Penne e pellicole. Gli animali, la letteratura e il cinema
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ETEROTOPIE N. 259 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna

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COMITATO SCIENTIFICO

Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Giuseppe Di Giacomo (Università di Roma La Sapienza), Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera), Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo), José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Jean-Jacques Wunemburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)

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MASSIMO FILIPPI EMILIO MAGGIO

PENNE E PELLICOLE

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Gli animali, la letteratura e il cinema

MIMESIS Eterotopie

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Ringraziamo Alessandra Galbiati per l’attenta lettura del manoscritto e per gli svariati consigli che ci ha offerto e i componenti della redazione di Liberazioni. Rivista di critica antispecista (www.liberazioni.org) per la proficua discussione che prosegue ininterrotta da diversi anni.

© 2014 – MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) Collana Eterotopie, n. 259 Isbn 9788857521510 www.mimesisedizioni.it Via Risorgimento, 33 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Telefono +39 02 24861657 / 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: [email protected]

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INDICE

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INTRODUZIONE COME UNA FAVOLA FINÌ PER DIVENTARE IL «MONDO VERO» I. PROSPETTIVE SULLA QUESTIONE ANIMALE Assassini dal volto buono Nella grotta dei sogni perduti Passi Lo spettacolo bestiale e la Venere nera Il cavallo-motore (della storia) II. RESISTENZE CORPOREE Sorvegliare / (Ris)Vegliare / Dormire Un vero negro La magnifica preda (R)esistenze animali Falso movimento

9 19 19 37 44 59 64 73 73 80 87 93 102

III. PROVE DI INDISTINZIONE Angeli urinanti Cinema inumano Piani di fuga dal passato presente di Auschwitz Viaggi dell’anima Storia, invenzione e mito di una nazione in una favola per adulti

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IV. LA FINITUDINE CONDIVISA A volte ritornano In morte degli animali, in un tempo sospeso Vita, morte e miracoli di un cane e di un asino al tempo della riproducibilità tecnica Venti tracce verso una tassonomia (dell’)impossibile

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All’ultimo rifugio della speranza che si annida tra le crepe prodotte dalla guerra sulla pietà.

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INTRODUZIONE COME UNA FAVOLA FINÌ PER DIVENTARE IL «MONDO VERO»

Non ha senso affermare che dobbiamo focalizzarci [...] su ciò che è distintivo della vita umana, finché è la “vita” della vita umana ciò che ci interessa, ossia [...] il luogo dove non è possibile distinguere con certezza il bìos dell’animale dal bìos dell’animale umano [...]. Ciò non è un’asserzione su che tipo o che specie di animale sia l’animale umano, ma è il riconoscimento che l’animalità è una precondizione dell’umano e che non esiste alcun umano che non sia animale umano. (J. Butler)1

1. Un libro altro. A un primo sguardo, questo periodo storico sembra essere caratterizzato da un’esorbitante proliferazione della presenza degli animali in ogni forma dell’immaginario umano; dai saggi ai romanzi, dalla pubblicità ai fumetti, dal cinema all’arte figurativa, i non umani pare che vadano sempre più spesso a occupare la scena da protagonisti. Viene allora spontaneo domandarsi: perché un altro libro che parla di animali? La risposta è semplice: perché questo non è un libro sugli animali, un libro che parla di loro. Questo, invece, è un libro scritto con gli animali, un libro che cerca di mettersi in una condizione di ascolto dialogante per sentire che cosa hanno da dirci del loro dolore – e così sviluppare finalmente un’opposizione senza sconti all’orrore a cui l’incontrastato dominio de “l’Umano” sul vivente li ha consegnati –, e per seguire le tracce dei loro desideri – al fine di liberare anche noi stessi da quel millenario processo di auto-addomesticamento analizzato, tra gli altri, da Nietzsche. Il che equivale a sostenere che la sempre maggior frequenza degli animali nelle nostre retoriche discorsive non è tanto il segno di una ripresa di interesse verso di loro, quanto, molto più probabilmente, un’operazione di ulteriore occultamento per moltiplicazione della “questione animale” e di tutte le conseguenze morali e politiche che necessariamente comporterebbero un radicale cambiamento dei rapporti di forza che attualmente regolano la nostra società. Il 1

Judith Butler, Frames of War: When Life is Grievable?, Verso, London 2009, p. 19.

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Penne e pellicole

proliferare degli animali nelle produzioni del nostro immaginario ricorda, insomma, molto da vicino, i meccanismi denunciati da Foucault a proposito della regolamentazione della sessualità, regolamentazione che non passa necessariamente ed esclusivamente attraverso la repressione e la censura, ma anche e spesso prioritariamente (soprattutto oggi, nell’epoca dell’affermazione planetaria della biopolitica) attraverso la costruzione di saperi in grado di addomesticare le istanze più critiche, rivoluzionarie e destabilizzanti nei confronti dell’ordine e della norma dominanti. Senza la consapevolezza dell’orrore della condizione animale e di quanto questa si intrecci con le politiche oppressive intraumane, che si parli sugli animali, degli animali o per gli animali, poco cambia: rimaniamo presi nell’immensa scenografia del dominio che senza sosta trasforma i corpi animali in carne pronta per essere venduta materialmente in macelleria e simbolicamente in libreria o al cinematografo. Questo libro ha, allora, la pretesa di essere un libro altro: un libro sull’altro che ci percorre, che ci ha preceduti e che ci seguirà, sull’altro che incessantemente ci insegue, ci contamina e ci profana. Un libro che prova a ribadire un fatto tanto semplice quanto ostinatamente e ottusamente negato: «Non esiste alcun umano che non sia un animale umano». Un libro che prende le distanze dagli animali edipici – quegli animali sottoposti a un vero e proprio sfruttamento affettivo per poter continuare a parlare di noi, delle nostre misere storie, dei nostri piccoli segreti personali e delle nostre passioni tristi – per rivolgersi agli animali demoniaci – quegli animali stranianti che ci dislocano dalla nostra identità, che mettono in dubbio l’idea stessa che esista qualcosa come l’identità, qualcosa come un tempo lineare e progressivo e qualcosa come uno spazio amorfo sempre pronto ad essere manipolato; animali che ci portano lontani dal continente dell’“Uomo”, di fronte alla miseria della storia, per farci provare l’ebbrezza estatica di desideri gioiosi e di passioni improduttive. Un libro per tornare ad ascoltare il fruscio delle loro penne sotto la pellicola della folle normalità del mattatoio e degli allevamenti, della domesticazione e delle esibizioni, reali o metaforiche che siano. 2. Pornografie ed epifanie. Date queste premesse, non potevamo certo pensare a un libro che considerasse in maniera più o meno sistematica tutto quanto ruota intorno a ciò che riassumiamo sotto il termine di “animalità”. Così facendo, infatti, ci saremmo condannati a ritornare alla casella di partenza, avremmo riproposto un altro bestiario, una qualche forma di tassonomia dal punto di vista de “l’Uomo”, magari anche benevola nei confronti degli altri animali, ma pur sempre inesorabilmente antropocentrica. Abbiamo invece preferito la forma di un racconto frammentario e

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Introduzione

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balbuziente, raccogliendo, per farli interagire tra loro senza stabilire a priori quale dovesse essere il risultato di questo processo alchemico, una serie di interventi che abbiamo scritto nel corso degli ultimi anni (alcuni già pubblicati, altri inediti)2 e che sono scaturiti da incontri inattesi con altri animali nei quali ci siamo imbattuti. Incontri a cui non abbiamo potuto sottrarci sia per la determinazione con cui questo o quest’altro animale si è posto di fronte a noi sia per quella sorta di “allenamento” a vedere ciò che normalmente resta invisibile (proprio perché sotto gli occhi) che il nostro sguardo ha sviluppato nella decennale frequentazione della “palestra” dell’antispecismo. Una frequentazione che non si è limitata alla semplice ripresa delle acquisizioni della corrente mainstream dell’antispecismo, che si è andata sviluppando soprattutto in ambiente anglosassone negli ultimi 40 anni circa, a partire dalla pubblicazione di Liberazione animale di Peter Singer. A scanso di equivoci ci preme sottolineare fin da subito che il nostro intento non è quello di svalutare la spinta epocale che l’antispecismo “classico” ha impresso alle istanze in favore della liberazione dei non umani – che ancora oggi tiene testa con successo alle contro-argomentazioni che gli sono state ripetutamente rivolte –, ma piuttosto quello di contribuire al tentativo, che da più parti viene auspicato, di dislocare il pensiero antispecista dall’astrazione argomentativa della filosofia morale alla materialità della vita sociale e politica. Di restituirgli insomma una sorta di vitalità corporea “animale” tramite un confronto con quanto il pensiero continentale contemporaneo ci offre in termini di decostruzione e di critica di nozioni quali quelle di “identità” e di “Soggetto” – nozioni che sono tutt’altro che oscure questioni per addetti ai lavori, ma veri e propri dispositivi di dominio che permeano, seppur nell’ombra, ogni aspetto del nostro essere nel mondo. A nostro avviso, l’antispecismo andrebbe inteso nella sua forma più radicale e ancora per gran parte inespressa, ossia come la messa in scacco del pensiero e delle pratiche di categorizzazione, della loro presunta oggettività, naturalità ed innocenza dietro alle quali viene abilmente occultata la violenza dei recinti simbolici, al contempo causa ed effetto degli altrettanto “invisibili” recinti materiali in cui “l’Umano” ha arrestato e continua ad arrestare il fluire della vita degli altri. L’antispecismo non dovrebbe essere la semplice, seppur auspicabile, richiesta di un allargamento/allentamento delle recinzioni della 2

I saggi riproposti sono stati quasi tutti pubblicati su Liberazioni. Rivista di critica antispecista dal 2011 al 2013 e sono stati ampiamente rivisti e rielaborati per la presente edizione. I saggi I.1, I.3, II.2, II.4, II.5, III.1, III.3, III.4, IV.1, IV.2 e IV.4 sono di Massimo Filippi, quelli I.2, I.4, I.5, II.1, II.3, III.2, III.5 e IV.3 di Emilio Maggio.

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Penne e pellicole

sfera della considerazione morale e della protezione giuridica, ma piuttosto la denuncia più rigorosa e inaudita del non-detto e dell’indicibile che sottende ogni forma di linea di confine, ogni erezione di categorie e di enclosure fatte poi magicamente scomparire nel bagliore accecante delle luminose aureole che stanno sul capo del Soggetto, della Legge e della Natura al fine di continuare, senza resistenza e con tranquillità, a trasformare in capi di bestiame tutti quelli che vengono fatti cadere nella categoria de “l’Animale”. È in questa direzione che si muove questa raccolta di saggi: verso un antispecismo che metta tra le priorità della sua agenda politica la liberazione dalla tassonomia. Verso una liberazione da quello sguardo pervasivo e concupiscente che blocca gli altri in posture fisse e in movimenti stereotipati. Verso l’innesco di un concatenamento – qui realizzatosi tra noi che abbiamo scritto a quattro mani e tra noi e quei non umani che abbiamo incontrato e con i quali abbiamo dialogato – che si smarchi dalla pornografia animale (dall’esposizione di pezzi di carne – buoni da mangiare, buoni da pensare o buoni da moralizzare, poco importa, se niente importa – pronti per il godimento appropriante di chi stila classifiche a partire dal Sé e dal “proprio”, mettendosi in tal modo sovranamente al di sopra e al di fuori delle stesse), per muoversi in direzione di un’epifania degli animali che dunque siamo, di quella tassonomia (dell’)impossibile che, dopo essere stato sorpreso da una gatta nel bagno di casa nudo e in preda a una sorta di delirio fantasmatico, Derrida ha immaginato di poter scrivere a partire «dal punto di vista delle bestie»3. 3. Ménage à trois. Da millenni ci facciamo illudere dalla favola “bella” secondo cui l’universo è disposto intorno a un centro occupato da noi stessi, un universo di cui, insieme a tutti i suoi abitanti che non vengono fatti rientrare in questo dispotico “noi”, possiamo disporre a piacimento. Questa favola prevede tre attori principali: “l’Uomo”, “l’Animale” e “Dio”. Chiaramente, “l’Uomo” in questione non è né un membro particolare della specie Homo sapiens né l’insieme di tutti gli appartenenti a questa specie, ma un costrutto squisitamente artificiale e politico dalle caratteristiche molto precise: “l’Uomo” è maschio, bianco, adulto, sano e di robusta costituzione, eterosessuale e appartenente alle classi sociali più “elevate”. Questo “Uomo” è emerso dal passaggio attraverso quella che Derrida ha definito una vera e

3

Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 50.

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Introduzione

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propria «struttura sacrificale»4 che opera per mezzo di un movimento duplice e chiasmatico: la purificazione dalle sue componenti animali che relega al di fuori del Sé o nei recessi più reconditi di sé – talmente reconditi da venire a coincidere con un esterno con cui ogni comunicazione è interrotta – e l’elevazione alla posizione che, fingendo di assegnare a un “Dio”, in realtà occupa lui stesso dopo essersi autoproclamato signore dell’intera creazione. A ben guardare, infatti, è questo “Dio” ad essere stato creato a immagine e somiglianza de “l’Uomo” e non viceversa. In altri termini, è il corpo di zoé che viene sacrificato sull’altare de “l’Umano” ed è un bìos molto particolare l’aroma che si sprigiona da tale sacrificio per sollevarsi verso i cieli dello Spirito. Questo movimento, continua la favola, che a questo punto può chiudersi con il più classico dei lieti fini, assicura a “l’Uomo” l’immortalità di “Dio”, liberandolo dalle catene della finitudine e della vulnerabilità de “l’Animale”. Ma questa è appunto una favola e una favola tutt’altro che innocente. In realtà, essa serve a nascondere che il movimento di ascesa de “l’Uomo” è reso possibile dalla “combustione animale” (dell’animalità che è anche degli umani) e che è un processo di perdita della corporeità impersonale che accomuna l’intero vivente a favore di una spiritualizzazione depersonalizzante e quindi, come tale, intrinsecamente oppressiva. Questa favola è allora l’espressione più riuscita e più ingannevole di quell’ideologia che intende legittimare i rapporti di potere che strutturano le società de “l’Uomo” e una sorta di performativo che inasprisce e consolida l’architettura che questi rapporti hanno assunto nel corso della storia. Storia che a un certo punto si è fatta così “naturale” – e quindi indiscutibile – da non aver neppure più bisogno di “Dio”, che ha perciò potuto morire senza arrecare eccessivo disturbo alla trama del racconto. Questa favola, continuamente raccontata, interiorizzata e confermata – in un vertiginoso circolo vizioso – da ciò che produce e da ciò che la produce, si è trasformata nel mondo vero: l’orrore della quotidianità della messa a morte istituzionalizzata di tutto ciò che non ricade nella categoria de “l’Uomo”, la norma indiscussa e universale degli stati di eccezione permanente, dai campi di sterminio ai mattatoi industriali. Detto altrimenti, seppure abbia assunto andamenti narrativi e stilistici anche molto diversi, questa favola non ha mai perso di vista il suo scopo primario: istituire un mondo dove è naturale che la natura sia esclusa come irrazionalità selvaggia e al contempo riappropriata come invariante normativa che suggella la presunta naturalità della legge (del più forte). Il che indica, tra l’altro, che il 4

Jacques Derrida, «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, trad. it. di S. Maruzzella e F. Viri, Mimesis, Milano 2011, pp. 36 sgg.

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Penne e pellicole

meccanismo di esclusione appropriante de “l’Animale” non è solo uno dei diversi possibili meccanismi di svalutazione e oppressione dell’altro, ma anche una sorta di “modello ideale” a cui tutte le ideologie e le pratiche di gerarchizzazione oppressiva possono rifarsi. Si sa che le razze non esistono e che sono un’invenzione per poter legittimare il razzismo. Si sa, grazie soprattutto al pensiero femminista e queer, che anche la distinzione di genere è un costrutto sociale e non un dato di fatto biologico. Se è certo che esistono singolarità umane accomunate da una qualche caratteristica, altrettanto certo è che la necessità di classificarle (tassonomizzarle, categorizzarle) rigidamente secondo un unico e specifico criterio, di creare identità fisse sulla base di una qualche somiglianza materiale misurata sulla distanza da ciò che si ritiene caratterizzi “l’Uomo”, nasce da esigenze che nulla hanno a che fare con la biologia e che invece molto hanno a che vedere con considerazioni di tipo politico ed economico, con l’interesse a naturalizzare i rapporti sociali di forza, lo stato (naturale) di cose presente. Viene allora spontaneo domandarsi se le specie, a differenza di quanto comunemente si pensa, non siano anch’esse, più che un dato di fatto, un costrutto ideologico volto a legittimare il dominio de “l’Umano” sull’esistente. Sarebbe infatti quantomeno ingenuo ritenere che la definizione della nostra specie con il sostantivo (sessuato e sessista) Homo e con l’aggettivo (presuntuoso e pretestuoso) sapiens sia il risultato di una descrizione neutra. Più consono sarebbe invece comprendere che questa definizione è parte integrante del processo che ha condannato a morte e continua a condannare a morte “l’Animale”, altro costrutto ideologico che è sorto e si perpetua sulle spoglie di miliardi di animali non umani, di innumerevoli schiere di umani ritenuti più vicini agli animali che a “l’Uomo” e sulla rimozione dell’animalità. 4. Dall’identità all’indistinzione. Il mondo vero, il risultato dell’onnivorismo sacrificale della favola antropocentrica, è quindi rappresentabile come la giustapposizione gerarchica di due grandi categorie, di due singolari collettivi: “l’Uomo” – che elide tutte le differenze che caratterizzano le singolarità che lo affollano: uomini, donne ed ermafroditi, bambini, anziani e oltrecomatosi, gay, lesbiche e queer, bianchi, neri e pellerossa, ecc. – e “l’Animale” – che sopprime tutta la variabilità fenomenica e tutte le formedi-vita dei non umani. Nell’ambito di questa binarizzazione, l’oppressione de “l’Animale” è una macchina che opera per mezzo di una triplice operazione: a) definizione di un “proprio” de “l’Umano”; b) riconoscimento delle differenze che tutti i viventi presentano rispetto a tale standard di riferimento e c)

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Introduzione

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disposizione di questi lungo una scala gerarchica a seconda della distanza da “l’Uomo” stabilita dalla natura e dall’entità delle differenze riscontrate. L’iniziale opposizione a questa macchina si è impegnata a mettere in dubbio la seconda delle operazioni indicate, ossia l’esistenza di una qualche forma di differenza ontologica, di un abisso insuperabile, che separerebbe la nostra da tutte le altre specie. A seguito di un errore di prospettiva che ha fatto perdere di vista che l’esclusione attuata dall’antropocentrismo non si è mai fermata ai confini della nostra specie, l’antispecismo “classico” ha tuttavia lasciato immutato il metro di misura (“l’Uomo”) per concentrarsi sulle modalità di misurazione, sostenendo che diversi altri animali possiedono caratteristiche che, in qualche modo, li rendono quasi-umani e pertanto assimilabili alla specie eletta. Così facendo, esso si è condannato a una visione identitaria e cripto-antropocentrica e, di fatto, si è precluso la possibilità di battersi a fianco dei movimenti di liberazione umana. A questa prospettiva se ne è successivamente affiancata un’altra che potremmo definire “antispecismo della differenza”. Tale movimento di critica e di opposizione all’oppressione de “l’Animale”, pur accettando la principale acquisizione – l’assenza di barriere insuperabili tra la specie umana e tutte le altre – e la medesima aspirazione – la liberazione dei non umani – del primo antispecismo, si è concentrato sul nucleo centrale del processo indicato. Esso ha infatti sostenuto che l’idea dell’esistenza di un “proprio” de “l’Umano” è qualcosa di semplicemente aberrante – tutte le singolarità esistenti sono mutanti instabili frutto di un’incessante contaminazione ibridante – e che differenza non è sinonimo di gerarchia. Per questo pensiero pienamente anti-antropocentrico, il problema non è più la cancellazione antropomorfica della differenza, quanto piuttosto la sua moltiplicazione al fine di liberare chi è stato rinchiuso dagli interessi delle élite dominanti nelle categorie oppressive de “l’Uomo” e de “l’Animale”. Più recentemente, questa prospettiva si è ulteriormente evoluta in un nuovo modo di pensare gli animali che esclude anche le forme più sfumate e sottili di distinzione tra umani e non umani: le singolarità animali, indipendentemente dalla specie di appartenenza e proprio perché “specie” e “appartenenza” sono termini “vuoti”, abitano uno spazio condiviso di corpeazione indistinta, nella quale i presunti confini sono con-fusi dalla vulnerabilità e dalla finitudine che accomuna la carne-del-mondo. Questo libro, che speriamo possa contribuire alle lotte più o meno organizzate che quotidianamente le diverse singolarità animali mettono in atto per liberarsi dal giogo dell’oppressione de “l’Uomo”, è anche un tentativo di muovere qualche passo in direzione di questo spazio di indistinzione, uno spazio dove la carne-del-mondo possa rivendicare di essere più che

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carne, di non essere considerata esclusivamente mera carne macellabile e commestibile5. 5. Oltre il logocentrismo. Degli animali sappiamo ben poco e questa è un’altra buona ragione per sostenere che sarebbe poco serio parlare di loro. È certo, però, che è possibile parlare anche con chi non si conosce; anzi, forse si parla veramente solo con chi non si conosce. Ma come si parla con gli sconosciuti? Con che lingua, con quale grammatica, sintassi e stile? Problemi questi che si moltiplicano nel caso degli animali, dal momento che il nostro linguaggio non è sorto nel vuoto, ma si è andato costituendo proprio a partire dall’esclusione della voce animale, del verso animale. Il tentativo di trovare la giusta intonazione con cui rivolgersi agli animali per poter davvero conversare con loro attraversa per intero questo libro e prende la forma della ricerca di un linguaggio che permetta agli incontri di rimanere tali, di non essere immediatamente interrotti per diffidenza o fastidio, oppure di essere ingabbiati dalla presa del nostro dire monologante, nel quale lo sconosciuto venga ancora una volta trasformato in oggetto del nostro interesse. Da qui l’idea di prendere le distanze da un discorso ostinatamente logocentrico, che non smette di discutere in astratto sugli animali, per esplorare le risorse che espressioni extra-filosofiche – in qualche modo più corporee – possono offrire alla causa della liberazione animale. Questa raccolta di saggi può essere vista come una serie di inseguimenti di animali in carne e ossa – anche se immaginari – che, comparendo in un’opera letteraria o cinematografica recente (o anche meno, ma che abbiamo ritenuto essenziale per l’elaborazione del nostro discorso), hanno accettato di incontrarci, permettendoci di guadagnare una differente prospettiva di sguardo sui diversi mondi che ci circondano. In fondo, poi, quanto detto non è che la conseguenza della scelta di campo che abbiamo compiuto a favore di una critica radicale dell’antropocentrismo. Se gli animali non rappresentano un ulteriore campo di studi in cui esercitare il proprio pensiero, ma corpi vivi che ci chiamano verso l’indistinzione dell’essere-carne-nel-mondo, se fanno sorgere questioni politiche e sociali in cui anche noi siamo presi e avviluppati, ecco che il linguaggio necessario per parlare con loro, e con noi stessi, non può più essere quello della sola argomentazione razionale; piuttosto bisognerà portare il nostro linguaggio fino al punto di rottura, 5

Al proposito, cfr. Matthew Calarco, Essere-per-la-carne: antropocentrismo, indistinzione e veganismo, trad. it. di M. Filippi, in Liberazioni, n. 15, inverno 2013, pp. 5-22.

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Introduzione

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spingerlo in luoghi meticci di intersezione dove le barriere tra le discipline (filosofia da una parte, letteratura da un’altra, cinema e arte da un’altra ancora, ecc.) si spezzano. Nonostante le biblioteche e le sale cinematografiche abbiano perso la sacralità conventuale di un tempo, sappiamo bene che anche la letteratura e il cinema sono dispositivi egemonici. Però sappiamo altrettanto che la letteratura e il cinema, se sono grande letteratura e grande cinema (ma lo stesso vale anche per l’arte, il fumetto, la musica, ecc.), se cioè riescono a trasformarsi da sistemi codificati di segni e linguaggi in fenomeni alieni, sono in grado di farsi eccedenti, di caricarsi di una potenza destabilizzante, della capacità di dare voce al perturbante, di farci accedere, come direbbero Deleuze e Guattari, alla possibilità di parlare la nostra lingua come se fosse una lingua straniera. La nostra tesi è che questa impotente potenza si manifesti soprattutto quando la letteratura e il cinema si lasciano contaminare da animali-stregoni capaci di trascinarci in uno sconfinante processo osmotico, in un incessante divenire comune. La maggior parte dell’impresa filosofica, la filosofia maggioritaria, è stata fin dalle sue origini orgogliosamente antropocentrica. La filosofia, però, come la letteratura e il cinema, è stata anche altro, un sentire l’altro e un sentire dell’altro. Come dovrebbe risultare evidente dalla lettura dei saggi qui raccolti, il nostro rapporto con la riflessione filosofica è perciò ambivalente: se da un lato ne guardiamo con sospetto l’anima logocentrica, dall’altro ne accogliamo quelle acquisizioni che consentono di aprire crepe profonde nell’edificio antropocentrico e di dare al corpo del pensiero animalista un’innervazione la cui mancanza lo condannerebbe all’immobilità. Tra queste, ad esempio, le riflessioni di Foucault sulla biopolitica, nelle quali è chiaro che la vita su cui la politica esercita la propria presa è la vita animale degli umani presi singolarmente o come specie; quelle di Agamben sulla macchina antropologica, macchina che a partire dal suo centro vuoto non smette mai di produrre “l’Umano” attraverso un’operazione chiasmatica di esclusione appropriante e di inclusione espellente de “l’Animale”; quelle di Deleuze sulla letteratura minore – per liberarsi dal giogo delle imposizioni dell’Io e delle triangolazioni edipiche – e sul divenire animale – per disperdersi nel fluire desiderante della vita; e infine quelle di Derrida sulla necessità di prendere posizione nell’ambito della guerra sulla pietà – in corso tra chi nega ogni forma di compassione e chi la vorrebbe estendere anche agli animali – e sull’animot – improbabile ibrido tra il suono del termine “animaux” (animali finalmente al plurale) e il senso del termine “mot” (parola) – che più di ogni altra creazione filosofica ha evidenziato la natura logocentrica e oppressiva di quei costrutti politici che rispondono ai nomi de “l’Umano” e de “l’Animale”.

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Penne e pellicole

6. Incipit animot. “L’Uomo” si è sempre definito come differenza da “l’Animale” e, in questa differenza, gli animali – quelli realmente esistenti – sono stati persi di vista per essere trasformati in merce, forza lavoro, divertimento e spettacolo. Questo libro, tenendo dritta la barra in direzione della liberazione animale e non dimenticandosi che gli umani altro non sono che altri animali, cerca di smarcarsi da questa prospettiva, da questo mangiare con la bocca o con lo sguardo. E per far questo si è rivolto alla letteratura e al cinema che, nei loro momenti più intensi e stranianti, ci offrono prospettive inedite sui mondi altrimenti-che-umani. Basti pensare, per citare solo alcuni degli autori più famosi, a Kafka, a Lispector, a Grossman, a Bresson o a Herzog. Oppure a Cortázar, al quale lasciamo l’ultima parola di questa introduzione. Un umano del quale non conosciamo neppure il nome prende l’abitudine di recarsi in uno dei tanti recinti di questo mondo, l’acquario del Jardin des Plantes di Parigi, per osservare gli axolotl, bizzarri animali dai movimenti rallentati, quasi impercettibili, e dal «volto inespressivo, senza altro ornamento che gli occhi»6. Quest’uomo percepisce immediatamente che qualcosa di oscuro lo lega a questi strani animali, che ha qualcosa in comune con loro, che può riconoscerli proprio per «l’assoluta mancanza di somiglianza»7 con lui. E così torna a osservarli giorno dopo giorno, fino al momento in cui, nel fulmineo bagliore dell’evento, al contempo terrorizzante e gioioso, si perde nell’indistinto: Il mio volto era attaccato al vetro dell’acquario, i miei occhi cercavano di penetrare ancora una volta il mistero di quegli occhi d’oro senza iride e senza pupilla. Vedevo molto da vicino la faccia di un axolotl immobile contro il vetro. Senza transizione, senza sorpresa, vidi la mia faccia contro il vetro, invece dell’axolotl vidi la mia faccia contro il vetro, la vidi fuori dell’acquario, la vidi dall’altra parte del vetro. Allora la mia faccia si staccò, e io compresi [...]. Rendermi conto di ciò fu simile all’orrore del sepolto vivo che si sveglia al proprio destino [...]. L’orrore era generato [...] dal credermi prigioniero in un corpo di axolotl, [...] sotterrato vivo in un axolotl [...]. Ma tutto questo cessò quando una zampa venne a carezzarmi il volto, quando spostandomi appena vidi un axolotl vicino a me che mi guardava [...], e seppi che anche lui sapeva, senza comunicazione possibile, ma chiaramente [...]. Ora sono definitivamente un axolotl8.

6 7 8

Julio Cortázar, Axolotl, in Animalia, trad. it. di I. Buonafalce, C. Greppi, V. Martinetto, F. Nicoletti Rossini e C. Rizzotti, Einaudi, Torino 2013, p. 4. Ivi, p. 6. Ivi, pp. 8-9.

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I PROSPETTIVE SULLA QUESTIONE ANIMALE

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ASSASSINI DAL VOLTO BUONO Qualche volta cammino a notte fonda / E mi fermo davanti a una macelleria chiusa. / […] / Un grembiule pende dall’uncino: / il sangue lo macchia con la mappa / dei grandi continenti di sangue, / i grandi fiumi e gli oceani di sangue. (C. Simic)1 Possiamo immaginare la felicità solo nell’aria che abbiamo respirato, tra le persone che hanno vissuto con noi. (W. Benjamin)2

1. Vasilij Grossman (una vita). Vasilij Grossman (1905-1964), ucraino di famiglia ebraica, fu tra i primi, come corrispondente di guerra dell’Armata Rossa, a entrare a Treblinka una volta liberata e a descriverne l’orrore in un famoso articolo pubblicato nel 1944 sulla rivista Znamja. Dapprima entusiasta sostenitore del regime sovietico, a seguito della campagna antisemita condotta tra il 1949 e il 1953, maturò una posizione molto critica nei confronti dello stesso, tanto che il suo capolavoro Vita e destino3, pubblicato postumo, venne sequestrato e poté vedere la luce solo perché fatto pervenire clandestinamente a Losanna. In tutta l’opera di Grossman, vero e proprio corpo a corpo con il male, come è il caso di tutta la grande tradizione russa di cui a pieno titolo fa parte, gli animali e l’intuizione, seppur non svolta fino alle sue necessarie conseguenze, che la loro condizione sia inestricabilmente intrecciata con 1 2 3

Charles Simic, Macelleria, in Hotel Insonnia, trad. it. di A. Molesini, Adelphi, Milano 2002, p. 17. Walter Benjamin, I «passages» di Parigi, trad. it. di G. Russo, Einaudi, Torino 2010, p. 539. Vasilij Grossman, Vita e destino, trad. it. di C. Zonghetti, Adelphi, Milano 2008.

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ciò che definiamo “umano”, sono costantemente presenti e costituiscono una sorta di cartina di tornasole delle vicende esistenziali dello scrittore stesso.

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2. Tutto scorre (soprattutto il sangue). Un passaggio di Tutto scorre…4, romanzo che rappresenta l’ideale prosecuzione di Vita e destino, riassume con chiarezza la visione del mondo di Grossman, maturata dopo aver visto con i propri occhi la barbarie nazista e aver ormai perso ogni speranza nella potenzialità palingenetica della Rivoluzione d’Ottobre: Da tutte le parti, sulle case, pendevano le medesime insegne: «Carne» e «Parrucchiere». Nel crepuscolo le insegne verticali, con su scritto «Carne», brillavano d’un fuoco rosso, mentre le insegne «Parrucchiere» lucevano d’un verde intenso. Quelle insegne, spuntate con i primi abitanti, sembravano rivelare la natura carnale dell’uomo. Carne, carne, carne… L’uomo divora carne. Senza carne l’uomo non può vivere. Qui non c’erano ancora biblioteche, teatri, cinema, sartorie, mancavano persino ospedali, farmacie, scuole – ma subito, di colpo, tra le pietre, si era acceso un rosso fuoco: carne, carne, carne… E subito dopo lo smeraldo delle insegne da parrucchiere. L’uomo mangia carne, e si copre di peli5.

Questo passaggio non è solo sintomatico dello sguardo disperato di Grossman, ma anche del modo contraddittorio con cui sembra rapportarsi con l’animalità. Da un lato, infatti, descrive “l’Umano” a partire dagli animali ridotti a carne: la carne del mondo, l’inestricabile intreccio di tutti i viventi così teneramente descritto in molti altri passi dell’autore, è diventato il mondo della carne, violenta brama di nutrirsi del corpo dell’altro dopo averlo smembrato e ridotto a presunto bisogno primario. Dall’altro, però, questa consapevolezza non si smarca dall’umanismo: gli umani sono quello che sono, sembra suggerire Grossman, perché si sono appiattiti sulla loro «natura carnale», perché si sono ridotti ad animali “coperti di peli”. L’operazione di Grossman – almeno qui, ma non ovunque, come vedremo – non pare cioè discostarsi da quelle sviluppate dalla cultura occidentale che hanno ispirato, dopo la Seconda guerra mondiale, la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 19486: all’animalizzazione di alcuni 4 5 6

Vasilij Grossman, Tutto scorre…, trad. it. di G. Venturi, Adelphi, Milano 2010. Ivi, p. 59. Per una critica antispecista alla nozione di diritti umani, cfr. Raymond Corbey, Metafisiche delle scimmie. Negoziando il confine animali-umani, trad. it. di P. Cavalieri, Bollati Boringhieri, Torino 2008, in particolar modo pp. 190-198, e Massimo Filippi, I margini dei diritti animali, Ortica Editrice, Aprilia 2011.

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gruppi umani da parte del nazismo si è risposto approfondendo il solco tra “l’Umano” e il resto del mondo animale, respingendo “l’Animale” nel fondo oscuro de “l’Uomo”, se non addirittura in uno spazio completamente esterno rispetto a quello dell’umanità. In altre parole, la riflessione post-bellica non si è impegnata in un confronto serrato con la biologia animale dell’uomo nel tentativo di “riabilitarla” ma, più semplicemente, si è smarcata dalla biologizzazione della politica elidendo la nostra animalità e tenendo in tal modo aperte, seppur inconsapevolmente, le porte dell’inferno: finché esisterà un fuori animale, gli animali continueranno a essere macellati, la vita a essere offesa e la macchina antropologica a funzionare, producendo Übermenschen a partire dalle catene di smontaggio della carne degli Üntermenschen, delle Lebensunwertes Leben. Così Treblinka non può che durare in eterno. 3. Discesa all’Ade (senza ritorno). Come detto, nell’autunno del 1944, poche settimane dopo che l’Armata Rossa aveva liberato Treblinka, Grossman, sulla base di decine di testimonianze dirette dei “salvati”, dà alle stampe L’inferno di Treblinka7, reportage sul campo di sterminio nazista, denuncia implacabile della barbarie che lì si è consumata e inaggirabile documento d’accusa al processo di Norimberga. Nonostante ciò, nonostante il riconoscimento che il campo sorge laddove si esibisce una «ferrea, algida indifferenza per le sorti di qualunque essere vivente»8 e nonostante a Grossman non sfuggano le inquietanti somiglianze che esso intrattiene con il mattatoio (ad esempio quando descrive le fasi e le modalità con cui funziona «la catena di montaggio dello sterminio»9), egli continua a ribadire l’idea cardine dell’umanismo antropocentrico secondo cui i nazisti hanno potuto fare ciò che hanno fatto perché, negando l’umanità autentica, il “proprio” de “l’Umano”, sono diventati delle bestie: Che grande cosa è il dono dell’umanità: un dono che non muore finché non muore l’uomo. E se anche sopraggiunge un’epoca storica breve ma tremenda in cui la bestia ha la meglio sull’uomo, l’uomo ucciso dalla bestia conserva comunque fino all’ultimo suo respiro forza d’animo, mente lucida e cuore ar7 8 9

Vasilij Grossman, L’inferno di Treblinka, trad. it. di C. Zonghetti, Adelphi, Milano 2010. Ivi, p. 16. Ivi, p. 21. Cfr. anche, p. 25, dove a proposito dei gestori del campo, Grossman afferma: «Sembravano guardiani di una mandria diretta al macello. Per loro i nuovi arrivati non erano esseri umani» e p. 46, dove il campo di sterminio è definito come «una fabbrica di morte, una catena di montaggio improntata a quelle della moderna produzione su larga scala».

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dente. Mentre la bestia trionfante che lo uccide resta comunque una bestia. Nell’immortalità dello spirito umano è insito un cupo martirio, trionfo – però – dell’uomo sulla bestia che vive. Furono proprio i giorni più duri del 1942 a vedere annunciata l’alba della ragione sulla follia animalesca10.

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In questo passo è evidente quanto si è detto e cioè che Grossman si limita a capovolgere l’assiologia nazista che, come lui stesso afferma, parlava tra l’altro di «porci russi» e «carogne polacche»11, senza provare a destabilizzare, pur riconoscendolo, il meccanismo di negazione de “l’Animale” che l’aveva resa possibile. Sintomatico di questa condizione schizofrenica è il seguente passaggio: Le SS, psichiatri della morte, […] conoscono le semplici leggi di tutti i mattatoi di questo mondo, leggi che a Treblinka le bestie applicarono agli esseri umani12.

Lo stesso Grossman non sembra però essere pienamente convinto della bontà di questa “spiegazione”, dal momento che si domanda con insistenza, senza riuscire a trovare una risposta convincente: «Com’è potuto succedere? […] Che cosa è stato? Com’è potuto accadere?»13, «Che cosa ha generato il razzismo? Che cosa bisogna fare affinché il nazismo, il fascismo, l’hitlerismo non abbiano a risorgere […]?»14. Eppure la risposta è lì davanti a lui e forse – come noi – non riesce a scorgerla perché troppo visibile. Basterebbe comprendere che le tragiche espressioni a cui fa ricorso per descrivere i momenti finali delle vittime umane del nazismo potrebbero essere ripetute, parola per parola, per le innumerevoli vittime non umane che anche in questo momento stanno vedendo compiersi le ore estreme della loro esistenza terrena: mentre i loro «cuori battono ancora», mentre «continuano a respirare, a guardare e a pensare»15, mentre «la testa gira» e «un nodo stringe la gola»16 stanno

10

11 12 13 14 15 16

Ivi, p. 43. L’occorrenza nel testo dell’equazione nazisti = bestie (oppure: «essere antropomorfo», «essere dal sembiante umano», «predatori» e «mostri») è molto frequente; oltre ai passaggi già citati, cfr. anche pp. 26, 35-36, 38-39, 45, 51, 63 e 64. Ivi, p. 78. Ivi, p. 32. Ivi, p. 78. Ivi, p. 79. Ivi, p. 37. Ivi, p. 52.

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in piedi, stretti gli uni contro gli altri […] tanto da spezzarsi le ossa, da schiacciarsi la cassa toracica, tanto da non poter respirare, sentendo scorrere l’ultimo rivolo vischioso del sudore della morte17.

Grossman, perseguitato dalla domanda: «Che cosa avranno visto quegli occhi vitrei, spenti? Scene d’infanzia e di giorni felici, o forse l’ultimo durissimo viaggio?»18, sa che

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bastano pochi secondi per distruggere ciò che il mondo e la natura hanno creato nella gestazione lunga ed estenuante della vita19,

ma la millenaria reiterazione dell’identico, non gli permette di cogliere la quotidiana ripetizione di questi «pochi secondi». Grossman, liberatore di Treblinka, al pari degli altri liberatori, non riesce a liberarsi da essa, rimane lì (per il momento), continua a restare “Umano”. Continua a tracciare una linea netta e impermeabile tra “l’Umano” e “l’Animale”, assegnando a quest’ultimo, con una mossa fin troppo nota, la bêtise; continua a inventarsi improbabili confini tra noi e il resto del vivente per negare l’unico che ci separa veramente dagli animali: la nostra capacità di istituzionalizzare la violenza pianificandola a tavolino e realizzandola su scala industriale. Allora viene spontaneo chiedersi: non sarà per questo, al di là degli epifenomeni che i cultori del marxismo ortodosso non finiscono di ricordarci, il motivo per cui uno dei più grandi progetti di redenzione dell’umanità, la Rivoluzione d’Ottobre, si è conclusa con Stalin e con un altro bagno di sangue? Non è possibile che il sogno del socialismo si sia infranto proprio perché nato smembrato, dimezzato, perché ha continuato acriticamente a dissociare la liberazione degli umani da quella della natura? Il nazismo ha preso alla lettera e ha dato realtà materiale all’espressione “sono come animali”, ma la risposta al nazismo, pur restituendo tale espressione al campo del metaforico, ha ribadito la rimozione dell’animalità dell’uomo e la separazione de “l’Umano” da “l’Animale”. Finché esisteranno animali pronti a riempire lo stomaco di questa metafora, il meccanismo industriale di animalizzazione sia degli altri animali che degli animali umani continuerà a funzionare. E «il divenire rivoluzionario della gente»20 continuerà

17 18 19 20

Ivi, pp. 51-52. Ivi, p. 52. Ivi, p. 36. Gilles Deleuze, Pourparler, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2000, p. 225.

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a trasformarsi in rivoluzione, rotazione infinita intorno alla stessa orbita, salvezza di ciò che è già salvo, di chi in quel dato momento è il più forte. 4. La vita e il destino (in un illogico atto d’amore). In Vita e destino, immenso affresco storico che, con il respiro di Tolstoj, attraversa gli anni più cupi del Novecento (dalla battaglia di Stalingrado ai gulag sovietici), e confronto senza sconti con il male che lo apparenta all’opera di Dostoevskij, Grossman, pur non mettendo in dubbio la centralità de “l’Umano”, che continua a pervadere la sua visione del mondo, introduce con decisione il ruolo del corpo animale, delle sue movenze ospitanti e amorose, come antidoto alla violenza istituzionalizzata. Il titolo stesso dell’opera è al riguardo estremamente significativo: da un lato la vita – zoé – che accomuna l’intero vivente con il suo fluire impersonale che rende possibile il sorgere delle varie singolarità e dall’altro il destino – i recinti e i campi – in cui il dominio rinchiude la vita, per addomesticarla, per estinguerla in cataloghi tassonomici, in bíos. E così al «povero pazzo»21 Ikonnikov, un quasianimale prigioniero dei lager nazisti e reincarnazione del principe Myskin, Grossman affida il compito di delineare la sua visione della bontà che, distinguendosi dal Bene, diventa la via di fuga dall’orrore in un amore che non prevede confini di specie: La gente comune ha nel cuore l’amore per gli esseri viventi, ama la vita e ne ha cura […]. E dunque oltre al bene grande e minaccioso [quello propugnato dallo Stato e dalle sue istituzioni] esiste la bontà di tutti i giorni. La bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, la bontà del soldato che fa bere dalla sua borraccia un nemico ferito, la bontà della gioventù che ha pietà della vecchiaia, la bontà del contadino che nasconde un vecchio ebreo nel fienile […]. È la bontà dell’uomo per l’altro uomo, una bontà senza testimoni, senza grandi teorie. La bontà illogica, potremmo chiamarla […]. A ben pensarci, però, ci si accorge che la bontà illogica, fortuita del singolo uomo, è eterna. Che si estende a tutto quanto è vivo, al topo o al ramo che un passante si ferma a sistemare perché possa attecchire meglio al tronco. In quest’epoca tremenda, un’epoca di follie commesse nel nome della gloria di Stati nazioni o del bene universale, e in cui gli uomini non sembrano più uomini ma fremono come rami d’albero e sono come la pietra che frana e trascina con sé le altre pietre riempiendo fosse e burroni, in quest’epoca di terrore e di follia insensata, la bontà spicciola, granello radioattivo sbriciolato nella vita, non è scomparsa22.

21 22

Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 390. Ivi, p. 388.

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È questa bontà illogica, fortuita e spicciola, questa «bontà senza voce, senza senso», «istintiva e cieca», «muta, inconsapevole», «bella e delicata come la rugiada»23, che costituisce il bersaglio della forza in tutte le sue manifestazioni, dallo Stato alla Chiesa:

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La bontà è debole, fragile: questo è il segreto della sua immortalità. Essa è invincibile. Più è sciocca, più è illogica e indifesa, tanto più è imponente […]. La storia degli uomini non è dunque la lotta del bene che cerca di sconfiggere il male. La storia dell’uomo è la lotta del grande male che cerca di macinare il piccolo seme dell’umanità24.

Pur essendo consapevole che la bontà «è troppo debole», pur chiedendosi: «A che serve se non è contagiosa?», «Come si spegne il male? Forse con le gocce di rugiada della bontà umana?»25, Grossman, nel passaggio che compie a partire da Vita e destino, sembra impegnarsi a ridisegnare l’umano che, pur continuando a mantenere lo stesso nome, adesso si fa percorrere, per non diventare disumano, dall’inumano o dall’aumano, dalla sua irriducibile corporeità che si lascia interpellare dal mutismo del bisogno materiale di altri corpi. Ora Grossman è conscio che, per mantenere la speranza, bisogna affidarsi proprio alla paradossale e contraddittoria insalvabilità che questa pietas annuncia, all’inoperosità a cui dà (un) corpo, alla sua debole forza: La bontà è forte sino a quando è priva di forza. Appena la si vuole trasformare in forza, la bontà si perde, scolora, si offusca, svanisce26.

Se «la vita non è il male» e la «bontà è semplice come la vita»27, il fluire della vita, come l’acqua, come un serpente, filtra tra le maglie del dominio, proprio perché immensamente debole, aprendo fratture e crepe che lo dissestano, permettendo di intravvedere la prospettiva di un mondo altro. Grazie al lucore crepuscolare che così trapela, in questa fioca penombra, possiamo intuire cosa hanno visto e continuano a vedere, nei loro ultimi momenti, i dannati della terra, i senza nome e, attraverso il loro delicato sguardo estremo, intuire il mondo come avrebbe potuto essere, come potrebbe diventare se «sbriciolato» dalla debole “radioattività” della vita.

23 24 25 26 27

Ivi, p. 389. Ivi, p. 390. Ibid. Ivi, p. 389. Ibid.

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Debole “radioattività” trasmessa nelle pagine strazianti e sublimi che registrano, come sensibilissimi sismografi dell’impalpabile, l’incontro tra Sof’ja Osipovna, anziano maggiore medico dell’esercito, nubile e senza figli, e il piccolo David, un bambino ebreo catturato senza i genitori; incontro che rappresenta l’architrave su cui si regge l’intero impianto di resistenza che Grossman ha disegnato in Vita e destino e che ci permette di assistere al progressivo prender corpo, in un amoroso abbraccio, di quell’illogica bontà di cui parla Ikonnikov28. Le vite di Sof’ja e David, già segnate dall’incontro con il male, si intrecciano per caso su un convoglio diretto al campo. Sof’ja ha incontrato il male da poco, da quando, salita sul treno, le è risultato chiaro, come dice «una voce maschile», che i tedeschi li «trattano come bestie» e comprende «la differenza tra vivere ed esistere»29. David ha incontrato il male da prima, da quando aveva conosciuto la sorte riservata agli animali: Il vecchio prese la gallina, borbottò qualcosa, la bestiola chiocciò fiduciosa, dopo di che il vecchio fece un movimento rapido, impercettibile, ma evidentemente tremendo e lanciò l’animale alle sue spalle. La gallina strepitò, corse via sbattendo le ali, e David si accorse che non aveva più la testa, che a correre era solo un corpo decapitato: il vecchio l’aveva ammazzata. Fatto qualche passo, il moncherino stramazzò, grattò la terra con le sue zampette giovani e forti e disse addio alla vita. Quella notte gli sembrò che la stanza fosse invasa dall’odore acre delle vacche abbattute e dei loro piccoli sgozzati30. Andò un paio di volte alla stazione merci a vedere caricare buoi, montoni e maiali. Sentì il muggito poderoso di un bue che forse si lamentava o forse chiedeva pietà. Il suo cuore si riempì di paura, mentre i ferrovieri che passavano accanto ai vagoni con le loro giacche luride e lacere non voltarono nemmeno i visi stremati, smunti31.

«Con la chiarezza e la profondità di cui sono capaci i bambini piccoli e i grandi filosofi»32, David capisce che cosa è la morte, l’orrore perpetrato dagli adulti e la necessità dell’illogica pietà: La nonna comprò una gallina e se la portò via tenendola per le zampe, legate con un pezzo di stoffa bianca; David le camminava accanto e, con la mano, aiu-

28 29 30 31 32

Ivi, pp. 526-529. Ivi, pp. 180-181. Ivi, p. 191. Ivi, pp. 193-194. Ivi, p. 192.

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tava la gallina a sollevare la testa penzolante, stupito di scoprire che sua nonna fosse capace di tanta inumana crudeltà33.

A questo punto, non è difficile per Grossman trarre le conclusioni:

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L’abbattimento del bestiame infetto richiede una certa preparazione: il trasporto, la raccolta nei macelli, l’intervento di personale qualificato, lo scavo delle fosse. Chi aiuta le autorità portando le bestie malate al mattatoio o catturando gli animali in fuga, non lo fa perché odia le vacche e i vitelli […]. Allo stesso modo, quando a finire macellati sono gli esseri umani, molti esseri umani, la gente non viene mai sopraffatta da un odio sanguinario per i vecchi, le donne e i bambini destinati allo sterminio. Per questa ragione anche la campagna per il massacro su larga scala di esseri umani abbisogna di una preparazione adeguata34.

In questa immensa banalità del male, nella tragica malvagità del banale, Sof’ja e David si incontrano di nuovo all’entrata della camera a gas, corpi nudi in mezzo ad altri corpi nudi, in grado però di opporre alla «spersonalizzazione» «per sottomissione», quella «per amore»35: Da nudi si è più vicini a se stessi […]. Un uomo nudo che si guarda può solo dire: «Questo sono io». Si riconosce, è in grado di dire «io», un io che non cambia […]. Sof’ja Osipovna, invece, provò una strana sensazione […]. A Sof’ja Osipovna parve di sentire un «Sono io» riferito non solo a se stessa, ma a tutto un popolo36.

E così, ancorché presi in «un movimento che aveva poco di umano», «un movimento estraneo anche a forme di vita minori»37, dove qualcuno «si dibatteva inutilmente, invano, come un pesce sul tavolo di una cucina»38, entrambi avvertono che hanno bisogno l’uno dell’altra per arrestare, seppur per un attimo, l’orrore. E, nonostante siano continuamente allontanati, altrettanto continuamente si ritrovano e finalmente Sof’ja, senza più vergognarsi del senso materno che si era risvegliato in lei, […] si chinò e prese tra le sue mani grandi e forti il visino di David, e fu come se avesse preso in mano gli occhi di lui. Lo baciò39, 33 34 35 36 37 38 39

Ivi, p. 191. Ivi, p. 195. Gilles Deleuze, Pourparler, cit., p. 15. Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 522. Ivi, p. 526. Ivi, p. 527. Ivi, p. 522.

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capendo quello che «avrebbe dovuto fare»: Stringerlo strenuamente, con tutta la cupa ostinazione del suo amore, contro la guancia, contro il petto, fino a diventare un corpo solo40.

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Abbracciati, Sof’ja e David, incrociando gli sguardi degli altri condannati, respirando l’aria del loro passato, iniziano a morire, attraversandoci, segnando indelebilmente la nostra memoria, diventando indimenticabili: Braccia forti e calde lo tennero stretto tutto il tempo, e David non si rese conto che i suoi occhi cominciavano a non vedere, che il suo cuore si svuotava e non sentiva più nulla, che il suo cervello era cieco e vuoto anch’esso. Lo avevano ammazzato, aveva smesso di esistere. Sof’ja Osipovna Levinton sentì il corpo del ragazzo spegnersi fra le sue braccia […]. Sono diventata madre, pensò. Fu il suo ultimo pensiero. Ma il suo cuore era ancora vivo: una stretta dolorosa, pietà per voi, per i vivi e per i morti; poi un conato. Sof’ja Osipovna strinse a sé David, bambola senza vita, e morì, bambola senza vita anche lei41.

Indimenticabili perché capaci, nel momento estremo, in un estremo atto di pietà per i vivi e per i morti, di compiere il più precario dei gesti dettati dall’illogica bontà: partorire un affetto che travalichi i legami di sangue, divenire, nel flusso impersonale della vita, madre e figlio, amorevole ospitare ospitante il corpo dell’altro. 5. Come un serpente (sotto la pelle). La centralità che la sfera del corporeo – l’animalità dell’uomo secondo la nostra tradizione – assume in Vita e destino segna un cambiamento radicale nello sguardo di Grossman, una prima, profonda incrinatura del suo antropocentrismo. Cambiamento del resto già annunciato nel romanzo Per una giusta causa, pure inviso al regime sovietico e di cui Vita e destino è la prosecuzione. Cambiamento simile alla miracolosa muta di un serpente che, per un attimo, nel fluire della vita attraverso la morte, è in grado, nello stupore di una disincantata religiosità laica, di far «tacere le armi degli eserciti»42: Appeso in un angolo, un elmetto dondolava tintinnando. Un fascio di luce densa, concentrata, lo illuminava. Sergej vide che a far muovere l’elmetto era una serpe che la luce del sole rendeva color del rame. Appena la osservò con 40 41 42

Ivi, p. 527. Ivi, p. 529. Tiziano Rossi, Mansuetudine, in Cronaca perduta, Mondadori, Milano 2006, p. 103.

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Prospettive sulla questione animale

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più attenzione, capì che il serpente stava lentamente cambiando pelle con uno sforzo penoso e che la sua nuova pelle sembrava imperlata di sudore e brillava come una castagna novella. Gli uomini trattenevano il respiro mentre osservavano il lavorio del serpente: sembrava che stesse per gemere, che si lamentasse, perché faticava a uscire da quell’involucro duro, morto. Questa dolce penombra attraversata dalla luce e l’incredibile spettacolo di un serpente che, completamente fiducioso, cambiava pelle in presenza degli uomini, avvinse i soldati43.

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Ormai Grossman sa che «l’Universo dentro l’uomo […] somiglia incredibilmente all’Universo al di fuori dell’uomo»44 e intuisce che provvisoriamente in esilio, il serpente indica un regno da restaurare, a partire dall’esilio, cioè da una scena che lo ha scacciato […]. La vittima di tutto, la vittima di Adamo […], la vittima è il serpente45.

In questa nuova ottica, il serpente dismette le vesti del male che gli abbiamo assegnato per assolverci e torna a essere quell’animale che è, un animale in grado di cambiar pelle e di scorrere come la vita che ci circonda: l’animale-serpente è ánghelos, stregone angelico che, con gli occhi spalancati, la bocca aperta e le ali distese, è messaggero/intermediario tra gli umani e la vita, tra il presente e ciò che è stato (un cumulo di rovine che sale al cielo), tra l’adesso, dove a milioni muoiono i senza nome nella cantina di una società la cui razionalità è ancora irrazionale, e le distopie della bontà illogica che, a dispetto della forza che spinge irresistibilmente nel futuro e nel progresso, non smettono di ricomporre l’infranto, di destare i morti, di annunciare la resurrezione di tutti i morti nell’ingiustizia. 6. Un mulo e una cavalla («e tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi»46). Il cambiamento di pelle che Grossman sta faticosamente sperimentando è testimoniato anche dal perturbante e delicatissimo

43 44 45 46

Vasilij Grossman, Pour une juste cause, trad. fr. di L. Jurgenson, Editions L’Age d’Homme, Lausanne 2008, p. 341. Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., p. 530. Jacques Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume I (2001-2002), trad. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2008, p. 309. Questa è la frase con cui Luxemburg chiude la sua indimenticabile lettera del dicembre 1917 all’amica Sonja Liebknecht, lettera nella quale descrive la sconcertante vicenda di un bufalo bastonato a sangue da un militare, la vista del cui dolore riassume appunto l’intera Prima guerra mondiale. Cfr. Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, a cura di M. Rispoli, Adelphi, Milano 2007, p. 21.

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racconto La strada47, scritto tra il 1961 e il 1962, nel quale descrive un episodio di illogica bontà tra animali non umani. Giu è un mulo italiano che, dopo aver partecipato alla guerra coloniale in Africa, viene mandato sul fronte orientale – quando l’Italia entra in guerra a fianco della Germania contro l’Unione Sovietica –, per poi passare, con la sconfitta dell’esercito italiano, al servizio di quello russo. Nonostante tutti questi cambiamenti, la sorte di Giu non si modifica: le medesime frustate, la medesima crudeltà e, di fronte, una strada infinita da percorrere a pieno carico. Nella sconfinata pianura russa, Giu vede morire muli e uomini, compreso Niccolò, il suo violento mulattiere, e il suo conspecifico di sventura insieme al quale, imbragato allo stesso carro, ha attraversato l’Europa e l’Africa. Circondato solo dal freddo e dai cadaveri, Giu è ormai senza speranza, avverte la vicinanza della morte, a cui oppone, come «ultima rivolta», una totale «indifferenza verso se stesso»: Giu è ormai «indifferente e rassegnato all’esistere come al non-esistere»48. E, quando sta per morire, viene “salvato” dall’arrivo dei russi: Gli si avvicinò un uomo con una frusta in mano […]. E proprio come Niccolò, anche quell’uomo lo colpì sui denti, sul muso, sui fianchi […]. L’uomo si mise a gridare, gesticolò, ma il suo modo di incitarlo era diverso da quello dell’italiano. Non perché fosse più imperioso, no: erano diversi i suoni di cui quelle minacce erano fatte. Poi l’uomo gli diede una pedata sull’osso della zampa anteriore e la zampa gli fece male, era lo stesso osso delle pedate di Niccolò ed era particolarmente sensibile49.

Al di là delle differenze delle lingue e delle ideologie, il linguaggio del dominio e il teatro della crudeltà sembrano rimanere immutabili. Ma, nella sua differenza, nella sua differente declinazione di specie, non cambia neppure la debole forza della bontà illogica. Giu, «mulo robusto», viene attaccato a un altro carro a fianco di «una cavalla scura, piccola», «magra» come lui, con la pelle, proprio come la sua, una sorta di mappa geografica disegnata dalla violenza, «un tappeto di ferite insanguinate»50. All’inizio Giu rimane indifferente e la cavalla si mostra ostile: La cavalla appiattì le orecchie contro la testa e l’espressione sul suo muso si fece cattiva, rapace, non da erbivoro. Strabuzzò gli occhi, sollevò il labbro 47 48 49 50

Vasilij Grossman, La strada, ne Il bene sia con voi!, trad. it di C. Zonghetti, Adelphi, Milano 2011, pp. 108-119. Ivi, p. 114. Ivi, p. 116. Ivi, p. 117.

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superiore e scoprì i denti pronta a mordere, ma Giu, nella sua indifferenza, le offrì lo zigomo e il collo indifesi. E anche quando la cavalla cominciò a indietreggiare, tirando la cavezza per girarsi e rifilare al mulo un colpo di zoccolo, Giu non se ne curò rimanendo dov’era, a testa bassa51.

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A questo punto, mentre il mulattiere continua a frustare entrambi, grazie alla totale esposizione di Giu si materializza uno «strano incanto», preludio della redenzione: Stranamente, […], nel suo abituale procedere nel mondo dell’indifferenza Giu sentiva di non essere indifferente alla cavalla che gli stava accanto. Lei agitò la coda sfiorandolo, e quella coda scivolosa di seta non somigliava affatto alla frusta o alla coda dell’altro mulo suo compagno – infatti scivolò dolcemente sulla pelle […]. Muovendosi i corpi delle due bestie si scaldarono e Giu avvertì il sudore della cavalla, mentre il suo fiato, che sapeva di fieno umido e dolce, lo sfiorava via via sempre più intenso. E senza sapere perché, Giu fece tendere le tirelle, le ossa della sua cassa toracica avvertirono il peso e la pressione, e l’imbraca della cavalla si allentò e fu più semplice, per lei, tirare il carro. Avanzarono così, a lungo, poi la cavalla nitrì. Fu un suono lieve, così lieve che non lo sentirono né il mulattiere, né la pianura attorno. Era così lieve perché doveva sentirlo solo il mulo al suo fianco52.

I loro odori si «fondevano in uno solo». Poi staccati dal carro «bevvero l’acqua dallo stesso secchio». I loro corpi si sfiorano di nuovo, i loro sguardi si intrecciano, «il suo fiato si mescolò a quello di lei, caldo, benevolo»53: In quel tepore buono ciò che si era assopito si risvegliò, ciò che era morto da sempre riprese vita: la dolcezza del latte materno che aveva tanto amato da piccolo, e il primo filo d’erba che aveva assaggiato […]. La vita del mulo Giu e il destino della cavalla di Vologda si erano contagiati a vicenda con il tepore del fiato, con la stanchezza degli occhi e uno strano incanto si era prodotto in quei due esseri fiduciosi e teneri che stavano l’uno accanto all’altra nella pianura spazzata dalla guerra 54.

Nell’ospitante tepore dei corpi che si abbracciano, mentre i due piangono teneramente vicini, mentre le lacrime di Giu diventano le lacrime della cavalla e viceversa, tutta questa grandiosa guerra passa davanti agli occhi di Grossman e ai nostri. Scopriamo così con Grossman che anche i non 51 52 53 54

Ibid. Ivi, p. 118. Ivi, pp. 118-119. Ivi, p. 119.

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umani sono capaci di compiere/sentire atti di illogica bontà55 e, di fronte a questa scoperta, comprendiamo che è sempre più improrogabile prendere posizione nella «guerra sulla pietà»56. «In quel mare di indifferenza universale si era formata una piccola fenditura, una piccola crepa»57. 7. L’aritmetica della ferocia (e una felicità sommessa). Certo, anche nell’ultimo Grossman l’umano continua a occupare la scena da protagonista. Esso, però, non sembra più istituirsi dalla distinzione da “l’Animale”, ma piuttosto dal lasciarsi percorrere dall’altrimenti-che-umano, dalla fragile “animalità” imperfetta che attraversa l’intero universo e quindi anche il nostro corpo. Estremamente rilevante è, allora, l’episodio in cui Grossman narra il suo arrivo a Erevan. Dopo aver passeggiato, ammirato, per le strade della città, egli avverte «un bisogno improvviso»58 che riesce a soddisfare dopo aver raggiunto con un tram la periferia isolata della capitale armena ed essersi nascosto «tra fossi e ghiaioni», provando finalmente una «felicità sommessa» che lo accomuna agli altri animali: Sensazione di felicità… C’è bisogno che la descriva? Da millenni poeti e scrittori cercano di mettere sulla carta cosa sia la felicità… Dirò soltanto che non era la felicità orgogliosa del creatore, del pensatore che con la sua ragione onnipotente ha costruito una realtà unica e irripetibile. Era una felicità sommessa che possono provare la pecora, il bue, l’uomo, il macaco. Dovevo arrivare fino all’Ararat per sperimentarla?59.

Se sono i bisogni del corpo e la soddisfazione degli stessi, il loro fluire nella felicità sommessa, ciò che ci rende parte dello «spettacolo splendido e solenne, [dell’] atto unico che si chiama “la vita”»60, nelle pagine di Grossman si fa sempre più profonda la consapevolezza della condizione in cui, dall’origine della nostra storia, teniamo gli animali, anch’essi vittime, come gli ebrei, dell’«aritmetica della ferocia»61: 55 56 57 58 59 60 61

Al proposito, cfr. anche le storie di Pestruška e dell’alce imbalsamata raccontate da Grossman ne La cagnetta, trad. it. di M. A. Curletto, Adelphi, Milano 2013, storie riprese in A volte ritornano in questo volume. Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, pp. 67-68. Vasilij Grossman, La strada, ne Il bene sia con voi!, cit., p. 118. Vasilij Grossman, Il bene sia con voi! Appunti di viaggio, ne Il bene sia con voi!, cit., p. 165. Ivi, p. 167. Ivi, p. 235. Vasilij Grossman, Il vecchio maestro, ne Il bene sia con voi!, cit., p. 26.

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Vedo le rapide scure del Diluvio universale, vedo affogare le pecore e gli asini, vedo una grossa scialuppa nasuta scivolare pesantemente sull’acqua. Vedo gli animali salvati da Noè e i mattatoi lordi di sangue in cui i discendenti di Noè uccidono i discendenti di quegli animali62. Su quasi tutti i sagrati, sia delle chiese ancora consacrate sia su quelle trasformate in museo, la terra è impregnata del sangue degli animali immolati63.

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Con questa consapevolezza diventa sempre più difficile, per Grossman, distogliere il proprio sguardo dallo sguardo degli animali a cui la felicità sommessa è perennemente negata: Le pecore hanno un profilo umano – ebreo, armeno, misterioso, indifferente, stupido. Sono millenni che i pastori guardano le pecore: le pecore guardano i pastori, e ormai hanno preso a somigliarsi. È come se gli occhi delle pecore guardassero gli uomini in modo particolare, con uno sguardo assente, vitreo […]. E con quello sguardo colmo di disgusto e assenza gli abitanti del ghetto avrebbero guardato i loro carcerieri della Gestapo […]. Dio mio, per quanto tempo l’uomo dovrà implorare alla pecora il perdono prima che glielo conceda e smetta di guardarlo con il suo sguardo vitreo! Quanto disprezzo mite e fiero in quegli occhi vitrei, quale divina superiorità dell’erbivoro senza peccato sull’assassino che scrive libri e crea macchine cibernetiche64.

Per Grossman è sempre più difficile evitare di definire «assassini dal volto buono e onesto» coloro che «fanno a pezzi il corpo sanguinante del montone che hanno ammazzato poco prima»65 e a riconoscersi tale lui stesso. Lui, liberatore di Treblinka e perseguitato dal regime sovietico. 8. Madri (per sempre e per tutti). Nei romanzi e nei racconti di Grossman gli intercessori principali della bontà illogica sono le madri dolorose che, nel momento estremo e nonostante che questo implacabilmente si realizzi, sono in grado di sospendere per qualche attimo l’orrore che sono costrette a vivere. La figura della madre dolorosa in Grossman segue un’evoluzione66 che, pur non spogliandola della sua materialità corporea, la sposta progressivamente oltre il naturale. Al contempo, questa figura esprime e sviluppa 62 63 64 65 66

Vasilij Grossman, Il bene sia con voi! Appunti di viaggio, ne Il bene sia con voi!, cit., p. 236. Ivi, p. 219. Ivi, p. 176. Ivi, p. 206. L’evoluzione di cui si parla non è cronologica, non segue un corso temporale lineare negli scritti di Grossman. Forse, proprio per questo, è ancora più ineludibile.

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una presa di congedo dall’antropocentrismo verso un aldiqua sempre più inestricabilmente legato a zoé. Le prime di queste madri dolorose, Anna Semënovna – che scrive la sua ultima lettera al figlio Viktor prima di essere uccisa nel ghetto di Jatki67 – e Ljudmila Nikolaevna Šapošnikova – che piange la morte del figlio Tolja a seguito delle ferite riportate nella battaglia di Stalingrado68 – sono ancora madri “edipiche”; esse, pur esprimendo le ragioni della vita offesa, piangono comunque la fine di un legame di sangue. Sono, letteralmente, madri di sangue dei loro figli biologici. Esse, però, cedono rapidamente il posto alla figura della madre adottiva, rappresentata mirabilmente da Sof’ja Osipovna che, pur partorendo un figlio non suo, si trova comunque, vista la sua età e quella di David, in una situazione “naturale”. Situazione naturale che invece è totalmente violata da Katja Vaisman, una bambina che, «come una madre», con il volto «pieno di compassione partecipe», copre «con le sue manine» gli occhi del vecchio maestro Boris Isaakovič Rozental’, che la tiene in braccio e che disperatamente cerca il modo per tranquillizzarla e illuderla, quando, di fronte a una fossa, stanno entrambi, insieme ad altri tredici ebrei, per essere trucidati a sangue freddo dai nazisti69. Katja non è ancora una donna e comunque non potrebbe né biologicamente né per via d’adozione essere la madre di Rozental’: Katja è il prototipo della madre innaturale; Katja diviene madre nell’incontro che la modifica irreversibilmente con il vecchio maestro. Il suo corpo compassionevole, ospitante ospitato, diventa la culla di un affetto che, pur non negandola, va oltre la biologia: ella amplifica, fino a oltrepassare la soglia del sangue e del proprio, i gesti delle precedenti madri dolorose aprendosi a una compassione potenzialmente sconfinata, tanto più dirompente sulle strutture mortifere del dominio quanto più illogica e innaturale. Ancora più innaturale è, infine, l’ultima incarnazione della madre dolorosa: la Madonna Sistina di Raffaello di cui narra il racconto omonimo70, madre ibrida, che abita il tra che scorre al di sotto delle vite individuali, che attraversa i confini tra “Dio”, “l’Umano” e “l’Animale” e quello tra «quanto è vivo oggi», «ciò che vivo lo è stato e non lo è più» e «ciò che invece deve ancora esserlo»71, che instaura un legame che oltrepassa, senza disconoscerlo – anzi, proprio per questo –, il legame di sangue, che disinnesca il filo rosso che corre tra il sacro e il sacrificio, che si fa carico del 67 68 69 70 71

Vasilij Grossman, Vita e destino, cit., pp. 73-85. Ivi, pp. 138-142. Vasilij Grossman, Il vecchio maestro, ne Il bene sia con voi!, cit., p. 40. Vasilij Grossman, La Madonna Sistina, ne Il bene sia con voi!, cit., pp. 42-51. Ivi, p. 46.

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sacrificio per destituirlo di senso, per rendere inoperoso il dispositivo del confine, per farsi angelo della redenzione, messaggero dell’insalvabile72. Di fronte alla «giovane madre con un bambino in braccio» dipinta da Raffaello, che non è più questa o quella donna, ma una donna, l’impersonale cui la maternità dà corpo, Grossman comprende, in una vera e propria illuminazione che squarcia il presente verso dimensioni inaudite, che attraverso il divenire madre scorre la matrice impersonale della vita che corrode e sfalda la potenza spersonalizzante del dominio:

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Era lei a calpestare scalza, leggera, la terra tremante di Treblinka, lei a percorrere il tragitto da dove il convoglio veniva scaricato fino alla camera a gas73.

Ed è ancora lei che vede crescere il nazismo per le strade di Berlino, che accompagna i soldati sovietici attraverso «la neve e la fanghiglia fredda d’autunno», che viaggia verso i gulag assieme ai deportati della «collettivizzazione forzata»74. Sarà ancora lei che apparirà «in Cina o in Sudan»75 e ovunque l’orrore si manifesterà, sarà ancora lei a far da tramite per la compassione quando vedrà una luce possente e accecante splendere nel cielo: il primo scoppio della potentissima bomba ad idrogeno, foriero di una nuova guerra globale76.

La Madonna Sistina è l’aleph che rifrange ogni forma di maternità e, quindi, pur rappresentando «l’umano nell’uomo»77, poiché l’umano è ormai attraversato dal fragile miracolo della vita, non può che assumere anche le sembianze degli animali: Penso che questa Madonna sia l’espressione più atea della vita […]. E penso che esprima non solo l’umano, ma quanto di altro esiste sulla terra, fra gli animali, ovunque gli occhi scuri di una giumenta, di una mucca, di una cagna che allattano ci lasciano intuire e cogliere l’ombra mirabile della Madonna78. 72

73 74 75 76 77 78

Sull’enorme influenza che la Madonna Sistina di Raffaello ha esercitato sulla cultura europea dell’Ottocento e del Novecento, impegnata a pensare una redenzione intra-mondana, cfr. Michele Cometa, Parole che dipingono. Letteratura e cultura visuale tra Settecento e Novecento, Meltemi, Roma 2004, soprattutto cap. 4, La Madonna del pensiero, pp. 121-144. Vasilij Grossman, La Madonna Sistina, ne Il bene sia con voi!, cit., p. 47. Ivi, pp. 48-49. Ivi, p. 50. Ivi, p. 51. Ivi, p. 50. Ivi, p. 44.

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L’evoluzione delle madri dolorose descrive il movimento di Grossman oltre l’antropocentrismo. Movimento che tende verso la concezione di un umano inedito, un umano ancora impensato, slegato dal “proprio” della catena del sacrificio, e che indica in direzione di un impersonale che, profanando i confini del bíos, sia espressione di una compassione finalmente cosmica. Grossman non si smarca mai completamente dall’antropocentrismo, ma partecipa al suo progressivo franare, scavandolo dall’interno, non proponendo improbabili ritorni a inesistenti età dell’oro, ma rendendone possibile il divenire verso un oltre che oggi possiamo solo immaginare. Perché se è vero, come sostiene Nietzsche, che «ci sono state eternità in cui [l’intelletto umano] non è esistito, e quando esso sarà finito non sarà successo nulla»79, è altrettanto vero che sarebbe «una curiosità disperata voler sapere che cosa potrebbe esserci ancora»80 per l’altrimenti-che-umano. Se è ormai certo che non è più accettabile che per noi non possa esistere «nessun’altra missione che oltrepassi la vita umana»81, altrettanto certo è che ricadremmo in una nuova e ancor più delirante hybris se pensassimo di sapere qualcosa della redenzione da prospettive altre e al posto degli altri. Possiamo però sentire con gli altri cosa potrebbe esserci al di là dell’antropocentrismo. Possiamo scrivere, come fa Grossman con quello sguardo straniante che ci restituiscono le immagini che abbiamo di lui (tra il concentrato, il perplesso e il sofferente), «per dare la vita, per liberare la vita là dove è imprigionata, per tracciare linee di fuga»82, per andare alla ricerca di un concetto di Altri che non è definito «né come oggetto, né come soggetto (un altro soggetto), ma come l’espressione di un mondo possibile»83. Con gli altri e con un altro con, possiamo immergerci nell’onda preesistente della vita, in un’altra orbita disegnata dal divenire madri, di cui Grossman è un’altra incarnazione. Certo, in quanto mortali e in quanto coinvolti nel processo del divenire animale necessario per oltrepassare lo sciovinismo umano, noi non ci saremo quando il pietrificato mondo dell’antropocentrismo cesserà di esistere. Ma, nonostante questo, possiamo continuare a sentire che la Madonna Sistina 79 80 81 82 83

Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, ne Il libro del filosofo, trad. it. di M. Beer e M. Ciampa, Savelli, Roma 1978, p. 71. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1979, § 374, p. 253. Friedrich Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, ne Il libro del filosofo, cit., p. 71. Gilles Deleuze, Pourparler, cit., p. 187. Ivi, p. 196.

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è intrecciata, fusa in eterno con la bellezza che si cela – profonda e indistruttibile – ovunque nasca e cresca la vita – nelle cantine e nei solai, nei palazzi e nelle topaie84 [e], se anche l’uomo dovesse estinguersi, gli esseri che prenderanno il suo posto sulla terra – lupi, ratti, orsi o rondini che siano – verranno sulle loro zampe o con le loro ali ad ammirare la Madonna di Raffaello85.

Proprio perché non ci saremo, potremo continuare a percepire la fragile grazia della Madonna di Raffaello anche quando altre creature ne prenderanno il posto, anche se assumerà le sembianze della «mamma uccello alla sua prima nidiata» o quelle «di una giovane femmina di capriolo»86, annunciando in tal modo il tempo messianico della madre impersonale, quella “madre” che, pur rimanendo corporea, prende congedo da ogni connotazione di genere e di specie per risplendere nella luce della compassione che emana e da cui è emanata. Come cantava Fabrizio De André, Grossman ci invita a entrare, abbandonando la stagione delle specie, «nella stagione, che stagioni non sente» per farci (con)sentire in questa stagione in-finita il “nostro” e il “loro” finire, per sentirci, nel dolore dell’esistere, «madri per sempre»87. E per tutti. NELLA GROTTA DEI SOGNI PERDUTI Ciò che queste figure inumane annunciano con una forza infantile, non è solamente che coloro che le dipinsero erano divenuti uomini dipingendole, ma che essi lo hanno fatto lasciandoci immagini di animali e non di loro stessi88. (G. Bataille)

1. Uno sguardo interrotto. Il cinema e il “proto-cinema”89 – che già a partire dalla fine del Paleolitico manifesta i segni della mediazione delle 84 85 86 87 88 89

Vasilij Grossman, La Madonna Sistina, ne Il bene sia con voi!, cit., p. 44. Ivi, p. 43. Ibid. Fabrizio de André, Ave Maria, ne La buona novella, Ricordi, Milano 1970. Georges Bataille, Lascaux, la nascita dell’arte, trad. it. di E. Busetto, Mimesis, Milano 2007, p. 67. Questa definizione è volutamente provocatoria in quanto il proto-cinema non è qui inteso come un’arcaica predisposizione o un’involontaria premonizione suffragata dalle diacronie che sostengono l’epistemologia ufficiale delle discipline scientifico-umanistiche. Semmai il proto-cinema è da intendersi come la spiccata predisposizione umana alla skopìa, al guardare come atto di emancipazione dalla vita animale.

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esperienze di relazione con quanto viene percepito come altro da sé – sono innanzitutto una disposizione di sguardi che rimanda a un discorso che organizza il dominio sul mondo al fine di promuovere il senso condiviso delle comunità umane. John Berger90 fa risalire all’Ottocento la rottura tra uomo e natura e puntualizza come questo processo di progressiva alienazione de “l’Umano” da ciò che lo circonda abbia raggiunto il suo acme con il capitalismo corporativo del XX secolo, impresa che sovrastruttura tale separazione attraverso una serie di postulati spettacolari. Ora, il cinema, nella sua formalizzazione storica di macchina spettacolare di massa, contigua e parallela ai grandi cambiamenti sociali e dei mezzi di produzione, in qualche modo rappresenta, come sottolinea Berger, la trasformazione del naturale nella sua cooptazione fantasmatica universale. Quello che, però, è opportuno evidenziare è che questa peculiare esigenza di applicazione tecnologica dello sguardo da parte de “l’Uomo” sociale – volta a ottenere al contempo il controllo dell’altro e la garanzia di un distacco non traumatico dal caos naturale, rimediando così alla perdita dell’animale che dunque è – permette di far luce perfino sulla preistoria della civiltà. Il processo storico nel corso del quale si articola la relazione tra “l’Uomo” e “l’Animale” consiste in una complessa teoria di allontanamenti e avvicinamenti, inclusioni ed esclusioni. Se nella preistoria gli umani hanno intrattenuto con gli altri animali un rapporto di rispettosa sudditanza mitologica e psicologica – dovuta in gran parte all’importanza che questi avevano per la loro sopravvivenza, sudditanza mantenuta, seppur con accenti diversi, fino al Medioevo nella visione de “l’Animale” come contraltare metaforico e simbolico de “l’Umano” –, nell’età moderna la centralità di tale rapporto assume una valenza soprattutto immaginaria: da bene materiale, economico e produttivo, “l’Animale” diventa anche bene immateriale. Questo significa che lo sfruttamento degli animali si realizza attraverso una sineddoche, cioè per mezzo della trasformazione de “l’Animale” in una parte consumabile non solo materialmente, ma anche nell’ambito di quell’apparato virtuale che costituisce l’immaginario collettivo occidentale del XX secolo. Marginalizzato dalla vita sociale cittadina in cui la natura è costantemente tenuta a bada e percepito come carne, pelle, pezzi corporei, ecc., “l’Animale” irrompe prima sulle skenè rudimentali dello spettacolo ottocentesco – circhi, zoo, esposizioni universali – per materializzarsi poi

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John Berger, Perché guardare gli animali?, in Sul guardare, trad. it. di M. Nadotti, Bruno Mondadori, Milano 2009.

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come ectoplasma sugli schermi cinematografici e in seguito essere riconquistato all’affettività sotto le mentite spoglie degli animali domestici91. Con questi passaggi, abbiamo profondamente compromesso la nostra capacità di incrociare gli sguardi degli animali. Gli sguardi, che rimandavano alle esperienze della paura, del rispetto, della fascinazione e dell’aggressività, sono stati progressivamente soppiantati dalla mediazione spettacolare. La scomparsa degli animali dall’orizzonte visivo umano e la rimozione della complicità degli sguardi non sono stati eventi improvvisi, ma piuttosto il risultato di un millenario processo di progressiva marginalizzazione degli occhi senza fondo92 degli altri animali e di discriminazione prospettica di qualsiasi sguardo che non fosse riconducibile al punto di vista umano. In altri termini, i primi sintomi del black out delle corrispondenze bidirezionali tra umani e altri animali erano già presenti nelle espressioni artistiche dell’alto Paleolitico. Le pitture murali delle grotte di Lascaux e di Chauvet, di cui le moderne e sofisticate tecnologie digitali ci restituiscono una documentazione in qualche modo “fedele” dell’aura originaria, si possono leggere, in una prospettiva che tende a decostruire l’antropocentrismo fin dalle sue fondamenta pre-storiche, come le prime manifestazioni di questa interruzione relazionale. Più o meno 30.000 anni fa la creatività umana ha preso il sopravvento sull’indicibilità della nuda vita animale. 2. Rappresentazioni tattili. Il bizzarro film-documentario The Cave of Forgotten Dreams di Werner Herzog93 ci offre molteplici chiavi di lettura e notevoli spunti di riflessione sulla relazione perduta tra lo sguardo animale e quello umano. Questa pellicola rientra a pieno titolo nel corpus delle opere-sfida che costellano in modo intermittente il cinema del regista tedesco. In questo caso, l’impresa consiste nell’accedere alla grotta di Chauvet, scoperta nel 1994 nel dipartimento dell’Ardèche, una regione della Francia meridionale, e nel provare a filmare per la prima volta gli incredibili dipinti 91

92

93

Ivi, pp. 24-25: «Lo zoo è un luogo dove sono raccolte quante più specie e varietà animali è possibile, affinché possano essere viste, osservate e studiate. In sostanza, ogni gabbia è una cornice che inquadra l’animale che vi è racchiuso. I visitatori vanno allo zoo per guardare gli animali. Vanno da una gabbia all’altra come i visitatori di una galleria d’arte si fermano davanti ad un quadro, per poi passare a un quadro successivo o a quello successivo ancora». Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 48: «Il vedersi visto nudo da uno sguardo [animale] il cui fondo rimane senza fondo, allo stesso tempo innocente e forse crudele, forse sensibile e impassibile, buono e cattivo, ininterpretabile, illeggibile, indecidibile, abissale e segreto». Werner Herzog, The Cave of Forgotten Dreams, Canada/Stati Uniti/Francia/Germania/Gran Bretagna 2010.

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rupestri perfettamente conservati al suo interno grazie a una combinazione di fattori quali la morfologia del sito e la millenaria assenza dell’uomo. Herzog costruisce il film seguendo due livelli di lettura: il primo contraddistinto dallo stile lineare e neutro proprio del documentario “scientifico” e il secondo dettato dalla peculiare visione del regista, dal suo leggendario sguardo allucinato che evoca nello spettatore un continuo senso di sfasamento percettivo. La singolare produzione del film denuncia fin da subito l’avventuroso e destabilizzante senso dell’opera. Da alcune interviste di Herzog94 si apprende, infatti, che le riprese sono state costellate da una serie di scelte volte a metterne in discussione la plausibilità scientifica. Ecco alcuni esempi. Herzog riesce a ottenere l’autorizzazione per le riprese dal Ministero della Cultura Francese in cambio della simbolica cifra di un euro. L’improbabile mini troupe al seguito del regista è composta da tre personaggi inusuali: un archeologo sperimentale travestito da Inuit la cui particolare strategia scientifica è quella dell’immedesimazione totale con l’oggetto della ricerca, un profumiere ossessionato dall’odore della preistoria e un buffo antropologo che cerca goffamente di visualizzare le scene di caccia del Paleolitico attraverso la loro riproduzione mimica. Per non parlare del giovane archeologo – un altro membro dell’èquipe di studiosi che quotidianamente mappa, controlla e registra l’integrità del sito – il cui passato professionale è quello di giocoliere circense, o dell’imminente costruzione di un parco a tema in stile preistorico a pochi chilometri di distanza dalla grotta. Sembra quasi che Herzog intenda disseminare la storia di una serie di falsi indizi e provocazioni che mettano in dubbio l’operazione divulgativa della pellicola e, soprattutto, il dispositivo ontologico tipico del genere “documentario scientifico”. Questo modo di procedere permette di stabilire tre ordini di discorso che riassumono il gioco cinematografico herzoghiano. Il primo riguarda la plausibilità scientifica e i suoi postulati di incontestabilità epistemologica. Il secondo la nascita della rappresentazione. Il terzo l’aspetto visionario che il cinema, attraverso i molteplici supporti tecnologici di cui attualmente si avvale per non rischiare l’estinzione, è in grado di restituire all’occhio dello spettatore, mettendo in cortocircuito visioni omologate e punti di vista disciplinati dalla società dello spettacolo con un costante flusso – mutante e alieno – di immagini in divenire. Il documentario umanistico dal taglio storico-scientifico è in tal modo trasformato in una vera e propria voce del menù offerto dai palinsesti televisivi generalisti e a pagamento, in cui gli assiomi dell’autenticità e della 94

Cfr., in particolare, l’intervista del dvd della pellicola distribuito in Italia da Movies Inspired.

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verità giocano un ruolo fondamentale e la strategia divulgativa fa ricorso ad alcuni espedienti stilistici che impongono un punto di vista fortemente connotato: l’uso della voce fuori campo, l’andamento piatto e rigorosamente conservatore che alterna inquadrature fisse a sequenze di lungo respiro e le interviste che esigono la complicità morale dello sguardo dello spettatore. Herzog ripercorre le tracce di questo genere con smaliziata condiscendenza, documentando gli interni della grotta da consumato archeoantropologo, riportando alla luce crani e altre ossa animali, impronte umane, incisioni e graffi sulla roccia impressi dagli artigli degli orsi e lattee stalattiti luminescenti. Finché compaiono gli stupefacenti disegni tracciati a carboncino sulle bianche pareti della parte più profonda della caverna. È qui che il film interrompe la linearità del discorso scientifico e instaura l’informe, abissale e impossibile prospettiva della visione senza occhi. Attraverso il particolare tipo di illuminazione (che evoca la luce delle torce infuocate dei Cro-Magnon), il 3D95 (che permette di amplificare la meraviglia in chi guarda) e la particolare mobilità delle inquadrature (che sembrano sovrapporsi alla dinamicità degli animali disegnati), lo sguardo si fa tattile, coniugandosi in tal modo con il discorso sulla rappresentazione. Da questo momento in poi è evidente come il film cerchi di sottolineare la coincidenza tra nascita della rappresentazione artistica e quella della rappresentazione animale. Gli animali sono il soggetto privilegiato, se non l’unico, dell’arte “primitiva” in cui “l’Umano”, nel suo disperato tentativo di rispecchiarsi nella propria immagine, inizia a elaborare quella costruzione del Sé che lo porterà a un progressivo allontanamento dalla sua animalità. Gli umani dell’alto Paleolitico intuiscono che solo rappresentando gli altri animali possono continuare a guardarli mantenendo, però, la “giusta” distanza, quella necessaria per evocarli e per controllarli. Paralizzati dal terrore della morte che identificano con la minacciosa ineluttabilità naturale, di cui pure sono parte, sanno che chi vede può anche essere visto. L’incredibile cortocircuito che questa relazione di sguardi provoca tra viventi di specie differenti viene elaborata dal sedicente “Umano” come negazione del suo essere ininterrottamente esposto, in quanto animale, alla morte. È così che “l’Uomo” inizia a raccontarsi: rappresentando e dipingendo gli altri animali. Solo in un secondo momento li rinchiuderà definitivamente, nominandoli, nel recinto del singolare collettivo “l’Animale”:

95

Nella stessa intervista citata nella nota precedente, Herzog afferma di conoscere poco questa tecnica – sostiene di aver visto solamente Avatar di James Cameron –, ma che la trova ideale per moltiplicare i punti di vista.

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Si sono dati la parola per raggruppare un gran numero di viventi sotto un solo concetto: L’Animale, dicono loro. E si sono dati questa parola, accordandosi nello stesso tempo tra loro per riservare a se stessi il diritto alla parola, al nome, al verbo, all’attributo, al linguaggio delle parole e in breve a tutto ciò di cui sono privi gli altri in questione, quelli che vengono raggruppati nel gran territorio della bestia: L’Animale96.

La parte più buia della caverna, la zona dove “l’Umano” inscrive la propria storia, vissuta e immaginata, al riparo dall’indiscrezione e dagli sguardi mortali, rappresenta la soglia da oltrepassare, il buio profondo dell’ignoto che va illuminato con i primi rudimenti della tecnica, l’abisso che va scandagliato in ogni recesso per essere reso materia inerte plasmabile per la costruzione del Sé. Le impronte rosse impresse sulle pareti con il palmo della mano prefigurano una sorta di autorialità, la firma che annuncia il prometeico furto del fuoco divino e il definitivo distacco degli umani dalla natura generatrice. “L’Uomo” si impossessa del mondo ponendosi al di là di esso per mezzo di un’operazione tecno-mediatica-artistica. Non si sente ancora il centro indiscusso dell’universo, ma già si immagina benefattore e creatore materiale di quell’umanità che in seguito disporrà il dominio incontrastato sul resto della natura. I soggetti disegnati sono orsi, leoni, mammuth, tori, gazzelle, rinoceronti, bisonti, iene e, soprattutto, cavalli. Cavalli al galoppo – c’è addirittura un disegno che potrebbe essere considerato l’antesignano del trucco cinematografico, la simulazione, cioè, di cavalli in corsa mediante la rappresentazione di otto gambe per animale – espediente che sembra alludere alla suggestiva relazione tra rappresentazione e movimento animale e all’importanza che questi animali giocheranno, loro malgrado, nell’evoluzione del dominio umano sul vivente. “L’Umano”, infatti, moltiplicherà le possibilità offerte dalla posizione eretta ergendosi a fautore della storia dall’alto del privilegio dell’arcione97. «È come se l’anima umana moderna si fosse svegliata qui»98 ed è proprio qui che “l’Umano” comincia a raccontarsi. La potenza bidimensionale e tridimensionale dei dipinti viene da Herzog “sottoesposta” come una pellicola non impressionabile dalla potenzialità autoptica del cinema. Alle immagini di rappresentazione che imitano la realtà per ottenere un effetto di verosimiglianza, Herzog contrappone una prospettiva di visione inedita 96 97 98

Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 71. Al proposito, cfr. Il cavallo-motore (della storia) in questo volume. In una delle sequenze che contrassegnano l’illusorio impianto divulgativo del film, è un antropologo, membro dell’èquipe di ricercatori che sta studiando il sito, ad avere questa prodigiosa intuizione mentre viene intervistato dal regista tedesco.

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e rivelatrice. Le riprese sotterranee producono cioè un riconoscimento, uno svelamento, una conoscenza che è puro specchiarsi nello sguardo degli altri: la forma attraverso cui “l’Umano” organizza ogni dispositivo di mediazione rappresentativa che gli consenta di tenere sotto controllo l’informe del mondo. 3. Nemesi della visione. Il colpo di scena finale di The Cave of Forgotten Dreams suggella la catastrofe degli animali umani che, nella caverna platonica, hanno trasformato il loro divenire in immaginario, in desiderio di cinema. Gli umani del Paleolitico diventano infatti i progenitori di una schiatta che ha preferito il privilegio della vista allo sguardo, la pulsione scopica alla visione, il racconto alle libere associazioni dell’indicibile, senza tuttavia riuscire mai a escludere completamente il secondo di questi termini, sempre in grado di riemergere: Ad un’immagine che tende alla costruzione di una scena si oppone un frammento che procede per scarti e dissomiglianze […], al desiderio di chiudere l’oggetto della visione in una stanza (grotta) tutta per sé seguirebbe il desiderio opposto di auscultarlo, percorrerlo, fino al tessuto delle viscere99.

Nonostante ciò, il dispositivo rappresentativo configura “l’Umano” come privo di corpo e del corollario cinestesico dei sensi, mentre la vista, come senso privilegiato e prolungamento tecnologico del percepire, aliena “l’Uomo” dagli dèi, dalla natura e dagli animali che la abitano. Una volta fuori dalla caverna la rappresentazione attualizza la messa in scacco del senso, esplicitando le conseguenze del distacco dalla natura nei termini di fine della storia. L’incontro ravvicinato di Herzog con la preistoria si conclude con la riemersione nel mondo, il mondo contaminato e prossimo alla distruzione che incombe come una minaccia apocalittica. I postulati del documentario scientifico sono travolti dalla distopia ammonitrice della fantascienza. Ai margini della grotta è stata eretta, infatti, una centrale nucleare. I frutti genetici di questa ennesima operazione tecnologica sono due coccodrilli albini. Il rimosso animale, relegato da “l’Umano” nelle viscere della terra, ritorna attraverso il motivo allegorico della fiaba. La nemesi avrà gli occhi senza sguardo del rettile.

99

Giovanni Festa, L’informe & la donna, in Filmcritica, n. 627, luglio 2012, p. 313.

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PASSI Quanto allo schizo, col suo passo vacillante che non cessa di migrare, di errare, di barcollare, egli si addentra sempre più nella deterritorializzazione, […] ed è forse questa la sua maniera propria di ritrovare la terra. (G. Deleuze e F. Guattari)100

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A ben vedere tutti i viaggi si fanno in compagnia di un morto. (C. McCarthy)101

1. Il passo del pensiero. La filosofia occidentale si è andata strutturando, fin dalle sue origini, intorno a un sistema, apparentemente solo metaforico, che ha a che fare con il camminare. Passi indietro, passi avanti, sentieri più o meno interrotti, oltrepassamenti, impasse, aporie, passaggi, incipit, movimenti verso (o via da) attraversano costantemente la riflessione di quasi tutti i filosofi della nostra tradizione. Per fare solo qualche esempio, che cosa propone Platone se non un passo intorno al nostro baricentro per guardare oltre la caverna della doxa? Che cos’è la metafisica, a partire da Aristotele, se non un passo oltre la fisica? Che cosa è la dialettica, in tutte le sue svariate declinazioni – da Hegel ad Adorno passando per Marx –, se non un cammino che, tornando su se stesso, si appropria di un più o meno presunto negativo? Che cosa è il pensiero di Heidegger se non un febbrile aggirarsi nei pressi dell’Essere? E non sono forse altrettante forme di movimento deambulante la danza zarathustriana di Nietzsche, le passeggiate da flâneur di Benjamin tra Berlino e Parigi, la genealogia di Foucault che si snoda tra gli archivi dove si sono accumulati i discorsi del sapere e del potere, il passo apparentemente circolare del decostruzionismo di Derrida e le fughe intensive di Deleuze? Il problema, ovviamente, non è che la filosofia cammini, ma che il movimento del camminare che la percorre e la costituisce, con il suo inevitabile richiamo al fatto che siamo “oggetti animati”, cioè animali, sia costantemente passato inosservato o visto come una semplice metafora del mondo vero a cui questo perenne movimento può solo alludere.

100 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, p. 38. 101 Cormac McCarthy, Oltre il confine, trad. it. di R. Bernascone e A. Carosso, Einaudi, Torino 1997, p. 360.

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2. Il passo indietro. Diversità di natura, diversità di cultura102 riproduce il testo della conferenza che Philippe Descola – antropologo francese allievo di Lévi-Strauss e autore tra l’altro del fondamentale saggio Par-delà nature et culture103 – tenne a Montreuil il 3 febbraio 2007. Questo breve intervento di Descola, prendendo ad esempio quanto potremmo facilmente osservare facendo una passeggiata in campagna, comincia con il mettere in dubbio l’idea secondo cui sarebbe facile distinguere tra ciò che è attribuibile alla natura e ciò che è attribuibile alla cultura: Durante la mia passeggiata costeggio una siepe viva, composta di vegetazione spontanea, di biancospini, di noccioli, di peri corvini, di rose canine. Posso dire che è una siepe naturale […]. Ma questa siepe è stata comunque sistemata, potata, curata dagli uomini e si trova lì per separare due prati secondo il confine fissato dal catasto […]. È dunque il prodotto di un’attività tecnica, quindi di un’attività culturale. Essa ha anche una funzione legale, quindi culturale. La maggior parte degli oggetti che appartengono al nostro ambiente, compresi noi stessi, si trovano in [una] situazione intermedia, in cui sono nel medesimo tempo naturali e culturali104.

Quindi, seguendo il proprio cammino personale – prima tra le popolazioni dell’Amazzonia come etnografo sul campo e poi tra i risultati delle ricerche sue e di altri etnologi e antropologi – Descola afferma di essere giunto a «mettere in dubbio ciò che mi sembrava evidente», prendendo in considerazione le varie modalità in cui culture diverse hanno coniugato il complesso rapporto tra natura e cultura nella definizione della «differenza tra umani e non umani»105. In questo ambito, Descola individua «quattro grandi modi di concepire le relazioni con i non umani»: Il primo consiste nel pensare che i non umani sono provvisti di un’anima o di una coscienza identica a quella degli umani, ma che si distinguono gli uni dagli altri grazie a corpi differenti che permettono loro di vivere in ambienti diversi […]; il secondo consiste nel pensare che gli umani sono i soli esseri dotati di ragione, ma che essi non si distinguono sul piano fisico dai non umani […]; il terzo consiste nel pensare che umani e non umani condividono delle qualità fisiche e morali identiche che si distinguono da altri insiemi di qualità fisiche e morali condivise da altri gruppi di umani e non umani […]; l’ultimo consiste nel pensare che ciascun umano e ciascun non umano è diverso da tutti gli altri, 102 Philippe Descola, Diversità di natura, diversità di cultura, trad. it. di E. Pozzi, BookTime, Milano 2011. 103 Philippe Descola, Par-delà nature et culture, Gallimard, Paris 2005. 104 Philippe Descola, Diversità di natura, diversità di cultura, cit., pp. 7-8. 105 Ivi, p. 11.

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ma che egli è capace di intrattenere con gli altri dei rapporti di analogia (più grande o più piccolo, più caldo o più freddo, ecc.)106.

Dalla prospettiva del primo modo di concepire i rapporti tra gli umani e i non umani (quella dei popoli dell’Amazzonia) «l’espressione “esseri della natura” è priva di senso [perché] esseri che sono concepiti e trattati come persone […] non sono più esseri naturali»107. E anche da quella del terzo (quello degli Aborigeni australiani) «la distinzione tra ciò che sarebbe naturale e ciò che sarebbe culturale non ha alcun senso poiché nel loro mondo tutto è al medesimo tempo naturale e culturale»108. Se così stanno le cose, il secondo modo di concepire questa relazione, quello della «mentalità occidentale, cristiana», è allora tutt’altro che naturale, come siamo portati a credere, e rappresenta al contrario il risultato di un passo indietro squisitamente culturale, di «una tendenza tardiva nella storia dell’umanità [che] non si è verificata che una sola volta»109: Perché si possa parlare di natura, è necessario che l’uomo faccia un passo indietro rispetto all’ambiente nel quale è immerso, è necessario che l’uomo si senta esterno e superiore al mondo che lo circonda. Egli potrà allora percepire il mondo come un tutto, perché è indietreggiato rispetto a questo, si è estrapolato. Percepire questo mondo come un tutto, come un insieme coerente, diverso da com’è e da come si presenta, è un’idea alquanto strana, se ci si riflette […]. Ma una volta che abbiamo preso l’abitudine di rappresentarci la natura come un tutto, essa diventa come un grande orologio del quale si può cercare di smontare il meccanismo, per migliorarne i rotismi e il funzionamento […]. [Da ciò] è derivato uno straordinario sviluppo delle scienze e delle tecniche, ma anche uno sfruttamento senza freni della natura – ormai composta da oggetti privi di rapporti con gli umani110.

Detto altrimenti: Bisogna attirare l’attenzione sul fatto che non è lo sviluppo delle scienze ad aver cambiato la nostra idea della natura, ma il contrario. È proprio perché in Europa alla fine del Rinascimento, la natura è diventata qualcosa di esterno agli uomini, che gli sviluppi scientifici sono stati possibili111.

106 107 108 109 110 111

Ivi, pp. 41-42. Ivi, p. 15. Ivi, p. 26. Ivi, p. 27. Ivi, pp. 26-27. Ivi, p. 47.

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Sviluppi chiaramente impensabili per gli altri modi di declinare la relazione umano/non umano, quarto compreso (quello della Cina e del Messico), secondo cui esistono «molteplici legami tra gli uomini e il resto del mondo»112: non essendo visto dall’esterno, il “naturale” è più difficilmente preda dell’azione trasformativa umana. Paradossalmente, però, prosegue Descola, è proprio l’“efficacia” della visione del mondo occidentale, che ne ha segnato il trionfo planetario, a metterla sotto scacco. Una prima volta con l’espansione coloniale che, facendola “incontrare” con altre culture, l’ha storicizzata, togliendole quell’aura di naturalità e universalità che si era auto-conferita, e una seconda volta oggi con la comprensione del «prezzo estremamente elevato che bisogna pagare per questo sfruttamento senza ritegno del nostro ambiente»113, comprensione che ci porta a riscoprire quelle «civiltà per lungo tempo chiamate “primitive” [che] hanno saputo preservarsi dal saccheggio irresponsabile del pianeta»114. Riscoperta che, per Descola, permette il passaggio di una fievole brezza di speranza: Queste civiltà forse ci indicano anche una via per uscire dall’impasse in cui ci troviamo attualmente. Loro non hanno mai pensato che le frontiere dell’umanità si arrestassero alle porte della specie umana […]. La conoscenza che noi abbiamo di tutti questi popoli che […] non vedono il loro ambiente come qualcosa di esterno a se stessi, ci fornisce un modo di prendere le distanze nei confronti del presente per tentare di affrontare meglio l’avvenire […]. Così, anche se la soluzione che noi vorremmo per l’avvenire, un’alternativa valida di vivere insieme certo tra umani, ma anche tra umani e non umani, non esiste ancora, noi abbiamo almeno la speranza, perché altri l’hanno fatto prima di noi in altre civilizzazioni e altre società, di poter inventare dei modi originali di abitare la terra115.

3. Un altro passo indietro. L’impasse a cui la potenza operazionale associata alla visione della natura come un tutto ci ha consegnati non coinvolge “solo” il mondo non umano e indirettamente la società umana a seguito del disastro ecologico che ci troviamo a fronteggiare, ma anche – e direttamente – la definizione dell’umano stesso. Grazie alla riflessione biopolitica contemporanea e al lavoro di Agamben nella serie Homo sacer, ormai sfugge a pochi che la «macchina antropologica» ha lavorato e tuttora lavora per scindere “l’Umano” da “l’Animale” all’interno dell’uomo116, sia 112 113 114 115 116

Ivi, p. 46. Ivi, p. 27. Ivi, p. 29. Ivi, pp. 29-31. Cfr., ad esempio, Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, soprattutto pp. 35-43.

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nell’ambito dei totalitarismi novecenteschi sia, seppur con modalità differenti, nell’ambito delle odierne democrazie liberali117. Precursori dello sterminio118, curato da De Cristofaro e Saletti, che rende disponibile in italiano il documento pubblicato per la prima volta nel 1920 dal giurista Karl Binding e dallo psichiatra Alfred Hoche e intitolato La liberalizzazione della soppressione della vita senza valore, mostrando i diversi passi indietro che la nostra visione del rapporto con l’alterità ci ha fatto compiere, ci permette di muovere qualche ulteriore passo in avanti nella comprensione dell’indiscernibilità tra biopolitica e tanatopolitica che si è realizzata nel modo più compiuto nel corso della modernità. Questo saggio incarna, a partire dalle figure dei due autori, l’inestricabile commistione, analizzata da Foucault, tra potere politico-amministrativo e sapere medico-psichiatrico. Da un lato esso rappresenta infatti il punto di arrivo della rinnovata riflessione ottocentesca sulla “vita” (iniziata sulla spinta di una “miscela esplosiva” costituita da un’interpretazione scorretta del pensiero darwiniano, dallo sviluppo della genetica, dal trionfo delle scienze di popolazione, da bizzarre ipotesi sociobiologiche e dall’elaborazione di un’altrettanto fantasiosa teoria degenerativa della società mutuata dalle nascenti discipline della psichiatria e della neurologia) e dall’altro, come unanimemente riconosciuto, è uno dei punti di partenza imprescindibili nella costituzione del pensiero biopolitico nazista. Come sottolineato dai curatori, il “manifesto” di Binding e Hoche si fonda su due idee che paiono essere ancora vitali. La prima è quella che considera lo Stato come una unità etnicamente omogenea di individui sani che […] concorrono a incrementare la forza dell’intera comunità, della quale appaiono come semplici rotelle rispetto ad un più ampio e articolato ingranaggio119,

117 Cfr., ad esempio, Giorgio Agamben, Stato di eccezione. Homo sacer, II, 1, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone, Homo sacer, III; Roberto Esposito, Bíos. Biopolitica e filosofia, Einaudi, Torino 2004 e Termini della politica. Comunità, immunità, biopolitica, Mimesis, Milano 2008-2009. Pur concordando con Esposito che il termine arendtiano di “totalitarismo” per indicare assieme comunismo sovietico e nazismo sia scorretto, se ne è fatto qui ricorso per semplicità. 118 Ernesto De Cristofaro e Carlo Saletti (a cura di), Precursori dello sterminio. Binding e Hoche all’origine dell’“eutanasia” dei malati di mente in Germania, ombre corte, Verona 2012. 119 Ivi, pp. 8-9.

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unità che, pertanto, deve difendersi da ogni forma di «estraneità biologica e somatica» che mescolandosi «alla razza superiore [possa] imbastardirla»120, riducendone in tal modo il benessere e la produttività economica. La seconda è quella secondo cui la legge, così come essa è, dimostra già di saper operare delle differenze tra tutela assoluta e tutela attenuata della vita […], [da cui] consegue che, poiché le vite degli idioti incurabili non sono un bene per chicchessia, la loro soppressione andrebbe liberalizzata121,

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al pari di quelle di tutti quegli altri individui che, classificati come asociali, troveranno la morte nei decenni successivi e che una circolare del ministro degli Interni di Prussia e del Reich del 14 dicembre 1937 [definiva come] “individui che si comportano nei confronti della collettività in modo non costituente di per sé un reato, ma che tuttavia rivela la loro incapacità di adattamento”122.

Due idee che, condite con una retorica umanitaria, non dissimile nella forma da quella che presiede alle guerre odierne e alla nozione di “benessere animale”, fungono da fattori per il «calcolo del soggetto»123 secondo il seguente schema: a) «la vita ha valore in quanto essa procura piacere e si sottrae al dolore», b) «il valore della vita viene […] commisurato alla sua godibilità da parte del singolo ma anche al peso che una sua improduttiva prosecuzione potrebbe implicare per la collettività», e, quindi, c) «la valorizzazione della vita si dà come l’esito di un calcolo costi-benefici»124. Calcolo del soggetto che trova la sua aritmetica nella svalutazione della vita animale. Per Hoche, infatti, ciò che permette di distinguere quelli che definisce «vuoti gusci umani [leeren Menschenhülsen]» o «esistenze-

120 121 122 123

Ivi, p. 18. Ivi, p. 13. Ivi, p. 33. Cfr. Jacques Derrida, «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, trad. it. di S. Maruzzella e F. Viri, Mimesis, Milano 2011. In questa intervista rilasciata a Jean-Luc Nancy, Derrida mostra come la costituzione del soggetto si articoli attraverso un calcolo operato da una struttura sacrificale che si alimenta sia di umani che di non umani. Per un’analisi più approfondita, cfr. Massimo Filippi e Filippo Trasatti, La favola del soggetto, la tragedia degli animali, in Liberazioni, n. 8, primavera 2012, pp. 70-82. 124 Ernesto De Cristofaro e Carlo Saletti (a cura di), Precursori dello sterminio, cit., pp. 9-10.

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zavorra [Ballastexistenzen]»125 è «la mancanza della coscienza di sé», il fatto che «posseggono un livello intellettuale, quale lo si può trovare al più basso livello animale» e i cui «moti dell’animo non si alzano oltre il livello più elementare, legato alla vita animale»126. Il che gli permette di lanciare la sua personale «guerra sulla pietà», situandosi però sul fronte opposto rispetto a quello scelto da Derrida: Alla base della compassione per una vita degna di essere vissuta vi è un inestirpabile errore di ragionamento o meglio una carenza di pensiero, in base alla quale la maggior parte delle persone proiettano la loro maniera di pensare e di sentire su una forma di vita altrui […], un errore che è anche all’origine del culto eccessivo di cui gli animali sono oggetto da parte dell’uomo europeo. La “compassione” per un individuo morto mentalmente, nel corso della sua vita e nel caso della sua morte, è un sentimento da mettere all’ultimo posto; dove non c’è sofferenza, non c’è neppure compassione127.

Nonché di delineare, in una sorta di inquietante girotondo, il cammino futuro dell’umanità: C’è stata un’epoca, che oggi consideriamo barbara, in cui l’eliminazione di chi era nato inadatto alla vita […] era [vista come] naturale, quindi è giunta la fase, attualmente in corso, in cui preservare ogni esistenza, anche del tutto priva di valore, è stato eretto a postulato morale più alto; ma verrà un’epoca nuova in cui, secondo un punto di vista morale più elevato, si smetteranno di mettere in pratica, a costo di pesanti sacrifici, i postulati richiesti da una concezione eccentrica dell’uomo e, molto semplicemente, da una sovrastima del valore dell’esistenza umana128.

4. Il passo della riabilitazione. I bordelli di Himmler129, offrendoci una panoramica del ruolo della sessualità nell’ambito della biopolitica nazista e riportando alla luce un aspetto che la ricerca storica ha lasciato per lungo tempo nell’ombra, ossia l’utilizzo di schiave sessuali in veri propri bordelli

125 Ivi, p. 83. 126 Ivi, p. 85. 127 Ivi., p. 86. Al proposito è interessante segnalare che fu calcolato anche il risparmio economico che la soppressione delle vite indegne di essere vissute aveva comportato per il Reich e che tale risparmio proiettato nel 1951 sarebbe equivalso a «885.429.000 marchi, l’equivalente di 13.492.449 chili di carne e salsiccia (sic!)» (ibid., p. 41). 128 Ivi, pp. 88-89. 129 Baris Alakus, Katharina Kniefacz e Robert Vorberg, I bordelli di Himmler, trad. it. di A. Gilardoni, Mimesis, Milano 2011.

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gestiti all’interno dei campi di prigionia come incentivo per i lavoratori forzati più “meritevoli”, è un altro saggio utile per comprendere appieno la dimensione della posta messa in gioco dal passo indietro che separa “l’Umano” da “l’Animale”. Come sottolineato da Foucault, la sessualità, al contempo parte della sfera personale e di quella sociale, è un luogo privilegiato dell’esercizio della biopolitica in quanto consente un doppio controllo della vita, a livello di individuo e a livello di popolazione. Questo aspetto non è ovviamente sfuggito ai gerarchi nazisti che da un lato inasprirono l’azione oppressiva nei confronti della prostituzione e dall’altro la favorirono con la concentrazione delle “prostitute” nei bordelli, assicurandosi al contempo un nuovo gruppo di asociali (fondamentalmente tutte le donne che avessero inteso emanciparsi dal sistema patriarcale), una limitazione della diffusione delle malattie veneree e dei rischi di alterare la “purezza del sangue ariano” (associati all’espansione militare nei territori occupati e alla crescente presenza di lavoratori forzati di origine straniera in territorio tedesco), il controllo dell’equilibrio sessuale maschile in generale e di quello dei soldati, dei sorveglianti dei campi e dei prigionieri in particolare, con conseguenti benefici politico-economici, e infine un “antidoto” contro l’omosessualità serpeggiante tra i membri dell’esercito130. La creazione dei bordelli non è allora sorprendente. Ciò che sorprende è invece la “precisione” con cui opera il calcolo del soggetto che, misurando la distanza che corre tra determinate classi di individui e “l’Animale” (più breve per le donne che per gli uomini, per gli omosessuali che per gli eterosessuali, ecc.), permette di definire dei sottopiani all’interno dei vari piani che costituiscono il grattacielo sociale descritto da Horkheimer. E, ancor più sorprendente, come mostra il fatto che la riabilitazione delle vittime del nazismo è avvenuta temporalmente in relazione inversa rispetto alla disposizione in cui erano state poste dal regime lungo la scala degli esseri (le schiave sessuali hanno dovuto attendere fino alla fine del secolo scorso)131, è che lo stesso sistema classificatorio ha continuato a funzionare anche dopo il 1945. Questa riabilitazione a piccoli passi è allora un altro indice che suggerisce, ancora una volta, la sostanziale continuità storica della biopolitica fondata sul valore: il problema non sta nel modo in cui si effettuano i calcoli, ma nell’idea stessa di calcolare. Quando si inizia a contare, non si conta più; quando si parla di valori, si parla al contempo di svalutazione. 130 Ivi, pp. 55-57. 131 Ivi, pp. 117-127.

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5. Il passo dell’effettualità. Se Descola individua nel passo indietro che abbiamo compiuto nei confronti della natura intorno al XVII secolo la molla che ha reso possibile lo sviluppo (inarrestabile) e la globalizzazione (colonizzante) della visione occidentale del mondo, Agamben in Opus Dei132, l’ultimo tassello della serie Homo sacer, individua un altro passaggio che, a partire dal cristianesimo primitivo, configura la potenza della prassi occidentale costantemente impegnata a trasformare il vivente in nuda vita: quello dall’essere all’agire. La ricerca archeologica che si snoda in questo libro – continuazione del progetto iniziato con Il Regno e la Gloria e proseguito con Altissima povertà133 – intorno alla nozione di “ufficio” mostra come questa percorra in maniera pervasiva, seppur sottotraccia, l’ontologia, l’etica, la politica e il diritto occidentali: Nell’ufficio, essere e prassi, ciò che l’uomo fa e ciò che l’uomo è, entrano in una zona di indistinzione, in cui l’essere si risolve nei suoi effetti pratici e, con una perfetta circolarità, è ciò che deve (essere) e deve (essere) ciò che è […]. Tanto dell’essere quanto dell’agire noi non abbiamo oggi altra rappresentazione che l’effettualità. Reale è solo ciò che è effettivo e, come tale, governabile ed efficace134.

Nello spostamento che «l’intero edificio dell’etica e della politica subiscono»135 nel momento in cui «esse è ormai sinonimo di “agire”»136, Agamben individua il passo che definisce il “proprio” de “l’Uomo” contemporaneo: Se l’uomo non vive semplicemente la sua vita come gli animali, ma la “conduce” e “governa”, l’officium è ciò che rende la vita governabile, ciò attraverso cui la vita degli uomini viene “istituita” e “formata”. Decisivo è, però, che, in questo modo, l’attenzione del politico e del giuridico si sposti dal compimento di singoli atti all’“uso della vita” nel suo complesso, che l’officium tenda cioè a identificarsi con l’“istituzione della vita” come tale […]. L’officium costituisce […] la stessa condizione umana, gli uomini in quanto membra … corporis magni , sono esseri di officium137. 132 Giorgio Agamben, Opus Dei. Archeologia dell’ufficio. Homo sacer, II, 5, Bollati Boringhieri, Torino 2012. 133 Giorgio Agamben, Il Regno e la Gloria. Per una genealogia teologica dell’economia e del governo. Homo sacer, II, 2, Bollati Boringhieri, Torino 2009 e Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Homo sacer, IV, 1, Neri Pozza, Vicenza 2011. 134 Ivi, pp. 8-9. 135 Ivi, p. 95. 136 Ivi, p. 61. 137 Ivi, p. 90, corsivo iniziale aggiunto.

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E, prosegue Agamben, «se l’officium è ciò che rende governabile la vita degli uomini, le virtù sono il dispositivo che permette di attuare questo governo»138; se l’essere si trasforma in dover-essere, il dovere diventa «il concetto fondamentale nell’etica»139, che si esercita tramite un’«autocostrizione» mediata dal «rispetto»140, l’imperativo diventa «il modo verbale proprio del diritto»141 e l’ufficiale –sacerdote, funzionario o militante che sia – si fa «essere di comando»142. Il fuoco di rotazione di questo movimento cortocircuitante, che incessantemente si riproduce e che riproduce lo stesso girare a vuoto dell’etica kantiana e del diritto kelseniano (entrambi tuttora operanti), è la volontà: Decisivo è che il movimento dell’essere […] implichi una energheia e una incessante “messa-in-opera”, sia pensato, cioè, come un ergon che rimanda all’effettuazione da parte di un soggetto che sarà, in prima e ultima istanza, identificato con la volontà143.

La rivoluzione industriale, e qui ritorniamo sui passi di Descola, farà il resto. Nella società che da questa stava per sorgere, in cui gli uomini sarebbero stati assoggettati a forze che non avrebbero potuto in alcun modo controllare, la morale del dovere li avrebbe abituati a considerare l’obbedienza a un comando (poco importa se esterno o interno, perché nulla è più facile che interiorizzare un comando esterno) come un atto di libertà144.

Officium (come inosservata distinzione della vita umana da quella animale), essere = agire, effettualità, governo della vita, virtù, dovere, comando, volontà, libertà: tout se tient nella norma che “normalizza e naturalizza”, esprimendo «solo il fatto che un certo comportamento è statuito da una norma, e che questa norma rimanda a un’altra norma […] e questa ancora a un’altra»145. Da qui il passo conclusivo di Agamben, secondo cui

138 139 140 141 142 143 144 145

Ivi, pp. 91-92. Ivi, p. 102. Ivi, pp. 130-131. Ivi, p. 99. Ivi, p. 100. Ivi, p. 146. Ivi, p. 141. Ivi, p. 142.

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il problema della filosofia che viene è quello di pensare un’ontologia al di là dell’operatività e del comando e un’etica e una politica del tutto liberate dai concetti di dovere e volontà146.

Da qui l’ossessiva ricerca in tutta la sua opera del modo in cui può darsi una forma-di-vita inoperosa, di un’inoperosità che non significhi assenza di movimento, ma assenza di scopo. Forma-di-vita che, seppur ancora sfuggente, lampeggia a tratti, forse anche al di là delle intenzioni dell’autore, in qualcosa che ha a che fare con il rendersi indistinto del confine umano/animale: il banchetto incruento dei giusti nell’ultimo giorno147, la neutralizzazione delle azioni umane nella festa148, l’attività posta in stato di arresto dal gioco del gatto con un gomitolo che in tal modo si emancipa dalla «relazione obbligata a un fine»149. Che siano proprio la scarsa attenzione del movimento antispecista al passo degli animali, il suo costante muoversi secondo il passo dettato da ciò a cui vorrebbe opporsi, la sua accettazione acritica dell’effettualità dei piccoli passi, il suo credo quasi religioso nel presunto movimento espansivo di una società-organismo (corpus magnum) informata dal dovere e dalla volontà, a condannarlo a girare a vuoto, a battere il passo? 6. L’ultimo passo. Se le nozioni che ruotano intorno ai concetti di dovere, rispetto e virtù, in quanto risultato dell’effettualità della norma e del comando, si dimostrano inservibili per arrestare il passo indietro dalla natura, che a sua volta ha reso possibile gli innumerevoli passi in avanti che ogni giorno compiamo nella distruzione dell’intero esistente, verso dove dovremmo incamminarci? Esiste un passo che si smarchi dalla linearità binarizzante del taglio e della ferita che ha separato “l’Umano” da “l’Animale” ben prima di quanto Descola pensi, a partire almeno dal Neolitico, quando la domesticazione è diventata istituzione? In francese “pas” significa sia “passo” che “non” e, giocando sulla polisemanticità di questo termine, Derrida individua la possibilità di un altro modo di camminare nella condizione aporetica, letteralmente di non-passaggio, che percorre il passaggio del non della morte: la morte, segnando l’impossibilità del passo che costantemente si muove verso di lei, fa 146 Ivi, p. 147. 147 Cfr. Giorgio Agamben, L’aperto, cit., pp. 9-11. 148 Cfr. Giorgio Agamben, Una fame da bue. Considerazioni sul sabato, la festa e l’inoperosità, in Nudità, nottetempo, Roma 2009, pp. 147-159. 149 Cfr. Giorgio Agamben, Elogio della profanazione, in Profanazioni, nottetempo, Roma 2005, pp. 83-106. La citazione è a pp. 98-99.

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risuonare il non che accomuna umani e animali. È la negatività, che non è mancanza ma affermazione dello scorrere della vita dall’uno all’altro, che permette il movimento dell’essere animale che a sua volta determina «la possibilità dell’impossibile» (la morte propria) e l’eterotrofia (la morte dell’altro)150. Movimento che è stato negato con il gesto, questo sì radicalmente debitore alla mancanza, che in un sol colpo ha istituito “l’Umano” come “non-animale”, come spirito acorporeo immortale. Nell’aporeticità della morte, nel suo movimento senza scopo e direzione, sembra allora nascondersi la possibilità di smarcarsi dalla mortifera cultura umana dell’immortalità che a quella pretenderebbe opporsi, ma che in realtà la moltiplica esponenzialmente nella norma di un incessante sterminio. Di questo movimento, così difficile da percorrere con il passo logocentrico della filosofia, possiamo talvolta intravvedere una traccia nell’arte e nella letteratura, come accade leggendo il romanzo di Linnio Accorroni, Ricci (La cosa giornaliera)151 che, accostando il cammino verso la morte di un umano e gli ultimi passi compiuti da alcuni animali, dischiude un paradossale spazio di salvezza. La «cosa giornaliera», ossia la vulnerabilità mortale dei nostri corpi, è portata alla luce dal resoconto senza sconti della storia della malattia di un anziano colpito da un tumore al retto che, con tutto il suo corredo di incontinenza fecale, sangue, puzza, sporcizia e umiliazione, fa emergere quella nuda vita da cui cerchiamo inutilmente di smarcarci, ma che comunque ci costituisce, e che lo trasforma progressivamente in «una macchina fecale postfordista»152. In questa espressione non si possono non riconoscere gli echi di tutta una tradizione che ha pensato e trattato i non umani come macchine grazie a un’incessante produzione de “l’Umano” ottenuta per mezzo della cattura de “l’Animale” sottoforma di un’esclusione, di un resto espulso (fecale, appunto)153. La malattia, però, a differenza di quanto accade nella produ150 Cfr. Jacques Derrida, Aporie. Morire – attendersi ai “limiti della verità”, trad. it. di G. Berto, Bompiani, Milano 1999, pp. 7 sgg. e pp. 56 sgg. Per una analisi più dettagliata di questo testo e dei temi qui solo accennati, cfr. Massimo Filippi, Ai confini dell’umano. Gli animali e la morte, ombre corte, Verona 2010, soprattutto pp. 30-40. 151 Linnio Accorroni, Ricci (La cosa giornaliera), Italic, Ancona 2011. 152 Ivi, p. 21. 153 È interessante notare che anche Judith Butler, in Questione di genere. Il femminismo e la sovversione dell’identità, trad. it. di S. Adamo, Laterza, Bari 2013, p. 189, riconosce la vicinanza tra esclusione appropriante e “produzione fecale”: «Il confine tra l’interno e l’esterno viene confuso da quei passaggi escretori in cui l’interno effettivamente diviene esterno e tale funzione escretoria diventa, per

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zione istituzionalizzata di nuda vita, toccando senza fini (ri)produttivi il nervo scoperto della nostra innegabile animalità corporea, sembra invertire il funzionamento della macchina antropologica, che continua sì a operare con le sue distinzioni binarie, ma questa volta a scapito de “l’Umano”: viviamo e moriamo, come afferma il protagonista, «tra la merda, in un mondo di merda, tra uomini di merda»154, riconoscendo in tal modo, seppur in maniera distorta e forse inconsapevole, la radicale finitezza che accomuna tutti i viventi («Finisce tutto in merda, sempre»155). Questa disperante consapevolezza viene approfondita nei paragrafi intitolati «Crimini di pace», che descrivono ciò che resta degli animali dopo che sono entrati in rotta di collisione con le nostre macchine. I ricci del titolo, crocifissi sulle strade dopo essere stati investiti, sono l’esempio paradigmatico di questi incontri mortali. Avvicinando due specie di cadaveri (quelli umani e quelli animali) e due forme di trattamento degli stessi (riti funebri e noncuranza), suggerendo che anche le vite animali sono degne di lutto e che possono essere piante al pari delle nostre, l’autore non fa che ribadire l’insostenibilità del confine umano/animale che tanto ci è caro e, soprattutto, utile. Il che ci permette di comprendere perché Accorroni scelga tra tutti i possibili crimini contro gli animali quello che sembra essere il più banale: lo sceglie proprio per questo motivo, perché è, appunto, un crimine di pace, un semplice effetto collaterale, come accade nelle guerre umanitarie, della “naturale” automobilità che “l’Umano” si è assegnato escludendosi dal naturale156. Possiamo muoverci in automobile (ma lo stesso vale per qualsiasi altro mezzo di trasporto) solo perché, avendo fatto un passo indietro dal vivente, abbiamo colonizzato l’intero pianeta, trasformandolo in mappe de “l’Umano”, in marche (troppo) umane, rinchiudendoci anche noi in gabbie pensate all’inizio solo per gli altri. A bordo di un’automobile crediamo di muoverci liberamente, ma di fatto, recintando l’intero esistente con le nostre strade, ci siamo autoreclusi su percorsi prestabiliti e inaggirabili. Per svincolarci dalla materialità del passo ci siamo consegnati a una tetra passività, alla libertà obbligatoria del dovere che, se pensata a fondo, non può che far affiorare, con ancora maggiore evidenza, la condizione così dire, il modello in base al quale si compiono le altre forme di differenziazione dell’identità. In effetti, questo è il modo in cui gli/le Altri/e diventano merda». 154 Linnio Accorroni, Ricci, cit., p. 84. 155 Ivi, p. 21. 156 Per un approfondimento su questi temi, cfr. Dennis Doron, Road Kill: Commodity Fetishism and Structural Violence, in John Sanbonmatsu (a cura di), Critical Theory and Animal Liberation, Rowman & Littlefield, Lahman 2011, pp. 55-69 e Michele Speranza, Danni collaterali, Edizioni Montaonda, San Godenzo 2012.

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condivisa di morti-viventi che è sì costitutiva del vivente in generale, ma che il nostro modo di concepire “l’Animale” ha trasformato in una routine di violenza e oppressione. Riprendendo quanto Derrida afferma nel secondo volume de La Bestia e il Sovrano, è inoltre possibile affermare che i cadaveri degli animali esposti senza difese sui bordi delle strade alla nostra sovranità ci ricordano che il confine umano/animale passa anche dalla istituzione del confine morti/viventi e che questo a sua volta istituisce il primo. La differenza di trattamento delle due forme di cadaveri si fonda, infatti, sull’idea bizzarra secondo cui solo noi avremmo la prerogativa di sopravvivere alla nostra morte: solo noi pensiamo di poterci preoccupare da vivi delle sorti dei nostri resti e di poter osservare da morti quanto accade loro. In altri termini, ciò che il sistema colonizzante, di cui l’automobile non è che una metonimia, nega a “l’Animale” non è tanto e non solo l’habeas corpus, quanto e soprattutto l’habeas corpse (l’avere un cadavere) o, meglio, è la costante negazione di quest’ultimo che rende inefficace e di fatto insussistente il primo157. Il riconoscimento che oltre a essere animali viventi siamo anche animali mortali apre, però, una crepa all’interno della monoliticità, a prima vista inscalfibile, del «Mondo/Puzza»158 in cui non possiamo neppure più morire. Nel romanzo di Accorroni, queste crepe sono rappresentate dai tre paragrafi intitolati «Sinantropismi». Sinantropici sono quegli animali che vivono insieme agli umani, adattandosi, nonostante tutto, nelle pieghe di un ambiente fortemente antropizzato. Questi animali, e non a caso tra tutti Accorroni ci parla solo di uccelli, sono creature angeliche che svolgono la funzione di messaggeri di una vita altra, della vita che potrebbe accadere nell’aldiqua. Aldiqua che si smarca dalla bêtise dell’immortalità nella leggerezza con cui gli uccelli costruiscono i loro nidi dove, sempre iniziante, la vita sconfina, attraverso le generazioni che incessantemente si susseguono, oltre l’individuo, per trapassare, lungo la linea di fuga del cadavere, in altre vite, in una vita, nell’impersonale. Impersonale che depotenzia il

157 Jacques Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume II (2002-2003), trad. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2010, soprattutto pp. 169 sgg. Il rapporto tra habeas corpus e habeas corpse è discusso a p. 197. Anche Judith Butler sembra condividere queste conclusioni; cfr., ad esempio, Violenza, lutto, politica, in Vite precarie. I poteri del lutto e della violenza, a cura di O. Guaraldo, Postmedia, Milano 2013, pp. 45-69, dove afferma: «Se una vita non è degna di lutto, allora non è propriamente una vita, non si pone come tale; e non è degna di considerazione. È già una vita insepolta, se non addirittura una vita che non merita sepoltura» (p. 57). 158 Lino Accorroni, Ricci, cit., p. 84.

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primato assegnato alla morte dalla nostra cultura dell’individualismo insulare, immergendola nell’oceano vivente che circonda e attraversa quella finzione che chiamiamo “individui”. Vita «a due livelli, quello della pesanteur e quello della grace»159, che le tane degli animali, anche se ricavate all’interno di una cassetta postale, riproducono fedelmente con il loro essere al contempo barriera protettiva e accogliente membrana160. Tane che, al pari di «certe case […] dove nessuno oggi abita più», sembrano, anche se abbandonate e proprio perché abbandonabili, «aspettare l’ospite che ritorna»161. L’ospite che ritorna è l’animalità che ci costituisce, quell’insalvabile che la malattia di un sistema ha cercato di evacuare impegnandosi a consegnare un “Umano” inesistente a un’altrettanto inesistente immortalità, trasformandosi in tal modo in una sconfinata macchina di morte. L’ospite che ritorna è un fantasma, né vivo né morto, né “Umano” né “Animale”, il fantasma di una paradossale speranza che si materializza nella presa di congedo da ogni sogno di salvezza. L’ospite che ritorna, come l’eterno ritorno di Nietzsche, ci ammonisce a «guardare le cose come se fosse sempre l’ultima volta. Se sapessimo sempre che questa è l’ultima volta […], continueremmo a essere così stolti?». «Se quella fosse l’ultima volta che abbiamo a disposizione per guardare i nostri figli, nostro padre, nostra moglie, i nostri amici, il nostro amore, il nostro cane»162, non scomparirebbe la mortale incontinenza che ci ammorba? 7. Un altro passo ancora. Il passo che siamo chiamati a compiere è, allora, simile a quello che si nasconde nella “e” del titolo del capolavoro di Descola, Par-delà nature et culture, “e” che indistingue natura e cultura, “e” altra che mette in ridicolo la separazione: «Ci vien già da ridere quando troviamo “uomo e mondo”, separati dalla sublime arroganza della paroletta “e”»163. Passo – delirante (Deleuze e Guattari), aporetico (Derrida), da flâneur (Benjamin), dionisiaco (Nietzsche) –, che mette a tacere le passioni tristi e i segretucci familiari che caratterizzano il dispositivo soffocante di Edipo, sia quando si muove al di là della natura per ricongiungersi metafisicamente con il Fallo del Padre sia quando si incammina al di là del159 Ivi, p. 124. 160 Sulle caratteristiche dei luoghi animali, cfr. Michel Serres, Il mal sano. Contaminiamo per possedere?, trad. it. di M. Sciano di Pepe, il melangolo, Genova 2009, pp. 58 sgg. e Angeli urinanti in questo volume. 161 Lino Accorroni, Ricci, cit., p. 124. 162 Ivi, p. 77. 163 Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, cit., § 356, p. 211.

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la cultura per immergersi primitivisticamente nel grembo di una qualche Grande Madre. Passo doppio e sdoppiato che, facendoci muovere e di qua e di là, apre un varco che ci fa ritornare, da ospiti, in quell’aldiqua dove non siamo mai stati. Passo che, senza istituire circoli, non smette di circolare, che, in quanto non calcolato, prende congedo da ogni forma di calcolo. Passo senza valore, passo non dovuto, al di qua della virtù, del diritto e del dovere. Passo che, in quanto sempre mancante, si smarca dall’oppressione (delle filosofie) della mancanza. Passo dell’immanenza e della finitudine, passo senza fine, passo che, aprendosi sul vuoto, cessa di girare a vuoto e nel vuoto e che in-finitamente ci domanda: «Come si è trasformato il processo in scopo?»164. LO SPETTACOLO BESTIALE E LA VENERE NERA Questa società che sopprime la distanza geografica raccoglie la distanza nel suo intimo, in quanto separazione spettacolare. (G. Debord)165

1. Una scienza spettacolare. Per cogliere appieno il significato del film Venere nera di Abdellatif Kechiche166 è necessaria una riflessione sul cosiddetto “spettacolo della natura”. All’inizio dell’Ottocento il pensiero giudaico-cristiano, l’humus da cui è germogliato quello liberale e che ha come suo imprescindibile presupposto ideologico la scissione tra spirito e corpo, viene sottoposto a una serie di “aggressioni” che ne mettono profondamente in discussione i corollari della liberazione spirituale, che danno per scontato che il corpo sia una zavorra per l’anima. È in questa fase, infatti, che si fanno sempre più pressanti le teorie che postulano un’osmosi e un vincolo tra anima e corpo o tra natura e cultura. Tale riformulazione ontologica provocò un forte turbamento della coscienza collettiva occidentale. A questo turbamento si cercò di reagire da una parte con l’ossessione classificatoria scientifica e dall’altra, poiché la religione non deteneva più l’esclusività dell’esercizio del potere sulle masse diseredate tramite il ricorso all’illusione del regno di Dio – potere ormai gestito dalla borghesia proprietaria dei mezzi di produzione –, con lo spettacolo, neo-dispositivo in grado di stra/volgere il tempo storico instaurato dalla rivoluzione indu164 Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo, cit., p. 40. 165 Guy Debord, La società dello spettacolo, trad. it. di F. Berardi, Agalev, Bologna 1990, tesi 167, p. 96. 166 Abdellatif Kechiche, Venere nera, Francia 2010.

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striale in un immaginario tempo ciclico e di sostituirsi (in tutto o in parte) al tempo della vita. In altri termini, la scienza, nell’affannoso sforzo di circoscrivere l’esistente, si impegnò, ancora più che in passato, a includere il naturale nella sfera del misurabile, organizzandolo secondo scale gerarchiche ed evolutive. E la società a escluderlo, mantenendolo artificialmente in vita attraverso la sua spettacolarizzazione nelle forme del meraviglioso, del bizzarro e del mostruoso. Zoo, circhi, esposizioni universali, spettacoli con animali, dimostrazioni di anatomia nelle aule universitarie, bestiari ed esibizioni degli “scherzi di natura” forniranno così un sostanziale contributo al mantenimento di quel processo culturale che si declina, secondo i casi e a volte simultaneamente, nell’inclusione e nell’esclusione e che alimenta i dispositivi di dominio e di sfruttamento. Contemporaneamente nasce anche lo spettacolo di massa che, seppur non ancora strutturato nei termini del passaggio dall’avere al sembrare, ossia dall’accumulazione delle merci all’accumulazione feticista delle immagini tipica della società dello spettacolo, ha già assunto le caratteristiche di sintomo della reificazione operata da un modello ideologico che si appropria di tutto il “rimosso” desiderante. Lo “spettacolo”, cioè, fin dai primi vagiti mistificanti e adulatori delle esposizioni universali e delle esibizioni circensi, è il discorso che l’ordine presente tiene su se stesso, il suo monologo elogiativo che costituisce l’autoritratto del potere all’epoca della gestione pervasiva delle condizioni di esistenza167. Se la scienza e la medicina rappresentano i nuovi sacerdoti e gli eredi legittimi del potere sovrano in grado di stabilire l’uccidibilità di ogni essere vivente, lo spettacolo assurge alla dimensione di dispositivo ludico che colma il vuoto esistenziale causato dal lavoro salariato che espropria i corpi di moltitudini di esseri umani del loro surplus immaginativo e creativo, privandoli della loro vita relazionale tramite la riduzione a meri ingranaggi della macchina produttiva capitalista. Già all’inizio del XIX secolo questo horror vacui produsse una nuova complicità tra l’occhio (e non solo) dello spettatore e le “rappresentazioni” del mondo. 2. Il colonialismo dello sguardo. Il film di Kechiche, grazie a uno stile di ripresa algido e distaccato che lo accomuna a un moderno reportage giornalistico pur se nella forma di un film d’epoca, intende denunciare il legame che si è andato strutturando tra un certo tipo di scienza – che nel giro di pochi anni raggiungerà la dimensione inquietante dell’eugenetica nazista – e l’osceno, ossia il fuori scena, l’indicibile, il fenomenale, l’altro, che qui 167 Guy Debord, La società dello spettacolo, cit., tesi 24, p. 15.

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è incarnato razzialmente dal personaggio di Saartjie Baartman interpretato da Yahima Torres. La storia narrata segue fedelmente l’iter degradante e coercitivo cui fu sottoposta la leggendaria Venere Ottentotta, iter che viene ricostruito attraverso le fonti e i documenti del tempo168. Il regista focalizza subito l’attenzione dello spettatore sulla sua pulsione scopica, atto non neutrale, anzi pericolosamente complice, che è essenziale all’invenzione del selvaggio nell’ambito del dispositivo spettacolare che si andava canonizzando nelle esibizioni circensi del tempo. Fin dalla prima sequenza la Venere nera è presentata nella sua dimensione di cattività, rinchiusa com’è in una gabbia che la rende disponibile all’addomesticamento non solo da parte del domatore-padrone bianco, ma anche e soprattutto da parte dello sguardo degli spettatori. La “bestia” connotata razzialmente dai segni dell’inciviltà – la nudità difforme, il trucco, le posture belluine, che ne frustrano l’ambita posizione eretta, l’aggressività selvatica e il linguaggio alieno ridotto a verso animalesco – si lascia inscrivere dall’intera storia dell’Occidente, nonostante la storia sia un concetto moderno che si consuma all’interno dell’incredibile, e quanto mai tragico, intreccio di scienza, colonialismo e divertimento a cui si è accennato. Tale intreccio simbiotico viene reso esplicito dallo sviluppo di un meccanismo diegetico che alterna agli avvenimenti certi – la traduzione della donna in regime di semi-schiavitù da Città del Capo, le esibizioni a cui viene costretta, il processo contro i padroni-aguzzini che la porta a Londra e la sua catalogazione scientifica da parte dei medici francesi – a quelli “possibili”, ricostruiti attraverso la documentazione storica. In tal modo, viene mantenuto un regime simbolico perennemente in bilico tra vero e verosimile che se da un lato promuove l’approssimazione realistica propria dell’istanza cinematografica – la possibilità cioè di ricreare la storia – dall’altro ne mette in discussione i postulati illusori tramite il ricorso a tecniche di ripresa avanzate, e quindi inesistenti all’epoca in cui si svolge la vicenda, sottolineando il grado di assoluta ambiguità del mostrato (l’oggetto del vedere integrale, sempre più contiguo al voyeurismo di massa che un secolo dopo verrà promosso dall’industria pornografica). Il che dimostra quanto la vocazione cinematografica sia in grado di spacciare l’idea di un’incontestabilità storica – e quindi scientifica – attraverso gli strumenti della finzione.

168 Il film si ispira al fumetto di Renaud Pennelle, Vénus Noire, Editions Emmanuel Proust, Paris 2010. Per quanto riguarda le fonti, esse sono costituite da disegni, illustrazioni e articoli giornalistici del tempo oltre a studi “scientifici” di medici e anatomisti quali Georges Cuvier e Henri Marie Ducrotay de Blainville, che dissezionò il cadavere di Saartjie Baartman.

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Il regime fantasmatico che lega la razzia coloniale alla verità scientifica si alimenta della dimensione immaginaria del divertimento. Saartjie finge di fingere, partecipa al gioco dei ruoli. Un gioco atroce che la vede oggetto delle attenzioni ludico-dissettorie della moderna civiltà occidentale. Indossa il costume della bestia e interpreta “l’Animale”. Incarna la sensazione dell’esistenza di un’origine assecondando la disposizione scenica del teatro anatomico ottocentesco. In breve, Saartjie, nella sua funzione di educatrice del popolo, percepisce se stessa come nuda vita animale. E che le cose stiano così è dimostrato da quanto dice al suo datore di lavoro, Rèaux, durante una delle sue numerose crisi di identità: «Non sono intelligente, sono una bestia». Rèaux, domatore di animali esotici e selvaggi, diventa l’impresario di una messa in scena in cui la Venere nera interpreta il ruolo dell’animale addomesticato o del freak da redimere. La steatopigia e il longininfismo – ossia, rispettivamente, l’ipertrofia dei glutei e delle cosce e l’eccessivo sviluppo delle piccole labbra vaginali – la riducono poi a oggetto sessualesotico. Il dispositivo sadico del divertimento cresce e si struttura nella modernità – macchina produttrice di merce immateriale – grazie alla disintegrazione specista del limite tra “l’Umano” e “l’Animale”. La presenza continua di Saartjie (praticamente in campo per tutto lo svolgimento del film) ne evidenzia la centralità simbolica e la rende la pietra dello scandalo su cui si erige il paradigma ideologico occidentale del distanziamento e dell’avvicinamento; paradigma che viene restituito dal regista per mezzo della moltiplicazione delle focali che inquadrano Saartjie e che ne “oggettivano” la diversità, la mostruosità, l’inferiorità e l’abiezione. Lo spettacolo della Venere nera rappresenta perciò la costruzione mitica dell’Altro immaginato dal borghese bianco occidentale: lo stereotipo razzista, classista, specista e di genere su cui si fonda la presunta supremazia antropocentrica e capitalista. L’espediente utilizzato a questo fine è proprio l’elaborazione di un’epistemologia della violenza e dello sfruttamento inscenata (messa in scena, appunto) sia nei luridi teatrini delle fiere londinesi e nei circhi parigini sia quando Saartjie viene costretta a posare nuda per le illustrazioni della Histoire naturelle des mammifères avec des figures originales coloriées, dessinées d’après les animaux vivants di Étienne Geoffroy Saint-Hilaire e Frédéric Cuvier, a essere “studiata” per giorni e giorni dai professori del Museo di Storia Naturale di Parigi, a partecipare a veri e propri sex show nei salotti della ricca neoborghesia francese o, infine, a prostituirsi, malata e alcolizzata, nei postriboli dei bassifondi parigini. La Venere nera è l’unità di misura con cui la modernità occidentale configura la propria normalità. Come il concetto di umanità si fonda storicamente sull’esclusione appropriante del non umano, così la grottesca donna

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nera difforme e bestiale rappresenta il doppio speculare negativo di ogni argomentazione identitaria: il bianco (inteso come razza) esiste perché i negri ne legittimano l’esistenza, la sessualità penetrante (anche visiva) maschile esiste perché esiste una concezione della donna come ricettacolo della pulsione al possesso. E così la terra solo nell’atto della conquista e le popolazioni “primitive” solo con l’instaurarsi e il proliferare del modello colonialista dello sfruttamento “civilizzatore”. Il finale melodrammatico, in cui Saartjie, ormai nient’altro che un involucro di malattia, corpo già pre-dissezionato e simulacro del vizio e dell’abiezione, muore fra gli stenti della fame e la devastante sifilide, restituisce il percorso di degradazione che l’opera intende trasmettere: l’emancipazione della Venere nera da schiava a puttana169. Il regista transalpino sembra suggerirci che anche il cinema, che nascerà pochi anni dopo – tra il 1820 e il 1830 – come giocattolo ottico in risposta alle esigenze dell’illusione di movimento richieste dalla retina dello spettatore, ha una funzione emancipatrice, quella di sublimare l’atto della sopraffazione in intimità di massa170: Siete mai stati a Londra A vedere le sue rarità: Tra le tante signore di fama Ce n’è una più celebre ancor. Essa ha una bellissima casa In Piccadilly Street, Dove ha scritto a lettere d’oro “La venere ottentotta” Ma voi mi chiedete e capisco Che cosa diavolo ci fa lì; 169 Nel 1807, l’Impero Britannico promulgò lo Slave Trade Act, la legge che aboliva la tratta degli schiavi. Questa legge, però, più che porre un freno allo schiavismo ne ampliò enormemente le potenzialità di sfruttamento mercantile, trasformando gli schiavi in manodopera al servizio del capitale. L’umanitarismo dell’inglese African Association, che rese possibile la diffusione pubblica del caso della Venere nera e la conseguente vasta eco mediatica, celava proprio gli interessi della nuova classe borghese che si arricchiva su traffici globali di ogni tipo. 170 Cfr. l’intervista di Luca Barnabè a Abdellatif Kechiche, Ogni sguardo è responsabile, in Duellanti, n. 71, luglio 2011, pp. 36-37: «Ritengo che Venere nera sia soprattutto un film sul saper vedere ed essere visti. I registi degli spettacoli e gli scienziati della pellicola educano a guardare Saartjie come qualcosa di diverso e allora lei lo diventa per tutti, anche per sé stessa: un essere altro, difforme, un fenomeno da baraccone o da vivisezionare, proprio perché tutti la vedono così […]. Ogni sguardo degli altri ci definisce. Gli occhi di chi ci sta di fronte agiscono su di noi e sulla nostra identità».

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Quel che c’è in lei da vedere Più raro di tutti gli altri, È un sedere (vi sembra strano) Grande come un calderone, Per questo gli uomini vanno a vedere Questa bellissima ottentotta171.

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IL CAVALLO-MOTORE (DELLA STORIA) Il contributo più diretto di un animale domestico alle guerre di conquista euroasiatiche venne dal cavallo. I cavalli erano le jeep e i carri armati del passato. (J. Diamond)172

1. Lo sfruttamento estetico del cavallo soldato. Il cavallo non ha mai smesso di irrompere sugli schermi cinematografici e televisivi. Al galoppo nelle scintillanti produzioni delle major e dei network americani173, mestamente al passo in quelle d’autore della vecchia Europa ormai sull’orlo del baratro politico-economico. Il cavallo è sempre stato un potente archetipo cinematografico. Si potrebbe addirittura sostenere che il cinema nasca e si consolidi come fabbrica dell’immaginario collettivo grazie all’ottimizzazione dello sfruttamento simbolico del cavallo al lavoro. Parafrasando Max Weber, il consenso presuppone un dominio simbolico. È così un magnate dell’industria ferroviaria americana a finanziare nel 1872 a San Francisco uno dei primi esperimenti di quello che successivamente verrà chiamato “cinema”: un apparecchio in grado di catturare la cinestesia di corpi vivi restituendone l’afflato dinamico secondo i parametri dell’ideologia sviluppista del moto inteso dal colonialismo occidentale come conquista e sfruttamento. Fu all’inglese Eadweard Muybridge174 che venne commissionato il lavoro di collaudo di 171 Ballata ottocentesca cit. in Leslie Fiedler, Freaks. Miti e immagini dell’io segreto, trad. it. di E. Capriolo, il Saggiatore, Milano 2009, p. 145. 172 Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, trad. it. di L. Civalleri, Einaudi, Torino 1998, p. 66. 173 Il rinnovato interesse per il cavallo è particolarmente evidente in Luck, serie televisiva del network HBO diretta dal regista di culto Michael Mann. Ambientata nel mondo delle corse dei cavalli, ne fu sospesa la produzione, dopo solo sette episodi, ufficialmente a causa delle proteste delle associazioni animaliste per la morte di tre cavalli avvenuta durante le riprese. 174 Eadweard Muybridge è considerato l’inventore del fotodinamismo – ripreso anni dopo anche dai fotografi e cineasti futuristi italiani – e il precursore del cinema

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questo rudimentale sistema di ripresa capace di sfruttare le potenzialità fotodinamiche dei cavalli al galoppo:

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Lungo una pista su cui correvano alcuni cavalli erano sistemate ventiquattro cabine, delle camere oscure nelle quali ventiquattro operatori dovevano preparare ad un determinato segnale ventiquattro lastre di collodio umido (dato che con tale procedimento le lastre cessano di essere sensibili dopo pochi minuti, appena asciugatesi). Una volta caricati i ventiquattro apparecchi si lanciavano i cavalli sulla pista, e questi si fotografavano da soli spezzando i fili disposti sul percorso175.

È curioso notare come l’alba del percorso che porterà “l’Uomo” a dominare completamente la natura si sovrapponga quasi perfettamente alla preistoria del cine-spettacolo: in entrambi i casi il cavallo assurge a epitome del dinamismo volitivo di Homo sapiens-faber, passando senza scosse da motore (dell’ideologia) espansionista umana a simulacro dell’immaginemovimento. Se la storia dell’industria cinematografica è anche una storia di sfruttamento del lavoro vivo – maestranze, troupe, tecnici, autori, attori, ecc. – e di sfruttamento tematico176, il cavallo ne è il contraltare simbolico naturale, dando corpo al genere hollywoodiano per eccellenza, il western, e proseguendo a tappe forzate nella canonizzazione dell’epos pragmatista americano legato al mito di una frontiera che si sposta continuamente, perfino nella cesura dissenziente dell’Hollywood alternativa degli anni ’70 del secolo scorso (espressa, ad esempio, da Un uomo chiamato cavallo e da Corvo Rosso non avrai il mio scalpo) o nella retorica (bucolica) del cinema civile di poco successivo (espressa, ad esempio, da L’uomo che sussurrava così come lo intendiamo oggi. In The Horse in Motion (1878) utilizzò la tecnica della cronofotografia (serie di scatti in successione che si susseguono a intervalli di tempo brevi e regolari), tecnica in grado di evocare nello spettatore, dopo il montaggio in sequenza, la percezione di corpi in movimento. 175 Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale. Volume I. Dalle origini alla fine della II guerra mondiale, trad. it. di M. Mammamella, Feltrinelli, Milano 1978, p. 3. L’occhio umano è in grado di percepire l’illusione del movimento dei soggetti ripresi in un arco di tempo, detto “frequenza”, che corrisponde a 24 fotogrammi al secondo. 176 Con il termine inglese “exploitation” (sfruttamento) si classifica certo cinema marginale che sfrutta temi prossimi alla violenza e al sesso. Il filone che ha riscosso maggior fortuna commerciale e un’incondizionata ammirazione da parte dei cinefili è stato quello della cosiddetta Blaxploitation, genere che si è sviluppato intorno alle sottoculture delle metropoli americane e grazie al quale la minoranza afroamericana ha potuto rivendicare i propri diritti e contemporaneamente stigmatizzare l’ufficialità della cultura bianca della middle class.

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ai cavalli)177. Anche il cosiddetto cinema d’autore non è esente da pericolose riduzioni iconiche e il cavallo ancora una volta si presta a varie declinazioni metaforiche: dalla sessualità rimossa de La bestia all’inimbrigliabile ieraticità della natura di Melancholia178. In risposta al neo-cinema muscolare e iper-cinetico dell’effetto speciale digitale si sta assistendo a un’operazione di recupero della legittimità storica di una cineclassicità ormai compromessa, a una sorta di rielaborazione nostalgica che le consenta di riprendere la propria supremazia sull’immaginario collettivo. Si veda a tale proposito il clamore critico-mediatico con cui sono stati accolti due film paradigmatici dell’attuale riesumazione di cadaveri eccellenti utili per la formalizzazione dell’industria cinematografica futura: The Artist e Hugo Cabret179. War Horse (USA 2011) di Stephen Spielberg si inserisce a pieno titolo nel solco di questa celebrazione del grande cinema classico statunitense; esso recupera l’idea di un capitalismo fondativo e dal volto buono attraverso la mediazione feticista del cavallo che svolge il ruolo di icona del rinascimento obamiano, grazie al quale, ci era stato raccontato, si sarebbe realizzata l’era della fine delle discriminazioni. 2. La libertà secondo Spielberg. L’idea di libertà in Spielberg si traduce in una traslazione metaforica. I cavalli del Devon, aspra e incolta regione inglese, erano noti alle soglie dello scoppio della Prima guerra mondiale, periodo in cui War Horse è ambientato, per la robustezza e per la forza che venivano sfruttate nelle sterili terre dei latifondi di questa provincia. Un cavallo incapace di lavorare, ancorché bellissimo, non aveva motivo di esistere. Il prologo del film è così interamente calibrato sulla dicotomia selvaggio/libero da una parte e domazione/coercizione dall’altra. Joy, il nome assegnato al cavallo che compare nel film di Spielberg per poterlo ammettere nel campo dell’affettività sociale e nel campo cinematografico con il ruolo di coprotagonista non umano, nasce libero e vive i primi anni della sua esistenza in un edenico stato brado. Su di lui si concentra lo sguardo meravigliato ed empatico di Albert, il coprotagonista umano della pellicola interpretato da Jeremy Irvine. In questa sovrapposizione di sguardi, in cui l’occhio di Albert diventa l’occhio dello spettatore, e conseguentemente de “l’Umano”, già si percepisce il mito che fonda l’archetipo 177 Elliot Silverstein A Man Called Horse, USA 1970; Sydney Pollack, Jeremiah Johnson, USA 1972; Robert Redford, The Horse Whisperer, USA 1988. 178 Walerian Borowczyk, La bête, Francia 1975; Lars Von Trier, Melancholia, Danimarca 2011. 179 Michel Hazanavicius, The Artist, Francia 2011; Martin Scorsese Hugo, USA 2011.

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ideale della libertà secondo la costituzione hollywoodiana. L’idea, cioè, di un immaginario quanto irreale stato di grazia originario, successivamente corrotto dall’avidità del capitalismo di inizio secolo. Il contadino Ted Narracot (interpretato da Peter Mullan), padre di Albert, si scontra con il capitalismo tecnologico del ricco possidente Lyons. In tal modo, viene enucleata la dialettica che strutturerà le due facce della medaglia democratica-liberale nell’Europa del XX secolo. Il valore fondante della domazione/nominazione di Joy viene assorbito dal nucleo familiare a cui Albert appartiene – un padre alcolizzato da uccidere edipicamente e una madre concreta e comprensiva alla quale affidare la sua fragile psicologia di adolescente –, nucleo famigliare fin da subito contrapposto all’aberrante arroganza del latifondista privo di scrupoli che sfrutta i cavalli per ottimizzare il lavoro nei campi e così sbaragliare la concorrenza dei contadini. La libertà secondo Spielberg è quindi fondata sul mito familista dell’addomesticamento della natura, sulla trasformazione di questa in proprietà privata e sullo sfruttamento della forza lavoro animale, purché esteticamente rap/presentabile. La sequenza, che incrocia in dissolvenza le trame del tessuto che la madre di Albert tesse all’uncinetto con i solchi del campo che Joy è costretto ad arare, sottolinea come il lavoro – inteso come techné, qualità che connota Homo faber “liberandolo” dalle spire del caos che lo circonda – sia il nodo strategico da cui si dipana la poetica pragmatista del regista americano. Da Duel (1971) a Incontri ravvicinati (1977), da Lo squalo (1975) alla saga di Indiana Jones (1981-2008), fino alle incursioni nella storia con Schindler’s List (1993) e Salvate il soldato Ryan (1988), il perturbante, che si materializza nella paura dell’ignoto, nel mistero dell’alieno, nel fascino del meraviglioso e nell’orrore della guerra, viene soggiogato dalle facoltà su cui si è eretto il mito di Homo sapiens e che sostengono la mediocritas super-eroistica del sogno americano: l’intelligenza, la sagacia, l’astuzia, il senso del dovere e lo spirito di sacrificio. 3. La guerra e il cavallo-motore. Una delle sequenze più felici di War Horse è quella in cui Albert, in sella a Joy, sfida un suo coetaneo, appartenente a una classe sociale più elevata, alla guida di un’automobile: questa corsa sfrenata, che vede simbolicamente contrapposta la forza naturale del cavallo a quella tecnologica dei cavalli-motore, è una sorta di prologo alla Prima guerra mondiale. L’intuizione di Spielberg è fondata e traduce perfettamente la trasformazione di un’epoca ancora in balìa di arcaismi suggestivi e fortemente ancorata alla tradizione nella modernità senza futuro del XX secolo.

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L’irruzione distruttiva della storia nella trama della vita viene fatta coincidere dal regista con una guerra che, per la prima volta, coinvolge l’intero pianeta. Spielberg sorvola, però, sulla stretta connessione che corre tra l’indiscutibile sacralità della proprietà privata e l’intransigente devozione al combattimento. Difendere il territorio, il suolo, la nazione o la patria altro non è che l’applicazione su scala internazionale del paradigma della proprietà. Il teatro bellico della Prima guerra mondiale fu uno sterminato campo di battaglia dove poter sperimentare un immenso massacro a cielo aperto. La lotta individuale ingaggiata da Joy ha a che fare con i simulacri tecnologici di questo conflitto, i cavalli-vapore che permettevano ai treni carichi di corpi-soldato sacrificabili di muoversi. Corpi che sarebbero stati falcidiati dalle palle di fucile, dilaniati dai colpi di mortaio, recisi dai fendenti delle baionette, feriti dalle schegge delle granate. A Spielberg interessa la guerra in cui a fronteggiarsi sono il passato e il futuro, la purezza incontaminata delle origini, che grava sulla groppa di Joy, e la terrificante spietatezza della sofisticata macchina bellica moderna. Il pacifismo che War Horse profonde a piene mani ha lo stesso valore che scaturisce dal suo ambiguo “animalismo”. Spielberg non si interroga sulle conseguenze materiali della ridefinizione de “l’Umano” che dovrebbero discendere da una seria presa in carico della questione animale. Il suo sentimentalismo trae invece la propria linfa vitale dall’universalismo dei diritti umani che struttura le società intorno al confine normale/diverso – inglesi (buoni) / tedeschi (cattivi) –, ossia ancora una volta intorno alla dicotomia umano/animale. 4. Il cavallo è il migliore amico dell’uomo o anche l’uomo è il migliore amico del cavallo. Ripercorrendo le tracce antropomorfizzanti del classico intrattenimento popolare (War Horse è distribuito con il brand della Walt Disney Company), Spielberg traspone su Joy le qualità specifiche di tutto il suo cinema e ribadisce il discrimine che rende la specie umana così eccezionale. In tal modo, il regista americano realizza il proprio sogno, debitamente occultato ma sempre agognato, di una relazione fruttuosa tra umani e animali. Ovviamente, però, la gradazione amicale che viene a instaurarsi tra Albert e Joy si misura sulla base di caratteristiche tradizionalmente attribuite a “l’Umano”: eroismo, altruismo e martirio sono i parametri attraverso cui certificare l’autenticità di questa amicizia. Nel momento in cui Joy viene arruolato nelle fila della cavalleria britannica inizia il suo percorso di allontanamento da Albert che culminerà con la spettacolare fuga attraverso le trincee della Somme, non prima però di aver sperimentato, in un graduale percorso antropomorfizzante, la morte in battaglia dell’ufficiale a cui era stato affidato; la compassione di due

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fratelli tedeschi disertori; l’amicizia con un suo conspecifico dal manto corvino per il quale si sacrifica, sostituendolo nel titanico sforzo di trainare i cannoni dell’artiglieria pesante tedesca; l’innocenza contagiosa di Emily, una bambina che diventa sua compagna di giochi; l’alienazione e lo sfruttamento del lavoro coercitivo; la paura alimentata dalla guerra di trincea che prevede un incessante riposizionamento strategico degli eserciti nemici. Tappe queste che lo consegneranno definitivamente all’inclusività simbolica della specie umana – e al ricongiungimento con Albert, che però, accecato dal gas nervino, non lo riconosce immediatamente –, che a sua volta lo consegnerà a un destino di cattura metaforico-rappresentativa. Le affinità elettive tra i due coprotagonisti stabiliscono l’assimilabilità di un “Cavallo speciale” all’animale massimamente speciale, “l’Uomo”: il dominio umano si esplica attraverso una mediazione culturale organizzata nella polarità tecnico-simbolica della lingua e delle mani. Al cavallo non rimane che un nitrito disperato. 5. Spielberg e l’epos del cavallo soldato. Nell’Inghilterra dell’inizio del XX secolo l’immaginario mitopoietico del cavallo è ancora molto pervasivo. La sua costruzione simbolica è in grado di ordire una retorica capace di influenzare la realtà su più piani. Pur essendo ancora considerato semplice forza lavoro, rivaleggiando in tal modo con le più sofisticate innovazioni tecnologiche, il cavallo sfruttato si carica di una serie ben più ampia di significati che si modificano storicamente e che gli permettono di assumere di volta in volta valenze metaforiche differenti. L’uso massiccio del cavallo soldato sui fronti europei nel corso della Prima guerra mondiale è dovuto, oltre alle sue ben note caratteristiche fisiche (forza, capacità di adattamento e velocità), alla straordinaria empatia che era in grado di suscitare tra le fila delle terrorizzate truppe britanniche. I 65.000 war horses arruolati nell’esercito inglese rappresentavano la terapia adeguata per porre rimedio alla totale anaffettività che migliaia di soldati sperimentavano nelle gelide trincee di frontiera. Tantissime sono le testimonianze al proposito tramandate dai militari superstiti. È proprio il cavallo, infatti, a permettere loro di assegnare un senso nuovo alla vita e alla morte e, a volte, a consentirne addirittura la sopravvivenza. Il quadro storico ricostruito da Spielberg è stupefacente. Lo stesso vale per la maestria con cui proietta lo spettatore nella mischia bellica. Molto efficace, poi, è anche il modo con cui modula la tensione fra compassione, emozioni e senso del dovere. Tutto questo si risolve, però, in un’epica consolatoria in cui il cavallo funge da fustigatore di un’umanità che ha smarrito la sua origine divina. Nelle numerose sequenze in cui fa da muto con-

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trappunto messianico alle follie della guerra si percepisce chiaramente che Joy è sempre e comunque fuori campo, anche se continuamente inquadrato dall’obiettivo della macchina da presa: “l’Animale” abita sempre lo spazio esterno in cui “l’Umano” l’ha confinato. Spazio dal quale viene costantemente richiamato e al contempo rigettato dalle lacrime, dal terrore, dallo sgomento, dalla disperazione e dalla solitudine degli umani. In un certo senso, è proprio l’identità umana scissa dalla sua componente animale a evocare e materializzare la presenza risolutrice di Joy nelle situazioni più critiche. La sua romantica fuga dai campi di battaglia, sottolineata dall’enfatico score di John Williams, nelle brume appiccicose delle lande bruciate dai gas e dai fumi dei mortai, si infrange sui viluppi dilanianti del filo spinato che gli negano anche l’ultimo bagliore di libertà. In questo passaggio Joy si fa figura spettrale, la cui sofferenza muove a compassione le truppe contrapposte. Il suo lamento è il lamento di tutti gli animali sacrificati sugli altari dell’anestesia civilizzatrice. Un soldato inglese e uno tedesco lo liberano dal fitto intrico metallico che lo sta uccidendo. Poi, però, si contendono la sua libertà. Si giocano il suo possesso con una monetina. “L’Animale” viene elaborato da una vastissima produzione artistica e culturale sottoforma di intermediario tra il paradiso di Adamo e l’albergo di Adamo. Il margine continuamente riaperto da Joy, ossia la possibilità dello spazio tra i due eserciti di farsi spazio condiviso, viene malignamente rinchiuso nel mondo de “l’Uomo”, in quell’albergo di Adamo, magistralmente evocato da Adorno come nonluogo chiuso e autoreferenziale180, che segna il passaggio dal presunto paradiso edenico (l’originario stato brado di Joy) al fin troppo reale inferno terrestre instaurato dall’antropocentrismo (la trasformazione di Joy in macchina bellica, nel motore della storia narrata da Spielberg). Al termine della guerra e dopo aver ritrovato Albert che intanto ha miracolosamente riacquistato la vista, Joy, formalmente ancora proprietà dell’esercito inglese, viene messo all’asta. Il suo vincitore, l’anziano nonno di Emily, nel frattempo morta a causa di una grave malattia, lo dona però al “legittimo proprietario”. Albert può così ritornare nel Devon in groppa a Joy. Il padre e la madre vedono la sagoma dei due stagliarsi all’orizzonte, 180 Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, p. 329: «Un proprietario d’albergo, di nome Adamo, uccideva a bastonate i topi che sbucavano dal cortile davanti agli occhi del bimbo che gli voleva bene; a sua immagine il bimbo si è fatta quella del primo uomo». In queste poche righe viene riassunta l’intera parabola della nostra civilizzazione e l’opera nascosta dell’ideologia che, tramite l’ossessiva ripetizione dell’identico, trasforma l’orrore in qualcosa di naturale, di scontato.

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circonfusa dalla luce di un’alba infuocata. Albert riabbraccia il padre. Sua madre piange. Joy, in primissimo piano, irradia la sua aura protettrice. L’alba è sempre più rossa. L’ordine è ricostituito. Fine. 6. La nostalgia del cinema che verrà. Due varchi oltre la fine: a) Il corpo in tensione che tira un carro, il volto sfigurato dalla fatica, il morso che impone il passo cadente, i muscoli e i tendini tirati allo spasimo, gli occhi spenti, la bocca schiumante, la furia ostile del vento che ostacola il suo triste incedere, la polvere che lo avvolge, inghiottendolo. Un uomo lo vede e, inorridito, si disintegra. Questa scena atroce spingerà quest’uomo a presagire uno dei periodi più tragici dell’intera storia dell’umanità e lo condurrà ben presto oltre la soglia della follia181. b) A una carrellata sulle icone dipinte da Andrej Rubliov – pittore russo del ’400 – segue una breve sequenza di alcuni cavalli sotto la pioggia in prossimità della riva di un fiume, impassibili182

181 Bela Tarr, The Turin Horse, Ungheria 2011. La sequenza descritta rievoca il leggendario incontro di Nietzsche con un cavallo frustato a sangue da un vetturino torinese nel 1889. 182 Andrej Tarkovskij, Andrej Rubliov, URSS 1966. La sequenza descritta è l’epilogo del film, in cui il regista abbraccia, attraverso la figura del grande pittore di icone, 23 anni di sofferente storia russa, dal 1400 al 1423.

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II RESISTENZE CORPOREE

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SORVEGLIARE / (RIS)VEGLIARE / DORMIRE Confondiamo il nostro tornaconto con quello della natura. Addormentarsi è il problema, non svegliarsi, stimatissimo signore. (T. Bernhard)1 Mi avete rotto il cazzo con l’immagine! (M. Bellocchio)2

1. Corpo del reato – Sorvegliare / Risvegliare. In Bella addormentata – titolo che con l’elisione dell’articolo determinativo suggerisce una ricercata ambiguità – Marco Bellocchio rimanda all’universalità archetipica della fiaba, coniugata però al presente, in un continuo oscillare tra realtà e verosimiglianza, in cui ogni spettatore può identificarsi. Il film è ispirato agli ultimi sei giorni di vita di Eluana Englaro che, nel febbraio del 2009, turbarono le coscienze degli italiani. La storia è nota: nel rispetto della volontà della ragazza, ricostruita dalle testimonianze di coloro che le furono più vicini, e a seguito dell’accoglimento da parte della magistratura dell’istanza giudiziaria inoltrata dal padre Beppino, la famiglia Englaro decide, dopo 17 anni di coma vegetativo, di interrompere l’alimentazione forzata che mantiene in vita Eluana. Bellocchio costruisce il suo film intorno a due poli narrativi che, pur non interferendo l’uno con l’altro, ne denotano il senso, condizionando la visione e le riflessioni dello spettatore. Il primo presenta la vicenda Englaro nella versione pubblica e ufficiale che i media trasformarono in “caso”. Il secondo, sfuggendo alle strette maglie della pervasività mediatica e dell’infotainment, stabilisce con lo spettatore un patto di complicità basato sulla 1 2

Thomas Bernhard, La partita a carte, trad. it. di M. Olivetti, Einaudi, Torino 1983, p. 63. Colorita espressione del senatore Uliano Beffardi interpretato da Toni Servillo nel film Bella addormentata di Marco Bellocchio, Italia 2012.

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sospensione di incredulità che si esplica mediante il ricorso all’universo fiabesco e allo stile grottesco. Il primo polo narrativo rappresenta il modo in cui la sovranità statuale tenta, con grande imbarazzo e maldestramente, di fornire risposte sulla questione del “fine vita” – risposte difficilmente trasferibili sul piano giuridico. Il secondo, grazie alla tecnica narrativa e all’immersione nell’inconscio collettivo, rende invece tangibile e attualizza la paura della morte. La realtà ridefinita dai media disciplinari, tra i quali la neo-televisione gioca un ruolo preponderante, necessita dei requisiti dell’autenticità e dell’accettabilità per poter dispiegare tutta la sua forza e per poter ridisegnare i confini tra verità e verosimiglianza, per poter esplicare il proprio dominio pervasivo sulle coscienze individuali e sull’immaginario collettivo. La fiaba, da cui il cinema eredita l’archetipicità e l’universalità tematica, rappresenta invece la possibilità di raccontare l’indicibile, offrendo una molteplicità di interpretazioni di contro alla verità codificata e a senso unico delle istituzioni. La pellicola struttura e organizza il suo impianto narrativo sulla dicotomia sorvegliare/risvegliare. I due termini rimandano a quel tenere d’occhio che le istituzioni si prefiggono in quanto dispositivi di potere intesi a esercitare un controllo capillare sugli individui: da un lato preoccupandosi della sorte dei cittadini affinché interpretino regolarmente i loro ruoli e non contravvengano alle leggi, dall’altro arrogandosi il diritto di ridestare e di ravvivare quelle stesse esistenze le cui coscienze assopite altro non sono che il frutto di una diffusa letargia sociale. Il film inizia facendo cortocircuitare questi due dispositivi di cui la società dello spettacolo sfrutta la pervasività. Un ragazzo, ripreso in primo piano da una telecamera digitale, rivolgendosi direttamente allo spettatore esclama: «Svegliati, Eluana!». Nello stacco successivo si vede la prima pagina di un noto quotidiano nazionale che titola: L’ultimo viaggio di Eluana, allusione al trasferimento del corpo della donna nella clinica “La Quiete’” di Udine dove la nutrizione artificiale verrà interrotta. Il giornale è nelle mani di Uliano Beffardi3, senatore del partito di maggioranza che governa il Paese. Contemporaneamente su uno schermo televisivo scorrono alcune 3

Sui nomi che Bellocchio assegna ai suoi personaggi si potrebbe scrivere un intero saggio. Va però sottolineato come essi, al pari delle fiabe, rimandino a principi assoluti e universali, evochino densità simboliche o suggeriscano il grottesco. Come afferma lo stesso regista in un’intervista apparsa in Duellanti, n. 78, ottobre 2012, p. 7: «I nomi sono beffardi, sono degli scherzi. In una sintesi cinematografica quello che normalmente richiederebbe tempi più lunghi lo si ottiene in pochi secondi».

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Resistenze corporee

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immagini di repertorio che ritraggono Berlusconi, allora primo ministro, mentre sproloquia sulla vicenda, inanellando una serie di gaffe che i media useranno per sfamare gli appetiti di un’opinione pubblica morbosamente dipendente dai casi di cronaca nera. Il senatore è visibilmente infastidito e annoiato. Questa è la prima marca attraverso cui Bellocchio ritrae l’insofferenza di Beffardi nei confronti di una classe politica indifferente ai problemi che affliggono la società italiana, una classe politica sorda e cieca ai bisogni e alle aspirazioni del Paese. La retorica falsa e mistificatoria della mediasfera si è sovrapposta alla fragile, eppure ancora vitale, materialità dei corpi. Come corpo del reato, Eluana, sospesa tra la vita e la morte, rappresenta la presenza/assenza (Bellocchio, intelligentemente, non mostra mai il volto della donna in coma, scelta questa ineccepibile anche dal punto di vista etico) che costituisce il contraltare visionario e immaginifico della morbosa oscenità promossa dalle immagini televisive e dalle notizie giornalistiche. Il corpo di Eluana, fantasma reale di tutto quello che non è e potrebbe essere, è l’eco di una vitalità compromessa dall’illusoria felicità del quieto vivere borghese sostenuto dalle istituzioni del potere disciplinare. Bellocchio, quindi, denuncia ancora una volta lo stretto legame che corre tra ospedali, nuclei familiari, chiese, questure, Parlamento – cioè tra quei dispositivi attraverso cui la biopolitica dispiega il proprio potere di controllo sulla vita – e rimette in circolo il fantasma della libertà, il fantasma di quella libertà continuamente evocata e mai realizzata dal capitale4. 2. Sorvegliare / Vegliare. Come detto, Bellocchio articola la sua parabola narrativa sul dispositivo della sorveglianza, facendo ricorso a una molteplicità di personaggi e situazioni e sviluppando un punto di vista sfaccettato in cui l’ufficialità del discorso pubblico slitta continuamente nel privato dei protagonisti che, coralmente, danno vita a un racconto morale sulla veglia. In questo senso, allora, un’altra antinomia intorno a cui il film si struttura è quella sorvegliare/vegliare o, forse, meglio ancora, l’antinomia principale è quella tra il sorvegliare/risvegliare istituzionale e lo scarto dissenziente messo in atto dai corpi sorvegliati/vegliati all’interno della sfera domesti-

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L’ossessione per le istituzioni disciplinari è una costante del cinema di Bellocchio: la famiglia in pellicole come I pugni in tasca, Italia 1965 e Nel nome del padre, Italia 1971; la caserma in Marcia trionfale, Italia /Francia/Germania 1976; gli ospedali e gli istituti psichiatrici in Matti da slegare, Italia 1975; la Chiesa ne L’ora di religione, Italia 2002; fino ai grandi affreschi della storia politica del nostro Paese in Buongiorno, notte, Italia 2003 e Vincere, Italia/Francia 2009.

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ca. Conseguentemente, il regista insiste sulla polarizzazione degli attori sociali negli spazi fisici e metaforici del pubblico e del privato. Uliano Beffardi è vittima del controllo esercitato dal suo stesso partito che confina il suo agire politico nei luoghi deputati alla rappresentazione del potere dove viene sorvegliato-vegliato: le sale di riunione, le camere del Parlamento e il bagno turco nei sotterranei del Senato sono metafore della mise en abyme dei principi che fondano la democrazia. I due fratelli Roberto e Pipino sono anch’essi vettori di questo intreccio tra sorveglianza e veglia: il fratello “normale” sorveglia-veglia quello borderline affinché non faccia male a se stesso e agli altri. E ancora, il dottor Pallido sorvegliaveglia Rossa nel letto dell’ospedale in cui lavora affinché non si suicidi. La Divina Madre, ex diva del cinema sul viale del tramonto (professionale e psicologico), sorveglia-veglia la figlia Rosa in stato di coma, sperando che si risvegli. Se la sorveglianza delle istituzioni disciplinari viene garantita pubblicamente dalle sue protesi mediatiche, la veglia, intesa qui come assistere e prendersi cura dell’altro, è riservata alla sfera privata delle relazioni interpersonali familiari e affettive. Le immagini televisive di repertorio mostrate da Bellocchio invadono tutti gli spazi in cui si consumano le esistenze dei protagonisti e i loro rapporti sociali e privati. Come sostiene Marineo: Le forme di sperimentazione del controllo sociale, che ormai sono al centro del nostro orizzonte domestico, lavorativo, cittadino e, per accumulo, psicologico, rappresentano al meglio […] quello spettacolo integrato profetizzato da Debord che analizzava le sovrapposizioni tra spazio privato e spazio pubblico: la proliferazione tumorale e pervasiva con cui le videocamere e gli altri occhi artificiali oggi monitorano qualsiasi spazio dell’agire pubblico e parte di quello privato spinge i cittadini a restringere il proprio agire sociale limitandolo spesso al solo momento del consumo (anche questo sorvegliato e tassonomizzato come mai prima d’ora), perché diffidenti rispetto ad una realtà comune – le strade, le piazze, i negozi, gli uffici pubblici – in cui la socialità pare essere regolata da una fortissima istanza poliziesca5.

La veglia come accudimento dell’altro, del corpo mortale prossimo a quello degli animali, è allora una concessione dello Stato sovrano ai propri sudditi, che in questo modo si sentono investiti di un potere che in realtà non possiedono e che, invece, è sublimato nella pietà, nell’amore e nell’afflato religioso. L’attenzione di Pallido per la sorte di Rossa è dettata dalla pietà che la vita ai margini della tossicodipendente suscita nel me5

Franco Marineo, L’al di qua di reality, in Segno Cinema, n. 179, febbraio 2013, p. 5.

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dico. L’amore di Roberto per Maria, la figlia bigotta del senatore Beffardi, lo distoglie dal ruolo di tutore della pazzia di Pipino. Infine, la Divina Madre sembra accentrare su di sé le strategie consolatorie dell’istituzione religiosa cattolica. Negli episodi che la riguardano, Bellocchio si affida al registro grottesco della fiaba accettando il rischio di scivolare nell’implausibilità aliturgica del cinema, implausibilità così efficacemente inibita dai reality show della televisione. Non è allora sorprendente che la casa in cui “riposa” Rosa assuma le sembianze di un castello, la Divina Madre quelle della regina-strega-matrigna, suo marito quelle del re fallito e impotente, Federico, il fratello di Rosa, quelle del Principe Azzurro e Rosa quelle della bella addormentata; su tutti, la televisione diventa lo specchio delle brame in una continua sovrapposizione di scene madri che rimandano alle favole dei fratelli Grimm e alle loro versioni borghesi nell’opera di Perrault. Ma c’è di più. Bellocchio ci fa vedere attraverso gli occhi di Federico una sequenza tratta dal film di Bolognini La storia vera della signora delle camelie6, in cui Isabelle Huppert (la stessa attrice che recita il ruolo della Divina Madre nella pellicola di Bellocchio) interpreta Alphonsine Plessis, il personaggio del dramma La signora delle camelie (1848) di Alexandre Dumas figlio, da cui Giuseppe Verdi trasse ispirazione per La traviata. Alphonsine è una ragazza di provincia che, giunta a Parigi, è di fatto costretta, per perseguire le sue speranze di riscatto sociale, dapprima a prostituirsi e in seguito a sposarsi con un ricco aristocratico, prendendo il nome di Marie Duplessis e trasformandosi in Divina Marie. La sequenza utilizzata da Bellocchio mostra Alphonsine mentre si sta recando in un mattatoio per curare l’anemia congenita da cui è afflitta: la terapia consiste, infatti, nel bere il sangue di un bue appena scannato. La vita dissoluta di Alphonsine ne ha compromessa la già fragile salute e, come tutte le donne, anche lei soffre di perdite di sangue. La sequenza di Bolognini è reale. Non ci sono trucchi o artifici. L’animale ucciso e il mattatoio sono autentici7. Bellocchio sfrutta l’espediente del tran6 7

Mauro Bolognini, La storia vera della signora delle camelie, Italia 1981. Non è una forzatura sottolineare che Bellocchio utilizza questa sequenza per stigmatizzare la struttura violenta e coercitiva del dispositivo istituzionale qui letteralmente “incarnato” dal mattatoio. L’equazione tra il sangue dell’animale e il corpo della prostituta indica come lo sfruttamento del capitale, già a metà dell’Ottocento, si eserciti direttamente sui corpi, ridotti a merce di scambio: il sangue per la salute, il sesso per l’emancipazione. Questa struttura di oppressione sui corpi vivi completerà il suo tragitto di trasformazione in ideologia quando le tecnologie della comunicazione di massa forniranno al sistema capitalista la possibilità di operare un controllo pressoché totale sulla società, legittimando con ancor più forza che in passato l’ineguaglianza sociale e le discriminazioni di specie, di “razza” e di genere.

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sfert per accostare la Divina Marie – l’ex prostituta Alphonsine – alla Divina Madre – l’attrice/diva madre di Rosa –, espediente che gli permette di metaforizzare il passaggio tra la vita e la morte e tra lo stato di veglia e il sonno, compiendo così un prodigioso ribaltamento di senso rispetto sia al film di Bolognini sia all’oscenità dell’informazione televisiva8. Il sangue e la morte, da esclusivo appannaggio di uno sguardo compiaciuto e morbosamente autoreferenziale, diventano in Bella addormentata i punti cardinali di un percorso sonnambolico in cui il desiderio apre squarci di potenzialità ancora tutte da esplorare. Ecco allora che la “recita” allestita dalla Divina Madre per sorvegliare-vegliare Rosa, la figlia addormentata, finisce per essere la versione rituale che costituisce ogni rapporto di potere. La ritualità della Chiesa cattolica è il modo per risolvere le abissali questioni poste dalla vita e dalla morte: Il regime di verità istituito dal cristianesimo non può infatti ridursi al dogma e alla credenza. Insieme e oltre al contenuto della credenza, esiste un atto di verità e, oltre e insieme alla professione di fede, esiste l’obbligo per gli individui di stabilire con se stessi un rapporto di verità e insieme di produrre la propria verità con effetti che esorbitano l’ordine della conoscenza9.

Nella casa della Divina Madre gli specchi sono coperti e la televisione trasmette unicamente immagini tratte da documentari sulla vita degli ippopotami. La possibilità del divenire, tutto da interpretare e privo dei coefficienti di verità e giustizia attraverso cui il potere organizza il proprio discorso, è riservata da Bellocchio al sogno. Anzi al sonno, che diventa un chiamarsi fuori dalla realtà. Non una resa ma un’astensione; meglio ancora, delle vere e proprie dimissioni, come quelle che il senatore Beffardi consegna ai dirigenti del suo partito. 3. Dormire. Si è visto come per Bellocchio la sfera pubblica coincida con quella mediatica-istituzionale e come le forme dell’agire politico non siano più un’emanazione della volontà popolare. L’effettualità del diritto, un insieme di regole che stabiliscono il contratto sociale, si realizza sollecitando la sensibilità della comunità ad essere parte attiva nelle questioni che riguarda8

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Successivamente alla sequenza del film di Bolognini, Bellocchio inserisce, magistralmente, l’infelice dichiarazione di Berlusconi in cui sosteneva candidamente che se Eluana Englaro avesse mantenuto il ciclo mestruale, ciò avrebbe significato che era ancora in grado di procreare e quindi che era di fatto un corpo vivo e produttivo. Michele Spanò, L’ignota tragedia della soggettività, ne il manifesto, 15 dicembre 2012, p. 10.

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no la sfera degli “assoluti”, servendosi degli apparati mediatici di massa per sedimentare il senso comune nella cosiddetta opinione pubblica. Ai cittadini viene concessa l’indignazione e la possibilità di partecipare – da protagonisti o da semplici comparse – alla recita della democrazia rappresentativa. È solo quando ci si addormenta, ci dice lucidamente Bellocchio, quando cioè la coscienza pubblica e civile si assopisce, che acquisiamo la possibilità di sfuggire al controllo della società disciplinare e di congedarci dalla vita pubblica. È nel sonno che ricominciamo a vivere, smarrendoci nella zoé comune a tutti gli esseri viventi. Attenzione, però, a non confondere il sonno con il sogno. Qui, infatti, non è questione di onirismo, ma della capacità e delle volontà di essere inattuali. In opposizione alle trame dell’inconscio che la psicologia quasi sempre riconduce a Edipo, Bella addormentata ci mostra la possibilità di abbandonarsi al nulla, a un’estraniazione dal reale come “gesto sublime”. I personaggi chiave di Bella addormentata sono, infatti, quelli che tradiscono la vita. Il senatore Beffardi realizza il desiderio di commiato alla vita della moglie in stato terminale e la “uccide”, così come “uccide” la sua vita pubblica dimettendosi dal partito. La straordinaria bellezza di Rosa è data dal suo stato di addormentata, dal rilassamento di un corpo che diventa lo schermo su cui viene proiettata la frustrazione dell’agire dei singoli cittadini-personaggi e che fa impazzire la madre che, trovando nella fede una nuova dimensione recitativa, si trasforma da “diva” in “divina”. È, tuttavia, su Rossa che convergono le riflessioni del regista ed è sempre a partire da lei che si dipanano i nodi disseminati lungo l’intero svolgimento dell’opera. Rossa, già segnata dalla tossicodipendenza e dunque marginale rispetto alla res publica, è l’unico personaggio – ovviamente e ancora una volta femminile – che decide volontariamente di abbandonarsi al sonno. E lo fa come presa di coscienza. Dopo essere stata sedata a seguito dell’ennesima crisi d’astinenza e dopo aver tentato il suicidio, viene presa in cura dal dottor Pallido che l’assiste amorevolmente. Ad un certo punto questi, stremato dalla stanchezza, si addormenta sulla sedia posta di fronte al letto della paziente. Rossa si sveglia, apre la finestra, sta per buttarsi; poi ci ripensa, toglie le scarpe all’uomo che le sta di fronte e sorride. Pallido socchiude gli occhi e vede Rossa che gli dice: «Non te ne sei accorto, ma ero sveglia». Subito dopo Rossa si rimette sotto le lenzuola, si gira e si addormenta. Il film, che iniziava con una sorta di auspicio profetico («Svegliati, Eluana!»), finisce con un invito ad abbandonarsi alla dolcezza e alla bellezza gratuite del sonno: Buongiorno, notte10. 10

Il titolo ossimorico di questo film di Bellocchio esplicita chiaramente lo stato di veglia-sonno continuo a cui fu costretto Aldo Moro durante i giorni della sua pri-

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UN VERO NEGRO

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Sotto gli ambiti in cui crepano a milioni i coolie della terra, andrebbe poi rappresentata l’indescrivibile, inimmaginabile sofferenza degli animali, l’inferno animale nella società umana, il sudore, il sangue, la disperazione degli animali. (M. Horkheimer)11

1. I dannati della terra e gli animali. Frantz Fanon, di origini martinichesi, di formazione francese e algerino per necessità, contribuì come pochi altri, sul piano teorico e su quello materiale, alle lotte di liberazione postcoloniali. Il saggio I dannati della terra12, pubblicato postumo nel 1961, è senza dubbio il suo maggiore lascito intellettuale, al contempo analisi rigorosa del sistema coloniale, programma politico per la liberazione e inestimabile documento storico. Ne I dannati della terra, anche se sono sempre passati inosservati, gli animali e l’animalità rappresentano una delle presenze più costanti e sono fondamentali per la comprensione del pensiero dell’autore. 2. Marx e l’antropologia colonialista. I dannati della terra è un testo estremamente lucido. Con chiarezza invidiabile, Fanon propone una diagnosi senza sconti del sistema coloniale – «L’Europa è letteralmente la creazione del Terzo Mondo»13, in quanto «il benessere e il progresso dell’Europa sono stati edificati col sudore e i cadaveri dei negri, degli arabi, degli indiani e dei gialli»14 –, denuncia l’«ibernoterapia»15 a cui i popoli colonizzati vengono sottoposti dalle loro stesse élite dirigenti, delinea una connessione tra sfruttamento coloniale e patologia mentale, anticipando molte delle successive acquisizioni dell’antipsichiatria16, rivendica la necessità di affiancare alla lotta di liberazione l’elaborazione di una cultura autonoma rispetto a quella europea17, riconosce l’importanza della dissimulazione

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gionia. Le forme estreme di reclusione, infatti, non permettono un’esatta percezione dello scorrere del tempo, per cui si entra in una sorta di stato sonnambolico in cui è difficile distinguere la realtà della prigione con il sogno di risvegliarsi liberi. Max Horkheimer, Il grattacielo, in Crepuscolo. Appunti presi in Germania 19261931, trad. it. di G. Backhaus, Einaudi, Torino 1977, p. 69. Frantz Fanon, I dannati della terra, trad. it. di C. Cignetti, Einaudi, Torino 2007. Ivi, p. 57. Ivi, p. 53. Ivi, p. 28. Ivi, pp. 175-225. Ivi, p. 144: «Il negro che non è mai stato così negro come quando è dominato dal bianco, quando decide di dar prova di cultura […], s’accorge […] che è necessa-

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linguistica nel facilitare le pratiche di oppressione18 ed è conscio del ruolo della “questione femminile” nell’ambito delle lotte di liberazione19. In questo contesto, si inserisce anche quello che si potrebbe considerare uno degli snodi centrali del saggio, ossia la necessità imposta dal «problema coloniale» di ampliare «le analisi marxiste», di ripensare Marx20. Ripensamento dettato sia da motivi meramente fattuali: Nei paesi capitalisti il proletariato non ha nulla da perdere, è quello che, eventualmente, avrebbe tutto da guadagnare. Nei paesi colonizzati il proletariato ha tutto da perdere. Rappresenta infatti la frazione del popolo colonizzato necessaria e insostituibile per il buon andamento della macchina coloniale21,

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che da motivi di altra natura che appaiono, se possibile, ancor più importanti: Quando si scorge nella sua immediatezza il contesto coloniale, è evidente che ciò che divide il mondo è innanzitutto il fatto di appartenere o meno a una data specie, a una data razza. In colonia, l’infrastruttura economica è pure una sovrastruttura. La causa è la conseguenza: si è ricchi perché si è bianchi, si è bianchi perché ricchi […]. A dispetto dell’addomesticamento ben riuscito, nonostante l’appropriazione, il colono rimane sempre uno straniero. Non sono né le officine, né le proprietà terriere, né il conto in banca a caratterizzare in primo luogo la “classe dirigente”. La specie dirigente è innanzitutto quella che viene da fuori, quella che non assomiglia agli autoctoni, “gli altri”22.

Per mezzo di una inconsueta torsione del concetto di «straniero» e di «altro», Fanon sostiene che la differenza tra colonizzatori e autoctoni non è basata su un ordine, seppur questionabile, di tipo economico, ma su qualcosa di ancor più ripugnante: un’inaggirabile (in quanto tautologica) differenza antropologica, che si fonda su aspetti meramente biologici e che trascende perfino il concetto di razza per configurare una contrapposizione tra specie radicalmente differenti e in grado di relazionarsi solo attraverso il linguaggio e le pratiche dell’addomesticamento.

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rio, per lui, rivelare una cultura negra». Ivi, p. 125: «L’impresa di oscuramento del linguaggio è una maschera dietro la quale si profila una più vasta impresa di spoliazione». Ivi, p. 135: «Il paese sottosviluppato deve guardarsi dal perpetuare le tradizioni feudali che consacrano la precedenza dell’elemento maschile sull’elemento femminile. Le donne riceveranno un posto identico agli uomini non negli articoli della costituzione, ma nella vita quotidiana, in fabbrica, a scuola, nelle assemblee». Ivi, p. 7. Ivi, p. 62. Ivi, p. 7 (corsivi aggiunti).

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Tale differenza antropologica costituisce l’impianto dell’intero discorso fanoniano in quanto permette di interpretare i più svariati aspetti del mondo coloniale, a partire, ad esempio, dalla presunta maggiore incidenza della criminalità nella società algerina che sia i francesi sia Fanon analizzano ricorrendo all’analogia con ciò che ritengono essere “l’Animale”. Da un lato, infatti, il professor Porot non esita a sostenere che la spiegazione della delinquenza degli algerini vada ricercata nella struttura del loro sistema nervoso centrale:

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L’indigeno nordafricano, le cui attività superiori e corticali sono poco sviluppate, è un essere primitivo la cui vita essenzialmente vegetativa e istintiva è soprattutto regolata dal diencefalo23,

per cui, come sostiene un prefetto, a questi esseri naturali […] bisogna contrapporre quadri rigorosi e implacabili. Bisogna soggiogare la natura, non convincerla24.

E dall’altro Fanon stesso che spiega il fenomeno facendo ricorso a categorie “etologiche”: I veterinari potrebbero illustrare questi fenomeni evocando il celebre “peakorder” constatato tra gli animali da cortile. Il granoturco è difatti oggetto d’una gara implacabile. Certi volatili, i più forti, divorano tutti i chicchi, mentre altri meno aggressivi dimagriscono a vista d’occhio. Ogni colonia tende a diventare un immenso pollaio, un immenso campo di concentramento in cui la sola legge è quella del coltello25.

Analoga è la griglia concettuale che viene utilizzata per spiegare le “defezioni” nel campo avversario, defezioni che vengono interpretate come una sorta di “salto genetico” da una specie a un’altra: [Il popolo colonizzato] constata che certi coloni non partecipano all’isteria criminale, che si differenziano dalla specie. Questi uomini, che venivano respinti indifferentemente nel blocco monolitico della presenza straniera, condannano la guerra coloniale. Lo scandalo scoppia davvero quando i prototipi di questa specie passano dall’altra parte, si fanno negri o arabi e accettano le sofferenze, la tortura e la morte26. 23 24 25 26

Ivi, p. 218. Ivi, p. 220. Ivi, p. 223 (corsivo aggiunto). Ivi, p. 90 (corsivi aggiunti).

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In questi passaggi, anche se non sembra riuscire a smarcarsi dalla contrapposizione tra “l’Umano” e “l’Animale”, Fanon è comunque consapevole che la condizione del colonizzato condivide una qualche forma di affinità con quella tradizionalmente assegnata agli animali non umani. Ecco alcuni altri esempi: Se le condizioni di lavoro non sono modificate, ci vorranno secoli per umanizzare un mondo reso animale dalle forze imperialiste27; Per [i dirigenti politici delle società colonizzate], militare in un partito nazionale, non è far politica, è scegliere il solo mezzo per passare dallo stato animale allo stato umano28;

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Il colonizzato che non ha preso le armi solo perché moriva di fame e assisteva al disgregarsi della sua società, ma anche perché il colono lo trattava come una bestia, si mostra molto sensibile a queste misure [modeste concessioni da parte dei coloni] […]. La fame del colonizzato è tale, la sua fame di qualsiasi cosa lo umanizzi – persino a prezzo ribassato – è a tal punto incoercibile, che queste elemosine pervengono localmente a scuoterlo […]. Il lupo impetuoso che voleva divorare tutto […] minaccia […] di diventare irriconoscibile29; La massa informe del popolo è percepita come forza cieca che si deve continuamente tenere al guinzaglio30; Il risultato coscientemente ricercato dal colonialismo era di ficcar in testa agli indigeni che la partenza del colono avrebbe significato per loro ritorno alla barbarie, incanagliamento, animalizzazione31; Sotto l’occupazione tedesca i francesi erano rimasti uomini. Sotto l’occupazione francese, i tedeschi sono rimasti degli uomini. In Algeria, non c’è soltanto la dominazione, ma alla lettera la decisione di non occupare, tutto sommato, se non un suolo. Gli algerini, le donne in haik, i palmeti, i cammelli formano il panorama, lo sfondo naturale della presenza umana francese32; Disciplinare, addestrare, domare e oggi pacificare sono i termini più impiegati dai colonialisti nei territori occupati33.

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Ivi, p. 56. Ivi, pp. 74-75. Ivi, pp. 86-87. Ivi, p. 120. Ivi, p. 143. Ivi, p. 176. Ivi, p. 220.

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Fanon propone insomma un’analisi della situazione coloniale che vede nella riduzione degli oppressi a “l’Animale”, il meccanismo che mette in relazione ideologia giustificazionista e sfruttamento materiale, permettendo loro di potenziarsi a vicenda: Le atrocità sollevano un’indignazione minore, quanto più le vittime sono dissimili dai normali lettori, quanto più sono «more», «sudice» […]. Forse lo schema sociale della percezione presso gli antisemiti è fatto in modo che essi non vedono gli ebrei come uomini. L’affermazione ricorrente che i selvaggi, i negri, i giapponesi, somigliano ad animali, o a scimmie, contiene già la chiave del pogrom. Della cui possibilità si decide nell’istante in cui l’occhio di un animale ferito a morte colpisce l’uomo. L’ostinazione con cui egli devia da sé quello sguardo – «non è che un animale» – si ripete incessantemente nelle crudeltà commesse sugli uomini, in cui gli esecutori devono sempre di nuovo confermare a se stessi il «non è che un animale», a cui non riuscivano a credere neppure nel caso dell’animale34.

3. Il fondo inalienabile dell’antropologia occidentale. Non si può, allora, che provare un certo stupore quando Fanon ricorre allo stesso schema concettuale per definire i propri nemici e per incitare i popoli oppressi alla lotta di liberazione. Anche in questo caso gli esempi abbondano, tanto da non lasciare alcun dubbio che non si abbia a che fare con una “svista”, ma piuttosto con una sorta di “ritorno del rimosso”35, del ritorno spettrale di qualcosa che non è passato attraverso un’adeguata elaborazione critica: Il colonialismo non è una macchina pensante, non è un corpo dotato di ragione. È la violenza allo stato di natura36; Alcuni [degli appartenenti alla classe dirigente dei regimi postcoloniali] mangiano a diverse greppie […]. I corvi sono oggi troppo numerosi e voraci in rapporto alla scarsezza del bottino nazionale37;

34 35

36 37

Theodor W. Adorno, Minima moralia, Meditazioni della vita offesa, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 2005, p. 117. Vale, forse, la pena di sottolineare che nella sezione intitolata Guerra coloniale e disturbi mentali (Frantz Fanon, I dannati della terra, cit., pp. 175-225), in cui vengono riportate le storie cliniche di alcuni pazienti con disturbi psichici attribuibili al loro ruolo sociale nell’ambito del sistema coloniale, non è infrequente la comparsa di sogni e fantasie dove gli animali giocano un ruolo da protagonisti (cfr., ad esempio, ivi, pp. 181, 184 e 190). Ivi, cit., p. 24. Ivi, p. 111.

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I ricchi cessano di essere uomini rispettabili, non sono altro che animali carnivori, sciacalli e corvi che si rotolano nel sangue del popolo38.

In altri termini, il pensiero di Fanon non sembra riuscire a liberarsi da una situazione di contraddittorietà: da un lato ci offre uno spaccato impietoso della condizione coloniale esponendo la logica svalutativa degli oppressori basata sull’invenzione de “l’Animale”; dall’altro, però, non mette in discussione quello che Horkheimer e Adorno definiscono il «fondo inalienabile dell’antropologia occidentale», ossia l’idea millenaria secondo cui “l’Uomo” può darsi solo come «distinzione dall’animale»39, uno dei cui risultati è proprio l’organizzazione sociale fortemente gerarchizzata e indissolubilmente legata a logiche di dominio sull’Altro (la natura, i non umani, i “selvaggi”, le “classi subalterne”, ecc.). Il seguente passaggio de I dannati della terra è un esempio illuminante di questa contraddizione irrisolta: A volte tale manicheismo spinge fino in fondo la sua logica e disumanizza il colonizzato. A rigor di termini, lo animalizza. E, difatti, il linguaggio del colono, quando parla del colonizzato, è un linguaggio zoologico. Si fa allusione ai movimenti serpeggianti dell’indocinese, agli effluvi della città indigena, alle orde, al puzzo, al pullulare, al brulicare, ai gesticolamenti. Il colono, quando vuole descrivere bene e trovare la parola giusta, si riferisce costantemente al bestiario […]. Il colonizzato sa tutto questo e ride di cuore ogni volta che si scopre animale nelle parole dell’altro. Poiché sa di non essere un animale. E proprio nel momento stesso in cui scopre la sua umanità, comincia ad affilare le armi per farla trionfare40.

Tale passaggio mostra come Fanon, pur contrapponendosi frontalmente al colonialismo, non si smarchi dal «manicheismo zoologico» a questo connaturato. Il colonizzato prende atto «di non essere animale» nell’accezione formulata dalla nostra cultura specista e, così facendo, si autoesclude da ogni possibile relazione con l’altro degli animali, continuando a negarlo nella ripetizione automatica del medesimo gesto incessantemente compiuto dal colonizzatore. Da qui quell’«ironico capovolgimento»41, quella inconsueta torsione a cui si è accennato in precedenza, in cui è il colono a diventare quello che è sempre stato e ancora è per noi il colonizzato: «stra38 39 40 41

Ivi, p. 127. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1980, p. 263. Frantz Fanon, I dannati della terra, cit., p. 9 (corsivo aggiunto). Ivi, p. 43.

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niero» e «altro». Da qui, il continuo richiamo alla necessità di elaborare un «nuovo umanesimo»42, che essendo categoria squisitamente occidentale, diventa di difficile declinazione all’interno delle coordinate del pensiero di Fanon. Difficoltà che egli molto probabilmente avvertiva quando denunciava lucidamente il carattere cannibalico delle classi colonizzatrici, di quello che Jean Baudrillard, quindici anni più tardi, chiamerà «metaumanesimo egualitario», «magia bianca del razzismo [che] non fa che imbiancare i negri sotto il segno dell’universale»43: La borghesia occidentale ha drizzato sufficienti barriere e parapetti per non temere realmente la competizione di coloro che essa sfrutta e disprezza. Il razzismo borghese occidentale nei riguardi del negro e del bicot è un razzismo di disprezzo; è un razzismo che minimizza. Ma l’ideologia borghese, che è proclamazione di uguaglianza essenziale tra gli uomini, trova il modo di restar logica con se stessa invitando i sottouomini ad umanizzarsi attraverso il tipo umano occidentale che essa incarna44.

4. Gli animali e i dannati della terra. Queste considerazioni non sono ovviamente intese a svalutare il pensiero di Fanon; esse al contrario si propongono di rilanciarne le potenzialità liberatrici rileggendolo, per dirla con Adorno45, alla luce di un momento conservativo e di uno critico. In altri termini, la riflessione sugli animali e sull’animalità che attraversano il pensiero di Fanon non è un esercizio sterile, quanto piuttosto la denuncia di quel lato oscuro dell’antropologia occidentale a cui lo stesso Fanon fa ricorso per interpretare lo sfruttamento coloniale. Ecco allora che tra le pieghe del saggio di Fanon balena l’intuizione secondo cui l’abolizione dell’oppressione non può che impegnarsi in un inedito corpo a corpo con “l’Animale” al di fuori della logica millenaria dell’addomesticamento: Ritrovare il proprio popolo significa talvolta, in questo periodo, voler essere negri, non un negro diverso dagli altri, ma un vero negro, un cane di negro, come lo vuole il bianco. Ritrovare il suo popolo è [...] farsi il più indigeno possibile, il più irriconoscibile. 42

43 44 45

Ivi, p. 172: «Questa nuova umanità, per sé e per gli altri, non può non definire un nuovo umanesimo. Negli obiettivi e nei metodi della lotta è prefigurato questo nuovo umanesimo». A questo proposito, cfr. anche quanto scritto a p. 137 e nella Conclusione (pp. 227-230). Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2007, p. 138 (nota 1). Frantz Fanon, I dannati della terra, cit., p. 105. Cfr., ad esempio, Theodor W. Adorno, Metafisica. Concetto e problemi, trad. it. di L. Garzone, Einaudi, Torino 2006, pp. 24-25, 62-63 e 78-79.

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È in questo divenire «vero negro», «cane di negro», ossia nell’accettazione della nostra animalità, e nella scoperta che è la nuda vita animale ciò che sia la politica sovrana di colonizzazione sia l’impresa biopolitica46 intendono sottomettere e opprimere, che incomincia a intravedersi un’emancipazione dalla natura che non ne preveda la negazione appropriante. La critica al pensiero di Fanon non consiste allora nel prendere atto dei suoi presunti errori, ma piuttosto in una ripresa conservativa del suo messaggio più profondo, di quell’anelito alla liberazione – che traspare ancora incorrotto dalle pagine di questo libro a più di 50 anni dalla sua prima pubblicazione – anelito che, per essere veramente tale, deve farsi carico di tutti i dannati della terra, a cui i non umani appartengono in quanto materialmente oppressi e in quanto impensata componente essenziale delle logiche del dominio. Dannati della terra che sono ancora in attesa della loro liberazione, che stanno ancora soffrendo e morendo a miliardi nelle cantine della nostra società. LA MAGNIFICA PREDA47 – Non pensi che dovrebbe esserci qualcuno che guarda queste cose? Da qualche parte nel mondo? In ogni istante? Per evitare che vengano dimenticate? – Tesoro, è assai improbabile che l’Olocausto venga dimenticato. E comunque ricordarlo non rientra nelle tue responsabilità […] e in tutto questo c’è un elemento di compiacimento morboso, tesoro. Conosco un sacco di ebrei che fanno la stessa cosa. L’ebbrezza cosmologica dell’accanimento della Storia. Stronzate! E comunque io non ho sposato una donna morbosa, ho sposato una donna morbida. (J. C. Oates)48

1. Tre uomini a cavallo. The Misfits (USA 1961), film diretto da John Huston, è considerato per più di una ragione un cult movie, un’opera in grado di suscitare una reazione complessa nello spettatore a prescindere 46 47 48

Cfr. Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Elèuthera, Milano 2013, pp. 95-117. River of no return diretto da Otto Preminger, interpretato da Marilyn Monroe e Robert Mitchum, USA 1954. Joyce Carol Oates, Blonde, trad. it. di S. C. Perrone, Bompiani, Bologna 2000, p. 625. Il dialogo immaginato dalla scrittrice americana ricostruisce il problematico rapporto tra Marilyn Monroe e il suo ultimo marito, lo scrittore Arthur Miller.

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dalle reali intenzioni dell’autore. Più che le storie bizzarre, i personaggi stravaganti, le ambientazioni inconsuete o lo stile originale, ciò che caratterizza questo film è qualcosa che sfugge alla catalogazione: un senso eccedente che mette a repentaglio gli schemi prefissati e l’ideologia portante del cinema mainstream. La pellicola fu distribuita in Italia nel 1961 con il titolo Gli spostati, ma misfits può anche essere tradotto gli azzoppati, accentuando il senso di difformità fisica, oltre che morale, che caratterizza tutti i personaggi e recuperando in tal modo l’ambiguità di fondo che segna profondamente l’intera operazione. The Misfits è un film che si presta a una lettura non conforme ai consueti schemi interpretativi che si limitano ad analizzare griglia testuale e confezione autoriale. Più interessante, infatti, è coglierne le dinamiche testuali e paratestuali che rimandano alla nozione di dispositivo, da intendersi in questo caso come meccanismo dispotico di esercizio del potere sull’altro. Qui l’altro è Roslyn, il personaggio interpretato da Marilyn Monroe – a sua volta interpretazione di Norma Jean Baker, il vero nome dell’attrice – e i mustang – termine derivato da quello spagnolo di mestengo –, cavalli selvaggi originari del Messico e considerati per la loro robustezza particolarmente adatti per i rodei. Il dispositivo in questione si articola in una serie di tecniche di dominio sulle vite e si riflette non solo nell’ideologia che struttura un’intera società, ma nell’«inconscio stesso della società, nel rapporto automatico, irriflesso tra tecnica e vita»49. Nel film esso si connota come strumento di sfruttamento, coercitivo e disciplinare, attraverso cui l’ideologia capitalista riassume un sentire comune che trova nella discriminazione di classe, di genere e di specie la sua maggiore capacità di condizionare la vita politica, economica e culturale di una società. Nelle produzioni cinematografiche, il dispositivo che struttura l’industria dello spettacolo si manifesta ricalcando lo schema che regola la vita politica, sociale e affettiva delle cosiddette democrazie. Inoltre, nella macchina-cinema i classici attanti espressione della divisione del lavoro e della discriminazione – Padrone, Fabbrica, Operai – sono sostituiti da Produttore (Regista), Set, Attori. Nuovi attanti che possono declinarsi nelle dinamiche di genere – Maschio (Padre) e Femmina (MadreFiglia) – e in quelle di “specie” – “l’Umano” e “l’Animale”. Il film, girato in gran parte nel deserto del Nevada, si presta assai bene a una lettura incrociata in cui apparato testuale e paratestuale si sfidano apertamente e ininterrottamente. La travagliata gestazione dell’opera sembra infatti alludere allo psicodramma collettivo con cui l’industria cinemato49

Ermanno Castanò, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin, Mimesis, Milano 2011, p. 120.

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grafica americana del tempo provava, declinandoli nelle forme spettacolari di intrattenimento, dalla commedia al dramma e al western, a risolvere i conflitti di classe e i rapporti di potere generazionali e di genere in risposta a gruppi che cominciavano a manifestare segnali di evidente inquietudine e un desiderio sempre più forte di emancipazione sociale e politica. Il cast del film è funzionale al sistema produttivo di Hollywood in quanto portatore di un bagaglio extratestuale (ad esempio, le debordanti biografie dei protagonisti) che eccede la struttura diegetica dell’opera. Non a caso, allora, abbiamo a che fare con un regista – John Huston – padre-padrone, noto per le sue idiosincrasie verso gli attori, generalmente considerati come meri ingranaggi della macchina produttiva, nonché misogino, facilmente irritabile, dedito al bere e al gioco d’azzardo, ossessionato dalla caccia grossa e domatore di cavalli selvaggi50. Con una star, Marilyn Monroe appunto, pronta per essere immolata sull’altare del mito che si consumerà sulle pagine dei rotocalchi dell’epoca, spaesata tra l’ansia di emancipazione dallo stereotipo dell’attrice sexy e stupida in cui si sentiva intrappolata e la depressione conseguente all’ennesimo fallimento matrimoniale. Con uno sceneggiatore, Arthur Miller, in piena crisi esistenziale e di ispirazione, stremato dalla tormentata relazione con la stessa Marilyn. E con due attori, Clark Gable e Montgomery Clift, afflitti dalla malattia e dalla tossicodipendenza. Tutti gli interpreti della pellicola moriranno nel giro di pochissimi anni, ma nel film sono già fantasmi. Non sono rappresentazioni, ma ombre della cattiva coscienza della società puritana in cui vivono, così come i neri mustang sono il contraltare tragico del mito della frontiera e del sogno americani. In un certo senso, sono proprio gli attori a determinare il contenuto allegorico del film e a condizionare la suggestiva iconicità delle immagini, ottenuta attraverso una fotografia satura che accentua il contrasto tra il nero del manto dei mustang in fuga e la luce abbacinante del deserto. I personaggi maschili del film51 interpretano inconsapevolmente il dispositivo di dominio 50

51

Si veda, ad esempio, quanto afferma John Huston, in Joyce Carol Oates, Blonde, cit., p. 675: «Ci sono dei cavalli, anche di razza, che per dare il meglio di sé vanno frustati a sangue. Ecco, io sono come quei cavalli. Avevo un sacco di debiti e avevo bisogno di soldi, e mi arrivò questo progetto, con già dentro Marilyn Monroe. Come attrice non la stimavo per niente […]. Io coi nevrotici suicidi non ho mai avuto pazienza. Ammazzati pure, se vuoi, ma non rompere i coglioni al prossimo». Clark Gable: Gay, il cowboy disoccupato e abbandonato dalla moglie e dai figli; Monty Clift: Perce, il rodeo-stuntman spiantato che sopravvive di espedienti; Ely Wallach: Guido, il pilota d’aerei che si porta addosso il fardello dei massacri perpetrati durante la Seconda guerra mondiale, quando sganciava bombe sulle città tedesche.

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che struttura la società capitalista e reagiscono all’impulso del possesso con il senso di frustrazione di chi ha perduto quei beni e quelle relazioni su cui si fonda il mito democratico statunitense: la famiglia e la proprietà. Animali incivili, in quanto non domesticati, i mustang (a differenza del cane che è l’unico essere vivente che continua a mantenere una relazione affettiva con Gay-Gable) rappresentano il risarcimento per quella sicurezza economica che è stata negata ai tre losers, nei quali convergono le aspirazioni di riscatto e di emancipazione del popolo americano: Gay, Perce e Guido, azzoppati dai loro stessi handicap (in quanto privi dei mezzi necessari per soddisfare il loro desiderio di possesso), non possono che dare sfogo alla loro pulsione di morte esercitandola sull’inumano, sull’indomito, sul furioso che qui è rappresentato dai cavalli selvaggi pronti per essere consumati come carne da macello. Estremizzando, si potrebbe affermare che la proprietà privata e di conseguenza il regime politico capitalista nascano e si consolidino proprio sull’idea di oggetto perduto in senso freudiano. É proprio questa mancanza (Freud parlava di oggetto orale per indicare l’abbandono da parte del bambino del seno materno) a determinare il continuo quanto illusorio desiderio di recuperare ciò che ormai è irrimediabilmente perso. Le soluzioni registiche di Huston non fanno che confermare la sensazione che si stia assistendo a una recita i cui personaggi sono già morti, mere presenze ectoplasmatiche. Anche nella prima parte del film girata a Reno – città-faro nel deserto consumista del Nevada – e nel villaggio dove viene allestito il rodeo, i tre protagonisti maschili sembrano essere percepiti/visti/notati solo da noi spettatori oltre che da Roslyn. È lei che funge da elemento medianico: Roslyn-Marilyn-Norma è la sola che riesce a vedere, è la sola che riesce a sentire, è l’unica persona viva. Ed è sempre lei a far implodere su se stesse le dinamiche coercitive di genere e a far precipitare il film verso un finale catartico e imprevisto. La magniloquente epicità à la Hemingway costruita attorno all’eroica lotta condotta a mani nude da “l’Uomo” contro la natura, epicità che corrisponde alla sensibilità di Huston, viene incrinata dalla compassione e da un rinvigorito senso della giustizia. Il personaggio di Roslyn, anche lei donna senza radici catapultata a Reno per poter divorziare, rappresenta il perturbante in quanto incarnazione del “femminino”. È l’altro come manifestazione della differenza. Roslyn si trova in una sorta di simbiosi con i mustang e, al pari di loro, si ribella al dominio e allo sfruttamento (infatti il primo impulso di Gay è proprio quello di domarla come un cavallo), nonché alla canonizzazione stereotipata del codice dispotico degli Studios che, tra le altre cose, ha decretato proprio il mito leggendario di Marylin. Se gli uomini sceneggiati da Miller e diretti da Huston con schivo pudo-

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re non sono percepiti come reali dai loro comprimari, Roslyn è invece il bersaglio iconico di ogni sguardo maschile. Sia di quelli messi in campo dalla narrazione sia, di riflesso rispetto all’occhio del regista, di quelli degli spettatori. Nella sequenza del saloon, nella quale Roslyn si esibisce in un ballo sfrenato di fronte a un piccolo gruppo di cowboy eccitati che le si accalcano attorno, o nella ripresa ossessiva del sedere dell’attrice mentre cavalca insieme a Gay, appare fin troppo banale segnalare la riduzione della protagonista a oggetto sessuale e il suo sostituirsi ai cavalli nel passaggio (del dominio) da un possessore all’altro: Non sono le differenze fisiche, la morfologia e la fisiologia dei sessi ad aver prodotto i generi, nonché la loro gerarchizzazione e asimmetria sociale, bensì il sessismo – cioè i rapporti di potere e di dominio – ad aver arbitrariamente scelto quei caratteri come segni distintivi rispettivamente del sesso dominante e di quello dominato. Così non è l’obiettiva variabilità fenotipica umana ad aver reso possibile l’invenzione delle razze, le tassonomie e le gerarchie razziali, bensì il razzismo, cioè un sistema di gerarchizzazione, discriminazione, dominio, ad aver arbitrariamente scelto alcuni caratteri come segni distintivi di gruppi umani inferiorizzabili, discriminabili, dominabili52.

Lo sviluppo della storia, che si può riassumere nella caccia improvvisata di tre disperati a un branco di mustang selvaggi nel deserto del Nevada, è percorso da una serie di episodi che sedimentano la contrapposizione di genere e di specie. I tre uomini sono la rappresentazione della pulsione scopica al dominio: il corpo di Roslyn o i cavalli in fuga vengono scrutati con il cannocchiale, a sottolineare il carattere voyeuristico del loro sguardo. Al contrario, Roslyn si caratterizza per un costante dare gratuito e compassionevole che viene interpretato dai sodali maschi come mera isteria femminile53. Roslyn-Marilyn patisce (nel senso di sentire con dolore) per ogni essere vivente: dissuade Gay-Gable dal proposito di uccidere un coniglio, trova i rodei degradanti e crudeli e, con la stessa passione, si prende cura dei tre uomini, tutti segnati da esperienze drammatiche. Li accarezza, li abbraccia, li conforta, lenisce le loro ferite esteriori e interiori, come farebbe con qualsiasi essere vivente. «Tu ami la vita. Noi cerchiamo solo un posto per vederla passare», afferma Guido in un momento di confidenza. Roslyn 52 53

Annamaria Rivera, La Bella, la Bestia e l’Umano. Sessismo e razzismo senza escludere lo specismo, Ediesse, Roma 2010, p. 43. Marilyn Monroe aveva avuto un aborto spontaneo a seguito di una caduta dalle scale dello scantinato della villa sulla costa del Maine dove era solita passare le vacanze insieme ad Arthur Miller – il padre del bambino –; in quello scantinato accudiva alcuni gatti selvatici malati e affamati che vi avevano trovato rifugio.

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mette in evidenza il nuovo statuto di spettatrice dell’umanità moderna, statuto in cui la pulsione scopica ha sostituito quella affettiva intesa come capacità di relazionarsi agli altri. È ancora Guido a sottolineare il ruolo di Roslyn, la sua pena per il mondo:

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Guido: «Sei altruista. Tu appartieni veramente al genere umano». Roslyn: «Per i più sono solo nervosa». Guido: «Se non fosse per la gente nervosa nel mondo ci mangeremmo ancora l’uno con l’altro».

La poetica hustoniana trova la sua fonte di ispirazione proprio nello scontro-incontro tra dimensione uterina ed extrauterina, tra preda e cacciatore, tra vittima e carnefice, conferendo al racconto l’andamento emblematico di una tragedia greca. I personaggi del film sono tragici in quanto consapevoli di appartenere a una specie condannata a perpetuare il male. E lo sono ancora di più oggi in cui il rimosso ha sostituito il conflitto. 2. Una donna implosiva. Mentre la pellicola scorre, il dispositivo cinematografico scricchiola sempre di più. I quattro spostati partono per catturare i mustang. Gay, Perce e Roslyn a bordo di una jeep, Guido su un piccolo velivolo in avanscoperta. I cavalli, quattro femmine, uno stallone e un puledro, vengono avvistati da Guido dall’alto. Inizia così la battuta per affaticarli e rendere più facile la loro cattura. Gay, alla guida della jeep, insegue la piccola mandria in fuga, mentre la tensione cresce fra i componenti dell’equipaggio. Roslyn è visibilmente turbata. I cavalli vengono presi. La tragedia è al culmine. Si procede verso la catarsi finale. È Roslyn che fa implodere il film. La sua crisi “isterica” illumina brutalmente la realtà svelandone la dimensione distruttiva: Bugiardi, assassini, siete tutti bugiardi. Siete felici solo quando potete vedere qualcuno soffrire. Perché non vi ammazzate voi per essere felici? Voi e la vostra ipocrisia. Bella libertà! Vi odio. Volete solo veder soffrire gli altri. Assassini, assassini, macellai. Siete tutti e tre degli assassini.

È lei che sgretola l’illusoria libertà che i tre uomini, ossessionati dall’idea di poter finire le loro vite lavorando alle dipendenze di qualcuno (testualmente: «sotto padrone»), alimentano con il mito fondativo della caccia. Perce-Clift, il più sensibile, si rende conto di quello che stanno facendo e libera i mustang, spazzando via in un sol colpo tutti gli stereotipi del genere western. Gay riesce, però, con la forza della disperazione, a ricatturare il capobranco servendosi di una corda. Quindi lo atterra a mani nude. Lo

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stallone e il cowboy si guardano negli occhi. Stremato dalla fatica e sopraffatto da un sentimento a lui sconosciuto, l’anziano Gay-Gable decide di liberare l’animale: lo spostato zoppica; il film zoppica. Al divorzio tra “l’Umano” e il resto del mondo, i protagonisti di questo film reagiscono tentando di ripristinare il legame perduto. L’insofferenza per l’indomito e la consapevolezza che la sfida sia comunque persa in partenza tradiscono la vulnerabilità dei tre cacciatori e la loro appartenenza, volenti o nolenti, all’ordine del naturale. Chi è allora lo spostato e chi l’azzoppato? La caccia, al cinema, suscita orrore e fascinazione. Il cacciatore e la preda sono espressione dei rapporti sociali (di forza) e la caccia il paradigma della condizione in cui versa l’organizzazione capitalista. L’esaltante finale liberatorio annuncia la sottrazione delle prede al loro destino di vittime sacrificali da immolare sull’altare delle relazioni tra dominanti e dominati. (R)ESISTENZE ANIMALI Il corpo è più grande e più vasto, più esteso, più a ripieghi e rotazioni su se stesso di quanto l’occhio immediato non lo sveli e lo concepisca quando lo vede. (A. Artaud)54 La vendetta è stata e rimarrà sempre l’ultimo mezzo di lotta […] per gli oppressi. (Z. Kolitz)55

1. Rendere percepibile il grande brivido. Ne Il viaggio dell’orsa56, raccolta di racconti di Vincenzo Pardini, gli animali sono, come da anni ci ha abituati, protagonisti assoluti. Non perché si racconta di loro nella nostra lingua, ma perché sono loro stessi a raccontare le loro storie con i loro linguaggi. E gli animali raccontano non tanto perché, nelle pagine di questo libro, alcuni di loro “riprendono la parola” dopo millenni di inascoltato silenzio, ma in quanto corpi vulnerabili che producono scrittura. Pardini, come i cantastorie popolari a cui si richiama, non scrive, ma trascrive e traduce; è lo sciamano che, evocata la potenza della vita, si limita a la54 55 56

Antonin Artaud, Storia vissuta di Artaud-Mômo, trad. it. G. Bongiorno, Edizioni l’Obliquo, Brescia 1995, p. 36. Zvi Kolitz, Yossl Rakover si rivolge a Dio, trad. it. di A. L. Callow, Adelphi, Milano 1996, p. 18. Vincenzo Pardini, Il viaggio dell’orsa, Fandango, Roma 2011.

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sciarsene attraversare per trasmetterla. La vista cede allora il passo all’udito e, soprattutto, all’olfatto; alla stazione eretta e al cammino bipede si affiancano posture e movenze altre. Un mondo di cose viste da sopra e da fuori si trasforma sotto i nostri occhi in piste odorose e in tracce acustiche percepite nell’immanenza e da dentro. Di colpo, siamo trasportati in altri mondi, scopriamo che il mondo non esiste, che quello che continuiamo a chiamare mondo è quantomeno un insieme di mondi, che non esiste solo la nostra prospettiva ma infinite prospettive che si costituiscono a partire dalle innumerevoli forme, sensibilità e movenze dei diversi corpi animali, da ciò che questi possono. Che addirittura è il termine “prospettiva” a essere profondamente sbagliato, perché ancora troppo legato alla sfera del visivo e all’idea che possa esistere uno spettatore distaccato che osserva da uno spazio esterno qualcosa che sta accadendo fuori di lui. In questo senso, i racconti di Pardini rappresentano una sorta di continuazione e di approfondimento letterari del lavoro scientifico di Uexküll57: alle tavole in cui quest’ultimo, con l’aiuto di Georg Kriszat, ci ha permesso di vedere il mondo con gli occhi di un cane o di una mosca58, si aggiungono la mappe odorose e le cartografie acustiche, tra gli altri, di lupi, orsi, muli, piccioni, pantere e gufi. Gli animali di Pardini non solo raccontano, ma raccontano da un “altrove” non-solo-visivo. Parafrasando Paul Klee, potremmo dire che gli animali con cui Pardini dialoga non rendono il percepibile, ma rendono percepibile. Questi animali prefigurano cioè una radicale trasformazione dell’umano: da l’essere in grado di assumere una velocità di fuga che lo stacca da terra a un essere-con che scopre una via di fuga intensiva che lo rimette tra le creature terrestri e, proprio per questo, in tempi e spazi sconosciuti e ancora largamente inesplorati. Gli animali che raccontano i racconti di Pardini sono intercessori che ci permettono di accedere a quello che Nietzsche ha definito il «nostro nuovo “infinito”», uno spazio che è tale non perché banalmente sconfinato ma perché racchiude in sé «interpretazioni infinite»59. Il “nostro” nuovo infinito, allora, non è più quello degli spazi interstellari, ma l’in-finitezza del finito che è già qui e da sempre con noi e che ci richiama a un’infinita responsabilità. L’invasione aliena degli extraterrestri diventa l’evasione 57 58 59

Jakob von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, illustrazioni di Georg Kriszat, trad. it. di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010. Ivi, pp. 106-107. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, trad. it. di F. Masini, Adelphi, Milano 1979, § 374, pp. 253-254 da dove sono tratte anche tutte le altre citazioni di questo paragrafo.

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alienante (da intendersi nel senso che l’altro ci abita, prima di ogni forma di identità, spossessandoci da e di noi stessi) di altri terrestri. Certo continuiamo a non poter girare con lo sguardo oltre «il nostro angolo» – e non potrebbe che essere così –, ma percepiamo con il “nostro” corpo l’esistenza di «altre specie d’intelletto e di prospettive». Le vicende animali di cui Pardini si fa testimone ci afferrano, esponendoci al «grande brivido» che l’esistenza di «un’altra direzione della vita» ci fa avvertire. 2. Traccio dunque non sono. A ragione, Vinciane Despret afferma che gli animali conoscono i nostri libri, conoscono perfettamente, ad esempio, il pensiero di Descartes60. Ma non solo. Essi leggono tutto quello che abbiamo scritto e andiamo scrivendo su di loro, dai saggi scientifici ai registri degli allevatori e dei macellai, dalle classificazioni tassonomiche alle leggi sul loro (presunto) benessere, in quanto inciso, tatuato, marchiato sui loro corpi dalla grafia, lineare e precisa, della normalità violenta61. Anche gli animali, però, sanno scrivere: come i loro corpi vengono tracciati dall’ambiente in cui vivono, così loro tracciano l’ambiente, sentendo e muovendosi. Gli animali (umani compresi) disseminano tracce che gli stregoni come Pardini sanno cogliere, seguire e tradurre in linguaggio alfabetico. Se gli animali sanno leggere le nostre diverse lingue, dall’aramaico all’inglese, Pardini è profondo conoscitore delle zoografie e, grazie a questo suo talento, ci restituisce sia l’in-finità dei mondi che, normalmente invisibili, ci circondano e ci abitano sia l’in-finità degli incontri e delle relazioni che tra questi si instaurano o, meglio, che li precedono, permettendone la venuta all’esistenza. In altri termini, i racconti di Pardini ci con-sentono di percepire altri mondi perché ci trasportano in uno spazio proto-ontologico che precede sia la formazione dei mondi e delle singolarità che li popolano sia la formazione delle singolarità e dei mondi che intorno a esse si organizzano. Non esistono prima, chiari e distinti, i mondi dei lupi, degli orsi o degli umani che successivamente entrano in relazione: in principio, che non è

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Vinciane Despret, Rispondere agli animali o trattato delle buone maniere come preludio a una diversa coabitazione, in Massimo Filippi e Filippo Trasatti (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis, Milano 2010, p. 40. Che il corpo e la scrittura (anche in ambito intraumano) intrattengano relazioni più fitte di quanto siamo abituati a pensare ce lo ricordano, tra gli altri, autori tanto distanti tra loro quali Franz Kafka (Nella colonia penale, in Racconti, trad. it. di G. Zampa, Feltrinelli, Milano 1961, pp. 168-195) e Pierre Clastres (Della tortura nelle società primitive, ne La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica, trad. it. di L. Derla, ombre corte, Verona 2013, pp. 130-137).

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ancora e non è già più un principio, ci sono gli spazi zoosomatici indistinti degli incontri da cui, successivamente e in maniera continuamente rimodellata, emergono i differenti mondi e le differenti singolarità. I mondi sono innanzitutto tra, margini che precedono ogni forma di identità (anche altra), ogni possibilità di un centro (anche temporaneo), ogni confine (anche benigno). Non a caso tutti i personaggi di Pardini sono marginali, si aggirano nelle periferie, abitano le terre di confine, sono spesso banditi, fuori-legge62. E i mondi a cui lascia la possibilità di narrarsi, i mondi dei lupi, degli orsi, delle pecore, delle volpi, degli umani, raccontano di zone transindividuali dove certe singolarità che poi diventeranno lupi, orsi, pecore, volpi o umani intersecano la (loro) vita con quella di certe altre singolarità che poi diventeranno lupi, orsi, pecore, volpi o umani. Il che significa che non solo non esiste un “proprio” de “l’Uomo”, ma che non esiste il “proprio” tout court, che il proprio è sempre improprio, che «nell’origine (origine senza origine) […] non c’è niente di semplice, bensì una composizione, un inquinamento»63. L’identità e la civiltà umane sono più che umane non solo e non tanto perché “create dagli animali”, ma soprattutto perché anche gli altri animali non possiedono un “proprio”. Materialmente e ontologicamente, l’umano non può che essere ibrido: canino, murino, felino, plantigrado, ungulato, licantropo, ecc. L’in-umano risiede nel centro dell’umano. Al tracciamento identitario dei confini dell’antropocentrismo si sostituisce la dispersione an-archica della traccia, traccia che

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Bandito è chi è posto dal bando sovrano al di fuori della legge ma proprio per questo, perché fuori-legge, continua a intrattenere un rapporto con essa, istituendo così una «soglia di indifferenza e di passaggio fra l’animale e l’uomo, la phýsis e il nómos, l’esclusione e l’inclusione». Da qui la frequenza con cui il bandito, in diversi documenti medievali, viene accostato al lupo mannaro e, probabilmente, la frequenza di lupi dai tratti mentali antropomorfici in questi racconti di Pardini. Su questi aspetti, cfr. Giorgio Agamben, Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi, Torino 2005, soprattutto il capitolo 6 della seconda parte, Il bando e il lupo, pp. 116-123, da cui è tratta la citazione riportata sopra (p. 117). Cfr. anche Jacques Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume I (2001-2002), trad. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, testo ancora una volta percorso da innumerevoli lupi, in cui è affermato a chiare lettere che è fuori-legge sia chi instaura la legge (il sovrano) sia chi ne subisce i maggiori rigori (la bestia), essendo entrambi posti fuori di essa per esserne al contempo ricompresi. Per quanto detto, è allora importante sottolineare che figure sovrane, dal Duca di Ferrara ai vari tutori della legge, sono quasi altrettanto presenti degli animali in questi racconti. Jacques Derrida, Al di là delle apparenze. L’altro è segreto perché è altro, trad. it. di S. Maruzzella, Mimesis, Milano 2010, p. 22.

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non è «mai presente […] poiché rinvia al radicalmente altro, inscrive in sé l’infinitamente altro»64. Un altro infinito si spalanca e il grande brivido ci afferra ancora una volta. Poiché, nella storia naturale, è l’animalità a introdurre la traccia e l’assolutamente altro65, le innumerevoli tracce disseminate dagli animali nei racconti di Pardini rimandano a quest’assolutamente altra traccia, mettendo in scacco la presenza del presente, destituendo di senso ogni classificazione tassonomica, togliendo fondamento al fondamento di tutte le tassonomie: la distinzione umano/animale. 3. L’ambiente e il contrattempo. Nei mondi altri a cui Pardini fa accedere la nostra percezione, mondi che precedono o che stanno oltre l’essere de “l’Uomo”, cambia anche il modo in cui lo spazio e il tempo vengono concepiti: non più come gli a priori trascendentali di kantiana memoria, ma come il risultato di un processo che incessantemente produce differenze in cui anch’essi sono presi. Lo spazio e il tempo non sono fissi in un qualche altrove, ma divengono incessantemente “qui” e “ora”. Lo spazio, in quanto reso possibile dagli incontri che, dispiegandosi nel tempo, lo instaurano, è uno spazio costitutivamente animale, ibrido, intreccio e rimodellamento continuo di molteplici spazi differenti. Lo spazio è ambiente e l’ambiente è divenire tempo dello spazio. Il tempo, che prende avvio dalla spazialità delle relazioni, è anch’esso costitutivamente animale, provvisorio, estraneo sia al tempo lineare e fintamente storico de “l’Umano” sia a quello circolare e apparentemente astorico della natura. Il tempo è contrattempo e il contrattempo è divenire spazio del tempo. Non a caso, con una tecnica che ricorda da vicino il montaggio cinematografico, Pardini costruisce la trama narrativa dei suoi racconti affiancando e intersecando, nello stesso lasso temporale, spazi disparati – quelli delle pantere con quelli dei migranti e delle prostitute, quelli dei maremmani con quelli di trans, prefetti, lupi e bracconieri, quelli di Ludovico Ariosto con quelli di psicopatici, gufi, guardie forestali, spie internazionali, membri dei servizi deviati, ecc. – e rintracciando tempi diversi, dall’invasione romana dell’Etruria ai più recenti “anni di piombo”, nello spazio comune dell’Alta Garfagnana e, più in generale, dell’Italia centrale.

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Ivi, p. 37. Cfr. anche Jacques Derrida, La différance, in Margini della filosofia, trad. it. di M. Iofrida, Einaudi, Torino 1997, p. 49. Cfr. Massimo Filippi, Natura infranta. Dalla domesticazione alla liberazione animale, Ortica Editrice, Aprilia 2013.

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Il lettore non sarà perciò sorpreso di scoprire che i racconti di Pardini iniziano dopo che la storia che viene narrata ha già preso avvio e terminano con finali aperti che alludono a sviluppi molteplici; non si stupirà di imbattersi in una pantera che, importata nel nostro Paese da trafficanti di animali selvatici e sfuggita da chi la deteneva in cattività, si aggira nelle odierne campagne romane come una vera e propria reincarnazione delle pantere utilizzate dagli etruschi nella caccia al cinghiale e che, imboccato un cunicolo sotterraneo, è in grado di percepire la presenza dei morti lì sepolti; accetterà tranquillamente che un gatto e una pistolera possano apparire, scomparire e riapparire in luoghi differenti senza che i loro movimenti di spostamento vengano avvertiti; non rimarrà incredulo se una giovane contadina, di fronte alla violenza esercitata dagli umani nei confronti degli animali e della natura, predice, intorno al 1450, sconvolgimenti climatici che oggi sono all’ordine del giorno. L’incontro con gli animali di Pardini, come tutti i veri incontri, quelli che non sono prevedibili e controllabili, quelli con il radicalmente altro, ci dislocano in uno spazio e in un tempo che precedono o superano l’individuazione e la coscienza, ci espongono alla follia, alla perdita di quell’insieme di categorie e classificazioni troppo umane con cui continuiamo a ridurre ciò che ci circonda a nostra immagine e somiglianza. In questi momenti di follia, prima di ritornare in sé e nel Sé, esperiamo altri infiniti e altri brividi, gli stessi che verosimilmente ha provato Derrida nell’incontro con una piccola gatta che, scopertolo nudo, ha segnato definitivamente il corso del suo pensiero66. 4. Vulnerabilità ambientale. A differenza di quanto una certa interpretazione dell’animalità – che è tanto ampia da passare dalla riflessione di Nietzsche, Rilke, Bataille e Gehlen fino a giungere a certe generose reinterpretazioni del pensiero giudaico-cristiano e al primitivismo – vorrebbe farci credere, gli animali sono tutt’altro che perfettamente inseriti nel loro ambiente, non sono «nel mondo come l’acqua nell’acqua»67, l’animale non «vede l’aperto» e soprattutto non è «libero da morte»68. Tutti gli animali sono esseri affermativamente mancanti, corpi vulnerabili: per questo “hanno” un ambiente dove, muovendosi e sentendo, possono trovare la materia 66 67 68

Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, pp. 38 sgg. Georges Bataille, Teoria della religione, trad. it. di R. Piccoli, SE, Milano 2002, p. 25. Rainer Maria Rilke, Ottava elegia, in Elegie duinesi, trad. it. di E. e I. De Portu, Einaudi, Torino 1978, vv. 1-2 e v. 9, p. 49.

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e l’energia di cui necessitano. Facendo questo si aprono all’incontro con l’altro e quindi alla possibilità dello scontro e del conflitto mortale. Muovendosi e sentendo nell’ambiente, in quanto dotati di cervello69 – l’organo improprio per eccellenza in quanto traccia interna del mondo esterno che continua a rintracciare e da cui è continuamente ritracciato, sorta di pelle sotto la pelle70, zona di indistinzione tra un dentro e un fuori –, espandendo il loro corpo nell’ambiente ed esponendo la sua vulnerabilità all’impronta che ciò che sta fuori imprime sul “proprio”, gli animali hanno un rapporto indissolubile con la morte, propria e degli altri. Non avrebbe senso essere animati, poter muoversi, se non si potesse sentire o, viceversa, poter sentire senza potersi muovere verso le fonti di piacere e lontano da quelle di dolore. Essere animati, essere animali, corrisponde al poter sentire. E poter sentire, per quanto detto, è innanzitutto un poter sentire il potere aporetico dell’im-potenza, della vulnerabilità e della morte. Per questo gli animali di Pardini, umani compresi, sono tutt’altro che animali edenici; per questo Pardini non registra solo scene di convivenza ospitale e amorosa. Questi racconti cioè non escludono che il lupo abbia potuto o potrà pascolare con l’agnello, ma neppure danno per scontato che questo sia avvenuto o che un giorno si realizzerà. Pardini sa che non si esalta “l’Uomo” solo svalutando gli animali, ma anche conferendo loro un’innocenza innata che solo “l’Uomo” può eroicamente conquistare grazie a una tenacia e a una intelligenza (ancora una volta) sovrannaturali. Pardini sa che la natura non possiede solo «denti e artigli rossi di sangue»71 e non è solo mutuo soccorso, ma entrambe le cose assieme. Non mancano in questi racconti indimenticabili scene di tenerezza tra animali che travalicano i confini di specie (ad esempio, tra un uomo e una picciona e tra un gufo e un lupo), ma non mancano neppure scene di inusitata violenza che pure non rispettano tali confini. Pardini è anche consapevole – come dimostrano le scene di macellazione, di caccia, di sequestro e sfruttamento degli altri animali per i fini più vari, dal commercio di specie rare all’esibizione circense – che “l’Umano”, istituzionalizzando la vio69

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Accettando la formula di Gilles Deleuze e Félix Guattari, «È il cervello che dice Io, ma Io è un altro», in Che cos’è la filosofia?, trad. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 2002, p. 214, è evidente che il cervello di cui si parla qui è un cervello altro dall’organo studiato dalla neurologia, è un altro cervello, è il cervello dell’altro, è altro che cervello pur non essendo nient’altro che cervello. Non a caso sistema nervoso e tessuti epidermici, i due “propri” organici che entrano in relazione con il fuori, hanno una origine embrionale comune. Richard Dawkins, Il gene egoista, trad. it. di G. Corte e A. Serra, Mondadori, Milano 1995, p. 4.

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lenza e riducendo progressivamente gli spazi e gli eventi della dolcezza, ha accelerato l’orrore in maniera iperbolica, creando un’infinita riserva di nude vite umane e animali pronte per essere macellate. In questi racconti, Pardini sembra inoltre dirci che, se “l’Umano” si è sempre impegnato a tracciare una netta linea di confine che lo separi dal mondo animale, tale linea non ha mai coinciso completamente con il confine biologico della nostra specie, dal momento che innumerevoli schiere di umani sono state trattate e sono trattate come animali. In altre parole, lo specismo non è tanto un pregiudizio morale verso specie altre, quanto piuttosto un’ideologia giustificazionista del dominio72 e dello sfruttamento della carne macellabile, compresa la nostra73. Un infinito altro. Un altro grande brivido. 5. Resistere, resistere, resistere! Gli animali, umani e non umani, in quanto corpi vulnerabili e mortali, in quanto possono soffrire e possono morire, in quanto portatori dell’aporetica potenza dell’impotenza, sono costantemente presi in relazioni di potere. Relazioni di potere che gli animalianimali declinano anche sul versante del “soffrire” e del “morire”, cioè sul versante affermativo della vita che si apre alla com-passione, quello magistralmente reso da Pardini nelle interazioni affettive che molti degli animali dei suoi racconti vivono o ricordano a partire dalla tenerezza dei legami parentali dell’infanzia, trascorsa nella felicità del sempre nuovo. Relazioni di potere che invece gli animali-umani sembrano restringere sempre più al versante del “potere”, cioè sul versante negativo della vita, quello che prevede la prevaricazione e l’affermazione sull’altro e che Pardini restituisce nei rapporti tra umani bloccati in relazioni fisse e fossilizzate in cui è sempre riconoscibile un “Umano” da una parte (sopra) e un “Animale” dall’altra (sotto). Se, però, come sostiene Foucault, «il tratto caratteristico del potere» è quello di poter determinare la condotta di altri «in modo più o meno completo, ma mai in modo esaustivo», allora «non c’è potere senza rifiuto o rivolta 72 73

Al proposito, cfr. Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace, cit., soprattutto pp. 145-164. Cfr. Gilles Deleuze, Francis Bacon. Logica della sensazione, trad. it. di S. Verdicchio, Quodlibet, Macerata 2008, soprattutto il capitolo 4, Il corpo, la carne macellata e lo spirito, il divenire animale, pp. 52-67, in cui, tra l’altro, scrive: «La carne macellata non è carne morta, essa ha conservato tutte le sofferenze e ha preso su di sé tutti i colori della carne viva […]. La carne macellata è la zona comune all’uomo e alla bestia, la loro zona di indiscernibilità […]. L’uomo che soffre è una bestia, la bestia che soffre è un uomo» (pp. 57-58). Al proposito, cfr. anche Matthew Calarco, Identità, differenza, indistinzione, trad. it. di M. Filippi, in Liberazioni, n. 7, inverno 2011, pp. 5-20.

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in potenza»74. Non a caso, quindi, uno degli aspetti più originali ed esaltanti di questi racconti di Pardini è la frequenza con cui compaiono episodi di resistenza e di rivolta animale al potere che “l’Umano” esercita su di loro, episodi che, in alcuni casi e almeno per un certo periodo di tempo, sono in grado di eludere e ridicolizzare lo stato di eccezione permanente che la legge umana instaura a partire dall’esclusione del resto del vivente. Resistenza animale che, nei momenti estremi, quando massima è l’oppressione, assume la tonalità della vendetta, portata avanti sia sull’onda del sentimento offeso – come è il caso della madre orsa del primo racconto che, dopo che le è stato sequestrato il proprio cucciolo handicappato, non esita a sfidare da sola l’intero esercito del Duca di Ferrara a cui l’orsetto è stato donato come divertimento di corte – sia in maniera razionale, pianificata e meticolosa – come è il caso del lupo del secondo racconto che intende vendicare l’uccisione del fratello da parte di un bracconiere o come è il caso del gufo dell’ultimo racconto che non esita ad allearsi con un lupo pur di vendicarsi nei confronti di un balordo di paese che ha rapito, per rivenderli, la sua compagna e i suoi figli. Resistenza animale che non è solo degli animali selvatici di Pardini, ma che dalle cronache dei quotidiani sappiamo avvenire anche tra gli animali cosiddetti “da reddito”; innumerevoli sono, infatti, i maiali e le mucche che scappano dai camion della morte, i tori che incornano i loro tormentatori, gli elefanti che, fuggiti da circhi e zoo, devastano interi isolati, i macachi che mordono gli sperimentatori, le tigri e i leoni che aggrediscono i loro addestratori, ecc. Resistenza che è così pervasiva perché gli animali, umani e non umani, sono soggetti in quanto assoggettati, perché in quanto soggetti al potere sono soggetti di potere e viceversa75. Resistenza che è tutt’altro che qualcosa di immaginario se siamo riusciti ad addomesticare meno del 10% delle specie che abbiamo cercato di sottomettere76. Resistenza che la carne macellata evoca ogni volta che siamo in grado di riportare alla luce il «referente assente»77 a cui rimanda e di cui sono testimonianza l’esistenza di un movimento antispecista e di tutti quei movimenti che si oppongono 74 75 76 77

Michel Foucault, Omnes et singulatim. Verso una critica della ragion politica, in Biopolitica e liberalismo, trad. it. di O. Marzocca, Medusa, Milano 2001, p. 144. Al proposito, cfr. Judith Butler, La vita psichica del potere. Teorie del soggetto, trad. it. di F. Zappino, Mimesis, Milano 2013, soprattutto pp. 50-56. Cfr. Jared Diamond, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni, trad. it. di L. Civalleri, Einaudi, Torino 1998, p. 128. Per il concetto di referente assente, cfr. Carol J. Adams, The Sexual Politics of Meat: A Feminist-Vegetarian Critical Theory, Continuum, New York-London 2004, soprattutto il capitolo 2, The Rape of Animals, the Butchering of Women, pp. 50-73, tradotto in italiano da E. Melodia in Liberazioni, n. 1, estate 2010, pp. 24-55.

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all’ideologia e alle pratiche del dominio. Testimonianza che traspare con terribile bellezza dalle pagine di Pardini e che prelude all’infinito, grande brivido della liberazione. FALSO MOVIMENTO Il mare dona e toglie il ricordo. (F. Hölderlin)78

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Il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinnanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così «aperto». (F. Nietzsche)79

1. Una soffocante immobilità. Nel suo romanzo d’esordio, Sotto questo sole tremendo80, un noir claustrofobico, in cui il dipanarsi della storia narrata è completamente annegato nell’immutabilità del tempo atmosferico arrestato nella luce accecante di un sole che cuoce ogni forma di vita in una serie ricorsiva e infinita di falsi movimenti, Carlos Busqued descrive, implacabile, un equilibrio entropico ormai raggiunto: Il terreno è diventato fango […]. I pozzi neri tracimano e gran parte di questa melma in giro, in realtà, è merda e piscio dei pozzi neri81.

E un altrettanto definitivo equilibrio antropico immerso nell’onnipervasivo «fetore di carne marcia del mattatoio»82, nella luce fissa del televisore e nello stordimento da stupefacenti. Equilibrio dove tutti accettano tutto e a tutto si abituano; dove l’unico interesse rimasto è quello di «capire fino a che punto può spingersi la specie umana»83, visto che «l’elasticità dell’essere umano è qualcosa di sorprendente»84.

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Friedrich Hölderlin, Andenken, ne Le liriche, trad. it. di E. Mandruzzato, Adelphi, Milano 1989, v. 60, p. 563. Friedrich Nietzsche, La gaia scienza, cit., § 343, p. 205. Carlos Busqued, Sotto questo sole tremendo, trad. it. di S. Raccampo, Atmosphere, Roma 2012. Ivi, p. 11. Ivi, p. 49. Ivi, p. 31. Ivi, p. 63.

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2. Dopo che il mondo è finito. Busqued descrive il mondo dopo la sua fine. Fine sopraggiunta non a causa di eventi apocalittici, come si immaginano i più, ma per esaurimento, come è molto più probabile che avvenga anche nella realtà. Verosimilmente, infatti, l’universo non terminerà con un Big Bang invertito, ma per espansione progressiva con conseguente raggiungimento dell’equilibrio termico. Detto altrimenti, non moriremo, né noi né l’universo, per eccesso, ma per noia. Meglio: non moriremo, ma cesseremo di vivere, congelati in un’immobile sopra-vivenza artificiale, quella che già sperimentiamo nello spazio amorfo e nel tempo sincrono di una vita uniforme e uniformata; nell’incubo, dai tratti sempre più inquietante, del capitale, con il suo controllo totale e con la sua tecnica incontrollata. Nulla di nuovo sotto il sole. 3. Pensare oltre la catastrofe. La violenza, istituzionalizzata o meno, che attraversa il romanzo di Busqued colpisce in maniera equanime sia gli umani sia di fatto ogni altra specie (dagli insetti ai cani). In un certo senso, questo romanzo ci presenta in anteprima la forma che l’antispecismo potrebbe assumere nel mondo dopo la sua fine. La morte termica, come l’apocalisse (per questo aspetto le due fini sono identiche), annulla, prima di compiersi definitivamente, tutti i differenziali, acuendo in tal modo l’unica differenza che si dovrebbe combattere: quella stabilita dalla forza. Se non si vuole, allora, essere bloccati nell’identico falso movimento che già viviamo, non basta augurarsi che finalmente arrivi la fine del mondo, ma pensare e mettere in atto un’alternativa credibile di vita, un’inedita forma-di-vita. Un mondo senza dominio e oppressione non si darà mai come risultato inatteso di un qualche evento catastrofico (ad esempio, la guerra nucleare o l’impatto della Terra con un meteorite) o automaticamente per progressivo esaurimento dell’energia che sostiene questa società onnivora (ad esempio, con l’aggravarsi della crisi economica o seguendo logiche del tipo “tanto peggio, tanto meglio”), ma solo attraverso un movimento reale che abolisca lo stato di cose presente. 4. Ritornelli. La narrazione di Busqued, che non ci interessa seguire perché, nonostante il susseguirsi di eventi sempre più cupi e raccapriccianti, irrimediabilmente immobile, è attraversata da moltissime presenze animali. Il romanzo stesso inizia e finisce con due fermi-immagine su degli animali morenti. Alcuni animali ricorrono però, come in un ritornello85, in 85

Il riferimento è al concetto di ritornello elaborato da Gilles Deleuze e Félix Guattari, in Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di G. Passerone, Castel-

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più punti del romanzo. In-seguiremo, allora, alcuni di loro per rintracciare le caratteristiche del mondo che, già qui, ci attende.

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5. Bovini in fuga. Il primo di questi animali-ritornello è l’“animale da reddito” per eccellenza, il bovino. La prima volta che lo incontriamo ha l’aspetto di uno zebù che, fuggito dal mattatoio, lotta disperatamente per mettersi in salvo, finché viene investito da un furgone: L’animale era stato sbalzato sul marciapiede, era vivo ma gravemente ferito. Cercava di rialzarsi ma le zampe posteriori non gli rispondevano. La bocca schiumante, si agitava invano, muggiva, ora più lentamente […]. «Si è spezzato la colonna» disse a un tratto un vecchio […]. «Ho un fucile a casa. Se mi lasciate fare metto fine alla sofferenza di questo animale». Uno degli impiegati del macello aveva una ricetrasmittente con sé. Si consultò con qualcuno […]. «No, grazie, lo portiamo al macello e ci pensano loro». Nel giro di qualche minuto arrivò il camion del macello. Caricarono l’animale fra gli insulti, senza risparmiargli nessuna sofferenza86.

Nel secondo incontro è invece una mucca contro la quale va a scontrarsi l’auto su cui viaggia anche il protagonista del romanzo: C’era poco traffico (di rado incrociava un veicolo) e così lasciò fissi gli abbaglianti. A un certo punto scoprì qualcosa in fondo al cono di luce. L’ombra si avvicinava: era una mucca […]. Sapeva che stava correndo […] e che doveva iniziare a frenare, o almeno a capire se la mucca intendeva spostarsi, per riuscire a schivarla. L’ultima immagine che vide fu proprio il muso dell’animale che lo fissava negli occhi da due metri di distanza con un’aria pacifica e (gli parve, anche se non riuscì a formulare completamente il pensiero) leggermente incuriosita87.

86 87

vecchi. Roma 2003, pp. 439-494. Il ritornello descrive un movimento ambiguo, che solo all’apparenza può apparire falso, movimento che circola tra la deterritorializzazione del caos, la territorializzazione in una casa/dimora e la deterritorializzazione/riterritorializzazione dell’uscita/fuga. Il ritornello «non soltanto [aumenta] la velocità degli scambi e reazioni in ciò che lo circonda, ma [assicura anche] interazioni indirette fra elementi privi dell’affinità detta naturale e formare così delle masse organizzate» (ivi, p. 485). Movimento, quindi, che accenna in qualche modo all’impersonale: «È ben difficile riuscire ad essere completamente sconosciuto, sconosciuto anche alla propria portinaia, o nel proprio quartiere, il cantore senza nome, il ritornello», Gilles Deleuze e Claire Parnet, Sulla superiorità della letteratura anglo-americana, in Conversazioni, trad. it. di G. Comolli, ombre corte, Verona 2011, p. 47. Carlos Busqued, Sotto questo sole tremendo, cit., p. 87. Ivi, p. 137.

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6. Lotte animali. Nonostante i loro sforzi siano quasi sempre votati alla sconfitta per la sproporzione delle forze in campo, gli animali, anche quando si limitano a guardare incuriositi l’imperturbabile linearità della nostra folle corsa, lottano per sottrarsi all’oppressione umana, per liberarsi dal falso movimento – dall’allevamento al mattatoio e alla tavola – in cui li abbiamo confinati88. Essi sono parte attiva della «guerra sulla pietà», una guerra che sta raggiungendo il suo apice e che richiede, ora più che mai, una decisa presa di posizione. Presa di posizione che deve evolvere, oltre gli insulti e le pratiche pseudo-eutanasiche del tipo di quella richiesta dal vecchio del racconto, nel pacifico sguardo a venire di un’inoperosità, che non è falso movimento, ma quel movimento senza fini, che ancora fatichiamo a pensare, capace di arrestare l’incessante opera fagocitante ed espellente della macchina antropologica. 7. Elefanti in preda a una crisi di nervi. L’altro animale-ritornello è l’elefante. Il primo ha l’aspetto di un’elefantessa “donata” da un circo a uno zoo e bloccata nel falso movimento di un balletto stereotipato: Era uno dei gravi problemi di cui soffriva: le avevano “insegnato a ballare” a furia di scariche elettriche e il riflesso condizionato era rimasto, non smetteva più di agitare le zampe89.

Il secondo ha invece l’aspetto degli «elefanti assassini»90 affetti da «una specie di stress post-trauma» («Li prendono da piccoli e li fanno lavorare. O ammazzano le madri davanti ai cuccioli e se li portano via per venderli»)91: In genere tranquilli e passivi, capita a volte che elefanti indiani addomesticati interpretino male un gesto, oppure soffrano di mal di denti, o avvertano un pericolo. «O semplicemente si stufino degli esseri umani» come spiegava il proprietario di un circo nordamericano il cui elefante aveva ucciso con una zannata e schiacciato sotto le zampe il domatore nel bel mezzo di un numero […]. A volte però gli elefanti assassini si spingono fino ai villaggi […]. Bussano alla porta di casa e, appena il malcapitato apre, lo stecchiscono con un colpo di proboscide92.

88 89 90 91 92

Al proposito, cfr. il sito Resistenza animale, resistenzanimale.noblogs.org, dove sono raccolte innumerevoli storie di resistenza o di ribellione degli animali. Carlos Busqued, Sotto questo sole tremendo, cit., p. 40. Ivi, p. 24. Ivi, p. 48. Ivi, p. 24.

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8. Fuori dal visibile. Dalle nostre parti gli elefanti sono animali che hanno a che fare con la sfera del voyeur, che siano utilizzati per “divertimento” nei circhi o negli zoo, che costituiscano un’attrattiva per il turista occidentale che li osserva al lavoro in qualche villaggio del Sud del mondo, che compaiano in qualche edulcorato documentario naturalista. Gli elefanti sono la metonimia di tutti quegli animali catturati dallo sguardo onnipotente, continuo e instancabile di una rappresentazione ingabbiante e, per questo, anche se a prima vista sembra vero il contrario, esclusi dalla sfera del visibile93, irrigiditi in un falso movimento. È questo sguardo, e non i corpi che in-veste, a essere pornografico e, come tutte le forme di pornografia, esso arresta il flusso del desiderio, le movenze imprevedibili dei corpi in posture stereotipate, l’incessante mimica dei volti nella più assoluta indifferenza, il danzare della vita nel grottesco balletto dell’elefantessa di questo romanzo bloccata, contro il muro della schizofrenia istituzionalizzata, nella ripetizione infinita di un gesto insensato con il quale “l’Umano” cerca di dare un senso alla propria presunta improfanabilità, al suo improfanabile “proprio”94. Ma attenzione, ci ricorda Busqued, anche gli elefanti, nella loro infinita pazienza, si incazzano; non sentite uno strano «toc toc rapido»95 risuonare inquietante alle porte dell’oikos? 9. Un’immobilità leggera. Il terzo animale-ritornello è un ajolote, una specie di salamandra, che il protagonista trova agonizzante nell’acquario della casa del fratello ucciso e che dapprima scambia per un pesce: All’inizio pensò che il pesce fosse morto, ma esaminandolo meglio si accorse che si muoveva. Era uno strano esemplare, con piccole zampe e branchie arborescenti che sbucavano da dietro la testa. Provò pena per lui, doveva avere fame […] e l’ossigeno probabilmente scarseggiava […]. Riempì il pentolino di acqua fresca e la versò nella vasca per rendere l’ambiente più respirabile96.

Dopo questo gesto di pietà, forse l’unico dell’intero romanzo e che ne abbassa per un momento la temperatura, il protagonista comincia a interessarsi a questo animale «quasi sempre immobile»97 e di cui percepisce a 93 94 95 96 97

Al proposito, cfr. Filippo Trasatti, Che cosa vogliono le rappresentazioni animali?, in Liberazioni, n. 10, autunno 2012, pp. 29-38. Sulla pornografia e sull’improfanabilità, cfr. Giorgio Agamben, Elogio della profanazione, in Profanazioni, nottetempo, Roma 2005, pp. 83-106. Carlos Busqued, Sotto questo sole tremendo, cit., p. 47. Ivi, pp. 50-51. Ivi, p. 58.

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fatica «i minimi movimenti delle zampe e delle branchie esterne»98. Non cessa di osservarlo, con uno sguardo a tratti forse anche amorevole, stupito dai suoi movimenti lentissimi, dalla sua falsa immobilità, se ne prende cura e lo accudisce, fino a quando, dopo l’incidente d’auto con la mucca (e a differenza del protagonista anonimo di Axolotl di Cortázar99), se ne dimentica completamente e si incammina, in un falso movimento di liberazione, in direzione del Brasile con il bottino dell’ultimo losco traffico a cui ha partecipato: Si ricordò dell’alojote che aveva lasciato a casa di suo fratello; sarebbe morto di fame […]. Quand’era stata l’ultima volta che aveva mangiato? Come minimo quattro giorni prima. Lo immaginò posato sul fondo della vasca, nel buio fitto della casa, che si domandava nel suo modo rozzo quando un’ombra indistinta sarebbe venuta a gettare del cibo sulla superficie dell’acqua. Percependo il vuoto e la lenta leggerezza del corpo che aumentavano col passare dei giorni100.

10. Inoperosità/indistinzione. Giorgio Agamben sembra suggerire che tra le caratteristiche dell’umano dell’ultimo giorno, quello del tempo messianico, ne spiccheranno due: l’inoperosità e l’indistinzione con l’animale101. L’inoperosità, come detto, non è l’assenza di movimento, ma un movimento fattosi intensivo nell’assenza di un fine che lo muova, un movimento che si lascia percorrere dal desiderio e che si affida al fluire dei processi e che, pertanto, è capace di arrestare il lavorio della macchina antropologica non ponendosi al di fuori dalla legge, mezzo migliore per riaffermarla, ma sospendendola, scavandola dall’interno per metterne in risalto la circolarità opprimente del suo falso movimento102. L’indistinzione con l’animale non è un generico perdersi nella confusione di una fittizia uguaglianza, ma il consegnarsi al divenire animale e poi

98 99

Ivi, p. 59. Julio Cortázar, Axolotl, in Animalia, trad. it. di I. Buonafalce, C. Greppi, V. Martinetto, F. Nicoletti Rossini e C. Rizzotti, Einaudi, Torino 2013, pp. 3-9. 100 Carlos Busqued, Sotto questo sole tremendo, cit., pp. 140-141. 101 Cfr., ad esempio, Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002 e Una fame da bue. Considerazioni sul sabato, la festa e l’inoperosità, in Nudità, nottetempo, Roma 2009, pp. 147-159 102 Sulla questione della circolarità della legge e sui paradossi che questo comporta, cfr. l’attento saggio di Laurent de Sutter, Deleuze e la pratica del diritto, trad. it. di L. Rustighi, ombre corte, Verona 2011.

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al divenire impercettibile103, la rinuncia alle prerogative dell’essere-maggioranza e della sovranità. Di questo sembra parlarci l’alojote del romanzo con i suoi movimenti rallentati, con la sua falsa immobilità, con la sua lingua minore che non può certo comprendere chi non ha o non si concede abbastanza tempo per domandare con garbo e soprattutto per attendere che l’animale risponda. Così, l’alojote, animale demoniaco104 emerso dalla profondità di un tempo preistorico che non ci contempla, è trasformato dalle pareti dell’acquario in animale domestico, preso nelle molteplici triangolazioni edipiche “papà-mamma-fratellino” che costituiscono l’impalcatura del romanzo e della società che descrive105. La potenza del lento movimento dell’alojote – potente proprio per la sua intensità rallentata che lo mette in rapporto con l’impercettibile e l’impersonale – è addomesticata nella forma di un fenomeno di natura, in un altro pet di cui prendersi cura fintanto che qualcosa di più importante non prenda il sopravvento. L’alojote non è morto perché sembra non muoversi, ma è già morto (o meglio: la sua morte è già decretata) perché non siamo in grado di decifrarne il movimento di fuga intensiva. L’alojote, come tutti noi, ombre indistinte, è uccidibile (anche per semplice noncuranza) non solo perché, come ci ricorda Derrida, escluso dalla protezione dell’habeas corpus, ma soprattutto perché, al pari di tutti quelli che vengono rinchiusi nel singolare collettivo “l’Animale”, gli è negato a priori l’habeas corpse106, la possibilità di poter divenire cadavere, di albergare da vivo il vuoto e la lenta leggerezza del corpo-cadavere. La guerra sulla pietà è una guerra che non solo deve indistinguere il confine umano/animale, ma anche quello vivente/morto. 11. Nel fondo dell’abisso. L’ultimo animale-ritornello è il calamaro gigante, animale tentacolare e dagli occhi fosforescenti che percorre il romanzo fin dal suo incipit e che riaffiora continuamente alla sua superficie dagli schermi televisivi e dalle pagine di riviste popolari e 103 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani, cit., soprattutto pp. 335-437 e Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata 2006, soprattutto pp. 51-75. 104 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani, cit., pp. 344-345. 105 Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, soprattutto pp. 54-153. 106 Cfr. Jacques Derrida, La Bestia e il Sovrano. Volume II (2002-2003), trad. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2010, p. 197. Cfr., inoltre, Passi in questo volume.

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Resistenze corporee

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di enciclopedie. Il calamaro gigante è “l’Animale” per antonomasia, visto che è pescato per le sue carni, sperimentato sin dagli albori delle neuroscienze per comprendere il funzionamento del sistema nervoso ed esibito per la sua presunta spettacolarità dall’impresa pornografica di cui si è detto. I calamari giganti sono animali delle profondità che vengono portati a forza sulle barche da «uncini [che] si conficcano nell’apparato digerente […] senza che si lacerino nel tentativo di scappare»107 o

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adagiati su lunghi tavoli di laboratorio [dove] uomini in camice, chini su di loro, [sono] intenti a separarne i tessuti con bisturi e arnesi per la dissezione108.

I calamari giganti sono però anche animali del profondo, fantasmi che, in quanto rimossi, non smettono di tornare nei frequenti incubi di Cetarti, il protagonista di questo romanzo. In uno di questi, era notte e Cetarti si trovava in mezzo al mare su un piccolo peschereccio, nel culmine della stagione dei calamari di Humboldt. Con lui c’era il proprietario della barca […]. Il mare era calmo, regnava il silenzio, ma osservando le profondità dell’acqua si poteva scorgere il bagliore verde fosforescente di migliaia di occhi in piena frenesia predatoria […]. La barca si agitò bruscamente e l’uomo gli afferrò una spalla e iniziò a scuoterlo. Cetarti cercò di aggrapparsi a quel che poteva per non finire in acqua109.

In un altro, sognò che lui e suo fratello si trovavano su una spiaggia all’imbrunire. Sulla battigia si erano arenati centinaia di calamari immaturi (corpi rosastri di otto o nove metri di lunghezza, sparpagliati sulla sabbia come palloncini sgonfi). I cefalopodi agonizzanti facevano scintillare gli occhi senza molta energia e stiravano goffamente i tentacoli […]. Cetarti e suo fratello avanzavano tra i calamari. In qualche modo percepivano vividamente lo stato d’animo di quelle creature: tristezza istintiva e senso di smarrimento di fronte alle strane percezioni tattili (l’aria salmastra, la pelle che perdeva umidità velocemente), stordimento per la luce prepotente e l’improvviso pesare dei corpi110.

107 108 109 110

Carlos Busqued, Sotto questo sole tremendo, cit., p. 6. Ivi, p. 99. Ivi, p. 132. Ivi, p. 80.

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In questi due incubi, i calamari giganti assumono demonicamente il ruolo di soglia tra due mondi che si fronteggiano. Da un lato, pescati vivi, ci aprono lo sguardo sull’abisso che abbiamo tracciato tra noi e loro e dal quale cerchiamo di sottrarci, l’abisso della nuda vita e della carne macellabile, che anche noi siamo e che non vogliamo vedere. Dall’altro, come quasi-cadaveri, ci permettono di percorrere il non senso abissale dei corpi straziabili, chiamandoci alla compassione. Ci fanno scorgere, come in un bagliore, la possibilità di attraversare l’abisso che ancora corre tra la liberazione dalla natura e la liberazione della natura. 12. L’emergenza del rimosso. A differenza di soli pochi anni fa, quando questo tema non era neppure lontanamente preso in considerazione, molti romanzi e racconti recenti parlano di animali che – da soli o con l’aiuto di umani – decidono di ribellarsi dall’oppressione a cui sono stati consegnati dalla mano de “l’Uomo”111. Se la letteratura ha a che fare con il sogno, sembra proprio che qualcosa stia emergendo dal rimosso (in senso ontologico e psicologico) e che stia bussando con forza, come gli elefanti assassini, alle porte della fortezza de “l’Umano”. Che anche altri umani, oltre a Cetarti comincino a sognare calamari elettrici? Che sia questo l’inizio di un vero movimento?

111 Cfr. (R)esistenze animali in questo volume e Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace, cit., pp. 242-251.

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III PROVE DI INDISTINZIONE

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ANGELI URINANTI Non esiste uno spazio indipendente dai soggetti. Se continuiamo ancora ad attenerci alla finzione secondo la quale esisterebbe uno spazio universale è soltanto per utilizzare una convenzione che ci consente di esprimerci in modo comprensibile. (J. von Uexküll)1 Perché non erano cambiati, perché non erano invecchiati i volti delle divine madonne, e i loro occhi non si erano fatti ciechi dal piangere? Forse da quel restare immobili, perenni, derivava loro non forza, ma debolezza? (V. Grossman)2

1. Soglie. Fin dalle sue origini, la metafisica occidentale si è impegnata nella definizione de “l’Umano”, del “proprio” de “l’Uomo” (ad esempio, quando si è interrogata e si interroga su cosa siano il linguaggio, la ragione, la responsabilità, la sovranità, il diritto, ecc.). Tale lavoro ontologico, spesso, se non sempre, individua ciò che ritiene essere il “proprio” de “l’Umano” in contrapposizione a ciò che definisce come l’extra-umano, tradizionalmente declinato come “naturale” e come “divino”. Il che corrisponde a sostenere che il luogo de “l’Umano” si è andato costituendo come quel territorio confinante da un lato con l’animalità – la regione del naturale a noi più prossima – e dall’altro con l’angelicità – la regione mondana del “divino”. Riassumendo molto, “l’Umano” è la sede di una duplice man1 2

Jakob von Uexküll, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, trad. it. di M. Mazzeo, Quodlibet, Macerata 2010, p. 75. Vasilij Grossman, Tutto scorre…, trad. it. di G. Venturi, Adelphi, Milano 2010, pp. 61-62.

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canza, in quanto manca delle mancanze affermative degli altri animali3 e dell’aurea completezza degli angeli. Questa distinzione de “l’Umano” dal bestiale e dall’angelico non è, però, innocente: essa nasconde una doppia mossa che, tramite un’esclusione appropriante – quella degli altri animali ridotti a cose, merci, forza lavoro e beni di consumo – e un’inclusione expropriante – quella degli angeli a cui ci equipariamo per negare la nostra corporeità vulnerabile e mortale –, ci disloca al di fuori della natura nella posizione di proprietari assoluti dell’intero esistente di cui possiamo disporre a nostro piacimento. Pur rimanendo nell’ambito di un pensiero ancora troppo umano, Il mal sano di Michel Serres4 e Angeli caduti di Harold Bloom5 ci offrono per la fecondità delle tesi esposte, la possibilità di ripensare questi due confini de “l’Umano”. 2. «A ciascuno piace l’odore della propria merda»6. Serres comincia domandandosi: «In che modo gli esseri viventi abitano un luogo?». In che modo «si appropriano del loro spazio, ci abitano e ci vivono?»7. E risponde sostenendo, con una convincente quanto ricca serie di esempi, e ricordandoci che “abitare” e “avere” sono termini pressoché indissociabili (come è possibile abitare senza avere un nido, una tana, una caverna, una stanza?), che «la proprietà è ciò che è sporco»8. La modalità, comune agli umani e agli altri animali, per rendere proprio ciò che non lo è, ciò che non è immediatamente nostro in quanto extra-corporeo, è di marcarlo con le proprie tracce corporee: Ritengo che l’atto di appropriarsi, necessario per sopravvivere, abbia un’origine animale, etologica, corporale, fisiologica, organica, vitale… e che non derivi da una convenzione o da un qualche diritto positivo. Vi percepisco un sen3

4 5 6 7 8

Con “mancanze affermative”, come apparirà evidente in questo saggio, si intende indicare che gli animali non umani sono percorsi dal negativo (la morte, la malattia, la vulnerabilità corporea, ecc.). Negativo che non solo non negano – come è il caso de “l’Umano” che si descrive come puro spirito immortale –, ma che al contrario incorporano come parte costitutiva del loro essere nel mondo, “molla” che li fa muovere e sentire, che li lascia essere corpi finiti e vulnerabili, completamente esposti. Al proposito, cfr. Massimo Filippi, Natura infranta. Dalla domesticazione alla liberazione animale, Ortica Editrice, Aprilia 2013. Michel Serres, Il mal sano. Contaminiamo per possedere?, trad. it. di M. Schiano di Pepe, Il melangolo, Genova 2009. Harold Bloom, Angeli caduti, trad. it. di E. Zevi, Bollati Boringhieri, Torino 2010. Michel Serres, Il mal sano, cit., p. 11. Ivi, p. 9. Ivi, p. 10.

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Prove di indistinzione

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tore di urina, deiezioni, sangue, cadaveri in putrefazione… Il suo fondamento deriva dal fondamento… il suo fondamento deriva dal corpo, vivo o morto9.

Come gli altri animali delimitano il proprio territorio “contaminandolo” con ciò che il proprio corpo può emettere – poco importa se urina, latrati o dolci gorgheggi – così fanno anche gli umani: la propria minestra è quella che, intrisa di saliva, non è più appetibile ad altri, il proprio letto è quello che, impregnato di sudore, allontana gli estranei, ecc. Seguendo questa linea argomentativa in ambito intraspecifico, Serres interpreta come marcatura biologica anche fenomeni tipicamente culturali, quali la nascita dell’agricoltura (ci si appropria della terra depositandovi concime, urina e feci), della nazione (il cui territorio è marcato dai resti cadaverici dei morti in battaglia) e del sacro («Il primo che, avendo dissanguato un bambino o un maiale dopo avergli fatto percorrere il perimetro del luogo, inondò quel luogo con il sangue sacrificale, poté recintarlo e ne fece un tempio»10). A differenza degli altri animali, però, gli umani sembrano non conoscere limiti al processo di marcatura dell’esistente: La crescita del volume di rifiuti e deiezioni corporali e fisiologiche – urina, sperma, sangue, cadaveri… –, marca un’estensione dello spazio appropriato – tana, fattoria, città, paese –, ed un incremento del numero di coloro che se ne appropriano – individuo, famiglia, nazione…11.

È qui evidente il dispositivo descritto in precedenza: “l’Umano” manca della capacità di lasciar essere la mancanza “naturale” degli altri animali, mancanza che limita il volume delle loro emissioni, l’estensione dello spazio di cui possono appropriarsi e il numero dei possibili proprietari dello stesso. Tale mancanza di mancanza ingenera un inaudito quanto insostenibile ritmo di crescita delle deiezioni, responsabile dell’insorgere, secondo Serres, di due fenomeni propriamente umani e culturali: da un lato, la sostituzione delle deiezioni soggettive a rifiuti più oggettivi (quello che comunemente chiamiamo inquinamento) e, dall’altro, l’addolcimento dell’appropriazione tramite una contaminazione semiotica (quella dei loghi, delle marche, della pubblicità, della firma, del denaro, ecc.) che, oltre a invadere l’ambiente, colonizza e addomestica gli umani stessi e le loro coscienze. E così, ancora una volta per contrapposizione, si viene delineando il “proprio” de “l’Umano”: 9 10 11

Ivi, p. 20. Ivi, p. 25. Ivi, p. 46.

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Penne e pellicole

La crescita stessa dell’appropriazione diventa PROPRIA dell’Uomo. Gli animali, certo, si appropriano di rifugi per le loro sporcizie, ma in maniera psicologica e locale. Homo si appropria del mondo fisico globale attraverso i suoi rifiuti duri e […] del mondo umano globale attraverso i rifiuti dolci12.

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3. «Sterco di cane»13. Non si può che concordare con Serres quando rileva l’accelerazione e la modificazione delle “deiezioni” umane rispetto a quelle animali. Così come non si può che concordare con lui quando fa notare – seppur lasciandolo un po’ in ombra – che “l’Umano” delimita il “proprio” anche usando emissioni corporee dei «nostri fratelli animali»14, fino ad appropriarsi completamente dei loro stessi corpi: [Gli animali] ci danno il loro sangue, la loro carne, le ossa, la pelle. In base a quale diritto non scritto pensiamo che gli animali, le piante e il mondo ci appartengano? Insomma che queste sensazioni, che questi esseri, ci siano dati e che ne possiamo disporre tranquillamente?15.

Altrettanto condivisibile è anche la descrizione della struttura dei luoghi che le deiezioni corporee animali costituiscono (ciò di cui la tana è metonimia) e che si compone […] di tre spessori. Il primo, interno, protegge l’abitante tramite la sua dolcezza; all’esterno, l’ultimo, minaccia con la sua durezza i possibili invasori. Nello spessore mediano si aprono fori, passaggi, porte o porosità attraverso le quali […] una certa cosa si chiude, esce, transita, attacca, aspetta senza speranza… […] Difendere, proteggere, vietare o lasciar passare: la frontiera funziona così, in triplice forma16.

Perché, allora, si è detto in precedenza che l’analisi di Serres è ancora troppo umana? La risposta si nasconde nell’accettazione implicita da parte di Serres dell’ontologia tradizionale, accettazione che giustifica le conclusioni a cui giunge. Poiché il “proprio” de “l’Umano” continua a costituirsi a partire dalla distinzione da “l’Animale”, per Serres è sufficiente ri(n) tracciare tale “proprio” per mettere le cose a posto, per poter realizzare una gestione più benigna e meno appropriante/inquinante del mondo. In effetti, la parte non decostruttiva del saggio di Serres si limita ad affermare che 12 13 14 15 16

Ivi, p. 70. Theodor W. Adorno, Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Einaudi, Torino 2004, p. 330. Michel Serres, Il mal sano, cit., p. 53. Ivi, p. 37. Ivi, p. 58.

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Prove di indistinzione

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l’umanità dovrebbe impegnarsi in una trasformazione che la porti, attraverso la rinuncia alla proprietà tramite emissione di deiezioni, dalla condizione di proprietaria del mondo a quella di locataria, con il conseguente avvento, più o meno miracoloso, della cosmocrazia e della pace universale, di un nuovo tempo di un Uomo-Dio che non lascia tracce perché privo di carne, di un “Uomo” che si disincarna in Dio e di un Dio che si incarna ne “l’Uomo”, poiché l’Altro è visto come fatto a immagine e somiglianza dell’Uno17. Il problema centrale di questa proposta di Serres è che gli umani possano rinunciare alla proprietà intesa come residenzialità corporea nel mondo. Se gli esseri corporei sopravvivono grazie alla marcatura che definisce il territorio del proprio, allora la mossa di Serres non può darsi, ancora una volta, che tramite la negazione della nostra animalità. In effetti, Serres non lascia molti dubbi al riguardo: Bisogna quindi ripensarlo [il diritto di proprietà], cioè superare lo statuto attuale che sfiora ancora i comportamenti animali. Si tratta di progredire, ancora una volta, sul cammino maldestro dell’umanizzazione18. Dobbiamo lasciare a poco a poco la condizione animale, quella dei mammiferi o dei carnivori che orinano ai confini della loro tana. Il motto cartesiano di controllo e possessione della natura, chi ci avrebbe creduto?, ci assimilava ai cani e ai leoni, per la durezza, e agli usignoli, per la dolcezza. Cartesio, poverino, ratificava i nostri usi bestiali19.

Il che equivale a dire che il “proprio” de “l’Uomo” è la capacità, che agli altri animali è negata, di potersi disfare del proprio corpo – in una sorta di deiezione così abissale da annullare la possibilità di produrne qualsiasi altra –, di spiritualizzarsi, di potersi staccare dal terrestre rendendosi assoluto, privo di legami (Homo nullius, cioè che «appartiene solo a se stesso»20), dislocandosi in un altrove da dove può guardare «il mondo e le cose [come] la somma totale delle riserve»21. Una strada più proficua per fuoriuscire da questa iperbolica condizione deiettiva potrebbe invece essere quella della definitiva presa di congedo dall’insensata ricerca del “proprio” de “l’Umano” a favore di una che si impegni a rintracciare l’im-proprio dell’animalità che, volenti o nolenti, ci 17 18 19 20 21

Ivi, pp. 82 sgg. Ivi, p. 90 (corsivo aggiunto). Ivi, pp. 105-106 (corsivi aggiunti). Ivi, p. 101. Ivi, p. 106.

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percorre. Qui diventano fondamentali due considerazioni che percorrono sottotraccia il saggio di Serres. La prima: la proprietà degli animali non è mai privata (nel doppio senso di propria e di mutilata); gli animali delimitano con le deiezioni il loro territorio, ma non lo recintano, il territorio degli animali non è mai solo chiusura, ma al contempo chiusura e apertura22. Alcuni non possono entrare, ma altri sì: ad esempio, dal territorio ai cui confini il leone maschio ha urinato sono esclusi alcuni animali (altri leoni maschi e adulti), ma non tutti (le leonesse e i cuccioli possono continuare ad accedervi così come gli appartenenti ad altre specie, gazzelle incluse). Il proprio degli animali è tale in quanto non-proprio (im-proprio), i luoghi degli animali non sono luoghi di pura esclusione («luoghi di esilio», direbbe Anna Maria Ortese) come quello de “l’Umano”, ma innanzitutto spazi di incontri contaminanti che, ovviamente, non escludono lo scontro, senza per questo istituzionalizzarlo. Ciò è ben evidente quando Serres ci ricorda la triplice forma del confine corporeo che prevede sì una deiezione esterna, ma anche una inevitabile porosità. La proprietà privata è anche degli animali (riprendendo l’esempio di prima, un leone maschio e adulto è bene che non entri nel territorio di un altro), ma è con la nascita de “l’Umano” che la privazione riassume senza residui la proprietà, che anche l’interno del proprio luogo viene sporcato, annullando così ogni dolcezza e trasformando la triplice forma del confine in barriera impermeabile e perennemente chiusa. Le proprietà degli animali, essendo improprie, istituiscono un tra, accettano il negativo che necessariamente le percorre; la proprietà privata de “l’Umano”, fingendosi propria, nega la negazione, rinnega il tra che dovrebbe costituirla, riducendosi così all’esclusione appropriante e allo scontro continuo. La seconda (inestricabilmente connessa alla prima): le deiezioni non si muovono in un’unica direzione. Anche se continuiamo a pensare che le deiezioni vadano sempre dal corpo all’ambiente e mai in direzione opposta, empiricamente le cose non stanno così: anche l’ambiente si appropria del corpo sporcandolo. Per fare un solo esempio: i topi si muovono rasente 22

Ecco perché Serres ritiene che «l’utero, il letto e la tomba» siano i «tre luoghi fondamentali» dell’abitare, che «il verbo abitare è connesso […] ai rifugi necessari nei momenti di debolezza e fragilità: lo stadio embrionale, il rischio della nascita, la prima infanzia durante l’allattamento, la carezza del dono amoroso, il sonno, la pace, il ristoro… riposi in pace; vita felice, atto d’amore, buio della tomba, orizzontalità della notte» (ivi, p. 18) e che, senza trarne però tutte le dovute conseguenze, possiamo considerare «i luoghi in modo generico quali condivisioni dello spazio abitabile, […] parcellizzazione necessaria […] per la prosecuzione della vita in genere» (ivi, p. 19).

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i muri per farsi marcare dall’ambiente e così ritrovare la strada verso il proprio nido alla fine delle loro peregrinazioni. Esiste, cioè, una biosemiotica bidirezionale di effluvi marcanti che vanno dal corpo all’ambiente e dall’ambiente al corpo. A ben riflettere, però, la bidirezionalità delle deiezioni non è solo questione empirica, ma anche (e soprattutto) questione ontologica: non esiste un corpo e un ambiente extra-corporeo – il che riflette un dualismo ancora debitore della metafisica che esclude “l’Animale” appropriandosene –, ma corpi-ambientati o, che è lo stesso, ambienticorporei dove Leib “e” Umwelt si intrecciano e si tracciano: i corpi animali si estendono negli ambienti grazie alla motricità e gli ambienti nei corpi animali grazie al sensorio. Solo il “corpo” spiritualizzato de “l’Umano” si separa in maniera assoluta dall’ambiente. Al contrario, corpo e ambiente animali istituiscono un altro tra. Tra questi due tra, quello della proprietà degli animali e quello del corpo-ambientato, fugge ciò che sfugge a Serres. In tal senso, vale la pena di rileggere l’accenno, riportato in precedenza, a Cartesio – o, meglio, a ciò che qui la marca “Cartesio” firma. Cartesio ha ratificato «i nostri usi bestiali» (e la bêtise sembrerebbe essere quell’ineffabile “proprio” de “l’Umano”, che non abbiamo mai smesso di cercare e che non ha mai smesso di sfuggirci23) non perché ci ha assimilati a cani e leoni, come afferma Serres, ma perché ha negato che «il palazzo [della cultura] è costruito con sterco di cane». Perché ha cercato di rimuovere l’assolutamente Altro, l’insalvabile che ci percorre: il corporeo, l’animale, la vulnerabilità e la morte, l’elemento extra-logico e irrazionale che dovrebbe essere parte di una ragione che volesse diventare più ragionevole. In altri termini, come afferma Derrida, la ricerca filosofica del «proprio dell’uomo» dovrebbe cominciare a seguire (in una doppia mossa che preveda sia l’inseguire che il lasciarsi inseguire) il mostruosamente altro: Non bisogna limitarsi a sottolineare che, guardando meglio, ciò che viene attribuito al “proprio dell’uomo” appartiene anche ad altri esseri viventi, ma anche, al contrario, che ciò che viene attribuito al proprio dell’uomo non gli appartiene in modo puro e rigoroso, e che bisogna quindi ristrutturare tutta la problematica24.

23 24

Cfr. Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 106 e La Bestia e il Sovrano. Volume I (2001-2002), trad. it. di G. Carbonelli, Jaca Book, Milano 2009, pp. 181 sgg. Ivi, p. 85.

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Accettata la “logica” del tra, il proprio dell’uomo è soprattutto ciò che gli è improprio: l’umano è percorso dall’inumano, che urina, «caca, fotte»25; anche gli umani sono divenire traccia. 4. «Il dilemma dell’angelo caduto»26. Anche Bloom in Angeli caduti ci offre una definizione de “l’Umano”, ma questa volta guardando non a “l’Animale”, ma all’angelo. Bloom prima ci informa che gli angeli caduti non sono necessariamente demoni o diavoli:

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L’espressione «angelo caduto», anche se dal punto di vista teologico è identica a «diavolo» e in certi casi a «demone», conserva un pathos, una dignità e un fascino particolari27,

e poi che «al centro di ogni discorso sugli angeli caduti non può che esservi Adamo, un angelo caduto ben più grande di Satana»28. «Angelo caduto» e «essere umano» sono «due sinonimi per indicare la stessa entità o condizione»: «l’angelico e l’umano sono virtualmente identici»29. Seguendo gli gnostici, Bloom prosegue affermando che la caduta non è avvenuta prima della creazione di Adamo, come vorrebbe Agostino, ma che noi siamo «caduti nel momento stesso in cui fummo creati»30, nel momento in cui siamo diventati esseri separati e, quindi, «assoggettati alla morte»: Un tempo eravamo l’Adamo immortale, ma appena assoggettati alla morte siamo diventati l’angelo caduto, perché questo, non altro, è il significato della metafora dell’angelo caduto: la schiacciante consapevolezza della nostra morte31.

Siamo irrimediabilmente caduti perché indissociabili dal negativo: dalla morte e dalla malattia. Siamo caduti perché caduchi, esseri finiti e mortali. Sembrerebbe quindi che Bloom proponga una visione del “proprio” de “l’Umano” che accolga l’assolutamente altro. Perché allora, anche di questo saggio si è detto che è troppo umano? Perché lo specismo è un tale infestante che ricompare anche là dove pareva esser stato estirpato e la 25 26 27 28 29 30 31

Gilles Deleuze e Félix Guattari, L’anti-Edipo. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di A. Fontana, Einaudi, Torino 2002, p. 3. Harold Bloom, Angeli caduti, cit., p. 45. Ivi, p. 14. Ivi, p. 19. Ivi, pp. 40 e 41. Ivi, p. 24. Ivi, p. 45.

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«macchina antropologica» che, per un attimo, sembrava essersi arrestata, si rimette vorticosamente all’opera. Anche per Bloom, infatti, il rapporto tra “l’Umano” e l’angelo caduto è mediato dall’esclusione de “l’Animale” e dalla differenza ontologica tra noi e il nostro corpo:

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Il dilemma generato dall’essere aperti a desideri trascendenti pur essendo intrappolati dentro un animale mortale, è precisamente il dilemma dell’angelo caduto, ovvero di un essere umano pienamente consapevole32.

Ciò che rende un «essere umano pienamente consapevole», ciò che permette la messa in scena del «dilemma dell’angelo caduto», è il fatto che siamo «intrappolati dentro un animale mortale». Ecco così riapparire l’infinita litania di tutte le metafisiche: la morte, l’assolutamente improprio, non ci appartiene, essa è del corpo animale che ci imprigiona, un corpo in cui ci possiamo incarnare o da cui ci possiamo disincarnare, ma che non è mai noi, nostra «povera carne viva»33. Anche qui “l’Animale” indica verso l’improprio de “l’Uomo”, ma solo, e ancora una volta, per essere immediatamente negato tramite un’operazione di purificazione divinizzante: L’alterità è l’essenza degli angeli; ma è anche la nostra. Questo non significa che gli angeli sono la nostra alterità, o che siamo noi la loro. Piuttosto, essi manifestano un’alterità, o un potenziale affine al nostro, né migliore né peggiore, solo misurato su una scala differente34.

Rimosso “l’animale che dunque siamo”, l’alterità perde ogni connotato di mostruosità, diventa «un potenziale affine al nostro» e serve a delineare una sorta di tassonomia teologica. Darwin sosteneva che noi differiamo dagli animali per grado e non per genere. Bloom, echeggiando l’intera storia della metafisica, afferma invece che “l’Umano” si costituisce sì per differenza graduata, ma nei confronti dell’angelo. Certo siamo mortali, ma la nostra mortalità assume subito la sagoma spettrale dell’immortalità e poco importa se questa è quella delle religioni o quella laica del dilemma amletico, della consapevolezza eroica, autentica e anticipante della propria morte. Non a caso, il dilemma dell’angelo caduto riguarda solo noi: come per Heidegger, gli animali non muoiono, possono solo cessare di vivere.

32 33 34

Ibid. Tommaso Landolfi, Mani, in Dialogo dei massimi sistemi, Adelphi, Milano 2007, p. 102. Harold Bloom, Angeli caduti, cit., p. 20.

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Anche qui, continuando a seguire Derrida, non è tanto rilevante elencare le osservazioni etologiche che mostrano che anche alcune altre specie hanno consapevolezza della morte, ma piuttosto ribadire che è necessario «ristrutturare l’intera problematica», che il “proprio” de “l’Uomo” non è mai puro, non gli appartiene nella forma della proprietà privata. L’enfasi andrebbe cioè spostata da un’esperienza “cognitiva” della morte a una corporea, alla consapevolezza della vulnerabilità corporea:

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Qui viene a situarsi, come il modo più radicale di pensare la finitezza che noi condividiamo con gli animali, la mortalità che appartiene alla finitezza stessa della vita, all’esperienza della compassione, alla possibilità di condividere la possibilità di questa im-potenza, la possibilità di questa impossibilità, l’angoscia di questa vulnerabilità e la vulnerabilità di questa angoscia35.

Se la consapevolezza profonda che gli umani hanno della propria morte è parte di un più ampio con-sentire corporeo della vulnerabilità e dell’impotenza, allora è difficile escludere gli animali dal rapporto con l’angelo caduto. 5. Il resto irredimibile36. A differenza di quanto pensa la nostra tradizione, i confini tra umano, animale e angelico sono instabili e porosi. Angeli e animali non segnano delle divisioni ontologiche, ma sono aiutanti che dissestano la nostra millenaria visione del mondo, sono soglie di passaggio verso l’in-umano. Sia l’angelo caduto – in quanto non esistente – che l’animale urinante – in quanto negato all’esistenza – sono messaggeri del negativo, della “potenza di non” che, pur essendo stata costantemente obliata dalla nostra tradizione, costituisce insieme alla “potenza di”, come sottolineato da Aristotele, la potenza stessa prima che diventi atto. L’angelo caduto e l’animale urinante sono figure di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, degli infiniti mondi che la creazione del presente ha escluso dall’esistenza. Essi pertanto sono modi differenti per dire il medesimo improprio che ci precede, ci attraversa e ci sopravanza, sono segnature del resto irredimibile che è anteriore (ontologicamente e temporalmente) alla divisione/caratterizzazione del bìos e aprono lo spazio di pensabilità di una zoé che, in quanto im-potente, è insalvabile ma che, forse, costituisce l’estrema e paradossale speranza di una possibile redenzione. Ecco perché

35 36

Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 67. Questa espressione attraversa tutta la riflessione di Agamben, alla quale questo breve paragrafo fa costante riferimento.

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angeli e animali ci invitano a un rinnovamento di ciò che chiamiamo pensare e con questo dell’etica e della politica:

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Nella nostra cultura, l’uomo è sempre stato pensato come l’articolazione e la congiunzione di un corpo e di un’anima, di un vivente e di un logos, di un elemento naturale (o animale) e di un elemento soprannaturale, sociale o divino. Dobbiamo […] imparare a pensare l’uomo come ciò che risulta dalla sconnessione di questi due elementi e investigare non il mistero metafisico della congiunzione, ma quello pratico e politico della separazione […]. Lavorare su queste divisioni, chiedersi in che modo – nell’uomo – l’uomo è stato separato dal non-uomo e l’animale dall’umano, è più urgente che prendere posizione sulle grandi questioni, sui cosiddetti valori e diritti umani. E, forse, anche la sfera più luminosa delle relazioni col divino dipende, in qualche modo, da quella – più oscura – che ci separa dall’animale37.

Metafore della potenza che precede l’atto, cadute angeliche e deiezioni animali dislocano l’etica e la politica dalla provincia di ciò che è, da un’ontologia trascendente che parla con la voce oppressiva del «Tu devi» o con quella delirante dell’«Io voglio», al territorio che si lascia tracciare anche da ciò che avrebbe potuto essere e che accenna a un’ontologia dell’immanenza radicale, a che cosa (non) possiamo in quanto corpi urinanti e caduchi. CINEMA INUMANO Perché non ci dovrebbero essere, oltre le anime che camminano, gridano, mangiano, anche anime che silenziosamente fioriscono [...]? (G. T. Fechner)38

1. C’era una volta. Non è azzardato sostenere che nell’ambito di alcune espressioni dell’industria culturale si stia assistendo allo sviluppo di posizioni critiche nei confronti della prospettiva antropocentrica con l’adozione di forme e linguaggi che sembrano preludere a un’estetica altrimenti-cheumana. E, se il cinema consiste nell’atto del vedere per generare “visioni” – detto altrimenti, la costruzione registica del testo filmico rimanda all’in37 38

Giorgio Agamben, L’aperto. L’uomo e l’animale, Bollati Boringhieri, Torino 2002, p. 24. Gustav Theodor Fechner, Nanna o l’anima delle piante, trad. it. di G. Rensi, Adelphi, Milano 2008, pp. 17-18.

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tervento diacronico di uno spettatore-modello –, i film di Michelangelo Frammartino39 costituiscono un vero e proprio “detournamento”40 aspecista in grado di dar forma a situazioni animate dalla volontà di suscitare nello spettatore un desiderio di annullamento nella materia dei corpi vivi filmati. La visione eterotopica41 di Frammartino è ossimorica e spiazzante ma allo stesso tempo rigenerante. Paradossalmente, il passaggio dai nonluoghi della visione (le sale cinematografiche)42 ai luoghi della percezione – le location dell’entroterra calabrese scelte dal regista – smaschera la fantasmizzazione della realtà restituitaci dall’industria dello spettacolo, frutto della politica della globalizzazione e dell’ideologia capitalista. I paesi fantasma del Vibese, le Serre, Caulonia – città d’origine della famiglia di Frammartino – sono luoghi reali, filmati in un modo che permette loro di lasciarsi esperire quasi fisicamente da parte dello spettatore. Luoghi “incredibilmente” veri. Come del resto i “personaggi”, testimoni di una realtà sopravvissuta e rimossa: contadini, anziani e giovani43, capre, cani, alberi, carbonai, il carbone stesso, tutti disposti in un piano sequenza orizzontale, fluido, trasmigrante da un corpo all’altro, come talvolta si crede facciano le anime. Per dirla con Deleuze, il cinema di Frammartino ci espone a un corpo senza organi, rizomatico e in grado di rinascere continuamente.

39 40 41

42

43

In buona compagnia con esponenti di cinematografie emergenti di Paesi, quali la Thailandia, la Malesia o le Filippine, solitamente esclusi dal circuito ufficiale della distribuzione occidentale. Con questo termine si fa riferimento alla teoria di Guy Debord e Gil Wolman secondo cui la decontestualizzazione di opere o di parti di opere produce un’alterazione del loro significato originario. Michel Foucault, Eterotopia. I luoghi e non luoghi metropolitani, trad. it. di T. Villani e P. Tripodi, Mimesis, Milano 1994. Foucault parla di eterotopia a proposito di luoghi reali, e perciò non utopici. Luoghi reali che però sono in grado di riassumere tutti i luoghi possibili o di sostituirsi a tutti i luoghi possibili. Le sale cinematografiche sono qui intese genericamente come nonluoghi così come definiti da Marc Augé in Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, trad. it. di D. Rolland, Elèuthera, Milano 1993. Per la differenza tra le vecchie sale e i nuovi multiplex e il conseguente mutamento di percezione dello spettatore, cfr. il numero speciale La rivoluzione multiplex, Segno Cinema, n. 148, novembre/dicembre 2007. Cfr., ad esempio, Michelangelo Frammartino Il dono, Italia 2003, lungometraggio d’esordio del regista, nel quale descrive la disfunzionalità sociale dei pochi abitanti di un paese dell’entroterra calabrese, la loro inattualità (che diventa ancora più evidente quando confrontata con le abitudini consumistiche dei centri urbani), e l’anomala affettività che corre tra i giovani e gli anziani del luogo.

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2. Di volta in volta. Quanto detto è particolarmente evidente nel caso della pellicola intitolata Le quattro volte (Italia 2010). «Il protagonista del film è l’anima che alberga nei quattro corpi e materie e passa di stato in stato», afferma il regista in un’intervista44. Non a caso, l’opera è divisa in quattro parti, ognuna delle quali è dedicata a uno stato della vita: quello umano, quello animale, quello vegetale e quello minerale. Nella critica all’antropocentrismo messa in atto dal regista il tema della trasmigrazione è centrale proprio perché permette un capovolgimento prospettico. Il punto di vista non è più prerogativa de “l’Umano”, ma caratteristica irrinunciabile dei corpi vivi di tutti gli esseri senzienti, caratteristica che però più sottilmente percorre anche la terra, il cielo, gli alberi, il vento. In altri termini, il personaggio principale del film è zoé in tutta la sua suggestiva dimensione transpersonale. Lo slittamento metempsicotico delle inquadrature, che non corrispondono più allo sguardo dell’“autore”, porta allora nella sfera del visibile una visione in cui “l’Uomo” – centro del campo focale nella sedimentazione del senso comune propria dell’estetica dell’industria cinematografica e centro dell’universo secondo l’ideologia delle specie con cui si è auto-eletto creatura speciale – è dislocato sullo sfondo come un altro elemento del “paesaggio”. Lo stesso linguaggio cinematografico, d’altronde, si è formalizzato come “discorso”, sviluppando una rigida codificazione di piani che si riferiscono sempre a una figura umana ideale: primissimo piano, primo piano, piano americano (mezzo busto), piano intero, panoramiche costituiscono di fatto la traduzione in struttura cinematografica della centralità aleatoria e del conseguente dominio materiale che “l’Uomo” esercita sulla natura dopo essersi estraniato da essa. Non è perciò casuale che le presenze umane nel cinema di Frammartino siano sempre in bilico, nei pressi del confine con il mondo animale45 se non addirittura e ancora più abissalmente nei pressi di quello con il mondo minerale46. 44

45

46

www.lequattrovolte.it: «Abbiamo quattro vite incastrate una nell’altra. L’uomo è un minerale perché formato da acqua e sale e da sostanze minerali. L’uomo è un vegetale perché come le piante respira si nutre e si riproduce. L’uomo è un animale in quanto dotato di conoscenza del mondo esterno, di immaginazione e di memoria. Infine è un essere razionale perché possiede volontà e ragione. Abbiamo in noi quattro vite distinte e dobbiamo quindi conoscerci quattro volte». Concezione questa attribuita a Pitagora ma, probabilmente, sviluppata dal suo discepolo Filolao. Ad esempio, il pastore moribondo de Le quattro volte che vive ai margini della civiltà – anche fisicamente in quanto risiede a ridosso delle mura del paese in una sorta di terra di mezzo tra natura e cultura – e che come marginale viene percepito dal resto degli abitanti che provano nei suoi confronti una sorta di rispetto diffidente. Ad esempio, nello stesso film, i carbonai di Alessandria del Carretto, i cui volti anneriti dal fumo diventano maschere grottesche, inumane, indistinte e indi-

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Ne Le quattro volte un interminabile piano sequenza chiarisce esemplarmente e al di là di ogni possibile dubbio questo ribaltamento prospettico e ideologico. Durante le festività pasquali, gli abitanti di Caulonia lasciano il paese per rivivere la Passione di Cristo, ripercorrendo le tappe della via crucis in un rituale dalle origini antichissime. Accidentalmente, una camionetta parcheggiata sulla strada lungo la quale si snoda la processione – strada che rappresenta la via di fuga (anche prospettica) in direzione della collina dove culminerà la celebrazione –, va a sfondare il recinto dove è rinchiuso un gregge di capre. Queste, una volta fuoriuscite, “invadono” il paese sostituendosi agli abitanti umani. La macchina da presa è posizionata in modo che il punto di vista, attraverso una panoramica di 180°, che ruota da destra verso sinistra e viceversa, possa testimoniare l’interscambiabilità degli attanti – animali umani e non umani, le capre e gli abitanti del villaggio – sulla quale viene fatto convergere lo sguardo dello spettatore. Nella sequenza successiva, il vecchio pastore – che in precedenza abbiamo visto curarsi con una mistura di acqua e polvere raccolta nella chiesa del villaggio in una sorta di processo osmotico di trasformazione della materia in corpo vivo – esala l’ultimo respiro, chiudendo «la prima volta», circondato dalle “sue” capre nell’umile dimora dove ha sempre vissuto in qualche modo felice. Il film è scandito da continue fratture di ciò che definiamo “naturale”. Gli animali, solitamente relegati al di fuori della polis, vengono a occupare gli spazi (interni) della convivenza umana, innescando autentiche crisi culturali che però paiono in grado di ricomporre equilibri naturali compromessi: le case dei villaggi sempre aperte, la pioggia che penetra nelle abitazioni, la Calabria stessa (terra di filosofia eretica dove l’animismo della scuola pitagorica non ha mai smesso di far sentire i propri effetti) con tutte le sue contraddizioni. Le dissolvenze al nero con cui Frammartino chiude i singoli episodi sono foriere di altrettante rinascite e la continuità di suoni e rumori suggella l’intensità materica degli spazi di vita che il film attraversa. Il pastore muore e, accendendo lo sguardo dello spettatore con folgorante essenzialità, un agnellino sorge alla vita uscendo dal grembo della madre. Un tonfo leggero. I primi movimenti. Il primo respiro. «La seconda volta» bandisce “l’Umano”. La macchina da presa è completamente avvolta da questo animale. L’excursus narrativo insegue l’erranza dell’agnello che si perde nel bosco, anch’egli marginale rispetto al gregge da stinguibili dalle stranianti pire che loro stessi edificano con il legno bruciato. Analoga è l’operazione della recente cineinstallazione Alberi, Italia 2013, nella quale Frammartino riporta in superficie quanto era sprofondato nei meandri della memoria: un antico culto arboreo della Lucania medioevale nel quale gli umani, ricoprendosi di rami e di fronde, diventano appunto alberi.

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cui si allontana per portarsi in prossimità della «terza volta», rappresentata dall’abete sotto cui, stremato, si addormenta. Nella «quarta volta», la condizione umana, tragica e ridicola, ripristina, inesorabile, l’ordine delle cose. L’abete viene tagliato, portato nel paese di Alessandria del Carretto e issato nella piazza principale per dar vita alla festa della Pita, ricorrenza che celebra un rito legato alla fertilità, tramite il quale “l’Umano” ricorre (paradossalmente) a una trasposizione simbolica per porre rimedio alla propria perdita. Mentre gli animali agiscono i mondi in cui vivono, “l’Uomo” si allontana dal suo trasformando l’ambiente in mito. Per ricomporre la frattura tra se stesso e il non umano, tra l’io e l’altro, tra cultura e natura, “l’Umano” utilizza stratagemmi che ritiene rigeneranti: icone, feticci, riti e sacrifici47. Oggi è il cinema che, nella sua predisposizione mitopoietica, è maggiormente in grado di riprodurre il reale nel tentativo di ricomporre questa frattura altrimenti insanabile. Frammartino, allora, filma il non-dicibile. L’assenza di dialoghi, assorbiti totalmente dai suoni, fa slittare l’intera “storia” affabulatoria del consumo cinematografico parcellizzato in generi e svela un altro volto del cinema: l’azzeramento emotivo del significato a favore di un’affettività diffusa nella quale lo spettatore può smarrire il punto di vista e la disposizione di sguardo regolati dai meccanismi del dominio. Cinema eccezionale, dunque, in quanto eccedente le regole: è l’eccezione (l’inumano, l’altro da noi, il fuori da noi) a creare un’altra regola – in questo caso la “storia” del cinema, il “discorso” del cinema. Il cinema di Frammartino è un atto politico come pochi altri oggi. Assecondando gli espliciti suggerimenti del regista, bisognerebbe allora riconsiderare l’intera storia del cinema, evidenziando l’importanza di autori, quali Tarr, Bresson, Snow, Pelesjan e Beckett, che hanno saputo guardare (inquadrare) inumanamente il mondo prendendo le distanze dalla discriminante regolata dalla nozione di specie, discriminante che gerarchizza lo sguardo a seconda delle differenti forme di vita (bìos) che osserva tassonomizzando. Per dirla con le parole dello stesso Frammartino: Si può liberare il cinema dalla tirannia dell’umano, che è un privilegio ma anche una condanna alla solitudine? Le quattro volte cerca di incoraggiare questo percorso di liberazione dello sguardo sollecitando lo spettatore a trovare il nesso nascosto che anima tutto quello che ci circonda48.

47 48

Cfr., ad esempio, Roger Callois, Il mito e l’uomo, trad. it. di A. Salsano, Bollati Boringhieri, Torino 1998, soprattutto pp. 116-119. www.lequattrovolte.it.

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PIANI DI FUGA DAL PASSATO PRESENTE DI AUSCHWITZ

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Un nulla eravamo, siamo, rimar- / remo, fiorendo (P. Celan)49

1. Un passato che non passa. Discesa all’Ade50 è il resoconto del viaggio di Günther Anders in compagnia della terza moglie Charlotte Zelka nei luoghi della sua nascita e della sua possibile morte, nel «luogo in cui era stato decretato che dovessi morire, essere eliminato e ridotto a rifiuto – avrebbe dovuto accadere venticinque anni fa»51. Al contempo, esso rappresenta per Anders anche l’occasione per una densa analisi filosofica, in cui assistiamo all’implosione e al faticoso tentativo di rielaborazione di quei concetti che descrivono la nostra toponomastica esistenziale e riflessiva: spazio, tempo e identità, concetti che Auschwitz ha messo irrimediabilmente sotto scacco, evidenziando l’insensatezza che li anima. Parole che è necessario sottoporre a un paziente lavoro decostruttivo se vogliamo guadagnare un paradossale «silenzio», preludio di un altrettanto paradossale «impegno» che almeno ci consenta di provare a sfuggire dalla «somma delle atrocità che potrebbero verificarsi domani»52. Libro, quindi, debordante, da maneggiare con cura, vertiginoso. Libro che assume queste caratteristiche a partire da quella che, da subito, si presenta come l’impossibilità di classificarlo nei confini di una qualche forma letteraria codificata. Infatti, anche se qui si parla di Auschwitz, le coordinate di riferimento non sono quelle dei “classici” resoconti sui lager, poiché qui ciò che spaventa non è quello che non c’è più, non il vuoto, ma al contrario, le cose che, casualmente, continuano a esserci nel nulla che in realtà ci aspettiamo di trovare53.

L’orrore dei campi di sterminio ci è di solito restituito, da Primo Levi a Boris Pahor, dallo sguardo sul vuoto di chi ha vissuto quell’esperienza. E, non di rado, questo avviene tramite un ritorno sul luogo del male estremo ormai in qualche modo confinabile entro le regioni del passato, nelle regio49 50 51 52 53

Paul Celan, Salmo, in Poesie, trad. it. di M. Khan e M. Bagnasco, Mondadori, Milano 1986, vv. 9-10, p. 117. Günther Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966, trad. it. di S. Fabian, Bollati Boringhieri, Torino 2008. Ivi, p. 29. Ivi, p. 13. Ivi, p. 50.

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ni del «nulla che […] ci aspettiamo di trovare». È per questa ragione che tali resoconti assumono la forma delle memorie, in cui l’evento indicibile per eccellenza, il male assoluto dei campi di sterminio, diventa almeno parzialmente narrabile in quanto passato, in quanto circoscrivibile nel tempo e nello spazio grazie al lavoro della memoria che si impegna a rielaborare l’orrore spersonalizzante opponendogli l’insostituibile prospettiva di sguardo di chi, in prima persona, lo ha dovuto attraversare. Ad Anders, però, questo è precluso sia perché ha potuto lasciare la Germania nazista prima di Auschwitz (contingenza legata «all’agire negligente della storia del mondo, che consente a questo o a quello di cavarsela»54) sia perché non sembra essere possibile un dopo Auschwitz, in quanto Auschwitz è ancora presente essendosi rimaterializzato a Hiroshima, in Algeria, in Vietnam e negli infiniti altri luoghi dove ha regnato e tuttora regna la banalità del male, trasformando «tutto questo territorio [in] un unico immenso camposanto, un’unica immensa fossa comune»55. Anders, cioè, non può avere memoria di Auschwitz non solo perché non c’è stato, ma anche, e soprattutto, perché Auschwitz sembra precludere ogni possibilità di fuga («Tutte le strade portano ad Auschwitz»56): Auschwitz è passato nel non passare mai. È all’interno di questa doppia abissale assenza, dal luogo dell’orrore e dalla possibilità di ricordarlo, che si dipana il libro di Anders, che si aggira sperduto, come il suo protagonista, tra le macerie post-belliche, tra i resti di quello che un tempo erano stati il diario, il trattato filosofico, il Bildungsroman, l’autobiografia e il resoconto di viaggio. Discesa all’Ade è una memoria virtuale di un sopravvissuto virtuale, è il racconto di ciò che è accaduto prima e di ciò che è rimasto dopo Auschwitz, che è il buco nero dove collassa, perché trionfa, la visione metafisica de “l’Umano” al quale sacrificare l’intero esistente, membri della specie Homo sapiens compresi. 2. Un’implosione dopo l’altra. Questo libro descrive, come detto, l’inarrestabile implosione delle categorie con cui siamo abituati a leggere il mondo, un’implosione scatenata dall’insensato e non, come siamo stati addestrati a pensare all’interno del recinto della tradizione, dal non senso. Tra queste pagine di Anders sembra aggirarsi una presenza aliena e fantasmatica, una sorta di cosmico ritorno del mai rimosso, che rende il mondo isotropo e sincrono e i suoi abitanti numeri di un’esorbitante contabilità 54 55 56

Ibid. Ivi, p. 58. Ivi, p. 97.

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della morte, nude vite prese nella macchina mondiale del consumo che contraddistingue l’attuale epoca del «dislivello prometeico»57. Questa implosione investe dapprima lo spazio («Non riesco a orientarmi del tutto, non riconosco il posto in cui sto girando in tondo»58), in cui non è più possibile orientarsi non tanto per le modifiche della toponomastica, che Anders ossessivamente continua a ribadire, o perché non vediamo più le cose a cui ci eravamo abituati, ma piuttosto perché vediamo cose che non dovrebbero più esserci, perché Anders non è mai arrivato lì «da sud-est, mai da Auschwitz»59. La possibilità di orientarsi è persa perché lo spazio è stato privato della dimensione assente del fuori, dell’esotico60 e della lontananza61, tanto che ormai tutti i luoghi «sono situati nel medesimo ora»62. Ma se lo spazio diventa sincrono, il tempo diventa isotropo, viene negato dal «permanente»63: Ciò che riempie di terrore non è che «tutto scorra», né che il passato sia irreparabilmente trascorso. Ma, al contrario, che non tutto scorra, che nel fiume ci siano delle pietre, ossia che il luogo di allora, che nel ricordo avevo creduto fosse anch’esso solo un segmento del passato, si sia del tutto emancipato da quel passato, e oggi sia attuale proprio come allora, smentendo così il tempo64.

E se spazio e tempo girano a vuoto, anche l’identità si frantuma: «Perché quello ero io, o sono io, o fui io, o un giorno sarò io»65. E, in questa ulteriore implosione, scopriamo che veniamo dopo il mondo, che prima di nascere siamo già morti «da tempo immemorabile»66. In questa scoordinata insistenza del permanente, «i morti continuano ad esistere», sono «non-esserci […] sotto forma di oggetti che ci sono ancora»67. Da qui gli innumerevoli revenant che affollano il libro, da quelli “pubblici” come Edith Stein, che Anders rivede passare, in una delle 57

58 59 60 61 62 63 64 65 66 67

Cfr. Günther Anders, L’uomo è antiquato. 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, trad. it. di L. Dallapiccola, Bollati Boringhieri, Torino 2003, p. 50: «Chiamiamo “dislivello prometeico” l’asincronizzazione ogni giorno crescente tra l’uomo e il mondo dei suoi prodotti, la distanza che si fa ogni giorno più grande». Günther Anders, Discesa all’Ade. Auschwitz e Breslavia, 1966, cit., p. 47. Ivi, p. 48. Ivi, pp. 32-33. Ivi, p. 76. Ivi, p. 33. Ivi, p. 109. Ibid. Ivi, p. 120. Ivi, pp. 91-92. Ivi, p. 9.

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pagine più intense, sul ponte sull’Oder in transito verso Auschwitz su un carro bestiame68 a quelli “privati” dei familiari o della proteiforme Pauline che, inconsapevole, inaugura la formazione sentimentale del protagonista e che assume contemporaneamente l’aspetto di una «marmocchia impertinente»69 e di una settantenne tristemente invecchiata, che è al contempo un’innocente dodicenne e una possibile delatrice nazista cinquantenne70. E dalle perturbazioni del permanente non è immune né l’autore (che, fantasma tra i fantasmi, continua a riapparire bambino, tra le macerie e le pagine, con il suo vestito da marinaretto), né il corso degli eventi che devono essere continuamente riordinati per assumere una qualche parvenza di continuità71. Auschwitz fa implodere il mondo perché inaugura il nonluogo della sostituibilità perenne – «Qui non c’è nulla che non alluda ai morti. Breslavia stessa è una fossa comune»72 – dove l’eterno presente esclude le potenzialità lenitive della memoria, dove mancano le parole per rimarginare il passato (dargli un margine, dei limiti spazio-temporali), perché la lingua-madre, quella che con accenti rilkiani permetteva ad Anders di dire «cavalli», «carrozze», «ponti»73, non ha più corso. Perché Auschwitz ci ha squadernato di fronte l’artificio occultato nel linguaggio: A noi basta pronunciare la parola «i morti» […] e con l’artificio linguistico abbiamo già fatto di questi morti dei soggetti […], una condizione di soggetti considerati come «esistenti», cosa che essi non sono appunto più. Anche in questa mia affermazione, che non sono più, è ancora presente l’artificio74.

3. Una sensibilità ampliata. Nonostante tutto, Anders non rinuncia a chiedersi: «Com’è dunque possibile la speranza?»75 e a cercare di chiudere il varco da cui il passato continua a suppurare nel presente: Torniamo indietro, indietro verso i luoghi in cui noi siamo di nuovo noi, tu sei di nuovo tu, io di nuovo io, il qui è di nuovo qui, e oggi di nuovo oggi, via, via, via!76. 68 69 70 71 72 73 74 75 76

Ivi, pp. 23-24. Ivi, p. 131. Ivi, pp. 130-135. Cfr., ad esempio, ivi, pp. 119-120. Ivi, p. 75. Ivi, p. 29. Ivi, pp. 10-11. Ivi, p. 46. Ivi, p. 156.

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E tale possibilità è intravista nel tentativo disperato di colmare il dislivello prometeico:

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Oggi dobbiamo imparare non solo ad ampliare la nostra fantasia, non solo ad immaginare in modo adeguato l’orizzonte mondano che ci determina e che da noi è determinato, ma anche ad ampliare in modo sistematico la nostra sensibilità 77.

Che cosa può mai significare l’espressione «ampliare in modo sistematico la nostra sensibilità»? Un tentativo di porsi all’altezza dell’accorato appello di Anders forse si nasconde, nella forma di un’intuizione che rimane inespressa e silenziosa, tra le pieghe di tre misteriose apparizioni che irrompono in queste pagine. La prima è costituita da dei girini uccisi da un Günther bambino assieme ad alcuni amici, a cui segue l’amara e sconsolata constatazione che a nessuno di questi esseri minuscoli fu naturalmente concessa la possibilità di diventare ciò che era previsto da milioni di anni: vale a dire una vera rana. Gli esseri minuscoli che giacevano sulla sabbia, alcuni fatti a pezzi, altri ridotti a muco spiaccicato, altri ancora asfissiati, rappresentavano un’intera generazione di esseri non nati, non avevamo solo ucciso la contemporaneità; il nostro assassinio si proiettava molto più in là, nel più lontano futuro78.

La seconda è «un osso di pollo» che riaffiora tra i resti della casa della famiglia Stern, della cui origine, però, Anders è tutt’altro che certo, potendo anche essere «un osso umano»: l’indecidibilità della provenienza di questo resto mortale accenna alla natura costitutivamente transpecifica e indistinta della corporeità offesa (sia essa quella di «un volatile», «di un locatario successivo» o di «un fante siberiano»79), ridotta dall’antropocentrismo metafisico, di cui Auschwitz rappresenta l’acme, all’esclusivo statuto di carne macellabile. La terza apparizione è la nudità acerba del corpo di Pauline che Anders scorge in trasparenza mentre la ragazza volteggia «spiumata alla stanga dello stenditappeti»80 e che gli richiama alla mente l’immagine di «un pollo spennato, appeso per farlo dissanguare»81. Apparizioni che assumono significato solo se iniziamo a intravedere in Auschwitz il prodotto della macchina antropologica che, in un perenne sta77 78 79 80 81

Ivi, pp. 42-43 (corsivo aggiunto). Ivi, p. 63. Ivi, pp. 78-79. Ivi, p. 132. Ivi, p. 131.

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to di eccezione, esclude gli altri animali catturandoli nell’opprimente singolare collettivo de “l’Animale”, necessario a costruire, per antitesi, il regno e la gloria de “l’Umano”. Esclusione recludente – di cui Anders mostra di capire perfettamente la portata nelle pagine del suo capolavoro, L’uomo è antiquato82 – che ha falsato l’intera topografia della nostra esistenza e che richiede una toponomastica ancora tutta da scrivere. Non a caso, nelle carceri di Breslavia, la città natale di Anders, un altro fantasma ha vissuto parte della sua esistenza; un fantasma che qui non compare, ma che avrebbe potuto lampeggiare nel cortocircuito temporale di cui questo libro dà testimonianza: il fantasma di Rosa Luxemburg, quella Rosa Luxemburg che non ha esitato a chiamare «mio povero, amato fratello»83 un bufalo oltraggiato, come lei e come innumerevoli schiere di umani, dalla violenza della storia. VIAGGI DELL’ANIMA E che si sa delle condizioni dell’anima, il giorno dopo la notte più lunga? (H. Laxness)84

1. Uno zoologo sotto copertura. Anche se Ernst Jünger è noto soprattutto per le sue due opere maggiori – Nelle tempeste d’acciaio e L’operaio –, per le idee politiche reazionarie e per il fecondo rapporto intellettuale con Martin Heidegger e Carl Schmitt, non va dimenticato che fin da giovane si interessò di entomologia e, più in generale, di zoologia. L’attrattiva che il mondo animale ha esercitato su Jünger si manifesta con forza in Visita a Godenholm85, libro che raccoglie due racconti in cui l’animalità non

82

83 84 85

Günther Anders, L’uomo è antiquato, cit., p. 331 (nota 9): «Il raffronto “uomo e animale” mi sembra però inaccettabile anche in termini di filosofia della natura: l’idea di opporre la specie singola “uomo”, come controparte equipollente, alle miriadi di specie e generi animali infinitamente diversi tra loro, e trattare queste miriadi come se formassero un unico e solo blocco tipico di esistenza animale, non è altro che megalomania antropocentrica». Rosa Luxemburg, Un po’ di compassione, trad. it. di M. Rispoli, Adelphi, Milano 2007, p. 21. Halldór Laxness, Gente indipendente, trad. it. di S. Cosimini, Iperborea, Milano 2004, p. 408. Ernst Jünger, Visita a Godenholm, trad. it. di A. Vigliani, Adelphi, Milano 2008.

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compare – come spesso accade – sottoforma di semplice “contorno”, ma piuttosto come una sorta di ineludibile innervatura delle storie narrate. 2. In laboratorio. Nel racconto più lungo, quello che dà il titolo al libro, Moltner (un neurologo antipositivista e dolente, che ricorda una «mosca prigioniera nella bottiglia»86 e che, «al pari dello scoiattolo che fa girare la sua ruota»87, considera insoddisfacenti tutti i sistemi filosofici), Einar (uno studioso di preistoria interessato a siti archeologici che probabilmente servivano «da osservatori astronomici o da pietre sacrificali»88 e che ha conosciuto «la sofferenza che uccide anche la speranza»89) e Ulma (una giovane donna che porta «il proprio corpo come una veste donatale dalla natura»90) si incontrano al cospetto di Schwarzenberg, un misterioso personaggio psichedelico arroccato su un’inquietante isola del Mare del Nord che tanto ricorda, per la sua grigia climaticità e le evanescenti presenze, L’isola dei morti di Arnold Böcklin. Anche se di Schwarzenberg non ci viene detto molto, di lui sappiamo che abita in una sorta di castello-museo con «teschi e trofei, appesi alle pareti e al soffitto»91, che per lui «congiungersi in un atto creativo non era solo il fine dell’amore, ma anche di qualsiasi comunione elevata»92 e che è affascinato da un’«arma […] tagliata in una pietra scura»93, in quanto «vi vedeva un segno della Ragione che agisce nell’Indiviso»94. Sappiamo poi che Schwarzenberg vive con due servitori, sorta di “espansione corporea” del suo essere completamente spirituale: Gaspar – un uomo torbido e oscuro, che porta con sé un coltello sempre «pronto all’uso»95 – ed Erdmuthe – una donna ambigua e sfuggente, dalle movenze simili a quelle dell’Iguana ortesiana, a cui tanto assomiglierebbe se non fosse per la sua debordante pinguedine. Quello che i tre protagonisti chiedono a Schwarzenberg è di accompagnarli in un viaggio al centro delle loro anime, o meglio in un vertiginoso viaggio a ritroso verso quell’«Indiviso» che, secondo loro, precede le

86 87 88 89 90 91 92 93 94 95

Ivi, p. 64. Ivi, p. 65. Ivi, p. 30. Ivi, p. 62. Ivi, p. 75. Ivi, p. 48. Ivi, p. 51. Ivi, p. 50. Ivi, p. 52. Ivi, p. 39.

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innumerevoli fratture (anima/corpo, natura/cultura, ragione/istinto, ecc.) dell’era presente e presso il quale dovrebbe risiedere il vero Sé. In questo viaggio attraverso «nuclei inestesi e atemporali»96, la considerazione di ciò che definiamo con il termine di “animalità” – sia essa a noi “interna” (la corporeità e la finitudine) che a noi “esterna” (gli altri animali) – gioca un ruolo di primo piano. Il racconto (e quindi il viaggio) inizia con due scene di “violenza animale”. La prima, “naturale”, è quella di un pesce «con il ventre tagliato di netto», le cui «interiora biancastre erano trascinate sulla spiaggia»97 da un gruppo di uccelli marini. La seconda, “culturale”, ha luogo quando un merluzzo scuro, che ha abboccato all’amo di Einar, viene squartato da Gaspar: «Introdusse [il coltello] all’altezza delle branchie, che si divaricarono rosse di sangue, e tagliò in giù fino alla pinna caudale»98 (operazione che si ripeterà poco dopo ai danni di «un pesce rosso ceralacca»99). Il luogo in cui si svolge l’azione mantiene però anche traccia di un tempo altro (forse di un non-tempo) in cui l’apparire de “l’Umano” non aveva ancora lacerato l’Indiviso: «L’aria portava le voci degli uomini e degli animali»100, «la vita […] era semplice, ma immersa in una libertà che ricordava la preistoria»101, «il loro corpo, in armonia con gli elementi, doveva trasformarsi in spirito, lo spirito trovare la propria realtà nel corpo»102. Insomma, sembra che Jünger pensi che sia stato l’arcaico taglio inferto da “l’Uomo” al corpo della natura – quando da questa e dal mondo animale si è alienato, istituzionalizzandone la violenza – a render conto della condizione scissa e contraddittoria in cui ancora ci dibattiamo. Condizione che si traduce nel continuo oscillare del racconto tra momenti dove la salvezza pare essere a portata di mano e momenti in cui l’intero universo sembra essere intimamente pervaso da una disperazione cupa e inemendabile. Anche le tappe successive di questo viaggio oltremondano sono segnate da apparizioni di animali. Al momento della discesa nei gorghi del tempo, Moltner si sente come «un animale dai molti tentacoli che si contorce nella rete»103 ed Einar percepisce l’apertura del «sipario su una scena dove tutto

96 97 98 99 100 101 102 103

Ivi, p. 51. Ivi, p. 28. Ivi, p. 39. Ivi, p. 42. Ivi, p. 68. Ibid. Ivi, p. 75. Ivi, pp. 81-82.

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era possibile»104 nell’«eterno lamento» di un cane alla catena, lamento che riecheggia «la fame, le minacce, la scomparsa del mondo»105 e cane che poco dopo diventa animale metafisico e mitologico: «La Via Lattea era la schiuma lasciata dalla sua bava. La Terra vomitava le sue stesse viscere»106. Tutti i protagonisti avvertono poi «i segni della decomposizione»107 della propria carne e dell’universo e la presenza dell’altro confine, oltre a quello umano/animale, tracciato e ritracciato dalla nostra cosmogonia: quello tra i viventi e i morti. Essi avvertono cioè la presenza dell’assenza senza ritorno che si associa alla consapevolezza «che senza la fine non è possibile alcun inizio»108. Per questa ragione, il loro viaggio iniziatico è al contempo «liberazione e rischio immane»109. Successivamente, i protagonisti assistono al passaggio di una bestia bizzarra dall’ «immagine terrifica, improntata al puro volere, alla voracità nuda, tesa», ma che, nonostante l’orrore che suscita, conserva «un’eleganza primeva»110. L’incontro con questo animale provoca, come sempre accade quando ci si trova di fronte all’assolutamente Altro, sentimenti opposti – terrore e fascinazione. La sua comparsa è presto seguita da una schiera variopinta di altri pesci che, a beneficio di Moltner, si esibiscono in una sorta di «corteo carnevalesco»111 grazie al quale, «profondamente toccato» e intuendo fino a che punto gli era rimasto celato «che cosa realmente significassero “pesce” e “acqua”»112, intravede un passaggio verso un altrove dove potrebbe «amare, […] sognare, anzi perfino […] pensare come quel pesce»113. La cifra dell’intera storia sta proprio qui, in questa continua indecisione tra la possibilità di confondersi con quel pesce primevo fino al punto di pensare come lui (o lei?) e la necessità di prendere subito le debite distanze da questa prospettiva inaudita, incerti tra l’orrore e l’offesa, nel momento stesso in cui si percepisce la pallida inconsistenza del Sé umano. Sembra cioè che Jünger intuisca che la possibilità di recuperare una visione meno lacerata del nostro essere nel mondo si annidi tra le pieghe di un movimento che ci permetta di prendere congedo dallo iato abissale che abbiamo

104 105 106 107 108 109 110 111 112 113

Ivi, p. 84. Ivi, p. 83. Ivi, p. 84. Ivi, p. 86. Ivi, p. 87. Ivi, p. 90. Ivi, p. 91. Ivi, p. 93. Ivi, p. 94. Ivi, pp. 93-94.

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posto tra noi e il resto del vivente animale; possibilità che mette in gioco anche l’altro confine di cui si è detto e che, altrettanto occultato, inquietante e irrisolto, ci “individua” come «carne» vulnerabile e mortale tra un nulla che ci precede e un nulla che ci segue:

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Era il grande, l’ignominioso mistero di questo mondo […]. Era il pungolo della carne, e a questa sola risalivano tutti gli altri generi di vergogna114.

Questa folgorante intuizione non si risolve, però, nella constatazione che il “confine animale”, tutt’altro che dato di fatto naturale, è invece il frutto di una millenaria costruzione culturale atta a normalizzare/neutralizzare l’altro perturbante della natura – l’animalità e la finitudine. Ed è contro tale incapacità di accettare che siamo parte della carne-del-mondo che naufraga il viaggio di Moltner, Einer e Ulma. Tutti e tre sono, infatti, impreparati sia ad affrontare l’insospettata potenza destabilizzante di questa “scoperta” (che se seguita fino in fondo li condurrebbe oltre le soglie dell’umano) sia che il tramite obbligato da cui passare per raggiungere quell’oltremondo di cui sono alla spasmodica ricerca è proprio il divenire animale. L’attrezzatura con cui si sono equipaggiati per intraprendere il viaggio è ancora umana, troppo umana; dal che consegue un sentimento di paralizzante terrore, che annega la fascinazione per l’esorbitante componente in-umana della vita che ci percorre eccedendoci. Lo pseudocastello di Schwarzenberg non è «una casa di cura»115 – un luogo in cui sarebbe possibile l’amorevole lavoro di rimarginazione delle ferite della carne-del-mondo –, ma un «laboratorio»116 – il nonluogo in cui si pretende di curare, di ricomporre le fratture, ma che in realtà rappresenta l’apoteosi di quell’arte dissettoria che non cessa di approfondire il solco tra “l’Umano” e “l’Animale”, trasformando il corpo vivente del primo in cadaverico codice universale e quello del secondo in un’infinita sequela di tagli di carne. Non a caso, allora, i protagonisti di Viaggio a Godenholm, al pari degli autori di tanti documentari “naturalistici” contemporanei, continuano a non vedere la rigogliosa esuberanza dei mondi animali, abbagliati come sono dalla surrettizia dicotomia tra preda e predatore117, dicotomia che li esclude da ogni possibilità di approdo oltre l’orrore del presente. Il viaggio dei tre protagonisti si conclude così con un nulla di fatto e Schwarzenberg ne sancisce il fallimento affermando, mentre un indecifrabile sorriso gli si 114 115 116 117

Ivi, pp. 86-87. Ivi, p. 72. Ibid. Ivi, p. 65.

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disegna sulle labbra, che nella sua casa «gli ospiti non vi trovano niente di più di quello che hanno portato con sé»118. 3. Nel bosco. Nell’altro racconto, La caccia al cinghiale, la scena cambia, passando dall’atmosfera ambigua e funambolica del racconto precedente a un’ambientazione che sarebbe edenica – «un manto solenne avvolgeva il mondo» – se il «segreto del bosco»119 non fosse da subito squarciato (e squartato) dalla presenza, dalle voci, dalle manovre e dai suoni degli strumenti venatori di un gruppo di cacciatori. Richard, il protagonista della storia, è un adolescente che non vede l’ora di crescere, che sogna ogni notte di poter impugnare il fucile – di cui parla con accenti di profonda sensualità erotica –, perché «sentiva che il suo possesso avrebbe significato per lui un perfezionamento, una trasformazione totale»120. In altre parole, Richard ha intuito che l’ingresso nell’età adulta prevede un rito di iniziazione – un altro viaggio dell’anima – in cui è necessario assumere una posizione di dominio sul resto del vivente animale passando attraverso la prova estrema della messa a morte. La battuta di caccia ha inizio e, improvvisamente, dal folto del bosco, irrompe sulla scena l’altro protagonista del racconto. È «un gagliardo cinghiale»121 dal «petto possente» e dalle «robuste zanne ricurve» che «conferivano alla testa un’espressione di iroso disprezzo»: Il grifo scuro […] lasciava intuire il disgusto con cui quel gran signore avvertiva la vicinanza degli umani inseguitori e della loro scia odorosa122.

Per un attimo, Richard incrocia lo sguardo con quello dell’animale che, capito quanto sta per accadere, si lancia in un disperato tentativo di fuga. Un attimo che lo segna profondamente e indelebilmente. È questo fugace scambio di sguardi, infatti, che innesca quella trasformazione di cui Richard era alla ricerca e che ora scopre, non senza sorpresa, risiedere nel riconoscimento di quanto ci condivide con l’Altro: Richard non avrebbe mai dimenticato quel momento: il sentore della possa e del panico, ma anche della magnificenza123.

118 119 120 121 122 123

Ivi, p. 114. Ivi, p. 16. Ivi, p. 14. Ivi, p. 16. Ivi, p. 17. Ibid.

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Anche Breyer – l’adolescente poco più grande di Richard al quale è consentito portare l’agognato fucile e nel quale la follia della normalità ha già verosimilmente messo salde radici – è scosso di fronte alla perturbante apparizione del cinghiale, ma lo sguardo del cinghiale non lo attraversa da parte a parte e fin dentro le viscere. Pur guardandolo, non lo vede: Breyer spara alla cieca subito dopo che il cinghiale si è dileguato nel fitto del bosco. Al rumore assordante dello sparo, amplificato dal silenzio di un mondo nuovamente ferito, seguono momenti concitati e volgari in cui l’impianto gerarchico della nostra società si mostra in tutta la sua grettezza: il guardaboschi rimprovera aspramente il tirocinante Breyer, perché a sua volta verrà biasimato dal conte per essersi lasciato sfuggire una facile preda. Nonostante l’inesperienza di Breyer, il colpo è però andato a segno e rapidamente il gruppo di cacciatori circonda il cinghiale abbattuto che, anche da morto, non cessa di guardare con «occhi [...] un po’ beffardi i suoi carnefici»124. A questo punto, mentre si svolge il rituale di smembramento del corpo dell’animale – espressione materiale del funzionamento della «struttura sacrificale», della «messa a morte non criminale», che prevede che “l’Umano” sorga dall’«ingestione, incorporazione o introiezione del cadavere»125 dell’Altro –, Richard «provò una stretta al cuore; gli pareva quasi indecoroso che gli occhi si pascessero alla vista dell’animale ucciso» e avverte l’impercettibile richiamo dell’indistinto – lo stesso che aveva interpellato Moltner di fronte al variopinto branco di pesci –, la sensazione «che in quel momento il cinghiale gli fosse più vicino, più affine dei suoi inseguitori, dei suoi cacciatori»126. 4. Dall’Indiviso al condiviso. Quelli a cui abbiamo assistito sono veri e propri eventi, inattesi e imprevedibili momenti di incontro con l’assolutamente Altro, attimi imponderabili che possono però essere forieri di inaudite “conversioni”. L’esito completamente differente delle due storie è il risultato, proprio come sostiene l’autore, di ciò che i personaggi hanno con sé al momento di intraprendere il loro viaggio nei recessi dell’anima. A differenza di Moltner, Einer e Ulma, Richard sa, seppur inconsapevolmente e forse grazie alla sua giovane età, che l’incontro con l’altro (dell’) animale non si dà nelle forme della visibilità completa e spudorata – pornografica, in una parola – a cui anelano con concupiscente bramosia i cacciatori del racconto e, più in generale, chiunque consideri gli animali come

124 Ivi, p. 20. 125 Jacques Derrida, «Il faut bien manger» o il calcolo del soggetto, trad. it. di S. Maruzzella e F. Viri, Mimesis, Milano 2011, p. 36. 126 Ernst Jünger, Visita a Godenholm, cit. p. 21.

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«fondo»127 perennemente manipolabile e impiegabile al fine di produrre una qualche forma di reddito. Richard sa che questo incontro si realizza invece nell’elusività, nella fragilità e nella possibilità di essere revocato in ogni momento. Sa, ed è questo che porta con sé nel suo viaggio di formazione, che un incontro è tale solo se chi si incontra è libero di sottrarsi alla vista dell’altro, se è libero di prendere altre strade, di mantenere l’impotente potere di allontanarsi. È così che Richard, di fronte al cadavere del cinghiale, capisce che l’orrore che lo circonda risiede innanzitutto nella volgare esibizione del «corpo vilipeso», esibizione che precede la trasformazione della carne vivente in una «tinozza rossa»128 di sangue. Richard capisce senza ombra di dubbio che era il corpo ciò che animava il cinghiale, ciò che, nella totale esposizione, ne costituiva lo spirito. È a partire da questo incrocio, da questo bivio, che il viaggio di Richard diverge sempre più da quello di Moltner e compagni: per questi ultimi l’Indiviso è la negazione di ogni differenza nell’aldilà di uno Spirito superomistico che sorge dal sacrificio della vulnerabilità e della finitudine; un immutabile presente dato una volta per tutte e che va eroicamente conquistato restaurando un’incontaminata e favolosa età dell’oro. Per Richard, invece, l’indiviso non sta da nessuna parte, ma diviene nell’aldiqua condiviso degli eventi («Imparò lì per la prima volta che i fatti modificano le circostanze attraverso le quali si è giunti a essi»129), nella moltiplicazione progressiva delle differenze che indicano verso l’indistinzione della carne-del-mondo, verso uno spazio, oltre il Soggetto e l’identità, in cui ci si con-fonde con gli “altri”. L’incontenibile potenza del cinghiale, che tanto impressiona Richard, è il panico e la magnificenza del divenire carne vivente, l’esorbitante eccesso dell’esistenza che si indistingue nelle in-finite differenze delle singolarità che la popolano, eccesso insacrificabile perché, fin dalla nascita, già sacrificato alla finitudine. Con questo bagaglio, il giovane Richard può iniziare un altro viaggio dell’anima, alla soglia del quale, al pari di Jünger e con un sentimento di commosso pudore, non possiamo che arrestarci: Quella fu la prima sera in cui Richard si addormentò senza aver pensato al fucile, e fu il cinghiale a prenderne da allora il posto nei suoi sogni130. 127 Cfr. Martin Heidegger, La questione della tecnica, in Saggi e discorsi, trad. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1985, soprattutto p. 14. 128 Ernst Jünger, Visita a Godenholm, cit., p. 23. 129 Ivi, p. 22. 130 Ibid.

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STORIA, INVENZIONE E MITO DI UNA NAZIONE IN UNA FAVOLA PER ADULTI L’uomo è tutto, la Natura nulla, ma lo estrae e lo riflette. (H. D. Thoreau)131

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Nelle difficoltà estreme le anime umane sono come gli uomini che annegano; sanno bene di essere in pericolo, sanno bene le cause di questo pericolo; tuttavia, il mare è il mare, ed esse devono annegare. (H. Melville)132

1. Ogni animale è fatto di carne. Il film The Beasts of the Southern Wild133 offre molteplici chiavi di lettura che, apparentemente disomogenee, rimandano alla questione non più rinviabile delle nostre relazioni interspecifiche e intraspecifiche e alla posizione che intendiamo assumere nel mondo. Il regista Benh Zeitlin, al suo esordio nel lungometraggio di fiction, utilizza elementi stilistici che collocano l’opera nella multidimensionalità della retorica fiabesca e del realismo magico e che le donano quell’aura universale e archetipica che consente un’interpretazione allegorica difficilmente contestualizzabile in uno spazio e in un tempo definiti. L’accortezza e l’intelligenza cinematografica di Zeitlin consistono nell’inserire in questo dispositivo collaudato – tant’è vero che il film è stato distribuito in Italia con il titolo fuorviante di Re della terra selvaggia – continui sottotesti che ne amplificano le potenzialità espressive e interpretative, generando nello spettatore una sorta di insofferenza mimetica e sovvertendo la tranquilla linearità narrativa propria del genere magico-avventuroso. Questi sottotesti alludono a tre percorsi alternativi al tragitto diegetico e metaforico della protagonista, una bambina di colore che perde il padre e si mette alla ricerca della madre mai conosciuta in un ambiente ostile come quello del bayou134 della Louisiana post-uragano Katrina. 131 Cit. in Pietro Sanavio, Gli alfabeti di Henry D. Thoreau, introduzione a Henry David Thoreau, Walden ovvero Vita nei boschi, trad. it. di P. Sanavio, Rizzoli, Milano 1988, p. 43. 132 Herman Melville, Pierre o dell’ambiguità, in Opere Scelte, vol. II, trad. it. di L. Berti, B. Ruggero, E. Giachino, E. Montale e S. Perosa, Mondadori, Milano 1990, p. 390. 133 Benh Zeitlin, Re della terra selvaggia, USA 2012. 134 Territorio geofisico la cui peculiarità morfologica consiste in una serie di rientranze della costa nelle quali l’acqua del mare ristagna creando zone salmastre e paludose.

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Il primo percorso si interroga sul reale stato della democrazia negli Stati Uniti e sugli esiti dell’irriducibilità dello spirito americano inteso come mito fondativo della nazione. Il secondo rilegge l’epos del romanzo americano dopo la Guerra civile attraverso l’opera di decostruzione filosofica di Deleuze. Il terzo, il più sottile, denuncia i limiti e sottolinea le potenzialità del grande coacervo sottoculturale che struttura il melting pot razziale della società statunitense. Per rendere più accessibile la lettura di questi percorsi è necessario fornire alcuni elementi testuali e paratestuali. L’azione si svolge lungo il delta del Mississippi, in una Louisiana appena devastata da una serie di uragani. Una comunità di sopravvissuti abita ai margini del mondo civilizzato, separata da una diga. Il nuovo habitat generatosi a seguito delle alluvioni viene chiamato dai suoi abitanti Bathtub (tinozza). In questa micro-comunità vivono una bambina di colore, Hushpuppy, e suo padre Wink che, gravemente malato, trasmette alla figlia l’educazione necessaria alla sopravvivenza. A questa verosimiglianza riprovisiva, che conferisce al film il giusto grado di autenticità, vengono contrapposte le più ardite soluzioni narrative dettate dall’immaginazione sfrenata della protagonista. Le informazioni paratestuali servono invece a chiarire le ambizioni del progetto. Zeitlin partecipa a un collettivo indipendente di cineasti, artisti e musicisti denominato Court 13, il cui scopo principale è quello di occuparsi delle grandi contraddizioni della società americana e dell’ideologia liberista. Non a caso, quindi, prima di iniziare a girare il film, Zeitlin e la sua troupe hanno realizzato una serie di corti che documentano lo stato di miseria e di completo abbandono di New Orleans dopo il passaggio di Katrina. Nonostante la critica ufficiale abbia focalizzato la propria attenzione sulla presunta dicotomia natura/cultura, contrapponendo all’autenticità del microcosmo formato dal gruppo di sopravvissuti la stolida comunità privilegiata dal progresso civile – legittimando così un’interpretazione che assume come dato di fatto una sorta di fiera autoemarginazione della bizzarra tribù che popola la Bathtub dal macrocosmo sociale generale e dalle sue regole burocratiche istituzionali e consumistiche –, l’operazione messa in atto dal giovanissimo regista americano ha ben altre ambizioni e merita una lettura meno superficiale. È innanzitutto la specularità a contrassegnare le due comunità: il grande bacino d’acqua, in cui il mare affluisce per ristagnare all’interno del territorio, divide geograficamente i due microcosmi sociali, ma ne riflette reciprocamente limiti e contraddizioni sulla sua superficie trasparente. Se è vero, come sostengono Deleuze e Guattari, che «ogni territorio ingloba o ritaglia territori di altre specie, o intercetta tragitti di animali senza ter-

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ritorio, formando delle giunture intraspecifiche»135, allora le due comunità si fronteggiano confinando le loro rispettive esclusività nell’alveo di un identitarismo che assolve il compito di ricostituire un ordine sociale compromesso dal prorompente divenire dell’altrimenti-che-umano. Mentre i cittadini consumano carne confezionata, i sopravvissuti si cibano di quella che cacciano, pescano o che trovano galleggiante sulle acque putride del fiume, lì rigettata dall’ineluttabilità del ciclo naturale. L’eterogenea tribù umana, convertitasi a un bizzarro culto della sopravvivenza, sembra cioè promuovere un modello sociale alternativo, ma non contrapposto, a quello istituzionale che ne pretende il trasferimento sulla terraferma. In questa tribù, Hushpuppy, animata e galvanizzata da un sentimento panico che la rende partecipe del tutto, funge da sciamano, da medium tra mondi apparentemente inconciliabili: il delta del Mississippi, che è una bizzarra sintesi geografica di acqua e terra; il maschile patriarcale e il femminile assente; la città e il villaggio galleggiante. Le affermazioni concise e disarmanti della protagonista sembrano echeggiare le posizioni filosofiche di Deleuze: «Vedo che sono un piccolo pezzo di un infinito universo», oppure «Papà potrebbe essersi trasformato in una pianta o in un insetto». Hushpuppy rappresenta il tramite tra due insiemi macropolitici identitari e che si auto-recludono in una soggettivazione asfissiante che inibisce ogni possibile concatenamento collettivo. Il tradimento è, allora, una delle principali chiavi di lettura della pellicola, in quanto “tradurre” e “tradire” assumono il significato di trasferimento di codici linguistici ed etologici in un fuori luogo marginale, instaurando in tal modo una scandalosa aporia nei sistemi soggettivanti di classe, genere, famiglia, età e specie. Il Re della terra selvaggia è cioè «un traditore del proprio regno»136. La violenza della natura, al pari di quella della civiltà, va combattuta e resa inoffensiva attraverso un’interpretazione iconologica in cui le figure apodittiche di Madre-Natura e Padre-Cultura diventano il necessario compromesso per conferire una qualche forma di senso all’incombente e incomprensibile divenire animale137. Matriarcato e patriarcato rappresentano 135 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Che cos’è la filosofia?, trad. it. di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 2002, p. 186. 136 Gilles Deleuze e Claire Parnet, Sulla superiorità della letteratura anglo-americana, in Conversazioni, trad. it. di G. Comolli, p. 47. 137 Riferendosi alle minoranze discriminate – che tali di fatto non sono, poiché in realtà sono maggioranze rispetto all’unità di misura costituita dall’“Uomo” bianco, maschio, adulto, eterosessuale e cittadino; ad esempio, le donne, i neri o gli insetti che sono molto più numerosi – Deleuze chiarisce in diversi luoghi della sua opera che divenire animale non significa assumere i connotati fisici e comportamentali

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due delle risposte sintetiche degli umani al rischio letale dell’esposizione al naturale. L’eccezionalismo de “l’Uomo” è il risultato del suo escludersi dal selvaggio e, conseguentemente, dell’instaurarsi di un progetto di distanziamento dagli altri animali fondato sul regime dello sguardo e della rappresentazione. Ecco allora che l’insegnante e madre putativa del gruppo di bambini orfani della Bathtub impartisce una lezione di antropologia ai suoi allievi, lezione in cui il mito assolve al compito di giustificare la loro disposizione adattativa all’ambiente circostante. I disegni tatuati sulla coscia della maestra descrivono una bizzarra cosmogonia in cui la sopravvivenza umana è affidata alla capacità di fronteggiare la devastante violenza della natura e a quella di difendersi dall’eterotrofia animale, simboleggiata dagli Aurochs, primordiali creature preistoriche ibernate in antichi ghiacciai e in procinto di svegliarsi a causa dei cambiamenti climatici: «Ogni animale è fatto di carne. Ogni cosa fa parte del buffet dell’universo». Quanto affermato dall’insegnante, anche lei afroamericana, ci fa capire che, se la vita coincide con la sua rappresentazione, ciò che non si guarda e ciò che non viene mostrato non ha diritto a esistere. L’altro animale, in quanto bestia del Sud selvaggio, non esiste se non come mancanza. Pertanto, la bestialità a cui il titolo originale allude si riferisce non solo alle creature pre-storiche, ma alla stessa comunità del bayou, contrassegnata da una cieca pulsione scopica volta al controllo della furia naturale. La strategia registica di Zeitlin si concretizza pertanto nell’adozione dello sguardo inedito di Hushpuppy, inedito perché consapevole che la relazione con la territorialità deve inscriversi in una nuova disposizione tattile e sinestesica e non esclusivamente nel mero atto del vedere. Per questo, fin dalle prime sequenze, Hushpuppy ascolta il battito cardiaco138 degli animali con cui convive, li sente respirare, così come avverte il respiro della terra che calpesta e innaffia. La macchina da presa si ubriaca della stessa matericità di questo territorio cangiante, dei suoi colori e dei suoi profumi, librandosi in aria come un uccello o nuotando nell’acqua come un pesce. Camera a

dei non umani, bensì avvicinarli in una reciproca possibilità di trasformazione de-soggettivante e de-territorializzante. 138 Per gli esegeti dell’interpretazione olistica della pellicola, il battito cardiaco, che opera da inconsueta colonna sonora e da contrappunto al ritmo e alla musicalità delle sequenze, rappresenterebbe il veicolo attraverso cui si manifesta l’anima del mondo, all’interno della quale tutte le creature contribuiscono all’unicum di Gaia. In effetti, quando il padre di Hushpuppy muore non è solo il suo cuore a cessare di battere, ma è il cuore dell’universo a farsi muto. Questo scarto narrativo spinge la bambina a intraprendere un nuovo percorso di conoscenza in cui la natura e il mondo diventano opachi e incomprensibili.

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mano e piano sequenza integrale sono scelte stilistiche che confermano la predisposizione del regista a rimettere in gioco la propria autorialità, lasciando da parte le scontate soluzioni estetiche che l’attuale industria cinematografica contemporanea utilizza in modo esasperato e privo di senso. 2. Lingua animale. La rilettura deterritorializzante della cultura americana che Zeitlin ci restituisce è ispirata al romanzo di formazione e alla wilderness propria della letteratura esperienziale. Il regista ripercorre e ripropone l’epos americano attraverso le suggestioni di scrittori-filosofi come Melville, Twain e Thoreau. Le fonti iconologiche139 a cui si abbevera non sono così da ricercare nella presunzione epistemologica della verità, a cui la letteratura egemonica, come disciplina chiusa e autoreferenziale, rimanda nella prefigurazione di un mondo dato e immodificabile, quanto piuttosto nella cultura anglo-americana della contingenza, in cui spazio, geografia e territorio acquistano dignità filosofica. I personaggi concettuali che l’epos americano traduce in poesia – maestra di vita e manuale di sopravvivenza – sono figure marginali rispetto a quelle del quieto vivere borghese della vecchia Europa, al cui stile di vita la democrazia americana si andava uniformando nel periodo successivo alla Guerra civile e all’abolizione della schiavitù: migranti, afroamericani, indiani d’America, homeless e vagabondi daranno vita a quella letteratura della percezione tanto amata da Deleuze140 e a quel pensiero nomade e in continuo divenire di diversi romanzieri dei quali Kerouac può essere considerato il più emblematico. È la lingua animale adottata da Zeitlin a rivitalizzare il mito americano della frontiera come predisposizione allo spostamento, al movimento e al cambiamento; mito che è probabile conseguenza delle interminabili traversate oceaniche che segnarono profondamente il pensiero dei nuovi abitanti del continente americano. Il regista simpatizza con Hushpuppy e parteggia per lei. Anche se rimane comunque sola contro e con il mondo, egli è sempre al suo fianco: quando parte alla ricerca della madre, nei momenti più dolorosi e quando il viaggio si fa erranza cieca e senza meta – privilegio 139 Con l’espressione “fonti iconologiche” si mette in atto una voluta forzatura etimologica, traducendo la decrittazione dei simboli artistici della rappresentazione nei percetti che Deleuze riferisce a quella letteratura nella quale l’affettività, la marginalità e il viaggio producono eterotopie che sovvertono la drammaturgia dei concetti propria della letteratura accademica, impermeabile al mondo, nevrotica e dominata da Edipo. 140 Cfr. Gilles Deleuze e Claire Parnet, Sulla superiorità della letteratura angloamericana, in Conversazioni, cit., pp. 39-74.

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questo dei più grandi personaggi della letteratura americana, da Achab a Bartebly, da Huckleberry Finn a Walden. Zeitlin e Deleuze sono entrambi irresistibilmente attratti dal fallimento degli antieroi della letteratura americana, i quali percorrono il proprio tragitto in una sorta di fuga mortale e autodistruttiva. Achab, Pierre e Bartebly141, per fare solo qualche esempio, nella loro delirante incapacità di dare senso al mondo attraverso la caccia, la scrittura o l’arte, al pari del padre di Hushpuppy (Wink, non a caso, significa “strizzatina d’occhi”, “ammicco”), catalizzano vere e proprie aperture nelle mappe geografiche che delimitano i territori, si fanno tramite dell’illusione «necessaria all’essere senziente per vivere»142, illusione che permette loro di smarcarsi dal bagaglio di credenze attraverso cui le società umane hanno strutturato le loro asfissianti ontologie. Questi personaggi traducono tragicamente in fallimento la grande missione umana. Il capitano Achab è sgomento di fronte al candore di Moby Dick, così come Wink è sopraffatto dalla volumetria perfetta della grande diga, che delimita i confini tra la civiltà che si nasconde nel fuoricampo e la micro-comunità di cui è parte. I personaggi di Melville sono i traghettatori tra due epoche ormai inconciliabili. Il cambiamento delle regole che stabiliscono le modalità di caccia mette Achab di fronte a un futuro che non lo prevede, all’inquietante bianchezza di Moby Dick. In The Beasts of The Southern Wild il testimone che traghetta l’umanità nella dimensione del divenire animale viene consegnato da Zeitlin, attraverso la figura del padre morente, proprio a Hushpuppy, che si fa ambasciatrice dell’incontro/scontro tra una civiltà al collasso e il nuovo che scaturisce da un remoto passato. Hushpuppy è una sorta di angelus novus che cerca di muoversi spontaneamente verso il futuro volgendo lo sguardo in direzione della miserabile storia passata dell’umanità. Il genere avventuroso diventa, allora, lo strumento stilistico per dare senso al percorso a ritroso di questa bambina afroamericana. Come gli adolescenti di Twain (Tom Sawyer o Huckleberry Finn), anche lei deve risalire il corso del Mississippi per rielaborare la perdita del padre e incontrare la madre – una

141 Cfr. Herman Melville, Moby Dick o la Balena, trad. it. di C. Pavese, Palazzi, Milano 1969; Pierre o dell’ambiguità, cit.; e Bartebly lo scrivano, trad. it. di G. Celati, Feltrinelli, Milano 1991. Pierre e Bartebly rappresentano figure di scrittori falliti, nell’accezione di inconcludenti; essi, cioè, non portano mai a compimento le loro opere. La loro afasia letteraria li trasforma in simboli titanici del fallimento intellettuale. 142 Friedrich Nietzsche, Frammenti postumi, vol. III, trad. it. di G. Colli e C. Colli Staude, Adelphi, Milano 2005, p. 25.

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prostituta di un malfamato speakeasy143 galleggiante –, che l’adotterà amorevolmente solo per qualche ora e che impartirà a Hushpuppy una lezione di alta cucina. La carne di coccodrillo (specialità della cucina cajun144) fa così il paio con i gamberi (altro piatto forte delle dieta creola della Louisiana) che “arricchiscono” la lezione della maestra intorno alla commestibilità dei corpi che accomuna animali umani e non umani. Hushpuppy rielabora il complesso edipico attraverso la rappresentazione immaginaria degli Aurochs; grazie a questo transfert, ricostruisce l’affettività latente della comunità, edificata attorno al mito cosmogonico della nascita di una nazione. Non essendo strutturate dalle figure genitoriali – il padre si trova ai margini della vita sociale e marginale è il suo corpo devastato dalla malattia, mentre la madre semplicemente non c’è –, le esperienze relazionali e interpersonali permettono a questa bambina di acquisire un’incondizionata maturità affettiva. La bambina non ama e non odia, semplicemente perché sostituisce con il mito il principio di realtà su cui si fondano le civiltà “evolute”. Gli Aurochs, che Hushpuppy immagina come enormi cinghiali provvisti di zanne inquietanti, la dislocano nel mondo in maniera inedita, non solo come essere irriducibile alla natura e alla cultura, alla società e alla specie, ma soprattutto come punto di fuga dalla disciplinarietà insieme egotica e dualistica che configura il nucleo familiare nella dicotomia Padre-Edipo / Madre-Elettra. Hushpuppy grazie alla bestia beneficia di una collocazione extra-individuale, situandosi in una posizione fuori luogo sia rispetto al mondo civile sia a quello naturale e assumendo quella che Deleuze chiama lingua «minore», per distinguerla dalla letteratura civile e di regime (e, si potrebbe aggiungere, dal cinema di intrattenimento)145. Questa contingenza si nutre del vitalismo della letteratura anglo-americana nella quale Deleuze non ha mai smesso di intravvedere la possibilità di smarcarsi dal cripto-fascismo dell’arte come subordinazione all’identità di ogni possibile differenza.

143 Sordidi locali del Sud degli Stati Uniti, frequentati specialmente da afroamericani poveri, in cui veniva offerto pessimo whisky, cibo a buon mercato e, soprattutto, sesso a pagamento. 144 Gruppo etnico della Louisiana costituito dai discendenti dei canadesi francofoni che abitavano la regione dell’Acadia e che furono deportati nel Sud degli Stati Uniti tra il 1755 e 1763. 145 Cfr., ad esempio, Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A Serra, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 29-49 e Gilles Deleuze e Claire Parnet, Sulla superiorità della letteratura anglo-americana, in Conversazioni, trad. it. di G. Comolli, ombre corte, Verona 2011, pp. 39-74.

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3. Cuori selvaggi. Il melting pot razziale che struttura la demografia americana ha generato una molteplicità di sottoculture spesso ossessivamente identitarie. Fra queste, quella afroamericana ha egemonizzato la questione delle minoranze discriminate. A partire da fine Ottocento, il dibattito politico sostenuto da intellettuali quali Du Bois focalizzò da subito l’attenzione su identità e nazionalismo; il che comportò una serie di contraddizioni che neppure i movimenti politici di chiara ispirazione marxista degli anni ’70, come il Black Panther Party, hanno saputo risolvere. Il problema delle cosiddette minoranze, infatti, è sempre stato quello di considerare il riconoscimento della propria identità come soluzione della loro discriminazione. La rivendicazione del diritto a esistere svincolata dalla richiesta al diritto di esistere socialmente si è sempre dimostrata scarsamente efficace in termini di reale trasformazione politica e, anzi, ha spesso contribuito a consolidare le strategie identitarie e discriminanti del capitale. Le lotte dei movimenti di liberazione – femminista, omosessuale e antirazzista – hanno diluito la loro radicale e prorompente spinta rivoluzionaria e antagonista nel momento stesso in cui hanno ceduto al compromesso culturalista, rendendosi complici di un meccanismo che ha riprodotto, in una situazione di marginalità politica, le stesse dinamiche della società capitalista strutturata sulla diseguaglianza sociale e sulla discriminazione. Anche la controcultura afroamericana non ha saputo cogliere il potenziale di innovazione e di trasformazione di cui le minoranze di genere e di orientamento sessuale avrebbero potuto essere portatrici, rendendosi incapace di superare un attivismo politico rigidamente identitario. Le donne e gli omosessuali afroamericani hanno prodotto una serie di istanze sottoculturali che, seppur interessanti sotto il profilo antropologico-sociale, si sono rivelate disastrose nel momento in cui sono entrate in aperto conflitto con il capitale. L’eredità del dissenso nero degli anni ’70 è così passata alla street culture metropolitana pronta a essere fagocitata dal consumismo dell’hip-hop. Zeitlin è talmente consapevole delle contraddizioni della minoranza afroamericana da far pensare che sia un regista di colore. L’opera, infatti, ha una forte connotazione black oriented, non solo per la scelta dei protagonisti e la presenza di molteplici elementi che fungono da specchio sociologico (abbigliamento, acconciature, slang, oggettistica e cultura alimentare), ma anche e soprattutto perché il regista ricorre costantemente ad alcuni simboli emblematici della più grande comunità etnica al mondo, quella che discende direttamente dallo schiavismo: a) il viaggio, che rimanda alla traduzione forzata in una terra sconosciuta; b) l’acqua, che evoca lo spazio geografico di costituzione di una coscienza acquisita letteralmente sulla

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propria pelle; e c) la nave, come «sistema vivo micropolitico e microculturale in movimento»146. Il mare in cui Hushpuppy erra nella vana ricerca della madre e il suo risalire la corrente del Mississippi sono da interpretarsi come elementi connaturati allo spirito afroamericano del trasferimento e della traduzione. In contrapposizione alla mitopoiesi della sedentarietà, che ha ormai soggiogato l’intera nazione, il percorso di Hushpuppy rivivifica l’originario progetto di ritorno alla terra madre africana. Il cinema di Zeitlin esce dai solchi che delimitano il territorio proprio del genere liberal e progressista, di cui sono portabandiera registi come Steven Spielberg147: tra una striatura e l’altra, tra un margine e l’altro, fuori dalla geografia della storia del cinema, sempre al passo con l’andatura saltellante della bambina, Zeitlin non cessa mai di provare a prender congedo dalla dispotica macchina del cinema industriale hollywoodiano. Lo svolgimento narrativo della pellicola può allora essere letto come un viaggio au rebours, un viaggio all’indietro e controcorrente, e le avventure narrate come il frutto della fervida immaginazione di Hushpuppy. L’incontro con la bestia della terra selvaggia, l’Auroch, è il momento che segna la flagranza più esplicita, il momento in cui ci viene svelato il mistero dello sguardo animale: L’Altro può finalmente guardare il mondo con i nostri occhi […], possiamo tornare in comunità con l’Altro, in quanto restituiamo all’Altro un corpo con il quale può venire all’esistenza, all’essere-in-un-mondo. Mostruosità assoluta […], quest’altro corpo segna una ulteriore svolta nella storia naturale, aprendo a una prospettiva inedita sul mondo148.

Noi, da spettatori consapevoli, possiamo ritrovare il senso di questo film ricostruendo una trama patafisica che rimetta insieme i cocci testuali, iconografici e fonografici, disseminati da Zeitlin come trappole lungo l’intera pellicola. E leggerla come memento, come ricostruzione di una memoria collettiva, come scienza delle soluzioni immaginarie, per usare le parole di Re Ubu. Ricominciando dal finale, che evoca gioia e felicità collettiva a seguito della riconciliazione con il mostruosamente altro e nel quale vediamo Hushpuppy guidare un festoso corteo carnevalesco in cui la neo-comunità di sopravvissuti si ricostituisce, per ritornare immediatamente all’inizio, quando la bambina ascolta attentamente il battito del cuoricino di un uccel146 Paul Gilroy, The Black Atlantic. L’identità nera tra modernità e doppia coscienza, trad. it. di M. Mellino e L. Barberi, Meltemi, Roma 2003, p. 51. 147 Cfr. Il cavallo-motore (della storia) in questo volume. 148 Massimo Filippi, Natura infranta. Dalla domesticazione alla liberazione animale, Ortica Editrice, Aprilia 2013, p. 24.

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Penne e pellicole

lo. Dopo aver immaginato l’incontro con gli Aurochs, Hushpuppy afferma: «Tutti perdono la cosa che li ha creati». Mentre all’inizio esordisce con queste folgoranti parole:

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In ogni momento, in ogni luogo, i cuori di tutti stanno battendo e pompando e parlando gli uni con gli altri in modi che non posso capire.

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IV LA FINITUDINE CONDIVISA

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A VOLTE RITORNANO Poiché hanno vissuto, i morti non possono mai essere inerti. (J. Berger)1 In una capra dal viso semita / sentiva querelarsi ogni altro male / ogni altra vita. (U. Saba)2

1. Argo e Bobby. È nota la storia di Bobby, il cane randagio che per poche righe sospende l’inflessibile antropocentrismo di Lévinas3. Bobby vive ai confini di un campo di prigionia nazista e, con la sua gioia e il suo radicale altruismo, restituisce ai detenuti quella dignità che gli altri umani hanno loro negato. Poi le guardie lo scacciano e Bobby scompare dall’orizzonte del filosofo francese e dal nostro. Dove è andato Bobby? Ormai è certamente morto, ma come è morto? E, soprattutto, che cosa è accaduto nell’intervallo tra questa sua fulminea comparsa e la sua fine? Come ha vissuto il resto della sua vita? La risposta a queste domande si annida tra le pagine di una lettera lasciata da Samuel Heymann, ex medico condotto di un piccolo borgo dell’Hainaut, suicidatosi dopo che il suo cane, Argo, è stato travolto e ucciso da un pirata della strada. Questa lettera è parte di un racconto intitolato Il cane di Eric-Emmanuel Schmitt4. 1 2 3 4

John Berger, Dodici tesi sull’economia dei morti, in Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007, trad. it. di M. Nadotti, Fusi orari, Roma, 2007, p. 8. Umberto Saba, La capra, in Antologia del «Canzoniere», Einaudi, Torino 1966, vv. 11-13, p. 22. Emmanuel Lévinas, Il nome di un cane o il diritto naturale, in Difficile libertà, trad. it. di S. Facioni, Jaca Book, Milano 2004, pp. 191-194. Eric-Emmanuel Schmitt, Il cane, ne L’amore invisibile, trad. it di A. Bracci Testasecca, Edizioni e/o, Roma 2013, pp. 53-98.

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Penne e pellicole

Heymann è stato uno dei prigionieri che ha incontrato il cane che Lévinas ha chiamato Bobby. Non l’ha però incontrato in Francia, ma in Polonia, in un altro campo: quello di Auschwitz. E, a differenza di Lévinas, che subito lo ha perso di vista, Heymann ha intrattenuto con lui, scambiandosi affetto e cibo attraverso il filo spinato, un rapporto intenso e dolcissimo per tutta la settimana intercorsa tra il loro primo incontro e il momento della liberazione di Auschwitz da parte dell’esercito sovietico. Nonostante la distanza temporale e geografica che separa i due episodi, non ci possono essere dubbi che questo cane sia proprio Bobby: è sempre felice, scodinzola, gioca, si avvicina fiducioso ai prigionieri, si lascia prendere in giro dalle guardie, dona gioia e scatena emozioni profonde, emozioni che riattivano l’esperienza di quel sentire corporeo che è il punto su cui fa presa il dispositivo della reclusione. Heymann, resosi conto della straordinaria vicinanza temporale tra la comparsa di questo cane e la liberazione del campo, non esita a definirlo «l’angelo dell’annunciazione, il messaggero della buona novella»5 – «ultimo kantiano della Germania nazista»6, diceva Lévinas, a ulteriore conferma che proprio di Bobby si tratta. Dopo un breve periodo in cui si perdono di vista, Samuel e Bobby si ricongiungono sulla pianura polacca durante l’estenuante marcia di ritorno e da allora non si separano più. Bobby diventa Argo, perché come il suo predecessore, è stato capace di riportare in superficie il tra che scorre in mezzo alle singolarità e che il sistema di dominio, per perpetuarsi, deve incessantemente spezzare, occultare e negare. Anche Lévinas, a un certo punto, sembra avere dubbi sul “vero” nome di Bobby e anche lui pensa che Bobby abbia qualcosa a che fare con Argo: «Il cane che riconobbe Ulisse il quale, sotto false sembianze, ritornava dalla sua odissea, era forse parente del nostro cane?»7. Ovviamente, Bobby/Argo muore, ma Samuel, sorta di sciamano moderno, non smette di farlo tornare, accompagnandosi per circa mezzo secolo con cani a lui identici, tanto identici che gli abitanti del villaggio in cui abita ritengono, al di là di ogni plausibilità biologica, che il cane di Samuel sia sempre stato lo stesso. La storia di Argo/Bobby, però, non finisce qui. Argo/Bobby non è solo un animale edipico; egli, come ormai dovrebbe essere evidente, è princi-

5 6 7

Ivi, p. 85. Emmanuel Lévinas, Il nome di un cane o il diritto naturale, in Difficile libertà, cit., p. 194. Ibid.

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palmente un animale demoniaco, «né individuo, né specie»8, un’“anomalia” che crea «molteplicità, divenire, popolazione, racconto...»9. Samuel era finito ad Auschwitz a seguito della delazione di un suo compagno di classe, Maxime de Sire, rampollo dell’aristocrazia locale, imbevuto di ideologia antisemita. Un anno dopo essere stato liberato, Samuel vede de Sire cavalcare in un bosco nei pressi del suo castello. Immediatamente, si mette a inseguirlo deciso a vendicarsi, a vendicare se stesso e i sei milioni di individui assassinati dalla barbarie nazista. Lo raggiunge mentre il suo vecchio compagno di classe, sceso da cavallo, è intento a raccogliere funghi. In preda al furore, si avventa su di lui con il bastone da passeggio alzato, lo insulta, sta per colpirlo. È a questo punto che accade l’impensabile, che si realizza l’evento reso possibile dalla potenza concatenante, dall’alleanza che Argo/Bobby è in grado di scatenare, in quanto abitante del tra (dello spazio tra i vivi e i morti e di quello tra “l’Umano” e “l’Animale”): Si lancia su Maxime de Sire, gli pianta le zampe anteriori sul petto e comincia ad abbaiare […]. Gli dà una slinguazzata, si toglie da sopra di lui, abbaia festoso, entusiasta, gli gira intorno correndo per fargli capire che è pronto a giocare […]. Vuole coinvolgere Maxime in una partita memorabile10.

Di fronte a questa scena imprevedibile, la collera di Heymann si scioglie: lancia il bastone il più lontano possibile affinché Argo/Bobby possa riprenderlo e riportarlo, affinché possa iniziare la sua deterritorializzante danza gioiosa, la sua «partita memorabile». Il turbinare gioioso di Argo/Bobby salva de Sire, che può così provare, per il resto dei suoi giorni, la vergogna di essere uomo. E salva anche Samuel che, grazie all’“innaturale” capacità di perdono di Argo/Bobby, può perdonare e ritrovare quel Dio che, dopo Auschwitz, pareva essersi dileguato: «Dio era tornato a me nello sguardo di un cane»11. Ora sappiamo che cosa ha fatto Bobby dopo aver lasciato il campo di Lévinas: è andato ad Auschwitz e ha perdonato l’imperdonabile, «perché solo i morti hanno il potere di perdonare»12.

8 9 10 11 12

Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, trad. it. di G. Passerone, Castelvecchi, Roma 2003, p. 349. Ivi, p. 345. Eric-Emmanuel Schmitt, Il cane, ne L’amore invisibile, cit., p. 93. Ivi, p. 96. Ivi, p. 98.

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2. Pestruška e Laika. Anche la storia di un altro cane randagio è ben nota: quella di Laika, lanciata nello spazio e destinata dagli scienziati a morte certa nella delirante rincorsa post-bellica alla colonizzazione dell’universo extraterrestre da parte delle due superpotenze mondiali del tempo13. Laika è deceduta sotto i colpi dell’angoscia e del terrore nello spazio esterno. Ma forse non del tutto se Anna Maria Ortese ha potuto continuare a chiamarla («Laika! Siamo qui! Ti amiamo! Torna indietro, Laika!»14), se ha potuto infondere tenerezza, con i suoi «occhi neri e lucidi [...] che si affacciano da un minuscolo oblò»15, nel fuggevole e straziante rapporto tra Sumire e Myū, i protagonisti del romanzo La ragazza dello Sputnik di Murakami Haruki, e se è potuta ricomparire, sotto altro nome, in un racconto di Vassilij Grossman16, il reporter di guerra entrato ad Auschwitz insieme all’Armata Rossa, che probabilmente ha scambiato uno sguardo rapido ma indelebile con Samuel e con Bobby/Argo. Anche in questo caso non vi possono essere dubbi che Pestruška sia Laika: anche lei è una randagia di piccole dimensioni, anche lei si aggira, prudente e felice, per le strade di Mosca e anche lei è intelligente, percorsa da un’incontenibile gioia di vivere e da una quasi sconfinata bontà d’animo. Anche Pestruška, infine, è catturata e trasportata all’istituto per le ricerche spaziali e, al pari di Laika, rinchiusa in gabbia, impudicamente accarezzata dagli sperimentatori che stanno per tradirla, monitorata in ogni suo aspetto biologico («cuore, polmoni, fegato, metabolismo, composizione del sangue [...], reazioni nervose, [...] succhi gastrici»17), sottoposta a «iniezioni, [...] prelievi, [...] viaggi stordenti e nauseanti dentro le centrifughe e i test di vibrazione»18. Ma, nonostante tutto questo, Pestruška non perde la sua «bontà illogica»19, non smette di amare Aleksej Georgievič, lo scienziato responsabile dell’esperimento di cui è involontaria protagonista e delle torture a cui è sottoposta. 13

14 15 16 17 18 19

Per una ricostruzione della storia di Laika da un punto di vista antispecista, cfr. Filippo Trasatti e Massimo Filippi, Un’altra orbita ancora, in Elephant & Castle, ottobre 2011, http://cav.unibg.it/elephant_castle/web/saggi/un-altra-orbitaancora/63. Anna Maria Ortese, Non da luoghi di esilio, in Corpo celeste, Adelphi, Milano 2003, p. 156. Murakami Hariki, La ragazza dello Sputnik, trad. it. di G. Amitrano, Einaudi, Torino 2003, p. 11. Vasilij Grossman, La cagnetta, ne La cagnetta, trad. it. di M. A. Curletto, Adelphi, Milano 2013, pp. 55-69. Ivi, p. 60. Ibid. Cfr. Assassini dal volto buono in questo volume.

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Di fronte agli «occhi castani dell’animale [che] parevano inumidirsi di lacrime»20 ogni qualvolta lasciava il laboratorio, di fronte a questo inaspettato incontro, Aleksej Georgievič inizia a «provare per lei un sentimento di pietà, di compassione»21, che rapidamente si allarga a macchia d’olio fino a comprendere tutti i viventi destinati a morte per mano de “l’Uomo” e che resistono all’oppressore contrapponendo alla violenza un’assurda e insensata mansuetudine: Un giorno, osservando quel cane da laboratorio, pensò a quanto fosse irragionevole e assurda la quotidiana dedizione di migliaia e migliaia di allevatrici di pollame e allevatori di suini per gli animali che essi stessi preparavano al supplizio e alla morte. E altrettanto assurdi, insensati erano gli occhi mansueti della cagnetta, il suo naso umido fiduciosamente appoggiato sulla mano del carnefice22.

È questa mansuetudine illogica che permette ad Aleksej Georgievič, come era accaduto anche a Samuel Heymann con Bobby/Argo, di riconoscere in Pestruška i segni della divinità («Lei, come Cristo, rispondeva al male con il bene»23) e, nel tentativo estremo di giustificarsi, inizia a parlarle, esaltando le magnifiche sorti e progressive dell’esperimento in cui è coinvolta: Lei sarebbe stata il primo essere vivente, da quando esisteva il pianeta Terra, a vedere il cosmo profondo. Che sorte meravigliosa le era toccata! Irrompere nello spazio cosmico [...]. Uno spazio dove il vento è assente, dove esiste solo la forza di gravità, uno spazio dove non ci sono nuvole, rondini, pioggia, uno spazio di fotoni e onde elettromagnetiche [...]. Un animale, con la propria psiche, avrebbe potuto irrompere nel cosmo. No! Al contrario! Il cosmo avrebbe potuto irrompere nella psiche di un essere vivente [...]. Per la prima volta gli occhi di un essere vivente avrebbero visto l’abisso privo d’aria, lo spazio di Kant, lo spazio di Einstein, dei filosofi, degli astronomi, dei matematici senza sintetizzarlo in un pensiero astratto o in una formula, ma così com’è, senza monti né alberi, senza grattacieli, né isbe contadine24.

Il che non lo induce a fermare il meccanismo che porterà Pestruška/Laika a «centomila chilometri dalla Terra»25, ma a perpetrare il più infido dei tradimenti, quello disposto a piegare, senza pietà, perfino la fiducia e l’amicizia 20 21 22 23 24 25

Vasilij Grossman, La cagnetta, ne La cagnetta, cit., pp. 60-61. Ivi, p. 61. Ibid. Ivi, p. 63. Ivi, pp. 63-66. Ivi, p. 65.

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– l’anima – della cagnetta al suo interesse egoistico, alla sconfinata hybris de “l’Umano”: Gli occhi di Pestruška avrebbero visto tutto questo, e [...] al ritorno gli avrebbero trasmesso ciò che avevano visto. Leggendo quegli occhi, egli avrebbe capito il più criptico dei cardiogrammi, l’arcano cardiogramma dell’universo [...]. Il nuovo livello di conoscenza sarebbe stato trasmesso da anima ad anima, dagli occhi di un essere vivente a quelli di un altro essere vivente26.

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E così «il volo spaziale fu effettuato»27. Nel romanzo di Murakami Haruki, Sumire si domandava: «Che cosa avrà visto, la cagnetta, in quello spazio sconfinato e deserto?»28. Ecco la risposta dello scienziato: Davanti a quegli occhi la superficie piatta della Terra avrebbe incominciato a incurvarsi [...]. Un sole ringiovanito di due miliardi di anni si sarebbe levato dalla nera vastità dello spazio di fronte agli occhi della cagnetta dalla zampe storte. Una fiamma arancio vivo, lilla, violetta avrebbe inghiottito l’orizzonte terrestre. Il meraviglioso globo, chiazzato di nevi e sabbie ardenti, colmo di una vita stupenda e irrequieta, non solo avrebbe veleggiato lontano, sfilandosi da sotto le zampe dell’animale, ma sarebbe scivolato via dalla sua percezione vitale. Allora le stelle, acquisita una consistenza corporea, sarebbero diventate carne termonucleare [...]29.

In realtà, le cose a bordo si svolgono in maniera molto differente. Gli strumenti registrano «una violenta accelerazione del battito cardiaco di Pestruška e frequenti sbalzi della sua pressione arteriosa» e, al mattino, il rapporto del tecnico di laboratorio che ne ha seguito il folle volo è inesorabile: «Ha ululato, ha ululato a lungo [...]. È una cosa agghiacciante, il lamento di un cane solo in mezzo all’universo»30. Come le stelle, come l’intero universo, anche la cagnetta dalle zampe storte sembra essere diventata, sotto la presa di una tecno-scienza che non si pone alcun limite, nient’altro che carne. La navicella torna poi sulla Terra e Aleksej Georgievič si affretta per essere il primo a incontrare Pestruška/Laika. E, di nuovo, ella ci sorprende: «Gli corse incontro, muovendo timidamente la punta della coda abbassata», mostrando «la sua riconciliazione con tutto ciò che era e sarebbe 26 27 28 29 30

Ivi, pp. 64-67. Ivi, p. 67. Murakami Haruki, La ragazza dello Sputnik, cit., p. 11. Vasilij Grossman, La cagnetta, ne La cagnetta, cit., pp. 65-66. Ivi, pp. 67-68.

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accaduto»31. Alla fine, riusciamo anche a scorgere il suo sguardo: «Gli occhi annebbiati, impenetrabili di un povero essere dalla mente confusa e dal cuore tenero e mansueto»32. Non vi è dubbio, Laika è tornata e oppone al potere, che l’ha resa un’altra vita offesa, la più potente delle resistenze: la con-fusione con l’intero esistente, l’apertura di una zona di indistinzione dove, senza riferirci ciò che ha visto, perché ha visto l’impenetrabile (anche alla fallocrazia dei missili e dei satelliti), può affermare, con mansueta decisione, di essere più che carne33. Anche i morti viventi sono in grado di perdonare l’imperdonabile, incluso quello che non è ancora accaduto, quello che probabilmente è accaduto, una volta tornate a Terra, alle innumerevoli Laike/Pestruške di tutte le specie, obbligate a solcare i cieli dell’oltremondo: l’arruolamento in un altro esperimento, la reclusione in un canile o la soppressione “umanitaria”. 3. Storia dell’assassinio di un’alce senza nome. A differenza di Bobby/ Argo e di Laika/Pestruška, della vita di un’alce femmina senza nome possiamo immaginarci quasi tutto34. Verosimilmente, è cresciuta accudita dai genitori, parte di un gruppo di consimili, all’interno del quale avrà sviluppato le proprie amicizie e le proprie antipatie. Ha brucato, ha girovagato nei boschi, ha goduto del sole caldo dell’estate, ha cercato riparo dalla pioggia e dal freddo, ha guardato meravigliata il mondo che la circondava. Poi si è fatta adulta, ha amato, è diventata madre a sua volta. In una parola, ha vissuto felice, di quella felicità inoperosa che è concessa a tutti i viventi nella breve primavera della vita. Fino a «un freddo mattino d’ottobre»35, quando incontra Dmitrij Petrovič, «ingegnere specializzato nella progettazione di turbine»36 e appassionato cacciatore: Dmitrij Petrovič vedeva perfettamente la femmina d’alce, osservava il suo naso marrone-nerastro dalle narici dilatate, i larghi, grossi denti avvezzi a spezzare i rami e a strappare via la corteccia degli alberi, il labbro superiore oblungo e leggermente rialzato. Anche la femmina d’alce lo vedeva: con la giacca di 31 32 33

34 35 36

Ivi, p. 69. Ibid. Al proposito, cfr. Matthew Calarco, Identità, differenza, indistinzione, trad. it. di M. Filippi, in Liberazioni, n. 7, inverno 2011, pp. 5-20 e Essere-per-la-carne: antropocentrismo, indistinzione e veganismo, trad. it. di M. Filippi, in Liberazioni, n. 15, inverno 2013, pp. 5-22. Vasilij Grossman, L’alce, ne La cagnetta, cit., pp. 37-53. Ivi, p. 51. Ivi, p. 39.

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pelle, gli scarponi austriaci indossati con le fasce verdi, asciutto, energico, il fucile tra le mani. La femmina stava immobile accanto a un cucciolo grigio steso tra i cespugli di mirtillo rosso37.

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Dmitrij Petrovič prende la mira e, nella sua furia assassina, tutto scompare di fronte a lui, tranne quegli occhi che non smettono di fissarlo. «Con una sensazione di forza, di felicità, con quel presentimento di un colpo infallibile»38 del cacciatore esperto, preme il grilletto. Avvicinatosi all’animale appena ucciso comprende la stranezza del suo comportamento, la ragione della sua inspiegabile immobilità: Il piccolo dell’alce, con una delle zampe anteriori ferita, era rimasto imprigionato nella fenditura di un ontano caduto. Non poteva muoversi ed evidentemente era terrorizzato, non voleva restare solo; la madre si era accasciata, colpita a morte, e lui continuava a chiederle di non abbandonarlo. Lei non lo aveva abbandonato...39.

La testa dell’alce abbattuta viene imbalsamata ed esibita, senza vergogna, come trofeo di caccia su una parete della casa: «Quando avevano ospiti, Dmitrij Petrovič era solito raccontare di come aveva ucciso la sua preda»40. Col passare del tempo, «la testa dell’animale si era ricoperta di polvere» e aveva perso ogni legame con l’oscuro bosco autunnale, con l’odore di umido e di selvatico ed era entrata a pieno titolo nel novero degli oggetti domestici. Dmitrij Petrovič ormai se ne ricordava solo nei giorni delle grandi pulizie41.

Passano gli anni e la polvere del tempo continua a depositarsi sul trofeo di caccia, fino a quando l’ingegnere si ammala e il momento della sua morte si fa imminente. Dopo la malattia, tutti lo hanno abbandonano tranne la moglie, Aleksandra Andreevna, alla quale, pochi giorni prima di morire, confida: «Sai, [...] quando vieni vicino a me, ho come la sensazione di avere accanto la mia mamma, di essere piccolissimo, ancora nella culla»42. Un sabato Aleksandra lo lascia solo per recarsi al lavoro, ma tarda a rientrare, tanto che, giunta la sera, Dmitrij viene preso dal panico all’idea che 37 38 39 40 41 42

Ivi, p. 52. Ibid. Ivi, pp. 52-53. Ivi, p. 51. Ibid. Ivi, p. 47.

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lei sia morta e che ora dovrà morire solo, senza la consolazione dello sguardo della moglie/madre, che tradiva «un vitale interesse per la sua esistenza ormai inutile a qualsiasi altro essere»43. Terrorizzato da questa prospettiva, Dmitrij si agita, prova a scendere dal letto, prende a pugni la parete che divide il suo appartamento da quello dei vicini, che non rispondono perché molto probabilmente sono partiti per trascorrere il fine settimana in campagna. È solo, irrimediabilmente solo. E sta per morire. Ma, ancora una volta, l’impensabile miracolosamente accade: «All’improvviso gli occhi di Dmitrij Petrovič incontrarono uno sguardo quieto e attento»44. Lo sguardo vitreo dell’alce femmina da lui stesso uccisa e imbalsamata: E ora Dmitrij Petrovič, placato, giaceva accanto alla femmina d’alce, come il cucciolo che aveva sgozzato in quel lontano mattino autunnale. Lei, dall’alto, osservava attenta quell’essere umano dalle gambe rinsecchite e contratte sotto la coperta, dal collo esile, la fronte larga e la testa calva. Gli occhi vitrei della femmina d’alce si velarono di un brumoso umore azzurrino, Dmitij Petrovič ebbe l’impressione che in quegli occhi materni fossero apparse le lacrime, mentre agli angoli si delineavano due scie scure e appiccicose di pelo45.

L’alce uccisa, nel suo inaudito gesto di perdono, ritorna ad essere madre dolorosa – la più estrema e la più “innaturale” incarnazione delle madri dolorose di Grossman46 – per partorire un nuovo Dmitrij che, cucciolo ormai calmo, può finalmente morire, mentre «dall’alto continuavano a osservarlo due occhi buoni e compassionevoli, materni»47. Il seguito della storia non ci viene raccontato, ma possiamo immaginarlo leggendolo altrove48. Aleksandra, che non è morta, rientra a casa e ritrova il cadavere dell’uomo che ha amato per tutta la vita. Dapprima si dispera, poi col tempo si calma e decide di lasciare la casa, di andare a vivere con la figlia e la nipotina sul Volga. Non prima però di essersi sbarazzata di ciò che ritiene inutile, tra cui la testa dell’alce che non cessa di insinuare «ricordi amari»49. Probabilmente, la getta dalla finestra, come fece Concetta, una delle sorelle del principe Fabrizio Salina, con i resti del cadavere del cane di questi, Bendicò, morto da tempo e ormai ridotto a un «mucchietto 43 44 45 46 47 48 49

Ibid. Ivi, p. 50. Ivi, p. 53. Cfr. Assassini dal volto buono in questo volume. Vasilij Grossman, L’alce, ne La cagnetta, cit., p. 53. Tomasi di Lampedusa, Il gattopardo, Feltrinelli, Milano 1963. Ivi, p. 247.

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di pelliccia [...] tarlato e polveroso»50. E ci immaginiamo che anche l’alce, come Bendicò e come Argo/Bobby, si sia librata in aria, ancora desiderosa di danzare, come ai tempi della sua indimenticabile giovinezza, per arrestare, seppur per un attimo, il tempo spietato della storia: Durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell’aria un quadrupede dai lunghi baffi51.

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4. Compassione corporea. Bobby/Argo, Laika/Pestruška, l’alce/Bendicò sono solo alcuni degli animali (morti) che, con i loro sguardi e la loro ludica inoperosità, sono in grado di sospendere la «ferita della storia» e di aprire lo spazio di un «sentire creaturale» «oltre il sapere della morte»: Nel cammino sui sentieri della compassione, [...] c’è l’animale. Con il suo incantamento, con la sua pena. La figura animale denuncia, con i silenzi, con l’innocenza e la purezza che le appartengono, l’immensa rimozione compiuta dall’uomo nei confronti della sua presenza, del suo dolore. Un’alterità, il vivente animale, inquietante per l’uomo, e ritenuta superflua. Un’estraneità da addomesticare forzosamente, o confinare, o recingere, o ridurre in schiavitù, o sopprimere. Eppure, [...] lo sguardo animale, la sua dispiegata relazione con quel che è oltre la ferita della storia, oltre il sapere della morte, ha messo in moto un sentire, che possiamo chiamare creaturale, e ha piegato l’indifferenza verso la comprensione del fragile, dell’esposto, dell’indifeso. Sfrangiando la tela della distrazione. O della concentrazione sulla propria specie52.

Una volta sfrangiata la spessa tela della distrazione e della distruzione, infiniti altri animali irrompono sulla scena e ritessono, come Penelope/Argo, un ordito che si lascia percorrere dalla trama rizomatica di una comunità inedita, nella quale la compassione «prende forma» come «finitudine che unisce nello stesso cerchio tutti i viventi, uomini e animali. Con la singolarità dei loro corpi, e desideri e ferite»53. Ed è così che «va in frantumi tutta la severa [...] critica»54 che la filosofia ha da sempre condotto nei confronti della compassione – considerata ora come egoismo mascherato, ora come sentimento para-religioso che frena il cambiamento, ora come surrogato ipocrita di una giustizia sociale che di fatto negherebbe – e si dischiude 50 51 52 53 54

Ibid. Ibid. Antonio Prete, Compassione. Storia di un sentimento, Bollati Boringhieri, Torino 2013, p. 12. Ivi, p. 10. Ivi, p. 131.

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la possibilità di intrecciare/intercettare una storia altra, la storia di un sentimento, di un sentire altro, di un sentire che sente l’altro che sente, della compassione appunto, come fa Antonio Prete nel volume omonimo. Compassione – non empatia, che ancora tradisce «una venatura metafisica»55 –, che può sovvertire le trame spirituali e spiritistiche della storia perché innanzitutto corporea (compassione, infatti, «è compassione per l’esposizione di un corpo, dei corpi, dei nostri corpi»56), perché «non ha prezzo, non ha misura, non ha calcolo»57, e soprattutto perché, come già sottolineava Leopardi, «si alimenta [di uno] stato desiderante [che] si trasforma in viva attenzione al mondo»58. La compassione, cioè, è tutt’altro che una passione triste, come siamo stati abituati troppo a lungo a pensare; essa, al contrario, è intessuta di un desiderio smisurato e incalcolabile: il «desiderio dell’altro»59. È «movimento di cura, d’attenzione e d’amore verso quel che è debole e fragile»60, movimento sconvolgente in direzione di tutto ciò che è accomunato dalla finitudine: Il desiderio non dipende da una mancanza, desiderare non è mancare di qualche cosa, il desiderio non rinvia ad alcuna legge, il desiderio produce [...]. Tutto questo, in termini diversi, significa forse che il desiderio è rivoluzionario. Ciò non significa che voglia la rivoluzione. È meglio di questo. È rivoluzionario per natura perché costruisce delle macchine capaci, inserendosi nel campo sociale, di far saltare qualcosa, di smuovere il tessuto sociale [...]61. Il desiderio è sempre extra-territoriale-deterritorializzato-deterritorializzante, passa sopra e sotto a tutte le barriere62.

La compassione, al pari di quanto la biologia post-darwiniana avrebbe dovuto da tempo insegnarci del cosiddetto “mondo naturale”, «attraversando, mescolando e sovvertendo strutture e ordini, minerale, vegetale, animale, infantile, sociale»63, è allora contaminazione, ibridazione, metamorfosi, infezione, assemblaggio, flusso ininterrotto che scompone l’ordine delle

55 56 57 58 59 60 61 62 63

Ivi, p. 86. Ibid. Ivi, p. 95. Ivi, p. 119. Ivi, p. 124. Ivi, p. 125. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Macchine desideranti. Capitalismo e schizofrenia, a cura di Ubaldo Fadini, ombre corte, Verona 2012, pp. 38-39. Ivi, p. 56. Ivi, p. 86.

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cose, l’ingabbiato stato di cose presente, in direzione di uno spazio di alleanza, di divenire comune, di gioiosa e sconvolgente indistinzione:

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[La] compassione riporta costantemente il sentire nell’orizzonte di una terrestrità e di una fisicità che conosce sia la plurale, dissonante e irrequieta vita dei sensi sia la universale comunanza dei viventi nella finitudine. Per questo è una meditazione che si svolge in rapporto stretto con l’odissea del desiderio64.

È contro la distinzione, allora, che si scagliano le variegate schiere di umani e di animali desideranti che percorrono le pagine di Prete. Da Nietzsche che, nella Torino del 1889, abbraccia piangendo un cavallo violentato per liberarsi, «oltre la soglia oscura dell’enigma» aperta dal vuoto creato «dal lampo dei suoi occhi» carichi di tutto il dolore del mondo, in un luogo «dove la lingua e il sapere non difendono più dall’oltraggio della vita»65. All’anonimo cavallo di Guernica che, abbracciando e facendosi abbracciare da tutti i senza nome, «con la bocca spalancata nell’urlo» della morte che viene, squarcia l’ordine della tela del banale estremismo della normalità, assumendo «la funzione del Cristo nelle Pietà della storia dell’arte»66, per svelare un passaggio oltre la guerra. Guerra (al vivente) che, secondo Prete, rappresenta l’acme della «morte della pietà»67, l’acme di quella civiltà che si riassume nel mattatoio, «figura estrema e diffusissima di un’amministrazione del mondo animale che unisce raffinatezza dell’atto distruttivo e ragioni mercantili»68. La compassione è «il respiro del corpo»69 – ma «la libertà è un respiro» e «tutto respira, non solo l’uomo»; la compassione «è il rollio inavvertibile e misterioso della vita»70, è «liberazione del desiderio»71. Ma come rendere a parole, con il linguaggio che abbiamo a disposizione e che si è formato in millenni di dominio sull’altrimenti-che-umano, questo respiro, questo rollio, questo desiderio, questi corpi? Come comprendere che «il linguaggio può non essere più linguaggio senza, per questo, annullarsi nell’insensato»72? Quale bocca, abituata a introiettare e digerire l’altro 64 65 66 67 68 69 70 71 72

Antonio Prete, Compassione, cit., p. 127. Ivi, p. 131. Ivi, p. 39. Ivi, p. 11. Ivi, p. 140. Ivi, p. 11. Anna Maria Ortese, La libertà è un respiro, in Corpo celeste, cit., pp. 116-117. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Macchine desideranti, cit., p. 69. Pierre Clastres, L’arco e il canestro, ne La società contro lo Stato. Ricerche di antropologia politica, trad. it. di L. Derla, ombre corte, Verona 2013, p. 96.

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nell’atto del mangiare, è capace di estroflettersi per e-spirare e farsi i(n) spirare dall’altro? Come è possibile approssimarsi all’ordine animale delle cose, al «respiro animale del mondo»73, se non provando a delineare i tratti di una lingua minore? Una lingua necessariamente aporetica poiché impegnata a tradurre «un pensiero [...] privo di lingua» e «privo di Io», un pensiero capace di avvertire il «legame tra singolarità e appartenenza»74. Una lingua impossibile, quindi, se non come paradossale lingua del silenzio, in cui echeggia «una parola misurata, essenziale»75, una lingua che, sapendo che «i corpi e le cose [appaiono] come lo sbalzo di un’apparenza temporanea e per questo preziosa»76, è «la lingua dell’aria» dotata di una «leggerezza che è oltre ogni significato»77, in cui è «il silenzio che sostiene la frase». Una lingua che esprime «il senso di una comune appartenenza», «il fatto d’esser lì»78, di «essere nella propria lingua come uno straniero»79. Una lingua, quindi, per nulla condannata all’afasia ma che, al contrario, non essendo più nostra, avendo perso «la gravità del significato»80, può denunciare, con la forza che le deriva dall’essersi liberata dall’ipocrisia, la «disseminazione della crudeltà»81. Da chi possiamo apprendere questa lingua silenziosa e comune – che non si smarchi dal doppio senso (del munus), dal compito di donare – se non dai morti, dalla loro «immaginazione sospesa» che possiamo sperimentare «nel sonno, nell’estasi, negli attimi di estremo pericolo, nell’orgasmo e forse proprio nell’esperienza della morte»82 che è innanzitutto animale? La «dimenticanza e [la] distrazione dalla cura e dal ricordo dei morti [...] rende il vivente chiuso nella sua indifferenza, nella sua incapacità di dialogo con quel che è oltre il suo proprio orizzonte»83. Non a caso, allora, alla fine del libro, scopriamo chi realmente sta dietro la tastiera di Prete, non più scrittore, ma medium, chi è venuto prima delle parole che compon-

73 74 75 76 77 78 79 80 81 82 83

Antonio Prete, L’ordine animale delle cose, nottetempo, Roma 2008, p. 92. Ivi, p. 30. Ivi, p. 13. Ivi, p. 18. Ivi, p. 44. Ivi, p. 45. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, trad. it. di A. Serra, Quodlibet, Macerata 1996, p. 47. Antonio Prete, L’ordine animale delle cose, cit., p. 44. Ivi, p. 29. John Berger, Dodici tesi sull’economia dei morti, in Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007, cit. p. 8. Antonio Prete, Compassione, cit. p. 66.

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Penne e pellicole

gono il suo testo, chi vi ha sapientemente inserito le pause di un silenzio essenziale: [Il] cane Alì, che all’indomani sarà abbattuto: s’è azzuffato con un randagio che dicono idrofobo e la sua fine è stata decisa [...]. Alì è legato ai piedi di un tavolo, e sa, certamente sa della decisione che lo riguarda. Una tristezza senza fine è in quegli occhi. Tutto il mondo che soffre è in quello sguardo. Come dimenticare il lampo di quegli occhi?84

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Alì, in quanto perduto, è indimenticabile e, come Bobby e Laika, non smette di tornare. È ancora lì, diventato femmina, a sentire il ticchettio che ora lui fa con i tasti del computer scrivendo di me, dopo che ha deciso di darmi la parola, sapendo che è tutta una finzione, e che io questo lo so benissimo, ma glielo lascio fare, perché so anche che della mia vita potrà dire ben poco, solo le apparenze potrà dire, solo quelle che possono essere tradotte nelle sue parole, ma glielo lascio fare perché ci vogliamo bene85.

È ancora lì a perdonare la nostra bêtise, che occulta il nostro misurato esserci-animale, il nostro silenzioso essere già presi nelle vibrazioni della morte. 5. Giù nel labirinto. La differenza tra “l’Umano” e “l’Animale” ha bisogno, per poter sussistere nelle forme di una barriera ontologica insuperabile, che sia mantenuto sgombro lo spazio che essa stessa instaura. Gli esseri ambigui (ad esempio, le scimmie antropomorfe o i cosiddetti “ragazzi selvaggi”), che vanno ad abitare questo territorio interdetto, devono pertanto essere immediatamente tolti di torno, la loro carica eversiva depotenziata tramite la “rieducazione”, la reclusione o l’eliminazione. Essi, infatti, con la loro natura anfibia, svelano l’ambiguità del concetto di specie, che è un costrutto astratto e quasi insostenibile (come mostrato da Darwin), il cui scopo è quello di naturalizzare un sistema ideologico e una serie di prassi che si perpetuano nelle architetture del dominio costruite con il sudore e il sangue degli oppressi86. Ininterrotto, però, è l’apparire fin dall’antichità di questi perturbanti esserci-queer. Tra loro, certamente, il Minotauro, mezzo toro e mezzo uomo, che deve essere rinchiuso nel labirinto, fino a quando sarà ucciso 84 85 86

Ivi, p. 161. Antonio Prete, L’ordine animale delle cose, cit., p. 67. Al proposito, cfr. Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace. La questione animale e l’ideologia del dominio, Elèuthera, Milano 2013, in particolar modo il capitolo intitolato Ascensori dell’inferno, pp. 66-77.

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da Teseo, per disinnescarne la potenza destabilizzante. Minotauro che non cessa di tornare a percorrere, sanguinante, il nostro immaginario, spesso in una sorta di fermo-immagine che lo coglie in un momento preciso della sua esistenza, nel momento in cui la sua speranza di liberazione naufraga di fronte all’inganno spietato de “l’Uomo” di Stato che, mascherandosi – e in tal modo dichiarandosi persona –, si erge sopra l’intero esistente, tradendo l’innocente fiducia dei suoi abitanti: «Al movimento dell’animale che porta il suo sentire amichevole verso l’umano», che allunga la mano per incontrare Teseo mascherato da toro, questi risponde con un colpo di spada che rovescia l’incontro «in offesa e distruzione dell’altro»87. Anche il Minotauro, però, non sembra essere irreversibilmente morto se Georgi Gospodinov può continuare a inseguirne le gesta attraverso gli occhi di un bambino che diventa adulto nella Romania di Ceausescu, ai margini di un ulteriore totalitarismo, come è stato per Bobby, come è stato per Laika e per l’alce88. Il protagonista del romanzo di Gospodinov è un bambino affetto da una «sindrome ossessiva empatico-somatica», che gli permette di trasferirsi «in una storia e in un corpo altrui»89 e di perdersi nella labirintica rete dell’esistenza che continua a tessere e a squarciare la trama del racconto con storie che si interrompono, si intrecciano, si ripetono e si contaminano. L’origine, o forse la prima manifestazione evidente di questa sindrome bizzarra, è l’incontro, in una fiera di paese, tra il protagonista, che entrato nel corpo del nonno può seguirne il filo dei ricordi, e un altro bambino spacciato per il Minotauro e chiuso in «una gabbia di ferro lunga cinque-sei passi e alta poco più di una persona»90: «Sono penetrato allora dentro il Minotauro e non ricordo di esserne mai uscito»91. È a partire da qui che il protagonista si immerge nello spazio di indistinzione che accomuna l’intero esistente: diventa la lumaca che il nonno ingoia per curarsi l’ulcera92 o la formica inorridita di fronte all’odore umano che non tollera93; entra in rapporto con i morti, tra cui Laika «la cui anima vagabonda roteava nel cosmo»94; scopre che «Dio è un insetto» perché 87 88 89 90 91 92 93 94

Antonio Prete, Compassione, cit., p. 161. Georgi Gospodinov, Fisica della malinconia, trad. it. di G. Dell’Agata, Voland, Roma 2012. Ivi, p. 93. Ivi, p. 22. Ivi, p. 70. Ivi, pp. 37-39. Ivi, p. 60. Ivi, p. 101.

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«solo un essere piccolo può essere in ogni luogo»95 e che il «sublime dimora ovunque», anche in «una merda di bufalo»96; e afferma, con accenti che ricordano il primo Cioran:

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Talvolta sono al contempo dinosauro, pesce, pipistrello, uccello, essere unicellulare che nuota nel brodo primordiale, oppure embrione di un mammifero, talora sono in una grotta, o nelle viscere97.

È da questa abissale perdita di identità – «l’identità consiste in nient’altro che essere una creatura vivente tra altre creature viventi. Di essere effimero e di apprezzare l’altro perché è effimero»98 – che scaturisce il desiderio di raccontare la meravigliosa storia del «mondo organico», che è «stupendo» perché «sempre sul punto di scadere», perché «si raggrinza, marcisce, va a male»99. Ma per farlo, per raccontare «una storia generale di ciò che non è accaduto»100, per «togliere l’uomo dal centro dell’universo, della morte e degli animali»101, è necessario, ancora una volta, lasciarsi alle spalle la lingua umana che è mortifera perché, con le parole, separa i corpi dai loro nomi102. Congedo che è preludio di un’altra lingua, quella animale appunto, che ha a che fare con una tristezza silenziosa, che «è molto più fitta di quella umana, è selvatica, non filtrata dalla lingua, ineffabile e non detta»103. Per questa ragione, il racconto non può essere «lineare, perché nessun labirinto e nessuna storia è lineare»104, perché «siamo fatti di labirinti»105, dalle pieghe del DNA a quelle del cervello: L’uomo deve star zitto per un po’ di tempo e, nella pausa così ottenuta, ascoltare la voce di un altro interlocutore, pesce, libellula, donnola o bambù, gatto, orchidea, pietruzza. Da dove sappiamo, ad esempio, che le api non scrivono romanzi? Abbiamo letto almeno un favo di miele? O cominciamo coi pesci. Quale immensa parte dell’evoluzione è rinchiusa nel silenzio del pesce, quali conoscenze avranno accumulato i pesci in tutti i millenni prima di noi? Profondi e freddi magazzini di questo silenzio. Non toccati dalla lingua106. 95 96 97 98 99 100 101 102 103 104 105 106

Ivi, p. 62. Ivi, p. 198. Ivi, p. 94. Ivi, p. 201. Ivi, p. 202. Ivi, p. 165. Ivi, p. 194. Ivi, p. 64. Ivi, p. 193. Ivi, p. 54. Ivi, p. 308. Ivi, p. 195.

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Mentre ascoltano questo silenzio, come già suggeriva Derrida, gli umani dovrebbero prepararsi alla riscrittura della storia «dal punto di vista delle bestie»107, storia che il filosofo francese non prevede assuma le forme di un «bestiario fantastico» ma, con accenti deleuziani, vorrebbe fosse «un’orda di animali nella foresta dei miei segni e nelle memorie delle mie memorie»108:

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Non ho idea di cosa fare in proposito. Forse dobbiamo fare il primo passo – tutti i classici universali, rinarrati da animali per animali [...]. Tutta la storia attraverso la voce di un pesce sanguinante, rosicchiato, ma che resiste fino alla morte109.

O, meglio ancora, gli umani dovrebbero impegnarsi nella ricreazione del mondo, assumendo lo sguardo («Per l’occhio di ogni neonato – ratto, mosca, tartarughina, il mondo si ricrea ogni volta di nuovo»)110 e, soprattutto, la lingua del neonato che all’inizio prende a parlare tutte le lingue di tutte le creature vive, tuba come i colombi, gorgoglia come i delfini, miagola, squittisce, urla a squarciagola... Il brodo primordiale della lingua. Dsigh, angee, pneja, eee, deeja, bunja-bunja, bunjaba, batjabuuu... Dio non dona subito la lingua ai neonati [...]. Quando viene loro donata la lingua, il segreto è già stato dimenticato111.

È in questo esercizio corporeo che disegna una sorta di askēsis invertita, che si affaccia l’incontro con un Minotauro inedito – raffigurato su una coppa rinvenuta «nei dintorni dell’antica città etrusca di Vulci» e conservata alla Biblioteca Nazionale di Parigi –, che sta prendendo congedo dalla madre, prima di essere rinchiuso nel labirinto del dominio, prima di essere sacrificato: Un bambino sta in grembo alla mamma. Lei lo sostiene con la mano sinistra, probabilmente ha appena finito di allattarlo [...]. La scena è una classica icona, infinitamente nota e ripetuta in tutte le raffigurazioni dopo la nascita del Bambino Gesù [...]. Il bambino ha una testa di toro. Piccole corna, orecchie allun-

107 Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, trad. it. di M. Zannini, Jaca Book, Milano 2006, p. 50. 108 Ivi, p. 77. 109 Georgi Gospodinov, Fisica della malinconia, cit., p. 196. 110 Ivi, p. 207. 111 Ibid.

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gate, occhi disposti lateralmente, muso. Testa di vitello. Pasifae col Minotauro bambino. Secoli prima della Madonna112.

È qui, nei pressi della morte, a cui ogni separazione tra la madre e i suoi cuccioli allude, che possiamo finalmente ascoltare la voce del Minotauro, voce che tutta la letteratura non ci ha mai permesso di udire («Lui non parla, sono altri a parlare di lui»113) – esattamente come il mattatoio occulta le grida di chi condanna a morte114 – e che Gospodinov ci restituisce in un prolungato e intenso «Muuuuu»115. Muggito che il narratore/ protagonista riscopre nei tori feriti, umiliati e uccisi nelle corride, orrendo spettacolo pornografico che ancora ripete il gesto omicida di Teseo. Il «Muuuuuuuuuuuuuuuu» dei tori altro non è che un altro modo di dire «Mammaaaaaaaaaaaa», «l’unica parola che in tutte le lingue, degli uomini, degli animali e dei mostri è una sola»: Se si fosse saputo che si trattava di una stessa parola [...,] la storia del mondo e la storia della morte (non c’è da stupirsi se possa trattarsi di una sola storia) sarebbe stata diversa. Un essere spaventato a morte cerca la sua mamma. Uomo, bestia, la parola è una sola116.

Muggito che, nella sua differente unicità, è identico a quello dell’alce morente di fronte al suo piccolo pronto per essere macellato e che lei non intende abbandonare; identico a quello di Laika dispersa nello spazio e alla quale la maternità è stata negata da una siderale operazione di castrazione; identico a quello dei vari Argo di Samuel che, per poter far ritornare Bobby, sono stati separati dalle loro mamme; identico a quello di tutti gli altri animali di cui «noi siamo l’inferno»117, di tutti quegli animali che, nel mattatoio, «matematica della morte, geometria dell’assassinio»118, continuano a incontrare Teseo. Muggito che istituisce una lingua altra, una voce dell’altro mondo, al contempo universale e corporea, una lingua che tutti conoscono, parlano e comprendono, ma che prende forma e consistenza solo nella vicinanza, nel contatto e nella carezza. Lingua dell’incontro e del commiato, lingua tattile. 112 Ivi, p. 82. 113 Ivi, p. 86. 114 Mick Smith, Lo spazio “etico” del mattatoio: l’(in)umana macellazione degli altri animali, trad. it. di L. Carli, in Liberazioni, n. 14, autunno 2013, pp. 5-28. 115 Georgi Gospodinov, Fisica della nostalgia, cit., p. 87. 116 Ivi, p. 181. 117 Ivi, p. 189. 118 Ivi, p. 185.

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Lingua estrema e materna e sempre più estrema e più materna quanto più si smarca dalla biologia edipica di una madre “propria” e di un figlio “proprio”. Come Prete, anche Gospodinov si domanda come tradurre, senza tradirlo, il risuonare echeggiante di questa voce, di questa lingua minore, estranea in casa “propria” e perturbante, come direbbe Freud. Per questo, allontanandosi dal “dire umano” – «Mi sento gridare, ululare, muggire come un toro nei corridoi di quel sotterraneo, perché non so più quale sia la mia lingua [...] Muuuuuuu...»119, Gospodinov sceglie di affidarsi a una sorta di scrittura queer – «Scrivo in prima persona per essere sicuro di essere ancora vivo. Scrivo in terza persona per essere sicuro di non essere solo»120 –, che gli consenta di muoversi «lungo i corridoi di tempi diversi»121, a zig-zag per non smarrire la strada che a ogni bivio si lascerebbe indietro e per smarrirsi nell’impercorribile intreccio della vita presente e passata. Il romanzo di Gospodinov, fattosi «mercante di storie» che compra «grosse partite di passato»122, si avvia, quindi, lungo gli infiniti corridoi dei labirinti delle storie (che si richiamano l’un l’altra) e della compassione, provando, in una sorta di infinito intrattenimento, a trattenere la vita nei pressi dell’indistinzione dell’infanzia a cui la morte alla fine la riconsegnerà: Ricordo di essere morto come lumaca, rovo di rosa canina, pernice, ginko biloba, nuvola di giugno [...], fiore autunnale turchino di croco [...], ciliegio precoce gelato da una tarda neve d’aprile123.

Il labirinto che così si forma, e che si oppone al labirinto del dolore istituzionalizzato, si delinea come una grammatica ripiegata, una grammatica che ha perso la verticalità della stazione eretta e che ci consegna a un nuovo sguardo capace di leggere nelle pieghe della materia e dell’anima: Un labirinto è detto multiplo, in senso etimologico, poiché è costituito da molteplici meandri. Il molteplice non è soltanto ciò che ha molte parti, ma ciò che è piegato in molti modi [...]. Occorre una «crittografia» che, insieme, enumeri la natura e decifri l’anima, veda nei ripiegamenti della materia e legga nelle pieghe dell’anima124.

119 120 121 122 123 124

Ivi, p. 313. Ivi, p. 276. Ivi, p. 213. Ivi, p. 212. Ivi, p. 324. Gilles Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, trad. it. di V. Gianolio, Einaudi, Torino 1990, pp. 5-6.

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Penne e pellicole

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Grammatica scardinata e scardinante che, per prima cosa, altera e decentra l’Io, perché sa che «appena si dice “sono qualcosa” il desiderio è già strangolato»125, tanto che il romanzo si apre, in dialogo con gli animali, con un «Io siamo»126 e si chiude, in dialogo con i morti, con un «Io fummo»127. E nel mezzo, tra le sue pieghe, si dipana «una storia che tu credi di star creando, ma in realtà ci sei del tutto dentro»128, una storia che, con accenti benjaminiani, si avvale di una scrittura [che] è [...] conservazione delle sconfitte129, che diviene grembo e che accoglie «tra le pagine» il «brulichio di vita»130, per offrirgli una qualche forma di riparo: Quello che rimane non sono momenti eccezionali, non sono avvenimenti, ma appunto qualcosa che non accade. Un tempo libero dalla pretesa di eccezionalità. Ricordi di pomeriggi nei quali non era successo nulla. Nulla se escludiamo la vita in tutta la sua pienezza […]131. Le cose insignificanti e minute – è la che si nasconde la vita, è là che si annida132.

Se ci troviamo nel tempo dell’autunno del mondo – «Qualcosa si è messo a slittare nel tempo e l’autunno non se ne vuole andare, ogni stagione è sempre autunno» –, se «la malinconia sta lentamente sommergendo il mondo»133, la fisica della malinconia è la risposta desiderante della compassione che non solo non spolvera il pulviscolo che lo scialo ontologico accumula sulle cose, ma che lascia che si depositi anche su di noi, accettando l’idea che «non possiamo sfuggire da quelli che abbiamo dimenticato»134. Per uscire dal labirinto bisogna attraversarlo e non fingere che non esista; per oltrepassare l’autunno, bisogna affrontare l’inverno e non pretendere di vivere nella luce dell’estate. Per percorrere il deserto del reale abbiamo a disposizione solo la luce intermittente della memoria e del desiderio. Luce tenue, certo, ma che a tratti fa erompere il miracolo, come se un proiettore iniziasse a girare all’indietro:

125 126 127 128 129 130 131 132 133 134

Gilles Deleuze e Félix Guattari, Macchine desideranti, cit. p. 60. Georgi Gospodinov, Fisica della malinconia, cit. p. 16. Ivi, p. 324. Ivi, p. 307. Ivi, p. 135. Ivi, p. 166. Ivi, pp. 285-286. Ivi, p. 286. Ivi, p. 272. Ivi, p. 241.

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La finitudine condivisa

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I blocchi di carne tagliati si trasformano in mucca, e la carne di manzo in un manzo. Le budella rientrano nella pancia, le bistecche si riattaccano alle cosce [...]. E i coltelli degli addetti al mattatoio è come se diventassero spessi aghi da cucire e loro stessi dei sarti, che rivestono di nuovo la pelle135.

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Anche se razionalmente sappiamo che «gli spasimi dell’agonia, proiettati all’incontrario, rimangono spasimi di agonia» e che la mucca «è morta irreversibilmente»136, questo assurdo miracolo apre al Minotauro un sanguinante passaggio liberante verso l’insalvabile: Correva perché non gli importava rispondere al balzo con un balzo, all’assalto con l’assalto [...]. Poteva vincerlo facilmente, l’uomo dell’inganno, ma uscire dal labirinto era la sola cosa che gli importava. Il sangue che gli gocciolava dal braccio gli dava un vantaggio, gli segnalava il cammino già fatto e gli evitava di tornare sui suoi passi. E accadde che il grido dello straniero si fece più debole, poi si perse sotto le volte del palazzo, ma, d’improvviso, a un altro punto d’uscita del labirinto, giunse un nuovo grido, anzi un tumulto di grida, ed erano, quelle nuove grida, festose137.

Passaggio liberante che non è precluso neppure agli altri minotauri che, un giorno, potranno ritrovare la propria «madre tra la folla della corrida»138 e, forse, perdonarci, nel momento stesso in cui saremo capaci di chiederci: «Sono vivi coloro che siamo stati?»139. 6. Una breve estate. Anche il romanzo di Jón Kalman Stefánsson, Luce d’estate ed è subito notte140, seppure con una struttura e un linguaggio più “convenzionali” di quelli di Gospodinov, racconta una storia transindividuale, senza un vero protagonista, una storia che è l’intreccio delle relazioni di un minuscolo e sperduto borgo islandese, che continuamente modifica sia i vari personaggi che l’andamento ziz-zagante della narrazione. Narrazione che, ancora una volta, prevede la presenza degli animali e dei morti e che si snoda a ridosso di una lunga stagione invernale. Due sono gli episodi che più di tanti altri danno la cifra del romanzo. Il primo è l’esito di una vicenda di infedeltà coniugale. Kjartan è sposato con 135 136 137 138 139 140

Ivi, p. 188. Ivi, p. 189. Antonio Prete, L’ordine animale delle cose, cit. pp. 50-51. Georgi Gospodinov, Fisica della malinconia, cit., p. 320. Ivi, p. 148. Jón Kalman Stefánsson, Luce d’estate ed è subito notte, trad. it. di S. Cosimini, Iperborea, Milano 2013.

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Penne e pellicole

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Ásdís, ma intrattiene una relazione adulterina con Kristín. Quando i due amanti si incontrano clandestinamente nella brughiera islandese, anche i loro due cani (Bobby e Laika?) si amano e così il cane femmina di Kjartan partorisce tre cuccioli. Ad un certo punto, Ásdís scopre la tresca segreta e decide di vendicarsi: Usa lo sgabello per raggiungere il ripiano più alto, prende la pistola per le pecore […]. La cagna e i cuccioli sono fuori, così allegri e beati che non sanno pensare ad altro che girare su se stessi, seguire quella coda stupenda che non si fa mai acchiappare, o correre e saltare avanti e indietro. Ásdís prende il cucciolo con la stella in fronte, lui scodinzola, cerca di leccarle la mano. Lo porta nella lavanderia […]. Si china con il cucciolo che giocoso e vivace infila il muso nella manica del giaccone, povero piccolo, dice lei, lo immobilizza sul pavimento e gli spara alla nuca141 .

La storia si ripete con il secondo e con il terzo e, infine, la stessa sorte tocca anche alla madre: Per la cagna ci volle un po’ più di tempo, si era nascosta nella stalla, Ásdís la persuase ad uscire con paroline affettuose, l’animale strisciò fino a lei con il ventre a terra, tremando e guaendo, i cani hanno il fiuto e la morte puzza 142.

In questo episodio è racchiusa tutta la storia de “l’Umano”: la violenza pianificata e pianificante di una delle tante morali che si credono oggettive e che, facendo ricorso a parole e atteggiamenti melliflui e ipocriti, tradiscono fino alla morte il desiderio dei corpi animali, la loro inoperosa giocosità, i fugaci istanti di indistinzione che vivono nell’infanzia dell’esistenza e nell’abbraccio materno, istanti che poi si sedimentano, come indimenticabile pulviscolo, nell’esserci-come-carne. Storia de “l’Umano” che moltiplica la sua forza distruttiva nel secondo episodio chiave del romanzo, quando la violenza si istituzionalizza nell’indifferente figura del «furgone» e del «carico», nel massacro stagionale degli agnelli: Il furgone dei Macelli fa il giro delle fattorie del distretto, la copertura rudimentale che ballonzola sul cassone, esce vuoto dal paese e torna pieno di agnelli belanti […]. Il furgone […] entra in retromarcia nei Macelli, due uomini in camice verde scuro lungo fino alle ginocchia aprono il portello posteriore e spingono il carico nell’ovile, che a volte chiamano sala d’attesa, ma di rado le bestie hanno 141 Ivi, pp. 153-154. 142 Ivi, p. 154.

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molto da attendere […]. A volte pensiamo agli agnelli nell’ovile dei Macelli, che caldi di vita e belanti si guardano intorno con i loro occhi azzurri e solo uno o due giorni dopo sono carcasse congelate. Vivono un’estate, un’unica breve estate piena di luce nelle loro vene, nient’altro, poi il proiettile frantuma la fronte sopra gli occhi, e noi rimaniamo qui ad aspettare l’inverno143.

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Dove sono andati a finire la gioia e il terrore di quei cani e di questi agnelli? Finché non lo scopriremo, anche la nostra attesa sarà breve, l’inverno interminabile, l’imperdonabile imperdonabile. 7. Un lungo autunno. Benjamin afferma che «il denaro appartiene al regno della pioggia, non certo del sole»144 e che il denaro è «l’apparato ornamentale»145 di quella religione che prende il nome di capitalismo. Religione che ha fatto a pezzi l’animalità, che ha smembrato e continua a smembrare innumerevoli schiere di animali (umani compresi), che ha portato a definitivo compimento l’invenzione de “l’Animale” e che «ha spezzato [la nostra] interdipendenza» con i morti, trasformandoli in «eliminati»146. Che, appunto, ha bloccato l’intero esistente in un eterno autunno grigio e piovoso, preludio di un ancor più temibile inverno, nel tempo della malinconia. Autunno e malinconia in cui ancora viviamo e di fronte ai quali Prete si domanda: «Quanti gesti di compassione o di fraternità creaturale potranno compensare questa storia di spregiudicata produzione di dolore?»147. A questa domanda potremmo aggiungerne almeno altre due: «Il potere di perdonare dei morti della storia, di tutti i morti della storia, è davvero così potente da riuscire a perdonare fino a questo punto?» e «Noi, i giàmorti, potremo mai perdonarci?». Forse, a queste domande Adorno risponderebbe, seppur con qualche incertezza, affermativamente: Se il soggetto, lo spirito, riflettendo criticamente su se stesso, non assimila a sé e non “divora” tutto ciò che esiste – proprio allora forse nasce [...] una forma sommamente paradossale di speranza148.

143 Ivi, pp. 234-235. 144 Cit. in Carlo Salzani, Politica profana, o dell’attualità di Capitalismo come religione, in Walter Benjamin, Capitalismo come religione, trad. it. di C. Salzani, il melangolo, Genova 2013, p. 8. 145 Ivi, p. 47. 146 John Berger, Dodici tesi sull’economia dei morti, in Abbi cara ogni cosa. Scritti politici 2001-2007, cit., p. 9. 147 Antonio Prete, Compassione, cit., p. 140. 148 Theodor W. Adorno, Metafisica. Concetto e problemi, trad. it. di L. Garzone, Einaudi, Torino 2006, p. 164

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Penne e pellicole

Il materialismo sarebbe la filosofia che accoglie in sé la coscienza non decurtata, non sublimata della morte; la filosofia, si potrebbe dire, che vieta di dare espressione alla speranza, e che forse proprio in questo divieto vede l’ultimo rifugio della speranza149.

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Probabilmente più esplicita sarebbe Molly Bloom. Afferrata, all’ultima riga dell’ultima pagina, dall’irruzione irrefrenabile del desiderio, evocato dal ricordo del primo amplesso con Leopold/Ulisse, ella è verosimilmente più disposta alla compassione. Aggrappati all’indicibile speranza di Adorno e al non-detto del desiderio di Molly, forse potremo scorgere ciò che non è stato, ma che potrebbe porre termine all’autunno in cui viviamo: Ulisse/Leopold che si china per stringere Argo morente in un ultimo, intenso, interminabile abbraccio. IN MORTE DEGLI ANIMALI, IN UN TEMPO SOSPESO Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. (W. Benjamin)150

1. Aix, 15 maggio-12 giugno 1955. Nella stanza dove «Taïaut ha vissuto la sua agonia»151 ed è morto, di fronte allo sterminato vuoto di «questa pagina da riempire»152, il filosofo Jean Grenier, maestro e amico di Albert Camus, scrive In morte di un cane, l’elogio funebre per il suo compagno non umano. Novanta brevi riflessioni, nella forma sincopata del singhiozzo e del rimpianto rammemorante che corrisponde «ai battiti del cuore»153, sulla morte di Taïaut, sugli incontri che hanno percorso una vita, sulla luce oscura che la morte getta sull’esistenza, sul presunto confine tra “l’Uomo” e il resto del vivente, sulla finitudine che condividiamo con gli animali, su come la loro morte ci interroghi e ci consegni alla nostra, muti. 2. Milano, 2 maggio 2011, ore 12.00. Gli animali hanno inestricabilmente a che fare con la morte, non fosse altro perché gli animali con cui abbia149 Theodor W. Adorno, Terminologia filosofica, trad. it. di A. Solmi, Einaudi, Torino 2007, p. 378. 150 Walter Benjamin, Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus. Saggi e frammenti, trad. it. di R. Solmi, Einaudi, Torino 1982, p. 78. 151 Jean Grenier, In morte di un cane, trad. it. di C. Pastura, Mesogea, Messina 2011, p. 18. 152 Ivi, p. 49. 153 Ivi, p. 39.

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mo maggiore familiarità, quelli domestici e quelli addomesticati, muoiono in genere prima di noi: quelli domestici perché hanno una vita media di molto inferiore alla nostra; quelli addomesticati perché la catena produttiva ne prevede la morte anticipata dopo una vita di inaudite sofferenze. Questo porta alla luce, per tutti, ciò che abbiamo relegato nell’oblio più recondito, ossia la nostra stessa finitudine, e per chi vuol vedere, gli altri innumerabili obliati, ossia loro stessi. «Sbarazzarci degli animali per noi è facilissimo e al contempo quasi impossibile»154. Allora, hanno più che mai ragione Deleuze e Guattari che, nel momento stesso in cui vi accennano, negano immediatamente la loro classificazione tassonomica che dividerebbe gli animali in edipici, di Stato e demoniaci, affermando che anche i “nostri” animali, quelli edipici, quelli che abbiamo familiarizzato per riprodurre il triangolo papàmamma-fratellino, mantengono la potenza destabilizzante della muta155. 3. Aix, 15 maggio-12 giugno 1955. Questo è quello che scopre Grenier nella «camera in cui [Taïaut] ha trascorso i suoi ultimi momenti»156 e che ci restituisce con semplicità e coraggio: «La nostra sorte è comune. È per questo che non ho vergogna a parlare di un cane»157. La vergogna di essere uomini, nella scrittura, nella scrittura della morte di un cane, in quella morte che è la scrittura, apre un varco per l’irruzione del ricordo e del lutto, rievoca, per provare a revocarlo, ciò di fronte a cui la nostra voce si è sempre ammutolita. 4. Milano, 2 maggio 2011, ore 14.00. Gli animali, oltre al livello esistenziale e personale evocato da Grenier, hanno un rapporto stretto con la morte anche per altre ragioni. Antropologicamente, perché è anche attraverso il loro sacrificio rituale che si sono formate le nostre società. Materialmente, perché è attraverso la domesticazione, che istituzionalizza la loro uccidibilità, che queste stesse società hanno reperito le risorse per poter sopra-vivere. Simbolicamente, perché è la riduzione dell’Altro ad “animale già-morto” che ha plasmato la struttura della “comunità” in cui ancora viviamo. Ontologicamente, perché “l’Umano” sorge come negazione mortifera della morte (de) “l’Animale”. Gli animali e la morte hanno poi intrinsecamente a che fare con la scrittura. La scrittura, infatti, è già morta nel momento stesso in cui prende vita, è il luogo dove continua a riecheggiare una voce che è già passata e che, a sua volta, è sorta, come ci ricorda Hegel, dalla morte della phoné ani154 155 156 157

Ivi, p. 26. Cfr. Gilles Deleuze e Félix Guattari, Mille piani, cit., pp. 344-345. Jean Grenier, In morte di un cane, cit., p. 20. Ivi, p. 40.

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male. «Scrivere deve avere una complicità […] con la morte»158, afferma Grenier, verso la quale possiamo quasi niente, ma «questo “quasi niente” mi tocca l’animo, è il margine dell’umano»159. Nello scambio di sguardi specularmente impotenti in cui Taïaut e Grenier sono presi nel momento della morte del primo scopriamo che la sofferenza, come la morte, è «possibilità senza potere, una possibilità dell’impossibile», «vulnerabilità» che «condividiamo con gli altri animali»160. Per Grenier, però, la condivisione della finitezza tra umani e animali resta parziale, perché, a differenza di noi, essi «vanno a viso aperto e guardano innanzi a sé senza porsi domande»161. «Aspettano»162. Vivono «in un presente immobile [che], lungi dall’essere interminabile, giunge al termine a ogni barlume di coscienza»163. Forse, però, le cose non stanno proprio così. Forse gli animali hanno un modo diverso dal nostro di porsi domande, di rispondervi e di rispondere alle nostre. Forse parlano attraverso una prosodia di gesti che quasi mai cogliamo perché, se lo facessimo, dovremmo interrompere il nostro spietato egoismo nei loro confronti. La nostra voce ci ha e li ha ammutoliti, ci fa morire nel più assoluto mutismo. 5. Parigi, 1992. Il posto delle balene è il titolo dell’edizione italiana del breve racconto Pawana pubblicato quasi venti anni fa dal premio Nobel per la letteratura Jean-Marie Gustave Le Clézio164. Il titolo originale del racconto deriva dal grido, «Awaité pawana!», che i nativi americani lanciavano quando avvistavano le balene a cui stavano dando la caccia dopo essersi avventurati in mare al largo di Nantucket. Anche questo libro, come quello di Grenier, è un libro della memoria. Memoria di altri racconti di mare, di caccia e di tenebre, da Melville a Conrad. Ma, soprattutto, memoria della tragica vicenda narrata che i protagonisti del racconto rievocano molti anni dopo nell’impossibile tentativo di revocarla. Anche questo libro poi, come quello di Grenier, parla di animali e della loro morte, ma in questo caso la morte è per mano nostra e gli animali sono immediatamente demoniaci, senza nome. Esattamente come i luoghi in cui vivevano prima dell’arrivo de “l’Uomo” che, nominandoli, ne ha arrestato, in un immoto e mortale silenzio, il perenne mutare. 158 159 160 161 162 163 164

Ivi, p. 32. Ivi, p. 57. Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, cit., pp. 66-67. Jean Grenier, In morte di un cane, cit., p. 26. Ivi, p. 30. Ibid. Jean-Marie Gustave Le Clézio, Il posto delle balene, illustrazioni di Eloar Guazzelli, trad. it. di M. Vidale, Donzelli, Roma 2011.

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6. A sud di Punta Bunda, mattino del 10 gennaio 1856. Nel racconto di Le Clézio si alternano due voci, quella di John di Nantucket – che, come giovane marinaio semplice della baleniera Léonore, per presentarsi non ha bisogno di dire il proprio cognome, ma solo nome e luogo di origine – e quella del capitano, che inizia sempre a parlare con un perentorio «Io, Charles Melville Scammon». Entrambi hanno partecipato alla prima spedizione che ha portato alla scoperta di una mitica laguna dove le balene si raggruppano a centinaia per partorire e per morire («Il luogo dove tutto cominciava, dove tutto finiva»165); entrambi hanno contribuito in prima persona alla distruzione di questo habitat insostituibile e a dare il via a allo sterminio su scala planetaria di questi animali; entrambi ricordano quello che è avvenuto e cercano nel ricordo e con il ricordo di trasformare il passato da ciò che è stato a ciò che, senza di loro, avrebbe potuto essere. La vicenda raggiunge il suo acme nel breve lasso di tempo che va dalle 6 del mattino al mezzogiorno del 10 gennaio 1856 quando, dopo che la sera prima il capitano aveva individuato l’ingresso nascosto al «mondo perduto, separato dal nostro da innumerevoli secoli»166, inizia un’avventura dagli accenti che ricordano la hybris dell’Ulisse dantesco e che si concluderà con la spietata mattanza delle balene e dei loro piccoli (appena nati o ancora in grembo), mattanza che manderà «in fumo» «tutta la vita»167. «Un mondo fantastico»168, «il ventre del mondo»169, diventa così «il luogo del massacro»170. E lo diventa non solo grazie alla bramosia di ricchezze dei vari personaggi coinvolti, ma anche e soprattutto a causa del fatto che «quel luogo, un tempo così bello, puro come doveva essere in origine il mondo»171 viene cartografato e riceve un nome proprio: Quando, appena arrivato, sentii che tutti i marinai della Compagnia chiamavano la laguna col suo nome, provai un sentimento di orrore che non potrò mai dimenticare172. Ora, la laguna non era più quel luogo segreto, senza nome, che era rimasto intatto fin dalla nascita del mondo. Ora, ogni angolo, ogni baia, ogni banco aveva un nome, il nome di un arpioniere, di un marinaio173. 165 166 167 168 169 170 171 172 173

Ivi, p. 9. Ivi, p. 36. Ivi, p. 19. Ivi, p. 33. Ivi, p. 55. Ivi, p. 41. Ibid. Ibid. Ivi, p. 43.

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Penne e pellicole

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Secondo Le Clézio, l’atto del nominare umano, l’incapacità della nostra specie di vivere senza raddoppiare il mondo con la propria parola, è inestricabilmente connesso alla strage delle balene e all’annientamento del loro habitat, al pari di quello della nostra compassione e dei nostri sogni. Il nome è anfibio poiché include alcuni nell’ambito della sua sfera di protezione con la stessa mossa con cui esclude tutti quelli che lascia senza nome174: da un lato permette di riconoscere i Taïaut come simili a noi e dall’altro riduce tutti gli altri a nuda vita perennemente uccidibile su scala industriale. Da questo punto di vista, il nome proprio è muto e ammutolisce. 7. Cérisy-la-Salle, 11-21 luglio 1997. In questa data e in questo luogo, Derrida presenta quello che la sua morte, avvenuta pochi anni dopo, renderà uno dei punti estremi della sua riflessione sugli animali e sull’animalità, riflessione maturata lungo l’intero corso del suo pensiero. È da qui che parla, tra le altre cose, di «guerra sulla pietà» e di «animot». La guerra sulla pietà è la lotta senza pari […] tra coloro che violano non solo la vita animale, ma persino il sentimento della compassione da una parte e quelli che si affidano alla testimonianza irrecusabile di questa pietà dall’altra175.

Questa lotta è la stessa che attraversa le pagine di Le Clézio, materializzandosi in John che, di fronte al massacro delle balene e dei loro figli, piange e, muto e inascoltato, rivolge al resto della ciurma e al capitano «una domanda senza risposta» – «Come si può uccidere ciò che si ama?»176 – e in Scammon che, seppur tardivamente pentito, procede alla mattanza con lo stesso «sguardo determinato, privo di pietà»177 di tutti gli altri componenti della spedizione. “Animot” è il termine coniato da Derrida per parlare di animali senza instaurare, già nel momento stesso in cui li si nomina, una prospettiva irrimediabilmente oppressiva178. In francese, infatti, animot suona come animaux (animali, al plurale), rievocando così la molteplicità di ciò che è stato a forza rinchiuso nel termine “l’Animale” e, in quanto risultante scritta della congiunzione di “animale” e “parola” (mot), revoca, nel ricordarci l’operazione reificante lì sottesa, il potere mortifero del nome. Animot è quindi parte della 174 Cfr., Massimo Filippi, Not in my name, in Massimo Filippi e Filippo Trasatti (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia, Mimesis, Milano 2010, pp. 277-313. 175 Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, cit., p. 67. 176 Jean-Marie Gustave Le Clézio, Il posto delle balene, cit., p. 54. 177 Ibid. 178 Jacques Derrida, L’animale che dunque sono, cit., pp. 82 sgg.

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guerra sulla pietà, anzi è molto probabilmente il primo passo che dovrebbero compiere coloro che intendono prendere le parti delle balene e di John nel momento in cui ne piange la morte. Se è il nome che, da Adamo in poi, abbiamo imposto agli animali, l’artificiale singolare collettivo “l’Animale”, il dispositivo che ha contribuito alla trasformazione dei non umani in quantità amorfe e, perciò, commestibili, allora è un’altra operazione linguistica, quella che, lasciando risuonare nella scrittura (animot) la parola (animaux), rianima la prima e disinnesca l’imperialismo colonizzante della seconda. È forse alla potenza rammemorante-obliante dell’animot che pensano sia John, quando si domanda: «Come si fa a dimenticare, perché il mondo ricominci di nuovo?»179, che Scammon, quando sogna il modo di poter «fermare il corso del tempo», il modo in cui «il ventre della Terra potrebbe ricominciare a vivere» con le balene tornate a scivolare «dolcemente […] in quella laguna che finalmente non avrebbe più nome»180. Pur essendo solo scritto, animot fa risuonare la pluralità dell’essere-vulnerabile; l’animot, silenzioso, arresta il silenzio della fine del mondo. Animot non è un termine muto. 8. Milano, 3 maggio 2011, intorno alle 17.00 – Sia Grenier che Le Clézio non sembrano, nonostante tutto, prendere parte alla guerra sulla pietà. In loro, gli animali restano strumenti utili per parlare d’altro, non scatenano il divenire altro e non li fanno divenire altro. Grenier continua a tracciare un solco tra gli umani e gli altri animali, limitandosi a invertire l’assiologia tradizionale: sono gli animali, con la loro totale coincidenza con il presente, che hanno accesso all’aperto; accesso negato agli umani perennemente persi nel proprio retro-mondo che non smettono mai di guardare a causa dei loro occhi rigirati. Le Clézio, come il Noè biblico e i moderni ecologisti, si concentra su animali che ci inducono alla tenerezza e che sono in via di estinzione, dimenticandosi di tutti gli altri. A tutti questi altri, Grenier dedica poche righe («Ed è certo ipocrita, l’uomo che sostiene di avere pietà degli animali mentre li sfrutta e se ne nutre»181), Le Clézio nessuna. Ma soprattutto entrambi sembrano essere alla ricerca di un mondo dell’autenticità che non è mai esistito e che mai esisterà nelle forme edeniche da loro vagheggiate, poiché è già qui dal momento che autenticità e dominio sono sinonimi. Così, Grenier sogna un paternalismo rispettoso nei confronti degli animali e Le Clézio si libera frettolosamente del problema sognando un mondo senza umani. Ma basta dare nomi più benigni o sbarazzarsi completamente dei nomi per intraprendere la redenzione dei senza nome? Una costruzione storica 179 Jean-Marie Gustave Le Clézio, Il posto delle balene, cit., pp. 48-49. 180 Ivi, p. 59. 181 Jean Grenier, In morte di un cane, cit., p. 36.

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che intenda onorare la memoria dei senza nome, non dovrebbe avere un rapporto più complesso con la questione del nome? In fondo, sia per Grenier che per Le Clézio, l’incontro con gli animali instaura un rapporto tra due termini che restano comunque divisi, un incontro che non pone termine alla divisione, un incontro che non diviene tra, che non prevede il divenire animale, il contagio, l’alleanza. Manca, in loro, la fascinazione per la muta. 9. Berlino, intorno al millenovecento. Tra il 1932 e il 1938 Walter Benjamin scrive varie versioni della raccolta di miniature che compongono Infanzia berlinese182. Cosciente che presto dovrà lasciare la città natale, dove ha vissuto gran parte della sua vita, a causa della presa del potere da parte dei nazisti, egli fa emergere nella descrizione di dettagli apparentemente minori (strade, stanze, persone, oggetti) «le immagini [dell’]infanzia […] forse idonee a preformare […] l’esperienza storica successiva»183. Anche se sembra impegnato a rintracciare il tempo perduto, in realtà, come afferma Peter Szondi184, Benjamin è qui, come in tutta la sua produzione filosofica, alla «ricerca del futuro perduto»185. Futuro perduto che non può che nascondersi in ciò che passa inosservato, in ciò che avrebbe potuto essere, nei miliardi di senza nome sulle cui spoglie il presente è stato costruito. Al contrario di Grenier e Le Clézio, Benjamin non rievoca il passato per revocarlo, ma lascia che il passato rievocato assuma le forme del futuro per revocare il presente in vista della salvezza di ciò che, essendo passato, è per definizione insalvabile. Benjamin, sospende il tempo per far finire il tempo della fine, per ritrovare nel passato i tratti dell’avvenire che non è stato, ma che avrebbe potuto essere, che ancora può essere, che ancora parla nel suo ostinato mutismo. 10. Portbou, 26 settembre 1940, ore 22.00. Per poter continuare a vivere, un clandestino braccato dalla Gestapo, si consegna alla morte. Costui, privo dei documenti che la burocrazia ritiene necessari per accordare una qualche forma di garanzia, attraversa la frontiera franco-spagnola da senza nome, homo sacer, nuda vita. Da uomo privo di nome, di nazionalità, di bíos, da animale appunto. E, infatti, questo altro animale non intende tanto salvare la propria persona, quanto piuttosto l’impersonale della sua estrema opera di scrittura («Vede, per me questa cartella è la cosa più importante. Non posso perderla. Il manoscritto deve salvarsi. È più importante della mia stessa persona»). 182 Walter Benjamin, Infanzia berlinese. Intorno al millenovecento, trad. it. di E. Gianni, Einaudi, Torino 2007. 183 Ivi, pp. 3-4. 184 Cfr. Peter Szondi, Speranza nel passato. Su Walter Benjamin, in Walter Benjamin, Infanzia berlinese, cit., pp. 127-151. 185 Ivi, p. 143.

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La finitudine condivisa

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Nel luogo di questa morte sorge ora un monumento commemorativo che si affaccia sul Mediterraneo. Su quel mare le cui coste desertificate dall’allevamento sono la testimonianza dello sfruttamento e dell’olocausto senza sosta di un’innumerevole schiera di senza nome. Mare tuttora solcato dalla disperazione di altri senza nome i cui corpi sono reclusi nei suoi fondali o nel fondo delle carceri che vi si affacciano. Su questo monumento commemorativo campeggia uno scritto dell’animale braccato:

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È più difficile onorare la memoria dei senza nome che non quella di chi è conosciuto. Alla memoria dei senza nome è consacrata la costruzione storica.

L’animale braccato è Walter Benjamin, lo scritto che doveva salvare era molto probabilmente una copia delle sue tesi Sul concetto di storia. Di quell’animale morto avevamo perso le tracce perché il suo nome proprio, in un’inversione che accenna alla paradossale salvezza dell’insalvabile, sugli ultimi documenti che cercavano di registrarne i passaggi si era fatto nome im-proprio: «Walter, Dr. Benjamin» o, più semplicemente, «Señor Walter»186. Nome che non denomina perché de-nomina, prende le distanze dal nome, lo sospende. «Solo per chi non ha più speranza ci è data la speranza»187. Per i senza nome, per gli animali, per i morti, per i morti animali, per gli animali morti. Per i muti. 11. Parigi, 6 maggio 2011, intorno alle 15.00. Miliardi di senza nome hanno attraversato e continuano ad attraversare con un immane carico di sofferenza questo pianeta. Non possono morire perché sono nati già-morti. Chi scriverà il loro elogio funebre senza tradirli? Che forma assume il quasi niente della pietà (la carezza di Grenier sul muso e sulla testa di Taïaut morente e le lacrime di John per le balene) se le carezze devono abbracciare e le lacrime piangere tutti i senza nome? Quali carezze e quali lacrime saranno in grado di mettere il dominio de “l’Umano” in stato di arresto? Qual è la costruzione storica che redime? Quale voce può restituire il suono delle innumerevoli voci di chi non ha mai potuto parlare o non può più parlare? Quale parola può r(i)evocare il loro urlo straziante? Dove e quando sarà rintracciabile una scrittura salvifica? Qual è il nomos dei senza nome? Qual è il nome che non ne tradisce il segreto? Come è possibile scrivere restando muti?

186 Per il resoconto delle ultime ore di Benjamin, cfr. Carlo Saletti (a cura di), Fine terra. Benjamin a Portbou, ombre corte, Verona 2010. La citazione riportata più sopra è a p. 120. 187 Walter Benjamin, Le affinità elettive, in Angelus novus, cit., p. 243.

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Penne e pellicole

12. Nel luogo della morte, nel tempo degli animali. Viviamo nella società che si fonda sull’esclusione degli animali, della morte e dei morti. Dei senza nome. Nella società che ammutolisce i muti. Nella società che sta in luogo della morte e che ha annullato il tempo animale. Quel tempo che non è un infinito presente, ma il tempo fisiologico del corpo senziente che revoca il passato per ricapitolarlo nel presente in vista del futuro da rievocare. Tempo del corpo animale che, seppur negato e violentato, realizza già qui e già ora il tempo messianico della redenzione. È possibile ridare voce agli animali e ai morti non in luogo della morte, ma nel luogo della morte? È possibile vivere il tempo degli animali e della morte non in luogo loro? Come è possibile entrare nella stanza dove Taïaut sta morendo senza violarne il segreto, abitare il luogo dove le balene sono state uccise senza nominarlo, scrivere con gli animali senza ridurli al silenzio? Che cosa è una parola muta? Che cosa è il segreto? Come si commemora? Come si scrive “mutando”? VITA, MORTE E MIRACOLI DI UN CANE E DI UN ASINO AI TEMPI DELLA RIPRODUCIBILITÀ TECNICA

1. Un labrador In realtà, lavoro, salario, potere, rivoluzione, bisogna rileggere tutto all’inverso: – il lavoro non è sfruttamento, esso è donato dal capitale; – il salario non è strappato, è anch’esso donato: non acquista una forza-lavoro, riscatta il potere del capitale; – la morte lenta del lavoro non è subita, è un tentativo disperato, una sfida al dono unilaterale del lavoro da parte del capitale; – l’unica replica efficace al potere è di rendergli ciò che esso vi dona, e questo è possibile simbolicamente solo con la morte. (J. Baudrillard)188

L’uscita dalle officine Lumière189 è considerato nelle storie ufficiali del cinema il momento fondativo della settima arte. L’albore cinematografico, che flebilmente cerca di far luce sull’indeterminatezza del mondo, rimanda a quei dispositivi rappresentativi, succedutesi nel corso del tempo, 188 Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, trad. it. di G. Mancuso, Feltrinelli, Milano 2009, p. 59. 189 Auguste e Louis Lumière, La sortie de l’usine Lumière, Francia 1895.

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che hanno definito quello che Jacques Rancière chiama il «destino delle immagini»190. La leggenda di questo film, atto ufficiale di nascita di una nuova istanza espressiva e, andrebbe aggiunto, di una nuova macchina antropologica, è legata all’interpretazione palingenetica proposta in seguito: il piccolo rullo di pellicola su cui furono impressionati quei pochi minuti di immagini sfarfallanti si trasformò nella consacrazione del cinema come congegno in grado di documentare l’aroma del reale. L’invenzione senza futuro, a cui i due fratelli impresari contribuirono in modo determinante, provocò l’instaurarsi di un discorso sull’immagine, sulla possibilità di congetturare il valore di una realtà che si rappresenta a se stessa (come accadeva con il dispositivo cinematografico). In questo senso, si può affermare che le immagini del cinema non rinviano all’Altro ma al Medesimo, come lo stesso Ranciere chiarisce senza esitazioni: Se non ci sono più che le immagini, non c’è nulla oltre l’immagine. E se non c’è niente oltre le immagini, la nozione stessa di immagine perde il suo contenuto, vale a dire non c’è più l’immagine191.

In effetti, L’uscita dalle officine Lumière è il risultato di una messinscena. Le tecniche riprovisive del tempo non permettevano, infatti, intrusioni dirette nella realtà che si voleva documentare. In questo caso, operai-protagonisti e addetti delle riprese condividevano la consapevolezza di essere tutti parte di un allestimento in cui la fabbrica, di proprietà degli stessi Lumière, assumeva la funzione di scenografia, di quinta teatrale. L’inautenticità dell’operazione è confermata dalle molteplici versioni dell’opera realizzate dai due registi. La verità indicibile del film, nell’accezione derridiana di ricostruzione del dicibile192, consiste proprio nel rendere visibili relazioni economiche e rapporti di potere. In questa pellicola, i ruoli degli “attori” sono fissati gerarchicamente per l’eternità: i produttori/impresari/ registi dietro il dispositivo cinematografico e gli operai (uomini e donne) di fronte all’obiettivo della macchina da presa. L’autore della riprovisività è il detentore dei mezzi di produzione (del reale) e il soggetto ripreso 190 Jacques Rancière, Il destino delle immagini, trad. it. di D. Chiricò, Pellegrini, Cosenza 2007. 191 Ivi, p. 28. 192 Al proposito, cfr. Jacques Derrida, La verità in pittura, trad. it. di G. Pozzi e D. Pozzi, Newton Compton, Roma 2005, p. 124. In particolare, è importante sottolineare come Derrida decostruisca le funzionalità economiche che strutturano i dispositivi artistici a favore di una loro economicità immaginativa, che configura il proprio margine di tradimento del mondo della necessità eccedendo il rapporto che intrattiene con la realtà fenomenica.

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viene reificato in immagine/oggetto (l’idea del lavoro). Al regista viene consegnato il potere dello sguardo – il potere di scegliere prospettive che rendono oggettivo il suo scrutare disciplinare. L’operaio, invece, privato dei mezzi per produrre realtà, deve compensare la distanza che lo aliena da un’esistenza significativa e adeguarsi al modello di vita socialmente dominante, immaginando un mondo fasullo che rifletta le modalità di produzione che il cinema, come macchina spettacolare generatrice di rapporti sociali mediati, materializza in immagini. È noto, come tra gli altri ha sottolineato Benjamin, che in epoca moderna la produzione delle merci abbia come conseguenza la riproducibilità della realtà. Nell’era industriale, la legge di valore si identifica con la produzione di un immaginario in cui l’operaio aliena la propria corporeità in cambio di una risposta simbolica: l’operaio reagisce all’economia produttiva dei beni materiali dislocandosi nella dimensione di un’economia libidica. Il capitale nega al lavoratore la possibilità di una morte vera (e salvifica), concedendogli una vita che si risolve in una coazione a ripetere del desiderio frustrato da sublimarsi nella dimensione del (poco) tempo libero a disposizione. Questo godimento abietto dello sfruttato, dettato dagli stessi ritmi del lavoro, assume le caratteristiche della dipendenza che nulla ha a che vedere con le macchine desideranti à la Deleuze e che, al contrario, è funzionale proprio a quell’economia politica da cui le classi sfruttate vorrebbero liberarsi. Detto altrimenti, il corpo dei lavoratori muore lentamente193 nell’attesa di un’emancipazione sociale sempre procrastinata nel tempo. La pulsione libidica associata a un godimento a venire instaura un dispositivo avventizio di fine del tempo produttivo e di riscatto in un tempo nuovo, dispositivo che il cinema, nel suo avvicendarsi alla religione per assolverne il compito di parusia rivoluzionaria e giustizialista, certifica e realizza nel modo che più gli è congeniale, quello del simulacro: La tecnica come medium prevale non soltanto sul messaggio del prodotto (il suo valore d’uso), ma anche sulla forza-lavoro. Il vero ultimatum era nella produzione stessa. La produzione non ha senso: la sua finalità sociale si perde nella serialità: i simulacri prevalgono sulle storie194.

In tutte le versioni de L’uscita dalle officine Lumière compare un labrador che, oltrepassando i cancelli dalla fabbrica, corre e salta, forse interpretando in questo modo il desiderio represso di libertà degli operai e delle operaie ripresi in questa pellicola. I Lumière hanno scelto di mostrare 193 Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 57. 194 Ivi, p. 67.

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un cane, che qui diventa quel cane, proprio lui, come motivo ricorrente e rincorrente. La sua presenza sembra perciò appartenere «a quel mondo di affetti e potenze capaci di trascinare e trascinarci dentro il fuori del divenire»195. Il cinema nasce come ricostruzione del reale, come messinscena, pagando pegno alla tradizione mimetica del teatro borghese ottocentesco. Per questa ragione, si percepisce una sorta di pudico imbarazzo da parte dei Lumière nel momento in cui si dispongono a ricostruire una scena di vita quotidiana che, a quei tempi – siamo nel 1895 –, era condivisa da centinaia di migliaia di individui. È come se i due protoregisti francesi intuissero l’annichilente potenzialità del dispositivo cinematografico di restituire la realtà al suo grado zero di significazione, di rimandare cioè ad altro che a se stessa, e ne siano profondamente scandalizzati. È proprio la fragranza della vita animale che testimonia quanto detto. Gli operai posano davanti alla macchina da presa, interpretando il ruolo assegnato loro dal padrone della fabbrica che è anche il regista del film. Il labrador, invece, oltre che testimone della rappresentazione, è anche, suo malgrado, colui che documenta l’autenticità del girato. Sulla sua pelle-pellicola viene impressionata una realtà fino ad allora inconcepibile. Riprodurre tecnicamente la realtà senza ricorrere a nessun referente (equivalente, direbbe Baudrillard) corrisponde a trasformare l’antico occhio divino nel moderno obiettivo panottico, in un occhio meccanico che tutto vede e che eternizza ciò che ha visto. La comparsa di questo cane conferma, allora, l’autenticità del film, lo referta nella sua sconvolgente veridicità, ne documenta la sensibilità materica che cattura la luce e lo rende corpo vivo, esperienza che annulla ogni rappresentazione artistica precedente. È l’antinomia che sfugge al lavoro artistico, all’elaborazione di una realtà doppia che aveva costituito fino a quel momento l’ideologia portante dell’arte: La definizione stessa del reale è: ciò di cui è possibile fare una riproduzione equivalente. Essa è contemporanea della scienza che postula che un processo possa essere riprodotto esattamente nelle condizioni date, e della razionalità industriale, che postula un sistema universale di equivalenze (la rappresentazione classica non è equivalenza, è trascrizione, interpretazione, commentario)196.

Il labrador è testimone del desiderio, rimasto a lungo inespresso in Occidente, dello sgretolamento di un Io che fagocita il mondo. Di quell’Io che nomina e che istituisce il linguaggio del dominio sull’altro, assoggettandolo 195 Massimo Filippi e Filippo Trasatti, Crimini in tempo di pace, cit., p. 20. 196 Jean Baudrillard, Lo scambio simbolico e la morte, cit., p. 87.

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all’impossibilità di prendere le distanze dal significato con cui si vuole parlarlo e, quindi, controllarlo. L’animale che percorre questa pellicola sembra pertanto materializzare quella che Foucault descrive come trasformazione del pensiero del fuori in esperienza del fuori: il cane che compare inaspettato viene percepito dagli spettatori come estraneo sia alla fabbrica come luogo di produzione di plusvalore sia agli operai a questa funzionali. La sua presenza è fuori luogo. Di fatto, l’archeologia foucaultiana ricostruisce proprio quelle crepe che minano alle fondamenta le fortificazioni in cui si è asserragliato l’ordine del discorso istituzionale, la possibilità di evadere dal Logos che costituisce come il luogo di nascita di tutta la ragione occidentale […] una forma di pensiero di cui la cultura occidentale ha schizzato nelle sue linee generali la possibilità, sia pur incerta. Questo pensiero che si tiene fuori da qualsiasi soggettività per farne sorgere come dall’esterno i limiti, per enunciarne la fine, per farne scintillare la dispersione e non raccoglierne che l’invincibile assenza, e che al tempo stesso si tiene sulla soglia di ogni positività, non tanto per coglierne il fondamento o la giustificazione, ma per ritrovare lo spazio in cui si manifesta, il vuoto in cui si situa, la distanza in cui si costituisce e dove sfuggono, non appena vi si rivolge lo sguardo, le sue certezze immediate – questo pensiero, in rapporto all’interiorità della nostra riflessione filosofica e in rapporto alla positività del nostro sapere, costituisce quel che si potrebbe chiamare in una parola il pensiero del fuori197.

Irragionevolezza, inutilità, intensità, piacere sono alcune delle caratteristiche solitamente attribuite agli animali. Questi “tratti etologici”, che costringono i non umani nell’alveo delle descrizioni e delle definizioni tassonomiche, possono divenire possibilità di effrazione dell’orizzonte di senso codificato dal linguaggio: il labrador, che salta e corre, sembra voler attirare/distrarre l’attenzione degli operai e delle operaie, che escono disciplinatamente dalla fabbrica, per indicar loro un’apertura verso un fuori inaudito. Sebbene molto probabilmente i Lumière intendessero utilizzare questa “comparsa” per stabilire una gerarchia domesticante dei soggetti ripresi, questo cane finisce con il destabilizzare l’ordinarietà della sequenza, trasformandosi nel punto focale che rimette in discussione il cinema come neo-dispositivo disciplinante e il film in questione come discorso sulle immagini che riproducono le relazioni effettive di potere. Non è allora difficile vedere come questo breve filmato ci metta di fronte alle due grandi questioni che segneranno il Novecento: il lavoro alienato e il conseguente desiderio di emancipazione. Tali questioni, che Freud 197 Michel Foucault, Il pensiero del fuori, trad. it. di V. Del Ninno, SE, Milano 1998, pp. 17-18.

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traduceva in termini di principio di realtà e di principio di piacere (e che quindi hanno a che fare sia con l’economico che con lo psichico, con i processi storici di produzione delle merci e con l’immaginario e l’inconscio collettivo), sono entrambe presenti nel cinema delle origini. Tuttavia, è solo acquisendo consapevolezza della sua insanabile ambiguità estetica e politica che il cinema si libererà dei suoi retaggi artistico-rappresentativi. Saranno perciò le molteplici nuove onde agitate dai giovani turchi della critica antiumanistica e anticontenutistica che, a partire dalla metà degli anni ’50 del secolo scorso, andranno ad alimentare la spinta contestataria e decostruttiva dell’impresa cinematografica. Condizionato dai suoi stessi dispositivi tecnici, il cinema delle origini non poteva che interrogare la realtà e, nel suo rispecchiamento mimetico, evocare la verità della sua epoca, quella appunto della riproducibilità tecnica. È solo nel momento in cui si renderà capace di tradurre le sue istanze spettacolari e le sue pratiche industriali in pensiero del fuori che il cinema potrà trasformare le immagini percepite in un potente mezzo di critica dello statuto istituzionale dello sguardo sul mondo. Deleuze descrive questa rivoluzione come un passaggio da una percezione soggettiva – dettata dal punto di vista in cui convergono lo sguardo del dispositivo e l’occhio dello spettatore – a una oggettiva (l’immagine movimento) – immanente alle cose anziché proprietà della coscienza degli individui: Nell’entrare in contatto con la percezione oggettiva, con quella percezione che ha luogo direttamente nelle cose, la percezione soggettiva (cioè le nostre percezioni ordinarie) si rinnova alla nostra natura di cose tra le altre cose, facendo vacillare tutto quanto l’apparato cognitivo della soggettività e dell’intenzionalità del cogito cartesiano e del trascendentale kantiano198.

Deleuze fa coincidere questo cambiamento con il passaggio dal cinema muto a quello sonoro, avvenuto tra la fine degli anni ’20 e l’inizio degli anni ’30 del secolo scorso. Secondo il filosofo francese, sono stati autori quali Vigo, Renoir ed Epstein a compiere questo “salto”. Furono loro a smuovere le acque stagnanti della macchina cinematografica assertiva e spettacolare, facendole defluire nel tempo immagine199. 198 Enrico Terrone, Deleuze in the Water with Diamonds. Filosofia del cinema acquatico, in Segno Cinema, n. 182, 2013, p. 18. 199 Gilles Deleuze, L’immagine-movimento, trad. it. di J. P. Manganaro, Ubulibri, Milano 1993, pp. 59-61. Deleuze esplicita il legame tra cinema e filosofia facendo riferimento ad alcuni film che condividono la poetica dell’acqua come elemento in grado di conferire dinamicità alle immagini e di orientare un processo percettivo improprio nello spettatore, dettato dalla immanenza degli elementi naturali. Le

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2. Un asino

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Così la pazienza riflessiva, sempre volta fuori di se stessa, e la finzione che s’annulla nel vuoto in cui scioglie le sue forme, s’intrecciano per tessere un discorso che appare senza conclusione e senza immagine, senza verità né teatro, senza prove, senza maschere, senza affermazione, libero da qualsiasi centro, affrancato dalla propria origine e che costituisce il proprio spazio come il fuori verso il quale, fuori del quale, esso parla. (M. Foucault)200 Sotto la mia pelle di umano palpita un cuore d’asino. È la trama del mio essere, la costituzione del mio secondo stato. (M. Delloye)201.

Nel 1966, Robert Bresson, regista già consacrato per il rigore ascetico con cui trattava la materia cinematografica, gira Au hasard Balthazar202, il cui protagonista è un asino. Tra il 1956 e il 1962, come scrive Georges Sadoul203, il cinema francese è contrassegnato dall’ascesa e dal clamoroso riscontro commerciale e critico di registi combattenti, reduci dall’esperienza maturata nell’ambito della rivista Cahiers du Cinéma e dall’uscita di un film-chiave: Hiroshima mon amour di Alain Resnais204. In questi stessi anni si sviluppa anche un inaspettato interesse per la letteratura da parte dei giovani cineasti francesi che militano nell’agguerrito esercito di liberazione dalle retoriche del nazionalpopulismo del cinema del dopoguerra. François Truffaut, Claude Chabrol e Jean-Luc Godard passano, con estrema disinvoltura, dallo stilo alla camera-stilo. Essi continuano a professare una critica passionale e partigiana agli statuti propagandistici del cinema dei padri, ma la trasferiscono dalla pagina scritta alle superfici trasparenti degli schermi cinematografici, inse-

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immagini in movimento costituiscono un piano di immanenza non interpretabile soggettivamente, ma piuttosto percepibile come fenomeno in sé. Questa percezione oggettiva e desoggettivizzante viene raggiunta in capolavori quali L’Atalante (Francia 1934) di Jean Vigo e Boudu sauvé des eaux (Francia 1932) e Une partie de campagne (Francia 1936) di Jean Renoir. Michel Foucault, Il pensiero del fuori, cit., pp. 26-27. Mélanie Delloye, Il ritmo dell’asino. Piccolo omaggio a ciuchi, vecchi somari e altri asinelli, trad. it. di E. Zamburlini, Ediciclo, Portogruaro 2013, p. 14. Robert Bresson, Au hasard Balthazar, Francia 1966. Georges Sadoul, Storia del cinema mondiale. Volume I. Dalle origini alla fine della II guerra mondiale, trad. it. di M. Mammalella, Feltrinelli, Milano 1978. Alain Resnais, Hiroshima mon amour, Francia 1959.

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guendo e trovando la propria fonte di ispirazione nella letteratura piuttosto che nella rappresentazione teatrale. Chi, come Truffaut, nel Bildungsroman dei primi del Novecento; chi, come Chabrol, nel genere noir; chi, come Godard, nel saggio filosofico o nel pamphlet politico; chi, come Rivette nelle pagine di Diderot per il suo adattamento della Religieuse205. Resnais interpella direttamente gli scrittori raccoltisi attorno al nuovo romanzo francese e, dopo Notte e nebbia206 (film «giusto e non bello» come ebbe a dichiarare Serge Daney207), che squarcia il velo che nasconde lo stretto legame tra condizione umana e massacro industriale, realizza tra il 1960 e il 1961 Hiroshima mon amour, i cui dialoghi sono di Marguerite Duras, e L’anno scorso a Marienbad208, sceneggiato da Alain RobbeGrillet. Queste opere rappresentano la definitiva perdita dell’innocenza del cinema come forma di intrattenimento, impegnate come sono a rivelare la drammaticità del reale. In Notte e nebbia e in Hiroshima mon amour Resnais filma, infatti, l’indicibilità della morte inferta, l’insostenibilità visiva dei corpi martoriati esibiti e ripresi, l’impossibilità di comprendere l’orrore. L’irrappresentabilità di Auschwitz e di Hiroshima, figure imprescindibili delle narrazioni novecentesche che legittimano lo sterminio e in cui le carneficine e gli eccidi sono giustificati in nome della ragion di Stato, si traduce in Resnais nell’impotenza di fronte alla materia trattata e nella scelta di non usare immagini di repertorio al fine di montare uno sguardo sul mondo in ritardo rispetto alla lacerazione prodotta dagli avvenimenti, uno sguardo frustrato dall’inesorabilità della storia. Ciò si riflette nella relazione, altrettanto frustrata, tra i due amanti protagonisti di Hiroshima mon amour, inebetiti di fronte alla tragedia nucleare. Lo stesso vale per quella che si sviluppa tra i personaggi de L’anno scorso a Marienbad, reclusi nel palazzo barocco dove sono costretti a recitare la vita piuttosto che agirla. Questa frustrazione è la stessa che condividono gli intellettuali dell’epoca che, come Resnais, non sono più in grado di fornire risposte all’orrore che li circonda. Che sono incapaci di dire, scrivere o filmare la verità: fallimento dell’arte, che è poi il tema che ricorre ostinatamente anche nel Nouveau Roman. L’arte come intrattenimento, espressione dell’ideologia borghese, è bandita dalle pagine bianche su cui questi post-romanzieri raccontano la fragilità creativa e l’impossibilità di narrare la vita, preferendo alle storie 205 Jacques Rivette, Suzanne Simonin, la Religieuse de Denis Diderot, Francia 1966. 206 Alain Resnais, Nuit et Brouillard, Francia 1956. 207 Serge Daney, Lo sguardo ostinato, trad. it. di S. Pareti, Il Castoro, Milano 1995, p. 26. 208 Alain Resnais, L’année dernière à Marienbad, Francia 1961.

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Penne e pellicole

compiute la subdola matericità, la fastidiosa sonorità e le dubbie verità delle parole. Bresson, pur condividendo con gli autori della Nouvelle Vague l’insofferenza per le regole che strutturano i regimi istituzionali discorsivi e visivi209, affronta la relazione individuo/società e quella soggetto/mondo in maniera originale, coniugando la sua propensione iconoclasta all’azzeramento dei dispositivi rappresentativi a un’inedita postura dello sguardo responsabile. I suoi personaggi/modelli reagiscono alle costrizioni del vivere civile, alla inesorabilità della legge (divina e umana) e alla norma con il rifiuto e la disobbedienza. Essi sono segnati da un antagonismo interiore che li spinge all’autoannullamento, al sacrificio, all’immolazione, al gesto esemplare. Ad esempio, la novizia Anne-Marie, protagonista de La conversa di Belfort210, sviluppa progressivamente una sorta di progettualità suicida, dimostrando in tal modo l’inconciliabilità della fede come atto di responsabilità verso l’altro con l’architettura disciplinare del convento, dove suore e neoconvertite vivono le loro soggettività recluse. Oppure ne Il diario di un curato di campagna211, il parroco di Ambricourt registra con i suoi appunti – che egli stesso legge, divenendo voce narrante e soluzione diegetica del film –, la sua progressiva perdita della fede, conseguenza dell’indifferenza prosaica dei parrocchiani e di un cancro che gli sta devastando lo stomaco. Fontaine, il partigiano di Un condannato a morte è fuggito, Michel, il borseggiatore di Diario di un ladro, e la Giovanna d’Arco del Processo212 sono i protagonisti della trilogia della liberazione bressoniana. Con questo trittico il regista francese radicalizza l’irriducibilità alla legge, trasformando in ribellione il rifiuto che i protagonisti di queste opere oppongono alle norme che stabiliscono la convivenza civile. Autoescludendosi dal compromesso politico pattuito dalla società con il capitale, Fontaine dopo numerosi fallimenti riesce a evadere dalla prigione in cui è detenuto dall’esercito tedesco di occupazione; Michel infrange la legge e ruba in nome della giustizia sociale; Giovanna assurge a simbolo del sacrificio in nome di una rivendicazione di alterità che pagherà con la vita.

209 Robert Bresson, Note sul cinematografo, trad. it. di G. Bompiani, Marsilio,Venezia 2008, p. 10: «Niente attori (niente direzione di attori). Niente parti (niente studio delle parti). Niente regia. Ma l’utilizzazione di modelli presi dalla vita. ESSERE (modelli) invece di PARERE (attori)» . 210 Robert Bresson, Les anges du péché, Francia 1943. 211 Robert Bresson, Journal d’un curé de campagne, Francia 1951. 212 Robert Bresson, Un condamné à mort s’est échappé, Francia 1956 ; Pickpocket, Francia 1959; e Procès de Jeanne d’Arc, Francia 1962.

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Tale poetica del sacrificio culmina in Au hasard Balthazar, film spartiacque nella cinematografia di Bresson e, più in generale, nella storia del cinema occidentale. L’antagonismo delle sue irreprensibili figure antieroiche, con il loro ostinato negarsi alla recitazione, materializzano un’eccezionalità anomala, un’irriducibile deviazione dalla norma: lo sguardo idiota213 di un asino. La radicalità teorica e politica di questa pellicola è il risultato non tanto delle vicende che contrassegnano il calvario di un asino nel mondo degli umani, dal momento della sua nascita a quello della sua morte, quanto della centralità conferita dal regista allo sguardo animale di Balthazar. Ciò costituisce non solo un’effrazione di tutte le categorie epistemologiche del sapere e di tutti i codici linguistici che appartengono alle diverse istanze rappresentative, ma inaugura anche una prospettiva inedita in cui gli occhi dello spettatore piangono le stesse lacrime che velano gli occhi penetranti dell’asino. Malgrado l’assoluta originalità del soggetto, Au hasard Balthazar trae ispirazione dalla letteratura. Anche Bresson, infatti, trova nel grande romanzo moderno e nelle sue soluzioni narrative affinità con le proprie tematiche e la propria espressività214. In aggiunta agli evidenti riferimenti all’opera di Dostoevskij, Rancière sottolinea ad esempio come alcune delle sequenze più emblematiche di Au hasard Balthazar – in particolare quelle iniziali – evochino alcune delle pagine più intense di Madame Bovary, in cui la lungimirante tecnica narrativa di Flaubert sembra preannunciare le istanze del montaggio cinematografico. In questo scarto continuo dai vincoli che connotano i media utilizzati – Bresson citando il romanzo moderno, Flaubert anticipando il cinema – risiede l’anomalia dissidente dell’arte

213 In un’intervista rilasciata a Jean-Luc Godard (cfr. Adelio Ferrero e Nuccio Lodato, Robert Bresson, Il Castoro, Milano 1976, p. 85), Bresson ricorda come, dopo aver letto L’idiota di Dostoevskij, ebbe «l’idea meravigliosa» di mostrare la vita di un idiota attraverso gli occhi di un animale. Attenzione, però, al significato delle parole. Con il termine “idiota” si designa, infatti, oltre che la persona priva di intelligenza, anche la persona privata, inesperta, il semplice cittadino che non sa quali siano i motivi per cui viene escluso dal gioco istituzionale. È Bresson stesso a chiarirlo quando, continuando a discorrere con Godard, paragona l’idiota – «l’essere di fatto più intelligente di tutti» – all’animale normalmente considerato tale, in quanto privo di mondo, e che invece «è il più fine, il più intelligente di tutti». 214 Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p.15: «Il teatro fotografato o CINEMA vuole che un regista o director faccia recitare degli attori e poi fotografi questi attori mentre recitano; quindi allinea le immagini. Teatro bastardo a cui manca il proprio del teatro: presenza fisica di attori vivi, azione diretta del pubblico sugli attori».

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Penne e pellicole

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come negoziatrice di realtà e, al contempo, la sua attualizzazione semantica. Le descrizioni frammentate degli incroci di sguardi che corrono tra i personaggi di Flaubert e l’enfasi posta sui dettagli significativi che tali sguardi producono rivaleggiano con i concatenamenti percettivi della pellicola di Bresson, concatenamenti innescati dai primi e primissimi piani del volto e delle mani bianchissime di una bambina e dalla testa di un asinello appena nato che poppa il latte della madre; immagini che a loro volta si concatenano ai silenzi, alla musica di Franz Schubert e al fondo nero del prologo con le voci fuori campo degli attori: Condensando l’azione sul concatenamento delle percezioni e dei movimenti e corto-circuitando la spiegazione delle ragioni, il cinema bressoniano non realizza l’essenza propria del cinema. Esso si inscrive nella continuità della tradizione romanzesca inaugurata da Flaubert; quella di un’ambivalenza in cui le stesse procedure producono e tolgono senso, assicurano e disfano la relazione delle percezioni, delle azioni e delle impressioni. L’immediatezza senza frase del visibile ne radicalizza indubbiamente l’effetto, ma questa radicalità opera essa stessa per mezzo di quel potere che separa il cinema dalle arti plastiche e lo avvicina alla letteratura: il potere di anticipare un effetto per meglio spostarlo o contraddirlo215.

Se per Bresson il cinematografo è la possibilità di mostrare il visibile creando situazioni e disponendo relazioni tra modelli, cose e suoni, saranno allora le voci, il vociare come rumore di fondo, il raglio di un asino contrappuntato dalla sonata di Schubert ad assumere le fattezze di personalità musicali a/logiche: «Bisogna che i rumori diventino musica»216, corpi risonanti in grado di dissimulare le convenzioni del linguaggio rappresentativo-istituzionale. Il raglio di Balthazar è muto perché incomprensibile agli umani e irriducibile alle logiche della comunicazione sociale. La centralità del suo sguardo non sarebbe sufficiente a leggere il film come radicale decostruzione del dispositivo disciplinare della prospettiva antropocentrica se non venisse amplificata dalla sordità degli umani alla sua lingua animale. La galleria bressoniana degli esclusi, protagonisti inammissibili alla comunità de “l’Umano”, viene riassunta dall’asino Balthazar: le parole degli esclusi risultano incomprensibili poiché non fanno da cassa di risonanza del senso comune e sono pertanto assimilabili alla sgradevolezza del raglio dell’asino. Per Balthazar è semplicemente impossibile adattare la propria esistenza 215 Jacques Rancière Il destino delle immagini, cit., pp. 32-33. 216 Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 31.

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La finitudine condivisa

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ai ritmi produttivi e lavorativi che cadenzano la socialità umana. In quanto asino, animale destinato al soma, al carico che deve trasportare sulla groppa, al lavoro che lo annichilisce e lo riduce a pura macchina produttiva, egli diventa il modello-attore perfettamente calato nella poetica drammaturgica di Bresson. La sua negligenza all’ordine costituito traduce tutta l’indisponibilità degli attori a divenire complici della legge:

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Essere negligente, essere attratto, è un modo per manifestare e per dissimulare la legge – per manifestare il ripiegamento con cui essa si dissimula, per attirarla dunque in una luce che la cela217.

È l’ottusa negligenza animale che rende esplicita la funzionalità della legge: la necessità della sua applicazione, che richiede il conformarsi delle pratiche sociali alle norme che la decretano, e il compito paradossale di far luce sull’indeterminatezza. Il contraltare speculare della legge è, infatti, l’ombra, l’informe, il dis/ordine, gli spazi di malessere e di insoddisfazione che vanno appunto disciplinati e resi uniformi. Balthazar, non essendo in possesso di una lingua comprensibile alla legge, non potendo quindi intervenire nel mondo della consuetudine, giudica con gli occhi. Questa profilassi, grazie alla quale Bresson organizza uno sguardo dissidente, designa il senso ultimo ed escatologico del suo cinema, la sua sensibilissima capacità di sovvertire le regole della macchina antropologica e di mettere in scena una lingua straniera218. O meglio, come direbbero Deleuze e Guattari, «la possibilità di fare della propria lingua [...] un uso minore»219. Balthazar nasce, lavora e crepa. Questa è la cruda trama del film. La vita di Balthazar è scandita dalle norme che stabiliscono la socialità di una piccola comunità di provincia, là dove più facilmente scoppiano le contraddizioni della modernità, e scorre in una campagna ormai completamente sottomessa ai ritmi compulsivi del tempo economico, in cui le stagioni sono state soppiantate dalle ragioni e l’esistenza si consuma in un interminabile meccanismo alienante di sospensione della morte. È in questo contesto che Balthazar acquista valore di scambio in quanto nuda vita manipolabile. La sua vita è interamente consegnata al lavoro specializzato, è una vita in concessione. I suoi padroni si succedono nell’arco narrativo del film come un tempo si succedevano i cicli naturali: sequenze terribili in cui Balthazar

217 Michel Foucault, Il pensiero del fuori, cit., p. 35. 218 Robert Bresson, Note sul cinematografo, cit., p. 14: «Un attore si trova nel cinematografo come in un paese straniero. Non ne parla la lingua». 219 Gilles Deleuze e Félix Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, cit., p. 47.

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viene percosso, battuto, frustato da fabbri, falegnami e contadini con i loro sguardi torvi e i loro grugni lombrosiani. Anche un asino, però, può ribellarsi. La sequenza che registra la fuga di Balthazar – una delle più belle dell’intera opera – alterna la sua corsa verso la libertà al primissimo piano della ruota del carro a cui è legato che gira sempre più velocemente. Questa fuga terminerà, tuttavia, in un altro spazio coercitivo, il circo, dove lo sfruttamento si trasforma in spettacolo e il valore d’uso del corpo animale in valore simulacrale. Balthazar passa così da una dominazione biologica – il potere di donare la vita – a una simbolica – il potere di rappresentarla. La vita donata è consacrata dal battesimo dell’asino celebrato all’inizio del film. Tale conferimento di individualità è sancito dal carattere sacramentale della nominazione. Poiché il nome scelto rimanda a quello di uno dei magi (Baldassarre), Sergio Dias Branco ha proposto una “lettura evangelica”: il nome di Balthazar viene interpretato come il fondamento spirituale che segnerà le peripezie mondane dell’asino220. Questa lettura, però, è quantomeno ambigua, dal momento che Branco sostiene: «Balthazar non agisce mai come un animale. Non esibisce il tipo di comportamento caratteristico degli animali, istintivo anziché riflessivo»221. Il sacrificio e la sofferenza di Balthazar dovrebbero cioè suffragare il modo in cui “l’Uomo” tradizionalmente considera “l’Animale”. La morte di Balthazar, sovrapponendosi al sacrificio di Cristo, riconsegnerebbe a questo asino la sua “natura” fatta sì di carne ma soprattutto di spirito, nella cornice di un creato dove tutti i viventi sono accomunati dal possesso dell’anima. Questa ontologia francescana – siamo tutti creature di dio –, di cui Bresson condivide l’enfasi sull’immanenza spirituale di tutti gli esseri, contrapponendola spesso all’apparenza del sembiante a cui sembra essere destinato il mondo profano, è però costantemente ridimensionata dalla radicalità dello sguardo di Balthazar. Dal suo strabismo che non trova altra corrispondenza se non in quello dei corpi delle fiere esposte nel circo, dove lo stesso Balthazar diventa “animale da spettacolo”, e in quelli del gregge di pecore dove si rifugia per poter morire. Con il battesimo di Balthazar, Bresson sembra allora indicarci una via di accesso alla multidimensionalità dell’animalità intesa come divenire animale, espressione del non umano che si sottrae alle tassonomie classificatorie, burocratiche e legislative che la categoria de “l’Animale” sempre sottende.

220 Sergio Dias Branco, Au hasard Balthazar. Teologia e arte della presenza, in Fata Morgana, n. 14, 2012, pp. 163-170. 221 Ivi, pp. 165-166.

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Ma se il salario non può riscattare la vita alienata di una bestia da soma e da tiro, che senso ha l’odissea dell’asino Balthazar? Come Marie, colei che da bambina dà il nome a Balthazar, una volta adulta viene esclusa dalla possibilità di riscatto sociale offerta dal matrimonio a causa della sua presunta “disponibilità sessuale”, così l’asino protagonista del film, catturato da un gruppo di contrabbandieri, viene colpito a morte durante uno scontro a fuoco tra questi e alcuni gendarmi. Balthazar, preso congedo dallo spazio sociale governato dal denaro e dagli interessi, va a morire nel medesimo luogo in cui è nato, “corrompendo” con il suo manto nero il bianco candore di un gregge di pecore che religiosamente si dispone in cerchio intorno a lui: la morte di Balthazar è coreografata per rendere esemplare l’atto scenico della sua liberazione. Perché, riprendendo Baudrillard, alla morte lenta del lavoro si può replicare solo con il rifiuto del dono della vita alienata. Sia il cane “domestico”, che situa la nascita del cinema nella fabbrica intesa come luogo di spoliazione della soggettività affettiva, sia l’asino “da reddito”, che catalizza le passioni tristi che segnano l’esaurimento del modello sociale fondato sulla divisione del lavoro, diventano declinazioni di quella cineanimalità che costituisce una sorta di crinale filosofico su cui il dispositivo cinematografico ha costruito la sua ambivalente prospettiva sul mondo. VENTI TRACCE VERSO UNA TASSONOMIA (DELL’)IMPOSSIBILE Mentre me ne sto nudo sotto lo sguardo di ciò che chiamiamo «animale», nella mia fantasia prende forma un’immagine, una sorta di classificazione alla Linneo, una tassonomia dal punto di vista delle bestie. (Jacques Derrida) E tutto finisce per fare corpo, fino al corpus di polvere che si raduna e danza un ballo vibrionante nell’esile fascio di luce in cui si compie l’ultimo giorno del mondo. (Jean-Luc Nancy)

1. Lucus incertus. Gli animali (non umani e umani) sono come la luce; a seconda di come li si guarda sono particelle oppure onde. Lo sguardo reificante li vede solo come particelle, individui isolati, monadi separate, autarchiche, concluse, chiuse su se stesse, fluttuanti in un universo senza relazioni e senza senso. Uno sguardo più attento riesce a scorgerli anche

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come onde. Onde che si intersecano, si rifrangono e si riflettono, si potenziano o si annichiliscono, si seguono, si precedono, si inseguono e si circondano; onde zigzaganti che costituiscono il tra che genericamente chiamiamo “ambiente”, “mondo”. Lo specista, e alcuni antispecisti, ritengono che gli animali non siano altro che corpi individuali. Costoro pensano che esistano le specie e gli individui – errore più rozzo il primo e più raffinato il secondo, come ricordava Nietzsche –, non capendo che specie e individui sono meri epifenomeni di singolarità ondulanti, risonanti, vibranti, oscillanti. Sezionando il mondo, perdono di vista il tutt’altro, il divenire onda, ciò che i corpi possono e, al pari, l’impotente potenza degli animali di liberare spazi di indistinzione, di fuoriuscita intensiva dal Sé e da sé. Gli animali, a differenza di Dio, giocano a dadi, stanno in mezzo alle fole, alla folla e alla follia. Gli animali sono folli – come chi riesce a intravvederne il sinuoso moto ondulante. 2. Vulnus fragile. I corpi degli animali sono fatti di materia, di una materia fragile e finissima, come quella dei sogni. Il corpo è «denso», «esteso», «corpulento» e al contempo «è un disegno, è un contorno, è un’idea», dice Nancy. È partes extra partes pur essendo senza organi. I corpi degli animali sono sottili, facilmente si rompono, si spezzano e si interrompono. Possono essere smembrati, violentati, tagliati, gassati, bruciati, torturati, scomposti, lacerati, feriti, umiliati. E, seppur meno facilmente, ricostruiti, ricomposti, suturati, incollati, medicati, chimerizzati. I corpi degli animali sono feriti ancor prima di esserlo, perché – ancora Nancy – «un corpo non è vuoto. È pieno di altri corpi [...], tessuti, rotule, anelli, tubi, leve e soffietti» e perché «tocca altri corpi da ogni lato» e «non smette mai di sentire». Le ferite dei corpi animali non cicatrizzano, sono ferite che si introflettono – per sanarsi e nascondersi – e che si estroflettono – per accarezzare altri corpi e per farsi accarezzare. I corpi animali sono estesi, fuori di sé, espropriati dai loro sensi e dall’esplorazione dell’ambiente. Sono vulnerabili perché dipendenti, sono vite degne di lutto. Sono ferite che, piegandosi, si espongono e si estrovertono. Gli animali sono eversivi. 3. Pulvis absconditus. Dove va a finire la felicità dei cuccioli e tutto l’immenso dolore animale? Che succede agli infiniti, quotidiani e banali movimenti, sensazioni, sentimenti e riflessioni di queste onde e di questi corpi, che sono necessari agli animali per sopravvivere – incontrarsi, abbracciarsi, scontrarsi? Dove vanno il battito cardiaco, la peristalsi, i tic, le percezioni cinestesiche, gli sfioramenti, gli affetti, i ricordi, i sogni, i pensieri, che sono anche degli animali umani e di quello che abbiamo definito

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la parte animale de “l’Uomo”? Si inscrivono? E se sì, dove? Se pensiamo agli animali come isole, queste domande sono insensate; se li pensiamo come onde, essi sono partecipi del non senso, che non significa senza senso, ma il non del senso, quelle microscopiche crepe, fenditure e passaggi oltre/verso la logica del senso. Gli animali morti, quelli uccisi e quelli feriti, o frammentati e ricomposti, allora, come i morti e come la morte, sono qui, in questo mondo, sono onde che hanno assunto caratteristiche fisiche differenti. Sono come le onde radio o quelle elettromagnetiche, i raggi X o quelli infrarossi, non li vediamo ma ci sono. Ci attraversano e ci influenzano. Danzano. Ci parlano anche se non li ascoltiamo. Si parlano tra loro, continuano a intrattenersi. Ci fanno domande anche se non rispondiamo. Si fanno domande, a cui seguono risposte e poi altre domande e altre risposte e altre ancora e ancora, fino a inanellarsi nell’utero della terra. Non sentite le urla del mattatoio, la rabbia, il dolore e la noia dell’allevamento e dei laboratori? La frustrazione che sale dai circhi e dagli zoo? Il lamento delle madri separate dai cuccioli e quello dei cuccioli separati dalle madri? L’odore nauseabondo del sudore e del sangue, il tonfo sordo delle uova sulle griglie di ferro, l’alternante battito angoscioso degli zoccoli e il fruscio dell’aria sollevato dalla stereotipia dei movimenti dei reclusi e dei dannati? Il rapido sibilare dei bisturi, lo schiocco sordo del debeccamento e della castrazione? E poi: non sentite la tenera gioia dei cani che corrono, il flessuoso scivolare dei felini, il lontano fruscio delle serpi, i discreti battiti d’ala degli uccelli, i brevi passi dei topi negli anfratti e nei sotterranei della civiltà? E tutti i suoni delle sistoli e delle diastoli, dei conati, delle articolazioni, dei nervi, dei muscoli? L’espandersi e il contrarsi dei polmoni, il movimento rapido della deglutizione, quello più forsennato e frastornante della copula, dello sperma e delle ovaie, lo schiudersi delle uova, lo spargersi del liquido amniotico? E l’impercettibile brusio delle sinapsi e dei neuroni? E il silenzio frenetico del desiderio e quello pacato del godimento? E l’incessante mormorio delle cellule? Non sentite le voci, gli uggiolii, gli abbai, i guaiti, i ringhi, i miagolii, i latrati, i barriti, i cinguettii dei morti? Non sognate mai i morti? Non vi parlano nel sonno e nelle cangianti forme delle nuvole, delle montagne, delle spiagge e dei deserti? Non sentite gli accorati richiami di Laika provenire dal vuoto dell’universo come la radiazione cosmica di fondo, residuo della placenta che ha dato vita al Big Bang? Non sentite i passi, a volte felici e a volte strascicati, di Bobby e degli altri prigionieri? Non sentite il crepitio della debole radioattività emessa dalla bontà illogica di un mulo o di una femmina d’alce imbalsamata? Non percepite il battito del vostro cuore, delle vostre arterie e delle vostre vene, il ritmo del vostro respiro, la magmatica forza del vostro intestino, lo sciabordio dei vostri fluidi

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corporei contro le pareti degli organi o sui margini di altri corpi? No, tutto questo non scompare nel nulla, ma si deposita come polvere sopra, intorno e dentro tutto ciò che sente, che viene sentito, che sente sentire e che viene sentito sentire. Immenso scialo ontologico. Una polvere sottile, nostalgica e malinconica, si posa costantemente su di noi e sugli altri e lentamente modifica forme e proporzioni. Nulla si perde nella storia, perché l’inconscio è la storia. Noi non vediamo questa polvere, ma questo non significa che non esista e che non perturbi l’essere e l’esistente. Murakami Haruki: «In un giorno qualunque, qualcosa attrae la nostra attenzione. Niente di particolare, cose irrilevanti. Un germoglio di rosa, un cappello smarrito, quel maglione che ci piaceva quando eravamo piccoli, un vecchio disco di Gene Pitney. Un corteo di banalità senza un luogo dove andare. Cose che si muovono a destra e a manca nella nostra coscienza per due o tre giorni e poi se ne ritornano da dove vengono…, nell’oscurità. Abbiamo tutti questi pozzi che scavano nei nostri cuori. Mentre gli uccelli volteggiano sopra i pozzi, avanti e indietro». Questa polvere è come la materia oscura: non è visibile, ma interagisce costantemente con quella che possiamo vedere. L’universo che conosciamo non sarebbe quello che è senza materia oscura. Il silenzio delle bestie è la follia del giorno, il viaggio al termine della notte. Gli animali sono generosi nella loro luminosa oscurità. 4. Domus spongiosa. Siamo abituati a pensare gli animali e i loro ambienti come se fossero entità separate, come se ci fosse un album con degli sfondi colorati – foreste tropicali, savane infuocate, coste rocciose, fondali marini, vette innevate, ghiacciai scoscesi, praterie sconfinate – su cui incollare le figurine che descrivono l’esemplare medio delle varie specie. In realtà, gli animali e i loro mondi d’intorno non sono separati, ma intrecciati, comunicanti, confusi. Coi loro corpi/onde gli animali attraversano l’intorno e lo tracciano, lo irradiano, lo marcano. E contemporaneamente l’intorno traccia, segna, inscrive i loro corpi. Un topo corre lungo una parete e la trasforma in prolungamento del suo sensorio per ritrovare la strada di casa. E la parete tatua il corpo del topo, inscrive nella sua memoria e nei suoi muscoli una mappa geografica. E lo stesso quando un cane urina, un cervo o un elefante disegnano il tronco di un albero di intricati labirinti, un gabbiano o una sterna sfiorano una parete di roccia o una stella marina un corallo. Quando una vespa si accoppia con un’orchidea per creare un ibrido che gode senza dover produrre e riprodursi. Anche nelle tane gli animali non interrompono il flusso tra loro e l’intorno. Come sostiene Serres, l’architettura della tana è costituita da un sistema a tre strati: uno esterno, duro, per scoraggiare gli invasori, uno

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interno che, dolce, protegge e si fa letto, talamo, culla, tomba. In mezzo, lo strato poroso fatto di «fori, passaggi, porte», che contamina il dentro con il fuori e il fuori con il dentro. Solo noi abbiamo reciso questo esile strato intermedio, ci siamo messi fuori dal vivente per rinchiuderci in un dentro che, a nostra immagine e somiglianza, ci raffiguriamo immacolato e puro. Solo noi costruiamo recinti, gabbie, fortezze, case e castelli a tenuta stagna. Proprietà private, ottusamente proprie e violentemente mutilate. Solo noi viviamo nel perenne autunno di una giornata piovosa. Gli altri animali invece fanno segni e si lasciano insegnare in qualunque stagione, sanno, come scrisse Bataille che «la vita non è mai situata in un punto particolare: passa rapidamente da un punto all’altro (o da molteplici punti ad altri punti), come una corrente o una sorta di flusso elettrico». Come un’onda, come acqua che esonda. 5. Scriptum manens. E se gli animali scrivessero? Sì, gli animali scrivono. Lasciano segni e tracce che sanno cancellare, ritracciare e rintracciare. E si lasciano tracciare, marcare, inscrivere. Quindi, se scrivono, possiedono delle mani e intrattengono una fitta corrispondenza con la morte, se scrivere, come scrive Foucault, «è avere a che fare con la morte degli altri, [parlare] sul cadavere degli altri». Gli animali sanno anche leggere. Sanno, ad esempio, che cosa hanno scritto Cartesio o Bacone, Aristotele o Lacan, sui loro corpi. Conoscono il significato dei molti ghirigori che l’erpice della macchina della colonia penale ha inciso sui loro corpi. Quindi, se leggono, hanno occhi e orecchie. Possiedono una grammatologia e sanno cos’è la scrittura e la differenza. Il che dovrebbe suggerire, a meno di non voler mettere in scena un’oscena pornografia, che non si può scrivere degli e sugli animali, o al loro posto. Si può scrivere solo di fronte a loro, alla loro sofferenza e alla loro gioia o, meglio ancora, con loro, insieme a loro, a quattro mani, a mille piedi, con gli occhi aperti e le orecchie tese. Forse gli animali stanno scrivendo anche qui, anche ora. Non avverti il diuturno frusciare delle loro penne? 6. Paupertas altissima. Gli animali hanno un mondo? Gli animali abitano un mondo? E, se sì, che mondo è il loro e quali sono i loro modi di abitarlo? Heidegger, seppur nota che usiamo termini differenti per indicare le medesime azioni fatte da noi e dagli animali – ad esempio, cibarsi/ pranzare –, non si astiene dal fare lo stesso. Gli umani abitano e gli animali vivono in una casa; gli umani sono costruttori di mondi, mentre gli animali sono poveri di mondo, risiedono in una sorta di zona grigia tra noi e le pietre. Probabilmente, però, Heidegger ha ragione. Dipende da

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cosa intendiamo per mondo e per abitare. Se il mondo è un cosmo chiuso, autosufficiente e autoregolato – una mega-macchina, insomma – allora, è vero, gli animali sono poveri di mondo, sono immondi. Il loro mondo è povero, nel senso che non si chiude nella propria presunta ricchezza, ma sa di essere indigente, di aver bisogno dell’intorno e degli altri, di essere oltre il progresso e la decrescita. E poi, a ben vedere (ascoltare, toccare, gustare, annusare), non è neppure possibile parlare di un mondo animale, talmente questo è povero – talmente povero è questo concetto –, ma di innumerevoli mondi, tanti quanti le posture, i gesti, le sensazioni, il tatto interno, i sentimenti, i pensieri, i modi di ridere, piangere, sentire il lutto, annoiarsi, mentire, perdonare, cantare, inventare, suonare, far musica, giocare, ospitare, offrire, donare, provare pudore, vestirsi, guardarsi allo specchio. Tanti mondi quante sono le lunghezze d’onda di ogni corpo che si muove nell’intorno e che da questo è mosso. E lo stesso per l’abitare, se abitare significa avere consuetudine con il luogo del “proprio”, dell’habitus, abitudine e routine, con un abito da non smettere mai, un doppiopetto gessato con annessi cravatta e polsini d’oro, un burqa, una divisa. Se si vive in una casa dalle pareti porose, per uscirci e rientrarci, per riposare o passare oltre, per costruire un territorio, per poi disfarlo e rifarlo daccapo, allora non si abita, ma ci si comporta, ci si sopporta e ci si rapporta. Si risiede nel corpo, si sta sulle creste e nei ventri delle onde. Ci si muove nell’ethos che incessantemente rinegozia i confini dei mondi e ne crea altri nelle intersezioni che si fanno e si disfano, si aprono e si chiudono. Gli animali hanno ascoltato con attenzione quanto una volta ha detto Butler: «La mia vita è questa vita, vissuta qui, nell’orizzonte spazio-temporale stabilito dal mio corpo, ma anche fuori di qui, nell’interazione con altri processi viventi di cui io non sono che una parte [...]. Il fatto di vivere o meno una vita che ha valore non è qualcosa che posso decidere in solitudine, poiché questa vita è e non è mia, ed è ciò che mi rende una creatura sociale e vivente». Gli animali sanno che l’etica (la buona vita) ha a che fare con l’etologia (le buone maniere del vivere). 7. Voluptas desideris. Gli animali tastando l’intorno, avvicinandosi ai corpi che possono potenziare il loro e allontanandosi da quelli che lo farebbero degenerare, non possono che avere una qualche forma di coscienza. Infrangono la natura. Sono gli animali che hanno dissestato l’ordine universale primevo. Sono loro ad aver inventato la libertà, la scelta, l’incontro e, con questi, la morte, la predazione, la malattia, l’eterotrofia. In una parola: la possibilità. Possibilità che è tale solo se non esclude l’impossibile, la possibilità dell’impossibilità e l’impossibilità di

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ogni possibilità. Sono loro che hanno iniziato l’amorosa opera della creazione, dove a ogni bivio, a ogni svolta, a ogni incrocio si prende congedo da tutte le altre creazioni, bivi, svolte e incroci possibili. Sono loro ad aver avviato l’opera infinita di deposizione della polvere sull’esistente, ad aver dato corpo al negativo. Ma l’hanno fatto in maniera affermativa, lasciandolo sussistere e non sussumendolo in qualche formula di sintesi, in qualche dialettica. Pur essendone parzialmente esterni, stanno ancora dentro la natura, dentro la corrente del desiderio che riunisce separando, che inizia pur non avendo origine. Heidegger, allora, ha di nuovo, seppur paradossalmente, ragione: gli animali non muoiono, ma per-iscono ed ex-periscono, si aggirano, passano e trapassano, stanno nell’aporia, possiedono un pas. Usano gli specchi senza specchiarsi e raddoppiare il mondo nella sopra-vivenza; come Alice, li attraversano, per riflettersi, per evadere rimanendo qui, per perire. Gli animali hanno a che fare con la morte, non solo perché sono anch’essi tabù da nascondere, deodorare e detergere, ma anche, e soprattutto, perché si intrattengono nei pressi della possibilità dell’impossibile: che cos’è il “poter soffrire” di Bentham, ci domanda Derrida, se non «una possibilità senza potere, una possibilità dell’impossibile»? Un antispecismo che voglia abbandonare le parole d’ordine della tradizione e delle sue gabbie grammaticali, sintattiche e concettuali – a partire da quella di specie – non può, allora, che mettersi a dialogare con questa indicibile aporia, con questa inaudita possibilità. In effetti, a ben pensarci, gli animali testimoniano l’intestimoniabile, perdonano l’imperdonabile, salvano l’insalvabile. Si salvano mostrando le crepe che sono. In una polverosa biblioteca, Benjamin prende di passaggio un rapido appunto: «La salvezza […] si lascia compiere solo in ciò che nell’attimo successivo è già irrimediabilmente perduto». Come il perdono e la testimonianza. 8. Passio communis. Che cos’è la vita? Dove abita? Come scriverla? Se l’impossibile è inscritto nella vita, essa è sorta dalla sua latenza, accogliendolo nelle sue tane, nei suoi anfratti, nelle sue pieghe, nei suoi cunicoli. L’impossibile scava la vita, la rode e la corrode, la riempie. Dove può essere finito tutto l’impossibile che al bivio della vita, miliardi di anni fa, è stato lasciato indietro e da parte, se non nel cuore della vita stessa? Esso rappresenta il potere della vita, la sua in-finita vulnerabilità. Anche zoé ha a che fare con il potere. Ecco perché il potere può così facilmente far presa sull’impossibilità della vita fino allo spasmo e alla paralisi, può senza difficoltà rendersi esclusivamente possibile e potente, e l’im-potenza della vita può essere condivisa, può condividere l’impossibile. Gli animali stanno nel

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Penne e pellicole

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mezzo della guerra sulla pietà, sono fuoco che arde tra due fuochi, quello amico e quello di sbarramento. 9. Oikosrex robinsoniensis. “L’Uomo” è il prodotto di un processo di speciazione che è avvenuto tramite una serie progressiva di mutilazioni e privazioni. È il prodotto di un taglio che ha negato il negativo degli animali. È un doppio non che si richiude ermeticamente su se stesso, che sta fuori e sopra, doppia negazione, affermazione che nega e che rinnegando si afferma. È impassibile, immortale, imperativo. È sempre un animale con qualcosa in più, è non-più, anche quando si definisce come animale mancante. È sempre differenza da “l’Animale”. È un progetto che si sintetizza e, metastatizzando, rende tutto sintetico. Gli animali, invece, s’intralciano, s’intrufolano, s’intrecciano, s’intendono. “L’Uomo” è puro spirito, è privo di corpo, è un fantasma immateriale. È bianco, maschio, eterosessuale, pur essendo incolore, asessuato, onanista. È il sovrano di un’isola disabitata, di cui, come Robinson, continua a percorrere la circonferenza per stare fermo, spaventandosi delle sue stesse orme, delle impronte che vi ha lasciato e che attribuisce a “l’Animale”, che non esiste se non dentro il suo capo, altro fantasma in cui si specchia fino a infrangersi. “L’Uomo” vive e muore nel proprio, nella proprietà, nelle sue proprietà, nell’appropriazione. L’antispecismo che cerca il “proprio” de “l’Uomo” ne “l’Animale” è impresa destinata al fallimento. Al contrario, dovrebbe moltiplicare le differenze, vedere uomini e donne, ermafroditi e oltrecomatosi, zecche e scimpanzé e altri e altre e altro ancora. Un reale movimento di liberazione dovrebbe scoprire il proprio bersaglio nell’Anthropos, non nello specismo, perché il primo è reale, mentre il secondo è illusione. Dovrebbe sbarazzarsi del concetto stesso di specie, evitare di combattere contro quest’altro fantasma. Evitare di inventarsi nuove robinsonate. Non credete alla storiella delle specie e delle speciazioni, ma ascoltate il racconto dell’evoluzione, create storie altre. Un giorno, in un bel giardino, sotto un albero di mele, gli animali radunarono le differenze e dissero loro: «Siate feconde e moltiplicatevi». 10. Hypokeimenon larvatus. Anche il Soggetto sorge dalle ceneri del sacrificio, è una favola prodotta da un calcolo. È un calcolo escreto dolorosamente dalla finzione imperiosa della struttura sacrificale. Il Soggetto prende forma dall’esclusione appropriante. Anche il Soggetto del diritto, della legge, del dovere, della politica, dell’etica. Il “Soggetto di” è gemello siamese del “soggetto a”. È un calcolo che non prevede che divisioni e individui, un calcolo che mentre si enuncia si dissimula, come nel motto

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cartesiano larvatus prodeo (larvatus pro Deum?). E una volta che l’individuo ha preso possesso della scena non può che inscenare altre finzioni. Ad esempio, quella secondo cui sommandosi con se stesso produrrebbe le società. O che lo Stato sia l’incrocio tra il mare e la terra, tra la Bestia e il Sovrano, ciò che garantisce il Bene in un branco di lupi, il gregge di beni immobili de “l’Uomo” e il suo capo, i suoi capi, le sue capitali, il suo capitale – non è il denaro il luogo dove il caput viene costretto ad accoppiarsi con la corona? Soggetto, individuo e Stato sono finzioni, entità che esistono solo in forza di una credenza, finché si crede in loro, finché si dà loro credito indebitandosi nel dover-essere. In forza di quella favola che le principali figure dell’oikonomia politica non cessano mai di ripetere: c’era una volta un brutale stato di natura dove individui isolati si facevan l’un l’altro la guerra, fino a quando i nostri sacrifici li hanno purificati nel lavacro del sangue, erigendo il cum dello Stato. Omettendo, però, di dire che l’individuo non è tanto la causa, quanto piuttosto l’effetto di questa operazione sacrificale che, per produrre l’artificio del cum trascendente, di ciò che si specchia nella sua vuota performatività – «State states statements» –, si è dovuto prima recidere il cum immanente, la comunanza nella finitudine e nella carne, quella comunanza che fluisce tra singolarità transitorie, ibridandole, rendendole impure. Omettendo che prima l’“Animale” è stato messo a morte. Che la società è l’impalpabile corrente che scorre tra gli “individui”, è ciò che passa e che è passato, l’intermezzo e l’intervallo, ciò che non è mai stato, storia naturale. Che il munus – il dono esorbitante che circola, il compito eccessivo della responsabilità che non smette di restituire – è il cuore battente di una comunità impossibile, ma che continua a venire, che viene, che avviene. È sul tra, e non sulle specie, che il potere esercita le sue trame immunitarie, su quel tra che è anche l’appiglio e l’approdo della liberazione, del potente processo di crescita in comune, di fioritura. Questo gli animali lo sanno da sempre – non si illudono, non credono nelle favole e nei calcoli –, è l’indimenticabile perduto nel fondo delle loro sinapsi: gli animali sanno che il tra si può dividere solo perché indivisibile, che è preda del potere perché potente. Gli animali rimettono continuamente in moto l’insacrificabile vibrazione dell’esistenza, l’accomunante condivisione della finitezza. Gli animali parlano, ma senza coniugare i verbi, per questo non li capiamo più e ogni traduzione è anche, e sempre, tradimento, ritorno alla tradizione. Gli animali parlano all’infinito, non conoscono e riconoscono; non smettono mai di ritornare su ciò che conoscono per dimenticarlo. Sono riconoscenti.

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11. Probovir veganus. Anche l’asceta si impadronisce della perfezione attraverso una progressiva serie di rinunce e di sacrifici, un gradino dopo l’altro, in una faticosa scalata all’azzurro del cielo. Rispondendo a una fantasmatica voce della coscienza si eleva fino all’estrema trasparenza, si immagina puro spirito che aleggia sulle informi acque del mondo. Si definisce come differenza dal resto dell’umanità, tutta perduta, tutta irredimibile, tutta cattiva per natura; si pensa come una nuova specie, il risultato dell’ultimo processo di speciazione. E scambia la forma-di-vita con lo stile di vita. Mette in forma, direbbe Bourdieu, e si mette in forma. Stila nuove tavole della legge, fa le rivoluzioni a colpi di piatti in cene di gala, predica la fine del mondo, muove piccoli passi, usa l’imperativo, agita passioni tristi. Gli animali sentono e non si lasciano ingannare da queste bestialità. Gli animali creano, amano, sono joie de vivre, desiderano la felicità, e così guardano gli asceti con un misto di stupore, di paura, di senso del ridicolo. 12. Panopticum immobilis. Anche il “Soggetto” è un’illusione e la sua illusione, come le altre, non è illusoria, non è senza conseguenze: per rinchiudersi, il Soggetto deve rinchiudere, deve assoggettare. Non a caso gli animali sono (quasi) tutti reclusi. Quelli edipici nei recinti dell’affetto morboso, dell’ego e della frustrazione; quelli di Stato nelle rappresentazioni, nell’osceno e nella pornografia; gli altri nelle gabbie degli allevamenti, dei laboratori e dei mattatoi. Tutti sono rinchiusi nelle enclosure della bêtise. Sono relegati, prima di ogni violenza, in un regime di visibilità assoluta, capillare e continua che li disloca in una sfera di completa invisibilità, dove ogni loro funzione vitale è regolata e dove si decide quando è arrivato l’ultimo giorno, quando il loro respiro deve essere reciso. Sguardo e comportamento sono connessi: il modo di guardare determina il modo in cui ci si aspetta che l’altro si comporti e questo il modo in cui effettivamente si comporterà. Lo sguardo della reclusione, lo sguardo che dissocia il vedere dall’essere visti, lo sguardo che mette dentro il fuori e fa dilagare il dentro in ogni fuori, non può che prevedere movimenti minimi, limitati, stereotipati, falsi e, alla fin fine, l’immobilità. Gli animali domestici e addomesticati sono violentati ancor prima di subire violenza, sono dominati da un regime scopico, che non può che impoverire gli altri sensi e il sentire. Le loro catene sono fatte di anelli di sguardo e ciò che hanno perso, ben prima del movimento, è la vista, la possibilità di vedere. Guardano obliquamente e ciecamente, si muovono meccanicamente, sono dentro a un fuori estremo, sono perennemente visibili perché costantemente invisibili. Sono su una sfera che rotea su se stessa, descrivendo un cerchio, la pista di un circo, un recinto, il globo di un occhio senza palpebra.

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13. Virgo sideralis. “L’Uomo” separatosi dal resto del vivente animale si sente solo, come Adamo quando ancora aveva tutte le sue costole. Questo, forse, è il motivo per cui è alla continua ricerca di altre forme di vita nell’universo, non smette di avvistare UFO ed extraterrestri, di immaginarsi marziani, lunatici, alienati e andromachiani, di esaltarsi quando pensa di aver avvistato un modesto rivolo d’acqua ghiacciata su un qualche lontano pianeta, un semplicissimo pseudo-proto-batterio disperso sulle rocce incandescenti di un astro irraggiungibile. O, magari, questo è solo l’estremo tentativo di trovare un’altra terra vergine da colonizzare, un posto dove fuggire quando l’azzurra roccia danzante su cui viviamo sarà definitivamente distrutta. “L’Uomo”, allora, invia nello spazio placche metalliche con i segni della propria civilizzazione, con l’assurda presunzione che altre menti possano decifrarli. E tra questi segni i più grandi, i più imponenti, sono quelli che rappresentano il maschio e la femmina umani, come se ovunque debbano esistere i maschi e le femmine, come se la divisione di genere fosse un’invariante universale, fingendo in tal modo di dimenticarsi ciò che lapidariamente afferma Benveniste: la «distinzione [...] tra animali maschi e femmine» è «immediata e necessaria» solo «per una società di allevatori». Eppure basterebbe stendersi a terra, far girare intorno lo sguardo, drizzare le orecchie, allungare le dita, affinare le narici per percepire il pullulare della vita altra, l’ininterrotto mormorio di altre intelligenze, di altre menti. Possibile che la nostra mente possa solo mentire e mentire sapendo di mentire? Possibile che riusciamo a vedere solo ciò che abbiamo ucciso? Che possiamo scorgere la luce solo dopo la morte? Che la luce per noi sia solo quella delle stelle di cui percepiamo l’esistenza (pochi minuti o miliardi di anni) dopo che hanno brillato? No, gli extraterrestri di questo pianeta sono troppo vicini perché prima o poi la loro luminescenza non venga percepita, senza che siano divisi in maschi e femmine per farli salire sull’arca, per alzare il sipario sulle rappresentazioni riproduttive dell’arché. Gli animali, alieni e alienanti, pulsano come i quasar e sono queer. 14. Mysterium impersonale. Innumerevoli schiere di umani sono finiti (e continuano a finire) nell’inferno de “l’Animale”. Come non ha scritto Adorno (ma è poi così importante sapere chi ha scritto cosa, chi l’ha scritto per primo, chi, per primo, ha detto chi è stato il primo a dire qualcosa, in una regressione che non può che finire tra le braccia del motore immobile?): «Auschwitz inizia ogni volta che qualcuno guarda a un mattatoio e pensa: sono soltanto animali». Questo è il problema maggiore dell’antispecismo attuale: l’aver dimenticato che gli umani sono animali. Anche quando sono ritenuti persone o, meglio, proprio per questo: solo la persona, infatti, può essere

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spersonalizzata. Gli animali non intendono impersonificarsi, desiderano restare nell’impersonale. Gli animali non si incarnano, non si affannano sul mysterium incarnationis, sul come un corpo si articola con un’onda, ma si preoccupano del ministerium disiunctionis, dell’effettualità pratica e politica dei tagli sezionanti, che classificano e istituiscono gerarchie. Il mistero impersonale degli animali sono le sfumature, le nuance quasi impercettibili, l’indefinibile odore dell’erba dopo una giornata di pioggia, il colore del crepuscolo che cede alla sera, l’intenso brulicare del bosco un attimo prima del temporale. È a questo loro incarnato che dovremmo rispondere, all’incarnato sfuggente di tutti i senza nome, di coloro che non hanno potuto testimoniare, perdonare, salvarsi. Che non possono dimenticare e che non possono essere dimenticati, se non si vuole che il nemico vinca ancora una volta. L’incarnato è il mistero della carne, il suo ministero. 15. Vertigo superficialis. La più grande illusione, la favola più profondamente radicata, è quella della natura. La natura è sempre lì: come barriera da oltrepassare alla ricerca di un’etica oggettiva a cui tutti dovrebbero uniformarsi; come un prigioniero da liberare con la forza delle rivoluzioni, del progresso e della cultura; come trapassato remoto, esistito agli albori del tempo, a cui anelare, affrettando la fine della storia del mondo. Tutte queste visioni della natura guardano all’aldilà, la prima per liberarci da essa, la seconda per liberarla, la terza per liberarla da noi. Anche qui il medesimo abbaglio che nasconde le ondulazioni della natura naturans dietro la densità della natura naturata. E così l’antispecismo impolitico resta impensato, continua a cadere nel punto cieco della retina. Impolitico, afferma Esposito, è ciò che dall’interno contorna e delimita la politica, ciò che la buca, ciò che è «aderente alla linea liminare che separa [il politico] da ciò che esso non può essere». L’impolitico «attraversa, lo spazio, senza estensione, costituito da quel ‘non’», arresta il politico per non farlo «entrare in una dimensione di irrealtà», lo decostruisce per restituirgli la sua stratificazione, ne impedisce la chiusura nelle categorie della metafisica. L’antispecismo impolitico abita nell’aldiqua, non lo oltrepassa; pur senza farle coincidere, non scinde la vita dalla storia e la politica dalla biologia. Le cortocircuita per rendere possibile un potere impotente, un potere impossibile, che non sprofonda né nella vertigine del nichilismo vitalistico né si eleva alle altezze vertiginose delle politiche di affermazione del Sé. Un potere che dà le vertigini, che vortica sulle superfici che vita e politica creano toccandosi. Gli animali sono impolitici, stanno sull’incerto crinale delle contrapposizioni per vedere l’intero orizzonte. E, in effetti, sono troppe le cose che accadono, in sonno e in veglia, per accadere in serie, lungo il filo diritto

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della storia: le cose, al contrario, si accavallano, si ammucchiano. Non può esistere democrazia senza segreti, anche se il suo scopo è quello di svelarli tutti; morale senza invisibilità, anche se è la visibilità a renderla possibile; comunità senza immunità, anche se è questa che la mette a rischio di morte; responsabilità senza irresponsabilità, pena diventare algoritmo meccanico, normalità della norma; opera che si compia in pieno, se non nel delirio del totalitarismo e del progetto, di ciò che risolve l’essere in agire, in officium, nelle divisioni dell’ufficialità e nelle divise degli ufficiali; parola che non si lasci percorrere dal silenzio, se intende farsi scrittura e non Voce profetica. Gli animali sanno lasciar vuota almeno una casella nelle serie, per far sì che il pieno si mescoli; per correre paralleli alle cose, per intrecciarle all’infinito. Sarà mai possibile per noi fare lo stesso? Accedere a una politica dell’impossibile, una politica che non ritorni sui propri passi, ma che si lasci attraversare dall’impolitico? Una vita che non sia antipolitica, post-politica, spoliticizzata? Una politica della vita, una politica del niente e un’etica del vuoto, una politica e un’etica che non annientino il niente e il vuoto della vita? Un’etica e una politica del desiderio? Una liberazione alla natura? Nietzsche pensa di sì: «Da ultimo si vivrebbe fra gli uomini e con sé come nella natura, senza lode, né rimproveri e infervoramento, pascendosi di uno spettacolo di molte cose, di cui bisognava finora solo aver paura. Si sarebbe liberi dall’enfasi e non si sentirebbe più il pungolo del pensiero di essere non solo natura o più che natura». 16. Unicorpus schizocephalicum. Come possono esserci diritti per chi è fuorilegge? Il diritto cattura il verso nell’esclusione. E gli animali fanno versi. La legge crea un dentro bandendo il fuori. E gli animali sono banditi. Il diritto e la legge non amano i lupi e i licantropi. I diritti e la legge sono per le persone, per la personne, per le maschere, per nessuno. E gli animali sono, non si mascherano, abitano il transpersonale. Non possono esserci né diritti né leggi in favore degli Odradek, neppure quelli per la tutela delle minoranze, perché gli Odradek sono in stato di minorità, ma sono maggioranza. Ci sono più esserci in cielo e in terra che umani e divini. Anche il Sovrano, come la Bestia, sta fuori la legge, sopra il diritto. Ma il Sovrano, è noto, ha due corpi e una testa e così può talvolta rientrare nella sfera della legge ed essere decapitato. Le bestie, invece, hanno un corpo e sono acefale e, quindi, non possono neppure essere decapitate. Subiscono il rigore della legge e lo scherno del diritto senza mai potervi accedere, se non nella forma della (r)e(s)clusione.

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17. Profanatio ludens. Normalmente si ritiene che gli animali siano incapaci di resistenza nei confronti de “l’Uomo”, che non siano in grado di rivoltarsi contro le condizioni di sfruttamento e oppressione a cui sono quotidianamente sottoposti. Certo, il nostro dominio è così ferreo che i loro atti di resistenza sono subito spenti e le loro rivolte soppresse. Ma gli animali, appena possono, anche quando le chance di successo sono infinitesimali o nulle, si ribellano: fuggono, incornano, mordono, impazziscono, digiunano, si mutilano, si suicidano, evadono, accarezzano, leccano, si fanno sfuggenti, elusivi, aprono vie di fuga intensive, si arrestano. Mettono in atto forme di ribellione, che noi non capiamo o misinterpretiamo perché ci eludono, ci sfuggono, ci arrestano. Oppure, più semplicemente, gli archivi della storia non sono in grado di percepire quanto succede nell’ombra, di nascosto, sottoterra; non possono cogliere un fugace scambio di sguardi, una postura inconsueta, il movimento rapido di una coda, una levata d’orecchi. Non sanno leggere il dire/non dire degli oppressi, le loro parole d’ordine e di disordine, le loro preghiere, i loro canti, i loro versi, i loro verbali segreti che prima o poi, però, erompono sempre in quello pubblico per scompaginarlo, anche se solo per un breve istante; un istante che, pur marginale, inapparente e spesso destinato alla sconfitta, segna per sempre, pur senza tagliarle, le teste di coloro che hanno assistito all’evento, al bagliore fugace del lampo, magari seduti di fronte a una tavola imbandita. Oppure gli animali hanno già fatto una rivoluzione così tanto tempo fa, agli albori del mondo – lasciando che crescesse un essere capace di tagliare il ramo su cui siede –, che non hanno né voglia né interesse a farne altre. Oppure la rivoluzione la stanno facendo anche ora, proprio adesso, continuando a crearci, a ibridare i nostri corpi e le nostre menti, coevolvendo con noi, cercando di smascherare il referente assente. Oppure sanno che la rivoluzione è solo un termine astronomico che mal si adatta all’agire politico. O, meglio ancora, sanno che questo termine non termina mai – e per tale motivo non è politico: la rivoluzione, come quella dei pianeti e degli astri, è un ritorno al punto di partenza, un fine in se stesso, una fine che ritorna sempre all’inizio, il fine dell’inizio e dell’origine, un inizio senza fine con le sue ghigliottine, i suoi gulag, le sue macchine, le sue democrazie, il suo illuminismo, le sue carte, i suoi menù, il suo sangue. Gli animali preferiscono l’eterno ritorno di un inizio sfinito, senza origine e senza fini, e una fine che sia inconcepibile volontà di potenza che interminabilmente tracci altre orbite, altri sguardi, altre teste, altre orecchie e altre mani. Altri tempi e altre storie. Scrive Furio Jesi: «La parola rivoluzione designa correttamente tutto il complesso di azioni a lunga e breve scadenza che sono compiute da chi è cosciente di voler mutare nel tempo storico una situa-

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zione politica, sociale, economica […]. Ogni rivolta si può invece descrivere come una sospensione del tempo storico […]. L’istante della rivolta determina la fulminea autorealizzazione e oggettivazione di sé quale parte di una comunità». Gli animali sono bambini della creazione, non entrano mai «nel regno degli adulti che, soli, accettano di dedicarsi a rivoluzioni di cui danno già per scontato il fallimento». Gli animali sono messianici: non rievocano il passato per ripeterlo identico, ma per revocare il presente inscrivendolo. Gli animali si rivoltano, si voltano di nuovo e ancora. Si fanno volto, non smettono di voltarsi, di fuggire, di andar via, di rivolgersi, per poi, revenant, potentemente ed eternamente ritornare in ogni presente che continuamente avviene mentre scompare e si dilegua, in ogni evento di liberazione. Né una volta per tutte né ogni volta: di volta in volta, tra una svolta e l’altra. Gli animali sono angeli antichi, messaggeri del tempo della festa, dello stesso giorno che ritorna nei giorni festivi, dell’ultimo giorno che è il tempo di ora – sconquasso, sussulto e singhiozzo –, il tempo che resta e che arresta, frammento atemporale di tempo che fa saltare – ballare, danzare – il continuum della storia. Gli animali non sono orologi, sono calendari; non misurano il tempo, lo accelerano, lo rallentano, lo sospendono, lo rivoltano. Nella festa ci si libera del dover-essere, ci si fa estasi, si esorbita, si esonda, si sta fuori pur essendo dentro, si sta dentro spiando da fuori, si vede e si è visti, ci si muove anche se si resta immobili. Si gioca. Con i dadi, con i gomitoli, con le carte, con gli specchi, con le stringhe e le superstringhe, con le maschere, con gli stracci e con i rifiuti, con i rocchetti (ti ricordi quando, da piccolo, dicevi «O-o-o» e «A-a-a» per dire «Fort» e «Da»? E le storie che il nonno poi ti raccontava?). E quando si gioca si è sempre in tanti, in comunità porose, e si profana. Se la profanazione, come afferma Agamben, «implica, […] una neutralizzazione di ciò che profana», restituendo all’uso «ciò che era indisponibile e separato», allora essa è un gesto politico che confisca il sacro, che arresta il sacrificio, che accomuna mettendo in comune. Forse, dal momento che “l’Uomo” è il supersacro che vive all’ombra della religione del capitalismo e della produttività, la profanazione più destabilizzante è quella dell’inoperosità. Inoperosità non è star con le mani in mano contrapposto al maneggiare e al manipolare, ma restituzione delle mani per stringere, applaudire, accarezzare il tempo della festa, per disfare e rifare la tela della storia, per giocare. Per manomettere. Per far divenire le mani artigli, tentacoli, zampe, ali, antenne, pinne, vibrisse, pelle. Gli animali sono massimamente inoperosi – perché non giri la testa e guardi il cane che si rivolta sul sofà o il gatto che fa ruotare il gomitolo su orbite sempre differenti? Gli animali creano lo spazio della politica, i suoi contorni, i suoi margini, i suoi tempi, i suoi ritmi, la perforano per

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donarle il respiro. Aborrono la violenza perché la violenza non gioca e odia il gioco. Resistono, manifestano, vivono in una impermanente rivoluzione. 18. Trico fulgens. Nella loro succinta tassonomia, Deleuze e Guattari non prevedono solo animali edipici e animali di Stato, ma anche animali demoniaci. E aggiungono che, in fondo, tutti gli animali possono divenire demoniaci. Demoniaci sono gli animali che vivono nel tra, tra due villaggi, tra due fili d’erba, quelli che trascinano in un vorticoso divenire animale, che corrono sui margini dei confini, che sconfinano e fanno sconfinare. Gli animali demoniaci non stanno nell’aperto, aprono. Non sono acqua nell’acqua, ma onde che increspano. Disdegnano la Parola, il Padre, la Verità e il Metodo. Preferiscono di gran lunga giocare, anche con la bocca – il luogo dove anima e corpo, dentro e fuori, desiderio e godimento si sfiorano –, e con ciò che essa emette – le parole – e immette – gli alimenti. Amano i giochi di parole che consentono di restituire all’uso comune – distribuendolo e dissestandolo – il capitale simbolico accumulato nello Stato (di cose presente). Un elementare gioco di prestigio, et voilà, le jeux sont fait: ingurgitano l’arcaica necessità (il faut bien manger) e dal cappello estraggono, con grazia e perizia, il faut le bien manger. L’ultimo giorno, al banchetto dei giusti, umani dalla testa animale, mangeranno senza introiettare altri corpi, il dovere e il bisogno, confondendosi con il sapore e il gusto, nella convivialità, nell’ospitalità infinita. Diranno, con un altro senso, spostando impercettibilmente l’accento dal Sé all’altro: «Questo è il mio corpo». Gli animali sono stregoni. 19. Latro abilis. Gli animali sono come le citazioni che, secondo Benjamin, sono come i briganti di strada, che sono come le zecche, si affretta ad aggiungere il barone von Uexküll. Stanno lì nascosti lungo la strada, appaiono di colpo, ti derubano del proprio e un minuto dopo si sono già dileguati. Ti trasportano, confuso, lontano dal continente dell’uomo a sentire l’ebbrezza dell’espropriazione, dell’esposizione, dell’esistenza. Dell’essere altrimenti-che-umano. 20. Jacchus ridens. Gli animali ridono? – si domanda Derrida, sornione come la gatta che lo sta guardando nudo nel bagno di casa. Sì, gli animali ridono, sorridono, irridono, deridono. Sono un riso gioioso che trascina via, che contamina, che travalica, clandestino, barriere e confini, che scompagina bestiari, mappe e tassonomie, anche quelle immaginarie o quelle fantastiche. Le tassonomie sono cose morte; per questo sono impossibili, per questo ci tentano con tanta forza di seduzione. Gli animali mescolano

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le carte e truccano i dadi, le statistiche, gli stati, lo stato e la stasi. Ridono di noi del “proprio” e delle proprietà. Tra sé e sé, irridono il Sé. E, come è noto, le risate, seppelliscono. Gli animali sono spettri di Marx. 21. Archinegans rizomaticum. Emerge di conseguenza la ventunesima traccia, quella eccedente, soprannumeraria. Gli animali non amano gli assi cartesiani, le ascensioni e gli ordini, le profondità e gli abissi, l’origine, i cerchi, il pieno, l’imperativo e le maiuscole, i sistemi, l’aldilà, la natura, le mamme, i papà e i fratellini, la parola, le elisioni, l’afa, gli archivi, le doppie negazioni, le classificazioni, i punti. E altro ancora. Amano le superfici, gli spazi curvi o striati, le linee parallele che all’infinito si intrecciano, la negazione affermativa, le stringhe e i gomitoli, i vortici, le singolarità e la pelle, i rizomi, i numeri irrazionali, il congiuntivo, le minuscole, i continenti e le tribù, la scrittura, l’infinito intrattenimento, il vuoto, i quanti, i frattali, l’aleatorio, i battiti d’ala, l’aldiqua, i contronatura, gli eventi, i puntini di sospensione ... E ancora altro... Si levano i venti, riprende la vita… Ti prometto di renderti talmente vivo che / la polvere ti assorderà cadendo sopra i mobili. (Nina Cassian) Gridi acute di donne accarezzate, / I denti, gli occhi, le ciglia bagnate, / Il vago seno che scherza col fuoco, / Il sangue che arde in labbra che s’arrendono, / Le dita, i doni estremi che difendono, / Tutto sotterra va, torna nel giuoco! (Paul Valéry)

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ETEROTOPIE Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna

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Nerozzi Bellman Patrizia (a cura di), Internet e le muse. La rivoluzione digitale nella cultura umanistica Vaccaro Salvo (a cura di), Il secolo deleuziano Berni Stefano, Soggetti al potere. Per una genealogia del pensiero di Michel Foucault Carbone Paola (a cura di), Congenialità e traduzione Marzocca Ottavio, Transizioni senza meta. Oltremarxismo e antieconomia Carbone Paola (a cura di), Le comunità virtuali Fadini Ubaldo, Principio metamorfosi. Verso un’antropologia dell’artificiale Mello Patrizia (a cura di), Spazi della patologia, patologia degli spazi Petrilli Susan, Ponzio Augusto, Fuori campo. I segni del corpo tra rappresentazione ed eccedenza Carmagnola Fulvio, La specie poetica. Teorie della mente e intelligenza sociale Deleuze Gilles, La passione dell’immaginazione. L’idea della genesi nell’estetica di Kant De Michele Girolamo, Tiri Mancini. Walter Benjamin e la critica italiana Riccio Franco, Vaccaro Salvo (a cura di), Nietzsche in lingua minore Carbone Paola, Patchwork Theory. Dalla letteratura postmoderna all’ipertesto Ferri Paolo, La rivoluzione digitale. Comunità, individuo e testo nell’era di Internet Foucault Michel, Spazi altri. I luoghi delle eterotopie Bataille Georges, La condizione del peccato Carbone Paola (a cura di), eLiterature in ePublishing Dal Bo Federico, Società e discorso. L’etica della comunicazione in Karl Otto Apel e Jacques Derrida Deleuze Gilles, Istinti e istituzioni Paquot Thierry, L’utopia ovvero un ideale equivoco Pirrone Marco Antonio, Approdi e scogli. Le migrazioni internazionali nel Mediterraneo Ponzio Augusto, Individuo umano, linguaggio e globalizzazione nella filosofia di Adam Schaff Simone Anna, Divenire sans papiers. Sociologia dei dissensi metropolitani Vaccaro Salvo (a cura di), La censura infinita. Informazione in guerra, guerra all’informazione Artaud Antonin, CsO. Il corpo senz’Organi Moulian Tomás, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo Thea Paolo, Il vero cioè il falso. Invenzione, riconoscimento e rivelazione nell’arte Amato Pierandrea (a cura di), La biopolitica. Il potere e la costituzione della soggettività Bertuccioli Manolo, Carlos Castaneda e i navigatori dell’infinito Bonaiuti Gianluca, Simoncini Alessandro (a cura di), La catastrofe e il parassita. Scenari della transizione globale

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Buchbinder David, Sii uomo! Studio sulle identità maschili Cozzo Andrea, Conflittualità nonviolenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa Deleuze Gilles, Fuori dai cardini del tempo, Lezioni su Kant Galluzzi Francesco, Roba di cui sono fatti i sogni. Arte e scrittura nella modernità Leghissa Giovanni, Il gioco dell’identità. Differenza, alterità, rappresentazione Maistrini Maria, Il figurale in J.-F. Lyotard Montanari Moreno, Il Tao di Nietzsche Vaccaro Salvo, Globalizzazione e diritti umani. Filosofia e politica della modernità Bazzanella Emiliano, Il ritornello. La questione del senso in Deleuze-Guattari Fabbri Lorenzo, L’addomesticamento di Derrida. Pragmatismo/ Decostruzione Marcenò Serena, Le tecnologie politiche dell’acqua. Governance e conflitti in Palestina Piana Gabriele, Conoscenza e riconoscimento del corpo Prebisch Raul, La crisi dello sviluppo argentino. Dalla frustrazione alla crescita vigorosa Scopelliti Paolo, Psicanalisi surrealista. L’influenza del surrealismo su Hesnard, Lacan, Deleuze e Guattari Vaccaro Salvo, Biopolitica e disciplina. Michel Foucault e l’esperienza del GIP (Group d’Information sur les prisons) Vercelloni Luca, Viaggio intorno al gusto. L’odissea della sensibilità occidentale dalla società di corte all’edonismo di massa Caronia Antonio, Livraghi Enrico, Pezzano Simona, L’arte nell’era della producibilità digitale Dino Alessandra (a cura di), La violenza tollerata. Mafia, poteri, disobbedienza Rodda Fabio, Cioran, l’antiprofeta. Fisionomia di un fallimento Scolari Raffaele, Paesaggi senza spettatori. Territori e luoghi del presente Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.1. Profili epistemici Poidimani Nicoletta, Oltre le monocolture del genere Pastore Luigi, Limnatis G. Nectarios (a cura di), Prospettive del postmoderno Vol.2. Profili epistemici Bellini Paolo, Cyberfilosofia del potere. Immaginari, ideologie e conflitti della civiltà Bazzanella Emiliano, Etica del tardocapitalismo Cuttita Paolo, Segnali di confine. Il controllo dell’immigrazione nel mondo-frontiera De Conciliis Eleonora (a cura di), Dopo Foucault. Genealogie del postmoderno Di Benedetto Giovanni, Il naufragio e la notte. La questione migrante tra accoglienza, indiffernza ed ostilità Pagliani Piero, Naxalbari-India. L’insurrezione nella futura “terza potenza mondiale” Vaccaro Giovanbattista, Per la critica della società della merce Vinale Adriano (a cura di), Biopolitica e democrazia Demichelis Lelio, Leghissa Giovanni (a cura di), Biopolitiche del lavoro Corradi Luca, Perocco Fabio (a cura di), Sociologia e globalizzazione Bellini Paolo (a cura di), La rete e il labirinto. Tecnologia, identità e simbolica politica Dalla Vigna Pierre, A partire da Merleau-Ponty. L’evoluzione delle concezioni estetiche merleau-pontyane nella filosofia francese e negli stili dell’età contemporanea

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67. Riccioni Ilaria (a cura di), Comunicazione, cultura, territorio. Contributi della sociologia contemporanea, 68. Pasquino Monica, Plastina Sandra (a cura di), Fare e disfare. Otto saggi a partire da Judith Butler 69. Bertoldo Roberto, Anarchismo senza anarchia. Idee per una democrazia anarchica 70. Del Bono Serena, Foucault, pensare l’infinito. Dall’età della rappresentazione all’età del simulacro 71. Dino Alessandro e Licia A. Callari (a cura di), Coscienza e potere. Narrazioni attraverso il mito 72. Farci Manolo, Pezzano Simona (a cura di), Blue lit stage. Realtà e rappresentazione mediatica della tortura 73. La Grassa Gianfranco, Tutto torna ma diverso. Capitalismo o capitalismi? 74. Dalla Vigna Pierre, La Pattumiera della storia. Beni culturali e società dello spettacolo 75. Palumbo Antonino, Vaccaro Salvo (a cura di), Governance e democrazia. Tecniche del potere e legittimità dei processi di globalizzazione 76. Vaccaro Giovanbattista (a cura di), Al di là dell’economico. Per una critica filosofica dell’economia 77. Meattini Valerio, Pastore Luigi (a cura di), Identità, individuo, soggetto tra moderno e postmoderno 78. Dino Alessandra (a cura di), Criminalità dei potenti e metodo mafioso 79. Scolari Raffaele, Filosofi e del mastodontico. Figure contemporanee del sublime della grande dimensione 80. Trasatti Filippo, Leggere Deleuze attraverso Millepiani 81. Manicardi Enrico, Liberi dalla civiltà. Spunti per una critica radicale ai fondamenti della civilizzazione: dominio, cultura, paura, economia, tecnologia 82. Vaccaro Gianbattista, Antropologia e utopia. Saggio su Herbert Marcuse 83. Filippi Massimo, Trasatti Filippo (a cura di), Nell’albergo di Adamo. Gli animali, la questione animale e la filosofia 84. Franck Giorgio, Il feticcio e la rovina. Società dello spettacolo e destino dell’arte 85. Marzocca Ottavio (a cura di), Governare líambiente? La crisi ecologica tra poteri, saperi e conflitti 86. Grossmann Henryk, Il crollo del capitalismo. La legge dell’accumulazione e del crollo del sistema capitalista 87. Pullia Francesco, Dimenticare Cartesio. Ecosofia per la compresenza 88. Bazzanella Emiliano, Religio I. Senso e fede nel tardocapitalismo 89. Foucault Michel, La società disciplinare 90. Palano Damiano, Volti della paura. Figure del disordine all’alba dell’era biopolitica 91. Simone Anna, I corpi del reato. Sessualità e sicurezza nelle società del rischio 92. De Gaspari Mario, Malacittà. La finanza immobiliare contro la società civile 93. Ruta Carlo, Guerre solo ingiuste. La legittimazione dei conflitti e l’America dall’Vietnam all’Afghanistan 94. Frazzetto Giuseppe, Molte vite in multiversi. Nuovi media e arte quotidiana 95. Bazzanella Emiliano, Religio II. La religione del soggetto 96. Brindisi Gianvito, de Conciliis Eleonora (a cura di), Lavoro, merce, desiderio 97. Casiccia Alessandro, I paradossi della società competitiva 98. Castanò Ermanno, Ecologia e potere. Un saggio su Murray Bookchin

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99. d’Errico Stefano, Il socialismo libertario ed umanista oggi fra politica ed antipolitica 100. Tursi Antonio, Politica 2.0. Blog, Facebook, YouTube, WikiLeaks: ripensare la sfera pubblica 101. Lombardi Chiara, Mondi nuovi a teatro. L’immagine del mondo sulle scene europee di Cinquecento e Seicento: spazi, economia, società 102. Petrillo Antonello (a cura di), Società civile in Iraq. Retoriche sullo “scontro di civiltà” nella terra tra i due fiumi 103. Paolo Bellini, Mitopie tecnopolitiche. Stato, nazione, impero e globalizzazione 104. Palumbo Antonino, Segreto Viviana (a cura di), Globalizzazione e governance delle società multiculturali 105. Bertoldo Roberto, Nullismo e letteratura. Al di là del nichilismo e del postmoderno debole. Saggio sulla scientificità dell’opera letteraria 106. Ruggero D’Alessandro, La comunità possibile. La democrazia consiliare in Rosa Luxemburg e Hannah Arendt, 107. Tessari Alessandro (a cura di), Sindrome giapponese. La catastrofe nucleare da Chernobyl a Fukushima 108. Bonazzi Matteo, Carmagnola Fulvio, Il fantasma della libertà. Inconscio e politica al tempo di Berlusconi, 2011 109. Mario De Gaspari, La Bolla immobiliare. Le conseguenze economiche delle politiche urbane speculative, 2011 110. Bruni Sara Elena Anna, Colavero Paolo, Nettuno Antonio (a cura di), L’animale di gruppo. Etologia e psiconalisi di gruppo. Riflessioni gruppali da un seminario urbinate, 2011 111. Segreto Viviana, «Il padre di tutte le cose» Appunti per una pedagogia del conflitto, 2011 112. Alessandra Dino (a cura di), Poteri criminali e crisi della democrazia, 2011 113. Serena Marcenò, Biopolitica e sovranità. Concetti e pratiche di governo alle soglie della modernità 114. Cosimo Degli Atti, Soggetto e verità. Michel Foucault e l’Etica della cura di sé 115. Pascal Boniface, Verso la quarta guerra mondiale 116. Guido Dalla Casa, L’ecologia profonda. Lineamenti per una nuova visione del mondo 117. Il clown. Il meglio di Wikileaks sull’anomalia italiana, introduzione di Marco Marsili 118. Carlo Grassi, Sociologia della cultura tra critica e clinica. Battaile, Barthes, Lyotard 119. Friedrich Georg Jünger, Ernst Jünger, Guerra e guerrieri. Discorso 120. Emma Palese, Benvenuti a Gattaca. Corpo liquido, pedicopolitica, genetocrazia 121. Anna Simone (a cura di), Sessismo democratico. L’uso strumentale delle donne nel neo liberismo 122. Matthew Calarco, Zoografie. La questione dell’animale da Heidegger a Derrida 123. Luigi Vergallo, Economia reale ed economia sommersa nel riminese in prospettiva storica 124. Salvo Vaccaro (a cura di), L’onda araba. I documento delle rivolte 125. Valeria Nuzzo, L’immagine per il paesaggio e l’architettura. Percorsi didattici per la scuola 126. Félix Guattari, Una tomba per Edipo. Introduzione di Gilles Deleuze

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127. Raffaele Federici, Sociologie del segreto 128. Luca Taddio, Global revolution. Da Occupy Wall Street a una nuova democrazia 129. Enrique Dussel, Indignados 130. James Tobin, Tobin Tax 131. Jean-François Lyotard, Istruzioni pagane 132. Delfo Cecchi, Cibo, corpo, narrazione. Sondaggi estetici 133. Mario Giorgetti Fumel, Federico Chicchi (a cura di), Il tempo della precarietà Sofferenza soggettiva e disagio della postmodernità 134. Spartaco Pupo, Robert Nisbet e il conservatorismo sociale 135. Giuseppina Tumminelli, Strategie di ri-produzione. Aziende agricole e strutture familiari nella Sicilia centro-occidentale 136. Iris Gavazzi, Il vampiresco. Percorsi nel brutto 137. Ferruccio Capelli, Indignarsi è giusto 138. Enrico Manicardi, L’ultima era. Comparsa, decorso, effetti di quella patologia sociale ed ecologica chiamata civiltà 139. Manuele Bellini, Corpo e rivoluzione. Sulla filosofia di Luciano Parinetto 140. Giovan Battista Vaccaro, Le idee degli anni Sessanta 141. Milena Meo, Il corpo politico. Biopotere, generazione e produzione di soggettività femminili 142. Massimiliano Vaghi, L’idea dell’India nell’Europa moderna (secoli XVII-XX) 143. Gianluca Cuozzo, Mr. Steve Jobs. Sognatore di computer 144. Paolo Cuttitta, Lo spettacolo del confine. Lampedusa tra produzione e messa in scena della frontiera 145. Emiliano Bazzanella, Religio III. Logica e follia 146. Emma Palese, La filosofia politica di Zygmut Bauman. Individuo, società, potere, etica, religione nella liquidità del nostro tempo 147. Emma Palese, Mostri, draghi e vampiri. Dal meraviglioso totalizzante alla naturalizzazione delle differenze 148. Matteo Bonazzi, Lacan e le politiche dell’inconscio. Clinica dell’immaginario contemporaneo 149. Eleonora de Conciliis, Il potere della comparazione. Un gioco sociologico 150. L’apartheid in Palestina. Il rapporto Human Rights Watch sui territori arabi occupati da Israele 151. Fulvio Carmagnola, Clinamen. Lo spazio estetico nell’immaginario contemporaneo 152. Francesco Pullia, Al punto di arrivo comune. Per una critica della filosofia del mattatoio 153. Maurizio Soldini, Hume e la bioetica 154. Gianluca Cuozzo, Gioco d’azzardo. La società dello spreco e i suoi miti 155. Andrea Gilardoni, Distruzioni. Potere & Dominio I 156. Andrea Gilardoni, (Dis)obbedienza. Meccanismi, strategie, argomenti. Potere & Dominio II 157. Nicoletta Vallorani, Millennium London, Of Other Spaces and the Metropolis 158. Giuseppe Armocida, Gaetana S. Rigo (a cura di), Dove mi ammalavo. La geografia medica nel pensiero scientifico del XIX secolo 159. Salvo Torre, Dominio, natura, democrazia. Comunità umane e comunità ecologiche 160. Tindaro Bellinvia, Xenofobia, sicurezze, resistenza. L’ordine pubblico in una città “rossa” (il caso Pisa)

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161. Amalia Rossi, Lorenzo D’Angelo (a cura di), Antropologia, risorse naturali e conflitti ambientali 162. Augusto Illuminati, Teologia dei quattro elementi, Manifesto per un politeismo politico 163. Giovanni Leghissa, Neoliberalismo, Un’introduzione critica 164. Anna Sica, Alison Wilson, The Murray Edwards Duse Collection 165. Stefano Cardini (a cura di), Piazza Fontana. 43 anni dopo. Le verità di cui abbiamo bisogno 166. Isacco Turina, Chiesa e biopolitica. Il discorso cattolico su famiglia, sessualità e vita umana da Pio XI a Benedetto XVI 167. Felice Papparo, Perdere tempo 168. Ugo Maria Olivieri, Il dono della servitù. étienne de La Boétie tra Machiavelli e Montaigne 169. Giovanna D’Amia, Milano e Parigi. Sguardi incrociati. 170. Roberto Giambrone, Follia e disciplina. Lo spettacolo dell’isteria 171. Andrea Gilardoni, Potere potenziale 172. Laura Sanò, Donne e violenza 173. Marilena Parlati, Oltre il moderno. Orrori e tesori del lungo Ottocento inglese 174. Damiano Palano, La democrazia e il nemico 175. Andrea Rabbito, Il moderno e la crepa 176. Pierre Dalla Vigna, Estetica e ideologia 177. Paola Gandolfi, Rivolte in atto 178. Chiara Simonigh (a cura di) Pensare la complessità. Per un umanesimo planetario 179. Carmelo Buscema, L’epocalisse finanziaria. Rivelazioni (e rivoluzione) nel mondo digitalizzato 180. Lidia Lo schiavo, Governance Globale, Governamentalità, Democrazia 181. Alessandra Vicentini, Anglomanie settecentesche 182. Francesco Saverio Festa, Un’altra “teologia politica”? 183. Daniela Calabrò, L’ora meridiana. Il pensiero inoperoso di Jean-Luc Nancy tra ontologia, estetica e politica 184. Mimmo Pesare, Comunicare Lacan. Attualità del pensiero lacaniano per le scienze sociali 185. Riccardo Ciavolella, Antropologia politica e contemporaneità. Un’indagine critica sul potere presente 186. Carlo Calcagno, Impotenza. Storia di un’ossessione 187. Marta Sironi, Ridere dell’arte. L’arte moderna nella grafica satirica europea tra Otto e Novecento 188. Gianpaolo Di Costanzo, Assi mediani. Per una topografia sociale della provincia di Napoli 189. Terrence Des Pres, Il sopravvivente. Anatomia della vita nei campi di morte, a cura di Adelmina Albini e Stefanie Golisch 190. Francesca Nicoli, Giù le mani dalla modernità 191. Leonardo Vittorio Arena, La durata infinita del non suono 192. Anselm Jappe, Contro il denaro 193. Giovanni Comboni, Marco Frusca, Andrea Tornago (a cura di), L’abitare e lo scambio. Limiti, confini, passaggi, 194. Gianluca Cuozzo, Regno senza grazia. Oikos e natura nell’era della tecnica 195. Elisa Virgili, Ermafroditi

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196. Flavia Conte (a cura di), Conversazioni sul postmoderno. Letture critiche del nostro tempo 197. Alessandra MR D’Agostino, Sesso mutante. I transgender si raccontano 198. Gianfranco La Grassa, L’altra strada. Per uscire dall’impasse teorica 199. Paolo Mottana (a cura di), Spacco tutto! Violenza e educazione 200. Licia Michelangeli e Vittorio Ugo Vicari (a cura di), Mode società e cultura nella Sicilia del secolo d’oro 201. Roberto Bertoldo, Istinto e logica della mente. Una prospettiva oltre la fenomenologia 202. Giuseppe Raciti, Ho visto Jünger nel Caucaso. Jonathan Littell, Max Aue e Ernst Jünger 203. Furio Semerari (a cura di), Etica ed estetica del volto 204. Leonardo Grimoldi, Storia e utopia. Saggio sul pensiero di Ignazio Silone 205. Laura Bazzicalupo, Dispositivi e soggettivazione 206. Oscar Ricci, Celebrità 2.0. Sociologia delle star nell’epoca dei new media 207. Rosanna Castorina, Gabriele Roccheggiani, Paradossi della fragilità. Critica della normalizzazione sociale, tra neuroscienze e filosofia politica 208. Antonio Tursi, Non solo cyber. Frammenti di un discorso mediologico 209. Roberto Festa e Gustavo Cevolani, Giochi di società. Teoria dei giochi e metodo delle scienze sociali 210. Fiammetta Ricci e Giuseppe Sorgi (a cura di), Miti del potere. Potere senza miti. Simbolica e critica della politica tra modernità e postmodernità 211. Viola Carofalo, Un pensiero dannato. Frantz Fanon e la politica del riconoscimento 212. Gary Snyder, Nel mondo poroso. Saggi e interviste su Luogo, Mente e Wilderness, a cura di Giuseppe Moretti 213. Luisella Feroldi, Tutta la realtà che possiamo. Immaginazione e simbolo nelle marche e nei media 214. Giovanni De Zorzi, Con i dervisci. Otto incontri sul campo 215. Raffaele Ariano, Vittorio Azzoni, Michele Maglio (a cura di), Che cos’è un soggetto. Tra comune e singolare 216. Letizia Bianchi, Le mamme vengono prima. Il lavoro e gli affetti delle educatrici di nido 217. Luisa Muraro, Il lavoro della creatura piccola. Continuare il lavoro della madre 218. Massimiliano Fratter, Biglietto di andata. Autocoscienza maschile, a cura di Marco Deriu e Gabriele Galbiati 219. Anna Sica, La Drammatica metodo italiano. Trattati normativi, trattati teorici 220. Andrea De Benedittis, Iconografie dell’aldilà 221. Antonio Tucci (a cura di), Disaggregazioni. Forme e spazi di governance 222. Didier Alessio Contadini, Il compimento dell’umano. Saggio sul pensiero di Walter Benjamin 223. Didier Alessio Contadini, Scioccanti verità. La critica della modernità in Poe e Baudelaire 224. Delio Salottolo, Una vita radicalmente altra 225. Roberto Miraglia, Intenzionalità, regole, funzioni. I fondamenti delle scienze sociali in Searle 226. Pietro Piro, Nuovo Ordine Carnevale. Conferenze, saggi, recensioni, esercizi di memoria

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227. Cosetta Saba, Archivio, cinema, arte 228. Paolo Sensini, Divide et Impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente 229. Antonella Penati (a cura di), È il design una narrazione? Design e narrazioni 230. Antonella Penati (a cura di), Il design costruisce mondi. Design e narrazioni 231. Antonella Penati (a cura di), Il design vive di oggetti-discorso. Design e narrazioni 232. Fulvio Chimento, Arte italiana del terzo millennio. I protagonisti raccontano la scena artistica in Italia dei primi anni 2000 233. Emanuela Mancino, Farsi tramite. Tracce e intrighi delle relazioni eductive, con scritti di Emanuele Fusi, Benedetta Gambacorti, Federica Jorio, Stefano Landonio, Davide Rizzitelli e Chiara Nicole Zuffrano 234. Paolo Biscottini, Giovanni Ferrario, La radura dell’arte. Conversazioni sull’immagine 235. Andrea Pitto, Jung e Reich. Freud e i suoi discepoli. L’eresia, il misticismo, l’energia, il nazismo 236. Angelo Romeo, Socialmente Pericolosi. Le storie di vita dei giovani nei Quartieri Spagnoli di Napoli, Prefazione di Franco Ferrarotti 237. Gildo De Stefano, Una storia sociale del jazz. Dai canti della schiavitù al jazz liquido, Prefazione di Zygmunt Bauman 238. Fabio Vander, Posizione e movimento. Pensiero strategico e politico della Grande Guerra 239. Etienne Balibar, Vittorio Morfino, Il transindividuale. Soggetti, relazioni, mutamenti 240. Anna Simone (a cura di), Suicidi. Studio sulla condizione umana nella crisi 241. Migralab A. Sayad (a cura di), Giovani di origine straniera e discriminazione. Evidenze e note a margine di un’indagine sociologica svolta tra Milano e Messina 242. Matteo De Cesare, L’invincibile estate. Albert Camus 243. Rossella Fabbrichesi, Peirce e Wittgenstein: un incontro. Immagine, prassi, credenza 244. Giovambattista Vaccaro, Il tragico, l’etico, l’utopico. Studio sul giovane Lukács 245. Andrea Lorenzetti, Prigioniero dei nazisti libero sempre, Lettere da San Vittore e da Fossoli, marzo - luglio 1944 246. Ciro Tarantino e Alessandra M. Straniero, La bella e la bestia. Il tipo umano nell’antropologia liberale 247. Leonardo Caffo, Margini dell’umanità. Animalità e Ontologia Sociale. Disegni di Tiziana Pers 248. Oscar Horta, Una morale per tutti gli animali. Al di là dell’ecologia, A cura di Michela Pettorali, Introduzione di Leonardo Caffo 249. Paola Sobbrio, Alma Massaro, Giudizi divini, giudici terreni gli animali tra teologia e diritto, Introduzione di Leonardo Caffo 250. Antonio Moretti, Gilles Deleuze e l’ideologia del Sessantotto. Dialettica e differenza 251. Adriano Segatori, Teresa Tonchia (a cura di), Dal Leviatano la salvezza, Prefazione di Claudio Bonvecchio 252. Emidio Diodato, Il vincolo esterno. Le ragioni della debolezza italiana 253. Raewyn Connell e Laura Corradi, Il silenzio della terra. Sociologia postcoloniale, realtà aborigene e l’importanza del luogo

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254. Federico Zappino, Lorenzo Coccoli e Marco Tabacchini (a cura di), Genealogie del presente. Lessico politico per tempi interessanti 255. Franco Milanesi, Nel Novecento. Storia, teoria, politica nel pensiero di Mario Tronti 256. Ruggero D’Alessandro, Tre donne a Parigi. Simone De Beauvoir, Julia Kristeva, Michela Marzano. Studi sul pensiero femminile II 257. Marco Laudonio, Massimiliano Panarari (a cura di), Alfabeto Grillo. Dizionario critico ragionato del MoVimento 5 Stelle, da un’idea di Marco Laudonio 258. Cristina Carpinelli, Vittorio Gioiello (a cura di), Ripensare l’Europa dalle fondamenta

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Finito di stampare maggio 2014 da Digital Team - Fano (PU)

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