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Italian Pages 183 Year 2001
BIBLIOTECA ADELPHI
404
DELLO STESSO AUTORE:
quarantanove gradini Ka L'impuro folle La rovina di Kasch Le nozze di Cadmo e Armonia I
ll,oberto (;alasso LA LETTERATURA ....
E GLI DEI
ADELPHI EDIZIONI
©
2001 ADELPHI EDIZIONI S.P.A. MILANO ISBN 88-459-1592-1
INDICE
I.
La Scuola Pagana
13
II.
Acque mentali
31
III.
Incipit parodia
IV.
Elucubrazioni di un serial killer
51 71
V.
Una stanza con nessuno dentro
89
VI.
Mallarmé a Oxford
1 05
VII.
«I metri sono il bestiame degli dèi»
12 1
VIII. Letteratura assoluta
139
Fonti
161 1 79
Indice dei nomi
LA
LETTERATURA E GLI DÈI
per]osephine
I
LA SCUOLA
PAGANA
Gli dèi sono ospiti fuggevoli della letteratura. La at traversano, con la scia dei loro nomi. Ma presto anche la disertano. Ogni volta che lo scrittore accenna una parola, deve riconquistarli. La mercurialità, che pre annuncia gli dèi, è anche il segno della loro evane scenza. Non sempre così era stato. Almeno, finché sus sisteva una liturgia. Quell ' intreccio di gesti e parole , quell' aura di controllata distruzione , quell' uso di cer te materie e non di altre: questo appagava gli dèi, finché gli uomini ritennero di volgersi a loro . In segui to rimasero soltanto, come brandelli volanti in un ac campamento abbandonato, quelle storie degli dèi che erano il sottinteso di ogni gesto . Strappate dal loro suolo ed esposte alla cruda luce nella vibrazione della parola, potevano anche apparire impudenti e vane. Tutto finisce in storia della letteratura. Così sarebbe piuttosto ridondante e insipido elenca re le occasioni in cui gli dèi greci si mostrano nei versi della poesia moderna, a partire dai primi romantici. Quasi tutti i poeti dell'Ottocento , dai più mediocri ai 15
sublimi, hanno scritto qualche lirica dove gli dèi ven gono nominati . E lo stesso vale per una larga parte dei poeti del Novecento . Perché? Per le più svariate ragio ni: per secolare abitudine scolastica - o magari per sembrare nobili , esotici, pagani , erotici, eruditi . In fine, per la ragione più frequen te e tautologica: per sembrare poetici. Che in una lirica venga nominato Apollo o invece una quercia o la schiuma del mare non fa grande differenza, né è molto significativo: so no tutti termini del lessico letterario ugualmente levi gati dall' uso. Eppure ci fu un tempo in cui gli dèi non erano in nanzitutto una consuetudine letteraria. Ma un evento , u n a apparizione subitanea, come l ' incontro c o n u n bandito o il profilarsi di una nave . E n o n occorreva neppure che la visione fosse totale . Aiace Oileo rico nosce dall' andatura Poseidone camuffato da Calcan te vedendolo camminare da dietro: lo riconosce « dai piedi, dalle gambe » . Poiché, per noi, tutto h a inizio con Omero, c i chie diamo allora: come viene nominato, nei suoi versi, questo evento? Quando scoppia la guerra di Troia, già gli dèi frequen tano assai meno la terra rispetto a un ' e tà preceden te . Solo una generazione prima, Zeus aveva generato Sarpedonte con una mortale. E tutti gli dèi erano discesi sulla terra per le nozze di Peleo e Te ti . Ora, Zeus non si mostra più fra gli uomini - e man da altri Olimpi in avanscoperta: Hermes, Atena, Apol lo. Vedere gli dèi ormai è diven tato difficile . Lo am mette Odissea, parlando ad Atena: « Arduo, o dea, è riconoscerti, anche per chi molto sa » . E l ' Inno a De metra ci offre la formulazione più sobria: « Difficili da vedere per gli uomini sono gli dèi ». Ogni età primor diale è un' età in cui si dice che gli dèi si sono quasi di leguati . Soltanto a pochi , prescelti dall ' arbitrio divino, gli dèi si mostrano: « Non a tutti appaiono gli dèi in 16
piena evidenza » , enargeis, ci dice ancora lOdissea. Enargés è il terminus technicus dell 'epifania divina: ag gettivo che contiene in sé il bagliore del « bianco » , arg6s, m a finirà per designare una pura indubitabile « evidenza » . Quella specie di « evidenza » che poi ven ne ereditata dalla poesia. Ed è forse il tratto che la dif ferenzia da ogni altra forma. Ma come si manifesta il dio? Nella lingua greca non si dà vocativo per the6s, « dio » , osservò un illustre lin guista, Jacob Wackernagel. The6s ha innanzitutto senso predicativo : designa qualcosa che accade. Un magnifico esempio si trova nella Elena di Euripide : O theoi· theòs gàr kaì tò gign o skein philous. O dèi: è dio il riconoscere gli amati . In questo Kerényi isolava la « specificità greca » : nel « dire di un evento : "È the6s"». E quell ' even to che si de signa nella parola the6s può facilmente diventare Zeus, che è il dio più vasto , onnicomprensivo , il dio che è il rumore di fondo del divino. Così Arato, accingendosi a scrivere dei fenomeni del cosmo, dava al suo poema questo esordio: « Da Zeus sia il nostro inizio, da lui che gli uomini non lasciano mai innominato. Piene di Zeus sono tut te le vie , tutte le piazze degli uomini, pieni il mare e i porti . Tutti noi di Zeus abbiamo bisogno in ogni mo do. Infatti siamo una sua stirpe » . « lovis omnia piena » scriverà poi Virgilio. Suona in queste parole la certezza di una presenza che si incon tra ovunque nel mondo , nella molteplicità dei suoi eventi , nell ' intrecciarsi delle sue forme. E parla anche una profonda familiarità, quasi una certa sprezzatura nell ' accennare al divino. Che era latente in ogni ango lo, pronto a espandersi . Mentre la parola titheos, molto 17
più spesso dell 'essere increduli verso gli dèi, designava il venir abbandonati dagli dèi stessi , che si sottraevano· a ogni commercio con il mortale . Arato scriveva nel terzo secolo prima di Cristo , ma che cosa è accaduto, nella storia successiva, di questa esperienza che per lui era così owia, così pervasiva? Che cosa ne ha fatto il tempo? L'ha dissolta, lacerata, sfigurata, vanificata? O si tratta di qualcosa che ancora ci viene incontro, in denne? E dove? Una mattina del 1 851 , racconta Baudelaire, Parigi si svegliò con la sensazione che fosse successo « un fatto considerevole » : qualcosa di nuovo, qualcosa di « sinto matico » , che però si presentava come un qualsiasi/ait divers. Nelle teste ronzava con insistenza una parola: rivoluzione. Ora, si dava il caso che , a un banchetto commemorativo della rivoluzione del febbraio 1 848, un giovane intellettuale avesse proposto un brindisi al dio Pan . « Ma che cosa c ' e n tra il dio Pan con la rivolu zione? » aveva chiesto Baudelaire al giovane intellet tuale . « Ma come?» era stata la risposta. « È il dio Pan che fa la rivoluzione . È lui la rivoluzione » . Baudelaire insisteva: « Allora non è vero che è morto da tanto tempo? Credevo che si fosse sen tita planare una gran de voce al di sopra del Mediterraneo, e che questa vo ce misteriosa, che si ripercuoteva dalle colonne d ' Er cole sino alle rive dell 'Asia, avesse detto al vecchio mondo: IL mo PAN È MORTO» . Ma il giovane intellet tuale non sembrava turbato. Disse: « È una voce che cor re. Sono delle malelingue; ma non c ' è niente di ve ro. No, il dio Pan non è morto ! il dio Pan vive ancora, continuava alzando gli occhi al cielo con bizzarra te nerezza . . . Tornerà » . Baudelaire chiosa: « Stava parlan do del dio Pan come del prigioniero di Sant'Elena » . M a i l dialogo non era finito, Baudelaire vuole sapere qualcosa di più: « Allora, non sarà forse che siete paga no? » . Il giovane intellettuale risponde con tracotanza: 18
« Ma certo; ignorate forse che solo il Paganesimo, se ben inteso, ovviamente, può salvare il mondo? Occor re tornare alle dottrine vere , offuscate per un istante dall 'infame Galileo. D ' altronde, Giunone mi ha getta to uno sguardo favorevole , uno sguardo che mi ha pe netrato sino all ' anima. Ero triste e melanconico in mezzo alla folla, mentre guardavo il corteo e implora vo con occhi amorosi quella bella divinità, quando uno dei suoi sguardi, benevolo e profondo, è venuto a risollevarmi e incoraggiarmi » . Al che Baudelaire ag giunge : « Giunone vi ha gettato uno dei suoi regards de vache, Boopis Eré. Questo disgraziato forse è pazzo » . L'ultima battuta s i rivolge a u n anonimo terzo, che partecipava silenziosamente al colloquio e ora senten zia: « Ma non vedete che si tratta della cerimonia del vitello grasso? Lui guardava tutte quelle donne rosa con occhi pagani, e Ernestine, che lavora all 'Hippo drome e recitava nel ruolo di Giunone, gli ha fatto un occhiolino pieno di ricordi, un vero occhio di vacca». A questo punto il dialogo, così altisonante e visionario all 'inizio, è diven tato puro Offenbach , un frammento di spirito boukvardier che precede di poco l ' esistenza stessa dei boukvards. E il giovane intellettuale chiude la conversazione mescolando ancora una volta i toni. « "Ernestine quanto le pare " disse il pagano scontento. "Lei cerca di disilludermi. Ma l ' effetto morale è stato prodotto lo stesso - e considero quell ' occhiata come un buon presagio " » . Così, con il regard de vache d i una Giunone dell'Hip podrome, che era poi un circo vicino all'Arco di Trion fo, bruciato pochi mesi prima, gli dèi dell' Olimpo an nunciavano il loro ritorno sulla piazza di Parigi. E, se condo l 'usanza del luogo, si annunciava come una no vità - o almeno come qualcosa che esiste soltanto se ac cade sotto quel cielo - un evento che già si era manife stato altrove e da molto tempo, per esempio nella GerJ9
mania di Holderlin e di Novalis, circa cinquant'anni prima: il risveglio e il ritorno degli dèi. Eppure i parigi ni avevano avuto il privilegio di essere stati introdotti a quella Germania attraverso una vistosa esploratrice. Quando Madame de Stael aveva cominciato a percorre re le strade tedesche come un cronista che freme per l ' impazienza di rivelare qual è il tema nevralgico del momento, la Germania era la foresta incantata al cen tro dell'Europa. Le sue fronde, appena stormivano, emettevano gli accordi del pianoforte romantico. An che se non per l 'orecchio di Madame de Stael, che era ricettiva solo per le idee - e sapeva usarle come armi im proprie. Viaggiando sotto il vasto cielo di un Paese dove riconosceva con stupore « le tracce di una natura non abitata » , la prima impressione che sentì fu di lieve sco ramento : « Un non so che di silenzioso nella natura e negli uomini di primo acchito stringe il cuore » . Fra la petulanza ferale e ticchettante della società parigina e quella mutezza meditabonda si stendeva una distanza che non era spaziale ma speculativa. La prima singola rità che la cronista osservava era che in terra tedesca « l' impero del gusto e l ' arma del ridicolo non esercita no alcuna influenza » . Quando gli dèi fossero tornati a manifestarsi in quei luoghi, non sarebbero stati subito corrosi dall' ironia e dal sarcasmo, come a Parigi. Il peri colo, anzi, era che la loro epifania fosse soverchiante . Così accadde a Holderlin, folgorato da Apollo sulla via del ritorno da Bordeaux: « Come si racconta degli eroi, posso dire che Apollo mi ha colpito » scrisse a Bohlen dorff. Ma perché Apollo, « colui che colpisce da lonta no » , si imponesse con tale violenza a un poeta tedesco vagante per la Francia dell ' ovest, « costantemente com mosso dal fuoco del cielo e dal silenzio degli uomini » , e perché « il fuoco del cielo » tornasse a significare qual cosa di terrorizzante e ammaliante, e non già una locu zione esornativa in una pomposa tragédie classique, oc20
correva che davvero una « rivoluzione » - o piuttosto un possente scuotimento del cielo e della terra - fosse av venuta. Siamo così ricondotti al giovane intellettuale parigi no di cui Baudelaire evidentemente si faceva beffe e che brindava al dio Pan, perché il dio Pan « è la rivo luzione » . E osserviamo che Baudelaire scriveva L 'Éco/,e pai"enne nel 1852, men tre la lettera di Holderlin a Boh lendorff è del novembre 1802, esattamente cinquanta anni prima. Ciò di cui Baudelaire ci parla è dunque un caso di parodia involontaria di un'esperienza estrema, quella di Holderlin nel periodo che precede immedia tamente la follia - esperienza che per altro non solo era allora ignorata in Francia ma non era propriamente af fiorata neppure in Germania, innanzitutto per il sacro terrore che incuteva. Ma gli eventi sussistono, significa no e operano di per sé, anche se non vengono imme diatamente percepiti . Per capire come si era arrivati a quel goffo brindisi parigino al dio Pan, occorrerà torna re a Holderlin sulla strada di Bordeaux. E vi saranno tappe intermedie. La prima ci è offerta dall'unico emis sario che la Germania della Romantik avesse consegnato a Parigi: Heinrich Heine. Ed è Baudelaire stesso a com mentare il suo dialogo con il giovane intellettuale devo to al dio Pan riferendosi a Heine: « Mi sembra che que sto eccesso di paganesimo sia tipico di un uomo che ha letto troppo e letto male Heinrich Heine e la sua let teratura marcia di sen timentalismo materialista » . L'a sprezza di questi toni indurrebbe a pensare che Baude laire aborra Heine. Ma è vero il contrario. Di lì a poco lo avrebbe definito « questo incantevole ingegno, che sarebbe un genio se si volgesse più spesso verso il divi no » . Non solo, ma quando Jules Janin pubblicò, nel 1865, un feuilleton deprecatorio verso Heine, Baudelai re venne preso da « una grande rabbia » , come se quel l ' articolo gli avesse toccato un nervo scoperto . E si lan21
ciò a scrivere una veemente difesa di Heine , poeta - af fermava - al quale « la Francia non è in grado di con trapporre alcuno » . Ma tutto sarebbe rimasto in quello stato di furibonda ebollizione . E così avrebbe scritto a Michel Lévy: « Poi, una volta fatta la cosa, e contento di averla fatta, me la sono tenuta; non l ' ho spedita a nes sun giornale » . Per fortuna ci sono rimasti gli appunti. Dove spicca innanzitutto una frase che è l ' insorpassabi le epitaffio su ogni increscioso culto del bonheur: « ]e vous plains, monsieur, d' erre si facilement heureux » . Attaccando Heine, Janin aveva attaccato tutti i poeti « melanconici e beffardi » ai quali Baudelaire sapeva di appartenere. Da qui il tono vibrante, esacerbato della risposta, come di una estrema autodifesa. Se dunque Baudelaire giungeva nella sua ammirazione per Heine a identificarsi con lui, ne consegue che le righe irrispet tose dell' Écok pai'enne su Heine non rappresentano cer to il suo pensiero. E questa è la spia che conferma un sospetto decisivo: Baudelaire aveva scritto l ' intero arti colo mettendosi dalla parte dei suoi awersari. Dall' ini zio alla fine, il pezzo è composto come una sapiente messa in scena. E c'è di più: non solo Baudelaire assu me la posizione dei suoi awersari, ma sembra suggerire loro argomenti ben più efficaci e sferzanti di quelli che essi stessi avrebbero mai escogitato contro di lui. Que sto illumina soprattutto la sezione finale del pezzo, do po l ' a parte su Heine. Qui subito si ripiomba in Offen bach: « Ritorniamo all' Olimpo. Da qualche tempo ho tutto l ' Olimpo alle calcagna, e ne soffro molto; mi ca scano gli dèi sulla testa come fossero comignoli. Mi sembra di essere in mezzo a un brutto sogno, come se mi precipitassi nel vuoto e una folla di idoli di legno, di ferro, d' oro e d' argento cadessero insieme a me, mi in seguissero nella caduta, mi urtassero e mi spezzassero la testa e le reni». Questa visione esilarante e sinistra po trebbe essere il galop conclusivo della prima metà del22
l'Ottocento, che aveva visto non solo gli dèi della Grecia invadere di nuovo la psiche, ma dietro di loro un varie gato corteo di idoli dai nomi spesso impronunciabili: la renaissance orientak, filtrata dagli studi dei filologi che traducevano per la prima volta testi capitali, proliferan te in forma di statue, rilievi , amuleti nelle vaste cripte dei musei. Finalmente gli idoli tornavano ad assediare l' Europa - e proprio negli anni in cui si elaborava il ric co sottisier del Progresso e della Ragione rischiaratrice. Appare perciò obbedire a un mirabile tempismo sce nico il fatto che, a distanza di pochi mesi dall 'É cok paien ne, la « Revue des deux mondes » pubblicasse Les Dieux en exil di Heine , che ne è quasi un controcanto. Heine vi spiegava come, prima di tornare a invadere la scena, gli dèi pagani avevano dovuto condurre una lunga vita tormentosa e clandestina da esiliati, « tra le civette e i ro spi nei ruderi bui del loro trascorso splendore » . Una gran parte di ciò che il mondo chiama oggi « satanico » - aggiungeva - era in origine beatamente pagana. Ma che cosa accade quando gli dèi tornano a mostrarsi nel la loro piena malia, quando Venere ancora una volta se duce un mortale, che sarà Tannhauser? Allora non po tremo dire incessu patuit dea e neppure riconoscere mo in lei una « nobile quiete » , secondo il dettame di Winckelmann . Ma piuttosto Venere ci verrà incontro come una « donna demone, quella diavolessa di donna che, pur con tutta la sua boria olimpica e la magnificen za della sua passione, lascia nondimeno trasparire la da ma galante; è una cortigiana celeste e profumata di am brosia, è una divinità delle camelie, e per così dire una déesse entretenue». La vera notizia del giorno è dunque questa: le divinità dell' Olimpo esistono ancora e agisco no, ma abitano nel demi-monde. Complici come due pre stigiatori, Baudelaire e Heine fanno convergere il risve glio degli dèi e la parodia in una commistione irreversi23
bile. E con ciò prefigurano uno stato delle cose al quale ancora oggi apparteniamo. Ma un'altra sorpresa ci attende negli ultimi paragrafi dell 'É co/,e pai"enne, preceduti da uno spazio bianco che annuncia un brusco mutamento di registro. D ' improv viso il tono si fa grave e austero, come se Baudelaire as sumesse le movenze di un predicatore barocco, un Abraham a Santa Clara che infierisce contro le trappole del mondo: « Congedare la passione e la ragione significa uccide re la letteratura. Rinnegare gli sforzi della società ante riore, cristiana e filosofica, significa suicidarsi, significa rifiutare la forza e i mezzi di perfezionamento. Circon darsi soltanto delle seduzioni dell 'arte fisica significa creare alte probabilità di perdersi. A lungo, molto a lun go, non sarete capaci di vedere , amare, sentire che il bello, null' altro che il bello. Prendo la parola nel suo senso ristretto. Il mondo non vi apparirà che nella sua forma materiale. I congegni che ne reggono il movi mento resteranno a lungo nascosti. « Possano la religione e la filosofia venire un giorno, come costrette dal grido di un disperato ! Tale sarà sem pre il destino degli insensati che non vedono nella na tura altro che ritmi e forme. E comunque la filosofia al l ' inizio apparirà loro soltanto come un gioco interes sante, una ginnastica gradevole , una scherma nel vuo to. Ma quanto saranno puniti ! Ogni bambino il cui spi rito poetico sarà sovreccitato, che non poserà imme diatamente lo sguardo sullo spettacolo eccitante di co stumi attivi e laboriosi , che sentirà continuamente par lare di gloria e di voluttà, i cui sensi saranno ogni gior no carezzati, irritati, spaventati , accesi e soddisfatti da oggetti d ' arte, diventerà il più infelice degli uomini e renderà infelici gli altri. A dodici anni alzerà le gonne della sua nutrice e , se la potenza nel crimine o nell' ar te non lo innalzerà al di sopra delle fortune volgari, a 24
trent'anni creperà all ' ospedale. La sua anima, peren nemente irritata e insoddisfatta, se ne va per il mondo, il mondo occupato e laborioso; se ne va, intendo dire , come una prostituta e grida: Plasticità ! plasticità! Plasti cità, questa orrenda parola mi fa venire la pelle d' oca, la plasticità l ' ha awelenato, e tuttavia non può vivere se non grazie a quel veleno. Egli ha bandito la ragione dal suo cuore e, per giusto castigo, la ragione rifiuta di rien trare in lui. Tutto quel che di più felice gli può ac cadere è che la natura lo colpisca con un terrificante ri chiamo all ' ordine. Di fatto, tale è la legge della vita: chi rifiuta le gioie pure dell ' attività onesta non può sentire che le gioie terribili del vizio. Il peccato contiene il suo inferno, e la natura dice di tanto in tanto al dolore e al la miseria: Andate a sconfiggere quei ribelli ! « L' utile, il vero, il buono, ciò che veramente è ama bile, tutte queste cose gli saranno ignote . Infatuato dal suo sogno sfibran te , vorrà infatuarne e sfibrarne gli al tri. Non penserà a sua madre, alla sua nutrice; farà a pezzi i suoi amici o non li amerà che per la wro forma; sua moglie , se ne ha una, la disprezzerà e awilirà. « Il gusto smoderato della forma spinge a disordini mostruosi e sconosciuti. Assorbite dalla passione feroce del bello, del bizzarro, del grazioso, del pittoresco, poi ché i gradi sono vari, le nozioni del giusto e del vero scompaiono. La passione frenetica dell 'arte è un can cro che divora il resto ; e, poiché l'assenza drastica del giusto e del vero equivale all 'assenza d'arte, l'uomo in tero scompare; la specializzazione eccessiva di una fa coltà sfocia nel nulla . . . Bisogna che la letteratura vada a ritemprare la sue forze in un ' atmosfera migliore. Vici no è il momento in cui si capirà che ogni letteratura che si rifiuti di andare avanti fraternamente fra la scien za e la filosofia è una letteratura omicida e suicida». Questa pagina lascia allibiti per la sua ambiguità. Baudelaire sembra voler agganciare le sue convinzioni 25
più profonde e gli argomenti dei suoi più acerrimi ne mici in una stessa catena. Leggendo, si è colti da un dubbio che intacca tutto . L' impressione dominante è quella di ascoltare un avversario teologico di Baudelai re, che però disponesse della sua eloquenza penetran te e del suo pathos. Nonché della sua irreprimibile in clinazione al grottesco, che si fa riconoscere là dove, per esempio , il fanciullo estetico e satanico ci viene mostrato mentre « a dodici anni » alza « le gonne del la sua nutrice » . O quando , come un Monsieur Prud homme ante litteram, Baudelaire si appella ai « costumi attivi e laboriosi » nonché alle « gioie pure dell ' attività onesta » . Dettagli che sembrano disseminati apposta come altrettanti segnali di un perverso gioco di ruoli scambiati . Ma occorre anche dire che, là dove il testo non è buffonesco, e il tono è austero e duro, l ' argo mentazione non manca di una sua torva efficacia. È come se Baudelaire avesse qui evocato la figura di un Grande Inquisitore , anticipando il penoso Pubblico Ministero che inviterà a condannare Les Fl,eurs du mal e trasformandolo in un Joseph de Maistre letterario. Ma perché appellarsi ad accenti così gravi? Il motivo era evidente: qualcosa di altamente insidioso stava acca dendo - anzi, era già accaduto: l'evasione degli dèi paga ni dalle nicchie della retorica, dove molti pretendevano di averli confinati. Un giorno erano apparse come loculi vuoti. E ora quei nobili latitanti si mescolavano beffarda mente alle folle delle metropoli. Sarebbe stato Verlaine a raccontare quello strano caso, con la sua disarmante na turalezza, in un sonetto giovanile intitolato Les Dieux: Vaincus, mais non domptés, exilés mais vivants Et malgré les édits de l ' Homme et ses menaces, Ils n ' ont point abdiqué, crispant leurs mains tenaces Sur des tronçons de sceptre , et ròdent dans les vents. 26
Vinti , ma non domi, esiliati ma vivi, Nonostante gli editti dell ' Uomo e le minacce, Non hanno abdicato, e stringono le loro mani tenaci Su monconi di scettro, e vagano nei venti. La visione è lugubre . Gli dèi incantatori si aggirano come « spettri rapaci » nella desolazione . È venuto il loro momen to di suonare la « rivolta con tro l ' Uomo » , nel quale riconosciamo l e terno farmacista Homais ancora « stupefatto » di esser riuscito a scacciarli e già pronto ad affliggere l ' Umanità con il goffo peso di una maiuscola. Seguiva un ultimo avviso: Du Coran , des Védas et du Deutéronome , De tous les dogmes, pleins de rage, tous les dieux Sont sortis en campagne: Alerte! et veillons mieux. Dal Corano, dai Veda e dal Deuteronomio, Da tutti i dogmi, pieni di furia, tutti gli dèi Sono usciti allo scoperto: Allarme! e più attenti a vegliare. Si direbbe che il ritorno degli dèi pagani oscillasse con preoccupante facilità tra il vaudeville e il romanzo nero . Ma, dietro quello scenario , l'innominato Inqui sitore intravedeva un pericolo più sottile : l ' emancipa zione dell 'estetico. Ed è come se prevedesse quella gi,u stijicazione estetica del mondo che solo Nietzsche, anni dopo, si azzarderà a enunciare . L' insidia sta nello svin colarsi della categoria del Bello dalle sue obbedienze canoniche: al Vero e al Buono. Se questo accade - e qui l ' Inquisitore è illuminante -, si sviluppa un « gusto smoderato della forma » e « la passione frenetica del l ' arte . . . divora il resto » . Alla fine, nulla rimane, nep pure l ' arte stessa. Rimane un fondo soltan to estetico, dove però « il nulla traspare » (secondo la parola di Valéry). Ma non era questo l ' argomento principe che, 27
da allora a oggi, sarebbe stato sguainato contro la let teratura nuova - e in ogni caso: contro la grande lette ratura, a partire da Baudelaire stesso? Le formule più significative del testo - « il gusto smoderato della for ma » , la « passione feroce del bello » , « la passione fre netica dell ' arte » - diventeranno presto la « magia del l ' estremo » di Nietzsche e il fanatismo della forma di Benn: che sono poi la regale discendenza di Baudelai re stesso . Ci accorgiamo allora che l ' arringa del Gran de Inquisi tore getta la sua ombra molto avan ti. La divagazione di Baudelaire sull' École paienne ha qualcosa di unico perché riesce ad articolare in poche pagine, e nello stile di un pezzo di colore , tre elemen ti che mai prima erano stati considerati come inestri cabilmente connessi: il risveglio degli dèi , la parodia e la letteratura assoluta (se con ciò si intende la lettera tura nella sua forma più acuminata e intolleran te di qualsiasi bardatura sociale). Spostiamoci ora alla sce na di oggi, quale appare ogni giorno sotto i nostri oc chi: innanzitutto, gli dèi ci sono ancora. Ma non sono più una sola famiglia, per quanto complicata, che abi ta in vaste dimore sparse sulle pendici di una monta gna. Ormai sono una moltitudine che pullula in una città sterminata. Non importa se i loro nomi suonano spesso esotici e impronunciabili, come quelli che si leggono accanto ai campanelli di una casa di immigra ti. Il potere delle loro storie continua ad agire . Ma la situazione ha questo di peculiare : che la composita tribù degli dèi sussiste ormai soltan to nelle sue storie e nei suoi idoli dispersi. La via del culto è sbarrata. O perché non esiste più un popolo di devoti che compia i gesti rituali. O perché comunque i gesti si fermano troppo presto : le statue di S iva e Vi�Q.U continuano a essere umide di omaggi , ma già VaruQ.a è un'enti tà re mota, senza profilo, per un indiano di oggi . E Prajapa ti si incontra solo nei libri . Questa, si direbbe, è diven28
tata la condizione naturale degli dèi: apparire nei li bri. E spesso in libri che pochi aprono. È forse un pre ludio all ' estinzione? Solo in apparenza. Perché nel frattempo tutte le potenze del culto sono migrate in un solo atto, immobile e solitario : quello del leggere . Per un immane abbaglio il mondo, obnubilato dall' in tossicazione telematica, si pone questioni piuttosto va cue sulla soprawivenza del libro . Mentre il fenomeno grandioso che sta davanti a noi e non viene nominato è un altro : l ' altissima, inaudita concentrazione di po tenza che si è addensata, e si sta addensando, nel puro atto del leggere . Che davanti agli occhi sia uno scher mo o una pagina, che vi scorrano numeri , formule o parole, nulla cambia: si tratta pur sempre di lettura. Il teatro della mente sembra essersi dilatato , per acco gliere schiere proliferanti di segni in attesa, incorpora ti in quella protesi che è il computer. Ma, con supersti ziosa sicurezza, tutti i sortilegi e tutti i poteri vengono attribuiti a ciò che appare sullo schermo, non alla mente che lo elabora - e innanzitutto lo legge. Eppure , che cosa potrebbe essere altrettanto avanzato tecnolo gicamente quanto una trasformazione che awiene in modo del tutto invisibile , come all ' interno della men te? Il processo è carico di conseguenze nascoste : an che se la mente è ancora rudimentale , congiungendo si con lo schermo a formare un nuovissimo Centauro essa si abitua a vedersi come un teatro illimitato . Tanto basta, all ' inizio. Quella scena sterminata a nulla somi glia come alla vibran te distesa oceanica nella quale i veggenti vedici riconoscevano la mente stessa, manas. E già ora negli interstizi di quel teatro si aprono, da vanti agli occhi di chiunque , le vaste caverne dove ri suonano, come sempre , i nomi degli dèi. Il mondo - è ormai tempo di dirlo, anche se la noti zia sarà sgradita a tan ti - non ha alcuna intenzione di disincantarsi sino in fondo, se non altro perché, se ci 29
riuscisse , si annoierebbe troppo . Nel frattempo la pa rodia è diventata una pellicola sottile che awolge tut to . Oggi, quello che era, in Baudelaire e in Heine, una scheggia awelenata di Offenbach si è rivelato essere la cifra di un ' epoca. Oggi, qualsiasi cosa si manifesti ap pare innanzitutto come parodia. Parodia è la natura stessa. Poi, con fatica e con sottili accorgimenti, può darsi che qualcosa riveli di andare oltre la parodia. Ma occorrerà sempre confrontarla con quella che è la sua originaria versione parodica. Infine: la letteratura as soluta. Ciò che, secondo il Grande Inquisitore di Bau delaire, si manifestava ancora come pericolo nell' om bra, insidia serpeggiante , eventuale degenerazione si è rivelato essere la letteratura stessa. O almeno quell ' u nica specie di letteratura di cui sono venuto qui per parlarvi.
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II ACQUE MENTALI
Gli dèi si manifestano per intermittenze, secondo lespandersi e il rifluire di quella che Aby Warburg definì « onda mnemica » . L'espressione, che si incon tra sulla soglia di un saggio postumo su Burckhardt e Nietzsche , accenna a quegli urti successivi della me moria che colpiscono una civiltà in rapporto al suo passato , in questo caso a quella parte del passato occi den tale che è abitata dagli dèi della Grecia. Tutta la storia europea è accompagnata da quest'onda, che a tratti dilaga, a tratti si ritrae - e i due casi scelti da War burg corrispondono a una polarità di reazioni, osser vabile in un momento in cui l'onda è poderosa e inva dente . Burckhardt e Nietzsche erano innanzitutto ac comunati , secondo Warburg, dal fatto di essere due necromanti nel loro modo di trattare il passato . Ma ben diverso , anzi opposto, era il loro atteggiamento verso l' « onda mnemica » . Da una parte Burckhardt, che tiene fino all'ultimo a mantenere pun tigliosamen te un senso della distanza, anche per una precisa per cezione del pericolo, del terrore che si accompagna a 33
quell ' onda. Dall ' altra Nietzsche, che all'onda si ab bandona, che diventa l ' onda, sino ai giorni in cui firma alcuni biglietti da Torino con il nome Dioniso. In par ticolare uno allo stesso Burckhardt, che si conclude con queste parole: « Ora Lei è - tu sei - il nostro gran de, il nostro più grande maestro: poiché io, insieme con Arianna, devo soltanto essere l ' aureo equilibrio di tutte le cose, per ogni tratto vi sono coloro che stanno al di sopra di noi . . . » . Firmato : Dioniso . Ma si può dire che, a partire dagli Orti Oricellari nella Firenze del primo Quattrocento, frequen tati da Ficino, Poliziano, Botticelli, sino a oggi, è tutto un succedersi di picchi e cadute . Dove il cavo più profondo dell ' onda sarà forse un certo momento del Settecento francese, quando con la stessa disinvolta e ilare sicumera venivano deri se le puerili favole greche, il barbarico Shakespeare e le sordide storie bibliche, che si ritenevano escogitate da occhiuti sacerdoti per soffocare i Lumi nascenti . E poteva anche accadere che questa molteplice derisione promanasse dallo stesso ingegno: quello di Voltaire . Nel corso di questa lunga, tortuosa, insidiosa st oria gli dèi pagani possono assumere ogni sorta di profili, camuffamenti, incombenze. Spesso hanno mera esi stenza cartacea, in quanto allegorie morali, personi ficazioni, prosopopee e altri accorgimenti tratti dal l ' armamentario della retorica. Talvolta sono cifra se greta, come nei testi alchemici. Talvolta sono puro pretesto lirico, sonorità evocativa. Eppure abbiamo quasi sempre la sensazione che alla loro natura non sia concesso libero corso, come se un sottaciuto timo re li accompagnasse, come se il padrone di casa - la mano che scrive - li considerasse ospiti eminenti ma incontrollabili, perciò da spiare con discrezione. A lungo eufemizzati e imbrigliati nei testi letterari, gli dèi si sfrenano invece nella pittura. Grazie alla sua mu tezza, che le permette di essere immorale senza di34
chiararlo, l ' immagine dipinta può restituire gli dèi alle loro apparizioni fascinose e terrorizzanti in quan to si mulacri . Così un lungo, ininterrotto festino degli dèi ac compagna la storia occidentale , da Botticelli o Giovan ni Bellini, attraverso Guido Reni o Bernini, attraverso Poussin o Rembrandt (il Ratto di Proserpina bastereb be), attraverso Saraceni o Furini o Dossi , fino ai Tie polo. Sono questi , per quasi quattro secoli, i nostri dèi : silenziosi e irradianti dalle pinacoteche, dai parchi, dagli occulti studioli. Se togliessimo le raffigurazioni degli dèi pagani dalla pittura fra Quattrocento e Sette cento , si verrebbe a creare una voragine centrale, ri succhiante , e l ' evolversi dell ' arte in quei secoli appari rebbe sconnesso e schizoide , come se in segreto il pas saggio delle consegn e , da uno stile all ' altro e da un ' e poca all ' altra, fosse avvenuto per il tramite degli dèi stessi e dei loro emissari , che siano Ninfe o Satiri o ala ti messaggeri . Ma soprattutto Ninfe . Furono proprio questi esseri femminili dalla vita immensamente lunga, ma non im mortali, a formare , per secoli , il drappello più fedele che accompagnava le metamorfosi dello stile . Annun ciate per la prima volta, nel Quattrocento fiorentino, dalla brezza che increspava le loro vesti (ed era una « brise imaginaire >>, come avvertì Warburg), non han no mai cessato di occhieggiare da fontane, caminetti, soffitti , colonne, balconi, edicole e balaustre . E non erano soltan to un pretesto erotico perché un seno o un ventre scoperto occupassero nicchie del campo vi sivo, anche se talvolta lo furono. Le Ninfe sono gli aral di di una forma della conoscenza, forse la più antica, certo la più rischiosa: la possessione. Lo constatò per primo Apollo , quando assediò, e poi spodestò, la Nin fa Telfusa, solitaria guardiana di un « luogo in tatto » ( chB ros apé mon) , dice l ' Inno omerico, nelle vicinanze di Delfi . Lì era giunto il dio nella sua ricerca di un sito 35
dove fondare un oracolo per coloro che vivono nel Pe loponneso, nelle isole, e per « quanti abitano l ' Euro pa » - ed è il primo testo dove l ' Europa viene nomina ta come entità geografica, che qui ancora significa sol tan to la Grecia del centro e del nord. Apollo incontrò prima la Ninfa Telfusa, poi la draghessa Pitone . En trambe proteggevano una « fon te dalle belle acque » , come dice l ' inno, usando l a stessa formula due volte . A entrambe Apollo si rivolse con identiche parole , an nunciando i suoi propositi . Perché in loro una stessa potenza si sdoppiava, apparendo una volta sotto spe cie di incan tevole fanciulla e una volta come enorme serpente arrotolato. Un giorno, le due figure si sareb bero riunite in Melusina. Ora, le riuniva ciò che custo divano : un ' acqua che sgorga. Acqua potente e sapien te. Apollo fu innanzitutto il primo invasore e usurpa tore di quel sapere che non gli apparteneva: un sapere liquido , fluido, al quale il dio imporrà il suo metro. Da allora si lasciò chiamare anche Apollo Telfusio. Njmphe significa « fanciulla pronta alle nozze » e « polla d ' acqua » . I due significati sono ciascuno la guaina dell ' altro. Awicinarsi a una Ninfa significa es sere presi , posseduti da qualcosa, immergersi in un elemento morbido e mobile che può rivelarsi , con pa ri probabilità, esaltante o funesto. Socrate rivendicava con fierezza, nel Fedro, di essere un nymph6wptos, « cat turato dalle Ninfe » . Ma Hylas, amante di Eracle, fu per sempre inghiottito in uno specchio d ' acqua abita to dalle Ninfe . Il braccio della Ninfa che lo cingeva per baciarlo al tempo stesso « lo faceva affondare in mezzo al gorgo » . Nulla è più terribile , nulla è più pre zioso del sapere che viene dalle Ninfe . Ma che cosa sono le loro acque? Solo nella tarda paganità ci vie ne sussurrato, quando Porfirio nell ' Antro delle Ninfe ci ta un inno ad Apollo dove si parla delle « noero n hyda ton » , delle « acque mentali » , che le Ninfe presentaro36
no in dono ad Apollo. Conquistate , le Ninfe offrivano se stesse . Ninfa è la fremente , oscillante , scintillante materia mentale di cui sono fatti i simulacri, gli eidi5la. Ed è la materia stessa della letteratura. Ogni volta che si profila la Ninfa, vibra quella materia divina che si plasma nelle epifanie e si insedia nella mente , potenza che precede e sostiene la parola. Dal momento in cui quella potenza si manifesta, la forma la segue e si adat ta, si articola secondo quel flusso. L'ultima grandiosa e fiammeggiante celebrazione della Ninfa è in Lolita, storia di un nymph6leptos, il pro fessor Humbert Humbert, « cacciatore incan tato » , che entra nel regno delle Ninfe seguendo un paio di calzi ni bianchi e di occhiali a forma di cuore . Nabokov, che era maestro nel disseminare i suoi libri di segreti così evidenti e offerti agli occhi di tutti che nessuno li ve deva, espose i motivi del suo straziato , son tuoso omag gio alle Ninfe già nelle prime dieci pagine del roman zo, là dove , con l ' acribia del lessicografo, spiegava che « Accade a volte che talune fanciulle, comprese tra i confini dei nove e i quattordici anni, rivelino a certi viaggiatori incan tati - i quali hanno due volte , o molte volte , la loro e tà - la propria vera natura, che non è umana, ma di ninfa (e cioè demoniaca); e intendo de signare queste elette creature con il nome di "ninfet te " » . Anche se la parola « ninfe tta » era destinata a in contrare una travolgente fortuna, soprattutto nel cir cuito ecumenico della pornografia, non molti lettori si resero conto che in quelle righe Nabokov offriva la chiave del suo enigma. Lolita è una Ninfa vagante fra i motel del Middle West, « un demone immortale trave stito da bambina » in un mondo dove i nymph6leptoi possono scegliere soltanto fra essere considerati crimi nali o psicopatici, come il professor Humbert Hum bert. Dalle « acque mentali » delle Ninfe agli dèi agevo le è il passaggio . Anche perché a fare incursioni sulla 37
terra gli dèi erano stati attratti più spesso dalle Ninfe che dagli umani. Ninfa è il medium dove gli dèi e gli uomini awenturosi si incon trano. Quanto agli dèi, co me riconoscerli? In questo , gli scrittori sono sempre stati felicemente spregiudicati . Hanno sempre agi to come se sottintendessero una illuminata osservazione di Ezra Pound: « Non essendosi mai trovata metafora più adatta per certi colori emotivi asserisco che gli dèi esistono » . Scrittore è colui che vede quei « colori emo tivi » . Quan to alla verità esoterica di Lolita, Nabokov que sta volta la addensò in una minuscola frase celata co me una scheggia di diamante nell ' intrico del roman zo: « La ninfolessia è una scienza esatta » . Tacque sol tan to che tale « scienza esatta » era quella che aveva da sempre praticato, ancor più che l ' entomologia: la let teratura. Se le Ninfe aprono la via, anche altre figure divine possono irrompere nella letteratura. Così è potuto ac cadere che, in rari momenti di pura incandescenza, gli dèi stessi siano tornati a essere una presenza che la scia ammutoliti e sopraffatti come l ' incontro con un ignoto viandante . Fu questo il caso per Holderlin . Na to alla fine dell' epoca più arida e refrattaria verso gli dèi stessi, nel 1770, si direbbe che sin dall ' inizio fos se pronto a ricevere I ' « onda mnemica » come uno schian to sulle rocce. Ma non si deve credere che la sensibilità di Holderlin spiccasse solitaria, mentre que sto sarebbe presto awenuto con la forma dei suoi inni. Quando Holderlin era ancora precettore in casa di Diotima - owero Susette Gontard, moglie di un ban chiere di Francoforte -, e ancora Apollo non lo aveva folgorato sulle strade di Francia, venne a visitarlo, nel1' ottobre del 1797, il venti treenne Siegfried Schmid. Parlarono di poesia per due ore nella mansarda dove 38
Holderlin viveva. Tornato a Basilea, Schmid scrisse al poeta una lettera che ancora vibrava di oscuro entusia smo. E aggiungeva alcuni versi , fra cui questo distico: Alles ist Leben , beseelt uns der Gott, unsichtbar, empfundnes. Leise Beriihrungen sind's; aber von heiliger Kraft. Tutto è vi ta, se ci anima il dio , invisibile, sentita. Sono lievi tocchi; ma di forza sacra. Difficilmente si sarebbe potuto accennare meglio, e con maggiore sobrietà, quale era la tonalità fonda mentale non di un singolo, ma della psiche poetica in quel momento. Era già questo un esempio di quella « chiarezza della raffigurazione » ( Klarheit der Darstel lung) che « per noi originariamente è altrettanto natu rale quanto per i Greci il fuoco del cielo » avrebbe det to Holderlin stesso. Prima ancora che si presentino dei nomi, che la Grecia risorga vorticosamente nelle sue figure, con i loro clamorosi cortei, qui si tratta di « lievi tocchi » , che awertono della presenza di un dio innominato . Ed era questa l ' esperienza su cui tutto si fondava. Poi ciascuno la elaborava a suo modo. Già due anni prima Herder si era chiesto se quel nuovo es sere di cui tanto si parlava - la nazione - non dovesse avere una mitologia propria, e presagiva una resurre zione del mito eddico. Già Schiller gli aveva risposto che preferiva rimanere dalla parte dei miti greci, quin di « imparentato con un ' epoca remota, straniera e ideale, poiché la realtà avrebbe soltanto potuto spor carla » . E pochi mesi dopo Friedri ch Schlegel si sareb be chiesto se fosse possibile concepire « una nuova mitologia » . Questione fatale, che sarebbe rimbalzata ovunque in Europa, fino a Leopardi. Il quale era cer tamente incline alle « favole antiche » , in quanto arca39
ni relitti di un mondo in cui la ragione non aveva an cora potuto dispiegare i suoi effetti di potenza che « rende piccoli e vili e da nulla tutti gli oggetti sopra i quali ella si esercita, annulla il grande, il bello, e per così dire la stessa esistenza, è vera madre e cagione del nulla, e le cose tan to più impiccoliscono quan to ella cresce » . Ma troppo lucida era la visione di Leopardi, troppo preciso il suo orecchio per non cogliere che I ' « antica mitologia » , se trasportata di peso , come una collezione di gessi , nel mondo moderno, « non può più produrre gli effe tti di una volta » . Infatti , « appli cando nuovamente le stesse o altre tali finzioni, sia ad argomenti antichi, sia massimamente a soggetti mo derni o de ' bassi tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e falso, perché manca la tal quale per suasione, quando anche la parte del bello immagina rio, maraviglioso ec. sia perfetta » . In noi moderni, in tende Leopardi, manca la « persuasione » , che altro non è se non l ' in trecciarsi inestricabile delle « favole antiche » con i gesti e le credenze condivise da una co munità, « giacché non abbiamo già noi colla letteratu ra ereditato eziandio la religione greca e latina » . Man cando questo sostrato, ne consegue che « gli scritto ri italiani o moderni che usano le favole antiche alla maniera degli an tichi, eccedono tutte le qualità della giusta imitazione » . Il risultato è una « affettazione e finzione barbara » , un goffo atteggiarsi « simulando di essere antichi italiani, e dissimulando al possibile di es sere italiani moderni » . Questo è il Leopardi che non perdona - e sembra siglare una sen tenza liquidatoria non soltanto sugli empiti romantici verso le « favole antiche » ma su tutta una gestualità verbale ancora non nata di parnassiani e simbolisti che si appellavano agli dèi per oscurare il bottegaio sotto casa. Ma, oltre a questo giudizio tagliente su ogni velleità di « nuova mi40
tologia » , in Leopardi incontriamo una comprensiva e lungimirante giustificazione per l ' uso delle « favole an tiche » . Esse servono - anzi sono preziose - per sfuggi re all ' asfissia del proprio tempo, rispetto a cui il poeta non può che essere un perenne sabotatore , poiché « tutt' altro potrà esser contemporaneo a questo secolo fuorché la poesia » . E qui si direbbe che Leopardi pre disponga una magnanima arringa in difesa di Flau bert, per assolverlo dall ' unico peccato che gli si può rimproverare : non certo l ' immoralità di Madame Bo vary, ma il corrusco naufragio di Salammb6. Ascoltiamo la perorazione : « Perdono dunque s e i l poeta moderno segue le co se an tiche, se adopra il linguaggio e lo stile e la manie ra antica, se usa eziandio le antiche favole ec. , se mo stra di accostarsi alle an tiche opinioni , se preferisce gli antichi costumi , usi , avvenimenti, se imprime alla sua poesia un carattere d' altro secolo, se cerca in somma o di essere , quan to allo spirito o all 'indole, o di parere antico. Perdono se il poeta, se la poesia moderna non si mostrano, non sono contemporanei a questo secolo, poiché esser contemporaneo a questo secolo, è, o in chiude essenzialmente , non esser poeta, non esser poesia » . Leopardi parlava degli scrittori che nominavano gli dèi an tichi. Ma c'è uno scrittore per il quale sussiste il sospetto che abbia visto gli dèi enargeis, pienamen te « evidenti » : Holderlin. Rispetto a ogni contempo raneo, ciò che avvenne in Holderlin - e nel distico Schmid delicatamente lo annunciava - fu qualcosa di più radicale. Occorre spingersi dietro gli dèi , fino al pu ro divino, ovvero ali' « immediato » , come Holderlin avrebbe scritto un giorno in un abbagliante frammen to su Pindaro . E l ' immediato è ciò che sfugge, non so41
lo agli uomini, ma agli dèi: « L' immediato, a rigore , è impossibile per i mortali come per gli immortali » . Le parole di Holderlin si riferiscono al frammento di Pin daro dove si parla del « n6mos basileus » , della « legge che regna su tutti , mortali e immortali » . Qualsiasi al tra cosa esso sia, il divino è certamen te ciò che impo ne con la massima intensità la sensazione di essere vi vi. Questo è l ' immediato: ma la pura intensità, come even to continuo, è « impossibile » , sopraffacen te . Per mantenere la sua sovrani tà, l ' immediato deve trasme t tersi attraverso la legge . Se la vita stessa è il supremo invivibile , la legge , che permette di « distinguere mon di diversi » , sia per i mortali sia per gli immortali, è ciò che ne trasmette la natura. Almeno se con tale parola si intende - sempre seguendo Holderlin - ciò che « è al di sopra degli dèi dell ' Occidente e dell ' Oriente » . D i essa si dice anche che è « generata dal sacro caos » . A questo pun to Heidegger s i chiedeva: « Come posso no stare insieme chaos e n6mos?». Il carattere più teme rario della poesia di Holderlin si trova forse in questo : mai prima di lui , e dopo di lui, caos e legge si erano tanto avvicinati e avevano riconosciuto , come nell' In dia vedica - dove Dak�a, il supremo ministro, è figlio di Adi ti , l ' Illimitata, e Adi ti è figlia di Dak�a -, un rap porto di generazione reciproca. Il caos genera la leg ge, ma soltanto la legge permette di accedere al caos. L'inavvicinabile immediato è il caos - e « il caos è il sa cro stesso » aggiunge Heidegger, e subito sviluppa una modulazione, che sarebbe sembrata ovvia ai teorici del nirukta e suona incongrua ai linguisti occidentali , dal verbo ent-setzen, « spostare » , al neutro das Entsetzliche, « il tremendo » , che serve a definire il sacro: « il sacro è il tremendo ( das Entsetzliche) stesso » . E qui segue una frase misteriosa: « Ma il tremendo resta nascosto nella mitezza del lieve abbraccio » . Parole dove in trasparen42
za - una trasparenza certamente auspicata da Heideg ger - intendiamo risuonare Rilke : Denn das Schone ist nichts als des Schrecklichen Anfang, den wir noch grade ertragen. Poiché il bello non è che l ' inizio del tremendo, quale riusciamo a sopportare. E al tempo stesso vi ritroviamo la parola del giova ne Schmid: « Sono lievi tocchi; ma di forza sacra » . Fra Schmid e Rilke, fra il 1797 e il 1923, sempre di nuovo lo stesso brivido, di ebbrezza e di sgomento , aveva at traversato la parola. Era stato quello il periodo in cui l ' epifania di una molteplicità di dèi era andata insie me a uno scuotimento delle forme, a un prolungato contatto con il « sacro caos » , allo svincolarsi della let teratura da ogni precedente obbedienza. Ma, anche per ciò che riguarda questa nuova visione del caos, sarebbe sviante credere che essa fosse un trat to peculiare ed esclusivo di Holderlin. Anzi, si potreb be precisare qual è l ' anno glorioso del caos. È il 1800. In quei mesi Holderlin scrive Wie wenn am Feiertage. . , che però raggiungerà i suoi lettori soltanto nel 1910, quando Hellingrath la pubblicherà. Lì si presenta il motto inaugurale: « das Heilige sei mein Wort » , « il sa cro sia la mia parola » ; lì - tre versi dopo - si parla del la natura « risvegliata con clangore di armi » ; lì, subito dopo, si nomina il « sacro caos » . Ora, nell' aprile del 1800 si poteva leggere , sul quinto fascicolo dell ' « Athe naeum » , la Conversazione sulla poesia di Friedrich Schle gel . E qui, poiché in Schlegel non parla più una sin golarità irriducibile , ma la voce di un gruppo di affini - di un Bund che si estendeva da Novalis a Schelling -, siamo costretti a riconoscere come certe parole avesse ro acquisito una risonanza sino allora inaudita. Im.
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prowisamente la parola> , verbo così fisico. Che presuppone, per il verso, un precedente stato di intoc cabilità. Mentre ora sembrava prospettarsi l ' en trata in una condizione promiscua. E Mallarmé continuava 107
poi a parodiare la prima pagina di un giornale, ma questa volta per la colonna dell ' editoriale : « I governi cambiano: sempre la prosodia rimane intatta: sia che, nelle rivoluzioni, passi inosservata sia che l ' attentato non si imponga insieme all ' opinione che questo dog ma ultimo possa variare » . Poi si scusava per la dizione spigolosa e ansimante , come di chi ha visto un inci dente e freme di riferirne, con una angoscia commisu rata alla gravità del fatto: « Perché il verso è tutto , se si scrive » . Mallarmé non dice: « se si è poeti » . Dice: « se si scrive » . Presupposto : che la prosa stessa non sia che « un verso spezzato, che gioca con i suoi timbri e an che le rime dissimulate » . Seguono alcune righe tecni che, con un lampo finale : « perché ogni anima è un nodo ritmico » . Osserviamo questa sequenza di puro teatro menta le, che è poi la disciplina per elezione di Mallarmé: chiamato a parlare sul tema « French poetry » , quasi da scuola serale, e preceduto - per quei pochi che già avevano sentito parlare di lui - da una fama di poeta non fra i più accessibili, Mallarmé esordisce con una formula che potrebbe essere il titolo cubitale di un quotidiano della sera; enuncia poche righe dopo - an zi sottintende - una delle sue tesi più audaci: che la prosa non esiste, che tutto è verso, più o meno ricono scibile; infine culmina in una di quelle formule irra dianti di cui aveva il segreto: l ' anima come « nodo rit mico » . Chi non colga il «fiore » di Mallarmé - nel sen so che la parola aveva per Zeami, fondatore del teatro No - nella successione di queste tre scene difficilmen te lo coglierà in un suo sonetto . Ma ten tiamo di ricostruire gli even ti dei quali urge va a Mallarmé dare notizia. All ' origine troviamo la morte di Victor Hugo, nel 1 885. Era stata una brusca svolta nella storia segreta della letteratura. Mallarmé così l ' avrebbe descritta in Crise de vers: 1 08
« Hugo, nel suo compito misterioso , ridusse tutta la prosa, filosofia, eloquenza, storia al verso , e , poiché egli era in persona il verso , confiscò a coloro i quali pensano, discutono, narrano, quasi il diritto di enun ciarsi. Monumento in questo deserto, con il silenzio lontano; in una cripta, la divinità di una maestosa idea inconscia: che la forma chiamata verso è semplice mente essa stessa la letteratura; che si dà verso non ap pena si accen tua la dizione, ritmo allorché si dà stile . Il verso, credo, rispettosamente attese che il gigante che lo identificava con la sua mano tenace e sempre più ferma di fabbro venisse a mancare : per spezzarsi . Tutta la lingua, accordata con la metrica, da cui recupera le sue scansioni vi tali, evade, secondo una libera disgiun zione dai mille elementi semplici » . Se la storia della letteratura sapesse nominare ciò che accade nella letteratura, parlerebbe così . In poche righe Mallarmé aveva raccon tato il movimento, prima centripeto poi cen trifugo, che governa la lingua fran cese fino a lui - e da lui a oggi . Centripeto : Hugo confisca tutte le forme nella sua fumosa officina. La scia così intendere che il verso ingloba in sé tutta la letteratura. Centrifugo: alla morte di Hugo la lettera tura prende l ' occasione per evadere dal cerchio magi co del metro , non più protetto dal possente Ciclope , e disperdersi « secondo una libera disgiunzione dai mil le elemen ti semplici » . Primo sin tomo di questa fase : alcuni giovani poeti cominciano a rivendicare , talvolta con ingenua spavalderia, la pratica del vers libre. Mal larmé sa come nessuno che il vers libre non è una gran de scoperta. Anzi, che parlare di libertà in letteratura è improprio - e suggerisce (genialmen te ) di chiamare quel nuovo verso « polimorfo » . Ma non scoraggia quei giovani . Perché vede in loro i primi agenti del saluta re rimescolamento conseguente alla « frammentazio ne dei grandi ritmi letterari » . Ora, quasi d ' improwiso, 1 09
i metri, e persino l ' alessandrino, che fra di essi è il « gioiello definitivo » , fluttuano come nobili relitti , alla · stregua di un « vecchio stampo esausto » , mentre Lafor gue già invita a subire « il sicuro incan to del verso fal so » . Ora le « dissonanze sapien ti » sono un ' attrazione per la sensibilità più delicata, mentre un tempo sareb bero state semplicemente condannate , con furia pe dantesca. E qualcosa di affine stava accadendo in mu sica, dove il cromatismo esacerbato feriva e svuotava dall 'interno la tonalità sino a che i viennesi l ' avrebbe ro ripudiata. Ma questi eventi andavano osservati sulla base an che di un' altra traumatica notizia che Mallarmé si ri tenne ugualmente in dovere di trasmettere . Con som ma sprezzatura, scelse questa volta l occasione di una inchiesta giornalistica condotta per conto dell ' « É cho de Paris » dal provvidenziale Jules Huret. Al quale così avrebbe parlato : « Il verso è ovunque nella lingua vi sia ri tmo, ovun que salvo nei manifesti e negli annunci pubblicitari . Nel genere chiamato prosa, ci sono versi , talvolta mi rabili, in ogni ritmo. Ma, in verità, la prosa non c ' è : c ' è l ' alfabeto e poi dei versi p i ù o meno fitti , più o meno radi. Ogni volta che c'è sforzo di stile, vi è versifi cazione » . Dichiarazione sufficiente per rovesciare l e posizioni di tutti i termini, con una audacia incomparabilmente maggiore di quella dei vers-libristes. Bastavano quelle tre frasi per far assumere al verso una fisionomia che pri ma di quel momento sarebbe apparsa aberran te : non più il verso canonico della metrica e neppure l ' infor me verso libero, ma un essere pervasivo e ubiquo, ner vatura occulta di ogni composizione di parole. Se il verso rispettoso della prosodia ha subìto un atten tato che ne lede per sempre l ' i n tegrità, se la prosa addirit110
tura « non c ' è » , che cosa rimane allora? La letteratura, ma in un suo nuovo avatar: scintillan te ovunque , co me un pulviscolo onniavvolgente , assoggettata a uno « sparpagliamento in brividi articolati prossimi alla strumentazione » . U n passaggio così radicale difficilmente poteva esse re attribuito ad alcuni acerbi poeti, che provavano nuovi accenti . Essi eran o solo la spia di un sommovi mento sordo e grandioso, il primo manifestarsi del fat to che ormai non era più possibile corrispondenza im mediata fra stile e società. Questo volle aggiungere Mallarmé al suo intervistatore, usando un linguaggio piano e terso : « Soprattutto è venuta a mancare questa nozione indubitabile: che in una società senza stabi lità, senza unità, non può crearsi un ' arte stabile, un ' ar te definitiva » . Da qui « l ' inquietudine delle in telligen ze » , da qui « l 'inspiegato bisogno di individualità di cui le manifestazioni letterarie attuali sono il riflesso diretto » . Formidabile sociologo, se solo voleva, Mal larmé era ben più interessato a un altro ordine di eventi che si stava profilando : quella palese inadegua tezza della comunità a crearsi un suo stile avrebbe da to allo stile stesso l'occasione - forse attesa da secoli per emanciparsi , evadendo al di fuori della società, che lo aveva sempre utilizzato ai propri fini. Mentre ora si apriva una nuova terra, sconosciuta: la terra dei « nodi ritmici » , luogo delle forme sciolte da ogni obbedienza e riposanti in se stesse . Ciò che Mallarmé disse a Huret sulla prosa si pre senta come affermazione apodittica, eppure subito convincente . Ma come provarla? Tenterò di avvicinar mi al tema attraverso un esempio . Baudelaire incluse nello Spleen de Paris tre brani che hanno lo stesso titolo e tema di tre poesie delle Fleurs du mal. Fra di esse , la celebre lnvitation au voy age. La lirica è perfetta, fusa come un Vermeer, in ogni sillaba vi si distilla quella 111
« dose di oppio naturale , incessan temente secreta e rinnovata » , che « ogni uomo porta in sé » - e che in Baudelaire era singolarmente generosa. Il poème en pro se, posteriore , ricalca la lirica punto per punto, ma suona assai meno efficace, e talvolta sottolineato , al meno per chi già conosca i versi . Il perché di tutto questo non è evidente . Confrontando i due testi , si os serva che molte delle immagini e delle tournures com paiono in entrambi. Ma il testo in prosa ha un vizio: è insieme lirico e circostanziato . I versi invece sono sobri e laconici. Non sarebbe possibile, in vari punti, darne una versione più semplice. Consideriamo per esempio la descrizione dei mobili che dovrebbero arredare il luogo di felicità evocato . Nella lirica si dice : « Des meu bles luisants, I Polis par les ans, I Décoreraient notre chambre » . Nella prosa si dice : « I mobili sono vasti , cu riosi, bizzarri, armati di serrature e di segreti come ani me raffinate . Gli specchi, i metalli , le stoffe , gli oggetti preziosi e le maioliche vi suonano per gli occhi una sinfonia muta e misteriosa; e da tutte le cose, da tutti gli angoli, dagli spiragli dei cassetti e dalle pieghe del le stoffe esala un profumo singolare, un sen tore di Su matra, che è come l ' anima dell ' appartamento » . Qui Baudelaire, precisando , diluisce. E non si sa che cosa deprecare di più: se il paragone dei mobili con le « anime raffinate » , soltanto perché sono provvisti di serrature ; o, forse ancor peggiore , l ' immagine dei vari oggetti che « suonano per gli occhi una sinfonia muta e misteriosa » ; o la puntigliosità con cui si precisa che un certo profumo esotico sarebbe « l ' anima dell ' ap partamento » ( e qui la parola « appartamento » , nella sua impietosa Jacies catastale , dà l ' ultimo colpo per to gliere incanto al testo ) . Si fanno poi notare varie inde licatezze che distinguono il testo in prosa da quello in versi: la donna invitata al viaggio è evocata nella poe sia al primo verso , con il definitivo « Mon enfan t, ma 1 12
sceur » , a cui nulla si potrebbe aggiungere . Nel testo in prosa, invece, la donna viene definita all ' inizio « une vieille arnie » , formula che già suona come una gaffe , e più avanti diventa, con sicura progressione nell ' insipi dezza, « mon cher ange » , poi « la femme aimée » , poi « la sceur d' élection » (dove quell ' «élection » è un ' altra precisazione non richiesta) . Ma anche l ' uso dell ' ag gettivo « profond » è rivelatore : nel testo in prosa ap pare due volte - già troppe , tan to più se si aggiunge anche una menzione delle « profondeurs du ciel » -, e oltretutto a distanza di tre righe: una volta riferito al suono degli orologi, l ' altra a certe pitture che dovreb bero ornare le stanze degli assenti : « Beate , calme e profonde come le anime degli artisti che le crearo no » . Nel testo in versi, invece, si parla soltanto di « mi roirs profonds » nelle stesse stanze . E appare subito pa lese quanto più efficaci, quan to più intense e misterio se siano le due parole della lirica rispetto all ' ingom bran te affastellarsi di aggettivi nella prosa, aggravato da un' ulteriore apparizione della parola « ame » , que sta volta al plurale. Si potrebbe continuare con altri paralleli, ma già co sì il confronto è schiacciante . Non vorrei però si pen sasse che si tratta qui soltanto di uno scontro fra pro lissità e concisione, fra poeticità - nemica di ogni let teratura - e sobrietà. E tan to meno vorrei che si pen sasse a una superiorità intrinseca del verso sulla prosa: di fatto , sarebbe facilmente immaginabile un esempio inverso , di una poesia ridondan te che guasta l ' asciutta rapidità di un appunto in prosa. La ragione per cui ho proposto questo esempio ha invece a che fare con la teoria mallarmeana dell 'inesistenza della prosa. Se i versi dell ' Invitation sono incomparabilmente più belli della versione in prosa, è innanzitutto perché in essi agisce , sovranamente , la potenza del metro , perché i versi sono stretti da una morbida tenaglia fatta di me1 13
tro e di rima: due quinari con rima maschile seguiti da un settenario con rima femminile, dove alla spigolo sità - come di vertici di un triangolo - delle rime ma schili risponde ogni volta il lieve awallamento della ri ma femminile. E questa berceuse appena ondeggiante come certi navigli dalla « humeur vagabonde » nei ca nali di Amsterdam, magazzino europeo delle spezie orientali -, questo movimento appena accennato, ma percettibile con fiamminga nitidezza, fa sì che le paro le diventino sue prigioniere e non possano espandersi oltre anche di una sola sillaba, così evitando di inol trarsi nella spiegazione che uccide , in quella che Ver laine chiamava « la Pointe assassine » . Che accade invece nella versione i n prosa? Vi agisce dawero un metro occulto e innominato, secondo la tesi di Mallarmé? Ma non contrasterebbe questo con i propositi di Baudelaire stesso, il quale, nella lettera dedica a Houssaye che precede lo Spleen de Paris aveva presentato l ' opera come esemplare di « una prosa poetica, musicale senza ritmo e senza rima » ? « Senza ritmo » : si direbbe , di primo acchito, una tesi addirit tura opposta a quella di Mallarmé. Come se la prosa volesse conquistare i territori della poesia senza sotto porsi ai rigori di una metrica. Ma si sa che le dichiara zioni di poetica sono spesso trappole amorosamente predisposte dagli scrittori per i loro lettori . Così è ac caduto che lo specillo di Gianfranco Contini abbia un giorno isolato, già nel primo paragrafo di quella stu penda lettera programmatica di Baudelaire , una tes situra fatta di emistichi di alessandrino e culminan te , nell ' ultima frase , con un alessandrino puro: «J' ose vous dédier le serpent tout entier » . Non solo, ma al largando l ' indagine ai singoli poèmes en prose Contini vi ha individuato numerosi altri emistichi di alessandri no, fra i quali può anche spiccare « un compiuto ales sandrino, talora fra i più straordinari che Baudelaire 114
abbia scritto : "au loin je ne sais quai avec ses yeux de marbre "» . O un alessandrino lievemente irregolare come: « Que les fins de journées d ' automne sont péné trantes » . E le prove convergono verso una conclusio ne: tutto lo Spleen de Paris è « grondan te di alessandrini interni » . Ma che cosa succede quando, come nel caso dell ' lnvitation au voy age, preesiste alla prosa un model lo in versi « che non ha alcun rapporto con l ' alessan drino » ? Ne abbiamo già visto le conseguenze semanti che, con quelle amplificazioni che disciolgono la for mula magica del verso in una lenta onda, dal fasci no meno intenso, ma sempre alto . Ora, l ' orecchio di Con tini è riuscito a individuare il numerus anche di quell' onda: « Tan to lusso si presta a una sola in terpre tazione, che epigraficamente si potrà enunciare come trasformazione dell ' lnvitation in un equivalente della poesia in alessandrini » . Come se Baudelaire avesse ob bedito qui, ancora una volta, all ' oscura coazione che lo spingeva a dire tutto in alessandrini. Solo in quel me tro poteva scandirsi per lui la lingua adamica. Nelle due versioni dell ' lnvitation, il duello non è dunque fra il metro e la prosa « senza ritmo » , come Baudelaire pretendeva. Ma è un duello fra due metri . E, per una volta, l ' alessandrino soccombe alla berceuse. Evento tanto più singolare in quanto, come suona la formula zione di Contini, « Baudelaire , nonostan te tutto , par la, per così dire , naturalmente in alessandrini o loro frammenti anche dove li smorza e riduce » . Gli ales sandrini interni dello Spleen de Paris vengono allora a corroborare , come una dimostrazione per assurdo, le tesi di Mallarmé . M a s i trattava p e r lui soltan to d i affermare una sor ta di onnipresenza del metro nella prosa? O ciò che gli premeva era qualcosa di più sottile e più grave? Torniamo allora alle enunciazioni riportate da Huret, nei loro tratti più sorprendenti: « . . . in verità, la prosa 1 15
non c ' è : c ' è l ' alfabeto e poi dei versi più o meno fitti, più o meno radi » . Difficile cogliere subito le conse guenze di queste frasi, tan to esse sono vaste . Come l ' oppio secondo Baudelaire , sono parole che hanno il potere di « allungare l ' illimitato » . Il paesaggio che ora si spalanca ha due estremi: da una parte l ' alfabe to, dall ' altra un ritmo. E ritmo significa: metro . In un primo momento, si direbbe che il linguaggio , sino al lora invaden te e dominan te sulla scena, si sia dissolto. Poi lo ritroviamo, come puro materiale che si elabora e continuamente trasmigra da un estremo all ' altro . I rapporti sono mutati : ora non è più il metro che sus siste in funzione del linguaggio , ma l ' inverso : il lin guaggio si elabora in funzione del metro . Soltanto il metro fa sì che vi sia stile . E soltanto lo stile fa sì che vi sia letteratura. Di conseguenza: la differenza fra poe sia e prosa è inconsistente . Si tratta solo di gradi di versi all 'interno dello stesso continuo . Le scansioni ritmiche possono essere più o meno evidenti e rico noscibili. Comunque sono esse la potenza che regge la parola, come se la qualità letteraria si giocasse in nanzitutto nella tensione fra questo elemento non verbale, gestuale, pressan te e l ' articolarsi della parola stessa. Inoltre : se « la prosa non c ' è » , si può dire an che che non c ' è la poesia. Che cosa rimane, allora? La letteratura. Mallarmé lo aveva detto con la massima chiarezza: « la forma chiamata verso è semplicemente essa stessa la letteratura » . Ma aveva anche detto che, sino alla morte di Hugo, questa verità era stata occul tata come una divinità in una cripta. Operante , ma come « una maestosa idea inconscia » , una sorta di so gno clandestino della letteratura intorno a se stessa. Ora quel sogno erompeva alla luce . E a questo pensa va Mallarmé quando scriveva che la fine del suo seco lo era accompagnata da una « inquietudine del velo nel tempio, con pieghe significative e un po' il suo la116
cerarsi » . Parole che suonavano nella mente di Yeats quando intitolò « Il tremito del velo » la prima parte di Autobiographies. E soprattutto quando, la sera del la prima di Ubu Roi, disse a qualche amico: « Dopo Stéphane Mallarmé, dopo Paul Verlaine, dopo Gusta ve Moreau, dopo Puvis de Chavannes, dopo i nostri stessi versi , dopo tutto il nostro sottile colore e il no stro ritmo nervoso, dopo le pallide tinte miste di Charles Conder, che altro è ancora possibile? Dopo di noi, il Dio Selvaggio » . A distanza di un secolo , se un lieve accenno di in credulità si forma al nome di Puvis de Chavannes, al quale riluttiamo ad attribuire un qualche potere disse stante, per il resto non possiamo che riconoscere in quelle parole l ' accordo surriscaldato dei tempi nuovi. Soprattutto se pensiamo che Mallarmé vi figurava in quanto nome che fa da guida. Appare a questo punto sempre più evidente come , dietro le rivendicazioni del vers libre, Mallarmé aveva in travisto un even to di ben altra portata, che si mani festava « per la prima volta nel corso della storia lette raria di qualsiasi popolo » : la possibilità, per ogni sin golo , « con il proprio modo di suonare e il proprio orecchio individuale, di comporsi uno strumento , appena v i soffia, lo sfiora o lo percuote c o n scienza » . I n altri termini, l 'evasione dal canone della retorica, che non viene rinnegata ma non ha più valore vincolan te , né può pretendere ormai di essere la voce di una comunità. Al più, toccherà alla retorica intera la sor te che ora aspetta l ' alessandrino: venire esposto , in quan to « cadenza nazionale » , come la bandiera, solo in giorni di festa e per rare celebrazioni. Ma per Mal larmé uscire dalla fo rtezza della retorica non signi ficava tuffarsi in un informe maelstrom. Al contrario, ciò che al suo occhio balenava era una letteratura do ve ancor più si sarebbe esaltato il potere della forma, 117
ormai disancorata da tutto e ancor più severamente cifrata, ma forse appun to per questo più vicina al no- stro fondo, perché « Deve esservi qualcosa di occulto in fondo a tutti » . Quella inaudi ta letteratura si schiu deva come una vasta superficie combinatoria, com posta di lettere e cosparsa di me tri - i n tegri , spezzati , palesi, contraffatti . Proprio nel momento i n cui la metrica veniva esautorata come voce di una comu nità, i singoli metri , i singoli passi fisiologici diven ta vano il numerus nascosto e animatore di tutta la le tte ratura, avviata ormai verso una fase altame n te « poli morfa » . Ma nulla era più alieno da Mallarmé del ge sto baldanzoso delle avanguardie . Certo, la si tuazio ne costringeva a un ' « alta libertà acquisita, la più nuova » . A cui però andava aggiunto (e qui il timbro di Mallarmé era pacato e fermo ) : « Non vedo, e que sto rimane mia ferma opinion e , cancellazione di al cunché sia stato bello nel passato » . Ciò che cambiava radicalmente era la posizione strategica della parola « le tteratura » . Da una parte resa superflua e inope rante dal dilagare dell' « universel reportage » , che la soffocava. Ma catapultata, allo stesso tempo, in un nuovo cielo e nuova terra. Era proprio quest' ultima la più impercettibile e la più sconvolgen te notizia. Mallarmé la dispose verso il centro della sua confe renza di Oxford. E vi si approssimò con tutte le cau tele, avvertendo premurosamente che si trattava di una « esagerazione » : « Sì , la Letteratura esiste e , se si vuole, sola, a ecce zione di tutto » . Ben più d i ogni disputa sul verso , questo poteva davvero lasciare allibiti . Con la sua maniera « Un po ' da sacerdote , un po ' da ballerina » , con la sua dizione infinitamente delicata e terroristica, Mallarmé notifi cava che la le tteratura, uscita dalla porta della so118
cietà, rien trava da una cosmica finestra, dopo aver as sorbito in sé nulla meno che tutto . Quelle parole se gnavano la conclusione di una lunga, sinuosa storia. E celebravano il cristallizzarsi di una fiction temera ria, di cui si sarebbe nutrito tutto il secolo allora in comben te . Di cui continuiamo a nutrirci noi: la lette ratura assoluta.
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VII « I METRI SONO IL BESTIAME DEGLI D È I »
« I metri sono il bestiame degli dèi » leggiamo nello Satapatha Briihmar:ia. Questo era il presupposto, diffici le da intendere oggi . Quando pensiamo ai metri, il te nue profilo di un ritmo ci appare , non molto di più. Ma così non era, almeno per i veggenti vedici, per i !$i che composero il �gveda. Se si vuole riconoscere che cosa sono i metri , essi pensarono, occorre risalire agli dèi e oltrepassare gli dèi, giungere sino a Prajapati , il Progenitore , quell ' essere indefinito e privo di un no me proprio - se non un nome che era un pronome in terrogativo: Ka, Chi? -, quell 'essere illimitato dal qua le gli dèi stessi sono sorti . Già il Padre era nato insieme con il « male » , papman, quel male che è la « morte » , mrtyu: « Mentre Prajapati stava creando, Morte , quel male, lo sopraffece » . Così gli dèi nacquero mortali, abitati dalla paura della morte . « Prajapati edificò il fuoco ; continuava a e ssere tagliente come un rasoio; gli dèi, terrorizzati, non si awicinavano; poi, awolgen dosi nei metri, si awicinarono, e da questo i me tri trag gono il loro nome. I metri sono potere sacro; la pelle 1 23
di antilope nera è la forma del potere sacro; egli si mette scarpe di pelle di antilope ; avvolgendosi nei me- · tri egli si avvicina al fuoco, per non ferirsi » . I « me tri » , chandas, sono le vesti in cui gli dèi « si avvolsero » , ac chadayan, per avvicinarsi al fuoco e non esserne sfigu rati come dalla lama di un rasoio. Così gli dèi provaro no a sfuggire alla morte . Così gli uomini - i quali pen sano sempre : « Devo fare ciò che gli dèi hanno fatto » li imitarono. Quando la Taittifiya Sa'f!lhita dice : « Avvol gendosi nei metri egli si avvicina al fuoco, per non fe rirsi » , si riferisce a qualsiasi officiante , a qualsiasi uo mo. Se vista dall 'occhio di oggi , quindi da esseri disav vezzi ai riti e al fuoco , quella frase richiama irresistibil mente ciò che opera - consapevole o no - ogni poeta, ogni scrittore . E di almeno un poeta posso affermare che questo era vero alla lettera: Iosif Brodskij . Quando Brodskij parlava del metro , e del pericolo incombente che si perdesse la nozione di che cosa è un metro, la sua voce era tesa come se parlasse di un pericolo mor tale, con la precisione e la sobrietà, ma anche il pathos, che una tale situazione esige . Ma perché ai metri si dovrebbe attribuire questa im portanza somma, così alta che persino gli dèi ebbero bisogno di loro per proteggersi? Tutto ciò che esiste è compenetrato da due potenze invisibili - « mente » , manas, e « parola » , vac - coppia gemellare che h a la caratteristica di essere simultaneamente « uguale » , sa mana, e « distinta » , nana. L'opera rituale - quindi qualsiasi opera - consiste innanzitutto nell ' impedire che questa caratteristica si annulli nella pura indistin zione. Perciò a « mente » e a « parola » andranno asse gnati utensili rituali lievemente diversi : per l ' una si do vrà usare un mestolo , per l ' altra un cucchiaio di legno dal becco ricurvo . E si offriranno due diverse libagio ni, che « sono mente e parola: perciò egli separa così mente e parola una dall ' altra; e così mente e parola, ,
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pur essendo uguali, samana, tuttavia sono distinte , na na » . Sotto un aspetto , però, mente e parola divergono drasticamente : nell ' estensione . « Mente è di gran lun ga più illimitata e parola è di gran lunga più limitata » . Queste due entità appartengono a due livelli diversi di ciò che è, ma per agire con efficacia devono appaiarsi , aggiogarsi. Da sole, mente e parola sono impotenti - o almeno insufficienti a trasportare l ' offerta presso gli dèi. Il cavallo della mente deve lasciarsi bardare con la parola, con i metri : altrimenti si perderebbe. Come possono però essere aggiogate insieme due entità così sproporzionate? « Quando uno dei compa gni di giogo è più piccolo, gli danno una tavola d ' ap poggio in più . . . Perciò egli dà una tavola d' appoggio alla parola, e come ben appaiati compagni di giogo questi due ora trasportano il sacrificio agli dèi » . Quel la tavola d ' appoggio è un sottile accorgimento me tafisico - e solo grazie a esso l ' oblazione è riuscita a raggiungere gli dèi. Ricordarne l ' origine aiuterà a ca pire perché la parola non è mai intera, ma sempre in crinata o composta di più elementi, minacciata dal l ' inconsistenza - o comunque dall' insufficienza del suo peso. Ma il metro? Il metro è il giogo della parola. Come la « men te » , manas, non può che dissiparsi , nelle sue vo lubili movenze di scimmia che salta da un ramo all ' al tro , se non viene aggiogata (e ogni disciplina della mente, ogni yoga, è innanzitutto un « giogo » ) , così la « parola » , vac, l ' onnipresente , pervasiva, colei che « soffia come il ven to, investendo tutti i mondi » , accet ta di recingersi di metri , di adornarsene quasi fossero vesti variegate , di awilupparsi in una scansione preor dinata di sillabe. Soltan to così potrà raggiungere il cie lo, come un essere femminile coperto da piume di uc cello . E anche tornare dal cielo alla terra. Tanta agi lità, tanta familiarità con i diversi mondi suscitano un 1 25
sospetto: forse i metri non soltanto conducono presso gli dèi, ma i metri sono dèi . Così non sorprenderà in- · con trare queste parole: « Ora, gli dèi che reggono la vita sono i metri , perché grazie ai metri tutto il vivente viene sostenuto quaggiù » . Rispetto ai trentatré Deva, i metri agiscono in modo duplice , da inferiori e da so vrani : umili e utili come an imali da tiro che, « quando vengono aggi ogati , trasportano pesi per gli uomini, al lo stesso modo i metri , quando vengono aggiogati , tra sportano il sacrificio presso gli dèi » . Ma al tempo stes so soltanto i metri possono awicinarsi al fuoco senza essere lesi . E soprattutto : soltanto ai metri gli dèi devo no essere grati se sono riusciti a diventare immortali. Un tempo si aggiravano per la terra - e pun tavano al cielo. Sapevano che lì risiedeva l ' immortale. Ma non sapevano come raggiungerlo. Allora Gayatri, l ' essere femminile che è il più breve e il più efficace dei metri, si trasformò in syena, falco o aquila. In quella forma riuscì a rapire dal cielo la sostanza indenne da morte : i l soma. Ma n o n era stato il primo tentativo. Prima di lei avevano provato e fallito altri due metri : Jagati, per dendo tre sillabe; poi Tri1?tubh , che ne aveva persa una. Quando Gayatri riapparve , con il soma nel becco, il suo corpo era formato dalle sue quattro sillabe più le sillabe perdute dalle sorelle . E la freccia di un miste rioso arciere , guardiano celeste , aveva arruffato il suo piumaggio e reciso una foglia del soma. La perdita e la ferita si erano così annidate all 'interno del metro che doveva guarirle. Da allora Gayatri, Tri�tubh e Jagati se guirono sempre il re Soma. Un re non può presentar si da solo . Chi forma allora il suo corteo? I metri . « Co me i dignitari , gli araldi e i capitani stanno attorno al re, così i metri si muovono come attendenti attorno a lui » . Come gli assistenti di K. nel Castello di Kafka, i metri vanno dove Soma va. Soma giunge su un carro che trasporta i rami di una pian ta che « Sta sulla mon1 26
tagna » . Ma colui che sa vede anche, accan to a quel carro , il luccichio dei metri , simili ai raggi intorno al sole. C'è però un ' insidia, nella vita dei metri . Le cerimo nie sfibrano . Gli uomini, che vengono sempre per ulti mi, trovarono i metri già esausti, inariditi per l ' uso che ne avevano fatto gli dèi : « Ora la forza dei metri venne esauri ta dagli dèi, perché attraverso i metri gli dèi rag giunsero il cielo . E il canto è ebbrezza, mada: l ' ebbrez za che è nella re e che è nel saman, quella è linfa, quel la linfa egli ora immette nei metri e così ristabilisce la loro forza; e con essi, ormai rinvigoriti , celebrano il sa crificio » . Se vogliamo sapere perché è necessaria l ' i spirazione, qui finalmente ne viene dato conto. Quella « ebbrezza » che noi chiamiamo ispirazione è l ' unico ar tificio a cui si può ricorrere per rawivare i metri spos sati dall ' uso temerario che ne hanno fatto non gli uo mini ma gli dèi stessi . Senza quella « ebbrezza » i metri rimarrebbero inerti , come piante che agognano di es sere irrorate , ormai muta testimonianza di quell ' im presa che, attraverso la potenza di un certo corpo di sillabe, aveva reso immortali gli dèi. Se gli dèi raggiunsero il cielo attraverso una forma, tanto più avranno bisogno della forma gli uomini, per raggiungere gli dèi. E soltanto i metri possono per mettere agli uomini di diventare degli esseri mortali che sanno però usare le forme già usate dagli dèi. I metri sono il nostro témenos, la forma entro la quale appaiono tutte le forme. Come attraverso una caligine luminosa (forse quella che Bloomfield chiamava « Ve dic haze » , « caligine vedica » ? ) , tutto questo suona al lusivo anche per un lettore occidentale , ignaro dei ri tuali vedici . È come se in essi fosse stato subito svilup pato - e portato alle ultime conseguenze - ciò che in Occidente avrebbe nutrito, ancor più che il rito, quel l ' essere extraterritoriale e sfuggente che chiamiamo 127
letteratura. Ora cominciamo a capire perché , per esempio, la letteratura è così spesso collegata all ' im- mortalità, in un senso ben più radicale di quello - in verità piuttosto modesto - della memoria che si espan de sulle generazioni future . Ora soltanto ci appare perché la letteratura, nelle sue molteplici metamorfosi , sembra non rinunciare mai a un solo elemento : la forma. Eppure non lo ri vendica mai troppo esplicitamente , né si preoccupa di fondarne la sovranità. Ci si chiede , allora: qual è il mi to della forma? E per qualche tempo lo cerchiamo in vano, pur convinti che della forma, come di ogni altra entità essenziale, non possa non darsi mito. La Grecia può solo offrirci le Muse , che non sono tanto figure della forma, quanto delicati accenni alla potenza da cui ogni forma promana: la possessione, quella cono scenza spartita a Delfi tra Dioniso e Apollo, che pre suppone la mente come cavità, costantemente invasa da dèi e da voci. Le Muse, che sono innanzitutto delle Ninfe rangées, sovrain tendono a che le forme prenda no possesso di noi e ci facciano parlare secondo una regola che può essere più o meno occulta, così come la musica - secondo Leibniz - è retta da una matema tica occulta. Ma, se le Muse sono le supreme fonti e cu stodi delle forme, chi saranno le forme stesse? Altri es seri femminili: quei metri che si trasformarono in uc celli dal corpo composto di sillabe . Furono i veggenti vedici che insieme li cantarono e li praticarono senza tregua. A loro risale il culto della forma, nella sua versione più pura, più astratta, più penetrante . Né a tanto si arrestarono, ma giunsero a prefigurare ogni rivendicazione di autosufficienza - e quasi di autismo - della parola poetica. Poiché l ' elabo rarsi e l ' affinarsi della parola, il suo diventare smp,skrta, « perfezionata » , quindi sanscrita, vengono awicinati negli inni del .B..gveda a ogni sorta di attività - dalla 1 28
bardatura del cavallo e del carro alla tessitura, all ' un zione, alla strigliatura, alla mungitura, alla cottura, al la navigazione -, e poiché i veggenti vedici « assimila no e confondono ciò che paragonano, in quanto non hanno l ' impressione che l 'immagine sia una nozione oggettivamente e terogenea alla cosa che l ' ha suscita ta » , la pratica degli inni introduce a una condizione dove tutto ciò che viene detto dell ' oggetto si applica anche alla parola che lo nomina - o almeno si osser va « uno slittamento incessante dall ' uno all ' altro regi stro » . A tal punto che « si potrebbe sostenere che il Rgveda intero è un ' allegoria » . Ma di che cosa? Di se stesso. Il sonetto « in - ix » di Mallarmé, definito dall' au tore « allegorico di se stesso » , sarebbe allora come una scheggia acuminata di luce, che si riverbera nel passa to fino a investire quella raccolta di inni considerata primordiale e « non umana » , apauru$eya: il Rgveda. Per azzardare rivendicazioni così estreme e onniav volgen ti in rapporto alla parola degli inni, i veggenti vedici dovevano avere una solida « base », prati$tha. An zi, più che solida: incrollabile. Era la sillaba. Prima che di parole, essi furono costruttori di sillabe. Le sillabe erano la loro alchemica prima materia. Al prodigio per cui un qualsiasi fatto, secondo Mallarmé, si trasforma nella sua « quasi scomparsa vibratoria » , la dottrina ve dica ne sovrapponeva un altro: proprio quella evane scente sostanza sonora della sillaba veniva celebrata come l ' indistruttibile, come « il non fluente » , a-k$ara. Di tutte le cose si può spremere un succo, un « sapo re » , rasa, dice il Jaiminzya Upani$ad Brahmmy,a. Non però della sillaba: perché la sillaba è già il succo stesso di tutto. Perciò sussiste - inscalfita, inesauribile . E dal la sillaba tutto fluisce . Anzi, soltanto la sillaba fa sì che tutto sia fluido, vivido. Davanti alla barriera della roc cia di Vala, gli Aii. g iras emettevano sillabe, immobili. Furono le sillabe di quel canto a fendere la roccia. DalJ 29
la spaccatura irruppero all ' esterno le Vacche nascoste, le Acque . E da allora continuano. Altrimenti il mondo sarebbe irrigidito nella paralisi. Questo il presupposto della metrica vedica, che è sillabica, non quantitativa. Tutto si forma attraverso aggregazioni di numeri fra queste molecole sonore . E un misterioso accenno ci dice che « ciò che per gli uomini è un numero , per gli dèi è una sillaba » . Ma che cos ' è una sillaba, ak.yara? Men tre nelle lingue moderne « sillaba » non ha altra connotazione che non sia fonetica, il sanscrito ak$ara appartiene alla cerchia ristretta delle parole come brahman, nelle quali una deriva indominabile di si gnificati sopraffà un ipote tico significato primo. Ipote tico perché giungiamo a chiederci se tale significato vi sia - o possa comunque pretendere a una priorità. Il caso più evidente è brahman, dove il significato primo potrebbe essere « formula rituale » o « enigma » , come sostenuto da Louis Renou e Lilian Silburn . Ma già il dizionario di San Pietroburgo ne elencava sette . Nel caso di ak$ara la priorità del significato « sillaba » si mo stra con nettezza, come si desume da tutto l ' inno 1 64 del primo mm:uJ,ala - owero « cerchio » - del �gveda. E su questo concordano anche i commen ti di cui dispo mamo. Gli antichi e timologisti intendevano ak$ara come ciò che na k$arati, « non fluisce » , con a privativo. E, per una volta, i linguisti moderni concordano con lo ro. Mayrhofer non parla diversamente . Aggiunge solo un parallelo con il greco phtheir6, verbo del « corrom pere » e del « distruggere » , da cui « aphthartos, unver ganglich » , quindi « imperituro » : significato di ak$ara che, a partire da un certo momento , diventa domi nan te , se non esclusivo. Sillaba è ciò che rimane illeso . Quando la teologa Gargi sfidò Yajriavalkya nel più alto, fremente duello di pensiero di cui ci rimanga testimonianza - e neppuJ 30
re la Grecia dei sapien ti e dei sofisti ci ha lasciato un caso paragonabile -, l ' aspro , brusco veggente fu inter rogato su ciò che costituisce la trama delle cose , anche perché Gargi era una celebrata tessitrice. Per undici volte Yajii.avalkya disse qual è la trama su cui qualcosa è tessuto: l ' acqua, i venti , l ' atmosfera, i mondi dei Gandharva, i mondi del sole, i mondi della luna, i mondi delle costellazioni, i mondi degli dèi, i mondi di Indra, i mondi di Praj apati, i mondi del brahman. Arrivato a questo punto, sfidò a sua volta Gargi: « Non domandare troppo, sta' attenta che non ti scoppi la te sta » . Ma Gargi era impavida - e volle andare oltre . Dis se : « Ciò che, o Yajii.avalkya, è al di sopra del cielo, ciò che è sotto la terra, ciò che sta fra il cielo e questa ter ra, ciò che si chiama passato, presente e futuro, su quale trama questo è tessuto? » . Yajii.avalkya rispose : « Sull ' e tere , iikiifa » . A Gargi ancora non bastava: « "E l ' e tere su che cosa è tessuto?". Egli rispose : "In verità, o Gargi, su questo ak5ara (sulla sillaba, sull ' imperitu ro ) , di cui i brahmani dicono che non è spesso né sot tile, né corto né lungo, né fiamma né liquido , né colo rato né scuro, né vento né etere, né aderente, senza sa pore , senza odore , senza occhi, senza orecchi, sen za voce, senza mente, senza calore , senza soffio, senza bocca, senza misura, senza interno, senza esterno. Esso non mangia e non viene mangiato "» . Il momento in cui Yajii.avalkya pronunciò quelle pa role fu lo spartiacque nella storia dell ' ak5ara: da allora quel sostantivo neutro che significa « sillaba » sarebbe apparso nei testi come aggettivo che significa « imperi turo » , obliterando la sillaba. Ma in origine i due si gnificati coincidevano. Come possiamo saperlo? Lo raccon ta il :Rgveda : « Quando sorsero le antiche Auro re , allora nacque la Grande Sillaba ( mahad ak5aram) nell' orma della Vacca » . « Orma » è pada, parola-cardi ne del lessico enigmatico di cui è in tessuto il :Rgveda, e 131
significa « piede » , « zampa » , o anche « membro, arti colazione » di un verso, infine « passo » o « orma » : Quanto alla Vacca, sempre p e r il lessico enigmatico, è Vac, Parola, Vox. E « Vac è gayatn, perché Vac canta (gayati) e protegge ( trayate) tutto questo [universo] » . Già nel suo sgorgare , l a sillaba è metro, come accenna un altro inno per enigmi: « La Vacca selvaggia muggì mentre foggiava le acque fluenti ; diven tò di un pada, di due pada, di otto pada, di nove pada, di mille sillabe nel luogo supremo. I I Da lei fluiscono i mari, di lei vi vono le quattro regioni del mondo. Della sillaba che da lei fluisce ( k$araty ak$ararµ) vive tutto questo ( uni verso) » . « Il non fluente che fluisce » , k$araty ak$ararµ: su queste due parole converge l ' e nigma, come se tutta la fluidità della vita fosse resa possibile soltanto da qualcosa che non fluisce . La sillaba è il punto d ' incon tro tra la pura vibrazione e la forma, il metro. La sillaba, il metro, la parola: il cerchio si espande. Ma non si chiude . Per chiudersi, occorre che alla silla ba risponda la sua controparte : il fuoco. La sillaba è efficace soltanto se detta davanti e in contrappunto con il fuoco. A ogni accensione del fuoco, mentre il sacrifican te sfrega i due pezzi di legno, si ode sul fon do un canto , il saman che invigorisce, mentre « lo hotr si tiene pronto a cominciare la recitazione dei mantra appropriati appena un filo di fumo si alza dal pezzo di legno che sta sotto. Quando lo sfregamento fallisce e il fumo scompare , si arresta anche il mantra; per comin ciare di nuovo quando il fumo riappare . Si può dire che il mantra genera il fuoco o che il fuoco genera il mantra » . Soltanto la generazione reciproca - come fra Puruli'a e Viraj , che oltre a essere una dea è un metro può dar conto della relazione tra i metri e il fuoco . Gayatri è una veste che awolge e protegge dalle lame affilate della fiamma. Ma Gayatri è anche un « tizzo ne » , samidh: « Gayatn, quando viene accesa, accende 1 32
gli altri metri; e i metri, una volta accesi , portano il sa crificio presso gli dèi » . Di Agni Jatavedas, Fuoco Co noscitore-delle-Creature , si dice che scintilli dentro la sillaba, in quel luogo arcano fra tutti che è « la matrice dell ' ordine, rtasya y6nim » . Soltanto una intimità, commistione, sovrapposizione così estrema come quella tra la sillaba e il fuoco possono garantire una provvisoria continuità al mondo. Questo è l 'enigma ultimo, dietro i nomi cifrati: l '