produzione dantesca offre un’immagine dell’epoca che riceve la propria forma e per così dire viene plasmata dalla soggettività del poeta toscano: il tempo si rispecchia in maniera plastica nelle espressioni e nelle formule coniate dalla sua mente. Al contempo questa “soggettività” è un prodotto autentico, non contraffatto dell’atmosfera di quel periodo. Nella sua psicologia si riflettono le tensioni, le contraddizioni e i diversi movimenti spirituali che animarono quella formidabile fase di transizione: gli ordinamenti medioevali non erano tramontati del tutto, ma venivano già insidiati dal balenare di nuove forze, ancora non pienamente operanti, ma che presto avrebbero sollecitato la nascita dell’età moderna.

2 Gli aspri contrasti tra papato e impero, tra mistica e Scolastica, tra la vita terrena e quella celeste si riverberano nelle fasi contrastanti della sua vita: le differenti attitudini spirituali che si manifestano nelle varie opere – l’ingenua devozione dell’epoca giovanile, gli interessi politici e la supremazia dell’intelletto sperimentati in età più matura, l’adesione alla Scolastica e da ultimo la convinzione di una fondamentale inadeguatezza di tutto ciò che è terreno, così come la si respira nel poema – non attestano una “frammentarietà interiore”, testimoniano bensì l’esito inevitabile, sul piano biografico, di quella rara capacità di configurare un’intera visione del mondo da parte di un individuo. 3.  Ivi, p. 46; tr. it., p. 52.

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Quando un’epoca si riversa e si concentra nell’anima di un singolo, «le asserzioni presenti in un’opera saranno talvolta in aperta contraddizione con quelle di un’altra»4: il dualismo e le contraddizioni che abitano lo spirito di Dante sono l’effetto, a livello psicologico, di un’immane attività di pensiero in grado di rappresentare le tendenze – tra loro anche antitetiche – del proprio tempo, raccogliendole all’interno di un’unica coscienza. «Se Dante è in grado di esemplificare le correnti dello spirito di un popolo, allora […] è irrilevante se le differenze si trovino in lui nello stesso momento o in momenti diversi»5. Non si tratta di giungere a una fedele ricostruzione sul piano cronologico della sua parabola intellettuale, né di verificare se il poeta abbia ripudiato in un momento successivo ciò che aveva guadagnato nei percorsi precedenti: persino il tentativo di stabilire se le varie concezioni del mondo che si avvicendano nei suoi scritti siano originali o mutuate da altri risulta del tutto indifferente. Noi invece vediamo Simmel, appena venticinquenne, attraversare in lungo e in largo l’intero corpus dantesco, quasi come fosse “a caccia di contraddizioni”: rintracciando nei testi opinioni, invettive, valutazioni e pregiudizi, cerca di stanare in ogni riga i punti di contrasto, le incongruenze, i cambi di prospettiva, perché vuole “vedere il conflitto”, vuole assistere allo scontro da cui si generano le forme e i valori di un’epoca6. Raggruppando le sue esternazioni psicologiche anche a partire da opere diverse si chiarisce per così dire la posizione assunta da Dante nella storia dello spirito umano mentre conferiva forma classica ai vari fattori ed elementi culturali già presenti nel suo tempo. 4.  Supra, I, 5, p. 18. 5.  Cfr. supra, I, 5, p. 19. 6.  Cfr. M. Cacciari, Introduzione, in G. Simmel, Saggi di estetica, Liviana, Padova 1970, p. XII: «La “lotta” è già relazione, in nessun modo sopprimibile, relazione che si sviluppa nel tempo vissuto e nella storia effettuale, relazione che già indica le sue forme».

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3 Nell’anima di Dante, così come nel mondo medioevale, l’uni­tà può crearsi unicamente a partire da posizioni, forze e opinioni contrapposte: l’armonia che ne risulta non può essere derubricata a quieta pacificazione dei contrasti, dev’essere intesa bensì alla lettera come uno sforzo improbo di “fare l’uno”, una dolorosa attività di composizione, dove fili di colore diverso – pur rimanendo tali, senza mescolarsi – sono tessuti insieme e pezzi di stoffa già esistenti vengono cuciti tra loro affinché l’epoca possa indossare una veste nuova. Nessuna “fazione”, nessuna corrente di pensiero, nessuna figura finisce per annientare le altre: la Weltanschauung vive di contraddizioni interne insanabili, il cui riflesso – sul piano psicologico – è ciò che Simmel chiama il dualismo di Dante. Alla fine è il papato a spuntarla sull’impero? In realtà dall’opus maius emerge chiaramente come la scomunica non provochi la dannazione eterna, qualora il peccatore si penta anche solo quando ormai è in fin di vita7; nel Monarchia si legge che «l’uomo ebbe bisogno di una duplice guida»8, e persino nell’epistola V si nomina «la bontà di quello da cui come da un punto si biforca la potestà di Pietro e di Cesare»9. La dimensione celeste prevale, da ultimo, su quella terrena? La limitatezza della condizione umana viene ribadita continuamente, soprattutto nel poema, «eppure era già troppo vicino 7.  Cfr. Purg. III, 133: «Per lor maladizion sì non si perde, / che non possa tornar l’eterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde». Inoltre Purg. V, 106-108: «Tu te ne porti di costui l’etterno / per una lacrimetta che ’l mi toglie; / ma io farò dell’altro altro governo». 8.  Mon. III, 15, 9; tr. it., Monarchia, a cura di P. Gaia, in Dante Alighieri, Opere minori, vol. II.2, UTET, Torino 1997, p. 775. 9.  Epistola V, 5; tr. it. in Epistole, a cura di A. Jacomuzzi, in Dante Alighieri, Opere minori, vol. II.2, cit., p. 379.

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alla soglia di un tempo che avrebbe riportato i propri ideali dal cielo in terra per non sentire che questa esistenza sensibile, con tutte le sue imperfezioni e debolezze, possedeva tuttavia parecchie qualità preziose»10: anzi, si potrebbe arrivare a dire che nel passaggio da un’epoca in cui prevale il versante spirituale a una in cui prevale quello terreno «affinché il piatto più alto della bilancia diventasse quello più basso, bisognava prima passare dal punto di equilibrio»11 – ma l’equilibrio segnala in effetti il massimo punto di tensione, in cui sta per attuarsi l’inversione. Il dogma surclassa la ragione e i sentimenti? Per la verità, accanto al rigido dogmatismo – in base a cui il cristiano più incallito guadagna la beatitudine pentendosi all’ultimo momento, mentre il pagano più irreprensibile viene condannato alla dannazione eterna – troviamo anche occasioni in cui «una concezione formidabile lo porta a superare i propri dogmi e i loro limiti»12, come quando parla di un passaggio graduale dalla natura angelica, attraverso la natura umana sino alla natura animale13. Omero e Aristotele giacciono all’Inferno, mentre i bambini cristiani che non hanno ancora maturato alcun atto di volontà godono della felicità eterna: questo dice il dogma, e Dante vi costruisce attorno fedelmente la struttura dei tre regni dell’Aldilà; ma quando nel Limbo14 apprende la condizione 10.  Supra, I, 12, p. 40. 11.  Supra, I, 6, p. 21. 12.  Supra, I, 12, p. 39. 13.  Co. III, 7, 6; ed. it., Convivio, a cura di F. Chiappelli e E. Fenzi, in Dante Alighieri, Opere minori, vol. II.1, UTET, Torino 1983, p. 176: «e tra l’angelica natura, che è cosa intellettuale, e l’anima umana non sia grado alcuno, ma sia quasi l’uno a l’altro continuo per li ordini de li gradi, e tra l’anima umana e l’anima più perfetta de li bruti animali ancor mezzo alcuni non sia». 14.  Inf. IV, 43-45: «Gran duol mi prese al cor quando lo intesi, / però che gente di molto valore / conobbi che in quel limbo eran sospesi».

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degli spiriti magni viene «colto da un vivido dolore per il loro destino»15, facendo emergere la traccia di un dissidio psicologico destinato a rimanere irrisolto. Si può dire che la mistica abbia vinto la partita contro l’intelletto? Dante però non rinnega affatto le pagine del Convivio, e la stessa Commedia ci appare impregnata di razionalismo scolastico da cima a fondo. Allora diremo che la dimensione empirica e quella sensibile da ultimo abbiano ceduto il campo alla trascendenza divina? Nel Medioevo l’essenza divina è pensata in chiave immateriale, ma quante volte la metafora dei pensieri effigiati in Dio come nel suo eterno specchio16, questa ossessione di «ficcar lo viso per la luce etterna»17, o «entro l’abisso dell’eterno consiglio»18, fino all’inventrarsi nella luce divina19 tradiscono una «vena materialistica»20 nella sua concezione dell’Altissimo! Dante è «troppo poeta, è troppo un italiano alle soglie del Rinascimento […] per non farsi un’idea del tutto concreta e sensuale dell’essere contenuto in Dio»21. Il simbolo emblematico del suo dualismo forse si può ricavare dalla natura anfibia della lingua, “sensibile” e “razionale” al contempo22: «come suono è sensibile, ma in quanto dotata

15.  Supra, II, 3, p. 96. 16.  Cfr. Par. XI, 19-21: «“Così com’io del suo raggio resplendo, / sì, riguardando nella luce etterna, / li tuoi pensieri onde cagioni apprendo”». 17.  Par. XXXIII, 83. 18.  Par. VII, 94. 19.  Cfr. Par. XXI, 83-84. 20.  Supra, I, 11, p. 132. 21.  Supra, I, 12, p. 34. 22.  V. E. I, 3, 2; tr. it. De vulgari eloquentia, in Dante Alighieri, Opere minori, vol. II.1, cit., p. 389): «Se dunque tale segno fosse solo razionale, non potrebbe passare da una ragione ad un’altra; se invece fosse soltanto sensibile non potrebbe ricevere concetti da una ragione né recarli ad un’altra».

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di significato è spirituale»23. E per accentuare l’impianto dualistico Simmel insiste molto sul linguaggio come luogo in cui l’uomo sperimenta la propria inadeguatezza, il proprio limite: innanzitutto le lingue sono soggette a cambiamento24 e la loro imperfezione risalta anche dai differenti modi in cui nominano il “sommo bene”25. Inoltre «la nostra mente ha maggior capacità di pensare che di parlare; e più capacità di parlare che di esprimersi chiaramente»26. Viene citato anche quel passo dal Monarchia in cui si sottolinea la diversità tra le cose e la loro espressione linguistica: «da premesse false si può trarre una conclusione corretta; poiché il vero in sé non può mai seguire dal falso, allora sono soltanto i segni del vero che possono emergere dai segni del falso»27. Nello studio giovanile sulla psicologia dantesca – si potrebbe dire – Simmel verifica da un lato la necessità di “totalizzare” la vita sotto l’insegna di simboli particolarmente intensi, e dall’al23.  Supra, I, 13, p. 45. 24.  Cfr. V. E. I, 9, 6-7; tr. it., pp. 415-417): «Pertanto ogni nostra lingua […] non può avere né durata né continuità, ma, come altre cose che son di noi uomini, per esempio costumi e fogge, deve tramutarsi per distanza di luoghi e di tempi […] Per cui arditamente affermo che se i Pavesi più antichi ora risorgessero, parlerebbero coi Pavesi moderni una lingua differente o molto diversa». 25. Cfr. supra, I, 13, p. 46. Cfr. Par. XXVI, 133-138: «Pria ch’io scendessi all’infernale ambascia, / I s’appellava in terra il sommo bene, / onde vien la letizia che mi fascia; / e El chiamò poi: e ciò convene, / ché l’uso de’ mortali è come fronda / in ramo, che sen va e l’altra vene». 26.  Supra, I, 13, p. 42. Cfr. Co. III, 4, 3; ed. it., p. 163: «però che la lingua mia non è di tanta facundia che dire potesse ciò che nel pensiero mio se ne ragiona». 27.  Supra, I, 13, pp. 43-44. Mon. II, 5, 24; tr. it., p. 649: «Infatti, se da una premessa falsa si giunge in qualche modo ad una conclusione vera, ciò avviene accidentalmente, nel senso che quella verità è introdotta dalle parole del sillogismo, poiché il vero di per sé non deriva mai dal falso, e tuttavia le parole che esprimono il vero possono talvolta derivare da parole che esprimono il falso».

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tro l’esigenza di “evadere” rispetto a simili rigorizzazioni. Nel confronto con i testi di Dante si allena a riconoscere come dalla vita scaturisca il bisogno di forme e però insieme l’esigenza di sopravanzarle: rigide forme dogmatiche, ma attraversate da una vena materialistica; il rigoroso razionalismo scolastico sublimato in un abbandono mistico alla grazia; l’autonomia dell’intelletto in conflitto con l’indole religiosa aperta alla trascendenza.

4 La figura di Dante emergerà poi esplicitamente in alcuni momenti significativi della produzione simmeliana: per illustrare l’irrealtà di un gruppo perfettamente centripeto e armonico, nella Sociologia (1908) si ricorre a Dante, e in particolare alla società dei santi nella Candida Rosa del Paradiso, sottratta a ogni mutamento e sviluppo28; nel saggio su Goethe (1913), l’individualismo dei personaggi che si respira negli Anni di apprendistato di Wilhelm Meister – dove l’autore riesce a «destare un mondo della vita dal loro scambievole influsso»29 – viene analizzato, per contrasto, adoperando come contraltare proprio le figure della Divina Commedia, legate tra loro non dalle reciproche relazioni, bensì dall’ordine onnicomprensivo garantito dalla divinità30; un breve accenno al nesso sussistente tra la terzina e l’essenza della cultura gotica comparirà poi nel saggio su Rembrandt (1917)31 – senza dimenticare che il

28.  Cfr. G. Simmel, Soziologie. Untersuchungen über die Formen der Vergesellschaftung, Duncker & Humblot, Leipzig 1908, pp. 248-249; tr. it. di G. Giordano, Sociologia, Meltemi, Milano 2018, p. 337. 29.  G. Simmel, Goethe, Klinkhardt & Biermann, Leipzig 1913, p. 152; tr. it. Goethe, a cura di M. Gardini, Quodlibet, Macerata 2012, p. 185. 30.  Ivi, p. 152; tr. it., p. 185. Lo stesso tema emerge supra, I, 16. 31.  G. Simmel, Rembrandt. Ein Kunstphilosophischer Versuch, Kurt Wolff Verlag, Leipzig 1919, p. 54; tr. it. G. Gabetta, Rembrandt. Un saggio di fi-

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suo testamento spirituale, Intuizione della vita, reca in esergo un passo tratto dal Paradiso. Simili riferimenti non autorizzano certo a esagerarne l’influenza: Kant in primis, ma lo stesso Goethe, e per certi aspetti pure Shakespeare, eserciteranno sul suo pensiero un influsso decisamente maggiore. Se però fossimo disposti ad allargare la prospettiva, ci accorgeremmo di quanti testi riprendano tematiche intraviste e affrontate per la prima volta in quell’articolo del 1884. Tutto il primo capitolo de I problemi della filosofia della storia, dedicato al rapporto tra unità della personalità e ordinamento dei dati storici32, potrebbe essere riletto in controluce pensando alle vicende del poeta; per altri versi, le connessioni tra La psicologia di Dante e un’opera come Estetica sociologica sono già state sottolineate dalla critica recente33. Il secondo “apriori sociale”, secondo cui «ogni elemento di un gruppo non è soltanto parte di una società, ma è inoltre ancora qualcosa»34, per cui «l’anima individuale non può mai stare in una connessione senza stare contemporaneamente al

losofia dell’arte, Abscondita, Milano 2001, pp. 68-69: «La forma dantesca del verso, che in linea di principio è interminabile, simboleggia ciò che vi è in lui di spirito gotico». 32.  G. Simmel, Die Probleme der Geschichtsphilosophie, cit., p. 26; tr. it., p. 28: «La coesione psichica, il margine di deviazione, l’integrazione dei vari momenti in un’immagine complessiva, insomma: tutto ciò chiamiamo unità della personalità – individuale o sociale – è evidentemente un presupposto metodico senza il quale non si perverrebbe alla comprensibilità e all’unità di ordinamento dei dati storici. È un apriori che rende possibile la storia». 33.  Cfr. V. Mele, Introduzione, in G. Simmel, Estetica e sociologia, tr. it. a cura di V. Mele, Armando, Roma, 2006, p. 20: «Come Simmel aveva descritto fin dai primi studi sulla psicologia di Dante (1884), sono in particolare le epoche storiche di transizione, per il loro carattere di compromesso tra vecchio e nuovo, ad esprimere in maniera accentuata il profondo contrasto vitale di tutto ciò che è umano». 34.  G. Simmel, Soziologie, cit., p. 35; tr. it., p. 95.

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di fuori di essa»35, viene enunciato per la prima volta a proposito delle vicende dantesche: «malgrado la necessità di essere cittadino, non devono soffrirne le giuste esigenze dell’anima individuale»36; nel caso specifico, nonostante lo strettissimo legame con Firenze, Dante rinunciò a tornare in patria. Alcune questioni evidenziate nel saggio sulla personalità di Dio del 191137 – come il problema dell’antropomorfizzazione del divino, il rapporto tra panteismo e misticismo, e soprattutto il significato sul piano storico-psicologico di un “Dio personalizzato” – trovano nell’articolo su Dante una loro prima formulazione38, sebbene ancora soltanto in forma di abbozzo. Nel 1912 compare Il conflitto della cultura moderna: una delle espressioni più indovinate per descrivere l’essenza della vita, «quella di generare dal suo proprio seno ciò che la guida e la dissolve, ciò che le si contrappone e vincendola è vinto [Siegend-Besigtes]»39, probabilmente si ispira a un passo della terza cantica, citato ne La psicologia di Dante: «ma vince lei perché vuole esser vinta, / e, vinta, vince con sua beninanza»40. L’eco delle pagine dedicate all’evoluzione psicologica dei sentimenti nella Vita Nova – e più in generale al rapporto tra 35.  Ivi, p. 38; tr. it., p. 97. 36.  Supra, I, 18, p. 77. 37.  Cfr. G. Simmel, Die Persönlichkeit des Gottes, in Id., Philosophische Kultur, Zweitausendeins, Frankfurt a.M. 2008, pp. 171-183; tr. it. di M. Marroni, La personalità di Dio, in Saggi di sociologia della religione, Borla, Roma 1993, pp. 124-142. 38. Cfr. supra, I, 16, p. 68: «Il suo Dio assume un carattere monarchico, del resto non può essere diversamente con un dio personale». 39.  G. Simmel, Der Konflikt der modernen Kultur, Duncker & Humblot, München-Leipzig 19213, p. 22; tr. it., Il conflitto della cultura moderna, a cura di G. Rensi, SE, Milano 1999, p. 42. 40.  Par. XX, 98-99. Cfr. supra, I, 19.

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uomo e donna così come traspare nel Convivio e nel De vulgari eloquentia – torna a risuonare chiaramente sia ne Il relativo e l’assoluto nel problema dei sessi, sia in Cultura femminile. D’altra parte, la discrasia tra la dimensione metafisica e la prospettiva psicologica rimane forse la migliore chiave di lettura, anche sul piano epistemologico, per intendere le pagine iniziali del saggio sulla moda. Ma si potrebbe scendere ancora di più “per li rami”. Sul piano economico-politico, la costruzione di un impero mondiale in Dante prevede l’esclusione della competizione tra individui e popoli, possibile unicamente «se ogni individuo occupa un posto ben preciso che non possa essere desiderato da nessun altro»41: qui troviamo già espressa in nuce la differenza fondamentale tra la Weltanschauung cristiana e quella capitalistica. L’idea giovannea secondo cui «c’è posto per tutti nella casa del Padre» (Gv 14,2) sarebbe stata travolta nella tragedia della concorrenza – cosa che Simmel segnalerà sia nella Sociologia della religione42 sia più tardi nella Filosofia del denaro43. E ancora, discutendo del valore attribuito ai voti, formulato nel canto V del Paradiso, e della relativa possibilità di permutarne la materia44, si osserva assai finemente come «il voto dipende propriamente molto più da ciò che è escluso che non da ciò che è incluso»45: tale rilievo diventerà il centro della sua interpretazione della morale kantiana e nella Filosofia del denaro metterà in parallelo il guadagno interiore di natura morale 41.  Supra, I, 15, p. 52. 42.  G. Simmel, Per una sociologia della religione, in Id., Saggi di sociologia della religione, cit., p. 70. 43.  G. Simmel, Philosophie des Geldes, Duncker & Humblot, Leipzig 1900, p. 372; tr. it., Filosofia del denaro, a cura di A. Cavalli e L. Perucchi, Ledizioni, Milano 2019, p. 312. 44.  Par. V, 34-63. 45.  Supra, II, 4, p. 98.

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e il guadagno economico esterno46 – designati col medesimo termine: Verdienst – poiché entrambi basati sullo sforzo e la volontà di escludere il contrario. Se poi aggiungiamo la rilevanza assegnata ad alcune osservazioni, presenti soprattutto nella Commedia, relative al sovrappopolamento come problema decisivo per la “salute” delle città47, ad altre che si potrebbero definire addirittura come un primo abbozzo di psicologia dei popoli48, oltre al fascino di alcune opinioni dantesche sull’arte, la poesia e lo statuto della bellezza alle soglie del XIV secolo, possiamo cominciare a intravedere nel saggio su Dante una vera e propria matrice non soltanto dei temi di cui Simmel si sarebbe occupato lungo il corso di tutta la propria vita, ma soprattutto del modo in cui tali componenti sarebbero state destinate a intrecciarsi indistricabilmente tra loro nell’ambito dei suoi scritti. Lo studio sulla psicologia di Dante inaugura, per così dire, un “metodo di lavoro”, in cui vari aspetti dell’umano – che noi oggi forse rubricheremmo sotto le etichette di psicologia, sociologia, teologia, economia, politica, estetica sottintendendo già in qualche modo l’idea di una certa separatezza tra loro – vengono trattati per così dire concretamente: come scriverà poi in Filosofia del denaro, «si tratta di scoprire in ogni singolo aspetto della vita la totalità del suo significato»49.

46.  Cfr. G. Simmel, Philosophie des Geldes, cit., p. 447; tr. it., p. 363: «ciò che viene veramente ricompensato nel lavoro è il dispendio di forza psichica richiesta per affrontare e superare i sentimenti interni di contrarietà e di disagio», esattamente come nel caso del voto tutto dipende da ciò che è escluso. 47.  Cfr. supra, I, 18, p. 78. 48.  Cfr. supra, I, 18, p. 77. Cfr. Inf. XVII, 21; Inf. XXIX, 123. Inoltre Inf. XV, 61 e infine Purg. XVIII, 58-63. 49.  G. Simmel, Philosophie des Geldes, cit., p. 12; tr. it., p. 43.

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5 La psicologia di Dante rimane “ingarbugliata” nei dogmi50 e la cosa si manifesta agli occhi di Simmel sotto vari aspetti. Per esempio, «la difficoltà maggiore che il libero arbitrio trova all’interno del sistema dantesco consiste […] nel dogma della necessità del battesimo al fine della beatitudine»51, ma più in generale «non conosceva ancora alcun confine netto tra ciò di cui poteva rendere ragione con i fatti e ciò di cui poteva rendere ragione solo tramite un dogma»52. A quest’ultimo rilievo si connette, però, una considerazione molto più generale: Non gli viene ancora in mente che la difficoltà d’immaginare sostanze immateriali e altri oggetti che non possono essere dati empiricamente sia dovuta unicamente al fatto che sia stato possibile crearli soltanto trascurando le condizioni necessarie per una rappresentazione chiara e distinta.53

Valutando la posizione di Dante all’interno di una visione più vasta, per così dire nell’ottica di una storia dello spirito umano, Simmel può osservare: «Certo che a lui – e a lui in maniera particolare! – è rimasta nascosta la verità che soltanto Kant doveva esprimere, ossia che anche le funzioni più alte della nostra mente servono unicamente a rendere possibile l’esperienza»54. Il conflitto tra la dimensione metafisico-teologica e la psicologia del singolo non rientra semplicemente in un capitolo di “dantologia”, attesta bensì un carattere emble50. Cfr. supra, I, 16, p. 67. 51.  Supra, II, 3, p. 94. Cfr. in particolare Par. XIX, 70-78. 52.  Supra, I, 17, p. 71. Il passo si riferisce in questo caso a una questione politica. Relativamente al governo degli uomini, «l’idea relativa alla necessità di una signoria sull’umanità si divide in un ramo empirico-razionale e uno dogmatico-sovrannaturale», da cui dipende l’esigenza di una guida unica per ciascuno dei due ambiti, quello terreno e quello spirituale. 53.  Supra, I, 13, p. 46. 54.  Supra, I, 12, p. 39.

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matico dell’età medioevale: il trascendentale rimane – e non poteva che rimanere – precluso al pensiero di Dante. Se però, a nostra volta, prendiamo in considerazione il modo in cui Simmel eredita il problema kantiano, soprattutto alla luce delle sue numerose “traversie” ottocentesche, ci accorgiamo di quanto lo statuto del trascendentale si sia effettivamente modificato sotto i “colpi” della dialettica hegeliana, del “mondo” schopenhaueriano, e in modo particolare della riflessione nietzscheana. I saggi simmeliani dei primi anni del Novecento sono forse la testimonianza più evidente di come oramai lo schema venga vissuto “per la sua assenza”: si è trasformato in istanza, nell’indice di uno stato di crisi, quasi una sollecitazione a farsi carico delle contraddizioni e delle aporie del proprio tempo, senza tentare di “risolverle a priori”, piuttosto cercando di dare loro espressione55. Insomma, le forme non sono già date – nessuno le concepisce più come fossero una piccola provvista posseduta dall’intelletto56 – si creano bensì lungo il corso del tempo vissuto. Per quanto ancora oppressa sotto quel che Kant stesso avrebbe chiamato il dominio dispotico del governo dei dogmatici, da questo punto di vista la psicologia dantesca rappresenta un immenso sforzo di trovare forme e valori capaci di tenere insieme un’epoca, di dare consistenza al proprio tempo, proprio a partire dallo scontro tra istanze, personalità e correnti spirituali tra loro diverse e talvolta decisamente antitetiche. Anzi si potrebbe forse rovesciare il discorso: siccome ogni interpretazione dipende, nel suo impianto, dal presente in cui la si produce, non è strano che nel 1884 lo sguardo di Simmel si sia posato sulla figura di Dante.

55.  Cfr. M. Cacciari, Introduzione, cit., p. XVI. 56.  Cfr. I Kant, Kritik der reinen Vernunft, AA III, 44; tr. it., Critica della ragione pura, a cura di G. Colli, Adelphi, Milano 20013, p. 68.

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6 «Vi ho mostrato ne’ tre mondi danteschi il nostro stesso mondo emendato e rifatto secondo coscienza»57. Parlando di forme e valori – e, secondo De Sanctis, «questo “dovrebbe” è il significato del mondo dantesco»58 –, rimane centrale il “grado di realtà” che si è disposti ad assegnare ai regni dell’Aldilà: il loro statuto non si costituisce quale mero dato di fatto, ma dipende dalle “condizioni di leggibilità”, ossia dal modo in cui si accede a un testo come la Commedia. Simmel comincia segnalando due diverse opzioni: si possono intendere i destini delle ombre come immagine traslata della loro condizione mondana, nel senso che «la forma di quella visione è soltanto un velo che, sollevato, deve mostrare la vera natura dell’essere morale»59; oppure Dante può pensare che esista davvero un Inferno, magari non proprio identico, ma simile a quello che descrive. La prima prospettiva assume contorni “allegorici” rispetto alla seconda, senza che le due arrivino a escludersi vicendevolmente: può benissimo aver concepito la vita dell’Aldilà come una continuazione lineare e uno sviluppo di quella terrena, cui semplicemente è stata rimossa la patina illusoria e il peccato è documentato in tutto il suo abominio, mentre le sue gioie apparenti vengono riconosciute per ciò che sono realmente, ossia come tormenti interiori.60

All’interno della concezione medioevale, i novissimi appartengono senz’altro a quelle “formazioni obiettive” collocate al di sopra dell’accadere psicologico dei singoli: «l’Inferno, nella 57.  F. De Sanctis, Corso torinese sopra Dante, in Id., Lezioni e saggi su Dante, a cura di S. Romagnoli, Einaudi, Torino 19672, p. 247. 58.  Ibidem. 59.  Supra, II, 7, p. 108. 60.  Supra, II, 7, pp. 108-109.

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configurazione indeterminata che gli aveva dato la Chiesa, semplicemente come luogo di punizione per i peccati, senza dubbio ha assunto per Dante una precisa realtà»61. Rispetto a questo “tratto invariante” – diciamo pure dogmatico – Simmel rifiuta di ridurre l’apporto dantesco entro una prospettiva meramente allegorica per una ragione precisa: le ricerche più approfondite hanno potuto rilevare connessioni sempre più stringenti tra i peccati e le pene inflitte ai peccatori, senza mai riuscire a identificare, però, lo schema continuo62 alla luce del quale intendere l’intera struttura dell’Inferno, o delle altre cantiche. Molti, moltissimi casi e figure di peccatori possono essere raccolti in maniera coerente, ma rimangono sempre delle eccezioni: «non riesco – scrive Simmel, come esempio – a rintracciare l’affinità tra il castigo dei ruffiani che sono flagellati dai diavoli e quello dei falsari che soffrono di idropisia»63, e conclude: «non rinunceremo a scoprire nessi sempre più profondi tra peccati e pene, probabilmente però dovremo negare per sempre la presenza di un principio assolutamente unitario per questi rapporti»64. Se però riguardo all’Inferno «non è possibile rintracciare, per così dire, la tonalità in cui esso debba essere soltanto trasposto per risultare in sintonia con il mondo terreno, allora è chiaro che non può essere pienamente soltanto una sua allegoria»65. Qualora fosse possibile identificare il principio architettonico unitario, saremmo in grado d’intendere l’intero Aldilà come una costruzione intenzionalmente allegoria66: rintracciare una 61.  Supra, II, 7, p. 112. 62. Cfr. supra, II, 7, p. 111. 63.  Supra, II, 7, pp. 111-112. 64.  Supra, II, 7, p. 112. 65.  Supra, II, 8, p. 112. 66.  Malgrado l’obsolescenza di questa nozione, soprattutto alla luce degli studi di E. Auerbach, Figura, in «Archivum Romanicum», XXII, 1939, pp. 436-489; tr. it. di M.L. De Pieri Bonino, Figura, Feltrinelli, Milano

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chiave di lettura unica proverebbe l’esistenza di una “funzione lineare” capace di connette i peccati alle loro pene, e dunque di una “finzione” sottesa; a quel punto la struttura dei regni ultraterreni sarebbe davvero soltanto un parto della mente di Dante.

7 La “forma” dell’oltretomba. Simmel stesso, talvolta, sembra adottare la lectio facilior, tornando a intendere le tre cantiche quasi come creazioni di stampo interamente psicologico. L’idea dell’Inferno sarebbe stata “adoperata”, e in qualche senso “accomodata” da parte di Dante, «per presentare le proprie opinioni e le proprie tendenze, che naturalmente si riferiscono soltanto a questo mondo, non diversamente dal modo in cui Goethe si è servito della saga di Faust»67. E invece la presenza di dannati, purganti e beati “fuori dagli schemi”, e dunque l’impossibilità di ricondurli tutti entro un unico disegno, potrebbe anche conferire all’Inferno, al pari di Purgatorio e Paradiso, un timbro più “vitale”: non vi sono degli a priori categoriali grazie a cui incasellare la straordinaria varietà di peccatori e di santi che Dante incontra lungo il proprio cammino68, esattamente come la vita non rientra mai perfettamente nelle forme che pure essa stessa ha elaborato.

199914, pp. 176-226, non cambia tuttavia la “sostanza” del nostro discorso: qualsiasi sia il tipo di concezione – allegorica, figurale, simbolica – adottata, tutto dovrebbe poter essere letto alla luce di quella chiave interpretativa. 67.  Supra, II, 8, p. 112. 68.  La cosa risulta perfettamente chiara supra, II, 3, p. 96: «Così come a Dio, secondo una disposizione inammissibile, è riservata la facoltà di tormentare gli uomini più eccellenti con eterni e iniqui struggimenti, allo stesso modo anche il merito del cristiano che più si è contraddistinto non basta per ottenere il sommo grado di beatitudine celeste. Dipende pur sempre

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Agli occhi di Simmel il dualismo dantesco rimane l’esito psicologico di quello sforzo immane attraverso cui «le correnti spirituali divergenti» della sua epoca venivano raccolte insieme in «una coscienza sistematica prima di separarsi per sempre»69. Raccolte in una mera finzione? In uno schema che è solo “bella menzogna”? «Ma in realtà – direbbe Nardi – la “bella menzogna” esprime direttamente il “vero”, e appunto per questo è bella e non è menzogna»70.

dalla buona volontà e dalla grazia di Dio quanta beatitudine intenda donare alle singole anime». 69.  Supra, II, 13, p. 142. 70.  B. Nardi, Nel mondo di Dante, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 20155, p. 26.

Indice

Nota del traduttore

p. 9

La psicologia di Dante Prima parte 1.   Psicologia storica 2.   La posizione storica di Dante 3.   L’anno 1300 4.   Il contrasto tra intelletto e indole 5.   Contraddizioni in Dante 6.   Dualismo 7.   L’anima: unitariamente 8.   Memoria 9.   Immortalità 10.   Corpo e anima 11.   Luce e senso della vista 12.   Uomo e Dio 13.   Parlare e pensare 14.   Diversità degli uomini 15.   Predestinazione e libertà 16.   Illuminazione e salvezza 17.   Governo del mondo 18.   Pessimismo 19.   Psicologia politica 20.   Idea di Dio

p. 13 p. 14 p. 15 p. 17 p. 18 p. 20 p. 23 p. 25 p. 26 p. 27 p. 31 p. 33 p. 41 p. 47 p. 49 p. 58 p. 69 p. 74 p. 79 p. 85

Seconda parte 1.   Determinazioni etiche 2.   Libero arbitrio 3.   Il battesimo 4.   Voti 5.   Carattere 6.   Guida di vita 7.   I peccati 8.   L’Inferno 9.   Purgatorio 10.   I sentimenti 11.   Amore 12.   Anima animale 13.   L’arte Postfazione Il dualismo di Dante di Francesco Valagussa

p. 89 p. 92 p. 94 p. 96 p. 99 p. 103 p. 108 p. 112 p. 117 p. 121 p. 126 p. 137 p. 139

p. 143

Canone europeo

Collana di classici della filosofia europea Diretta da: Andrea TAGLIAPIETRA

1. Denis Diderot, Colloquio di un filosofo con la Marescialla di ***. 2.  Leonardo da Vinci, I diluvi e il tempo Aforismi e frammenti filosofici. 3. Helmuth Plessner, Il sorriso. 4. Louis-Sébastien Mercier, Montesquieu a Marsiglia. 5. Georg Simmel, La psicologia di Dante.

Canone europeo | 5

Collana diretta da Andrea Tagliapietra

Scritto a soli 25 anni, La psicologia di Dante, apparso nel 1884, rappresenta uno dei primi contributi della produzione simmeliana. Ci viene offerto un quadro del percorso culturale dantesco: l’ingenua devozione giovanile, gli interessi politici dell’età matura, l’adesione alla Scolastica, la convinzione più tarda di una fondamentale inadeguatezza di tutto ciò che è terreno. Simmel non attenua il contrasto tra le varie fasi della vita del poeta, anzi vuole “vedere il conflitto”, vuole assistere allo scontro tramite cui dalla vita emergono le forme di un’epoca. Il rapporto tra intelletto e indole, tra anima e corpo, tra rivelazione e salvezza, tra linguaggio e pensiero, e ancora la questione del libero arbitrio, dell’immortalità, il senso del peccato, il governo del mondo sono temi letti alla luce di un fondamentale dualismo che anima la psicologia dantesca. Il testo inaugura quasi un “metodo di lavoro” e vi si può già intravedere lo “stile” di Simmel, in cui i vari aspetti dell’umano – oggi rubricati separatamente sotto le etichette di psicologia, sociologia, teologia, economia, politica, estetica – vengono tenuti insieme nell’interazione reciproca tra l’individuo e il suo tempo.

ISBN ebook 9788855292009

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