La lingua batte dove il dente duole
 9788858118108

Table of contents :
Indice......Page 67
Frontespizio......Page 2
1. L’albero è la lingua, i dialetti sono la linfa......Page 4
2. Eravamo italiani senza saperlo......Page 18
3. Un italiano in cui non si dice mai «dare»......Page 27
4. Ci sono tanti modi di leggere......Page 33
5. Scrivila come l’hai raccontata a me......Page 40
6. Ad alta voce......Page 46
7. Contro il cattivo uso delle parole......Page 56
8. Epilogo......Page 64

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eBook Laterza

Andrea Camilleri- Tullio De Mauro

La lingua batte dove il dente duole

© 2014, Gius. Laterza & Figli

Edizione digitale: ottobre 2014 www.laterza.it Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza & Figli Spa, Roma-Bari Realizzato da Graphiservice s.r.l. - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 9788858118108 È vietata la riproduzione, anche parziale, con qualsiasi mezzo effettuata

1. L’albero è la lingua, i dialetti sono la linfa Un populu / mittitulu a catina / spugghiatulu / attuppatici a vucca / è ancora libiru. Livatici u travagghiu / u passaportu / a tavola unni mancia / u lettu unni dormi / è ancora riccu. Un populu diventa poviru e servu / quannu ci arrubbanu a lingua / addutata di patri: / è persu pi sempri. Ignazio Buttitta

De Mauro Comincerei con lui, con Luigi Meneghello. Ti ricordi quel passo bellissimo in Libera nos a Malo? «Nell’epidermide di un uomo si possono trovare, sopra, le ferite superficiali, vergate in italiano, in francese, in latino; sotto ci sono le ferite più antiche, quelle delle parole del dialetto, che rimarginandosi hanno fatto delle croste. Queste ferite, se toccate, provocano una reazione a catena, difficile da spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nocciolo indistruttibile di materia, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, percepita prima che imparassimo a ragionare, e immodificabile, anche se in seguito ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua». Camilleri Il dialetto è sempre la lingua degli affetti, un fatto confidenziale, intimo, familiare. Come diceva Pirandello, la parola del dialetto è la cosa stessa, perché il dialetto di una cosa esprime il sentimento, mentre la lingua di quella stessa cosa esprime il concetto. A casa mia si parlava un misto di dialetto e italiano. Un giorno analizzai una frase che mia madre mi aveva detto quando avevo diciassette anni: mi aveva dato le chiavi di casa e io tornavo tardi la notte. Mi disse: «Figliu mè, vidi ca si tu nun torni presto la sira e io nun sento la porta ca si chiui, nun arrinescio a pigliari sonnu. Restu viglianti cu l’occhi aperti. E se questa storia dura ancora io ti taglio i viveri e voglio vedere cosa fai fuori fino alle due di notte!». Porca miseria, dissi, la prima parte di sto discorso è la mozione degli affetti, la seconda parte interviene il notaio, la giustizia, il commissario di

pubblica sicurezza, il legalitario. A me con il dialetto, con la lingua del cuore, che non è soltanto del cuore ma qualcosa di ancora più complesso, succede una cosa appassionante. Lo dico da persona che scrive. Mi capita di usare parole dialettali che esprimono compiutamente, rotondamente, come un sasso, quello che io volevo dire, e non trovo l’equivalente nella lingua italiana. Non è solo una questione di cuore, è anche di testa. Testa e cuore. È una relazione molto articolata. Non vivo in Sicilia da sessant’anni, non c’è nessun siciliano in famiglia, mia moglie è romana ma è stata educata a Milano, le mie figlie sono nate tutte a Roma, nessuna di loro conosce il dialetto. Posso stare un anno, anche di più senza parlare in dialetto. Allora, la mia testa seleziona le parole del dialetto attraverso una formula di perdita e guadagno, tornano nella mia memoria parole che – attenzione – sono le più lontane dall’italiano, ma incise profondamente in me fin dalla nascita, mentre quelle venute dopo le dimentico. Nella mia famiglia, in Sicilia, non si parlava un dialetto molto stretto. Certo, quando parlavi con i contadini di nonno dovevi per forza parlare in siciliano. Però nella nostra famiglia, una famiglia medio-borghese, in genere usavamo, come ti dicevo, un misto di italiano e siciliano, l’italiano lo adoperavamo per sottolineare, per mettere in chiaro, per prendere le distanze, per dire «te lo dico una volta e per tutte». Il resto era in dialetto. De Mauro La mia storia linguistica personale è diversa. Mio padre era di Foggia, mia madre di Napoli e di famiglia napoletana. Si erano sposati giovani – ma già prima di sposarsi mio padre aveva studiato all’università prima a Napoli, poi a Roma – e si erano trasferiti a Roma nel 1916 (e qui mia madre si era iscritta all’università, a Scienze, studiava matematica), poi a Milano, poi erano tornati a Napoli, dove io ho vissuto da bambino. Ed erano laureati. Racconto questi fatti privati perché nell’Italia degli anni Trenta, ma ancora vent’anni dopo, il matrimonio tra persone di diversa regione e quindi dialetto, l’immigrazione in città anch’essa da altra regione e dialetto, la laurea erano appunto le tre condizioni che, in un’Italia per almeno due terzi totalmente dialettofona, spingevano ciascuna verso l’adozione dell’italiano. Nel caso della mia famiglia erano tutte e tre presenti. E furono operanti. A casa si parlava italiano o, per dir meglio, parlavano italiano i miei tre fratelli maggiori e parlavano italiano con noi o noi presenti mio padre e mia madre. Solo molto più tardi, da ragazzo, ho scoperto che tra loro i miei genitori

parlavano in dialetto napoletano. Mio padre aveva adottato il dialetto della moglie, quasi certamente perché il napoletano era, in tutto il Sud, il dialetto principe, il dialetto dell’antica capitale del Regno per antonomasia, come ancora si chiamava il regno borbonico. Parlavamo dunque italiano. Ma il dialetto ci circondava, dominava in quello che si sentiva per strada o nei negozi, e con estranei o amici si insinuava nei discorsi. Certe cose non potevano che chiamarsi e dirsi in dialetto, aveva ragione Pirandello. La scoliosi deformante, oggi non se ne ha più idea, era purtroppo assai diffusa: ma un gobbo si chiamava, era uno scartellato; uno scartellatiello se era un bambino o era piccoletto. Uno zio di mia madre, un ingegnere pensionato da anni, vecchissimo (tale mi appariva), passava il tempo a leggere seduto alla sua scrivania, sempre con un toscano in bocca, che lasciava spegnere e di continuo riaccendeva. E così un mio cuginetto lo aveva battezzato Appicc’e stuta, e il nomignolo circolava in tutto il vasto parentado, anche tra gli italofoni. Non parlavamo dialetto attivamente, ma era impossibile non impararne il necessario per riferirci ad alcune cose e per capire il prossimo. E questo avveniva da un capo all’altro dell’Italia. Camilleri Io avevo una nonna, Elvira, che mi leggeva non solo Alice nel paese delle meraviglie ma mi recitava anche a memoria, io ero appena un bambino, le poesie di Giovanni Meli, l’abate Meli. E ricordo che mi piaceva molto sentire il suono del dialetto, stavo per ore ad ascoltarla. Da piccolo passavo gran parte dell’anno in campagna, che poi era a due chilometri dal paese. E lì c’era un mezzadro, Minicu, che ascoltavo per giornate intere. Minicu mi raccontava le storie dei contadini e io lo pagavo con le sigarette Milit di mio padre. Mi sono rimaste così in mente che con una di quelle storie ho chiuso l’intervento che ho fatto per la laurea honoris causa dello Iulm. Era la storia dell’uomo con due teste che parlano due lingue diverse che non gli fanno capire niente trasformandolo in un mostro, ma che torna normale quando le due teste parlano la stessa lingua. Certo, dire che si parla un dialetto è generico. Prendiamo il siciliano: non dà conto dell’enorme diversità tra il dialetto che si parla, per esempio, a Catania o ad Agrigento. Pirandello scrive Liolà in dialetto girgentano, perché – dichiara – è quello che più di tutti si avvicina alla lingua italiana, ed è vero. Se senti parlare un catanese nel suo dialetto più stretto, anche se sei un siciliano, rischi di non capirlo. De Mauro Più o meno lo stesso ci è successo parecchi anni fa, nel 1992,

mentre preparavamo un vocabolario dell’italiano parlato nelle grandi città, Napoli, Roma, Firenze, Milano. Al momento della sbobinatura e della trascrizione, per il napoletano abbiamo dovuto chiedere aiuto ad altri colleghi. Di tanto in tanto incappavamo in persone che parlavano un napoletano talmente stretto da essere impenetrabile. Io, napoletano di origine, mediocre dialettofono «passivo», non capivo niente. Ma anche il team di colleghi esperti napoletani dovette arrestarsi dinanzi a certe parti di un dialogo concitato tra un infermiere e alcuni portantini in un ospedale di Napoli, talmente incomprensibili che non siamo riusciti a capire e decifrare molte parole. Specie in una grande città esistono e coesistono ancora gradazioni diverse di adesione al dialetto e, quindi, di persistenza di forme dialettali. A Napoli puoi sentire invece di piovuto e spiovuto le forme dialettali chiovuto, schiovuto participi passati regolari di chiovere e schiovere. Viceversa, è rarissimo sentire i participi «forti» chioppeto e schioppeto, che però circolano ancora. Camilleri Per dire, esiste un bellissimo dizionario siciliano dell’Ottocento, un dizionario numerico, pubblicato in Sicilia dopo l’Unità d’Italia per i primi titolari dei banchi del gioco del Lotto che, non essendo siciliani, avevano bisogno di un «traduttore» per smorfiare i sogni dei siciliani che andavano a giocare. De Mauro Ti è mai capitato di sentire le storie giudiziarie che si tramandano i bravi magistrati napoletani? Ne ricordo una in particolare. A volte ne abbiamo riso, ma poi una mia collega e amica fiorentina, Patrizia Bellucci, che ha studiato a fondo la «linguistica giudiziaria», ossia le interazioni verbali nei processi, ha spiegato in un suo bel libro le basi linguistiche e culturali che sono a monte della storiella giudiziaria. La storia riguardava un caso di stupro. La riproduco per obbligo filologico e prego lettrici e lettori che non amano l’abuso ormai corrente di male parole (per fortuna siamo in parecchi a resistere) di perdonarmi per l’occasione. Durante il processo il magistrato, per accertare i fatti, chiede alla vittima (che, come accade, è anche l’unico testimone): «Dite, Nicolino, con il qui presente Gaetano fuvvi congresso?». Nicolino lo guarda interdetto. Il magistrato, paziente, cerca di essere a modo suo più chiaro: «Nicolino, fuvvi concubito?». Nicolino continua a non capire e il magistrato si spinge al massimo della precisione consentitagli dall’eloquio giudiziario: «Nicolino, ditemi, fuvvi copula?». Nicolino lo guarda smarrito. E allora il magistrato

abbandona l’italiano giudiziario e gli dice finalmente: «Niculì, isso, Gaetano, te l’ha misse ’n culo?». E Nicolino finalmente annuisce e risponde: «Sì, sì». Camilleri Un aspetto divertente del dialetto è l’inversione di significato. Ti racconto una storia di famiglia. Nel dopoguerra, per mesi siamo rimasti senza notizie del fratello di mia madre. Era a Milano, direttore di banca, e faceva la sua vita. Poi nel ’46 tornò in Sicilia, sposato. Ci mandò un telegramma: «Arrivo con mia moglie». Tutta la famiglia, che era numerosa, si riunì nella casa di campagna per ricevere la milanese che arrivava. La ragazza – si chiamava Franca – si sedette con noi a tavola, e cominciammo a mangiare. Alla fine, come succedeva sempre, le donne si alzarono per sparecchiare. Naturalmente, anche Franca si alzò, e fu un coro di uomini: «Mòviti Franca, mòviti, mòviti», e lei si mise a correre. Mi accorsi, dopo un po’, che aveva l’occhio smarrito, e capii che si stava chiedendo in che famiglia fosse piombata. Allora le dissi: «Franca, guarda, da noi mòviti significa esattamente il contrario, significa stai ferma». Respirò di sollievo, perché lei pensava, giustamente, a «muoviti». De Mauro Succede un po’ lo stesso con un’altra parola siciliana: annacamento, annacarsi che è il movimento della culla, l’addormentarsi dolcemente, ma è anche il movimento femminile... Camilleri Sì, ma anche di un uomo che ha pose e atteggiamenti raffinati, si dice che si «annaca». C’è anche un’altra espressione: «va ad annacariti a ’o Cassaro»; il Cassaro era una piazza di Palermo dove la nobiltà faceva sfoggio di vestiti e carrozze all’ultima moda. E ha ancora un altro significato: per esempio, un elettore va a chiedere un favore al suo deputato e quello gli dice «non ti preoccupare, provvederò»; l’elettore può rispondere «mi dice sopra ’u serio o m’annaca?», che sta per «mi dice sul serio o mi culla nell’illusione?». In dialetto ci sono parole e locuzioni di cui ti scervelli a cercare l’origine, penso per esempio: chinnicchiennacchi. Significa: «ma che c’entra?», «che ci trase?». Sei mesi fa mi scrive un professore che insegna latino arcaico, e mi spiega che chinnicchiennacchi deriva paro paro dal latino arcaico, basta scrivere col k quis hic in hac («cos’è questo in questa cosa?», «che c’entra?») ed ecco svelato il mistero dell’origine di chinnicchiennacchi. Mi ricordo un giorno che andai a Licata con mio padre, ero giovane, era il primo dopoguerra. A Licata si ruppe la macchina, un meccanico ci disse che ci volevano almeno due giorni per aggiustarla. Papà si informò se c’era un mezzo per tornare ad Agrigento. Gli risposero che c’era una pintajota che in un’ora ci avrebbe portato a Girgenti (badate bene, per i veri siciliani

Agrigento resta sempre Girgenti). Mi stupii dello strano nome: pintajota. Scopro che solo a Licata chiamano così la corriera. Il problema divenne insolubile. Un giorno, parlandone con un amico fraterno, compagno di liceo, Gaspare Giudice, il biografo di Pirandello, vengo interrotto dal capofficina di mio padre, uno slavo, Kunić, che avendo sentito il mio discorso dice: «Probabilmente la prima corriera di Licata era una Lancia». «Scusa Kunić, perché?». «Perché i modelli della Lancia erano denominati da lettere greche». Aveva ragione lui. La prima corriera che arrivò a Licata era una Lancia Penta Jota, e da allora – e tuttora – a Licata tutte le corriere si chiamano pintajote. Se non era per il capofficina... De Mauro Il fatto è che il dialetto non è solo la lingua delle emozioni. L’ho capito proprio in Sicilia, da non siciliano, quando sono arrivato a Palermo, professore all’università, accolto affettuosamente dalle famiglie dei colleghi siciliani come la signora Franca lo fu nella tua. Era il 1964. Quando ci trovavamo a pranzo o cena e stavamo a tavola (erano tutti molto ospitali), si partiva con l’italiano, nel senso che tutti parlavano in italiano. Ma appena la discussione si accendeva – e quando c’era Sciascia capitava spesso – e magari si passava alla politica, improvvisamente cambiavano registro linguistico. Un po’ alla volta slittavano nel dialetto, e dell’italiano si scordavano. Gli uomini, per parlare di argomenti più impegnativi intellettualmente, usavano il dialetto (le donne no, le donne già nel 1964 tra di loro parlavano in italiano, di qualsiasi argomento, anche se conoscevano il dialetto). Perché a Venezia come a Palermo, quando il discorso si fa serio, si usa il dialetto. Ancora oggi il passaggio al dialetto di chi sa bene l’italiano, non è una scivolata. Lo slittamento verso il dialetto in quel caso non è emotivo. Camilleri Forse si deve anche a questo la lunga lotta fatta ai dialetti durante il fascismo; anzi, cominciò assai prima, sin dall’Unità d’Italia, perché, ad esempio, Le miserie ’d monsù Travet erano state scritte da Bersezio in piemontese e dovettero essere riscritte in italiano; gli dissero: no guarda, lascia perdere i dialetti perché ora che l’Italia è unita... la lingua comune, ecc. ecc. Ma il fascismo fece un’autentica guerra ai dialetti, con le solite sciocchezze che faceva il fascismo perché poi nelle circolari del MinCulPop si diceva: è proibito mettere in scena rappresentazioni in dialetto, fatta eccezione per il dialetto veneto di Goldoni, il napoletano dei fratelli De Filippo, il siciliano di Angelo Musco... e allora? Dove c’erano bravi autori

dialettali o bravi attori valeva e per gli altri, poveracci, no? Insomma un modo un po’ partigiano di considerare la cosa. De Mauro E poi, come se non bastasse, il fascismo ha riempito l’Italia di latinizzazioni inventate. Un tradimento sistematico della voce dialettale nella ufficialità, spesso senza capo né coda. Vedi il caso di Agrigento, dove è relativamente plausibile. I greci, come i fenici e i cartaginesi, stabilivano di solito le loro colonie sulle coste o su isolette costiere, come Mozia o Ischia. Quella città la costa la dominava e la chiamarono Akrágas (il genitivo era Akrágantos). Dopo le guerre puniche i conquistatori romani latinizzarono il nome e chiamarono la città Agrigentum. Nel Medioevo gli arabi dissero Karkint, che rifletteva il nome che la gente del luogo ormai usava, Girgentum nei documenti latini, Girgenti in dialetto siciliano. E così la città si è chiamata fino al fascismo, che invece impose Agrigento, una forma più vicina al latino classico, ma non al secolare nome locale dialettale. Camilleri Sì, prima era Girgenti, poi diventa Agrigento, col fascismo. De Mauro Quello dei nomi di luogo è sempre stato un problema per l’ufficialità del nostro Paese, che voleva staccarsi dalle denominazioni locali, dialettali. Lo sai che succedeva ai poveri ufficiali dell’Istituto geografico militare che negli anni Sessanta e Settanta dell’Ottocento giravano l’Italia chiedendo notizie sui nomi delle località? Per le montagne andavano domandando: «Come si chiama quella montagna?»; e la gente rispondeva: «E come deve chiamarsi? Pizzo si chiama»; oppure: «Sasso», cioè rispondevano col nome generico dialettale per «montagna». I cartografi trascrivevano e l’Italia si è riempita di monti Pizzo o Sasso. Delle volte succedevano cose ancora più complicate... C’è un paese, anzi una cittadina romagnola, con un suo vecchio nome che è uno dei tanti residui di una parola gotica, sculcs, che significava sentinella, guardia, e sopravvive anche in antico toscano e, quindi, in italiano come scolca (o, più comunemente, scolta). Localmente, la parola gotica (e longobarda) è stata modificata a seconda dei dialetti: Scurcola, Sgurgola, Scolca, ecc. In Romagna la parola fu adattata dialettalmente come Sgurgheida per chiamare così il paese nato intorno a un’antica rocca gotica o longobarda su un’altura. Con l’Unità d’Italia bisognava dare un nome in italiano. In romagnolo esiste il verbo scurghèr, sgurghèr, «scortecciare, scorticare», e così il vecchio nome dialettale, malinteso, fu italianizzato in Scorticata. Dapprima nessuno disse niente, poi col diffondersi della conoscenza dell’italiano il nome apparve sempre meno tollerabile. Negli anni

Trenta ai cittadini capitò una vera fortuna. Si dette il caso che a capo del governo ci fosse un loro conterraneo... Si rivolsero a lui, al Duce, e gli chiesero di cambiare nome. E così durante un viaggio in auto da Roma al suo paese natale, Predappio, Mussolini si fermò nella cittadina. Un mio vecchio amico romagnolo, Angelo Fabi, ha conservato un prezioso documento d’epoca, un giornaletto locale. In prima pagina c’è una grande foto con il capo del Fascio che a capo chino si guarda pensoso il basso ventre, e la didascalia dice: «Il Duce in atto di meditare il nuovo nome di Torriana». E Torriana fu il nome che la cittadina ebbe da allora, senza che mai si dimenticasse del tutto il vecchio nome dialettale. La gente, però, in generale non prendeva sul serio le carnevalate toponomastiche del fascismo. In quegli anni un grande filologo, Giorgio Pasquali, scrisse nella rivista «Lingua nostra» un pezzo polemico sostenendo che, se si fosse continuato a quel modo, la linea ferroviaria Roma-Milano avrebbe finito per chiamarsi Roma-Arrezio-Florenzia-Bononia-Mediolano. E Angelo Fabi, che ho già citato, ricordava anche una storiella d’epoca: «Camerati, in alto i cuori!!! Quest’anno abbiamo fondato Aprilia, Carbonia e Pomezia. L’anno prossimo avremo Quisquilia, Fandonia e Facezia!». Camilleri Ti racconto una storia che mi è capitata. C’era un giovanissimo allievo e aiuto di Stanislavskij, diventato poi aiuto e attore con Mejerchol’d. Dopo la rivoluzione del ’17, venne chiamato da Lunačarskij, allora commissario alla cultura, ed ebbe l’incarico di aprire a Praga una succursale del Teatro d’Arte di Mosca. Si chiamava Pëtr Šarov, e dopo essere stato direttore lì per qualche anno si trasferì prima a Düsseldorf, e poi in Italia. Qui, a metà tra gli anni Cinquanta e Sessanta ci conoscemmo e diventammo amici. Un giorno ricevette una lettera dal governo sovietico in cui gli chiedevano quando intendesse tornare in patria. Pëtr non era mai più tornato in Russia dal 1919. Nella lettera gli spiegavano, dato che era all’estero con un incarico ufficiale, che gli avrebbero riconosciuto gli anni trascorsi fuori patria come anni di servizio. Dopo qualche mese di angosciosi pensamenti, siamo negli anni Sessanta, decise di andarci per venti giorni e partì. Quando tornò, mi ricordo che la prima cosa che mi disse fu: «Che cosa terribile, non capisco più la mia lingua». De Mauro Checché ne dicesse Stalin, il russo dopo la Rivoluzione era cambiato. A questo proposito c’è un libro di una ebrea finlandese, Lia Wainstein, una donna simpatica, anticomunista feroce, coltissima, molto

intelligente, che viveva a Roma ed era sopravvissuta ai campi di concentramento. Nel libro si interrogava su che cosa avesse significato lo stalinismo per il vocabolario russo. Non si riferiva tanto all’introduzione di parole nuove, bensì a una sorta di svuotamento, uno spostamento del significato delle parole, piegato in modo inedito. Diceva: «Solo il guscio è rimasto intatto», e citava numerosi esempi. Forse, più che la pronuncia diversa, cambiata, era questo a infastidire il tuo amico. Camilleri Lui, Pëtr, che era di ottima famiglia, era disturbato dall’enorme quantità di parole che mai avrebbe adoperato e che erano ormai entrate nel vocabolario dei russi. Parole periferiche erano diventate centrali, parole operaie, parole contadine, ecc. erano state promosse linguaggio comune. Lui non le capiva, gli erano completamente estranee. De Mauro Allora, già che abbiamo tra le mani il Meneghello di Libera nos a Malo, un’altra citazione: «La lingua si muove come una corrente: normalmente il suo flusso sordo non si avverte, perché ci siamo dentro, ma quando torna qualche emigrato si può misurare la distanza dal punto dove è uscito a riva. Tornando dopo dieci anni, dopo venti anni dalle Australie, dalle Americhe: in famiglia hanno continuato a parlare lo stesso dialetto che parlavano qui con noi, che parlavano tutti; tornano e sembrano gente di un altro paese o di un’altra età. Eppure non è la loro lingua che si è alterata, è la nostra. È come se anche le parole tornassero in patria, si riconoscono con uno strano sentimento, spesso dopo un po’ di esitazione: di qualcuna perfino ci si vergogna un poco». In Italia, si tratta di un’esperienza piuttosto comune. Basta parlare con un nostro emigrato, magari con qualche professore di università, anche di seconda generazione, di origine italiana, diventato un bravo studioso negli Stati Uniti o in Australia. Se ha perduto i contatti con l’Italia si avverte nel suo modo di esprimersi una vera e propria frattura, perché parla il dialetto che si è portato via dal Paese quaranta, cinquant’anni fa. Del resto, ti ricordi in quella poesia di Pavese, una delle prime, I mari del Sud, il dialogo con un cugino emigrato per anni e poi tornato nelle Langhe? «Non parla italiano / ma adopera lento il dialetto, che, come le pietre / di questo stesso colle, è scabro tanto / che vent’anni di idiomi e di oceani diversi / non gliel’hanno scalfito». Certo, Meneghello è stato un osservatore privilegiato perché non ha mai perso i contatti con Malo e poteva osservare questo fenomeno da una cattedra di italianistica a Reading. Camilleri A me questo fenomeno continua a sorprendere. Sono sempre

stato convinto, sbagliando, che il dialetto era destinato ad una condizione di immutabilità mentre era solo la lingua che mutava e si rinnovava. Anche se, per la verità, venivo smentito quando andavo a leggere Giovanni Meli, e mi trovavo di fronte a parole dialettali ormai desuete o, peggio ancora, quando leggevo Micio Tempio dove il linguaggio era ancora più popolare, e perfino con il vicinissimo Nino Martoglio. Attribuivo tutto questo più alle differenze tra il dialetto catanese e quello girgentano. In realtà dovevo capirlo molto prima, quando arrivarono in Sicilia le truppe da sbarco americane, quelle vere, quelle che avevano le bombe a mano a grappoli intorno al collo, come i festoni hawaiani. Erano tutti di origine siciliana. Il primo che mi parlò, disse: «Bacio le mani, paisà». Era un soldato che si era staccato da un plotone di dodici siculo-americani che avanzavano dietro un carro armato gigantesco, poi aggiunse: «Avistivu tanticchia d’oglio? Picchì aiu cugliutu la virdura e voglio fare ’na ’nsalatteddra al mè tenenti che non è siciliano. Tra dù ure turnamo». Infatti tornarono, io gli feci trovare l’olio e cominciammo a parlare. E ricordo una gran difficoltà nel capire le sue parole. Il suo era un dialetto arcaico, eppure nella mia testardaggine l’attribuii, ancora una volta, alla pronuncia americana. Ma te ne voglio raccontare un’altra. Al Festival del Noir di Courmayeur avevano invitato me e un francese alla lettura di un racconto breve inedito scritto per l’occasione. Il mio fu il primo a essere letto e tradotto, e via via che si procedeva nella lettura il francese aveva un’aria sempre più meravigliata, e io mi chiedevo: «Ma che cos’ha questo qui, che mi guarda in questo modo?». La cosa bella, però, fu che quando cominciarono a leggere il suo racconto, fui io che non potevo credere alle mie orecchie. E lo sai perché? Tutti e due avevamo pensato alla stessa situazione, e cioè che i nostri rispettivi commissari si trovassero con un assassino in un vagone letto. La gente non ci credeva che non ci eravamo messi d’accordo. A quel punto si alza un signore con la barba e comincia a parlare in inglese. «Che dice?», io non so l’inglese. «Sta dicendo che questa coincidenza era inevitabile perché gli scrittori di gialli europei basano l’intreccio sulla psicologia e non sull’azione, mentre gli scrittori americani...». Chiesi al mio vicino chi fosse questo scrittore americano. Era niente di meno che Ed McBain. Tanto di cappello. Conoscevo bene il lavoro di McBain che firmava anche romanzi non polizieschi con il nome di Evan Hunter. La sera a cena me lo trovo accanto, lui non parla italiano, io non parlo inglese. Mentre stavo mangiando, a un certo punto, si volta verso di me

e dice: «Ma tu d’unni sì?». E io: «Di Porto Empedocle, pirchì, tu d’unni sì?». «Io – dice – sugno di Cinisi, pirchì mè patre e mè matre erano di Cinisi, u mè veru nomu è Totò Lombino». E lì mi accorsi della distanza infinita tra come parlava Totò Lombino il siciliano e come lo parlavo io. Quando raccontai quello che mi era capitato ai giallisti, non ci credettero, andarono a controllare se era vero. Ed era vero, si chiamava Totò Lombino. De Mauro Purtroppo all’accademia e ai filologi importa poco dei Totò Lombino, vanno a cercare forme molto più arcaiche. Si interessano a ciò che nei dialetti viene conservato e assai poco a ciò che cambia. Invece i dialetti si trasformano, si adattano, e non si tratta solo di banale italianizzazione, di parole prese in prestito dall’italiano, anche se l’avvicinamento progressivo del dialetto alla lingua è un fenomeno per certi aspetti inevitabile. Il fatto interessante è che quelli che parlano prevalentemente il dialetto se ne vanno anche per strade loro, continuano a inventare parole nuove e a riadattare quelle vecchie. Le classi colte di città, di Roma, di Milano, pensano che i dialetti siano cosa morta, che non si parlino più. Ma è una palese sciocchezza. Usiamo ancora i dialetti e li parliamo con forme ancora molto autonome rispetto all’italiano. Probabilmente gli intellettuali subiscono ancora l’influenza di Pasolini, che nel 1964 – prendendo una bella cantonata – sosteneva che era nato l’italiano e che il dialetto stava morendo, e che avremmo parlato un italiano tecnologico. Camilleri Dal mio punto di vista la lingua è tutto. È il modo di comunicare che hanno gli appartenenti a una nazione, è il terreno comune che adoperiamo per comprendere ciò di cui stiamo parlando. In altri momenti della nostra storia, quando l’italiano come lingua ufficiale non esisteva, la comprensione tra una regione e l’altra dell’Italia non era facile né ovvia. Pensa alla spedizione di Garibaldi, a tutte quelle persone provenienti da tante regioni diverse che non si capiscono tra loro, e che in due tre giorni di navigazione diventano un esercito. È un miracolo che ancora oggi mi commuove, più della spedizione in sé. È il miracolo compiuto dal comune ideale, dal comune obiettivo, dall’intesa che c’è fra queste persone. Così vedo la lingua italiana: ciò che ci fa raggiungere degli scopi comuni. Ecco perché tengo sempre a dichiararmi uno scrittore italiano nato in Sicilia, e quando leggo scrittore siciliano mi arrabbio un poco, perché io sono uno scrittore italiano che fa uso di un dialetto che è compreso nella nazione italiana, un dialetto che ha arricchito la nostra lingua. Se l’albero è la lingua, i dialetti sono stati nel tempo la linfa di questo albero. Io ho scelto di

ingrossare questa vena del mio albero della lingua italiana col dialetto, e penso che la perdita dei dialetti sia un danno anche per l’albero. De Mauro Sono d’accordo. La cosa interessante è che interrogarsi su che cos’è una lingua significa per te restare accosto al che cosa è la lingua italiana, al che cosa sono i dialetti e qual è il loro rapporto e apporto all’italiano. La frequentazione meno intensa dei linguisti ti permette di dire una profonda, giusta verità: in Italia abbiamo tante lingue. Ma parecchi linguisti, soprattutto i colleghi storici della lingua italiana, non accettano questa affermazione. Non accettano nemmeno la formulazione fredda, corretta, dei linguisti teorici che dicono: tutti gli idiomi sono potenzialmente eguali, alcuni vengono chiamati lingue per ragioni storiche, sociali, per la comunicazione a largo raggio che consentono, mentre altri restano idiomi locali, socialmente subordinati alla lingua. Li chiamiamo dialetti, ma in linea di principio non c’è alcuna differenza dal punto di vista dell’organizzazione grammaticale: c’è una grammatica dei dialetti, di ciascun dialetto, quanto mai rigorosa. Non sono modi sbagliati di parlare l’italiano, come nella tradizione scolastica qualche volta si è pensato e insegnato, sono altri modi di parlare continuando l’antico latino, con le loro regole, il loro vocabolario, la loro sintassi, con degli obblighi e delle libertà che l’italiano ignora. Tutta una parte della linguistica teorica – si possono ricordare i nomi di Humboldt o Saussure – è d’accordo su questa indistinguibilità di principio, che ha un riscontro nella storia di lungo periodo: non c’è dialetto, non c’è idioma subalterno che col tempo non possa diventare una lingua nel senso stretto di lingua letteraria, lingua nazionale, lingua di larga intesa tra popolazioni di dialetto diverso. La storia europea ce ne dà ampia testimonianza: il dialetto di una città come Firenze – non la più importante tra le città italiane – è la matrice di quello che nel Cinquecento diventa – e comincia a essere chiamato – l’italiano. Accade lo stesso in Francia: non una, ma più volte, la parlata popolare parigina sale di livello e diventa la lingua della nazione francese. E così il tedesco, che nacque come un miscuglio di dialetti della Germania centromeridionale, la Germania di montagna: hochdeutsch (alto tedesco) voleva dire proprio questo. Era una specie di gergo burocratico interdialettale, un impasto di dialetti locali che Lutero, con un colpo di genio, prende dalle cancellerie della Sassonia e degli Stati tedeschi meridionali e usa per tradurre la Bibbia e impone a chi sapeva già leggere e a chi, per ragioni religiose nate

con la Riforma protestante, doveva imparare a leggere i testi direttamente, personalmente, senza la mediazione di preti. Un valoroso economista, però liberista fondamentalista, Milton Friedman, ha detto e ripetuto che l’istruzione pubblica obbligatoria sarebbe un’invenzione socialista, comunista. Sarà stato un grande economista, ma questa è una sciocchezza. La prima spinta all’istruzione obbligatoria per tutti è stata una spinta religiosa, venuta dalla Riforma per diffondere la lettura dei testi sacri cristiani. Quando i Padri Pellegrini arrivano sulle coste americane subito si preoccupano di istituire una scuola obbligatoria «per combattere il demonio». È una spinta che purtroppo nel Cinquecento in Italia e Spagna fu bloccata dalla Chiesa cattolica tridentina. Dirà nell’Ottocento il popolano di un sonetto di Belli: «Che ve diceva a la missione er prete? / Li libbri nun so robba da cristiano. / Fiji, pe carità, nun li leggete!». Anche quelle che noi chiamiamo lingue in senso stretto, non nascono come tali; al contrario, nascono come dialetti e spesso poveri dialetti. La storia del latino è esemplare. Roma era un paesetto, nel 390 avanti Cristo ci arrivano i Galli, una banda di ladroni che scorrazzavano per l’Italia, e la mettono a ferro e fuoco, cacciando gli abitanti. Questa, al principio, era Roma, la futura Urbe, eppure il dialetto di quel paesetto è diventato il latino. Uso diventare non casualmente. Chi di noi ritiene, per ragioni teoriche generali, che ci sia un’equivalenza potenziale di tutte le lingue, di tutti gli idiomi, deve anche accorgersi che per diventare la lingua di una vasta area e di una grande comunità (immensa nel caso del latino, grande comunque nel caso dell’Italia) questa lingua si deve trasformare, non solo nel vocabolario ma anche nella sua struttura più interna. Deve diventare uno strumento molto più duttile, molto più capace di permetterci di fare quello che con un dialetto non riusciamo a fare, ovvero trascorrere, passare dal massimo dell’informalità e della colloquialità ai livelli alti di formalità espressiva richiesti dalla scrittura. Nella vita privata, anche in conversazioni impegnative, e nella poesia, nel teatro, il dialetto può ancora bastare, ma nel mondo della cultura intellettuale più astratta il dialetto non è più sufficiente. Se devo scrivere un libro di geometria, di filosofia o di storia ho bisogno necessariamente di una lingua. Questo non contraddice affatto quanto prima dicevamo a proposito delle discussioni informali, di filosofia o di politica e così via, e cioè che a un certo punto, a dispetto del grado di astrazione richiesto, si passa al dialetto. Ma vale solo nei contesti di discussioni private di cui ho detto.

Camilleri Io ebbi una discussione con Sciascia proprio su questo. Quando gli diedi La strage dimenticata, mi disse: «Guarda che tu non puoi scrivere in questo modo». «Io so scrivere solo così», gli risposi. «Allora scrivimi così un trattato di filosofia». E così ci mettemmo a parlare dei limiti del dialetto in questo senso, e convenimmo che mentre la lingua ti dà la possibilità tanto del discorso colloquiale quotidiano quanto del discorso accademico, il dialetto no, il dialetto ha dei limiti anche di vocabolario.

2. Eravamo italiani senza saperlo Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto. Luigi Settembrini

Camilleri Mi sa che noi eravamo italiani senza saperlo, come diceva qualcuno. L’ho sempre pensato perché prima del 1861, prima dell’Unità d’Italia, la lingua italiana esisteva già, esisteva un signore che si chiamava Dante, un signore che si chiamava Petrarca e un altro che si chiamava Boccaccio. Mio bisnonno in casa aveva la prima edizione dei Promessi sposi, eppure dovevano passare ancora ventun anni per fare l’Italia... De Mauro Più di noi lo sapevano probabilmente gli altri, gli altri popoli intendo. Vedi, la parola italiano era in uso fin dal Trecento per denotare l’agglomerato di popolazioni che vivevano nel Paese che veniva chiamato Italia. Verosimilmente sono stati i francesi, i provenzali, a cominciare a parlare di italiani in questo senso. Noi non ci chiamavamo... Eh sì, eravamo «un volgo disperso che nome non ha». Nei vari dialetti non ci definivamo in modo preciso con un nome unitario. Dante ha ben chiaro che cosa sia l’Italia, ma esita a chiamare gli abitanti in modo preciso, anche se ora sappiamo che l’etnico italiano già era apparso. Le testimonianze ci dicono che lo stabilizzarsi dell’etnico è avvenuto solo dopo. E il cammino è stato ancora più lungo per trasferire l’etnico da nome degli abitanti e nativi d’Italia alla loro lingua. Sono stati i nostri scrittori. Per arrivare a chiamare italiano la lingua di Dante, di Petrarca e di Boccaccio il cammino è stato lungo. Per decidere di chiamare italiano l’italiano c’è voluta una codificazione colta, forte, quella data da Pietro Bembo nelle Prose della volgar lingua nel 1525. Solo nel Cinquecento si comincia a usare italiano riferendosi alla lingua del buon secolo, cioè del Trecento fiorentino. Ma le resistenze continuarono. Il Vocabolario degli Accademici della Crusca, che apparve a Venezia nel 1612, santificò, ratificò, consolidò il rapporto con la lingua scritta dei trecentisti. Però nelle sue migliaia di lemmi

ha franco che spiega con francese, germanico che spiega con di nazion Germana, greco che spiega con di Grecia, giudeo con di Giudea. Ha latino nel senso di nativo del Lazio e di idioma. Ma italiano non c’è né come aggettivo etnico per i nativi né come aggettivo o nome della lingua. Eppure nei sacri testi del Trecento, in una novella di Boccaccio, italiano come etnico i dotti accademici lo trovavano. Ma ne rifuggivano, e non fu una dimenticanza. Se leggiamo la bella prefazione al loro Vocabolario vediamo che si riferiscono alla lingua di cui fanno appunto il vocabolario senza mai nominarla. La chiamano la lingua nostra, il nostro idioma, oppure fanno un complicato giro di parole: l’innominato italiano viene a essere quella lingua che «vedendo noi per manifesti segnali salire ogni giorno in più stima [...], e col numero degli studiosi di quella, sì dentro che fuora d’Italia, crescere insieme la vaghezza di conoscere le sue bellezze»... Un bel giro per non dire italiano, che avrebbe rischiato di far perdere a Firenze il primato, e nemmeno – mai sia – toscano (come se pisani o senesi potessero pretendere di metterci bocca). Ma anche fiorentino (che una volta quasi gli scappa detto) non andava bene, era riduttivo: non era più la lingua d’una sola città quella lingua ormai apprezzata «sì dentro che fuora d’Italia». Dunque silenzio o perifrasi, male nazionale antico... La storia è complicata e ci sono ancora nodi da sciogliere, a mio avviso. Anzitutto il ruolo di Dante. Un ruolo grande. L’ho anche scritto, non voglio negare che il padre della lingua italiana sia Dante, ma penso che sia stato il costituirsi di una tradizione linguistica che si rifà a Dante a renderlo «padre». Sarà capitato anche a te di visitare le Little Italies in Canada e soprattutto negli Stati Uniti: beh, c’è sempre una piazza con il suo bravo droghiere che tra salami, mortadelle e l’immancabile pasta, esibisce la statua di Dante, non di altri. Perché Dante ha indubbiamente pesato molto nel farsi di una comunità italiana. Nella Commedia parla di Italia raccogliendo tutta una tradizione medievale che non ha, secondo me, interruzioni. Dico secondo me perché c’è chi sostiene che nel pieno del cuore del Medioevo non solo gli italiani non sapevano di essere tali, ma si era addirittura perduta la nozione stessa di Italia. Invece la documentazione medievale – in latino, naturalmente – è tutta un riferirsi all’Italia così come la conoscevano i latini dell’età imperiale e la conosciamo noi. Sia Dante che Petrarca ne disegnano perfettamente i confini. Però Dante usa il termine volgare e ci chiama latini. Solo un paio di volte – o poche di più – nei suoi scritti in latino adopera itali, ma – come ho detto – non ha una

parola per chiamare quelli a cui si rivolge, pur rivolgendosi chiaramente a un’unità che dovrebbe darsi una lingua comune. E questo è singolare, curioso. È una scommessa storica, che ne fa un padre. Dico scommessa perché la gente – come Dante sapeva e descrive e ben classifica nel De vulgari eloquentia – parlava dialetti profondamente diversi (e li ha continuati a parlare) e quindi affermare che i piemontesi e i siciliani dovessero arrivare a parlare la stessa lingua era una bella stravaganza davvero. Perché allora non anche i francesi, gli spagnoli e i tedeschi? Perché porre questo limite? Si tratta di una scommessa che trova poi la sua continuazione con Machiavelli. Nella coscienza delle persone colte l’esistenza dell’Italia era un fatto sicuro. In nome di quella sicurezza, nel Cinquecento decisero di darsi una lingua comune. Scelsero il fiorentino dei sommi scrittori del Trecento e con quella scelta resero Dante «padre della lingua italiana». Ma a dire le cose come stanno Dante è figlio, non padre di quella scelta. Camilleri Io credo che nonostante le differenze che tu giustamente sottolinei, un piemontese e un siciliano, pur parlando il loro dialetto, potevano entrambi leggere e comprendere I promessi sposi. Mentre questo non avviene tra due popoli come il francese e l’italiano. La radice delle parole, il senso profondo delle parole, anche quelle dialettali, è comune. A noi la lingua italiana ci veniva da dentro, quella lingua ci veniva facile capirla, accettarla, rifarla nostra. Ti faccio un esempio: i primi tempi che andavo in Toscana, nella zona di Santafiora, restavo meravigliato dai nomi propri che avevano, poi a poco a poco mi resi conto che erano nomi di uomini e donne narrati nell’Orlando furioso o in altri poemi cavallereschi. De Mauro O Diomira... Sì, è vero. Nomi assurdi, né di tradizione pagana, né di tradizione cristiana. Anzi, no, forse qualche nome pagano si trova. Anche saraceno. Purché fossero bravi guerrieri come Cloridano (diventato anche nome femminile, Cloridana) e Medoro e Medora e Clorinda, tutti nomi tuttora usati secondo il bel repertorio di Alda Rossebastiano e Elena Papa. Il fatto è che su Dante, sulla Commedia, sul petrarchismo dei raffinati, s’innesta il poema cavalleresco. Ed è un successo ancora una volta popolare, che ricostruiamo dai nomi propri, ma non solo. In Sicilia avete un nome per quelli che in romanesco e nei dialetti centrali venivano chiamati libri di pelliccia? Cioè i libri che i pastori, in particolare i pecorai, portavano nella pelliccia. Erano i poemi cavallereschi, e chi fra questi pastori sapeva leggere nelle soste li leggeva agli altri durante la transumanza. Più Tasso che Ariosto (ma il mio cuore batte per Ariosto...), e poi il Guerin Meschino. Ha avuto una

grande efficacia unificante quello che questi pastori leggevano quando si muovevano dalle pianure della Puglia alle montagne centrali, e viceversa, lungo le stesse vie dei fraticelli predicatori (un altro rivolo che, nei secoli, dall’Umbria e dalla Toscana ha portato acqua al fiume di una italianità unitaria). Una volta Bettino Craxi disse: «ignoranti come pecorai»; ma si sbagliava di grosso: quelli erano coltissimi, magari la popolazione fosse stata tutta al loro livello... Naturalmente quella lingua era un traguardo; in realtà la gente non andava a scuola, e il pecoraio leggeva – Dio solo sa come – a persone che non erano in grado di leggere in proprio, né di scrivere. Di fatto quella lingua non veniva parlata. Manzoni in primis studiava per riuscire a scrivere in italiano, come racconta egli stesso in varie occasioni. In famiglia e per strada parlava milanese, con gli estranei colti parlava il francese e lo parlava molto bene, e lo scriveva pure. Quando scriveva in francese pensava alle cose da dire, si metteva al tavolino e scriveva, correggeva solo in funzione del ragionamento e poi pubblicava e tutto andava bene. Tutt’altra cosa era scrivere in italiano, come racconta in una lettera al marchese Alfonso della Valle di Casanova: «Nel 1820, trovandomi in Parigi, avevo scritta, in risposta ad un critico cortese di una mia tragedia, una dissertazione in francese sull’unità di tempo e di luogo in quel genere di componimenti, e nel far quel lavoro, non solo non m’era accaduto di scartabellare de’ vocabolari francesi, ma neppure m’era venuto in mente che ve ne fosse, e di quello dell’Accademia francese non conoscevo nemmeno il frontespizio. Quell’opuscolo fu poi pubblicato. E non solo non ebbi a risapere che, da lettori francesi, ci siano state notate delle porcherie in fatto di lingua o di stile, ma, a voce e a stampa, mi vennero degli attestati che era stato trovato francese. Non le parrà strano che il confronto della facilità incontrata in questo caso con gli stenti durati nell’altro [il ripetuto lavoro di correzioni e aggiustamenti della lingua dei Promessi sposi] e per far male, abbia cooperato a render più vivo in me il sentimento della differenza che corre, per chi abbia a scrivere, tra l’avere e il non avere una lingua vera da adoperare». Se quella geniale di Dante fu una scommessa, la fluidità con cui sono scritti I promessi sposi appare un miracolo. Appare e non è, perché altrove Manzoni ce ne dà la formula, che era fatta di studio dei classici italiani, ma anche di consuetudine con le letterature europee d’altra lingua, anzitutto – lui pensava – il francese, da cui trarre modelli e, all’occorrenza, parole. Ma non deve sorprenderci, perché un italiano scritto scorrevole non poteva che essere

frutto di studio, non era la lingua che tu senti, quella che rimbalza da te a un’altra persona – come poi è diventata. Camilleri Sotto la mia casa di una volta – sto parlando di quando potevo avere sei anni – c’era una sorta di magazzino. Ora c’è un negozio di tessuti. Là dentro facevano l’opera dei pupi con tanto di cartellone con le scene. Era un teatrino vero e proprio, con le panche e tutto quanto. Mi piaceva molto la storpiatura che facevano dell’italiano, cioè il tentativo che facevano di parlare in italiano. Due paladini cercano un terzo e uno dice: «Andiamo a lo castello così lo potiamo trovare». Non era una presa in giro di quei poveracci che si sforzavano di trovare la parola italiana, ma mi divertiva quello che veniva fuori da quei tentativi. Un giorno, diventato più grandicello, mi capitò tra le mani un libro straordinario di poesie. Non so dove è andato a finire. Era un libro stampato a New York negli anni Trenta e conteneva poesie d’amore scritte in quella lingua strepitosa che era l’italo-siculo-americano. Versi come «Tengo uno storo abascio città» mi rivelavano una lingua stupenda. De Mauro Il fatto è che l’italiano non è stato creato – non si poteva creare – certamente con un’operazione artificiosa, individuale. È necessaria una coralità di generazioni che convergano verso di esso. Per chi ama la bibliografia up-to-date ricordo che nel suo libro Inventing Human Rights, tradotto in italiano col titolo La forza dell’empatia, la storica Lynn Hunt sostiene che affinché le leggi, le regole, risultino effettivamente operanti non basta imporle e prevedere sanzioni per chi non le rispetta. Questo, naturalmente, è importante, ma ciò che è decisivo è che gli individui, la comunità, respirino quelle regole, che esse pervadano nei modi più diversi, magari apparentemente marginali, il nostro modo di vivere. E questo, come insegnavano Giambattista Vico e Vincenzo Cuoco, nella ordinaria comunione dei fatti della vita. Tutto ciò non vale solo per la lingua. Arrischio un esempio un po’ spinoso. Negli anni Sessanta, per insegnare all’università ho cominciato ad andare spesso in Sicilia, a Palermo, dove mio fratello si era trasferito da vent’anni. Negli stessi anni aveva cominciato a «pendolare» con l’università di Palermo anche quello che – cronologicamente, senza dubbio – è stato lo primo dei miei amici più cari, Luigi Spaventa. Su tutti e due mio fratello aveva steso la sua ala protettrice e (lui si occupava a fondo di mafia) informatrice. A Roma condividevamo il privilegio di conoscere e avere come amici carissimi persone colte, brave, politicamente sensibili, che però erano

convinte che la mafia fosse un’invenzione di qualche film o dei primi romanzi di Sciascia. Far West all’italiana, pura fantasia, insomma. Quando rientravamo a Roma cercavamo di spiegare che in Sicilia c’è la mafia. Non dico che ci ridessero apertamente in faccia, ma quasi. Sto parlando di persone largamente accreditate della cultura italiana, la migliore cultura italiana. Perché ricordo questo? Perché quel po’ di legislazione antimafia che abbiamo oggi, negli anni Sessanta sarebbe stata e fu impossibile, tanto l’idea che la mafia esistesse realmente era lontana dal comune sentire. Sono stati necessari gli anni Settanta per cominciare a digerire da parte del Paese che in Sicilia c’era un fenomeno che rischiava di espandersi in tutta l’Italia, come Leonardo Sciascia previde e come di fatto è successo. Il resto della storia è noto. Si è creata finalmente una Commissione Antimafia che prima ha fatto ridere, poi ha fatto piangere, e che ha fatto presa, specie dopo l’assassinio di Dalla Chiesa e il maxiprocesso a Cosa Nostra. Uno o forse meglio due anni dopo l’assassinio è cominciata a Palermo una reazione, una storia nuova, e anche nel resto d’Italia è nato un sentimento di empatia, sempre più robusto, che ha reso forte, concreta e capillare l’attuazione delle leggi antimafia. Camilleri In proposito: io ero curioso di sapere come Falcone interrogava i mafiosi e ne parlai con il giudice Di Lello, che fu il primo a fiancheggiare Falcone, e Di Lello mi disse: «Sai, Andrea, lui aveva questa cosa che anzitutto parlava in siciliano, cioè se fino a un minuto prima parlava in italiano, nel momento che si rivolgeva a questi qua cominciava a parlare in dialetto, in siciliano, immediatamente». Cioè a dire, aboliva l’ufficialità dell’italiano per entrare immediatamente in confidenza con loro. In questa confidenza c’era una captatio confidentiae in cui spesso e volentieri questa gente cascava. Salvo una volta che si trovò uno più furbo di lui che era Pino Piddraro. Il suo nome era Giuseppe Di Stefano, però detto Piddraro, quindi Pino Piddraro, Piddraro è conciapelli. A lui disse: «Senti, Pino Piddraro, stamattina...». «No, Signor Giudice, il mio nome è Giuseppe Di Stefano soprannominato il conciapelle e da questo momento qui si parla in italiano». De Mauro Cioè gli ha imposto le distanze. Camilleri Ha ripreso le distanze perché voleva che il rapporto tra loro due fosse ufficiale e non con quella confidenzialità che permette il dialetto. Una volta che tornai a Porto Empedocle, un vecchio contadino di mio nonno, un analfabeta completo, non so che questione aveva col prefetto di Agrigento

e mi disse: «Mi scrissiro chista dimanna per il Prifetto, vossia mi la voli taliare pi vidiri si è scrivuta bona? E voli taliare macari i documenti?». Così andai a casa mia, ero solo, i miei erano in campagna, e mi misi a leggere le carte, e siccome venne anche lui, per fargli passare il tempo mentre io leggevo gli accesi il televisore. Trasmettevano l’Enrico IV di Pirandello. Era già cominciato. Io mi lessi queste carte, lessi la domanda, la riscrissi, ci passai un’ora e mezza di travaglio. Alla fine dissi: «È tutto pronto». Spensi il televisore e gli chiesi se gli era piaciuto quello che aveva visto. E lui disse: «Ma sapi, era la storia di uno ca si fingiva pazzo. Ma pazzo non era. Pò fu obbligato a continuari a fari ’u pazzo pirchì aviva ammazzato a uno... me pare ’na storia di Pirinnello». C’aveva ’nzirtato! De Mauro È affascinante, certo non è abituale, ma questo è il potere del piccolo schermo, più che del grande. Dal grande schermo normalmente resti fuori, mentre il piccolo schermo ha la capacità di catturare, di trascinarti dentro quello che stai guardando, ha il potere di suscitare empatia, partecipazione. Indipendentemente dalla lingua verbale. Tu sarai smaliziato perché queste cose le hai fatte, ma io ancora mi lascio prendere da chi mi racconta una storia con effetti speciali, a differenza dei miei figli che non ci badano. Mi succede tuttora di tanto in tanto, vedendo qualsiasi fesseria e non l’Enrico IV, quel che succedeva agli analfabeti, ai contadini, a tutti gli italiani negli anni Cinquanta, risucchiati come in un altro pianeta e perciò attenti a capire che cosa succedeva dall’altra parte. Con Vito Laterza ne abbiamo parlato a lungo, perché era sorpreso dalla intensità con cui sottolineavo quanto la società italiana avesse imparato da questo «risucchio» rappresentato dalla tv. E non si trattava soltanto della lingua, ma anche, per esempio, che esistevano i bagni, che ci si lavava. La stanza da bagno era un oggetto sconosciuto alla maggioranza della popolazione italiana. Solo le case altoborghesi la prevedevano. Tanto che il termine bagno non indicava quello che noi intendiamo oggi, cioè appunto la stanza da bagno, aveva piuttosto a che fare col bagnarsi, con l’immergersi in acqua, coi bagni di mare. Camilleri Il bagno era la conquista di alcuni contadini al mio paese, e lo chiamavano beccàus, dall’americano back house. Mentre prima si chiamava ’u retrè, cioè a dire la ritirata. Di ritorno dall’America dal francese retrait si passò all’inglese beccàus. De Mauro Sì, il lessico della toilette è interessante. I greci dicevano

aphedrón, «sedia appartata», che i latini tradussero come secessum, che è la matrice del nostro popolare cesso. Però ci sono tanti nomi più popolari. Mi ricordo camerino o stanziolino in dialetto romanesco, che erano delle piccole gabine, donde gabinetto, attaccate fuori della casa da cui gli escrementi defluivano in vario modo, anche a terra, l’importante era che fossero fuori dalla casa. Ma ci sono stati tanti altri nomi. C’è un famoso sonetto di Belli, che è un vero condensato di linguistica teorica e che sul finale... Ma forse lo troviamo e te lo leggo, oppure vado a memoria. Sempre ho sentito a dì che li paesi hanno ognuno una lingua indifferente, che da ciuchi l’impareno a l’ammente. E la parleno poi per èsse intesi. Sta lingua che dich’io l’hanno uguarmente Turchi, Spagnoli, Moscoviti, Inglesi, Burrini, Ricciaroli, Marinesi, e Frascatani, e tutte l’antre gente. Ma nun c’è lingua come la romana pe dì una cosa co tanto divario che pare un magazzino de dogana. Per esempio noi dimo ar cacatore: commido, stanziolino, necessario, logo, cesso, ladrina e monsignore. Non si poteva esprimere meglio il rapporto che lega chi parla alla sua lingua, alle sue distinzioni e ricchezze espressive. Camilleri Còmmodo in siciliano... quando c’erano i cantari, cammarino e còmmodo. De Mauro Abbiamo dovuto faticare molto dopo l’Unità politica, e soprattutto dopo la nascita della Repubblica, negli ultimi sessant’anni, perché anche noi, più nel parlare, meno purtroppo nello scrivere (e leggere), potessimo stabilire un rapporto sicuro con l’italiano come quello che il popolano di Belli aveva col romanesco. Spero di pubblicare un giorno o l’altro un seguito di un mio vecchio libro, una Storia linguistica dell’Italia repubblicana. In questa storia hanno avuto parte molti fattori e molti attori e, dico subito, attrici – le donne, l’ho già accennato, sono state un gruppo leader nell’uso quotidiano e abituale del parlare italiano. Ma ci sono personalità di spicco che hanno avuto grande influenza. Per fare un paio di esempi, Totò e Gianni Rodari, arguti e poetici

innovatori della nostra lingua. Nel 1963, quando pubblicai da Laterza la Storia linguistica dell’Italia unita, Totò già vi campeggiava insieme a Benedetto Croce. Per milioni di persone Totò ha promosso una rivoluzione, incamminandosi e progredendo sulla strada aperta da Petrolini. Ha lottato contro l’aulicità, la tromboneria, la polverosità accademica degli usi scolastici, solenni, della nostra lingua. È merito suo se oggi nessuno (salvo per scherzo) può permettersi di dire «è d’uopo», «eziandio», «a prescindere» o «quisquilie». Quanto a Rodari, s’è felicemente servito, per parlare ai bambini, di quell’italiano spontaneo che cominciava ad emergere negli anni Cinquanta. Vi mescolava dosi imprevedibili di ironia, di gioco, di affetto sorridente... Camilleri D’altra parte, aveva ragione Ennio Flaiano quando affermava che l’italiano è una lingua parlata dai doppiatori (Don’t forget, 1967/72; postumo, 1976). De Mauro Sì certo, dai doppiatori e, bisogna aggiungere, dalla televisione tra gli anni Cinquanta e Ottanta. La televisione ha rovesciato, nel nostro Paese, l’uso dell’italiano parlato, che era di uso toscano e prerogativa esclusiva di un ceto istruito, peraltro molto esile (il 60% della popolazione non aveva la licenza elementare!). E questo italiano parlato che entrava nelle nostre città, non ancora nelle nostre case, i vecchi lo ricordano bene: si andava nei bar a vedere la televisione, nelle osterie, nei ristoranti, perché solo pochi fortunati, negli anni Cinquanta, possedevano un televisore. Molti contadini del Sud, per esempio, erano convinti che Mike Bongiorno parlasse spagnolo. Mike affascinava perché parlava in modo semplice e perché, probabilmente, anche per lui l’italiano era una lingua lontana. È grazie a Mike, ma anche ad altre trasmissioni di intrattenimento fatte con molta cura, che abbiamo imparato ad usare l’italiano parlato, che invece conoscevamo in larghissima maggioranza solo come lingua della scuola. Camilleri Di certo l’omologazione è avvenuta con la televisione, per cui oggi il dialetto quasi si perde, i ragazzi parlano un italiano ottimo, sia pure standard, però ottimo, cosa che per me era impossibile quando ero giovane perché la televisione non esisteva.

3. Un italiano in cui non si dice mai «dare» Bisognerebbe intendersi su cosa sia lingua corretta. Le lingue le creano i poveri e poi seguitano a rinnovarle all’infinito. I ricchi le cristallizzano per poter sfottere chi non parla come loro. O per bocciarlo. Don Milani

Camilleri A scuola, invece, era tutta un’altra cosa. Ho fatto le scuole, fino al terzo liceo, sotto il fascismo, e il dialetto era proibito nel modo più assoluto. Dovevi parlare l’italiano, sempre. Anche quando giocavi con i compagni, e se i bidelli – che in genere erano spie del preside e dei professori – ti sentivano parlare in siciliano ti sgridavano. I preti erano peggio, anche quando andavi alle cosididì, le cose di Dio, così erano chiamate le lezioni di catechismo preparatorie alla prima comunione e alla cresima. Dopo l’adunata fascista del sabato pomeriggio, dovevi andare in chiesa e c’erano le cosididì. Ti facevano un’ora di catechismo, e anche lì bisognava parlare in italiano, perché la Chiesa cattolica, che aveva definito Mussolini, «l’uomo della Provvidenza», finiva per farti sia lezione di catechismo che di fascismo. Sempre in italiano, naturalmente. De Mauro Tu parli di fascismo. Ma già nell’Ottocento una teoria sosteneva che bisognava strappare la «malerba» dialettale – proprio così – imponendo ai ragazzini di parlare italiano da subito, fin dal primo giorno di scuola. È la notizia più indietro nel tempo sull’imposizione violenta dell’italiano – e sottolineo «violenta» perché per buona parte dei bambini quello dell’italiano rappresentava un mondo straniero. Una vera pazzia, che abbiamo pagato a caro prezzo. Perché se molti dialetti meridionali – penso al siciliano, al napoletano – appartengono a un’area linguisticamente ancora prossima al toscano e all’italiano, quelli del Nord, quelli dei centri minori, ma anche quelli della Calabria, della Puglia e della Basilicata, ne sono lontanissimi. Quello che voglio dire è che molti dialetti italiani, del Sud come del Nord, sono distanti dal toscano o dall’italiano quanto il francese o il rumeno. E così,

i bambini della prima elementare si ritrovavano un maestro con una pessima pronuncia italiana – perché pure il maestro normalmente parlava in dialetto – che imponeva loro di scrivere il dettatino in italiano e immancabilmente, un paio di mesi dopo, pure la letterina di Natale a mamma e papà. E così è stato inevitabile che, eliminata la completa evasione dall’obbligo scolastico ai primi del Novecento, i bambini mettessero sì piede in prima elementare, ma poi venissero buttati fuori dalla scuola. In casa, avevano parlato e ancora parlavano una lingua lontana dalla lingua della scuola, ma i maestri non dovevano tenerne conto. Il dettatino e la letterina di Natale proprio non gli riuscivano, ai bambini. Frequentavano uno, massimo due, tre anni e poi venivano cacciati. A partire dal periodo giolittiano per la scuola elementare abbiamo speso tanto quanto gli altri Stati europei. Ma i risultati, per i motivi linguistici che ho detto, sono stati pessimi. A scuola sopravvivevano solo quelli capaci di arrampicarsi sull’italiano perché a casa lo parlavano, almeno un po’. Bisogna aspettare il 1955 perché nei programmi di scuola elementare si possa leggere: il maestro tollererà – attenzione, tollererà – l’eventuale uso di qualche espressione dialettale da parte degli alunni. Era l’Italia democratica che avanzava, pur lentamente; era una grande novità. Ma fino a quel momento nelle nostre scuole la guerra al dialetto era stata spietata, ignorando totalmente la realtà concreta. Fuori dalla scuola, infatti, c’era la lingua viva e vera, i dialetti appunto, che finivano col risucchiarci tutti quanti, anche chi un po’ di italiano lo sapeva e lo parlava. Non si volle capire che la lingua italiana era una lingua seconda, da insegnare come tale, a partire dalla prima, cioè dal dialetto. O, meglio, furono in pochi a capirlo e a dirlo, come Francesco De Sanctis o un grande linguista, Graziadio Isaia Ascoli, e, a inizio Novecento, Giuseppe Lombardo Radice. Purtroppo questa consapevolezza non si tradusse stabilmente in programmi che, partendo dalle realtà dialettali, portassero a impadronirsi via via dell’italiano. Dominava l’idea che questo avrebbe significato cedere ai dialetti. Ma dicevi del sabato fascista... Camilleri Ah, là non si aveva scampo. Si era costretti a parlare italiano perché gli insegnanti venivano dalla Farnesina, erano gli orrendi insegnanti di educazione fisica. Io li detestavo, al punto tale che finii per essere l’unico studente italiano rimandato a ottobre in una sola materia: educazione fisica. Vedi, non è che non mi piacesse fare sport, lo facevo volentieri. Però mi stava antipatico l’insegnante; diceva «scattare, scattare», lo diceva

continuamente. Io ero stravolto dalla fatica e quello continuava a ripetere «scattare, scattare». «Professore – gli dissi una volta – sbaglia verbo». «In che senso?». «Nel senso che deve dirmi schiattare, schiattare». E così mi rimandò a ottobre. Per un fatto linguistico. Con tutto questo gran parlare in italiano, per rivalsa si finiva che tornati a casa da scuola si parlava in dialetto, perché proprio non se ne poteva più. Perché l’italiano, come dicevano i contadini del mio paese, si imparava cù u culu, cioè a dire a forza di botte sul sedere. Era come il tedesco che cercavano di imporci a scuola (per fortuna si poteva scegliere fra il tedesco e il francese, e io scelsi il francese), l’italiano era una lingua che dovevi studiare, proprio come una lingua straniera. De Mauro Non c’è dubbio, e di fatti la scuola italiana ha avuto a lungo serie difficoltà con l’educazione linguistica. Negli anni Settanta – dunque non troppo indietro nel tempo – mettemmo molti insegnanti delle elementari di fronte a questo problema: prendemmo una lettura fatta in classe da maestri e maestre qualche giorno prima e chiedemmo ai bambini che cosa avevano capito. C’era un testo che a un certo punto diceva: «e pertanto l’ignara libellula...». Domandammo ai bambini se avessero letto e compreso questa pagina. Fu un coro di sì. «E la maestra vi ha spiegato le parole?», e fu ancora un sì. «E voi le avete detto che capivate tutto?». «Sì». «E allora che cosa vuol dire? Anzitutto che cos’è la libellula?». Vennero fuori le opinioni più stravaganti; su «ignara» invece niente, zero, nessuno sapeva cosa volesse dire. Poi fu la volta di «pertanto». Bada che si trattava di una scuola di Monte Mario, quindi di una scuola di un quartiere della Roma bene. A parte la vocina di un bambino che a un certo punto disse: «Vuole dire di conseguenza», gli altri ignoravano il significato della parola. Andai a verificare e scoprii che il bambino era figlio di un biologo e di una professoressa di lettere di liceo, l’unico che a casa evidentemente sentiva dire «pertanto». Camilleri Devo dire, però, che a me, a un certo punto, l’imposizione dell’italiano – stringi e stringi – mi giovò, perché al secondo ginnasio – pur essendo figlio unico e amatissimo dai miei genitori – ero un tale delinquente che i miei furono costretti a mettermi in collegio. Mi mandarono nell’unico che c’era ad Agrigento, un collegio di preti. Anche lì ti imponevano di parlare italiano, ma con una sottile raffinatezza sadica: l’àccipe. L’àccipe era un pezzetto di legno scolpito che dovevi passare al compagno appena lo sentivi dire una parola in dialetto. Si cominciava alla

mattina, e passava di mano in mano, chi lo riceveva doveva passarlo a qualcun altro non appena diceva una parola in dialetto. La sera, in camerata, prima di andare a letto, il prefetto domandava: «Chi ha l’àccipe?». E chi ce l’aveva doveva restare un’ora, un’ora e mezza, in piedi, mentre gli altri andavano a dormire. Allora cominciai a studiare una sottile strategia, che ricordo benissimo, ed era quella di ricevere l’àccipe alle sette di sera, quando ormai si andava a cena. Mi studiavo il dizionario italiano – ecco perché dico che mi è stato utile – e cercavo parole che potevano essere scambiate per parole dialettali. «Giara», per esempio (allora dicevo giarra, la pronunciavo con due erre invece che con una), e subito mi dicevano «piglia l’àccipe», e io lo prendevo. La sera il prefetto mi chiedeva quale parola avessi detto e io rispondevo «giara». Però, aggiungevo, guardi sul dizionario. La parola c’era, l’àccipe veniva bloccato, e io me ne andavo a dormire tranquillo a letto. Andò a finire che l’àccipe non me lo passarono più. Però lo studio di quelle parole mi giovò moltissimo. De Mauro Mi fai venire in mente un’esperienza in certo senso opposta. Quando leggevo ai miei figli le Fiabe popolari italiane, che Calvino aveva tradotto in italiano dai vari dialetti, restavo sempre colpito da come traduceva i dialetti meridionali, i miei insomma. Nel tradurre, Calvino spesso si orientava verso il massimo di distanza dall’espressione dialettale. Scriveva viso invece di faccia, di cui l’equivalente immediato figurava nel testo dialettale. E così, anche nella sua prosa di traduttore fioriscono gli egli invece di lui, essa o ella invece di lei, forme inusuali come propizio o nocque loro. Leggendo ai bambini innestavo il ritraduttore automatico e ripristinavo faccia, lui, lei, favorevole, li danneggiò... In quegli anni non avevo ancora lavorato abbastanza su questo aspetto del nostro scrivere. Il fatto è che, uscendo dalle nostre scuole, rischiamo tutti di portarci dentro tracce di italiano inamidato. Sai che cosa abbiamo trovato da un capo all’altro dell’Italia quando negli anni Settanta abbiamo cominciato a lavorare sulle correzioni dei compiti di italiano? Proprio degli standard espressivi che derivavano da regole non dichiarate ma applicate con ferrea costanza. Un bambino non poteva scrivere «gli uomini si arrabbiano» perché, annotava l’insegnante, «si arrabbiano i cani, gli uomini si indignano». Ho potuto sperimentare personalmente situazioni del genere quando ho curato un’antologia di testi dialettali per la Nuova Italia. La mia idea era

tradurre quei testi in un italiano il più aderente possibile al tessuto dialettale. Evidentemente mi riuscì, perché i correttori di bozze della casa editrice mi correggevano continuamente riportando all’italiano scolastico, faccia a viso, lui a egli. L’ossessione antidialettale della scuola si traduceva nel rifuggire da forme che avessero cittadinanza nel parlato: è una delle radici di quel che Calvino definì l’antilingua in un articolo del 1965. Calvino immagina la scena del brigadiere alle prese con un furto – stavo per dire effrazione – avvenuto in un caseggiato. I carabinieri interrogano il portiere, il quale racconta che quella mattina, scendendo le scale, ha trovato la porta rotta, e ha visto dei fiaschi a terra. Allora il carabiniere verbalizza scrivendo: «Stamane alle ore 5.47 ho disceso le scale dello stabile sito in Via... e sono giunto nel sottoscala, ecc. ecc. Ho trovato contenitori vitrei perché c’era stata un’effrazione». Tutto un vocabolario parallelo ed estraneo al povero portiere... E Calvino osservava che gli italiani quando scrivono sono portati ad adottare un modo di scrivere in cui non si parla mai direttamente, con parole precise e chiare, di cose reali. Di qui, quel terrore semantico degli intellettuali italiani, di cui parla sempre Calvino: se un’espressione corrente ha un sinonimo poco usato, ebbene è proprio questo che viene scelto. Così non scriviamo gli ha dato un bicchiere, un quaderno ma gli ha porto un bicchiere, un quaderno, non passiamo le vacanze al mare ma trascorriamo il periodo delle ferie estive recandoci al mare. Dal più al meno, siamo tutti affetti dallo stesso morbo del carabiniere dell’antilingua. Ed ecco allora l’italiano di chi deve dire «ho effettuato» invece di «ho fatto», l’italiano in cui non si deve dire mai «dare» ma «porgere», ecc. ecc. E sempre a proposito di parole che non si fanno capire – che non vogliono far capire – alcuni anni fa sulla rivista di Carlo Bernardini, «Sapere», sono stati pubblicati esempi di possibili combinazioni: a costo zero / ai fini della implementazione di / aprire un confronto / aprire un tavolo / da parte delle forze politiche e sindacali / facendo un passo indietro / in funzione di uno spazio autenticamente democratico / nelle sedi opportune / si avverte la necessità di / sviluppando concrete iniziative... Questi e altri pochi spezzoni possono combinarsi variamente e dare luogo a centinaia di frasi seriose, ma prive di senso. Camilleri Non posso non chiamare in causa don Milani... De Mauro Infatti. Quasi mezzo secolo fa gli alunni di don Lorenzo Milani nella Lettera a una professoressa disegnarono impietosamente l’immagine di «Pierino del dottore» o, meglio, il ritratto di una scuola che fa studiare Pierino, che vive in una famiglia in cui si comprano libri e si parla un

buon italiano, e non sa fare altrettanto con «Gianni», figlio di chi non appartiene al Pil, Partito italiano laureati. Di recente sono stato associato a don Milani dal professor Galli della Loggia in un’intervista al «Foglio», in cui evoca «le demenzialità di don Lorenzo Milani e le scempiaggini di De Mauro che ora però si è ravveduto». Non so quali siano i segni di «ravvedimento» che della Loggia ha colto: spero non siano molti o che addirittura si sbagli. Ma gli sono molto grato di avermi associato a don Milani. Che non era l’unico «demenziale». Altri prima e dopo lui (Croce, Gramsci, Calvino...) hanno pensato e detto che convergere o no verso una lingua è un fatto politicamente fondamentale per una comunità, per un Paese, per una nazione, perché risponde, diceva Croce nelle Tesi fondamentali di un’estetica, a «esigenze unitarie e democratiche» (ed è uno dei rarissimi casi in cui Croce adopera l’aggettivo democratico). Chi parla di «demenzialità» è male informato. Le statistiche nazionali e le indagini comparative internazionali si sono accumulate; in Italia le avviò, dopo don Lorenzo, Fiorella Kostoris, e sappiamo che dal più al meno i sistemi scolastici stentano a garantire (come fanno invece in Finlandia o Corea del Sud) equità di percorsi e risultati ad allievi che vengono da famiglie e classi sociali di diversa levatura culturale. I figli di insegnanti risultano i più avvantaggiati fino alle medie superiori.

4. Ci sono tanti modi di leggere Non leggete, come fanno i bambini, per divertirvi, o, come gli ambiziosi, per istruirvi. No, leggete per vivere. Gustave Flaubert

Camilleri Al liceo avevo un professore di italiano che si chiamava Emanuele Cassesa. Era uno scioperato, passava le notti nelle bische clandestine, ma ci spiegava Dante in un modo straordinario. Aveva la capacità di smontare il testo, riducendolo a delle concretezze, da noi facilmente afferrabili e poi ricostruirlo poeticamente trascinandoci nel turbinio di sensazioni e di idee e tornare ai livelli di Dante. L’intera classe, 27 imbecilli, semplicemente lo capiva. Ci tenne tre sole lezioni su Dante, poi disse: «Basta, le lezioni sono finite perché lo stipendio che mi passa lo Stato equivale a tre sole mie lezioni». Protestammo tutti. Allora Cassesa disse: «Va bene, se ci tenete proprio a queste lezioni, allora mi pagate voi privatamente. Non pretendo molto, un pacchetto di sigarette Macedonia a settimana». Così ci tassammo e diventammo esosi, Cassesa doveva fare lezione fino al tocco della campanella, non terminare un secondo prima, perché pagavamo e lo pretendevamo. Solo dopo capii che era un suo abilissimo modo per fregarci tutti. Non affrontò mai Manzoni perché non gli piaceva, e forse fu per questo che quando partì per la guerra e al suo posto venne un professore che spiegava solo Manzoni, ne ebbi una ripulsa. Decisi che Manzoni proprio non lo reggevo. Anni dopo la fine del liceo ritrovo a casa una copia dei Promessi sposi che inizio a leggere per curiosità. Lo lessi tutto coscienziosamente fino alla fine. Ma forse non mi ero liberato di quell’imposizione e non lo amai neppure quella volta, non vedevo dove era tutta questa importanza. Tre o quattro anni dopo mi capitò tra le mani un libretto della Bompiani, nella Collana Corona: era la Storia della colonna infame, che io non conoscevo perché nell’edizione dei Promessi sposi di casa mia non c’era. La lessi e lì ebbi la rivelazione, capii tante cose, capii che l’italiano era veramente la mia lingua proprio attraverso la scrittura e il problema che

agitava e attraverso la sua reazione a quei giudici. Sentii il suo sentire e il suo scrivere come totalmente mio, mi apparteneva e io sentivo di appartenergli. Così mi rilessi I promessi sposi, me li rilessi con gusto, dicendomi: «Peccato non averli compresi prima». La lettura della Storia della colonna infame era il condimento necessario per poter gustare I promessi sposi. Che sapore che acquistò, meraviglioso, indimenticabile! Sciascia, seppi dopo, aveva avuto lo stesso percorso di riconquista nei confronti del libro, tant’è vero che scrisse una straordinaria prefazione a una nuova edizione della Colonna infame. De Mauro Eh sì, Sciascia amava molto Manzoni e in particolare la Storia della colonna infame. Ne scrisse con parole dure e pesanti come pietre: «Il culto del Manzoni in Italia – un culto del tutto esterno e prevalentemente scolastico, con quel tanto di avversione verso i testi che la nostra scuola sa generare nell’affermarne la necessità, l’obbligo e la sacralità – non ha impedito che la Storia della colonna infame restasse tra le opere più ignorate della nostra letteratura. Definita romanzo-inchiesta da uno dei suoi critici più sagaci, moderna e attuale nella materia e nella forma, avvincente e inquietante, questa piccola grande opera è conosciuta da non più di uno su cento italiani mediamente colti e da non molti ‘intellettuali’. Per tante ragioni: e non ultima quella per cui oggi il Parlamento restaura il fermo di polizia e l’opinione dei più inclina al ritorno della pena di morte, senza dire delle leggi speciali nei riguardi del terrorismo per cui la semi-impunità ai ‘pentiti’ ripropone l’analogia che il Manzoni stabilisce tra tortura e promessa di impunità». Camilleri Il fatto è che Manzoni ha un tipo di narrazione visiva straordinaria, a leggerlo da questo punto di vista ti giuro che è cinema. È cinema perfino le cose che sembrano le più noiose: Addio monti sorgenti... è una meravigliosa e straordinaria carrellata. E che fosse visivo, te ne accorgi dalle indicazioni che dà al suo illustratore, il cui disegno non si traduce in una illustrazione, ma diventa complementare alla narrazione, importante allo stesso modo. Ti faccio un solo esempio: la casa di don Ferrante lui mica la racconta, ma la racconta tutta in una lettera all’illustratore in cui gli spiega come vuole che sia la casa di don Ferrante. E questo è cinema, questo è storyboard, e non lo poteva sapere. De Mauro E questo una lingua ti permette di farlo se la sai maneggiare. Anche in un testo breve, anche nella poesia. Prendi L’infinito di Leopardi: continui salti di punto di vista, da me che salgo, a me che seggo e guardo

questa siepe, ma poi mi dissolvo e ci sono in primo piano interminati spazi, e si torna poi alle fronde della siepe e a me che ne ascolto lo stormire e ora mi perdo nel tempo e in altre stagioni e naufrago. Guarda quante diverse messe a fuoco e dissolvenze... Camilleri Sai, appena ho cominciato a leggere e anche a capire quello che stavo leggendo, ero affascinato – oltre che dal significato, dal senso – dal suono delle parole. Ricordo che quando a scuola cominciammo a studiare il francese, mi piaceva sentire un buon francese, Le Forgeron di Victor Hugo per esempio. Solo che mi pareva avesse un effetto di ridondanza, una sorta di «ron-ron», di suono un po’ eccessivo, mentre l’italiano mi pareva fosse rispondente ai miei bisogni, mi soddisfacesse appieno. Mi piaceva. La lettura, per esempio la prima lettura vera, seria che ho fatta, è stata l’Orlando furioso, perché trovai una edizione ante Unità d’Italia, preziosissima, stampata su fogli spessi, con le incisioni di Gustavo Doré. Naturalmente a incantarmi furono prima le incisioni, ma poi cominciai a leggere. E scoprii il ritmo delle parole, mi risuonavano dentro, me le portavo a letto addormentandomi. Mi piaceva, per esempio, come Ariosto riusciva a narrare l’amore di Orlando, la sua follia. Mi incantava così tanto che restavo sveglio e mia madre si arrabbiava e mi ripeteva: «Ma come, ancora non dormi?». Il fatto è che non potevo perché non smettevo di ripetermi nella mente (ho sempre goduto di una memoria ottima) uno o due versi che m’erano rimasti impressi. Da allora sono sempre stato preso dal suono della lingua italiana. Una goduria estrema, per esempio, fu la lettura di Boccaccio. Fu una goduria il suo fluire narrativo splendido, scintillante. Con Dante, invece, mi trovai in difficoltà perché la sua lingua è più rocciosa, più difficile e piena di significati, di sotto-significati, di allusioni, di rimandi. Questo è stato il mio approccio con la lingua, una sorta di innamoramento. Mi leggevo il dizionario per scoprire le parole che somigliavano al siciliano e me lo leggevo per i fatti miei. C’erano parole di cui non capivo il significato e allora me le andavo a guardare e però succedeva che, leggendo quella parola, sotto ce n’era un’altra che non conoscevo e mi andavo a leggere pure quella. E me la ripetevo. Forse è stato questo innamoramento che mi ha impedito di scrivere in lingua italiana dall’inizio, sentivo che la mia scrittura non poteva non dico raggiungere, ma nemmeno lontanamente accostarsi alla lingua da me amata. Tanti anni dopo ho provato a mimare il linguaggio di Boccaccio in una

novella finta che ho scritto e pubblicato. Scriverla è stata una delizia, un divertimento personale, ma era mimare un linguaggio. «Dilettose donne, nel tempo che i franceschi di Cicilia furon cacciati, egli già fu in Palermo un giovane leggiadro, ricco assai e d’orrevole famiglia, il quale ebbe nome Antonello Marino...» (La novella di Antonello da Palermo, Guida Editori, 2007). Mi è piaciuto anche riscrivere l’italiano da me amato. L’ho fatto nel Colore del sole, scrivendo un finto diario autografo di Caravaggio. E siccome Caravaggio era ignorante, non possedeva la lingua, l’ho scritto in una lingua seicentesca incolta. Per riuscire a farlo, per imprimere una certa concretezza, per usare una lingua più terrestre che non fosse quella tratta da poeti o da scrittori, mi sono letto Galilei e alcuni trattati scientifici. Ecco, questo è stato il mio approccio. De Mauro I testi sono una partitura che sfrutta le risorse della lingua, che sono non sette note, ma settantasettemila: il possesso di una lingua, di sue forme, regole e significati, ci consegna la chiave per potenzialità illimitate di espressione e, se abbiamo pazienza, di comprensione. Credo che chi scrive un romanzo debba affidare alla costruzione stessa del suo testo il suggerimento della lentezza o della affannosità del ritmo. Non ha didascalie, non può dire, qui con affanno, qui allegro andante. Lo scrittore deve affidarsi al solo tessuto del testo. E questo in qualche modo si applica persino alla scrittura saggistica, fatte salve le logiche interne a una disciplina. Di certo una partitura sembra ravvisarsi nei grandi libri di storia, penso ai libri di Braudel, dove c’è tanta scrittura. Una partitura che non ha bisogno di essere suonata in prima persona, soluzione sempre più usata nella cattiva saggistica umanistica. C’è una esondazione di io, si è scordato che la fluidità, il coinvolgimento del lettore si ottiene, per gran parte, col dominio dell’argomento di cui si scrive, una volta che si è fatto proprio il tessuto delle argomentazioni e delle controargomentazioni. Camilleri D’altra parte l’abilità dello scrittore è quella di arrivare a te non solo raccontandoti il fatto, ma di farlo in modo che quel fatto abbia un effetto di risonanza dentro di te. Questo è vero anche per la scrittura saggistica. Di fronte a un romanzo tu ti disponi alla lettura in un certo modo, di fronte al saggio in un altro, cioè a dire, giri la chiavetta perché sai che quello non è un racconto, ma è un ragionamento su qualcosa, e quindi ti metti in un’altra condizione.

Con un romanzo ti puoi divertire, non ti diverti quasi mai a leggere un saggio, e tuttavia quella lettura può avere certi effetti notevolissimi. Secondo me, quello che conta è la capacità di dire le cose, che possono avere anche degli ornamenti, ma l’arco principale del discorso deve essere sempre nitido e levigato, senza punte, deve essere come un ciottolo di fiume. E allora quella diventa una massa perfettamente circoscritta, facile da agguantare all’interno di un romanzo, di un saggio, di una cosa. Sono convinto che quello sia il punto di presa più forte sul lettore. Resta in chi legge il nucleo del pensiero riassumibile in due righe. De Mauro Riguardo ai saggi, un vecchio studioso semidimenticato, molto intelligente e ironico, Carlo Antoni, diceva che nei saggi bisogna che ci sia solo un’idea – e, con un sorriso, aggiungeva: «almeno una» – e possibilmente non più d’una. Ci deve essere un nucleo riassumibile in poche righe, quello che in matematica si dice il quod erat demonstrandum. Camilleri Secondo me, leggere è in sé sempre un fatto positivo, ma non rivoluzionario. È rivoluzionaria la comparazione di te stesso rispetto a ciò che leggi. Ci sono tanti modi di leggere, ma leggere comparando se stessi con il libro che si sta leggendo è un momento fondamentale. Capita che ci sono dei libri con i quali non hai alcuna voglia di compararti e dei libri che immediatamente ti stimolano ad un rapporto di scambio con quello che stai leggendo. E questo già comincia a produrre un moto rivoluzionario dentro di te. Io sono stato cambiato in una notte. Sono convinto che in una notte masse di cellule del mio cervello si spostarono, tant’è vero che mi svegliai all’indomani con la febbre e le pustole sulla faccia. Mi capitò alla fine del 1942, leggendo La condizione umana di Malraux, in cui capii che i comunisti non mangiavano i bambini, che erano come noi e che tutto quello che mi era stato detto era fasullo, falso. Fu un libro che cambiò la mia vita e la cosa straordinaria è che cinque anni fa ho letto le stesse cose in uno scritto di Rossana Rossanda, che ha la mia età, è del mio stesso anno di nascita, e che al tempo si trovava a Trieste a mille e più chilometri di distanza. Provai un’emozione fortissima pensando a questi due ragazzi così distanti geograficamente, che davanti allo stesso libro avevano avuto la stessa reazione intimamente rivoluzionaria: «Ma allora io che cosa ho pensato fino a questo momento?». Questa fu la reazione: «Che errore, che sbaglio». Letture con questi effetti non ne ricordo altre, perché non era tanto il fatto letterario, che passava in seconda linea, era proprio la figura del protagonista,

la situazione nella quale si trovava. Non so come mai questo libro passò attraverso le maglie della censura fascista, eppure venne pubblicato nel 1941 in Italia, da Bompiani, capisci? Passavano attraverso la censura che non ne capiva la forza, passò La condizione umana, passò Conversazione in Sicilia di Vittorini, passò Paesi tuoi di Pavese, passò una quantità di roba che se tu la leggevi, ti formava veramente. De Mauro Fu lo stesso anche per Americana, l’antologia fatta da Vittorini. Camilleri Con Americana un po’ se ne accorsero. De Mauro E infatti venne ritirata. Ma altre cose no, Bompiani pubblicava tranquillamente Steinbeck e Cronin: era proprio un mondo diverso che ci pioveva addosso. Io l’ho conosciuto, li ho anche letti, ma ho impiegato più tempo, forse avevo qualche anno di meno, ma per me gli anni di svolta sono arrivati qualche anno dopo. Sfuggivano all’occhiuto fascismo tante cose, e sfuggivano – cosa che a me pare molto interessante – libri di letteratura per l’infanzia straordinari, per esempio i romanzi di Erich Kästner, Emilio e i tre gemelli, Emilio e i detectives, o La classe volante. Kästner è finito in campo di concentramento in Germania, ma le sue opere venivano tradotte e circolavano perché il censore non ne percepiva la carica forte. Un libro ancora più straordinario è Timpetill, la città senza genitori, che però non ha avuto molta fortuna. È di uno scrittore ebreo tedesco che durante gli anni della persecuzione scappò negli Stati Uniti, dove cambiò in parte nome (si firmava allora come Manfred Michael). Timpetill è stato ristampato qualche anno fa da un editore di Perugia. È il racconto di una comunità di ragazzini che per punizione, all’improvviso, da un giorno all’altro, vengono abbandonati dai genitori, che in questo modo pensano di fargli capire quanto i genitori sono indispensabili. La punizione deve durare una sola giornata. Così, all’alba del giorno stabilito, tutti i genitori lasciano la cittadina e vanno a fare una gita nei boschi. Ma nei boschi si perdono, sconfinano – la storia sembra svolgersi nella Germania orientale –, arrivano in un paese straniero, vengono tutti arrestati e tenuti in guardina prima di riuscire a spiegare che non sono contrabbandieri e che vogliono tornare a casa. La mattina seguente, al loro risveglio, i ragazzini si ritrovano completamente abbandonati da un giorno all’altro, la città è vuota, deserta. I più ribelli, la banda dei Pirati, si abbandonano a manifestazioni di giubilo e al saccheggio di negozi di dolciumi. Ma la maggior parte dei ragazzini e delle ragazzine è spaventata. Non sa cosa fare, mentre i Pirati impazzano. Passa il

primo giorno, il secondo cominciano a organizzarsi. Bisogna ridurre all’ordine i Pirati, ma soprattutto bisogna rimettere in funzione le cose, acqua, luce, tram. Si snoda così la storia della ricostruzione dal basso di questi ragazzini che si organizzano, regolano i conti con la banda dei Pirati, e rimettono in funzione l’intera cittadina. Riassunta così, la trama appare piuttosto banale, ma il libro è una vera delizia: per come è scritto e per quello che un ragazzino è indotto a trarne – che è tutto tranne la conformità ai princìpi del regime, nazista o fascista – e cioè la totale estraneità a qualsiasi forma di rassegnazione rispetto a quanto ci accade. È il corrispettivo dell’I care, «io mi impegno», che piaceva a don Milani. L’esatto opposto, come lui scrisse, del me ne frego fascista. E questo sfuggì a nazisti e fascisti e il libro venne pubblicato. Camilleri Ci fu anche uno scrittore italiano che pubblicò un romanzo che venne addirittura elogiato durante un congresso internazionale degli scrittori antifascisti. Lui era Carlo Bernari, e il libro Tre operai, un bel libro operaio in anni in cui il tema non andava minimamente toccato. Anche certi racconti di Romano Bilenchi avevano questa vena. In quegli anni, mi capitò una cosa molto strana. Per me, già dai primissimi mesi del ’43, il fascismo non esisteva più, lo dicevo pubblicamente. Facevo il terzo liceo, e venni chiamato da quella che era la «Federala» – la signora Mucci – cioè la capa delle donne fasciste della provincia, che avevo conosciuto durante una riunione. Beh, lei cominciò a parlare stranamente e poi mi diede un libro che ho tutt’ora. Questo libro si intitolava La generazione che non perdona e conteneva una serie di racconti di una persona che poi avrei conosciuto – Stefano Terra – che scriveva della Torino operaia sotto il fascismo. Ne diceva senza reticenze e senza veli, perché il libro era stato stampato in Egitto, a Il Cairo, dalle Edizioni di Giustizia e Libertà, avendo lui disertato ed essendo finito fin lì. Lo conservo gelosamente in quell’edizione che mi passò la capa delle fasciste, tanto per dire le contraddizioni dell’epoca.

5. Scrivila come l’hai raccontata a me Tutto può cambiare, ma non la lingua che ci portiamo dentro, anzi che ci contiene dentro di sé come un mondo più esclusivo e definitivo del ventre materno. Italo Calvino

Camilleri Io all’inizio scrivevo poesie. Avevo cominciato da giovane, anzi da bambino. Allora le poesie si scrivevano alla mamma, si scrivevano al duce, ai Templi di Agrigento. I modelli erano Carducci e D’Annunzio. Più D’Annunzio che Carducci: lui era, come diceva Pirandello, uno scrittore di parole, ci sguazzava dentro. Solo quando diventavi più adulto, scoprivi che esistevano altri poeti. Mi ricordo una professoressa – si chiamava Giudice –, che mi disse: «Guarda che oltre Pascoli ci sono altri poeti, ci sono per esempio i crepuscolari, Gozzano, Corazzini, se vuoi te li presto io, e ti presto anche un poeta che si chiama Montale». Quella per me fu la rivoluzione del ’48 perché, dopo di allora, il mio modo di scrivere poesie cambiò completamente. La poesia per me è come una sorta di shuttle; pigliamo per esempio un sonetto, hai a disposizione 14 versi di 11 sillabe ognuno, una miseria, perciò se non hai una propulsione ascensionale immediata, non decolli. La lettura del Canzoniere di Petrarca fu fondamentale per capire, per scoprire, la perfezione di un meccanismo metrico vero con le sue regole non ovviabili. Oggi, invece, in qualsiasi canzone senti rimare due infiniti o due sostantivi come se niente fosse. Ebbi la fortuna di avere pubblicate le mie prime poesie da gente qualificata. Ungaretti le incluse in una sua antologia, lo stesso fece Fasolo, e vinsi dei concorsi di poesia importanti. Dopo aver pubblicato poche altre poesie smisi perché dirottato sul teatro. E questo accadeva verso gli anni Cinquanta. Scrissi dei racconti e questi riuscivo a scriverli in italiano, erano elzeviri, racconti brevi, che occupavano una colonna e mezzo di giornale. Oltre non riuscivo ad andare.

Il passaggio c’è stato nel momento in cui ho deciso che mi ero stufato di raccontare in teatro storie d’altri, con parole d’altri. E per raccontare la storia mia, dovevo trovare un mio modo di scrivere. Un mio modo di scrivere che rispettasse sempre e comunque la struttura dell’italiano. De Mauro Più di altri libri oggi circolanti, i tuoi mi paiono capaci di distillare l’essenza più segreta e peculiare della lingua, le sue grandi capacità di «escursione», di passaggio da un registro all’altro perfino entro una stessa frase... Camilleri Voglio dirti perché cominciai subito a scrivere nella lingua in cui scrivo. Sentivo che il mio italiano aveva un respiro corto. Come dicevo, giovanissimo, scrivevo poesie e racconti brevi... in italiano. E andava bene anche per i racconti di terza pagina. Il problema si presentava con i racconti lunghi. Se ne interrompevo la scrittura, metti conto per andare a dormire, l’indomani mattina, quando riprendevo, avevo difficoltà a ritrovare lo stesso tono, lo stesso timbro del giorno avanti. Era come scrivere una lettera iniziandola in francese e continuandola in inglese. Allora mi sono detto: «Così non riuscirò mai a scrivere». Colsi l’ottimo pretesto e mi dedicai interamente al teatro; abilmente plagiato dal mio maestro Orazio Costa, divenni incapace di scrivere anche un solo rigo, un solo verso. Mi capitò, però, una cosa divertente con Quasimodo, che voleva pubblicare le mie poesie in un’antologia di poeti siciliani. «Maestro – gli dissi –, sono già state tutte pubblicate le poesie che per me ne valevano la pena. Di nuove non ne ho altre». Quasimodo insistette dicendomi di fare una selezione delle migliori già pubblicate. E di nuovo mi rifiutai, sentendole da me lontanissime. E allora lui mi disse che ci pensassi ancora, avrebbe aspettato l’ultimo momento prima di andare in stampa e mi avrebbe fatto telefonare da una sua collaboratrice, la poetessa Agata Italia Cecchini. Una mattina, alle otto, mi telefona un signore: «Dottor Camilleri?». «Sì, sono io». «Sono il marito di Italia». Noi da anni avevamo una cameriera che si chiamava Italia ed era zitella incallita. Caddi dalle nuvole: «Oh madonna! – dico – Perché Italia è sposata? Io la sapevo nubile». «Veramente siamo sposati da cinque anni». «Ma com’è che io non ne so niente?». E lui, piccato: «Ma scusi, lei perché lo dovrebbe sapere?». «Lo devo sapere perché la vedo ogni giorno». «Lei vede ogni giorno mia moglie?». Insomma, a farla breve, lui era il marito di Agata Italia Cecchini, la collaboratrice di Quasimodo, che aveva chiesto al marito il favore di chiamarmi per la risposta sulla pubblicazione delle mie poesie! E perciò io pensavo alla mia Italia, e lui alla

sua! De Mauro Di teatro ne hai fatto tanto... Camilleri Sì, molto. Sul palco, in radio e in televisione. Tra le tante produzioni, ho seguito passo passo tutta l’opera teatrale del Ruzzante per il terzo programma Rai, protagonista Marcello Moretti. Ruzzante mi stravolse. La vera scoperta dell’importanza del dialetto non avvenne attraverso il mio siciliano, ma con Ruzzante e Goldoni. Poi cominciai a leggere Belli e ci sprofondai letteralmente, mi si aprì un mondo. In seguito, mi sforzai molto di leggere Carlo Porta. Avevo cominciato ad esplorare qualcosa che a scuola non veniva manco nominata, e fu in qualche modo la mia rivincita sull’italiano. Scoprii un nuovo universo espressivo e mi tornò la voglia di scrivere. De Mauro E poi? Camilleri Decisivo fu mio padre. Era ricoverato al Gemelli di Roma e stava morendo. Con lui avevo avuto rapporti difficili, complessi, ma sapere che gli restava poco tempo cambiò le cose. Non lo abbandonai un momento, per un mese e mezzo abbandonai il lavoro, lasciai perdere tutto per stare con lui. Parlavamo molto. Un giorno, per distrarlo, gli dissi: «Lo sai papà, ho pensato a una storia», e gli raccontai la storia del mio primo romanzo Il corso delle cose. Era un racconto che da tempo avevo in testa ma fu lì, in quella stanza di ospedale, che prese forma concreta. E mio padre: «Perché non la scrivi?». «Eh papà, perché in italiano mi viene difficile scrivere». «E perché la devi scrivere in italiano? Scrivila come l’hai raccontata a me». Cominciai a riflettere sulle sue parole. Non ritenevo praticabile seguire la strada del dialetto totale, così come era stato con mio padre, perché io volevo farmi capire anche dagli altri. Allora cominciai ad analizzare come parlavamo noi in famiglia. E da quella prima riflessione ho fatto tantissimi tentativi per trovare l’equilibrio nel mio modo di raccontare. Equilibrio che poteva essere rotto dalla scelta delle parole in lingua, perché dovevano essere parole con la stessa valenza, la stessa massa della parola del dialetto. È stato un lungo esercizio, lo si può vedere attraverso i miei libri, è un lavoro che non si arresta mai, neanche oggi. È tanto vero che all’atto della pubblicazione di un libro che per esempio ho scritto quattro anni fa, sono obbligato a riscriverlo quasi di sana pianta, non la fabula, ma la scrittura, perché è in evoluzione continua. Io ho scritto anche dei libri in italiano, voglio dire completamente in lingua italiana. E continuo a scriverli. Mi sono guadagnato l’italiano, una

conquista tardiva ma per me importante. Del resto, anche nei romanzi scritti in vigatese parto sempre da una struttura molto solida in lingua italiana. Il lavoro dialettale è successivo, ma non si tratta di incastonare parole in dialetto all’interno di frasi strutturalmente italiane, quanto piuttosto di seguire il flusso di un suono, componendo una sorta di partitura che invece delle note adopera il suono delle parole. Per arrivare ad un impasto unico, dove non si riconosce più il lavoro strutturale che c’è dietro. Il risultato deve avere la consistenza della farina lievitata e pronta a diventare pane. È per questo che butto tutte le successive stesure del testo lasciando salva solo la definitiva. Appena il libro è edito, butto via tutto, non lascio traccia dei miei delitti. Ho una sorta di repulsione, di rigetto. Quando i traduttori, dopo tre o quattro anni dall’uscita del libro, mi chiedono che cosa ho voluto dire nella frase a pagina 128, mi viene un malessere e un nervosismo che chi mi è vicino conosce. Cerco di rimuovere qualsiasi indizio che mi ricordi il mio delitto. Non riesco a rileggermi. E se ne sono costretto, nella maggior parte dei casi, provo un’acuta insoddisfazione per come ho scritto. De Mauro Ma succede anche nella ricerca storica, scientifica. Croce diceva che non rileggeva volentieri i suoi libri vecchi, che gli parevano cadaveri. Einstein dice di più, dice che è nel momento in cui proviamo disgusto per la scienza e gli studi cui stiamo dedicando la vita – e succede –, è in quel momento che nascono le grandi svolte e le idee ed esperienze nuove. L’insoddisfazione per quello che si sta scrivendo e pensando è un sale prezioso... Camilleri Di solito, nella scrittura sono molto veloce, quando ho un tema che voglio scrivere, questo mi continua a lavorare nel cervello mentre faccio altro, mentre parlo, mentre cammino, mentre mangio. Sono come dissociato. Qualunque cosa faccia, continuo sempre a pensare a quello che voglio scrivere. Così quando mi seggo al computer, è come se lavorassi sotto dettatura. Stampo poi quello che ho scritto e lo rileggo ad alta voce, ricomponendolo magari tre o quattro volte. Con Il re di Girgenti è stato diverso. Ci sono voluti cinque anni per scriverlo (non ho mai impiegato più di un anno per un romanzo). Le difficoltà non erano solo di natura linguistica, di scrittura, perché fin dall’inizio mi ero prefisso un compito: di partire dal comico e arrivare a una sorta di tragicofavolistico, volevo vedere se avevo capacità di tenuta, se avevo la mano per fare questo passaggio. Già questo mi fece capire che avevo bisogno di più tempo. Poi c’era la questione del dialetto. Essendo ambientato nel Seicento,

per poter iniziare a scrivere, mi rifeci al siciliano di Giovanni Meli, e passai molto tempo a leggerlo fino a quando riuscii ad appropriarmi delle parole e dei suoni che mi interessavano. Sennonché questo romanzo è ambientato assai prima della nascita dell’abate Meli, e quindi divenne per me necessario reinventarmi il linguaggio arcaizzandolo. Partivo dunque da un linguaggio letterario che avrei dovuto comunque liberare, ripulire da ogni alone letterario. È questa operazione che mi ha portato via tanto tempo. Poi ci ho lavorato molto, a modo mio, senza prendere appunti – non ci riesco proprio se devo scrivere una cosa che mi piace, li prendo solo per le cose noiose. Ho impiegato tempo a cercare le parole, le cose, a intessere un gioco continuo e abbastanza evidente di richiami letterari, da Manzoni a D’Annunzio, e inoltre mi ero posto un punto di partenza e un punto d’arrivo. Partivo dal Cantico di san Juan de la Cruz, che sta nella prima parte del Re di Girgenti e che ho trasformato in un fatto erotico, e arrivavo ad una meta lontana, al som de l’escalina di Dante quando nel XXVI canto del Purgatorio fa parlare Arnaut Daniel. La scrittura è una scrittura che da contadina, terragna, passa via via a un registro che usa parole sempre più magiche, «mammalucchigne» diciamo in siciliano, fino ad arrivare a parole più leggere, favolistiche. Questo è stato l’esercizio di scrittura che ho fatto, però oggi non avrei più la forza di riprovarci. De Mauro Ricordo che Consolo polemizzava continuamente con te sui modi in cui usare il dialetto... Camilleri Io non rispondevo mai. Il suo è un dialetto da abate Meli, un dialetto molto letterario. Basta leggere Lo Spasimo di Palermo. Il mio non lo è per niente. Di questo mi accusava, di portare il dialetto a un livello estremamente basso. Mentre lui adoperava un dialetto che non usava neanche Pirandello, che si guardava bene dal dialetto letterario. Pirandello usa un dialettaccio girgentano meraviglioso. De Mauro A proposito di Pirandello, lui diceva che ci sono scrittori di parole e scrittori di cose. D’Annunzio, per esempio, per lui era uno scrittore di parole e Verga uno scrittore di cose. Camilleri Io mi ritengo uno scrittore di cose, più le parole assomigliano alle cose, più si rafforzano le cose. Una grossa scoperta è stata, per me, la traduzione siciliana del Ciclope di Euripide fatta da Pirandello. Lui fece una traduzione in dialetto siciliano per la Grande Compagnia del Mediterraneo, verso il 1920, ed è un lavoro straordinario. In questa traduzione adopera tre

diverse parlate siciliane provocando un incredibile divertimento. Il Ciclope parla come un grosso massaro, ricco proprietario di mandrie, che adopera un linguaggio contadino greve con certe parole che francamente il borghese siciliano non capisce. Per esempio la parola gramusceddru. Il gramusceddru è il vitellino appena nato, che non si regge in piedi, che barcolla, quello è il gramusceddru. E lui rivolgendosi a Ulisse dice: «Senti una cosa, gramusceddru», perché è gigantesco e davanti a lui Ulisse è un esserino neonato; c’è questo gusto proprio di una certa grevezza, pesantezza. Invece Ulisse parla proprio un siciliano che vuole avvicinarsi alla lingua italiana, ed era il linguaggio dei pupari siciliani che credevano di parlare in italiano e invece parlavano una commistione fantasiosa, per me meravigliosa. E lui, Ulisse, siccome ha fatto il militare, come Totò, a Cuneo, insomma ha conosciuto il mondo, parla questo suo «taliano» un po’ alla Catarella... Io mi sono ispirato proprio a questa traduzione per il mio Catarella. E invece il capo dei contadini, Sileno, è mafioso e quindi usa mezze parole... lascia intendere, lascia supporre: «Non lo saccio, non lo viddi, non c’ero, ero distante». Bellissimo. Allora questo divertimento ho cercato di portarlo dentro la mia scrittura. Trovo che nelle parole, nella costruzione di una frase dialettale, ci sia un ritmo interno che per me non aveva l’equivalente nell’italiano. Il mio problema era di ritrovare quindi lo stesso ritmo del dialetto nella lingua italiana. Ci sono momenti felici in cui ho il possesso totale di questo mio modo di scrivere, ma altre volte è veramente faticoso, mentalmente faticoso, perché devo stare attento, come un bravo chimico devo ricordarmi la formula e dosare opportunamente la mia lingua, e non cerco mai la composizione più facile, ma quella per me più autentica, per evitare di banalizzare tutto.

6. Ad alta voce Il lonfo non vaterca né gluisce e molto raramente barigatta, ma quando soffia il bego a bisce bisce sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta. Fosco Maraini

De Mauro Credo che non si debba mai dimenticare che anche il suono della lingua è importante. L’onda della parola si apprezza solo leggendo ad alta voce. Anche se mi è capitato di ascoltare pessime letture. Camilleri Perché una cosa è come legge il suo testo l’autore, e una cosa è come lo legge un altro, che ne è interprete. Anche quando si dice che un autore non sa leggere, se lo segui attentamente ti rendi conto che evidenzia una gran quantità di cose. Ungaretti, per esempio, ruggiva, non leggeva, non diceva, ruggiva... era straordinario. De Mauro È vero. Quando lo ascoltavi, la prima impressione era: legge male se stesso. Poi cambiavi idea. Camilleri Anche Saba. L’ho sentito leggere le poesie, le sue poesie. Io rileggo sempre quello che scrivo ad alta voce. Devo sentirlo scorrere, e appena questo fluire del racconto s’intoppa, capisco che devo riscrivere quel punto, perché lì, in quel punto preciso manca il ritmo. M’ha fatto piacere sapere, leggendo la tesi di laurea di una ragazza sulla traduzione russa della mia Concessione del telefono, che il traduttore russo, bravissimo – ha vinto il premio Gogol’ per la traduzione, ha tradotto Dante, Petrarca e Ariosto, e pure Beppe Fenoglio e Leonardo Sciascia –, anche lui dopo ogni pagina rileggeva ad alta voce la traduzione. Seguiva il mio stesso procedimento. Sembra esserci una certa necessità, almeno per i miei libri, di una lettura ad alta voce, cioè dell’oralità, del sentir leggere. Per questo è sempre interessante sentire un autore che legge le sue cose. Gli interpreti, gli attori, poi sai... Prendi la Divina Commedia, l’ha fatta Gassman, ma l’ha fatta anche Benigni. E beh, fra i due... De Mauro Benigni. Camilleri Non c’è il minimo dubbio. È come potevano dirla i contadini,

si ritrova quella radice popolare che nessuno di noi sospettava in Dante e che la scuola non ci ha fatto scoprire. De Mauro Su un vecchio numero del «Borghese», che Laura Betti ritrovò nell’Archivio Pasolini, Gianna Preda racconta una serata che rischiò di essere tempestosa. Era il 1971 o 1972. Gassman aveva avuto una buona idea. In uno scantinato di via dell’Oca aveva organizzato uno spazio in cui discutere i problemi della recitazione nel teatro italiano. Una sera ci andai anch’io. C’erano anche Pasolini e Laura Betti, e ovviamente Gianna Preda. Cercai di spiegare a Gassman che ci stavamo avvicinando al possesso collettivo dell’italiano, e che per via delle nostre varie provenienze era difficile trovare una buona recitazione. Del resto, già Gramsci lo aveva detto benissimo trent’anni prima, nelle note sull’«Avanti!», nelle recensioni sparse. La realtà del dialetto, in cui abiti e che ti abita, era ancora molto viva, mentre l’italiano era vissuto come un’imposizione, con pessimi risultati quando si trattava di palcoscenico. Gassman mi ascoltava, accettava e non accettava quello che dicevo. L’esempio più calzante che mi venne in mente – e lo feci, ma ovviamente senza fare nomi perché proprio non potevo – era il caso di attori che avevano recitato splendidamente in film comici, come lui (ma non lo dissi) nel film I soliti ignoti, ma che quando avevano a che fare con Shakespeare o Dante recitavano ai limiti dell’intollerabile, perché sentivano di dover salire di livello. Gassman mi interruppe. Capì che stavo parlando di lui e disse: «Professore, se lei continua, le rompo questa bottiglia in testa». D’altra parte, una constatazione simile ho fatto al tempo della Storia linguistica dell’Italia unita, nata da una serie di trasmissioni radiofoniche che mi erano state affidate per il centenario dell’Unità d’Italia. Nella parte finale della sesta e ultima trasmissione, dedicata al linguaggio della poesia e della letteratura allora contemporanea, sottolineavo proprio il processo che aveva attraversato la poesia, che ormai cominciava a usare le parole, il linguaggio di tutti i giorni, innalzandolo. Un processo lungo, i primi passi li fece già Leopardi, chiamando nei suoi versi la gallinella, l’artigiano, la rana rimota a la campagna, l’erbaiuolo, il fascio dell’erba e il mazzolin di rose e di viole. Ma nel Novecento il cammino della poesia che si è fatta prosa nel vocabolario e nella sintassi si è fatto assai più rapido e totale. Nel testo della mia trasmissione citavo ad esempio alcuni versi di Montale, Saba, Pavese. Il lettore della trasmissione era bravissimo. Ma arrivato alla poesia, cambiò stile e attaccò con voce cavernosa e a tratti

tremolante: «Ascoooltami, i poeeeti laureaaati si muooovon tra le piante...». Ma santo cielo, è così che si parla la lingua di tutti i giorni? Disgraziato... io sto dicendo esattamente il contrario! Lo stesso faceva Gassman: «Nel meeezzo del cammiiiiin di nosta viiita...» col vibratino. Ma come? Quello sta dicendo «nel mezzo del cammin di nostra vita...», una cosa seria insomma, e tu giù, enfatico, irreale. Il fatto è che Gassman non ci abitava in quella lingua, mentre abitava quella dei Soliti ignoti... Camilleri Gassman era stato educato in Accademia a recitare le poesie in quel modo dall’ultimo superstite, fine dicitore – credo si dicesse così – di poesie. Parlo di Mario Pelosini, che era stato compagno di D’Annunzio nell’impresa di Fiume. E Gassman era il suo allievo prediletto, ecco perché tutti questi tremolii nel dir poesia. Era una cosa che faceva impazzire l’altro – lui sì veramente grande – che sapeva recitare poesie, e cioè Orazio Costa. Lui andava al concreto, al nocciolo, alla poesia, con la parola nuda, giusta, senza aloni, senza niente attorno. Mi viene in mente che fu proprio per questo motivo che mi lasciai male con Pasolini. Quando mi diedero l’incarico di mettere in scena il suo Pilade, ci incontrammo da Laura Betti. Lui mi disse, contrariato, che come al solito avrei scelto degli attori dell’Accademia, alla Gassman. Gli risposi che gli attori dell’Accademia non erano tutti come Gassman. Lui tagliò corto e mi disse di prendere gli attori dalla strada, i primi che incontravo. «Senti – dico – questo è teatro, non è cinema, non è che gli puoi mettere un microfono sotto e poi... È teatro, se questi non danno una buona emissione di respiro, non sanno le regole elementari, la voce non arriva. Quello che tu hai scritto non arriva, quindi è come se non l’avessi scritto. Che ragionamento è, ci vogliono attori esercitati, ancor più per Pilade». «Va beh, domani parto, ne riparliamo quando ritorno». E invece l’ammazzarono, e io non me la sentii di mettere in scena Pilade visto che non avevamo risolto questo dissidio. Mi sarebbe piaciuto poterne riparlare con lui. Fargli capire che l’attore di teatro, quando è bravo, è un’altra cosa. Scusami se divago, ma voglio raccontarti un fatto che mi è capitato e che dice molto sugli attori. Quando io ero allievo dell’Accademia di Arte drammatica, il teatro dell’Ateneo funzionava che era una meraviglia, e una sera vedo che c’è Sandro Ruffini, un ottimo attore che recitava Il processo nella riduzione teatrale che a Parigi aveva fatto Jean-Louis Barrault. Avevo letto tutto Kafka, tradotto in italiano. Mi precipito in sala e... porca miseria, come mi fa capire Kafka! Grazie alla sua recitazione, mi si chiarirono tutti i

punti oscuri e venni preso da un forte entusiasmo. Superando la timidezza, alla fine dello spettacolo, andai nel suo camerino e mi presentai: «Sono un allievo regista dell’Accademia, volevo dirle, signor Ruffini, che veramente stasera la sua interpretazione mi ha svelato finalmente Kafka». Ruffini mi disse: «Stasera, che fa?». «Che faccio? Niente». «Vuole venire a cena con me?». «Volentieri, si figuri». Allora lui si rivestì, uscì, cercò un telefono, disdisse chiaramente un impegno – aveva una straordinaria fortuna con le donne – e mi portò a mangiare. Figurati, io campavo con una borsa di studio di trentamila lire, che riuscivo a farmi bastare, solo che verso la fine del mese non avevo più una lira e andavo avanti a caffellatte. Mi offrì una cena sontuosa. Alla fine, scostò la tazzina col caffè e mi chiese: «Senta un po’, mi dica che cosa ha capito, perché io di quello che dico non capisco un cazzo». Questo è l’attore... De Mauro ...che entra come un rettile inintelligente e rianima un testo, te lo fa capire, ma lui non capisce. Camilleri Gli attori sono una razza meravigliosa. Un giorno, a Milano, assistevo alle prove di una delle prime commedie di Diego Fabbri, con la regia di Giulio Pacuvio. Giulio era un regista tutto di testa e nella commedia c’era il ruolo di un vecchio prete di campagna che era interpretato da un attore all’antica, Annibale Betrone. C’era una giovane coppia in crisi che si rifugiava da questo prete e allora Giulio diceva a Betrone: «Vedi, Annibale, tu sei un prete, però non sei un prete alla Mauriac, sei un prete alla Bernanos, cerca di capire, riflettici». Quel poveraccio, che non sapeva manco chi era Mauriac e meno che mai l’altro, rientrava sul palco più confuso che persuaso e faceva male la parte. «No, senti, Annibale, ti devo interrompere. Hai presente Pascal?». E via di questo passo. A un certo punto, Renato Simoni, un grande critico che usava andare alle prove delle novità italiane, un uomo massiccio che parlava sempre in dialetto veneziano disse: «Giulio, permetti, un minuto, gli parlo io?». «Certo, maestro». Si alza, s’avvicina ad Annibale e fa: «Hai presente i cani che badano alle pecore?». «Sì». «Allora, che fanno questi cani? Abbaiano, abbaiano, abbaiano e non mordono mai. Hai capito? Tu sei un cane da pecore». «Gesù! – disse Betrone – ci voleva tanto?». Uscì, rientrò e recitò benissimo. Io ne ebbi indirettamente una lezione, da regista: mai parlare a un attore di Mauriac o di Bernanos. Parlargli piuttosto dei cani da pecore. De Mauro Te ne racconto un’altra. In un suo libretto prezioso, Dialoghi

sulla musica, Wilhelm Furtwängler – grande direttore d’orchestra, purtroppo con simpatie naziste negli anni Trenta – scrive che una sera, a cena in un ristorante, c’era un’orchestrina che alternava jazz e ballabili e suonava straordinariamente bene. A un certo punto i musicisti lo riconoscono, gli si avvicinano, gli chiedono se vuole sentire qualcosa di classico e scelgono un pezzo, mi pare, di Schumann. Cominciano a suonare e, ora, gli straordinari musicisti di prima si sentono in dovere di montare su un palco, suonano in modo solenne, enfatico. Un fallimento, legato all’idea – falsa – che un classico vada, dopo adeguato studio, suonato non con la tranquillità con cui si suona un ballabile... Camilleri Come sai ho fatto una gran quantità di regie radiofoniche, la radio a me affascinava, soprattutto un certo tipo di ricerca di radiodrammi, che andava da Sanguineti a Eco e ad altri. Allora il radiodramma tentava di suggerirti un’ambientazione, c’era il rumorista che ti faceva la porta che si chiudeva, i passi della persona che si avvicinava e così via, tentava cioè di riprodurre la realtà, dando dei suggerimenti perché tu potessi visualizzare la scena nella tua mente. Ma questo era un tipo di radiodramma che a me interessava pochissimo. A me interessava il radiodramma fatto solo di parole. Mi ricordo Protocolli di Sanguineti, un esperimento molto bello fatto di sole parole, oppure quello di Wystan Auden, L’ascesa dell’Effe 6, dove la parola ha la stessa importanza che ha la parola poetica perché diventa una parola fortissimamente evocativa di una situazione, di un ambiente. Un esercizio che a me ha giovato moltissimo. De Mauro A proposito del lavoro sulle parole e della loro sonorità, mi viene in mente una poesia di Fosco Maraini contenuta nella raccolta Gnosi delle fanfole. L’ho imparata a memoria perché una mia vecchia amica la ripete in continuazione, come fosse il rosario. Dice: «Ci son dei giorni smègi e lombidiosi / col cielo dago e un fònzero gongruto / ci son meriggi gnàlidi e budriosi / che plògidan sul mondo infragelluto, / ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi / un giorno tutto gnacchi e timparlini, / le nuvole buzzillano, i bernecchi / ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini; / è un giorno per le vànvere, un festicchio / un giorno carmidioso e prodigiero...». Camilleri Nelle poesie deliziose di Fosco Maraini c’è uno scherzetto che troviamo pure in una delle poesie comprese in Alice nel paese delle meraviglie, dove c’è il «moregotto abbanda, ainda ainda». Anche qui, il suono ha tale pregnanza che abbandona tranquillissimamente il significato

perché ti genera, ti produce una certa simulazione di una realtà. Ma è appunto solo suono, non senso, non significato. Spesso facevo il gioco di stravolgere completamente il significato di una parola e dargliene un altro. Un giorno eravamo a Rio de Janeiro per uno spettacolo teatrale da me diretto e salimmo al Corcovado. Arrivati lassù, io mi misi a urlare che c’erano troppi chiasmi. Un ragazzo, mio allievo, che era accanto a me e mi faceva da spalla, disse che erano dei chiasmi aggressivi che bisognava assolutamente evitare. La cosa provocò, naturalmente, il panico tra due o tre ragazze che erano presenti. Lo stesso gioco lo facevo con Ruggero Jacobbi e altri amici. Insomma, a me è un gioco che diverte, ma non credo potrebbe durare a lungo, non ultimo perché di suoni che abbandonano il significato sono pieni molti discorsi politici. De Mauro Sì, è vero, le parole sono suono e il suono, anche di una singola parola, ci affascina, ci avvolge. E c’è il significato. Così come c’è il ritmo del testo. I tuoi racconti e romanzi sono un esempio in questo senso, se ne percepisce l’andamento musicale. Camilleri Il mio modo di raccontare obbedisce al mio ritmo personale, cioè obbedisce a certe leggi, a certe pause, a certe accelerazioni e ralenti che io sento dentro di me. Quando devo esprimere una situazione o un’idea in un dialogo di un romanzo che sto scrivendo a me più di tutto interessa questo, poi c’è il modo in cui lo metto sulla carta. Se, nel contesto generale, quella pagina ha un certo ritmo che mi serve per fare da controcanto al ritmo precedente o a quello che ho in mente di scrivere subito dopo, vuol dire che quella pagina io devo pensarla con un certo ritmo, che non è solo il ritmo della pagina in sé, ma è collegato al tutto come se fosse una sinfonia. È collegato a quello che c’è immediatamente prima e immediatamente dopo. È questo alternarsi di ritmi all’interno di un romanzo che fa quello che chiamo il respiro di un romanzo, che è preciso identico a quello che avviene in teatro. Se si piglia un esempio massimo, come può essere l’Amleto, e lo si studia solo dal punto di vista del succedersi delle scene, della durata delle scene e della quantità dei personaggi che ci sono all’interno di ogni scena, si scopre che quello dà il ritmo generale a tutto l’Amleto, è un continuo alternarsi e un progredire in crescendo, un respiro che parte lento e si fa sempre più affannoso. Ci possono essere pagine di sosta, un ritorno a un ritmo precedente, ma deve essere voluto, studiato, perché ogni pagina ha uno spartito che deve obbedire a un insieme, a un ritmo più grande.

Mi capita spesso di pensare a un romanzo come se fosse una partitura, e la domanda che mi ripeto è: «Che respiro deve avere questa vicenda?». Il mio Un filo di fumo è tutto pensato in questo modo, inizia con un ritmo affannoso, finisce con un maestoso e la processione. Gli autori di teatro di solito danno fuori testo le indicazioni che suggeriscono l’andamento dell’opera. De Mauro Tante volte mi sono chiesto come si poteva tradurre adeguatamente in un’altra lingua quell’impasto composito di lingua e dialetto, quel particolare andamento ritmico che hanno i tuoi libri... Camilleri Degli equivalenti si trovano sempre, in qualche modo. Per esempio, il traduttore tedesco del Re di Girgenti, che lui ha tradotto egregiamente, si è rifatto come linguaggio a un narratore come Jean Paul e la sua intelligenza è stata quella di trovare l’equivalente letterario già noto in Germania, e poi attraverso un grosso lavoro di adattamento di quel linguaggio, trasportarlo nel mio. Quindi non ha fatto un’opera di traduzione letterale. Nel caso del francese, il mio traduttore Serge Quadruppani, per trasporre dei termini desueti ma comprensibili nei miei testi, adopera un francese ecumenico, per esempio l’equivalente del verbo tambasiare se l’è andato a trovare in Normandia. Ecco, lui adotta la tecnica mosaico; insomma, ognuno s’arrangia come può. Serge diceva che sarebbe stato facile farlo in marsigliese, allora tu dici, ma perché in marsigliese se è ambientato a Vigata? Quasi tutti i traduttori hanno scartato questo tipo di possibilità di traduzione ricorrendo a parlate del Sud dei vari Paesi. De Mauro Ecco, a me pare che la nostra epoca sia caratterizzata proprio da questa contraddizione: da una parte abbiamo bisogno che tutto quel che viene detto sia immediatamente traducibile in altre lingue, dall’altra abbiamo la coscienza che ogni lingua è un sistema di pensiero a sé stante, intraducibile per definizione. Detto altrimenti, la lingua in quanto strumento di comunicazione deve essere traducibile, ma essa racchiude molto più del semplice senso che trapassa da una traduzione all’altra. I logici adoperano l’espressione contenuto proposizionale per indicare lo scheletro fattuale, oggettivo di una frase. Ma se il problema fosse solo quello di comunicare il contenuto proposizionale, ovvero i fatti nella loro struttura, come immaginava il primo Wittgenstein, quello del Trattato logico-filosofico, non si capirebbe perché ci sono tante lingue diverse che mutano incessantemente nel tempo. Il punto è che non è questo l’unico motivo per cui parliamo. E il secondo Wittgenstein,

quello delle Ricerche filosofiche, si pone proprio il problema del perché si parla. Per pregare, per insultare, per fare giochi di parole, per affetto, per odio, perché ti serve una cosa... Un momento di pazienza e provo a ritrovare il paragrafo giusto delle Ricerche filosofiche. È il paragrafo 23: «Ma quanti tipi di proposizione ci sono? Per esempio: asserzione, domanda e ordine? Di tali tipi ne esistono innumerevoli: innumerevoli tipi di impiego di tutto ciò che chiamiamo “segni”, “parole”, “proposizioni”. E questa molteplicità non è qualcosa di fisso, di dato una volta per tutte; ma nuovi tipi di linguaggio, nuovi giochi linguistici, come potremmo dire, sorgono e altri invecchiano e vengono dimenticati. Qui la parola gioco linguistico è destinata a mettere in evidenza il fatto che il parlare un linguaggio fa parte di un’attività o di una forma di vita. Considera la molteplicità di giochi linguistici contenuti in questi e in altri esempi: Comandare e agire secondo il comando – Descrivere un oggetto in base al suo aspetto e alle sue dimensioni – Costruire un oggetto in base a una descrizione (disegno) – Riferire un avvenimento – Fare congetture intorno all’avvenimento – Elaborare un’ipotesi e metterla alla prova – Rappresentare i risultati di un esperimento mediante tabelle e diagrammi – Inventare una storia; e leggerla – Recitare in teatro – Cantare in girotondo – Sciogliere indovinelli – Fare una battuta; raccontarla – Risolvere un problema di aritmetica applicata – Tradurre da una lingua ad un’altra – Chiedere, ringraziare, imprecare, salutare, pregare...». C’è una enorme quantità di cose che puoi fare e vuoi fare e fai con le parole che sono legate ai contesti della cultura – anche in senso materiale – in cui vivi. Ciascuno avrà un suo modo di pregare domineddio oppure di bestemmiarlo, di insultarsi, o interrogarsi, o vezzeggiarsi, così come avrà talvolta un suo modo di descrivere situazioni, tutto ciò utilizzando quello che la propria specifica lingua mette a disposizione. Si capisce allora la difficoltà

di traduzione dei saggi per non dire, all’estremo opposto, la difficoltà di tradurre libri come i tuoi. Persino le banalità della routine, quelle che in linguistica si chiamano proprio routines, come buongiorno, come va?, ci vediamo presto, guai a tradurle parola per parola perché scoppiano, se le traduci da una lingua all’altra non funzionano. Seppure banalissime, sono profondamente legate a un costume. Eppure si traduce. Come è possibile? Quello che voglio dire è che pur esistendo lingue profondamente diverse in quanto strettamente legate a un particolare mondo culturale, tuttavia si riesce a tradurre testi da una lingua all’altra. Ma è lo stesso paradosso, se vuoi un paradosso al quadrato, che incontriamo quando si deve spiegare come mai riusciamo a capirci tra persone che dispongono in misura e modi diversi delle risorse di una lingua utilizzandola in modo diverso. Camilleri Questo è il problema di ogni scrittore. Ognuno si sceglie il campo da arare e lo coltiva come crede lui. I risultati narrativi si possono raggiungere in diversi modi, attraverso la ricerca sul linguaggio o in una certa maniera di raccontare dei fatti, e questo rientra nella preferenza personale di uno scrittore. Per me è nell’approfondimento della parola. Si corre il rischio di essere difficilmente traducibile, ma con un po’ di buona volontà si possono trovare buone soluzioni. D’altra parte, come dicevi tu, anche l’italiano più banale può diventare intraducibile se lo traduci alla lettera. Pensa, ad esempio, al caso in cui qualcuno dice: «tornai a casa e mi fumai mezzo toscano»; letteralmente, significa che quel tale ha una serie di cittadini toscani, li taglia a metà e se ne fuma uno al giorno. Lo stesso vale se – tu straniero – cammini per la strada e leggi «bande rumorose». Insomma, basta un po’ di buona volontà: il traduttore chiede, o sa che si tratta di sigari, e traduce «mi fumai mezzo sigaro toscano». Forse banalizza, forse ogni traduzione è una banalizzazione. Ma per ciò che riguarda la difficoltà di tradurre una lingua qualsiasi, credo stia nel fatto che ogni lingua non è fatta solo di parole, è fatta di tutte le incrostazioni storiche, economiche, sociali che quella parola comporta. Ognuno che parla quella lingua le dà per sottintese in quella parola. De Mauro Wittgenstein descriveva la lingua proprio in questi termini. Nelle Ricerche filosofiche scrive: «La nostra lingua è come una vecchia città: un labirinto di viuzze e di larghi, di case vecchie e nuove, di palazzi ampliati in epoche diverse, e, intorno, la cintura dei nuovi quartieri periferici, le strade rettilinee, regolari, i caseggiati tutti uguali... Rappresentarsi una lingua

significa rappresentarsi una forma di vita...». Camilleri La lingua non è un supporto, è cosa. Cioè tu narri una cosa, non è che stai narrando una parola, stai narrando una cosa e per narrarla adoperi certe parole e non altre. Magari fai ricorso a certe parole dialettali che quella cosa riescono a esprimerla in tutte le sue sfumature. «Que mi palabra sea la cosa misma», scrive Juan Ramón Jiménez. Questo è per me. Non è che la parola in sé, la bella parola è sufficiente, essa deve attagliarsi perfettamente alla cosa, deve diventare la cosa, essere la cosa. Certe volte ci riesci. E proprio perché racconti una cosa, quelle parole sono traducibili, il traduttore si aggrappa alla cosa e lascia perdere le sue infinite sfumature. Ma oltre la parola c’è il ritmo che è dato dai personaggi, dalla loro quantità e qualità, dallo spostamento della macchina, ovvero dal posizionamento dello sguardo, ce lo insegna Gustave Flaubert in Madame Bovary. I primi tre capitoli coincidono con tre spostamenti di macchina, è come se tu all’interno spostassi la macchina da presa continuamente e le angolazioni fossero continuamente diverse. E questo serve a dare un buon ritmo al racconto. De Mauro È quello che Pasolini ha imparato facendo film. Forse lo racconta da qualche parte. Lui dice che l’idea iniziale era: «Io mi metto qui con la macchina da presa e quelli fanno qualche cosa, ma io giro, posso girare, posso cambiare angolazione e questo cambia tutto».

7. Contro il cattivo uso delle parole Non capisci che lo scopo principale a cui tende la Neolingua è quello di restringere al massimo la sfera d’azione del pensiero? George Orwell

De Mauro Stando ai dati dell’Istat, oggi l’italiano è nella sostanza un bene comune. In modo esclusivo (senza mai ricorrere al dialetto) o alternandolo con l’uso di un dialetto, il 94% lo sa parlare e lo padroneggia almeno nei suoi elementi essenziali. Ma se si sposta l’attenzione allo scritto, alla possibilità di rapporto con l’informazione scritta e con la letteratura, le cose cambiano. Tra il 2000 e il 2006 due successive indagini internazionali hanno esaminato in che modo persone tra i 16 e 65 anni leggono, capiscono e rispondono adeguatamente a questionari di cinque livelli di difficoltà. Qui ricorderò solo due dati. Cinque italiani e italiane ogni cento sono incapaci di leggere e capire anche qualche parola scritta, anche qualche cifra scritta. Risultano, cioè, totalmente analfabeti. E solo il 29% riesce a inoltrarsi nella lettura superando il secondo questionario e a rispondere bene al terzo, quarto e quinto questionario. Il 71% non ce la fa, ed è quindi sotto quella che – internazionalmente – è considerata la soglia minima «per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana». Basterebbero queste due percentuali per far scattare l’emergenza sociale. Perché di vera emergenza sociale si tratta, visto che il dominio della propria (sottolineo propria) lingua è un presupposto indispensabile per lo sviluppo culturale ed economico dell’individuo e della collettività. E, come ho cercato di dire più d’una volta, è anche un’emergenza politica, ma sono in pochi ad esserne consapevoli. Camilleri Per non dire degli usi impropri delle parole. Ho sentito con le mie orecchie, tanto per fare un esempio: «Il generale Dalla Chiesa venne giustiziato a Palermo...». Ma il verbo giustiziare ha un significato preciso, del tutto diverso da assassinare, e nella loro distanza c’è tutto il senso e la

sostanza della vicenda. De Mauro Sull’estensione e l’uso corretto del vocabolario ci sono, ovviamente, casi degni di nota persino dove non te lo aspetteresti. In un servizio del telegiornale di Sky Tg24 usavano paventato per dire annunciato: «...perché Bersani ha paventato che nel prossimo mese...», o «...tizio, caio ha paventato un provvedimento...». Nei giorni del terremoto in Emilia, il corrispondente ha detto: «Le forze dell’ordine sono allertate, perché ci sono degli sciacalli in giro che vanno nelle case abbandonate, vuote perché la gente è scappata, a fare rappresaglia di tutto quello che trovano». Lo ha detto due volte, fare rappresaglia, nel senso di «acchiappa-acchiappa», «rubare», «rubacchiare». La cosa, peraltro, è tanto più degna di nota perché coinvolge una fascia, non irrilevante, di persone laureate che dinanzi a parole che sembrano essere d’uso comune sbagliano alla grande, rivelando un’incapacità di padroneggiare l’italiano, che evidentemente è stato solo orecchiato. Camilleri Sono convinto che lo stato di salute di una lingua corrisponda allo stato di salute di una nazione, una tesi che ho sostenuto in occasione della laurea ad honorem presso l’Università di Urbino, nel 2012. Gli esempi che abbiamo fatto non sono banali svarioni, sono il risultato di una trasandatezza e di un cattivo uso dell’italiano che va sempre più diffondendosi. Come mai? Perché proprio la televisione, che ha fatto sì che i bambini siciliani o piemontesi parlassero istintivamente, fin da subito, l’italiano – sia pure l’italiano che Pasolini definiva omologato, ma che tuttavia dava uno standard –, oggi è diventata tutt’altra cosa. L’italiano della televisione è diventato un italiano trasandato, malissimo usato. Il nostro ex presidente del Consiglio, Mario Monti, ha il merito di adoperare un italiano molto preciso, però c’è una cosa che non gli perdono: le troppe parole in inglese. Io non sono anglofobico, mi darebbe lo stesso fastidio se usasse termini francesi. La diffusione incontrollata e incontrollabile di frasi e parole in inglese nell’uso comune è una perdita di campo, un indebolimento della nostra lingua, perché non sono parole che arricchiscono, sono parole sostitutive. Sono come delle protesi. Qualche tempo fa, alla domanda di un lettore se una lingua comune non giovasse all’Europa, Beppe Severgnini rispondeva su «Sette», il supplemento del «Corriere della Sera», proponendo addirittura di adottare l’inglese come lingua ufficiale e buona notte ai suonatori (tra l’altro proprio l’inglese che è la sola nazione dell’Unione Europea a non aver adottato la moneta unica!!!).

Ecco un altro esempio. Vent’anni fa facevo parte della giuria del Premio Italia, che si tiene a Venezia ed è promosso dalla Rai. Bene, scopro che la lingua ufficiale è l’inglese. Figurati se a Edimburgo, in un festival analogo, adotterebbero l’italiano come lingua ufficiale! Questo provincialismo italiano è una vera abdicazione, e lo trovo repellente. Mi preoccupa molto che, già tre anni fa, a Bruxelles abbiano deciso di non tradurre più in italiano gli interventi, i documenti. Beninteso, non vorrei che si cadesse in un equivoco e mi si scambiasse per un sostenitore dell’autarchia della lingua, di fascistica memoria. Quando il celebre brano jazz Saint Louis Blues diventava «Tristezze di San Luigi», e i cognomi della Osiris o di Rascel si dovevano mutare in Osiri e Rascele. Benvenuto Terracini sosteneva, e a ragione, che ogni lingua nazionale è centripeta, cioè a dire che si mantiene viva e si rinnova con continui apporti che dalla periferia vanno al centro. Il mio non è nazionalismo, è semplicemente la difesa da un attacco alla lingua italiana, un modo per non far rinsecchire, far morire le radici nostre. De Mauro Sono d’accordo. Anch’io non amo gli anglismi – che considero un fenomeno da non sottovalutare – soprattutto quando sono inutili, quando l’abuso è ingiustificato: perché la Rai deve chiamare Rai Educational il settore delle trasmissioni scolastiche educative? E perché si deve usare spending review per indicare la revisione della spesa pubblica? O spread al posto di differenziale? In queste abitudini non vedo tanto un pericolo per la lingua, ma per quelli che la parlano, e che la parlano con scarsa e insufficiente padronanza. Mi ricorda un po’ il latino adoperato dall’Azzeccagarbugli per raggirare Renzo, per tornare ai Promessi sposi. Questo è quanto accade oggi con l’uso dell’inglese o dell’italiano stesso in molte manifestazioni del linguaggio burocratico. Prendiamo un esempio concreto. All’inizio degli anni Novanta, un non meglio identificato consigliere del Consiglio di Stato, in una sentenza riguardante una bega tra Stato e Regioni, ha adoperato la parola soprassessorio. Giuristi illustri, miei amici, mi hanno telefonato chiedendomi che cosa volesse dire. D’istinto rispondo che potrebbe avere a che fare con soprassedere, quindi riferirsi a una decisione, a un provvedimento che rinvia – soprassiede a – una decisione. Chiedo il contesto d’uso e comincio a scartabellare i dizionari. Questo soprassessorio non lo trovavo da nessuna parte. Alla fine, eccolo spuntare da un vecchio dizionario italiano dell’Ottocento, il Tramater.

Qual è il problema? È che questo termine, che ora alcuni illustri giuristi ed io sappiamo che cosa vuol dire – e sapeva probabilmente il consigliere del Consiglio di Stato –, dilaga in migliaia di delibere, sentenze, provvedimenti di regioni e di comuni che usano questa parola assolutamente oscura, che altro non è che una protesi, come dicevi tu, utilizzata a fini malvagi. La si adopera per non spiegare bene, perché se ti illustrano in maniera chiara e comprensibile che il provvedimento che si ha intenzione di prendere rinvia la decisione, magari tu qualche obiezione la muovi; se invece ti dicono che si tratta di un provvedimento soprassessorio, beh, allora, forse hanno trovato il modo di neutralizzarti. Camilleri Questo è il linguaggio del potere. Terrorizzante. Ricordo una volta in cui mio padre tornò a casa e raccontò a me e mamma che aveva ricevuto una lettera di rimprovero dall’ammiraglio per le sue «oscitanze». E allora mi chiese preoccupatissimo – perché io ero il colto di famiglia –: «Nenè che significa oscitanze?». Non avevo mai sentito questa parola, non seppi che rispondere. Dal contesto riuscii a capire che si trattava di incertezze, oscillazioni, non certo oscitanze. Un’altra volta mi terrorizzai io. Ritardai a pagare una rata per un’enciclopedia, così mi arrivò una lettera in cui mi ingiungevano il pagamento della rata entro il termine di giorni 15. E poi in calce ricordo queste precise parole: «sorte capitale». Io mi vidi subito decollato, che altro poteva significare? In questo caso l’uso era corretto, nel senso che «sorte capitale» è un’espressione della nostra lingua, quindi nulla si può obiettare. Ciò non toglie che l’italiano usato in questo modo ti fa sudare freddo. Poi ci fu una lettera che ricevetti dall’Enpals. Mi comunicava che la proposta, da loro approvata, di superare il tetto che era stato imposto alla pensione non era stata tramutata in legge. E continuava: «Lei ha percepito per tutti questi mesi una cifra maggiore di quanto non dovesse avere e pertanto...» – scritto al centro del foglio. Tu arrivato a questo punto che cosa pensi? «Oddio, madonna, quanti milioni gli devo dare?». Metti la mano in tasca e cominci a fare i conti. E invece continuava: «e pertanto continueremo a corrisponderle la stessa cifra fino a quando non verrà tramutata in legge». De Mauro Intenzionale o meno che sia, il cattivo uso dell’italiano porta ad adoperare parole poco o mal comprensibili o a «usare male» parole comprensibili. Dietro c’è l’abuso di parole che nessuno capisce, l’impiego malizioso ed errato di parole correnti. Giacomo Devoto diceva che bisognerebbe promuovere l’uso responsabile della lingua, quello che fa sì che

di quanto hai detto puoi rispondere perché puoi spiegare. Questi usi mi sembrano più gravi di qualsiasi spending review, perché sono indizio di una deficienza più profonda. Parlare italiano significa impadronircene davvero tutti quanti. Per questo dobbiamo leggere, studiare, pensare, informarci. Non dobbiamo mai dimenticare che la lingua non è semplicemente uno strumento di comunicazione funzionale, è anche un’arma. Padroneggiare la lingua è una cosa che ha a che vedere con la nostra presa sul mondo. E lo stupore che spesso si prova di fronte al suo uso improprio, se non si ferma solo a quello, è miope, non arriva alla sostanza del problema. Camilleri Di discorsi che non dicono assolutamente nulla, abbiamo avuto un esempio meraviglioso, rimasto storico, la volta in cui venne usato un italiano perfetto per dare notizia della chiusura delle case di tolleranza. Ugo Zatterin, allora conduttore del Tg1, parlò per ben due minuti in un italiano correttissimo, comunicando che la legge Merlin era stata approvata, ma senza fare alcun riferimento esplicito. Perciò ai più la notizia risultò incomprensibile: un italiano perfetto, tutto teso però a non far capire che cosa era successo. Gli unici che lo capirono – credo – furono i clienti abituali, che trovarono la porta sbarrata: dunque per esperienza diretta, non certo per la notizia data da Zatterin. Ecco, quando non ci si vuol far capire, si può adoperare un perfetto italiano. De Mauro A meno che tutto questo non sia deliberatamente ricercato per ottenere altri scopi. La distruzione del linguaggio è la premessa a ogni futura distruzione, scrive Giuseppe D’Avanzo nel suo libro Il guscio vuoto. Metamorfosi di una democrazia. Sta parlando di quella che lui chiama «la neolingua del potere» e si riferisce al fatto che il linguaggio usato durante il periodo berlusconiano è la spia di una visione del mondo. Qualcosa, dunque, che va molto oltre il mero fatto linguistico. Camilleri In effetti la lingua di Berlusconi rispecchia l’ambiguità del personaggio, è la lingua propria del personaggio Berlusconi. Non è un caso che sia stato, tra i presidenti del Consiglio, quello che più di tutti ha adoperato la frase «sono stato frainteso». Ma la lingua italiana, quando è bene usata, non è affatto equivoca, è una lingua di cose, concreta, estremamente concreta. Allora, la domanda vera che ci si deve porre è la seguente: si tratta di ignoranza o di malizia? È malafede di un politico che dice una cosa che può anche smentire il giorno dopo? De Mauro Esatto. Naturalmente, può anche accadere che gli organi di

informazione non riferiscano correttamente le parole di una persona, perfino se le mettono tra virgolette. In questo caso il guaio è duplice: da un lato, il torto perpetrato nei confronti della persona in questione; dall’altro, si consente a quest’ultima la scappatoia d’una smentita per uscire indenne da una situazione che potrebbe danneggiarla seriamente. Tornando alla «lingua del potere», forzando un po’ si potrebbe dire che quando viene adoperata maliziosamente funziona in maniera simile a una forma di dialetto, o meglio a una specie di gergo, che permette di fare un discorso senza dire nulla, e che perciò stesso riesce a neutralizzare la questione che finge di affrontare. Camilleri La lingua è quella che è, altra cosa è l’uso che uno ne può fare. Certo, può essere adoperata come strumento di potere laddove ci sono persone molto abili a usarla e una maggioranza che semplicemente la subisce perché non la capisce appieno. All’interno della lingua del potere c’è la lingua del potere politico, c’è la lingua del potere burocratico, e via di questo passo, lingue che diventano delle lingue sacerdotali. Un tempo erano assolutamente incomprensibili, ora lo sono molto meno anche perché si ricorre meno frequentemente all’uso di parole alte, a parole non di uso comune, quotidiano. Ben lontano dallo stile di quella lettera che l’ammiraglio scrisse a mio padre: quello stile rappresentava uno status, era la forma in cui si rappresentava l’autorità. De Mauro A preoccuparmi sono soprattutto alcuni silenzi o alcune restrizioni di significato. Nell’informazione – e da tanto tempo, e non solo in Italia – soffriamo di terrore semantico, per cui diciamo occupazione e non persone che lavorano, diciamo imprenditoria e non padroni o padronale. Si evitano le parole specifiche, care a chi vuole chiamare le persone per quello che sono e non per il ruolo che la statistica economica gli assegna. Camilleri Terrore semantico che cresce di più nei momenti di crisi: mai come in questi giorni si adopera la parola occupazione. De Mauro Cala l’occupazione: cioè aumenta il numero di persone che non hanno lavoro, che hanno poco pane e companatico. Non è innocente l’uso della parola occupazione. Camilleri Ma sai, a me pare una sorta di risarcimento linguistico, le cose rimangono come sono sempre state. Una volta, ai tempi di Pellizza da Volpedo, il lavoratore era il lavoratore e il padrone era il padrone. Tutto era bello chiaro. Poi è diventato il datore di lavoro, che è meno duro di padrone. Nessuno osa più in una stazione dire facchino, eppure quello continua a

fare il mestiere che ha sempre fatto; lo spazzino è diventato l’operatore ecologico, ma continua a fare lo spazzino, e via di questo passo. Sono risarcimenti linguistici che si danno. De Mauro Certo, ma va anche considerato che è un altro modo di usare le risorse della lingua, tenendone da parte alcune e tirandone fuori altre. Non c’è dubbio che chi fa la macrostatistica economica ha bisogno di un termine come occupazione o un equivalente perché deve lavorare con termini generali. Il problema si pone quando si estraggono dei termini dai contesti propri, cioè quando usiamo fuori contesto qualche cosa che ha un suo contesto. Tale estensione spesso non ci consente di guardare in faccia le cose. Camilleri Resta comunque il fatto che, con il passaggio da padrone a datore di lavoro, la caratura cambia: nel primo caso abbiamo interessi divergenti, nel secondo è come se avessimo interessi convergenti, non siamo antagonisti, perseguiamo lo stesso fine. Ecco la neutralizzazione che passa attraverso le parole. De Mauro Sì, i fatti vengono in qualche modo sterilizzati. Se vai a vedere quanto è aumentato negli ultimi dieci anni il reddito di quello che chiamiamo datore di lavoro e quanto è aumentato quello del prestatore d’opera, ti accorgi che è schizzato di dieci, quindici, venti volte in alto, e quell’altro è addirittura diminuito di qualche punto percentuale. E questo in tutto il mondo, perché il fenomeno è planetario. Allora uno si chiede: «Ma davvero non ci sono più le classi sociali?». Non è solo un problema di vocabolario, ovviamente, però si può considerare un uso politico del linguaggio. Camilleri Già. E poi ci sono delle formule, delle parole, delle cose che superano il momento in cui vengono coniate. Il tempo adopera una cernita notevolissima. È duro il passaggio nel tempo delle parole, ne rimangono solo poche che diventano nel tempo futuro di uso comune. E ci sono anche parole che invece perdono completamente il loro significato e ne acquistano un altro che è implicito. Per esempio speculazione. Se io dico quella è una mente speculativa, uno pensa a qualcuno che sa giocare in borsa oppure sa scegliere i terreni più convenienti per fabbricare case. Il senso di speculazione filosofica è completamente obliato. Dimenticato, cancellato. De Mauro Se si censiscono fonti diverse come giornali, conversazioni radiofoniche, chat, Internet, parlato, saggistica, letteratura, si scopre che rispetto a trenta o quarant’anni fa ci sono stati cambiamenti interessanti nel genere di parole adoperate. Dal vocabolario di altissima frequenza – quelle

duemila parole che occupano l’85, il 90% dei nostri discorsi comuni – sono uscite parole come pozzo, stalla, erba, prato, albero, parole che hanno un riferimento concreto, immediato, e sono entrate invece una gran quantità di parole astratte, tipo occupazione o reddito. Camilleri Però è interessante quest’uscita dalla concretezza e l’ingresso nell’astrazione. Buttalo via come segnale...

8. Epilogo La lingua va dove vuole, ma è sensibile ai suggerimenti della letteratura. Umberto Eco

De Mauro Ci siamo detti molto, ma forse, soprattutto a chi è più giovane, bisogna dire ancora qualcosa, magari pure per spiegare il titolo di questo libro. Parlassimo o no, in alcune case, italiano, la nostra generazione – quella che ha fatto in tempo a conoscere le adunate fasciste e la guerra – è cresciuta in un’Italia avvolta nell’uso dei dialetti. Ancora sul finire del dopoguerra, quando già eravamo avviati sulle strade che poi avremmo percorso, due terzi della popolazione parlava sempre e solo il proprio dialetto. Così era, fuori di Firenze e di Roma, negli anni in cui ci siamo incontrati o, meglio, io ti ho incontrato (tu ci lavoravi già da tempo) in quel luogo memorabile che fu l’Enciclopedia dello spettacolo. Camilleri Sì certo, e nel nostro discorso avevamo anche parlato della battaglia per l’italiano persa dal fascismo; la battaglia contro le mosche dove infine vinsero le mosche, per dirla con Malaparte. Il fascismo credeva nella realizzazione dell’unità linguistica attraverso l’uso dell’italiano, un tentativo che era già stato fatto agli albori dell’Unità d’Italia. Ma il dialetto legato alle radici, anche comunali, della nostra storia è stato davvero di difficile estirpazione. Malgrado il fascismo, la liberazione e la democrazia, i dialetti hanno continuato a sopravvivere. A mio parere a dar loro il colpo mortale non è stata la politica ma la televisione, che ha giocato un ruolo fondamentale nel diffondere l’uso dell’italiano: molte persone impararono a leggere e scrivere l’italiano attraverso le mitiche lezioni del maestro Manzi. De Mauro Sì, è così. La parte di popolazione che parlava italiano lo faceva in larga misura alternandolo all’uso del dialetto nativo. La situazione non era più quella di cento anni prima quando, come disse una volta Giacomo Devoto, l’italiano «si librava in un vuoto oligarchico», senza una consistente base di uso vivo, parlato. Però l’italiano restava ancora una lingua di scuola, che si riusciva ad imparare frequentando almeno fino alle scuole medie (e ci arrivava allora il 10% della popolazione) e si usava soprattutto nello scrivere

(per chi sapeva scrivere) e in occasioni più formali. La lingua batteva allora su quest’uso forzatamente inamidato, povero di spontaneità, povero della capacità di parlare della «qualunque» (come si dice in Sicilia), dalle cose più private e concrete e trite a quelle più pubbliche, astratte e magari anche solenni ma senza retorica. Grandi scrittori riuscivano a vincere questa difficoltà: non solo poeti e narratori, come Montale o Pirandello, ma anche saggisti, scrittori di economia come Einaudi, grandi giornalisti come Luigi Barzini o Ojetti (e grandi giornalisti furono anche Gramsci e Mussolini), e, naturalmente, Croce. Un altro isolato miracolo di limpidezza, di solennità che viene dalle cose evocate in modo diretto, fu la lingua della Costituzione. Ma nelle condizioni dell’epoca queste eccezioni facevano poca scuola. Camilleri Concordo. Vorrei aprire una parentesi a proposito della bellezza della nostra Costituzione, che risiede soprattutto nel sapientissimo uso dei verbi. Redatta a più mani da persone che provenivano da tutta Italia, è scritta in una lingua così alta che ne dimostra già la forza e la perfezione. La forma letteraria della nostra Costituzione è da considerare di per sé un valore aggiunto. De Mauro Certo, il cammino è stato lungo, ma il cambiamento c’è stato. Oggi ci sono ancora persone che sanno parlare soltanto il loro dialetto, ma sono una minoranza esigua (il 6% secondo l’ultima rilevazione dell’Istat, che risale al 2006). Più del 90% della popolazione dichiara di saper parlare italiano. E più del 40% (sempre secondo l’Istat) lo parla in modo esclusivo. Dagli anni Novanta, quasi la metà dei bambini nasce sentendo parlare soltanto italiano. Insomma, l’italiano si è nativizzato un po’ in tutt’Italia: per parlarlo anche come lingua del cuore, degli affetti più intimi, non bisogna essere nati a Firenze o essere grandi scrittori. Camilleri Il dialetto è probabilmente destinato a scomparire, proprio perché l’Unità è avvenuta prima attraverso la lingua. Gli italiani leggevano l’italiano prima ancora di parlarlo. Oggi il ciclo si chiude, ci sono voluti 150 anni sì, ma lo scopo è stato raggiunto. Però in me rimane la speranza e l’augurio che i dialetti non spariscano del tutto, che possano in qualche modo sopravvivere. Magari come qualcosa DOP, di origine protetta. Come in fondo è successo per alcuni cibi che erano stati dati per persi, con il recupero – così alla moda – di tradizioni locali. De Mauro Beh, in fondo ancor oggi buona parte della popolazione sa, è in grado di parlare un dialetto. Una vera e propria riserva di autenticità, un

argine contro quel tecnologichese impersonale che Pasolini temeva. Però la lingua continua a battere su un dente che duole. Ciascun dialetto poggiava su una trama di cultura materiale, su un ordito, che era la cultura dei campi e, come ha detto una volta Sciascia, la «cultura dei mestieri». Anche chi non era contadino o artigiano viveva quella cultura. E su quell’ordito si potevano tessere tele più raffinate. Ma è successo che i dialetti si sono staccati da quell’ordito o, meglio, quell’ordito è scomparso quasi del tutto. I dialetti resistono, ma quasi dappertutto privati delle loro radici più antiche. Quanto all’italiano, penso che anche il suo buon uso avrebbe richiesto – e richiederebbe – un ordito di base solido, che a me sembra dovrebbe consistere in una larga adesione alla cultura intellettuale, artistica, scientifica, buona informazione, teatro, musica, cinema, libri, amore o almeno rispetto per il sapere critico, storico, scientifico. Ma è proprio qui che le note si fanno dolenti. L’enorme crescita della scolarità formale in età giovanile non si è accompagnata in età adulta alla larga adesione di cui parlavo. Per troppa parte della popolazione l’italiano rischia di essere un guscio fonico, povero dei contenuti necessari a vivere nel complicato mondo contemporaneo, nel mondo «vasto e terribile», mi pare dicesse Gramsci. Che cosa offriamo a quel 7% di popolazione che, per nostra fortuna, la fortuna sua è venuta a cercarla qui arrivando da altre terre, portando lingue che, ad eccezione del rumeno, del portoghese o dello spagnolo latinoamericani, sono lontanissime dalla nostra? Qui la lingua nemmeno batte perché per ora manco si accorge del nuovo dente che spunta. Camilleri Questo sì che è un argomento importante con cui concludere il nostro discorso. Viviamo circondati da gente che parla altre lingue, lingue diverse dalla nostra, lingue non europee. La mia speranza è che siccome la lingua è sempre in movimento, in una progressione lenta e costante, da questo meticciato di lingue degli extracomunitari e dei migranti tutti, il guscio vuoto, come dici tu, possa essere riempito da queste nuove parole che arrivano da fuori. Un po’ come succede con il tasso di natalità: noi italiani non facciamo più figli, ma il tasso di natalità regge in virtù della presenza degli stranieri. Ecco, io spero questo, che il guscio che si sta svuotando possa essere colmato, arricchito e non sostituito, da parole nuove e diverse che diventeranno parole nostre. Mi è capitato di leggere alcuni racconti scritti da extracomunitari e la forza e l’energia del loro italiano, nonostante la povertà linguistica, sono talmente dirompenti che l’italiano acquista un vigore nuovo, una nuova linfa che ringiovanisce la parola.

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Frontespizio 1. L’albero è la lingua, i dialetti sono la linfa 2. Eravamo italiani senza saperlo 3. Un italiano in cui non si dice mai «dare» 4. Ci sono tanti modi di leggere 5. Scrivila come l’hai raccontata a me 6. Ad alta voce 7. Contro il cattivo uso delle parole 8. Epilogo

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