Verso la lotta armata. La politica della violenza nella sinistra radicale degli anni Settanta 8815237860, 9788815237866

Perché la sinistra radicale degli anni Settanta fece della violenza uno strumento d'azione determinante e sovente p

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a cura cli

Simone Neri Serneri

il l\tlulino

Il volume è pubblicato per iniziativa e con il contributo dell'Istituto Storico della Resistenza in Toscana

ISBN

978-88-15-23786-6

Copyright © 2012 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i di­ ritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsia­ si forma o mezzo - elettronico, meccanico, reprografico, digitale - se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d'Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie

INDICE

Premessa, di Simone Neri Serneri

p.

7

PARTE PRIMA: DISCUTERE IL CASO ITALIANO

I.

Contesti e strategie della violenza e della militarizzazione nella sinistra radicale, di Simone Neri Serneri

II.

La lotta armata. Forme, tempi, geografie,

Ili.

La strage è di stato. Gli anni Settanta, la violenza politica e il caso italiano, di Mar-

di Monica Gal/ré

co Grispigni

IV.

La piazza e la forza. I percorsi verso la lotta armata dal Sessantotto alla metà degli anni Settanta, di Marco Scavino

11 63

93

117

PARTE SECONDA: RETORICHE E LEGITTIMAZIONE DELLA VIOLENZA

V.

VI.

«Pagherete caro, pagherete tutto!». La violenza politica nelle riviste della sinistra extraparlamentare, di Silvia Casi/io La retorica della violenza nella stampa della sinistra radicale (1967 · 77), di Barbara Armani

VII.

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231

La legittimazione della violenza. Ideologie 5

e tattiche della sinistra extraparlamentare, di Isabelle Sommier

PARTE TERZA: LUOGHI, PRATICHE, CONTESTI

VIII. La lotta armata e la «questione delle car­ ceri», di Christian G. De Vito

IX.

Schedare il nemico. La militarizzazione della lotta politica nell'estrema sinistra (1969-75), di Guido Panvini

X.

Percorsi di micromobilitazione verso la lotta armata, di Lorenzo Bosi e Donatella della Porta

XI.

Per una geografia della lotta armata, di Vincenzo Filetti

XII. Genova. La lotta armata in una città ope­ raia e di sinistra, di Davide Serafino Indice dei nomi Gli autori

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PREMESSA

All'origine di questo volume sta l'esigenza di affron­ tare la storia degli anni Settanta, e in particolare la dif · fusione in quel decennio di una violenza politica senza precedenti - per intensità, organizzazione e continuità - dalla fine della seconda guerra mondiale, superando la stagione del primato delle pur indispensabili ricostruzioni a carattere giornalistico e della memorialistica. Affiancandosi a quanto altri studiosi vanno facendo da alcuni anni, si è inteso ripartire dalla ricerca storica, non solo per fondare la conoscenza sull'indagine docu­ mentaria, ma per ridefinire - anche nel confronto con le scienze sociali - categorie interpretative e periodizzazioni altrimenti ancora troppo interne alle memorie dei prota· gonisti e alle prospettive coeve. Parte dei saggi qui presentati costituiscono la rielabo­ razione, spesso sostanziale, di alcune delle relazioni pre· sentate al convegno Violenza politica e lotta armata nella sinistra italiana degli anni Settanta, organizzato dall'Isti· tuto Storico della Resistenza in Toscana e svoltosi a Fi­ renze il 27 e 28 maggio 2010. Il programma del conve­ gno, realizzato selezionando le risposta a un apposito cali /or papers, rifletteva lo stato e in parte anche le difficoltà della ricerca, ragion per cui solo alcuni dei partecipanti hanno accolto l'invito a trasformare le loro relazioni in saggi più maturi. A essi sono stati affiancati alcuni altri saggi, redatti appositamente, per allargare l'impostazione del discorso avviato, certo non a integrare o completare un piano di lavoro che attende ben altri sviluppi. Il volume, come il convegno, si concentra sulla sini­ stra, in particolare quella radicale, non tanto per la sua pur rilevante responsabilità, ma per una questione di me· todo. Pur consapevoli del ruolo cruciale di altri soggetti, 7

riteniamo necessario considerare preliminarmente e in quanto tali le modalità e il ruolo che la questione della violenza politica e della «lotta armata» ebbe in quello spazio politico e culturale. Perché non si trattò di moda­ lità né di un ruolo secondari, eterodiretti, o meramente reattivi. Occorre considerare, insomma, quanto e perché la violenza politica, poi la militarizzazione del conflitto e infine l'organizzazione terroristica - per quanto tra loro distinte - appartennero alla storia della sinistra italiana di quegli anni. La partizione del volume risponde, pur sommaria­ mente, a una possibile articolazione dell'agenda di ricerca e ha al proprio centro il nesso tra violenza politica e ge­ nesi della lotta armata. Un nesso variamente declinabile, come i saggi dimostrano, ma che forse ha il suo fuoco principale proprio nelle ragioni e modalità di transizione da un esercizio generico di pratiche violente all'adesione a progetti e organizzazioni finalizzati alla militarizzazione del conflitto politico. I saggi della prima parte affrontano da varie angola­ ture alcuni dei caratteri distintivi e degli interrogativi di fondo posti dall'esperienza italiana: dalla questione della periodizzazione alle peculiarità rispetto ad altri conte­ sti europei, all'interazione tra i diversi soggetti politici e istituzionali fino ai nessi ravvisabili tra pratiche violente, progetti politici e dinamiche di militarizzazione. Nella seconda parte l'attenzione si concentra sulle modalità discorsive di narrazione e legittimazione della violenza e sulle progettualità politiche che intesero connettere quelle retoriche a determinati obiettivi e strategie conflittuali. La terza parte, infine, esplora - forzatamente in un numero limitato di casi di studio - la possibilità, in realtà la ne­ cessità, per la ricerca storica e politologica di verificare interrogativi, categorie analitiche e ipotesi interpretative dentro la pluralità dei contesti geografici, sociali e rela­ zionali che concorrevano a costituire il variegato universo sociale, politico e culturale dell'Italia degli anni Settanta. SIMONE NERI SERNERI

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PARTE PRIMA

DISCUTERE IL CASO ITALIANO

SIMONE NERI SERNERI CONTESTI E STRATEGIE DELLA VIOLENZA E DELLA MILITARIZZAZIONE NELLA SINISTRA RADICALE Molte ragioni stanno all'origine dell'interesse mediatico come di quello scientifico per la diffusa violenza politica e la persistente attività delle organizzazioni politiche dedite alla lotta armata o altrimenti al terrorismo 1 negli anni Set­ tanta. Un interesse di portata tale da dare parvenza di fon­ damento alla definizione di quel decennio come gli «anni di piombo», in realtà etichetta nebulosa che tutto allinea alla dimensione omicida e pressoché nulla distingue tra i percorsi, gli intenti e le pratiche che alimentarono la vio­ lenza politica, la lotta armata e il terrorismo. Recuperare le ragioni più profonde di quell'attenzione mediatica è premessa necessaria di una ricerca storica solo di recente avviata e per molti aspetti ancora da in­ traprendere. Sommariamente, esse rimandano anzitutto al rilievo e all'impatto, senza precedenti in tempo di pace, della violenza politica e della militarizzazione del con­ flitto politico sulle vittime e più largamente sulla vita ci­ vile2. Non minore è l'interesse per il fenomeno in sé, le I Consapevole dell'irrisolta valenza ideologica di queste definizioni, in questa sede mi attengo a una distinzione sommaria, considerando or­ ganizzazioni di lotta armata quelle formazioni che attribuirono un valore strategico e dunque prioritario alla militarizzazione del conflitto politico contro avversari definiti e invece terrorismo quelle azioni omicide volte a suscitare insicurezza nell'opinione pubblica in modo indifferenziato, per quanto tale distinzione si sfumi in quei numerosi casi in cui azioni militari dirette contro singoli awersari avevano anche un evidente scopo intimidatorio contro una ben più vasta cerchia di soggetti. 2 Le vittime della violenza politica tra il 1 %9 e il 1982 ammontereb ­ bero a 1.119, di cui 351 morti, a loro volta distinguibili in 138 vittime di attentati stragisti, 154 vittime di attacchi mirati, 39 terroristi morti in conflitti a fuoco, e 20 vittime accidentali, secondo le stime riportate in D. della Porta e M. Rossi, Cifre crudeli. Bilancio dei te"orismi italiani, Bologna, Istituto Carlo Cattaneo, 1984, pp. 58-63, ove pure si distingue

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sue cause, la cultura sociale e politica e le motivazioni e i percorsi di vita di chi scelse la strada della lotta armata. Ancora, ma non ultimo, quelle ragioni rimandano al rap­ porto tra quelle scelte estreme e la storia della sinistra politica, sociale, sindacale, per quanto ebbero in comune e vicendevolmente si condizionarono. 1. Sistema politico e dinamiche sociali Ma già questi ultimi quesiti evocano questioni di ben più larga portata, direttamente attinenti alla storia dell'Italia repubblicana. È ben noto che nel nostro paese la violenza politica si dispiegò con intensità e durata del tutto peculiari nello scenario europeo, eccezion fatta per le assai particolari realtà irlandese e basca, e che ne trasse origine un novero senza dubbio cospicuo di formazioni armate, complessivamente attive per un elevato numero di anni con il coinvolgimento, variamente graduato nel tempo e nelle responsabilità, di una vasta schiera di mi­ litantP. Tali peculiarità a loro volta chiamano in causa i tra le 360 e le 758 vittime (morti e feriti) imputabili rispettivamente a formazioni cli sinistra e formazioni di destra, riducibili rispettivamente a 300 ( 122 morti) e 39 (31 morti) qualora si escludano le vittime di stragi, quelle incidentali o durante tentativi di arresto e i terroristi stessi. Ana· logamente si indica in 128 i morti causati dalle organizzazioni armate di sinistra tra il 1969 e il 1988, il 60% circa dei quali appartenenti alle diverse forze di polizia, in Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa perduta, Roma, Sensibili alle foglie, 2009, pp. 493 ss., ove pure sono riportate brevi schede biografiche cli quei morti e dei terroristi deceduti. Cfr. an­ che le schede biografiche raccolte in Presidenza della repubblica, Per le vittime del terronsmo nell'Italia repubblicana, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2008. 3 Pur tenendo conto dei diversi criteri adottati, e in specie del fat­ to che parte non marginale degli inquisiti furono assolti e dunque in misura da appurare anche da considerarsi estranei a ogni esercizio di violenza, si consideri che in Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa per­ duta, cit., pp. 483 ss., si riporta la cifra di 4.087 «inquisiti», ma senza dubbio si tratta di incarcerati per «banda armata, associazione sovver­ siva o insurrezione» tra il 1969 e il 1989, dei quali il 38% minori di

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tratti specifici assunti nel nostro paese dalla mobilitazione giovanile e sociale sviluppatasi in Europa e negli Stati Uniti a partire dalla seconda metà degli anni Sessanta e dunque i contesti e le culture sociali che alimentarono quei movimenti e il loro radicalismo. Pure chiamano in causa, per altri versi, l'adeguatezza delle classi dirigenti nel fronteggiare e governare le aspettative e, sovente, i di­ sagi e le tensioni sociali scaturiti da quelle che - non solo con il senno di poi - furono trasformazioni epocali degli assetti del paese. Perché quelle tensioni riflettevano certo l'inadeguata redistribuzione dell'accresciuto benessere, ma pure sca­ turivano da cambiamenti profondi delle sue strutture so­ ciali, il cui baricentro era andato rapidamente ridefinen­ dosi nel rapporto tra mondo urbano e lavoro industriale, scolarità di massa e condizione giovanile, diffusione delle culture del consumo e della comunicazione e affranca­ mento di soggettività finallora subalterne. Ne furono investiti i presupposti, non tanto di gerarchie e consue­ tudini sociali già travolte dalla cultura di massa, quanto del sistema politico, della sua rappresentatività e dunque della sua democraticità, intesa come capacità di governare coniugando equamente libertà e coesione sociale4 • Difatti, il protagonismo di nuovi e molteplici soggetti e aggrega­ zioni collettive e l'emergere prorompente di inedite e in25 anni e il 40% minori di 35 al momento dell'arresto o inquisizione e, dal punto di vista occupazionale (sul 69% del totale), il 16% stu­ denti e il 16% operai. Già D. della Pona, Il te"orzsmo di sinistra, Bo­ logna, Il Mulino, 1990, pp. 139 ss., aveva censito tramite gli atti giu­ diziari 1.137 membri di «organizzazioni clandestine», dei quali il 25% donne, il 36,4% e il 34,5% rispettivamente nati tra il 1950 e il 1955 e tra il 1955 e il 1960, nonché (limitatamente al 39,5% del totale) il 40% operai dell'industria e il 15% studenti. 4 Questioni su cui aveva già richiamato l'attenzione A. Melucci, L'invenzione del presente. Movimenti, identità, bisogni individuali, Bo­ logna, Il Mulino, 1982. Una disamina delle analisi del fenomeno terro­ ristico svolte pressoché a ridosso degli eventi è in G.M. Ceci, Interpre­

tazioni del te"onsmo: il primo dibaltito scientifico italiano (1977-1984),

in «Mondo contemporaneo», 3, 2009.

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numerevoli istanze di libertà e di tutela, solo in parte for­ malizzabili come altri diritti individuali e collettivi, mise in questione le procedure consolidate di formazione e integrazione della rappresentanza sociale che avevano fi. nallora sostenuto la centralità dei partiti di massa e delle organizzazioni di interesse che li fiancheggiavano. Promotori e strumenti dell'avvento della democrazia nel nostro paese, sul finire degli anni Sessanta i partiti di massa soffrivano da un lato il loro insediamento tardivo al centro del sistema politico, condizionato dalla vittoria del fascismo nel primo dopoguerra e dal preminente ca­ rattere rurale del paese, e dall'altro il rapido compiersi della transizione a una modernità urbana-industriale che, coniugando alcuni tratti tipici del fordismo con l'afferma­ zione crescente di una socialità acquisitiva e consumistica, erodeva i presupposti stessi del loro radicamento sociale e le logiche organizzative della loro rappresentatività po­ litica. Il divampare della violenza politica negli anni Settanta non fu l'effetto, ma certamente il sintomo estremo di una crisi del sistema politico imperniato sui partiti di massa e, al tempo stesso, il banco di prova della loro capacità di rinnovamento. A conti fatti, si rivelò però piuttosto l'alibi per un'occasione drammaticamente mancata, come avrebbe dimostrato l'evoluzione, o involuzione, politica e istituzionale dei decenni successivi. In sostanza, affrontare la questione della violenza politica e della sua militarizzazione significa gettare uno sguardo, certo da un punto di vista estremo, sugli isti­ tuti, le politiche e le pratiche della giovane democrazia italiana, tanto sul versante della gestione dell'ordine pub­ blico, quanto su quello del rapporto tra istituzioni e so­ cietà civile e, come sopra detto, sulla vitalità e l'efficacia del sistema politico a base partitica in un decennio cru­ ciale della storia repubblicana. E, in modo solo apparen­ temente meno diretto, investe la questione dei diritti di cittadinanza, tanto sul versante del rapporto tra società e stato, ove certo pesò l'ombra lunga del fascismo, quanto su quello delle relazioni tra imprenditori e lavoratori, 14

anch'esse all'epoca per molti aspetti tutt'altro che equi­ librate, come si poteva facilmente constatare anche solo gettando lo sguardo oltreconfine. In altri termini, se negli anni Settanta fu all'ordine del giorno anche in Italia una profonda riconversione del sistema economico e politico-istituzionale che aveva pla­ smato lo stato nazionale nei decenni postbellici, quanto la militarizzazione del conflitto sociale e politico e la sua gestione da parte delle forze di governo valsero ad argi­ nare la crisi di prospettiva e di proposta in cui versava il partito di maggioranza e quanto costrinsero l'opposizione comunista a legittimarsi sul terreno della difesa delle isti­ tuzioni anziché su quello delle riforme economiche e so­ ciali? Quanto l'enfasi sulla minaccia terroristica rinsaldò il rapporto tra istituzioni e società civile, a scapito tuttavia di una più decisa valorizzazione di quest'ultima e a van­ taggio di un sistema partitico sempre più pervasivo, oltre­ ché di forze e organizzazioni criminali, come indicato dal ruolo assunto dalla loggia massonica P2 e dall'espansione della mafia e delle camorra? Quanto le pur comprensi­ bili preoccupazioni per la tenuta del sistema democratico contribuirono ad arginare l'erosione del consenso alle forze moderate, come divenne evidente nelle prove elet­ torali della seconda metà del decennio, e a procrastinare e orientare il dibattito sulle possibili riforme istituzionali? Quanto, infine, la ristrutturazione del sistema produttivo poté procedere attraverso la compressione delle forze del lavoro, spesso secondo logiche punitive, piuttosto che at­ traverso una politica industriale capace di contenerne costi sociali e di preparare un nuovo ciclo espansivo?' ' Tra le molte riflessioni sulla crisi italiana degli anni Settanta, e in particolare sui nessi tra dinamiche sociali e sistema politico-istituziona­ le, si veda anzitutto per l'ampiezza delle questioni sollevate e le condi­ visibili suggestioni interpretative F. De Felice, Nazione e crisi: le llnee di frattura, in Storia dell'Italia repubblicana. 3. I.:Italta nella crisi mon­ dzale. L'ultzmo ventennio, vol. I: Economza e società, Torino, Einaudi, 1994; cfr. anche tra gli altri S. Lupo, Il crepuscolo della Repubblica, in Aa.Vv., Lezioni sull'ltalza repubblicana, Roma, Donzelli, 1994; P. Scop-

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2. Il Sessantotto: soggettività e rivoluzione Passaggio centra1e in questa relazione tra dinamiche sociali e sistema politico fu il Sessantotto6, non perché sia il punto di partenza di questa storia, tanto più della spe­ cifica questione della violenza e della lotta armata, bensì perché fu crocevia, crogiolo e punto di non ritorno di molte diverse esperienze che da allora mutarono segno e portata. Il '68 giovanile, ben oltre che studentesco, e pure il '69 operaio non si limitarono a riecheggiare mobilitazioni dispiegatesi altrove, bensì con esse interagirono e si fe­ condarono, accomunati da alcuni rilevanti dati strutturali e culturali: la sinossi dei tempi di maturazione e mobili­ tazione, radicata nei rispettivi anni Sessanta, l'orizzonta­ lità generazionale ora assurta a frattura politica dentro la storia del Novecento postbellico, lo spaesamento indotto dalla modernizzazione neocapitalistica e consumistica e il rovesciamento in chiave antiautoritaria della emergente cultura dell'individualismo. D'altronde il carattere fondante del Sessantotto risie­ dette nel proporre la dimensione del sé - la soggettività individuale e collettiva - come criterio di valutazione sia dell'organizzazione della quotidianità sia della legittimità delle istituzioni politiche e sociali. Ma quella soggetti­ vità - il punto è cruciale - era storicamente radicata e ancorata negli orizzonti problematici, nei valori, nei pro­ getti del proprio tempo. Lungi dall'essere un accidente, il Sessantotto fu un'epifania, il manifestarsi di domande, istanze e tensioni, scaturite dagli stessi processi che avepola, Una crisi politica e istituzionale; P. Craveri, Partiti e «democrazia speciale»; N. Tranfaglia, Parlamento, partiti e società civile nella crisi repubblicana degli anni Settanta, tutti in G. De Rosa e G. Manina (a cura di), L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, voi. I: Si­ stema polittco e istituzioni, Saveria Mannelli, Rubbettino, 2003. 6 Più ampiamente in S. Neri Serneri, Gli «anni del '68». Radicali­ smo e modernità, in M. De Nicolò (a cura di), Dalla trincea alla piazza. L'i"uzione dei giovani nel Novecento, Roma, Viella, 2011.

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vano trasformato radicalmente le società postbelliche e costretto le sue culture, quale che fosse il loro universo valoriale e segno politico, a rifondarsi, con molto affanno e malcelate incertezze, per dare un senso e un ordine al «mondo nuovo» che andava avvolgendo e travolgendo le vite di milioni di italiani. Tanto laddove resistevano le strutture, gerarchie e men­ talità più retrive e conservatrici, quanto laddove invece la modernità «neocapitalistica» si era più linearmente af­ fermata e il paternalismo e il tradizionalismo declinavano più rapidamente, tensioni e contraddizioni scaturivano in primo luogo dalle frustrazioni e dalle persistenti inegua­ glianze cui sovente soccombevano le aspirazioni alla pro­ mozione sociale. Soprattutto erano attizzate dal delinearsi di gerarchie e poteri sociali nuovi, ma non meno coercitivi dell'autonomia individuale e degli affermati ideali di tra­ sparenza, eguaglianza e democrazia. Quelle che apparivano come le promesse mancate della modernità si sommavano così - e l'Italia della massiccia deruralizzazione, delle mi­ grazioni interne e dell'urbanesimo malgovernato ne fu forse l'esempio di maggior rilievo7 - al permanere o rinno­ varsi di antichi disagi e contrasti sociali. Alle gerarchie vecchie e nuove, ai tradizionali o rinno­ vati strumenti di disciplinamento sociale il movimento dei giovani - studenti, ma anche lavoratori8 - rispose, difatti, 7 Un quadro sintetico, ma assai efficace è in E. Santarelli, Storia mttca della repubblica. L'Italia dal 1945 al 1994, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 90-96; cfr. anche la ricostruzione di G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni Cinquanta e Sessanta, Roma, Donzelli, 1996, e Id., Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2003. 8 G.-R. Horn, The Spiri/ of '68. Rebellion in Western Europe and North Amen"ca, 1956-1976, Oxford, Oxford University Press, 2007, pp. 93 ss.; cfr. anche B. Gehrke e G.-R . Horn (a cura di), 1968 und d,e Arbeiter. Studten zum «proletarischen Mai» in Europa, Hamburg,

Vsa, 2007. Sul caso italiano cfr. tra l'altro D. Giachetti e M. Scavino,

La Fiat in mano agli operai: autunno caldo del 1969, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1999, e A. Sangiovanni, Tute blu. La parabola opera­

ÙJ

nell'Italia repubblicana, Roma, Donzelli, pp. 123 ss.

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con la parola d'ordine dell'antiautoritarismo, in nome della libertà e dell'autonomia individuale, di ciascun indi­ viduo e dunque anche delle comunità e collettività. Non si trattò, peraltro, di un mero conflitto generazionale, bensì del manifestarsi della valenza a un tempo radicale e universale che la soggettività giovanile era in grado di esprimere, profondamente innovandoli, nei diversi ambiti conflittuali aperti o latenti nelle società dell'epoca, a par­ tire da quelli di classe e di genere�. Per questo, l'antiau­ toritarismo rivolto contro le gerarchie considerate ali'ori­ gine dell'oppressione sociale assunse rapidamente una declinazione egualitaria: alle differenze enfatizzate dalle gerarchie per legittimare la propria autorità si contrap­ pose l'eguaglianza tra gli individui. E la ricordata valenza radicale e universale della mobilitazione giovanile diffuse il conflitto in tutti quei contesti ove si percepiva l'esi­ stenza di strutture coercitive dell'autonomia individuale e collettiva: dalla famiglia alla scuola, dai luoghi di lavoro alle istituzioni pubbliche, per allargarsi progressivamente a tutti gli spazi di organizzazione della vita sociale, dalla produzione culturale alla sanità, dall'amministrazione della giustizia alle carceri, dalle relazioni di coppia alle associazioni politiche. Né va trascurato come, a fronte delle retoriche pro­ gressiste, pacifiste e universaliste, che nel corso degli anni Sessanta erano subentrate ai toni bellicisti, il ripro­ dursi di virulenti conflitti locali nei contesti postcoloniali parve confermare tanto il persistente primato del ricorso alla guerra come strumento per imporre l'egemonia delle potenze occidentali, quanto la «validità limitata» dei prin­ cipi di democrazia e sovranità popolare da queste pero­ rati. Questa contraddizione sostanziale e quella condizione di oppressione e di guerra erano imputate - in Italia come altrove in Europa e negli Stati Uniti - al fatto che 9 Come sottolinea D. Giachetti, Un Sessantotto e tre conflitti. Gene­ rai.ione, genere, classe, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 2008.

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le istituzioni e le forze politiche egemoni, pur vittoriose sul fascismo storico, parevano rispondere ancora una volta ad élite più o meno ristrette, anziché alle istanze espresse dalle maggioranze popolari. Enfatizzando le dif­ ficoltà, se non la crisi, delle tradizionali capacità di rap­ presentanza e integrazione dei partiti di massa a fronte della complessità e della pluralità sociale veicolate dalla modernizzazione «neocapitalistica», queste valutazioni fortemente critiche alimentavano un approccio all'azione politica imperniato sul primato della prassi, ritenuto indi­ spensabile per rilanciare l'autonomia sociale e per supe­ rare la discrasia tra presente e futuro considerata all'ori­ gine della riproduzione di strutture di potere - anche partitiche - prive di legittimazione funzionale e sociale. Nel tentativo di superare quelle discrasie ci si affidò a modalità di iniziativa politica - solo sommariamente riconducibili all'azione dal basso e allo spontaneismo - che traducevano in pratiche «di massa», e dunque ge­ neralizzavano, istanze critiche formulate nei tardi anni Cinquanta e più decisamente nel decennio successivo da esperienze minoritarie di avanguardie attive in ambiti di­ versi, che spaziavano dalle sinistre cosiddette «critiche» o «neomarxiste» al sindacalismo di base, dai gruppi pacifi­ sti a quelli per i diritti civili o per il sostegno ai movi­ menti anticolonialisti e terzomondisti, dalle comunità ec­ clesiali più innovatrici o critiche alle avanguardie culturali e artistiche 10• Soprattutto, il movimento operò sovente anche una radicalizzazione e una semplificazione di molte di quelle istanze, perché, con la forza della dimensione di massa,

°

Cfr. C. Adagio, R. Cerrato e S. Urso (a cura di), Il lungo decen· '68, Verona, Cierre, 1999, ma anche N. Fasano e M. Renosio (a cura di), I giovani e la politica. Il lungo '68, Torino, Gruppo Abele, 2002, e i materiali raccolti in N. Balestrini e P. Moroni (a cura di), L'orda d'oro 1968-1977. La grande ondata rivolu1.1onana e creatzva, politica ed esistenuale, Milano, Feltrinelli, 1988. Per una pa­ noramica europea cfr. Horn, The Spirit o/ '68, cit. 1

mo. J..:ltalia prima del

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avallò il primato della prassi e dunque rafforzò la con­ vinzione - già insita nelle precedenti esperienze di avan­ guardia - che gli obiettivi potessero realizzarsi perché «anticipati» nel corso stesso dei conflitti sociali. Questi criteri di condotta - nient'affatto invalidati dagli insi­ stiti richiami a un olimpo ideologico variegato e sovente contraddittorio - esprimevano, anche nella rottura delle usuali prospettive temporali della politica, la diffusa per­ cezione delle potenzialità di cambiamento offerte dalla società dell'epoca 11• Conseguente fu quindi l'ulteriore passaggio a considerare la conflittualità sociale lo stru­ mento utile, non tanto a rafforzare la propria forza con­ trattuale, quanto a ampliare costantemente il novero degli obiettivi raggiungibili. In Italia, tutto ciò trovò espres­ sione nella più ampia mobilitazione sociale, che fin dal 1967 e con più forza dalla primavera-estate 1969 investì le fabbriche e progressivamente anche altri ambiti sociali, e nella quale il movimento giovanile e studentesco con­ fluì, ritenendo non a torto che quelle potenzialità di cam­ biamento stessero rapidamente concretizzandosi. L'interazione tra aspettative di cambiamento radicale e capacità di mobilitazione e di «anticipazione» degli obiettivi alimentò con forza crescente una prospettiva po­ litica di intonazione rivoluzionaria, intesa come possibilità di giungere in tempi relativamente brevi a un rovescia­ mento sostanziale dell'ordine politico, sociale e culturale dominante. Quella prospettiva cercò sovente sanzione e conferma nelle varie declinazioni del marxismo radicale e parve legittimata dal successo di alcune esperienze in­ surrezionali «terzomondiste». In realtà, essa espresse e trasse primariamente vigore - ben più che dall'ideologia f e prepotente desiderio di cam- appunto da un difuso A. Cavalli e C. Leccardi. Le culture giovanili, in Storia dell'Ita­ lia repubblicana 3. /;Italia nella crisi mondiale. /;ultimo ventennio, voi. II: Istituzioni, politiche, culture, Torino, Einaudi, 1997, pp. 787 ss.; cfr. anche R. Lumley, Sta/es o/ Emergency: Cultures o/ Revolt in Italy /rom 1968 to 1978, London, Verso, 1990; trad. it. Dal '68 agli anni di piom­ bo. Studenti e operai nella crisi italiana, Firenze, Giunti, 1998. 11

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biamento, nutrito, in quell'Italia appena uscita dal mondo rurale, dalle valenze palingenetiche largamente sedimen­ tate e diffuse dalla cultura cattolica come da quella co­ munista e rilanciate proprio dall'esperienza e dagli esiti del boom economico, che aveva dimostrato la possibilità di un cambiamento repentino e radicale, ma che le aveva anche rimotivate, invocandole a rimedio delle iniquità morali e sociali che ne erano scaturite. L'interazione tra quelle convinzioni e attitudini e la crescente mobilitazione sociale generò molte delle con­ traddizioni che costellarono gli sviluppi e gli esiti del mo­ vimento nella sua più lunga durata. La più drammatica fu certo quella concretizzatasi nel crescente, poi diffuso e, infine, per taluni, privilegiato ricorso alla violenza. Infatti, la diffusa, quanto talora generica, adesione a una prospet­ tiva politica rivoluzionaria trasse con sé anche l'accetta­ zione implicita o esplicita della violenza come strumento ordinario e magari necessario di lotta politica. Non signi­ ficava però - così come, d'altra parte, non era accaduto per la base comunista degli anni Cinquanta, anch'essa ancora largamente imbevuta di aspettative rivoluzionarie - accettare di conseguenza una strategia insurrezionale, tanto meno predisporsi a entrare in una organizzazione di lotta armata o terroristica 12• Molte e diverse, anche nel tempo, furono le moda­ lità di esercizio della violenza e la strumentalità a esse attribuita rispetto alle finalità del movimento e poi, più precisamente, delle organizzazioni politiche che intende­ vano farsene parte dirigente. Del pari, molte e diverse 12 Tende invece a sfumare queste distinzioni, indicando nella vo­ cazione rivoluzionaria la matrice della lotta armata, A. Ventrone, Dal Palau.o d'inverno ai quartien· liberati. La trasformazione dell',dea di n'vo­ luzione, in Id. (a cura di), I dannati della rivoluzione ViolenZJJ politica e stona d'Ital,a negli anni Sessanta e Settanta, Macerata, Eum, 2010. In­ teressanti suggestioni sugli orizzonti di aspettativa, i linguaggi e le con­ cettualizzazioni rivoluzionarie del Sessantotto e dei movimenti da esso scaturiti, in G. Parrinello, La sinistra rivoluzionaria dopo 11 Sessantotto. Esperienze, orizzonti, linguaggi, in «Storicamente.org», 4, 2008.

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furono le condizioni e le pulsioni che incentivarono il ri­ corso alla violenza. Senza dubbio molto pesò, in seno al movimento, la radicalizzazione del primato della prassi e del soggettivismo, spinta fino alla legittimazione della ri­ soluzione violenta dei conflitti. Una radicalizzazione nu­ trita dal tragico intersecarsi di motivazioni politiche e culturali, tra le quali primeggiarono quelle alimentate dal diffondersi di un'accezione drammaticamente solipsi­ stica della cultura della militanza, che spinse a esaltare in chiave apertamente offensiva, anche quando sorretta da motivazioni «difensive», il paradigma del conflitto amico­ nemico, largamente egemone nella tradizione politica no­ vecentesca. Certamente agirono impulsi vitalistici, irrazionali e anche estetizzanti, mossi da una ricerca di senso affine a quella di altri, magari opposti raggruppamenti politici coevi o comunque novecenteschi accomunati dall'avver­ sione alla liberaldemocrazia 13, così come molto - e talora anche in modo determinante - pesarono nelle scelte e nei percorsi individuali i vincoli di solidarismo amicale e di gruppo 1 4 . Tuttavia, porre quella ricerca di senso e quella «ipertrofia del sentire» a fondamento del ricorso alla vio­ lenza non solo non rende ragione del perché tali manife­ stazioni si rinnovarono nel contesto italiano degli anni Set­ tanta, ma presuppone una connessione tra l' «ipertrofia del sentire» e la «ricerca di senso» da un lato e la violenza dall'altro che, per quanto reale, non può considerarsi ob­ bligata e dunque deve essere spiegata, così come non è obbligata l'antitesi di quelle pulsioni alla liberaldemocra­ zia, potendosi certamente considerare la «ricerca di senso» e l'«ipertrofia del sentire» attraverso la ricerca del piacere n Cfr. A. Ventrone, !.:assalto al cielo. Le radic della violenza poli­ tica, in De Rosa e Monina (a cura di), L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, cit. Una interpretazione estrema di un approccio fondato sul primato dell'ideologia e della dimensione esistenziale è in i A. Orsini, Anatomia delle Brigate Rosse. Le radic ideologiche del te"o· nsmo rivolu1.ionano, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2009. 14 Cfr. della Porta, Il te"orismo di sinistra, cit., pp. 133 ss., 165 ss. i

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e l'esaltazione del corpo come modalità di presenza nel mondo manifestazioni tipiche della modernità definita dai consumi, anche nei sistemi politici liberaldemocratici. Piuttosto, come cercheremo di mostrare più avanti, il fondamento primo del ricorso alla violenza risiedeva nella convinzione che essa fosse lo strumento necessario, e per taluni indispensabile, per affermare la propria soggettività sociale e dunque il proprio diritto contro un potere con­ siderato ingiusto e perciò autoritario. Non senza analogie con la secolare tematica cattolica della «guerra giusta», la violenza era legittimata con la necessità di tutelare un diritto ritenuto moralmente superiore e finalizzata a in­ frangere le presunte gabbie del disciplinamento sociale. Una prospettiva che almeno in prima istanza era ben lungi dall'essere nichilista e distruttiva, persino quando affermava il «rifiuto del lavoro», avversato in quanto tale perché ritenuto inevitabilmente subalterno ai processi di valorizzazione produttiva capitalistici, ma senza che ciò implicasse una avversione alla produzione sociale della ricchezza. E, si noti, un punto di vista ben diverso da quello del radicalismo di destra, che nell'esercizio della violenza vedeva essenzialmente la manifestazione naturale di un potere gerarchicamente sovraordinato. Che la cultura di sinistra muovesse da quel punto di vista lo suggeriscono non solo le ricorrenti considerazioni circa la specularità tra potere e violenza e la concezione del diritto formale come sanzione di quella specularità, da cui si faceva discendere il necessario rovesciamento di quel rapporto. Ma lo suggerisce soprattutto la persistente discussione, aperta all'interno dei gruppi che pure consi­ deravano la violenza una risorsa strategica, attorno alla le­ gittimazione dei livelli di violenza praticabili, fino all'omi­ cidio, e di chi personalmente esercitava quelle violenze. O'altra parte, quella discussione rimase aperta anche dopo, e nonostante, le tragiche brutalità omicide spesso sempre più pauperamente motivate degli ultimi anni Set­ tanta e dei primi anni Ottanta e valse ad avviare un per­ corso critico sull'esperienza della lotta armata e più in ge­ nerale sulla legittimità della violenza, del quale la vicenda

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politico-giudiziaria della cosiddetta dissociazione fu solo uno dei momenti più significativi.

3. Un passo indietro. Il caso italiano, la violenza e il Ses­ santotto

Una riflessione storiografica sull'esercizio della vio­ lenza 1 ' dovrà spingersi oltre le opposte, ma riduttive, tendenze ad addebitarla all'esaltazione ideologica o alla degenerazione meramente criminale o, invece, a consi­ derarla esito pur deprecabile delle contingenze politiche. Del pari, non è certo sufficiente evidenziare le continuità, 1'

Per alcuni riferimenti, nient'affatto esaustivi, cfr. I. Sommier, La

violence politique et son deuil. L'apres '68 en France et en Italie, Ren­ nes, Presse Universitaire de Rennes, 1998; Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 217 ss., 273 ss.; A. Bravo, Noi e la violen1.11. Trent'anni per pensarci, e E. Betta e E. Capussotti, «Il buono, il brutto e il cattivo»: l'epica dei movimenti tra storia e memoria, entrambi in A. Bravo e G. Fiume (a cura di), Anni Settanta, in «Genesis. Rivista della Società Italiana delle Storiche», III/1, 2004; B. Armani, Italia anni settanta. Movimenti, vio/en1.11 politica e lotta armata tra memoria e rappresenta1.ione storiografica, in «Storica», 32, Xl, 2005; M. Galfré, L'insosteni­ bile leggerew del '77. Il trentennale tra nostalgia e demoniu111.ioni, in «Passato e presente», 7'5, 2008; L. Bosi e M.S. Piretti (a cura di), Vio­ lenza politica e terrorismo, numero monografico di «Ricerche di storia politica», 3, 2008; G. Panvini, Ordine nero, guemg/ia rossa. La vio/en1.4 politica nell'Italia degli anni Sessanta e Settanta (1966-1975), Tori· no, Einaudi, 2009; Ventrone, I dannati della terra, cit.; A. Martcllini e A. Tonelli (a cura di). Violenza politica, comunicazione, linguaggi, in

«Storia e problemi contemporanei», settembre 2010; P. Calogero, C. Fumian e M. Sartori, Terrore rosso. Da/l'autonomia al partito armato, Roma-Bari, Laterza, 2010; M. Lazar e M.-A. Matard-Bonucci (a cura di), li /tbro degli anni di piombo. Stona e memoria del terrorismo italia­ no, Milano, Rizzoli, 2010; G. Panvini, Dal '68 agli anni di piombo, in De Nicolò, Dalla trincea alla piaw, cit.; ma cfr. anche le suggestioni proposte da M. Calabresi, Spingendo la notte più in là, Milano, Riz­ zoli, 2007, e, tra le riflessioni più interessanti e recenti di studiosi che pure furono protagonisti dei movimenti degli anni Settanta, G. Moro, Anni Settanta, Torino, Einaudi, 2007; A. Bravo, A colpi di cuore. Storie del sessantotto, Roma-Bari, Laterza, 2008; G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1978. Militanza, viole111.11, sconfitta, memoria, Mila­ no, Feltrinelli, 2009.

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pur indubbie e significative, tra le violenze esercitate nelle manifestazioni di piazza a tutela di comportamenti illegali, il ricorso alla forza e anche le aggressioni inten­ zionali finalizzate a ostacolare gli awersari politici e, in­ fine, gli atti violentemente intimidatori e le aggressioni anche mortali. È indispensabile invece indagare tanto i contesti sociali e culturali che hanno via via alimentato le diverse modalità di esercizio della forza e della violenza, tanto le scelte politiche - perché di questo si tratta - che le hanno sostenute e legittimate. E, di converso, ciò per­ metterà anche di cogliere le alternative di volta in volta prospettate e praticate e di ricondurre la questione della violenza alle sue reali e rilevanti, ma nient'affatto onni­ comprensive, dimensioni. Nel lungo periodo, infatti, la questione della violenza fu una contraddizione in senso proprio, sia perché essa catalizzava un'alterità tra alcuni valori portanti del movimento stesso, sia perché attorno a essa di volta in volta si consumò la divaricazione tra di­ verse opzioni politiche e organizzative. Rispetto alla larga prevalenza della memorialistica e delle narrazioni più o meno convincenti dell'operato di questa o l'altra formazione terroristica 1 6, si tratta per certi aspetti di fare un passo indietro per guardare prima ai movimenti, alle culture, alle organizzazioni, alla storia degli anni Settanta per poi tornare a quelle delle forma­ zioni terroristiche. Fare un passo indietro appare indi­ spensabile per sottrarsi alle prospettive continuistiche intrinseche alla storia delle organizzazioni o alle testimo16 Cfr. E. Betta, Memorie m conflitto. Autobiografie della lotta ar­ mata, in «Contemporanea. Rivista di storia dell'800 e del '900», 4, 2009; B. Armani, LA produzione stonògra/ica, g1òrnalistica e memoriale sugli anni di piombo, in Lazar e Matard-Bonucci, Il libro degli anni di piombo, cit.; F. Rossi, Memorie della violenza, scn·tture della storia. Ele­ menti per un'analisi delle controverse ri-letture degli anni Settanta, in Ventrone, I dannati della rivoluzione, cit.; G. Tabacco, Libri di p1òmbo. Memorialistica e na"ativa della lotta armata in Italia, Milano, Bietti, 2010, e gli spunti utili in P. Zavaroni, Caduti e memoria nella wtta po­ litica. Le morti violente della stagione dei movimenti, Milano, Angeli,

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nianze dei protagonisti e cogliere invece le contiguità e le sovrapposmoni, ma anche le differenze, le alternative, le discontinuità. La violenza è un tema storiografico che chiama in causa culture, contesti sociali, norme e diritti, strategie politiche e pratiche militari di una vasta cerchia di attori. Solo la consapevolezza di ciò, e delle relazioni tra que­ sti fattori e contesti, rende possibile comprenderne e illu­ strarne la genesi, le dinamiche e le diverse manifestazioni. Solo su questi presupposti, inoltre, è possibile procedere a una comparazione internazionale, in grado di andare ol­ tre i pur importanti risultati finora raggiunti soprattutto dalla sociologia politica, che peraltro ha sottolineato l'ori­ ginalità del percorso italiano, pur innescato da analoghe dinamiche di mobilitazione, e ne ha individuato le princi­ pali peculiarità specialmente nel contesto generale e dun­ que nell'ampiezza della mobilitazione, nell'atteggiamento repressivo delle classi dirigenti, nell'esistenza di interlocu­ tori politici rilevanti, ma collocati all'opposizione 17 • Per questo ci pare indispensabile ripartire dalla vi­ cenda italiana, senza alcuna pretesa di sistematicità e pro­ fondità, per suggerire alcune linee di indagine e spunti di riflessione, forse utili a ridefinire il campo della ricerca. Premessa di tale ridefinizione è anzitutto una con­ siderazione più attenta della cultura politica, anzi, della cultura della politica prevalente nel nostro paese alla fine degli anni Sessanta. Nel ventennio, o poco più, repub­ blicano la dialettica politica era sostanzialmente proce­ duta entro i binari costituzionali delle verifiche elettorali 17 Cfr. in particolare D. della Porta, Socia/ Movements, Politica/ Violence, and the State. A Comparative Analysis o/ ltaly and Germany, Cambridge, Cambridge University Press, 1995; Sommier, La violence politique, cit.; Ead., La violenza rivoluzionaria. Le esperienze di lolla armata in Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti, Roma, De­ Hi.irter e G.E. Rusconi (a cura di), Die bleiernen riveApprodi, 2009; ]ahre. Staat und Terronsmus in de, Bundesrepublik Deutsch/and und Italien 1969-1982, Miinchen, Oldenburg, 2010, oltre a Bosi e Piretti, Violenza politica e te"orismo, cit.

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e dei governi parlamentari, senza però che ne seguissero interventi riformatori significativi e tali da rispondere alle attese di cambiamento soddisfatte, ma al tempo stesso rilanciate, dalla mobilitazione partigiana e resistenziale del 1943-45 e dall'approvazione della Carta costituzio­ nale. Anzi, le vicende del giugno del 1960 e quelle op­ poste dell'estate del 1964, con la crisi del centrosinistra riformatore e il vagheggiato Piano Solo, parevano sugge­ rire che il terreno decisivo di confronto restasse quello dell'esercizio della forza. Si consideri poi quanto, sul fi­ nire del decennio, fosse tutto sommato esiguo il bilancio della stagione del centrosinistra, ricordando che gli enti regionali, lo Statuto dei lavoratori, la legge sul divorzio - provvedimenti tutt'altro che radicali - erano ancora in divenire, mentre i progressi nelle condizioni dei lavoratori e dei ceti popolari erano stati per lo più esito diretto o indiretto di mobilitazioni sindacali. Non sorprende che a sinistra si guardasse con delusione e disincanto alle po­ tenzialità di cambiamento offerte dalle istituzioni parla­ mentari repubblicane. In aggiunta, l'eredità legislativa del fascismo, più consistente e incisiva proprio negli ambiti di più immediata iniziativa delle sinistre - dalla legisla­ zione del lavoro all'ordine pubblico, ai diritti civili e po­ litici -, induceva ad attribuire una connotazione classista, autoritaria e criptofascista alle normative repubblicane più invise, nonché a quelle istituzioni e amministrazioni, a cominciare dalla magistratura, deputate alla loro appli­ cazione. Non del tutto immotivatamente 18 , ne era derivata una cultura politica che continuava a vedere nella Resistenza il paradigma ideale e normativo di un processo di cam­ biamento politico radicale fondato sull'iniziativa popolare, 18 Sulla cultura e le vicende della magistratura cfr. G. Neppi Mo­ dona, La magistratura dalla Liberazione agli anni Cinquanta. Il diffià­ le cammino verso l'indipendenza, e E. Bruti Liberati, La magistratura dall'attuazione della Costituzione agli anni Novanta, entrambi in Storia dell'Italia repubblicana J I.:Italia nella crisi mondiale. L'ultimo venten­ nio, voi. II: Istituztom; politiche, culture, cit.

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che le istituzioni repubblicane avrebbero potuto, al pm, riflettere e contenere, difficilmente promuovere e, al peg· gio, ostacolare. Ciò, d'altra parte, convergeva largamente con il fatto che, per il ruolo preponderante giocato nel nostro paese dai partiti di massa nel radicamento della democrazia politica, a sinistra quest'ultima era intesa as­ sai più in senso dualistico e oppositivo, come ambito del conflitto di classe costituzionalmente regolamentato piut· tosto che procedura di mediazione pur conflittuale tra i diversi interessi sociali. È questa cultura politica, che considerava la forza come connaturata al conflitto politico anche nel contesto democratico - convinzione peraltro altrettanto largamente diffusa in ambiti politici e ideologici del tutto diversi -, il contesto cui occorre guardare. Non per cercare matrici o genealogie, quanto per delineare il sistema di relazioni e il campo di tensioni politiche, culturali e organizzative in cui va inscritta la questione del ricorso alla violenza e della scelta della militarizzazione. Anche per questo ab­ biamo concentrato l'attenzione sulla sinistra politica, e più rawicinatamente su quei gruppi della sinistra radi­ cale da cui scaturirono le organizzazioni armate. Perché la questione della violenza politica e della «lotta armata» non fu marginale, né indotta dall'esterno, né reazione a iniziative altrui, bensì chiamò in causa la cultura e l'azione politica dell'intera sinistra italiana di quegli anni, pur in misura e con responsabilità assai diverse. Nel corso degli anni Sessanta quella cultura politica conobbe una indubbia radicalizzazione critica. Fu solle­ citata dalla ripresa delle mobilitazioni operaie e sindacali nel contesto del cosiddetto neocapitalismo, perché quelle pratiche conflittuali parvero aprire spazi di iniziativa nuovi e ben più dinamici di quelli offerti dalle organiz­ zazioni storiche della sinistra italiana, ancora attardate a fare i conti con la crisi dello stalinismo e gli scenari della guerra fredda. Ne derivarono un fermento e una curiosità intellettuale in specie per i temi della conflittualità sociale e della soggettività e autonomia individuale e collettiva, che produssero comunque elaborazioni culturali e politi·

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che assai variegate, tra le quali il cosiddetto operaismo fu solo la più nota e consapevole. Rimaste largamente mino­ ritarie, erano destinate a lievitare incontrando le mobili­ tazioni di fine decennio e a esserne sensibilmente trasfor­ mate, in termini ideologici quanto operativi 19• Analoghe suggestioni, seppur altrimenti configurate in termini concreti, provennero da molteplici realtà extraeu­ ropee - dalle ultime lotte anticoloniali al socialismo guer­ rigliero cubano e guevarista, dal conflitto postcoloniale indocinese alla Cina della «rivoluzione culturale» maoista - convergenti comunque nel dimostrare come il ricorso alla forza fosse strumento obbligato, ma spesso vincente, di quanti intendevano tutelare le ragioni delle maggio­ ranze oppresse dalle élite occidentali, che, per quanto si dichiarassero democratiche, non esitavano a ricorrere alla violenza quando i loro interessi erano minacciati, all'estero e nei propri paesi, come nel caso degli afroa­ mericani in lotta per i diritti civili negli stessi Stati Uniti d'America. Per quanto fondate, quelle constatazioni di fatto si traducevano - secondo una conseguenzialità non inelutta­ bile - nella delegittimazione di istituti e procedure della democrazia politica e nell'accettazione, quando non nella giustificazione, del ricorso alla forza, almeno sul piano del discorso politico. In questo contesto, il Sessantotto mutò sostanzial­ mente i termini della questione. Chiamata a confrontarsi con la forza esercitata dalle autorità accademiche e poli­ tiche, la mobilitazione studentesca marginalizzò quel pur non trascurabile pacifismo giovanile, che negli anni pre19 Cfr., tra gli altri, Adagio, Cerrato e Urso, li lungo decennio. I:lta­ lia prima del '68, cit.; P.P. Poggio (a cura di), L'altronovecento. Comu­ nismo eretico e pensiero critico, voi. II: Il sistema e i movimenti. Euro­ pa 1945-1989, Milano-Brescia, Jacabook/Fondazione Micheletti, 2011, e in particolare C. Corradi, Pani.ieri; Trontt; Neg ri: le diverse eredità del/'operaismo italiano; cfr. anche i materiali e le interviste raccolte in F. Pozzi, G. Roggiero e G. Borio (a cura di), Gli operaisti, Roma, De­ riveApprodi, 2005.

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cedenti a sua volta aveva inteso denunciare la violenza del sistema sottraendosi radicalmente alla logica dell'an­ tagonismo di forze2°, e si dispose a sostenere la violenza della controparte sviluppandone una propria e conside­ randola condizione della propria esistenza. La scelta del ricorso alla forza, poco importa quanto difensiva o offen­ siva, scaturì dall'interazione tra il contesto politico-cultu­ rale sopra descritto e le condizioni di agibilità del movi­ mento stesso. In quel passaggio - come efficacemente sintetizzò una notissima canzone coeva -, alla continuità nell'impiego della forza da parte loro corrispose la discontinuità del fatto che anche noi la esercitiamo: «Hanno impugnato i manganelli I ed han picchiato come fanno sempre loro I e all'improvviso è poi successo I un fatto nuovo un fatto nuovo un fatto nuovo I non siam scappati più I non siam scappati più»21 . L'accettazione consapevole del ricorso alla violenza come strumento di azione politica fu una svolta, che si consumò in termini analoghi anche nel contesto di fab­ brica. Qui la microconflittualità manifestatasi, già prima dell'«autunno caldo», in reazione all'intensificazione dei ritmi di lavoro comportò il diffondersi di pratiche vio­ lente da parte operaia dapprima contro la brutalità dei capi e poi, in un crescendo, a sostegno della propria ca­ pacità rivendicativa e conflittuale22 • 20 Cfr. D. Giachetti, Anni Sessanta comincia la danza. Giovani, ca­ pelloni, studenti ed estremisti negli anni della contestazione, Pisa, Bi­ blioteca Franco Serantini, 2002; A. Martellini, Fiori nei cannoni. Non­ violenza e antimilitarismo ne/l'Italia del Novecento, Roma, Donzelli, 2005. 21

Paolo Pietrangeli, Valle Giulia (1968). Cfr. S. Tarrow, Democrazia e disordine. Movimenti di protesta e democrazia 1n Italia. 1965-1975, Roma-Bari, Laterza, 1990, in parti­ colare p. 170, ove si dà anche una comparazione quantitativa tra le azioni di sciopero e altre forme di protesta; della Porta, Il te"orismo di sinistra, cit., pp. 63 ss.; e quindi con riferimento a diverse realtà industriali, A. Pizzorno (a cura di), Lotte operaie e sindacato in Italia: 22

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Fu anzitutto una svolta culturale, un'affermazione di soggettività, la cui manifestazione simbolica fu il fin forse troppo celebrato rovesciamento della statua del conte Marzotto a Valdagno il 19 aprile 1968, che - seppure certo non priva di precedenti - segnalava ora la raggiunta insopportabilità di e la conseguente volontà di reagire a quelle che erano vissute come le consuete e ricorrenti pratiche violente della controparte. Sentimenti e volontà così cantati da Gualtiero Bertelli all'indomani degli scon­ tri avvenuti alla stazione ferroviaria di Mestre il 1 ° agosto 1968 tra operai della Montedison e forze dell'ordine: «A casa senza voce, con le mani I sporche dei sassi raccolti sui binari, I per una volta ancora dopo tanto I mi son sentito armato e non inerme I contro i nemici nostri di sempre. I Hai cercato nei loro volti lo scherno e la fred­ dezza I di chi ti ha caricato tante volte I "Pula fascista, vienimi addosso!", una rabbia e una forza sconosciute»23• La cultura e la pratica della violenza tornarono a gio­ care - come in altre stagioni di intensa conflittualità, ba­ sti pensare alle lotte bracciantili del cosiddetto «biennio rosso» - un ruolo di rilievo nei comportamenti dei lavo­ ratori salariati, per contenere il crumiraggio come, più in generale, per contrastare, e dunque anche intimidire, la controparte imprenditoriale e la sua capacità di governo dell'azienda. Non diversamente, anche in altri ambiti di conflittualità sociale la violenza - solitamente rivolta con­ tro le forze dell'ordine - entrò a far parte dei comporta1968-1972, 6 voli., Bologna, Il Mulino, 1974; M. Revelli, Lavorare in Fiat. Da Valletta ad Agnelli a Romiti. Operai sindacati robot, Milano, Garzanti, 1989; G. Polo, I tamburi di Mira/ion·. Testimonianze operaie attorno all'autunno caldo in Fiat, Torino, Cric, 1989; G. Berta, Con­ flitto industriale e struttura d'impresa alla Fiat, 1919-1979, Bologna, Il Mulino, 1998, in particolare pp. 139 ss.; Giachetti e Scavino, La Fiat in mano agli operai, cit.; E. Mentasti, La Guardia rossa racconta. Sto­ ria del Comitato operaio della Magneti Mare/li, Milano, Colibrì, s.d.; D. Sacchetto e G. Sbrogiò (a cura di), Quando il potere è operaio. Auto­ nomia e soggettività politica a Porto Marghera (1960-1980), Roma, Ma­

nifestolibri, 2009, pp. 31, 54-56, 65, 255 ss. 21 Gualtiero Bertelli, 1 agosto Mestre 68, 1968.

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menti strumentali al perseguimento degli obiettivi di volta in volta perseguiti, dalle occupazioni di edifici scolastici, stabilimenti industriali o alloggi non utilizzati, allo svolgi­ mento di manifestazioni e cortei non autorizzati, all'auto­ riduzione dei prezzi dei servizi di trasporto, energetici o telefonici ai blocchi stradali e ai picchetti a sostegno degli scioperi24 • In questi contesti il ricorso alla violenza non era però generalizzato e, per quanto preordinato, dipen­ deva dalle circostanze, restava di bassa intensità e quando rivolto contro le persone, nonostante la pericolosità di taluni comportamenti e strumenti offensivi, non era pri­ mariamente finalizzato a provocare lesioni gravi o mor­ tali. Per quanto non implicassero di per sé l'adesione a una strategia insurrezionalista e tanto meno una qualche opzione per la lotta armata, tali comportamenti, tuttavia, testimoniavano come la violenza fosse divenuta - e lo sa­ rebbe stata con intensità e diffusione crescente - un ele­ mento determinante del confronto politico. Infatti, proprio la mobilitazione sociale avviata nel 1968-69 diede continuità e dunque rese in qualche modo stabile quella che fino allora era stata una componente ri­ corrente, ma occasionale del conflitto politico. Non solo il movimento fece proprio il ricorso alla violenza finallora prerogativa delle pubbliche autorità, ma ritenne che in una certa misura fosse condizione decisiva per il prose­ guimento stesso della mobilitazione, a fronte dei tentativi di ripristino dell'ordine e di abbattimento della conflit­ tualità sociale e nei luoghi di lavoro. Da allora, il ricorso alla violenza divenne una varia­ bile dipendente dal contesto e dalle strategie dei diversi Secondo le stime di Tarrow, Democrazia e disordine, cit., pp . .53 ss., gli episodi di violenza furono pari al 23,1 % del totale delle forme di azione di protesta nel ciclo 1966-73 e furono dapprima equivalenti e dal 1970 più numerosi delle forme di azione di protesta «perturbati­ ve», ovvero contrarie alla legalità (occupazioni, sit-in, irruzioni, blocchi stradali, ecc.), un dato che pare suggerire come il ricorso alla violenza divenne sempre più un requisito necessario della protesta. 2•

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attori e dunque per molti aspetti una «risorsa» di questi ultimi. Tuttavia, più che risorsa meramente strumentale, perché destinata a diventare tanto più redditizia con il decrescere della mobilitazione25 , la violenza fu una ri­ sorsa dotata di valenza politica propria, commisurata al contesto in cui si operava, ma anche alle finalità perse­ guite. Per questo fu scelta come strumento privilegiato da determinati gruppi, e non da altri, appunto in ragione di quella valenza e non - solo - in funzione delle risorse disponibili. D'altronde, se così non fosse, quella scelta sa­ rebbe stata appannaggio dei soggetti più marginali e po­ veri di risorse. L'impiego della forza e il ricorso alla violenza trassero alimento da, e rispecchiarono, le dinamiche conflittuali in atto e il diverso collocarsi di individui e gruppi organiz­ zati rispetto a esse. Non furono semplice riflesso della di­ rezione e intensità, ascendente o declinante, della mobili­ tazione, ma - assai meno linearmente - parte delle scelte compiute dai diversi attori che animavano il movimento. Quelle dinamiche e quelle scelte determinarono le moda­ lità con cui l'impiego della forza e il ricorso alla violenza furono declinati e praticati nel tempo.

4. I contesti della violenza Nell'intersezione tra quelle dinamiche e quelle scelte si collocarono esperienze, percorsi ed esiti assai diversifi­ cati, che solo in parte e in modo nient'affatto lineare o cumulativo condussero da pratiche violente di bassa in­ tensità verso forme di militarizzazione via via più accen­ tuata e organizzata, fino alle formazioni armate e clande­ stine. Quelle intersezioni, finora pressoché ignorate dalla 2

' Secondo quanto da tempo suggerito da alcuni studi di socio­ logia politica, peraltro di grande interesse, quali Tarrow, ibidem, pp. 255-283, e della Porta, Il terrorismo di sinistra, cit., in particolare nei capitoli 2 e 3.

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ricerca storica - peraltro ancora troppo poco impegnata a ricostruire la stessa conflittualità sociale di quegli anni26 -, appaiono invece l'ambito di indagine privilegiato per co­ gliere l'origine, la ragion d'essere e i caratteri fondanti del fenomeno della lotta armata e del terrorismo. Fin dai primi e per tutti gli anni Settanta l'impiego della forza e il ricorso alla violenza, e il confronto ideo­ logico e politico intorno a questo tema, si svilupparono all'interno di una pluralità di ambiti d'azione, campi di tensione e terreni di verifica, certo contigui e talora par­ zialmente sovrapponibili, ma nondimeno distinguibili ana­ liticamente27 e, soprattutto, in termini di propedeuticità alle scelte più radicali di militarizzazione e di lotta ar­ mata. Il primo e più vasto contesto fu ovviamente quello del movimento stesso. Coerente con la sua matrice ses­ santottina, ben più che con la affermata filiazione postle­ ninista o maoista, esso si concepì e operò - nonostante la forte ideologizzazione - come soggetto politico chiamato a esprimere anzitutto una pratica di radicale cambia­ mento sociale, alla quale erano subordinati, perché a essa strumentali, sia gli indirizzi ideologico-programmatici sia, ancor prima, le strutture organizzative, tanto numerose e diversificate (dai gruppi pseudopartitici della sinistra «extraparlamentare», agli organismi di iniziativa locale, ai «collettivi» operai, studenteschi, tematici, territoriali, ecc., alle aree di coordinamento in prospettiva nazionale) quanto mutevoli nel loro ciclo vitale e nelle dinamiche aggregative28 • Interna e funzionale a quella concezione si 26 Cfr. in proposito la recente messa a punto in P. Causarano, L. Falossi e P. Giovannini (a cura di), Il 1969 e dintorni. Analisi; riflessio­ ni e giudizi a quarant'anni dall'«autunno caldo», Roma, Ediesse, 2010. 71 Cfr. in proposito anche la classificazione delle retoriche di legitti­ mazione e delle forme di esercizio della violenza proposta in Sommier, La violence politique et son deuil, cit., pp. 55 ss., 77 ss. 28 Sulla storia della sinistra radicale, cfr., tra gli altri e talora a metà tra storia e riflessione di protagonisti, F. Ottaviano, La rivoluzione nel labin'nto. Sinistra e sinistn'smo dal 1956 agli anni Quanta, 3 voli., So-

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sviluppò, notoriamente, anche una prospettiva rivoluzio­ naria e dunque pure un'elaborazione sulla legittimità, le forme e le finalità dell'esercizio della violenza, che ebbe ri­ lievo, definizioni e traduzioni pratiche variabili nel tempo e in relazione alle diverse componenti del movimento. Il dispiegarsi di quella elaborazione e i suoi termini ideologici, politici e organizzativi furono interni, ma non esaurirono affatto l'orizzonte, l'esperienza e la proposta politica e culturale della sinistra radicale. Furono però cru­ ciali - e certo siamo ancora lontani dal comprendere pie­ namente perché lo divennero - in un conflitto per l'ege­ monia che finì per estendersi ben oltre la stessa sinistra radicale e per investire in certa misura anche il Partito co­ munista, perché rivolto agli stessi interlocutori sociali. An­ che per questi motivi il Pci ebbe non poche difficoltà nel riconoscere come tali le organizzazioni armate, pur sem­ pre risolutamente avversate, e solo a partire dalla fine del 1976 si pose in aperta e risoluta contrapposizione29 (senza poi considerare - questione ancora molto da indagare - in qual modo quella competizione ne abbia condizionato la stessa evoluzione politica negli anni successivi).

L. Bobbio, Lotta Continua. Storia di una organi:wmone rivolu1.10narza. Dalla /onda1.ione del partito al con­ gresso di «autosetoglimento» dt Rimini, Roma, Savelli, 1979; D. Protti, Cronache di «nuova sinistra», Milano, Gammalibri, 1979; G. Viale, Il '68: tra rivolu1.1one e restaura1.ione, Rimini, Nda Press, 1998; A. Caz­ zullo, I raga1.1.i che volevano fare la rivolu1.10ne. 1968-1978. Storia di Lotta Continua, Milano, Mondadori, 1998; E. Petricola, I dtrz'tti degli esclusi nelle lotte degli anni settanta. Lotta Continua, Roma, Edizioni Associate, 2002; S. Voli, Quando il privato diventa politico: Lotta Con­ tinua 1968-1976, Roma, Edizioni Associate, 2006; W. Gambetta, De­ mocra1.ia Proletaria. LA nuova sinistra tra pia1.1.e e pa/a1.1.i, Milano, Il punto rosso, 2010; A. Grandi, La generazione degli anni perduti. Storia di Potere Operata, Torino, Einaudi, 2003; Id., lnsu"e1.ione armata, Mi­ lano, Rizzoli, 2005; S. Bianchi e L. Caminiti (a cura di), Gli autonomi. Le storie, le lotte, le culture, 3 voli., Roma, DeriveApprodi, 2007 -2008. 29 E. Taviani, Pci, estremismo di sinistra e terrorismo, in De Rosa e Monina, L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta. I. Sistema politico e istitu1.ioni, cit., e Id., Il te"orismo rosso, la violeni.a e la crisi nella cultura politica del Pà, in Ventrone, I dannati della te"a, cit. veria Mannelli, Rubbettino, 1993;

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In estrema semplificazione, i termini concettuali di quella elaborazione furono la relazione tra rivoluzione e insurrezione e le modalità di costruzione e costituzione di una direzione politica del movimento. Organizzazioni come Il Manifesto e il Pdup e, per altri versi, Avanguar­ dia operaia - nella seconda metà del decennio in parte riaggregatesi in Democrazia proletaria - in tempi relati­ vamente brevi optarono per la costruzione di un organi­ smo partitico, la cui strategia rivoluzionaria era sostanzial­ mente affidata allo sviluppo della conflittualità operaia e sociale e al conseguente auspicato spostamento, per via elettorale come per il delinearsi di un dualismo di potere, degli equilibri politici, in termini di egemonia e di con­ senso all'interno della sinistra come nel paese. In questa prospettiva, non senza incertezze e marcate contraddi­ zioni, si considerarono legittime solo quelle pratiche ille­ gali strettamente connesse a singoli obiettivi rivendicativi (occupazioni, autoriduzioni, cortei non autorizzati, ecc.) e quell'esercizio della violenza funzionale alla loro difesa e comunque praticato in contesti di massa. La prospettiva dell'insurrezione, invece, dominava il progetto rivoluzionario tanto di alcune formazioni dichia­ ratamente marxiste-leniniste, a cominciare dal Partito co­ munista (marxista-leninista) d'Italia, che la intendevano come culmine della crisi politica indotta dalla forza cre­ scente e dal radicamento di massa dello stesso partito rivoluzionario, quanto delle formazioni di matrice ope­ raista. All'insurrezione, però, Potere operaio attribuiva un significato tattico, rispetto alla strategia rivoluzionaria considerata intrinseca alla dinamica del conflitto di classe. Era da intendersi come militarizzazione dell'insubordina­ zione politica e sociale manifestatasi nel 1968-69 e andava perseguita adoperandosi per un'immediata politicizza­ zione della conflittualità, tramite la quale si sarebbe ma­ nifestato e affermato il «potere» operaio. Necessariamente promossa da una istanza politica centralizzatrice, quale lo stesso Potere operaio si candidava a essere, la politicizza­ zione della conflittualità sarebbe dovuta scaturire dal pre­ determinato massimalismo delle richieste rivendicative e

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dal perseguimento violento degli obiettivi nelle fabbriche e nelle strade. L'esercizio della violenza, in forme sempre più dirompenti, giocava dunque un ruolo cruciale, tanto in termini progettuali, quanto in termini organizzativi. Fu però gradualmente evidente che la pratica della vio­ lenza intenzionalmente perseguita sia nelle manifestazioni di massa - tra le altre, quella degli scontri alla stazione ferroviaria di Pisa del 27 ottobre 1969, quella progettata per il 12 dicembre 1971 a Milano e quella messa in atto l' 11 marzo 1972 ancora a Milano - sia in forma clande­ stina, prima avvicinando i Gap di Feltrinelli e poi dando vita alle strutture denominate Lavoro illegale e Faro, non valeva né a promuovere quella politicizzazione radicale insurrezionalista del movimento, né a consolidare una struttura assieme politica e militare capace di dirigere il movimento stesso, anziché di porsi come organizzazione a sé stante. Di qui la presa d'atto dell'inadeguatezza della propria ipotesi politica e il sostanziale scioglimento del gruppo tra il 1972 e il 197 3. Declinando in termini diversi un analogo campo concettuale, Lotta continua preconizzava un processo rivoluzionario ove l'insurrezione sarebbe maturata per l'accumularsi di pratiche sovversive di massa, che l'or­ ganizzazione avrebbe dovuto sollecitare contrastando i processi di normalizzazione e alimentando ogni possibile focolaio di conflittualità. Alla violenza si attribuiva così un ruolo tattico - inasprire la conflittualità e disvelare la sostanza dei rapporti sociali e di potere - e assieme strategico, perché l'intensificarsi del processo insurrezio­ nale avrebbe accentuato la violenza della crisi rivoluzio­ naria e la sua dimensione di massa. Prefigurata nella sua forma più radicale e offensiva forse tra la fine del 1970 e l'autunno del 1971 nel programma politico denominato «Prendiamoci la città», e pur riproposta in varia misura anche successivamente, anche questa concezione trovò smentita nella mancata unificazione della conflittualità in un moto insurrezionale unitario. Lotta continua - in que­ sto reagendo nella sua maggioranza all'opposto di Potere operaio - lasciò sullo sfondo la questione della direzione

politica, in termini di partito o altrimenti di politicizza­ zione della conflittualità, e dal 1973 si volse gradualmente e non senza drammatiche lacerazioni alla costruzione di un programma politico articolato, di fatto relegando, pur con molte ambiguità, la violenza essenzialmente a op­ zione tattica. Due proposte strategiche ben distinte - e dipanatesi con ben diverse scansioni temporali - portarono invece alla costituzione di organizzazioni di lotta armata. Già nella seconda metà del 1970 il Collettivo politico metro­ politano milanese giudicò che occorresse contrastare la stabilizzazione della conflittualità operaia esasperandone i comportamenti violenti: rifiutando l'insurrezione come prospettiva, lo scontro militare non solo fu assunto come unico orizzonte strategico, ma soprattutto fu ritenuto di immediata attualità e affidato, di conseguenza e consape­ volmente, a un'organizzazione, il partito-guerriglia presto denominato Brigate rosse, che avrebbe dovuto affiancare, pur mantenendosene distinto, il movimento conflittuale. Questa impostazione fu alla radice del successivo passag· gio - avvenuto nel 1974 con il sequestro Sossi - dalla co­ siddetta «propaganda armata» ali'«attacco al cuore dello stato», motivato con la necessità di andare oltre i limiti offensivi della conflittualità operaia, ormai palesemente ri­ piegatasi. Più in generale, essa si tradusse nel fatto che da allora il dibattito e le divergenze organizzative interni alle Brigate rosse sarebbero sostanzialmente dipesi dal diverso articolarsi del giudizio sullo stato del movimento rispetto alla strategia politica del partito e dunque dei diversi li­ velli e obiettivi militari praticabili' 0• 10 Della bibliografia sulle Brigate rosse, vasta e eterogenea per ge­ nere e qualità, si consideri almeno la recente sintesi di M. Clementi, Storia delle Brigate Rone, Roma, Odradek, 2007; L. Manconi, Terrori­ sti italiani: le Brigate Rosse e la guerra totale: 1970-2008, Milano, Riz­ zoli, 2008; A. Saccoman, Sentieri rossi nella metropoli: per una storia delle Bngate Rosse a Milano, Milano, Cluem, 2007; G. Galli, Piombo rosso: la storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, 2' ed., Milano. Baldini & Castoldi, 2007 e la prima raccolta documenta-

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Per quanto variegata, l'area dell'Autonomia operaia - che cominciò a riconoscersi e coordinarsi come tale a partire dal 1973 - ebbe un duplice denominatore co­ mune: la ricerca di una centralizzazione politica che pro­ cedesse dal basso per restare interna al movimento e una concezione strategica che legittimava l'esercizio della vio­ lenza in quanto strumento di affermazione di un potere antagonista a quelli ritenuti politicamente e socialmente dominanti. Vi si riconoscevano quanti - comitati e or­ ganismi di base, gruppi e singoli militanti - non erano confluiti o si erano allontanati dalle organizzazioni mag­ gioritarie della sinistra extraparlamentare in polemica con la scelta di costituirsi in formazioni politiche separate, ritenute esterne al movimento - e ciò valeva anche nei confronti delle Brigate rosse -, e con la presunta rinun­ cia a una necessaria concezione strategica della violenza. Soprattutto tra il 1973 e il 1978, quella concezione animò una intensa e talora egemonica adesione ai più aspri mo­ menti di conflittualità sociale - in particolare le lotte sul salario e per la casa, contro la nocività del lavoro, per l'autoriduzione dei prezzi di beni e servizi - sorretta an· che da pratiche di guerriglia, intese a militarizzare la conflittualità di massa nelle fabbriche e nel territorio e a consolidarvi forme di potere antagonista. Percorsa da una profonda contraddizione, nella pretesa di identificarsi con il movimento e al tempo stesso di indicare a esso la stra­ tegia politica della costruzione di spazi di potere sociale antagonistici e inevitabilmente militarizzati, l'area dell'Au­ tonomia si trovò stretta tra l'aperta contrapposizione con le organizzazioni più moderate della sinistra radicale e la concorrenza delle organizzazioni di lotta armata clande­ stine, a prima vista più efficienti e coerenti proprio sul terreno della crescente militarizzazione dello scontro. Nei fatti, il diverso giudizio sulle componenti sociali da pri­ vilegiare, sulla congruità delle azioni militari rispetto agli ria prodotta da Soccorso rosso, Brigate Rosse: che cosa hanno fatto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, Milano, Feltrinelli, 1976.

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obiettivi del movimento, soprattutto sul grado di milita­ rizzazione dello scontro in atto e dunque sulla centralità degli obiettivi militari rispetto alla dinamica conflittuale, aprì un laborioso, ma anche lacerante confronto interno attorno alle pratiche violente ammissibili e alle modalità di organizzazione paramilitari o armate - dalle squadre operaie o territoriali agli organismi clandestini, fino alle organizzazioni politico-militari separate come Senza tre­ gua, Prima linea, Unità comuniste combattenti e altre da adottare31 • Il secondo rilevante contesto in cui fu declinato l'im­ piego della forza e il ricorso alla violenza fu quello del cosiddetto ordine pubblico, ovvero del confronto con la gestione della protesta da parte delle autorità di governo. Ancora largamente interne a quella concezione del rapporto tra stato e società civile improntata alla prima­ ria finalità del disciplinamento sociale, caratteristica della democrazia paternalista di De Gasperi e Scelba, ma pro­ iettatasi lungo tutti gli anni Sessanta 12 , le modalità con cui le autorità pubbliche affrontarono il montare della mobilitazione studentesca e di quella operaia furono pri­ mariamente dirette a ripristinare l'ordinato e ordinario andamento delle attività scolastiche, come di quelle la­ vorative. Dal vertice governativo fino ai livelli più bassi della catena gerarchica, che integrava le forze di pub­ blica sicurezza come gran parte della magistratura e delle stesse autorità accademiche, si trascurò di considerare le motivazioni e le richieste delle proteste e ignorando ogni tecnica volta a depotenziarne l'intensità 13 ci si preoccupò Jt Cfr. Bianchi e Caminiti, Gli autonomi, cit.; Ottaviano, La rivolu1.1òne nel labirinto, cit., voi. II, pp. 641 ss.; E. Mentasti, Sen1.fl Tregua. Storia dei comitati comunisti per il potere operaio (1975-76), Milano,

Colibrì, 2011. i2 Cfr. D. della Porta e H. Reiter, Polizia e protesta. Z:ordine pub­ blico dalla Liberazione ai «no global», Bologna, Il Mulino, 2003. Per un confronto con le politiche francesi assai meno violente cfr. anche Sommier, La violence politique et son deuil, cit., p. 165. JJ Sulla sostanziale mancanza di tecniche di depotenziamento del-

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invece di sedare quanto più rapidamente ogni forma di protesta, ritenuta foriera di una pericolosa instabilità so­ ciale. Fin dalle prime agitazioni operaie e studentesche del 1965-66 e poi di nuovo dal 1968-69 e per gli anni suc­ cessivi, si ricorse intenzionalmente e sistematicamente alle irruzioni e agli sgomberi - godendo del, o altrimenti pre­ scindendo dal, consenso delle autorità accademiche - di edifici scolastici e universitari e di fabbriche occupate e si procedette operando centinaia di fermi, decine di ar­ resti, migliaia di denunce all'autorità giudiziaria, sovente per reati d'opinione (vilipendio della magistratura, istiga­ zione dei militari a delinquere, diffusione di notizie false e tendenziose, ecc.) o per fattispecie di reato talora pre­ testuose, come interruzione di pubblico servizio, o larga­ mente incongrue con i fatti in oggetto, come associazione sovversiva e associazione a delinquere3 4 • Soprattutto, nella gestione delle manifestazioni e nelle proteste di piazza si tornò a impiegare tattiche largamente analoghe a quelle correnti negli anni Cinquanta e attenuatesi solo in parte nel decennio successivo. Basate su interventi di tipo mili­ tare, non selettivi e affidati a strumenti di coercizione ag­ gressivi, come la dispersione dei manifestanti con cariche, idranti, lancio di lacrimogeni e caroselli di automezzi, nonché all'uso limitato, ma scarsamente regolamentato, di armi da fuoco, queste modalità operative non graduavano l'impiego della forza e facevano della violenza lo stru­ mento primo di confronto con i cittadini. Erano destinate a suscitare risentimenti - in chi subiva lesioni e ferite o si vedeva negato il diritto di manifestare - e solidarietà tra i diversi gruppi di manifestanti di volta in volta coinvolti 3 5 . Più ampiamente, tali politiche di gestione dell'orla conflittualità, cfr. anche della Porta, Terrorismo di sinistra, cit., pp. 69 ss. 1� Cfr. in proposito Crainz, Storia del miracolo italiano, cit., pp. 234-236, 239 ss.; Id., Il paese mancato, cit., pp. 59, 218-219, 226 ss., 260 ss., 283-285, 362 ss., 388 ss. " Cfr. della Porta e Reiter, Polizia e protesta, cit., pp. 203 ss. 41

dine pubblico finirono per porre al centro del confronto proprio la questione dell'agibilità degli spazi pubblici e dunque della legittimità della protesta, innescando una spirale di reiterati divieti di manifestare, sempre meno ri­ spettati, e dunque di scontri di piazza, quale esito della scelta di settori diversi, ma complessivamente egemoni del movimento prima studentesco e poi «extraparlamen­ tare», di garantirsi adeguati spazi di agibilità politica considerata anche la non velata richiesta di messa fuori­ legge formulata tra gli altri dall'autorevole prefetto di Mi­ lanol6 - anche dotandosi di strumenti ed eventualmente forme di organizzazione in grado di contenere e, nei fatti, di reagire all'intervento delle forze dell'ordine. Il ricorso alla violenza, almeno nella misura neces­ saria ad affermare i propri diritti, pareva infatti legit­ timato da un'immagine autoritaria delle istituzioni re­ pubblicane che quelle politiche di gestione dell'ordine pubblico contribuivano non poco ad accreditare. Il nu­ mero dei feriti, difficilmente calcolabile, ma certamente ingente1 7 e nell'ordine delle centinaia, e quello dei morti provocati dalle forze dell'ordine tra i manifestanti (do­ dici dal dicembre 1968 al febbraio 1973, a fronte di un solo morto - l'agente Antonio Annarumma -, provocato nello stesso periodo da manifestanti di sinistra, peraltro con modalità e dunque intenzionalità mai univocamente definite18 ) rafforzò la convinzione che il governo - nel Cfr. Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 373 ss. Una stima approfondita richiederebbe una indagine dettagliata nelle fonti a stampa e di polizia; si vedano a puro titolo esemplificati­ vo le notizie riportate nel sito, dichiaratamente partigiano e militante, www.sciroccorosso.org/colll 1.htm, e G. Viola, Polizia. Cronache e do­ cumenti della repressione in Italia 1860-1977, Verona, Bertani/Stampa Alternativa, 1978. 18 Secondo una mia rilevazione, i dodici morti addebitabili alle forze dell'ordine, con una sola eccezione, furono tutti conseguenza dell'impiego omicida, in modo intenzionale o preterintenzionale, di armi da fuoco o di candelotti lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo o, nel caso di Franco Serantini, di mancata assistenza a una persona ferita e arrestata. 16 '

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discorso pubblico sovente significativamente identificato con «lo stato» - non avesse particolare riguardo per le conseguenze del proprio operato violento e che dunque, anche da parte del movimento, le eventuali conseguenze preterintenzionali delle azioni violente fossero un rischio da accettare. Nel medio periodo, il ruolo e le caratteristiche assunti dal conflitto per il controllo degli spazi pubblici ebbero conseguenze di indubbio rilievo. In termini politici per­ ché quel conflitto esaltò l'impiego della forza e dunque il ricorso alla violenza come strumento prioritario dell'azione politica e propose il confronto militare con le forze dell'or­ dine come ambito primario del conflitto tra movimento e istituzioni. In termini simbolici, perché portò a considerare le vittime degli interventi repressivi, specialmente se ap­ partenenti al movimento, quali eroi e martiri dell'autorita­ rismo statale, assimilabili così ai caduti della Resistenza, e dunque a rafforzare una identificazione con il partigianato antifascista 19 tanto schematica quanto funzionale alla coe­ sione del movimento stesso. Infine, ma non da ultimo, il conflitto con le forze dell'ordine fece sperimentare pratiche d'azione violenta e di organizzazione paramilitare che, pur di grado limitato, si rivelarono propedeutiche a ulteriori, più gravi e stabili forme di militarizzazione. Il terzo rilevante contesto di impiego della forza e ri­ corso alla violenza fu quello - in parte convergente con il precedente - dell'antagonismo con le destre neofasciste. Il radicalismo di destra, interno ed esterno al Movimento sociale italiano, operò dalla fine degli anni Sessanta se­ condo due modalità: l'azione militante volta a contrastare aggressivamente la presenza pubblica dei partiti di sinistra e della mobilitazione giovanile e studentesca e le opera­ zioni di carattere terroristico, consistenti in attentati, di solito non rivendicati, a edifici o persone frequentanti luo9 ' Sulla riattivazione del mito della Resistenza cfr. anche Sommier, � vio/ence politique et son deui/, cit., pp. 157-159; A. Rapini, Antifa­

scismo e cittadinanza. Giovani, identità e memorie nell'Italia repubblica· na, Bologna, Bononia University Press, 2005.

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ghi pubblici40 • Se la prima modalità godeva di una qual­ che tolleranza da parte della polizia e magistratura, frutto di una generica convergenza ideologica anticomunista, la seconda fu condotta - in misura e per ragioni tuttora solo parzialmente note - in contatto e sotto la protezione, se non le indicazioni, di settori dei servizi segreti che ne con­ dividevano le finalità strategiche41 • Comune era infatti la concezione, diffusasi anche in Italia dalla metà degli anni Sessanta, secondo cui il movimento comunista avrebbe ac­ cantonato il ricorso alla guerra convenzionale per adottare una tattica basata sull'articolazione delle sue organizza­ zioni, non più solo di stretta osservanza sovietica, e sulla combinazione di mezzi legali e illegali ugualmente volti a conquistare il potere attraverso una «guerra rivoluziona­ ria». A essa andava dunque contrapposta un'azione pre­ ventiva volta a creare un'opinione pubblica favorevole a una svolta autoritaria, necessaria per impedire la mobilita­ zione legale del «movimento comunista»42 • •o La destra sarebbe stata responsabile del 95% degli episodi di violenza tra il 1969 e il 1973, percentuale scesa all'85% nel 1974 e al 78% nel 1975, e rispettivamente del 95%, dell'81% e del 61 % degli attentati non rivendicati, del 59%, 57%, 23% degli attentati rivendi­ cati, e del 50%, 46% e 7% degli atti contro le persone, secondo le stime formulate in della Porta e Rossi, Ci/re crudeli, cit., pp. 25 ss. 41 Sui tratti, il rilievo e le finalità dell'offensiva delle destre neo­ fasciste e stragiste si soffermano ampiamente, pur con diversa enfasi, tra gli altri, P. Craveri, LA Repubblica del 1958 al 1992, Torino, Utet, 1995, pp. 453 ss., e N. Tranfaglia, Un capitolo del «doppio Stato». LA stagione della «strategia della tensione» e dei te"onsmi 1969-1984, in

Stona dell'Italia repubblicana. 3. L'Italia nella crisi mondiale. L'ulti­ mo ventennio, voi. Il: Istituzioni; politiche, culture, cit.; cfr. anche M. Franzinelli, LA sottile linea nera. Neo/ascùmo e servizi segreti da piaua Fontana a pza:a.a della L oggia, Milano, Rizzoli, 2008. 42 Cfr. A. Giannuli, LA categoria del t�orismo: la sua pertinenza sto­ rica e l'uso adottato dai mezzi di informazione, in M. Dondi (a cura di), I nen· e i rossi. Te"onsmo, violenza e informazione negli anni Settanta, Nardò, Controluce, 2008, pp. 45 ss.; G. Scipione Rossi, L'influenza della gue"a d'Algeria sull'estrema destra italiana, in Ventrone, I dannati della nvoluzione, cit.; Panvini, Ordine nero, guemg/za rossa, cit., pp. 273 ss. Tali letture delle strategie del movimento comunista hanno a lungo con­ dizionato anche le interpretazioni sulle origini delle formazioni armate e del terrorismo, ma cfr. ancora di recente R. Bartali, Red Brigades (1969-

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La proposlZlone del Msi come partito d'ordine e ba­ luardo contro il sowersivismo, disposto a contrastare l'av­ versario nelle piazze, e la «strategia della tensione», attuata a partire dal 1969 con una serie di attentati, il più grave dei quali fu quello di piazza Fontana a Milano, da attribuire alle sinistre, erano convergenti nei fatti, e in parte anche negli uomini, attorno all'obiettivo, in parte realizzato, di spostare a destra gli equilibri di governo, anzitutto ponendo fine alle coalizioni di centrosinistra, giudicate succubi del Partito comunista e delle mobilitazioni sociali di cui que­ sto era ritenuto il beneficiario in ultima istanza. Nel biennio 1968-69 e negli anni successivi, e di nuovo in particolare tra il 1972 e il 1974, questa convergenza fu evidente nell'in­ treccio tra gli attentati di Reggio Calabria, di Peteano, della questura di Milano, di piazza della Loggia a Brescia, del treno Italicus e del Savonese - per citare solo i più dram­ matici - e le aggressioni, talora con conseguenze mortali, fattesi specialmente intense durante la campagna elettorale del 1972 e culminate nella manifestazione milanese del 12 aprile 197 3, ove rimase ucciso dal lancio di una bomba a mano l'agente di polizia Antonio Marino4i . Il dispiegarsi di questo disegno politico, la recrude­ scenza violentemente offensiva del neofascismo, mai così intensa dopo il 1945, le manifeste tolleranze e protezioni godute presso settori delle autorità di pubblica sicurezza e della magistratura e la più generale incapacità di queste di contenerne l'iniziativa, e i nessi evidenti, per quanto talora indubbiamente enfatizzati oltremisura, tra stragi­ smo e radicalismo di destra alimentarono la diffusa e non del tutto infondata convinzione dell'incombente pericolo di una stretta autoritaria - sull'esempio delle recenti espe1974): An ltalian Phenomenon and a Produci o/ the Co/d War, in «Mo­ dem ltaly», November 2007. 4 ' Per gli anni 1968-69 cfr. Crainz, Il paese mancato, cit., pp. 261, 265 ss., 372-376. L'Anpi avrebbe denunciato che nella sola Milano, dal gennaio 1969 al febbraio 1971, si erano verificati 147 attentati e 247 ag­ gressioni, secondo G. Calvi, Giustizia e potere, Roma, 1973. Per l'autun­ no 1972 cfr. Ottaviano, lA rivoluzione nel labirinto, cit., pp. 685 ss.

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rienze greche, cilene e argentine - e comunque di un di­ segno governativo volto a esasperare lo scontro politico al fine di soffocare il movimento. Anche in questo caso, né poteva essere altrimenti alla luce della lettura che se ne dava e dei due contesti sopra descritti, peraltro largamente convergenti con questo, la risposta fu imperniata su una mobilitazione volta a con­ trastare frontalmente il neofascismo attraverso un reper­ torio di azioni, diversificate anche a seconda dell'orien­ tamento delle diverse organizzazioni, che andava dalla richiesta di messa fuori legge del Msi all'attuazione di ini­ ziative violente ove il discrimine tra difesa e offesa dive­ niva scarsamente rilevante. Infatti, se le manifestazioni di massa miravano a imporre, in modo più o meno violento - ma sostanzialmente senza risultato -, la chiusura delle sedi del partito di estrema destra e in generale a negare ogni spazio di azione politica alla destra radicale, nella realtà quotidiana il confronto nei quartieri e nelle scuole si trasformò inevitabilmente in scontro fisico individuale e di gruppo via via più intenso44 . In questo ambito, l'in­ tenzionalità omicida restò per una lunga fase prerogativa dei neofascisti, oltretutto più adusi a impiegare armi da taglio e da fuoco, anche se tra le azioni offensive attuate da settori della sinistra radicale altamente verosimile fu l'intenzionalità omicida sia nel caso dei due fratelli Mat· tei, morti nell'incendio appiccato alla loro abitazione a Primavalle nell'aprile 197 3 da alcuni esponenti di Potere operaio forse con l'intento - dichiarato in sede giudiziaria - di accreditarsi come interlocutori delle Brigate rosse, sia nel caso delle percosse mortali inflitte nel marzo 1975 - nel contesto di un forte inasprimento del conflitto tra i due schieramenti - da un gruppo di militanti di Avan­ guardia operaia al giovane militante di destra Sergio Ra­ melli. •• Cfr. l'ampia ricostruzione di Panvini, Ordine nero, guemglia ros­ sa, cit., che pure segnala l'estendersi di attentati alle sedi di destra specie nei primi mesi del 1973, pp. 265-266.

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Anche in questo contesto, l'impiego della forza e il ricorso alla violenza erano legittimati in nome della pos­ sibilità di iniziativa del movimento a fronte di una pre­ sunta offensiva autoritaria dello stato, della quale il neo­ fascismo sarebbe stato espressione militante. Ne discen­ deva un'esaltazione della solidarietà e dell'autodifesa collettiva altrettanto militante, nel richiamo ricorrente all'esempio del partigianato resistenziale, che si riteneva avesse dimostrato, dopo l'offensiva squadristica degli anni Venti e contro il fascismo della Repubblica sociale, l'in­ dispensabilità del ricorso alla forza. Una simile interpre­ tazione parve trovare ulteriore conferma nelle cosiddette «giornate d'aprile» del 1975, quando l'uccisione a colpi di pistola di Claudio Varalli a Milano da parte di un noto neofascista, presumibilmente per vendicare la morte di Ramelli, deceduto tre giorni prima dopo una lunga ago­ nia, fu seguita in molte città da· una massiccia ondata di proteste, cui le forze dell'ordine, per contenere i tenta­ tivi di assalto alle sedi del Msi, reagirono assai duramente provocando la morte di Giannino Zibecchi a Milano e probabilmente di Rodolfo Boschi a Firenze. Le pratiche violente dell'antifascismo militante contri­ buirono soprattutto a rafforzare la solidarietà di gruppo e incentivarono la confidenza con l'esercizio individuale della violenza e il suo impiego su persone determinate, individuate come avversari meritevoli di essere individual­ mente aggrediti, certamente così prefigurando le azioni offensive delle organizzazioni armate. Non furono però propedeutiche alla scelta della lotta armata in termini po­ litici, restando quello dell'antifascismo militante sostan­ zialmente un ambito di iniziativa considerato secondario, anche da quei gruppi - come i Nap - che proprio con le incursioni in alcune sedi del Msi napoletano avviarono il proprio operato. Ne è conferma, d'altra parte, proprio il fatto che azioni intenzionalmente omicide nei confronti di esponenti neofascisti furono attuate da organizzazioni armate già operanti clandestinamente, come nel caso della, mai del tutto chiarita, uccisione di due militanti del Msi padovano ad opera delle Brigate rosse nel giugno

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1974 o dell'uccisione del consigliere provinciale del Msi milanese Enrico Pedenovi ad opera di Prima linea il 29 aprile 1975, attuata in risposta all'accoltellamento di Gae­ tano Amoroso (deceduto due giorni dopo), avvenuto il giorno precedente ad opera di un gruppo di noti neofa­ scisti, ma realizzata al fine già in precedenza deliberato di «elevare il livello dello scontro»45 su un piano generale. Una diversa intenzionalità omicida, sviluppatasi a Roma e determinata verosimilmente dall'intento di impedire in ultima istanza procedimenti giudiziari a carico della propria parte, è probabilmente ravvisabile nella morte del militante neofascista Mikis Mantakas, ucciso il 28 febbraio 1975 da un colpo di pistola nei disordini scop­ piati in occasione del processo per il rogo di Primavalle (seguita a sua volta da violenti disordini nei quali fu tra l'altro gravemente ferito un militante di sinistra) e nella successiva morte di Mario Zicchieri, ucciso il 29 ottobre di quell'anno da un colpo di fucile esploso da un'auto in transito davanti a una sede del Msi, ma forse diretto a colpire o intimidire altra persona, testimone nel processo per l'omicidio di Mantekas. Il quarto rilevante contesto di impiego della forza e ricorso alla violenza fu forse meno immediatamente visi­ bile ai grandi mezzi di comunicazione di massa, ma al­ trettanto e forse più significativo dei precedenti nel pro­ muovere dinamiche di militarizzazione, anche clandestina, del conflitto politico. Esso è genericamente identifica­ bile con gli ambiti di più intensa conflittualità o di più drammatico disagio sociale, dalle fabbriche alle carceri, ai quartieri periferici più degradati, ove le condizioni di vita e di lavoro erano, o apparivano, particolarmente in­ sostenibili a chi le sperimentava in proprio o altrimenti a 4' Cfr. Mentasti, Sen1.0 tregua, cit., pp. 210-211, che riporta ampi brani di dichiarazioni rese in sede processuale da Enrico Galmozzi; cfr. anche la testimonianza di C. Funaro, «Il comunismo è giovane e nuovo». Rosso e l'autonomia operaia milanese, in Bianchi e Caminiti, Gli autonomi, cit., p. 193.

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chi veniva in contatto con esse per motivi di solidarietà o di intervento politico. Specialmente in questi ambiti, si sviluppò una riflessione - talora anche solo implicita attorno al concetto di giustizia basata sulla convinzione che i rapporti sociali fossero determinati sostanzialmente dai rapporti di forza e che dunque le norme legislative e l'operato della magistratura e dell'amministrazione giu­ diziaria e carceraria, così come di ogni altra amministra­ zione pubblica, fossero funzionali al mantenimento di quei rapporti. Tale punto di vista radicale alimentò, sulla scorta di alcuni testi di sociologia critica, in specie di quelli risa­ lenti alla cosiddetta Scuola di Francoforte, e di alcuni te­ sti militanti di risonanza internazionale, una disamina an­ che penetrante del ruolo e del funzionamento di diverse istituzioni di disciplinamento sociale. Ma, soprattutto, nella pratica alimentò iniziative politiche e anche solo comportamenti che, nelle fabbriche, come nei quartieri periferici, nelle carceri e talora anche nelle scuole, affi­ davano all'insubordinazione - e dunque anche all'illega­ lità e quando necessario alla violenza - la possibilità di modificare quei rapporti di forza. Di fatto, e non senza paradossi, l'affermazione di un principio di giustizia era perseguita non solo - in coerenza con le idee di fondo della cultura del Sessantotto - con la mobilitazione an­ tiautoritaria, ma con l'esercizio di pratiche violente, rite­ nute necessarie per infrangere la forza dei presunti be­ neficiari (i proprietari di abitazioni, i datori di lavoro, le grandi aziende di distribuzione o di trasporto, le autorità scolastiche, ecc.) di quella condizione di ingiustizia, che tali erano proprio perché tutelati dal proprio potere so­ ciale e dalle norme, legislative e in genere regolamenta­ tive, nonché dal personale giudiziario e di polizia, che lo rendevano effettivo. Con dottrinarismo estremo si riteneva, insomma, che la legalità altro non fosse che lo strumento dell'ingiusti­ zia. Il ricorso a pratiche violente diveniva così legittima forma di resistenza alla violenza considerata insita in molti fenomeni della vita sociale e produttiva (turni di

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lavoro estremamente faticosi, malattie professionali, licen­ ziamenti incontrollati, discriminazione sociale nelle car­ riere scolastiche, elevato disagio abitativo, gravità delle condizioni carcerarie, attitudine violentemente repressiva delle autorità giudiziarie e di polizia, ecc.) 46• La percezione di un disagio sociale avvertito come in­ tollerabilmente oppressivo si coniugava con una inedita consapevolezza della obsolescenza delle tradizionali forme di controllo sociale. Questa congiunzione scaturiva da una larga e trasversale circolarità di conoscenze ed esperienze, frutto della mobilità geografica e sociale degli ultimi due decenni, della scolarizzazione di massa e della conseguente erosione tanto di consolidate compartimentazioni e gerar­ chie in seno ai ceti popolari quanto, in quei settori sociali rimasti ai margini della integrazione consumistica, dei mo­ delli culturali portatori di una concezione inclusiva, e dun­ que legalitaria e gradualista, dell'emancipazione sociale. I comportamenti violenti messi in atto nei contesti di mobilitazione sociale furono estremamente diversificati, quanto a modalità, obiettivi, intensità e, non da ultimo, legittimazione morale. Con diversa frequenza, si ricorse, tra l'altro, a blocchi stradali, occupazioni di edifici, mi­ nacce, violenze e percosse verso dirigenti, capireparto, guardiani e crumiri, danneggiamenti delle linee produt­ tive, appropriazione di beni per lo più nei centri com­ merciali di grande distribuzione, lancio di oggetti con­ tundenti e pericolosi di solito contro le forze dell'ordine, danneggiamenti, incendi e attentati con esplosivi, fino ai «sequestri lampo» e ai ferimenti e omicidi di responsabili 4i strutture produttive o della pubblica amministrazione. E facilmente riscontrabile tanto la diversa gravità di tali violenze, anzitutto se rivolte a cose o persone, quanto la loro diversa legittimazione, ad esempio considerando i blocchi stradali o i picchetti a sostegno di uno sciopero, l'occupazione di case disabitate o le proteste anche vio6 • In proposito cfr., tra l'altro, i saggi di Barbara Armani e Isabelle Sommier in questo volume.

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lente dei detenuti, particolarmente frequenti prima della riforma carceraria del 1975, e invece gli incendi, gli atten­ tati esplosivi, i «sequestri lampo» di dirigenti aziendali o i ferimenti e gli omicidi. A tale diversità corrispose però una sostanziale unita­ rietà dei contesti spaziali e sociali in cui quelle violenze erano operate: di volta in volta le agitazioni operaie in fabbrica, le mobilitazioni per la casa e i servizi nei quar­ tieri popolari, il circuito carcerario, ecc. Esse furono per­ ciò strettamente inserite e correlate a un più vasto con­ testo di iniziative e divennero per questo oggetto di con­ fronto tra chi le proponeva e attuava e l'insieme del mo­ vimento al cui interno si collocavano. Furono perciò di­ scusse, almeno nei loro termini generali, e di volta in volta condivise, tollerate o respinte, a seconda delle opzioni politiche e culturali e della fase conflittuale. Non furono insomma un corollario della conflittualità, ma scelte deter­ minate. Riflettevano opzioni politiche, ancora solo in parte indagate, che soprattutto dopo il 1973 - quando all'ina­ sprirsi della crisi sociale corrisposero a un tempo il ridi­ mensionarsi quantitativo delle mobilitazioni e l'acutizzarsi della conflittualità, seppure in chiave difensiva, contro la ristrutturazione produttiva e le sue ripercussioni sui livelli salariali, le condizioni di lavoro e l'occupazione - si vol­ sero in misura crescente verso la militarizzazione. Questa fu intesa sia come intensificazione della cosiddetta «propa­ ganda armata» (azioni dimostrative, intimidazioni armate, danneggiamenti, attentati, ferimenti mirati) in appoggio alle dinamiche conflittuali nelle fabbriche e nel circuito carcerario, foriera a sua volta di una progressiva stabiliz­ zazione della modalità di organizzazione clandestina, come suggeriscono la nascita dei Nuclei armati proletari (Nap) e la genesi di Prima linea47 , sia come innalzamento delle 1

Riguardo ai Nap, cfr. R. Ferrigno, Nuclei Armati Proletari - Car­ cerz; protesta, lotta armata, Napoli, La Città del Sole, 2008; cfr. anche V. Lucarelli, Vo17ei che il futuro fosse oggi. Ribellione, rivolta e lotta armata, Napoli, L'ancora del Mediterraneo, 2010; Soccorso rosso na•

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modalità di contrapposmone violenta alle forze dell'or­ dine, quale ad esempio si manifestò nel settembre 1974 nei violentissimi scontri avvenuti nel quartiere romano di San Basilio durante i quali furono utilizzate anche armi da fuoco, a fronte del durissimo intervento della polizia volto a sgomberare oltre centocinquanta famiglie occupanti abusivamente alloggi dello lacp e, forse, solo in reazione alla morte di Fabrizio Ceruso, giovane militante della sini­ stra radicale, ucciso da un colpo di pistola esploso da un agente di polizia. 5. La politica della lotta armata Dentro questi quattro grandi contesti o ambiti di azione si collocarono e dispiegarono le parole e le pra­ tiche della violenza e anche le scelte politiche e organiz­ zative, oltreché le traiettorie individuali48 , ali'origine della lotta armata. La genesi di quest'ultima dunque va ascritta a una varietà di contesti e di concezioni tra loro corre­ lati, ma non sovrapponibili. Anche per questo, lungi dal procedere in modo lineare e per accumulo, i fenomeni di militarizzazione e di clandestinizzazione si svilupparono e si riprodussero con tempi e percorsi diversificati, fin dai primi anni Settanta a oltre il sequestro Moro. Così, una suddivisione estremamente sommaria con­ sente di distinguere almeno quattro percorsi di militariz­ zazione. Quello, peculiare dei Gap di Feltrinelli e delle poletano (a cura di), I Nap. Storia politica dei Nuclei Armati Proletari e requisitoria del Tribunale di Napoli, Milano, Libri Rossi, 1976. Sul­ le origini di Prima linea, cfr. Mentasti, Senza Tregua, cit.; G. Boraso, Mucchio Selvaggio. Ascesa apoteosi caduta de//'organi1.za1.ione Prima Li­ nea, Roma, Castelvecchi, 2006. •s Secondo il suggerimento di metodo proveniente dagli studi di sociologia politica imperniati sull'articolazione tra il macrolivello del contesto sociopolitico, il livello intermedio delle organizzazioni poli­ tico-militari e il microlivello delle vicende individuali, come in della Porta, Socia/ Movements, Politica/ Violence and the State, cit.

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Brigate rosse, della militarizzazione e clandestinizzazione precoce, motivata da un'autonomia accentuata dell'azione politico-militare, che si dispiegò a partire dal 1972-73 e si rinnovò negli anni successivi, nonostante le difficoltà incontrate da quelle organizzazioni. Quello intrapreso dai Nap, pure distinto da una clandestinizzazione precoce, ma funzionale primariamente a indurre una radicalizza­ zione estrema del movimento di protesta nelle carceri e destinato perciò a esaurirsi con esso tra il 1974 e il 197 6. Quello intrapreso da Senza tregua, almeno in parte dai Collettivi politici veneti per il potere operaio e, poi, da Prima linea, dalle Unità comuniste combattenti, dalle Bri­ gate comuniste, poi Formazioni comuniste combattenti e da altre formazioni minori, avviato anch'esso nella se­ conda metà del 1974, ma dipanatosi più gradualmente, nel tentativo di restare più interno e aderente alle di­ namiche della conflittualità operaia (pur proponendosi come «area di partito» ovvero gruppo politico definito e delimitato) e dunque anche più riluttante a una piena clandestinizzazione che - come invece effettivamente av­ venne - avrebbe squilibrato il nesso tra iniziativa politica e militare decisamente a favore di quest'ultima49 • Infine, l'ultimo percorso fu quello orientato alla militarizzazione e all'armamento delle mobilitazioni di massa - affian­ cati da altre azioni violente, come attentati incendiari e con esplosivi a beni o sedi di partiti avversari, aziende, forze dell'ordine, e illegali, dalla protezione dei latitanti, al procacciamento e custodia di armi, fino alle rapine di finanziamento - prospettato a più riprese e fin dal 197 3 da alcune componenti dell'area dell'Autonomia operaia organizzata' 0 e poi perseguito con più decisione dal finire

49 Mentasti, Senza Tregua, cit.; Boraso, Mucchio Selvaggio, cit.; Aa.Vv., Progetto Memoria. La Mappa perduta, cit. e molte informazioni e testimonianze contenute in Bianchi e Caminiti, Gli autonomi, cit. '° Cfr. in particolare Sartori, La cronaca, in Te"ore rosso, cit., e le ricostruzioni storico-memorialistiche raccolte in Sacchetto e Sbrogiò, Quando il potere è operaio, cit., e in Bianchi e Caminiti, Gli autonomi, cit., voi. I, e la documentazione raccolta ivi, voi. II, nonché in Comi·

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del 1976, quando la violenta contestazione organizzata dai Circoli giovanili milanesi al Teatro della Scala nel di­ cembre di quell'anno aprì una progressione le cui tappe principali furono: gli scontri romani del 2 febbraio 1977 a Roma, quando, nel corso di una manifestazione di ri­ sposta al gravissimo ferimento di due studenti da parte di fascisti avvenuto il giorno precedente, furono feriti, probabilmente da agenti in borghese, Paolo Tomassini e Leonardo «Daddo» Fortuna, essi stessi armati; le violenze estese e sistematiche attuate a Bologna in risposta all'uc­ cisione di Francesco Lorusso da parte di un ufficiale dei carabinieri; l'assalto alla sede dell'Assolombarda a Milano il 12 marzo successivo e, lo stesso giorno a Roma, i colpi di arma da fuoco, che ferirono dieci tra poliziotti e cara­ binieri, esplosi durante la manifestazione nazionale - cui partecipavano decine di migliaia di persone - indetta per protestare contro l'uccisione di Lorusso, affrontata da un ingente schieramento di forze di polizia anche con largo uso di armi da fuoco; la manifestazione romana del 21 aprile successivo, quando fu ucciso l'agente di polizia Settimio Passamonti e altri tre agenti e una giornalista furono feriti; quella milanese del 14 maggio quando, due giorni dopo l'uccisione a Roma della giovane Giorgiana Masi, probabilmente colpita da agenti in borghese, fu uc­ ciso l'agente di polizia Antonio Custra. Furono proprio i clamorosi omicidi intenzionali dei due agenti di polizia a dimostrare l'inanità di una ipotesi di militarizzazione che né produceva consenso e mobilitazione di massa né tari autonomi operai di Roma (a cura di), Autonomia Opt:raia. Nasci­ la, sviluppo, prospettive dell'«area dell'autonomia» nella prima organi� ca antologia documenlana, Roma, Savelli, 1976; N. Recupero (a cura di), 1977: Autonomia I Organizzazione. Documenti da: Milano, Roma, Torino, Napoli, Padova, Palermo, Bologna, Cosenza, Catania, Pellicani, 1978; 1923. Il processo ai comunisti italiani. 1979. Il processo all'auto­ nomia operaia, Milano, Collettivo editoriale 10/16, 1979; G. Palom­ barini, 7 aprile: il processo e la stona, Venezia, Arsenale, 1982; T. De Lorenzis, V. Guizzardi e M. Mica (a cura di), «Avete pagato caro, non avete pagato tutto». La nvista «Rosso» (1973-1979), con Dvd, Milano, DeriveApprodi, 2008.

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spostava i reali rapporti di potere. Al contrario, essa sof­ focava quel movimento che pretendeva di guidare e por­ tava lo scontro militare su un terreno su cui era destinata a soccombere, anche considerando le non celate inten­ zioni del ministero dell'Interno Cossiga di acuire lo scon­ tro per poter impiegare l'esercito in servizio di ordine pubblico e varare normative speciali. Nell'arco di alcuni mesi il declino di questo percorso avrebbe invece alimen­ tato massicciamente - germinando nuove organizzazioni o irrobustendo quelle esistenti - i percorsi di militarizza­ zione precedentemente descritti. Proprio perché si trattava di contesti, scelte e per­ corsi, affidarsi alle genealogie - per cui dal milanese Col­ lettivo politico metropolitano del 1969 deriverebbe a ca­ scata buona parte della storia delle Brigate rosse e dall'in­ surrezionalismo di Potere operaio o di Lotta continua; o dal loro declino, fallimento o sfaldamento il restante uni­ verso dei gruppi armati - rischia palesemente di produrre letture tautologiche o deterministiche. Verosimilmente più feconde ed eloquenti promettono di essere quelle inda­ gini capaci di intrecciare le vicende delle diverse organiz­ zazioni radicali, armate e non, con i percorsi individuali e collettivi che le hanno intersecate. Non solo per cogliere il rilievo delle esperienze e scelte personali o di gruppo nelle dinamiche aggregative delle formazioni armate", ma per evidenziare le contaminazioni tra i diversi contesti politici e organizzativi, le crisi e dunque le soluzioni di continuità che furono alla base delle opzioni di volta in volta compiute da taluni verso una militarizzazione ulte­ riore, da talaltri invece verso un ridimensionamento delle pratiche violente. Difatti, i progetti di lotta armata matu­ rarono per evoluzione del dibattito interno alle singole organizzazioni non meno che attraverso una continua ri-

'1 Come sottolineato da della Porta, Te"orismo di sinistra, cit., pp. 133 ss., e Ead., Socia/ Movements, Politica/ Violence, and the State, cit., pp. 165 ss., ma anche implicitamente dalle numerose raccolte memo­ rialistiche realizzate, anche su base scientifica, nel corso degli anni.

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definizione e riproposizione, da parte di soggetti diversi, delle tematiche della forza e della violenza in modo larga­ mente trasversale alle organizzazioni stesse. Anche perché le organizzazioni, anziché mantenere una posizione sta­ bile, si mossero all'interno del movimento sia per occu­ pare collocazioni politico-organizzative più remunerative sia perché le loro priorità ideali e strategiche andarono mutando in ragione delle esperienze e dell'evolvere del contesto più generale. Per questo, idee e pratiche circola­ vano trasversalmente al movimento e alle organizzazioni, a prescindere dal declino di uno o dell'altro settore di in­ tervento. Da queste dinamiche derivò, tra l'altro, la persistente vitalità dell'opzione militare, riproposta nel tempo e in condizioni diverse da una pluralità di soggetti. Non è dif­ ficile scorgere, anche da questo punto di vista, una evi­ dente partizione tra una prima fase, compresa tra il 1969 e il 1972 e caratterizzata dal montare della mobilitazione studentesca e operaia e dalla reazione a essa, una seconda compresa tra il 1973 e il 1975, quando invece prevalsero tensioni e conflittualità sociali indotte dalla crisi econo­ mica e dalla ristrutturazione industriale, e una terza fase tra il 1976 e il 1980, dominata dall'ascesa e crisi della po­ litica di «solidarietà nazionale» e dal contemporaneo radi­ calizzarsi della protesta giovanile e espandersi delle orga­ nizzazioni di lotta armata. La vitalità dell'opzione militare fu qualità che pare contraddire una presunta correlazione tra sviluppo delle organizzazioni di lotta armata e declino del movimento� 2, specie se tale declino fosse suggerito dal decrescere degli episodi di protesta segnalati dai mass media, fenomeno che di per sé attesta solo una loro mi­ nore visibilità o rilevanza nel sistema comunicativo. In realtà, una eventuale riduzione delle azioni di protesta, e delle persone coinvolte in esse, potrebbe essere sintomo di una trasformazione del movimento, verso una stabiliz,i

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Cfr. supra nota 26.

zazione, radicamento e strutturazione su issues specifiche, e non necessariamente del suo indebolimento. Quella vitalità contrasta anche con le letture che ad­ debitano la genesi delle organizzazioni armate e del terro­ rismo di sinistra a una svolta moderata del Partito comu­ nista e alla crisi strategica dei gruppi extraparlamentari, per questo non più capaci di controllare e tenere al pro­ prio interno le pulsioni violente e militaristen. Per quanto certamente correlata a tali dinamiche, nella prima come nella seconda metà degli anni Settanta la genesi delle or­ ganizzazioni armate non fu una mera reazione strumen­ tale al fallimento delle strategie insurrezionaliste di Potere operaio o Lotta continua o esito del definitivo dissolversi della caduca distinzione tra violenza di massa e violenza d'avanguardia, ma la riproposizione di volta in volta con­ vincente seppur in tempi e contesti diversi di opzioni po­ litiche specifiche, per quanto drammaticamente riduttive. D'altronde, tali pretese conseguenzialità paiono sostan­ zialmente contraddette sia dal rapporto temporale tra cre­ scita delle tendenze militariste e delle organizzazioni ar­ mate e movimento del '77 - giacché quelle organizzazioni sorsero prima dello sviluppo del movimento, ma da esso trassero nuova e decisiva linfa vitale' 4 - sia dal fatto che il movimento fu tutt'altro che univocamente identificabile con quelle opzioni''· ,, Cfr., tra gli altri, Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, cit., pp. 510 ss. 54 Come suggerisce anche, nonostante le difficoltà di definizione e distinzione, il consistente aumento degli attentati, rivendicati e non, e degli episodi di violenza stimato in della Porta e Rossi, Ci/re crudeli, cit., pp. 20 ss., in particolare la figura 1 e la tabella 4. " Cfr. Armani, Italia anni settanta, cit.; Galfré, L'insostenibile leg­ gere:ua del '77, cit.; M. Grispigni, 1977, Roma, Manifestolibri, 2006; e la documentazione raccolta in S. Bianchi e L. Caminiti (a cura di), Set­ tantasei/e. La rivoluzione che viene, 2' ed., Roma, DeriveApprodi, 2004; Collettivo redazionale «La Nostra Assemblea», Le radià di una rivolta.

Il movimento studentesco a Roma: interpreta1.iom; falli, e documenti, feb­ hrato-aprile 1977, Milano, Feltrinelli, 1977; Balestrini e Moroni, I:orda d'oro 1968-1977, cit., oltre a quanto già segnalato nella nota 49.

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La costruzione di una periodizzazione dovrà dunque guardare oltre la storia delle organizzazioni maggiori, per scorgere dentro il mutare dei contesti - anche geografici - quelle congiunture ove le pratiche violente si dispie­ garono con maggiore intensità e, non necessariamente in modo conseguenziale, maturarono le scelte politiche e organizzative verso la lotta armata. In questa luce, tra il 1974 e il 197 5 si consumò forse un passaggio cruciale, non tanto perché le autorità predisposte avessero allora lasciato cadere, più o meno colpevolmente, l'iniziativa di contrasto alle Brigate rosse56 , quanto perché in quel torno di mesi si dispiegarono tanto gli effetti della crisi economica e dei processi di ristrutturazione industriale a essa conseguenti, quanto - tra l'esito del referendum sul divorzio, le inchieste sulle tangenti petrolifere e sul caso Sindona e i risultati elettorali punitivi per la coalizione di maggioranza - la crisi manifesta degli assetti di governo e del sistema dei partiti'7• Dentro quella duplice crisi, e a fronte del già richiamato accentuarsi della violenza sot­ tesa alla conflittualità sociale e politica, le opzioni milita­ riste tornarono a riscuotere credibilità, nella prospettiva di un possibile acuirsi financo in senso insurrezionale de­ gli antagonismi in atto'8• Come si è visto, fu in realtà solo nel 1977, con il ri­ esplodere della mobilitazione giovanile, che le organizza­ zioni di lotta armata, a prescindere dalle loro connota­ zioni politiche, trovarono nuova agibilità e campo di ini­ ziativa. Significativamente, quella mobilitazione fu tanto 6 ' Una considerazione formulata a suo tempo da Giorgio Bocca e ripresa da più autori. '7 In proposito restano di grande suggestione - e meritevoli di es­ sere sviluppate - le considerazioni di De Felice, Nazione e cnsi, cit., pp. 20 ss.; cfr. anche G. Crainz, Autobiografia di una repubblica. Le radici delritalia attuale, Roma, Donzelli, 2009, pp. 109 ss. 8 Sintomatico il rapidissimo aumento a partire dal 1976 del nu­ ' mero delle denominazioni utilizzate per la prima volta per compiere attentati e attribuite alla sinistra in della Porta e Rossi, Cifre crudeli, cit., tabella 9, p. 44. Cfr. anche le schede riportate in Aa.Vv., Progetto Memoria. La mappa perduta, cit.

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intensa quanto peculiare del contesto nazionale, indice evidente non solo delle condizioni generali del paese, ma delle dinamiche che avevano investito l'universo giovanile - e non solo quello studentesco - e le sue culture, orien­ tandole in senso anomico e semmai antagonistico. Le pur evidenti novità rispetto al movimento del Sessantotto non denotavano peraltro alcuna contrapposizione o alterità a quello, né segnalavano l'emergere di qualche dinamica sociale rimasta finallora occulta. Nel '77 si palesarono in­ vece le trasformazioni sociali e culturali sedimentate ne­ gli anni intercorsi, cosicché discontinuità vi era rispetto al decennio precedente, ma non agli anni più ravvicinati, quelli in cui era maturata una consistente anomia sociale e anche politica nei confronti delle organizzazioni parti­ tiche prevalenti, anche di sinistra. Si innestò in quella anomia la disponibilità diffusa - ma nient' affatto genera­ lizzata - a pratiche violente e anche armate, interagendo con e rilanciando quanto alcuni erano andati promuo­ vendo fin dal 1974-75. Fu questo il terreno di incontro e di continuità con le generazioni precedenti'9 e il terreno di cultura e di crescita delle tendenze alla militarizzazione in precedenza descritte. Se qui si realizzò almeno in parte la congiunzione tra quello che è stato definito un «terrorismo "maggiore", spietato ma di dimensioni ridotte» e un «terrorismo "dif­ fuso", certo di dimensioni notevolmente più ampie, ma dai contorni più incerti e ambigui»60 , va anche però ri­ cordato come in altre rilevanti componenti del movi­ mento proprio quell'anomia critica della politica costi­ tuì invece un antidoto al militarismo e in generale a una concezione irriducibilmente antagonistica del conflitto politico. Ne furono dimostrazione in particolare l'esito 9 ' A suo tempo segnalato da della Porta, Il te"orismo di sinistra, cit., pp. 139 ss. 60 Della Porta e Rossi, Ci/re crudeli, cit., pp. 74-75, che pure op­ portunamente si interrogavano su quanto ci si fosse adoperati per im­ pedire quella congiunzione.

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del convegno bolognese del settembre 1977, ove l'area de1l'autonomìa dimostrò dì non essere forza egemone e dovette rinunciare a ogni ipotesi dì prova di forza vio­ lenta, e l'ampio dibattito critico su1la legittimità e il va­ lore politico della violenza sviluppatosi in particolare dopo la morte del giovane Roberto Crescenzio, perito a Torino nell'incendio intenzionalmente appiccato al bar Angelo Azzurro per ritorsione dopo l'omicidio di Walter Rossi da parte di neofascisti nel settembre di quell'anno, e l'omicidio del giornalista Carlo Casalegno ad opera delle Brigate rosse nel novembre successivo. Pur lungi dal concludere la stagione della lotta armata e del terrorismo, quel dibattito segnò forse un punto di svolta, tra chi aveva optato e a lungo sarebbe rimasto in­ terno ai progetti di militarizzazione estrema e chi invece metteva ora apertamente in discussione il ruolo politico, tattico e strategico, della violenza. Nei mesi successivi e per circa due anni, infatti, come già accennato, al decli­ nare della mobilitazione giovanile nelle sue dimensioni di massa corrispose un deciso incremento delle pratiche militari, ad opera di un numero crescente di organizza­ zioni di ben diversa solidità e con un marcato incremento dei ferimenti e degli omicidi. Quella drammatica stagione esplicitò il duplice fallimento tanto dei progetti di mili­ tarizzazione interna al movimento, ormai declinato e co­ munque in larga maggioranza ormai avverso all'opzione violenta, quanto di quelli basati su organizzazioni mili­ tari a sé stanti e clandestine. Un fallimento dovuto non solo al distacco dal movimento, che in realtà le opzioni militari quasi mai avevano fatto crescere e quasi sempre usato per consolidare se stesse, ma alla loro sconfitta so­ stanziale proprio sul terreno militare. Proprio quando riuscirono a esprimere la loro massima potenzialità offen­ siva, le organizzazioni armate non seppero accompagnarla con una corrispondente qualificazione degli obiettivi politico-militari - colpendo sempre più spesso persone drammaticamente incongrue con il rilievo politico loro attribuito, quando non esplicitamente scelte per inte­ ressi settari - e subirono la crescente capacità repressiva

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delle autorità di pubblica sicurezza e della magistratura. In sostanza, si dimostrarono definitivamente incapaci di spostare a proprio favore i rapporti di forza sul terreno politico, ammesso che mai ne avessero avuto possibilità, e la loro coesione e capacità militare si ridimensionò con la stessa rapidità con cui si era sviluppata. Restò il tragico bilancio delle vittime, e le onerose personali vicende di quanti furono chiamati a rispondere del proprio operato di fronte alla magistratura, alla so­ cietà e a se stessi. Restò il fallimento di una scelta poli­ tica, a lungo coltivata, il cui peso sulle vicende italiane di quel cruciale decennio merita di essere scandagliato più a fondo.

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MONICA GALFRÉ

LA LOTTA ARMATA. FORME, TEMPI, GEOGRAFIE

Qualsiasi riflessione sulla lotta armata nell'Italia degli anni Settanta è inevitabilmente condizionata dall'imma­ turità di una storiografia che stenta a decollare, soffocata dalle esigenze e dalle sfide, non sempre compatibili, della giustizia, della memoria pubblica e della storia, tipiche di un XX secolo letto come secolo della violenza 1• In effetti la lotta armata è divenuta una sorta di passato che non passa rispetto al quale l'opera della magistratura sembra aver supplito al silenzio degli storici e, prima ancora, all'incapacità e alle strumentalizzazioni della politica, se­ condo una tradizione italiana di lungo periodo2 • Si può in primo luogo osservare che la tematizzazione e la periodizzazione della lotta armata non hanno ancora ac­ quisito una loro autonomia e risentono delle letture del de­ cennio nel quale essa si sviluppa: letture non di rado univo­ che e tra loro inconciliabili, che faticano a restituire la con­ traddittorietà di un periodo che, apertosi con il Sessantotto, 1 Cfr. a questo proposito le riflessioni di E. Traverso, li passato: istruzioni per l'uso. Storia, memoria, politica, Verona, Ombre eone,

2006, in panicolare pp. 70-78; più in generale cfr. M. Flores (a cura di), Storia, verità, giustizia. l crimini del XX secolo, Milano, Bruno Mondadori, 2001. 2 Per un recente bilancio di studi cfr. L. Bosi e M.S. Pireni, In­

troduzione a Violenza politica e terrorismo: diversi approcci di anali­ si e nuove prospettive di ricerca, a cura di L. Bosi e M.S. Pireni, in «Ricerche di storia politica», 21, n. 3, 2008, pp. 3-10; cfr. anche A. Ventrone, Introduzione, in Id. (a cura di), I dannati della rivoluzione. Violenza politica e storia d'Italia negli anni Sessanta e Settanta, Macera­ ta, Eum, 2010, pp. 7 ss.; M. Lazar e M.-A. Matard-Bonucci (cura di),

Il libro degli anni di piombo. Storia e memoria del terrorismo italiano, 2010, in particolare gli interventi di I. Sommier (La storia infinita: implicazioni e limiti delle interpretazioni degli «anm di piombo», pp. 143-154) e B. Armani (La produzione storiografica, gior­ nalistica e memoriale sugli anni di piombo, pp. 207-223). Milano, Rizzoli,

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fu quello della meglio ma anche della peggio gioventù3 • Nd dibattito pubblico sembra prevalere la tendenza ad appiat­ tire gli anni Settanta sulla violenza e a confondere fenomeni tra loro molto diversi, di cui è spia l'uso corrente di defini­ zioni come «anni di piombo» e «degli opposti estremismi»: non a caso in un editoriale del 2007, significativamente in­ titolato Brigatismo senza fine, Ernesto Galli Della Loggia ha potuto addirittura insistere sulla violenza politica come costante della storia nazionale e conferma della sua ano­ malia4 . Il rischio è quello di banalizzare la questione della specificità del caso italiano, che non significa eccezionalità e che in realtà appare seriamente fondata - oltre che per lo stragismo neofascista - anche per la lotta armata'. Gli oltre 20.000 inquisiti, se si dà credito ad alcune stime, e i 4.200 incarcerati, con più di 120 vittime e innumerevoli attentati, danno la misura di un fenomeno unico in Europa, a partire dal 1974, per durata, intensità e radicamento sociale; dif­ ferenziandolo così, nonostante le molte analogie, anche da quello tedesco, dove la principale formazione terronsttca, la Rote Armee Fraktion (Raf), fu protagonista di un'espe­ rienza tanto violenta quanto circoscritta\ I È il libro di memorie dell'ex brigatista Valerio Morucci (La peg­ gio gioventù. Una vita nella lotta armata, Milano, Rizzoli, 2004) a pa­

rafrasare il titolo pasoliniano del celebre film di Marco Tullio Giorda­ na, La meglio gioventù (2003). • E. Galli Della Loggia, Brigatismo senza fine, in «Corriere della Sera», 27 aprile 2007: l'intervento suscitò peraltro un acceso dibatti­ to, con le risposte polemiche - tra gli altri - di Giuseppe Galasso e Sergio Luzzatto, e replica conclusiva di E. Galli Della Loggia (Storia e violenza, cattivo modello italiano, ivi, 31 maggio 2007). ' Cfr. G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004; M. To­ lomelli, Terrorismo e società. Il pubblico dibattito in Italia e in Germa­ nia negli anni Settanta, Bologna, Il Mulino, 2006; e ora I. Sommier, La

violenza rivolui.ionana. Le espen·eni.e di lotta armata in Francia, Germa­ nia, Giappone, Italia e Stati Uniti, Roma, DeriveApprodi, 2009. 6 Per i dati cfr. Aa.Vv., Progetto Memona. La mappa perduta, cit.; S. Segio, Miccta corta. Una storta di Prima Linea, Roma, DeriveAppro­

di, 2005; che io sappia, non esistono dati ufficiali sul numero degli in-

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Del resto, lo stretto intreccio di fattori nazionali e in­ ternazionali determinato dalla guerra fredda si è tradotto in Italia in un insieme di vincoli tali - secondo il giudizio di alcuni - da dar luogo a una sorta di «democrazia in­ completa»: la lotta armata si sviluppa infatti in un con­ testo politico bloccato, con il più forte Partito comuni­ sta occidentale interdetto dal governo; uno scenario reso inquietante - a partire dalla strage neofascista di piazza Fontana del 12 dicembre 1969 - dalla cosiddetta «strate­ gia della tensione» e da alti tassi di conflittualità sociale e di violenza politica, sia di destra che di sinistra7• Qualche cautela critica è comunque necessaria anche quando, a prevalere, è il volto buono del lungo ciclo di conflittualità sociale che si apre con il Sessantotto studen­ tesco e con il '69 operaio8• Il crescente interesse per gli anni Settanta ha avuto il merito di individuare in essi un tornante decisivo della modernizzazione civile e culturale del paese, se pur nei termini di un'occasione mancata sul piano politico: con il risultato, però, di spaccare il decen­ nio in due metà, separando in modo netto l' «ottimismo rivoluzionario» del Sessantotto e della cosiddetta stagione dei movimenti dagli anni di piombo, che sono divenuti quasi una storia separata. Riproponendo i termini pole­ mici di allora, vi è stata la tendenza ad assolutizzare la natura difensiva della violenza di sinistra, vista come rea­ zione non solo alla violenza fascista, ma anche a quella di stato: alla repressione delle piazze, alle implicazioni nelle stragi neofasciste, definite non a caso «stragi di stato» a partire da piazza Fontana - che la maggior parte dei mili­ tanti indica come fine dell'innocenza9 . quisiti e i diversi conteggi che sono stati fatti, viziati da limiti oggettivi e soggettivi, oscillano considerevolmente. 7 G. FasaneUa, C. Sestieri e G. PeUegrino, Segreto di Stato. La ve­ ntà da Gladio al caso Moro, Torino, Einaudi, 2000, p. 5; più in gene­ rale, F. De Felice, Doppia lealtà, doppio Stato, in «Studi storici», 30, n. 3, 1989. 8 Al '69 è stato riconosciuto un valore periodizzante superiore per­ sino al '68 in 1969, in «Parolechiave», 18, 1999. 9 Cfr., ad esempio, M. Revelli, Movimenti soaali e spazio politico, in

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1. Le categorie de/la violenza politica Sia le letture in positivo che quelle in negativo degli anni Settanta tradiscono l'imprecisione con cui si usa la ca­ tegoria generale di violenza politica e, in particolare, quella di violenza politica di sinistra. Nello specifico, l'assenza di una puntuale analisi fenomenologica non ha consentito di distinguere con sufficiente chiarezza le modalità e le fina­ lità diverse che la violenza assume all'interno della sinistra rivoluzionaria ed eversiva nel corso degli anni Settanta 10• Manca così una riflessione sul rapporto di continuità e rottura che lega le esperienze, pur molto diverse e fram­ mentate, dei gruppi extraparlamentari, dell'autonomia e della lotta armata, al di là dell'identità stabilita dal cosid­ detto «teorema Calogero» e dall'insieme delle inchieste co­ nosciute come «7 aprile». Secondo l'impianto accusatorio dell'allora sostituto procuratore di Padova Pietro Calogero, l'Autonomia operaia e i suoi teorici - non escluso Potere operaio - erano parte integrante della strategia terroristica facente capo, in ultimo, alle Brigate rosse: un'ipotesi quella di un'organizzazione e di una strategia uniche - che si è rivelata priva di fondamento già sul piano giudiziario, ma che negli ultimi anni è stata in qualche modo ripropo­ sta proprio sul piano storiografico11 • Storia dell'Italia repubblicana, voi. II, t. 2: LA trasformazione dell'Italia. Sviluppo e squilibri, Torino, Einaudi, 199,; e anche G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni '80, Roma, Donzelli, 2003. Cfr. ora G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, scon/illa, memoria, Milano, Feltrinelli, 2009. Un rapporto più

equilibrato tra le due fasi è invece posto da Luigi Manconi, che non è uno storico, ma un sociologo ed ex militante di Lotta continua che sarebbe stata al centro della tematica difensiva dell'an­ tifascismo. A questo proposito, Autonomia operaia fin dall'origine nel 1973 avrebbe affermato che «l'unica via possibile è quella dell'attacco»24 e avrebbe inteso confu­ tare le tesi di chi si riteneva confondesse l'obiettivo ac­ centuarsi della repressione con la fascistizzazione dello stato. Certamente Le fu condizionata da queste critiche, tant'è che per un breve periodo (dall'aprile del 1972 alla fine dell'anno) sperimentò una «parentesi militarista» simboleggiata dalla parola d'ordine dello «scontro ge­ nerale», lanciata al suo terzo congresso di Rimini. Ma a dispetto di ciò, il modello della «violenza offensiva» per condurre l'insurrezione rimane soprattutto appannaggio di Potere operaio e delle Br. Al suo convegno dell'estate 1971, Potere operaio parla di «potere operaio per il partito, potere operaio per l'insurrezione, potere operaio per il comunismo» e decide di organizzare un settore clandestino per il «lavoro ille­ gale», che diventerà il Fronte armato rivoluzionario ope­ raio (Faro) diretto da Franco Piperno e Valerio Morucci. sindacalisti della Cisnal (il 30 luglio); una settimana dopo il suo tenta­ tivo di colpo di stato, l'incendio dell'ufficio del principe Julio Valerio Borghese (13 dicembre 1970). Nel 1972 «perquisizione» nella casa di un consigliere del Movimento sociale italiano (27 gennaio), incendio della villa del vicesegretario provinciale del Msi e consigliere comuna­ le di Torino (27 febbraio), incursione nella sede del Msi e sequestro di Banolomeo Di Mino (13 marzo), incendio delle automobili di nove sindacalisti di estrema destra (26 novembre), seguito da sei incendi si­ mili il 17 dicembre. 2 ' Potere operaio, Sulla violenza, cit. 24 Comunicato introduttivo al Congresso di Bologna (3-4 mar­ zo 1973), in Comitati autonomi operai di Roma, Autonomia Operaia, Roma, Savelli, 1976, p. 40.

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Lo schema del processo rivoluzionario è quello leninista, articolato in tre fasi: costruzione del partito, insurrezione, guerra civile2 1 • Questo imperativo implica l'uso della no­ zione di «avanguardia», contro le posizioni spontaneiste di Le: «Non si può aspettare che le masse arrivino, attra­ verso una gradualità di esperienze, a una completa orga­ nizzazione militare: l'indicazione, l'innesco pratico di que­ sto processo deve partire dall'avanguardia organizzata»26 • La scelta insurrezionalista di Potere operaio nel 1971 aprì una crescente divaricazione con Le, come racconta Paolo Virno: La differenza di linea politica rilevante si ebbe attorno al 1971 quando noi giudicammo che con gli avvenimenti inter­ nazionali (decisione di Nixon di sganciare il dollaro dal valore dell'oro) e sul piano interno si andava verso un momento di re­ cessione economica scatenata anche contro le lotte operaie per piegarle e che si poteva reagire alla crisi economica solo con un vero momento di rottura insurrezionale (intervista del 15 aprile 1993, Roma).

Fino al 1973, anche le Br fanno riferimento alla lotta contro «il fascismo gaullista»27 e alla resistenza alla milita­ rizzazione del regime e nelle fabbriche28 . Ma lo fanno da un punto di vista soprattutto teorico. Nei fatti, sviluppano prevalentemente la propaganda armata come strumento 2' Preparare l'insu"ezione, in «Potere Operaio», giugno 1972. 26 Documento e.li Potere operaio datato 14 febbraio 1971 e intito­ lato Le manifestazioni del 41516 febbraio, il problema dei /ascistz; una risposta militante al contrattacco padronale, ora in Archivio dell'Irsifar, fondo Stefano Lepri. 27 Nuova Resistenza, maggio 1971, in Soccorso rosso, Brigate Ros­ se: che cosa hanno /atto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è detto, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 102. È e.la notare l'influenza del gruppo francese Gauche prolétarienne, dalla cui sezione clandestina Nouvelle résistance prolétarienne la rivista «Sinistra proletaria» riprese nel luglio 1970 la denominazione invitando a organizzare una «Nuova Resisten­ za». 2• Documento delle Br (gennaio 1973 ), in «Potere Operaio», n. 44, 11 marzo 1973.

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di sostegno e radicalizzazione delle lotte sociali: sono le «azioni esemplari», i danneggiamenti mirati, le gogne. Nel settembre del 1971 designano come bersagli nelle fabbri­ che «i despoti, i domestici dei padroni più odiati dalla classe operaia», «i fascisti perché sono l'esercito armato che il capitale utilizza», «i nemici del popolo»29 • I mezzi utilizzati (distruzione di automobili, minacce contro i pic­ coli capi, ecc.) non hanno un'eco particolare nella misura in cui sono simili a tutte le azioni violente di estrema sini­ stra dell'epoca. Ma la loro strategia evolve sia per il ridi­ mensionarsi della minaccia di un colpo di stato imminente, sia per il progredire della politica del compromesso sto­ rico perseguita dal segretario del Partito comunista Enrico Berlinguer. Nell'aprile 1975, quindi, la direzione strategica delle Brigate rosse lancia «l'attacco al cuore dello stato» e denuncia esplicitamente i «revisionisti», cioè il Pci che par­ teciperebbe allo «stato imperialista delle multinazionali». E 1'8 giugno 1976 avviene il primo assassinio politico firmato dalle Br contro il giudice Francesco Coco. Dal 197 3 la sinistra extraparlamentare italiana cono­ sce una forte crisi, dalla quale tra l'altro deriva la costi­ tuzione di Autonomia operaia, fortemente critica nei con­ fronti dei «partitini» e delle loro strategie. Patrizio ha se­ guito durante gli anni Settanta un percorso assai comune che l'ha condotto dal movimento studentesco a Potere operaio, da Potere operaio a un gruppo armato che con­ sidera prossimo all'area autonoma: Era una critica della forma partito ma era anche una critica del processo rivoluzionario. Perché la forma partito di Potere operaio era talmente legata al processo rivoluzionario leninista che noi dicevamo che eravamo il partito dell'insurrezione [. ..]. A me sembrava evidente che non ci sarebbe stata nessuna in­ surrezione in quegli anni. Era un dato obiettivo, concreto (in­ tervista del 17 aprile 1993, Roma). 29 Documento delle Br (settembre 1971), in Soccorso rosso, Brigate

Rosse: che cosa hanno /atto, che cosa hanno detto, che cosa se ne è det­ to, Milano, Feltrinelli, 1976, p. 105.

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Sepolta l'ortodossia rivoluzionaria e consumata la rot­ tura coi gruppi esistenti, il movimento autonomo avanza una concezione della rivoluzione e delle forme di azione radicalmente sovversiva, ben riassunta in un articolo della rivista «A/traverso» del giugno 1977 dal titolo provocato­ rio di La rivoluzione è finita. Abbiamo vinto. Così ricor­ dano due militanti:

In questa nebulosa, non c'era un prima e un dopo. Al prima e al dopo veniva contrapposto qui e ora. Non c'era que­ sta attesa spasmodica del giorno in cui la prenderanno in culo. Il nostro giorno era qui. Quindi la sottrazione di tempo al ca­ pitale, la sottrazione di soldi al capitale, la costruzione di spazi comunitari, alternativi, sociali, era quello che si verificava im­ mediatamente. C'era una specie di vaccino contro i rischi del partito, dell'organizzazione, della rivoluzione centralizzata, delle gerarchie. In Autonomia, parlare, dire «capo» era una bestem­ mia (Pino V., intervista del 20 febbraio 1993, Milano).

L'idea era di impedire l'esercizio del potere dello stato e di disgregare lo stato. L'idea del contropotere è il fatto che l'eser­ cizio della violenza si trasforma in esercizio della forza, quindi dove non c'è bisogno di conquistare il palazzo, prima di tutto perché non c'è un cuore dello stato, perché il potere dello stato non è identificabile né in un individuo, né in una singola struttura ma nel meccanismo del capitale, della riproduzione sociale (Lanfranco D., intervista del 17 aprile 1993, Roma).

Per Autonomia operaia come in parte per Prima li­ nea (anche se al momento della sua costituzione nel 1976 essa si presenta come una struttura armata «al servizio dei lavoratori») è venuto il tempo della «violenza diffusa» per creare «spazi liberati». La soddisfazione dei bisogni non è più rinviata alla presa del Palazzo d'inverno e ai «domani che cantano»; questa soddisfazione è vissuta e deve imporsi con azioni immediate. Da qui la diffusione senza precedenti di azioni illegali e violente, che mirano all'appropriazione diretta dei beni che gli Autonomi qua­ lificano come «salario sociale»: occupazioni di alloggi, au­ toriduzioni nei servizi pubblici, «mercati politici». Come 279

il titolo di «Rosso» (n. 15, marzo-aprile 1975), L'ille­ galità delle lotte è sorgente di diritto.' [ ... ] per il «comuni­ smo qui e ora». Il potere politico non è più da prendere

dice

o da abbattere: bisogna proteggerne e sottrarre alla sua autorità degli «spazi liberati». Così l'anno 1977 è segnato da un'escalation di violenza, tanto «di massa» quanto clandestina. Si osserva un aumento del 77,62% degli at­ tacchi contro i beni (sedi di partito, caserme, commissa­ riati, tribunali, imprese, ecc.), con un attentato ogni quat­ tro ore. L'approccio «autonomo» esprime uno spostamento dell'argomento rivoluzionario: dall'operaio massa degli operaisti all'operaio sociale teorizzato da Negri. Uno spo­ stamento che si osserva particolarmente nei bersagli pri­ vilegiati dai vari gruppi. Come ha dimostrato molto bene Donatella della Porta' 0, la propaganda rivolta alle fabbri­ che è il tratto distintivo delle Br, mentre gli altri gruppi armati, quelli che potremmo definire di seconda genera­ zione, privilegiano una propaganda «sociale» dagli obiet­ tivi diversificati: piccole aziende, agenzie immobiliari, di pubblicità o di servizi informatici, spacciatori, psichiatri, guardie notturne. L'analisi dei registri di legittimazione della violenza condotta qui, sul piano teorico come su quello pratico, non pregiudica affatto a priori le logiche e i procedimenti con cui si passò agli atti. Se ne possono distinguere tre: il rifiuto tattico della clandestinità, la prospettiva della morte, le disillusioni (o «lavoro di lutto») sull'efficacia della «propaganda del fatto» nella classe operaia. Pe­ raltro, occorre mettere in luce due elementi. Sul piano storiografico, il paragone tra i casi francese e italiano31 permette di capire la continuità delle argomentazioni in favore del ricorso alla violenza riscontrabile tra le orga­ nizzazioni legali e quelle terroristiche. Uno sguardo comio D. della Porta, Socia/ Movements, Politica/ Violence and the State, Cambridge, Cambridge University Press, 1995. li Sommier, La violence politique et son deuii, cit.

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parativo allargato ad altri casi (Stati Uniti, Germania e Giappone3 2 ) evidenzia inoltre l'affinità dei registri di le­ gittimazione della violenza e degli scenari, che induce, ancora oggi, a privilegiare un'analisi unitaria delle rivolte degli anni Sessanta e degli «anni di piombo» e in questo modo a iscrivere il Sessantotto in una via di mezzo sto­ rica, tra il canto del cigno dell'utopia marxista-leninista e la prefigurazione delle contestazioni future.

12 I. Sommier, La violenza n'vo/u1.ionaria. Le espen'enze di lotta ar­ mata in Francia, Germania, Italia, Giappone e Stati Uniti, Roma, Deri­

veApprodi, 2009.

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PARTE TERZA

LUOGHI, PRATICHE, CONTESTI

CHRISTIAN

G.

DE VITO

LA LOTTA ARMATA E LA «QUESTIONE DELLE CARCERI»

La storiografia italiana ed estera non sembra aver pre­ stato finora sufficiente attenzione all'utilità di assumere anche il punto di vista delle carceri nello studio storico del fenomeno della lotta armata e delle strategie antiter­ roristiche•. S e il tema carcerario nel suo insieme appare infatti largamente marginale nel dibattito storiografico, in particolare rispetto al periodo post-1945, un'attenzione ancora minore è stata riservata a esso negli studi sui mo­ vimenti sociali, sulla lotta armata e sull'antiterrorismo, che gli hanno dedicato solo cenni episodici, in relazione a singoli eventi eclatanti. Gli studiosi sembrano insomma fermarsi sulla soglia del carcere, assumendolo come luogo separato e immo­ bile, non influenzato né influente rispetto alle dinamiche 1 Tra i non molti studi che hanno trattato questo aspetto, sia pure anch'essi marginalmente, cfr. D. della Porta, Il te"orismo di sinistra, Bologna, Il Mulino, 1990; H. Hess, Stona sociale del te"orismo italia­ no, Firenze, Rcs Sansoni, 1991; G. Galli, Piombo rosso. Storia comple­ ta della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi, Milano, Baldini Castol­ di Dalai, 2004; I. Sommier, La violenza rivoluzionaria. Le espen·eni:.e

di lotta armata in Francia, Germania, Giappone, Italia e Stati Uniti, Roma, DeriveApprodi, 2009; B. De Graaf, Theater van de angst. De stnjd tegen te"orisme in Nederland, Duitsland, ltalie en Amerika, Am­ sterdam, Boom, 2010. Segnalo qui anche i miei due studi: Camom· e glrachravi. Storta del carcere in Italia 1943-2007, Roma-Bari, Laterza, 2009, soprattutto i capp. III e IV; Ci siamo presi la libertà di lottare. Movimenti dei detenuti in Europa ocàdentale, con S. Vaiani, in «Za­

pruder», 16, maggio-agosto 2008. Per la pubblicazione di alcune fonti primarie si rimanda soprattutto ai cinque volumi del Progetto Memo­ ria curati da Maria Rita Prette, e in particolare all'ultimo: Il carcere speciale, Roma, Sensibili alle foglie, 2006. Cfr. inoltre le riviste «Con­ troinformazione», «Carcere informazione», «Il bollettino». Per le fonti archivistiche si rinvia alle note nell'ultimo paragrafo del presente con­ tributo.

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storiche della società. Viene a mancare così anche un col­ legamento alla «questione delle carceri» di altri aspetti analizzati dai ricercatori, quali la controinformazione da parte dei movimenti extraparlamentari o le strategie re­ pressive degli apparati dello stato, soprattutto per quanto riguarda la magistratura o le forze di polizia. A fronte di questo quadro lacunoso negli studi spe­ cifici e immaturo sul versante teorico, le note che se­ guono non hanno alcuna pretesa di completezza. Si vuole provare qui a suggerire un'immagine più dinamica della «questione delle carceri», centro di un complesso intrec­ cio di motivi politici, sociali e culturali e non esclusiva­ mente ambito specialistico: rispetto ai movimenti sociali e alle organizzazioni armate, dunque, carcere come terreno dell'azione collettiva e come possibile luogo del recluta­ mento di nuovi militanti, come luogo di riflessione teo­ rica e come punto rilevante nella formazione dell'imma­ ginario attorno alla repressione statuale; per altro verso, considerato dal lato delle istituzioni, carcere come snodo significativo dei processi di criminalizzazione dei movi­ menti sociali, come momento dell'azione di intelligence e di counter-intelligence, come laboratorio delle strategie antiterroristiche. Ecco dunque qui di seguito alcune suggestioni, limi­ tate all'esperienza italiana degli anni 1968-86, sul rap­ porto tra «carcerario» e alcuni nodi storiografici centrali della storia della lotta armata e delle strategie antiterrori­ smo.

1. Gruppi extraparlamentari e organizzazioni armate Rispetto al rapporto tra gruppi extraparlamentari e organizzazioni armate, la prospettiva carceraria spinge innanzitutto ad approfondire le biografie e i percorsi di militanza dei singoli protagonisti nella fase cruciale rap­ presentata dagli anni 1974-77. È utile a questo proposito assumere come punto di riferimento la Commissione car­ ceri di Lotta continua, che fu di fatto il luogo principale 286

dell'intervento nelle carceri della sinistra extraparlamen­ tare2. Dei membri della Commissione carceri compirono la scelta della lotta armata esclusivamente quelli che ave­ vano alle spalle un passato recente di detenzione; gli altri attivisti, per contro, abbandonarono del tutto il terreno carcerario, oppure, come nel caso di Irene Invernizzi e Carmen Bertolazzi, lo proseguirono già a partire dalla se­ conda metà degli anni Settanta nelle file del Pci o dell'as­ sociazionismo di matrice laica. Su queste opzioni diversificate pesò senza dubbio la decisione dalla dirigenza di Lotta continua nel giugno 197 4 di porre fine all'intervento in carcere. Una scelta legata al mutare complessivo della strategia politica di quell'organizzazione, ma anche più specificamente moti­ vata con la necessità di evitare di restare schiacciati tra la crescente repressione statuale negli istituti penitenziari e l'«avventurismo» nei Nuclei armati proletari (Nap). Spe­ cularmente a quella virata di Lotta continua, proprio la vicenda dei Nap assume l'indubbio valore di cerniera tra movimento di massa dei detenuti e movimento carcerario egemonizzato dalle organizzazioni armate e si configura dunque come punto d'osservazione privilegiato del pas­ saggio dai gruppi extraparlamentari ai gruppi di lotta ar­ mata. Una radicale differenza tra gruppi extraparlamentari e gruppi di lotta armata, che sembra rimandare a una più generale discontinuità nelle loro rispettive culture politi­ che, è anche riscontrabile nella loro analisi dell'istituzione carcerana e nei loro repertori di azione rispetto al car­ cere. 2

Sull'intervento di Lotta continua in carcere: Lotta continua,

Li­

berare tutti i dannati della te"a, Roma, 1971; I. lnvernizzi, Il carcere come scuola di rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973; Lotta continua, Ci siamo presi la libertà di lottare. Il movimento di massa dei detenuti da gennaio a settembre '73, Roma, s.d. [ma 1973]; E. Petricola, I diritti degli esclusi nelle lotte degli anni Settanta. Lotta Continua, Roma, Edi­

zioni Associate, 2002. Cfr. anche la testimonianza di Sante Notarnico­ la, L'evasione impossibile, Roma, Odradek, 2005.

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Per i gruppi extraparlamentari che si misurarono con la realtà penitenziaria - e in maniera esplicita per Lotta continua - il carcere rappresentava il terreno privilegiato per l'aggregazione e la «coscientizzazione» degli strati sottoproletari, svolgendo in questo senso un ruolo ana­ logo a quello che veniva da essi attribuito alla fabbrica per quanto riguardava la classe operaia. C'era quindi un'attenzione specifica ai meccanismi interni al carcere, che nella sensibilità individuale di alcuni militanti si ricol­ legava anche alla critica delle istituzioni totali che infor­ mava libri come Asylums di Goffman, le molte inchieste condotte all'epoca e la prassi del movimento antimani­ comial�. L'accento era posto sul processo di politicizza­ zione dei detenuti «comuni». Se la convinzione di fondo era che «tutti i detenuti sono detenuti politici», si rico­ nosceva la necessità di un intervento ideologico e pratico teso a rompere l'atteggiamento individualistico ritenuto implicito nella mentalità dei «devianti» e a favorire per contro un'azione rivendicativa di tipo collettivo. Per que­ sto, pur non condannando la pratica dell'evasione e non escludendo l'uso della violenza nel corso delle rivolte, si propendeva decisamente per una lotta organizzata all'in­ terno delle carceri, che passasse per la costruzione di nu­ clei permanenti di discussione e di organizzazione colle­ gati con le avanguardie esterne. La linea di intervento dei gruppi di lotta armata, pur con alcune significative differenziazioni tra gli stessi4, vedeva invece il carcere quasi esclusivamente come un Tra i riferimenti più significativi: E. Goffman, Asylums: le islttu­ zioni totali: la condizione dei malati di mente e di altri internati, Tori­ 1

no, Einaudi, 1968; F. Basaglia (a cura di), L:istituzione negata, Torino, Einaudi, 1968. Molto influente anche il libro di A. Ricci e G. Salier­ no, Il carcere in Italia. Inchiesta sui carcerati, i carcerien· e l'ideologia penitenziaria, Torino, Einaudi, 1971. Solo nel 1975 (in francese e nel 1976 in italiano) venne pubblicato M. Foucault, Sorvegliare e punire. La nascita della prigione, Torino, Einaudi, 1976. 4 In particolare tra l'area brigatista e quella di matrice movimenti­ sta/anarchica (ad esempio Prima linea, Pac, Azione rivoluzionaria). 288

aspetto del potere statuale e tendeva dunque a negarlo senza penetrarne gli specifici meccanismi di funziona· mento. La rivolta e, soprattutto, l'evasione di massa (so­ vente accompagnata da sequestri di personale penitenzia­ rio) divennero così gli obiettivi di un movimento interno peraltro progressivamente circoscritto ai detenuti politici; all'esterno, le «azioni» contro le strutture e il personale penitenziario derivavano dalle «campagne» delle singole organizzazioni e anche la costruzione dell'immaginario attorno al carcere come luogo della violenza statuale era funzionale alla legittimazione della violenza posta in atto da esse. A partire dalla fine degli anni Settanta, il tema della