La politica della famiglia. Le dinamiche del gruppo familiare nella nostra società

"Quale funzione ha la « famiglia » nei termini del rapporto tra i membri della famiglia? La «famiglia», la famiglia

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La politica della famiglia. Le dinamiche del gruppo familiare nella nostra società

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Nuovo Politecnico 60

Einaudi 1973, 2a ed., 1974

R. D. LAING

LA POLITICA DELLA FAMIGLIA Le dinamiche del gruppo familiare neila nostra società

C. L. 3778-8

In questo suo nuovo libro, R. D. Laing, autore di L’io diviso, tor­ na sul tema della famiglia. Laing ci propone una interpretazione in chiave fenomenologica dei meccanismi su cui si articola il funzio­ namento dell’insieme familiare nella nostra società, con partico­ lare attenzione ai contesti familiari e sociali in rapporto alla schi­ zofrenia. E tuttavia Laing non impartisce prescrizioni pratiche, tranne la necessità di formare strumenti di osservazione della real­ tà familiare che superino i vecchi schemi di comodo: «Noi tutti dobbiamo continuamente imparare a disimparare molto di ciò che abbiamo imparato, e ad imparare che non siamo stati preparati». La stringente verifica delle idee correnti sull’argomento si presen­ ta cosi come un processo di sottrazione piu che di addizione: un invito al lettore di studiare il bagaglio delle sue presunzioni, e di liberarsi dei condizionamenti ricevuti. R. D. Laing è nato a Glasgow nel 1927. Ha iniziato la sua attività come psi­ chiatra, lavorando al Glasgow Royal Mental Hospital e all’università di Glas­ gow. Successivamente ha fatto parte dello staff della Tavistock Clinic, con­ centrando le sue ricerche sulla famiglia, e ha diretto la Langham Clinic di Londra. Tra i suoi libri: The Politics of Experience (tradotto in Italia da Feltrinelli), Che Divided. Self (tradotto da Einaudi in questa stessa collana), Che Self and Others, Reason and Violence (in collaborazione con David Cooper), Sanity, Madness and the Family (in collaborazione con Aaron Esterson, tradotto nei Paperbacks Einaudi), Interpersonal Perception (in collaborazione con H. Phillipson e A. R. Lee).

Nuovo Politecnico Ultimi volumi pubblicati (all’interno del volume l’elenco completo):

62. Rudolf Arnheim, Entropia e arte Saggio sul disordine e l’ordine

63. Mario Lodi, Insieme Giornale di una quinta elementare

64. Alain Touraine, Vita e morte del Cile popolare Diario di un sociologo luglio-settembre 1973 Di prossima pubblicazione:

Roger Gentis, Guarire la vita

Nuovo Politecnico 6o

Titolo originale Tbe Politics o/ tbe Family and Otber Essays Tavistock Publications Copyright© !969, I97I R. D. Laing Copyright© 1973 Giulio Einaudi editore s.p. a., Torino Traduzione di Luciana Bulgheroni-Spallino

R. D. Laing

LA POLITICA DELLA FAMIGLIA

Prefazione

Questo libro è composto dei testi riveduti di una serie di discorsi (ad eccezione del primo capitolo), tenuti nel r 967-68 in occasioni diverse. Ho elimina­ to molte ridondanze, !asciandone, spero, non troppe, ed ho risistemato l'inglese. Il primo capitolo, prati­ camente, è stato riscritto. Gli altri sono rimasti quali erano: destinati, allora, come ora, a suscitare proble­ mi piuttosto che a fornire risposte. Ho potuto compiere i miei studi sulle famiglie ne­ gli anni tra il '6r e il '67, grazie alle borse di studio accordatemi dalla Foundation Fund for Research i{\ Psychiatry (concessione n. 64-297) e dal Tavistock Institute of Human Relations. R. D. LAING

Londra, marzo I97 I.

LA POLITICA DELLA FAMIGLIA

Le leggi, l ATENIESE è pur vero che secondo giusta norma si sono stabilite le vostre leggi, tant'è vero che una delle piu belle non concede a nessun giovane di far indagine per vedere quali leggi vadano bene e quali invece siano mal disposte. Al contrario, tutti deb­ bono con sola voce e con unico labbro concorde­ mente ammettere che tutte vanno bene, dato che furono gli Dei a promulgarle. Nel caso poi di diver­ sa opinione, non si deve nemmeno accettar d'ascol­ tare chi dice questo. Se, d'altra parte, un vecchio ha da proporre considerazioni su qualche legge presso voi vigente, il legislatore pur sempre concede che si facciano osservazioni di fronte al magistrato di piu alto grado e di fronte agli anziani, escludendo ogni giovane. CLINIA Eh! hai proprio ragione, amico mio. Anzi, guarda, mi sembri proprio un indovino! Pura gran­ de distanza, hai saputo cogliere le ragioni e le inten­ zioni di chi un giorno ha stabilito questa legisla­ zione... ATENIESE Quando in genere si stabilisce una legge, si deve fare attenzione somma al conseguente piacere e al dolore, nella vita pubblica, come pure nella vita privata ... ..•

Le leggi, IV ATENIESE si tratta quindi... e in questo modo go­ vernar le famiglie e gli stati, e null'altro ritenere sia legge se non in certo modo lettura di mente che tra­ sceglie distribuisce dispensa. ••.

PLATONE, I dialoghi, versione e interpretazione di Enrico Turolla, Rizzoli, Milano-Roma 1953, vol. III.

Parte prima Saggi

Capitolo primo La famiglia e la « famiglia » 1

Parliamo delle famiglie come se noi tutti sapessi­ mo che cosa sono le famiglie. Identifichiamo come famiglie gruppi di persone che convivono per deter­ minati periodi di tempo, che sono unite da legami di matrimonio e di parentela. Quanto piu si studiano le dinamiche familiari, tanto piu oscuri appaiono i modi in cui le dinamiche familiari si confrontano e si contrappongono alle dinamiche di altri gruppi non definiti famiglie, per non parlare dei modi in cui le famiglie stesse differiscono tra loro. Ciò che è vero per le dinamiche lo è anche per le strutture (ossia per quegli schemi piu costanti e durevoli degli al­ tri): ancora una volta i paragoni e le generalizzazioni devono fondarsi sull'esperienza. Le dinamiche e le strutture che si ritrovano nei gruppi definiti famiglie nella nostra società possono non essere evidenti nei gruppi definiti famiglie in al­ tri luoghi e in altri tempi. Il peso della dinamica e della struttura della famiglia sulla formazione della personalità non è, probabilmente, costante nelle di­ verse società e neppure nella nostra. La famiglia di cui parliamo qui è la famiglia d'ori­ gine trasformata dalla interiorizzazione, dalla parti­ zione, e da altre operazioni, nella « famiglia » 2 e 1 MAS

I967.

Revisione di R. D. LAING, Individuai and Family Structure, in P. LO· (a cura di), Tbe Predicament o! the Family, Hogarth Press, London

2 Si useranno le virgolette, quando sarà necessario chiarire che si tratta della famiglia interiorizzata.

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riindividuata nella famiglia e altrove. Questo capi­ tolo è dedicato allo studio della relazione che inter· corre tra le strutture visibili della famiglia e le strut· ture che perdurano come parte della «famiglia» in quanto insieme di relazioni e operazioni tra le une e le altre.

La famiglia come fantasma. La famiglia come sistema viene interiorizzata. Non si interiorizzano gli elementi isolati, ma le relazioni e le operazioni tra elementi e insiemi di elementi. Gli elementi possono essere persone, cose o oggetti parziali. Si interiorizzano i genitori come intimi o estranei, congiunti o separati, vicini o distanti, in un rapporto di amore, di conflitto, ecc., reciproco e con l'io. Si possono fondere padre e madre in una specie di matrice parentale comune, o scomporli in segmenti che intersecano obliquamente le consuete partizioni personali. Il loro rapporto sessuale, come viene concepito dal bambino, occupa, per cosf dire, una posizione centrale in ogni «famiglia» interiore. I membri della famiglia possono sentirsi piu o meno inclusi o esclusi rispetto a una qualunque parte della famiglia oppure rispetto alla famiglia intera, nella mi!ìura in cui avvertono di avere in se stessi la fa­ miglia e di trovarsi all'interno dell'insieme di rap­ porti che caratterizzano la famiglia interiore degli altri membri del gruppo familiare. La famiglia interiorizzata è un sistema spazio-tem­ porale. Ciò che si interiorizza come «vicino» o «lontano», «unito» o «disgiunto» non è rappre­ sentato soltanto dai rapporti spaziali. Una sequenza temporale è sempre presente. Se penso ad altri come uniti a me ed ancora ad

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altri come disgiunti da me, ho intrapreso una duplice operazione di sintesi, i cui risultati sono noi e loro. La famiglia è un noi comune, in opposizione a loro, gli estranei alla famiglia. Ma, in piu, esistono all'inter­ no della famiglia, i sottogruppi, noi, io, voi, loro, noi genitori, quei bambini, noi bambini, noi madre­ e-figlio, e lui, il padre, e cosf via. Quando mi identi­ fico in uno di noi, mi aspetto che voi facciate altret­ tanto. Quando entrano in gioco tre elementi, tu, lui o lei, ed io, ciascuno diventa uno di noi. In una tale famiglia, ciascuno di noi non soltanto riconosce la sua personale sintesi familiare, ma si aspetta che una analoga sintesi familiare esista in te, in lui o in lei. La mia « famiglia » comprende quella di lui o di lei, è di lui e mia, di lei e mia. La « famiglia » non è un semplice oggetto sociale, condiviso dai suoi membri. Per ciascuno di loro la « famiglia » non è un insieme oggettivo di rapporti. Essa esiste in ciascuno dei suoi elementi e in nessun altro luogo. Come direbbe Sartre, la famiglia fonda la propria' unità sulla interiorizzazione reciproca da parte di ciascuno (ed è precisamente questa famiglia interio­ rizzata 1 la prova della sua appartenenZa al gruppo familiare) della interiorizzazione reciproca. L'unità della famiglia risiede all'interno di ciascuna sintesi e ciascuna sintesi è connessa, tramite l'interiorità reci­ proca, con l'interiorizzazione reciproca della interio­ rizzazione reciproca ... L'unificazione per mezzo della co-inerenza ha luo­ go nell'esperienza cristiana di essere « uno » in Cri­ sto. La co-inerenza pervadeva la mistica nazista del­ la Patria e del Partito. Sentiamo di essere Uno, nel­ la misura in cui ciascuno di noi ha in se stesso una 1 Interiorize e interiorization sono usati dall'autore come sinonimi di internalize e internalization. [Nella traduzione italiana si è preferito usare sempre interiorizzare e interiorizzazione].

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presenza comune a tutte le sorelle e i fratelli in Cri­ sto, nel Partito, oppure nella famiglia 1 • Quale funzione ha la «famiglia» nei termini del rapporto tra i membri della famiglia? La «famiglia», la famiglia in quanto struttura fantasmatica, implica tra un membro e l'altro del gruppo familiare un tipo di rapporto di un ordine diverso dai rapporti intercorrenti tra coloro che non condividono questa «famiglia» ciascuno nel proprio mondo interiore. La «famiglia» non è un oggetto introiettato, ma un insieme introiettato di rapporti. La «famiglia», in quanto sistema interno, entro il quale si è situati, può non differenziarsi nettamen-' te da altri sistemi, ai quali si possono dare soltanto nomi molto inadeguati come «matrice», «seno», «corpo materno», e cosf via. La si può percepire come viva, morente o morta, come un animale, una macchina, spesso come un contenitore umano pro­ tettivo o distruttivo simile ai corpi-facciate-di-case che disegnano i bambini. Si tratta di un insieme di elementi separati e disgiunti, all'interno del quale si trova l'io unito con altri che lo contengono in se stessi. Si può immaginare la famiglia come una ragnate­ la, un fiore, una tomba, una prigione, un castello. L'io può essere piu consapevole di una certa imma­ gine della famiglia che della famiglia stessa, e appli­ care queste immagini alla famiglia. Lo spazio e il tempo «familiari» sono paragona­ bili allo spazio e al tempo mitici, in quanto tendono ad organizzarsi intorno ad un centro e percorrono 1 Intendo stabilire soltanto il piu astratto dei confronti tra i gruppi basati su tale co-inerenza. Per una discussione della co-inerenza da un pun­ to di vista cristiano cfr. c. WILLIAMS, Tbe Descent of the Dove, Faber and Faber, London r9.:so.

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cicli ricorrenti. Chi, che cosa, dove è il centro della famiglia? Secondo la descrizione di un paziente: La mia famiglia era come un fiore. La mamma era il cen­ tro e noi eravamo i petali. Quando me ne andai, la mamma ebbe la sensazione di aver perduto un braccio. Loro [i fra­ telli] la circondano ancora cosf. Il papà non ha mai real­ mente fatto parte della famiglia in questo senso.

Questa famiglia è rappresentata dall'immagine di oggetto, la cui funzione è di trasmettere l'espe­ rienza dell'essere parte di una struttura vegetativa. un

Interiorizzazione. « Interiorizzare» significa trasformare l'«ester­ no» in «interno», e implica il transfert di un grup­ po di relazioni che costituiscono un insieme (per mezzo di alcune operazioni, tra gli elementi dell'in­ sieme all'interno dello stesso, i prodotti delle quali' rimangono nell'insieme) da una modalità di espe­ rienza ad altre: piu specificamente il transfert dalla percezione, all'immaginazione, alla memoria, ai so­ gni. Durante lo stato di veglia sperimentiamo una cer­ ta percezione; la ricordiamo; poi la dimentichiamo; sognamo qualcosa di contenuto diverso, ma di strut­ tura simile; ricordiamo il sogno ma non la percezio­ ne originaria. Derivanti da interiorizzazioni di que­ sto o d'altro tipo, alcuni schemi ricorrono nelle no­ stre fantasticherie, nei nostri sogni, nella nostra im­ maginazione, nella nostra fantasia. Nell'immagina­ zione si possono elaborare antischemi che si oppon­ gono agli schemi della fantasia. Gli scenari delle se­ quenze drammatiche dei rapporti spazio-temporali tra i diversi elementi subiscono una trasformazione 2

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(per esempio vengono deviati verso un finale che ap­ paghi qualche remoto desiderio oppure verso un fi­ nale catastrofico), quando si presentano nelle diverse modalità. Possiamo cercare di agire in conformità alla nostra immaginazione tendente ad appagare il desiderio o alla paura, della quale diventiamo consa­ pevoli soltanto subendo gli effetti di tale azione. Dostoevskij descrive la famiglia di Raskol'nikov nell'interazione delle memorie, dei sogni, dei fanta­ smi inconsci, dell'immaginazione di lui, e nelle sue azioni in rapporto agli «altri» personaggi reali. Men­ tre cerca di essere ciò che immagina, egli interpreta in realtà il proprio schema fantasmatico della sua « fa­ miglia», rintracciabile nei suoi sogni, nelle sue me­ morie, nelle sue fantasticherie e nelle esperienze con­ crete, dalle quali quell'« egli», che agisce in questo mondo, è in gran parte dissociato 1• Cosi sotto l'unico vocabolo « interiorizzazione» vengono classificati molteplici processi, i quali tutti implicano una transizione da una modalità all'altra o una diversa inflessione. Per riassumere: non gli oggetti in quanto tali, ma gli schemi di rapporto vengono interiorizzati per mezzo di operazioni sulle quali la persona fonda una struttura di gruppo incarnata.

Trasformazione e esteriorizzazione (proiezione). Questo gruppo interiore può condizionare, piu o meno, il rapporto di una persona con se stessa. Re­ lazioni triadiche sono compresse in rapporti dell'io con l'io. Un adulto si sente come un bambino nel tentativo di riconciliare i due « lati » di se stesso che l

ar. R. D. LAING, L'io e gli altri, Sansoni, Firenze I969.

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l o trascinano i n direzioni opposte, e che sono vissuti a volte rispettivamente come buono o cattivo, ma­ schio o femmina, e anche, sul piano fisico, identifi­ cati nel lato destro e in quello sinistro del corpo: egli cerca di riordinare le proprie idee, ma un terzo elemento interiore interviene e cosi via. Questi rapporti interni dell'io con l'io sono altret­ tanto vari dei sistemi familiari reali. Anche quando la « famiglia » non diventa un mezzo essenziale per entrare o non entrare in rapporto con il proprio «io», la persona è essa stessa trasformata, in qual­ che misura, per l'esistenza di un tale gruppo inte­ riore. Nella strutturazione del loro spazio e del loro tempo alcuni sembrano dipendere da simili opera­ zioni di gruppo a tal punto che, senza di esse, hanno la sensazione di non riuscire a conservare la propria integrità. Un giovane avverte che la sua vita è giunta a un punto morto. È angosciato dal conflitto tra Est e, Ovest, dalla guerra fredda, dall'equilibrio del terro­ re, dalle tecniche deterrenti, dall'unità del mondo, dall'impossibilità della separazione, dalla necessità della coesistenza, dall'evidente impossibilità della coesistenza. Trovare una soluzione diventa la sua mis­ sione personale, ma si sente impotente e paralizzato. Non fa nulla, ma si sente schiacciato dalla sua parte di responsabilità in una distruzione che avverte ine­ vitabile. Gli elementi strutturali delle sue preoccupazioni (conflitto, guerra fredda, divorzio affettivo, equili­ brio del terrore, necessità di coesistenza) sono simili a quelli che caratterizzano il rapporto tra i suoi ge­ nitori. Ma egli non riconosce queste somiglianze. Insiste nell'affermare che le sue preoccupazioni per la situa­ zione mondiale non soltanto sono del tutto giusti:fi-

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cate dai fatti obbiettivi, ma si basano esclusivamente su di essi. La situazione mondiale è un fatto e mi­ gliaia di persone provengono da famiglie come la sua, perciò non vi è rapporto alcuno tra le due cose. Una moglie sogna che il marito fa, apertamente, la corte, davanti a lei, ad una donna piu giovane, mentre lei teme di manifestare qualsiasi segno di ge­ losia. Se lo farà, potrà esserne punita. Ella mette in rapporto questo sogno con il suo cruccio per una effettiva avventura di suo marito. Ma non scorge alcun rapporto tra questo sogno, l'essere stata svez­ zata precocemente, l'aver visto papà e mamma fare l'amore, l'aver visto la mamma (alla quale fa equiva­ lere il marito) manifestare la sua tenerezza a una so­ rella minore, e un tabu familiare che condanna i «cattivi» sentimenti o le azioni dettate dalla gelosia per disunire una coppia esclusiva. È impossibile valutare l'entità di queste operazio­ ni e trasformazioni interne con la sola tecnica psica· nalitica. Sono necessari studi sulle famiglie integrati da studi sulle «famiglie». In individui gravemente disturbati, si rileva che quelle che si possono considerare strutture deliranti sono collegate, in modo ancor riconoscibile, a situa­ zioni familiari. La ti-proiezione della «famiglia» non consiste semplicemente nel proiettare un oggetto «interno» su una persona esterna. Si tratta della sovrapposizione di un insieme di rapporti su un al­ tro: i due insiemi possono corrispondere in misura maggiore o minore. Soltanto nel caso in cui siano sufficientemente discordanti agli occhi degli altri, l'operazione è considerata psicotica. In altre parole l'operazione non è giudicata psicotica in se stessa. Non è mai sufficiente prendere in considerazione la sola struttura spaziale, e tanto meno un unico og­ getto interiore isolato dal suo contesto. Si dovrebbe

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sempre ricercare una sequenza di eventi, in cui non uno, ma piu elementi giocano il loro ruolo. Un uomo si sentiva distrutto da una donna. Al­ l'età di trent'anni, aveva la sensazione che ella si comportasse proprio come aveva fatto sua madre, quando lui aveva tre anni. Non era la prima volta, né doveva essere l'ultima, che egli aveva questa sen­ sazione. Il prototipo di questa situazione venne scoperto attraverso un'analisi del suo transfert nel presente, e verificato alla luce delle testimonianze collaterali dei genitori e di altri familiari.

Sequenza prototipica

È con la donna cui vuoi bene (la sua bambinaia). 2. Ritorna sua madre, manda via la bambinaia, 3· e poi lo manda in collegio, 4· mentre suo padre non interviene. 5. La madre non sa scegliere tra il legame con il figlio e le proprie avventure amorose. 6 . Egli fugge dal collegio e vi viene riportato dalla polizia. I.

Ripetizione di questo scenario nella vita adulta I. 2.

3. 4· 5.

6.

Si innamora di A. Lascia A per B, e rompe con B. C non interviene. Lui e B non sanno scegliere tra il rapporto che li unisce ed altre avventure. Egli tenta di fuggire, ma non può.

La differenza fondamentale tra le due sequenze consiste nel fatto che, nella seconda, egli cerca di fa­ re ciò che era stato fatto a lui. Egli lascia A. B non

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lo respinge. È lui che l'allontana da sé. Nell'indur­ re B a lasciarlo, egli sembra dominare la situazione. Ma esperimenta ogni ripetizione dello scenario, co­ me se fosse lui la vittima di B, e infine dello scena­ rio, del quale ritiene responsabile sua madre. B lo ha strappato ad A, poi lo ha abbandonato e infine costretto alla solitudine. Io rimanevo uno spettatore come suo padre. Questo dramma « interiorizzato » e ri-rappresen­ tato con una parvenza di controllo, viene da lui vis­ suto come la sua distruzione per opera di una donna. Questo del «distruttore» è un ruolo preciso in un unico dramma. Tuttavia, vi sono molteplici drammi familiari. Quando risaliamo piu lontano nell'esistenza del paziente, ne troviamo di altri, e, progredendo solo un poco, il dramma muta ancora. Questi drammi di­ versi vengono rappresentati simultaneamente in un unico teatro, farsa e tragedia insieme sulla stessa scena. Lo scenario trasformato, attraverso conversioni, fusioni, partizioni, inversioni e cosf via, può ancora essere riconoscibile. Di solito ha perfino un suo fi­ nale- lieto o catastrofico. Quando tale base interiore di sequenze di relazio­ ni spazio-temporali viene esteriorizzata, essa sembra avere sia la funzione di schema che governa i modi in cui si sperano, si temono e si vedono accadere gli eventi esteriori, sia, inducendo azioni e reazioni, quella di fantasma e profezia che trova in se stessa il suo avveramento.

Il transfert delle modalità di gruppo. Il bambino nasce in una famiglia che è il prodotto delle operazioni di esseri umani già appartenenti a

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questo mondo. È un sistema mediato attraverso la vista, l'udito, il gusto, l'odorato, il tatto, il dolore e il piacere, il caldo e il freddo, un oceano in cui il bambino rapidamente impara a nuotare. Ma di que­ sta serie si interiorizzano e si organizzano in sistemi significativi le relazioni, non semplicemente gli og­

getti. La famiglia descritta qui è una modalità di grup­ po caratterizzata dalla co-inerenza. Alcune famiglie si reggono prevalentemente sul modello di imprese commerciali; alcune sono istituzioni. Dal mattino al­ la sera l'individuo subisce successive metamorfosi, passando da una modalità di gruppo ad un'altra; dal­ la famiglia alla coda in attesa dell'autobus, all'ufficio, al pranzo con gli amici, alla riunione con i vecchi compagni, prima di rientrare in famiglia. Il transfert implica il trasferimento di una metamorfosi nell'al­ tra - e ciascuna si basa sulla partecipazione interna a una certa modalità di gruppo della socialità e sul' possesso interiore della stessa. La « famiglia » viene trasferita nell'ufficio. O l'uo­ mo d'affari stanco- gli «affari» essendo ora il pro­ dotto della trasformazione operata sugli affari dalla « famiglia » - traspone gli « affari » sul piano fami­ liare. L'individuo che, in una società pluralistica, si muove attraverso pluralità diverse, agisce secondo modalità diverse, a volte simultaneamente; mentre ciascun insieme interno di strutture modali subisce trasformazioni diverse nel tipo, nella fase, nel ritmo, ecc.

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La funzione difensiva della famiglia. A quanto pare non vi è fattore piu effica­ ce di un'altra persona per rendere vivo ad un uomo il mondo, oppure per disseccare la realtà, in cui egli dimora, con un'occhiata, un gesto, un'osservazione.

GOFFMAN, Asylums.

La maggior parte delle dif�se descritte dalla psica­ nalisi sono difese intrapsichiche - per esempio: la scissione, la proiezione, l'introiezione, la negazione, la rimozione, la regressione. Questi meccanismi di­ fensivi della psicanalisi sono ciò che una persona fa a se stessa. Non sono le azioni compiute sul mondo esterno, sugli altri, o sul mondo degli altri. Alcune persone cercano manifestamente di agire sul mondo «interiore » degli altri per difendere il loro proprio mondo interiore, ed altre (i cosiddetti maniaci, per esempio) ordinano e riordinano il mon­ do esterno degli oggetti per lo stesso scopo: difen­ dere il proprio mondo interiore. Non esiste una teoria psicanalitica sistematica re­ lativa alla natura delle difese transpersonali, per mezzo delle quali l'io cerca di dirigere la vita inte­ riore dell'altro al fine di preservare la propria, né delle tecniche per affrontare una simile persecuzione da parte degli altri. Se l'io dipende dall'integrità della «famiglia», es­ sendo questa una struttura condivisa, l'integrità del­ l'io dipende allora dal senso che l'io ha della «fami­ glia» in quanto struttura condivisa con altri. Una persona si sente al sicuro, se immagina l'integrità della struttura «familiare» «negli» altri. Ogni membro della famiglia incarna una struttura derivata dai rapporti tra i vari membri. Questa fa­ miglia-in-comune, questa presenza di gruppo condi-

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visa, esiste nella misura in cui ciascun membro la possiede dentro di sé. Di qui nascono i fantasmi del­ la famiglia come conservata, distrutta o reintegrata, della famiglia che cresce, muore, che è immortale. Ogni membro della famiglia può esigere che gli altri membri custodiscano in sé la stessa imago della « fa­ miglia». L'identità di ciascuno si fonda allora su una « famiglia » condivisa, che è situata all'interno degli altri, i quali, in virru di ciò, appartengono alla mede­ sima famiglia. Appartenere alla stessa famiglia è av­

vertire in sé l'esistenza della stessa «famiglia».

In alcune famiglie i genitori si oppongono a che i figli distruggano in se stessi la «famiglia », se è que­ sto che vogliono, perché avvertono tale atto come la disgregazione della famiglia, e allora dove si andrà a finire? Anche per il bambino la «famiglia» può es­ sere una struttura interiore piu importante del· «se­ no», del «pene», della «madre», del «padre». Fi­ no a che la famiglia è vissuta come permanente, mol­ te altre esperienze possono essere provvisorie. La «famiglia » diventa un mezzo di unificazione tra i suoi membri, i cui legami reciproci potrebbero altrimenti allentarsi notevolmente. Sopraggiungerà una crisi, qualora uno qualunque dei membri della famiglia avverta il desiderio di andarsene, escluden­ do la « famiglia » dal suo sistema, o distruggendo la «famiglia» in se stesso. All'interno della famiglia si può sentire che la famiglia vale il mondo intero. Si può vivere la distruzione della «famiglia» come un atto piu grave di un assassinio o piu egoistico di un suicidio. « Sarebbe come distruggere il mondo dei miei genitori» (e i genitori avrebbero la stessa sensazione). E i figli possono essere traumatizzati dalle azioni dei genitori che comportino la distru­ zione della « famiglia» oltre a quella della famiglia. Abbondano i dilemmi. Se io non distruggo la «fa-

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miglia», la «famiglia» mi distruggerà. Non posso distruggere la «famiglia» in me stesso, senza di­ struggerla negli altri. Sentendosi minacciati, mi di­ struggeranno? Atti in realtà privi di tale motivazione o intendi­ mento vengono definiti dagli altri distruttivi o per­ secutori o patologici, solo perché comportano la di­ sgregazione della loro «famiglia ». Ciascuno deve perciò sacrificare se stesso per difendere la «fami­ glia». La «famiglia» finisce per servire da difesa o ba­ stione contro il crollo totale, la disintegrazione, il vuoto, la disperazione, il senso di colpa ed altri ter­ rori. Quando si sente come necessaria la difesa della « famiglia» ad opera di tutti i suoi membri, non si permette che la preservazione, la trasformazione o la dissoluzione della«famiglia» rimangano semplici fatti personali. La perdita di un membro della fami­ glia può essere meno pericolosa dell'arrivo di un nuovo membro in famiglia, se la nuova recluta in­ troduce un'altra «famiglia» nella «famiglia». Ne consegue che la preservazione della«famiglia» è assimilata alla preservazione dell'io e del mondo, e che la dissoluzione della«famiglia» all'interno di un altro è assimilata alla morte dell'io e al crollo del mondo. D'altra parte, si odia o si teme la «fami­ glia», oppure si invidia ad altri una vita familiare felice o armoniosa; in questo caso il mondo crollerà, se la «famiglia» non viene uccisa. In un modo o nell'altro l'ombra della«famiglia» oscura la visione del singolo. Fino a che non si riesce a vedere la «famiglia» in se stessi, non si riesce a vedere né se stessi né alcuna famiglia con chiarezza.

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Una partita di tennis. All'età di diciassette anni, Jane presentava i sin­ tomi di una schizofrenia simplex precoce. Attiva a scuola, normalmente circondata da amici, appassio­ nata di sport, specialmente di tennis, da parecchi mesi ormai era divenuta inattiva, indifferente e chiu­ sa in se stessa. Quando la vidi, era caduta quasi to­ talmente nell'immobilità e nel silenzio. Tuttavia per­ metteva che la si vestisse; mangiava quanto le veni­ va portato alla bocca; e si sottometteva passivamen­ te alle energiche pressioni esercitate su di lei, ma non prendeva nessuna iniziativa e, lasciata a se stes­ sa, non faceva nulla. Era assorta in una fantasticheria che prendeva la forma di una perpetua partita di tennis: doppi mi­ sti, Centre Court, Wimbledon, la folla, il campo, la rete, i giocatori e il continuo avanti e indietro della palla- lei era tutti questi elementi, specialmente l� palla. La palla veniva servita, schiacciata, colpita al vo­ lo, alzata in pallonetto, talvolta lanciata diritto fuori campo - cosi piccola, cosi passiva eppure sempre rimbalzante- il centro del gioco e dello spettacolo. Tutti gli occhi sono fissi su di lei. Benché elastica, la sua resistenza ha un limite. Può logorarsi, sebbe­ ne all'inizio avesse un rimbalzo perfetto. Essa è il mezzo grazie al quale si realizza il rapporto tra i gio­ catori. Le imprimono effetti di rotazione, la fanno strumento di inganni e raggiri. Sebbene sia essen­ ziale, nessuno ha per essa un interesse reale. Se ne servono e la vogliono soltanto per battere l'avversa­ rio. Talvolta la trattano con dolcezza, ma soltanto per vincere. Nessuno si cura veramente di essa. La trattano con estrema crudeltà. Se la palla dovesse

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protestare o ribellarsi, o non rispondere al colpo che riceve, ma aspirasse a prendere l'iniziativa, o a sce­ gliere la direzione del rimbalzo, verrebbe gettata via. Il gioco è ciò che conta: in ultima analisi non si trat­ ta neppure di vincerlo, ma di perpetuarlo. Supponiamo che la palla subisca una metamorfo­ si. Potrebbe trasformarsi in una bomba a mano e far saltare in aria i giocatori. Potrebbe persino trasfor­ marsi in una bomba atomica e distruggere Centre Court, gli spettatori, e metà Londra. Potrebbe esse­ re una bomba ad orologeria, caricata per esplodere in un momento critico, senza che essa stessa sappia quando e come. Che vendetta! Che capovolgimento! Ma se esplo­ desse, sarebbe la prima ad essere distrutta. Forse an­ che l'esistenza intollerabile di una palla da tennis, battuta, bruciante, riarsa, consunta, ricoperta della polvere secca e ardente della fornace di Centre Court, sotto il riverbero del sole spietato e gli sguar­ di indifferenti degli spettatori, è meglio del nulla. E poi questa potrebbe essere la sua autentica real­ tà. Questo potrebbe essere il suo karma. Chissà che un tempo non fosse stata una principessa divenuta vittima di un incantesimo malefico. Forse essa deve accettare questa condizione come il proprio fato - ri­ nunciare a un destino di felicità per espiare un de­ litto dimenticato- e come sacrificio, come esempio, oppure spinta da un misterioso slancio d'amore. La sua famiglia, riunita sotto un solo tetto, era composta del padre, della madre, del padre della madre e della madre del padre, schierati gli uni con­ tro gli altri, il padre e la propria madre contro la madre alleata al proprio padre: doppio misto. Nel loro gioco la palla era Jane. Per dare un esempio della precisione di questa metafora: le due parti in­ terrompevano le comunicazioni reciproche dirette

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per settimane intere e continuavano a comunicare attraverso Jane. A tavola non si rivolgevano la pa­ rola direttamente. La madre si volgeva a Jane per comunicarle: «Di' a tuo padre di passarmi il sale». Jane diceva a suo padre: «Mamma chiede che tu le passi il sale». Egli replicava a Jane: «Dille di pren­ derselo da sé». Jane ripeteva a sua madre: «Papà dice che te lo prenda da te». Quando Jane era piccola, sua madre aveva avuto un «episodio psicotico ». Le era parso allora che la famiglia fosse disunita. Tutti dovevano sedere intorno al tavolo, silenziosi, immobili, le mani tese, le palme all'ingiu con la punta del pollice di ciascuno che sfiorava il mignolo del vici­ no o della vicina. La madre di Jane pregava affinché una «corrente d'amore» fluisse nel circolo familiare per guarirne l'infelicità. Che follia! Gli altri accon­ sentivano per compiacerla, ma non prendevano le cose sul serio. Avrebbe potuto funzionare? Jane non riusciva a vedere il legame tra la su; fantasticheria della partita di tennis e la famiglia ... Questo legame era la «famiglia». Da una palla da tennis non ci si aspetta che debba conoscere la sua condizione di palla da tennis. Jane, in tre mesi, riusd a percepire questi rappor­ ti, lasciò la famiglia due anni dopo, ed ormai da die­ ci anni ha ripreso una vita attiva. La «famiglia» co­ me fantasma può essere «inconscia» '. Gli elementi della «famiglia » in quanto archeti· po drammatico affiorano alla consapevolezza rivestiti di immagini diverse. La «famiglia» subisce modu­ lazioni ed altre trasformazioni nel processo di inte1 Gr. R. D. LAING, Knots, Tavistock Publications, London 1970; Pan­ theon Books, New York 1970; per la discussione della fenomenologia del « fantasma inconscio».

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riorizzazione e nel suo successivo divenire in quanto fantasma. La « famiglia » applicata alla famiglia, o trasferita ad altre situazioni non è un insieme semplice di og­ getti introiettati, ma piuttosto una matrice di dram­ mi, di schemi di sequenze spazio-temporali da rap­ presentare. Come nella bobina di un film, tutti gli elementi sono copresenti, predisposti per svolgersi secondo una certa sequenza temporale quando il film viene proiettato sullo schermo. La bobina è la fami­ glia interiore. In una persona la « famiglia » non è l'unica bo­ bina pronta a svolgersi nelle circostanze appropria­ te; né è necessariamente la piu significativa per tut­ ti. Un individuo è attraversato da un insieme di sot­ tosistemi e attraversa gli innumerevoli insiemi di sottosistemi entro l'infinita totalità di tutti gli in­ siemi che concorrono a comporre l'universo, e cia­ scuno occupa innumerevoli posizioni in questi in­ siemi innumerevoli 1, La creazione della « famiglia » ha luogo durante i primi anni di vita. Essa implica l'interiorizzazione, intesa qui come modulazione del vissuto e trasfor­ mazione strutturale. L'interiorizzazione di un insie­ me di rapporti da parte di ciascun elemento dell'in­ sieme trasforma la natura degli elementi, i loro rap­ porti e l'insieme stesso, in un gruppo di un genere molto particolare. Questo insieme « familiare » di rapporti può essere applicato al corpo, ai sentimen­ ti, ai pensieri, alle immaginazioni, ai sogni, alle per­ cezioni; può diventare lo scenario che avvolge le nostre azioni, e può essere applicato a qualunque aspetto del cosmo. Il cosmo intero può subire una ·

1 Non intendo affermare che ognuna di queste osservazioni si applichi a piu o ad altto che a delle apparenze.

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trasformazione in accordo con uno scenario fami­ liare riconducibile all'insieme «familiare» prototi­ pico di relazioni ed operazioni. Questo prototipo di gruppo«familiare» è trasportato o trasferito (Ober­ tragung: trasferimento) da un codominio• all'altro, rimanendo il dominio, dal quale procedono le proie­ zioni. La co-inerenza che risulta dall'applicazione re­ ciproca della « famiglia » di ciascuno alla famiglia comune, conduce a quella che ho definito la nessifi­ cazione della famiglia. Tali famiglie nessificate pos­ sono divenire sistemi relativamente chiusi; li ritro­ viamo ripetutamente, nello studio delle famiglie di persone diagnosticate schizofreniche. Questa affer­ mazione non va certo intesa nel senso che tali fami­ glie provochino la schizofrenia•. Nel parlare della famiglia o della «famiglia» co­ minciamo soltanto a intravedere la natura del feno­ meno che forse possiamo ritenere di aver cercato di descrivere. 1

Per la spiegazione di questi termini cfr. Applicazioni, parte II, cap. v. Cfr. la prefazione a R. D. LAING e A. ESTERSON, Normalità e follia nel­ la famiglia, Einaudi, Torino 1970. 2

Capitolo secondo L'intervento nelle situazioni sociali 1

Il terreno comune a operatori sociali e psichiatri è lo studio delle situazioni sociali e l'intervento in esse. Assistenti sociali e psichiatri non si limitano cer­ to a questo, ma studio e intervento rappresenta­ no delle costanti, quale che sia il resto dell'attivi­ tà. Quando un medico, nell'esercizio delle sue fun­ zioni strettamente mediche, diagnostica una tonsil­ lite in un bambino o un tumore in un adulto e pre­ scrive che il bambino sia ricoverato in ospedale e sottoposto a tonsillectomia, oppure che il genitore sia ricoverato in ospedale, sottoposto alle indagini necessarie e in seguito all'operazione chirurgica, egli interviene in una situazione sociale alla quale può non avere né il tempo né l'interesse di rivolgere piu che un'attenzione fuggevole. Ci auguriamo che i me­ dici di famiglia si rendano conto, ma spesso ciò non avviene, che le decisioni « strettamente » mediche hanno massicce riverberazioni in un intero gruppo di persone, con conseguenze che interessano molti altri oltre al paziente. Ma in un caso di urgenza medica, la salute fisica, o a volte la vita stessa, dell'individuo viene prima di tutto il resto, e piu spesso che no si permette che le conseguenze sociali generate dall'e­ vento traumatico e dall'intervento medico si diriga­ no altrove. 1

I968.

Conferenza tenuta all'Association of Family Caseworkers, maggio

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Il bambino entra in ospedale. È difficile seguire le sorti stesse dell'individuo, figuriamoci le conse­ guenze sociali di un evento cosi grave. Non è neces­ sario consultare ricercatori per sapere che, quando un bambino o un genitore vengono ospedalizzati, si pro­ ducono profonde ripercussioni nella famiglia. Ma qua­ si nessun psichiatra e troppo pochi assistenti sociali si rendono pienamente conto dell'entità delle resistenze sociali che si oppongono all'ammissione di queste ri­ percussioni. Mi riferisco in primo luogo alla Gran Bretagna. Da alcuni anni mi interesso direttamente allo stu­ dio delle persone nelle situazioni. Di solito sono «chiamato ad intervenire» in una «situazione», che è già stata definita dalle persone che vi sono coinvolte (e talora anche da altri componenti il grup­ po sociale), come una situazione in cui uno dei pro­ tagonisti «ha dei problemi»; e gli altri non sanno che cosa fare per lui o per lei; è implicito che se quella persona risolvesse i suoi problemi, la situh­ zione si normalizzerebbe. Vale a dire vengo invi­ tato ad intervenire in una crisi sociale, definita come (e dovuta nell'opinione comune a, causata da, gene­ rata da, occasionata da, provocata da), un evento traumatico medico. Esistono molte specie di crisi sociali: quando una di esse viene definita come evento traumatico medi­ co, è opinione comune che se si tratta il caso medi­ co, vale a dire se il paziente viene sottoposto a cure adeguate e guarisce, allora la crisi sociale sarà risolta ( purché non ne abbia generata un'altra: per esem­ pio una crisi finanziaria). Quando una particolare si­ tuazione sociale viene definita crisi sociale occasio­ nata da un evento traumatico medico, questa defi­ nizione esige un tipo particolare di intervento: la prescrizione inequivocabile è di restituire alla nor-

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malità una sola persona con « cure adeguate » e, qua­ lora lo si ritenga necessario, di fornire un'assistenza ausiliaria alle altre persone coinvolte nella situazio­ ne, affinché possano far fronte alla malattia di quella sola e alle conseguenze sociali secondarie per il grup­ po. La definizione della situazione e la richiesta di intervento sono due facce della stessa medaglia. La strategia razionale corretta dell'intervento è prescrit­ ta nella definizione della situazione e attraverso di essa. Situazioni di questo genere interessano gran parte dell'area comune all'assistenza sociale, alla medicina e alla psichiatria: la famiglia di un bambino ritarda­ to, famiglie un cui membro sia colpito da invalidità fisica. In molti casi parliamo di debilità mentale (escludendo la subnormalità ed altre condizioni chia­ ramente organiche) acuta o cronica; interpretiamo la situazione sulla base dello schema sopraddetto, e agiamo su di essa nel modo da esso richiesto. Esaminiamo alcune conseguenze pratiche che si determinano quando gli assistenti sociali adottano questo modello medico di una situazione sociale. Gli assistenti sociali e gli psichiatri devono essere pra­ tici. Il nostro lavoro è febbrile; spesso siamo co­ stretti a teorizzare nel pieno della nostra attività, ,oppure nei momenti liberi, quando non siamo trop­ po stanchi. Spesso scopriamo il significato delle no­ stre azioni dopo che le abbiamo compiute. Un van­ taggio che ne deriva è dato da un certo approccio empirico pragmatico. Gli svantaggi sono rappresen­ tati dal fatto che, non avendo tempo per la riflessio­ ne critica, rischiamo di divenire dogmatici nella teo­ ria e di ripeterei continuamente nella pratica. Pos­ siamo persino fornire ripetutamente un resoconto non fedele delle nostre reiterate scelte quotidiane:

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specialmente se non abbiamo il tempo per analizzare il nostro operato effettivo. Quando non vi è rispon­ denza tra ciò che pensiamo di fare e ciò che in realtà facciamo, sprofondiamo in convinzioni che si depo­ sitano, per cosi dire, nei nostri atteggiamenti e pos­ siamo ritrovarci cosf appesantiti da tali depositi, da non riuscir piu a distinguere quali sono le nostre convinzioni né ad accorgerci che stiamo perpetuan­ do pratiche di cui non siamo neppure consapevoli. Un altro pericolo è quello di lasciare ad altri l'ela­ borazione della teoria, mentre rimaniamo impegnati nell'attività pratica. Nessuno di noi può permettersi di credere sulla parola alle asserzioni di chi pensa di poterei dire che cosa stiamo facendo o che cosa dovremmo fare, di chi in realtà non esercita l'atti­ vità pratica, ma si crede nella posizione di formulare teorie su di essa. Ci troviamo di fronte a uno stato di cose pericoloso. È mia impressione che buona parte della teoria sull'assistenza sociale si basi su un modello medi�o derivato dalla psichiatria, e che la psichiatria ha essa stessa preso a prestito dalla medicina generale, o ne sia fortemente influenzata: questo modello medico psichiatrico è stato adottato sulla fiducia, almeno sino a tempi molto recenti, anche dagli psichiatri. Quando venga applicato ad una situazione sociale, questo modello ci aiuta a capire che cosa sta acca­ dendo quasi quanto un paio di occhiali neri ci può aiutare a veder chiaramente in una camera già oscura. Quando vengo invitato ad intervenire in una cer­ ta situazione, di solito mi trovo di fronte ad una persona, maschio o femmina che sia, che gli altri or­ mai considerano come « disturbato », e ad un parere formulato da « esperti », secondo il quale si comin­ ciano a rilevare in quest'unica persona sintomi di un disturbo definito « mentale » . Ve ne offrirò un

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esempio. Comprenderete che ho dovuto riassumerlo e schematizzarlo.

I Clark. Ricevo una lettera dalla Child Guidance Clinic, che mi invita ad esprimere un parere sul caso di un ragazzo di nove anni , sul quale in clinica si è formu­ lata una diagnosi di che cosa? niente di meno che di schizofrenia incipiente. Sono tre mesi che il ragazzo si reca in clinica un pomeriggio la settimana per in­ contrare uno psichiatra. Sua madre ve lo accompa­ gna e, una volta ogni quindici giorni, si intrattiene a colloquio con un'assistente sociale psichiatrica. Il ragazzo non ha dato segni di miglioramento; il suo comportamento, a casa e a scuola, peggiora; lo psi­ chiatra se ne chiede i motivi, visto il persistente mu­ tismo, in cui si chiude in sua presenza, e pensa di trovarsi di fronte ai primi sintomi di una forma di schizofrenia. Se ci si convincesse che è veramente cosi, si potrebbe internarlo in un ospedale psichia­ trico per ragazzi. A causa della sua irrequietezza in classe, egli è già stato ricoverato per una serie di esami in un ospedale infantile, dove, per mezzo di punture lombari ed altre indagini, si è esclusa qual­ siasi forma di «patologia organica». Quando sono chiamato a consulto con una lettera come questa, devo decidere non soltanto come avvi­ cinare la persona che è già stata scelta come pazien­ te, ma come farmi l'idea piu esatta della situazione nel piu breve tempo possibile. In realtà non è que­ sto che mi si richiede. Da me si esige una diagnosi. Io ho ridefinito il mio compito: operazione legitti­ ma. Il nostro cliente non sempre definisce le sue condizioni, come noi vorremmo. Non dobbiamo tra-

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scurare il suo punto di vista, ma non siamo tenuti ad adottarlo, neppure quando il cliente è uno psi­ chiatra. Avrei potuto fissare un appuntamento alla madre e al ragazzo nel mio studio. Avrei potuto recarmi al­ la clinica e vedere il ragazzo solo o a consulto insie­ me con lo psichiatra. Mi si presentavano molteplici possibilità. Scelsi di scrivere alla madre una lettera nella quale le chiedevo di telefonarmi. Per telefono combinammo una visita a domicilio: due assistenti sociali mi avrebbero accompagnato, nelle prime ore della sera, quando fosse stata presente la maggior parte dei familiari. Passammo circa due ore e mezzo con il nucleo familiare: la madre del ragazzo, i suoi due fratelli maggiori (tredici e undici anni), la sua sorella minore (sette anni) e il padre. Durante que­ sta visita ci intrattenemmo con il signore e la signo­ ra Clark in compagnia dei figli; con David da solo; con i signori Clark da soli. Mi fecero visitare la casa e mi fornirono particolari sul cibo, il sonno e le al'­ tre abitudini della vita familiare. Per dare un esempio. La prima volta ci riunimmo nel soggiorno: la madre, il padre, un fratello di tre­ dici anni , un fratello di undici anni, David di nove anni e la sorellina di sette. Interrogai la signora Clark su un solo punto: «Da chi hanno preso i suoi figli?» Indicando il figlio maggiore, lei rispose: «Ebbene, quello è l'immagine di suo padre». Il secondo figlio non somigliava a nessuno. «La bambina somiglia a David. Anche questo ci angustia, comincia a prendere da David». «A chi somiglia David?» «David somiglia a me». «Che cosa c'è che non va in David, allora?» C'era che David (la signora Clark cominciò a

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snocciolar la lista) sfuggiva totalmente al suo con­ trollo, non faceva ciò che gli si diceva, lei non riu­ sciva a capirlo, se ne stava fuori di casa, non le di­ ceva mai quando sarebbe ritornato, si disinteressava della lettura e dei compiti, e infine era «incurante di tutto». Questo nei primi venti minuti. Piu tardi mi fece visitare la casa; le camere da letto dei ragazzi, quella della bambina, la sua e di suo marito, ecc. Quando ci ritrovammo soli sulle scale - gli altri erano giu a pianterreno - colsi l'occasione per chiederle: «Come è cominciata questa storia?» «Come le ho detto, sta sempre fuori di casa, non mi dice mai quando ritornerà, proprio non vuoi fare ciò che gli dico- mi sfida. Un pomeriggio- avrebbe dovuto rientrare all'una per la colazione, suo padre non c'era, e alle due non era ancora ritornato - gli ho detto: "Devi rientrare per l'ora dei pasti, e farai quello che ti dico". Lui mi ha risposto: "No, non lo farò", ed io ho replicato: "SI che mi ubbidirai. Se non farai ciò che ti dico, ti caccerò via". "D'accor­ do"». Lei non sapeva che linea di condotta seguire. Qua­ si senza riflettere, telefonò alla polizia e, davanti a lui, spiegò: «C'è qui un ragazzo che mi disubbidi­ sce. Non so piu come trattarlo». Risposero: «At­ tenda un minuto». Quell'attesa le parve non finisse mai, ma dopo due minuti una voce al telefono le consigliò di portare il ragazzo alla Child Guidance Clinic locale, di cui le fu dato l'indirizzo. Cosi aveva fatto e, ormai da tre mesi, accompagnava il ragazzo alla clinica una volta la settimana. Ora le dispiaceva di quanto era accaduto, ma David non voleva saper­ ne di fare quel che gli si diceva e non sembrava preoccuparsene. Dopo il colloquio con la signora Clark, feci due

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chiacchiere con David: eravamo in piedi presso la finestra della camera da letto dei ragazzi. Fu un di­ scorso da uomo a uomo; mi raccontò che cosa face­ va: stava fuori con certi operai che lavoravano in un cantiere e li aiutava. Leggere e scrivere non gli inte­ ressava molto, ma aveva una grande passione per il lavoro manuale. Alla clinica l'unica cosa che gli pia­ cesse era il disegno: aveva acconsentito che i suoi dipinti venissero esposti ad una mostra d'arte infan­ tile (forse un altro esempio di arte psicotica?) Mi raccontò che per lui la ragione principale per anda­ re alla clinica era una cattiva ragione perché saltava la scuola per un pomeriggio: ma non gli conveniva perché doveva recuperare le lezioni perdute il gior­ no successivo. Gli chiesi se potevo aiutarlo. Mi pre­ gò di sistemare le cose in modo che non dovesse piu andare alla clinica. Gli dissi che avrei visto che cosa potevo fare. Negli ultimi quaranta minuti delle due ore e mez­ zo che dedicammo al caso, ci intrattenemmo con ..U signore e la signora Clark senza i figli. La signora Clark aveva detto che David aveva preso da lei per quei lati del carattere che, a quanto pareva, erano la causa dei suoi guai. «In questo caso da chi aveva preso lei? » La ri­ sposta fu pronta: «Da mio padre».«Allora David somiglia a suo nonno». Non aveva ancora conside­ rato la cosa da questo punto di vista, ma ebbe solo una lieve pausa prima di affermare: «Oh, si, natu­ ralmente, è quel che continua a ripetere mia ma­ dre». La signora Clark è figlia unica. Il signor Clark è il minore di due fratelli; suo padre (il nonno pater­ no di David) era morto, quando il figlio era ancora un bambino. Sua madre è ancora viva. Il nonno ma­ terno di David era morto, proprio prima che David

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venisse concepito. Il padre di David si era subito attaccato al suo primogenito. Era nato un secondo figlio. La signora Clark ne era stata contenta, non cosi sua suocera. Lei aveva avuto due figli, il mag­ giore dei quali aveva pure avuto due figli: ora anche il suo secondogenito ne aveva avuti due. Lei deside­ rava una nipotina. Cosf la signora Clark era rimasta incinta ancora una volta, subito dopo la morte del proprio padre, per offrire a sua suocera il dono di una nipote. Invece aveva messo al mondo David; cui aveva dato il nome del nonno. Infine i Clark ave­ vano tentato una quarta volta e, grazie al cielo, ave­ vano avuto una bambina, che fu subito « annessa » dalla madre del signor Clark. Quando aveva l'età di David, la signora Clark so­ migliava a suo padre, un tipo spensierato, che se ne stava fuori di casa quasi tutto il giorno, a fare quello che non avrebbe dovuto fare (secondo sua madre). Non le diceva mai che cosa combinava, né con chi usciva, né perché rientrava tardi. Non gli importava molto di far soldi, ma ne guadagnava abbastanza per vivere, e non aveva mai imparato a leggere né a scri­ vere. La signora Clark voleva molto bene al padre e ne seguiva l'esempio, ma sua madre l'aveva fatta smettere a suon di botte e lei era infine divenuta una brava ragazza. Ora vedeva « riafliorare » in David le stesse tendenze. Sua madre continuava a dirle che avrebbe dovuto farla smettere a David a suon di botte, adottando il sistema che si era usato con lei. Ma lei non riusciva a decidersi, ed ormai era troppo tardi. Qualche volta sentiva per lui una simpatia profonda e si diceva che forse non c'era nulla di anormale in lui. Ricordava bene quali erano le sue sensazioni, quando aveva la sua stessa età. Da quanto ho riferito qui, potrebbe risultare dif­ ficile capire perché David sia stato considerato uno

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schizofrenico in potenza. Ma bisogna ricordare che, piu che i sintomi reali, l'inflessione data alla « storia clinica » e l'abile uso di un appropriato linguaggio psichiatrico possono concorrere a creare un caso di « schizofrenia » . A scuola, David era irritabile, di­ stratto e indocile ( questi sono termini « ipomania­ ci »), ma quel che di lui diceva sua madre (che era impossibile, che lei non riusciva a cavarne nulla) evoca il termine « negativismo » ; egli non parlava con lo psichiatra ( « mutacismo » ), era allegro, quan­ do tutti erano gravemente preoccupati ( « affettività impropria » ) : questi, di nuovo, sono termini perti­ nenti la schizofrenia. Si tratta di un gioco della piu seria futilità. Questa diagnosi differenziale di David, costituisce un'elaborata diversione dal problema cru­ ciale : diagnosticare { letteralmente vedere attraver­ so ) la situazione sociale. Possiamo soltanto intravedere in questa famiglia un dramma che si perpetua da tre generazioni. I pro­ tagonisti sono due donne e un uomo : in un primo tempo, madre, figlia e padre; in un secondo, madre, figlia e figlio della figlia. Il padre della figlia muore la figlia concepisce un figlio per sostituire il padre. Ciò che conta è il dramma. Gli attori entrano ed escono di scena. Quando muoiono gli uni, altri na­ scono. I nuovi nati si avvicendano nel ruolo lasciato vacante da coloro che sono appena morti. Il sistema si perpetua per generazioni; i giovani sono indotti ad assumere le parti che un tempo furono i morti a sostenere. Cosi l'azione scenica continua. La strut­ tura drammatica permane, soggetta a trasformazioni, le cui leggi non abbiamo ancora formulato e la cui esistenza abbiamo appena cominciato a scandagliare. David recita la parte che un tempo fu di suo non­ no. Che cosa accadrà quando, a sua volta, prenderà moglie? Sposerà sua nonna, riproducendo sua ma-

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dre in sua figlia, la quale sposerà il proprio padre e lo riprodurrà nel proprio nipote? Chi era suo non­ no? Suo nonno « che riproduce » suo nipote in se stesso? Parlare in termini di identificazione induce in errore. Abbiamo qui piuttosto la trascrizione ste­ nografica di una situazione di questo tipo: b inter­ preta il ruolo che un tempo fu a a sostenere; il nipo­ te recita la parte che suo nonno interpretò. Gli at­ tori non sono mai i personaggi che interpretano (in questo senso) , anche se essi stessi possono confusa­ mente « identificarsi » con il proprio ruolo. La situa­ zione descritta, che vi ho presentato molto schema­ ticamente in forma astratta, si fonda esclusivamente su un tipo di dati quotidiani accessibili a qualsiasi assistente sociale e a molte altre persone. Si fonda sulle attribuzioni reali che alcuni imputano aperta­ mente ad altri. Tutto ciò si può registrare, riprodur­ re e studiare con assoluta obbiettività. Ma un'area molto importante dello studio delle situazioni sociali è costituita da quanto accade al di là delle parole: il modo in cui si proferiscono le pa­ role (paralinguistica) , i movimenti delle persone (ci­ netica) . Questi dati sono anch'essi oggettivi, ma per ora sono piu diflìcilmente riproducibili delle parole. Per questo motivo non li ho presi in considerazione - ma nessuno di essi si può rilevare se si studia la •situazione in modo frammentario. Il caso è tipico: uno psichiatra ha visitato il ragaz­ zo, ma non ha parlato con nessuno dei familiari. Una assistente sociale psichiatrica si è intrattenuta con la madre, ma non ha visto il ragazzo né altri membri della famiglia. L'assistente sociale e lo psichiatra si sono incontrati per consultarsi sul caso. Nessuno si è messo in contatto con gli altri componenti della famiglia, né ha indagato sull'ambiente familiare; nessuno ha visto la casa di David, la sua scuola, le

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strade dove giocava, o piuttosto lavorava. Nessuno ha ricostruito la situazione. Se, cullandoci nell'abi­ tudine, non fossimo inclini a considerare questa pro­ cedura come del tutto normale, forse ci accorgerem­ mo di quanto singolare sia un simile modo di affron­ tare la situazione. Se una squadra di hockey ci solle­ citasse ad occuparci del terzino sinistro, perché non gioca correttamente, non ci limiteremmo certo a far venire il terzino sinistro nel nostro studio, per rac­ cogliere una storia clinica e sottoporlo a un Ror­ schach. Almeno lo spero. Andremmo a vedere come gioca la squadra. E sicuramente non otterremmo al­ cun risultato, se non avessimo un'idea dell'hockey e di quali giochi nei giochi si intrecciano durante una partita. Nel nostro genere di lavoro, nessuno sa in antici­ po quale è la situazione. Bisogna scoprirla. Quando uno degli elementi della situazione è una testimo­ nianza sulla stessa, offerta da alcuni dei protagoni­ sti per segnalare che una delle persone coinvolte m!l­ la situazione « ha dei problemi », questa si presenta già come una situazione delicata che merita un'inda­ gine attenta. Costoro possono aver ragione. Forse qualcuno ha una polmonite, un tumore al cervello, è affetto da epilessia, ecc. È compito del medico dia­ gnosticare e curare tale disturbo. Ma possono anche aver torto. Molti psichiatri sono ancora straordina­ riamente ingenui da un punto di vista sociale. La maggior parte di essi non ha mai visto una famiglia al completo e, se l'ha vista, il modello medico clinico adottato rende loro piu difficile che al profano intel­ ligente la comprensione di ciò che accade. Quando tutte le persone coinvolte cominciano a definire una situazione nel modo seguente : Il nostro problema è quello di dover affrontare il suo [di lei o di lui] problema

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dobbiamo, innanzitutto, mettere tra parentesi que­ sta manovra, nella situazione come noi la vediamo. Che all'inizio vi sia o no una qualche anomalia nel capro espiatorio scelto, presto, se il processo conti­ nua, l'elemento anomalo comparirà realmente. Si tratta di uno dei processi sociali noti sin dai tempi piu antichi. Nel caso in questione sostenni, nella mia relazione, che il ragazzo non aveva nulla di serio, ma che la sua condizione si sarebbe aggravata (prognosi elementare), in questo senso che, se tutti avessero continuato a trattarlo come lo trattavano, sarebbe diventato « schizofrenico » nello spazio di sei mesi. Suggerii che nessuno vedesse il ragazzo, se egli non lo desiderava, ma che qualcuno avesse dei colloqui con la signora Clark e con sua madre. Questa è una delle numerose situazioni che pre­ sentano la seguente caratteristica: nessuna delle per­ sone coinvolte nella situazione sa qualificar/a. Se partecipiamo anche solo per un poco, diciamo per due ore e mezzo, a una situazione di questo genere, ci ritroveremo sempre piu smarriti, confusi, disorien­ tati. Tutti parlano come se sapessero che cosa suc­ cede; in realtà non ne hanno la minima idea, come non l'abbiamo noi. Agiscono come se si compren­ dessero l'un l'altro, mentre nessuno è capace di com­ prensione reciproca . Non tutte le situazioni sono di questo tipo. Benché questa sia una classe di situa­ zioni importante. L'esempio che ho appena portato, si può considerare come un sottotipo di questa clas­ se: una situazione presentata come non-situazione. Si consideri ora la situazione seguente: Due genitori si preoccupano per la figlia di sedici anni, perché pensano che abbia cominciato a drogar­ si, che frequenti cattive compagnie, e perché non parla mai con loro. Si rivolgono a una clinica. Un'as­ sistente sociale psichiatrica della clinica raccoglie le

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notizie fornite dai genitori e consulta poi lo psichia­ tra. In base alla storia raccontata dai genitori, si fis­ sa alla ragazza un appuntamento con lo psichiatra. La ragazza non si presenta. Si fissa un altro appun­ tamento. La ragazza arriva con un'ora di ritardo. Lo psichiatra trova anormale il suo modo di comunicare con lui e predispone un incontro con tutti e due i genitori. Li informa che la sua collega, l'assistente sociale, si è rivolta a lui per un consulto sul caso, e che lui ha già visto la ragazza, la quale, a suo parere, è seriamente malata : se non rinuncia alla droga, con ogni probabilità diverrà psicotica nello spazio di sei mesi ; non ha idea del male che sta facendo a se stes­ sa. Dal momento che la ragazza non è cosciente del­ le proprie azioni, si rifiuta di collaborare, non mani­ festa il desiderio di disintossicarsi, di sottoporsi a psicoterapia o di abbandonare le cattive compagnie, egli consiglia ai genitori di richiedere l'intervento delle autorità competenti, perché si porti la ragazza davanti a un tribunale minorile con la motivazione che si sottrae alle loro cure, alla loro protezione, alla loro legittima potestà. Lo psichiatra non ha visto i genitori insieme con la ragazza. La ragazza non sapeva neppure che i ge­ nitori si fossero rivolti alla clinica, prima di ricevere la lettera con cui lo psichiatra « le fissava » un ap­ puntamento. L'assistente sociale psichiatrica non ha visto la ragazza. Nessuno ha visto la famiglia al com­ pleto. Nessuno si è mai sognato di parlare con il ragazzo della protagonista, che ne frequenta assidua­ mente la casa . Prima di sottoporre chiunque a psi­ coterapia (una forma di violenza, in alcune circo­ stanze, soltanto piu sottile della richiesta di inter­ vento della polizia), non sarebbe una forma di civil­ tà discutere il caso con tutti gli interessati, compreso il ragazzo? Non voglio entrare nei particolari di que-

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sta situazione, ma posso dire che, quando, alla fine, essa venne esaminata in quanto tale, scoprimmo che un problema « reale» era costituito dal rapporto tra il padre della ragazza e il suo amico. I due giovani « fumavano » meno di quanto fosse normale tra i loro compagni di scuola. In effetti, per la loro età, erano dei « conservatori»: assumevano posizioni di principio, come i loro genitori avevano fatto ai loro tempi, su altri problemi.

Si deve scoprire la situazione. Può darsi che nessuna delle persone coinvolte in una situazione, la conosca veramente. Non possiamo mai presumere che gli interessati sappiano quale è la situazione. Ne consegue come corollario: si deve scoprire la situazione. Questa asserzione può appa­ rirvi banale, ma consideriamone le implicazioni. Le testimonianze fornite dalle varie persone ( con « per­ sone» si intendono qui tutti, genitori, figli, assisten­ ti sociali, psichiatri, noi stessi) non ci rivelano con semplicità e chiarezza quale è la situazione. Queste testimonianze sono parte della situazione. Non esi­ ste una ragione a priori per « credere» in una storia, per il solo fatto che qualcuno ce la racconta, come non esiste una ragione a priori per non crederci per­ ché qualcuno ce la racconta. Si possono avere buone ragioni, dopo averle accertate, per prestare fede a certe storie. Quelle che ci raccontano o che raccon­ tiamo noi sono sempre parti significative della situa­ zione che si deve scoprire, ma il loro valore di verità è spesso trascurabile. Ciò vale anche per le storie che i « raccoglitori professionali di storie» raccontano. Immaginate una

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« storia » psichiatrica di Gesu. È ingenuo credere di poter scoprire una situazione, ascoltando soltanto una o due delle parti in causa. Ma tale « storia » del­ la situazione è nondimeno un campione della situa­ :done stessa. Ascoltare una storia non equivale a scoprire la storia. Si viene a conoscenza di una sto­ ria, ossia del modo in cui una persona definisce la situazione; questo modo di definirla può costituire una parte importante della situazione, che noi ten­ tiamo di scoprire. Né sono le date a fare la storia. Le date sono segnali discontinui che la storia lascia sul suo cammino : le date sono create dalla storia. Nel corso di un primo intervento può essere molto istruttivo ascoltare le testimonianze delle persone interessate. Pochi psichiatri sono esperti nel sele­ zionare queste testimonianze: molti sono, invece, esperti nell'interpretare le situazioni secondo alcuni miti psichiatrici convenzionali. Ciascuno ha una propria versione per spiegare •il perché e la natura di una situazione. Spesso tali ver­ sioni concordano - ma non per questo hanno mag­ giori probabilità di essere vere. Non esiste una rela­ zione necessaria o costante tra ciò che si fa, ciò che si pensa di fare e ciò che si dice di fare o di aver fatto. Quando la situazione si è « deteriorata » al punto da richiedere l'intervento di un agente esterno, al­ cuni o tutti i protagonisti possono non soltanto igno­ rare essi stessi quale essa sia, ma anche ignorare di ignorarla. Rendersi conto di ciò può generare in loro un grande spavento, ed è abbastanza spaventoso per noi che non partecipiamo « ad » essa nello stesso modo. Se si rendono conto della loro incapacità ad afferrare la situazione, e cominciano a prenderne co­ scienza, si può talvolta sperare che in questo modo

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riusciranno ad affrontarla meglio essi stessi. Ma, spesso, una causa che concorre al deterioramento della situazione, e al tempo stesso un effetto di tale deterioramento è, cosi almeno ci pare, costituita dal fatto che nessuna delle persone coinvolte riesce ad afferrare la situazione, quale noi pensiamo di po­ terla ipotizzare. Ogni formulazione di questo tipo ci invita ad elaborare una teoria sociale della ignoranza

e della mistificazione sociali.

Il campo di nostra specifica competenza è lo stu­ dio e l'intervento in situazioni sociali di proporzioni relativamente ridotte (mieto-situazioni) ; in nessuna situazione sociale possiamo dare per acquisito che gli interessati sappiano quale essa sia: è possibile che alcuni lo sappiano, o forse non lo sanno; in ogni caso noi non possiamo accettare la definizione della situazione, quale ci viene proposta da chi vi è coin­ volto, se non come una testimonianza, che è essa stessa parte della situazione che dobbiamo scoprire. Dobbiamo scoprire quale è la situazione nel corso del nostro intervento in essa. Un modo di scoprire di che natura è una situazione ( cosf ovvio eppure spesso ignorato) è di riunire nello stesso luogo, alla stessa ora, l'insieme delle persone in cui, fin dall'ini­ zio, abbiamo buone ragioni di identificare gli ele­ menti chiave della situazione. Dobbiamo formulare le strategie di intervento possibili e piu appropriate. Il servizio sociale e la psicoterapia del caso individuale non sono che una delle strategie di intervento in quella situazione nel­ la quale è coinvolto quel determinato individuo. Abbiamo a malapena cominciato a catalogare e classificare le strategie di intervento e siamo ancora lontani dall'aver individuato quali possano essere piu adatte a determinate situazioni. Anzitutto non disponiamo neppure di una tipologia sistematica

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delle situazioni, tanto meno di una classificazione dei metodi di intervento. Per esempio : nella definizione delle persone coin­ volte, le situazioni ci vengono presentate nei modi seguenti: Qualcuno ha dei problemi. Nessuno ha dei problemi, ma le cose non van­ no come dovrebbero. 3 · Secondo il parere di ciascuno degli altri, cia­ scun componente del gruppo ha dei problemi. r.

2.

In altri casi nei quali si richiede il nostro inter­ vento le persone coinvolte nella situazione, causa di preoccupazioni e lamentele, sostengono : 4 · Noi non abbiamo problemi, la situazione non

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anormale. Non seccateci, perché intervenite? Tutto va bene per quel che ci riguarda. Ma po­ trebbe non andar bene a parere della polizia o dei vicini.

In base a quali criteri e chi decide se ha « ragio­ ne » questo o quello? È una domanda scorretta? Se ci siamo già imbarcati nella perigliosa impresa di in­ tervenire in una qualsiasi situazione, la situazione è diversa per noi se le persone coinvolte affermano che hanno dei problemi e che la situazione non è normale oppure che una o due di loro hanno dei problemi oppure che nessuno del gruppo ha proble­ mi, ma che la situazione è ingarbugliata. E cosi via. In questa sede e in questo momento posso sol­ tanto accennare al compito fondamentale di trovare modi adeguati per formulare i problemi impliciti in quanto ho detto. Analogamente non posso fare piu che un accenno al complesso tema delle strategie pratiche di inter-

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vento che ci sono aperte. L'esempio seguente dimo­ stra che esistono piu forme di intervento di quanto molti di noi hanno sino ad ora immaginato. Questa storia (non pubblicata) è raccontata da Gregory Bateson e concerne una situazione presen­ tatasi nelle Haway. Eccola nelle sue parole. In una famiglia di dieci figli c'era un ragazzino, il quinto o sesto figlio, che aveva alle spalle una lunga storia di de­ linquenza: entrava e usciva dagli istituti; infine approdò ad un centro psichiatrico di assistenza sociale al caso indi­ viduale ( la Lilikolani Trust), diretta da hawayani. Tra i collaboratori vi sono uno psichiatra occidentale e un giovane assistente sociale il quale si recò a vedere la mamma di questo ragazzo (il padre era morto). L'assistente sociale scopri che la vicenda era collegata a una promessa non mantenuta dalla madre. Quando apprese questo parti­ colare, egli avrebbe voluto subito rinunciare al caso. Gli schizofrenici in preda a delirio sono una cosa e, come tutti sanno, necessitano di cure psichiatriche, ma quando si ha a che fare con una promessa non mantenuta ... Il comporta­ mento del ragazzo appariva « psichiatrico », ma la promessa infranta sembrava qualcosa di diverso. Nelle Haway di fronte ad una promessa non mantenuta si adottano precau­ zioni rituali. In caso contrario un maleficio potrebbe insi­ nuarsi in voi, poiché ogni promessa contiene una maledi­ zione. Per questa ragione non riuscirete ad ottenere da un hawayano la promessa di venire a lavorare nel vostro giar­ dino di sabato e anticamente, nelle Haway, nessuno faceva promesse. Tuttavia, la madre del ragazzo aveva promesso a sua madre, la nonna del paziente, che non si sarebbe mai unita in matrimonio con un uomo divorziato - la nonna aveva sposato un divorziato e il matrimonio si era rivelato un fallimento; per questo motivo aveva strappato alla figlia questa promessa. La nonna era morta - la figlia aveva spo­ sato un divorziato, aveva avuto dieci figli, e uno di essi era ora il paziente.

È interessante, osserva Bateson, che, in generale, questa cultura in disfacimento ricordi che cosa è ma­ le e come si possa incorrere in guai religiosi e so­ prannaturali, ma non sappia ricordare la natura de-

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gli antichi rimedi culturali. Forse noi siamo in con­ dizioni anche peggiori: non sappiamo neppure « dia­ gnosticare » il male. Anticamente nelle Haway il rimedio corretto da appli­ care nelle circostanze sopradescritte era quello di organiz­ zare un « Ho'o Pono Pono », ossia una riunione di tutta la famiglia, che può comprendere numerosi nuclei familiari di fratelli e discendenti sposati. Durante questa riunione cia­ scun partecipante è invitato a dire tutto ciò che rimprovera ad ogni altro membro del gruppo. Dopo di che, colui che presiede la riunione (di solito un sacerdote oppure il capo­ famiglia) chiede a colui che ha parlato : « Lo sciogli da que­ sta offesa? » E l'interrogato deve rispondere : > è il piu raffinato e complesso di cui io sia a conoscenza. Cfr. R. v. SPECK, Psychotherapy of the Social Network of a Schi:r.ophrenic Family, in cFamily Process », vol. VI, n. 2, I966.

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za di una situazione, definita innanzitutto dalle per­ sone che vi sono coinvolte e (o) dai protagonisti di altre situazioni. Non appena ci si accosta ad una si­ tuazione, si interagisce con i suoi elementi e di con­ seguenza, volenti o nolenti, si interviene in essa in un modo o nell'altro. Non appena si interviene nella situazione, essa subisce una modificazione, sia pur minima. Un medico di solito non ha la sensazione di intervenire, in questo senso, nei processi, diciamo, dell'insufficienza cardiaca o della tubercolosi, sem­ plicemente constatando la sintomatologia soggettiva, raccogliendo l'anamnesi, compiendo un esame ob­ biettivo. Egli non dà inizio al suo intervento, non mette in atto il suo proposito di modificazione, fino a che non comincia la cura, dopo aver compiuto tut­ to il necessario per formulare la diagnosi. Invece noi, assistenti sociali e psichiatri, interveniamo e modifichiamo una situazione, non appena ci trovia­ mo coinvolti in essa. Non appena interagiamo cop la situazione, abbiamo già cominciato, volenti o no­ lenti, ad intervenire. D'altra parte, il nostro inter­ vento comincia già a modificare anche noi, non solo la situazione. Ha avuto inizio un rapporto recipro­ co. Il medico e lo psichiatra ancora orientato in sen­ so prevalentemente medico, si valgono di un mo­ dello statico non-reciproco: l'anamnesi segue la sin· tomatologia soggettiva; l'esame obbiettivo segue l'a· namnesi: dopo di che si formula una diagnosi prov· visoria o, se è possibile, definitiva; ancora dopo vie. ne la « terapia » . L'etimologia di diagnosi è dia: attraverso; gnosis: conoscenza di. La diagnosi è un termine che si ad­ dice alle situazioni sociali, se l'intendiamo come un discernere la scena sociale. La diagnosi ha inizio dal momento in cui ci si trova di fronte ad una partico­ lare situazione e non finisce mai. Il modo in cui si

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discerne la situazione modifica la situazione. Non appena comunichiamo in qualsiasi modo (con un ge­ sto, una stretta di mano, un colpo di tosse, un sor­ riso, un'inflessione di voce) ciò che vediamo o cre­ diamo di vedere, anche nella situazione piu rigida ha luogo un mutamento. Possiamo ritenere che un modo per modificare il piu rapidamente possibile e radicalmente, e perti­ nentemente una situazione, sia quello di sottrarre « alla » situazione una o due delle persone coinvolte « in » essa, e di sottoporle a una psico - « terapia » individuale. Sottoponiamo a « terapia » una coppia di coniugi, per indurii a raccontarci come vedono la situazione, e per dire loro ciò che crediamo di intra­ vedere, nella speranza che questo scambio di idee contribuisca a modificare la situazione. È ingenuo aspettarsi che, rivelando ad un individuo il nostro modo di vedere le sue azioni, lo metteremo in grado di mutare comportamento. O forse è solo che non è tanto facile riuscirvi. La diagnosi sociale è un processo : non un mo­ mento singolo. Non è un elemento in un insieme or­ dinato di eventi organizzati in sequenza temporale. Nel modello medico tale sequenza è l'ideale al quale si cerca di avvicinarsi nella pratica: sintomatologia soggettiva, anamnesi, esame obbiettivo, diagnosi, cu­ ra. L'intervento nelle situazioni sociali può presen­ tare fasi diverse che si sovrappongono in contrap­ punto. Non si possono dividere le fasi in spicchi di tempo. Ciò che si vede quando si esamina una situazione si modifica quando si ascolta il racconto dei fatti. Nello spazio di un anno, dopo che si è giunti a co­ noscere un poco le persone e la situazione, la storia avrà subito un certo numero di trasformazioni: spes­ so sarà molto diversa da quella che abbiamo ascol-

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tato un anno prima; né l'una né l'altra versione so­ no necessariamente vere o false. Ciascuna è una sto­ ria diversa, o si sente una storia diversa. Come la storia si modifica con il passare del tempo, cosi ciò che si vede subisce alcune modificazioni. In un mo­ mento particolare si è inclini a definire la situazione in un modo particolare; questa definizione a sua vol­ ta modifica la situazione in modi che siamo forse in­ capaci di definire. Una definizione particolare della situazione può generare storie diverse. Le persone ricordano cose diverse, le ricollegano in modi di­ versi. Ciò ridefinisce la situazione, presentandocela come modificata dalla nostra definizione rispetto a come si presentava originariamente a noi. La nostra definizione è essa stessa un intervento che, introdu­ cendo un fattore nuovo, trasforma la situazione, la quale esige cosi di essere nuovamente definita. In qualsiasi momento, nel processo continuo del discer­ nere, della diagnosi, noi vediamo le cose in un mq­ do particolare, che ci conduce a formulare una defi­ nizione provvisoria, soggetta a revisione alla luce delle trasformazioni che questa stessa definizione in­ duce, sia nella visione del passato sia in quella del futuro. La nostra diagnosi medica invece non in­ fluisce sul fatto che la persona è ammalata di tuber­ colosi. La nostra diagnosi non modifica la malattia. Non trasformiamo un caso di tubercolosi in un caso di insufficienza cardiaca, semplicemente definendolo tale. Ma supponiamo che la nostra diagnosi di una situazione sia: questa è una crisi sociale dovuta al fatto che questo ragazzo si è « ammalato » di schizo­ frenia. Noi dobbiamo curare la « schizofrenia » del ragazzo, e l'assistente sociale deve aiutare i parenti ad affrontare la terribile tragedia di avere in fami­ glia un caso di malattia mentale e cosi via. Questa non è semplicemente una diagnosi medica: è una

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prescrizione sociale. Come già sapete, a mio avviso, si tratta di un'interpretazione grossolanamente falsa della situazione. In ogni caso, siate d'accordo con me oppure no, non vi è dubbio che anche una dia­ gnosi medica di questo genere definisce o modifica la situazione. Tale definizione può persino essere un « fattore eziologico » nella genesi della situazione che abbiamo definito; addirittura nella genesi della « malattia » che abbiamo la pretesa di curare. Le si­ tuazioni sociali sono il terreno ideale della profezia che si autoavvera. Una diagnosi della situazione che si autorealizza tende a produrre la situazione che è stata definita. Non dobbiamo essere ingenui. Chi sono gli esper­ ti in questo campo? Non molti psichiatri per ora. La maggior parte di essi non ha alcuna preparazione sotto questo aspetto e spesso la loro formazione li rende incompetenti al riguardo. Noi tutti dobbiamo continuamente imparare a di­ simparare molto di ciò che abbiamo imparato, e ad imparare che non siamo stati preparati. Soltanto co­ si noi stessi maturiamo e con noi la nostra materia di studio.

Capitolo terzo Lo studio dei contesti familiari e sociali in rapporto alla schizofrenia 1

I. Nell'affrontare il problema delle origini della schi­ zofrenia, sarebbe utile metterei d'accordo su che co­ sa è la schizofrenia. Ma un esame critico delle rela­ zioni presentate a questo solo Congresso ci fa dubi­ tare che vi sia un accordo sulla natura del problema di cui indaghiamo le origini. L'uso del termine schizofrenia non mi soddisfa af­ fatto. Ma sarebbe una bizzarria eliminarlo dal mio vocabolario, dal momento che è sulle labbra di tanti. La maggior parte degli oratori, direi tutti, sem­ brano dare il loro assenso esplicito o tacito a queUa che io considero un'assunzione di principio : vale a dire che la « schizofrenia » è una condizione di cui soffrono le persone definite schizofreniche. Secondo l'opinione di costoro parrebbe che alcuni individui vengano diagnosticati schizofrenici, perché soffrono di schizofrenia. Il problema delle origini della schi­ zofrenia è dunque quello di scoprire perché alcuni e non altri siano affetti da questa condizione. Tale punto di vista comporta alcune difficoltà. Sia che si consideri organica la condizione degli schizofre­ nici, sia che la si consideri sociale, psicologica, geneti­ ca, chimico-molecolare, psicobiologico-sociale, credo di poter affermare imparzialmente che, mentre quasi tutti sono d'accordo sul fatto che esiste una condi1 Testo riveduto di una relazione pubblicata in Tbe Origins of Scbizo­ pbrenia: Proceedings o! the First Rocbester International Congress, marzo 1967, in « Excerpta Medica lnternational Congress Series», n. 151.

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zione patologica denominata schizofrenia, di cui sof­ frono gli schizofrenici, dall'altro lato vi è scarso ac­ cordo sulla natura di tale condizione. Per definirla, infatti, si propone ogni concepibile tipo di condi­ zione, da quella organica a quella socio-funzionale, insieme con ogni concepibile tipo di mescolanza di tutte queste alternative. Tenendo conto di quanto ho detto prima, pro­ pongo di fare un passo indietro e di partire dal se­ guente enunciato. La schizofrenia è il nome in uso

per indicare una condizione che la maggior parte de­ gli psichiatri imputano a pazienti da essi definiti schizofrenici. Questa imputazione consiste in un si­

stema di attribuzioni che ha una coerenza interna variabile, ed è prevalentemente derogatoria. Il piu delle volte essa trova la sua formulazione in un im­ pasto di gergo psichiatrico clinico-medico-biologico­ psicanalitico, che gareggia con il linguaggio stesso della schizofrenia nella sua evidente confusione. Coloro che usano il termine schizofrenia per desi­ gnare certi stati patologici cadono in una spiegazio­ ne autolegittimantesi delle ragioni di tale uso se so­ stengono di servirsi di questo termine per definire uno stato patologico, di cui il paziente soffre, perché il paziente soffre ovviamente di uno stato patologi­ co, qualunque esso sia. Lo stato patologico è o un'as­ sunzione o un'ipotesi. Non si può per ora identifi­ carlo con un fatto, che, sino a questo momento, nes­ suno ha scoperto. Non formulo l'assunzione, né per­ seguo l'ipotesi. (Non posso negare il fatto, dato che, per ora, non esiste alcun fatto da negare) . Ciò suggerisce che cercare le origini della schizo­ frenia è come cacciare una lepre, le cui tracce siano nella mente dei cacciatori. In quali circostanze entra in gioco l'imputazione di schizofrenia? Perché e co­ me viene perpetuata la sua applicaZione, da chi a

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chi, in quali condizioni ' ? Quali funzioni assolve nei rapporti interpersonali e di gruppo? Che cosa acca­ drebbe se si scartasse questo insieme di attribu­ zioni? Un tipo particolare di distacco tra due esseri uma­ ni, l'uno lo psichiatra e l'altro il paziente, è l'occa­ sione ultima, se non l'origine, di una diagnosi di schizofrenia. In una misura piu ampia di quanto supponga la maggior parte di noi, forse sono gli psichiatri, i fami­ liari e le altre persone in genere, che - istituzionaliz­ zando questa attribuzione in un insieme di comporta­ menti organizzati - inducono buona parte dei suc­ cessivi comportamenti piu coerentemente descritti, che caratterizzano la schizofrenia sia acuta sia cro­ nica : questi comportamenti tendono in molti çasi a confermare la diagnosi iniziale z. La ricerca delle origini della schizofrenia esige, invece, che si parta dall'inizio : che si mettano tra , parentesi tutti i presupposti, e si consideri nella sua complessità quella spirale in espansione di distacchi molteplici che si intensificano e di alienazione che si dilata reciprocamente, per cui alla fine un essere umano infila un termometro nella bocca o nell'ano di un altro essere umano, allo scopo di acquisire dati che ne spieghino il comportamento anomalo. C'è voluto piu di un ciclo di esistenze individuali per arrivare alla situazione descritta dal dottor Sha­ kov a questo congresso: un uomo chiede ad un altro 1 Cfr. LAING e ESTERSON, Normalità e follia nella famiglia cit. z Per un approfondimento della sociologia della devianza in rapporto alla imputazione di malattia mentale, dr.: T. SCHEFF, Being Mentally Ill, Aldine Books, Chicago 1967. Cfr. anche E. GOFFMAN, Asylums. Le istitu­ zioni totali: i meccani$mi dell'esclusione e della violenza, Einaudi, Torino 1968; M. FOUCAULT, Storia della follia, Rizzoli, Milano 1963, colloca l'ela­ borazione del concetto di malattia mentale nella prospettiva della storia socio-economica e culturale europea. Gr. anche T. SZASZ, Il mito della malattia mentale, Il Saggiatore, Milano 1968.

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di sottrarre sette da cento, e l'altro risponde: « Non ho fiducia nelle operazioni fatte alla rovescia ». Cosi dicendo, quest'ultimo (il paziente) conferma il pri­ mo (lo psicologo) nella diagnosi, cui già erano per­ venuti i suoi colleghi psichiatri. Abbiamo soltanto cominciato a scalfire in super­ ficie il problema delle origini di questo particolare sistema di attribuzioni morbose tese a classificare un membro di un sistema sociale. Non soltanto dob­ biamo chiederci come e perché in alcune circostan­ ze sia opportuno e, persino, apparentemente, inevi­ tabile, considerare un membro di un gruppo socia­ le come soggetto a una malattia definita schizofre­ nia, ma anche : in quale misura un comportamento diagnosticato schizofrenico diventa piu intelligibile, quando venga situato nel contesto della situazione sociale originaria, alla quale appartiene? Ciò non significa che il comportamento della per­ sona che è sul punto di ricevere una diagnosi che la definisce affetta da questa condizione, non abbia nulla a che fare con l'eziologia della schizofrenia. Si potrebbe dire che il comportamento del paziente (o della paziente) che induce l'attribuzione, è uno dei numerosi fattori eziologici che entrano in gioco nel­ la genesi della schizofrenia. Questo comportamento è una delle « cause » della « schizofrenia ». Ma la interminabile spirale della transazione sociale non ha ancora avuto inizio, e non finisce li. Affrontiamo il movimento susseguente della spi­ rale, quando chiediamo : in quale misura la « schizo­ frenia » è la « causa » del comportamento successivo del paziente? Se preferite : in quale misura un com­ portamento, in cui piu tipicamente si ravvisa un ca­ so grave di schizofrenia, è iatrogeno? Ipotesi: questo insieme di imputazioni tese a clas­ sificare una persona, che viene cosi indotta ad assu-

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mere il ruolo di schizofrenico, generano esse stesse buona parte del comportamento considerato come « sintomatologico» della schizofrenia.

Esperimento: Si prenda un gruppo N di persone considerate normali (secondo criteri prestabiliti). Si trattino come schizofrenici. Si prenda un gruppo X di persone considerate schizofrenici « precoci» (secondo criteri pre­ stabiliti). Si trattino come persone normali.

Predizione: Molti degli appartenenti al gruppo N comince­ ranno a manifestare i primi sintomi della schizofrenia, secondo i criteri prestabiliti. Molti degli appartenenti al gruppo X comince­ ranno ad apparire normali, secondo i criteri prestabiliti.

Esperimento : Si prenda un gruppo di schizofrenici « preco­ ci». I Si trattino da pazzi. II Si trattino, come ciascuno di noi tratta se stesso, da persone normali.

Predizione: Nel primo caso (I) la