La memoria autobiografica. Conoscenza di sé e appartenenze sociali
 8843017950, 9788843017959

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UNIVERSITÀ/ 275 PSICOLOGIA

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Giovanna Leone

La memoria autobiografica Conoscenza di sé e appartenenze sociali

@ Carocci editore

4a ristampa, ottobre 2004 ra edizione, marzo 2001 ©copyright 2001 by Carocci editore S.p.A . , Roma

Riproduzione vietata ai sensi di legge (art. 171 della legge 22 aprile 1941, n. 633) Senza regolare autorizzazione, è vietato riprodurre questo volume anche parzialmente e con qualsiasi mezzo, compresa la fotocopia, anche per uso interno o didattico.

Indice

I.

I. I. !.2. !.3. !.4.

Introduzione

13

La psicologia della memoria: i problemi di un suecesso

19

L'osservazione: la " via umile" allo studio della memoria Gli aspetti storici e culturali dei processi di memoria La memoria come atto sociale Il ritorno della memoria autobiografica nell'agenda di ricerca

22 24 28 31

2.

Gli studi classici sulla memoria autobiografica

33

2. !. 2. 2.

35

2.3. 2.4.

Galton: quando puoi, misura o conta Ribot: la memoria come orientamento nello spazio percettivo Freud: quando il passato non passa Oblio e riscoperta della memoria autobiografica



Cos'è la memoria autobiografica?

47

3·!. 3.2. 3·3· 3·4· 3·5·

Un celebre esempio letterario La memoria autobiografica permanente La memoria autobiografica come ricordo riferito al Sé Ricordi o pensieri? L'organizzazione gerarchica della memoria autobiografica I metodi di studio della memoria autobiografica

49

3.6.

7

38 39 41

53 54 56 57 59



La memoria autobiografica nelle varie fasi del ciclo vitale

63

4·!. 4-2. 4-3·

L'apprendista biografo Reminiscenza e compiti di sviluppo Memorie generazionali

70



Le dimensioni sociali della memoria autobiografica

79

5·!.

Bartlett: dietro la ripetizione, lo schema; dietro lo schema, la cultura Vygotskij : la migliorabilità sociale della memoria Halbwachs: il ricordo come bisogno di radicamento sociale

5.2. 5·3·

64 75

8o 85 89

6.

La narrazione dei ricordi

6.I. 6.2. 6.3.

Narrazione autobiografica: è la solita storia? Sempre diverso, sempre uguale Un ponte tra le generazioni



Distorsioni e inganni della memoria autobiografica

III

7·!. 7.2.

11 3

7.6.

Bartlett: errori che sottraggono, errori che aggiungono La reinterpretazione del compito: c'è un tempo per generalizzare e un tempo per essere precisi Gli errori per eccesso d'informazione Gli errori nelle storie I macroerrori nella memoria autobiografica: il caso del recupero delle memorie traumatiche Inganno o rielaborazione creativa?

8.

Il posto della storia nei ricordi autobiografici

12 5

8.I.

Tre esempi Vittime, protagonisti, testimoni: tre prospettive da cui guardare al rapporto tra memoria autobiografica e storia

126

7·3· 7·47·5·

8.2.

95

8

96 10 3 10 7

11 5 117 120 121 123

129

Memorie autobiografiche e storia della propria co­ munità: un'eredità senza testamento

13 7

Osservazioni conclusive

Bibliografia

145

Indice dei nomi

15 5

9

E tu non sei che un ricordo. Sei trapassata nella mia memoria. Ora sì, posso dire che m'appartieni E qualche cosa fra di noi è accaduto irrevocabilmente Vincenzo Cardarelli

Introduzione

In un suo romanzo del 1989, intitolato];oblio, Elie Wiesel narra la storia di un giovane e brillante giornalista newyorkese di nome Malkiel. Nel pieno della sua carriera, Malkiel si trova improvvisamente ad affrontare il dramma di dover aiutare suo padre, psicoterapeuta e professore uni­ versitario, colpito da una grave malattia che causa una graduale ma ine­ sorabile perdita della memoria. Per impedire il dilagare dell'oblio, il figlio e la sua compagna gli chie­ dono in continuazione di narrare episodi della sua vita. Una larga parte del libro li descrive dunque nell'attitudine di ascoltare queste storie, via via più lacunose e sconnesse, in una sorta d'incantamento, nato dal loro affetto struggente ma anche dal fascino delle narrazioni del vecchio pro­ fessore. Paradossalmente, infatti, la profondità e la saggezza del suo pen­ siero si fanno più evidenti, man mano che il racconto cede il posto all'e­ vocazione - prima di scene e di immagini, poi di frammenti. Il malato a sua volta controlla e ricontrolla, con ansia crescente, di aver trasmesso al figlio la parte fondamentale della sua esperienza. Non solo egli vuole assolvere fino in fondo alla sua funzione paterna, ma si sente anche responsabile di mantenere in vita nel suo unico discenden­ te il ricordo della piccola comunità ebraica cui apparteneva da ragazzo, distrutta dalla Shoah. Tutta la trama del libro è tessuta sui tentativi di quest'anomala, pic­ colissima famiglia, in cui il posto occupato dagli scomparsi è quasi mag­ giore di quello dei viventi, per affrontare a suo modo l'improvviso venir meno delle risorse di una mente che fu geniale, e che si sa destinata a soc­ combere. Il punto di svolta arriva con una decisione originale e rischio­ sa: mentre il vecchio professore lotta con la sua malattia, il figlio compirà un viaggio in Romania, terra d'origine del padre, per ricostruire il desti­ no di chi fu vittima con lui delle violenze della guerra e dello sterminio, visitare i luoghi dove tutto si svolse e ricomporre, per quanto possibile, l'unità infranta dei suoi ricordi. Arrivato in questo paese lontano, dove non conosce nessuno e di cui non capisce la lingua, il figlio riesce a rintracciare, tra molte difficoltà, il 13

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poco che è rimasto della comunità distrutta. Ma proprio il procedere delle sue scoperte mostra sempre più chiaramente che il viaggio, che egli pensava di offrire al padre come dono di congedo, è divenuto invece un punto di svolta fondamentale della sua stessa vita, capace di dargli final­ mente lo slancio necessario per alcune scelte che ha sempre rinviato: le­ garsi stabilmente alla sua compagna, avere un figlio con lei. Man mano che il figlio scopre nel passato paterno una risorsa di cam­ biamento per riorientare la sua vita, la struttura del libro si modifica e fa posto alla narrazione in prima persona del padre. È come se le scoperte del figlio avessero aperto una breccia, da cui egli ci può finalmente co­ municare direttamente gli ultimi brandelli di ciò che ricorda. Sono frammenti, espressi in modo elementare e collegati solo da po­ chi punti di sospensione. Queste semplici e incerte parole, però, sono sufficienti per trasmetterei le emozioni del suo mondo infantile, legate ai comportamenti abituali dei suoi primi anni: ricorda quando cercava l'approvazione negli occhi degli adulti, mentre imparava a partecipare alle funzioni religiose; ricorda quando fuggiva lontano dal pozzo del cor­ tile, che gli incuteva una confusa, intensa paura . . . Su questi ricordi sle­ gati il libro termina improwisamente, !asciandoci con il dubbio se il pro­ gredire dell'oblio abbia impedito o meno al vecchio lottatore d'integra­ re nella ricapitolazione della sua vita anche l'esperienza della malattia, com'egli stava tenacemente e coraggiosamente cercando di fare. Il lettore ci scuserà quest'apparente divagazione. Elie Wiesel è un buon narratore e, in modo molto diverso e da infinitamente più tempo degli psicologi, i bravi narratori ci mostrano aspetti della vita mentale che la rapidità e la complessità della realtà quotidiana tendono a velarci. Molto spesso gli psicologi partono dal definire intuitivamente, im­ plicitamente, proprio gli aspetti centrali di quei fenomeni che intendo­ no studiare: riempiendo la mancanza di precisione delle loro definizioni iniziali tramite salti logici, intuitive leaps (Bellelli, 1994) che appaiono a prima vista come owi, banali e che solo il progredire degli studi mostra esplicitamente in tutta la loro grossolana schematicità. È a questo punto che lo psicologo può trovare un aiuto insperato nella letteratura, specchio privilegiato del lavoro, sempre incompiuto ma mai abbandonato, con cui il pensiero cerca di padroneggiare la molte­ plicità infinita della vita. Forte della conoscenza dei dati di ricerca, cioè della risorsa che più gli è propria, lo psicologo ritorna dunque alle ri­ flessioni sviluppate dalla vita quotidiana e dall'arte, e trova in esse nuo­ vi spunti per affinare le sue ipotesi iniziali, in un circuito di arricchi­ mento reciproco. Molta della letteratura e dell'arte del secolo che sta per chiudersi ha avuto come oggetto proprio la riflessione sulla memoria autobiografica, 14

1:-..JTRODCZIONE

di cui ci occupiamo in queste pagine. Ci rivolgeremo quindi spesso a questi classici, per trarne spunto di chiarificazione e di approfondimen­ to, rispetto a uno dei temi più affascinanti e complessi della nostra di­ sciplina. È anche per questo che abbiamo pensato di introdurre il libro con il racconto del romanzo di Wiesel: nella struttura e nel contenuto di questo testo, infatti, si trovano rappresentate alcune delle funzioni più importanti che la memoria autobiografica può svolgere nella vita delle persone e del loro mondo sociale. Nell'affanno del vecchio professore, che passa in rassegna i suoi ri­ cordi per controllare di aver trasmesso al figlio tutto l'essenziale della sua esperienza, è rappresentata con efficacia la consapevolezza soggettiva di quanto la memoria autobiografica sia non solo legame tra il passato e il presente dell'individuo, ma anche responsabilità intergenerazionale, che proietta la sua ombra nel futuro. Nella progressiva riorganizzazione delle scelte esistenziali del figlio, si rivela il ruolo che i ricordi familiari possono giocare, come sostegno all'originalità dei nuovi individui, se non - in caso di sfide evolutive par­ ticolarmente impegnative o dolorose - di vera e propria " corazza affet­ tiva " che le generazioni precedenti lasciano in eredità a chi rimane (Halbwachs, 1950) . Negli ultimi, frammentari ricordi del padre, si mostra invece la ca­ pacità, nascosta nella memoria di un singolo, di ridare vita con il passa­ to individuale a un intero mondo sociale scomparso. Il valore di questi primi ricordi è soprattutto emotivo, perché ci comunica un clima affet­ tivo tipico dell'infanzia: l'affidarsi con abbandono alla ristretta cerchia che forma il primo mondo sociale del bambino, le paure confuse che si associano ad alcuni luoghi particolari. Sono coloriture affettive che tut­ ti conosciamo, che rispecchiano le prime esperienze di esplorazione del mondo e dei suoi rischi, che la fiducia nella protezione degli adulti ci ha permesso di compiere. Nella memoria autobiografica, infatti, possiamo ritrovare sia la cifra dell'originalità irripetibile dell'individuo, sia le ca­ ratteristiche che lo rendono simile agli altri, uomo della sua cultura e del suo tempo: ed è per questa ragione che la memoria di una vita può inte­ ressare al tempo stesso lo psicologo generale, lo psicologo clinico, lo psi­ cologo dello sviluppo e lo psicologo sociale; ma anche lo storico, il so­ ciologo, l'antropologo culturale. La memoria autobiografica è dunque un tema di ricerca che ci aiuta a comprendere più profondamente sia i processi psicologici che sono alla base della conoscenza di noi stessi, sia il modo con cui il periodo storico in cui viviamo e gli strumenti cultura­ li che la società ci mette a disposizione modellano la vita della nostra mente. Nella memoria autobiografica, infatti, sono compresi non solo i

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ricordi degli episodi della nostra vita, ma anche la consapevolezza delle nostre abitudini e del nostro modo d'essere. Inseparabilmente da questi contenuti, la memoria autobiografica reca, inoltre, la traccia del modo personale in cui li schematizziamo e li narriamo. In una parola, nei ricordi autobiografici si condensa, per noi stessi e per gli altri, il senso della nostra vita: sono davvero i ricordi di cui viviamo. Nel testo, esamineremo solo alcuni di questi aspetti. Cercheremo di riflettere sulla presenza di regolarità, strutturali ed evolutive, che si ri­ petono costantemente e formano una base riconoscibile che accomuna gli individui, pur nelle loro irriducibili diversità; approfondiremo il ruo­ lo non solo d'inquadramento ma di vera e propria risorsa di base, che il contesto sociale svolge nei confronti del ricordo personale; proporremo alcune riflessioni sulla storicità delle vicende private, che nella loro uni­ cità sono però spesso intrise del senso di appartenenza alla propria co­ munità, avvertito con acutezza soprattutto nei momenti di crisi e di bru­ sco cambiamento. È fuor di dubbio che queste tracce di approfondimento siano ben lontane dall'esaurire tutti gli aspetti presenti nella memoria autobiogra­ fica, che rimane a tutt'oggi, a più di un secolo dai primi tentativi di ri­ cerca sistematica, un fenomeno non solo complesso ma ancora per mol­ ti versi sconosciuto. Tuttavia, il senso del percorso proposto da questo libro non è tanto l'esaustività, quanto il tentativo di trovare risposta a una tra le molte do­ mande che possiamo porre alla memoria autobiografica: in che modo i ricordz: uno deipossessipersonalipiù privati e incomunicabilz: sono al con­ tempo una delle fonti più importanti del legame tra gli individui? Nel primo capitolo, inquadreremo il tema della memoria autobiografica nel contesto più ampio degli studi sulla memoria: caratterizzato in una prima fase dal prorompente sviluppo delle metodologie sperimentali e, successivamente, dal recupero di attenzione per le metodologie di tipo osservativo e per la validità ecologica dei risultati raggiunti. Il tentativo di studiare i fenomeni di memoria così come si presentano nella vita quo­ tidiana, consolidatosi a partire dalla fine degli anni Settanta come ap­ proccio integrativo all'approccio sperimentale (Cohen, 1996) , ha ripor­ tato sull'agenda di ricerca anche lo studio della memoria autobiografica, che aveva al contrario poco spazio nelle ricerche di laboratorio. Tuttavia questo recupero ha radici antiche, nel pensiero di alcuni grandi classici. Nel secondo capitolo, dunque, prenderemo in considerazione il la­ voro di tre giganti del primo pensiero psicologico: Galton, Ribot e 16

1:-..JTRODCZIONE

Freud. La traccia di questi contributi permea ancora profondamente la ricerca odierna, ed è passata, insensibilmente e profondamente cambia­ ta, anche nelle spiegazioni di senso comune sui fenomeni di memoria, che oramai sono molto spesso fortemente "psicologizzate" . Dal terzo capitolo, ci lasceremo alle spalle questo inquadramento di sfondo del problema, per entrare decisamente nel tema della memoria autobiografica. Il terzo, quarto e quinto capitolo presenteranno una ras­ segna orientativa di tre prospettive di studio principali: la prospettiva del­ la psicologia generale, che mette in luce i processi di base di questo tipo di memoria; la prospettiva della psicologia dello sviluppo, che descrive i cambiamenti di questa memoria nelle varie fasi del ciclo vitale; e la pro­ spettiva psico-sociale, in cui si cerca di illuminare l'origine e la funziona­ lità relazionale dei ricordi autobiografici. La rassegna di studi che pre­ sentiamo in questi tre capitoli non ha la pretesa di essere esaustiva, oltre­ tutto su un campo di ricerca così dinamico e complesso. Vuole però fare intuire al letto re come la memoria autobiografica sia un argomento di ri­ cerca che può, per la sua stessa collocazione di confine, mettere in luce un tipo di processi psicologici che spiegano contemporaneamente l'origi­ nalità dell'individuo e il suo legame costitutivo con il mondo sociale. Nell'ultima parte del libro ci focalizzeremo infine sulla dimensione sociale di questi studi, cercando di esplorare il bisogno di appartenenza che si nasconde dietro i ricordi autobiografici. Il sesto capitolo è dedi­ cato alla narrazione e al ruolo che gli altri giocano in questa forma par­ ticolare di uso della memoria: le altre persone concrete, cui siamo lega­ ti, ma anche quell'Altro generalizzato descritto magistralmente da Geor­ ge Herbert Mead, come l'interlocutore immaginario di tanta parte della nostra vita mentale, che ne regola «i livelli di pensiero astratto, e quella impersonalità, quella cosiddetta obiettività che ci sta tanto a cuore» (Mead, 1924, p. 288) . Il settimo capitolo analizzerà un tema scottante: la distorsione delle memorie autobiografiche e la loro sorprendente in­ fluenzabilità sociale, che rimette in chiaro come a volte, nella vita reale, molto lontano dalla ben costruita semplicità del laboratorio, la posta in gioco dei ricordi sia molto grave e difficilmente aggirabile da sofismi teo­ rici (Neisser, 1994) . L'ottavo capitolo, infine, introdurrà la dimensione storica di questi ricordi: che, trasmessa da una generazione all'altra, il­ lumina il volto nascosto della memoria autobiografica come risorsa per la comunità sociale, e non solo per l'individuo. Abbiamo lasciato per ultima questa prospettiva di studio non solo perché corrisponde a un campo di ricerca emergente (per un'introdu­ zione, cfr. Bellelli, Bakhurst, Rosa, 2ooo) , ma anche perché è la più dif­ ficile da cogliere a un primo sguardo. 17

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Il nostro modo di considerare la vita mentale è, infatti, fortemente distorto in senso individualistico, e una buona responsabilità di questo errore percettivo la porta anche la psicologia e il suo successo divulgati­ vo forse eccessivo e talvolta controproducente. Lo studio della memoria autobiografica ci mostra al contrario che la mente è sociale o, semplice­ mente, non è. Ma ci mostra anche che più una memoria è personale e ir­ ripetibile, più porta in sé la traccia di tutti i legami sociali che hanno so­ stenuto, nel tempo, la mente che la ricorda. Durante il lavoro di composizione di questo libro ho avuto la fortuna di poter contare sull'aiuto di molte persone, che desidero ringraziare. Gra­ zia Attili, Guglielmo Bellelli, Alberta Contarello, Paolo Jedlowski, Bru­ no Mazzara, Giuseppe Mininni, Piero Paolicchi, Isabella Poggi, Car­ mençita Serino hanno letto o discusso con me parti del testo, suggeren­ domi preziose integrazioni e precisazioni. Gran parte della prima stesura si è svolta nella casa che fu dei miei genitori e che ancora porta l'impronta del loro modo semplice e sereno di vivere e di lavorare. Questo libro è dedicato a loro e ai loro nipoti, Federico, Giulia e Giuseppe.

18

I

La psicologia della memoria: i problemi di un successo

Forse nessun campo di studio ha apportato alla psicologia un successo teorico e metodologico maggiore delle ricerche sulla memoria. La me­ todologia di studio che si è imposta maggiormente in questo campo è di certo quella sperimentale: tramite questo tipo di ricerche, la nostra co­ noscenza dei processi di base della memoria si è arricchita nel tempo di una mole notevolissima di dati. Tale scelta metodologica, tuttavia, non si è dimostrata in grado di esaurire tutta la varietà di aspetti della memo­ ria, di certo uno dei fenomeni più complessi che la psicologia si trova ad affrontare. Con il procedere degli studi, dunque, questo campo di ricer­ ca ha subìto un'evoluzione per molti versi esemplare, che rispecchia non solo il dibattito interno all'area di studio, ma tutte le fasi più generali di sviluppo che la disciplina psicologica ha attraversato: dagli ideali positi­ vistici dei suoi esordi fino al variegato panorama odierno, in cui le istan­ ze per una maggiore centralità degli aspetti storici e culturali tornano a farsi sentire con grande intensità (Mantovani, 1998) . Alla fine dell'Ottocento, nel suo sforzo di conquistare una dignità e un profilo autonomo, differenziandosi dalla sua matrice filosofica, la psicologia cercò, com'è noto, di collocarsi vicino alle discipline empiri­ che che spiegano le regolarità delle leggi della natura, piuttosto che alle scienze che comprendono le caratteristiche storiche e culturali delle im­ prese umane (Farr, 1993 , 1996) . La sfida da affrontare era grande. Si trat­ tava di dimostrare nei fatti (cioè nella ricerca) che le modalità semplici e rigorose della sperimentazione erano in grado di investigare anche i pro­ cessi mentali superiori. Quest'impresa risentiva naturalmente del sapore culturale dell'epo­ ca e della sua fiducia nel potere illimitato del progresso, che a partire da Comte era stato affidato al " pensiero positivo " della scienza. Allora co­ me ora, tuttavia, la scelta del metodo sperimentale dava anche una ge­ nuina risposta al bisogno di semplicità e di generalizzabilità che è insito nel desiderio di conoscere di ogni ricercatore. Nel clima di fine Ottocento, e avendo come posta in gioco più gene­ rale la definizione identitaria di una nuova disciplina psicologica, Her19

LA M E M O R I A A U T O B I O G RA F I C A

mann Ebbinghaus (1850-1909) elaborò la sua famosa invenzione metodo­ logica dell'uso di liste di sillabe senza senso. Questo materiale estrema­ mente semplificato (sillabe composte da due consonanti unite da una vo­ cale; incontri casuali di lettere da cui veniva escluso ogni suono che somi­ gliasse a una parola reale) veniva usato per esplorare sperimentalmente, in condizioni controllate e replicabili, i processi di memorizzazione. Infatti, poiché il materiale da apprendere non aveva alcun significato, il modo in cui il soggetto, di ripetizione in ripetizione, lo rievocava o lo riconosceva, oppure lo dimenticava, dipendeva esclusivamente dal formato dei pro­ cessi di memorizzazione e non dalle differenze individuali nelle possibilità di associare lo stimolo da memorizzare alle conoscenze pregresse. Il me­ todo proposto da Ebbinghaus permetteva così di superare l'intimo in­ treccio tra memorizzazione e conoscenze già possedute, aggirando una difficoltà metodologica apparentemente insormontabile. Studiando se stesso come soggetto e osservando la velocità di ap ­ prendimento d i questo materiale elementare, Ebbinghaus poté ben pre­ sto mettere in luce indiscutibili regolarità nei processi tramite cui si rea­ lizzava l'apprendimento, regolarità che suggerivano l'esistenza di una sorta di " ossatura" alla base dei processi di memoria. Il lavoro di Ebbinghaus costituì dunque una prima prova poderosa a favore della fondatezza dell'ambizioso desiderio degli psicologi: stu­ diare la mente come un oggetto di conoscenza che non si nega all'inve­ stigazione sperimentale sistematica - anche se, naturalmente, non si ri­ duce solo a quanto è scientificamente dimostrabile (Serino, 1998) . Ebbinghaus ha affidato ai ricercatori della memoria un formidabile legato, valido ancora oggi: sia per la sua ferma presa di posizione nel campo delle identità disciplinari, che colloca decisamente la psicologia nell'area delle scienze sperimentali; sia per i suoi risultati di ricerca che, tranne qualche naturale ritocco dovuto all'evoluzione e al perfeziona­ mento dei nostri strumenti di lavoro, rimangono sostanzialmente validi e fanno parte delle citazioni d'obbligo di ogni buon manuale di psicolo­ gia della memoria (cfr. , ad esempio, Baddeley, 1990) . Ma, come sempre, ogni successo ha il suo prezzo. Il prezzo del gran­ de impegno collettivo del lavoro sperimentale che, a partire dalle intui­ zioni pionieristiche di Ebbinghaus, ha consentito di raccogliere un im­ ponente insieme di dati empirici sulla memorizzazione, è stato spesso pa­ gato con il progressivo affievolimento della riflessione sul signz/icato (in­ dividuale e sociale) dell'attività mentale studiata. Negli anni, infatti, osservando in condizioni controllate l'apprendi­ mento di materiali semplici, prefissati dal ricercatore (in un primo mo­ mento, stimoli prevalentemente verbali, cui si sono aggiunti in seguito altri formati, di tipo visivo, uditivo, spaziale ecc. ) , gli psicologi speri20

I. LA P S I C O L O G I A D E L L A M E M O R I A : I P R O B L E M I DI U N S U C C E S S O

mentali sono gradatamente e pazientemente riusciti a disegnare una mappa, sempre più precisa e dettagliata, di molti processi e strutture di base della memoria. Tuttavia, la necessaria semplificazione della situa­ zione di laboratorio ha messo sempre più in ombra il bisogno individuale e sociale reale che muove questi processi, nell'uso che se ne fa nella vita quotidiana. Ciò è evidentemente dovuto a un limite del pur potente me­ todo sperimentale: il fatto che i suoi risultati non possono talvolta esse­ re riscontrati anche nelle situazioni più complesse che ci offre la realtà quotidiana, mancano in altri termini di validità ecologica. Infatti, proprio perché si costruisce una situazione che si spera di po­ ter generalizzare, la persona viene introdotta nella condizione artificiale del laboratorio. Ma, affinché questa semplificazione sia efficace, la sua reinterpretazione soggettiva della situazione dev'essere attivamente con­ trollata. In altri termini, la persona dev'essere trasformata da individuo in partecipante della ricerca: un soggetto che si spera risponda solo in funzione di un processo di base, cioè generale, simile se non (nei casi mi­ gliori ! ) uguale da una persona all'altra. Tutta l'accurata regia che guida passo per passo l'esecuzione di un esperimento è finalizzata a controllare e arginare la reinterpretazione soggettiva del partecipante: la semplicità dello stimolo, l'assenza di informazioni sul significato del compito che viene proposto (significa­ to spesso mascherato dall'uso di storie di copertura o dall'accorto aiu ­ to di altre persone, che appaiono a tutta prima altri soggetti sperimen­ tali, ma sono in realtà complici dello sperimentatore) , chiedono alla per­ sona di spogliarsi della sua individualità, di divenire quanto più possi­ bile anonima, intercambiabile, di usare la sua memoria per quanto ha di più generale e aspecifico e di metterne invece da parte gli aspetti più personali e idiosincratici. Una presenza " eccessiva" di memoria indivi­ duale è trattata dunque come una minaccia, che può mettere in crisi lo studio delle componenti di base della memoria stessa, intesa come fa­ coltà generale. Gli aspetti paradossali di questa situazione non sono di certo sfug­ giti alla consapevolezza dei commentatori più attenti. Sin dall'inizio de­ gli studi psicologici sulla memoria, molte voci autorevoli hanno messo in guardia i ricercatori dal pericolo di tracciare una mappa della mente co­ sì generale da divenire quasi insignificante, se applicata al di fuori di quella realtà specialissima che si crea all'interno del laboratorio. Nel quinto capitolo analizzeremo più approfonditamente questo punto, pre­ sentando il contributo fondamentale dato alle ricerche sulla memoria da Fredrick Charles Bartlett e Lev Semyonovic Vygotskij, due delle più im­ portanti voci critiche sui limiti delle metodologie sperimentali applicate con troppa rigidità. 21

LA M E M O R I A A U T O B I O G RA F I C A

Allo stato attuale delle cose, esistono due principali correnti di ri­ cerca che si propongono di correggere il rischio d'insufficiente validità ecologica, insito nelle caratteristiche stesse della ricerca sperimentale sulla memoria. In modo necessariamente sommario, è opportuno pren­ derle in considerazione entrambe, prima di entrare nell'aspetto specifi­ co che più c'interessa, cioè lo studio della memoria autobiografica. I.I L'osservazione: la "via umile" allo studio della memoria

La prima soluzione consiste in una via essenzialmente metodologica, che suggerisce la necessità di abbandonare la sicurezza dell'autostrada più famosa e battuta della sperimentazione, per tornare alla più lenta e ser­ peggiante strada di campagna dell'osservazione ( Neisser, 1982; Neisser, Winograd, 1988) . Questa "via umile" consente infatti di vedere in modo diverso i fenomeni, riaccostandosi finalmente alla possibilità di com­ prendere come funziona realmente la memoria nella vita quotidiana. Ulrich Neisser è l'autore che più di ogni altro ha contribuito al pri­ mo affermarsi di questo movimento di sviluppo e di differenziazione del­ le ricerche sulla memoria. E infatti molti articoli che rivendicano il biso­ gno di studiare la memoria in modo ecologicamente più valido si apro­ no con la citazione di una sua famosa frase, che costituisce non solo un riferimento bibliografico quasi d'obbligo, ma anche una chiara presa di posizione in questo campo degli studi: «Se X è un aspetto interessante o socialmente rilevante della memoria, allora molto difficilmente gli psi­ cologi avranno studiato X» (Neisser, 1978, p. 4) . Neisser indirizzò quest'osservazione quasi sprezzante a un'assem­ blea molto qualificata di psicologi della memoria riuniti a congresso a Cardiff. Ma, al di là dell'occasione specifica, in cui la provocazione in­ tendeva dare una salutare sterzata all'incontro, questa frase divenne ben presto uno slogan, un modo di aderire al sentimento di diffusa insoddi­ sfazione verso gli aspetti più astrusi e " siderali" (Andreani-Dentici, 1974) di tanta parte dello studio psicologico della memoria. Forse un motivo del successo di questa frase sta nel suo uso, molto ben riuscito, di una delle armi retoriche più efficaci usate dai ricercato­ ri dell'orientamento sperimentale più rigido. Evidentemente, l'obiettivo della citazione è, infatti, mettere in luce la grave lacuna di validità eco­ logica del mainstream di studi sperimentali sulla memoria. Ma il modo con cui Neisser lo fa riesce così ironico anche perché la frase mima la for­ mulazione tipica di una legge generale, del tipo " se . . . allora" . L a corrente di ricerca aperta dalla memorabile ( è il caso di dirlo) po­ lemica di Neisser nasce, dunque, dalla constatazione di quanto molti ri22

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sultati sperimentali siano in realtà poco utili per spiegare i semplici, in­ triganti fenomeni che possiamo giornalmente osservare nella nostra vita quotidiana. Secondo Neisser (1988b ) , una delle delusioni maggiori dello studen­ te di psicologia che per la prima volta prepari un esame sulla memoria è infatti la brutta sorpresa di trovarsi di fronte a un panorama del tutto di­ sincarnato, in cui non c'è posto per curiosità in apparenza banali, quali: perché scordiamo argomenti che abbiamo studiato a fondo, come il gre­ co, mentre ricordiamo a volte per tutta la vita delle inconcludenti poe­ siole apprese nei primi anni d'infanzia? Cosa resta, con il trascorrere de­ gli anni, della fatica di tutti i nostri esami universitari? Perché molto del materiale che ricordiamo è sottoposto a una sintesi riduttiva, ma alcuni contenuti rimangono identici e vengono tramandati di generazione in generazione, siano essi molto significativi, come i poemi epici popolari, ma anche estremamente insulsi, come l'apparentemente eterno " amba­ rabà cicì cocò, tre civette sul comò " ? Come cambia la nostra memoria nelle diverse fasi della nostra vita? La polemica innescata da Neisser non era però solo distruttiva. Al contrario, avanzava una proposta di grande coraggio: per ridare signifi­ catività agli studi c'era bisogno dell'umiltà di fare un passo indietro. Tor­ nando a percorrere la lenta e faticosa strada della metodologia osserva­ tiva, suggeriva Neisser (1982; 1988b ) , lo psicologo potrà ricostruire una definizione più ampia dei fenomeni studiati: non soffermandosi solo sui processi, ma riflettendo anche (e forse soprattutto) sulla diversità e spe­ cificità dei contenuti della nostra memoria. Sin da un primo esame sommario di quanto accade nella vita quoti­ diana, si può cogliere, infatti, come ciascuno di noi dia per scontata un'i­ dea unitaria della memoria; tant'è che pensiamo e diciamo di noi stessi cose del tipo " sai, non ho mai avuto molta memoria . . . " o, al contrario, " io non avrò tante altre qualità, ma ho il vantaggio di potermi sempre fidare della mia memoria" . Tuttavia, se analizziamo dettagliatamente da quali osservazioni derivino queste nostre convinzioni, non possiamo non esse­ re colpiti dall'eterogeneità, dall'ampiezza e numerosità del tipo di conte­ nuti in cui si incarna il nostro concetto astratto e unitario di memoria. N eisser propone di denominare, con un felice neologismo, memorata tutte le cose che dobbiamo concretamente ricordare per poter svolgere con un minimo di efficienza la nostra vita quotidiana. Scrivere (e non scor­ dare di portarsi dietro) la lista della spesa; riconoscere i volti e i nomi dei nostri vicini; ricordare le date e le scadenze principali che scandiscono il nostro calendario privato e i nostri impegni pubblici: sono pochissimi tra i molti possibili esempi di memorata, abilità e competenze per cui chie­ diamo giornalmente il sostegno della nostra memoria (Neisser, 1988b) . 23

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Perché dunque aderire a un'idea semplicistica di memoria, quando tutta la nostra osservazione ci suggerisce che noi possiamo contare su molte diverse memorie? Può reggere il confronto tra questa impressio­ nante varietà fenomenologica e l'uso di un'unica opzione metodologica? Non corriamo il rischio talvolta, pur di conservare uno standard piutto­ sto astratto di rigore nei nostri esperimenti, di produrre ricerche forse eleganti ma piuttosto insignificanti dal punto di vista ecologico? Si tratta di argomentazioni importanti e per molti versi convincenti. E, in effetti, queste osservazioni, dopo un primo avvio di tipo polemico, si sono via via ampliate e concretizzate in una vera e propria integrazio­ ne allo studio tradizionale della memoria, cui è stato dato il significativo nome di approccio ecologico (Neisser, Winograd, 1988 ) . I l ritorno all'osservazione dell'uso della memoria i n situazioni quo­ tidiane ha dunque riportato in luce il troppo trascurato valore pragma­ tico dei nostri ricordi, la loro utilità concreta. Anche se i ricercatori fedeli alle metodologie strettamente speri­ mentali hanno spesso accusato questa rifondazione metodologica di da­ re vita a risultati fragili e poco generalizzabili, perché l'osservazione in situazioni naturali non riesce, per l'evidente mancanza di controllo com­ plessivo sulla situazione osservata, a comparare input e output selezio­ nati e manipolati esclusivamente dal ricercatore (Banaji, 1992) , non c'è dubbio che la critica alla relativa insignificanza, ai limiti dell'artificiosità, di molti microprogrammi sperimentali abbia retto la prova del tempo. Infatti, sebbene avanzata più di vent' anni fa, essa esprime uno stato d'a­ nimo di disagio ancor oggi ampiamente diffuso nella comunità dei ri ­ cercatori. E non c'è dubbio che - come vedremo più diffusamente nel secondo capitolo - una rapida rassegna delle direzioni di ricerca dell'ul­ timo decennio mostri un evidente avvicinamento tra l'approccio speri­ mentale e quello dedicato allo studio dell'uso della memoria nella vita quotidiana ( Cohen, 1996) . I.2 Gli aspetti storici e culturali dei processi di memoria

La corrente critica originata dall'insoddisfazione per la rigidità metodo­ logica propria del mainstream delle ricerche sperimentali, inizialmente espressa da Neisser soprattutto come polemica verso lo stato delle cose vigente nel panorama dell'epoca, e consolidatasi in seguito come un nuo­ vo tipo di approccio più ecologico, attualmente si affianca, e per molti versi si integra, all'approccio sperimentale classico. Questa convergenza nei fatti, al di là della persistenza di prese di posizione polemiche in un campo e nell'altro, è possibile perché la nuova corrente di studio ecolo-

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gico della memoria non propone, in fin dei conti, cambiamenti rilevanti nell'inquadramento teorico del fenomeno studiato, che rimane ancora concepito come un insieme di processi che si svolgono all'interno della mente individuale, sia pure osservata in un contesto concreto piuttosto che ricreato artificialmente. C'è invece un'altra strada, forse più ardita, per uscire dal vicolo cie­ co in cui si trova il ricercatore che, cercando di cogliere i processi basi­ lari di memoria, non ha più modo di comprendere il ruolo (e, con esso, il significato) della soggettività della persona che reinterpreta il suo com­ pito di ricerca. Dobbiamo ripetere, ancora una volta, che una forte com­ plicazione di questa situazione è che tale vicolo cieco non è privo di una sua ragionevolezza, perché nasce da un comprensibile desiderio di sem­ plificazione; desiderio cui non è estraneo lo stesso partecipante, nel mo­ mento in cui decide di collaborare con il ricercatore e di stare alle «re­ gole del gioco» (Bartlett, 1923) dell'esperimento. Il problema rimane, dunque: come uscirne? Come studiare la memo­ ria in quanto atto di significazione della realtà e non solo come base, in lar­ ga misura inconsapevole, dell'apprendimento, se tutta la situazione di ri­ cerca è organizzata per chiedere ai soggetti di rispondere e non di pensare? La soluzione proposta dall'approccio ecologico sottopone i compiti dati al soggetto a una sorta d'iniezione di realtà, riavvicinando il labora­ torio alle stanze della vita quotidiana; ma non mette in dubbio che lo sco­ po finale del ricercatore sia quello di scoprire le regole invarianti che go­ vernano il funzionamento della memoria per così dire " dall'interno " , perché dipendono dal modo in cui è strutturata la mente. Una corrente diversa di riflessione, non integrativa ma alternativa a questo approccio, individua invece la ragione del vicolo cieco non tanto in motivi di rigidità o di scarsa rappresentatività metodologica, quanto nel progressivo impoverimento dell'attenzione teorica per gli aspetti sto­ rici e culturali dei processi cognitivi di base. È chiaro che, se prendiamo per buona fino in fondo la metafora che equipara la mente a un computer, il funzionamento della macchina men­ tale può trovare nelle condizioni storiche e sociali tutt'al più una fonte privilegiata d'innesco, un tipo particolare d'input, per proseguire nel pa­ ragone; ma l'hardware e il software non sono in fin dei conti toccati dal tipo di contenuti che elaborano, perché in caso di difficoltà non posso­ no arrivare a rilevarne altro che le incongruenze di formato. È del resto da questo tipo di impostazione, finalizzata agli aspetti di funzionamento generale della memoria come processo di base del siste­ ma cognitivo, che sono nati i più rilevanti studi sperimentali descritti nei manuali di psicologia generale, studi che ci hanno indiscutibilmente per­ messo di scoprire importanti caratteristiche strutturali della memoria.

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Abbiamo imparato, ad esempio, che un atto di memorizzazione im­ mediata ha una capacità limitata, che non va oltre i sette elementi (più o meno due a seconda delle particolarità individuali) : è per questa capa­ cità limitata, conosciuta nella letteratura specialistica sotto il nome di span di memoria, che possiamo cogliere a una sola occhiata il numero preciso di coperti da apparecchiare se siamo stati così saggi da !imitarci a sei ospiti, ma dobbiamo cominciare a contare se, in un eccesso di ge­ nerosità, ne abbiamo invitati quindici. Oppure abbiamo imparato che gli apprendimenti precedenti ci confondono nel caso di apprendimenti simili awenuti successivamente, e viceversa: motivo per cui un italiano, che pure conosca bene l'inglese, rischia di aprire distrattamente il rubinetto dell'acqua fredda invece di quello dell'acqua calda, solo perché la C iniziale della parola cold, im­ pressa sul rubinetto dell'acqua fredda della sua camera d'albergo londi­ nese, si sovrappone al ricordo della stessa iniziale impressa sui rubinetti dell'acqua calda della sua casa italiana. Oppure siamo stati portati a riflettere sul fatto che la nostra cono­ scenza semantica è spesso organizzata per livelli gerarchici di crescente generalizzazione e che il livello di cui ci serviamo prevalentemente, nel­ la comunicazione come nell'inizio della ricerca in memoria, è quello in­ termedio: e, infatti, guardando distrattamente fuori dalla finestra, noi di­ remo normalmente a un amico che è passato un gatto e solo a fini speci­ fici (ad esempio, per fare gli spiritosi o perché lavoriamo entrambi in uno zoo) che è passato un felino o che abbiamo intravisto un /elis cattus. Concetti come lo span di memoria, o l'interferenza proattiva o re­ troattiva, o la strutturazione della memoria semantica come insieme ge­ rarchicamente organizzato, hanno un'importante caratteristica teorica comune: possono essere applicati indifferentemente a ogni condizione ambientale; ancor più , sono studiati proprio nella speranza di poter es­ sere applicati a ogni condizione storica e culturale. Ma, evidentemente, non tutta la memoria si esaurisce in questi mec­ canismi di base, cioè in abilità che corrispondono alle caratteristiche del­ la mente piuttosto che a scelte consapevoli e volontarie dell'individuo. E, infatti, l'impressione immediata riguardo a questi processi è che essi siano abbastanza indipendenti da ogni tipo di variabile storica e cultu­ rale, perché si rifanno al modo stesso in cui è strutturata la mente uma­ na. Del resto, alcune brillanti osservazioni sul modo con cui le persone possono aggirare questi limiti strutturali, per ricordare di più e meglio (tramite le cosiddette mnemotecniche) , non nascono forse dal recupero dei vecchi trattati di retorica dell'epoca greca e romana, cioè dallo stu­ dio storico di quella che è stata suggestivamente chiamata «l'arte della memoria» (Yeats, 1966) , che tanto ci affascina per le sue suggestive in-

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varianze e per le stupefacenti analogie tra le varie epoche e nelle diverse culture? Eppure, siamo sicuri che persino questi processi " di base" sia­ no indifferenti alla realtà sociale in cui si svolgono? Per fare un esempio abbastanza prevedibile, pensiamo al cambia­ mento dei supporti materiali su cui si appoggia la memoria umana in ogni tempo e in ogni cultura, per la sua tendenza pervasiva e apparente­ mente invitabile a esteriorizzarsi (Leroy-Gourhan, 1977). È corretto ipotizzare che queste diverse "memorie esterne" abbia­ no conseguenze del tutto irrilevanti per l'organizzazione di quelle limi­ tate risorse interne che intendono ampliare e sostenere? Tener conto del fatto che la persona oggetto del nostro studio registri le informazioni da ricordare tramite una tavoletta di cera e uno stilo, o su un notes di car­ ta, o su una cassetta videoregistrata, o nel data base di un computer, è solo uno scrupolo per il dettaglio? Dobbiamo aver presente ciò solo co­ me un dato accessorio, uno sfondo descrittivo, che ci evita di incorrere nelle ingenuità un po' ridicole dei vecchi film in costume di Cinecittà, in cui i gladiatori indossavano l'orologio per controllare l'arrivo della pausa mensa? Oppure questo dato esterno può dirci qualcosa anche delle strategie di memorizzazione interna, e possiamo ipotizzare che esse si modellino, almeno in parte, sulla struttura delle protesi (Bruner, 1990) che ogni epo­ ca offre loro? Abbandoniamo il tono scherzoso, e l'abuso di domande retoriche. Non possiamo soffermarci per ora sulle moltissime considerazioni che potrebbero aprirsi in risposta a queste riflessioni (sull'importanza delle mediazioni nei processi di memoria; sull'incomparabile differenza qualitativa tra memorizzazione basata sull'automaticità associativa e me­ morizzazione volontaria e cosciente; sui caratteri strutturali della me­ moria e sul modo in cui essa può essere invece appresa e perfezionata so­ cialmente, al pari di molte altre abilità ecc . ) . Per ora, c i basti notare che il nodo centrale d i questa controversia ri­ mane l'interrogativo di come separiamo le funzioni mentali {{interne)) dal contesto sociale in cui si svolgono. Questo contesto muta considerevolmente in senso sincronico: così che persone in posizioni sociali diverse possono vivere nella stessa epo­ ca, ma in mondi soggettivamente differenti, talvolta incomparabili. Ma il contesto sociale varia anche in senso diacronico: così che epoche di­ verse cambiano l'esperienza soggettiva del mondo, per individui che pu­ re possiamo pensare simili nelle loro caratteristiche strutturali di base. Il problema cruciale è dunque quello di individuare in quale punto vada tracciato il confine che divide i processi di base della mente dalla loro " cornice" storica e sociale.

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Se facciamo coincidere la basilarità con la naturalità, allora il suo mi­ stero potrà essere svelato solo in p arte, perché, come già osservava Giambattista Vico, la natura non è un prodotto dell'uomo e in quanto tale non è da lui completamente padroneggiabile né conoscibile. Inoltre, se presupponessimo una naturalità costante, negheremmo alle strutture biologiche quella capacità di trasformazione, in risposta alla contingen­ za, che è alla base della loro potenzialità adattativa e quindi della loro stessa sopravvivenza. Potremmo allora cercare di far coincidere la basilarità dei processi con le loro caratteristiche strutturali, cioè con la maniera con cui la men­ te è in grado di funzionare in quanto macchina sempre uguale a se stes­ sa. Ma, anche in questo caso, i progressi della tecnologia hanno reso evi­ dente quanto sia cruciale che le stesse macchine siano rese capaci di ri­ spondere flessibilmente alle richieste esterne, pena la loro inutilità. Lo studio della memoria si pone evidentemente al centro stesso di questo dibattito, in quanto essa è il cardine della trasformazione che modella le strutture mentali con la forza dell'esperienza. Una risposta teorica estrema a questa sfida conoscitiva, che si pro­ pone come un'alternativa non solo metodologica, ma anche teorica al­ l' approccio classico e anche all'approccio ecologico, è costituita dall'a­ nalisi socio-costruzionista. Questa corrente di studio considera il gioco delle forze sociali non come un contesto in cui si svolge la vita mentale, ma come il suo stesso fondamento. Per quest'approccio teorico, nessun atto mentale è possi­ bile né concepibile nel vuoto sociale: persino le nostre teorie scientifiche su com'è strutturata e funziona la mente non sono in fin dei conti che dei prodotti dell'evoluzione storica del pensiero collettivo, una costruzione sociale al pari delle altre (Gergen, 1973) . Da questa provocatoria tesi nascono cambiamenti fondamentali sia nello statuto teorico delle discipline psicologiche, riportato bruscamen­ te e risolutamente nell'alveo delle scienze storico-sociali, sia nelle scelte metodologiche, che mettono in forse la predominanza e la significatività della sperimentazione come via regia per lo svelamento di strutture di base della mente. I.3

La memoria come atto sociale

Un esempio significativo di quanto questo cambiamento di prospettiva possa significare concretamente per lo studio della memoria è dato dal testo, oramai divenuto una citazione d'obbligo, a cura di Middleton e Edwards (1990) . In questa rassegna di saggi, la memoria è presentata co-

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me un atto sociale, cioè un comportamento che trova nei rapporti socia­ li il suo momento di inizio e la sua finalizzazione, prescindendo comple­ tamente dalle ipotesi sulla presenza di strutture mentali interne che pos­ sano rappresentare una sorta di ossatura o di base dei processi osserva­ ti. In altri termini, per questi autori non esisterebbe qualcosa, definibile come memoria, situata all'interno della mente dell'individuo, come un insieme di rappresentazioni o immagini conservate nella sua testa. L'u­ nica cosa che noi possiamo osservare direttamente, infatti, è l'esistenza di ricordi, comunicati ad altri o ricevuti da loro: in una parola, frutti di un " negoziato sociale" sul significato del passato. Malgrado questa tesi si giovi del fascino che sempre risplende nella mancanza di chiaroscuri delle scelte radicali, l'aspetto che più ci inte­ ressa per la nostra riflessione non vi trova però soluzione. Abbiamo notato come la costruzione di una realtà sperimentale, in cui la soggettività del partecipante viene negata, rappresenti un vero vi­ colo cieco per lo studio della memoria. D'altro canto, le posizioni estreme di chi considera la memoria solo come un atto sociale vedono il ricordo individuale regolato essenzial­ mente dalle sue conseguenze pragmatiche e dalla continua negoziazione che governa le relazioni di potere. Anche qui, si ignora di nuovo il sog­ getto: per accentuarne stavolta i nessi sociali e non tanto la presunta na­ turalità, cioè per dissolverlo nel gioco degli equilibri del sistema relazio­ nale in cui è inserito piuttosto che per ridurlo alle conseguenze dei suoi meccanismi di funzionamento interno. Sono illuminanti, a proposito, certe posizioni polemicamente estre­ me di alcuni autori che si riconoscono nella corrente definita, per la sua opzione teorica e di metodo, dell'Analisi del Discorso (Discourse Analy­ sis) . In questo tipo di studi, i ricercatori rifiutano a priori l'ipotesi del­ l'esistenza di una memoria come insieme di processi individuali di im­ magazzinamento o di recupero delle informazioni, e ritengono conse­ guentemente impraticabile la scelta metodologica della sperimentazio­ ne. Poiché il ricordo individuale è considerato solo come un aspetto par­ ziale di una transazione sociale complessiva, esso risulta teoricamente in­ comprensibile al di fuori delle interazioni con gli altri interlocutori, con cui viene costruito e negoziato. Dal punto di vista metodologico, la via proposta dalla Discourse Analysis per cogliere l'atto sociale che costruisce la negoziazione del ri­ cordo è lo studio delle transazioni quotidiane, principalmente nei loro aspetti linguistici. I ricercatori analizzano dunque minuziosamente bra­ ni di discorsi svolti in situazioni usuali della vita quotidiana (conversa­ zioni, discussioni, commenti . . . ), il cui scopo è quello di ricordare insie­ me. Non ha naturalmente significato, in questo contesto, cercare di 29

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esplorare la fedeltà del ricordo individuale paragonando un input origi­ nale con quello che il soggetto è capace di ricordarne in seguito: poiché il ricordare è visto come un atto sociale, la "bontà" di questa funzione non dipenderà tanto dalla sua fedeltà rispetto a un dato di partenza, quanto dalla sua efficacia pragmatica nell'imporre o meno una certa ver­ sione del passato nel contesto relazionale odierno. Non è questa la sede per entrare nel vivo di una discussione teorica e metodologica che è ben lontana dall'essere esaurita, e che raggiunge talvolta punte polemiche così infuocate da riuscire imbarazzanti persino per gli accademici ( Conway, 1992) , che pure basano una gran parte del­ la loro tradizione professionale intorno a un fitto calendario di discus­ sioni di gruppo più o meno ritualizzate (convegni, tavole rotonde, semi­ nari, e cento altri tipi di giostre verbali) . Va sottolineato, tuttavia, che queste posizioni teoriche estreme, entrambe insoddisfacenti, delimitano un campo di variazione in cui esistono molte posizioni intermedie, più equilibrate e interessanti. Appaiono in questo senso molto fruttuose sia le posizioni degli sperimentalisti che hanno ben presente la natura pu­ ramente convenzionale dei modelli individuali di memoria (cfr. , ad esempio, Baddeley, 1982) , sia le posizioni di chi, pur sottolineando la cen­ tralità del ruolo del contesto di scambio comunicativo in cui si produ­ cono i discorsi nei quali vengono evocati i ricordi personali, non sotto­ valuta l'importanza della corrente di ricerca psicologica tradizionale sul­ la memoria (cfr. , ad esempio, Mininni, 1988) . Al di là delle polemiche, ciò che ci preme osservare in queste pagine è però la similarità di fondo che, paradossalmente, accomuna le posizio­ ni teoriche estreme: la meccanizzazione di certi approcci sperimentali da un lato, l'analisi delle transazioni sociali più minute ed effimere dall'altro. Queste opzioni teoriche diversissime, che si pongono ai limiti del­ l' ampio campo di variazione in cui è raccolta la nostra tradizione di stu­ dio sulla memoria, appaiono in fin dei conti molto simili - pur essendo diametralmente opposte - nel loro medesimo atteggiamento di scarsa at­ tenzione per la soggettività individuale. La soggettività della persona non è riconoscibile nelle risposte del par­ tecipante anonimo alla sperimentazione, risposte che sono accettabili per il ricercatore solo in quanto dimostrano l'esistenza di processi " di base " , i n cui ogni persona è assimilabile e sostituibile con qualsiasi altra. M a la stessa soggettività individuale non interessa neppure al ricercatore che ve­ de la persona come l' interlocutore di una transazione che la trascende e in qualche modo la determina; in questa cornice teorica, il soggetto ha va­ lore esclusivamente in quanto voce dialogante, componente anonimo di un immenso discorso che, al pari del coro delle tragedie greche, va ascol­ tato solo per rendere comprensibile quanto accade sulla scena sociale. 30

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I.4

Il ritorno della memoria autobiografica nell'agenda di ricerca

Nel corso dello sviluppo degli studi psicologici sulla memoria, la consa­ pevolezza dei ricercatori dell'urgenza di dedicarsi alla necessaria ma dif­ ficile esplorazione della soggettività individuale è rimasta per lo più som­ mersa; riaffiorando, tuttavia, ciclicamente, ogni volta che si evidenziava­ no i limiti dei risultati ottenuti. Nella filigrana di questo sviluppo altalenante degli studi sulla me­ moria, la storia dello studio della memoria autobiografica può essere l et­ ta come una sorta di filo rosso, che accompagna e punteggia le polemi­ che, più volte accantonate e apparentemente " dimenticate " e poi di nuo­ vo riscoperte e riprese, su alcune grandi questioni di base (Augoustinos, Walker, 1995) . Non c'è dubbio, infatti, che la memoria autobiografica svolga una funzione centrale per riflettere sugli aspetti di unicità e di originalità dell'individuo. Se la memoria, considerata in termini generali, consen­ te alla mente di operare anche con stimoli non più presenti nel campo concreto di esperienza, la memoria autobiografica ha il compito speci­ fico di aiutare le persone a conservare e rielaborare continuamente la conoscenza di se stesse (accettiamo per ora questa definizione sempli­ ficata della memoria autobiografica, riservandoci di affrontare più tar­ di il complesso problema della sua descrizione analitica). Un grave de­ ficit in questo tipo di memoria, dunque, pur non impedendo alla per­ sona di continuare una vita mediamente efficiente, viene vissuto dalla persona stessa e dai suoi cari come un danno irrimediabile e gravissimo, una vera e propria perdita di sé. Come in molti altri casi, la riflessione sulle situazioni patologiche ci riserva la sorpresa di mostrarci quale complessità si nasconda dietro il volto falsamente banale della salute. I danni alla memoria autobiografi­ ca non sfuggono a questa regola generale della riflessione sulla psicopa­ tologia. Essi ci mostrano, infatti, tre aspetti normalmente esclusi dalla nostra osservazione quotidiana. In primo luogo, ci confermano che, al di là della nostra impressione soggettiva di trovarci di fronte a una facoltà unitaria, la nostra memoria è in realtà formata da memorie: perché se, ad esempio, nel nostro per­ corso professionale siamo diventati dei pianisti di successo, potremmo continuare a suonare con grande virtuosismo anche se ci accadesse di su­ bire un danno grave alla memoria autobiografica, per cui non ricorde­ remmo affatto né chi ci ha insegnato a suonare né tutte le vicende della nostra vita professionale precedente al momento in cui abbiamo subìto quest'alterazione. 31

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Le situazioni patologiche ci mostrano, inoltre, come la memoria au­ tobiografica sia una risorsa indispensabile per accedere a quella cono­ scenza di se stessi che, come sappiamo, è una delle spinte più potenti che orientano il nostro pensiero. Non solo questa conoscenza è continua­ mente ricreata retrospettivamente, a seconda del livello complessivo di comprensione di sé raggiunto da chi ricorda; ma alcuni ricordi autobio­ grafici possono agire come fonte di sorpresa e talvolta di vero e proprio insight, cioè di visione improvvisa e illuminante della propria situazione (Robinson, 1986) . Infine, lo scoraggiamento se non la vera e propria disperazione di chi vede un proprio familiare colpito da questo danno terribile ci rivelano come i ricordi autobiografici costituiscano uno dei fili più potenti tra­ mite cui la persona appartiene, intimamente e indissolubilmente, alla sua rete sociale: così che un familiare che ha scordato tutta o gran parte del­ la vita trascorsa, come nel romanzo di Wiesel citato nell'Introduzione, è per noi in gran parte già perduto, anche se è ancora fisicamente vivente. In tal modo, la patologia della memoria autobiografica rovescia il luogo comune: mostrandoci come, benché i ricordi ci appaiano a prima vista dei contenuti privati, cioè qualcosa che per definizione è escluso alla vi­ sta e alla consapevolezza altrui, essi siano in realtà uno dei nodi che più strettamente ci legano agli altri, una delle intersezioni più profonde tra la nostra vita e quella delle persone che ci appartengono e a cui appar­ teniamo (Leone, 1998a) .

32

2

Gli studi classici sulla memoria autobiografica

N el panorama degli studi sulla memoria, la memoria autobiografica è un campo di studio cruciale, che rende esplicito il problema teorico, spesso sottovalutato, dell'individualità della persona che ricorda . Il fatto che questi ricordi siano indelebilmente legati alle specificità personali di chi ricorda, impedisce di dissolvere l'atto del ricordare nell'insieme di tran­ sazioni sociali che fanno da contesto alla nostra vita mentale: infatti, pur se la sua comunicazione svolge un'indubbia finalità pragmatica (si pensi all'uso sociale che può essere fatto delle narrazioni autobiografiche) un ricordo autobiografico non si può ridurre evidentemente alla sua sempli­ ce espressione verbale (Baddeley, 1992) . Inoltre, questa specificità rende impossibile l'ipersemplificazione dei contenuti di memoria, su cui si ba­ sa una larga parte dello studio sperimentale, riportando alla luce la cen­ tralità della validità ecologica delle metodologie adottate. Il ricordo autobiografico fa dunque riferimento alle vicende e alle caratteristiche specifiche della vita della persona. La persona, non il si­ stema conoscitivo che elabora l'informazione percettivamente assente; la persona, non l'interlocutore che costruisce, insieme o in contrasto con altri, una versione condivisa del passato. Tutta la profondità e complessità del tema dei ricordi autobiografi­ ci può essere colta già a partire dalla lettura dei precursori degli studi at­ tuali, attivi tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, quando la definizione disciplinare della memoria non era ancora molto dissimile dalle riflessioni dell'introspezione più approfondita e agli albori della na­ scita della psicologia come disciplina autonoma. Nelle opere dei tre autori che abbiamo scelto di analizzare - Galton, Freud e Ribot - si esprime dunque, con tutta la forza dell'energia intel­ lettuale del loro formidabile impegno, lo spirito di un'epoca, che affida­ va alla scienza gran parte della propria speranza di miglioramento della vita sociale. Nell'impresa di " scientificizzazione " dello studio dei processi men­ tali, questi tre autori ci sembrano gli anticipatori di tre grandi correnti di 33

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pensiero, chiaramente ravvisabili anche nella filigrana degli sviluppi suc­ cessivi della disciplina: l'approccio classificatorio-botanico, esemplificato in molte soluzioni metodologiche innovative dalla ricchissima opera di Galton; l'approccio storico-biografico, mirabilmente sviluppato da Freud; l'approccio di studio delle continuità tra aspetti biologici e aspetti psi­ cologici, espresso dall'opera di Ribot. Ma quello che ci preme sottolineare, prima di addentrarci nell' ana­ lisi più dettagliata di questi tre contributi classici, è come questa impre­ sa fondativa, che ha così fortemente strutturato il corso degli sviluppi di­ sciplinari seguenti, fosse profondamente intrisa dello spirito del tempo in cui fu concepita e prodotta. Figlio di una famiglia illustre, da sempre impegnata nelle scienze ap­ plicate e nella statistica, cugino di Charles Darwin, Sir Francis Galton ci appare come l'esemplare particolarmente riuscito di una tradizione di ri­ cerca ormai sparita, che potremmo definire una " scienza non istituzio­ nale " . La sua produzione scientifica, amplissima e anticonvenzionale, si apre col più classico esempio di avventura di fine Ottocento: la spedi­ zione in Africa, da lui organizzata e diretta, che salpa nel 1850, proprio a metà del secolo 1 • Sempre intorno a quegli anni (1881 ) , Théodule Ribot dava alle stam­ pe Les maladies de la mémoire: un'opera, destinata a divenire famosa, in cui, per comprenderne i disturbi e le alterazioni, egli descriveva le fun­ zioni e la struttura della memoria in un modo originale e ancora per mol­ ti aspetti attuale. Le sue intuizioni di base, sull'esistenza di una conti­ nuità sostanziale tra gli aspetti biologici e psicologici della memoria e sul bisogno individuale di chi ricorda di riuscire a orientarsi nella sua me­ moria autobiografica, così come un viaggiatore si orienta nello spazio di una terra sconosciuta, sono infatti perfettamente plausibili ancora oggi, alla luce di correnti attuali di studio - quali il rapporto tra memoria im­ plicita o esplicita, o l'ipotesi del nesting proposta da Neisser 2• Infine, è datata 1900 la prima edizione dell'Interpretazione dei sogni 3 , una coincidenza casuale ma molto suggestiva tra anno di edizione di un'opera destinata a divenire una pietra miliare e anno di conclusione r. Sempre alla fine del XIX secolo, Colegrove ripercorre la scia dell'impostazione gal­ toniana di osservazione "botanica" dei contenuti mentali. Con uno sforzo impressionan­ te, se teniamo conto del livello estremamente semplificato dei mezzi statistici a sua di­ sposizione, egli riuscì, infatti, a descrivere in modo estremamente dettagliato i contenuti di memoria di un campione numerosissimo di soggetti. 2. Esamineremo più diffusamente questi aspetti nel terzo capitolo. 3. In realtà il volume, come risulta dalla corrispondenza tra Freud e Fliess, fu pub­ blicato i1 4 novembre 1899, ma l'editore decise di datarlo nel 1900.

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del secolo; e, in effetti, con quest'opera, Sigmund Freud cambierà non solo il panorama delle scienze dell'uomo ma la storia stessa del pensiero occidentale del Novecento. 2.I Galton: quando puoi, misura o conta

Come abbiamo accennato, Francis Galton (r822-1911) si presenta ai no­ stri occhi come un esempio tra i più illustri di "scienziato non istituzio­ nale" . Il suo lavoro eclettico, condotto su iniziativa personale e messo poi a disposizione delle accademie scientifiche, si svolse a partire dal r85o, anno d'inizio di una sua famosa spedizione scientifica in una zona sconosciuta dell'Africa, fino alla sua morte. In questa seconda metà del­ l'Ottocento, Galton rappresentò quanto di meglio il suo secolo sapeva offrire alla scienza, vista nel suo volto oramai scomparso di impresa so­ litaria, compiuta da ingegni illustri nati da famiglie facoltose di intellet­ tuali sempre di altissimo livello e talvolta geniali. Cugino di Darwin, Galton estese il campo d'osservazione dei prin­ cipi dell' Or(g ine della specie (r859) al tema dell'ereditarietà delle qualità mentali eccezionali dei geni. Anche se la disciplina nata da queste prime intuizioni, l'eugenetica, sarebbe stata una delle radici di alcune tra le pa­ gine più orribili della storia mondiale, con il suo correlato megalomani­ co e violento di crudeli manipolazioni sulle persone considerate meno adatte alla riproduzione, sarebbe ingeneroso e storicamente ingiusto macchiare retrospettivamente il lavoro di Galton di quest'orrore. Infat­ ti, per il commentatore odierno, l'aspetto che più colpisce in questi stu­ di è la sottovalutazione dei fattori ambientali, che evidentemente favori­ scono anch'essi la riuscita eccezionale delle persone nate da famiglie il­ lustri (Mazzara, 1996) ; ma ciò faceva parte del clima culturale dell' epo­ ca, in cui la fiducia nel potere civilizzante delle élites europee andava di pari passo con la tendenza etnocentrica e con la sovrapposizione del cri­ terio di " umanità" a quello di similarità socio-culturale. Non bisogna tuttavia presumere che il campo di azione di Galton si limitasse solo alla vita della mente; la sua curiosità e il suo spirito di in­ traprendenza lo portarono a creare nozioni importanti nei campi più di­ sparati, quali la meteorologia, l'individuazione delle impronte digitali, la misurazione dell' acuità visiva, ecc. La cifra costitutiva di tutto il vasto insieme di diverse direzioni di ri­ cerca, che la sua inesauribile curiosità lo spinse a esplorare, può essere ricondotta a un unico atteggiamento di fondo: la volontà catalogatrice del grande botanico, che osserva con ammirazione la molteplicità di forme della natura, sforzandosi nel contempo incessantemente di riportarla a 35

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una categorizzazione più semplificata, ottenibile con uno sforzo pazien­ te di misurazione e quantificazione di tutte le fonti di variabilità. Se Gal­ ton avesse potuto scegliere un motto per la sua impresa intellettuale, sa­ rebbe stato certamente il principio di base che egli amava spesso ricor­ dare: quando puoz: misura o conta. Tra queste multiformi attività, lo spazio d'interesse scientifico che qui ci preme più sottolineare è quello dello studio delle differenze indi­ viduali nelle funzioni mentali: non solo la memoria, ma anche le asso­ ciazioni di idee e la descrizione delle immagini mentali. A Galton va at­ tribuita l'invenzione del termine psicometria, per indicare appunto la ri­ cerca delle metodologie più adatte per potenziare la pratica dell' autos­ servazione sistematica, tramite lo sviluppo di una tecnica di misurazione rigorosa; sua l'idea di descrivere la distribuzione di diverse facoltà men­ tali nell'insieme della popolazione ricorrendo alla curva normale o di Gauss 4; suo l'impulso teorico, ripreso e perfezionato dal suo allievo Pearson, nello studio delle correlazioni, cioè delle osservazioni sull'an­ damento sistematicamente congiunto di due variabili, che potrebbe sug­ gerire l'esistenza di un nesso di causa ed effetto tra loro. Nel campo della memoria, l'apporto di Galton si collega con l'in­ venzione di una tecnica particolare di studio, ancora adesso praticata: in­ dicata spesso in letteratura col termine anglosassone di cueing, che po­ tremmo tradurre con qualche difficoltà in italiano con il termine " inne­ scamento" . In sostanza, Galton osservava sistematicamente la catena associativa " innescata " nella sua mente dalla successione di stimoli esterni (ad esem­ pio, una passeggiata sul Pali Mali a Londra) . Il metodo fu perfezionato da Galton in due soluzioni tecniche par­ zialmente differenti: un questionario su un particolare episodio della vi­ ta quotidiana (il ricordo di come si presentava la tavola per la colazione

4· Si tratta della famosa distribuzione di frequenza rappresentabile come una cam­ pana (alcuni la descrivono ricorrendo alla sua somiglianza con il cappello di Napoleone). Il significato teorico di questa raffigurazione della dispersione dei vari punteggi possibi­ li in una popolazione di soggetti presuppone che la gran parte dei soggetti ottenga un punteggio di valore medio (che corrisponde in questo caso anche al punteggio più fre­ quente di tutti), mentre un numero molto inferiore di soggetti si situa ai due estremi di massima o minima abilità nella facoltà studiata. Questa distribuzione teorica corrispon­ de all'idea di senso comune, per cui in genere quasi tutte le persone posseggono in mi­ sura media delle caratteristiche psicologiche specifiche (diciamo, ad esempio, l'intelli­ genza) , mentre pochi soggetti sono molto difettuali e altrettanto pochi soggetti sono iper­ dotati. In altri termini, si tratta della rappresentazione statistica della nostra idea di sen­ so comune secondo cui la "normalità" è in fin dei conti un sinonimo di "caso altamente frequente nella popolazione " .

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mattutina) (Galton, 188o) e le associazioni che si presentavano libera­ mente a seguito di una parola-stimolo (Galton, 1879a; 1879b) . Considerato complessivamente, il metodo di " innescamento " dei ri­ cordi, perfezionato da Galton in prove successive, lo portò a conclusio­ ni alterne sul livello di produttività e di originalità della memoria auto­ biografica e, più in generale, sulle capacità rievocative e associative del­ la memoria. Nei suoi primi «esperimenti psicometrici» (1883) egli era ab­ bagliato dalla varietà e dalla ricchezza dei suoi ricordi; in seguito arrivò a concludere che «i suoi ricordi e i suoi pensieri erano come una gran processione di attori che sfilavano su di un esiguo palcoscenico, solo per ritornare nelle quinte e riapparire di nuovo in processione con nuove truccature, leggermente diverse dalle prime» (Conway, 1990b, p. 21) . Inoltre, molti ricordi sembravano nascere dalla condensazione di episodi ripetuti, o dall'esemplificazione di interi periodi di vita. Si tratta di un'osservazione, in realtà già presente in altri precedenti tentativi si­ stematici di comprensione della memoria autobiografica, in cui emerge­ va, sia pure in modo cifrato, quella tendenza sistematica della mente a riorganizzare e condensare i ricordi in poche strutture costanti, che sem­ bra formare una specie di griglia generale di inquadramento dei ricordi autobiografici, la base di quella che con Gertrude Stein potremmo chia­ mare l'autobiografia di tutti 5. Una seconda riflessione che è possibile trarre dall'analisi dell'opera di Galton è la diversità dei dati ottenuti al variare del tipo di cues offer­ te. Mentre una ricerca guidata da indizi non sistematici (come quelli che è possibile far scaturire da una lunga passeggiata) porta a una genera­ zione di ricordi, che via via si generalizzano in strutture sempre più con­ densate e astratte, il ricordo di uno specifico episodio quotidiano (qua­ le il sedersi al tavolo della prima colazione) mette in luce la ricostruzio­ ne prevalentemente visiva, l'aggancio a dettagli sensoriali specifici, in breve il rapporto privilegiato tra ricordo e percezione sensoriale, so­ prattutto là dove il dettaglio è legato a episodi di grande specificità (ad esempio, episodi connotati da un forte impatto emotivo) o è guidato da prassi molto prevedibili e quasi " sceneggiate" in un copione (Schank, Abelson, 1977) giornalmente ripetuto e riappreso (come nel caso, ap­ punto, della colazione mattutina) . In conclusione, le osservazioni "botaniche" di Galton hanno anco­ ra molti aspetti di attualità per la riflessione moderna: sia per l'aver for­ nito un metodo efficace di studio della memoria autobiografica, tutto­ ra utilizzato; sia per l'aver avanzato l'ipotesi dell'esistenza di un nume5. Una trattazione sistematica di questi aspetti costanti della memoria autobiografi­ ca sarà proposta nel terzo e quarto capitolo.

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ro sostanzialmente poco elevato di eventi come " trama" del tessuto del­ la memoria autobiografica, eventi di cui egli sottolineò soprattutto la correlazione con le attività di ripetizione interna spontanea (rehearsal) ( Conway, 1990b) . Tuttavia, la molteplicità dei contenuti mentali che emerge da questo lavoro descrittivo è una prima spia di come il termine generale di me­ moria includa un'ampia gamma di fenomeni differenti. Il bisogno di tor­ nare a riflettere sulla descrizione dei fenomeni studiati è forse il legato importante dell'eredità di Galton, che solo da pochi anni è stato risco­ perto ed è rientrato a pieno titolo nell'agenda dei ricercatori (Neisser, 1988b; Brewer, 1986) . 2.2 Ribot: la memoria come orientamento nello spazio percettivo

Théodule Ribot (I839 -1916) , professore di psicologia sperimentale e di psicologia comparata alla Sorbona e al Collège de France negli ultimi decenni dell'Ottocento, collegò fortemente lo studio della memoria con le riflessioni neuropsicologiche di tipo evolutivo sviluppate a Londra da John Hughlings Jackson (I835-I9II) . Tramite questa connessione con gli studi del "padre" della neurologia inglese, penetrò nella concezione di Ribot l'idea spenceriana di un'evoluzione complessiva che dà forma sia allo sviluppo umano e sociale sia a quello naturale. L'ipotesi di base di quest'impostazione di studio si sintetizza nel presupporre l'azione di leggi comuni alle diverse forme di esistenza, finalizzate alla sopravvi­ venza delle strutture migliori e alla progressiva decadenza di quelle me­ no adatte alla vita. Anche nella memoria umana, secondo Ribot, i pro­ cessi di tipo psicologico sono solo lo strato più esterno aggiunto ai pro­ cessi più antichi, di tipo biologico, comuni a strutture evolutivamente più semplici. Per Ribot, dunque, la consapevolezza soggettiva del ricordo, che è parte integrante della memoria autobiografica, è un elemento " so­ vrapposto " a quelli biologici; in quanto tale è " instabile " , mentre quel­ li sono " stabili " , e può divenire visibile in tal uni casi, invisibile in altri (Ribot, 1882) 6• Per Ribot, come del resto per gran parte della tradizione classica di studio della psicologia, la memoria è concepibile essenzialmente come 6. Si tratta di un'anticipazione di aspetti che verranno sviluppati più ampiamente dalla psicologia circa cent'anni dopo, con lo studio di temi quali quello della memoria im­ plicita ed esplicita o delle risposte di tipo automatico, cioè riconducibili più a un effetto di memoria implicita che non a una scelta consapevole.

2 . GLI STUDI CLASSICI SULLA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA

una percezione " più debole" ; ed è, analogamente alla percezione vera e propria, unita nello scorrere ininterrotto dell'esperienza. Sono dunque necessari dei processi che permettano al soggetto di orientarsi nel flus­ so continuo dei suoi ricordi; nel caso della memoria autobiografica, ciò accade tramite la selezione di alcuni ricordi che agiscono come punti di riferimento, come degli spartiacque che distinguono tra un prima e un dopo: prima della laurea, dopo il matrimonio, dopo la nascita della mia primogenita . . . Ribot nota che l a selezione d i questi punti d i riferimento non appa­ re al soggetto come arbitraria o frutto di una sua volontà, ma che si pre­ senta al contrario con i caratteri di un' autoevidenza percettiva: i punti di riferimento «non vengono scelti in modo arbitrario, ma si impongono su di noi» (Ribot, 1882, p. 51) . Inoltre, mentre l a gran parte d i questi punti d i riferimento è stretta­ mente legata alle vicende private di chi ricorda, alcuni sono condivisi, «sono comuni a una famiglia, a una società, a una nazione» (ibid. ) . Tra­ mite la scelta dei punti di riferimento, dunque, entra nella percezione estremamente individuale e soggettiva della memoria autobiografica il punto di vista proprio di un gruppo sociale più ampio; e forse la sensa­ zione di condividere lo stesso orientamento di base nella memoria auto­ biografica forma una delle basi affettive più forti di quel sentimento di appartenenza che lega l'individuo al gruppo (soprattutto, come vedre­ mo meglio in seguito, al gruppo generazionale con cui la persona ha con­ diviso gli anni dell'adolescenza e della prima giovinezza) . 2. 3

Freud: quando il passato non passa

L'ultimo riferimento d'obbligo nella nostra breve ricapitolazione degli studi classici che hanno fatto da base all'approfondimento psicologico della memoria autobiografica è rivolto all'opera di Sigmund Freud. Se è vero che ognuno dei tre autori classici che abbiamo scelto ha orientato, in filigrana, tutta una corrente di studi psicologici seguenti, a Sigmund Freud è toccato in sorte un compito di influenza più comples­ so e pervasivo. Il suo studio fa parte, infatti, di quei pochi casi in cui una teoria della realtà mentale, una volta pubblicata, diventa così citata e dif­ fusa da trasformarsi in una teoria nella realtà mentale di chi pensa a se stesso e agli altri non in quanto psicologo professionista, ma per sempli­ ce sete di autoconoscenza (Farr, 1993 ) . Moltissimi aspetti della sua ope­ ra, infatti, sono stati "tradotti " in conoscenze più o meno tacite e accet­ tate del pensiero quotidiano. Sotto diverse forme, e talvolta profonda­ mente mutati, questi aspetti delle teorie freudiane fanno oramai parte di 39

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quello che si pensa comunemente della vita mentale e, per quanto più specificamente ci interessa in questo libro, della memoria autobiografi­ ca. Infatti, malgrado i cambiamenti e le trasformazioni a volte molto profonde, le eredità concettuali del lavoro freudiano sono ancora abba­ stanza riconoscibili nelle riflessioni e nelle discussioni sulla memoria che frequentemente punteggiano il nostro discorso con gli altri, soprattutto con le persone a cui vogliamo comunicare, con l' autosvelamento di ri­ cordi di eventi personali, una vicinanza affettiva. Quest'eredità nascosta è dunque insensibilmente passata, attraverso mutamenti profondi non solo nella struttura dei concetti ma nel loro stesso significato, nella riflessione dello "psicologo quotidiano" , espres­ sione del desiderio profondo, e necessario anche ai non psicologi di pro­ fessione, di comprendere il funzionamento della mente. In una ricerca interessantissima e geniale, Serge Moscovici ha stu­ diato appunto lo spazio che divide la teoria freudiana dalla sua immagi­ ne sociale (Moscovici, 1961), facendo di questo studio una dimostrazio­ ne della sua ipotesi su quanto il nostro pensiero quotidiano si affidi al­ l' autorità della vulgata scientifica per raggiungere quella sicurezza unifi­ cante e socialmente condivisa, che in altre epoche e culture è affidata al pensiero religioso (Moscovici, 1988) . Gran parte dell'eredità del pensiero freudiano, passata in questa psi­ cologia del senso comune, si basa sulla concezione della centralità delle esperienze dell'infanzia come base di formazione dell'individuo, da cui la vita mentale trae la sua forma adulta caratteristica; una strutturazione che solo difficilmente e con grande fatica potrà essere modificata da que­ sta sua prima matrice. Se da un lato questa concettualizzazione rappresenta il passato in modo deterministico, secondo una metafora che lo vede come una sor­ ta di dittatore del tempo presente (Conway, 199ob ) , dall'altro ciò apre uno spazio di esplorazione della soggettività che ridà spessore e signifi­ cato a tutta una fenomenologia minuta, in apparenza insignificante: i la­ psus, i motti di spirito, i sogni, gli atti mancati, le fantasie, e persino i sin­ tomi nevrotici, che - nel linguaggio spiccio della medicina organicistica - potrebbero essere liquidati dalla sprezzante osservazione diagnostica secondo cui il paziente "non ha niente" . S e questa è stata la portata complessiva dell'avventura intellettuale dell'opera freudiana, che ha indubbiamente cambiato non solo le scien­ ze della mente ma tutto il pensiero del Novecento, il ruolo della descri­ zione dei ricordi autobiografici occupa in essa un posto non sistematico ma di certo centrale. Tramite una rielaborazione inedita e coraggiosa del classico studio del caso, metodologia d'elezione della medicina (Robinson, 1986) , Freud

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tentò di ricostruire la catena etiopatogenetica dei sintomi psichici, colle­ gandola appunto a una situazione di "blocco ricorsivo " della memoria autobiografica. Il sintomo è visto in quest'ottica come una soluzione di compromesso, che da un lato consente di mantenere il velo sul ricordo inaccettabile alla coscienza del soggetto, dall'altro "mette in scena" 7 questa difficoltà evolutiva, che egli non è in grado di ricordare ma nep­ pure di dimenticare. L'interpretazione, atto terapeutico con cui l'analista restituisce al pa­ ziente una chiave di lettura del messaggio latente che si trova raffigura­ to nell'apparente insensatezza della sua psicopatologia, è una rielabora­ zione originale della pratica sapiente dello storico, o dell'archeologo: che, a partire da un frammento, ricostruiscono pazientemente la realtà veridica di qualcosa che è ormai scomparso allo sguardo. Nella corag­ giosa innovazione freudiana, la metodologia clinica classica si ibrida in tal modo con il patrimonio di sapere delle scienze umanistiche: la storia, la biografia, l'interpretazione dei testi letterari e persino l'esegesi delle molteplici interpretazioni nascoste nei libri sacri. La memoria autobiografica diventa al tempo stesso motore e prova di questa rivoluzione della pratica clinica: motore esplicativo, per il le­ game causale rintracciato costantemente tra sintomo e vicenda autobio­ grafica del soggetto; prova, perché se la rielaborazione soggettiva che il paziente riesce a sviluppare, a partire dalla proposta interpretativa del­ l' analista, si dimostra efficace per risolvere una patologia resistente ad al­ tre forme di trattamento, la tecnica stessa di terapia e la teoria ad essa soggiacente ne risultano confermate nella loro efficacia e veridicità. 2. 4

Oblio e riscoperta della memoria autobiografica

La prima fase fondativa degli studi sulla memoria autobiografica è stata ricca di spunti originali. Nelle opere di Ribot, Galton e Freud si è ini­ ziato a dispiegare un insieme di linee di ricerca che è possibile ricono­ scere, al di là degli evidenti avanzamenti teorici e metodologici, in mol­ te caratteristiche basilari del panorama di studio attuale (Robinson, 1986; Conway, 199oa) . L'approccio botanico, che Galton aveva inizialmente applicato a si­ tuazioni della sua vita personale, può essere a buon diritto considerato il progenitore del lavoro paziente di osservazione (e di autosservazione) 7. Si pensi all'aspetto marcatamente teatrale di molti sintomi isterici, che hanno rap­ presentato la prima area di studio del giovane Freud: nell'osservazione del lavoro di Char­ cot alla Salpetrière prima, nella collaborazione con Bleuler poi.

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degli psicologi che studiano nei nostri giorni la memoria aderendo a una prospettiva ecologica. La prospettiva continuista di Ribot, che considerava il ricordo co­ sciente come solo l'ultimo e più superficiale strato di un fenomeno dal­ le salde radici biologiche, trova molti echi nelle recenti riflessioni sugli aspetti impliciti ed espliciti della memoria, con tutte le originali innova­ zioni metodologiche che questa prospettiva ha permesso di introdurre. L'eredità di Freud, infine, con il suo inedito e coraggioso mix di tra­ dizioni culturali diverse - dallo studio del caso medico, alla riflessione storica, al commento letterario, alla ricostruzione dei percorsi di prima formazione biografica - ha propagato la sua influenza non solo nella psi­ cologia dinamica e clinica, ma in moltissime altre aree di pensiero, ri­ verberandosi sulle discipline stesse che aveva preso a matrice della sua innovazione (la storia, la biografia, la medicina, l'analisi letteraria) . Agli inizi del secolo, dunque, i grandi precursori del pensiero psico­ logico hanno riflettuto a lungo sul tema della memoria autobiografica, nella duplice prospettiva di quello che questo tipo di ricordo può dirci sia sul processo di memoria, sia sulle caratteristiche della persona che ri­ corda (Robinson, 1986) . Naturalmente, in quegli anni gli studiosi non avevano ancora rag­ giunto la capacità di distinguere tra le molte forme di organizzazione del­ la memoria che ci sono attualmente note, e consideravano i fenomeni in modo molto più unitario e diffuso; inoltre, la loro impresa metodologi­ ca era ancora agli inizi, e ciò impediva di comprendere con chiarezza quanto il tipo di risultati ottenuti fosse anche funzione del modo in cui venivano elicitati (Brewer, 1986) . N ella fase iniziale degli studi sulla memoria, il ruolo della memoria autobiografica era ancora fuso e confuso con quello degli altri tipi di memoria. Tuttavia, già all'interno di queste prime riflessioni il ricordo au­ tobiografico tendeva a essere sospinto gradualmente sullo sfondo della pro­ spettiva di osservazione. In realtà, Galton era interessato a una catalogazione di tutti i conte­ nuti mentali evocati dalle cues ambientali; e i ricordi autobiografici rap­ presentavano solo una piccola parte di questo insieme. Si può al contra­ rio notare - come alcuni commentatori odierni non hanno mancato di sottolineare, non senza un po' d'ironia (Brewer, 1986) - che tra le diver­ se tipologie di ricordo osservate da Galton tramite questa tecnica (dal ri­ cordo dei versi di Tennyson a immagini mentali di tipo generico, come la visione imprecisa di un paesaggio) non viene citata proprio la tipolo­ gia dei ricordi personali. Anche nella concezione freudiana, il tema del ricordo autobiografi­ co viene affrontato per raggiungere un altro obiettivo, cioè per lo svela-

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mento dei processi mentali che sono alla base della formazione dei sin­ tomi nevrotici. È da notare tuttavia come, in linea con quanto magi­ stralmente espresso in Psicopatologia della vita quotidiana (1901), Freud arriva ben presto a riconoscere quanto la differenza tra pensiero quoti­ diano e pensiero patologico non sia di tipo qualitativo, cioè nella natura dei processi attivi nella mente, ma di tipo quantitativo, cioè nell'invasi­ vità più o meno marcata di alcuni processi patologici nell'equilibrio ge­ nerale della vita mentale. Nel libro egli vuole mostrarci, infatti, quanto le imperfezioni e gli abbagli facciano parte della nostra " normalità, , per­ ché, come recita la famosa scena di mezzanotte del Faust che egli cita in apertura del testo, «Ora l'aria è sì piena di fantasmi, che nessuno sa più come evitarli». Nella descrizione minuta e piena di arguzia dei dettagli comporta­ mentali cui prestiamo normalmente poca attenzione, Freud vuole de­ scrivere come tutta la nostra vita mentale sia attraversata da défaillances simili a quelle clamorose dei sintomi psicopatologici più conclamati. In situazioni apparentemente insignificanti, come gli atti mancati, le di­ menticanze, le gaffes, i motti di spirito, gli atti scaramantici, esprimiamo le stesse distorsioni della patologia, ma ci differenziamo nettamente da quella condizione esistenziale per la scarsa quantità di tempo che nella nostra vita quotidiana viene invaso da questi processi. Dunque il legame tra mancato ricordo e comportamento blanda­ mente o pesantemente sintomatico è reperibile sia nella vita usuale sia nella condizione clinica. La condizione nevrotica, tuttavia, consente di osservare con più chiarezza il legame tra l'esistenza di ricordi " difficili , , cioè collegabili a un'esperienza d i tipo traumatico, e l'emergenza d i un sintomo. Quest'ultimo, infatti, rappresenta una soluzione di compromes­ so rispetto alla memoria: permette di non ricordare quanto potrebbe mettere in crisi l'equilibrio generale del sistema mentale, ma di mante­ nerne al contempo una traccia, sia pure " cifrata, , nella vita del soggetto. Inoltre, la vita mentale della persona, al di là delle differenti condi­ zioni esistenziali più o meno marcate da un sintomo, è per Freud sem­ pre governata da forze pulsionali che agiscono eternamente e costante­ mente a modellarla, al di là della consapevolezza e della volontà del sog­ getto: Eros, la spinta erotica responsabile della nascita di nuovi indivi­ dui che garantiscono la prosecuzione della specie, e Thanatos, la spinta verso la distruzione e l'autodistruzione, che garantisce la fuoriuscita de­ gli individui più anziani, ormai sostituibili dalle generazioni seguenti. Sia nel legame tra sintomo e ricordo autobiografico "bloccato , , sia nell'ipotesi dell'esistenza di forze pulsionali di base, garanti non tanto della vita dell 'individuo quanto della specie, vera destinataria della continuità sottesa all'eterno equilibrio tra Eros e Thanatos, Freud ri43

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legge il tema della memoria autobiografica come un insieme di espe­ rienze mentali che non possono essere comprese se non tramite un' at­ tività di interpretazione che, in un certo senso, avanzi un ragionevole sospetto sul contenuto " superficiale" con cui esse si manifestano alla coscienza del soggetto. Anche in questo caso, dunque, il ricordo auto ­ biografico, così come fenomenologicamente esperito dal soggetto, ce­ de il passo a qual cos'altro. Mentre in Galton esso è solo una variante, relativamente infrequente e poco rappresentata, della tassonomia dei contenuti mentali, in Freud è una superficie che nasconde il gioco di dinamiche più profonde, che trascendono e superano la consapevolez ­ za del soggetto. Per quanto riguarda, infine, il parallelo tra percezione e memoria, pro­ posto nell'opera di Ribot, esso appare molto fruttuoso sia per le somi­ glianze, sia per le differenze che permette di cogliere tra le due funzioni. Da una parte, infatti, è vero che il ricordo autobiografico si presen­ ta spesso al soggetto come una percezione rivissuta. Ad esempio, par­ lando di un nostro caro scomparso, possiamo adoperare facilmente espressioni convenzionali quali: mi sembra ancora di rivederlo; l'ho an­ cora davanti agli occhi; un'esperienza che accomuna la memoria non so­ lo con la percezione ma anche con l'immaginazione (soprattutto, anche se non esclusivamente, visiva) . Ma percezione e memoria sono anche profondamente dissimili, e in questo iato si nasconde una potente fonte di comprensione del ruolo svolto dal tempo nel modellare le particolarità del percorso individuale che fa di ogni persona un individuo. La riflessione sulle differenze tra percezione e memoria ci permette, infatti, di disambiguare i profili del­ la memoria e dell'apprendimento, facoltà che spesso vengono conside­ rate più per i molti punti di contatto che non per le loro diversità. Una delle caratteristiche di base di ogni apprendimento riuscito, infatti, è il fatto di cancellare retrospettivamente le tracce del lungo percorso che ha portato la persona a padroneggiare il contenuto appreso. Come si vede da questa brevissima rassegna, il lavoro dei grandi pre­ cursori era ricco di moltissimi spunti e intuizioni, che permettevano già di iniziare a delineare le differenze tra memoria autobiografica e altri ti­ pi di memoria. Tuttavia, a questa prima fase così feconda, è succeduto un lungo momento di sospensione dell'attenzione esplicitamente attri­ buita ai ricordi di tipo autobiografico. Questo periodo di mancata ricer­ ca sugli aspetti autobiografici è durato circa un secolo: i cento anni di si­ lenzio sulla memoria autobiografica ( Cohen, 1986) . Come spiegare il mancato approfondimento per un aspetto del fe­ nomeno che si era naturalmente imposto all'attenzione dei primi ricer­ catori, anche perché costituisce in un certo senso il cuore stesso delle 44

2 . GLI STUDI CLASSICI SULLA MEMORIA AUTOBIOGRAFICA

nostre definizioni " ingenue " di ciò che quotidianamente chiamiamo " memoria" ? Una prima risposta a questa domanda nasce dall'ipotesi che, in que­ gli stessi anni, lo studio della memoria autobiografica subisse un destino di marginalizzazione e di messa in discussione analogo a quello riserva­ to ai dati nati dall'introspezione: poiché sia l'uno che gli altri appariva­ no troppo strettamente legati al metodo di studio speculativo, tipico del­ l'importante matrice filosofica da cui la psicologia scaturiva e da cui cer­ cava fortemente di differenziarsi, così come una figlia adolescente, an­ cora insicura della sua autonomia e identità, cerca con ogni mezzo di provare a se stessa e agli altri di essere diversa da sua madre. E, in effet­ ti, in quegli anni la psicologia aveva bisogno di autodefinirsi in modo completamente diverso dall' armchair psychology, quella " psicologia ela­ borata su una poltrona" che appariva troppo poco agguerrita rispetto al­ la concorrenza delle moderne scienze sperimentali. Nella corrente principale degli studi, dunque, l' aspetto della memo­ ria autobiografica era una presenza quasi imbarazzante, che tendeva a passare sotto silenzio; mentre i ricercatori della nuova disciplina psico­ logica riservavano un posto prioritario nella loro agenda di lavoro all'o­ biettivo di dimostrare che era possibile non solo studiare empiricamen­ te la memoria, forse uno dei processi mentali superiori di maggiore com­ plessità, ma persino mettere in luce, con una chiarezza impossibile alla pura speculazione, la presenza di alcune regolarità e costanze. Queste, tuttavia, erano ravvisabili soprattutto quando la memoria veniva intesa nel senso stabilito dalla tradizione scaturita da Ebbinghaus: cioè come l'apprendimento di materiali estremamente semplificati, di tipo preva­ lentemente (anche se non esclusivamente) verbale, studiato in condizio­ ni controllate sperimentalmente. Occorrerà quasi un secolo, perché la psicologia superi questo clima culturale. Il cambiamento sarà originato sia da una modificazione nel­ l'equilibrio interno alla disciplina, sia dalle esigenze di una nuova con­ dizione storica e sociale. Infatti, mentre gli psicologi della memoria diventavano sempre più consapevoli della necessità di rendere più complessi i propri modelli teo­ rici e di assicurare un livello superiore di validità ecologica ai loro espe­ rimenti, producendo quegli avanzamenti teorici e metodologici che ab­ biamo esaminato nel capitolo precedente, anche la situazione sociale cambiava. L'accresciuto livello di benessere delle società occidentali, in­ sieme con i progressi delle tecniche mediche, producevano un grande accrescimento della speranza di vita individuale, e quindi una maggiore percentuale di persone anziane e un'inedita attenzione sociale per que­ ste fasi del ciclo di vita (Robinson, 1986) . 45

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In tal modo, una volta finalmente affermata e ben consolidata l'i­ dentità e la dignità della psicologia come disciplina autonoma, e in ri­ sposta al nuovo bisogno di rileggere il funzionamento della memoria du­ rante tutte le fasi del ciclo vitale, si vengono a creare tutte le condizioni culturali favorevoli a un ritorno di attenzione per lo studio della memo­ ria autobiografica. Questo ritorno si apre alla fine degli anni Settanta; e si apre, non a caso, con la ripresa di metodologie classiche di tipo galtoniano (Crovitz, Schiffman, 197 4) , che vengono però riadattate criticamente alla nuova consapevolezza della complessità metodologica imposta dallo studio della memoria, forse uno dei campi più sensibili alla formulazione at­ tenta degli stimoli di ricerca (Brewer, 1986) . Si tratta di un periodo di grande riflessione sul metodo e sui modelli; ma molto spesso sia l'uno sia gli altri sono al servizio di una metafora della mente come macchina per pensare, che non riesce a dar conto di aspetti importanti per tutta la me­ moria e fondamentali per la memoria autobiografica: quali gli aspetti af­ fettivi della memoria e le sue possibilità di scoperta, di intuizione e non solo di conferma e di consolidamento strutturale (Robinson, 1986) . Attualmente, il periodo che stiamo vivendo è caratterizzato proprio dalla rz'scoperta di questi aspetti inattesi e sorprendenti della memoria au­ tobiografica. Il controverso e drammatico problema della sindrome dei (falsi?) ricordi autobiografici, per cui molte famiglie sono state colpite in modo devastante dal riemergere, nel corso di psicoterapie di propri componenti, del ricordo di violenze familiari non si sa quanto reali e quanto indotte dalle suggestioni della terapia stessa, ripropone all' atten­ zione degli studiosi il problema dell'accuratezza e della veridicità dei ri­ cordi: problema che va comunque affrontato nella vita reale, anche se può essere elegantemente aggirato e svuotato di significato nelle disin­ carnate controversie accademiche (Neisser, 1994) . Insieme a questi aspetti applicativi (nelle psicoterapie; ma anche nel­ le aule dei tribunali, negli interrogatori di polizia, nelle testimonianze ecc.) riemerge il volto più misterioso, più complesso della memoria au­ tobiografica: quello per cui il ricordo smette di essere la semplice copia, più o meno appannata, del passato ed entra con forza dirompente nel presente, mostrando con un'evidenza a tratti sconvolgente come la co­ gnizione sia molto di più di una semplice e fredda elaborazione di dati.

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Cos'è la memoria autobiografica?

Per avere un 'idea approssimativa della grande complessità di contenuti mentali che raggruppiamo sotto l'unica denominazione di "memoria au­ tobiografica" , possiamo fare una prova molto semplice: cerchiamo di scrivere i primi dieci ricordi autobiografici che ci vengono in mente e poi rileggiamoli con attenzione. Con molta probabilità, nella lista troveremo un vasto insieme di elementi dissimili. Nell'elenco potremmo trovare: il ricordo di una percezione molto vivida (ad esempio, chi, come me, è vissuto in una città di mare, non avrà difficoltà a evocarne l'odore par­ ticolarmente pungente nelle giornate di freddo e di pioggia) ; il ricordo di un'immagine consueta (ad esempio, il ricordo di mia nonna seduta a stirare nella stanzetta adibita a stireria e lavanderia, una bianca camera ordinata, piccola e assolata) ; il ricordo di una prima volta (ad esempio, l'esaltante prima volta in cui sono riuscita a pedalare in bicicletta senza l'aiuto di nessuno); il ricordo di un evento specifico (ad esempio, un'esecuzione partico­ larmente riuscita del Messiah di Handel, in occasione di un concerto di Natale nella cattedrale di San Nicola) ; il ricordo di un insieme di eventi che si ripetono con regolarità e che sembrano formare ai nostri occhi quasi un tutto unico (ad esempio, i miei viaggi in treno) ; il ricordo di vasti periodi della nostra vita, spesso collegati a una par­ ticolare collocazione spaziale (ad esempio, la mia vita a Pescara) o a una particolare estensione temporale, quasi sempre organizzata intorno a un obiettivo, a un problema o a un tema rilevante per la nostra vita (ad esem­ pio, i miei anni di studio per la laurea in Psicologia) ; il ricordo di una particolare atmosfera emozionale (ad esempio, l'at­ mosfera del Natale della mia infanzia, un ricordo molto netto ma diffi­ cilmente analizzabile ed esprimibile in parole); un ricordo che fa parte intimamente della nostra memoria autobio­ grafica, ma che in realtà ci è stato raccontato da altri (ad esempio, il ri­ cordo di alcuni eventi importanti della nostra primissima infanzia, che 47

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fanno parte dell'insieme di narrazioni che spesso vengono rievocate in famiglia) ; un ricordo non vissuto direttamente, ma mostrato dai mezzi di co­ municazione di massa (ad esempio, la scoperta del corpo di Aldo Moro nascosto in una Renault rossa a metà strada tra via delle Botteghe Oscu­ re e piazza del Gesù: un ricordo che non solo è parte integrante della mia memoria autobiografica, perché è intrinsecamente connesso al ri­ cordo di cosa stavo facendo e di con chi ero nel momento in cui ho ap­ preso la notizia, ma che mi sembra vi rimarrà in modo indimenticabile, come penso accada anche a molte altre persone che hanno pressappoco la mia età) ; il ricordo di pensieri, considerazioni, riflessioni, cioè di conoscenze astratte, che prescindono da immagini, percezioni o sensazioni perché sono il risultato di un'attività puramente mentale (come, ad esempio, il ricordo del perché della scelta della facoltà di Psicologia tra tutte le al­ tre possibilità di formazione universitaria) . Come per tutti i dati di ricerca, anche questo è analizzabile a partire dall'interpretazione del compito che ci eravamo proposti. Ciò è analogo a quanto accade nelle situazioni di ricerca, in cui rispondiamo alla do­ manda che il ricercatore ci pone cercando di riformularcela, a seconda del modo in cui l'abbiamo capita e della nostra idea di ciò che il ricer­ catore si attende da noi. Quello che può accadere, all'interno di un compito di ricerca poco strutturato, è che la persona produca, per così dire, un "grappolo " di ri­ sposte tra loro simili: ad esempio, un insieme di "prime volte" seguito da un secondo insieme di " periodi estesi " o di " episodi singoli" ; come se a t­ tingesse a fonti informative differenti, che vengono scandite ordinata­ mente e che tendono a dare risposte di tipo diverso. Ma questa soluzione originale al problema della scarsa strutturazio­ ne della domanda appare interessante, perché rispecchia un'organizza­ zione della ricerca in memoria molto più complessa di quanto ci si po­ trebbe aspettare (Beatty et al. , 1998) . Ciò testimonia della presenza d i una tipologia estremamente variata di ricordi autobiografici, che aspetta ancora di essere definita e descrit­ ta in modo soddisfacente ( Conway, 199oa) . Inoltre, spesso questo spo­ stamento avviene per una sorta di " scivolamento " spontaneo dei soggetti verso queste altre tipologie di ricordo, scivolamento di cui la persona sembra solo in piccola misura consapevole. Ciò costituisce un chiaro esempio di due aspetti fondamentali per la spiegazione dei processi di recupero dei ricordi autobiografici: in primo luogo, il fatto che il grado di accessibilità ai ricordi è estremamente sen­ sibile al tipo di interpretazione del compito proposto; in secondo luogo,



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il fatto che, anche nel caso di ricerca in memoria guidata dalla volontà, una parte rilevante di tale memoria rimane scarsamente guidata dal con­ trollo consapevole del soggetto. Bisogna cioè essere in grado di distin­ guere tra i processi di recupero dalla memoria (solo in parte consapevo­ li) e il risultato di questi processi, così come si presenta alla nostra con­ sapevolezza (cioè il ricordo vero e proprio) . I n questo, gli autori anglosassoni sono aiutati dal fatto che nella lin­ gua inglese esistono due diverse parole per esprimere questi differenti concetti: to remember, un verbo che descrive il processo del ricordare, e memory-memories, un sostantivo che designa i ricordi consapevoli. Il ricordo consapevole è, infatti, solo uno dei modi (e forse neanche il più determinante, in alcune occasioni) con cui la memoria autobio ­ grafica si fa presente nella nostra vita. Già alla fine dell'Ottocento Ribot, nel suo libro sui disturbi della memoria (I88I), partiva appunto dall'assunzione che la memoria è in pri­ mo luogo un fatto biologico, cui la consapevolezza psicologica del ri­ cordo aggiunge un elemento «sovrapposto agli altri [gli elementi biolo­ gici] : essi sono stabili, questo è instabile; può apparire e scomparire; è rappresentato dall'estensione della consapevolezza nell'atto del ricor­ dare» (Ribot, 1882, p. Io) . La memoria non può essere quindi ridotta, già per Ribot, alla con­ sapevolezza conscia del ricordo: questo tema, introdotto con grande chiarezza più di cento anni fa dal grande studioso, è stato in anni recen­ ti sviluppato dagli psicologi nella distinzione tra memoria implicita o esplicita (Schacter, 1987) . Anche una gran parte degli studi odierni sulla automaticità (cioè quei processi di memoria rapidi, involontari e senza sforzo che sottostanno alla nostra percezione, al di là della nostra stessa consapevolezza) può ricondursi in parte a queste osservazioni. Alla fine di queste prime considerazioni, possiamo giungere, in sin­ tesi, a una sorta di prima definizione in negativo della memoria autobio­ grafica: la memoria autobiografica non è formata solo, come una prima considerazione spontanea ci porterebbe a credere, dai ricordi consape­ voli. Inoltre, risulta accessibile attraverso una molteplicità di processi, sia controllati sia automatici, che rispondono con grande sensibilità all'in­ terpretazione soggettiva delle necessità del compito di memoria effet­ tuata dalla persona che ricorda. 3 ·I

Un celebre esempio letterario

Del resto, il mistero di come funzioni in realtà la memoria autobiografi­ ca costituisce uno degli interrogativi più inquietanti e affascinanti non solo per gli psicologi che lavorano su questo tema, ma per chiunque os49

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servi con curiosità la sua vita mentale. Su questo interrogativo sono sta­ te scritte pagine celebri, contributi letterari o poetici che possono ac­ quistare un grande valore di stimolo e di chiarificazione, anche se evi­ dentemente di carattere esclusivamente speculativo e non sistematico, per chi studia il tema da un punto di vista professionale. Nella nostra Introduzione, abbiamo già detto che avremmo " sac­ cheggiato " questo patrimonio di riflessione, per arricchire la nostra descrizione: e quale esempio migliore, per definire la memoria auto­ biografica, del celebre brano della madeleine di Marcel Proust ? Com'è noto, in questo brano, che è oramai quasi un'icona delle descrizioni letterarie dei ricordi autobiografici, Proust racconta come la sua " ri­ cerca del tempo perduto " dell'infanzia, cui egli si dedicava con note­ voli quanto inutili sforzi di rievocazione volontaria, fosse stata ina­ spettatamente e potentemente aiutata, un giorno in cui gli accadde per caso di risentire di nuovo, da adulto, l'odore e il sapore del piccolo dolce che sua zia era solita inzuppargli nell'infuso di tiglio quando era piccolo: E, appena ebbi riconosciuto il sapore del pezzetto di madeleine inzuppato nel tiglio che mi dava la zia, (pur ignorando sempre e dovendo rimandare a molto più tardi la scoperta della ragione per cui questo ricordo mi rendesse così feli­ ce) , subito la vecchia casa grigia sulla strada, nella quale era la sua stanza, si adattò come uno scenario di teatro al piccolo padiglione sul giardino, dietro di essa, costruito per i miei genitori [ . . ] e con la casa la città, la piazza dove mi mandavano prima di colazione, le vie dove andavo in escursione dalla mattina alla sera e con tutti i tempi, le passeggiate che si facevano se il tempo era bello (Proust, 1913 , trad. it. a cura di N. Ginzburg, 1978, p. 52) . .

Dalla descrizione, magistralmente dettagliata, di questa pagina famo­ sa della letteratura del Novecento possiamo trarre molti spunti sul mo­ do con cui si presenta l'esperienza di un ricordo autobiografico invo­ lontario. Il primo spunto di riflessione è che il ricordo appare subito agli oc­ chi della mente dell'autore. Ciò ci mostra in azione un processo di me­ moria che agisce al di sotto della soglia di consapevolezza del soggetto: l'unica cosa che appare consapevolmente è il risultato finale del proces­ so, cioè il ricordo. Il secondo spunto riguarda talone affettivo del ricordo, e il forte ri­ tardo con cui l'autore (cui certo non faceva difetto la facoltà d'introspe­ zione) sarebbe riuscito a decifrarlo. Si anticipano dunque, nelle pagine di questo grande romanzo, quelle considerazioni sull"' orma affettiva" , che fa d a prima guida alla ricostruzione consapevole del significato dei nostri ricordi, che verrà descritta in seguito dalle anticonvenzionali ri-



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cerche di Bartlett (1932) 1; e il ruolo ancora in larga parte misconosciuto che le emozioni svolgono nei nostri processi di memoria, come spinta a elaborare ulteriormente la conoscenza di sé, per cogliere l' insight miste­ rioso che l'emozione stessa ci offre, in un modo non solo difficile da co­ municare agli altri, ma spesso difficile da comprendere anche per noi stessi (Robinson, 1986) . Il terzo spunto interessante è che la parte consapevole del ricordo si presenta alla mente sotto forma di un'immagine, che non permane iso­ lata, ma tende immediatamente a venire integrata, sia pure artificiosa­ mente (si connette come uno scenario di teatro) nel flusso di pensieri e di percezioni attuali della mente che lo sperimenta. Il quarto spunto è che quest'immagine rappresenta un luogo, la vec­ chia casa grigia in cui egli aveva passato tanto tempo nella sua infanzia. Il legame con una localizzazione spaziale è un aspetto importante, che spesso si osserva nell'organizzazione del ricordo. Già nell'età classica, i retori e gli oratori romani e greci avevano svi­ luppato una complessa tecnica di aiuto alla memorizzazione, basata sul ricordo di luoghi familiari, che facilitava incredibilmente il recupero in memoria dei vari passaggi dei lunghi discorsi da declamare a braccio (Yeats, 1966) . Questa tecnica di guida alla memorizzazione, nota in let­ teratura con il nome di loci, sfrutta appunto la grande facilità della me­ moria autobiografica nel rievocare i luoghi in cui si è vissuto. Un altro grande studioso della memoria, Halbwachs \ dedicherà molti sforzi a tentare di spiegare il bisogno di collegare il ricordo del no­ stro passato, così fuggevole, a dei luoghi fisici che, permanendo più a lungo, ci assicurano di poter recuperare con facilità la traccia di situa­ zioni ormai sparite per sempre dalla nostra vita. Egli aveva sottolineato come questo accada sia per i ricordi autobiografici sia per i ricordi che sono alla base della vita di un gruppo: pensiamo, ad esempio, a quale im­ portanza rivesta, per una comunità religiosa, il ricordo di alcuni "luoghi santi" . Questa funzione di radicamento della memoria in luoghi specifi­ ci si esprime sia nella tradizione, continuamente rinnovata e commemo­ rata, di recarsi in pellegrinaggio in alcuni luoghi specifici, sia nel tentati­ vo di ricrearli in spazi di culto in cui essi sono simbolicamente rappre­ sentati (Halbwachs, 1941) . Il ricordo descritto da Proust ci permette, infine, di notare un'altra caratteristica di questa facilità alla rievocazione degli spazi familiari. Di­ rettamente connesso al ricordo della casa, si presenta, infatti, un grap1. Il contributo fondamentale di questo autore alla ricerca sulla memoria verrà ana­ lizzato più ampiamente nel quinto capitolo. 2. Parleremo più diffusamente di questo autore nel quinto capitolo.

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polo di altri ricordi, che sembra come allargare lo sguardo dalla casa al­ l' ambiente urbano che la contiene: le strade, la piazza, la città. Neisser ha notato che il ricordo spaziale sembra guidato da rappor­ ti non solo di vicinanza o di semplice associazione, quanto da un rap­ porto di inclusione (nesting) in cui uno spazio più ristretto è contenuto in uno più grande. Ad esempio, ricordando il corso di psicologia socia­ le, ricordo l'aula in cui si è svolto e, immediatamente dopo, il palazzo dov'è situato l'Ateneo, la via percorsa per arrivarvi, la città ecc. Questo rapporto di inclusione, ipotizza Neisser, guida in modo in­ consapevole il recupero dei ricordi autobiografici. Infatti, come già ave­ va notato Ribot, nel momento in cui cerchiamo di recuperare un ricor­ do autobiografico il nostro problema principale è quello di orientarci nella grande molteplicità dei ricordi che ci sono disponibili: in altri ter­ mini, una delle caratteristiche della memoria autobiografica sarebbe connessa al gran numero di dati che ci sono accessibili, un flusso inin­ terrotto e molteplice che richiede una strategia attiva di memorizzazio­ ne di indizi orientativi, nello stesso modo in cui, per non perdere la stra­ da in una grande città, abbiamo bisogno di fissare alcuni punti di riferi­ mento stabili. L'analogia, proposta da Ribot alla fine dell'Ottocento, tra orienta­ mento nella memoria e orientamento nello spazio tramite punti di riferi­ mento, viene sviluppata da Neisser nell'ipotesi che non ci sia bisogno so­ lo di fissare e rendere salienti punti isolati, che spiccano sugli altri, come facciamo ad esempio quando, usciti dall'albergo di una città sconosciuta, ci imprimiamo in mente i negozi, le piazze o le case delle vie che percor­ riamo, per essere sicuri di ritornare senza difficoltà al punto di partenza. Neisser pensa, infatti, che, al di là della scelta di alcuni ricordi di ri­ ferimento, esista una percezione diretta del rapporto d'inclusione che organizza la realtà, sia spaziale (l'aula nel palazzo Ateneo) sia temporale (la lezione all'interno del corso) . Si tratterebbe in questo caso non sol­ tanto di una strategia di memorizzazione, quanto della conseguenza di una vera percezione immediata, che si accorda spontaneamente con l'or­ ganizzazione del reale. In questa definizione, Neisser si discosta dal punto di vista di molti altri psicologi della corrente cognitiva (che era, del resto, anche il suo punto di vista iniziale) , che concepiscono il ricordo come una ricostru­ zione che tende a rendere più economici ed efficienti i meccanismi di ba­ se di elaborazione delle informazioni. L'ipotesi del nesting di Neisser pensa al contrario che il recupero di alcuni ricordi come inclusi in altri (nel nostro esempio, la casa della zia come parte della città) sia un ri­ specchiamento percettivo di una struttura reale e non un " trucco " rico­ struttivo che cerca di aggirare i limiti delle risorse della mente.



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3 ·2

La memoria autobiografica permanente

Nella sua ricerca del passato, Proust era giunto a disperare di averlo per­ duto: l'episodio della madeleine gli mostrò che esso era solo nascosto, e che il problema era come riuscire ad accedervi di nuovo. Egli, infatti, non ne possedeva prove né tracce esterne, e doveva fare affidamento so­ lo sulle risorse interne della sua memoria. Neisser (1981) ha studiato invece uno dei pochissimi casi in cui era pos­ sibile basarsi su delle prove oggettive del passato. Si trattava della testimo­ nianza di John Dean, uno stretto collaboratore del presidente Nixon che, a un certo punto, aveva deciso di collaborare totalmente con la giustizia, fornendo una testimonianza il più possibile veritiera del vasto insieme di corruzione e complotti che aveva caratterizzato la conduzione della Casa Bianca e di cui egli era a conoscenza per la sua posizione istituzionale. L'aspetto eccezionale di questa testimonianza era legato al fatto che i giudici possedevano anche le registrazioni di molte delle conversazio­ ni tra Nixon e Dean e quindi potevano mettere a confronto il suo ricor­ do con la realtà dei fatti. Questo confronto mostrò che esistevano profonde differenze tra il ricordo e le registrazioni, soprattutto per il fat­ to che Dean aveva condensato, in un unico episodio, cose che si erano svolte in modo molto più slegato e casuale in molti episodi separati. Tuttavia questo ricordo, anche se materialmente infedele, coglieva con efficacia il significato di tutti gli scambi più dispersi che vi erano sta­ ti condensati: cioè era sbagliato se visto come una registrazione, ma era esatto come rappresentazione, in quanto trasmetteva il significato profondo di quello che era accaduto, così com'era stato esattamente compreso da Dean che, in quanto stretto collaboratore di Nixon, era in grado di interpretare correttamente il senso di quanto accadeva. Considerando che il formato del ricordo era relativo a un evento sin­ golo (cioè è un episodio) ma che il confronto con le registrazioni mo­ strava che era in realtà il riassunto di molti eventi ripetuti che, sommati insieme, avevano permesso a John Dean di afferrare perfettamente il si­ gnificato di un )intera catena di eventi singoli, Neisser chiamò questo ti­ po di ricordi memoria repisodica. Il neologismo proposto da Neisser voleva sottolineare il carattere in­ termedio di questo ricordo, che fondeva originalmente in sé l' ancorag­ gio ad alcuni precisi particolari concreti, relativi a un episodio ben defi­ nito nel tempo e nello spazio, con le conoscenze astratte, nate dalla ri­ flessione su un insieme di eventi ripetuti. In questa definizione, Neisser si richiamava a una famosa distinzione, proposta da Tulving (1972) , tra conoscenze situabili nel tempo e nello spazio (memoria episodica) , co53

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noscenze di significati (memoria semantica) e conoscenza del modo in cui si fanno le cose (conoscenza procedurale). Quest'importante distinzione era stata proposta da Tulving a pro­ posito dell'organizzazione della memoria permanente (cioè la memoria che rimane indefinitamente nella nostra mente, contrapposta alla me­ moria temporanea, che è la memoria transitoria che ci serve per tenere a mente alcuni contenuti su cui stiamo compiendo un'operazione menta­ le specifica, contenuti che possono poi sia essere incorporati alla memo­ ria permanente, se importanti, sia essere lasciati cadere e dimenticati, se scarsamente significativi) . È evidente però che questa stessa distinzione può essere molto utile anche per descrivere l'organizzazione della parte permanente della memoria autobiografica. Anche in questo caso, infatti, i nostri ricordi possono riguardare epi­ sodi specifici (ieri ho ritirato la scheda valutativa di mio figlio) , cono­ scenze di significato più astratto (la cosa che mi interessa di più è che mio figlio si trovi bene a scuola e non tanto che abbia voti eccellenti, cosa che si ripetono, credo, tutte le mamme dei ragazzini che studiano poco) e co­ noscenze di tipo procedurale (da poco tempo ho imparato la strada per arrivare alla nuova sede della scuola di mio figlio) . In altri termini, i ri­ cordi autobiografici, come tutti gli altri ricordi della nostra memoria per­ manente, possono avere come contenuto un episodio, una conoscenza astratta di tipo semantico, il padroneggiamento di una procedura o un'a­ bitudine (Tulving, 1972) . 3 ·3

La memoria autobiografica come ricordo riferito al Sé

In questo caso, tuttavia, la particolarità del ricordo nasce dal fatto che io posso essere contemporaneamente soggetto e oggetto della mia cono­ scenza. Come soggetto di conoscenza, il mio ricordo è di tipo personale, strettamente legato al modo con cui io ho percepito e fatto esperienza della realtà. Ma come oggetto di conoscenza, io posso guardarmi dal di fuori, come uno dei tanti oggetti presenti nella realtà, e considerare que­ ste mie conoscenze come fatti. Inoltre, queste esperienze e conoscenze non sono sganciate tra loro, ma tendono a essere fortemente organizzate, stabili, coerenti; in termini di psicologia della memoria, potremmo dunque dire che s'inseriscono in un insieme di relazioni reciproche già in parte prestabilite, cioè in uno schema (Bartlett, 1932) che semplifica e organizza la nostra percezione e autopercezione e che in condizioni usuali tende a rimanere stabile e ad autoperpetuarsi; a eccezione di quei rari e preziosi momenti in cui im­ pariamo qualcosa di noi che sorprende per primi noi stessi. 54



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Se consideriamo l'aspetto di rt/erimento al Sé come il dato più carat­ teristico dei ricordi autobiografici, possiamo però subito notare che esi­ stono diversi modi in cui possiamo rievocare un simile tipo di ricordi. Brewer (1986) propone di distinguere tre tipi diversi di ricordi rt/eriti al Sé: un ricordo personale (a personal memory) , cioè un ricordo di un evento singolo (non ripetuto) basato su una rappresentazione del tipo "immagine visiva" (ad esempio, ricordo di aver tenuto una conferenza a Liegi, rivedendo la sala dove questa si è svolta, il volto delle persone che ascoltano, il giardino dov'era situata la sala ecc.) ; un fatto personale (an autobiographical /act) , cioè il fatto che io pos­ sa rispondere positivamente se qualcuno mi chiede, ad esempio, se ho mai visitato l'università di Liegi; in questo caso non è fondamentale che io produca immagini del ricordo; un ricordo personale generico (a generic personal memory) , che si ba­ sa sulla conoscenza ottenuta dalla ripetizione di molti eventi simili, da cui viene estratto una specie di riassunto generalizzato dei tratti salienti che riguardano sia il tipo di episodio ricordato sia le sue conseguenze in rela­ zione alla conoscenza di Sé (ad esempio, io posso dire "Accetto sempre con piacere la possibilità di poter lavorare con i colleghi di altre U niver­ sità " ) . Anche se molto suggestiva, questa classificazione descrittiva pro­ posta da Brewer si presta a diverse critiche. In un suo famoso capitolo sui tipi di memoria autobiografica, Conway (199oa) ne indica principalmente due. In primo luogo, egli osserva che la definizione di Brewer del ricordo autobiografico come ricordo collegato, con intensità diverse, al proble­ ma della conoscenza di Sé da parte di un lo che esplora la realtà (Brewer, 1986) sposta l'attenzione di chi classifica i ricordi autobiografici sul pro­ blema del riferimento alla conoscenza di Sé; questo però semplifica so­ lo in parte il problema, in quanto il capitolo su come è organizzato il Sé è molto complesso e in parte ancora non compreso, e quindi aggiunge solo poco alla chiarificazione del tema della memoria autobiografica. In secondo luogo, il fatto che il ricordo contenga o meno immagini potrebbe essere collegato a una diversa strategia di ricerca in memoria, in risposta alle caratteristiche della domanda, e non tanto a diversi tipi di memoria. Ad esempio, se si sta parlando genericamente delle esperienze di seminari all'estero, basterà che io richiami alcune conoscenze di base molto generiche, che non richiedono un controllo della presenza di par­ ticolari specifici; in questo caso potrò produrre con alta frequenza so­ prattutto ricordi del tipo " ricordo personale generico " o "fatto persona­ le" . Altro sarebbe se invece la persona mi chiedesse di rievocare aspetti più particolari di questa esperienza, ad esempio il tipo diverso di orga­ nizzazione delle sale di conferenze nei diversi paesi, domanda che mi 55

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porterebbe a produrre con più frequenza ricordi basati su immagini, cioè ricordi di tipo personale con immagini di un singolo evento specifico. Ancora una volta, la classificazione del tipo di memoria autobiogra­ fica si mescola inestricabilmente con i metodi con cui otteniamo le ri­ sposte, e quindi con la reinterpretazione soggettiva della domanda e con le strategie di accesso e di recupero, piuttosto che con i diversi tipi di co­ difica in entrata e di conservazione del ricordo. 3 ·4

Ricordi o pensieri ?

Ci sono tuttavia autori che hanno cercato di proporre alcune ipotesi che riguardano i meccanismi di codifica, cioè di "immagazzinamento " dei dati in entrata, per distinguere meglio i ricordi veri e propri dai pensie­ ri e dalle considerazioni sul passato. Una proposta molto interessante in tal senso è quella di Johnson (1983 ) , che suppone che esistano molti sistemi diversi di codifica, che funzionano in modo parallelo e che danno vita a tracce di memoria au­ tobiografica qualitativamente diverse tra loro, che poi possono essere rievocate in diversa misura a seconda del compito, sia contemporanea­ mente sia alternativamente. Per indicare che è questa molteplice possi­ bilità di entrata delle informazioni nel sistema ciò che maggiormente di­ stingue la memoria autobiografica, Johnson ha denominato questo suo modello MEM (Multiple Entry Memory, Memoria a Entrata Multipla) . Nell'ipotesi di Johnson (1983 ) , i dati registrati nella memoria auto­ biografica sono custoditi in tre sottosistemi distinti: il sottosistema sensoriale, che conserva le informazioni sensoriali più elementari (ad esempio, la sensazione di maggiore o minore brillantezza di un'immagine, o la sensazione di maggiore o minore velocità di un movi­ mento) , cioè quei primi dati che ci colpiscono immediatamente, nel mo­ mento stesso in cui attivano i nostri organi di senso; il sottosistema percettivo, che riguarda l'atto già più organizzato cen­ tralmente della percezione, in cui un insieme di dati sensoriali viene inse­ rito nel repertorio conoscitivo del soggetto e in tal modo raffrontato agli altri dati già posseduti e riconosciuto come percezione specifica (ad esem­ pio, il momento in cui passiamo dalla sensazione di un piccolo oggetto brillante alla percezione che si tratta di una moneta) ; il sottosistema rz/lessivo, basato sul flusso ininterrotto di riflessione e di dialogo interno che usualmente accompagna le sensazioni e le perce­ zioni e talvolta le sostituisce, nel caso che la memoria riguardi esclusiva­ mente una esperienza di tipo mentale, che non si appoggia su alcuna sti­ molazione esterna.



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Il problema principale cui il modello MEM vuole rispondere è come la persona possa discriminare tra la parte del ricordo prodotta dall'atti­ vità centrale della mente e quegli aspetti che sono invece la registrazio­ ne dei dati forniti dalla realtà. Per rispondere a quest'interrogativo, Johnson compara, lungo il continuum che va dalla riflessione soggettiva alla sensazione oggettiva, i due casi estremi: cioè il ricordo di un' espe­ rienza realmente accaduta, confrontato con il ricordo di un'analoga espe­ rienza, solo immaginata dal soggetto. I dati mostrano che il ricordo di un'esperienza reale differisce da un ricordo di un'esperienza immaginaria per il tipo di dati rievocati: che, nel caso dell'esperienza reale, sono prevalentemente di tipo sensoriale e per­ cettivo e, nel caso dell'esperienza immaginata, sono prevalentemente di tipo riflessivo e rielaborativo Q"ohnson, 1985) 3• 3·5 L'organizzazione gerarchica della memoria autobiografica

Esiste tuttavia un aspetto su cui, sia pure con alcune differenze metodo­ logiche e di impostazione teorica, tutti i ricercatori tendono a converge­ re: l'idea che i ricordi autobiografici tendano a strutturarsi secondo un ordine gerarchico. Sintetizzando alcuni risultati di diverse ricerche ormai classiche (cfr. , ad esempio, Barsalou, 1988; Linton, 1986; Conway, 1995) , i ricordi auto­ biografici tenderebbero a gerarchizzarsi in questo modo.

Periodi di vita È il ricordo di eventi, estesi temporalmente, che possono essere riferiti: a un tema specifico della conoscenza di Sé: ad esempio, il tema ge­ nerale "la mia vita di lavoro" , a sua volta suddivisibile in sottotemi qua­ li "i colloqui di assunzione" , "il primo lavoro " , " il cambiamento per un altro lavoro " ecc. ; a una contestualizzazione spaziale o temporale: a d esempio, "la mia vita a Pescara" ; "la mia vita negli anni Ottanta" . Eventi generali È il ricordo d i eventi ripetuti, sintetizzati in un) unica co­ noscenza semantica di tipo generale: ad esempio, " ricordo che, quand'e­ ro all'Università, andavo spesso a cinema e a teatro " . 3 . È da notare che proprio queste differenze nella codifica in entrata tra esperienze reali ed esperienze immaginate possono costituire un mezzo per manipolare la memoria autobiografica, creando falsi ricordi difficilmente distinguibili dai veri. Esamineremo più in dettaglio quest 'aspetto nel settimo capitolo.

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Eventi specifici È il ricordo di eventi singolz� con i loro dettagli percetti­ vi e sensoriali: ad esempio, " ricordo la volta che vidi Sussurri e grida al cinema d'essai dove andavo sempre" (all'interno dell'evento generale " andavo spesso al cinema " , a sua volta all'interno del periodo di vita " quand'ero all'Università" ) . Come si vede, questa gerarchizzazione è basata su un'inclusione a livel­ li crescenti, che ricorda il tipo di descrizione della categorizzazione avanzata da Rosch (1975) . Analogamente alla descrizione di Rosch, an­ che nel caso dei ricordi autobiografici il livello che appare più ricco di informazioni è quello intermedio, poiché è abbastanza specifico ma allo stesso tempo consente una relativa generalizzazione del contenuto del ricordo. Si può quindi ipotizzare che questo livello intermedio costituisca il livello d'entrata, cioè l'inizio del processo di ricerca nella memoria auto­ biografica (Conway, Rubin, 1993) . L'avvio di questo processo può essere legato a una domanda, più o meno esplicita. Ad esempio, se qualcuno mi chiede qual è stata la prima volta in cui ho fatto il bagno a mezzanotte, potrei chiedermi qual è il pe­ riodo della mia vita in cui andavo più spesso al mare. Recuperato il li­ vello intermedio (le estati al mare della mia adolescenza) potrei risalire al livello più generale (la mia vita a Pescara) e poi ridiscendere a quello più dettagliato (la prima volta che feci il bagno di notte con i miei ami­ ci, per una festa di compleanno) . Il modello di Conway e Rubin preve­ de che continuerei a cercare in tal modo, spostandomi ciclicamente da un livello all'altro, fino a raggiungere il ricordo desiderato. Tuttavia, questo processo può avvenire anche spontaneamente, sen­ za nessuna sollecitazione da parte di altre persone, per la semplice pre­ senza nell'ambiente di un indizio collegato a questo percorso di ricerca in memoria. Ad esempio, supponiamo che la notte in cui per la prima volta abbiamo fatto un bagno notturno con gli amici qualcuno di noi abbia portato un mangiadischi che suonava un successo di quei giorni. Se per caso mi capitasse di riascoltare, a distanza di molto tempo, quel­ la stessa canzone, la sensazione di riconoscimento collegata con questa specifica percezione potrebbe rimettere in azione, al di sotto della soglia della mia consapevolezza, un processo di recupero ciclico, fino a che la mia memoria non avesse individuato il ricordo " giusto " . Al termine del processo, l'unica cosa di cui sarei consapevole è il ricordo "improvvi­ so " di quella serata di tanti anni fa, che mi raggiunge mentre non lo aspetto. Poiché la memoria autobiografica riorganizza tutta la conoscenza che la persona ha su di sé, si potrebbe ipotizzare l'esistenza di una spe-



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cie di " torre di controllo " che guida il recupero ciclico, coordinando tra loro le diverse aree di conoscenza di sé a disposizione dell'individuo; questo esecutivo centrale sarebbe responsabile dello svolgersi ordinato di una serie di processi di recupero ciclico nelle varie aree (ad esempio, vi­ ta personale, vita lavorativa, vita familiare ecc. ) , mettendo in coordina­ zione la conoscenza su di sé, organizzata dalla memoria autobiografica, con la memoria semantica di tipo più generale (Conway, Rubin, 1993 ) . 3·6 I metodi di studio della memoria autobiografica

La descrizione della complessa struttura dei ricordi autobiografici, di cui abbiamo analizzato alcune proposte teoriche classiche, molto interes­ santi anche se ancora ampiamente speculative (per una rassegna recen­ te, cfr. Rubin, 1995; per un'introduzione italiana, cfr. Calamari, 1995) , aiu­ ta a comprendere la difficoltà nella costruzione delle ricerche che siano in grado di esplorare queste ipotesi strutturali. Come abbiamo, infatti, osservato più volte nel corso della nostra riflessione, la scelta del meto­ do di studio influenza moltissimo il tipo di ricordi autobiografici che riu­ sciamo a cogliere con la nostra ricerca. Al tema della metodologia biso­ gna, dunque, accordare molta attenzione; e non a caso molte delle ri­ cerche più interessanti sono non solo accurate, ma spesso anche parti­ colarmente creative nel metodo usato. Non possiamo, in queste pagine, descrivere nel dettaglio le diverse soluzioni adottate dai vari ricercatori: alcune molto impegnative anche dal punto di vista personale (come, ad esempio, registrare per periodi prolungati eventi della propria vita) , altre molto creative (come, ad esem­ pio, inventare un piccolo programma computerizzato in grado di porre domande randomizzate su eventi personali ed eventi pubblici, introdotti giornalmente in un data base) . Speriamo che la lettura di questo libro, se non è stata eccessivamente noiosa, induca qualcuno dei lettori ad awici­ narsi al patrimonio di ricerche che sono state prodotte finora sul tema, scoprendone in modo diretto la raffinatezza metodologica. Per ora, ci li­ mitiamo a sintetizzare, in modo necessariamente molto semplificato, que­ ste scelte metodologiche, raggruppandole in tre grandi insiemi: il cueing, l'osservazione sistematica e i diari, la narrazione autobiografica. Il cueing Come abbiamo già visto nel capitolo precedente, alla fine dell'Ottocen­ to, Galton produsse un primo, importante contributo di ricerca sul te­ ma della memoria, basandosi sulla sua invenzione metodologica del 59

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cueing, cioè della autosservazione dei ricordi a partire da indizi (cues) che " innescano" la ricerca in memoria. Il metodo fu perfezionato da Galton in due soluzioni tecniche par­ zialmente differenti: un questionario su un particolare episodio della vi­ ta quotidiana (il ricordo di come si presentava la tavola per la colazione mattutina) (Galton, I88o) e le associazioni che si presentavano libera­ mente a seguito di una parola-stimolo (Galton, 1879a; 1879b) . Questa metodologia di osservazione "botanica " di Galton ha forni­ to un mezzo efficace di studio della memoria autobiografica, tuttora molto utilizzato. I risultati di questi studi descrittivi permettono di rile­ vare due tipi principali di dati. Da un lato, si nota come la " trama" del tessuto della memoria auto­ biografica sia basata su un numero sostanzialmente poco elevato di even­ ti, altamente correlati con le attività di ripetizione (rehearsa[) sia interna sia sociale (Conway, 1990b ) . D'altro canto, l a molteplicità dei contenuti mentali che emerge da questo lavoro descrittivo suggerisce che il termine generale di memoria includa un'ampia gamma di fenomeni differenti. Il bisogno di tornare a riflettere sulla descrizione dei fenomeni studiati è un legato importante dell'eredità di Galton. Solo da pochi anni questo aspetto è stato risco­ perto ed è rientrato a pieno titolo nell'agenda dei ricercatori (Neisser, 1988b; Brewer, 1986) . L'osservazione sistematica e i diari Il metodo del cueing è interessante, ma evidentemente privilegia un'atti­ vità di ricordo per così dire puntiforme. I soggetti sono guidati a recu­ perare informazioni di tipo molto dettagliato: potremmo dire che tutta la ricerca è sbilanciata solo sul livello episodico, in un modo che con­ traddice le ipotesi sul funzionamento spontaneo della memoria autobio­ grafica nella vita quotidiana, che, come abbiamo già visto, sembra muo­ versi ciclicamente tra i livelli, utilizzando soprattutto il livello intermedio come " porta di entrata" nella memoria. Un modo per recuperare almeno in parte la validità ecologica degli studi (cioè la somiglianza con le situazioni reali della vita quotidiana) è quello dell'osservazione sistematica. Spesso questa osservazione coin­ volge situazioni quotidiane, come le molteplici occasioni in cui le perso­ ne ricordano insieme 4. Ma una tecnica particolarmente adatta allo stu­ dio della memoria autobiografica degli adulti è l' autosservazione siste4· Prenderemo in considerazione molti esempi di questo metodo di ricerca nel quar­ to e quinto capitolo.

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matizzata nei diari: cioè la richiesta ai soggetti di prendere nota, giorno per giorno, di alcuni processi di immagazzinamento o di recupero di ri­ cordi dalla memoria autobiografica. Alcune volte gli studiosi hanno compilato loro stessi dei diari, te­ nendo sotto controllo per un periodo di tempo piuttosto lungo il loro processo di immagazzinamento dei ricordi e poi interrogandosi, per ve­ rificare l'efficienza delle proprie strategie di recupero. Un esempio mol­ to interessante di questo metodo è dato da un insieme di ricerche con­ dotte su se stessa da Marigold Linton (1975; 1979; 1982; 1986) . La costruzione di un'autobiografia Un'ultima tecnica di ricerca molto interessante è quella di chiedere alla persona che collabora alla ricerca di narrare la propria vita. Poiché que­ sta tecnica richiama alcuni aspetti, relativi al problema fondamentale del formato assunto dai nostri ricordi autobiografici nel momento in cui si trasformano in narrazione, abbiamo pensato di dedicare a questo argo­ mento un capitolo specifico del nostro libro (il sesto) , cui rimandiamo il lettore per un approfondimento del tema. Questa tecnica ci sembra im­ portante non solo per le sue peculiarità metodologiche, ma anche per lo spazio di intersezione e confronto che apre con altre importanti tradi­ zioni di ricerca, prima tra tutte quella dell'uso delle storie di vita in so­ ciologia (cfr. , ad esempio, Macioti, 1985; Rampazi, 1991) e la nuova atten­ zione degli storici per gli aspetti anche minuti della vita quotidiana (cfr. , ad esempio, Le Goff, 1988) e per l'uso pubblico che si può fare della so­ cializzazione alla storia nei contesti comunicativi quali la scuola o i mass­ media (Gallerano, 1995) . Rispetto alle particolarità di questa tecnica di ricerca, un contributo fondamentale di analisi è stato fornito da Bruner (per un'introduzione e un commento alla posizione di questo autore, cfr. Ornaghi, 1999 ) . Bruner considera l o studio delle narrazioni autobiografiche fonda­ mentale per la ricerca sulla memoria autobiografica, sottolineando come l'aspetto più significativo di questi resoconti non riguardi tanto i conte­ nuti narrati, quanto l'informazione sul modo in cui la persona riesce a or­ ganizzarli (Bruner, 1987) . Ricapitolando e riorganizzando la propria vita in una narrazione, la persona si trova, infatti, in una situazione analoga a quella dell'artista che debba mettere in parole una sua idea: cioè in una situazione che richie­ de che la creatività e originalità personale sia inquadrata nella cornice culturale cui la persona appartiene. Il testo che viene prodotto, dunque, può essere esaminato come un testo letterario, mettendo in relazione i tre tratti costitutivi della narra-

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zione: la fabula, il sjuzet e la /orma. La fabula è il tema di fondo della sto­ ria, il sjuzet è il modo con cui viene raccontato, la /orma è il genere di narrazione in cui s'inserisce il racconto della propria vita. Combinando in modo creativo questi tre elementi nella narrazione della sua vita, la persona compie tre atti sociali: dà una testimonianza, in­ terpreta quello che le è accaduto, marca quella che è la posizione che ri­ tiene di occupare nel mondo (Bruner, 1993 ) . I n tal modo, l a persona ancora l a sua memoria autobiografica al con­ testo sociale e culturale cui appartiene, rendendo espliciti, in primo luo­ go a se stessa e poi ai suoi interlocutori, i legami tra i suoi ricordi perso­ nali e la sua interpretazione del mondo sociale. In sintesi, nella memoria autobiografica è compresa una gran differenza di contenuti. Partendo dalle considerazioni sviluppate finora, potremmo tuttavia proporne una prima definizione prowisoria, considerandola co­ me un sistema di memoria finalizzato a una rappresentazione semplificata e in parte convenzionale, di rz'disegno o di narrazione, con cui il soggetto cer­ ca di condensare, per se stesso e per gli altrz� il senso della propria vita. In questa definizione è compresa sia la possibilità di fedeltà alla verità origi­ naie, sia il bisogno di riorganizzarla, per riuscire a cogliere con più effi­ cada il significato complessivo di quanto è accaduto. Così come una mappa di un paese sconosciuto, anche la memoria autobiografica si pone dunque a metà strada tra percezione e rz'elabora­ zione soggettiva: deve conservare un'attinenza con la realtà esterna, in modo da non tradirla completamente, ma ne deve cogliere solo i tratti essenziali, in modo da permettere alla persona di non disperdersi nella gran varietà di stimoli e di condurre a buon fine il proprio viaggio. Per assurdo, se un ricordo fosse completamente uguale al momento reale da cui è stato originato, sarebbe molto "vero " ma poco utile al soggetto: in modo simile a quanto accade in un celebre racconto fantastico di Bor­ ges, in cui l'autore descrive con ironia un gruppo di eruditi che avevano sprecato tutta la loro lunga vita a ridisegnare una mappa su scala uno a uno (cioè senza nessuna riduzione né semplificazione) della Terra. D'al­ tronde, se fosse completamente falso, il ricordo si tradurrebbe in una sorta di trappola conoscitiva, che fonda gli apprendimenti su dati in­ consistenti, e perciò alla lunga inutili ai fini di un adattamento non illu­ sorio all'ambiente di cui si fa esperienza.

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La memoria autobiografica nelle varie fasi del ciclo vitale

Non c'è dubbio che il tempo, più che l'individuo, sia il vero protagoni­ sta della memoria autobiografica. Non è però un tempo inerte, mecca­ nico; ma è il tempo vissuto, che conosce ritmi e significati ben diversi da quelli scanditi dall'orologio (Leone, 1998b). Il tempo agisce nella memoria autobiografica su tre registri diffe­ renti, tra loro connessi. Il primo tempo della memoria autobiografica è il tempo della vita personale. Le varie fasi della vita non sono dunque tutte uguali rispetto allo scorrere del tempo. Anche se, com'è intuitivo, i ricordi più recenti sono più accessibili degli altri, alcuni periodi della vita (l'adolescenza, la prima età adulta) tendono a essere ricordati con più frequenza di altri. Al contrario, i ricordi del periodo in cui il bambino non sa ancora par­ lare sono condannati a sprofondare nell'oblio. Il secondo tempo della memoria autobiografica è il tempo della vita familiare, composto dalle prospettive delle diverse generazioni che, sia pure contemporanee, vivono in ambienti di pensiero diversi. È questo il motivo per cui, quando i genitori in vacanza affidano per qualche gior­ no il figlio ai nonni, il bambino avvertirà di cambiare non solo casa ma anche contesto temporale: dai nonni, infatti, si respira l'aria di un perio­ do diverso della storia della famiglia e della comunità, e ci si familiariz­ za con un passato vivo, ben diverso da quello ufficiale e schematizzato che più tardi quello stesso bambino apprenderà dai libri di storia. In questo modo il gioco delle generazioni ci aiuta a inserire la nostra me­ moria individuale in un quadro sociale, dalla durata molto più ampia del­ la nostra vita personale (Halbwachs, 1925) 1 • Il terzo tempo della memoria autobiografica è il tempo della vita so­ ciale, in cui la memoria individuale si adatta all'ambiente storico e cul­ turale della propria epoca. La riflessione su questi aspetti extracognitivi I . Per una discussione più approfondita del contributo di quest'autore alla chiarifi­ cazione degli aspetti sociali della memoria, cfr. anche il capitolo seguente.

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(che cioè vanno al di là delle dimensioni psicologiche puramente indivi­ duali) spiega l'emergere dei temi che organizzano gli aspetti semantici prevalenti nei ricordi di persone vissute in una stessa epoca. Questi aspetti semantici, molto meno studiati di quelli episodici per l'indubbia difficoltà procedurale di questo tipo di ricerca ( Conway, 1997) , spiegano la somiglianza molto forte tra i ricordi di chi ha vissuto le stesse espe­ rienze storiche, soprattutto se queste vicende pubbliche sono accadute in un periodo critico della vita personale, la fine dell'adolescenza e la pri­ ma età adulta. Siamo convinti che l'incontro tra la tradizione di studio psicologico sulla memoria autobiografica e la tradizione di studio storica e sociolo­ gica sul concetto di " generazione" sia molto fecondo per entrambi gli ambiti di ricerca. Questa convergenza, infatti, aiuta lo psicologo che si occupa di memoria autobiografica a non cadere nell'errore di ridurre le spiegazioni dei fenomeni studiati al solo livello psicologico; ma intro­ duce anche, negli studi storici e sociologici, un punto di vista psicologi­ co da cui guardare al complesso problema delle caratteristiche distinti­ ve che individuano quel particolare gruppo sociale che denominiamo " generazione" . 4 •I

L'apprendista biografo

Anche se i ricordi di eventi accaduti negli anni prescolari sembrano co­ stantemente inaccessibili alla rievocazione autobiografica, ciò non vuoi dire, naturalmente, che i bambini prima dell'entrata nell'asilo siano in­ capaci di ricordare. Al contrario, un'ingegnosa procedura di ricerca, messa a punto da Nelson e Ross, ha mostrato che anche bambini in te­ nera età possono dimostrare, nelle azioni che compiono su dei giocatto­ li che già sono stati presentati loro precedentemente, di ricordare cosa avevano appreso sul giocattolo durante la loro esperienza precedente (Nelson, Ross, 1980) . Il problema di questa primissima fase di sviluppo, tuttavia, è che il bambino non ha ancora a disposizione la padronanza dello strumento linguistico; e l'osservazione delle sue azioni in presenza di una situazio­ ne stimolo cui era già stato esposto in precedenza può tutt'al più portarci a dedurre che egli sia in grado di riconoscere la situazione passata, ma non può dirci niente sulla sua capacità di evocarla né, tanto meno, di rap­ presentarla. Con l'inizio dell'apprendimento del linguaggio, il bambino comincia invece a impadronirsi di uno strumento che gli può consentire non solo di riconoscere, ma soprattutto di riorganizzare e rielaborare la propria



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esperienza: si tratta dunque di un passaggio cruciale per l'acquisizione delle abilità necessarie allo sviluppo di una memoria di tipo episodico e, successivamente, semantico (Tulving, 1972) 2 • Il linguaggio, infatti, consentirà al bambino di mettere in parole le proprie esperienze: sia nel dialogo interno, sia nell'attività sociale speci­ fica che gli psicologi della memoria chiamano ricordo congiunto o col­ laborativo, cioè quel tipo particolare di conversazione il cui fine è la co­ struzione comune di un ricordo condiviso, sia, infine, nella capacità an­ cora più elaborata di poter raccontare a chi non vi ha assistito il ricordo di una propria esperienza passata. Tra queste diverse forme di ricordo, il ricordo congiunto o collabo­ rativo è frequente in modo notevolissimo nell'ambito delle interazioni familiari. A partire dall'osservazione delle conversazioni familiari spon­ tanee, alcuni ricercatori sono riusciti, infatti, a stimare che, in ogni ora, dalle cinque alle sette sequenze comunicative hanno come oggetto ap­ punto la ricostruzione di ricordi condivisi (Blum-Kulka, Snow, 1992; Miller, 1994) . La centralità della condivisione dei ricordi nelle comunicazioni fa­ miliari ha del resto attirato l'attenzione degli studiosi della memoria sin dai contributi più classici. Una citazione d'obbligo a proposito è l'im­ portante riflessione che Maurice Halbwachs dedicò nel 1925 al tema del ruolo delle memorie familiari e alla loro importanza all'interno dei ri­ cordi personali; questa centralità veniva considerata dall'autore come una conferma indiretta della sua tesi, che la memoria individuale fun­ zioni solo a condizione di collocarsi all'interno di un quadro di riferi­ mento di carattere sociale 3 • Perché i ricordi congiunti, cioè l'attività d i ricordare insieme episo­ di ed esperienze che fanno parte di un patrimonio comune, occupa una parte così ampia delle conversazioni familiari? Evidentemente, la fun­ zione puramente informativa vi svolge un ruolo secondario, dato che quest'attività coinvolge persone che hanno esperito insieme ciò di cui parlano. Un'ipotesi che appare molto interessante è che la condivisione so­ ciale dei ricordi confermi nelle persone che vi partecipano il senso di ap­ partenere a una storia comune, e quindi rafforzi indirettamente l'iden­ tità delle persone coinvolte (cfr. , ad esempio, Bruner, Feldman, 1995). Forse ancor più importante appare la condivisione dell' alone emoti­ vo di questi ricordi: sia perché molto spesso gli episodi citati riguardano 2. Sui rapporti tra linguaggio e memoria, cfr. anche il fondamentale contributo teo­ rico di Vygotskij, discusso nel capitolo seguente. 3 . Riprenderemo più ampiamente quest'approccio teorico nel quinto capitolo.

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esperienze emozionali 4, sia perché uno degli effetti pragmatici princi­ pali di quest'attività sociale è l' awicinamento affettivo tra le persone che ricordano. In effetti, questa situazione sociale apparentemente banale nascon­ de l'acquisizione di una competenza molto sofisticata, che svolge diver­ se funzioni, sia a livello di memoria individuale sia rispetto ai legami so­ ciali. È dunque abbastanza sorprendente che i genitori propongano co­ me tema di dialogo al bambino la co-costruzione di ricordi condivisi, già dalle primissime fasi di apprendimento del linguaggio (Nelson, 1988; Hudson, 1990) . È evidente, infatti, che bambini così piccoli possono col­ laborare pochissimo all'elaborazione congiunta di una rievocazione ver­ bale di un ricordo. Rispetto alle difficoltà del bambino, i genitori adot­ tano diverse strategie per portare comunque a termine il ricordo con­ giunto, riassumibili in due modalità principali. In un primo tipo di modalità, il genitore tende a continuare a forni­ re informazioni, ogni volta che è il suo turno di prendere la parola, ac­ contentandosi di un livello minimo di collaborazione del bambino (cen­ ni d'assenso, sorrisi, tentativi di risposta telegrafici, interventi sbagliati o fuori tema, riconoscimento di non essere in grado di ricordare ecc. ) . I n questo caso s i parlerà d i alti elaboratori (Hudson, 1990) , o d i elabo­ ratori tout court (Fivush, Fromhoff, 1988 ) , o di persone che tendono co­ munque alla reminiscenza (Engel, 1986) . Il risultato di questa strategia di gestione della situazione di ricordo comune è che, alla fine della se­ quenza, viene in ogni caso prodotta (prevalentemente o esclusivamente dall'adulto) una descrizione o narrazione ricca e completa dell'episodio prescelto. Nella seconda strategia, invece, il genitore tende a perseverare nelle sue domande al bambino, anche se egli non sembra in grado di rispon­ dere; se questa strategia non riesce, e dopo diverse sollecitazioni il bam­ bino non riesce a produrre una risposta accettabile, il genitore si rivolge a un altro episodio da ricordare o cambia oggetto di conversazione. Si parlerà in tal caso dei genitori come di bassi elaboratori (Hudson, 1990) , o di perseveratori (Fivush, Fromhoff, 1988) , o di persone che tendono al ricordo pratico (Engel, 1986) . Il risultato di questa strategia di gestione

4· Il tema della condivisione sociale dei ricordi di tipo emozionale è particolarmen­ te importante nella comprensione del funzionamento della memoria, così come nel ren­ dere le teorie sulle emozioni più attente alle dimensioni sociali. Dal punto di vista di ri­ cerca, questo tema è sviluppato in Europa sia dal gruppo dell'università di Louvain-la­ Neuve, coordinato da Bernard Rimé, sia dal gruppo dell'università di Bari, coordinato da Guglielmo Bellelli. Per una rassegna del rapporto tra emozioni e memoria, cfr. anche Bel­ lelli (1999).

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dell'adulto è che il ricordo viene velocemente abbandonato, se il bam­ bino non riesce a collaborare efficacemente. Esiste una corrispondenza tra la strategia utilizzata dal genitore e l'efficacia successiva del bambino nell'impegnarsi nel ricordo comune di un episodio autobiografico. Non solo i figli degli alti elaboratori pro­ ducono in seguito ricordi più particolareggiati e più ricchi dei figli dei perseveratori, ma il modo con cui il racconto iniziale viene usualmente strutturato dal genitore tende a influenzare lo schema di rievocazione del figlio. Ad esempio, se la madre, nella prima fase di ricordo collaborativo in cui il bambino gioca un ruolo molto marginale, tende a sollecitare con opportune domande (chi c'era? dove eravamo? quando è succes­ so? ) gli aspetti di contestualizzazione orientativa del ricordo, il figlio ac­ quisisce in seguito, quando è in grado di intervenire più autonoma­ mente, la tendenza a dettagliare le sue rievocazioni soprattutto in sen ­ so orientativo. Al contrario, se la madre (o il padre) mostrano una mag­ giore ricchezza elaborativa soprattutto rispetto a informazioni tempo­ rali (con domande e sollecitazioni del genere: cosa è successo dopo? co­ sa era accaduto prima? cosa facevamo intanto noi ? ) , il figlio diviene nel tempo più abile nello strutturare rievocazioni ben organizzate rispetto all'ordine temporale. Al contrario, le domande che il ricercatore pone separatamente al bambino dopo la fase del ricordo congiunto con il genitore, mostrano che quasi sempre gli aspetti informativi inclusi negli interventi dell'adulto vengono immediatamente dimenticati dal bambino. L'indubbio arricchi­ mento che la modalità elaborativa (confrontata a quella perseverativa) provoca sulla capacità del bambino di partecipare alla rievocazione dei ricordi non riguarda dunque la molteplicità e l'elaborazione dei dettagli informativi, quanto la capacità di sapersi adeguare alle necessità canoni­ che imposte dal /armato narrativo 5 (Fivush, Haden, Reese, 1995) . Il pensiero narrativo, infatti, assume un'importanza crescente nel corso dello sviluppo individuale, perché permette di elaborare le proprie esperienze in un formato non vincolato a giungere immediatamente alla formulazione di categorizzazioni; questo formato, oltre a fornire una va­ lida alternativa di pensiero quando non è possibile elaborare immedia­ tamente una riorganizzazione tramite aspetti classificatori o paradigma­ tici, si basa su un insieme di canoni espositivi che mettono in grado la persona che ascolta non solo di acquisire informazioni, ma soprattutto

5. Esamineremo più diffusamente nel sesto capitolo l'importanza di questo formato per la capacità di rievocare i nostri ricordi autobiografici.

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di rivivere empaticamente l'esperienza che l'altro narra (Bruner, 1990; per un'introduzione e una rassegna italiana, cfr. Smorti, 1994; 1997) . La rievocazione congiunta, con cui il genitore facilita (e forse indu­ ce) nel bambino la capacità di ricordare episodi passati in modo ricco e rielaborato, è dunque anche l'attività sociale che introduce la mente in­ fantile all'uso della modalità narrativa, che si rivelerà per il resto della sua vita una risorsa indispensabile per favorire la creazione di legami sociali di tipo empatico. Quest'osservazione ci permette di considerare in una nuova luce un suggestivo dato di ricerca, che nota come la ricostruzione diadica dei ri­ cordi sia la forma più precoce di storie cui il bambino è invitato a parte­ cipare per la prima volta nel ruolo di narratore e non solo di ascoltatore (Miller, Sperry, 1988) . Ma un buon narratore, e soprattutto un buon biografo, non s'improv­ visa: si tratterà di un lungo apprendistato che, iniziato in media intorno ai 40 mesi, comincia a mostrare i suoi risultati solo a partire dai 70 mesi. Man mano che diviene più abile nella produzione autonoma dei ri­ cordi, il bambino non sarà però lasciato solo nella rievocazione degli epi­ sodi della sua vita. Con un crescendo a spirale, anche la madre, che ha evocato in lui il talento in erba di narratore di (auto)biografie, lo seguirà nel suo perfezionamento. Ella continuerà ad aumentare la frequenza di frasi informative anche nel lungo periodo di tempo in cui ciò non sem­ brerà produrre alcun risultato apprezzabile nella capacità di rievocazio­ ne autonoma del bambino, e continuerà ad aumentarla ancora nel mo­ mento in cui il bambino inizia finalmente a collaborare più attivamente (Fivush, Haden, Reese, 1995) . Questi dati, dunque, sembrano dar ragione all'ipotesi che vede l' at­ tività di sollecitazione del ricordo congiunto da parte del genitore non come un semplice sostegno esterno (sca/folding) al ricordo ancora incer­ to del bambino molto piccolo (Wertsch, 1985; Wood, Bruner, Ross, 1976) , ma come la premessa di un lungo tirocinio familiare all'attività del ri­ cordare insieme: attività che è destinata non a decrescere, ma a crescere ulteriormente man mano che il bambino diviene più abile nel padro­ neggiare la sua rievocazione volontaria. La visione strettamente utilitari­ stica, per cui l'altro sarebbe chiamato a ricordare con noi perché in pos­ sesso di informazioni che non siamo in grado di produrre autonoma­ mente, cede dunque il passo a un'ottica in cui il ricordo congiunto è un'attività sociale valorizzata di per sé, per la sua capacità di creare e man­ tenere legami affettivi: e la frequenza con cui i genitori la suggeriscono al bambino, fin dai primi momenti in cui inizia a parlare, è un modo im­ plicito di insegnare l'importanza di saper condividere con gli altri i pro­ pri ricordi (Fivush, Haden, Reese, 1995) . 68



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Abbiamo già sottolineato come anche bambini piccolissimi, non an­ cora in grado di parlare, possano con le loro azioni dimostrare di aver ri­ conosciuto una situazione che hanno già vissuto (Nelson, Ross, 1980) . Tuttavia, questa capacità è evidentemente diversa dalla rievocazione consapevole consentita dall'acquisizione delle abilità verbali. Ciò evidentemente non nega l'importanza, nel recupero di espe ­ rienze passate, di formati di tipo non verbale. Negli esempi citati nel ca­ pitolo precedente, e in particolar modo nella celebre descrizione di Proust del ricordo involontariamente innestato dall'indizio sensoriale dell'odore della madeleine, l'influenza degli aspetti percettivi immedia­ ti, presenti nell'esperienza originale, sulla possibilità di recupero dei ri­ cordi autobiografici appare in tutta la sua incredibile forza. Tutti noi, del resto, abbiamo sperimentato talvolta il miracolo di ritrovare improwi­ samente sensazioni e immagini di un passato che ci sembrava ormai per­ duto, proprio tramite indizi sensoriali specifici 6• Né possiamo evidente­ mente sottovalutare il ruolo delle immagini nel patrimonio dei nostri ri­ cordi autobiografici. Eppure, l'acquisizione del linguaggio inserisce nella nostra memoria (come del resto nel pensiero) un elemento di discontinuità, una brusca oscillazione qualitativa che cambia tutto il funzionamento delle attività mentali (e l'equilibrio relativo tra una funzione e l'altra, come vedremo più diffusamente nel prossimo capitolo, nella discussione delle ipotesi vygotskiane) . Potremmo dunque chiederci: cosa viene aggiunto a un ri­ cordo autobiografico, una volta che il soggetto sia in grado di esprimer­ lo verbalmente? La risposta potrebbe essere: tutto. Non c'è dubbio che come conseguenza della memoria che esprime il riconoscimento di una situazione già incontrata (come nel caso dei la t­ tanti già citato) ci sia una capacità di sapere agire con più prontezza ed efficacia sugli stimoli già conosciuti. È il riconoscimento di una peculiare associazione tra stimoli che per­ mette a un animale condizionato di reagire (nel caso del condiziona­ mento classico) o di agire (nel caso del condizionamento operante) in modo più sollecito, in una situazione divenuta familiare. In termini di efficacia nei comportamenti, di per/ormances, queste memorie associative producono miracoli, come ben sanno i domatori di leoni e le inflessibili bambinaie dell'epoca vittoriana. Manca però a que­ sta memoria la capacità di dirsi: di essere rappresentata e comunicata. 6. Non a caso, Proust ci racconta dell'importanza di un odore; la ricerca ha dimo­ strato infatti che la traccia sensoriale legata all'odorato è, tra le percezioni dei nostri sen­ si, quella che si mantiene pressoché inalterata negli anni (Baddeley, 1982) .

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Con la frequente pratica di rievocazione congiunta, il genitore di un bambino che impara a parlare gli comunica implicitamente che la fami­ glia si attende da lui che egli sia in grado di ricordare le cose fatte insie­ me e, ancora più importante, che tipo di persone essi siano; la frequenza con cui questa pratica avviene, e l'indubbio piacere con cui il genitore si siede vicino a lui per ricordare le ultime vacanze a casa della nonna, gli comunica inoltre il grande valore che la famiglia attribuisce a questo comportamento, valore in primo luogo affettivo (Halbwachs, 1925; 1950; Fivush, Haden, Reese, 1995). È suggestivo osservare che questa scena d 'intimità familiare sarà de­ stinata a ripetersi, in molti momenti di affetto e di gioia della vita futu­ ra. Ricordare insieme è l'attività che contraddistingue le persone che so­ no tra loro legate; e può diventare a volte anche un vero imperativo so­ ciale, soprattutto quando le comunità sentono di dover esibire il senso della loro comune identità. Molte ritualità sono in effetti finalizzate a creare un legame tra la me­ moria autobiografica e la memoria sociale e collettiva; si pensi alle ceri­ monie di commemorazione (Frijda, 1997) , si pensi alla frase che ogni fa­ miglia ebraica osservante ripete, anno dopo anno e generazione dopo ge­ nerazione, nella cena della sera di Pesach, ricordandosi vicendevolmen­ te di come ognuno abbia il dovere di sentirsi personalmente liberato dal­ la schiavitù in Egitto (Grossman, 1999 ) . 4 ·2

Reminiscenza e compiti di sviluppo

Gli psicologi hanno denominato reminiscenza il numero superiore di ri­ cordi accessibili al soggetto, a dispetto del processo di decadimento na­ turale delle tracce mnestiche. In modo più preciso, potremmo dire che la reminiscenza è «un aumento di frequenza delle memorie più antiche, superiore a ciò che ci saremmo aspettati a partire da una funzione di ri­ tenzione che decresce monotonicamente» (Rubin, Wetzler, Nebes, 1986, p. 208) . Il primo passo nello studio sui fenomeni di reminiscenza, «tra i più affascinanti dati della psicologia cognitiva, perché sono tra i più rego­ larmente riscontrati e perché si riferiscono direttamente a un numero importante di problemi teorici» (Conway, Rubin, 1993, p. n5) , parte dal recupero del lavoro "botanico" di Galton. La metodologia modificava in parte quella originale dei primi studi pionieristici dell'autore classico: si chiedeva a un campione di soggetti (studenti universitari) , a partire da una parola-stimolo, di richiamare un ricordo associato a quella parola. Si pensava di ottenere, così, un campionamento che rispecchiasse l'in-



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sieme di ricordi presenti in memoria (Crovitz, Schiffman, 1974) . I risul­ tati mostrarono che lo scorrere del tempo agiva direttamente sull' acces­ sibilità dei ricordi: il logaritmo dell'accessibilità declinava in modo asso­ ciato secondo una funzione lineare con il logaritmo della distanza tem­ porale dell'evento richiamato. Numerose repliche mostrarono che l'impoverimento della memoria dovuto alla distanza temporale assoluta dei ricordi appariva costante; tuttavia, se i soggetti interrogati erano persone di età diversa, emergevano anche altri aspetti importanti, non rilevabili in un campione composto esclusivamente da giovani studenti. In particolare, se si confrontavano i dati di studi su soggetti di di­ versa età, si notavano alcuni effetti specifici che riguardavano il gruppo degli adulti. Per questi soggetti, in cui lo spessore della vita individuale permetteva di osservare una prospettiva longitudinale di ricordi più am­ pia, il primo dato che colpiva era che, al di là della conferma del declino temporale assoluto dei ricordi, esisteva un forte effetto di recenza: cioè i ricordi degli avvenimenti dell'ultimo anno erano molto più frequenti, occupando circa il 50 per cento di tutte le rievocazioni. Ciò dimostrava che le persone con più vita alle spalle non avevano la tendenza, per que­ sto, a vivere nel passato 7 (Rubin, Wetzler, Nebes, 1986) . Il dato appare particolarmente interessante perché contraddice uno stereotipo comunemente diffuso nella nostra cultura, che prevede che la memoria delle persone più giovani funzioni meglio, per gli avvenimenti recenti, rispetto alla memoria delle persone che invecchiano. È da nota­ re che questo stereotipo non è condiviso da altre culture (ad esempio, quest' aspettativa è totalmente assente nella popolazione cinese) (Levy, Langer, 1994) . Inoltre, la presenza di questo tipo di pregiudizi, determi­ nando una meta conoscenza pessimistica sulla propria memoria, può agi­ re come un fattore che diminuisce effettivamente la tendenza dei soggetti più maturi a completare efficacemente la ricerca dei ricordi, secondo la nota dinamica della profezia che si autodetermina (Bless, Strack, 1998) . Tuttavia, s e s i depurava il dato relativo al gruppo degli adulti dal­ l'effetto recenza (cioè si escludevano i ricordi legati all'immediato) , si no­ tava una costante presenza nel campione degli adulti di un gruppo di ri­ cordi più frequenti di quanto la loro distanza temporale avrebbe fatto supporre: i ricordi che riguardavano il periodo dai 15 ai 25 anni. I ricer­ catori denominarono perciò " picco di reminiscenza" (reminiscence 7. Il dato risulta amplificato se si aggiungono i ricordi non recentissimi (dell'ultimo anno) ma comunque recenti ( degli ultimi dieci anni) . In questo caso, la percentuale com ­ plessiva dei ricordi recenti e recentissimi sul totale dei ricordi risulta pari all'So per cen­ to (Rubin, Wetzler, Nebes, 1986) .

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bump) questa frequenza inusualmente alta di rievocazioni (Rubin, Wetz­ ler, Nebes, 1986) . Il dato dell'esistenza di un picco di reminiscenza per i ricordi di que­ sto periodo vitale è stato confermato più volte, anche modificando in di­ versi modi la tecnica di elicitazione dei ricordi (per una rassegna critica, cfr. Fitzgerald, 1995) . In particolar modo, un dato interessante è la pre­ senza di un picco di reminiscenza ancora più chiaro, quando viene chie­ sto a soggetti adulti di rievocare tre ricordi particolarmente vividi e det­ tagliati 8 (Fitzgerald, 1988) . I ricercatori hanno proposto diverse spiegazioni per queste osserva­ zioni, più volte confermate. La proposta teorica che ci sembra più inte­ ressante è il tentativo di mettere in relazione la forma caratteristica del­ la distribuzione dei ricordi lungo l'arco della vita e la teoria di Erikson (1963 ) , che descrive le diverse fasi dello sviluppo individuale a partire dai " dilemmi evolutivi" che l'individuo è chiamato a sciogliere, per progre­ dire alla fase successiva. Secondo Erikson, nella primissima fase della vita, il bambino è chia­ mato a risolvere il dilemma se sia possibile affidarsi o meno al nuovo am­ biente che ha bruscamente sostituito quello, ovattato e avvolgente, pre­ cedente alla nascita. Se il bambino risolve il dilemma fiducia/sfiducia nel senso di p otersi affidare 9 , il secondo dilemma che gli si pone è legato al padroneggia­ mento volontario della motricità muscolare e del controllo sfinteriale. Qui il dilemma riguarda il dubbio di non sapersi controllare efficace­ mente e la conseguente vergogna che questa sensazione comporta, o al contrario la sensazione di poter procedere lungo la strada dell' acquisi­ zione dell'autonomia e del controllo volontario del corpo. Se il bambino risolve il dilemma tra dubbio-vergogna e autonomia con la scelta di acquisire un sempre maggior controllo volontario auto­ nomo del proprio corpo, egli apprenderà in breve tempo un gran nu­ mero di nuove capacità, che lo riempiranno di esultanza, divertendo e stremando gli adulti che si prendono cura di lui. Nel padroneggiare le sue nuove capacità di fare, tuttavia, il bambino si trova davanti a un nuo­ vo dilemma, tra spirito di iniziativa e senso di colpa. Se egli riesce a vivere i divieti posti dall'adulto e, più in generale, dal­ l'altro (un fratello, un compagno, un educatore) non come una costri-

8. Per una discussione più approfondita del tema dei ricordi vividi, cfr. l'ottavo ca­ pitolo. 9. Si notino le assonanze tra questa teoria e la descrizione di Bowlby e Ainsworth del concetto di "base sicura" (per un'introduzione e un commento all'opera di questi autori, che ne sottolinea il rapporto con il campo di studio della psicologia sociale, cfr. Attili, 2ooo).



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zione terrorizzante ma come un limite essenzialmente benevolo, egli po­ trà evolvere verso una fase successiva d'industriosità, in cui l'entrata del mondo scolastico coinciderà con un periodo di relativa "bonaccia" emo­ zionale (ciò che gli autori di orientamento psicodinamico denominano "latenza" ) . Tuttavia, l'impegnarsi nell'apprendimento delle basi cultura­ li di tipo generale che gli renderanno possibile, in futuro, un'efficace azione sociale, si scontra anche con gli inevitabili insuccessi e frustrazio­ ni di ogni apprendimento reale. Il nuovo dilemma che il bambino dovrà dunque padroneggiare sarà la scelta tra desiderio di industriosità e ti­ more di poter provare un senso di inferiorità. Se il ragazzo sceglie di impegnarsi industriosamente nell' acquisizio­ ne di ciò che Erikson chiama, per le società complesse come quella in cui viviamo, le "basi tecnologiche" dell'apprendimento culturale, egli potrà finalmente uscire dal mondo dell'infanzia per elaborare un progetto sia per la sua futura vita lavorativa sia riguardo ai molteplici ruoli sociali che caratterizzano la condizione di giovane adulto. In questa fase, che corri­ sponde all'entrata nell'adolescenza, il soggetto è chiamato a risolvere un nuovo dilemma, cruciale per lo sviluppo della sua vita futura. Se l'adolescente, pur nella tempesta fisiologica, emotiva e relaziona­ le in cui affronta questo difficile dilemma, sceglie per lo sviluppo della propria identità e la rinuncia a una dzf/usione che gli permette di pro­ crastinare la scelta ma lo precipita nella confusione, ciò gli consente di entrare nella vita adulta. Qui il soggetto è di nuovo confrontato a un dilemma: se accettare di affidarsi all'incerto ma arricchente rapporto di intimità con gli altri (ami­ cizie profonde ed eventualmente lo sviluppo di una partnership sessua­ le) o non rischiare e arroccarsi in un isolamento che lo rende meno vul­ nerabile e più resistente nella competizione. Se la persona riesce ad affidarsi all'altro, nell'intimità e nella sessua­ lità che cerca l'appagamento reciproco, ed evita la scorciatoia di un ap­ parentemente invincibile isolamento, disgiungendo il piano della com­ petizione da quello della sessualità, si potrà infine pervenire al senso eti­ co caratteristico della fase adulta, caratterizzato dalla fedeltà ai propri impegni nel mondo sociale (in primo luogo, l'impegno del lavoro) e nel mondo relazionale. La fase vitale immediatamente successiva conduce, dunque, diretta­ mente al dilemma tra generatività e stagnazione. La persona che è in gra­ do di fidarsi abbastanza di se stesso e del futuro, per dar vita a qualcosa di nuovo (un nuovo individuo, ma anche un'idea o un progetto) , ha il coraggio di mettersi in gioco fino a riconoscere che la cifra caratteristica dell'uomo maturo sta nel riconoscere che egli «ha bisogno che si abbia bisogno di lui e [che] la maturità ha bisogno di essere guidata e inco73

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raggiata da ciò che è stato prodotto e di cui bisogna prendersi cura» (Erikson, 1963 , p. 249 ) . Tuttavia, se le acquisizioni precedenti sono state troppo difficili e la persona se ne sente ancora in parte insicura, le sarà difficile compiere questo " salto , di fiducia nella produzione di qualco­ sa di nuovo. In tal caso, la persona ripiegherà nella stagnazione e nel­ l' enfasi eccessiva sull'intimità raggiunta nella fase precedente, diventan­ do una sorta di "bambino di se stesso, . Ciò ci conduce alle porte dell'ultimo e più cruciale dilemma, tra in­ tegrità dell'Io e disperazione. Nella sua vecchiaia, la persona può riconsi­ derare la sua vicenda personale come inserita in un ciclo che la trascen­ de, in cui la propria originalità ha portato un contributo, necessariamen­ te limitato ma significativo; oppure può avvertire tutta la disperazione di un'occasione vitale sprecata e che non potrà più essere riafferrata. Ci siamo attardati nella descrizione della famosa teoria di Erikson per mostrare come essa possa dirci qualcosa sulla rievocazione autobiografi­ ca, non solo come spiegazione del profilo quantitativo delle reminiscen­ ze nelle diverse fasi di età, ma anche rispetto ai contenuti dei ricordi, e in particolar modo ai temi che caratterizzano i vari periodi della vita 10• La teoria di Erikson ci permette, in primo luogo, di spiegare la co­ stanza del picco di reminiscenza per i ricordi relativi alla fase che va dai 15 ai 25 anni. Seguendo la classificazione dei dilemmi cruciali in ogni età, in questi anni dovrebbe realizzarsi la decisione per un'identità specifica e la rinuncia alla diffusione e confusione di ruoli. È evidente come que­ sta decisione informi di sé tutte le fasi successive di vita, costruendo un vero e proprio spartiacque tra la vita infantile e la vita adulta. Ciò spie­ gherebbe dunque la rilevanza quantitativa di queste memorie nei cam­ pioni formati da persone adulte (Fitzgerald, 1995). L'altro aspetto che ci sembra interessante nella teoria di Erikson è che i dilemmi proposti per ogni fase di sviluppo permetterebbero di for­ mare una sorta di griglia per molti dei temi elaborati nelle cosiddette " estensioni, , cioè in quel formato temporale esteso che contraddistin­ gue spesso i ricordi autobiografici spontanei (ad esempio, quando una persona rievoca la scelta della professione, inscrivibile nel dilemma iden­ tità/diffusione; o il periodo di fidanzamento, inscrivibile nel dilemma in­ timità/isolamento ecc. ) . I n effetti, l a rievocazione volontaria e consapevole dei ricordi auto­ biografici si basa sovente su una sorta di attività mentale spontanea, che passa in rassegna la propria vita. Alcuni autori considerano questa " ras10. In particolare, le ipotesi di Erikson possono rivelarsi importanti per un'analisi descrittiva dei temi che contraddistinguono le diverse " estensioni" della memoria auto­ biografica, analizzate nel capitolo precedente.

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segna vitale" come un'attività in un certo senso routinaria nella vita men­ tale dell'individuo adulto (Butler, 1963) n . In ogni modo, al di là dell'adesione o meno al modello teorico pro­ posto, il contributo di Erikson mostra quale arricchimento può essere tratto dal considerare la rievocazione dei ricordi autobiografici in una prospettiva che include tutte le fasi di ciclo vitale, e non si limita ai soli soggetti giovani (gli studenti universitari) , usati quasi come uno standard normativo nei confronti delle persone nelle altre età. 4 ·3

Memorie generazionali

In tutte le fasi di vita, dunque, il cambiamento personale non può mai essere disgiunto dalle nuove sollecitazioni e richieste che il mondo so­ ciale rivolge all'individuo che cresce e si modifica; né questi cambia­ menti possono essere avulsi dal contesto culturale in cui si svolgono, che marca gli obiettivi e le scadenze considerate di volta in volta necessarie e "naturali" per realizzare uno sviluppo personale adeguato. Nel prossi­ mo capitolo analizzeremo più a fondo l'azione di modellamento di que­ ste richieste storiche e sociali sulla memoria autobiografica individuale; nell'ultima parte di questo capitolo desideriamo invece attrarre l' atten­ zione su un fenomeno indispensabile per comprendere a fondo la stori­ cità e la relatività culturale dei ricordi autobiografici, che è quello della condivisione dei ricordi generazionali. Senza la dimensione della memoria autobiografica, infatti, il concet­ to di generazione perderebbe gran parte del suo contenuto, riducendo­ si a un puro esercizio meccanico di rilevazione statistica. Continuando a seguire la nostra traccia di lettura sull'attualità dei classici, abbiamo tro­ vato una definizione efficace di questo concetto, intorno a cui si sono esercitati a lungo sia storici sia sociologi, in un piccolo libro prezioso: Apologia della storia o mestiere di storico di Mare Bloch (1949) 12 •

1 1 . È da notare che i dati di ricerca hanno in parte contraddetto quest'ipotesi pre­ valentemente speculativa di Butler (Fitzgerald, 199 5 ) . 1 2 . Com'è noto, il libro non poté essere concluso dallo storico francese, forse i l più grande medioevalista della sua epoca, e la sua edizione fu curata, all'indomani della se­ conda guerra mondiale, dal suo maestro e amico Febvre. Bloch, infatti, aderì alla Resi­ stenza e morì per mano dei nazisti, per una scelta nata non solo dall'eroismo personale ma anche dalla sua lucida capacità di discriminazione e di giudizio storico e, in sintesi, dalla sua immensa statura intellettuale; e lasciò all'amico questo piccolo testo incompiu­ to che, al di là di ogni rischio di retorica, illumina la profondità della sua comprensione storica, espressa in modo volutamente umile, realistico e sommesso.

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L'intuizione di base che guida questo testo, e che rispecchia molto strettamente alcuni contenuti che svilupperemo con più ampiezza nel­ l' ottavo capitolo, riguarda la nostra necessità di comprendere il periodo storico in cui viviamo e di situarci in esso. Nel caso di Bloch, questa ne­ cessità diveniva più impellente a causa della tempesta storica che mi­ nacciava il suo mondo culturale. Sembrava, in quegli anni drammatici in cui la Francia fronteggiava la sua étrange dé/aite di fronte al nemico na­ zista, apparentemente invincibile, che tutte le regole che avevano domi­ nato la civilizzazione europea perdessero improvvisamente e irrevoca­ bilmente senso. Ciò caricava di una forza inquietante l'interrogativo ( ri­ volto non solo a uno storico di professione come lui, ma a ogni persona di buona fede confrontata a circostanze storiche estreme) se la storia sia comprensibile e razionalmente governabile, o sia al contrario un insieme di forze irrazionali che possono talvolta scatenarsi senza che ci resti nient'altro da fare che subirle. Inutile dire che Bloch optava non solo per la comprensibilità della storia, ma per il dovere morale delle persone adulte " di buona volontà" di comprenderla e di prendere posizione ri­ spetto ad essa. In questa prospettiva generale del libro, egli presenta i ricordi gene­ razionali come quel momento in cui l'evoluzione intellettuale del singo­ lo s'incontra con un evento pubblico di tale portata da reclamare, in un certo senso, il dovere d'essere compreso. Nel ricordo che segna una ge­ nerazione, secondo Bloch, il giovane adolescente si sente interpellato per la prima volta da quella vita pubblica che nella sua infanzia egli confina­ va all'estremo limite del suo campo d'attenzione. Per chiarire quest'idea, Bloch ci regala un suo ricordo autobiografi­ co: la sua prima presa di posizione pubblica a proposito del caso Drey­ fus. Nel suo ricordo, Bloch riferisce del suo stupore nel vedere alcuni compagni, della sua stessa classe di liceo, apparire indifferenti o imba­ razzati nel prendere posizione rispetto a quello scandalo; e di scoprirsi, al contempo, improvvisamente incluso nelle discussioni di compagni più " anziani" di lui, interessati alla medesima situazione. Nella descrizione di Bloch, dunque, la generazione si forma dall'incontro tra il punto di svolta della vita individuale, in cui s'inizia a sentirsi chiamati più o me­ no precocemente a prendere posizione nel forum di discussione del mondo adulto, e i momenti di mutamento che cambiano il panorama del mondo sociale. Ciò fa sì che esistano generazioni "lunghe" o " corte " , a seconda del variare congiunto di questi due diversi movimenti temporali. Quello che accomuna una generazione, dunque, è l'essersi sentita interpellata ri­ spetto ai medesimi fatti e, quindi, ai medesimi argomenti cruciali per l'e­ poca; in questo, non solo la variazione individuale nelle capacità e ma-



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turità nel comprendere l'importanza delle situazioni pubbliche, ma an­ che la disponibilità sociale di alcuni eventi particolari, più e più volte ri­ proposti all'attenzione rispetto ad altri (Bellelli, 1999) , segna un p an ora­ ma complessivo simile per i diversi profili della ricerca individuale di senso della realtà pubblica. Ciò accomuna in un medesimo gruppo so­ ciale giovani, che pure in seguito potranno approdare a conclusioni e prese di decisione diversissime, ma che comunque per la prima volta si sono sentiti interpellati a intervenire su uno stesso soggetto nel dibattito pubblico (Leone, 1999a; 1999b) .

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Le dimensioni sociali della memoria autobiografica

Ancora una volta, iniziamo le nostre riflessioni riferendoci al lavoro di alcuni grandi precursori, che hanno tracciato percorsi di ricerca che, spesso citati e omaggiati, rimangono tuttavia ancora in parte inesplorati e che ci indicano importanti direzioni per la nostra ricerca futura (Leo­ ne, 1996; 1998a) . Nei paragrafi che seguono, dunque, ripercorreremo in estrema sintesi alcune delle intuizioni più importanti di questi autori sul tema delle dimensioni sociali dei ricordi personali e quello più generale della memoria collettiva 1 • Il contributo di questi autori classici molto spesso non si basa su una distinzione netta tra la memoria autobiografica e gli altri tipi di memo­ ria, perché si colloca in un momento pionieristico della storia della no­ stra disciplina, ben diverso dalla situazione attuale. Gli studi cui ci rife­ riamo in queste pagine si sono svolti, infatti, negli anni tra il 1930 e il 1945: una fase in cui molte delle nostre distinzioni odierne tra diverse forme di memoria non erano state ancora raggiunte. Tuttavia, questo passo indietro temporale non sminuisce la portata del contributo di questi autori, perché molta parte di quelle acquisizio­ ni che sarebbero state conquistate solo in seguito, come consapevolezza per così dire " specialistica" , erano già prefigurate nel loro lavoro da al­ cune intuizioni teoriche di grande respiro. Naturalmente, non potremmo ingenuamente pretendere di trovare in questi classici le differenziazioni definitorie e metodologiche dei la­ vori nati in epoca successiva. Molti dei lavori presentati in queste pagi­ ne non superano il livello speculativo, come nel caso di Halbwachs; o non vanno oltre un primo accenno di ricerca, come nel caso di Vygot­ skij ; o infine presentano sorprendenti incompletezze metodologiche, co­ me nel caso di Bartlett.

1. Per un approfondimento più generale sul rapporto tra questi due temi, cfr. anche Leone (2oooa; 2ooob) ; Mazzara, Leone (2ooo) .

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Tuttavia, le intuizioni e la chiarezza teorica del loro approccio equi­ valgono alle scoperte di quegli esploratori di inizio secolo che, pur non potendo contare nelle loro spedizioni su molti degli strumenti odierni, riuscirono comunque a tracciare dei percorsi in grado di consentire alle generazioni successive di orientarsi efficacemente lungo le rotte che es­ si avevano aperto. 5 ·I

Bardett: dietro la ripetizione, lo schema; dietro lo schema, la cultura

Nel 1931, Bartlett veniva chiamato a sostenere la responsabilità della pri­ ma cattedra di Psicologia sperimentale dell'università di Cambridge. Fu da questa impegnativa collocazione accademica che egli pubblicò Re­ membering, un libro sulla memoria, destinato a rimanere tra le citazioni d'obbligo di ogni manuale che si rispetti (Bartlett, 1932) ma che, tuttavia, provocò notevole sconcerto e perplessità tra i contemporanei. In primo luogo, egli vedeva la memoria non come la capacità di im­ magazzinare dati passati, ma come uno sforzo di ricostruzione che, par­ tendo dagli interessi e dalle conoscenze presenti del soggetto, tenta di ri­ costruire a posteriori il significato del ricordo. Nella sua definizione, dunque, la memoria è «uno sforzo verso il si­ gnificato»: appare perciò inutile cercare di controllare quanto un ricor­ do sia la copia più o meno fedele del passato, mentre, al contrario, si do­ vrebbe sollecitare il soggetto a ricostruire gli stimoli originariamente pre­ sentati, osservando le attività rielaborative tramite cui il loro significato può essere ricostruito nel presente. Nelle sue procedure di ricerca, che apparivano sconcertantemente " informali" agli occhi dei suoi contemporanei (e, per la verità, anche di molti metodologi moderni) , egli sottoponeva ai soggetti che collabora­ vano alle sue ricerche alcuni stimoli: stimoli significativi, naturalmente, sembrandogli ogni lavoro su materiale ipersemplificato (nella tradizione nata da Ebbinghaus) solo una " spiacevole finzione" , attuabile in labora­ torio ma del tutto insensata per gli usi cui la memoria è effettivamente destinata nella vita quotidiana. In seguito, egli chiedeva ai soggetti di ri­ produrre ripetutamente questi stimoli, così come la loro memoria li rico­ struiva più volte, in momenti successivi. Egli intendeva in tal modo mi­ mare l'attività della memoria permanente, che si rappresentava come uno sforzo incessante di riportare il significato del passato al livello del­ le conoscenze attuali del soggetto. L'osservazione dei cambiamenti che accorrevano da una versione all'altra, e la citazione di alcuni esempi scel­ ti che mostrassero praticamente come operi il processo di ricostruzione mnestica, costituivano la presentazione, piuttosto anticonvenzionale per 8o

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il panorama generale degli studi del tempo, dei suoi risultati di ricerca (Bartlett, 1932) . In molti casi, gli stimoli presentati erano non solo significativi, ma anche di difficile interpretazione da parte del soggetto . Questo derivava in parte dalla complessità dello stimolo: dovendo essere simile a una situazione " naturale" , lo stimolo era infatti privo di quella semplificazione artificiosa che forma la fragilità ecologica, ma an­ che l'illuminante chiarezza, quasi " stilizzata " , delle situazioni di labora­ torio (Leone, 2ooob) . Ma, molto spesso, Bartlett preferiva usare anche stimoli cultural­ mente estranei: proprio perché la scarsa familiarizzazione culturale creas­ se una sorta di banco di prova dell'abilità ricostruttrice della memoria. In tutti i casi, quello che emerge con forza da questi risultati è che, di ripetizione in ripetizione, lo stimolo originale cambia /orma: viene semplificato, ristrutturato, reso più prevedibile e sintetico; fino ad arri­ vare a una specie di formato standard nel quale si stabilizza, e può esse­ re ulteriormente riprodotto nel futuro, essendo divenuto ormai un' ac­ quisizione permanente della memoria a lungo termine. A questa struttura o formato standard Bartlett dà il nome di schema. Egli mutuò il termine dalle ipotesi di due noti neurofisiologi, Head e Holmes, con cui aveva collaborato agli inizi della sua carriera. Con ta­ le denominazione essi descrivevano la capacità, inconsapevole se non in caso di disturbo, di essere continuamente informati sull'orientamento spaziale del proprio corpo. È da notare che la parola greca O'XYJfJ-ct, da cui origina la radice di questo termine, indica lo stato del corpo in movimento: come nel caso, ad esempio, delle statue classiche degli atleti rappresentati nello sforzo del loro gioco olimpico, ben diverse dalla rigida fissità delle statue più arcaiche note come curoi (xupot) , rappresentazioni astratte della bellez­ za e della forza dei corpi giovanili. L'idea di Bartlett appare, ancora oggi, modernissima: il tentativo di comprensione rappresentato dal ricordo è visto come il frutto di una mente in movimento, che riporta a un formato accettabile nel presente la sua esperienza di ieri. Inoltre, e questo è forse il risultato destinato a emergere di più nel lavoro pionieristico di Bartlett, questa comprensione, quest'orienta­ mento nello spazio dei significati non è frutto della sola individualità, ma è intriso dall'influenza del mondo sociale e culturale, che agisce in ma­ niera quasi indistinta, come sfondo conoscitivo "banale" del pensiero quotidiano. Sono soprattutto gli stimoli culturalmente estranei che fan­ no risaltare questa doppia faccia, personale e sociale, del ricordo: lo sti­ molo " strano " , dunque, viene familiarizzato di ripetizione in ripetizione, 81

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perdendo o trasformando quello che appare più incomprensibile alla formazione culturale del soggetto. Questo movimento familiarizzante si accentua nel caso in cui la ri­ petizione sia non effettuata dal soggetto singolo, ma passi da un sogget­ to all'altro, come nel tradizionale gioco del telefono senza fili. Un esem­ pio spesso citato di questa condizione di studio (noto come riproduzio­ ne ripetuta in condizione sociale) è la famosa ricerca sulla Guerra degli spettri. In questa ricerca, lo stimolo usato è un racconto indiano (cioè pro­ veniente dalla cultura dei nativi americani) che risulta incomprensibile a soggetti di altra cultura. I partecipanti sono soggetti anglosassoni. Il pri­ mo soggetto ascolta la versione originale della storia; la ripete poi a un secondo soggetto, che la apprende in tal modo già socialmente modz/ica­ ta. Il secondo soggetto, a sua volta, narra (e quindi di nuovo rielabora) la storia a un terzo soggetto, che la ascolta e la dice a sua volta a un quar­ to e così via. Come risultato, il lungo racconto indiano si trasforma, do­ po quattro-cinque ripetizioni, in una breve e secca narrazione, che asso­ miglia ben poco all'originale, perché ha perso, modificato e razionaliz­ zato tutto quello che poteva suonare oscuro o incomprensibile. Quando la storia ha raggiunto questo formato schematico viene ricordata anche per lunghissimo tempo senza ulteriori modificazioni di rilievo. La nostra breve rassegna dà naturalmente solo una pallidissima idea del contributo di questo grande autore classico alla nostra comprensio­ ne della memoria (sarebbe una battuta troppo facile dire che ne rappre­ senta solo uno scarno, scheletrico schema) 2• Ci sembra tuttavia essen­ ziale notare che il concetto di schema proposto da Bartlett si presenta appunto come una mediazione tra il mondo peculiare di interessi, affet­ ti, inclinazioni del singolo, da un lato, e le sue convenzionalità culturali e sociali, dall'altro. In altri termini, secondo la lezione di Bartlett, noi "salviamo" di un ri­ cordo solo quello che in qualche modo ci tocca: o perché ci riguarda per­ sonalmente, essendo affine a un nostro percorso personale di ricerca del significato, o perché ci è molto familiare, ci suona culturalmente vicino. Ritornando all'immagine dell'orientamento spaziale, collegata alla prima radice del termine coniato da Bartlett, è chiara l'affinità tra questi processi, messi in luce dalla metodologia usata (molto simile, per altro,

2. Per chi fosse affascinato dal lavoro di questo grande ricercatore, che ancora oggi è al centro dell'interesse e delle polemiche, rimandiamo all'importante introduzione del­ l'edizione italiana del testo (Andreani-Dentici, 1974) , o alle recenti riedizioni che sono sta­ te pubblicate sia in Europa sia negli Stati Uniti (citiamo tra tutte la riedizione inglese, cu­ rata da W. Kintsch nel 1995 e da lui arricchita di un'importante introduzione) .

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all'attenzione per la riproduzione " ecologica " dei fenomeni, presente nel panorama contemporaneo di ricerca) , e il problema del "posizionamen­ to sociale" di chi ricorda. Infatti, se il soggetto che ha ascoltato la ver­ sione originale di una storia culturalmente estranea la raccontasse senza mutarla, in una scelta di fedeltà allo " strano " stimolo originale, ciò com­ porterebbe il rischio di allontanamento sociale o di fraintendimento con il nuovo soggetto che sta apprendendo la storia da lui 3 • La necessità di ricreare una "buona forma" per lo stimolo, inoltre, si basa anche su un altro aspetto, di cui Bartlett era del resto perfettamen­ te consapevole: una riproduzione ripetuta basata sulla narrazione ri­ chiede di adeguarsi a una serie di costrizioni espositive senza le quali la storia "non sta in piedi " . Nel capitolo seguente affronteremo più am ­ piamente il tema della narrazione come forma specifica di comunicazio­ ne dei ricordi, e troveremo un'altra spiegazione dell'affascinante ipotesi di Bruner, già presentata nel capitolo precedente, che il racconto com­ prenda in sé anche un atto di posizionamento sociale del narratore. Restano da esaminare le critiche, le perplessità (a volte anche aspre) , le inattese incompletezze metodologiche di un autore che di certo è sta­ to tra i più originali e innovativi di questo campo di ricerca. In primo luogo, il modo in cui Bartlett presenta e narra i suoi dati di ricerca è almeno sorprendente. Gli altri testi della sua epoca definivano le loro procedure così puntigliosamente da renderle astratte e lontane dalle osservazioni quotidiane sulla memoria, raggiungendo a tratti una freddezza stilistica quasi siderale. Bartlett, al contrario, riproduce nelle sue ricerche la maniera con cui si ricorda usualmente in un modo così informale da far temere perfino della loro validità (in realtà, bisogna no­ tare che alcuni ricercatori si stanno attualmente impegnando a dimo­ strare come questi dati possano essere perfettamente replicati: cfr. , ad esempio, Bergman, Roediger, 1999 ) . Possiamo credere che il cattedratico che insegnava Psicologia speri­ mentale a Cambridge avesse qualche confusione metodologica? O lo possiamo considerare come un provocatore intellettuale, che andava avanti sicuro sulla sua strada (ed effettivamente, come sottolinea Kintsch nella sua introduzione alla riedizione inglese del testo, "non è proprio il caso di rimpiangerlo" ) ?

3 . Notiamo incidentalmente che in una serie di ricerche abbiamo adottato l a meto­ dologia delle riproduzioni ripetute in condizione sociale proposta da Bartlett, chiedendo ai soggetti di cercare di essere quanto più fedeli possibile alla storia che avevano ascolta­ to. I risultati mostrano che questo sforzo consapevole di fedeltà viene ben presto " tra­ volto" dalle necessità di rendere la storia più comprensibile e, già a partire dalla seconda versione, la storia viene cambiata e resa più socialmente accettabile (Leone, 1997; 1998c).

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Una recente rilettura storica, avanzata da Alberto Rosa, ci sembra getti una nuova luce su questo in usuale percorso di ricerca. Rosa (1996) nota come la prima formazione di Bartlett fosse nel campo antropolo­ gico (con W. H. R. Rivers) . Egli rimase a lungo incerto tra le due pro­ spettive disciplinari, e questa sua prima formazione metodologica lo in­ trodusse alla raffinatezza con cui gli antropologi, studiando l'incontro tra culture diverse, cercavano di comprendere come i partecipanti alla ricerca reinterpretassero con i loro strumenti culturali le stimolazioni loro presentate. La relativa "liberalità" nelle istruzioni legate al compito (che non ri­ chiedevano, evidentemente, la riproduzione fedele dello stimolo, in quanto questo compito sarebbe stato completamente in contrasto con le premesse teoriche degli studi stessi) era dunque non tanto uno sci­ volone metodologico, che poteva indurre alcuni soggetti a confabulare (Kintsch, 1995) , ma piuttosto un modo di tenere aperta la porta alla rie­ laborazione attiva del soggetto e, tramite essa, al gioco delle determinanti culturali (Rosa, 1996) . Rimane, comunque, una grave incompletezza in questi studi. Bartlett esplorava il ruolo della familiarizzazione dell'estraneo, ma dava per scontato il lavoro cognitivo rispetto all'apparente banalità del­ l'usuale, del consueto. Si tratta di una mancanza sconcertante. In primo luogo, una mancanza metodologica: perché, com'è noto, il dato sperimentale non nasce dalla rilevazione di quello che accade in presenza della variabile ritenuta cruciale (in questo caso, l'estraneità cul­ turale) , ma dal confronto tra quello che si registra nella situazione speri­ mentale, in cui la variabile cruciale agisce, e quello che non accade nella situazione di controllo, in cui la variabile cruciale è assente. In secondo luogo, una mancanza teorica: perché ciò che suonava co­ me estraneo in una cultura era familiare e noto in un'altra; perché non è solo il senso di sconcerto di fronte alla diversità, ma è anche il senso di benessere empatico di fronte alla " normalità" ciò che richiede di essere spiegato. Anche in questo, tuttavia, egli mostrava in un certo senso di essere ancorato all'antropologia dell'epoca, che insidiosamente portava anche le menti più lucide a sovrapporre alla categoria del culturalmente estra­ neo quella del "primitivo " . In conclusione, al d i l à delle speculazioni con cui oggi possiamo ri­ costruire il perché di questa discutibile scelta metodologica, resta il fat­ to che il lavoro di Bartlett sarebbe stato più completo se egli avesse crea­ to delle possibilità di confronto: mettendo a paragone, ad esempio, il ri­ cordo di un anglosassone con quello di un americano nativo nella ricer-

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ca sulle riproduzioni ripetute della Guerra degli spettri; oppure con­ frontando il ricordo di questa storia culturalmente estranea con un'altra di cultura anglosassone (Mazzara, Leone, 2ooo) . Tuttavia, malgrado questi limiti metodologici, è principalmente a causa del coraggio e delle provocazioni intellettuali di Bartlett se il no­ stro studio della memoria ha potuto cogliere la forza modellante e na­ scosta della cultura, aiutandoci a capire (in verità solo da poco, e con grande sforzo) che lo schema non è solo una difesa strutturale della men­ te singola, di fronte agli stimoli più incongrui (Larsen, 1988) , ma è anche, e forse soprattutto, una scelta di campo rispetto alle versioni concorren­ ti con cui i diversi gruppi sociali rileggono le possibili interpretazioni del­ la realtà (Mazzara, Leone, 2ooo). 5 -2

Vygotskij: la migliorabilità sociale della memoria

Il secondo autore che ha lasciato una traccia indelebile nello studio del­ le dimensioni sociali della memoria è Lev Semyonovic Vygotskij. La sua breve ma intensissima opera scientifica si svolse in Unione Sovietica nel periodo storico compreso tra la rivoluzione e la repressione staliniana, in una parabola scientifica durata poco più di dieci anni: dal 1924, in cui esordì nel contesto internazionale con un audace intervento sul tema della coscienza, al 1934, data di pubblicazione postuma del capolavoro Pensiero e linguaggio. Anche in questo caso, non possiamo dare che uno spunto molto rias­ suntivo dell'opera di questo grande autore, rimandando chi fosse inte­ ressato alla notevole opera di commento sul suo lavoro e in particolare alla traduzione italiana del 1990 di Pensiero e linguaggio, curata da Lu­ ciano Mecacci 4. L'aver vissuto nel tempo della rivoluzione russa diede a quest'auto­ re un'occasione straordinaria per cogliere quanto le modificazioni sociali accelerate potessero mutare l' assetto mentale. Anche se il suo lavoro venne guardato con un sospetto crescente che rasentava la persecuzione (l'opera postuma fu salvata grazie alla presenza di spirito della moglie e di pochi allievi) , la prospettiva di ricerca di Vygotskij non smise mai di contribuire, per quanto era possibile, al progresso di quelle fasce enor­ mi di popolazione che avevano fino a quel momento vissuto ai margini 4· Oltre a permettere agli studiosi italiani di accedere al testo, quest'opera si segna­ la all'attenzione perché si tratta della prima edizione finalmente libera da tutte le censu­ re e le manipolazioni che avevano indebolito le versioni precedenti, esercitate sia da par­ te dei curatori russi, sia da parte dei curatori occidentali.

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dell'impero, in condizioni di gravissima arretratezza. In particolare, Vy­ gotskij partecipò a spedizioni finalizzate all'alfabetizzazione di popola­ zioni confinate in territori periferici, osservando direttamente gli effetti sociali e psicologici di questi massicci interventi educativi. Diresse inol­ tre il centro di Difettologia di Mosca, destinato alla ricerca e all'inter­ vento sui bambini con handicap. La sua grande chiarezza teorica, dunque, si arricchì delle responsa­ bilità operative che gli furono via via affidate; in pochi anni, questo per­ corso intellettuale gli consentì di costruire una teoria di grande respiro, di awiare il lavoro di alcuni brillanti allievi, e infine di abbozzare alcu­ ne interessanti ricerche che, sia pure rimaste ancora largamente incom­ piute (Bakhurst, 1986) , lasciavano intuire la portata innovativa del suo pensiero. Nel campo che più c'interessa, la memoria, Vygotskij propone in pri­ mo luogo una chiara distinzione tra processi più elementari e processi guidati dalla volontà e dal giudizio del soggetto. Mentre la memoria di tipo associativo fa parte del primo gruppo, la memoria volontaria ap­ partiene al secondo: nell'ottica di questo autore, dunque, è improprio tentare di ridurre il livello superiore dei processi mnestici a una sempli­ ce moltiplicazione quantitativa della catena dei processi associativi. In una citazione molto famosa, Vygotskij conclude che «nel fazzolet­ to annodato e nel monumento possiamo vedere la caratteristica più profonda, più specifica e più importante che distingue la memoria uma­ na dalla memoria animale» (Vygotskij , 1983, p. 86) : cioè nella scelta volon­ taria del!)intermediazione che guida attivamente un processo che, nell'a­ nimale condizionato o nel bambino piccolissimo, può essere solo subìto. Non ci sembra sia un caso se, nella frase, Vygotskij citi l'esempio di una scelta personale (il nodo al fazzoletto, con cui cerco di ricordare un impegno futuro) e di una scelta collettiva (il monumento, che corri­ sponde alla selezione sociale di un personaggio o di un evento del pas­ sato da celebrare come memorabile) . Il primo aspetto caratteristico del­ la memoria umana è dunque quello di essere sottoposta a un duplice controllo: un controllo personale e un controllo sociale. Il secondo aspetto, esplorato dagli studi di Vygotskij, è la compren­ sione di come questi due livelli di controllo del processo mnestico siano in rapporto tra loro. Per approfondire meglio questo rapporto, Vygot­ skij studia le situazioni in cui l'equilibrio cambia : nei diversi passaggi cruciali dello sviluppo individuale, nei grandi cambiamenti sociali. In entrambi i casi, quello che appare il punto fondamentale di svol­ ta è l'apprendimento de/ linguaggio: l'acquisizione della capacità di par­ lare, per il bambino; il passaggio dalla trasmissione orale a quella scrit­ ta, per le società in via di alfabetizzazione. 86

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Si tratta dunque di modi/icazioni indotte socialmente, che si tradu­ cono da elemento esterno in un diverso equilibrio interno tra funzioni mentali. Nel bambino che apprende a parlare dall'adulto, il linguaggio gradualmente s'interiorizza, e diviene mezzo per controllare il fluire or­ dinato del proprio pensiero; la cultura che si alfabetizza acquista un mez­ zo potentissimo per esteriorizzare (Leroy-Gourhan, 1977) la propria me­ moria collettiva tramite la mediazione scritta. Una via per osservare questi cambiamenti a livello di sviluppo indi­ viduale è la riflessione su quello stadio critico dell'acquisizione del lin­ guaggio che Piaget denominava del linguaggio egocentrico. Con questo termine, Piaget designava le parole che il bambino in età prescolare pro­ nuncia ad alta voce mentre gioca, ma che non sono rivolte agli altri bam­ bini che gli sono vicini. Piaget pensava che questo comportamento de­ nunciasse un'immaturità evolutiva del bambino: poiché è ancora cen­ trato prevalentemente su se stesso e non è ancora in grado di percepire il punto di vista degli altri, il bambino produce un soliloquio piuttosto che un dialogo con l'altro bambino presente. Vygotskij , al contrario, pensa che questa fase del linguaggio indichi non tanto un'immaturità, quanto un padroneggiamento: il tentativo, cioè, di impadronirsi del linguaggio dell'adulto, di interiorizzarlo, di far­ lo proprio. E, in effetti, se ascoltiamo un bambino che parlotta tra sé e sé, molto spesso lo sentiamo ripetersi ad alta voce le raccomandazioni, le spiegazioni, le esortazioni dell'adulto ( ''Adesso disegno una bella ca­ sa . . . Prima il tetto . . . poi le finestre, due . . . Ecco la porta, per uscire . . . ) . Come si modifica, attraverso l'acquisizione del linguaggio, il funzio­ namento della memoria? Secondo Vygotskij, il bambino molto piccolo pensa ricordando, l'adolescente ricorda pensando. Questo slogan, spes­ so citato, equivale a dire che lo sviluppo sempre più compiuto della com­ penetrazione tra pensiero e linguaggio porta la memoria ad appoggiarsi principalmente sui rapporti semantici regolati dal linguaggio, cioè su un'intermediazione basata su criteri astratti piuttosto che su categorie di esperienza concreta. Un bambino piccolo dirà che una lumaca «è una cosa piccola, viscida, che la schiacciano con il piede»: appoggerà dun­ que la sua conoscenza sulla sua esperienza concreta; al contrario un ado­ lescente o un adulto ricorderanno meglio un evento quando lo avranno compreso, cioè collegato alla propria rete di rapporti semantici 5 • "

5 . S i notino l e analogie tra queste osservazioni di Vygotskij e l a successiva teoria del­ la profondità dei livelli di elaborazione, proposta da Craik e Lockart nel 1972, in cui si ipo­ tizza che un'elaborazione semantica di uno stimolo, centrata quindi sul suo significato e non su altre caratteristiche più superficiali (come, ad esempio, il numero di consonanti o di vocali contenute nella parola presentata) , comporti come immediata conseguenza una sua migliore ritenzione in memoria.

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In sintesi, il legame che Vygotskij postula tra pensiero e linguaggio ipotizza che l'acquisizione sociale della capacità di parlare si rifletta sul­ la riorganizzazione delle attività interne della mente, assoggettandole sempre più compiutamente alla capacità di controllo volontario del soggetto . Una posizione che veniva vissuta, dall'ortodossia sovietica co­ me " idealista" e " cosmopolita" (per le citazioni che Vygotskij portava a sostegno della sua tesi, collegate anche al mondo della ricerca non marxista) . Soprattutto, i suoi critici (con sempre maggior asprezza, man mano che cresceva la sua emarginazione politica) ritenevano che egli soprav­ valutasse il ruolo di una variabile immateriale come la parola, e sottova­ lutasse invece il ruolo dell'azione, della trasformazione concreta del­ l' ambiente materiale. A un suo oppositore teorico, che per sostenere quest'ipotesi para­ frasava il famoso incipit del Vangelo di Giovanni «In principio era la pa­ rola», nella frase «In principio era l'azione», Vygotskij contrapponeva, in una pagina famosa di Pensiero e linguaggio, una risposta pacata ma ta­ gliente. Egli riconosceva che questa frase era giusta, ma solo se intesa l et­ teralmente. In principio, cioè nelle prime /asi dello sviluppo, la mente è formata tramite l'esperienza dell'azione; ma è la parola che modifica ir­ reversibilmente e perfeziona lo sviluppo intellettuale: la parola che, giun­ gendo alla fine, porta a compimento la nascita della mente. È evidente quanto questa prospettiva teorica fosse realmente rivolu­ zionaria, e perciò tanto invisa. Prima di tutto, questa posizione teorica mette pienamente in luce la responsabilità degli adulti che interagiscono con il bambino, in quanto spetta a loro di perfezionare l'opera dello sviluppo. In secondo luogo, il livello complessivo dello sviluppo della mente non appare come guidato essenzialmente da forze e talenti naturali, che si rivolgono al sociale solo a completamento della maturazione indivi­ duale, ma al contrario si fonda nella qualità del rapporto sociale con edu­ catori attenti e disponibili; anche la memoria dunque, così come tutta la funzionalità mentale, viene considerata come socialmente migliorabile. Un messaggio di fiducia, certo, rispetto al determinismo troppo ri­ gido di chi vede lo sviluppo giocato una volta per tutte dal solo patri­ monio personale; ma anche un richiamo forte alle responsabilità che un educatore attento o disattento si assume, nel momento in cui aiuta o me­ no la persona che gli è affidata a percorrere quel passo in più nelle abi­ lità che è già in grado di svolgere da sola, quello che Vygotskij denomi­ na lo spazio di sviluppo prossima/e. È evidente come tutto lo studio sul ricordo congiunto e l'osserva­ zione del modo con cui l'adulto introduce il bambino nell'organizza88

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zione linguistica dei propri ricordi autobiografici (descritti nel capitolo precedente) trovino nell'opera di Vygotskij la loro prima e più impor­ tante radice. 5 ·3

Halbwachs: il ricordo come bisogno di radicamento sociale

Un ultimo autore che ci è sembrato indispensabile introdurre in questo capitolo è Maurice Halbwachs . Anche in questo caso ci proponiamo di fornire solo una prima idea orientativa sulla sua opera: il lettore che vorrà, come speriamo, approfondirla maggiormente, potrà rivolgersi al­ la vasta letteratura critica a proposito 6• Allievo di Durkheim, Halbwachs lavorò tutta la vita sul confine tra diverse discipline. Sin dall'inizio della sua attività di studioso, infatti, egli cercò di stabilire un contatto tra la sua formazione sociologica e l'ottica storica e psicologica. Non appare dunque casuale che egli abbia termi­ nato la sua carriera essendo stato chiamato a ricoprire un posto al Col­ lège de France sulla disciplina di Psicologia collettiva, antenata della mo­ derna Psicologia sociale, per definizione scienza di confine. Una parte della ricchezza di questo confronto interdisciplinare era legata agli ambiti privilegiati di lavoro in cui Halbwachs operò, e in pri­ mo luogo alla sua esperienza nella giovane e dinamica università di Stra­ sburgo, dove egli fu chiamato nel 1919 a insegnare Sociologia e Pedago­ gia. In quegli anni l'università contava tra i suoi colleghi, tra gli altri, sto­ rici come Mare Bloch e Lucian Febvre, fondatori della rivista "Les an­ nales " , destinata a cambiare profondamente il panorama delle scienze storico-sociali (Burke, 1990) , e lo psicologo Charles Blondel. Il primo sviluppo di pensiero di Halbwachs sulle dimensioni so­ ciali della memoria, dunque, fu compiuto in questo eccezionale conte­ sto, e originò tra le altre la famosa opera Quadri sociali della memoria (Halbwachs, 1925) . Ma al tema delle radici sociali della memoria Halbwachs tornò di nuovo, come tema d'elezione, durante il dilagare dell'occupazione nazi­ sta in Europa, con la composizione di Memoria collettiva. Egli annota nel diario il 13 marzo 1938, due giorni dopo il suo compleanno: 6. Consigliamo in particolare, per quanto riguarda la realtà italiana, di non trascura­ re le traduzioni di Memoria collettiva (a cura di Paolo Jedlowski) e di lvfemorie difamiglia, il famoso capitolo quinto dei Quadri sociali della memoria che, estratto dal testo, è stato re­ centemente presentato in italiano a cura di Bianca Arcangeli (Halbwachs, 1996). Si tratta, infatti, delle due pubblicazioni principali cui si riferiscono le considerazioni raccolte in questo paragrafo; inoltre, entrambi i libri sono arricchiti da un'importante introduzione dei curatori, che permette al lettore italiano di familiarizzarsi con l'opera di Halbwachs.

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L'altro ieri h o compiuto 6 1 anni . . . m i hanno telefonato d a Strasburgo . . . l e truppe tedesche entravano in Austria. . . Vent'anni dopo ci si trova al fatto che è la Germania ad aver vinto la guerra . . . Vorrei potermi fare assorbire abbastanza dal mio lavoro perché l'oblio totale della politica interna ed estera mi porti il be­ nessere e la quiete del pensiero [ . . . ] .

Si potrebbe pensare a un intellettuale che si chiude nell'isolamento del­ la sua professione privilegiata, se la frase del diario in cui aveva appena invocato «il benessere e la quiete del pensiero» non continuasse così: «dicono che gli operai viennesi hanno resistito nei sobborghi di Vienna, bisognerebbe inchinarsi profondamente davanti a loro. . . » (Namer, 1997, p. 240) 7 . E, in effetti, il libro su cui egli lavora in quei giorni, e che sarà desti­ nato purtroppo ad assumere la commovente forma di un testamento 8, si rivela alla lettura, sotto la rasserenante cornice classica del suo nitore stilistico, come l'espressione di una formidabile resistenza intellettuale. È soprattutto su questa posizione teorica finale, che in parte correg­ ge e amplifica la prospettiva precedente, che s'incentrerà il nostro breve commento. In polemica con Blondel, Halbwachs concepisce il ricordo autobio­ grafico non tanto come un possesso privato della mente individuale, quanto (in primo luogo e soprattutto) come la scelta di una prospettiva, di un "inquadramento sociale" da cui guardare al passato. Ritroviamo qui, amplificato e assolutizzato, un tema simile a quello già sviluppato in Bartlett. Ma l'autore anglosassone, che aveva letto con interesse i Qua­ dri del 1925, non poteva arrivare a riconoscere la presenza di memorie collettive che fanno da punto di riferimento ai ricordi individuali: per­ ché, nella tradizione anglosassone, la collettività è essenzialmente un'a­ strazione, e solo l'individuo è "reale" 9 • In completa opposizione a Bartlett, per Halbwachs è il ricordo indi­ viduale a essere una sorta d'illusione: poiché noi percepiamo la separa­ tezza dei nostri corpi, siamo portati a rappresentarci un'analoga disconti­ nuità nelle nostre menti. Al contrario, argomenta Halbwachs, una breve analisi dello scorrere del nostro pensiero basta a mostrarci come, anche in una situazione di completa solitudine, noi in realtà non siamo mai soli.

7. La citazione del brano di diario di Halbwachs è tratta dal vibrante commento di N amer alla dedizione critica di Mémoire collective da lui curata nel 1997, a partire dal rie­ same dei manoscritti messi gentilmente a disposizione dai familiari. 8 . L'opera fu pubblicata postuma nel 1950; Halbwachs morì a Buchenwald nel 1945. 9· Cioè concretamente conoscibile: per una presentazione di questa querelle tra cul­ tura francese e inglese, cfr. Burke, 1990.

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Immaginiamo di percorrere da soli le vie deserte di una città d'arte italiana (diciamo Firenze) , in un assolato pomeriggio d'estate. Già il fat­ to che ci serviamo di una carta della città, o che acquistiamo la guida del museo che intendiamo visitare, ci mette in contatto con le intenzioni di chi ha lavorato per orientarci nelle strade o per introdurci nel periodo artistico cui è dedicato lo spazio espositivo. Ma non ci affidiamo solo a queste mediazioni impersonali: qui, un palazzo può ricordarmi il com­ mento di un mio amico architetto, lì il lungofiume può evocare le lunghe passeggiate che facevamo da ragazzi, all'uscita da scuola . . . L'esempio c i serve per cogliere i l tipo d i argomentazioni con cui Halbwachs cercava di sostenere il suo primo punto: la natura essenzial­ mente sociale del pensiero. Da questo, egli compie piuttosto arditamen­ te un secondo passo teorico: se la mente è intrinsecamente sociale, la na­ tura di questo legame è basata sulla memoria. La memoria permette di legare le menti, e di conservare indefinitamente i contenuti socialmente rilevanti, sottratti al destino di incertezza e di oblio che potrebbe mi­ nacciarli se fossero affidati solo alla mente individuale. Dunque: il pen­ siero è sociale; il pensiero sociale è una memoria; la memoria sociale scongiura l'oblio. Quest'ultimo passaggio apparirebbe facilmente confutabile, dato che l'oblio si presenta come una realtà non solo immediatamente visibi­ le ma soprattutto temibile (pensiamo ancora alle circostanze storiche in cui il libro fu scritto) . Come si spiega dunque il fenomeno del non ri­ cordo? Halbwachs presenta qui una delle sue soluzioni teoriche più ar­ dite: ipotizza, cioè, che esistano due condizioni di memoria: la prima at­ tuale, la seconda potenziale. Immaginiamo di aver abbandonato da molti anni la nostra città di origine per un'altra città, dove abbiamo sviluppato un'altra rete di rela­ zioni sociali, altri interessi, in una parola, altre appartenenze. È proba­ bile che il ricordo di quelle relazioni che intessevano la nostra vita pre­ cedente si sia fatto sbiadito, lontano. Ma immaginiamo ora che un evento di forte portata emotiva (una nascita, una morte) ci riconduca per un periodo nella nostra città origi­ naria. È molto probabile che questo ritorno momentaneo riattivi tutta una rete di ricordi apparentemente perduti: rivedremmo volti conosciu­ ti, riudremmo storie su persone cui non pensavamo più da tempo; po­ tremmo persino ritrovare quell'accento dialettale che non avevamo più da anni . . . Come per Bartlett, anche per Halbwachs è dunque il mondo degli interessi presenti che modella il ricordo del passato. Questi interessi, tut­ tavia, non sono solo particolari, idiosincratici: ma esprimono l' apparte­ nenza, il legame a una comunità sociale. Con espressione felice, Halb91

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wachs parla dunque di comunità affettiva: e la presenta in parte come un radicamento inevitabile del pensiero individuale (che non può sussiste­ re altrimenti) , in parte come una scelta, come un riconoscimento di ap­ partenere (o di non appartenere più) a un certo cerchio sociale. L'introduzione della dimensione affettiva permette, infatti, di met­ tere in luce non solo l'esattezza oggettiva del ricordo, ma anche il suo ri­ conoscimento soggettivo: posso riconoscere come esatto un episodio che un'altra persona mi ricorda, e nello stesso tempo posso sentir! o come non più mio, come estraneo al mio mondo attuale di interessi (questa è forse una delle cause che intride di malinconia certi appuntamenti fissi tra ex compagni di scuola) . Questa lettura anticipa dunque, in modo sorprendente, la consape­ volezza attuale del ruolo delle emozioni nella regolazione sociale. Per Halbwachs l'emozione, trasmessa dall'appartenenza sociale, agisce co­ me un sostegno e non come uno sconvolgimento o un'apparente inter­ ruzione dello sforzo del soggetto di padroneggiare razionalmente il mon­ do: una prospettiva che precorre di molto alcuni degli sviluppi più inte­ ressanti e fecondi delle riflessioni attuali sulla psicologia delle emozioni e, più specificamente, sul tema del rapporto tra emozioni e memoria (Bellelli, 1999 ) . Molto modernamente, Halbwachs vede nell'emozione, nata dal riconoscimento della propria appartenenza sociale, una cifra che aiuta a leggere il presente, attingendo forza per l'azione sociale dal­ la scoperta, continuamente rinnovata, delle proprie radici 10• La dinamica sociale, dunque, incide nella scomparsa e nella ricom­ parsa dei ricordi: il sociale è non solo l'origine, ma la salvaguardia ulti­ ma del ricordo. La memoria è, in sintesi, per Halbwachs, il modo con cui le collettività, legate da legami di affetto, dominano e sconfiggono l'o­ pera del tempo, che tenderebbe a distruggere e disperdere il loro patri­ monio di pensiero. L'esempio forse più toccante della dimensione protettiva dei ricordi è contenuto nelle molte, bellissime riflessioni che Halbwachs dedica al­ le memorie familiari. Egli nota che quest'attività sociale è rivolta in mo­ do continuo a tutti i membri della famiglia e solo ad essi, come per rive­ stirli di una " corazza affettiva" , che nasce dal senso di un'appartenenza costante e definitiva. Quest'appartenenza affonda le sue radici in rela­ zioni con persone scomparse da tempo (lo zio che abbiamo appena co­ nosciuto, ma cui ci dicono che somigliamo tanto; la nonna che ci sorri­ de dalle foto d'epoca) e si proietta in un futuro che non ci apparterrà; ci 1 0 . Un tema che, come vedremo più ampiamente nell'ottavo capitolo, delinea una prospettiva di ricerca sulla memoria collettiva delle situazioni storiche estreme che ci ap­ pare estremamente interessante e innovativa.

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radica quindi in una dimensione temporale sovrapersonale. Inoltre, quando un componente della famiglia racconta a un'altra persona che ne fa parte un ricordo relativo al loro cerchio familiare n, gli comunica non solo un elemento di informazione, ma soprattutto «il simbolo, più o meno misterioso, del fondo comune da cui essi traggono i loro tratti distintivi» (Halbwachs, 1996, p. 35) . Il senso di vicinanza o di estraneità di queste memorie seguirà, se­ condo Halbwachs, il corso ciclico dello sviluppo individuale: l' adole­ scente che sbuffa durante i lunghi racconti dei nonni, ansioso di ritrova­ re i suoi coetanei, si trasformerà ben presto in un genitore che riscopre con gioia nei suoi figli i tratti di quel "modo d'essere" che contraddi­ stingue ai suoi occhi la sua famiglia. Per questo, tali ricordi, invece di inaridirsi nelle continue ripetizio­ ni, si rivelano gradatamente sempre più significativi per chi procede nel corso della propria vita. Infatti «quanto più spesso si fa riferimento ad essi, quanto più vi riflettiamo, lungi dal semplificarsi, concentrano in sé più realtà, perché si collocano al punto di convergenza di un numero maggiore di riflessioni» (ivi, p. 38) . Nell'ottavo capitolo passeremo in rassegna più diffusamente il tema del rapporto tra memorie autobiografiche e momenti storici estremi; al termine di questa presentazione schematica dell'opera di Halbwachs, ci sembra opportuno sottolineare ancora una volta le circostanze storiche in cui La memoria collettiva venne scritto. Ci sembra, infatti, significati­ vo che questo messaggio di fiducia, che ipotizzava che le correnti po­ tenziali del ricordo potessero preservare dalla dispersione il patrimonio elaborato dai gruppi sociali, sia stato composto (senza poter essere ulti­ mato) da un uomo di talento, pronto a pagare con la vita la fedeltà alle sue appartenenze sociali.

1 1 . Pensiamo alle osservazioni di ricerca sulla costruzione sociale di questo genere di narrazioni, esaminate nel capitolo precedente.

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La narrazione dei ricordi

All'interno della varietà di modi in cui si incarna nella nostra vita l' azio­ ne della memoria autobiografica, un aspetto pragmaticamente rilevante che ci pare il caso di esaminare più in dettaglio è quello, molto frequen­ te, in cui il ricordo si trasforma in narrazione. Se è vero che questa narrazione si assoggetta alle regole e alle aspet­ tative di tutte le altre storie che punteggiano la nostra vita, è anche vero che solo nel caso della memoria autobiografica è il narratore stesso a es­ sere cambiato dalla storia che racconta (Fivush, Haden, Reese, 1995). Da una parte, dunque, il racconto autobiografico è solo una delle tante storie comuni (Jedlowski, 2ooo) che formano la trama della nostra vita quotidiana; dall'altro se ne distacca in modo qualitativamente in­ comparabile, per la sua centralità nel nostro pensiero e per le conse­ guenze che può avere nella nostra evoluzione soggettiva. La particolarità narrativa dei ricordi autobiografici sarà esaminata in questo capitolo secondo tre ordini di riflessione. Una prima parte riguarderà le convenzionalità narrative, cioè la pre­ senza o meno di quelle caratteristiche che vincolano chi narra al rispet­ to di alcune regole di enunciazione. Queste sono, infatti, indispensabili per produrre una buona storia, ma possono anche agire come una po­ tente fonte generativa di insights sulla propria esperienza. Una seconda parte sarà relativa a quell'aspetto di continuità/disconti­ nuità che fa da base sia all'idea della permanenza sia alla necessità del cam­ biamento, entrambe implicite nella stessa nozione d'identità. Quest'aspet­ to è strettamente congiunto con il problema dell'interlocutore cui la narra­ zione è rivolta. Il fatto che il ricordo sia un modo di narrare a un altro o a se stessi la propria storia è rilevante non solo a fini puramente pragmatici. La narrazione può essere, infatti, una maniera potente di guardare alla pro­ pria vita in modo distaccato. Lo strumento narrativo ci consente così di tro­ vare un modo originale di rileggere la nostra esperienza con quell'oggetti­ vità di cui spesso awertiamo il bisogno: per vedere, prendendo in prestito la famosa espressione di Ricoeur, se stesso come un altro. 95

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Ma la narrazione può essere anche usata per comunicare con le per­ sone cui vogliamo trasferire, almeno in parte, la nostra esperienza di vita. In questo caso, la nostra storia autobiografica si pone non solo co­ me una chiave interpretativa che dà forma alla nostra riflessione su noi stessi, ma anche come un ponte interpersonale e generazionale. È su que­ sto aspetto che si focalizzerà l'ultima parte della nostra riflessione. È in­ fatti seguendo l'esile traccia delle narrazioni interpersonali e familiari che le generazioni precedenti trasmettono ai nuovi individui quell'ere­ dità di conoscenza che sarà la prima base della loro avventura vitale: un'eredità tramandata in modo incerto e disperso, ma per ciò stesso an­ che aperto all'innovazione e alla creatività personale (Arendt, 1968a) . Come la memoria autobiografica risalta, in tutta la sua complessità, proprio nelle situazioni psicopatologiche, in cui il danno mette in luce la grande perfezione nascosta dall' apparente banalità della salute, così il ruolo intergenerazionale e culturale della narrazione viene alla luce con più chiarezza là dove il filo dei ricordi è spezzato. Tra i molti, tra­ gici esempi che la storia non smette purtroppo di fornirci, pensiamo so­ lo al caso delle narrazioni impossibili dei sopravvissuti alla Shoah. In questa situazione limite, infatti, i due obiettivi, normalmente congiun­ ti, della trasmissione intergenerazionale delle conoscenze e del sostegno della ricerca personale di significato sono messi in contrasto: i soprav­ vissuti intuiscono la portata minacciosa dei loro ricordi, che impedi­ scono di conservare la fiducia di base nei legami sociali che è un biso­ gno fondamentale nella vita mentale; d'altra parte, l'importanza della conoscenza della natura umana che essi hanno raggiunto nella loro drammatica esperienza impone loro di trasmettere alle generazioni suc­ cessive il loro monito. Essi si trovano dunque nella situazione in cui la saggezza impone loro, contemporaneamente, di «non ricordare e non dimenticare» (Eliach, 1982) . 6.I Narrazione autobiografica: è la solita storia?

Quando, nel 1932, Bartlett elaborò la nozione di schema, egli si servì di questa nozione per spiegare i cambiamenti che modificano gradata­ mente il ricordo di uno stimolo complesso (una figura, una mappa, una storia) . I dati di ricerca raccolti da Bartlett mostrarono che lo schema agiva in due modi: in modo costrittivo, poiché la memoria lasciava cadere o " convenzionalizzava" quanto non poteva essere organizzato o previsto dallo schema stesso, una volta consolidato nella sua configurazione defi­ nitiva; ma anche in modo generativo, cioè aggiungendo sfumature e par-

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ticolari che modulavano il ricordo sulle necessità cognitive presenti al mo­ mento della rievocazione, adeguandolo in tal modo alle continue richie­ ste di «un mondo che senza fine cambia» (a neverending changing world) . Ciò lascia prevedere, come vedremo più diffusamente nel capitolo successivo, due diversi tipi di distorsioni. Mentre gli aspetti costrittivi portano a dimenticare quanto " stona" con le aspettative personali e so­ ciali, gli aspetti generativi portano ad aggiungere particolari o interpre­ tazioni del senso generale (gist) , per rendere più organizzata e " succosa " la storia stessa. Com'è noto, la lezione di Bartlett ha conosciuto, dopo le difficoltà iniziali, un successo così pervasivo da essere essa stessa convenzionaliz­ zata alle mutevoli esigenze della ricerca psicologica (Leone, 1997; Maz­ zara, Leone, 2ooo) . Per molto tempo, l'aspetto costrittivo ha prevalso, perché si adattava perfettamente all'analogia, spesso proposta, tra processi mentali ed ela­ borazione elettronica delle informazioni. Se accettiamo di considerare il funzionamento della mente analogo a quello di un computer, è inevita­ bile ipotizzare che esso sia fortemente condizionato dal tipo di formato di base in cui sono presentati i dati, analogamente al problema purtrop­ po noto a tutti coloro che si sono ritrovati tra le mani un dischetto inu­ tilizzabile, perché proveniente da un altro ambiente operativo. È invece solo da pochi anni che l'aspetto generativo è tornato all'at­ tenzione dei ricercatori. Rileggendo l'opera originale di Bartlett, essi hanno infine riscoperto la sua attenzione, stupefacentemente fresca e "moderna" (Kintsch, 1995) , per la capacità dell'organismo di non farsi ti­ ranneggiare dai propri schemi, come un'interpretazione troppo mecca­ nicistica e semplicistica della teoria ha spesso portato a pensare. Al con­ trario, non solo la mente umana, ma ogni sistema dotato di memoria pos­ siede, come necessaria capacità di adattamento all'ambiente, la possibi­ lità di «considerare da diverse prospettive i propri schemi» (to turn around its own schemata) (Bartlett, 1932) . Inoltre, il procedere delle ricerche empiriche ha messo in guardia contro un uso generico del concetto di schema. Infatti, malgrado la sua diffusione troppo generalizzata l'abbia spesso ridotta a un semplice (e sostanzialmente inverificabile) /ramework conoscitivo, la teoria degli schemi è al contrario in grado di predire un insieme di processi precisi e profondamente differenziati tra loro, a seconda dello specifico campo interpretativo cui questa nozione viene applicata (Mandler, 1984) . Con­ sideriamo solo qualche esempio. Nell'arredare la sua casa di bambola, ogni bambina sa dove porre i mobili in miniatura che le sono stati regalati: possiede cioè uno schema spaziale che le consente di ricostruire la posizione più probabile dei va97

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ri pezzi di ogni stanza. È ancora grazie a questi schemi spaziali se pos­ siamo usare in modo efficiente la cucina dell'appartamento preso in af­ fitto per le vacanze, condividendo con gli ignoti arredatori uno schema di massima della presumibile distribuzione delle stoviglie e degli utensi­ li indispensabili per l'inevitabile spaghettata serale. All'inizio dell'esame, ogni studente universitario che non sia alla sua prima esperienza sa bene di dover esibire un suo documento di ricono­ scimento: possiede cioè uno schema di azioni sequenziali, temporalmen­ te ordinato e adeguato a quella specifica situazione sociale (uno script) . A meno che non si presenti qualche improwisa interruzione o variazio­ ne nella sequenza (immaginiamo, ad esempio, che il professore avesse di­ strattamente dimenticato di restituirgli il documento ed egli fosse dovu­ to tornare indietro a cercarlo, alla fine della prova) lo studente non rac­ conterebbe mai a nessuno questo particolare, né tantomeno lo serbe­ rebbe nella sua memoria. È ancora una variazione specifica della nozione generale di schema, infine, che spiega quello che ogni genitore con un po' di esperienza sa: per quanto sembri quasi addormentato, un bambino manifesta energi­ camente la sua disapprovazione se chi gli sta raccontando la storia della buonanotte tenta furbescamente di barare, tagliando corto su qualche passaggio. Infatti, per quanto il suo vocabolario possa essere ancora in­ completo e la sua grammatica approssimativa, il bambino dimostrerà, a dispetto dell'adulto troppo impaziente, di possedere un raffinato sche­ ma delle storie che gli vengono raccontate. Esistono dunque schemi specifici per lo spazio, per gli eventi social­ mente più comuni, per le storie. Anche le storie autobiografiche hanno una propria struttura schematica: volendo ridurne la complessità, ci li­ miteremo ad accennare a due aspetti principali. Un primo aspetto riguarda le componenti di base che distinguono ogni tipo di storia dagli altri tipi di testi e di discorsi; poiché la narrazio­ ne autobiografica è in primo luogo una storia, e come tale va compresa (Fasulo, 1997) . Il secondo aspetto descrive invece le caratteristiche tipiche delle so­ le narrazioni autobiografiche, che le rendono storie speciali, per molti versi incomparabili con le altre. Una disciplina specifica, detta narratologia, si è assunta il difficile compito di spiegare il fascino che la narrazione delle storie ha sempre esercitato sui suoi ascoltatori o lettori (per un'introduzione, cfr. Mar­ chese, 1995; Eco, 1994; Levorato, 1988; Smorti, 1994) . Per motivi di bre­ vità, e per non allontanarci troppo dal focus del nostro libro, non pos­ siamo in queste pagine addentrarci troppo in questi aspetti, pur molto affascinanti.

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Ci limiteremo quindi a servirei di una storia, ideata molto prima del­ l' avvento di questa disciplina scientifica, che viene spesso narrata pro­ prio per rendere esplicito il potere di fascinazione delle storie stesse. Di certo, infatti, ognuno di noi conosce le storie delle Mille e una not­ te. In quest'immenso labirinto narrativo, ogni storia può contenerne un'altra, oppure rimandare ad altri personaggi che, sommersi dopo po­ che pagine, tornano improwisamente a riemergere all'interno di una nuova narrazione, in un gioco che sembra poter continuare all'infinito. La storia di cornice, che contiene e a mano a mano dipana il vasto e meraviglioso insieme delle tante storie intrecciate al suo interno, narra, come tutti sanno, di una principessa, la bellissima Shahrazàd, che conti­ nua a narrare a sua sorella minore storie su storie, per mille e una notte. Sia la sorella maggiore, che narra, sia la sorella minore, che ascolta, san­ no che, per un crudele editto del re suo sposo, Shahrazàd deve morire all'alba successiva alla sua prima notte di nozze con il re, come molte al­ tre giovani spose già morte prima di lei, per vendetta contro il tra di­ mento subìto dal re da parte della prima, amatissima regina. Tuttavia la sposa e la sorella non supplicano né piangono: semplicemente, Shah­ razàd continua a narrare, e la sorella continua ad ascoltare. Al termine di questa lunghissima narrazione, che ricomincia sempre più incantevole a ogni notte che passa, Shahrazàd riesce a salvare la sua vita. La storia narra, infatti, che il re, per non perdere il filo della narra­ zione favolosa, rimandò di notte in notte l'esecuzione capitale della prin­ cipessa, fino ad accorgersi di essere innamorato di lei e sanato dal suo odio mortale per le donne. Ciò che salva Shahrazàd è appunto il continuo riconnettersi, da uno spunto all'altro, delle storie di ogni notte; poiché la sospensione e il ri­ mando incessante di questi nessi rende la sorella minore (pur terroriz­ zata per il destino di Shahrazàd) ansiosa di sentire " come continua " , e soprattutto irretisce anche il re, che continua a rimandare l'esecuzione al termine della storia: che, però, non accenna a finire. La prima caratteristica che emerge da questo celebre esempio di " storia sulle storie" è dunque la capacità della narrazione di connettere gli uni agli altri elementi diversi; ancora di più, di poter prendere qual­ siasi elemento per legarlo a tutti gli altri. Pensiamo alle favole di Ander­ sen, che molte volte, in modo quasi virtuosistico, prendono il proprio spunto iniziale dalle minuzie della vita quotidiana (i piselli nel loro bac­ cello; la tazza di tisana contro il raffreddore; la rosa nel vaso vicino alla finestra ecc. ) . Ma pensiamo anche alla miriade di narrazioni che riem­ piono di significato affettivo i tanti oggetti che arredano la nostra casa, e che li legano, ai nostri occhi, alla storia dei nostri familiari e, ancor più, al modo d'essere in confondibile che contraddistingue per noi la nostra 99

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famiglia da tutte le altre. È come se queste storie volessero connettere gli oggetti e i momenti della quotidianità domestica con un modo d'essere della famiglia: per dire ai suoi componenti, e solo a loro, "noi siamo fat­ ti così" (Halbwachs, 1996; 1950) . Prendendo a prestito l'espressione di Ricoeur, parleremo dunque della storia come di una rappresentazione che connette (Ricoeur, 1984) . In questo, la storia non si differenzierebbe da tutti gli altri tipi di configu­ razioni (che sono, appunto, organizzazioni di legami tra elementi) se non fosse per la dimensione su cui gli elementi sono legati tra loro, che è quel­ la del tempo. La storia di Shahrazàd diventa meravigliosa per la sua du­ rata (mille e una notte ! ) ; il tempo in cui ascoltiamo un racconto ci appa­ re come una sospensione, un momento che possiamo trascorrere solo nell'ascolto, in uno spazio e un tempo diverso dalla quotidianità. Rispetto alla dimensione temporale, dunque, la struttura di una sto­ ria appare possedere due specificità. La prima è quella di poter connettere elementi che appartengono a tempi diversi: per riprendere un'altra espressione famosa di Halbwachs, paragoneremo questa riorganizzazione di elementi, collocati originaria­ mente in momenti diversi ma legati tra loro nella mente di chi li vede convergere verso uno stesso significato, al disegno di una costellazione, in cui stelle diverse vengono collegate in una stessa figura 1• La seconda specificità è quella di sospendere lo scorrere usuale del tempo quotidiano, per riportarci a un altro contesto spaziale e tempora­ le. Esiste, infatti, una sorta di statuto temporale speciale per il momento in cui si svolge la narrazione, un tempo dedicato esclusivamente a que­ st'attività, che deve " assorbire" completamente chi narra e chi ascolta, mettendo tra parentesi lo svolgimento delle altre attività. r. Il tema del tempo rappresenta uno degli aspetti più controversi dell'opera di Halbwachs, soprattutto rispetto al suo incontro critico con la prospettiva storica rap ­ presentata da Mare Bloch. Com'è noto, Bloch si era riferito esplicitamente all'opera di Halbwachs per introdurre il suo concetto di mentalità collettiva, vista come una visione di senso comune accettata come owia, naturale, mentre in realtà è storicamente data (come nel caso dei miracoli attribuiti alla potenza taumaturgica dei re, credenza che fu abbandonata non per i frequenti insuccessi del " tocco taumaturgico" del re, ma perché era cambiata la mentalità collettiva che rendeva plausibile questa credenza: Bloch, 1924) . Da questa connessione tra il pensiero di Bloch e quello di Halbwachs, scaturirà in se­ guito il concetto di lunga durata, che esprime appunto la permanenza nel presente di memorie collettive di periodi passati. Nella sua postfazione alla dedizione critica di Mé­ moire collective, Namer (1997) mette in luce al contrario come la concezione di Halb­ wachs si allontanasse molto da quella del grande storico, poiché riguardava più la si­ multaneità psicologica di eventi svolti in tempi diversi, propria della storia vissuta (non sottoposta, cioè, allo stretto ordine cronologico) , che la permanenza storica di menta­ lità collettive.

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La sospensione della consapevolezza dello scorrere usuale del tempo si accompagna a molte altre differenze nella vita mentale, che s'instaura­ no quando si ascolta o si narra una storia: si tende a considerare valide so­ lo le storie che appaiono ben fatte e plausibili, piuttosto che verificarle ed eventualmente falsificarle; si accetta una loro forte dipendenza dal conte­ sto; si sposta l'attenzione sul caso singolo, sull'eccezione, sulla p articola­ rità, piuttosto che cercare di estrarre una norma, di enunciare una legge, di generalizzare le cose udite in categorie o in paradigmi (Smorti, 1994) . Tutte queste differenze suggeriscono, in sintesi, che la narrazione sia una modalità conoscitiva a se stante. Secondo la nota ipotesi di Bruner, infat­ ti, l'ascolto di una storia si pone a un livello qualitativamente diverso dal­ le altre attività di pensiero, funzionando come una specie di registro co­ gnitivo parallelo a quello basato sulla categorizzazione (Bruner, 1990). Quest'ipotesi sembra corroborata soprattutto dal modo diverso di valutazione che noi applichiamo, nel caso dell'ascolto di una storia. Ciò che ci fa giudicare "buona" una storia, infatti, non è tanto la sua veridicità quanto la sua coerenza. È la coerenza (cioè un'equilibrata orga­ nizzazione interna) che distingue le "buone" storie dalle altre, e che può essere rintracciata in alcune qualità strutturali che agiscono come delle co­ strizioni narrative, cioè come qualità che devono esserci e che, se non ci sono, fanno immediatamente decrescere il valore della storia narrata. Queste costrizioni (Barclay, 1995) riguardano, naturalmente, la con­ nessione temporale (il quando, il prima e il poi, e dunque anche i possibi­ li legami causali che possono nascere da questo ordinamento temporale), la " densità" di frasi che servono per comporre la narrazione (per cui una narrazione troppo scarna ci delude allo stesso modo di una troppo so­ vraffollata) e le tre funzioni tramite cui il narratore "prende per mano" chi ascolta: l'orientamento contestuale (chi, dove, quando), il centro re/eren­ ziale della storia (cosa è accaduto) e soprattutto l'aspetto valutativo, l'ac­ centuazione affettiva che porta alla sintesi, implicita o esplicita, che si può trarre dal racconto e che sarà poi ciò che più riverbererà in memoria do­ po che la storia sarà conclusa, l'orizzonte postumo (Ferroni, 1996) della sto­ ria stessa, la "morale della favola " , per riprendere il titolo del bel libro che Piero Paolicchi ha di recente dedicato all'argomento (Paolicchi, 1994) . Ritornando all'esempio citato, le Mille e una notte è un libro classi­ co perché, secondo la nota espressione di Calvino, «non smette mai di dire quello che ha da dire»: perché continua a trasmetterei, molto dopo aver dimenticato tutto il resto, l'orizzonte postumo di un racconto in­ terminabile, l'impronta emotiva (Bartlett, 1932) del ricordo della nostra fascinazione all'assistere al puro gioco della fantasia in azione. È soprattutto quest'aspetto che c'introduce alla terza caratteristica che distingue le storie: cioè il fatto di essere dirette a un interlocutore IOI

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(Jedlowski, 2ooo) . La principessa Shahrazàd non si sarebbe mai salvata se non avesse fatto accettare, con un sotterfugio, al suo sposo crudele la pre­ senza della sorella minore nell'appartamento nuziale. È per la sorella che ella narra, anche se è in realtà il re l'interlocutore ch'ella cerca di raggiun­ gere; e ogni storia non può essere compresa se non ne viene decifrato, ac­ canto alla struttura, il fine pragmatico rispetto all'interlocutore prescelto. Le storie familiari, secondo l'ipotesi di Halbwachs, sono rivolte ai membri più giovani di una famiglia per rivestirli di una " corazza affettiva" che li renda, di fronte alle asperità della vita, simili a chi li ha preceduti. Una storia può essere narrata per convincere, commuovere, am­ maestrare, sedurre, calmare, rasserenare, divertire, inquietare, minaccia­ re; può essere narrata ad alcuni per essere udita da altri, ottenendo fini pragmatici compositi, come nel caso della sorella, rassicurata in una si­ tuazione di ansia e di separazione, e del re, distratto dalla sua ossessione e progressivamente sedotto dal fascino del suo nuovo legame. Questa logica degli interlocutori plurimi rispecchia una realtà fre­ quente della vita quotidiana, in cui le narrazioni possono essere rivolte a più interlocutori contemporaneamente; e diviene la norma nelle narra­ zioni autobiografiche. In questo tipo di storie, a differenza delle altre, il primo interlocuto­ re è} in/attz: sempre se stesso, messo in relazione con un altro specifico ma anche con quello che George Herbert Mead (1924) avrebbe chiamato l'Altro generalizzato, cioè quel metro di oggettività che, soprattutto nel caso di noi stessi, ci sta tanto a cuore. Ciò che contraddistingue la narrazione autobiografica e ne fa una storia specialissima, incomparabile con le altre, è appunto la coinciden­ za tra il narratore e l'oggetto della narrazione, e ancora tra il narratore e il primo interlocutore della storia stessa. Questa doppia ri/lessività fa sì che la storia autobiografica sia l'unica in cui, secondo una felice espres­ sione di Fivush, Haden, Reese (1995) , è il narratore a essere narrato; ma è anche l'unica in cui il narratore è il primo interlocutore, colui che per primo può n'conoscersi mentre si narra. Per analizzare questo importante aspetto, è però indispensabile in­ trodurre a questo punto la distinzione tra storia e narrazione, fra tog­ getto del narrare e tatto con cui questa rappresentazione viene concre­ tamente svolta (Jedlowski, 2ooo). Mentre dell'oggetto (la storia) possia­ mo apprezzare la struttura e la coerenza interna, dell'atto (la narrazione) notiamo soprattutto il modo con cui viene svolto. Ritorniamo, per un momento, alla storia con cui abbiamo aperto il nostro libro, I:oblio di Elie Wiesel. Un tema ricorrente nel libro è la rap­ presentazione della scena in cui il vecchio padre, sempre più malato, rac­ conta, mentre il figlio e la sua compagna lo ascoltano. Fa parte della 102

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grande finezza psicologica di Wiesel l' aver immaginato che, man mano che le storie del vecchio professore perdono in consistenza e struttura per il procedere dei suoi disturbi di memoria, la sua narrazione si cari­ chi invece di un fascino sempre più acuto, perché l'orizzonte postumo che lascia nella mente dei suoi interlocutori è sempre più carico di colo­ razione affettiva. È importante notare che ciò awiene anche al di là della volontà con­ sapevole sia del professore che narra, sia del figlio e della sua compagna che gli chiedono di farlo. Infatti, secondo la lezione magistrale di Hannah Arendt (1958) \ un atto non è solo la conseguenza di cosa la persona che ha agito aveva in­ tenzione di fare, ma è soprattutto l'espressione di chi egli è: e quest'e­ spressione, evidente per chi osserva l'atto, non è invece del tutto chiara alla coscienza di chi agisce, perché una parte di conoscenza gli è negata dalla sua stessa posizione di osservazione, e può essere acquisita solo in­ direttamente (tramite uno specchio, o tramite l'altro). Così, con il procedere della malattia del vecchio professore le cose da lui narrate si fanno sempre più sconnesse, più elementari; ma il mo­ do della sua narrazione è sempre più espressione di chi egli è, della sua dignità, del suo coraggio, della sua onestà scrupolosa; ed è per questo che la sua azione narrativa è più rivelatrice delle storie stesse che egli sta narrando. 6.2 Sempre diverso, sempre uguale

Per comprendere questa peculiarità specifica della narrazione autobio­ grafica, che c'informa non solo della vita di chi racconta ma anche del ti­ po di persona che egli è, ci sembra estremamente illuminante una me­ tafora proposta da Barclay (1995) . Egli descrive il racconto autobiografi­ co come una sorta di improvvisazione, in cui il narratore dà vita, in mo­ do originale e irripetibilmente connesso all'occasione specifica, a un sé temporaneo, di cui di volta in volta vengono esaltati solo alcuni temi o aspetti salienti. Il paragone con l'attività artistica dell'improwisazione, quale awie­ ne ad esempio nella musica o nella danza, ci pare particolarmente fe-

2. Non possiamo purtroppo addentrarci nell'analisi del contributo fondamentale di questa autrice, che sul recupero del rapporto tra pensiero e azione ha fondato buona par­ te dell'originalità della sua opera. Per un'analisi più sistematica del contributo che il suo pensiero può fornire alla riflessione sulle dimensioni sociali della memoria, ci permettia­ mo di rimandare a Leone (1998a) .

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condo. Anche il piacere che uno spettatore può trarre da un'improvvi­ sazione particolarmente riuscita, può essere messo in relazione con il concetto di schema. Evidentemente, uno spettatore che non conoscesse affatto la tradizione artistica prevalente dello spettacolo cui sta assisten­ do, non potrebbe mai gioire appieno delle improvvisazioni dell'artista. L'improvvisazione, in altri termini, nasce da una speciale complicità tra esecutore e spettatore, dallo scarto improvviso con cui l'artista sospen­ de l'esecuzione consueta, per dare vita a una variazione ardita e origina­ le, che riscuote tanto più successo quanto più risponde al bisogno di no­ vità che anima lo spettatore, bisogno che continuamente si contrappone e si bilancia con la sua necessità di poter riconoscere lo stile di ciò che gli viene proposto. Non per nulla, alcuni jazzisti chiamano le loro im­ provvisazioni conversazioni, mettendo in luce l'aspetto fortemente inte­ rattivo che si crea in quei momenti tra l'esecutore e il suo pubblico, in­ terazione che può essere intuita anche dal ritmo inconsueto dei com­ menti e degli applausi (l'improvvisazione è una delle poche occasioni in cui l'applauso può, anzi deve, interrompere l'esecuzione, perché è gra­ dito come un incoraggiamento, quasi un cenno d'assenso) . I l modo con cui viene accolta un'improvvisazione è dunque infor­ mativo non solo della bravura dell'esecutore, ma anche della competen­ za e della sensibilità del suo pubblico: nessuna improvvisazione potreb­ be mai riuscire se lo spettatore avesse il dubbio che si tratta semplice­ mente di un errore, di un'incompetenza; nessuna improvvisazione po­ trebbe essere riconosciuta se lo spettatore non possedesse uno schema di come sarebbero dovute andare le cose nella maniera " classica" . La metafora dell'improvvisazione ci aiuta in tal modo a far progre­ dire la nostra riflessione dall'analisi del tipo di schema cui ogni raccon­ to autobiografico fa riferimento, cioè da quegli aspetti che sono neces­ sari perché la narrazione autobiografica venga percepita come una "buo­ na storia" , all'analisi delle conseguenze dell'azione del narrare. Come ogni azione, anche la narrazione ha, infatti, in sé un surplus informativo, che può stupire non solo chi vi assiste, ma persino chi la mette in pratica. Proseguendo nella metafora suggerita da Barclay, l'im­ provvisatore mette in gioco, nell'azzardo della sua esecuzione fuori co­ pione, tutta l'abilità accumulata sino ad allora, usando non solo quello che la sua parte gli richiede esplicitamente, ma tutto se stesso: può arri­ vare quindi a sorprendersi per primo di ciò che sa fare, a condizione che il contesto in cui l'improvvisazione avviene sia abbastanza empatico con il suo sforzo. La narrazione autobiografica corrisponde per molti aspetti a questa metafora, perché anche in essa il copione a disposizione del soggetto è poco più di un canovaccio, e quello che conta in realtà non è solo ciò che 1 04

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verrà detto, ma anche come verrà detto. Inoltre, anche nell'improvvisa­ zione autobiografica, come nell'improvvisazione artistica, ciò che fa la differenza è l'accoglienza del pubblico. È uno spunto suggestivo, che non possiamo sviluppare compiutamente in queste pagine ma che è sta­ to all'origine di una ricca corrente di riflessione ( cfr. , ad esempio, Mar­ tini, 1998 ) , il confrontare la qualità dell'ascolto dello psicoterapeuta con queste osservazioni sul tema della narrazione: non solo la psicoterapia può essere vista come un patrimonio di " storie che curano " , secondo la nota espressione di Hillman (1984) , ma i miglioramenti che essa procura possono essere riletti come improvvisazioni autobiografiche successive, in cui i temi propri del sé patologico sono stati gradatamente sostituiti, anche grazie alla particolare qualità dell'ascolto dello psicoterapeuta, da altri motivi meno invalidanti per il soggetto che ricorda. In questo, uno dei temi costanti della narrazione autobiografica è la ricerca di dare una risposta a un dilemma di base della memoria auto­ biografica (Boca, Arcuri, 1990) : sino a che punto la vita, con le sue sfide evolutive sempre diverse, è riuscita a cambiarci, e sino a che punto in­ vece rimaniamo sempre gli stessi, pur sembrando diversi? La risposta elaborata di volta in volta dalle nostre improvvisazioni autobiografiche, come variazione di questo schema classico, dà valore maggiore agli aspetti di cambiamento o di permanenza, a seconda del fi­ ne pragmatico che la narrazione vuole produrre: talvolta, infatti, quello che ci preme sottolineare sono gli aspetti di continuità (si pensi a un fa­ miliare che non vediamo da tempo, cui vogliamo comunicare che per noi niente è cambiato) , altre volte, è invece proprio il cambiamento quello che ci interessa mettere in luce (si pensi al modo in cui si racconta il pro­ prio curriculum in un colloquio di lavoro, per sottolineare tutti gli aspet­ ti di evoluzione delle proprie abilità e competenze) . Il tema dell'identità è, evidentemente, al centro di questa riflessio­ ne. La natura intrinsecamente ambivalente di questo tema è messa ef­ ficacemente in luce da un recente testo di Serino che, riferendosi a que­ sto concetto, lo definisce " àncora o gabbia" (Serino, 2ooo) . Ed è, in­ fatti, patrimonio di tutti la sensazione angosciante di essere, a volte, co­ me rinchiusi in identità che sentiamo non corrisponderci; come pure, al contrario, la sensazione confortante di essere contenuti e rappre­ sentati in una sintesi che ci rende stabili, che ci tutela dal rischio di smarrire noi stessi. La dimensione della memoria entra nel tema del sé e dell'identità, seguendo la nota ed efficace lezione di Neisser (1988a; cfr. anche Neisser, Fivush, 1994) , tramite la sua dimensione di estensione temporale: alla ba­ se della memoria autobiografica, infatti, c'è sempre un movimento tem­ porale della soggettività, un confronto tra ora e allora. 105

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Per comprendere l'importanza dell'inserimento di questo spessore temporale, può esserci utile un'analogia con la percezione del movi­ mento spaziale. Com'è noto, gli occhi sono in grado di percepire il mo­ vimento tramite la fusione di due informazioni. La prima informazione riguarda il cosiddetto movimento assoluto, cioè il fatto che la proiezione del punto osservato occupi, in momenti diversi, punti diversi sulla reti­ na. La seconda informazione è detta movimento relativo, e corrisponde al confronto tra la distanza di quel punto da un altro punto presente nel campo d'osservazione, con cui il primo viene messo in relazione. Le cose sono complicate dal fatto che gli occhi sono in continuo mo­ vimento; perciò, anche la proiezione di un punto stabile darà vita a un movimento assoluto, causato non dal movimento del punto ma da quel­ lo dell'occhio. Per questa ragione, è indispensabile che questa informa­ zione assoluta sia costantemente corretta da quella relativa. Ciò spiega come, nel caso in cui guardiamo un punto luminoso statico, senza nes­ sun' altra informazione contestuale a nostra disposizione (ad esempio, se uno sperimentatore ci fa sedere all'interno di una stanza completamen­ te buia) noi vedremo questo punto fermo come se fosse in movimento, secondo la famosa illusione ottica nota in letteratura come effetto auto­ cinetico. La soppressione delle informazioni di controllo, fornite dal mo­ vimento relativo, ci ha in questo caso indotti in errore: e questo errore ci dimostra come un atto percettivo, in apparenza elementare, sia in realtà molto complesso. Molta della nostra memoria autobiografica è preda di illusioni per­ cettive simili 3 : analogamente alla percezione di movimento, infatti, noi abbiamo bisogno che la percezione del movimento temporale assoluto cui siamo stati sottoposti venga in diverso modo integrata e corretta dal­ le informazioni contestuali, e in primo luogo dall'informazione che ci de­ riva dal nostro mondo sociale. Pensiamo a una vecchia coppia: innamorati fin dai banchi del liceo, trascorrono la vita insieme continuando a rimandarsi un'immagine di se stessi che ne esalta la continuità. Basterà però che uno dei due venga a mancare, perché l'altro senta improvvisamente il tempo passato come un peso insopportabile, perché si veda incomparabilmente diverso da ciò che era stato in passato. Secondo la lezione fondamentale di Mead, la nostra immagine di noi stessi nasce dunque da una continua sintesi tra la nostra percezione " as­ soluta" , in cui noi siamo al tempo stesso soggetto e oggetto della nostra conoscenza, e la percezione relativa dell'immagine che gli altri si fanno 3 . Come vedremo più diffusamente nel prossimo capitolo, dedicato agli errori di me­ moria.

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di noi: altri significativi, speciali, o un altro " generalizzato" che è la sin­ tesi che noi ci creiamo dell'opinione generale, della " oggettività sociale " (Mead, 1924) 4• Analogamente, la percezione della nostra estensione temporale che attuiamo in ogni ricordo autobiografico, nella sua duplice potenzialità di continuità e di cambiamento, è una proiezione nel tempo di questa triangolazione fondamentale, un continuo mettere in rapporto l'allora con l'adesso (Reed, 1994) . E, a dispetto della sua apparente semplicità, questa percezione deriva dalla combinazione inconsapevole di due tipi di confronti: non solo quello alla base del movimento temporale assolu­ to, relativo alla percezione di noi confrontati con noi stessi così com'e­ ravamo in passato, ma anche il confronto alla base del movimento tem­ porale relativo, che si effettua prendendo come criterio il nostro mon­ do sociale. 6.3

Un ponte tra le generazioni

Nella nostra riflessione sull'estensione temporale compresa nella me­ moria autobiografica, finora abbiamo considerato soprattutto la dimen­ sione che va dal passato al presente. Ciò non deve però farci dimentica­ re una seconda dimensione fondamentale, nello spessore temporale del­ la memoria autobiografica, che va dal passato al futuro. Una parte in­ trinsecamente connessa nella nostra visione di noi stessi è, infatti, la pre­ visione dello spazio vitale che potremmo occupare nel futuro, ciò che Markus e N urius (1986) denominano efficacemente i nostri sé possibili. Ciò spiega come possiamo affrontare serenamente anche una condizio­ ne vitale difficile, se lo facciamo in vista di un cambiamento positivo che sembra abbastanza probabile; mentre diventiamo intolleranti di fronte alle difficoltà più minute, se il nostro orizzonte vitale futuro non sembra offrirei più alcuna possibilità. Ma, anche in questo caso, ciò non coinvolge solamente noi. Contrariamente a quanto previsto dalla pervasiva tendenza all'indi­ vidualizzazione, che sembra contrassegnare il mainstream della ricerca psicologica (Farr, 1996) , le nostre funzioni mentali sono centrate non so­ lo su noi stessi, ma sul complesso intreccio del nostro mondo relaziona­ le. Così come Malkiel, il protagonista del libro di Wiesel con cui abbia­ mo aperto il nostro libro, ricostruendo le parti mancanti della memoria paterna trova un nuovo slancio per affrontare finalmente le sue scelte 4· Per una recente riflessione sul ruolo svolto dal pensiero di Mead nello sviluppo della psicologia sociale, cfr. Contarello, Mazzara (2ooo).

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personali, così noi usiamo molte delle nostre memorie per costruire e orientare il rapporto con le generazioni successive. Alcune importanti teorie psicologiche hanno mostrato come il no­ stro mondo relazionale dia forma ad alcuni processi mentali fondamen­ tali - pensiamo solo alla lezione di Bowlby, che ha messo in luce il ruolo determinante dei primi rapporti di attaccamento, da cui l'individuo ela­ bora modelli operativi interni sul modo in cui si strutturano i legami tra le persone e quindi un vero e proprio paradigma dei propri rapporti di attaccamento futuri 5 • Ma il passato non è solo una forza determinante per dare forma alla nostra vita mentale. Il modo con cui noi lo rileggiamo e interpretiamo, infatti, ne può cambiare in modo profondo l'azione - non solo su di noi, ma anche sulle persone che ci sono legate. Continuando a utilizzare la metafora del racconto autobiografico co­ me improvvisazione, proposta da Barclay, possiamo notare come il tema prescelto del sé temporaneo che vogliamo mettere in luce in questa va­ riazione non ha conseguenze solo sulla nostra immagine personale, ma anche sugli effetti pragmatici che la nostra narrazione può produrre su­ gli altri. Se aderiamo all'ipotesi di Halbwachs, che le narrazioni autobiogra­ fiche abbiano soprattutto il fine di rivestire gli individui più giovani di quelle caratteristiche che hanno costituito una sorta di " armatura fami­ liare " , con cui si sono affrontate le difficoltà della vita, possiamo sup­ porre che una delle tendenze di base di queste narrazioni sia quella di trasmettere ai più giovani i contenuti più importanti dell'esperienza vi­ tale delle generazioni precedenti, rilette in questo senso protettivo. Questo lavoro sommerso, con cui le generazioni ricostruiscono in­ cessantemente il filo incerto della tradizione familiare, è la trama invisi­ bile che sostiene il ciclo della continuità e del cambiamento culturale che fa da sfondo alla nostra vicenda individuale. Esistono, tuttavia, tornanti storici, improvvisi e drammatici, che spezzano violentemente l'aspira­ zione tenace a sormontare l'incertezza esistenziale e la consapevolezza delle propria fuggevole presenza nel mondo, con le armi della raziona­ lità e della trasmissione intergenerazionale. Sono momenti in cui la storia smette di rappresentare lo sfondo sfuo­ cato delle nostre esistenze, l'aria del tempo che si esprime sommessa­ mente nei modi di dire, nell'arredamento, nella moda; e si rivela d'im­ provviso come potenza distruttrice, che può infrangere ciecamente gli edifici costruiti dalla lunga operosità dei nostri sforzi razionali. In que5. Per un commento al rapporto tra le posizioni teoriche di Bowlby e l'ottica psico­ sociale, cfr. Attili (2ooo) .

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sti momenti la narrazione intergenerazionale si fa interrotta, convulsa, intermittente; fino a giungere, per le situazioni estreme, al limite stesso dove le parole si fanno inadeguate a trasmettere una conoscenza, che si vorrebbe non aver mai sperimentato. La corazza dei ricordi familiari rischia, in questo caso, di trasfor­ marsi in un peso insostenibile, che contrasta il libero gioco del respiro. Si vorrebbe quasi che gli ultimi testimoni di questi periodi difficili da dire non morissero mai, in modo da attingere ancora e ancora a un'e­ sperienza della storia che non si lascia ridurre dal freddo sguardo dell'a­ strazione documentaria, per cui non appare possibile estrarre nessuna spiegazione plausibile. Questo spiega forse il moltiplicarsi di opere di ingegno e di narrati­ va (film, romanzi, saggi) in cui eternare per quanto possibile l'esperien­ za della Shoah, in questi ultimi anni che iniziano a registrare la scom ­ parsa sempre più frequente dei testimoni diretti (Nadler, 2ooo) ; mentre essi affrontano, in una solitudine che difficilmente può essere alleviata, la scelta paradossale tra il tacere, che rischia di eludere il compito gene­ razionale loro affidato, disperdendo l'unicità delle loro conoscenze, e il tradurre nell'imperfezione approssimativa delle parole un orrore che so­ lo il silenzio delle vittime sembra in grado di esprimere. Per il testimone della Shoah, infatti, secondo le parole di Elie Wiesel, «tacere è vietato, parlare è impossibile». Si rivela improvvisamente qui, in tali testimonianze estreme, la diva­ ricazione tra ricordo e racconto, tra immagine mentale e ascolto. Noi non possiamo immaginare, raffigurarci com'era; ma possiamo ascoltare, e dobbiamo farlo.

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Distorsioni e inganni della memoria autobiografica

Le riflessioni che abbiamo sviluppato finora ci permettono di notare co­ me la nostra idea di accuratezza abbia bisogno di essere resa molto più dettagliata e complessa di quanto potevamo aspettarci a una prima con­ siderazione (Ross, 1997) . E, in effetti, la semplice sovrapposizione del ri­ cordo al suo originale, simile alla stima della bontà di una copia, che si ottiene confrontandola con la sua prima matrice, è applicabile solo in pochissimi casi alla vita reale; del resto, ciò appare immediatamente evi­ dente a partire da alcune semplici riflessioni. In primo luogo, nella vita quotidiana (a meno di non essere un poli­ tico molto in vista, come Nixon nel caso Watergate, o un famoso agente segreto, o di soffrire di un delirio paranoico) raramente ci possiamo aspettare di avere accesso, dopo alcuni anni, all'originale della nostra percezione o esperienza passata, in quanto abbiamo un potere sulla no­ stra esperienza vitale che non è in alcun modo comparabile con il con­ trollo precostruito dallo sperimentatore sul suo setting di laboratorio. In secondo luogo, molto spesso la memoria non è tanto la semplice riproposizione di una percezione antica, quanto il resoconto di un' espe­ rienza, cioè il risultato di una ricerca di significato, in cui quello che con­ ta è soprattutto il "valore aggiunto" all'accadimento originale, creato dalla nostra reinterpretazione soggettiva (J edlowski, 1994) . Infine, per essere completa, la comprensione degli errori di memoria non può prescindere dalla conoscenza del contesto in cui e per cui awiene la rievocazione: così che, ad esempio, l'errore dovuto a un eccesso di " co­ lore", che vuole rendere più interessante una narrazione, non è confronta­ bile con l'errore su un particolare rilevante nel corso di una testimonianza. Per comprendere la dinamica di creazione degli errori di memoria si deve quindi partire da un'idea di base: contrariamente alla nostra prima impressione soggettiva, non esiste una facoltà unitaria denominata "me­ moria" , ma esistono memorie; perciò, non esisterà un unico tipo di er­ rore di memoria, ma errori molteplici, legati al processo specifico di me­ moria chiamato di volta in volta in causa. III

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Abbiamo già citato lo studio di Neisser della testimonianza di John Dean, per il caso di corruzione Watergate. Dall'analisi di questa testi­ monianza, Neisser aveva ipotizzato che Dean avesse accesso in memoria non tanto alla copia più o meno fedele delle singole conversazioni che aveva avuto in diverse occasioni con il presidente, quanto a una sorta di episodi condensati (repisodi) , che riassumevano in un unico ricordo se­ quenze di awenimenti che, nella realtà, si erano svolte in modo molto più frammentato e disperso. Nel tentativo di approfondire questo tipo particolare di rievocazio­ ne autobiografica, a metà strada tra il ricordo episodico e la notazione semantica (Tulving, 1972) , Neisser e Hyman registrarono tutte le con­ versazioni di un seminario universitario tenuto da Neisser, e dopo alcu­ ni mesi interrogarono gli studenti in modo dettagliato; speravano in tal modo di poter notare di nuovo lo stesso fenomeno di condensazione e di rielaborazione dei contenuti episodici in repisodi sintetici. Sfortunatamente, però, i dati ricavati dagli studenti non andarono al di là di una breve ricapitolazione dei punti di vista generali espressi dal loro professore. Sebbene i ricercatori avessero, con pazienza minu­ ziosa, rintracciato nelle sbobinature delle lezioni seminariali una serie d'indizi (cues) particolari e specifici, per richiamare alla mente dei sog­ getti ricordi più dettagliati, gli studenti continuarono a fornire solo me­ morie di tipo generale senza arrivare mai a un formato simile a quello repisodico, facendo così fallire l'obiettivo iniziale della ricerca (Hyman, N eisser, 1992) . Il motivo di quest'apparente insuccesso è dovuto, come Hyman (1998) riconosce sportivamente in un suo importante lavoro sulle distor­ sioni della memoria autobiografica, all'iniziale sottovalutazione dei ri­ cercatori per il diverso tipo di contesto reale in cui si sarebbe svolta la rie­ vocazione. In effetti, Hyman ammette che sarebbe stato abbastanza in­ tuitivo poter prevedere che il tipo di dettagli rievocati in una deposizio­ ne giudiziaria sarebbe stato ben diverso dal ricordo di un seminario uni­ versitario, in cui un livello generale di conoscenze appariva invece più che sufficiente. Tuttavia, malgrado questa discrepanza tra i risultati attesi e quelli sperati, in fin dei conti entrambe le ricerche propongono alla nostra at­ tenzione un problema simile, pur in situazioni così diversificate: è pos­ sibile (e opportuno) considerare i ricordi " condensati" di De an o le rie­ vocazioni molto generali degli studenti di Neisser come dei veri e pro­ pri errori? Pur se con diversi livelli di dettaglio specifico, in entrambi i casi le risposte preservavano infatti il " succo " (gist) della sequenza di avve­ nimenti a cui si era partecipato, anche se lasciavano cadere una gran II2

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parte dei particolari. Potremmo dunque classificare come errori que­ sti "movimenti verso il significato " (Hyman , 1998) ? O non si tratta in­ vece di soluzioni sensate ed economiche, che permettono di preserva­ re per lungo tempo il cuore dell'esperienza passata , pur sacrificando­ ne i dettagli? Oltre all'importanza schiacciante del modo in cui vengono perce­ pite le richieste del contesto di rievocazione, e alle diverse conseguen­ ze pragmatiche di come si esprimono i propri ricordi (così che anche un testimone veritiero corre il rischio di non venire creduto, se non ap ­ pare troppo sicuro di sé) , per comprendere cosa sia e come si verifichi un errore di memoria è dunque indispensabile riesaminare critica­ mente le nostre teorie su cosa definiamo un ricordo " esatto " . Da una memoria che funziona efficacemente, ci aspettiamo che produca una specie di copia che preservi, al di là della presenza di pochi o molti det­ tagli, caratteri analoghi a quelli dell'esperienza originale? O pensiamo invece che la memoria operi, in ogni caso, una ricostruzione che, a par­ tire dalle conoscenze e dalle necessità attuali, rielabora a posteriori il significato degli avvenimenti e delle percezioni p assate? Evidente­ mente, una diversa concezione teorica porterà a una diversa definizio­ ne di " errore " . In queste pagine proponiamo una riflessione sugli errori di memo­ ria che, pur non pretendendo certo di essere esaustiva, vuole fornire un primo orientamento rispetto a questo complesso ma affascinante tema di ricerca. La nostra presentazione terrà dunque conto di tre aspetti: le diverse descrizioni teoriche del funzionamento della memoria; i diversi tipi di memoria presenti nella vita quotidiana; i diversi contesti in cui av­ viene la rievocazione. 7 •I

Bardett: errori che sottraggono, errori che aggiungono

Un contributo teorico fondamentale sul tema degli errori di memoria è stato dato dai lavori di Bartlett, nella sua famosa descrizione dei pro­ cessi di razionalizzazione e convenzionalizzazione degli stimoli com ­ plessi (1932) . Com'è noto, Bartlett suddivide gli errori in due tipi fondamentali: errori di sintesi verso un " succo " (gist) - che, nella sua ipotesi, è sempre ricostruito a posteriori; ed errori di intrusione, cioè dovuti all'aggiunta di elementi o particolari che non erano presenti nello stimolo originale. Come si vede, questa differenziazione di base di Bartlett richiama le due possibili letture della funzione svolta dallo schema: la funzione co­ strittiva, alla base degli errori di sottrazione (condensazioni, parole ca1 13

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dute, riduzioni di complessità rispetto a materiali culturalmente estra­ nei) , e la funzione generativa, che spiega gli errori che aggiungono ele­ menti che all'inizio non c'erano ( razionalizzazioni, aggiunte di brevi "morali" conclusive alle storie ecc. ) . Due ci sembrano gli aspetti più rilevanti della teoria di Bartlett, ri­ spetto al tema degli errori di memoria. Il primo aspetto è relativo alla ripetizione dello stimolo. Poiché, co­ me abbiamo più volte sottolineato, Bartlett concepisce il ricordo come uno sforzo verso il significato, la sua ipotesi sul funzionamento della me­ moria a lungo termine è che il materiale originale sia sottoposto a nu­ merose ripetizioni interne, tramite le quali il suo significato viene non so­ lo rielaborato più volte, ma anche consolidato in una forma, sintetica e sostanzialmente stabile, che sarà condensata in uno schema. Quindi, an­ che il materiale cui siamo stati esposti un'unica volta verrà sottoposto a questa rielaborazione ripetuta; acquistando e perdendo, a ogni passag­ gio, alcuni elementi della sua versione originale. Per questo motivo, nel­ l'ipotesi di Bartlett, l'esposizione singola e l'esposizione ripetuta a uno stimolo sono in realtà molto vicine tra loro. La seconda conseguenza importante di questa impostazione teorica è il rz/iuto dell'idea che vi possano essere dei ricordi-copia. Per Bartlett, il ricordo perfettamente fedele è solo " una spiacevole finzione " , che ap­ partiene al mondo irreale della sperimentazione di laboratorio, ma non ha diritto di cittadinanza nella vita concreta, le cui mutevoli esigenze adattative ci pongono quotidianamente di fronte a nuove richieste di rie­ laborazione del significato. N on tutti gli autori condividono questa posizione estrema. In effet­ ti, è esperienza comune avere dei ricordi sulla cui fedeltà saremmo di­ sposti a giurare. Naturalmente, questa sensazione, che ha per noi tutti i caratteri dell'autoevidenza, in realtà c'informa solo sulla nostra fiducia soggettiva (con/idence) sul funzionamento della nostra memoria; fiducia che, come ben sanno coloro che lavorano sul problema dell'attendibilità dei ricordi (pensiamo, ad esempio, ai poliziotti o ai giudici, o agli psico­ terapeuti), è solo raramente correlata con la reale affidabilità dei ricordi stessi. Tuttavia, è empiricamente provato che esistono alcuni particolari delle esperienze e delle percezioni passate che permangono quasi intatti anche a distanza di moltissimo tempo, e che possono innescare la pro­ duzione improwisa di ricordi spontanei che ci stupiscono per la loro vi­ videzza 1• Perciò, nei nostri modelli sembra ragionevole presumere di po1 . Il ricordo innestato da un dettaglio sensoriale specifico, espresso nel celeberrimo episodio della madeleine di Proust, che abbiamo analizzato più profondamente nel terzo capitolo, ce ne fornisce un caso esemplare.

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ter rappresentare la memoria come un processo misto, che include sia aspetti di copia sia aspetti di ricostruzione (Brewer, 1995). 7· 2

La reinterpretazione del compito: c'è un tempo per generalizzare e un tempo per essere precisi

Se la fiducia soggettiva (con/idence) di ricordare bene non è sempre una garanzia assoluta di buon ricordo, è tuttavia sicuramente una salvaguardia di cui non possiamo fare a meno in alcune occasioni specifiche. Ad esem­ pio, anche una testimonianza sostanzialmente esatta può dimostrarsi inef­ ficace, se il testimone è troppo scrupoloso e sottolinea in continuazione i suoi dubbi (come sa chiunque abbia letto qualche romanzo giallo) . Esiste, infatti, una differenza sostanziale tra l a valutazione del ricor­ do presente nella propria riflessione interiore e la necessità di esibire so­ cialmente un buon livello di {{con/idence". Il tipo di errori cui siamo più esposti (errori di aggiunta di dettagli, o errori di eccessiva sintesi rispetto al succo complessivo del ricordo) è quindi in parte collegato anche al tipo di domande che guidano il reco­ pero in memoria, e alle aspettative sociali di maggiore o minore fedeltà verbatim che sono richieste nelle varie condizioni. Ad esempio, se ci si chiede di ricordare che tipo di attività stavamo svolgendo a una certa ora di un certo giorno, e la risposta non mette in gioco il nostro alibi per evitare un ergastolo immeritato, molto proba­ bilmente termineremo quasi subito la nostra ricerca in memoria, limi­ tandoci alla rievocazione degli script che solitamente guidano la nostra giornata (Schank, Abelson, 1977) , o a qualche altro tipo di memoria mol­ to generalizzata che può essere rintracciata attraverso cues specifiche. Così, se al termine delle vacanze un amico mi chiedesse cosa ho fatto un pomeriggio di un certo giorno, potrei rispondere fondendo diversi epi­ sodi tipici di quel periodo in un unico episodio sintetico che li com ­ prende tutti, cioè in un repisodio: quindi potrei dire che, dopo una nuo­ tata pomeridiana, ho accompagnato i ragazzi a prendere un gelato. Op­ pure potrei citare uno script, un'attività che sono solita fare pressappo­ co tutti i pomeriggi di vacanza, tipo la passeggiata sul molo per il rientro dei pescherecci. Normalmente, questo livello di accuratezza nella rievocazione po­ trebbe essere giudicato sufficiente sia da me sia dal mio interlocutore, e quindi non ci sembrerebbe necessario continuare ad approfondire la ri­ cerca in memoria. Ma, naturalmente, questo ragionevole livello di fidu­ cia nella bontà del ricordo non potrebbe escludere la possibilità che quel pomeriggio io non avessi affatto seguito le regole prowisorie della vita 115

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in vacanza, ad esempio perché proprio quel giorno una pioggia improv­ visa aveva costretto tutti a un acceso torneo familiare di Scarabeo: più che di un errore, tuttavia, in questo caso potremmo parlare di una man­ canza (socialmente accettata e condivisa) di approfondimento analitico dell'attività rievocativa. Al contrario, ci sono situazioni in cui la fedeltà parola per parola è essenziale: pensiamo allo sconcerto che provocherebbe, anche in una rappresentazione " da spiaggia " di una compagnia in tournée nella sta­ gione estiva per i teatri delle città di mare, un Amleto che, al posto del famoso monologo Essere o non essere, ci dicesse sbrigativamente: «In fin dei conti, sono un po' indeciso se suicidarmi o no». Oppure immaginia­ mo lo stupore di uno studente e del pubblico di amici e familiari che lo accompagnano se il presidente di una commissione di tesi gli dicesse sec­ camente, al termine della discussione del suo lavoro: «bene, lei è dotto­ re, avanti un altro». Quando dobbiamo recitare, nelle formulazioni rituali, nella rievoca­ zione delle parole di una filastrocca della nostra infanzia o del testo di una canzone, l'aspettativa condivisa è quella di una fedeltà verbatim, e ciò ci espone soprattutto a errori di intrusione, mentre la rilassata con­ versazione sul tema classico " come hai passato le tue vacanze" ci faceva sorvolare sulla precisione a favore di errori nati da un atteggiamento di eccessiva sintesi. Un altro tipo di errori per generalizzazione è il cosiddetto errore di scivolamento temporale (time slices) . In questo caso, l'errore consiste nel riferire un ricordo esatto a un altro contesto temporale. Ad esem­ pio, posso ricostruire la data di un certo evento collegandola al giorno in cui ho spedito un articolo; se però ho prodotto alcune edizioni suc­ cessive di quel lavoro, augurandomi ogni volta che quella fosse l' edi­ zione definitiva e aggiungendo poi invece ulteriori ritocchi, ciò po­ trebbe causare un errore riferito allo spazio temporale in cui colloco quel ricordo (Linton, 1982) . Questo tipo di errori potrebbe, anch'esso, essere in parte provoca­ to, sia pure in modo paradossale, dalla richiesta sociale di maggior det­ taglio (in questo caso temporale) . La passione per i gialli, che credo sia condivisa da alcuni lettori, ci fornisce a proposito molti facili esempi (pensiamo solo al problema della datazione di alcuni periodi " caldi " , per cui bisogna improvvisamente esibire una prova d i dove e con chi si era) . Al di là dello scherzo, esistono molti studi importanti sulle distor­ sioni sistematiche nella datazione e nella percezione della distanza tem­ porale (Larsen, Thompson , Hansen, 1995) ; più in generale, il fenomeno dei time slices (Brewer, 1988) sembra essere responsabile di molte im­ precisioni che passano del tutto inavvertite, per esempio nelle memorie II6

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di cui ci sembra di conservare un ricordo vivido e dettagliatissimo, le cosiddette flashbulb memories 2• 7·3

Gli errori per eccesso d'informazione

Una seconda, importante fonte di errore è collegata anch'essa a proces­ si cognitivi di tipo ricostruttivo, ma nasce non tanto da un difetto di informazioni, colmato con " riempitivi" più o meno sensati, quanto da un eccesso di notizie e di conoscenze. Ancora una volta, il tema del sé e dell'identità si riaffaccia come gui­ da potente del lavoro della memoria. Immaginiamo di voler ricostruire i nostri atteggiamenti o i nostri pensieri passati rispetto a un certo ogget­ to di conoscenza (pensiamo, ad esempio, a un collega che conosciamo da molto tempo) . Alcune ricerche empiriche hanno dimostrato che la memoria dei propri stati interni tende a svanire molto velocemente (Brewer, 1988 ) . Con molta probabilità, noi tenderemo quindi a ricostrui­ re le nostre valutazioni passate a partire da ciò che pensiamo attualmen­ te di quella persona, scambiando quest'inferenza sui nostri stati interni (tendenzialmente distorta verso una percezione di stabilità) per un ri­ cordo vero e proprio. Perciò, se il collega ci appare oggi apprezzabile penseremo di averlo sempre apprezzato; se abbiamo cambiato recente­ mente idea su di lui, penseremo di aver sempre avvertito che c'era qual­ cosa che non andava. In questo caso, veniamo tratti in inganno da una specie di illusione percettiva, simile all'illusione ottica del movimento autocinetico che ab­ biamo descritto in precedenza: in mancanza di un forte punto di riferi­ mento esterno, infatti, noi ipotizzeremo una coerenza di base nella no­ stra vita mentale, che molto raramente è simile a quanto accade in realtà. Da una parte, quest'errore in/erenziale nasce dal nostro bisogno di sen­ tirei in coerenza con noi stessi, secondo la nota ipotesi che pensa che la no­ stra cognizione sia guidata da una ricerca di equilibrio (Festinger, 1954) . D'altra parte, l'illusione di trovare un filo conduttore costante nei nostri pensieri e stati interni si collega strettamente con la tendenza, mol­ to difficile da combattere, a rileggere la nostra vita in modo organizzato e coerente, trasformandola da una successione spesso casuale di eventi e di reazioni in un insieme equilibrato e prevedibile di accadimenti stret­ tamente concatenati tra loro, in cui noi giochiamo più o meno sempre gli stessi ruoli. 2. Si tratta di memorie contraddistinte da un senso soggettivo di accuratezza e vivi­ dezza " eccezionale" , di cui tratteremo più in dettaglio nell'ottavo capitolo.

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Un'altra situazione in cui la memoria autobiografica può essere se­ riamente messa in difficoltà da un eccesso di informazioni è il caso del­ le informazionifuorvianti. Un esempio classico riguarda il caso in cui un modo tendenzioso di porre le domande, in un interrogatorio poliziesco o giudiziario, può alterare le risposte: infatti, il soggetto, in perfetta buo­ na fede, può integrare le nuove informazioni, ricevute con la domanda, nel quadro complessivo del suo ricordo. Così, se si mostra un filmato in cui si vede una macchina che, superato un segnale di curva pericolosa, investe un altro veicolo e, immediatamente dopo, si chiede alle persone cui è stato mostrato il film se hanno notato se il conducente si sia fer­ mato o meno davanti al segnale di stop, l'informazione fuorviante na­ scosta nella domanda tenderà a essere inserita nel ricordo del filmato, senza che il soggetto si renda conto della manipolazione subìta (Loftus et al. , 1989 ) . Più in generale, ciò richiama anche un'altra caratteristica del fun­ zionamento del ricordo, che è quella di disgiungere, dopo un certo tem­ po, i contenuti ricevuti dalla fonte che li ha trasmessi. Alcuni autori sono giunti a ritenere che la dz/ficoltà a monitorare la fonte informativa sia un meccanismo basilare di genesi di moltissimi er­ rori di memoria (per una rassegna, cfr. Hyman, 1998) . Dobbiamo aggiungere a quest'osservazione il fatto che noi stessi possiamo, con il passare del tempo, fornirci informazioni che si aggiun­ gono a quelle originali, e poi equivocarne la fonte, ritenendola contem­ poranea e non successiva all'evento: in questo caso, l'errore nel monito­ raggio della fonte si sovrappone al problema dell'orientamento tempo­ rale nel flusso ininterrotto della nostra stessa memoria, già messo in lu­ ce dai primi studi classici di Ribot (cfr. secondo capitolo) . Un modo per orizzontarci in questo fluire continuo dei ricordi sta nel­ la possibilità, più volte sottolineata da Ribot, di percepirne i punti di svol­ ta: che appaiono alla nostra consapevolezza non come prescelti arbitra­ riamente o ricostruiti, bensì con tutti i caratteri di un'evidenza percettiva. Queste prime osservazioni pionieristiche di Ribot si accordano alle posizioni di alcuni studiosi contemporanei: primo tra tutti Neisser, che si ricollega alle teorie percettive di Gibson per continuare a sviluppare la me­ tafora che accosta la memoria all'immagine di uno spazio da esplorare 3 • Analogamente a quanto sostiene Gibson per la percezione spaziale, Neisser ipotizza che la memoria autobiografica rispecchi spontaneamente 3 · Nel titolo di un capitolo del suo libro sulla memoria autobiografica, dedicato al­ la posizione teorica di Neisser, Conway sintetizza il punto di vista di queste teorie strut­ turali, dicendo che esse comunicano un'immagine della memoria come se parlassero di un paese sconosciuto (Conway, 1990a).

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(e non ricostruisca) alcune caratteristiche strutturali dell'esperienza, prima tra tutte la percezione immediata che un evento specifico sia incluso (ne­ sted) all'interno di un periodo di vita più ampio, simile alla capacità di per­ cepire che alcuni spazi sono inclusi in spazi maggiori che li contengono. La distorsione che enfatizza la continuità e la coerenza della memo­ ria autobiografica esprimerebbe dunque una naturale tendenza a rifug­ gire dall'assenza di dati conoscitivi e di memoria, così come ci si ritrae con orrore dal pericolo di sporgersi troppo sul vuoto: da qui la tenden­ za a riempire tali mancanze con informazioni tratte da altre fonti, rico­ struzioni, inferenze, in breve con ogni materiale adatto a dar vita a una "buona forma" del ricordo, che molto spesso si sovrappone e si confon­ de con la nostra valutazione soggettiva di accuratezza. In molte situazioni concrete, dunque, si verrebbe a creare una con­ vergenza tra la tendenza naturale della memoria a rifuggire dal vuoto e dall'incompletezza cognitiva, da un lato, e le attese sociali (che possono tradursi talvolta in vere e proprie costrizioni percettive) riguardo al for­ mato con cui dev'essere espresso il ricordo, dall'altro. Ad esempio, immaginiamo che, nel corso di una ricerca, un intervi­ statore ci chiedesse se ricordiamo il momento in cui abbiamo appreso un'importante notizia della vita pubblica passata del nostro paese. In questo caso, noi potremmo subito vederci davanti al televisore o al gior­ nale del mattino, a seconda del modo in cui usualmente ricerchiamo le informazioni: risponderemmo cioè alla richiesta con uno script (Schank, Abelson, 1977) , abbastanza credibile e soddisfacente, che potrebbe con­ cludere velocemente la nostra ricerca in memoria, a meno che non ci fos­ sero altri motivi che ci spingessero a una ricerca più accurata. Tuttavia, anche se il ricercatore non ci avesse chiesto esplicitamente di ricordare il momento in cui abbiamo appreso la notizia, ma solo di commentarla in senso generale, noi potremmo produrre una risposta ab­ bastanza simile. Potremmo, infatti, iniziare le nostre considerazioni sul­ la notizia esordendo con la storia di come l'abbiamo appresa: e una del­ le costrizioni delle storie è appunto quella di fornire, solitamente al suo inizio , un'informazione contestuale (dove eravamo, con chi, che cosa stavamo facendo) 4• In questo caso, la fonte della distorsione di memo­ ria sarebbe collegata non tanto al superapprendimento di una sequenza routinaria di azioni (fare colazione leggendo il giornale quotidiano, o ra4· In effetti, ciò è quanto è effettivamente accaduto nelle risposte a un questionario in cui chiedevamo alle persone di rievocare il loro ricordo delle dimissioni del giudice Di Pietro; ancora prima della domanda specifica sul ricordo del contesto particolare in cui avevano appreso la notizia, molti hanno prodotto spontaneamente queste informazioni, per introdurre la narrazione del loro ricordo dell'evento (Bellelli, 1 9 9 9 ) .

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dersi ascoltando le notizie alla radio) , quanto alla costrizione legata alla struttura convenzionalmente attesa nelle storie, forse una delle fonti più pervasive di errore, quando dobbiamo evocare una memoria relativa a un episodio o a un periodo specifico della nostra vita. 7·4

Gli errori nelle storie

Una potente fonte di distorsioni nella memoria autobiografica riguarda, infatti, il processo che trasforma i ricordi in storie. Tutti noi abbiamo no­ tato che, quando siamo sollecitati a descrivere verbalmente un nostro ri­ cordo (ad esempio, descrivere a parole l'immagine di un dipinto a un amico che non ha potuto accompagnarci a una mostra) ciò può com­ portare una sorta di "oscuramento " del ricordo iniziale. Questo processo diviene massimo nel caso delle narrazioni in cui, come abbiamo visto più diffusamente nel capitolo precedente, il recu­ pero in memoria è in parte forzato da alcune costrizioni. Ognuna di que­ ste costrizioni, dunque, può tramutarsi in occasione d'errore. La prima fonte di errore è legata alla costrizione che prevede che una storia fornisca una connessione temporale tra elementi (cioè che ci infor­ mi sul quando, sul prima e il poi, e dunque anche sui possibili legami causali che possono essere desunti da questo ordinamento temporale) . È un'occasione importante d i errore, perché quest'ordinamento tempo­ rale (e causale) può essere inconsapevolmente " ritoccato " , a seconda del significato complessivo attribuito a posteriori all'evento. La seconda fonte di distorsione è legata alla " densità" di frasi che servono per comporre la narrazione: ciò evidentemente si presta sia a er­ rori di sintesi (condensazioni, convenzionalizzazioni ecc.) sia a errori di intrusione (si pensi solo al caso dell'immissione nel racconto di partico­ lari che in realtà sono stati suggestivamente suggeriti dalle domande dei propri interlocutori) 5• Infine, un'occasione rilevantissima di distorsione si collega con le tre funzioni tramite cui il narratore organizza lo svolgimento della storia: to­ rientamento contestuale (chi, dove, quando) , lo spostamento del centro re­ /erenziale della storia (cosa è effettivamente accaduto) e soprattutto Fa­ spetto valutativo, cioè quell'accentuazione affettiva che porta alla " mo­ rale" , implicita o esplicita, che si può trarre dal racconto e che in fin dei conti è l'aspetto che più influenza chi ascolta la storia (Paolicchi, 1994) .

mors

5. È da notare che una delle spiegazioni classiche del fenomeno dei pettegolezzi ( ru­ ) si basa appunto su un'estensione della teoria delle riproduzioni ripetute in condi­

zioni sociali di Bartlett (Benvenuto, 2ooo) .

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Come sempre, infatti, la distorsione della memoria autobiografica non può essere disgiunta dall'effetto pragmatico ottenuto dalla distorsio­ ne stessa. Molto spesso, questa distorsione ha un fine prevalentemente socia­ le, che è quello di rispondere alle attese e ai bisogni della situazione spe­ cifica in cui la storia è spesa. Al testimone si chiede di essere sintetico, preciso e sicuro di sé; al conversatore di essere divertente e faceto; al nonno di raccontare in modo affettuoso ed evocativo. Nella regione me­ ridionale da cui provengo, ad esempio, c'è l'uso di alternarsi per circa una settimana nella casa della famiglia che ha avuto un lutto, raccontan­ do storie che hanno per protagonista il defunto e che debbono avere un tono particolare: né troppo elogiativo (si potrebbe pensare che il morto avesse qualcosa da nascondere) né troppo divertente (anche se sovente in questi racconti le lacrime si mescolano al riso) . Dal principio alla fine della nostra vita, dunque, siamo circondati da storie, e in esse il passato viene riprodotto e distorto quanto basta per as­ sicurare il buon funzionamento della rete sociale. Ma, oltre a ingannare gli altri e ad assicurare una buona accettazio­ ne sociale, le distorsioni della memoria possono realizzare anche il fine pragmatico, molto particolare, di ingannare pure noi stessi. È il caso dei falsi ricordi autobiografici che non riguardano particolari tutto somma­ to poco rilevanti per la nostra vita personale (simili alle famose ricerche di Neisser e Harsch, 1992, sul ricordo delle circostanze in cui si era ap­ preso il disastro del Challenger) , ma aspetti e periodi determinanti per il proprio destino futuro: come nella controversia, per molti versi irrisol­ vibile, che circonda il problema dei ricordi di violenze e abusi subìti nel­ la prima infanzia, e riemersi durante una psicoterapia. 7· 5 I macroerrori nella memoria autobiografica: il caso del recupero delle memorie traumatiche

L'interrogativo drammatico posto alla nostra coscienza dalla memoria autobiografica dei traumi infantili, riportati in luce dalla terapia psico­ logica, mostra con una tragica evidenza come le distorsioni nei ricordi non siano solo la conseguenza di processi cognitivi piuttosto elementa­ ri, riproducibili a volontà dagli studi più creativi, con il loro gioco in fin dei conti piuttosto innocuo di sovrapposizioni o di scivolamenti. La po­ sta in gioco e il significato complessivo di queste trasformazioni ci aiuta a comprendere che a volte il giudizio sull'accuratezza di una rievocazio­ ne non può essere disgiunto dal problema più profondo della responsa­ bilità di credere a una versione piuttosto che a un'altra. 121

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L'aspetto irrisolvibile di questi ricordi recuperati è che, qualsiasi sia la nostra scelta finale, noi non potremo mai sciogliere il dubbio di aver danneggiato qualcuno: o la persona che ha improwisamente ricordato la violenza subìta che, oltre che riviverla, deve subire l'umiliazione di es­ sere condannata ancora una volta a una sofferenza solitaria; o il familia­ re ingiustamente accusato, che non è riuscito a difendersi da un'accusa terribile e infamante. Non stupisce, quindi, che quest'argomento abbia scatenato polemi­ che accesissime nel campo degli studiosi della memoria, oltre a dar vita a movimenti sociali specifici, come la famosa False Memory Syndrome Foundation, un'associazione che riunisce i familiari che si proclamano vittime di una falsa accusa da parte dei terapeuti che hanno raccolto i ri­ cordi di abusi passati, riemersi nel corso del trattamento psicologico dei loro congiunti. Non possiamo ripercorrere, in queste pagine, l'impo ­ nente letteratura che, a partire dai lavori classici di Freud, ha analizzato il concetto di rimozione e le sue conseguenze sia nell'ambito terapeuti­ co sia in quello della ricerca. Al di là degli scambi polemici 6, uno dei contributi più interessanti che ci sembra che la ricerca abbia dato alla comprensione di situazioni così drammatiche è l'individuazione della procedura che può portare a " co­ struire" una memoria che, nell'assoluta buona fede di chi ricorda, è in realtà anch'essa frutto di un'illusione del sistema mnestico. Tra le molte riflessio­ ni in proposito pubblicate nel corso degli tÙtimi anni, ci rivolgiamo anco­ ra una volta al bel contributo di Hyman (1998) , già citato in precedenza. Anche sulla scorta di numerosi dati di ricerca, che egli passa in rasse­ gna nel contributo citato, Hyman descrive una specie di percorso a tre tap­ pe che porta alla creazione di ricordi riconosciuti come propri dai parte­ cipanti alla ricerca, ma in realtà totalmente " creati" dal ricercatore stesso. Il primo passo riguarda la plausibilità: per essere inclusa nel novero delle memorie di cui si è certi, anche la memoria inventata dev'essere si­ mile all'insieme dei ricordi già posseduti dai soggetti. Nessun ricerca­ tore potrebbe mai indurmi a credere di essere stata sgridata da piccola per aver rovinato un rossetto di mia madre, perché nessuna delle don­ ne della mia famiglia (né mia madre, né le mie nonne) ha mai usato in vita sua nient'altro che un po' di cipria; il ricordo sarebbe perciò del tut­ to privo di plausibilità, una qualità che viene valutata a priori, ancor pri­ ma di entrare nelle caratteristiche specifiche del ricordo in questione. Notiamo, in margine a queste considerazioni, che questa mancanza di plausibilità, unita alla difficoltà a seguire le costrizioni narrative classi6 . Per una discussione su come affrontare gli aspetti etici di tale tema di ricerca, ci sem­ brano particolarmente interessanti le posizioni di Neisser (1994) e di Lindsay e Read (1994) .

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che (Barclay, 1995) , è spesso una delle ragioni per cui ricordi particolar­ mente drammatici per chi li racconta provocano, in chi li ascolta, non la prevista e necessaria empatia ma solo imbarazzo e incredulità: valga per tutti l'esempio dei primi racconti dei sopravvissuti alla Shoah. Il secondo passo mette in gioco la presenza di un'immagine menta­ le. Se convinciamo una persona a discutere con noi o a immaginare una situazione o un episodio che non hanno mai avuto luogo nella realtà, co­ minciamo a creare una rete di contenuti mentali che potranno essere re­ cuperati in seguito, con una forte difficoltà a distinguerli dalle memorie vere e proprie. Più in generale, generare materiale che all'inizio appare chiaramente non vero (sogni, storie) può condurre tuttavia, a distanza di tempo, a dei falsi riconoscimenti particolarmente forti, per la codifica più vivida che questo materiale ha avuto all'inizio, essendo stato pro­ dotto dal soggetto stesso (Mazzoni, Vannucci, 1998) . Il terzo passo indispensabile per la creazione di false memorie auto­ biografiche è la dz//icoltà nel monitorare quale sia la nostra /onte informa­ tiva (per una rassegna, cfr. Johnson, Hashtroudi, Lindsay, 1993 ) . Anche questa difficoltà fa parte in realtà della nostra esperienza quotidiana. Se ci fermiamo a riflettere brevemente, potremo constatare che solo una pic­ cola parte delle informazioni che sottoponiamo a elaborazione deriva da una nostra esperienza diretta. Nessuno di noi era là quando Garibaldi partì da Quarto coi Mille; molto di ciò che so sulla vita altrui deriva da cose che mi sono state dette e cui non ho assistito di persona; in realtà, anche molto di ciò che so della mia vita deriva da cose che mi sono state dette da altri: ad esempio, che ho iniziato a parlare solo verso i due anni, dopo aver fatto impazzire familiari e dottori sul perché del mio silenzio (abbondantemente compensato dalle chiacchiere successive) . Come si vede, la costruzione di un falso ricordo autobiografico im­ plica la coordinazione di diversi meccanismi cognitivi, già passati in ras­ segna precedentemente. Questi passaggi successivi ci permettono, come in una famosa immagine proposta da Halbwachs, di saltare da un tron­ co all'altro, fino ad attraversare senza cadere il fiume che divide le vere dalle false memorie: ed è proprio l'elasticità e la malleabilità dei nostri processi di memoria, che contribuisce alla loro potenza, a spiegare an­ che la loro fallibilità. 7· 6

Inganno o rielaborazione creativa?

Se la procedura di ricerca sperimentata dall'autore riesce a creare veri e propri falsi riconoscimenti, ciò che ci sembra più degno di nota non è tanto l'eleganza metodologica, pure impeccabile, di questi lavori, quan1 23

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to la loro capacità di mostrare che la radice che dà linfa alla fragilità del­ la memoria autobiografica è la stessa che ne origina la forza e l'origina­ lità. Infatti, una memoria senza errori, una memoria pura copia del pas­ sato, ci sarebbe in fin dei conti inutile, se non controproducente. Un altro punto che Hyman sottolinea nel suo lavoro, e che si avvici­ na al focus principale del nostro libro, è il fatto che la forza ricostruttiva e trasformativa della memoria si esprime soprattutto come una mallea­ bilità sociale. Prendendo in prestito uno stile espositivo molto suggesti­ vo, legato a una rappresentazione del mito delle nostre origini, egli pro­ pone una narrazione di pura fantasia, in cui propone speculativamente di considerare la memoria socialmente condivisa come una specie di marcato re d'appartenenza sociale, indispensabile per la sopravvivenza nelle condizioni precarie di vita dei nostri progenitori (aggiungiamo sommessamente a questa spiritosa proposta di Hyman che forse l' ap­ partenenza non ha mai cessato di essere una risorsa indispensabile per la sopravvivenza, anche per le nuove precarietà e nei recenti pericoli della nostra condizione più " civilizzata" ) ; ciò spiegherebbe, ad esempio, se­ condo l'autore, perché i bambini siano i più suggestionabili a queste ma­ nipolazioni sociali dei ricordi. Queste considerazioni si possono riassumere nella constatazione più generale che la fallibilità della memoria è l'altra faccia della sua potenza ristrutturante. Questo però non ci può esimere da una riflessione sulla veridicità dei ricordi stessi. In fin dei conti, se la memoria fosse non par­ zialmente ma totalmente falsificabile, cesserebbe di essere una risorsa d'adattamento alle nuove necessità che via via la vita può presentarci, e diventerebbe una vera e propria trappola (per una discussione, cfr. Neis­ ser, 1994; Belli, Loftus, 1995) . E questo non solo per la sopravvivenza del­ l'individuo, che non sarebbe in grado di apprendere efficacemente, ma anche per la sopravvivenza del patto sociale. Ciò che con facilità viene dimenticato nelle teorie della memoria - a causa della prevalenza di modelli individualizzati della mente - è, infat­ ti, che i ricordi svolgono un ruolo per la sopravvivenza non solo delle persone, ma anche dei gruppi. Un gruppo che rinnega o falsifica i propri ricordi, dunque, anche se ne ottiene un vantaggio nel breve periodo, si espone tuttavia a un grave rischio futuro, perché perde una risorsa di apprendimento che, non tra­ mandata o tradita, esaurisce con la fine della vita degli individui che ne furono testimoni tutta la sua potenzialità protettiva. Torneremo ancora su quest'argomento, più ampiamente, al termine del prossimo capitolo, che tratta appunto dei rapporti tra memoria individuale e memoria di gruppo, e soprattutto, dato il tema del nostro libro, dei legami tra me­ moria autobiografica e storia della propria comunità. 1 24

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Il posto della storia nei ricordi autobiografici

Un dato che molto spesso ci sfugge è che la nostra storia personale è in­ serita in una storia più complessiva: cioè che, malgrado la sensazione soggettiva per cui, per esprimerci con le parole del poeta Sandro Penna, «ciascuno nel suo cuore è un immortale», in realtà la nostra vita inizia e finisce in un ciclo storico che ci modella e ci trascende. La consapevolezza dei rapporti tra la memoria autobiografica e la memoria storica emerge solo raramente nel corso della nostra vita: ad esempio, in condizioni storiche estreme, in cui, secondo un noto slogan delle rivolte studentesche del 1968, «se pure noi non vogliamo occu­ parci della storia è la storia che si occupa di noi»; oppure in fasi di ac­ celerato cambiamento, in cui possiamo avvertire con chiarezza che le situazioni storiche cui siamo abituati non resisteranno ancora a lungo ; oppure nel caso di qualche avvenimento pubblico che ci sembra im­ mediatamente significativo o che, spesso riproposto nel corso delle conversazioni quotidiane, finisce per imporsi alla nostra riflessione privata. Poiché il tema del rapporto tra memoria autobiografica e memoria storica si pone al confine tra discipline diverse, viene trattato raramen­ te e con una certa circospezione: sia gli psicologi sia gli storici avverto­ no, infatti, di muoversi in un campo di lavoro che è solo parzialmente il proprio. Evidentemente, queste distinzioni sono funzionali alla divisione del lavoro tra le discipline, ma non rispecchiano affatto quello che accade nella vita reale. Nessuno potrebbe vivere tutta la propria esistenza sen­ za cercare di comprendere le caratteristiche del momento storico in cui vive: non si tratta solo della curiosità di un " dilettante della storia " , quanto della necessità impellente di comprendere e di prevedere il mon­ do in cui si vive, per garantirsi la sopravvivenza e per interpretare il sen­ so complessivo della propria esistenza. Anche questa volta, le rappresentazioni della realtà sviluppate in di­ versi linguaggi artistici ( drammaturgici , letterari, cinematografici) ci 125

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possono essere di aiuto per introdurre la descrizione dei fenomeni che cerchiamo di esaminare. Consideriamo dunque qualche esempio cele­ bre, che può fornirci spunti utili per impostare la nostra riflessione. 8.I Tre esempi

Il primo personaggio, che ci mostra il rapporto tra memoria autobio­ grafica e memoria storica per così dire " in negativo" , cioè nella situazio­ ne in cui nella memoria individuale è completamente assente la consa­ pevolezza storica, è il bambino Useppe, protagonista di un libro di Elsa Morante, La storia. Il tema centrale di questo libro è il contrasto tra la storia delle gran­ di potenze e l'esistenza minuta, apparentemente insignificante, dei tanti esseri che non possono giocare alcun ruolo attivo nel determinare le scel­ te che segnano il percorso della Storia con la esse maiuscola. Evidentemente, questa suddivisione tra livelli d'analisi ma ero e mi­ ero è solo una provocazione: Elsa Morante vuole invece sottolineare l'importanza di questi protagonisti anonimi, e lo fa creando una storia (con la lettera minuscola) di un piccolo gruppo di persone, prive di ogni forma di potere, travolte dalle vicende della seconda guerra mondiale. Personaggio centrale all'interno di questo romanzo d'impianto co­ rale, che descrive un ambiente culturale e sociale specifico (il popolare quartiere San Lorenzo, vittima di un aspettato e terribile bombarda­ mento che negava la condizione di " città aperta " di Roma) è un bam­ bino, nato per caso dallo stupro di una giovane maestrina italiana da parte di un soldato tedesco. Il bambino, Giuseppe, viene accolto con amore da tutte le persone del suo ristretto nucleo sociale: la madre, il fratello maggiore, che per primo rompe la consegna materna di tener­ lo nascosto e gli fa scoprire il mondo minuscolo degli spelacchiati pra­ ti vicino casa, le persone del quartiere che subito lo proteggono e im­ parano ad amarlo. E, in effetti, il bambino Useppe (come lui stesso si chiama e come tutti gli altri decidono di chiamarlo) è, come tutti i bam­ bini, un miracolo di intelligenza e di vitalità; ma malgrado tutto sarà tra­ volto dalla storia, da cui tutta la sua vicenda personale è stata segnata, dalla sua entrata clandestina nel mondo fino alla sua morte, ingiusta e inosservata. Il personaggio di Useppe simboleggia tutti coloro che hanno vissu­ to la storia a loro insaputa, subendone solo le conseguenze senza poter­ la capire né padroneggiare: è dunque un esempio di una situazione in cui si uniscono due condizioni di svantaggio importanti: la mancanza di po­ tere e la mancanza di conoscenza. 126

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La condizione infantile appare particolarmente adatta a rappresen­ tare l'associazione di queste due condizioni di svantaggio. Esistono tut­ tavia anche situazioni della vita adulta in cui la memoria autobiografica sembra prescindere da un inquadramento nella situazione storica con­ temporanea: si tratta delle situazioni dei gruppi sociali marginali, segna­ ti da una cronica insufficienza del flusso di informazioni che a noi sem­ bra così usuale. La nostra vita quotidiana, infatti, è scandita da alcuni " riti informa­ tivi " : i telegiornali o i radiogiornali, la lettura dei quotidiani, la discus­ sione politica con gli amici o i colleghi di lavoro. Ma questa quotidia­ nità non può farci dimenticare che ci sono molte persone che vivono al di fuori di questo flusso di notizie, in una condizione di esclusione e di marginalità. Un secondo famosissimo libro italiano, Il Gattopardo, ci serve come esempio di un diverso rapporto tra memoria autobiografica e memoria storica. Com 'è noto, il libro descrive le amare e disincantate riflessioni dell'appartenente a una élite di potere, che vede con chiarezza come tut­ to il mondo culturale in cui è stato allevato e di cui egli stesso è un sim­ bolo, sia ormai prossimo a dissolversi. Il Principe di Salina, protagonista del romanzo, assiste, con apparente indolenza, all'arrivo dei piemontesi e dei garibaldini nelle sue terre siciliane; prende benevolmente in giro il suo aiutante di caccia che non riesce a rassegnarsi allo stravolgimento del precedente equilibrio sociale e all'ascesa dei personaggi più compro­ messi e ambigui; guarda con approvazione divertita il suo cinico e affa­ scinante nipote, che abbraccia con irruenza le posizioni dei garibaldini e abbandona la sua scialba figlia per sposare la bellissima figlia di un ar­ rampicatore sociale; spiega all'ingenuo inviato del governo piemontese che tutto sta cambiando perché niente cambi in realtà, secondo una leg­ ge immutabile della vita della sua isola. Tuttavia la filosofica accettazio­ ne del cambiamento storico, la divertita profezia che tutto cambierà af­ finché nulla cambi, non vela agli occhi del Principe che il suo mondo cul­ turale è ormai finito. Rispondendo all'insistente invito dell'inviato pie­ montese che, sinceramente ammirato della sua statura intellettuale e so­ ciale, gli propone di candidarsi come rappresentante siciliano al gover­ no, il Principe motiva il suo rifiuto con la consapevolezza che il modo con cui egli concepisce la vita e il mondo è oramai inutilizzabile. Rife­ rendosi al suo simbolo araldico, in cui è rappresentato un Gattopardo, il Principe dice: «Non è più tempo di Gattopardi. Ora è il tempo delle iene». Questa frase è l'unica dichiarazione che esplicita il tono malinco­ nico di tutto il libro, perché la nobiltà del Principe gli impedisce di pro­ testare apertamente contro la sua decadenza. Nel caso del Gattopardo, la situazione rappresentata appare speculare a quella descritta nella Sto1 27

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ria di Elsa Morante: qui il protagonista dispone sia di informazioni sia di influenza sociale, ma questa consapevolezza non fa che acuire la sua ma­ linconia per un cambiamento storico che gli appare inevitabile e porta­ tore di un futuro meno prevedibile e più grigio. In questo caso, la co­ struzione della memoria autobiografica del personaggio è tutta intrisa di questa consapevolezza, che prende l'aspetto di un cambiamento nell'at­ mosfera emotiva generale, di un intrecciarsi indissolubile tra il suo de­ stino personale e il destino del suo mondo sociale. L'ultimo esempio di cui ci serviamo è tratto invece dal cinema: è un film franco-libanese uscito nel 1998 per la regia di Ziad Douriri, intitola­ to West Beyrouth, in cui si descrive l'inizio della guerra civile a Beirut, così com'è vissuto da un ragazzo liceale e dalla sua famiglia. Il ragazzo è figlio di due giovani intellettuali, vive in un clima familiare sereno e scherzoso e frequenta un liceo francofono della città, come la gran par­ te dei figli della classe dirigente del Libano. Partecipa con impertinenza e spiritosamente al movimento informale di protesta degli studenti, che schernisce l'uso della lingua francese e propone l'uso della lingua araba: ma la sua protesta è poco più di uno scherzo, accolto con intelligente tol­ leranza dai genitori. In questo clima socialmente privilegiato e protetto, lo scatenarsi della guerra civile provoca uno sconvolgimento profondo, che fa risaltare alla lunga la forza morale e la coesione della famiglia, ma trasforma irrimediabilmente l'evoluzione del ragazzo, consegnato dalla durezza degli eventi a un'improvvisa ma necessaria maturità. Tutto il film è visto con gli occhi dell'adolescente e dei suoi compagni: ragazzi informati, culturalmente privilegiati, che la storia costringe a "bruciare le tappe" . La vicenda del film è racchiusa nell'intervallo temporale in cui si compie questa maturazione affrettata, delimitato da due episodi sim­ bolici. Nel primo episodio, che apre il film , il ragazzo assiste per caso, da una finestra del suo liceo , all'uccisione di alcuni civili: è l'inizio della guerra, ma l'unica cosa che il protagonista e i suoi amici capiscono è che ciò comporterà una lunga chiusura della scuola. L'emozione conseguen­ te che anima tutti gli studenti è l'esultanza. Nell'episodio conclusivo del film, il padre e il figlio assistono dal balcone alla festa organizzata da al­ cuni vicini, in spregio al pericolo della guerra civile; il padre, con affet­ to e incoraggiamento, chiede al figlio di esprimere il suo più forte desi­ derio e il ragazzo mormora malinconicamente: andare a scuola domatti­ na. È l'addio, pieno di nostalgia, a una stagione della vita che egli sa de­ finitivamente perduta. Il film che abbiamo scelto esemplifica una situazione speciale per lo sviluppo della memoria autobiografica: la fine dell'adolescenza, l'entra­ ta nella vita adulta, in cui la situazione sociale e storica non è più lo sfon­ do esterno alla vita privata, qualcosa che tutti ritengono giusto celarci. 128

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Come abbiamo già visto più diffusamente nel quarto capitolo, al termi­ ne dell'adolescenza, l'ambiente sociale in cui il giovane adulto è inserito comincia ad aspettarsi da lui anche una maturità civile: sempre più fre­ quentemente la persona è ammessa alla discussione su temi pubblici, è sollecitata a esprimere pareri o a prendere posizione, è integrata in quel­ la invisibile rete di comunicazioni sulla vita pubblica che forma l'equi­ valente degli scambi che dovevano svolgersi nell'antichità nel Foro ro­ mano o nelle agorà greche. Se in questo periodo, particolarmente critico per la formazione del­ la conoscenza sulla vita pubblica, le persone entrano in contatto con condizioni storiche caratteristiche, come nel caso drammatico mostrato dal film libanese, ciò causa il formarsi di un tipo di memoria e di consa­ pevolezza della vita pubblica che diviene distintivo di quel gruppo ge­ nerazionale, e che contribuirà, al di là delle scelte personali, alla costru­ zione di un'identità sociale condivisa. 8.2 Vittime, protagonisti, testimoni: tre prospettive da cui guardare al rapporto tra memoria autobiografica e storia

Ci siamo serviti di questi esempi, tratti dalla letteratura e dal cinema, per mostrare tre diverse prospettive da cui guardare al rapporto tra memo­ ria autobiografica e storia. Nella prima prospettiva, l'elemento centrale nella descrizione del rapporto tra memoria e storia è la mancanza di potere di chi vive la sto­ ria; ciò esalta il suo ruolo di modellamento della vita dei singoli, che in fin dei conti possono solo subirla. Gli esempi che abbiamo portato si ri­ feriscono a situazioni storiche drammatiche, in cui le persone descritte sono, in modo più o meno consapevole, vittime di avvenimenti più grandi di loro. Anche in situazioni meno drammatiche, tuttavia, la no­ stra vita mentale può apparirci dipendente dalla situazione storica in cui viviamo. In un suo lavoro critico molto noto, Gergen (1973) ha proposto di considerare l'ipotesi che tutta la psicologia sociale non sia in fondo che la descrizione del mutare dell'interpretazione del mondo, a seconda del periodo storico considerato. Pensiamo al libro che viene spesso citato come illustre precursore della letteratura d'approfondimento dei processi psicologici: cioè Le confessioni di Sant'Agostino. A una lettura odierna, questo testo po­ trebbe essere considerato come un'autorevole anticipazione della lette­ ratura di tipo autobiografico: ma certo questa prospettiva sarebbe suo­ nata abbastanza assurda all'autore, che non aveva intenzione di descri1 29

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vere i suoi processi psicologici fondamentali, quanto di mostrare ai suoi lettori la potenza dell'opera trasformativa della grazia divina. Se volessi­ mo sintetizzare in uno slogan questo mutamento di mentalità storica, po­ tremmo dire che il protagonista delle Confessioni è, per noi, Sant'Ago­ stino; ma, per Sant'Agostino, è Dio. Nel campo della ricerca, l'attenzione all'inquadramento storico dei processi psicologici ha dato vita a importanti filoni di studio. Il primo è quello che considera i processi di costruzione storica della banalità, tramite cui concetti storicamente determinati si trasformano in dati " owi " e "naturali" . Un esempio molto interessante di questo tipo di ricerca è l'analisi condotta da Billig sulla formazione del concetto "ba­ nale" di nazionalismo nella società nord -americana. Questa " owietà " si basa in realtà su una fitta rete di azioni collettive, ripetute in momenti strategici della vita sociale: come l'uso di ostentare la bandiera lflagging) nel corso di situazioni diversissime (all'inizio di ogni giornata scolastica; durante la sigla introduttiva dei notiziari; nella presentazione dei pugili, prima che inizino gli incontri di box ecc. ) (Billig, 1995) . Un secondo esempio di teoria psicologica che può essere inserita in questa prospettiva riguarda la descrizione dei processi di ancoraggio e ag ­ gettivazione, alla base delle rappresentazioni sociali che formano le nostre " teorie dilettanti" (Moscovici, Hewstone, 1983) sulla realtà sociale. L'an­ coraggio è finalizzato a collegare un aspetto nuovo e sconosciuto della vita sociale con aspetti ben noti e padroneggiati: come, ad esempio, quando ci spieghiamo la novità della pratica sociale della psicoanalisi, di­ cendoci che, in fin dei conti, non è altro che una nuova riedizione della pratica secolare della confessione (Moscovici, 1961 ) . L'aggettivazione, in­ vece, è finalizzata a sostituire un complesso insieme di considerazioni astratte con un'immagine concreta, che suona molto più familiare. Quando, ad esempio, cerchiamo di spiegarci l'insieme dei processi che governano la vita di un'organizzazione statuale, che richiederebbero in realtà un complesso approfondimento concettuale di tipo storico, eco­ nomico e politico, possiamo aggirare l'ostacolo della nostra scarsa com­ petenza descrivendo la società come una specie di enorme corpo che, al pari del corpo umano, può ammalarsi e diminuire l'efficienza dei suoi processi vitali. Secondo i teorici delle rappresentazioni sociali, il fine di questi pro­ cessi è quello di familiarizzare gli aspetti nuovi e inconsueti della vita so­ ciale e culturale, convincendo le persone della saggezza dell'espressione biblica per cui "non c'è mai niente di nuovo sotto il sole" Q"odelet, 1989 ) . I n sintesi, l a prospettiva teorica descritta in questi esempi h a il pre­ gio di mostrare come processi mentali, ritenuti "basilari" , siano in realtà influenzati dal contesto storico molto più di quanto crederemmo; ma ha 13 0

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lo svantaggio di considerare i processi psicosociali completamente di­ pendenti dai mutamenti storici e quindi fondamentalmente indistingui­ bili da essi. Questo svantaggio è parzialmente corretto dalla seconda prospetti­ va, in cui la persona viene vista, invece, come attivamente impegnata a comprendere il significato e la direzione di sviluppo del proprio perio­ do storico, e non solo a subirlo inconsapevolmente. In questa prospetti­ va, la conoscenza del periodo in cui si vive fa parte integrante dei com­ piti conoscitivi dell'individuo adulto che, al pari di uno " storico dilet­ tante" , costruisce una mappa degli eventi e delle trasformazioni storiche più importanti che ha incontrato nel corso della sua vita. All'interno di questa prospettiva possiamo situare gli apporti di un importante campo di ricerca, focalizzato a comprendere i processi che portano alla creazione di quei ricordi episodici che permangono nella nostra memoria in modo particolarmente vivido e durevole, conservan­ do anche i particolari più minuti del contesto in cui si sono svolti. Si tratta di ricordi che sembrano sfuggire alla legge generale della memoria, per cui i dettagli irrilevanti di un evento sono destinati a de­ cadere prontamente, mentre quello che viene conservato è una specie di sintesi del "succo " dell'esperienza. In questo caso, al contrario, la per­ sona è sicura di ricordare perfettamente anche i dettagli più insignifi­ canti: cosa stava facendo, chi altri era presente, dove si era ecc. In sinte­ si, questi ricordi conservano tutti i particolari contestuali di un determi­ nato momento, come se fossero una vera e propria fotografia di quel ­ l' attimo. Per questo motivo, gli studiosi che per primi proposero l'ipo­ tesi di una differenza qualitativa tra questo tipo di ricordi e i ricordi usuali (Brown, Kulik, 1977) li denominarono ricordi al lampo di magne­ sio (/lashbulb memories) , per analogia con quelle istantanee scattate con i vecchi flash, in cui le persone venivano fermate nell'attimo in cui fissa­ vano sbalordite quella luce improvvisa e accecante. In realtà, ancora prima che Brown e Kulik le riproponessero all' at­ tenzione degli studiosi, questo tipo di memorie, di prolungata durata temporale e su cui i soggetti erano estremamente sicuri di ricordare be­ ne, erano già state notate dalle prime ricerche descrittive della fine del­ l'Ottocento. Lo stesso Colegrove (1899) aveva osservato come i soggetti da lui intervistati conservassero, a distanza di molti anni, un ricordo di­ stinto del momento in cui avevano appreso della morte di Abraham Lin­ coln. Una delle caratteristiche di questi ricordi, infatti, è quella di ri­ guardare spesso un momento specifico della vita di un soggetto, in cui egli apprende una notizia inattesa e di grande impatto emotivo, perché in grado di cambiare il corso della sua vita personale, o della comunità so­ ciale cui appartiene. 13 1

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Riproponendo all'attenzione degli studiosi questo tipo di ricordi, Brown e Kulik avanzarono l'ipotesi che essi fossero prodotti da un meccanismo straordinario di codifica in entrata, che registrava indi­ scriminatamente tutti i particolari, anche quelli più minuti. Essi im ­ maginarono che questa codifica eccezionalmente accurata fosse il re­ siduo di un meccanismo arcaico (per cui coniarono il nome, in verità abbastanza moderno, di Now print/) . Pensavano, infatti, che i nostri progenitori, in presenza di una situazione di grande pericolo o co­ munque dalle conseguenze rilevanti, non potendo contare su nient' al­ tro che sulla loro memoria, " si imprimessero " nella mente nel modo più fedele e completo possibile la situazione, per potere essere mag­ giormente pronti ad affrontarla qualora si fosse ripresentata. Come si vede, un 'ipotesi che lasciava aperti molti margini di dubbio : perché questo tipo di meccanismo, sia pure esistente, sarebbe molto difficile da cogliere con strumenti tutto sommato superficiali come un que ­ stionario (Bellelli, 1999) ; perché una situazione rischiosa va afferrata in quello che ha di più generale, e che quindi si ripeterà anche nel futu ­ ro, piuttosto che nei suoi particolari più minuti e insignificanti (Hy­ man, 1998 ) . Al di là della validità della formulazione di questa prima ipotesi di Brown e Kulik, ci si è chiesti se la sicurezza soggettiva della loro ecce­ zionale accuratezza rispecchiasse una loro reale differenza qualitativa dagli altri ricordi, o se invece non si trattasse di un'illusione e non fosse­ ro anch'essi esposti, come tutti gli altri, al decadimento e alla rielabora­ zione successiva. Gli studiosi schierati a favore della fiducia soggettiva nella loro fe­ deltà aderivano all'ipotesi della presenza di meccanismi eccezionali di codifica in entrata: spiegando la plausibilità di quest'ipotesi con l'idea che questi ricordi fossero talmente importanti da essere registrati in mo­ do qualitativamente differente dagli altri, e che questa codifica eccezio­ nalmente accurata ne garantisse poi una permanenza e una qualità di­ versa rispetto ai ricordi "normali" . Gli studiosi che sostenevano l'ipotesi opposta citavano invece alcu­ ne ricerche empiriche che avevano permesso di notare rilevanti cambia­ menti tra descrizioni successive di una medesima flashbulb memory, ef­ fettuate in tempi successivi dalle stesse persone, ferma restando la loro incrollabile fiducia soggettiva di ricordare con precisione i particolari dell'episodio originale (Neisser, Harsch, 1992) . Da questi dati essi con­ cludevano che questi ricordi funzionassero in realtà come tutti gli altri, che non fosse esistita per loro nessuna codifica speciale, nessun "lampo di magnesio" ; e che l'unica cosa diversa fosse il livello di sicurezza sog­ gettiva con cui venivano ricordati. 132

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Come si vede, un dibattito tutto centrato sui processi individuali di memorizzazione, in cui si sottovaluta fortemente sia il ruolo delle varia­ bili sociali, sia il contenuto di questi ricordi. Se si presta attenzione a queste variabili trascurate, si noterà al con­ trario come molti degli episodi di cui si serba un ricordo "speciale" han­ no un contenuto che riguarda non solo la persona singola ma anche il suo mondo sociale. In particolare, un dato singolarmente sottovalutato è la frequente presenza, tra questi ricordi particolarmente vividi e di lun­ ga durata, del ricordo di eventi pubblici; e il fatto che molto spesso que­ sto ricordo pubblico risulta condiviso da molte persone. Ciò, natural­ mente, riporta alla mente la classica considerazione di Ribot (la cui teo­ ria abbiamo più ampiamente descritto nel secondo capitolo) sull'esi­ stenza di " punti di riferimento " comuni alla memoria autobiografica del­ la gran parte degli appartenenti a una medesima società. Se si sposta l'attenzione su questi aspetti sociali, gli interrogativi di ricerca cambiano completamente. Ci si chiede, ad esempio, perché solo alcuni eventi pubblici entra­ no nella lista dei " ricordi indimenticabili " : perché tutti ricordano la guerra del Vietnam ma non la guerra di Corea? Perché il concerto di Woodstock e non il raduno sull'isola di Wight (Pennebaker, Banasik, 1997) ? Come si vede, un'altra prospettiva da cui esplorare sia il tema delle /lashbulb memories, sia quello, già accennato in precedenza, delle memorie generazionali. Una possibile risposta potrebbe essere collegata alla maggiore o mi­ nore disponibilità sociale di alcuni eventi, comparati ad altri. Ci sono al­ cune notizie su cui siamo sollecitati con frequenza a esprimerci, in fami­ glia, nel nostro circolo di amici, nelle varie situazioni informali in cui si sviluppa la conversazione e il commento sulle notizie della vita pubbli­ ca. Esiste, infatti, una sorta di forte ma implicita spinta sociale che ci chiede di formarci un'opinione e di esprimere un giudizio su questi eventi. Altri eventi, pure simili, non sembrano invece attirare tanto l' at­ tenzione sociale (Bellelli, 1999) . Un'ipotesi che spiega ulteriormente l a selezione, è il problema della novità storica dell'evento memorabile (Connerton, 1989) . Gli eventi che si svolgono per la prima volta, nella loro incomparabilità con gli altri eventi precedenti, introdurrebbero, infatti, un elemento di discontinuità che li distingue totalmente dagli altri, e che sollecita l'elaborazione co­ gnitiva dei soggetti e la necessità di schierarsi di fronte ad essi. Ma il considerare le persone sensibili alla novità e all'incomparabilità di alcuni eventi significa ritenerle, sia pure implicitamente, in grado di ri­ conoscere i momenti in cui, per utilizzare la suggestiva immagine di Wal­ ter Benjamin, la storia "passa di sfuggita" nella loro vita privata. Ciò ci aiu133

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ta a vedere leflashbulb memories degli eventi pubblici indimenticabili non tanto come memorie a codifica speciale, come nell'ipotesi originaria di Brown e Kulik e negli sviluppi successivi di questa corrente teorica, quan­ to come momenti in cui la Storia incontra la mia storia (Leone, 1999a) . È questa la lettura del fenomeno delle flashbulb memories proposta da Neisser. Egli le considera come pietre miliari (miles stones) della sto­ ria nazionale, che vengono ricostruite con un senso di accresciuta sicu­ rezza soggettiva non tanto perché siano eccezionalmente accurate, quan­ to perché in tal modo la persona lega la sua vicenda individuale alla sto­ ria della sua comunità di appartenenza, affermando in tal modo: «Quan­ do quest'evento rilevante per la mia collettività si verificava, io c'ero» (Neisser, 1982) . Neisser, dunque, afferma che l'apparente eccezionalità del ricordo di questi eventi ha soprattutto la funzione di legare tidentità di chi ricorda con la storia della sua comunità. Si tratta, quindi, di una pro­ spettiva che rilegge il fenomeno secondo variabili di tipo sociale, là do­ ve la lettura originaria di Brown e Kulik era strettamente legata al fun­ zionamento di processi mentali individuali (la codifica " speciale " ) . Tut­ tavia, anche nel caso di Neisser la finalità dei processi è orientata verso l'individuo, per accrescerne il senso d'appartenenza a una comunità. Una terza prospettiva sul ricordo degli eventi pubblici tende invece a leggerlo non tanto collegandolo a queste finalità di accrescimento in­ dividuale (sia pure su basi sociali) quanto come strumento di comunica­ zione interpersonale e, in primo luogo, intergenerazionale. È una pro­ spettiva diversa, in cui la memoria autobiografica viene osservata non tanto nel suo fine di rafforzamento sociale dell'identità individuale (che è pure, naturalmente, presente) quanto nel suo ruolo di tramite, da per­ sona a persona ma anche da generazione a generazione. Selezionando al­ cuni eventi pubblici memorabili e parlandone frequentemente con altri, infatti, non solo si lega la propria vicenda personale a un momento cru­ ciale del proprio gruppo sociale, ma si contribuisce a costruire gradual­ mente una versione complessiva della storia della propria comunità, va­ lorizzandone e tramandandone alcuni aspetti a scapito di altri. In questa prospettiva, dunque, la persona è vista non solo come il depositario ultimo del ricordo, ma anche come un suo custode: e la me­ moria acquisisce, accanto alla sua dimensione di funzionalità per la co­ struzione dell'identità individuale, anche la dimensione di responsabilità rispetto a una tra-dizione, intesa nel suo senso etimologico di conoscen­ za indiretta, basata sulla comunicazione tra individui di generazioni di­ verse (Leone, 1998a; 2oooa) . In sintesi, quest'ultima prospettiva non ve­ de l'individuo di fronte al ricordo degli eventi pubblici né nel ruolo di vittima, più o meno consapevole, né in quello di protagonista che cerca di comprenderla, ma piuttosto nel ruolo di testimone. 134

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Sono soprattutto le persone che raggiungono l'età avanzata ad av­ vertire questa sorta di dilatazione della propria memoria. Con parole molto sincere un famoso psicoanalista, avendo ormai raggiunto le soglie di questa fase della vita, descrive la sua scoperta del ruolo di custode del­ le memorie della sua comunità: L'età in cui nasce la vecchiaia non ha solo effetti negativi. Benché fragile come una zattera sul fiume, sussiste la facoltà di garantire la trasmissione a coloro che più tardi, a loro volta, trasmetteranno ad altri, creando così il mistero di una me­ moria collettiva diversa dall'addizione delle memorie individuali. È il genio dei popoli, che dà a ciascuno una parte più grande di quello che ha apportato, una parte che tiene conto delle leggende, dei totem, dell'ideale del mondo, del pro­ prio ideale (Olievenstein, 1999, p. 20) .

L a riflessione d i Olievenstein descrive con efficacia l'equilibrio dinami­ co tra apporto individuale e risorsa sociale, proprio dei rapporti tra me­ moria personale e memoria collettiva. Quest'ultima è presentata nella sua dimensione più complessa, che sorpassa quella strettamente individua­ le: in grado dunque di «dare a ciascuno una parte più grande di quello che ha apportato». Tuttavia, la memoria collettiva è vista anche come una dimensione che si arricchisce del contributo del singolo, che non lo determina completamente (come, ad esempio, nella prospettiva classica di Halbwachs) ma ne è a sua volta determinata. La trasmissione intergenerazionale, le testimonianze del proprio pe­ riodo storico, ci mostrano in effetti una memoria finalizzata a un tipo di conoscenza qualitativamente diverso da ciò che abbiamo finora esami­ nato. Si tratta di una memoria che è al confine con la storia, ma che ne è anche profondamente distante, sia per il suo contenuto sia per lo stile in cui è narrata. L'anziano che racconta al ragazzo il periodo storico precedente la sua venuta al mondo, infatti, racconta una storia vissuta e non interpre­ tata secondo un codice astratto, come nelle rielaborazioni che più tardi egli incontrerà nel suo libro di storia. I ricordi della guerra e dello sfol­ lamento che mi raccontavano i miei genitori e i miei nonni, le loro av­ venture tragicomiche per procurarsi un sacchetto di farina o una mezza bottiglia d'olio, sono ben diverse dalle descrizioni di quel medesimo pe­ riodo che i miei figli vedono nei documentari di guerra o nei più moderni cd-rom. Già Halbwachs (1950) aveva sottolineato questa differenza sostan­ ziale tra ricordo astratto, di tipo storico, e ricordo vissuto; ed è proprio sul mescolarsi inestricabile tra la memoria autobiografica dei miei cari, intrisa dello stile dei loro ricordi familiari, e il ricordo di alcuni eventi o 13 5

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periodi storici memorabili che si fonda il fascino irripetibile di queste narrazioni, che assumono un valore ben diverso dal resoconto, pure mol­ to più esatto e completo, contenuto nel materiale didattico più recente. Il valore prezioso di questi ricordi è forse il segno più tangibile del diverso uso sociale cui è stata finalizzata, in questi casi, la memoria au­ tobiografica: un'assunzione di responsabilità verso le generazioni futu­ re, la consapevolezza che il legame sociale della memoria si prolunga an­ che al di là delle vicende individuali. Molto spesso, queste narrazioni avevano come tema prevalente un'e­ mozione: le lunghe conversazioni, mescolate a brevi periodi di riposo o persino allo studio dell'inglese (essendo lo studio una delle malattie ere­ ditarie tipiche della mia famiglia) con cui si cercava di far passare la pau­ ra, nelle ore interminabili nei rifugi, durante i bombardamenti; la spe­ ranza che aveva riempito il cuore di tutti, nel periodo pure durissimo del­ la ricostruzione. E, in effetti, uno dei tratti che distinguono la storia vis­ suta da quella appresa dai libri è appunto l'accesso diretto alle emozio­ ni, che è proprio naturalmente del testimone, non dello storico. È anzi questa, forse, una delle fonti nascoste di quella prolungata inimicizia tra memoria e storia, che si guardano spesso di lontano, come due sorelle che conoscono da una vita l'una i difetti dell'altra. In effetti «tradizio­ nalmente, il rapporto tra storia e memoria è inteso soprattutto come un rapporto di separazione» (Grande, 1999, p. 305). È questa diffidenza che fa dire al famoso storico Pierre Nora che «la memoria è sempre sospet­ ta alla storia, la cui vera missione è distruggerla e rimuoverla. La storia è delegittimazione del passato vissuto» (Nora, 1984, pp. XIx-xx) . Così, la funzione di trasmissione intergenerazionale della com­ prensione del periodo storico in cui si è vissuti, che pure è una funzio­ ne importante nell'avvicendarsi dei cicli familiari e culturali, è rimasta in una sorta di " terra di nessuno" disciplinare: lontana dalla storia, ne­ cessariamente centrata sul tema della veridicità delle sue fonti e quindi sul problema di verificare e correggere le testimonianze dirette; ma an­ che lontana dallo studio psicologico della memoria, fortemente distor­ to in senso individualistico (Leone, 1999a; 1999b) . Questo non poteva comunque impedire di notare, fin dalle prime rassegne descrittive sui contenuti della memoria autobiografica (Colegrove, 1899 ) , il posto oc­ cupato dal ricordo vivido di alcuni episodi storici di grande rilevanza. Ma la difficoltà interpretativa cui abbiamo accennato, unita a evidenti difficoltà metodologiche, ha fortemente rallentato il passaggio dall' os­ servazione del ricordo degli episodi alla consapevolezza della presenza di altri/armati anche per questo tipo di eventi pubblici (come il ricor­ do di periodi estesi, o di climi emotivi, o di punti di svolta) (Bellelli, Leone, Curci, 1999 ) .

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Infatti, sebbene questa trasmissione interpersonale possa essere cen­ trata sul racconto di episodi, non è l'andamento episodico a essere pro­ tagonista di questa comunicazione. In altre parole, anche se può essere basata su aneddoti, la narrazione della storia che le generazioni prece­ denti fanno a quelle successive non può essere ridotta al solo formato aneddotico. Come Halbwachs osservava del resto per i ricordi familiari (Halbwachs, 1996; 1950) anche per il ricordo dei periodi storici l'episo­ dio è usato a fine esemplare, per comunicare il clima di un'epoca. Para­ frasando la nota espressione di Halbwachs, se il ricordo familiare è usa­ to per dire ai componenti più giovani "la nostra famiglia è fatta così " , il ricordo dell'episodio storico è usato spesso per dire " in quel periodo si . VIVeva COSl " . Così, anche il racconto di un'emozione legata a un episodio storico perde spesso la sua colorazione individuale, personale, per raccontare la percezione di un clima emotivo (De Rivera, 1992) : percezione esatta, che ha permesso alle persone che l'hanno provata di attrezzarsi per soprav­ vivere, malgrado la mancanza di informazioni precise o persino la pres­ sione confondente di una propaganda ben orchestrata o della violenza di un regime autoritario. '

8.3

Memorie autobiografiche e storia della propria comunità: un'eredità senza testamento

Ritorniamo qui, al termine della nostra riflessione sul rapporto tra me­ moria autobiografica e memoria storica, al tema del ricordo dei periodi storici drammatici, e soprattutto al ricordo di quelle condizioni storiche estreme che sembrano ostacolare la continuità della trasmissione gene­ razionale. In effetti, molta della letteratura psicosociale sulle testimo­ nianze di persone che hanno vissuto circostanze storiche drammatiche si centra sulla difficoltà relazionale che la condivisione di questi ricordi ha creato, tra chi era sopravvissuto, e non sapeva come narrare, e chi era sfuggito a quegli eventi estremi, e non voleva (o non riusciva a) saperne nulla (cfr. , ad esempio, Greene, Kumar, 2ooo) . Esiste a proposito un'ipotesi forte, che vede una caratteristica di ba­ se della condizione di modernità proprio nell'interruzione del racconto intergenerazionale, coincidente con l'inumanità - verrebbe fatto di dire, con l'inimmaginabilità - delle ultime guerre, che segna una specie di ce­ sura tra chi c'era e ha visto e chi non c'era e non vuole sapere (per un'a­ nalisi, cfr. Jedlowski, 1989 ) . E uno dei danni più terribili per chi è so­ pravvissuto a eventi storici mostruosi è quello di essere in possesso di una conoscenza non trasmissibile, letteralmente " inaudibile" (Bravo, 137

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}alla, 1986) . Verrebbe da pensare che un filo tra le generazioni si è spez­ zato, e che le persone, tutte, i testimoni e i loro discendenti, sono rima­ sti più soli, più disorientati. Eppure, molti segnali sembrano indicare che il messaggio di spe­ ranza nella memoria collettiva, trasmesso da Halbwachs al di là dell'in­ felicità del suo stesso destino personale, non sia stato solo la reazione consolatoria di chi cercava nel suo lavoro "l'oblio totale della politica in­ terna ed estera " quanto l'efficace resistenza intellettuale di uno studioso che aveva intuito la forza reale di questa risorsa sociale. Alcune delle menti più lucide di quel periodo - pensiamo non solo a Halbwachs, ma anche a Walter Benjamin, alla giovanissima Hannah Arendt, a Simone Weil, a quelli che Calegari (1998) chiama efficacemente "osservatori della crisi" - hanno individuato proprio nella sopravvivenza sociale della memoria, sia pure incerta o frammentata, la forza più poten­ te di superamento di quella terribile contingenza storica (Leone, 1998a) . Benjamin ha scritto pagine mirabili sul potere evocativo delle citazio­ ni, delle testimonianze parcellizzate, in grado di inquietare la coscienza storica dei posteri proprio per il fatto di essere state violentemente strap­ pate dal loro contesto. E oggi il diffondersi della mediazione tecnologi­ ca, di cui Benjamin intuì profeticamente il valore di cambiamento cul­ turale, è in grado di diffondere in tempo reale frammenti, voci, immagi­ ni, schegge di storia che " come predoni armati" ci rubano "la falsa pace e la spensieratezza" (Arendt, 1968c) . Arendt (1959) ha descritto la memoria del paria, dell'escluso sociale, come la fonte più alta della sua creatività: perché egli, proprio in quan­ to appartenente a una minoranza minacciata e perdente, non può mai di­ menticare le sue origini individuali, per perdersi nell'astratta unanimità di una condizione sociale anonima, anticamera dell'asservimento alla pressione sociale. Sia la posizione di Arendt, sia quella di Benjamin 1 ci danno dunque molti spunti preziosi per leggere il tema della memoria nelle situazioni storiche estreme: indicando, malgrado la drammaticità della loro testi­ monianza intellettuale, quanta forza vitale si possa svelare proprio di fronte alle circostanze più terribili. All'inizio, il ricordo autobiografico di chi ha attraversato questi "mo­ menti bui " , secondo il titolo del bel libro di saggi che Arendt (1968b) de1 . Per un'introduzione all'opera di questi grandi autori, naturalmente molto più complessa di quanto possiamo descrivere in questi pochi accenni, e per un confronto tra le loro posizioni teoriche, consigliamo la lettura del saggio di Arendt (1968c) su Benjamin. Per una proposta di lettura del contributo di questi grandi autori al tema della memoria sociale e collettiva, mi permetto di rimandare anche a Leone (1998a) .

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dicò a chi si era distinto in questa resistenza intellettuale, assume il va­ lore di una testimonianza. In seguito, però, quando il tempo della vita individuale dei testimoni volge al termine, questo valore etico, rivolto principalmente a rendere giustizia alle vittime, si proietta maggiormen­ te nella dimensione futura, nella responsabilità che il testimone ha non verso i suoi contemporanei, ma verso chi è venuto dopo. Egli deve, quindi, trovare un altro modo di raccontare, perché l'a­ scolto delle generazioni successive sarà diverso da quello dei suoi coeta­ nei. È in tal modo che la responsabilità personale del testimone si fonde con l'elaborazione sociale, con la creazione di modi nuovi di raccontare la storia: si pensi all'evoluzione del racconto della Shoah, da foto docu­ mentaristica, a testimonianza personale, a romanzo, a film eroico, fino alle chiavi di lettura anticonvenzionali di La vita è bella e di Train de vie, film che certo sarebbero stati impensabili immediatamente dopo la guer­ ra (N adler, 2000) . La violenza della storia mette dunque in luce, in modo parallelo al­ le condizioni psicopatologiche individuali, un volto della memoria che resta nascosto nelle condizioni storiche usuali: oltre che processo indivi­ duale, patrimonio della mente del singolo, i ricordi autobiografici ser­ vono all'avanzamento della discussione sociale, sono una risorsa e una responsabilità verso gli altri cui siamo legati, cui abbiamo il dovere di tra­ smettere le cose che la vita ci ha permesso di capire. In queste pagine, ci siamo rivolti alla letteratura molto spesso, per commentare in altro modo i contenuti su cui volevamo riflettere. Anche rispetto alla memoria sociale e collettiva dei periodi storici più dramma­ tici, che da poco inizia a essere esplorata con più sistematicità dagli stu­ diosi della memoria (per un'introduzione, cfr. Pennebaker, Paez, Rimé, 1997; Bellelli, Bakhurst, Rosa, 2ooo), esiste una citazione, tratta ancora una volta dall'opera di Proust, che ci sembra possa indicare una possi­ bile linea di approfondimento degli aspetti di risorsa, e non solo di ripa­ razione, presenti nelle memorie delle situazioni personalmente o social­ mente traumatiche: Quand'ero molto piccolo, nessun personaggio delle storie sacre mi sembrava aver avuto un destino più triste di Noè, che il diluvio tenne al chiuso dell'arca per quaranta giorni. In seguito, fui spesso malato, e dovetti restare anch'io per dei lunghi giorni "nell'arca" . Compresi allora che mai Noè avrebbe potuto ve­ dere il mondo così bene come quando era nell'arca, malgrado ch'essa fosse ben chiusa e che facesse notte su tutta la terra.

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Osservazioni conclusive

La memoria autobiografica è uno dei campi di studio in cui l'ambiva­ lenza dei processi di memoria si mostra con più chiarezza. Non c'è dub­ bio che i nostri ricordi siano frutto di continue rielaborazioni e ricostru­ zioni, in cui il presente vince sul passato; eppure a volte una traccia insi­ gnificante, un gioco di luce, un odore, può far riaffiorare dopo anni un intero mondo che credevamo perduto. Noi non smettiamo mai di riscri­ vere la nostra storia, smussandone le incongruenze e cercando un equi­ librio e un filo conduttore; eppure la nostra analisi non può non rileva­ re a momenti quanto tutto quello che ci accade assomigli " al racconto di un pazzo, che non ha alcun senso " . L a nostra memoria autobiografica esalta dunque a volte i suoi aspet­ ti ricostruttivi, a volte il riemergere insperato di una traccia perfetta­ mente conservata; si mostra come la capacità di cogliere e saper tra­ smettere la sintesi della nostra esperienza di vita, ma anche come il rico­ noscimento dell'accumularsi disordinato di eventi di cui non riusciamo a decifrare la chiave. Questa duplicità non poteva passare inosservata agli occhi di un ana­ lizzatore acutissimo della vita sociale e della propria vita mentale, Roland Barthes. Rispondendo alla cortese domanda di un suo intervistatore, che lo spingeva a commentare la propria produzione letteraria e saggistica se­ guendo alcune ipotesi di coerenza interna tra le prime opere e quelle suc­ cessive, egli manifestava apertamente la sua perplessità rispetto a una ri­ lettura che, benché molto elogiativa, nascondeva il rischio di accreditare «l'idea che la mia vita di lavoro abbia avuto un senso, un'evoluzione, uno scopo, e che in questo troverebbe la propria verità. A quest'idea di un soggetto unitario preferisco il gioco del caleidoscopio: si dà una scossa, e i vetrini si dispongono in un nuovo ordine» (Barthes, 197 5, p. 2oo). È interessante mettere in parallelo lo scrupolo con cui Barthes re­ spinge, per onestà, la dose quasi omeopatica di autoinganno e d'ingan­ no sociale, necessaria per creare una visione unitaria della sua vita di la­ voro intellettuale, con le difficoltà di impostazione della struttura del li­ bro sulle memorie di Adriano, che Marguerite Yourcenar racconta con la stessa umile onestà in un breve diario aggiunto alla sua celebre opera.

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Nel diario ella ci confida che la difficoltà principale da affrontare era trovare un punto di vista che collegasse la sua memoria personale a quel­ la dell'imperatore di tanti secoli addietro: superare l'immensa distanza temporale, rintracciare una linea unificante che non facesse del libro né un'opera dotta, né un puro gioco di fantasia. Per attraversare questa grande distanza, procedendo cautamente «con un piede nell'erudizione e l'altro nella magia», la scrittrice si è de­ dicata per molti anni a una lenta e precisa identificazione dei tratti che possono accomunare la memoria di persone che hanno vissuto in conte­ sti tanto diversi e per tanti aspetti incomparabili: i tratti di base di ciò che nel nostro testo abbiamo chiamato l'autobiografia di tutti. La scrittrice li intuisce in due considerazioni fondamentali: la dina­ mica rz'costruttiva e parziale di ogni memoria, anche la memoria di se stes­ si; e la comune evoluzione della nostra esperienza vitale, le /asi che ogni esistenza deve attraversare. Scrive, infatti, nel suo diario: Tutto ci sfugge. Tutti. Anche noi stessi. La vita di mio padre la conosco meno di quella di Adriano. La mia stessa esistenza, se dovessi metterla per iscritto, la ri­ costruirei dall'esterno, a fatica, come quella di un altro. Dovrei andare in cerca di lettere, di ricordi di altre persone, per fermare le mie vaghe memorie. Sono sempre mura crollate, zone d'ombra (Yourcenar, 19 51, p. 288 ) .

E ancora: prendere come punto di contatto [ . . . ] soltanto ciò che c'è di più duraturo, di più essenziale in noi, sia nelle emozioni dei sensi, sia nelle operazioni dello spirito: anche loro, come noi, sgranocchiarono olive, bewero vino, si impiastricciarono le dita di miele, lottarono contro il vento pungente, la pioggia accecante, e ri­ cercarono in estate l'ombra di un platano , gioirono, pensarono, invecchiarono, morirono (Yourcenar, 1951, pp. 289-90) .

La soluzione è dunque fare del libro non una biografia ma un atto di me­ moria autobiografica. L'autrice immagina allora Adriano intento a osser­ vare la sua vita nel momento in cui sente l' awicinarsi di un declino fisi­ co che è l'anticamera della fine: «Comincio a scorgere il profilo della mia morte». In altre parole, cogliere la memoria autobiografica di Adriano nel momento in cui il gioco del caleidoscopio s'interrompe, in cui si per­ cepisce che il cambiamento infinito del flusso vitale non sarà per sem­ pre. Dunque: Prendere un'esistenza nota, compiuta, definita (per quanto possano mai esser­ lo) dalla Storia, in modo da abbracciarne con un solo sguardo l'intera traietto­ ria; anzi, meglio, cogliere il momento in cui l'uomo che ha vissuto questa esi-

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stenza la pesa, la esamina, e, per un istante, è in grado di giudicarla; fare in mo­ do che egli si trovi di fronte alla propria vita nella stessa posizione di noi (Your­ cenar, 1951, p. 282) .

Questa prospettiva, intravista infine dalla Yourcenar dopo lunghi anni di esitazioni e ripensamenti, le permette di esclamare con esultanza, nel diario che accompagna la sua avventura compositiva: «come un pittore si colloca davanti ad un orizzonte, sposta senza posa il suo cavalletto a destra, poi a sinistra, avevo finalmente trovato il punto di vista del libro» (Yourcenar, 1951, pp. 281-2) .

Un punto di vista che è speculare a quello del romanzo di Wiesel, che ci è servito per introdurre le nostre riflessioni. Mentre I:oblio descrive la comunicazione profonda tra le memorie, che lega il figlio al padre, e il padre al suo mondo sparito, la Yourcenar vuo­ le «dipingere un uomo solo e tuttavia legato a tutto». Mentre il fine principale del vecchio professore è quello di confer­ mare il suo legame con un mondo sociale scomparso, e trasmetterlo al fi­ glio, il fine di Adriano è quello di considerare l'unicità irripetibile della sua vita, consapevole di come il livello eccezionale del suo potere asse­ gnasse a lui solo di «sentirsi responsabile della bellezza del mondo». Se abbiamo aperto la nostra riflessione descrivendo L'oblio di Wiesel, e la chiudiamo citando il diario della composizione di Memorie di Adria­ no, è perché ci sembra che lo studio sulla memoria autobiografica si muova nello spazio che sta tra queste due prospettive: dai momenti in cui i ricordi si traducono in narrazione, in legame con l'altro, in respon­ sabilità e risorsa sociale, ai momenti in cui la memoria è la prima fonte di riflessione su se stesso, in cui l'individuo, solo, guarda alla propria vi­ ta tentando di decifrarla con la stessa lucidità con cui possono vederla gli occhi degli altri. In queste pagine abbiamo cercato di esplorare una parte di questo spazio di studio, considerando alcuni degli aspetti che rendono la me­ moria autobiografica capace di spiegare, al tempo stesso, ciò che ci ren­ de simili a tutti e ciò che ci fa unici, quello che si ripete sempre e quello di cui solo noi abbiamo fatto esperienza.

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Indice dei nomi

Abelson R. , 37, 115, II9 Adriano Publio Elio, 141-3 Agostino Aurelio, santo, 129-30 Ainsworth M., 72 Andersen H. C., 99 Andreani-Dentici 0., 22, 82 Arcangeli B., 89 Arcuri L., 105 Arendt H., 96, 103 , 138 Attili G . , 72, 108 Augoustinos M., 31

Blondel C . , 89-90 Blum-Kulka S . , 65 Boca S . , 105 Borges ]. L., 62 Bowlby J., 72, 108 Bravo A., 137 Brewer W. F., 38, 42, 46, 55, 6o, 115-7 Brown R. , 131-2, 134 Bruner J., 27, 61-2, 65, 68, 83, 101 Burke P. , 89-90 Butler R. , 75

Baddeley A., 20, 30, 33, 69 Bakhurst D., 17, 86, 139 Banaji M. R. , 24 Banasik B. L. , 133 Barclay C. R. , 101, 103-4, 108, 123 Barsalou L. W., 57 Barthes R. , 141 Bartlett F. C., 21, 25, 51, 54, 79-85, 90-1,

Calamari E. , 59 Calegari P. , 138 Calvino I . , 101 Charcot J. M., 41 Cohen G . , 16, 24, 44 Colegrove F. W. , 34, 131, 136 Comte A. I . M.- F., 19 Connerton P. , 133 Contarello A., 107 Conway M. A. , 30, 37-8, 40-1, 48, 55, 576o, 64, 70, 118 Craik F. I. M., 87 Crovitz H. F., 46, 71 Curci A., 136

96-7, 101, 113-4, 120 Beatty P. , 48 Bellelli G . , 14, 17, 66, 77, 92, 119, 132-3, 136, 139 Belli R. F., 124 Benjamin W. , 133, 138 Benvenuto S., 120 Bergman E. T. , 83 Billig M., 130 Bless H., 71 Bleuler E., 41 Bloch M., 75-6, 89, 100

Darwin C., 34-5 Dean J., 53 , 112 De Rivera ]., 137 Di Pietro A., II9

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LA M E M O R I A A U T O B I O G RA F I C A

Douriri Z., 128 Dreyfus A., 76 Durkheim E. , 89

Ebbinghaus H., 19-20, 45, 8o Eco U., 98 Edwards D., 28 Eliach Y. , 96 Engel S., 66 Erikson E. H., 72- 5

Farr R. M . , 19, 39, 107 Fasulo A., 98 Febvre L., 75, 89 Feldman C. F., 65 Ferroni G., 101 Festinger L., 117 Fitzgerald J. M., 72, 74-5 Fivush R. , 66-8 , 70, 95, 102, 105 Fliess W. , 34 Freud S . , 17, 33- 5, 39-44, 122 Frijda N . , 70 Fromhoff F., 66

Gallerano N., 61 Galton F., 16, 33-8, 41-2, 44, 59- 60, 70 Gauss K. F., 36 Gergen K. J . , 28, 129 Gibson J. ] . , n8 Ginzburg N . , 50 Giovanni Evangelista, santo, 88 Grande T. , 136 Greene J., 137 Grossman D., 70

Haden C . , 67-8, 70, 95, 102 Halbwachs M . , 15, 51, 63 , 65, 70, 79 , 8993, 100, 102, 108, 1 23 , 135 , 137-8 Handel G . F., 47 Hansen T., n6 Harsch N . , 121, 132

Hashtroudi S., 1 23 Head H . , 81 Hewstone M . , 130 Hillman ]. , 105 Holmes O. W. , 81 Hudson J. A., 66 Hyman I. E . , 112-3, n8, 122, 124, 132

Jackson J. H . , 38 J alla D., 138 Jedlowski P. , 89, 95, 102, 111, 137 Jodelet D., 130 Johnson M. K., 56-7, 123

Kintsch W. , 82-4, 97 Kulik J., 131-2, 134 Kumar S., 137

Langer E . , 71 Larsen S . F., 85, n6

Le Goff ]., 61 Leone G., 32, 63 , 77, 79, 81, 83, 85, 97, 103 , 134, 136, 138 Leroy-Gourhan A. , 27, 87 Levorato M. C., 98 Levy B . , 71 Lincoln A., 131 Lindsay D. S . , 122-3 Linton M., 57, 61, n6 Lockart R. S., 87 Loftus E. F., n8, 124

Macioti M. I., 61 Mandler J. M . , 97 Mantovani G. , 19 Marchese A., 98 Markus H. R. , 107 Martini G . , 105 Mazzara B . M., 35, 79, 85, 97, 107 Mazzoni G . , 123

I N D I C E D E I :--J O M I

Mead G. H . , 1 7 , ro2, ro6-7 Mecacci L., 85 Middleton D., 28 Miller P. ] . , 65, 68 Mininni G., 30 Morante E., 126, 128 Moro A., 48 Moscovici S . , 40, 130

Rivers W. H. R. , 84 Robinson ]. A., 32, 40-2, 45-6, 51 Roediger H. L. , 83 Rosa A., 17, 84, 139 Rosch E., 58 Ross G . , 64, 68-9, III Rubin D. C. , 58-9, 70-2

Nadler A., 109 , 139 Namer G . , 90, roo Nebes R. D . , 70-2 Neisser U., 17, 22-4, 34, 38, 46, 52-3, 6o, 105, 112, 118, 121-2, 124, 132, 134 Nelson K . , 64, 66, 69 Nixon R. M . , 53, III Nora P. , 136 Nurius P. , 107

Schacter D. L., 49 Schank R. C . , 37, II5, II9 Schiffman H., 46, 71 Serino C . , 20 , 105 Smorti A., 68, 98, ror Snow C. E., 65 Sperry L. L., 68 Stein G . , 37 Strack F. , 71

Tennyson A. , 42 Thompson C . P. , II6 Tulving E., 53-4, 65, II2

Olievenstein C., 13 5 Ornaghi V., 61

Paez D . , 139 Paolicchi P. , 101, 1 20 Pearson K . , 36 Penna S . , 125 Pennebaker J. W. , 133, 139 Piaget J., 87 Proust M., 50-1, 53 , 69 , II4, 139

Vannucci M., 123 Vico G . , 28 Vygotskij L. S . , 21, 65, 79, 85-9

Rampazi M., 6r Read J. D., 122 Reed E. S . , ro7 Reese E . , 67-8, 70, 95, 102 Ribot T. , r6, 33-4, 38-9, 41-2, 44, 49, 52, II8, 133 Ricoeur P. , 95, roo Rimé B . , 66, 139

Walker I., 31 Weil S. , 138 Wertsch J., 68 Wetzler S. E . , 70-2 Wiesel E., 13 -5, 32, 102-3, 107, 109, 143 Winograd E., 22, 24 Wood D. ]., 68

Yeats F., 26, 51 Yourcenar M . , 141-3

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