La genesi del retoromanzo (o ladino) [Reprint 2017 ed.]
 9783111329451, 9783484522381

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La genesi del retoromanzo (o ladino)
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BEIHEFTE ZUR ZEITSCHRIFT FÜR ROMANISCHE

PHILOLOGIE

BEGRÜNDET VON GUSTAV GRÖBER FORTGEFÜHRT VON WALTHER VON WARTBURG UND KURT BALDINGER HERAUSGEGEBEN VON MAX PFISTER

Band 238

GIOVAN BATTISTA PELLEGRINI

La genesi del retoromanzo (o ladino)

MAX NIEMEYER VERLAG TÜBINGEN 1991

Con il contributo del Centro di Studio per la Dialettologia Italiana del C.N.R.

CIP-Titelaufnahme der Deutschen Bibliothek Pellegrini, Giovan Battista: La genesi del retoromanzo (o ladino) / Giovan Battista Pellegrini. - Tübingen: Niemeyer, 1991 (Beihefte zur Zeitschrift für Romanische Philologie ; Bd. 238) NE: Zeitschrift für Romanische Philologie / Beihefte ISBN 3-484-52238-0

ISSN 0084-5396

© Max Niemeyer Verlag GmbH & Co. KG, Tübingen 1991 Das Werk einschließlich aller seiner Teile ist urheberrechtlich geschützt. Jede Verwertung außerhalb der engen Grenzen des Urheberrechtsgesetzes ist ohne Zustimmung des Verlages unzulässig und strafbar. Das gilt insbesondere für Vervielfältigungen, Übersetzungen, Mikroverfilmungen und die Einspeicherung und Verarbeitung in elektronischen Systemen. Printed in Germany. Satz und Druck: Guide-Druck, Tübingen Einband: Heinrich Koch, Tübingen

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La genesi del retoromanzo (o ladino)

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Note e commenti

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La genesi del retoromanzo (o ladino) *

1. Mi pare utile ripresentare una discussione o disamina sul retoromanzo (o ladino) inteso nel senso generale di un gruppo linguistico autonomo, di una lingua particolare in seno alla Romània, cioè una delle lingue romanze, come è di norma configurata in tutti, o quasi tutti, i numerosi manuali di linguistica romanza o relativi alle lingue del mondo. Ritengo di poter esprimere anche delle opinioni diverse da quelle ormai tradizionali, anche se, a dir vero, non sono ormai tanto rari dissensi o mancate adesioni alla tesi imperante, i quali, tuttavia, sembrano esser considerati, per lo più, episodi isolati. Essi non hanno menomamente influenzato l'esposizione che leggiamo in moltissime trattazioni. Anche i notevoli e profondi studi in materia, dovuti soprattutto a C. Salvioni e ancor più a C. Battisti, sono del tutto ignorati o giudicati con la massima superficialità e incompetenza. Debbo aggiungere che anch'io mi sono occupato ormai da 45 anni (forse troppi!) della problematica retoromanza e non starò qui a sottolineare - data la quasi irrilevanza dell'argomento - che sono di famiglia originaria di quelle regioni dolomitiche in cui si parlano tuttora dialetti i quali costituiscono, secondo la tradizione ascoliana, il «ladino centrale», anche se parzialmente periferici e che non hanno appartenuto all'Austria asburgica dopo il 1866. 2. Sono d'altro canto fermamente convinto che per trattare tutta una serie di problemi, ormai complessi, sono necessari alcuni requisiti che per lo più mancano, in parte o in tutto, a molti autori di articoli o di volumi, spesso in forma divulgativa o nella stampa locale, ma sovente anche agli specialisti di glottologia, di romanistica e di dialettologia, per non citare qui anche gli uomini politici (i quali assumono particolari posizioni per la «ragion di stato»; ma ritengo anche per la difficoltà di aggiornamento). Per discutere con obiettività scientifica di questioni ormai tanto ingarbugliate e presentate al grande pubblico secondo una unica direzione, bisogna possedere innanzi tutto conoscenze specifiche e sovente di notevole specializzazione dialettale, conoscere direttamente le vallate, i luoghi ove si parlano i discussi idiomi con una chiara cognizione anche sociolinguistica, non scindere - come ha fatto qualche valente glottologo - il problema linguistico da quello storico e protostorico, affrontare qualsiasi discussione senza un briciolo di passionalità, di idee preconcette o di idealizzazioni, assai comuni di questi tempi; ma soprattutto è necessario che chi tratta di codeste problematiche non sia distorto da interessi o mire politiche e patriottiche o da facili vantaggi. 1

Qualora lo studioso affronti ex novo le varie questioni che coinvolgono le nostre parlate, seguendo i presupposti qui sopra in breve indicati, si accorgerà ben presto che quanto egli aveva letto nei manuali o in varie trattazioni, non corrisponde esattamente ai risultati, ai frutti delle sue personali indagini. Cito soltanto un esempio di come è trattato il capitoletto dedicato al retoromanzo in un manuale di linguistica romanza, tradotto in italiano, opera di due illustri studiosi romeni: « . . . Durante la prima guerra mondiale l'imperialismo italiano si manifestò anche sul piano linguistico. Il filologo C. Salvioni pubblicò in pieno tempo di guerra (1917) un opuscolo Ladinia e Italia, in cui sostiene che le parlate retoromanze centrali e orientali [?] sono state, all'inizio, parlate italiane, ma col tempo, a causa dell'influenza tedesca, si sono lentamente allontanate dall'italiano e per questo le loro somiglianze con l'italiano sono divenute sempre meno numerose e minori. L'opinione di Salvioni ha attecchito tra gli Italiani, i quali, in genere, hanno abbandonato la teoria dell'Ascoli. A capo dei seguaci del nuovo punto di vista si trova C. Battisti, già professore all'Università di Firenze, il quale a partire dal 1921 [?] tentò, in una serie di studi (tra cui interi libri molto voluminosi [che pochi hanno letto, osservo io] di dimostrare (con argomenti storici, linguistici, ecc.) che i dialetti retoromanzi, in specie quelli centrali, sono italiani. Tutti i linguisti non italiani, tra cui autorità incontestate, come K. Jaberg e J. Jud, hanno confutato e confutano Battisti. Argomenti seri offre contro di lui, tra l'altro, il citato AIS, dal quale si ricava che l'influsso italiano cominciò ad esercitarsi sul retoromanzo solo nel Medio Evo [??], cioè tardi, dopo che questo era già f o r m a t o . . . » . E del Battisti si dice subito dopo: «Disgraziatamente gli manca l'obiettività, caratteristica obbligatoria per un lavoro scientifico e questo diminuisce di molto il valore dei suoi s t u d i . . . » . Quanto all'area del retoromanzo così si afferma: «il retoromanzo è parlato (e soprattutto fu parlato) nel territorio corrispondente alla provincia di Rezia dell'Impero romano . . . » . Non cito ulteriori affermazioni dato che quanto ho qui riportato dimostra la completa disinformazione e quasi una acrimonia verso lo studioso italiano, per lunghi anni attivo presso l'Università di Vienna, allievo di W. Meyer-Liibke; per controbattere le osservazioni superficiali ed ingiuste di I. Iordan (dato che è l'autore del capitolo), mi basti di rinviare a quanto scrivo qui sotto (v. Iordan/Manoliu 1974, 4 2 - 4 6 ) . 3. Discutere scientificamente e con sincerità di questioni storico-linguistiche attinenti il retoromanzo o ladino è assai poco piacevole poiché si finisce, anche involontariamente, per assumere atteggiamenti invisi ai politici, e per sposare tesi che si rivelano subito «contro corrente», per lo meno secondo l'opinione dei redattori di manuali i quali sono quasi gli unici a diffondere una communis opinio; in questa sede non possiamo infatti tenere in considerazione le opinioni di dilettanti, di giornalisti, più o meno famosi, e nemmeno di autorità politiche. Non v'ha dubbio - ed è facile dimostrarlo - che i linguisti che hanno scritto o che scrivono di argomenti retoromanzi, soprattutto in riferimento alla genesi, specie per quanto riguarda la lingua o un «gruppo linguistico autonomo dal 2

cisalpino», si ispirano e si fondano (anche esagerando) sulle opinioni di Th. Gartner (1848-1925), il quale ha consolidato, in sede accademica, la teoria degli stretti rapporti tra «ladino» e la provincia della Raetia prima, e soprattutto poi, la congettura dell'origine «retica» delle parlate ladine. Tranne qualche dissenso a tali teorie - piuttosto marginale e non approfondito - , si può dire che l'opinione generale dei pochi glottologi che si sono occupati, anche per inciso, del retoromanzo e delle sue origini, non trascura di accordare un credito, più o meno totale, alla teoria «retica». Essa è tuttavia propagandata non soltanto da qualche scritto di specialisti, ma soprattutto è generale tra gli amateurs, tra la massima parte degli abitanti delle valli dolomitiche atesine i quali, in varie occasioni, esibiscono la patente di una certa «nobiltà retica». Come vedremo qui sotto, si tratta di un indirizzo di ricerca e di una consuetudine interpretativa ormai secolare che, pur qua e là modificata, continua ad essere invocata anche dagli enti televisivi e radiofonici dello Stato italiano, e va detto: con la massima serietà! A prescindere dai Saggi ladini dell'Ascoli (1873) - che debbono essere realmente studiati ed interpretati diversamente da quanto si legge in vari e affrettati giudizi - si può affermare tranquillamente che nei pochi dibattiti sul nostro particolare gruppo linguistico, considerato unitario nelle sue caratteristiche dialettologiche, è sostanzialmente prevalsa la tesi gartneriana e tiroleseaustriaca: una tesi che è ora quasi sempre condivisa anche dagli Italiani (specie in sede politica), mentre alcuni validissimi studiosi stranieri si sono accorti dei fondamenti labilissimi e ingiustificati del «retoromanzo». Dopo questa breve premessa, mi sembra doveroso di ritornare alle origini e di discutere nuovamente, sia pure in breve e con molti rinvìi bibliografici (mi scuso subito se sono spesso costretto ad autocitarmi!), come è nata la cosiddetta «questione ladina» in sede linguistica; come essa si è sviluppata dapprima con discussioni tenutesi in una fase prescientifica, per poi approdare alle formulazioni dello Schneller, soprattutto di Ascoli, di Gartner ecc., fondate su argomentazioni linguistiche, anche se esse debbono essere, assai spesso, totalmente ridiscusse. 4. E ' merito di J. Kramer (1978) di averci fornito delle notizie precise sulla figura e sull'opera, nella massima parte manoscritta, di S. P. Bartolomei, avvocato perginese (1709—1763), il quale, per primo si occupò del ladino dolomitico ed in particolare del badiotto di cui egli ci fornì, mediante il Catalogus - riedito con acume e scrupolo filologico proprio dal Kramer 1976 - un vocabolarietto di oltre 2500 termini con la traduzione in latino. Il Bartolomei è definito dal Kramer «un uomo di altissima cultura che s'interessava particolarmente della storia del suo paese nativo e della sua lingua». Come i suoi contemporanei, il B. rientra nella schiera di studiosi propugnatori della teoria etrusca, ritenendo che gli Etruschi avessero avuto un ruolo fondamentale nella costituzione dei dialetti italiani settentrionali, dato che i Reti erano degli Etruschi ed i «Ladini» abitavano nelle aree settentrionali che furono già popolate da tali schiatte prelatine, per 3

cui essi sarebbero degli «Etruschi romanizzati». Non è sfuggito al Kramer (1978, 134) - autentico e valido specialista delle varie problematiche ladine - che le speculazioni prescientifiche, storico-linguistiche, del Bartolomei, non rare per l'epoca sua, si continuano tuttora quasi identiche - dopo oltre due secoli di attente esplorazioni, sia pure condotte da un numero esiguo di scienziati ! - nella pubblicistica divulgativa locale di lingua tedesca (ma anche italiana!), ove «le sciocchezze di Bartolomei vengono continuamente ripetute». Si può anzi affermare, ora che disponiamo anche di una parziale traduzione delle sue opere più pertinenti per l'origine dei Ladini, che vari storici, scrittori e curiosi di antichità, anche linguistiche, austriaci del primo '800, hanno attinto e si sono ispirati sicuramente all'opera del Perginese. Di qui le opinioni del Bartolomei si sono diffuse nella cerchia dei cultori di memorie alto-atesine dando alla «questione ladina» una impostazione tradizionale con l'aggregazione del romancio grigionese e offrendo materia di speculazione linguistica e di sistemazione dialettologica addirittura al nostro Ascoli e ad altri studiosi che lo hanno seguito. Anche dalla descrizione dell'area romanza, motivo di riflessione storica e linguistica per il Bartolomei, si può facilmente constatare come la situazione della confinante «Venetia» e del Cadore è regolarmente ignorata: una tradizione che si continua assai spesso sino ai nostri giorni. I confini politici e culturali sono sempre prevalenti fin dall'opera del nostro pioniere. 5. Sulla preistoria e storia delle ricerche linguistiche relative al «retoromanzo» risulta sempre importante e bene informato il nutrito panorama del Decurtins (1964). La ricca rassegna di tale studioso mi esenta, in buona parte, dal ripetere qui varie notizie, specie sulle strane speculazioni della fase prescientifica, ed in particolare per le parlate grigionesi (poi ladine occidentali). Una bibliografia ragionata dei primi scritti nell'ambito dei precursori del retoromanzo è riunita anche nei lavori del Gärtner (specie 1879 e 1883). Per l'area centrale e occidentale può essere interessante riportare il parere dello storico tirolese J. v. Hormayr (1806, 124-127 e 138-139) ove si accenna alla lingua retica («der hetruskischen denkwürdiges Ueberbleibsel») sulla quale ha scritto un'opera molto interessante il Pianta. «Le schiatte della antica Rezia, di lingua retica, avrebbero conservato immutata la loro parlata per un millennio, separate dal resto del mondo da pareti rocciose e ghiacciai...». «La lingua retica si suddivide nei dialetti principali, in romanci e ladini, parlati quelli nella regione del Reno e questi alle sorgenti dell'Inn»; si continua poi con la sottodivisione dialettale e si sottolinea (giustamente) come il ladino (engadinese) assomigli di più all'italiano, mentre del romancio (sursilvano) si dice - e qui l'A. riprende la vecchia teoria etnisca - «Dieser surselvische Dialekt der romanischen Sprache ist allem Vermuten nach der reinste und ächteste, der treuste Rest der hetruskischen Sprache ...». E seguono poi analoghe fantasie distorte tra le quali (p. 141) la notizia che il Bartolomei di Pergine (v. sopra) avrebbe ricevuto dalla celebre Accademia etrusca di Cortona (AR) la spiegazione di termini gardenesi interpretati con l'altetruskisch (etrusco), il siriaco, l'ebraico e, ciò che è facilmente comprensibi4

le, col greco. Le opinioni di Hormayr ricordano assai da vicino quelle di Padre Piaci à Spescha (v. Decurtins 1964,272-273, ed ivi indicazioni bibliografiche) il quale nella rivista «Isis» del 1805 affermava che «das Surselvische sei der reinste und echteste romanische Dialekt, das authentischste Relikt der etruskischen Sprache». A tale affermazione il conventuale faceva seguire una serie di osservazioni assolutamente personali e impressionistiche sull'«antiquissm lungaig de l'aulta Rhaetsia» ed una esaltazione patriottica sui documenti retoromanzi (in realtà nella massima parte inesistenti), conservati dal Monastero di Disentis prima dell'incendio dovuto ai Francesi. 6. Assai meno dilettantesche sono invece alcune notizie di Cari Ludwig Fernow (1808, 224—25), ove si riporta un salmo tradotto in engadinese e si accenna alla «Rhätische oder Romanische Sprache» che si suddivide in due dialetti principali, il romane e il ladin considerati «die uralte Sprache von Hohen Rhätien...» (si cita poi Hormayr). Ed il Fernow ha inoltre qualche cenno (252—3) anche al friulano: »Die Furlanische Sprache ist eigentlich nicht zu den Mundarten des Italienischen zu rechnen, sondern sie ist, wie die Rhätische, deren wir bereits oben erwähnt haben, ein Trümmer des grossen Romanischen Vereins der sämtlichen lateinischen Tochtersprachen im frühen Mittelalter, obgleich sie sich nicht völlig rein, wie jene von Einflüssen der italienischen Sprache erhalten hat»; sono queste considerazioni che sembrano preannunciare lo sviluppo seguente delle ipotesi in direzione della stretta affinità (sia pure presunta) tra i tronconi del «retoromanzo» che il Fernow cerca anche di documentare mediante la traduzione di alcuni versetti della Bibbia in sursilvano, in engadinese e in friulano. Più avanti (429 -432) il medesimo Autore accenna agli abitanti della Val di Fassa, Livinallongo, Enneberg (Marebbe) e Abtei (Badia) che parlano «ein nur durch Aussprache und Biegung unterschiedenes verdorbenes Italienisch» ed a questi è collegata la Gardena/Gröden (nach deutscher Aussprache); egli cita poi un breve campionario di parole di tale dialetto con tentativi etimologici. Un cenno più esplicito alle varietà del retoromanzo si trova nel Prospetto nominativo di tutte le lingue ... opera del Cav. F. Adelung (Tradotta e corredata da una nota sui dialetti italiani Milano 1824), ove il traduttore, Fr. Cherubini, lessicografo dialettale ben noto, espone (pp. 112-116) la sua classificazione e al III), sotto il «Veneziano», nomina: Padovano, Vicentino, Veronese, Bellunese, Feltrino, Cadorino e Trevigiano e al IV), Friulano, Goriziano, Udinese, Val di Fassa, Livinallongo ed in nota osserva: «Anche nel Triestino (Illiria) si parla un dialetto italiano che trae al friulano». Alle pp. 59—60 si elencano le «Lingue figlie del latino» e cioè A) Friulano con i dialetti della valle di Fassa, di Livinallongo, di Enneberg e di Badia (Vescovado di Bressanone), e sotto il capitoletto E) Romanzo o Retico, si elencano: Grigioni superiori, Rumonsch, Romanzo, nella pianura: Surselven (Ober-Wäldner), Ladinico dell'Oberland, dell'Alta Engadina, della Bassa Engadina, della Gardena (Valle Groden).

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7. Ma il primo contributo, abbastanza ampio, con il fine principale della comparazione dialettale di alcune parlate che diventeranno poi il «retoromanzo», è dovuto, come si sa, a J. Th. Haller (1832). In precedenza aveva accennato - sulla scia dello Spescha - ai rapporti linguistici tra gardenese e grigionese J. Steiner, originario di Castelrotto (ora paese interamente tedesco, presso Ortisei) in due scritti del 1807 e del 1832, v. Decurtins (1964, 279). Lo Haller ha riunito una buona messe di frasi, di parole e di testi distribuiti su quattro colonne che si riferiscono al «Romanisch in Graubünden (romaunc)», al «Ladinisch in Enneberg» e al «Ladinisch in Groden». Tra i testi figura il Pater noster che è tradotto anche nelle varietà del Livinallongo, di Fassa (e non vi manca il friulano), la solita «Parabola del Figliol Prodigo» e della «Adultera» (Ehebrecherin); segue una conclusione in cui si considerano - secondo le cognizioni del tempo - i rapporti dei dialetti colti tra di loro e non le «lebenden lateinischen Tochtersprachen». Nel saggio di Haller è interessante (135) l'introduzione, sia pure ancora limitata nella comparazione, del friulano, ed è un esempio piuttosto isolato nella letteratura tedesca sul retoromanzo che ivi si accenni al cadorino, v. Haller 1832, 135: «Wie sich das Ampezzanische dem benachbarten Cadorinischen, so nährt sich dieses dem Furlan (Friaulischen)»; ciò che in parte è vero (specie per il lato storico) e tale particolare creerà poi, in parte, l'equivoco di una reale e precisa continuità tra il friulano-cadorino e i dialetti ladini atesini. 8. Molte informazioni sulla preistoria del ladino dolomitico atesino (preistoria bibliografica) fornisce anche L. Craffonara (1977, specie 73—75) ove si accenna anche al gaderano don Micurà de Rü (= Nicolaus Bacher) che scrisse nel 1833 una grammatica rimasta manoscritta e che avrebbe dovuto riflettere una specie di koiné ladina per le valli del Sella e Cortina d'Ampezzo, cioè un Versuch einer Deutsch-Ladinischen Sprachlehre, ove si accenna anche alla varietà dei dialetti ladini tra i quali i principali sono il marebbano, il badiotto e il gardenese, connessi «der ultramontaner Dialekten» che, con poche varianti corrispondono alla regione di Fassa, Livinallongo e Ampezzo e «queste varietà trovano corrispondenza con la maggior parte della regione grigionese, specie con l'Engadina e, secondo l'Autore: «un ladino tirolese e uno grigionese non troverebbero grande difficoltà a farsi intendere» (ciò che non corrisponde del tutto alla verità; ma il sacerdote non avrà mai avuto l'occasione di parlare con un lastesano, con un rocchesano ecc. che realmente avrebbero compreso il suo eloquio?). Penso che l'opera del religioso badiotto (che visse a lungo a Milano) non sia mai stata pubblicata poiché certamente rifletterà le interpretazioni prescientifiche dei dialetti, come pare ovvio. Altro autore citato dal Craffonara è M. Declara (1815-1884) di San Cassiano di Badia, il quale distingue per il gaderano, tra ladìn e badiòt, come avviene ancor ora a livello popolare e come era stato riconosciuto anche dal Gärtner (1883, XX) e dal Battisti (1941,13). Non capisco inoltre come siano pertinenti le citazioni di toponimi quali Nova Latina o Ladina o del passo di Ladina (sic) per confortare la presenza di un antichissimo etnico ladino (?), quando tali designazioni stanno ad indicare e a contrapporsi alla 6

vicina Nova germanica o tedesca. Dovremmo allora ridiscutere ancora sul significato originario di «ladino», sul quale si è tanto scritto e v. ora Belardi (1990,359) a proposito di lain da ladin < latinus che nel milanese antico indica evidentemente il cisalpino italiano. 9. Una particolare citazione deve essere riservata al lavoro di J. Ch. Mitterrutzner (1856). L'A. dimostra una qualche cultura linguistica e informazione sulle lingue neolatine. Egli cita infatti subito i desiderata espressigli da Fr. Diez a proposito dei dialetti ladini che il grande romanista non conosceva se non in misura minima e di cui desiderava di poter disporre di una grammatica. Il M. si sofferma ad esaminare le sue fonti dalle quali trae i materiali per una presentazione fonetica dei dialetti e la sua descrizione risente in parte di comuni pregiudizi, con le lettere che precedono i suoni; ma vi si trovano anche osservazioni pertinenti di ortografia e non vi mancano numerose indicazioni etimologiche. Seguono dei brevi testi tradotti dall'italiano in vari dialetti: marebbano, badiotto, gardenese, ampezzano, livinallese (buchensteinisch), che viene definito anche Fodom: secondo le mie informazioni la prima attestazione, e v. l'interpretazione in Pellegrini 1986 c, nònese, solandro, e - ciò che più stupisce - anche bergamasco e parmigiano. L'inserimento nella lista di questi ultimi dialetti fa pensare che il M. avesse una visuale dialettologica assai più ampia dei suoi predecessori, che si sono sempre limitati a discutere di dialetti «retici». Chiude l'articolo una serie di brevissimi versi in badiotto e una ristretta lista di parole (non localizzate) con la traduzione in tedesco. Tra le fonti inedite il M. cita a volte la grammatica ladina del Bacher e riporta anzi il giudizio di codesto sacerdote sull'origine della ladinische Sprache. Merita che esso sia qui riferito. Si apprende che il Bacher riteneva che «die ladinische Sprache für dieselbe, die weiland der tuskische Heerführer Rhätus und seine Mannen (500—600 vor Christus) gesprochen, und für Ueberbleibsel des ehrwürdigen Altertums, welches die Vorsehung so viele Jahrhunderte bei allen Stürmen und Revolutionen der Zeit und Weltbegebenheiten in jenen Bergschluchten, wie ein verhülltes Heiligthum der Vorzeit fast in seiner ganzen Originalität aufbewahrt hat» (vedi Vorrede VII e IX); e l'Autore continua poi con altrettante banalità circa la fonetica della lingua ladina dimostrando una completa ignoranza delle altre lingue romanze e dell'etimologia. E ' evidente che il sacerdote ha orecchiato qui un noto passo di Plinio (3.133). A me sembra per lo meno curioso come a codesto «studioso» sia stato dedicato un «Istituto per gli studi ladini» nella Val Badia; è comunque probabile che a livello popolare anche le frottole del Bacher abbiano avuto dei sostenitori. 10. Un certo ruolo nello studio prescientifico del retoromanzo ha avuto anche Ludwig Steub (1812—1888), più noto forse per i suoi studi di toponomastica tirolese e per le sue originarie interpretazioni etrusche alle quali il medesimo A. ha successivamente rinunciato. E ' ancora merito di J. Kramer (1983) aver ripresentato la figura dello studioso bavarese anche per il suo interesse per gli 7

studi sul romanzo alpino. La sua opera, spesso citata, Über die Urbewohner Rhätiens und ihren Zusammenhang mit den Etruskern (1843) va in realtà integrata con tanti altri scritti con i quali egli perfeziona e corregge le sue precedenti ipotesi etimologiche riconoscendo che una buona parte di toponimi che egli riportava all'etrusco, senza alcun dubbio erano di origine romana o romanza (v. Steub 1854); egli sa darci una stratificazione corretta della toponomastica delle aree tirolesi-tedesche meridionali. Dovendo discutere delle affinità del ladino (egli critica le interpretazioni dello Hormayr), lo Steub osserva che tra tedesco e italiano «die Verwandtschaft mit letzterem beim ersten Blick in die Augen springt». L'A. sostiene che tra gardenese e marebbano da un lato e italiano dall'altro si è determinata una differenziazione che è dovuta alla mancanza di rapporti politici: «infolge der geographischen Hindernisse» (ma, a dir vero, i confini politici sono dovuti ad altre ragioni). Egli accenna poi al tedesco che è divenuto, naturalmente, la «Überdachungssprache» del ladino, pur appartenendo ad altra famiglia linguistica, mentre il ladino ha molti fenomeni caratterizzanti in comune con l'italiano settentrionale e giustamente lo Steub sottolinea che il confronto del ladino con la lingua italiana scritta non è pertinente. Riconosce inoltre che per i Gardenesi la conoscenza del tedesco è indispensabile per ragioni politiche o pratiche, ma la struttura di tale dialetto abbisognerebbe di una lingua tetto che non può essere che l'italiano. Lo Steub inoltre entra persino in dettagli nella ripartizione dialettale del badiotto-marebbano confermati di recente dai minuti studi di H. Kuen. I Ladini sarebbero dei Reti romanizzati, ma della lingua prelatina nei dialetti romanzi sarebbero state conservate poche parole [è difficile indicare quali esse siano!]; il ladino, analogamente ai dialetti italiani settentrionali, assomiglia parzialmente al francese. I lavori dello Steub trovarono una scarsa considerazione nelTirolo, conosciuti per lo più solo nel titolo e non nel contenuto. In realtà - come riconosce J. Kramer (1983, 291) - egli occupa una posizione considerevole nella storia delle ricerche sul retoromanzo: «Hätte Steub mehr und Gärtner weniger Echo gefunden, wäre der Wissenschaft ein langer, im Grunde sinnloser Streit um die Eigensprachlichkeit des Ladinischen erspart geblieben». 11. In generale si può affermare, con ampie prove, che la ricerca sul retoromanzo è nata e si è sviluppata quasi unicamente in ambiente svizzero tedesco e austriaco. Ben pochi studiosi dell'epoca - di cui abbiamo citato solo alcuni nomi - si sono preoccupati di constatare quali erano le condizioni dialettologiche della Cisalpina o semplicemente delle vallate, storicamente e culturalmente italiane, a stretto contatto con quelle tirolesi, mentre qualche ricercatore ha riconosciuto, in forma assai approssimativa, alcuni legami con i dialetti friulani (e Haller anche cadorini). Dominante è il concetto, in un primo tempo, che tali dialetti siano reto-etruschi, cui segue la constatazione che essi sono neolatini, ma con una mistione con la lingua del sostrato considerata unica, sempre il «reto-etrusco», teoria che trova il suo punto di partenza nella provincia Raetia ed in varie fantasie create da appassionati locali circa l'antichissimo popolo dei Reti (a livello

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popolare sono tuttora opinioni correnti tra gli abitanti delle nostre valli alpine). Pur ritrovando in codeste fasi preparatorie degli studi storico-linguistici qualche raro spunto di verità, bisogna riconoscere che i problemi sono ancora trattati secondo visioni dilettantesche che non procedono da una disciplina scientifica, la quale ha inizio con l'insegnamento, in Germania, di Fr. Diez (in Italia soprattutto con l'Ascoli). Solo con la conoscenza degli studi grammaticali ed etimologici del Diez si sviluppa la linguistica neolatina e si può affermare che anche il retoromanzo è soggetto ad una valutazione scientifica soltanto a partire dalle indagini del Diez, per lo meno come metodo di ricerca. 12. Ma F. Diez, che ci procura la prima grande grammatica storica delle lingue neolatine e il primo dizionario etimologico romanzo (che non deve essere del tutto ignorato anche oggigiorno), si disinteressò, quasi del tutto, del retoromanzo, denominato «Churwälsch», varietà neolatina ch'egli non include tra le lingue romanze e che esclude dalle «Kultursprachen». Raramente nelle sue discussioni egli fa ricorso a citazioni delle nostre parlate. Il «Retico» sarebbe zeppo di elementi stranieri e non avrebbe sufficiente originalità ed indipendenza per essere messo sullo stesso piano delle sue sei lingue ben note. Nell'Ei. Wb. p. XII (cito dalla quinta edizione, Bonn 1887) riconosce tuttavia l'importanza dei dialetti e del «neolatino di Coirà» e d'altro canto egli riporta materiali dialettali comaschi tratti dal noto dizionario di Pietro Monti (zeppo di false etimologie celtiche). Per ritrovare una formulazione più precisa delle parlate retoromanze, presentate da uno specialista di dialettologia trentina, ormai in una fase scientifica degli studi, dobbiamo risalire al 1870, quando Chr. Schneller (1831—1908) si occuperà del nostro gruppo dialettale nel volumetto Die romanischen Volksmundarten in Südtirol. Lo Schneller comincia ad opporre a «Die italienischen Mundarten» il gruppo definito «Die ladinische Mundart» e cioè: «einen eigenen friaulisch-ladinisch-churwälschen Kreis als selbständiges, wenn auch nie einer Schriftsprache vor uns». Egli tenta poi di darne una descrizione fonetica (1870, 19—101) che non sta di certo a dimostrare l'unità delle parlate considerate; l'A. non elenca alcun tratto linguistico che servirebbe a identificare la nuova «lingua». I dialetti ladini per lo Schneller sono il fassano, gardenese, livinallese, marebbano, badiotto, ampezzano, ma in parte anche il fiammazzo (specie la zona di Predazzo) e più sotto egli cita il nònese e il solandro. Come si vede, anche lo Schneller non ha la nozione precisa sui confinanti dialetti dell'area bellunese e cadorina. Quanto all'origine del «gruppo linguistico» citato si rifà alla lingua volgare latina: «ob dieselbe die früher in Rhätien herrschenden Idiome als fremde verdrängt oder als verwandte nach sich umgebildet habe, ist eine müssige Frage, da sie vorläufig noch in keinem Sinne zu beantworten ist...». 13. Per disporre però di una ampia descrizione e caratterizzazione del gruppo dialettale retoromanzo o ladino bisognerà attendere pochi anni con la pubblicazione dei Saggi ladini del goriziano G. I. Ascoli, con i quali si inaugura il 9

glorioso «Archivio glottologico italiano» 1 (1873). L'Ascoli che dette prova assai precisa delle sue alte capacità di studioso, è stato indubbiamente il massimo glottologo italiano ed una delle personalità europee di grande spicco nel secolo passato, iniziatore della scienza linguistica in Italia e il primo autentico dialettologo neolatino. Codesta opera ha contribuito spesso in modo determinante - anche se, nel complesso, poco letta e meditata - a diffondere in sede scientifica l'ipotesi di una particolare e vasta area di «idiomi romanzi stretti tra di loro per vincoli di affinità peculiare, la quale, seguendo la curva delle Alpi, va dalle sorgenti del Reno anteriore in sino al mare adriatico», Ascoli (1873, 1); oppure v. la conclusione del volume (535) : «vedemmo come la zona si attorcigli variamente alla catena delle Alpi e poi cali in larga falda all'Adriatico...». L'opera dell'Ascoli risulta in realtà assai incompleta, almeno secondo il piano che l'Autore aveva fissato all'inizio (1—3) ove si prevedevano «sette capi» di cui il pur amplissimo volume pubblicato di «spogli fonetici» rappresentava il primo. In verità l'A. avrebbe dovuto sopportare una eccessiva (e forse impossibile) fatica, per i suoi tempi, ad illustrare il lessico dell' ampia zona investigata, nelle convergenze e più spesso nelle varietà, un settore della lingua che è ora ampiamente valorizzato da qualsiasi classificazione linguistica. Solo dopo più di un secolo di ricerche dalla pubblicazione dei Saggi ladini possiamo disporre a sufficienza di materiali lessicali che ci permettono di integrare, ma spesso anche di poter contrastare alcune deduzioni affrettate del grande Maestro. Il volume dell'Ascoli è nato dalle «Esercitazioni romanze» che egli diresse a Milano nell'anno accademico 1868-69 per i suoi alunni «col desiderio di avere un modulo ad uso della scuola». Ma tale modulo venne enormemente allargandosi ed egli concepì la sua opera fondandosi non tanto su inchieste personali, quanto sulle informazioni che gli erano trasmesse da eccellenti conoscitori dei dialetti e da studiosi locali spesso di notevole cultura per cui egli poteva realmente sottolineare «l'abbondanza e la sicurezza dei fonti» (spesso costituita da testi dialettali pubblicati od inediti). 14. Con l'Ascoli si nota innanzi tutto un profondo mutamento nella direzione della ricerca. Accanto infatti alle aree grigionesi, ladine atesine e friulane, ove gli idiomi romanzi originari sono meglio conservati (e che ora sarebbero i soli «retoromanzi»), l'Autore si cimenta in una esplorazione amplissima, e non certo superficiale, di tante regioni a Sud, denominate anfizone, ove egli rintraccia abbondanti vestigia della ladinità originaria. Così accanto allo studio del ladino grigionese, figura esplorato anche il lombardo alpino o ladino-lombardo, il ladino-veneto seguito dal veneto-ladino ecc. Sembrerebbe che egli concepisse la Cisalpina con il Veneto e Venezia come un tempo di lingua ladina e con tracce qua e là emergenti dell'antico eloquio, sopraffatto da innovazioni provenienti da altri idiomi. Ma a volte le sue dichiarazioni, esposte nella breve sezione introduttiva e in quella finale, mi risultano non sufficientemente chiare; v. a p. 2: « . . . le divergenze tra le singole varietà ladine non sono di poco momento pur nelle fasi 10

genuine che a noi sia dato esaminare. Ma alle differenze ingenite, e ai naturali sviluppi di esse, ormai si aggiunge, a rendere tra di loro vie più disformi, le condizioni dei varj dialetti ladini, la diversità o qualità di alterazioni che per l'influsso di estranee favelle essi hanno patito, nella sintassi, nel lessico, nella tempra f o n e t i c a . . . . . . . «in altri gruppi avremo delle varietà che si possono dire sull'ultimo stadio di quelle metamorfosi per cui da favella ladina passiamo in altra favella r o m a n z a . . . » . . . «e non è sempre facile discernere da quella comunanza od affinità di fenomeni che derivi da attiguità genetica anziché da riversamenti di età posteriore . . . » . Ma è soprattutto nella conclusione del volume che l'Ascoli risulta - almeno a me - particolarmente enigmatico (v. 1873, 536), ove l'Autore, dopo aver sottolineato una speciale e cospicua fase di connessione ladino-lombarda (e già prima, ladino-veneta con riferimento ad es. alla Val Fiorentina e al Cadore centrale prov. di Belluno) prosegue: «Ma conveniva sempre scernere, con la maggior cautela, fra l'elemento ladino vero e proprio e quella originale comunanza o affinità di fenomeni, onde si vengono a determinare le attinenze speciali, che rannodino il lombardo e il ladino, dall'una parte e il veneto dall'altra. La considerazione delle quali attinenze, o la loro scoverta veniva insieme a spargere singoiar luce sulle ragioni idiomatiche delle antiche letterature dialettali dell'Italia superiore». In tali affermazioni ciò che non si capisce, dato che la definizione non è affatto chiarita, consiste nel significato attribuito dall'Ascoli all'«elemento ladino vero e proprio», dato che egli, con la sua definizione, non intendeva di certo alludere all'elemento tedesco (?!). Non si nota infatti alcun fenomeno definito «ladino» che non trovi riscontro, specie in epoca antica, anche nelle anfizone; basti vedere i parametri fonetici ladini elencati nei suoi Saggi a p. 337 (e v. qui avanti il commento). Assai curiosa è inoltre l'ulteriore affermazione: «Lo studio del nesso ladino-veneto dal suo canto, come ci avviava alla dimostrazione di quel moderno movimento della gente ladina, al quale per buona parte si deve la robusta gloria di V e n e z i a . . . » . Il pensiero dell'Ascoli è stato riassunto, ad es., da G. Bertoni 1916, 106—113, e rileggendo le sue pagine si può riportare l'impressione che «ladino» e «veneto» (dell'Ascoli) alludano a due genti diverse e che la prima, in certa misura, dominasse in un primo tempo nelle ampie plaghe venete e soprattutto a Venezia, specie in epoca medievale. Sembra veramente che con veneto e ladino si alluda a due entità etniche (?) separate e che la prima abbia col tempo soffocato ed in parte annullato gli originari caratteri ladini della massima parte della regione. E ' ovvio invece che non sono le genti ladine e venete a compiere degli spostamenti o delle invasioni, ma sono soltanto le isoglosse che si allargano o si restringono, collegate con la storia, con spinte culturali ed in generale col prestigio (dovuto a vari fattori). Anche la facies linguistica dell'Italia nord-orientale (come vediamo qui sotto) era ben diversa da quella attuale verso il 1000/1100 e agli inizi della Scripta veneta. Con l'allargamento delle ricerche alle cosiddette anfizone meridionali, i Saggi ladini costituiscono non soltanto una illustrazione dialettologica dell'area alpina, oltre che friulana (ed il friulano è trattato dall'A. assai concisamente), ma anche un primo manuale, assai informato per l'epoca sua, di dialet11

tologia italiana settentrionale. E' infine da notare che l'Ascoli non ha approfondito - se non con vaghi cenni - il problema storico del ladino che per noi risulta strettamente collegato con le risultanze dialettologiche. Delle origini e genesi del gruppo dialettale suddetto si è invece occupato, in più riprese, con risultati che ancor oggi sono ritenuti validi (soprattutto da parte dei dilettanti), Th. Gartner. 15. Non si dovrà dimenticare quale posizione assegni al ladino il medesimo Ascoli nella sua classificazione dei dialetti italiani in un contributo redatto per VEncyclopaedia Britannica di Edimburgo nel 1880 ed edito anche nell'AGI (1883, 98—128). Nella sua suddivisione fondata su quattro sezioni a seconda dei sistemi più o meno vicini alla lingua nazionale, l'A. colloca i dialetti ladini tra quelli, A), che «dipendono, in maggiore o minore parte, da sistemi neolatini non peculiari all'Italia» ed ivi egli inserisce anche i dialetti «franco-provenzali» (isolati dal medesimo A.). L'affermazione dell'Ascoli è stata poi contestata, punto per punto, dal Battisti 1929. Per la sezione del ladino centrale si riportano esempi dal bacino del Noce (dial. di Fondo) o di Val di Rumo; segue una breve esemplificazione per il bacino dell'Avisio (Val di Fassa). Del bacino del Cordevole si dice: «vi è politicamente austriaca la sezione del Livinal-Iungo (Buchenstein) ed italiana quella di Rocca d'Agordo e Laste». Per il bacino del Boite : «vi è politicamente austriaca la sezione di Ampezzo (Heiden) e italiana quella dell'Oltrechiusa» e successivamente si accenna all'Alto Piave, al Comèlico. 16. Spetta a Th. Gartner, viennese, che dedicò varie opere al nostro «gruppo di idiomi», la codificazione e la diffusione del termine «retoromanzo» e un tentativo di giustificazione non soltanto sul piano linguistico, ma anche relativo ad una interpretazione della «lingua» dal punto di vista storico ed etnico. Si può tranquillamente affermare che quanto si conosce sul retoromanzo o ladino, anche in sede glottologica, attraverso i noti manuali, è fondato assai più sull'insegnamento e sulle ipotesi del Gartner anche rispetto ai Saggi ladini dell'Ascoli, opera scritta in italiano e di difficile comprensione e lettura. Lo studioso austriaco, che rappresenta il principale vessillo scientifico della teoria allo-italoromanza e del suo sistema autonomo, unitario, contrapposto, in certo senso, anche al «cisalpino», è stato recentemente rievocato nella sua ampia attività, anche di balcanologo, in un Convegno del 1986 tenutosi a Vill/Innsbruck. Col Gartner - a differenza dell'Ascoli - si dà inizio alle inchieste dialettologiche sul terreno e ad una serie di rilievi assai precisi con una raffinata trascrizione dei materiali raccolti. E' questo uno dei principali aspetti positivi della sua attività per quanto concerne il tema di cui qui nuovamente discutiamo. Egli dà inizio alle sue esplorazioni mediante un buon lavoro sul dialetto della Val Gardena (Gartner 1879) con una precisa analisi fonetica e morfologica e spesso etimologica. Qui egli trovò un utile antecedente nel volumetto di J. Vian (1864, pubblicato anonimo) e un notevole appoggio nelle informazioni trasmessegli dal medesimo religioso. Delle inchieste condotte nell'area retoromanza e dei punti esplorati il G. dà notizia nel suggestivo libretto Viaggi ladini (Gartner 1882). Ma la prima 12

sistemazione dei materiali raccolti figura nella sua Grammatica (Gärtner 1883) e una seconda ampia esposizione è costituita dal Manuale (Gärtner 1910); bisogna ricordare anche la sintesi - certamente molto divulgata tra i romanisti - pubblicata nel Grundriss del Gröber (Gärtner 1904-06), mentre altre opere sono meno specifiche, quali ad es. le spiegazioni lessicali ed etimologiche (Gärtner 1923). Nelle ricerche dello studioso viennese si può innanzi tutto osservare che le aree italiane settentrionali, anche ladine, ladino-venete ecc., risultano assai meno esplorate rispetto alle informazioni che possiamo ricavare dai Saggi ladini. Ne consegue un quadro dialettologico carente, assai meno informato rispetto alle aree ove i cosiddetti fenomeni ladini erano o sono chiaramente presenti ancora oggigiorno. I parametri «retoromanzi» del Gärtner non divergono sostanzialmente da quelli proposti dall'Ascoli (v. qui sotto) ed egli, per primo, propone anche una contrapposizione lessicale tra vocabolario retoromanzo e cisalpino (che, a dir vero, non ha alcuna rilevanza, v. qui sotto); egli non è riuscito a individuare elementi tipici ed esclusivi della «lingua» esplorata. Assai più interessante il suo tentativo di giustificare la genesi della lingua. In Gärtner 1883 (XXI), l'origine del particolare gruppo di dialetti è individuata nella provincia della Raetia e cioè: «Die römische Provinz, deren G r e n z e n . . . mit denen unseres Sprachgebietes ziemlich gut übereinstimmen...». Essendo stato criticato per questa interpretazione (i dialetti dolomitici del Sella rientrano, caso mai, nella provincia del Noricum e l'ampia regione friulana era Italia e rientrava tutta nella X Regio Augustea!), il Gärtner dette una seconda interpretazione del suo «retoromanzo» in Gärtner (1910,7—8), ove egli critica il termine «ladino», utilizzato e propagato dall'Ascoli. L'A. respinge la denominazione ascoliana poiché essa è nota solo nell'Engadina e in alcuni villaggi della valle della Gadera, mentre come appellativo, ladin(o) è diffuso nei sensi di 'facile', 'scorrevole', 'agile' e 'comprensibile', come l'it. ant. 'latino'. Il G. osserva anche che con «ladino» si indica la lingua dei giudei spagnoli dei Balcani. Dunque «besser eignet sich für unseren Zweck der gelehrte Ausdruck rätoromanisch». E tale nome è stato usato anche per le favelle del Tiralo «und schliesslich auch auf Friaulische, obwohl Friaul nicht zu Rätien gehört hat». E così il nostro A. corregge il primitivo errore tentando poi di proporre una nuova interpretazione storica, dato che sarebbe più appropriato, fondarsi sull'antico popolo dei Reti, i quali abitavano anche nelle regioni a Sud della provincia della Rezia (ma v. qui sotto varie precisazioni) e debbono «aver fondato Trento, Verona, Feltre e Belluno [ipotesi assai incerta!!]; «wir finden sie vom St. Gotthard bis zum Piavegebiet überall da, wo jetzt unsere Mundarten und die sich anschliessenden Übergangs- und Mischmundarten zu Hause sind». Anche per il Friuli si troverebbero le giustificazioni valide per la denominazione suddetta. Essa è peraltro fondata su di una ipotesi assolutamente inverosimile (in parte ripresa, sotto altra angolazione, dal Gamillscheg) e cioè sulla congettura, tutt'altro che dimostrabile, che i Retoromani delTirolo sarebbero stati spinti dalle popolazioni germaniche - dopo che la regione risultò spopolata a causa delle devastazioni degli Unni e dei Goti - a passare il Piave e a stabilirsi nella regione friulana (??). Pertanto come il francese è la lingua latina 13

dei vecchi Franchi o dei Galli e c c . . . il retoromanzo è «die Sprache der alten Rater» o meglio, in altre parole, la lingua dei Reti costituenti il sostrato del retoromanzo. 17. Questa opinione del Gartner a proposito della componente «retica» nella costituzione delle favelle ladine, incluse quelle friulane, si allinea sostanzialmente con la tradizione prescientifica di cui abbiamo menzionato qui sopra qualche esempio paradigmatico. A livello di una divulgazione populistica - ma a volte menzionata, se non accolta, da autentici studiosi - è la teoria corrente che si legge nella stampa, nelle rivistine locali, diffusa, e ulteriormente svisata, anche dalla TV italiana (dato che si dice a volte nelle trasmissioni, che i Reti sono «uno dei rami della grande famiglia germanica»). Specie dietro l'insegnamento del Gartner il retoromanzo acquista in varie sedi scientifiche una posizione linguistica autonoma dall'italiano (o dall'italoromanzo) ed è considerato un blocco linguistico staccato, una autentica lingua che i compilatori di manuali cominciano ad inserire accanto alle altre lingue, a pieno titolo. Il Monaci 1918, dopo aver notato che i Ladini non ebbero mai un momento di vita autonoma e a ciò pervennero soltanto i romanci dei Grigioni e dell'Engadina quando quelle province si separarono dall'Italia ed entrarono a far parte della confederazione elvetica, rileva giustamente come dai Grigioni il pregiudizio della Rezia . . . dei Reti si estese ai Ladini dolomitici ai quali si indicarono i loro antenati. Nel settore scientifico il Monaci constata come nell'accuratissimo «Supplemento bibliografico» annuale della ZRP, nel 1877 il ladino è ancora compreso tra i dialetti italiani, ma già nell'anno seguente il Ladinisch diviene una appendice della sezione dialettale italiana; nel 1881 «Ladinisch» è sostituito da «Rhatoromanisch» e finalmente dal 1891 il Rhatoromanisch è del tutto staccato dall'Italienisch e considerato realmente una autentica lingua, inserita nella Bibliografia tra italiano (I) e romeno (III). 18. Passeranno ancora alcuni anni per trovare nelle riviste scientifiche una reazione alle opinioni del Gartner o per incontrare una posizione diversa da quella sempre più tradizionale. Il primo tentativo di presentare il retoromanzo nelle sue origini e nei suoi rapporti con l'«italiano», secondo una visione nettamente diversa, si attuerà ancora all'interno del grande stato asburgico e precisamente a Trento, da parte di un suddito, del resto molto apprezzato negli ambienti accademici viennesi. Spetterà infatti a Carlo Battisti, di famiglia originaria della valle di Non (TN), di iniziare un dibattito che egli proseguirà per tutta la sua lunga vita mediante la pubblicazione di decine o centinaia di contributi in codesta materia (oltre che sulla latinità altoatesina). Ma è utile menzionare anche alcune opere di altri studiosi pubblicate negli ultimi decenni del secolo passato. In particolare è doveroso ricordare alcuni scritti di un indigeno, e cioè di Johann Alton, nativo di Colfosco (1850—1900). L'Alton, che aveva studiato ad Innsbruck, pubblicò una descrizione dei dialetti ladini e soprattutto raccolse un vocabolario etimologico, in parte ancor valido (Alton 1879), cui seguirono vari 14

complementi e raccolte etnografiche o edizioni di testi dialettali (Alton 1881, 1885,1895). Quanto al problema generale della genesi del retoromanzo l'Autore ne discorre ad es. in Alton 1890, ove (p. 101) egli riconosce che fin all'inizio del sec. XI la storia della valle di Marebbe e quella del Livinallongo sono «in tiefes Dunkel gehüllt» e che gli abitanti ladini delle valli sarebbero i discendenti di coloni militari romani che, dopo la vittoria di Druso e Tiberio sui Reti nel 15 a.C., avrebbero occupato la regione, ma non si saprebbe se le valli fossero state abitate all'epoca in cui si insediarono i coloni romani, «und zwar von Rätern welche bekanntlich zur Römerzeit in den Gebirgen Tirols und der östlichen Schweiz wohnten». A questo punto l'A., peraltro assai ingenuo, finisce col ricorrere, per addurre delle prove del suo assunto, alle leggende locali dei Salvans, delle Ganes (e A(n)ganes da * aquana, ben note nella letteratura veneta antica) alle Bregóstanes, Vivens, Vivans, ecc. Qui l'A. dà l'avvio ad un filone di novellistica popolare che avrà poi in Chr. F. Wolff il massimo rappresentante. Attribuire ai Reti tali fiabe è di certo una ipotesi quasi puerile. Quanto ai coloni romani delle valli ci si potrebbe chiedere subito che cosa ci rimane della loro permanenza. Non si capisce come alcuni studiosi, o meglio amateurs nel settore degli Ureinwohner delle valli dolomitiche ecc., non si rivolgano ad altre discipline, che, pur tra varie incertezze, forniscono dati assai più concreti, quali l'archeologia, l'epigrafia, la topografia antica e la toponomastica (esplorata seriamente e con documentazione antica). Ma l'Ai ton è pure la fonte di altri equivoci; così, ad es., di una contrapposizione - sulla quale hanno speculato altri ricercatori locali - tra Ladini e Italiani (quali?) che sarebbe offerta dalla denominazione attribuita dai Ladini «den benachbarten östlichen Italiener», e cioè Lombèrt (pi. Lombèrc) «in der man vielleicht einen altererbten Gegensatz zwischen Langobarden und Ladinern erblicken könnte». Che «Lombardo» venga da «Longobardo» è pacifico, ma è altrettanto risaputo - ciò che evidentemente sfugge all'A. che lombardo, fin dall'epoca medievale, ha acquisito il senso di «italiano settentrionale» ed anche per questo particolare il ladino si rivela idioma arcaico e conservativo. Subito dopo l'A. riconosce che i Ladini considerano con una certa antipatia - trotz der nahen Verwandtschaft der beiden Idiome - i confinanti Italiani e ne giustifica le ragioni «wenn Scharen venetianischer Bettler (= Lombèrc) das ladinische Gebiet überschwemmen» (ciò che in parte corrisponde alla verità). Non v'ha dubbio che le dichiarazioni dell'A. qui sopra citate hanno avuto ampia circolazione specie tra i valligiani locali. 19. Risale al Gamillscheg (1935, 270-74) la denominazione - di scarsa fortuna data la genericità - di Alpenromanisch per il retoromanzo con una diffusione delle parlate secondo la tradizionale tripartizione. Come si sa, il G. ha dato una interpretazione originale anche della genesi del friulano, dato che tale idioma sarebbe il prodotto di una presunta neoromanizzazione del Friuli, operata a partire dal secolo VI/VII attraverso il reflusso dei Romani provenienti dal Noricum. La tesi suscita varie perplessità ed è stata messa in dubbio e controbattuta da diversi studiosi (da ultimo Frau 1969 e Pellegrini 1969 e 1972, 335-359). 15

In realtà i relitti longobardi e lessicali - che il G. pare ignorare - nella area friulana sono assai numerosi e non consentono di accondiscendere alla tesi del noto germanista tedesco (v. anche Pfister 1978,64-65) che, tra l'altro, incontra anche altre notevoli difficoltà. Porre infatti il friulano sullo stesso piano dei dialetti ladini dolomitici significa ignorare i presupposti storici e non rendere ragione della notevolissima differenza linguistica tra le varie favelle friulane e il ladino del Sella (diversa, come più volte da me sottolineato, è la posizione del Cadore e dei suoi dialetti di tipo ladino). 20. Dobbiamo ora passare rapidamente ad una esposizione piuttosto succinta delle posizioni dei più noti oppositori alla teoria del retoromanzo unitario, interamente autonomo rispetto ai dialetti italiani. Tra i più noti figurano Carlo Salvioni e Carlo Battisti. A dir vero dovremmo iniziare, per il rispetto cronologico, dal secondo, come riconosce del resto il medesimo Salvioni. Questi, infatti, nel suo celebre discorso inaugurale dell'Istituto Lombardo del 1917, Ladinia e Italia, alla nota 1 (p.35), a proposito dell'assunto che sta per dimostrare, afferma: «E' una verità, del resto, già asserita da altri. Il trentino dott. Carlo Battisti, lib. doc. di lingue romanze a Vienna [ma al momento del discorso del S. il B. si trovava prigioniero dei Russi in Siberia], la affermava in Battisti 1910 (22-23); e la sua teoria traduceva in atto ne' suoi Testi dialettali italiani 1,1914, accogliendo nella sezione veneta i saggi friulani e tridentini orientali, nella lombarda quelli grigioni». Come è ben noto, il pacato intervento del Salvioni occasionò anche qualche dubbio sulla validità scientifica dei suoi ragionamenti e sulla discussione generale della questione ladina, nonché sulla posizione dell'Ascoli che egli cerca di giustificare. Si disse infatti che il suo dire era motivato da sentimenti di patriottismo (egli, svizzero, aveva già perduto in guerra due figli combattenti per l'Italia) (v. qui sotto). Di certo il clima in cui fu tenuta l'allocuzione era ovviamente condizionato anche dagli eventi bellici in corso. Non si vede, tuttavia, come gli argomenti addotti dal Salvioni non siano pienamente validi per comprendere i rapporti dialettologici tra ladino e italiano. Giustamente egli critica la posizione ascoliana a proposito delle «anfizone» tra varietà nelle quali confluiscono ladino e italiano e altre che si possono reputare piuttosto intermedie che miste (v. anche sopra). Insiste il S. giustamente a proposito del tipo ladino il quale può avere contagiato quello veneto: «è improbabile che dei rozzi montanari, dai costumi primitivi e dagli orizzonti corti, abbiano mai portato idee e cose a questi linguaggi, a popolazioni dietro cui stavano città quali Como, Milano . . . Trento, Padova ecc. (le sue osservazioni sono validissime per le prealpi e la pianura; può sorgere qualche minimo dubbio per l'area alpina confinante, v. qui sotto). Il grande dialettologo si sofferma molto a chiarire meglio i parametri ladini dell'Ascoli. Così ad es. a proposito della palatalizzazione di CA, GA (kjamp, èamp) in cui egli riconosce un'ampia area ove si attua tale innovazione e ricorda qualche caso (allora eccezionale per la Cisalpina; non di certo oggigiorno v. §44). E' inoltre importante la prova della palatalizzazione antica per la Lombardia: «una prova capitale viene dalla Sicilia e ce la fornisce la 16

storia (v. qui § 4 4 ) . . . e saremmo così ad un tratto fonetico la cui isofona avrebbe compreso oltre alla Francia e Ladinia, una parte almeno della bassa valle padana...». E' poi esatta l'osservazione a proposito della mancanza (o meglio rarità!) di esempi di palatalizzazione nei testi antichi italiani settentrionali: «è facile rispondere, da chi ha pratica di tali scritture, ch'esse più si studiano di velare che non di rilevare molti fenomeni del dialetto...». 21. Il Battisti iniziò giovanissimo ad occuparsi di dialetti ladini ed è ancora paradigmatico il suo saggio sulla a tonica nel ladino centrale o la monografia sul nònese (Battisti 1906 e 1908), ove, peraltro, egli non ancora discute dei problemi generali del retoromanzo, mentre tratta tali questioni, in forma succinta, ma chiara, non si sa ancora se aderendo alla tesi imperante e mai ridiscussa. Egli inizia pertanto l'attacco al «retoromanzo» a partire dall'articolo sopra citato del 1910 (il Battisti era allora molto considerato negli ambienti accademici viennesi, ed a soli 26 anni aveva ottenuto la venia legendi o libera docenza). Non si può pertanto sospettare che egli, divenuto a fine guerra cittadino italiano, abbia mutato il suo indirizzo scientifico per opportunismo. Nominato dapprima direttore della Biblioteca Nazionale di Gorizia e, dal 1925, professore di linguistica romanza all'Università di Firenze, continuò per tutta la sua lunga vita (nato nel 1882 morì nel 1977 a quasi 95 anni d'età) ad occuparsi prevalentemente del problema ladino in tutti i suoi risvolti (e fu anche consigliere, nel 1945, del suo compagno di liceo a Trento, e poi a Vienna all'Università, Alcide De Gasperi) con la pubblicazione di innumerevoli saggi e di ponderosi volumi. Qui basterebbe segnalare solo i più significativi (del resto si può vedere Battisti 1970), tra i quali soprattutto 1922, sulla storia linguistica del Trentino, o 1931 che si riferisce, tanto alla latinità altoatesina, quanto al ladino e al friulano, sempre inquadrati in una precisa cornice storica, nonché alla germanizzazione. Tale volume è in buona parte ripreso in Battisti 1937; inoltre Battisti 1941 sulla storia linguistica delle valli dolomitiche atesine con una analisi molto minuziosa del lessico. Altri lavori di mole minore riprendono e sviluppano la sua concezione del «retoromanzo» di cui egli giustamente contesta la validità tanto per i rapporti, che non sono affatto stretti, tra le tre sezioni, quanto per i legami con l'italo-romanzo che egli mette in luce attraverso una grande quantità di prove ed indizi irrefutabili (ora tali prove sono di molto accresciute). Secondo il nostro parere il Battisti, che conosceva bene la situazione politica dei Ladini atesini ai primi del secolo, credette di poter convincere i montanari del Sella di essere italiani mediante la sua opera scientifica che nessuno ha mai letto o compreso (forse che ne avrà capito qualcosa Iorgu Iordan? v. qui §2), ed anche mediante lettere aperte indirizzate a quei montanari (ora in gran parte ricchi albergatori), v. Battisti 1965 o 1966. Per primo tra i linguisti egli seppe scavare in varie direzioni, armonizzando i dati che gli venivano da varie discipline. Fu assai informato sulla documentazione archivistica tirolese e trentina (assai meno sui documenti veneti). Ebbe pertanto una concezione del «ladino» assai più ristretta rispetto ad es. all'Ascoli e fondata soprattutto su basi storiche che, in sede strettamente linguistica, non 17

dovrebbero essere prevalenti. Certamente riuscita è la sua critica all'unità delle tre sezioni che non si giustifica sotto alcuna angolatura, mancandovi le premesse storiche e protostoriche e a ben guardare anche linguistiche (v. qui §36). Le concordanze non si individuano in senso orizzontale, ma verticale. Così il ladino grigionese presenta maggiori concordanze col lombardo alpino, che con le altre sezioni «retoromanze», il ladino dolomitico col trentino e col veneto periferico ed analogamente il friulano (per il quale v. qui §§ 36, 37). In varie occasioni egli ha sottolineato le notevoli differenze fonetiche, morfologiche e lessicali tra le tre sezioni, mentre in generale si è sempre insistito sulle pochissime concordanze, quando queste sono invece evidenti anche con le aree cisalpine arcaiche o sono attestate nei testi antichi (sia pure sporadicamente). La sua critica agli argomenti addotti dal Gartner per la supposta unità del retoromanzo è in tutto pertinente (e si vedano qui sotto nuovi argomenti). Del resto non mi risulta che i suoi punti di vista siano stati posti in discussione o controbattuti da alcuno studioso serio. Le critiche eventuali sono tutte generiche e si riferiscono quasi sempre al tono della sua esposizione: un tono che a volte (ma raramente) risente dell'epoca in cui alcuni suoi lavori sono stati redatti. Si tratta di aspetti esterni e di poco conto che non incidono menomamente sulle sue argomentazioni. 22. Di ladino si occupò, fin dai primi lavori, Heinrich Kuen (1899—1990) il quale continuò a trattare vari aspetti particolari del retoromanzo per tutta la vita, ma normalmente in brevi saggi. Si ricorderà ad es. il lavoro sulla cronologia di a > e in gardenese, su alcune parole oscure, e le osservazioni sull'evoluzione di pectus, Kuen 1923a, 1923b, 1935. Da ultimo, in vari scritti lessicali ed etimologici, si occupò ancora di retoromanzo, v. 1977, 1978, 1979 ecc. Di maggiore interesse generale sono un ampio lavoro di rassegna critica ed un altro sulla varietà del retoromanzo, Kuen 1937 e 1968 (= 21970). In ambedue il Kuen si dimostra uno studioso pienamente tradizionalista, seguace scrupoloso della solita teoria, anche se alcuni suoi articoli apportano dei contributi nuovi su singoli particolari. Nella ampia rassegna, come spesso accade agli studiosi tirolesi, egli si conferma quasi totalmente disinformato o non interessato ai dialetti «italiani» confinanti, i quali corrispondono, per l'aspetto linguistico, assai spesso e quasi in tutto, a quelli ex austriaci. Per una breve critica alla posizione del Kuen rinvio a Pellegrini (1972, 191—211). Qui si voleva sottolineare soltanto che le informazioni lessicali che ci ammannisce l'A. sulle aree tipicamente «retoromanze» di molti termini, sono infondate a causa dell'interesse assai carente d'informazione già per l'epoca in cui egli ha scritto i suoi lavori. Le sue integrazioni lessicali al Wartburg 1936 (poi 1950), come esempio di caratterizzazione del nostro gruppo (Kuen 1937, 498), sono realmente poco felici. Forse che non sono attestate nel veneto e nel cisalpino (in genere arcaico) le tipiche espressioni citate? Ma per una critica all'elenco del Kuen rinvio al § 48. Si ricorderà anche l'attività di E. Quaresima, in un primo tempo un po' critico verso il Battisti, ma poi pienamente consenziente; in particolare per le conver18

genze lessicali tra veneto e ladino (ove peraltro sarebbe stata da tentare una più precisa classificazione dei prestiti), v. Quaresima 1955. Da ricordare pure B. Gerola, fine studioso di toponomastica, anche «generale», ed indagatore delle correnti linguistiche nell'«area retica», Gerola 1939. 23. Molto debbono gli studi ladini altresì a Carlo Tagliavini (1903—1982) il quale pubblicò giovanissimo la prima monografia sul dialetto del Comèlico (Tagliavini 1926) che sarà poi notevolmente integrata dai Complementi (Tagliavini 1944) e l'ampio Saggio lessicale sul Livinallongo che costituisce anche il più sicuro fondamento per un dizionario etimologico del ladino dolomitico atesino (Tagliavini 1934). Tanto durante il suo magistero budapestino (1929-1935), quanto e soprattutto a Padova, egli si preoccupò costantemente di raccogliere attraverso le «tesi di laurea» numerosi materiali, specie lessicali, dell'area ladina, ladino-veneta, ladino-trentina ecc. rimasti quasi tutti inediti (e di valore documentario disuguale), v. Pellegrini 1985c. Ma è assai importante l'ampio capitolo dedicato al «ladino» in Tagliavini 6 1972 (377-387 e 4 5 3 - 5 6 ) poiché l'A. riunisce e discorre dei tre tradizionali «tronconi» in una unica trattazione, ma sa citare anche argomenti contrari all'unità e una ricca bibliografia non soltanto tradizionale. A differenza pertanto dai noti clichés dei manuali che ci somministrano discussioni di seconda o di terza mano, in cui gli autori dimostrano una chiara inesperienza, il T. è sicuramente padrone dei problemi linguistici fondamentali, data la sua esperienza diretta. Quanto ad una visione generale della nota tematica, egli si esprimeva già in Tagliavini (1926, 27): «E' indubbio che il ladino, le cui caratteristiche generali non sono in fondo che assai poche giacché le isoglosse si dispongono assai capricciosamente, considerato nella sua interezza si ravvicina ai dialetti gallo-italici più che a qualunque altro raggruppamento di dialetti romanzi: questo è sufficiente perché si possa legittimamente fare un gruppo «gallo-italico-ladino» a patto naturalmente di innalzare il valore del gruppo stesso . . . » . In Tagliavini 1934,28 afferma che pur a malincuore non può accogliere la tesi dell'indipendenza del ladino professata da molti colleghi stranieri, mentre dichiara di avvicinarsi con gioia alle conclusioni dei linguisti italiani come C. Salvioni, P. G. Parodi, M. Bartoli e specialmente C. Battisti col quale si sente sostanzialmente d'accordo nelle conclusioni finali anche vedendo la questione da un punto di vista considerevolmente differente. Il T. non vuol tanto scindere il ladino in tre gruppi quanto dimostrare la profonda connessione che esiste tra ladino e alto-italiano (gallo-italico + veneto) «per me dall'Appennino alla cresta delle Alpi e sovente anche oltre, vi è una unità linguistica neolatina inscindibile». Qui io avrei aggiunto che tra le aree ladine e italiane settentrionali la Romània è particolarmente continua. 24. Ci conviene ora inserire una parentesi almeno sulle concezioni del friulano che - pur avendo nei Saggi ladini una posizione relativamente autonoma rispetto agli altri due gruppi - nella vulgata è sempre inserito, come sezione orientale, nel retoromanzo. Non si capisce del resto come i Friulani abbiano 19

(almeno ci sembra) accolto di buon grado questa connessione - che viene a rivelarsi di quasi subordinazione [basti la denominazione «ladino»] - e non si siano accorti ancora interamente delle rilevantissime differenze generali che intercorrono tra il loro eloquio e le favelle del Sella o della Sopraselva. Per dimostrare gli iati profondi non occorre essere linguisti raffinati o storici sommi. L'Ascoli (1873, 476) così si esprimeva a proposito della sezione friulana: «i vincoli per i quali la sezione friulana va congiunta col resto della zona ladina, sono dunque ben forti, ma non tanto forti e stretti quanto quelli che uniscono fra di loro la sezione occidentale e la centrale. Il friulano avrà nel sistema ladino una indipendenza non guari diversa da quella che ha il catalano dal provenzale. Ma se il friulano cede alle varietà grigioni, in ordine alla pienezza delle proprietà che distinguono la catena alpina, interposta, come una difesa, tra la favella germanica e l'italiano, egli è all'incontro rimasto l'idioma principale dell'intero sistema, per l'ampiezza e libera espansione della sua vitalità assai robusta». E qui basterebbe ricordare che è l'idioma di gran lunga più rappresentato per numero di locutori con caratteri più nettamente italo-romanzi, non intaccato, come le altre sezioni, da una influenza germanica sempre più invadente. Tranne l'Ascoli goriziano, non mi risulta che studiosi friulani abbiano mai invocato, nel secolo passato, particolari connessioni col ladino. Tale idioma, inoltre, veniva inteso e qualificato come un dialetto friulano, v. Gortani-Gallia-Mussafia 1863-1926; ma le mie informazioni possono risultare qui carenti. Nulla di particolarmente importante sui vincoli ladino-friulani ha scritto Ugo Pellis, raccoglitore (all'inizio unico) dell'ALI, tuttora inedito, anche se tutti i linguisti italiani qualificano a volte anche il Battisti! - il friulano con l'aggettivo di «ladino». Questi ha dedicato ai dialetti della Carnia un articolo assai importante (Battisti 1924), valorizzato ampiamente dal massimo conoscitore di friulano, G. Francescato. Dell'attività di quest'ultimo che sostanzialmente è negatrice di una «unità ladina» la quale comprenda il friulano, si dice qui sotto. Anche G. Marchetti che dedicò alcuni scritti alla sua favella natia, nega in sostanza i rapporti del friulano col ladino (Marchetti 1932 e soprattutto 1952, 18): «lasciando sub judice la tesi dell'unità ladina sostenuta dall'Ascoli, ma difficilmente accettabile allo stato presente delle risultanze etnologiche e storiche». 25. Sulla posizione del retoromanzo si è espresso più volte (ma quasi sempre in forma ripetitiva) il noto romanista tedesco G. Rohlfs (cui deve moltissimo la linguistica italiana), v. ad es. 1952 (= 1972), 1975 e 1981. Sui lavori del Rohlfs ho già espresso il mio sostanziale dissenso (Pellegrini 1982), come altri studiosi, tra i quali Pfister (1988). Gli argomenti del grande linguista per sostenere una reale unità del retoromanzo, fondati su convincenti convergenze, mancano direi integralmente, e le sue citazioni di un «lessico retoromanzo» sono per lo più assai manchevoli anche a causa di evidente disinformazione. Forse il R. non si è accorto che nei pochissimi casi in cui si nota concordanza tra due sezioni ladine, e a volte anche con l'inclusione del friulano, è costantemente presente il medesimo fenomeno, a livello antico (testi) o anche attuale (specie per il lessico), in aree 20

giudicate venete (specie secondo i linguisti austriaci) o in generale cisalpine. E potremmo menzionare qui anche il tentativo, poco riuscito, dell'americano J. Redfern, il quale in una tesi di dottorato all'Università di Michigan (1965), si adoperò senza successo, di illustrare il lessico del retoromanzo e delle aree contigue. L'A. si era prefisso di portare un contributo alla tesi dell'unità retoromanza mediante lo studio del lessico, esaminato comparativamente, mediante le rispettive etimologie. Il Redfern è giustamente conscio dell'importanza del vocabolario per una classificazione delle parlate neolatine ed egli segue pertanto in codesto indirizzo i dettami di W. von Wartburg e del Rohlfs e di tanti altri. Anche l'A. ha letto assai superficialmente i numerosi scritti di C. Battisti e come tanti altri - disinformati e interessati ad una determinata via politica, come si vede qui sotto - afferma inopportunamente che il B. sarebbe ispirato da idee «more nationalistic than linguistically sound». In realtà il R. non è in grado di affrontare problemi linguistici areali e rivela una impreparazione troppo evidente nello stabilire delle etimologie. Mi basti qui rinviare a Pellegrini 1972,174-5, 237—238 e 476; ancor più alla meditata e puntuale revisione da parte di Paola Benincà 1973. 26. G. Francescato, oltre ad aver studiato in numerosissimi contributi vari problemi del friulano, si è occupato anche delle questioni fondamentali relative al retoromanzo (v. specialmente Francescato 1973 e 1982) ed in particolare egli si è soffermato, più volte, a chiarire il pensiero dell'Ascoli. Seguendo i suggerimenti del Battisti, secondo il quale - come è noto - «la teoria ladina dell'Ascoli va modificata profondamente», il Fr. interpreta l'intero svolgimento degli studi sul ladino dopo l'Ascoli nella prospettiva di una «apertura» insita in essi già nelle intenzioni ascoliane, implicitamente se non anche esplicitamente. Del resto quello che il grande Goriziano «si proponeva con essi (i Saggi) non era affatto di dimostrare l'unità delle parlate ladine, ma di fornire una descrizione delle parlate stesse», e anche noi possiamo confermare che per i suoi tempi egli ci ha dato un'opera eccellente per la descrizione e interpretazione dei fatti linguistici. E continua poi il nostro studioso affermando che «L'importanza del tentativo rappresentato dai S.L. - tentativo la cui novità ed estensione viene opportunamente sottolineata sia pure con una punta di modestia, dallo stesso autore - non consiste dunque nella affermazione dell'unità ladina, ma nel ritrovamento di quei tratti che caratterizzano le varietà che servono a distinguerle da altre varietà, la cui caratterizzazione resta implicita». Ma i tratti linguistici lumeggiati dall'A. nelle parlate ladine sono in realtà o erano, anche nel vicino passato, presenti nel «cisalpino» e lo provano ora, tanti nuovi esempi (che l'A. non poteva conoscere, v. qui sotto). E' inoltre fondamentale una osservazione che ritrascrivo: «I continuatori dell'Ascoli rovesciando le sue posizioni e là dove egli - attraverso le prove linguistiche - aveva cautamente cercato di isolare certe cause profonde «etniche» di affinità presenti nei suoi dati, essi invece cercano di giustificare le affinità linguistiche con la dichiarazione dell'unità ladina quale prodotto di una iniziale comunanza etnica. Ma tale idea appare oggi del tutto 21

insostenibile, in quanto le tre aree tradizionali della ladinità rispondono storicamente a sostrati alquanto diversi...» Eppure questa distorta concezione dovuta a ragioni «etniche» comuni a tutte e tre le aree è stata capace di provocare, anche in mano di persone scientificamente preparate, conseguenze paradossali. L'idea di un popolo retoromanzo - affrettata ipostasi di una pretesa «lingua retoromanza» - non può che essere ascritta al mondo delle favole, e scientificamente, ancor più che una favola, è un'assurdità». Quanto alla posizione del friulano, che il Fr. tiene ben distinto dal ladino dolomitico e grigionese, lo studioso spesso ne sottolinea i tratti dialettali che, pur diversi, vengono a costituire una unità strutturale, tanto da poter attribuire a tali parlate il ruolo di una lingua minore. 27. Prima di discutere sulle posizioni recenti relative al retoromanzo, espresse da un lato da alcuni studiosi austriaci e tirolesi (o ladini del Sella) che si concentrano attorno alla rivista della provincia di Bolzano/Bozen, «Ladinia» (e di qui divulgati anche alla stampa locale bolzanina); e, d'altro canto, sulle opinioni di altri studiosi stranieri che non seguono la tesi tradizionale unitaria, mi pare doveroso riportare anche l'opinione di A. Zamboni (1979) che mi sembra chiara e accettabile. Lo scritto dello Zamboni rappresenta principalmente un meditato commento alle relazioni e comunicazioni tenutesi in occasione del Convegno di Vigo di Fassa 1977. L'A. afferma che il problema ladino (uscito dalle discussioni accademiche) è ormai una «questione linguistico-politico-culturale contrassegnata da tratti decisamente curiosi ed abnormi, almeno sul piano della genesi storica che ne condizionano infatti in modo originale gli sviluppi, oltre, naturalmente, alle premesse ideologiche ...». Ormai i dibattiti sono assai più politici che linguistico-culturali e non si vede come si possa arrivare ad una soluzione sul piano scientifico, dato che quello politico è di gran lunga prevalente. Come ha osservato il Francescato (1973, 7) e ribadisce lo Zamboni, l'Ascoli fu facile preda delle opposte fazioni che usarono e abusarono del suo nome a pro dell'una o dell'altra tesi, traendo lo spunto da affermazioni che non sono affatto qua e là coincidenti. Possiamo ribadire che, letto superficialmente e soprattutto nelle poche pagine introduttive e conclusive, l'Ascoli può essere invocato come un sostegno all'unità ladina e all'estraneità del gruppo di favelle al sistema linguistico italiano. Qualora il lettore desiderasse approfondire il suo pensiero e si sobbarcasse alla fatica di scorrere il reale contenuto del complesso volume anche seguendo il puntuale commento critico del Battisti 1929 - si renderà conto che le conclusioni alle quali è giunto il Goriziano, sia pure come ipotesi - sono affrettate e in buona parte in contraddizione col testo. Così lo Z., pur riconoscendo ai parametri linguistici ascoliani una certa validità sul piano sincronico, «in quello diacronico (prevalente per la dialettologia ascoliana e in larghissima parte gartneriana) la loro significanza è stata fortemente ridimensionata». Così, dopo aver riconosciuto alcuni tratti caratteristici ad alcuni linguaggi (ma vedi qui sotto la reale differenza) «si è passati a postulare una lingua comune inesistente e si è giunti alle estreme conseguenze nel tentare di isolare un popolo che la parla e di tale popolo, riandando indietro di molti secoli, si è sentita l'esigenza di postulare 22

anche un Urvolk assolutamente vago e linguisticamente inafferrabile quali i Reti». Come si è già osservato, in codesta identificazione si sono riprese le storielle che già circolavano in un periodo prescientifico, nel secolo XVIII. Nel Convegno fassano sopra citato si è parlato anche a lungo di «coscienza della propria ladinità» nelle valli del Sella, la quale sarebbe molto antica e ben documentabile anche dal citato Nicolaus Bacher. Osserva anche qui giustamente lo Zamboni che «è difficile parlare di coscienza nazionale nel '700 e '800 senza adeguati riflessi storico-culturali e non c'è molta probabilità che nel corso dei secoli le tre aree ladine abbiano tenuto viva l'idea del proprio nesso se mai essa vi f u . . . » e ancora: «una coscienza etnica o locale deve necessariamente caricarsi di motivazioni nazionali e sfociare in atteggiamenti politici di marca irredentistica (antiaustriaca nella fattispecie), come mostra per es. la storia del Trentino - ex Tirolo italiano - e come non mostrano le valli ladine . . . che da secoli sono orientate sulla cultura tedesca considerata e g e m o n e . . . » . 28. Dovrei dunque trattare a lungo della rivista «Ladinia», fondata nel 1977 e diretta da Lois Craffonara e dei saggi ivi pubblicati. Ma, a ben guardare, salvo qualche articolo del direttore che tratta anche di «retoromanzo» in generale (v. qui sotto), non vedo che nei vari numeri del periodico già pubblicati si sia mai trattato del problema di cui qui ci occupiamo e cioè della «genesi del retoromanzo o ladino». Tale rivista non è di certo la sede per simili dibattiti dedicati - ci si attenderebbe - a combattere o a distruggere con argomenti, e non con chiacchiere, l'attività scientifica ad es. di Carlo Battisti, dato che, come mi risulta, egli è un personaggio assai poco gradito alle popolazioni locali. La tesi di una unità ladina che nulla ha a che vedere con l'italiano (nemmeno settentrionale) è ivi scontatissima. Così del Battisti - per quanto mi consta - si dice soltanto ch'egli cercò di esercitare sui Ladini una «Gehirnwäsche», cioè un lavaggio del cervello (Kuen 1979, 57), mentre io mi accontenterei di dire che il B. ha dedicato forse troppi lavori ai problemi retoromanzi - non senza un giustificato paternalismo, dato che egli considerava i Ladini alla sua stregua, cioè di ex suddito asburgico «ladino» - senza aver tentato di rendere edotti adeguatamente, della sua verità gli studiosi italiani, forse nemmeno i suoi allievi fiorentini (tranne pochissimi). Il suo continuo tecnicismo, l'esposizione talvolta concisa (che sottintende conoscenze storiche e geografiche), il suo stile non sempre limpido, non hanno facilitato un travaso del suo pensiero e della sua pluridecennale ricerca a livello di comprensione, tanto che le sue argomentazioni sono risultate poco chiare a molti cultori di linguistica romanza. Egli si accontentava di avere dai colleghi generici assensi sulle sue posizioni, né si curò di scrivere mai (qualora possibile?) un libro divulgativo. In un convegno fiorentino per i suoi 80 anni, il B. dopo aver esposto con una straordinaria vivacità «Il problema storico-linguistico del ladino dolomitico». 1962 ( = 1963), desiderò che i convenuti (tra cui una settantina di professori universitari) e altri ancora non presenti, controfirmassero un ordine del giorno a proposito di una riforma del piano didattico nelle scuole ladine. Erano osservazioni più che accettabili, ma il B. non si era accorto che i politici 23

conoscevano assai meglio Umberto D (il film da lui interpretato) che gli studi del luminare, già dell'Università di Vienna e poi di Firenze. E d'altro canto essi dovevano sottostare a certi accordi, forse senza comprenderne (come del resto è ovvio) la portata e le conseguenze. 29. Il B. ha commesso - secondo me - un involontario errore nel presentare al mondo degli studiosi la sua (in sostanza nessuno se ne era occupato!) tesi sul retoromanzo come frutto del «pensiero dei linguisti italiani», tanto che si legge a volte nei manuali di linguistica romanza (o in parallele compilazioni) di una tesi «italiana» che si contrappone ad altra di gran lunga più divulgata ed accolta che a ben vedere - è in sostanza la posizione intangibile del Gartner. E' ovvio che tale tesi, giudicata «italiana», venga subito considerata il prodotto di interessi politici e nazionali. Anche gli scritti del Battisti che, nel periodo del ventennio ipernazionalista, qua e là risentivano - ma solo nella forma! - del clima storico, sottolineavano ovviamente il concetto di «nazionale». Mi pare tuttavia che la tesi sostenuta dal Battisti - e lo ripetiamo ancora: 1) mancanza di una reale corrispondenza storico-linguistica tra le tre aree del retoromanzo e 2) la particolare affinità con le regioni italo-romanze a contatto ed in genere con la Cisalpina non debba essere qualificata con aggettivi che richiamino aspetti di ordine pratico, cioè politico. Essa è soltanto una tesi scientifica sostenuta da argomentazioni validissime a prescindere da ogni altra considerazione. Direi proprio che essa è la tesi dei veri scienziati informati anche sul progresso delle ricerche. D'altro canto bisogna riconoscere che è quasi impossibile addentrarsi nei problemi, sempre più aggrovigliati per ragioni esterne, con spirito critico e disinteressato, con la adeguata preparazione, se non si sa discernere tra verità scientifica e autentica fantasia, ormai generalizzata. Anche gli studiosi stranieri riconoscono alcuni principi fondamentali nella nota «questione», ma essi non li esplicitano poiché ciò non è necessario e per altre convenienze che è qui inutile indagare. Altri invece hanno già pubblicato vari saggi di grande interesse, dopo aver acquisito una sicura conoscenza dei problemi che richiedono particolari esperienze in molti settori. E' comunque bene accertabile che essi scrivono di codesta materia con assoluto disinteresse pratico, paghi soltanto di apportare qualche contributo originale alla scienza. Purtroppo i loro importanti scritti sono tuttora poco noti o ricevono sovente delle feroci e ingiustificate critiche da altri che sono invece interessati o affetti da un esasperato e cronico patriottismo. 30. Mi limito qui a menzionare, con stringente brevità, alcuni scritti di J. Kramer, diM. Pfister, diTh. Elwert, di Maria Iliescuodi J. Hubschmid; ma non dovrebbe sorprendere se, nella realtà, gli studiosi stranieri, attenti ai nostri problemi, siano probabilmente più numerosi. Per fedeltà ormai pluridecennale alle ricerche sul retoromanzo e per numerosi contributi specifici (accanto ad altri assai rilevanti di balcanistica, di filologia classica, ecc.) spicca, tra gli stranieri, l'indefessa attività di J. Kramer che è veramente un autentico specialista. Egli ha cominciato giovanissimo ad occupar24

si di ladino - anche seguendo i corsi estivi patavini di Bressanone, ed in particolare le lezioni di C. Tagliavini - , e subito si è addentrato correttamente nella tematica con esperienze dirette in loco. Qui, tra la sua feconda operosità, dobbiamo limitarci ad additare solo i lavori più importanti e alcuni giudizi sul problema generale. Tra le opere di mole maggiore v. ad es. Krämer 1970—75, col dizionario gaderano in 8 fascicoli, oppure i due volumi di grammatica storica del ladino, e cioè 1977 destinato alla fonetica e 1978 alla morfologia (con dedica alla «memoria di Carlo Battisti») e di ladino si parla anche in Kramer 1981, rivolto al problema generale dei contatti italo-tedeschi in Alto Adige/Südtirol, volume obiettivo che ha ricevuto varie ingiuste critiche e non è ancora molto noto agli Italiani. Ora la sua attività nel nostro settore è concentrata nella realizzazione del grande Etymologisches Wörterbuch des Dolomitenladinischen (opera redatta con la collaborazione di una équipe specializzata), bene programmato e più che esauriente nella utilizzazione di tutte le fonti, di cui sono già apparsi i primi due volumi: A — B nel 1988 e Cnel 1989, v. Pellegrini 1990 (in stampa). Ma sono assai interessanti anche alcune prese di posizione del Kramer in contributi più sintetici, ad es. Kramer 1971 o 1978, 107—117 (ristampa di un lavoro redatto in romeno), ove l'A. dimostra di aderire alla tesi antitradizionale; egli conferma l'inconsistenza di certe credenze ad es. relative alla «coscienza nazionale dei ladini» (v. qui §27). Così è vittima di un errore banale chi ritiene che con la grammatica del 1833 N. Bacher ci dia la prova di un atteggiamento nazionalista ladino: «Non sono i Ladini che hanno una coscienza nazionale, ma sono gli austriaci che fanno loro credere di avere dei legami linguistici con i Romanci della Svizzera». Anche in Kramer 1980 e 1984 si presentano delle considerazioni veritiere sulla posizione del ladino in seno alla Romània e, mediante il parallelismo con le lingue germaniche, si sostiene che le note parlate dolomitiche atesine, sotto l'incalzante pressione della lingua dominante ed egemonica, il tedesco, non potranno salvare la propria identità romanza se non ricorrendo ad una lingua tetto che non può essere che l'italiano (v. del resto anche Steub § 10). Anche in codesto preciso suggerimento il Kramer è stato attaccato inopportunamente (persino da qualche opportunista italiano, anzi bellunese). Da ultimo il Collega così si esprimeva (Kramer 1989, 221): «L'inclusione del ladino atesino in un volume avente come oggetto la dialettologia italiana richiede una spiegazione essendo il ladino, spesso e soprattutto nei manuali riprendenti le concezioni della prima metà del secolo, considerato come un'unità esulante dal sistema linguistico italiano... Sia concesso tuttavia osservare che sembra fuori dubbio il fatto che il ladino faccia parte dell'italo-romanzo, anche nel caso che non si voglia accettare l'italiano come lingua-tetto del ladino atesino. I legami colleganti il ladino atesino con i dialetti vicini (l'ampezzano, il cadorino, l'agordino, il fiammazzo, il trentino ecc.) sono talmente evidenti che ogni esclusione del ladino dall'ambito della dialettologia italiana si rivelerebbe senz'altro artificiosa e pregiudizievole...».

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31. L'inserimento del ladino centrale nella più vasta opera di lessicologia etimologica italo-romanza è stata - secondo noi - una risoluzione giusta presa da M. Pfister per il grandioso LEI di cui sono finora usciti i primi tre poderosi volumi fino alla fine della A. Quanto al ladino dolomitico Pfister ne ha qua e là discorso, secondo noi, con estrema correttezza; così in Pfister 1984,167—68, ove egli ammette espressamente che 1) probabilmente saranno pochissimi i lessemi che caratterizzeranno unicamente il ladino centrale e il ladino-veneto (e pare infatti che manchino quasi del tutto, tranne i tedeschismi)... 5) «la zona studiata (e cioè l'alta provincia di Belluno) è senza dubbio una regione linguisticamente più interessante e contiene la chiave per potere capire la stratificazione geolinguistica non soltanto della provincia di Belluno e Trento, ma di tutta l'Italia settentrionale». In altro lavoro il medesimo Autore - sulla base degli innumerevoli materiali riuniti per il LEI - ha potuto fare molte osservazioni pertinenti di linguistica spaziale ladina, friulana, veneta ecc. che corrispondono sempre ai risultati delle mie ricerche, v. Pfister 1986 e 1988; inoltre anche per altri aspetti medievali della lingua v. Pfister 1982. Quanto alla posizione relativa al retoromanzo di Maria Iliescu, mi basti rinviare ad es. ai suoi articoli: 1972 (ove tuttavia nella comparazione è assente il cisalpino), oppure 1978 (considerazioni sulla ornitologia) e 1980 (583): «von einer rätoromanischen Einheit lässt sich wohl schwerlich sprechen, wenn man bloss an die Eigenheiten des Sursilvischen denkt. Deswegen ist es gewagt, ohne eingehende Einzeluntersuchungen über das sogenannte Rätoromanische im allgemeinen zu sprechen»; e v. anche Iliescu 1976 (specie 523). Di Elwert basterà menzionare la puntuale relazione tenuta al Convegno fassano sopra citata, (Heilmann ed, 1979) ove egli precisa assai bene il concetto di «lingua ladina»; ma si veda anche l'atteggiamento rispetto al lessico retoromanzo di J. Hubschmid, soprattutto 1987 (mi pare si possa concordare con lo studioso svizzero in tutto, con qualche riserva sulla sua definizione di «Rätovenetisch» che richiederebbe ulteriori precisazioni), v. Hubschmid 1986, 57. Relativamente vicino alla rivista «Ladinia» risulta il Collega W. Belardi il quale ha pubblicato una serie di articoli sul ladino dolomitico atesino con alcune buone spiegazioni etimologiche e qualche dichiarazione generale che accettiamo (ad es. v. Belardi 1984, 271 a proposito di un giudizio del ladino dovuto all'indigeno J. Vian). Egli si è preoccupato soprattutto di raccogliere, in varie antologie, gli scritti poetici di alcuni valligiani e di tradurli, abbelliti, in italiano. 32. Espongo ora la situazione e l'interpretazione del «retoromanzo» come essa risulta secondo le mie prolungate ricerche, non soltanto bibliografiche, ma soprattutto personali con la conoscenza diretta di diversi ambienti e soprattutto dei dialetti (per lo meno per la sezione bellunese che l'Ascoli ascriveva al «ladino»). Chi affronta tali questioni commette alcuni errori basilari qualora egli voglia studiare la vera genesi del retoromanzo ignorando del tutto le condizioni protostoriche, storiche antiche e paleomedievali delle aree esplorate. Il linguista dovrà pertanto racimolare tutte le informazioni possibili e verosimili che egli può 26

attingere alla archeologia, all'epigrafia, alla topografia, alla toponomastica, alle fonti d'archivio; in generale alle notizie storiche bene controllate. Non nego che anche nei miei scritti prevalga una indagine dialettale sempre sorretta (me lo auguro) dall'appoggio delle discipline suddette e per tale metodo io ho tratto profitto dalla attenta lettura (fin dal 1943) di alcune opere di C. Battisti (specie Battisti 1931) opere che risultano indubbiamente di difficile comprensione non soltanto al lettore di cultura media, ma anche allo specialista. Del resto anche nel districare tanti argomenti, collegati al retoromanzo, mi è sempre sembrato che tutta l'attività del Battisti non sia affatto da disprezzare o da ignorare, come succede nella pratica persino ai suoi conterranei (che tuttavia lo hanno celebrato in pubbliche manifestazioni, senza conoscere i contenuti dei suoi scritti!). Ritengo tuttavia di aver potuto apportare alcune argomentazioni nuove e qualche correzione o lieve dissenso rispetto alla concezione battistiana; ciò non tanto nella impostazione scientifica, che per me è sempre paradigmatica, quanto nel giudizio generale sulla cultura prevalente dei «Ladini». 33. Date le mie modeste esperienze storico-archeologiche (ed anche linguistiche) sull'area grigionese, dovrò limitarmi a pochi cenni (e spesso ben noti) per tale sezione; mentre più approfondita sarà l'analisi per le zone dolomitiche e friulane. Una buona e sicura introduzione anche alla tematica storica delle tre aree del retoromanzo è fornita da Pfister 1982 e 1985, ove si discorre, oltre che dell'estensione e delle caratteristiche medievali dell'area alpina centro-orientale, con competenza anche dei sostrati ivi individuabili. Non pare verosimile attribuire la cosiddetta «civiltà di Melaun» o ceramica di M. che sembra risalire, secondo gli archeologi, ad un popolo unitario - come si crede a volte - e cioè ai Reti, dato che tale strato culturale risalirebbe all'inizio del primo millennio a.C. Ben difficilmente potremmo attribuire a tale epoca i minimi frammenti della «lingua retica» ed anche l'estensione di tale cultura che, secondo vari studiosi, sarebbe diffusa in amplissime aree alpine con varie propaggini a Nord e a Sud della catena, non pare favorire l'ipotesi di un antichissimo sostrato retico uniforme il quale possa aver avuto anche una minima incidenza nella costituzione del «retoromanzo». Più tarda e più ristretta sembra la cultura di «Fritzens-Sanzeno», ma attribuire eventuali riflessi linguistici di tale strato, resta pure una ipotesi assai opinabile. Su tutto ciò si veda Frei (1977, 25 e 1984) che accenna anche ad una «späte Urnenfelderkultur»: «Zu Beginn der späten Eisenzeit setzen sich, offenbar unter keltischem Einfluss, alpine Sonderkulturen mit Fritzens-Sanzeno- und Schnellre-Keramik durch. Am Ende scheint der keltische Kultureinfluss vorherrschend zu s e i n . . . » . Inoltre «Wenn nun die geschichtlichen Zeugnisse im beschriebenen Gebiet zu Zeiten der Eingliederung des Alpenraumes ins Römerreich die Räter ausdrücklich bezeugen, ist, soweit wir heute sehen, kein Grund, gestützt auf die vorgelegten archäologischen Argumente, an ihrem Bestehen seit Beginn des 1. Jahrtausends v. Chr. zu zweifeln». Non convincono del tutto le osservazioni di J. Ragath 1984 che seguono all'articolo di Frei con le cartine allegate (Abb. 21 e 22). Sorgono inoltre vari interroga27

tivi che si possono riassumere: 1) le iscrizioni in alf. nordetrusco definite «retiche» debbono attribuirsi realmente ad un popolo, ad un ethnos unitario le cui schiatte sono definite dagli antichi «Reti», v. ad es. il Trop(h)aeum Alpium della Turbia; 2) Tale eventuale popolo è, più o meno strettamente, affine agli Etruschi (secondo le dichiarazioni di Livio, di P. Trogo e di Plinio)? Ho già riassunto tali quesiti, per lo meno in parte, in Pellegrini 1985 e riprendo qui tale tematica. 34. Sull'eiftnos retico e sulle sue limitazioni si possono vedere i lavori di E. Meyer 1971 e di Regula/Frei-Stolba 1984; le ricerche di codesti studiosi risultano assai critiche anche nel supporre un ethnos retico compatto persino nella Helvetia e in quelle regioni che proprio dai Raeti trassero il nome in epoca romana, cioè di Raetia (poi suddivisa in Raetia prima con centro a Coirà - Curia e Raetia secunda con capitale ad Augusta Vindelicum, v. Pellegrini 1977c). Rimane comunque un problema fondamentale, quello di convalidare con sicure argomentazioni l'attribuzione ai Raeti delle iscrizioni bolzanine ed anauniche, perginesi ecc. le quali ormai da alcuni decenni si definiscono «retiche» e che all'epoca di uno dei primi studiosi, C. Pauli 1885, erano denominate «etrusco-settentrionali» (distinte dalle galliche, leponzie e dalle venetiche). Il Battisti 1943 e 1954 ha più volte insistito nel tentativo di abolire l'etichetta di «retiche» per le iscrizioni preromane citate, propendendo per (etrusche) «bolzanine»; è comunque assai difficile far corrispondere la lingua delle nostre epigrafi allo strato linguistico documentabile attraverso la toponomastica preromana alto-atesina e trentina (come pare ovvio). Il medesimo glottologo è invece propenso a ricercare degli stanziamenti sporadici di Etruschi nelle regioni suddette. Quanto alle schiatte dei Reti menzionate dagli autori antichi, una opinione ora assai diffusa - che è già adombrata nell'Oberziner 1884 - è quella di considerarli una specie di confederazione di tribù forse con un comune interesse politico (?) e non certo un popolo unitario che parlasse la medesima lingua. Più difficile è accogliere l'opinione di Vladimir Georgiev 1973 - identica a quella espressa da Osmund Menghin 1971 e 1984 - e cioè che essi rappresentassero una lega di popolazioni con un fondamento religioso analogo, cioè di genti che veneravano la medesima divinità individuata nella Reitia (tipica divinità venetica atestina). Anche se dovessimo considerare valida l'equazione lingua retica = lingua delle nostre citate iscrizioni, non v'ha dubbio che incontreremmo difficoltà insuperabili per trovare accordi precisi tra i vari testi (salvo rarissime eccezioni, indicate anche da me); non siamo in grado di estrarne una grammatica, né un minimo lessico ricavato dalle poche epigrafi sepolcrali e votive tutte assai smilze. Non vedo ad es. nessun accordo puntuale tra le iscrizioni - relativamente estese - di Steinberg nelTirolo del Nord, attribuite al «retico», e l'intero repertorio linguistico di tali testi che sono redatti in alfabeti spesso assai differenziati (Prosdocimi 1971). 35. Per quanto concerne lo strato linguistico prelatino dell'Alto Adige e del Trentino che forse spetta in buona parte a lingue preindeuropee, è bene accertato che anche il «retico epigrafico» è sostanzialmente non indeuropeo, pur avendo accolto elementi gallici e forse venerici. Può essere di sostegno più valido 28

la toponomastica antica. Il Battisti 1954, pensava ad immigrazioni «non solo culturali» provenienti dalla pianura alla quale potrebbero spettare nomi locali con puntuale concordanza tra Alto Adige e Trentino. Ma non mancano le convergenze tra il Siidtirol e il Tirolo al di là delle Alpi di cui un esempio paradigmatico è Teriolis (Not. dignit.), cioè l'attuale Ziri, non lontano da Innsbruck, e Tirolo/Tiròl presso Merano, donde il nome della regione. Quanto a tracce etrusche o etruscoidi della nostra area si dovrà tenere in considerazione - se non è casuale - l'assonanza di Vipitenum degli «Itineraria» (Sterzing), a. 827 Wipitina, 985 Wibidina, con l'antroponimo etrusco Vipi&enes (Pallottino, TLE 256, iscrizione sepolcrale da Orte). Anche Veldidena (Wilten), Pòrgine, Fèrsina e Mechel/Meclo in Val di Non, potrebbero appartenere ad uno strato etruscoide_, v. Pellegrini (1985b, 118-119). Ma ai nostri fini di determinare la genesi del «retoromanzo» mediante indicazioni che ci provengono dall'area tradizionale dalle lingue del sostrato (e all'eventuale «retico», non unitario, dovremmo aggiungere per lo meno il gallico e il venefico), quanto abbiamo qui sopra appena sfiorato con un rapido vaglio, ha una rilevanza minima, se non nulla. 36. Conviene ora passare all'area più vasta che, secondo la tradizione, è pure «retoromanza» o ladina e cioè quella friulana. Gli antichi sostrati anteriori ai Gallo-Carni non sono ivi identificabili con certezza, ma è comunque da escludere che nel Friuli si possa supporre una colonizzazione di genti «retiche», contrariamente alla strana ipotesi del Gartner (v. qui §16). Gli archeologi e anche alcuni storici ritengono invece che nelle vaste pianure friulane non dovessero del tutto essere assenti i Paleoveneti e non sono mancate le attribuzioni a tale popolo di stazioni archeologiche, specie individuate da alcuni anni. Del resto testi venetici provenienti dall'area friulana marginale sono stati reperiti da tempo e di recente ristudiati. Basterà ricordare a Nord le epigrafi di Gurina e di Wiirmlach (su roccia) nella Valle di Zeglia (Carinzia), il testo mutilo del Findenig-Thòrl, oppure ad Est i brevi documenti della necropoli di Idria della Baccia e soprattutto a Sud-Est l'iscrizione sepolcrale su situla da San Canziano del Carso (v. Pellegrini-Prosdocimi [1967, 577-628 o Lejeune 1974, 302-309]). Ritengo tuttavia che lo strato vene tico in Friuli sia stato assai modesto, soverchiato da quello gallico dei Carni. Gli eventi storici che portarono alla fondazione della colonia romana di Aquileia sono ben noti e mi basti rinviare a Calderini 1930, 12—17 o a Sartori 1960. L'inserimento di coloni romani nella città tanto importante per la difesa della romanità orientale fu piuttosto massiccio (anche dopo il 181 a.C., nel 169 a.C.). La conseguenza di tale penetrazione romana è ben visibile nella centuriazione aquileiese e nella costituzione di un agro assai vasto che comprendeva la massima parte della Bassa friulana. Le conseguenze linguistiche sono ovvie. La regione friulana fu rapidamente romanizzata e ce lo testimonia anche la toponomastica mediante la fittezza dei toponimi prediali coi suffissi-act/w ed -anum (v. Pellegrini 1958 e Frau 1978). 29

Si è spesso parlato di una «latinità aquileiese» - specie da parte di G. Marchetti 1952,12 - che starebbe alla base dei dialetti friulani e che presenterebbe delle particolarità linguistiche le quali nulla hanno in comune con il ladino dolomitico o col grigionese (fa eccezione ovviamente il Cadore che in origine è una appendice del Friuli). L'ipotesi mi sembra sostanzialmente accettabile e per lo meno probabile è l'altra supposizione, sostenuta dagli storici (Calderini 1930, 339; Pais 1918, 453) che i coloni aquileiesi provenissero dal Samnium e zone vicine 1 . Si potrebbe, in altre parole, confermare che la latinità friulana è di tipo assai arcaico e in qualche modo diversa da quella cisalpina e alpina che sono invece in proporzione più recenti. Ho tentato di sostenere tale teoria con qualche indizio linguistico che non ritengo ancora definitivo poiché è per ora fondato su scarsi elementi (Pellegrini 1990 in stampa). 37. La latinità cisalpina nella sua espressione più arcaica e non ancora soppiantata da innovazioni subappenniniche, dalle aree più meridionali, ha presto raggiunto le Prealpi e di qui si è spinta, successivamente anche nelle vallate alto-atesine attraverso il Trentino. Sono state romanizzate assai profondamente le valli più importanti (Adige, Isarco, Pusteria) ed è tale tipo di romanità che è poi rifluita nelle valli del Sella forse a partire dai secoli X e XI e anche dopo ; tali valli in epoca anteriore erano sostanzialmente prive di abitatori stabili (Battisti 1941, Pellegrini 1982 e 1990). L'area delle Dolomiti ove si continuano a parlare (spesso parzialmente) dialetti «retoromanzi» presenta dunque una romanità importata dalla Val d'Isarco (attraverso le valli laterali) ed in parte dalla Pusteria. Costituisce invece una vistosa eccezione il Cadore (la patria del Tiziano) con i suoi imponenti reperti archeologici ed epigrafici preromani e romani (più di 250 tombe, un centinaio di epigrafi, una villa romana ecc.), individuati nell'area centrale, v. Pellegrini-Prosdocimi 1967 e ora soprattutto Pellegrini 1991 (in stampa). Nel Cadore preromano, tanto il sostrato venetico, quanto quello gallico, risultano attestati con bella evidenza. Ivi si può comprovare anche la penetrazione latina attraverso i numerosi testi votivi di Làgole di Calalzo che in un primo tempo sono redatti in venetico per poi assumere anche forme latine ed ivi si nota successivamente il trionfo in loco della scrittura prima e poi della lingua latina. Dobbiamo pertanto riconoscere, con piena sicurezza, che i dialetti cadorini (una varietà del ladino centrale) si fondano sullo sviluppo di una cultura e di una lingua neolatina non importata di fuori, ma cresciuta e sostituitasi in loco a partire (col venetico) ad un di presso da 2500 anni (v. Pellegrini 1990). Si ha pertanto una regione cadorina centrale che si differenzia, per l'inserimento di gruppi umani stabili e cospicui, tanto dalle aree cadorine periferiche rappresentate da Cortina d'Ampezzo e dal Comèlico, quanto e soprattutto dalle valli del Sella (forse anche per la differenza altimetrica dei luoghi) le quali non conoscono la presenza di tribù e di popoli bene documentabili negli ultimi secoli a.C. e nemmeno in epoca romana, tardo antica e alto-medievale 2 . Comunque si debbano giudicare i problemi del sostrato del ladino dolomiti30

co, è sempre bene accertabile che - pur essendo parzialmente differenti - i parametri linguistici ladini fissati dall'Ascoli e dal Gartner sono sostanzialmente presenti tanto nel ladino atesino, quanto in quello cadorino. Non mancano tuttavia tra i due tipi dialettali le differenze che sono forse più evidenti in vari particolari lessicali. Non sarà del tutto da trascurare a questo proposito che i dialetti cadorini hanno risentito in qualche modo dell'antica dipendenza della regione da Iulium Carnicum, pur avendo accolto varie innovazioni provenienti da Sud, dal veneto settentrionale, mentre le parlate del Sella riflettono una originaria latinità alto-atesina (che - come abbiamo detto - si allaccia al cisalpino periferico e risente poi in misura assai massiccia dell'influsso germanico). 38. Dopo le ampie premesse storiche possiamo ora ridiscutere dei problemi più propriamente linguistici a partire dall'area occupata, in seno alla Romània, dal «retoromanzo». Quanto alla sezione occidentale grigionese, non vi sono discussioni anche se è facile constatare come essa si sia di molto ristretta specie nel corso dell'ultimo secolo (v. soprattutto Wunderli 1966). Ivi si distingue, come è bene risaputo, il sursilvano, il sottosilvano, il surmirano, l'alto engadinese, il basso engadinese ed il monasterino. Ma sono possibili altre sottodivisioni più sottili. Un tempo, prima della germanizzazione, era collegata a tale regione anche la Val Venosta. Quanto alla sezione centrale, si notano varie differenze e un progressivo restringimento linguistico del «ladino» rispetto alle suddivisioni dell'Ascoli. Questi distingueva: A) varietà ladine tridentine occidentali (Saggi 319—332) con la Val di Sole, di Rumo e di Non (con varie sottodivisioni); B) Gruppo tridentino-orientale e alto-bellunese (332-388) che era suddiviso in: Val Cembra, Val di Fiemme, Val di Fassa, Bacino della Gadera (Badia e Marebbe), Valle di Gardena, Livinallongo, Rocca d'Agordo e Laste, Ampezzo, Oltrechiusa cadorina, Comèlico. A tale sezione seguivano poi vari capitoli dedicati al Veneto (da p.391 ss.), con le cosiddette «anfizone» suddivise in «ladino-veneto» e «veneto-ladino», per giungere con tali varietà sino a Venezia. L'A. riservava poi un capitoletto ai «territori nei quali confluiscono il ladino centrale e l'orientale» (cioè bacino del Vaiont e le due alte valli del Cellina e Tagliamento), ma su ciò v. Francescato 1970, 75—96. La terza sezione, quella orientale, costituita dal friulano, è quella meno ampia come trattazione (474—525). Su quest'ultima si veda l'articolazione interna proposta dal Francescato 1966 e da noi seguita nell'ASLEF, v. Pellegrini 1972, 360-82. Anche sul confine del tipo linguistico friulano non vi sono sostanziali differenze nella bibliografia specialistica, salvo lievi varazioni nell'interpretazione del confine occidentale tra veneto e friulano (v. anche Ludtke 1957 e ASLEFI, tav. XI). 39. Assai complessa è ora la definizione geografica del «ladino centrale» che spesso è ristretto al «ladino dolomitico»; per molti autori infatti la sezione ascoliana del trentino occidentale è interamente abbandonata e il concetto di «ladino dolomitico atesino» è fondato principalmente su principi storico-politici, sostenuto e divulgato soprattutto dagli scritti di Carlo Battisti (ad es. 1941). Il 31

ladino si arresta, scendendo lungo l'Avisio, a Moena, (v. specie Heilmann 1955 ecc.) e così la parlata «alloglotta» di Moena è divisa da quella «italiana» di Predazzo da una serie (in parte presunta) di isofone. Analogamente il «ladino» si arresta al Livinallongo e Colle, mentre sono «italiane» le parlate di Rocca e Laste. Ladina è, secondo alcuni autori, Cortina d'Ampezzo, dato che appartenne all'Austria per quattro secoli, mentre l'Oltrechiusa cadorino e il Cadore sono «italiani». Tali criteri politici, di cui in parte è responsabile il Battisti, sono pienamente accolti dagli studiosi austriaci e dalle popolazioni locali del Sella con l'unica differenza che al ladino così concepito si aggrega sempre Cortina d'Ampezzo, già austriaca, mentre si ignora il resto del Cadore (con qualche eccezione per il Comèlico). Bisogna aggiungere che le discussioni scientifiche puntuali, più che respinte, sono in generale ignorate (anche volutamente) e che le popolazioni locali del Sella sono entusiaste nell'accogliere una concezione del «ladino» fondata su parametri quasi unicamente politici. E non staremo qui a riportare una bibliografia arcinota e populista, tanto gradita non soltanto ai valligiani, ma spesso anche agli Italiani incolti. 40. Dato che ci siamo proposti di discutere sulla genesi del nostro linguaggio, ci sembra opportuno di aggiornare concretamente le conoscenze di tali dialetti ed in particolare del ladino dolomitico e del friulano, tenuto conto che in codesti settori si possono apportare varie correzioni ed integrazioni alla versione tràdita (specie rispetto ai citati manuali che nulla portano di nuovo in tanti decenni di ripetitività). Consideriamo dapprima i fenomeni fonetici particolari del retoromanzo e soprattutto come essi ci appaiono oggigiorno per poi soffermarci un po' più a lungo sul lessico, completamente trascurato, ma ritenuto ora tanto importante per ogni classificazione dialettale. Cominciamo a citare i parametri ladini ascoliani a partire dai meno caratterizzanti, data la loro ampia diffusione nella Cisalpina (Ascoli 1873, 337): 1) «continuazione di u lungo per u (caratteristica x)», non è necessario soffermarsi, dato che tale isofona abbraccia la massima parte dell'Italia settentrionale (in epoca antica anche aree trentine più vaste e venete occidentali), Rohlfs §35, Battisti 1946, carta 2, Pellegrini 1977, 80-81; 2) «tendere a suono gutturale di TV che viene all'uscita...» ( X ) , Rohlfs § 305 (assai rare sono le aree di -n dentale) ed il fenomeno è comunissimo anche nell'italiano regionale settentrionale, vir) per vin; 3) «c nella continuazione della formula CE, CI» (§), v. Battisti 1937, 52, ove si cita anche la toponomastica e prestiti neolatini nel cimbro, v. Rohlfs § 152; 4) «g nella continuazione della formula GE, Gì» (v), v. Rohlfs § 156; 5) «z da £ e zj di fase anteriore» (|x). Anche qui basti citare Rohlfs § 156: «maggiore sviluppo ha preso nell'Italia settentrionale l'ulteriore grado postdentale z (= ds) il quale si incontra nella maggiore parte dei testi antichi settentrionali (espresso ortograficamente con z o g), cfr. l'a. lomb. gente, gentil, l'a. padov. zente, zerla, zelore... conservato nei dialetti montani della Liguria e nelle colonie galloitaliche, nel lomb. orientale ecc.; 6) «sviluppo di u da L nella 32

formula ALT ecc. > aut (i), basti una occhiata a Battisti 1946, carta 9 e Rohlfs § 343 ; 7) «rompersi in dittongo di S in posizione (5), v. vari esempi in Rohlfs §§90 e 91, 94, nella toponomastica basti citare i numerosi Tiera da terra; 8) «rompersi in dittongo di 6 in posizione (e), v. Rohlfs § 115 (dial. veneti); 9) «determinarsi di ue (onde iie, ó), forma del dittongo che proviene dall'i? e dall' 6 in posizione (£,), basti vedere Rohlfs §§ 112,113,114 e 117; 10) «rompersi in dittongo di è lungo e i breve, in dittongo la cui schietta forma è ei» (r|), qui rinvio a Battisti 1946, carta 4, ove si distingue per l'Italia superiore la zona di e > ei, di e > ei > t ed una area emiliana in cui ricorrono i due esiti, inoltre Rohlfs § 52 (e > ei nella zona estrema nord-occid. della Toscana), § 55 (Italia settentrionale); ma ancora più importanti sono gli esempi veneti, bellunesi e alto-trevigiani per i quali v. Pellegrini 1987, 363, 367 e Tornasi 1988, 316-17 (ad. es. nei 'neve', Canapéi, Faveréi, Roréi ecc.). 41. Quanto a 11) «Propendere \'à entro determinati confini a volgere in e,; massime se preceduto da suono palatile o palatino» (d). Tale fenomeno, esposto in codesta formulazione, molto ampia, si presenta assai documentato nell'Italia superiore e in altre regioni, basta uno sguardo a Battisti 1946, carta 1, oppure Pellegrini, Carta 1977, isofona 6, inoltre Rohlfs § 19. Il Battisti 1906 e 1926 ha potuto fissare con precisione i vari comportamenti nell'evoluzione della a tonica latina nei dialetti ladini atesini e in quella occasione ha esplorato anche Rocca Pietore (poi interamente dimenticata!). E' possibile fissare pur nella varia e straordinaria casistica evolutiva, il criterio di una evoluzione a > e spontanea (preceduta da allungamento) in sillaba libera. Nel friulano (tranne in pochissimi punti) si ha soltanto l'allungamento e non à > e, mentre il fenomeno citato abbraccia le aree di colonizzazione medievale atesina; così si ha a > é in sillaba libera nei dialetti di Badia-Marebbe, Gardena, Fassa e Livinallongo e tale fenomeno è esteso al comune di Rocca Pietore con Laste, ma si arresta con precisione al vecchio confine di colonizzazione settentrionale, cioè alla Pettorina, mentre a Sud, ove la colonizzazione è bellunese, lo sviluppo di a > e è di origine solo condizionata ( c è f a poiché precede c, ma carità, non -é o -è). Il dialetto di Colle di S. Lucia ignora à > e per sviluppo spontaneo (v. Pellegrini 1955,293-304), ma ivi si tratta forse di retrocessione (?) ed il Battisti 1941,130, erra qualificando «ladina» Colle e «veneta» Rocca Pietore. L'evoluzione di a > e non pare peraltro molto antica, v. la datazione del Battisti 1926 e del Kuen 1923a = 1970, 1 — 11. Tale fenomeno doveva peraltro essere in germe (?) al momento dell'insediamento delle popolazioni nelle vallate dolomitiche, forse allo stadio di una a molto protratta. Per lo sviluppo a > e condizionato si ha tutta una serie di gradi scendendo ad es. lungo i principali fiumi (Pellegrini 1955,293). Il Cadore e Cortina d'Ampezzo si allontanano qui - date le premesse storiche! - unitamente al Friuli ed ignorano a > e come sviluppo spontaneo, v. anche Battisti 1946—47, 18-19 e Tagliavini 1926, 29-33 per il Comèlico. Si potrebbe comunque attribuire al ladino atesino, come fenomeno caratterizzante, a > e per sviluppo spontaneo (v. anche Kramer 1977, 43 —52) e sarebbe in diacronia l'unico (e modesto) fenomeno fonetico del ladino dolomitico atesino. 33

42. I fenomeni seguenti sono ritenuti particolarmente caratterizzanti, ad es. dal Merlo 1924—25, 18; questi ritiene che se essi fossero veramente diffusi nell'Italia settentrionale, tale ampia regione non potrebbe ritenersi di dialetto italiano (banale ingenuità!). Quanto a 12) «Conservazione di L delle formule PL, CL, ecc.» ((3), il mantenimento della laterale è attestato a tutt'oggi in ampie aree cisalpine, specie della zona lombarda alpina e delle province di Bergamo e Brescia, v. per un primo orientamento Pellegrini, Carta 1977, isofona 2, ma non v'ha dubbio che la conservazione era assai più diffusa nei secoli passati, come attestano i nomi di luogo nelle forme documentarie v. Rohlfs § 176 (specie la nota 1) il quale osserva che probabilmente bl, pi, fi, si sono mantenuti più a lungo di ci, gl, come confermano i testi lomb. ant. e alcune valli lombarde periferiche. Nel Veneto settentrionale - anche a prescindere dai testi antichi - si notano tracce della conservazione nei nomi di luogo e da tempo ho indicato la pronuncia Plaf per l'area di Vittorio Veneto ( < Plavis 'il Piave') v. Tornasi 1983 e Zanette 21980 s.v. La risoluzione dei nessi è fenomeno anche tassano (avvenuto verso la metà del secolo passato) e dei dialetti cadorini compresi Cortina e il Comèlico. Ma non mancano chiare tracce della conservazione ad es. nella Val di Cembra (TN), ove i nessi erano ancora intatti nella pronuncia dei vecchi verso il 1935 (Pellegrini 1990, dietro indicazioni dell'inchiesta Pellis per l'ALI). 43. Per 13) «Conservazione di -S di antica uscita» (y) si sa che tale fenomeno - come altri - coinvolge anche la morfologia per quanto riguarda la formazione dei plurali. Il Gartner 1910, 204 infatti tenta di opporre italiano e retoromanzo per -as di pi. e anche per la seconda persona del verbo in -S. Quanto a quest'ultima caratteristica di -S conservato, è facile dimostrare l'ampia estensione soprattutto nei testi antichi v. anche Meyer-Lübke 1890, 272, Battisti 1937, 53 e ora Rohlfs § 528, ove si osserva che -s finale è relativamente ben conservato nell'a. venez. e il veneto seriore non conosce -5 che nelle forme as, vas, sas; anche l'a. lomb. di Uguccione ha -s nei monosillabi e le altre zone dell'Italia settentrionale dove si è conservato hanno una parlata vicina al tipo provenzale o ladino, come per es. Saluzzoportes, pèrdes, tenes . . . a Livigno cantas, vedas, vas (ecco la solita Romània continua!). Nel veneziano ant. (sonetto del codice colombino di N. de' Rossi) si noti: sis, averàs, seràs e nei plurisillabi: montis, afrontis, contis, vadagnis (Corti 1966, e Pellegrini 1977a, 58). La conservazione di -s nei plurali è assai comune nei dialetti cadorini, Pellegrini (1972, 1978) e Pellegrini in De Lorenzo 1977 Prefazione. Per una diffusione approssimativa del fenomeno v. la carta 5 di Battisti 1946 e soprattutto Wartburg 1950, Karte 3. Ma io ritengo che la mancanza quasi totale della metafonesi nei sostantivi al pi. dell'antico veneziano possa celare antiche forme di pi. sigmático (v. Pellegrini 1977a, 59—60). La novità - anche se per il momento isolata - è ora venuta da una lettera di un mercante veneziano scritta a Pignol Zucchello, da Chandia, 1*8 giugno 1348; ivi si legge: «ebis a mente de vardar lo meo drapo biavo ... ebis a mente di tute le mie massarie . . . che tu sis . . . E sapis che io son amalado . . . du 34

( = tu) savaras melio li presis cha [che ha] e i a . . . » : ove, non potendosi dubitare dell'autenticità della lettera redatta in un veneziano autentico e non sorvegliato, si deve constatare nel dettato non soltanto una ricchezza di forme verbali con -s conservato, ma anche un esempio di chiaro plurale sigmático con presis 'prezzi' da presi (con la sonora) nel veneziano epistolare della metà del sec. XIV (Pellegrini 1988a, 2 7 - 2 8 e 1987b, 5 9 - 6 0 ) . Si ha pertanto l'impressione che le forme in -S fossero state radiate presto anche nel veneziano dall'uso ufficiale, ma che esse non fossero ancora estinte nel linguaggio popolare. Del resto il Rohlfs (1952,26—27) riconosceva che nella Cisalpina ed in particolare a Milano verso il 1000/1100 si dovesse pronunciare las kavras «le capre» ed io suppongo che forse la pronuncia era già las k'avras (cavras). 44. Fondamentale anche per l'Ascoli era 14) «Passare in palatina la gutturale delle formole C+A e G+A» (a). L'Ascoli 1873 ha segnalato per il venez. ant. la forma chiari, chiarii (più volte) in Fra Paolino Minorità, De Regimine rectoris (edizione Mussafia) con il seguente commento: «nessuno vorrà ormai più ripetere questi prodotti fonetici dal prov. o dal francese. E' dimostrato che d'altro mai si tratti se non di fenomeno indigeno e schiettamente popolare». Accettiamo in pieno l'osservazione dell'Ascoli. Credo qui che il Battisti 1937, 9, abbia torto a criticare l'Ascoli che «arriva persino a considerare come resti ladini i chiari, chiarii del «Regimine» che il Mussafia (143), con molta maggiore misura, attribuiva ad una ingerenza della forma francese e a vedere cui = chi, dello stesso testo, il fri. cui». E ' per me assai strana l'osservazione del Battisti il quale, d'altro canto (1937, 50), ricorda Chiafaro per Càfaro nella Valbona e Val di Ledro cama 'chiama' che nasconde ka>k'a originario, la pronuncia chia per ca del Perginese attestata da Tomaso Bottea ecc. Ora possiamo disporre di ben altri sostegni per giudicare il chiari di Fra' Paolino. Nel Cavassico (bellun. della prima metà del sec. XVI) compare chiari e giate 'cani e gatti' (Pellegrini 1977a, 315). Il Salvioni 1901 dimostra quale era l'originaria estensione della palatalizzazione di CA, GA nelle Alpi lombarde e come essa sia retrocessa quasi sotto gli occhi (non attenti) dei parlanti. Il medesimo Salvioni 1917 ha richiamato le condizioni del galloitalico di Sicilia (sanfratellano), ove si conosce la suddetta palatalizzazione cisalpina e v. ora Vigolo 1990 (in stampa). Ma una visione completa e esaustiva del fenomeno nella Cisalpina è stata fornita soprattutto da H. Schmid 1956 (ed anche 1980) il quale ritiene giustamente che sia stata la pianura padana il centro di irradiazione del mutamento fonetico diffusosi originariamente da Sud a Nord; in ogni caso il fenomeno avrebbe portato ad una certa unità tra palatalizzazione cisalpina e quella retoromanza; quest'ultima non starebbe in diretta relazione con quella francese, secondo una visione errata, con la definizione di «galloladina», da abbandonare del tutto. Non mancano tentativi di sostenere tale visione arretrata, ad es. Craffonara 1979 sul quale v. Pellegrini 1982, 4 1 - 5 6 . Qualche nuovo esempio si trova in Pellegrini-Tomasi 1983 per l'area di Revine (Treviso). Anche nell'Egloga di Morel (trevisana, edita dal Salvioni) le forme del tipo cama, chama ecc. per 'chiama' ci indiziano il fenomeno già menzionato e 35

così pure lo zoldano (BL) Fornesige da fornacicüla, ora Fornesìghe v. Pellegrini (1985a, 219—221). Una serie di voci venete con palatalizzazione è stata poi fornita da Vigolo 1986 e 1989, ad es. oyo de vachia (padov. ant.) una pianta 'Anthemis Cotula', ove l'origine di vachia non è certo friulana dato il precedente oyo, voce veneta, 'occhio'; giondar, far gionde 'godere', 'gongolare' che risale a gaudère -äre; davon, chiavon (Chioggia) 'Mugil Capito' che viene da caput + -öne 'testone', gavizo/garizzo 'Spicaria vulgaris'; s'ciavete de spago 'gavette di spago', Chiastel d'Isopo presso Recoaro (Vicenza), molti Chiampo (Vicenza e Treviso) da campus (non < *campulus), Chiaregón (valli del Chiampo) non lontano da Punta del Caregón e da Carega (Lessinia, Verona). Ho riconosciuto in gaburo, giburo 'zotico' dei dialetti bellunesi e alto-trevisani il longobardismo *gaburo- 'contadino', ecc. Ma importanti sono anche i prestiti vicentini accolti dal cimbro, che a volte ci offrono il solito fenomeno e ancor più le informazioni del Pellis (1935) che confermano la pronuncia dei vecchi con la palatale per Fàver di Cembra (TN) 3 . Da poco ho potuto avere notizia della diffusione di ¿alt 'caldo' nella zona diTarzo (Treviso), informazione di Piero Garbellotto, cultore di memorie locali (ora da me controllata in loco). Anche il Lausberg (1974,200) segnala la palatalizzazione a Breme (Pavia), ad es. ca 'casa' e gat 'gatto'. Quanto allo sviluppo della palatalizzazione si dovranno ancora studiare vari particolari cronologici ecc. A me pare che si tratti di un fenomeno «intermittente» e mi è sembrato corretto confrontarlo anche con la analoga palatalizzazione dei dialetti balearici, ove ca oscilla spesso con k'a, Pellegrini 1972, 122 (ivi bibliografia). 45. Tra le caratteristiche fonetiche del retoromanzo cui si attribuisce spesso grande rilevanza (ma non sottolineata dall'Ascoli) va menzionata la cosiddetta «Verhärtung» dei dittonghi (o -k parassita), fenomeno che dal grigionese si continua nel franco-provenzale vallese, onde da neif si ha nekf, da seira (sera) > segra oflour >flokr ecc. Oltre al Gärtner 1910,165-169, ne parla il Rohlfs 1981, 19 ed è un tratto fondamentale del retoromanzo anche per Vidos 1963, 313—15. In realtà il fenomeno è noto al grigionese e non manca del tutto al friulano (v. Francescato 1963), ma esso è attestato nel ladino centrale solo dal livinallonghese siek da siei 'sei'. Da tempo ho invece ricordato gli esempi del bellun. ant. con siech (Cavassico) per siei 'assai' o siei 'siepe' o siei 'sei'. Nella toponomastica agordina si ha Paréch, Frasenéch, Pedréch, Pellegrini 1955, 31—32. Ora si debbono aggiungere gli esempi per l'area trevigiana riuniti da Tornasi 1988, 316—17: sek 'sete' da sèi e vari nomi locali: Pianéch, Lastréch da -ei. Anche in codesto caso si dovrebbe riconoscere che si tratta di fenomeno fonetico anche cisalpino, non di certo sceso nelle Prealpi (!) dall'area «retoromanza». 46. Il Gärtner 1883 e 1910 riconosceva come tipici del retoromanzo nei confronti della Cisalpina più o meno i medesimi tratti riconosciuti dall'Ascoli. Egli li ha distinti in fonetici, morfologici (con l'aggiunta di una caratteristica 36

sintattica) e lessicali : questi ultimi particolarmente infelici. Lo studioso austriaco accenna a) alla sincope del proparossitono. Già il Battisti 1937,48, annotava che il fenomeno identico (o quasi) oltre che nei Grigioni (nel ladino atesino e nel friulano è un tratto quasi ignoto, mentre esso è frequente nel Comèlico) si ha in Piemonte, Lombardia ed Emilia, oltre che nella massima parte dei dialetti rurali del Trentino. Anche il Rohlfs § 138 sottolinea che la caduta della vocale mediana è caratteristica dell'Emilia e Romagna, cfr. emil. frase 'frassino', gumde 'gomito', sensa 'cimice'; b) la conservazione di / dopo consonante, vedi qui § 42; c) la palatalizzazione di c, g davanti ad a, v. qui § 44; d)