La lingua malata. Linguaggio e violenza nella filosofia contemporanea 9788849128413

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La lingua malata. Linguaggio e violenza nella filosofia contemporanea
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Federico Dal Bo

La lingua malata Linguaggio e violenza nella filosofia contemporanea

Introduzione di

Alberto Cavaglion

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© 2007 by CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna

Tutti i diritti sono riservati. Questo volume è protetto da copyright. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in ogni forma e con ogni mezzo, inclusa la fotocopia e la copia su supporti magnetico-ottici senza il consenso scritto dei detentori dei diritti.

Dal Bo, Federico La lingua malata. Linguaggio e violenza nella filosofia contemporanea / Federico Dal Bo. – Bologna : CLUEB, 2007 133 p. ; 21 cm. (Heuresis XI, Scienze filosofiche / 5) ISBN 978-88-491-2841-3

CLUEB Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna 40126 Bologna - Via Marsala 31 Tel. 051 220736 - Fax 051 237758 www.clueb.com Finito di stampa nel mese di dicembre 2007 da Legoprint - Lavis (TN)

pag.

RINGRAZIAMENTI INTRODUZIONE CAPITOLO I Linguaggi dell'esclusione: dall'estraneità culturale al relativismo linguistico 1. Il nemico alle porte: «I sound my barbarie Yawp over thè roofs of thè world» 2. Le due estraneità: dentro e fuori Israele 3. Estraneo tra estranei: limiti e paradossi del relativismo linguistico 4. Atene e Gerusalemme: lafilosofiacome linguaggio dell'esclusione

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CAPITOLO II La teoria freudiana dell'aggressività: Nazionalsocialismo e uso demagogico della lingua 1. Ordine e disordine della mente 2. Ambiguità strutturale 3. La figura del re 4. La personalità tirannica

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CAPITOLO III Heidegger e la deriva ideologica del linguaggio: l'intervista allo Spiegel 1.1 lapsus dell'Intervista: la doppia testualità e la cattiva coscienza 2. L'adesione al nazionalsocialismo quale errore "incomprensibile"

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3. L'arte della parola e la foresta 4. Verso l'apertura al sacro: la necessità della memoria

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CAPITOLO IV II linguaggio ingiusto: Sorel eBenjamin sull'origine della violenza 1. Il piacere dellarivoluzione:il linguaggio come potere 2. Linguaggio e moralità: la violenza e il lato oscuro della lingua 3. Rivoluzione come stato d'eccezione: Sorel come riformista 4. La filosofia come contraccolpo: Benjamin e la purezza della lìngua

Ili Ili 116 120 126

Ringraziamenti

Nonostante i buoni auspici del suo autore, ogni libro nasce sempre faticosamente: ha natali incerti, un lignaggio confuso e spesso una discendenza ingrata. È necessario dunque che l’autore si faccia carico dei difetti della sua opera, mentre i pregi, se vi sono, vanno ascritti agli altri che hanno contribuito a questa fatica. I miei ringraziamenti vanno al Prof. Piero Capelli che ha letto con acribia e benevolenza il mio testo, al Prof. Alberto Cavaglion che ha scritto chiare e severe pagine di presentazione e agli amici Filippo e Tommaso che mi hanno letteralmente regalato osservazioni, giudizi e spunti nel corso della stesura di questo volume. Le pagine che seguono sono dedicate ai miei genitori che mi hanno insegnato ad aprire il cuore di palma della cultura.

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Introduzione

In uno dei suoi articoli sparsi, raccolti in L’altrui mestiere, Primo Levi si sofferma sulla natura del linguaggio e spiccando il volo a partire dall’espressione «leggere la vita» («come se divulgando le malefatte di qualcuno, veramente si leggesse in profondità e come in trasparenza, la natura e lo scopo della sua vita riconoscendone l’intrinseca malvagità») l’uomo Levi, e il testimone del Lager, giunge alla stessa conclusione cui giunge Federico Dal Bo ragionando sulla lingua della reclusione e dell’emarginazione: «da molto tempo è stato notato che l’anima del linguaggio è pessimista»1. Levi era un lettore attento di libri e di saggi sulla storia della lingua; dei dialetti, dei gerghi era un curioso esploratore, amava studiare le etimologie delle parole e proprio in quell’articolo, uno dei suoi più belli, riusciva, senza nessun tecnicismo, a calarsi nel passato greco-ebraico-cristiano con animo apparentemente dilettantesco, in verità con la consapevolezza del linguista-scienziato che ispira le sue opere maggiori. Se e come, nell’imponente bibliografia adoperata dall’autore di questo volume, Levi si sarebbe riconosciuto non è facile dire. Sappiamo che ebbe un dialogo serrato a distanza con Celan, conosciamo i vocabolari su cui lavorava, non la letteratura scientifica che invece con estrema competenza maneggiava il grande linguista e filologo Benvenuto Terracini; ma con serenità e senza paura di sbagliare potremmo definire Levi, con Dal Bo, «un operaio della parola», incuriosito dalla «persistente presenza del linguaggio dell’esclusione». Nel racconto con il quale si apre Il sistema periodico, dedicato all’elemento chimico dell’Argon, Levi indaga a fondo sulla “radice umiliata” del gergo ebraico-piemontese dei suoi antenati: «vi mancano, in quanto inutili, i termini per “sole”, “uomo”, “giorno”, “città”, mentre vi sono rappresentati i termini per “notte”, “nascondere”, “quattrini”, “prigione”, “sogno”… »2. Sono parole che vengono in mente scorren-

1

P. Levi, «Leggere la vita», in Opere, a cura di M. Belpoliti, vol. II, Torino, Einaudi, 1997, p. 683. 2 P. Levi, Il sistema periodico, in Opere, cit., II, pp. 746-747. Su questi problemi

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do le prime pagine del libro di Dal Bo, dove si ragiona sull’incontro e la reciproca conoscenza, e comunanza, tra il pensiero grecolatino e quello ebraico intorno all’origine di un vocabolo come «barbaro» (barbar). L’autore di questo libro costruisce un suo personalissimo e originale albero genealogico della lingua dell’esclusione. Una testimonianza, questa, che prova ad abundantiam quanto sia stolto colui che intenda espungere la doppia e intrecciata radice della modernità europea. Dal Bo partendo dal pensiero greco-latino e dal lessico talmudico esamina l’opera di alcuni pensatori lontani fra loro: Heidegger, Améry, Celan, Benjamin, Freud e Steiner. Può meravigliare la lontananza delle angolature e può stupire l’assenza, o la posizione leggermente appartata, che nel disegno di Dal Bo viene ad occupare il pensiero di un filosofo come Leo Strauss che al «linguaggio della reticenza» ha dedicato pagine a giudizio di chi scrive fondamentali, utilissime a spiegare aspetti non secondari nello stile dello stesso Levi e, certo, di George Steiner. All’ermeneutica della reticenza, al virtuosismo dello «scrivere fra le righe» l’autore non attribuisce la stessa importanza che invece riconosce ad altri strumenti che indagano «la natura e lo scopo», direbbe Levi, del «crittotipo». Il libro si colloca lungo un crinale. Se la lingua, secondo la nota definizione di Benjamin, rappresenta un argine che si solleva dal mondo animato dalla violenza («una sfera a tal punto non violenta di intesa umana inaccessibile alla violenza»), il linguaggio dell’esclusione rappresenta un inevitabile vizio di forma, una negazione in essere. Non per caso Dal Bo dedica pagine molto acute alle duplicità e alle contraddizioni di Heidegger, ma soprattutto ai discorsi sulla violenza di Sorel, che per esempio ammaliarono gli ebrei italiani alla vigilia della Grande Guerra predisponendoli, per così dire, ad una supina accettazione del fascismo. Ci sarebbe poi da chiedersi, ma sarebbe un passo ulteriore, che prescinde dal progetto originario del presente volume, se la lingua dell’esclusione si traduca o non si traduca in forme espressive specifiche, se, in altri termini, la balbuzie del barbar possa assumere

sono ritornato in alcune pagine del mio libro recente: A. Cavaglion, Notizie su Argon. Gli antenati di Primo Levi, Torino, Instarlibri, 2006.

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specifiche forme letterarie, iconografiche, filmiche, poetiche. Qui l’unico caso preso in esame sembra essere la lirica di Celan, verso la quale il razionalista Levi, teorico dello «scrivere chiaro» non provava molta simpatia. Ma la lingua dell’annientamento si traduce in capitoli specifici della storia della letteratura, fino a rappresentare una sorta di canone classico, al quale hanno attinto molti testimoni del male novecentesco, non solo Primo Levi o Jean Améry. A farci da guida in questo viaggio agli inferi non possono essere soltanto gli storici che hanno esplorato Behemoth, quanto anche i narratori e soprattutto critici letterari come George Steiner, che ritroviamo spesso citato nel libro di Dal Bo come una sorta di guida spirituale. In effetti, nessun critico europeo meglio di Steiner ha saputo guidarci nei meandri di una letteratura «reticente, fortemente allegorica e prossima al silenzio». A Steiner si deve la più alta e precisa definizione del tempo presente, dell’inquietudine del nostro vivere contemporaneo. La si trova in una pagina di Errata, non a caso scelta da Dal Bo come conclusione di uno dei suoi capitoli centrali. La nostra visione della lingua dell’abominio, insegna Steiner, non è, non può essere quella del necrofilo, né, aggiunge Dal Bo, parlando di Sorel, quella del distruttore «che ha prodotto il male fingendo di ricercare un progetto, un’impresa politica, una rivoluzione nelle scienze umane». La modernità del dopo-Auschwitz vive di un’ossessione, da cui non può, e non deve, separarsi. Se il linguaggio accoglie la pulsione della vita, proprio come le tradizioni culturali che compongono l’etica, come negare ad esso la natura pessimistica del linguaggio sottolineata da Levi a partire dall’espressione «leggere la vita»? Etica e linguaggio dovrebbero avere un fine comune: promuovere e favorire l’educazione soggiogando le spinte aggressive. Dal Bo, con Steiner, e noi con lui, viviamo ossessionati dalla «possibilità che l’apparire in mezzo a noi mammiferi di un Platone, di un Gauss o di un Mozart giustifichi, redima, la specie che progettò e realizzò Auschwitz». Alberto Cavaglion

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Capitolo I Linguaggi dell’esclusione: dall’estraneità culturale al relativismo linguistico

We were so beautiful when we stood astride her ugliness. Her simplicity decorated us, her guilt sanctified us, her pain made us glow with health, her awkwardness made us think we had a sense of humor. Her inarticulateness made us believe we were eloquent Toni Morrison, The Bluest Eye

Non ci stupiscano le metafore con cui ci affrettiamo a celebrare l’opulenza, la creatività e lo slancio vitale del linguaggio: se possiamo ancora affidarci all’affannosa precisione degli studi etimologici, questi ci assicurano che la parola sia nata agli albori della civiltà occidentale, tra i campi, mentre la prima umanità conduceva gli animali al pascolo oppure raccoglieva i prodotti del suolo1. Questa potente metafora si riverbera ancora nelle nostre lingue e ci permette di dire, quando siamo perplessi, di avere bisogno di tempo per raccogliere le idee, ma la percepiamo ormai come un idioma, senza avvertire che è la capacità di razzolare adeguatamente tra i concetti a far sì che l’uomo possa indirizzarsi compiutamente 1 «Chi tenti di rendere la voce logos, ad esempio, ricorre alla radice del verbo greco lego, ma ignora le basi storiche, remote di un mondo culturale ben più antico di Atene e Roma, le quali a quel mondo in realtà devono le loro origini. Se Aristotele avesse potuto cogliere gli antecedenti del greco lego non avrebbe esitato a trarne motivo di ben più penetrante riflessione. Il verbo accadico lequ gioca sulle stesse variazioni semantiche di lego, “raccolgo”, “comprendo”, ma anche dell’ebraico laqach (percepire, accogliere); anzi in questa lingua semitica il greco logos ritrova un suo corrispettivo: leqach (conoscenza, apprendimento, “learning”)» (G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario, Milano, Bruno Mondadori, 2001, p. 43). Si cfr. G. Semerano, Le origini della cultura europea, Firenze, Olschki, 1984-1994 e il più recente G. Semerano, La favola dell’indeuropeo, Milano, Bruno Mondadori, 2005.

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a Dio, raccogliendosi compiutamente in sé. La morte precoce di quest’uomo che in fondo non fu che un soffio cede il passo all’avventura di Caino, il contadino e il primo edificatore di una città: il linguaggio abbandona la condizione dell’idillica innocenza del pastore, ma non rinuncia alla persuasione profonda di essere fondamentalmente un’opera di collezione, di riunione e di raccolto. Come ogni opera di raccoglimento, anche il linguaggio lascia un resto2, ma non cessa di parlare anche di ciò che esclude e che lascia ai propri margini. Questa cedevolezza, ovvero questa incapacità di cedere compiutamente al silenzio, è responsabile di diverse strategie che precisano, innalzano e definiscono i criteri distintivi tra linguaggio e natura, senza tuttavia mai allontanarsi dal confine che viene tracciato: non viene mai meno la persuasione che anche l’estraneo possa parlare. 1. Il nemico alle porte: «I sound my barbaric Yawp over the roofs of the world» L’Europa nasce da un balbettio. Sono le imperfette e imprecise parole degli altri che permettono di avvertire la prima distinzione fondamentale per gli uomini della più antica civiltà occidentale. Colui che nella leggendaria guerra per Ilio era semplicemente un popolo che parla in un’altra lingua3 dice all’uomo colto della ricca e raffinata Grecia una verità fondamentale e traccia una shibboleth greve e indelebile: la civiltà ha dei confini e il linguaggio ne è il custode. Prima che, attraverso un’equivoca genealogia della lingua, il Romanticismo tedesco si avventurasse a rivendicare i propri natali nella grecità profonda e si persuadesse a ripudiare ogni ascendente latino neutralizzando l’esperienza imperiale romana, il pensiero fi2

I maestri della tradizione ebraica accusano infatti Caino di aver offerto a Dio solo gli scarti, il resto del suo raccolto (cfr. Bereshit Rabbah, XXII, 5). Si tratta di una interpretazione singolare che sembra giustificare e sostenere la metafora che abbiamo appena sviluppato: il linguaggio angelicato di Abele non lascia traccia e si dissolve come vana è stata la sua vita, mentre invece nella violenza e negli avanzi offerti al Signore Caino edificherà la prima città e darà avvio alla civilizzazione (cfr. n. 40, p. 68). 3 Omero, Iliade, II, 867.

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losofico classico aveva già stigmatizzato l’abitudine a parlare con barbarismi. I fili che muovono queste posizioni vengono tesi dall’intera cultura greca della polis e tendono con veemenza l’ideale educativo classico della paideia: l’educazione dei fanciulli ai principi della cultura greca tradisce la convinzione che non sia in gioco la coartazione a ideali e principi di una determinata nazione, bensì l’ammaestramento alla civiltà di uomini fin dalla prima infanzia. La civilizzazione è tutt’uno con l’educazione in cuna, come secoli più tardi potrà confermare anche la psicoanalisi, allacciando la crescita del senso morale a una precoce sensibilizzazione alla irrealizzabilità di determinati desideri, perciò al limite delle proprie ambizioni infantili: in questi termini, Bildung tedesca e paideia classica si appellano come ideali culturali a qualcosa di più che non la semplice humanitas latina, già inclinata stoicamente alla trasmissibilità in quanto tale del sapere a chiunque voglia farsi veramente uomo. In questo senso, la prescrizione platonica, ma potremmo dire lo stesso ideale aristocratico di sapienza non mirava semplicemente ad espungere qualsiasi barbarismo, come se si trattasse solo di evitare di comportarsi violentemente o barbaramente4: quella culla in cui va ammaestrato il cucciolo d’uomo è la medesima caverna su cui il sapiente vede i riflessi delle idee, per poi accedere alla verità piena. Non si tratta di rigettare il comportamento barbarico per semplice sentimento di umanità, bensì è necessario, già per esigenze dello stesso pensiero, rigettare una dicotomia che si rivela del tutto inutile all’esercizio dialettico per comprendere chi sia effettivamente l’uomo greco. La dicotomia tra Greci e barbari è inconsistente e teoricamente fallace a causa della povertà di uno dei due termini in paragone: «cioè con lo stesso errore che farebbe uno se tentando di distinguere come dividono molti qui, i quali separano da tutti gli altri uomini i Greci, come una parte dotata di una sua unità, e tutti insieme gli altri generi d’uomini, innumerevoli, senza reciproca comunicazione e l’uno all’altro inintelligibili per la diversità delle lingue, chiamano, con una sola denominazione, “il barbaro” e per questa denominazione unica pensano anche che si tratti in realtà di un genere solo»5. 4

Luciano, Storia vera, X, 27, 3. Platone, Politico, 262 c-d, in Platone, Opere complete, Roma-Bari, Laterza, 1982, vol. II, p. 264. 5

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Apparentemente, la parte migliore della Grecia rigettava quel cosmopolitismo ellenistico che più tardi si sarebbe riverberato nel nascente Cristianesimo, quando i barbari sarebbero tornati ad essere semplicemente coloro che non si esprimevano correttamente in greco ovvero i pagani non Greci, destinatari anch’essi della nuova parola di Dio – che si rivolge invariabilmente a tutti: «non voglio pertanto che ignoriate, fratelli, che più volte mi sono proposto di venire fino a voi per raccogliere qualche frutto anche tra voi, come tra gli altri Gentili. Poiché sono in debito verso i Greci come verso i barbari; verso i dotti come verso gli ignoranti»6. Eppure, la disciplina della mente, il ritorno della mente a Dio e la spigolatura tra l’erba buona e cattiva vivono della stessa separazione che Aristotele traccia vigorosamente tra l’uomo libero e lo schiavo per natura: «in realtà, l’essere che può prevedere con l’intelligenza è il capo per natura, è padrone per natura, mentre quello che può col corpo faticare, è soggetto e quindi per natura schiavo»7. La cultura greca e l’ideale educativo della paideia possono tracimare oltre il Peloponneso solo come un calderone inclinato che si spande sugli altri popoli che l’impero alessandrino verrà a conquistare: il cosmopolitismo non è estraneo alla convinzione che l’eguaglianza naturale degli uomini non contraddica affatto la loro molteplicità culturale e, di contro, l’esistenza di una cultura compiutamente universale. La collisione tra lingua e cultura resta vitale, fino a quando un cattivo linguaggio rispecchia un cattivo pensiero o l’incapacità di dominare intelligentemente il corpo: «nell’essere vivente, in primo 6

Rm I, 13-14. Il punto essenziale non è infatti la semplice apertura universale del messaggio paolino, in questi termini non difforme dallo spirito dello stoicismo antico, quanto l’affermazione della sostanziale stabilità dell’annuncio di fronte alla varietà dei popoli: «Paolo è in attività di servizio […] I confini geografici e le frontiere culturali non lo fermeranno, e se sarà necessario egli assolverà il suo mandato arditamente nel grande emporio spirituale e religioso di Roma, come lo ha assolto tra gli sciocchi abitanti di Iconio e Listra» (K. Barth, L’Epistola ai Romani, tr. it., a cura di G. Miegge, Milano, Feltrinelli, 2002, p. 10). 7 Aristotele, Politica, I, 2, 25-35 (1252a), in Aristotele, Opere complete, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1983, vol. IX, p. 4. Aristotele esplicita una contrapposizione tra civiltà e barbarie che si fonda anche sulla divisione della capacità razionale – ovvero sulla capacità di servirsi adeguatamente del linguaggio. Nel capitolo successivo analizzeremo puntualmente la portata e le conseguenze di questa dottrina metafisica del linguaggio per la quale alla prevalenza muscolare deve corrispondere il silenzio della parola.

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luogo, è possibile cogliere, come diciamo, l’autorità del padrone e dell’uomo di stato perché l’anima domina il corpo con l’autorità del padrone […] Quindi quelli che differiscono tra loro quanto l’anima dal corpo o l’uomo dalla bestia (e si trovano in tale condizione coloro la cui attività si riduce all’impiego delle forze fisiche ed è questo il meglio che se ne può trarre) costoro sono per natura schiavi, e il meglio per essi è star soggetti a questa forma di autorità, proprio come nei casi citati. In effetti, è schiavo per natura chi può appartenere a un altro (per cui è di un altro) e chi in tanto partecipa di ragione in quanto può apprenderla, ma non averla»8. La strategia con cui il cosmopolitismo alessandrino sostiene e promuove l’eguaglianza naturale degli uomini e la reciproca distinzione di costumi e culture è particolarmente raffinata e non pregiudica affatto l’ideale greco della paideia, piuttosto lo precisa: se è vero che «la legge è il sovrano di ogni cosa» (nomos panton basileus), ovvero che ciascun popolo ha le proprie usanze e costumi, non significa affatto che le culture debbano contaminarsi, mescolarsi o confondersi. Il razzismo è certamente un pensiero troppo volgare per questi raffinati teorici che scrivono in un impero multinazionale. Anzi, in pieno ellenismo, la Grecia colta si affatica in esercizi di relativismo, promuove la relatività della bellezza che non viene più percepita come lo statico ideale classico del kalos kai agathos, ma può venire persino declinato secondo i gusti e i pregiudizi di ciascun popolo9. Certamente non furono indifferenti a queste considerazioni degli intellettuali l’effettiva diversità dei costumi, la ricchezza delle culture, la varietà delle lingue e dei popoli riuniti in un impero gigantesco. Il cosmopolitismo greco di ascendenza cinica e stoica si dimostra assai più sensibile rispetto alla perentoria demarcazione tra abili e inabili alla riflessione, forse suggerisce addirittura che la contiguità di “lingua” e “pensiero” non sia altro che un effetto di lingua, la coincidenza terminologica in una sola parola greca, il logos. Queste riflessioni lasciano il segno. Lo testimonia anche una scarna e riduttiva storia del concetto di barbarico attraverso i suoi calchi, attraverso due lingue estremamente diverse – ma, significativamente, proprio attraverso quelle due lingue che, ad un certo 8 9

Aristotele, Politica, I, 5, 5ss (1254a), ivi, p. 11. Cfr. Filostrato, Vita di Apollonio di Tiana, II, 19.

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punto, gli ultimi epigoni del Romanticismo tedesco, altrimenti così attento a rivendicare la propria vicinanza ideale all’intera cultura europea, non esiteranno a rintuzzare con esiti sempre più tragici: la lingua latina e la lingua ebraica10. Per entrambe queste lingue, ovvero rispetto al momento storico in cui queste due lingue manifestano una compiuta e matura riflessione attraverso le loro più eminenti espressioni culturali, il concetto di barbarico si era spinto già troppo oltre la sua iniziale metafora e non avrebbe potuto più tornare a designare semplicemente colui che balbetta in una lingua a noi conosciuta. Eppure, barbarus, in latino, o barbar, in ebraico, non si richiamano più necessariamente ad uno scontro culturale, a un’opposizione irriducibile tra barbarie e civiltà. L’asse viene tracciato geograficamente lungo la linea del Danubio: la futura culla della Bildung europea giace per secoli fuori dagli strali dell’humanitas latina. Barbarus è colui che vive al di fuori dei confini di Roma e non vuole aspirare all’ideale giuridico di ogni uomo, dal punto di vita dell’Impero: diventare cittadino romano11. La Germania certamente non è oggetto di apprezzamenti da parte dell’aristocrazia romana, ma questo pressoché unico esempio di descrizione “etnologica” nell’orizzonte romano antico manifesta una convinzione profonda, che modifi10 Come vedremo nei capitoli successivi, le posizioni dell’orientalista Paul De Lagarde e di Martin Heidegger sono esemplari per comprendere che cosa significhi instaurare un rapporto esclusivo con una cultura: entrambi, ciascuno secondo la propria sensibilità e la propria accortezza, hanno cercato di scoprire gli arcani di una relazione tra i popoli che oltrepassa il senso storiografico (historisch) delle cronache mondane, ma che ricerca l’autentico legame storico (geschichtlich) occulto e nascosto. Per costoro, la lingua non è semplicemente un criterio di appartenenza, bensì ciò che regge (persino in senso “grammaticale”) il rapporto storico autentico, inteso nella sua accezione più profonda: destinale. 11 Il concetto di barbarus in effetti ha una storia complessa che prende avvio dalla ricezione passiva del suo significato originario in lingua greca per indicare, in piena età imperiale, coloro che non appartengono alla civilizzazione greco-romana (cfr. Paulys Realenncyclopädie der classischen Altertumswissenschaft, a cura di G. Wissowa, Weimar, Metzler Verlag, 1896, vol. II, t. 2, p. 2858, sub vocem barbaroi). Al di là di strette questioni terminologiche, su cui non sempre si riverberano precisamente i mutamenti politici e sociali, è importante ricordare che il diritto di cittadinanza verrà progressivamente esteso da Roma agli abitanti italici fino alla Gallia Cisalpina (Lex Iulia), fino a venire esteso a qualunque abitante entro i confini dell’Impero (Constitutio Antoniana) ad indicare principalmente il possesso di uno status giuridico determinato.

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ca essenzialmente il linguaggio dell’esclusione modellato classicamente sul concetto di paideia, ma ciò nonostante la condizione barbarica è soggetta alla legge romana, quindi è suscettibile di cambiamento12. Il concetto di barbarico, dunque, viene sottomesso a un percorso di neutralizzazione che lo produce in una categoria giuridica determinata. Senza che sia più necessario interrogarsi sulla liceità teorica di questa distinzione, sulla falsariga della discriminazione culturale greca il pensiero romano elabora la distinzione giuridica tra colui che è civis romanus e colui che non lo è e forse non aspira nemmeno ad esserlo. Certo, il rifiuto di farsi accogliere tra le ampie ali della pax romana non può che suscitare legittimi e giustificati sospetti sulla moralità di colui che davvero vuole tenersi a parte del più grande impero della storia dell’umanità. Eppure, la barbaricità delle nationes externae continua a dipendere fondamentalmente dalla loro semplice estromissione, sul piano giuridico, dal diritto di godere dei privilegi e dei doveri della civitas latina: il barbarus è certamente un incolto, ma non necessariamente un uomo crudele, se è suscettibile di diventare un socius e forse un vero e proprio cittadino romano. La cesura che la grecità aveva voluto imprimere tra civiltà e barbarie sembra ora quasi invisibile e la linea di demarcazione scorre sottopelle, dove il cuore e le vene della storia pompano il sangue di Roma. 12

Poiché non intendiamo riportare in questa sede una storia complessiva del concetto di “barbaro”, ma ci limitiamo ad analizzare contrastivamente alcuni modelli del linguaggio dell’esclusione, non è possibile seguire compiutamente le metamorfosi di questo termine attraverso la raffinata e articolata opera di mediazione svolta dai Padri della Chiesa latina. I lessico dei Padri, da un lato, resta fedele alla visione tradizionale del barbarus come colui che vive ai margini della pax romana e al quale il messaggio cristiano si indirizza però al pari di qualsiasi altro pagano, romano o barbaro che sia. Ma, dall’altro lato, anche la Chiesa assume il linguaggio di Roma, ne ricalca i cliché, si propone come una humanitas rinnovata. Per cui, quell’imperativo etico di separatezza dai costumi pagani, quella singolare imitazione del comando farisaico di distinguersi dagli altri, si vena di un orgoglio per la grande romanità in decadenza, contrapposta alla marea barbara che sta montando: «la nuova religione non garantiva soltanto la salvezza eterna, ma lentamente tesseva un sistema connettivo entro la società; infiltrandosi in uno Stato in disfacimento, ne ricalcò le istituzioni, ne adottò il lessico e il cerimoniale, ne ereditò l’immagine sopranazionale: “ovunque io mi presenti” scriverà Orosio all’indomani delle invasioni “anche se straniero, sarò pur sempre un romano fra i romani, un cristiano fra i cristiani”» (L. Storoni Mazzolani, Sant’Agostino e i pagani, Palermo, Sellerio, 1988, p. 27).

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Se è significativa anche la semplice storia di concetto che possiamo ricostruire dai testi della tradizione, sembra che nemmeno la sapienza ebraica, compendiata in modo enciclopedico nel Talmud, voglia riprendere effettivamente l’antica contrapposizione greca di civiltà e barbarie. L’uomo pio di Israele, del resto, sa che la vera educazione non proviene né dalla paideia greca, né dall’humanitas latina, bensì promana dallo studio incessante della parola di Dio: la divisione dell’umanità, dunque la distinzione tra i devoti e i sacrileghi deve cadere altrove. In effetti, contrariamente ad altri momenti in cui la speculazione ebraica e il pensiero greco-latino si incontrano e si riconoscono nella comunanza di temi e riflessioni, in questo caso il lessico talmudico accoglie piuttosto sobriamente il concetto di “barbaro” e ne fa poco più di un terminus technicus: il barbar è innanzitutto il remoto abitante delle ultime regioni dell’Impero – un nome quasi mitico di un misterioso despota che regnerà per ultimo prima della Redenzione: «quando il messia dirà ad Israele: “in questo mese sarete redenti”, gli diranno: “come possiamo essere redenti, dal momento che il Santo, benedetto Egli sia, ha giurato di assoggettarci a settanta nazioni?”. Ed egli risponderà loro: “se uno di voi è portato nelle terre barbariche (barbaria’) e uno di voi a Sarmatia, è come se tutti voi foste stati portati lì. E, infatti, Roma prende coscritti da tutto il mondo, da ogni nazione, quindi se un barbaro viene a regnare su di voi, è come se aveste servito le intere settanta nazioni, per cui in questo mese sarete redenti”»13.

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Shir ha-Shirim Rabbah, II, 23. Il termine barbar è relativamente raro nella letteratura rabbinica. Il fatto che il termine abbia un senso esclusivamente tecnicogiuridico e sia privo di implicite connotazioni morali o culturali è dimostrato anche dal caso in cui barbar viene impiegato per indicare Mardocheo come un ebreo della diaspora che vive in Persia, ovvero al di fuori del territorio romano (cfr. Ester Rabbah, VI, 13). È interessante osservare che anche la lingua araba ha assimilato il termine greco barbaros e anzi ha prodotto il calco barbar. Generalmente questo termine viene impiegato per indicare colui che parla disordinatamente, colui che è incivile e colui che appartiene alla tribù dei Berberi. Estensivamente, il termine arabo barbar indica colui che è di religione musulmana, ma non appartiene all’etnia araba (cfr. H. Wehr, Arabisches Wörterbuch für die Schriftsprache der Gegenwart, Lepizig, Hassarowitz Verlag, 1974, sub vocem barbar).

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2. Le due estraneità: dentro e fuori Israele In nessun caso, il termine barbar viene associato a una particolare incompetenza linguistica che, di conseguenza, pregiudica l’accesso alla sapienza di Israele, alla devozione per il Dio unico e alla salvezza dell’anima: forse perché il più grande dei suoi profeti non era abile nella parola che solo Dio gli avrebbe posto sulle sue labbra affaticate e incerte, il pensiero talmudico sembra manifestare una particolare tolleranza nei confronti di colui che non è in grado di esprimersi o parlare correttamente la medesima lingua che circonda e ricopre la tradizione religiosa come la sua propria pelle. In effetti, questa tolleranza non tradisce affatto un’indifferenza rispetto alla competenza linguistica del fedele: sembra piuttosto che i Dottori della Legge preferiscano riservare il loro scandalo per qualcosa di ben più serio. Qualora si cercasse nel testo talmudico un equivalente semantico al termine greco e romano di barbaro, ben difficilmente si troverebbe anche un solo passo esauriente che legasse in modo incontrovertibile, perentorio e edificante l’incompetenza linguistica alla debolezza della fede o alla scarsa moralità. Per coloro che continuano infaticabilmente a rivendicare la lingua ebraica come il mezzo supremo d’accesso alla sapienza di Israele, risulta persino singolare la scarsità di riferimenti, invettive o ironie rivolte nei confronti di coloro che non possiedono opportunamente la lingua sacra14. Tra i pochi passi che si occupano esplicitamente della questione della competenza linguistica dell’orante si distingue in particolare questo lungo passo, composto in parte in ebraico e in parte in aramaico babilonese (che indichiamo in corsivo): Rav Yehudah ha affermato nel nome di Rav: i Giudei che si preoccupano del loro linguaggio, la loro Torah si realizza nelle loro mani, ma i Galilei che non si

14

Il contrasto culturale e sociale nei confronti di coloro che si astengono dal dovere di istruirsi nella Legge divina si polarizza in particolare nel concetto di ‘am ha-’aretz (lett. “il popolo della terra”) che nella letteratura talmudica costituisce l’opposizione polare di talmid chacham o chacham (“discepolo dei saggi” o “saggio”). In realtà, l’intelligenzja rabbinica sviluppò nei confronti di questa classe sociale un atteggiamento ambivalente che risultò in una posizione più tollerante e favorevole. Cfr. A. Oppenheimer, The ‘Am ha-’Aretz, tr. ingl., Leiden, Brill, 1977 (in particolare, in questo contesto, pp. 22 e 188-195).

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occupano del loro linguaggio, la loro Torah non si realizza nelle loro mani. Ma questo dipende dal fatto che se ne preoccupano? Piuttosto dì: i Giudei che sono esatti nel loro linguaggio, la loro Torah si realizza nelle loro mani, ma i Galilei che non sono esatti nel loro linguaggio e non si danno dei segni, la loro Torah non si realizza nelle loro mani15.

Si tratta di un passo apparentemente di semplice comprensione, la cui tesi fondamentale viene ripetuta due volte con alcune variazioni. In effetti, è importante ricordare che il bilinguismo del testo talmudico non testimonia semplicemente la complessa condizione di diglossia e plurilinguismo delle comunità ebraiche dell’oriente antico, ma indica con una rimarchevole sistematicità anche una particolare scansione strutturale all’interno del testo considerato: il passaggio da una lingua all’altra presuppone frequentemente anche uno scarto nella riflessione, che spesso è necessario esplicitare compiutamente per poter venire compresa. In questo caso, il passaggio dall’ebraico all’aramaico babilonese avviene quando l’opinione di Rav Yehudah sembra venire semplicemente ripetuta una seconda volta con alcune variazioni. In effetti, la parte aramaica del testo considerato non ha tanto il compito retorico di stigmatizzare ulteriormente l’abitudine a parlare male da parte degli abitanti della Galilea, quanto lo scopo di introdurre un’osservazione di stretto carattere tecnico, che i maestri di Israele rivolgono soprattutto a se stessi: il ricorso alla lingua aramaica tradisce il carattere scolastico e pedante della correzione introdotta alla massima di Rav Yehuda, secondo la quale è necessario che gli studenti si servano di particolari espedienti mnemotecnici per apprendere correttamente il testo talmudico16. Ancora una volta, la questione stessa della competenza linguistica rimane in secondo piano e, anzi, è necessario attendere un commento ulteriore che precisi indirettamente ciò che il testo talmudico non sembra propenso a dire apertamente: «che si preoccupano del loro linguaggio: cioè, che si preoccupano di parlare in un linguaggio chiaro (tzach) e non in un linguaggio criptico (meguneh)»17. Eppure, anche in questo caso, la spiegazione non sembra affatto univoca. Il sospetto rivolto dal commentatore rispetto alla lingua «criptica» 15

Talmud Babilonese, trattato ‘Eruvin 53a. Cfr. il commento di Rashi a ibidem. 17 Commento di Rashi a ibidem. Cfr. anche la Tosephet al trattato ‘Eruvin 53b. 16

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(meguneh) non si indirizza esclusivamente verso la limpidità delle idee chiare e distinte. Altrove, ciò che viene rimproverato a questa lingua «criptica» non è affatto la mancanza di chiarezza, bensì la sua impudica oscenità: «per cui Rabbi Yehoshua ben Levi disse: non si dovrebbero dire delle oscenità con la propria bocca»18. Un’altra scuola rabbinica ribadisce il comandamento di educare la propria lingua e anzi rampogna ulteriormente chiunque si compiaccia di una parola disordinata e volgare: «la scuola di Rabbi Ishmael insegnava: si dovrebbe parlare sempre con un linguaggio pulito (neqiah)»19. Eppure, nonostante la rigida condanna a cui viene destinata la parola oscena, questi passi non sembrano costituire in quanto tali un principio distintivo del linguaggio dell’esclusione nel testo talmudico; in effetti, la casistica esemplificata nelle pagine successive del medesimo trattato permettono di sostenere con particolare convinzione che questa stigmatizzazione del linguaggio volgare e osceno porti a completezza una particolare strategia di emarginazione che discrimina, tra gli altri, anche le donne20: tuttavia, la distinzione giace altrove. Nell’universo talmudico, la cesura dell’umanità non si consuma nella lingua, sebbene la lingua sacra sia il veicolo supremo di accesso ai mezzi di salvezza. In effetti, l’assenza di una categoria talmudica assimilabile alla classe del “barbaro”, ovvero dell’incolto che non parla la lingua dei Dottori della Legge con la conseguente estromissione dalla civilizzazione, ma anche la stessa relativa scarsità dei passi talmudi-

18

Talmud Babilonese, trattato Pesachim 3a. Il gioco di parole si fonda sulla polisemia della radice verbale ganah (“coprire”, “essere oscuro”, “essere repellente”): nella sua accezione più comune, il participio meguneh indica qualcosa di “osceno”, che deve restare “coperto” e “oscuro” alla vista degli altri, mentre nel caso di Rashi, il termine meguneh si polarizza invece in opposizione con tzach che indica un linguaggio chiaro, cioè rigoroso. 19 Ibidem. 20 Il medesimo passo talmudico che abbiamo appena considerato, ad esempio, tradisce una distinzione e una tensione tra ciò che viene inteso come un linguaggio degli uomini e ciò che viene inteso come un linguaggio delle donne: per una dettagliata analisi di queste pagine, rinviamo a S. Valler, Women’s Talk – Men’s Talk. Babylonian Talmud Erubin 53a-54a, in «Revue des études juives», 162, Janvier-Juin 2003, 1-2, pp. 421-445. Il ruolo delle donne nella letteratura rabbinica e in particolare nella letteratura talmudica è oggetto di indagine di un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall’Institut für Judaistik della Freie Universität di Berlino ed entrato recentemente in attività.

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ci che stigmatizzano apertamente l’incompetenza linguistica dell’orante non parlano comunque in favore di alcun particolare senso di tolleranza: semplicemente, mostrano con chiarezza che lo strumento per dividere l’umanità, determinare il principio di inclusione e quello di esclusione è altrove. Altrove è dunque la ragione profonda di quest’apparente disinteresse dei Dottori della Legge per la capacità di padroneggiare quella medesima lingua che viene infaticabilmente indicata come il mezzo supremo di accesso alla sapienza di Israele: per il pensiero talmudico, evidentemente, il linguaggio dell’esclusione incide il campo dell’umanità secondo una diversa direttrice, segue linee piuttosto complesse in cui si intersecano appartenenza ed estraneità. Il lessico biblico riserva un’attenzione particolare alla diversa catalogazione del popolo eletto di fronte a se stesso e di fronte agli altri popoli – di fronte a coloro che hanno rifiutato la Legge che Dio aveva offerto loro: «il Santo, benedetto Egli sia, offrì la Legge a ogni nazione in ogni lingua, ma nessuno l’accettò, finché giunse da Israele che l’accettò»21. Il popolo eletto rivendica innanzitutto la sua discendenza da Giacobbe e si fregia del titolo di «figli di Israele»: i figli di Israele (bnei Israel) costituiscono infatti il nocciolo più intimo del popolo di Dio, al cui centro si collocano i sacerdoti, i leviti, i maschi israeliti e solo ai margini le donne israelite. Il passaggio dal centro della comunità verso la periferia non rispecchia semplicemente una scansione sociale di cui ora non possiamo comprendere compiutamente il significato, ma determina soprattutto una divisione dello spazio sacro: lungo la linea che procede dal centro della comunità verso la periferia, per procedere infine oltre i confini di Israele, si consuma anche la trama del sacro. In conformità allo spirito dell’onomastica biblica, il trapasso oltre i confini sacri della comunità di Israele determina anche un cambiamento di nome: osservati dall’esterno, i figli di Israele (bnei

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Talmud Babilonese, trattato ‘Avodah Zarah 2b. Esistono diverse versioni di questa offerta da parte di Dio alle nazioni del mondo. È particolarmente significativo osservare che, secondo i maestri di Israele, le nazioni rifiutano la Legge proprio perché amano ciò che questa verrebbe a proibire: uccidere, rubare, fornicare, praticare l’idolatria (cfr. Pirqei de Rabbi Eliezer, XLI; Sifri a Dt 33, 2). In questa prospettiva, ciascun carattere nazionale si oppone alla verità intrinseca della Legge.

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Israel) non sono più tali, ma vengono chiamati «ebrei» (‘ivrim)22. L’estrema sensibilità del testo ebraico per i cambiamenti onomastici impone di risvegliare un senso profondo che si cela nelle profondità della distinzione che per primo Israele pone tra sé e gli altri. Coloro che chiamano il popolo eletto semplicemente come «gli ebrei» (‘ivrim) sembrano appellarsi a una controversa etimologia che li caratterizza semplicemente come coloro che vivono al di là di un determinato confine e, di conseguenza, come coloro che trapassano i confini: «perché vengono chiamati “ebrei” (‘ivrim)? Perché hanno passato (‘avru) il mare»23. Eppure, questo nome, così comune nelle lingue moderne, è pressoché silente nel testo biblico: ex parte Dei gli «ebrei» sono innanzitutto i figli del patriarca Giacobbe, poiché costoro sono l’unico popolo che davvero lotta con Dio e le Sue prescrizioni, senza rigettarle in modo del tutto amorale. Rispetto a questa caratterizzazione fondamentale, anche lo stesso appellativo di «giudeo» (yehud) non è che una determinazione ulteriore del popolo eletto, tuttavia secondaria e fondamentalmente legata alla storia della separazione dei due regni del Nord e del Sud, dopo l’esaurimento della forza unificatrice della monarchia davidica24. Del resto, anche coloro che osservano Israele dall’esterno hanno diversi nomi. In questo caso, il linguaggio dell’esclusione dell’universo giudaico è particolarmente articolato: nella definizione di “straniero” troviamo l’effettivo gemello del concetto di “barbaro” nel mondo greco-latino. I maestri della Legge misurano rigorosamente l’umanità secondo l’orizzonte ideale di una comunità presente e sovrana in Israele, rispetto alla quale lo straniero cade in almeno tre complesse categorie. La distinzione primaria identifica innanzitutto lo straniero che non risiede stabilmente nella terra di

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Si veda ad esempio il caso in cui Giuseppe viene accusato di aver tentato di sedurre la padrona di casa presso cui lavora come servo: «guardate, ci ha condotto in casa un Ebreo per scherzare con noi! Mi si è accostato per unirsi a me, ma io ho gridato a gran voce» (Gn 39, 14). 23 Shemot Rabbah, I, 1 (sulla base di Es 3, 18). 24 Il termine yehudi (a cui risalgono i moderni “giudeo”, “Jew” e “Jude” ecc) era riferito originariamente agli appartenenti alla tribù di Giuda, ma dall’epoca davidica in poi indica gli abitanti di un territorio particolare presso Hebron, per designare poi gli abitanti del regno del Sud tout court (cfr. 2Sam 5,5; 1Re 12, 16-21). Anche yehudi diviene un termine delle Genti per designare i figli di Israele.

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Israele, ma che è di passaggio, “trapassa” per la terra di Israele come gli stessi «ebrei» (‘ivrim) erano accusati di fare nelle terre altrui. Lo straniero di passaggio, questo “ebreo degli ebrei” che non sceglie di risiedere se non temporaneamente nella terra di Israele, si chiama nochri oppure zar e non gode del diritto di accedere alle cose sacre dei figli di Israele, ma può godere del diritto all’ospitalità: «all’aperto non passava la notte lo straniero e al viandante aprivo le mie porte»25. Lo straniero che invece risiede stabilmente nella terra di Israele appartiene a una classe distinta, gode di diritti particolari, come la possibilità di fare la pasqua, ed è sottomesso alle prescrizioni del Sabato: «vi sarà una sola legge per tutta la comunità, per voi e per lo straniero che soggiorna in mezzo a voi (ger ha-gar); sarà una legge unica e un ordinamento unico per voi e per lo straniero che soggiorna in mezzo a voi (ger ha-gar)»26. Questi due tipi di umanità descritti così minuziosamente non sono affatto irriducibili l’uno all’altro. Del resto, il testo biblico conosce molti casi in cui lo straniero riconosce l’effettiva superiorità del Dio di Israele e mostra perciò un alto grado di assimilazione. Tuttavia, la pudicizia con cui viene narrato questo riconoscimento della maestà del Dio di Israele non solo lascia spesso insoddisfatto il nostro senso drammatico della conversione, ma non permette nemmeno di chiarire se questo omaggio alla Sua grandezza determini autenticamente un passaggio da una categoria di umanità all’altra. È necessario attendere la riflessione talmudica per attribuire un rilievo metafisico a questa descrizione, in fondo più semplice piuttosto che ingenua, della conversione del singolo. A partire dall’epoca in cui il proselitismo ebraico viene progressivamente osteggiato fino a giungere all’esplicita proibizione da parte delle autorità ecclesiastiche e imperiali, il concetto di convertito alla fede ebraica conosce un’evoluzione sorprendente. A differenza del testo biblico che si preoccupa di chiarire i doveri civili di uno straniero residente senza contemplare necessariamente il passaggio ad un’altra fede religiosa, la riflessione talmudica articola invece un vero e proprio percorso di conversione secondo una dinamica piuttosto complessa, attraverso cui lo zelo del neofita viene soggetto a

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Gb 31, 32. Per quanto riguarda le limitazioni poste ai servizi sacri, si vedano in particolare Es 21, 8 e Es 29, 33. 26 Nm 15, 15-16. Si cfr. Es 20, 10 e Dt 5, 14.

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una dialettica acuta di rinvii, richiami e ammonizioni. I Dottori della Legge prescrivono che il neofita venga rintuzzato, contenuto e pungolato da una numerosa serie di avvertimenti, limitazioni e correzioni che non hanno lo scopo di annullare il suo desiderio di avvicinarsi alla nuova fede, non obbediscono cioè all’imperativo nichilista di dichiarare che tutto è nulla, bensì perseguono il compito fondamentale di modellare e rifinire il suo stesso slancio religioso: se vogliamo esprimerci in termini psicoanalitici, il desiderio della fede viene commisurato alla realtà del mondo. Lungi dal cedere immediatamente alle ampie ali della Presenza divina, il neofita deve comprendere che l’ingresso nella comunità dei fedeli del Signore è innanzitutto un’uscita da un mondo che già conosce: il processo di conversione parla infatti le medesime parole del linguaggio dell’esclusione. L’aspirante neofita viene ammonito innanzitutto a proposito dell’estrema povertà della ricompensa che lo attende, qualora si decidesse definitivamente di entrare nella comunità dei figli di Israele: «ai giorni nostri, quando un proselita viene a farsi convertire, gli diciamo: “quale è il tuo obiettivo? Non sai che oggi i figli di Israele sono discriminati, perseguitati, esiliati e in sofferenze costanti?” Se dice: “lo so e non lo merito”, lo accettiamo immediatamente e l’informiamo sui comandamenti più lievi e su alcuni comandamenti più severi»27. Prima di rispecchiare la storia dolorosa di una piccola comunità di fedeli rispetto alle grandi macchinazioni delle potenze straniere, prima ancora di contrapporre la malvagità del mondo pagano alla verità del messaggio divino, questo ammonimento rituale circa la realtà di dolore e persecuzione manifesta una sorprendente consapevolezza della natura stessa della conversione: il passaggio dall’esterno all’interno della comunità dei fedeli si consuma in un trapasso ontologico da una condizione ad un’altra, avviene dopo la perforazione di una scorza dura da intaccare che apre tuttavia alla dolce polpa della promessa divina. L’ammonimento iniziale che i Dottori della Legge prescrivono di dover comunicare al neofita sembra ricalcare questo confine tra i due tipi di umanità: quasi lo volesse piegare su se stesso, sembra appunto darvi uno spessore ulteriore, vuole rimarcare la differenza radicale tra coloro che osservano il popolo eletto da stranieri e coloro che

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Talmud Babilonese, trattato Yevamot 47a.

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invece vi abitano insieme. In questa prospettiva, nemmeno l’accesso alla comunità di Israele può essere un semplice accesso attraverso una soglia, una piccola porta preclusa al mondo pagano. In effetti, il proselita non cessa mai di essere in qualche modo uno straniero: è questo probabilmente il senso più profondo della trasformazione del termine ger che in ebraico biblico indica lo straniero residente, ma che nel lessico talmudico definisce appunto il convertito alla fede di Israele, il proselita. Rispetto alla marginale preoccupazione di colui che si converte all’ebraismo dopo essere stato minacciato28, la massima attenzione delle autorità rabbiniche viene rivolta a sincerarsi dell’autenticità e della purezza delle motivazioni che spingono alla conversione, ma, una volta accolto, nessuno dovrà mai discriminarlo o ricordagli la sua passata condizione di pagano, perché di fronte alla Legge sarà divenuto suo compagno: «quando un proselita viene a studiare la Legge, non si deve dire: “lui mangiava la carne di animali marci, di cose impure e disgustose, e ora viene a studiare la Legge che esce dalla bocca del Santo, benedetto Egli sia!»29. Eppure l’estraneità del proselita (ger) rispetto alla comunità di Israele non sopravvive semplicemente nel titolo che manifesta la sua discendenza dal di fuori del popolo eletto, ma anche in una serie di limitazioni che vengono prescritte ai diritti del homo novus di Dio. A prima vista si tratta di osservazioni di carattere estremamente tecnico, elencate in diversi passi talmudici, che limitano la presenza del proselita in una corte composta da correligionari: «secondo la Scrittura, un proselita può sedere in giudizio di un compagno proselita, come è detto: “dovrai costituire sopra di te come re colui che il Signore tuo Dio avrà scelto. Costituirai sopra di te come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te uno straniero che non sia tuo fratello”. Solo quando “costituirà sopra di te”, gli sarà richiesto di essere “uno dei tuoi fratelli”, ma un proselita può giudicare un suo compagno proselita. Se sua madre era una donna israelita, può sedere in giudizio anche di fronte a un 28

Si tratta del caso di una conversione avvenuta per timore della punizione da parte di Dio (2Re 17, 25ss). Da questo episodio è stata coniata l’espressione “il convertito dei leoni” (ger ’arayyot) che indica appunto il passaggio alla fede ebraica sotto la minaccia di morte (cfr. anche Talmud Babilonese, trattato Chullin 3b). 29 Talmud Babilonese, Bava’ Metzia’ 58b.

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israelita. Ma in rispetto allo scalzamento, nessuno uomo può venire eletto come giudice se suo padre e sua madre non erano entrambi israeliti, come è detto: “la famiglia di lui sarà chiamata in Israele la famiglia dello scalzato”»30. Eppure, sembra che queste limitazioni della professione di giudice abbiano soprattutto il senso di ribadire una differenza sul piano linguistico, poiché colui che lavora in un tribunale è essenzialmente un operaio della parola, mentre colui che agisce sulla realtà esprimendo giudizi, praticando una parola efficace nei fatti non è dissimile dal titolo di cui i rabbini fregiano il Dio di Israele, chiamandolo «colui che parlò e il mondo fu». È importante ricordare che l’istituto del ger non fu particolarmente attivo già nell’epoca talmudica: la pressione delle istituzioni ecclesiastiche, del Cristianesimo e dell’Islam resero gradualmente sempre più difficile la possibilità di praticare il proselitismo su larga scala e trasformarono queste accurate distinzioni giuridiche in ipotesi di scuola, la cui applicazione non si sarebbe mai rivolta a più di alcuni singoli individui in una volta. In questa prospettiva così sconfortante per la possibilità effettiva di espandere la comunità di Israele, è impossibile non leggere come un indice teologico radicale proprio la persistente presenza di questo linguaggio dell’esclusione che disciplina, dall’interno e dall’esterno di Israele, la distinzione dell’umanità tra il popolo eletto e le semplici genti del mondo. Se l’istituto del proselita decade progressivamente e rende l’accesso alla religione ebraica un fatto singolare se non addirittura bizzarro, allora l’attenzione che le autorità rabbiniche continuano comunque a spendere nella definizione dei criteri di conversione, di accesso e di estromissione dei singoli è il segno di un atteggiamento teologico piut-

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Talmud Babilonese, trattato Yevamot 102a. Il testo è di carattere tecnico e di grande complessità. Sulla base del testo biblico Dt 17, 15 (in cui il termine re viene interpretato come “giudice” sulla base implicita di Prv 29, 4), i maestri contemplano la possibilità che un proselita possa fare parte di un tribunale rabbinico (bet din) solo se si tratta di giudicare un altro proselita, con l’eccezione del caso in cui la corte si riunisca per deliberare sullo scalzamento (ovvero, il rifiuto di ottemperare la legge del levirato dettata in Dt 25, 1ss) di una donna israelita. Ulteriori precisazioni ed eccezioni alla questione della presenza di un proselita in una corte rabbinica sono reperibili anche in Talmud Babilonese, trattato Yevamot 45b; trattato Qiddushin 76b; si cfr. anche la Tosephet al trattato Yevamot 42b e i commenti rabbinici relativi.

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tosto significativo che si serve sempre di questo linguaggio dell’esclusione che abbiamo esaminato in precedenza. Dalle pagine del testo talmudico, dunque, emerge la convinzione che esista una distinzione primordiale e irrinunciabile nell’umanità, data però l’incontrovertibile esistenza del popolo eletto, le cui consegne e il cui mandato divino restano irrevocabili. Al di fuori si agita invece una seconda umanità straniera ad Israele che può manifestare per i figli di Giacobbe sentimenti di estrema amicizia o di odio estremo: al pari dell’indice di una bilancia, la fissità del popolo eletto – ovvero la sua centralità nella verità della promessa divina – permette di misurare l’oscillazione dei popoli della terra, discriminando ulteriormente tra coloro che si fanno stranieri residenti in Israele, assumendone anche i principi religiosi e divenendo finalmente proseliti (gerim), e coloro che invece rigettano quest’opzione, restando stranieri (zarim) e praticando un culto straniero (‘avodah zarah), ovvero l’idolatria. Degli idolatri e della necessità di separarsene, i primi compendi giuridici ebraici avevano dato una definizione stringente e persino comica nella radicalità della loro condanna: «non si dovrebbe lasciare il bestiame nelle locande dei Gentili, perché sono sospettati di copulare con loro, una donna non si deve appartare con loro perché sono sospettati di volerla possedere, un uomo non deve appartarsi con loro perché sono sospettati di voler spargere sangue»31. In questa prospettiva, il linguaggio dell’esclusione disciplina rigorosamente non solo la distinzione tra il popolo eletto e il resto dell’umanità, bensì la stessa distinzione all’interno dell’umanità in quanto tale.

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Mishnah, trattato ‘Avodah Zarah, II, 1. La radicalità e la perentorietà di questa descrizione barbarica delle genti non israelite è stata soggetta a un’articolata discussione nel Talmud. In effetti, la storia testuale estremamente travagliata di questo trattato rivela, da un lato, la forte pressione degli “esclusi” (le autorità ecclesiastiche e secolari cristiane), che esercitarono una forma progressivamente crescente di censura, ma, dall’altro, dimostra anche la consapevolezza, da parte delle autorità rabbiniche, di praticare maggiormente quella che verrà chiamata, non senza una certa malizia, “l’ermeneutica della reticenza” (cfr. L. Strauss, Scrittura e persecuzione, tr. it., Venezia, Marsilio, 1990). Per un inquadramento della redazione testuale del Talmud e delle polemiche contro il Talmud, si veda G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, tr. it, Roma, Città Nuova, 1995, in particolare pp. 307ss.

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3. Estraneo tra estranei: limiti e paradossi del relativismo linguistico

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Può essere legittimo interpretare la nascita e lo sviluppo del cosiddetto relativismo linguistico anche in reazione a questa controversa concezione dell’umanità di derivazione teologica, per la quale Israele diviene l’indice di diverse estraneità che vi vengono commisurate. Il relativismo linguistico sembra prediligere piuttosto una visione dell’umanità in cui ciascuno sia estraneo all’altro: il linguaggio è, in questo senso, la causa e il segno di questa diversità per la quale manca però l’indice di una misura, di una centralità o di un asse incontrovertibile della storia. Non deve sorprendere eccessivamente il fatto che due tra i maggiori linguisti del Novecento americano come E. Sapir e B.L. Whorf si siano accostati entrambi alla ricerca del linguaggio a partire dagli studi di ebraico biblico: il desiderio che entrambi espressero di conoscere più a fondo la Bibbia li persuase della necessità di leggere la Scrittura in lingua originale, ma questa circostanza non fece dell’ebraico solo un autorevole protrettico alla ricerca successiva in campo linguistico, bensì anche una matrice profonda di un’impostazione teorica che porterà i due studiosi a convergere così strettamente da venire conosciuti insieme come i propugnatori della cosiddetta “ipotesi SapirWhorf” sul linguaggio. Se a causa della sua appartenenza ad una famiglia di fede ortodossa Sapir era portato a ritenere del tutto naturale la conoscenza dell’ebraico come un criterio evidente di identificazione con una comunità religiosa, con uno stile di vita fondato sull’osservanza dei precetti e quindi con un particolare atteggiamento intellettuale verso l’esperienza, nel caso di Whorf fu determinante l’incontro con l’opera dell’esoterista e semitista francese A. Fabre d’Olivet, che egli non esitò a definire uno «di quegli uomini straordinari che sconcertano i loro contemporanei e non lasciano successori»32:

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32 B.L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, tr. it., Torino, Boringhieri, 1977, p. 60. Antoine Fabre d’Olivet (1767-1825) partecipò attivamente alla Rivoluzione francese, da cui venne estromesso ai tempi del Direttorio. Si dedicò successivamente alla scrittura, alla musica e all’esoterismo. I suoi studi di ebraico sfociarono nella monumentale La langue hebraique restituée (La lingua ebraica restituita, tr. it., Milano, Arché, 1978-1983, 3 voll.) in cui interpretò esotericamente il Pentateuco, proponendo quale criterio assai dubbio di analisi linguistica lo studio e la scomposizione delle radici trilittere della lingua semitica, di cui ogni lettera esprimeva un significato mistico cifrato. Cfr. B.L. Whorf, Linguaggio, cit., pp. 60-61.

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averlo lodato per essersi «mantenuto assolutamente estraneo ai giochi di prestigio cabalistici e numerologici di cui era gravata la vecchia tradizione giudaica dell’ebraico» non gli impedì tuttavia di cogliere quel tratto tipico della sua singolare impostazione di ricerca, per cui la lingua (ebraica) è «qualcosa da capire alla luce del comportamento e della cultura dell’uomo»33. È a partire dalla comune consapevolezza del ruolo sociale e culturale dell’ebraico e, per estensione, di ogni lingua, che Sapir e Whorf si dedicarono allo studio di altre tradizioni, combinando la linguistica con l’etnologia e l’antropologia: il confronto tra la loro ipotesi e la teoria cabalistica del linguaggio come è stata successivamente esposta da Scholem riguarda appunto l’esito a cui ha portato la loro impostazione metodica apertamente scientifica e moderna, ma che tuttavia sembra mantenere un legame tenace con quell’idea di lingua creatrice e ordinatrice della realtà, caratteristica della letteratura esoterica. Nonostante la consuetudine di considerare l’opera di Sapir e quella del discepolo Whorf tanto prossime da costituire una complessa unità metodica e teorica, è opportuno esporre singolarmente e cronologicamente i risultati che entrambi i ricercatori hanno ottenuto, per evidenziare da un lato l’originalità di ciascun contributo e dall’altro la misura in cui le due ipotesi linguistiche abbiano potuto accorparsi in un’unica visione della realtà della lingua. Il grado con cui calcolare la loro rispettiva convergenza è infatti determinante per impostare un confronto con quella concezione mistica del linguaggio che ora appare inesorabilmente lontana e confusa con i volumi più grossolani di esoterismo. Attorno all’interesse centrale per il linguaggio si organizza l’intera attività di ricerca di Sapir che si apre presto allo studio delle lingue americane e che nei field trips effettuati per raccogliere osservazioni dirette e scientificamente attendibili approfondisce le cognizioni di antropologia ed etnologia apprese da F. Boas: la ricezione dell’antropologia e la lettura degli scritti della psicoanalisi nascente infatti lo persuadono del carattere assolutamente primario e incontrovertibile del fenomeno linguistico, o «di quei sistemi simbolici arbitrari che noi chiamiamo lingua»34. I dati che si raccolgono dall’osservazione scientifica condotta sulla vita mentale di

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35 36 33 34

Ibidem, pp. 61 e 62. E. Sapir, Il linguaggio, tr. it., Torino, Einaudi, 1969, p. 11.

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un singolo individuo (psicoanalisi) o di un gruppo sociale articolato (antropologia) rendono certamente inadeguata una trattazione del fenomeno linguistico a partire da categorie concettuali romantiche, tese a rivendicare aristocraticamente la portata determinante della cultura e dell’erudizione, ma tuttavia non possono nemmeno esaurire così l’idea di lingua che non si riduce mai «soltanto in termini psicofisici, per quanto la base psicofisica sia essenziale per il funzionamento della lingua nell’individuo»35. La difficoltà di collocare la lingua in un campo determinato e chiarito definitivamente impone al teorico di trattare il fenomeno della comunicazione servendosi di una molteplicità di risorse concettuali che non prescindono però da alcune acquisizioni fondamentali: la visione del linguaggio quale criterio d’ordine della relazione tra significante e significato, e la mancata coincidenza generalizzata di pensiero e linguaggio. Come l’analisi linguistica può evidenziare, il principio di arbitrarietà del segno suggerisce che «la parola deve denotare, etichettare l’immagine, non deve possedere altro valore che quello di un gettone»36 e quindi sintetizza il ruolo del linguaggio «come il collocamento di questi concetti in relazione fra di loro», sebbene questo non significhi coprire l’intero spettro della mente: infatti, «sia vero o no che il pensiero ha bisogno di un sistema simbolico, cioè del linguaggio, il linguaggio nel suo fluire non rimanda sempre ad un sistema di pensiero»37. È la qualità della lingua, in quanto «guida simbolica alla cultura»38, a richiedere una coordinazione tra le moderne scienze umane che porti alla descrizione del linguaggio quale fenomeno caratteristico e comune ad ogni realtà umana osservabile: questo riconoscimento apre un divario estremo tra una concezione linguistica moderna e quella che tradizionalmente sembra essere una visione mistica e cabalistica della lingua. Questo divario manifesto tra la linguistica moderna e l’interpretazione ebraica tradizionale del linguaggio quale strumento dell’azione creatrice di Dio sembra accentuarsi soprattutto mettendo a confronto i principi grammaticali che Sapir enuncia con le regole ermeneutiche dell’esegesi rabbinica: la profonda differenza tra

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Ibidem, p. 10. Ibidem, p. 11. 37 Ibidem, p. 13. 38 E. Sapir, Cultura, linguaggio e personalità, tr. it., Torino, Einaudi, 1972, p. 58. 36

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queste due teorizzazioni non riguarda solo la concezione d’insieme della lingua, ma l’impostazione stessa dei principi descrittivi del linguaggio. Secondo Sapir gli elementi funzionali alla trasmissione del significato si possono dividere essenzialmente in sei classi39: «l’ordine delle parole» (che oscilla sempre tra un modello di lingua affidato alla concordanza attraverso la declinazione e un modello di lingua ad esso opposto, strutturato sull’incasellamento rigoroso degli elementi della frase); «gli affissi» (divisi a loro volta in prefissi, infissi e suffissi); «il mutamento vocalico» e «il mutamento consonantico» (che in alcune lingue determinano modificazioni semantiche); «il raddoppiamento» (cioè, la ripetizione dell’elemento radicale) e infine «le variazioni d’accento» (che eventualmente svolgono un ruolo grammaticale nella formazione di una frase). Se questi processi grammaticali servono a Sapir per classificare le lingue conosciute, mostrando che ciascuna ha «una chiara sensibilità per la schematizzazione»40, l’esegesi rabbinica non ha mancato di rintracciare gli stessi fenomeni linguistici nelle lingue vernacolari della Scrittura (comunemente, l’ebraico e l’aramaico), attribuendovi tuttavia un senso e una finalità ampiamente differenti: è stata infatti la necessità di adattare la normativa presente nel testo biblico alle mutevoli condizioni storiche della comunità di Israele a portare all’elaborazione di dettagliate regole di interpretazione (middot) nel corso dei secoli e a favorire la stesura dei grandi compendi legali del periodo post-biblico come la Mishnah e i due Talmud41. Queste regole possono venire utilizzate per il compito classico di interpretare un brano “narrativo” (haggadah) e in particolare per indirizzare gli studiosi del diritto ad una appropriata codificazione delle norme secondo le circostanze storiche (halakhah): in questo caso, l’esegesi assume un ruolo autenticamente sacrale, perché la comunità degli interpreti viene chiamata a preservare la perfezione dell’ordine divino del mondo, stabilita secon-

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E. Sapir, Il linguaggio, cit., pp. 63-82. 40 Ibidem, p. 61. 41 Ci sono almeno tre elenchi di regole esegetiche: le sette regole di Hillel, che compaiono negli addenda al codice della Mishnah (Tosephet al trattato Sanhedrin VII, 11); le tredici regole di Yishm‘a’el riportate in alcuni compendi giuridici (Sifrà, I) e le trentadue middot attribuite a Rabbi Elie‘zer ben Yose’ ha-Nasi (Midrash ha-gadol alla Genesi). cfr. G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, cit., pp. 30-50.

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do la distinzione tra “puro” e “impuro”. Ciò che la linguistica classifica come elemento grammaticale è un criterio di santificazione per l’ermeneutica rabbinica. La lingua santa sembra inclinarsi verso gli uomini, offrendo loro ogni elemento utile per arricchire ed adattare l’interpretazione della suprema legge dell’universo alla vita quotidiana, senza per questo relativizzarla, ma consegnandola all’energia molteplice della tradizione. Eppure anche per Sapir la lingua, «il più autonomo, il più fortemente resistente di tutti i fenomeni sociali»42, è presa da un corso nascosto che la anima e la scuote, facendo di essa la più vitale tra le istituzioni umane: «la lingua si muove, scende lungo il corso del tempo, seguendo una corrente che essa stessa crea. La lingua, insomma, ha un movimento di deriva (drift)»43. L’attendibilità teorica dell’esistenza di questo movimento, impercettibile per il singolo parlante e articolato dialetticamente tra una tensione di adattamento e una di conservazione44, discende dal principio sopra espresso della mancata identità tra pensiero e linguaggio – o, in altri termini, dalla constatazione che esiste «un’attività simbolica che si svolge nell’inconscio (in the unconscious mind)»45. Benché si possa ritenere che questa e le seguenti formulazioni circa la dimensione nascosta della comunicazione verbale alludano esplicitamente agli scritti di Freud e Jung, resta tuttavia problematico determinare con esattezza ed univocità la portata semantica del termine unconscious che in lingua inglese indica uno spettro di un atteggiamento psichico che spazia da ciò che è “inconsapevole”, a ciò che è “involontario” fino a ciò che è “inconscio” in senso proprio46. Senza dubbio questo termine contribuisce ad alimentare l’ambiguità fondamentale della relazione tra pensiero e linguaggio, per cui non è possibile stabilire con sicurezza se l’influenza delle strutture sintattiche sia diretta, indiretta o casuale e quindi se the unconscious 42

E. Sapir, Il linguaggio, cit., p. 205. Ibidem, p. 151. 44 Ibidem, p. 187. 45 Ibidem, p. 16. 46 Cfr. C. Cobuilds, English Language Dictionary, London, Collins, 1987, sub vocem unconscious. Per una chiarificazione dell’impronta latina dal verbo scio (“conoscere”, “essere consci di”), cfr. E. Partridge, Origins: a Short Etymological Dictionary of Modern English, London, Routledge & Kegan, 1959, sub vocem sciente. 43

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mind indichi la sfera inconscia della mente intesa in senso analitico, l’area sottratta alla consapevolezza, o piuttosto un insieme di relazioni che si determina “involontariamente” – cioè a prescindere dall’attività del soggetto. È dal modo in cui intendiamo il carattere “unconscious” della comunicazione che dipendono sia la possibilità di temperare la portata del relativismo linguistico che, come vedremo, discenderà da questi presupposti, sia l’eventualità di collegare in qualche modo l’ipotesi Sapir-Whorf ad una concezione della lingua che non escluda l’universalismo linguistico (citiamo a titolo d’esempio l’opera di Chomsky): in questo contesto, che precede ancora i grandi studi linguistici novecenteschi, bisogna notare come vi sia una certa oscillazione tra la “grammatica universale” (o potenzialità biologica e genetica di accogliere qualsiasi linguaggio) e la “grammatica particolare” (ovvero, la combinazione di competenza ed esecuzione in una determinata lingua). È perciò difficile stabilire se la “grammaticità” si determini in relazione all’analisi sintattica in una lingua particolare, nel repertorio lessicale di ciascun lemma o in un livello ancora più profondo47. Persino la determinazione dell’unconscious in senso strettamente psicoanalitico non esclude di principio la possibilità di aprirsi ad una forma di relativismo memore di un senso razionale comune: è particolarmente rappresentativo il caso della psicoanalisi che si rivolge a culture non europee, cioè che non padroneggiano di principio quell’insieme di tradizioni e prassi linguistiche determinanti per la conduzione dell’analisi. L’etnopsichiatria si regge sul riconoscimento che anche la psicoanalisi sia un sistema rituale, ritmato dalla separazione (tra medico e paziente) e dalla sua trasgressione (il transfert), ma che la relatività culturale di questa impostazione non infici la possibilità terapeutica, evidentemente fondata sulla condivisione di strutture logiche e linguistiche “inconsce”, per così dire48. Sulla ribalta della dimensione linguistica si muovono due specie di concetti, che permettono di stabilire e mantenere un contatto «col mondo concreto dei sensi», rendendo così possibile la comunicazione: «i concetti fondamentali, ovvero radicali» e «i concetti

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47 48

Cfr. G. Graffi, Sintassi, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 30-33. Cfr. T. Nathan, La follia degli altri, tr. it., Firenze, Ponte alle Grazie, 1990.

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relazionali»49. Mentre i concetti che determinano una relazione tra i simboli linguistici possono variare notevolmente da una lingua all’altra e dal punto di vista «psicologico» risultano opposti, dando maggiore o minore rilevanza all’ordine delle parole, i concetti radicali sono «espressi universalmente»50 e indicano una quota prefissata e necessaria di simbolizzazione della realtà: per poter stabilire una comunicazione «dobbiamo avere a disposizione oggetti, azioni, qualità, per parlare di essi, ed essi, a loro volta, devono possedere simboli corrispondenti, sotto forma di parole autonome o elementi radicali»51. È probabilmente l’impostazione linguistica a imporre a Sapir un principio analitico di distinzione tra concetti primari e secondari del linguaggio, quasi che alla differenza tra concetti radicali e concetti relazionali corrispondesse un diverso grado di prossimità al mondo delle cose: ma la goffa espressione sulla necessità di “avere a disposizione” elementi che designano azioni concrete non è un invito equivoco a credere che lo scopo delle parole sia quello di suscitare le rappresentazioni. Sapir anzi ritiene che si avverta la carica immaginativa di una lingua soprattutto quando non la si conosce e non se ne pratica l’uso: «un cinese intelligente e sensibile, abituato com’è ad arrivare al nocciolo della forma linguistica, potrebbe dire, a proposito di una frase latina, “com’è piena di immaginazione pedantesca!”»52. Con una sensibilità non inferiore a quella del secondo Wittgenstein per la natura paradossale del linguaggio, capace da un lato di evocare un mondo di rappresentazioni e dall’altro di apparire come la più naturale tra le risorse dell’uomo53, Sapir sostiene che ciascuna lingua sia dotata di un ritmo particolare, il cui accordo segreto resta tuttavia celato agli occhi del semplice parlante, ma che l’analisi linguistica può illustrare, richiamandosi al gioco ininterrotto della dimensione simbolica: Jung l’ha collegato alla divisione fondamentale tra interno ed esterno, per cui «la tendenza inconscia verso il simbolismo (the unconscious tendency toward symbolism)» che Sapir attribuisce al linguaggio54 è un processo di interiorizzazione 49

Ibidem, p. 94. Ibidem, p. 118. 51 Ibidem, pp. 94 e 95. 52 Ibidem, p. 98. 53 Ibidem, p. 3. 54 Ibidem, p. 128, n. 1. 50

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dei mutamenti della struttura linguistica. Mentre nel caso dei simboli primari la prossimità all’oggetto designato è ancora piuttosto forte, il grado immaginativo o “simbolico” del linguaggio decade nel tempo, consumandone e levigandone i tratti più appariscenti, cosicché «i simboli cambiano così completamente nella forma da perdere qualsiasi relazione esteriore con ciò che rappresentano»55. La vita della lingua si gioca quindi sulla consunzione del suo carattere simbolico primario e nel progressivo ritiro in ordine ad una struttura che raffina e rende più sofisticato il legame con la realtà: «la grammatica […] può definirsi la somma dei sistemi formali riconosciuti intuitivamente dai parlanti di una lingua»56. La visione della lingua quale «perfetto sistema simbolico dell’esperienza»57 però non è completa se non viene accompagnata da un’adeguata teoria della mente, che prende avvio dalla classificazione junghiana della personalità58: lo sviluppo della personalità è infatti la terza delle funzioni attribuite al linguaggio, dopo quelle più tradizionali di stabilire una comunicazione e permettere la socializzazione59, purché non si confonda con Freud la dimensione arcaica in senso psicologico con la semplice arcaicità cronologica60. Lo studio dei maggiori testi dell’antropologia, la cautela da linguista nel riconoscere una preminenza spirituale a ciò che in effetti è semplicemente un effetto grammaticale e i vari field trips condotti presso le culture americane rendono del tutto inattendibile la concezione freudiana della mentalità primitiva (nata, come è noto, dalla ricezione di fonti secondarie e dal grande volume di etnografia Il ramo d’oro curato da Frazer): la psicologia ha il compito di studiare non solo la vita mentale segnata da una patologia, ma anche la “normalità” di individui e gruppi che comunichino e si associno attraverso una lingua condivisa, mantenendo come criterio fondamentale il principio per cui una psicosi sorge quando manca una conferma «dei significati personali dei sistemi simbolici», determinando una sorta di alienazione linguistica61. Benché sia lo stesso Sapir ad offrire talvolta un’interpretazione sfocata e poco incisiva

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55

E. Sapir, Cultura, linguaggio, cit., p. 60. Ibidem, p. 6. 57 E. Sapir, Il linguaggio, cit., p. 10. 58 E. Sapir, Cultura, linguaggio, cit., pp. 131-136. 59 Ibidem, pp. 13-14. 60 Ibidem, p. 121. 61 Ibidem, p. 129. 56

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di questa correlazione proposta tra psicoanalisi, antropologia e linguistica62, l’equilibrio che viene auspicato tra queste scienze dell’uomo è il fine di una teoria della lingua che sarà soprattutto Whorf a portare ad uno sviluppo più esplicito, amplificando però suggestioni già presenti. Percorsa dal movimento di deriva, la lingua non scarroccia nella moltiplicazione contraddittoria degli elementi formali, ma al contrario soddisfa «la tendenza naturale a ritmi appropriati»63: aderire al proprio ritmo interno comporta per una lingua la riformulazione dei criteri sintattici e morfologici precedenti. Con semplici e appropriati riscontri nella storia della lingua inglese, dalle antiche origini dell’anglosassone sino alle tendenze attuali, Sapir ricava le derive “storiche” dell’idioma britannico: «livellare la distinzione tra caso soggettivo e caso oggettivo», la tendenza ad avere posizioni stabilite nella frase» e un movimento «verso la costituzione della parola invariabile»64. Questo desiderio di uniformità strutturale determina un autentico processo di rimozione, per cui le variazioni grammaticali rilevate nella storia di un lessico sono veri lapsus linguae che solo l’analisi può mettere di fronte al loro significato proprio. Per illustrare la dipendenza e l’influenza reciproca delle tre discipline che studiano la mente dell’uomo, del gruppo e la loro corrispondente espressione verbale, Sapir ricorre ad una metafora che, illuminata con una certa malizia, attenua la distanza tra una visione mistica del linguaggio e questa concezione laica del moto di una lingua interna: «la psicologia sociale […] si trovava in stretto rapporto con quegli studi paradigmatici della mente, proprio come un esame della lingua viva è in rapporto con la grammatica»65. È tuttavia necessaria la mediazione teorica di Whorf per interpretare in senso stretto ciò che in senso proprio avrebbe voluto soltanto esprimere una reciproca contaminazione tra gli elementi linguistici e la realtà, come Sapir intendeva: «forzando le metafore, possiamo dire che il concetto materiale è costretto a servire in luogo del concetto rigorosamente relazionale, o a intrecciarsi con esso»66. Attra62 «Un antropologo sa che non può parlare di economia senza fare qualche importante cenno a proposito della salute e della malattia mentale» (Ibidem, p. 148). 63 E. Sapir, Il linguaggio, cit., p. 161. 64 Ibidem, pp. 164-169. 65 E. Sapir, Cultura, linguaggio, cit., p. 159, c.m. 66 E. Sapir, Il linguaggio, cit., p. 96.

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verso il recupero dell’antropologia e della psicoanalisi, Sapir giunge fino alla constatazione che il pensiero sia linguisticamente amorfo al di fuori della lingua e si arresta sul limitare di una visione del linguaggio più articolata, che dovrà attribuire uno spessore maggiore alla capacità simbolica dell’uomo. Della teoria del maestro Sapir, Whorf condivide e riprende la visione del linguaggio come ciò che «produce un’organizzazione dell’esperienza»67, ma la connessione strutturale che rintraccia tra grammatica e pensiero si infissa con una profondità quasi metafisica al centro della sua riflessione. L’evoluzione rispetto all’impostazione generale di Sapir si segna nel momento in cui la mancata sovrapposizione tra la dimensione linguistica e quella comunemente attribuita al pensiero è l’esito di una particolare concezione del rapporto con il mondo sensibile: «le connessioni devono essere intelligibili senza riferimenti ad esperienze individuali e devono essere relazioni immediate»68. L’immediatezza a cui espone non s’affaccia però al mondo delle cose, ma al carattere stesso che viene impresso al mondo sottomesso ad un ordinamento linguistico: riportando i principi fondamentali dell’universo delle tribù americane, Whorf sottolinea il carattere produttivo del linguaggio, fino al punto di riconoscere che «queste astrazioni […] sono implicite nella struttura stessa e nella grammatica di quella lingua e sono osservabili nella cultura e nel comportamento degli Hopi»69. Questa connessione più stretta tra linguaggio e pensiero lascia accostare seppure sfasate le due dimensioni senza lasciare uno spazio intermedio linguisticamente indeterminato: sebbene il pensiero quale «funzione che in larga parte è linguistica»70 non coincida uniformemente con la facoltà d’espressione, Whorf rigetta qualsiasi posizione che non riconosca alla ragione un carattere comunque simbolico. In termini assolutamente inequivocabili, l’assunto di Sapir, per cui l’uomo è in rapporto linguistico con il proprio inconscio71, viene portato ad una consapevolezza teorica più matura: «“il pozzo profondo dell’attività cerebrale inconscia” consiste sempre di ope-

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B.L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. 39. Ibidem, p. 29. 69 Ibidem, p. 42. 70 Ibidem, p. 51. 71 E. Sapir, Il linguaggio, cit., p. 14. 68

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razioni di strutturazione linguistica e può a buon diritto essere chiamato pensiero»72. Ne offre una giustificazione teorica un accentuato apprezzamento per la Gestaltpsychologie che ha scoperto «l’importanza delle configurazioni nella sfera mentale»73 e quindi l’impossibilità di definire la lingua se non come fenomeno unitario. La discrepanza tra pensiero e linguaggio appartiene all’ordine simbolico stesso e lascia scoperta una dimensione che comunemente l’uso quotidiano della lingua non fa intravedere e che la classificazione linguistica tradizionale non contempla tra i suoi elementi: la matrice linguistica si distende così ampiamente da colmare anche gli interstizi altrimenti privi di senso tra il pensiero espresso e il mezzo comunicativo, cosicché è possibile riconoscere accanto al modello classificatorio tradizionale anche una classe linguistica latente. Ciò verso cui Sapir ha indirizzato la linguistica è la scoperta di questo crittotipo che rende necessaria «una grammatica che analizzi la struttura e il significato latenti oltre quelli manifesti»74. Il concetto di crittotipo è dunque affine alla concezione di deriva: il crittotipo indica uno strato sommerso e occulto di senso che sfugge alla prima analisi antropologica e linguistica. In questo senso, contrariamente a quanto sostenuto da Freud, non c’è alcuna connessione tra arcaicità cronologica e arcaicità teorica: infatti, le lingue dei cosiddetti “primitivi” sono più complesse ed evolute di quelle occidentali, come dimostra un’analisi condotta secondo la classe linguistica latente. Il crittotipo è un criterio sistematico che indica una relazione linguistica avvertita solo a livello inconscio: «una relazione di similarità oscuramente sentita tra gli usi dei verbi di ciascun gruppo che ha a che fare con qualche aspetto non ovvio del loro significato»75. Come un piano che scorre sopra un altro rivela nel suo movimento le porzioni nascoste del componente sottostante, così il pensiero che si ritira nella soglia dell’inconscio lascia apparire all’analisi linguistica «le forze psicologiche sotterranee»: se la linguistica è «essenzialmente la ricerca del significato», la dialettica tra fenotipo (o classe grammaticale tradizionale) e crittotipo è la vita stes-

72

B.L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. 52. Ibidem, p. 33. 74 Ibidem, p. 65, c.m. 75 Ibidem, p. 91. 73

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sa del senso76. Come il passaggio dai simboli primari a quelli secondari segnava in Sapir l’evoluzione della lingua e il decadimento di strutture metaforiche, così in Whorf il linguaggio ordinario è la pratica verbale in cui «le abitudini linguistiche […] sono diventate inconsce ed automatiche»77. Quello che la metafisica tradizionale era portata a ritenere la “logica naturale” dell’uomo è allora solo l’espressione occulta di una grammatica che non viene più ritenuta tale, l’effetto misconosciuto di una struttura linguistica latente. A questa rete nascosta al pensiero conscio, alla filosofia classica del linguaggio e alla grammatica tradizionale appartiene interamente la competenza verbale e comunicativa di ciascun parlante: «il sistema linguistico di sfondo (in altre parole la grammatica) è il programma e la guida dell’attività mentale dell’individuo»78. Egualmente al caso della logica formale, anche il pensiero scientifico oggettivo è il prodotto dell’azione riservata di strutture grammaticali e dipende in particolare dal lessico aristotelico, sviluppato chiaramente dal greco, che conosce la distinzione tra soggetto e verbo: «non facciamo altro che leggere nella natura fittizia entità agenti semplicemente perché i nostri verbi devono avere dei sostantivi davanti»79. La severa valutazione che Whorf fa delle velleità enciclopediche della lingua scientifica occidentale ha quale glossa evidente che ogni tipo di scrittura matematica e fisica è solo «la specializzazione delle lingue di tipo indoeuropeo occidentale»80: privato dell’aura del linguaggio della realtà effettiva, il lessico scientifico diviene una delle possibili espressioni verbali dell’uomo. Senza il sostegno di una tradizione metafisica (o della sua forma secolarizzata nel positivismo) la teoria classica di una lingua essenziale decade, mettendo di fronte all’evidenza del relativismo: «la conoscenza linguistica comporta la conoscenza di molti differenti e splendidi sistemi di analisi logica. Attraverso essa, il mondo, visto da punti di vista diversi da altri gruppi sociali che abbiamo sempre considerato estranei, diventa comprensibile in modi nuovi»81. 76

Ibidem, pp. 58-59. Ibidem, p. 163. 78 Ibidem, p. 169. 79 Ibidem, p. 202. 80 Ibidem, p. 205. 81 Ibidem, p. 224. 77

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4. Atene e Gerusalemme: la filosofia come linguaggio dell’esclusione Come il martello dell’esegesi rabbinica batte scintille sulla stessa roccia senza mai infrangerla, così dall’osservazione dello stesso fondo extralinguistico comune ad ogni parlante sorgono varie visioni del mondo, implicite alle strutture linguistiche particolari: soprattutto quella scienza linguistica che non si occupa del linguaggio europeo standard, ma che studia le formazioni esotiche dei popoli più lontani dalla tradizione occidentale pratica l’analisi come un etnologo indaga sul campo. Ciò che sia il linguista sia l’etnologo riportano all’uomo europeo è l’incanto di un artificio intellettuale esotico, distante ma sapientemente elaborato, che la critica non può mancare di apprezzare e stimare per il rigore concettuale che lo sostiene. Infatti, a proposito dell’analisi del linguaggio di una popolazione mesoamericana, Whorf ammette che «la lingua Hopi non contiene riferimenti, né espliciti né impliciti, al “tempo”», così come la tradizione occidentale ha finito per concepirlo attraverso la mediazione delle scienze e delle lettere: tuttavia, il ritmo particolarissimo impresso dalla grammatica Hopi alla scansione razionale della realtà non ha impedito a ciascun parlante di questa lingua «di descrivere e di spiegare correttamente, in senso pragmatico ed operativo, tutti i fenomeni osservabili dell’universo»82. La varietà linguistica però incide a fondo la mente dell’uomo Hopi e l’analisi della metafisica implicita al sistema verbale di questa struttura comunicativa lo conferma facilmente: «la metafisica Hopi impone all’universo due grandi forme cosmiche: ciò che è manifesto e ciò che è manifestatesi (o non manifesto). L’oggettivo o manifesto comprende tutto ciò che è o che è stato accessibile ai sensi. Il soggettivo o manifestantesi comprende tutto ciò che chiamiamo futuro, ma non soltanto questo: esso include egualmente, e senza possibilità di distinzione, ciò che chiamiamo mentale»83. Se la ricerca linguistica ricorda le indagini etnologiche sul campo, ci si può chiedere, attribuendo a questa similitudine uno spessore affatto diverso, come si comportassero in missione gli europei che in precedenza si avvicinavano a queste realtà così radicalmente diverse sul piano culturale dall’occidente. È alla base di questa cat82 83

Ibidem, pp. 41-42. Ibidem, p. 43.

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tiva coscienza che il linguista F. Rossi-Landi ha rivolto la sua critica articolata in polemica aperta con il relativismo linguistico e culturale che l’ipotesi Sapir-Whorf propone: alle timide obiezioni che forse le altre culture non abbiano prodotto tradizioni veramente rilevanti o comunque così originali rispetto a quelle che si possono riscontrare in diverse altre società, secondo Rossi-Landi, il linguista europeo risponderebbe rivendicando con forza l’eterogeneità radicale di ogni produzione, nella stessa misura in cui queste civiltà erano state (soprattutto in America) soggiogate e distrutte con assoluto disprezzo84. Benché questa accusa di ideologia in senso marxiano che Rossi-Landi rivolge ai sostenitori dell’ipotesi SapirWhorf risenta in misura considerevole del clima intellettuale della Contestazione, il sospetto con cui si rivolge al relativismo linguistico si fonda su tre ottime obiezioni, che è opportuno richiamare per esteso: l’ambiguità della relazione tra pensiero e linguaggio, il fatto che una stessa comunità linguistica abbia prodotto notevolissime varietà di speculazioni e la possibilità di tradurre comunque da qualsiasi lingua85. La prima perplessità riguarda il modo della reciproca influenza tra pensiero e linguaggio: si tratta di un «influsso diretto» determinabile meccanicisticamente, di una «concomitanza» dovuta a particolari elementi o piuttosto alla semplice «prevalenza statistica»86 di alcuni apparati concettuali rispetto ad altri? Rossi-Landi non nasconde l’impossibilità teoretica di sostenere qualcosa come un relativismo culturale portato sino al grado per cui «l’estetica e la logica trascendentale si moltiplicano per il numero delle lingue esistenti, anzi esistite sul pianeta»87. La relazione tra Sapir e Whorf si gioca sulla gestione della quota dell’eredità ricevuta dalla meditazione mistica e metalinguistica di Fabre d’Olivet: è soprattutto il grado con cui se ne recepiscono i motivi più radicali a determinare la differenza tra questi due teorici della lingua o, come altri preferiscono dire, tra una “ipotesi Sapir-Whorf forte” e una “ipotesi Sapir-Whorf debole”. Finché la capacità produttiva della lingua non viene intesa al di fuori dell’assunto per cui le strutture grammati-

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F. Rossi-Landi, Semiologia e ideologia, Milano, Bompiani, 1972, p. 182ss. Ibidem, pp. 157-161. 86 Ibidem, pp. 151-153. 87 Ibidem, p. 143.

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cali impongono al parlante di formulare in un certo modo il contenuto del pensiero, le speculazioni di Sapir e Whorf si richiamano l’una l’altra, confermando l’uniformità fondamentale del pensiero umano: «non posso neppure credere che la cultura e la lingua siano connesse causalmente nel vero senso di questa parola. La cultura può essere definita come: ciò che una società fa e pensa. La lingua è uno speciale come del pensiero»88. La deriva e il crittotipo non sarebbero così altro che meccanismi di selezione linguistica fondati su categorie implicite, inconsapevoli al comune parlante, ma suscettibili di un’analisi linguistica che richiama appunto la questione dell’eguaglianza fondamentale dell’espressione razionale: «il linguaggio […] non è che un velo alla superficie di processi più profondi della coscienza, che sono necessari perché possa aver luogo la comunicazione»89. Così intesa, l’ascendenza della grammatica si eserciterebbe in primo luogo sulla parole, mentre la langue o le strutture inconsce ne risulterebbero via via meno influenzate: «sono l’ultimo a immaginarmi (to pretend) che ci sia qualcosa di chiaramente definito come “una correlazione” tra la cultura e la lingua»90. Eppure l’opzione “forte” di questa prospettiva linguistica che Whorf ha ripetutamente accennato non contrasta di principio con l’affermazione della fratellanza intellettuale tra gli uomini o con l’idea per cui «l’intelletto superiore (higher) o “l’inconscio” di un cacciatore di teste papua può matematizzare altrettanto bene di quella di Einstein»91. Si tratta piuttosto di una diversa angolazione del punto di vista, che tuttavia predispone ad una maggiore o minore sensibilità rispetto a suggestioni esoteriche: nella sua variante “debole” l’ipotesi Sapir-Whorf tende soprattutto a rintracciare un’uniformità psichica e razionale degli uomini, mostrando che ogni lingua è la varietà locale di un’unica specie di facoltà mentale. In questo caso, le diverse lingue si giustappongono nella loro ricchezza grazie alla sfasatura tra linguaggio e pensiero: del resto, è lo slittamento tra il veicolo d’espressione e il contenuto a rendere possibile lo studio e l’acquisizione di un’altra lingua. La visione

88

E. Sapir, Il linguaggio, cit., p. 216. B.L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. 197. 90 Ibidem, p. 104, c.m. 91 Ibidem, p. 217, c.m. 89

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“forte” di questa teoria della lingua condurrebbe a un singolare paradosso, espresso in due alternative contraddittorie: o non dovrebbe essere possibile conoscere nessun’altra lingua, perché non ci si scioglie dai vincoli atavici della grammatica della lingua madre; oppure nell’uomo dovrebbero convivere diverse stratificazioni di pensiero, ben oltre alle preoccupazioni consuete, per esempio, di uno scrittore bilingue, che desidera sapere se la sua opera sia in fondo sempre la stessa o radicalmente variata nella modulazione in un’altra lingua92. Bisogna osservare che anche sul piano metodologico va rigettata la versione “forte” così concepita dell’ipotesi Sapir-Whorf, perché non si tratterebbe altro che di una tautologia: “i popoli hanno diverse visioni del mondo perché hanno lingue diverse e hanno lingue diverse perché hanno diverse visioni del mondo”. Pur non essendo affatto un’esposizione più retorica o accattivante dell’ipotesi linguistica “debole”, la cosiddetta ipotesi “forte” ne rappresenta piuttosto una visione singolare, che va compresa considerando l’interesse accentuato di Whorf per la psicoanalisi, la Gestaltpsychologie e l’etnologia (quale disciplina delle forme non occidentali di pensiero): l’analisi del profondo ha chiarito che nell’uomo possono coesistere diverse specie di razionalità, ma anche che la mente stabilisce un vincolo speciale con quelle esperienze, conoscenze e risorse individuali che la scuotono in modo particolare. In una delle sue formulazioni forse apparentemente più equivoche, Whorf non contraddice affatto l’uniformità del pensiero umano (che infatti ribadisce nella pagina successiva alla citazione), ma richiama l’attenzione sul fondamentale dato psicologico del-

92

È paradigmatica in questo caso la riflessione di Green che osserva con una grande capacità di introspezione: «per quella e altre ragioni sono sempre più portato a credere che sia quasi impossibile essere del tutto bilingue. Una medesima persona può dominare più lingue fino ad un livello sorprendente. Ho sentito delle persone parlare dal francese all’inglese e dall’inglese al tedesco nel più spigliato dei modi e con una tale perfezione di accento, di intonazione, di scelta nelle parole che sospettavo un trucco segreto. Ecco dove voglio arrivare: un uomo può parlare correntemente una mezza dozzina di lingue e sentirsi a casa sua solo in una lingua, nella lingua dei suoi pensieri più intimi. Io stesso, in funzione delle circostanze, penso nell’una o nell’altra lingua, ma per quanto io me ne possa rendere conto, nei momenti drammatici, i miei più profondi pensieri si manifestano in inglese. La mia lingua materna – stavo per scrivere naturale – ricompare all’improvviso» (J. Green, La langage et son double, Paris, Edition du Seuil, 1987, p. 83).

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l’attaccamento di ciascun individuo alle proprie consuetudini linguistiche: «questa organizzazione è imposta dall’esterno al ristretto ambito della coscienza individuale, facendo di quella coscienza nient’altro che un fantoccio i cui comportamenti linguistici sono legati da vincoli strutturali non avvertiti ma insuperabili»93. Whorf non si allontana dal suo maestro, quando afferma che «il come, cioè la logica della comprensione, è il retroterra grammaticale della nostra lingua madre»94: la cosiddetta visione “forte” della loro ipotesi linguistica è meno una determinazione causale metafisica della connessione tra lingua e pensiero, che la considerazione dell’adesione psicologica alle consuetudini e abitudini linguistiche. Analizzando il lessico della architettura Hopi, infatti, Whorf rileva una singolare manchevolezza: benché questa cultura indiana conosca uno sviluppo raffinato della tecnica edilizia, la sua lingua non ha l’equivalente per esprimere il concetto di “stanza” (quale nome generico e neutro per indicare ogni spazio abitabile). Whorf mette in correlazione questo vuoto lessicale con l’assenza dell’espressione sintagmatica in lingua Hopi “la mia casa” e ne deduce un’importante correzione al principio del rapporto tra pensiero e linguaggio: se è pienamente comprensibile che una cultura comunitaria e aliena da qualsiasi principio di proprietà privata porti all’inutilizzo di un’espressione grammaticale possibile in lingua Hopi quale “la mia casa”, viceversa la mancanza di un termine neutro quale “stanza” va spiegata non tanto per ragioni culturali o tribali, vista la ricchezza dell’architettura Hopi, ma per ragioni strutturali, che impongono «concetti di spazio puramente relazionali»95. Quello è un autentico tabù culturale, questa è una limitazione lessicale: osservare questa discrepanza significa attribuire al legame tra pensiero e linguaggio un andamento più complesso, che si articola sulla «differenza tra un significato puramente linguistico […] e il caso di un significato culturalmente e praticamente individuabile»96. Accanto al caso di un’influenza effettiva del lessico sul pensiero, abbiamo infatti due casi in cui il rapporto si arresta, data una discrepanza tra lingua e cultura: possiamo infatti trovare una poten-

93

B.L. Whorf, Linguaggio, pensiero e realtà, cit., p. 216. Ibidem, p. 197. 95 Ibidem, p. 151. 96 Ibidem, p. 157. 94

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zialità linguistica (di creare sintagmi quali “la mia casa”) che non viene accolta per un orientamento culturale (ovvero, l’assenza di proprietà privata), oppure una potenzialità culturale (di coniare il concetto di “stanza”) che non trova sviluppo per ragioni strutturali (cioè, la mancanza di un lessico spaziale non relazionale). Questa dinamica non necessariamente lineare del rapporto tra pensiero e linguaggio ci permette di rispondere con completezza anche alla seconda critica che Rossi-Landi rivolge al relativismo culturale: contro l’obiezione che la stessa comunità linguistica della lingua europea standard ha prodotto nel corso dei secoli una varietà notevolissima di elaborazioni concettuali talvolta radicalmente distinte, è possibile muovere proprio l’eventualità che una potenzialità linguistica non si manifesti o si manifesti in un certo modo per ragioni culturali e quindi il fatto che la varietà delle forme culturali possibili non è in contraddizione con l’assioma di una tradizione linguistica comune. Benché non sia possibile ignorarlo, non riteniamo decisivo il fatto che questa legge linguistica così determinata possa venire interpretata filosoficamente come la storia di un’unica tradizione culturale dispiegata nel tempo: si tratta meno di riconoscere un’impronta neoidealistica nell’ipotesi SapirWhorf che indagare il singolare passaggio dalla linguistica alla filosofia che ha caratterizzato in modo rilevante il pensiero speculativo novecentesco97. La terza obiezione mossa al relativismo culturale amplifica le ambiguità implicite nella stessa ipotesi Sapir-Whorf e determina una divaricazione radicale tra le risposte elaborate in un contesto linguistico da quelle ottenute attraverso la mediazione filosofica: da un lato, infatti, la questione della possibilità di tradurre ogni fonte culturale da una lingua all’altra conduce la linguistica a tem-

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Cfr. F. Rossi-Landi, Semiologia e ideologia, cit., p. 118. Il passaggio dalla linguistica alla filosofia è particolarmente caratteristico dei primi scritti di Derrida, ancora vicini in effetti alle tematiche fenomenologiche, ma già fortemente orientati a sviluppare in senso antimetafisico le teorie strutturaliste del linguaggio (cfr. su questo M. Jofrida, Forma e materia, Pisa, ETS, 1988). In questo caso è esemplare lo sviluppo del “concetto” di différance fatto giocare spesso tra un’ambiguità spaziale e temporale: sembra infatti prendere alla lettera l’assunto di De Saussurre, per cui «la diversità geografica delle lingue [delle lingue] deve essere tradotta in diversità temporale» (F. De Saussure, Corso di linguistica generale, tr. it., a cura di T. De Mauro, Roma-Bari, Laterza, 1968, p. 241).

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perare i modi della relazione tra linguaggio e pensiero, ma, dall’altro lato, questa stessa possibilità traduttiva viene colta dalla filosofia come il simbolo di una relazione intellettuale e culturale. Negli scritti dei sostenitori del relativismo linguistico mancano sorprendentemente delle pagine dedicate al problema della traduzione, ma è probabile che questo stupore vada misurato con il grado di profondità con cui si concepisce il rapporto tra pensiero e linguaggio: quanto più è incisivo il ruolo della grammatica per l’elaborazione di una mente totalmente diversa dalla nostra, tanto più sorprende il fatto che ci venga comunicata proprio questa estraneità, ovvero che in qualche modo ci sia stato riferito il contenuto di quella singolare concezione. Non è difficile, in fondo, mostrare che anche l’ipotesi Sapir-Whorf “forte” non contempla l’intraducibilità assoluta tra le lingue, ma piuttosto uno scarto crescente tra i fenotipi del medesimo crittotipo: senza che questo assicuri una comunicazione pienamente trasparente, permette tuttavia di contemplare la traducibilità quale eventualità dello scambio comunicativo tra i parlanti. Al contrario, coloro che sostengono (contraddittoriamente) l’incomunicabilità dovuta alla varietà dei linguaggi attivano piuttosto assiomi concettuali che hanno una chiara ascendenza speculativa e teologica o che sono determinanti nell’acquisizione non “scientifica” dei dati linguistici. La ricerca filosofica ha sofferto di entrambe queste difficoltà ogni volta che si è preoccupata di interrogarsi sull’alterità trascurando la questione decisiva del modo in cui questa estraneità si struttura in base a un codificato linguaggio dell’esclusione. In questo senso, è paradigmatico il richiamo a testi, temi e principi dell’ebraismo vengono opposti a strutture consolidate dell’argomentazione filosofica. Quando non è motivata da principi teologici in quanto tali, la contrapposizione tra Atene e Gerusalemme si fonda su tre argomenti fondamentali, che porterebbero ad una radicale distinzione tra il modo di concepire la realtà secondo una prospettiva “tipicamente” ebraica e una prospettiva “tipicamente” greco-filosofica: l’opposizione tra statico e dinamico, tra astratto e concreto e, infine, la concezione dell’uomo98. Mentre la distinzione tra astratto e

98

J. Barr, Semantica del linguaggio biblico, tr. it., Bologna, EDB, 1980, pp. 20-34.

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concreto insieme alla concezione dell’uomo è un principio che si collega facilmente ad una polemica propriamente teologica o filosofica, il primo argomento sembra ottenere da subito maggiore credito presso i linguisti e spesso viene confermato apoditticamente dal confronto tra gli stili di narrazione storica: «per gli ebrei il tempo non è qualcosa di vuoto e di vano: è la scena nella quale si svolge l’azione, solo elemento significativo della realtà […] La storia come è concepita dai Greci oscilla fra l’aneddotico e la tragedia»99. L’assunto che regge questa contrapposizione è evidentemente l’autentica influenza delle strutture grammaticali sul modo razionale di concepire la realtà o, in altri termini, la prospettiva che il linguaggio necessariamente impone alla visione del mondo: secondo i teologi e filologi Boman e Pedersen, infatti, la semplice analisi della sintassi ebraica permette di estrapolare la filosofia elementare del reale che ogni mente ebraica sarebbe portata a concepire, tuttavia senza che sia stata condotta un’analisi comparativa con le lingue classiche o le lingue semitiche affini (per esempio: ugaritico, aramaico ed arabo). L’analisi linguistica così impostata sancisce una distinzione radicale tra il sistema verbale della lingua ebraica e quello della lingua greca: quanto quest’ultima conoscerebbe un’articolazione elaborata delle coniugazioni, tanto la “lingua santa” sembrerebbe sprovvista di qualsiasi criterio grammaticale per distinguere il succedersi degli avvenimenti, che non fosse la semplice distinzione tra compiuto e incompiuto, o statico e dinamico. Secondo la grammatica tradizionale, infatti, il verbo ebraico conosce solo due modi fondamentali dell’azione: il perfetto e l’imperfetto100. Se il perfetto permette di descrivere azioni lontane nel passato o pienamente confermate nel presente, data la loro iterabilità, l’imperfetto invece indica quell’insieme di accadimenti suscettibili di un’oscillazione e di un mutamento: nell’ebraico classico, è contemplato anche l’uso del cosiddetto “waw” inversivo che consiste nella giustapposizione della consonante “e” al modo verbale producendo una “conversione” dall’imperfetto al perfetto oppure dal perfetto all’imper-

99

Ibidem, pp. 21-22. Per un’ulteriore applicazione di questa concezione del verbo ebraico corretta secondo le indicazioni della linguistica più recente cfr. A. Spreafico, Grammatica dell’ebraico biblico, Roma, Società Britannica e Forestiera, 1994.

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fetto. Secondo questa interpretazione “ipergrammaticale” delle proprietà della lingua, l’uso del “waw” inversivo confermerebbe l’incapacità per la mente ebraica di cogliere il senso complessivo della trasformazione delle cose e il suo costante riferimento alla sola modalità ontologica di statico e dinamico: la teologia protestante del secolo scorso ricavava da questa particolarità della lingua ebraica il motivo dell’assenza di senso storiografico nel pensiero del popolo di Israele e, in una prospettiva più ampia, la sua impossibilità a riconoscere la messianicità di Gesù101. Il tratto autenticamente ideologico di simili analisi, del resto, diviene ancora più scoperto quando si considerano dei fatti incontrovertibili, di natura linguistica e culturale: infatti, la percezione del tempo esclusivamente in senso qualitativo, colpevole di lasciare la mente ebraica legata al momento dell’istante, non è solo contraddetta dalla mole dei cosiddetti “libri storici” del testo biblico, ma anche dall’evoluzione stessa della lingua, che dal periodo postesilico in poi comincia ad elaborare un sistema verbale compiuto sotto l’in-

101

Troviamo lo stesso ambiguo esercizio di un’esegesi che intreccia e fa confliggere concetti filosofici e concetti linguistici anche tra le 95 tesi su ebraismo e sionismo che Scholem scrisse nel 1918 in giovane età e che per alcuni possono avere ispirato vent’anni più tardi vari temi delle tesi di filosofia della storia di Benjamin (cfr. G. Scholem, 95 tesi su ebraismo e sionismo, cit. in W. Benjamin, Sul concetto di storia, tr. it., Torino, Einaudi, 1997, p. 302). Il breve e sibillino epigramma per cui «il tempo del “waw inversivo” è il tempo messianico» infatti non solo descrive con un aforisma brillante la portata escatologica dell’avvento del messia, ma lascia intravedere una congiunzione non tematizzata tra filosofia e linguistica, quasi che un nuovo pensiero (sulla storia) abbia bisogno di categorie grammaticali diverse: al di là delle osservazioni appena riportate a questo riguardo, sembrano non influire il fatto che lo sviluppo stesso della lingua ebraica abbia reso questa caratteristica forma semitica poco più che un arcaismo e il fatto che leggiamo e interpretiamo l’azione del “waw inversivo” non secondo l’aspetto qualitativo del verbo, ma proprio secondo il suo senso temporale modernamente inteso. Un ulteriore esempio di un’esegesi che simula il criterio dell’analisi linguistica per imporre un concetto esclusivamente teologico è ancora una frase di Scholem che descrive suggestivamente l’arrivo del messia: «la notte è la fonte del demoniaco […] e non senza motivo il tempo messianico in ebraico si chiama “i giorni del messia”» (ibidem, p. 303). La glossa teologica sul carattere demoniaco della notte (che è a sua volta un’allusione alla strega Lilith, “notte”, appunto) sembra trovare giustificazione nell’espressione ebraica yemê ha-mashiach che tuttavia è semanticamente equivalente all’espressione “età messianica”. Cfr. sotto n.103.

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fluenza dell’aramaico e del greco102. Di conseguenza, le pretese caratteristiche grammaticali che determinerebbero un singolare modo di concepire la realtà vanno dunque ridotte a semplici varietà stilistiche di una lingua che non presenta tali particolarità da determinare una speciale visione del mondo: attraverso la linguistica comparata, infatti, è possibile mostrare che il sistema verbale misto tra coniugazione e aspetto qualitativo dell’azione non è solo caratteristico di lingue moderne, quale il russo o l’inglese, ma già del greco classico, come dimostra il caso dell’aoristo103.

fo es in d d zi fi m an

102

A. Saenz-Badillos, Storia della lingua ebraica, tr. it., Paideia, Brescia, 2007; cfr. M. Hadas-Lebel, Storia della lingua ebraica, tr. it., Firenze, La Giuntina, 1994. 103 Un secondo problematico esempio di collegamento tra linguistica e teologia riguarda alcuni goffi tentativi esegetici di interpretare un famoso passo di Benjamin a partire dall’analisi linguistica di alcune espressioni ebraiche, però con l’intento di attribuire un privilegio indiscutibile al discorso teologico. È il caso dell’analisi della celebre nona tesi di filosofia della storia che descrive metaforicamente il decorso del tempo: «c’è un quadro di Klee che si chiama Angelus Novus. Vi è rappresentato un angelo che sembra in procinto di allontanarsi da qualcosa su cui ha fissato lo sguardo […] L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato […] Ma dal paradiso soffia una bufera che è impigliata nelle sue ali [e] lo spinge innarestabilmente nel futuro, a cui egli volge le spalle» (W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., pp. 36-37). La suggestione dell’immagine ha spinto più di un interprete a cogliere in questa nona tesi la forma più rappresentativa della reazione allo storicismo che Benjamin sviluppò anche in sintonia con la propria adesione al marxismo eterodosso, ma chi ha preteso scorgervi l’eco di una forma “tipicamente ebraica” di cogliere lo svolgimento del tempo è giunto a considerazioni inaccettabili sotto un profilo strettamente linguistico. Riprendendo implicitamente le tesi dei teologi e linguisti Boman e Pedersen a proposito dei sintagmi ebraici lephanim e ’achar (“prima” e “dopo”), Guglielminetti conclude che l’antistoricismo di Benjamin non sia solo il tentativo sviluppato filosoficamente di presentare un diverso concetto di tempo, ma anche quello di promuovere un atteggiamento mentale rinnovato e nutrito dall’unione tra il pensiero greco ed quello ebraico: «appunto per quell’incrocio del linguaggio biblico con quello moderno, alle spalle è dato trovare non solo il futuro – come per gli ebrei – ma anche l’origine e l’essere-stato, come per l’uomo contemporaneo. Da cui segue l’equazione di futuro ed essere-stato» (E. Guglielminetti, W. Benjamin: tempo, ripetizione, equivocità, Milano, Mursia, 1990, p. 153, c.n: l’autore non cita né Boman né Pedersen a sostegno della propria tesi sulla percezione rovesciata del tempo secondo la mentalità ebraica, ma l’argomentazione è identica ed è stata ricavata dalla bibliografia secondaria in lingua tedesca e in particolare da un testo di J. Ebach). Quella che può essere solo un’astrazione speculativa diviene, per il fraintendimento dei dati linguistici, una con-

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Ovviamente, non si intende negare che l’indagine linguistica fornisca una buona indicazione per la chiarificazione del pensiero espresso in quella lingua, ma piuttosto circoscrivere e delimitare le ingerenze del pensiero teologico e filosofico che si appropriano dei dati linguistici per fini concettuali estranei allo studio scientifico della lingua104. Riconoscere la portata autentica di una contraddizione riportandola a delle radici teologiche o filosofiche non significa rivendicare alla linguistica una pretesa superiorità scientifica, ma semplicemente determinare l’esatta natura della distinzione analizzata. Ammettiamo che un’opposizione teorica non abbia le

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ia anlaus da to è lola pò ente e ), inunro mo lp. si oua an-

cettuosa visione della relazione psicolinguistica tra le culture, di cui ciascuna grammatica è la matrice e il criterio: sotto i motivi schiettamente filosofici di questi interpreti si agita allora una concezione del linguaggio che contraddice profondamente la volontà speculativa di opporsi al meccanicismo e al determinismo, che paradossalmente vengono inoculati di nuovo attraverso un’accettazione acritica di analisi linguistiche equivoche e senza procedere innanzitutto ad una valutazione comparativa delle caratteristiche della lingua appena evidenziate: si ricordi, a solo titolo d’esempio, l’uso in senso spaziale e temporale della preposizione before nella lingua inglese. 104 R. Barr, Semantica dell’ebraico biblico, cit., p. 61. A questo proposito può essere interessante considerare anche il dibattito particolarmente acceso in ambito filosofico sull’assenza della struttura di copula in molte lingue e sul fatto che questa particolarità sintattica le dovrebbe rendere impermeabili alla cosiddetta riflessione ontologica rilanciata nel Novecento soprattutto dal pensiero di Heidegger. Per comprendere il grado di distanza tra una lettura linguistica e filosofica della stessa questione, basta considerare brevemente le posizioni dei linguisti Barr e Benveniste e del filosofo Derrida. Mentre Benveniste ritiene che il cosiddetto pensiero ontologico sia un effetto di lingua e quindi fortemente vincolato alle strutture linguistiche che invitano a questo pensiero, Barr invece non ritiene che la struttura nominale implichi necessariamente un vuoto speculativo: a fronte di una supposta mancanza del verbo “essere”, in ebraico, Barr ricorda la profonda opera di revisione della lingua compiuta dal filosofo ed esegeta Maimonide che ha forzato le strutture sintattiche della lingua ebraica per dotarla di un vocabolario filosofico per concettualizzare gli scritti di Aristotele applicati al testo biblico. A fronte di questa confutazione effettiva da parte di Barr della pretesa di riservare la riflessione ontologica solo alle popolazioni indoeuropee, risulta senz’altro più povera e retoricamente sospetta la risposta che Derrida rivolge a Benveniste, accusandolo di non rendersi conto che l’assenza di copula presuppone in quanto tale una presenza e perciò che l’analisi linguistica così sviluppata è meno definitiva di quanto sperasse (cfr. ibidem, pp. 87ss; E. Benveniste, Problemi di linguistica generale, tr. it., Milano, Bompiani, 1980; J. Derrida, Margini della filosofia, tr. it., Torino, Einaudi, 1997).

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radici più “proprie” in una difformità linguistica, bensì in prese di posizione concettuali. In questo caso, allora, si sarà in grado di valutare con minor ingenuità l’essenza del rapporto tra pensiero e linguaggio: il fatto che sia possibile un incrocio tra i rispettivi campi d’analisi di filosofia e linguistica permette di problematizzare la neutralità “scientifica” di entrambe le discipline (notando appunto che la filosofia può servirsi speculativamente di concetti linguistici, così come la linguistica può assorbire assunti propriamente filosofici), ma permette anche di affrontare la complessità del rapporto tra potenzialità linguistiche e culturali.

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Capitolo II La teoria freudiana dell’aggressività: Nazionalsocialismo e uso demagogico della lingua

Sua poena est omnis inordinatus animus Augustinus, Confessiones

Lo schema con cui Freud delinea il passaggio alla vita civilizzata dell’uomo è apparentemente molto semplice: «ogni individuo ha rinunciato a una parte dei suoi averi, del suo potere assoluto e delle tendenze aggressive e vendicative della sua personalità; da questi apporti ha avuto origine il patrimonio comune dei beni materiali e ideali della civiltà»1. La civiltà, insomma, si afferma una volta che la somma degli egoismi individuali è minore del legame solidale degli affetti, dei valori (culturali ed economici) e delle leggi che gli uomini hanno reciprocamente istituito; la civiltà è una forma di maturazione, una progressione spirituale che allontana gradualmente l’uomo dalle pulsioni più elementari, lo spinge a forme di conflitto più sofisticate che possono anche non compromettere più l’edificio sociale, manifestandosi in particolare sotto il sentimento della colpa: «il progresso civile ha un prezzo, pagato in perdita di felicità man mano che aumenta il senso di colpa»2. Tuttavia, quando con Freud riconosciamo che la pulsione sessuale è biologicamente una «perturbazione dell’equilibrio dinamico» che altera «il decorso rappresentativo e modifica il valore relativo delle rappresentazioni»3, allora la linearità del passaggio alla vita civile è solo il tratto più appariscente di una tramatura particolarmente complessa sulla quale confliggono tensioni ed esigenze culturali contrapposte. Se l’abbandono delle pulsioni egoistiche è un atto di 1

S. Freud, La morale sessuale ‘civile’, in Opere, tr. it., Torino, Bollati, Boringhieri, 1989, vol. V, p. 416. D’ora in poi citeremo esclusivamente il titolo abbreviato del saggio, il numero di volume e la pagina. 2 S. Freud, Il disagio della civiltà, X, p. 620. 3 S. Freud, Considerazioni teoriche, I, p. 327.

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traslazione verso valori spirituali più elevati, la pulsione sessuale ne è l’ostacolo principale in virtù della sua capacità di alterare le rappresentazioni, ma resta tuttavia un elemento biologico costitutivo: c’è sempre «l’ostilità che, in ogni relazione umana, vediamo combattere con successo contro il senso di solidarietà e di sopraffare il comandamento dell’amore universale»4. Questa circostanza è decisiva, perché la pulsione sessuale ed aggressiva non permane nell’uomo come un oggetto può rimanere dimenticato da qualche parte, ma configura un residuo ingombrante del faticoso processo di civilizzazione: anche se Freud afferma con sconforto che sussiste «una disponibilità ad odiare, un’aggressività la cui origine ci è sconosciuta e alla quale siamo inclini ad attribuire un carattere elementare»5, le sue parole sono meno una constatazione dal sapore esistenzialista che una sorta di perplessità che il teorico prova di fronte a ciò che rimane comunque irriducibile rispetto all’impresa speculativa. Se l’opera di Freud è soprattutto quella di ricostruire uno schema generale delle dinamiche psicologiche, il permanere di tensioni biologiche elementari e violente è imbarazzante come la presenza di un ospite sgradito che noi stessi abbiamo invitato, ma che turba l’armonia della casa: per ora, assumiamo che questo imbarazzo sia esclusivamente di ordine psicologico, cioè che riguardi solo la personalità di Freud, e consideriamo il disegno generale delle dinamiche affettive nella loro lenta progressione verso la civilizzazione. 1. Ordine e disordine della mente Al pari delle altre strategie razionali che l’uomo ha escogitato per rendere conto del reale (la theoria, l’intentio, l’attenzione, la meditazione e la riflessione), anche la psicoanalisi ricerca la scomposizione di un insieme complesso in elementi razionalmente semplici e costitutivi. In quanto psico-analisi, la terapia freudiana della mente ha il primo compito speculativo di avvicinarsi alla vita psichica nel suo insieme e riconoscervi l’intreccio di due pulsioni fondamentali che danno luogo a «regolari impasti, miscele»6: la 4

S. Freud, Il tabù della verginità, VI, p. 439. S. Freud, Ulteriori problemi, VII, p. 211. 6 S. Freud, Teoria della libido, IX, p. 461; cfr. S. Freud, L’Io e l’Es, IX, pp. 493 e 509. 5

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pulsione di vita e la pulsione di morte. Se è necessario un «disimpasto» (Entmischung) di queste due pulsioni, non è solo per evitare delle rappresentazioni improprie (o la generatio aequivoca di concetti psichici non analizzabili), ma anche per ristabilire quella originaria demarcazione reciproca che già si presuppone nell’idea di intreccio: se la pulsione di vita e di morte si possono legare imprevedibilmente, il concetto di disimpasto ne presuppone la reciproca indipendenza. È vero che Freud conosce casi clinici determinati da una separazione precoce delle due pulsioni ad opera del soggetto7 e, quindi, che in questo caso la distinzione tra Eros e Thanatos risulta successiva ad alcuni anni di indistinta vita psichica, ma per comprendere il senso teoreticamente più profondo di questa osservazione è bene non limitarsi alla constatazione che la divisione tra amore e odio si sia data solo dopo un certo tempo, ma piuttosto considerare che la genesi della nevrosi risale ad una divisione prematura: non si tratta infatti di un evento temporale, ma speculativo. La stessa divisione tra la pulsione di vita e di morte è scandita secondo un ritmo metafisico e ci riporta alla tensione freudiana indirizzata all’interiorizzazione8. Se le pulsioni di morte «fossero rivolte verso l’esterno […] e si estrinsecassero sottoforma di tenden-

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Osservando la storia clinica di un paziente Freud riporta queste considerazioni: «l’amore non è riuscito a spegnere l’odio, è riuscito solo a respingerlo nell’inconscio, dove esso, al riparo dell’azione demolitrice della coscienza, può vivere e persino crescere […] Una separazione dei contrari avvenuta molto precocemente, nel periodo preistorico dell’infanzia, e accompagnato dalla rimozione di uno dei due sentimenti (solitamente l’odio) sembra la condizione prima di questa singolare costellazione della vita amorosa» (S. Freud, Un caso di nevrosi ossessiva, VI, p. 68). 8 Per questo aspetto rinviamo al nostro articolo La teoria della nevrosi in Freud e il movimento della metafora, in «Rivista di Psicologia», 1, 1999. Si confrontino, al contrario, le crude osservazioni di Musatti che interpreta in modo esclusivamente funzionale la teoria freudiana di Eros e Thanatos: «ci si può domandare se valeva la pena di far tutto questo lungo lavoro per giungere alla fine ad una classificazione, che da un lato può apparire banale e dall’altro estremamente generica, e quindi, come tale, di scarsa utilità per la vita istintiva […] Ciò che vi è di peculiare per la concezione psicoanalitica degli istinti, non è cioè tanto la classificazione così come si presenta in forma definitiva, ma la considerazione degli istinti come costituiti da elementi parziali, spostabili, trasformabili, talora unificabili in formazioni più complesse, talora scindibili in componenti parziali che si ergono in forze principali e indipendenti» (C. L. Musatti, Trattato di psicoanalisi, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 263-264).

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ze distruttive ed aggressive», al contrario Eros tende alla propria preservazione e si volge all’esterno solo con finalità procreative9: l’interno e l’esterno scandiscono la divisione tra due pulsioni, nella stessa misura in cui Agostino contrapponeva la vita dissoluta dell’uomo esteriore a quella contenuta e diritta dell’uomo interiore10, cioè stabilendo una divisione di principio pura e rigorosa tra Eros e Thanatos, tra la tensione introversa ed estroversa dell’uomo. Punctum caecum dell’analisi e quindi sottratta come tale all’indagine razionale, la distinzione tra interno ed esterno è la parallasse sotto cui si ordinano tutte le successive coppie della vita psichica dell’uomo e determina la visuale dell’intera antropologia freudiana. La pulsione di morte, che ha lo scopo biologico di tendere alla soppressione dell’essere vivente11, ritrae un uomo proteso aggressivamente fuori di sé, spinto a giustificarsi con l’azione piuttosto che con le parole: «una parte dell’aggressività svolge la sua muta e inquietante attività nell’Io e nell’Es come libera pulsione distruttiva»12. Ma l’assunto implicito, che la violenza si esprima soprattutto attraverso «l’inclinazione ad agire»13 piuttosto che verbalmente, si spiega solo apparentemente con l’argomento empirico per cui nell’uomo aggressivo si riscontri una «predominanza muscolare»14: il silenzio a cui Freud allude ha uno spessore teorico maggiore che si può comprendere solo considerando la tensione gemella e opposta della pulsione di morte. Eros è innanzitutto l’asilo della parola: la situazione d’amore in genere è infatti paragonabile alla condizione in cui si trova un ipnotizzato sedotto e influenzato dalla “magia” delle parole dell’ipnotizzatore15. Il silenzio dell’uomo teso fuori di sé è il muto controcanto della voce dell’uomo che nella musica, «la scienza del misurare ritmicamente secondo arte», incontra la pura trascendenza: «io penso che la sede del ritmo ideale si trovi in qualunque luogo più nobile del mondo sensibile (corporibus) o anche al di sopra dell’anima (supra ani9

S. Freud, Teoria della libido, IX, p. 461. Su questo tema, cfr. il nostro articolo Il tema della salvezza nelle Confessioni, in «Studia Patavina», 47, I, 2000, pp. 63-84. 11 S. Freud, Al di là del principio di piacere, IX, p. 234. 12 S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, XI, p. 217, c.m. 13 S. Freud, Tipi psichici, XI, p. 56. 14 S. Freud, Perché la guerra?, XI, p. 299. 15 S. Freud, Ipnotismo e suggestione, I, pp. 105-106. 10

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mam)»16. Ciò che Agostino afferma teologicamente ritorna nella psicologia freudiana come il rifiuto di attribuire una qualche capacità simbolica alla violenza: la prominenza muscolare non ha una sua letteratura e sfugge persino agli intricati pittogrammi onirici, perché «il mutismo nel sogno è un modo consueto di raffigurare la morte»17, scopo biologico di cui la violenza è lo strumento. Il linguaggio dunque accoglie esclusivamente la pulsione di vita, proprio come le tradizioni culturali che compongono l’etica hanno lo scopo di promuovere e favorire l’educazione, soggiogando le spinte aggressive18. Freud infatti ritiene che le due pulsioni fondamentali della psiche umana possano venire messe in contatto pur rimanendo di principio rigorosamente separate: a differenza del mescolamento cui saremmo di fronte in una situazione preanalitica, la terapia freudiana consiste appunto del disimpasto (Entmischung) delle due pulsioni e, insieme, del riconoscimento che è possibile un passaggio (simbolico, metaforico e spirituale) dall’una all’altra. Quando infatti Freud ricorda che è facile assistere ad una «conversione dell’odio in amore», non manca di puntualizzare che non si tratta tan-

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Agostino, Musica, I, 1, 1 e VI, 12, 34, in Opere: dialoghi, vol. 2, Roma, Città Nuova, 1976. In una prospettiva del tutto analoga, cfr.: «l’uomo con le parole è solo spinto a imparare ed è molto poco quello che appare del pensiero di colui che parla tramite il linguaggio: se poi si dicono cose vere, lo insegna soltanto colui che, parlando esternamente, ci ha ricordato che abita nell’interiorità» (Agostino, Il maestro, XIV, 46, tr. it., Roma-Napoli, Theoria, 1995, p. 92). 17 S. Freud, Patriarcale fiabesco nei sogni, VII, p. 211. 18 In un breve e interessante volume lo scrittore Franchini ha però accostato la letteratura alle discipline di combattimento, cercando di evitarne il caratteristico disprezzo da parte intellettuale: «nelle arti marziali la vittoria sarebbe sull’istinto e sulla violenza. In letteratura l’agonista è mutevole: la resistenza del reale, l’opacità della lingua, il peso delle nostre intenzioni […] Il pugilato è letterario perché è estremo, perché è sempre contiguo alla disfatta, ma non esclude il miraggio della gloria» (A. Franchini, Quando vi ucciderete, maestro?, Venezia, Marsilio, 1996, pp. 23 e 125). Ciò che questo breve pamphlet afferma in tono sperimentale è la possibilità di un’espressione letteraria del corporeo o piuttosto la ricerca di una diversa coordinazione tra mente e corpo. In questa prospettiva, non è tanto l’attività corporea a sancire la separazione con la sfera intellettuale, quanto piuttosto l’esperienza totalizzante del dolore fisico: la sofferenza infatti riconnette l’uomo alla sua realtà fisica e materiale. Si vedano le acute osservazioni di E. Scarry, The Body in Pain. The Making and Unmaking of the World, New York, Oxford University Press, 1985.

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to di una trasformazione della singola pulsione, dovuta ad un mutamento esterno, quanto di un autentico cambiamento spirituale: «si tratta di modificazioni puramente interiori, del tutto indipendenti da variazioni di comportamento da parte dell’oggetto»19. È appunto lo statuto di evento interno che impedisce di concepire questa modificazione come una rottura dello schema fondamentale delle dinamiche psichiche: la possibilità di conversione dell’odio in amore è alla base dell’edificazione del Super-io e quindi influenza grandemente sull’eventualità dell’elaborazione di principi etici. Le istanze morali conculcate in un soggetto dall’esterno vengono dapprima vissute con odio, perché ostacolano la piena e sfrenata realizzazione del principio di piacere, ma gradualmente si assiste alla «assimilazione di un Io a un Io estraneo, in conseguenza della quale il primo Io si comporta sotto determinati riguardi come l’altro, lo imita, lo accoglie in un certo modo in sé. Non inopportunamente l’identificazione è stata paragonata alla incorporazione orale, cannibalesca, della persona estranea»20: questo sinuoso processo di educazione sfocia nell’edificazione del Super-io «che continua a svolgere per l’Io il ruolo del mondo esterno, nonostante sia diventato parte del mondo interno»21. È decisivo osservare che questa duplice trasgressione dei principi fondanti la vita psichica (ovvero, la separazione tra amore e odio, e la demarcazione di interno ed esterno) non indebolisce, ma, al contrario, rende ancora più stabile il corpo teorico della dottrina freudiana, proprio perché le imprime una dinamica ascendente verso i valori spirituali: viceversa, l’orientamento contrario, che passa dalla manifestazione d’amore all’odio, segna un punto di rottura nell’ordine pulsionale della psiche. Secondo l’interpretazione classica delle perversioni, la presenza di una idealizzazione dell’altro22 non basta ad arrestare un progressivo abbassamento e allontanamento dalle sfere superiori della mente: tuttavia Freud non condanna in quanto tali le perversioni, perché «nella sessualità l’elemento più alto e più basso si trovano dovunque intimamente connessi»23. Le perversioni sono, come indica l’etimologia, una fuoriuscita dall’orientamento razio19

S. Freud, L’Io e l’Es, IX, p. 505, c. n. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, VI, p. 175. 21 S. Freud, Compendio di psicoanalisi, VI, p. 633. 22 S. Freud, Le aberrazioni sessuali, IV, p. 474. 23 Ibidem. 20

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nale del reale e lo stravolgimento della gerarchia metafisicamente stabilita tra interno ed esterno. Come la violenza è al di fuori dell’ordine simbolico, così si possono misurare le perversioni secondo il grado di estraniazione dall’amore genitale verso la manifestazione cruenta e le si possono scandire secondo una progressione priva di ogni carica positiva: l’amore non genitale, il feticismo del corpo, il feticismo degli abiti e, infine, la necrofilia24. Queste perversioni segnano una via al male, lungo la quale si passa dall’amore (non genitale) all’odio (per il corpo indifferenziato, il cadavere), da un’iniziale unità positiva del corpo alla sua progressiva frammentazione nei suoi elementi erotizzanti (feticismo), al riacquisto totalmente negativo e invertito del corpo come unità da odiare (la necrofilia). L’esteriorità psichica estrema dell’uomo è il sadismo rivolto ad un corpo spogliato di ogni dignità e ridotto ad oggetto, una ‘metafora’ malvagia dell’investimento sessuale, traslazione oscura che nega ogni possibilità: «il sadismo corrisponderebbe allora a una componente aggressiva della pulsione sessuale, resasi indipendente ed esagerata che usurpa per spostamento la posizione principale»25. Rispetto alla forza di rottura della pura aggressività costituita dalla necrofilia e dal sadismo, la trasgressione della divisione tra Eros e Thanatos che provoca l’edificazione del Super-io ha il temperamento di una lunga consuetudine, di una tradizione che forse anticamente aveva suscitato l’indignazione per un’usurpazione, ma che secoli di civilizzazione ora hanno reso una pratica degna e positiva. 2. Ambiguità strutturale Tuttavia, la preminenza concessa da Freud alla pulsione di vita nella possibilità di espressione con linguaggio e simboli sembra essere soprattutto un tributo alla tradizione umanista, che accomuna l’educazione e la civilizzazione all’apprendimento culturale (la cosiddetta Bildung): Freud infatti afferma ripetutamente non solo che Eros e Thanatos costituiscono i principi fondamentali dell’attività psichica, ma anche che sono strutturalmente equivalenti, visto che 24 25

S. Freud, La vita sessuale umana, VIII, p. 464. S. Freud, Le aberrazioni sessuali, IV, p. 470, c.n.

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«nell’uomo alberga in sé il bisogno di odiare e di distruggere»26 accanto al bisogno d’amore. Riconoscere una parità sistemica ad Eros e Thanatos significa in primo luogo che «l’odio è invariabilmente l’inatteso accompagnatore dell’amore»27, senza alludere con questo alla situazione preanalitica dell’impasto delle due pulsioni: l’analisi non sembra tanto accreditare la miscela di Eros e Thanatos cui si trova di fronte il medico prima di intraprendere la terapia, quanto rilevare che la dinamica ascendente (verso l’etica) che Eros conosce non cancella affatto l’assunto di una interconnessione tra le due pulsioni. Non si tratta semplicemente di confermare l’osservazione antropologica per cui «gli uomini hanno in tutti i tempi introdotto resistenze convenzionali per godere dell’amore»28, ma di chiarire che «senza l’ipotesi di una tale energia spostabile tra amore e odio non veniamo a capo di nulla»29: se Eros tende alla procreazione e Thanatos alla distruzione, secondo Freud siamo davanti ad un equilibrio biologico tra la spinta all’espansione e alla conservazione. La ricerca strettamente medica in questo caso sembra contraddire la speculazione di orientamento filosofico condotta sulla reciprocità dei sentimenti umani di odio e amore: la biologia stabilisce un’armonia sistemica, dove la psicoanalisi orientata secondo il principio di interiorizzazione aveva instaurato una forma di dialettica tra il mondo esterno e l’Io, le istanze morali e quelle narcisistiche, ed era finita a parlare di una guerra vittoriosa contro la violenza, in quanto «la civiltà domina dunque il pericoloso desiderio di aggressione dell’individuo, infiacchendolo, disarmandolo e facendolo sorvegliare da un’istanza nel suo interno, come da una guarnigione nella città conquistata»30. A queste due prospettive già fortemente conflittuali, che stabiliscono contemporaneamente una stasi e una dinamica del sistema, si aggiungono alcune considerazioni che accentuano il grado di ambi26

S. Freud, Perché la guerra?, XI, p, 291. S. Freud, L’Io e l’Es, IX, p. 504. 28 S. Freud, Psicologia della vita amorosa, VI, p. 429. 29 S. Freud, L’Io e l’Es, IX, p. 506. 30 S. Freud, Il disagio della civiltà, X, p. 611. Freud non esclude che nella società debba sussistere una certa forma di violenza che regolerebbe la pressione interna della pulsione di morte: «il vantaggio di un ambito piuttosto circoscritto di civiltà, il quale consente alla pulsione di morte di sfogarsi animosamente contro coloro che ne sono al di fuori non è affatto disprezzabile» (ibidem). 27

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guità della teoria delle due pulsioni: «spesso l’odio precorre l’amore nelle relazioni tra gli uomini»31. Dunque, Freud ipotizza che «l’odio, come relazione nei confronti dell’oggetto, sia più antico dell’amore; esso scaturisce dal ripudio primordiale che l’Io narcisistico oppone al mondo esterno come sorgente di stimoli […] L’odio che si mescola all’amore trae dunque origine dalle pulsioni di autoconservazione»32. Non siamo però di fronte ad una contraddizione o ad un’ambiguità generata da una argomentazione incoerente: al contrario, le affermazioni contrastanti di una dialettica (ascendente) tra amore e odio, di una loro parità strutturale e persino della primarietà dell’odio rispetto Eros si compongono in un quadro teorico e terapeutico preciso, che ha lo scopo di affermare la necessità morale di stabilire una progressione etica verso Eros. Freud ammette certamente che «quando questo tramutarsi di odio in amore e viceversa sia più che una semplice successione temporale – vale a dire più che una mera operazione – viene meno evidentemente il fondamento per quella radicale distinzione fra pulsioni erotiche e pulsioni di morte, alla cui base dovrebbero stare processi fisiologici svolgentesi in direzioni opposte»33: ma è proprio questa incrinatura della divisione assoluta tra Eros e Thanatos a permettere, come abbiamo già riscontrato, il passaggio dialettico verso l’etica. La logica del sofisma, del motto di spirito e del sogno permette di giustapporre osservazioni, constatazioni e assunti teorici del tutto eterogenei, ma nello stesso tempo è in grado di presentarli come un insieme razionale e coerente: «A ha preso in prestito da B un paiuolo di rame. Quando lo restituisce B protesta perché il paiuolo ha un grosso buco che lo rende inutilizzabile. Ecco come si difende A: “in primo luogo non ho affatto preso in prestito nessun paiuolo da B; in secondo luogo, quando B me l’ha dato il paiuolo aveva già un buco; in terzo luogo, ho restituito il paiuolo intatto”»34. Questa logica onirica in fondo si trova anche nella teoria 31

S. Freud, L’Io e l’Es, IX, p. 504. S. Freud, Metapsicologia, VIII, p. 34. 33 S. Freud, L’Io e l’Es, IX, pp. 504-505, c.n. 34 S. Freud, Il motto di spirito, V, pp. 54-55; cfr. ibidem, p. 183; cfr. S. Freud, Interpretazione dei sogni, III, pp. 292 e 119. Derrida ritiene che questo sofisma non si limiti a mascherare un ragionamento fallace, come lo stesso Freud pretenderebbe (S. Freud, Il motto di spirito, V, 54), ma che sia l’espressione di un contrasto tra il desiderio (di argomentare in un certo modo) e le esigenze razional32

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delle pulsioni: Eros è superiore a Thanatos, che gli è dialetticamente opposto; Eros e Thanatos sono due principi biologici equivalenti; del resto, Thanatos è più antico di Eros. Il disimpasto (Entmischung) tra la pulsione di vita e la pulsione di morte dunque può avvenire solo in un quadro teorico complesso, apparentemente incoerente, ma giudicato valido perché permette di instaurare una dialettica teleologicamente diretta verso Eros: in un certo senso, il movimento verso Eros viene a supplire alla primarietà negativa di Thanatos35. Pur essendo derivata e supplementare rispetto alla pulsione di morte, la pulsione di vita viene investita del più alto compito di civilizzazione, che in un certo senso è il superamento di infantili tendenze narcisistiche: «il contrasto tra sessualità e civiltà deriva dal fatto che l’amore sessuale è un rapporto tra due persone […] mentre la civiltà si basa su relazioni tra un maggior numero di persone»36. Ciò che appare incoerente ad un’analisi analitica degli elementi della struttura viene giustificato dal tradizionale principio dell’uomo quale essere sociale, che a sua volta si incardina sul riconoscimento della superiorità intellettuale e dialogica dell’uomo. Secondo la dottrina politica classica, infatti, la polis sorge per natura: non è un prodotto artificiale dell’individuo o di un gruppo, ma un dato, ovvero un elemento antropologico che prima delle indagini etnologiche non si poteva che ritenere del tutto comune, fondamentale e irriducibile per ogni popolo37. L’edificazione di una buona polis tuttavia risiede in una ratio più profonda: la polis data per natura all’uomo può migliorare ed eccellere, perché esiste una continuità tra la legge naturale e la legge che l’uomo pone su di sé mente rigorose della logica metafisica: in questo caso, benché la ricerca bio-medica spinga Freud a riconoscere la primarietà di Thanatos, emerge tuttavia il desiderio di sancire (o ristabilire) la preminenza di Eros. Cfr. J. Derrida, La disseminazione, tr. it., Milano, Jaca Book, 1989, p. 142 ss. 35 Secondo Derrida questa logica onirica manifesta anche la volontà di «padroneggiare [la supplementarietà] in uno strano ragionamento». In altri termini, la logica metafisica che si muove dagli assunti assiomatici di un’integrità originaria avverte che la logica onirica sia particolarmente pericolosa proprio a causa del suo carattere ontologico, oscillante tra ente e ni-ente: «il suo scivolamento lo sottrae alla semplice alternativa della presenza. Questo è il pericolo» (J. Derrida, La disseminazione. cit., pp. 142 e 143). 36 S. Freud, Il disagio della civiltà, X, p. 596. 37 Aristotele, Politica, I, 2, 1252b 30 ss.

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con la riflessione, l’intelletto e l’esercizio di quel medesimo logos che lo caratterizza “naturalmente”. Di conseguenza, la reazione contro l’ottimismo socratico è innanzitutto una requisitoria contro questo legame ambiguo tra natura e cultura, complesso sinolo di creazione e redenzione. Quando si rifiuta l’idea che il logos sia una proprietà e un possesso naturale (biologico o antropologico) dell’uomo, si esprime implicitamente la disillusione che l’educazione in ogni sua forma (la paideia greca, l’humanitas latina o la stessa Bildung tedesca) possano effettivamente incidere nel corso della storia dell’uomo persuadendone l’istinto ai più miti consigli della civilizzazione. Quanto più profondamente si incide la differenza tra natura e cultura, inconscio e civilizzazione, Eros e Thanatos, tanto più diviene urgente la ricerca di un linguaggio nuovo, che sappia intessere nuovamente questo legame e che permetta all’uomo perlomeno di elaborare una strategia di uscita dal muto mondo della natura38. È in gioco la questione stessa della lingua, ma, come vedremo, si tratta di un prezzo che Freud non è in grado di addebitare alla psicoanalisi. La ricerca della buona vita tuttavia spinge l’uomo fuori dall’ambito naturale, lo porta ad interrogarsi sulla giustizia e quindi a sviluppare i temi classici della razionalità, della riflessione, della mediazione e del dialogo: «è chiaro quindi per quale ragione l’uomo è un essere socievole molto più di ogni ape e ogni capo d’armento. Perché la natura, come diciamo, non fa nulla senza scopo e l’uomo, solo tra gli animali, ha la parola: la voce (phoné) indica quel che è di doloroso e gioioso e pertanto l’hanno anche gli animali […] ma la parola (lógos) è fatta per esprimere ciò che è giovevole e ciò che nocivo e, di conseguenza, il giusto e l’ingiusto: questo è,

38 Ritorneremo più volte su questo punto e sulla necessità di edificare un nuovo linguaggio. La contestazione dell’ottimismo socratico è celebre in Nietzsche e in Sorel. In particolare, seguendo le parole di Nietzsche, Sorel delinea attraverso una rivisitazione del processo a Socrate i termini reali di un cambiamento della società, non più ancorato all’ottimismo della ragione, bensì articolato a partire da un pessimismo cosmico che riconosca, effettivamente, la debolezza costitutiva dell’uomo e l’ineliminabile necessità di confrontarsi con il dolore (cfr. G. Sorel, Le Procès de Socrate. Examen critique des thèse socratiques, Paris, Alcan, 1889). In questa prospettiva, l’appellativo «il nuovo Socrate, il nostro Socrate» con cui l’amico David Halèvy chiamava Sorel assume uno spessore singolare. Ritorneremo su questi aspetti nell’ultimo capitolo.

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infatti, proprio dell’uomo rispetto agli altri animali, di avere, egli solo, la percezione del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto e degli altri valori: il possesso comune di questi costituisce la famiglia e lo stato»39. La prospettiva freudiana è profondamente consonante con questa classica valorizzazione sociale del principio del dialogo e del linguaggio: come la psicoanalisi orientata all’interiorità aveva saputo stabilire una dialettica positiva verso Eros (mentre la biologia tendeva a vedere un’equivalenza armoniosa tra i due principi), così qui il valore filosofico della natura politica dell’uomo sopravanza e aggira le difficoltà strutturali rese evidenti dall’analisi sistematica del pensiero freudiano. La psicoanalisi resta comunque una dottrina che si pone obliquamente rispetto le opzioni speculative tradizionali e perciò la natura supplementare della pulsione di vita rispetto a quella di morte non può venire occultata pienamente dalla teoria freudiana della mente: la provvisoria armonizzazione dei tre temi contrastanti che abbiamo analizzato sopra (Eros e Thanatos come principi equivalenti, Eros come sviluppo dialettico di Thanatos, Thanatos come tratto più antico e originario della psiche) e che era stata conseguita richiamandosi alla consueta visione dell’uomo come animale politico si infrange quando si passa a valutarla secondo una più ampia prospettiva della storia sociale. È di fronte al ritorno della stessa ambiguità strutturale sotto le spoglie di una teoria della civilizzazione che Freud non è più in grado di sostenere il punto di vista tradizionale: è come se il filo che lo lega all’antropologia classica fosse troppo sottile per sorreggere lo stesso argomento riportato su scala maggiore. Da un lato, Freud classifica la cultura come qualcosa di non naturale, che come tale distingue l’uomo dagli animali: la civiltà sarebbe allora «tutto ciò per cui la vita umana si è elevata al di sopra delle condizioni animali e per cui essa si distingue dalla vita delle bestie»40. Ma da un altro punto di vista, questa definizione è problematica perché potrebbe venire intesa come un’allusione ad una presunta superiorità umana che si gioca anche 39

Aristotele, Politica, I, 2, 1253a 10-20. Cfr. anche De anima, B 420b 5 - 421 b; cfr. Etica Nicomachea, I, 6, 1098a 5. 40 S. Freud, L’avvenire di un’illusione, X, p. 436. Eppure è significativo che nella Bibbia il mito prometeico del primo educatore dell’umanità sia affidato proprio a Caino, il primo omicida (cfr. F. Dal Bo, La Legge e il Volto di Dio, Firenze, La Giuntina, 2004).

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nella sottrazione dell’uomo dal conflitto tra pulsione di vita e di morte attorno a cui si affaticano gli animali. In un altro luogo infatti Freud riassume lo stesso argomento, arricchendolo di un’importante sfumatura: la civiltà «è la somma delle realizzazioni e degli ordinamenti che differenziano la nostra vita da quella dei nostri progenitori animali»41. Qui Freud connette la civilizzazione alla costruzione di istituzioni, un carattere produttivo che si impernierebbe sul superamento, cioè sull’oltrepassamento e sul recupero di pulsioni negative e sulla loro trasformazione in cultura42. Freud però rifiuta lo schema circolare di civiltà e rimozione43: in fondo rifiuta di aprirsi ad una prospettiva apocalittica della psicoanalisi, per cui la sublimazione delle pulsioni sessuali e la crescita della civilizzazione potrebbero idealmente raggiungere un tale grado da inibire la riproduzione, lasciando la moltiplicazione solo agli incolti44. Come veniva concepita dal padre fondatore, la psicoanalisi non avrebbe mai potuto caricarsi di un simile debito nei confronti della civilizzazione, ma è opportuno valutare questa precauzione con chiarezza. Le riserve che Freud muove nei confronti di questa prospettiva apocalittica, infatti, non sembrano tradire tanto lo scrupolo scientifico del medico, quanto le riserve di colui che comunque desidera porsi in continuità con la storia della civiltà europea – ovvero che desidera appartenere a quella medesima tradizione per cui la cultura è il mezzo supremo di emancipazione che tuttavia non strappa mai definitivamente l’uomo dal suo alveo naturale: il linguaggio è una protesi posta alla mano dell’uomo. Viceversa, la circolarità di civiltà e rimozione nasconde una valutazione estremamente problematica dell’essenza del linguaggio: la frattura che altrimenti si sarebbe determinata tra natura e cultura avrebbe infatti chiamato la psicoanalisi al compito addirittura teologico di rifondare una lingua che avrebbe ridato la parola all’uomo liberato dai suoi bassi istinti biologici, dai tormenti dell’inconscio o dal verminaio della pulsione sessuale45.

41

S. Freud, Il disagio della civiltà, X, p. 580. S. Freud, Introduzione alla psicoanalisi, XI, pp. 281-282. 43 S. Freud, Storia del movimento psicoanalitico, VII, p. 429. 44 S. Freud, Perché la guerra?, XI, p. 302. 45 La ricerca di un nuovo linguaggio o, perlomeno, l’indagine filologica per restituire la corretta lezione evangelica della Scrittura, infatti, è stata l’esigenza pri42

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Tra una concezione che vede la civilizzazione come qualcosa di “innaturale” e di radicalmente distinta dal regno animale e una visione della Kultur quale progressivo superamento della condizione animale, Freud in fondo sembra proporre un’alternativa ulteriore, quasi presagendo che entrambe puntano alla stazione ultima di un’umanità così profondamente evoluta rispetto alla sua origine biologica, da rifiutare persino la riproduzione sessuale46: attraverso questo paradosso Freud esprime un severo giudizio verso l’idea progressista della civiltà, perché contemplerebbe uno sradicamento dell’uomo. In questo senso, l’antropologia freudiana ritorna a terra e abbandona il ritiro nell’interiorità oltre il cielo delle stelle fisse verso la trascendenza e la completa sublimazione. Benché dichiari di non aver voluto leggere i teorici filosofici dell’inconscio per evitare interferenze esterne47, Freud ha però ammesso di aver ricavato da Groddeck, studioso di Nietzsche, l’uso del termine Es per indicare un modo d’essere impersonale e passivo48 e, in particolare, ha

maria nell’eresia cristiana di Marcione. Per costui, la natura ultima della Chiesa sarebbe quella apocalittica: la casta dei chierici infatti prefigurerebbe un’umanità che cessa di riprodursi e invece attende la Redenzione finale del mondo. La giustificazione e il sostegno scritturale alla Redenzione proviene dunque da un accurato e minuzioso lavoro filologico – il cui compito è ripulire la Rivelazione paolina dagli interventi e dalle interferenze degli Apostoli “semiti”. In questa prospettiva, l’antigiudaismo metafisico di Marcione non si declina propriamente come la rifondazione di un linguaggio, ma come la più rigorosa restitutio linguae. Cfr. la celebre interpretazione del pensiero di Marcione offerta con spunti nietzscheani da A. Von Harnack, Marcione o il Vangelo del Dio straniero, tr. it., a cura F. Dal Bo, Genova-Milano, Marietti, 2007; per le fonti antiche al pensiero di Marcione, rinviamo a Tertulliano, Contro Marcione, in Opere scelte, tr. it., Torino, UTET, 1974, pp. 289-718. 46 Nello scritto antiutopico di Huxley, Il mondo nuovo, si ipotizza che in un prossimo futuro gli uomini nascano in provetta, senza bisogno della riproduzione naturale: gli atti sessuali tuttavia non scompaiono, ma addirittura aumentano e vengono compiuti per solo piacere. Questa antiutopia letteraria è utile per comprendere per negativum il senso propriamente filosofico della prospettiva (puramente ipotetica) avanzata da Freud: la sublimazione spinta sino alle estreme conseguenze dimostra che l’orizzonte (ideale più avanzato) in cui si inscrivono gli scritti freudiani più tardi è profondamente speculativo, perché sancisce la definitiva trasformazione della pulsione di vita in una sorta di “libido culturale” e, dunque, l’elevazione della spinta biologica alle altezze dell’intelletto. 47 S. Freud, Autobiografia, X, p. 127. 48 S. Freud, L’Io e l’Es, IX, p. 486.

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più volte paragonato il lavoro ermeneutico applicato al materiale onirico ad una totale «trasmutazione di tutti i valori psichici»49: il ritorno alla terra che suggerisce il rovesciamento della gerarchia metapsichica antecedente all’analisi freudiana è dunque il temperamento della dimensione introspettiva e viene rappresentato dal legame epistemologico mantenuto con la neurologia e la scienza medica in generale. La storia è, empiricamente, solo un movimento che conosce affermazioni e regressioni, inclinando blandamente ad una forma di progresso: «il primato dell’intelletto va collocato senz’altro in un futuro molto, molto lontano, ma probabilmente non infinitamente lontano»50. Ma questa opzione “empirica” della visione freudiana della storia non compromette le parti restanti della dottrina analitica che sembrano ancora composte secondo uno stile metafisico: la figura del re in questo senso è emblematica. 3. La figura del re Benché Freud cominci ad elaborare la dottrina psicoanalitica al volgere del secolo scorso, il richiamo alla persona del re è il ritorno a figure antiche e quasi mitiche dell’organizzazione sociale, che poco hanno in comune con le monarchie parlamentari (di diritto e di fatto) che si instaurano in Europa fino a prima della Grande Guerra: le pretese dei movimenti reazionari prenazisti e dello stesso nazismo di recuperare dalle atmosfere medievali l’avallo per un potere personale ed autoritario non sono certo prive di rilievo, ma per ora è necessario seguire rigorosamente l’impostazione freudiana che si articola soprattutto sugli apporti della tradizione popolare, etnologica e basso medievale. Quando un po’ frettolosamente Freud identifica la figura onirica del re con quella del padre51, il suo pensiero non va tanto alla monarchia asburgica, che del paternalismo politico aveva fatto a suo modo il principio d’azione politica, quanto all’icona medievale del re taumaturgo, investito del sovrannaturale potere di guarigione e

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S. Freud, Il lavoro onirico, III, p. 303; cfr. S. Freud, Il sogno, IV, p. 23. S. Freud, L’avvenire di un’illusione, XI, 483; cfr. S. Freud, Storia del movimento psicoanalitico, VII, p. 432. 51 S. Freud, Il lavoro onirico, III, p. 325.

50

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dotato di una tale carica carismatica da raccogliere a sé l’intero popolo: «così i re e capi sono depositari di un’enorme forza, e i sudditi che si rivolgessero direttamente a costoro incontrerebbero la morte»52. Poiché colui che viene investito di un potere sacro, come tale, si discosta e si separa dal mondo53, l’isolamento della figura regale sulla terra, che etnologicamente si giustifica con l’espressione di un bisogno di difesa dal numinoso, prelude ad una separazione radicale di due prospettive note alla teoria politica classica: l’edificazione di una monarchia giusta o la nascita di una tirannide. Freud suggerisce un criterio “democratico” di verifica del potere regale sotto questa aura di sacralità, ma l’argomento nasconde un più acuto accento teorico che metteremo in luce: «se il re è il loro dio, esso è anche il loro difensore; se non li difende deve far posto a un altro re che li difenda»54. Ciò che a prima vista sembra un primitivo principio di equità politica, polarizzando invece le tensioni contrastanti di Eros e Thanatos, identifica il re ad un tempo come onnipotente e bisognoso di protezione (dal mondo esterno), signore degli eventi naturali e soggetto a tabù severi, dotato di tendenze benefiche e malefiche55: la sangunis purpurea dignitas che condividono i popoli primitivi fino alle più tarde dinastie carolingie catalizza l’opposizione della pulsione di vita e di morte attorno alla figura di un re ritirato dal mondo perché simbolo “sacro” di potere. Ciò che allora permette di giudicare un potere regale non può venire desunto da una tenue teoria elementare del diritto, per cui è possibile deporre un re che non serva il popolo, ma piuttosto da un rigoroso principio filosofico: il tema dell’interiorità. Il giudizio formulato sul potere (Gewalt) del re non è semplicemente una sottigliezza di carattere etnologico, ma soprattutto ai lettori di lingua tedesca evoca la questione stessa dell’aggressività e della violenza (Gewalt): riconoscere il principio filosofico grazie a cui viene giustificato un potere regale significa rintracciare il criterio autentico che è sotteso alla teoria freudiana dell’aggressività, proprio in virtù della polisemia del Gewalt.

52

S. Freud, Totem e tabù, VII, p. 29. Cfr. J. Frazer, Il ramo d’oro, tr. it., Torino, Boringhieri, 1965 e in particolare M. Bloch, I re taumaturghi, tr. it., Torino, Einaudi, 1973. 53 S. Freud, Totem e tabù, VII, p. 29. 54 Ibidem, p. 52. 55 Ibidem, p. 57.

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Freud non è molto attento alla questione della regalità, ma il suo discepolo Jung in questo caso formula una tesi che sembra seguire fedelmente la maniera del maestro e che quindi assumeremo a fortiori come un argomento quasi freudiano. Forte dell’ammonimento freudiano per cui il rigetto dell’inconscio determina un ritorno del rimosso, Jung riconduce la figura del re malato (che ha perso l’aura taumaturgica) alla mancata considerazione delle forze istintive: «il re rappresenta la coscienza dominante che, nel corso del confronto con l’inconscio, viene divorata da quest’ultimo: donde […] uno stato tenebroso che finisce però col portare a un rinnovamento e una rinascita del re»56. La malattia e l’insania del re possono assumere i tratti di una tirannide e versare l’uomo che era dotato di sacralità taumaturgica in uno stato «di sterilità spirituale»57: l’inconscio, cioè la natura più recondita e ritirata dell’uomo, sembra colmare le sue possibilità razionali. È come se nel caso di un ritiro ascetico in sé ci si fosse rintuzzati eccessivamente nella cripta della memoria Dei, sino a perdere ogni luce di razionalità. La meditazione mistica è stata spesso paragonata all’ingresso in un castello: l’arroccamento infatti simboleggia, da un lato, la trascendenza divina e, dall’altro, il ritiro dal mondo. Teresa d’Avila tuttavia osserva che la meditazione mistica non è mai pensiero di sé, ma notio impressa della presenza divina: il misticismo deve aprire a un teocentrismo ancora più intenso e non a una sorta di auto-auscultazione. «Ma torniamo al nostro castello e alle sue molte dimore. Non dovete immaginarle una dietro l’altra, come in fila, ma rivolgete lo sguardo al centro, che è la stanza o il palazzo dove risiede il Re. Fingete che sia un cuore di palma in cui la parte commestibile e più saporita è circondata da una fitta copertura […] E, credetemi, con la virtù di Dio praticheremo una virtù migliore che se rimanessimo molto attaccate alla nostra terra»58. 56 C. G. Jung, Psicologia e alchimia, in Opere, tr. it., Milano, Bollati Boringhieri, 1985 vol. XII, pp. 399-400. 57 Ibidem, p. 395. 58 Teresa d’Avila, Il castello interiore, tr. it., Palermo, Sellerio, 1999, pp. 64-65. La visione della dimora divina, delle sue stanze e dei suoi ambienti difesi dalle forze angeliche è un topos del pensiero mistico occidentale. Per quanto riguarda l’ebraismo è particolarmente notevole la cosiddetta “letteratura degli Hekhalot”, che trovò sviluppo dalla fine dell’età tardo-antica fino al primo medioevo, attraverso una serie di diversi scritti in cui vengono descritti i “palazzi” di Dio. Cfr. in

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Secondo i dettami della metafisica classica, per cui nemmeno l’intinerarium mentis in Deum può compiersi senza la traccia di un “metodo” razionale, anche la malattia del re è dovuta a uno squilibrio interno: «responsabile della sterilità spirituale è infatti la proiezione di contenuti inconsci che non sono integrati alla coscienza e non possono né svilupparsi né “trovar redenzione”»59. L’integrazione con i contenuti inconsci, ovvero la riedificazione dell’unità primitiva che porterà invece ad una «trasmutazione in una natura superiore»60, si può dare solo in un ritorno a se stessi, che il pensiero mitico configura paradossalmente con un legame incestuoso, ma che la psicologia del profondo comprende simbolicamente come il ritorno all’unità positiva con la terra61: il processo di interiorizzazione, di separazione sacrale dal mondo o di introspezione psicoanalitica del sé può circoscrivere e dominare l’aggressività e la violenza (Gewalt) solo instaurando un potere (Gewalt) orientato secondo il principio metafisico della positività del simbolo. L’abito mitico di un incesto, che rappresenta la coordinazione del movimento di ritiro (in sé) e di ritorno all’esteriorità (la Terra) viene dismesso e il rapporto scandaloso viene addirittura visto positivamente, proprio perché è simbolico, cioè vitale, produttivo e generatore di trasformazioni benigne: «il simbolo […] presuppone sempre che l’espressione scelta sia la migliore indicazione e formulazione possibile di un dato relativamente sconosciuto, ma la cui esistenza è riconosciuta o considerata necessaria»62. Una volta che il legame (incestuoso) con la Terra non viene diretto dalla pulsione di vita, ma spinto da una furia necrofila e distruttiva, si ha una caduta al suolo, nelle fauci del demone mitico della terra: Behemot63. particolare i testi Hekalot Rabbati, in Beit ha-Midrash. Sammlung kleiner Midrashim, a cura di J. Jellinek, vol. III, Jerusalem, Sifre Vahrmann, 1967, pp. 83106 (in ebraico); cfr. in lingua italiana, Il libro dei santuari. Sefer Hekalot, a cura di G. Lacerenza, Milano, SE, 2000; per una dettagliata visione d’insieme delle edizioni originali e delle traduzioni rinviamo a D. Karr, Notes on the Study of Merkabah Mysticism and Hekalot Literature in English, in D. Karr, Collected Articles on the Kabbalah, vol. 1, Ithaca, KoM, 2006, pp. 17-20. 59 C. G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., p. 396. 60 C. G. Jung, Mysterium coniunctionis, in Opere, cit., vol. XIV, p. 287. 61 C. G. Jung, Psicologia e alchimia, cit., pp. 395-396. 62 C. G. Jung, Tipi psicologici, in Opere, cit., vol. VI, pp. 483-484. 63 «Ecco, l’ippopotamo, che io ho creato al pari di te» (hinneh-na’ Behemot ’asher ‘asiti ‘ammech) (Gb 40, 15ss.). Si tratta di un mostro mitico (ippopotamo o

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Secondo lo storico marxista Neumann, il nome di questo mostro terrestre riassume efficacemente i tratti del nazismo che in fondo è «un non-stato, un caos, un regno dell’illegalità e dell’anarchia, che ha “soffocato” i diritti e la dignità dell’uomo»64. In questa sede non ci interessa verificare quanto sia storiograficamente attendibile la tesi di un nazismo corporativo o anarchico in cui le direttive del dittatore vengono assolte affannosamente da più parti e spesso in concorrenza tra loro: è più importante notare che la dottrina della dittatura nazista viene modellata, da un lato, richiamandosi in modo implicito alla teoria della tirannide o dell’uomo incapace di realizzare l’armonia tra sé e il mondo esterno e, dall’altro, sostenendo che il Führerprinzip è una declinazione malvagia dell’antica concezione carismatica del potere, profondamente legata alla concessione di poteri taumaturgici65. Il potere carismatico, valorizzato in particolare da Lutero e Calelefante) della mitologia ugaritica che viene identificato con una delle forze elementari soggiogate dal Signore: secondo la letteratura rabbinica, alla fine dei tempi i giusti mangeranno le carni imbandite di Behemot (Waiqra’ Rabbah, XXII ss). È singolare che anche in questo richiamo intertestuale si incroci nuovamente Jung, in particolare nel suo controverso commento al libro di Giobbe. Nel testo Risposta a Giobbe (in Opere, cit., vol. XI), Jung ripercorre diversi motivi gnostici e contesta l’ambiguità dimostrata da Dio quando richiama l’attenzione della prima coppia sull’albero del bene e del male, vietando loro contemporaneamente di mangiarne i frutti. Questa contraddittorietà, del resto, era già stata evidenziata da Marcione e rappresentava un passo scritturistico fondamentale per determinare una separazione tra creazione e redenzione, ovvero tra il Demiurgo creatore del mondo e il Dio straniero redentore dell’umanità. L’attenzione che Jung riserva a questi temi marcioniti non sembra innocente rispetto alla fascinazione subita nei confronti della «novità» nel nazismo. Cfr. Aa. Vv., Jung e l’ebraismo, Firenze, La Giuntina, 2001. 64 F. Neumann, Behemot. Struttura e pratica del nazionalsocialismo, tr. it., Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 3. 65 Un ulteriore concetto centrale per la definizione del Führerprinzip è la questione della legge che tuttavia non possiamo trattare in questa sede. La questione della “forza di legge” che emana da una figura carismatica è per alcuni autori una variante della questione stessa della legge, in quanto nello stato di eccezione si rivelerebbe la natura propria di ogni apparato giuridico: quello di dipendere appunto dall’eccezionalità di una condizione che richiede il superamento della legge in quanto tale, come sarebbe accaduto nella riflessione paolina sulla Legge ebraica, fino a risalire alla contemporaneità. Si cfr. in particolare i saggi di J. Taubes, La teologia politica di San Paolo, tr. it., Milano, Adelphi, 1997 e il più recente G. Agamben, Stato d’eccezione, Torino, Bollati Boringhieri, 2003.

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vino, offre «giustificazioni teoriche e razionali all’autorità sovrana illimitata»66, evitando da un lato l’irrazionalismo esoterico di matrice basso medievale e dall’altro la nascita di monarchie parlamentari: il monarca assoluto viene accettato quale principio ordinatore di una realtà altrimenti corrotta. Ciò che a livello teologico si caratterizza come una ripresa dell’idea di sacro e “numinoso”, secondo Neumann, nasconde sul piano politico e sociale una profonda irrequietezza: come afferma la classica dottrina marxiana, la concezione carismatica del potere è la sovrastruttura eretta da una classe dominante ostile ai sentimenti di rinnovamento. È particolarmente interessante notare che la distorta idea messianica incarnata dal nazismo per Neumann sorga da una complessa radicalizzazione della visione carismatica tradizionale: il nazismo si porrebbe così in continuità con una serie di studi politici e sociali che hanno affrontato soprattutto il tema del legame con la terra. L’antropo-geografia di Ritter67, che tratta di un legame organico tra l’uomo e la terra d’insediamento, viene distorto dai nazionalisti tedeschi e spinta al punto di aspirare, nelle parole dell’orientalista e razzista Paul de Lagarde, uno sradicamento culturale di semiti e romani dal più autentico nucleo germanico: il legame con la terra non viene più avvertito in senso traslato come l’appartenenza ad una tradizione dalla storia articolata e sfaccettata, ma viene colto in senso volgare come un semplice vincolo biologico, che sostituisce e soppianta ogni interferenza culturale68. Al pari dell’antigiudaismo metafisico di Mar-

66

F. Neumann, Behemot, cit., p. 98. C. Ritter, Die Erdkunde im Verhaltniss zur Natur und zur Geschichte des Menschen, Berlin, Reiner, 1817. 68 Una complessa rivisitazione di questi temi geopolitici e la revisione del concetto etnocentrico di Europa sono i temi di un complesso saggio di J. Derrida, Géopsychanalyse «and the rest of the world» (in Psyché: l’inventions de l’autre, Paris, Galilée, 1987), dove si analizzano i temi romantici del legame tra la geografia e la Geistesgeschichte: «l’Europa non è soltanto un capo geografico che si è sempre confrontato con la prosopopea, o la fisionomia, di un capo spirituale […] L’Europa ha anche confuso la sua immagine, il suo volto, i suoi tratti e il suo luogo, il suo aver luogo, con una punta avanzata, con un fallo, se volete, quindi ancora con un capo per la civiltà mondiale o la cultura umana in genere. L’idea di una punta avanzata della esemplarità, è l’idea dell’idea europea, il suo eidos, insieme come arché […] e come telos […] La vecchia Europa sembra avere esaurito le possibilità di discorso e di contro-discorso circa la propria identificazione» (J. Derrida, Oggi l’Europa, tr. it., Milano, Garzanti, 1991, pp. 22-23). 67

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cione, anche la posizione di questo oscuro praeceptor Germaniae, si fondava su una solida preparazione filologica che lo aveva portato ad occuparsi della letteratura biblica e parabiblica, in particolare, delle traduzioni aramaiche e copte della Bibbia69. Tuttavia, la competenza linguistica di de Lagarde non si coniugava affatto con un sentimento tollerante e progressista, ma, al contrario, offriva la pretesa giustificazione scientifica per depurare la dottrina evangelica di elementi semitici per fondare una “cristianità positiva” che permettesse di approfondire la distanza tra la figura storica di Gesù e la portata autentica della sua teologia, determinando a fortiori una differenza fondamentale tra storia e rivelazione, ovvero tra mondo della Creazione e Redenzione. Le finalità negative e malvagie del nazismo in questo senso orientano l’intera teoria politica verso il basso: la sterilità spirituale del nuovo duce del popolo tedesco non può venire curata perché non c’è alcun simbolo culturale che possa sollevare l’infermo. Il vincolo biologico e razzista lascia precipitare il legame tra il nuovo re pagano (il Führer) e la terra (la Germania) in un rapporto incestuoso dai natali infausti. Come ricorda di passaggio lo stesso Freud, il nazismo è un oscuro grido di rivolta dell’inconscio dell’umanità contro le istanze morali rappresentate dall’intera Bildung europea: «si potrebbe dire che sono tutti “battezzati male” e che sotto una sottile verniciatura di cristianesimo sono rimasti quelli che erano i loro antenati, i quali professavano un barbaro politeismo. Non avendo superato il rancore contro la nuova religione che è stata loro imposta, l’hanno però spostato sulla fonte donde il cristianesimo è loro pervenuto»70. 69

Paul de Lagarde (cfr. n. 13, p. 93) fu conosciuto sorprattutto per il suo contribituo alla comparatistica con uno studio sull’onomastica in ebraico, aramaico ed arabo (Onomastica sacra, Hildesheim, Olms, 1966 edizione originale: 1870). Tra le sue numerose pubblicazioni accademiche di testi manoscritti aramaici, copti, arabi e persiani, si segnalano i seguenti testi: Prophetae chaldaice, Osnabrück, Zeller, 1967 (edizione originale: 1872); Hagiographa chaldaice, Osnabrück, Zeller, 1967 (edizione originale: 1874); Die vier Evangelien, arabisch aus der Wiener Handschrift herausgegeben, Osnabrück, Zeller, 1967 (edizione originale: 1864); Analecta Syriaca, Osnabrück, Zeller, 1967 (edizione originale: 1865). 70 S. Freud, L’uomo Mosé, IX, p. 483. Questa interpretazione dell’antisemitismo in chiave analitica lascia intendere che il termine chiave del conflitto risieda inconsciamente nel rifiuto di una struttura morale che possa mitigare e temperare le tensioni egoistiche ed è stata confermata dagli studi clinici dedicati alla ricerca

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4. La personalità tirannica Un uomo pieno di rancore per l’umanità che non l’ha compreso: in questo modo Steiner ha ritratto un immaginario Hitler che ha inscenato il suicidio, è sfuggito alla cattura da parte dei Russi ed è fuggito in Brasile, nel cuore della foresta, circondato da paludi71. Il mondo intero non gli avrebbe riconosciuto il titolo messianico di colui che ha fatto ritornare in Israele il popolo di Dio: «forse sono davvero il Messia, il vero Messia, in nuovo Shabbataj le cui gesta infami sono state permesse da Dio affinché il Suo popolo potesse tornare in patria»72. L’ebreo poliglotta Steiner chiosa questa spaventevole e oscura profezia accanto alle più terribili pagine della storia, sovrapponendo all’immagine tradizionale del tiranno quella di un Messia concepito alla maniera delle correnti esoteriche del giudaismo: il despota nazista raffigurerebbe in questo caso un “messia nero” che la tradizione talmudica conosce bene e a cui vengono attribuite controverse capacità morali73. Si parla infatti dell’esistenza di due

sulla personalità fascista: «probabilmente è questa sicurezza illusoria che i pregiudizi antisemiti offrono ad affascinare coloro che si sentono insicuri. Proprio attraverso la sua stessa ignoranza o confusione o semi-erudizione l’anti-semita può spesso conquistarsi la posizione di un mago del pensiero […] La superiorità così acquisita non rimane al livello intellettuale. Dal momento che il cliché rappresenta regolarmente il gruppo esterno come cattivo e il gruppo interno come buono, il modello di orientamento anti-semitico offre gratificazioni emotive e narcisistiche, che tendono ad abbattere le barriere dell’auto-critica razionale» (T.W. Adorno, E. Frenkel-Brunswik, D.J. Levinson, R. Sanford, La personalità autoritaria, tr. it., vol. III, Milano, Comunità, 1997, p. 180, c.n.). A proposito dell’inclusione dell’antisemitismo all’interno dell’etnocentrismo generale, cfr. ibidem, vol. I, pp. 180-206. Si noti in particolare che l’etnocentrismo si basa su una polarizzazione tra “interno” ed “esterno”: dall’esterno proviene una minaccia da parte di un gruppo sociale che è ad un tempo, senza che se ne avverta la contraddizione, oggettivamente debole ma aggressivo ed assetato di potere (ibidem, vol. I, p. 215). 71 G. Steiner, Il processo a S. Cristobal, tr. it., Milano, Rizzoli, 1982. 72 Ibidem, p. 164. 73 Le pagine più conosciute del Talmud in cui si espongono alcune opzioni messianiche sono contenute in particolare in Talmud Babilonese, trattato Sanhedrin 96b-99a. Sulla figura dei due messia si veda Talmud Babilonese, trattato Sukkah 52a-b e soprattutto il breve testo Sefer Zerubbabel (pubblicato in Beit ha-Midrash, cit., vol. II, pp. 54-57): non è forse un caso che in quest’ultimo testo sia stata rinvenuta un’appendice redatta dai sostenitori del falso messia Shabbataj

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Messia, a cui sono affidati due compiti distinti: il Messia figlio di Giuseppe (mashiach ben Yosef), che porterà guerra a Gog e Magog, cadendo in battaglia, e il Messia figlio di Davide (mashiach ben David), che porterà la pace sulla terra alla conclusione della lotta escatologica. I redattori di questo antico mito messianico compresero la necessità di separare dall’impresa dell’unto dal Signore ogni idea di violenza, pur raddoppiando la stessa figura messianica: è un’esigenza teologica profonda che tuttavia porta a tratteggiare la figura di un unto dal Signore coinvolto obliquamente con il male74. Tzevi, propugnatore all’interno dell’ebraismo dell’annullamento della Legge in favore di una “religione interiore” (per l’appendice sabbatiana, si veda Batei Midrashot, a cura di S.A. Wertheimer, vol. II, Jerusalem, Machon Ktav Va’Sefer, 1968, pp. 495-505; cfr. G. Stemberger, Introduzione al Talmud e al Midrash, cit., pp. 455-456; sul movimento sabbatiano cfr. anche G. Scholem, ‹abbatay S.evi. Il messia mistico, tr. it., Torino, Einaudi, 2001, in particolare pp. 724-725). Usiamo l’espressione “messia nero” in modo improprio: sulla figura filologicamente corretta del “messia nero”, scuro di pelle ma non indifferente a una connotazione morale ambigua, come è attestato in Talmud Babilonese, trattato Qiddushin 49b, trattato Mo‘ed Qatan 16b e trattato Berakhot 58b. Cfr. inoltre A. Toaff, Mostri giudei, Bologna, Il Mulino, 1996. 74 Si tratta di preoccupazioni di ordine teologico piuttosto ricorrenti, che si manifestano tipicamente nella separazione delle figure destinate alla punizione e le figure destinate alla misericordia divine. In questa prospettiva, l’eresia marcionita è l’espressione più conseguente dell’esigenza di sollevare la divinità dal sospetto di essere l’artefice della violenza, sia questa anche solo la manifestazione di un potere coercitivo esercitato contro le forze del male (cfr. nuovamente A. Von Harnack, Marcione o il Vangelo del Dio straniero, cit.). È notevole che questa stessa dialettica tra giudizio e misericordia percorra trasversalmente anche l’intera mistica ebraica: in modo caratteristico, la Qabbalah attribuisce al ramo destro e al ramo sinistro dell’albero delle Sephirot rispettivamente la “misura della misericordia” (middat ha-rachamim) e la “misura della giustizia” (middat ha-din), riservando tuttavia al vertice dell’emanazione divina, Corona o Keter, una misura di bontà e amore assoluto. Del resto, nella mistica ebraica si ritrovano anche speculazioni dedicate alla mappatura del male all’interno dell’edificio divino, di cui vengono descritte quelle forze sinistre che emanano da una “misura della giustizia” che ha perso il proprio limite e produce un male non giustificabile neppure nello svolgimento della giurisprudenza divina. Si cfr. ad esempio R. Isaac b. Yakob ha-Kohen, Trattato sull’emanazione sinistra (per il testo ebraico, cfr. G. Scholem, Qabbalot R. Ya‘kov ve-R. Ytzhaq ha-Kohen, in «Madda‘ei ha-Yahadut», 2, 1927, pp. 193-197; traduzione inglese in The early Kabbalah, a cura di J.Dan, New York, Paulist Press, 1986, pp. 172-182) che deve avere influenzato lo stesso autore dello Zohar, Moshe De Leon, ed è fondato sulla connessione

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Questo espediente narrativo che, al pari delle interpretazioni dei rabbini ortodossi intenti a relativizzare la Shoah per dimostrare l’integrità del Patto divino, scorre «sull’orlo delle fosse ardenti»75 permette a Steiner di fare ciò che Freud aveva esplicitamente respinto: attribuire alla pulsione di morte un carattere produttivo. Non si tratta semplicemente di riconoscere una positività all’immane potenza del negativo, come avrebbe potuto fare Hegel, o di cantare sarcasticamente le lodi di un agente del male che non può che fare il bene, come si legge nel Faust. Steiner affronta il tema della teodicea ipotizzando che ciò che il pensiero filosofico e sistematico rigetta per lo scandalo dell’idea che un linguaggio malvagio dell’odio possa consonare nei suoi toni barbari con un progetto, che la pulsione di morte cessi il suo mutismo e parli come nessun’altra voce ha mai parlato a Sion76. Per Freud la morte è tra nachash (“serpente”) e mashiach (“messia”) sulla base del medesimo valore numerico di 358. Cfr. anche E. Wolfson, Left Contained in the Right: a Study in Zoharic Hermeneutics, «AJS Review», vol. 11, 1, 1986, pp. 27-52. 75 G. Steiner, Errata, tr. it., Milano, Garzanti, 1999, p. 63. 76 Ci occuperemo sistematicamente nelle prossime pagine dell’ambiguità costitutiva di un linguaggio rivoluzionario che si autoproclama necessariamente violento: il caso degli scritti di Sorel, infatti, è emblematico. Il linguaggio del Terzo Reich e lo sviluppo della lingua come strumento di propaganda sono stati sistematicamente studiati dal germanista V. Klemperer (LTI: la lingua del Terzo Reich, tr. it., Firenze, La Giuntina, 1998, riduzione dalla più ampia opera Die unbewärtige Sprache). Anticipando i contenuti del suo romanzo filosofico, in un sua famosa raccolta di saggi Steiner ha commentato così l’avvento della rivoluzione linguistica del nazismo: «il nazismo trovò nella lingua esattamente ciò che gli serviva per dar voce alla propria crudeltà. Hitler sentì nella propria lingua natia l’isteria latente, la confusione, la qualità di trance ipnotico. Si immerse con sicurezza nel sottobosco del linguaggio, in quelle zone di oscurità e di urlo che costituiscono l’infanzia del discorso articolato e che vengono prima che le parole si siano fatte tenere e provvisorie al tocco della mente. Avvertì nel tedesco una musica diversa da quella di Goethe, di Heine e di Mann; una cadenza raschiante, a metà strada tra il gergo nebuloso e l’oscenità. E invece di allontanarsene con un’incredulità nauseata, il popolo tedesco riecheggiò in massa il muggito dell’uomo […] Il linguaggio non fu infettato solo da queste grandi bestialità [scil. la progettazione della “soluzione finale”]. Gli venne chiesto di imporre innumerevoli falsità, di convincere i tedeschi che la guerra era giusta e ovunque vittoriosa […] Il linguaggio fu capovolto per dire “luce” dove c’erano le tenebre e “vittoria” dove c’era il disastro» (G. Steiner, Linguaggio e silenzio, tr. it., Milano, Rizzoli, 1972, pp. 120-122). In questa sede ci possiamo richiamare solo corsivamente agli scritti di Judith Butler che ha analizzato la connessione tra linguaggio e potere, affrontando i temi della violenza verbale, della censura e del linguaggio

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oniricamente un’assenza77: quindi per la stessa teoria dell’aggressività che nasce da questo presupposto inconscio, le manifestazioni della pulsione di morte devono ricalcare il tratto fondamentale della non presenza. L’inconscio o la «sonnolenza letargica»78 sono i sintomi di questa pulsione, che genera un sonnambulismo spirituale che solo il simbolo può colmare: «accade inevitabilmente che cerchiamo un sostituto a ciò a cui nella vita dobbiamo rinunciare, che lo cerchiamo nel mondo della finzione, nella letteratura, nel teatro […] Nella finzione troviamo invece quella pluralità di vite di cui abbiamo bisogno»79. Il linguaggio della cultura e delle arti può allora ritardare Thanatos, ne dilaziona l’opera, muovendo una serie di opposizioni alla pulsione di morte80. Lo stesso tiranno nazista una volta parlò di sé proprio riferendosi ad una sapiente condizione di semiveglia, una trance che si richiamava al tema misticheggiante dell’uomo guidato dal destino: «vado con la certezza di un sonnambulo lungo il cammino tracciato per me dalla Provvidenza»81. Secondo gli scritti occultisti dell’epoca prenazista che lo stesso dittatore conosceva, la condizione di semiveglia o la stessa esperienza onirica erano una forma di legame mistico con le forze del passato, anche se il segno di questo rapporto era radicalmente anticulturale – e perciò antisimbolico: «Hitler […] nutriva una vera passione per opere quali quelle del mistico della natura Edgard Daque. Questi parlava di un “sonnambulismo spirituale”, riteneva che le magiche forze della natura erompessero dai sogni, per quanto la cultura le avesse sublimate e falsate»82. Come il legame mistico con il passato pagano è estraneo osceno (o pornografia) che costituiscono autentiche “istituzioni di potere”: cfr. in particolare J. Butler, Excitable Speech. A Politics of the performance, New York, Routledge, 1997. 77 S. Freud, Il materiale e le fonti del sogno, III, pp. 236-237. 78 S. Freud, Dostojevski e il parricidio, X, p. 326. 79 S. Freud, Considerazioni attuali, VIII, p. 139. 80 S. Freud, Al di là del principio di piacere, IX, p. 225. Come vedremo successivamente, anche in Sorel il linguaggio degli intellettuali svolge una funzione paragonabile a quella che vi attribuisce Freud, ma con una sfumatura decisamente controrivoluzionaria: il socialismo parlamentare, infatti, non è in grado di sobillare l’istinto delle masse e in questi termini dilaziona e ritarda l’avvento rivoluzionario. 81 Hitler, 14 marzo 1936, c.n., cit. in I. Kershaw, Hitler 1889-1936, tr. it., Milano, Bompiani, 1999, p. 797. 82 G. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, tr. it., Milano, Il Saggiatore,

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ad ogni forma di mediazione culturale, così Steiner sostiene che il dittatore nazista sia potuto divenire la morte in persona, che abbia potuto portare alla ribalta, sulla scena del mondo, la peggiore rappresentazione di Thanatos, parlando un gergo feroce e cattivo: «il silenzio non è il contrario del Verbo, ma il suo guardiano. No, sul lato oscuro della parola Egli creò un linguaggio per l’inferno, le cui parole significano l’odio e il vomito della vita. Pochi uomini riescono a imparare questa lingua o a parlarla a lungo […] Fu Hitler col flagello della parola e la bacchetta divinatoria […] con un fiuto per l’animalità e la noia latente negli uomini. Le sue parole fecero traboccare il veleno»83. Il tiranno nazista avrebbe realizzato quel desiderio di morte che talvolta i sogni simboleggiano ambiguamente con il suicidio84 e l’avrebbe evocato con un linguaggio senza attenderne la silenziosa manifestazione. Se in veste di scrittore Steiner fa oscillare la concezione ortodossa della teoria freudiana dell’aggressività, evocando un linguaggio nero che può bestemmiare contro la stessa idea messianica, come psichiatra Fromm intende superare l’ambiguità strutturale di Eros e Thanatos secondo il principio che «l’analisi clinica però non deve essere usata per oscurare il problema morale del male»85: la pulsione di morte non è solo un elemento contrario ad Eros, ma un’autentica inclinazione al male che invade le personalità necrofile. La necrofilia non è però una semplice e rara perversione sessuale, ma una patologia dell’uomo, un affronto alla vita, un pessimismo elevato a dignità metafisica: colui che ama e persegue la morte, come fecero i fascisti, è posseduto «dalla passione di lacerare strutture viventi»86. Il primo modo per negare la vita è re1968, p. 453. I movimenti nazionalisti precedenti all’affermazione del nazismo puntano spesso su una convergenza tra spirito romantico e patriottismo nazionale che negli scritti di Fichte, Novalis e i fratelli Schlegel contava soprattutto come metafora di un’egemonia culturale: «l’accentuazione neoromantica dell’interiorità divenne un’esaltazione della forza e della necessità della lotta allo scopo di realizzare la nuova utopia» (ibidem, p. 96). Sull’importanza e il ruolo dell’occultismo in era nazista si veda anche il testo poco rigoroso ma ricco di riferimenti G. Galli, Hitler e il nazismo magico, Milano, Rizzoli, 1998. 83 G. Steiner, Il processo, cit., pp. 42-49. 84 S. Freud, Un caso di isteria, IX, p. 156. 85 E. Fromm, Anatomia della distruttività umana, tr. it., Milano, Mondadori, 1975, p. 536. 86 Ibidem, p. 416. Fromm ricava quest’uso del termine necrofilia da un discorso

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spingere l’idea di un corso progressivo degli eventi ed erigere di fronte al divenire un tradizionalismo che serri e spenga ogni principio creativo: quella sacralizzazione del passato che spinge il necrofilo ad accettare che «la sua vita sia governata da quel che è stato»87 è una grottesca imitazione del principio romantico della riattivazione degli archetipi popolari e naturali. La riscoperta prenazista degli antichi germani si accorpa alla rinascita dell’occultismo, per dar luogo a una sorta di psicoanalisi nera che riattiva un sentimento pagano, scacciato dall’imposizione della religione cristiana e fondato sull’odio: «l’occultismo divenne in effetti essenziale anche per un altro risvolto del pensiero nazional-patriottico […] Esso forniva un nesso tra presente e passato, era un ponte che valicava un abisso di mille anni di oblio […] Il passato, che il cristianesimo aveva fatto del suo meglio per distruggere, poteva essere riscoperto ed adattato agli attuali bisogni del Volk mediante l’occultismo»88. La spaventosa voce del duce tedesco rivela allora un duplice tono, teso da un lato a coortare le masse nel progetto oscuro di nazionalizzazione e di arruolamento nel corpo militare del nuovo Reich tedesco e, dall’altro, fanaticamente acceso contro tutto ciò che può opporsi (in senso culturale, fisico, istituzionale o “biologico”) alla rivoluzione fascista: la violenta propaganda contro gli ebrei e gli oppositori politici, la storpiatura e l’inflessione della lingua tedesca infatti confermano che il linguaggio necrofilo è caratterizzato dall’uso predominante di parole che si riferiscono «alla distruzione, alle feci e ai gabinetti»89. Come per Freud il sogno poteva efficacemente rappresentare la morte nella figura onirica del silenzio, così Fromm riconosce nella presunta ferrea volontà del dittatore tedesco una forma di incedere irrazionale, non legato alla realtà, una sorta di sonnambulismo: il dittatore era preda di una «tensione appassionata alimentata dall’energia di passioni irrazionali»90. Espungere l’ambiguità strutturale della teoria freudiana dell’aggressività non comporta solamente l’impegno di riconoscere che la patologia mentale non cancella la questione morale in sé, perché che il filosofo Miguel de Unamuno pronunciò contro i falangisti dopo un brindisi dedicato alla morte. Cfr. Ibidem. 87 Ibidem, p. 429. 88 G. Mosse, Le origini culturali, cit., p. 108, c.n. 89 E. Fromm, Anatomia, cit., p. 426. 90 Ibidem, p. 531.

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«proprio come vi sono uomini “sani di mente” buoni e cattivi, vi sono pazzi buoni e cattivi»91, ma porta ad ammettere che la violenza può non legarsi primariamente all’azione e al corpo, bensì al linguaggio stesso: la morte come assenza nella trama onirica del sogno, il simbolo come ciò che supplisce alla mancanza di senso e dunque l’idea che Eros possa in qualche modo far differire Thanatos sono in fondo riflessi della stessa strategia, sottilmente tesa ad impedire che il linguaggio possa rivestire un ruolo oscuro e maligno, ma tuttavia produttivo. La lunga analisi che Fromm compie sul dittatore tedesco in più punti lascia intravedere la possibilità di concepire il rapporto tra il Führer e la Germania come un bizzarro rovesciamento del tenace legame pagano tra il re e la terra: se per il re malato il legame incestuoso che simbolicamente rappresentava la rinascita del sé da sé segnava il passaggio ad un migliore stadio della vita, nel caso del dittatore tedesco si è di fronte ad un’incestuosità maligna che però non è sterile, ma profondamente distruttiva – produce distruzione: «Hitler non si innamorò mai di figure materne perché il legame con la sua vera madre trovò espressione attraverso il legame con il sangue, la terra, la razza e infine il caos e la morte. La Germania divenne il simbolo centrale della madre […] A livello inconscio il suo desiderio lungamente represso era di distruggere la madre-Germania; e la fine di Hitler sembra confermare l’ipotesi dell’incestuosità maligna»92. Se prendiamo le ipotesi romanzesche di Steiner e l’accurata analisi di Fromm come una soluzione sgradevole che tuttavia rivela sotto una luce speciale le trame nascoste e invisibili dell’argomentazione freudiana, l’ambiguità strutturale della teoria dell’aggressività rivela così la sua finalità metafisica: l’oscillazione tra un’impostazione biologica (che sancisce l’equilibrio tra le pulsioni di vita e di morte) e una “filosofia” (che di fatto riconosce al linguaggio solo possibilità positive e rimuove la violenza associandola al corpo) è assolutamente funzionale alla visione teleologica del mondo. Questa ambiguità, che apparentemente disarticola l’argomentazione, ne costituisce anzi l’espressione più coerente, ed è come se dicesse che il dialogo e la cultura non possono che produrre socraticamente la felicità, mentre la violenza non può venire ricercata con 91 92

Ibidem, p. 536. Ibidem, p. 471.

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la stessa intensità e comunque, quando accade, si tratta di una spinta biologica e non culturale: altri come Sorel, invece, avevano già incardinato l’impegno rivoluzionario nell’esplicita condanna dell’ottimismo socratico, nella ricerca deliberata di una violenza metodica che costituisse il fomite di una rivincita di classe e nella cinica accettazione della persuasione che la vita non è altro che dolore. Ma la visione di una lingua dell’inferno, di un accanito necrofilo e di un distruttore che hanno prodotto il male fingendo di ricercare un progetto, un’impresa politica, una rivoluzione, trascinano le scienze umane di fronte a una questione che non interroga solo il passato, ma anche l’attualità stessa del nostro discorso sull’uomo: «sono ossessionato dalla possibilità che l’apparire in mezzo a noi mammiferi di un Platone, di un Gauss o di un Mozart giustifichi, redima, la specie che progettò e realizzò Auschwitz»93.

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G. Steiner, Errata, cit., p. 136.

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Capitolo III Heidegger e la deriva ideologica del linguaggio: l’intervista allo Spiegel

Un nuovo cane dalla campagna romana, tedesco, cacciatore d’erba maligna. Scruta, legge, consiglia. Sempre dentro il serraglio, non mostra il volto, aiuta i pastori a contare il gregge, a separare il grano dal loglio. Serve il padrone senza indossarne l’abito Luther Blissett, Q

Mentre molte forze erano all’opera per piegare l’ampio arco della lingua tedesca alla discriminazione e al nazionalismo per scoccare gli strali definitivi contro quell’elemento semitico che ne perturbava la purezza, altri si preoccupavano di orientare la speculazione in una direzione che sembrava assolutamente inedita, ma che in realtà si proponeva come il più radicale e potente richiamo all’antichità mai pronunciato prima di allora. La forza evocativa del nuovo linguaggio filosofico, che Heidegger andava elaborando con fatica e scrupolo filologico, era certamente assai lontana dalle volgari e sfacciate rivendicazioni del primo nazionalismo tedesco, coinvolto in modo persino imbarazzante con l’ottusa rivendicazione di una superiorità culturale e razziale sulla stirpe di Sem, ma la raffinata navicella con cui voleva condurre al pensiero originario solcava in effetti le medesime acque di quel fiume carsico della discriminazione che avrebbe eroso i pilastri della Germania moderna. La speculazione sull’essere si bagnava della medesima acqua, ma pretendeva di non immergersi in essa. 1. I lapsus dell’Intervista: la doppia testualità e la cattiva coscienza Un’impressionante asimmetria verbale contrappone la gravità delle accuse e dei sospetti che riguardano la persona di Heidegger, quale collaboratore e fiancheggiatore del nazionalsocialismo, alla

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sua parca e relativamente breve autodifesa, pubblicata postuma in forma di intervista dal settimanale Der Spiegel; poche pagine occupano infatti lo spazio della rivista tedesca e il testo stesso non è così ricco da compensare per la brevità: «a una prima lettura, per quanto attenta, del testo pubblicato, si ricava l’impressione che i giornalisti affrontino i temi alla superficie, senza sondare troppo a fondo e lasciando in ombra le questioni più scottanti e delicate»1. Tuttavia, ben più del numero delle parole pronunciate, è tramite una lettura meticolosa del testo che emerge la profonda e inconscia particolarità di questo colloquio (Gespräch) tra Heidegger e i giornalisti. Essendo possibile ipotizzare che la forma definitiva dell’Intervista in effetti sia il risultato di una lunga revisione testuale, volta a moderarne l’incisività e l’impertinenza, è ancora più significativo constatare che a questo eventuale lungo processo di correzione siano sfuggiti errori o autentici lapsus linguae, compiuti da Heidegger – in sé poco evidenti, ma di grande rilievo psicologico. Heidegger sbaglia quasi consecutivamente per tre volte: una prima, quando parla di una sua ex-allieva ebrea; le altre due, insieme, quando descrive l’ultima conferenza del suo maestro Husserl, ebreo anch’egli. Se Heidegger risparmia parole e delucidazioni sul suo possibile ruolo nella edificazione dello Stato totalitario nazista e afferma semplicemente di essersi distaccato quanto prima dal Partito (al quale aderì per erronea valutazione politica), un’altra persona sembra parlare per lui, attraverso i suoi errori, i suoi atti mancati – che avvengono esclusivamente quando il colloquio verte su personaggi del passato, ora scomparsi. L’assenza, cioè l’irriducibilità alla presenza, connota profondamente questo testo. Non solo gli errori riguardano persone non più presenti, ma, poiché una postilla obbligava lo Spiegel a pubblicare il colloquio solo dopo la morte di Heidegger, la stessa intervista è marcata dall’assenza del suo ‘autore’, di colui che ha dato voce ai segni che ora compaiono scritti e inerti: per cui, sembra davvero che sia «in rapporto alla mia morte (alla mia scomparsa in generale) che si nasconde in questa determinazione dell’essere come presenza, idealità, la possibilità assoluta di ripetizione. La possibilità del segno è questo rapporto alla morte»2. 1 2

V. Farias, Heidegger e il Nazismo, tr. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1988, p. 319. J. Derrida, La voce e il fenomeno, tr. it., Milano, Jaca Book, 1984, p. 90, c.m.

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All’accadere dei lapsus linguae di Heidegger il testo viene doppiamente abbandonato – sia dal suo autore, ormai scomparso e incapace di rendere conto dei suoi verba scripta, sia dall’ego dell’intervistato. È possibile chiedersi chi è che sbaglia? Se l’Intervista è essenzialmente dedicata ai rapporti con il nazionalsocialismo, il temporaneo dileguarsi della coscienza, che determina il lapsus come tale, coincide proprio con la trattazione di questo delicato punto: qual’è stato il rapporto tra Heidegger e il nazionalsocialismo? A fronte del sospetto di reiterata collaborazione con il nazismo, Heidegger esibisce come credenziale e garanzia l’amicizia che lo ha personalmente legato alla studiosa ebrea Helene Weiß, «una delle mie prime e più dotate allieve»3. La promettente allieva, «dopo il 1933», incontra ovviamente numerose difficoltà e ottiene la laurea solo allontanandosi da Friburgo e recandosi a Basilea, dove nel 1942 viene stampato e pubblicato un suo testo. Fieramente Heidegger ne ricorda la Prefazione, nella quale l’autrice riconosce il profondo debito intellettuale con lui: «ecco qui una copia del lavoro, con dedica autografa»4. Significativamente, il lapsus ricorre nella frase finale, quando Heidegger intende dichiarare all’intervistatore che ha continuato ad avere buoni rapporti con l’allieva: si sbaglia nell’indicare il luogo d’incontro, confonde la città di Bruxelles per Basilea5. È significativo che si confonda dopo aver detto «prima della sua morte» (vor ihrem Tode): visto che «il suo dottorato nella locale facoltà divenne impossibile»6, restando a Friburgo 3 M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo Spiegel, tr. it., Milano Guanda, 1988, a cura di A. Marini, p. 116. Per il testo tedesco ci riferiamo a «Der Spiegel», 31 Mag. 1976, 23, pp. 194-219. 4 Ibidem. 5 «Prima della sua morte ho anche fatto visita più volte alla dott.ssa Weiß a Basilea» (ibidem, c.n.). Ma in verità Heidegger afferma: «Ich habe Frau Dr. Weiß vor ihrem Tode noch mehrfach in Brüssel besucht» – cioè a Bruxelles. 6 Ibidem. Helene Weiß (1898-1951) fu un’apprezzata storica della scienza. Il testo a cui fa riferimento Heidegger è la sua tesi di dottorato Kausalität und Zufall in der Philosophie des Aristoteles (Basel 1942). Particolarmente interessanti sono i suoi appunti delle lezioni di Heidegger (1920-1949) e altri articoli del suo lascito: questa documentazione è in possesso dell’Università degli Studi di Stanford (Green Library, Stanford University Libraries, M0631, “Weiss (Helene) Heidegger lecture notes”). Per un breve profilo di questa studiosa, cfr. «ISIS. An International Review Devoted to the History of Science and Civilization», 43, 1952, p. 56.

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forse la sua ex-allieva non rischiava almeno la morte accademica? Quella che sarebbe potuta essere una semplice inversione toponomastica assume ben altro carattere quando, poco dopo, Heidegger sbaglia nuovamente: i due errori seguenti riguardano la persona e il luogo. Così, Heidegger intreccia ancora il sospetto di nazismo alla morte, all’assenza, al senza-luogo. In riferimento a un’importante conferenza del suo ex-maestro Husserl, Heidegger afferma di averne letto sui giornali e, dopo tanti anni, ricorda in particolare un giornalista, Erich Mühsam: ricorda che Husserl parlò di fronte a un folto pubblico, che riempiva il Palazzo dello Sport («Im Berliner Sportpalast hat Husserl vor Studenten geschprochen. Erich Mühsam hat in einer der großen Berliner Zeitungen darüber berichtet»). Heidegger sta ricordando che Husserl prese pubblicamente le distanze da lui e dal suo pensiero «in termini che in quanto a chiarezza non lasciarono nulla a desiderare». Aggiunge, poi: «che cosa abbia indotto Husserl a prendere così pubblicamente (in solcher Öffentlichkeit) le distanze dal mio pensiero non ho potuto appurarlo»7. Ma che Husserl parlasse di fronte a un pubblico così vasto da dovere essere accolto nel Palazzo dello Sport – questo in realtà non avvenne: il luogo nel quale egli parlò non era un’auditorium tanto ampio, ma un’altra costruzione, nella quale, come ricorda il curatore dell’edizione italiana, «l’atmosfera della conferenza era tipica di un’audizione popolare di massa: si trattava, allora, di un fenomeno nuovo che può sembrare ancora oggi (e non è affatto) tipico dello “stile fascista”»8. Forse per l’enfasi espressiva («così pubblicamente») con la quale si ricorda la definitiva rottura tra l’allievo e il maestro, Heidegger colloca l’avvenimento nel nonluogo. Questa precarietà spaziale assume però contorni ben più marcati e significativi quando si verifica anche che Heidegger ha contemporaneamente confuso il nome del giornalista con un altro: l’autore dell’articolo che egli ha in mente non è Erich Mühsam, ma Heinrich Mühsam, ex-studente di filosofia. Heidegger si riferisce a un luogo sbagliato nel quale ci sarebbe dovuta essere una persona assente: il carattere quasi spropositato dell’errore è però pieno di valenze psicologiche, poiché il grande assente alla confe-

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renza di Husserl (quell’Erich che egli confonde per Heinrich) è stato un personaggio storico. Heidegger, mentre afferma con fierezza di avere avuto una profonda amicizia con l’antifascista René Char, «il poeta e combattente della Resistenza»9, evidentemente pensa, invece che al suo ex-studente di filosofia Heinrich Mühsam, a Erich Mühsam, «scrittore espressionista anarchico, membro del C.C. della Repubblica Consigliare Bavarese, condannato a 15 anni e poi assassinato nel campo di concentramento di Oranjenburg nel 1934»10. Non nascondiamo la convinzione che questi errori testimonino una “cattiva coscienza”; ma Heidegger qui non ha semplicemente dimenticato, né ha semplicemente confuso dei nomi per degli altri. Piuttosto, come è evidente a una lettura ancor più minuziosa del testo, Heidegger ha liberato la voce del proprio inconscio quando si è toccato – implicitamente e con riferimenti verbali complessi – il tema cardine del suo rapporto col nazismo: il sospetto che la sua compromissione con lo Stato totalitario non sia stata una deplorevole ma temporanea ingenuità di carattere politico, ma che il legame tra l’ontologia dell’essere e il movimento nazionalsocialista sia stato essenziale e caratteristico. 2. L’adesione al nazionalsocialismo quale errore “incomprensibile” Non ha condotto a risultati particolarmente soddisfacenti la persuasione che la compromissione di Heidegger con il nazismo si sia data in un senso volgarmente storiografico, ovvero che questa questione possa trovare adeguata risposta sottoponendo ad un’analisi “oggettiva e scientifica” un pensiero che è stato costantemente l’espressione dello sforzo di sottrarsi allo storicismo: tuttavia, nonostante l’esito equivoco di queste interpretazioni ci accosteremo ad esse senza accreditarvi il valore di “prova”, ma riservandoci di riprenderle successivamente quali “sintomi” di un legame tra Heidegger e il nazismo che tenteremo di porre in rilievo altrimenti. La strategia opaca ma apparentemente convincente di queste interpretazioni consiste nel riportare la speculazione del secondo 9

Ibidem, p. 134. Ibidem, p. 118, n. 5.

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Heidegger alle riflessioni mistiche sull’essenza del linguaggio, sulla potenza evocatrice della poesia e sullo slancio idealista verso la natura, eventualmente con lo scopo di rintracciare in seguito un grado di familiarità di questo variegato materiale con i contributi alla costruzione dell’ideologia völkisch: leggere in questo modo avvocatesco la filosofia di Heidegger non ne rende giustizia, ma la debolezza ermeneutica di questi interpreti non ci nega il diritto di avvertire nel pensiero dell’essere il sentore ostile e feroce di quel neoromanticismo tedesco a cui venne affidata la direzione del Kulturkampf contro la Zivilization latina11. Uno dei primi interpreti, oggi dimenticato, della speculazione di Heidegger avvertì l’ambiguità della sua posizione intellettuale, quando manifestava particolare freddezza verso la civilizzazione romana, e affermò senza alcun dubbio che «l’assunto romantico della messa in questione dell’essere in quanto essere, liberato da ogni espediente dialettico in virtù dell’esperienza esistenzialista, è condotto sino alle sue ultime conseguenze: la negazione dell’umano. Fedele al suo tipico procedere per categorie e non per compromessi psicologici, Heidegger conduce il romanticismo alle sue conseguenze allo stesso tempo più naturali e più inaccettabili. Qui è la grandezza ed il significato del suo pensiero per il nostro tempo»12. Però non si sembra cogliere sino in fondo che, tra le componenti di quella singolare formula neoromantica che garantirà il risveglio dal materialismo dogmatico del positivismo, figurano anche principi precipitati d’odio e furore, come le pagine dell’orientalista e

11 Su questi temi cfr. G.L. Mosse, Le origini culturali del Terzo Reich, cit., pp. 103 ss e pp. 140 ss. 12 P. Chiodi, L’ultimo Heidegger, Torino, Taylor, 1960, p. 110. In senso del tutto analogo si esprime Steiner: «il linguaggio di Sein und Zeit e il gergo nazionalsocialista, seppure a livelli ovviamente diversi, sfruttano la propensione tedesca per l’oscurità piena di suggestioni […] Fondamentale è il motivo della deumanizzazione: il nazismo si incontra con Heidegger appunto in quel luogo del suo pensiero laddove la persona umana è separata dal cuore del significato e dell’essere. Il linguaggio dell’ontologia pura si mescola a quello dell’inumanità» (G. Steiner, Martin Heidegger, tr. it., Firenze, Sansoni, 1980, p. 118). Recentemente, è stata pubblicata un’importante nuova traduzione di Sein und Zeit in lingua italiana, accompagnata da un lungo saggio che alterna osservazioni di carattere filosofico, linguistico e traduttivo: cfr. M. Heidegger, Essere e Tempo, a cura di A. Marini, Milano, Mondadori, 2006.

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razzista de Lagarde13, propugnatore dell’eliminazione dell’elemento semitico e latino dalla compagine germanica: «se si vuole rendere inoffensivo il romanesimo, allora si deve combattere Roma e per poter combattere Roma gli si deve portare guerra. Superare il romanesimo attraverso il cattolicesimo, significa sostiuire un demonio con un altro […]. In Germania non si possono superare il romanesimo e il cattolicesimo con una religione astratta, bensì con una religione tedesca nazionale (nazionaldeutsch)»14. È senz’altro poco più di una boutade accostare il lavoro retorico di Heidegger sulle metafore boschive alla violenta propaganda di Lagarde per il ritorno ad un’epoca in cui «non c’era ancora un libro, un giornale o alcunché di scritto, ma solo il silenzioso stare in ascolto della voce della natura primigenia (nur stilles Horchen auf die Stimme ursprünglicher Natur)»15. Quell’affascinante trasposizione poetica del sentiero che i boscaioli percorrono nel fitto della foresta per andare a legna nel lessico filosofico lungo una via che si disperde nel momento stesso in cui ci conduce a “qualcosa” (gli Holzwege, appunto) non è del resto nemmeno l’abbellimento della triste correlazione che Lagarde stabilisce tra la foresta e lo Stato autoritario: «quanto la foresta conti per il clima e quanto sia importante una riserva boschiva la più estesa possibile, sono cose che ciascuno co13

Il nome Antoine Paul de Lagarde fu lo pseudonimo dell’orientalista Paul Bötticher (1827-1891) e fu una figura controversa della cultura tedesca di fine secolo. Nei suoi scritti giovanili, Leo Strauss ne ha fornito un ritratto disincantato e non convenzionale, con particolare attenzione al legame tra la sua concezione “vitale” dell’esistenza e la “questione ebraica”. Strauss rinviene nella posizione di Lagarde quasi una linea gotica che separa una condotta di vita mediterranea da una autenticamente “nordica” e la sintetizza con queste parole: «questa vita, questa manifestazione (Entfaltung) delle forze vitali dell’individuo è un dovere, ma assolutamente non nel senso di un dovere che tende alla “grande vita”, bensì che si rifà al “duro lavoro”, all’umiltà e alla dedizione. Si tratta di un concetto di vita proprio degli Hohenzollern, non certo dei De’ Medici, dei Borboni o degli Asburgo» (L. Strauss, Paul de Lagarde, in L. Strauss, Gesammelte Schriften: Philosophie und Gesetz – Frühe Schriften, Suttgard-Weimar, Verlag J.B. Metzler, 1997, vol. II, p. 324). 14 A. P. de Lagarde, Deutsche Schriften, München, Lehmann Verlag, 1937, p. 113. Per l’inquadramento di questo teorico dell’antisemitismo e fondatore della “fede germanica” si veda G.L. Mosse, Le origini culturali, cit., pp. 50 ss. È notevole il richiamo a “combattere Roma”, costrutto tipico e caratteristico del linguaggio teologico. L’identificazione di ’Edom, il nemico eterno di Israele, con Roma è infatti un luogo comune della letteratura rabbinica. 15 A. P. de Lagarde, Deutscher Glaube, Jena, Eugen Dietrichs, 1913, p. 192.

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nosce. Ma qui è in questione il fatto che la foresta rende solo in mani forti e salde e perciò il fatto che debba stare nelle mani dello Stato, delle corporazioni e dei fidecommessi»16. Tra l’opera heideggeriana e i testi del neoromanticismo si riflette comunque un riverbero che il criterio storiografico può solo contribuire ad occultare più profondamente oppure a consegnare alle scocciate recriminazioni contro un presunto linguaggio bucolico reazionario17. Non ha avuto miglior sorte l’impegno profuso da chi intendeva risolvere la questione di Heidegger simboleggiando la sua compromissione con un silenzio riservato costantemente alle affinità con il pensiero ebraico: «ci troviamo in presenza di analogie perlomeno inquietanti tra l’approccio heideggeriano del linguaggio e l’approccio testimoniato dal testo biblico e dalla tradizione che lo riprende»18. La lunga e articolata analisi delle corrispondenze tra il pensiero dell’essere e l’esegesi rabbinica, della comune condivisione della visione del linguaggio quale espressione vitale della realtà e della persuasione di un compito intellettuale consegnato a coloro che “amano la sapienza”, tuttavia, si espone a due forti obiezioni che ne neutralizzano la radicalità e che anzi rivelano implicatamente l’impostazione effettivamente “logocentrica” della stessa argomentazione che vorrebbe contestarla. Se si intende sostenere che nell’opera heideggeriana si assisterebbe alla ricomparsa di categorie strettamente legate all’eredità ebraica, per pensare una questione «derivata dall’eredità greca»19, si presuppone in fondo una difformità radicale tra pensiero ebraico e pensiero filosofico, proprio mentre si è giunti a riconoscerne in ambito storico-cri16

A. P. de Lagarde, Deutsche Schriften, cit., p. 353. Le forti e aspre riserve di Adorno verso il pensiero di Heidegger non riguardano solamente il ricorso a metafore campestri per illustrare il pensiero che ha “superato” la metafisica, ma la forma espressiva stessa che conduce a questa “torsione” della tradizione occidentale (cfr. in particolare Il gergo dell’autenticità, tr. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1989; cfr. anche R. Minder, A propos de Heidegger: langage et nazisme, in «Critique», XXIII, 1967, 237, pp. 284-287; cfr. J.P. Faye, A propos de Heidegger: la lecture et l’énoncé, in ibidem, pp. 288-295). In toni non dissimili si esprime lo stesso Steiner che ricorda «quanto danno hanno fatto le oscurità arroganti del discorso filosofico tedesco alla mente tedesca, alla sua capacità di pensare o parlare con chiarezza» (G. Steiner, Linguaggio e silenzio, cit., p. 138). Cfr. anche G. Steiner, Martin Heidegger, cit., pp. 111-121. 18 M. Zarader, Il debito impensato, tr. it., Milano, Vita e Pensiero, 1996, pp. 67-68. 19 Ibidem, p. 159, c.m. 17

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tico la convergenza sul piano analitico ed espositivo: «sostengo che l’argomento dialettico del Talmud sia conforme alla dialettica filosofica elaborata dal Socrate platonico e da Aristotele non solo nella logica, ma anche nella retorica»20. Del resto, la stessa inquietudine, cui darebbe luogo la constatazione che Heidegger tenti di pensare altrimenti la stessa questione dell’essere, si dissolve non appena si rinvia l’apparente familiarità tra le due impostazioni esegetiche (quella heideggeriana e quella rabbinica) a un rigetto comune della linguistica moderna: la pratica della Begriffsdichtung di ascendenza nietzscheana infatti è per Heidegger una forma di “filologia creativa” che si oppone di fatto all’impostazione proposta da Saussurre per cui «etimologia e valore linguistico sono due cose distinte»21. L’apparente uniformità di uno stile narrativo o l’individuazione di un comune oggetto polemico (la linguistica quale disciplina storica della lingua) sono troppo poco per accreditare a questo «oblio singolare»22 dell’ebraismo un autentico valore per chiarire la questione della compromissione perlomeno intellettuale con il nazismo, nella stessa misura in cui una vaga contiguità con certe posizioni radicali del neoromanticismo sovraespone le stesse argomentazioni di Heidegger, risolvendo l’affaire in un semplice caso di affinità espressiva. Eppure, entrambe queste interpretazioni suggeriscono che in Heidegger si agiti una tensione verso una aufgenordete Sprache (per esprimerci con una certa malizia), ovvero che l’intera economia del discorso heideggeriano obbedisca ad una minuta e tenue strategia – il cui velo delicato andrebbe assolutamente perso nella traduzione magniloquente nelle lingue latine che fa scomparire «tutti i segni sottili dell’appartenza sociale o politica, tutti i contrassegni, spesso molto discreti, dell’importanza sociale e della posizione intellettuale del suo autore»23.

20 J. Neusner, Jerusalem and Athens. The congruity of talmudic and classical philosophy, Leiden, Brill, 1997, p. 7, c.m. 21 F. De Sassurre, Corso di linguistica generale, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1968, I, III, 8. 22 M. Zarader, Il debito impensato, cit., p. 93. 23 P. Bourdieu, Führer della filosofia?, tr. it., Bologna, Il Mulino, 1989, p. 119.

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3. L’arte della parola e la foresta Se con Lacan è lecito affermare che anche l’intimo umano soffre della divisione tra significante e significato – tale che una completa ‘traduzione’ del linguaggio onirico in linguaggio conscio non può evidentemente darsi – è a questa divaricazione tra il contenuto segnico e la ‘qualità’, la ‘forma’ della parola che possiamo riferirci per approfondire ancora il senso dei lapsus di Heidegger. Quale parola ci permette un’iperbole retorica tale da legare problematicamente questi lapsus linguae con la speculazione heideggeriana? Come l’intende Heidegger, il linguaggio in quanto tale non è uno strumento per l’uomo, ma è costitutivo dell’essenza umana: «il linguaggio non è una somma di vocaboli per designare cose note, bensì l’originario risuonare della verità di un mondo»24. La suprema forma dell’accadere della verità nel linguaggio prende il nome di Offenbarkeit, «manifestatività»: «la struttura della verità significa l’inserimento della manifestatività dell’ente nel suo insieme nell’ente, in modo che solo così quest’ultimo si mostri e si metta a disposizione come tale»25. Nel lessico heideggeriano, ciò che è manifesto (offenbar) è ciò che ad-viene e si espone nell’apertura dell’essere (Offenheit)26. Se si verifica che alle tre parole Offenbarkeit, offenbar e Offenheit la comune radice verbale offen- conferisce la generica connotazione del senso di “essere aperto”, “essere libero”, “essere non protetto”, “essere allo scoperto”, “essere in sospeso”, allora non si può che notare che i tre termini sono radicalmente e intimamente connessi all’idea che esprimono le quasi gemelle Öffentlichkeit, veroffentlicht, e Veröffentlichung (rispettivamente “l’essere in pubblico” o pubblicità“, “pubblicato” e “pubblicazione”) in quanto formate anch’esse dalla medesima radice. Si è detto che «la decostruzione del logocentrismo non è una psicoanalisi della filosofia poiché il logo-fonocentrismo non è un errore filosofico o storico nel quale si sarebbe accidentalmente, patologicamente, precipitata la storia della filosofia, dell’Occidente, per non dire del mondo, bensì un movimento e una struttura necessari e

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necessariamente finiti»27; nonostante questo, la decostruzione parla un certo linguaggio psicoanalitico, dal momento che avvicina e scardina dal contesto parole e termini, seguendone la forma letterale, il significante: espone così i legami sommessi che avvolgono e trattengono parole e discorsi gli uni agli altri. Perciò, possiamo interpretare la vicinanza tra i termini filosofici (Offenbarkeit, offenbar e Offenheit) e quelle parole di uso comune (Öffentlichkeit, veroffentlicht, e Veröffentlichung) non come una semplice e banale coincidenza, ma come il segno di qualcosa di radicalmente importante. La contiguità lessicale di queste parole avvolge il testo dell’Intervista in modo significativo quando Heidegger commette quegli errori di cui già s’è parlato. In riferimento al primo lapsus, Heidegger parla del lavoro, di un testo pubblicato dalla sua amica, la dott. Weiß: rivendica che l’ex-allieva sia debitrice di un profondo contributo intellettuale grazie «alle interpretazioni inedite della filosofia greca di Martin Heidegger (M. Heideggers unveröffentlichten Interpretationen der griechischen Philosophie)»28. Se per i lapsus seguenti, si è già rilevato che la rottura tra Heidegger e Husserl avviene in un contesto particolare, ricco di pubblico, «così pubblicamente (in solcher Öffentlichkeit)»29, è opportuno ricordare che poco sopra Heidegger aveva parlato dei suoi buoni rapporti con Jaspers, il quale gli mandava sempre «tutte le sue pubblicazioni degli anni tra il 1934 e il 1938 “con cordiali saluti” (seine Veröffentlichungen zwischen 1934 und 1938… “mit herzlischen Grüßen”)»30. Offenbarkeit, offenbar, Offenheit, Öffentlichkeit, veroffentlicht, Veröffentlichung: pubblico e destino, libri e senso dell’essere si intrecciano in modo inaspettato attorno a una grande “questione aperta” – eine offene Frage: «collocare questo 1933 in un contesto più ampio e di qui arrivare ad alcuni problemi che sembrano importanti, come per esempio: che possibilità vi sono di influire, a partire dalla filosofia, sulla realtà effettuale, compresa la realtà politica?»31.

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J. Derrida, Freud e la scena della scrittura, in J. Derrida, La scrittura e la differenza, tr. it., Torino, Einaudi, 1990, pp. 255-256. 28 M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 117, c.n. 29 Ibidem, pp. 117-118. 30 Ibidem, p. 116. 31 Ibidem, p. 103.

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Buon calcolatore o sincero confessore, Heidegger è comunque un grande artista della parola, un poeta che fa risuonare nel nuovo il senso dell’antico: «il ricordo che entra nel cuore della storia dell’essere pensa la storia come l’avvento ogni volta lontano di una decisione dell’essenza della verità, essenza nella quale l’essere stesso inizialmente avviene… Il ricordo conforme alla storia dell’essere pretende dall’umanità storica che essa si accorga che, prima di ogni dipendenza dell’uomo da potenze e forze, provvidenze e compiti, l’essenza dell’uomo è lasciata entrare, coinvolta nella verità dell’essere»32. Nella sua scrittura e nei suoi testi, nel continuo colloquio con i poeti, Heidegger tenta di domare e insieme mantenere l’ampio oscillare del suo lessico filosofico: la de-cisione dell’essere e la risolutezza umana, il superamento della metafisica o il suo ripiegarsi costituiscono i termini di una profonda «ambiguità» non risolvibile nemmeno con un chiaro schierarsi per un corno o l’altro dell’alternativa – perciò ambiguo resta anche il ‘trascorrere’ tra l’evidente e il nascosto, l’aprirsi e il nascondersi. Ma se quest’ambiguità può spesso assumere il carattere di una doppia e complessa connotazione, nell’Intervista – quando si tocca il cuore segreto della questione della collaborazione col nazionalsocialismo – l’incantevole abilità linguistica di Heidegger cade e non riesce a contenere l’effetto dirompente dei lapsus: questi errori compromettono la calcolata composizione delle risposte, allargano anzi la portata della «ambiguità» verbale e la trascinano ben oltre la semplice sfera personale, coinvolgendo il senso stesso della speculazione sull’essere. In occasione del colloquio con lo Spiegel, Heidegger si schermisce. La risposta alla “offene Frage” è obiettivamente il susseguirsi di una piana e ininterrotta negazione ad nominem di ciascuna delle accuse: la risposta è sommariamente un “non è vero che…”. Ma nel disporre al lettore queste risposte, il testo viene punteggiato da errori e atti mancati: chi è che parla alla vece di Heidegger? Si può certamente parlare, come fa Habermas, della «rimozione della colpa di un uomo»33, per cui i lapsus non sarebbero altro che l’indicazione di un sentimento di colpa più o meno confessato. Eppure, se valutiamo che nell’accadere di questi errori il te32

M. Heidegger, Nietzsche, cit., pp. 931-932. 33 J. Habermas, Il discorso filosofico della modernità, tr. it., Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 159.

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sto viene doppiamente abbandonato (dall’autore ora morto e dall’ego dell’intervistato), non è possibile sapere esattamente chi stia rispondendo o chi stia facendo tale confusione tra i nomi dei luoghi e delle persone. Quest’anonimia si intreccia perentoriamente alla critica che Habermas muove contro il motto di difesa di Heidegger: Habermas accusa che Heidegger interpretò «la non-verità del movimento nazionalsocialista, dal quale si era fatto trascinare, non nei concetti di una deiezione esistenziale del Man, di cui si debba rispondere soggettivamente, bensì come un oggettivo venir-meno della verità»34. La grande questione riguarda la possibilità di risposta (Antwort) da parte di Heidegger e una sua cor-rispondente presa di responsabilità (Verantwortlichkeit): sollevare l’accadere storico al livello dell’ontologia non corrisponde solo all’opera di de-responsabilizzazione che Habermas ritiene d’aver individuato; la nonverità oggettiva del nazismo permette che l’anonimia possa prendere il posto della responsabilità, che all’atto di “rispondere delle proprie azioni” (Ver-antwort-lichkeit) si sovrapponga un tacere della verità35. Quale tacere? Chi tace? «Il sommo dire del pensiero consiste non semplicemente nel tacere ciò che va propriamente detto nel dire, ma nel dirlo in modo che sia nominato nel non dire; il dire del pensiero è un conquistare con il tacere»36. Quella che qui fallisce è soprattutto la possibilità di occultare, di lasciare molte cose nel non-detto, tacendo: fallisce la possibilità di essere invisibili agli occhi degli uomini che ora giudicano un sommo peccato contro l’umanità l’aver aderito al nazionalsocialismo. Heidegger ha provato a sostituire la goffa invisibilità del mantello magico con l’invisibilità del saggio che, pur conoscendo, rimane sempre sconosciuto, ma non v’è riuscito completamente: per quanto amasse il ruolo dell’“uomo dell’essere”, di colui che obbedisce al richiamo dell’essere e vi risponde, tanto da abbandonarsi ad oracolari previsioni sull’umanità, Heidegger in fondo preferì l’invisibilità delle parole del mago. Le sue parole e la grandezza retorica delle sue narrazioni

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Ibidem, p. 162, c.n. e c.m. «Anche la cosiddetta svolta Heidegger non l’ha intesa come il risultato di uno sforzo del pensiero, di un processo di ricerca, bensì sempre come l’evento oggettivo di un oltrepassamento della metafisica inscenato anonimamente dallo stesso essere» (ibidem, p. 159, c.m.). 36 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 391.

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della storia dell’essere, il cui supremo attore è «l’essere stesso e soltanto esso»37, risuonavano infatti lontano, oltre le aule di filosofia, nell’intima struttura della Germania nazionalsocialista, nei campi di sterminio: «di tanto in tanto qualcuno si ricordava magari di quel tristo mago del paese degli alemanni»38. Molto più che simbolicamente, i campi rappresentano la concreta applicazione della copertura tecnica del mondo moderno ad opera della Germania totalitaria; il dispiegamento del talento scientifico nel mondo indica quella che Heidegger intese (e mai sconfessò) come l’interna verità e grandezza del movimento nazionalsocialista: una tale cor-rispondente azione al richiamo dell’essere, con cui l’età metafisica potesse davvero dirsi finita, per Heidegger poteva provenire solo dal centro dell’Europa germanica – e non certo da altri continenti, poiché «soltanto questo uomo storico occidentale può essere assalito anche da un vuoto di meditazione, da un turbamento della meditatività, un destino che a una tribù di negri è certamente risparmiato»39. Non lontano dalle foreste tedesche, non troppo oltre quei luoghi metaforici delle aperture e delle “radure” dell’essere, ma anzi proprio tra quegli stessi boschi, il centro Europa si liberava di tutti coloro che, non essendo tedeschi, non potevano pensare l’inizio e il “secondo inizio” del destino dell’essere: «questo mi viene oggi sempre di nuovo confermato dai francesi; essi mi assicurano che con la loro lingua non ce la fanno a pensare»40. L’essere è descritto col linguaggio della foresta e infatti è nella foresta che Heidegger predilige stare: «… di recente ho ricevuto la mia seconda chiamata all’Università di Berlino. In una simile occasione, lascio la città e mi ritiro nella mia baita. Ascolto la voce delle montagne, dei boschi, delle fattorie»41. Come l’essenziale Verwindung della metafisica, cioè il procedere oltre il pensamento occidentale e platonico dell’essere dell’ente, segue alla copertura tecnologica del mondo (e quindi al cor-rispondente svolgersi dell’essenza del movimento nazista), così è la foresta che accoglie tra i suoi rami la Lichtung dell’essere e, insieme, i campi di sterminio – immagine visibile e crudele del nazi-

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Ibidem, p. 938. 38 J. Améry, Intellettuale ad Auschwitz, tr. it., Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 52. 39 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 455. 40 M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 148. 41 Ibidem, p. 41.

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smo. La Lichtung è infatti «la radura, l’aperto, è libera… per il chiaro e per lo scuro, per l’eco e il suo perdersi, per il risuonare e il suo smorzarsi»42. Essa non può che aprirsi nel cuore dell’Europa, tra gli uomini che pensano, tra i Tedeschi che guidano le armate al ‘rivolgimento’ oltre la metafisica – e quindi tra le loro foreste: «il simbolo di massa dei tedeschi era l’esercito. Ma l’esercito era più di un esercito: era la foresta che camminava»43. Se colui che si trova nella foresta si sente al sicuro44, è perché nella foresta trova ciò che ci ras-sicura, l’essere: «l’essere è ciò che è più affidabile, che non ci inquieta mai fino al dubbio… L’essere… dà un affidamento la cui affidabilità non può essere superata in nessuna direzione»45. Qui non si tratta di verificare come venga coperta e dimenticata la distruzione del popolo ebraico e dell’Europa stessa, né come la polisemia metaforica della prosa heideggeriana in effetti ricalchi i miti e i simboli di massa del popolo tedesco: l’accusa di magia mossa da Habermas non è da svolgere nel modesto senso per cui Heidegger avrebbe dozzinalmente assemblato ispirazioni proprie di un «ciarlatano» che gioca «con un’aura alla quale è venuta meno il sacro»46. Piuttosto, acconsentire a quest’accusa di magia significa accogliere in un senso filosofico la natura del contrasto della speculazione sull’essere con la cruda concretezza dei campi di sterminio – significa meditare ancora sul nesso tra l’ontologia heideggeriana e il nazionalsocialismo: il Campo non lascia spazio ad alcun pensiero, poiché «andare con le parole al di là dell’esistenza reale, ai nostri occhi divenne un lusso a noi vietato, un gioco privo di calore, addirittura beffardo e malvagio»47. Ma questa sofferenza, questo male e, anzi, la stessa impossibilità per il pensiero di svolgersi nei campi di concentramento sono nulla per la storia dell’essere: Heidegger giudica che «l’essere soltanto è. Che cosa accade? Niente accade, se nell’accadere diamo la caccia a qualcosa che accade» 48. La forza incantatrice delle parole di Heidegger e la sua magia sono qui – nel credere che il pensiero dell’essere sia tutto il mondo 42

M. Heidegger cit. in F. Volpi, Glossario al Nietzsche, cit., p. 41, sub vocem Lichtung. 43 E. Canetti, Massa e potere, tr. it., Milano, Adelphi, 1987, p. 206. 44 Ibidem, p. 101. 45 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 740. 46 J. Habermas, Il discorso, cit., p. 187. 47 J. Améry, Intellettuale…, cit. , p. 53, c.n. 48 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 935, c.n.

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e l’esperienza: la convinzione che la dimensione mondana sia essenzialmente il luogo di proiezione di un pensiero che è dell’essere (la Lichtung), il descrivere la storicità quale pre-disposizione alla luce dell’essere e perciò intendendola possibile solo quale Seinsgeschichte – tutto questo significa confidare in una dimensione onnicomprensiva del pensiero (dell’essere). Poiché «pensare non è inattività, ma è di per se stesso e in sé quell’agire che sta nel dialogo e nel co-mando universale (Weltgeschick)»49, questo significa credere nell’onnipotenza dei pensieri, e «il pensiero che regge la magia… è quello dell’“onnipotenza dei pensieri”»50. Se la storia è per Heidegger soprattutto la storia del pensiero dell’essere, l’‘epoca’ e lo svelamento della disponibilità all’e-vento dell’essere, il linguaggio nel quale l’essere ac-cade è soprattutto quello della poesia: «in quanto è colui che conquista con il tacere, il pensatore entra a suo modo nel rango del poeta e tuttavia rimane da lui separato, come pure, viceversa, il poeta rimane separato dal pensatore»51. Se «si parla a ragione di magia dell’arte e si paragona l’artista a un mago»52, allora, partecipare così intensamente della produzione poetica è tutt’uno con le attitudini ‘magiche’ proprie di un’ontologia dell’essere: ma questo, appunto, ha un rilievo filosofico che va oltre la semplice condizione psicologica di Heidegger. 4. Verso l’apertura al sacro: la necessità della memoria L’analogia tra la psicoanalizzazione di un personaggio storico e l’azione decostruttiva che qui intentiamo va oltre l’apparenza del metodo, fondato sulla premessa comune che il linguaggio in sé si esponga a una destrutturazione e a una disarticolazione: tuttavia, la decostruzione delle dichiarazioni di Heidegger, e cioè l’esibizione dei suoi toni largamente vicini alla mitologia tedesca e alla “magia” (la Lichtung, la posizione ‘destinale’ dell’essere), non procedono verso la cura e la guarigione della sua speculazione. Assieme alle accuse di Habermas, sono anche le parole di Heidegger a venir

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M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., pp. 144-145. S. Freud, Totem e tabù, VII, p. 128. 51 M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 391. 52 S. Freud, Totem e tabù, VII, p. 133.

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prese molto sul serio: solo così si può avvertire l’essenzialità del legame che avvicina la filosofia dell’essere al rivolgimento moderno oltre la metafisica – attraverso il suo dispiegamento nel nazismo, in quanto «compimento della metafisica vuol dire spiegamento illimitato di tutte le potenze essenziali dell’ente, a lungo tenute in serbo, in quello che esse nell’insieme richiedono»53. Solo così si può comprendere fino in fondo come sia amara o duramente profetica la riflessione di Heidegger riguardo il ruolo europeo dei Tedeschi: «Hölderlin e Nietzsche… hanno posto un interrogativo sul compito dei Tedeschi di trovare storicamente la loro essenza. Comprenderemo questo interrogativo? Una cosa è certa: la “storia” si vendicherà su di noi, se non lo comprenderemo»54. Il tentativo che Heidegger compie per rispondere a questa domanda fondamentale – quale sia il compito essenziale del popolo tedesco e, estensivamente, che ne sia del senso dell’essere nell’età moderna – consiste nel seguire Nietzsche nel suo percorso intellettuale, per dialogare con lui, interrogarlo e parlare nuovamente di fronte a lui, persino contro di lui55: il percorso ermeneutico di Heidegger comincia dallo scacco personale di Nietzsche – dalla sua pazzia, che è il segno dell’incontro con un’alterità di pensiero e del travalicamento di ogni limite con l’assenza dell’ombra e della prospettiva56. Quello che con Nietzsche e, in un certo modo, ancora con Heidegger viene intrapreso è il tentativo di pensare l’essere dell’ente come conoscenza dell’essere nell’ora mediana, quando, con l’ombra più corta, il senso dell’essere può darsi compiutamente, senza veli, senza perdita, speranza o nostalgia – senza che si creda, cioè, che il ritorno al pensiero dell’essere rimanga essenzialmente nella sfera dell’attesa, perché anzi esso coinvolge l’effettività della riflessione: «non è che si tratti solo di questo, di aspettare finché all’uomo in trecento anni venga in mente qualcosa, bensì di pensare a partire dai tratti non ancora pensati dell’età attuale verso il tempo futuro senza pretese profetiche»57. Se questo tentativo si è risolto per Nietzsche nella caduta nella pazzia, per

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M. Heidegger, Nietzsche, cit., p. 398. Ibidem, p. 112. 55 Ibidem, pp. 38-39. 56 Ibidem, p. 198. 57 M. Heidegger, Orami solo un Dio ci può salvare, cit., p. 144. 54

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Heidegger il percorrere nuovi sentieri (dell’essere) verso la composizione di un nuovo orizzonte mondano, si è congiunto al progetto di protezione da quell’impasse per il pensiero, nel quale era caduto il suo predecessore – mantenendo aperto però il senso del colloquio con qualcosa che e-viene da un’alterità radicale, poiché l’essere implica la facoltà e il compito da parte dell’uomo di farsi coinvolgere da ciò che eccede i suoi risultati e le sue certezze. In Nietzsche la crisi sopravvenne, sembra notare Heidegger, quando risultò chiaro che la semplice cornice estetica e romantica dell’arte come grande stile – che non era «né qualcosa di soggettivo né oggettivo», ma «il modo di superare e conservare in sé il divenire»58 – non poteva trattenere la forza dirompente di una critica al platonismo di fondo del nostro pensare comune: la critica che conduceva alla crisi dell’oggettività del mondo come datità (il darsi dell’ente all’uomo) e che rivelava la struttura eccentrica del soggetto. Heidegger comprende che la fuoriuscita dalla metafisica deve darsi attraverso questo percorso e che la concezione della realtà quale esterna pre-parazione degli oggetti all’azione umana è un momento della storia dell’essere. Il domandare dell’essere dell’ente indica infatti la distanza da ogni datità: «noi misconosceremmo profondamente ancora una volta la struttura della domanda fondamentale se volessimo… attenderci per la conferma dei passi della domanda qualcosa di simile ai risultati immediatamente tangibili e conteggiabili di un “esperimento”»59. Perché i suoi tentativi per un nuovo pensiero non si rinchiudano nella semplice e superficiale ripetizione del percorso e delle posizioni di fondo di Nietzsche, Heidegger sente di dover ovviare all’eventualità che la messa in crisi del mondo come datità porti al collasso generale, di fronte al completo svanire di ogni presenza: perciò, l’essere viene compreso e pensato da Heidegger entro i temi della casa, della vicinanza, della sicurezza, del mettersi a servizio e della presenza. La storia dell’essere vive certo il nichilismo nel quale l’ente e l’essere dell’ente è ni-ente60, ma questo mondo orientato nella dimenticanza dell’essere, il mondo tecnologico e scientifico, è superabile e va «superato, nel

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M. Heidegger, Nietzsche, cit., pp. 129 e 140. 59 Ibidem, p. 383. 60 Ibidem, p. 362.

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senso di Hegel; non “messo da parte” bensì superato, ma questo non attraverso l’uomo soltanto»61. Se per l’uomo solo, il singolo ente dell’orizzonte mondano, questo compito è troppo gravoso perché «la grandezza di ciò che è da pensare è troppo grande»62, cosa può venire in soccorso all’uomo se non l’essere stesso? L’uomo infatti deve saper cor-rispondere al richiamo e alla chiamata dell’essere: «il sacro… giunge all’apparire solo allorché prima e in una lunga preparazione l’essere stesso si è rischiarato ed è stato sperimentato nella sua verità»63. La responsabile cor-rispondenza all’essere (Ver-antwort-lichkeit), ossia il compito complessivo dell’uomo, sono ciò che meglio si dispone alle accuse di «mistica dell’essere» e di «magia» mosse da Habermas, ma se le seguissimo per determinare psicologicamente la persona di Heidegger, non comprenderemmo lo spirito dell’azione decostruttiva che abbiamo tentato. Sottolineare il carattere ‘magico’ della speculazione di Heidegger non significa soltanto mostrare che il pensiero (dell’essere) vale molto più dei “fatti” – per cui l’essenzialità del legame tra l’ontologia heideggeriana e il nazionalsocialismo si dà nella catena di rimandi che i lapsus hanno evidenziato: le parole che formano la base terminologica per l’indagine sull’essere (Offenbarkeit, offenbar e Offenheit) ricorrono in altra forma (Öffentlichkeit, veroffentlicht, e Veröffentlichung), con variazioni lungo la radice comune offen-, quando Heidegger cerca di difendersi dalle accuse di aver aderito al Partito nazista. Ma insistere sulle particolarità mistiche e magiche della tarda speculazione heideggeriana permette anche di rilevare come l’essenziale posizione di Nietzsche venga conservata e mitigata nella concezione dell’essere come “evento” che viene alla presenza, nel linguaggio, nella casa dell’essere: quello che Nietzsche nella pazzia affermava, la necessità della trasformazione del nostro orizzonte mondano (oltre la realtà come datità) anche in Heidegger sopravvive in questa prospettiva magica e mistica dell’essere – poiché in comune alla malattia mentale e alla magia vi è la lotta per l’affermazione di una concezione della realtà, che sia altra da quella occidentale e

61

M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare, cit., p. 149. Ibidem, p. 156. 63 M. Heidegger, Lettera sull’Umanismo, in M. Heidegger, Segnavia, tr. it., Milano, Adelphi, 1996, p. 411, c.n. 62

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platonica64. La polemica antimagica e la stessa pretesa di inserire il mondo magico entro i canoni della scientificità (come similmente la scienza non comprende l’ontologia dell’essere, chiedendole risultati sperimentali) mostrano che “magia” è un altro ordine di pensiero «che è estraneo al carattere individuante della nostra civiltà, per la quale la presenza sta garantita in un mondo di eventi dati»65. Come Nietzsche non ha saputo contenere la forza della propria critica, giungendo così alla completa dissipazione del senso della presenza e, quindi, alla pazzia, così Heidegger vuole mitigare questa prospettiva per ottenere un “superamento” dell’odierno stato del mondo, senza con questo rinunciare alla sicurezza (attuale o futura) della presenza. L’economia del discorso heideggeriano è come tale contraria e inversa alla procedura della decostruzione, che concepisce l’eventualità del dono, del darsi completamente, al di fuori di ogni possibilità di ‘ritorno’ (economico o dell’essere stesso), poiché lo studio e l’esegesi della scrittura sono ciò che rimane dopo l’allontanamento o il ritiro di Dio nelle remote plaghe «del luogo» (ha-maqôm) da cui il sacro, Dio stesso, proviene. Derrida non raccoglie «il motivo del Dio attivo attraverso la lontananza ed il rifiuto»66 e la difesa dalla pazzia, quella che per Heidegger si era concretata nell’edificazione di un’ontologia della vicinanza e della casa, giunge proprio dalla completa testualizzazione dell’esperienza – “tutto è testo”: la decostruzione è in un certo senso l’estensione filosofica del motto rabbinico, secondo cui «amare la Torah più di Dio significa protezione contro la pazzia del contatto diretto col sacro»67. Invece, per Heidegger, la possibilità di eliminare la prospettiva nietzschiana della volontà di potenza in quanto ultima appendice e compimento della metafisica dipende fortemente dal ricupero di un senso del sacro e dell’alterità, che però sia compreso come presenza e sicurezza: la vanificazione della volontà di potenza, resa manifesta dal sacro, trova dunque nell’eccedenza che si annuncia nella radura il proprio versante positivo e il fondamento della propria irreversiblità. Come per il pensiero magico la datità non è (ancora)

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E. De Martino, Il mondo magico, Torino, Bollati Boringhieri, 1978, pp. 177-181. Ibidem, p. 158. 66 J. Habermas, Il discorso, cit., p. 188, n. 46. 67 Ibidem. 65

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sentita come il fondamento dell’essere-nel-mondo, così per Heidegger essa non è (più) la forma universale di realtà – ma corrisponde all’interpretazione moderna dell’essere dell’ente. Tuttavia la tessitura verbale di quel colloquio tra Heidegger e i giornalisti, che per la sua forma “testamentaria” vuole essere il suggello a questa prospettiva del ritorno e dell’avvento del sacro, è costantemente minacciata dai lapsus, che come tali sono il segno di un’alterità alla presenza: perciò la doppia testualità dell’Intervista parla del sacro e della necessità di ac-cogliere il richiamo dell’essere (le risposte ‘consce’) ma, insieme, evidenzia un’ec-centricità (i lapsus) al rifiuto di Heidegger di concedere una sola parola per lo sterminio del popolo ebraico e per la distruzione dell’Europa. Non basta affermare che la momentanea o pervicace adesione al nazismo di Heidegger fu strumentale, in quanto egli aderì all’assunto nichilistico della precarietà dell’ente68: piuttosto è necessario indagare che cosa significhi quest’affermazione, quando Heidegger continuò a tacere su ciò che non può essere dimenticato — quando la salvezza si identifica con la memoria, ovvero con la paradossale circolarità di memoria e dimenticanza69. Si tratta di una struttura che nasce già all’interno del testo biblico, quando si afferma che, per non perdersi nell’inarrestabile flusso del tempo, è necessario ripeterne costantemente la memoria: «questo giorno (ha-yom ha-zeh) sarà per voi un memoriale: lo celebrerete come festa del Signore: di generazione in generazione, lo celebrerete come un rito perenne»70. Questo giorno, questo oggi, dovrà ripetersi per sempre, nel rito della commemorazione previsto dalla liturgia. Ma, questo è l’interrogativo che si pone con vigore, come può il giro del ricordo, del memoriale o del rito perenne ricordare i dolori della storia senza ripetere la stessa sofferenza? Perché il ricordo del dolore non sia il ritorno del dolore, il testo biblico introduce un ritmo molto particolare di memoria e dimenticanza: «ricorda ciò che ti ha fatto Amaleq sulla via mentre uscivate dall’Egitto [...] Cancellerai il ri-

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Ibidem, p. 36. Sul tema della pace, della memoria e della circolarità degli eventi storici, si veda J. Derrida, Schibboleth: per Paul Celan, tr. it., Ferrara, Gallio Editori, 1998; si veda anche il nostro F. Dal Bo, La testimonianza della pace. Derrida lettore di Celan, in Aa. Vv., Filosofia e pace, Rimini, Fara Editore, 2000, pp. 117-127. 70 Es. 12, 24. 69

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cordo di Amaleq sotto il cielo: non dimenticare»71. È scritto di ricordare ciò che è stato fatto, affinché questo sia a memoria del popolo di Israele, ma è anche scritto di dimenticare Amaleq sotto il cielo, affinché lui e le sue opere non possano essere un esempio per altri malvagi della terra, affinché il fatto di aver perseguitato Israele non torni ancora una volta – a garanzia di una pace futura. Il versetto si chiude così, infatti: non dimenticare ciò che è stato fatto, non dimenticare di cancellare la memoria di Amaleq. Questo non significa espungere dal rito, dal giro, della festa e dalla memoria il dolore della storia in virtù di una condizione irenica priva di incrinature: la testimonianza per la pace piuttosto chiede di abolire il ricordo dei malvagi lasciandoli differire nel ricordo di ciò che è stato fatto, senza per questo tornare a ricordarli, lasciare perdere nella dispersione il nome dei malvagi, l’essenza della loro iniquità: «li disperderò come paglia portata via dal vento del deserto»72. Come parola circoncisa, la testimonianza per la pace è un evento originario che Celan descrive nel verso: «nessuno/ testimonia per il testimone»73. La lingua condivisa dai testimoni e dai persecutori è la circostanza stessa di un doppio esilio, che porta alla radice quella caduta del mondo che la Qabbalah aveva saputo smorzare, riservando dal male estremo la santità dell’ebraico, la ‘scrittura quadrata’, figura vivente dell’eternità, luce folgorante del positivo: la mistica descrive la Torah come un libro fulgido che illumina la via dell’uomo che vuole risalire dalla caduta del mondo. Anche la lingua santa, «fuoco bianco su fuoco nero»74, è circoncisa della stessa Alleanza che lega l’uomo a Dio: «dieci sephirot senza determinazione: il nucleo delle dieci dita, cinque contro cinque e il patto di unicità firmato nel centro, nella circoncisione della parola e bocca (mylah) e in quella della carne (milah)»75. Ma Celan parla in un tempo in cui «morti sono gli Angeli e accecato il Signore nei pressi di Akra»76. Il popolo di Dio che è stato la-

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Dt 25, 17-19. 72 Ger 13, 24. 73 P. Celan, Svolta del respiro, in P. Celan, Poesie, tr. it., Milano, Mondadori, 1998, p. 625. 74 Talmud Palestinese, trattato Sheqalim, IV, 49d. 75 Sefer ha-yetzirah. Il libro della formazione, 3, tr. it. in Mistica ebraica, a cura di G. Busi, Torino, Einaudi, 1995, p. 35. 76 P. Celan, Papaveri e memoria, in P. Celan, Poesie, cit., p. 7.

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sciato alla distruzione non può trovare più nessuna consolazione, perché la lingua dell’Alleanza ora è muta: «passa in rassegna/ le lettere e l’anima mortale-/ immortale delle lettere,/ va da Aleph e da Jud, ed oltre, costruisce lo scudo di Davide, e lo fa/ divampare, per una volta,/ lo fa spegnere»77. Il Patto, la circoncisione, il circolo della festa e la data ora sono segni che girano a vuoto perché il legame mistico con lo scudo di Dio si è sciolto: la lingua poetica di Celan è un mezzo divinatorio privo di un fuoco positivo che la animi, si è trasformata in un veicolo di dispersione che può solo disseminare le parole della testimonianza e della pace, in attesa che una mano forte le possa raccogliere. La poesia che è chiamata alla consolazione di Auschwitz sa essere solo una «grata di parole» (Sprachgitter), uno schermo traforato che separa i morti dai vivi o coloro che non sono più in vita da coloro che non sono ancora morti: «fossi io come te. Tu come me./ Non sottostammo forse al medesimo vento?/ Siamo estranei»78. Eppure non resta che questo linguaggio caduto e disperso. La poesia è una parola inattuale che può deporre per gli uomini di oggi richiamando il passato: «un/ tardivo rumorio, straniato al tempo (stundenfremd), donato/ ai tuoi pensieri, qui, finalmente, ridesti»79. La testimonianza di pace è perciò un’attività, significa stipulare un’alleanza tra l’infranto della storia, offrirgli una provvisoria riunione in un vocabolo, nella speranza di un ritorno della stessa parola, un’altra volta ancora: «quanto si è distaccato, di nuovo si ricongiunge –/ tu le hai là, prendili, tu li hai tutti e due,/ il nome, il nome, la mano, la mano/ prendile in pegno,/ anche lui le prende, e tu hai/ di nuovo ciò che è tuo, ciò che è suo»80. Alla parola poetica che vorrebbe serbare una speranza per il mondo a venire, rimangono solo da declamare ancora una volta «i nomi tutti,/ pronunciati all’indietro (rückwärtsgesprochenen)»81: il tedesco, la lingua madre non è più lo

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P. Celan, La rosa di nessuno, ivi, p. 481. P. Celan, Grata di parole, ivi, p. 281. Seguiamo l’interpretazione suggerita con grande efficacia dal curatore dell’opera poetica di Celan, G. Bevilacqua, che mette in stretta correlazione il termine Sprachgitter con questo brano di J. Paul: «egli parla attraverso la grata linguistica del sonno con i morti, che assieme a lui avevano percorso i prati mattinali della giovinezza» (J. Paul cit. in G. Bevilacqua, Eros, nostos, thanatos. La parabola di P. Celan, ivi, p. LIII). 79 P. Celan, Grata di parole, ivi, p. 253. 80 P. Celan, La rosa di nessuno, ivi, pp. 491-493. 81 P. Celan, Luce coatta, ivi, p. 1065. 78

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scudo mistico contro il male, ma è una barriera infranta, aperta come una “grata di parole”, trasparente come un setaccio attraverso cui filtrano ancora i nomi dei carnefici e la loro malvagità.

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Capitolo IV Il linguaggio ingiusto: Sorel e Benjamin sull’origine della violenza

Je n’aime pas la révolution, mais la justice Albert Camus, Les Justes

Come il circuito della memoria è intagliato dalla stessa parola di Dio che circoncide la bocca e la mente del fedele persuadendolo della sua effettiva azione nel mondo, come il precetto divino impone di ricordare le male opere di Amaleq, l’eterno ma cangiante nemico di Israele, così la stessa pratica rivoluzionaria, qualora non voglia risolversi in una farsesca ripetizione del passato, deve fondarsi su buona coscienza storica: la realizzazione effettiva del progetto rivoluzionario, infatti, dipende essenzialmente dalla profondità in cui vengono piantate le radici dell’insurrezione, che vanno scavate nella profondità della storia, suscitando il ricordo tanto delle ingiustizie subite, quanto dell’attuale desiderio di riscatto. La lingua è, ancora, lo strumento privilegiato per questa ricerca: dalla determinazione dell’essenza del linguaggio dipende la direzione del processo rivoluzionario, ma non viceversa. Coloro che tra i teorici della rivoluzione hanno compreso il ruolo decisivo del linguaggio, senza degradarlo a propaganda oppure a semplice instrumentum regni, hanno dovuto affrontare la questione decisiva se la violenza sia essenzialmente estranea alla lingua, alla riflessione e alla teoria – ovvero, se la lingua sia essenzialmente e interamente al servizio di ciò che chiamiamo morale, buono e giusto. 1. Il piacere della rivoluzione: il linguaggio come potere Nelle sue note requisitorie contro le velleità del socialismo parlamentare, il teorico marxista Sorel pronuncia una sentenza inappellabile contro coloro i quali credono che la rivoluzione sia solo chiacchiera o una questione giuridica di diritto: «i princîpi dell’89 furono visti come il preliminare filosofico dei nostri codici; i pro-

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fessori si credettero obbligati a dimostrare che questi princîpi potessero servire a giustificare le regole generali della scienza giuridica che essi insegnavano perché la mente può, con sottigliezza, venire a capo delle imprese più difficili: ma abili scrittori opposero a questi sofismi conservatori altri sofismi sia per stabilire la necessità di far progredire il diritto, sia anche per stabilire l’assurdità dell’attuale ordine sociale»1. Non si prenda semplicemente come un motto reazionario il pronunciamento di Sorel che di fatto è indirizzato contro il socialismo parlamentare. Certo, le volgari rivendicazioni del fascismo e dell’insurrezionalismo squadrista non pronunceranno parole troppo diverse da quelle con cui Sorel formula la sua accusa: eppure, è necessario cogliere un sintomo particolare nel disappunto con cui Sorel riconosce che le forze socialiste ospitate nel parlamento francese sono incapaci di un’autentica prassi rivoluzionaria, ma fin troppo dotate nella descrizione della teoria della rivoluzione. Non si tratta della semplice scontentezza del teorico che propone, al contrario, un vitalismo insurrezionale o uno spiritualismo politico di cui saranno debitori anche i movimenti fascisti del Novecento, bensì di una sorta di fastidio che Sorel prova verso la caparbietà di parlare di rivoluzione invece di lasciar fare al corpo delle forze socialiste. L’autentico compito del rivoluzionario, infatti, si misura nella capacità di cedere spazio all’azione rivoluzionaria, senza tuttavia lasciar venir meno il ruolo direttivo e istruttivo della lingua: «vorrei infine richiamare l’attenzione dei filosofi su una questione che mi sembra avere una importanza capitale dal punto di vista della buona propaganda del socialismo. Mi domando se sia possibile fornire una esposizione intelligibile del passaggio dai princîpi all’azione (action) senza impiegare i miti»2. Da questo punto di vista, dunque, il dibattito tra il socialismo parlamentare e il socialismo rivoluzionario è un’attenta disquisizione sul ruolo del linguaggio e, in particolare, sulla distinzione tra due forme supreme della narrazione: l’utopia e il mito.

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G. Sorel, Réflexions sur la violence, Paris, Libraire des sciences politiques et sociales, 1908, pp. 180-181. 2 G. Sorel, Introduction à l’économie moderne, Paris, Librairie des sciences politiques et sociales, 1922, p. 394. Si tratta di una domanda retorica, per la quale può esserci solo una risposta negativa.

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Secondo Sorel, il mito si definisce nella sua contrapposizione all’utopia, ovvero in contrasto con una rappresentazione intellettuale che, propriamente, non riesce ad avere luogo: non agisce nella realtà effettiva del mondo, non alberga nel cuore delle masse, non parla al corpo delle forze rivoluzionarie. Al contrario, il mito è la narrazione per eccellenza, suscita un effetto pratico dirompente e riesce a rappresentare in modo immediato la volontà rivoluzionaria che attende di tradursi in azione: gli attuali miti rivoluzionari sono pressoché puri (purs); permettono di comprendere l’attività, i sentimenti e le idee delle masse popolari che si preparano ad entrare in una lotta decisiva (lutte décisive); non sono descrizioni, ma espressioni di volontà (expressions de volontés). Al contrario, l’utopia è il prodotto di un lavoro intellettuale: è l’opera di teoreti che dopo aver osservato e discusso i fatti, cercano di stabilire un modello al quale si possano confrontare le società esistenti per misurare il bene e il male che racchiudono; è un complesso di istituzioni immaginarie (institutions imaginaires) che però presentano con le istituzioni reali analogie, abbastanza grandi affinché il giurista ne possa ragionare; è una costruzione che si può smontare (démontable), di cui alcuni pezzi sono stati tagliati in modo da poter passare (mediante alcuni aggiustamenti) in una legislazione vicina3.

La narrazione mitica, dunque, è in grado di organizzare immagini capaci di evocare istintivamente tutti i sentimenti che corrispondono alle diverse manifestazioni della guerra che il socialismo ha pronunciato contro la società moderna. È lecito riconoscere in questa polemica che Sorel conduce contro il socialismo parlamentare anche un singolare investimento emotivo, che sarebbe assai meschino giustificare appellandosi semplicemente al fervore o alla passione rivoluzionaria che l’animavano. Sorel piuttosto sembra ammettere che nel contrasto tra utopia e mito vinca proprio quel linguaggio che sa parlare alle masse, che lo coorta a realizzare i più alti ideali, ma soprattutto che ne sobilla, accende e stuzzica la volontà di piacere. Nella sarcastica requisitoria contro lo svolgimento dell’affaire Dreyfus, Sorel non esita a stigmatizzare il fallimento da parte del socialismo parlamentare di cogliere quella volontà rivoluzionaria, ovvero quel desiderio di rivoluzione, che le masse già manifestavano nell’impudica erotizzazione dei protagonisti del grande scandalo politico

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G. Sorel, Réflexions sur la violence, cit., p. 25.

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e giuridico: «ecco innanzitutto un divertente dialogo che avvenne nel momento in cui si negoziava la grazia di Dreyfus […] Sarebbe difficile inventare una scena comica meglio riuscita, se si volesse dimostrare la debolezza intellettuale dell’uomo che fu il grande eroe dell’affaire. Si fece allora un prodigioso consumo di sensibilità. Il gentil sesso si abbandonò a un numero esorbitante di stravaganze»4. La feroce ironia di Sorel con cui deride l’ignavia della classe politica francese tuttavia non si rivolge affatto al desiderio espresso dalle masse: non rigetta questa collettiva azione di transfert del popolo francese che partecipa e si appassiona alle controverse vicende dell’affaire, bensì riconosce che esiste un piacere della rivoluzione. In questa prospettiva, il mito rappresenta l’unico effettivo momento di incontro tra la volontà rivoluzionaria, la teoria marxiana e la narrazione adeguata per spingere le masse all’azione. Sorel non sembra avventurarsi in un’improbabile analisi psicoanalitica della “sensualità” del processo rivoluzionario mancato nel corso del processo Dreyfus, ma si impegna a rigettare qualsiasi posizione politica che comporti una separazione tra pratica rivoluzionaria e discorso rivoluzionario. In questo senso, la sua analisi su mito e utopia rivela una particolare lungimiranza sulla questione dell’intreccio inestricabile tra linguaggio e potere: tuttavia, le sue valutazioni sul desiderio rivoluzionario delle masse manifestano anche una sua particolare inclinazione per un linguaggio marcato, orientato – ovvero privo di neutralità sotto il profilo della sessualità. Non è certo se queste considerazioni di Sorel dipendano da un’ironia persino grottesca o se piuttosto non tradiscano effettivamente la persuasione che lo stesso linguaggio rivoluzionario abbia un sesso, proprio come riconoscerà più tardi lo stesso Foucault nei suoi studi sulla relazione tra potere e sapere che si edifica sull’albero del linguaggio. Si tratta tuttavia di una congruenza profonda che precisa ulteriormente quella distinzione tra utopia e mito che, di fatto, stabilisce una separazione all’interno dell’ambito del linguaggio. La riflessione marxiana sul concetto di ideologia ha mostrato con chiarezza che non si può dare un sapere che sia disgiunto da una pratica discorsiva definita che traduca e produca una situazio4 G. Sorel, La révolution dreyfusienne, Paris, Librairie des sciences politiques et sociales, 1909, p. 27.

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ne di potere: questa circolarità tra sapere e potere, del resto, ha luogo nel linguaggio stesso, per cui non solo ciò che viene esplicitamente enunciato, ma anche la stessa trama silenziosa di un’opera vengono a costituire il reticolo delle pratiche del potere. In questa prospettiva, sapere e potere sono intessuti insieme sul diritto e sul rovescio del linguaggio, sulla sua legge e sulla sua trasgressione: l’ipotesi della repressione delle pulsioni, come viene esposta da Freud in quegli anni, non può rendere conto dell’incremento o addirittura dell’esplosione discorsiva che caratterizza il mondo contemporaneo, così come l’odio di classe e la sottomissione secolare del proletariato non sono sufficienti a determinare la mossa e lo slancio rivoluzionari. È necessario individuare un trait d’union supplementare che Foucault riconosce nel complesso giuridico discorsivo: in esso si costruisce l’apparato epistemico che permette la proliferazione del discorso, che non impone semplicemente la perentorietà del no, della denegazione, del rifiuto, ma che anzi concede una produzione autonoma di senso5. Lo sviluppo del concetto di sessualità è esemplare perché rende manifesta la dialettica tra diverse attitudini linguistiche e il loro investimento nella costruzione del sapere (episteme) e, quindi, del potere. Approfondendo e sviluppando il concetto freudiano di libido, Foucault giunge a sostenere che lo sviluppo della scienza medica determinò un profondo cambiamento nella visione e nell’amministrazione del piacere: la specializzazione nello studio della pulsione sessuale sul piano fisiologico e psicologico – ovvero «isolamento di un “istinto” sessuale suscettibile, anche senza alterazioni organiche, di presentare delle anomalie costituzionali, delle deviazioni acquisite, delle infermità o dei processi patologici»6 – condusse già all’inizio del Novecento ad una profonda riformulazione del discorso sulla sessualità. Con la separazione tra sesso e sessualità, veniva meno anche quell’insieme di ordinamenti giuridici che riguardavano gli obblighi religiosi o legali del matrimonio, le transazioni patrimoniali e i legami di parentela: alla soglia dell’epoca contemporanea si sciolse questa solidarietà fra sesso ricchezza e potere, per cui, come prima conseguenza, il discorso sul sesso acquisì una propria autonomia come sessualità, divenen5 6

Ibidem, p. 76. M. Foucault, La volontà di sapere, tr. it., Milano, Feltrinelli, 1978, p. 104.

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do una questione individuale, un piacere privato e, in ultima analisi, il luogo stesso dell’essenza del singolo: «si tratta della produzione stessa della sessualità. Questa non deve essere considerata come una specie di dato naturale che il potere cercherebbe di domare o come un campo oscuro che il sapere tenterebbe, a dir poco, di svelare. È il nome che si può dare ad un dispositivo storico: non una realtà sottostante sulla quale sarebbe difficile esercitare una presa, ma una grande trama di superficie dove la stimolazione dei corpi, l’intensificazione dei piaceri, l’incitazione al discorso, la formazione delle conoscenze, il rafforzamento dei controlli e delle resistenze si legano gli uni con gli altri sulla base di alcune grandi strategie di sapere e di potere»7. Secondo la storia del costume delineata da Foucault, questa produzione della sessualità determinò un’autentica proliferazione di significati e discorsi intorno al sesso che, tuttavia, avrebbero rappresentato un’organizzazione del potere alternativa e rivoluzionaria rispetto a quella che avevano rappresentato gli antichi codici morali: secondo Sorel, la rivoluzione socialista non parlava un linguaggio molto differente da questo. L’opposizione alla filosofia socratica è esemplare e caratteristica. 2. Linguaggio e moralità: la violenza e il lato oscuro della lingua La critica alla razionalità borghese è per Sorel innanzitutto la critica al grande stile, all’eloquio e alla retorica che ingrandiva l’agorà greca. In questo senso, Sorel non prende le parti di Atene contro Socrate per sostenere biecamente la ragion di Stato, ovvero la convinzione che la legge rappresenti il fondamento essenziale della realtà da preservare e difendere anche a costo di un innocente: il processo intentato per realismo politico contro un innocente come Dreyfus, infatti, rappresenta per Sorel l’occasione più propizia per uno scarto rivoluzionario che il socialismo parlamentare non è in grado di cogliere. Servendosi quasi delle stesse parole di Nietzsche, Sorel intende piuttosto filosofare con il martello, incidere l’ottimismo socratico che è innanzitutto una fuga di fronte al dolore: i Greci, abituati a prendere tante cose dai popoli che trattavano da barbari, fecero

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Ibidem, p. 94, c.m.

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numerosi tentativi per adattare alla loro civiltà le meraviglie che sentivano raccontare sugli asceti orientali. Il programma di Socrate era probabilmente di permettere agli Ateniesi di affrancarsi dai carichi, che potessero convenire ai costumi della città di Minerva; la leggenda del suo demone è una attenuazione delle leggende dei profeti semitici; voleva creare una educazione alla temperanza per i lavoratori poveri abilissimi conoscitori delle opere d’arte e abituati a credere che l’intelligenza umana sia pienamente manifestata nei monumenti nazionali, prodigiosi per lo spirito di moderazione, di ragionamento e di conseguenza conforme al buon senso di cui hanno dato prova i loro autori8.

La contrapposizione all’ottimismo socratico è un’opposizione al concetto greco di felicità come temperato e conforme adeguamento al proprio demone interiore (eudaimonia). In questo rigetto della filosofia “democratica” della polis, Sorel in effetti rivendica una libertà d’azione che si concretizza innanzitutto come la pratica di un sospetto e di un’opposizione nei confronti di quel medesimo spirito semitico che comporta una non comune sensibilità per il Libro e le lettere: «questa idolatria (idolâtrie) delle parole gioca un grande ruolo nella storia di tutte le ideologie; il mantenimento di un linguaggio marxista di questo tipo, divenuto completamente estraneo (étrangers) al pensiero di Marx, costituisce una grande disgrazia per il socialismo»9. Attraverso un rifiuto altamente significativo dei “semitismi” della cultura moderna, Sorel permette che questa contrapposizione all’ottimismo socratico completi di fatto la sua singolare interpretazione del linguaggio e del suo ruolo effettivo sulla realtà, quando viene impiegato come mito e non come sterile utopia. Come il mito contraddice la presunta verità del corpo legale tradizionale e propone un’alternativa rivoluzionaria a questo sapere, così il pessimismo metafisico proposto da Sorel svela all’uomo il suo autentico spirito di lotta: il pessimismo è tutt’altra cosa dalle caricature che vengono molto spesso presentate: è una metafisica dei costumi piuttosto che una teoria, è la concezione di un cammino verso la liberazione strettamente connessa, da un lato, alla conoscenza sperimentale che noi abbiamo acquisito degli ostacoli che si oppongono al soddisfacimento delle nostre immaginazione (o se si preferisce legata al sentimento di un determinismo sociale) e, dall’altro, alla convinzione profonda della nostra na-

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G. Sorel, Introduction à l’économie moderne, cit., pp. 406-407. G. Sorel, Réflexions sur la violence, cit., p. 37. Si noti l’impiego del termine idolâtrie, tutt’altro che innocente in questo contesto.

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turale debolezza […] Ciò che c´è di più profondo nel pessimismo è il modo di concepire il cammino verso la liberazione. L’uomo non andrebbe lontano nell’esame sia delle leggi della sua miseria, sia della fatalità che feriscono talmente l’ingenuità del nostro orgoglio, se non avesse la speranza di venire a capo di queste tirannie con uno sforzo che egli tenterà con tutto un gruppo di compagni10.

Sorel rinviene nel fallito esperimento rivoluzionario del processo a Dreyfus una ripetizione ironica, persino farsesca per la mediocrità delle parti in causa, di quello che fu il grande processo a Socrate. Lo spirito insurrezionale dei sostenitori di Dreyfus non mostra tanto un legame persino incestuoso di diritto e giustizia, quanto piuttosto la verità profonda della legge. Il rigetto dell’ottimismo socratico è in fondo il rifiuto di contabilizzare i rendiconti della storia, manifesta la consapevolezza che la forza crea il diritto e che, anzi, si può uscire dalla legalità per rientrare nel diritto, rivelando in ciò un carattere del tutto antinomico: «quando la forza pubblica si trova tra le mani dei loro avversari ammettono abbastanza volentieri che essa è usata per violare la giustizia (à violer la justice) e allora dimostrano che si può uscire dalla legalità per rientrare nel diritto (sortir de la légalité pour rentrer dans le droit) (secondo una formula dei bonapartisti)»11. La parte sempre assunta da Sorel nel processo a Socrate e nel processo a Dreyfus rivela una profonda coerenza che confida nella consapevolezza che la legge, ovvero l’estremo apparato giuridico del sapere e dell’episteme, è opaca, insondabile nelle sue parti e, in fondo, si tratta solo dello strenuo tentativo della cultura di opporsi alla legge naturale del dolore: «vorrei qui sostenere che si può fondare una psicologia ricca di risultati pratici, partendo dalla constatazione che l’umanità lotta contro la legge naturale (contre la loi naturelle) che la condanna al dolore»12. L’arco che congiunge linguaggio e potere si tende al massimo proprio quando Sorel rivendica la profonda duplicità della lingua, l’esistenza di una dimensione visibile a tutti, sotto la luce del sole, e una parte oscura, notturna. La profondità dell’affermazione di Sorel sulla natura del linguaggio vengono appena intaccate da qualche goffa affermazione, che 10

Ibidem, pp. 13-14. Ibidem, p. 18. A proposito posizioni contraddittorie e paradossali dei partigiani di Dreyfus nella valutazione della giustizia, cfr. G. Sorel, La révolution dreyfusienne, cit., pp. 44-45. 12 G. Sorel, Introduction à l’économie moderne, cit., p. 400. 11

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porta a identificare la morale con lo strumento o il progetto ideologico di questa o quest’altra classe sociale: «è così che il ruolo della violenza (violence) ci appare come straordinariamente grande nella storia; poiché essa può operare, in maniera indiretta, sotto la borghesia, per richiamarci al sentimento della loro classe»13. Quando si richiama all’oscurità della lingua, Sorel in effetti non esplicita solamente un particolare sospetto nei confronti dell’uomo di lettere, del rivoluzionario da salotto o del socialista da parlamento. Certamente, gli ideali dei rivoluzionari splendono alla luce del sole, sono illuminati dal Bene supremo della giustizia e dell’eguaglianza di ciascuno, ma il pessimismo che dobbiamo alla vita autentica che si consuma nella storia ci dice in verità che è necessario anche parlare un linguaggio nero, intriso di violenza che spaventi i progressisti, che sobilli le masse e che conficchi la borghesia ancor più profondamente nelle sue meschine preoccupazioni materiali: «non solamente la violenza proletaria può assicurare la rivoluzione futura, ma sembra essere tuttora il solo mezzo di cui dispongono le nazioni europee, abbruttite dall’umanitarismo, per ritrovare la loro antica energia (energie). Questa violenza (violence) costringe il capitalismo a preoccuparsi unicamente del suo ruolo materiale e tende a restituirgli le qualità bellicose che possedeva un tempo. Una classe operaia in crescita e solidamente organizzata può forzare la classe capitalista a rimanere ardente nella lotta industriale; di fronte a una borghesia affamata di conquiste e ricca, se un proletariato unito e rivoluzionario si erge, la società raggiungerà la perfezione storica»14. Apparentemente si tratta di un espediente politico rivoluzionario, ma in realtà Sorel qui contraddice in modo del tutto singolare la legalità borghese che il socialismo parlamentare invece crede di poter usare a proprio vantaggio: Sorel infatti parla nuovamente con il linguaggio della teologia e ripercorre le tappe maggiori dell’antigiudaismo. Nella polemica antigiudaica, la lotta contro la Legge in nome della libertà del Vangelo si era concretizzata in una singolare strategia: in quanto tale, la “santità” della Legge non era stata messa in questione, ma piuttosto era stato attribuito un peso esorbitante alle procedure legali che si intendevano combattere, con l’intento di mostrare che il carattere materiale giudaico, in fondo, non sarebbe mai cambiato,

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G. Sorel, Réflexions sur la violence, cit., p. 57. Ibidem, p. 58.

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ma avrebbe desiderato sempre più massicciamente promesse terrene, concrete, tangibili e materiali15. È anche in questa prospettiva che va compreso il motivo per cui Sorel insiste nuovamente a rivestire il linguaggio di una tunica di pelle, lo richiama alla sensualità, rivendica addirittura un parallelismo tra il chiaroscuro della lingua e la strenua lotta dell’impulso sessuale contro i costumi codificati e consolidati: «in campo morale, la parte che si può esprimere facilmente nelle esposizioni chiaramente dedotte, è ciò che si riferisce ai rapporti egualitari tra gli uomini; contiene le massime che in molte diverse civiltà, di conseguenza, si è creduto che si potessero trovare, in un riassunto di questi precetti (préceptes), le basi di una morale naturale propria a tutta l’umanità. La parte oscura (partie obscure) della morale è quella che ha a che fare con i rapporti sessuali; essa non si lascia facilmente determinare dalle formule; per penetrarla bisogna aver abitato un paese per un gran numero di anni»16. Sarebbe facile risolvere questi passi ambigui e inquietanti appellandosi a un fin troppo frettoloso anti-intellettualismo da parte di Sorel che è senz’altro significativo, ma non determinante. Sorel piuttosto si fa a sua volta intellettuale di quella parte oscura del linguaggio rivoluzionario che altri preferiscono non ascoltare, diviene portavoce di una dimensione estremamente ambigua del linguaggio, rispetto al quale lo stesso scopo della rivoluzione diviene oscuro: «il socialismo è necessariamente una cosa molto oscura (une chose très obscure) poiché tratta della produzione, cioè di ciò che vi è di più misterioso nell’attività umana e che si propone di apportare una trasformazione radicale in quella regione che è impossibile descrivere con la chiarezza (clarté) che si trova nelle regioni superficiali del mondo»17. 3. Rivoluzione come stato d’eccezione: Sorel come riformista La violenza di cui Sorel proclama la necessità rivoluzionaria, dunque, non è la semplice azione del corpo o la prevalenza dell’at15

Abbiamo riassunto e valutato questa strategia di delegittimazione fondata sull’enfasi della “materialità” nel caso dell’antigiudaismo cristiano nel nostro F. Dal Bo, La Legge e il Volto di Dio, cit. 16 G. Sorel, Réflexions sur la violence, cit., p. 97. 17 Ibidem, p. 99.

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tività muscolare che Freud volentieri ascriveva alla pulsione di morte, consegnandola, di fatto, al silenzio: si tratta piuttosto di una forma singolare di linguaggio che parla in modo mitologico e spegne l’opalescenza dell’utopia, per cui il linguaggio della violenza resta nascosto alla luce della morale, del codice borghese o dei giochi parlamentari. In questa problematica e torbida concezione dell’azione rivoluzionaria, Sorel è in grado soprattutto di acquistare al socialismo la spontaneità dell’azione, il rigetto del lavoro paziente della legge e la rivolta contro il mondo moderno. Ma, nuovamente, il volontarismo e l’irredentismo verbale di Sorel non sono ancora la parte essenziale della sua concezione del linguaggio: nello scandalo che suscitano a causa del loro ostinato realismo, distolgono anzi l’attenzione da quella che è la profonda impostazione metafisica su cui si fonda la sua teoria del sindacalismo rivoluzionario. Sorel infatti si fa alfiere di una rivoluzione contro la moderna società borghese, fino a quando questo significa che il moralista e il giurista, attratti entrambi dalla parte chiara del linguaggio, non riescono a cogliere veramente il ritmo delle cose: «la rappresentazione del mutevole attraverso la tensione dell’immutevole riesce tanto meglio quanto più i cambiamenti sono regolari, più familiari al lettore, più indicati a suggerirgli l’idea dell’esistenza di una legge o, come si dice talvolta, meglio ritmati»18. Il movimento socialista ha infatti una propria legge e il compito del rivoluzionario quello di adagiare correttamente le sue parole su questa superficie turbolenta, far combaciare i tenui incastri tra parola e azione per produrre la mossa rivoluzionaria: «quando Bernstein consigliava ai socialisti di occuparsi del movimento e non della fine dove arriverebbe forse la rivoluzione, diceva una cosa molto più filosofica di quanto non pensasse»19. La definizione di demagogia sarebbe in questo caso eccessiva, da un lato, ma persino troppo indulgente, dall’altro. Certamente, 18

G. Sorel, Introduction à l’économie moderne, cit., p. 390. Il riferimento al ritmo è una metafora ripresa dalla poetica come “disciplina del linguaggio” e non va intesa, in senso stretto, come un’estetizzazione del linguaggio rivoluzionario: «i buoni artisti sanno trovare gli aspetti che la stilizzazione permette di trasformare affinchè la tensione dell’inamovibile dia un’idea chiara della mobilità» (ibidem, p. 389). Sul concetto di ritmo nella poetica, si veda B. Allemann, Sul poetico, tr. it., a cura di F. Dal Bo, Ferrara, Gallio Editori, 1998. 19 G. Sorel, Introduction à l’économie moderne, cit., p. 390.

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non si possono chiamare se non demagogici e propagandistici i tentativi falliti dei sostenitori di Dreyfus nello sforzo di creare un mito sulla base di protagonisti mediocri, figure da basso impero di una borghesia ancora sensibile alla romanticheria dell’eroe ingiustamente condannato: «questa pochezza da parte dei protagonisti appariva in maniera particolarmente sorprendente nel libro di Joseph Reinach perché l’autore era convinto di scrivere una grande storia e, di conseguenza, si sforzava di alzare il tono al livello di un Sallustio o di un Tacito. La miseria delle avventure è così messa in rilievo dal contrasto con la cornice che impone loro il narratore […] L’affaire Dreyfus merita veramente di essere raccontato nel dettaglio solo nella forma del romanzo d’appendice»20. Ma del resto, con questa predicazione della violenza rivoluzionaria Sorel non sostiene mai apertamente la semplice azione violenta, se con questo intendiamo la cieca espressione di una violenza irriflessa. Benché sia sfuggito completamente di mano al socialismo parlamentare, il processo a Dreyfus aveva rappresentato l’occasione migliore per un rivolgimento rivoluzionario e ogni violenza sarebbe sorta dalle conclusioni necessarie delle teoria marxiana, perché si sarebbe comunque trattato del frutto più maturo del socialismo scientifico. Per così dire, anche se inevitabilmente terribile e crudele, questa violenza non avrebbe dimenticato i suoi nobili natali: la sua schiatta sarebbe stata ancora marxiana, teorica e giustificata dall’analisi del materialismo storico. Eppure, Sorel non parla in modo innocente: queste parole spese per la parte oscura del linguaggio trasvalutano completamente la prospettiva marxiana, scuotendola nel profondo. La rivoluzione in Sorel non è il pessimismo come semplice rifiuto dell’ottimismo socratico: di fronte all’urto rivoluzionario propugnato da Sorel, la filosofia socratica non si dissolve affatto, bensì viene pervertita, muta di segno e soggiace alle mire oscure di un linguaggio che desidera la rivoluzione. In questo tipo di rivoluzione, il socratismo subisce il suo rovesciamento e nel suo rovescio espone una tramatura inversa della stessa stoffa con cui è stato confezionato l’abito morale della metafisica tradizionale. Quando viene richiamato dalle altezze dell’iperuranio, il genio socratico diviene uno spirito della terra, si muta in un demone che guida lo spirito rivoluzionario: 20

G. Sorel, La révolution dreyfusienne, cit., p. 9.

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«durante gli anni in cui si prepara la caduta dell´antico regime e durante i periodi torbidi delle rivoluzioni, molti uomini sembrano essere trascinati da qualche demone malizioso che li forza ad agire in maniera opposta a quella che dovrebbe essere suggerita dalle antiche abitudini di vita, i pregiudizi della loro educazione o i loro più evidenti interessi»21. Nonostante le apparenze, questa revisione dello spirito socratico non è affatto affine al grande gesto marxiano di fare appoggiare la filosofia hegeliana sulla terra, perché Sorel non chiama affatto Socrate a un maggior realismo: questo gli viene dalla filosofia marxiana della storia che anzi lo persuade della necessità di un’azione rivoluzionaria che sovverta i valori borghesi, li inabissi nella materialità e guadagni, per mezzo di un pessimismo cosmico, una prospettiva del tutto inedita che ricapitoli l’intera storia dell’oppressione dell’uomo22. Ricapitolare significa appunto riportare la storia dell’uomo al tema fondamentale che Sorel non rintraccia affatto nella categoria marxiana tradizionale della lotta di classe, bensì nell’opposizione tra utopia e mito. È in questa opposizione, del resto, che si marca la distanza tra il socialismo, decaduto nelle grigie e sorde aule parlamentari, e il sindacalismo rivo21

G. Sorel, La Révolution dreyfusienne, cit. p. 18. Si noti, tra l’altro, l’etimologia di demone che viene fatta risalire al termine “oscuro”: «e per tornare alla polivalenza degli aspetti storici di una lngua e ai limiti in cui si scopra confinata la critica di Aristotele sul pensiero antico, eudaimon, “felice”, eudaimonia “felicità” incalzano a diradare il mistero sull’origine, ignorata, di daimon (spirito, nume) che ha il suo antecedente in una voce antichissima: calcata sulla base dell’altra voce damum (oscuro). Esso richiama alle origini l’oscura apparizione, come lo “spirito”, l’elohim che combatte tutta la notte con Giacobbe e fugge al primo annunzio della luce del giorno. Giacobbe aveva gridato “voglio che tu mi benedica”. Così la felicità che s’irradia dalla eudaimonia è quella di chi è in armonia con il suo genio, col suo nume, spirito che veglia su di lui» (G. Semerano, L’infinito: un equivoco millenario, cit., p. 43; sulla medesima interpretazione del demone socratico, cfr. F. Dal Bo, Il teatro del sapere: un’intepretazione della Repubblica platonica, in «Philo:logica», V, 9, Marzo 1996, pp. 91-104). In realtà, Sorel sembra usare in modo equivalente anche il termine “genio” a cui si riferisce in altri luoghi descrivendo il processo rivoluzionario (cfr. G. Sorel, La Révolution dreyfusienne, cit., p.5 e soprattutto p. 11). 22 Il concetto di ricapitolazione ha un’origine teologica e costituisce il fulcro del messaggio paolino: si sostiene che le due estremità del tempo, quella del mondo attuale e quella del mondo avvenire, siano faccia a faccia. In questa prospettiva, viene suggerita l’ipotesi che tra le figure del rapporto temporale, la ricapitolazione sia complementare alla visione dell’inversione del tempo: se tutte le cose si ricapitolano

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luzionario, vero alfiere della predicazione di Marx – perché in fondo il comunismo è quasi come una religione da rifondare: il sindacalismo rivoluzionario non è dunque, come molte persone credono, la prima forma confusa del movimento operaio che a lungo andare dovrà sbarazzarsi di questo errore giovanile; è stato al contrario il prodotto di un miglioramento operato dagli uomini che sono venuti a frenare una deviazione verso le concezioni borghesi. Lo si potrebbe perciò paragonare alla Riforma, che volle impedire che il Cristianesimo subisse l’influenza degli umanisti; come la Riforma, il sindacalismo rivoluzionario potrebbe perdere la sua originalità, come la Riforma l’ha perso: è questo che rende così interessanti le ricerche sulla violenza proletaria23.

La metafora di Sorel è prodigiosa. Nelle sue stesse parole viene compreso in modo essenziale il senso profondo dell’opposizione tra mito e utopia che certamente vive del pregiudizio anti-intellettuale contro coloro che si fanno degli idoli di parole, rinunciando così a un’effettiva azione rivoluzionaria, che sicuramente è debitrice dell’accesa polemica rivolta alla filosofia progressiva della storia, ma quest’opposizione indica, sotto somiglianze più apparenti che significative, il dato fondamentale: se il sindacalismo rivoluzionario rappresenta la Riforma del marxismo ortodosso, allora la riflessione di Sorel sul linguaggio rivoluzionario ha una portata del tutto eretica e scismatica. In effetti, Sorel afferma che il mito è in grado di coortare effettivamente le masse all’azione, ma intende dire che il mito parla il linguaggio del desiderio rivoluzionario, scuote le artificiose e immobili costruzioni teoriche dei giuristi e dei moralisti, che si oppone allo spirito semitico della lettera, del codice e dell’ottimismo: di fronte alla descrizione delle leggi fondamentali dell’economia, alla dottrina della lotta di classe e, in fondo, della relazione tra struttura e sovrastruttura, il momento rivoluzionario appare come un autentico momento di sospensione, uno stato d’eccezione (Ausnahmezustand) che annulla la chiarezza

nel Messia ciò significa che il tempo momentaneo dell’istante (chairos) si riempie del tempo profano (chronos) dando vita al cosiddetto riempimento messianico del tempo. In questo caso, l’amore diviene il pleroma della Legge, ovvero la sua giustificazione e il suo chiarimento (per tutti questi temi, si veda G. Abamben, Il tempo che resta: un commento alla Lettera ai Romani, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, particolarmente debitore del più articolato J. Taubes, La teologica politica di San Paolo, tr. it, Milano, Adelphi, 2000). 23 G. Sorel, Réflexions sur la violence, cit., p. 30.

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della teoria marxiana, cedendo il passo a un’anarchia morale24 che parla il linguaggio oscuro del pessimismo. La serratura che sigilla l’irruzione dell’evento rivoluzionario cede a un grimaldello assai singolare: il processo a Socrate, ovvero la critica all’ottimismo, alla contabilità della morale e alla positività dei valori borghesi. In questa singolare opposizione tra mito e utopia, ovvero tra due diversi modi di progettare la rivoluzione, si consuma nuovamente il dramma marcionita del contrasto tra Legge e Vangelo, ma l’asse dell’opposizione è così inclinato da sprofondare nella parte oscura quel linguaggio rivoluzionario che Sorel non vuole schiavo delle pratiche borghesi, ma che rivendica come la lingua suprema della libertà. Per mezzo del suo stesso paragone del sindacalismo rivoluzionario con la Riforma protestante, Sorel trasferisce nel cuore della teologia politica proprio l’opposizione centrale della sua dottrina della lingua – che stabilisce la distinzione tra una parte chiara del linguaggio, in cui la moralità dell’azione storica trova la sua contabilità nell’effettivo raggiungimento della rivoluzione, e una parte oscura, per la quale la violenza è innanzitutto un medicamento contro l’idolatria delle parole degli intellettuali, le astuzie dei parlamentari e i sofismi del socialismo parlamentare. Questa radicale contrapposizione tra la condizione del mondo borghese e l’avvento rivoluzionario è un punto che Sorel condivide con Benjamin25, tuttavia con l’importante eccezione della concezione della lingua che per il mistico tedesco non può che essere aliena alla violenza.

24

«Una simile anarchia morale (anarchie morale) è stata denunciata dopo ogni rivoluzione; è la disperazione di tutti gli uomini che hanno conservato qualcosa dell’entusaismo dei primi giorni; ma è probabilmente una necessità storica (nécessité historique) per passare ai tempi tranquilli che seguono i tempi oscuri» (G. Sorel, La Révolution dreyfusienne, cit., p. 37). 25 Cfr. J. Taubes, Il prezzo del messianismo, Macerata, Quodlibet, 2000. Non ci addentriamo oltre. In effetti, è lecito sospettare che la controversa interpretazione di Benjamin come marcionita moderno tradisca uno spirito poco interessato alle esigenze della ricerca storica e, in fondo, che questa lettura non sia che l’esercizio di una voce potente, di una lingua allenata a battere il tamburo che chiama alle armi veterani dalla cattiva reputazione.

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4. La filosofia come contraccolpo: Benjamin e la purezza della lingua Secondo alcune ricostruzioni del pensiero di Benjamin, si devono distinguere tre fasi successive in cui il critico passa dalle prime ricezioni del pensiero cabalistico al platonismo e infine giunge al marxismo, con il quale il confronto viene interrotto dalla morte prematura26: non solo l’insieme dei testi che legge, critica ed interpreta, ma la forma stessa del suo percorso intellettuale devono venire presi in considerazione per collocare anche imperfettamente la sua produzione speculativa secondo le categorie tradizionali. La provvisorietà di questa collocazione (critico, saggista, mistico, filologo e filosofo) sarebbe inoltre la marca evidente dell’atteggiamento antisistematico di Benjamin che in particolare la critica italiana ha recepito nel senso di una radicale opposizione al cosiddetto pensiero metafisico o al logocentrismo: la frammentarietà dell’opera sarebbe essa stessa un filosofare. In questa chiave, l’avvicinamento alle speculazioni del secondo Heidegger e alle tematiche ermeneutiche che ne contraddistinguono la posizione più tarda è filosoficamente un esito quasi inevitabile. Qui non è opportuno affrontare tanto la questione se il rapporto tra Benjamin e Heidegger o il cosiddetto “postmoderno” abbia attendibilità teoretica, ma si tratta piuttosto di rintracciare nel criterio interpretativo della filosofia italiana27 un’indicazione importante per determinare più avanti in che modo Benjamin abbia fatto ricorso ai motivi mistici della teoria cabalistica del linguaggio – ovvero, con quale profondità abbia rivendicato sempre una dimensione linguistica per così dire eminentemente “cristallina”. Non è assolutamente un fatto occasionale che la ricezione essenzialmente filosofica non solo del pensiero, ma anche dell’orientamento intellettuale fondamentale di

26

Cfr. F. Restaino, W. Benjamin tra ebraismo e marxismo, in Aa. Vv., Storia della filosofia, Torino, Utet, 1994, vol. IV, tomo, pp. 20-34. 27 Cfr. l’esposizione piuttosto polemica della ricezione italiana di Benjamin e della sua sottomissione alle categorie heideggeriane contenuta in D. De Michele, Tiri mancini. W. Benjamin e la critica italiana, Milano, Mimesis, 2000. Cfr. Appendice di C. Cases in W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it., Torino, Einaudi, 1969 (dove si sostiene una particolare vicinanza del critico tedesco all’avanguardia) e R. Calasso, La storia al guinzaglio, in «L’Espresso», 4 Luglio 1971 (che propone una lettura precoce del legame tra Benjamin e il misticismo ebraico).

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Benjamin abbia condotto all’Auseinandersetzung con la speculazione di Heidegger, ovvero a un confronto non privo di una certa ritrosia e rivalità: il compagno di questa disputa sarebbe del resto anch’egli il propugnatore di una teoria della lingua ricca di ascendenze “criptogiudaiche”, filosofiche, ermetiche e tardoromantiche28. Il problematico orizzonte di una filosofia del linguaggio che s’oppone risolutamente ad ogni disciplina moderna della lingua, alla filosofia e ai principi storico-critici offrirebbe così asilo a due filosofi, pur tanto diversi per formulazione, che si oppongono entrambi alla tradizione occidentale. L’analisi delle opere giovanili di Benjamin sul linguaggio e sulla storia del dramma barocco tedesco conferisce non poca attendibilità a questa impostazione filosofica, che tuttavia non riteniamo decisiva per sviluppare compiutamente un confronto tra la linguistica moderna e l’esoterica visione della Qabbalah. Quando Benjamin parla per la prima volta della lingua e la definisce un argine che si solleva dal mondo animato dalla violenza, ovvero «una sfera a tal punto non violenta di intesa umana da essere affatto inaccessibile alla violenza»29, immagina già teologicamente l’essenza del discorso: la sorprendente affermazione di una neutralità assoluta del linguaggio rispetto alla brama di potere, alla predicazione fanatica e all’esaltazione demagogica non è una sciocca ingenuità solo appunto se viene compresa ex parte Dei come l’apertura trascendentale alla redenzione. La linguistica, l’antropologia e l’etnologia riportano in questo caso un concetto di lingua spoglio e denudato, perché la sanno manchevole, impura e suscettibile di ogni abuso, ma per Benjamin la lingua è innanzitutto se stessa: «ciò che in un essere spirituale è comunicabile è ciò in cui esso si comunica; vale a dire, ogni lingua comunica se stessa»30. Ciò che in termini strettamente linguistici non sarebbe niente più di una tautologia assume in un discorso già orientato teologicamente un’ulteriore precisazione: la lingua non comunica se stessa in quanto ripetizione univoca di sé, ma parla «dell’essere spirituale delle cose» sopra cui si stende uniformemente, perché

28

Cfr. M. Zarader, Il debito impensato, cit. Cfr. anche il capitolo precedente. W. Benjamin, Per la critica della violenza, in W. Benjamin, Angelus Novus, tr. it., Torino, Einaudi, 1962, p. 18. 30 W. Benjamin, Sulla lingua, cit., p. 55. 29

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«la realtà della lingua non si estende solo a tutti i campi di espressione dell’uomo […], ma a tutto senza eccezione»31. La speculazione che annuncia che la lingua dimora in ogni comunicazione e nella realtà tutta, allora, parla come un annuncio profetico, perché questa coincidenza di pensiero, lingua e realtà non solo corre lungo la paradossia, ma si aggrappa ad un nominalismo di cui non v’è quasi più traccia: «il nome ha, nel campo della lingua, unicamente questo significato e questa funzione incomparabilmente alta: di essere l’essenza più intima della lingua stessa»32. Molto più di un marchio verbale imposto alle cose, il nome è biblicamente il possesso della cosa stessa, la de-signazione di ciò che non ci sta di fronte come un nulla, ma come un ente verso il quale ci disponiamo per volere divino: «l’essenza linguistica delle cose è la loro lingua»33. Quando la lingua è la via dell’edificazione di sé e della realtà, qualsiasi impostazione linguistica che si accontenta solo di servirsi della sua capacità comunicativa è perciò «vana inconsistenza»34 – come il “soffio” o “l’alito spirante” (hevel) che apre il testo dell’Ecclesiaste35. Misurare la vita della lingua sulla sua “terrestrità”, come segno, indice e mezzo espressivo significa per Benjamin osservarla come declino e vanità destinata a dissolversi: «la lingua deve comunicare qualcosa (fuori di se stessa). Ecco il vero peccato originale dello spirito linguistico»36. Il linguaggio separato che non conosce il senso redentivo che promana dal nome destina allo sfacelo la natura stessa che ora manca di un ambasciatore: «la natura è triste perché è muta»37. Privata del legame ontologico con la lingua santa e del perfetto linguaggio dei nomi, la natura vacilla e viene indirizzata alle cure del simbolo: «la lingua non è mai soltanto comunicazione del comunicabile, ma anche simbolo del noncomunicabile»38.

31

Ibidem, p. 53. Ibidem, p. 57. 33 Ibidem, p. 56. 34 Ibidem, p. 57. 35 Qoh I, 2. Ricordiamo qui l’ottima traduzione proposta da Piero Stefani: «un debole soffio, disse Qohelet, un debole soffio, il tutto è solo un soffio» (P. Stefani, Dies Irae. Immagini della fine, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 19-51). 36 W. Benjamin, Sulla lingua, cit, p. 66. 37 Ibidem, p. 68. 38 Ibidem, p. 69. 32

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Per queste ragioni essenziali, la traduzione non è in alcun modo la trascrizione di un messaggio attraverso diversi parlanti, ma la messa in opera della lingua: «ma la traduzione che volesse trasmettere e mediare non potrebbe mediare che la comunicazione – e cioè qualcosa di inessenziale»39. Come il targum richiama l’attenzione sulla cifra teologica dei comandamenti divini, così per Benjamin la traduzione sporge il proprio carattere non comunicativo fino alla intraducibilità, ovvero fino a ciò che agli uomini resta cifrato anche nella collaborazione tra le lingue e che allude «a un ricordo di Dio»40: la familiarità tra le lingue che si invera nella attività di traduzione infatti non raggiunge mai apertis verbis il nucleo intimo del linguaggio, ma lo designa solo negativamente, proprio perché «mentre tutti i singoli elementi di lingue diverse si escludono reciprocamente, esse si integrano nelle loro stesse intenzioni»41. Le lingue si raccolgono attorno all’intenzione comune di rivolgersi divinamente al mondo, cioè all’intendimento di ruotare attorno all’afflato mistico che ordina a petalo ogni linguaggio e il cui nucleo resta appena tracciato nella cifra di una differenza radicale tra le lingue: ad esse la traduzione suggerisce «il grande motivo dell’integrazione delle molte lingue nella sola lingua vera o la “lingua della verità”»42. Secondo Benjamin la traduzione è allora il rilancio infinito di quel nocciolo intraducibile che accomuna e distingue le lingue: «la traduzione trapianta quindi l’originale in un dominio linguistico almeno in tanto – ironicamente – più definitivo»43. Questa messa in opera della lingua secondo un orientamento potenzialmente non comunicativo, però, esige che la traduzione non sia mai letterale, perché «il senso riceve quel valore proprio dal modo in cui l’inteso è legato al modo di intendere la lingua specifica»44: la «libertà indisciplinata» di un interprete e traduttore è anzi il principio stesso di quella trasparenza ermeneutica che «lascia cadere tanto più interamente sull’originale la luce della pura lingua»45. 39

W. Benjamin, Il compito del traduttore, in W. Benjamin, Angelus Novus, cit., p. 39. 40 Ibidem, p. 40. 41 Ibidem, p. 44, c.m. 42 Ibidem, p. 47. 43 Ibidem, p. 46. 44 Ibidem, p. 48. 45 Ibidem, p. 49.

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Anche l’originale esposizione delle origini del dramma barocco tedesco che Benjamin licenzia nel 1925 è meno un trattato di critica letteraria, che il sostegno portato al mondo rotto dal linguaggio separato che nella protervia di comunicare qualcosa distingue, specifica e perciò lacera l’unità dell’essere linguistico delle cose. I motivi precedenti della lingua che si comunica nello scambio linguistico, della dottrina del nome e della perdita che Babele rappresenta ritornano nel Dramma barocco tedesco con maggior intensità e compongono una costellazione di temi di cui l’opposizione allo storicismo romantico è appena il più appariscente, ma non quello decisivo. La qualità teorica dell’opera va misurata in risposta all’urgenza redentiva di quanto si è infranto nella “lingua borghese” e l’incomprensione che questo testo subito suscitò va spiegata con la difficoltà di individuare nell’allegoria, che esprime «un singolare intreccio di natura e storia»46, una traccia del tiqqun ha-‘olam per cui non la “storia pietrificata”, di cui la pesante allegorica barocca è segno, è il motivo cruciale della ricognizione di Benjamin, ma piuttosto il tentativo naufragato di rintracciare un legame tra le parole e le cose: «nella concezione allegorica il mondo profano viene al tempo stesso innalzato di rango e svalutato. Questa dialettica religiosa sostanziale […] ha la dialettica di convenzione ed espressione. Perché l’allegoria è le due cose insieme, e queste sono per natura contraddittorie»47. Il tentativo che il grande dramma barocco compie è eminentemente linguistico: servirsi del carattere metaforico della lingua per «cogliere la non-libertà, l’incompiutezza e la fragilità della natura sensibile, del bello naturale»48. Ma l’orientamento linguistico e critico-letterario non è tuttavia definitivo per Benjamin, bensì annuncia appena i termini propri del rapporto tra storia, linguaggio e umanità: «l’allegoria […] può essere risolta criticamente solo a partire da un dominio superiore, quello appunto teologico»49. La redenzione del mondo tramite un asse tra l’uomo e Dio ora non è solo esegetica, poetica, letteraria, ma riguarda addirittura la semplice lingua ordinaria50: la linguistica (o la consa46

W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, tr. it., Torino, Einaudi, 1999, p. 142. Ibidem, p. 149. 48 Ibidem, p. 150. 49 Ibidem, p. 191. 50 «Per redimere la natura è la vita della lingua dell’uomo nella natura, e non solo, come si suppone, del poeta» (W. Benjamin, Sulla lingua, cit., p. 68). 47

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pevolezza delle proprie competenze linguistiche) non guadagna mai uno spazio di autonomia, ma si deve riconsegnare sempre alla teologia «nel senso di un’economia della salvezza già garantita»51. È utile soffermarsi su questo aspetto del rapporto tra le due discipline, per rendere evidente la difficoltà di contestare le rivendicazioni della modernità senza ricorrere a schemi gerachici senz’altro non moderni, ma più spesso antimoderni. A questo punto dell’analisi, la dottrina cabalistica del linguaggio, nella ricezione che Benjamin ne manifesta, si distanzia nuovamente dai temi linguistici moderni: quel senso di familiarità, che si potrebbe condividere con alcune delle teorie linguistiche che rimarcano l’importanza attribuita alla grammatica nell’elaborazione concettuale, sembra dissolversi o ritirarsi in secondo piano di fronte al “contraccolpo” filosofico che Benjamin vuole scagliare con il tema “teologico” del linguaggio. Si tratta di una strategia specifica, modulata sulle prime riflessioni su linguaggio e violenza, che tuttavia rivaluta e configura nuovamente per illustrare un senso storico che prende le mosse proprio dalla caducità e dalla frammentarietà, ovvero dal riconoscimento che la purezza della lingua è un “ideale” che si sottrae ad ogni manifestazione positiva e perciò che si manifesta solo per negativum, attraverso il circuito delle traduzioni e del rinvio. Nel suo enigmatico Frammento teologico-politico, Benjamin concepisce apertamente il nichilismo come un metodo che lo storico deve assumere come criterio di analisi e di indagine, ponendo davanti a sé ciò che potrebbe determinare la perdita dell’uomo: «tendere alla eterna e totale caducità, anche per quei gradi dell’uomo che sono natura, è il compito della politica mondiale, il cui metodo deve essere chiamato nichilismo»52. Il contraccolpo che viene scagliato all’Europa è il rinnovato senso marcionita di una frattura tra storia e salvezza. Si tratta di una breccia che per mezzo del pensiero messianico viene aperta nella teologia europea e offre il destro a un pensiero catastrofico che annuncia la neutralizzazione della storia, della storiografia: «solo il Messia stesso compie ogni accadere sto-

51

W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, cit., p. 191. W. Benjamin, Frammento Teologico-Politico, in W. Benjamin, Il concetto di critica nel Romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, tr. it., Torino, Einaudi, 1982, p. 172.

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rico e precisamente nel senso che egli soltanto “redime”, “compie” e “produce” la relazione fra questo e il messianico stesso. Per questo nulla di storico può volersi da se stesso riferire al messianico»53. Attraverso quest’interruzione della compagine storica, l’uomo trova la sua felicità. Il nichilismo come metodo storico deve dirci come pensare la sospensione della storia senza che l’uomo la possa percepire luttuosamente come una perdita o una sottrazione, bensì come la riattivazione di un’autentica trascendenza che questa volta si stende davvero sopra questo mondo di iniquità e sofferenza. In questa fedeltà alla terra, da cui traluce una paradossale fiducia nella forza trascendente del divino, muta anche la scena della conoscenza, della cultura e della lingua: prima che si raccolga in un sapere consolidato, che si faccia potere e violenza, la conoscenza detronizzata dal nichilismo quale senso storico mostra la vacuità di ogni epistemologia appesa al cielo con il filo sottile dell’esegesi e dell’ermeneutica. Per la conoscenza, occorre svago, leggerezza, dispersione: «l’ordine del profano dev’essere orientato sull’idea di felicità. La relazione di quest’ordine col messianismo è uno dei punti dottrinali essenziali della filosofia della storia. E precisamente esso condiziona una concezione mistica della storia»54. Un pensiero messianico autenticamente consapevole di sé, sembra sostenere Benjamin, riconosce che l’evanescenza è il vero ritmo della felicità, proprio perché l’ordine storico è divergente rispetto all’ordine messianico. La salvezza non è quel “destino” o quella “provvidenza” che ricorrono persino nelle sue più audaci espressioni mistiche: infatti, la teologia delle accademie e delle scuole religiose tende a contabilizzare la salvezza, a presentare un rendiconto delle opere umane

53

Ibidem, p. 171. A causa di questi riferimenti al messia e del richiamo allo Spirito dell’utopia di Ernst Bloch, è stata proposta una datazione piuttosto alta del Frammento la cui elaborazione potrebbe cadere all’inizio degli anni Venti, come sostiene del resto lo stesso Scholem (cfr. G. Scholem, Walter Benjamin. Storia di un’amicizia, tr. it., Milano, Adelphi, 1992, p. 117). Anche l’ultima produzione di Derrida, che si appella alla categoria di “messianico senza messianismo” opposta alla visione lineare e progressiva di ogni storicismo, si muove nella medesima prospettiva di Benjamin e ne rappresenta anzi lo sviluppo più originale ed avanzato: cfr. in particolare J. Derrida, Spettri di Marx, tr. it., Milano, Cortina, 1994. 54 W. Benjamin, Frammento Teologico-Politico, cit., p. 172.

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o addirittura della stessa grazia divina e, senza paradosso, si può giungere persino ad inquadrare nel “destino” l’intera profezia biblica del rivolgimento di tutte le cose55. Al contrario, scoperchiata dall’azione del nichilismo, la salvezza non appare più agli occhi di Benjamin come il prodotto del lavoro della storia, bensì un resto, un’eccedenza rispetto all’ordine storico, che contempla persino il piacere rivoluzionario della sua scomparsa. In questa dissimulazione della cornice storica, il nichilismo è quasi un’arte scenica, un coup de théâtre che rinuncia alla scena storica della mediazione e porta alla ribalta il solo meccanismo della redenzione: il nichilismo è il metodo che permette di pensare la sospensione delle leggi della natura e della storia, stabilendo uno stato d’emergenza attraverso cui l’uomo può riconciliarsi con la natura alienata, liberandola dal passato, dalla conoscenza e dalla pesantezza dell’episteme. Sullo sfondo di questa diagnosi resta viva la speranza che la lingua riesca a riprendersi, a sfuggire alla violenza e, al pari della Parola divina, che possa tornare a cadere lieve come rugiada.

55

Questa è la visione offerta, ad esempio, da Yosef Giqatilla, amico e collega di Moshe De Leon, autore dello Zohar. Secondo Giqatilla, la profezia di Mosè attiva le Sephirot inferiori (Hod, Yesod e Netzach) in relazione con Keter o Corona, posta alla sommità dell’albero dell’emanazione e identificabile, in questa fase del pensiero qabbalistico, con lo ’En Sof o Infinito: questa triade viene chiamata mazal (“destino”) e svolge la funzione di intermediario nella trasmissione delle preghiere degli uomini dal mondo di sotto all’apice del mondo di sopra (cfr. Yosef ben Abraham Giqatilla, Sha‘are Tzedeq, Ms. Roma, Biblioteca Vaticana, Barberini Or. 110, fol. 53r). In questi termini, il “destino” (mazal) indica ex parte Dei la “regolarità” della forza redentiva divina nei confronti del cosmo: il tiqqun ha-‘olam, la restitutio mundi, è un atto divino che non squaderna il cosmo, bensì lo riafferma, lo conferma nella sua antica condizione e lo ripristina secondo la stabile regolarità dell’ordine primordiale.

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