Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità 8870783502

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Attaccamento, conoscenza e disturbi di personalità
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R. Lorenzini S. Sassaroli

Attaccamento, conoscenza edistwbi di personalità ~ Raj/àello Cortina Edit()fe

Collana di Psicologia clinica e Psicoterapia diretta da Franco Del Corno

Roberto Lorenzini Sandra Sassaroli

ATTACCAMENTO, CONOSCENiA E DISTURBI DI PERSONALITA

~ Rqf/àello Cortina Editore

Copertina Vando Pagliardini Fotocomposizione Centro Grafico Lodigiano - Lodi ISBN 88-7078-350-2 © 1995 Raffaello Cortina Editore Milano, via Rossini 4 Prima edizione: 1995

INDICE

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Introduzione Capitolo I Costrutti, scopi e stile di conoscenza Spiegazioni del comportamento La massimizzazione della capacità predittiva Costrutti e scopi Capacità predittiva e previsioni Cosa intendiamo per capacità predittiva Gli scopi come costruzioni euristiche del sé Costruttivismo e conoscenza innata Critica all'induzione L'importanza di sbagliare Teorie e fatti, un confine incerto Stili di crescita della conoscenza Creatività e imitazione La gestione delle invalidazioni Conclusione Capitolo II La crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino Il mondo atteso La codeterminazione dei risultati La conoscenza innata La conoscenza di stati interni e schemi d'azione L'universo indiviso )< Il ruolo della figura di attaccamento L'invenzione dell'altro La diade senza soggetto Cogliere l'inaspettato L'invenzione del sé X Gli internal working model della relazione d'attaccamento V

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Indice

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La coepistemia ) /Capitolo III Pattern di attaccamento e stili di conoscenza Il comportamento di attaccamento La maturazione del comportamento di attaccamento La creazione e la modificazione degli internal working model L'attaccamento sicuro L'attaccamento insicuro-evitante L'attaccamento insicuro-ambivalente o resistente Il percorso cronologico L'attaccamento disorganizzato-disorientato Conclusione \/ Capitolo IV /\. Attaccamento, conoscenza e personalità La personalità I disturbi di personalità Personalità e conoscenza Conclusione Capitolo V Stili di conoscenza e psicoterapia La sofferenza psichica Scopi e strumenti della psicoterapia La relazione terapeutica L'autorevolezza per somiglianza L'invalidazione degli internal working model Il circolo virtuoso dell'autorevolezza La teoria psicologica del paziente La gestione delle teorie nai"f Gli obiettivi terapeutici nel campo della conoscenza La terapia dell'evitamento La terapia dell'immunizzazione La terapia dell'ostilità Appendice 1 La ricerca e i casi clinici La ricerca Valutare l'attaccamento Valutare la personalità Valutare lo stile di conoscenza Risultati preliminari I casi clinici

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Indice

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Appendice 2 ' Lo studio dell'attaccamento nell'adulto di Lucia Tombolini Qualità dell'attaccamento e rappresentazioni di sé Lo stato mentale dell'adulto Categorie degli stati mentali Trasmissione intergenerazionale dei pattern di attaccamento Stato mentale del genitore e stile della relazione

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Bibliografia

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RINGRAZIAMENTI

Vogliamo ringraziare con particolare affetto Cristiano Castelfranchi che ha discusso con noi il progetto iniziale di questo lavoro, cogliendone le debolezze e i punti di forza; ha letto il testo, offrendoci le sue osservazioni acute e pertinenti. Un ringraziamento affettuoso a Francesco Mancini, che durante la stesura del testo ha discusso con noi di teoria e di clinica; a Lucia Tombolini, che ha contribuito al libro con l'interessante capitolo sugli strumenti di analisi dei pattern di attaccamento; a tutti gli allievi, amici e docenti che in circostanze diverse ci hanno ascoltato, hanno discusso insieme a noi e preso parte con le loro idee e la loro passione al nostro lavoro. Ringraziamo inoltre tutti i nostri pazienti che hanno contribuito non poco, con i loro problemi e con le soluzioni trovate insieme, al processo di costruzione delle nostre idee; gli amici della Società italiana di terapia comportamentale e cognitiva, dell'Associazione di psicologia cognitiva di Roma, dell'European Association of Persona! Construct Psychology, per il tempo che hanno passato a discutere insieme a noi. Ringraziamo gli amici dell'ARP di Milano, in particolare Franco Del Corno, curioso e instancabile osservatore del nuovo. Un ricordo infine a John Bowlby, Karl Popper e Don Bannister, maestri indimenticati. L'ultimo grazie va ai nostri figli, Giulia, Andrea e Luigi, che, ignari delle nostre teorizzazioni, ci hanno insegnato "in pratica" che cos'è l'attaccamento.

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INTRODUZIONE

Questo libro mira a due obiettivi principali. Il primo è approfondire, tra le tante funzioni dell'attaccamento del bambino alla madre, la funzione che investe i meccanismi della "crescita della conoscenza", così importante nel piccolo umano (qualche spiraglio su questo problema avevamo già tentato di aprire nel 1985, quando abbiamo cominciato a occuparci dell'argomento sull'onda dei nostri studi sui fobici); l'altro obiettivo è dare, in ordine al legame di attaccamento, una spiegazione finalmente supportata da una conferma sperimentale, logicamente coerente e psicologicamente corretta, delle relazioni individuate in ambito clinico tra storie personali nell'infanzia e psicopatologia. Il legame di attaccamento è stato lungamente analizzato dagli studiosi e dai clinici. Ma quando il tentativo di derivare tout-court da specifici tipi di attaccamento specifiche sindromi nevrotiche e/o psicotiche è apparso infruttuoso, è stato poi altrettanto lungamente eluso. Una relazione diretta infatti non è dimostrabile, ed è probabile che la ricerca abbia tentato un collegamento tra livelli logici incommensurabili.

PROBLEMI

Nella tradizionale interpretazione evoluzionistica dell' attaccamento incontriamo un'incongruenza: appaiono infatti utilizzate due spiegazioni difficilmente confrontabili, una costruttivista per la teoria della clinica, e una evoluzionista per le storie di attaccamento. Come conciliare un uomo "kelliano", uno "scopista" tutto teso a prevedere e costruire la sua realtà, con un uomo "etologico", che risponde a schemi di predazione e di corteggiamento? 3

Introduzione

Abbiamo allora ipotizzato una prima spiegazione in termini di "crescita della conoscenza" (Lorenzini, Sassaroli 1989), in origine strettamente costruttivista e kelliana, integrandovi successivamente una piccola ricerca (Sassaroli, Lorenzini, 1991) che ha confermato, almeno indicativamente, l'esistenza o meno di correlazioni tra tipi di attaccamento, misurati con metodi tradizionali, e stili di crescita della conoscenza. Le prime verifiche ottenute ci hanno rassicurato sul fatto che stavamo intraprendendo una strada interessante, e che valeva la pena proseguire. Approfondendo l'analisi delle diverse teorie interpretative del legame di attaccamento sono emersi ovviamente molti elementi di ripensamento e nuove domande, cui questo libro dovrebbe rispondere, almeno nelle nostre intenzioni. L'evento osservato è l'attaccamento del bambino alla madre. Le interpretazioni che ne vengono proposte si rifanno a teorie diverse sui principi motivazionali fondamentali dell'essere umano: è infatti evidente che l'analisi della funzione dell'attaccamento dipende ampiamente dalle inclinazioni proprie di ogni studioso. Prima di passare alla presentazione del nostro punto di vista sarà dunque opportuno illustrare brevemente le principali linee teorico-interpretative del dibattito sulla motivazione.

LA MOTIVAZIONE Lo studio della motivazione è lo studio delle cause di azioni specifiche [ .. .]; è la ricerca di principi che ci aiuteranno a capire perché la gente sceglie, inizia o persiste in azioni specifiche in circostanze specifiche. (Mook, 1987)

In psicologia lo studio della motivazione è, innanzitutto, uno studio della "motivazione all'azione", con l'occhio molto attento agli aspetti comportamentali. Weiner (1991) distingue le teorie della motivazione in teorie che usano "metafore meccanicistiche" e teorie che invece si servono di "metafore dell'uomo simile a Dio". Nel primo caso sono dominanti l'analogia uomo/macchina, la riproducibilità degli esperimenti in laboratorio, l'empirismo e la ricerca della regolarità; nel secondo sono privilegiati la costruzione delle mete individuali, il controllo, le decisioni e le scelte dell'uomo. Tra coloro che nella motivazione ali' azione enfatizzano le analogie uomo/macchina incontriamo studiosi apparentemente molto diversi

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Introduzione

tra loro: da un lato gli empiristi, gli etologisti e gli studiosi in laboratorio, dall'altro gli psicoanalisti. Gli studiosi del primo gruppo si interessano agli aspetti di regolarità, prevedibilità e misurabilità comportamentale (Hull, Spence, Festinger, e poi Tinbergen e Lorenz): l'aspetto "personale" della motivazione si trova in seconda linea rispetto al comportamento, osservabile, corredato dei suoi riferimenti etologici, sociobiologici o comportamentali; poco spazio resta per i punti di vista "personali" della motivazione, in quanto oggetto di un'analisi non attrezzata di strumenti adeguati al raggiungimento di risultati "esatti". Gli psicoanalisti tradizionali, convinti che gli esseri umani siano sostanzialmente inconsapevoli delle proprie motivazioni profonde, consistenti in pulsioni di origine "genetica", volgono tutta l'attenzione allo studio e alla catalogazione delle pulsioni, seguendo principi esplicativi di volta in volta diversi, e tuttavia tendenzialmente orientati al principio di piacere/dolore: i bisogni tendono all'appagamento, chiedono il soddisfacimento, e così la libido, all'inizio considerata unica e centrale, si stempera nel tempo e imbocca altre strade, risolvendosi in altri principi esplicativi. Ma la procedura privilegiata è quella della ricerca delle "regolarità". Molto acutamente Weiner (1992) sottolinea come sia Freud che Hull, pur con premesse così diverse e mete così dissonanti, concordino nel sostenere che gli atti sono causati, che le cause possono essere individuate, che la riduzione del bisogno è la meta base del comportamento, che gli organismi tendono all'equilibrio e agiscono secondo il principio di piacere. L'accordo su questi punti non autorizza però a sottovalutare notevoli elementi di disaccordo, quali il principio energetico, assente in Hull e presente in Freud, o il meccanicismo hulliano ecc. (Weiner, 1991). Le teorie meccanicistiche si vanno comunque raffinando, anche in area psicoanalitica, e sempre più forte diviene l'attenzione ai meccanismi di funzionamento interpersonale (Rogers, Heider) e sociale. Gli studiosi che Weiner mette tra coloro che usano le "metafore dell'uomo simile a Dio", e "autoconsistente e automotivato", assegnano una diversa centralità al bisogno dell'uomo di raggiungere mete: l'uomo non è più agito, portato avanti da meccanismi più grandi di lui, ma è un protagonista dell'azione dotato di mete e scopi propri. In origine si ruota ancora intorno al problema della stabilità e della razionalità delle scelte: l'uomo di Atkinson, ad esempio, è sì automotivato, ma totalmente razionale, come fosse sempre in grado di scegliere e differenziare tenendo in mente soltanto mete caratterizzate da

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Introduzione

scelte di tipo razionale, conoscendo tutte le aspettative e i valori associati e implicati dalle sue scelte. L'uomo di Rotter è un "animale categorizzante", occupato a costruire categorie della realtà. Lewin (1935, 1951), Atkinson (1964) e Rotter (1966) ipotizzano un uomo che massimizza le mete edonistiche (piacere/dolore) selezionando le attività con un'alta possibilità di raggiungere gli scopi voluti. Le differenze con le spiegazioni meccanicistiche balzano all'occhio: quest'uomo, seppure iperrazionale, privilegia strategie di raggiungimento/fallimento, pone al centro le aspettative e le mete da raggiungere. In una simile prospettiva le differenze individuali stanno in prima linea. Come si vede le teorie "meccanicistiche" e le teorie della "metafora dell'uomo simile a Dio" più o meno consapevolmente hanno qualcosa in comune: tutte sostengono la centralità del principio edonistico, sia che esso derivi dal ritorno allo stato di equilibrio (nelle teorie meccanicistiche), sia che derivi invece dalla volontà del raggiungimento di mete (nelle teorie della "metafora dell'uomo simile a Dio"). Qualcosa cambia, e di molto, con la teoria di Kelly (1955), che respinge il ruolo motivante dell'edonismo per l'uomo. L'unica motivazione che conta per Kelly è l'aumento della conoscenza. L'essere umano diviene un attivo costruttore del suo mondo e solutore di problemi, che lega le sue scelte all'incremento della predittività del sistema. In questa ottica l'individuo è mosso esclusivamente dalla necessità di predire e controllare gli eventi: "nessuno è obbligato a essere la vittima della propria biografia". La teoria di Kelly pone le basi del moderno costruttivismo, che ha rafforzato sempre più la tendenza a considerare gli uomini come costruttori del mondo e di se stessi (Maturana, Varela, 1980; Mo rin, 1986), fino a esasperare, nelle teorie costruttivistiche più moderne, il ruolo dell'equilibrio interno e della coerenza del sistema a spese del rapporto con la realtà.

L'ATTACCAMENTO

Notando i segni di sofferenza del bambino staccato dalla madre, e non potendo più accettare la spiegazione psicoanalitica tradizionale, Bowlby ipotizza che la tendenza del bambino a stare attaccato alla figura di riferimento rappresenti ciò che resta di un bisogno di protezione dalla paura dei predatori derivante dalle nostre origini di primati. Questa spiegaziote è molto utile e sembra assolutamente sensa6

Introduzione

ta; da un punto di vista motivazionale essa è "meccanicistica", infatti la vicinanza alla madre serve a trovare la stabilità che consente di esplorare. Vi è quindi uno stato biologicamente preferito, la ricerca dell'equilibrio dopo le perturbazioni e l'attenzione a questi elementi predomina su quella legata alle mete individuali del sistema. Al di là delle diverse direzioni e interpretazioni dell'attaccamento, che qui di seguito andremo a definire, ci sembra che il meccanicismo evoluzionistico della spiegazione bowlbiana possa arricchirsi in termini costruttivisti, che pongano l'attenzione alle costruzioni personali più che ai meccanismi etologici. Senza nulla togliere agli aspetti etologici, il punto di vista che ci interessa sottolineare è che il bambino necessita di un lungo periodo di neotenia perché la relazione con il genitore ha lo scopo di essere la base per l'acquisizione e l'incremento delle proprie possibilità conoscitive. Adottiamo così una spiegazione motivazionale del tipo "uomo simile a Dio", automotivato e attivo costruttore di scopi e mete. Non si tratta di un uomo unicamente razionale e cosciente. Il portato dell'evoluzione non è perduto ma va rivisto in un animale dotato di corteccia cerebrale, in cui il dato biologico assume dimensione cognitiva più o meno consapevole e come tale può essere utilmente trattato. Ad esempio, se l' attaccamento nasce come difesa dai predatori, nell'uomo diviene qualcosa di più: funzionale all'apprendimento in genere, alla protezione dai predatori e a tante altre cose. 11/ocus dell'attenzione evidentemente non è rivolto agli aspetti di similitudine con le radici etologiche, con i primati dai quali deriviamo, ma di differenza, di specificità del nostro apparato conoscitivo. La motivazione fondamentale dell'uomo è per noi la crescita della conoscenza. Il lungo periodo di relazione col genitore serve a imparare gli stili di conoscenza, che sono personali, idiosincrasici, fondamentali nel determinare la struttura della personalità. La teoria dell'attaccamento ha cercato per lungo tempo, senza riuscirci, di trovare correlazioni univoche tra stili di attaccamento e psicopatologia. Noi pensiamo che questo sia impossibile senza il fondamentale passaggio attraverso la costruzione di criteri di conoscenza (perché, lo ripetiamo, l'uomo non è soltanto una scimmia moderna). Con la messa a punto dell'ipotesi sulle categorie della conoscenza troviamo forse, finalmente, il bandolo della matassa nel rapporto tra stili di attaccamento e personalità. La piccola ricerca sperimentale che abbiamo condotto su quaranta soggetti ha confermato la correttezza delle ipotesi e la fertilità della strada intrapresa. La funzione, anche pratica, di un collegamento tra attaccamento, 7

Introduzione

stile di conoscenza e disturbi di personalità non sembra ininfluente per gli effetti che potrebbe avere in clinica. Operare direttamente sugli stili di conoscenza appare infatti fruttuoso in alcuni casi. Lo sviluppo della terapia dello stile di conoscenza (nell'area della creazione delle alternative, così come in quella della gestione delle invalidazioni) si radica nella tradizione kelliana, ma apre a nuovi sviluppi, migliorando comunque la chiarezza interpretativa.

GUIDA ALLA LETTURA DEL LIBRO

Vogliamo sintetizzare in quest'ultimo paragrafo le idee portanti che saranno sviluppate nei diversi capitoli. Il primo tratta delle strategie della conoscenza. L'ipotesi presentata è che l'unica motivazione del comportamento degli esseri viventi sia la costruzione di mappe sempre migliori di se stessi e dell'ambiente; ogni individuo cerca di costruirsi secondo le prospettive di sé che hanno maggiore potenzialità euristica e le rappresenta a se stesso come scopi; la crescita della conoscenza avviene esclusivamente attraverso un processo di congetture e confutazioni sia nella filogenesi che nell' ontogenesi; ogni conoscenza è la modificazione di quella precedente a partire dal bagaglio della conoscenza innata. Il processo di crescita della conoscenza si sviluppa in due fasi: la generazione di alternative e l'eliminazione di quelle errate. I sistemi cognitivi non sono tutti uguali e non agiscono secondo gli stessi meccanismi, ed è proprio il processo di generazione delle alternative che costituisce la discriminante fra sistemi ricchi, che attingono sia alla creatività che all'imitazione, e sistemi poveri, che attingono o soltanto alla creatività (non fidandosi dell'altro) o soltanto all'imitazione (non fidandosi di se stessi). Dopo la generazione di alternative il sistema cognitivo procede allo scarto degli errori: gestisce cioè le invalidazioni. Analizzando questa specifica fase, abbiamo identificato quattro differenti stili cognitivi: la ricerca attiva, che cerca di allargare costantemente i propri confini, di esplorare e di sottoporre alla prova della falsificazione le proprie ipotesi; l' evitamento, che tende a non incorrere in invalidazioni restringendo il campo esplorativo; l'immunizzazione, che annulla gli effetti dell'invalidazione sul sistema con ipotesi ad hoc o con la riduzione del contenuto empirico delle previsioni; l'ostilità, che scredita la fonte dalla quale provengono le invalidazioni e ribadisce con più forza la propria costruzione dei fatti. 8

Introduzione

Il secondo capitolo è dedicato alla crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino. Vi sosteniamo che l'essere umano nasce come "prole inetta", incapace di sopravvivere da solo, ma con una enorme capacità di relazionarsi a un altro essere umano adulto da cui imparare. La conoscenza innata concerne quattro domini cognitivi: gli scopi, le percezioni, le azioni, le emozioni. La conoscenza che si sviluppa prima ancora della differenziazione tra sé e altro da sé riguarda gli stati interni di benessere e di malessere e gli schemi d'azione che li riproducono. La figura di attaccamento, prima di essere riconosciuta come tale, concorre a determinare gli stati interni e quindi a organizzare gerarchicamente gli schemi d'azione: siamo nella fase di sviluppo che chiameremo universo indiviso. Il bambino sviluppa l'ipotesi dell'esistenza del1' altro per risolvere il problema dell'aleatorietà dei propri stati interni nonostante la messa in atto degli stessi schemi d'azione: il contesto in cui agisce non è passivo, ma mutevole e dotato d'intenzionalità. Tutto ciò avviene prima che il soggetto sviluppi un senso di sé. Siamo nella fase che chiameremo diadica senza soggetto; successivamente trova consistenza l' autoconsapevolezza di sé come soggetto, indirizzata a risolvere tre ordini di problemi: l'ineliminabilità degli stati interni, la polarizzazione del campo percettivo, il fallimento dell'imitazione. Una volta che si sia costituito un sé distinto dall'altro sopraggiunge il momento dello sviluppo degli schemi interni d'azione (intern,al working model, IWM) che presiedono alla relazione di attaccamento (questi sono tuttavia successivi allo sviluppo di alcuni criteri epistemologici che si sono stabilizzati prima ancora che si potesse parlare di relazione di attaccamento, secondo il processo che chiameremo coepistemia). Il terzo capitolo si occupa dei pattern di attaccamento e degli stili di conoscenza. Vi si afferma che gli IWM sono articolati su tre piani gerarchici: il più elevato riguarda l'esito atteso del rapporto e si muove lungo il continuum accettazione/rifiuto; quello intermedio è costituito dal modello di sé e dell'altro (che si muovono rispettivamente lungo gli assi amabile/non amabile e accettante/rifiutante); il terzo riguarda le strategie utilizzabili per mantenere la massima prevedibilità sull'esito del rapporto, cioè il massimo di vicinanza possibile, e oscilla tra le polarità opposte della vicinanza stretta e del distacco. All' attaccamento sicuro corrisponde lo stile cognitivo ricerca attiva; all' attaccamento insicuro-evitante corrisponde lo stile immunizzazione; all' attaccamento insicuro-resistente corrisponde lo stile evitamento; all'attaccamento disorientato-disorganizzato corrisponde lo stile ostilità. 9

Introduzione

Per ognuno dei pattern di attaccamento sono descritte le modalità relazionali che favoriscono lo sviluppo dello stile cognitivo corrispondente. Tutti nascono con l'attesa di un attaccamento sicuro: se questa previsione non si verifica, si entra in una fase intermedia e instabile di attaccamento insicuro-ambivalente; se le esperienze di rifiuto si ripetono si evolve verso un attaccamento insicuro-evitante; altrimenti si resta nella fase instabile, a meno che ripetute esperienze di accettazione non riconducano verso l'attaccamento sicuro. Il quarto capitolo analizza il rapporto tra i diversi stili di conoscenza e la personalità. La personalità comprende tutto ciò che è costante e caratteristico nel modo di ciascun soggetto di costruire la realtà, e quindi si articola sulla base dello stile cognitivo. Nei disturbi di personalità, forme estreme e rigide di percepire l'ambiente e di rapportarsi a esso in termini di pensiero, il legame fra personalità e stili di conoscenza è particolarmente evidente. Se non è mai stato possibile stabilire un rapporto diretto fra pattern di attaccamento e psicopatologia, risulta invece percorribile la strada che collega i pattern di attaccamento e la personalità attraverso la mediazione dello stile di conoscenza; per lo sviluppo di una vera e propria patologia (disturbi dell'Asse I del DSM-IV) è invece necessario l'intervento di altri fattori. Esiste una corrispondenza tra attaccamento sicuro, stile di conoscenza "ricerca attiva" e assenza di disturbi di personalità; tra attaccamento insicuro-ambivalente, stile di conoscenza "evitamento" e disturbi di personalità dell' anxious-Jear/ul cluster (ossessivo, evitante, dipendente); tra attaccamento insicuro-evitante, stile di conoscenza "immunizzazione" e disturbi di personalità dell' odd-eccentric cluster (paranoide, schizoide, schizotipico); tra attaccamento disorganizzato, stile di conoscenza "ostilità" e disturbi di personalità del dramaticemotional cluster (narcisistico, borderline, istrionico, antisociale). Il quinto capitolo è dedicato alla psicoterapia. Vi sosteniamo che il paziente desidera che il terapeuta sia una figura ideale di attaccamento, identica alla sua figura di attaccamento reale, cui riconoscere autorevolezza; successivamente al riconoscimento del terapeuta come "validatore autorevole", il paziente cerca di ripetere con lui le transazioni patologiche usuali, ma il terapeuta svela il gioco, lo commenta, ne ricerca le motivazioni. Così, il paziente per la prima volta sperimenta una relazione diversa e il terapeuta, ormai riconosciuto validatore autorevole - anche se non più simile al validatore autorevole della storia privata di attaccamento del paziente -, lo conduce al raggiungimento dell'autostima, passando attraverso un sillogismo del tipo "ora che

Introduzione

hai fiducia in me, dammi retta quando ti dico che puoi fidarti di te stesso". Ogni stile cognitivo segue un itinerario diverso e specifico per giungere a questo risultato e i trabocchetti in cui il terapeuta può cadere sono numerosi. Innanzitutto, per la buona riuscita di una psicoterapia è necessaria la creazione di un linguaggio comune: ogni paziente ha una teoria naive su come funzionano gli esseri umani, su come si originano le sofferenze psichiche e su cosa fare per guarirle, che deve essere esplicitata per poi procedere a modificarla avvicinandola a quella più adatta allo scopo di creare un linguaggio comune. Gli obiettivi terapeutici vanno mirati alla modificazione degli stili di conoscenza errati, sulla base dei quattro stili cognitivi che abbiamo individuato e descritto, affiancando la cura specifica dei problemi clinici. L'appendice 1 riguarda lo stato provvisorio di una nostra ricerca sul collegamento fra pattern di attaccamento, stili di conoscenza e disturbi di personalità. L'oggetto interessante non sta tanto nei risultati, che seppure molto incoraggianti non permettono affermazioni statistiche data l'esiguità del materiale analizzato, quanto piuttosto negli strumenti di ricerca, tra cui il più importante e produttivo è la doppia autodescrizione, che riesce a valutare l'impatto di un'invalidazione sul sistema cognitivo del paziente. Questa ricerca, lungi dall'essere conclusiva, rappresenta l'inizio di un'indagine più meticolosa sulle caratteristiche specifiche degli stili di conoscenza (che forse condurrà anche all'identificazione di altri stili cognitivi, oltre ai quattro che abbiamo già evidenziato) e sul rapporto con i singoli disturbi di personalità e non più grossolanamente con i grandi insiemi (cluster). L'appendice 2, scritta da Lucia Tombolini, illustra gli strumenti utilizzati nello studio clinico dei pattern di attaccamento con particolare riguardo alla Adult attachment interview di Mary Main, che di essi rappresenta il più recente e sofisticato. Il volume si chiude con l'invito ad analizzare le diverse strategie terapeutiche da adottare in sindromi psichiatriche dell'Asse I tenendo conto delle diversità di stile cognitivo del paziente.

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I COSTRUTTI, SCOPI E STILE DI CONOSCENZA

Le persone che pensano tendono a sviluppare qualche struttura concettuale alla quale cercano di adattare qualunque idea nuova in cui capita loro di imbattersi: di solito esse traducono anche qualunque idea nuova in cui si imbattono in un linguaggio adeguato alla propria struttura. Uno dei compiti caratteristici della filosofia è di attaccare, se occorre, la stessa struttura. E a questo fine può rendersi necessario attaccare delle credenze che, consapevolmente sostenute o meno, vengono date per scontate al punto tale che ogni critica a loro rivolta viene considerata perversa o insincera. Ogni volta che è la stessa struttura ad essere attaccata, i suoi difensori interpreteranno, di regola, e cercheranno di confutare l'attacco nell'ambito della struttura da loro adottata. Ma nel cercare di tradurre gli argomenti critici diretti contro la struttura in un linguaggio adeguato a quella struttura essi sono soggetti a produrre fatali distorsioni e malintesi. Popper, 1983

SPIEGAZIONI DEL COMPORTAMENTO

Un bambino piange disperatamente fino a quando la madre non appare, poi la stringe forte a sé, e piano piano si tranquillizza. È un caso frequente e banale. Perché avviene? Qual è la spiegazione? Alcuni asseriranno che il bambino, riconquistata la vicinanza della madre, è più protetto dai predatori e dai pericoli in genere; e che quindi tale comportamento (piangere per richiamare e aggrapparsi) si è selezionato per i vantaggi evolutivi che comporta. Altri vedranno nel comportamento del piccolo l'insopprimibile spinta che tutti gli esseri umani provano verso i propri simili, e che li induce a fare della creazione dei legami affettivi lo scopo principale dell'esistenza. Qualcuno parlerà della necessità di scaricare una tensione interna a carattere sessuale, che utilizza la madre come oggetto più o meno indifferenziato e 13

R. Lorenzini S. Sassaroli

che trova l'unico limite, e sorgente di tutti i conflitti, nelle esigenze del vivere civile contrarie alla selvaggia e incontrollata espressione delle pulsioni. Altri ancora diranno che mantenere la vicinanza con la madre è una delle tante caratteristiche di cui è dotato biologicamente l'essere umano alla nascita e alle quali si aggiungeranno quelle che apprenderà nel corso della vita dal suo ambiente culturale. Alcuni infine giungeranno a sostenere che il bambino sta cercando di orientarsi in un mondo sconosciuto e che l'importanza della madre sta nel suo rappresentare l'accesso privilegiato alle informazioni su di sé e sul mondo che gli permetteranno di costruire una mappa dettagliata con cui muoversi con successo e fiducia in se stesso. Ognuna di queste osservazioni è plausibile, dà ragione del fenomeno e sembra trovarvi conferma. Nessuna di esse è vera nel senso di "corrispondente ai fatti", ognuna ci dice più cose su colui che descrive che sulla cosa descritta. La prima interpretazione rivela che chi la utilizza osserva le cose da un punto di vista evoluzionistico e quindi che privilegia i dati della continuità tra le specie. La seconda appartiene alle teorie relazionali che tentano di spiegare il comportamento umano usando come movente unico la creazione dei legami interpersonali, la costruzione delle abilità sociali. La terza è l'interpretazione di uno psicoanalista che privilegia l'aspetto pulsionale e il conflitto intrapsichico come centro della spiegazione in psicologia. La quarta appartiene a un cognitivista "razionalista", o a un teorico della scopistica, che si disinteressa dei fini ultimi del comportamento e si limita a descrivere ciò che avviene e ciò che il soggetto consapevolmente persegue. L'ultima spiegazione infine è una prerogativa dei costruttivisti kelliani, che tentano di spiegare ogni comportamento sulla base di un'unica motivazione: la spinta di tutti gli esseri viventi ad aumentare la propria capacità predittiva (CP). Poiché nel nostro tentativo di spiegare il comportamento di attaccamento utilizzeremo quest'ultima prospettiva, corre l'obbligo di sottolinearne i vantaggi in termini di coerenza interna, di potenzialità esplicativa e di contenuto empirico. A nostro avviso le spiegazioni pllirimotivazionali non permettono di fare previsioni su quale sarà, di volta in volta, la motivazione prevalente nel guidare il comportamento. Queste spiegazioni infatti ricorrono a risorse esterne al sistema motivazionale che si sta osservando, quali l'arbitrio casuale del singolo o il determinismo ambientale rigido, quando non sono semplicemente ipotesi post hoc. Inoltre comportano il rischio di uno slittamento all'infinito del tipo: "seguendo quale motivazione il soggetto in 14

Costruttt; scopi e stile di conoscenza

questo momento ha preferito seguire questa motivazione invece che quest'altra?". Affrontare il problema attribuendo all'ambiente e agli stimoli in esso presenti la responsabilità di attivare ora l'uno ora l' altro sistema comportamentale ci sembra una soluzione debole, che riporta a una visione della mente come imbuto, passivo recettore distimoli esterni invece che attivo costruttore di significati. Se è il soggetto stesso a scegliere, in base a quale valutazione lo fa? Possiamo aggiungere che questo tipo di spiegazioni si presta facilmente a manovre di difesa o immunizzazione dalle invalidazioni con la creazione di ipotesi circolari: per spiegare un comportamento che genera un certo stato è sufficiente affermare che il raggiungimento di quello stato è uno scopo del sistema. Se poi le diverse motivazioni hanno un ordine gerarchico per cui "farsi la barba al mattino" non è dello stesso livello che "essere amato", ma è a esso seriamente subordinato, allora si finisce per identificare un numero variamente limitato di motivazioni fondamentali, rispetto alle quali occorre chiedersi: da dove vengono, quale regola ne stabilisce i rapporti, qual è l'ordine gerarchico? Non definire bene questi parametri fa slittare inevitabilmente verso le "teorie conflittuali" della mente (Mancini, 1992), secondo le quali nella mente si agiterebbero tendenze diverse, che perseguono scopi opposti e contrastanti, spesso corrispondenti a parti e "profondità" diverse della psiche, in reciproco conflitto perenne (Fossi, 1993 ). Estremamente popolari per la facilità con cui sembrano dare ragione di ogni evento e soprattutto della sofferenza psichica, tali spiegazioni sono infine euristicamente poco valide perché, per dirla con Popper, la classe dei loro falsificatori è vuota. Vale a dire che a posteriori sono in grado di spiegare qualsiasi fenomeno e il suo opposto; nulla può dimostrarle false e quindi sono sempre applicabili, ma non riescono a prevedere alcunché: tutto le conferma, niente le invalida, tutto spiegano, nulla anticipano.

LA MASSIMIZZAZIONE DELLA CAPACITÀ PREDITTIVA Il ricorso a un principio esplicativo unico rappresenta il nucleo metafisico da cui partiamo, osservando che offre molti vantaggi in termini di coerenza interna del nostro discorso, aiutandoci a evitare la confusione che la pluralità dei principi esplicativi porta nel discorso. Per Kelly l'incremento della CP è l'unica motivazione che ci guida nel nostro viaggiare nel mondo. È facile osservare che impiegare que15

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sta chiave interpretativa è incongruo se si tratta di spiegare, poniamo, perché mai stiamo andando a prendere un caffè. Per chiarire il senso con cui intendiamo utilizzare questo principio esplicativo nel nostro lavoro occorrono dunque alcune precisazioni. Indubbiamente la sola massimizzazione della capacità predittiva (MCP) appare insufficiente a sostenere una teoria della motivazione che dia ragione di ogni aspetto del comportamento umano. È difficile immaginare che atti quali entrare in un bar per prendere il caffè, accendersi una sigaretta o scegliere il luogo delle vacanze estive siano finalizzati all'incremento della propria CP. Si va a prendere un caffè perché si giudica buona o rinfrancante questa bevanda, o perché si intende attraverso questa azione perseguire un altro obiettivo ritenuto soddisfacente? Di fatto la MCP, nella mente individuale, non è rappresentata come uno scopo del comportamento se non in occasioni rare e particolari. Dobbiamo dunque precisarne meglio i contorni, ricordando come gli studiosi che utilizzano la scopistica si muovano in questo campo agevolmente, riuscendo a produrre modelli convincenti. Prima di tutto bisogna distinguere tra scopi terminali e strumentali (o scopi mezzo). Sono scopi strumentali quelli perseguiti in un piano cioè in vista di qualche sovrascopo, non per sé soli; sono terminali al contrario quelli che non hanno, nella mente, nessun sovrascopo in vista del quale sono perseguiti. A nostro avviso la mente è guidata da una molteplicità di scopi terminali [. .. ] alcuni di essi sono innati, ma molti sono appresi socialmente. (Miceli, Castelfranchi, 1992)

In sostanza gli scopi o sono strumentali per il raggiungimento di altri scopi, come farsi la barba per "essere gradevoli all'amata", o sono terminali. Degli scopi strumentali non vale la pena di occuparsi in una teoria generale della motivazione, benché la loro conoscenza (e la loro gerarchia nei piani al cui vertice c'è comunque uno scopo terminale) sia molto utile per spiegare le sequenze comportamentali osservabili. Gli scopi terminali rappresentano invece il vero motore del comportamento, il senso profondo del nostro agire. Possono essere tali sin dall'inizio o diventarlo con il tempo. Esiste un processo di "terminalizzazione"per cui uno scopo originariamente strumentale a un altro acquista autonomia motivazionale. Tale processo di terminalizzazione degli scopi è parte fondamentale dell'evoluzione dei bisogni degli individui e dei loro caratteri. Quando si dice che noi non abbiamo semplicemente fame, ma abbiamo, nella

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Costrutti, scopi e stile di conoscenza

nostra cultura "fame di spaghetti" si dice che lo scopo attivo nella nostra mente non è alimentarsi (magari per endovena) bensì mangiare ciò che abbiamo imparato a mangiare. Il generico scopo di mangiare, raggiunto dal sottoscopo "mangiare spaghetti" si è stereotipato nel suo sottoscopo. Esso non si attiva da solo, non si pone come problema e meta da raggiungere direttamente, si attiva, ed è meta, il mangiare quel cibo. Quando si dice che il modo di soddisfare un bisogno crea un nuovo bisogno ci si riferisce appunto al processo di terminalizzazione. (Miceli, Castelfranchi, 1992)

Di solito le persone non sanno spiegare perché perseguono i loro scopi terminali, siano essi innati, appresi o frutto di terminalizzazione. Il più delle volte, interrogate, rispondono di farlo perché è piacevole, manifestando meraviglia per il fatto che si domandi loro qualcosa che dovrebbe essere ovvia per tutti gli esseri umani. È perciò utile ricordare che gli scopi terminali corrispondono in genere a funzioni di sopravvivenza della specie (soprattutto quelli innati), o di mantenimento del proprio gruppo (soprattutto quelli appresi), e che tali funzioni tendono a essere perseguite inconsapevolmente dall'individuo convinto di perseguire semplicemente la ricerca del proprio piacere. Così come mangiare gli spaghetti persegue soltanto indirettamente lo scopo dell'alimentazione e quindi della sopravvivenza individuale, il rapporto sessuale non è di norma ricercato allo scopo di contribuire alla sopravvivenza della specie, ma perché è considerato piacevole. Con quale criterio il soggetto sceglie tra diversi scopi? Su quale base individuale uno scopo vale più di un altro? La scopistica risponde a queste domande introducendo il concetto di coefficiente di valore. Nella determinazione del coefficiente di valore degli scopi, sempre secondo Miceli e Castelfranchi, interagiscono fattori di utilità, la storia del soggetto, la sua personalità, fattori emotivi o fisiologici: insomma elementi extracognitivi. Si sceglie quindi tra scopi, ma su che base uno scopo prevale sull'altro? Su che base "vale" più dell'altro? Come abbiamo già detto gli scopi hanno un loro coefficente di valore, che deriva, per gli scopi strumentali dalla loro utilità rispetto ai fini terminali, cioè dalla loro importanza nel piano; per gli scopi terminali dai cicli biologici, dalla "personalità" del soggetto, dalla sua storia e apprendimento; per gli impulsi fisiologici ed emotivi dal livello di attivazione [ ... ]. Il soggetto è costruito in modo tale da perseguire tra più scopi quello che per lui ha maggior valore. (Miceli, Castelfranchi, 1992)

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R. Lorenzini S. Sassaroli

Per quanto riguarda gli scopi strumentali, il loro valore è tanto maggiore quanto più essi sono utili al raggiungimento di scopi terminali. A proposito invece degli scopi terminali, delle vere motivazioni finali del comportamento, il giudizio di Miceli e Castelfranchi sul dipendere del loro valore da fattori extracognitivi merita un approfondimento. I fattori extracognitivi presentano il difetto di essere poco definiti, molteplici, connessi da relazioni non chiare, eterogenei. Utilizzarli per spiegare il problema degli scopi terminali sembra perciò rispondere più alle esigenze dello studio di modelli simulabili di singoli piani comportamentali che non alla necessità clinica di ottenere una descrizione soddisfacente dell'itinerario generale di un'esistenza, o della storia complessiva di una reiterata sofferenza. La nostra proposta è di mantenere sotto il dominio cognitivo anche i fini ultimi della motivazione e di considerare perciò la MCP come la regola che il sistema persegue nell'attribuzione del coefficiente di valore ai singoli scopi, nella loro gerarchizzazione e terminalizzazione: quindi nella scelta di quali scopi di volta in volta privilegiare e perseguire. Questa posizione teorica "dura" ci permette di esprimere previsioni più chiare e con maggiore capacità esplicativa. La MCP non è uno scopo rappresentato, un obiettivo del soggetto (consapevole o inconscio che sia), ma la regola che definisce il divenire del sistema stesso, il suo costituirsi secondo una certa gerarchia, che porta a compiere certe scelte piuttosto che altre. Potremmo paragonare la MCP alla forza di gravità: tutti i corpi tendono a cadere verso il basso, accelerando la velocità di caduta, senza nulla sapere della forza di gravità, che non è in alcun modo un loro scopo, ma soltanto una chiave che un osservatore esterno della caduta può utilmente impiegare per descrivere ciò che sta accadendo e prevedere ciò che accadrà. Così a nostro avviso la MCP è il mezzo migliore con cui un osservatore esterno può descrivere e prevedere il divenire di un sistema cognitivo, e più in generale di un sistema vivente, fermo restando che occorre tenere ben distinto il modo con cui un sistema rappresenta se stesso dalle regole effettive del suo funzionamento. Non tutti i sistemi viventi cognitivi si autorappresentano. Ma questa è senza dubbio una caratteristica del sistema uomo, il quale si autodescrive come guidato da scopi che, entrando in conflitto tra loro, generano disagio (ciò non significa che la teoria del conflitto sia la maniera migliore di spiegare il disagio). Possiamo chiarire allora perché non sia necessario ricorrere a meccanismi diversi per spiegare il doppio significato del termine "motivazione" come ciò che governa le 18

Costrutti; scopi e stile di conoscenza

singole azioni del sistema e ciò che governa l'evoluzione del sistema stesso. È evidente che si tratta di domini di fenomeni diversi, pur se interconnessi. Eppure ora vedremo che funzionano entrambi secondo la stessa regola. Il primo dominio attiene alla questione: "Come il sistema rappresenta a se stesso il suo funzionamento e come sceglie le singole azioni?". La risposta è: "Perseguendo scopi ritenuti importanti e/o piacevoli dal sistema stesso". Il secondo dominio attiene alla questione: "Come funziona il sistema e come tende a evolversi?". La risposta è: "Secondo la MCP". Il punto di raccordo tra i due domini è nel fatto che si ritiene importante e/o piacevole ciò che accresce la CP del sistema. Anche gli scopi che governano le azioni quotidiane confluiscono così in scopi superordinati, che conducono inevitabilmente a scopi identificabili come costruzioni di sé che il soggetto ritiene auspicabili perché altamente euristiche.

COSTRUTTI E SCOPI

Chiediamo al lettore un po' di pazienza: occorrono alcune ulteriori precisazioni per introdurre il nostro ragionamento centrale. Un concetto kelliano che intendiamo utilizzare in una cornice teorica aggiornata assume come elemento fondamentale del sistema cognitivo il costrutto. Il costrutto è una discriminazione bipolare che il sistema ope- o ra sulla realtà. L'opposizione tra i due poli di un costrutto (bianco-nero, amico-nemico, buono-cattivo) non è logica ma psicologica. Ogni costrutto ha un suo specifico campo di applicabilità: è utile a discriminare certi eventi, ma non altri. Ad esempio il costrutto dolce-salato è utile quando siamo a tavola o tra i fornelli, mentre è inapplicabile se non in senso spericolatamente metaforico - quando stiamo osservando i quadri di un museo. I costrutti, sempre secondo Kelly, sono organizzati gerarchicamente. Tra loro sussistono principalmente due tipi di legame: di implicazione e di applicazione. Un costrutto ne implica altri quando il fatto che una sua polarità si dimostri vera fa prevedere che anche altre polarità di altri costrutti siano altrettanto vere. Ad esempio, se nel mio sistema il costrutto uomo-donna implica sincero-falso, affidabile-infido, amico-nemico, quando incontrerò un uomo mi aspetterò che egli sia sincero e affidabile, e che mi sia amico, mentre se incontrerò una donna mi aspetterò che sia falsa, infida e sostanzialmente nemica. Ciò mi permette, a partire da un solo elemen19

R. Lorenzini S. Sassaroli

t to, di fare delle previsioni, vale a dire di applicare dei pregiudizi (vedi

figura 1.1). La relazione di applicazione, ben studiata da Mancini (1987), lega costrutti di livello gerarchico diverso. Indica che, quando un polo di un costrutto superordinato è attivato, sono utilmente applicabili tutte le discriminazioni bipolari generate dai costrutti subordinati a quel polo. Ad esempio immaginiamo un costrutto del tipo vivente-inanimato (vedi figura 1.2): soltanto quando è attiva la polarità "vivente" sono applicabili costrutti del tipo uomo-animale, maschio-femmina, vegetale-animale, amico-nemico. Rimandiamo chi volesse approfondire la struttura e il funzionamento dei costrutti alle ormai numerose pubblicazioni in lingua italiana segnalate in bibliografia. Proseguendo il nostro ragionamento, chiediamoci invece dove siano, in un sistema di costrutti, gli scopi.

► Affidabile ◄

► Sincero ◄

Uomo ◄



' I ! I

~



► Falso~

Donna ◄ ------



I

Infido



◄---~

Amico

I

Nemico

----

Figura 1.1 Il rapporto di implicazione tra costrutti. La doppia freccia indica un rap-

porto di reciproca implicazione del tipo "se ... allora ... "; ad esempio "Se è amico allora è anche sincero", "Se è nemico è anche falso".

Vivente • Vegct,leo - -

• Inanimato

1-Annruùe __ __

Uomo------1-

------

• Bestia

1

Colto e-- ____L---e Ignorante

~

Maschki-.-===--~--•Femmina

Selvaggia ••-----• Domestica

Figura 1.2 Il rapporto di applicazione tra costrutti. In questo sistema: solo se si da la polarità "vivente" è applicabile il costrutto sottordinato "vegetale-animale" e solo se

si attiva la polarità "animale" sarà applicabile il costrutto "uomo-bestia" (ed anche "maschio-femmina" che è sullo stesso livello gerarchico) ed infine solo se si da la polarità "uomo" diviene utilizzabile il costrutto "colto-ignorante".

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Costrutti, scopi e stile di conoscenza

L'ipotesi kelliana spiega in modo interessante come il soggetto conosca e faccia previsioni sulla realtà, ma non risolve il problema motivazionale. Il soggetto funziona come uno scienziato, ma non è interessato esclusivamente alla scoperta della verità, essendo assolutamente di parte nel tentativo di realizzare certe situazioni piacevoli, che descrive a se stesso come suoi scopi. Sembra anzi che la stessa ricerca della verità possa essere subordinata alla realizzazione di tali scopi, come se saperne di più, essere più competenti, fosse perseguito soltanto in quanto ne facilita il raggiungimento. È questa la posizione degli scopisti che riducono a un ruolo strumentale gli scopi da essi definiti "epistemici". Non a caso un sistema regolato da scopi, quanto più è complesso ed evoluto, tanto più sarà dotato di scopi epistemici, cioè di scopi relativi ali' acquisizione di conoscenze che al momento non gli servono, ma , potrebbero servire in futuro, in circostanze in cui l'individuo potrebbe non avere modo o tempo per acquisirle. (Miceli, Castelfranchi, 1992)

Nel modello scopistico conoscere è strumentale al raggiungimento degli scopi, mentre per Kelly è esattamente l'opposto: si perseguono gli scopi che aumentano la propria CP; in pratica la MCP è l'unico scopo del sistema. A questo punto è indispensabile chiedersi cosa sia esattamente la MCP, e se l'assunzione di una sua funzione così rilevante possa dare ragione del variegato comportamento umano altrettanto bene del modello scopistico, comportando però il vantaggio della spiegazione monomotivazionale.

CAPACITÀ PREDITTIVA E PREVISIONI

Occorre distinguere tra CP e previsioni del sistema. Un esempio pertinente è quello del condannato all'impiccagione che aspetta l' esecuzione, di cui è ormai assolutamente certo. Quando bussano alla sua porta ha una sorpresa: non sono i suoi carnefici, bensì il suo avvocato, che gli comunica la concessione della grazia. Il condannato gioisce. Ma il fallimento della sua previsione di morire non avrebbe dovuto provocare un vuoto predittivo, con un sentimento di sconcerto e tristezza? L'arrivo dei carnefici, coerente con le previsioni, sarebbe stato dunque preferibile? 21

R. Lorenzini S. Sassaroli

Mirare all'aumento della CP non vuol dire avere come scopo che tutte le previsioni siano vere. Talvolta ci si augura che siano errate, e si gioisce nel constatarlo, come nel caso del condannato a morte, il cui scopo è restare vivo, anche se prevedeva che sarebbe morto. Il malcapitato prevedeva di lì a poco di spostarsi dal polo "vivo", da lui ben conosciuto, al polo "morto" del costrutto vivo-morto. Questa seconda polarità è per lui molto povera di CP. Per questo, alla notizia della grazia, gioisce nonostante il fallimento della sua previsione: ora si aspetta di rimanere nell'altra polarità del costrutto, che è molto più ricca di CP. La differenza tra scopi terminali e previsioni è proprio questa. Ogni previsione sui fatti che accadranno comporta anche la previsione di quanta CP avrà il sistema quando si troverà nella situazione concreta prevista, ed è proprio questo bilancio di perdita o aumento di previsionalità che rende la situazione prevista gradevole o sgradevole, da ricercare o da fuggire. Il sistema quindi non prevede ciò che rende massima la sua CP. Al contrario, prevede ciò che è verosimile che avvenga, e lo fa al fine di poter intervenire al meglio per perseguire ciò che rende la sua CP più alta. Le previsioni sono uno strumento per mettere in atto strategie di crescita conoscitiva e tanto più sono precise, tanto più sono efficaci. È utile prevedere di essere impiccato per poter fare di tutto per evitarlo, e mantenersi così in stati di alta CP. La regola potrebbe essere sintetizzata così: "Fai previsioni sensate e cambiale rapidamente quando non lo sono, perché solo così potrai fare in modo di trovarti nelle situazioni che preferisci e cioè quelle molto costruite, euristiche, predittivamente ricche". Fare previsioni sensate è strumentale rispetto al mantenimento di situazioni ad alta CP, che costituisce invece lo scopo generale del sistem~ Le emozioni sono segnali interni che informano il sistema di quando sta per raggiungere o fallire lo scopo della MCP. Non riguardano la validazione o l'invalidazione di una previsione, come dimostra l'esempio del condannato a morte.

COSA INTENDIAMO PER CAPACITÀ PREDITTIVA

In prima battuta potremmo dire che la CP del sistema, in un certo momento, è pari al numero di costrutti con cui costruisce gli eventi che si trova a fronteggiare in quel momento. In questo senso la CP cambierebbe in relazione agli eventi: la nostra CP può essere molto elevata di fronte a un cliente nevrotico, ma diventare molto bassa su

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Costrutti; scopi e stile di conoscenza

una piccola barca in mezzo al mare in tempesta. Benché noi preferiamo lavorare piuttosto che rischiare il naufragio, ciò non impedisce di prevederlo quando l'acqua sale nella barca. Se in via teorica volessimo misurare la CP assoluta di un sistema essa dovrebbe coincidere con il numero dei costrutti con cui costruisce tutti gli eventi possibili,~ e quindi con il numero dei costrutti e dei livelli gerarchici del sistema. Poiché la regola del divenire del sistema è la MCP, da questa prima definizione si deduce che il sistema tende a complessificarsi, aumentando il numero di costrutti e dei livelli gerarchici (Mancini, 1992). Potrebbe tuttavia essere più utile definire la CP come "una misura del potere costruttivo del sistema in un suo stato". Vi sono in proposito due aspetti da chiarire: che cosa misura il "potere costruttivo" e cosa si intende per "stato del sistema". Il potere costruttivo è il numero di carte da giocare che il sistema ha in un dato stato. Fuor di metafora, il numero di alternative costruttive che ha a disposizione per la ricchezza di ogni singola alternativa. Qualcosa dunque che precede l'elaborazione di singole previsioni, o l'attuazione di certi piani, e misura la potenzialità di elaborazione di previsioni, o di attuazione di piani. Tornando all'esempio precedente, diremo che di fronte a un cliente nevrotico abbiamo in testa molte previsioni e sappiamo cosa fare, mentre sulla barca in una tempesta non si sa assolutamente che pesci prendere, anzi si teme che i pesci prendano noi. Resta da definire cosa intendiamo per "stato del sistema", o "situazione in cui un sistema si trova". È il punto di vista dal quale il sistema si mette per costruire il mondo; è quindi uno stato del sé. Quando parliamo di scopi terminali come stati del sé non intendiamo riferirci al "sé" soggetto, che tanta letteratura ha suscitato, ma al "me" oggetto di costruzione al pari degli altri oggetti della realtà. Rispetto a questo oggetto il soggetto può formulare descrizioni e preferenze esattamente come fa per gli altri oggetti. L'affermazione "Io dico che questa sedia è dura e vorrei che fosse morbida" è esattamente analoga all'affermazione "Io dico che sono povero e vorrei essere ricco". "Vorrei essere ricco" descrive una situazione del sé che è preferita, quindi agisce come uno scopo del comportamento. Ma l'unica ragione che la rende preferita è, secondo noi, il fatto che nel sistema del soggetto essa sia riccamente costruita (con molti scopi subordinati): riconoscersi in essa aumenta perciò la CP del soggetto. La CP è allora la quantità dei costrutti che divengono applicabili quando è attiva una certa costruzione del sé; in sintesi è la potenzialità euristica delle varie posizioni del sé. La regola motivazionale della MCP afferma perciò che il sistema tende, preferi-

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sce, opera per trovarsi negli stati del sé ricchi di implicazioni costruttive. Se la sola regola motivazionale del divenire dei sistemi fosse la MCP, le singole previsioni avrebbero il solo scopo di essere il più attendibili possibile al fine di meglio perseguire tale regola. L'esperienza clinica conferma che i cambiamenti di costruzione di sé (" Mi pensavo in un certo modo e invece mi riconosco in un altro modo"), o l'arricchimento euristico di una determinata costruzione di sé che resta confermata ("Neppure immaginavo quante cose si potessero fare dopo il fallimento del mio matrimonio e credevo che separarmi equivalesse a morire") sono decisivi per la CP del soggetto e quindi per il suo benessere o la sua sofferenza. I vestiti di Giovanna

Giovanna, ventotto anni, aveva vissuto tutta la sua esistenza in famiglia con l'impressione che i genitori si aspettassero da lei che diventasse una professionista affermata in campo scientifico. La madre aveva studiato fisica per due anni ma era stata costretta a lasciare l'università per ragioni economiche. Il padre, ragioniere, aveva sempre rimpianto di non aver conseguito una laurea in ingegneria, impossibile data la sua condizione di figlio di operai. Giovanna non riusciva ad ammettere, neanche di fronte a se stessa, che i suoi gusti e le sue preferenze non fossero di tipo scientifico. Era venuta in terapia per un problema di "ansia da prestazione" che le aveva impedito di dare esami da quando, sette anni prima, si era iscritta a matematica. La presa di coscienza del suo disinteresse per la matematica fu molto lunga e dolorosa, ma coincise con il calo drastico e definitivo della sintomatologia ansiosa. Soltanto molto tempo dopo, falliti altri tentativi di studiare prima legge e poi lettere e filosofia, Giovanna si rese conto di quanto si sentisse sollevata scegliendo di lasciare l'università, iscriversi a un corso di ricamo e modellistica da sartoria, per aprire infine un negozio di vestiti da sposa su misura.

GLI SCOPI COME COSTRUZIONI EURISTICHE DEL SÉ

Riprendendo il modello scopistico per utilizzarlo in una prospettiva kelliana, possiamo ipotizzare che il sistema abbia una serie di scopi riferiti a come preferisce considerare se stesso (essere bravo, onesto, amato) e altri scopi riferiti all'esterno (gli altri, le cose). Gli scopi riferiti all'esterno sono generalmente strumentali rispetto ai primi. Ad esempio avere lo scopo che il prezzo di un appartamento sia accessibile è strumentale allo scopo di acquistarlo, quindi allo scopo di esse24

Costrutti; scopi e stile di conoscenza

re possessore di una casa, che a sua volta può essere strumentale ad altri scopi riferiti a preferenze di stato come sentirsi ricco, oppure essere idoneo al matrimonio. Ancora, avere lo scopo che il proprio rivale sul lavoro sia riconosciuto per quell'inefficiente che è, serve allo scopo di essere il più stimato e quindi essere il capo. Ripetiamo così che tutti gli scopi strumentali si rifanno a scopi terminali. Sembra però di poter asserire che "tutti gli scopi terminali riguardano preferenze di stato del sistema, che implicano aumento di articolazione e ricchezza costruttiva". Più tali stati preferiti hanno potenza euristica, più sono utilizzati dal sistema come motivazioni del comportamento e autorappresentati come scopi dal soggetto stesso. Il coefficiente di valore (cv) di uno scopo equivale alla CP che il sistema esprime definendosi con quella polarità del costrutto che è assunta come scopo. CP e cv si equivalgono e sono pari al numero di costrutti applicabili quando quella costruzione è attiva o, per dirla in termini scopistici, quando lo scopo terminale è stato raggiunto. Ci sembra che il problema così impostato spieghi il vantaggio di una buona autoimmagine. Se infatti è chiaro il vantaggio dello scopo dell'autovalutazione oggettiva, considerata un normale scopo epistemico ("Più ne so di qualcosa, compreso me stesso, e meglio posso raggiungere i miei scopi"), meno evidente è il vantaggio di avere lo scopo di una buona autoimmagine. Quale utilità trova il sistema nel distorcere sistematicamente i dati per sopravvalutarsi? (Miceli, Castelfranchi, 1995) Abbiamo già argomentato che gli stati desiderati, il "come si vorrebbe essere", sono tali proprio perché appaiono ricchi di CP; il vantaggio dello scopo della buona autoimmagine consiste allora nel fatto che il soggetto, vedendosi positivamente, può utilizzare il potere euristico di quella prospettiva. Se mi considero un buon terapista piuttosto che un modesto praticante il mio mondo soggettivo diventa immediatamente più ricco, conosco meglio me stesso, so meglio che cosa fare e che cosa non fare. In sintesi, la nostra posizione media tra il modello scopistico, secondo il quale "conoscere è strumentale al raggiungimento degli scopi", e quello kelliano per cui "si perseguono gli scopi che aumentano la propria CP". Raccoglie così i vantaggi di entrambi: la meticolosità e il contenuto empirico del primo e l'efficienza della teoria motivazionale unica del secondo. Gli scopi perseguiti dal sistema altro non sono che descrizioni di sé ad alta CP. È più utile parlare di scopi quando ci si riferisce all' autorappresentazione interna che il sistema ha di se stesso, e in termini di MCP quando ci si riferisce alla regola che governa il sistema come potrebbe descriverla un osservatore esterno.

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Tutti i sistemi viventi tendono a rendere massima la propria CP. I sistemi complessi hanno nell'emozione uno strumento che li informa sull'andamento di questo processo, il successo o il fallimento del tentativo di incrementare la propria CP. I sistemi più sofisticati, tra cui l'uomo, possiedono oltre alle emozioni una rappresentazione di sé in cui la regola del divenire secondo la MCP viene tradotta in termini di scopi. Le teorie relazionali enfatizzano tra le motivazioni la spinta all'interazione con il sociale, e non c'è dubbio che la relazionalità sia una componente indispensabile dell'uomo. All'opposto le teorie pulsionali attribuiscono il ruolo di motivazione essenziale alla soddisfazione dei bisogni. Entrambi questi approcci si riferiscono a territori fondamentali dell'esperienza umana, ma non al principio base utilizzato da ogni soggetto nel costruire la propria vita, che è la MCP. Trattano dunque del campo dove si svolge la partita, non delle regole del gioco, né dei suoi scopi.

COSTRUTTIVISMO E CONOSCENZA INNATA

Vita e conoscenza sono indistinguibili. Ogni essere vivente, per quanto semplice e primitivo, compie discriminazioni sulla realtà. Discrimi.,nare è l'atto epistemico fondante di ogni conoscenza. Le discriminazioni che il vivente compie ci informano su di lui assai più che non sull'effettiva natura della realtà; dipendono infatti dalla sua struttura e dai suoi bisogni, che a loro volta derivano dal suo rapporto con la realtà. Sembra ad esempio che le rane vedano un mondo completamente diverso dal nostro in cui risaltano quasi esclusivamente le cose piccole in movimento, perché le rane si cibano di insetti che catturano con precisi e veloci colpi di lingua. A questo sono interessate e questo vedono, mentre ignorano le superfici immobili e colorate: perciò non frequentano mostre di pittura. Naturalmente non ha senso dire che le rane vedono peggio di noi, eleggendo noi stessi a parametro della "qualità" del vedere. Le rane vedono la realtà delle rane, i pipistrelli quella dei pipistrelli, gli uomini quella degli uomini, e ogni uomo ne vede una propria. Tale è in sostanza l'essenza concettuale del costruttivismo: ogni vivente nel conoscere la realtà la costruisce, tracciandone una mappa che ha l'unico obiettivo di permettergli di raggiungere i suoi scopi; pensare che la mappa corrisponda al territorio, che sia il territorio stesso, che sia "vera", è un clamoroso errore verso cui già Bateson ci aveva messo in guardia. Non esistono map-

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Costrutti; scopi e stile di conoscenza

pe più "vere" di altre; le mappe sono incomparabili: una rana morirebbe di fame se avesse una mappa umana della realtà e anche per noi non sarebbe buona sorte vedere solo moscerini guizzanti e imprendibili. D'altra parte tra viventi della stessa specie c'è chi possiede mappe e "migliori" di altre: sono gli individui che hanno più successo, vivono · meglio, più a lungo e generando più figli. Un falco miope, un cane raffreddato e un uomo demente costruiscono le loro realtà in modo più povero e inefficiente di altri individui della stessa specie, e ciò certamente non facilita la loro esistenza. Costruire buone mappe, sempre più dettagliate, ricche e attendibili è la migliore garanzia di successo sia per l'ameba che per Borges. Si potrebbe obiettare che anche "avere buone mappe" non sia la motivazione finale, ma una delle motivazioni strumentali al raggiungimento dei propri scopi, e in particolare all'adattamento di successo dove !'inclusive fitness è l'unico fine in sé. "Avere buone mappe" coincide con il principio della MCP. A nostro avviso tra la MCP e l' inclusive fitness non è opportuno stabilire una gerarchia del tipo "l'una cosa serve all'altra" o viceversa, perché crediamo che si tratti della stessa cosa, descritta da due punti di vista diversi: si parla di mappe in una prospettiva psicologica e di fitness in prospettiva evolutiva; avere buone mappe di sé e dell'ambiente vuol dire essere ben adattati, e viceversa. Se avere buone mappe è una sorta di assicurazione contro gli insuccessi (ovviamente le mappe saranno diverse a seconda di quale successo si desideri, se mangiare mosche è diverso dallo scrivere romanzi) non c'è da meravigliarsi che il miglioramento delle proprie mappe o, detto in altri termini, l'incremento della propria CP, sia uno scopo generale di tutti i viventi. Alcuni pezzi della mappa li possediamo già alla nascita, perché sono scritti nel patrimonio genetico: ad esempio gli organi di senso di ogni specie colgono prospettive della realtà diversificata secondo l'habitat in cui è probabile che quella specie dovrà vivere. Gli orsi bianchi nascono di quel colore e con il pelo folto perché si aspettano di vivere al freddo. Il piccolo umano si aspetta di incontrare adulti protettivi che si occuperanno di lui, insegnandogli il complesso know-how necessario alla specie umana, e gran parte delle cose che sa fare fin dalla nascita servono proprio ad attrarre l'attenzione e la tenerezza dei genitori. Su queste previsioni innate, che costituiscono una sorta di pacchetto di conoscenze di base, comune agli individui della stessa specie e fornito gratuitamente alla nascita, si sovrappongono le conoscenze individuali che si acquisiscono durante 27

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la vita con la propria esperienza, e che differenziano sempre più i singoli individui all'interno della stessa specie: per questo i neonati piangenti nella nursery di una clinica ostetrica si assomigliano assai più di quando torneranno cinquant'anni dopo a incontrarsi a una cena di compleanno. Via via che scendiamo nella scala biologica la conoscenza innata tende a prevalere e quella appresa a ridursi. Al contrario, l'aumento della complessità biologica comporta che la conoscenza innata, da sola, diventi sempre meno adatta alla sopravvivenza (prole inetta). L'uomo ne dà la più evidente dimostrazione con l'enormità della massa di dati innati che deve affinare dopo la nascita con l'esperienza, a cominciare da quella particolare esperienza che è il rapporto di attaccamento/accudimento.

CRITICA ALL'INDUZIONE

Si è già visto come la conoscenza, intesa quale attributo peculiare del vivente, consista in un processo il cui fattore essenziale è la possibilità di operare discriminazioni, superando con questo i limiti altrimenti inevitabili della razionalità e della coscienza. Diventa a questo punto necessario entrare nei meccanismi con cui si accresce la conoscenza. Siamo con Popper quando afferma che l'unica modalità di crescita della conoscenza, sia nell'ontogenesi che nella filogenesi, è per congetture e confutazioni, cioè per tentativi, errori ed eliminazione degli errori. Rifiutare l'induttivismo è perciò un passaggio obbligato. Pensiamo infatti che in psicologia sia possibile, e utile, avere a riferimento un "costruttivismo realista" che, pur riconoscendo al soggetto la responsabilità della costruzione del suo mondo di significati, ribadisca il suo ruolo di interlocutore "negativo" della realtà: un interlocutore che non dice mai dei "sì" definitivi, ma è certo in condizione di pronunciare dei "no" chiari e netti. In altri termini, l' esperienza è il banco di prova cui il soggetto sottopone le sue aspettative, piuttosto che la matrice delle aspettative stesse. Popper (1983) distingue tre modalità di apprendimento dall'esperienza: apprendimento per congetture e confutazioni, prove ed errori; apprendimento mediante formazione di abitudini o ripetizioni in senso proprio; apprendimento per imitazione, o per assorbimento di una tradizione. A suo giudizio la crescita della conoscenza, intesa come acquisizione del nuovo, avviene sostanzialmente attraverso la prima

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Costrutti; scopi e stile di conoscenza

modalità, quella per tentativi ed errori. La seconda modalità, per Popper, non comporta un effettivo incremento di conoscenza, avendo la ripetizione e l'abitudine lo scopo di rendere automatica e inconsapevole la soluzione di un problema già trovata per tentativi ed errori. [La ripetizione] non produce scoperta e nemmeno nuove abilità, sebbene possa trasformare una scoperta (di come fare le cose) in una nuova abilità e nel rendere inconsce certe azioni, ma ci lascia la libertà di rivolgere l'attenzione altrove [. .. ]; la ripetizione in quanto tale non può attrarre la nostra attenzione; essa tende piuttosto a rendere inconsce le nostre aspettative. (Popper, 1983)

Afferma infine Popper che la terza modalità è riconducibile alla prima, limitandosi il processo imitativo a fornire possibili congetture da sottoporre comunque a prova. I tentativi di imitazione vengono via via corretti e migliorati confrontandoli con il modello imitato al quale dunque ci si approssima gradatamente. Davanti a un problema l'individuo assume soluzioni già adottate da altri e poi le sottopone all'esame di realtà come se fossero create autonomamente. Alle congetture che egli stesso produce sono sostituite congetture prese da altri, anche se il processo di verifica è il medesimo. C'è da aggiungere che il processo per "congetture e confutazioni" entra in gioco anche nel caso dell'imitazione sia perché la soluzione del problema adottata dal modello viene assunta come se fosse una congettura da testare alla pari di quelle da lui autonomamente generate, sia perché, come rileva Popper, per raggiungere il comportamento da imitare il soggetto procede per tentativi ed errori emettendo comportamenti da aggiustare continuamente confrontandoli con il modello. L'unica modalità di accrescimento della conoscenza - per prove ed errori - procede di norma per osservazioni sistematiche, e anche per osservazioni casuali, più rare ma ugualmente presenti nella storia della scienza (i casi di Roentgen, o di Newton). Aggiunge Popper che anche quando un'osservazione sia casuale e verifichi un ostacolo o comunque un imprevisto, è pur sempre intercettata grazie all'incontro con occhi capaci di costruire. L'ostacolo è il mancato avverarsi di un' aspettativa. La sua importanza è nel fatto che suscita una delusione, e che questa ci costringe a cambiare idea. Come osserva Pera (1982), gravida di effetti è la riflessione sull'errore, più che l'errore stesso, che ci spinge ad azzardare una nuova spiegazione dell'accaduto, obbligandoci a disporla in coerenza con quanto già compreso nelle teorie pre-

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cedenti all'incontro con il fatto inaspettato. Noi chiameremo, con Kelly, l'ostacolo invalidazione. L'invalidazione è un momento cruciale della conoscenza, la via più efficace per migliorare la propria mappa, benché il miglioramento non sia sempre assicurato: si può infatti continuare a inciampare nello stesso sasso o anche, cambiando strada, incontrare un sasso più grosso, o peggio un precipizio fatale. Il verificarsi di ciò che si prevedeva, la ripetizione del previsto, non sono vero e proprio apprendimento, ma conferma del già appreso. Momenti autenticamente creativi sono invece la novità e l'inaspettato.

L'IMPORTANZA DI SBAGLIARE È la novità a essere decisiva ai fini dell'accrescimento della conoscenza. E novità significa delusione di un'aspettativa. La conoscenza è dunque, sempre, modificazione di una conoscenza precedente, non importa se cosciente o inconscia, acquisita precedentemente o ereditata geneticamente. L'analogo di una ipotesi a livello psicologico o biologico può essere descritto come un'aspettativa o anticipazione di un evento. Questa aspettativa o anticipazione può essere conscia o inconscia. Consiste nella prontezza con la quale un organismo agisce o reagisce, in risposta ad una situazione di un certo tipo specifico. Consiste nella (parziale) attivazione di certe disposizioni. (Popper, 1983)

Sin dalla nascita gli individui si affacciano alla realtà con aspettative che via via modificano e arricchiscono attraverso il costante confronto con gli insuccessi a cui vanno incontro. L'invalidazione ha quindi il ruolo primario di sollecitare l'accomodamento del sistema al nuovo dato non assimilabile nei vecchi schemi. Di fronte a un'invalidazione, a un "no" della realtà, la CP di un sistema non diminuisce ma aumenta, perché è stata scartata un'ipotesi errata; tuttavia ciò che diminuisce è la CP che il sistema stesso presumeva di possedere. La grande idea di Popper è quella di condurre alle estreme conseguenze la critica all'induzione di Hume e contemporaneamente salvaguardare il ruolo dell'esperienza nel processo di crescita della conoscenza, come banco di prova per l'eliminazione degli errori.

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Costrutti, scopi e stile di conoscenza

TEORIE E FATTI, UN CONFINE INCERTO

Nelle teorie costruttiviste è arduo distinguere nettamente le teorie dai cosiddetti "dati di fatto", essendo essi stessi il frutto della costruzione soggettiva del soggetto conoscente. Lo stimolo deve essere significante rispetto al nostro sistema di aspettative o anticipazioni. Ma essi non esistono, non ci sono "dati" non interpretati; non c'è niente, semplicemente, di "dato" a noi senza essere interpretato; niente da prendere come base. Tutta la nostra conoscenza è interpretazione alla luce delle nostre aspettative, delle nostre teorie, ed è perciò in un modo o nell'altro, ipotetica. (Pop per, 1983)

Il problema che si pone è come sia possibile che si verifichi un'invalidazione se ogni evento è soggettivamente costruito. Kelly lo risolve affermando che l'invalidazione stessa non è determinata dall'imporsi dei fatti in sé, bensì è anch'essa soggettivamente costruita. Ma anche i dati derivanti da osservazioni sono soggettivamente costruiti; allora ciò che si verifica non può che essere l'incompatibilità tra due predizioni soggettivamente costruite. Ma in tale caso quale prendere per buona e quale scartare? I fatti elementari non sono fatti puri. In realtà anche i fatti elementari dipendono da qualche teoria. Ma a questo proposito si deve richiamare la distinzione fra categorizzazione e teorizzazione; in particolare quando si parla di teorie si devono distinguere almeno i tre tipi seguenti: 1) le teorie o ipotesi esplicative, che sono soluzioni specifiche (ad esempio la teoria corpuscolare della luce); 2) le teorie che esprimono interpretazioni o concezioni generali su ampi domini di fatti (ad esempio il meccanicismo in fisica o il vitalismo in biologia); 3) le teorie incorporate nella nostra fisiologia o nelle strutture profonde di una cultura (ad esempio la teoria della tridimensionalità dello spazio) [ ... ]. Le osservazioni dipendono in modo pervasivo dalle teorie categoriali, in modo forte dalle teorie interpretative e sono infine indipendenti dalle teorie esplicative. (Pera, 1982)

L'invalidazione è dunque un'incoerenza tra costruzioni soggettive di livello diverso, in cui tendiamo a privilegiare quelle che si sono dimostrate più utili e quindi stabili: le costruzioni categoriali prevalgo31

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no su entrambe le altre, quelle interpretative su quelle esplicative. In conclusione non esiste altra modalità di crescita della conoscenza che non sia modificazione della conoscenza precedente attraverso un processo per tentativi, errori ed eliminazione degli errori, processo che è attivato dalla presenza di un problema insoluto (invalidazione). Ciò è valido sia nella filogenesi che nella ontogenesi. Nella filogenesi si verifica, con il succedersi delle generazioni, una modificazione (continua o, secondo le nuove teorie, a sbalzi) del patrimonio genetico in tempi molto lunghi attraverso il consueto processo di prove ed errori: le prove, cioè le ipotesi nuove, sono rappresentate dalle mutazioni e l' eliminazione degli errori è a carico della selezione naturale, che boccia con la morte o con la sterilità le ipotesi inadatte. Nell'ontogenesi il processo è più rapido e in genere meno cruento. Le aspettative innate soao iscritte nel patrimonio genetico ma dal momento della nascita si arricchiscono e si modificano, in seguito a fallimenti per superare i quali vengono tentate soluzioni nuove, individuali. Le nuove soluzioni che non funzionano sono semplicemente abbandonate: negli umani la facoltà di cambiare idea ha eliminato la necessità di morire con i propri errori. Quelle che si dimostrano efficaci sono invece adottate e così si producono aspettative acquisite, che saranno via via modificate ogni qual volta si dimostreranno fallimentari nell'anticipare la realtà. Per citare ancora Pop per (1983), "Kant ha sbagliato quando sostenne che tutto ciò che è a priori dovesse essere vero". Gli a priori sono ipotesi: possono essere falsi. Un tipico esempio è quello del neonato che si aspetta delle cure. Ma la sua aspettativa può essere un tragico errore, ed egli può morire proprio per mancanza di cure. L' a priori era di certo una buona ipotesi ancorata al genoma, ma nulla può garantire che l'aspettativa sarà soddisfatta.

STILI DI CRESCITA DELLA CONOSCENZA

Il problema che ci poniamo ora è se esistano stili diversi di crescita · della conoscenza. Così come gli uomini si differenziano rispetto a molti atteggiamenti (ad esempio rispetto all'estroversione/introversione) ci chiediamo se sia possibile distinguerli anche rispetto al loro modo di conoscere. Quanto detto precedentemente sui meccanismi di crescita della conoscenza definisce esattamente il processo di cui stiamo parlando. I suoi due momenti, quello delle congetture e quello successivo delle confutazioni, si rimandano ricorsivamente l'uno all'altro, in

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Costrutti; scopi e stile di conoscenza

quanto è dall'invalidazione di un'aspettativa in precedenza dimostrata efficace che si attiva la generazione di nuove ipotesi, a loro volta destinate a essere sottoposte a verifica, ed eliminate qualora non risolvano il problema iniziale. Esaminiamo i due momenti separatamente, per passare poi alla descrizione delle diversità di stili conoscitivi.

CREATIVITÀ E IMITAZIONE

Il momento della generazione delle alternative rappresenta il tempo della scoperta, della novità. Nei suoi confronti il sistema cognitivo può essere più o meno in grado di produrre alternative e quindi i sistemi possono classificarsi lungo il continuum ricchezza-povertà. Naturalmente più sono numerose le alternative a disposizione del sistema (entro limiti che le ricerche sull'intelligenza artificiale hanno ben studiato) e più facilmente il problema sarà risolto con una soluzione efficace. D'accordo con Parisi e Castelfanchi ( 1984) e Piattelli Palmarini (1994), ci sembra però che non si possa ridurre l'esame delle alternative al dato puramente quantitativo: quando si tratta di scegliere il soggetto tende infatti a selezionare secondo alberi gerarchici, all'interno dei quali il numero delle alternative è limitato. Nella vita quotidiana ci troviamo continuamente di fronte a persone più creative e ricche cognitivamente, e ad altre meno creative e più povere. Che la diversità possa dipendere da fattori ereditari e/o ambientali, e che la ricchezza cognitiva sia qualcosa che assomiglia al concetto tradizionale di intelligenza sono due problemi in cui per il momento preferiamo non addentrarci. Osserviamo invece come le possibili fonti che generano le alternative, le nuove ipotesi, le novità del sistema, sembrino essere essenzialmente due: la prima è il sistema stesso, che può generare autonomamente nuove soluzioni attraverso un meccanismo di tipo creativo, rimescolando in modo originale elementi già presenti al · suo interno; la seconda è l'altro, l'interlocutore, o comunque qualcosa di esterno al soggetto dal quale prendere a prestito un'idea, o un comportamento, con un meccanismo di tipo imitativo. Si è già visto che creatività e imitazione sono le due modalità principali e diremmo opposte di generazione delle alternative. Nel processo creativo la fonte accreditata come autorevole è il soggetto stesso, mentre nel processo imitativo l'autorevolezza è attribuita all'altro. A chi dar retta? 33



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C'è una domanda cruciale che tutti gli esseri umani si pongono e che suona pressappoco così: "Di chi mi posso fidare?". Alcuni rispondono "Solo di me stesso" e si comportano secondo lo stile dell'apostolo Tommaso, per cui non credono a nulla che non provenga direttamente dalle loro esperienze sensoriali: hanno il grande svantaggio di non avvalersi mai dell'esperienza fatta dagli altri e quindi di dover ripercorrere tutto il percorso conoscitivo per proprio conto non risparmiandosi alcun errore. Altri, al contrario, sembrano non tenere in alcun conto le proprie esperienze come se non sapessero utilizzarle per trame delle conseguenze, e ricercano costantemente una fonte autorevole esterna che dica loro qual è la verità, e come è più utile comportarsi. In entrambi questi due casi estremi e opposti il processo di crescita della conoscenza risulta impoverito dalla forzata esclusione di una delle due possibili fonti da cui attingere informazioni: se stesso e l'altro. Un esempio di collaborazione lo troviamo invece nel fenomeno noto come "riferimento sociale" in cui l'attività esplorativa del bambino è selettivamente influenzata dall'espressione emotiva della madre: di fronte a un oggetto sconosciuto il bambino rivolge lo sguardo verso la madre come per riceverne consiglio. Il bambino concepisce l'espressione del1' adulto come un predicato o un commento di fronte a un evento nuovo; parere autorevole di cui tener conto ma che non regola tutta l'attività esploratoria nel suo insieme bensì soltanto l'approccio a quella specifica novità. Si badi bene che l'espressione materna non agisce come una generica inibizione o un incoraggiamento al comportamento esplorativo nel suo insieme ma è utilizzata per le specifiche informazioni che veicola e delinea così una vera e propria collaborazione cognitiva tra il piccolo e l'adulto. Harris (1991) scrive in proposito: "È lecito[. .. ] concludere che entro i dodici mesi di età i bambini non solo reagiscono con modalità appropriate a una determinata espressione emotiva all'interno di uno scambio sociale ma anche il loro comportamento viene guidato dall' emozione manifestata dall'adulto nei confronti di un evento o di un oggetto presente nell'ambiente circostante". Non è questa la sede per affrontare il tema della psicologia della creatività e dell'imitazione, ma al nostro fine è sufficiente identificare queste due polarità e soprattutto sottolineare la distinzione tra i casi in cui il sistema si fida di se stesso e quelli in cui fa invece riferimento a qualcosa di esterno. Le due modalità non si escludono reciprocamente, anzi possono con vantaggio rinforzarsi a vicenda. Accade spesso, ad esempio, che si utilizzi una soluzione che si è vista adottare da un'altra persona tra 34

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sportandola con adattamenti a un campo profondamente diverso, compiendo così un'operazione imitativa ma al tempo stesso anche assolutamente creativa. Un sistema potrebbe essere definito più ricco se utilizza ambedue queste fonti, e più povero se una delle due fonti è pregiudizialmente esclusa, o perché "di tutto ciò che viene dagli altri non ci si può fidare", o perché "tutto ciò che viene da me stesso non può che essere negativo e inattendibile". Per quanto riguarda la generazione di alternative - prima fase della crescita della conoscenza - cominciamo così a intravvedere (vedi anche figura 1.3) una classificazione possibile tra sistemi ricchi, in cui sia il sé che l'altro sono utilizzati come fonti autorevoli, e sistemi poveri, in cui le due fonti si escludono reciprocamente (se l'altro è autorevole il sé non lo è, e viceversa). Per semplificare ulteriormente, senza dimenticare che in realtà sussistono tutte le gradazioni intermedie, possiamo identificare tre polarità: sistemi ricchi in cui prevale (nella generazione di alternative) la cooperazione tra sé e l'altro; sistemi poveri autonomici; sistemi poveri eteronomici. Quali connessioni collegano tutto ciò con la relazione di attaccamento? È proprio nel corso di tale relazione che il soggetto deve rispondere per la prima volta alla domanda cruciale: "Di chi mi posso fidare? A chi posso dare credito?". Le risposte possibili sono appunto: "Sia a me stesso che all'altro"; "Solo ed esclusivamente a me stesso"; "Solo ed esclusivamente all'altro". Più avanti tenteremo di stabilire un nesso tra stili di conoscenza e stili di attaccamento. Per ora torniamo a occuparci di conoscenza.

Fiducia in sé e negli altri Sia creatività che imitazione

• Sistemi ricchi

I I

1

Autonomici Fiducia solo in sé e non negli altri Solo creatività

/

• Sistemi poveri/ Eteronomici Fiducia solo negli altri e non in sé Solo imitazione

Figura 1.3 Classificazione dei sistemi cognitivi secondo la loro capacità di generare alternative e la fonte delle stesse.

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LA GESTIONE DELLE INVALIDAZIONI

Osserviamo meglio il funzionamento delle "confutazioni" e pm precisamente della gestione delle invalidazioni. Essendo cruciali per l'aumento della conoscenza queste dovrebbero essere accolte con soddisfazione, ma non è sempre così. Soprattutto i sistemi poveri possono percepirle come minacce terribili per il mantenimento di una possibilità predittiva seppur minimale. In realtà l'invalidazione di una previsione non è in sé emotivamente connotata, perché l'effetto di piacevolezza/spiacevolezza dipende dal raggiungimento/fallimento dello scopo in gioco. Ma il fallimento comporta comunque una diminuzione della quantità di conoscenza che il sistema supponeva di avere, indipendentemente dal suo costituire premessa per un possibile successivo sviluppo di conoscenza (che non necessariamente si verificherà). Un sistema di costrutti che evolve, proprio per poter rispettare il postulato della massimizzazione, deve avere delle variazioni strutturali che attualizzino due tendenze opposte: una verso l'aumento della precisione e ricchezza delle previsioni e l'altra verso un aumento di aspetti che rendano innocue le invalidazioni. Che si preveda il più possibile e che si rischi il meno possibile di non prevedere. (Mancini, Semerari, 1985)

Quanto più un sistema è ricco e articolato, tanto più può prendere atto delle invalidazioni e gestirle positivamente per un ulteriore incremento della propria CP. Al contrario quanto più è povero, a motivo dell'esclusione di uno dei due poli cogeneratori di alternative, tanto più necessita di strategie di neutralizzazione dei possibili effetti delle invalidazioni per non rimanere senza alternative possibili. Naturalmente queste strategie diverse avranno una radice, saranno in qualche modo apprese; nostra ambizione è quella di darne ragione attraverso l'analisi delle diverse storie di attaccamento. Per prima cosa si tratta di definirle e quindi tentare di leggerle attraverso quattro assi fondamentali. Ricerca attiva ed esplorazione

Il sistema cerca costantemente di allargare i propri confini, e quindi di sottoporre alla prova della falsificazione le proprie ipotesi. Per un sistema ricco, che può permettersi di andare incontro a invalida36

Costrutti, scopi e stile di conoscenza

zioni senza per questo rischiare un collasso previsionale, l'atteggiamento è tipicamente quello esplorativo. Di fronte a un insuccesso il sistema abbandona il comportamento che lo ha provocato ma, contemporaneamente, rinforza il comportamento esplorativo come classe più generale, in quanto il suo scopo di acquisire informazioni è stato raggiunto. Ad esempio un bambino che, esplorando la sua stanza, incontra una lampadina accesa e decide di toccarla, si scotta e ritira rapidamente la mano, traendo da questo episodio due conclusioni. La prima è di ordine particolare: le lampadine scottano, quindi sarà meglio non toccarle più d'ora in avanti. La seconda investe il comportamento esplorativo in generale: toccare le cose è un utile metodo per acquisire informazioni su di esse. L'invalidazione ha, contemporaneamente, inibito il comportamento di toccare le lampadine e rinforzato il comportamento di toccare. Un sistema che preferisce un comportamento esplorativo sa che si impara dagli errori, anche se sono dolorosi, e quindi ogni volta che vi incappa ne prende atto, cerca di apprendere la lezione e non cessa di esplorare. Nel neonato è normalmente presente un forte istinto di caccia delle novità. Nell'uomo la curiosità resta per tutta la vita un tratto distintivo del comportamento. Per questo motivo egli è stato a ragione definito "essere curioso aperto al mondo" e la curiosità è ritenuta un carattere giovanile persistente (Lorenz, 1943). In effetti fino all'età avanzata noi cerchiamo di continuo novità. Leggiamo dai giornali notizie e awenimenti che in realtà non ci riguardano affatto [. ..] ci informiamo su paesi stranieri, su nuovi risultati e come turisti viaggiamo per vedere cose nuove e fare nuove esperienze [. .. ]. Già Piaget (1953) ha fatto notare che il lattante interrompe la suzione quando esplora con gli occhi. È possibile inoltre dimostrare che i bambini cercano spontaneamente impressioni nuove. Infatti se attraverso un succhiotto tenuto in bocca viene fornita a dei bambini la possibilità di proiettare da soli delle diapositive, essi imparano a farlo rapidamente. (Eibl-Eibesfeldt, 1993)

Evitamento Il sistema cerca di non incorrere in invalidazioni restringendo il campo esplorativo. Si limita a sottoporre a test le proprie ipotesi in aree ben conosciute e ristrette, eliminando o tentando di evitare le situazioni incerte, che vengono percepite come rischiose per la stabilità del sistema. Tale atteggiamento è tendenzialmente opposto all'esplo37

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razione: con la prudenza si cerca di prevenire ogni novità. In questo modo si instaura progressivamente una sorta di circolo vizioso: più il soggetto rinuncia a esplorare, più aumentano le aree ignote e di conseguenza la necessità di ritirarsi in aree ristrette. Consumarsi il cuore

Il signor Roberto viene in terapia come "ultima chance", dopo che l'ultimo terapista lo ha chiamato insieme alla moglie per dirgli, dopo tre anni di terapia, che per lui non c'è più speranza, è inguaribile. Roberto ha trentacinque anni, una moglie e tre figli. Da sempre è stato considerato dal padre, tra due fratelli, il più asino, il più pigro, il meno promettente. Non è riuscito a studiare oltre il diploma di ragioneria, ma è un ottimo sciatore, e capace di parlare molte lingue, tra cui il norvegese. Da sempre teme di "consumarsi il cuore", e il corpo in generale, se si stanca troppo, e da sempre gioca un po' nel ruolo di secondo di un fratello dinamico, caciarone e amico di tutti. Cinque anni prima del nostro incontro però il fratello muore in un incidente d'auto e da allora, Roberto, non più trascinato dal fratello e dalla sua vitalità, e impigrito dalle gravidanze della moglie e dalla depressione, comincia a evitare prima i rapporti sociali, poi le uscite con i mezzi pubblici, poi le camminate da solo per la città. Al momento in cui lo conosciamo soffre di vere e proprie crisi di panico prima di recarsi al lavoro dove, se si trova di fronte a qualsiasi problema professionale o di relazioni sociali, spesso reagisce dandosi malato: ormai considerato il pigro e il furbo dell'ufficio, viene preso di mira e isolato dagli altri, più ancora che da se stesso.

Quando il sistema subisce invalidazioni nonostante le protezioni e le prudenze esplorative dovute al considerarsi vulnerabile, il crollo predittivo è vistoso. Il sistema avverte infatti una profonda minaccia per le proprie strutture centrali e riceve ulteriore conferma che non è in grado di affrontare situazioni inaspettate. D'ora in avanti cercherà in tutti i modi di evitare le occasioni che sono state motivo di invalidazione. Abbiamo visto che il comportamento esplorativo, qualsiasi sia l' esito della singola esplorazione, si rivela comunque come sorgente di informazioni, col risultato che il comportamento stesso ne viene rinforzato. Anche nel caso dell' evitamento si instaura un circolo vizioso, ma esattamente opposto. È come se a ogni tentativo di acquisizione di dati nuovi sull'ambiente corrispondesse una riduzione della conoscenza sul sé: sembra quasi che il sistema utilizzi una "metaregola" del tipo "Non sono in grado di affrontare le novità; l'inaspettato, specie se improvviso, può essermi fatale". Il sistema si autodescrive come 38

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incapace di accomodamento: ogni dato che non può essere assimilato agli schemi precedenti diventa una minaccia non solo per l'area di conoscenza alla quale si riferisce e che rischia di essere invalidata, ma per la conoscenza più generale che il sistema ha di se stesso. Il sistema smette di esplorare perché ritiene in questo modo di mantenere integra la propria CP. La punizione di un singolo comportamento esplorativo o la sua estinzione in quanto l'oggetto è diventato familiare inibiscono "quel" comportamento esplorativo ma rinforzano l'esplorazione in quanto classe comportamentale [. .. ]; la madre può (nel paziente agorafobico) [ ... ] inibire il comportamento esplorativo, come classe comportamentale, solo divenendo imprevedibile di fronte al comportamento esplorativo del figlio (cambiamento di umore, allontanamento, minacce di abbandono, rifiuto di vicinanza) in modo tale che il bilancio complessivo al termine segnali una perdita di conoscenza. (Lorenzini, Sassaroli, 1987)

Esplorazione ed evitamento costituiscono una sorta di coppia di opposti: con l'esplorazione si ricerca la novità, mentre con l'evitamento ci si preserva dai suoi possibili effetti negativi; l'esplorazione allarga i confini, l' evitamento li restringe e li sottolinea. Naturalmente un sistema può usare entrambe le strategie a seconda delle circostanze: l' evitamento in sé non è negativo, anzi può essere molto utile quando si prevede che le novità sarebbero così minacciose per il sistema da rischiare seriamente di non portare nessun elemento aggiuntivo di conoscenza, e anzi perdere quelli che si hanno. È evidente l'inutilità di esplorare l'ebbrezza della caduta libera dal ponte di Brooklyn, o il brivido dell'alta tensione di un phon nella vasca da bagno, o la potenza distruttiva delle mandibole di uno squalo: per questo, se possiamo, evitiamo queste sperimentazioni. Di fronte a uno stimolo sconosciuto la scelta se esplorare o evitare dipende dalla valutazione che il sistema fa in ordine alla probabilità di soccombere davanti a esse. Se il nuovo non è visto come minaccioso per l'integrità del sistema si sceglierà di esplorare, se invece il sistema si considera incapace di affrontare una novità percepita come troppo destabilizzante, incapace cioè di "accomodarsi", preferirà evitarla. Nella scelta in questione sono implicati due elementi in rapporto reciproco: l'autovalutazione da parte del sistema della propria capacità di accomodamento, cioè la stima della propria abilità di fronteggiare il nuovo, e la valutazione della minacciosità della si39

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tuazione che si sta per fronteggiare, ovvero la stima della sua "inassimilabilità". Quando parliamo di strategia di evitamento non ci riferiamo dunque a sistemi che utilizzano di tanto in tanto questa tattica indispensabile alla sopravvivenza, ma che lo fanno sistematicamente in ogni situazione, ritenendo se stessi incapaci di affrontare qualsiasi cambiamento e ritenendo qualsiasi novità una minaccia destabilizzante.

Immunizzazione L'immunizzazione è la strategia con cui il sistema raggiunto da un'invalidazione ne minimizza, fino ad annullarle, le conseguenze sulla sua struttura, e consiste nel rendere i propri confini pressoché invalicabili, così da far quasi "rimbalzare" le invalidazioni. Il dato di realtà perde significato, è screditato, sottovalutato, ignorato o ricostruito in modo diverso, così da perdere qualsiasi potere falsificatorio sulle teorie del soggetto. Mentre sia nell'esplorazione che nell'evitamento gli altri e l'ambiente sono comunque altamente significativi, nel caso dell'immunizzazione prevale un atteggiamento autarchico, che svuota il rapporto con la realtà. Questo modo di gestire le invalidazioni si fonda anch'esso, come nel caso dell'evitamento, sulla previsione che il sistema, per il modo in cui è costruito, non sarebbe in grado di accomodarsi all'invalidazione, e quindi deve in qualche modo immunizzarsi rispetto ai suoi effetti. Nella famiglia di Giacomo, ventinove anni, vi è la più assoluta assenza di relazioni sociali extrafamiliari. Anche i rapporti con il salumaio o il panettiere sono sfuggenti e ridotti al minimo (il pane si compra una volta alla settimana perché altrimenti "si deve andare troppo in giro"). Giacomo ha una sorella paranoica e un fratello con un ritardo mentale, e si ritiene il più sano della famiglia. Non ha mai avuto un amico, né un flirt o un qualsiasi contatto con coetanei. Quando viene in terapia lo fa perché vuole sapere quale esperimento stanno facendo su di lui, per costringerlo a fare la cavia umana. Chiede insistentemente di sapere che cosa può essere successo per cui proprio la sua famiglia è stata scelta per vedere fino a che punto si può resistere all'isolamento.

Le due modalità più tipiche di immunizzazione sono lo sviluppo di ipotesi ad hoc e lo svuotamento delle teorie del loro contenuto empirico in modo che, divenendo vaghe e inconsistenti, svuotino progressivamente la classe dei potenziali falsificatori.

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Quando si manifestano in forma moderata queste due modalità acquistano il carattere rispettivamente della testardaggine, e della vacuità e incoerenza. Se invece sono utilizzate in modo massiccio acquistano il sapore del delirio e della difesa a oltranza del proprio modo di vedere, reso inattaccabile a ogni critica, inaccessibile a qualsiasi evento esterno. L'immunizzazione portata all'estremo delle conseguenze diventa delirio (Lorenzini, Sassaroli, 1992a, 19926). Il paranoico irrigidisce la struttura e privilegia la coerenza interna a discapito della verosimiglianza delle previsioni. Così si muove verso un "dogmatismo" sempre più caricaturale e verso la sottomissione assoluta dei dati alla teoria. Il sistema delirante diventa sempre più coerente e strutturato, tutto spiega e riesce a metabolizzare ogni tentativo di confutazione autocorroborandosi con la crescita a dismisura di ipotesi ausiliarie ad hoc [. .. ]. [Nel caso dello schizofrenico] il sistema tenta di mantenere per quanto possibile una certa quantità di capacità predittiva e lo fa in modo assolutamente opposto al sistema paranoico: la resistenza all'invalidazione è tentata attraverso la riduzione della precisione delle previsioni. Lo schizofrenico, per non aver torto, rinuncia a tentare di avere ragione [. .. ]. Paranoia e schizofrenia rappresentano due modalità opposte messe in atto per mantenere una residua capacità previsionale di fronte a gravi invalidazioni che il sistema, troppo rigido e senza alternative il primo e poco strutturato il secondo, non è in grado di ricostruire altrimenti: ma il prezzo pagato è la rinuncia alla verosimiglianza delle previsioni e alla possibilità di condivisione sociale delle stesse. (Lorenzini, Sassaroli, 1992a)

Ostilità Kelly descrive l'ostilità come un modo di reagire alle invalidazioni consistente nel riproporre una costruzione della realtà che si è già dimostrata fallimentare. Di fronte alla constatazione di un suo errore il soggetto alza la voce più forte, e ribadisce con fermezza crescente la sua prospettiva. Non evita il confronto con le novità, né cerca di minimizzarne gli effetti sulla struttura, ma tenta di imporre con la forza la sua spiegazione delle cose. L'altro, sorgente delle falsificazioni delle nostre teorie, perde ogni potere invalidante perché passa dal ruolo di interlocutore a quello di nemico. Per poter riproporre con forza la propria posizione è necessario screditare l'altro, ignorarlo e manipolarlo come se si trattasse di una cosa inanimata che deve piegarsi ne41

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cessariamente ai bisogni dell'unico soggetto esistente. Imporre necessariamente la propria verità, non ascoltando l'altro o forzandolo a confermarla, è l'essenza dell'atteggiamento ostile. Le ragioni di Carla La signora Carla aveva iniziato una psicoterapia all'età di quarantacinque anni per un disturbo di depersonalizzazione, diventato sempre più frequente da quando aveva scoperto il tradimento del marito, che tuttavia non aveva alcuna intenzione di lasciare non perché lo amasse ancora (a suo dire non lo aveva mai amato e ne era anzi disgustata), ma semplicemente perché non voleva darla vinta né a lui né alla sua amante. Carla era la seconda figlia di un matrimonio combinato per forza dopo la prima gravidanza indesiderata della madre. Suo padre viveva negli Stati Uniti; Carla e sua sorella in un paesino montano del centro-Italia, con la madre che subiva con rabbia la sua "vedovanza di fatto", imposta dal legame delle due figlie, entrambe non volute. Carla, che conobbe suo padre per la prima volta all'età di quattro anni, fu allevata da una bambinaia, nota in tutto il paese per essere "matta". Da questa bambinaia subì maltrattamenti e violenze a sfondo sessuale di cui non perdonò mai la madre, che riteneva l'avesse affidata a questa donna proprio per farla soffrire e sfogare così indirettamente la sua rabbia contro di lei. Al momento dell'inizio della terapia Carla presentava un disturbo istrionico di personalità e saltuari attacchi di panico. Dopo alcune sedute confidò al terapista di essere innamorata di lui: a nulla valsero i tentativi di interpretazione dell'evento. Assolutamente consapevole di non essere ricambiata, non rinunciò tuttavia a imporre la sua definizione della relazione. La seduzione più esplicita si alternava al ricatto con gesti autolesivi; alle minacce sottili succedeva la disperata richiesta di aiuto. Ciò che Carla non sopportava non era il rifiuto, ma il fatto che non fosse lei a definire la relazione, che l'altro non fosse un oggetto nelle sue mani, di cui disporre a suo piacimento. Tale circostanza era da lei percepita come grandemente minacciosa.

CONCLUSIONE

Un sistema povero di alternative, che ha bisogno di mantenere la sua struttura proteggendosi dalle invalidazioni può farlo in tre modi: evitando a tutti i costi di incapparvi rinunciando a qualsiasi esplorazione (evitamento); ignorandole, screditando la fonte dalla quale provengono e ribadendo con più forza la propria costruzione dei fatti (ostilità);

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Costruttz; scopi e stile di conoscenza

annullandone gli effetti sulla struttura con ipotesi ad hoc o con la riduzione del contenuto empirico (immunizzazione). Più avanti sosterremo che ogni individuo tende a privilegiare una sola di queste modalità e che tale preferenza è fortemente legata alla relazione di attaccamento. Esaminati e descritti i quattro stili di conoscenza, possiamo dire che solo lo stile "ricerca attiva" favorisce lo sviluppo di capacità metacognitive (Flavell, 1979; Brown et al., 1983) ed è a sua volta rinforzato da tali capacità. La capacità metacognitiva va intesa come la conoscenza ed il controllo del campo del processo cognitivo stesso che permette la conoscenza e la regolazione della cognizione in quanto l'individuo non soltanto pensa ma può anche pensare al proprio modo di pensare. Questo crea uno iato tra sé e le proprie idee che consente, da un lato, di prenderne le distanze e criticarle, dall'altro, di potervi rinunciare senza sperimentarlo come un'insostenibile minaccia per il sé: tutto ciò è caratteristico dello stile ricerca attiva dove le invalidazioni sono apprezzate come portatrici di novità. Al contrario, negli altri tre stili di conoscenza le proprie ipotesi non sono avvertite come un prodotto della mente, prodotto che può essere abbandonato, sostituito, migliorato; non c'è una chiara distinzione tra il generatore e il prodotto generato, e quindi questo non può essere messo in discussione senza minacciare lo stesso sé. La scarsità delle capacità metacognitive rende dunque il sistema rigido e impermeabile, per quanto possibile e con le tre modalità sopra descritte (evitamento, immunizzazione, ostilità) alle invalidazioni (Main, 1991). È ovvio che anche lo stile esplorativo, al contrario della ricerca attiva, caratteristico di un sistema ricco in cui alla generazione di alternative cooperano sia il processo creativo che quello imitativo (fiducia in sé e nell'altro), si stabilizza nel rapporto con la figura di attaccamento. Di fronte a un sistema cognitivo, dal nostro punto di vista è dunque doveroso chiedersi: - riguardo alla generazione delle alternative: se sia un sistema povero nel produrre alternative, che si fida solo di sé (creativo), un sistema povero che si fida solo dell'altro (imitativo), o un sistema ricco che sa creare e imitare a seconda delle necessità, fidandosi sia di sé che del1' altro; - riguardo alla gestione delle invalidazioni: se le ricerca attivamente esplorando, le evita restringendo il campo, le ignora riproponendo le proprie costruzioni, ne riduce gli effetti con manovre ad hoc. 43

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La risposta alle nostre domande dovrebbe indicarci lo stile di conoscenza della persona che abbiamo davanti. Lo stile di conoscenza è secondo noi un tratto molto stabile, che si costituisce nella relazione madre-bambino in tempi molto precoci e che diventa asse portante della struttura di personalità dell'individuo. La convinzione che vi sia una relazione forte tra la storia di attaccamento di un individuo e la sua eventuale storia psicopatologica è andata fino a oggi rafforzandosi. Ma i tentativi di trovare correlazioni con quadri sindromici psichiatrici non hanno portato, qualche lodevole eccezione a parte, finora risultati apprezzabili. Può darsi che ciò dipenda dall'impossibilità di stabilire correlazioni tra livelli logici troppo diseguali e distanti, tra oggetti non paragonabili. Il nostro proposito è di ricostruire un collegamento tra questi due estremi ipotizzando un maggior numero di gradini intermedi, vale a dire passando attraverso la strada dello stile conoscitivo. Ci sembra infatti che il pattern di attaccamento influenzi in modo decisivo lo stile di conoscenza, e che questo rappresenti l'aspetto centrale della personalità, le cui forme estreme, i disturbi, si situano al confine con le sindromi psichiatriche (figura 1.4). I passaggi accennati saranno argomentati nei capitoli seguenti. Qui Pattern di attaccamento

Stile di conoscenza

Personalità e disturbi di personalità

Sindromi psichiatriche Figura 1.4 Il collegamento tra attaccamento e psicopatologia.

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Costrutti, scopi e stile di conoscenza

vorremmo ancora mettere in luce un'analogia tra le modalità di reazione all'invalidazione e qualcosa di molto più arcaico presente nel mondo animale.L'equivalente a livello di azione di ciò che l'invalidazione è a livello operazionale è il danno. L'invalidazione è la rappresentazione del danno in un sistema cognitivo sofisticato: il danno è la realtà dell'invalidazione, la sua fisicità. Il dolore non è un principio motivazionale contrapposto alla MCP, ma una sua rappresentazione. Se infatti la MCP è la regola del divenire di tutti i sistemi viventi, compresi quelli privi di consapevolezza, e se tutti i viventi sperimentano il dolore quando subiscono un danno al loro organismo, e tendono ad allontanarsi rapidamente dalla situazione che produce il danno, il dolore è il segnale che la propria mappa della realtà è andata incontro a un'invalidazione, che è successo qualcosa di imprevisto. Il dolore rappresenta la forma più arcaica (proprio per questo molto efficace) di presa d'atto di un'invalidazione. Naturalmente possiamo affrontare anche il dolore più forte con il ragionamento, come quando accettiamo di restare sulla sedia del dentista nonostante la sofferenza perché prevediamo il bene futuro della guarigione dal mal di denti. Ma il meccanismo arcaico del dolore continua a funzionare. Dovremmo così trovare una relazione tra stili cognitivi di gestione dell'invalidazione e stili comportamentali di gestione di un danno in arrivo. Se l'animale non prevede danni esplora, ma che cosa succede se si avvede di un pericolo? Un soggetto che si trova di fronte a una situazione di pericolo può rispondere in almeno tre modi diversi: 1) opporsi attivamente al pericolo con una risposta aggressiva che include il furore aggressivo; 2) stabilire che il pericolo è insuperabile e fuggire; 3) sentirsi sovrastato dal pericolo e raggelarsi. (Orsolini et al., 1993) La scelta di una o dell'altra strategia sembra anche in questo caso determinata dalla valutazione comparata tra la propria forza e quella dell'agente danneggiante: si attaccherà se si pensa di essere più forti, si fuggirà se si pensa di essere più deboli ma non tanto da non farcela a scappare, ci si congelerà se si pensa di essere così deboli da non avere nessuna possibilità di reazione. L'impulso alla fuga o alternativamente al combattimento sembrano chiaramente una tendenza comportamentale selezionata durante l'evoluzione. Organismi privi di tale capacità sono estinti [. .. ]. La perdita di sensi richiede una risposta fisiologica molto diversa [. ..] lo svenimento 45

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è preceduto da marcata diminuzione della pressione e della frequenza cardiaca. Probabilmente un tale meccanismo rappresenta una sorta di reazione adattiva nell'evoluzione della specie: coloro che durante la lotta reagivano alle ferite e al sanguinamento con una rapida caduta della pressione, quindi minimizzando l'emorragia e il pericolo di shock, avevano molte più probabilità di sopravvivenza [ ... ]. L'immobilità tonica non è una strategia volontaria da parte dell'animale: piuttosto rappresenta un'altra reazione arcaica comportamentale con evidente scopo di sopravvivenza. Per un gran numero di predatori, per i quali l' attacco è scatenato e mantenuto dal movimento, l'immobilità è un antidoto efficace che previene ulteriori comportamenti aggressivi e aumenta per la vittima la possibilità di sopravvivenza. (Orsolini et al., 1993)

È interessante ipotizzare una corrispondenza tra queste operazioni di reazione al danno con le operazioni cognitive che stiamo analizzando. La fuga è un precursore dell'evitamento, come l'attacco lo è dell'ostilità. Il legame tra congelamento e immunizzazione è meno appariscente: ciò che li accomuna è il tentativo di sfuggire alla relazione, il distacco dalla realtà, il ritiro autarchico in un proprio mondo che ignora tutto ciò che avviene all'esterno. Su questa linea sono interessanti le ricerche neurobiologiche di Cloninger (1987), che suggerisce una classificazione dei disturbi di personalità secondo tre dimensioni, definite nei termini di caratteristiche di base stimolo-risposta: novelty seeking (ricerca della novità), connessa al sistema della dopamina; harm avoidance (evitamento del danno) dipendente dal sistema serotoninergico; reward dependence (dipendenza dalla ricompensa) fondata sul sistema noradrenergico. Sembra dunque ipotizzabile che esistano modalità diverse di reagire agli stimoli e che tali modalità abbiano un fondamento neuroanatomico; se ciò è vero si può pensare che si siano sviluppate con la complessificazione del sistema cognitivo umano e con la progressiva sostituzione dell'operazione mentale all'azione fisica, in strategie cognitive diverse di fronteggiamento dell'invalidazione.

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II LA CRESCITA DELLA CONOSCENZA NELLA RELAZIONE MADRE-BAMBINO

Trovavo mio padre non un censore ma un osservatore freddo e caustico che cominciava con il sorridere di pietà e troncava presto la conversazione con impazienza [. .. ] ma appena eravamo in presenza uno dell'altro c'era subito qualcosa di forzato in lui che non potevo spiegarmi e che provocava in me una reazione penosa. Allora non sapevo cosa fosse la timidezza, l'intima sofferenza che ci perseguita sin nell'età più matura, che ricaccia nel cuore le nostre impressioni più profonde, che gela le nostre parole, che snatura sulle nostre labbra tutto quello che cerchiamo di dire, che ci permette di esprimerci solo con parole vaghe o con un'ironia più o meno amara come se volessimo vendicarci sui nostri sentimenti del dolore che proviamo a non poterli far conoscere [. .. ]. [... ] la mia inibizione con lui ebbe una grande influenza sul mio carattere. Ugualmente timido ma più agitato perché ero più giovane, mi assuefeci al rinchiudere in me quanto provavo, a non formulare che progetti solitari, a contare esclusivamente su di me per la loro esecuzione, a considerare i consigli, l'interessamento, l'assistenza e persino la semplice presenza degli altri come un impaccio e un ostacolo. Benjamin Constant, Adolphe

IL MONDO ATTESO

Già alla nascita il bambino sa tantissime cose, e sempre di più sono quelle che si scopre che egli sa fare: succhiare, piangere, sentire le oscillazioni dell'aria comprese tra 16 e 16 000 Hertz; distinguere il buio dalla luce, il freddo dal caldo, il dolce dal salato, afferrare con la mano il dito della madre e ancora tante cose utili che riempirebbero pagine e pagine se solo volessimo elencarle tutte. Si tratta di conoscenze registrate nel suo patrimonio genetico, utili per sopravvivere nel mondo in cui è nato: è scritta nei suoi cromosomi la previsione di incontrare un certo tipo di mondo, che se fosse invece drammaticamente diverso finirebbe per uc-

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ciderlo. Ma quali sono le caratteristiche fondamentali di questo "mondo atteso"? I pesci non conoscono i loro genitori e già dalla nascita sanno cavarsela da soli; le tartarughe, appena dischiuse le uova, si dirigono sul bagnasciuga per essere catturate dalla risacca e dare così inizio alla loro avventura individuale: quanto più si scende nella scala biologica, tanto più gli animali nascono con un patrimonio di conoscenze in grado di far loro affrontare la realtà in modo efficace, così da non rendere necessari ulteriori e significativi apprendimenti. L'uomo nasce del tutto incapace di fare, seppure capace di apprendere; viene al mondo preparato a incontrare alla nascita un adulto della sua specie (di solito la madre), che si prenda cura di lui e gli insegni ciò che gli serve per vivere e non è scritto nel suo patrimonio genetico, il quale codifica soprattutto le modalità di relazione a questo altro essere, senza il cui intervento è impossibile la piena realizzazione del cucciolo umano. Ciò rappresenta, paradossalmente, un punto di forza della specie umana, la cui prole è chiamata "inetta": non sapere fare tante cose, ma saper imparare dagli individui cospecifici e dalla propria esperienza, permette al bambino di adattarsi a situazioni estremamente diverse e di avvalersi delle conoscenze accumulate dalle generazioni precedenti senza dover ripartire ogni volta dal principio. Accanto alla trasmissione genetica convive la trasmissione culturale delle informazioni, che per maturare ha bisogno però di un lungo periodo di convivenza tra i piccoli e gli adulti e quindi di un forte legame reciproco. Affinché ciò avvenga non sono necessarie né la conoscenza di sé e dell'altro, né la coscienza: ecco perché il processo di crescita della conoscenza, e anzi il fondamento delle sue coordinate essenziali, si costruisce prima del vero e proprio legame di attaccamento, il quale presume in qualche modo il selettivo riconoscimento dell'altro.

LA CODETERMINAZIONE DEI RISULTATI La conoscenza procede per tentativi, accumula errori e poi li riconosce e quindi li elimina, compiendo un percorso che porta alla revisione e alla modificazione di un'aspettativa precedente andata delusa. I successi e i fallimenti nel prevedere la realtà costituiscono i momenti fondamentali nello sviluppo della conoscenza: in un ambiente sociale, come è senz'altro quello in cui vive il piccolo umano, il successo o il fallimento di un'aspettativa è codeterminato dall'azione degli altri an48

La crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino

che se non ancora riconosciuti come tali. Il ruolo essenziale della madre (biologica o meno) consiste inizialmente proprio nel codeterminare il fallimento o il successo delle aspettative del bambino. Il pianto del neonato è un segnale, tanto che le madri riescono a distinguerne rapidamente due o tre tipi (fame, sonno, paura) e a rispondere congruamente a esso, addirittura secernendo latte al primo strillo; perché lo schema fame-pianto-avvicinamento al seno-suzione-sazietà abbia successo, il neonato deve saper riconoscere la fame, piangere e succhiare, ma la sazietà, comunque, sarà raggiunta soltanto se ci sarà qualcuno in grado di ascoltarlo e capace di soddisfarlo. È degno di nota il ruolo attivo del lattante nel dare inizio a interazioni. Già a tre-quattro mesi l'iniziativa del contatto è spesso assai chiara da parte del bambino. Esso attira l'attenzione della madre con emissioni sonore e le rivolge le braccia, richiudendole poi a vuoto sopra il proprio petto. Quando infine il bambino è in grado di camminare carponi o eretto si aggiungono gli atti di mostrare e di porgere oggetti come invito al contatto [. .. ]. I Dennis volevano sapere come si sviluppano i bambini in condizioni di contatti sociali ridotti. Per questo esperimento disumano essi scelsero due gemelline di cinque settimane prese da un brefotrofio e le tennero per i primi sei mesi di vita in condizioni alquanto severe di deprivazione sociale [. .. ]. Le bambine venivano trattate dagli adulti senza alcun segno di emozione e non potevano avere con essi alcun contatto [ .. .]; alle due bambine nessuno faceva sorrisi né carezze né coccole. A sette settimane di età esse cominciarono a seguire gli sperimentatori con gli occhi e a sorridere loro quando questi entravano nella stanza. La loro attenzione era rivolta soprattutto al volto di chi le accudiva. Tra la nona e la dodicesima settimana di vita esse cominciarono a ridere e a fare smorfie e a tredici-sedici settimane piangevano quando le persone che le accudivano si allontanavano dal lettino. A sei mesi esse reagivano con paura ai rumori e sorridevano incessantemente quando qualcuno si avvicinava loro, spesso balbettando. Al1' ottavo mese una delle due bambine riuscì a toccare capelli e volto dello sperimentatore. Da quel momento in poi la coppia Dennis cedette al desiderio di contatto delle bambine [. .. ] . (Eibl-Eibesfeldt, 1993)

È evidente che il mondo nel quale il piccolo si muoverà sarà molto diverso a seconda che i suoi schemi innati abbiano successo sempre, lo abbiano a certe condizioni, oppure vadano immancabilmente incontro a fallimento. È impossibile pensare che tutti i colpi vadano a segno, o che tutti falliscano: dunque l'intera gamma dell'esperienza del bambino si svolge di solito all'interno di una media tra successi e 49

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insuccessi. La domanda a cui il neonato deve rispondere è: "A quali condizioni certi schemi hanno successo?". Egli non è ancora un soggetto che si riconosca come diverso da un esterno/altro da sé; non sa di essere un soggetto e non sa neppure che esiste un qualcosa di esterno a sé, un contesto nei confronti del quale cimentare le proprie aspettative; non sa che tale contesto (trattandosi della figura di attaccamento) è un contesto plastico e dotato di intenzionalità e che attivamente concorre al successo o al fallimento dei suoi sforzi. La figura di attaccamento, prima ancora dell'inizio del legame di attaccamento propriamente detto, costituisce il contesto privilegiato verso cui sono dirette e con cui si cimentano le aspettative innate del piccolo che non si è costituito come soggetto consapevole ma è pur sempre un soggetto conoscente, cioè in grado di compiere le sue prime discriminazioni. Darsi una mano

Il bambino ha fame: gira la testa dalla parte dove sente provenire l' odore del latte, segnala col pianto il suo bisogno e spalanca la bocca; il capezzolo si materializza nella sua bocca, inizia a succhiare. Piangere, girare la testa, spalancare la bocca e succhiare è la parte che spetta al bambino, ma da sola non è sufficiente per raggiungere lo stato di soddisfacimento del bisogno alimentare. Il risultato positivo, anche se il piccolo per molto tempo non lo saprà, non dipende dalla somma degli schemi di azione che ha messo in atto o perlomeno non solo da questa. Per il successo è necessaria una madre che ascolti e comprenda il pianto, che appoggi il capezzolo nella bocca spalancata e che secerna latte a sufficienza. La mano del piccolo si stringe sul dito della madre e questa diventa un sostegno che lo tira su a sedere. Egli può pensare che è possibile passare da sdraiati a seduti semplicemente stringendo i pugni, ma si inganna: è assolutamente necessario qualcuno che collabori ai suoi sforzi, intuendo le sue intenzioni o magari atttribuendogli le proprie. Il risultato non dipende quasi mai esclusivamente da lui ed è codeterminato dagli adulti che si occupano del suo benessere. Ma tutto questo il piccolo inizialmente non lo sa.

LA CONOSCENZA INNATA

Di che tipo è la conoscenza innata con la quale il piccolo viene al mondo e che sarà oggetto di arricchimento e modificazione attraverso le sue prime esperienze? 50

La crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino

Sono quattro i diversi domini cognitivi da distinguere: gli scopi, gli aspetti percettivi, le azioni, le emozioni. Alcuni scopi, o stati desiderati, costituiscono il nucleo dell'apparato motivazionale. Biologicamente determinati, riguardano situazioni connesse alla sopravvivenza individuale e della specie (fame, protezione dai predatori, mantenimento dell'integrità fisica ecc.). Non tutti gli scopi sono attivi già alla nascita (quelli relativi alla sessualità, ad esempio, diverranno tali soltanto in età più avanzata), ma su quelli innati si costituirà progressivamente tutto il sistema di scopi culturalmente appresi, i gusti, le preferenze individuali. La loro gerarchia sarà determinata dal potere euristico che il soggetto acquista in seguito al loro raggiungimento: vale a dire che uno scopo sarà tanto più importante quanto più ricca sarà la costruzione della realtà, di sé e del mondo che il soggetto prevede di ottenere una volta raggiuntolo. Che uno degli scopi del neonato sia quello di interagire con un adulto perché questo rappresenta la sua finestra sul mondo e la modalità privilegiata per la soddisfazione di tutti gli altri suoi bisogni, è testimoniato da una grande quantità di studi, ormai storici (Fantz, 1963) che hanno dimostrato come il neonato preferisca guardare facce umane disegnate piuttosto che qualsiasi altra figura. Più in generale i bambini preferiscono la simmetria sul piano verticale, caratteristica delle facce umane, alla simmetria sul piano orizzontale. Specularmente i genitori tendono spontaneamente ad allineare la loro faccia con quella del bambino, come se sapessero di questa preferenza. Questa è soltanto una delle preferenze che i neonati manifestano e che indica complessivamente la loro inclinazione a rapportarsi con esseri umani adulti: tale tendenza può essere considerata uno scopo del sistema bambino, in quanto orienta fortemente il suo comportamento ed è collegata a emozioni positive se soddisfatta e negative in caso contrario. (Eibl-Eibesfeldt, 1993)

Il secondo dominio cognitivo riguarda l'aspetto percettivo. Il piccolo nasce con una gamma limitata di capacità sensoriali e sensitive che gli permettono poche discriminazioni, specifiche e strettamente connesse al sistema degli scopi. Noi siamo in grado di cogliere della realtà non la sua essenza o la verità ultima ma gli aspetti utili per il perseguimento dei nostri scopi: perciò noi, al contrario delle rane che pure colgono il volo dei moscerini con precisione millimetrica, siamo sensibili all'odore del pane appena sfornato, del tutto indifferente ai nostri amici anfibi. Queste capacità discriminative non sono date una 51

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volta per tutte, ma si modificano nel corso dell'esistenza modellandosi sull'evoluzione dell'impalcatura gerarchica degli scopi: l'orecchio di un direttore d'orchestra, il gusto di un sommelier, la vista di un cecchino riescono a operare discriminazioni e apprezzano differenze comunemente impercettibili, ma estremamente importanti per gli scopi del sistema proprio di ciascuna arte. Capire cosa sa e cosa non sa un neonato non è impresa di poco conto. Per farlo occorre fare affidamento sulle poche risposte comportamentali di cui è capace già alla nascita: succhiare, guardare, e girare la testa. Proprio utilizzando la capacità di girare verso destra o sinistra la testa se appoggiata su un cuscino già all'età di tre giorni, MacFarlane (1985) è riuscito a stabilire che appena nati i piccoli sono in grado di distinguere selettivamente l'odore del latte della madre. Il ricercatore ha messo dei bambini di tre giorni stesi sul dorso e poi ha posto dei tamponi che erano stati a contatto con il seno della madre da un lato della testa mentre dall'altro lato vi erano tamponi che erano stati a contatto con il seno di altre donne che allattavano. I piccoli giravano la testa verso la parte da dove proveniva l'odore della madre in modo statisticamente significativo. I bambini dimostrano dunque una capacità percettiva straordinaria, capace di operare discriminazioni molto raffinate e assolutamente impossibili per un adulto, ma fortemente connesse con i bisogni del neonato, a conferma che si percepisce non tanto "ciò che è vero", quanto "ciò che è utile". Il terzo dominio cognitivo riguarda le azioni, il saper fare. Il piccolo nasce con una serie enorme di schemi d'azione già costruiti, utili al perseguimento degli scopi innati connessi alla soprawivenza. Mentre in molte specie animali essi riguardano direttamente il rapporto del piccolo con l'ambiente in modo da permettergli subito un'autonomia precoce, nelle specie superiori e soprattutto nell'uomo essi sono finalizzati alla creazione e al mantenimento del legame con la madre, o con un altro adulto accudente. I neonati già alla nascita sanno fare molte cose o perlomeno quelle sufficienti a garantire loro la soprawivenza se hanno la ventura di incontrare un adulto che si occupi di loro. Per questo gran parte delle loro abilità sono rivolte proprio a ottenere la collaborazione dell'adulto al soddisfacimento dei propri bisogni. A questo scopo il pianto è uno strumento fondamentale. Attraverso di esso i piccoli segnalano in modo selettivo i loro bisogni: la madre distingue facilmente e in modo istintivo il pianto di fame da quello di rabbia, di paura o di sonno

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e dimostra una soglia particolarmente bassa per il pianto del suo piccolo avvertendolo immediatamente anche a una intensità così lieve alla quale ogni altro rumore passerebbe inosservato. Neonato e madre sembrano, per certi versi, funzionare ancora come un'unica entità non solo psicologica ma anche biologica: un'esperienza comune di molte donne è di avvertire una copiosa e immediata secrezione lattea al solo udire il pianto di fame del proprio bambino. Uno schema fisso d'azione consiste in un movimento strutturato, per molti versi simile a un riflesso, formato da sequenze stereotipate che, una volta avviate, proseguono il loro corso fino al completamento, quasi del tutto indipendentemente da ciò che avviene nell'ambiente esterno, cioè senza alcuna retroazione percettiva ambientale. Nell'uomo adulto essi vengono molto ridotti di numero, tranne forse per il controllo dell'espressione facciale, ma all'inizio della vita svolgono un ruolo decisivo per il comportamento di attaccamento: pensiamo a quanto possa contare un piccolo gesto come la rotazione del capo, la prensione, il pianto, il sorriso, succhiare, aggrapparsi. Il lattante si dimostra adattato a una precoce presa di contatto visiva, anche per il fatto che il suo riflesso di suzione raggiunge un massimo da 20 a 30 minuti dopo la nascita. La medesima intensità di questo istinto di succhiare si osserva di nuovo solo dopo quaranta ore (Archavsky, 1952). Questa precoce capacità di suzione induce nella madre un aumento del tasso di progesterone e contrazioni uterine dovute al rilascio dell'ossitocina. Tali contrazioni diminuiscono l'emorragia dovuta al parto. Infine la suzione induce una forte attrazione emotiva e a sua volta questa provoca la disponibilità all'allattamento. (Eibl-Eibesfeldt, 1993)

Più avanti nello sviluppo, verso i nove mesi, appaiono i comportamenti corretti secondo lo scopo, dove cioè il risultato è raggiunto grazie a una continua retroazione ambientale che fa selezionare i movimenti strumentali all'avvicinamento dello scopo, tenendo conto delle differenze tra l'istruzione e la prestazione fornita e valutando la distanza che separa il comportamento dall'evento o dalla condizione considerata "scopo del comportamento" (la retroazione è dunque unaripetuta invalidazione che consente di aggiustare progressivamente il tiro). Questi sistemi comportamentali semplici si uniscono nel tempo a formare delle sequenze sempre più lunghe e complesse. Nell'adulto i 53

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comportamenti si organizzano in modo assai più efficiente e sofisticato secondo "piani gerarchici organizzati" (Miller, Galanter, Pribram, 1973 ), ossia mediante strutture comportamentali globalmente corrette secondo lo scopo e formate da una serie di sottostrutture gerarchicamente subordinate, chiamate "portatrici". In questo caso, non solo ognuna delle sottostrutture è corretta secondo lo scopo ma la stessa struttura generale funziona in base al principio della retroazione ambientale valutando lo scarto tra prestazione e previsione (invalidazione). All'interno di una simile organizzazione si può parlare di strategie e di tattiche intendendo con strategie il piano complessivo generale e lo scopo fondamentale, e con tattiche tutti i sottopiani e gli obiettivi particolari considerati necessari per il raggiungimento dello scopo ultimo. Quarto punto, le emozioni: in prima approssimazione possiamo considerarle un'attività valutativa preverbale, che informa il sistema sul suo stato interno e in particolare sul raggiungimento/fallimento, attuale o previsto, dei suoi scopi. Una ricerca conclusiva mostra che alcune espressioni facciali selezionate sono osservabili anche nei neonati (Ganchrow, Steiner, Daher, 1983 ). Subito prima o dopo il loro primo pasto ai neonati venivano somministrate piccole quantità di liquidi lievemente o molto dolci, oppure lievemente o molto amari. L'espressione facciale dei soggetti si modificava a seconda del liquido, i gusti dolci suscitavano una modesta apertura delle labbra, leccamento ritmico e a volte un piccolo sorriso; mentre i gusti amari provocavano l'apertura o la chiusura della bocca con gli angoli abbassati, la protrusione ripetuta delle labbra e un veloce ammiccamento delle palpebre. Quando alcuni osservatori hanno tentato di identificare la reazione dei neonati ai liquidi a partire dalle loro espressioni, hanno concluso che i piccoli non gradivano i gusti amari mentre apprezzavano quelli dolci. Inoltre, gli osservatori sono riusciti a discriminare quando i soggetti stavano assaggiando i liquidi più concentrati oppure quelli meno concentrati. Pare quindi che i neonati siano in grado di manifestare espressioni facciali non solo distinte tra loro, ma anche di intensità variabile. (Harris, 1991)

Come scrivono Miceli e Castelfranchi (1992) "da un punto di vista funzionale le emozioni costituiscono un equivalente delle valutazioni come processo cognitivo superiore e un loro precorritore evolutivo sia filo che ontogenetico". Si distinguono sostanzialmente due tipi di emozioni, che potremmo approssimativamente chiamare primarie e secondarie.

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Primarie appaiono quelle emozioni basate sull'appraisal, vale a dire sulla valutazione intuitiva e diretta della situazione (ad esempio la reazione di spavento), che comportano immediate modificazioni nel corpo e attivano la tendenza all'azione; percezione-appraisal-emozione sono fusi in un tutt'uno difficilmente distinguibile. Queste emozioni sono presenti fin dalla nascita, il loro scopo è agire una funzione adattiva non rappresentata nella mente individuale e [ .. .] la loro rilevanza non è verso bisogni, piani o preferenze dell'organismo, ma verso "scopi esterni", funzioni adattive come sopravvivere, accoppiarsi, riprodursi, non rappresentate nell'organismo bensì semplicemente implementate in esso e "servite" da bisogni, piani, preferenze. (Miceli, Castelfranchi, 1992)

Le emozioni per così dire secondarie conseguono invece a valutazioni cognitive e riguardano direttamente gli scopi rappresentati dal sistema (Miceli, Castelfranchi, 1992; D'Orso, 1990), che si collegano alla previsione-constatazione del raggiungimento o della compromissione di uno scopo individuale. Questo secondo tipo di emozioni, fondate su una vera e propria valutazione cognitiva, necessitano di un maggiore sviluppo del sistema e dunque non sono presenti alla nascita. In entrambi i casi le emozioni sono connesse agli aspetti motivazionali del sistema sia che si tratti di scopi interni rappresentati, sia che si tratti di scopi esterni sovraindividuali. L'emozione è attivata dal conseguimento o dalla previsione del raggiungimento/fallimento di uno scopo. L'invalidazione o la validazione di una previsione non comporta in sé nessuna emozione: che poi la previsione invalidata riguardi il raggiungimento di uno scopo e quindi all'invalidazione si associ il senso di fallimento non deve far confondere i due piani; la distinzione è evidente nel già citato esempio del condannato a morte che viene graziato, cui viene quindi invalidata la previsione di essere impiccato, ma che gioisce per aver raggiunto lo scopo di mantenersi vivo. La connessione tra scopi ed emozioni secondo gli studi di Harris (1991) è evidente già ai bambini piccoli. Attraverso una lunga serie di ricerche Harris infatti dimostra che "i bambini di quattro o cinque anni concepiscono le persone come agenti che perseguono i propri scopi e che sono felici o tristi a seconda che tali obiettivi si realizzino o meno". I bambini hanno una teoria della mente in cui le emozioni dipendono dalle credenze e dai desideri e non sono semplicemente associate alle situazioni.

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LA CONOSCENZA DI STATI INTERNI E SCHEMI D'AZIONE

Il bambino alla nascita non parte da una conoscenza zero; non è una tabula rasa, ma possiede un ingente patrimonio di conoscenza innata che si articola in quattro domini tra loro saldamente interconnessi: il dominio motivazionale, quello percettivo, quello comportamentale e quello emotivo. In ognuna di queste aree la conoscenza innata si arricchirà enormemente modificandosi e articolandosi a ogni fallimento. Inizialmente il piccolo non si conosce come soggetto e non conosce oggetti: tutto ciò che riesce a discriminare sono stati interni di soddisfazione o insoddisfazione o, più genericamente, di piacere o dolore, associati, a volte necessariamente e altre volte per caso, alla messa in atto di certi schemi d'azione. A questo punto è possibile una prima operazione epistemologica che associa e separa gli schemi d'azione raggruppandoli a seconda della loro capacità di produrre soddisfazione o insoddisfazione e cioè della loro efficacia nel perseguire un certo scopo. Il primo oggetto di conoscenza consiste dunque nelle somiglianze e differenze tra i singoli schemi d'azione in quanto capaci di produrre benessere o malessere. Il bambino sviluppa schemi d'azione complessi attraverso gli effetti che essi hanno sul contesto in termini di raggiungimento o fallimento di scopi, ma che egli avverte solo come stati interni di soddisfazione o insoddisfazione; non esistono ancora un sé e un altro da sé, un dentro e un fuori, ma soltanto benessere o malessere, senza alcuna attribuzione causale. Agli psicologi dello sviluppo infantile lasciamo la puntuale trattazione di questi argomenti: qui intendiamo soltanto descrivere brevemente come la relazione madre-bambino sia fondamentale per lo sviluppo della conoscenza ancor prima che si possa propriamente parlare di relazione di attaccamento, per poi illustrare come il meccanismo per congetture e confutazioni possa essere l'unico in gioco nell'incremento della conoscenza. In questa primissima fase la figura di attaccamento non è ancora considerata altro da sé, e del resto non sono ancora tracciati neppure i confini del sé: tutto l'esistente è costituito da stati di benessere e/o malessere. Purtuttavia il risultato positivo o negativo degli schemi d'azione nel produrre benessere o malessere è codeterminato proprio dall'azione della figura di attaccamento, che influenzerà in modo decisivo l'assemblaggio degli schemi d'azione semplici prossimi a costituirsi come schemi d'azione più complessi. La differenziazione e il raggruppamento degli schemi d'azione sono un prodotto comune dell'interazione tra il piccolo e la figura di at56

La crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino

taccamento: ipotizziamo che uno scopo innato del neonato sia il mantenimento della vicinanza con la figura di attaccamento, come propone Bowlby, e che il piccolo sia dotato geneticamente di una serie di schemi d'azione, come aggrapparsi o muoversi in una direzione o piangere come richiamo, che servono allo scopo. Quando il neonato avvertirà malessere dovuto al mancato raggiungimento dello scopo vicinanza, attiverà uno o più schemi d'azione per ridurre la distanza dalla figura di attaccamento. Il risultato che otterrà non dipenderà esclusivamente da lui. Immaginiamo che, a ogni tentativo di avvicinamento, la figura di attaccamento si allontani ulteriormente: il malessere del neonato aumenterà e questo schema d'azione si rivelerà inefficace nel perseguire lo scopo vicinanza; progressivamente il piccolo imparerà che avvicinarsi equivale a essere rifiutati e che il modo migliore per mantenere il massimo di vicinanza possibile è quello di non fare richieste di vicinanza e stare per proprio conto (modello dell'attaccamento evitante). Naturalmente stiamo parlando da adulti: per il bambino non esistono né soggetti, né oggetti, ma solo schemi d' azione capaci di produrre benessere o malessere. Immaginiamo ancora che lo stesso bambino, fallito il tentativo di avvicinarsi alla madre, provi a richiamarla attraverso il pianto e che essa effettivamente accorra, ma soltanto per nutrirlo, ritenendo di trovarsi davanti a un pianto da fame: il piccolo imparerà che la vicinanza e il cibo sono la stessa cosa e che può consolarsi della solitudine mangiando. Gli schemi d'azione dell'attaccamento e quelli dell'alimentazione diverranno allora interscambiabili.

L'UNIVERSO INDIVISO

Nelle primissime fasi dello sviluppo la figura di attaccamento rappresenta il contesto dentro il quale il piccolo cimenta e modifica le sue aspettative innate e ne acquisisce di nuove. Chi decreta il successo o il fallimento del processo per tentativi ed errori che premia o punisce un comportamento è in gran parte proprio la figura di attaccamento, la cui importanza è centrale perché agisce senza essere riconosciuta, senza alcuna attribuzione di responsabilità rispetto ai risultati raggiunti. Ritornando agli esempi precedenti, se il bambino fosse più grande e riconoscesse il ruolo proprio e quello materno in quanto accade attorno a lui, potrebbe spiegarsi gli eventi dicendosi, nel primo caso: "Mia ma57

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dre è cattiva e non mi vuole"; e nel secondo caso: "Mia madre non capisce bene ciò che voglio". L'intenzionalità della figura di attaccamento e il suo ruolo nel codeterminare l'esito delle interazioni non sono riconosciuti come tali ma come regola immanente al contesto. Poiché non esiste ancora un sé operante ma solo schemi di azione e stati interni, ciò che si sperimenta assurge alla dignità di norma assoluta del funzionamento di quell'universo indiviso dal quale, agli occhi del bambino, ancora non si è differenziato né il sé né l'altro. Le discriminazioni e le associazioni operate in questa fase sono owiamente preverbali (e per questo poi difficilmente evidenziabili e criticabili in termini linguistici simbolici) e rappresentano le coordinate fondamentali del sistema cognitivo, il punto di vista dal quale il soggetto guarda la realtà piuttosto che specifici contenuti del suo campo visivo; non sono sperimentate come convinzioni personali ma come premesse indiscutibili, assolutamente autoevidenti e, come tali, molto resistenti al cambiamento.

IL RUOLO DELLA FIGURA DI ATTACCAMENTO

Durante questo primissimo periodo della vita la figura di attaccamento agisce nell'ombra, non riconosciuta, per creare insieme al bambino il suo mondo di significati. Nel processo di ca-costruzione svolge diversi ruoli: innanzitutto è colei che fornisce al piccolo le invalidazioni proporzionate, che spingono il sistema cognitivo a sofisticarsi per accogliere i nuovi dati che non trovano spazio nei vecchi schemi. Si tratta in pratica di somministrare frustrazioni che tuttavia non siano devastanti e che non facciano perdere al piccolo il senso che progres-sivamente sta costruendo a partire dal caos originario; ad esempio, le richieste di stare insieme a giocare normalmente vengono accolte di giorno e frustrate di notte, cosicché lo schema di tempo tra una poppata e l'altra si interrompe per un periodo più lungo, perdendo la cadenza identica delle ore diurne. Ciò invalida l'aspettativa di regolarità ma spinge il piccolo a guardare oltre, ad accomodare i suoi schemi e a inventare un'unità di tempo più vasta, il che gli consente di ricostituire la prevedibilità momentaneamente perduta. In secondo luogo la figura di attaccamento agisce da/acilitatore dei meccanismi di assimilazione, stimolando l'applicazione dello stesso schema d'azione a oggetti diversi e quindi generalizzandone l'utilizzo. Un esempio tipico è lo spostamento dello schema motorio di suzione dal suo primitivo oggetto, il capezzolo, alla tettarella del biberon, e anche

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La crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino

in questo caso si passa attraverso l'invalidazione di un'aspettativa: il piccolo si aspetta di incontrare il capezzolo e invece incontra qualcosa di molto diverso, anche se simile. Sollecitato dalla figura di attaccamento, il piccolo non abbandona lo schema suzione, né lo accomoda, ma, tenendo conto più delle somiglianze che delle differenze, assimila il biberon al seno. Una terza modalità con cui la figura di attaccamento co-costruisce l'universo di significati del piccolo consiste nella creazione di un contesto significativo: quando viene emesso casualmente uno schema, essa agisce in modo da attribuirgli un senso socialmente condiviso. La maggior parte dei giochi ripetitivi che nascono spontaneamente sono di questo tipo: quando il piccolo fa incontrare le mani muovendole, resta stupito dal rumore prodotto e rivolge gli occhi verso la madre, questa sorride, risponde battendo le mani a sua volta, ripete stereotipicamente "Batti, batti le manine" e accompagna le braccia del figlio nella ripetizione del gesto, il tutto in un clima di allegria e reciproca comunicazione. Il bambino non sospetta affatto che da quel gesto involontario si scateni un simile putiferio, ma trova la faccenda nuova e divertente e d'ora in poi saprà come richiamare l'attenzione della madre: per innescare tutto il processo è sufficiente battere le mani. Lo stesso vale per l'emissione di vocalizzi del tipo "ma-ma-ma" oppure "pa-pa-pa", che, emessi per caso e senza l'intenzione di imitare parole conosciute, come "gu-gu-gu" o "ta-ta-ta", suscitano però tale interesse nelle persone circostanti da divenire rapidamente un veicolo privilegiato per attivare e mantenere le relazioni con l'ambiente: il piccolo non sa ancora spiegarsi cosa abbia di tanto particolare quel suono, ma è certo di aver trovato la parola magica. Infine la figura di attaccamento sollecita l'emissione dello schema d'azione idoneo di fronte al contesto adeguato: ciò awiene in genere esaltando quegli aspetti dell'oggetto che fungono da stimoli all' emissione dello schema, come quando si produce rumore con un oggetto affinché il piccolo lo noti per protendersi e prenderlo. La figura di attaccamento interviene dunque nello sviluppo della conoscenza del piccolo nelle prime fasi della vita, fornendo invalidazioni proporzionate al grado di sviluppo del sistema e premiando le soluzioni nuove più idonee (a suo giudizio). È soprattutto lei a codeterminare i fallimenti previsionali; è lei che suggerisce o sollecita nuove ipotesi, e sarà ancora lei a decretare quale delle nuove ipotesi avrà successo. La figura di attaccamento contribuisce in modo decisivo alla co-costruzione della mappa di come si ottiene il piacere e si fugge il 59

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dolore relativamente ai diversi scopi; una volta raggiunto questo livello, il bambino procederà ad associare i vari scopi, rendendo più complessi gli schemi d'azione: la gerarchizzazione del sistema cognitivo awiene proprio in questa fase dello sviluppo ancora precedente al riconoscimento dell'altro e del suo ruolo.

L'INVENZIONE DELL'ALTRO

Abbiamo visto come, agli occhi del bambino, inizialmente non esistano oggetti né soggetti e come il piccolo conosca esclusivamente stati interni di soddisfazione e disagio e schemi d'azione più o meno efficaci a trasformare il disagio in soddisfazione. Gli adulti si costruiscono come soggetti individuali in relazione a un mondo esterno fatto di cose inanimate e di "altri" simili a loro: il riconoscimento dell'altro è dunque una tappa cruciale nel processo di conoscenza e di coscienza di sé. Come awiene il passaggio tra le due fasi? Come nascono i soggetti e gli oggetti nella mente umana? Sembrerebbe logico pensare che il riconoscimento dell'altro da sé possa essere conseguente allo sviluppo dell'idea di sé, definendolo, per esclusione, come "tutto ciò che non è sé"; noi tenteremo invece di sostenere esattamente il contrario, ossia che dalla situazione di un universo indiviso si sviluppa l'idea dell'altro e solo successivamente l'idea di un sé. L'ipotesi, seppure innovativa, non è poi così poco plausibile: se si pensa agli animali superiori non è difficile immaginare che essi conoscano gli "altri", infatti distinguono i predatori dagli amici e dalle prede e sanno come comportarsi con queste categorie di interlocutori. Riconoscere gli altri tuttavia non vuol dire necessariamente riconoscere se stessi. Il punto non è stabilire se gli animali abbiano un senso di sé e di che tipo esso sia: basti rilevare che mentre si dà per scontato che gli animali riconoscano l'estraneità dell'altro, molto meno scontato è che gli animali possiedano l' autoconsapevolezza, un senso di sé più o meno sviluppato. Animali a parte, è sufficiente indagare l'esperienza di ogni madre per sentirsi dire che si è accorta di essere selettivamente riconosciuta dal proprio figlio molto tempo prima che egli riconoscesse se stesso. Numerosi esperimenti dimostrano che il neonato sorride alla madre selettivamente, quando ancora è del tutto indifferente alla sua immagine allo specchio. Indipendentemente da quale sia l'epoca in cui le varie teorie collocano la nascita del sé, normalmente il riconoscimento del sé è consi-

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La crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino

derato precedere l'idea dell'altro. Sosterremo il contrario per entrare poi nel dibattito sull'epoca della nascita del sé, analizzando alcune evidenze sperimentali riportate da Stern (1987), che difende una tesi del tutto diversa. Coerentemente all'impostazione antinduttivistica non ipotizzeremo che l'idea dell'esistenza dell'altro si imponga alla mente del bambino grazie alla maturazione dei sistemi percettivi che non possono non prendere atto della realtà di tale esistenza. Al contrario l'idea del1' altro va considerata come un'ipotesi formulata dalla mente del piccolo, ipotesi che una volta formatasi viene caldamente sostenuta dal1' ambiente circostante e dalla figura di attaccamento; ipotesi che nasce, come tutte, da un fallimento previsionale. Riconsideriamo il nostro bambino immerso nell'universo indiviso, tutto preso a sperimentare l'associazione tra certi schemi d'azione e certi stati d'animo: quale può essere l'invalidazione che necessariamente eripetutamente colpisce le previsioni del piccolo fino a fargli elaborare l'idea dell'esistenza di un altro? Una situazione che gli può accadere spesso è che compiendo la medesima azione egli non ottenga gli stessi risultati: il pupazzetto è a dieci centimetri dal suo naso, lui allarga lateralmente entrambe le braccia e poi le stringe in avanti, ma una volta riesce ad afferrarlo e portarlo alla bocca e un'altra volta il pupazzetto sfugge improvvisamente alla presa sparendo all'indietro o verso l'alto. Se lo stesso schema d'azione non ottiene lo stesso risultato occorre ipotizzare qualcosa che giustifichi questa diversità. L'interferenza esterna può essere ben spiegata dall'idea dell'esistenza di un "altro" dotato di intenzionalità. Se il contesto fosse semplicemente un milieu passivo, ogni volta che si presentano le stesse condizioni e si mettono in atto gli stessi comportamenti si dovrebbero ottenere necessariamente gli stessi effetti. Il bambino ha fame mentre è in braccio alla madre e mette in atto la sequenza conosciuta di schemi d'azione che normalmente si conclude con l'arrivo del latte nella sua bocca: piange, orienta la testa verso la madre, spalanca la bocca. La sequenza si interrompe qui perché la fase successiva, cioè succhiare, non avrebbe senso in quanto il capezzolo non è arrivato a colmare la bocca. Il piccolo è contrariato dall'evento sgradito e inaspettato e inizia di nuovo la sequenza del pianto iniziale con più vigore di prima. "Forse", penserà, "ho sbagliato qualcosa; riproviamo con più attenzione." Tutto è inutile, anche la seconda volta il miracolo del latte caldo che invade la bocca non si avvera. Un terzo tentativo va ancora a vuoto poi, quando ormai sta perdendo le speranze, il quarto tentativo ha pieno successo. Oltre a go61

R. Lorenzini S. Sassaroli

dersi il sospirato latte il piccolo "pensa" perplesso a come sia possibile ciò che è accaduto. Il problema lo assilla perché non si verifica soltanto quando è l'ora di pranzo e perché ha sempre le stesse caratteristiche: benché lui faccia esattamente le stesse cose per raggiungere un certo risultato, che sia l'eliminazione di un fastidio o la soddisfazione di un bisogno, l'azione a volte ha successo, altre volte fallisce miseramente. Non è problema di poco conto perché è in gioco la sua possibilità di controllo dei propri stati interni. Pensa e ripensa, sembra non venire a capo di nulla, finché un giorno, quasi per caso, sopraggiunge un'idea geniale: "Vuoi vedere che là fuori c'è qualcun altro?". In sintesi possiamo dire che l'invenzione di un altro è necessaria a risolvere il problema dell'imprevedibilità degli stati d'animo e della mutevolezza del contesto, determinata dalla figura di attaccamento. L'aspetto decisivo è proprio la mutevolezza nel tempo della resistenza del contesto alle azioni del bambino, che pur mettendo in atto gli stessi schemi non ottiene gli stessi risultati in termini di stati interni. Le sue previsioni dunque vengono invalidate e si apre un problema, brillantemente risolto dall'idea dell'esistenza di un altro dotato di intenzionalità: il contesto nel quale il bambino agisce infatti non è più da considerare passivo ma attivo, capace di risposte diverse e di iniziative; i diversi esiti degli stessi schemi in circostanze diverse possono essere attribuiti al suo essere attivo. L'idea dell'altro nasce così per spiegare l'aleatorietà, il non controllo, l'imprevedibilità dei propri stati d'animo. Perché tutto ciò avvenga non è necessario che il soggetto di queste operazioni cognitive si percepisca come tale, così come la mangusta riconosce e attacca il serpente senza per altro sapere granché sulla sua identità di mangusta, forse senza percepirsi come essere finito nel tempo e nello spazio e senza ritenersi l'autrice dei suoi pensieri e del suo comportamento.

LA DIADE SENZA SOGGETTO

Se è vero che a questo punto l'ipotesi dell'esistenza dell'altro è stata generata, si aprono al piccolo nuovi domini di conoscenza. Esiste infatti un nuovo oggetto d'indagine da imparare a conoscere per diminuire la sua imprevedibilità nel codeterminare i propri stati interni: l'altro e, poi gli altri. Nella prima fase di universo indiviso l'oggetto di scoperta erano gli schemi d'azione, i propri stati interni e soprattutto il rapporto tra

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queste due entità; successivamente, questa cornice concettuale non è più in grado di dare ragione di quanto accade, non riesce a spiegare come mai schemi identici generino stati interni diversi. La rivoluzione cognitiva che ne consegue comporta un nuovo modello esplicativo in cui gli stati interni sono codeterminati dai propri schemi d'azione e dal comportamento dell'altro, che diventa dunque un nuovo interessantissimo campo di ricerca. Possiamo chiamare questa situazione successiva alla invenzione dell'altro e precedente alla nascita dell'idea di sé diadica senza soggetto (figura 2.1). La nostra ipotesi contrasta con quella di Stern (1987), secondo cui il senso di sé emergente sussiste fin dalla nascita e il neonato non sperimenta mai un periodo di totale indifferenziazione tra sé e l'altro, né un periodo di tipo autistico (come sostengono molti psicanalisti); Stern rifiuta inoltre la fase simbiotica e considera l'incontro con l'altro successivo all'instaurarsi di un senso di sé nucleare. A sostegno di questa tesi esistono dati sperimentali che dimostrano come sin dalla nascita i neonati ricerchino stimolazioni sensoriali elaborando un sistema di preferenze e motivazioni; tuttavia, questo non è sufficiente a dimostrare l'esistenza di un sé: preferenze e motivazioni probabilmente compaiono nell'universo insieme alla vita. Allo stesso modo fenomeni quali la compartecipazione dell'attenzione, delle intenzioni e degli stati affettivi non richiedono l'esistenza di un sé. Diventa a questo punto necessario definire che cosa si intende per "sé". Quando noi parliamo di sé intendiamo il fatto che il piccolo si riconosca come un'unità separata da tutto il resto, dotata di confini sta-

Oggettidi conoscenza

Universo indiviso

Diade senza soggetto

Stati interni

Stati interni

À

f

Schemi d'azione

~

#

~

~

~

~ Comportamento

Schemi d'azione ~

dell'altro

Figura 2.1 Dall'universo indiviso alla diade senza soggetto. Lo spostamento è determinato da una invalidazione sulla prevedibilità e ripetibilità dei propri stati interni di cui la situazione di "Universo indiviso", che non tiene conto dell'esistenza dell'altro e del suo ruolo nel codeterminare gli effetti degli schemi d'azione, non riesce a dare ragione.

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bili e continui nel tempo, capace di percezioni, comportamenti, intenzioni ed emozioni che sono esclusivamente suoi. Insomma, qualcosa di simile a quello che per Stern è il "senso di sé verbale", il cui emergere è collocato nel corso del secondo anno di vita. Ma per parlare veramente dell'esistenza di un sé ci sembra indispensabile che il piccolo si riconosca come tale; non basta che agisca come un'unità. È evidente che fin dalla nascita esiste un soggetto conoscente, ma questo è vero per qualsiasi forma vivente. Il crinale decisivo è l' autoconsapevolezza. Ecco come Stern descrive lo sviluppo di una visione di sé. Le prove del fatto che i bambini a questa età [18 mesi] cominciano a considerare se stessi come entità oggettive, sono state esaminate a fondo da Lewis, Brooks-Gunn (1979), Kagan (1981) e Kaye (1982) [. .. ]; gli argomenti più convincenti sono il comportamento dei bambini di fronte a uno specchio, il loro uso delle etichette verbali (nomi e pronomi) per designare se stessi, l'affermazione di un'identità nucleare di genere (categorizzazione obiettiva del Sé) e gli atti di empatia. [.. .] Per poter agire empaticamente il bambino deve essere capace di immaginare sia il Sé come un oggetto che può essere esperito dall'altro, sia lo stato soggettivo dell'altro oggettivato. (Stern, 1987)

COGLIERE L'INASPETTATO Stern riporta il parere di Bruner (1977), secondo il quale i bambini sin dalla nascita sono portati a formulare ipotesi e a verificarle. Ciò, secondo noi, nulla ha a che fare con l'esistenza del sé nel bambino ma, di nuovo, appartiene a tutta la categoria dei viventi. Questo dato porta un contributo sperimentale alla nostra tesi sulla modalità di accrescimento della conoscenza per congetture e confutazioni: Sembra che sia presente sin dalla nascita la tendenza a fare ipotesi su ciò che accade nel mondo circostante e a verificarle (Bruner, 1977) [ ... ]. Inoltre i bambini sono costantemente impegnati a dare dei giudizi, cioè a chiedersi: questa forma è uguale o diversa da quell'altra? Quanto differisce l'esperienza fatta ora da quella fatta precedentemente? È chiaro che [. ..] il bambino scoprirà prontamente quali elementi di un'esperienza sono costanti e quali variabili, cioè quali elementi "appartengono" all'esperienza [... ] e applicherà questi medesimi procedimenti a qualsiasi sensazione e percezione gli si presenti, dalla più semplice a quella che è di tutte la più complessa: il pensiero sul pensiero. (Stern, 1987)

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La crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino

Tale meccanismo, consistente nel cogliere esclusivamente le differenze rispetto alle aspettative precedentemente create e nella loro utilizzazione per la costruzione di nuove ipotesi, è ben descritto per quanto riguarda lo sviluppo e l'utilizzo della "memoria episodica". Stern (1987) cita ricerche di Nelson (1978), Shank e Abelson (1975, 1977), Nelson e Gruendel (1979, 1981), Nelson e Ross (1980), Shank (1982). Mettiamo che un bambino abbia sperimentato una volta un dato episodio avente i seguenti attributi: essere affamato, essere portato al seno, ruotare la testa, aprire la bocca, cominciare a succhiare, ingoiare il latte. Definiamo questo insieme un episodio: "seno-latte" [. .. ] quando si presentano molti altri episodi con somiglianze individuabili e differenze di poco conto, il bambino comincia a formarsi lo schema di un episodio generalizzato "seno-latte". Questa memoria generalizzata costituisce una previsione personale di come le cose presumibilmente si presenteranno di momento in momento. (Stern, 1987) Stern continua ipotizzando che l"'episodio seno-latte" si differenzi dagli altri, ad esempio perché, toccando con il naso il seno della madre, il bambino vive un'esperienza angosciosa di soffocamento, il che lo conduce a memorizzare questo episodio come simile, ma marcatamente diverso dagli altri. Secondo Shank (1982) la memoria di questo episodio specifico di soffocazione da seno "è il risultato di un'aspettativa fallita; la memoria è guidata dai fallimenti"nel senso che un episodio specifico diviene rilevante e viene memorizzato solo nella misura in cui si discosta dall' episodio generalizzato previsto. (Stern, 1987)

L'INVENZIONE DEL SÉ

Il sé, all'inizio, altro non è che un costrutto teorico, un'ipotesi che nasce per dare ragione di fatti che le precedenti spiegazioni (ad esempio quella dell'universo indiviso, o della situazione diadica senza soggetto) non riuscivano a chiarire. Quale problema tenta di risolvere l'idea di un sé unitario e distaccato dall'ambiente e dall'altro, che fino a quel momento non è stata necessaria? È un'esperienza di tutti i genitori rendersi conto che a un certo punto dello sviluppo il proprio figlio si accorge della presenza degli altri e inizia a stabilire delle relazioni. Tale passaggio viene descritto

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spesso con parole del tipo "ora si ha proprio l'impressione di avere a che fare con una persona e non più con un fagottino sempre bisognoso di qualcosa". Più avanti avviene un passaggio ancor più gratificante per i genitori: il loro figlio li riconosce, li distingue dagli altri, li sceglie e li preferisce. Su questi due passaggi tutti i genitori sono facilmente d'accordo: sono assolutamente evidenti. Decisamente meno evidente è il momento in cui il bambino si accorge della propria esistenza come soggetto e acquista la consapevolezza di essere "sé". Certamente il fatto che i suoi stati interni, per quanto sgradevoli, non siano eliminabili come le percezioni esterne può generare uno spartiacque molto precoce tra dentro e fuori. Ma ancora non necessita dell'autoconsapevolezza. L'idea della sua esistenza diviene per il bambino un'utile ipotesi per spiegare due fenomeni altrimenti molto strani. Perché gli adulti di cui ormai conosce bene l'esistenza si rivolgono costantemente e concentricamente a un punto dello spazio che sta grosso modo proprio al centro del suo universo, cosa ci sarà di tanto interessante per loro laddove si genera il suo punto di vista sul mondo? E ancora: perché certi eventi che gli altri riescono a provocare (oggetti che si avvicinano, giocattoli che si sollevano, suoni che si producono) egli non riesce a produrli, nonostante faccia di tutto per imitare i loro gesti? Non sarà che egli esiste ed è diverso dagli altri? Pur non sperando di essere esaustivi riteniamo che siano almeno tre i problemi che l'ipotesi del sé risolve: l'ineliminabilità degli stati interni, delle emozioni; la polarizzazione del campo percettivo; il fallimento dell'imitazione. Per ineliminabilità degli stati interni intendiamo il fatto che il piccolo non riesca in alcun modo ad allontanarsi da stati interni sgradevoli come la fame, la sete, il freddo ecc. Essi dunque non sono oggetti del mondo esterno da cui si possa prendere le distanze, e fanno parte non del campo percettivo ma del percepiente stesso. Con polarizzazione del campo percettivo definiamo quel fenomeno per cui la stessa presenza del bambino modifica il campo in cui avvengono le sue percezioni. Gli adulti fanno come se al centro del suo punto di vista ci fosse qualcuno che egli non vede ma a cui gli altri si rivolgono costantemente, di cui sembra essi tengano conto. Gli agenti sociali che il piccolo incontra, gli altri già presenti nella situazione diadica senza soggetto sembrano orientati verso un focus, sembra che si rapportino a un soggetto; il piccolo non passa inosservato e modifica fortemente le situazioni in cui entra in gioco, che si polarizzano nei

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suoi confronti. Così come più tardi il bambino plasmerà la sua idea di sé su quella che gli rimandano i genitori, sia verbalmente che in modo non verbale, adesso costruisce la prima idea di sé, quella relativa alla sua stessa esistenza, per spiegare lo strano fatto che gli adulti conosciuti sembrano avere un rapporto con qualcuno che dovrebbe stare proprio dove egli si trova. La stessa idea di essere un sé esistente proviene dalla relazione con gli adulti. Infine, il fallimento del!' imitazione: con la nascita dell'ipotesi dell' esistenza dell'altro diviene possibile l'imitazione, che è un processo conoscitivo per tentativi ed errori dove però i tentativi sono copiati dall' esterno per poi essere comunque sottoposti a una verifica autonoma. Già nella fase diadica senza soggetto la figura di attaccamento, ormai riconosciuta come un'entità dotata di intenzionalità, non si limita a codeterminare il successo o il fallimento degli schemi d'azione da dietro le quinte ma fornisce, esplicitamente e non, modelli di soluzione dei problemi. Nel tentativo di imitazione il piccolo va fatalmente incontro a insuccessi; non riesce a fare quello che vede fare dall'altro, che ormai è in grado di riconoscere. Perché possa essere spiegato il fallimento dell'imitazione è necessaria la costituzione dell'idea di sé, di un sé con limiti e capacità diverse da quelle dell'altro. L'idea di essere un soggetto diverso nasce quindi anche dall'impossibilità di fare come l'altro. L'ineliminabilità degli stati interni, la polarizzazione del campo percettivo e il fallimento dell'imitazione sono, probabilmente, solo alcune delle anomalie inspiegabili nella situazione diadica senza soggetto, che vengono superate con l'invenzione del sé e la conseguente entrata nella fase della "relazione tra un sé e un altro". Per immaginare il passaggio che avviene da una situazione all'altra potremmo riferirci alla differenza tra uno spettatore che vede in un film dei personaggi agire e sperimenta delle emozioni, e un utente di realtà virtuale, che interagisce attivamente con l'ambiente e modifica l'andamento della storia. La nascita del sé favorisce lo sviluppo di un nuovo dominio conoscitivo, che si affianca a quello degli schemi d'azione, degli stati interni, e dell'altro: il sé in relazione con l'altro.

GLI INTERNAL WORKING MODEL DELLA RELAZIONE D'ATTACCAMENTO

La conoscenza relativa al dominio della relazione tra sé e l'altro è ciò che nella letteratura sull'attaccamento prende il nome di internal

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working model (IWM), modelli operativi interni (Ainsworth et al., 1978), e indica l'insieme degli schemi di rappresentazione interni che costruiscono comportamenti, immagini ed emozioni relativi all'interazione tra il piccolo e gli adulti significativi. Vi è comune accordo tra i ricercatori nell'affermare che gli IWM diventano ben presto inconsapevoli e tendono a essere stabili nel tempo, trovano la loro matrice nella relazione con la figura di attaccamento e sono costituiti da una rappresentazione di come è l'altro, di come è il sé e di quale relazione li unisce; la loro capacità anticipatoria degli eventi fa sì che influenzino grandemente le future relazioni affettive che in un modo o nell'altro tenderanno a ripetere la primitiva relazione tra il piccolo e la figura di attaccamento. Questa sorta di coazione a ripetere è tutta spiegabile in termini cognitivi: il soggetto si è costruito un'idea di come è l'altro e di come lo tratterà e finisce facilmente per selezionare proprio gli altri che hanno quelle caratteristiche; anche quando quelle caratteristiche non sono le sole o sono relativamente poco importanti, vi porrà un'attenzione selettiva perché sa riconoscerle come qualcosa di familiare, sa entrarvi facilmente in rapporto; infine, il suo comportamento sarà in un certo senso complementare e rinforzerà quello dell'altro, instaurando un circolo vizioso di rinforzo reciproco. Ad esempio è estremamente facile che una persona abituata a farsi maltrattare da un padre violento e aggressivo, qualora non abbia messo in discussione a fondo il problema, abbia la tendenza a trovare un partner violento, nonostante abbia sempre sognato una persona dolce e accudente (Bretherton, Waters, 1985). La storia infinita

Irina parlava molto volentieri della sua vita affettiva e raccontava con dovizia di particolari e grande partecipazione emotiva le numerose relazioni sentimentali che, giunta ormai alla soglia dei quarant'anni, poteva contare. Purtroppo l'interlocutore, inizialmente interessato alle sfortunate vicende della poverina, finiva ben presto per annoiarsi e per sfuggire in tutti i modi alle sue confidenze. Irina, sola e inascoltata, decise di rivolgersi a uno psicoterapista. Anch'egli fu colto da una noia mortale ma, al contrario degli altri, si interrogò su tale emozione e sulla voglia di fuggire che provava, giungendo a comprenderne la ragione. In realtà Irina non gli aveva raccontato venti storie d'amore ma sempre la stessa storia, ripetuta venti volte. Ogni volta si innamorava di uomini più grandi di lei di cui temeva il giudizio, ma il cui amore avrebbe dovuto avere lo scopo di farle cambiare l'idea che aveva di se

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La crescita della conoscenza nella relazione madre-bambino

stessa come di una che "non valeva niente". Appena awenuta la conquista viveva un periodo di grande esaltazione, che ben presto si trasformava nel timore di essere abbandonata. A sua detta l'abbandono sarebbe immediatamente seguito alla constatazione della sua nullità da parte del partner. Era assolutamente certa che tutte le altre donne fossero migliori di lei e che il tradimento del partner fosse inevitabile. Da quel momento iniziava a controllare esasperatamente ogni azione del partner, per cercare la conferma del suo crescente disinteresse e del tradimento in atto. Chiedeva costantemente prove d'amore, che tuttavia non la rassicuravano mai abbastanza e avevano il solo effetto di rendere insopportabile la relazione che puntualmente, prima o poi, veniva interrotta dal partner, soffocato dal controllo e stanco di essere costantemente sotto processo e insieme a una donna nervosissima, preoccupata e incontentabile. A questo punto Irina tirava la solita conclusione: era stata abbandonata perché non valeva nulla. Se avesse trovato un altro uomo se lo sarebbe tenuto ancora più stretto.

Il concetto di IWM, inteso come conoscenza sulla relazione, è entrato ormai nell'uso comune non soltanto tra i ricercatori dell'area del1' attaccamento. Noi lo useremo quando descriveremo i diversi pattern dell'attaccamento, sia nel loro aspetto comportamentale che rappresentativo. Quello che è fondamentale sottolineare dal nostro punto di vista è che la relazione con la figura di attaccamento ha un'influenza sullo stile di conoscenza del soggetto ben più precoce e radicale di quanto non avvenga con la tardiva nascita degli IWM. Sarà bene, allora, differenziare gli IWM da quelli che in nostri precedenti lavori abbiamo definito "criteri epistemologici". Per criteri epistemologici intendiamo gli assunti di base sul modo in cui la conoscenza si accresce, essi influenzano lo sviluppo dell'edificio cognitivo individuale e lo stile di conoscenza. Rispetto agli IWM, i criteri epistemologici sono gerarchicamente sovraordinati; essi infatti sono conoscenza sulla conoscenza, mentre gli IWM sono un particolare dominio della conoscenza: la conoscenza rispetto alla relazione.

LA COEPIStEMIA

L'ipotesi dell'esistenza dell'altro e la successiva ipotesi dell' esistenza di sé sono creazioni relativamente tardive che sorgono per spiegare il fallimento della prospettiva iniziale dell'universo indiviso. Solo dopo la costruzione di queste due ipotesi ha senso parlare di IWM del69

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l'attaccamento, perché solo da quel momento esiste una relazione, anche se prima di tale epoca comunque il piccolo ha già conosciuto moltissime cose e attraverso di esse ha imparato a conoscerne altre: inizialmente ha conosciuto gli stati interni piacevoli o sgradevoli, poi ha scoperto un contesto che si è rivelato mutevole e dotato di intenzionalità, infine ha scoperto che tale contesto era polarizzato costantemente verso un punto che è lui stesso. In tutto questo processo precedente alla nascita della relazione di attaccamento la figura di attaccamento svolge un ruolo fondamentale quale codeterminatore dei successi e dei fallimenti degli schemi d'azione, fornitore di invalidazioni proporzionate, facilitatore dei processi assimilativi, creatore di contesti significativi, modello per i processi imitativi. Per distinguerlo più nettamente dalla storia di attaccamento potremmo chiamare coepistemia questo processo diadico di sviluppo delle regole base della crescita della conoscenza. L'attaccamento, come è inteso tradizionalmente, costituisce, da un punto di vista costruttivista, la vicenda delle modificazioni delle previsioni innate di incontrare un adulto accudente e fonte attendibile di informazioni; è dunque ragionevole porne l'inizio al momento della costruzione della relazione sé-altro e considerarlo come la storia della crescita della conoscenza in campo sociale, cioè lo sviluppo delle ipotesi intorno al tema "io in relazione con l'altro". È evidente l'influenza che queste prime ipotesi avranno sulle relazioni interpersonali e affettive future. Gli IWM che guidano la conoscenza della relazione di attaccamento sono tuttavia sottordinati ai criteri epistemologici che guidano lo sviluppo di tutta la conoscenza e che, a loro volta, si sviluppano nel processo coepistemico, cioè nella relazione con l'altro significativo, quando ancora non è riconosciuto come altro. Così quando il piccolo si porrà il problema di fare previsioni sulla relazione sé-altro avrà già imparato molte cose all'interno di questa relazione e l'apprendimento (coepistemia) guiderà lo sviluppo delle stesse ipotesi sulla relazione di attaccamento.

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III PATTERN DI ATTACCAMENTO E STILI DI CONOSCENZA

IL COMPORTAMENTO DI ATTACCAMENTO

In questo capitolo ci proponiamo di descrivere i pattern di attaccamento riportati in letteratura, di analizzare gli IWM che li sottendono e di identificare infine lo stile di conoscenza tipico di ciascun pattern. L'esistenza di un sistema comportamentale di attaccamento nei primati e in particolare nella specie umana è oggi accettata da tutti gli studiosi; in campo teorico esiste invece disaccordo per quanto riguarda la spiegazione di tale comportamento (Liotti, 1992). Bowlby (1969), cui va il merito delle prime definizioni del comportamento di attaccamento, riteneva che il suo scopo fosse la protezione dai predatori e che fosse essenzialmente perseguito con il mantenimento della vicinanza a uno dei membri adulti della propria specie, identificato come figura protettiva. Una volta identificata tale figura, il piccolo cerca di rimanergli costantemente vicino e di aumentare la vicinanza in condizioni di pericolo o stress. La figura di attaccamento è in genere la madre biologica, ma non sempre esiste una sola figura di attaccamento: se la madre non è disponibile il piccolo si rivolgerà a figure sostitutive. Altri studiosi hanno ampliato in seguito lo scopo del comportamento di attaccamento dalla protezione dai predatori a funzioni multiple di sopravvivenza, quali il mantenimento di condizioni favorevoli di temperatura, l'accesso al cibo, il contatto con il gruppo, la prevenzione da ogni pericolo. Tutti questi elementi sono importanti. Ma il punto cruciale dell'attaccamento nella specie umana sta nel fatto che attraverso la relazione con la figura di attaccamento il piccolo impara a imparare, condizione essenziale e strategica per la sua sopravvivenza. Imparare a imparare è

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lo scopo fondamentale della relazione di attaccamento e la rende un passaggio obbligato nell'itinerario di "umanizzazione" del piccolo. I..:importanza del comportamento di attaccamento è tale che i bambini piccoli sono impegnati per gran parte del loro tempo in attività a esso connesse, e lo mantengono anzi costantemente attivo: anche quando non ne sono consapevoli, i bambini prestano attenzione alla localizzazione fisica della figura di attaccamento e alla sua accessibilità. Non si tratta semplicemente di sapere sempre dove essa si trovi, ma anche di imparare quali strategie siano efficaci al fine di mantenere il contatto. Nelle ripetute esperienze di scambio il piccolo può, ad esempio, imparare che quella specifica figura di attaccamento rifiuta assolutamente la vicinanza oppure l'accetta solo nelle emergenze, oppure, ancora, è imprevedibile nelle sue reazioni; il bambino dovrà allora individuare la strategia migliore per raggiungere e mantenere il grado di vicinanza preferita. Deve sapere sia dove la figura di attaccamento si trova sia come avvicinarsi a lei in modo efficace. Il comportamento di attaccamento è reso attivo da tutte le circostanze esterne (pericoli) o interne (debolezze, malattia ecc.) che rendono il piccolo vulnerabile. Egli ha quindi bisogno di un sistema cognitivo in grado di valutare tali circostanze. Il comportamento di attaccamento nella specie umana fa parte del corredo comportamentale "ambientalmente stabile" secondo la terminologia di Hinde (1966) e come tale presenta queste caratteristiche: a) segue uno schema nettamente simile e prevedibile in quasi tutti i membri di una stessa specie; b) costituisce non una semplice risposta a un singolo stimolo ma una sequenza comportamentale di complessità crescente a seconda dello sviluppo del singolo individuo; c) alcune sue conseguenze contribuiscono in modo evidente alla conservazione dell'individuo e della sua popolazione esogamica; d) si sviluppa anche quando tutte le normali occasioni di apprendimento sono scarsissime o addirittura nulle. Bowlby affermava che "il comportamento di attaccamento caratterizza l'essere umano dalla culla alla tomba" (1979). Su tale linea si stanno muovendo moltissimi autori che tendono ad applicare i modelli creati per spiegare il legame madre-bambino a tutte le relazioni affettive dell'esistenza. Due volumi appena usciti in Italia fanno il punto sullo stato della ricerca e della speculazione teorica in tal senso e ad essi rimandiamo per ogni approfondimento bibliografico: Attaccamento e rapporto di coppia, a cura di Lucia Carli, e Attaccamento nel ciclo della vita, di Parkes, Stevenson-Hinde e Marris. Noi non condividiamo tale tendenza e cercheremo brevemente di 72

Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

spiegarne le ragioni. Il fatto che la relazione di attaccamento, come prima relazione esperita, abbia delle influenze sulle relazioni successive è cosa talmente evidente da essere persino banale e non è certo questo che si vuole contestare; quello che preme sottolineare è che l'influenza di un evento su un altro, per quanto forte, non significa che i due abbiano la stessa natura. A noi sembra che interpretare una storia d'amore, una relazione terapeutica, i rapporti tra coetanei e così via, con i costrutti relativi all'attaccamento non sia né corretto né utile. Non ci sembra corretto perché le relazioni che si stabiliscono durante tutto l'arco della vita, ancorché affettivamente intense, perseguono scopi (sia rappresentati nella mente del soggetto sia biologici) assolutamente diversi, come la sessualità, la cooperazione, l'appartenenza, il raggiungimento di obiettivi. La relazione di attaccamento è assolutamente specifica per il valore di sopravvivenza che ha: il piccolo umano non sopravvive senza un adulto che si prenda cura di lui e la relazione che i due stabiliscono è fortemente asimmetrica ed evolve verso una risoluzione di tale asimmetria e verso l'autonomia del piccolo; queste sono caratteristiche specifiche che la rendono unica. Parlare dunque di attaccamento come generale tendenza degli esseri umani a creare legami con i propri simili seppure plausibile ci sembra che indebolisca la capacità esplicativa delle ipotesi nate per spiegare la prima e particolarissima relazione che si crea tra il piccolo e il suo caregiver. Infine non ci sembra utile perché rischia di far perdere di vista l' enorme complessità di fattori che entrano in gioco nel determinare una relazione tra adulti. Lo schematismo dei quattro pattern di attaccamento è possibile e utile proprio perché descrive una situazione allo stato nascente: tutti nascono con l'attesa innata di incontrare un adulto accudente che nella realtà può essere tale oppure rifiutante o imprevedibile o, ancora, minaccioso. I quattro pattern sono la risposta a questo incontro. Come è possibile ricondurre a queste quattro modalità di risposta l'infinita gamma delle esperienze affettive umane di tutta la vita? Ci sembra che ciò non giovi allo studio dell'attaccamento che rischia di perdere la sua specificità e la forte potenzialità predittiva che ha dimostrato di possedere per diventare una sorta di teoria generale che tutto spiega (i legami affettivi, la psicopatologia, gli atteggiamenti politici e così via) a posteriori e poco prevede.

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LA MATURAZIONE DEL COMPORTAMENTO DI ATTACCAMENTO

Durante lo sviluppo il comportamento di attaccamento diviene sempre più articolato in relazione all'aumento di complessità di tutto il sistema di costrutti, delle strutture percettive, della capacità di muoversi, della possibilità di comunicare. All'inizio si tratta sostanzialmente di uno schema fisso d'azione, una sorta di movimento strutturato e abbastanza stereotipato che si manifesta in modo indipendente dal1'ambiente. Un sistema di costrutti primitivo e non ancora sviluppato è in grado di agire applicando uno schema fisso d'azione corrispondente a costrutti innati, specie-specifici. Sembra corretto interpretare queste competenze innate come risposta alle esigenze della specie di fornire già dall'inizio al neonato il minimo know-how necessario per entrare in relazione con altri umani. Più tardi appaiono i comportamenti corretti secondo lo scopo, dove la retroazione ambientale comincia a essere cruciale rispetto al risultato che il bambino vuole ottenere: è evidente che occorre un sistema di costrutti più sofisticato per poter operare previsioni sul proprio rapporto con la figura di attaccamento e con le sue reazioni. Con il tempo anche questi primi sistemi comportamentali (queste prime previsioni), si fanno sempre più complessi, gerarchicamente organizzati, con relazioni reciproche e regole di funzionamento del sistema abbastanza stabili. In una simile organizzazione abbiamo già scopi e sottoscopi, tattiche e strategie, e la capacità di autorappresentazione. Ma soprattutto abbiamo necessità di due distinti modelli di rappresentazione fondamentali: il modello ambientale, che predica sulle condizioni dell'ambiente (la disponibilità e accessibilità della figura di attaccamento), e il modello organismico, che predica sulle condizioni del soggetto, tentando di rispondere alla domanda "chi sono io per gli altri?" (domanda fondamentale, che contribuirà fortemente a impostare il "chi sono io"). I due modelli (mi ama/non mi ama; sono amabile/non lo sono) contengono costrutti relativi alla capacità della figura di attaccamento di soddisfare le richieste di accudimento del soggetto, e costrutti circa la capacità del soggetto di suscitare reazioni positive in chi lo accudisce. Questi costrutti sono di origine precocissima nello sviluppo cognitivo del bambino, e saranno poi molto stabili e protetti, difficilmente falsificabili una volta appresi. Queste costruzioni costituiscono il nucleo dell'aspetto rappresentazionale interno del sistema di attaccamento e sono state chiamate 74

Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

internal working model. Se all'inizio gli studiosi si sono concentrati preminentemente sugli aspetti comportamentali dell'attaccamento; oggi, sempre di più, l'attenzione è spostata sugli aspetti rappresentazionali e cognitivi che guidano e organizzano la percezione e i comportamenti stessi.

LA CREAZIONE E LA MODIFICAZIONE DEGLI INTERNAL WORKING MODEL

La classificazione dei pattern di attaccamento può avvenire impiegando molti strumenti (test, osservazione diretta ecc.), il più famoso dei quali è la Strange situation della Ainsworth. Questa prova è stata ideata per analizzare il funzionamento del sistema di attaccamento nel bambino di un anno e consiste nell'esporlo a un ambiente sconosciuto, da cui la madre si allontana lasciandolo solo con uno sperimentatore amichevole e qualche gioco. Il test dura 20 minuti; durante questo periodo il genitore lascia due volte il bambino, la prima con lo sperimentatore e la seconda volta da solo, in una stanza sconosciuta ma ricca di giocattoli. Quello che si osserva è il comportamento del bambino al momento del distacco, durante la fase di assenza della figura di attaccamento e al momento del ricongiungimento. Sulla base di una prima indagine svolta da Mary Ainsworth a Baltimora in famiglie di ceto medio (Ainsworth et al., 1978), l'autrice ha elaborato un sistema di classificazione in tre categorie, distinguendo i bambini B, con attaccamento sicuro, i bambini A con attaccamento insicuro-evitante e i bambini C con attaccamento insicuro-ambivalente, o insicuro-resistente. Più tardi Main e Salomon (1986) hanno isolato una nuova categoria di bambini che mostravano un comportamento insolito alla Strange situation, che è stato definito "disorganizzato-disorientato"; il gruppo ha preso il nome di bambini D. Crittenden (1994) sostiene che vi sono primi segnali sperimentali che i bambini del gruppo D dopo i sei anni tendono a confluire verso i tipi di attaccamento A e C. Più avanti descriveremo questi diversi gruppi nei loro aspetti comportamentali e cognitivi, ma qui è opportuno precisare cosa è rappresentato negli IWM relativi al sistema di attaccamento. Sul problema di come si creano e come si modificano gli IWM ci sembra che sia diffusa la tendenza ad affermare che inizialmente tutto dipende dal caregiver e alle sue risposte alle innate richieste di prossimità del piccolo, mentre poi, quando la rappresentazione esterna si è

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consolidata essi diventano una sorta di caratteristica individuale che finisce per modellare ogni successiva relazione secondo le proprie aspettative. Ci sembra utile stemperare la perentorietà di tali affermazioni per riportare l'attenzione sulla relazione in sé piuttosto che alternativamente ed esclusivamente su uno dei due partecipanti. A nostro avviso, sin dal momento della nascita e già durante la gravidanza, il piccolo partecipa alla costruzione della relazione e non è solo portatore di una innata richiesta di prossimità. Il suo aspetto fisico, la sua capacità di entrare in relazione, il fatto che dorma e si alimenti con facilità o che non conceda momenti di tregua ai genitori, la presenza di deficit sensoriali che ostacolano la possibilità di comunicazione, malattie fisiche che preoccupano i genitori, il suo temperamento, sono fattori che concorrono a determinare la risposta più o meno accettante del caregiver. Paradossalmente si può dire che se è vero che la madre dei bambini con attaccamento D è spaventata e spaventante per il piccolo, non è da escludere che in taluni casi sia spaventata dal piccolo stesso e sgomenta per la difficoltà di gestirlo. Ci sembra più utile guardare le cose da questo punto di vista perché così si evita di colpevolizzare le madri, che dopo essere state schizofrenogene, potrebbero diventare "insicurizzanti" o "disorganizzanti" e valorizzando il ruolo del piccolo nella co-costruzione del rapporto si chiama la pedriatra a collaborare alla realizzazione di un attaccamento sicuro rimuovendo quelle situazioni patologiche o ai confini con la patologia che ostacolano una relazione reciprocamente rassicurante. Inoltre considerare il bambino oggetto passivo delle influenze ambientali ci riporta a una sorta di teoria traumatica dello sviluppo che ha sapore antico e non si concilia con la prospettiva costruttivista del vivente come attivo creatore della sua realtà. Anche negli studi sulla trasmissione transgenerazionale del pattern di attaccamento che tanto fecondi si stanno mostrando, occorre a nostro avviso tenere in debito conto la quota di novità che ad ogni passaggio generazionale il nuovo nato introduce, per evitare una sorta di determinismo che finirebbe per fare dell'attaccamento una specie di destino a cui non si può sfuggire se non con la "metacognizione" in età adulta. Detto questo sul ruolo attivo del piccolo nel determinare la relazione di attaccamento, vale la pena di spendere due parole sulla modificabilità degli IWM. Essi, come tutte le nostre costruzioni orientano e organizzano la percezione ma non possono non tenere conto delle invalidazioni che dalla realtà provengono a meno che non si giunga in una particolare condizione psicopatologica denominata "delirio". Tut-

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Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

te le nostre costruzioni producono aspettative e orientano il comportamento ma si modificano, anche radicalmente, quando vanno incontro a fallimenti; a tale regola si uniformano anche gli IWM del comportamento di attaccamento. La maggior parte degli autori sostiene che gli IWM contengono sostanzialmente un'immagine di sé e un'immagine della figura di attaccamento e che ciascuna di queste può essere positiva o negativa. Ci sembra che si possa tentare una definizione maggiore per quanto riguarda il significato del termine "positivo": ad esempio, a nostro avviso, nell'attaccamento evitante può coesistere un'immagine di sé come non amabile e un'immagine di sé come "molto in gamba" che può del tutto cancellare la prima. Per articolare meglio il concetto di IWM abbiamo proposto di articolarlo in tre livelli gerarchici il più elevato dei quali contiene rappresentazioni circa l'esito del rapporto, quello intermedio contiene il modello di sé e della figura di attaccamento e il terzo contiene aspettative relative alle strategie relazionali da utilizzare ed abbiamo ipotizzato una crescente resistenza al cambiamento dei tre livelli: massima per il livello più elevato, molto ridotta quella relativa alle strategie comportamentali. Ciò consente di spiegare le modificazioni comportamentali che si manifestano nel tempo nello stesso rapporto o in rapporti success1v1. Un IWM del comportamento di attaccamento appare articolato su tre livelli ordinati gerarchicamente, che vanno mantenuti distinti: il primo concerne la previsione dell'esito del rapporto; quello intermedio riguarda il modo di spiegare questo esito e contiene i modelli di sé e dell'altro; l'ultimo si riferisce alle strategie comportamentali utilizzabili per massimizzare la prevedibilità del rapporto. La previsione dell'esito del rapporto è qualcosa di più primitivo della spiegazione del perché le cose sono andate in un certo modo. Si tratta di un'impressione radicale di successo o fallimento nella relazione, che si articola lungo due assi ortogonali. Uno riguarda l'accettazione o il rifiuto e connota profondamente l'esperienza interpersonale per cui alcune persone si aspettano (fino a prova contraria) di essere accettate o di stare bene con gli altri, mentre altre persone si aspettano al contrario il rifiuto e la sofferenza. L'altro asse concerne il grado di certezza con cui tale aspettativa è radicata. I soggetti con attaccamento sicuro sono "certi dell'accettazione" da parte degli altri; quelli con attaccamento insicuro-evitante sono "certi del rifiuto"; quelli con un attaccamento insicuro-ambivalente sono "incerti se saranno accettati o rifiutati". 77

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Certezza

A. I. evitante



A. sicuro

Rifiuto - - - - - - - - - - - ' - - ~

--------►

Accettazione

A.I. Ambivalente

l Incertezza Figura 3.1 Il livello gerarchicamente sovraordinato degli IWM: la previsione sull'esito del rapporto. Il gruppo con attaccamento disorganizzato-disorientato non è collocabile in questo grafico in quanto si introduce una variabile in più costituita dalla minacciosità della stessa figura di attaccamento: minacciosità e accettazione si sovrappongono creando un paradosso che analizzeremo più avanti.

Il livello della previsione dell'esito del rapporto, essendo il più arcaico e il più sovraordinato gerarchicamente, è più resistente al cambiamento. È più facile modificare la spiegazione che il soggetto dà del fallimento interpersonale (secondo livello), passando ad esempio dall'idea di non valere niente ed essere spregevole all'idea che la colpa è dell'altro, che non l'aspettativa del fallimento, rappresentata quasi come un destino cui è impossibile sfuggire (e che in realtà funziona come una profezia che si autoavvera). Autodescrizione di due pazienti

Nella mia vita non ho mai incontrato qualcuno che mi abbia veramente amato. Ormai sono assolutamente convinto che ciò non possa accadere mai. Forse è così per tutti e non solo per me, forse no, ma ho la sensazione che il muro tra gli esseri umani sia insuperabile, e ogni tentativo di incontro destinato al fallimento. A volte uno dei due tenta di scavalcare il muro ma l'altro non è all'appuntamento. Mi è capitato di pensare che fosse colpa mia e ho cercato di fare di tutto per farmi amare, ma è stato inutile. Ho smesso anche di prendermela con gli altri, non è colpa mia né loro; è così e basta. Siamo soli, tutti, anche chi non se ne accorge. Dobbiamo contare su noi stessi e su nessun altro. La cosa più difficile della vita è conquistare l'amore degli altri e, soprattutto, mantenerlo. Non si sa mai quali siano esattamente i desideri di un altro e quello che può fargli piacere. Se ti fai vedere del tutto disponibile finisci per non interessare e annoiarlo, se fai il prezioso l'altro pensa 78

Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

di non interessarti e non si cura di te. Non si sa mai che cosa fare esattamente, come mostrarsi per essere sicuri di essere amati; quindi si sta sempre sulla corda. Anche quando un rapporto è già iniziato le cose non cambiano. Magari l'altro scopre, conoscendoti meglio, che non sei come pensava, resta deluso e ti lascia. È difficile mantenere sempre desto l'interesse dell'altro: anzi più che altro è faticoso, non ci si può mai rilassare; è un compito che non è mai concluso.

Il secondo livello rappresentativo è subordinato al precedente e riguarda la spiegazione dell'esito del rapporto previsto al primo livello. È costituito dai modelli complementari di sé (nella relazione) e dell'altro (nella relazione). Il modello dell'altro si articola lungo la dimensione accettante/rifiutante o accessibile/inaccessibile. Con la prima polarità si intende che la figura di attaccamento è capace di svolgere le funzioni di accudimento ed è disponibile alle richieste del piccolo, mentre con la seconda che essa è distante, rifiutante o incapace, insomma che non risulta accudente al piccolo. Il modello di sé si articola invece lungo il continuum amabile/non amabile, dove per amabilità si intende la capacità di ottenere reazioni favorevoli dall'altro, cioè di sollecitare in lui le funzioni di accudimento. In sostanza se l'evento sperimentato e atteso è il rifiuto, si può spiegarlo attribuendolo alla non amabilità del piccolo, all'inaccessibilità della figura di attaccamento, o a entrambi. Se invece l'incontro avviene felicemente, l'amabilità del piccolo viaggia insieme all'accessibilità della figura di attaccamento. Come abbiamo visto in precedenza, il modello dell'altro si sviluppa prima del modello di sé ed è in qualche modo più importante. Solo successivamente, qualora l'altro sia stato costruito come più o meno accessibile e accettante (come nel caso dell'attaccamento sicuro e insicuro-ambivalente), si pone il problema del sé relativamente alla propria amabilità. Nell'attaccamento insicuro-evitante, viceversa, il piccolo è certo del rifiuto e non ha quindi molto senso che si chieda quanto sia amabile. In una nostra precedente ricerca (Lorenzini, Mancini, Sassaroli, 1985) avevamo identificato tre gruppi di soggetti adulti con i tre tipi di attaccamento sulla base di un test specifico (il Parental bonding instrument; Parker, Tupling, Brown, 1979), un nostro questionario sullo stile della relazione affettiva attuale, e un colloquio clinico. Ai soggetti era stata somministrata una doppia griglia di repertorio di Kelly per far loro valutare quanto si ritenessero accettati (amati) e quanto si ritenessero amabili. I soggetti con attaccamento sicuro si ritenevano 79

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Sé amabile



A. sicuro

A.I. evitante

-----• Altro accettante

Rifiutante ·-~

A.I. evitante

A.I..

i

\

-1-" ambivalente \

I"---

• I

;

~~ _ _ _ _..-r/

Non amabile Figura 3.2 Il livello intermedio degli IWM: il modello di sé e il modello dell'altro.

amati, e contemporaneamente molto amabili; quelli con attaccamento insicuro-ambivalente erano convinti di essere amati, anche se meno dei precedenti, e si ritenevano però non amabili, come se l'esito del rapporto dipendesse da loro stessi e dai loro sforzi nel conquistare o meno l'amore dell'altro. Quelli con attaccamento insicuro-evitante si ritenevano naturalmente non amati, ma i punteggi ottenuti nell'amabilità erano estremamente variabili, con un'elevata deviazione dallo standard e dunque dispersi senza una tendenza principale. L'impressione che ne ricavammo è che in questi soggetti, che non hanno sperimentato l'accettazione ma esclusivamente il rifiuto, il problema di quanto fossero amabili non si fosse mai posto in modo significativo (figura 3 .2). Si è già detto che il secondo livello rappresentativo è più accessibile al cambiamento. Pur continuando a sperimentare come incerto e precario l'esito del rapporto, un soggetto può ad esempio virare, in successive relazioni o anche nella stessa, da una spiegazione in cui è l'altro a essere rifiutante a una in cui egli stesso è la persona indegna di essere amata. Carolina, trentacinque anni, insegnante

Mio padre era simpatico, ma in qualche modo lontano e poco ascoltato. Il riferimento è sempre stato mia madre, che da quando è rimasta vedova si è occupata soltanto di me. Avevo allora vent'anni, ma la testa di una bimba, non frequentavo gli amici, non uscivo con i ragazzi, andavo

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all'oratorio e studiavo. Se uscivo a comprare il giornale, mamma chiedeva: "Quanto starai fuori? Stai attenta!" e spesso poi mi accompagnava. Col tempo la nostra chiusura verso l'esterno si è sempre più rafforzata, mi rivolgevo a lei per tutto, le raccontavo tutto. Da qualche anno, per stare con lei, dormiamo insieme. Io dormo nel posto che era di papà.

Il terzo livello rappresentativo riguarda le strategie utilizzabili per mantenere la massima prevedibilità sull'esito del rapporto, cioè il massimo di vicinanza compatibile con i modelli di sé e della figura di attaccamento che sono stati elaborati al precedente livello. Tali strategie sono sostanzialmente di due tipi: la vicinanza stretta (il controllo) o il suo opposto (il distacco). Entrambe possono essere attuate con identici modelli di sé e dell'altro e alternarsi all'interno dello stesso rapporto. Ad esempio, un soggetto con attaccamento insicuro-ambivalente cercherà in alcuni momenti il contatto stretto, per controllare il suo partner e non lasciarlo sfuggire; in altri momenti prenderà invece le distanze convinto che l'altro potrebbe scoprire quanto poco egli valga, finendo quindi per abbandonarlo: controllo e distacco così si alternano. Un soggetto con attaccamento insicuro-evitante sceglierà normalmente la strategia del distacco, convinto di non avere alcun bisogno dell'altro. Ma se le condizioni lo costringono a dover contare su un'altra persona è possibile che eserciti su di essa un controllo che acquista la connotazione del possesso sadico, molto diverso dal controllo del soggetto con attaccamento insicuro-ambivalente, che sembra piuttosto l'aggrapparsi disperato di chi ha assoluto bisogno dell'altro. Nell'attaccamento sicuro le due strategie non assumono i connotati estremi del controllo o del distacco, ma ricorrono ugualmente nel periodico alternarsi di momenti in cui prevale la ricerca di vicinanza e di contatto, a momenti in cui predominano i comportamenti esplorativi. Le due strategie non sono quindi caratteristiche di un particolare tipo di attaccamento. Vengono preferite a seconda delle particolari condizioni che lo specifico rapporto sta attraversando: non sempre gli attaccamenti insicuri-ambivalenti ricercano un contatto stretto e una vicinanza alta, e non sempre gli attaccamenti insicuri-evitanti mostrano un distacco assoluto e una baldanzosa autarchia. Entrambi possono utilizzare anche la strategia opposta, seppur di solito non privilegiandola. L'osservazione del comportamento non deve dunque condurci fuori strada; il semplice cambiamento di strategia non indica necessariamente un cambiamento del tipo di attaccamento e degli IWM che lo sostengono. È frequentissimo nella pratica clinica incon81

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trare soggetti che ora cercano disperatamente la v1cmanza e ora la fuggono con altrettanta determinazione; probabilmente questo vale per la maggior parte delle persone, escluse quelle con attaccamento sicuro. I due tipi di attaccamento insicuro in età adulta si assomigliano molto se ci si ferma all'osservazione puramente comportamentale e non si indagano gli altri due livelli degli IWM sull'attaccamento. Passiamo adesso in rassegna i quattro pattern di attaccamento descritti tradizionalmente in letteratura.

L'ATTACCAMENTO SICURO

Per illustrare un caso di attaccamento sicuro, raro da trovare in clinica, riportiamo un brano dell'autobiografia di Baden Powell, il fondatore degli Scout, uno che di esplorazioni se ne intendeva. Il rapporto tra mia madre e me ha avuto la natura di una comunità di affetto che è durata più di cinquant'anni. Mio padre era un pastore della church o/ England e alla sua morte lasciò mia madre vedova con dieci bambini da tirar su e pochissimi quattrini per farlo. Dei sette figli e tre figlie, il più piccolo aveva appena un mese. Tuttavia essa era una donna molto in gamba e dotata di grande coraggio. Con un reddito minimo e pochissimi aiuti esterni riuscì a tirare su e a educare questa numerosa famiglia tra difficoltà e preoccupazioni che sarebbero difficili da capire da qualcuno che non le abbia vissute. E grazie alle sue cure e al suo interessamento per ciascuno di noi, non solo nessuno di noi è diventato un fallito, ma tutti ci siamo aperti una via con successo in una o in un'altra carriera [. .. ]. I suoi saggi consigli e le sue critiche erano improntati a praticità e concretezza e sempre affettuose e incoraggianti ed era grazie alla consapevolezza di poter contare su tali consigli che mi veniva il coraggio di continuare. (Baden Powell, 1985)

I bambini con attaccamento sicuro utilizzano la madre come una base sicura dalla quale partire per dedicarsi, fiduciosi, all'esplorazione e al gioco. Sottoposti alla Strange situation cominciano a piangere quando la madre si allontana e la cercano attivamente, chiamandola. Poi si acquietano, dedicandosi a esplorare l'ambiente sconosciuto in compagnia dello sperimentatore. Quando la madre torna la accolgono festosamente, cercando il contatto stretto con lei, per poi ritornare tranquillamente a giocare. Si dimostrano felici di essere vicini alla madre, ma anche capaci di stare da soli. Tale pattern di comportamento

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si è manifestato, nello studio originario condotto a Baltimora, in circa due terzi dei bambini. Le madri, osservate lungamente nell'interazione con il bambino a casa, dimostrano di esser più sensibili delle altre ai segnali e alle comunicazioni dei loro bambini. Il piccolo che sa di poter contare sulla madre e di avervi facile accesso, finché è presente può dedicarsi all'esplorazione di un ambiente nuovo; quando essa scompare il comportamento di attaccamento momentaneamente prevale su quello esplorativo, ma subito dopo il piccolo si rassicura e riprende a esplorare certo del ritorno della madre. Recentemente sono stati compiuti numerosi studi sulla trasmissione transgenerazionale dei modelli di attaccamento (Bretherton, Waters, 1985) per rispondere alla domanda: "Che tipo di attaccamento a loro volta avevano i genitori dei bambini, che oggi sono studiati dalla Strange situation? ". Per questa indagine George, Kaplan e Main (1986) hanno elaborato una particolare intervista (Adult attachment interview), con cui hanno esaminato i genitori di bambini da 1 a 6 anni, classificati con le consuete procedure. I risultati hanno mostrato una sorprendente correlazione tra il tipo di attaccamento dei piccoli e i modelli di risposta dei genitori all'intervista. Strutturate e aperte, le domande dell'intervista tendono a raccogliere i ricordi dei genitori sui loro genitori, le loro valutazioni sul significato delle relazioni affettive e sulla loro importanza per lo sviluppo (in appendice 2 Lucia Tombolini ne dà una descrizione attenta e particolareggiata). Le interviste sono valutate globalmente prestando attenzione anche alla componente non verbale e alle emozioni espresse. I piccoli con attaccamento sicuro avevano dei genitori che in base alla Adult attachment interview sono stati classificati come autonomi. Essi valorizzano le relazioni di attaccamento/accudimento, le descrivono apertamente e i ricordi che citano della loro infanzia corrispondono all'idea che si sono fatta dei loro genitori: la memoria episodica e quella semantica sono coerenti. Dimostrano tolleranza verso l'imperfezione e quindi non hanno bisogno di idealizzare né se stessi né i propri genitori. Ciò risulta con evidenza dal fatto che essi non mostrano alcun disagio a parlare delle vicende dolorose e non hanno bisogno di nasconderle o di deformarle ai propri occhi.L'attaccamento sicuro si origina dall'incontro tra le attese innate del bambino circa la disponibilità della figura di attaccamento, e la sensibilità di quest'ultima ai segnali del piccolo, unita alla capacità di rispondervi prontamente e adeguatamente. Da adulti, i "bambini sicuri" riusciranno a sopportare anche distacchi prolungati senza temere di essere abbandonati, il mondo sarà considerato buono e 83

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fonte di gratificazioni; di conseguenza sarà più sviluppata la capacità di esplorare. Questi soggetti sono ottimisti, fiduciosi negli altri e nelle proprie capacità. Si tratta di persone capaci sia di legami intensi sia di esplorazione e autonomia, in grado di alternare liberamente i due comportamenti a seconda delle situazioni. Paradossalmente, sono persone che raramente restano sole, essendo la loro compagnia piacevole proprio perché non temono la solitudine. Al primo livello dell'IWM, l'esito del rapporto è previsto certo e positivo. Il piccolo si aspetta un libero e incondizionato accesso alla figura di attaccamento quando gli è necessario. Ciò costituisce un elemento di fiducia insostituibile, indipendentemente dal perché si aspetta che le relazioni saranno positive. Al secondo livello dell'IWM, la figura di attaccamento è costruita come accettante/sicura e il modello di sé come tendenzialmente positivo. In quanto amato, il bambino si ritiene amabile; il problema dell'amabilità è tuttavia in secondo piano poiché l'accettazione e il libero accesso alla figura di attaccamento, che non dipendono dalle proprie prestazioni, sono dati per scontati. La relazione è dunque articolata sulla reciproca fiducia, sulla disponibilità emotiva e sulla capacità di interagire. Al terzo livello dell'IWM le strategie comportamentali non sono rigide: è ammesso un libero alternarsi tra vicinanza e allontanamento. Esplorazione e attaccamento non sono visti come atteggiamenti contrapposti e anzi si rinforzano vicendevolmente: più il piccolo è sicuro dell'accessibilità materna, più si sente tranquillo nello spingersi a esplorare le novità. Lo stile di conoscenza di questi soggetti sarà del tipo ricerca attiva, secondo la classificazione che abbiamo proposto nei capitoli precedenti. Sono infatti ragionevolmente sicuri delle proprie capacità di risolvere i problemi, e per questo tendono continuamente a testare le proprie ipotesi per eliminare quelle errate. Non temono le possibili invalidazioni perché si tratta di sistemi ricchi, in grado di utilizzare meccanismi sia creativi che imitativi per generare nuove ipotesi. Sameroff ed Emde propongono la seguente classificazione dei modelli di regolazione della relazione tra il bambino e la figura di attaccamento. Abbiamo individuato sei di questi modelli: regolazione appropriata, regolazione irregolare e regolazione caotica, inappropriata, iporegolata e iperregolata. In generale più piccolo è il bambino più è probabile che il modello di regolazione sia imposto dall'adulto. Tuttavia, con la maturazione della relazione, entrambi i partecipanti divengono più attivamene coinvolti nel mantenimento del modello [. .. ]. I modelli

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di regolazione che descriveremo non sono sempre devianti. I modelli devianti sono una condizione necessaria ma non sufficiente per il verificarsi di disturbi delle relazioni. Vi sono circostanze in cui qualunque modello può essere appropriato; per esempio l'iporegolazione di un bambino molto sensibile o la regolazione inappropriata dal punto di vista evolutivo di un bambino malato sono modelli atipici che possono essere adeguati ai bisogni di un bambino. (Sameroff, Emde, 1991)

L'attaccamento sicuro corrisponde a quella che per Sameroff ed Emde è una relazione regolata appropriatamente: [... ] una regolazione regolata in modo appropriato è definita dalle sue proprietà dinamiche piuttosto che da un particolare insieme di comportamenti [ ... ]; le descrizioni dinamiche evidenziano la sincronia, la reciprocità, il coinvolgimento e la modulazione [... ]. Quando un bambino non è coinvolto, un genitore può aumentare in modo adeguato il livello di interazione, tuttavia, quando un bambino è iperstimolato o ipersensibile, la regolazione appropriata da parte del genitore può implicare un decremento dell'interazione. Le relazioni possono inoltre essere valutate dal punto di vista della loro tonalità affettiva. È necessario valutare la gamma, la modulazione e la sincronia degli affetti condivisi. Deve essere valutata l'adeguatezza della regolazione affettiva. Nella misura in cui uno o entrambi i partecipanti alla relazione non riescono a trovare felicità o gioia nell'interazione, si evidenzia un problema relazionale. (Sameroff, Emde, 1991)

L'essenza di una relazione regolata appropriatamente è dunque nella possibilità di cooperazione, di reciproco ascolto e nella soddisfazione condivisa. Il piccolo sperimenta un contesto accogliente, che sa stimolarlo o contenerlo e in cui vivere è un'esperienza gioiosa, senza pericoli e sofferenze. Dove l'osservatore esterno vede una relazione facilitante e una figura di attaccamento disponibile, il piccolo, che ancora non è consapevole né di sé né dell'altro, sperimenta una sorprendente sensazione di potenza e di successo, il senso della facilità e della sicurezza.

L'ATTACCAMENTO INSICURO-EVITANTE

Il comportamento dei bambini con attaccamento insicuro-evitante esposti alla Strange situation è stato descritto come segue:

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Una piccola parte di bambini ha [. .. ] scarso o nessun disagio alla separazione dalla madre, continuando a esplorare attivamente [ ... ]. Al suo ritorno l'hanno evitata e ignorata scostandosi, guardando altrove e rifiutando il contatto prima di ritornare a esplorare l'ambiente [ ... ]. In casa [le madri] rifiutavano attivamente il comportamento di attaccamento allontanando il bambino in risposta alle sue richieste di avvicinamento [ ... ]. Abbiamo suggerito altrove che i bambini rifiutati fisicamente riescono, durante la Strange situation a non mostrare disagio e altre forme di comportamento di attaccamento minimizzando la capacità di risposta alle condizioni che provocano paura. Questo atteggiamento è ottenuto a sua volta con uno spostamento organizzato della "attenzione" dalla madre all'ambiente inanimato. Tale comportamento ha il vantaggio di consentire un'organizzazione continua e forse anche di permettere il mantenimento della maggior vicinanza possibile alla madre (Main, 1987; Main, Weston, 1982). (Main, Hesse, 1992)

Questi bambini hanno sperimentato più volte la difficoltà ad accedere alla figura di attaccamento e hanno progressivamente imparato a farne a meno, concentrandosi sul mondo inanimato piuttosto che sulle persone. Quando il soggiorno del bambino in ospedale o nel brefotrofio è particolarmente lungo e quando, come avviene di solito, egli crede di poter trovare una nuova persona di riferimento in un'infermiera, la quale ogni volta lo abbandona, ciò costituisce per lui una ripetizione dell' esperienza di aver perso la mamma. In breve tempo allora il bambino comincerà a comportarsi come se per lui non avesse significato né la relazione con la madre né il contatto con altre persone. Dopo una serie di simili delusioni, provocate dalla perdita delle varie persone di riferimento, cui egli aveva donato la propria fiducia e affetto, il bambino si attaccherà sempre meno a una delle persone che si alternano intorno a lui e cesserà presto di formare un legame con esse. Egli diventerà sempre più egocentrico e anziché rivolgere i suoi desideri e sentimenti alle persone si occuperà prevalentemente di cose materiali come dolci, giocattoli e cibi. Un bambino che vive in brefotrofi.o o in un ospedale e che ha raggiunto la fase ora descritta, non si rattrista più per l'alternarsi delle varie persone di riferimento. Il giorno delle visite egli non mostra più trasporto emotivo nei confronti dei genitori, quando essi arrivano o partono; per loro può essere molto doloroso dover riconoscere che il bambino mostra vivo interesse per il giocattolo che hanno portato, ma non mostra di considerare loro come persone speciali. Il bambino apparirà di buon umore, apparentemente adattato alla situazione innaturale, e non mostrerà preoccupazioni o paura nei confronti di estranei. Questo adattamento sociale tuttavia

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è superficiale ed è chiaro che in realtà il bambino non vuole bene più a nessuno. (Bowlby, 1969)

I genitori dei bambini sottoposti alla Adult attachment interview della Main sono stati classificati come "distanzianti" (dismissing), nel senso che non attribuiscono importanza all'attaccamento e ritengono che le esperienze infantili con i genitori non abbiano effetti sullo sviluppo successivo. Il loro aspetto più caratteristico è la mancanza quasi assoluta di ricordi infantili e in particolare di quelli che li vedono insieme ai loro genitori. I pochi ricordi che emergono sono peraltro in contrasto con l'immagine idealizzata dei genitori che questi soggetti tendono ad accreditare. Ad esempio, dopo aver affermato di essere stati figli molto desiderati e amati, ricordano poi esclusivamente situazioni concrete di rifiuto da parte dei genitori. Anche le emozioni associate ai ricordi sono andate perdute: episodi anche drammatici sono rievocati con apparente distacco. L'asse portante che caratterizza l'esperienza dell'attaccamento insicuro-evitante è il rifiuto e contemporaneamente la sua negazione. Questi bambini, una volta divenuti adulti, cercheranno di contare solo su di sé, di non riconoscere in sé alcuna debolezza e di non richiedere mai il soccorso degli altri. Tenteranno di organizzare la propria esistenza facendo a meno dell'amore e del sostegno altrui e mirando all'autosufficienza assoluta; spesso questa apparente sicurezza (che Bowlby chiama "compulsiva fiducia in se stessi") si sfalderà drammaticamente davanti a eventi altamente stressanti. Rispetto all'attaccamento sicuro, il grado di libertà personale è minore: il comportamento si rivolge all' esplorazione in modo coatto, ma cerca di evitare relazioni troppo intime. La tipica centrazione sulle cose inanimate, per sfuggire all' esperienza di un'intimità rifiutata, è definita meglio dal termine "distacco" che non dal termine "esplorazione", anche se i relativi comportamenti possono di fatto somigliarsi molto. Al primo livello dell'IWM la previsione dell'esito del rapporto è altrettanto certa che nella classe dell'attaccamento sicuro, ma di valore opposto: per scontato è dato il rifiuto, o più precisamente l'impossibilità della relazione; l'intimità è un territorio sconosciuto e impossibile, cui ben presto si impara a rinunciare svalorizzandolo, come la famosa volpe di Esopo faceva con l'uva. Al secondo livello dell'IWM la figura di attaccamento è vista come rifiutante e inaccessibile; anzi non manifestarle il bisogno che si avrebbe di lei appare come il modo migliore per non farla allontanare e riuscire a mantenere comunque una certa dose di vicinan87

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za. Il modello di sé è oscillante. Il problema dell'amabilità è di solito risolto negativamente (se non sono amato vorrà dire che non sono amabile), ma resta in secondo piano, come nel caso dell'attaccamento sicuro, in quanto il rifiuto e l'inaccessibilità della figura di attaccamento, il fallimento della relazione, sono previsti indipendentemente dalla propria scarsa amabilità (quando c'è assoluta certezza di successo o di fallimento il tema dell'amabilità diventa meno pregnante, perché ciò che deve succedere è come un destino immanente alle cose, al quale non si può in alcun modo sottrarsi). Spesso coesiste un modello di sé positivo in aree diverse da quelle della relazione interpersonale, in quanto il soggetto impara effettivamente a cavarsela da solo in ogni circostanza e quindi finisce per sentirsi in gamba e realizzare quell'esasperazione caricaturale dell'autonomia che è la "compulsiva fiducia in se stessi" di Bowlby. Al terzo livello dell'IWM la strategia comportamentale privilegiata è quella dell'allontanamento e del distacco. Va ricordato che questa persegue l'obiettivo consueto del comportamento di attaccamento (il mantenimento della vicinanza con l'adulto), ma lo fa tenendo conto della particolare situazione di una figura di attaccamento che non vuole o non sa sopportare la vicinanza. L'allontanamento rappresenta quindi una strategia adattiva, che permette di mantenere pur sempre una certa relazione con la figura di attaccamento proprio imparando a contare su di sé e stando distanti; paradossalmente, la distanza garantisce la massima vicinanza possibile. In situazioni di bisogno estreme, l'attaccamento insicuro-evitante può peraltro associarsi anche alla strategia opposta della vicinanza. In questi casi però si tratterà per il soggetto di ottenere vicinanza da un altro che egli costruisce come assolutamente rifiutante, per cui la prossimità dovrà essere estorta o imposta con un controllo serrato, mirando a "possedere" l'altro, più che a stare con lui, nella convinzione che l'altro non lo accetterebbe mai, potendo scegliere. Lo stile di conoscenza caratteristico di questo tipo di attaccamento è quello che precedentemente abbiamo definito immunizzazione, e che consiste nel minimizzare fino ad annullarli gli effetti di un'invalidazione sul sistema; i dati di realtà perdono significato, sono screditati, sottovalutati, ignorati e ricostruiti ad hoc, così da perdere il potere di falsificazione sulle teorie del soggetto. Meglio perseguitati che soli

Maria era una signora di cinquantasei anni, abbandonata dal marito due anni prima per una donna trentenne, sua amica e vicina di casa. Il primo anno dopo la separazione Maria aveva sviluppato uno stato de-

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pressivo e una serie di spunti persecutori sui suoi vicini di casa, spingendosi poi a organizzare questi spunti in un vero e proprio delirio. Maria era convinta che i vicini fossero pagati dal marito per controllare ogni suo movimento e rassicurarsi che lei stava bene. Il marito non poteva stare lontano da lei, ma era tenuto al laccio dalla donna. Rimaneva con l'amante avendone pena, ma si occupava ininterrottamente della moglie restando in contatto con i vicini, con il panettiere, con il padrone del supermercato. Questo delirio le faceva pensare di non essere sola e abbandonata. Così anche di notte, quando dormiva, lasciava le finestre aperte, perché il marito potesse controllarla meglio.

La consensualità con l'altro perde importanza in assenza della relazione. È come se l'altro non ci fosse: il soggetto si abitua, autarchicamente, a considerare il suo mondo di significati come l'unico esistente. Le invalidazioni provengono nella maggioranza dei casi dagli altri; non prendendo gli altri in considerazione, ci si immunizza dal rischio di subire invalidazioni. L'immunizzazione dalle invalidazioni è, sul piano cognitivo, il "cavarsela da soli" già descritto a proposito della compulsiva fiducia in se stessi. La patogenesi di un tale stile conoscitivo è da ricercare nel fatto che la figura di attaccamento, quando ancora non è identificata come tale e funge da contesto, non interagisce con il piccolo, non lo ascolta, non scambia alcunché con lui. Tale "non interazione", o "silenzio comunicativo", può avvenire in due modi apparentemente opposti; nel primo la figura di attaccamento effettivamente non c'è, è assente, distante, disinteressata od oggettivamente impossibilitata a interagire (depressione, malattia o altro); nel secondo, al contrario, è fin troppo presente fisicamente ma non ascolta il piccolo: invadente, incapace di vera comunicazione reciproca, le è impossibile tener conto dell'altro, su cui rovescia ininterrottamente i propri bisogni. In entrambi i casi lo sganciamento dalla consensualità, che è il fondamento evolutivo del meccanismo cognitivo dell'immunizzazione, si realizza per una mancanza di dialogo con l'altro. Nel silenzio comunicativo si instaura progressivamente l'autarchia cognitiva, l'egocentrismo che conduce fino all'esperienza delirante (Lorenzini, Sassaroli, 1992). Il piccolo non è da considerare vittima esclusiva di questa assenza di comunicazione: egli stesso vi contribuisce attivamente. Selma Fraiberg (1982) ha svolto, sui meccanismi di difesa precocissimi che i piccoli mettono in atto per evitare le esperienze dolorose connesse con il fallimento del ruolo protettivo della figura di attacca89

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mento, uno studio che ha preso in considerazione bambini tra i 4 e i 18 mesi, affidati a lei in seguito a gravi episodi di trascuratezza e abuso da parte di madri disorganizzate, depresse o psicotiche. Il più precoce e il più sorprendente comportamento difensivo osservato nel gruppo di bambini di Fraiberg consisteva nell'evitamento delle madri rispetto a "qualsiasi sistema di contatto potenzialmente aperto verso di esse" [. .. ]; molti dei bambini osservati non guardavano mai o solo raramente le madri né rispondevano loro sorridendo. Con la maturazione motoria, non si tendevano, trascinavano, né camminavano verso di lei. Non ricercavano conforto attraverso le vocalizzazioni o prestando attenzione alla sua voce [. .. ]. L'evitamento [. .. ] può includere il rifiuto da parte del bambino di accettare gli oggetti che gli porge la madre o il mostrarsi riluttante a esplorare oggetti che la madre ha toccato [. .. ]. Abbiamo osservato numerosi casi in cui il bambino si voltava completamente in presenza della madre. (Fonagy et al., citato in Ammanniti, Stero, 1992)

È evidente che un piccolo che si comporta così non faciliterà il legame né con la figura di attaccamento, verso la quale tale comportamento si è sviluppato come difesa, rinforzando quindi a sua volta la tendenza al rifiuto, né con altre eventuali figure di attaccamento sostitutive. È ipotizzabile che perfino il primo contatto tra figura di attaccamento e neonato non dipenda esclusivamente dalla madre, ma che alcune caratteristiche (aspetto) e capacità (maturazione degli schemi d'azione dell'attaccamento) possano facilitare od ostacolare lo slancio della madre verso di lui. Ciò che in proposito si verifica nella relazione tra madre e bambino corrisponde a due dei modelli descritti da Sameroff, Emde (1991) quando parlano delle modalità di regolazione della relazione, e in particolare della relazione iporegolata e di quella iperregolata. Nella relazione iperregolata l'orchestrazione da parte dei genitori è intrusiva, insensibile, sotto il controllo unilaterale del genitore, mentre in quella iporegolata il coinvolgimento reciproco è scarso, sia perché vi può essere una mancanza di reazione dei genitori ai segnali dei figli, sia perché questi manifestano evitamento emotivo, ritiro, isolamento (Sameroff, Emde, 1991). Questo significa in sostanza che assenza e invadenza sono accomunate da una scarsa attenzione per l'interlocutore; la comunicazione non si innesca, i mondi soggettivi di significato restano isolati, tende a instaurarsi l'autarchia cognitiva.

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L'ATTACCAMENTO INSICURO-AMBIVALENTE O RESISTENTE

Nel primo studio condotto dalla Ainsworth con la metodica della Strange situation, il 66% dei bambini esaminati fu classificato nel gruppo B (attaccamento sicuro), il 20% nel gruppo A (insicuro-evitante) e il 12% nel gruppo C (insicuro-ambivalente) (Ainsworth et al., 1978). Il comportamento di tale ultimo gruppo è stato descritto come segue: [. ..] questi bambini rispondevano alla separazione dalla madre con grande sofferenza, ma al suo ritorno non sembravano confortati, continuando a mostrare disagio e non riuscendo a riprendere l'esplorazione [. .. ]; esprimevano rabbia, combinata o alternata alla ricerca di contatto [ .. .]; le madri non erano particolarmente rifiutanti, ma insensibili ai segnali e imprevedibili nelle risposte [... ]. Abbiamo suggerito altrove che i bambini di genitori imprevedibili e quindi potenzialmente inaffidabili nelle emergenze, possono avere necessità di estremizzare il comportamento di attaccamento anche in circostanze di minimo pericolo [. .. ]; nonostante una sensibilità materna relativamente ridotta [sembra che] i bambini dei gruppi A e C siano in grado di mantenere un ragionevole livello di organizzazione di fronte a condizioni di lieve paura [. .. ]; questa organizzazione è comunque vulnerabile a certi cambiamenti. (Main, Besse, 1992)

Nella sua ricerca su bambini sottoposti a gravi episodi di trascuratezza e abuso, volta a identificare precoci meccanismi di difesa, Fraiberg (1982) ne ha messi a fuoco due: l'opposizione e la trasformazione degli affetti, caratteristici dei bambini con attaccamento C. L' opposizione si manifesta con atteggiamenti provocatori, negativi e con crisi frequenti di collera. Vi è spesso opposizione alla madre, il bambino in braccio si divincola, manifesta timore e senso di impotenza. Nella Strange situation i bambini resistenti (C) manifestano frequentemente tale comportamento verso il caregiver, anche se di un'intensità molto attenuata. Quando il caregiver tenta di confortare e consolare il bambino, questi si oppone alla spinta regressiva e all'associato senso di impotenza con il riaffermare "aggressivamente" o passivamente la sua indipendenza. (Fraiberg, 1982)

La trasformazione degli affetti consiste invece nel manifestare, in modo esasperato, stati d'animo contrari a quelli reali. 91

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I bambini reagiscono alla frustrazione o all'aperto dispetto con eccitamento, risa e manifestazioni esagerate di piacere, la cui natura difensiva è qualche volta palesata dalla loro caratteristica teatrale o ridicola. Abbiamo notato frequentemente tale comportamento nei bambini C, in particolare nella Strange situation a 18 mesi con i padri. In questi casi il bambino rispondeva evidentemente al bisogno del genitore di negare durante la riunione la qualità dolorosa delle recenti esperienze di separazione del bambino. I bambini sorridevano o ridevano perfino, spinti dall'insistenza dei caregiver a "prendersi gioco" del loro stato di tristezza, ma tali cambiamenti di stato d'animo erano deboli e davano luogo a un modello "resistente" anche più intenso se l'attenzione del caregiver si allontanava dal bambino anche momentaneamente. (Fraiberg, 1982)

Rabbia e accondiscendenza si alternano nei confronti di una figura di attaccamento imprevedibile, che non si si sa come controllare e conquistare, ma della quale non si riesce a fare a meno. L'imprevedibilità della figura di attaccamento diviene così imprevedibilità del piccolo stesso e più in generale della loro relazione. Un mostro infame Mario, un signore ossessivo di trentotto anni, raccontava che il rapporto con la madre si era così strutturato negli anni dell'adolescenza: la madre era costantemente preoccupata che egli fosse ben nutrito, che facesse sport e che non gli facesse fare brutte figure in pubblico. Un giorno, quando aveva sedici anni, lo trovò che faceva di nascosto un disegnino "pornografico" nella sua stanza. Non disse nulla e uscì, ma da allora, nei momenti in cui lui non andava bene a scuola o anche senza che ve ne fosse un motivo evidente, cominciava a urlare, diventando tutta rossa e furente: "Tutti lo devono sapere che sei un infame, sporco, vile mostro". Mario aveva vissuto questa circostanza come la più angosciosa e preoccupante della sua vita e da allora in poi cominciarono i suoi rituali ossessivi e le ruminazioni che giravano intorno al problema di cancellare qualsiasi pulviscolo rimasto di quel foglietto che ancora potesse girare nell'aria.

I genitori dei bambini con attaccamento insicuro-ambivalente, sottoposti alla Adult attachment interview per valutare le modalità di trasmissione intergenerazionale dei pattern di attaccamento, costituiscono un gruppo omogeneo al quale è stato assegnato il nome di preoccupied (preoccupato). Essi si mostravano particolarmente preoccupati delle loro passate relazioni familiari che continuavano a coinvolgerli emotivamente; erano in grado di richiamare alla memoria molti ricordi

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infantili, spesso riferiti a episodi conflittuali, ma non riuscivano a integrarli in un quadro coerente, quasi vi fossero ancora immersi e non potessero osservarli con distacco. Sembravano restare dipendenti da quelle vicende, capaci di suscitare reazioni emotive di rabbia e ansia nonostante la lontananza nel tempo. Il filo conduttore che caratterizza la relazione tra bambini C e genitori preoccupati è la vicinanza insoddisfacente e imprevedibile. I bambini vivono con ansia i rapporti affettivi: in particolare le separazioni e spesso anche gli eccessivi avvicinamenti. Ai grandi chiedono continue prove d'affetto, che non bastano mai a tranquillizzarli. L'incapacità a prendersi cura di loro è un dato costante che i genitori manifestano in molti modi: frequenti allontanamenti effettivi o minacciati, depressione, morte o tentativi di suicidio. I piccoli dubitano delle proprie capacità di affrontare situazioni difficili o problematiche senza l'appoggio degli altri, si sentono sprovveduti in un mondo complicato e pericoloso. Quando incontrano persone che dimostrano la capacità di proteggerli e di occuparsi di loro, interpretano queste relazioni come patti di solidarietà contro la solitudine, piuttosto che come basi di un rapporto reciproco tra pari. I livelli dell'IWM caratteristici di questo pattern di attaccamento sono i seguenti: diversamente che negli altri due tipi di attaccamento, quello insicuro-ambivalente presenta, al primo livello dell'IWM, l'incertezza sull'esito del rapporto. L'accesso alla figura di attaccamento appare imprevedibile: non facile, né sicuro, ma neppure assolutamente impossibile; piuttosto difficile, incerto, aleatorio. L'esperienza dell'intimità è qualcosa di sperimentato e di perduto, un desiderio difficile da conquistare e mantenere. Al secondo livello dell'IWM il modello della figura di attaccamento appare, per così dire, accettante ad alta soglia: capace di vicinanza e protezione, ma non sempre disponibile a concederle; talvolta è lontana e inarrivabile. Il suo aspetto più caratteristico è proprio l'imprevedibilità. Per contrastare tale aleatorietà il piccolo attribuisce a se stesso il merito o la colpa di conquistare o perdere la vicinanza. È come se si dicesse: "Tutto dipende da me!". L'amabilità acquista così una rilevanza centrale: è dunque dal modello di sé che dipende l'esito del rapporto. Indipendentemente dai costrutti che il soggetto utilizza per valutare la propria amabilità, mutevoli da persona a persona (bellezza, intelligenza, bontà, forza ecc.), ciò che resta costante è il fatto che l'amore dell'altro deve essere meritato attraverso le proprie prestazioni e che l'altro stesso è trasformato in premio e contemporaneamente in giudi93

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ce. Il giudizio sulla propria amabilità si modella costantemente sul feedback che il bambino riceve dalla madre, secondo un ragionamento del tipo "Se sono accettato allora vuol dire che sono amabile", "Se sono rifiutato vuol dire che non lo sono". Quando però il piccolo sia continuamente esposto a imprevedibili mutamenti di comportamento della figura di attaccamento, che ora lo accetta e ora lo rifiuta, non riesce a stabilizzare un'idea di sé; questo tema dell'amabilità resta al1' ordine del giorno, costantemente irrisolto. Al terzo livello dell'IWM la strategia comportamentale privilegiata sarà quella della vicinanza serrata, allo scopo di esercitare un controllo continuo sulla figura di attaccamento, e diminuire così la sua imprevedibilità. Come nel caso dell'attaccamento insicuro-evitante, il fatto che una delle due strategie sia privilegiata non esclude l'utilizzo dell'altra in particolari circostanze. È ad esempio frequente osservare soggetti che cercano disperatamente un controllo assoluto sull'esistenza, sia fisica che psichica, del proprio partner, quasi andassero alla ricerca di una simbiosi originaria, salvo tirarsi indietro quando la possibilità di un'intimità profonda si fa reale. Probabilmente in tali situazioni agisce il timore di essere scoperti non amabili e quindi rifiutati: l'intimità è desiderata intensamente e contemporaneamente temuta in quanto potrebbe smascherare il bluff che il soggetto crede di essere, riprecipitandolo nella più insopportabile delle solitudini. Lo stile di conoscenza caratteristico di questo tipo di attaccamento è quello che abbiamo chiamato evitamento: consiste nel progressivo restringimento delle aree sperimentali, nella rinuncia all'esplorazione e nella fuga da qualsiasi prova cruciale sulle proprie ipotesi: per evitare di incorrere in invalidazioni il soggetto si chiude in aree previsionali sempre più ristrette. L'aleatorietà relazionale e comunicativa contro cui deve combattere è fronteggiata con il ritiro in territori sempre più angusti e conosciuti, dove sia bandita ogni novità. La patogenesi di tale stile cognitivo è probabilmente da ricercare nella elevata imprevedibilità della figura di attaccamento, quando ancora non è riconosciuta come tale durante il processo coepistemico che precede l'attaccamento vero e proprio. La serie delle interazioni con la figura di attaccamento si presenta già estremamente mutevole ma il piccolo, non avendo ancora costruito né l'ipotesi dell'altro né l'ipotesi del sé, non può attribuire a uno dei due tale mutevolezza: ciò che egli sperimenta sono semplicemente fluttuazioni del contesto difficili da ricondurre a una regola, un ordine che permetta di fare previsioni. A fronte di tale aleatorietà, la strada scelta per minimizzare l'im-

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prevedibilità è quella di ridurre la lunghezza delle sequenze prese in esame, nella prospettiva di riconoscere forme anche minute di regolarità. Possiamo pensare a un pugile bersagliato dal rivale con pugni che gli giungono da tutte le parti, in modo del tutto imprevedibile e con strategie sempre nuove. Se non riesce a cogliere il funzionamento di ampie sequenze del combattimento, arriverà tuttavia a capire la regola che ogni singolo pugno, dopo averlo colpito, torna indietro. Ancora un esempio: una madre che saluta, si allontana e poi ritorna articola il suo comportamento su una sequenza piuttosto lunga, che può essere costruita se l'evento si ripete più volte in modo molto regolare. Ma se la sequenza non è mai identica a se stessa (la madre si allontana senza salutare, oppure talvolta dopo essersi allontanata non ritorna ecc.), ogni ipotesi costruita sul suo andamento generale viene immediatamente invalidata. Non è mai possibile identificare un "episodio generalizzabile" (vedi il secondo capitolo), perché ogni volta si presenta un nuovo episodio specifico. Per contenere il disorientamento, il bambino potrà allora risolversi a costruire sequenze più brevi, come "saluto-scomparsa della madre", oppure "rumore alla porta-ritorno della madre". Punteggiare gli eventi più strettamente e frammentarli in sequenze piccole aiuta a rendere prevedibile ciò che nel suo insieme non lo è. In tal modo si rinuncia però alla complessità e alla visione d'insieme. Ricorrendo di nuovo alla classificazione dei modi di regolare le relazioni proposta da Sameroff ed Emde, in questo caso si può parlare di "regolazione irregolare e caotica" (Sameroff, Emde, 1991). Nella regolazione irregolare [. ..] il genitore si impegna in un certo numero di modelli individuabili, ma solo per brevi intervalli di tempo, e può passare dall'iperregolazione all'iporegolazione o alla regolazione inappropriata[. .. ]. La regolazione caotica è una forma estrema di regolazione irregolare in cui la regolazione nel corso dell'interazione è altamente variabile e i modelli sono difficili da individuare. (Sameroff, Emde, 1991)

In entrambe la costante che il piccolo si trova a fronteggiare e poi anche ad alimentare è, ancora una volta, l'imprevedibilità.

IL PERCORSO CRONOLOGICO

Prima di esaminare il quarto pattern di attaccamento, proprio del gruppo D, è utile soffermarci a delineare un possibile percorso evolu95

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tivo tra i van t1p1 di attaccamento finora descritti. L'esclusione del gruppo D da questo itinerario di progressiva modificazione del comportamento di attaccamento è fondata sulla convinzione che il comportamento D (disorientato-disorganizzato), pur manifestandosi nella relazione tra il piccolo e la sua figura di attaccamento, presenti particolarità che ne fanno un caso a parte. Abbiamo visto nel capitolo precedente che lo stile cognitivo comincia a stabilizzarsi attraverso il processo diadico della coepistemia molto prima che il piccolo riesca a costruire l'altro e sé come entità separate, e quindi prima che inizi la vicenda dell'attaccamento. È naturale quindi che la stessa costruzione degli IWM dell'attaccamento e in particolare dei modelli di sé e dell'altro in relazione si fondi sullo stile conoscitivo generato all'interno della relazione primitiva (ricerca attiva, immunizzazione, evitamento, ostilità). Al momento in cui il piccolo diventa consapevole dell'esistenza di due entità in relazione tra loro, e iniziano i tentativi di prevedere l'andamento di questa relazione, egli è dotato di due strumenti: uno stile di approccio ai problemi (ricercare il nuovo, ignorare i dati, restringere il campo, imporre la sua verità) e una serie di aspettative innate, relative proprio al legame di attaccamento, che gli provengono dall'esperienza millenaria della specie. S'intende che queste aspettative innate non sono espresse come convinzioni o pensieri coscienti, ma sono iscritte negli organi di senso e negli schemi d'azione. Se tuttavia potessimo tradurle nel nostro linguaggio, la previsione iniziale, presente alla nascita, suonerebbe pressappoco così: "Incontrerò sicuramente un adulto in gamba e accogliente, che si prenderà cura di me e mi insegnerà a diventare uomo; su di lui potrò contare nelle difficoltà, fidarmi ciecamente". Se tale previsione troverà conferma le conclusioni che il bambino ne ricaverà saranno di due ordini, sull'altro e su se stesso: "L'altro è effettivamente accettante e disponibile come prevedevo", "Io sono in grado di fare previsioni giuste". Entrambi i modelli sono positivi e ci si avvia verso una situazione del tipo attaccamento sicuro, in cui la fiducia nell'altro e in se stesso si rinforzano reciprocamente. Ci schieriamo dunque con quanti considerano l'attaccamento sicuro più efficiente degli altri, che rappresentano invece tentativi di perseguire gli scopi propri del comportamento di attaccamento in situazioni più sfavorevoli. Immaginiamo ora che la previsione iniziale vada incontro a invalidazione perché il piccolo subisce un rifiuto. L'inclinazione a prevedere che la relazione abbia esito favorevole non viene immediatamente abbandonata, a motivo della

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Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

forza, diremmo ereditaria, genetica, che essa possiede. Il modello del1' altro però diventa incerto: "Forse l'altro è effettivamente accettante e disponibile come vuole la previsione iniziale, e sono io che mi sbaglio nel valutarlo". E al tempo stesso si delinea un modello di sé come incapace di fare previsioni: "Ho sbagliato la previsione iniziale". Ma poiché la capacità di fare previsioni è strumento fondamentale di sopravvivenza il piccolo si sente debole e in pericolo, sempre più sente quindi il bisogno di affidarsi a qualcuno che lo aiuti, lo appoggi e lo protegga: siamo esattamente nella situazione di attaccamento insicuroresistente, connotata da una forte richiesta di contatto con la figura di attaccamento e dalla difficoltà o dalla rinuncia ali' esplorazione. Questa situazione di incertezza su entrambi i modelli è instabile. Il soggetto può ritornare o verso un attaccamento sicuro se il periodo di rifiuto è stato limitato nel tempo e nell'intensità, oppure può evolvere verso un attaccamento insicuro-evitante se il rifiuto si stabilizza. Se il gruppo con attaccamento C (ambivalente o resistente) è il più piccolo statisticamente dipende probabilmente dal fatto che il consolidamento di una situazione così incerta comporta la rinuncia del piccolo ad andare a vedere come stanno esattamente le cose, e questo avviene di solito nei bambini che hanno già sviluppato nel processo coepistemico uno stile cognitivo del tipo evitamento; gli altri, pur se attraversano uno stadio del tipo attaccamento insicuro-ambivalente, ne escono in una direzione o nell'altra. Un ulteriore elemento di stabilizzazione della situazione incerta si ha quando il piccolo che rinuncia all'esplorazione e richiede molta vicinanza viene iperprotetto: ciò conferma in lui l'idea che non è in grado di cavarsela da solo e che effettivamente ha bisogno di essere costantemente accudito. Se però non ha già imparato a evitare di sottoporre a verifica le proprie ipotesi, per non rischiare fallimenti, il suo bisogno sempre più intenso di vicinanza porterà presto a una chiarificazione inequivocabile: o si convincerà di essere accettato o il rifiuto si farà sempre più netto e categorico. In tale ultimo caso la previsione iniziale sarà del tutto abbandonata e l'altro sarà costruito come rifiutante e inaccessibile; il piccolo penserà che non è tanto importante essere amabili, quanto sapersela cavare da soli in ogni circostanza. Approderà così alla situazione di attaccamento insicuro-evitante. Possiamo forse delineare un continuum che va dall'attaccamento sicuro, quando l'attesa di incontrare un adulto accudente trova conferma, fino ali' attaccamento insicuro-evitante, quando tale attesa è stata ripetutamente delusa e definitivamente abbandonata, passando 97

R. Lorenzini 5. Sassaroli

per una situazione intermedia di attaccamento insicuro-ambivalente, in cui l'esito è incerto e imprevedibile. Un itinerario simile è descritto da Spitz (1957), e in generale dagli studi sul lutto (Parkes, 1980), a proposito delle reazioni di un bambino alla perdita: il momento che la precede corrisponde all'attaccamento sicuro, il momento in cui subentra il distacco all'attaccamento insicuro-evitante, le fasi intermedie di rabbia e disperazione all' attaccamento insicuro-ambivalente (figura 3 .3).

Previsione innata di accettazione

""'/

~-~

Esperienze di accettazione

Esperienze di rifiuto

'

Dubbi swl' accettazione dell'altro Dubbi sulla propria capacità di prevedere

Fiducia in sé Fiducia nell'altro

'

A. sicuro

+

Aumento aleatorietà - ~ / Conferma della propria incapacità

'

-..... .

A. I.

...._

Riduzione capacità predittiva

ambivalente

I

Iperprotezione e controllo ◄ Richiesta di ~ vic~anza Nuove e ripetute esperienze di accettazione

..--~

/ Ulteriori esperienze di rifiuto L'altro è rifiutante occorre cavarsela da soli

A.I. evitante Figura 3.3 Il percorso cronologico ipotizzabile tra i vari pattern di attaccamento.

98

Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

L'ATTACCAMENTO DISORGANIZZATO-DISORIENTATO

Circa 1'8% del primo campione di 106 bambini studiato dalla Ainsworth non rientrava in nessuno dei tre gruppi identificati e risultò quindi inclassificabile. Tale percentuale si dimostrò più elevata in successive ricerche, fino a convincere Mary Main e i suoi collaboratori della possibilità di identificare all'interno del gruppo inclassificabile il nuovo pattern di comportamento D: disorientato-disorganizzato (Main, Kaplan, Cassidy, 1985; Main, Salomon, 1986). La difficoltà così risolta risiede nel fatto che il comportamento di questi bambini non è così evidente e ripetitivo come quello dei gruppi A, B e C e che la sua peculiarità sembra proprio essere la presenza contemporanea di comportamenti contraddittori, spesso lasciati incompleti, apparentemente afinalistici. Nella Strange situation, ad esempio, i bambini in questione al ritorno della madre si avvicinano a lei per riabbracciarla (come i Be i C), poi improvvisamente cambiano direzione e la evitano (come gli A), oppure si immobilizzano improvvisamente mettendosi a fare altro. Talvolta la cercano, ma ne evitano lo sguardo. In presenza della madre, anche senza lo stimolo della Strange situation, il comportamento di tali bambini appare strano: si bloccano improvvisamente senza ragione, emettono suoni incomprensibili, si sdraiano a faccia in giù. I meccanismi difensivi precoci di questo gruppo, evidenziati da F raiberg (1982), sono stati così descritti: [ ... ] è stata notata inoltre fin dai 13 mesi una inversione del!' aggressività, che consiste nel tentativo da parte del bambino di ferire se stesso invece della madre [ ... ]; le forme di tale inversione difensiva vanno dal tirarsi i capelli, al battere violentemente la testa, al colpirsi, e possono svilupparsi fino al disprezzo del pericolo e a un evidente aumento della soglia del dolore. Abbiamo osservato modelli di questo tipo solo nei bambini "D". Fraiberg [ .. .] notò fino dal terzo mese una periodica "immobilizzazione completa della motilità e della articolazione" e chiamò questo comportamento difensivo "congelamento" [/reezing]. Una bambina, che stava seduta aspettando apparentemente in modo tranquillo mentre la madre era àssente dalla stanza durante il secondo episodio di separazione, al ritorno della madre semplicemente si piegò e cadde. La madre si avvicinò senza guardarla e non cercando di rialzarla o di stabilire un qualche contatto corporeo. (Fonagy et

al.,

1992)

99

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Per cercare di cogliere il senso di questi strani comportamenti occorre osservare il comportamento della madre. Essa non è disponibile e in sintonia come le madri dei bambini "sicuri", né è imprevedibile e ipercontrollante come quelle dei bambini "evitanti". Ciò che la caratterizza è l'essere dominata da qualcosa di irrisolto, che la spinge a interagire con il piccolo manifestando sempre un atteggiamento triste, preoccupato o ansioso. I genitori dei bambini D sottoposti alla Adult attachment interview apparivano infatti impegnati in problemi relativi alla perdita di un genitore o in questioni personali estremamente gravi. In molti casi (Main, Hesse, 1990) le madri di bambini con attaccamento D sono risultate colpite da un lutto grave e non risolto nell'anno precedente o seguente alla nascita del figlio. In altri casi soffrivano di disturbi affettivi maggiori (Radke-Yarrow, Cummings, Kuczyinsky, Chapman, 1985); o, ancora, avevano subito nell'infanzia gravi violenze fisiche o sessuali dai genitori (Main, Hesse, 1990). In tutti i casi le madri erano prigioniere di questioni personali gravissime, che le portavano a concentrare l'attenzione verso il proprio interno, restando distratte al contatto con il bambino. L'espressione triste e spaventata della madre diventa per il piccolo una minaccia, che lo spinge in una situazione paradossale dove chi dovrebbe essere fattore di rassicurazione diventa egli stesso oggetto di minaccia. Piccoli nati da scimmie allevate in isolamento sociale e che sono stati maltrattati dalle loro madri, hanno comunque mostrato per esse un attaccamento maggiore di quello manifestato dai piccoli di un gruppo di controllo (Seay et al., 1964). Anche per i bambini vale la regola che quelli maltrattati dai genitori hanno con loro un legame molto forte, tanto che si ribellano quando li si vuole trasferire in un'altra famiglia per proteggerli dai loro stessi genitori (cosa che meraviglia sempre assistenti sociali). Il fenomeno si spiega considerando che, per tutto il corso della filogenesi, il bambino non ha avuto altra scelta che legarsi ancor più alla madre. Il bambino che per paura avesse evitato la madre, avrebbe certamente avuto ancor meno chance di sopravvivenza. Anche nell'uomo adulto si osserva, come si è già visto, un'infantilizzazione da paura, che provoca una fatale tendenza a legarsi ciecamente a personalità guida che sembrano offrire sicurezza. (Eibl-Eibesfeldt, 1993)

La Main spiega così la genesi della situazione di paradosso in cui si verrebbe a trovare il bambino:

100

Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

[... ] una figura di attaccamento che suscita paura pone al bambino un paradosso che non può risolvere a livello comportamentale, in quanto dovrebbe fuggire dalla figura di attaccamento perché fonte di pericolo, e contemporaneamente avvicinarla come rifugio sicuro. (Main, 1991)

La situazione di attaccamento D rappresenta così una sorta di "crollo strategico", un blocco irrisolvibile. Questa situazione per il bambino è particolarmente opprimente poiché ciò che impaurisce il genitore non è identificabile. L'allarme nel bambino è ulteriormente accresciuto dal fatto che il genitore, mentre rivela la presenza di un pericolo, mostra contemporaneamente il desiderio di evitare la vicinanza o persino la presenza stessa del bambino. (Main, Hesse, 1990) Il punto centrale del disorientamento sembra essere nella coesistenza di paura senza motivi evidenti nel genitore, e di difficoltà per il bambino a stargli vicino, aumentate dal vedere il genitore impaurito. Perché si possa parlare di relazione di attaccamento occorre che da parte del bambino ci sia l'aspettativa di un vantaggio (in termini predittivi o di protezione) nel mantenere una stretta vicinanza con un adulto. Tale aspettativa è presente in tutti e tre i pattern di attaccamento (A, B, C) precedentemente esaminati; le relative strategie tradizionalmente riconosciute sono modalità per mantenere il massimo di relazione possibile con la figura di attaccamento che, più o meno accessibile, resta comunque fonte privilegiata di sicurezza. L'attaccamento D si realizza quando la figura di attaccamento è sperimentata come minacciosa. Si tratta di una relazione di attaccamento diversa dalle altre perché l'adulto minaccioso è esattamente ciò da cui la figura di attaccamento dovrebbe proteggere: le tre strategie possibili cadono in un paradosso, si disorganizzano e diventano inutilizzabili. L'adulto può essere o rassicurante o minaccioso: si attiva il comportamento di attaccamento di tipo sicuro se è, oltre che rassicurante, accessibile; ambivalente se rassicurante, ma imprevedibile e difficilmente accessibile; evitante se rassicurante, ma apparentemente inaccessibile. In tutti e tre i casi il mantenimento della massima vicinanza possibile è considerato l'obiettivo da perseguire. Nel caso invece in cui la figura di attaccamento appare minacciosa il comportamento che si instaura va interpretato come la reazione di 101

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Pattern disorganizzato Minacciosa

Pattern organizzati Rassicurante //

Figura di attaccamento /

'

Certamente accessibile

'

'

Certamente Difficilmente inaccessibile e imprevedibilmente accessibili

Pattern

'

A

c

B

'

D

Figura 3.4 Il modello della figura di attaccamento nei vari pattern.

fronte a un oggetto da un lato confondente (ci si aspettava che fosse tutt'altro) e dall'altro fonte di pericolo. Entrano in gioco tutt'altre categorie, e il problema non è più il mantenimento della distanza minima ma, ad esempio, la neutralizzazione, il potere, il controllo, la sopravvivenza (figura 3 .4). Si noti tuttavia che tutti e tre i modelli diventano disorganizzati se qualche aspetto della stessa figura di attaccamento suscita paura, più di quanto avvenga per i suoi spostamenti, o di fronte a un ambiente sconosciuto. (Main, Hesse, 1992)

Perché la figura di attaccamento risulti minacciosa verso il piccolo non è necessario che lo sia nei suoi diretti confronti: basta che appaia spaventata. Infatti il bambino è portato a leggere sul suo volto se nel1' ambiente esistano pericoli o no, tant'è che la guarda prima di avvicinarsi a un oggetto nuovo, cercando nella sua espressione un segnale di incoraggiamento o di divieto all'esplorazione. Nel caso della madre spaventata egli riceve costantemente un messaggio di pericolo e, poiché non percepisce nell'ambiente alcun motivo che lo confermi, la madre diventa fonte di minaccia. Al primo livello dell'IWM, l'attaccamento disorientato-disorganizzato comporta una previsione che non è collocabile lungo l'asse accettazione-rifiuto, quanto piuttosto nella dimensione della minaccia. L'incontro può essere più o meno pericoloso, ma mai rassicurante (di102

Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

mensione all'interno della quale prende senso la dicotomia accettazione-rifiuto). Al secondo livello dell'IWM il modello della figura di attaccamento è spaventato-spaventante, e quello del sé ruota intorno a valutazioni circa la propria forza o debolezza, capacità di fronteggiare un pericolo, gestire una situazione ostile e minacciosa. Tutto ciò non ha nulla a che vedere con i problemi di valutazione della propria amabilità tipici degli altri tipi di attaccamento. Per il piccolo non si tratta infatti di stabilire quanto sia capace di suscitare reazioni positive e di accudimento da parte della figura di attaccamento, quanto di valutare la sua abilità nell'affrontare una presenza talvolta minacciosa. L'IWM di sé si muove dunque lungo un asse che possiamo immaginare avere ai due estremi la polarità forte/ debole. Al terzo livello dell'IWM le strategie comportamentali hanno qualche somiglianza con quelle esaminate negli altri pattern di attaccamento, ma l'allontanamento e l'avvicinamento non sono finalizzati a mantenere una vicinanza reputata ideale con un "altro proteggente", bensì al contenimento delle minacce provenienti da un "altro pericoloso". Le reazioni sono tipicamente di tre tipi, presenti anche nel mondo animale di fronte a un pericolo: fuga, attacco, congelamento. La scelta dell'una o dell'altra dipende dalla valutazione della proporzione esistente tra la propria forza e l'entità del pericolo. Nel caso della strategia di attacco, l'individuo pensa che riuscirà ad aver ragione del nemico, ad annientarlo, distruggerlo o metterlo in fuga: egli si valuta forte rispetto all'evento che ha davanti. L'attacco tende a mettere i due soggetti in relazione prossima, ad avvicinarli. La tendenza al controllo esasperato della figura di attaccamento è simile a quella dei soggetti con attaccamento ambivalente, ma i due comportamenti si differenziano radicalmente negli scopi. Nel caso dell'attaccamento insicuro-ambivalente lo scopo è di non perdere neppure per un istante il contatto con una figura di attaccamento imprevedibile, ma sentita come assolutamente necessaria per la sopravvivenza; nel caso invece dell' attaccamento D si tratta di vincere una battaglia contro un potenziale nemico per averne ragione, neutralizzarlo ed eventualmente dominarlo. La strategia di fuga è messa in atto quando l'individuo valuta le sue forze insufficienti per affrontare il pericolo e dunque prevede che soccomberebbe allo scontro: il modello di sé si sposta verso la polarità debole. Anche in questo caso ci sono somiglianze con l'attaccamento insicuro-evitante: in entrambi il soggetto tenta infatti di mettere delle distanze tra sé e la figura di attaccamento. La differenza sostanziale è negli scopi perseguiti attraverso l'allontanamento. Nell'attaccamento insicuro-evitante il di103

R. Lorenzini S. Sassaroli

stacco è la maniera migliore per mantenere comunque una certa relazione con la figura di attaccamento, che seppur proteggente è sentita come incapace o non intenzionata a rispondere alle richieste troppo pressanti di intimità, e diventa perciò rifiutante; nell'attaccamento D si tratta invece di una vera e propria fuga da un pericolo incombente. Il congelamento ("fare il morto") è infine messo in atto quando la minaccia è giudicata così grave e devastante, e la propria debolezza così grande da rendere inutile persino il comportamento di fuga: l'individuo si sente in una situazione senza scampo. È piuttosto evidente la somiglianza della reazione di congelamento con lo stato di trance ipnotica in cui alcune persone sembrano entrare, secondo Bliss (1986), di fronte a eventi particolarmente dolorosi. Liotti ( 1993, 1994) ha rilevato la somiglianza tra la trance ipnotica e i disturbi dissociativi "isterici", ipotizzando un collegamento tra attaccamento De disturbi dissociativi della coscienza in età adulta. Torneremo più avanti in dettaglio sui possibili collegamenti tra attaccamento, personalità e psicopatologia. Limitiamoci per ora a registrare come il congelamento animale, o dissociazione, possa rappresentare una forma di difesa estrema di fronte a un pericolo gravissimo. Lo stile di conoscenza associato all'attaccamento D è quello che abbiamo definito ostile: il soggetto ripropone le sue costruzioni sociali che si sono dimostrate fallimentari, ignorando o sopraffacendo l' altro che è la fonte delle invalidazioni. L'altro perde ogni suo potere invalidante perché passa dal ruolo di interlocutore a quello di nemico: è ignorato o manipolato, come se si trattasse di una cosa inanimata, assoggettata ai bisogni dell'unico soggetto esistente che deve imporre a tutti i costi la propria verità. Quanto alla classificazione delle relazioni secondo il tipo di regolazione, come propongono Sameroff ed Emde (1991), l'attaccamento D sembra manifestare una "regolazione inappropriata". La regolazione inappropriata è un modello di regolazione deviante, che non si può classificare come un eccesso o una carenza di regolazione. I tempi di risposta possono non essere in sincronia con i segnali elicitanti. Oppure il bambino può essere oggetto di controlli inappropriati per la sua età o per il suo stadio evolutivo. La regolazione inappropriata produce interazioni negative ed esiti disforici. (Sameroff, Emde, 1991) Le parole che gli autori utilizzano non sono chiarissime per la difficoltà implicita nella descrizione stessa dell'attaccamento D; la stes104

Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

sa difficoltà per cui questo pattern non era stato inizialmente riconosciuto come autonomo, e che aumenta se si insiste a considerarlo un comportamento con gli stessi scopi dell'attaccamento, invece di cambiare radicalmente prospettiva. La regolazione inappropriata non è né troppa né poca, né costante, imprevedibile o caotica: è qualcosa di diverso, che si caratterizza soprattutto nel produrre interazioni negative. Il mio dolore ti spaventerà Gianni aveva ventidue anni quando fu segnalato al dipartimento di salute mentale dal carcere in cui stava scontando una pena di sei mesi per reati contro la proprietà. Il quadro clinico si delineava con un disturbo borderline di personalità, con forti componenti di asocialità. A quindici anni era fuggito di casa per andare a vivere con un transessuale, poi morto di overdose; si prostituiva sia con uomini che con donne per ricavare il denaro per le sostanze più svariate che consumava smodatamente, come l'alcol, ma di cui riusciva a fare a meno non essendo un vero tossicodipendente. Presentava intense crisi di ansia e per due volte, nella sua breve vita, aveva avuto episodi maniacali, con deliri di grandezza e onnipotenza congrui al tono dell'umore. Viveva con un padre alcolista e la madre completamente succube di una setta religiosa. La sensazione netta che si riceveva stando con la sua famiglia, nelle visite domiciliari, era che nessuno ascoltasse l'altro. Sembrava quasi che il fatto che uno cominciasse a parlare attivasse la loquacità degli altri: parlavano sempre tutti insieme, alzando il tono della voce e contrastando con veemenza le opinioni degli altri, senza peraltro ascoltarli. Gianni era il secondogenito; la sorella, di dodici anni più grande, era morta per un tumore al cervello mentre la madre era incinta di Gianni. A seguito di questo lutto il padre aveva cominciato a bere, e la madre era stata ricoverata in una casa di cura per alcuni mesi quando Gianni aveva un anno e mezzo. Il padre emigrò in Germania e la madre lo raggiunse con Gianni circa un anno dopo quando, anche per l'assenza del marito, stava per ricadere in una crisi depressiva. Tornarono in Italia tutti insieme perché ammalati di tubercolosi, e furono ricoverati in un sanatorio.

CONCLUSIONE Concludiamo rappresentando in uno schema (figura 3.5) a livelli concentrici alcune idee esposte in questo capitolo. 105

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Pattern di attaccamento Ricerca attiva - - - - - - - S t i l e cognitivo--------Evitamento Strategia privilegiata

Fidarsi

------

Controllarla e aggrapparsi

1

Regolazione _______ Irregolare della relazione o caotica

Appropriata

Protettrice Figura di Protettrice accessibile - attaccamento - imprevedibile i

Amabile - Sé -- Incerto

1

Non amabile---? Protettiva inaccessibile----- --

Minacciosa

Iporegolata o iperregolata - - - - - - - - - - Inappropriata Farne a meno

I

Combatterla - - - - - - - - - - - - - e difendersi

Immunizzazione--------------------

Ostilità

A ----------

B

Figura 3.5 Sintesi del rapporto tra pattern di attaccamento e stili di conoscenza.

Nel cerchio centrale poniamo il modello della figura di attaccamento, che sarà per B protettrice e accessibile, per A protettrice e inaccessibile, per C protettrice e imprevedibile, per D minacciosa. Nel secondo cerchio rappresentiamo il tipo di regolazione della relazione, che sarà per B appropriato, per A iporegolato o iperregolato, per C irregolare o caotico, per D inappropriato. Nel terzo cerchio poniamo la strategia del piccolo nel suo porsi con la figura di attaccamento: B si fida, A ne fa a meno, C la controlla e si aggrappa, D la combatte con l'attacco, la fuga o il congelamento. Nel cerchio più esterno facciamo infine risiedere gli stili cognitivi, ovvero il modo preferenziale di gestire le invalidazioni, che sarà per B quello della ricerca attiva, per A il ritiro autarchico nell'immunizzazione, per C il restringimento del campo esplorativo per evitare le novità, per D l'ostilità che tratta l'interlocutore non come un partner ma come un oggetto su cui imporsi. Ripercorrendo lo schema lungo i quattro assi che rappresentano i quattro pattern di attaccamento avremo: 106

Pattern di attaccamento e stili di conoscenza

- l'attaccamento sicuro caratterizzato da una figura di attaccamento percepita come protettrice e accessibile all'interno di una relazione regolata in modo appropriato; il piccolo può fidarsene e ciò lo spinge a sentirsi sicuro e a esplorare attivamente il mondo alla ricerca di novità che rendano sempre più complessa la mappa di sé e dell' ambiente che va via via costruendo; - l'attaccamento insicuro-evitante che vede la figura di attaccamento inaccessibile all'interno di una relazione che, perché iporegolata o iperregolata, non consente un effettivo scambio comunicativo. Il piccolo si abitua a contare su di sé e anche a livello cognitivo si chiude in un egocentrismo e in un'autarchia di significati che lo immunizzano da qualsiasi invalidazione proveniente dall'esterno; - l'attaccamento insicuro-ambivalente o resistente che nasce nell' ambito di una relazione irregolare o caotica, in cui la figura di attaccamento è percepita come difficilmente accessibile e imprevedibile; il piccolo tenta di mantenere con lei una vicinanza strettissima, rinunciando a qualsiasi movimento esplorativo autonomo. Lo stile cognitivo sarà improntato al restringimento del campo esplorativo nel tentativo di evitare ogni invalidazione; - l'attaccamento disorganizzato-disorientato che nasce da una relazione regolata in modo inappropriato, in cui la figura di attaccamento non è più l'adulto protettivo che geneticamente ci si aspettava, ma una figura pericolosa da cui difendersi con la fuga, o attaccando, o congelandosi. Lo stile cognitivo ha caratteristiche simili a quelle che troviamo nell'emozione di ostilità in senso kelliano.

107

IV

ATTACCAMENTO, CONOSCENZA E PERSONALITÀ

LA PERSONALITÀ

Il volgere del tempo e il susseguirsi di tante teorie e scuole hanno assegnato al termine "personalità" sensi così diversi da renderne impossibile una definizione precisa e utilizzabile strictu sensu; per lo più, personalità significa l'essenza stessa degli aspetti psicologici dell'individuo. Gli studiosi attribuiscono alla parola significati che seguono le linee interpretative e analitiche cui ciascuno appartiene; per alcuni la personalità è un modo caratteristico di reagire agli stimoli, per altri è lo stile con cui si affronta la realtà, per altri ancora un modo di essere nel mondo; per tutti essa riguarda le profondità caratteristiche della persona. Secondo il DSM-III-R: "i tratti di personalità sono modi costanti di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell'ambiente e di se stessi, che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali e personali importanti"; la personalità è, in sintesi, quanto c'è di costante e caratteristico nel modo proprio del soggetto di costruire la realtà. La definizione del DSM-III-R è molto attenta agli aspetti cognitivi, e proprio per questo motivo costituisce un utile fondamento all'ipotesi teorica di un legame tra pattern di attaccamento e stile di conoscenza che si estenda al tipo di personalità; in altre parole, a un certo pattern di attaccamento corrisponde secondo noi un determinato stile cognitivo e quindi una specifica organizzazione di personalità. Gli innumerevoli tentativi di mettere in stretta correlazione un certo pattern di attaccamento con una specifica sindrome clinica, nel senso che lo stesso pattern di attaccamento può dare origine a patologie diverse, e viceversa la stessa patologia può manifestarsi in soggetti con pattern 109

R. Lorenzini S. Sassaroli

di attaccamento diversi, si sono dimostrati finora inutili. Lo stesso vale per i cosiddetti disturbi di personalità e le sindromi cliniche: non esiste una corrispondenza diretta. È invece certamente possibile che l'attaccamento determini "il modo di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell'ambiente e di se stessi", vale a dire la personalità e lo stile cognitivo; ma, per lo sviluppo di una specifica patologia, devono intervenire altri fattori. Andremo quindi a ricercare e verificare l' esistenza di una corrispondenza o meno tra stili cognitivi e tipi di personalità, partendo dall'esame dei disturbi di personalità, ossia dalle forme più estreme. Anche gli stili cognitivi, così come li abbiamo descritti, costituiscono delle forme estreme, visto il particolare meccanismo di gestione delle invalidazioni; tuttavia, per la sua importanza e la sua complessa classificazione, il concetto di disturbo di personalità merita delle precisazioni.

I DISTURBI DI PERSONALITÀ

Quale rapporto connette i disturbi di personalità con la patologia psichiatrica? Alcuni rispondono che non si tratta di patologie ma semplicemente di variazioni quantitative tra normalità e patologia; altri invece considerano i disturbi di personalità vere e proprie forme patologiche. Tra i sostenitori di questa seconda tesi si scontrano due tendenze opposte: chi intende i disturbi di personalità come un fattore predisponente o una forma lieve e subclinica di una specifica patologia maggiore (il disturbo di personalità ossessivo compulsivo sarebbe allora una forma attenuata di nevrosi ossessiva, destinata comunque a evolvere verso la forma clinica in caso di peggioramento, e lo stesso rapporto correrebbe fra il disturbo schizoide o schizotipico e la schizofrenia), e chi considera i disturbi di personalità una patologia a sé stante che, pur giocando un importante ruolo patoplastico e nella prognosi dei disturbi maggiori, non concorre a determinarli (un disturbo borderline di personalità può quindi coesistere con una depressione, modificandone le modalità espressive e il decorso, ma resta del tutto "altra cosa"). Il DSM-III-R, e poi il DSM-IV, in accordo al suo impegnativo e importante tentativo di ateoreticità, non prende posizione in merito, limitandosi a sostenere che si può parlare di disturbi di personalità quando "i tratti di personalità sono rigidi e non adattivi e causano quindi una significativa compromissione del funzionamento sociale e lavora110

Attaccamento, conoscenza e personalità

tivo, oppure una sofferenza soggettiva". Si parla di disturbo quando qualcuno soffre, sia egli il soggetto stesso o siano gli altri, e la causa di questa disadattività risiede nella "rigidità" dei tratti di personalità. Facciamo allora un passo avanti: ricordando la definizione di personalità del DSM-III-R si può arrivare a dire che la caratteristica del disturbo di personalità è la rigidità del modo di percepire, rapportarsi e pensare nei confronti dell'ambiente e di se stessi; essenza del disturbo di personalità non è tanto il modo di costruire la realtà, quanto la sua immodificabilità. Come spesso accade, l'essenza della patologia si riduce proprio al concetto di coazione, di riduzione dei gradi di libertà e, in definitiva, di povertà. Lo stesso concetto ricorreva nella definizione degli stili cognitivi: evitare un'invalidazione, immunizzarne gli effetti, o reagire con ostilità, sono possibili e anche utili strategie a disposizione di un sistema cognitivo: quando una di queste modalità di reazione diventa assolutamente prevalente o esclusiva si parla allora di stile cognitivo deviante dalla modalità esplorativa, più utile. L'ICD-10 (International Classification of Desease), di recente pubblicazione, si muove sulla stessa linea del DSM-III-R: i disturbi di personalità sono definiti come [.. .] condizioni e modalità di comportamento di significato clinico, che tendono a essere persistenti, e sono l'espressione di uno stile di vita e di un modo di porsi in relazione a sé e agli altri caratteristico dell'individuo [ ... ]. Alcune di queste condizioni e modalità di comportamento emergono precocemente nel corso dello sviluppo dell'individuo, come risultato sia di fattori costituzionali che di esperienze sociali, mentre altre vengono acquisite più tardi nel corso della vita [. .. ]. Queste condizioni comprendono modalità di comportamento profondamente radicate e durature, che si manifestano come risposta costante a una vasta gamma di situazioni personali e sociali. Esse rappresentano deviazioni estreme o significative dal modo in cui l'individuo medio in una data cultura percepisce, pensa, sente, e, in particolare, si pone in relazione con gli altri [ .. .]. Tali modalità comportamentali tendono a essere stabili, e a estendersi a molteplici sfere di comportamento e di funzionamento psicologico. Esse sono frequentemente, ma non sempre, associate a vari livelli di sofferenza soggettiva e con problemi nel funzionamento e nelle prestazioni sociali.

Perché si possa diagnosticare un disturbo di personalità, anche l'ICD10, come il DSM-III-R, cita come decisiva la stabilità e quindi la non episodicità delle manifestazioni: si tratta di un fatto profondamente radi111

R. Lorenzini S. Sassaroli

Tabella 4.1 Corrispondenza tra la classificazione dei disturbi di personalità del DSMIII-R e dell'ICD-10 DSM·IIl·R

ICD-10

Paranoide Schizoide Schizotipico Ossessivo Evitante Dipendente Narcisistico Borderline Antisociale Istrionico

Paranoide Schizoide Anancastico Ansioso di evitamento Dipendente Emotivo, instabile, tipo impulsivo Emotivo, instabile, tipo borderline Antisociale Istrionico

cato nell'individuo, non qualcosa di "altro da sé", ma che investe l'essenza stessa del proprio modo di essere. I due sistemi classificativi sono poi sostanzialmente d'accordo sulla classificazione dei disturbi di personalità: qui l'elenco del DSM-III-R è praticamente sovrapponibile a quello dell'ICD-10 (vedi tabella 4.1).

PERSONALITÀ E CONOSCENZA

D'ora in avanti faremo dunque riferimento al DSM-IV che, sulla base di osservazioni cliniche, raccoglie i dieci disturbi di personalità in cosiddetti cluster (gruppi), secondo criteri descrittivi di somiglianza. I dieci disturbi sono raggruppati in tre famiglie, ciascuna delle quali presenta caratteristiche tipiche e comuni a tutti i disturbi a essa appartenenti. La nostra ipotesi utilizza la divisione in tre famiglie dei disturbi di personalità per sottolineare come esse corrispondano esattamente ai tre stili di conoscenza descritti nel terzo capitolo, e dunque ai tre pattern di attaccamento non sicuri (A, C, D).Ciò che è specifico di ogni cluster e accomuna i disturbi di personalità che vi fanno capo è proprio lo stile di conoscenza: ogni cluster sarà caratterizzato da uno specifico stile di gestione delle invalidazioni (evitamento, immunizzazione, ostilità), mentre all'interno di ciascun cluster i vari disturbi di personalità si differenzieranno per l'importanza attribuita al sé e all'altro nella fase di generazione delle alternative nel processo di crescita della conoscenza. Si po112

Attaccamento, conoscenza e personalità

trebbe obiettare immediatamente circa l'assenza di corrispondenza dello stile cognitivo "ricerca attiva, esplorazione", e quindi dell'attaccamento sicuro, con particolari assetti di personalità. La corrispondenza c'è, e va riconosciuta nell'assenza di disturbi: un sistema in grado di esplorare è libero di utilizzare vari modi di gestione delle invalidazioni a seconda delle circostanze, senza perciò essere costretto ad avvalersi comunque o in modo preponderante dello stesso; a un simile comportamento corrisponderà dunque una personalità priva di quei tratti "rigidi e disadattivi" che costituiscono l'essenza del disturbo. La corrispondenza che identifichiamo è indicata nella tabella 4.2. Tabella 4.2 Corrispondenze tra attaccamento, stile di conoscenza e disturbi di personalità A. A. A. A.

Sicuro - Stile cognitivo ricerca attiva - Assenza di DDP Insicuro-evitante - Stile cognitivo immunizzazione - Odd-eccentric cluster Insicuro-resistente - Stile cognitivo evitamento -Anxious-fearful cluster Disorganizzato - Stile cognitivo ostilità - Dramatic-emotional cluster

L' odd-eccentric cluster è caratterizzato dal comportamento eccentrico e bizzarro, e include il disturbo paranoide, schizoide e schizotipico. L' anxiousjear/ul cluster è composto dal disturbo di evitamento, dipendente e compulsivo e comprende l'ansia, l'evitamento e l'insicurezza. Infine il dramatic cluster si specifica per comportamenti imprevedibili, impulsivi e traumatici e comprende il disturbo istrionico, narcisistico, antisociale e borderline. A nostro avviso è utile riferire a questi tre grandi gruppi anche una serie di disturbi a esordio nell'infanzia e nell'adolescenza, che il DSMIII-R prima, e poi, in parte, il DSM-IV descrivono separatamente, e che invece possono facilmente essere visti come precursori dei successivi disturbi di personalità. Riportiamo uno schema in cui sono evidenziate le corrispondenze a nostro avviso presenti tra i disturbi a esordio nell'infanzia e nell'adolescenza e i disturbi di personalità (tabella 4.3). Le corrispondenze segnalate nella tabella si riferiscono alla classificazione del DSM-III-R, mentre nel DSM-IV (più recente) non compaiono più il disturbo di evitamento della fanciullezza e dell'adolescenza, il disturbo iperansioso e il disturbo dell'identità. Le problematiche cliniche sono evidentemente meno mutevoli delle loro classificazioni, ma questo non inficia il discorso di carattere generale che qui vogliamo affrontare per andare alla ricerca di corrispondenze tra pattern di attac113

R. Lorenzini S. Sassaroli Tabella 4.3 Corrispondenze tra alcuni disturbi ad esordio nell'infanzia e nell'adolescenza e disturbi di personalità (è stata usata la classificazione DSM-III-R) Disturbi ad esordio nell'infanzia, nella fanciullezza e nell'adolescenza

Disturbi di personalità

D'ansia di separazione - - - - - - - - - - 1 - Dipendente Di evitamento nella fanciullezza e nell'adolescenza

------►►

Evitante

Iperansioso - - - - - - - - - - - - - - Ossessivo Odd-eccentric cluster Reattivo dell'attaccamento ---------1-Paranoide dell'infanzia Autistico --------------► Schizoide Schizotipico Dramatic-emotional cluster Della condotta -------------Antisociale Oppositivo-provocatorio - - - - - - - - - - - Borderline Dell'identità

camento, stili di conoscenza e personalità. Non ci resta ora che analizzare più da vicino i vari cluster: al termine della descrizione di ogni disturbo di personalità sono elencate alcune convinzioni a esso tipicamente associate secondo Beck e Freeman (1990). Odd-eccentric cluster

Raggruppa il disturbo paranoide, lo schizoide e lo schizotipico; caratteristiche comuni di tutto il gruppo sono la "stranezza" e l"'eccentricità", associate a una marcata indifferenza per le relazioni sociali. Il centro dell'esperienza dell' odd-eccentric cluster sembra essere la perdita di consensualità con gli altri, che produce a un tempo l'indifferenza e la stranezza. I mondi del soggetto e dell'altro non si incontrano: il primo prova per l'altro un'assoluta indifferenza, che sigilla una distanza incolmabile; il secondo vede il primo come un "essere strano", distante, alieno, inspiegabile, per dirla conJasper "incomprensibile". Il tema costante è quello della distanza cui bisogna arrendersi rinunciando a qualsiasi esperienza di condivisione e fidando solo sulle proprie coordinate. La 114

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corrispondenza con lo stile cognitivo dell'immunizzazione è evidente: anche qui l'altro viene ignorato e deprivato di ogni potere invalidante; ulteriore corrispondenza si registra con l'attaccamento evitante, in cui si sperimenta una figura di attaccamento distante, incapace di un vero dialogo perché assente o invasiva. Tratto comune dei disturbi di personalità di questo gruppo è l'esperienza di distanza incolmabile con la figura di attaccamento prima e con qualsiasi interlocutore poi, tipica del pattern evitante e dello stile cognitivo dell'immunizzazione. Il disturbo paranoide di personalità è caratterizzato dalla tendenza pervasiva e immotivata a interpretare il comportamento delle persone come deliberatamente umiliante o minaccioso nei confronti del soggetto. L'altro è considerato ostile in maniera precostituita e non gli viene lasciata nessuna possibilità di dimostrare il contrario. Qualsiasi gesto amichevole, di solidarietà o di comprensione è reinterpretato nella stessa ottica pervasiva e immutabile. Ciò che sembra interessante da un punto di vista cognitivo non è tanto l'ostilità, quanto la negazione all'altro di ogni possibilità di smentire le previsioni, che restano immuni da qualsiasi confutazione, e si autoconfermano in un universo di significati che non chiede alcuna verifica esterna, bastando a se stesso in un'assoluta autarchia. In questo mondo autarchico l'altro è tuttavia estremamente importante; l'attenzione è esasperatamente concentrata su di lui, e il soggetto non prova indifferenza ma rabbia per una vicinanza alternativamente negata, attesa, delusa (vedi tabella 4.4 ). Tabella 4.4 Convinzioni tipiche del disturbo paranoide di personalità (Beck, Freeman, 1980) Non posso fidarmi degli altri Gli altri hanno motivi nascosti Gli altri tenteranno di usarmi e di manipolarmi se non sto attento Devo stare in guardia in tutte le circostanze Non è prudente fidarsi degli altri Se la gente agisce amichevolmente, può darsi che stia provando a usarmi e sfruttarmi Se ne do l'opportunità la gente si avvantaggerà nei miei confronti Nella maggior parte delle occasioni gli altri sono ostili Gli altri tenteranno volontariamente di degradarmi Spesso la gente vuole volontariamente disturbarmi Sarò nei guai seri se permetto agli altri di pensare di potermi maltrattare e farla franca Se gli altri scoprono qualcosa di me lo useranno contro di me La gente spesso dice una cosa e ne ha in mente un'altra Una persona cui sono legato potrebbe essere sleale e infedele

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Il disturbo schizoide di personalità si esprime con una marcata indifferenza per le relazioni sociali e un impoverimento delle esperienze ed espressioni emotive (vedi tabella 4.5). I soggetti con questo disturbo non provano piacere ad avere relazioni strette, tendono ad attività solitarie, non si interessano ai giudizi altrui, non ricercano esperienze sessuali e sembrano non provare né mostrare emozioni, soprattutto quelle legate alle relazioni interpersonali. I tratti distintivi sono il ritiro, l'isolamento, la mancanza di coinvolgimento. Fare a meno dell'altro sembra essere la filosofia di vita di questi soggetti, che pure possono raggiungere notevoli livelli di adattamento e anche successi esistenziali. L' autarchia cognitiva è analoga a quella dei soggetti con disturbo paranoide, mal' altro perde ogni importanza: la rabbia o il timore dei paranoidi sono sostituiti dall'indifferenza. Bowlby aveva identificato in situazioni di grave deprivazione il motivo di un'inibizione del comportamento di attaccamento che poteva poi condurre a quadri di tipo schizoide. Dal nostro punto di vista ciò che appare significativo è, di nuovo, l'impossibilità di un ruolo incisivo dell'altro, la sua totale estraneità: in definitiva, la sua incolmabile distanza. Come il paranoide, anche lo schizoide vive in un mondo tutto suo, su cui l'altro non ha alcun potere perturbativo. Probabilmente, pur rimanendo entrambi nell'ambito dell' attaccamento evitante, nell'uno prevalgono esperienze di rifiuto, mentre nell'altro vincono esperienze di invasione: le due modalità con cui può non instaurarsi la comunicazione. Tabella 4.5 man, 1990)

Convinzioni tipiche del disturbo schizoide di personalità (Beck, Free-

Non ha importanza ciò che la gente pensa di me Per me è importante essere libero e indipendente dagli altri Provo più piacere nel fare le cose da solo che con l'altra gente In molte situazioni sto meglio se mi lasciano solo Non sono influenzato dagli altri quando decido di fare qualcosa Le relazioni intime con le altre persone non sono importanti per me Sono io a stabilire le norme e gli obiettivi per me stesso La mia vita privata è molto più importante per me dei rapporti stretti con la gente Posso gestirmi le situazioni senza l'aiuto di nessuno È meglio stare da solo che sentirsi "nei guai" con altra gente Non dovrei fidarmi degli altri Posso usare le altre persone per i miei scopi fino a che non vengo coinvolto Le relazioni sono confuse e interferiscono con la libertà

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Nel disturbo schizotipico di personalità all'indifferenza per le relazioni sociali, già presente nel disturbo schizoide, si aggiunge la bizzarria nello stile di pensiero: il pensiero magico, le idee di riferimento, le illusioni, un modo di parlare e di comportarsi strano ed eccentrico, la sospettosità e le idee paranoidi. Il disturbo schizotipico sembra porsi in diretta continuità con il disturbo schizoide, di cui appare come una forma più grave. La separazione del mondo del soggetto dal mondo degli altri non si evidenzia solo con il distacco e l'indifferenza, ma con la creazione di una realtà separata, autarchica e privata che agli altri appare bizzarra e sconcertante. Fin qui i disturbi di personalità dell'odd-eccentric cluster, accennati per sommi capi e senza entrare nelle dispute nosografiche e psicopatologiche che questa classificazione ha riacceso. L'interesse di questa breve descrizione era sottolineare una modalità comune nel modo di pensare, caratterizzata dalla non consensualità con il mondo di significati degli altri e dall'autarchia. Su questa linea si pongono a nostro avviso due altri disturbi che si manifestano nell'infanzia o nella fanciullezza. Il disturbo autistico, che esordisce generalmente prima dei tre anni con chiusura e disinteresse verso il mondo e marcata preferenza per gli oggetti inanimati, uniti a un'esplicita avversione per i contatti con le persone, si caratterizza per una sintomatologia in tre aree: - menomazione qualitativa dell'interazione sociale reciproca, con totale disinvestimento dalle figure genitoriali, indifferenza e interruzione di ogni comunicazione tanto da far sospettare talvolta dei deficit sensoriali; più avanti, una marcata incapacità di stabilire relazioni con altri membri della famiglia e con i coetanei. Da un punto di vista cognitivo il bambino sembra incapace di percepire l'emotività degli altri e di assumere il loro punto di vista. È distaccato e tende a farsi compagnia da solo; - menomazione della comunicazione e dell'attività immaginativa con grave compromissione dello sviluppo del linguaggio, del tutto assente e non comunicativo come se si trattasse di un codice personale inafferrabile agli altri, il cui scopo non è comunicare. Anche la comunicazione mimica e gestuale, così come tutto il non verbale, risultano inefficaci e incapaci di costituirsi veicolo di contenuto verso l'esterno. Altrettanto danneggiati appaiono il pensiero simbolico e l'attività fantastica; - marcata restrizione del repertorio di attività e interessi con stereotipie motorie e verbali caratteristiche, forte disagio a qualsiasi cambiamento dell'ambiente o della routine quotidiana e poche ripetute attività. 117

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Tutto il quadro dell'autismo è centrato sul tema del distacco, del1' autarchia cognitiva e della impossibilità di comunicare. Il piccolo è in un mondo tutto suo, distante e impenetrabile agli altri. Il disturbo reattivo dell'attaccamento dell'infanzia o della prima adolescenza si manifesta con una grave compromissione della capacità di stabilire legami affettivi e sociali dovuta a un'evidente deprivazione dell'accudimento. Il piccolo, sperimentate per i motivi più diversi dure situazioni di abbandono nei primi cinque anni di vita, si ritira da ogni legame affettivo, appare poco reattivo e incapace di mettersi in relazione con gli altri, con gli strumenti verbali e con la comunicazione emotiva, costantemente inerte e apatico. Anche qui, come per l' autismo, il bambino si ritira in un universo privato, con l'unica differenza che in questo caso è più evidente il motivo della fuga: una assoluta, drammatica mancanza della figura di attaccamento, che rappresenta l'interlocutore privilegiato con cui iniziare l'avventura del legame e della condivisione dei significati. I cinque quadri clinici cui abbiamo brevemente accennato costituiscono dunque la manifestazione più estrema di un particolare modo di conoscere il mondo - e di entrarvi in relazione - che consiste essenzialmente nel ritiro autarchico nei propri schemi di significato, precludendone l'accesso agli altri (stile conoscitivo dell'immunizzazione). Anxious-/ear/ul cluster

I disturbi di personalità raggruppati in questo cluster sono il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo evitante e quello dipendente. Le caratteristiche che li accomunano sono la presenza di ansia e la tendenza ad arginarla con l' evitamento. L'ansia, nella tradizionale definizione kelliana, si produce quando il sistema è consapevole di essere sul punto di affrontare eventi poco conosciuti, imprevedibili e dunque minacciosi. Lo stile di conoscenza caratteristico di questo cluster è quello che abbiamo definito evitante, caratterizzato dal progressivo restringimento del campo esplorativo per sottrarsi all'incontro con le novità e quindi con le possibili invalidazioni. Nei capitoli precedenti abbiamo concluso che questo stile si sviluppa all'interno di una relazione di attaccamento con una figura imprevedibile e che il restringimento appare come un tentativo di ridurre l'aleatorietà del rapporto. Imprevedibilità-ansia-evitamento è la sequenza sperimentata precocemente nella relazione di attaccamento che diventa modello co118

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gnitivo, e che, portata agli estremi, si trova alla base di tutti i disturbi di personalità di questo cluster. Il disturbo di evitamento è caratterizzato da una modalità pervasiva di disagio sociale, di timore di un giudizio negativo e di timidezza (vedi tabella 4.6). Il soggetto risente, soffrendo moltissimo, della critica e della disapprovazione altrui, non ha amici stretti, è riluttante a entrare in relazione con gli altri a meno che non sia certo di essere accettato; teme costantemente di fare una brutta figura e di mostrarsi inadeguato o imbarazzato, per cui ogni situazione sociale è per lui un evento stressante. La differenza con il disturbo schizoide sta nel fatto che in questo caso il , distacco e l'isolamento non sono dovuti a disinteresse e a indifferenza nei confronti degli altri ma esattamente alla ragione opposta: il soggetto fugge le relazioni sociali per un timore della disapprovazione direttamente proporzionale al suo enorme bisogno di consenso. L'altro è molto importante come validatore della propria identità e ciò lo trasforma in un giudice pericolosissimo da fuggire, rimandando costantemente quello che è sperimentato come un esame su di sé. In questo particolare Tabella 4.6 Convinzioni tipiche del disturbo di evitamento (Beck, Freeman, 1990) Sono incapace e indesiderabile nell'ambiente di lavoro e in altre situazioni sociali Gli altri mi rifiutano: nei miei riguardi sono critici, indifferenti, svalutanti Non posso sopportare sentimenti spiacevoli Se la gente avesse modo di conoscermi da vicino scoprirebbe chi sono realmente e mi respingerebbe Essere smascherato come inferiore o inadeguato è insopportabile Dovrei evitare situazioni spiacevoli a ogni costo Se io sento o penso qualcosa di spiacevole devo distrarmi, per esempio pensando a qualcosa di diverso, bevendo un drink, prendendo uno psicofarmaco, o guardando la televisione Dovrei evitare situazioni in cui sono al centro dell'attenzione, o passare più inosservato possibile I sentimenti spiacevoli si intensificheranno fino a uscire dal mio controllo Se gli altri mi criticano vuol dire che ci sono buone ragioni

È meglio non fare nulla piuttosto che qualcosa che può fallire Se non penso a un problema non devo fare alcunché al riguardo Qualunque segno di tensione in una relazione significa che la relazione è andata a finire male; pertanto dovrei interromperla Se ignoro il problema, questo poi se ne andrà

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disturbo dell'anxious fearful cluster la paura è riferita alla possibile critica da parte degli altri e la contromisura consiste nell' evitamento delle situazioni sociali. Il disturbo dipendente è caratterizzato da un comportamento dipendente e sottomesso, come quello di un bambino piccolo nei confronti del genitore, ed è riferibile a soggetti che mancano di fiducia in se stessi e sono incapaci di prendere decisioni autonome, avvertendo la realtà come troppo impegnativa per le proprie capacità (vedi tabella 4.7). Così, quando si trovano da soli, vivono nell'attesa apprensiva che avvenga qualcosa di catastrofico, e ritengono di avere costante bisogno di qualcuno che li protegga, li guidi, li sostenga. Il comportamento interpersonale è orientato alla generosità, al compiacimento, all'esasperata accondiscendenza, fino a mettere da parte ogni sentimento di orgoglio, e anche fino a fare cose spiacevoli, degradanti e umilianti, essendo finalizzato proprio alla conquista e al mantenimento di una salda protezione da parte degli altri, percepiti come una stampella senza la quale è impossibile vivere. Nel disturbo dipendente la paura è riferita alla possibile solitudine e la contromisura consiste nell' evitamento • di qualsiasi contrasto con gli altri. Inutile sottolineare come anche in questo caso, allo stesso modo Tabella 4.7 Convinzioni tipiche del disturbo dipendente (Beck, Freeman, 1990) Sono debole e bisognoso Ho bisogno di qualcuno vicino a me, sempre disponibile ad aiutarmi ad affrontare ciò che devo fare, o in caso si verifichi qualcosa di brutto Chi mi aiuta può essere protettivo, di supporto e fiducioso se vuole esserlo

Io sono impotente se sono lasciato solo Sono sostanzialmente solo se non posso aggrapparmi a qualcuno più forte La peggiore delle cose che può accadermi è essere abbandonato Se non sono amato sarò sempre infelice Non devo fare nulla che possa offendere chi mi aiuta o mi è di supporto Devo essere sottomesso per assicurarmi la benevolenza Devo assicurarmi la possibilità di rivolgermi a qualcuno in ogni occasione Dovrei coltivare una relazione e mantenerla intima il più possibile Non posso prendere decisioni da solo Non posso fronteggiare le situazioni come fa l'altra gente Ho bisogno degli altri che mi aiutino a prendere delle decisioni e mi dicano che cosa devo fare

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del disturbo evitante, l'altro rivesta un ruolo centrale, non tanto come validatore di un'identità ormai accettata come debole e incapace, quanto come vero e proprio protettore dal rischio. Il disturbo ossessivo compulsivo di personalità è caratterizzato da esasperata ricerca di perfezionismo e rigida inflessibilità (vedi tabella 4.8). Le persone che soffrono di questa patologia sono particolarmente attente ai dettagli, alle regole, agli elenchi, all'ordine, all'organizzazione schematica fino al punto di perdere di vista gli scopi generali del loro operare. Cercano in tutti i modi di essere perfette lavorando indefessamente e rinunciando agli svaghi, sforzandosi in ogni situazione di fare la cosa migliore, e con ciò finendo spesso per non combinare nulla, attanagliate dal dubbio su ciò che sia più opportuno; si mostrano inoltre esageratamente coscienziose, scrupolose e inflessibili in campo etico e morale. La loro affettività è fortemente coartata, non mostrano slanci, né generosità nei confronti degli altri che invece vorrebbero costringere a fare le cose come vogliono loro, ritenendolo l'unico modo giusto di fare le cose. La rigidità si esprime anche con la ristrettezza degli interessi: si limitano a occuparsi di poche cose in modo molto specialistico con la speranza di riuscire a farlo in maniera perfetta: la strategia del restringimento è dunque al servizio della ricerca della perfezione. Tabella 4.8 Convinzioni tipiche del disturbo ossessivo compulsivo (Beck, Freeman, 1990)

Sono pienamente responsabile di me stesso e degli altri Devo contare su me stesso per vedere che le cose vengano fatte Gli altri tendono a essere faciloni, spesso irresponsabili, indulgenti con se stessi, incompetenti

È importante fare un lavoro perfetto ogni qualvolta venga fatto Ho bisogno di ordine, metodi e regole per fare in modo che un lavoro risulti ben fatto Se non ho metodo tutto andrà a finire male Ogni imperfezione o difetto in ciò che si fa può condurre a una catastrofe

È necessario puntare sempre ai livelli più alti, o le cose finiranno male Ho bisogno di avere il pieno controllo delle mie emozioni La gente dovrebbe fare le cose a modo mio Se non ottengo prestazioni al massimo livello fallirò Le imperfezioni, i difetti, gli errori sono intollerabili I dettagli sono estremamente importanti Il mio modo di fare le cose è generalmente quello migliore

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//! Nel disturbo ossessivo compulsivo la paura è quella del giudizio, 1'non soltanto degli altri ma soprattutto di se stessi, e la contromisura consiste nell'evitamento di ogni possibile critica, di ogni minima incrinatura, ricercando la perfezione assoluta. Ancora una volta il problema ruota intorno alla domanda "Chi sono io?", come per tutti i disturbi di questo cluster, in cui per un pregresso attaccamento insicuro-ambivalente il tema dell'amabilità è centrale e irrisolto; tuttavia, mentre nel disturbo evitante la risposta era attesa soprattutto dagli altri, nel disturbo ossessivo compulsivo è determinante anche il giudizio del soggetto su se stesso. Da qui l'eterna ansia che spinge incessantemente all'illusoria ricerca della perfezione, laddove i soggetti con disturbo evitante possono invece tranquillizzarsi se sono certi di non essere esposti al giudizio altrui. Tra i disturbi a esordio nell'infanzia e nella fanciullezza esistono quadri che corrispondono in modo evidente ai precedenti. Il terrore della solitudine e il disperato tentativo di evitarla descritti nel disturbo dipendente di personalità li ritroviamo tali e quali nel disturbo d'ansia da separazione: spesso si tratta di bambini che manifestano segni eccessivi di malessere alla separazione reale o attesa dai genitori, che non vogliono mai allontanarsi da loro, che evitano il più possibile di uscire con amici, andare in vacanza o a scuola. Abbandonarsi al sonno è per loro particolarmente difficile, specialmente senza che una persona stia al loro fianco; il sonno è spesso comunque disturbato da incubi, in cui vedono in pericolo il legame con le figure di riferimento. Quando poi questi bambini restano effettivamente senza i genitori diventano tristi e depressi, e si chiudono in se stessi rifiutando ogni consolazione. Le idee che sostengono tale disturbo sono analoghe a quelle presenti nel disturbo di personalità dipendente, con l'unica differenza che l' evitamento della solitudine è perseguito, data la diversità di età, con strategie diverse: il compiacimento dell'altro nel disturbo dipendente, la vicinanza fisica esasperata nel disturbo d'ansia da separazione. Il disturbo da evitamento della fanciullezza (non più presente nel DSM-IV) è caratterizzato da una grave paura dell'estraneo che si manifesta con intensi sintomi d'ansia al contatto con persone non familiari. Un simile rifiuto ostacola non poco i processi di socializzazione nel bambino, che si mostra impacciato quando è con gli altri e quindi finisce per evitare in ogni modo i contatti esterni, confinandosi negli ambienti familiari. Il DSM-III-R segnalava esplicitamente una corrispondenza fra tale disturbo e il disturbo evitante di personalità. La somi122

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glianza con il disturbo di personalità evitante è talmente evidente che non merita commento. Superficialmente meno netta appare invece la somiglianza tra il disturbo ossessivo di personalità e il disturbo iperansioso, (non più anch'esso presente nel DSM-IV), che si manifesta in bambini eccessivamente preoccupati di una vasta gamma di eventi e situazioni della vita quotidiana. Qualsiasi appuntamento, di svago o di impegno, crea loro uno stato di disagio e di tensione sproporzionata, costringendoli a richiedere continue (e mai sufficienti) rassicurazioni sull'evento in corso e sul proprio comportamento. Spesso compiono veri e propri rituali ossessivi, i bambini accusano disturbi fisici come mal di testa o mal di pancia che non hanno alcunché di obiettivo. Questi bambini sono costantemente preoccupati del giudizio degli altri e dunque molto obbedienti, attenti a fare tutto perfettamente, ritrosi nei confronti di esperienze nuove che potrebbero mostrare la loro inadeguatezza. La somiglianza con il disturbo ossessivo di personalità consiste proprio nel timore del giudizio su di sé e nella strategia di ricerca della perfezione in ambiti ristretti. Per concludere, i quattro disturbi di personalità dell'anxious-fearful cluster e i tre disturbi a esordio nell'infanzia che, a nostro avviso, vi corrispondono sono accomunati da una stessa strategia cognitiva: il timore dell'ignoto è risolto prendendone le distanze e rifugiandosi in aree conosciute e sempre più ristrette; la rinuncia all'esplorazione tuttavia amplia i confini dell'ignoto e quindi richiede un ricorso sempre più massiccio all'evitamento, producendo un circolo vizioso. Indipendentemente da quale sia l'oggetto temuto (perché sconosciuto), il modo scelto per affrontare la situazione è fuggirlo, con la conseguenza di conoscerlo sempre meno e temerlo sempre di più. Dramatic-emotional cluster

Fanno capo a questo gruppo il disturbo antisociale, il borderline, il narcisistico e l'istrionico. I corrispettivi quadri infantili sono, secondo noi, il disturbo della condotta e il disturbo oppositivo-provocatorio per il disturbo antisociale, e il disturbo di identità (non più presente nel DSM-IV) per il disturbo borderline. Lo stile di attaccamento che ipotizziamo sottostare a questi quadri di personalità è quello disorganizzatodisorientato, che sperimenta la figura di attaccamento come minacciosa. I pattern di attaccamento che costituiscono altrettante strategie adattive per raggiungere e mantenere comunque un certo grado di vici123

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nanza alla figura di attaccamento, più o meno facilmente accessibile e presente ma pur sempre "buona", diventano inapplicabili, si disorganizzano e si frammischiano ai modelli di comportamento utilizzabili in caso di pericolo: fuga, attacco, congelamento. Lo stile di gestione delle invalidazioni caratteristico di questo gruppo lo abbiamo definito "ostile" in senso kelliano, vale a dire che il soggetto continua a riproporre le sue costruzioni che si sono dimostrate fallimentari, imponendole agli altri trattati da oggetti da manipolare a proprio vantaggio e per i propri bisogni piuttosto che da interlocutori (Perris, 1994). 8 Il disturbo istrionico di personalità, che ha definitivamente abbandonato il vecchio .?ome diJ~~riç(), motivo di confusione e troppo legato al modello psiéoaruìTitico, compare per la prima volta nel DSM-III-R e confina strettamente con il disturbo borderline, tanto da confondersi spesso con esso (vedi tabella 4.9). La personalità istrionica ha uno stile di comportamento drammatico e altamente emotivo in ogni sua espressione, tanto da apparire affettata o teatrale. I rapporti interpersonali vengono a esseì-é'costintemerifè ·conffittùàli perché il soggetto cerca con essi di soddisfare il suo sconfinato egocentrismo, utilizzan-----·,_ __________ .,-,_.,..,,._ _

Tabella 4.9 man, 1990)

Convinzioni tipiche del disturbo istrionico di personalità (Beck, Free-

Sono una persona stimolante e interessante Per essere felice ho bisogno che gli altri mi prestino attenzione Se non sono capace di intrattenere o impressionare gli altri non valgo nulla Se non tengo gli altri legati a me, loro non mi apprezzeranno Il modo di ottenere ciò che voglio è abbagliare e divertire le persone Se la gente non reagisce molto positivamente alla mia persona, questa gente deve essere pessima

È terribile se la gente mi ignora Dovrei essere il centro dell'attenzione Non devo annoiarmi a pensare troppo alle cose, posso procedere fidandomi delle mie sensazioni istintive Se io so intrattenere o divertire gli altri, questi non si accorgeranno dei miei punti deboli Non posso sopportare la noia Se mi sento di fare qualcosa, devo andare avanti a farla La gente mi presterà attenzione solo se agisco in modi estremi I sentimenti e le intuizioni sono molto più importanti del ragionamento e della pianificazione

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do gli altri come strumenti del proprio bisogno di essere al centro dell'attenzione e quindi manipolando persone e situazioni. Finché il soggetto istrionico riceve consenso e ammirazione dall'ambiente va tutto bene; ma al venir meno del sorriso e dell'accoglienza sociale emergono alla superficie profondi sentimenti di inferiorità e inadeguatezza, accompagnati dal terrore di essere rifiutato. Si cercano allora rassicurazioni e apprezzamenti, in genere tentando di sedurre gli altri e, se non basta, minacciandoli o ricattandoli. •· · Mentre nel disturb~-1.strwnic~-~;i;t~~~-rnte~si vissuti di inadeguatezza e inferiorità che necessitano di un continuo compenso esterno, nel disturbo narcisistico di personalità c'è un §enso grandioso della propriiìmportanzaTunidi:~ ·(vedi tabella 4.10).·1rn·ostro..soggetto si sente-sp~e1ale~·s1·a-spètta &essere notato da tutti, crede che i suoi problemi siano particolari e possano essere compresi solo da altre persone speciali come lui; è costantemente assorbito da fantasie di successo illimitato, potere, fascino, bellezza, amore ideale; ha la sensazione che tutto gli sia dovuto e che non debba sottostare alle regole come tutti gli altri. Mentre l'istrionico vorrebbe illudersi di essere "straordinario", ma sa 'di non esserlo, il nardsist1co ne è ~ssolutàmente convinto, eèiò che· a~comuna i due è la manipolazione degÌi altri e della realtà per soddisfare a tutti i costi il proprio bisogno. Chi soffre di un diTabella 4.10 Convinzioni tipiche del disturbo narcisistico di personalità (Beck, Freeman, 1990)

Sono una persona veramente speciale Dato che sono speciale ho diritto a un trattamento particolare e a speciali privilegi Non devo essere vincolato dalle regole che si applicano alle altre persone È molto importante ricevere riconoscimento, premio e ammirazione Se gli altri non rispettano la mia posizione sociale devono essere puniti Gli altri dovrebbero soddisfare i miei bisogni Gli altri dovrebbero riconoscere che sono una persona speciale È intollerabile che non mi venga assicurato il dovuto rispetto, e che non ottenga ciò di cui ho pieno diritto Gli altri non meritano l'ammirazione o la ricchezza che ottengono La gente non ha il diritto di criticarmi Le necessità degli altri non dovrebbero interferire con le mie Dato che ho un talento così particolare, gli altri dovrebbero mettersi da parte per favorire la mia carriera Solo le persone brillanti come me possono capirmi Ho tutte le ragioni per aspettarmi grandi cose

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sturbo narcisistico è alla continua ricerca di attenzione e ammirazione. Reagisce alle critiche con sentimenti di rabbia, vergogna e umiliazione. Non prova degli altri, e non tiene ·-·------~- _,,,_alcuQil _,_ emEatia ---~..,~-.,.......nei confronti ....... .......... .---· in alcun conto 1 sentimenti altrui, che gli appaiono spesso del tutto incomprensibili o misteriosi. L'altro è idealizzato fino a che soddisfa il suo bisogno di gratificazione, per essere poi violentemente svalutato quando non svolge più questo ruolo. Qui sta lo specifico del nostro punto di vista: l'ostilità cognitiva consiste nell'imposizione del proprio modo di vedere e nell'utilizzo dell'altro per confermare con le buone o con le cattive la propria idea di sé. L'essenza del disturbo antisociale di personalità è ben descritta nel Trattato italiano di psichiatria (Cassano et al., 1992), quando afferma che questi soggetti "vivono la vita come la partecipazione a un gioco nel quale gli altri esistono come pedine di una scacchiera da muovere per i propri scopi e obiettivi". Il loro atteggiamento concreto è mutevole: passa dall'aggressività alla gentilezza, dal distacco assoluto al coinvolgimento intenso, ma tende sempre e comunque alla manipolazione degli altri. Privi di qualsiasi regola morale non sperimentano nessun senso di colpa, e attribuiscono sempre agli altri l'origine dei problemi in cui vengono a trovarsi, senza mai assumersi alcuna responsabilità. Il DSM-IV elenca una lunga serie di criteri diagnostici prevalentemente mirati arilevare il comportamento antisociale-trasgressivo e la sua precocità di insorgenza: assenze da scuola, fughe da casa, violenze fisiche, crudeltà su animali e persone, furti, incendi, incapacità lavorativa, guai con la legge, menzogne ripetute, rifiuto di ogni responsabilità e di ogni ruolo, incapacità di mantenere relazioni durature. Il quadro che ne emerge includerebbe così la maggior parte dei delinquenti comuni, che andrebbero considerati tutti malati se non fosse per un ultimo e non sufficientemente sottolineato criterio diagnostico, la "mancanza di rimorso": è esattamente questo che fa la differenza, rendendo il disturbo antisociale interessante per uno psichiatra. L'assenza di rimorso si spiega indagando la prospettiva da cui il soggetto guarda il mondo, che non prevede la presenza di altri oltre se stesso: l'esterno è composto di oggetti - e non persone - da manipolare per raggiungere la soddisfazione dei suoi bisogni; perché mai si dovrebbe avere rimorso? È come se ci dovessimo preoccupare per le ustioni che l'acqua bollente produce alle tagliatelle. "i:" Infine il disturbo borderline di personalità: si tratta di una modalità pervasiva di instabili.tà dell'umt'>re, delle relazioni interpersonali e dell'immagine di sé che si manifesta precocemente, entro la prima età a..... ~~-......

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dulta. Il senso di identità dei borderline è estremamente fragile e inconsistente; se vengono Iasciatisoli sperimentano un senso di immenso vuoto interiore che solo la presenza degli altri riesce in qualche modo a colmare. È ovvio aggiungere che hanno un disperato bisogno degli altri per ritrovarsi e riconoscersi e che dunque vivono ogni separazione. pur transitoria e parziale, come_ un'esperienzactrammatica e insopportabile, a.!l~_guale reagisc~n~_ c:on_esplosioni di rabQia, violenze, insulti e acting out di ogni genere. Quando l'altro si nega al loro bisogno di dipendenza si trasforma nel nemico da annientare: ma nessuno può star dietro alle loro richieste e, soprattutto, nessuno riesce a dare dall' esterno un senso al loro vuoto interiore. Il risultato è che prima o poi ogni rapporto fatalmente si interrompe, confermando ai borderline l'idea di essere condannati a un destino di inconsolabile solitudine. Finché durano, le relazioni interpersonali perciò sono instabili; il meccanismo si inceppa sull'alternanza di idealizzazione e svalutazione del partner e su esagitati te"utativldl~~itar~ un reale ~ immagi~~rio abbandono (tentativi di suicidio, automutilazioni ecc). Il soggetto resta vittima dei suoi impulsi rovinosi: spese sconsiderate, sesso smodato, uso di sostanze stupefacenti, furti, guida spericolata, abbuffate memorabili; improvvisi e imprevedibili cambiamenti di umore, con prevalenza di rabbia e depressione difficilmente controllate, possono condurre a scontri fisici o gesti autolesivi. L'identità personale è costantemente messa in dubbio: il soggetto non sa chi è, cosa desidera nel lungo termine, quali sono le sue preferenze sessuali, quali le persone da frequentare, quali i valori da seguire. Ritroviamo lo specifico dello stile cognitivo dell'ostilità nel modo di utilizzare gli altri per darsi un'identità stabile: nonostante gli altri contino moltissimo nell'universo di significati dei borderline, la loro realtà di soggetti autonomi è duramente negata. Tra i disturbi dell'infanzia e della fanciullezza che presentano caratteristiche assimilabili ai quadri di personalità appartenenti al dramatic cluster va citato innanzitutto il disturbo della condotta, (il DSM-III-R segnalava una corrispondenza diretta fra tale disturbo e il disturbo antisociale di personalità) le cui modalità sono assai simili a quelle del disturbo antisociale di personalità che in genere precede e annuncia. Già in età prescolare il bambino è aggressivo, distrugge oggetti, colpisce coetanei e genitori quando viene contrariato; più avanti si mostra disobbediente, verbalmente aggressivo, crudele verso gli animali, menzognero, e spesso tende ad appiccare incendi, marinare la scuola e fuggire di casa. La gravità della trasgressione cresce col crescere dell'età e con le potenzialità del soggetto, fino ad arrivare al tentato omicidio. Anche allora la 127

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caratteristica specifica è l'assoluta mancanza di scrupoli, accompagnata da irascibilità e continuo atteggiamento di sfida nei confronti di tutto e di tutti. A un livello intermedio tra la normalità e il disturbo della condotta appena descritto si pone il disturbo oppositivo provocatorio, che registra una meno costante e sistematica trasgressione delle norme sociali. La componente provocatoria del comportamento di questi bambini si avverte solo in quanto li si mette all'interno di un contesto relazionale, molto più stabile che nel caso del disturbo della condotta. Provocare qualcuno è intenzionale: indica pur sempre un tentativo di dialogo, una ricerca di comunicazione; ciò è tanto vero che il comportamento disturbato si manifesta più frequentemente in presenza cy. persone significative che non di estranei. L'esordio dei primi sintomi va posto intorno agli otto anni: litigiosità, accessi di rabbia, disobbedienza, permalosità, rifiuto di ogni responsabilità, atteggiamenti costantemente negativisti e rompiscatole. Questa insistenza nella opposizione negativista ricorda il disturbo passivo-aggressivo dell'adulto per il quale avevamo espresso dubbi sulla collocazione nell'anxious-fearful cluster, essendo estremamente simile ai disturbi del dramatic cluster. Infine, il DSM-III-R segnalava una netta corrispondenza tra il disturbo borderline di personalità e il disturbo dell'identità dell'infanzia, caratterizzato da un grave disagio soggettivo riguardante l'incapacità di integrare aspetti di se stessi in un senso di sé relativamente coerente e accettabile. Regna l'incertezza riguardo a una varietà di temi concernenti l'identità e comprendenti gli obiettivi a lungo termine, le scelte di carriera, le amicizie, l'orientamento e i comportamenti sessuali, le idee religiose, il sistema di valori morali e la fedeltà a qualche gruppo. Il DSM-IV, invece, esclude dalla classificazione il disturbo dell'identità dell'infanzia. Il dramatic-emotional cluster e i disturbi dell'infanzia, fanciullezza e adolescenza che a nostro avviso hanno caratteristiche assimilabili mostrano dunque come tratto costante lo stile cognitivo ostile, la cui peculiarità consiste nella tendenza a ignorare l'altro come interlocutore e a trattarlo come oggetto da asservire ai propri bisogni, cui imporre la propria costruzione della realtà, rifiutando ogni critica e invalidazione. Questo è ugualmente vero per tutti e quattro i disturbi, anche se nel disturbo narcisistico e antisociale il soggetto ha un senso di sé esagerato e quindi non ha bisogno degli altri, mentre nel borderline e nell'istrionico ha degli altri un bisogno esasperato e un senso di sé vacillante, che lo spingono a continui e alterni tentativi di seduzio128

Attaccamento, conoscenza e personalità

ne o di possesso. Sia che la persona si fidi delle proprie forze o che si appoggi all'altro, ciò che avviene dopo è comunque assolutamente simile: l'imposizione della propria realtà sull'altro ridotto a oggetto.

CONCLUSIONE Abbiamo cercato di dimostrare la corrispondenza tra pattern di attaccamento, stili di conoscehza e caratteristiche di personalità (rappresentate in forma estrema nei quadri clinici dei disturbi di personalità), che è possibile verificare sperimentalmente grazie alla disponibilità di molti e ormai collaudati strumenti, che saranno illustrati in appendice, per la diagnosi del disturbo di personalità e la valutazione dei pattern di attaccamento. Lo stile di conoscenza è un concetto proposto da noi, per il quale ci corre l'obbligo di illustrare, almeno in via sperimentale, uno strumento adeguato di valutazione (vedi l'appendice 2).

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V

STILI DI CONOSCENZA E PSICOTERAPIA

LA SOFFERENZA PSICHICA

La genesi della sofferenza psichica muove a nostro avviso dagli schemi di significato del soggetto che producono rappresentazioni di sé e della realtà e che risultano inaccettabili agli stessi schemi che le hanno prodotte, oppure fortemente disadatti ve per sé e l'ambiente sociale. Il primo caso pertiene all'area del disturbo nevrotico, il secondo a quella della psicosi e dei disturbi di personalità, essendo lo spartiacque costituito dalla egodistonia/egosintonia del sintomo. Il sintomo che nasconde la tendenza a ripetere previsioni dimostratesi non valide è un'incongruenza all'interno dell'universo di significati costruito dal soggetto. Il sistema stesso diagnostica come patologico un suo prodotto, e tende a costruirgli intorno un circolo vizioso, in cui la soluzione che si tenta di dare al problema diventa il problema stesso (si vedano in proposito Mancini, Semerari, 1985, ma anche Ellis, 1962; De Silvestri, 1981). Poiché cessano di generarsi nuovi problemi a seguito della soluzione di quelli passati, il processo di crescita della conoscenza si arresta: continua soltanto a riprodursi il ciclo del solito, vecchio problema e della solita vecchia soluzione, che gradualmente si identifica col problema stesso. Pur volendo sinceramente liberarsi della sua sofferenza, il soggetto non riesce a farlo perché non è consapevole che egli stesso è il costruttore della sua realtà e che gli schemi utilizzati per venirne a capo non sono assoluti e incriticabili, ma soggettivi, derivati dalla sua interpretazione della propria vicenda personale.

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SCOPI E STRUMENTI DELLA PSICOTERAPIA

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In questa prospettiva il compito della terapia sarà di mettere in evidenza gli schemi di significato disfunzionali e di scoprirne la pervasività anche in aree non sintomatiche della vita del soggetto. Completata questa prima fase "diagnostica", si tratterà di criticare i vecchi schemi generatori di sofferenza svelandone la soggettività, la parzialità e l'inadeguatezza. Alla fase demolitiva ne seguirà una ricostruttiva, in cui gli schemi inadeguati saranno sostituiti con altri, nuovi e più idonei. In verità, la seconda e la terza fase non succedono l'una all'altra in sequenza cronologica ma sono contemporanee, poiché non è possibile demolire senza allo stesso tempo ricostruire: a un sistema conoscitivo è più idonea una conoscenza disfunzionale che nessuna conoscenza. Si tratta dunque di dare corso a un processo di sostituzione, dove la presenza del nuovo permetta l'eliminazione del vecchio. Per la scoperta degli schemi di significato e la loro sostituzione, la psicoterapia si serve di numerosi strumenti. Una tecnica fondamentale è all'inizio l'autoosservazione: il paziente è invitato ad analizzare non soltanto il sintomo, e le circostanze in cui il sintomo si presenta, ma l'intero spettro dei suoi comportamenti, emozioni, pensieri più o meno consapevoli, e in generale di tutte le produzioni della sua mente, compresi i sogni e i ricordi. L'obiettivo è individuar~ ri_p~t~i~!~~_signi~cati_y~_ cioè schemi privilegiati all'interno dei qualrilsoggetto è solito assimilare la realtà. Già questa ricerca delle costanti personali di significato, dei modi caratteristici di vedere le cose, prepara la fase successiva di sostituzione, in quanto propone l'idea che si tratti appunto di verità personali e non assolute: quelli che prima apparivano mostri ieaff-dì.ventano èosì fantasmi persbnali, anche se non meno spaventosi. fl processo tlìsòstifuzione si avvale di strumenti diversi~ tra cui àssài utili si dimostrano la discussione critica sull'opportunità di utilizzare gli schemi, la ricostruzione della storia del loro apprendimento e l'avvio del paziente all' esplorazione di nuovi modi di costruire la realtà. La ricostruzione della storia di apprendimento porta il soggetto a rendersi conto che alcune idee su di sé e sul mondo sono state concepite in circostanze particolari e soprattutto nella relazione di attaccamento con gli adulti significativi. Se pure le sue idee avevano a suo tempo congruenza in quelle circostanze, non è detto che ne abbiano anche nella situazione presente. Fare luce sul contesto di apprendimento di una convinzione, o di uno schema, è uno dei modi più efficaci per prenderne distanza critica, trasformando una "realtà assoluta 132

'Stili di conoscenza e psicoterapia

immanente ai fatti" in "uno dei tanti modi possibili di vedere le cose dalla prospettiva di un bambino piccolo". La rivisitazione del passato durante la psicoterapia passa dunque attraverso la ricerca della risposta a una domanda del tipo: "Attraverso quali relazioni e in che occasioni ho costruito quell'idea di me e degli altri che oggi mi fa soffrire?". L'esplorazione di nuovi modi di costruire la realtà si avvale sia di processi creativi che dell'imitazione di modelli precostituiti. Identificate le alternative possibili, si tratta di articolarle al massimo grado e poi di sperimentarle. Naturalmente non basta sostituire il vecchio modo di pensare con uno nuovo dello stesso livello, bensì occorre assumere una nuova e più ampia prospettiva, che includa la vecchia come caso particolare, ampliando di fatto i margini di libertà del sistema. Tutto questo processo di individuazione degli schemi e dei loro effetti e di presa di distanza critica può essere descritto come la costruzione di un punto di vista metacognitivo o, in termini strutturali, come la costruzione di una struttura funzionalmente sopraordinata in grado di sussumere le attività delle strutture precedenti. Una volta che la nuova struttura riesce a sopraordinare la struttura precedente i significati si modificano alla luce del nuovo punto di vista e tale cambiamento di significati porta con sé un cambiamento di atteggiamento emotivo. (Semerari, 1991)

Così descritto, il processo psicoterapeutico sembra lineare, e il suo successo praticamente certo. Ma la cosa non è tanto semplice. Perché la terapia funzioni occorrono infatti numerose condizioni, a cominciare da due premesse fondamentali: l'instaurarsi tra paziente e terapeuta di una relazione intensa e di un linguaggio comune, o meglio di un contesto condiviso di significati in cui siano possibili scambi importanti.

LA RELAZIONE TERAPEUTICA

Come chiarisce già Freud, il transfert non è un fenomeno esclusivo della situazione analitica, ma è presente in ogni relazione umana significativa e consiste essenzialmente nell'assimilazione di un nuovo rapporto negli schemi che abbiamo già a disposizione, e che di norma si sono strutturati nella relazione con i nostri genitori o i loro sostituti. Il compito dell'analisi rispetto al transfert è semplicemente quello di svelarlo e interpretarlo. 133

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La coazione a ripetere altro non è che la tendenza di ogni soggetto a riproporre, nella costruzione della sua realtà, sempre gli stessi schemi, attinti al suo limitato 1"epertorio. Semerari (1991) propone in proposito due considerazioni che rendono giustizia del tanto abusato concetto di resistenza. Se [. .. ] intendiamo per resistenza un'intenzionalità inconscia di frapporre ostacolo alla cura, è chiaro che non vi è nulla del genere. La diffidenza e i sentimenti negativi verso l'analista altro non sarebbero che la semplice e diretta espressione di quegli schemi del paziente che hanno attinenza con i problemi per cui è stato richiesto il trattamento. Se poi per resistenza intendiamo il fatto che gli schemi del paziente sono di tale natura e organizzazione da frapporre ostacolo alla risoluzione della sofferenza, allora la definizione di resistenza coincide in pratica con quella di nevrosi e in questo caso il concetto di resistenza diventa del tutto superfluo. (Semerari, 1991)

Una resistenza dunque si manifesta, in generale, quando la costruzione soggettiva che è causa del disturbo interpreta l'intervento terapeutico, o la stessa relazione terapeutica, secondo la medesima prospettiva disfunzion