La marcia della follia. Dal cavallo di Troia alla guerra del Vietnam

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La marcia della follia. Dal cavallo di Troia alla guerra del Vietnam

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LA MARCIA DELLA FOLLIA Dal cavallo di Troia alla guerra del Vietnam

ARNOLDO MONDADORI EDITORE

Dello stesso autore Nella collezione Le Scie Tramonto di un 'epoca Nella collezione Le Palme Uno specchio lontano

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Copyright © /984 by Barbara W. Tuchman /985 Amo/do Mondadori Editore, S.p.A., Milano Titolo dell'opera originale: The March of Folly Traduzione di Sandro Sarti I edizione: sellembre 1985

RINGRAZIAMENTI

Desidero esprimere i miei ringraziamenti a coloro che hanno contribuito in vario modo a questo libro: al professor William Wilcox, curatore dei Benjamin Franklin Papers alla Vale University, per la sua lettura critica del cap. IV; a Richard Dudman, già a capo della redazione di Washington del «St. Louis Post-Dispatch» e autore di Forty Days with the Enemy (una cronaca della sua prigionia in Cambogia) per la sua lettura del cap. V; al professor Nelson Minnich della Catholic University of America per la sua lettura del cap. III. Una lettura non implica accordo, particolarmente nel caso dell'ultimo menzionato. Di tutte le interpretazioni e opinioni contenute nel libro io soltanto sono responsabile. Sono grata, per la sua consulenza e il suo aiuto su vari argomenti, al professor Bernard Bailyn del Dipartimento di storia della Harvard University, al dottor Peter Dunn per le sue ricerche sul ritorno delle truppe francesi nel Vietnam nel 1945, a J efTrey Race per avermi introdotta al concetto che sottende il termine specialistico di «dissonanza conoscitiva», al colonnello Harry Summers dello Army War College, a Janis Kreslins della Biblioteca del Council on Foreign Relations, e a tutte le persone indicate nella lista dei riferimenti del cap. V, che hanno avuto la grande gentilezza di rendersi disponibili per interviste personali. Per l'aiuto prestatomi nella ricerca dell'apparato iconografico sono grata alla professoressa Emily Vermuele del Dipartimento di letteratura classica di Harvard, a Joan Sussler del Lewis-Walpole Museum di Farmington, Connecticut, e ai suoi colleghi, a Mare Patchter della National Portrait Gallery di Washington, D.C., al Dipartimento di stampe e disegni e al Dipartimento greco e romano del Metropolitan Museum of Art di New York, al Dipartimento di stampe e fotografie della Biblioteca del Congresso, a Charles Green del Museum of Cartoon Art e a Catherine Prentiss del Newspaper Comics Council, e a

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Ringra;:.iamenti

Hester Green della A. M. Heath and Company, Londra, per il suo magico tocco nell'aprirmi le porte della National Portrait Gallery e del British Museum. Se il libro esiste come un tutto coerente il merito è di Mary McGuire della casa editrice Alfred A. Knopf, che è riuscita a tenere sotto controllo una massa di materiale sconnesso e a ricucire parti sparse. Un ringraziamento del tutto particolare va a Robin Sommer per la dedizione e l'efficacia con la quale ha garantito un'accurata correzione delle bozze. Altri ringraziamenti vanno a mio marito, il dottor Lester R. Tuchman, per avermi suggerito di inserire l'episodio di Roboamo e aver scoperto i riferimenti all'antica arte dell'assedio e l'illustrazione di una macchina d'assedio assira; a mia figlia e a mio genero, Lucy e David Eisenberg, e a mia figlia Alma Tuchman per aver letto l'intero manoscritto, dandomi utili suggerimenti; al mio agente, Timothy Seldes della Russell and Volkening, per la sua disponibilità e il suo aiuto, ogni qualvolta fu necessario; e al mio editor, Robert Gottlieb, per i suoi giudizi critici e per la pazienza con la quale si è più e più volte prestato ad ascoltare, al telefono, le ansietà dell'autrice.

LA MARCIA DELLA FOLLIA

«E non vedo ragione perché qualcuno debba supporre che nel futuro gli stessi motivi già uditi non risuoneranno ancora ... usati da uomini ragionevoli a fini ragionevoli, o da pazzi a fini di assurdità e disastro.» Joseph Campbell, Prefazione a Tht Masks of God: Primitive Mythology, 1969

I CHE COSA SIGNIFICA SEGUIRE UNA POLITICA CONTRARIA Al PROPRI INTERESSI

Nella storia, indipendentemente dal luogo e dal periodo, è possibile osservare un fenomeno costante: governi che perseguono politiche contrarie ai propri interessi. A quanto sembra, non esiste praticamente attività in cui l'umanità raggiunga 'risultati così infelici come nell'arte del governo. In questa sfera la saggezza, che può essere definita come l'esercizio di una capacità di giudizio fondata sull'esperienza, sul buon senso e sulle informazioni a disposizione, è meno attiva e più frustrata di quanto ci si potrebbe aspettare. Perché mai i detentori di alte cariche agiscono tanto spesso in maniera opposta a quella indicata dalla ragione e suggerita da un consapevole interesse? Perché un processo mentale intelligente sembra così spesso non funzionare? Perché, per partire dall'inizio, i governanti di Troia trasportarono entro le mura un cavallo di legno dall'aspetto infido, nonostante avessero ogni motivo per sospettare un trucco dei greci? Perché uno dopo l'altro i governi di Giorgio III continuarono a puntare sulla repressione piuttosto che su un atteggiamento conciliante nei confronti delle colonie americane, malgrado numerosi consiglieri li avessero ripetutamente avvertiti che il danno sarebbe stato superiore a ogni possibile vantaggio? Perché Carlo XII e poi Napoleone e poi Hitler invasero la Russia nonostante il disastro in cui era incorso chi li aveva preceduti? Perché Montezuma, signore di eserciti fieri e pronti a battersi e di una città di 300.000 abitanti, soccombette passivamente davanti ad alcune centinaia di invasori stranieri nonostante questi si fossero più che chiaramente rivelati per quello che erano: esseri umani e non dèi? Perché Chiang Kai-shek si rifiutò di ascoltare qualsiasi voce di riforma o di allarme finché si risvegliò bruscamente per scoprire che il paese gli era completamente sfuggito di mano? Perché le nazioni importatrici di petrolio litigano per le riserve disponibili sul momento, quando un fermo fronte unito nei confronti degli esportatori assicurerebbe loro il controllo della situazione? Perché in tempi recenti i

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sindacati britannici, in una sorta di spettacolo demenziale, si sono mostrati periodicamente decisi (convinti a quanto pare di essere un corpo separato dal resto della comunità) a trascinare il paese al disastro? Perché il mondo degli affari americano insiste sullo «sviluppo» quando questo - è dimostrato - sta dilapidando le tre risorse fondamentali della vita sul nostro pianeta: il suolo, l'acqua e l'atmosfera non inquinata? (I sindacati e il mondo degli affari non sono in senso stretto definibili come governo nell'accezione politica di tale termine, ma rappresentano comunque poli di governo.) In altri settori l'uomo ha compiuto meraviglie: nel corso di questa generazione ha inventato i mezzi per staccarsi dalla terra e viaggiare fino alla luna; nel passato ha imbrigliato i venti e l'elettricità, ha eretto svettanti cattedrali con pietre legate per lo stesso loro peso alla terra, ha tessuto broccati di seta con le sbavature filamentose di un bruco, ha dato strumenti alla musica, ha tratto forza motrice dal vapore, ha messo sotto controllo o eliminato malattie, ha fatto arretrare il mare del Nord per creare in suo luogo la terraferma, ha classificato la natura nelle sue diverse forme, ha svelato i misteri del cosmo. «Mentre tutte le altre scienze sono progredite,» confessava il secondo presidente degli Stati Uniti, John Adams «quella del governo è ferma, e la si esercita oggi poco meglio di tre o quattromila anni or sono.» Il malgoverno è di quattro tipi, spesso combinati fra loro. Essi sono: 1. la tirannia, od oppressione, di cui la storia fornisce esempi così noti e numerosi che non occorre citarli; 2. una eccessiva ambizione, come nel caso della tentata conquista della Sicilia da parte di Atene durante la guerra del Peloponneso, o dell'Inghilterra da parte di Filippo II con la sua Armada, o del duplice tentativo tedesco di imporre all'Europa il dominio di una razza che si autodefiniva superiore, o della pretesa giapponese di trasformare l'Asia in un impero; 3. l'incompetenza o la decadenza, come nel caso del tardo impero romano, degli ultimi Romanov e dell'ultima dinastia imperiale cinese; e infine 4. la follia o la perversità. Il presente libro prende in esame quest'ultimo tipo di malgoverno, in una sua specifica manifestazione: e cioè l'abitudine di perseguire una politica contraria agli interessi del gruppo che rappresentano o dello Stato. Per interesse si intende qualsiasi cosa arrechi benessere o vantaggio al corpo sociale governato; la follia è una politica che sotto questo punto di vista risulta controproducente. Ai fini di questa ricerca per essere qualificata come follia una politica deve rispondere a tre criteri. Deve anzitutto essere stata riconosciuta controproducente sul momento, e non con il senno del

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poi. Questo è importante, perché ogni politica è determinata dagli usi del suo tempo: «Nulla è più ingiusto» ha detto bene uno storico inglese «che giudicare gli uomini del passato con le idee del presente. A differenza di quel che si può dire a proposito della moralità, la saggezza politica ha un carattere sicuramente più elastico.» Per evitare di giudicare con i valori odierni dobbiamo rifarci alle opinioni dell'epoca e prendere in esame soltanto quegli episodi che furono riconosciuti come lesivi dei propri interessi già dai contemporanei. In secondo luogo è necessario che all'epoca esistesse, e fosse attuabile, una linea d'azione alternativa. E infine, per spersonalizzare il problema, il terzo criterio da rispettare è che la politica in questione sia opera di un gruppo e non di un singolo individuo, e abbia una durata maggiore della vita politica dei suoi protagonisti. Il malgoverno di un singolo sovrano o tiranno è troppo frequente e troppo individuale per meritare una ricerca generalizzata. Un governo collettivo o una successione di detentori di una stessa carica, come nel caso dei papi del Rinascimento, pone un problema più significativo. (Il caso del cavallo di Troia, che esamineremo tra breve, è un'eccezione nei confronti del primo criterio, e quello di Roboamo lo è nei confronti del secondo, ma ciascuno di essi è un esempio talmente classico e si presenta così presto, ai primordi della storia conosciuta dell'arte del governo, da dimostrarci quanto sia radicato il fenomeno della follia.) La comparsa della follia è indipendente dall'èra o dalla località; è eterna e universale, anche se i costumi e le credenze di un'epoca e di un luogo particolare determinano la forma che essa assume. Non è legata a questo o a quel regime: monarchia, oligarchia e democrazia la producono tutte egualmente. Né è caratteristica di una nazione o di una classe. La classe operaia, così come è rappresentata dai governi comunisti, non funziona più razionalmente o con maggiore efficienza della borghesia, come la storia recente ha ampiamente dimostrato. Mao Tse-tung può essere ammirato per molte cose, ma il «Grande balzo in avanti», con una fonderia in ogni cortile, e la Rivoluzione culturale furono puri e semplici tentativi di fare a meno della razionalità e danneggiarono grandemente il progresso e la stabilità della Cina, per non parlare della reputazione del suo presidente. Il bilancio del proletariato russo al potere non può certo essere definito illuminato, anche se dopo sessant'anni di esercizio gli si può concedere una sorta di brutale successo. La maggioranza dei cittadini russi gode oggi di condizioni di vita migliori che nel passato, ma il prezzo in

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crudeltà e tirannia è stato non inferiore, e probabilmente più alto di quello pagato al tempo degli zar. La Rivoluzione francese, grande prototipo di governo populista, tornò all'autocrazia coronata non appena acquisì un abile amministratore. I regimi rivoluzionari dei giacobini e del Direttorio riuscirono a raccogliere forze sufficienti a sterminare gli avversari interni e i nemici esterni, ma non furono in grado di tenere sotto controllo la loro stessa base almeno quanto bastava per poter mantenere l'ordine nel paese, organizzare un'amministrazione competente o riscuotere le tasse. Il nuovo ordine fu salvato soltanto dalle campagne militari di Bonaparte, che rimpinguarono il tesoro con il bottino delle guerre esterne, e successivamente dalla sua competenza come amministratore. Bonaparte sceglieva i funzionari in base al principio della carrière ouverte aux talents, e i talenti richiesti erano l'intelligenza, l'energia, l'operosità e l'obbedienza. Il sistema funzionò finché anch'egli, classica vittima della hybris, si distrusse per aver esteso oltre il limite la sfera dei propri poteri. Ci si può domandare perché mai, essendo la follia o la perversità una caratteristica innata degli uomini, dovremmo aspettarci qualcosa di diverso dai governi. Il fatto è che la follia, quando c'è di mezzo un governo, ha un impatto notevolmente maggiore su un maggior numero di persone di quanto non accada a causa delle follie individuali, e che di conseguenza i governi, ben più dei singoli, sono tenuti ad agire secondo ragione. Proprio per questo, e dal momento che la cosa è nota ormai da lungo tempo, perché mai la nostra specie non ha preso precauzioni e non si è premunita contro tale funesta eventualità? Alcuni tentativi sono stati fatti, a cominciare dalla proposta di Platone di selezionare una classe di uomini da educare come professionisti del governo. Secondo lo schema platonico in una società giusta la classe dirigente dovrebbe essere formata da uomini che hanno fatto tirocinio nell'arte del governo, scelti tra i più razionali e saggi. Poiché Platone riconosceva che uomini del genere erano naturalmente pochi, pensava che essi dovessero essere generati e allevati secondo criteri eugenetici. Il governo, diceva, è un'arte particolare nella quale la competenza, come in qualsiasi altra professione, può essere acquisita soltanto con lo studio di tale disciplina, e non altrimenti. La sua soluzione, splendida e inattuabile, erano i re filosofi. «I filosofi devono diventare re nelle nostre città, oppure coloro che sono ora re e detentori del potere devono apprendere a ricercare la saggezza come veri filosofi: in tal modo il potere politico e la saggezza dell'intelletto diventeranno una cosa sola.» Fino a quel giorno, ammetteva, «le città, e io penso l'intera

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razza umana, non potranno trovar tregua ai loro travagli». E così è stato. La cocciutaggine, fonte di autoinganni, è un fattore che svolge un ruolo più che ragguardevole nelle attività di governo. Essa consiste nel valutare una situazione sulla base di rigide nozioni preconcette, ignorando o rifiutando ogni indicazione contraria, e nel procedere poi in maniera velleitaria, senza lasciarsi minimamente smuovere dai fatti. Il suo compendio si trova nel commento di uno storico su Filippo II di Spagna, campione di cocciutaggine tra tutti i sovrani: «Nessun comprovato fallimento della sua politica poteva turbare in lui la convinzione della sua essenziale eccellenza». Un caso classico fu il Piano 17, il piano di guerra francese del 1914, concepito in uno spirito di consacrazione totale all'offensiva. Esso puntava tutto su un'avanzata francese sul Reno, lasciando l'ala sinistra praticamente sguarnita, una strategia che poteva essere giustificata soltanto con la ferma convinzione che i tedeschi non avrebbero potuto disporre di forze sufficienti per attuare un'invasione sul fianco, attraverso il Belgio occidentale e le province francesi sulla costa. Questo presupposto era fondato sulla convinzione altrettanto ferma che i tedeschi non avrebbero mai usato le riserve in prima linea. Indicazioni di segno contrario, che cominciarono a pervenire allo stato maggiore francese nel 1913, dovevano essere quindi risolutamente ignorate - e lo furono -, perché non si poteva permettere che una qualsiasi preoccupazione per una possibile invasione tedesca verso occidente giungesse a distrarre forze francesi da un'offensiva diretta a oriente, verso il Reno. Quando scoppiò la guerra, i tedeschi dimostrarono di essere in grado di usare le riserve in prima linea, e le usarono, e puntarono verso occidente con un'ampia manovra aggirante i cui risultati produssero una guerra di lunga durata con spaventose conseguenze sul nostro secolo. La cocciutaggine consiste anche nel rifiuto di trarre profitto dall'esperienza, e in questo i governanti del XIV secolo raggiunsero primati ineguagliati. Anche se a più riprese e in maniera evidente la svalutazione della moneta aveva sconvolto l'economia e provocato lo scontento popolare, in Francia i monarchi della dinastia dei Valois continuarono a ricorrervi ogni qualvolta si trovarono ad avere una disperata necessità di denaro, finché provocarono un'insurrezione della borghesia. Anche nella guerra, occupazione per eccellenza della classe al potere, la cocciutaggine ebbe una parte di primo piano: a più e più riprese campagne che dipendevano in tutto e per tutto dalle risorse di un territorio nemico finirono con il dover affrontare la fame e

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perfino la morte per inedia - e questo fu il caso delle invasioni inglesi della Francia durante la guerra dei Cento Anni-, eppure campagne inevitabilmente votate a questo destino continuarono a essere regolarmente intraprese. Si dice che all'inizio del XVII secolo un altro re di Spagna, Filippo III, sia morto di una febbre contratta per essere rimasto seduto troppo a lungo presso un braciere rovente, fino a surriscaldarsi senza scampo perché non si riuscì a trovare, dopo averlo chiamato, il funzionario al quale spettava il compito di rimuovere il braciere. Sembra che in quest'ultimo scorcio del XX secolo l'umanità si stia avvicinando a un simile stadio di follia suicida. Gli esempi vengono subito alla mente, in gran numero, e non si può che scegliere il più clamoroso; perché le superpotenze non iniziano una comune politica di abbandono degli strumenti del suicidio dell'umanità? Perché investiamo tutte le nostre capacità e le nostre risorse in una gara per una superiorità negli armamenti che non durerà mai abbastanza da meritare di conquistarla, piuttosto che in uno sforzo per trovare un modus vivendi con l'avversario e cioè, letteralmente, il modo di vivere e non di morire? Per 2500 anni i maestri della filosofia politica, da Platone e Aristotele a Tommaso d'Aquino, Machiavelli, Hobbes, Locke, Rousseau, JefTerson, Madison e Hamilton, Nietzsche e Marx, si sono dedicati a riflettere sui grandi problemi dell'etica, della sovranità, del contratto sociale, dei diritti dell'uomo, della corruzione del potere, dell'equilibrio tra libertà e ordine. Pochi, a eccezione di Machiavelli che studiava il governo per quello che è e non per quello che dovrebbe essere, si occuparono della follia in sé, anche se la follia era da sempre un problema cronico e diffuso. Il conte Axel Oxenstierna, che nel turbolento periodo della guerra dei Trent'anni fu cancelliere di Svezia al servizio dell'iperattivo Gustavo Adolfo, e padrone di fatto del paese sotto sua figlia Cristina, aveva di certo una vasta esperienza sulla quale basare le parole che pronunciò in punto di morte: «Sappi, figlio mio, con quanta poca saggezza è governato il mondo». Per essere rimasta estremamente a lungo la forma normale di governo, la sovranità di un singolo individuo è la prima a fornirci esempi, fin dai tempi più lontani di cui serbiamo memoria scritta, delle caratteristiche umane che hanno provocato follia nelle attività di governo. Roboamo, re d'Israele, figlio di re Salomone, succedette al padre all'età di 41 anni intorno al 930 a.C., circa un secolo prima che Omero componesse il poema epico nazionale del suo popolo. Senza perdere tempo, il nuovo

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re commise l'atto di follia che avrebbe diviso la sua nazione e condotto alla perdita definitiva delle dieci tribù settentrionali, chiamate collettivamente Israele. In queste tribù c'era parecchia gente scontenta per i pesanti balzelli che dovevano essere pagati con il lavoro coatto, imposti durante il regno di Salomone, e protagonista già allora di un tentativo di sommossa. Questa gente si era infatti raccolta intorno a uno dei generali di Salomone, Geroboamo, «un uomo forte e valoroso», il quale aveva accettato di guidarla nella rivolta in virtù di una profezia secondo la quale egli avrebbe in seguito ereditato il potere sulle dieci tribù. Il Signore, che parlava attraverso la voce di un certo Ahija lo scilonita, ebbe una certa parte in questo affare, ma il suo ruolo allora e in seguito è oscuro e sembra sia stato introdotto da narratori i quali ritenevano necessaria la presenza della mano dell'Onnipotente. Quando la rivolta fallì Geroboamo fuggì in Egitto dove Scishak, re di quel paese, gli offrì asilo. Riconosciuto re senza obiezioni dalle due tribù meridionali di Giuda e di Beniamino, Roboamo, chiaramente consapevole dell'agitazione esistente in Israele, si recò subito a Sichem, una città del Nord, per ottenere il giuramento di fedeltà del popolo. Fu accolto invece da una delegazione di rappresentanti di Israele i quali gli chiesero di alleggerire il pesante giogo di lavoro imposto dal padre, e dissero che, se l'avesse fatto, lo avrebbero servito come sudditi fedeli. Tra i delegati c'era Geroboamo, che era stato fatto venire in tutta fretta dall'Egitto non appena era morto re Salomone, e la cui presenza doveva certamente aver fatto capire a Roboamo di trovarsi davanti a una situazione critica. Roboamo temporeggiò e chiese alla delegazione di tornare dopo tre giorni per avere la sua riposta. Nel frattempo si consultò con gli anziani del consiglio di suo padre, i quali gli suggerirono di acconsentire alle ricerche del popolo e gli dissero di comportarsi con benevolenza: «Se gli parli con bontà, ti sarà servo per sempre». Roboamo che si sentiva pulsare. nelle vene le prime sensazioni della sovranità trovò il consiglio troppo accondiscendente e si rivolse ai «giovani ch'eran cresciuti con lui». Questi, conoscendo la sua indole e desiderosi, come i consiglieri di ogni tempo, di rafforzare la propria posizione nella «stanza del potere», gli diedero un consiglio che sapevano sarebbe giunto gradito. Il re non doveva fare nessuna concessione, ma dire chiaramente al popolo che il suo regno sarebbe stato non più leggero, ma più grav> occupò i posti fortificati di frontiera e marciò su Gerusalemme, che Roboamo salvò dalla conquista soltanto pagando al nemico un tributo tratto dal tesoro in oro del Tempio e del palazzo reale. Scishak penetrò anche nel territorio del suo antico alleato Geroboamo fino a Megiddo ma poi, mancandogli evidentemente i mezzi per stabilire un controllo permanente, rifluì nuovamente in direzione dell'Egitto. Le dodici tribù non si riunificarono più. Dilaniati dal conflitto, i due stati non riuscirono a manten~re l'orgoglioso impero creato da Davide e Salomone, che un tempo si estendeva dalla Siria settentrionale ai confini dell'Egitto, aveva il controllo delle rotte carovaniere interna-

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zionali e, tramite il mar Rosso, accesso al commercio d'oltremare. Indeboliti e divisi avevano scarse possibilità di opporsi alle aggressioni dei vicini. Dopo duecento anni di esistenza separata le dieci tribù di Israele subirono la conquista assira nel 722 a.C., e, conformemente alla politica assira nei confronti dei popoli vinti, vennero cacciate dalla loro terra e disperse in maniera drastica, svanendo nel nulla e diventando così una delle grandi incognite e dei perenni oggetti di speculazione della storia. Il regno di Giuda, con Gerusalemme, sopravvisse come terra del popolo ebraico. Riuscì a varie riprese a recuperare buona parte dei territori settentrionali, ma subì anche la conquista e l'esilio sulle sponde di Babilonia, e poi la rinascita, contese interne, una sovranità straniera, la ribellione, un'altra conquista ancora, un altro esilio e un'altra dispersione in terre ancora più lontane; subì di tutto ma non scomparve. L'alternativa che Roboamo avrebbe potuto adottare, come gli consigliavano gli anziani, e che egli respinse con tanta leggerezza, ha avuto la sua vendetta, una vendetta che ha lasciato il suo segno per ben 2800 anni. Eguale nei suoi rovinosi elTetti, ma per cause del tutto opposte fu la follia che condusse alla conquista del Messico. Il caso di Roboamo non è difficile da capire, ma quello di Montezuma serve a dimostrarci che la follia non sempre è spiegabile. Lo Stato azteco di cui fu imperatore dal 1502 al 1520 era ricco, raffinato e aggressivo. Posta su un altipiano dell'interno e circondata da montagne (oggi vi sorge Città di Messico), la sua capitale era una città abitata da 60.000 nuclei familiari, costruita sulle palafitte, le grandi alzaie e gli isolotti di un lago, con case stuccate, strade e templi, ricca di fasto e di ornamenti, solidamente armata. Con le sue colonie che si estendevano a oriente fino al golfo del Messico e a occidente fino all'oceano Pacifico l'impero contava una popolazione valutata sui 5.000.000 di abitanti. I governanti aztechi erano avanzati nelle arti, nelle scienze e nell'agricoltura, in contrasto con la loro religione feroce e i suoi sacrifici umani rituali, sanguinari e crudeli al di là d'ogni confronto. Gli eserciti aztechi conducevano campagne annuali per catturare nelle città limitrofe schiavi e vittime per i sacrifici, provviste alimentari di cui avevano sempre necessità, per sottomettere nuove regioni o punire rivolte. Nei primi anni del suo regno Montezuma condusse personalmente queste campagne, estendendo notevolmente i confini del suo impero. La civiltà azteca era prigioniera dei suoi dèi, degli dèi uccello, degli dèi serpente, degli dèi giaguaro, del dio della pioggia Tlaloc e del dio

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del sole Tezcatlipoc, signore della superficie della terra, il «Tentatore» che «sussurrava» idee selvagge nella mente degli uomini. Il dio fondatore dello Stato, Quetzalcoatl, era decaduto dalla sua gloria ed era scomparso nel mare orientale, donde si attendeva il suo ritorno sulla terra, preannunciato da portenti e apparizioni e a sua volta presagio dell'estrema rovina dell'impero. N cl 1519 una spedizione di conquistadores spagnoli provenienti da Cuba al comando di Hernan Cortés sbarcò sulla costa del golfo del Messico a Vera Cruz. Nei venticinque anni trascorsi dal giorno in cui Cristoforo Colombo aveva scoperto le isole dei Caraibi, gli invasori spagnoli avevano imposto una dominazione che produceva rapidamente effetti deleteri sulle popolazioni locali. Se i loro corpi non potevano sopravvivere al lavoro imposto dagli spagnoli, le loro anime, dal punto di vista cristiano, erano però salve. Coperti di cotte di ferro e di elmetti, gli spagnoli non erano coloni disposti a disboscare pazientemente le foreste e a seminare; erano avventurieri spietati e irrequieti, avidi di schiavi e di oro, e Cortés li simboleggiava tutti. Più o meno ai ferri corti con il governatore di Cuba, Cortés partì per una spedizione con seicento uomini, diciassette cavalli e dieci pezzi d'artiglieria, apparentemente a scopi di esplorazione e commercio ma in realtà, come la sua condotta avrebbe poi chiarito, per conquistarsi gloria e un dominio indipendente sotto la corona di Spagna. Il primo atto che fece appena sbarcato fu quello di bruciare le navi, perché non ci fosse possibilità alcuna di ritirata. Informato dagli abitanti locali, che odiavano i dominatori aztechi, sulla ricchezza e la potenza della capitale, Cortés con la maggior parte delle sue forze mosse arditamente alla conquista della grande città dell'interno. Anche se temerario e sprezzante del pericolo, non era però uno sprovveduto e lungo la strada strinse alleanza con le tribù ostili agli aztechi, specialmente con i tlaxcala, loro principali nemici. Si fece precedere da messaggi che lo rappresentavano come ambasciatore di un principe straniero, ma non cercò in alcun modo di assumere le vesti di un Quetzalcoatl reincarnato, cosa che per gli spagnoli sarebbe stata assolutamente fuori questione. Essi marciavano con i loro preti, che levavano ben in vista crocifissi e stendardi della vergine, e con lo scopo dichiarato di conquistare anime a Cristo. Ricevuta notizia dell'avanzata, Montezuma convocò il suo consiglio, alcuni membri del quale insistettero perché si resistesse agli stranieri con la forza o con l'inganno, mentre altri sostenevano che se si trattava veramente degli ambasciatori di un principe straniero era consigliabile un'accoglienza amichevole, e se si trattava di esseri

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sovrannaturali, come suggerivano i loro straordinari attributi, ogni resistenza era inutile. Le loro facce «grigie», le loro vesti di «pietra», l'arrivo sulla costa a bordo di case galleggianti munite di ali bianche, il fuoco magico che usciva con uno scoppio dai tubi e uccideva a distanza, le strane bestie che portavano quegli esseri sulla schiena, tutto suggeriva il sovrannaturale a un popolo per il quale gli dèi erano ovunque. Tuttavia l'idea che il loro capo potesse essere Quetzalcoatl sembra essere stato il terrore del tutto personale e specifico di un singolo individuo: e cioè di Montezuma. Incerto e apprensivo, egli fece la cosa peggiore che potesse venirgli in mente in quelle circostanze: inviò doni splendidi - e questi rivelavano la sua ricchezza - e lettere che invitavano i visitatori a ritirarsi- e queste segnalavano la sua debolezza. Portati a spalle da un centinaio di schiavi i doni, che consistevano in gioielli, tessuti, sgargianti decorazioni di piume e in due enormi vassoi d'oro e d'argento «grandi come ruote di carro», eccitarono la cupidigia degli spagnoli, mentre le lettere che ingiungevano loro di non avvicinarsi ulteriormente alla capitale e li supplicavano quasi di fare ritorno in patria, redatte in un linguaggio morbido, inteso a evitare ogni olTesa a dèi o ad ambasciatori, non erano certo molto impressionanti. Gli spagnoli continuarono ad avanzare. Montezuma non fece una sola mossa per fermarli o per sbarrare loro la strada quando raggiunsero la città. Essi furono invece accolti con un benvenuto rituale e accompagnati ad acquartierarsi nel palazzo reale e in altri luoghi. L'esercito azteco che attendeva sulle colline il segnale di attacco non venne chiamato, anche se avrebbe potuto annientare gli invasori, tagliare loro ogni via di ritirata lungo le alzaie, o isolarli e costringerli alla resa per fame. Piani di questo genere erano stati effettivamente predisposti, ma furono rivelati a Cortés dal suo interprete. Messo sull'avviso, Cortés relegò Montezuma agli arresti domiciliari nel suo palazzo, quale ostaggio contro un eventuale attacco. Il sovrano di un popolo guerriero, numericamente superiore agli invasori per mille a uno, cedette: per un eccesso di misticismo o di superstizione si era a quanto pare convinto che gli spagnoli erano effettivamente gli incaricati di Quetzalcoatl venuti ad assistere al crollo del suo impero, e ritenendosi ormai condannato non fece nessun tent~tivo per sfuggire al proprio destino. In realtà le continue richieste di oro e di vettovaglie da parte dei visitatori dimostravano che essi erano senza alcun dubbio fin troppo umani, mentre i loro costanti riti di adorazione di un uomo nudo appeso a due pezzi di legno incrociati e di una donna con un bambino

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indicavano che non avevano niente a che vedere con Quetzalcoatl, nei confronti del cui culto si mostravano chiaramente ostili. Quando Montezuma, in un sussulto di pentimento o perché persuaso da qualcuno, ordinò un'imboscata contro la guarnigione che Cortés si era lasciata alle spalle a Vera Cruz, i suoi uomini uccisero due spagnoli e inviarono come prova la testa di uno di loro alla capitale. Senza chiedere né un abboccamento né una spiegazione, Cortés mise immediatamente l'imperatore in catene e lo costrinse a consegnare i colpevoli che bruciò vivi alle porte del palazzo, non dimenticando di esigere come punizione un immenso tributo in oro e gioielli. Qualsiasi rimanente illusione su un rapporto con gli dèi scomparve con la testa mozzata dello spagnolo. Il nipote di Montezuma, Cacama, denunciò Cortés come assassino e ladro e minacciò di far scoppiare una rivolta; ma l'imperatore rimase silenzioso e abulico. Cortés era così sicuro di sé che, informato che sulla costa era arrivata da Cuba una spedizione incaricata di catturarlo, tornò indietro per affrontarla, lasciando nella capitale una piccola guarnigione che irritò ancor più gli abitanti sfasciando altari e impadronendosi di cibo con la forza. Lo spirito di rivolta crebbe. Avendo perso la sua autorità Montezuma non poteva né assumere il comando né sedare l'ira del popolo. Al ritorno di Cortés gli aztechi, al comando del fratello dell'imperatore, si ribellarono. Gli spagnoli, che non avevano mai posseduto più di tredici moschetti in tutto, reagirono battendosi con spade, picche e balestre, e torce per dar fuoco alle case. Messi alle strette, nonostante fossero avvantaggiati dalle loro armi di acciaio, fecero uscire Mon tezuma perché chiedesse una cessazione dei combattimenti, ma appena questi comparve i suoi lo lapidarono come codardo e traditore. Riportato nel palazzo dagli spagnoli, morì tre giorni dopo e i suoi sudditi gli rifiutarono gli onori funebri. Gli spagnoli evacuarono la città nella notte con la perdita di un terzo delle loro forze, e del bottino. Radunati gli alleati messicani, Cortés sconfisse in battaglia, fuori della città, un esercito azteco numericamente superiore. Con l'aiuto dei tlaxcala organizzò un assedio, bloccò i rifornimenti di acqua e di viveri e penetrò lentamente nella città riversando nel lago, a mano a mano che avanzava, le macerie degli edifici distrutti. Il 13 agosto 1521 gli abitanti sopravvissuti, ridotti alla fame e privi di capi, si arresero. I conquistadores colmarono il lago, costruirono una città sulle rovine e imposero il loro dominio sui messicani, aztechi o alleati che fossero, per i successivi trecento anni. Non si può polemizzare con le credenze religiose di una cultura,

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oltretutto se questa è strana, remota e solo in parte compresa. Ma quando queste credenze diventano una pura illusione mantenuta a dispetto dell'evidenza dei fatti, possono essere correttamente definite follia. La categoria è ancora una volta la cocciutaggine, in una sua speciale variante: la mania religiosa. Ed è in questa veste che ha prodotto i danni peggiori. La follia non ha necessariamente conseguenze negative per tutte le parti in causa. La Riforma, messa in moto dalla follia dei papi del Rinascimento, non sarebbe generalmente definita una sventura dai protestanti. Gli americani nell'insieme non considererebbero la loro indipendenza, nata dalla follia degli inglesi, una cosa deplorevole. Si può sostenere, a seconda dei punti di vista, che la conquista della Spagna da parte dei mori, che durò trecento anni sulla maggior parte del paese e ottocento in alcune regioni soltanto, è stata positiva o negativa, ma un fatto è chiaro: essa avvenne grazie alla follia di chi comandava in Spagna a quel tempo. A comandare erano i visigoti, che avevano invaso l'impero romano nel IV secolo e che alla fine del V avevano esteso il loro controllo sulla maggior parte della penisola iberica, su una popolazione numericamente superiore di ispano-romani. Per duecento anni si trovarono in continuo conflitto, spesso anche armato, con queste genti soggette. Sprezzanti di tutto ciò che non fosse il loro interesse, cosa normale per i sovrani del tempo, si crearono soltanto ostilità e alla fine ne furono le vittime. L'ostilità era inasprita dall'animosità religiosa, essendo gli abitanti locali cattolici di rito romano mentre i visigoti appartenevano alla setta ariana. La nobiltà locale cercava di conservare il tradizionale principio elettivo mentre i re, insidiati dalle brame dinastiche altrui, erano decisi a modificarlo in senso ereditario, e così mantenerlo. Usarono ogni mezzo, dall'esilio alle esecuzioni, alla confisca delle proprietà, alla tassazione discriminatoria e a una ingiusta distribuzione delle terre per eliminare i rivali e indebolire l'opposizione locale. Come risultato di questi procedimenti, naturalmente, i nobili si misero a fomentare l'insurrezione e gli odi ingigantirono. Nel frattempo, grazie alla più forte organizzazione e alla più incisiva intolleranza della Chiesa romana e dei suoi vescovi in Spagna, l'influenza cattolica stava guadagnando terreno e sul finire del VI secolo riuscì a ottenere la conversione di due eredi al trono. Il primo fu messo a morte dal padre ma il secondo, di nome Recared, salì al trono e con lui si ebbe finalmente un sovrano consapevole della necessità dell'unità. Recared fu il primo fra i goti a capire che per un sovrano

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contrastato da due gruppi avversari è follia attizzare contemporaneamente l'antagonismo di entrambi. Persuaso che l'unità non sarebbe mai stata raggiunta sotto l'arianesimo, Recared agì energicamente contro i suoi associati di un tempo e proclamò il cattolicesimo religione ufficiale. Numerosi suoi successori si sforzarono anch'essi di placare gli antichi avversari, richiamando in patria gli esiliati e restituendo le proprietà confiscate, ma le divisioni e il groviglio delle rivalità erano troppo forti per loro, cd essi avevano perduto influenza a favore della Chiesa che avevano trasformato, a proprio danno, in un vero cavallo di Troia. Saldamente al potere, l'episcopato cattolico si lanciò negli affari del governo secolare, proclamandone le leggi, arrogandosene i poteri, tenendo concili decisivi, legittimando usurpatori favoriti dalla Chiesa e promuovendo una fatale, implacabile campagna di discriminazione e leggi punitive contro tutti i «non cristiani», vale a dire gli ebrei. Ma sotto la superficie continuava a sopravvivere la fedeltà all'arianesimo, e decadenza e dissolutezza infestavano la corte. Sotto la spinta di intrighi e complotti, usurpazioni, assassini e rivolte nel corso del VII secolo la successione dei re ebbe un ritmo frenetico; nessuno riuscì a reggere il trono più di un decennio. In quello stesso secolo i musulmani, animati da una nuova religione, si lanciarono in una selvaggia campagna di conquiste che si estesero dalla Persia all'Egitto e raggiunse, nel 700, il Marocco, sugli stretti di mare di fronte alla Spagna. I loro vascelli cominciarono a compiere scorrerie sulla costa spagnola; vennero respinti, ma la nuova potenza che si era stabilita sulla sponda opposta offriva a ogni gruppo di malcontenti sotto il dominio dei goti l'eterna tentazione di un aiuto straniero contro l'avversario interno. Il ricorso a questo estremo appiglio, pur ripetutamente sperimentato nel corso della storia, ha un esito solo, come gli imperatori bizantini impararono quando chiamarono i turchi in soccorso contro i nemici interni: la potenza invitata si installa e diventa padrona. Per gli ebrei di Spagna l'ora era giunta. Minoranza un tempo tollerata, giunti con i romani e divenuti ricchi mercanti, venivano ora emarginati, perseguitati, costretti a conversioni forzose, privati di diritti, proprietà, occupazione e perfino della prole, strappata loro con la forza e consegnata a proprietari cristiani di schiavi. Minacciati di estinzione, si misero in contatto, tramite i loro correligionari dell'Africa del Nord, con i mori e ne divennero gli informatori. Per loro tutto sarebbe stato meglio della dominazione cristiana. L'evento che fece precipitare la situazione, tuttavia, si verificò là

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dove la scarsa unità della società spagnola aveva la sua falla centrale. Nel 710 una cospirazione di nobili rifiutò di riconoscere come re il figlio dell'ultimo sovrano, lo sconfisse e lo depose, ed elesse al trono uno dei congiurati, il duca Rodrigo, gettando il paese in uno stato di contesa e di confusione. Il re soppiantato e i suoi seguaci attraversarono gli stretti e, partendo dall'idea che i mori si sarebbero graziosamenge prestati a riconquistare il trono per loro, ne richiesero l'appoggio. L'invasione moresca del 711 irruppe in un paese irrimediabilmente diviso. L'esercito di Rodrigo oppose scarsa resistenza e i mori si imposero con una forza di 12.000 uomini. Conquistando una città dopo l'altra presero la capitale, delegarono i poteri locali (in un caso affidarono la città agli ebrei) e continuarono l'avanzata. Nel giro di sette anni completarono la conquista della penisola. La monarchia gotica, rivelatasi incapace di esprimere un sistema di governo funzionale o di arrivare a fondersi con i sudditi, crollò di fronte all'attacco perché non aveva messo radici. Nei secoli bui tra la caduta di Roma e la rinascita medioevale, il governo non ebbe teoria riconosciuta, né struttura, né ausili al di fuori del ricorso arbitrario alla forza. Giacché il disordine è la meno tollerabile tra le situazioni sociali, a partire dal Medioevo il governo cominciò a prendere forma nella sua qualità di funzione riconosciuta con princìpi, metodi, enti, parlamenti, burocrazie riconosciuti. Acquisì autorità, mandati, mezzi e capacità migliori, ma non conobbe un apprezzabile aumento di saggezza o di immunità dalla follia. Con questo non si vuol dire che le teste coronate e i ministri sono incapaci di governare saggiamente e bene. Periodicamente l'eccezione si manifesta sotto forma di un governo forte ed efficiente, occasionalmente anche benigno, e ancor più occasionalmente saggio. Al pari della follia queste apparizioni non sembrano legate a specifiche condizioni di tempo e di luogo. Solone di Atene, forse il più saggio, fu tra i primi. E merita un accenno. Scelto arconte, o primo magistrato, nel VI secolo a.C., in un periodo di stretta economica e di agitazioni sociali, Solone fu chiamato a salvare lo Stato e a comporne le contese. Dure leggi sui debiti, che permettevano ai creditori di impadronirsi delle terre date in garanzia e addirittura dello stesso debitore come schiavo, avevano impoverito e infuriato la plebe, creando umori insurrezionali sempre più accesi. Non avendo partecipato all'oppressione dalla parte dei ricchi né appoggiato la causa dei poveri, Solone godeva dell'insolita distinzione

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di essere accetto a entrambi: ai ricchi, secondo Plutarco, perché era uomo prospero e di ampi mezzi, e ai poveri perché era onesto. Nel corpo di leggi che proclamò, Solone si mostrò mosso non da spirito di parte ma dal desiderio di giustizia, di rapporti equi tra forti e deboli, di un governo stabile. Abolì la schiavitù per debiti, liberò quanti erano stati ridotti in schiavitù, estese il suffragio ai plebei, riformò la circolazione monetaria per incoraggiare il commercio, regolamentò pesi e misure, dettò leggi che definivano le procedure ereditarie, i diritti civili dei cittadini, le pene per i crimini e infine, per stornare ogni rischio, richiese al concilio di Atene il giuramento che le sue riforme sarebbero state mantenute per dieci anni. Quindi fece una cosa straordinaria, e probabilmente unica nella storia dei capi di Stato: acquistò una nave col pretesto di un viaggio per vedere il mondo e salpò per un volontario esilio di dieci anni. Equo e giusto come uomo di Stato, Solone fu non meno saggio come uomo. Avrebbe potuto conservare il potere supremo, elevando la sua autorità al livello di quella di un tiranno (e di fatto fu biasimato perché non l'aveva fatto), ma sapendo che incessanti petizioni e proposte di modificare questa o quella legge gli avrebbero solo procurato ostilità se non avesse acconsentito alle richieste, decise di andarsene affinché le sue leggi restassero intatte, non potendo gli ateniesi abrogarle senza il suo consenso. La sua decisione indica che l'assenza di una dominante ambizione personale e un sagace buon senso sono tra le componenti essenziali della saggezza. Nelle note sulla sua vita, scrivendo di se stesso in terza persona, Solone definì la cosa in termini diversi: «Invecchio molte cose sempre imparando». Governanti forti ed efficienti, anche se non riuniscono in sé tutte le qualità di un Solone, emergono sugli altri di tempo in tempo, figure eroiche, torri visibili attraverso i secoli. Pericle presiedette al più grande secolo di Atene con saldo giudizio, moderazione e chiarissima fama. Roma ebbe Giulio Cesare, uomo di eccezionali doti di governo, anche se un governante che riesce a spingere gli oppositori all'assassinio avrebbe potuto sicuramente dimostrarsi più saggio. In seguito, sotto i quattro «imperatori buoni» della dinastia antonina - Traiano e Adriano, gli organizzatori e costruttori; Antonino il Pio, il benigno; Marco Aurelio, il venerato filosofo - i cittadini romani godettero per circa un secolo di buon governo, prosperità e rispetto. In Inghilterra Alfredo il Grande respinse gli invasori e fu il padre dell'unità dei suoi compatrioti. Carlo Magno riuscì a imporre l'ordine su una massa di elementi in conflitto, promosse le arti della civiltà non meno di quelle

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della guerra e si guadagnò un prestigio supremo nel Medioevo, eguagliato soltanto, quattro secoli dopo, da Federico II, chiamato Stupor Mundi, la meraviglia del mondo. Federico si occupò di tutto: arti, scienze, leggi, poesia, università, crociate, parlamenti, guerre, politica e contese con il papato - anche se queste ultime, nonostante i suoi notevoli talenti, finirono per lui in un'amara delusione. Lorenzo de' Medici, il Magnifico, promosse la gloria di Firenze ma con le sue mire dinastiche minò la repubblica. Due regine, Elisabetta I d'Inghilterra e Maria ·Teresa d'Austria, furono entrambe sovrane abili e sagaci e condussero i loro paesi alle più alte fortune. Il prodotto di una nuova nazione, George Washington, fu un leader che eccelle tra i migliori. Mentre JefTerson era più erudito, più coltivato, una mente straordinaria, una intelligenza ineguagliata, un uomo veramente universale, Washington aveva la solidità di una roccia e una sorta di nobiltà che esercitava un naturale ascendente sugli altri, assieme a una forza interiore e a una perseveranza che gli permisero di trionfare su un mare di ostacoli. Rese possibile, materialmente, la vittoria dell'indipendenza americana e la sopravvivenza della litigiosa e ancora instabile repubblica nei suoi primi anni di vita. Intorno a lui, in straordinaria fertilità, il talento politico fiorì come toccato dal sole tropicale. Con tutte le loro pecche e le loro beghe i Padri fondatori sono stati giustamente definiti da Arthur M. Schlesinger «la più ragguardevole generazione di uomini pubblici nella storia degli Stati Uniti e probabilmente di qualsiasi altra nazione». Vale la pena notare le qualità che l'autore attribuisce loro: erano individui impavidi, retti, profondamente versati nel pensiero politico antico e moderno, astuti e pragmatici, per nulla timorosi degli esperimenti e infine, e questo è significativo, «convinti della capacità dell'uomo di migliorare la propria condizione attraverso l'uso dell'intelligenza». Questo era il marchio dell'Età della ragione che li aveva formati, e anche se il XVI II secolo ebbe la tendenza a considerare gli uomini più razionali di quanto di fatto fossero, fece emergere però in questi uomini le migliori qualità di governo. Non avrebbe prezzo per noi la possibilità di sapere cosa produsse questa esplosione di talento da una base di soltanto due milioni e mezzo di abitanti. Vi contribuirono, suggerisce Schlesinger, fattori come l'ampia diffusione dell'educazione, stimolanti opportunità economiche, la mobilità sociale, la pratica dell'autogoverno - tutti elementi che incoraggiarono i cittadini a coltivare al massimo le loro attitudini politiche. Essendo il prestigio della Chiesa in declino e non

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offrendo ancora gli affari, la scienza o le arti campi di impegno competitivi, l'arte del governo restava pressoché l'unico sbocco aperto a uomini che avessero energia e propositi. Forse sopra ogni altra cosa fu la necessità del momento a evocare una risposta, e con essa l'opportunità di creare un nuovo sistema politico. Cosa poteva esserci di più stimolante, di più adatto a chiamare all'azione uomini energici e motivati? Né prima né dopo di allora, né in tale misura, si è dedicata una riflessione attenta e razionale alla formazione di un sistema di governo. Nelle rivoluzioni francese, russa e cinese si ebbero troppo odio di classe e spargimento di sangue perché ne sortissero esiti equi o costituzioni permanenti. Per due secoli il meccanismo americano è riuscito sempre a mantenere l'equilibrio, anche sotto pressione, senza scartare il sistema esistente per sperimentarne un altro dopo ogni crisi, come si è verificato in Italia e Germania, Francia e Spagna. Se si guarda a come sta crescendo l'incompetenza in America, questo può anche cambiare. I sistemi sociali possono sopravvivere a robuste dosi di follia quando le circostanze sono storicamente favorevoli, o quando i peggiori sbandamenti sono ammortizzati dalla vastità delle risorse o assorbiti da fattori di pure e semplici dimensioni fisiche, come è accaduto negli Stati Uniti durante il loro periodo di espansione. Oggi, non essendovi più ammortizzatori, non ci possiamo più permettere tanto facilmente la follia. I Padri fondatori della repubblica restano un fenomeno da tenere a mente per incoraggiarci nella nostra valutazione delle possibilità umane, ma il loro esempio è troppo raro per servire da base a normali aspettative. Tra lampi intermittenti di buon governo la follia trova momenti favorevoli. Nel caso dei Borbone di Francia essa ebbe una fioritura spettacolare. Luigi XIV è solitamente considerato un monarca di prima grandezza, in larga misura perché la gente tende ad accettare l'alto concetto che qualcuno ha di sé quando questi riesce a enfatizzarlo con successo. In realtà Luigi esaurì le risorse economiche e umane della Francia con le sue guerre continue e il loro costo in termini di debito nazionale, perdite sul campo, carestie e malattie, e avviò la Francia sulla strada di un collasso che poteva soltanto condurre, come fece sotto il secondo dei suoi successori, al rovesciamento della monarchia assoluta, ragion d'essere dei Borbone. Visto sotto questa luce Luigi XIV è il principe della politica perseguita contro i propri interessi di fondo. Non lui, ma Madame de Pompadour, l'amante del suo successore, ne intravide l'esito: «Dopo di noi il diluvio».

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Per generale consenso degli storici l'atto più colpevole e il peggior errore della carriera di Luigi XIV fu la revoca dell'Editto di Nantes nel 1685, con la quale si cancellava il decreto di tolleranza del padre e si riapriva la persecuzione degli ugonotti. Nell'atto è assente uno degli elementi che qualificano la follia completa: lungi dall'aver suscitato sul momento voci di riprovazione o di ammonimento, esso fu salutato con grande entusiasmo e lodato ancora trent'anni dopo, ai funerali del re, come una delle sue azioni più encomiabili. Questo stesso fatto, tuttavia., rafforza un altro criterio, e cioè che una data politica deve essere opera di un gruppo piuttosto che di un individuo. Il riconoscimento della follia della decisione del re non tardò molto a venire. Pochi decenni più tardi Voltaire la definì «una delle peggiori calamità della Francia», con conseguenze «completamente contrarie allo scopo che ci si prefiggeva». Come tutte le follie fu condizionata dagli atteggiamenti, dalle credenze e dalla politica del tempo, e come alcune, se non tutte, non era necessaria: si scelse di agire quando si sarebbe potuto con tutta tranquillità non far nulla. L'impatto del vecchio scisma religioso e della implacabile dottrina calvinista stava diminuendo; gli ugonotti, che non erano più di due milioni ovvero un decimo della popolazione, erano cittadini leali e laboriosi, troppo laboriosi per non creare disagio tra i cattolici. Era questo il punto dolente. Gli ugonotti osservavano soltanto il sabato contro oltre un centinaio di feste di santi e altre festività religiose dei cattolici, ed erano così più produttivi e avevano maggiore successo in commercio. I loro negozi e laboratori sottraevano affari alla concorrenza, una considerazione, questa, che era la base reale della richiesta di sopprimerli. La richiesta peraltro era giustificata con motivi più alti: la dissidenza religiosa era tradimento cei confronti del re, l'abolizione della libertà di coscienza - «questa perniciosa libertà» - sarebbe stata un servizio reso alla nazione e al tempo stesso a Dio. Il suggerimento piacque al re, che stava divenendo sempre più autocratico dopo essersi sbarazzato della tutela iniziale del cardinale Mazarino. Quanto più cresceva la sua autocrazia, tanto più l'esistenza di una setta dissidente gli appariva come un'incrinatura nella sottomissione alla volontà reale. «Una sola legge, un solo Re, un solo Dio»: questo era il suo concetto dello Stato, e dopo esserne rimasto per venticinque anni a capo le sue arterie politiche si erano indurite e la sua capacità di tollerare deviazioni dalla norma era ormai atrofizzata. Era stato colpito dalla malattia della missione divina, così spesso disastrosa per i governanti, e si era convinto che era per volere

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dell'Onnipotente «che io sia il Suo strumento per ricondurre alle Sue vie tutti coloro che mi sono soggetti». Aveva anche motivi politici. Considerate le inclinazioni cattoliche di Giacomo II d'Inghilterra, Luigi riteneva che il rapporto delle forze in Europa si stesse spostando nuovamente a favore della supremazia cattolica, e che egli avrebbe potuto contribuirvi con un gesto clamoroso contro i protestanti. In più, avendo alcune controversie con il papa su altre questioni, desiderava mostrarsi campione dell'ortodossia, riconfermando l'antico titolo francese di «Cristianissimo». La persecuzione ebbe inizio nel 1681, prima ancora della revoca. Il culto protestante venne messo al bando, scuole e chiese vennero chiuse, si impose il battesimo cattolico, professioni e mestieri subirono progressive restrizioni finché furono proibiti, agli ufficiali ugonotti si ordinò di dimettersi, furono organizzate squadre clericali di conversione e si offrì un premio in denaro a ogni convertito. Uno dopo l'altro uscirono decreti per distaccare e sradicare gli ugonotti dalle loro comunità e dalla vita nazionale. Ogni persecuzione genera la sua particolare brutalità: venne adottato ben presto il ricorso a misure violente, le più atroci delle quali furono le dragonnades, consistenti nell'alloggiare i dragoni presso le famiglie ugonotte, incoraggiandoli a comportarsi in modo sfrenato. Notoriamente violenta e indisciplinata, la truppa dei dragoni scatenò la carneficina, malmenando e derubando i capifamiglia, violentando le donne, sfasciando e devastando e lasciando lordume ovunque, mentre le autorità offrivano l'esenzione dall'orrore degli acquartieramenti come incentivo alle conversioni. In queste circostanze le conversioni di massa non potevano certo essere considerate genuine e provocarono risentirvento tra i cattolici, perché coinvolgevano la Chiesa nello spergiuro e nel sacrilegio. Alla messa venivano spesso trascinati comunicandi riluttanti, tra i quali alcuni - intenzionati a resistere che calpestavano l'ostia consacrata e ci sputavano sopra per essere poi messi al rogo per aver profanato il sacramento. L'emigrazione degli ugonotti cominciò come atto di sfida agli editti che proibivano loro di lasciare il paese sotto pena, se venivano colti, di essere condannati alle galere. D'altro canto i loro pastori, se rifiutavano di abiurare, venivano costretti all'esilio per timore che si mettessero a predicare in segreto incitando i convertiti a ricadere nell'errore. Ai pastori ostinati che continuavano a dirigere i culti si inflisse il supplizio della ruota, creando così alcuni martiri e incoraggiando la resistenza dei loro seguaci. Quando le conversioni di massa - in una regione arrivarono a

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60.000 in tre giorni - vennero riferite al re, questi prese la decisione di revocare l'Editto di Nantes avanzando il motivo che esso non era più necessario perché non c'erano più ugonotti. A questo punto cominciarono a sorgere dubbi sulla opportunità della politica adottata. In un consiglio tenuto alla vigilia della revoca, il Delfino, esprimendo probabilmente preoccupazioni che gli erano state partecipate privatamente, obiettò che revocare l'editto avrebbe potuto causare rivolte e un'emigrazione di massa dannosa al commercio francese, ma la sua sembra .essere stata l'unica voce contraria, indubbiamente perché egli era al sicuro dalle rappresaglie. Una settimana dopo, il 18 ottobre 1685, la revoca fu formalmente decretata e il gesto acclamato come «il miracolo del nostro tempo». «Mai tanti rallegramenti e tanto gaudio», scrisse il caustico Saint-Simon, che evitò di scendere in campo fin dopo la morte del re, «mai tanta profusione di lodi! [ ... ] Non sentiva [il re] altro che elogi». Gli effetti nocivi si fecero immediatamente sentire. Tessitori, cartai e altri artigiani ugonotti, le cui tecniche erano state un monopolio della Francia, portarono con sé le loro arti all'estero, in Inghilterra e negli stati tedeschi; banchieri e mercanti trasferirono i capitali; stampatori, librai, costruttori navali, avvocati, medici e molti pastori fuggirono. Nello spazio di quattro anni 8000-9000 uomini della marina e 10-12.000 dell'esercito, oltre a 500-600 ufficiali, raggiunsero l'Olanda aumentando così le forze del nemico di Luigi XIV, Guglielmo III, il quale divenne ben presto due volte nemico, salendo tre anni dopo sul trono inglese al posto del defenestrato Giacomo II. Si ritiene che l'industria della seta di Tours e di Lione sia rimasta rovinata e che alcune città importanti come Reims e Rouen abbiano perduto metà dei loro lavoratori. L'esagerazione, a cominciare dalla virulenta censura di SaintSimon che faceva salire addirittura a un quarto degli abitanti lo «spopolamento» del reame, fu inevitabile come solitamente avviene quando gli svantaggi vengono scoperti a fatti conclusi. Il numero totale degli emigrati è valutato oggi piuttosto elasticamente tra i 100.000 e i 250.000. Quale che ne fosse il numero, il loro valore per gli avversari della Francia fu immediatamente ravvisato dagli stati protestanti. L'Olanda concesse loro immediatamente il diritto di cittadinanza e l'esenzione dalle tasse per tre anni. Federico Guglielmo, elettore del Brandeburgo (la futura Prussia), entro una settimana dalla revoca emise un editto col quale invitava gli ugonotti nel suo territorio, dove le loro iniziative industriali contribuirono grandemente > gli altri, Alfredo aveva «accresciuto la gloria e la felicità di questo Paese», con l'aiuto del Potere Onnipotente che «conduce a rovina l'astuzia di uomini orgogliosi: ambiziosi e falsi». Questa era l'opinione che Giorgio aveva dei suoi ministri e questo era il suo programma: ripulire il sistema, restaurare un modo di governare giusto - il suo - e mettere in pratica l'ingiunzione della madre: «Giorgio, sii un re». I suoi sforzi dal primo giorno del regno per defenestrare i grandi signori whig, che comandavano a loro piacimento attraverso una ben organizzata rete clientelare, e per acquisire personalmente il controllo di questo sistema convinsero abbastanza naturalmente molti che era sua intenzione restaurare l'assolutismo reale che era stato sconfitto a così caro prezzo nel secolo precedente. Nel suo bisogno di un sostituto della figura paterna, Giorgio aveva concentrato sul conte di Bute un'adorazione nevrotica che era destinata a terminare - come terminò - nella delusione. Da quel momento, finché trovò il rassicurante Lord North, ebbe in antipatia o disprezzò tutti i primi ministri, oppure finì all'estremo opposto, in un rapporto di completa dipendenza; e poiché, pur entro certi limiti, aveva il potere di nominare e licenziare i ministri, le sue variazioni di comportamento tenevano il governo in una condizione di instabilità. Giacché Pitt aveva lasciato la cerchia del principe di Galles per servire sotto Giorgio II, Giorgio lo chiamò «cuore nerissimo», «vero serpente nell'erba» e giurò che avrebbe «fatto pagare cara l'ingratitudine» ad altri ministri. Pur confessando spesso a Bute di sentirsi tormentato dalla sfiducia in se stesso e dall'indecisione, era al tempo stesso convinto di essere sempre nel giusto, convinzione che si fondava sul presupposto che, poiché non voleva altro che il bene, chiunque non fosse d'accordo con lui era un furfante. Non era questo un sovrano portato a capire o a cercare di capire dei coloni insubordinati. Una delle debolezze del governo inglese era l'assenza di coesione, del concetto di una responsabilità collettiva. I ministri venivano nominati dalla Corona a titolo individuale e nelle scelte politiche seguivano le proprie idee, spesso senza consultare i colleghi. Poiché il governo era un'emanazione della Corona, gli aspiranti alle cariche dovevano trovar favore presso il re e lavorare poi in stretto contatto e

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in accordo con lui, cosa che si rivelò assai più scabrosa con Giorgio III di quanto non fosse stata sotto i primi Hannover, sovrani nati all'estero e piuttosto tardi di mente. Il monarca era, entro certi limiti, il capo dell'esecutivo con il diritto di scegliersi i ministri anche se non sulla base del solo favore reale. Il primo ministro e i suoi colleghi dovevano avere il sostegno dell'elettorato, nel senso che anche senza un partito politico dovevano raccogliere intorno a sé una maggioranza parlamentare su cui contare per poter presentare e fare approvare leggi rispondenti alle loro scelte politiche. Ma anche così restava il problema dell'esercizio emotivo e stravagante del diritto di scelta da parte di Giorgio II I, che nei primi dieci anni del suo regno, gli anni della gestazione del conflitto americano, condusse a una tenuta estremamente incerta dei governi, oltre ad alimentare i rancori personali nella lotta delle fazioni per conquistare favori e potere. Il Gabinetto era un organismo instabile, costantemente rimaneggiato, senza l'incarico di seguire una precisa politica. Il suo capo era chiamato semplicemente primo ministro; la resistenza al titolo di premier, che Grenville chiamava «odioso», era un lascito del regime ventennale di Sir Robert Walpole e nasceva dalla paura di una rinnovata concentrazione del potere in un solo uomo. La funzione, nella misura in cui doveva essere esercitata, apparteneva al primo Lord del Tesoro. Del Gabinetto esecutivo facevano parte cinque o sei personaggi che includevano, oltre al primo Lord, due segretari di Stato, per gli affari interni ed esteri- definiti stranamente dipartimento Settentrionale e dipartimento Meridionale-, il Lord cancelliere per le questioni legali e il Lord presidente del Consiglio, e cioè il Consiglio privato, un gruppo numeroso e fluttuante di ministri, ex ministri e importanti funzionari del regno. Il primo Lord dell'Ammiragliato, che rappresentava la componente più importante dell'esercito, era a volte, ma non sempre, membro del Gabinetto esecutivo. L'esercito aveva un segretario alla Guerra senza seggio nel Gabinetto e un ufficiale pagatore generale il quale, poiché controllava le paghe e i rifornimenti, aveva il posto più lucrativo nel governo, ma non aveva diritto di rappresentanza negli organismi politici. Fino al 1768, nessun dipartimento era specificamente incaricato dell'amministrazione delle colonie o dell'esecuzione di misure che le riguardassero. In via prammatica gli affari coloniali divennero questione di competenza del Board of Trade; e in maniera egualmente prammatica la marina da guerra, che manteneva i contatti tra le due sponde dell'oceano, fungeva da strumento delle decisioni politiche. I Lord più giovani, sottosegretari e commissari ai vari organismi

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governativi e alle dogane, si occupavano delle questioni correnti di governo, suggerivano e stendevano i progetti di legge per il Parlamento. Questi membri del servizio civile, fino agli ultimi impiegati, venivano nominati per decisione clientelare o grazie alle «relazioni», e così avveniva per i governatori delle colonie e il loro personale e per i funzionari dell'Ammiragliato nelle colonie. Le «relazioni» erano il cemento della classe al potere e la parola che apriva ogni porta, spesso a detrimento delle incombenze assegnate. La cosa non era affatto ignorata. Richiesto dal duca di Newcastle di far entrare nel suo stato maggiore un membro del Parlamento privo di qualifiche ma del cui voto il duca aveva bisogno, l'ammiraglio George Anson, che diverrà Primo Lord dell'Ammiragliato dopo il suo celebre viaggio intorno al mondo, mise seccamente in chiaro il disservizio che così si sarebbe reso alla marina: «Devo ora chiedere a vostra grazia di voler considerare seriamente quali possano essere le condizioni della vostra flotta se si hanno a soddisfare queste richieste delle circoscrizioni [elettorali], che devono essere frequenti»; l'usanza «ha recato più danno al pubblico che la perdita di un voto alla Camera dei comuni». Al di là dei ministeri, al di là della Corona, era il Parlamento ad avere la supremazia, duramente conquistata nel secolo precedente a prezzo di una rivoluzione, della guerra civile, del regicidio, della restaurazione monarchica e della seconda cacciata di un re. Nella calma che si era infine stabilita sotto il regno dell'importata casa di Hannover, la Camera dei comuni non era più il focoso arengo di una grande contesa costituzionale. Era diventato un organismo più o meno soddisfatto, più o meno statico i cui membri dovevano il proprio seggio alle «relazioni» o a circoscrizioni elettorali, i cosiddetti «borghi corrotti» controllati dalle rispettive famiglie, o a elezioni comprate e che davano il proprio voto al governo in cambio di concessioni clientelari: posizioni, favori e pagamenti diretti in denaro. Si è calcolato che nel I 770 190 membri della Camera dei comuni avevano posizioni remunerative dipendenti dal beneplacito governativo. Pur regolarmente denunciato come un fenomeno di corruzione, il sistema era così generalizzato e abituale che non era più considerato vergognoso. I membri del Parlamento non erano associati in partiti politici organizzati, né aderivano a princìpi politici identificabili. La loro identità era data dall'appartenenza a gruppi sociali o economici o anche geografici: c'erano i gentiluomini di campagna, la classe affaristica e mercantile delle città, i 45 rappresentanti della Scozia, un gruppetto di piantatori delle Indie occidentali che vivevano nelle loro

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residenze inglesi grazie alle rendite delle isole - per un totale di 558 rappresentanti alla Camera dei comuni. In teoria, i membri erano di due tipi: i knights ofthe shire o cavalieri di contea, e di questi ne venivano eletti in genere due per contea, e i burgesses o deputati cittadini che rappresentavano i boroughs, e cioè i borghi o circoscrizioni cittadine di quelle città che avevano il diritto in base alla loro carta costitutiva di essere rappresentate in Parlamento. Poiché i cavalieri di contea erano eleggibili solo se in possesso di terre con un censo minimo di 600 sterline l'anno, essi appartenevano alla piccola nobiltà economicamente solida o erano figli di pari. Uniti a loro dagli stessi interessi erano i membri dei borghi minori, i cui elettori erano così pochi di numero che li si poteva comprare in blocco, o che erano talmente piccoli che il locale proprietario terriero li aveva, letteralmente, in tasca. Questi borghi sceglievano rappresentanti appartenenti alla piccola nobiltà, che potevano secondare i loro interessi in Parlamento. La nobiltà terriera o partito delle campagne era di gran lunga il gruppo più numeroso alla Camera dei comuni e i suoi membri si presentavano come i rappresentanti dell'opinione popolare, anche se di fatto erano votati soltanto da circa 160.000 elettori. I più grandi borghi urbani avevano in pratica un suffragio democratico e vi si tenevano elezioni contestate e spesso tumultuose. I loro rappresentanti erano avvocati, commercianti, imprenditori, armatori, ufficiali dell'esercito e della marina, funzionari governativi e «nababbi» del commercio con l'India. Era gente influente, ma rappresentava un elettorato ancora più ristretto, poco più di 85.000 elettori per borgo, perché il partito delle campagne faceva in modo di tenere gran parte della popolazione urbana priva del diritto di voto. Quasi metà dei seggi, si calcolava, potevano essere comprati e venduti attraverso il sistema clientelare che ci è descritto dal vivo nelle istruzioni di Lord North al segretario al Tesoro al tempo delle elezioni generali del 1774. Il segretario doveva informare Lord Falmouth, che controllava sei seggi in Cornovaglia, che Lord North era d'accordo sulla cifra di 2500 sterline richieste per ciascuno dei tre seggi da assegnare a candidati di sua scelta; inoltre che «Mr. Legge può arrivare solo a 400 sterline. Se sarà eletto a Lostwithiel costerà al pubblico intorno alle 2000 ghinee. Gascoign dovrebbe avere il diritto di opzione su Tregony se pagherà 1000 sterline»; inoltre: «Fate sapere a Cooper se avete promesso 2500 o 3000 sterline per ciascuno dei [cinque] seggi di Lord Edgcumbe. Ero pronto a pagargli 12.500 sterline ma ne chiese 15.000». I patroni politici controllavano a volte fino a sette o otto seggi,

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spesso in gruppi familiari che dipendevano da un pari nella Camera dei Lord e i cui membri agivano insieme dietro istruzioni del patrono, anche se quando una questione si faceva rovente, provocando divergenze d'opinione, i singoli individui a volte votavano secondo le proprie convinzioni. I cavalieri delle contee nelle quali l'elettorato era troppo numeroso per essere dominato da un patrono e trenta o quaranta borghi indipendenti non controllati dalla grande nobiltà locale si consideravano il partito delle campagne. Qui esisteva ancora l'idea tory, un residuo del partito della Corona del XVII secolo tagliato ormai fuori dal governo centrale, chiuso e scontroso. Da lungo tempo abituate alla pratica del governo locale, le contee nutrivano risentimento per l'interferenza di Londra e disprezzavano la corte e la capitale per principio, anche se questo non era incompatibile con l'appoggio ai ministeri whig. I rappresentanti delle contee non erano aggregati ad alcuna fazione, non seguivano capi, non sollecitavano titoli o «posti»: servivano il proprio elettorato, \'Otavano secondo il suo interesse e le proprie convinzioni. Un parlamentare dello Yorkshire scrisse in una lettera di essere «rimasto seduto dodici ore nella Camera dei comuni senza muovermi, della qual cosa fui ben soddisfatto perché mi diede una certa facoltà, in base ai vari argomenti delle due parti, di stabilire chiaramente col voto ia mia opinione». Uomini che pensano con la propria testa sconfiggeranno sempre la corruzione se saranno in numero sufficiente per farlo.

La preoccupazione principale di George Grenville quando entrò in carica era la solvibilità finanziaria della Gran Bretagna. Acquisita ormai la pace di Parigi, fu in grado di ridurre l'esercito da 120.000 a 30.000 uomini; le sue economie a spese della marina, con la drastica riduzione delle attrezzature cantieristiche e delle manutenzioni, avranno conseguenze paralizzanti quando verrà il momento dell'azione. Al tempo stesso Grenville preparò le misure legislative per tassare il commercio americano, non ignaro delle reazioni che la cosa avrebbe sollevato. Gli agenti o i faccendieri stipendiati dalle colonie per rappresentare i loro interessi a Londra, dato che esse non avevano propri rappresentanti in Parlamento, erano spesso i parlamentari o persone che avevano accesso ai circoli governativi. Richard J ackson, importante membro della Camera, commerciante e avvocato, e agente in varie occasioni del Connecticut e della Pennsylvania, del Massachusetts e del New York, era segretario privato di Grenville. «Ho accesso a quasi ogni posto [ufficio] che gli amici delle colonie abbiano deside:rio di raggiungere», scrisse a Franklin «ma non sono sicuro di

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poter fare un'impressione proporzionata ai miei sforzi». Jackson e i suoi facevano quel che potevano, sotto una cappa di indifferenza, per far conoscere nella capitale l'opinione delle colonie. Oltre il tramite fornito da Jackson, Grenville era in corrispondenza con i governatori delle colonie e con l'ispettore generale alle dogane delle colonie settentrionali, e chiese loro consiglio prima di approntare un disegno di legge per imporre l'osservanza dei regolamenti doganali. Non era certo un segreto che gli americani avrebbero considerato l'esazione dei dazi, da lungo tempo lasciata andare praticamente in disuso, come una forma di tassazione alla quale erano pronti a opporsi. L'ordine preliminare di Grenville del novembre 1763 col quale si ordinava ai funzionari doganali di riscuotere per intero le tariffe esistenti aveva causato in America, secondo quanto riferì il governatore del Massachusetts, Francis Bernard, «più allarme» della presa da parte dei francesi di Fort William Henry, sei anni prima. Per la storia, al Board ofTrade era stato chiesto di suggerire con quale metodo, «il meno gravoso e il più accettabile alle colonie», queste avrebbero contribuito ai costi del «personale civile e militare». Dato che non c'era modo di rendere più accettabile il fardello, e Grenville aveva già deciso cosa fare, è probabile che non ci si aspettasse seriamente una risposta al quesito. Se la prospettiva di guai non disturbava troppo il ministero era perché, come disse abbastanza ragionevolmente Grenville, «È di tutti non desiderare di essere tassati», e anche perché egli era in ogni caso giunto alla conclusione che l'America poteva e doveva contribuire ai costi della propria amministrazione e della propria difesa. I suoi due segretari di Stato, il conte di Halifax e il conte di Egremont, non erano certo uomini capaci di dissuaderlo. Lord Halifax a 23 anni aveva ereditato col titolo di pari le fortune di famiglia e le aveva accresciute con un matrimonio che gli aveva portato, grazie al suocero, un magnate dell'industria tessile, l'enorme somma di 110.000 sterline. In virtù di queste sue qualifiche, era stato cameriere segreto del re e gran maestro della caccia al cervo e aveva occupato altre cariche di rappresentanza a corte finché la giostra della politica lo aveva depositato alla presidenza del Board of Trade, ufficio che deteneva al momento della fondazione della Nuova Scozia, la cui capitale venne così battezzata col suo nome. Considerato persona debole ma amabile, fu un forte bevitore e vittima della senilità precoce che lo doveva condurre alla morte a 55 anni, mentre prestava servizio nel primo Gabinetto del nipote, Lord North. Lo smodato vizio del bere diffuso a quel tempo abbreviava spesso la

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vita degli individui, o ne menomava le capacità. Non vi sfuggì neppure l'universalmente ammirato marchese di Granby, comandante in capo delle forze armate in Inghilterra nel 1766-1770, un nobile soldato di nobile carattere: secondo Horace Walpole, «i suoi continui eccessi nel consumo del vino lo portarono all'altro mondo a soli 49 anni». Nelle elezioni generali del 1774, Charles Fox, egli stesso consumatore non mediocre di alcolici, si lamentò dei rinfreschi che doveva offrire durante la campagna elettorale. Un pomeriggio arrivarono otto ospiti che si trattennero dalle 3 del pomeriggio alle I Odi sera e bevvero «dieci bottiglie di vino e sedici zuppiere di punch, ognuna delle quali poteva contenere quattro bottiglie» -, ossia un totale di nove bottiglie a testa. L'altro segretario di Stato di Grenville, il conte di Egremont, suo cognato, era incompetente e arrogante in pari misura, qualità ereditate da un nonno di stirpe ducale noto come «l'orgoglioso duca di Somerset». Era un misto, riferisce il sempre impietoso Horace Walpole, «di orgoglio, pessimo carattere e impeccabili natali[ ... ] [non aveva] nessun~ conoscenza dei problemi né il più modesto bagaglio di capacità parlamentare», e, come se ciò non bastasse, era universalmente considerato indegno di fiducia. Disprezzava gli americani ma scomparve dalle loro vicende morendo per un colpo apoplettico causato (secondo Walpole) da un'indigestione, mentre il progetto della legge fiscale era ancora in preparazione. Il suo successore, il conte di Sandwich, che in passato era stato e sarà nuovamente Primo Lord dell'Ammiragliato, rappresentò un cambiamento solo per quel che riguardava il carattere. Cordiale, affabile e corrotto, utilizzò il controllo sulle nomine e sui rifornimenti della marina per fini di profitto personale. Pur non essendo un dilettante - era un entusiasta della marina e appassionato del proprio lavoro-, con la sua pratica inveterata del peculato lasciò i cantieri in condizioni scandalose, i fornitori defraudati e navi che non erano in grado di tenere il mare. La situazione della marina, messa a nudo dalla guerra con l'America, gli procurò un voto di censura in entrambe le Camere. In società faceva parte della cricca dell'Hellfire Club di Dashwood ed era talmente preso dal gioco d'azzardo che per risparmiare il tempo dei pasti aveva l'abitudine di infilare una fetta di carne tra due fette di pane per poter mangiare mentre giocava, dando così il proprio nome a un indispensabile prodotto gastronomico del mondo occidentale. Mentre sotto l'egida di questi ministri si stava preparando il progetto della legge fiscale, si prese senza sanzione legislativa del

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Parlamento una misura che si rivelò fertile di discordie. Il proclama sui confini del 1763 proibì qualsiasi stanziamento dei bianchi a occidente dei monti Allegheny, riservando queste terre agli indiani. Dettato dalla feroce sollevazione indiana nota come la «ribellione di Pontiac», che spazzò il territorio trascinando le tribù dai Grandi Laghi alla Pennsylvania e minacciò a un certo punto di scacciare gli inglesi da quella zona, il proclama intendeva tranquillizzare gli indiani impedendo ai coloni di invadere i loro territori di caccia e di provocarli così a una nuova guerra. Un'altra rivolta indiana poteva fornire un comodo paravento ai francesi e avrebbe anche richiesto nuove spese belliche che gli inglesi non si potevano permettere. Dietro questo motivo dichiarato c'era però il desiderio di confinare i coloni sulla costa atlantica, dove avrebbero continuato a importare merci britanniche, e impedire a gente indebitata e ad avventurieri di attraversare le montagne e stabilire una colonia indipendente dalla sovranità britannica nel cuore dell'America. Qui, privi di contatto con i porti sull'oceano, avrebbero prodotto da sé tutto quello di cui avevano bisogno «a infinito pregiudizio», secondo la nera previsione del Board of Trade, «della Gran Bretagna». Il proclama ovviamente suonò sgradito ai coloni che stavano già formando società per azioni per promuovere l'emigrazione a fini di profitto o che, come George Washington e Benjamin Franklin, si stavano procurando concessioni di terre al di là delle montagne a fini di speculazione fondiaria. Per il colono irrequieto, avido di terra, era un'interferenza provocatoria. Un secolo e mezzo di lotte per sconfiggere una natura selvaggia non avevano reso gli americani disponibili ad accettare facilmente l'idea che un lontano governo di signori in eleganti pantaloni di seta avesse il diritto di impedire loro di prendere possesso della terra che essi erano capaci di conquistare con l'ascia e il fucile. Nel proclama non vedevano un atto per proteggere gli indianicontro i quali durante la rivolta di Pontiac le loro forze volontarie si erano impegnate più delle «giubbe rosse» -, ma piani corrotti di Whitehall per concedere grandi estensioni di terre della Corona ai favoriti di corte. Si ritiene che la conoscenza reciproca generi comprensione e che trovarsi uniti nella stessa lotta cementi il cameratismo, ma nella guerra dei Sette Anni l'effetto del contatto tra le forze regolari e quelle provinciali fu esattamente l'opposto. Alla fine delle ostilità il livello della simpatia, del rispetto e della comprensione reciproca era più basso di prima. Quelli delle colonie si risentivano istintivamente per lo snobismo dell'esercito britannico, per gli ufficiali reali che disdegna-

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vano di accordare uguale dignità ai loro ufficiali, per la mania di tirare tutto a lucido (le truppe britanniche usavano fino a 6500 tonnellate di farina all'anno per imbiancare parrucche e pantaloni), per l'imposizione del supremo comando britannico alle forze provinciali e per le arie superiori in genere di quelli d'oltremare. La cosa era prevedibile. D'altro canto il disprezzo britannico per il soldato coloniale, che finirà un giorno col ricevere (con l'aiuto francese) la spada inglese in segno di resa, fu l'errore di giudizio più madornale, strampalato e negativo commesso negli anni precedenti il conflitto. Come poteva il generale Wolfe, l'eroe che a 32 anni aveva conquistato Québec cd era morto sul campo di battaglia, chiamare i rangers che avevano combattuto con lui «i peggiori soldati dell'universo»? In un'altra lettera aggiunse: «Gli americani in generale sono i cani più sporchi, spregevoli e codardi che si possa concepire[ ... ] piuttosto un peso che una forza reale per qualsiasi esercito». Sporchi i rangers, uomini dei boschi, certamente lo erano a confronto con le «giubbe rosse» e le loro parrucche incipriate. L'aspetto brillante era divenuto criterio di tale importanza per un esercito europeo da determinare il giudizio. Sir Jeffrey Amherst aveva una «scarsissima stima» dei rangers e il successore di Wolfe, il generale James Murray, definì gli americani «assai inadatti e insofferenti alla guerra». Altri che avevano prestato servizio nei boschi e negli accampamenti d'America accanto ai rangers li chiamavano feccia, gente priva d'ogni qualità militare, codardi. In patria questi giudizi si ammantavano di superbia e si trasformavano in fatue vanterie come quella del generale Thomas Clarke, aiutante di campo del re, il quale, presente Benjamin Franklin, disse che «con un migliaio di granatieri garantiva di percorrere l'America da cima a fondo e di mettere a posto tutti i maschi, un po' con la forza e un po' con quattro blandizie». Si è individuata una possibile causa di questo fatale errore di giudizio nella diversa natura del servizio militare così com'era conosciuto da un lato dai professionisti inglesi, dall'altro dai provinciali, i quali venivano reclutati dalle loro assemblee locali in base a un contratto per una missione specifica e un periodo di tempo limitato con ben definite condizioni di paga e di approvvigionamenti. Quando queste condizioni venivano a mancare, come è inevitabile che accada in ogni guerra, le truppe coloniali recalcitravano, rifiutavano di prestare servizio e se le loro lagnanze non trovavano risposta prendevano semplicemente la via di casa, non eclissandosi in diserzioni solitarie, ma muovendosi apertamente, in blocco come ovvia

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risposta alla violazione di un contratto. Questo era un comportamento assolutamente incomprensibile per gli ussari, i dragoni leggeri e i granatieri della Guardia impregnati di fierezza e di tradizione reggimentale. I comandi inglesi cercavano di applicare i regolamenti e gli articoli di guerra; i provinciali, soldati che restavano ostinatamente dei civili e che erano decisi a non permettere che nulla li trasformasse in soldati regolari, li rifiutavano ostinatamente al punto di disertare in massa, se necessario. Di qui la loro reputazione di «feccia». Altra fonte di malanimo fu il tentativo da parte della Chiesa anglicana di creare un episcopato nella Nuova Inghilterra. Per la capacità tipica della religione di suscitare inimicizia, l'idea di un episcopato sollevò i più fieri sospetti tra gli americani. Per loro un vescovo era una testa di ponte della tirannia, uno strumento per sopprimere la libertà di coscienza (che nessuno praticava meno degli abitanti della Nuova Inghilterra), una porta segretamente aperta al papismo e una fonte sicura di nuove tasse per mantenere la gerarchia. In realtà il governo britannico, in quanto distinto dalla Chiesa, non aveva la minima intenzione di patrocinare un episcopato americano separato. Ciononostante, «No al vescovo!» continuò a essere un grido potente come «No alle tasse!» e più tardi «No al tè!». Anche gli alberi per le navi della marina britannica divennero motivo di attrito a causa della legge sui pini bianchi, che proibiva l'abbattimento delle piante d'alto fusto riservandole alla costruzione dell'alberatura delle navi. Sarebbe stato probabilmente possibile appianare queste multiformi divergenze se alla fine della guerra dei Sette Anni, quando la necessità di un'amministrazione riorganizzata e uniforme era generalmente riconosciuta, si fosse creato un dipartimento per l'America incaricato di seguire costantemente e di fornire adeguata amministrazione alle colonie. Il momento era pressante: si doveva incorporare un nuovo, vasto territorio, le varie carte costitutive delle colonie avevano già dimostrato di essere fonte di guai. Ma questa necessità restò senza risposta. L'attività politica era assorbita dalle iniquità di Lord Bute e dalle conseguenti manovre di colleghi e rivali. Gli affari delle colonie, e il relativo contenzioso, vennero lasciati al Board ofTrade, che ebbe tre presidenti uno dopo l'altro nel solo 1763. Il progetto della legge fiscale presentato al Parlamento nel febbraio del 1764 conteneva provvedimenti destinati a provocare guai. Riduceva una tariffa ignorata da tempo, quella sulla melassa, fulcro del commercio della Nuova Inghilterra, ma imponeva l'esazione di una nuova tariffa di 3 pence per gallone; sottraeva i processi dei sospetti violatori ai tribunali di diritto consuetudinario, con giurie di concitta-

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clini poco propensi a dichiararli colpevoli, affidandoli a una speciale corte dell'Ammiragliato - priva di giuria e con giudici non facilmente corruttibili dai commercianti delle colonie - con sede ad Halifax, località lontana che l'imputato doveva raggiungere per potersi difendere. La legge non nascondeva, anzi proclamava a chiare lettere che il suo intento era di «procurare entrate in America per coprire le spese per la difesa, protezione e conservazione della stessa». Questo era il drappo rosso sventolato dalla legge. Eppure era chiaro che se il diritto della Corona di regolamentare il commercio era riconosciuto pur con alti e bassi d'umore dagli americani, questi erano decisi a negare a chiunque il diritto di tassarli. Più pressante era il loro timore di vedersi rovinare il commercio, redditizio finché i diritti doganali restavano poco più che una finzione, ma senza margine di profitto se si imponeva l'esazione di una tariffa di 3 pence al gallone. Gli agenti delle colonie in Inghilterra avevano già fatto notare che un calo del commercio non sarebbe stato di nessun beneficio alla Gran Bretagna e insistevano ora che la melassa non poteva reggere una tariffa di più di un penny al gallone, pur ventilando la possibilità che i commercianti avrebbero anche «tacitamente accettato» 2 pence.• Localmente, le assemblee del Massachusetts e del New York stavano già brontolando per la violazione dei loro «diritti naturali» insita nel principio della tassazione e sollecitando il Connecticut e il Rhode lsland a unirsi a loro nella protesta contro la «ferita mortale alla pace di queste colonie». Si opponevano al principio con altrettanta forza che alla minaccia concreta alle loro tasche perché ritenevano che l'accettazione di un precedente di tassazione parlamentare avrebbe aperto la porta a future tasse e altre imposizioni. In questa fase, comunque, dell'opinione delle colonie giungevano a Londra solo scarsi echi, né vi si prestava eccessiva attenzione. Il Board of Trade fissò la tariffa a 3 pence e la legge dell'imposta sull'entrata (in seguito generalmente conosciuta come la legge sullo zucchero-Sugar Act) venne varata dal Parlamento nell'aprile del 1764 con un solo voto contrario, quello di un parlamentare di nome John Huske, che era nato a Boston. Tra le pieghe della legge c'era una freccia avvelenata: l'annuncio

• È stato suggerito che le obiezioni dei commercianti vennero tenute in sordina perché in quel momento il principale agente delle colonie, Benjamin Franklin della Pennsylvania, non dimenticò che la sua posizione di sostituto direttore generale delle poste in America e quella di suo figlio quale govern..1tore del New Jersey dipendevano dal beneplacito della Corona.

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che a essa sarebbe seguita una già progettata tassa sul bollo (lo Stamp Tax). Questo non era un orrendo marchingegno per mettere alla tortura gli americani, ma una delle tante imposte ad hoc in uso in Inghilterra. In questo caso una tassa sulle lettere, sui testamenti, contratti, atti di vendita e altri documenti legali o spediti per posta. Grenville inserì nella legge questo preavviso perché era in effetti consapevole dell'esistenza di un problema latente, che riguardava il diritto del Parlamento di tassare dei soggetti privi di rappresentanza parlamentare, diritto che da parte sua dava per certo al di là d'ogni discussione, e sperava «in nome di Dio» che la questione non venisse sollevata in Parlamento. Una delle premesse del governo inglese in un'epoca stanca di lotte era di conservarsi un ampio margine di politica accettabile a tutti, in modo da non svegliare il can che dormel'eterna aspirazione al «consenso». Grenville non si preoccupava tanto della reazione delle colonie, quanto di vedersi agitare le acque in un Parlamento di tutto riposo. Incluse notizie della tassa sul bollo nel progetto della legge fiscale nella speranza forse che l'approvazione della legge avrebbe stabilito senza tanti problemi il principio che il Parlamento aveva il diritto di imporre un'imposta sull'entrata, oppu!"e con l'intento di lanciare così un suggerimento alle colonie perché provvedessero a tassarsi da sé, anche se le sue azioni successive non confortano questa ipotesi. Si è anche voluto scorgere un motivo più machiavellico, e cioè che Grenville sapesse che la notizia avrebbe provocato tali grida di protesta nelle colonie da unire l'intero Parlamento in una rabbiosa affermazione della propria sovranità. Le grida di protesta in effetti ci furono, sonanti e senza peli sulla lingua, ma quando giunsero in Inghilterra l'attenzione di tutti era assorbita da una questione che richiamò l'interesse di tutti, nessuno escluso: il caso Wilkes. Non che John Wilkes distraesse l'attenzione dall'America, perché c'era ancora poco da cui distrarla. Le misure del 1763-64 non erano irragionevoli né erano, in sé, una follia, se non in quanto non tenevano conto delle caratteristiche, del temperamento e dei vitali interessi locali_ della gente alla quale venivano applicate. Ma fare caso a interessi locali non è nella natura di un governo imperiale. Gli abitanti delle colonie non erano dei primitivi, «gente eccitata e selvaggia», ma la progenie di dissidenti di stirpe britannica straordinariamente risoluti e intraprendenti. Essenzialmente, era un problema di atteggiamento. Gli inglesi si comportavano - e più ancora, pensavano - in termini imperiali, come governanti nei confronti di sudditi. I coloni si consideravano degli uguali, detestavano l'interfe-

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renza e sentivano odore di tirannia in ogni brezza proveniente dall'altra parte dell'Atlantico. La libertà era il sentimento politico più intenso del tempo. L'autorità governativa non era amata; anche se le strade di Londra erano continuamente teatro di aggressioni e rapine, la resistenza alla creazione di un corpo di polizia era forte: quando Lord Shelburne suggerirà, dopo le giornate di violenza, incendi e uccisioni dei tumulti (i Gordon riots) del 1780, che era giunto il momento di avere una polizia organizzata, venne considerato il sostenitore di qualcosa che poteva addirsi solo all'assolutismo francese. L'idea di un censimento fu vista come un'intollerabile intrusione. L'obbligo di fornire informazioni a «impiegati governativi e incaricati delle tasse» venne denunciato da un membro del Parlamento nel 1753 come qualcosa che «sovvertiva totalmente gli ultimi resti della libertà inglese». Se un qualsiasi funzionario, disse, gli avesse chiesto informazioni sulla sua casa e la sua famiglia si sarebbe rifiutato di dargliele e se avesse insistito l'avrebbe fatto scaraventare nell'abbeveratoio. Furono questi stati d'animo a riscaldare l'atmosfera intorno al problema della tassazione e al caso Wilkes. Il caso Wilkes, che fece esplodere un dibattito costituzionale di allarmante virulenza, fu importante per l'America perché le creò alleati nella causa della «libertà». Poiché i diritti parlamentari rappresentati da Wilkes e i diritti americani erano entrambi visti come problemi di libertà, coloro che divennero oppositori del governo nell'affare Wilkes divennero ipso facto amici della causa americana. John Wilkes faceva parte del Parlamento cd era un personaggio mondano volgare ma dotato di un certo spirito, il tipo che si acquista notorietà insultando a destra e a manca. Nel 1763 pubblicò sul suo giornale,' «The North Briton», un feroce attacco contro i termini dell'accordo raggiunto con la Francia a chiusura della guerra dei Sette Anni, intessendolo di insulti al re. Venne arrestato, con un discusso mandato di cattura, con l'accusa di diffamazione sediziosa e imprigionato nella Torre di Londra. Il giudice Pratt (il futuro Lord Camdcn) ne ordinò il rilascio in virtù del suo privilegio parlamentare. Espulso dalla Camera dei comuni per voto della maggioranza governativa, Wilkes riparò in Francia, mentre in Inghilterra lo si processava in contumacia per diffamazione del re e - questione non pertinente al caso - per oscenità, per aver pubblicato privatamente un'opera pornografica, Essay on Women, che il suo amico di un tempo Lord Sandwich insistette a voler leggere parola per parola alla Camera dei Lord.

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Siffatte attenzioni condussero alla condanna di Wilkes con una sentenza di proscrizione e riuscirono anche a fare scoppiare una crisi quando l'opposizione parlamentare, liberata dall'onere di difendere l'individuo, fece blocco su un ordine del giorno che dichiarava illegale il suo arresto con un semplice mandato di cattura. Quando l'ordine del giorno venne sconfitto di misura da una maggioranza governativa calata a soli 14 voti di scarto, la votazione rivelò la debolezza del sistema clientelare nei casi in cui la Camera subodorava una violazione dei propri diritti. Il re ordinò irosamente a Grenville di destituire tutti i parlamentari traditori che avevano cariche nella casa reale o nel ministero, creando così un nucleo di opposizione che era destinato a crescere. Come politico Giorgio III non era particolarmente sagace.

2 «SI ASSERISCE UN DIRITTO CHE SI SA DI NON POTER ESERCITARE»: 1765

La tassa sul bollo, introdotta da Grenville nel 1765, sarà ricordata «finché durerà il globo». Così proclamò Macaulay in una delle sue squillanti metafore di grandezza storica. Fu un gesto, scrisse, destinato a «produrre una grande rivoluzione, i cui effetti saranno sentiti a lungo dall'intera razza umana» e imputò a Grenville la colpa di non averne previsto le conseguenze. Il suo fu il senno del poi: nemmeno gli agenti delle colonie le previdero. Ma le informazioni a disposizione degli inglesi erano sufficienti a far presagire una risoluta resistenza da parte degli americani e la prospettiva di grosse difficoltà. In Gran Bretagna giungevano ormai dalle colonie, e si pubblicavano sul «London Chronicle» e altri giornali, notizie del risentimento suscitato dalla tassa sullo zucchero e dell'indignazione per la proposta tassa sul bollo. Massachusetts, Rhode Island, New York, Connecticut, Pennsylvania, Virginia e Carolina del Sud levarono veementi proteste: ognuna di queste colonie affermava di avere il «diritto» di tassarsi da sé e negava il diritto del Parlamento. L'errore basilare della posizione del governo britannico fu messo in luce dallo sfortunato Thomas Hutchinson, vicegovernatore del Massachusetts, il quale subirà dalla sua colonia molti più affronti di quanti non meritava. In un trattato, di cui mandò copie al governo di Londra, fece notare che cercare di ottenere un gettito fiscale era una finalità sbagliata perché il profitto

• La tassazione fu il nodo centrale del contenzioso tra le colonie americane e la Gran

Bretagna. Le colonie non erano abituate a pagare imposte dirette, si limitavano a saltuari versamenti volontari all'erario; distinguevano inoltre tra imposte «esterne», che servivano a regolare in base a princìpi mercantilistici il commercio dell'impero, e imposte «interne», vero e proprio gettito fiscale a favore del Tesoro britannico. Si riconosceva al Parlamento, principale assemblea dell'impero, il diritto di stabilire le imposte «esterne»; ma solo alle assemblee locali quello di esigere imposte «interne». Quando, agli occhi dei coloni, i provvedimenti fiscali inglesi cominciarono a violare queste distinzioni e questi diritti, iniziò la contestazione e la lotta [N.d.T.).

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che l'Inghilterra ricavava naturalmente dal commercio coloniale, e che sarebbe stato comp1omesso dall'animosità dei coloni, era superiore a qualsiasi prevedibile gettito della tassa. Hutchinson, una figura tragica, vilipeso da una dcli~ parti e ignorato dall'altra, indicò dunque per tempo qual era la follia dell'Inghilterra. La cosa era chiara anche ad altri. Benjamin Franklin, in un promemoria personale, osservò che, se al momento gli americani amavano mode, costumi e manufatti inglesi, «Seguirà il disgusto per queste cose. Il commercio ne soffrirà di più di quel che sarà il profitto della tassa». E aggiunse un pensiero che sarebbe dovuto essere articolo di fede per il governo britannico: «Tutto quello che si ha diritto di fare, non sempre è bene farlo». Sarà, in sostanza, la tesi di Burke: non si deve dimostrare un principio quando la dimostrazione è controproducente. Quando le proteste e le petizioni raggiunsero Londra- la traversata atlantica in direzione dell'Inghilterra durava dalle quattro alle sei settimane, nella direzione opposta il doppio -, Grenville stava preparando la legge sul bollo. Ansiosi di impedirla, quattro agenti delle colonie, Benjamin Franklin, Richard J ackson, Charles Garth un parlamentare che agiva per Maryland e Carolina del Sud- ejared lngersoll, appena arrivato dal Connecticut, si fecero ricevere da lui in gruppo. La discussione si concentrò sull'alternativa, e cioè sulla possibilità che le colonie si autotassassero. Alla domanda di Grenville se potevano specificare quanto ciascuna di esse era disposta a reperire, gli agenti, che non avevano istruzioni in merito, non furono in grado di dare una risposta, né Grenville in realtà la voleva. Quel che voleva era stabilire il diritto del Parlamento a tassare, allora e in seguito. Evitò di insistere sulla questione e si tenne volutamente sul vago nel rispondere agli agenti che cercavano di sapere quali erano le somme necessarie. L'alternativa praticabile, all'inizio stesso della storia, era in effetti questa. Se quello che la Gran Bretagna voleva dalle colonie era un gettito fiscale per pagare il costo della loro difesa - cosa abbastanza ragionevole - avrebbe potuto, e dovuto, richiedere alle colonie di provvedere in proprio all'esazione. Le colonie erano disposte a farlo. Nel 1764 l'assemblea del Massachusetts rivolse al governatore Francis Bernard una petizione per convocare una sessione speciale che desse modo alla colonia di autotassarsi piuttosto che essere tassata dal Parlamento, ma il governatore, pur favorevole a questa procedura, rifiutò perché riteneva che in assenza di specifiche richieste da parte di Grenville la cosa sarebbe stata inutile. La Pennsylvania incaricò il suo agente a Londra di far sapere che era disposta a raccogliere fondi per

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l'erario ove questo le fosse stato chiesto in maniera regolare e per una somma specifica. «La maggior parte delle colonie» secondo l'agente Charles Garth «avevano significato la loro buona disposizione ad assistere la madrepatria dietro debite richieste da qui provenienti». In maniera altrettanto esplicita venne palesata l'opposizione delle colonie. Quando Thomas Whately, segretario al Tesoro e parlamentare incaricato della stesura del progetto della legge sul bollo, si informò presso gli agenti delle colonie sulle possibili reazioni americane, essi gli risposero che la tassa non era né «opportuna» né «prudente». lngersoll, agente del Connecticut, disse che le colonie della Nuova Inghilterra «vivevano nella più tremenda apprensione che un tale passo venisse intrapreso», e che molti gentiluomini abbienti avevano già detto che se ciò fosse avvenuto si sarebbero «trasferiti con le loro famiglie e le loro fortune in un regno straniero». Whately non si lasciò impressionare perché, come disse, indiscutibilmente «alcune tasse erano del tutto necessarie». Doveva sentirne di peggio. Il rappresentante della Gran Bretagna, il governatore reale del Rhode lsland, Stephen Hopkins, enunciò in un opuscolo, The Rights of the Colonies Examined, l'irremovibile opposizione dei sudditi americani di sua maestà alla tassazione se non «per decisione dei loro rappresentanti, come avviene per gli altri liberi sudditi di Vostra Maestà». L'assemblea del Rhode lsland spedì l'opuscolo all'agente londinese della colonia, con una petizione diretta al re che ribadiva le opinioni in esso espresse. Parimenti, l'assemblea del New York, con petizioni al re e a entrambe le Camere del Parlamento, formulò la sua «più fervente supplica» perché il Parlamento, a prescindere dalla necessaria regolamentazione del commercio, lasciasse «al potere legislativo della colonia il compito di imporre al popolo tutti gli altri oneri che le pubbliche esigenze richiedono». C'erano prove più che sufficienti che una tassazione decisa dal Parlamento avrebbe incontrato nelle colonie una ferrea resistenza. Ma questo venne ignorato perché per i responsabili della politica britannica la Gran Bretagna era sovrana e i coloni sudditi, perché gli americani non venivano presi sul serio e perché Grenville e i suoi colleghi, che già avevano dei dubbi sui diritti attinenti al caso, volevano raggiungere l'obiettivo fiscale in una maniera che sanzionasse il dominio eminente del Parlamento. Fu una dimostrazione classica, e in ultima analisi finalizzata alla sconfitta, di come si può procedere a dispetto di indicazioni totalmente negative. Grenville non rivolse formali richieste alle colonie perché provvedessero a tassarsi e, rifiutando questa alternativa, aprì la strada alla rivoluzione.

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In Parlamento le petizioni delle colonie vennero respinte senza che venissero esaminate in quanto riguardavano un progetto di legge finanziaria per il quale non erano ammesse petizioni.Jackson e Garth parlarono alla Camera dei comuni per negare il diritto del Parlamento di tassare le colonie «fin tanto che o a meno che agli americani sia permesso mandare rappresentanti in Parlamento». Alzatosi a rispondere, il presidente del Board of Trade, Charlcs Townshend, che diverrà ben presto una figura decisiva nel conflitto, provocò il primo momento di eccitazione nel dramma americano. Gli americani, chiese, «figli che devono il loro stanziamento alle nostre armi, daranno a malincuore il loro obolo per alleviare il peso che grava sulle nostre spalle?». Il colonnello Isaac Barré, un fiero ex soldato cieco da un occhio che aveva combattuto in America con Wolfe e Amherst, balzò in piedi, incapace di trattenersi. «Devono il loro stanziamento alle vostre cure? No! Alle vostre oppressioni devono il loro stanziamento in America ... Nutriti dalla vostra benevolenza? Cresciuti in mezzo alla vostra incuria, piuttosto ... Protetti, loro, dalle vostre armi? Loro, piuttosto, hanno preso nobilmente le armi a vostra difesa... E credetemi, e ricordate che in questo giorno così vi ho detto, che lo stesso spirito di libertà che li mosse all'inizio li accompagnerà ancora ... Sono un popolo geloso delle proprie libertà e che le difenderà se mai dovessero essere violate - ma il soggetto è troppo delicato e non dirò altro». Questi sentimenti, ricordò Ingersoll, vennero palesati così spontaneamente, «così impetuosamente e fermamente, e il discorso ebbe fine in modo così mirabilmente repentino che l'intera Camera restò per un lungo momento come stupefatta, lo sguardo fisso e senza rispondere parola». C'è da chiedersi se questo fu il primo moJ'l1ento in cui alcuni, forse, compresero ciò che aveva in serbo il futuro. Barré, dotato di uno «sguardo selvaggio» dardeggiante dal volto sfregiato dalla pallottola che gli aveva portato via un occhio a Québec, avrà un ruolo di primo piano tra i difensori dell'America e gli ora tori dell'opposizione parlamentare. Di ascendenza ugonotta, nato a Dublino e qui educato al Trinity College (descritto dal padre di Thomas Sheridan come «metà recinto di belve e metà bordello»), aveva abbandonato l'esercito quando la sua promozione era stata bloccata dal re ed era stato eletto al Parlamento grazie all'influenza di Lord Shelburne, anch'egli nato in Irlanda. Il suo fermo appoggio alla causa americana, unito a quello di un altro campione sui generis, è ricordato nel nome della città di Wilkes-Barre, in Pennsylvania. Un ammonimento più esplicito .si levò nel corso della seconda

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lettura del progetto di legge, quando il generale Conway protestò in maniera accalorata per l'esclusione delle petizioni delle colonie e chiese che fossero portate a conoscenza del Parlamento. «Da chi se non dalle colonie stesse possiamo apprendere quali sono le loro condizioni finanziarie» chiese «e quali le fatali conseguenze che possono seguire all'imposizione di questa tassa?» La sua mozione venne naturalmente respinta da una maggioranza bene ammaestrata. Conway, un soldato professionista, sembra essere stato il primo a intravedere la possibilità di «fatali conseguenze». Cugino e amico intimo di Horace Walpole, uomo di bell'aspetto, piacevole e onesto, era uno di coloro che lo spirito vendicativo del re aveva privato di un posto a corte- nel caso di Conway anche del comando del suo reggimento, sua unica fonte di reddito. Ciò nonostante rifiutò l'aiuto finanziario degli amici e con Barré, Richard Jackson e Lord Shelburne formò il primo nucleo di quanti cominciavano a opporsi alla politica americana del governo e si incontravano, come gruppo associato, sotto il tetto di Shelburne. Il conte di Shelburne, che all'epoca aveva 32 anni, era il più abile degli allievi di Pitt e dopo,di lui il ministro dotato di maggior spirito d'indipendenza, forse perché era sfuggito all'esperienza scolastica di Westminster o di Eton, anche se l'istruzione inizialmente ricevuta in Irlanda era stata, a sua detta, «trascurata al massimo». Era considerato troppo «sveglio» e conosciuto come «il gesuita»; i colleghi l'avevano in antipatia e ne diffidavano. Indispensabile per il suo talento, non restò mai a lungo privo di una carica governativa: nel 1782, nonostante la diffidenza nei suoi confronti, diventerà primo ministro, in tempo per negoziare il trattato che ratificava l'indipendenza americana. L'antipatia che suscitava era probabilmente dovuta alla paura per le sue idee, che tendevano a essere ciniche quanto agli individui e progressiste in politica. Votò contro l'espulsione di Wilkes, fu a favore dell'emancipazione dei cattolici, del libero commercio e persino, in contrasto con Burke, della Rivoluzione francese, quando questa giunse. Pur essendo beneficiario di immense entrate da beni immobili in Irlanda e in Inghilterra e uno dei più ricchi proprietari assenteisti di terre in Irlanda, fu l'unico ministro, secondojeremy Bentham, a non avere paura del popolo e il primo, secondo Disraeli, a comprendere la crescente importanza della classe media. Si conformò allo stile in auge tra i nobili commissionando l'architettura del paesaggio della sua tenuta di campagna al celebrato Capability Brown, il progetto della residenza di città a Robert Adam e tutta una serie di ritratti ajoshua Reynolds. Ma andò anche al di là della moda: ammassò una vasta

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raccolta di libri, mappe e manoscritti, la cui vendita all'asta dopo la sua morte durò 31 giorni, e una collezione di documenti storici acquistati per conto della nazione con una sovvenzione speciale del Parlamento. Come Pitt e Burke, non ebbe difficoltà a discernere l'inopportunità di usare la coercizione nei confronti dell'America, né esitazione a mettere in guardia contro questa scelta. Alla terza lettura la tassa sul bollo, la prima tassa diretta mai imposta all'America, venne approvata con 249 voti contro 49, la solita maggioranza di cinque a uno, la quale maggioranza, ci dice Horace Walpole, «ne capì poco ( ... ] e meno ancora vi prestò attenzione». I professionisti la capirono perfettamente. Fu il «grande provvedimento» della sessione, disse Whately, perché stabiliva «il diritto del Parlamento di imporre una tassa interna alle colonie». Un suo collega, Edward Sedgewick, sottosegretario di Stato, riconobbe che il provvedimento era stato deliberatamente varato, a dispetto dei veementi ordini del giorno delle assemblee americane, «perché si pensava che avrebbe stabilito detto diritto, a mezzo di una nuova attuazione di esso». La reazione americana fu accanita e diffusa. La legge non richiedeva soltanto un bollo su ogni stampato e documento legale o d'affari, ma si estendeva anche ai documenti delle navi, alle licenze delle taverne e persino ai dadi e alle carte da gioco, investiva ogni attività di ogni classe sociale in ogni colonia, non la sola Nuova Inghilterra: venendo ad aggiungersi alla legge sullo zucchero (Sugar Act) confermava il sospetto di un piano deliberato degli inglesi per minare l'economia delle colonie e infine renderle schiave. La Camera dei cittadini della Virginia, radunatasi per protestare contro la legge, udì Patrick Henry rasentare il tradimento con le famose parole che ricordavano a Giorgio III il destino di Cesare e di Carlo I. Quando Boston seppe delle decisioni della Virginia, «la voce universale di tutti», scrisse Hutchinson, le appoggiò nella convinzione che «se la legge sul bollo entra in vigore, siamo tutti schiavi». In tutte le città, per fomentare la resistenza vennero organizzati i «Figli della libertà». Nel contesto di un moto generale per costringere gli agenti del bollo a dimettersi, gruppi di esagitati assalirono le loro case, le saccheggiarono e devastarono e sfilarono poi nelle strade con le immagini degli agenti impiccati in effigie. L'avvertimento andò a segno, gli agenti a Boston e Newport si dimisero ad agosto e a novembre, quando la legge entrò in vigore, non restava in carica un solo agente per applicarla. Agitatori e autori di libelli continuarono a tenere gli animi eccitati. Non c'era in pratica famiglia dal Canada alla Florida che non avesse

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sentito parlare della legge, anche se molti avevano idee piuttosto vaghe sulla minaccia che essa rappresentava. Un gentiluomo di campagna chiese al servo che aveva paura di andare sino al fienile in una notte buia: «Ma di che hai paura?», e quello rispose: «Della legge sul bollo». Nel Connecticut, stando a quanto riferisce Ezra Stiles, predicatore e futuro rettore di Vale, tre persone su quattro erano pronte a mettere mano alla spada. Più sorprendente (e per quegli inglesi ai quali il fatto non sfuggì, più inquietante) fu l'accordo raggiunto da nove colonie a un congresso sulla legge sul bollo (Stamp Act Congress) svoltosi in ottobre a New York. Dopo solo due settimane e mezzo di battibecchi, le colonie trovarono l'accordo su una petizione che chiedeva l'abrogazione della legge e concordarono anche di abbandonare l'incomoda distinzione, che tanta parte aveva nella disputa americana, tra accettabile tassazione «esterna» sotto forma di dazi sul commercio e inaccettabile tassazione «interna» sulle operazioni domestiche. Al di là di tutte le parole e le petizioni, la protesta più efficace fu il boicottaggio, conosciuto come «non importazione». Già messa in atto in risposta alla legge sullo zucchero, la proposta di interrompere le importazioni di prodotti britannici venne formalmente adottata da gruppi di commercianti a Boston, New York e Philadclphia. In un clima di entusiasmo l'appello conquistò tutte le colonie. Le donne portarono i loro filatoi nella sala di riunione del pastore o nell'aula del tribunale locale per fare a gara a chi produceva più matasse per produrre stoffe casalinghe in sostituzione dei tessuti inglesi. Si filò il lino per farne camicie «degne dei migliori gentiluomini d'America». Alla fine dell'anno le importazioni registrarono un calo di 305.000 sterline rispetto all'anno precedente su un totale di due milioni. C'era un'alternativa a disposizione degli inglesi? C'era e consisteva, come molti pensavano, nel dare prima agli americani quella rappresentanza in Parlamento che richiedevano e procedere poi con la tassazione. Questo avrebbe invalidato di colpo la loro resistenza. Altri meccanismi di conflitto erano certo presenti, ma nulla riscalda gli animi come le questioni di denaro e la tassazione era l'argomento che più infervorava gli americani. Quanto alla rappresentanza erano sì pronti a rivendicarla come loro diritto, ma in realtà non la desideravano veramente. Il congresso sulla legge sul bollo si trovò d'accordo nel giudicarla «impraticabile». In tutte le discussioni sulla rappresentanza si faceva un gran parlare della distanza di 3000 miglia, sulle quali «i mari ballano e i m~si passano» tra un ordine e la sua esecuzione. Ma la distanza non impediva agli americani di ordinare mobili, abiti e libri inglesi, di

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adottare mode inglesi, di mandare i figli nelle scuole inglesi, di corrispondere regolarmente con i colleghi in Inghilterra, di spedire campioni botanici, assorbire idee e mantenere in generale uno stretto rapporto culturale con la madrepatria. L'intoppo non era tanto il «vasto e periglioso oceano» quanto la crescente comprensione da parte delle colonie che quanto esse volevano, in realtà, erano minori interferenze e maggiore autonomia di governo. Nessuno si proponeva la secessione e tanto meno l'indipendenza, ma molti non volevano un legame più stretto con la Gran Bretagna perché inorridivano al pensiero della corruzione della società inglese. John Adams riteneva che l'Inghilterra era giunta allo stesso livello della repubblica romana, «una città venale, matura per la distruzione». Gli americani che visitavano l'Inghilterra erano scandalizzati dalla corruzione politica, dal vizio, dal divario tra «la ricchezza, la magnificenza e lo splendore» dei ricchi e l' «estrema miseria e le pene dei poveri [ ... ] cosa che da un lato stupisce e dall'altro disgusta». Gli americani consideravano il sistema clientelare qualcosa di ostile e pericoloso per la libertà, perché quando un governo si regge su un appoggio comprato una vera libertà politica è lettera morta. Gli inglesi erano l'unico popolo che avesse conquistato questa libertà e la continua polemica americana in quegli anni era pervasa dal convincimento che fosse missione dell'America, che l'aveva ereditata, di promuoverla e preservarla per l'umanità. Si riteneva che i rappresentanti delle colonie del Parlamento sarebbero stati facilmente corrotti dalla decadenza inglese e avrebbero costituito, in pratica, un piccolo gruppo privo di potere e messo regolarmente in minoranza. Era altresì chiaro che se le colonie avessero ottenuto questa rappresentanza non avrebbero più avuto motivi per opporsi al diritto del Parlamento a tassarle. Gli americani capirono questo prima degli inglesi i quali, in realtà, non valutarono mai seriamente il vantaggio che avrebbero tratto dall'accordare agli americani il diritto di rappresentanza. L'ostacolo era ancora una volta una questione di atteggiamento: gli inglesi non riuscivano a considerare gli americani in termini di eguaglianza. Rozzi provinciali, la «progenie dei nostri trasporti [di deportati]», agitatori di marmaglia, «con maniere non migliori di quelle dei Mohawk», dovevano forse essere invitati, chiese il «Gentleman's Magazine», a occupare i «più alti seggi del nostro Commonwealth?». Per il «Morning Post», gli americani erano «un miscuglio imbastardito di irlandesi, scozzesi e tedeschi, impregnato di forzati e proscritti». Più profonda del disprezzo sociale era la paura degli abitanti delle colonie quali «livellatori» delle differenze di classe, la cui

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presenza in Parlamento avrebbe spinto città e distretti inglesi non rappresentati a chiedere seggi, distruggendo così i diritti di proprietà nei borghi elettorali e sconvolgendo il sistema. Gli inglesi avevano escogitato una comoda teoria di «rappresentanza virtuale» per risolvere il problema delle masse prive di voto o di parlamentari che le rappresentassero. Ogni membro della Camera, si asseriva, rappresentava l'intero corpo politico, non una particolare circoscrizione, e se Manchester, Sheffield e Birmingham non avevano seggi e Londra ne aveva solo sei mentre il Devon e la Cornovaglia ne avevano settanta, le città suddette potevano consolarsi col fatto di essere «virtualmente rappresentate» dagli schietti gentiluomini delle campagne. Questi gentiluomini, sulle cui spalle gravava la più grossa aliquota dell'imposta fondiaria, erano nell'insieme più che favorevoli a tassare le colonie perché pagassero la loro parte e credevano fermamente nell'asserzione della sovranità parlamentare. Un'alternativa al conflitto alla quale alcuni uomini assennati pensarono, e che proposero, era l'unione delle colonie seguita da una qualche forma di federazione con la Gran Bretagna, con una rappresentanza coloniale in un parlamento imperiale. Nel 1754 un piano di unione (Pian of Union) per far fronte alla minaccia francese e indiana era stato proposto da Benjamin Franklin, con alcuni suggerimenti di Thomas Hutchinson, al Congresso di Albany, ma era caduto nel vuoto. Durante la crisi della legge sul bollo l'idea venne ripresa da persone che avevano responsabilità di governo nelle colonie ed erano preoccupate per la crescente alienazione dalla madrepatria. Lo stesso Franklin, Thomas Pownall, già governatore del Massachusetts e ora membro del Parlamento, Thomas Crowley, un commerciante quacchero che conosceva bene l'America, e Francis Bernard, governatore in carica del Massachusetts, tutti proposero diversi piani per la razionalizzazione del governo coloniale e la determinazione definitiva, attraverso la discussione, dei reciproci diritti e obblighi in vista di una federazione. Nel corso di un'altra crisi, nel 1775, Pownall si lamentò che nessuno nel governo prestava attenzione alle sue opinioni e che quindi non ne avrebbe espresse altre. Francis Bernard, che aveva formulato un piano dettagliato di 97 proposte e lo aveva inviato a Lord Halifax e ad altri, si sentì dire da Halifax che il piano era «di gran lunga la miglior cosa del genere che egli avesse mai letto», e queste furono anche le ultime parole che udì sull'argomento. Benjamin Franklin esortò i suoi corrispondenti britannici a riconoscere l'inevitabilità della crescita e dello sviluppo dell'America e a non fare leggi che mirassero a bloccare il suo commercio e la sua

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produzione di manufatti, perché l'espansione economica le avrebbe spazzate via, ma piuttosto a operare in funzione di una comunità atlantica popolata da americani e inglesi in possesso di uguali diritti, nell'ambito della quale i coloni avrebbero arricchito la madrepatria cd esteso il suo «impero intorno al globo intero e fatto tremare il mondo!». Era una visione splendida che lo aveva affascinato fin dai tempi del piano di unione di Albany. «Sono tuttora dell'opinione» scrisse anni appresso nella sua autobiografia «che il piano di unione sarebbe stato conveniente per entrambe le sponde del mare, ove fosse stato adottato. Le colonie così unite sarebbero state forti a sufficienza per difendersi da sé; non ci sarebbe stata necessità di truppe dall'Inghilterra; e naturalmente la successiva pretesa di tassare l'America, e la sanguinosa contesa che essa occasionò, sarebbero state evitate.» Franklin termina sospirando: «Ma questi errori non sono nuovi; la storia è piena degli errori di stati e prìncipi». L'abrogazione divenne un problema in Inghilterra non appena la legge sul bollo venne promulgata. La «non importazione» lasciò i porti vuoti, spedizionieri, scaricatori e operai delle fabbriche persero il lavoro, e i commercianti denaro: l'Inghilterra scoprì infine qual era lo stato d'animo degli americani. Per i sette mesi successivi la legge sul bollo fu un argomento di primo piano per la stampa. Con la passione settecentesca per i princìpi politici tutti i temi - i diritti del Parlamento, l'iniquità della tassazione senza rappresentanza, la «rappresentanza virtuale», tassazione interna contro tassazione esterna - vennero dibattuti in commenti, editoriali e lettere incollerite. Grande sensazione suscitò un opuscolo pubblicato da Soame Jenyns, uno dei commissari del Board of Trade, il quale insisteva sul fatto che il diritto di tassare e la convenienza di esercitarlo erano «proposizioni così indisputabilmente chiare» che non avevano bisogno d'essere difese, se non si fosse dovuto rispondere ad argomentazioni che le mettevano in dubbio «con un'insolenza pari alla loro assurdità». La frase «libertà dell'inglese>>, scriveva sdegnosamente Jenyns, negli ultimi tempi era stata usata «come sinonimo di bestemmia, oscenità, tradimento, calunnie, birra forte e sidro», e l'affermazione americana che la gente non può essere tassata senza il suo consenso era «il contrario della verità, perché non conosco un solo uomo che sia tassato con il suo consenso». Lord Chesterfield, che come Horace Walpole osservava gli eventi da quelle che si chiamano le linee laterali, aveva la capacità di cogliere l'essenza dei fatti, in pieno contrasto con la tronfia etichetta che predicava al nipote. L'«assurdità» della legge sul bollo, scrisse a

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Newcastle, eguaglia «il danno, perché si asserisce un diritto che si sa di non poter esercitare». Anche se avesse funzionato, scrisse, la tassa non avrebbe prodotto più 80.000 sterline all'anno (il governo non contava su più di G0.000 sterline), e queste non potevano compensare la Gran Bretagna della perdita di un commercio che ammontava al minimo a un milione all'anno (si trattava di due milioni). Una verità ancor più dura venne dal generale Thomas Gage, comandante delle forze britanniche nelle colonie, il quale riferì a novembre che la resistenza era diffusa ovunque e che «a meno che la legge riesca a imporsi per propria natura, nulla se non una consistente forza militare può farlo». Per i gentiluomini d'Inghilterra questa non era una necessità da prendere in considerazione nei confronti della teppaglia. Quando la crisi che la sua legge sul bollo aveva generato fu alle porte, Grenville non era più in carica. Il re, da molto tempo irritato e infastidito per l'abitudine che Grenville aveva di propinargli lezioni di economia politica, andò su tutte le furie quando il nome della madre venne eliminato dalla fazione di Grenville, per tortuose ragioni politiche, da un progetto di legge sulla reggenza redatto in seguito alla malattia del re all'inizio del 1765. • Re Giorgio lo destituì, sfortunatamente prima di aver trovato qualcuno che sapesse districarsi tra i conflitti suscitati dal progetto di legge sulla reggenza in maniera tale da poter formare un ministero al posto di Grenville. Non sapendo che fare, Giorgio si rivolse allo zio, il duca di Cumberland, un uomo capace (dote questa non hannoveriana) e di considerevole prestigio. Il duca offrì la carica di primo ministro a Pitt, che rifiutò ostinatamente per ragioni non facilmente individuabili in un carattere così complesso e chiuso. Forse aveva già preso una decisione in merito all'abrogazione della legge, non era sicuro di poterla imporre cd era troppo ostinato per scendere a compromessi; oppure, visto che da un anno era lontano da ogni attività, si erano nuovamente manifestati quei disturbi fisici e a volte mentali che di tempo in tempo lo affiiggevano. Gli storici hanno avanzato l'ipotesi che, se Pitt fosse andato al potere nel 1765, il corso del decennio successivo sarebbe potuto essere diverso, ma tale supposizione presupponeva la sua capacità di agire e questa, come gli eventi ben presto dimostrarono, era fuori causa. È

• Si è scritto molto sulla possibilità che la malattia fosse una delle prime manifestazioni della successiva pazzia del re. Poiché non vi furono altri attacchi prima del definitivo emergere della malattia mentale nel 1788, a più di vent'anni di distanza, si può tranquillamente ritenere che il re fosse mentalmente sano durante l'intero periodo del conflitto americano.

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indubbio che l'intransigenza di Pitt e le sue esagerate richieste di autonomia decisionale indebolirono il governo durante il conflitto con l'America. Con la sua immensa popolarità, reputazione e influenza, e la sua incomparabile capacità di dominare la Camera dei comuni, Pitt era una figura epica che aveva conquistato, e non poteva salvare, un impero. La carriera di Pitt, cadetto di quella che Lord Chesterfield definiva «una famiglia assai recente», era dovuta alla sua forza di carattere e alle sue capacità. Il nonno, detto Diamond Pitt, era un «nababbo» della Compagnia delle Indie orientali, un uomo di carattere brutale, incapace di controllarsi e tirannico che aveva creato la fortuna della famiglia con il commercio indiano e aveva avuto per un certo tempo la sua parte di potere come governatore di Madras. Il diamante per il quale era conosciuto era stato acquistato dalla Corona francese per più di due milioni di livres. In Inghilterra la famiglia acquisì il «borgo putrido» di Old Sarum nel Wiltshire, seggio che Pitt occupò a partire dal 1735. Vi era subentrato a 27 anni al fratello maggiore che, dopo aver dissipato la propria fortuna ed essersi alienato nel frattempo tutti gli amici, si era ritirato all'estero «in pessime ccydizioni finanziarie» e soggetto a intermittenti attacchi di follia («rton [era] internato, ma costretto a condurre una vita molto ritirata»). Questa vena di follia nella famiglia, non si sa se proveniente dal nonno, apparve anche nelle sorelle di Pitt, una delle quali venne internata mentre le altre due vissero in condizioni più o meno simili. Pitt soffrì per tutta la vita di una gotta che fece di lui un invalido e che lo affiisse dagli anni di scuola a Eton. Essendo rara in gioventù la gotta in quell'epoca indicava una grave forma di malattia. I dolori continui provocavano l'irritabilità comune a tutti i gottosi e costrinsero Pitt a farsi montare un apposito sgabello e un enorme gambale sul davanti della carrozza e della portantina. La sua carriera politica guadagnò in notorietà per aver rifiutato - e reso il fatto di pubblico dominio-di accettare come tangenti, nella sua qualità di ufficiale pagatore delle forze armate, o di trattenere per investimenti personali le somme destinate alle paghe, entrambi utili connessi abitualmente con la carica. Come segretario di Stato durante la guerra dei Sette Anni, tollerò di dividere il comando con il duca di Newcastle, che era primo ministro, perché questi non uscì dall'ambito della propria specialità, la gestione del sistema clientelare, e lasciò a lui le decisioni politiche. Pitt era guidato dalla convinzione che il destino dell'Inghilterra era la supremazia marittima e che le sue risorse potevano prevalere nella

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rivalità con la Francia se si fossero distrutti il commercio e le basi commerciali francesi. Concentrando febbrilmente fondi e energie su questo obiettivo e infondendo a tutti la sua sicurezza, che un giorno si espresse nell'affermazione «Io so di poter salvare questo paese, e di essere il solo a poterlo fare», Pitt rimise in efficienza ed equipaggiò la flotta, reclutò cittadini inglesi per rimpiazzare i mercenari stranieri e trasformò un susseguirsi di fiacche-campagne in una guerra nazionale e in una marca di vittorie. Louisbourg, presso capo Bretone, GuadaIupa, Ticonderoga, Québec, Minden in Europa, il trionfo navale nel golfo di Biscaglia - una serie tale di successi, scrisse Horace Walpole, che «siamo costretti a chiedere ogni mattina che vittoria c'è stata, per paura di perderne una». Bandiere francesi catturate vennero appese sulla facciata della cattedrale di San Paolo, tra le grida esultanti della folla. Gli stanziamenti vennero votati senza discussione. Pitt dominava i colleghi e, come «grande commoner», era l'idolo della gente, che Io ammirava perché non era titolato e sentiva di avere in lui chi lo rappresentava. Questo sentimento raggiunse persino la lontana Nuova Inghilterra dove, secondo Ezra Stiles, Pitt era «idolatrato». Fort Duquesne, strappato ai francesi nel I 758, venne ribattezzato Fort Pitt e il suo villaggio di case di legno Pittsburgh. Soltanto quando volle portare la guerra in Spagna, l'altra rivale marittima, il suo ascendente fallì di fronte alla resistenza a tasse sempre più pesanti e alla decisione del nuovo re di mettere alla porta i whig di Newcastle e di impadronirsi del sistema clientelare. Quando Pitt si dimise nel l 761, gli applausi seguirono il suo cocchio fin dall'uscita del palazzo, tra dame che sventolavano i fazzoletti dalle finestre e popolani che «si aggrappavano alle ruote, stringevano le mani ai lacché e si buttavano a baciare anche i cavalli». Da quel momento Pitt fu troppo inflessibile, troppo arrogante, troppo vanitoso per abbassarsi a contrattare per avere un posto. Non si adattava al sistema, non essendo in nessun modo interessato a gruppi e a intrighi. Il suo unico interesse era una politica gestita da lui. Quando lasciò la carica nel 1761 disse alla Camera che non intendeva governare se il suo parere non veniva accettato. «Essendo responsabile, sarò io a dirigere e non sarò responsabile di alcuna cosa che non dirigo.» Un parlamentare pensò che questa «era la dichiarazione più insolente mai fatta da un ministro», ma in essa c'era tutto Pitt. Fu uno dei rari uomini incapaci di agire in associazione con altri. «Non appartengo a nessun partito, sono e intendo restare interamente solo» disse, e a note ancor più chiare, in altra occasione «non posso tollerare il minimo cenno di comando [altrui].» In questa affermazione c'era

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forse un tocco di megalomania. Pitt probabilmente soffriva di quel che nel nostro tempo chiameremmo mania di grandezza e sindrome depressiva, ma questi fenomeni non avevano nome ai suoi tempi e non erano riconosciuti come malattie mentali. Alto, pallido, il volto emaciato, naso aquilino e occhi penetranti, il passo zoppicante per le caviglie cnfiate dalla gotta, Pitt era maestoso, altero, imponente e appariva sempre in pubblico in vesti da gran cerimonia e parrucca bianca, «saggio e temibile come un Catone>>. Recitava sempre, si circondava sempre di artifici, forse per celare il vulcano che gli covava dentro. Una sua occhiata di disprezzo o di indignazione poteva annichilire un avversario, la sua invettiva e il suo sarcasmo erano «terribili» - aveva la stessa terribilità di Giulio II. Il suo talento oratorio in un'epoca in cui il successo politico si fondava su questa qualità aveva il potere di un incantesimo, anche se pochi riuscivano a spiegarne il perché. La sua eloquenza travolgente, focosa, originale, chiarissima riusciva a conquistare l'appoggio degli indipendenti in Parlamento. Teatrali fino alla magniloquenza, porti con gesti d'attore e giocati su una tastiera di toni diversi, intessuti di «frasi assai brillanti e d'effetto», i suoi discorsi più felici erano improvvisati, anche se di una frase particolarmente efficace Pitt disse a Shelburne di averne «fatto tre prove per iscritto» prima di decidersi a usarla. Anche ridotta a un sussurro la sua voce poteva essere udita fin nei seggi più lontani, e quando saliva di tono come un grande organo a pieno registro il suo volume riempiva la Camera cd era udibile fin nei corridoi e nelle scale. Quando Pitt si alzava a parlare, tutti facevano silenzio e stavano ad ascoltare. Venuto a mancare l'apporto di Pitt, il duca di Cumbcrland mise insieme un ministero misto le cui tre cariche principali vennero ricoperte da suoi conoscenti dell'ambiente delle corse e dell'esercito, nessuno dei quali aveva mai avuto in precedenza incarichi ministeriali. A capo del governo fu posto un giovane grandee, il marchese di Rockingham, uno dei più ricchi nobili d'Inghilterra, con baronie in tre contee, grandi proprietà in Irlanda e nello Yorkshire, la carica di Lord luogotenente nella sua contea d'origine, un titolo nobiliare in Irlanda e altri titoli onorifici come cavaliere della Giarrettiera e cameriere segreto del re per dar maggior lustro al suo rango. A 35 anni, Rockingham era un new whig della giovane generazione, alla sua prima prova e incerto su come procedere. I segretari di Stato erano il generale Conway, che era stato aiutante di campo del duca di Cumberland, e Augustus Hcnry Fitzroy, terzo duca di Grafton, altro grande frequentatore come Rockingham dei campi di corse, e cono-

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sciuto da Cumberland nell'ambiente del Jockey Club. Grafton, un giovane trentenne piuttosto indolente, non ardeva dall'ambizione di farsi un nome nella storia ed era più interessato alle corse che alle questioni di governo, ma per senso d'onore era pronto a servire il suo paese come meglio poteva. Quando il rango gli procurò l'elezione unanime a cancelliere dell'Università di Cambridge nel 1768, il poeta Thomas Gray, autore della Elegy in a Country Churchyard [«Elegia sul sagrato di una chiesa di campagna»], al quale Grafton aveva procurato l'incarico di regio professore di storia, scrisse un'ode che fu messa in musica per l'insediamento del duca. Grafton non era molto soddisfatto della sua carica governativa, non si trovava a proprio agio alle prese con i suoi doveri e aveva la tendenza a manifestare frequentemente il proposito di dimettersi. A capo degli amici del re nel Gabinetto in qualità di Lord cancelliere dello Scacchiere c'era il gottoso, blasfemo, chiassoso Lord Northington, il quale pur trovandosi spesso a malpartito per il bere aveva ricoperto negli ultimi nove anni tutte le cariche della magistratura ed era pronto ad ammettere di subire gli effetti del troppo porto bevuto dicendo: «Se avessi saputo che un giorno queste gambe avrebbero trasportato un Lord cancelliere, mi sarei preso maggior cura di loro quand'ero ragazzo». Il segretario alla Guerra, che accettò la carica per espresso desiderio del re, fu il visconte di Barrington, un uomo amabile con un fratello ammiraglio e un altro vescovo. Era suo principio, diceva, non rifiutare nessuna carica in base alla teoria che «un colpo di fortuna può anche finire col farmi papa». Rimase al ministero della Guerra, sempre aspettando questo colpo di fortuna, per i successivi tredici anni, con una permanenza in carica tra le più lunghe del periodo. La permissività in fatto di mancanza di coesione all'interno del Gabinetto è esemplificata dalla condizione posta da Barrington per accettare l'incarico: e cioè che gli fosse permesso di votare contro il ministero riguardo sia alla legge sul bollo sia alla questione dei mandati di cattura. Diviso e debole, il nuovo ministero si avviò così ad affrontare la crisi della legge sul bollo, avendo anche perso Cumberland, morto dopo solo quattro mesi, cosa che lasciò Rockingham allo scoperto e privo di guida. Egli cercò di reclutare Pitt, ma senza successo, e quando gli chiese ripetutamente cosa doveva fare in merito all'abrogazione della legge, Pitt si rifiutò di rispondere. Sofferente per una non meglio precisata forma di esaurimento, rimase assente dalla vita pubblica per tutto il 1765. La «non importazione» si stava facendo sentire sull'economia,

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suscitando grosse preoccupazioni tra commercianti e lavoratori. Sulla stampa apparvero articoli allarmanti, ispirati in molti casi da una campagna organizzata dai commercianti per l'abrogazione della legge, che riferivano di fabbriche chiuse e di un esercito di disoccupati che si preparava a marciare su Londra per ottenere l'abrogazione con la minaccia di un'azione violenta contro la Camera dei comuni. I commercianti di Londra crearono un comitato per scrivere ai colleghi in trenta città manifatturiere e portuali per incitarli a inviare petizioni al Parlamento in questo senso. Il governo era diviso tra Stamp Men, fautori del bollo, e No Stamp Men, o avversari del bollo, con Rockingham, Grafton, Conway e il vecchio duca di Newcastle schierati a favore dell'abrogazione contro i fautori della tassa sul bollo, che volevano una dimostrazione di sovranità e sostenevano che la sua abrogazione avrebbe distrutto l'autorità della Gran Bretagna e spinto le colonie sulla strada della completa indipendenza. Apertamente in contrasto con la fazione di Rockingham, Lord Northington annunciò che non avrebbe più partecipato alle riunioni del Gabinetto, ma invece di dimettersi restò in carica a tessere intrighi per far cadere il governo. Pur non possedendo salde opinioni personali, Rockingham acquisì una linea politica, come per trasfusione, dal suo segretario, Edmund Burke. Finì col persuadersi che la violenta reazione americana indicava che il tentativo di mettere in atto la legge sarebbe stato controproducente, che l'Inghilterra si sarebbe mostrata assai sconsiderata a perdere, per il malanimo suscitato, il commercio coloniale e che se si fosse potuta restaurare l'armonia sarebbe stato tanto di guadagnato. Con la riconciliazione, spiegò Burke, si sarebbero potuti conciliare anche i due princìpi whig, libertà dei sudditi e sovranità del Parlamento. Con una maggioranza determinata a impartire alle colonie una lezione di sovranità e fortemente interessata a ridurre le proprie imposte fondiarie grazie al gettito fiscale americano, le speranze di convincere il Parlamento a votare per l'abrogazione erano scarse. Grenville tuonò contro gli «oltraggiosi tumulti e insurrezioni» nell'America del Nord, e Lord Northington dichiarò che «abdicare alla legge» abrogandola avrebbe significato per la Gran Bretagna «venire sconfitta in America e diventare una provincia delle sue stesse colonie». Gli sforzi per ottenere un parere da Pitt durante le vacanze natalizie non ebbero esito e quando il Parlamento tornò a riunirsi il 14 gennaio 1766 Rockingham, che cercava di tenere in piedi un governo indebolito dal dissenso, era incerto sul da farsi.

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Pitt fece la sua apparizione. Sui banchi del Parlamento calò il silenzio. Pitt disse ai parlamentari che l'argomento che avevano di fronte rivestiva «la più grande importanza tra quanti mai avevano richiesto l'attenzione di questa Camera» perché nella rivoluzione dell'ultimo secolo erano in gioco le loro stesse libertà: «Il risultato deciderà del giudizio della posterità sulla gloria di questo reame e sulla saggezza del governo > e concluse: «La battaglia contro il comunismo deve accompagnarsi in Asia sudorientale alla forza e alla determinazione di raggiungere il successo laggiùo gli Stati Uniti dovranno inevitabilmente abbandonare il Pacifico»- e con questo gettava via 6000 miglia di oceano con Okinawa, Guam, le Midway e le Hawaii - «e far retrocedere le nostre difese a San Francisco». Era un miscuglio di caratteristiche idee americane. La semplicistica alternativa tra sconfitta del comunismo e abbandono del Pacifico probabilmente non influenzò il presidente che non aveva, in questo ricambiato, nessuna simpatia per il suo vicepresidente. Ma i dubbi sulla fermezza dcli' America che tanto a vcvano col pi to Johnson sollevarono • Paul Bunyan: mitica figura di tagliaboschi dell'America del Nord; numerose sono le leggende sulle sue dimensioni, forza e attività spazianti dall'uno all'altro oceano

[N.d.T.].

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quel tema della credibilità che ingigantì in modo tale che alla fine sembrò che gli Stati Uniti stessero combattendo solo per questo. II tema della credibilità emerse nella crisi berlinese di quell'estate quando, dopo un duro e intimidatorio incontro con Chruscev a Vienna, Kennedy disse aJ ames Reston: «Adesso abbiamo il problema di rendere credibile la nostra potenza, e il Vietnam sembra sia il luogo adatto». Ma il Vietnam non fu mai il luogo adatto, perché lo stesso governo americano non credette mai completamente in quello che stava facendo. II contrasto con la situazione di Berlino era fin troppo chiaro. «Non possiamo permettere e non permetteremo ai comunisti di cacciarci da Berlino, gradualmente o con la forza» disse Kennedy in luglio e dentro di sé era pronto, secondo i suoi collaboratori, a rischiare la guerra, anche la guerra nucleare, su questo punto. Nonostante tutte le affermazioni di eguale fermezza, il Vietnam non ricevette mai nella politica americana uno status pari a quello di Berlino, ma al tempo stesso nessun governo americano fu mai disposto a lasciar perdere il problema. Fu questa spaccatura a travagliare l'intera impresa vietnamita, a partire dallo stesso Kennedy. Berlino fornì un'altra lezione sul fatto che «il punto essenziale», secondo le parole dell'assistente segretario della Difesa Paul Nitze, «era che il valore per l'Occidente della difesa di Berlino era enormemente superiore al valore della conquista di Berlino per l'Unione Sovietica». La sua osservazione avrebbe potuto suggerire l'idea che il valore per il Vietnam del Nord di ottenere il controllo del paese per cui aveva combattuto tanto a lungo era enormemente superiore al valore, per gli Stati Uniti, di frustrarne gli sforzi. I nordvietnamiti si battevano per il proprio suolo, decisi a esserne infine i padroni. Bene o male che ciò fosse, ad avere un'incrollabile fermezza di propositi era Hanoi, ed essendo incrollabile questa fermezza avrebbe probabilmente prevalso. Né Nitze né altri colsero l'analogia. Nel Vietnam del Sud «la situazione sta peggiorando ogni giorno», scrisse il corrispondente americano Theodore White alla Casa Bianca nell'agosto del 1961; gli ricordava Chungking. «I guerriglieri controllano ora quasi tutto il delta meridionale, tanto che non posso trovare un americano disposto a condurmi fuori Saigon con la sua macchina, anche di giorno, se non c'è un convoglio.» II commento faceva il paio con la «tetra valutazione» del generale Lionel McGarr, nuovo capo del MAAG, il quale stimava che Diem controllava solo il 40 per cento del Vietnam del Sud e che i ribelli immobilizzavano 1'85 per cento delle sue forze militari. La lettera di White riferiva inoltre «un collasso politico di proporzioni formidabili» e la perplessità dello scrivente davanti al fatto che

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mentre «giovanotti di 20-25 anni si danno a danze sfrenate nei locali notturni di Saigon» a una trentina di chilometri di distanza «i comunisti sembrano essere in grado di trovare gente disposta a morire per la loro causa». Era una discrepanza che stava cominciando a turbare altri osservatori. In chiusura, valutando un nostro intervento, White chiedeva: «Abbiamo il personale adatto, gli strumenti adatti e un'adeguata chiarezza di obiettivi per intervenire con successo?». La «chiarezza di obiettivi» era la questione crucia1e. Incerto, Kennedy inviò la prima e più nota di una serie infinita di missioni ufficiali ad alto livello a valutare la situazione in Vietnam. In seguito il segretario McNamara vi andrà non meno di cinque volte nel giro di 24 mesi, e missioni di livello immediatamente inferiore faranno la spola con Saigon come api che vanno avanti e indietro da un alveare. Con l'ambasciata, il MAAG, servizi d'informazione e agenzie di assistenza sul posto, e la relativa produzione di rapporti, l'incessante necessità di Washington di nuove valutazioni testimonia l'incertezza esistente nella capitale. La missione del generale Maxwell Taylor e di Walt Rostow nell'ottobre del 1961 fu originata nominalmente dalla richiesta da parte di Diem di un trattato bilaterale di difesa e di un eventuale intervento di unità americane di combattimento, che fino a quel momento aveva avversato. Un aumento degli attacchi Viet Cong e la paura di infiltrazioni attraverso il confine del Laos avevano suscitato il suo allarme. Pur intimamente diviso, Kennedy, che cercava credibilità in Vietnam, era al momento favorevole a un maggiore sforzo e più che informazioni voleva conferme, come indica la sua scelta degli inviati. Taylor ovviamente fu scelto per dare un giudizio militare. Di bell'aspetto, cortese, con penetranti occhi blu, era ammirato come un «soldato statista» che parlava parecchie lingue, sapeva citare Polibio e Tucidide e aveva scritto un libro, The Uncertain Trumpet. Aveva comandato la I OI a di visione aeroporta ta nella seconda guerra mondiale, era stato sovrintendente dell'accademia militare di West Point, successore di Ridgway in Corea, capo di stato maggiore dell'esercito durante gli ultimi anni di Dulles. In disaccordo con la teoria della rappresaglia massiccia, si era ritirato nel 1959 per diventare presidente del Lincoln Center for the Performing Arts di New York. Per la sua cultura questo personaggio esercitava un'attrazione naturale su Kennedy, ma nonostante la sua reputazione di generale intellettuale, non di puro e semplice gallonato, le sue idee e raccomandazioni tendevano a essere convenzionali. Il suo compagno di viaggio Walt Rostow (così battezzato in onore

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dello scrittore Walt Whitman) nutriva una fervida fiducia nella capacità americana di guidare e far progredire il mondo sottosviluppato. «Falco» della causa anticomunista prima che il termine «falco» entrasse in uso, aveva già proposto un piano che prevedeva l'intervento di unità di combattimento americane per un totale di 25.000 uomini. Selettore di obiettivi durante la seconda guerra mondiale, ne era uscito entusiasta della potenza aerea, anche se le analisi postbelliche dei bombardamenti strategici avevano concluso che i loro risultati non erano stati decisivi. Rostow era un positivista tutto d'un pezzo: secondo un suo collaboratore, alla notizia di un attacco nucleare su Manhattan avrebbe notificato al presidente che la prima fase del rinnovamento urbano era stata portata a termine senza costo per il Tesoro. Quando, per le attività di sinistra alle quali aveva preso parte da studente, cominciarono a bloccargli spesso il nullaosta di sicurezza, Kennedy sbottò: «Perché se la prendono sempre con Walt come se fosse molle? Accidenti, è il soldato più coriaceo della guerra fredda che ho qua dentro!». Era un fatto scontato che avrebbe trovato ragioni per andare avanti in Vietnam. Accompagnata da rappresentanti dei dipartimenti di Stato e della Difesa, dei Joint Chiefs e della CIA, la missione visitò il Vietnam del Sud per una settimana, dal 18 al 25 ottobre, e si ritirò nelle Filippine per stendere il suo rapporto. Questo documento, assieme ai telegrammi riservati di Taylor al presidente e agli allegati e appendici di singoli membri della missione, ha sfidato fino a oggi qualsiasi tentativo di ricapitolazione coerente. Diceva qualcosa di tutto, combinava sì e no, pessimismo e ottimismo e in sostanza, con molte riserve, concludeva che si poteva far funzionare il programma per «salvare il Vietnam del Sud» soltanto con l'intervento di forze armate americane per convincere entrambe le parti della nostra serietà. Raccomandava l'impiego immediato di 8000 uomini «per bloccare la tendenza allo sfacelo» del regime e «un massiccio sforzo comune per affrontare l'aggressione Viet Cong». Prevedeva assai accuratamente le conseguenze: il prestigio americano, già coinvolto, lo sarebbe stato ancora di più; se l'obiettivo ultimo era di eliminare la ribellione nel Sud «non c'è limite al nostro possibile impegno (a meno che attacchiamo la fonte, ad Hanoi!)». In questa affermazione e in questa parentesi veniva formulato il futuro problema militare del Vietnam. Il rapporto conteneva altre formulazioni egualmente basilari anche se meno fondate. Senza avere controllato il terreno o le infrastrutture industriali dell'avversario, Taylor riferì che il Vietnam del Nord era «estremamente vulnerabile ai bombardamenti convenzionali». Ra-

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ramente un giudizio militare ha dovuto tanto all'immaginazione. Definendo il ruolo di Hanoi come quello di un aggressore attraverso un «confine internazionale», il rapporto si rifece a un'invenzione retorica che contraddistinguerà l'affare vietnamita per tutta la sua durata. La dichiarazione di Ginevra aveva affermato in maniera specifica che la linea di demarcazione era «provvisoria» e che non doveva essere interpretata «come un confine politico o territoriale». Eisenhower l'aveva specificatamente riconosciuta come tale e niente di più. Eppure anche il «confine internazionale», come il «vitale» interesse nazionale, divenne una delle invenzioni usate dai responsabili della politica americana per giustificare le ragioni dell'intervento, o anche per convincersi di avere delle ragioni da avanzare. Rostow l'aveva già usata nel suo discorso a Fort Bragg. Rusk la usò tre volte, dopo Taylor, in un discorso pubblico nel quale si spinse più in là di tutti parlando di «aggressione esterna» attraverso «confini internazionali». Grazie all'uso ripetuto, la trasformazione della linea di demarcazione in confine internazionale divenne la norma. Assieme alla definizione («deludente») del livello militare del Vietnam del Sud e al consueto riconoscimento che «soltanto i vietnamiti possono sconfiggere i Viet Cong», Taylor manifestò la sua convinzione che gli americani «come amici e alleati possono mostrare loro come andrebbe fatto il lavoro». E questa fu la illusione di fondo che sottese l'intera avventura americana nel Vietnam. Lo schema che l'intervento militare era destinato a seguire fu così tracciato dal consigliere prescelto. Nessuno si pronunciò contro l'intervento, come Ridgway aveva inequivocabi!mente fatto in passato. Nei loro allegati i rappresentanti del dipartimento di Stato in seno alla missione dissero che la situazione si stava «deteriorando», con crescenti successi Viet Cong, e misero in evidenza che l'azione comunista iniziava al livello sociale più basso, nei villaggi. Era qui che «la battaglia sarà perduta o vinta»; il fatto che truppe straniere, anche se potevano essere d'aiuto, non potevano vincere questa battaglia doveva escludere «la piena assunzione da parte degli Stati Uniti dell'impegno di eliminare la minaccia Viet Cong». Nonostante ciò, l'autore del rapporto, Sterling Cottrell, presidente del gruppo operativo interdipartimentale per il Vietnam, appoggiò in pieno la marcia in avanti del duo Taylor-Rostow. Piuttosto che trarre certe conclusioni, un funzionario di secondo grado preferisce generalmente associarsi all'opinione dei superiori. Anche il segretario Rusk, pur totalmente consacrato a fermare il comunismo, sentì che era sconsigliabile impegnare troppo a fondo il

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prestigio americano a favore di «un cavallo perdente», come lo chiamava. Questo difetto del cliente lo disturbava, tanto che in un'altra occasione, durante una testimonianza a porte chiuse davanti alla commissione senatoriale per gli affari esteri, rimuginò ad alta voce sul fatto di dover regolarmente trovare gli Stati Uniti legati a deboli alleati del vecchio regime, e sulla necessità di decidere anche in quali circostanze «uno può o deve investire in un regime quando dentro di sé sa che quel regime non è in grado di funzionare». Era la domanda più significativa mai posta alla politica estera americana: fu lasciata, com'era prevedibile, senza risposta. Le reazioni dei vari dipartimenti, a cominciare da McNamara, furono confuse. Educazione e habitus mentale avevano fatto del segretario un uomo animato dall'implicita convinzione che, date le risorse materiali e le attrezzature necessarie e una corretta analisi statistica dei fattori relativi, un lavoro - qualsiasi lavoro - poteva essere condotto a termine. McNamara e ijoint Chiefs fissarono così un punto fondamentale: l'intervento militare richiedeva un impegno chiaro nei confronti dell'obiettivo: in questo caso impedire che il Vietnam del Sud cadesse in mano ai comunisti. Valutarono che le forze necessarie, prendendo in considerazione una possibile reazione sovietica e cinese, avrebbero raggiunto un probabile limite di sci divisioni, ossia 205.000 uomini, ai quali andava aggiunto il peso di un messaggio ad Hanoi: un ulteriore appoggio alla ribellione Viet Cong nel Sud avrebbe condotto «a una rappresaglia contro il Vietnam del Nord». Kennedy era cauto nei confronti dell'opzione militare, e probabilmente chiese a quattr'occhi che la proposta venisse modificata. McNamara non si fece pregare, ci ripensò e assieme a Rusk presentò un secondo memorandum col quale si suggeriva che l'impiego di forze combattenti poteva essere temporaneamente differito, ma che si doveva essere pronti a farle intervenire in qualsiasi momento. Cercando di dare un colpo al cerchio e uno alla botte, i due segretari, che non la pensavano allo stesso modo, avvertirono che senza un grosso sforzo da parte del Vietnam del Sud «le forze degli Stati Uniti non potevano compiere la loro missione in mezzo a una popolazione apatica o ostile», ma anche che la caduta del Vietnam del Sud avrebbe «minato la credibilità degli impegni degli Stati Uniti altrove» e «acceso controversie interne». Poiché offriva di tutto un po', evitando un sì o un no reciso, questo si adattava bene all'incertezza di Kenncdy. Dubbioso dell'efficacia di una «guerra dell'uomo bianco» e preavvertito da Taylor dell'inevitabile spinta a rafforzare la presenza militare, Kennedy non desiderava che la sua amministrazione si accollasse

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questo lontano e poco promettente imbroglio. Ma l'alternativa del disimpegno era sempre considerata peggiore - significava una perdita di fiducia nello scudo americano all'estero, e all'interno accuse di atteggiamento debole e irresoluto nei confronti del comunismo. L'istinto di Kennedy era la cautela, soggetta all'ambivalenza. In un primo momento accettò il rinvio di un intervento armato, evitando accuratamente una posizione esplicitamente negativa che poteva scatenare i furori della destra. Informò Diem che sarebbero stati inviati altri consiglieri e tecnici militari nella speranza che contribuissero a «galvanizzare e integrare» lo sforzo vietnamita che «non può essere sostituito da nessun aiuto straordinario». L'opzione di un intervento di unità di combattimento veniva tenuta in sospeso. Con il regolare riferimento alle riforme politiche e amministrative, il presidente chiese una «concreta dimostrazione» di progressi, e ricordò anche che «a truppe straniere bianche» si addicevano più compiti di consulenza che «missioni che implicano la ricerca di Viet Cong immersi tra la popolazione vietnamita» - affermazione vera, m€ ipocrita, perché questo era esattamente quello che si richiedeva alle Forze speciali nelle operazioni controinsurrezionali. Con un linguaggio vago, ma non abbastanza, Kennedy si impegnò nell'impresa assicurando a Diem: «Siamo pronti ad aiutare la Repubblica del Vietnam a proteggere il suo popolo e a mantenere la sua indipendenza». In effetti, riaffermò l'obiettivo senza passare ai fatti. Diem la prese male e «parve domandarsi» secondo l'ambasciatore americano «se gli Stati Uniti non si stavano preparando a fare marcia indietro sul Vietnam come» insinuò «avevamo fatto nel Laos». Occorreva conservare la credibilità e bloccare il deteriorarsi della situazione. Senza una decisione precisa o un piano alle spalle, le truppe cominciarono a partire. Le squadre degli istruttori statunitensi richiedevano unità combattenti d'appoggio, la ricognizione aerea richiedeva caccia di scorta e squadriglie di elicotteri, e la controinsurrezione aveva bisogno di 600 berretti verdi per addestrare i vietnamiti alle operazioni contro i Viet Cong. Le richieste di materiale aumentarono in proporzione: battelli d'assalto e di pattuglia, mezzi blindati per il trasporto truppa, velivoli a decollo rapido e da trasporto, autocarri, installazioni radar, baracche prefabbricate, aeroporti. L'utilizzazione di tutti questi mezzi, impiegati in appoggio alle operazioni del1' ARVN, • richiedeva la presenza di personale americano, che parteci-

• Army of the Republic of Vietnam: esercito sudvietnamita fN.d. T. ].

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pava così volente o nolente a una guerra guerreggiata. Quando le unità delle Forze speciali dirigevano reparti dell'ARVN contro i guerriglieri e venivano attaccate rispondevano al fuoco. Lo stesso facevano gh elicotteri armati. L'accresciuta attività richiedeva qualcosa di più di un comando di unità d'addestramento. Nel febbraio del 1962 il MAAG venne sostituito da un regolare comando operativo definito con la sigla MACV; alle dipendenze di un generale a tre stelle, Paul D. Harkins, già capo di stato maggiore di Maxwell Taylor in Corea. Se occorre una data per l'inizio della guerra americana nel Vietnam può servire questa dell'istituzione del MACV, o Mac-Vee, come venne poi familiarmente chiamato. Alla metà del 1962 le forze americane nel Vietnam ammontavano a 8000 uomini, alla fine dell'anno a 11.000 e dieci mesi più tardi a 17.000. Militari americani operavano a fianco delle unità dell'ARVN a tutti i livelli, dal battaglione alla divisione allo stato maggiore generale. Progettavano le operazioni e accompagnavano le unità vietnamite sul campo per periodi dalle sei alle otto settimane per volta. Trasportavano per via aerea truppe e rifornimenti, costruivano piste d'atterraggio nella giungla, pilotavano elicotteri per le squadre di soccorso e di evacuazione dei feriti, addestravano i piloti vietnamiti, coordinavano il fuoco dell'artiglieria e le azioni d'appoggio aereo, conducevano i voli per il lancio di defolianti a nord di Saigon. Subivano anche delle perdite: 14 morti o feriti nel 1961, 109 nel 1962, 489 nel 1963. Era una guerra condotta dall'esecutivo, senza l'autorizzazione del Congresso, e, grazie all'evasività e ai dinieghi del presidente, una guerra praticamente ignota al pubblico, anche se non del tutto ignorata. Quando il Comitato nazionale repubblicano accusò il presiçlente di non essere «del tutto sincero con il popolo americano» riguardo al coinvolgimento nel Vietnam e gli chiese se non era tempo di «abbandonare la finzione» dei «consiglieri», Kennedy, evidentemente punto sul vivo, rispose a una conferenza stampa nel febbraio del 1962: «Non abbiamo inviato laggiù truppe da combattimento - nel senso generalmente dato alla parola. Abbiamo rafforzato la nostra missione d'addestramento e il nostro appoggio logistico ... » e questo era «il massimo della franchezza cui poteva giungere», in linea con

• Military Assistance Command Vietnam: comando dell'assistenza militare in Vietnam [N.d. T.].

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l'infallibile scappatoia delle «nostre necessità di sicurezza nell'arca». La risposta non soddisfece. «Gli Stati Uniti sono oggi coinvolti in una guerra non dichiarata nel Vietnam del Sud» scrisse quello stesso giorno Jamcs Rcston. «Questo è risaputo dai russi, dai comunisti cinesi e da ogni altro interessato eccetto che dal oopolo americano.» L'apporto americano riuscì per un certo tempo a rafforzare 1 sudvietnamiti. Le operazioni cominciarono ad andare bene. Il programma dei «villaggi strategici», il progetto più acclamato e favorito dell'anno, promosso dal fratello di Dicm, Nhu, e tenuto in gran conto dagli americani, riuscì in effetti a far ripiegare i Viet Cong in molti luoghi, anche se non fece certo amare il presidente Dicm dalla popolazione rurale. Escogitato per isolare i guerriglieri dalla popolazione, privandoli di cibo e di reclute, il programma trasferiva a forza gli abitanti dei villaggi dalle loro comunità in agrovilles fortificate di circa 300 famiglie, spesso con soltanto i vestiti che avevano addosso, mentre i vecchi villaggi venivano incendiati perché non fornissero riparo ai Viet Cong. Oltre a ignorare l'attaccamento del contadino alla terra avita e la sua riluttanza ad abbandonarla per qualsiasi motivo, il programma ricorreva al lavoro coatto per costruire le agrovilles. I «villaggi strategici», considerata la complessità dello sforzo impiegato e le speranze che vi si erano riposte, costavano in ostilità quello che facevano guadagnare in sicurezza. L'ARVN sotto tutela americana aumentò le sue operazioni, ci fu un incremento delle defezioni tra i Viet Cong e l'abbandono di molte loro basi: la fiducia riprese. Il 1962 fu l'anno di Saigon, e nessuno sospettò che sarebbe stato l'ultimo. L'ottimi5mo americano era al settimo cielo. I portavoce dell'esercito e dell'ambasciata americana rilasciavano dichiarazioni positive. La guerra, si diceva, era «a una svolta». Nel «conto dei corpi», si calcolava, il rapporto tra VC (Vict Cong) e ARVN era di 5 a 3. Il generale Harkins ostentava aggressività su tutta la linea. Il segretario McNamara, in un viaggio d'ispezione in luglio, dichiarò nel suo stile caratteristico: «Ogni misurazione quantitativa in nostro possesso mostra che stiamo vincendo questa guerra». Sulla via del ritorno in una conferenza militare presso il CINCPAC, • l'alto comando delle forze americane nel Pacifico a Honolulu, avviò la pianificazione di un graduale disimpegno americano dal Vietnam nel 1965.

• Commandcr in Chief, Pacilìc: la sigla designa il comandante di tutte le forze americane nell'area del Pacifico [N.d. T.].

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Sul campo, colonnelli, sottufficiali e giornalisti erano più scettici. Lo scettico più rigoroso fu J. K. Galbraith, diretto in India come ambasciatore all'epoca del rapporto Taylor del novembre 1961, al quale Kennedy aveva chiesto di fare tappa a Saigon per una ennesima valutazione della situazione. Galbraith ne trasse l'impressione che Kennedy volesse un responso negativo, e lo diede senza pietà. La situazione era «decisamente un groviglio di serpenti». I battaglioni di Diem erano «scansafatiche privi di qualsiasi motivazione». I capi militari nelle province non facevano distinzione tra comando delle truppe, governo locale e corruzione politica: le informazioni sulle operazioni dei ribelli erano «inesistenti». La realtà politica era di «stasi totale» dal momento che Diem aveva più bisogno di proteggere se stesso da un colpo di Stato che di proteggere il paese dai Viet Cong. L'inefficienza e l'impopolarità del suo governo condizionavano l'efficienza dell'aiuto americano. Quando Diem attraversava Saigon in macchina faceva pensare agli spostamenti dell'imperatore del Giappone: il suo passaggio richiedeva «il ritiro di tutta la biancheria stesa ad asciugare lungo il percorso, la chiusura di tutte le finestre, l'ordine alla gente di non affacciarsi, lo sgombero delle strade e un nugolo di motociclisti che gli facevano da battistrada per proteggerlo nella sua corsa fulminea». Cercare di barattare l'avvio di riforme con promesse di aiuti era inutile perché Diem «non produrrà mai riforme efficaci, amministrative o politiche che siano. Il motivo è che non può farlo. Ed è politicamente ingenuo aspettarselo. Intuisce che se allenta le redini del potere lo buttano fuori». Galbraith consigliava di resistere a qualsiasi pressione per l'intervento di truppe americane perché «i nostri soldati non risolverebbero la debolezza di fondo». Non aveva al momento nessuna soluzione per uscire dal «vicolo cieco in cui ci troviamo», salvo contestare l'argomento che non c'era alternativa a Diem. Riteneva essenziale un cambiamento e ripartire su basi diverse perché, anche se nessuno poteva promettere una transizione sicura, «adesso siamo sposati con un fallimento». Nel marzo del 1962 scrisse di nuovo insistendo energicamente perché gli Stati Uniti tenessero la porta aperta a un accomodamento politico di qualsiasi genere con Hanoi: se si presentava un'occasione bisognava «coglierla al volo». Pensava chejawaharlal Nehru avrebbe dato una mano e che i sovietici potevano essere avvicinati da Harriman per scoprire se Hanoi avrebbe lasciato perdere i Viet Cong in cambio del ritiro americano e del consenso a discutere la definitiva riunificazione del paese. Di ritorno in patria in aprile, propose a

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Kennedy un accordo negoziato a livello internazionale per un governo non allineato sul modello laotiano. Continuando a sostenere un governo incapace, predisse, «prenderemo il posto dei francesi come potenza coloniale nell'area e subiremo un salasso come l'hanno subito loro». Nel frattempo era necessario opporsi a qualsiasi passo tendente a impegnare i soldati americani in combattimento, e sarebbe stato bene dissociare l'America da azioni impopolari come l'uso di defolianti e i «villaggi strategici». La proposta di Galbraith, tradotta in documento scritto, fu demolita dai Joint Chiefs che vi scorsero un tentativo di sganciamento da «quello che è ormai il risaputo impegno a prendere decisamente posizione contro il comunismo in Asia». Citarono come prova l'avventata promessa del presidente a Diem di proteggere l'indipendenza della repubblica vietnamita. Non invocarono cambiamenti nella politica americana, chiesero che essa venisse «portata avanti fino a una conclusione positiva». Era l'opinione generale; Kennedy non la contestò; il suggerimento di Galbraith fu lasciato cadere. La soluzione positiva stava già sfumando. Il malcontento saliva intorno a Diem come nebbia su una palude. Saigon si era ancor più alienata i contadini imponendo la coscrizione a pieno tempo invece del tradizionale turno di sei mesi all'anno che permetteva al soldato di tornare a casa a lavorare i suoi campi. Nel febbraio del 1962 due ufficiali d'aviazione dissidenti bombardarono a volo radente il palazzo presidenziale nel vano tentativo di assassinare Diem. I corrispondenti americani sondavano le incrinature dell'ottimismo d'obbligo delle informazioni ufficiali, e scoprivano omissioni e falsificazioni. Presi dalla frustrazione, cominciarono a scrivere articoli sempre più sprezzanti. Come uno di loro ricordò parecchio tempo dopo, «molte delle notizie ritenute false dai giornalisti erano esattamente quelle che la Missione [militare] prendeva sinceramente per buone e riportava a Washington» sulla base di ciò che le raccontavano i comandanti di Diem. Visto che agenti d'informazione americani pullulavano in tutto il paese, credere ai comandanti di Diem sulla fiducia era imperdonabile, ma i funzionari, avendo impegnato la politica americana a favore di Diem, come già era avvenuto con Chiang Kai-shek, provavano ora la stessa riluttanza ad ammettere l'inadeguatezza del loro uomo. Il risultato fu una guerra giornalistica: i corrispondenti più si incollerivano più scrivevano «storie indesiderabili». Il governo inviò a Saigon Robert Manning, assistente segretario di Stato per gli affari pubblici, anch'egli un ex giornalista, perché cercasse di placare la

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tempesta, sperando, secondo un memorandum dello stesso Manning, di «vedere la presenza americana nel Vietnam minimizzata, presentata come qualcosa di meno importante di quello che è in realtà». Il pubblico prestava poca attenzione alla questione, ma ci fu anche chi si rese conto che c'era qualcosa che non andava in quell'impresa in capo al mondo. Cominciarono a spuntare qua e là segni di dissenso, ma erano poca cosa, dispersi e non particolarmente significativi. Il grosso pubblico sapeva vagamente che si stava combattendo il comunismo in qualche parte in Asia e in genere approvava la cosa. Il Vietnam era un luogo lontano, non visualizzato, nulla più che un nome sui giornali. Uno dei critici, il più forte per conoscenza del problema e per rango, era il senatore Mike Mansfield, ora capo della maggioranza al Senato e tra i suoi colleghi il più interessato alla situazione asiatica. Mansfield pensava che gli Stati Uniti, rifacendosi alla vecchia tradizione missionaria, erano ossessionati dallo zelo, riattizzato dalla crociata anticomunista, di migliorare l'Asia e che il tentativo avrebbe significato la rovina sia dell'America che dell'Asia. Di ritorno nel dicembre del l 962 da un viaggio d'ispezione fatto dietro richiesta del presidente - la sua prima visita dopo il 1955 -, riferì al Senato che «dopo sette anni e due miliardi di dollari di aiuti americani[ ... ] il Vietnam del Sud appare meno stabile, e non più stabile, di quanto non fosse all'inizio». Era uno schiaffo agli ottimisti da un lato e dall'altro ai villaggi strategici nei confronti dei quali «i metodi del governo centrale non sono, a tutt'oggi, rassicuranti». Con Kennedy in persona fu più esplicito e disse che l'intervento di truppe americane avrebbe finito col dominare una guerra che non era affar nostro. Farsene carico avrebbe «danneggiato il prestigio americano in Asia senza aiutare i sudvietnamiti a reggersi da sé». A mano a mano che Mansfield parlava, Kennedy si fece sempre più inquieto e rosso in volto e alla fine scattò: «E vorreste che io prenda tutto questo per oro colato?». Come tutti i potenti voleva sentire approvare la propria politica e si era arrabbiato con Mansfield, come confessò in seguito a un collaboratore, per il suo disaccordo così completo «e arrabbiato con me stesso perché mi rendevo conto d'essere d'accordo con lui». Non cambiò nulla. Il presidente mandò altri investigatori, Roger Hilsman, capo dei servizi d'informazione del dipartimento di Stato, e Michael Forrestal, uno dei collaboratori di Bundy, più vicini alle idee di Mansfield che a quelle del duo Taylor-Rostow. Hilsman e Forrestal riferirono che la guerra avrebbe avuto una durata e un costo in denaro

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e vite umane superiori al previsto, aggiungendo che «la partita passiva è ancora impressionante», ma come funzionari di governo privi dell'indipendenza di Mansfield non misero in discussione la politica prevalente al momento. Sepolti nel rapporto ampiamente dettagliato di Hilsman c'erano numerosi, specifici riferimenti negativi, ma nulla fu fatto per adeguarsi alle informazioni portate dagli investigatori. Adeguarsi è arduo. Il governante, una volta che si è imbarcato in una politica, trova più semplice non uscirne. Per il semplice funzionario è più conveniente, per amore del posto, non smuovere le acque, non insistere su fatti che il capo troverà difficile accettare. Gli psicologi definiscono il processo_di rimozione delle informazioni discordanti «dissonanza conoscitiva», eufemismo accademico per «non confondetemi la testa con i fatti». La dissonanza conoscitiva è la tendenza a «sopprimere, sorvolare, annacquare o "ridimensionare" questioni che produrrebbero conflitto o "sofferenza psicologica" all'interno di un'organizzazione». Porta a «derubricare» certe alternative «perché anche il solo pensarci implica conflitti». L'oggetto dei rapporti tra inferiore e superiore nel governo è l'elaborazione di politiche che non turbino nessuno. Aiuta chi governa a sognare a occhi aperti, operazione definita «un'inconscia alterazione del calcolo delle probabilità». Kennedy non era uno sciocco; conosceva gli aspetti negativi della situazione, che lo disturbavano, ma non procedette ad aggiustamenti di rotta, né alcuno dei suoi principali consiglieri suggerì che se ne facessero. Nessuno in seno all'esecutivo propugnò il ritiro, in parte per il timore dell'incoraggiamento al comunismo e del danno al prestigio americano che ne poteva derivare, e in parte per il timore di rappresaglie interne. E per un'altra ragione, la più costante nella storia della follia: il vantaggio personale, in questo caso un secondo mandato presidenziale. Kennedy era abbastanza intelligente per scorgere i segni del fallimento, per intuire che in Vietnam c'era un disastro in cammino. La faccenda lo seccava, era furioso di esserci intrappolato e preoccupato che gli rovinasse la rielezione. Il suo desiderio sarebbe stato di vincere, o trovare il ragionevole surrogato di una vittoria: mettere fine alle perdite e uscirsene dalla partita. Questo suo orientamento emerse durante una colazione con alcuni membri del Congresso alla Casa Bianca nel marzo del I 963, quando Mansfield ripropose i suoi argomenti. Presolo a parte, il presidente disse, forse perché sapeva che era ciò che l'influente senatore voleva sentire, che cominciava a essere anche lui d'accordo con l'idea di un completo disimpegno militare. «Ma non posso farlo fino al 1965 -

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finché non sono rieletto». Farlo prima avrebbe provocato una «selvaggia levata di scudi dei conservatori» contro di lui. Al suo aiutante Kenneth O'Donncll Kennedy ripeté: «Se cercassi di tirarmene completamente fuori adesso, potremmo trovarci addosso un'altra campagna del terrore allajoe McCarthy»; soltanto dopo le elezioni si poteva procedere- e aggiunse seccamente: «Così è meglio darci da fare perché sia stramaledettamente sicuro che sono rieletto». Ad altri amici fece capire di nutrire dubbi, ma spiegò che non poteva consegnare il Vietnam ai comunisti e chiedere agli elettori americani di rieleggerlo. La posizione di Kennedy era realista, anche se non un «ritratto di coraggio»: Mancava ancora più di un anno e mezzo alla rielezione. Continuare fino a quella scadenza a investire risorse e inevitabilmente vite americane in una causa nella quale non credeva più eccessivamente, piuttosto che rischiare il secondo mandato, era una decisione presa nel suo interesse personale, non in quello del paese. È estremamente raro che un governante inverta quest'ordine di priorità. Nel frattempo era stata gestita in maniera magistrale l'estrema confrontation della crisi per i missili a Cuba; lo scacco di Chruscev e il successo riportato dagli Stati Uniti avevano rafforzato la sicurezza e il prestigio dell'amministrazione. Una delle ragioni per cui i sovietici avevano fatto marcia indietro offriva la stessa lezione di Berlino: per l'URSS piazzare i missili a Cuba significava giocare audacemente d'azzardo, non un interesse vitale, mentre impedire l'installazione di missili così vicino alle sue coste era un interesse vitale per gli Stati Uniti. Sulla base della legge dell'interesse vitale, era prevedibile che gli Stati Uniti avrebbero finito col cedere in Vietnam e il Nord avrebbe vinto. Con il colpo inferto al comunismo a Cuba e l'accresciuto prestigio americano, sarebbe stato il momento di disimpegnarsi dal Vietnam con buone speranze di superare una levata di scudi interna. Ma era tempo di ottimismo ufficiale e non c'era nessuno che si battesse per il ritiro. Kennedy, in verità, intorno a quest'epoca incaricò Michael Forrestal di cominciare a pensare alla preparazione di un piano per ritirarsi dal Vietnam dopo le elezioni, dicendogli che sarebbe stato necessario un anno di preparativi per convincere il Congresso, e gli

• Il riferimento, ironico, è al libro di J. K. Kennedy Profiles in Courage (trad. it. Ritratti di coraggio, Milano 1960) [N.d. T.].

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alleati in Asia e in Europa, ad accettare la cosa. Non se ne fece nulla, ma quando gli venne chiesto privatamente come avrebbe fatto a ritirarsi senza danneggiare il prestigio americano, Kennedy replicò: «Semplice; basta metter su un governo che ci chieda di andarcene». Pubblicamente affermò che il ritiro degli Stati Uniti «avrebbe significato il collasso non soltanto del Vietnam del Sud ma dcli' Asia sudorientale. Quindi resteremo». Aveva un atteggiamento ambivalente, e non avrebbe mai risolto questa doppiezza. Un fattore costante nel processo politico era il timore di ciò che poteva fare la Cina. La frattura tra Cina e Unione Sovietica era ormai manifesta, e se la minaccia sovietica pareva ridursi, grazie a un periodo di distensione, i cinesi, dietro la cortina di rapporti completamente interrotti, incombevano più minacciosi che mai. L'impressione della Corea non si era dileguata; la bellicosità mostrata all'epoca della crisi di Quemoy e Matsu, l'annessione del Tibet, la guerra di confine con l'India formavano un quadro d'infinita perfidia. Quando in una intervista televisiva gli fu chiesto se aveva motivo di dubitare della validità della teoria del domino, Kennedy disse: «No, ci credo, ci credo ... La Cina incombe gigantesca subito oltre la frontiera: la caduta del Vietnam del Sud non solo la metterebbe in una posizione migliore per lanciare un attacco di guerriglia sulla Malesia, ma creerebbe anche l'impressione che il futuro in Asia sudorientale aooartiene a loro, alla Cina e ai comunisti». In realtà, se gli americani avessero capito l'importanza di accettare un Vietnam del Nord fortemente nazionalista, comunista o non comunista che fosse, una nazione vigorosa, indipendente, intensamente anticinese sarebbe stata una barriera di gran lunga migliore contro la temuta espansione cinese che non un paese diviso e lacerato dalla guerra che offriva ottime occasioni a interferenze d'oltre frontiera. Questo, ai migliori e più brillanti, non venne in mente. La Cina in ogni caso stava ancora dibattendosi nel pantano economico in cui l'aveva gettata il «grande balzo in avanti», e non era in grado di pensare ad avventure oltre le sue frontiere. «Conoscere l'avversario» è il precetto più importante in un rapporto antagonistico, ma la singolare abitudine degli americani, quando hanno a che fare con la minaccia comunista, è di rompere ogni rapporto e procedere sulla base dell'ignoranza. I militari, in esecuzione degli ordini di McNamara a Honolulu, erano indaffarati a elaborare un piano comprensivo, che inglobava chilometri di documenti e mesi di lavoro a tavolino, per il ritiro di un totale non molto imponente di 1000 uomini entro la fine del 1963 e per

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il rafforzamento e finanziamento dell'esercito sudvietnamita fino al momento in cui, per addestramento e consistenza numerica, potesse assumere in proprio il carico della guerra. Mentre il MACV e il CINCPAC e il dipartimento della Difesa si muovevano in un mare di cifre, di sigle e di scambi di documenti, la situazione nel Vietnam del Sud si inasprì e produsse la crisi che si concluse con la caduta e la morte di Diem e coinvolse nella vicenda la responsabilità morale degli Stati Uniti. Il mandato politico di Diem, mai pienamente accettato dal mosaico di sette, religioni e classi della società vietnamita, venne distrutto dalla rivolta buddhista dell'estate del 1963. Il risentimento di lunga data per il trattamento di favore dei cattolici praticato dai francesi e continuato da Diem infiammò la causa buddhista e le conferì immediato richiamo popolare. In maggio, quando Saigon proibì le celebrazioni della nascita di Buddha, si ebbero tumulti e le truppe governative spararono sui dimostranti, uccidendone parecchi. Nuovi tumulti e la legge marziale ricevettero terribile notorietà per il gesto disperato di autodistruzione di un monaco buddhista che si diede fuoco in una piazza di Saigon. La protesta dilagò, raccogliendo tutti gli oppositori del regime: anticattolici, antioccidentali, dissidenti delle classi inferiori e del ceto medio. La repressione e la violenza, notoriamente dirette dal fratello di Diem, Nhu, aumentarono culminando in una irruzione nella principale pagoda buddhista con l'arresto di centinaia di monaci. Il ministro degli Esteri e l'ambasciatore negli Stati Uniti si dimisero in segno di protesta; il regime di Diem cominciò a scricchiolare. I servizi d'informazione americani, che non sembrano sintonizzati sulla lunghezza d'onda dei sentimenti popolari, non avevano previsto la rivolta. Due settimane prima dell'esplosione, il segretario Rusk, ingannato dal martellante ottimismo del MACV, parlò di un «costante progresso» nel Vietnam del Sud «verso un sistema costituzionale fondato sul consenso popolare», e di chiare indicazioni di un morale in ripresa, segno che i sudvietnamiti erano «sulla via del successo». Anche nell'esercito Diem aveva nemici. Sotto le ceneri covava un colpo dei generali. Lo sforzo bellico era calato poiché il governo era continuamente alle prese con complotti e cospirazioni. I rapporti dei servizi di informazione cominciavano a parlare di contatti di Nhu e della sinistra Madame Nhu con il nemico allo scopo, si sospettava, di giungere con l'aiuto di intermediari francesi a una soluzione «neutralista» a tutto vantaggio dei loro interessi personali. L'intera impalcatura dell'investimento americano sembrava in pericolo. Era questo il protetto prescelto per l'edificazione nazionale, il candidato sicuro,

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capace di sbarrare la strada a un Nord implacabilmente motivato? A Washington le discussioni sul da farsi furono animate, e tanto più perché il governo non sapeva in realtà che strada prendere. C'era una alternativa a Diem? E se Diem rimaneva al governo la ribellione poteva essere sconfitta? Il dibattito si incentrò sui vantaggi e gli svantaggi rappresentati da Diem e su come sbarazzarsi dei Nhu, non su un riesame di ciò che l'America stava facendo in quella «galera». I Nhu dovevano essere eliminati non perché opprimevano i buddhisti, ma per le loro aperture neutraliste. La speranza era di costringere Diem a compiere questa mossa con un calcolato taglio degli aiuti, ma Diem, sicuro dell'impegno americano contro i comunisti, era inaccessibile a minacce del genere, minacce che vennero avanzate con un certo nervosismo, con un dipartimento di Stato preoccupato che Diem vi scorgesse il segnale di un'azione imminente contro la propria persona e i Nhu e «prendesse qualche iniziativa stravagante, come chiedere aiuto al Vietnam del Nord per espellere gli americani». Era un'interpretazione interessante, e faceva pensare a una certa insicurezza nell'idea che Washington si faceva del suo ruolo in Vietnam. Gradualmente i responsabili politici giunsero alla conclusione non che il Vietnam del Sud come baluardo contro il comunismo era una scommessa perdente, ma che Diem lo era e che se ne sarebbe dovuto andare con l'aiuto degli Stati Uniti. In poche parole, gli Stati Uniti dovevano appoggiare il colpo tramato dai militari. Era la presunzione del diritto- e, se non del diritto, dell'imperativo pratico- di proteggere l'investimen to in una ditta controllata gestita in maniera fallimentare. Un classico agente della CIA che operava sotto copertura, il colonnello Lou Concin, stabilì il collegamento con i cospiratori e il nuovo ambasciatore, Henry Cabot Lodge, prese energicamente in mano le redini dell'operazione, pienamente convinto della necessità di porre fine all'associazione dcli' America con «questo regime repressivo con le sue baionette a ogni angolo di strada». Facendo seguito ai suoi suggerimenti, Washington lo informò che se Diem non si sbarazzava dei Nhu «Siamo disposti ad accettare l'ovvia implicazione che non possiamo sostenere ulteriormente Diem», autorizzandolo a comunicare «agli appropriati comandanti militari che daremo loro appoggio diretto in qualsiasi periodo interinale di funzionamento d'emergenza del governo centrale». Nello stile ambiguo delle istruzioni governative, Lodge fu avvisato dalla Casa Bianca che non si doveva prendere «nessuna iniziativa» per «incoraggiare segretamente, in maniera attiva, un colpo», ma anche che occorreva muoversi «in via segreta, con urgenza» per «stabilire contatti con un possibile gruppo dirigente

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alternativo» - operazione che doveva naturalmente essere «assolutamente sicura e pienamente smentibile». Quale recente candidato repubblicano alla vicepresidenza, Lodge era stato nominato ambasciatore non solo per la sua abilità politica e la sua conoscenza perfetta del francese, ma anche per coinvolgere il suo partito nel ginepraio vietnamita. Non essendo uno sprovveduto, Lodge, si premurò di mettere l'Amministrazione Kennedy nella condizione di non poterlo in seguito sconfessare. «Siamo lanciati» telegrafò «in un'impresa dalla quale non c'è ritirata rispettabile: l'abbattimento del Governo Diem». Informò il dipartimento di Stato che il colonnello Conein aveva preso, come si desiderava, contatto con il capo del colpo militare, il generale «Big» Minh, che aveva prospettato tre possibili piani d'azione, il primo dei quali consisteva nell'«assassinio» dei Nhu mantenendo però Diem al potere; «questo era il piano più facile da eseguire». Nelle riunioni che si susseguivano a Washington, emergeva occasionalmente un problema più importante del destino di Diem e dei Nhu, come quando Robert Kennedy disse che la questione fondamentale era di sapere «se un governo, quale che fosse, poteva contrastare con successo la vittoria comunista. Se nessuno poteva farlo, era il momento di tirarsi fuori dal Vietnam completamente, piuttosto che stare ad aspettare». Se si poteva resistere ai comunisti con un governo diverso si doveva procedere a predisporre un cambiamento; ma la questione di fondo, secondo Robert Kenncdy, «restava senza risposta». Qualcuno cercò di dare questa risposta. Ufficiali che avevano accompagnato unità dell'esercito sudvietnamita in combattimento, e avevano appreso con amarezza che l'addestramento e le armi dell'America non bastavano a fornire la volontà di combattere, fecero del loro meglio per aggirare la soppressione di rapporti negativi da parte del generale Harkins e durante i loro debriefings• al Pentagono fornirono resoconti di miserande prestazioni sul campo. Una di queste in particolare: la battaglia di Ap Bac nel gennaio del 1963 di cui era stato protagonista un battaglione di 2000 uomini dcll'ARVN equipaggiati con artiglieria e mezzi blindati di trasporto avrebbe dovuto dimostrare in maniera trionfante la nuova potenza di fuoco e aggressività dell'esercito sudvietnamita. Colti dal fuoco improvviso di 200 guerriglieri Viet Cong i soldati dell' ARVN si erano acquattati dietro gli elicotteri al suolo, si erano rifiutati di alzarsi e sparare,

• Analisi dettagliata, presso i comandi superiori, delle missioni eseguite [N.d. T.)

L 'Amerirn tmdùre se stessa 11el I'iel11am

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avevano rifiutato di obbedire ai ripetuti ordini di contrattaccare. Il capo della provincia, comandante di un'unità della Guardia civile, rifiutò di permettere alle sue truppe di intervenire nei combattimenti. Nel massacro furono uccisi tre ufficiali americani, consiglieri militari.

Ap Bac mise a nudo lo stato d'animo dell'esercito sudvietnamita, l'inutilità del programma americano e l'impostura dell'ottimismo degli alti comandi, anche se a nessuno fu permesso di dirlo. Il colonnello John Vann, l'ufficiale americano più alto in grado ad Ap Bac, ritornò al Pentagono nell'estate del 1963 per cercare di informare lo stato maggiore dell'esercito. Ma poiché Maxwell Taylor era il protettore personale del generale Harkins e ne sosteneva le opinioni, il messaggio di Vann non poteva andare lontano. Un portavoce del dipartimento della Difesa annunciò: «Si è definitivamente girato l'angolo in direzione della vittoria»; e il CINCPAC pronosticò l'«inevitabile» sconfitta dei Viet Cong. Anche funzionari incari~ati degli aiuti all'estero espressero il loro scoraggiamento. Rufus Phillips, direttore dei programmi rurali, riferì che il programma dei villaggi strategici era «allo sfascio» e rilevò che la guerra non era primariamente una questione militare ma una lotta politica per il consenso popolare, e che il regime di Diem la stava perdendo. John Mecklin, direttore dcll'USIS, che nel 1962 aveva preso una licenza da «Time», di cui era corrispondente, per contribuire all'opera di propaganda antivictcong presso la popolazione, si dimise dopo 21 mesi da un incarico che si era concluso, disse, «nella disperazione». Il capo del gruppo di lavoro interdipartimentale per il Vietnam, Paul Kattcnburg del dipartimento di Stato, durante una riunione cui partecipavano Rusk, McNamara, Taylor, Bundy, il vicepresidente Johnson e altri, costernò tutti avanzando la raccomandazione che, stante la certezza che Diem non si sarebbe staccato dal fratello e avrebbe trovato sempre minore appoggio tra la popolazione procedendo «decisamente nella parabola discendente», sarebbe stato meglio per gli Stati Uniti venirsene via subito. Nessuno dei presenti si mostrò d'accordo e la proposta fu fermamente scartata da Rusk, il quale disse che si doveva procedere sulla base del presupposto che «non ci ritireremo finché la guerra non sarà vinta». Successivamente Kattenburg venne silenziosamente allontanato dal gruppo di lavoro e assegnato a un altro incarico: al momento di trasferirsi predisse che la guerra poteva richiedere l'intervento di mezzo milione di soldati americani e trasformarsi in un conflitto dalla durata di cinque, dicci anni.

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Come quella di un oracolo delfico si levò in quel momento un'altra voce: Charles dc Gaulle propose una soluzione neutralista. Con una delle sue oscure dichiarazioni, resa a una riunione del Gabinetto francese ma di cui si era insolitamente autorizzata la pubblicazione integrale, chiaramente indirizzata oltreoceano, dc Gaulle espresse la speranza che il popolo vietnamita riuscisse a compiere uno «sforzo nazionale» per conseguire l'unità e l'«indipendenza da influenze esterne». Con frasi spettrali sull'interesse francese per il Vietnam, disse che ogni sforzo fatto in questa direzione avrebbe trovato la Francia pronta a collaborare. Dopo un'approfondita analisi del suo linguaggio, i diplomatici conclusero che con la sua sortita de Gaulle proponeva una soluzione «neutralista» sul modello del Laos, indipendente sia dalla Cina comunista che dagli Stati Uniti. «Fonti autorevoli» lasciarono intendere che i nordvietnamiti si erano mostrati ricettivi e che funzionari francesi avevano trasmesso in altre capitali approcci esplorativi provenienti da Hanoi. Questa sarebbe potuta essere l'occasione per «cogliere al volo» la possibilità di una soluzione negoziata, come già aveva consigliato Galbraith. Se Washington fosse stata abbastanza saggia da cercare una via d'uscita, de Gaulle gliela stava offrendo. Nel governo americano si registrò invece «notevole contrarietà», una reazione frequente alle pomposità di de Gaulle. Eppure, vista la disintegrazione politica, l'inettitudine militare e la mancanza di qualsiasi progresso reale nel Vietnam del Sud, e considerati i segnali di Hanoi, il governo americano avrebbe potuto cogliere l'opportunità dell'imminente crollo di Diem e degli impliciti buoni uffici di de Gaulle per dire che aveva fatto tutto quello che poteva per aiutare il Vietnam; che non poteva fare di più; che per il resto ogni soluzione spettava al popolo vietnamita. Questo avrebbe significato prima o poi una vittoria comunista. Nell'ignoranza di quel che avrebbe portato il futuro, e con la sicurezza che nel 1963 si aveva nella potenza americana, un risultato di questo genere era ancora inaccettabile. Le cose procedettero come stabilito verso il colpo di Stato. Che questo violasse un principio fondamentale delle relazioni internazionali non disturbava i realisti della scuola kcnnediana. Né si pensò, a quanto sembra, che avrebbe fatto apparire priva di senso la reiterata insistenza americana che il conflitto era la «loro» guerra. La «loro» guerra: era un ritornello incessante. L'aveva detto Dullcs, l'aveva detto Eisenhower, l'aveva detto Rusk, l'aveva detto Taylor, l'avevano detto tutti gli ambasciatori, l'aveva detto molte volte lo stesso Kennedy: «In ultima analisi è la loro guerra. Tocca a loro vincerla o

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perderla». Ma se era la loro guerra, era anche il loro governo e la loro politica. Lo spettacolo dei difensori dcli~ democrazia in combutta con gente che tramava un colpo di Stato non poteva, per pressanti che fossero le ragioni addotte, essere esaltato nei libri di storia come esempio dell'American way. Era un passo avanti nella follia di tradire se stessi. Disturbato dal ruolo assunto e dall'odore del pantano in cui si stava cacciando, Kennedy ricorse a un'ennesima missione d'inchiesta, un espediente diventato ormai per Washington un tradizionale surrogato della politica. Una rapida ma approfondita ispezione di quattro giorni fu fatta dal generale Victor Krulak, consigliere speciale di Maxwell Taylor, che era ora capo di stato maggiore e presidente dei Joint Chiefs, e dajoseph Mendenhall del dipartimento di Stato, un veterano del Vietnam con molte conoscenze tra i civili vietnamiti. I rapporti presentati dai due al loro ritorno, uno lusinghiero, incoraggiante, basato su fonti militari, l'altro corrosivo, pessimistico, erano talmente discordanti da provocare la perplessa domanda del presidente: «Ma voi due avete visitato lo stesso paese?». Questa missione fu seguita a ruota da un'altra al massimo livello, composta dallo stesso generale Taylor e dal segretario alla Difesa McNamara, con il compito di scoprire fino a che punto il caos politico avesse inciso nello sforzo militare. Il nuovo rapporto, del 2 ottobre, era positivo riguardo alle prospettive militari ma accompagnato da tali e tanti spunti politici negativi da smentire queste speranze. Ogni contraddizione venne tacitata dall'annuncio fatto da McNamara, con l'approvazione del presidente, che entro l'anno si potevano ritirare 1000 uomini e che «il compito militare degli Stati Uniti può essere completato per la maggior parte entro la fine del 1965». La confusione e le con traddizioni delle missioni d'inchiesta non avevano assolutamente contribuito a un chiarimento politico. Il l O novembre si ebbe il colpo di Stato dei generali, coronato da successo. Incluso, con sgomento degli americani, l'imprevisto assassinio di Diem e dei Nhu. Meno di un mese dopo anche il presidente Kennedy sarà nella tomba.

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LA GUERRA DELL'ESECUTIVO: 1964-1968

Dal momento in cui salì alla presidenza, secondo una persona che lo conosceva bene, Lyndonjohnson decise che non avrebbe «perduto» il Vietnam. L'atteggiamento, considerate le bellicose proposte da lui fatte come vicepresidente nel 1961, era prevedibile e discendeva certamente dai dogmi della guerra fredda, ma più ancora aveva a che fare con le esigenze dell'immagine che l'uomo intendeva darsi come fu immediatamente chiaro. Entro 48 ore dalla morte di Kennedy, l'ambasciatore Lodge, tornato in patria per riferire sugli sviluppi del dopo Diem, si incontrò con Johnson per fornirgli un quadro della scoraggiante situazione vietnamita. Le prospettive politiche sotto il successore di Diem, riferì, lasciavano intravedere non un miglioramento ma la probabilità di ulteriori contese; sul piano militare, l'esercito stava a malapena in piedi e correva il rischio d'essere sopraffatto. Se gli Stati Uniti non assumevano un ruolo più attivo nello scontro, il Sud poteva anche andare perduto. Si dovevano affrontare, disse Lodge schiettamente al presidente, difficili decisioni. La reazione dijohnson fu istantanea e personale: «Non intendo essere il primo presidente degli Stati Uniti che perde una guerra» o, secondo un'altra versione: «Non intendo perdere il Vietnam. Non intendo essere il presidente che ha visto l'Asia sudorientale fare la fine che ha fatto la Cina». Nella tensione nervosa della sua improvvisa assunzione alla presidenza,Johnson sentì che doveva essere «forte», dimostrare di tenere in pugno le redini, specialmente per sfatare il mito dei Kennedy, sia di quello morto sia di quelli vivi. Non sentì un eguale impulso a essere saggio, a valutare le opzioni prima di parlare. Gli mancava l'ambivalenza di Kennedy, emanante da un certo senso della storia e da una qualche capacità, almeno, di riflettere. Uomo di polso duro, autoritario, infatuato di se stesso, nella sua condotta della politica vietnamita Johnson fu influenzato da tre elementi del suo carattere: un Ego

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insaziabile e mai sicuro; una sconfinata capacità di usare e imporre senza inibizioni i poteri della sua carica; una profonda avversione, una volta che avesse scelto la strada da seguire, per qualsiasi controindicazione. Nel Vietnam del Sud dopo l'assassinio di Diem presero a circolare ipotesi intorno a una soluzione neutralista, ed è anche possibile, non fosse stato per la presenza americana, che a questo punto Saigon sarebbe scesa a patti con i ribelli. Si sentì una trasmissione di una radio Viet Cong clandestina suggerire negoziati per un cessate il fuoco. Una seconda trasmissione che suggeriva la possibilità di un accomodamento con il nuovo presidente a Saigon, il generale Duong Van Minh, capo del colpo militare contro Diem, se questi si fosse staccato dagli Stati Uniti, venne intercettata e riferita a Washington dal Foreign Broadcasting Intelligence Service (il servizio d'ascolto delle trasmissioni. dall'estero). Non erano offerte precise e avevano probabilmente solo lo scopo di sondare il caos politico di Saigon. A Saigon, a differenza che a Washington, c'era qualcuno disposto ad ascoltare. Corse voce che il gigantesco presidente, il generale «Big» Minh, un ex contadino buddhista benintenzionato e popolare, ma privo di qualsiasi controllo sui rivali annidati ovunque, stesse meditando di mettersi in contatto con i Viet Cong. Dopo tre mesi di presidenza fu anch'egli vittima di un colpo militare. Alle medesime voci furono soggetti i successori che nello spazio di pochi mesi si seguirono uno dopo l'altro in una girandola di colpi militari e di deposizioni. L'opposizione americana a ogni approccio con l'altra parte veniva attivamente esercitata dall'ambasciata e dai suoi agenti. In questo periodo il birmano U Thant, segretario generale delle Nazioni Unite, stava sondando la ricettività delle parti a un governo di coalizione neutralista. Una coalizione tra nemici di fondo è un'illusione, ma può servire a un accomodamento temporaneo. La cosa non interessava Washington. Né l'interessò la proposta piuttosto disperata del senatore Mansfield a gennaio di aprire la strada al ritiro americano dividendo il Vietnam del Sud tra Saigon e i Viet Cong. Anche se Johnson esigeva «soluzioni» dai suoi consiglieri, questi compromessi con il comunismo non erano quello che aveva in mente. Le decisioni difficili stavano già prendendo forma. Di ritorno in dicembre da una missione d'inchiesta, McNamara riferì che le tendenze in atto dovevano essere capovolte entro «i prossimi due o tre mesi»: in caso contrario esse avrebbero «condotto alla neutralizzazione, nel migliore dei casi, e più probabilmente a uno Stato controllato dai comunisti». La salvaguardia di un Sud non comunista era una

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posta così alta, disse al presidente, «che a mio giudizio dobbiamo continuare a fare ogni sforzo per vincere». L'enormità della posta in gioco era la nuova autoipnosi. Lasciare che il Vietnam del Nord vincesse avrebbe comunque incoraggiato i comunisti in modo incalcolabile, eroso ovunque la fiducia negli Stati Uniti e scatenato la destra americana al gioco del massacro politico. Fu quello che affermò il «New York Timcs» in un editoriale carico di funesti presagi: lo schieramento delle nazioni dell'Asia sudorientale Laos, Cambogia, Birmania, Thailandia, Malesia, Indonesia - si sarebbe trovato in pericolo se cadeva il Vietnam del Sud; l'«intera posizione alleata nel Pacifico occidentale sarebbe stata messa a repentaglio»; l'India sarebbe stata «aggirata», la spinta della Cina rossa all'egemonia «enormemente favorita»; dubbi sulla capacità degli Stati Uniti di difendere altre nazioni contro il comunismo si sarebbero diffusi in tutto il mondo; l'impatto sui movimenti rivoluzionari sarebbe stato profondo; il neutralismo si sarebbe propagato ovunque e con esso la sensazione che il comunismo era forse la realtà del futuro. Al momento in cui scrivo [1983], il Vietnam è sfortunatamente da otto anni sotto controllo comunista e - con l'eccezione del Laos e della Cambogia - nessuno di questi terrori si è concretizzato. Col l 964 erano passati dicci anni da quando l'America si era assunta il compito di salvare il Vietnam del Sud dopo Ginevra. Le circostanze erano mutate. L'Unione Sovietica era stata affrontata e battuta nella crisi di Berlino e in quella dei missili a Cuba; l'influenza sovietica sui partiti comunisti europei era assai diminuita; la NATO era saldamente costituita. Perché dunque la posta era considerata così alta nel remoto, non importante Vietnam? Il comunismo aveva fatto progressi in Europa senza provocare l'isterismo che sembrava contagiarci nel caso dell'Asia. Se l'avanzata comunista era così temibile ovunque, perché tanta leggerezza nell'attacco a Cuba e tanta fermezza in Vietnam? Forse, perversamente, perché era l'Asia, dove gli americani davano per scontato di poter far prevalere la loro volontà e la potenza delle loro risorse su quelli che un senatore degli Stati Uniti, Thomas Dodd del Connecticut, definiva nella sua saggezza «poche migliaia di guerriglieri primitivi». Essere frustrati in Asia pareva inaccettabile. La posta era diventata la capacità dcll' America di esercitare il proprio potere in quella sua particolare manifestazione che si chiama «credibilità». Questa interpretazione della posta in gioco prevaleva su ogni cosa, nonostante il vecchio monito che non si poteva vincere una guerra di terra in Asia, nonostante le deludenti esperienze della Cina e della Corea, nonostante l'esperienza

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francese nello stesso luogo in cui erano ora in ballo gli americani. A far salire il valore della posta contribuirono, a somiglianza delle visioni britanniche di rovina se si perdevano le colonie americane, profezie di iperboliche catastrofi se si fosse perso il Vietnam. Di queste forzature Johnson si fece portavoce nel suo primo «scenario» di una ritirata fino a San Francisco; seguì Rusk nel 1965 con il suo avvertimento al presidente che il ritiro «condurrebbe alla nostra rovina e quasi certamente a una guerra catastrofica», e nuovamente nel 1967 quando a una conferenza stampa tracciò il quadro di «un miliardo di cinesi armati di ordigni nucleari». Il corrispondente militare del «New York Timcs», Hanson Baldwin, se ne fece anch'egli portavoce nel 1966, scrivendo che il ritiro dal Vietnam si sarebbe concluso con una «catastrofe politica, psicologica e militare», e avrebbe dimostrato che gli Stati Uniti «avevano deciso di abdicare come grande potenza» e si erano «rassegnati a ritirarsi dall'Asia e dal Pacifico occidentale». Anche la paura ispirava visioni: «Ho la paura folle» disse il scnatorejoseph Clark alla Commissione senatoriale per gli affari esteri «che ci stiamo avviando alla terza guerra mondiale e nucleare.» Il Vietnam del Nord stava ora inviando unità del suo esercito regolare attraverso la linea di demarcazione per sfruttare la disintegrazione del Sud. Per impedire il crollo del cliente dcli' America, il presidente Johnson, i suoi consiglieri e ijoint Chicfs giunsero alla conclusione che era arrivato il momento di ricorrere alla guerra di coercizione. Sarebbe stata una guerra dall'aria, anche se era chiaro che avrebbe inevitabilmente coinvolto truppe di terra. Agenzie civili e militari cominciarono a tracciare piani operativi, ma anche se ogni giorno la situazione di Saigon si faceva più precaria non si poteva ancora passare all'azione perchéjohnson aveva davanti a sé le elezioni presidenziali del 1964. Il suo avversario era il bellicoso senatore Barry Goldwatcr cd egli doveva apparire come il candidato della pace. Riesumò il ritornello della «loro» guerra: «Cercheremo[ ... ] di fare in modo che salvino la loro libertà con i loro uomini». «Non manderemo ragazzi americani a nove o diecimila miglia da casa a fare quello che i ragazzi asiatici devono fare per se stessi». Quando sci mesi più tardi i ragazzi americani vennero inviati in combattimento senza che la situazione subisse clamorosi mutamenti non fu difficile ricordare queste frasi cd ebbe inizio così l'erosione della credibilità di Johnson. Abituato da lungo tempo alla menzogna come normale prassi politica, egli dimenticò che la sua carica definiva una situazione diversa e che quando le menzogne

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venivano alla luce, come inevitabilmente accadeva sotto i riflettori puntati sulla Casa Bianca, erano la presidenza e la pubblica fiducia a soffrirne. La reazione dell'opinione pubblica alla competizione elettorale tra il falco Goldwater, con la sua denuncia di una politica «perdente», e l'uomo della pace Johnson pesò fin dall'inizio a favore di una sola parte. Dopo la seconda guerra mondiale e la Corea, e con lo spettro incombente della bomba atomica, gli americani - anche se anticomunisti - non volevano la guerra. Le donne specialmente votarono in maniera sproporzionata per Johnson, rivelando l'esistenza di un entroterra di sentimenti contro la guerra. L'amministrazione avrebbe anche potuto prestare attenzione a questo fatto, ma non lo fece perché non cessò mai di pensare che i problemi le sarebbero venuti da destra. Mentre lanciava un segnale agli elettori, Johnson doveva lanciarne un altro di più duri intenti ad Hanoi, nella speranza di fermare una sfida diretta, almeno fino alle elezioni. Unità navali che operavano nel golfo del Tonchino, incluso il cacciatorpediniere Maddox, che diverrà presto assai noto, passarono dalla raccolta di informazioni ad azioni «distruttive» contro la costa, e ciò - si pensava - avrebbe fatto giungere ad Hanoi il messaggio di «desistere da iniziative aggressive». Il vero messaggio, che a questo punto praticamente tutti giudicavano necessario, saranno i bombardamenti aerei americani. A giugno Johnson, Rusk, McNamara e il generale Taylor si recarono in volo ad Honolulu dove si incontrarono con l'ambasciatore Lodge e il CINCPAC per studiare un programma di attacchi aerei americani e il probabile passo successivo, i combattimenti terrestri. Le ragioni dei bombardamenti erano per due terzi politiche: sostenere il morale in sfacelo del Vietnam del Sud, come chiedeva insistentemente Lodge, e spezzare la volontà di lotta dei nordvietnamiti, obbligandoli a non aiutare più i Viet Cong e infine a negoziare. L'obiettivo militare era di far cessare le infiltrazioni e i rifornimenti. Vennero lanciate, rigirate e discusse raccomandazioni e riserve: nessuno era ansioso di una belligeranza americana in una guerra civile in Asia, anche se si pretendeva che fosse una «aggressione esterna». La necessità vera, considerato il rapido collasso del Sud, era di ristabilire il rapporto di forze sul piano militare in modo che gli Stati Uniti non dovessero negoziare in condizioni di debolezza. Finché non si otteneva questo risultato, qualsiasi mossa in direzione dei negoziati «sarebbe stata un'ammissione che la partita era persa». Com'era inevitabile sorse, ma senza trovare sostenitori, la scabrosa

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questione delle armi nucleari. In un unico caso il loro uso venne anche solo teoricamente contemplato: l'eventualità di dover far fronte all'immenso pericolo, perché tale lo si giudicava, dei comunisti cinesi qualora questi fossero stati provocati a entrare in guerra. Il segretario di Stato Rusk, al quale tale argomento provocava sempre scariche di adrenalina, riteneva che, stante l'enorme popolazione della Cina, «non ci si poteva permettere di farsi dissanguare combattendola con armi convenzionali». Questo significava che se l'escalation provocava un massiccio attacco cinese «avrebbe anche implicato l'uso di armi nucleari». Rusk era comunque consapevole che i leader asiatici erano contrari a questa scelta, perché vi scorgevano un elemento di discriminazione razziale, «qualcosa che saremmo disposti a fare contro gli asiatici ma non contro gli occidentali». Vennero brevemente esaminate le possibili circostanze di un uso tattico di ordigni nucleari. Il generale Earle Wheeler, nuovo presidente dei Joint Chiefs, ne era poco entusiasta; il segretario alla Difesa McNamara disse che «non riusciva a immaginare un caso in cui li si potesse prendere in considerazione», e l'argomento venne lasciato cadere. Si tracciarono i piani operativi per i bombardamenti, ma l'ordine di passare all'azione venne differito, perché, finché durava la vigilia elettorale, l'immagine di Johnson come uomo della pace andava protetta. La questione più grave dei combattimenti terrestri fu lasciata in sospeso fino a quando non sarebbe stato possibile insediare un governo affidabile nel caos politico di Saigon. Inoltre, come fece notare il generale Taylor, l'opinione pubblica americana andava educata a valutare meglio gli interessi americani in Asia sudorientale. Il segretario McNamara, con la sua solita precisione, riteneva che la cosa «avrebbe richiesto almeno trenta giorni», come se si fosse trattato di vendere al pubblico un nuovo modello d'auto. L'idea di espandere la belligeranza americana inquietava fortemente Johnson, che temeva di provocare un intervento cinese. In ogni caso, se l'escalation era inevitabile, voleva un mandato del Congresso. A Honolulu venne letto e discusso il testo di una bozza di risoluzione e al suo ritorno a Washington il supremo manipolatore si apprestò a ottenerla. La risoluzione del golfo del Tonchino del 7 agosto 1964 è stata oggetto di studi più che esaurienti; noi ci limitiamo qui a brevi cenni. In sostanza, essa conferì al presidente, e in questo stava la sua importanza, il mandato che egli cercava, mentre il Congresso non poté far altro che scoprire improvvisamente, impotente e in qualche misura anche risentito, d'essere rimasto a mani vuote. La risoluzione non fu

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un Fort Sumter• o una Pearl Harbor, ma non fu meno significativa: in una causa di incerto interesse nazionale costituì una cambiale in bianco per la guerra dell'esecutivo. La causa fu l'asserzione da parte del cacciatorpediniere Maddox e di altre unità navali di essere stati attaccati nottetempo da torpediniere nordvietnamite al di fuori del limite di tre miglia riconosciuto dagli Stati Uniti. Hanoi rivendicava la propria sovranità fino a un limite di dodici miglia. Un secondo scontro ebbe luogo il giorno seguente in circostanze oscure, mai pienamente chiarite: successivamente, durante una nuova inchiesta nel 1967, le si ritenne frutto d'immaginazione o inventate. Le telecomunicazioni della Casa Bianca con Saigon crepitarono sotto l'impatto della crisi.Johnson chiese prontamente una risoluzione del Congresso che autorizzasse «tutte le misure necessarie a respingere un attacco armato» e il senatore]. William Fulbright, nella sua qualità di presidente della commissione senatoriale per gli affari esteri, si incaricò di pilotarne il passaggio al Senato. Pur consapevole di non agire esattamente per salvaguardare l'autorità costituzionale del Congresso, Fulbright credette alle ferventi assicurazioni dijohnson, il quale affermava di non avere nessuna intenzione di allargare la guerra, e pensò che la risoluzione avrebbe aiutato il presidente a respingere le ri.chieste di un'offensiva aerea avanzate da Goldwater e aiutato anche il Partito democratico, dimostrandone l'inflessibilità contro i comunisti. Si è anche tirata in ballo l'ambizione personale, quell'ambizione che così spesso influenza l'azione politica, insinuando che Fulbright nutriva la speranza di rimpiazzare Rusk come segretario di Stato, dopo le elezioni, e che per questo doveva conservarsi il favore di Johnson. Vero o falso che fosse, Fulbright vide giusto nel supporre che uno degli obiettivi della risoluzione era di guadagnare consensi a destra con un'esibizione di forza. Il senatore Gaylord Nelson del Wisconsin cercò di limitare la risoluzione con un emendamento contro «qualsiasi estensione del presente conflitto», ma fu messo a tacere da Fulbright il quale disse che, poiché il presidente non aveva intenzioni del genere, l'emendamento non era necessario. Il senatore Sam Ervin della Carolina del Nord, aggrottando le celebri sopracciglia, lasciò intravedere il disagio

• L'attacco dei secessionisti sudisti a Fort Sumtcr (porto di Charleston) segnò l'inizio della guerra civile americana ( 1861-1865) [N.d. T.].

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serpeggiante tra alcuni senatori nei confronti di tutta l'impresa quando chiese: «C'è un qualsiasi modo ragionevole o onorevole con cui possiamo districarci senza perdere la faccia e probabilmente anche i pantaloni?». L'oppositore più esplicito fu, come sempre, il senatore Wayne Morse, che denunciò la risoluzione come una «dichiarazione di guerra predatata» e, tempestivamente informato da una telefonata di un ufficiale del Pentagono, mise alle strette McNamara con le sue domande su azioni navali sospette nel golfo del Tonchino. McNamara negò fermamente qualsiasi «connessione o conoscenza» in merito ad azioni ostili. Morse aveva spesso ragione ma scagliava con tale regolarità i suoi fulmini contro ogni genere di iniquità che le sue parole non facevano più impressione. I senatori, che per un terzo erano anch'essi in corsa per la rielezione, non intendevano creare difficoltà al presidente due mesi prima del voto nazionale né mostrarsi meno di lui solleciti a proteggere vite americane. Dopo una giornata di sedute, la risoluzione che autorizzava «tutte le misure necessarie» venne adottata dalla commissione per gli affari esteri con una votazione di 14 a I e successivamente approvata dalle due camere. Giustificava la concessione di poteri di guerra con l'argomento piuttosto elastico che gli Stati Uniti consideravano «vitale per i loro interessi internazionali e la pace mondiale il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale». Né la forma né il senso della frase erano molto convincenti. Con la sua pronta acquiescenza il Senato, un tempo così geloso della sua prerogativa costituzionale di dichiarare guerra, l'aveva ceduta, con tanto di firma, all'esecutivo. Intanto, mentre si accumulavano le prove della confusione fatta dai tecnici radar e sonar in occasione del secondo scontro, Johnson finì col dire in privato: «Bene, questi fessi di marinai si erano messi a sparare ai pesci volanti». Tanto per il casus belli. Alternative vennero offerte in questo periodo agli Stati Uniti dalla proposta di U Thant di riconvocare la conferenza di Ginevra e da un secondo appello di de Gaulle per una pace negoziata. Dc Gaulle propose di giungere a una soluzione con una conferenza tra Stati Uniti, Francia, Unione Sovietica e Cina, con la successiva evacuazione dall'intera Indocina di tutte le forze straniere e la garanzia delle grandi potenze della neutralità di Laos e Cambogia e dei due Vietnam. Era un'alternativa valida, e a quel tempo probabilmente realizzabile, salvo che non avrebbe assicurato un Vietnam del Sud non comunista e per questo venne ignorata dagli Stati Uniti. Un emissario americano, il sottosegretario di Stato George Bali, era stato inviato poche settimane prima a spiegare a de Gaulle che

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qualsiasi discorso di negoziati poteva demoralizzare il Sud nelle sue attuali fragili condizioni, e anche condurlo al crollo, e che gli Stati Uniti «non credevano di poter negoziare finché la nostra posizione sul campo di battaglia non fosse così solida da indurre i nostri avversari a fare le concessioni richieste». De Gaulle respinse nettamente questa posizione. Le stesse illusioni, disse a Bali, avevano trascinato la Francia al disastro; il Vietnam era un «posto disperato per combattere»; un «paese maledetto» dove gli Stati Uniti non potevano vincere, neppure con tutte le loro grandi risorse. Non la forza ma i negoziati erano l'unica via da seguire. Anche se vedere gli Stati Uniti sconfitti come era stata sconfitta la Francia gli avrebbe procurato una maligna soddisfazione, dc Gaulle si faceva guidare da una considerazione di più ampio respiro. La ragione per cui sia lui che altri europei si prodigarono con tanta sollecitudine per ottenere il disimpegno degli Stati Uniti dal Vietnam era la paura che l'attenzione e le risorse dcli' America venissero stornate dall'Europa a favore di una gora morta in Asia. U Thant aveva nel frattempo appurato attraverso canali sovietici che Hanoi era interessata a trattare con gli americani e ne informò l'ambasciatore degli Stati Uniti all'ONU, Adlai Stevenson. U Thant proponeva un cessate il fuoco in tutto il Vietnam e il Laos, lasciando gli Stati Uniti liberi di definirne i termini come meglio ritenevano, termini che egli avrebbe annunciato immutati. Quando comunicò questo messaggio a Washington, Stevenson incontrò soltanto atteggiamenti elusivi e dopo le elezioni una risposta negativa, basata sull'argomento che gli Stati Uniti avevano appreso attraverso altri canali che Hanoi non era realmente interessata. Inoltre, disse Rusk, gli Stati Uniti non avrebbero inviato un loro rappresentante a Rangoon, dove U Thant aveva combinato che si svolgessero le trattative, perché qualsiasi accenno a una mossa del genere avrebbe causato il panico a Saigon - o, ciò che gli Stati Uniti in realtà temevano ma che non dissero, nuovi sondaggi in direzione neutralista. U Thant non nascose la propria irritazione per questo rifiuto e in febbraio disse chiaramente a una conferenza stampa che un ulteriore spargimento di sangue in Asia sudorientale era privo di necessità e che soltanto il negoziato poteva «permettere agli Stati Uniti di ritirarsi dignitosamente da quella parte del mondo». Ma l'offensiva aerea denominata Rolling Thunder [tuono che romba] era ormai iniziata e con le distruzioni e le morti causate dalle incursioni americane l'occasione di una uscita dignitosa non sarebbe più riemersa.

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Johnson si era già lasciato sfuggire una più grossa occasione per disimpegnarsi: la rielezione. Aveva sconfitto Goldwater con la p1u larga maggioranza popolare [ 1983] della storia americana e conquistato maggioranze inattaccabili al Congresso con 68 seggi contro 32 al Senato e 294 contro 130 alla Camera. Il risultato elettorale era in gran parte dovuto alla spaccatura in campo repubblicano tra i moderati di Rockefcllcr e gli estremisti di Goldwater e ai diffusi timori suscitati dalle bellicose intenzioni di quest'ultimo, e metteva Johnson in condizione di fare quello che voleva. E a Johnson stavano a cuore sopra ogni altra cosa i programmi assistenziali e la legislazione sui diritti civili che dovevano creare la Grande Società, libera dalla povertà e dall'oppressione. Voleva passare alla storia come il grande benefattore, più grande di Roosevelt, pari a Lincoln. L'incapacità di cogliere l'occasione che gli si presentava di tirar fuori la sua amministrazione da un pericoloso imbroglio oltremare fu la follia irreparabile, anche se non sua soltanto. I suoi principali consiglieri governativi ritenevano con lui che il peggio sarebbe venuto dalla destra, nel caso di un ritiro, piuttosto che dalla sinistra se si continuava la lotta. Fiducioso nella sua forza, Johnson credeva di poter raggiungere nello stesso tempo i suoi due obiettivi, quello interno e quello esterno. I rapporti da Saigon parlavano di un progressivo sgretolamento, di sommosse, corruzione, di sentimenti antiamericani, di manovre neutraliste dei buddhisti. «Mi sembra» disse un funzionario americano a Saigon «di essere sul ponte del Titanic». Questi segnali non suggerirono a Washington l'idea che lo sforzo era inutile cd era tempo di ridurre le perdite, ma che era necessario uno sforzo ancora maggiore per ristabilire l'equilibrio e passare in vantaggio. Tutti i funzionari, civili e militari, erano d'accordo sulla necessità di un intervento sotto la forma di guerra aerea per convincere il Nord a rinunciare al suo tentativo di conquista. E nessuno dubitava che gli Stati Uniti potessero raggiungere lo scopo grazie alla loro superiore potenza. Come Kennedy, Johnson credeva che perdere il Vietnam del Sud avrebbe significato perdere la Casa Bianca. Significava, disse in seguito, una disputa distruttiva che avrebbe «infranto la mia presidenza, ucciso la mia amministrazione e danneggiato la nostra democrazia». La perdita della Cina, che aveva condotto all'ascesa di Joe McCarthy, era «uno scherzo al confronto di quello che poteva succedere se perdevamo il Vietnam». Robert Kennedy, aggiunse, sarebbe partito lancia in resta a dire a tutti che «ero un codardo, ur. impotente, uno smidollato». Peggio ancora, non appena avessern percepito la debolezza di Washington Mosca e Pechino avrebberv

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proceduto a «espandere il loro controllo sul vuoto di potere che ci saremmo lasciati alle spalle[ ... ] e così sarebbe cominciata la terza guerra mondiale». Ne era sicuro, «se si può essere sicuri di qualcosa». Nessuno è più sicuro delle proprie premesse dell'uomo che sa troppo poco. Un'alternativa praticabile, in forza del mandato elettorale, sarebbe stata di dare seguito ai sondaggi di U Thant in direzione di Hanoi, e anche di servirsi della sua· influenza per insediare a Saigon (come aveva suggerito Kennedy) un governo che chiedesse agli Stati Uniti di andarsene, lasciando il Vietnam libero di trovare da sé la soluzione ai propri problemi. Ma questa scelta avrebbe condotto inevitabilmente alla presa del potere da parte dei comunisti e gli Stati Uniti si rifiutavano quindi di prenderla in considerazione, anche se li avrebbe liberati da un incubo assillante. Un esame attento avrebbe rivelato che la ragion d'essere dell'intervento americano si era considerevolmente ridimensionata. Quando il presidente chiese alla CIA una valutazione della questione centrale se cioè, qualora il Laos e il Vietnam del Sud fossero caduti sotto il controllo comunista, l'intera Asia sudorientale avrebbe fatto necessariamente la stessa fine -, la risposta fu negativa: a eccezione della Cambogia, «non è probabile che altre nazioni dell'area soccombano rapidamente al comunismo in conseguenza della caduta del Laos e del Vietnam». La propagazione del comunismo nell'Asia sudorientale «non sarebbe stata inesorabile» e le basi americane nelle isole del Pacifico «ci permetterebbero sempre di impiegare nell'area una potenza militare sufficiente a dissuadere Hanoi e Pechino». Non si sarebbe dovuto, dopo tutto, rinculare fino a San Francisco. Un altro parere venne dal gruppo di lavoro interdipartimentale per il Vietnam, composto da rappresentanti dei dipartimenti di Stato e della Difesa, dei Joint Chiefs e della CIA, che dopo le elezioni di novembre misero bravamente mano a «valutare realisticamente quali sono, in termini globali, i nostri obiettivi e le nostre poste in gioco». Questo sforzo senza precedenti condusse il gruppo, dopo lunga e attenta analisi, a lanciare un serio monito: gli Stati Uniti non potevano garantire l'esistenza di un Vietnam del Sud non comunista «a meno che ci impegniamo in un'azione militare a qualsiasi livello essa sia necessaria per sconfiggere il Vietnam del Nord e possibilmente la Cina comunista». Un'azione del genere avrebbe potuto condurre a un conflitto di vaste proporzioni e possibilmente anche all'impiego a un certo punto di armi atomiche». In quegli stessi giorni, il sottosegretario di Stato George Ball, che

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come sostenitore dell'importanza primaria dell'Europa e specialista di problemi economici aveva una pessima opinione dell'affare vietnamita, fece un grosso tentativo per scoraggiare la scelta dell'intervento armato. In un lungo memorandum sottolineò il fatto che i bombardamenti, invece di persuadere il Nord ad abbandonare le sue mire, potevano provocare Hanoi a mettere in campo un numero maggiore di forze di terra, sua fondamentale risorsa militare, e questo avrebbe a sua volta richiesto l'intervento di maggiori forze americane. I nostri alleati, disse Bali, ritenevano già che gli Stati Uniti fossero «impegnati in una sterile lotta nel Vietnam, che estesa a una guerra di terra avrebbe distolto l'America dal suo interesse per l'Europa. Ciò che dovevamo temere di più era una generale perdita di fiducia nella nostra capacità di giudizio». Raccomandava di preavvisare Saigon di un possibile disimpegno americano, a causa del fallimentare sforzo bellico dell'alleato. Questo avrebbe probabilmente provocato una transazione con i ribelli, cosa che Bali in privato pensava fosse il miglior risultato possibile. In sede di discussione Bali trovò i tre principali esponenti dell'amministrazione, McGeorge Bundy, McNamara e Rusk, «mortalmente contrari» alle sue opinioni e interessati a un solo problema: «Come procedere con l'escalation della guerra finché non si fosse deciso ad abbandonare la partita». Quando il suo memorandum venne sottoposto al presidente, il risultato fu lo stesso. Johnson gli diede una scorsa, chiese a Bali di rivederlo con lui punto per punto e glielo restituì senza una parola di commento. Perché queste voci consultive della CIA, del gruppo di lavoro, del sottosegretario di Stato ebbero così poco peso? Fornire consigli sulla base delle informazioni raccolte era il compito dei primi due, e in modo specifico per il Vietnam per quel che riguardava il gruppo di lavoro. Se Johnson lesse il rapporto del gruppo - e si spera che le agenzie governative scrivano rapporti da leggere, non da usare per tappezzarci i muri-, ne rifiutò il messaggio. Bali poteva essere tollerato come un «avvocato del diavolo», e in effetti fu utile in questo ruolo per mostrare che la Casa Bianca era aperta ai dissenzienti. Ma al vertice dominava ancora il blocco mentale del 1954 - che Ho era un agente del comunismo mondiale, che la lezione della politica della remissività escludeva qualsiasi concessione, che l'impegno degli Stati Uniti di sventare il tentativo nordvietnamita di controllare il paese andava assolto fino in fondo. Come era possibile non spuntarla contro quello che Johnson definì «quel paesucolo di quart'ordine con le pezze sul sedere»? Malgrado il monito del gruppo di lavoro il presidente, i suoi

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segretari e iJoint Chiefs erano sicuri che la potenza americana poteva costringere il Vietnam del Nord ad abbandonare la partita, permettendo nello stesso tempo agli Stati Uniti di evitare accuratamente uno scontro con la Cina. Anche Hanoi sapeva mostrarsi sconsiderata. Due giorni prima delle elezioni americane, come se volessero provocare gli Stati Uniti alla belligeranza, i Viet Cong effettuarono la prima azione offensiva contro un'installazione specificamente americana - un attacco di mortai all'aeroporto di Bien Hoa. L'aeroporto era una base americana d'addestramento in cui uno squadrone di vecchi B-57 era stato di recente trasferito dalle Filippine a fini, appunto, di addestramento; un bersaglio allettante. Sei apparecchi vennero distrutti, cinque americani uccisi; altre perdite subite fecero salire il totale a 76. Certo che l'attacco era stato istigato da Hanoi, il generale Taylor, a quel tempo ambasciatore a Saigon, telefonò a Washington chiedendo l'autorizzazione di procedere a rappresaglie immediate. Nella capitale tutti i principali consiglieri si dichiararono d'accordo ma Johnson, alla vigilia delle elezioni, non prese nessuna decisione e non ne prese per tre mesi ancora, tormentato dalle sue preoccupazioni per un intervento cinese, nonostante i rapporti parlassero di un rapido deteriorarsi della situazione a Saigon. Cauto ed esitante, mandò McGeorge Bundy e l'assistente segretario alla Difesa John McNaughton a vedere se la guerra aerea era realmente necessaria per salvare il Sud. Mentre i due erano nel Vietnam del Sud, i Viet Cong lanciarono un altro attacco, questa volta contro acquartieramenti americani a Pleiku, uccidendo otto americani e ferendone 108. Ispezionando il terreno devastato, Bundy fu colto, si disse, da un tale accesso di indignazione da telefonare in termini furibondi al presidente per chiedere una rappresaglia. Vero o falso che fosse l'episodio, il fattore decisivo non fu l'emotività. Il memorandum di Bundy, redatto durante il viaggio di ritorno in compagnia di Taylor e del generale William C. Westmorcland (il comandante che aveva rimpiazzato Harkins), era freddo e duro: senza «nuove azioni concrete degli Stati Uniti la sconfitta del Vietnam del Sud appare inevitabile [ ... ]. La posta in gioco nel Vietnam è estremamente alta [ ... ]. Il prestigio internazionale degli Stati Uniti è in pericolo [ ... ]. Non c'è maniera di uscire dal Vietnam tramite negoziati che offra al presente serie garanzie». Di conseguenza, «La politica di rappresaglie graduali e continue», come si era progettato, era la linea d'azione più promettente. Non si dovevano accettare, al momento, negoziati se non sulla base della cessazione della violenza Viet Cong.

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Erano questi i punti essenziali che avrebbero dominato in modo ferreo la politica degli Stati Uniti: che la posta in gioco era alta, che era di primaria importanza proteggere il prestigio degli Stati Uniti, che la strategia doveva essere l'escalation graduale dei bombardamenti, che non c'era nessuna necessità di negoziare finché il livello della ritorsione non avesse piegato la determinazione dei nordvietnamiti. Nello spiegare il gradualismo, Maxwell Taylor scrisse in seguito: «Volevamo che Ho e i suoi consiglieri avessero il tempo di meditare sulle prospettive di un paese demolito». John McNaugthon, un ex professore di legge portato all'analisi serrata, ravvisò proprio in questo la fonte di gravi difficoltà: con inquietante preveggenza, in una lista di obiettivi di guerra incluse la necessità di «emergere dalla crisi senza macchia inaccettabile a causa dei metodi usati». La risposta a Pleiku era stata un'immediata rappresaglia, eseguita a poche ore dall'attacco: il capo della maggioranza al Senato e lo speaker della Camera erano stati convocati alla Casa Bianca per essere presenti alla decisione. Dopo altre tre settimane di ansiose discussioni il 2 marzo prese l'avvio il programma della campagna di tre mesi di bombardamenti chiamata Rolling Thunder. Il timore di Johnson che i bombardamenti non superassero una qualche sconosciuta linea di tolleranza dei russi o dei cinesi impose che l'operazione procedesse sotto la supervisione diretta della Casa Bianca. Ogni settimana il CINCPAC inviava il programma dei sette giorni successivi, con la descrizione e l'ubicazione di depositi di munizioni e di carburante, di magazzini, officine di riparazione e altri obiettivi e un computo delle incursioni necessarie ai Joint Chiefs, che lo passavano a McNamara il quale lo portava alla Casa Bianca. Qui il programma veniva accuratamente esaminato al massimo livello di governo da un gruppo consistente inizialmente del presidente, dei segretari alla Difesa e di Stato e del capo del National Security Council, che si incontravano a questo scopo tutti i martedì a colazione. La loro selezione, fatta a 9000 miglia di distanza da uomini immersi in centinaia d'altri problemi, seguiva a ritroso la stessa trafila per giungere infine al teatro d'operazioni. Successivamente i risultati di ogni incursione, riferiti da ogni pilota al suo comandante alla base, venivano collazionati e comunicati a Washington. McNamara era sempre il più informato perché, si diceva, mentre si recava in auto dal Pentagono alla Casa Bianca aveva otto minuti più degli altri per studiare la lista degli obiettivi. Dalle pareti della sala da pranzo del secondo piano presiedeva a queste colazioni del martedì una carta da parati raffigurante scene dei

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trionfi della Rivoluzione americana a Saratoga e Yorktown. Ansioso sempre di guadagnarsi i favori della storia, Johnson invitò un professore di storia, Henry Graff della Columbia University, ad assistere a parecchie sessioni delle colazioni del martedì e a intervistare i membri del gruppo. Il resoconto che ne sortì non gli eresse il monumento che egli aveva sperato. Secondo la sua versione personale, probabilmente ricamata per maggior effetto, il presidente restava sveglio la notte roso dall'apprensione per l'incidente che poteva far scattare i «trattati segreti» tra il Vietnam del Nord e i suoi alleati, a volte così teso al punto di mettersi addosso la vestaglia alle 3 del mattino e scendere alla Situation Room, dove i risultati delle incursioni aeree venivano segnati su una mappa appesa alla parete. Un pericolo peggiore della Cina esisteva però sul fronte interno. Mentre l'opinione pubblica, nella misura in cui prestava attenzione alla cosa, appoggiava nell'insieme la guerra, la campagna dei bombardamenti provocò esplosioni di dissenso nelle università. Il primo teach in• di membri del corpo accademico e studenti, organizzato all'Università del Michigan a marzo, attirò una massa inaspettata di 3000 partecipanti e l'esempio dilagò rapidamente nelle università sulle due coste del continente. Un raduno a Washington venne collegato per telefono a 122 università. Più che un'improvvisa adozione della causa asiatica, il movimento fu un'estensione della lotta per i diritti civili, del Free Speech** e di altri entusiasmi radicali degli studenti all'inizio degli anni Sessanta. Questi gruppi trovarono ora un'altra causa e le fornirono l'energia organizzativa. A Berkeley 26 membri del corpo accademico firmarono una lettera collettiva nella quale affermavano che «Il governo degli Stati Uniti sta commettendo un enorme crimine in Vietnam», ed esprimevano la loro vergogna e collera perché «questo bagno di sangue viene perpetrato nel nostro nome». Pur squassato dagli antagonismi di fazioni rivali, il movimento di protesta prestò all'opposizione la sua energia, gagliarda e in buona parte scriteriata. La necessità di una «convincente campagna di informazione pubblica» parallela all'azione militare era stata prevista dai responsa-

• Seminario pubblico su un argomento specifico condotto ininterrottamente e a tempo indeterminato finché non si ritiene che l'argomento sia stato sullìcientemente sviscerato. Inventato per l'occasione, divenne un importante strumento di informazione e propaganda durante la guerra del Vietnam [N.d.T.]. •· Nato a Berkeley (California) per la libertà di informazione e di propaganda politica all'interno dell'università, si trasformò immediatamente in uno scontro frontale tra studenti e autorità accademiche, preludendo ai movimenti della seconda metà del decennio, in America e in Europa [N.d.T.].

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bili politici, ma i suoi sforzi ebbero scarsi risultati. Squadre di funzionari mandati a discutere nelle università fornirono soltanto nuove occasioni di protesta e agli studenti vittime da mettere sotto il torchio. Un libro bianco dal titolo Aggressionfrom lhe North, pubblicato dal dipartimento di Stato per presentare l'infiltrazione di uomini e armi da parte del Vietnam del Nord come «guerra d'aggressione», si rivelò poco convincente. In tutte le loro giustificazioni pubbliche il presidente, il segretario di Stato e altri portavoce ribatterono regolarmente il tasto dell'«aggressione», dell'«aggressione militare», dell'«aggressione armata», sempre in riferimento all'incapacità di fermare le aggressioni che aveva causato la seconda guerra mondiale, e sempre con l'implicito richiamo al Vietnam come caso anch'esso di aggressione straniera. Ci tornarono sopra con tale insistenza da sconfinare a volte in dichiarazioni esplicite, come quando nel 1966 McNamara lo definì «il caso più flagrante di aggressione dall'esterno». La divisione ideologica nel Vietnam poteva anche essere reale e insuperabile, come lo era stata la divisione tra il Sud e il Nord nella guerra civile americana, ma nel caso dcli' America non risulta che la guerra del Nord contro la secessione del Sud fosse considerata un'«aggressione dall'esterno». In aprile fu chiaro che Rolling Tlzunder non aveva effetti tangibili sulla volontà di combattere del nemico. Il bombardamento delle piste di rifornimento nel Laos non aveva impedito l'infiltrazione; le incursioni dei Viet Cong non davano segno di tentennamento. La decisione di far intervenire la fanteria americana parve ineluttabile e i Joint Chiefs la raccomandarono. La decisione venne discussa a fondo, nella piena consapevolezza delle sue sinistre implicazioni, tra le fiduciose assicurazioni di alcuni e i dubbi e l'ambivalenza di altri, militari e civili. Le decisioni prese in aprile e maggio furono frammentarie, basate su una strategia di continuazione dei bombardamenti aerei integrati da operazioni terrestri, con il fine di spezzare la volontà del Nord e dei Viet Cong «precludendo concretamente ogni loro possibilità di vittoria, e di giungere ai negoziati per impotenza dell'avversario». Si pensava di poter ottenere questa impotenza con l'attrito, ossia eliminando fisicamente i Viet Cong piuttosto che cercando di sconfiggerli. Le truppe degli Stati Uniti sarebbero state aumentate inizialmente fino a una forza combattente di 82.000 uomini. Johnson, che voleva insieme spada e ramoscello d'olivo, pronunciò il 7 aprile un discorso alla Johns Hopkins University offrendo prospettive di una vasta riabilitazione rurale e un programma di controllo delle inondazioni nella valle del Mekong, con un finanzia-

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mento americano di un miliardo di dollari, a cui anche il Vietnam del Nord avrebbe potuto accedere dopo aver accettato la pace. Gli Stati Uniti non sarebbero «mai stati secondi a nessuno nella ricerca [ ... ] di una soluzione pacifica», dichiarò Johnson, ed erano pronti a «discussioni senza condizioni». La cosa suonava aperta e generosa, ma nel ragionamento americano «senza condizioni» significava negoziati con un Vietnam del Nord martellato a tal punto da essere disposto ad ammettere la sconfitta. Accompagnate da un'uguale e opposta insistenza su certe precondizioni dall'altra parte, queste furono le premesse inamovibili che vanificheranno ogni tentativo di pace nei successivi tre anm. La carota del miliardo di dollari penzolò a vuoto. Il giorno successivo Hanoi respinse la proposta di Johnson e annunciò le sue quattro precondizioni: 1. ritiro delle forze militari americane; 2. rifiuto, da entrambe le parti, di alleanze straniere e della presenza di truppe straniere; 3. adozione da parte del Vietnam del Sud del programma del FLN (Fronte di liberazione nazionale, o Viet Cong); 4. riunificazione del paese a opera dei vietnamiti senza interferenze esterne. Ma il punto 3 era esattamente quello contro cui il Sud e gli Stati Uniti si stavano battendo, ed era ovviamente l'elemento che vanificava il tutto. L'interesse internazionale a chiudere il conflitto si trovò bloccato. Una conferenza di diciassette nazioni non allineate convocata dal maresciallo Tito lanciò senza risultato un appello per i negoziati; contatti con Hanoi perseguiti da J. Blair Seaborn, membro canadese della commissione internazionale di controllo, non trovarono risposta; Mosca, Pechino e Hanoi rifiutarono di ricevere i primi ministri di quattro paesi del Commonwealth britannico inviati in missione per esortare al negoziato nelle capitali delle parti in lotta. Un inviato del Regno Unito con la stessa missione, ricevuto ad Hanoi pochi mesi dopo, trovò che la risposta era sempre negativa. Nel maggio 1965, gli Stati Uniti, compiendo a loro volta uno sforzo, sospesero i bombardamenti nella speranza che ciò potesse produrre un segno di disponibilità a trattare da parte di Hanoi. Contemporaneamente venne consegnata all'ambasciata nordvietnamita a Mosca una nota di Rusk, con una proposta di reciprocità nella riduzione dell' «azione armata». La nota venne restituita senza risposta e i bombardamenti americani ripresero pochi giorni dopo. Il 9 giugno venne pubblicamente annunciata alla Casa Bianca la fatale decisione di autorizzare l' «appoggio in combattimento» del Vietnam del Sud da parte di forze di terra americane, in termini che cercavano di presentarlo non come un cambiamento di fondo, ma

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come una semplice evoluzione quantitativa dello sforzo americano. La prima missione di «ricerca e distruzione» ebbe luogo il 28 giugno. A luglio il presidente annunciò un aumento delle aliquote di chiamata alle armi insieme all'invio di altri 50.000 uomini per portare il totale delle forze in Vietnam a 125.000 unità. Ulteriori invii fecero salire il totale a 200.000 alla fine del I 965. La finalità di queste escalations, come spiegò il generale Taylor in seguito al Senato, era di infliggere «continue, crescenti perdite ai guerriglieri Viet Cong, di modo che essi non possano sostituirle», e con questa guerra di logoramento convincere il Nord che non poteva ottenere una vittoria militare nel Sud. «Teoricamente, [i Viet Cong] dovrebbero trovarsi senza truppe addestrate entro la fine del 1966» e a questo punto, più che negoziare, potevano semplicemente rinunciare al tentativo e scomparire. Fu nel perseguimento di questo progetto che il necrofilo «conto dei corpi» divenne una caratteristica così rivoltante della guerra vietnamita. Il fatto che il Nord, con un esercito regolare di oltre 400.000 uomini, potesse attivare un numero di uomini sufficiente a rimpiazzare le perdite Viet Cong sfuggì per qualche motivo alle sofisticate analisi statistiche del Pentagono. La belligeranza era ora un fatto. Soldati americani uccidevano e venivano uccisi, piloti americani si tuffavano in mezzo al fuoco antiaereo e quando venivano abbattuti erano catturati e diventavano prigionieri di guerra. La guerra è una procedura dalla quale non ci si può ritirare senza ammettere la sconfitta. L'America era caduta nella trappola che essa stessa aveva preparato. Soltanto con la più grande difficoltà, e ancor più raro successo, come i belligeranti impantanati senza via d'uscita hanno spesso scoperto, si possono far cessare i combattimenti a favore del compromesso. Poiché è il ricorso ultimo alla distruzione e alla morte, la guerra è stata tradizionalmente accompagnata da una solenne formula di giustificazione, in tempi medioevali la formula della «guerra giusta», in tempi moderni una dichiarazione di guerra (a eccezione dei giapponesi, che lanciano le loro guerre con un attacco di sorpresa). Per falsa e speciosa che la giustificazione possa essere, e solitamente lo è, un legalismo di questo genere serve a definire formalmente le ragioni del governo conferendogli automaticamente più ampi poteri. Johnson decise di fare a meno di una dichiarazione di guerra, in parte perché né la causa né i fini erano sufficientemente chiari dal punto di vista della difesa nazionale perché la si potesse giustificare, in parte perché temeva che una dichiarazione di guerra avrebbe provocato la Russia e la Cina a rispondere sullo stesso terreno, e principal-

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mente perché temeva che avrebbe distolto attenzione e risorse da quei programmi interni che sperava gli avrebbero procurato una reputazione nella storia. Il timore dello scatenarsi di un'inarrestabile campagna di destra per un'invasione e bombardamenti senza restrizioni del Nord, ove si fosse avuta notizia del progressivo deteriorarsi della situazione nel Sud, fu un'ulteriore ragione per tacere e camuffare i termini reali dell'impegno americano. Johnson pensava di poter proseguire la guerra senza che la nazione se ne rendesse conto. Non chiese una dichiarazione di guerra al Congresso perché gli fu detto che poteva anche non ottenerla, o perché lo temeva, né chiese una nuova votazione sulla risoluzione del golfo del Tonchino per paura di venir messo nell'imbarazzo da una maggioranza ridotta. Sarebbe stato più saggio affrontare la prova e chiedere che il Congresso si assumesse la sua responsabilità costituzionale di un'entrata in guerra. Il presidente avrebbe dovuto altresì chiedere un aumento delle tasse per compensare i costi della guerra e le spinte inflazionistiche. Evitò di farlo nella speranza di evitare proteste. Come risultato la sua guerra in Vietnam non fu mai legittimata. Esimendosi dal fare una dichiarazione di guerra, aprì ancor più la porta al dissenso e commise l'errore, fatale alla sua presidenza, di non assicurarsi questa solida base di appoggio popolare. La possibilità di fare a meno di una dichiarazione di guerra fu uno dei risultati della concezione della guerra limitata elaborata durante l'Amministrazione Kennedy. McNamara, in una sua interessante dichiarazione di quel periodo,• aveva detto: «Il più grande contributo che sta dando il Vietnam [ ... ] è di stimolare negli Stati Uniti la capacità di combattere una guerra limitata, di entrare in guerra senza suscitare la pubblica ira». Riteneva che questa fosse «praticamente una necessità nella nostra storia, perché questo è il tipo di guerra che dovremo probabilmente affrontare nei prossimi cinquant'anni». La guerra limitata è sostanzialmente una guerra decisa dall'esecutivo e «senza provocare la pubblica ira» - cioè l'attenzione del pubblico - significa disassociarsi dal popolo, e questo vuol dire ripudiare il principio del governo rappresentativo. La guerra limitata non è più bella o gentile o più giusta di una guerra in piena regola, come vorrebbero coloro che la propongono. Uccide in maniera

• Di questa dichiarazione, citata nei lavori di due seri studiosi (v. Note bibliografiche), ma che McNamara non ricorda, non si è potuto nonostante numerosi sforzi trovare traccia in nessuna fonte primaria documentata. Viene qui inclusa perché ha un suono autentico e perché le sue implicazioni, allora e oggi, sono gravi.

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ugualmente definitiva. Inoltre, quando è limitata per una parte ma totale per la parte avversa è più che probabilmente destinata al fallimento, come hanno capito governanti più abituati all'irrazionalità. Pressato dalla Siria e dalla Giordania perché scatenasse una guerra limitata contro Israele nel 1959, il presidente egiziano Nasser replicò che era pronto a farlo se i suoi alleati potevano ottenere da Ben Gurion l'assicurazione che anche Israele l'avrebbe limitata. «Una guerra limitata dipende dall'altra parte.» Il ricorso di Johnson alla guerra non appena le elezioni furono passate ricevette l'appropriato commento in una vignetta di Paul Conrad nella quale si vedevajohnson che, guardandosi allo specchio, si trovava davanti la faccia di Goldwater. Da questo momento il dissenso, anche se ancora limitato per lo più a studenti, estremisti e pacifisti, divenne rumoroso e incessante. Fu formato un «Comitato nazionale di coordinamento per far finire la guerra in Vietnam», che organizzò raduni di protesta e raccolse una folla di 40.000 persone per un picchettaggio intorno alla Casa Bianca. Si diffuse la pratica di bruciare le cartoline d'iscrizione alle liste di leva, seguendo l'esempio di un giovane, David Miller, il quale aveva praticamente chiesto l'arresto bruciando cerimoniosamente la cartolina davanti ad agenti federali e aveva subito due anni di carcere per tale gesto. In orribile emulazione dei monaci buddhisti un quacchero di Baltimora si bruciò vivo sui gradini del Pentagono il 2 novembre 1965, seguito da un secondo suicidio dello stesso genere davanti alle Nazioni Unite una settimana dopo. Questi atti parvero troppo deliranti per poter influenzare l'opinione pubblica americana se non, forse, negativamente, identificando agli occhi del pubblico la protesta contro la guerra con gente emotivamente squilibrata. Il dissenso era appassionato ma tutt'altro che generale. I sentimenti nazionalistici della base operaia, che distinguono in modo così netto i lavoratori organizzati americani dalle loro controparti all'estero, vennero espressi dal consiglio nazionale dell'AFL-CIO, la grande centrale sindacale americana. In uno scoperto monito ai membri del Congresso nel corso delle elezioni parziali del 1966 il consiglio decretò: «Coloro che vorrebbero negare alle nostre forze armate un appoggio senza riserve stanno di fatto aiutando il nemico comunista del nostro paese». L'intera base sindacale era d'accordo. Quando un personaggio eterodosso, il sindaco di Dearborn (Michigan), il grande sobborgo dormitorio della Ford, in occasione delle elezioni del 1966 presentò a livdlo comunale un referendum sulla questione vietnamita (si chiedeva un cessate il fuoco seguito dal ritiro americano «in modo che il

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popolo vietnamita possa risolvere i propri problemi») la risposta fu una schiacciante maggioranza di no. Voci influenti, comunque, stavano facendo proprio il dissenso. Anche un celebre commentatore come Walter Lippmann sacrificò i suoi rapporti di cordialità con i presidenti, da lui coltivati con tanta cura, alle esigenze della verità. Rifiutando l'argomento della «aggressione esterna» riaffermò ciò che era ovvio: che non c'erano mai stati due Vietnam ma soltanto «due zone di un'unica nazione». Schernì la politica del globalismo che impegnava gli Stati Uniti nelle vesti di gendarme universale in «interminabili guerre di liberazione». La conversione di Lippmann e del «New York Times», che si opponeva ora a un maggiore impegno, conferì rispettabilità all'opposizione, mentre all'interno del governo venivano alla luce dubbi che la guerra potesse essere risolta militarmente. Il fidato addetto stampa del presidente, Bill Moyers, persona molto vicina a Johnson, cercò costantemente di aggirare i falchi ai vertici governativi riferendo le delusioni di funzionari minori, di agenti e osservatori. La rete informativa di Moyers, inizialmente creata su richiesta dijohnson per dare spazio alle voci contrarie, si dimostrò troppo scomoda per il presidente, che non amava constatare «dissonanze» o doversi confrontare con una varietà di opzioni. Era lo stesso problema di papa Alessandro VI, ma Johnson non ebbe lo sprazzo d'intuizione con cui questi, nel suo unico momento di rimorso, riconobbe che un governante non sente mai la verità e «finisce col non desiderare di sentirla». Johnson voleva che le sue scelte politiche venissero ratificate, non messe in discussione, e a mano a mano che i problemi si fecero più ardui evitò di ascoltare i rapporti di Moyers. Consiglieri che si preoccupavano per l'inevitabile escalation dei combattimenti cominciarono a proporre delle alternative. L'ambasciata di Saigon diretta da Maxwell Taylor, il quale nonostante la sua responsabilità per la prima iniziativa di combattimenti terrestri non era un sostenitore di una più estesa belligeranza americana, propose all'inizio del 1965 un piano per «mettere fine al nostro impegno». Caldeggiava il ritorno a Ginevra e l'uso, come carta per la trattativa, di una progressiva riduzione delle forze americane più «amnistia e diritti civili» per i Viet Cong e un programma, finanziato dagli Stati Uniti, di sviluppo economico -per tutta l'Indocina. Il piano venne redatto dal vice di Taylor, U. Alexis Johnson, un funzionario di carriera del servizio diplomatico; il discorso alla Johns Hopkins vi dedicò un breve accenno, che fu anche la sua tomba. Seguì George Ball con ripetuti memorandum, insistendo per uno sganciamento degli

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interessi americani da quelli di Saigon prima che un disastro di grosse proporzioni eliminasse ogni possibilità di scelta. Delle comunicazioni indirizzate a un presidente Galbraith ha scritto che «la cosa più probabile in assoluto è che non le legga mai». Due uomini profondamente rispettati dal presidente, il senatore Richard Russell della Georgia e Clark Clifford, già consulente legale di Truman alla Casa Bianca, cercarono di distoglierlo dalla linea d'azione che stava intraprendendo. Russell, presidente fino al 1969 delle onnipotenti commissioni degli stanziamenti e delle forze armate e collega di Johnson nel corso di tutta la sua carriera senatoriale, era ritenuto da molti l'uomo che sarebbe divenuto il primo presidente del Sud, se la sorte non gli avesse anteposto Johnson. Pur essendo pubblicamente un falco, nel l 964 lo aveva esortato in privato a tenersi fuori dalla guerra in Asia e ora propose, raro esempio di pensiero creativo, che si facesse un sondaggio d'opinione nelle città vietnamite per vedere se l'aiuto americano era desiderato e che, se i risultati erano negativi, gli Stati Uniti si ritirassero. Accertare l'opinione dei vietnamiti sull'appropriazione da parte americana della «loro» guerra era un'idea originale che non era venuta prima a nessuno e ovviamente, nonostante la sua fonte eminente, non venne adottata. Si sarebbe potuto scorgere un'indicazione della risposta negli occhi degli abitanti dei villaggi vietnamiti. Un giornalista che aveva seguito la guerra in Europa ricordò i sorrisi e gli abbracci e le gioiose offerte di vino quando i G I attraversavano le zone liberate dell'Italia. In Vietnam la gente delle campagne, quando unità americane le passavano davanti lungo le strade o nei villaggi, teneva gli occhi bassi o guardava dall'altra parte e non salutava. «Volevano solo che ce ne tornassimo a casa.» Era un segno evidente della vanità del progetto di «edificazione di una nazione». Quale nazione è mai stata edificata dall'esterno? · Clifford, un importante avvocato di Washington e intimo del presidente, ammonì in una lettera privata che secondo le valutazioni della CIA un ulteriore aumento delle forze di terra poteva divcat~re un «impegno senza fondo[ ... ] privo di speranze realistiche di una vittoria finale». Il presidente, consigliò, doveva piuttosto esplorare ogni strada che conducesse a una possibile soluzione. «Non sarà quella che vogliamo ma possiamo imparare a viverci insieme.» Il nocciolo di questo e di altri consigli venne confermato da un osservatore straniero, l'illustre economista svedese Gunnar Myrdal, il quale nel luglio del l 965 scrisse sul «New York Times»: «La convinzione che questa

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politica finirà con un fallimento è generalmente condivisa in tutti i paesi fuori degli Stati Uniti». Nessuno dei dubbi dei consiglieri americani fu palesato pubblicamente e nessuno, a eccezione di Bali, propose il ritiro. Tutti, piuttosto, consigliarono di tener duro, senza ulteriori escalations, e di cercare contemporaneamente una soluzione negoziata. I negoziati però si trovavano in una rigida situazione di stallo. Del tutto indipendentemente dalle sue precondizioni, Hanoi non era disposta ad accettare altra soluzione che non fosse una coalizione o qualche altra forma di compromesso che le permettesse prima o poi di assorbire il Sud; per gli Stati Uniti qualsiasi compromesso del genere avrebbe rappresentato il riconoscimento dello scacco americano e questo l'amministrazione non poteva accettarlo, tanto più ora che si era consegnata mani e piedi legati ai militari. Era vincolata all'obiettivo di garantire un Vietnam del Sud non comunista per poter uscire dalla guerra con la sua credibilità intatta. La finalità era elusivamente cambiata da bloccare il comunismo a salvare la faccia. McNaughton, un funzionario che non si concedeva l'autoinganno, definì causticamente la cosa quando mise in testa del suo elenco degli obiettivi di guerra degli Stati Uniti questo punto: «Al 70 per cento: evitare una sconfitta umiliante per la nostra reputazione come garanti». A questo punto l'amministrazione cominciò a valutare che probabilità aveva di «vincere». Avendo ricevuto un compito militare, i militari dovevano credere di poterlo eseguire se volevano continuare a credere in se stessi e così chiedevano, del tutto naturalmente, un numero sempre maggiore di uomini. Le loro dichiarazioni erano ottimistiche, le richieste ingenti. McNamara, davanti alla prospettiva dell'escalation, chiese al generale Whcelcr, presidcn te dei Join t Chicfs, quali garanzie gli Stati Uniti potevano avere «di vincere nel Vietnam del Sud se facciamo tutto quello che siamo in grado di fare». Se «vincere» significava sopprimere ogni forma di rivolta cd eliminare i comunisti dal Vietnam del Sud, disse Whcelcr, occorrevano da 750.000 a un milione di uomini e fino a sette anni di tempo. Se «vincere» significava dimostrare ai Viet Cong che non potevano spuntarla sarebbero bastate forze più modeste. Quale interesse nazionale giustificava l'investimento di queste forze, quale che ne fosse la consistenza? La questione non fu neppure presa in considerazione: l'amministrazione andò avanti semplicemente perché non sapeva cos'altro fare. Quando le opzioni sono tutte poco promettenti i responsabili politici, invece di pensare, ripiegano sul sistema di «premere sull'acceleratore».

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L'idea di Johnson era di combattere e negoziare contemporaneamente. La difficoltà stava nel fatto che lo scopo della guerra limitata, costringere il Vietnam del Nord a lasciare in pace il Vietnam del Sud, era irraggiungibile con una guerra limitata. Il Nord non aveva nessuna intenzione di ammettere mai l'esistenza di un Sud non comunista, e poiché lo si poteva costringere a questa concessione soltanto con una vittoria militare, e poiché questa vittoria non poteva essere raggiunta se non con una guerra totale e l'invasione, che gli Stati Uniti erano poco propensi a intraprendere, lo scopo di guerra americano era fuori causa fin dall'inizio. Qualcuno forse lo capì, ma non si agì di conseguenza perché nessuno era disposto ad ammettere uno scacco americano. Gli attivisti potevano credere che i bombardamenti avrebbero avuto successo; i dubbiosi potevano sperare vagamente che qualche soluzione sarebbe saltata fuo-

ri.

La morte improvvisa di Adlai Stevenson a Londra portò alla luce, cosa sgradevole per il presidente, le circostanze del i:iijuto della mediazione di U Thant. Eric Sevareid, riferendo ciò che Stevenson gli aveva detto poco prima di morire, rivelò per la prima volta che Hanoi aveva di fatto accettato l'incontro proposto da U Thant, mentre Johnson aveva detto recentemente a una conferenza stampa che non c'era stata la «minima indicazione» di interesse dall'altra parte. Al che il «St. Louis Post-Dispatch» ricordò che, l'anno precedente il passaggio dell'America alla belligeranza attiva, Johnson e i suoi portavoce alla Casa Bianca avevano dichiarato non meno di sette volte che l'America non cercava un allargamento della guerra. La credibilità personale del presidente ne risentì di conseguenza. A ruota della storia di Stevenson si seppe di un altro tentativo di pace fallito. Su richiesta degli Stati Uniti, il ministro degli Esteri italiano Amintore Fanfani, a quel tempo delegato all'ONU, aveva combinato una visita ad Hanoi di due professori italiani, uno dei quali aveva conosciuto a suo tempo Ho Chi Minh. I due incontrarono «un forte desiderio di trovare una soluzione pacifica» ma riferirono anche, come Fanfani scrisse a Johnson, che le condizioni di Ho includevano, oltre i quattro punti a suo tempo annunciati, anche un cessate il fuoco generale nel Nord e nel Sud. Aveva comunque accettato di iniziare le trattative senza chiedere il preventivo ritiro delle forze americane. Un cessate il fuoco in loco avrebbe lasciato unità nordvietnamite nel Sud e non era quindi accettabile per gli Stati Uniti, ma Rusk comunicò il rifiuto americano con la motivazione che Hanoi non aveva mostrato una «vera disponibilità a negoziati senza condizioni». L'episodio

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giunse alle orecchie della stampa, come spesso avviene quando qualcuno vuole che una cosa si risappia. Sconcertato nel vedersi denunciato come uomo che non aveva interesse alla pace, il presidente ordinò sotto Natale una pausa dei bombardamenti e lanciò uno spettacolare circo volante della pace. Funzionari vennero spediti come piccioni viaggiatori nelle capitali orientali e occidentali, con l'ostentato compito di cercare la via del negoziato - Harriman in un giro intorno al mondo che lo condusse a Varsavia, Delhi, Teheran, il Cairo, Bangkok, in Australia, nel Laos e a Saigon; Arthur Goldberg, successore di Stevenson alle Nazioni Unite, a Roma, Parigi e Londra; McGeorge Bundy a Ottawa; il vicepresidente Hubert Humphrey a Tokyo e due assistenti segretari di Stato rispettivamente a Città di Messico e in Africa. La messa in scena non servì ad altro che a stimolare pesanti pressioni pubbliche su Johnson perché prolungasse la pausa dei bombardamenti. Essa venne estesa di 37 giorni con il dichiarato intento di verificare la disponibilità di Hanoi a trattare, ma invano. Hanoi, ferma sul suo obiettivo finale, aveva poco da attendersi dai negoziati. I bombardamenti ripresero e la guerra si fece più dura, ma continuò anche la ricerca di una soluzione. Conversazioni a Varsavia con intermediari polacchi, alla metà del 1966, sembravano procedere positivamente quando, in una fase delicata delle trattative, incursioni aeree americane dirette per la prima volta su obiettivi ad Hanoi e nei suoi dintorni condussero all'interruzione di ogni contatto da parte dei nordvietnamiti. L'episodio mostrò come nessuna delle due parti desiderasse, in sostanza, che i negoziati avessero successo. McNaughton definì in maniera spietata il dilemma degli Stati Uniti: puntare sulla vittoria poteva finire con un compromesso ma puntare sul compromesso poteva finire solo con la sconfitta, perché rivelare «che si abbassa la mira dalla vittoria al compromesso[ ... ] farà sentire alla RDV [il Vietnam del Nord] l'odore del sangue». La guerra stava diventando sporca, con corpi bruciati dal napalm, coltivazioni attaccate coi defolianti e devastate, prigionieri torturati e sempre più elevati «conti dei corpi». Stava anche diventando cara, perché costava ormai due miliardi di dollari al mese. Una progressiva escalation portò la forza delle truppe a 245.000 uomini nell'aprile del 1966 e costrinse a chiedere al Congresso 12 miliardi di spese di guerra supplementari. Sul campo, l'ingresso di unità combattenti americane aveva fermato i progressi Viet Cong verso il controllo della situazione. I ribelli, a quanto si riferiva, stavano perdendo i loro santuari, erano costretti a tenersi continuamente in movimento, avevano più difficoltà a

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raggrupparsi, subendo di conseguenza demoralizzazione e diserzioni. Le loro perdite e quelle delle unità nordvietnamite, secondo i conti fatti dagli americani, stavano aumentando in maniera soddisfacente; l'interrogatorio dei prigionieri rivelava, a quanto si diceva, un calo del morale; il successo dell'obiettivo americano sembrava a portata di mano. Il prezzo era una conferma di quello che intendevano i francesi quando parlavano di «sporca guerra». Puntando alla strategia del logoramento, Westmoreland impiegò unità combattenti come esche per provocare attacchi nemici che permettessero all'artiglieria e all'aeronautica americane di intervenire, chiudere la trappola e ottenere un gratificante «conto dei corpi». Missioni di «ricerca e distruzione» che impiegavano carri armati, violente azioni d'artiglieria e lancio di defolianti lasciavano villaggi in rovina, coltivazioni devastate e miserabili rifugiati ridotti a vivere in fetidi campi lungo la costa, in un'atmosfera di sempre più forte risentimento verso gli americani. Anche la strategia dei bombardamenti era diretta al logoramento per fame attraverso la distruzione di dighe, canali d'irrigazione e altre opere vitali per l'agricoltura. Missioni defolianti potevano distruggere 300 acri di risaie nel giro di tre, cinque giorni e spianare un'uguale estensione di giungla nello spazio di cinque, sci settimane. Il napalm equivaleva a una forma di terrorismo ufficiale e corrompeva gli uomini che l'usavano, che dovevano soltanto premere un bottone per vedere «le capanne saltare in aria in un ribollire di fiamma arancione». Resoconti dei metodi di guerra americani scritti da corrispondenti in antagonismo cronico nei confronti dei militari stavano giungendo negli Stati Uniti. Americani che prima non avevano mai visto la guerra vedevano ora i feriti e i senzatetto e la carne liquefatta di bambini ustionati, così ridotti per mano di loro concittadini. Quando anche una pubblicazione lontana dalla politica come il «Ladics Homejournal» pubblicò un servizio con fotografie di vittime del napalm la speranza di McNaughton di uscire «senza macchia» svanì. La spirale era incrementata dalla violenza avversaria. Il terrorismo Vict Cong a base di razzi, bombardamenti di villaggi, trappole antiuomo, rapimenti e massacri era deliberatamente indiscriminato, inteso a istillare insicurezza e dimostrare che le autorità di Saigon non offrivano protezione. L'intervento armato americano aveva impedito la vittoria dei ribelli, ma non aveva affrettato il giorno della loro sconfitta. I progressi erano illusori. Quando la situazione dava segni di cedimento, l'Unione Sovietica e la Cina aumentavano gli invii di rifornimenti al Nord; rimettendolo in forze. Il morale basso dedotto

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dall'atteggiamento dei prigionieri era un'interpretazione sbagliata dello stoicismo e del fatalismo dell'Oriente. Nelle forze americane i brevi turni di servizio di guerra ( un anno), così calcola ti per evi tare il malcontento, impedivano l'adattamento alla guerra nella giunglas provocando così un maggior numero di perdite (il tasso delle perdite era sempre più elevato nei primi mesi di servizio). L'adattamento non tenne mai il passo con le circostanze. Le tattiche di combattimento americane erano elaborate in funzione di grosse formazioni che facevano uso della mobilità, e in termini di bersagli industriali per l'esercizio della potenza aerea. Una volta messa in moto, la macchina militare americana non poteva riadattarsi a una guerra in cui questi elementi non esistevano. La mentalità americana contava su una forza superiore, ma un carro armato non può disperdere delle vespe. Altre necessità, diverse da quelle militari, assorbivano uguale impegno. Il programma di «pacificazione» fu uno strenuo sforzo americano per rafforzare la struttura sociale e politica del Vietnam del Sud negli interessi della democrazia. Aveva lo scopo di creare fiducia nei confronti di Saigon e di stabilizzarne le basi d'appoggio tra la popolazione. Ma i successivi governi dei generali Khan, Ky e Thieu, che detestavano tutti il patronato da cui dipendevano, non fornirono una collaborazione molto efficace. E le forze degli uomini bianchi con la loro massiccia presenza fisica non erano certo le più indicate a «conquistare i cuori e le menti». Questo programma, conosciuto col termine di WHAM dagli americani sul campo, mancò i suoi obiettivi nonostante tutta l'energia che Washington vi investì, e in alcuni settori volse l'atteggiamento popolare all'avversione contro Saigon e gli Stati Uniti. L'opposizione al regime dei generali si fece scoperta, con richieste di un governo civile e di una costituzione. Il movimento buddhista antigovernativo rinacque e si scontrò nuovamente in una lotta aperta con le truppe di Saigon. A Hue, l'antica capitale, i dimostranti saccheggiarono e incendiarono il consolato e il centro culturale americani. Anche l'atmosfera negli Stati Uniti stava cambiando, con una notevole crescita dell'opinione contraria alla guerra quando i bombardamenti ripresero dopo la pausa natalizia. Membri del Congresso, che Maxwell Taylor aveva trovato, quando li aveva aggiornati sulla situazione al suo ritorno dall'incarico a Saigon, «sorprendentemente pazienti e poco critici», stavano creando sacche di dissenso. Durante la sospensione dei bombardamenti, 77 membri della Camera, per la maggior parte democratici, chiesero al presidente di prolungare la pausa e di sottoporre il conflitto all'ONU. Quando i bombardamenti

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ripre,sero, 15 senatori, tutti democratici, resero pubblica una lettera al presidente con la quale si opponevano alla ripresa delle incursioni. Quando il senatore Morse propose l'abrogazione della risoluzione del golfo del Tonchino sotto la forma di un emendamento a una proposta di stanziamenti per il Vietnam, tre senatori - Fulbright, Eugcnc McCarthy del Minnesota e Stcphcn Young dell'Ohio - si unirono nella votazione ai due perseveranti oppositori della guerra, Morse e Gruening. L'em.cndamcnto venne sconfitto con 92 voti contro 5. Anche se non molto vigorosi, erano sempre segnali di opposizione al presidente dall'interno del suo stesso partito. Erano i primi clementi di un blocco di fautori della pace che avrebbe spaccato il Partito democratico sul Vietnam, ma non avevano né alla Camera né al Senato una dirigenza convinta e decisa, pronta a opporsi alla maggioranza. Il malcontento era più profondo di quanto non indicassero questi pochi voti. Il Congresso continuò a votare obbcdicntcmcntc a favore degli stanziamenti perché la maggior parte dei suoi membri non se la sentiva di respingere la politica governativa quando l'alternativa significava ammettere uno scacco americano. Inoltre erano in gran parte prigionieri consenzienti del gigante definito da Eisenhower il complesso militar-industriale. La sua moneta di scambio erano i contratti della Difesa, manovrati da più di 300 membri della lobby mantenuta dal Pentagono al Campidoglio. I militari fornivano ai VIP escursioni, cene, film, discorsi, wcckcnd sportivi e altri benefici, specialmente ai più importanti presidenti delle commissioni delle due Camere. Un quarto dei membri del Congresso aveva il brevetto di ufficiale della riserva. Ogni critica agli stanziamenti militari esponeva un parlamentare all'accusa di minare la sicurezza nazionale. Al''apcrtura dell'89° Congresso nel 1965 quel leader coraggioso che era il vicepresidente Hubcrt Humphrcy così consigliò i nuovi eletti: «Se vi viene la voglia di alzarvi e fare un discorso che attacca la politica vietnamita, lasciate perdere». Dopo un secondo o terzo mandato, disse, potevano permettersi di essere indipendenti, «ma se volete tornare nel '67, non fatelo adesso». Il voto di Fulbright sull'emendamento Morse significò un'aperta rottura con Johnson. Fulbright si sentì tradito dal passaggio, contrariamente alle assicurazioni di Johnsori, a un intervento diretto nei combattimenti, e un giorno confesserà che si pentiva del ruolo avuto nella risoluzione del golfo del Tonchino più di qualsiasi cosa avesse mai fatto. Organizzò ora, tra gennaio e febbraio del 1966, in sci giorni di udienze davanti alla commissione senatoriale per gli affari esteri riprese in diretta dalla televisione, la prima seria discussione pubblica

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a livello ufficiale sull'intervento americano in Vietnam. Emersero, più di quanto non si comprese sul momento, questioni di fondo: il preteso «impegno», l'interesse nazionale, la sproporzione tra lo sforzo e questo interesse e la nascente presa di coscienza del fatto che l'America stava tradendo se stessa. Il segretario Rusk e il generale Taylor presentarono le ragioni dell'amministrazione; l'ambasciatore George Kennan, il generale James M. Gavin, lo stesso Fulbright e diversi colleghi parlarono per conto del dissenso. Il segretario Rusk insistette come sempre che gli Stati Uniti avevano «un chiaro e diretto impegno» a proteggere il Vietnam del Sud da un «attacco esterno», impegno derivante dal trattato della SEATO e dalla lettera di Eisenhower a Diem, e che questo poneva l' «obbligo» di intervenire. Con l'inventiva retorica caratteristica dei veri credenti, Rusk asserì che «la integrità dei nostri impegni è assolutamente necessaria al mantenimento della pace in tutto il globo». Quando il supposto impegno venne smontato dal senatore Morse che citò una recente smentita di Eisenhower di aver «mai assicurato un impegno unilaterale al governo del Vietnam del Sud», Rusk ripiegò sulla posizione che gli Stati Uniti avevano «il diritto» di intervenire in base al trattato della SEATO e che l'impegno derivava dalle dichiarazioni politiche di successivi presidenti e dagli stanziamenti votati dal Congresso. Il generale Taylor, interrogato, riconobbe che per quel che riguardava l'impiego di forze combatteni:i di terra americane l'impegno «prese forma, è chiaro, solo nella primavera del 1965». Per quel che riguardava l'interesse nazionale, Taylor asserì che gli Stati Uniti avevano una «posta vitale» nella guerra, senza peraltro definirla. Disse che i dirigenti comunisti con il loro tentativo di conquista del Vietnam del Sud si proponevano di indebolire la posizione degli Stati Uniti in Asia e di dimostrare l'efficacia delle guerre di liberazione, e che toccava agli Stati Uniti dimostrare come esse fossero «destinate al fallim,·nto». Il senatore Fulbright si sentì costretto a chiedere se la Rivolu.l10ne americana non era una «guerra di liberazione nazionale». Il generale Gavin mise in dubbio che il Vietnam valesse l'investimento, in considerazione di tutti gli altri impegni americani all'estero. Pensava che ci stavamo facendo «ipnotizzare» dall'impresa e che il previsto contingente della forza di 500.000 uomini, riducendo la nostra capacità in tutto il resto del mondo, faceva pensare che l'amministrazione avesse completamente smarrito il senso delle proporzioni. Il Vietnam del Sud non era, semplicemente, così importante. L'accusa che la pubblica opposizione alla guerra costituiva una

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«debolezza» e una mancanza di volontà (riesumata oggi dai revisionisti degli anni Ottanta) fu brevemente accennata dal generale Taylor quando descrisse il ripudio della guerra da parte dell'opinione pubblica francese come qualcosa che dimostrava «debolezza». Il senatore Morse replicò che non sarebbe trascorso «molto tempo prima che il popolo americano ripudiasse la nostra guerra nell'Asia sudorientale», come i francesi avevano ripudiato la loro, e quando ciò fosse avvenuto sarebbe stata una «debolezza»? Pacatamente, l'ambasciatore Kennan pose il problema: l'America tradiva se stessa? Il successo nella guerra sarebbe stato vuoto anche se raggiungibile, disse, a motivo del danno arrecato dallo spettacolo dell'America che infliggeva «crudeli ferite alla vita di un popolo povero e indifeso, e particolarmente di un popolo di una razza e di un colore diverso[ ... ]. Questo spettacolo produce tra milioni di persone in tutto il mondo reazioni profondamente nocive all'immagine che noi vorremmo esse avessero di questo paese». Si poteva conquistare maggiore rispetto con «una risoluta e coraggiosa liquidazione di posizioni errate» che intestardendosi nel volerle perseguire. Citò il detto di John Quincy Adams, secondo il quale ovunque nel mondo venisse spiegato lo stendardo della libertà «là sarà il cuore dell'America[ ... ] ma essa non va in altri paesi alla ricerca di mostri da distruggere». Dare la caccia ai mostri significava guerre interminabili nelle quali «la massima fondamentale della politica [americana] sarebbe insensibilmente cambiata, dalla [ricerca della] libertà alla forza». Fu la verità più dura enunciata in tutte le udienze. Pur con tutte le loro verità, le udienze dell'inchiesta Fulbright non furono tanto un preludio all'azione nell'unico modo che potesse contare - un voto contro gli stanziamenti -, quanto un esercizio intellettuale di disamina della politica americana. La questione che avrà il peso di più lunga durata, la guerra dell'esecutivo, non venne formulata se non in seguito, nella prefazione di Fulbright a una versione editoriale dell'inchiesta. L'acquiescenza alla gl,lerra dell'esecutivo, scrisse, nasce dalla convinzione che il governo possegga informazioni segrete che gli conferiscono una speciale sagacia nel decidere la politica da seguire: convinzione discutibile, anche perché le maggiori decisioni politiche non maturano «sulla base dei fatti disponibili ma in base alla capacità di giudizio», di cui i responsabili politici non sono più dotati del cittadino intelligente. Il Congresso e i cittadini sono in grado di giudicare «se il massiccio impiego e la distruzione dei loro uomini e delle loro ricchezze è utile agli interessi generali della nazione».

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Anche se sapeva mettere in luce questioni fondamentali, Fulbright era un insegnante, non un capo, poco propenso, per primo, a impegnare il suo voto dove contava. Quando un mese dopo le udienze il Senato autorizzò 4 miliardi e 800 milioni di dollari di fondi d'emergenza per la guerra in Vietnam, il provvedimento passò con i soli fedeli voti contrari di Morse e Gruening. Fulbright votò con la maggioranza. La convinzione che il governo è sempre il miglior giudice fu esternata proprio in questo periodo dal governatore Nelson Rockefeller, che in occasione della ripresa dei bombardamenti disse: «Dobbiamo appoggiare tutti il presidente. È l'uomo che ha tutte le informazioni e una conoscenza completa di ciò che dobbiamo affrontare». È un assunto confortante che libera dalla necessità di prendere posizione. Ma solitamente non è valido, specialmente in politica estera. «Le decisioni di politica estera» concluse Gunnar Myrdal dopo due decenni di studio «sono in generale molto più influenzate da motivi irrazionali» di quelle di politica interna. Dopo la seconda guerra mondiale uno studio ufficiale sui bombardamenti condotto da scienziati, economisti e altri esperti aveva concluso che i bombardamenti strategici nel teatro di guerra europeo (da distinguere dai bombardamenti tattici in appoggio a operazioni terrestri) non erano stati decisivi. Non avevano ridotto in maniera significativa la capacità fisica di battersi della Germania né avevano accelerato i tempi della disponibilità a scendere a patti. Lo studio scoprì una straordinaria rapidità nella riparazione e l'assenza di sintomi di un calo del morale; di fatto, i bombardamenti potevano essere di aiuto al morale. Nel marzo del I 966, quando i tre mesi assegnati all'operazione Rolling Thunder si erano estesi a più di un anno senza percettibile «cedimento nella volontà» dell'avversario, un gruppo di eminenti scienziati del MIT e di Harvard, compresi alcuni che avevano partecipato allo studio precedente, proposero di sottoporre allo stesso severo esame i risultati dei bombardamenti in Vietnam. Su incarico dell'Istituto di analisi della difesa con il nome in codice di jason, un gruppo di 47 specialisti di varie discipline partecipò a un programma di dieci giorni di sedute informative a cura dei dipartimenti di Stato e della Difesa, della CIA e della Casa Bianca, seguite da due mesi di studi tecnici. Il gruppo concluse che «non erano emersi in maniera tangibile» effetti sulla volontà di battersi del Vietnam del Nord né sulla valutazione che Hanoi dava del costo di continuare la lotta. I bombardamenti non avevano creato serie difficoltà ai trasporti,

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all'economia o al morale: gli esperti non trovarono motivi che permettessero di concludere che «gli effetti punitivi indiretti dei bombardamenti si dimostreranno decisivi a questo riguardo». La ragione principale, affermò jason, della relativa inefficacia dell'offensiva aerea era la «non remuneratività dei bersagli». Lo studio concludeva che un «diretto attacco frontale a una società» tendeva a rafforzarne il tessuto, accrescere la determinazione popolare e stimolare una maggiore capacità di riparazioni e nuovi accorgimenti difensivi. Questo effetto sociale non era imprevedibile: era lo stesso che era stato ris-contrato in Germania, anzi già in Gran Bretagna dove, come ben si sapeva, i bombardamenti terroristici tedeschi del 1940-41 avevano prodotto un rafforzamento del morale e una più grintosa determinazione. In alternativa ai bombardamenti, jason raccomandò la costruzione di una barriera «antinfiltrazioni» attraverso il Vietnam e il Laos su una distanza di circa 200 chilometri. Presentata nello studio con piani tecnici dettagliati, la barriera doveva consistere di campi minati, mura, fossati e capisaldi, essere cintata di filo spinato adattato alla segnalazione elettronica e fiancheggiata su entrambi i lati da una fascia di terreno diserbato con i defolianti. Il costo, si calcolava, era intorno agli 800 milioni di dollari. Non è dato sapere se avrebbe mai potuto funzionare. Ridicolizzata dai rappresentanti dell'aeronautica presso il CINCPAC, che non potevano permettere un'alternativa alla funzione delle forze aeree, l'idea non venne mai messa alla prova. Come ogni altro parere «dissonante»,Jason cozzò contro un muro di pietra. La strategia restò immutata perché l'aeronautica, preoccupata del proprio ruolo futuro, non poteva ammettere che la potenza aerea potesse essere inefficace. Il CINCPAC continuò ad alzare il livello punitivo dei bombardamenti sulla base di una sofferenza calcolata secondo una precisa «teoria dello stress» del comportamento umano: Hanoi avrebbe risposto allo «stress» interrompendo le azioni che lo producevano. «Ci aspettavamo che reagissero come gente ragionevole» disse in seguito un funzionario del dipartimento della Difesa. Alla fine del 1966 lc bombe sganciate sul Nord raggiunsero il totale annuale di 500.000 tonnellate, superiore a quello impiegato contro il Giappone durante la seconda guerra mondiale. Invece di reagire razionalmente, Hanoi reagì umanamente con la collera e un atteggiamento di sfida, come avevano fatto gli inglesi sotto il Blitz tedesco, e come senza dubbio avrebbero fatto gli americani se fossero stati bombardati. Invece di condurre il nemico, ammansito, al tavolo dei negoziati

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l'offensiva aerea lo rese ancora più inflessibile: Hanoi insisteva ora sulla cessazione dei bombardame~ti come ferrea precondizione ai negoziati. I sondaggi continuarono attraverso il canadese Chester Ronning e altri intermediari, perché le parti in causa avrebbero accolto volentieri la fine della guerra, ciascuna naturalmente alle proprie condizioni, che restavano inconciliabili. Quando Washington apprese da visitatori ad Hanoi di una riscontrata disponibilità a trattare se i bombardamenti venivano sospesi, la conclusione tratta dagli Stati Uniti fu che i bombardamenti si facevano sentire e che andavano quindi incrementati per raggiungere il risultato voluto. Il risultato ovviamente fu un irrigidimento dell'intransigenza di Hanoi. Jason colpì un significativo punto debole nel muro di pietra. Confermò dubbi che cominciavano a preoccupare il segretario McNamara. Il suo ufficio analisi dei sistemi al dipartimento della Difesa aveva concluso che i vantaggi militari dei bombardamenti non valevano il costo economico. Non ne fece cenno in pubblico, ma alcune sue osservazioni private parvero rivelare l'emergere di un certo riconoscimento dell'inutilità dello sforzo. Ritenendo, come scrisse al presidente, che la prognosi di una «soluzione soddisfacente» non era esatta, McNamara si dichiarò favorevole alla barriera antinfiltrazione quale sostituto dei bombardamenti e di un ulteriore aumento delle forze di terra. Ma non riuscì a far passare il suo punto di vista. Questo senso d'inutilità aveva raggiunto anche altri ambienti governativi, causando l'allontanamento di varie persone. Alcuni si dimisero; dei più il presidente si liberò con abili manovre: quali che fossero le sue perplessità, non gradiva, manifeste o taciute, quelle altrui. Hilsman fu allontanato dal dipartimento di Stato nel 1964, Forrestal dallo staff della Casa Bianca nel 1965, McGeorge Bundy dal National Security Council nel 1966, seguito dalle partenze volontarie di George Bali e di Bill Moyers nel settembre e nel dicembre del 1966. Senza eccezioni, tutti se ne andarono senza chiasso, silenziosi Laocoonti che non menzionarono e tanto meno sbandierarono, allora, i loro moniti e il loro dissenso. Il congedo silenzioso dei suoi membri è un importante vantaggio di cui gode il governo. Parlare anche dopo essersene andati significa finire nel deserto; dar prova di slealtà vuol dire precludersi il rientro nel gruppo. Le stesse ragioni spiegano la riluttanza a dimettersi. L'alto funzionario può sempre convincersi di poter esercitare una maggiore influenza moderatrice all'interno, e resta poi acquiescente per non veder terminare il suo rapporto con il potere. La presidenza america-

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na, con il suo potere di nomina nel ramo esecutivo, produce effetti autoritari. I consiglieri hanno grandi difficoltà a dire di no al presidente o a discutere una sua politica perché sanno che il loro status, l'invito alla prossima riunione alla Casa Bianca dipendono dal mantenersi allineati. Se fanno parte del Gabinetto, nel sistema americano non hanno un seggio parlamentare al quale tornare e dal quale poter continuare a far sentire la loro voce nelle questioni di governo. Chi resse come una roccia fu Rusk. Se aveva qualche dubbio fu capace, da classico servitore pubblico, di convincersi che la politica americana era giusta e di ripetere instancabilmente che indipendentemente da ogni altra considerazione l'obiettivo originario di salvaguardare un Vietnam del Sud non comunista andava mantenuto. Come tributo alla sua tenace continuità qualcuno del suo dipartimento scarabocchiò in una cabina telefonica: «Dean Rusk è un comunicato registrato». Il sostituto di Bundy, Walt Rostow, che andava predicando dal 1965 l'imminente crollo della ribellione Viet Cong, rimase un entusiasta della guerra. Al vertice, Johnson lo era un po' meno. Un giorno, essendogli stato chiesto quanto poteva durare la guerra, rispose: «Quanto, o fino a quando, chi lo sa? La cosa importante è: abbiamo ragione o abbiamo torto?». Proseguire con le uccisioni e le devastazioni della guerra lasciando questa questione irrisolta fu poco saggio nei confronti del pubblico, della sua stessa presidenza e della storia. Con la chiamata di contingenti di leva, richiesta dalle ripetute escalalions, la guerra toccava ora direttamente la massa della popolazione. A metà del 1966 il Pentagono annunciò che il livello delle truppe in Vietnam avrebbe raggiunto i 375.000 uomini per la fine dell'anno, con un aumento di altri 50.000 nei sei mesi successivi. A metà 1967, il livello raggiunse quota 463.000, con Westmoreland che chiedeva altri 70.000 uomini per un totale di 525.000 come «minima forza essenziale» e l'annuncio da parte di Johnson che le sue esigenze e richieste «sarebbero state esaudite». Per i giovani soggetti alla chiamata, questa guerra non esercita.va nessun richiamo, specialmente per coloro che la ritenevano indegna e ingloriosa. Chi poteva si avvalse del rinvio della chiamata concesso per l'intera durata degli studi superiori, mentre chi apparteneva alle classi meno abbienti vestì l'uniforme. L'iniquo sistema di coscrizione, primo peccato della guerra del Vietnam sul fronte interno, anche se teoricamente inteso a eliminare cause di malcontento in campo sociale, creò nella società americana una spaccatura che si venne ad aggiungere alla spaccatura a livello d'opinione.

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I raduni di protesta raccolsero sempre più partecipanti, le dimostrazioni nelle università e le marce contro la guerra si fecero sempre più chiassose e violente: si sventolava la bandiera di Hanoi, si scandivano slogan a favore di Ho Chi Minh. Quando un'enorme folla si scontrò con soldati in assetto di combattimento sui gradini del Pentagono ci furono arresti tra i manifestanti e donne picchiate. La protesta, associata com'era agli occhi della pubblica opinione a droghe e capelli lunghi e alla controcultura del decennio, finì forse col rallentare piuttosto che stimolare il generalizzarsi del dissenso. Dal pubblico, nell'insieme, le dimostrazioni contro la guerra erano viste, secondo un sondaggio d'opinione, come qualcosa che «incoraggiava i comunisti a battersi ancor più duramente». La renitenza alla leva e i roghi di bandiere fecero indignare i patrioti. Malgrado tutto questo, si andò diffondendo un. senso di sconforto, animato dalla sensazione che la guerra era crudele e immorale. Il bombardamento di un piccolo paese agricolo dell'Asia, comunista o non comunista che fosse, non poteva essere visto come una necessità impellente. Testimonianze oculari come i servizi inviati al «New York Times» da Harrison Salisbury sui colpi inferti alle zone residenziali di Hanoi - prima negati, poi ammessi dall'aeronautica - provocarono una levata di scudi. Nei sondaggi d'opinione il giudizio su Johnson per la sua gestione della guerra passò al negativo: il presidente non riuscirà più a trovare il favore della maggioranza. Resoconti di prigionieri lanciati disinvoltamente dagli elicotteri e altri episodi di inumana brutalità mostrarono agli americani che anche il loro paese poteva rendersi colpevole di atrocità. Obbrobrio all'estero, sfiducia tra i nostri più vicini alleati: le conseguenze si fecero sentire. La guerra, si suppone, unisce un paese, ma una guerra che suscita disapprovazione, come la guerra nelle Filippine nel 1900• o la guerra della Gran Bretagna contro i boeri, divide un paese più a fondo di quanto non riescano a fare le sue normali divisioni. La nuova sinistra e i radicali diventando sempre più ingiuriosi e scomposti approfondirono la spaccatura con la rispettabile classe media e provocarono l'odio e la contrapposta violenza dei sindacati e della base operaia. Nel 1967, in un libro intitolato Beyond Vietnam, Reischauer chiedeva fino a

• Al termine della guerra ispano-americana ( 1898) le Filippine passano agli Stati Uniti. La reazione delle forze nazionaliste guidate da Emilio Aguinaldo, che durante la guerra avevano proclamato, d'accordo con le forze americane, l'indipendenza, viene duramente repressa. L'azione provoca forti polemiche in America. Le Filippine resteranno praticamente per decenni in mano americana [N.d. T. ).

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quando era possibile sopportare la «confusione spirituale». Per alcuni l'idea che si facevano del proprio paese divenne negativa. Il Consiglio nazionale delle chiese affermò che l'America «era vista come un paese prevalentemente bianco che usa il suo strapotere per uccidere il maggior numero di asiatici». Martin Luther King disse che non poteva più riprovare gli atti di violenza della sua gente senza parlare contro «il più grande portatore di violenza del mondo oggi - il mio governo». La sua era un'ammissione terribile. Vederci improvvisamente nelle vesti dei «cattivi» nella polarità mondiale e sapere che l'agente del male era il nostro governo era un fatto nuovo, gravido di serie conseguenze. Le più serie furono la sfiducia e un atteggiamento di rigetto nei confronti del governo, a partire dall'alienazione degli elettori. «Nel '64 hai votato e hai avutojohnson- perché riprovarci?» diceva uno striscione a una manifestazione contro la guerra a New York. Il vicepresidente Humphrey venne spietatamente attaccato alla Stanford University. «Il deterioramento d'ogni governo» scrisse nel XVIII secolo Montesquieu nel suo Spirito delle leggi «ha inizio con la decadenza dei princìpi sui quali venne fondato». I rapporti dell'amministrazione sulla guerra minavano la sua credibilità sul fronte interno, e la colpa era in buona parte da attribuirsi ai militari. Indottrinati nella prassi dell'inganno teso a fuorviare l'avversario, i militari finiscono col fuorviare tutti per abitudine. Le varie Armi e i comandi superiori manipolavano le notizie nell'interesse della «sicurezza nazionale», per fare bella figura, per aggiudicarsi una ripresa nello scontro perenne tra le Armi, per nascondere gli errori o valorizzare la figura di un comandante. Con una stampa inviperita, pronta a smascherare le magagne, il pubblico non era lasciato come al solito all'oscuro delle squallide mistificazioni nascoste dietro i giochi di parole dei comunicati. Il dissenso raggiunse anche l'eslablishmenl. Walter Lippmann nel 1966 passò un'intera serata a convincere Katharine Graham, proprietaria del «Washington Post» e fino a quel momento fermamente schierata tra i falchi, che «una persona decente non poteva più sostenere la guerra». Il costo allarmante della guerra, che era salito a miliardi di dollari, ipotecava un futuro di spese deficitarie e provocava l'inflazione e una sfavorevole bilancia dei pagamenti, preoccupando molta gente nel mondo degli affari. Alcuni uomini d'affari formarono gruppi di opposizione, piccoli in rapporto alla comunità economica nel suo insieme ma che si videro incoraggiati quando un personaggio del calibro di Marriner Eccles, già presidente della Riserva federale, parlò

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in pubblico per «Negotiation Now», un gruppo organizzato da Galbraith e Arthur Schlesinger Jr. Anche la voce di un ex membro dell'apparato governativo ruppe il silenzio. James Thomson, uno dei dissenzienti interni che aveva lasciato l'ufficio dell'Estremo Oriente del dipartimento di Stato nel 1966, dichiarò in una lettera al «New York Times» che c'erano sempre state «alternative costruttive» e, riecheggiando Burke, che gli Stati Uniti come la più grande potenza sulla terra avevano «il potere di perdere la faccia, il potere di ammettere l'errore e il potere di agire con magnanimità». L'avversione del generale Ridgway nei confronti della guerra era nota. Raggiunta, con il collocamento a riposo, l'indipendenza, un altro ufficiale della stessa levatura, il generale David M. Shoup, uno degli eroi della guerra nel Pacifico e fino a poco tempo prima comandante del Corpo dei marines, si unì a Ridgway nella protesta. L'affermazione del governo che il Vietnam era «vitale» per gli interessi degli Stati Uniti era, disse, «una fesseria»; tutta l'Asia sudorientale non «valeva la vita di un solo americano [ ... ]. Perché non lasciamo che la gente decida della propria vita?». Il senatore Robert Kennedy, nemesi del presidente, o ritenuto tale, chiese una sospensione dei bombardamenti perché inutili, e in un altro discorso che infuriò la Casa Bianca propose che il Fronte di liberazione nazionale avesse voce in qualsiasi negoziato. Una nuova pietra miliare fu raggiunta quando un senatore, Gaylord Nelson del Wisconsin, si associò alla coppia solitaria di Morse e Gruening votando contro una nuova richiesta di stanziamenti ( 12 miliardi di dollari) per la guerra. Alla Camera, il rappresentante George Brown della California presentò un ordine del giorno, da aggiungere in calce al provvedimento, nel quale si dichiarava che era «opinione del Congresso» che nessuno dei fondi concessi doveva essere usato per «operazioni militari nel Vietnam del Nord o su di esso». Pur essendo soltanto un ordine del giorno, e in quanto tale non vincolante per il governo, fu egualmente sconfitto in maniera schiacciante con 372 voti contro 18. Nonostante vent'anni di solenni dichiarazfrmi, fin dai tempi di Truman, sull'interesse «vitale» dell'Asia sudorientale per gli Stati Uniti e la ferrea necessità di fermare il comunismo, lo scopo della guerra restava poco chiaro alla massa dell'opinione pubblica. Nel maggio del 1967, quando un sondaggio Gallup chiese agli intervistati se sapevano perché gli Stati Uniti stavano combattendo nel Vietnam, il 48 per cento rispose sì e il 48 per cento rispose no. Con una dichiarazione di guerra le cose sarebbero forse state diverse. Lo scopo della guerra non era un vantaggio materiale, né la difesa

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della nazione. In entrambi i casi la questione sarebbe stata pm semplice, perché è più facile mettere fine a una guerra con la conquista territoriale o con la distruzione delle forze e delle risorse nemiche che stabilire con la forza superiore un principio e chiamarlo vittoria. Lo scopo dcli' America era di dimostrare la sua intenzione e la sua capacità di fermare il comunismo nel contesto specifico della salvaguardia di uno Stato creato artificiosamente, inadeguatamente motivato e non molto efficiente. La natura della società che sostenevamo costituiva una grossa remora e la situazione, nonostante tutti gli sforzi per «edificare una nazione», sostanzialmente non cambiò mai. Come mettere dunque fine allo sperpero della potenza americana in questo conflitto poco vantaggioso, poco promettente e potenzialmente pericoloso? Convinta che il Vietnam del Nord fosse duramente provato e potesse essere indotto a piegarsi alle intenzioni americane, l'amministrazione tentò ripetutamente nel 1966-67 di condurre Hanoi alla trattativa, sempre secondo i termini posti dall'America. Questi erano apparentemente generosi, «senza condizioni» si diceva, ignorando il fatto che Hanoi insisteva su una condizione: la cessazione dei bombardamenti. Le aperture degli Stati Uniti comprendevano vari impegni di cessare i bombardamenti, di bloccare l'aumento delle forze americane «non appena possibile e non oltre sci mesi» dopo che il Vietnam del Nord avesse ritirato le sue forze dal Sud e cessato di far uso della violenza. Tutte le offerte dipendevano da una reciproca riduzione delle ostilità da parte di Hanoi. Hanoi non offriva nessuna reciprocità se prima non cessavano i bombardamenti. Alcune potenze straniere aggiunsero i loro sforzi. Papa Paolo VI si appellò alle due parti per un armistizio che aprisse la via ai negoziati. U Thant, a cui Washington aveva chiesto di usare i suoi buoni uffici, sollecitò gli Stati Uniti e i due Vietnam a incontrarsi in territorio britannico per negoziare. A tutti gli approcci, da qualsiasi parte provenissero, Hanoi rispose, con dichiarazioni pubbliche di Ho Chi Minh e di altri dirigenti e interviste a giornalisti in visita, insistendo sempre, come presupposto dei negoziati, sulla fine «incondizionata» dei bombardamenti, sulla cessazione di ogni altro atto di guerra da parte degli Stati Uniti, sul ritiro delle forze americane e l'accettazione dei suoi «quattro punti». Mentre di tempo in tempo si apportarono modifiche alle altre condizioni, la richiesta di cessare i bombardamenti restò la condizione di base e non venne mai cambiata. Quando il primo ministro Pham Van Dong parlò dei «quattro punti» come di una «base per l'accordo» piuttosto che come una precondizione, e in un'altra dichiarazione affermò che Hanoi avrebbe

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«esaminato e studiato proposte» di negoziati se gli Stati Uniti sospendevano i bombardamenti, gli americani credettero di cogliere un segnale della controparte. In questa occasione si ebbe in effetti un abboccamento di rappresentanti americani e nordvietnamiti delle rispettive ambasciate a Mosca, ma poiché non ci fu alcuna pausa dei bombardamenti a indicare una seria intenzione da parte americana l'incontro non ebbe alcun risultato. In un'altra occasione, due americani con una personale conoscenza di Hanoi portarono un messaggio preparato dal dipartimento di Stato col quale si proponevano discussioni segrete sulla base di «alcune limitazioni reciproche». Il linguaggio era più morbido del solito e gli aerei, anche se non rimasero al suolo, furono però tenuti lontani dalla zona di Hanoi. Non essendo giunta risposta tornarono, colpendo il porto di Haiphong per la prima volta, scali ferroviari e altri obiettivi nella capitale. U Thant suggerì una prova chiara, che avrebbe eliminato ogni manovra. Chiese agli Stati Uniti di «correre il rischio calcolato» di una sospensione dei bombardamenti che, riteneva, avrebbe condotto a trattative di pace «nello spazio di poche settimane». L'America non fece il tentativo richiesto. Per uso in terno, il presidente J ohnson descrisse l'America come un paese pronto a fare «più della sua parte per andare incontro fino a metà strada al Vietnam del Nord per ogni possibile cessate il fuoco, tregua o negoziato per una conferenza di pace», ma il «più della sua parte» non includeva lasciare a terra i B-52. Una lettera di Johnson indirizzata direttamente a Ho Chi Minh tornò a ripetere la formula della reciprocità: i bombardamenti e l'aumento delle forze degli Stati Uniti sarebbero cessati «appena ho la sicurezza che l'infiltrazione nel Vietnam del Sud per terra e per mare è terminata». La risposta di Ho ribadì la formula nordvietnamita. Le analisi delle risposte di Hanoi segnalarono a Washington «una profonda convinzione da parte di Hanoi che la nostra decisione vacillerà a causa del costo della lotta». Gli analisti avevano ragione. L'intransigenza di Hanoi era in effetti legata alla convinzione che gli Stati Uniti, per motivi di costo o per il diffondersi del dissenso, si sarebbero stancati per primi. Quando il segretario Rusk elencò con indignazione 28 proposte americane di pace aveva una mezza ragione dalla sua: l'avversario non voleva la pace finché non poteva averla alle proprie condizioni. Poiché le offerte americane non soltanto non rispondevano alle condizioni richieste dai nordvietnamiti, ma non indicavano mai la misura e la natura di una soluzione politica finale, Hanoi non era interessata a queste proposte.

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Ci fu un momento in cui le acque parvero veramente muoversi quando il primo ministro sovietico, Alckscj Kosygin, si recò in visita dal primo ministro Harold Wilson in Gran Bretagna. Agendo come intermediari in comunicazione con le parti in causa, giunsero a un soffio dal raggiungere una base concordata per i negoziati. La cosa andò all'aria quando Johnson, all'ultimo momento, mentre Kosygin stava già lasciando Londra, modificò inesplicabilmente il testo del comunicato finale, troppo tardi per nuove consultazioni. «Avevamo quasi la pace in pugno» si rammaricò Wilson. La cosa è dubbia. È difficile sfuggire l'impressione che Johnson desse corda a queste manovre per placare le critiche in America e all'estero, ma che sia lui sia i consiglieri che ascoltava maggiormente puntavano sempre su negoziati imposti con la superiorità della forza. Una nube stava sorgendo sull'orizzonte interno. La progressiva escalation, che cresceva come l'appetito vien mangiando, senza limiti stabiliti, non era accettata a occhi chiusi per una guerra solo vagamente capita. Il metodo di Westrnoreland di chiedere incrementi di 70.000, 80.000 uomini per volta differiva il problema di chiamare in servizio la riserva ma, come McNaughton rammentò al suo capo, lo differiva soltanto «con il suo orribile bagaglio» a una scadenza peggiore, quella delle elezioni presidenziali del 1968. McNaughton richiamò l'attenzione di McNamara sul pubblico dissenso sempre crescente, alimentato com'era dalle perdite americane (nel 1967 ci saranno 9000 morti e 60.000 feriti), dal timore popolare che la guerra potesse allargarsi e dal «turbamento per le sofferenze imposte» al popolo di entrambe le parti del Vietnam. «C'è la sensazione forte e diffusa che "l'establishment" è impazzito [ ... ] che stiamo spingendo la cosa ai limiti dell'assurdo [ ... ]. La maggior parte degli americani non sa come ci siamo cacciati in questa situazione [ ... ]. Tutti vogliono che la guerra finisca e si aspettano che il loro presidente la faccia finire. E la faccia finire bene, o sono guai.» Se il «sono guai» significava «se ne va», non si trattava di una alternativa inimmaginabile. Johnson cominciava lentamente a capire che non c'era modo in cui l'imbroglio vietnamita potesse terminare con suo vantaggio. Il successo militare non poteva porre fine alla guerra nei diciotto mesi che restavano al suo mandato e con le elezioni in vista non poteva disimpegnarsi e «perdere» il Vietnam. Bisognava affrontare il problema dei riservisti, le perdite, la pubblica protesta. Era in trappola e, a giudizio di Moyers, «Lo sapeva. Sentiva che la guerra lo avrebbe distrutto politicamente e travolto la sua presidenza. Era un uomo infelice».

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Johnson era anche soggetto alle pressioni della destra e del crescente risentimento dei militari e dei loro portavoce per i freni che erano loro imposti. La commissione senatoriale delle forze armate offrì a questo risentimento l'occasione di esprimersi pubblicamente, nell'agosto del 1967, nelle udienze di una sua sottocommissione presieduta dal senatore John Stennis. Ancora prima di acquisire le testimonianze, Stennis esternò la sua opinione che era un «errore fatale» sospendere o limitare i bombardamenti. L'ammiraglio Ulysses Grant Sharp, comandante dell'aeronautica presso il CINCPAC, si spinse decisamente oltre con una appassionata arringa a favore della potenza aerea. Vantò gli splendidi risultati dei B-52 per i danni inflitti a caserme, depositi di munizioni, centrali elettriche, scali ferroviari, impianti siderurgici, cementifici, aeroporti, basi navali, ponti e in generale per un «capillare sconvolgimento dell'attività economica» e dei trasporti, con i danneggiamenti ai raccolti e la progressiva riduzione delle risorse alimentari. Senza i bombardamenti, disse, il Nord avrebbe potuto raddoppiare le sue forze nel Sud, costringendo gli Stati Uniti a fare intervenire altre truppe, fino a 800.000 uomini, con un costo di 75 miliardi di dollari, semplicemente per mantenere la parità delle forze. Condannò qualsiasi suggerimento di pause dei bombardamenti in quanto permettevano al nemico di riparare le linee di comunicazione, rifornire le forze nel Sud e rafforzare le sue formidabili difese antiaeree. Il suo disprezzo per la scelta dei bersagli da parte di civili, in quanto lenta e troppo lontana dal teatro delle operazioni, fu esplicito. Se le autorità civili, asserì in trasparente riferimento al sistema delle colazioni del martedì, avessero dato retta ai consigli dei militari, tolto le limitazioni riguardanti bersagli «redditizi» nelle aree vitali di Hanoi e Haiphong, eliminato lunghi ritardi nell'approvazione dei bersagli, i bombardamenti sarebbero stati enormemente più efficaci. La loro cessazione sarebbe stata un «disastro» e avrebbe prolungato indefinitamente la guerra. La testimonianza del segretario McNamara mise tutto questo in discussione. In uno splendido intervento, McNamara portò prove a dimostrazione del fatto che il programma dei bombardamenti non aveva ridotto in misura significativa il flusso di uomini e rifornimenti e contestò il parere dei militari, che occorreva abrogare le limitazioni e concedere all'aeronautica un più ampio ventaglio di obiettivi. «Non abbiamo ragione per credere che questo possa spezzare la volontà del popolo nordvietnamita o far vacillare la determinazione dei suoi dirigenti[ ... ] o darci una qualsiasi sicurezza che sia possibile trascinarli a forza di bombardamenti al tavolo dei negoziati.» Si ammise così 1

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per bocca del segretario alla Difesa, che lo scopo stesso della strategia americana era vano: la testimonianza, che rivelava la spaccatura tra civili e militari, fece sensazione. Il rapporto del senatore Stennis sui lavori della sottocommissione fu un attacco sfrenato all'interferenza dei civili. Stennis disse che sostituendo al giudizio dei militari quello dei civili si era «incatenato il potenziale stesso della potenza aerea». Ora quella che era necessaria era la dura decisione «di correre i rischi che vanno corsi e di impiegare la forza indispensabile per condurre a termine il lavoro». Johnson era fermamente intenzionato a non correre nessun rischio del genere, e la cosa lo preoccupava ancora a tal punto che dovette scusarsi con il Cremlino per una bomba che aveva accidentalmente colpito un mercantile sovietico in un porto nordvietnamita. Né poteva far cessare o sospendere temporaneamente i bombardamenti come mossa in vista della pace perché i suoi consiglieri militari gli garantivano che i bombardamenti erano l'unico sistema per mettere il Nord in ginoccl1io. Si sentì tenuto a convocare una conferenza stampa dopo le sedute della sottocommissione Stennis per negare l'esistenza di spaccature nel governo e dichiarare il suo appoggio al programma dei bombardamenti, senza peraltro cedere l'autorità di selezionare gli obiettivi. Come atto di deferenza verso i militari, il generale Wheeler, presidente deijoint Chiefs, fu da quel momento invitato a partecipare regolarmente alle colazioni del martedì e, con MacNamara in minoranza, il raggio d'azione delle incursioni salì lentamente a nord inglobando, in modo specifico, Haiphong. Con la deposizione di McNamara davanti alla sottocommissione, si era prodotta un'incrinatura nell'Amministrazione Johnson. Il punto d'appoggio più saldo, l'uomo più tenace del gruppo ereditato da Kennedy, il manager supremo della guerra non credeva più nell'impresa. Da quel momento McNamara perse l'influenza che aveva sul presidente. Quando a una riunione del Gabinetto disse che i bombardamenti, oltre a non riuscire a impedire le infiltrazioni, stavano «distruggendo le campagne del Sud, creandoci nemici eterni», i colleghi rimasero a guardarlo in un silenzio carico di disagio. L'opinione pubblica contraria al conflitto attendeva ansiosamente una sconfessione della guerra, che però non venne. Fedele alle regole del gioco governativo, McNamara, come Bethmann-Hollweg in Germania nel 1917, continuò a presiedere a una strategia che riteneva sterile e sbagliata. Fare altrimenti, avrebbero detto entrambi, significava dar prova di scetticismo e arrecare conforto al nemico. Il problema resta: si deve obbedire al lealismo o alla verità? McNamara scelse una

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posizione intermedia e non durò a lungo. Tre mesi dopo la sottocommissione Stennis, Johnson annunciò, senza consultare l'interessato, la nomina di McNamara a presidente della Banca mondiale. Al momento di andarsene il segretario alla Difesa si mostrò discreto e beneducato. A questo punto la gestione della guerra, sul fronte interno, trovava il governo sulla difensiva. Per puntellare la propria posizione politica e recuperare la fiducia dell'opinione pubblica, Johnson fece tornare in patria il generale Westmorcland, l'ambasciatore Ellsworth Bunker, successore di Lodge, e altri personaggi importanti con l'incarico di rilasciare previsioni ottimistiche e affermare la loro ferma fede nella missione di «sconfiggere l'aggressione comunista». Arrivavano però anche notizie, non comunicate al pubblico, meno incoraggianti. Valutazioni della CIA concludevano che Hanoi non avrebbe mai riconosciuto che un qualsiasi livello di azione aerea o navale era «così intollerabile da rendere necessaria la fine della guerra». Uno studio, sempre della CIA, sui bombardamenti, stimati brutalmente nel loro valore in dollari, rivelò che ogni dollaro di danni inflitti al Vietnam del Nord ne costava agli Stati Uniti 9,60. L'ufficio di analisi dei sistemi del dipartimento della Difesa scoprì che il nemico poteva costruire nuove strade di rifornimento «più rapidamente di quel che noi possiamo impiegare a interromperle», e valutò che un maggior numero di truppe americane avrebbe recato più danni che vantaggi, specialmente all'economia del Vietnam del Sud. L'Istituto di analisi della difesa, in una replica dello studiojason, non trovò fatti nuovi che lo inducessero a modificare le sue conclusioni precedenti e in contrasto con le affermazioni dell'aeronautica dichiarò francamente: «Non siamo in grado di escogitare una campagna di bombardamenti del Nord capace di ridurre l'infiltrazione di personale». Quando i dati oggettivi contraddicono convinzioni fortemente radicate interviene, secondo i teorici della «dissonanza conoscitiva», non un rigetto delle convinzioni ma un irrigidimento, accompagnato da tentativi di razionalizzazione delle contraddizioni. Il risultato è la «rigidità conoscitiva»: in parole povere, la follia cala la saracinesca. Così accadde con i bombardamenti. Quanto più si facevano pesanti e vicini ad Hanoi, tanto più frustravano il desiderio dell'amministrazione di uscirsene dalla guerra per la porta dei negoziati. Alla fine del 1967 il dipartimento della Difesa annuncerà che il totale delle bombe sganciate sul Nord e il Sud del Vietnam ammontava a oltre un milione e mezzo di tonnellate, superando di 75.000 tonnellate il totale sganciato sull'Europa dall'aviazione dell'esercito nella seconda guerra

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mondiale. Poco più della metà era stato sganciato sul Vietnam del Nord, superando il totale del teatro di guerra del Pacifico. Un limite comunque era stato raggiunto. In luglio Johnson aveva fissato il tetto dcli' escalation delle truppe di terra a 525.000 uomini, una cifra lievemente superiore a quella indicata ventun anni prima dal generale Ledere con l'avvertenza che «neanche così ci si potrebbe riuscire». Nel frattempo gli Stati Uniti avevano fatto un altro tentativo, ammorbidendo leggermente l'insistenza sulla reciprocità. Due francesi, Raymond Aubrac (amico, ai vecchi tempi, di Ho Chi Minh) e Herbert Marcovich, entrambi desiderosi di contribuire a far finire la guerra, si erano offerti, conversando con Henry Kissinger a una conferenza di Pugwash, • di agire come inviati ad Hanoi. Furono così latori, dopo una consultazione presso il dipartimento di Stato, del messaggio che gli Stati Uniti avrebbero sospeso i bombardamenti se Hanoi dava assicurazione che questo avrebbe condotto a negoziati, e con il «presupposto» che il Nord avrebbe reciprocamente ridotto le infiltra;!ioni. La risposta sembrò implicare che su questa base si poteva procedere alle trattative, ma ogni ulteriore discussione venne troncata in termini indignati da Hanoi quando l'ammiraglio Sharp scatenò una campagna di bombardamenti su vastissima scala per isolare Hanoi da Haiphong ed entrambe queste città dalle loro fonti di rifornimento. Alla colazione del martedì dovevano essere mezzo addormentati quando avevano scelto i bersagli a meno che la sbadataggine non fosse deliberata. ✓ Un mese dopo, crescendo il clamore del dissenso ed essendo chiaro che all'interno dello stesso Partito democratico ci si preparava a sfidarlo politicamente, il presidente uscì con una grossa iniziativa personale. Il 29 settembre, in un discorso a San Antonio, rilanciò pubblicamente la formula della missione di Aubrac e Marcovich: «Noi e i nostri alleati del Vietnam del Sud» disse «siamo pronti al cento per cento a negoziare questa sera stessa[ ... ]. Gli Stati Uniti sono disposti a cessare tutti[ ... ] i bombardamenti del Vietnam del Nord qualora questo conducesse prontamente a discussioni produttive». Gli Stati Uniti avrebbero «ovviamente presupposto» che mentre le trattative erano in corso il Vietnam del Nord non avrebbe approfittato della sospensione dei bombardamenti. Hanoi respinse seccamente l'offerta

• Conferenze di Pugwash: incontri internazionali di scienziati per discutere i problemi del disarmo e della sicurezza. Da Pugwash (Nuova Scozia), dove si tenne nel 1957 il primo incontro in risposta a un appello di Albert Einstein, Bertrand Russell e altri [N.d.T.].

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definendola una «pace fasulla» e uno «smaccato inganno». Facendosi suo portavoce, Wilfred Burchett, un giornalista australiano filocomunista residente nel Vietnam del Nord, riferì che esisteva un «profondo scetticismo» nei confronti di approcci pubblici o privati provenienti da Washington: «Non conosco nessun dirigente disposto a credere che il presidentejohnson è sincero quando afferma di voler seriamente porre fine alla guerra a condizioni che lascino i vietnamiti liberi di risolvere i propri problemi». La follia di perdere l'occasione era ora di Hanoi. Accettando l'offerta avanzata pubblicamente da Johnson i nordvietnamiti avrebbero potuto inchiodarlo alla promessa fatta e verificarne i risultati. Se fosse stato possibile strappare la pace da una situazione così aggrovigliata, al loro paese sarebbero state risparmiate molte sofferenze. Ma i bombardamenti li avevano resi paranoici: avendo percepito un accenno di cedimento nell'atteggiamento dell'avversario erano decisi a batterlo sulla durata, per negoziare così da posizioni di forza. Pochi giorni dopo si verificò negli Stati Uniti un avvenimento che trasformò il movimento contro la guerra da dissenso ad alternativa politica. Si fece avanti un candidato deciso a opporsi a Johnson all'interno del suo stesso partito. I dirigenti dell'opposizione alla guerra sapevano che senza un'alternativa politica il movimento non poteva fare molti progressi, e la stavano attivamente cercando. Robert Kennedy, anche se incoraggiato da chi gli stava intorno, non aveva voluto dichiararsi. Il 7 ottobre il senatore Eugene McCarthy del Minnesota, nella tradizione di una lunga schiera di uomini politici indipendenti nati in quella regione, colmò il vuoto con l'annuncio della candidatura. L'entusiasmo del movimento contro la guerra si riversò su di lui. Radicali, moderati, tutti coloro che volevano farla finita con la guerra, quali che fossero le loro opinioni politiche, si raccolsero intorno a lui; gli studenti accorsero a frotte dai colleges per collaborare alla sua campagna elettorale. Fino alla prima tornata delle primarie Johnson e i vecchi professionisti della politica, pieni di disprezzo per i seguaci di McCarthy, visti come un branco di dilettanti, non presero sul serio la sfida. In realtà era il principio della fine. Un mese dopo, il «Saturday Evening Post», organo della middle America, la gran massa degli americani medi, tirò le somme dell'intervento americano in un duro editoriale che affermava: «La guerra in Vietnam è un errore di Johnson, ma avvalendosi dei poteri della sua carica egli l'ha fatta diventare un errore nazionale». Quando l'offensiva nemica del Tet esplose in Vietnam alla fine di gennaio del 1968, lo spostamento in atto nell'opinione pubblica

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americana contro la guerra e contro il presidente acquistò rapidamente forza. A differenza della precedente guerra dei Viet Cong contro i villaggi rurali, questo fu un assalto massiccio, simultaneo e coordinato a più di 100 città piccole e grandi nella maggior parte delle quali non si era ancora manifestata una visibile presenza dei ribelli. Nel quadro di un attacco feroce, che riuscì a penetrare nel terreno dell'ambasciata americana a Saigon, i telespettatori americani videro ora combattimenti nelle strade, scontri a fuoco e uccisioni all'interno di sedi americane, e l'impressione che ne ebbero fu spaventosa. Hue, l'antica capitale, fu tenuta per parecchie settimane dai Viet Cong e migliaia di abitanti furono massacrati prima che essa venisse ripresa. I combattimenti durarono un mese, con molte città pericolosamente assediate, e non fu chiaro quale delle due parti fosse uscita avvantaggiata dalla lotta. Il fatto che una tale capacità offensiva potesse essere mobilitata da un avversario ritenuto ormai vacillante fece saltare tutte le valutazioni fiduciose, sgonfiò la credibilità di Westmoreland e lasciò esterrefatti il pubblico e il governo americano. Gli intenti dell'offensiva potevano essere stati diversi: provocare una sollevazione generale, creare nuove basi o dare un'impressionante prova di forza come preliminare ai negoziati; in ogni caso, se non arrivò a far crollare il Sud e costò ai Viet Cong e ai nordvietnamiti pesanti perdite, valutate intorno ai 30.000-40.000 uomini, essa riuscì però a sconvolgere v'1lori stabiliti. Una sensazione di disastro pervase gli Stati Uniti, aggravata dalla più citata osservazione della guerra: «È necessario distruggere la città per poterla salvare». Il maggiore americano che l'aveva fatta si riferiva a un centro abitato che andava raso al suolo per mettere in rotta i Viet Cong, ma la frase parve un simbolo dell'uso che si faceva della potenza americana: si distruggeva l'oggetto della sua protezione per salvarlo dal comunismo. Mentre i combattimenti si avviavano alla fine, la voce pacata del «Wall Street Journal» dichiarò: «Pensiamo che il popolo americano debba prepararsi ad accettare, se già non l'ha accettata, la prospettiva che l'impresa vietnamita può essere destinata al fallimento». Westmoreland chiese immediatamente l'invio di 10.500 uomini con un ponte aereo d'emergenza e fece seguito con la richiesta, appoggiata dal generale Wheeler e dei Joint Chiefs, di altri 206.000 uomini, ben oltre il tetto stabilito da Johnson in luglio. Il totale delle truppe in Vietnam a questo punto era di poco inferiore alle 500.000 unità. Un'escalation di queste dimensioni, che avrebbe certamente provocato una levata di scudi in America, poneva l'esecutivo di fronte alla necessità di scegliere tra l'intensificazione dei combattimenti e una

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soluzione non militare. Con una campagna elettorale alle porte, l'accettazione della richiesta di Westmoreland poneva prospettive poco incoraggianti majohnson, fermo nella convinzione che una forza superiore doveva prevalere, non era disposto al negoziato né a un disimpegno che potesse essere interpretato come una sconfitta. Incaricò un gruppo di lavoro capeggiato da Clark Clifford, segretario designato alla Difesa, di esaminare i costi e gli effetti della mobilitazione di altri 200.000 uomini. I Joint Chiefs, ai quali il quesito fu posto esplicitamente, non furono in grado di garantire che i rinforzi avrebbero colmato la differenza tra una situazione di stallo e la vittoria. Anche se il gruppo di lavoro cercò di attenersi ai limiti del compito ricevuto, emersero continuamente «questioni fondamentali»: sul fronte interno la chiamata alle armi della riserva, un uso più esteso della coscrizione, turni di servizio più lunghi e forse ripetuti, altri miliardi di spese, aggravi fiscali, controllo dei salari e dei prezzi; sul fronte militare, la realtà non ignorabile che nel 1967 90.000 nordvietnamiti si erano infiltrati a sud, che il ritmo attuale era tre o quattro volte superiore a quello dell'anno precedente, che il nemico poteva batterci nell'escalation in qualsiasi momento, che i bombardamenti non potevano fermarlo, che nessun livello di logoramento delle sue forze si era dimostrato «inaccettabile». Nei feroci, e in alcuni luoghi suicidi, attacchi dell'offensiva del Tet il nemico non aveva esitato a investire prodigalmente il suo materiale umano, in taluni casi con perdite fino al 50 per cento. Quale livello di logoramento avrebbe trovato «inaccettabile»? I Joint Chiefs e i consiglieri più vicini al presidente, cioè uomini come Rusk, Rostow e i generali Wheeler e Taylor, membri del gruppo di lavoro, non parvero trarne alcun motivo di riflessione. Rimasero rigidamente attestati sull'atteggiamento degli ultimi tre anni, decisi a proseguire i combattimenti e a dare a Westmoreland quello che chiedeva. Erano «come trasognati» disse George Kennan, incapaci di «qualsiasi valutazione realistica degli effetti delle loro azioni». Clifford e gli altri er:rno incerti e premevano per una riduzione dello sforzo bellico mentre erano in corso le trattative. Il ritiro non era proponibile, perché dopo tre anni di guerra rovinosa e di distruzioni la vendetta del Nord sarebbe stata pesante, e gli Stati Uniti non potevano a questo punto andarsene e lasciare che la gente del Vietnam del Sud venisse massacrata dai suoi nemici. Pur senza un pieno consenso interno, il gruppo di lavoro il 4 marzo raccomandò un incremento di 13.500 uomini per rispondere alle esigenze immediate: il resto del suo rapporto, secondo uno dei membri, «era un tentativo di sollecitare

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l'attenzione del presidente, perché si concentrasse sulle questioni di più vasta portata». L'ironia fu che Clifford, scelto da Johnson perché gli restituisse l'appoggio perso con McNamara, piombò nello stesso scoraggiamento del predecessore, non appena ne prese il posto. Era già rimasto scosso l'estate precedente, in visita tra i paesi della SEATO per chiedere una loro maggiore partecipazione militare, dall'atteggiamento di indifferenza nei confronti della sua missione. I cosiddetti alleati, che erano le tessere putative del «domino», erano impegnati in maniera tutt'altro che seria. La Thailandia, il paese che aveva la minaccia alle porte, con i suoi 30 milioni di abitanti aveva un contingente di 2500 uomini in Vietnam. Clifford aveva incontrato stima e incoraggiamenti per lo sforzo americano ma nessuna disponibilità ad aumentare le forze impegnate, e nessuna preoccupazione per quel che stava accadendo. Se questo era il modo in cui in Asia sudorientale si considerava la situazione c'era da chiedersi seriamente che cosa stesse difendendo l'America. Entrando al Pentagono Clifford non trovò piani per una vittoria militare ma piuttosto una serie di limitazioni - no all'invasione del Nord, all'inseguimento del nemico in Laos e Cambogia, al minamento del porto di Haiphong - che precludevano ogni possibilità di vittoria. Tra i suoi assistenti, segretari e sottosegretari trovò un disincanto che andava dal memorandum di Townsend Hoopes sulla Irrealizzabilità della villoria militare alla scelta di Paul Nitze, disposto a rassegnare le dimissioni piuttosto che difendere al Senato la politica di guerra dell'amministrazione. Trovò un rapporto dell'ufficio analisi dei sistemi in cui si affermava che «nonostante il massiccio affiusso di 500.000 soldati americani, un milione e mezzo di bombe in un anno, 400.000 sortite offensive in un anno, 200.000 nemici uccisi in azione in tre anni, 20.000 soldati americani uccisi in azione, ecc. il nostro controllo delle campagne e delle aree urbane è essenzialmente ai livelli esistenti prima dell'agosto 1965». Inoltre, Clifford trovò previsioni disastrose degli effetti di ogni successiva escalation sull'opinione pubblica, e previsioni di aumenti del bilancio militare di 2 miliardi e mezzo di dollari per il 1968 e di 1O miliardi per il 1969. Vide come l'investimento nell'impresa del Vietnam stava assorbendo le nostre forze disponibili dall'Europa e dal Medio Oriente mentre, con ogni probabilità, più americanizzavamo la guerra meno il Vietnam del Sud sarebbe stato in grado di fare da sé. Finì col convincersi che «la via delle armi, che stavamo seguendo, era senza sbocco, e senza speranza». La guerra era giunta a un punto

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morto. Non essendo uomo disposto a bruciare i suoi prestigiosi talenti e una brillante reputazione per una causa vacillante, Clifford si mise all'opera per smuovere il presidente dalla posizione in cui era come congelato. Contro gli «uomini trasognati» vicini a Johnson era in un rapporto di uno a otto, ma aveva la realtà dei fatti dalla sua. C'erano anche forze politiche in movimento. Lo stato d'animo di opposizione alla guerra si era volto contro i democratici perché erano il partito di Johnson. La guerra era diventata una tale palla al piede, disse il senatore Millard Tydings del Maryland all'estensore dei discorsi di Johnson, che «qualsiasi repubblicano ragionevolmente decente potrebbe darmi una batosta se le elezioni si tenessero oggi». I suoi consiglieri gli dicevano che poteva salvarsi soltanto attaccando il presidente: questo non l'avrebbe fatto, ma avrebbe comunque dovuto «parlar chiaro contro la guerra. Sta trascinando il paese a fondo, e insieme ci trascina anche i democratici». Citò parecchi altri senatori che riferivano di avere la stessa situazione nei loro stati. La cosa fu confermata dal comitato democratico dello Stato della California, con un telegramma al presidente firmato da 300 suoi membri i quali affermavano che, a loro giudizio, «L'unica azione capace di sventare fortissime perdite del Partito democratico in questo Stato nel 1968 è uno sforzo decisivo e immediato per giungere a una soluzione non militare della guerra del Vietnam». I sondaggi mostravano il presidente in minoranza rispetto a tutti i sei potenziali contendenti repubblicani alle vicine elezioni. Un segnale ancora più pesante fu la trasmissione del 27 febbraio di Walter Cronkite, il massimo commentatore televisivo americano, di ritorno dalla «terra bruciata, distrutta e stremata» ancora fumante per l'offensiva del Tet. Cronkite descrisse i nuovi rifugiati, stimati intorno ai 470.000, che vivevano in uno «squallore incredibile» in baracche e capannoni, che si venivano ad aggiungere agli 800.000 già ufficialmente registrati come rifugiati. Sul fronte politico, disse, «L'esperienza del passato non offre nessuna garanzia che il governo vietnamita possa far fronte ai suoi problemi». Disse che l'offensiva del Tet imponeva quella comprensione della situazione che «avremmo dovuto avere fin dall'inizio», che i negoziati dovevano esserne espressione fedele e «non l'imposizione di condizioni di pace. Poiché ora appare più sicuro che mai che la sanguinosa esperienza del Vietnam finirà in una situazione di stallo», l'unica «maniera razionale per uscirne» era di negoziare la nostra uscita dalla scena ma «non», ammonì nuovamente, «come vincitori». Lo «zio» della nazione aveva pronunciato il suo giudizio e «l'onda

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d'urto» disse George Christian, addetto stampa del presidente «si ripercosse attraverso tutto il governo» fino al vertice. «Se ho perso Walter,» commentò il presidente «ho perso la classe media dell'America». Una settimana dopo il senatore Fulbright annunciò che la nuova inchiesta del Senato sulla risoluzione del golfo del Tonchino aveva mostrato che essa era stata ottenuta con una «presentazione travisata dei fatti» e che pertanto era «nulla e illegale». Alla stampa, provocando la prevista levata di scudi, giunse notizia che il presidente stava esaminando una richiesta di 200.000 uomini da parte di Westmoreland e che era d'accordo con i Joint Chiefs per la chiamata di 50.000 riservisti come copertura strategica. Nel suo malcontento per la guerra il pubblico, se i commenti della stampa ne davano un'immagine corretta, era più disposto dell'amministrazione a lasciar perdere in Asia sudorientale e disposto anche ad ammettere, secondo «Time», «che la vittoria in Vietnam, o anche un accordo favorevole, può essere semplicemente al di là della portata della più grande potenza del mondo». E questo pensiero segnò un rito di transizione nell'èra del Vietnam. Emergendo senza troppa energia dalla passività, la comm1ss1one senatoriale per gli affari esteri indisse nuove udienze: Fulbright, nel suo discorso di apertura, dichiarò che il paese stava assistendo a una «ribellione spirituale» tra la sua gioventù contro «ciò che essa considera un tradimento di un tradizionale valore americano». Con l'appoggio di altri senatori, Fulbright contestò l'autorità del presidente di «allargare la guerra senza il consenso del Congresso». Membri della commissione informarono in privato Clifford e Whecler che «non potevamo, semplicemente, appoggiare un forte aumento delle nostre truppe in Vietnam - e se non l'appoggiavamo noi, chi l'avrebbe fatto?». Chiamato a deporre alle udienze, Rusk sostenne obiettivi rimasti immutati dai tempi di Dullcs, ma ammise che l'amministrazione stava riesaminando la politica vietnamita «dalla a alla zeta» e valutando possibili alternative. Il giorno dopo, alle primarie del New Hampshire, il senatore McCarthy conquistò uno sbalorditivo 42 per cento dei voti. Seguì qualcosa di peggio. Robert Kennedy, pronto a riconoscere la bontà di qualcosa dopo che altri l'avevano provata, annunciò la sua candidatura. Il nemico mortale (agli occhi di Johnson) era sceso in campo e, data la popolarità dei Kennedy, costituiva una minaccia politica più reale del senatore McCarthy. Con i due che battevano il paese come

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candidati a favore della pace Johnson, ora, era Goldwater, senza averne le convinzioni ferme e recise. Aveva davanti a sé una campagna elettorale che avrebbe lacerato a fondo il Partito democratico e nella quale egli, il presidente in carica, sarebbe stato permanentemente sulla difensiva, dovendo giustificare una politica di guerra che non poteva vantare un briciolo di successo. Là dove nulla - nonjason, non la defezione di McNamara, non la mancanza di risultati deila strategia del logoramento, non il Tet- lo aveva indotto al ripensamento, e tutto era servito soltanto ad accentuare la «rigidità conoscitiva», fece breccia la prospettiva politica. Non scosse la sua decisione nei confronti della guerra, troppo irrigidita ormai perché la si potesse cambiare, ma sollevò la prospettiva umiliante di una sconfitta interna. Contemporaneamente all'annuncio di Kennedy, Dean Acheson, al qualcjohnson dopo il Tet aveva chiesto privatamente un'analisi dello sforzo bellico, presentò le sue conclusioni. Dopo aver rifiutato qualsiasi «informazione preconfezionata» e aver consultato fonti di sua fiducia presso il dipartimento di Stato, la CIA e i Joint Chiefs, disse a Johnson che i militari inseguivano un obiettivo irraggiungibile, che non potevamo vincere senza un impegno illimitato di forze - esattamente come aveva affermato il gruppo di lavoro interdipartimentale nel 1964 -, che i discorsi di Johnson erano così lontani dalla realtà che l'opinione pubblica non gli credeva più, e che il paese non sosteneva più la guerra. Questo era il giudizio di qualcuno chejohnson non poteva mettere sotto i piedi né ignorare, e che anzi rispettava; ma anche così non era disposto a sentirsi dire che sbagliava. La stessa settimana pronunciò un discorso bellicoso alla National Farmers Union, in cui, picchiando il pugno sul leggio e puntando l'indice verso l'uditorio, chiese uno «sforzo nazionale totale» per vincere la guerra e con essa la pace. Non avrebbe cambiato, affermò, la sua politica in Vietnam in seguito ad alcuni successi militari comunisti e inveì contro i critici, pronti a «farci abbassare la coda e violare i nostri impegni». L'osservazione era l'ultima, irosa eco del voto di non essere il primo presidente che perdeva una guerra, e non fu apprezzata. James Rowe, amico e consigliere di lunga data del presidente, gli riferì che dopo il discorso erano arrivate telefonate di gente «infuriata» perché aveva messo in dubbio il suo patriottismo e sorda alla sua oratoria sul tema «vincere la guerra». «Il fatto è» fu la spietata conclusione di Rowe «che a nessuno oggi interessa vincere la guerra. Tutti vogliono uscirne e l'unica questione è: come.» Tre giorni dopo, Johnson improvvisamente

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annunciò il richiamo di Westmoreland e convocò in patria, per consultazioni con i Joint Chiefs, il suo vice, generale Creighton Abrams. Nel corso delle consultazioni, si giunse a una decisione contraria all'invio di altri 200.000 uomini, ma senza un definitivo mutamento di linea politica. Il prezzo dei Joint Chiefs fu l'assenso di Johnson alla chiamata di 60.000 uomini come riserva strategica. Per convincere una volta per tutte il presidente del punto morto in cui si era in Vietnam, Clifford propose una conferenza di statisti non più in servizio attivo per avere il loro verdetto. I «saggi», come vennero poi soprannominati, includevano tre eminenti figure militari, i generali Ridgway, Omar Bradley e Maxwell Taylor; l'ex segretario di Stato Acheson; l'ex segretario al Tesoro Douglas Dillon; l'ex ambasciatore Lodge; John McCloy, già alto commissario in Germania; Arthur Dean, negoziatore dell'armistizio coreano; Robert Murphy, un veterano della diplomazia; George Ball; Cyrus Vance; Arthur Goldberg, e il suo successore alla Corte suprema, il giudice Abe Fortas, amico intimo dijohnson. Erano uomini dei centri di potere collegati della magistratura, della finanza e del governo: non dissidenti o peaceniks, come venivano chiamati i giovani pacifisti, o radicali capelloni, ma gente interessata alla difesa degli interessi costituiti del sistema e con contatti nel mondo esterno assai più ampi di quanti ne avesse a disposizione l'isolato inquilino della Casa Bianca. Le loro discussioni rivolsero seria attenzione al crescente danno economico causato agli Stati Uniti e all'inasprirsi delle reazioni dell'opinione pubblica. Anche se alcuni continuarono a sostenere i bombardamenti, i più erano contrari; la maggioranza convenne che l'insistenza sulla vittoria militare aveva intrappolato gli Stati Uniti in una posizione che poteva soltanto peggiorare, cd era incompatibile con l'interesse nazionale. Ridgway disse che se l'ipotesi che era possibile creare un gruppo dirigente vietnamita era valida ci si doveva arrivare, con l'aiuto americano, entro due anni, e che a Saigon si poteva notificare questa scadenza, dopo la quale: «Cominceremo una progressiva riduzione delle nostre forze». La conclusione presentata al presidente, anche se non fondata su un solido consenso, fu che un cambiamento di linea politica era inevitabile; il tacito consiglio era di procedere al negoziato e al disimpegno. Un discorso televisivo a livello nazionale del presidente per spiegare il Tet era previsto per il 31 marzo. Incontrandosi con alcuni degli «uomini nel mondo dei sogni» - Rusk, Rostow e William Bundy - e con l'estensore dei discorsi del presidente, Hcnry Macpherson, che condivideva la sua delusione, ClifTord insistette che il discorso doveva

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segnare un netto distacco dalla linea politica precedente. Il testo approvato fino a quel momento sarebbe stato un «disastro». Quello che i consiglieri ancora non capivano, disse loro, era che tra la gente che contava «l'appoggio aveva subito un calo tremendo, forse in reazione al Tet, forse per la sensazione che siamo in un pantano senza speranza. L'idea di cacciarci dentro ancora di più sembra una pazzia». I gruppi di maggior peso nella vita nazionale, proseguì inesorabilmente, «la comunità degli affari, la stampa, le chiese, gruppi professionali, rettori di università, studenti e la maggior parte degli intellettuali si sono schierati contro la guerra». A uso e consumo del pubblico, il discorso venne rielaborato, incentrandolo su una seria offerta di pace negoziata e di una sospensione unilaterale dei bombardamenti. Ma l'intenzione che lo sottendeva restò immutata. I militari avevano assicurato a Johnson che la stagione delle piogge avrebbe imposto operazioni ridotte e che la pausa dei bombardamenti non sarebbe quindi costata nulla. Inoltre gli uomini della Casa Bianca e ijoint Chiefs ritenevano che un'offerta di trattative di pace non avrebbe impedito di perseguire l'obiettivo con la forza delle armi perché Hanoi l'avrebbe sicuramente respinta. Espressero chiaramente il loro pensiero in un telegramma significativo inviato agli ambasciatori americani delle nazioni della SEATO il giorno prima del discorso per avvisarli della nuova mossa. Agli ambasciatori venne data istruzione di «Far chiaramente capire», nell'informare i rispettivi governi ospitanti, «che con ogni probabilità Hanoi avrebbe respinto il progetto e [di] riservarci poi, dopo un breve periodo, piena libertà di azione». Chiaramente, Johnson e i suoi consiglieri non si proponevano nessun cambiamento nella condotta della guerra; il problema era l'opinione pubblica interna nel contesto delle incombenti elezioni. Nello stesso spirito furono preavvisati i comandanti del CINCPAC e a Saigon. Tra i fattori «pertinenti alla decisione del presidente», li informò il generale Wheeler, c'era il fatto che dopo il Tet l'appoggio dell'opinione pubblica e del Congresso era «diminuito a ritmo accelerato» e che se questa tendenza continuava «l'appoggio popolare ai nostri obiettivi in Asia sudorientale sarà troppo fragile per sostenere l'impresa». Ma concludeva con la speranza che la decisione del presidente di offrire una sospensione dei bombardamenti «farà rientrare la crescita del dissenso». Quando fu pronunciata, l'allocuzione di Johnson suonò nobile e generosa. «Siamo pronti a muovere immediatamente verso una pace frutto di negoziati. Così questa sera, nella speranza che questo gesto contluca rapidamente alla trattativa, compio il primo passo per

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invertire l'escalation della guerra [ ... ] e lo faccio unilateralmente e con scadenza immediata». Agli aerei e ai mezzi navali era stato ordinato di sospendere gli attacchi al Vietnam del Nord al di sopra del 20° parallelo, limitandoli alla sola area critica di battaglia della fascia smilitarizzata «dove la continua concentrazione di forze avversarie minaccia direttamente le posizioni avanzate alleate». L'area sottratta ai bombardamenti comprendeva il 90 per cento della popolazione del Nord con le principali zone abitate e le principali aree di produzione alimentare. I bombardamenti potevano essere completamente interrotti «se la nostra moderazione trova eguale moderazione ad Hanoi». Johnson si appellò alla Gran Bretagna e all'Unione Sovietica, quali copresidenti della conferenza di Ginevra, perché contribuissero a fare della «inversione unilaterale dell'escalation» il primo passo verso una «pace genuina in Asia» e al presidente Ho Chi Minh perché «rispondesse in maniera positiva e favorevole». Senza far menzione di un previsto rifiuto di Hanoi o di una susseguente ripresa delle ostilità da parte degli Stati Uniti,Johnson si disse ansioso di una pace «basata sugli accordi di Ginevra del 1954» che permettesse al Vietnam del Sud di «esser libero da ogni dominazione o interferenza esterna, nostra o di chiunque altro». Non ci fu neppure alcun accenno al richiesto aumento di 200.000 uomini; la possibilità di una futura escalation fu lasciata aperta. Dopo una commovente perorazione sulla discordia e l'unità, Johnson giunse all'annuncio inaspettato che elettrizzò la nazione e buona parte del mondo: non avrebbe «permesso che la presidenza venisse coinvolta nelle divisioni di parte che stanno emergendo in questa annata politica» e di conseguenza, disse, «non cercherò e non accetterò la candidatura del mio partito per un altro mandato come vostro presidente». Era un'abdicazione, non come ammissione che la guerra era a un punto morto, o come rinuncia della scelta bellica ma come riconoscimento di una realtà politica. Johnson era un animale politico fino al midollo. La sua impopolarità era ormai palese, e trascinava con sé nella rovina il Partito democratico. Quale presidente in caricajohnson non era preparato alla necessità di battersi per una nuova candidatura del suo partito e, con ogni probabilità, a perderla; non poteva subire una simile umiliazione. Le primarie del Wisconsin, uno Stato che risuonava dei clamori della protesta studentesca, erano previste per il 2 aprile, due giorni dopo il discorso, e gli operatori sul campo avevano telefonato la piatta previsione che Johnson sarebbe arrivato terzo, dopo Eugene McCarthy e Robert Kennedy. E così, con virtuose parole

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sulla «discordia che c'è fra noi questa sera» e sul suo dovere di chiudere le ferite, sanare la nostra storia, tener fede all'impegno americano e ad altre commendevoli opere riparatorie, fece con gesto grandioso e notevole tempismo la sua uscita dalla competizione elettorale. Tre giorni dopo, il 3 aprile 1968, Hanoi sorprese i suoi avversari annunciando la sua disponibilità a entrare in contatto con rappresentanti degli Stati Uniti al fine di fissare la «cessazione incondizionata» dei bombardamenti e di tutti gli altri atti di guerra «in modo che le trattative possano cominciare». La follia, cominciata 22 anni addietro quando le navi americane avevano riportato i francesi in Indocina, era ormai completata, ma non era finita. La sua conclusione avrebbe richiesto altri cinque anni di sforzi dell'America per disimpegnarsi senza perdere prestigio. Per povertà di motivazioni, vana perseveranza e danni autoinfiitti, la belligeranza iniziata e perseguita dall'Amministrazione Johnson fu una follia di tipo insolito in quanto non si può assolutamente dire che ne sia sortito qualcosa di buono; i suoi risultati furono nefasti, eccetto uno - aver destato la «pubblica ira». Troppi americani avevano finito col pensare che la guerra era sbagliata, assolutamente sproporzionata rispetto all'interesse nazionale e, oltre tutto, priva di successo. I populisti amano parlare della «saggezza del popolo»: il popolo americano più che saggio era stufo, e questo in certi casi è una forma di saggezza. La perdita dell'appoggio popolare significò la rovina di un esecutivo il quale credeva di poter condurre una guerra limitata senza coinvolgere la volontà nazionale di una democrazia.

6 USCITA FINALE: 1969-1973

L'uso dell'iprite nella prima guerra mondiale dovette venir abbandonato perché il gas aveva la capricciosa tendenza a rifluire su chi l'usava. La guerra in Vietnam nel suo periodo finale ricadde addosso agli Stati Uniti approfondendo la disistima e la sfiducia nei confronti del governo e, inversamente, suscitando nel governo un'ostilità nei confronti del popolo che avrà serie conseguenze. Anche se la lezione di Johnson era chiara, il suo successore ne ereditò la follia e ne rimase schiavo. La nuova amministrazione, non essendo neppur essa in grado di costringere il nemico a scendere a patti accettabili per gli Stati Uniti, non poté trovare, come la precedente, altra strada che non fosse il ricorso alla coercizione militare, con il risultato che una guerra già respinta da una larga parte del popolo americano venne prolungata, con tutto il suo potenziale di danni all'interno del paese, per tutto un altro mandato presidenziale. L'ultimo anno della presidenzajohnson, nonostante la sospensione dei bombardamenti e l'assenso di Hanoi a trattare, n·on aveva portato la guerra più vicina alla fine. Gli incontri furono trattative sul luogo dove si dovevano svolgere le trattative, sul protocollo, sulla partecipazione del Vietnam del Sud e del FLN, sulla distribuzione dei posti intorno al tavolo dei negoziati e sulla forma stessa del tavolo. Fermi sulla loro richiesta originaria di una «cessazione incondizionata» dei bombardamenti come precondizione dei negoziati, i nordvietnamiti non si mostrarono disposti a passare dalla procedura alla sostanza. Gli Stati Uniti, pur mantenendo il blocco dei bombardamenti a nord del 20° parallelo, triplicarono le incursioni aeree contro le strade d'infiltrazione a sud di questa linea e proseguirono le missioni di «ricerca e distruzione» al massimo livello di pressione, nel tentativo di migliorare la posizione di Saigon in vista dei negoziati. Duecento americani alla settimana vennero uccisi in questi combattimenti, e il numero degli americani caduti in azione nel 1968 raggiunse il totale di 14.000.

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L'America quell'anno conobbe un'esplosione di violenza e di odio· ci furono gli assassinii di Robert Kennedy e di Martin Luther King, i disordini che seguirono la morte di King, l'anarchia e il vandalismo degli studenti radicali, la reazione incattivita e il selvaggio comportamento della polizia alla convenzione democratica di Chicago. I servizi interni d'informazione incrementarono le loro attività contro possibili sovversivi, aprendo la corrispondenza privata, impiegando agenti provocatori, compilando dossier su cittadini che a motivo di qualche loro associazione sospetta potevano venir considerati un pericolo per lo Stato. Nella speranza di far progredire le trattative, i delegati americani l'ambasciatore Harriman e Cyrus Vance-sollecitarono il presidente a proclamare una cessazione totale dei bombardamenti. Johnson rifiutò se non c'era reciprocità da parte di Hanoi con una riduzione delle attività militari, cosa che Hanoi rifiutò di fare se prima non cessavano i bombardamenti. Alla vigilia della scadenza elettorale, dietro disperate suppliche del suo partito, Johnson proclamò il 1° novembre una cessazione totale dei bombardamenti, ma ogni progresso venne frustrato dal presidente sudvietnamita, Thieu, il quale, aspettandosi maggiore appoggio da una vittoria repubblicana negli Stati Uniti, si impuntò, rifiutando di partecipare alle trattative. Quando finalmente, nel gennaio del 1969, iniziarono negoziati sostanziali, al potere c'era un nuovo gruppo capeggiato dal presidente Richard Nixon e dal suo consigliere per gli affari esteri, Henry Kissinger. Con parole che ricordavano l'impegno elettorale di Eisenhower di «andare in Corea» per mettere fine a una guerra impopolare, Nixon, nella sua campagna elettorale, così assicurò agli elettori: «Metteremo fine a questa [guerra] e vinceremo la pace». Non disse come, avanzando a giustificazione della sua reticenza l'intenzione di non dire nulla che potesse turbare i negoziati di Johnson a Parigi e di non «prendere nessuna posizione che mi possa vincolare in un successivo momento». Ma ribattendo sul tema «Far finire la guerra e vincere la pace» riuscì a dare l'impressione di avere un piano. Guardava, così pareva, le cose con realismo. «Se la guerra va ancora avanti sei mesi dopo che sono diventato presidente», disse in privato a un giornalista «sarà la mia guerra», e affermò di essere deciso a non «far la fine di LBJ Uohnson], rintanato nella Casa Bianca, con la paura di farmi vedere per strada. Fermerò la guerra - alla svelta». Se questa risolutezza era genuina, era indice di buonsenso, qualità che ha grosse difficoltà a sopravvivere in un'alta carica. Non appena Nixon fu insediato alla presidenza, il promesso impegno a far finire la guerra

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venne rivoltato come un guanto e divenne l'impegno a prolungarla. Il nuovo presidente, si scoprì, era come il suo predecessore poco disposto ad accettare il mancato raggiungimento degli scopi della guerra e come lui incaponito nella convinzione che un accresciuto impiego di forze poteva ccstringere il nemico a venire a patti. Avendo ereditato una brutta situazione che non poteva portare loro altro che guai, Nixon e Kissinger, scelto dal presidente a dirigere il National Security Council, avrebbero fatto bene a riflettere sul problema come se alla parete fosse appeso un cartello che diceva: «Non rifare lo stesso errore». Questo avrebbe potuto suggerire loro uno sguardo al passato, a Dien Bien Phu; una chiara valutazione della posta in gioco per il nemico e della sua volontà e capacità di battersi per essa; e un'attenta analisi del regolare fallimento di tutti i tentativi di negoziato di Johnson. Una successiva riflessione avrebbe potuto condurre alla conclusione che continuare la guerra al semplice scopo di consolidare un regime libero nel Vietnam del Sud era cosa vana e non essenziale alla sicurezza americana, e che cercare di ottenere col negoziato un risultato che il nemico era deciso a non permettere era una perdita di tempo - a meno che si volesse impiegare una forza illimitata. Un negoziato condotto sotto pressione militare avrebbe anche potuto produrre il risultato voluto ma, come aveva già rilevato Reischauer nel 1967, non offriva nessuna garanzia che dieci o vent'anni dopo «non avremmo il Vietnam del Sud sottoposto più o meno allo stesso regime politico che ci sarebbe stato se non fossimo mai intervenuti». La scelta logica era di eliminare le perdite, rinunciare ad assicurarsi la presenza di un Vietnam del Sud funzionante e non comunista e di venircene via senza negoziare con il nemico niente altro che un accordo su un'unica condizione: la lib~razione dei prigionieri di guerra americani in cambio di una scadenza garantita per il ritiro americano. Questa opzione venne di fatto presentata come la meno militante in un ventaglio di varie altre opzioni proposte, su richiesta dell'amministrazione, da specialisti della Rand Corporation; venne depennata dalla lista da Kissinger e dai suoi consiglieri militari prima che le proposte venissero sottoposte al presidente, ma non l'avrebbe interessato, anche se l'avesse vista. La guerra, partita con un obiettivo immaginario, la sicurezza degli Stati Uniti, era stata ora trasformata in una prova del prestigio e della reputazione degli Stati Uniti e personalmente del presidente, come questi era necessariamente portato a vederla. Nemmeno Nixon aveva intenzione di presiedere a una sconfitta. Aveva un piano, e questo piano non implicava un radicale

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cambiamento della linea dijohnson - fino a un certo punto. L'intento era di far rientrare la protesta mettendo fine alla coscrizione e riportando in patria le truppe americane. Questo non significava rinunciare agli obiettivi della guerra. La guerra aerea in Vietnam sarebbe stata intensificata e, se necessario, ulteriormente estesa alle linee di rifornimento e alle basi del Nord in Cambogia. Per compensare il ritiro delle truppe americane, un programma consistentemente irrobustito di aiuti, armamento, addestramento e indottrinamento avrebbe messo le forze sudvietnamite in grado di condurre in proprio la guerra, sempre con l'appoggio aereo americano. Noto come «vietnamizzazione», questo tentativo giungeva forse troppo tardi in quanto si era sempre supposto che questa fosse la «loro» guerra. La teoria era che fiumi di materiale avrebbero in qualche modo realizzato quello che non si era riusciti a raggiungere negli ultimi 25 anni - la creazione di una forza combattente motivata, capace di salvaguardare uno Stato non comunista, funzionante, per lo meno per un «intervallo accetta bile». Oltre a placare gli americani, il ritiro unilaterale delle truppe aveva lo scopo di dimostrare ad Hanoi «che eravamo seri nella nostra ricerca di una soluzione diplomatica» e di incoraggiare quindi il nemico a discutere condizioni accettabili. Se però i nordvietnamiti si fossero rivelati intrattabili, il livello punitivo dei bombardamenti sarebbe stato alzato fino a quando, persuasi dell'impossibilità di una vittoria, essi non fossero stati costretti a cedere o a lasciare che la guerra semplicemente morisse da sé. Come ulteriore strumento di convinzione si fece capire ad Hanoi, tramite l'Unione Sovietica, che erano in vista il blocco naval_e, il minamento dei porti e azioni ancora più energiche contro linee di rifornimento e santuari in Cambogia e Laos. A titolo dimostrativo, si ebbe nel marzo del 1969 il primo bombardamento segreto della Cambogia, dopo soli due mesi dall'insediamento di Nixon: un secondo bombardamento seguì ad aprile, e a maggio le incursioni divennero regolari e frequenti. La «vietnamizzazione» in sostanza consisteva nel potenziare numericamente e armare l'esercito sudvietnamita, l'ARVN. Visto che l'armamento, l'addestramento e l'indottrinamento sotto auspici americani erano andati avanti per quindici anni senza risultati spettacolari, aspettarsi che gli stessi metodi avrebbero ora messo in grado l' ARVN di assumere con successo il peso della guerra significava meritarsi il titolo di ottusi. Ricordando la situazione del l 970, un sergente americano assegnato a un'unità sudvietnamita disse: «Avevamo in continuazione un 50 per cento di gente assente senza

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permesso e la maggior parte dei comandanti di compagnia e di plotone erano anche loro continuamente via». I soldati non avevano nessuno stimolo a combattere sotto ufficiali «che passavano il tempo a rubare e a fare traffico di droga». La più grande follia fu quella di trasformare la condotta della guerra solo a metà, ritirando le truppe americane e mantenendo allo stesso tempo una strategia di crescente pressione punitiva dall'aria (il nome era «rinforzi negativi»). Indipendentemente dalle sue fin_alità di politica interna, il disimpegno dai combattimenti terrestri avrebbe avuto senso solo se si fosse contemporaneamente rinunciato all'obiettivo che con essi si intendeva raggiungere. Il ritiro delle truppe combattenti è un metodo insolito per vincere una guerra, o anche solo per aprirsi a forza la strada a una soluzione concordata favorevole. Essendo stato iniziato, non poteva essere fermato facilmente e avrebbe, come l'escalation, raggiunto una velocità propria fino a diventare irreversibile. Agli occhi dei militari, comprensibilmente amareggiati, esso precludeva ogni possibilità di successo e rendeva anche improbabile (tanta era la loro sfiducia nella vietnamizzazione) un accordo capace di reggere a lungo. Si era reso necessario perché l'idea di poter combattere la guerra senza suscitare la pubblica ira si era rivelata illusoria. Nixon e Kissinger, nonostante tutti i loro calcoli ostinati, erano chiaramente vittime di un'altra illusione. A quanto pare pensavano che il ritiro americano dai combattimenti terrestri potesse venir eseguito senza indebolire il già incerto morale dei sudvietnamiti e rafforzare la determinazione del Nord. Cosa che invece puntualmente avvenne. La riduzione dello sforzo non segnala al nemico intenzioni minacciose e decise, ma caso mai il contrario, come nel caso dell'evacuazione di Philadelphia da parte del generale Howe. I coloni vi scorsero l'avvio di una generale tendenza a sloggiare e capirono che non c'era bisogno di scendere a patti con la commissione di pace di Carlisle. Hanoi ricevette lo stesso messaggio. Quando nel giugno del 1969 Nixon annunciò il programma del ritiro e ad agosto il primo contingente di 25.000 americani si imbarcò per ritornare in patria, i nordvietnamiti seppero che la contesa sarebbe terminata a loro favore. Dovevano semplicemente tenere duro, a qualsiasi costo. Come se ormai lo sapesse, Ho Chi Minh, dopo una lotta di mezzo secolo, morì a settembre. Quanto all'America, il piano di Nixon non ignorava il fatto che il dissenso era mosso da qualcosa di più che l'angoscia per le perdite; che molti sentivano qualcosa di sbagliato nella guerra, violazione dell'idea

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che si facevano del proprio paese; che anche se la protesta si sarebbe per un certo tempo calmata con il ritorno delle truppe, il sentimento di fondo era un corollario della guerra in quanto tale e si sarebbe fatto più forte con il proseguire della belligeranza. Nella sua ferma convinzione che gli americani, come i francesi, avrebbero perso la guerra sul fronte interno, Hanoi rimase intransigente. Incolleriti e frustrati, gli Stati Uniti scelsero la strada dei «rinforzi negativi». Si fecero piani per un «colpo spietato», o «colpo decisivo» o «opzione di novembre», come venne variamente chiamato. Si sarebbe stabilito il blocco navale, si sarebbero minati porti e coste, distrutte dighe, lanciati bombardamenti a tappeto su Hanoi. «Mi rifiuto di credere che una piccola potenza di quart'ordine come il Vietnam del Nord non abbia un punto di rottura» disse Kissinger mentre si approntavano i piani. Aveva ragione nel senso che un punto di rottura c'è sempre; si tratta di sapere quanta forza occorre impiegare per verificarlo. Di fronte all'obiezione degli analisti civili i quali sostenevano che le misure proposte non avrebbero ridotto in misura significativa la capacità dei nordvietnamiti di combattere nel Sud, e di fronte anche alla paura di svegliare quella che Kissinger chiamava la «bestia dormiente della pubblica protesta», la «opzione di novembre» venne cancellata. Si proseguì con una vietnamizzazione frenetica raddoppiando gli effettivi dell'esercito sudvietnamita e saturandolo di armi, navi, aerei, elicotteri, più di un milione di fucili a ripetizione M-16, 40.000 lanciagranate, 2000 mortai e pezzi d'artiglieria pesante. Diecimila ufficiali, piloti, meccanici e analisti dei servizi d'informazione sudvietnamiti vennero inviati all'estero per specializzarsi in metodi e tecniche avanzati. Ma era tardi. Si arrivò per un certo tempo a controllare meglio la situazione, principalmente perché i Viet Cong non si erano mai ripresi dalle perdite dell'offensiva del Tet, ma con la prevista partenza di 150.000 americani nel 1970 e di altri ancora in seguito la faccenda aveva tutta l'apparenza di una corsa tra la vietnamizzazione e i ritiri di truppe. La protesta, tutt'altro che dormiente, non si acquietò. Una «giornata di moratoria per il Vietnam» incentrata sulla richiesta di una «pace immediata» fu contrassegnata, nell'ottobre del 1969, da dimostrazioni in ogni parte del paese, con l 00'.000 persone riunite a Boston ad ascoltare il senatore Edward Kennedy chiedere il ritiro di tutte le forze di terra entro un anno e di tutte le unità aeree e di appoggio entro tre anni, per la fine del 1972. Un cartello portato da un dimostrante a San Francisco diceva: «Meglio perdere la guerra in Vietnam, e

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riportare i ragazzi a casa». In una studiata replica alla «moratoria», il presidente si appellò in un discorso a livello nazionale alla «maggioranza silenziosa» che, disse, lo sosteneva, e promise di completare il ritiro secondo scadenze precise, ancorché non specificate, e di «far finire la guerra in un modo che ci permetta di vincere la pace». Se c'era una maggioranza silenziosa, era un silenzio dovuto per lo più all'indifferenza, mentre la protesta era attiva e rumorosa, e sfortunatamente anche un punto d'aggregazione di gente che Nixon, in una incauta anche se giustificata reazione ad attentati nelle università, definì «vagabondi». Una seconda giornata di moratoria per il Vietnam, a novembre, mobilitò 250.000 dimostranti a Washington. Osservandoli da un balcone il procuratore generale- John Mitchell, già socio dell'ufficio legale di Nixon, pensò che «sembrava la rivoluzione russa». In questo commento il movimento contro la guerra assumeva agli occhi del governo i connotati non di una legittima protesta di cittadini contro una politica che moltissimi ormai volevano vedere abbandonata dal loro paese, ma di una manovra perfida, di una minaccia di sovversione. Fu questo giudizio a produrre la «lista dei nem1c1». Poiché il dissenso veniva espresso dalla stampa ed era condiviso da personaggi eminenti dell'establishmenl, Nixon lo vide come una cospirazione contro la sua esistenza politica da parte dei liberals che, ne era convinto, avevano «cercato di distruggerlo dal tempo del caso Alger Hiss». •• Kissinger; seccato e spesso incollerito, come attestano le sue memorie, considerava la protesta un'interferenza nella gestione degli affari esteri, un necessario inconveniente della democrazia che andava sopportato senza però mai permettergli di influenzare un serio uomo di Stato. Il dissenso non gli diceva nulla, neanche quando se ne fece interprete una delegazione di colleghi del corpo accademico di Harvard. E non diceva nulla al presidente, nulla che a suo giudizio valesse la pena di ascoltare sulle masse dei cittadini a nome dei quali egli agiva. Nessuno dei due sentì qualcosa di valido nel dissenso. Come il clamore a favore della Riforma che assalì le orecchie dei papi del Rinascimento, anch'esso non rese i governanti avvertiti della necessità, nel loro stesso interesse, di una risposta positiva.

• La carica equivale a quella di ministro della Giustizia nel governo federale [N.d.T.]. •• Il riferimento è alla tormentata e tragica vicenda di A. Hiss, una delle vittime del maccartismo. Nixon vi svolse un ruolo assai discusso, e certamente uno dei più criticati della sua carriera [N.d.T.].

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I negoziati, sia negli incontri segreti tra Kissinger e l'emissario di Hanoi, Le Due Tho, sia nelle trattative a quattro a Parigi, non riuscivano a registrare nessun progresso perché ognuna delle due parti insisteva su condizioni inaccettabili all'altra. Il Vietnam del Nord chiedeva la cacciata del Governo Thieu-Ky e la sua sostituzione con una «coalizione» nominale, che doveva includere il FLN. Ma questo significava abbandonare il cliente, e la richiesta era quindi ovviamente respinta dagli Stati Uniti, i quali a loro volta chiedevano il ritiro di tutte le forze nordvietnamite dal Sud. E a questo i nordvietnamiti opponevano un rifiuto adamantino, in quanto violava il loro diritto di essere presenti in qualsiasi parte di quello che non avevano mai cessato di considerare un unico paese. Anche se il loro concetto era l'esatta replica dell'insistenza di Abraham Lincoln sull'indissolubilità dell'Unione, gli americani non vi diedero alcun credito; ritenevano, probabilmente, che Hanoi doveva essere costretta a cadere con la forza. «Far finire la guerra in un modo che ci permetta di vincere la pace», cioè mantenendo un Vietnam del Sud non comunista: questa idea era la palla al piede dei negoziati americani. Veniva identificata con la credibilità, chiamata ora «pace con onore» e propugnata senza sosta da Nixon e Kissinger. La «pace con onore» era diventata il «peso terribile» dell'America in Vietnam. «Dimostratemi che ciò per cui vi battete risponde a ragione,» aveva detto Burke «dimostratemi che risponde al buon senso, dimostratemi che è il mezzo per raggiungere qualche utile finalità, e io sarò lieto di concederle tutta la dignità che vorrete». Quella per cui gli Stati Uniti si stavano battendo era una «impresa disperata», comejean Sainteny, con la sua lunga esperienza francese in Vietnam, disse a Kissinger. Se Kissinger avesse letto più Burke e di meno Talleyrand, la sua politica avrebbe forse potuto seguire un corso diverso. Le alternative erano o di martellare il Vietnam del Nord fino alla sconfitta con una forza spinta a livelli che gli Stati Uniti erano restii a raggiungere, oppure di rinunciare alle condizioni americane lasciando che il Vietnam del Sud, quando fosse stato sufficientemente rafforzato dalla vietnamizzazione, si difendesse da sé e, come era stato prefigurato dallo stesso Kissinger, «mettere fine al nostro intervento senza accordi con Hanoi». L'ostacolo maggiore erano i prigionieri di guerra americani, che Hanoi rifiutava di rilasciare se non si accettavano le sue condizioni, ma la promessa di una scadenza precisa per il ritiro di tutte le forze combattenti aeree e terrestri avrebbe procurato il loro rilascio. Questa alternativa, per il bene di una fine rapida della guerra e della salute della nazione americana, era fattibile e vi fu chi la sostenne. Fu

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respinta perché, si disse, poteva danneggiare la reputazione americana. Il fatto che chiudere con le perdite e tornare a occuparsi dei problemi e dei compiti specifici della nazione avrebbe avvantaggiato piuttosto che danneggiato la reputazione americana non venne calcolato quando si trattò di operare la scelta. Tra il martellamento violento e la rinuncia, Nixon e Kissingcr optarono per la via di mezzo, fin a quel momento sterile, di un impiego graduale della forza per convincere Hanoi che «la continuazione della guerra era meno piacevole di un accordo». Era un programma che circolava da anni. Esso prese ora la forma di bombardamenti intensificati diretti non contro il territorio del Vietnam del Nord ma contro le sue lince di rifornimento, basi e santuari in Cambogia. Le incursioni vennero sistematicamente camuffate nei rapporti militari per intricate ragioni attinenti alla neutralità della Cambogia, ma poiché si aveva a portata di mano la scusa che il nemico violava da parecchio tempo questa neutralità è più probabile che la segretezza avesse a che fare con la volontà di nascondere all'opinione pubblica americana l'allargamento della guerra. Considerati i sentimenti di opposizione alla guerra della stampa e di molti funzionari governativi, l'idea che le incursioni potessero essere tenute segrete fu una di quelle curiose illusioni che sono appannaggio di un'alta carica. Un corrispondente del «New York Times» al Pentagono scoprì le prove e riferì di questi attacchi aerei. La storia non suscitò particolare attenzione tra il pubblico, ma mise in moto il processo che farà della Cambogia la nemesi di Nixon. Furioso per quelle che riteneva fossero «fughe» di notizie sui bombardamenti segreti, Nixon fece intervenire l'FBI, che sotto la direzione di Kissinger installò il primo servizio d'ascolto per sorvegliare un membro dello stesso staff presidenziale, Morton Halpcrin, il quale aveva accesso a rapporti riservati. Una lunga sequenza che sarebbe finita con le prime dimissioni di un presidente nella storia della repubblica era cominciata. Le operazioni segrete di Nixon restarono tali, ma nell'aprile del 1970 si ebbe un'esplosione di furore quando le truppe americane insieme all'esercito sudvietnamita invasero la Cambogia. Allargare la guerra a un altro paese nominalmente neutrale quando da tutta l'America salivano richieste di ridurre, non di estendere la belligeranza fu- come l'incarico di ricondurre all'obbedienza gli israeliti affidato da Roboamo al sovrintendente ai lavori coatti - la scelta più provocatoria possibile in quelle circostanze. Fu una mossa perfettamente studiata per provocare un mare di guai al suo autore, il tipo di

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follia dalla quale i governi sembrano irresistibilmente attratti come se un fato malizioso li spingesse a far ridere gli dèi. Le ragioni militari dell'invasione erano apparentemente pressanti: prevenire una prevista offensiva dei nordvietnamiti mirante, si supponeva, a conquistare il controllo della Cambogia e a mettere il nemico in condizione di portare una seria minaccia al Vietnam del Sud nel corso del progressivo ritiro americano; dare respiro alla vietnamizzazione; tagliare una grossa linea di rifornimenti dal porto cambogiano di Sihanoukville e sostenere il nuovo regime amico di Phnom Penh che aveva cacciato il sinistrorso principe Sihanouk. Ma se era interesse di Nixon e dcli' America metter fine alla guerra, la saggezza, quale arte di governo, avrebbe potuto suggerire ragioni egualmente convincenti contro l'operazione. Nixon riteneva che il suo già annunciato programma di ritirare 150.000 uomini nel 1970 avrebbe eliminato ogni protesta; ma se «quei bastardi liberals» si fossero messi a piantar grane pensava anche che era meglio farsi attaccare come lupo che come pecora. In un combattivo discorso annunciò la campagna cambogiana come risposta all'«aggressione» nordvietnamita, con i consueti accenni al fatto che egli non era un presidente disposto a presiedere a una sconfitta. Uno degli obiettivi dell'invasione era, si disse, la distruzione di un presunto quartier generale del nemico, o «centro nevralgico», a cui veniva dato il nome di «Ufficio centrale del Vietnam del Sud» (COSVN). Tatticamente l'operazione riuscì a catturare notevoli quantità di armi nordvietnamite, a distruggere bunker e santuari, ad aggil!ngere 200 unità al «conto dei corpi» e a causare al nemico danni sufficienti a ritardare di un anno la pretesa offensiva, anche se il misterioso «centro nevralgico» non venne mai scoperto, nonostante l'imponente etichetta affibbiatagli. Il risultato globale fu negativo: un governo indebolito, più che mai bisognoso di protezione, a Phnom Penh, campi e villaggi devastati, un terzo della popolazione trasformata in rifugiati senzatetto, e i khmer rossi filocomunisti consistentemente rafforzati da nuove reclute. I nordvietnamiti tornarono ben presto a infestare vaste zone, ad armare e addestrare i ribelli e a- preparare il terreno per le tragiche sofferenze che avrebbero travolto un'altra nazione dell'Indocina. In America la reazione all'invasione fu esplosiva; la manovra di Nixon provocò l'ostilità degli opposti estremismi politici, infiammò i dibattiti, attizzò l'odio degli studenti per il governo e viceversa. Se i sondaggi d'opinione rivelavano spesso impennate di appoggio alle azioni più aggressive di Nixon, l'opposizione alla guerra era più numerosa e la stampa dichiaratamente ostile. Il «New York Times»

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definì le ragioni di Nixon per l'invasione «Allucinazione militare ancora una volta» e affermò che «Il tempo e l'amara esperienza hanno esaurito la credulità del popolo americano». La rivelazione pochi mesi prima del massacro di My Lai, nel quale soldati americani in un'esplosione di folle brutalità avevano ucciso oltre 200 abitanti disarmati di un villaggio, inclusi vecchi, donne e indifesi bambini in lacrime, aveva già inorridito il pubblico. Il trauma fu ancora più forte quando, a causa della Cambogia, americani uccisero altri americani. Il 4 maggio, alla Kent State University dell'Ohio, la Guardia nazionale, chiamata dal governatore a contenere quella che gli era apparsa una pericolosa violenza studentesca, aprì il fuoco sui dimostranti uccidendo quattro studenti. La fotografia della studentessa inginocchiata in ~traziata incredulità accanto al corpo di un compagno morto divenne più familiare di qualsiasi altra fotografia dalla scena della bandiera che veniva alzata su I wo Jima. Sì, la guerra era ricaduta addosso all'America. Dopo Kent State la protesta divampò. Scioperi studenteschi, marce, falò dilagarono in tutte le sedi universitarie. Una folla furente di quasi 100.000 persone si ammassò nel parco davanti alla Casa Bianca, dove stazionavano sessanta autobus carichi di poliziotti disposti in tondo come un cerchio di carri contro i pellirosse. Al Campidoglio veterani del Vietnam inscenarono un raduno in cui i partecipanti gettarono via, uno dopo l'altro, le loro medaglie. Al dipartimento di Stato 250 membri del personale firmarono un documento di obiezione all'allargamento della guerra. Tutto questo venne denunciato come un aiuto dato al nemico incoraggiandolo a tenere duro, il che era vero, e come antipatriottico, il che era anche vero perché la triste sua conseguenza fu la perdita di un prezioso sentimento da parte della gioventù, che irrideva al patriottismo. La protesta ebbe il suo risvolto di follia nell'idiozia retorica e nella licenza distruttiva, e questo indignò i benpensanti, non necessariamente perché erano falchi ma perché ritenevano azioni di questo genere un'offesa alla rispettabilità, alla legge e all'ordine. L'ostilità trovò la sua epitome nello scontro fisico, quando lavoratori edili coi loro caschi in testa attaccarono una marcia di protesta di studenti a Wall Street, pestandoli con tutto ciò di cui si potevano servire come arma. Raggiunse il culmine in ottobre a San José, in California, dove Nixon si era recato a parlare in occasione della campagna elettorale del 1970, per il parziale rinnovo della Camera e del Senato. Fu accolto da una folla in tumulto che urlava bestemmie e oscenità e che alla sua uscita dalla sala dove aveva parlato iniziò un lancio di uova e pietre,

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una delle quali lo sfiorò da v1cmo. Per la prima volta nella storia americana la folla assaliva un presidente. «Potevamo vedere l'odio nei loro volti[ ... ] sentire l'odio nelle loro voci» disse Nixon in una dichiarazione in cui denunciava i dimostranti come «violenti teppisti» che rappresentavano «il peggio dell'America». Le ondate di critica alla sua impresa cambogiana infuriarono il presidente ancor prima dell'incidente di San José e inasprirono il suo sempre desto senso di persecuzione. «Una mentalità d'assedio» pervadeva la Casa Bianca, secondo Charles Colson, membro dello staff presidenziale. «Ormai era "noi" contro "loro"». La guardia di palazzo, secondo un altro osservatore, «credeva seriamente nella possibilità concreta di una rivoluzione di sinistra». Il ricorso alla sorveglianza segreta dei «nemici», metodi occulti di disturbo e di spionaggio, violazioni di domicilio e perquisizioni, l'installazione di microfoni spia senza mandato divennero operazioni su larga scala. Un membro dello staff della Casa Bianca assegnato alla sorveglianza di gruppi terroristici radicali stilò un progetto che concedeva poteri illimitati alla polizia, compreso il diritto di perquisizione senza mandato, come strumento di difesa della legge. Firmato dal presidente, il progetto visse solo cinque giorni, dopo di che l'FBI, forse geloso delle proprie prerogative, ne consigliò l'abbandono. La ricerca della fonte della fuga di notizie sui bombardamenti segreti si allargò fino a raggiungere diciassette controlli, sempre con microfoni spia, su membri del National Security Council e diversi giornalisti. Come nel caso dell'inafferrabile «ufficio centrale del Vietnam del Sud», non si scoprì nulla; gli articoli risultarono il frutto di un normale lavoro giornalistico. Il diritto al dissenso è un punto fermo ineliminabile del sistema politico americano. La facilità con cui se ne tentò la soppressione per mano e a favore del capo dello Stato, e si intrapresero e tollerarono procedure illegali, preparò la strada al Watergate. Con la continua frustrazione in sede di negoziati e l'inizio di un ennesimo anno di guerra queste manovre vennero incrementate e portate all'eccesso in seguito alla pubblicazione dei Penlagon Papers nel giugno del 1971. Si trattava di una raccolta di documenti governativi, in gran parte originariamente riservati, autorizzata da McNamara nel tentativo di rintracciare le radici del coinvolgimento americano in Vietnam e sottratta da Daniel Ellsberg, ex funzionario del Pentagono diventato un ideologo dell'opposizione alla guerra, che la passò alla stampa e ad alcuni membri della Camera e del Senato. Anche se la raccolta non andava oltre il 1968, la sensibilità alla fuga di notizie del duo

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Nixon-Kissinger era estrema, specialmente ora che stavano lavorando in segreto per arrivare al ristabilimento delle relazioni con la Cina e a un incontro al vertice con Mosca e non volevano che Washington venisse considerata incapace di intrattenere rapporti confidenziali. Un gruppo di «idraulici» incaricato di individuare le «perdite» venne installato in un apposito ufficio, uno scantinato nei pressi della Casa Bianca, e «direttamente dall'ufficio ovale» (secondo una testimonianza successiva) giunse l'ordine di trovare qualcosa a carico di Ellsberg. Il risultato fu un'irruzione notturna nello studio dello psichiatra di Ellsberg, con lo scopo di incastrarlo come agente sovietico, un'impresa di dubbia utilità perché, ove fosse riuscita, avrebbe potuto tranquillamente bloccare il vertice con i russi, fortemente desiderato da Nixon. Fortunatamente per il loro datore di lavoro, gli «idraulici» vennero via a mani vuote: qualsiasi cosa avessero scoperto su Ellsberg non avrebbe mai potuto screditare quattordici volumi di documenti governativi fotocopiati. La follia del vertice stava chiaramente filtrando in basso. Anche qui, nell'assenza di ogni scrupolo nell'infrangere la legge, riappare la moralità dei papi del Rinascimento. Dal Congresso, che finora si era accontentato di essere poco più di uno spettatore dell'affare che tormentava la nazione, stavano giungendo segnali di guai. Il Congresso, disse uno dei suoi membri, «è un corpo di seguaci, non di capi». Giacché si può presumere che esso segua quello che sente essere l'indirizzo dell'opinione pubblica, il suo torpore prova che fino alla Cambogia la maggioranza silenziosa probabilmente era la maggioranza. Quando i primi sei mesi del mandato presidenziale di Nixon non produssero il cessate il fuoco promesso dalla sua campagna elettorale, i senatori contrari alla guerra - Mansfield, Kennedy, Gaylord Nelson, Charles Goodell e altri cominciarono a chiedere pubblicamente misure che ponessero fine alla guerra. L'invasione della Cambogia senza autorizzazione congressuale galvanizzò gli sforzi per riaffermare quelle prerogative nei confronti del presidente che il Senato stesso aveva lasciato cadere in disuso. Una delle cose rivelate dai Pentagon Papers era la palese assenza nelle discussioni e nei documenti di una qualsiasi considerazione per il ruolo del Congresso nel campo della difesa e della politica estera. Quando l'invasione della Cambogia fu un fatto compiuto, Nixon fornì a un gruppo selezionato delle due camere l'assicurazione che le truppe americane non sarebbero penetrate oltre 50-55 chilometri senza che venisse chiesta - Nixon non disse ottenuta - l'approvazione del Congresso e che tutte le truppe sarebbero state ritirate dopo un periodo che andava dalle tre alle sette settimane.

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I senatori non si sentirono rassicurati. Emendamenti alle richieste di stanziamento, per tagliare i fondi, per intralciare o porre limiti di tempo in un modo o nell'altro alle operazioni militari, vennero presentati, approvati in sede di commissione, discussi da una assemblea innervosita e adottati con ampie maggioranze. E sempre, sotto l'autocratica direzione dei presidenti delle commissioni della Camera, tutti superfalchi, vennero svuotati o semplicemente eliminati in riunioni ristrette o soffocati da tattiche parlamentari che impedivano il dibattito. La risoluzione del golfo del Tonchino venne finalmente revocata, ma soltanto quando l'amministrazione, battendo in astuzia gli oppositori, patrocinò essa stessa l'abrogazione: la risoluzione non era necessaria, affermò, perché l'autorità di muovere guerra rientrava nei poteri costituzionali del presidente quale comandante in capo. L'argomento era poco chiaro- come poteva infatti il presidente essere comandante in capo senza uno stato di guerra dichiarato? La Corte suprema, chiamata in causa da varie parti, evitò accuratamente di prendere posizione. Ma nonostante tutto i voti contro la guerra alla Camera dei rappresentanti stavano aumentando. Quando 137 rappresentanti, il numero più alto fino a quel momento, votarono contro l'aggiornamento, ossia la bocciatura, dell'emendamento Cooper-Church che chiedeva la sospensione dei fondi alle operazioni in Cambogia dopo il mese di luglio, si udì il brontolio della rivolta. L'anno seguente il numero salì a 177 a favore dell'emendamento Mansfield, che fissava inizialmente una scadenza di nove mesi (modificata dalla Camera in «non appena possibile») per il ritiro, a condizione del rilascio dei prigionieri. Anche se piccolo l'aumento implicava la crescita dell'opposizione, e persino il possibile avvicinarsi di quel momento inimmaginabile in cui il potere legislativo avrebbe potuto dire «basta» all'esecutivo. Nel 1971, le forze sudvietnamite con l'appoggio aereo americano, anche se non più di unità combattenti americane, invasero il Laos in una replica dell'operazione cambogiana. Il costo della «vietnamizzazione» dell'esercito di Saigon risultò ammontare a una percentuale di perdite del 50 per cento a cui andava aggiunta l'impressione che questi uomini stavano ora combattendo e morendo per permettere agli americani di evacuare. L'impressione era rafforzata dalla tendenza di Washington di sbandierare tutte le operazioni come iniziative intese a «salvare vite americane». L'antiamericanismo in Vit'lnam dilagò, e con esso la collaborazione sottobanco con il FLN e aperte richieste di un compromesso politico. Ripresero i movimenti di protesta - questa volta contro Thieu. Il morale tra le restanti forze americane crollò, con

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unità che evitavano o rifiutavano di combattere, diffuso uso di droghe e - cosa nuova per l'esercito americano - casi difragging, o uccision ~ con bombe a mano, di ufficiali e sottufficiali. In America, i sondaggi mostravano che stava emergendo una maggioranza favorevole al ritiro di tutte le truppe entro la fine dell'anno, anche se il risultato fosse stato il controllo comunista del Vietnam del Sud. Per la prima volta una maggioranza si dichiarò d'accordo con l'affermazione che «era moralmente sbagliato che gli Stati Uniti combattessero in Vietnam» e che era già un «errore» esservisi lasciati coinvolgere. Il pubblico è volubile, i sondaggi sono effimeri e le risposte possono dipendere dalla formulazione delle domande. L'immoralità dell'intervento venne scoperta perché, come disse Lord North della sua guerra, «Avendola il cattivo esito resa infine impopolare, il popolo cominciò a chiedere a gran voce la pace». Nel 1972 la guerra era durata più di qualsiasi altro conflitto esterno della storia americana e i sei mesi che Nixon si era posto come limite erano diventati tre anni, con ulteriori 15.000 perdite americane e senza che la fine fosse ancora vista. Tutte le conversazioni di Parigi e le missioni segrete di Kissinger non avevano prodotto alcun risultato, essenzialmente perché gli Stati Uniti cercavano di uscire con il negoziato da una guerra che non potevano vincere e di fare, al tempo stesso, anche bella figura. Il Vietnam del Nord era egualmente da biasimare per il prolungamento del conflitto, ma le poste in gioco non erano le stesse: per i nordvietnamiti erano in gioco la loro terra e il loro futuro. Nel marzo del 1972, quando la maggior parte delle forze combattenti americane erano partite, il Vietnam del Nord monterà un'offensiva che condurrà finalmente la guerra alla sua conclusione. Lanciati attraverso la fascia smilitarizzata, 120.000 soldati nordvietnamiti equipaggiati con carri armati e cannoni da campagna sovietici penetrarono attraverso le difese dell'esercito del Sud e avanzarono verso i centri abitati intorno a Saigon. Impossibilitati a rispondere sul terreno, gli Stati Uniti riattivarono la prima fase del «colpo spietato» progettato nel 1969, inviando i !J-52 sul Nord per pesanti attacchi a depositi di carburante e al sistema dei trasporti ad Hanoi e Haiphong. Nixon annunciò la campagna come «l'azione militare decisiva per far finire la guerra». Un mese dopo Kissinger avanzò la proposta di un cessate il fuoco sulle posizioni esistenti che ometteva per la prima volta il requisito del ritiro delle forze nordvietnamite dal Sud e affermava la disponibilità americana a ritirare

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tutte le sue forze entro quattro mesi dal ritorno dei prigionieri. Il problema di una soluzione politica veniva lasciato aperto. La scadenza dei quattro mesi avrebbe potuto convincere Hanoi che era saggio accettare, ma avendo sempre rifiutato di negoziare sotto i bombardamenti Hanoi rifiutò anche questa volta. Nixon, che pensava alla rielezione, andò su tutte le furie per l'ostinazione dell'avversario e giurò parlando con i collaboratori che «i bastardi non sono mai stati bombardati come saranno bombardati questa volta». Ignorando i consigli di chi gli prospettava una spaventosa reazione interna e il rischio che i sovietici facessero saltare il vertice di Mosca previsto di lì a due settimane, e con esso la firma degli accordi SALT raggiunti con faticosi negoziati, annunciò la seconda fase del «colpo spietato» - il blocco navale e il minamento del porto di Haiphong, e incursioni ventiquattro ore su ventiquattro dei B-52. Per il nervosismo che circondava l'eventualità di danni a mercantili sovietici e di altre nazioni, il ricorso al blocco navale e al minamento era stato sempre evitato: l'iniziativa avrebbe suscitato veri ululati di censura in America. Lo stafT della Casa Bianca ormai con i nervi a fior di pelle riteneva che la decisione «poteva salvare il presidente, o spezzarlo» e spese oltre 8000 dollari di fondi elettorali per produrre un'ondata di fittizi telegrammi di consenso e di annunci prefabbricati sui giornali in modo che la Casa Bianca potesse annunciare una mobilitazione di opinione pubblica a favore del presidente. Si sarebbe potuto risparmiare lo sforzo: mentre la stampa e dissidenti culturalmente avveduti condannavano il blocco aeronavale, l'opinione pubblica non si indignò ma parve piuttosto apprezzare la dura reazione americana all'intransigenza nordvietnamita. Un altro episodio di prassi disinvolta venne alla luce poco dopo, quando cinque agenti del CREEP (il «comitato per rieleggere il presidente»•) collegati con i due «idraulici» (Howard Hunt e Gordon Liddy) che avevano organizzato l'incursione ai danni di Ellsberg, vennero colti sul fatto mentre frugavano negli schedari e piazzavano microspie nei telefoni del quartier generale del Comitato nazionale democratico in un complesso residenziale di Washington, il Watergate. La rivelazione definitiva delle operazioni in cui la presidenza era coinvolta in quello scorcio di tempo non diverrà di pubblico dominio fino ai processi dei cinque agenti e alle sedute della speciale commis• La sigla CREEP (Committee to Re-elect the President} diede luogo a molti ironici giochi di parole: creep significa letteralmente muoversi, agire di nascosto, strisciando

[N.d. T.].

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sione d'inchiesta del senatore Ervin l'anno seguente, che porteranno alla luce una storia di operazioni sottobanco, ricatti, subornazione di testi, silenzi comprati, spionaggio, sabotaggio, uso dei poteri federali per perseguitare i «nemici» e un piano, affidato a una cinquantina di operatori prezzolati, per falsare e sovvertire la campagna elettorale dei candidati democratici con «trucchi sporchi», ossia con quelli che con scelto linguaggio la ciurma della Casa Bianca chiamava sistemi «fottiratti». L'elenco finale dei reati imputabili includerà il furto con scasso, la corruzione, la contraffazione di documenti, la falsa testimonianza, il furto, l'associazione per delinquere e l'ostruzionismo al corso della giustizia: azioni nella maggior parte dei casi spinte agli eccessi o, come nel caso della registrazione che farà crollare l'edificio, autoinflit-

te: Il carattere, ancora una volta, equivarrà al fato. Pressati dalle passioni della vicenda vietnamita, il carattere di Nixon e quello dei collaboratori da lui reclutati trascinarono l'amministrazione in una sordida vicenda che lese ancora di più il rispetto per il governo. La disistima nei confronti di un governo è traumatica, perché un governo non può funzionare se non è rispettato. Washington non subì fisicamente un sacco come quello che il discredito del papato inflisse a Roma, ma lo scotto che ha dovuto pagare non è stato trascurabile. Mentre dello scandalo del Watergate emergeva ancora soltanto la punta dell'iceberg, l'esplosione dei combattimenti nel Vietnam cominciò a produrre risultati. Il blocco navale in combinazione con la distruzione di depositi di carburante e munizioni ridusse drasticamente le scorte del Vietnam del Nord. I sovietici si rivelarono più preoccupati per la distensione con gli Stati Uniti che per lo stato di necessità di Hanoi. Accolsero Nixon a Mosca e consigliarono i loro amici di scendere a patti. Anche i cinesi volevano affossare il conflitto. Nell'eccitazione della ripresa delle relazioni con l'America recentemente messa a segno da Nixon e Kissinger, essi erano ora interessati a seminare zizzania tra gli Stati Uniti e l'Unione Sovietica, e questo indusse Mao Tse-tung a consigliare i dirigenti del FLN in visita a Pechino ad abbandonare la loro i11sistenza sulla cacciata di Thieu, fino a quel momento loro condizione irrinunciabile. «Fate come me» disse. «Una volta ho fatto anch'io un accordo con Chiang Kai-shek quando

• Il riferimento è all'abitudine di Nixon di registrare tutte le conversazioni che avvenivano nel suo ufficio. Alcuni nastri, divenuti di pubblica conoscenza grazie a una segretaria «pentita», smentirono le affermazioni presidenziali di estraneità ai fatti, suscitando anche scalpore per il linguaggio poco ortodosso del presidente [N.d. T.].

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era necessario.» Convinto che sarebbe venuto anche il suo momento, il FLN accondiscese. Anche Hanoi, presa di mira dai B-52, era disposta a concessioni sul piano politico. I risultati dei sondaggi negli Stati Uniti, dove il candidato democratico si stava trascinando tra le topiche di una campagna maldestra, fecero capire ad Hanoi che Nixon sarebbe rimasto al potere per altri quattro anni e l'indussero a concludere che avrebbe potuto ottenere da lui migliori condizioni prima delle elezioni. I negoziati furono ripresi, vennero elaborati complicati compromessi e meccanismi intricati per consentire il disimpegno degli Stati Uniti dietro il paravento di una nominale sopravvivenza di Thieu, e Kissinger fu in grado di annunciare il 31 ottobre, in maniera che si dimostrerà prematura: «La pace è vicina». Thieu rifiutò assolutamente di accettare il progetto del trattato, che permetteva a 145.000 soldati nordvietnamiti di restare nel Sud e riconosceva il FLN come parte in causa della futura soluzione politica con il titolo di recente assunto di Governo rivoluzionario provvisorio. Considerato che fare altrimenti avrebbe significato per lui accettare passivamente la fine, la sua posizione non era innaturale. A questo punto Nixon venne strepitosamente rieletto con la più larga ma.ggioranza di voti e di seggi mai registrata [ I983], un trionfo straordinario per un presidente che non molto tempo dopo si trovò nella condizione di dover assicurare al popolo americano: «Non sono un truffatore». La valanga nixoniana era dovuta a molte cause: la debolezza e i tentennamenti del suo avversario, il senatore McGovern, che si alienò gli elettori con la malaccorta dichiarazione di essere disposto ad andare «in ginocchio» ad Hanoi e la proposta di una gratifica assistenziale di I000 dollari a ogni famiglia; il successo dei «trucchi sporchi», che avevano distrutto un più forte candidato avversario nelle primarie, il sollievo popolare per la prospettiva, finalmente, della pace; e forse sullo sfondo una reazione della classe media americana alla controcultura di capelloni, hippies, droghe e radicali con la loro implicita minaccia ai valori acquisiti. Rinfrancato dal nuovo mandato, Nixon esercitò le più forti pressioni su entrambe le parti in Vietnam perché si giungesse a un accordo. Assicurò a Thieu in una lettera che, mentre la sua preoccupazione per il permanere di forze nordvietnamite nel Sud era comprensibile, «avete la mia garanzia assoluta che se Hanoi non si attiene ai termini di questo accordo è mia intenzione procedere a una rapida e severa azione di ritorsione». L'intenzione era indubbiamente proprio questa, in quanto gli accordi di Parigi non si erano occupati del ritiro delle

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forze aeree dislocate sulle portaerei nelle acque della zona o in basi in Thailandia e a Taiwan. I Joint Chiefs vennero in effetti incaricati di preparare i piani per un'eventuale azione di ritorsione, usando le unità degli aeroporti thailandesi, e si ordinarono forniture di armi per un miliardo di dollari da consegnare a Saigon. A Thieu fu anche detto che, se persisteva nella sua ostinazione, gli Stati Uniti potevano fare la pace senza di lui, ma la cosa non lo smosse affatto. Ripresi i negoziati segreti con il Nord, Kissinger fece marcia indietro sui termini concordati: chiedeva ora un ritiro simbolico di truppe nordvietnamite dal Sud, il ridimensionamento dello status del FLN e altre modifiche, il tutto accompagnato da minacce di un ritorno alla pressione milita re. Vedendo riconfermate le sue opinioni sulla perfidia degli Stati Uniti, Hanoi si rifiutò di procedere alle rettifiche richieste. Nixon, libero dalla preoccupazione di una protesta pubblica, rispose con un colpo feroce: i famigerati bombardamenti di Natale, la più pesante azione americana della guerra. A dicembre, in dodici giorni l'aeronautica martellò il Vietnam del Nord con una quantità di bombe superiore al totale degli ultimi tre anni, riducendo in macerie intere zone di Hanoi e Haiphong, distruggendo l'aeroporto, fabbriche e centrali elettriche della capitale. Ci fu anche un effetto di ritorno. Le perdite di aerei dovute alla nutrita concentrazione di missili SAM dei nordvietnamiti costarono ali' America da 95 a I00 nuovi prigionieri di guerra e lo scotto preoccupante di 15 bombardieri pesanti (o 34, secondo Hanoi). Lo scopo dei bombardamenti di Natale era duplice: indebolire il Vietnam del Nord in misura sufficiente da permettere a Saigon di sopravvivere quanto bastava perché gli Stati Uniti potessero uscire di scena e, con questa prova della determinazione americana, vincere la resistenza di Thieu o avere una scusa per procedere senza di lui. «Avevamo percorso con lui anche il secondo miglio» recitava una spiegazione posteriore «e di conseguenza potevamo chiudere la questione». Questo attacco feroce così vicino alla fine macchiò la reputazione dcli' America in patria e all'estero, ribadendo la sua immagine di brutalità. La presenza di nuovi parlamentari eletti al Congresso grazie ai meccanismi modificati delle primarie democratiche faceva presagire l'approssimarsi di una sfida, la quale prese forma concreta quando il gruppo parlamentare dei democratici delle due Camere votò il 2 e il 4 gennaio la richiesta di un cessate il fuoco e della sospensione «immediata» di tutti i fondi destinati a operazioni militari in qualsiasi paese dell'Indocina, ponendo come sola condizione il preventivo

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rilascio dei prigionieri di guerra e un indisturbato ritiro delle forze americane. Posta di fronte alla da tempo scontata possibilità di una rivolta del Congresso e alle sempre più numerose rivelazioni sul Watergate che venivano a galla nell'aula del giudice John J. Sirica, l'amministrazione offrì di sospendere i bombardamenti se Hanoi riprendeva le trattative di pace. Hanoi si dichiarò d'accordo; vennero ripresi negoziati dettati dalla disperazione; si preparò un trattato e venne presentato un ultimatum a Thieu: se non aderiva gli Stati Uniti avrebbero sospeso definitivamente il loro appoggio economico e militare e avrebbero concluso il trattato senza di lui. Nel trattato finale, le due condizioni per le quali il Vietnam del Nord e gli Stati Uniti avevano prolungato la guerra di quattro anni cacciata del regime di Thieu da una parte e allontanamento delle forze nordvietnamite dal Sud dall'altra- vennero entrambe abbandonate; si riconobbe, anche se non esplicitamente per non ferire i sentimenti di Thieu, lo status politico del FLN, trasformatosi ora nel Governo rivoluzionario provvisorio; la fascia smilitarizzata, o linea di demarcazione, la cui eliminazione era stata richiesta da Hanoi, venne mantenuta ma - tornando ai termini di Ginevra - come «[linea] provvisoria, non come confine politico o territoriale». L'unità del Vietnam venne implicitamente riconosciuta in un articolo con il quale si stabiliva che «La riunificazione del Vietnam sarà realizzata» mediante una pacifica trattativa tra le parti, relegando così l' «aggressione esterna» attraverso un «confine internazionale» - casus belli dell'America per tanti anni - nel dimenticatoio della storia. Thieu restò abbarbicato al rifiuto con la rigidità di un cadavere fino all'ultima ora dell'ultimatum di Nixon, poi cedette. Il trattato, firmato a Parigi il 27 gennaio I973, lasciava sulla carta una situazione non diversa dall'incerto accomodamento ginevrino di diciannove anni prima. Alla realtà fisica si erano invece venuti ad aggiungere più di mezzo milione di morti nel Nord e nel Sud, centinaia di migliaia di feriti e diseredati, bambini ustionati e menomati, contadini senza terra, un territorio devastato, con le foreste distrutte, disseminate di crateri di bombe, e un popolo dilacerato dagli odii interni. Le procedure per un successivo accordo finale tra le due zone erano generalmente considerate impraticabili, e un ricorso alla forza entro breve tempo era largamente scontato. La capacità di sopravvivenza di un Vietnam del Sud non comunista, per cui l'America aveva condotto alla rovina l'Indocina e tradito se stessa, non ispirava fiducia a nessuno - salvo che a Nixon e Kissinger i quali restavano convinti che gli Stati Uniti, se necessario, potevano sempre salvare la situazione.

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Quello che il trattato lasciava in piedi era un temporaneo paravento dietro il quale l'America, stringendo tra le mani una malconcia «pace con onore», poteva uscire di scena. In seguito, come tutti sanno, Hanoi sopraffece Saigon in due anni. Quando Nixon fu distrutto dallo scandalo del Watergate e al Congresso si raccolsero finalmente i voti necessari a impedire, con il taglio totale dei fondi, un nuovo intervento americano, il Vietnam del Nord scatenò un'offensiva finale e lo scoraggiato Sud non fu in grado di reggere l'assalto. Anche se alcune unità si batterono energicamente, come esercito nazionale l'ARVN, secondo un soldato americano, «era come una casa senza fondamenta - il crollo arrivò naturalmente». I comunisti stabilirono il loro dominio su tutto il Vietnam e lo stesso risultato si ebbe in Cambogia. Il nuovo ordine politico in Vietnam era più o meno quello che si sarebbe imposto se l'America non fosse mai intervenuta; fu soltanto più vendicativo e crudele. La follia più grande fu forse quella di Hanoi- combattere con tanta costanza per trent'anni per una causa che quando trionfò si trasformò in una brutale tirannia. Il rifiuto del Congresso di permettere agli Stati Uniti di intervenire nuovamente dimostrò la capacità di funzionare e non, come lamentò Kissinger, «il dissesto del nostro processo politico democratico». Più che segno di scarsa volontà americana di condurre a termine l'impresa, fu il tardivo riconoscimento di un processo dannoso e contrario all'interesse nazionale e l'assunzione della responsabilità politica di porvi fine. Ma tutto questo giunse troppo tardi e il paese ne pagò lo scotto. Le perdite umane sono sopportabili quando si ritiene che abbiano servito uno scopo; sono amare quando, come in questo caso, 45.000 morti e 300.000 feriti vennero sacrificati per nulla. Spese di circa 20 miliardi di dollari all'anno per circa un decennio, per un totale cioè di circa 150 miliardi al di sopra di quelli che sarebbero stati i normali stanziamenti militari, produssero nell'economia un'alterazione che non è stata ancora corretta. Più importanti degli effetti materiali furono il calo di fiducia nel governo e quello della sua autorità. Le iniziative legislative del Congresso negli anni successivi al Vietnam furono ripetutamente dirette a limitare in una varietà di casi l'azione del governo, in base al presupposto che senza tali restrizioni esso si sarebbe mosso in maniera irregolare o illegittima. Anche il pubblico imparò a sospettare, e molti avrebbero sicuramente trovato il proprio atteggiamento espresso in tre parole di un membro dello staff della Casa Bianca, Gordon Strachan,

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il quale, quando la commissione Ervin gli chiese quale consiglio avrebbe dato ad altri giovani desiderosi di lavorare per il governo, rispose: «Stare alla larga». In molti la fiducia nella rettitudine del proprio paese fece posto al cinismo. Chi dopo il Vietnam si sarebbe azzardato a dire con ingenua fiducia che l'America era «l'ultima grande speranza della terra»? Quello che l'America perse in Vietnam fu, per dirlo con una parola sola, la virtù. All'origine delle follie che condussero a questo risultato troviamo reazioni continuamente esasperate: è il caso dell'invenzione della «sicurezza nazionale» in pericolo, dell'invenzione dell' «interesse vitale», dell'invenzione di un «impegno» che rapidamente assunse vita propria ipnotizzando il suo inventore. Protagonista principe dell'operazione fu Dulles al quale, per la sua decisione di far naufragare il compromesso di Ginevra e di installare l'America in Vietnam in veste di protettrice di una «zona» e di implacabile avversaria dall'altra, va attribuita la paternità di tutto ciò che seguì. Lo zelo di questo Savonarola della politica estera contagiò collaboratori e successori, che continuarono a parlare come pappagalli di «sicurezza nazionale» e di «interesse vitale», non tanto per convinzione ma come culto formale alla guerra fredda, o come tattica del terrore per strappare stanziamenti al Congresso. Ancora nel 1975, il presidente Ford disse al Congresso che la riluttanza a votare aiuti per il Vietnam del Sud avrebbe minato quella «credibilità» dell'America come alleata che era «essenziale alla nostra sicurezza nazionale». Kissinger tornò sul tema due mesi dopo, affermando in una conferenza stampa che l'abbandono del Vietnam del Sud alla sua sorte avrebbe rappresentato «per un certo tempo una minaccia fondamentale alla sicurezza degli Stati Uniti». Altre reazioni esasperate contribuirono all'evocazione di fantasmi, di immagini di tessere di domino che cadevano una dopo l'altra, di visioni di «rovina», di abbandono del Pacifico e di una ritirata fino a San Francisco, di mostri di taglia minore come l'«Ufficio centrale del Vietnam del Sud», e infine alla paranoia della Casa Bianca del Watergate. Cosa più grave, condussero allo sperpero della potenza e delle risorse americane in una follia grandiosamente sproporzionata all'interesse nazionale in gioco. Sbalordisce l'assenza di una riflessione intelligente sul problema perché, come il generale Ridgway scrisse nel 1971, «non ci sarebbe voluta una grande immaginazione per rendersi conto[ ... ] che non era in ballo nessun interesse veramente vitale degli Stati Uniti[ ... ] e che impegnarsi in uno sforzo di vaste proporzioni era un errore monumentale».

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Una seconda follia fu l'illusione dell'onnipotenza, parente stretta dell'illusione di invulnerabilità dei papi; una terza fu l'ottusità e la «dissonanza conoscitiva»; una quarta fu di «premere sull'acceleratore» invece di pensare. Nell'illusione dell'onnipotenza, i responsabili politici americani diedero per scontato che nei confronti di un qualsiasi obiettivo, specialmente in Asia, si poteva far prevalere la volontà americana. Questo presupposto nasceva dal carattere saldamente pragmatico di una nazione che si era fatta da sé e dal senso di competenza e di strapotere derivato dalla seconda guerra mondiale. Se questa era «arroganza del potere», per usare l'espressione del senatore Fulbright, non lo era tanto nella linea della fatale hyhris e dell'eccessivo espansionismo che sconfissero Atene e Napoleone, e nel XX secolo la Germania e il Giappone, quanto per l'incapacità di capire che tra altri popoli esistono problemi e conflitti non risolvibili con l'intervento della forza americana o delle tecniche americane o della buona volontà americana. «L'edificazione nazionale» del Vietnam del Sud fu la più presuntuosa delle illusioni. I coloni del continente nordamericano avevano edificato una nazione, dallo scoglio di Plymouth a Valley Forge,• al sogno realizzato della frontiera, ma non avevano imparato dal loro successo che anche altrove solo gli abitanti possono far funzionare codesto meccanismo. L'ottusità, il «non-confondermi-le-idee-con-i-fatti», è una follia universale che mai si palesò in maniera così cospicua come ai vertici di Washington, in relazione al Vietnam. L'errore più madornale fu di sottovalutare il grado di consacrazione del Vietnam del Nord al suo obiettivo. La motivazione dell'avversario era un elemento che non figurava nei calcoli americani, e Washington poteva quindi ignorare ogni dimostrazione di fervore nazionalista e di quella passione per l'indipendenza che, come già nel 1945 Hanoi aveva dichiarato, «nessuna forza può più fermare». Washington poteva ignorare la predizione del generale Ledere, che la conquista avrebbe richiesto mezzo milione di uomini e che «neanche così ci si poteva riuscire». Poteva ignorare l'esempio di slancio e di capacità che aveva fruttato la vittoria contro un esercito francese modernamente armato a Dien Bien Phu, e tutti gli altri esempi concreti che seguirono.

• Due luoghi celebrati, e pietre miliari nella storia americana. Presso lo scoglio di Plymouth (Massachusetts) approdarono nel XVII secolo i «Padri pellegrini»; a Valley Forge l'esercito continentale guidato da Washington sopravvisse al terribile inverno 1777-1778 [N.d. T.].

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Il rifiuto americano di tener conto della volontà e capacita implacabili dell'avversario è stato attribuito dai responsabili all'ignoranza della storia, delle tradizioni e del carattere nazionale dei vietnamiti: non c'erano «esperti a disposizione» disse un alto ufficiale. Ma si sarebbe potuto apprendere la longevità della resistenza vietnamita alla dominazione straniera su qualsiasi altro libro di storia dell'Indocina. Serie consultazioni con amministratori francesi che avevano trascorso la loro vita di funzionari in Vietnam avrebbero potuto compensare la mancanza d'esperienza degli americani. Persino la superficiale conoscenza americana della zona quando cominciò a produrre rapporti fornì informazioni più che apprezzabili. Non l'ignoranza ma il rifiuto di dar credito all'evidenza e, più fondamentalmente, il rifiuto di concedere statura morale e fermezza di propositi a un paese asiatico «di quart'ordine» furono i fattori determinanti, come nel caso dell'atteggiamento britannico nei confronti delle colonie americane. L'ironia della storia è inesorabile. Alla sottovalutazione dell'avversario fece riscontro la sopravvalutazione del Vietnam del Sud perché era il beneficiario dell'assistenza americana, e perché nel vocabolario di Washington qualsiasi gruppo non comunista veniva identificato con le «nazioni libere», alimentando l'illusione che la gente del Sud era pronta a battersi per la propria «libertà» con la volontà e l'energia che si suppone vengano ispirate dalla libertà. Questo era il fondamento dichiarato della nostra politica; ogni fatto discordante doveva essere respinto, perché avrebbe rivelato che questa politica era costruita sulla sabbia. Quando la dissonanza turbava gli atteggiamenti assunti nei confronti dell'avversario o del cliente, questi atteggiamenti, seguendo le regole dell'ottusità, si irrigidivano. Un'ultima follia fu l'assenza di una qualsiasi riflessione sulla natura di quello che stavamo facendo, sulla sua efficacia ai fini dell'obiettivo perseguito, sul rapporto tra il possibile guaqagno da un lato e le perdite e il danno arrecato all'alleato e agli Stati Uniti dall'altro. L'assenza di una riflessione intelligente nell'esercizio del potere è un'altra costante, e induce a chiedere se nella vita politica e burocratica degli stati moderni non vi sia qualcosa che soffoca il funzionamento dell'intelletto perché si possa continuare a «premere sull'acceleratore», ignorando qualsiasi prospettiva di razionalità. E questa sembra essere ormai la tendenza in atto. La guerra più lunga era giunta alla fine. Da una distanza di 200 anni si sarebbe potuta udire la concisa descrizione di Lord Chatham di una

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nazione condotta a tradire se stessa« dalle arti dell'imposizione, dalla propria credulità, con gli strumenti di una falsa speranza, di un falso orgoglio e di promesse di vantaggi della più romanzesca e improbabile natura». La stessa conclusione fu raggiunta da un parlamentare del Michigan, Donald Riegle. Parlando con una coppia del suo collegio elettorale che aveva perduto un figlio in Vietnam, si trovò davanti una dura verità: non poteva trovare parole che giustificassero la morte del ragazzo. «Non c'era modo, assolutamente, di poter dir loro che quello che era successo era nel loro interesse o nell'interesse della nazione, o nell'interesse di chiunque altro».

EPILOGO «UNA LANTERNA A POPPA»

Se perseguire il proprio danno quando il danno è ormai ovvio è cosa irrazionale, il rifiuto della ragione è la caratteristica prima della follia. Secondo gli stoici, la ragione era il «fuoco pensante» che dirige gli affari del mondo, e l'imperatore o governante dello Stato era considerato «il servo della divina ragione [incaricato] di mantenere l'ordine sulla terra». La teoria era confortante, ma allora come oggi la «divina ragione» era molto spesso sopraffatta da poco razionali debolezze umane - l'ambizione, l'ansietà, la ricerca dello status, la volontà di salvare la faccia, illusioni, autoinganni, pregiudizi irremovibili. La struttura del pensiero umano è fondata su un processo logico - dalla premessa alla conclusione -, ma non è inaccessibile alle debolezze e alle passioni. Il pensiero razionale consigliava chiaramente ai troiani di sospettare un trucco quando un mattino scoprirono che l'intero esercito greco era svanito lasciando soltanto una strana e mostruosa creatura sotto le mura. La procedura razionale sarebbe stata, come minimo, di controllare se nel cavallo non c'erano nemici nascosti come insistentemente li consigliavano l'anziano Capi, Laocoonte e Cassandra. L'alternativa c'era, cd era disponibile, ma fu scartata a favore dell'autodistruzione. Nel caso dei papi, la ragione forse era meno accessibile. Erano così imbevuti della sfrenata, ingorda cupidigia e della disinibita autogratificazione del loro tempo che una risposta razionale ai bisogni del popolo era praticamente fuori della loro portata. Sarebbe stata necessaria una cultura di valori diversi. Un comune senso di autoconservazione, si potrebbe supporre, avrebbe permesso di notare il malcontento crescente che arrivava ai loro piedi come acqua di piena, ma questi uomini avevano del papato una visione temporale, secolarizzata, erano troppo immersi in guerre principesche, nei privati piaceri e nell'esibizionismo per allarmarsi per qualcosa di intangibile

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come il malcontento. La follia del papato non consisteva tanto nell'essere irrazionale quanto nell'essersi totalmente estraniato dal compito che gli era affidato. Le misure adottate nei confronti delle colonie americane e del Vietnam furono così palesemente basate su atteggiamenti preconcetti e così regolarmente contrarie al buon senso, alle deduzioni razionali e ai consigli più rigorosamente fondati che, come follia, parlano da sé. Nell'attività di governo l'impotenza della ragione è cosa grave perché incide su tutto ciò che le sta intorno - i cittadini, la società, la civiltà. È un problema che preoccupò fortemente i greci, i fondatori del pensiero occidentale. Euripide, nelle sue ultime tragedie, ammise che il mistero del male e della follia non poteva essere più spiegato con cause esterne, con il morso di Ate, come di un ragno, o con altri interventi degli dèi. Uomini e donne dovevano affrontarlo come parte del loro essere. La sua Medea sa di essere controllata da una passione «più forte dei miei intendimenti». Platone, una cinquantina d'anni dopo, desiderava disperatamente che l'uomo abbracciasse senza poi mai abbandonarlo il «sacro indirizzo della ragione», ma alla fine dovette anch'egli riconoscere che i suoi simili erano legati alla vita dei sentimenti, grottescamente mossi dai fili dei desideri e delle paure che li facevano danzare come marionette. Quando il desiderio è in contrasto con il giudizio della ragione, disse, c'è una malattia dell'anima, «e quando l'anima si oppone alla scienza, all'opinione, alla ragione, a chi per natura deve avere il comando, io proclamo che in questo consiste la dissennatezza». Per quel che riguardava il governo, Platone presumeva che un governante saggio si sarebbe presa la massima cura di ciò che amava di più, cioè ciò che rispondeva meglio al suo interesse, e questo sarebbe stato equivalente all'interesse dello Stato. Poiché non era sicuro che la regola funzionasse sempre come doveva, Platone suggerì che i futuri custodi dello Stato venissero osservati e messi alla prova durante il loro periodo di maturazione perché ci fosse la garanzia che si comportavano secondo la regola. Con l'avvento del cristianesimo, la responsabilità personale fu restituita all'eterno e al sovrannaturale, sottoposta all'imperio di Dio e del Diavolo. La ragione tornò per un breve, brillante regno nel XVIII secolo, poi Freud ci riportò a Euripide e al potere dominante delle forze oscure e sepolte dell'animo le quali, non essendo soggette alla mente, non possono essere corrette con le buone intenzioni o la volontà razionale.

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Forza principe tra quante determinano la follia politica è la cupidigia del potere, che Tacito chiamò «fiamma più ardente di qualsiasi affetto». Poiché essa può essere soddisfatta soltanto dal potere su altri, il governo è il suo campo d'azione preferito. Gli affari offrono una sorta di potere, ma solo ai grandi vincenti, al vertice, e senza l'autorità e i titoli e i tappeti rossi e le scorte di motociclisti che competono al pubblico ufficio. Altre occupazioni- gli sport, le scienze, le professioni e le arti creative e rappresentative - offrono varie soddisfazioni ma non l'opportunità del potere. Possono attrarre i cercatori di status e, sotto la forma _di celebrità, offrono l'adorazione della folla, macchine di lusso e gratificazioni, ma questi sono i paramenti del potere, non la sua essenza. Il governo rimane il terreno sovrano della follia perché è qui che gli uomini cercano il potere sugli altri - solo per perderlo su se stessi. Thomas Jefferson, che occupò cariche più numerose e a più alto livello di quanto non sia accaduto alla maggior parte degli uomini, ne aveva un'opinione assolutamente negativa. «Ogni qualvolta un uomo [vi] getta sopra l'occhio con desiderio, nella sua condotta subentra il marciume». Un suo contemporaneo dall'altra parte dell'Atlantico, Adam Smith, era ancora più critico. «E così la Posizione[ ... ] è il fine di metà delle fatiche della vita umana; ed è la causa di ogni tumulto e scompiglio, di ogni rapina e ingiustizia che la cupidigia e l'ambizione hanno introdotto in questo mondo». Entrambi parlavano di fallimento morale, non di competenza. E quando questa entra in ballo, il giudizio che ne danno altri uomini di Stato non è migliore. Negli anni Trenta, mentre si stava cercando un presidente per la commissione senatoriale d'inchiesta sull'industria delle munizioni, un dirigente del movimento pacifista chiese il consiglio del senatore George Norris. Dopo essersi autoescluso per motivi di età, Norris scorse la lista dei colleghi scartandoli uno dopo l'altro vuoi perché troppo pigri, o troppo stupidi, o troppo vicini all'esercito, vuoi perché moralmente codardi o sovraccarichi di lavoro, o in cattiva salute, o perché avevano conflitti d'interesse o stavano per affrontare la rielezione. Quando terminò li aveva eliminati tutti eccetto il senatore Gerald Nye, l'unico su un totale di 96 che a suo avviso avesse la competenza, l'indipendenza e la personalità all'altezza del compito. In circostanze diverse un'opinione assai simile venne espressa dal generale Eisenhower in una sua riflessione sulla necessità che capi ispirati creassero gli Stati Uniti d'Europa, unica soluzione capace di garantire la sicurezza europea. Non pensava che ciò potesse accadere perché «Sono tutti troppo cauti, troppo timorosi, troppo pigri, e troppo ambiziosi (personalmente)».

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Curiosa, e degna di nota, la presenza del termine «pigri» in entrambi gli elenchi. Un incentivo ancora maggiore alla follia è l'eccesso di potere. Dopo aver concepito la sua splendida visione di re-filosofi nella Repubblica, Platone cominciò a nutrire dubbi e giunse alla conclusione che le leggi erano l'unica salvaguardia possibile. Il troppo potere, come una vela troppo grande su una nave, pensava, è pericoloso; la moderazione è travolta. L'eccesso conduce da un lato al disordine e dall'altro all'ingiustizia. Non c'è animo umano capace di resistere alla tentazione del potere arbitrario, o di non lasciare «infettare la propria intelligenza della più grave malattia, la dissennatezza». Il suo regno ne sarà insidiato, «tutta la sua potenza» annullata. Fu il fato del papato del Rinascimento e lo condusse al punto di perdere, se non tutto, almeno metà del suo potere; di Luigi XIV, anche se si manifestò soltanto dopo la sua morte; e - se riteniamo che la presidenza americana conferisca un potere eccessivo - di Lyndon Johnson, il quale aveva l'abitudine di parlare della «mia aviazione» e pensava che la sua posizione gli dava il diritto di mentire e di ingannare; e, più che ovviamente, di Richard Nixon. L'immobilismo o stagnazione mentale - che si ha quando i governanti e responsabili politici non modificano di un millimetro le idee con le quali erano partiti - è un fertile terreno per la follia. Montezuma ne è un esempio fatale e tragico. I capi di governo, secondo l'autorevole testimonianza di Henry Kissinger, non imparano nulla di nuovo rispetto alle convinzioni che avevano all'inizio e che sono «il capitale intellettuale che useranno finché resteranno in carica». Imparare dall'esperienza è una capacità che non viene pressoché mai esercitata. Perché l'esperienza americana di appoggiare la fazione impopolare in Cina non fornì alcuna analogia nel caso del Vietnam? né l'esperienza ha indotto a riflessioni che salvassero l'attuale governo degli Stati Uniti dall'imbecillità in Salvador? «Se gli uomini sapessero imparare dalla storia, quali lezioni essa potrebbe insegnarci!» si lamentava Samuel Coleridge. «Ma passione e spirito di parte accecano i nostri occhi, e la luce che [la storia] ci dà è una lanterna a poppa che illumina soltanto le onde dietro di noi». L'immagine è bella ma il messaggio è fuorviante, perché la luce sulle onde attraverso le quali siamo passati dovrebbe aiutarci a capire la natura di quelle che abbiamo davanti. In una prima fase, l'immobilismo mentale fissa i princìpi e i limiti che regolano un problema politico. Nella seconda, quando cominciano ad apparire discordanze e disfunzioni, i princìpi iniziali si irrigidisco-

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no. Questo è il periodo in cui, se ci fosse un intervento della saggezza, sarebbero possibili un riesame, un ripensamento e un mutamento di rotta, ma son casi rari come mosche bianche. L'irrigidimento conduce a un aumento dell'investimento e alla necessità di proteggere l'Ego; una politica fondata sull'errore accelera, non fa mai marcia indietro. Quanto più grande .è l'investimento e il coinvolgimento in esso dell'Ego del promotore, tanto più inaccettabile è il disimpegno. Nella terza fase l'insistenza nella scelta fallimentare ingigantisce i danni fino a causare la caduta di Troia, la defezione dal papato, la perdita di un impero oltrcatlantico, la classica umiliazione del Vietnam. Il problema è'la persistenza nell'errore. Coloro che praticano l'arte del governo proseguono sulla strada sbagliata come se fossero prigionieri di un qualche mago Merlino dotato del potere magico di guidare i loro passi. Ci sono dei maghi Merlino, nell'antica letteratura, che spiegano le aberrazioni umane, ma la libertà di scelta esiste a meno che accettiamo l'inconscio di Freud come il nuovo Merlino. I governanti possono anche giustificare una decisione sbagliata o iniqua col fatto, come uno storico partigiano scrisse di John F. Kcnncdy, di non avere scelta, ma per quanto uguali possano apparire due alternative esiste sempre la libertà di scelta, di cambiare o abbandonare una linea d'azione controproducente, se il politico ha il coraggio morale di esercitarla. Il politico non è una creatura segnata dal fato, in balia dei capricci degli dèi di Omero. Solo che riconoscere l'errore, chiudere con le perdite, o mutare rotta è, per un governo, la più ripugnante delle opzioni. Per un capo di Stato, ammettere l'errore è praticamente fuori discussione. La disgrazia dcli' America nel periodo del Vietnam fu di avere avuto presidenti ai quali mancava la sicurezza necessaria al grande gesto del ritiro. Si torna a Burkc: «La magnanimità in politica non raramente è la più vera saggezza; un grande impero e menti meschine non possono andare insieme». Il momento della verità giunge quando si tratta di capire che la persistenza nell'errore è diventata autolesionismo. Un principe, dice Machiavelli, dovrebbe essere sempre un uomo pieno di domande e un paziente ascoltatore della verità in merito alle cose sulle quali ha chiesto informazioni e dovrebbe incollerirsi se scopre che qualcuno ha scrupoli nel dirgli la verità. Ciò di cui un governo ha bisogno sono uomini pieni di domande. Il rifiuto di trarre conclusioni da segni negativi, che sotto il titolo di «ottusità» ha avuto tanta parte in queste pagine, viene identificato

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nell'opera più pessimistica dei tempi moderni, 1984 di George Orweh, con quello che l'autore chiama stopreato. «Lo stopreato sta a rappresentare, in sostanza, la facoltà di arrestarsi in modo rapido e deciso, come per istinto, sulla soglia di qualsiasi pensiero pericoloso. Esso include la capacità di non cogliere le analogie, di non riuscire a percepire errori di logica, di equivocare anche sugli argomenti più semplici[ ... ] e d'esser presto affaticati e respinti da qualsiasi tentativo di elaborare una dialettica di pensiero che sia suscettibile di condurre in una direzione eretica. Stopreato significa, in sostanza, stupidità protettiva». La questione è di sapere se e come un paese può proteggersi dalla stupidità protettiva in sede di scelte politiche e questo a sua volta pone la questione se è possibile educare a governare. Lo schema di Platone, che prevedeva l'allevamento oltre che l'educazione dei candidati, non fu mai sperimentato. Un grosso tentativo di un'altra cultura, l'addestramento dei mandarini cinesi alle funzioni amministrative, non produsse risultati eccelsi. I mandarini dovevano passare attraverso anni di studio, di apprendistato e di selezione sulla base di severi esami, ma quelli che riuscivano non si dimostrarono immuni dalla corruzione e dall'incompetenza. I mandarini finirono con lo scomparire nella decadenza e nell'inettitudine. Un altro schema di questo genere si servì di stranieri.I giannizzeri turchi erano il braccio armato e più conosciuto di un organismo più vasto - i kapikullari, o «istituzione degli schiavi» - che forniva tutto il personale civile dal cuoco di palazzo al gran visir. Erano bambini cristiani sottratti ai genitori e allevati e addestrati con grandissima cura alle mansioni ufficiali dai turchi ottomani in quello che probabilmente fu il sistema educativo più completo escogitato fino a quel momento; erano legalmente schiavi del sultano, convertiti all'Islam, e non potevano avere famiglia né avere proprietà. Liberi da queste distrazioni si sarebbero potuti, si supponeva, dedicare in maniera totale allo Stato e al suo sovrano, dai quali dipendevano completamente per la paga e per ogni necessità dell'esistenza. Il sultano si procurò così un corpo amministrativo non soltanto di prima classe, ma anche di gagliardi sostenitori del suo assolutismo. Il sistema, anche se funzionò con effetti eccellenti, non salvò l'impero ottomano da una lenta degenerazione; né, d'altro canto, il sistema si sarebbe potuto salvare da sé. Col passare del tempo, il ramo militare conquistò sempre maggiore potere, i giannizzeri infransero l'obbligo del celibato e assunsero dei diritti ereditari, perpetuandosi come clan permanente e dominante, e finirono in un'inevitabile contestazione del sovrano, col

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cercare di impadronirsi del potere con un'aperta rivolta. Vennero massacrati e distrutti trascinando alla rovina l'intera «istituzione degli schiavi», mentre il Gran Turco scivolava nelle nebbie della senescenza. Nell'Europa del XVII secolo, dopo le devastazioni della guerra dei Trent'anni, la Prussia, quando era ancora Brandeburgo, decise di creare uno Stato forte mediante un esercito disciplinato e una amministrazione civile preparata. I candidati a posizioni amministrative, reclutati tra i non nobili per controbilanciare il controllo dell'esercito da parte degli aristocratici, dovevano completare un corso di studi che includeva teoria politica, legge e filosofia del diritto, economia, storia, criminologia e regolamenti. Solo dopo aver superato varie fasi di esami e periodi di prova ottenevano la nomina definitiva, un incarico fisso e possibilità di carriera. Gli alti gradi dell'amministrazione costituivano una branca a parte, non accessibile ai livelli medi e inferiori. Il sistema prussiano si dimostrò così efficace che lo Stato riuscì a sopravvivere alla sconfitta militare inflittagli da Napoleone nel 1807 e all'ondata rivoluzionaria del 1848. Ma a questo punto aveva cominciato a fossilizzarsi, come il mandarinaggio, perdendo molti dei cittadini più progressisti, emigrati in America. Le energie prussiane riuscirono comunque, nel 187 l, a riunire gli stati tedeschi in un impero sotto l'egemonia della Prussia. Il suo stesso successo conteneva il seme della rovina, perché nutrì l'arroganza e la bramosia di potere che dal 1914 al 1918 lo condurrà alla rovina. Lo shock politico spinse gli inglesi a prestare attenzione al problema. Né la perdita dell'America né i flutti tempestosi della Rivoluzione francese avevano scosso il loro sistema di governo, ma alla metà del XIX secolo, quando il rumoreggiare dal basso cominciò a farsi più forte, le rivoluzioni del 1848 sul continente ebbero il loro effetto. Invece di rifugiarsi in un panico reazionario come ci si sarebbe potuto aspettare, le autorità con encomiabile iniziativa ordinarono un'inchiesta sulle loro stesse attività di governo, che allora erano praticamente la riserva privata della classe agiata. Il risultato fu una relazione sulla necessità di un servizio civile permanente basato sull'addestramento e su competenze specifiche e strutturato in modo da assicurare, di fronte a questioni transeunti e passioni politiche, continuità e il mantenimento di un progetto a lungo termine. Il sistema incontrò forti resistenze ma venne adottato nel 1870. Ha prodotto eminenti funzionari pubblici, ma anche traditori come Burgess, MacLean, Philby e Blunt. La storia del governo britannico negli ultimi cent'anni suggerisce che

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sono altri fattori, indipendenti dalla qualità del suo servizio civile, a determinare il destino di una nazione. Negli Stati Uniti il servizio civile venne istituito principalmente come barriera contro il sistema clientelare e dell'assalto alla greppia, più che come ricerca della perfezione. Nel 1937 una commissione presidenziale, ritenendo che il sistema fosse ormai inadeguato, chiese l'istituzione di un «effettivo servizio di carriera[ ... ] che richieda personale del massimo livello, competente, altamente addestrato, fedele, versato nei suoi doveri grazie alla lunga esperienza e sicuro della continuità dell'impiego». Dopo molti sforzi e qualche progresso, l'obiettivo non è stato ancora raggiunto, ma anche se lo fosse non riguarderebbe chi ha un mandato elettorale o un'alta carica conferita dall'esecutivo - cioè i vertici governativi. In America, dove il processo elettorale sta affondando in un mare di tecniche commerciali di raccolta di fondi e creazione d'immagine, abbiamo forse completato il ciclo e siamo tornati a un processo selettivo non più fondato sulla capacità di quello che fece Dario re di Persia. Quando Dario e altri sei cospiratori, riferisce Erodoto, ebbero abbattuto il despota regnante discussero del tipo di governo che dovevano instaurare, se una monarchia, con a capo un solo uomo, o un'oligarchia dei più saggi. Dario sostenne che dovevano attenersi all'autorità di uno solo e scegliere, per avere il governo migliore, «l'uomo migliore di tutto il reame». Persuaso, il gruppo convenne di uscire a cavallo il mattino seguente e l'uomo il cui cavallo avesse nitrito per primo al sorgere del sole sarebbe stato re. Grazie allo stratagemma di un astuto stalliere che bloccò il morso della giumenta favorita al momento giusto, il cavallo di Dario nitrì per primo e il suo fortunato padrone, scelto così come l'uomo migliore per il compito, ascese al trono. Altri fattori oltre alla selezione casuale limitano l'influenza del «fuoco pensante» sugli affari pubblici. Per un capo di Stato, nelle condizioni moderne, un fattore limitativo è l'esistenza di troppi argomenti e problemi in troppe aree di governo perché egli possa giungere alla solida comprensione di uno qualsiasi di essi, e la troppo scarsa disponibilità di tempo per pensare negli intervalli tra appuntamenti di quindici minuti e la lettura di documenti di trenta pagine. Questo lascia il campo aperto alla stupidità protettiva. Nel frattempo la burocrazia, ripetendo oggi senza correre rischi quello che ha fatto ieri, procede con l'ineluttabilità di un enorme computer il quale, una volta che ha incamerato un errore, lo ripete in eterno.

Epilogo

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È soprattutto l'amore per la carica, conosciuta in America come la febbre del Potomac, • a vanificare un miglior funzionamento del governo. Il burocrate sogna un avanzamento, chi ha un'alta carica di governo vuole occupare più spazio, i legislatori e il capo dello Stato vogliono farsi rieleggere: e il principio guida per tutti è di soddisfare il maggior numero di persone e offenderne il meno possibile. Per governare in maniera intelligente le persone alle quali è stata affidata un'alta carica dovrebbero formulare ed eseguire le loro scelte politiche sulla base del loro più pacato discernimento, delle migliori informazioni disponibili e di una prudente valutazione del male minore. Ma quello che hanno in mente è la rielezione, e la rielezione diventa il criterio che li guida. Consapevoli del potere decisivo dell'ambizione, della corruzione e dell'emotività, nel cercare un governo più saggio dovremmo forse guardare per prima cosa al carattere. E la prova del carattere dovrebbe essere il coraggio morale. Montaigne aggiunge: «Fermezza e valore, non[ ... ] quello eccitato dall'ambizione, ma[ ... ] quello che la saggezza e la ragione possono porre in un animo ben regolato». I lillipuziani nello scegliere le persone alle quali affidare incarichi pubblici seguivano criteri simili. « ... più si tiene conto della probità» riferisce Gulliver «che dell'ingegno; dato che, essi dicono, il governo è indispensabile al genere umano[ ... ] la Provvidenza non ha mai voluto che il governo fosse una scienza misteriosa alla portata di pochi, di quei geni sublimi, quali ne nascono tre in un secolo: ma partendo dal principio che sincerità, giustizia e temperanza siano alla portata di tutti, chiunque pratica queste virtù, con un po' di buona volontà e d'esperienza diventa atto a servirr il suo paese, eccetto dove si richieda una preparazione speciale di studi». Queste virtù possono in verità essere alla portata di tutti, ma nel nostro sistema hanno minori possibilità di prevalere nell'urna elettorale che non il denaro e l'ambizione spietata. Il problema forse non sta tanto nell'educare i funzionari a governare quanto nell'educare l'elettorato a riconoscere e premiare l'integrità di carattere e a respingere i surrogati. Forse in tempi migliori fioriscono uomini migliori e un governo più saggio ha bisogno di essere alimentato da una società dinamica e non da una società turbata e disorientata. Se John Adams aveva ragione e l'arte del governo è esercitata oggi «poco

• Il riferimento è al fiume Potomac, presso il quale sorge la capitale americana [N.d.T.].

458

La marcia della follia

meglio di tre o quattromila anni or sono», non possiamo ragionevolmente attenderci un grande miglioramento. Possiamo soltanto tirare avanti alla meglio come abbiamo fatto in questi tre o quattromila anni attraverso momenti di splendore e di declino, di grandi imprese e di oscurità.

NOTE BIBLIOGRAFICHE

Capitolo I - Che cosa significa seguire una politica contraria ai propri interessi NOTE

pag.

12

lettera a Thomas JetTerson, 9 luglio, in The AdamsL.J. Cappon, Chapel Hill 1959, II, 351. STORICO INGLESE, «NULLA È PIÙ INGIUSTO»: Denys A. Winstanley, Lord Chatham and the Whig Opposition, Cambridge 1912, 129. PLATONE SUI RE FILOSOFI: Repubblica, V, 473. STORICO su FILIPPO n: Encyclopaedia Britannica, 14a ed., anon. OXENSTIERNA: Bartlett 's Familiar Quotation. ROBOAMO: I Re, 11 :43, 12: l e 4; II Cronache 9:31, 10:1 e 4. «DI GRANDE FOLLIA»: Ecclesiastico (Libro di Siracide) 48:6. MONTEZUMA: William H. Prescott, Tlie Conquest of Mexico, New York 1843; C.A. Burland, Montez.uma, New York 1973. TREDICI MOSCHETTI: New Cambridge Modem History, 442. VISIGOTI: Dr. Rafael Altamira, Spain under the Visigoths, in Cambridge Medieval History, Il, cap. 6. SOLONE, «APPRESE QUALCOSA m NUOVO»: Vite di Plutarco. SCHLESINGER, SR.: The Birth of a Nation, New York 1968, 245-6. VOLTAIRE: cit. in M.A. François, Tlie Age of Louis XIV, Everyman, New York 1966, 408. LUIGI xiv COME STRUMENTO DI mo: G.R.R. Treasure, Seventeenth Century France, New York 1966, 368. OBIEZIONI DEL DELFINO: G.A. Rothrock, The Huguenots: Biography of a Minority, Chicago 1973, 173. COMMENTO DI SAINT-SIMON: Mémoires in Sanche de Gramont, The Age of Magnificence, New York 1963, 274. UFFICIALI UGONOTTI SI UNISCONO A GUGLIELMO m: stima presentata al re dal maresciallo Vauban nel 1689; Rothrock, 179. STORICO FRANCESE su «GRANDI DISEGNI»: C. Pica vet in La diplomatie au temps de Louis XIV, 1930; cit. in Treasure, 353. EMERSON: Journals, 1820-72, Boston 1904-14, IV, 160. CARLO x AVREBBE PREFERITO FARE IL TAGLIALEGNA: Alfred Cobban,

JOHN ADAMS:

Jefferson Letters, a cura di 13 14

15 16 18 19 22 23 26 27 29

31

32

33

462

Note bibliografiche

A History of Modem France, 2 voli. Penguin, 1961, II, 72. 300 PER QUALIFICARSI: Cobban Il, 77. pag.

35

36

37 38

40 41

FRANCHI

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CAPO DI STATO MAGGIORE AL CANCELLIERE: «È PIÙ PROBABILE»:

AMMIRAGLIO NAGANO DUBITA DELLA VITTORIA DEL GIAPPONE:

dal

diario del marchese Kido, Lord del Sigillo reale, 31 luglio 1941, cit. in Herbert Feis, The Road lo Pearl Harbor, Princeton 1950, 252.

Capitolo II - Il prototipo: i troiani fanno entrare m città il cavallo di legno OPERE CONSULTATE APOLLODORO DI ATENE, Biblioteca (Epitome) [ed. ingl. consultata dall'A., The Library (and Epitome), 2 voli., trad. Sir James George Frazer, London and New York 1921] ARNOLD, MATTHEW, On Translating Homer in The Viking Portable Arnold, New York 1949 BOWRA, C.M., The Greek Experience, Mentor, New York s.d. (ma ed. orig. 1957) DlTTI CRETESE e DARETE FRIGIO, Historia de excidio Troiae [ed. ingl. cons. dall' A., The Trojan War, trad. R.M. Frazer Jr., Indiana Univ. Press, Bloomington 1966] DODDS, E.R., The Greeks and the lrrational, Univ. ofCalifornia Press, Berkeley 1951

Note bibliografiche

463

ERODOTO, Le Storie, 2 voli., a cura di Piero Sgray, Napoli 1968 [ed. ingl. cons. dall'A., The Histories, 2 voli., trad. George Rawlinson, Everyman, New York] EURIPIDE, Le troiane [ed. ingl. cons. dall'A., The Trojan Women, trad. e note Gilbert Murray, Oxford Univ. Press, 1915] FINLEY, M.I., The World of Odysseus, ed. riv., New York 1978 GRANT, MICHAEL e HAZEL, JOHN, Gods and Mortals in Classica/ Mythology, Springfield (Mass.) 1973 GRAVES, ROBERT, The Greek Myths, 2 voli., Penguin, Baltimore 1955 GROTE, GEORGE, History of Greece, 10 voli., London 1872 OMERO, Iliade, trad. it. Rosa Calzecchi Onesti, Torino 1963 [ ed. ingl. cons. dall'A., The Iliad, trad. Richmond Lattimore, Univ. ofChicago Press, Chicago 1951; The Iliad, trad. Robert Fitzgerald, New York 1974] OMERO, Odissea, trad. G. Aurelio Privitera, voi. II, Milano 1982 [ed. ingl. cons. dall'A., The Odyssey, trad. Robert Fitzgerald, New York 1963] KIRK, G.s., The Nature of Greek Myths, Penguin, Baltimore 1974 KNIGHT, W.F.J., The Wooden Horse al the Gates of Troy, «Classical Quarterly», voi. 28 (1933), 254 . MACLEISH, ARCHIBALD, The Trojan Horse, in Collected Poems, Boston 1952 MACURDY, GRACE A., The Horse-Training Trojans, «Classica) Quarterly» (O.S. 1923), voi. XVII, 51 QUINTO SMIRNEO, Il libro I delle Postomeriche, trad. Angelo Taccone, Aosta 1910 [ed. ingl. cons. dall'A., The War of Troy, introd. e note Frederick M. Combellach, Oklahoma University Press, Norman 1968] SHELL, BRUNO, The Discovery of the Mind: Greek Origins of European Thought, Cambridge (Mass.) 1953 SCHERER, MARGARET s., The Legend of Troy in Art and Literature, New York and London 1963 STEINER, GEORGE e FAGLES, ROBERT, Homer: A Collection of Criticai Essays, Englewood Cliffs ( N .J.) 1962 VIRGILIO, Eneide, a cura di Ettore Paratore, trad. Luca Canali, voi. I, Milano 1978 [ed. ingl. cons. dall'A., The Aeneid, trad. Rolfe Humphries, New York 1951] NOTE

Avvertenza: i numeri abbinati alle citazioni dell'Iliade, dell'Odissea e dell'Eneide (che variano leggermente a seconda delle traduzioni) si riferiscono ai versi e non alle pagine dei testi. pag. 48 NARRATORE, «QUEL CHE È ACCADUTO»: Popys, prefazione a Homer and the Aelther, in Steiner e Fagles, 140. RACCONTO DI DEMOooco: Odissea, VIII, 499-520. succEsSORI DI OMERO: Le narrative in versi tra Omero e Virgilio, che esistono principalmente in frammenti o epitomi, sono: Le Ciprie, circa VII secolo a.C.; la Piccola Iliade di Lesche di Lesbo; la Distruzione di Ilio di Aretino di Mileto. Le trattazioni della guerra di

464

Note bibliografiche

Troia successive ali' Eneide sono: la Biblioteca di Apollodoro; le Fabulae di Igino l'Astronomo; le Postomeriche di Quinto Smirneo; Servio sull'Eneide; Ditti Cretese e Darete Frigio. pag. 49 POSEIDONE E APOLLO COSTRUTTORI DI TROIA: da Servio, analizzato da Frazer nelle sue note ad Apollodoro, Il, 229-35; note di Murray a Euripide, 81. 50 CAVALLO DI LEGNO COSTRUITO su CONSIGLIO DI ATENA: Eneide, Il, 13-56; Piccola Iliade di Lesche cit. in Scherer, 110; Graves, Il, 331. CAVALLO SACRO PER I TROIANI, E VELO SACRO: Odissea, VIII, 511 sgg.; Piccola Iliade cit. in Knight; Eneide, II, 234. EPEO: Quinto Smirneo, 221-22, 227. «A METÀ STRADA TRA LA VITTORIA E LA MORTE»: Quinto Smirneo, 227. TIMETE E CAPI: Eneide, II, 32-37. PRIAMO E CONSIGLIERI DISCUTONO: Aretino, Distruzione di Ilio, cit. in Scherer, 111. 51 LA FOLLA GRIDA «BRUCIATELO!»: Odissea, VIII, 499; Graves, II, 333. AVVERTIMENTO DI LAOCOONTE: Eneide, II, 42-50; Igino, Fabulae. SINONE: Eneide, Il, 57-194; Quinto Smirneo, 228. 52 SERPENTI: Eneide, II, 199-233. 53 PLINIO SULLA STATUA: cit. in Scherer, 113. ALTRI PRODIGI: Quinto Smirneo, 231-32. CASSANDRA: Eneide, II, 246 sgg.; Quinto Smirneo, 232-33; Igino e Apollodoro, cit. in Graves, Il, 263-64, 273; note di Frazer ad Apollodoro, II, 229-35. 54 «E GLI ARTI DI OGNUNO TREMAVANO»: Odisseo riferisce il fatto ad Achille nell'Ade, Odissea, libro XI, 527. SORTE DEI TROIANI DOPO LA CADUTA DELLA CITTÀ: Eneide, Il, 259-804. 56 PAUSANIA E «MACCHINA DI GUERRA»: Grote, I, 285; Graves, II, 335. UNO STORICO MILITARE: Yigael Yadin in World History of the Jewis People, Rutgers Univ. Press 1970, II, 159; anche Art of Warfare in Biblica! Lands, London 1965, 18. 57 ERODOTO SU ELENA: Il, 113-19; «INFATUATI»: ivi, }20. 58 PRIAMO, «GLI DEI SON COLPEVOLI»: Iliade, III, 164-65. ZEUS, «DA SÉ, CON LA LORO EMPIETÀ»: Odissea, I, 32-33. 59 ZEUS, su EGISTO: Odissea, I, 35-43. ATE: appare la prima volta in Esiodo, precedendo Omero; chiamata talvolta Eris o Erinni; altre volte figura come figlia di Eris, dea della discordia; Iliade, IX, 504-05, 512; libro XIX, 91-126, 129, 136; in diversi dizionari classici. 60 LEGGENDA DEL DILUVIO: Kirk, 135-36, 261-64; Graves, II, 269. LITAI: Iliade, IX, 502-04, 508-12. AGAMENNONE INCOLPA ATE: Iliade, libro XIX, 90-97. 61 VISIONE DI BRUTO: Shakespeare, Giulio Cesare [ trad. it. C. Vico Lodovici, atto 3, scena II, Torino 1964]

Note bihliogrnfidie

465

Capitolo III - I papi del Rinascimento provocano lo scisma protestante OPERE CONSULTATE

La fonte più completa per la storia del papato in questo periodo, e nei confronti della quale tutti gli studi successivi sono necessariamente in debito, è la Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo di Ludwig von Pastor (16 volumi), pubblicata per la prima volta in tedesco negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso. Egualmente indispensabile è l'opera classica di Jacob Burkkhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, pubblicata per la prima volta in tedesco nella nativa Svizzera nel 1860. Le fonti primarie, sulle quali si basano le opere successive, sono gli archivi vaticani; lettere, corrispondenza e rapporti diplomatici e altre fonti miscellanee raccolte negli Annali del Muratori; cronache personali, specialmente il diario di John Burchard, maestro vaticano delle cerimonie sotto Alessandro VI e Giulio 11; e le principali opere storiche contemporanee, la Storia d'Italia di Guicciardini, la Storia d'Italia di Francesco Vettori, Il Principe e I discorsi di Machiavelli, le Vite del Vasari. AUBENAS, ROGER e RICARD, ROBERT, L 'Eglise et la Renaissance, in Histoire de l'Eglise, a cura di A. Fliche e V. Martin, voi. 15, Paris 1951 BRION, MARCEL, The Medici, trad. ingl. New York 1969 BURCHARD,JOHN, Pope Alexander VI and His Court (estratti dal diario del maestro papale delle cerimonie, J ohannis Burckardi, Liber Notarum, 1483-1506), a cura di F.L. Glaser, New York 1921 BURCKHARDT, JACOB, La civiltà del Rinascimento in Italia, Firenze 1927 [ed. ingl. cons. dall'A., The Civili~ation of the Renaissance in ltaly, voi. I, Colophon, New York 1958] CALVESI, MAURIZIO, Treasures of the Vatican, trad. ingl. J. Emmons, Geneva

1962 CATHOLIC ENCYCLOPEDIA,

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NEW CATHOLIC ENCYCLOPEDIA,

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The Reformation, London 1964 CHAMBERLIN, E.R., The Bad Popes, New York 1968 CHAMBERS, DAVID SANDERSON, The Economie Predicament of Renaissance Cardinals, in Studies in Medieval and Renaissance History, voi. I Il, Lincoln ( N eb.) 1966 COUGHLAN, ROBERT, The world of Michelangelo: 1475-1564, New York 1966 DICKENS, A.G., Reformation and Society in 16th Century Europe, New York 1966 ERASMUS, DESIDERIUS, The PraiseofFolly, trad. ingl. H.H. Hudson, Princeton 1941 FUNCK-BRENTANO, FRANZ, The Renaissance, trad. ingl. New York 1936 GILBERT, FELIX, Machiavelli and Guicciardini, Princeton 1965 GILMORE, MYRON P., The World of Humanism, /453-1517, New York 1958 GREGOROVIUS, FERDINAND, Storia della città di Roma nel Medioevo, trad. Andrea Casalegno, 3 voli., Torino 1973 [ed. ingl. cons. dall'A., History of Rome, trad. A. Hamilton, 13 voli., London 1894-1902] CHADWICK, OWEN,

466

Note bibliografiche

GUICCIARDINI, FRANCESCO, Storia d'Italia, a cura di Silvana Seidel Menchi, 3 voli., Torino 1971 [ed. ingl. cons. dall' A., The History of ltary, trad. S. Alexander, New York 1969] HALE, J.R., Renaissance Europe: /480-1520, Berkeley 1971 HIBBERT, CHRISTOPHER, The House of Medici: Its Rise and Fall, New York 1975 HILLERBRAND, HANS J ., The World of the Reformation, New York 1973 H0WELL, A.G. FERRERS, S. Bernardino of Siena, London 1913 HUGHES, PHILIP, A History of the Church, voi. III, New York 1947 HUIZINGA, JOHAN, Erasmus and the Age of Reformation, trad. ingl. New York 1957 JEDIN, HUBERT, A History of the Council of Trent, voi. I, trad. ingl. London 1957 LESS-MILNE, JAMES, St. Peter's, Boston 1967 L0PEZ, R0BERT s., The Three Ages of the Italian Renaissance, Boston 1970 MACHIAVELLI, NICCOLÒ, Il Principe, Torino 1962; Discorsi sopra la prima decadi Tito Livio, II voli., Milano 1928 [ed. ingl. cons. dall'A., The Prince and The Discourses, Modem Library, New York 1940] MALLETT, MICHAEL, The Borgias: the Rise and Fall of a Renaissance Dinasry, New York 1969 MATTINGLY, GARRETT, Renaissance Diplomacy, Boston 1955 MCNALLY, R0BERT E., S.J., Reform of the Church, New York 1963 MITCHELL, BONNER, Rome in the High Renaissance: The Age of Leo X, Univ. of Oklahoma Press, Norman 1973 THE NEW CAMBRIDGE M0DERN HIST0RY, voi. I, The Renaissance: 1493-1520, Cambridge 1957 OLIN, JOHN c., The Catholic Reformation: Savonarola to lgnatius Loyola, 1495-1540, New York 1969 o'MALLEY, JOHN, The Discouery of America and Reform Thought at the Papa! Court in the Earry Cinquecento, in First lmages of America, a cura di Fredi Chiapelli, voi. I, Berkeley 1976 ID., Praise and Blame in Rome: Renaissance Rhetoric, Doctrine and Reform in the Sacred Orators of the Papa! Court, 1450-1521, Duke Univ. Press, Durham (N.C.) 1972 owsT, G.R., Preaching in Medieval England, 1350-/450, Cambridge 1926 PARTNER, PETER, The Budget of the Roman Church in the Renaissance Period, in Italian Renaissance Studies, a cura di E.F. Jacob, London 1960 PARTNER, PETER, Renaissance Rome, 1500-1559, Berkeley 1972 PASTOR, LUDWIG VON, Storia dei Papi dalla fine del Medio Evo, 16 voli., Trento, Roma 1890-1934 [ed. ingl. cons. dall'A., The History of the Popesfrom the Close of the Middle Ages, trad. a cura F.I. Antrobus e R.F. Kerr, voli. V-IX, London and St. Louis 1902-1 O] PORTIGLIATTI, GIUSEPPE, The Borgias, trad. ingl. New York 1928 PREZZOLINI, GIUSEPPE, Machiavelli, trad. ingl. New York 1967 RANKE, LE0P0LD V0N, History of the Popes ... in the 16th and 17th Centuries, 3 voli., trad. ingl. London 184 7

Note hihliogra.ficht

467

RIDOLFI, ROBERTO, The Life of Niccolò Machiavelli, trad. ingl. Chicago 1954 RODOCANACHI E., Histoire de Rome: Le ponti.fica! de Jules Il, Paris 1928; Les ponti.ficats d'Adrien VI et de Clément VII, Paris 1933 ROUTH, c.R.N. (a cura di), The Saw It Happen in Europe, 1450-1600 (antologia di resoconti di testimoni oculari), Oxford 1965 scHAFF, DAVID s., History of the Christian Church, voi. 6, Grand Rapids (Mich.) 1910 scHEVILL, FERDINAND, The Medici, New York 1949 ID .. , History of Florence, New York 1971 TODD, JOHN M., The Rejormation, New York 1971 DE TOLNAY, CHARLES, The Medici Chapel, Princeton 1948 ULLMANN, WALTER, A Short History of the Papacy in the Middle Ages, London 1972 VASARI, GIORGIO, La vita di Michelangelo, voi. I, Milano-Napoli 1962; Vita di Raffaello, Firenze 1911 [ ed. ingl. cons. dall 'A., Lives of the Artists, a cura di Betty Burroughs, New York 1946] YOUNG, G.F., The Medici, Modem Library, New York 1930 NOTE

Le guerre, la politica e le relazioni internazionali del papato e degli stati italiani, e le circostanze della rottura di Lutero e delle sue conseguenze non sono annotate qui appresso perché si trovano ampiamente trattate nei normali testi e studi di storia del Rinascimento e della Riforma.

pag.

68 «POSTA DI UNA PARTITA DI TENNIS»: G.G. Coulton, Socia[ Lift in Britain from the Conquest to the Reformation, Cambridge 1918, 204. «AVEVA FAME DELLA PAROLA DI DIO»: cit. in Owar, 31-32. 69 «BASTA CHE IL PREDICATORE»: cit. in Howell, 251-52. 70 «PER TRASFORMARE TUTTI I CRISTIANI»: Todd, 97; Olin, XXI TRACTATUS DEL DE DOMENICHI: O'Malley, 211-14. «BABILONIA, LA MADRE DI ... »: cit. ivi, 211. «LA DIGNITÀ DELLA CHIESA»: cit. ivi, 86, n. 33. 71 MACHIAVELLI, «IL SOMMO BENE»: Discorsi, libro II, cap. Il. 72 GIACOMO IL Ricco: Gilmore, 60. AGOSTINO CHIGI: Funck-Brentano, 37. 73 ASSASSINIO DI GIULIANO DE' MEDICI: Burckhardt, I, 65. «L'UOMO PEGGIORE, PIÙ CRUDELE»: cit. ivi, 65. «DISPREGIATORI»: cit. ivi, 24. 74 «LASCIAVA L'OSPEDALE»: Burchard, 130. PANDOLFO PETRucc1: Burkkhardt, I, 37-38. FEDERICO DI URBINO: ivi, 50-51. 75 NICOLA v, «PER CREARE UNA CONVINZIONE STABILE>►: cit. in LeesMilne, 124, e in Mallett, 47.

Note bibliografiche

468

I. Sisto IV pag.

New Cambridge, 77. CARRIERA E CARATTERE DI Burckhardt, I, 122-25; Hughes, 389-90; Mallet, 53-56; Aubenas, 87-90. 78 SISTO CREA 34 CARDINALI: Chambers, 290;Jedin, 88. SEDI ARCIVESCOVILI A BAMBINI DI OTTO E UNDICI ANNI: Hughes, 442. BANCHETTO DEL CARDINALE RIARIO: Pastor, Il, 420-422. LETTERA DI PIO II AL BORGIA: cit. in Routh, 83. 79 MANIFESTO CHE EGUAGLIAVA SISTO A SATANA: Aubenas, 88, e Pastor, II, 357, nota I. CONGIURA DEI PAZZI: Aubenas, 76-77; Hughes, 393-94. 80 «VOGLIA IODIO CHE VOSTRA SANTITÀ»: cit. in Aubenas, 77. VICENDE DELL'ARCIVESCOVO ZAMOMETIC: Jedin, 105.

77

«I TRE GENI DEL MALE»:

SISTO:

2. Innocenzo VIII 82

Pastor, III, 162-63; Burkkhardt, I, 126. REGALIE DI 25.000 DUCATI DEL BORGIA: Mallet, 100. così «SUPERBO E SLEALE»: cit. in Pastor, III, 160. 83 «INVIATE UNA BUONA LETTERA»: ivi, 164. COSTRETTO A IPOTECARE LA TIARA PAPALE: Ullmann, 319. >: Walpole, Memoirs, IV, 188.

BURKE, «LA CONSERVAZIONE DELL'AMERICA»: «DI IMPORCI»:

477

Note bibliografiche

pag. 160 161

MRS. ARMSTEAD: Valentine,

Germain, 471, n. 3. Structure, 2. GEORGE

23 PRIMOGENITI DI PARI: Namier,

73.

ANDÒ MAI A BARBADOS: Laver, cit. in Fitzmaurice,

162

SELWYN NON

SHELBURNE, «L'UNICO PIACERE»:

I, 88.

WALPOLE, «LA SUA PASSIONE PER IL PRIMO POSTO»:

Memoirs, Il, 164.

SHELBURNE, «ARRIVARSENE CON LE LORO OPINIONI OZIOSE»: cit. in Grafton, Introduction by Anson, NO SERATE DI GIOCO: Sherson,

163

TRASFERIMENTO

DEL VILLAGGIO

PIANTATI A KNOLE: Valentine, PEGGIORE POSSIBILE»: cit. in DICIOTTO RITRATTI: Bargar,

164

XXXIV. SIGNORE PUBBLICIZZAVA-

44. DI STOWE:

Germain, 5. Mead, 31 7.

15.

Hyams,

ALBERI

GOVERNO DI ROMA, «IL DARTMOUTH POSÒ PER

6.

DOTI. JOHNSON, «SOLO DUE UOMINI»: cit. in Lecky, III,

385-86.

PITT,

«INTIMIDITO PER IL RESTO DELLA SUA ESISTENZA»: cit. in Fitzmaurice, I,

72.

MANSFIELD, «NON AVRESTI POTUTO INTRATTENERMI»: cit. in

11.

Hotfman,

WALDEGRAVE su GIORGIO lii: cit. in Brooke,

Crossroads, 131.

Namier,

222;

GIORGIO lii su RE ALFREDO: cit. in Namier,

England, 93. 165 167

4.

«CUORE NERISSIMO» e «SERPENTE NELL'ERBA»: cit. in Watson,

Structure,

AMMIRAGLIO ANSON, «DEVO ORA CHIEDERE»: cit. in Namier,

32. 168

ISTRUZIONI DI LORD NORTH NELLE ELEZIONI DEL 1774: cit. in Trevelyan, I.

169

PARLAMENTARE DELLO YORKSHIRE «RIMASTO SEDUTO DODICI ORE»: cit.

Crossroads, 32. RICHARD JACKSON, and Papers of Franklin and Jack.son, 138. in Namier,

170

BOARO OF TRADE, GLI SI CHIEDE DI SUGGERIRE IL METODO «MENO GRAVOSO»: Beer, ivi,

171

Letters

«HO ACCESSO»:

285.

275.

GRENVILLE, «È DI TUTTI NON DESIDERARE»: cit.

WALPOLE su GRANBY:

Memoirs,

IV,

179.

FOX, «DIECI BOTTIGLIE DI VINO»: ci t. in Trevelyan, I,

205.

WALPOLE

Establishment, II, 950. PREGIUDIZIO»: cit. in Knollenberg, Origin, 105. 6500 DI FARINA: T.H. White, Age of Scandal, London 1950,

su EGREMONT: cit. in Valentine,

172

«A INFINITO TONNELLATE

32. 173

WOLFE SUI SOLDATI AMERICANI: cit. in Knollenberg,

330,

n.

17.

AMHERST, SULLO STESSO ARGOMENTO: ivi,

Origin, 120.

I,

120,

GENERALE

MURRAY, SULLO STESSO ARGOMENTO: Lettersfrom America, 1775-80, of a Scots Officer, Sir James Murray, During the War of American lndependence, a cura di Eric Robson, Manchester University Press

1951.

GENERA-

LE CLARKE, «CON UN MIGLIAIO DI GRANATIERI»: cit. in Benjamin Franklin,

Writings,

IX,

261.

DIVERSA NATURA DEL SERVIZIO MILITARE:

l'argomento, fondato su una ponderosa ricerca originale, avanzato in maniera assai persuasiva da F.W. Anderson in

Colonia! New Englanders Make Bad Soldiers?, «William XXXVIII, n. 3, luglio 1981, 395-414.

Quarterly»,

è

stato

Why Did

and Mary

478

Note bibliografiche

pag. 175

FRANKLIN: l'ipotesi è avanzata da Knollenberg, Origin, 155. 176 «IN NOME DI DIO»: Morgan, Stamp Act, 54, n. 3. RESISTENZA ALLA CREAZIONE DI UN CORPO m POLIZIA E AL CENSIMENTO: Jarrett, 34, 36. 177 L'ORATORE PARLAMENTARE CHE ATTACCÒ IL CENSIMENTO ERA SIR WILLIAM THORNTON: Hansard, XIV, 1318-22. NOTA SULLE MOTIVAZIONI DI

2. «Si asserisce un diritto che si sa di non poter esercitare» 179

MACAULAY, «FINCHÉ DURERÀ IL GLOBO»:

HUTCHINSON:

180

TRATTATO DI

FRANKLIN, «SEGUIRÀ IL DISGUSTO PER QUESTE COSE»:

Doren, 333.

DISCUSSIONI

COLONIE, E LORO OFFERTE: MASSACHUSETTS:

18 l

Ili, 647.

Bailyn, Ordeal, 62-63. m

GRENVILLE CON

cit. in Van

GLI AGENTI DELLE

Morgan, Stamp Act, 53-70.

ASSEMBLEA DEL

ivi, 70.

Morgan, 58, n. 15. INGERSOLL SULLA ivi, 62. WHATELY: «ALCUNE TASSE»: cit. in Wickwire, 103. OPUSCOLO DEL GOVERNATORE HOPKINS: Morgan, Stamp Act, 36. ASSEMBLEA DEL NEW YORK: ivi, 37. DICHIARAZIONE m

GARTH:

«TREMENDA APPRENSIONE»:

182

JACKSON, GARTH, TOWNSHEND IN PARLAMENTO, 6-7 FEBBRAIO 1765:

Hansard XVI. BARRÉ IN PARLAMENTO: ibid. COMMENTO DI INGERSOLL: cit. in Knollenberg, Origin, 224. TRINITY COLLEGE, «METÀ RECINTO DI BELVE»: cit. in Valentine, Germain, 10. SECONDA LETTURA, CONWAY: 15 febbraio 1765, Hansard, XVI. 184

COMMENTI SULL'APPROVAZIONE DELLA TASSA SUL BOLLO: WALPOLE,

Memoirs, Il, 49; WHATELY: cit. in Knollenberg, Origin, 225; SEDGEWICK: ibid. HUTCHINSON, «SIAMO TUTTI SCHIAVI»: cit. in Bailyn, Ordeal, 71. «MA DI CHE HAI PAURA?»: Bailyn, ibid. Resoconto di EZRA STILES: cit. in Morgan, Stiles, 233. LINO FILATO IN CASA: George C. Mason, Reminiscences of Newport, Newport 1884, 358. «I MARI BALLANO E I MESI PASSANO»: Burke, in Parlamento, 22 marzo 1775. ADAMS, «UNA CITTÀ VENALE»: cit. in Bailyn, Ideologica!, 136. «PROGENIE DEI NOSTRI TRASPORTI»: cit. in Miller, Origins, 229. «MISCUGLIO IMBASTARDITO»: ivi, 203. «RAPPRESENTANZA VIRTUALE»: Miller, 279. PIANO m BERNARD: BelotT, Debate, 86-88; Morgan, Stamp Act, 14. COMMENTO DI HALIFAX: Morgan, Stamp Act, l 9. FRANKLIN, «FATTO TREMARE IL MONDO!»: a Lord Kames, 3 gennaio 1760, Writings, IV, 4. FRANKLIN, «SONO TUTTORA DELL'OPINIONE»: Autobiography, parte III, 165. OPUSCOLO DI SOAME JENYN: cit. in Beloff, Debate, 27, 77. 190 CHESTERFIELD, «SI ASSERISCE UN DIRITTO»: lettera del 25 febbraio 1766, Letters, VI, n. 2410. «NE CAPÌ Poco»:

185

186

187

188

Note bibliografiche

pag. 189

GENERALE GAGE:

479

cit. da Burke in Parlamento, 19 aprile 1774,

Hansard, XVIII. 190

FOLLIA NELLA FAMIGLIA DI PITT:

Copeman, 95. 191 «IO so m POTER

Fitzmaurice, I, 71.

GOTTA:

cfr.

cit. in Macaulay, II, 272. WALPOLE, cit. in DNB, Pitt. «SI AGGRAPPAVANO ALLE RUOTE»: Macaulay, III, 617. «ESSENDO RESPONSABILE»: cit. in Williams, Pitt, II, 113. «NON APPARTENGO A NESSUN PARTITO»: cit. in Robertson, 69. «NON POSSO TOLLERARE»: ivi, 2. «SAGGIO E TEMIBILE»: cit. in Robertson, 16. «TRE PROVE PER ISCRITTO»: Fitzmaurice, I, 76, n. NORTHINGTON, «SE AVESSI SAPUTO»: cit. in Feiling, 93. BARRINGTON, «UN COLPO DI FORTUNA»: cit. ivi, 71. GERMAIN, «SE VOI CAPITE LA DIFFERENZA»: cit. in Morgan, Stamp Act, 274. BEDFORD, DIBATTITO ALLA CAMERA DEI LORD: cit. in Thomas, 365. PRESSIONE ORGANIZZATA PER L'ABROGAZIONE: Clark, 41-44-45; Miller, 155. FRANKLIN, «SE NON COSTRETTI ... NON TROVERANNO UNA RIBELLIONE»: in Parlamento, Hansard, XVI, 137. «LA STRAGRANDE MAGGIORANZA»: Winstanley, 109. WALPOLE, «IL RISCHIO m DARE IL VIA»: la nota è del 1768, Memoirs, Il, 218. CAMDEN, «CI SONO COSE CHE NON SI POSSONO FARE»: cit. in Allen, 242. VOLTO «COME QUELLO DI UN ANGELO»: DNB, Conway. REAZIONI ALL'ABROGAZIONE: Hinkhouse, 74-75; Miller, 159-60; Griffith, 45. ADAMS, «LA PIÙ QUIETA E SOTTOMESSA»: cit. in Trevelyan, I, 2. SALVARE»:

«SIAMO COSTRETTI A CHIEDERE»:

192 193 195 196

197

3 Follia a vele spiegale cit. in Bailyn, Ideologica!, 151. cit. in Miller, 240. «CONGEDARE IL MIO MINISTERO»: cit. in Knollenberg, Growth, 35. FRANKLIN su HILLSBOROUGH: cit. in Van Doren, 383. BURKE, «MOSAICO DIVERSIFICATO»: in Parlamento, 19 aprile 1774. 201 CONWAY, «UN LINGUAGGIO»: cit. in Macaulay, III, 672. CHATHAM su NEW YORK: cit. in Ayling, Pitt, 364. «CONTINUE CONGIURE»: Franklin, Autobiography, parte I, 532. GRAFTON SAPEVA m NON ESSERE ADATTO: Brooke, 226. GRAFTON A LONDRA «SOLTANTO UNA VOLTA ALLA SETTIMANA»: Walpole, Memoirs, Il I, 39 l. 202 BURKE su TOWNSHEND: in Parlamento, 19 aprile 1774. WALPOLE, «L'UOMO PIÙ GRANDE»: cit. in DNB. «NON STUDIAVA NULLA»: Memoirs, II, 275. NEWCASTLE E HUME su TOWNSHEND: Namier, Crossroads, 195. WALPOLE, «NON IL MENO PAZZO»: cit. in Sherson, 16. «CADE A TERRA IN PREDA A UN ATTACCO»: cit. in Namier, Crossroads, 195. TOWNSHEND DECISO A NON AVERE NESSUN PARTITO: cit. ivi, 201.

199 200

«UOMINI MALVAGI»:

TOWNSHEND, «SE PERDIAMO IL CONTROLLO»:

480

Note bibliografiche

pag. 203

TOWNSHEND PRESENTA IL BILANCIO: Namier,

242,250.

PROPONE DAZI: Winstanley,

111.

Crossroads, 210;

126-27, 175-79; Walpole, Memoirs, 141, 144; Namier e Brooke, passim.

TE: Grafton, ley,

205

Miller,

IL GABINETTO SI SOTTOMETIII,

GARTH, «GLI AMICI DELL' AMERICA»: Knollenherg,

51,

n., Winstan-

Growth, 302,

n.

33.

«IL POVERO CHARLES TOWNSHEND»: Sir William Meredith, cit. in Foster,

VIII.

LADY

CHATHAM: Ayling,

206

CHATHAM

Pili, 369;

A PYNSENT E HAYES: Walpole, PROPRIETARIO: Bargar,

207

208

L'IRASCIBILE

CAMDEN, ((ALLORA È PAZZO»:

ihid.

PAURA DEI PATRIOTI, AVANGUARDIA DEL «LIVELLAMENTO»: Knollen-

Growth, 48.

GIORGIO III su HILLSDOROUGH: cit. in Miller,

261.

c>: DNB. 250 LE COLONIE DEVONO RICONOSCERE «L'AUTORITÀ SUPREMA»: cit. in Valentine, North, I, 409. PRIESTLEY, «RAGIONEVOLEZZA o MODERAZIONE»: Valentine, North, I, 406. 251 KEPPEL, EFFINGHAM E IL FIGLIO DI CHATHAM RIFIUTANO DI PRESTARE SERVIZIO: Trevelyan, Ili, 202, 206-07. coNWAY «NON AVREBBE MAI SGUAINATO LA SPADA»: Hansard, XVIII, 998. 252 CAVENDISH, ((SEPOLTE IN UNA STESSA FOSSA»: cit. in Millcr, 452. RICHMOND, «PERFETTAMENTE GIUSTIFICABILE»: cit. in DNB. PUBBLICA SOTTOSCRIZIONE A FAVORE DEGLI AMERICANI «ASSASSINATI»:

Hink-

house, 193; Feiling, 134. WALPOLE, IL PAESE ((CADRÀ NELL'ABBANDONO»: alla contessa di Ossory, 15 ottobre 1776, Correspondence, IX, 428. cccHE FOLLIA»: a Conway, 31 ottobre 1776, ivi, IX, 429. BOSWELL, «INDIGESTE E VIOLENTE»: lettere del 18 marzo 1775 e 12 agosto 1775, Letters, a cura di Chauncery Tinker, 2 voli., Oxford 1924, I, 213, 239. DOTI. JOHNSON, «ECCETTO UN AMERICANO»: Boswell, Life, II, 209. CARMARTHEN, «A CHE scopo»: dibattito del 15 aprile 1774, Hansard, XVII, 1208.

484

Note bibliografiche

pag. 253

CHATHAM PREDISSE L'INTERVENTO FRANCESE: cit. in Donne,

dence of George III with Lord North, 254

11 dicembre 169. A BURKE su UN FEUDO IN FRANCIA: Burke, Correspondence, Il, I 18, 120. FOX SUI WHIG DI ROCKINGHAM: Burke,

RICHMOND, «CONFESSO DI NON PROVARE ENTUSIASMO»:

1775,

cit. in Olson,

Correspondence, Il, 182. 255

Coffespon9.

prefazione del curatore, II,

BURKE, «COPIOSE RICCHEZZE»:

ibid.

WASHINGTON, «TUTTE LE FORZE DELLA NUOVA INGHILTERRA»: a} generale Putnam,

Writings of George Washington, 1931-1944,

a cura di John

C.

115. DISCORSO DI CHATHAM DEL 20 NOVEMBRE 1777: Hansard, XIX, 360-75. 256 mx, «ASSOLUTAMENTE IMPOSSIBILE»: Hansard, XIX, 431-32. 25 7 DISCORSO DI CHATHAM DELL' I I DICEMBRE 1777: cit. in Donne, Correspondence of George III with Lord North, Il, 114. «NON AVETE IDEA»: lettera a Selwyn: cit. in Valentine, Germain, 265. «SCORAMENTO Fitzpatrick, USGPO,

IX,

ibid. GIBBON, «SE NON FOSSE STATO PER LA VERGOGNA»' Last Joumals, Il, 76. GERMAIN, «VOLUTA CECITÀ»: cit. in Valentine, Germain, 275.

GENERALE»: Walpole,

258

GIORGIO III, «so CHE STO FACENDO IL MIO DOVERE»:

Correspondence, III, n. 1683. GIORGIO Coffespondence, Il I, n. 3923. 259

1 CAVALLI DELLA CARROZZA DI GERMAIN: Valentine,

Germain, 284.

Hansard, XVIII,

260

26

luglio

1775,

III PREGA IL CIELO DI GUIDARLO' Fitzmaurice,

I, 358;

PROPOSTE PER LA COMMISSIONE DI PACE:

443.

«SILENZIO TOTALE, MALINCONICO»: Walpole,

Last Joumals, Il, 200.

DOTI. JOHNSON, «UN CUMULO DI IMBECILLITÀ»: cit. in Robertson, GIORNO «IGNOMINIOSO»: Walpole a Mann,

174.

Coffespondence, 18 febbraio

1778. 261

ROCKINGHAM E RICHMOND, «ALL'ISTANTE E PUBBLICAMENTE»: Olson, l 72-73. 1778.

262

ULTIMO DISCORSO DI CHATHAM: Hansard,

MORTE DI CHATHAM: Plumb,

the Younger,

New York

Chatham, 156;

1979, 52.

XIX, 7

Robin Reilly,

aprile

William Pitt Pitt,

DOTTOR ADDINGTON, Williams,

II, 242-43. VATICINI DI ROVINA: SHELBURNE: cit. in Miller, 453. RICHMOND A ROCKINGHAM: 15 marzo 1778, cit. in Olson, 172-73. WALPOLE, «PICCOLA MISERABILE ISOLA»: cit. in Miller, 396. 263 BURKE A ROCKINGHAM: 25 agosto l 775, cit. in Miller, 453. FOX, «IN MANIERA CONFACENTE»: cit. in Derry, 87. WALPOLE, «TROPPO INERTI»: Correspondence, a Mann, 30 giugno 1779. FOX, «DISPREZZATI OVUNQUE»: cit. in Derry, 75. COMMISSIONE DI PACE CARLISLE: cit. in Brown, 266. 264 LA SUA PICCOLA FIGLIA CAROLINE: cit. in Brown, 266. «LE NOSTRE OFFERTE DI PACE»: ivi, 263. 265 PUBBLICO PROCLAMA DEL 3 OTTOBRE 1778: Stevens, Facsimiles, XI, n° l 171-72. PRIMA STESURA DI CARLISLE: 29 settembre 1778, Facsimi/es,

485

Note bibliografiche

V,



529.

PROCLAMA:

pag 266

IL CONGRESSO RACCOMANDA LA PUBBLICAZIONE DEL

Facsimiles, XII,

IMPOSSIBILE»:

267

1200-01. Triumph, 5. A WEDDERBURN: 135-36.

MOZIONE DI DUNNING:

I, 216.

MOZIONE DI CONWAY: Jesse,

III, 357;

141; tutte Crossroads, 125.

Feiling,

GIORGIO III PENSA DI ABDICARE: Namier,

270

«È

ihid.

PETIZIONE DELLO YORKSHIRE: Feiling, Trevelyan,

269



EDEN, «QUESTO NOBILE PAESE»: Miller,

le fonti.

254

UNICO INVIATO ALLE TRATTATIVE RICHARD OSWALD: Allen,

(vi

è

chiamato erroneamente James). GIORGIO Ili, «SRADICAMENTO DELL' AMERICA»: a Shelburne,

10

novembre

1782, Correspondence, VI,



3978. 272

ADAMS, «L'ORGOGLIO E LA VANITÀ»: lettera scritta dall'Olanda nel

273

ROCKINGHAM, «TACITO ACCORDO»: cit. in Guttridge,

1782,

cit. in Allen,

255;

v. anche Miller,

Triumph, 632. 73-74.

INVERSIO-

NE DEI RUOLI DI AMLETO E OTELLO: J.G. Adams, cit. da William Willcox,

Portrait of a Generai

(Sir Henry Clinton), New York

1964,

Xl.

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Persone intervistale George W. Ball McGeorge Bundy William P. Bundy Michael Forrestal J .K. Galbraith

Leslie Gelb David Halberstam Morton Halperin Cari Kaysen Robert S. McNamara

Harrison Salisbury Bill Moyers David Schoenbrun James Thomson

490

Note bibliografiche NOTE

Abbreviazioni ARVN Army of the Republic of Vietnam [esercito della Repubblica del Vietnam - Sud] ccs Combined Chiefs of Staff [capi di stato maggiore associati degli Alleati nella seconda guerra mondiale] CINCPAC Commander in Chief, Pacific [alto comando delle forze americane nel Pacifico] DRv Democratic Republic ofVietnam [Repubblica democratica del VietnamNord] FRC (Senate) Foreign Relations Committee [commissione affari esteri del Senato] FRUS Foreign Relations of the United States [serie annuale] JcsJoint Chiefs of Staff [capi di stato maggiore riuniti - Stati Uniti] LBJ Lyndon B. Johnson MAAG Military Assistance Advisory Group [gruppo consiglieri per l'assistenza militare] MACV Military Assistance Command Vietnam [comando per l'assistenza militare, Vietnam] NSC National Security Council [consiglio nazionale per la sicurezza, Stati Uniti] PP Pentagon Papers (tutte le citazioni si riferiscono all'edizione Gravel, salvo quando altrimenti indicato) SEA Southeast Asia [Asia sudorientale]

1. Il dramma in embrione pag. 278 ROOSEVELT, «NON DEVE TORNARE ALLA FRANCIA»: Hull, II, 1597. IL PRESIDENTE «È STATO PIÙ ESPLICITO»: cit. in Thorne, 468. AL CAIRO, «NON DEVE TORNARE ALLA FRANCIA»: Stillwell Papers, cit. in B.W. Tuchman, Stilwell and the American Experience in China, New York 1971, 405. AMMINISTRAZIONE FIDUCIARIA PER 25 ANNI: ivi, 410. «CHIESI A CHIANG KAI-SHEK»: Tuchman, 41 O. 279 GEORGES BIDAULT, «SINCERA COOPERAZIONE»: cit. in La Feber, 1292. L'UFFICIO DELL'ESTREMO ORIENTE INSISTEVA SULL'INDIPENDENZA: memorandum di J.C. Vincent, 2 novembre 1943, FRUS, 1943, China, 866. V. anche Fifield, 69, nota. CONSENSO «VOLONTARIO» DELL'EX POTENZA COLONIALE: Drachman, 51. 280 ROOSEVELT NON INTENDEVA RESTARE «COINVOLTO»: memorandum per il segretario di Stato, 1° gennaio 1945, FRUS, 1945, VI, 293. SI RIMANGIÒ LA DECISIONE: FRUS, 1944, British Commonwealth and Europe, F.D. Roosevelt a Hull, 16 ottobre 1944. V. anche Drachman, 80. ROOSEVELT SULL'«INDIPENDENZA»: a Charles Taussing, Halberstam, 81; Thorne, 630. STETTINIUS SULLA SOVRANITÀ FRANCESE: State

Note bibliografiche

491

Dept. Bulletin, 8 aprile 1945. DE GAULLE, «SE VOI SIETE CONTRO m NOI»: Calfery al segretario di Stato, FRUS, 1945, VI, 300. pag. 281 GREW, «L'INESISTENZA or QUALSIASI DICHIARAZIONE»: Grew a Calfery, FRUS, 1945, VI, 307. V. anche Grew a Hurley, 2 giugno 1945, ivi, 312. INCHIESTA FRANCESE DEL 1910: Buttinger, I, 450, n. 53. «PIÙ ANALFABETI» DEI PADRI: Jules Harmard, Domination et colonisation, Paris, 19 IO, 264, cit. in Buttinger, Smaller Dragon, 425. «1 RAPPRESENTANTI DELLA RAZZA VINTA»: cit. in Manning, Stage, l09, da Milton Osborne, French Presence in Cochin China and Camhodia, 1859-1905, I thaca 1969, 119. 283 L'oss E HO CHI MINH: Smith, 332-34. L'AMERICA «SI OPPONEVA AL COLONIALISMO»: ihid. CAPO DISTRETTO DELL'oss: col. Paul Halliwell, cit. in Shaplen, 33. DECISIONI A POTSDAM: Leahy, 286, 338, 413; v. anche CCS a St.-Didier, 19 luglio 1945, Vigneras, 398. 284 SECONDO L'AMMIRAGLIO KING: Thorne, 631. TRUMAN, «NESSUNA OPPOSIZIONE» AL RITORNO DEI FRANCESI: de Gaulle, III, 9IO. DE GAULLE A CONFERENZA STAMPA: cit. in Drachman, 90. DICHIARAZIONE DI BRAZZAVILLE: cit. in Marshall, 107; v. anche Smith, 324. «CONTINUEREMO A COMBATTERE»: cit. in Shaplen, 30. 285 MESSAGGIO A NOME DI BAO DAI: cit. in Hammer, 102. «FACILITARE LA RIPRESA DEL POTERE ... DEI FRANCESI» cit. in Cooper, 39. RITORNO DEI FRANCESI su NAVI AMERICANE: Dunn; anche Hammer, 113; lsaacs, 151-57. «IMPIEGARE VASCELLI CHE BATTONO BANDIERA AMERICANA»: PP (HR), Bk. I, Part I, A., p. A-24, cit. in Patti, 380. GLI INGLESI UTILIZZANO UNITÀ GIAPPONESI: lsaacs, 151. CITAZIONE DI MOUNTBATTEN: cit. in Dunn da uno dei seguenti: Lord Mounthatten's Report to Comhined Chiejs of Staff, 1943-45, HMSO, London 1951; Post Surrender Tasks, Section E of the ahove, HMSO, London 1969; Documents Re/ating to British lnvolvement in the Indo-China Confiict, 1945-65, Command 2834, HMSO, London 1965. 286 COMMENTI DEL GENERALE GRACEY: cit. in Buttinger, I, 327. VESTIVA UNIFORMI AMERICANE: Cooper, 41; lsaacs, 161; Smith, 344. «STABILE, FORTE E AMICA»: pp (Senate), 13. UNITÀ DELL'oss COME «OSSERVATORI NELLE MISSIONI PUNITIVE»: cit. in Smith, 347. 287 OTTO APPELLI DI HO AGLI STATI UNITI LASCIATI SENZA RISPOSTA: FRUS, 1946, VIII, 27; anche PP, I, 17. RAPPORTO DI ARTHUR HALE: Gallagher Papers, PP (Senate), Appendice I, 31-36. «CHRISTIAN SCIENCE MONITOR»: Gordon Walker, 2 marzo 1946. DIPARTIMENTO DI STATO, «SERIAMENTE DETERIORANDO»: 28 novembre 1945, FRUS, 1945, VI, 1388, n. 37. RAPPORTO DI CHARLES vosT: 13 dicembre, ihid.; v. anche Fifield, 69-70. 288 MARSHALL, «PERICOLOSAMENTE SORPASSATA»: rapporto preparato dall'ufficio affari francesi del dipartimento di Stato per l'ambasciata a Parigi, PP, I, 31-32. ACHESON A MOFFAT: PP, I, 20. MOFFATT, «FRA CINQUANT'ANNI»: pp (Senate), 13.

492

Note bibliografiche

pag. 289

Charles S. Reed al segretario di Stato, 22 dicembre 1946, FRUS, 1946, VIII, 78-79. LECLERC, «CI VORREBBERO 500.000 UOMINI»: cit. in Halberstam, su testimonianza verbale di Paul Mus. TRUMAN E ACHESON ASSICURARONO ALL'OPINIONE PUBBLICA: FRUS, 1945, VI, 313; Thorne, 632.

290

CONSOLE AMERICANO A SAIGON, «NON CI SI PUÒ ATTE'IIIDERE»:

DIRETTIVA DELL'UFFICIO PER GLI AFFARI FRANCESI DEL DIPARTIMENTO

DI STATO:

febbraio 1947, PP, I, 31.

2. Autoipnosi 292

NSC, «L'ASIA SUDORIENTALE È IL BERSAGLIO»:

giugno 1949, PP, I,

82. 293

«AREA CHIAVE»:

ivi, 83.

BAO DAI A PHAN QUANG DAN:

DAN, «PRIVO DI UN'IDEOLOGIA»:

PP, I, 71-72.

ibid.

cit. in Shaplen, 87; PP, I, 73. «VITALE PER ... IL MONDO LIBERO»: 24 maggio 1951, cit. in Gelb, 44. TRUMAN, «MOSTRUOSA COSPIRAZIONE»: rapporto radiofonico al popolo americano, 11 aprile 1951, PP, I, 588. 295 NSC, «PREVISTI» PIANI COMUNISTI: 27 febbraio 1950, PP, I, 83. 294

ROBERT BLUM, «DÀ SCARSO AFFIDAMENTO»:

DIPARTIMENTO DI STATO, NON AVEVA TROVATO TRACCIA DEL CREMLINO:

296

ivi, 34.

TRUMAN, MESSAGGIO SPECIALE AL CONGRESSO:

589.

ACHESON, «ELIMINARE OGNI ILLUSIONE»:

24 maggio 1951, PP, I, cit. in Gelb, 42. RUSK,

cit. in Cohen, 75. «STRUMENTO DEL POLITtestimonianza alla commissione senatoriale affari esteri, 8 giugno 1950, cit. in Cohen, 50. «NUOVO COLONIALISMO»: BURO»:

297

EDITORIALE DEL «NEW YORK TIMES», CHIARO»:

11 giugno 1952.

PP, I, 84.

MEMORANDUM OHLY:

«DOVREBBE

ESSERE ORMAI

NSC PROSPETTA IL CROLLO DEL GIAPPONE:

Acheson, 674. AZIONI NAVALI E AEREE NSC 124, PP, I, 88. 298 WALTER ROBERTSON, «UN REGIME MALEFICO»: cit. in Hoopes, 147. KNOWLAND, «CONQUISTA SOVIETICA»: Hoopes, 203. JOHNSON, «LA GRANDE BESTIA»: cit. in Bali, 404. DULLES, «LA PASSIONE DI CONTROLLARE GLI EVENTI» Hoopes, 140. DULLES: «IL NOSTRO FRONTE DEL PACIFICO ... ESPOSTO ALL'ACCERCHIAMENTO»: al Senato, 21 settembre 1949, cit. in Hoopes, 78,301. «PARTE DI UN UNICO DISEGNO»: ivi, 115. DULLES, «QUESTI DUE GENTILUOMINI»: ivi, 78. AUTORE DELLA SEZIONE SULLA POLITICA ESTERA DEL PROGRAMMA REPUBBLICANO: Halle, 270. Testo in National Party Platforms, compilato da D.B. Johnson, I, 496-505, Univ. of Illinois Press, Urbana 1978. 300 DULLES CERCA DI OTTENERE LA PROMESSA DEL CREMLINO: Hoopes, 172. STATO MAGGIORE DELL'ESERCITO, «RIESAME» IN RAPPORTO AL COSTO: PP, I, 89. LORD BARRINGTON: cit. in Barrington, 142-43. 301 VICEAMMIRAGLIO DAVIS, «DOVEVA ESSERE EVITATO»: PP, I, 89. AMERICANE IN CASO DI INTERVENTO CINESE:

Note bibliografiche

493

PARERE DEI CAPI DEL PENTAGONO, LA CINA È IL NEMICO: cit. in Cohen, 174. pag. 302 TRE CONDIZIONI DI EISENHOWER: PP, I, 94; Mandate, 345. «PROBABILMENTE DETERIORERÀ»: 4 giugno 1953, PP, I, 391-92. «I FRANCESI CI RICATTARONO»: intervista di Acheson con il professor Gaddis Smith, «New York Book Review», 12 ottobre 1969. 303 «LA LIBERTÀ CHE NOI AMIAMO»: cit. in Halle, 286-87. RAPPORTO TRAPNELL: PP, l, 487-89. «MANCANZA DI QUELL'ENTUSIASMO»: 3 febbraio 1954, cit. in Gelb, 52. «LA MASSA DELLA POPOLAZIONE APPOGGIAVA IL NEMICO»: Eisenhower, Mandate, 372-73. 304 GLI STATI UNITI PAGAVANO L'80 PER CENTO: Hammer, 313, n. 2Qa. 306 GIUDICE DOUGLAS: Northfrom Malaya, IO, 208. RAPPORTO MANSFIELD: US. Congress, Senale FRC, 83rd Congress, 1st Session: v. u.s. CONGRESS, SENATE. APPRENSIONE DI DULLES PER GLI ATTACCHI DI

307

308 309 310

311

312 313 314 315

MCCARTHY: Hoopes, 160. STRATEGIA DEL «NEW LOOK», Eisenhower, Mandate, 451; Hoopes, cap. 13. COMMENTO m HUMPHREY: cit. in Hoopes, 196. DULLES, «MENZOGNERA CAMPAGNA DI PACE»: Hoopes, 173. DOCUMENTO POLITICO DI RADFORD PER GINEVRA: PP, l, 448-51. DULLES LASCIAVA L'IMPRESSIONE: Hoopes, 212. NIXON, «SE PER EVITARE»: 16 aprile 1954, cit. in Eisenhower, Mandate, 353, n. 4. EISENHOWER, «IL NOSTRO COMPITO PRINCIPALE»: Mandate, 168. CINESI FORNISCONO 4000 TONNELLATE AL MESE: Cooper, 59. MISSIONE ELY E «OPERAZIONE AVVOLTOIO»: Roberts, in Raskin e Fall, 57-66; PP, I, 97-106. PROPOSTA m USARE BOMBE ATOMICHE: FRUS, 1952-54, XIII, 1271. «PROVOCARE LA REAZIONE CINESE»: Chalmers Roberts, «Washington Post», 24 ottobre 1971, cit. in Gelb, 57. COMMENTO DI MACARTHUR: FRUS, voi. cit., al segretario di Stato, 7 aprile 1954, 1270-72. INCONTRO m DULLES CON I CAPI DEL CONGRESSO: Roberts, op. cit.; Hoopes, 210-11. IL GABINETTO FRANCESE CHIEDE L'INTERVENTO: PP, I, 100-04; Roberts; Hoopes, 207-08. EISENHOWER, «NON Cl SARÀ COINVOLGIMENTO»: IO marzo 1954, cit. in Gurtov, 78. RAPPORTO GAVIN: Ridgway, Soldier, 276; anche Gavin in Senale FRC Hearings, 1966. EISENHOWER CONTRARIO A UN INTERVENTO UNILATERALE: Mandate, 373; PP, I, 129. RAPPORTO DEL COMITATO SPECIALE: 5 aprile 1954, PP, I, 106. DULLES SULLA CADUTA DI DIEN BIEN PHU: 11 maggio 1954, PP, I, 106; anche «New York Times», 24 giugno 1954. MENDÈS-FRANCE, «SERVE ASSAI MENO»: cit. in Hoopes da «Le Monde», 12 febbraio 1954. CESSATE IL FUOCO ENTRO TRENTA GIORNI: ambasciatore Dillon al segretario di Stato, 6 luglio 1954, PP (HR), Bk. IX, 612. COSCRIZIONE: ibid. DULLES, «UNA MINACCIA DELIBERATA»: 11 giugno 1954, cit. in Hoopes, 230. CONSIGLIO m CHOU EN-LAI:

494

Note bibliografiche

riferito da Chou ad Harrison Salisburv, 17 febbraio 1983.

~

da Salisbury all'autrice.

3. La creazione del cliente pag. 318 PERDITE FRANCESI: Eisenhower, Mandate, 337. 319 «ST. LOUIS POST-DISPATCH», «·UNA GUERRA DALLA QUALE STAR FUORI»: 5 maggio 1954, e altri editoriali 7, 9, IO, 12, 14, 19, 22 maggio 1954. VIGNETTA DI FITZPATRICK: «St. Louis Post-Dispatch», 8 giugno 1954. REISCHAUER: «ESTREMAMENTE INEFFICACE»: 178-79; 251-257. DULLES, «così UNITA, così ENERGICA»: cit. in Hoopes, 242. 320 VICEAMMIRAGLIO DAVIS, «NON PIÙ PREPARATA»: PP, I, 212. CARRIERA DI DIEM: rapporto di Mansfield al FRC, 15 ottobre 1954, 83rd Congress, 2nd Session; v. anche Scheer. 321 IL GIUDICE DOUGLAS PRESENTA DIEM: Scheer e Hinkle, The Viet-Nam Lobby, in Raskin e Fall, 69. 322 AMERICANI «DIVERSI» DAI FRANCESI: William Bundy all'autrice, 18 febbraio 1981. 323 JCS, «ASSOLUTAMENTE ESSENZIALE», PP, I, 215. JCS, «NESSUNA PROSPETTIVA»: PP, I, 218. «CRISTO SI È TRASFERITO A SUD»: cit. in Cooper, 130. 324 «IL VIETNAM ANDAVA PROBABILMENTE CANCELLATO»: rapporto della missione Lansdale, PP, I, 577. FAURE, «NON SOLTANTO INCAPACE MA PAZZO»: PP, I, 241. RAPPORTO MANSFIELD: U.S. Congress, Senate FRC, 83rd Congress, 2nd Session. LETTERA DI EISENHOWER A DIEM: PP, I, 253. 325 RAPPORTO COLLINS: PP, I, 226. RIBADISCE IL suo PARERE: Collins, 408. 326 MISSIONE LANSDALE: PP, I, 573-83. GOVERNO FRANCESE «DISPOSTO A SONDARE»: PP, I, 221. 327 SAINTENY, «L'UNICO MEZZO POSSIBILE»: PP, I, 222. «NEW YORK TIMES», «RIVELATO INETTO»: C.L. Sulzberger, 18 aprile 1955. DULLES, «PROBABILITÀ ... UNA su DIECI»: Collins, 379. 328 EISENHOWER, «UN SACCO DI DIFFICOLTÀ»: cit. in Cooper, 142. HEATH, «OLTRE 300 MILIONI DI DOLLARI»: PP, I, 227. SPELLMAN, «PIANGIAMO ... »: «New York Times», 31 agosto 1954. 329 DIEM RIFIUTA LE ELEZIONI: PP, I, 245. METODI «OLTRAGGIOSI»: Buttinger, Il, 890. «LA STRAGRANDE MAGGIORANZA»: Leo Cherne in «Look», 25 gennaio 1956; v. anche Cooper, 132. 330 KENNEDY SULLA POPOLARITÀ DI HO: al Senato, 6 aprile 1954, cit. in Scheer, 15. EISENHOWER «RIFIUTÒ DI ACCONSENTIRE»: Ridgway, «Foreign Alfairs», 585; v. anche Eisenhower, Mandate, 372. DIPARTIMENTO DI STATO, «APPOGGIAMO»: PP, I, 246. PHAM VAN DONG, «NOI OTTERREMO L'UNITÀ»: PP, I, 250. 331 STUDIO DI ESPERTI AMERICANI: fa parte di una serie di studi condotti

Note bibliograjiclte

pag

495

in Vietnam dal 1955 al 1962 dalla Michigan State University sotto la direzione del professor Wesley Fishel, cit. in Scheer, 53. GIAP, «ABBIAMO GIUSTIZIATO»: PP, I, 246. 332 AMBASCIATA AMERICANA, «LA SITUAZIONE SI PUÒ RIASSUMERE»: PP, I, 258. MANIFESTO DEI DICIOTTO E ARRESTI: Cooper, 159; testo del manifesto in Raskin e Fall, 116-21. «INCAPACE DI SALVARE IL PAESE»: ivi 483; CONGRATULAZIONI DI WASHINGTON: ihid.

333 PROGRAMMA IN IO PUNTI DEL FLN: testo in Raskin e Fall, 216-21.

4. «Sposati con un fallimento» 334 «ERANO UN DATO DI FATTO»: James Thomson, «New York Times Books», 4 ottobre 1970. 335 KENNEDY, «PIETRA ANGOLARE ... PIETRA DI VOLTA»: discorso su «La posta dell'America in Vietnam» all'associazione American Friends of Vietnam, giugno 1956, cit. in Lewy, 12. 336 MCNAMARA, «ABBIAMO IL POTERE DI FAR SCOMPARIRE»: l'affermazione sarebbe stata fatta in una riunione al Pentagono, Robert D. Heinl, Dictionary of Military and Naval Quotations, Annapolis 1966, 215. 337 BUNDY, IN GRADO DI DIVENTARE PRESIDE A DODICI ANNI: cit. in Halberstam, 52. THURMOND su MCCONE: Halberstam, 153.

338 GALBRAITH, «IL DISASTROSO E IL REPUGNANTE»: Galbraith, 477. «QUESTO È IL PEGGIO CHE ABBIAMO AVUTO FINORA»: Schlesinger, 320; PP, Il, 6, 27. PROGRAMMA DI LANSDALE: PP, Il, 440-41. 339 KENNEDY, «GUERRA DELL'UOMO BIANCO»: Schlesinger, 505,547. «BE', SIGNOR SCHOENBRUN»: Schoenbrun all'autrice.

340 «VANTAGGI DI PORRE FINE AL CONFLITTO LIMITATO»: cit. in Kaplan, 330. KAUFMAN: ivi, 199. KENNEDY LESSE MAO E CHE GUEVARA: Schlesinger, 341. 341 DISCORSO DI ROSTOW A FORT BRAGG: Raskin e Fall, l08-16. LANSDALE, «UN RICHIAMO PIÙ FORTE»: cit. in Schlesinger, 986. 342 BURKE, «PERSEVERARE NELL'ASSURDO»: discorso alla Camera dei Comuni, 19 aprile 1774, Hansard, XVIII. DISCUSSIONI AL PENTAGONO su «CONSISTENZA E COMPOSIZIONE»: Action Memorandum, 11 maggio 1961, PP, II, 642. 343 EISENHOWER INFORMA KENNEDY: Gelb e Betts, 29. VII FLOTTA NEL MARE DELLA CINA MERIDIONALE E ALTRI MOVIMENTI:

Bali, 363.

LEMNITZER CONSIGLIA L'uso DI ARMI NUCLEARI: Galbraith, 467. REAZIONE DI KENNEDY: ihid. 344 JOHNSON, «IL WINSTON CHURCHILL»: cit. in Schlesinger, 541. suo RAPPORTO: testo in PP, Il, 55-59; v. anche Bali, 385.

345 KENNEDY A RESTON: cit. in Gelb e Betts, 70. 346 KENNEDY, «NON POSSIAMO PERMETTERE E NON PERMETTEREMO»: 25 luglio 1961, cit. in Sorensen, 583 sgg. PRONTO A RISCHIARE LA GUERRA NUCLEARE:

ihid.

NITZE, «VALORE PER L'OCCIDENTE»: Thomp-

496

Nott bibliograficht

son e Frizzell, 6. THEODORE WHITE, «LA SITUAZIONE STA PEGGIORANDO»: cit. in Schlesinger, 544. VALUTAZIONE DI MCGARR: Taylor, 220-21. pag. 348 ROSTOW, POSITIVISTA TUTTO D'UN PEZZO: Macpherson, 258. KENNEDY su ROSTow: cit. in Halberstam, 161. RAPPORTOTAYLOR-ROSTow: PP, Il, 14-15, 90-98; Taylor, 227-44. 349 «AGGRESSIONE ESTERNA»: cit. in Cohen, 184. ALLEGATI DEL DIPARTIMENTO m STATO: PP, Il, 95-97. RUSK, «UN CAVALLO PERDENTE»: PP,

Il, 105. 350 «REGIME NON IN GRADO DI FUNZIONARE»: testimonianza a porte chiuse al FRC, 28 febbraio 1961, ci t. in Cohen, 111. REAZIONE DI MCNAMARA E DEI JCS: PP, Il, 108-09. SECONDO MEMORANDUM MCNAMARA-RUSK: PP, Il, 110-16. 351 KENNEDY A DIEM: PP, Il, 805-06. DIEM, «PARVE DOMANDARSI»: ministro della Difesa Thuan Nguyen Dinh all'ambasciatore Nolting, PP, Il, 121. 352 DATI SULLE PERDITE: pp (NYT), 110. COMITATO NAZIONALE REPUBBLICANO: «New York Times», 14 febbraio 1962. KENNEDY, «NON ABBIAMO INVIATO ... TRUPPE DA COMBATTIMENTO»: PP, Il, 808. 353 MCNAMARA, «OGNI MISURAZIONE QUANTITATIVA»: cit. in Schlesinger, 549. RAPPORTO DI GALBRAITH: Galbraith, 471-73; PP, II, 122-24. LETTERE DEL NOVEMBRE 1961 E DEL MARZO 1962: Galbraith, 477-79; anche PP, Il, 670-71. 354 «SPOSATI CON UN FALLIMENTO»: cit. in Schlesinger, 548. 355 JCS, «RISAPUTO IMPEGNO»: Lemnitzer per JCS al segretario alla Difesa, 13 aprile 1962, Schlesinger, 671-72. «NOTIZIE RITENUTE FALSE DAI GIORNALISTI»: Mecklin, I 00. MEMORANDUM DI MANNING. Salinger, 328; per la «guerra della stampa» v. anche Manning (a cura di) Stakes, 58-61. 356 MANSFIELD, «LO ZELO AVREBBE SIGNIFICATO LA ROVINA»: Macpherson, 45. RIFERÌ AL SENATO: 88th Congress, 1st Session, GPO, Washington, D.C., 1963. CONVERSAZIONE TRA MANSFIELD E KENNEov: O'Donnell. RAPPORTO HILSMAN: PP, II, 690-726. 357 DISSONANZA CONOSCITIVA, «SOPPRIMERE, SORVOLARE»: sono in debito con JefTrey Race per aver richiamato la mia attenzione su questo concetto. I passi citati sono tratti dal suo articolo su «Armed Forces and Society». V. anche Leon Festinger, A Theory of Cognitive Dissonance, Evanston (Ili.) 1957. KENNEDY ACCENNA AL RITIRO CON MANSFIELD: O'Donnell. 358 KENNEDY INCARICA MICHAEL FORRESTAL: Forrestal all'autrice. «SEMPLICE, BASTA METTER su UN GOVERNO»: O'Donnell. «AVREBBE SIGNIFICATO IL COLLASSO»: cit. in Schlesinger, 989. «RESTEREMO»: 17 luglio 1963, PP, Il, 824. 359 «No, c1 CREDO»: intervista alla NBC con Chet Huntley, PP, Il, 828.

497

Note bibliografiche

pag. 360

RUSK,

«COSTANTE

PROGRESSO»:

cit.

in

Schlesinger,

SOSPETTATI DI TRATTARE CON IL NEMICO: Bali,

361

986.

1 NHU

370.

«QUALCHE INIZIATIVA STRAVAGANTE»: messaggio, non firmato, dal

26 agosto 1963, PP, II, 738. 371. PER IL COINVOLGIMENTO DEGLI STATI UNITI NEL COLPO, v. PP, Il, 256-63, Documents, 734-51. LODGE, «QUESTO REGIME REPRESSIVO»: PP, II, 742, par. 8. ISTRUZIONI DI WASHINGTON: dipartimento di Stato a Lodge, 24 agosto 1963, PP, Il, 734; NSC a Lodge, 5 ottobre 1963, PP, Il, 257, 766. «LODGE, «SIAMO LANCIATI»: PP, II, 738. «ASSASSINIO DEI NHU»: al dipartimento di Stato da Lodge, 5 ottobre 1963, PP, II, 767. ROBERT KENNEDY, «VITTORIA COMUNISTA»: settembre 1963, PP, II, 243, Hilsman, 106. BATTAGLIA DI AP BAC: Manning (a cura di), Stakes, 50-51. COLONNELLO VANN: Halberstam, 203-05. OTTIMISMO DEL DIPARTIMENTO DELLA DIFESA E DEL CINCPAC: Cooper, 480. RAPPORTO DI RUFUS PHILLIPS: PP, Il, 245. JOHN MECKLIN, «NELLA DISPERAZIONE»: Mecklin, X. KATTENBURG DURANTE LA RIUNIONE: PP, II, 241; Cohen, 190. PREDIZIONE DI KATTENBURG: Halberstam, 370. PARLA DE GAULLE: «New York Times», 30 agosto 1963. «FONTI AUTOREVOLI»: ihid., da Washington. «NOTEVOLE CONTRARIETÀ»: ibid. KENNEDY, «IN ULTIMA ANALISI È LA LORO GUERRA»: intervista con Walter Cronkite, settembre 1963, cit. in Wicker, 186. «MA VOI DUE AVETE VISITATO»: cit. in PP, III, 23, da Hilsman. dipartimento di Stato a

Lodge,

COLLEGAMENTO DI CONEIN: Bali,

362

363

364

365

ANNUNCIO DI MCNAMARA, «ENTRO LA FINE DEL 1965 »: testo in Raskin e Fall,

128-29.

5. La guerra del! 'esecutivo 366

DECISE CHE NON AVREBBE «PERDUTO»: Bill Moyers all'autrice. «NON INTENDO ESSERE IL PRIMO PRESIDENTE»: James Reston, «New York Times»,

367



ottobre

1967.

ALTRA VERSIONE: Wicker,

205.

LA RADIO VIETCONG SUGGERISCE IL CESSATE IL FUOCO: cit. in Wicker dajean Lacouture,

Vietnam: Between Two Truces, 1966, 170. SECONDA

TRASMISSIONE INTERCETTATA A WASHINGTON: Wicker,

ibid.

OPPOSIZIO-

NE AMERICANA AGLI APPROCCI DEL GENERALE «BIG» MINH E DEI SUOI SUCCESSORI: Joseph Kraft,

1965. 368 369

Washington lnsight,

«Harper's», settembre

PP, II, 193. 1963. cit. in Cohen, 258.

MCNAMARA, «I PROSSIMI DUE O TRE MESI»:

EDITORIALE DEL «NEW YORK TIMES»:

3

novembre

RUSK, «CONDURREBBE ALLA NOSTRA ROVINA»:

«UN

MILIARDO DI CINESI»: a una conferenza stampa, «New York Times»,

13 27

1967. HANSON BALDWIN: «New York Times Magazine», 1966. SENATORE JOSEPH CLARK: sedute FRC nel 1966. SULLA «LORO» GUERRA: cit. in Wicker, 231-32.

ottobre

febbraio

JOHNSON

Note bibliografiche

}8

ig. 370 «MADDOX»,

AZIONI «DISTRUTTIVE»: PP,

Il,

150-51. UNITÀ NAVALI:

Bali, 379.