La Dialettica negativa di Adorno. Categorie e contesti [First ed.]
 9788872854952

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LA NUOVA TALPA

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a cura di Mariannina Failla

la dialettica negativa di adorno categorie e contesti

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© 2008 manifestolibri srl via Tomacelli 146 – Roma ISBN 978-88-7285-495-2 www.manifestolibri.it [email protected] newsletter www.manifestolibri.it/registra Il presente volume è stato realizzato con il contributo del Dipartimento di Filosofia dell’Università degli studi di Roma Tre, fondi Prin 2006 Prof. Marramao.

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INDICE

Introduzione di Mariannina Failla

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NON-IDENTICO, DARSTELLUNG L’espressione dell’inesprimibile di Pietro Lauro

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Darstellung, retorica e stringenza in Th. W. Adorno di Stefano Marino

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CONTESTI G. Mahler e Adorno di Elio Matassi

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DIALETTICA La dialettica come modello di Nicoletta Di Placido

51

L’excursus su Hegel: ontologia fondamentale e dialettica di Marco Jacobsson

61

CONTESTI Th. W. Adorno: lo spettro di J. Derrida? di Paolo Mulè

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Soggetto e oggetto: un confronto tra Adorno e Foucault di Miriam Iacomini

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LIBERTÀ Adorno: l’intreccio di libertà e natura di Lucio Cortella

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«Essere altro da come si è» di Vincenzo Rosito

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CONTESTI Dialettica negativa e antropologia negativa. Adorno-Anders di Micaela Latini

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METAFISICA L’eternità dell’annientamento. Note di lettura a ‘Dopo Auschwitz’ di Paolo Vinci

157

La meditazione sulla «metafisica» nella Dialettica negativa e nelle lezioni di Stefano Petrucciani

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«Possibilità dell’impossibile». Figure de ‘Le meditazioni sulla metafisica’ di Dario Gentili

183

Adorno: arte ed estetica dopo Auschwitz di Giuseppe Di Giacomo

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Introduzione: Cosa vuol dire salvare? Mariannina Failla

LE PATOLOGIE Molti sono i mali di cui soffre la philosophia prima secondo Adorno. Innanzitutto una concezione matematica dell’Uno e dei molti1 che tanto ha pesato – ad esempio nella filosofia platonica – sulla reificazione delle riflessioni etiche. Il primato dell’impianto matematico snatura la virtù, la sua stessa origine etico-politica facendone un problema essenziale/eidetico che ha il proprio modello nella teoria dei numeri ideali2. L’altra grave patologia è la ricerca dell’invarianza che segna l’arcaica estromissione della vita dall’Essere stesso. Dire che quanto perdura sia più vero di quanto trapassa è una conclusione fallace, illusoria, ma soprattutto nasce da una confusione – sottolinea Adorno utilizzando a piene mani la filosofia di Nietzsche – la fatale confusione fra invarianza, costanza, identità dei concetti e invariabilità dell’Essere3. La filosofia prima ha così una colpa ontologica o un «bisogno ontologico» originario che la inducono a mutilarsi. La confusione fra invarianza dei concetti e identità in sé dell’Essere fa sì che la philosophia prima veda la morte, il caduco, la stessa procreazione, la crescita, il mutamento, come confutazione di sé e metta in atto una vera e propria amputazione della vita da sé. Tutti coloro che hanno eliminato il caduco dall’Essere, credono – scrive Nietzsche nella Götzendämmerung – addirittura con «disperazione all’ente», ma poiché non riescono ad impadronirsene vanno in cerca dei motivi per cui ne debbano essere privati. E la gnoseologia? Quale posizione occupa rispetto alla philosophia prima? Essa, dice Adorno, ha tentato di innalzare l’assolutamente primo ad assolutamente certo, ha sperimentato una sorta di trasmigrazione dall’Essere alla certezza, ma ha una peculiarità: assume una posizione privilegiata, direi di punta, che molto può insegnare. Essa diviene il luogo in cui più acute sono le contraddizioni e pertanto più forte è la repressione attuata dal pensiero identitario. La gnoseologia rappresen7

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ta un maggiore potere costrittivo esercitato dalla filosofia dell’identità4. Più della philosophia prima la teoria della conoscenza ha a che fare con il duale. È per questo che al suo interno più forte è la repressione identitaria. Laddove si apre un varco per la libertà dalla mutilazione, proprio lì più dura, incisiva, impietosa è la repressione5. Nel luogo in cui si dispongono e si conformano come poli i termini fondamentali della riflessione dialettica (soggetto e oggetto, reale e concetto, immediatezza e mediazione, universale e particolare) più evidente, più smaccato, più violento diventa l'esercizio identitario6. La gnoseologia è dunque un ricettacolo di patologie conclamate il quale, proprio per questo, rende possibile una diagnosi affidabile per la stessa terapia anti-identitaria. Non dobbiamo dimenticare: essa è l’ambito in cui l’oggetto, il non-identico – come ci dice Adorno – non riesce a dissolversi completamente nel soggetto e la soggettività si oppone all'idea di un assolutamente primo immediato. La teoria della conoscenza diviene, allora, destinataria di un interesse privilegiato, diviene anzi l’ambito della «riflessione» che va in qualche modo salvato. Ma azione salvifica, critica e dissoluzione vanno di pari passo in Adorno. Ed è questo nucleo concettuale che mi sta a cuore nella presente introduzione7, convinta – come sono – che introdurre non significa illustrare, passare in rassegna i singoli contenuti. Introdurre non ha una funzione antiquaria, bensì vitale: prepara lo scenario al coro delle interpretazioni, pur se in lotta fra loro. LA VIA DELLA SALVEZZA Rammemorare la sofferenza [Eingedenken des Leidens] è la strada per salvare i concetti; la via salvifica è dunque un calvario dello spirito il cui telos non è la conciliazione, bensì la critica, la critica filosofica. Questa è, poi, dissoluzione dei concetti. Ma cosa vuol dire dissolvere i concetti? Significa smascherarne le apparenze, non perché vi sia dietro un’essenza nascosta da svelare, non perché l’azione dello smascheramento debba portare ad un nucleo vero, autentico che si tramuti di nuovo in realtà prima e da smascherato torni ad essere maschera. Se non si legge male, nel § L’essenza e l’apparenza di Dialettica negativa Adorno vuole proprio dire questo: vi dev’essere un rapporto fra essenza e apparenza per non finire – come ammoniva già Nietzsche – nel positivismo più bieco, ma tale essenza non può essere ipostatizzata da un soggetto né tanto meno 8

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consolidarsi nella fissità. Qui, ossia nella fissità e ipostatizzazione, il concetto di essenza si forma solo attraverso la contraddizione, l’opposizione, l’antagonismo dell’ente con ciò che esso voleva essere, [la sua idealità]8. Per Adorno non c’è “essenza” nel senso di una realtà fissa, perenne, immutabile, ossia di un “nucleo” nascosto del reale da svelare una volta per tutte. L’«essenza» tuttavia pur «non essendo» deve darsi, proprio perché altrimenti si scivolerebbe nel positivismo o nella sua controparte negativa, lo scetticismo nichilista9. L’essenza non è alcunché di originario, ma è, ed è solo nell’apparenza. Nell’apparenza stessa vive ed agisce l’essenza e nella purezza illusoria delle essenze si ordiscono le trame della mistificazione. Dunque tutto è dato in ciò che appare: il guscio e il nocciolo, direbbe Goethe10. Dicendo «essenza» si vuole esprimere il fatto che non v’è altro mondo oltre quello fenomenico – afferma Adorno davanti ai suoi studenti nel 1952. È nel mondo primo ed ultimo dei fenomeni, della realtà che nascono i veli dell’apparenza, ciò che Adorno chiama le ideologie11. Smascherare le apparenze, i veli, le ideologie è questa l’azione salvifica della critica filosofica. Salvare allora non è operazione esterna, essa, al contrario, è interna al concetto: laddove il concetto mostra la sua non verità, proprio lì emergono anche elementi della sua verità12. La vera profondità (il vero, l’essenza) si dà solo in superficie, ossia nelle apparenze. Adorno chiama profonda una riflessione che unisca alla conoscenza dell’essenza il «salvataggio» delle apparenze13. È dunque profonda non la concezione idealista del soggetto, che scava negli anfratti più remoti dello spirito, come voleva Hegel, o quella kantiana che vuole ricondurre la mediazione trascendentale fra intelletto e sensibilità all’immaginazione trascendentale, la cui radice è, per l’appunto, profonda, sconosciuta, imprescrutabile. Profonda è invece la capacità di rimanere in superficie e nella superficialità cogliere il vero del non vero nonché il non vero del vero. Uno dei momenti in cui si scorge la coesistenza nei fenomeni di vero/non vero, di coazione e sofferenza, uno dei momenti in cui il concetto coglie i propri limiti, anzi il suo limite per eccellenza, è espresso dall’antinomia. L’antinomia, come altre figure riflessive, non coincide, non è il non-identico, ma lo lascia apparire in una forma particolare, lo fa apparire come il «nulla», il «vuoto» del concetto identitario, come ciò che il concetto scarta nella sua tensione all’invarianza. L’antinomia è il punto zero, der Nullpunkt o il punto cieco (blinde 9

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Stelle) della logica identitaria14. Il pensare antinomico finisce per mostrare l’aporeticità, anzi l’enigmaticità dell’incontro/scontro del «concetto» con l’altro da sé, con la cosa, con il reale. L’antinomia segna la cecità del pensiero identitario nei confronti del particolare. È il momento in cui il pensiero si «vede» cieco rispetto al qualitativo, al reale, al non identico. Essa è quindi il momento in cui il reale, l’oggetto può iniziare a parlare di sé, prende la parola, si esprime, ma come nulla, vuoto del pensiero. L’antinomia dunque è una figura che non riguarda l’universale, ma il particolare e lo indica, lo fa emergere come il niente del concetto identitario15. Un’altra figura della riflessione grazie alla quale l’oggetto fa capolino rivendicando dignità è la mediazione. La mediazione, cui pensa Adorno è innanzitutto quella di soggetto e oggetto in cui emerge una significativa asimmetria dei due termini. Se mediare l’oggetto significa reagire al materialismo ingenuo e dogmatico fino a sostenere che l’oggetto è conoscibile solo «nell’intreccio con la soggettività», tale mediazione non è equivalente a quella soggettiva. L’azione di mediare il soggetto deve essere accompagnata dalla consapevolezza che questi senza l’oggetto, l’altro da sé, la res fuori di sé sarebbe un nulla16. La mediazione fra soggetto ed oggetto si nutre di una diseguaglianza fondamentale: il soggetto è il termine senza il quale la realtà fuori di noi non è conoscibile, ma l’oggetto, il momento oggettivo, ha una funzione salvifica nei confronti di un soggetto che rischia il proprio nulla. L’oggetto àncora il pensiero alla cosa. L’ancoraggio non è però appiattimento del pensiero e del soggetto reale, esso non sancisce il trionfo della materia sullo spirito poiché ogni legame è per Adorno anche il proprio opposto, cioè il suo scioglimento. Il legame non subordina il pensiero al fatto, ma al contrario veicola la libertà del pensiero. Il compito del pensiero è proprio quello di opporre resistenza al reale. In «questa resistenza» – dice Adorno – sopravvive il momento speculativo. Lo speculativo è reazione al dominio tout court dei fatti, è non lasciarsi dare da essi la propria legge, è autonomia, libertà dalla legge inscritta nei fatti, la quale è però anche vicinanza agli oggetti, non loro negazione identitaria17. Libertà e Widerstand 18, in Adorno, sono intimamente connessi. La libertà del pensiero, il suo più alto momento speculativo, è un movimento duale di legame e trascendenza19. Concepire la resistenza come luogo di nascita della libertà di pensiero la designa come uno snodo di rapporti: nella resistenza si instaura una relazione stretta sia con o contro cosa si resiste sia con ciò per cui si resiste. 10

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Se si potesse immaginare un pittore capace di legame/trascendenza rispetto al reale si potrebbe pensare a Marc Chagall, non tanto ai suoi quadri biblici, ma ai suoi mazzi di fiori, ai suoi galli, alle scene concrete della vita di paese. In quei quadri è la realtà a rimandare oltre se stessa, al pensiero che se ne può avere senza offendere né mutilare. Anzi, detto meglio, si può dire che quei quadri sono un pensiero non mutilante del reale, un pensiero che pur aderendo al reale lo trascende, non lo ratifica, bensì impone una riflessione che squarcia i veli delle apparenze. I suoi quadri, allora, non riproducono, ma espongono il reale. La mediazione in Adorno è mossa dall’esigenza di restituire dignità all’oggettivo e lo spinge verso un realismo critico, in cui il soggetto è visto come medio dell’apparire del reale, come condizione imprescindibile della sua conoscibilità, ma non del suo istituirsi. Restituire dignità, il gesto etico verso l’oggetto, ha pertanto una derivazione in primo luogo negativa: muove dall’esperienza del fallimento che lo spirito fa ogni volta che cerca di instaurare l’oggetto. La mediazione, cui allude Adorno, deve evitare un equivoco fondamentale, quello per cui i poli contrapposti vengono considerati uguali a spese della loro differenza qualitativa. Soggetto e oggetto si mediano, ma non hanno un’equivalenza qualitativa. Il momento oggettivo è la ratio essendi del soggetto, il momento soggettivo è la ratio cognoscendi dell’oggetto. La mediazione ha inoltre un peculiare rapporto con l’immediatezza. La mediazione oggettiva, ossia quella mediazione senza la quale il soggetto sarebbe «niente», non viene tolta (aufgehoben) da alcun elemento, mantiene una tensione e un rapporto aperto con il suo polo opposto: l’immediatezza20. L’immediatezza è lo spettro dell’intera riflessione hegeliana. Già nella percezione sensibile l’immediato viene fugato ricorrendo alla funzione generalizzante del linguaggio. La stessa percezione sensibile – per Hegel – non è immediata ma frutto di mediazioni sia oggettive che soggettive le quali trovano espressione nella universalità astratta del linguaggio. Fin dalle prime pagine della Fenomenologia dello spirito, dedicate all’esperienza della coscienza sensibile, si trova questa preoccupazione: l’«esso è» o il «qui c’è», forme di opinione relative all’immediatezza dell’essere, sono in realtà opinioni mistiche sull’essere, indicano un ineffabile, un a-logon se non arrivano ad espressione linguistica. La certezza sensibile o certezza dell’immediato non può dire il proprio oggetto senza introdurre una 11

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mediazione, quindi senza superare il sentimento mistico della presenza ineffabile di qualcosa. Correr via dall’immediato fin dal primo deittico, fin dal primo «questo qui» della coscienza, spinge Hegel, però, a trascurare o obliare una «differenza» fondamentale per il pensiero critico: il bisogno di conoscenza e mediazione dell’immediato e il bisogno che la mediazione ha dell’immediato sono ben diversi21. Dunque la mediazione cui pensa Adorno è una mediazione che esige incessantemente l’immediato proprio per combattere con un non-concettuale il trionfo della mediazione, il dominio del concetto sul reale concreto22. Non bisogna cadere, però, nell’errore di pensare che il bisogno dell’immediato in Adorno corrisponda alla venerazione di un mistico e inesprimibile «questo qui». Salvare è un’azione benefica del pensiero verso se stesso, veicolata da un’insopprimibile esigenza di stringenza. La critica smascherante e salvifica della filosofia è azione fondamentale del e per il concetto se esso vuole emanciparsi dalla coazione all’identità. L’azione salvifica presuppone una fiducia vigile e problematica nel pensiero e non vuole sfociare nell’esaltazione di primordialità mistiche o irrazionali, sottratte all’espressione linguistica. La distanza che Adorno prende, ad esempio, da Bergson nel delineare l’interesse della filosofia è qui centrale. L’intuizione vitale di Bergson ha – dice Adorno – un carattere preistorico che, quando si deve tradurre in concettualità, utilizza acriticamente l’apparato metafisico che intende colpire e combattere. Si deve evitare di cadere nello Identitätszwang (nella coazione identitaria) ma anche nell’irrazionalismo. Si deve avere, dice Adorno, «[…] una pur sempre problematica fiducia [ein wie immer fragwürdiges Vertrauen] che la filosofia ci possa riuscire; che il concetto, ciò che etichetta e mutila, possa trascendere il concetto e così arrivare all’aconcettuale»23. La fiducia di giungere, esprimere l’aconcettuale con concetti non mutilanti, pur se problematica, è essenziale alla filosofia, è un po’ di quella ingenuità di cui soffre, anzi di cui deve poter soffrire. Se non ci fosse tale fiducia, che oscilla fra problematicità e sofferenza, non sarebbe più possibile la filosofia. È questa consapevolezza a fare da sfondo al presente lavoro che raccoglie sia i frutti della lettura seminariale di Dialettica negativa – portata avanti, sotto la mia guida, da alcuni dottori di ricerca e assegnisti di ricerca di RomaTre, Bologna e Arezzo – sia i risultati del loro confronto attivo con alcuni fra i più insigni studiosi italiani di Adorno. 12

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La peculiarità del lavoro comune qui pubblicato è mantenere aperte due vie fondamentali di esegesi del pensiero di Adorno. L’una è legata ad alcune categorie di Dialettica negativa, quali il non-identico, la Darstellung, la dialettica, la metafisica, la libertà. L’altra volge, invece, lo sguardo ai contesti filosofici del Novecento nei quali ha avuto luogo il confronto con la filosofia di Adorno. Da qui il titolo del volume, Dialettica negativa: categorie e contesti. Ringrazio tutti gli autori del presente volume, ma in modo particolare voglio ringraziare gli assenti, ossia quei dottorandi che, pur partecipi al lavoro di esegesi comune, e insostituibili per il loro impegno ed acume, non hanno poi, per ragioni diverse, preso parte all’ultima fase del fitto dialogo interpretativo, sedimentato nel presente volume. Anzio, 28 settembre 2007

NOTE 1

THEODOR WIESENGRUND ADORNO, La metacritica della gnoseologia. Studi su Husserl e le antinomie della fenomenologia, Milano 1964, pp. 16-17. Si veda anche la recente edizione, Metacritica della teoria della conoscenza. Studi su Husserl e le antinomie della fenomenologia, Milano 2004, pp. 55-56. 2 Ivi, p. 18 (1964); pp. 56-57 (2004). Sarebbe interessante un confronto con l’esegesi gadameriana della dialettica platonica, nella quale, al contrario di Adorno, viene assegnato un valore etico proprio alla natura matematica dell’eidos, anzi, ad essere più precisi, alla struttura matematica del logos. HANS-GEORG GADAMER, Etica dialettica di Platone in Studi platonici, I, Genova 1983; per un’analisi del rapporto fra matematica ed etica nell’esegesi gadameriana di Platone mi permetto di rimandare al mio Microscopia. Gadamer: la musica nel commento al Filebo, Macerata 2007. 3 «L’invarianza del concetto – che non ci sarebbe senza prescindere dalla determinatezza temporale di quanto viene sotto di esso abbracciato – è confusa con la invariabilità dell’Essere in sé. […] Ancora Eraclito, davanti al quale si inchinavano Hegel e Nietzsche, equiparava l’Essere alla caducità». Ivi, pp. 25-26 (1964); p. 62 (2004). 4 «Col progredire di tale riflessione [della riflessione gnoseologica] si rafforza in pari tempo la costrizione dell’identità». Ivi, p. 30 (1964); p. 65 (2004). 5 Ibidem. «Mentre l’idea della philosophia prima mira monisticamente all’identità pura, l’immanenza soggettiva, [ossia il campo privilegiato della riflessione gnoseologica] […] non si lascia ridurre a quell’identità pura con se stessa. […] Perciò nell’analisi gnoseologica l’immanenza viene sempre polarizzata secondo momenti soggettivi ed oggettivi».

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Ivi, pp. 29-30 (1964); p. 64-65 (2004). Il «salvataggio, memoria della sofferenza che si è sedimentata nei concetti, aspetta il momento della loro dissoluzione che è l’idea della critica filosofica». Ivi, p. 48 (1964); p. 78 (2004). 8 THEODOR WIESENGRUND ADORNO, Dialettica negativa, Torino 2004, pp. 151-154. 9 Interessante è la posizione di Adorno rispetto alla concezione nietzscheana dello scetticismo. Nella critica, da lui avanzata, al carattere assoluto dello scetticismo si fa strada la concezione hegeliana. Ogni nulla – dice Hegel – è il nulla di ciò da cui risulta. E questa riflessione ci introduce nella considerazione che Hegel ha avuto dello scetticismo. Lo scetticismo, preso di per sé, non va perseguito, ha un grande limite: isola la negatività da ogni contenuto, astrae dal fatto che il nulla è sempre nulla determinato. Dal negare che il nulla è sempre determinato, ossia dalla posizione assoluta dello scetticismo, scaturisce la sua astrattezza e Leerheit, la sua vacuità. Lo scetticismo è una negazione astratta perché esprime un nulla assoluto e mai determinato. È invece la negazione determinata, è la negazione che scaturisce da ciò che essa stessa nega, a contenere la molla dello sviluppo completo dell’oggetto. 10 WOLFGANG JOHANNES GOETHE, La metamorfosi delle piante e altri scritti sulla scienza della natura, Milano 1983, p. 143-144. «Non c’è alcuna differenza fra guscio (fenomeni, dualità, cambiamenti) e nocciolo (essenza, principio, unità originaria)». 11 THEODOR WIESENGRUND ADORNO, Il concetto di filosofia, Roma 2005, p. 132. «Intorno alla differenza fra essenza e apparenza. Qui non posso esporre esattamente tale differenza. Il punto di vista più progredito al riguardo è certamente quello mostrato da Hegel nel secondo volume della sua Logica. Il suo svolgimento dialettico di essenza e apparenza è forse la cosa più grande che ci sia in filosofia, Nietzsche, sulla scorta della differenza illuministica di essenza ed apparenza, critica il concetto di essenza e lo interpreta come “retromondo” (Hinterwelt). […] Nietzsche non ha avuto certo scarsa comprensione di “ciò che sta dietro”, ma ha trascurato il fatto che la realtà ha la tendenza a tessere i suoi propri veli. Questo è il concetto di ideologia: l’apparenza socialmente necessaria. Per ragioni di necessità economica gli uomini non si rendono conto della propria struttura, e considerano come qualità delle cose ciò che è soltanto espressione del rapporto di scambio». 12 Molto significative a questo proposito sono le seguenti parole di Adorno: «L’essenza non può venir distinta in modo statico dall’apparenza. Nessuna delle due va ipostatizzata nei confronti dell’altra. I fenomeni, nell’insieme delle loro connessioni, sono anche l’essenza. La comprensione del singolo fenomeno conduce alla conoscenza dell’essenza. Ogni comprensione che rigetti il fenomeno richiamandosi alla essenza è altrettanto superficiale di quella positivistica che dice: “devo calcolare”». Ivi, p. 133. 13 Ancora le parole di Adorno: «Chiamerei profonda una riflessione che unisca alla conoscenza dell’essenza il salvataggio dell’apparenza», e poi con una forte impronta nietzscheana aggiunge: «Non si deve rimanere fermi a ciò che è giusto al di là di ciò che è male; si conserva la forza del pensiero nei confronti di ciò che è male e falso solo se, anziché rifiutare, si è in grado di comprendere e salvare [corsivo mio]». Ibidem. 14 PIETRO LAURO, L’espressione dell’inesprimibile, vedi sopra pp. 12-13. 15 Ibidem. 16 THEODOR WIESENGRUND ADORNO, Dialettica negativa, § Il primato dell’oggetto, cit., p. 167. «Mediazione dell’oggetto significa che non è lecito ipostatizzarlo dogmaticamente, ma che è conoscibile solo nel suo intreccio con la soggettività; mediazione del soggetto vuol dire che il soggetto senza il momento di oggettività sarebbe letteralmente niente». 17 Laddove il pensiero oltrepassa, ossia trascende, «ciò a cui resistendo si lega» 7

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(cioè nel movimento della speculazione che implica dualità: trascendenza e legame), «là c’è la sua libertà. Essa segue l’impulso espressivo del soggetto. Il bisogno di lasciar diventare eloquente il dolore è condizione di ogni verità», ivi, p. 18. 18 Il Widerstand è anche l’atteggiamento che la meditazione ebraica richiede all'interprete delle scritture, della Torah. Per il chassidismo Widerstand è un atto di resistenza al “linguaggio delle istituzioni”. Tale resistenza, vera e propria lotta, vuole riaprire il valore polisemico delle parole. Il Widerstand ebraico ha un richiamo etico fondamentale, quello della libertà di fronte alle leggi incise. 19 Ivi, pp. 17-18. 20 «Mediazione non significa affatto che essa assorbe tutto, anzi postula qualcosa da mediare, non assorbibile; ma l’immediatezza stessa rappresenta un momento che non ha così bisogno di conoscenza, di mediazione come la mediazione ha bisogno dell’immediato». Ivi, p. 155 § La mediazione tramite l’oggettività. 21 «Hegel ha trascurato questa differenza. La mediazione dell’immediato riguarda il suo modus: la sua conoscenza e il limite di questa conoscenza. L’immediatezza non è una modalità, una mera determinazione del come per una coscienza, bensì è oggettiva: il suo concetto indica ciò che non può essere tolto di mezzo dal proprio concetto». Ibidem. 22 «Il trionfo, che l’immediato sarebbe interamente mediato, scorre via sul mediato e raggiunge, non più trattenuto da un non concettuale, viaggiando allegramente, la totalità del concetto, ovvero il dominio assoluto del soggetto». Traduzione modificata. Ibidem. 23 Ivi, p. 11.

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NON IDENTICO, DARSTELLUNG

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L’espressione dell’inesprimibile Pietro Lauro

Il fine del mio contributo potrebbe essere quello di spiegare come e con quali mezzi il pensiero filosofico possa essere all’altezza del non identico. Per questo scopo richiamerò brevemente alla memoria alcune interpretazioni di lingua tedesca della Dialettica negativa (I). Successivamente cercherò di caratterizzare il non identico come un non concettuale e un concettuale al tempo stesso, quindi come internamente inquieto (II). In un passo ulteriore s’interpreterà la forma antinomica come una figura o immagine del non identico (III). In conclusione si farà una riflessione sul modo in cui la filosofia attraverso un mezzo esterno a essa quale la forma della esposizione o rappresentazione (Darstellungsform) può oggettivare il non identico, senza dissolversi come filosofia (IV). I. Della Dialettica negativa esistono almeno tre interpretazioni notevoli: quella di Jürgen Habermas, quella di Alfred Schmidt e infine quella di Rolf Tiedemann. Secondo Habermas il capolavoro di Adorno, che egli giudica non riuscito, offrirebbe «una teoria della mimesi»1. Sebbene Adorno probabilmente avrebbe restituito al mittente l’accusa d’irrazionalismo, questa interpretazione tuttavia coglie nel segno, nella misura in cui è vero che Adorno affida alla facoltà mimetica, e non a quella concettuale, il compito di oggettivare l’indicibile. Per Alfred Schmidt la Dialettica negativa afferma la tesi del «primato dell’oggetto»2 che è assente negli scritti precedenti. Per Adorno ciò che è esterno, trascendente il soggetto è di natura materiale; lo spirito, i concetti ecc. gli sono immanenti. La filosofia di Adorno sarebbe quindi una filosofia materialista, che si avvale però del contributo che la gnoseologia, da Kant in poi, ha fornito in ordine alla possibilità di conoscere l’ente. Si tratterebbe allora di materialismo certamente, ma di uno che è stato teoricamente riflesso, non dogmatico, non ingenuo, che è disposto ad accogliere quanto di positivo la gnoseologia ha prodotto sino ad oggi: un «materialismo critico». Per Rolf Tiedemann invece la Dialettica negativa è «esperienza 19

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filosofica»3 o spirituale. L’ossimoro starebbe a indicare la possibilità che l’Altro del pensiero riesca tuttavia a manifestarsi nel medium del concetto. Sembra che Adorno abbia a tratti nutrito il proposito4 di intitolare così la Dialettica negativa. Infine esiste un’autointerpretazione dello stesso Adorno, sarebbe la quarta, quella secondo cui la Dialettica negativa è «espressione dell’inesprimibile»5. Questa definizione è certamente uno scandalo per la filosofia dei filosofi, perché riduce ogni attività concettuale, anche quella che si nega a ogni espressività, al valore di un gesto. II. La logica dell’identico o logica della sussunzione è intesa da Adorno nel senso di Nietzsche, che per primo l’ha tematizzata. È quella che fissa l’identico nelle cose. Riuscire a fissare l’identico nelle cose, visto che in natura non ci sono due cose esattamente uguali6, è stata un’impresa ardua. Socrate, che inizia la filosofia, rappresenta solo il terminale di una preistoria, in cui l’uomo è riuscito faticosamente e per gradi a sottrarsi all’indifferenziazione tra il concetto e la cosa. Nella Dialettica dell’illuminismo si possono individuare almeno tre fasi di questo processo: quella del pensiero magico, in cui si mantiene però ancora un legame di affinità con l’oggetto, quella della mitologia, che è razionalizzazione rispetto allo stadio precedente, e infine quella della filosofia, che è contraddistinta dalla comparsa del concetto. Nell’Occidente cristiano il pensiero unico ha assunto diverse forme: in Tommaso d’Aquino prende la forma della «summa teologica», nel pensiero moderno a partire da Cartesio quella del sistema, mentre il neokantismo ha introdotto il termine «sistematica» e per finire Carnap7 in ambito neo-positivista ha parlato di framework o Rahmenwerk, che è il frame of reference di cui si parla nell’Introduzione della Dialettica negativa – in italiano si dice “sistema di riferimento”. Da Tommaso a Carnap la caratteristica del pensiero d’identità si è mantenuta costante: spiegare ha sempre significato riportare qualcosa di ignoto a qualcos’altro, già noto in precedenza. L’unità garantisce la capacità di lettura, il principio d’organizzazione di una natura che è in sé un caos e che si presenta poco ospitale per l’uomo. Tuttavia l’unità, il concetto, se da un lato rende intellegibile un caos attraverso la creazione di un ordine permanente, che resiste alla caducità degli esseri, dall’altro ha allo stesso tempo e sotto il medesimo rispetto l’effetto assai nefasto di impoverire e di mutilare enormemente l’esperienza. Impoverire o mutilare (abschneiden), perché in un particolare ci sono assai più cose di 20

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quante possa contenerne il suo concetto e perché lo stesso particolare, in un contesto diverso, in relazione con altri particolari, può apparire addirittura come un altro particolare. La natura ambivalente8 del concetto è allora quella, da un lato, di sottrarre il non identico al fluire della vita, strutturandolo, attrezzandolo (zurüsten) in modo da potere rispondere ai bisogni pratici dell’uomo; dall’altro, come abbiamo detto, di ridurre la molteplicità del non identico a quel determinato aspetto, per il quale esso è sussumibile da un determinato schema, scartando la sua natura plurale. La realtà, diceva Nietzsche, non si trova negli schedari della cancelleria di Stato. Dunque, dopo la vittoria dell’identico sul non identico, sulla natura diffusa, il particolare si presenta come ciò che non entra a far parte di uno schema precostituito, come ciò che fa resistenza all’identità reificata del concetto. Fino a qui il non identico si è presentato come ciò che si contrappone al concetto per la sua integrità o per la sua ricchezza inesauribile. In tal senso esso è, diciamo pure, la negazione determinata di un identico. D’altra parte non ci si può esimere dal riflettere che, già quando si dice il non identico o l’identico, si usano concetti; non s’intende questo o quel non identico, ma qualcosa di costante. Allora il non identico, da un lato, è ciò che nell’oggetto non entra a far parte del concetto, dello schema; dall’altro però esso è nel linguaggio e, come tutto ciò che è linguistico, è universale, è concetto. Questo è un punto su cui non ci possono essere tentennamenti. Nella misura in cui il non identico è nel linguaggio, esso è concetto. Ora, il fatto che in quanto filosofi non si possa fare a meno di usare il concetto del non identico non implica che per questo il non identico possa essere assorbito interamente dal suo concetto. Questo è ciò che vorrebbero Hegel e anche Heidegger. Ma non è possibile. Tra il non identico e la non identità c’è differenza e si vede: il non identico è sempre la negazione di qualcosa che viene negata, mentre la non identità non nega nulla di determinato, semmai solo il concetto altrettanto indeterminato di essere. Che il non identico, che è ciò che protesta contro la mutilazione e l’impoverimento dell’esperienza a causa del concetto, sia poi a sua volta esso stesso concetto, questo costituisce il paradosso della Dialettica negativa, a cui essa è diciamo così costretta dalla costituzione stessa della realtà sociale. Dunque la difficoltà della filosofia, una difficoltà comunque produttiva, feconda, a cui essa stessa non può sottrarsi, ma che anzi deve riuscire a controllare, è data dal fatto che tratta un oggetto, il non 21

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identico, del quale per definizione non può parlare. Questa difficoltà non è qualcosa di cui il pensiero a passo dialettico possa facilmente liberarsi. Essa costituisce in senso proprio un blocco per il pensiero, qualcosa di insolubile, a causa del quale il pensiero, senza annullarsi, deve cercare altrove la soluzione: ovvero nella esposizione o rappresentazione (Darstellung). III. L’antinomia è una figura o immagine (Bild) fondamentale del pensiero di Adorno. Come l’universale astratto è la figura del valore di scambio in quanto astrazione reale che domina effettivamente sugli uomini, così l’antinomia quale punto cieco (blinde Stelle) del pensiero, quale vuoto che non si lascia pensare, è la figura del particolare, che dal punto di vista della logica del concetto è allo stesso modo ciò che non si lascia pensare, un niente. C’è quindi un isomorfismo tra l’astrazione reale, lo scambio, e l’astrazione formale, il concetto, così come c’è un isomorfismo tra il particolare, che in filosofia non si lascia pensare, e quei punti ciechi del pensiero, che sono le antinomie. Al particolare, che, beninteso, è un niente solo per il pensiero identificante, ci si può accostare non attraverso i concetti, che evidentemente allontanano il particolare, ma attraverso il naufragio dei pensieri che s’infrangono sugli scogli dell’antinomia. L’antinomia infatti, quale impossibilità per il pensiero di andare avanti, imita l’insolubilità del particolare rispetto al concetto. Adorno ci ha abituato alle antinomie. Nei testi filosofici di Adorno sfociano in antinomie tutti i concetti più alti della filosofia classica tedesca: sarebbe antinomico il concetto heideggeriano di «essere», che non sarebbe né concetto, né cosa; «l’Io puro» della fenomenologia trascendentale, che non sarebbe né ricettivo, né attivo; pure il Geist hegeliano, secondo l’ultimo capitolo di Dialettica negativa, sarebbe antinomico in quanto sarebbe spirituale e al tempo stesso capace di agire sul mondo empirico; per finire, antinomica è pure la Critica della Ragion pura tanto nell’impianto, quanto nelle singole componenti del sistema. L’antinomia occupa nella Dialettica negativa il posto che era occupato dalla sintesi nella dialettica hegeliana. Ci sono i momenti, ma non c’è la sintesi e al posto di essa compare una contraddizione che non si può dirimere (schlichten) con i mezzi del pensiero. Infatti tanto la tesi, quanto l’antitesi nuotano nel medium del concetto, del pensiero identico. Il movimento che sfocia nell’antinomia è un movimento tutto interno al pensiero, in tal senso la dialettica è un’autocritica della ragione. Non c’è un punto esterno 22

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al pensiero che imponga il sacrificio dell’intelletto; l’intelletto punta da sé solo verso la sua fine. Bisogna solo capire perché. Si può dire che la dialettica di Adorno operi con i soli mezzi del pensiero un movimento di auto-alienazione: il naufragio, il crollo non è direttamente storico, ma è cercato, costruito. In tal senso, se confrontata con la figura hegeliana dell’alienazione, potremmo dire che c’è qualcosa di volontaristico, addirittura di velleitario in questa autocritica della ragione. Tuttavia, se ciò avviene, è per fare uscire il pensiero dal carcere della ragione strumentale, da quella corazza che esso si è cucita addosso per il fine dell’auto-conservazione e che ora, dopo il dominio dell’uomo sulla natura, non ha più ragion d’essere. La crisi deve dunque permettere al pensiero di caricarsi di contenuto, di assumere quell’atteggiamento del puro stare a guardare, del reines Zusehen, che solo può consentire al pensiero, che di tale processo, si badi bene, è il soggetto attivo, di accedere alla visione delle cose stesse, degli oggetti nella loro integrità e dunque di essere all’altezza del non identico – perché gli oggetti, nella loro materialità, sono comunque, come ricorda Alfred Schmidt, il non identico del soggetto. È bene qui rilevare che i concetti antinomici della filosofia, quelli elencati più sopra, vengono definiti da Adorno sistematicamente come degli «ibridi» (Zwitter) o dei «ponti» (Brücken) o ancora come dei concetti indifferenti (Indifferenzbegriffe). Qual è la caratteristica dell’ibrido? Nell’ibrido la differenza genetica delle sostanze ibridate scompare, viene cancellata o repressa. Il rovescio speculare del concetto zoologico e botanico di ibrido è quello geologico di concrezione. Nella concrezione i diversi stanno insieme, ma come differenti. L’ibrido dunque è la figura di una conciliazione che è avvenuta al prezzo della cancellazione della differenza. Ma torniamo all’antinomia. IV. Attraverso l’imitazione dunque – e non a caso per Habermas quello della mimesis è il concetto centrale della Dialettica negativa –, e non attraverso il concetto, l’indicibile viene oggettivato. Infatti non è vero che l’indicibile9 non possa essere oggettivato; può, anzi deve essere oggettivato – la filosofia per Adorno è «espressione dell’inesprimibile» o, con Rolf Tiedemann «esperienza filosofica» – solo non con il concetto. Come allora? Attraverso la mimesis. Instaurando una relazione mimetica con il suo oggetto, la filosofia riesce ad andare, tramite i concetti, oltre il concetto10. In questo modo si supera quello che per Hegel era un limite insuperabile che 23

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il linguaggio opponeva all’espressione dell’inesprimibile: «Ciò che solo io intendo è mio», dice Hegel, «appartiene a me in quanto particolare individuo; ma, se il linguaggio esprime soltanto quel che è generale, allora non posso dire ciò che solo io intendo»11. Proprio questa difficoltà, lucidamente espressa da Hegel, è ciò a cui Adorno ha dato una risposta attraverso l’espressione (Ausdruck) o l’esposizione (Dartsellung). Allora, se si vuole marcare una differenza rispetto a Heidegger, si deve affermare che il non identico di Adorno non è il mistico12, se come tale s’intende la verità di qualcosa che deve essere al riparo dall’oggettivazione, che richiede il silenzio, che parla al posto degli uomini. Il non identico adorniano, gli oggetti in quanto cose in sé, sono conoscibili, sono oggettivabili – solo non attraverso il linguaggio del concetto, che nell’Altro ritrova solo se stesso, ma attraverso la capacità mimetica del linguaggio, attraverso le costellazioni che, uniche, rendono giustizia ai momenti qualitativi delle cose, alle cose nella loro integrità, non in quanto mere funzioni di un gioco linguistico particolare. Va da sé a questo punto che il linguaggio per questo tipo di oggettivazione è in primo luogo il linguaggio artistico, che pertanto è conoscenza, non un gioco. Tuttavia anche il linguaggio filosofico, nella misura in cui non si chiude in se stesso come linguaggio tecnico, se riesce ad amalgamarsi (sich anschmiegen) con le cose riunendole in costellazioni, può raggiungere lo stesso obiettivo. È importante però, che il linguaggio filosofico rinunzi, almeno in parte, alla sua pretesa di aver ragione – si veda l’aforisma «Ai postsocratici13» nei Minima Moralia –, compensando questa perdita con la capacità fisiognomica di costruire figure che siano «cifre» della realtà: questa, se non è nascosta dietro i concetti, è solo perché appare nel loro «medium», è solo perché viene oggettivata attraverso la costruzione delle figure14. Quella del non identico non è una metafisica larvata, anzi è proprio l’opposto, in quanto filosofia dell’espressione essa dà la caccia ad ogni tentazione di questo tipo.

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NOTE 1 J. HABERMAS, Theorie des kommunikativen Handels, Frankfurt 1982, vol. I, p. 512 (Teoria dell’agire comunicativo, trad. it. di P. Rinaudo, Bologna 1987, p. 510). 2 A. SCHMIDT, Adornos Spätwerk: Übergang zum Materialismus als Rettung des Nichtidentischen in I. FETSCHER e A. SCHMIDT (a cura di), Emanzipation als Versöhnung, Lubiana 2002. 3 R. TIEDEMANN, Nachbemerkung des Heraussgebers in TH.W. ADORNO, Nachgelassene Schriften, Vorlesung über negative Dialektik, in: Gesammelte Schriften, vol. 16, Frankfurt 2003, p. 337. 4 D. CLAUSSEN, Adorno-Ein letztes Genie, Frankfurt 2003, p. 381. 5 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, in: Gesammelte Schriften, vol. 6, Frankfurt a.M. 1977, p. 144 (Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Torino 2004, p. 99). 6 Cfr. NIETZSCHE, Die fröhliche Wissenschaft, in: Nietzsche Werke. Kritische Ausgabe, vol. 3, Berlin 1988 (La gaia scienza, trad. it. di F. Masini e M. Montinari, Milano 1971, p. 118: «Ma l’inclinazione prevalente a trattare il simile come uguale, una inclinazione illogica – perché nulla di uguale esiste – ha creato in principio tutti i fondamenti della logica».. 7 Cfr. R. CARNAP, Empirismo, semantica e ontologia, 1950 in Neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Torino, 1969. 8 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, cit. p. 11, (ed. or. cit. p. 21: «…il concetto, ciò che etichetta e mutila...»). 9 Ibidem: «Contro Wittgenstein si dovrebbe dire ciò che non può essere detto». 10 Ibidem, p. 16, (ed. or. cit. p. 27): «Tocca a lei la fatica di andare oltre il concetto per mezzo del concetto». 11 G. W. F. HEGEL, Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften, vol. I, Werke 8, Frankfurt 1986, p. 74 ( Enciclopedia delle scienze filosofiche, trad. it. di B. Croce, RomaBari 1980, p. 35). 12 L. WITGENSTEIN, Tractatus logico-philosophicus, in: Schriften, vol. 1, Frankfurt a.M. 1969 (Tractatus logico-philosophicus, trad. it. di A. G. Conte, Torino 1974, p. 81): «Non come il mondo è, è il mistico, ma che esso è». 13 TH. W. ADORNO, Minima Moralia, in: Gesammelte Schriften, vol. 4, Frankfurt a.M. 1980, p. 77 (Minima Moralia, trad. it. di R. Solmi, Torino 1974, p. 65 e sgg). 14 Una versione ampliata di questo articolo dal titolo Il non identico e la forma è comparsa in «Segno», 2006, n. 274, pp. 49-53, a cui mi permetto di rinviare.

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Darstellung: retorica e stringenza in Th. W. Adorno Stefano Marino

In questo saggio, cercherò di soffermarmi sul momento “retorico-espressivo” della filosofia, analizzando le principali soluzioni “stilistico-espositive” elaborate da Adorno, ed evidenziandone il legame con il complesso progetto relativo ad una Veränderung della filosofia. Sulla base dei risultati emersi da tale analisi, tenterò infine di fare “interagire” il pensiero adorniano con il recente dibattito relativo al rapporto tra filosofia e letteratura, tra i cui protagonisti principali figurano Habermas, Derrida, Rorty e gli Yale Critics, e il cui esito finale si può sinteticamente compendiare nella provocatoria tesi secondo cui la filosofia non sarebbe altro che un «genere letterario». MIMESIS E TRASFORMAZIONE DELLA RAZIONALITÀ Il punto dal quale vorrei partire è rappresentato dall’idea di una Veränderung della razionalità, la quale attraversa l’intera opera di Adorno, sin dalle conferenze giovanili Die Aktualität der Philosophie e Die Idee der Naturgeschichte, in cui si parla già dell’esigenza di elaborare «una forma logica qualitativamente diversa: […] quella della costellazione»1. Tuttavia, a questo riguardo, mi sembra che il vero punto di svolta sia rappresentato dalla Dialektik der Aufklärung, dove viene introdotto il tema del “recupero” di un’«eredità mimetica» proveniente dalla «fase magica» dell’umanità. Nell’ambito di un’analisi “storico-genealogica” della razionalità, infatti, Horkheimer e Adorno affermano che tanto il mito quanto l’illuminismo sarebbero caratterizzati da tendenze all’«identità», alla «disciplina», alla «fungibilità», all’«unificazione» e alla «manipolazione», laddove invece la magia, vigente prima dell’instaurarsi del mito, sarebbe stata caratterizzata da un diverso atteggiamento nei confronti del reale e soprattutto da una differente modalità d’esperienza, basata sulla «mimesi» e sull’«affinità» (anziché sul «distacco 27

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dall’oggetto»), attenta alle «particolarità» e alle «qualità», all’«incommensurabile» e all’«estraneo», e infine mirante a concludersi nell’«espressione» (anziché nella «spiegazione»)2. Tale modalità di «comportamento mimetico», a loro giudizio, sarebbe stata progressivamente bandita da parte del pensiero razionale, andando così a confluire nell’arte, nella quale avrebbe trovato il proprio «rifugio». La “cacciata” della mimesis avrebbe prodotto, tuttavia, un progressivo isterilimento della stessa razionalità, ragion per cui il suo “recupero” acquisterebbe un’importanza decisiva in vista di una «trasformazione» della filosofia. Nelle opere successive, infatti, è proprio al “recupero” di alcuni momenti “aconcettuali” dell’esperienza che Adorno affiderà la possibilità di autocritica ed autocorrezione della razionalità. Tra questi basti citare: la capacità di «rendersi simili, […] assimilarsi» all’oggetto, e di «immergersi», «amalgamarsi», «abbandonarsi» e «liquefarsi […] nell’eterogeneo»3; la “solidarietà” tra sensibilità, emozioni ed intelletto, precedente la «separazione dei due campi», che «li lascia entrambi lesi e diminuiti»4 ed «assolutizza la suddivisione dell’uomo in funzioni»5; nonché la «fantasia» come vero e proprio «organo dell’interpretazione filosofica»6; l’«entusiasmo» come «momento dell’autoelevazione», senza il quale «il pensiero in senso forte non è affatto possibile»7; i momenti del «gioco», dell’«immediatezza» e della «spontaneità», che guardano «oltre la compagine dialettica»8; infine, la «forza di esprimersi», l’«impulso espressivo del soggetto», l’«impulso filosofico di esprimere l’inesprimibile»9. ESPRESSIONE, ESPOSIZIONE E RETORICA All’interno di tale “costellazione”, particolarmente importante e gravido di conseguenze è il riferimento al «momento espressivo della filosofia», che nel saggio Der wunderliche Realist Adorno definisce efficacemente come il «dire ciò che ti nasce dentro»10. Infatti, in due paragrafi dell’Introduzione alla Negative Dialektik (intitolati Darstellung e Rhetorik), egli effettua un decisivo collegamento tra le due questioni del «momento espressivo» e del «momento retorico» della filosofia, approdando così al problema dell’esposizione e dello “stile”. Riprendendo le argomentazioni della Dialektik der Aufklärung e spingendole oltre, Adorno sostiene infatti che l’«espressione», in seguito alla messa al bando da parte dell’«intera 28

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tradizione filosofica ufficiale», «si trasferì nel pensiero» sotto forma di «linguaggio» e «retorica» – ciò che, evidentemente, conferisce un’enorme importanza al problema dell’esposizione: la filosofia non sopravvive senza il suo sforzo linguistico»: anzi, essa «si distingue dalla comunicazione di contenuti già noti e fissati» soltanto grazie alla «retorica». «La dialettica», prosegue Adorno, «potrebbe essere il tentativo di salvare criticamente il momento retorico». «Per la filosofia l’esposizione non [è] esteriore e indifferente, ma immanente alla sua idea. Il suo momento espressivo integrale, mimetico-non concettuale, viene oggettivato solo dall’esposizione – dal linguaggio». «Alla filosofia», pertanto, «l’esposizione è essenziale11.

Si tratta di un tema assolutamente centrale nel pensiero di Adorno, presente sin dalle giovanili Thesen über die Sprache des Philosophen, e sul quale egli fornisce importanti chiarimenti soprattutto nelle lezioni sulla Philosophische Terminologie, dove si legge: la forma espositiva non è esteriore alla filosofia», ma «è invece un suo momento centrale, […] costitutivo, […] essenziale». «Se la filosofia è davvero filosofia e non è filologia o un puro gioco meccanico, le è essenziale il linguaggio, e cioè la forma in cui i concetti sono esposti». «Il [suo] modo di procedere è possibile soltanto in un medium che non è propriamente concettuale, ma linguistico: lo stile o la forma espositiva. In questo senso nella filosofia il linguaggio o stile non è esteriore alla cosa stessa, ma appartiene costitutivamente alla cosa12.

Adorno affida dunque alla Darstellung il compito fondamentale della filosofia, quello di «dire contemporaneamente anche ciò che non si può dire»13 e di “catturare” il «non identico» senza piegarlo alle leggi logiche dell’identità. «In questa prospettiva, i problemi della dialettica […] risultano non scindibili da quelli del linguaggio e dello “stile”», e il «modo critico di pensare» di Adorno finisce col richiedere un analogo «modo critico di dire»14. Anche in filosofia cioè – così come, evidentemente, in arte e letteratura – ciò che conta non è solo il contenuto (ovvero che cosa viene comunicato) bensì anche la forma (ovvero come tali contenuti vengono comunicati). Secondo Adorno, anzi, forma e contenuto non vanno astrattamente separati, bensì vanno considerati come momenti di una relazione dialettica, i quali influiscono l’uno sull’altro e si determinano solamente tramite questa continua interazione reciproca. Per questa ragione, egli denuncia l’«indifferenza nei confronti della forma letteraria» come indice di una 29

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«dogmatizzazione del contenuto»15, e polemizza duramente contro i positivisti e persino contro Lukács, accusandoli rispettivamente di «esposizione convenzionale [ed] allergia alle forme»16, e di «indifferenza stilistica [e] sforzata mancanza di vanità»17. In sintesi, per Adorno «ciò che è detto con trascuratezza è pensato male»18 – il che, evidentemente, impone al pensatore non solo il compito di una «riflessione critica» e di «un grande affinamento della sensibilità linguistica»19, ma persino la disponibilità a «rinunciare anche a pensieri fecondi […] se la costruzione lo richiede»20! GLI “STILI” DI ADORNO A questo punto, credo sorga spontaneamente la domanda su quali modalità espositive, secondo Adorno, si addicano propriamente alla filosofia: ovvero, su quali siano gli “stili” della sua filosofia. Come sappiamo, il pensiero di Adorno è sempre stato animato da una forte diffidenza nei confronti delle forme tradizionali del discorso filosofico, in primo luogo quella del trattato sistematico: «credere nel Libro Compiuto», infatti, «presuppone […] la credenza che la realtà costituisca un organismo unitario, con un suo “cominciamento”, […] una sua “logica” essenziale (e tanto peggio per i fenomeni incapaci di adattarvisi) e una sua “conclusione” necessaria»21. Per questo motivo, egli sceglie di cimentarsi con soluzioni formali “alternative”, come quelle dell’aforisma, del saggio e della «composizione paratattica». Prima di passare all’esame di queste tre soluzioni formali, però, vorrei rapidamente accennare ad alcune strategie stilistiche molto particolari adottate da Adorno, quali: «costruzioni passive ed impersonali, […] nel tentativo di presentare l’oggetto» guardando «“al di là” del soggetto»22; oppure, «strategie stilistiche, […] rivolte all’esperienza del lettore, [che] egli descrive come “shock”, “esagerazione”, “fantasia” o “formulazione provocatoria”»23; infine, il frequente uso, «al posto dell’argomentazione filosofica standard», della figura retorica del «chiasmo», ottenuto mediante l’inversione dei «termini della seconda di due antitesi, in modo da trasformarle in un chiasmo (AB BA)», del tipo «“il soggetto è oggetto, l’oggetto è soggetto”, […] “la storia è natura, la natura è storia”, […] “la statica presuppone la dinamica, la dinamica si risolve in statica”»24. È inoltre interessante notare come l’autoriflessione adorniana sul linguaggio abbia riguardato anche aspetti per certi versi “marginali” della composizione di un 30

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testo, come le correzioni e le cancellature25, l’utilità della dettatura26 e la scelta dei titoli27, l’uso di segni d’interpunzione28 e parole straniere29, e persino questioni d’impaginazione e rilegatura30. Dopo tale breve parentesi dedicata agli artifici retorici, possiamo anche soffermarci sulle principali soluzioni formali adottate da Adorno, le quali, come ho già accennato, sono quelle dell’aforisma, del saggio e della «composizione paratattica». L’aforisma Per quanto riguarda la prima di queste modalità espositive, è persino banale constatare come uno dei vertici della sua produzione intellettuale sia costituito proprio dalla raccolta di 153 aforismi intitolata Minima moralia, la cui «prosa perfezionata» e «qualità letteraria» non mancarono di affascinare anche Thomas Mann31. Ora, tra le ragioni sottostanti all’adozione di una così peculiare forma espositiva si possono citare le «forti impressioni ricavate dalla lettura del volume di aforismi di Horkheimer dal titolo Crepuscolo», così come le suggestioni provenienti dai «moralisti francesi», dagli «Aforismi sulla saggezza della vita di Schopenhauer» e, soprattutto, «da una rinnovata lettura di Nietzsche»32. Tuttavia, accanto a tali motivazioni per così dire “estrinseche”, mi sembra importante sottolineare come furono le stesse intenzioni dell’opera a spingere Adorno a servirsi della «forma sciolta e non impegnativa» dell’aforisma, considerata come la più “aderente” alla flessibilità e mobilità dell’esperienza individuale. Si legge infatti nelle prime pagine del libro che lo specifico assunto dei Minima moralia» consiste nel «tentativo di rappresentare momenti della filosofia comune dal punto di vista dell’esperienza soggettiva [attraverso] frammenti. […] Oggi che il soggetto è in corso di sparizione, gli aforismi fanno propria l’istanza che “proprio ciò che sparisce sia considerato come essenziale”33.

La scelta di uno “stile” aforistico aveva dunque la funzione di rendere immediatamente evidente la «sfiducia della teoria critica nei confronti delle sistematizzazioni»34, e di far sì che «il contenuto conoscitivo» scaturisse direttamente «dalla forma contraddittoria dell’argomentazione»35, ed è proprio per tali ragioni che Jürgen Habermas è arrivato a definire l’aforisma come la «modalità espositiva più appropriata» per il «recondito ideale di conoscenza»36 di Adorno. 31

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Il saggio Riguardo alla seconda soluzione formale, è interessante notare in primo luogo come buona parte della bibliografia degli scritti adorniani sia composta proprio da raccolte di saggi e, in secondo luogo, come lo stesso Adorno, nello scritto “programmatico” Der Essay als Form, abbia fornito una lunga e dettagliata analisi delle peculiarità di questa forma, e delle ragioni che lo spinsero ad adottarla così frequentemente. Dapprima, Adorno sottolinea come il saggio, rappresentando una «speculazione su oggetti specifici, culturalmente già prefigurati», funga da «antidoto» alla tentazione di presentare un’immagine definitiva, “totalizzante” del reale, e come proprio per questo esso risulti inviso alla «corporazione dei filosofi»37. Dopodichè, egli ne sottolinea la natura eminentemente antidogmatica, affermando che al saggio appartengono «immanentemente» «fallibilità e provvisorietà, […] mobilità [e] mancanza di solidità»: ciò che, peraltro, non comporta affatto l’adozione di un’ottica scettica o relativistica, giacché il saggio «non è alogico, bensì ubbidisce anch’esso a criteri logici […] secondo procedimenti differenti da quelli della logica discorsiva»38. Infine, egli ne dichiara apertamente la natura «critica per eccellenza, […] più dialettica della dialettica», ascrivendogli tratti peculiari della «dialettica negativa» quali: la “riabilitazione” del «mutevole», dell’«effimero», di «ciò che è caduco»39; la stretta interazione tra la «piena, […], vivente […] esperienza spirituale», ed il «medium della riflessione concettuale»40; l’aspirazione a «riflette[re] sull’oggetto per così dire senza violenza», a «pensare l’obiectum nella pluridimensionalità che gli è propria», ad occuparsi «di quel che di cieco vi è [negli] oggetti» ed a «liberarne le energie latenti»41; infine, l’accoglimento dell’«istanza asistematica», al fine di distrugge[re] l’illusione che il mondo sia semplice e, in fondo, pur sempre logico, un’illusione quanto mai atta a difendere il mero esistente». «Una esposizione continuativa», infatti, «entrerebbe in contraddizione con una cosa antagonistica», perciò il saggio «pensa in frammenti perché frammentaria è la stessa realtà». «La totalità del saggio [è] una totalità che neppure come forma propugna la tesi da essa respinta sul piano del contenuto: quella dell’identità di pensiero e cosa42.

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La «composizione paratattica» Passiamo infine a considerare la «composizione paratattica» (talvolta definita anche come «concentrica» o «a ragnatela»), tenendo presente il fatto che, se nei due casi appena esaminati ci siamo imbattuti nell’uso di forme per certi versi inconsuete per la filosofia, ma comunque dotate di una lunga e solida tradizione, in questo caso ci troviamo invece di fronte ad una specie di “invenzione” di Adorno: una “invenzione” peraltro molto importante, dal momento che proprio a tale soluzione formale egli affidò l’incompiuta Ästhetische Theorie. Senza ripercorrere la lunga e complessa analisi che Adorno, nel saggio Parataxis, dedica all’impiego della paratassi nella poesia di Hölderlin, possiamo dire che la sua tesi fondamentale è quella secondo cui la costruzione paratattica del discorso, basata sulla coordinazione degli elementi nel discorso, anziché sulla loro subordinazione (ipotassi), testimonierebbe l’intenzione di superare, anche sul piano linguistico, la natura violenta di una logica fondata sulla “sottomissione” di un elemento ad un altro. In questo senso, alla strategia logico-concettuale della «costellazione» farebbe da pendant la strategia stilistica della «paratassi» (in quanto entrambe incentrate sul “raccoglimento” intorno all’oggetto), ed è proprio nel corso della stesura della Teoria estetica che si verificò il definitivo saldarsi insieme dei due discorsi su Parataxis e Konstellation. Ciò, tuttavia, comportò una serie di inedite difficoltà nello sforzo di “adeguare” pienamente la forma e il contenuto del libro. In particolare, l’Editorisches Nachwort illustra come Adorno modificò più volte la struttura dell’opera, passando da «una prima versione […] articolata in paragrafi relativamente brevi, […] ad una nuova versione» in cui «la divisione in paragrafi cedette il posto ad una divisione in capitoli», sino al «lavoro cominciato l’8 ottobre 1968» nel quale «la divisione in capitoli venne nuovamente abbandonata, sostituita da un testo continuo […] articolato solo mediante spazi», del quale però «Adorno non era ancora soddisfatto. L’ultimo testo datato reca la data del 16 giugno 1969»43. Un brano tratto dall’epistolario adorniano risulta particolarmente illuminante per comprendere la portata delle «conseguenze per la forma» che gli si andavano imponendo «a partire dai contenuti dei pensieri»: dal mio teorema che in filosofia non c’è niente di “primo”, scrive infatti Adorno, «consegue ora anche che non si può costruire un nesso di argo-

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mentazione nella consueta successione graduale, ma che occorre montare l’intero componendolo a partire da una serie di complessi parziali, che sono quasi dello stesso peso e ordinati concentricamente, al medesimo livello; è dalla loro costellazione, non dalla loro successione, che deve risultare l’idea. […] La successione di prima e poi, quasi irrinunciabile per un libro, si dimostra talmente incompatibile con la sostanza della materia che una disposizione nel senso tradizionale, quale finora ho ancora perseguito (anche nella Dialettica negativa) si dimostra irrealizzabile. Il libro deve essere scritto quasi concentricamente, in parti di egual peso, paratattiche, ordinate intorno ad un centro espresso dalla loro costellazione44.

L’IRRIDUCIBILITÀ DELLA FILOSOFIA A «GENERE LETTERARIO» In conclusione, come ho già accennato, vorrei tentare di fare “interagire” il pensiero di Adorno con il problema, emerso soltanto alcuni anni dopo la sua prematura scomparsa, relativo alla “riducibilità” o meno della filosofia a «genere letterario». Secondo la lettura proposta da Maurizio Ferraris, alla base di tale dibattito vi sarebbe stata «la ripresa […] in area francese […] della questione della écriture, […] considerata nella sua valenza espressivo-estetica, […] come attività eminentemente poetico-espressiva»45. Di qui al diffondersi di un clima di «testualismo diffuso» il passo sarebbe stato breve, come testimoniato dalla straordinaria fortuna incontrata dal cosiddetto «post-strutturalismo» in America, per esempio presso i cosiddetti Yale Critics; infine, sarebbe intervenuto Richard Rorty ad inquadrare «decostruzionismo» e «testualismo» come esiti estremi ma conseguenti di una «lignée hegeliana» tendente alla dissoluzione del concetto di verità e alla comprensione della filosofia come semplice «genere letterario». La domanda che mi pongo è: quale posizione avrebbe assunto Adorno? In altre parole, si sarebbe egli riconosciuto nella tesi secondo cui bisognerebbe abbandonare la distinzione tra «filosofia e letteratura come ambiti autonomi e distinti, retti rispettivamente dalle categorie della teoria e della finzione»46, e considerare la filosofia come un «genere letterario» caratterizzato da un certo “stile” espressivo e dal richiamo esercitato su un certo pubblico (allo stesso titolo che, per esempio, il romanzo o la poesia)? A prima vista, sembrerebbe possibile avvicinare la posizione adorniana a quella degli odierni “livellatori” della «differenza specifica tra filosofia e letteratura»47; 34

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tuttavia, sono convinto che in realtà Adorno non si sarebbe affatto riconosciuto in tale prospettiva. Infatti, sebbene sin qui si sia insistito soprattutto sull’importanza del momento “mimetico-espressivo” o “retorico-stilistico”, non bisogna dimenticare che, per Adorno, esso rappresenta soltanto un momento della filosofia, il quale deve sì interagire col momento propriamente logico-concettuale, senza però offuscarlo né pretendere di sostituirsi ad esso: espressione e stringenza, si legge infatti nel succitato paragrafo Darstellung, «non sono possibilità dicotomiche», bensì «hanno bisogno l’una dell’altra». «L’espressione viene dispensata dalla sua casualità mediante il pensiero [e] il pensiero diventa stringente solo in quanto espresso, tramite l’esposizione linguistica». «L’espressione», cioè, estorce stringenza all’espresso48 ed «impone la fatica del concetto49.

In altre parole, per Adorno la filosofia consiste propriamente nella «mediazione» e «compenetrazione reciproca» di momenti diversi, come testimoniato anche dalle coppie concettuali “relazionali” disseminate nelle sue opere50: mimesis e ratio, «mito» e «illuminismo», «ingenuità» e «non ingenuità», «espressione» e «costruzione», mimesis e techne, «gioco» e «obbligatorietà», «esperienza» e «argomento», «espressione» e «stringenza», «non-identità» e «identità». Si ricordi peraltro, riguardo ai rapporti tra filosofia, arte e letteratura, che per Adorno bisogna sempre tenere presente sia l’affinità vigente tra queste sfere, sia il «confine che [le] separa»51; inoltre, sebbene Adorno ritenga effettivamente che anche l’arte “partecipi” alla verità, nondimeno egli assegna il ruolo di autentica “ricercatrice” del vero alla filosofia, e giunge persino ad affermare che è soltanto «per tramite […] di un’interpretazione filosofica […] che l’opera si dispiega nella sua verità»52 – ciò che, evidentemente, non soltanto non “livella” la filosofia alla letteratura, ma anzi ribadisce con forza una differenza di “livello” tra i due ambiti53! Da ultimo, mi sembra che già l’enfatico riferimento adorniano ad una verità «oggettiva, non plausibile», renda piuttosto difficile un accostamento a certe posizioni filosofiche che, al contrario, mirano a prendere congedo da qualsiasi pretesa di verità della filosofia. Bisogna cioè tenere conto del fatto che, se «il bersaglio polemico di Adorno era costituito da filosofie “forti”, corredate da solide pretese di incontrovertibilità», oggi invece sembra essersi affermata «una 35

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coscienza del limite e della “precarietà”» che, «in alcune delle sue forme più diffuse, si è spinta anche molto al di là di ciò che Adorno intendeva, e ha finito per abbandonare anche quella stringenza e quel rigore del pensiero che Adorno voleva a ogni costo salvare»54. Per concludere, credo quindi che in Adorno si verifichi certamente una sorta di “estetizzazione” della ragione e di “retorizzazione” del discorso filosofico, senza che ciò tuttavia comporti una «fuga irrazionalistica», un’«abdicazione alla pretesa alla “razionalità”», o una «caduta nell’arbitrio di conoscenze meramente soggettive»55. Dal punto di vista dei rapporti tra filosofia e letteratura, ciò significa molto semplicemente che «affermar[ne] risolutamente la solidarietà», come fa appunto Adorno, «non comporta affatto che quella sia ridotta a questa», giacché «la filosofia è bensì fatta della stessa stoffa della letteratura, […] ma non per questo può essere identificata con essa»56.

NOTE 1

TH. W. ADORNO, L’idea di storia naturale, in «Il Cannocchiale», 1-2, 1977, p. 103. Cfr. M. HORKHEIMER, TH. W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, Torino 1997, pp. 11 sgg. 3 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, Torino 2004, pp. 14, 27, 41. 4 M. HORKHEIMER, TH. W. ADORNO, Dialettica dell’illuminismo, cit., p. 43. 5 TH. W. ADORNO, Minima moralia, Torino 1994, pp. 141. 6 ID., L’attualità della filosofia, in A. BAUSOLA (a cura di), Questioni di storiografia filosofica, vol. 6, tomo III, La Scuola, Brescia 1978, p. 339. 7 ID., Terminologia filosofica, Torino 1975, pp. 482-483. 8 ID., Dialettica negativa, cit., p. 164. 9 Ivi, pp. 18, 99. 10 ID., Uno strano realista, in Note per la letteratura 1961-1968, Torino 1979, p. 68. 11 ID., Dialettica negativa, cit., pp. 19, 49-53. 12 ID., Terminologia filosofica, cit., pp. 50-51, 58-64, 210. 13 ID., Tre studi su Hegel, Il Mulino, Bologna 1971, pp. 127-128. 14 E. TAVANI, L’apparenza da salvare, Guerini, Milano 1994, p. 11. 15 TH. W. ADORNO, Interpunzione, in Note per la letteratura 1943-1961, Einaudi, Torino 1979, p. 105. 16 ID., Il saggio come forma, in Note per la letteratura 1943-1961, cit., pp. 7-8. 17 ID., Conciliazione sforzata, in Note per la letteratura 1943-1961, cit., p. 242 18 ID., Dialettica negativa, cit., p. 19. 19 ID., Terminologia filosofica, cit., p. 63. 2

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ID., Minima moralia, cit., p. 91. S. MORAVIA, Adorno, Milano 2004, pp. 10-11. 22 G. ROSE, The Melancholy Science, London 1978, p. 12. 23 Ibid. 24 Ivi, p. 13. 25 TH. W. ADORNO, Minima moralia, cit., pp. 91-94. 26 Ivi, p. 256. 27 Cfr. ID., Titoli, in Note per la letteratura. 1961-1968, cit., pp. 5-14. 28 Cfr. ID., Interpunzione, cit., pp. 101-108. 29 Cfr. ID., Parole da fuori, in Note per la letteratura. 1943-1961, cit., pp. 203-219. 30 Cfr. ID., Grilli bibliografici, in Note per la letteratura. 1961-1968, cit., pp. 24-37. 31 Cfr. S. MÜLLER-DOOHM, Theodor W. Adorno, Roma 2003, pp. 456-458. 32 Ivi, pp. 277, 454, 773n. Si tenga anche presente che egli «aveva già avuto modo di sperimentare il genere letterario dell’aforisma nel quadro delle sue critiche musicali» e che, tra i progetti interrotti dalla sua improvvisa scomparsa, vi era anche quello di «un secondo volume di aforismi, al quale aveva previsto di dare il titolo Graeculus» (Ivi, pp. 277, 552). 33 TH. W. ADORNO, Minima moralia, cit., pp. 4-8. 34 M. JAY, L’immaginazione dialettica, Torino 1979, p. 433. 35 S. MÜLLER-DOOHM, Theodor W. Adorno, cit., p. 457. 36 J. HABERMAS, Filosofia e scienza come letteratura?, in Il pensiero post-metafisico, Roma-Bari 1991, p. 257 (traduzione leggermente modificata). 37 TH. W. ADORNO, Il saggio come forma, cit., p. 5. 38 Ivi, pp. 21-28. 39 Ivi, pp. 13-15. 40 Cfr. Ivi, pp. 17-23. 41 Ivi, p. 19-29. 42 Ivi, pp. 13-23. 43 G. ADORNO, R. TIEDEMANN, Nota dei curatori all’edizione tedesca, in TH. W. ADORNO, Teoria estetica, Torino 1977, pp. 607-608. 44 Ivi, p. 609. A tal riguardo, segnalo l’originale analisi svolta da Reinhard Brandt, il quale riporta la citazione di un lungo brano della Teoria estetica sia in forma “originale” (ossia, con le frasi nel loro giusto ordine) che, volendo usare la terminologia musicale cara ad Adorno, in forma “retrograda” (ossia, invertendo la successione delle frasi: dall’ultima alla prima), ed evidenzia la difficoltà di stabilire quale delle due versioni sia quella corretta, non essendovi «né al centro né all’inizio né alla fine […] conoscenze dominanti, che esercitano sul resto il loro influsso e governano le frasi iniziali, la fine e la suddivisione» (R. BRANDT, La lettura del testo filosofico, Roma-Bari 1998, p. 9). Su questo argomento, cfr. anche S. WILKE, Zur Dialektik von Exposition und Darstellung, New York-Frankfurt a. M. 1988, pp. 150 sgg. 45 M. FERRARIS, La svolta testuale, Milano 1986, pp. 51, 59. 46 C. GENTILI, La filosofia come genere letterario, Bologna 2003, pp. 13-14. 47 Cfr. J. HABERMAS, Excursus sul livellamento della differenza specifica tra filosofia e letteratura, in Il discorso filosofico della modernità, Roma-Bari 1988, pp. 189-214. 48 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, cit., p. 19. 49 ID., Minima moralia, cit., p. 112. 50 Su questo argomento, J. RITSERT, Ästhetische Theorie als Gesellschaftskritik, Frankfurt a. M. 1996. 51 TH. W. ADORNO, Terminologia filosofica, cit., p. 81. 52 ID., Dialettica negativa, cit., p. 15. Cfr. anche ID., Teoria estetica, cit., pp. 216 21

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sgg., 437 sgg. 53 Del resto, basta aprire la prima pagina del libro su Kierkegaard per convincersene: «ogniqualvolta si è tentato di concepire gli scritti dei filosofi come opere letterarie», afferma infatti Adorno, «ci si è sempre lasciati sfuggire il loro intimo contenuto di verità» (ID., Kierkegaard. Costruzione dell’estetico, Milano 1983, p. 21, traduzione leggermente modificata)! 54 S. PETRUCCIANI, Un pensiero sul margine del paradosso, Introduzione a TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, cit., pp. XI-XII. 55 F. DI LORENZO AJELLO, Conoscenza e immaginazione nel pensiero di Theodor W. Adorno, Roma 2001, pp. 17, 48, 57. 56 S. GIVONE, Prefazione a C. GENTILI, La filosofia come genere letterario, cit., pp. 10-11.

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CONTESTI

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G. Mahler e Adorno Elio Matassi

Mahler è indubbiamente il musicista più amato da Adorno e per una ragione di fondo che viene evidenziata in maniera perspicua in una importante lettera, datata Francoforte, 28-4-1952, il cui destinatario è Thomas Mann. Adorno porta avanti un’argomentazione incentrata sull’idea di ‘epicità allargata’, ‘frammentaria’ che non deve essere considerata negativamente e che coinvolge in eguale misura la musica e il romanzo novecentesco. In virtù di tale profonda analogia Adorno si permette di consigliare a Thomas Mann di non deprimersi se il suo F. Krull alla fine ha così poco a vedere con la giocosa allegoria dell’inizio, in quanto la stessa cosa avviene per Wagner con la morte di Sigfrido e la danza in cerchio delle Figlie del Reno. Il Mahler rappresenta un prezioso laboratorio di spunti musicologici e filosofici che costituiscono lo schema fondante dell’idea stessa di ‘dialettica negativa’. Come non rammentare il giudizio espresso sull’incipit della VI Sinfonia connotata come «attimi del calpestamento», della cancellazione di una identità, per esempio quella ebraica, o la chiusa del Mahler dove vengono invocati «quelli che sono usciti dai ranghi», «i calpestati», quegli uomini totalmente privi di libertà che per Mahler incarnano, invece, l’unica forma di libertà possibile? In tal modo Mahler diventa il cantore elitario della ‘caducità’, di un progresso che in realtà non è mai cominciato, di una regressione che non si potrà più falsificare come ‘originarietà’. Sono tutti spunti preziosi che conducono verso la stessa direzione di ricerca: la promozione di una nuova forma di dialettica non necessariamente alternativa a quella hegeliana, anche se reimpostata secondo modi e finalità che esaltino l’idea della frattura, della scissione, come in più luoghi del Mahler viene ampiamente sottolineato. Non si può dimenticare che il volume adorniano ha contribuito in misura determinante ad alimentare il mito di Mahler nella contemporaneità, oggi tra i musicisti più eseguiti, un mito largamente dominato dalla prospettiva di chi guarda le cose da un cannocchiale rovesciato, vedendole rimpicciolite, come nella cassetta della «Nuova Melusina». Non è affatto casuale che Adorno utilizzi la stessa immagine della fiaba goe41

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thiana che tornerà nelle pagine conclusive della Dialettica negativa. Qui come in quelle pagine vale l’opzione per la quale «l’ultima metafisica sta nell’impossibilità di qualsiasi metafisica», e, dunque, nella aspirazione che il pensiero rinunci ad ogni presunzione totalizzante per scoprire in un varco, in una piccola fessura, che l’essenziale sta proprio in ciò che viene scartato dallo ‘sguardo identitario’.

1 – Discutendo intensamente con Adorno, Max Horkheimer obietta all’amico l’impossibilità teoretica di rintracciare in maniera convincente un modello di dialettica «negativo»: «Lei rinvia sempre alla x che chiama dialettica [...] Lei intende la dialettica come mezzo per rendere possibile in ultima istanza una sorta di costruzione coerente, in cui bisognerebbe disegnare il destino del rapporto di reciprocità fra trascendenza ed immanenza, soggetto ed oggetto, idealità e realtà».1 La x, l’incognita, che sembra sfuggire alla via propositiva e che appare restituibile filosoficamente solo per via negationis, si cela, questa è l’ipotesi di ricerca abbozzata nelle pagine seguenti, nella musica, nell’attività compositiva diretta2 – non si può sottovalutare che Adorno è insieme a Rousseau e Nietzsche uno dei tre autori della tradizione filosofica impegnatosi concretamente nell’attività compositiva3 – ed in alcuni musicisti di riferimento, in particolare in Gustav Mahler. Come nel contesto utilizzato per l’esergo, da diversi punti di vista Mahler rappresenta per Adorno una scelta dialettica «alternativa» ed «integrativa» rispetto a quella hegeliana. Basti riflettere su questi due contesti: La musica deve ad ogni costo pretendere più del massimo da se stessa, salvando l’utopia nella terra di nessuno, che è il suo regno. L’immanenza della forma, presa in prestito dall’immanenza della società, non può conquistare ciò che quest’ultima impedisce, mentre l’irruzione voleva farsi breccia in entrambe. L’arte stessa è irretita nell’imbroglio che la musica vorrebbe districare, ed anzi lo incoraggia con la sua partecipazione all’apparenza. La musica come arte è colpevole della propria verità, ma non lo è meno anche quando, offendendo l’arte, nega la sua stessa idea. Le sinfonie di Mahler cercano incessantemente di svincolarsi da questo destino [...].4

E ancora più avanti: Mahler nella sua musica sa e configura oggettivamente che l’unità può raggiungersi non «malgrado» le fratture ma solo «attraverso di esse».5

Alla musica in generale e in particolare a quella di Mahler viene affi42

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dato il compito speculativo di prospettare la dimensione propositiva della dialettica «negativa». Per restituire il senso di tale «compito» mi servo di uno schema di riferimento così ordito: a) mi soffermo sul particolare modello di temporalità musicale prospettato da Adorno, le cui coordinate possono essere precisate da una comparazione in negativo con quello hegeliano; b) il «destino» e la «caducità» diventano le cifre esplicite di due paradigmi non commensurabili di temporalità musicale; c) dalla temporalità musicale, dalla musica in una ideale sequenza di continuità si può tornare alla dialettica «negativa», al suo valore teoricamente propositivo. 2 – In questo caso mi propongo di argomentare, contestualizzandola con alcune precisazioni degne di rilievo, un’ipotesi di ricerca su cui sussiste un ampio consenso storiografico6: il problema del tempo è il problema per eccellenza della filosofia della musica adorniana. Per questo è interessante confrontarsi con una dizione apparentemente paradossale, quella di «metafisica del tempo musicale», da intendersi nella stessa accezione in cui viene utilizzata da Adorno a proposito del Lied Abschied, l’ultimo del Lied von der Herde, nel capitolo VIII della sua monografia mahleriana, quando si postula che «l’ultima metafisica sta nell’impossibilità di qualsiasi metafisica».7 L’espressione «metafisica del tempo musicale» indica pertanto contestualmente l’estrema affermazione e la negazione stessa della possibilità di una metafisica. Per comprendere a pieno le implicazioni di una tale scelta speculativa è opportuno riferirsi ad un’altra prospettiva, quella hegeliana, in cui il significato storico-epocale dell’istanza musicale è esauribile, come in Adorno, anche se con esiti profondamente diversi, nella temporalità.8 Per Hegel, infatti, il legame strettissimo di temporalità e soggettività – il nucleo tematico centrale della sua filosofia della musica – non comporta automaticamente un depotenziamento del soggetto con la conseguente valorizzazione di una presunta «onnipotenza della musica»9 di cui favoleggiano gli scrittori antichi, sacri e profani. Perché la musica eserciti compiutamente i suoi effetti è necessario infatti non tanto assecondare «l’astratto susseguirsi dei suoni nel loro movimento temporale», quanto il subentrare di un «contenuto» determinato e determinabile. Adorno, invece, in un luogo decisivo della sua Philosophie der neuen Musik10, fornisce l’indicazione opposta, identificando la funzione della musica proprio con quella assolta nella più antica tradizione, in cui l’istanza musicale veniva rappresentata 43

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come la nemica naturale, l’antitesi di ciò che Adorno definisce «destino». In questa rapida annotazione è racchiusa tutta la sostanza della filosofia della musica adorniana11 che presume una identità metafisica, una «metafisica della temporalità» nell’accezione prima richiamata, la cui intonazione polemica riguarderà proprio l’interpretazione hegeliana fondata, in particolare, sulla riaffermazione di un contenuto «poietico» svincolato da ogni forma, diretta o indiretta, di soggettivismo irrazionalistico. In conclusione si può anticipare che sussistono due modelli di temporalità musicale: il primo, prospettato da Hegel, assume connotati che non sono diversi o alternativi a quelli consueti della temporalità storica; il secondo, teorizzato in diverse circostanze da Adorno e circoscritto dalla formula «metafisica del tempo musicale», sottende, invece, un’interpretazione alternativa della storicità. Ho già argomentato in un’altra occasione12 come per Adorno sia decisiva l’equazione strettissima fra musica e musica moderna e, parallelamente, fra filosofia della musica e filosofia della musica moderna. Una delle ragioni di fondo sta proprio nel nesso che congiunge una certa dimensione della musica con una visione alternativa della temporalità. Posso menzionare alcuni contesti da cui risulta evidente tale correlazione. Per esempio la stessa dizione dell’aggettivo «musikalisch» dipende in larga misura dal «porsi di fronte al tempo che scorre e al suo orrore [...] e nello stesso tempo resistergli in virtù del contenuto che in esso appare».13 O ancora, in un altro passaggio, dove la musica «deve [...] spuntarla con il tempo stesso, non perdersi in esso; deve contrapporsi al suo vuoto flusso»14 Proprio per questo Adorno può affermare con convinzione che l’esperienza stessa della musica moderna nel suo complesso non è null’altro che «angoscia [...] di fronte al corso del tempo lineare».15 Uno dei musicisti che esprime meglio questa preoccupazione è Gustav Mahler. Vi sono un paio di passaggi della monografia su Mahler molto chiari in proposito, per esempio, nella conclusione della prima parte, Vorhang und Fanfare: Ciò che vi è in Mahler di non addomesticato, dove la sua musica si sprofonda in un pieno accordo, è anche arcaico ed antiquato, e per questo quella musica, nemica di ogni compromesso, si rifece al materiale della tradizione, che le ricordava le vittime del progresso anche in campo musicale, cioè quegli elementi di linguaggio espulsi dal processo della raziona-

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lizzazione e del dominio sul materiale. In quella lingua Mahler non voleva trovare la pace turbata dal corso del mondo, ma ne ha fatto uso con violenza per resistere con lei alla violenza stessa.16

In questo modo Mahler diventa il cantore privilegiato della «caducità», di un progresso che in realtà non è mai cominciato, di una regressione che non si potrà più falsificare come «originarietà». E ancora, nella conclusione dell’ultimo capitolo, Der lange Blick, a proposito dell’Adagio con cui si chiude la IX Sinfonia, definito da Mahler Sehr langsam und noch zurückhaltend: Il tempo, riassorbito, non ha più alcuno scopo, non conduce ad alcun fine, e la conclusione si perde senza rimedio [...]. Nel congedarsi la musica non riesce a liberarsi. E non perché voglia confermarsi ed imporsi, perché il soggetto non è in grado di sottrarre l’amore contemplativo da ciò che è irrecuperabile. Il lungo sguardo si appunta su tutto quanto è condannato.17

Anche in questo caso la musica diviene espressione della metafisica della caducità che ritrova nella temporalità musicale il suo canale privilegiato. Le sinfonie mahleriane possono essere definite «Balladen des Unterliegens» perché «Nacht ist jetzt schon Bald». In esse trovano audizione quelli che sono usciti dai ranghi, «i calpestati», coloro che non rientrano nel disegno rigorosamente prestabilito di una temporalità-storicità seriale «a senso unico», un modello di temporalità-storicità metafisicizzato. Adorno crede, invece, come già anticipato, che l’ultima metafisica plausibile stia nell’impossibilità di restaurare una quale che sia metafisica. Paradosso che potrà essere realizzato in maniera eminente dall’andamento «narrativo» della musica mahleriana; «narrativo» nel senso che la musica esprime se stessa, ha se stessa come contenuto ed insomma racconta senza una trama precisa [...]. Come il narratore, la musica di Mahler non ripete mai la stessa cosa: e in tal modo inserisce la soggettività. Grazie a quest’ultima, l’imprevedibile e il contingente che essa espone si trasforma nel principio formale della sorpresa, nel principio della mutazione continua, l’unico che dà luogo dichiaratamente al tempo.18

Entro quest’ottica peculiare, Mahler riesce a far scaturire la temporalità storica «dall’eternità dell’identico», facendo propria in tal modo l’originaria tendenza antimitologica dell’epos e, in conclusione, del romanzo stesso. Si tratta di un processo di mistificazione e trasfigura45

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zione dell’orrore nel destino, in quest’unità che omologa falsamente ogni atrocità.19 «Destino» e «caducità» divengono pertanto le forme segrete di due modelli di temporalità: nel primo caso il «tempo» del destino è tempo irreversibile, seriale, tempo che non riuscirà mai a dare conto delle «vittime» fatalmente connesse ad una scelta per principio violenta; nel secondo, che ritrova nella temporalità musicale specificatamente sincopata della musica moderna la sua espressione privilegiata, la discontinuità o non-reversibilità del tempo rientra nel disegno complessivo della polemica contro la metafisica della storia hegeliana. Un disegno – si rende perfettamente conto lo stesso Adorno – pur presentato come la sua estrema negazione, non immune dall’imprimatur metafisico. «Metafisica» che sottende una determinata interpretazione della musica: nel primo caso come una delle molteplici espressioni dell’attività poietica del soggetto (Hegel), nel secondo, invece, «onnipotente» o, in altri termini, utopicamente rivoluzionaria (Adorno).

NOTE 1 TH. W. ADORNO, MAX HORKHEIMER, I seminari della Scuola di Francoforte: protocolli di discussione, a cura di Franco Riccio, trad. it. di Fabrizio Mangione, Milano 1999, p. 139. 2 Si possono consultare in proposito e sfruttare sul piano strettamente speculativo i due volumi di TH. W. ADORNO, Kompositionen, a cura di Heinz-Klaus Metzger e Rainer Riehn, 2 voll. (1. Lieder für Singstimme und Klavier; 2.Kammermusik, Chöre, Orchestrales, München 1980. 3 Di Adorno «der Komponist als Philosoph» e della composizione come «Utopie der Versöhnung» parla in un saggio molto sottile MARTIN BLUMENTRITT, in Th. W. Adorno, Der Komponist, in «Musik-Konzept», 63/64 (1989), pp. 8-25. 4 TH. W. ADORNO, Mahler. Eine musikalische Pysiognomik, in ID., Gesammelte Schriften 13, a c. di Rolf Tiedemann, Frankfurt a. M. 1971, p. 154; trad. it. Di Giacomo Manzoni, Wagner. Mahler. Due studi, Torino 1966, p. 142. 5 TH. W. ADORNO, Mahler, in Gesammelte Schriften 13, op. cit., p. 182; trad. it. Wagner. Mahler. Due studi, op. cit., p. 161. 6 Da ultimo ripropone questa ipotesi di ricerca con grande convinzione RICHARD KLEIN, Solidarität mit Metaphysik. Ein Versuch über die musikphilosophische Problematik

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der Wagner-Kritik Theodor W. Adornos, Würzburg 1991, p. 196: «Das Problem der Zeit ist das Problem der Adornoschen Musikphilosophie». 7 TH. W. ADORNO, Mahler, in Gesammelte Schriften 13, op. cit., p. 297; trad. it. Wagner. Mahler. Due studi, op. cit., p. 275. 8 Su questo concordano tutti gli studi sulla filosofia della musica hegeliana: cfr. G. BRELET, Le temps musical. Essai d’une esthétique nouvelle de la musique, 2 voll. (1. La forme sonore et la forme rytmique; 2. La forme musicale), Paris 1949; H. HEIMSOETH, Hegels Philosophie der Musik, in «Hegel-Studien», 2, Bonn 1963, pp. 161-201; H. NOVAK, Hegels Musikästhetik, in «Studien zur Musik», 26, Regensburg 1971; A. MOSCATO, La musica nel pensiero di Hegel e Schopenhauer, in A. CARACCIOLO (a cura di), Musica e filosofia, Bologna, 1973, pp. 93-118; C. CANTILLO, La musica nell’estetica hegeliana, in «Atti dell’Accademia di Scienze Morali e Politiche», 98 (1987), pp. 105-137. 9 «[...] perché la musica eserciti il suo pieno effetto, non basta l’astratto susseguirsi dei suoni nel loro movimento temporale. Il secondo lato che deve subentrare è un contenuto, un sentimento ricco di spirito per l’animo e l’espressione, l’anima di questo contenuto nei suoni. Noi perciò non dobbiamo formarci alcuna banale opinione sull’onnipotenza della musica come tale, di cui gli scrittori antichi, sacri e profani, ci raccontano tante storie favolose. Già nei miracoli civilizzatori di Orfeo, i suoni ed il loro movimento, pur bastando per le bestie selvagge che si ammansivano e si sdraiavano intorno a lui, non bastavano però per gli uomini che richiedevano una dottrina più elevata» (G.W.F. HEGEL, Estetica, trad. it. di N. Merker e N. Vaccaro, Torino 1997, pp. 1013-1014). 10 TH. W. ADORNO, Philosophie der neuen Musik, in ID., Gesammelte Schriften 12, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt a.M. 1975, p. 67, n. 22: «Musik ist der Feind des Schicksals. Seit ältesten Zeiten hat man ihr die Macht des Einspruchs gegen die Mythologie zugeschrieben, im Bilde des Orpheus nicht anders als in der chinesischen Musiklehre. Seit Wagner erst hat die Musik das Schicksal nachgeahmt». 11 Il che raramente viene notato. Mi riferisco in particolare alla letteratura critica di lingua tedesca, ormai di dimensioni cospicue, di cui mi limito a fornire solo alcune indicazioni di massima: P. ACKERMANN, Richard Wagners «Ring des Nibelungen» und die Dialektik der Aufklärung, in «Frankfurter Beiträge zur Musikwissenschaft», 19 (1987); H.K. JUNGHENHEINRICH, Nicht versöhnt. Musikästhetik nach Adorno, in «Musikalische Zeitfragen», 19 (1987); O. KOLLERITSCH (a cura di), Adorno und die Musik, Graz, 1979; W. NOTTER, Die Ästhetik der kritischen Theorie, Frankfurt a.M. / Bern/New York 1986; AA.VV., Adorno in seinen musikalischen Schriften, in «Studien zur Musik», 2 (1987); L. SZIBORSKY, Adornos Musikphilosophie. Genese-Konstitution-Pädagogische Perspektiven, München 1979; ID., Rettung des Hoffnungslosen. Untersuchungen zur Ästhetik und Musikphilosophie, München 1994; A. TATSUMURA, Musik zwischen Naturbeherrschung und Naturideologie. Theodor W. Adornos Theorie und die heutige musikalische Situation, Techn. Univ., Diss., Berlin 1987; G. WOHLFAHRTH, Der Augenblick. Zeit und ästhetische Erfahrung, München/ Freiburg 1982; N. ZIMMERMANN, Der ästhetische Augenblick. Theodor Adornos Theorie der Zeitstruktur von Kunst und ästhetischer Erfahrung, Frankfurt a.M. 1989. 12 Nella relazione al Convegno Internazionale di Studi Musicologici tenutosi dall’1 al 4 aprile 1993 presso l’Università della Calabria, L’identità filosofica della musica – filosofia della musica moderna nel pensiero di Th. W Adorno, in Il pensiero musicale degli anni Venti e Trenta, a cura di M. BRISTIGER, N. CAPOGRECO e G. REDA, Rende 1996, pp. 29-40. 13 TH. W. ADORNO, Kriterien der neuen Musik, in ID., Gesammelte Schriften 16, a cura di R. Tiedemann, Frankfurt a.M. 1978, p. 222 (corsivo mio). 14 TH. W. ADORNO, Über einige Relationen zwischen Musik und Malerei, in ID., Gesammelte Schriften 16, op. cit., p. 628 (corsivi miei). 15 TH. W. ADORNO, Zweite Nachtmusik, in ID., Gesammelte Schriften 18, a cura di

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R. Tiedemann, Frankfurt a.M. 1984, p. 51. 16 TH. W. ADORNO, Mahler, Gesammelte Schriften 13, op. cit., p. 166; trad. Wagner. Mahler. Due studi, op. cit., p. 152 (corsivo mio). 17 TH. W. ADORNO, Mahler, Gesammelte Schriften 13, op. cit., p. 286; trad. Wagner. Mahler. Due studi, op. cit., p. 309 (corsivo mio). 18 TH. W. ADORNO, Mahler, Gesammelte Schriften 13, op. cit., p. 207; trad. Wagner. Mahler. Due studi, op. cit., p. 225. 19 TH. W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, trad. di Renato Solmi, Dialettica dell’illuminismo, Torino 1966, pp. 88-89.

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DIALETTICA

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La dialettica come modello. La critica del sistema hegeliano in Dialettica negativa Nicoletta Di Placido

LA DIALETTICA OLTRE IL SISTEMA Nella Premessa alla Dialettica Negativa Adorno si preoccupa di mettere subito in chiaro la sua distanza dal sistema come forma filosofica. Nella prima pagina si legge infatti che «la dialettica negativa (…) potrebbe chiamarsi antisistema. Con strumenti logico-deduttivi essa cerca di sostituire il principio unico e il dominio universale del concetto sovraordinato con l’idea di ciò che potrebbe essere al di fuori del bando di questa unità»1. Già da questa affermazione emerge uno dei punti cruciali della Dialettica Negativa e del rapporto che Adorno istituisce tra la sua opera e quella di Hegel. Dalla lettura della Dialettica dell’Illuminismo, sappiamo che il dominio universale e il principio unico sono gli aspetti della filosofia tradizionale che Adorno vuole disgregare. Il problema teoretico – che nell’opera scritta con Horkheimer ancora non era affiorato in termini così sistematici – è anticipato nell’aforisma dei Minima moralia che Adorno chiama Eredità, dove afferma che «il pensiero dialettico è il tentativo di spezzare il carattere coattivo della logica coi suoi stessi mezzi». Raccogliendo e interpretando l’eredità benjaminiana, Adorno conclude l’aforisma tematizzando un pensiero che sia ad un tempo dialettico e non dialettico, in grado di eludere quel «carattere coattivo della logica» che stritola gli oggetti, senza tuttavia mancare l’obiettivo della conoscenza. In Dialettica negativa questo stesso problema trova luogo nell’intenzione adorniana di disgregare il dominio che l’idea stessa di dialettica – nella sua forma tradizionale, da Platone a Hegel – ha contribuito a realizzare. Dominio che Adorno rinviene con maggiore forza nel sistema hegeliano e nel processo dialettico che costituisce la completezza e la scientificità del sistema stesso. È evidente che, per aprire una breccia nell’unità sistematica e sostituirla con ciò che potrebbe essere al di fuori, Adorno debba tematizzare un’idea di dialettica trasformata rispetto a quella hegeliana. Il pensiero ad un tempo dialettico e non dialettico torna nelle 51

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pagine della Dialettica negativa confrontandosi con colui che lo stesso Adorno ha chiamato «il dialettico per eccellenza». Un aspetto che a nostro avviso va tenuto costantemente presente è l’ambivalenza del rapporto che Adorno porta avanti con l’autore della Fenomenologia dello Spirito: se infatti da un lato Hegel ha legittimato il dominio dell’identico con la forza del sapere assoluto, dall’altro la stessa «dottrina hegeliana della dialettica rappresenta il tentativo insuperato di mostrarsi con concetti filosofici all’altezza di ciò che è a essi eterogeneo»2. L’operazione che Adorno compie nella Dialettica negativa non è dunque di distruzione dell’apparato concettuale hegeliano, ma di disgregazione della chiusura sistematica. Vedremo come una tale disgregazione avvenga attraverso un pensiero dialettico che applichi su di sé la sua stessa forza critica, che è il momento del negativo. Per ammissione dell’autore stesso, la dialettica negativa è paradossale; infatti, «liberare la dialettica da una siffatta essenza affermativa, senza perdere neanche un po’ di determinatezza»3 equivale a far crollare quel principio di necessità che, se da un lato guida il percorso verso il raggiungimento di un telos che è il positivo, la conciliazione data dalla perfetta corrispondenza di concetto e cosa, dall’altro garantisce il susseguirsi delle figure e l’acquisizione di un grado sempre maggiore di determinatezza. Adorno si pone in questa dinamica con l’intenzione di far cadere questo primato della necessità a partire da un pensiero che legga la dialettica non come una Weltanschauung che tutto comprende, ma come possibilità della conoscenza. Al rapporto che Adorno istituisce tra dialettico e non dialettico, necessità e possibilità, si aggiunge un ulteriore elemento di critica al sistema hegeliano: quello al concetto di metodo, cui il francofortese oppone un’idea della dialettica intesa come modello di pensiero. Questo aspetto ci sembra interessante perché mette in luce la posizione di Adorno rispetto alla modernità e alla filosofia tradizionale, Hegel in primis. RAGIONE E DISCONTINUITÀ L’idea del modello di pensiero si trova anche in un’opera contemporanea alla Dialettica negativa che si intitola appunto Parole Chiave. Modelli critici. Nell’intenzione di Adorno quest’opera doveva incarnare l’idea di un nuovo dizionario filosofico: nella nota introduttiva si legge che «il titolo Stichworte ricorda la forma enciclope52

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dica cioè espositiva in modo asistematico, discontinuo, di ciò che raccoglie, attraverso l’unità dell’esperienza, una costellazione di voci»4. È interessante notare come anche in Dialettica negativa, proprio esponendo la sua idea della dialettica come modello, Adorno parli della forma enciclopedica del pensiero come «qualcosa di razionalmente organizzato e tuttavia discontinuo, non sistematico e sciolto, (che) esprime lo spirito autocritico della ragione»5. Due sono le questioni a nostro avviso importanti che affiorano da queste letture: la prima è l’emergere dello spirito autocritico della ragione nella discontinuità, piuttosto che nella sistematicità che legittima i concetti e la ragione, tutelandoli dalla contaminazione con il non-identico6. L’altro aspetto interessante, strettamente connesso al primo, è la razionalità organizzata nonostante la discontinuità, e ancora, si legge in Parole chiave, la forma espositiva asistematica che tuttavia raccoglie una costellazione attraverso l’unità dell’esperienza. L’immagine della ragione sciolta dalle regole del gioco hegeliano della dialettica costituisce un ulteriore elemento di vicinanza a Walter Benjamin. In un saggio del 1950, Profilo di Walter Benjamin, Adorno anticipa il tema dell’esposizione asistematica come possibilità di uscita dal dominio del concetto. Riferendosi all’opera benjaminiana sui Passages, Adorno scrive: «l’aforisma dell’Einbahnstrasse secondo cui le citazioni dei suoi lavori sono come predoni appostati lungo la strada, che balzan fuori a spogliare il lettore delle sue convinzioni, egli lo concepiva alla lettera. A coronamento del suo antisoggettivismo, la sua opera fondamentale non avrebbe dovuto consistere che di citazioni»7. Tuttavia, ciò che differenzia il lavoro di Benjamin da quello di Adorno – e questo aspetto ci riconduce al modello di pensiero esposto nella Dialettica negativa – è l’assenza di unità dell’esperienza e di organizzazione razionale che Adorno scorge nella filosofia benjaminiana; poco più avanti si legge infatti che «la filosofia frammentaria restò frammento, vittima forse di un metodo, del quale non è certo che si lasci attuare nell’ambito del pensiero»8. L’assenza di unità e di organizzazione dell’opera benjaminiana pone Adorno di fronte a due questioni: la prima è l’impossibilità del frammento benjaminiano di soddisfare l’esigenza di concepire un pensiero che sia stringente senza sistema. La seconda questione è più complessa ed esigerebbe un’esposizione più approfondita del rapporto con Benjamin, ci limitiamo pertanto ad accennarla: fissare la filosofia nel frammento sembra avvicinarsi al suo opposto, all’irrigidimento posto in essere dal sistema filosofico, all’interno del quale il metodo 53

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sussiste a prescindere dal contenuto. Benjamin, afferma Adorno, «ha elevato il frammento a suo principio»9. La frammentarietà benjaminiana per Adorno inaugura un pensiero troppo vicino alla cosa, facendola divenire «estranea come qualunque oggetto della vita quotidiana visto al microscopio». È interessante osservare che poco oltre Adorno accosti la frammentarietà elevata a principio alla sistematicità hegeliana: «come Hegel, il dialettico della fantasia, che egli (Benjamin) definì “estrapolazione nel minimo”, spera di considerare la “cosa come è in sé e per se stessa”, senza riconoscimento dunque della soglia ineliminabile tra coscienza e cosa in sé». Costantemente in bilico tra la dialettica intesa in senso hegeliano e la dialettica percepita come discontinuità, frammentarietà, micrologia, Adorno dà forma a un pensiero dialettico che colga il particolare senza sublimarlo in un ordine universale e senza, dall’altra parte, elevare la particolarità a principio: «ciò che in loro stessi (gli oggetti) attende ha bisogno di un intervento che li faccia parlare, con la prospettiva che le forze mobilitate dall’esterno, infine ogni teoria addotta ai fenomeni si spengano in essi. Anche in questo senso la teoria filosofica intende la sua propria fine: realizzandosi»10. La realizzazione della teoria filosofica e, ci sembra, anche della dialettica negativa, non è quella che si registra nel sapere assoluto hegeliano – anche perché la teoria filosofica di Hegel non intende affatto la propria fine – ma è quella di spegnersi nell’oggetto una volta che questo sia stato aperto e lasciato parlare. In questo senso Adorno tematizza una dialettica che abbia in sé il momento della libertà di uscire dall’oggetto. Questa idea rinnovata di dialettica rappresenta l’urgenza di non rinunciare all’unità dell’esperienza che organizza la conoscenza, senza tuttavia togliere all’oggetto la possibilità di espressione al di là degli schemi razionali addotti dall’esterno: «l’immersione nell’individuale, immanenza dialettica potenziata all’estremo, ha bisogno come suo momento anche di quella libertà di uscire dall’oggetto che è stata recisa dalla pretesa d’identità. Hegel non l’avrebbe approvata. Infatti egli si è affidato alla completa mediazione negli oggetti. Nella prassi conoscitiva, che è risoluzione dell’insolubile, il momento di questa trascendenza del pensiero viene in luce nel fatto che essa come micrologia dispone solo di mezzi macrologici. La richiesta di obbligatorietà senza sistema è quella di modelli di pensiero. (…) Il modello centra lo specifico e più che lo specifico, senza sublimarlo nel suo concetto superiore più universale. Pensare filosofica54

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mente equivale a pensare in modelli; la dialettica negativa è un ensemble di modelli di analisi»11. Dalla lettura di questo capoverso emergono alcune delle critiche sostanziali che Adorno rivolge a Hegel. Prima fra tutte, la tematizzazione della libertà come momento della dialettica che apre alla possibilità di uscire dall’oggetto. Tematizzazione che ci porta a considerare uno degli elementi più rilevanti della critica al sistema hegeliano: la necessità del processo dialettico garante della sistematicità e della scientificità del sistema stesso. La Fenomenologia è infatti, come sappiamo, «scienza dell’esperienza della coscienza». L’esperienza è il movimento dialettico che la coscienza compie e che la fa progredire grazie ad una negazione non assoluta, ma determinata dell’oggetto con cui di volta in volta si trova in relazione («questo movimento dialettico che la coscienza esercita in se stessa è ciò che si chiama propriamente esperienza»). Anche se questo progredire è immanente alla coscienza stessa, e al suo oggetto, tuttavia essa non ha piena consapevolezza del cammino che sta percorrendo: solo assumendo il punto di vista scientifico – quello che sa della totalità e finalità del processo – può verificarsi la necessità del movimento. In altri termini, la coscienza compie quel percorso, e non altro, perché è la negazione determinata, interna alla dialettica, che apre «il passaggio pel quale avviene lo spontaneo processo attuantesi attraverso la completa serie delle figure»12. La dialettica dunque è la necessità che determina l’andamento e garantisce la sistematicità e, quindi, anche la scientificità della filosofia. In effetti ogni momento della Fenomenologia possiede un contenuto di verità maggiore rispetto al precedente; in questo modo Hegel può giungere a determinare il sapere assoluto come identico a se stesso, perché tutte le contraddizioni sono state superate e, ovviamente, anche conservate nel sapere, che perciò può dirsi assoluto e completo. Il movimento dialettico hegeliano si cala nelle cose e ne esalta il contenuto razionale; ma questo stesso contenuto viene scelto e portato a coscienza secondo un criterio che Adorno definisce violento e coercitivo per le cose stesse. Le categorie del pensiero, anche se mosse dalla contraddizione dialettica, colgono dell’oggetto solo ciò che riescono a incasellare nelle strutture fisse preordinate dalla razionalità; rimane però fuori della conoscenza un residuale, un nonidentico sfuggito al metodo della logica identitaria13. 55

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CONTRADDIZIONE E PARADOSSO. L’EREDITÀ HEGELIANA NELLA DIALETTICA NEGATIVA Durante le lezioni del 51-52, Adorno riporta la definizione di dialettica che Hegel ha dato durante il colloquio con Goethe. Questa definizione dice: «la dialettica altro non è che lo spirito di contraddizione sistematico e portato alle estreme conseguenze»14. Da qui vorremmo partire per analizzare, seppure in maniera non esauriente, il punto in cui, a nostro avviso, avviene lo scarto tra la dialettica hegeliana e l’idea adorniana di dialettica negativa. Per dare un quadro più completo della questione, bisogna accennare al concetto di contraddizione in Hegel. Chiaramente è solo un accenno di un punto fondamentale, quindi sarà necessariamente parziale e certamente non esauriente. La contraddizione entra in gioco nell’opposizione tra due termini: positivo e negativo si dicono non-identici all’altro, ma, proprio nell’affermazione del sé come non-altro, entrano in relazione con questo e lo contengono e, conseguentemente, sono contenuti nell’altro. Questo movimento di esclusione-inclusione degli opposti rappresenta ciò che Hegel chiama la negazione determinata: essa trova luogo nel momento negativo del rapporto proprio perché dicendo il negativo si include anche il positivo, ma non viceversa. Così nella Fenomenologia dello spirito Hegel afferma che «il negativo può venir riguardato come la manchevolezza di entrambi; ma è la loro anima, o ciò che li muove entrambi»15. Sintetizzando il più possibile, possiamo affermare con Hegel che la contraddizione è ciò che muove le determinazioni ed è posta con la negazione determinata, che dunque è il momento propriamente dialettico. Questa centralità del momento negativo è la grande svolta di Hegel rispetto alla tradizione, è ciò che Adorno riconosce come forza emancipativa della filosofia hegeliana. Tuttavia, da queste brevi considerazioni nascono principalmente due problemi, profondamente connessi nella critica adorniana: il risolversi della contraddizione in conciliazione e la sistematicità con cui Hegel accompagna questo concetto. La critica di Adorno considera la necessità come assenza di spontaneità nel susseguirsi delle figure. Ciò che è effettivamente immanente alle determinazioni è la negazione, mentre la conseguenza di questa negazione, il sorgere di un oggetto sempre più concreto e determinato, non è qualcosa che accade spontaneamente all’interno delle figure. In altre parole, Adorno denuncia la differenza tra la 56

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necessità che l’oggetto sia negato, necessità posta dalle figure, e la necessità che da questa negazione nasca qualcosa di maggiormente determinato. Hegel, afferma Adorno, si è offerto ad una critica immanente dell’idealismo, ne ha raggiunto la soglia, ma senza oltrepassarla: rimane presente in tutto il percorso una scissione tra il punto di vista della coscienza e quello della scienza, che interviene sotto forma di un per noi, di uno sguardo che non è solamente un «puro stare a guardare». Certamente nel sapere assoluto, telos di tutto il processo, si verifica una corrispondenza tra il lato formale e quello del contenuto. Ma Hegel non è giunto all’identità tra scienza e coscienza in modo del tutto spontaneo: il punto di vista scientifico ha osservato il movimento e ne ha segnato il cammino. Che la Fenomenologia sia detta da Hegel Scienza dell’esperienza della coscienza, è, dal punto di vista di Adorno, emblematico: l’esperienza della coscienza corrisponde alla dialettica, la quale allo stesso tempo svolge anche un ruolo non propriamente immanente alle figure, quello cioè di far progredire il cammino della coscienza verso la scienza. Ora si rende chiara la doppia valenza che Adorno attribuisce alla dialettica (e dunque anche alla filosofia hegeliana): essa rappresenta l’emergere della contraddizione tra le determinazioni, il loro dirsi non-identiche, ma subito dopo opera in modo da far confluire questa non-identità in una posizione positiva. Questo è anche il senso che Adorno attribuisce alla sistematicità della contraddizione in Hegel: se la dialettica indica alle figure la strada già segnata, allora essa è metodo indipendente dalla cosa cui viene applicato. Contro questa metodicità, Adorno pone in essere una logica il cui risultato non sia una conciliazione, ma, al contrario, una disgregazione: «la dialettica non è un metodo: infatti la cosa inconciliata, a cui manca proprio quell’identità che il pensiero surroga, è contraddittoria e si chiude a ogni tentativo di una sua interpretazione univoca. Essa provoca la dialettica, non l’impulso organizzativo del pensiero. Non è un semplice reale: infatti la contraddittorietà è una categoria di riflessione, il confronto pensante di concetto e cosa. La dialettica come procedura significa: pensare in contraddizioni per e contro la contraddizione una volta percepita nella cosa. […] La sua logica è disgregativa della figura armata e reificata dei concetti che il soggetto conoscente ha immediatamente di fronte»16. Depurata dell’essenza affermativa, la dialettica tematizzata da Adorno può essere completamente immanente all’oggetto. Il risultato della dialettica intesa non come metodo, ma come modello, è quell’immersione nell’indi57

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viduale, quell’immanenza dialettica che, potenziata all’estremo, suscita le vertigini. Questo passaggio adorniano dal metodo al modello di pensiero pone in essere alcune conseguenze sul piano teoretico: se la concezione tradizionale di dialettica pone il concetto come primario, questa nuova «visione del carattere costitutivo del non-concettuale nel concetto potrebbe dissolvere la coazione identitaria che il concetto senza questa riflessione frenante porta con sé. Dall’apparenza dell’essere in sé del concetto come unità di senso si esce con la sua autoriflessione sul proprio senso»17. Questa autoriflessione dischiude la possibilità che il concetto possa andare oltre se stesso e arrivare all’aconcettuale, garantendone la conoscenza senza catalogarlo. La nuova costellazione della Dialettica negativa è l’esigenza di andare oltre la tradizione con gli strumenti propri di questa. Le categorie della riflessione sono le medesime perché solo tramite il loro utilizzo si può giungere a rivelare la presenza della non-identità nelle strutture della logica identitaria. Ma, Adorno ne è consapevole, procedendo in questo modo, «la dialettica negativa è legata, come al suo punto di partenza, alle massime categorie della filosofia dell’identità. Pertanto resta anch’essa falsa, logico-identitaria, lo stesso contro cui viene pensata»18. Se «pensare significa identificare»19, allora anche il pensiero che si accosta alla non-identità è identificante. Adorno prende atto dunque che il suo pensiero è interamente contenuto nei parametri della tradizione; il compito della sua dialettica negativa è di portare il pensiero ad autoriflettere l’inadeguatezza del suo rapporto con la cosa. Da qui la diversa valenza della contraddizione adorniana rispetto a quella di Hegel: «la contraddizione pesa più che in Hegel che per primo la visualizzò. Un tempo veicolo d’identificazione totale, essa diventa organo della sua impossibilità. […] La contraddizione dialettica non “è” assoluta […]. In essa la dialettica mira al Diverso. Come autocritica della filosofia il movimento dialettico resta filosofico»20. Quello che ci interessa sottolineare è una forte vicinanza di Adorno a Hegel proprio nella tematizzazione del fondamentale concetto di contraddizione. Come già accennato, «Hegel rappresenta il tentativo insuperato di mostrarsi con concetti filosofici all’altezza di ciò che è a essi eterogeneo». Questa rottura di Hegel con la tradizione passa attraverso la sua idea di contraddizione. Hegel porta in superficie la paradossalità insita nella contraddizione21: la contraddittorietà diviene misura dell’interdipendenza dei termini, per cui 58

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questi hanno significato solo nel rapporto di opposizione, e, quindi, comprensione con l’altro. Hegel ha rielaborato tutte le categorie della logica tradizionale. Questo paradosso espresso dalla contraddizione hegeliana ci riporta a pensare il paradosso della Dialettica negativa di Adorno, che sembra inserirsi nel movimento dialettico di Hegel proprio là dove questo si è trasformato in processo. Adorno si pone sulla soglia del mantenimento del paradosso. Hegel non ha oltrepassato questa soglia perché ha risolto la contraddizione in un positivo ultimo che ha ristabilito l’ordine gerarchico della tradizione. La Dialettica negativa ripropone il paradosso come necessario per il mantenimento del non identico; la mancanza di una risoluzione della contraddizione è la cifra della distanza-vicinanza con Hegel. L’intenzione di Adorno è quella di far ripartire il movimento dialettico da dove Hegel lo aveva interrotto. La dialettica negativa – in quanto modello di pensiero – non può che essere paradossale, perché il paradosso è la figura del negativo che non trapassa in positivo e che tuttavia rende possibile la conoscenza.

NOTE 1

TH. W. ADORNO, Dialettica Negativa, Torino 2004, pp. 3-4. Ivi, p. 6. 3 Ivi, p. 3. 4 TH. W. ADORNO, Parole chiave. Modelli critici, Milano 1974, pp. 4-5. 5 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 29. 6 Questo aspetto ci riconduce alla Dialettica dell’Illuminismo, nella cui dinamica la messa al bando del mito è in realtà dettata dal terrore della ragione di riscoprire i suoi lati oscuri, di rivelare il suo essere seconda natura. 7 TH. W. ADORNO, Prismi, Torino 1972, p. 245. 8 Ibidem 9 Ivi, p. 246. 10 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 28. 11 Ibidem. 12 G. W. F. HEGEL, Fenomenologia dello Spirito, Firenze 1996, p. 52. 2

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13 Ci sembra importante dire che la critica di Adorno tende a vedere soltanto un lato della questione: la necessità del sistema hegeliano è sì un presupposto, ma è un presupposto né dogmatico né metodico, piuttosto, è ciò che rende valida la logica all’interno della quale avviene l’esperienza e che fa tutt’uno con questa. Su questo aspetto, L. CORTELLA, Autocritica del moderno, Padova 2002, p. 130 e ss. 14 TH. W. ADORNO, Il concetto di filosofia, Roma 1999, p. 63. Adorno si riferisce al colloquio tra Hegel e Goethe riportato da J. P. ECKERMANN, Gespräche mit Goethe in den letzten Jahren seines Lebens, a cura di Regine Otto con la collaborazione di Peter Wersig, III edizione, München 1988, pp. 576 e sg. 15 G. W. F. HEGEL, Fenomelogia dello spirito, op. cit., p. 21. 16 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 131. 17 Ivi, p. 18 Ivi, pp. 133-134. 19 Ivi, p. 7. 20 Ivi, p. 138. 21 Su questo aspetto, cfr. M. DE CAROLIS, Su alcuni aspetti della teoria hegeliana della contraddizione, in Hegel e la comprensione della modernità, Milano 1991.

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L’excursus su Hegel: ontologia fondamentale e dialettica Marco Jacobsson

Se vogliamo arrivare ad un confronto con Hegel, allora la richiesta di essere a lui “affini” è rivolta a noi […] Affini – non uguali e non identici. Affinità – non è qui l’identità di un cosiddetto punto di vista, non l’appartenenza ad una scuola e ancor meno il trovarsi d’accordo su principi e concetti e assolutamente non il piatto livellamento del mettersi d’accordo sugli stessi cosiddetti risultati e progressi di una “ricerca”. Affine – significa vincolato alle prime e alle ultime necessità di fatto dell’interrogare filosofico […] Essere e essente sono dunque per Hegel e per noi, per ragioni prime e ultime, qualcosa di diverso. Ma non il diverso di due punti di vista giustapposti [...]; ma la diversità che è possibile soltanto nell’essere egualmente distante tanto dall’insignificante quanto da ciò che è oggetto di convinzioni esclusive, e che è possibile soltanto nell’impegno per l’unitario, il semplice, l’irripetibile, l’essenziale»1.

Queste citazioni testimoniano efficacemente quanto Heidegger avvertisse la propria riflessione vicina alle intenzioni della filosofia hegeliana. I due concetti chiave di queste indicazioni sono l’«affinità» e la «diversità» che Heidegger individua fra sé e Hegel. O meglio: l’affinità di fondo nonostante l’evidente differenza fra le due posizioni2. Ciò che unirebbe l’ontologia fondamentale alla filosofia dello spirito sarebbe «l’impegno per l’unitario» che guida una ricerca in cui origine e destino (le «prime ed ultime necessità» della filosofia) coincidono: «Herkunft aber bleibt stets Zukunft»3. A giudizio di Heidegger questa comunanza è il segno della valenza positiva della filosofia hegeliana, oltre che conferma ante rem della giustezza del proprio pensiero. La stretta parentela fra analitica esistenziale e idealismo panlogistico emerge, ma con opposta valenza, dalla Dialettica negativa di Theodor W. Adorno. Rispetto ai lavori precedenti4, la forza e l’originalità dell’interpretazione adorniana sta tutta nell’aver inteso la prossimità dell’ontologia fondamentale alla dialet61

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tica hegeliana in termini di impianto repressivo dell’universale sul particolare. Adorno, il quale probabilmente non conosceva il corso heideggeriano dal quale ho tratto le frasi di apertura, imputa a Hegel di essere rimasto vittima di un presupposto per eccellenza restio ad ogni genuina dialettizzazione proprio per la sua natura totale e assoluta: il concetto di spirito. L’interruzione della dialettica – questa l’intuizione fondamentale di Adorno – avvicina la filosofia di Hegel all’ontologia di Heidegger, fondamentale solo perché autoritaria nella sua pretesa di originarietà. Il bersaglio della critica adorniana è quella ricerca dell’invarianza che ha guidato la filosofia della storia di Hegel e che in Heidegger si è manifestata nel «bisogno ontologico». L’«insignificante» (das Belanglos) – per rimanere alla concettualità heideggeriana – tralasciato dai due filosofi non è nient’altro che la concreta realtà storica e sociale, in se stessa irriducibile al concetto. Sulla base di una considerazione ‘critica’ del reale Adorno tenta, al contrario, di recuperare il valore dell’individuo rispetto allo spirito-essere, evitando però di sfociare in un altrettanto sterile nominalismo in cui il singolo goda della stessa arrogante, ma ribaltata, supremazia dell’universale. L’INDIVIDUO E L’UNIVERSALE Stando all’Adorno di Dialettica negativa, la filosofia di Hegel priva la realtà storica e sociale del suo genuino antagonismo e dell’ingovernabile tensione fra gli opposti la quale si ritrova, invece, conciliata e neutralizzata nella dimensione ideale dello spirito. Non solo. L’autore della Filosofia del diritto ipostatizza la propria situazione storica, per definizione particolare, a sostanza universale antitetica alla realtà mondana. Il rapporto fra spirito e mondo storico rappresenta la fondamentale interruzione della dialettica di Hegel: la storia, nel suo concreto farsi, dovrebbe vincolare le utopie della ragione, mentre la filosofia dell’assoluto parteggia radicalmente, e sin dall’inizio, per lo spirito. La filosofia di Hegel è la massima espressione dell’intimo paradosso che appartiene al concetto di diritto: Il diritto è l’originaria manifestazione di una razionalità irrazionale. In esso il principio formale di equivalenza diventa norma, rende ogni cosa uniforme5.

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Portando alle estreme conseguenze questo concetto, Hegel incentra la propria filosofia del diritto non tanto sugli effettivi meccanismi giuridici e sulle reciproche limitazioni dei poteri, quanto sui processi di legittimazione della violenza dell’universale sul particolare, nel senso che ogni fattispecie è resa del tutto conforme ad una norma astratta. Il discorso di Hegel sottende, però, una ben più radicata volontà repressiva che deriva dalla struttura teoretica di quel pensiero. Ogni esperienza, se non già preformata in un universale precedentemente ‘codificato’, viene svilita e svuotata della sua genuina valenza individuale. Il potere dell’universale sull’individuo non è, come voleva Hegel, sempre conforme all’essenza del singolo, ma più spesso questo rapporto si manifesta come un’insanabile opposizione. Il fatto che Hegel abbia ignorato questo aspetto inconciliabile della relazione fra individuo e universale denota la fondamentale a-dialetticità della sua filosofia. La critica all’impronta ‘ideologica’ della filosofia dello spirito investe il concetto di «astuzia della ragione» con il quale Hegel intendeva conferire dignità all’azione umana, ma solo per il fatto che il valore di essa risiederebbe nella mera capacità di adeguarsi ai fini universali stabiliti indipendentemente da ogni individualità. «Certamente nella storia – dice Hegel – deve realizzarsi l’idea, in quanto potenza assoluta (absolute Macht)»6. Il fatto che in questa realizzazione si infiltrino pensieri particolari che rimandano a scopi immediati non deve far pensare ad una contraddizione. Precisa Hegel: difatti tutti quegli scopi particolari e limitati sono piuttosto mezzi mediante i quali l’idea si realizza perché essa è la potenza assoluta7.

Mentre avverte la propria iniziativa libera da ogni ordine eteronomo, l’individuo rimane vittima di una «illusione soggettiva prodotta oggettivamente»8. Tale asservimento all’universale è esemplificato dal concetto tutto romantico di genio. Sebbene geniale, il singolo non potrà mai trascendere lo spirito nazionale, l’incarnazione dell’assoluto nella storia; e anzi, quanto più l’individuo riconosce la necessità ineluttabile dello spirito, tanto più egli esprime la genialità, come se essa consistesse nel mero riconoscimento dello scacco e nell’adattamento ai fini dell’assoluto. Hegel, persuaso innanzitutto da ragioni logiche, mortifica proprio ciò che contraddistingue il singolo, la passione che ha il potere di opporsi all’ordine istituzionalizzato. In questo senso l’individuo è l’autentico elemento di disturbo, 63

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la cartina di tornasole che sottolinea che «in Hegel le cose non sono così dialettiche»9. La «millanteria» dell’idealismo, l’idea che l’individualità, attraverso il dovere, si realizzi nell’adesione incondizionata agli scopi dello spirito, permane – raggiungendo un’espressione se possibile ancor più autoritaria – nell’ontologia fondamentale di Heidegger. L’esserci heideggeriano, apparentemente affrancato dall’astuzia della ragione grazie alla capacità di progettare (ent-werfen) se stesso nel rapporto temporale al proprio essere verso la morte (Sein-ZumTode), è libero soltanto nella scelta di ciò che gli è già da sempre dischiuso come intima possibilità: Nella scoperta anticipante di questo poter-essere, l’esserci si apre a se stesso nei confronti della sua possibilità estrema. Ma progettarsi sul poter-essere più proprio significa: poter comprendere se stesso entro l’essere dell’ente così svelato10.

Se in Hegel l’individuo è esautorato del tutto dall’effettiva realizzazione della storia, l’esserci rimane prigioniero dell’identità dell’essere. Sostenere che la scelta non può, per sua natura, tracimare il poteressere – una possibilità che è in realtà un dover-essere – non è un’indicazione neutra e priva di connotazioni ideologiche, ma nasconde la volontà di conformare l’iniziativa individuale a schemi universali e repressivi. Alcune riflessioni che Hegel conduce nelle lezioni sulla storia della filosofia in riferimento alla «forza dell’universale» che emergerebbe dalla filosofia platonica, aiutano forse a comprendere meglio la vicinanza fra l’autore della Fenomenologia dello spirito e Heidegger. Due sono le peculiarità fondamentali attraverso cui lo spirito domina l’individuo: la prima, l’impossibilità di oltrepassare il proprio tempo a tal punto che «lo spirito del nostro tempo è anche il nostro spirito»11; la seconda, l’ingiunzione che recita che «nessun popolo può sottrarsi al posto che gli assegna la storia»12. Due principi che Heidegger non avrebbe esitato a sottoscrivere. La scelta esistenziale come possibilità di farsi carico del proprio essere appare molto vicina all’eticità hegeliana, il concetto in cui si rapprende il comportamento umano conforme all’astuzia della ragione. Attraverso l’eticità, in quanto «rapporto sostanziale degli individui col costume»13, il singolo individuo è compreso come una «individualità determinata»14, concetto nel quale il dovere universale diventa la vera libertà situata al di là delle capacità del singolo. 64

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L’opposizione alla mentalità illuministica accomuna l’analitica esistenziale alla filosofia della storia di Hegel, nel senso che quest’ultimo, anticipando Heidegger, auspica il ritorno ad una sensibilità in cui la razionalità è avvertita come percezione passiva del divino e non come genuina creazione individuale. Il tratto dispotico della filosofia hegeliana si rafforza, infatti, allorché l’universale viene identificato con Dio e la storia è intesa come il piano di attuazione di un disegno provvidenziale. Sebbene il retroterra teologico assuma il ruolo di vero e proprio fil rouge dell’analogia fra Hegel e Heidegger, tuttavia il rapporto fra essere heideggeriano, spirito hegeliano e Dio non è però quello di una semplice identificazione. Il tratto fondamentale che accomuna lo spirito all’essere è sì l’essere-repressivo nei confronti della società e dell’individuo, ma mentre lo spirito è trasparente a se stesso, l’essere heideggeriano rimane del tutto opaco nella sua necessaria indeterminatezza e impensabilità. L’essere sembra a Adorno più vicino all’idea cristiana di Dio di quanto lo sia l’immanente spirito hegeliano. Non a caso, riecheggiando alcune riflessioni di Rudolf Bultmann, Karl Jaspers e Karl Löwith, Adorno intende l’analitica esistenziale come una «secolarizzazione del contenuto teologico»15. Dalla teologia Heidegger mutuerebbe, infatti, «la generale conferma della dipendenza e della sottomissione»16 del singolo all’universale, assoggettamento figlio della filosofia della storia di Hegel. Il «culto dell’essere» evita di analizzare l’ontico in quanto tale, ma lo fa dipendere dall’ontologico, da un con-esserci (Mitdasein) impermeabile, in quanto struttura d’essere, alla dinamica antagonista della storia e della società. In questo Heidegger è perfettamente d’accordo, sebbene appaia ancora più tranchant, con la rimozione hegeliana del puramente negativo, ovvero dell’individuo. In modo analogo Hegel intende la società attraverso il concetto «formal-estetico di grandezza»17 che, pur non avendo realtà specifica, sovrasta l’individuo. In un passaggio dell’excursus la parentela della filosofia della storia di Hegel con la differenza ontologica è chiaramente instaurata da Adorno, il quale dice infatti che il culto delle categorie dello spirito, in particolare di quella altamente formale di grandezza, che è stata accettata dallo stesso Nietzsche, non fa che rafforzare nella coscienza la differenza di esso da ognuno di noi, come se fosse ontologica; e quindi l’antagonismo e il prevedibile male18.

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La logica hegeliana, fondando la storia come movimento dell’idea verso la propria autochiarificazione, conferma la rimozione del negativo-individuale e proclama l’identità fra l’universale e il particolare, ma solo nella misura in cui il primo pone il secondo. Il particolare non è trattato da Hegel in quanto tale, ma come «particolarità» già di per sé concettuale. In questo senso la logica assorbe la filosofia del diritto: per ragioni logiche, la lotta sociale è comprensibile solo in vista di un progresso, e non come inconciliabile antagonismo. Lo stesso concetto di «anti-tesi» denuncia l’impianto identitario della filosofia hegeliana: l’antitesi non è qualcosa che sussista in sé, ma vive in funzione di una tesi positiva, e il porre è una peculiarità dell’universale. Il disegno hegeliano permane con accenti diversi nell’ontologizzazione dell’ente di Heidegger. Fra la filosofia dello spirito di Hegel e l’ontologia heideggeriana sussiste però una profonda differenza: mentre la dialettica esprime la mediatezza immanente al processo di autoriflessione dello spirito, l’ontologia decreta l’assoluta immediatezza pre-teoretica di un essere compreso necessariamente dall’esserci. Il paradosso dell’intera filosofia heideggeriana consisterebbe dunque nel voler dare una risposta alla domanda sull’essere (Seinsfrage) caduta in quell’oblio che Heidegger imputa all’intera tradizione occidentale. L’obiezione che Adorno muove al progetto heideggeriano non concede mediazioni: la questione dell’essere non è stata pensata sino in fondo perché non poteva essere posta nei termini in cui avrebbe voluto Heidegger. Più che questione genuinamente filosofica essa esprime il bisogno di sostegno in cui si rapprende «la debolezza dell’io, nota alla psicologia come il disturbo tipico degli uomini d’oggi»19. Al di là di questa argomentazione vagamente psicanalitica, Adorno muove una critica immanente all’ontologia fondamentale. Se l’essere è l’assolutamente indeterminato – determinarlo significherebbe infatti consegnarlo al regno dell’ontico – esso sfugge alla pensabilità. A differenza della filosofia hegeliana, l’ontologia di Heidegger si sottrarrebbe al concetto e alla teoria, intesa come capacità analitica, sebbene, ironizza Adorno, essa sia stata uno degli esempi più fulgidi di tale facoltà critico-distruttiva. Rinnegando la sussunzione dell’essere all’attitudine deduttiva del pensiero, Heidegger ha confinato la propria ontologia in un pensiero senza contenuto non mediato dal concetto. L’ontologia fondamentale cadrebbe nello stesso errore imputato alla tradizione filosofica, quello di non aver precisato cos’è l’essere, affidandone la comprensione 66

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ad un’immediata e momentanea illuminazione. Tutta la riflessione di Heidegger condurrebbe in sostanza all’immobilizzazione del pensiero, pietrificato dinanzi alla schiacciante identità dell’essere: Ma l’essere – che cos’è l’essere? Esso «è» se stesso. Questo è quanto il pensiero futuro deve imparare a esperire e a dire20.

Questa palese impossibilità di pensare l’essere attraverso le mediazioni ontiche viene ribaltata da Heidegger in un presunto segno di autenticità. Il bisogno ontologico conduce dunque all’evasione dalla capacità riflessiva e critica del soggetto, degradata a falsa coscienza, e si rifugia in una trascendenza che giustifica l’accettazione passiva dell’evento epocale dell’essere nell’ontico. IL RITORNO DEL PLATONISMO Nell’excursus su Hegel, Adorno imputa alla filosofia hegeliana una ricaduta nel platonismo. Di seguito tenteremo di comprendere questo aspetto della filosofia di Hegel, sottolineando che lo stesso Heidegger condivide alcuni tratti del platonismo hegeliano. Nelle lezioni sulla storia della filosofia, Hegel rimarca con forza l’intrinseca unità nel pensiero platonico fra ottica teoretica e finalità politica, unità che egli interpreta sin dall’inizio in termini che Adorno non avrebbe esitato a definire repressivi. L’enfasi di Hegel cade infatti sul passo della Repubblica in cui Platone afferma Non ci sarebbe tregua dai mali […] se quelli che oggi si arrogano il titolo di re e sovrani non si mettessero a filosofare seriamente […] sì da far coincidere nella medesima persona […] il potere politico e la filosofia21.

L’intima natura del potere, sia esso calato in un ideale comunitario o in una realtà statuale moderna, deve essere esclusivamente ispirata da principi universali sanciti a livello sovrasensibile. In questa unione fra filosofia, politica e coscienza religiosa risiede il valore eterno che Hegel ascrive alla filosofia platonica, la quale poggia, in ultima istanza, sul valore metafisico della conoscenza. Il mito della caverna appare a Hegel come l’espressione più compiuta della dottrina platonica in cui l’idea è concepita come «l’universale non semplicemente formale, che è una semplice proprietà delle cose» ma come «l’essere in 67

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sé, l’essenza, ciò che solo è vero»22. La filosofia sarebbe dunque la scienza di questo universale per il quale le differenze individuali non hanno effettiva sostanza e restano una forma larvata di realtà in cui gli opposti non si sono risolti ‘dialetticamente’. La grandezza e, allo stesso tempo, il limite insormontabile del pensiero platonico sta per Hegel nell’aver posto l’assoluto come l’universale che «domina, compenetra e produce il particolare»23, ma che non è ancora del tutto trasparente a se stesso nella sua attività autoproduttiva. Paradossalmente Hegel muove a Platone la stessa obiezione che Adorno imputa all’autore della Fenomenologia dello spirito, la presenza di presupposti non dialettici nello sviluppo dell’universale24. Forse in questa luce è comprensibile l’attenzione dedicata ai dialoghi platonici (il Sofista, il Filebo, ma soprattutto il Parmenide) in cui la dialettica è esposta sistematicamente senza che vi sia il ricorso ad elementi che Hegel definisce apertamente come una «dialettica negativa [negative Dialektik]»25 contaminata dall’elemento rappresentativo-particolare. La critica che Adorno muove al concetto hegeliano di conoscenza, intuito ma non sviluppato da Platone, come attività del pensiero ritornato in se stesso, smaschera una continuità fra la filosofia hegeliana e l’ontologia di Heidegger. Entrambe non vedrebbero infatti che la conoscenza mira al particolare e non all’universale. Nella sua interpretazione del mito della caverna Heidegger pone l’accento sul ruolo arcontico della verità (aletheia, Unverborgenheit) nel processo di formazione (paideia, Bildung) dell’individuo. Il rapporto che Heidegger instaura fra la capacità del singolo di accogliere i vari gradi di realtà e la verità che guida tale processo non è affatto dialettico, bensì apertamente autoritario: soltanto l’essenza della verità e la modalità del suo mutamento rendono possibile «la formazione» nella sua struttura fondamentale26.

La formazione sarebbe quindi il mero adattamento a ciò che si svela a partire da se stesso in modo del tutto indipendente dalla mediazione soggettiva. Il modo in cui Heidegger interpreta i due momenti chiave del mito platonico – l’uscita dalla caverna e il ritorno in essa – sembrano confermare quanto detto da Adorno a proposito della spasmodica ricerca di una struttura di invarianti che non conceda nulla alla dimensione ontica e intersoggettiva. Per Heidegger, infatti, la vera liberazione verso la verità non si ha con la semplice eman68

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cipazione dai vincoli corporei, ma soltanto quando si è in grado di guardare alle cose in modo costante. L’autore di Essere e tempo nulla sembra concedere poi al ruolo sociale ed educativo che Platone ascrive al filosofo, quello di saper guidare gli altri verso la conoscenza dell’ideale. In un punto fondamentale l’interpretazione heideggeriana diverge nettamente da quella hegeliana. Se Hegel aveva visto nella dialettica platonica l’anticipazione della propria formulazione dell’assoluto come vero nella forma del concetto, Heidegger vi scorge il cominciamento di quella soggettività che proprio in Hegel troverebbe l’ultimo ed estremo interprete27. Pur criticando il panlogismo hegeliano, Adorno si propone, al contrario, di «spezzare con la forza del soggetto l’inganno di una soggettività costitutiva»28, dichiarazione d’intenti che presuppone una fiducia nel soggetto concreto e nella sua capacità riflessiva atta a smascherare la razionalità coercitiva di una soggettività assoluta. In direzione opposta, Heidegger trasfigura e radicalizza l’istanza identitaria dell’idealismo hegeliano contenendone le derive assolutistiche con la fenomenologia di Husserl. Dell’antirelativismo husserliano Heidegger interpreta l’aspetto ideologicamente più repressivo: dei presunti valori eterni di una scientificità rigorosa egli salva soltanto l’essere univoco ed inafferrabile dal concetto, contrapposto alla razionalità progressiva dell’illuminismo. Heidegger sembra ignorare la sentenza hegeliana «il vero è l’intero», persuaso da una concezione religiosa, quasi mistica, di una verità che si ritrae mentre si manifesta ex abrupto nella storia. La pretesa heideggeriana di risalire oltre il dualismo soggetto-oggetto verso una presunta origine denuncia il pericolo di far regredire la filosofia al tentativo mitico di una «filastrocca dell’essere». La stessa ontologia heideggeriana, che si è più volte scagliata contro l’idealismo hegeliano rivendicando un realismo ancor più genuino dell’aristotelismo classico, finisce col ricadere nella ricerca di una realtà costante che sappia mitigare il senso di minaccia in cui nasce. Heidegger, fraintendendone il portato, innalzò questo sentirsiminacciato a carattere ontologico ed autentico dell’esistenza che giustifica l’ancoraggio ad una struttura di invarianti contrapposta alla società, il cui indomito antagonismo metterebbe in crisi l’identità dell’essere. L’ontologia si fonda dunque su una ricerca che esprime la rigidità di una coscienza incapace di fare esperienza in senso pieno, essendo legata al sapere di ciò che è già da sempre saputo. Se l’esperienza non è diretta soltanto alla puntualità dell’assolutamente indivi69

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duale, né solo alla rigida e univoca generalità, ma è sempre in bilico nel costante rimando dialettico fra lo hic et nunc del particolare e l’universale, è pur vero che la coscienza dominata dal bisogno ontologico non può aprirsi a ciò che è genuinamente altro. Anticipando il ‘realismo’ heideggeriano, Hegel dichiara che fare filosofia significa analizzare il concreto e non la trascendenza. Entrambi smentiscono però questo proclama, quando decidono di trasferire in questa presunta concretezza tutte le determinazioni dell’ideale; in questo modo è l’idea, o l’essere indeterminato, ad essere veramente reale. CONCLUSIONE: TEMPO, STORIA E SOCIETÀ Il platonismo hegeliano si manifesta eminentemente nel khorismos fra l’a-temporalità dello spirito e la temporalità del mondo storico. In un passo molto denso di Dialettica negativa, Adorno afferma che un universale che non sa tollerare i particolari non è un vero universale, ma soltanto un particolare in lotta con altri particolari. Tale è il tempo dello spirito hegeliano, un Cronos che deve fagocitare i propri figli se vuole continuare ad esistere e che, in ciò, si ritrova confinato in un’eternità senza tempo e vita. La dialettica hegeliana – osserva Adorno – non è però solo il progresso e la riconquista della pura coscienza, ma anche un regresso: la sintesi non è solo un superamento dell’antitesi, ma anche il ritorno di ciò che è stato negato. Fra tempo e logica si instaura un siffatto movimento: la logica (ciò che nega) vorrebbe sublimare nell’eterno il tempo (il negato), il quale ritorna però come ciò senza il quale la logica non potrebbe mai darsi. Questo riaffacciarsi della dimensione irriducibile all’identità non può non far pensare al ritorno dell’ente che Adorno aveva sottolineato in riferimento all’ontologia di Heidegger. La filosofia di Hegel, così come quella heideggeriana, è caratterizzata dallo slittamento platonico dal concreto all’astratto. L’ontologia di Heidegger è infatti guidata dalla riduzione dell’esistenza (Existenz) all’essenza (Wesen), ovvero dallo schiacciamento della dimensione effettiva su quella astratta ed ideale. L’apertura ad una dimensione non identitaria che il concetto di Existenz sembra offrire, grazie alla sua natura autenticamente temporale opposta alla Vorhandenheit, viene però smentita dallo stesso Heidegger nel sacrificare il tempo vissuto alla temporalità ontologizzata. In questo senso, Adorno non ha forse colto sino in fondo la natura kairologica che 70

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Heidegger individua nella temporalità dell’esistenza, il sapersi precorrere e anticipare per cogliere il momento opportuno, nel tentativo di liberare la vita dal bando del tempo naturalistico, del quale lo stesso Hegel sarebbe rimasto vittima29. Ma Heidegger ha ancora una volta sacrificato l’irriducibilità del kairos ad una significatività, più astratta che concreta, impermeabile ad ogni dinamica ontica e confinata nell’indeterminatezza. L’esserci heideggeriano è sì deciso, ma per cosa? In base a quanto detto sinora appare evidente che l’interruzione della dialettica hegeliana risiede nell’esistenza di un presupposto che non può entrare in movimento con una sua antitesi. Questo qualcosa è l’ordine immobile dell’universale, ciò che, in quanto già in atto, muove la realtà. Coerente con la tradizione platonico-aristotelica, che ha privilegiato l’immobilità ideale dello stato rispetto alla società, Hegel pone lo stato, e non dio, come il primo motore immobile. La necessità di trovare una mediazione fra particolare e universale portò Hegel alla formulazione dello «spirito nazionale». L’introduzione di questo concetto, osserva Adorno, è un passo indietro della speculazione hegeliana: lo spirito nazionale non media affatto in modo dialettico, ma è soltanto un «concetto-ponte», un semplice legame fra due ‘sponde’ che nel processo rimangono distaccate. L’attaccamento radicale alla propria terra e al proprio popolo, su cui si basa la filosofia della storia hegeliana, è potenzialmente violento e autoritario. La stessa filosofia di Heidegger è sin dall’inizio dominata dalla nostalgia della Heimat, concetto nel quale converge non solo la semplice provenienza, la Herkunft che, come noto, Heidegger innalza ad unico e autentico futuro, ma la stessa smania per le origini. In questo senso Heidegger può intendere la storia della filosofia come decadenza da una supposta e mitica età dell’oro in cui l’essere non era ancora schiavo del concetto. La nostalgia – elevata a Grundstimmung della metafisica – permea di fatto l’ontologia heideggeriana e svela l’abisso arcaico e inafferrabile dal quale semmai è lecito allontanarsi piuttosto che ricadere. La filosofia dell’autenticità – legata alle radici, all’origine, alla provenienza – reprime la dialettica fra essere ed ente nel senso che l’ente è pensabile solo come privazione determinata dell’essere che non necessita di alcuna mediazione. La stessa riflessione sulla storicità contenuta in Essere e tempo, sebbene presenti diverse sfaccettature, è guidata da un destino (Schicksal) indeterminato al quale ogni singolo deve sottomettersi rinunciando alla propria capacità critica e dissidente. L’esistenza genuinamente storica è subordinata da Heidegger ad un’essenza 71

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‘naturale’ eterna ed immutabile, essa stessa struttura ontologico-formale dell’esserci. L’idea heideggeriana di storicità frena la storia concreta, ne sublima hegelianamente le disuguaglianze dialettiche in un’irenica forma di generica appartenenza (Zugehörigkeit) ad un destino comune. Lo stesso Hegel riduce la casualità non prevista dal sistema a necessità, in modo che la tensione fra particolare e universale venga purificata nel concetto di destino. Nell’identificazione fra caso e necessità, conclude Adorno, Hegel rende necessario anche il caso, ma non la necessità casuale come avrebbe dovuto esigere una concreta e realmente dialettica riflessione sulla contingenza. La destoricizzazione della storia e la detemporalizzazione del tempo operate da Hegel prima e da Heidegger poi, non devono indurre la ricerca filosofica a gettarsi a capofitto nell’errore opposto, quello di consegnare le azioni all’assoluta discontinuità e all’assenza di storia. Lo stesso concetto hegeliano di storia universale (Weltgeschichte) non deve essere eliminato, ma va pensato in base a concetti nuovi e realmente dialettici: non più in riferimento ad una intrinseca teleologia, ma in base ad un’unità dialettica di continuità e discontinuità. La società, il grande escluso della storia universale hegeliana e del con-esserci heideggeriano, testimonia il necessario antagonismo che la mantiene in vita come forza genuinamente dinamica della storia. La critica di Adorno alla violenza dell’universale hegelo-heideggeriano indica, infatti, una soluzione alternativa: se deve darsi un rapporto realmente dialettico fra l’universale e il particolare, non si dovrebbe considerare il singolo del tutto slegato dall’universale, come vorrebbe il nominalismo positivista, né vederlo soggiogato all’ideale, ma «un vero primato del particolare si potrebbe ottenere solo trasformando l’universale»30. Adorno sembra suggerire che l’unico universale compatibile con uno sviluppo davvero libero della società – se un universale deve o può esserci – è lo stesso negativo, il non-identico con il quale la filosofia deve costantemente confrontarsi. In questo senso acquista significato la definizione di filosofia che Adorno abbozza in Dialettica negativa. La filosofia non è una verità di ragione, né una verità di fatto; essa non si fonda su un rapporto logico con le cose, né tanto meno su stati di cose, ma è costretta nella fragilità dei suoi costanti insuccessi e nell’oscillazione fra l’espressione e l’inesprimibile. In Hegel, ma soprattutto in Heidegger, questo aspetto dialettico, ma anche tragico e vitale, della ricerca filosofica viene innalzato titanicamente a pensiero aconcettuale di ciò che, seppur inesprimibile, è tuttavia autentico. 72

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NOTE 1 Cfr. M. HEIDEGGER, Hegels Phänomenologie des Geistes, in: Gesamtausgabe, vol. 32, curato da I. Görland, Frankfurt a.M 1980, pp. 44-45 e p. 60 (La fenomenologia dello spirito di Hegel, trad. it. di S. Caianiello, Napoli 2000, p. 64 e p. 78). 2 Nel saggio Hegel e i greci, Heidegger sintetizza così la distanza fra sé e l’ontologia hegeliana: «Infatti, concependo l’essere come l’immediato indeterminato, Hegel lo esperisce come ciò che è posto dal soggetto che determina e concepisce. Di conseguenza egli non può sciogliere l’einai , l’essere in senso greco, dal riferimento al soggetto». A tale soggettivismo assoluto Heidegger intende, come noto, opporre la propria concezione di un essere originariamente concepito come disvelazione della verità. Cfr. M. HEIDEGGER, Hegel und die Griechen, in: Wegmarken, Gesamtausgabe, vol. 9, curato da F.-W. Von Herrmann, Frankfurt a.M. 1976, p. 441 (Hegel e i Greci, trad. it. di F. Volpi in: Segnavia, Milano 1987, p. 388). 3 Cfr. M. HEIDEGGER, Unterweg zur Sprache, in: Gesamtausgabe, vol. 12, curato da F.-W. von Herrmann, Frankfurt a.M. 1985, p. 96 (In cammino verso il linguaggio, trad. it. di A. Caracciolo e M. Caracciolo Perotti, Milano 1973, p. 90). 4 Mi limito a ricordare i seguenti studi: A. KOJÈVE, Introduction à la lecture de Hegel, Paris 1947 (Introduzione alla lettura di Hegel, trad. it. di G. F. Frigo, Milano 1996); J. VAN DER MEULEN, Heidegger und Hegel oder Widerstreit und Widerspruch, Meisenheim a.G. 1953; J. HOMMES, Zwiespältiges Dasein. Die existenziale Ontologie von Hegel bis Heidegger, Freiburg i.Br. 1953; ID., Krise der Freiheit. Hegel-Marx-Heidegger, Regensburg 1958. 5 «Recht ist das Urphänomen irrationaler Rationalität. In ihm wird das formale Äquivalenzprinzip zur Norm, alle schlägt es über denselben Leisten». Cfr. TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt a.M. 1966, p. 302 (Dialettica negativa, trad. it. di P. Lauro, Torino 2004, p. 276). 6 Cfr. G. W. F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in: Sämtliche Werke. Jubiläumsausgabe in zwanzig Bände, vol. 18, Stuttgart 1959, p. 193 (Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. di E. Codignola e G. Sanna, Firenze 1930, p. 176). 7 Ibidem. La stessa idea di potenza verrà ribadita da Hegel nelle lezioni su Platone del 1825/26, allorché, presentando le vicende biografiche salienti del filosofo greco, egli prende una netta posizione critica sul tentativo di Platone di concretizzare il suo stato ideale al fianco di Dionigi il giovane: «una Costituzione non è opera di individui, è qualcosa di divino, di spirituale, che si fa attraverso la storia; qualcosa di così forte che il pensiero di un individuo di fronte a una tale potenza [Macht] dello spirito del mondo non significa niente, e se questi pensieri significano qualcosa, se possono essere realizzati, allora non sono niente altro che il prodotto della potenza dello spirito universale». G. W. F. HEGEL, Leçons sur Platon 1825-1826, Paris 1976, p. 66 (Lezioni su Platone 1825-1826, trad. it. di G. Orsi, Milano 1995, p. 101, corsivo mio). 8 «Solche subjektive Illusion ist objektiv verursacht». TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 304 (Dialettica negativa, trad. it. cit., p. 279). 9 «Aber so dialektisch geht es bei Hegel […] nicht zu». Ivi, p. 315 (trad. it. cit., p. 289). 10 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tübingen 200118, p. 262-263 (Essere e tempo, trad. it. di P. Chiodi, Milano 197615, p. 319, corsivo mio). Adorno in effetti si riferisce ad un formulazione più tarda di questo aspetto, quella contenuta nella Lettera sull’umanismo, in cui Heidegger espliciterà che «nel progettare, chi getta non è l’uomo, ma l’essere stesso, il quale destina l’uomo nell’e-sistenza dell’esser-ci come sua essenza». Cfr. M. HEIDEGGER, Briefe über den Humanismus, in: Wegmarken, Gesamtausgabe, vol. 9, cit., p. 337 (Lettera sull’umanismo, trad. it. di F. Volpi in: Segnavia, cit., p. 290). TH. W.

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ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 93 (Dialettica negativa, trad. it. cit., p. 82). 11 «Es kann Niemand seine Zeit überspringen». G. W. F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in: Sämtliche Werke. Jubiläumsausgabe in zwanzig Bände, cit., p. 275 (Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. cit., p. 254). 12 Ivi, p. 276 (trad. it. cit., p. 255). 13 Ivi, p. 277 (trad. it. cit., p. 256). 14 Ivi, p. 284 (trad. it. cit., p. 262). 15 «Die Säkularisation des einst als objektiv verpflichtend betrachteten theologischen Gehalts». TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 102 (Dialettica negativa, trad. it. cit., p. 90). Mi sembra opportuno sottolineare che, in questo contesto, Adorno usa esplicitamente il termine bultmanniano «Entmythologisierung». 16 «…die generelle Bekräftung von Abhängigkeit und Unterwürfigkeit». Ivi, p. 104 (trad. it. cit., p. 92). 17 «Die Macht des Allgemeinen assoziiert Hegel mit dem ästhetisch-formalen Begriff der Größe». Ivi, p. 317 (trad. it. cit., p. 291). 18 «Der Kultus seiner Kategorien aber, etwa des selbst von Nietzsche akzeptieren, höchst formalen von Größe, verstärkt im Bewusstsein bloß seine Differenz von allem Einzelnen, als wäre sie ontologisch; damit den Antagonismus und das abschabare Unheil». Ivi, p. 309 (trad. it. cit., p. 283, corsivi miei). 19 «…vielmehr Signatur der Schwäche des Ichs, der Psychologie bekannt als gegenwärtig typische Beschädigung der Menschen». Ivi, p. 100 (trad. it. cit., p. 89). 20 M. HEIDEGGER, Briefe über den Humanismus, in: Wegmarken, Gesamtausgabe, vol. 9, cit., p. 331 (Lettera sull’umanismo, trad. it. cit., p. 284). 21 Cfr. PLATONE, Repubblica, V 473 D (trad. it. di R. Radice Repubblica, in: Tutti gli scritti, Milano 2000, p. 1206). «…die jetzt sogenannten Könige und Gewahlthaber wahrhaft und vollständig philosophiren, und so Herrschermacht und Philosophie in Eins zusammenfallen» (corsivo mio). G. W. F. HEGEL, Vorlesungen über die Geschichte der Philosophie, in: Sämtliche Werke. Jubiläumsausgabe in zwanzig Bände, cit., p. 192 (Lezioni sulla storia della filosofia, trad. it. cit., p. 175). 22 Ivi, p. 198 (trad. it. cit., p. 181). 23 Ivi, p. 227 (trad. it. cit., p. 209). 24 «Senonchè Platone, quando parla del giusto, del bello, del buono, del vero, non fa vedere come essi vengono fuori, e ce li presenta non come risultati, ma come presupposti accolti nella loro immediatezza». Ivi, p. 229 (trad. it. cit., pp. 211-212). 25 Ivi, p. 230 (trad. it. cit., p. 212). 26 M. HEIDEGGER, Die Platos Lehre der Wahrheit, in: Wegmarken, Gesamtausgabe, vol. 9, cit., p. 218 (La dottrina platonica della verità, trad. it. di F. Volpi, in: Segnavia, cit., p. 174). 27 «Nessun tentativo di fondare l’essenza della sveltezza nella «ragione», nello «spirito», nel «pensiero», nel «logos» o in una qualche specie di «soggettività» potrà mai salvare l’essenza della svelatezza». Cfr. M. HEIDEGGER, Die Platos Lehre der Wahrheit, in: Wegmarken, Gesamtausgabe, vol. 9, cit., p. 238 (La dottrina platonica della verità, trad. it. cit., p. 192). 28 «…mit der Kraft des Subjekts den Trug konstitutiver Subjektivität zu durchbrechen». TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 8 (Dialettica negativa, trad. it. cit., p. 4). 29 Cfr. M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, cit., pp. 428-436 (Essere e tempo, trad. it. cit., pp. 511-518) 30 «Wahrhafter Vorrang des Besondere wäre selber erst zu erlagen vermöge der Veränderung des Allgemeinen». TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 305 (Dialettica negativa, trad. it. cit., p. 280).

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CONTESTI

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Th. W. Adorno: lo spetto di J. Derrida? Paolo Mulè

La dialettica negativa di Adorno e la decostruzione di Derrida si possono intendere come differenti risposte al medesimo problema [...]. Perciò sussistono paralleli anche fra Derrida e Adorno. La Dialettica dell’illuminismo conteneva un nocciolo duro di pessimismo filosofico sul quale si poterono fondare le interpretazioni “post-moderne” – il che non permette a nessuno di assimilare Adorno a Derrida. Jürgen Habermas1

Queste pagine sono frutto di un sogno. Esse vorrebbero registrare quel dialogo che, silenzioso, non cessa di aver luogo fra le riflessioni di Theodor Adorno e Jacques Derrida. Vorrebbero esaminare, in una maniera del tutto preliminare, i termini in cui tale dialogo si esprime: mostrare perché essi non sono rigorosamente logici né, soprattutto, esclusivamente tali. E vorrebbero farlo attraverso quella stessa logica che sognano in partenza di eccedere: ambizione insensata, riuscendo nella quale varcherebbero la soglia del possibile. Ecco, le pagine che seguono perseguono in qualche modo la possibilità dell’impossibile: esporre un dialogo che sarà sempre stato attraversato, tormentato, finanche zittito da un silenzio inquietante, e non solo perché la fvnfi dei dialoganti è ammutolita da tempo. Se infatti le voci di Adorno e Derrida ancora ci parlano, lo fanno anzitutto da un qualche luogo taciturno e privato che qualcosa spartisce con il reame della notte. Ci appelleremo quindi al sogno, poiché nessuna ragionevole vigilanza basterà di per sé a rendere udibile un dialogo che ha luogo fra spiriti o spettri. E se il linguaggio e la ragione rappresenteranno sempre il mezzo imprescindibile di ogni comunicazione, nonché il nostro fine, tuttavia l’impulso all’espressione, quindi alla relazione, non potrà essere ridotto a mero raziocinio o razionamento logico: nessuna economia di pensiero potrebbe in fondo renderne conto. In senso performativo tale dialogo, realizzandosi, metterebbe in crisi fin da principio tutto un modo di rapportarsi alla logica, ovvero 77

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alla ragione: costringendoci a ripensare radicalmente il rapporto fra i poli epistemici “soggetto” e “oggetto”, in quanto nodo fondamentale di ogni logica propriamente detta. È proprio con questo intento che tale dialogo sorge e si consuma. Non sarà quindi uno sterile o manieristico gioco di parole affermare che il complicato rapporto Adorno/Derrida si gioca tutto a partire dalla specificità dei modi in cui questi due pensatori hanno differentemente affrontato la questione del rapporto. Peraltro bisognerebbe chiedersi se sia possibile, anche solo in linea di principio, concepire un qualsivoglia rapporto (purché intercorrente fra esseri sedicenti razionali o, più semplicemente, “sé-dicenti”) che non si giochi almeno in parte entro il terreno della logica. Lasciando in sospeso una problematica di ordine così generale, ci limitiamo dunque ad affermare che, muovendo da differenti modi di prendere posizione rispetto alla questione epistemologica, la relazione fra Adorno e Derrida si è definita di volta in volta – le parole di Habermas poste in esergo lo testimoniano – in termini di scarto, distanza più o meno colmabile, prossimità sorprendente2. FAR SEGNO VERSO ALTRO: DARSTELLUNG, POESIA, SOGNO, UTOPIA Ma al di là di quegli scarti più o meno evidenti e delle “occasionali” convergenze che Habermas non ha mancato di evidenziare nella raccolta del 1985 (Excursus sul livellamento della differenza specifica tra filosofia e letteratura), altro è il vero tratto comune a queste riflessioni: se, infatti, ambedue hanno inizio e fine all’interno del dominio del Lægow cioè al cuore stesso della riflessione filosofica, pure nessuna di esse ha mai cessato di fare segno verso qualcosa d’altro. In cosa consista questo altro è quanto tenteremo di indagare in questa sede. Lo sottolineiamo sin d’ora, e con tutte le forze: né Adorno, né Derrida – a dispetto di quanto vorrebbero darci a credere alcuni lettori della domenica – hanno mai esibito la volontà folle di portare il pensiero filosofico fuori dei confini del razionale. Piuttosto, ripetiamo, entrambi hanno spinto il pensiero a confrontarsi con i propri limiti, cercando senza requie di collocarsi ai margini di esso. Marginalità ed emarginazione che trovano peraltro forma analoga in diversi tratti biografici di questi due pensatori: ambedue di origine ebraica, ambedue costretti a fare ben presto i conti con il regime nazionalsocialista, ambedue, non dimentichiamolo, sempre saldamente collocati al di fuori di qualsiasi struttura accademica. Ed è proprio questo dimorare 78

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alle soglie aporetiche della ragione che Adorno riafferma di continuo, per esempio quando annuncia, in apertura di Dialettica negativa, di voler impiegare «strumenti logico-deduttivi per spezzare, con la forza del soggetto, l’inganno di una soggettività costitutiva»3, o quando, in chiusura di Minima Moralia, sostiene che «anche la propria impossibilità [il pensiero] deve comprendere per amore della possibilità»4. Derrida gli fa eco, quando scrive: È la logica, la logica stessa, che qui non voglio criticare. Sarei anzi pronto a sottoscriverla: ma con una mano sola, l’altra la riservo per scrivere o cercare qualcos’altro. Non solo per cercare, al modo della ricerca, dell’analisi, del sapere e della filosofia [...] ma per non tracciare anticipatamente una frontiera davanti all’a-venire dell’avvenimento, a ciò che viene, a ciò che può darsi e che può darsi venga da tutt’altra sponda [...] Certo è difficile. È persino impossibile concepire una responsabilità che consista nel rispondere di due leggi o a due ingiunzioni contraddittorie. Certo. Ma non c’è responsabilità che non sia esperienza dell’impossibile5.

Cercare l’altro, quell’altro che potrebbe forse giungere da tutt’altra sponda: è quanto anela chi non cessa di riaffermarsi nel sogno di far emergere dalle acque anche solo una lingua di terra che possa fare da ponte fra la nostra sponda e ciò che risiede su di un’altra, lontana e misconosciuta. E questo legame sommerso fra sponde altre è lo stesso che vincola nel modo più stretto il pensiero di Derrida a quello di Adorno, in una maniera che, lo si comincia a presentire, potrebbe avere qualcosa di contagioso ed ereditario. Derrida sostiene infatti di amare e ammirare in Adorno «qualcuno che non ha mai smesso di esitare fra il no del filosofo e il sì del poeta». Qualcuno che ha saputo mantenere desto, in sé, il sogno di rendere possibile l’impossibile, unendo, in un equilibrio che tanto ha di nietzscheano, ragione e passione; qualcuno che ha bandito il sogno senza con ciò tradirlo, «coltivando cioè la veglia e la vigilanza pur restando attento al senso, fedele agli insegnamenti e alla lucidità di un sogno, avendo cura di quel che il sogno dà da pensare, soprattutto quando dà da pensare la possibilità dell’impossibile»6. Il margine, il confine fra queste opposte regioni – quella della veglia e della filosofia, da un lato, e quella onirica, della poesia della letteratura, dall’altro – non rappresenta dunque un luogo privilegiato, ma piuttosto l’unico da cui sia possibile questionare ogni autorità, ivi compresa quella della tradizione: poiché comune ai due pensatori è anche la solida convinzione che da un qualcosa come «la tradizione» non si 79

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possa mai fuoriuscire con un semplice balzo. E se questa commistione di filosofia e letteratura è tanto evidente nella decostruzione, come si potrà negare che gli interessi di Adorno ha sempre mostrato per l’estetica, per la musica, per la poesia rispondano alla stessa esigenza? La forma stessa in cui si offrono i Minima moralia, compressi e frammentari, o quella in cui scorre inarrestabile il fiume in piena di Dialettica negativa, con le sue molteplici e fondamentali figure retoriche, non sono forse il segno di un’attenzione molto meno che fortuita per la forma letteraria in cui il liquido filosofico si versa? Derrida ricorda come Adorno, citando Ulrich Sonnemann, sostenga non esservi grande filosofo che non sia anche un grande scrittore7. Ora, può questa consapevolezza andare senza la reciproca, che non vi sia grande letteratura che non sia anche grande filosofia? È lecito dubitarne. L’interrogativo che ha assillato almeno due generazioni di filosofi “dopo Nietzsche” (ci guardiamo bene dal dire «postmoderni») può essere dunque riformulato nei modi seguenti: come ridefinire la geografia di un pensiero razionale che ha urtato rovinosamente contro i propri limiti? Come scardinare le inferriate della gabbia in cui la ragione, secondo il verdetto di Weber, si è trasformata? Come farlo continuando a servirsi della «forza del soggetto», ma evitando che essa si riversi contro l’oggetto? Ancora, come ripensare la coppia ioaltro senza ricadere nelle trappole di una dialettica egocentrata, e senza però limitarsi a capovolgere quest’ultima in senso eterocentrico8? E da ultimo, come rispondere all’appello che l’altro, ogni altro singolare e minuscolo, ci rivolge, senza sintetizzarlo, ricomprenderlo e riassorbirlo entro l’apparato digerente di un Lægow identitario i cui scarti non sintetizzabili sono destinati a riempire le fosse comuni o biologiche della società? Se la Shoah è stata il prodotto perverso – ma apparentemente inesorabile – di una ragione che fin dall’origine era destinata a smarrirsi e a sragionare, non per questo la ragione dovrà d’ora innanzi abdicare a se stessa. Anzi, perseguire una nuova ragionevolezza è divenuto, dopo Auschwitz, un compito non più dilazionabile. Ciononostante, le aporie e i paradossi del nostro tempo sembrano esigere che anche la ragione e la logica si lascino integrare da altro, ed esibiscano l’audacia e l’umiltà di ritrarsi, proprio come il Dio-Lægow della tradizione ebraica, per fare spazio all’altro, a ciò che per definizione è sempre, necessariamente “fuori di sé”: esposto perciò al rischio di essere bollato come straniero, forestiero e forsennato nei territori della ragione. Ritrarsi per accogliere: perché nessuna integrazione è possibile senza preventiva ospitalità, quella stessa 80

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ospitalità che in Dialettica negativa è invocata non lontano da qualcosa di molto simile alla decostruzione (demontage)9. Come ha sottolineato Pietro Lauro, traduttore e curatore della nuova edizione italiana di Dialettica negativa10, il discorso adorniano si sviluppa tutto attorno a questo annunciato tentativo di individuare un modo, per la ragione, di fare i conti con il non-identico, che per sua stessa natura si sottrae all’oggettivazione nel concetto, senza usargli violenza: mantenendolo cioè intatto nella sua alterità. In Dialettica dell’illuminismo una strada in questa direzione era stata individuata nel concetto di mimesis: questa, «lungi dall’imporre all’oggetto le strutture della soggettività», avrebbe aperto «alla vera conoscenza dell’oggetto»11, poiché nel suo peculiare movimento il soggetto accoglie entro la propria coscienza l’oggetto come tale, assimilandosi ad esso senza apportargli modificazioni. L’idea di mimesis non venne sviluppata oltre, in quel contesto, forse perché refrattaria alla possibilità di essere “sfruttata” da una razionalità strumentale senza risultare al contempo corrotta nella sua essenza: in altre parole Adorno e Horkeimer non potevano sperare di renderne ragione attraverso il linguaggio, senza con ciò stesso rifletterla nelle speculazioni deformanti del concetto. E tuttavia proprio la mimesis, come illustra Cortella, avrebbe fornito «il modello di pensiero cui si sarebbe ispirata l’intuizione centrale della Dialettica negativa»12. Qui, in effetti, il modello offerto dal concetto di mimesis trova piena espressione in quella che Adorno chiama Darstellungform: la forma dell’esposizione, cioè un apparato concettuale che, attraverso una rappresentazione estetica, permette, secondo Adorno, di oggettivare l’inoggettivabile, di pensare il non-identico nella forma di un’immagine antinomica. Rispetto al “primato” epistemologico di questa forma estetizzante, qualsiasi filosofia, in quanto ragione strumentale, risulta impari: pure, per Adorno, il testo filosofico non può che incessabilmente nascere, morire e risorgere nell’estenuante inseguimento di quella forma che gli consenta infine di dire ciò di cui Wittgenstein ha prescritto di tacere. Forse questa preventiva promessa di insuccesso spiega altrettanto bene l’instancabile ripetersi del gesto di scrittura in Jacques Derrida, che non si limitò mai a esplorare i terreni della filosofia e della logica, ma osò trasgredirne senza sosta i confini per spingersi nei territori stranieri e stranianti di una ragione altra, in cerca di ciò che è forse l’altro della ragione. Questi territori sono quelli selvaggi e indominabili della poesia e della letteratura, della musica, della pittura, dell’arte e, in generale, 81

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delle scienze di uno spirito che non è esclusivamente Lægow e coscienza. Sono i territori oscuri e notturni di una psiche che può altrettanto agilmente trasformarsi in psicosi, follia, ossessione e nevrosi. Questa ineludibile eccedenza della ragione, la quale vive come tale nel rischio auto-fondante di alienarsi e uscire “fuori di sé”, di farsi altro da sé (giacché è soltanto nel rapporto con l’esterno che il soggetto di coscienza può realizzarsi come tale), è la stessa che designa il ruolo di discipline che, seppur affidate alla ragione, gettano uno sguardo oltre, nella speranza – condivisa da Adorno – di spiegare l’inspiegabile. E la forma fondamentale in cui certa psicoanalisi ha rintracciato la possibilità di fare i conti con l’inspiegabile, è proprio quella del sogno. Se un dialogo deve dunque avvenire fra Adorno e Derrida, esso deve trattare in ultima analisi proprio di ciò. Deve svolgersi, cioè, come se si trattasse di un sogno. UN SOGNO DIALETTICO D’altra parte, la pretesa che questo dialogo sia effettivamente possibile non deriva da una qualche intuizione sottratta unicamente per via ermeneutica al tombale silenzio del testo di questi autori. Tutt’altro. Essa diviene oggetto di necessaria tematizzazione proprio grazie all’ammissione esplicita di uno dei soggetti in causa: Jacques Derrida, il quale, in occasione della ricezione del premio Adorno, nel settembre del 2001, riconobbe pubblicamente, diremmo quasi “confessò” una sostanziale continuità fra la propria riflessione e quella del pensatore di Francoforte: Perché non riconoscere, chiaramente e pubblicamente, una volta per tutte, le affinità tra il tuo lavoro e quello di Adorno o, a dire il vero, il tuo debito verso Adorno? Non sei forse erede della Scuola di Francoforte?13

Fra il proprio lavoro (in francese travail, che ha anche il sapore di travaglio, fatica, preoccupazione) e quello di Adorno vi sarebbe un rapporto che Derrida, rivolgendosi a se stesso alla seconda persona – dunque parlando a sé come a un altro, come ad un analista, forse –, descrive nei termini di una qualche non più rinnegabile affinità. Di un’eredità possibile, per quanto inconsapevole e inconscia; forse, addirittura, di un antico debito da lui stesso contratto e immediatamente rimosso. Derrida, insomma, si sente legato ad Adorno da un 82

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vincolo ancestrale, da un cordone ombelicale a stento rammemorabile, dunque difficilmente esprimibile attraverso le strutture intenzionali del linguaggio cosciente (Adorno stesso ce lo insegna: «nessuna analisi è ancora in grado di penetrare fino all’inferno dove vengono impresse le deformazioni che emergono più tardi alla luce»14). Un atto di oblio e di cancellazione, un delitto di omertà si inscriverebbero all’origine di questo debito, sigillandone l’economia, consegnandola al silenzio e forzando i superstiti (i colpevoli) a quell’inesauribile lavoro (travail) che ogni lutto deve accompagnare. E difatti ci sarebbero voluti “decenni” perché Derrida, sospinto dall’assillante e ossessivo ritornare di certe voci spettrali, giungesse ad elaborare simile contenuto inconscio, consegnandolo alla luce del sole: sino al settembre del duemilauno quelle voci sarebbero rimaste confinate nel regno oscuro e sotterraneo della notte, lontane dal rischiarato tribunale della sovrana ragione. Ma allora, se l’analisi è già compiuta, se il debito di filiazione è ammesso e l’eredità confessata; se Derrida, per quanto forse troppo tardi, ha riconosciuto esplicitamente, quindi dialetticamente, Adorno come uno dei propri “padri filosofici” (a chi spetterebbe difatti un’eredità, de iure o de facto, se non ad un figlio, per quanto bastardo, adottivo o acquisito?); se tutto ciò è avvenuto pubblicamente, “alla luce del sole” e, per di più, attraverso un preciso atto di riconoscenza: cioè attraverso un discorso di ringraziamento, alla consegna di un prestigioso e ufficiale “riconoscimento” che, oltretutto, interveniva a siglare la fine di un’antica polemica occorsa proprio fra Derrida e quell’altro figlio, legittimo, della Scuola di Francoforte, ossia Jürgen Habermas15; se tutto ciò è vero e cioè, in definitiva, già avvenuto, cosa rimane da fare? In che senso si dovrebbero ancora esaminare i termini di un dialogo soltanto “possibile”? E soprattutto, perché ci si dovrebbe ostinare a parlare di sogno? Sarebbe forse questo un puro pretesto? Sarebbe forse, l’espediente del sogno, una barricata dietro la quale trincerarsi per proteggere a priori, al riparo da ogni attacco dialettico, una posizione irrazionalista che con la filosofia non ha niente in comune? Simili interrogativi avranno senso e urgenza inderogabili solo finché ci si ostinerà a leggere il testo (filosofico e non, di Adorno, Derrida o di chiunque altro) con un occhio solo. Per parte mia, se ho intravisto anche solo una chance nel sogno che ho cercato di esporre sin qui, essa risiede nella natura bifida per cui esso, in modo ambivalente, allo stesso tempo si afferma e si nega come “espediente” letterario. 83

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Ma nell’avviarci alla conclusione converrà procedere con ordine. Il termine “sogno” ha una storia lunga nell’opera di Jacques Derrida; non altrettanto, mi pare, in quella di Adorno. Infatti, nella pratica di decostruzione di una metafisica che ha dominato quasi incontrastata il discorso di ragione da Parmenide sino a Heidegger, il sogno diviene, assieme con tutto il lessico derivato, proprio l’emblema di quel che la ragione non ha mai potuto controllare: il rêve, e il revenant che nel rêve si fa avanti, rappresentano ciò da cui la ragione non smetterà mai di essere assillata e ossessionata16. Diversamente, in Adorno, il sogno fa la sua comparsa, ad esempio nelle pagine di Minima moralia, in riferimento quasi esclusivo a quella pratica scientifica che, da promessa di liberazione del soggetto, ha finito per sottoscrivere le logiche di potere della società amministrata: certo sarebbe folle, per quanto il padre della psicoanalisi negasse di aver mai letto i testi di Nietzsche, slegare fra loro la riflessione freudiana e quella nietzscheana. Tutta la questione della repressione, della rimozione, dell’introiezione degli istinti – punto cardinale dell’opera di Freud – era già stata esposta compiutamente da Nietzsche, pur senza esplicito riferimento alla sfera sessuale, nella Genealogia della morale: questa peraltro rappresentava la naturale evoluzione di una serie di questioni sulle quali il Nietzsche filologo si era già lungamente interrogato agli albori del proprio percorso filosofico-letterario. E dunque, parlare del sogno, come Adorno fa, a partire da un’eredità di pensiero per cui esso era una delle incarnazioni del dionisiaco, non ci riporta già nell’ottica di una decostruzione in corso d’opera della metafisica tradizionale? Non ci riporta già nel solco onirico tracciato da Derrida? È invece alla versione immanente di una metafisica di stampo eracliteo che bisogna appellarsi per comprendere il gesto di chi chiama in causa qualcosa come il sogno per salvaguardarsi dal fuoco di una ragione che tutto vuole omologare, divorare, a costo della cancellazione, a costo dell’olocausto sacrificale. L’esperienza diurna del sogno, ossia il nostro costante sforzo di riportarne il senso oscuro e notturno a una chiara, irrevocabile unità, attraverso la fredda dissezione operata da un Lægow che si pretende omnicomprensivo, non è che una delle forme in cui si declina il rapporto fra la ragione e il non-identico. Il problema del sogno è, in altre parole, il problema stesso di Dialettica negativa; il problema, cioè, di un pensiero che, nel rapportarsi al proprio oggetto in quanto non-identico, vorrebbe ad un tempo salvare se stesso, l’identità dell’altro in quanto tale (cioè 84

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negativo, non-identico) e la possibilità di una conoscenza integrale eppure non violenta della realtà (oggettuale) da parte del soggetto di conoscenza: in altri termini, la possibilità dell’impossibile, l’utopia. E cos’è mai un’utopia, se non quella regione irraggiungibile, ma non per questo meno ambita, vagheggiata e sognata, che tanto Adorno quanto Derrida ci hanno ripetutamente dato a pensare? Bandire il sogno senza tradirlo […] risvegliarsi, coltivare la veglia e la vigilanza, pur restando attenti al senso, fedeli agli insegnamenti e alla lucidità di un sogno, avendo cura di quel che il sogno dà da pensare, soprattutto quando ci dà da pensare la possibilità dell’impossibile. La possibilità dell’impossibile non può che essere sognata, ma il pensiero, un pensiero totalmente altro del rapporto tra il possibile e l’impossibile, quest’altro pensiero che da così tanto tempo respiro e dietro a cui talvolta perdo il fiato nei miei corsi o nelle mie corse, ha forse maggiore affinità con questo sogno che non la filosofia stessa.17

Si potrà essere mai più distanti di così da un orizzonte «irrazionalista?» Si potrà mai essere più prossimi ai contenuti di una dialettica decostruita? “Sogno” è uno dei tanti nomi del non-identico, così come questo ci è presentato nelle pagine di Dialettica negativa. Ma sogno è anche, in un senso più ampio e fondamentale, il progetto stesso di una dialettica negativa. E sogno è, infine, l’utopia che con esso prende forma. In considerazione di ciò, solo arbitrariamente potremmo concludere che si riduca ad un “mero” espediente letterario, ciò cui Derrida si affida per parlarci del proprio difficile rapporto di eredità nei confronti della Scuola di Francoforte: Da decenni, sento in sogno quelle che chiamiamo “voci”. Alle volte sono voci amiche, altre volte no. Sono voci in me. Tutte sembrano dirmi: perché non riconoscere, chiaramente e pubblicamente, una volta per tutte, le affinità tra il tuo lavoro e quello di Adorno o, a dire il vero, il tuo debito verso Adorno? Non sei forse erede della scuola di Francoforte?18

Il poco che si è detto sembrerebbe abbastanza per convalidare la assegnazione del premio Adorno e comprendere la conseguente, pubblica confessione di Derrida. Abbastanza per esaurire l’intento che ci eravamo proposti all’inizio di questa esposizione. E tuttavia... Molto più di quanto si è riusciti ad enunciare resterà ancora a lungo celato sotto il velo dell’inesprimibile19. 85

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NOTE 1 J. HABERMAS, Der philosophische Diskurs der Moderne, Frankfurt a. M., 1985; trad. it. Il discorso filosofico della modernità, Laterza, Roma-Bari 1988, pp. 189-190. ID., On the Legacy of Jean-Paul Sartre, interview conducted by Richard Wolin, «Political Theory», Vol. 20, No. 3, Aug. 1992, pp. 496-501; trad. it. L’eredità di Sartre in «MicroMega», 6/2005, pp. 27-32. 2 In effetti, se c’è qualcosa che tanto l’approccio derridiano quanto quello adorniano hanno questionato in linea di principio, è proprio la validità “metodologica” della posizione in quanto tale – cioè della posizione in quanto thèsis o stasis della riflessione. Il gesto preliminare di ogni decostruzione consisterebbe piuttosto nel prendere posizione rispetto alla possibilità stessa della presa di posizione; o meglio, rispetto al dogma di infallibilità relativo all’idea della “presa di posizione”. La petitio principii invocata qui è troppo consapevole e provocatoria per rappresentare un elemento di rischio. Limitandosi a Derrida: se c’è qualcosa di insolubilmente aderente al concetto-non-concetto di decostruzione è proprio l’impossibilità del posizionamento ultimo, della thèsis de-finitoria se non riassunta in una forma nuova, mobile, suscettibile di spostamento (forma che non dà luogo, con buona pace di molti, né ad un pensiero “debole”, né a un relativismo, tanto meno a qualsivoglia irrazionalismo. Ciò che essa non fa è per l’appunto “dare luogo”). Decostruzione sarebbe allora, anzitutto, l’impossibilità di una definitiva aderenza al momento «tetico», primo di ogni dialettica; conseguentemente, essa si configurerebbe come una sorta di movimento spaesante interno al concetto di luogo, come anche al luogo del concetto. E ciò non soltanto perché qualcosa come la «presadi-posizione» porta inevitabilmente con sé l’idea di una presenza alla quale sia possibile attingere in qualsiasi momento come ad un’inesauribile riserva di senso; ma soprattutto perché l’idea di posizione segna la definitiva chiusura, o ipostasi, del pensiero su se stesso. Una simile considerazione ci trasporta già negli ambiti di una dialettica differente, di una dialettica che si potrebbe probabilmente chiamare “negativa”. 3 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt a. M., 1966; trad. it. Dialettica Negativa, Einaudi 2004, p. 4. 4 TH. W. ADORNO, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, Suhrkamp, Frankfurt a. M., 1951; trad. it. Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino 1994, p. 304. 5 J. DERRIDA, L’autre cap, Paris, Minuit, 1991; trad. it. Oggi l’Europa, Milano 1991, pp. 47, 33. 6 J. DERRIDA, Fichus – Discours de Francfort, Paris 2002; trad. it. Il sogno di Benjamin, Milano 2003, p. 17. 7 Ivi, pp. 23-24. 8 La questione del rovesciamento dei poli è diffusamente affrontata da Derrida all’interno di Violence e métaphysique. Essai sur la pensée de E. Lévinas, «Revue de Métaphysique et de Morale», 1964, nn. 3 e 4, poi incluso in L’écriture et la différance, Paris 1967; trad. it. In La scrittura e la differenza, Torino 2002). Non è questo il luogo per entrare nello specifico dell’argomentazione di Derrida; basti ricordare come egli critichi l’operazione attraverso cui Lévinas, proprio nel tentativo di fornire un’alternativa alla dialettica ego-centrata à la Hegel, pone semplicemente l’Altro nella posizione precedentemente occupata dall’io. Simile gesto non fa che dare forma opposta e speculare alla stessa violenza su cui si sviluppa la dialettica soggetto-centrica: “altro”, nel caso di Lévinas, non è che un altro nome del soggetto identitario. 9 TH. W. ADORNO, Dialettica Negativa, Torino 2004, p. 32 (ed. ted. p. 41). In Derrida come in Adorno, un qualcosa come la “decostruzione” sembra non poter andare senza un

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certo pensiero dell’altro, dello straniero, dunque dell’ospitalità e, conseguentemente, del dono inteso propriamente come dono d’accoglienza dell’altro entro la propria dimora – accoglienza che non vuole più annullare, omologare l’altro, bensì congiungere il momento positivo (l’io, il soggetto di coscienza) e quello negativo (l’altro, la negazione oggettuale della soggettività) salvaguardando la differenza che dal loro reciproco rapportarsi risulta; nella persistente consapevolezza della loro mutua co-implicazione. 10 P. LAURO, Il non identico e la forma nella Dialettica negativa, in «SegnoMensile», Anno XXXII, n. 274, aprile 2006, Palermo, pp. 49-55. 11 L. CORTELLA, Una dialettica della finitezza. Adorno e il programma di una dialettica negativa, Roma 2006, p. 19. 12 Ivi, p. 20. 13 J. DERRIDA, Il sogno di Benjamin, cit., p. 40. 14 TH. W. ADORNO, Minima moralia, cit. p. 59. 15 Non dimentichiamo che la citata polemica era sorta proprio dopo che Habermas aveva scritto che «quando il pensiero filosofico, conformemente alle raccomandazioni di Derrida, viene esonerato dal dovere di risolvere problemi, e rifunzionalizzato come critica letteraria, è privato non soltanto della sua serietà, bensì anche della sua produttività e capacità di prestazione» (J. HABERMAS, Il discorso filosofico della modernità, cit., p. 213): il che, ci chiediamo, non vuol dire continuare a pensare la ragione in termini economici, cioè, né più né meno, in termini di razionalità strumentale? 16 Sarebbe utile poter fare qualcosa di più che limitarsi ad accennare come tutto il lessico relativo al rêve e alla revenance (ossia all’idea di una spettralità che si presenta sempre quando meno ce lo si aspetta, cogliendo di sorpresa e terrorizzando, come se emergesse dal silenzio di un sogno), si leghi in Derrida con l’idea di un certo messianismo immanente che, forse per via di Benjamin, può essere rintracciato anche nel pensiero di Adorno. 17 J. DERRIDA, Il sogno di Benjamin, cit., p. 17. 18 Ivi, p. 40. 19 Rudolf Steiner, che per il suo non essersi mai integrato negli ambienti filosofici istituzionali qualcosa spartisce con Theodor Adorno e Jacques Derrida, sosteneva che, di fatto, soltanto nel sonno si realizza un rapporto schietto e giusto fra uomini e che invece, nel momento in cui ci si sveglia, a causa del pensiero rappresentante gli impulsi antisociali cominciano ad emergere: questo perché il pensiero è fondamentalmente antisociale, mentre nel sonno tale componente si assopisce. Affermando ciò, in fondo, Steiner non ha fatto altro che anticipare, seppure in termini diversi, la questione centrale di Dialettica negativa. Ora, seguendo Aristotele nel ritenere che essere-umano equivale ad essere-pensante ed essere-sociale, bisognerà convenire che solo nella veglia del pensiero può pienamente realizzarsi la peculiarità del rapporto fra esseri umani. Ispirati dunque dalle possibilità che il sogno mostra di poter dischiudere, potremo forse esercitare il pensiero in direzione di una rinnovata ragionevolezza, finalmente esente dal patimento di vedersi qualificare attraverso le rigide opposizioni dualistiche, così fortemente corrotte in senso metafisico, di luce/buio, lume/oscurità (con tutti i più miseri dedimenti dogmatici che tale modus classificandi comporta). Su simili questioni, dalle quali gli ambienti filosofici accademici continuano a tenersi a debita distanza, ma che Adorno e Derrida, con le loro riflessioni non hanno mai cessato di rinnovare, la nostra vigilanza non smetterà mai di esercitarsi.

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Soggetto e oggetto: un confronto tra Adorno e Foucault Miriam Iacomini

SULLA POSSIBILITÀ DI UN DIALOGO TRA ADORNO E FOUCAULT È fuor di dubbio che tra l’opera di Foucault e quella di Adorno sia possibile riscontrare una certa corrispondenza – una simmetria rintracciabile a diversi livelli: nei temi affrontati, nelle espressioni utilizzate, nei nodi che entrambi gli autori individuano come problematici rispetto ad una riflessione che possa dirsi rischiosa. Una riflessione, cioè, che sappia accettare o il pericolo, per Adorno sempre incombente, di «scivolare nell’arbitrario»1, o l’incerta strada, che Foucault non si esime dal percorrere, di interrogare il pensiero «al livello della sua esistenza, nella sua forma più aurorale»2. È lo stesso Foucault a mettere in evidenza l’affinità tra Teoria critica e la propria riflessione, permettendoci oggi di procedere a un confronto tra le due tradizioni di pensiero. In più di un’occasione egli ha voluto far emergere la convergenza tra la sua riflessione e quella riconducibile al lavoro svolto dalla Scuola di Francoforte3. In modo molto schematico, è possibile affermare che Foucault individua nella prospettiva teorica dei Francofortesi una continuità d’intenti, rispetto al lavoro da lui stesso svolto, relativa (1) al compito da affidare alla riflessione: fare ontologia del presente; (2) all’oggetto specifico dell’indagine filosofica: porre a tema il soggetto; (3) allo scopo da affidare alla filosofia: il rinnovamento del soggetto stesso. Si tratta di tre elementi che, intrecciandosi e autoimplicandosi, forniscono, in effetti, una base per un possibile confronto tra Adorno e Foucault. È quindi necessario, in modo preliminare, chiarire brevemente i punti a partire dai quali si dà convergenza tra i due autori. Innanzitutto, si è detto che Foucault inscrive il lavoro svolto dalla Scuola di Francoforte all’interno di un pensiero che affida alla filosofia il compito di fare una ‘ontologia del presente’. Si tratta per il filosofo francese di riconoscere agli autori della Teoria critica un lavoro filosofico che, collocabile all’interno della tradizione kantiana, è possibile definire critico. Secondo l’interpretazione foucaultiana, infatti, la filoso89

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fia contemporanea si è sostanzialmente sviluppata all’interno dei due orientamenti ‘critici’ inaugurati da Kant: uno è quello dell’analisi dei limiti della conoscenza, che ha dato luogo ad un indirizzo filosofico definibile analitica della verità; l’altro, è quello riconducibile ad una riflessione critica in quanto indagine sul presente e sulle condizioni che l’hanno determinato4. Tale orientamento, che Foucault definisce ‘ontologia del presente’, viene fatto risalire a Kant, nella misura in cui il filosofo tedesco, rispondendo alla domanda sull’Illuminismo, inaugura un nuovo modo di riflettere sul presente, riuscendo a emanciparsi dal rapporto con gli antichi da un lato, e, dall’altro, da una qualsivoglia prospettiva teleologica. Per Foucualt, infatti, Kant non concepisce «il presente come appartenente a una certa età del mondo, distinta dalle altre per alcune caratteristiche proprie, o separata dalle altre da qualche evento drammatico». Egli, inoltre, non interroga la propria contemporaneità «per cercare di decifrare in essa i segni che annunciano un evento prossimo»; né, infine, «analizza il presente come punto di transizione verso l’aurora di un nuovo mondo»5. Piuttosto, sottolinea Foucault, il filosofo tedesco interrogandosi sull’Illuminismo cerca di far emergere ciò che di attuale vi è nel presente: «Nel testo sull’Aufklärung la questione riguarda la pura attualità. [Kant] non cerca di comprendere il presente a partire da una totalità o da un compimento futuro. Cerca una differenza: qual’è la differenza che l’oggi introduce rispetto a ieri?»6. Questa è la domanda posta inaugurando un esercizio critico da Kant definibile ‘ontologia del presente’ nella misura in cui il problema dell’attualità viene percepito come evento al quale colui che parla appartiene, e di cui la riflessione deve cogliere il senso, il valore, la singolarità filosofica, per indicare un possibile percorso etico di emancipazione e di ricostituzione della soggettività7. Ora l’indagine critica – inaugurata da Kant dal momento in cui ha assunto il presente come attuale volendo far emergere la differenza che ‘l’oggi introduce rispetto a ieri’ – ha avuto, secondo Foucault, un continuo sviluppo: «Da Hegel a Horkheimer o a Habermas, passando per Nietzsche o Max Weber, non vi è una sola filosofia che non abbia dovuto confrontarsi, direttamente o indirettamente con questa domanda: in che cosa consiste questo evento che noi chiamiamo Aufklärung e che ha determinato almeno in parte ciò che siamo, ciò che pensiamo e ciò che facciamo oggi?»8. Si tratta di un interrogativo che non solo ha inaugurato un certo percorso filosofico – parallelo alla ‘analitica della verità’ in quanto ricerca dei limiti della conoscenza – ma ha posto al centro della riflessione il soggetto, a partire ancora una volta dall’esem90

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plarità del discorso kantiano. Nella lettura foucaultiana, infatti, la nozione kantiana di Illuminismo corrisponde al processo di emancipazione del soggetto da uno stato di minorità: «la Aufklärung», scrive Foucault molto chiaramente, «è definita dal modificarsi del rapporto preesistente tra la volontà, l’autorità e l’uso della ragione»9. Il pensiero critico si impegna in una ‘ontologia del presente’ per ricostruire le condizioni della soggettività nei suoi rapporti con l’autorità, con l’esplicito intento di individuare un possibile percorso di autodeterminazione: per rendere, cioè, possibile una qualche forma di rinnovamento della soggettività, che anche per Foucault, come già per Adorno, non può essere calibrata indipendentemente da un’analisi preliminare degli eccessi di potere di cui la ragione è responsabile. E in effetti, secondo Foucault, in Francia come in Germania la filosofia si è indirizzata verso forme di riflessione inerenti l’analisi dei rapporti tra potere e sapere in riferimento al modo d’essere attuale del soggetto. Però, mentre in Francia questa analisi ha assunto le modalità di un’indagine sul senso e sui meccanismi coercitivi che lo producono10, in Germania «dalla sinistra hegeliana alla scuola di Francoforte si elabora […] una critica dei rapporti tra il progetto fondamentale della scienza e della tecnica il cui obiettivo è smascherare i legami tra l’ingenua presunzione della scienza da un lato e le forme di dominio della società contemporanea dall’altro»11. In particolare, prosegue Foucault, la teoria critica ha perseguito tale intento ponendosi il problema corrispettivo e inverso a quello dell’Aufklärung e interrogandosi su come possa accadere che la razionalizzazione conduca al ‘furore del potere’. Queste in breve le coordinate che delimitano secondo Foucault uno spazio comune tra il suo approccio al discorso filosofico e quella dei maggiori esponenti della scuola di Francoforte. Tra le ‘corrispondenze’ individuate, vorrei ora mettere a confronto la riflessione foucaultiana e adorniana solamente in merito all’oggetto specifico di un pensiero critico che pone a tema la questione del soggetto. Procederò da alcune considerazioni sul modo in cui i due autori hanno riflettuto sul soggetto, per poi confrontare le due posizioni. LA QUESTIONE DEL SOGGETTO IN ADORNO, ALCUNE CONSIDERAZIONI Nell’analisi adorniana la questione del soggetto può essere considerata da diverse angolazioni. Adorno, infatti, affronta il tema del sog91

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getto in modo complesso e articolato passando da una lettura politicosociale della soggettività, ad una lettura della realtà effettiva dei singoli individui; non solo: egli alterna le considerazioni sui rapporti tra soggetto ed oggetto, con quelle relative alla connessione tra soggetto e teoria critica; infine, per fare un ultimo esempio, Adorno ricapitola l’intero svolgersi del pensiero occidentale proprio indagando le modalità attraverso le quali l’uomo si è costituito in quanto ‘soggetto individuato’. Da quest’ultimo punto di vista, il problema della soggettività si innesca con l’analisi dello sviluppo storico della ragione e, quindi, con le ricerche sulla progressiva degenerazione del processo razionale che risale all’avvento del Logos sul mito. Nonostante sia innegabile che questa ricerca costituisca il tema specifico di Dialettica dell’Illuminismo, altrettanto vero è che l’analisi sul modo d’essere attuale della ragione e sul percorso che l’ha prodotta attraversa trasversalmente l’intera Dialettica Negativa. Se teoria critica c’è, e se una forma di dialettica in quanto dialettica negativa deve potersi realizzare, è necessario impegnarsi sia sul versante della critica all’Illuminismo, sia sul versante del recupero di un uso ‘corretto’ della ragione. «La filosofia esige oggi, come ai tempi di Kant, la critica della ragione per mezzo di questa, non la sua messa al bando o la sua abolizione»12. Il pensiero filosofico, quindi, deve smascherare i meccanismi rappresentativi sussuntivi per promuovere una possibilità di cambiamento sulla base di un uso rinnovato della dialettica, ovvero sulla base della consapevolezza dell’esistenza di antagonismi che non devono essere riconosciuti e poi risolti. Il soggetto e l’oggetto devono essere colti come elementi mediati e mantenuti come elementi differenti pur nella loro reciproca mediazione. «La polarità di soggetto e oggetto appare facilmente come una struttura a sua volta non dialettica dove avrebbe luogo la dialettica», scrive Adorno. «Ma entrambi questi concetti sono categorie derivate di riflessione, formule per un non unificabile; non un positivo, non rapporti primari tra cose, bensì del tutto negativi, espressione unicamente della non-identità»13. Evidentemente, lo sforzo che Adorno richiede alla filosofia è quello di fare in modo che il pensiero recuperi la capacità di riflettere criticamente su se stesso. L’Illuminismo, ormai da intendersi come processo di demitologizzazione della ragione strumentale14, non può più permettere la riduzione del mondo al soggetto, ma, al contrario, deve attuarsi in una reductio hominis, correlato della «visione di quanto sia falso un soggetto che si stilizzi come assoluto»15, e che, in virtù della sua assolutezza, costringa l’oggetto a sé. 92

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Al centro del rinnovamento della filosofia, nella sua declinazione di pensiero critico, sta, quindi, il rapporto tra soggetto e oggetto che deve potersi ricalibrare secondo modalità che vanno specificate. Adorno, infatti, non crede né al dissolvimento delle determinazioni nell’unità indistinta dell’essere, né nella riappacificazione dialettica delle opposizioni, né nell’ingenuo primato dell’oggetto. «Il pensiero critico non intende mettere l’oggetto sul trono vacante del soggetto, su cui l’oggetto non potrebbe essere che un idolo, bensì vuole eliminare la gerarchia»16. Si tratta, mi sembra, di agganciare alla critica del soggetto il riconoscimento del primato dell’oggetto, senza per questo porre il dato al di là della riflessione critica. «Neanche l’immediatezza è oltre la dialettica»17, essa ha come suo momento di verità quello di ‘fermare l’idolatria deduttiva’. Ciononostante, il dato colto nella sua immediata fattività non può essere posto come polo a-dialettico del soggetto: il «primato dell’oggetto», scrive Adorno, «significa la progressiva distinzione qualitativa di ciò che è internamente mediato, un momento della dialettica che non è al di là di essa, ma che in essa si articola»18. Il problema per Adorno diventa, perciò, quello di individuare un possibile rapporto tra soggetto e oggetto in cui il non identico non venga mutilato. Ora, per raggiungere questo obiettivo Adorno sembra suggerire un percorso che, riattivando l’articolazione dialettica del pensiero, possa rendere di nuovo ‘mobili’ i rapporti tra soggetto e oggetto. Egli, cioè, tenta di riabilitare il pensiero attraverso un uso della dialettica che si declini in figure di conoscenza capaci di ‘liberare’ soggetto e oggetto dai ruoli cui li ha obbligati la tradizione, in modo che l’oggetto possa rimanere il ‘differenziato’ rispetto al soggetto, e il soggetto non venga più qualificato come ciò che viene premesso ad ogni rappresentazione. Nell’ottica del capovolgimento della riduzione soggettiva auspicato dalla dialettica negativa, infatti, «non potrebbe esserci alcuna mediazione senza il qualcosa»19. Dal punto di vista adorniano, però, il riconoscimento del primato dell’oggetto sul soggetto, non sfocia, come già sottolineato, in un annullamento delle differenze in nome di un nuovo principio. Piuttosto, bisogna collocarsi nell’ottica di una dialettica che ricostruisce i rapporti tra soggetto ed oggetto secondo un duplice movimento: essi «si costituiscono reciprocamente così [come] si separano in seguito a tale costituzione»20. E ciò implica che se da un lato il soggetto viene destituito dal primato che la tradizione gli ha consegnato, dall’altro «la concezione che il pensiero è mediato dall’oggettività non vieta il pensiero e le leggi oggettive per cui è pensiero»21. Per 93

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Adorno, infatti, l’uso del concetto in quanto momento che garantisce oggettività alla conoscenza rimane ineliminabile, sebbene la gerarchia debba essere superata: il pensiero deve ‘illuminare’ lo specifico dell’oggetto senza arrogarsi il diritto di una funzione costitutiva. A questo proposito, il modello proposto da Adorno è quello che caratterizza il comportamento linguistico. Scrive infatti Adorno: Il linguaggio dove si presenta essenzialmente come linguaggio, dove diventa esposizione, non definisce i suoi concetti. Esso procura loro oggettività tramite il rapporto in cui li pone, centrandoli attorno a una cosa. Con ciò si presta all’intenzione del concetto di esprimere interamente l’inteso. Solo le costellazioni rappresentano da fuori quel che il concetto ha reciso, quel più che esso tanto vuole, quanto non può essere. Raccogliendosi intorno alla cosa da conoscere, i concetti determinano potenzialmente il suo interno, raggiungono pensando ciò che il pensiero ha espulso necessariamente da sé22.

In tal modo Adorno pensa poter impostare, nell’ottica di una prospettiva filosofica rinnovata, un rapporto tra soggetto e oggetto all’insegna di quella che, inaspettatamente, chiama ‘comunicazione del differenziato’. Egli si esprime in questi termini in un saggio intitolato Soggetto e oggetto dal quale cito un lungo passo che mi sembra chiarisca, in modo più efficace rispetto a passi analoghi di Dialettica Negativa, il senso che nel pensiero di Adorno assume la coesistenza del diverso. Se fosse lecita la speculazione sullo stato della salvazione, in essa non ci si potrebbe immaginare né l’indifferenziata unità di soggetto e oggetto, né la loro ostile antiteticità: piuttosto la comunicazione del differenziato. Allora soltanto il concetto di comunicazione, in quanto concetto oggettivo, perverrebbe al suo giusto posto. Il concetto attuale, invece, è così ignominioso perché tradisce il suo momento migliore, il potenziale cioè di un accordo tra uomini e cose, nella comunicazione dei soggetti secondo le esigenze della ragione soggettiva. Il rapporto tra soggetto e oggetto sarebbe al suo giusto posto, anche dal punto di vista teoretico conoscitivo, nella pace realizzata sia tra gli uomini, che tra gli uomini e ciò che è diverso da loro. La pace è lo stato di una differenziazione senza potere, nel quale ciò che è differenziato partecipa reciprocamente dell’altro23.

Questa la ‘soluzione’ adorniana dei rapporti tra soggetto e oggetto: non il dissolvimento di ogni differenza nell’unità dialettica del pensiero o nell’unità indifferenziata dell’Essere, non il regresso mistificatorio verso un superamento della dualità nella dottrina del salto, ma la pace 94

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tra i termini; pace che sembra essere raggiungibile attraverso l’assunzione da parte del soggetto di un atteggiamento costantemente vigile nei confronti dei processi di identificazione che il pensiero attua nell’incontro con l’elemento materiale. Perché «la dialettica negativa», e qui Adorno dimostra di assumersi fino in fondo tutti i rischi della sua caparbia difesa della ragione, «è legata, come al suo punto di partenza, alle massime categorie della filosofia dell’identità. Pertanto resta anch’essa falsa, logico-identitaria, lo stesso contro cui viene pensata. Essa deve correggersi nel suo procedere critico che modifica i concetti da essa trattati formalmente come se per lei fossero ancora i primi»24. Mi chiedo se non sia possibile individuare la cifra del cambiamento in Adorno non solo nel fatto che la filosofia debba volgere la critica contro di sé per riconquistare il piano dell’immanenza, nel senso esclusivo della riqualificazione della sfera materiale. Se infatti ci limitassimo a interpretare il messaggio adorniano in questo modo, si rischierebbe di scivolare verso un radicale e ingenuo materialismo. Piuttosto, mi sembra che Adorno pensi ad un cambiamento che si possa compiere in nome della differenza solo praticando una filosofia che è critica nella misura in cui diviene immanente al pensiero: la filosofia deve auto-riflettersi, deve volgere la critica contro di sé collocandosi, installandosi nell’esercizio stesso del pensiero. Infatti, «ogni volta che il pensiero segue senza pensarci la sua legge di movimento va contro il proprio senso, il pensato del pensiero, che impone l’arresto alla fuga delle intenzioni soggettive […] la regressione della coscienza è il prodotto della sua mancanza di autoriflessione»25. È quindi nel momento in cui si esercita la riflessione che il pensiero deve vigilare su di sé, perché il pericolo di essere soggiogati dalla chimera della totalità e dell’identità è sempre imminente. LA QUESTIONE DEL SOGGETTO IN FOUCAULT, ALCUNE CONSIDERAZIONI Anche in Foucault come in Adorno, la questione che si pone al centro della riflessione è il tema del soggetto e di un suo possibile rinnovamento nel senso dell’assunzione di un atteggiamento ‘responsabile’ verso se stessi. «Il tema centrale della mia ricerca», scrive Foucault nel 1983 quando l’entusiasmo per le analisi foucaultiane sul potere aveva forse sottratto all’attenzione degli interpreti l’oggetto specifico delle sue ricerche, «non è dunque il potere ma il soggetto»26. A differenza di Adorno, però, le analisi foucaultiane sul 95

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soggetto, non partono da una critica alle nozioni tradizionali di oggetto e soggetto. Foucault cioè, non ingaggia una riflessione sulla soggettività in base ad un’analisi dei rapporti tra soggetto e oggetto volta a smascherare l’assolutezza del soggetto. Il filosofo francese infatti afferma esplicitamente, e proprio nel saggio appena citato, che la sua indagine non si è certamente rivolta all’approfondimento delle dinamiche che caratterizzano l’incontro tra soggetto e oggetto, ma all’analisi della trasformazione degli esseri umani in ‘soggetti’. Nel far ciò, ha articolato il suo lavoro affrontando lo studio dei ‘modi di oggettivazione’ dell’uomo e indirizzando la sua ricerca verso i dispositivi all’interno dei quali l’individuo è stato assoggetto. Scrive Foucault: Nel mio lavoro mi sono occupato di tre modi di oggettivazione che trasformano gli esseri umani in soggetti. Il primo è quello di indagini che cercano di darsi lo statuto di scienze: per esempio l’oggettivazione del soggetto che parla nella grammaire générale, nella filologia o nella linguistica […]. Nella seconda parte del mio lavoro, ho studiato l’oggettivazione del soggetto in quelle che chiamerei ‘pratiche di divisione’. […] Infine ho cercato – è il lavoro che sto svolgendo ora – il modo in cui un essere umano diventa un soggetto. Ad esempio ho scelto l’ambito della sessualità – come gli individui hanno imparato a riconoscersi in quanto soggetti della sessualità27.

Per Foucault, quindi, si è trattato innanzitutto del soggetto nella misura in cui la ricerca si è assunta il compito di far emergere quell’insieme di pratiche di sapere e di potere che di volta in volta hanno costituito un certo modo d’essere della soggettività. Foucault, però, come emerge dalla citazione, non si è limitato solamente a ricostruire i processi di assoggettamento, ma, proprio negli ultimi anni di vita, ha tentato anche l’analisi delle tecniche attraverso le quali l’uomo fa esperienza di sé, scegliendo come ambito di studio il modo in cui l’individuo si costituisce in riferimento alla sessualità, in quanto soggetto di desiderio. Ora, nel tentativo di mettere a confronto teoria critica e archeologia del sapere in merito alla questione del soggetto, vorrei prendere in considerazione solamente l’analisi che Foucault porta avanti negli anni ’60, periodo durante il quale il filosofo francese è prevalentemente occupato a indagare sulle pratiche discorsive che, dandosi lo statuto di scienze, hanno reso possibile in diverse epoche storiche un modo d’essere della soggettività piuttosto che un altro. Mi sembra interessante, infatti, sottolineare come i risultati della ricerca archeologica condotta da Foucault negli stessi anni in cui Adorno 96

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scrive Dialettica negativa, dimostrano come si possa riflettere sulla nozione di soggetto, oggetto e ragione considerandoli non più come entità primarie, ma come elementi inerenti ad una rete di rapporti interni al discorso. Ciò che innanzitutto bisogna mettere in evidenza, è che l’archeologia del sapere, come indagine storica sugli enunciati, sulle formazioni discorsive, sulle positività che determinano l’apparire delle cose nel discorso, si lascia dietro i problemi legati alla coppia soggetto-oggetto, propri della gnoseologia e della metafisica tradizionali. L’archeologo della conoscenza, infatti, riflette a partire dal discorso in quanto evento che fa emergere un certo uso della ragione, un certo rapporto tra le parole e le cose, e, quindi, un certo rapporto tra soggetto ed oggetto, in base a leggi a-prioristiche sebbene storicamente determinate28. Evidentemente, per comprendere il punto di vista dal quale Foucault osserva, studia e analizza le pratiche discorsive è necessario tener presente che per il filosofo francese il discorso è ‘evento’: esso, cioè, è qualcosa che accade ed è proprio nella sua realtà effettiva che Foucault intende analizzarlo. Nella prospettiva archeologica, infatti, è possibile ricostruire l’origine delle pratiche di sapere, solo a partire dall’analisi delle formazioni discorsive date, laddove per origine Foucault intende, come ha acutamente osservato Deleuze, un ‘luogo di mutamenti’, uno spazio instabile in cui rapporti di forze sempre mutevoli fanno effettivamente apparire una configurazione discorsiva piuttosto che un’altra. L’avvenimento, scrive Foucault, è un rapporto di forze che si inverte, un potere sequestrato, un vocabolario riconquistato e ritorto contro coloro che prima lo utilizzavano, un dominio che si indebolisce, si allenta, si intossica esso stesso, un altro che fa la sua apparizione mascherato. Le forze in gioco all’interno della storia non obbediscono né a una finalità, né a una meccanica, ma bensì alla causalità della lotta. Esse non si manifestano come figure successive di un disegno originario; esse non prendono affatto l’andamento di un risultato. Appaiono sempre nel rischio particolare dell’accadimento […]29.

Di qui, il forte interesse di Foucault, almeno durante tutti gli anni ’60, per l’analisi delle condizioni di possibilità30 delle pratiche discorsive. È solo attraverso la ricostruzione del meccanismo che fa emergere l’evento, che è possibile ricostruire i rapporti, mai gerarchici ma sempre reticolari, tra gli elementi effettivi dei dispositivi di sapere. Non bisogna infatti dimenticare che per Foucault ogni evento è singolarità storica che accade al di là di ogni progetto, e che è reso effettivo 97

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all’interno di una strategia determinata da irruzioni di forze che contestualmente entrano in relazione una con l’altra. Questa prospettiva evenemenziale, che caratterizza fin dall’inizio la ricerca foucaultiana, comporta una serie di conseguenze molto rilevanti. Innanzitutto, riflettere sul discorso in quanto evento che appare ‘nel rischio particolare dell’accadimento’, conduce inevitabilmente ad una riduzione del ruolo del soggetto. Quest’ultimo, considerato dalla discussione filosofica tradizionale elemento primario a partire dal quale il discorso si costituisce, diviene, infatti, un elemento che occupa un posto: una sorta di funzione derivata dal contesto all’intero del quale si installa. Detto altrimenti: collocandosi dal punto di vista archeologico, che privilegia il discorso in quanto evento nel quale ha luogo un certo modo d’essere del soggetto, non si indaga sul soggetto per sapere se e in che misura sia costitutivo rispetto all’oggetto, o, viceversa, se e in che misura sia l’oggetto ad avere un primato sul soggetto. Si cerca piuttosto, di ricostruire le condizioni che hanno reso possibile un certo tipo di rapporto tra soggetto e oggetto in determinate epoche. Ne segue, evidentemente, che le dinamiche tra soggetto e oggetto sono indagate non sulla base di nessi logici ma topologico-relazionali; si riflette, cioè, sui cambiamenti delle funzioni ‘soggetto e oggetto’ all’interno di uno spazio che è lo spazio del discorso. Provo a esemplificare. In Le parole e le cose Foucault, analizzando il passaggio dalla classicità alla modernità attraverso l’analisi delle pratiche del sapere inerenti la vita, il linguaggio e il lavoro, cerca di rintracciare le condizioni di possibilità che hanno determinato le discorsività: egli, cioè, cerca di individuare le modalità attraverso le quali le cose si sono di volta in volta offerte al soggetto conoscente. Nella classicità, epoca organizzata sulla base della legge epistemica della Rappresentazione, la funzione svolta dal soggetto all’interno della pratica discorsiva era quella di rendere trasparenti le cose attraverso le parole. Nella modernità, in seguito all’affermarsi di un nuovo sistema di leggi epistemiche, la funzione soggettiva potrà dire delle cose solo la loro superficiale realtà, avendo il linguaggio perso il suo valore rappresentativo e le scienze individuato negli oggetti l’esistenza di tutto un retromondo inaccessibile al senso. Evidentemente, in quest’ottica è il contesto che innesca i rapporti di significazione e non più il soggetto, che, invece, viene sottratto al tradizionale compito di essere produttore di senso, per divenire, osserva Honneth, un elemento interno ad una «catena evenemenziale rigorosamente inaccessibile al senso, una catena costruita da regole anonime di un ordine sociale e linguistico. È sullo sfondo di tale esperienza ori98

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ginale di un evento che oltrepassa per principio il soggetto umano»31 che si sviluppa la riflessione foucaultiana, in questo senz’altro debitrice al fermento culturale scaturito nel dibattito filosofico francese degli anni ’50, dalle posizioni dello Strutturalismo. La critica foucaultiana al soggettivismo raggiunge, così, il suo obiettivo: il soggetto, non più legittimato nelle vesti di significante, diviene definibile solo all’interno di un contesto che lo determina come elemento funzionale ad una pratica di sapere storicamente determinato. Il risultato dell’indagine foucaultiana in Le parole e le cose, è che sono esistiti modelli di pensiero che si sono avvicendati nella storia della cultura occidentale senza soluzione di continuità. Si tratta di modalità d’essere del pensiero che vanno indagate con l’atteggiamento e lo «sguardo di colui per il quale i contesti semantici e referenziali della cultura sono diventati estranei»32. È poi sulla base degli stessi presupposti teorici e metodologici che si articola implicitamente l’analisi della razionalità, nelle opere foucaultiane degli anni ’60. Per Foucault non esiste una modalità d’essere della ragione assoluta, sciolta da un contesto di appartenenza. Foucault, lo abbiamo già detto, individua ere epistemologicamente determinate che, susseguendosi secondo una radicale discontinuità, configurano modalità d’uso della razionalità differenti sulla base di condizioni di dicibilità che rinviano a griglie, a dispositivi di sapere che di volta in volta mutano il modo d’essere della ragione e declinano in modo ‘originale’ i rapporti tra soggetto e oggetto. Mi sembra di poter affermare che con l’analisi foucaultiana ci troviamo di fronte non solo ad una lettura della soggettività e della razionalità basata su prospettive teoriche alternative a quelle adorniane, ma anche alla difficoltà di individuare una qualche forma comune di riabilitazione del soggetto. Che senso può avere, infatti, parlare nell’orizzonte foucaultino di un rinnovamento filosofico attraverso la ridefinizione dei rapporti tra soggetto e oggetto? Non per nulla, Foucault si impegnerà nella ricerca di un rinnovamento della soggettività, nel momento in cui abbandona l’analisi delle condizioni di possibilità delle pratiche discorsive, per passare all’analisi delle pratiche di potere e quindi all’elaborazione di pratiche di resistenza al potere. Ed è proprio in questo contesto di ricerca che Foucault elabora la nozione di ethos filosofico, inteso come atteggiamento: come disposizione a cogliere il limite della nostra esistenza per un superamento possibile. L’ethos filosofico, proprio di un’ontologia critica del presente e di noi stessi che non rinuncia all’Illuminismo (all’emancipa99

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zione e all’autogoverno), si concretizza, scrive il filosofo francese, in «un lavoro di noi stessi su noi stessi in quanto esseri liberi». Per l’ultimo Foucault, quindi, la possibilità di un rinnovamento del soggetto, sembra coincidere con il recupero, sull’esemplarità degli antichi, del senso di un’attenzione costante su se stessi che si traduca in una disposizione pratica, in una attività di elaborazione del sé in vista di una vera e propria estetica dell’esistenza. IN FORMA DI CONCLUSIONE Volendo ora tentare un confronto tra la problematizzazione del soggetto in Adorno e nel primo Foucault, credo emerga un quadro in cui si alternano analogie e differenze. Innanzitutto, è possibile affermare che Adorno e Foucault sono senz’altro uniti da una comune forma di rifiuto verso la filosofia del soggetto. Per entrambi, inoltre, questa insofferenza si declina in un impegno filosofico volto a smascherare la modernità attraverso una duplice riflessione: da un lato si devono ricostruire le premesse storiche del soggetto individuato, dall’altro, in modo necessariamente complementare, bisogna indagare sui rapporti tra potere e sapere, bisogna cioè individuare le modalità attraverso le quali il sapere, secondo una felice espressione foucaultiana già citata, conduca al ‘furore del potere’. C’è, poi, un altro elemento che rende simmetrico l’impegno filosofico di Adorno e Foucault: è quello che definirei la tensione etica che motiva e orienta tutta la loro riflessione. Per l’uno, come per l’altro, infatti, la filosofia sembra proprio avere il suo scopo in una riqualificazione del soggetto, che si può realizzare solo attraverso una costante attenzione verso se stessi che conduca ad una nuova autonomia. Ciononostante, credo sia proprio questa tensione etica a segnare, pur avvicinando molto i due autori, la loro più grande distanza. Proviamo brevemente e schematicamente a considerare i percorsi da loro indicati. Adorno sembra suggerire una via per il recupero della libertà individuale, nel proporre un processo di superamento della ragione strumentale attraverso un esercizio negativo della dialettica. Si tratta, credo, di esercitare il pensiero a partire dal riconoscimento delle opposizioni per mantenere le differenze come tali pur nella loro reciproca dipendenza, senza, perciò, assecondare il consolante gioco di affermazione della realtà esistente: 100

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In contrasto con i suoi amministratori, la filosofia rappresenta – tra le altre cose – il pensiero che non capitola di fronte alla vigente divisione del lavoro e non si lascia prescrivere da essa i propri compiti. L’esistente non costringe gli uomini solo con la violenza fisica e gli interessi materiali, ma anche con la strapotenza della suggestione. La filosofia non è sintesi, base o coronamento della scienza, ma lo sforzo di resistere alla suggestione, la decisione della libertà intellettuale e reale33.

La riflessione filosofica, quindi, si arroga implicitamente il compito di rendere il soggetto responsabile invitandolo ad assumere un atteggiamento vigile nei confronti dell’esercizio automatico, irriflesso della ragione, in modo da evitare i ‘naturali’ processi, propri dell’attività razionale, di identificazione e di neutralizzazione degli elementi che sfuggono alla sintesi identitaria. In questo senso, si potrebbe dire che la dialettica negativa si installa all’interno dello spazio aperto dall’incidenza tra Illuminismo e critica, nello spazio, cioè, che si offre ad una riflessione che da un lato tende ad oltrepassare la mitologia, mentre dall’altro non può non esplicitarsi in termini di autoriflessione, ovvero come attività che, utilizzando il concetto per neutralizzare i rischi delle strettoie concettuali, può garantire dal rischio della barbarie. In Foucault, invece, il rinnovamento del soggetto in vista del recupero della propria libertà si definisce in riferimento alla nozione, già richiamata, di ethos filosofico. In Che cos’è l’Illuminismo, l’ethos filosofico è caratterizzato, lo si è già ricordato, come una disposizione a cogliere il limite per un superamento possibile. Si tratta di un compito che anche per Foucault sembra inscriversi nell’orizzonte aperto dall’incidenza di illuminismo e critica. Il punto, però, è che il filosofo francese interpreta i due termini in modo alternativo a quello adorniano. Il concetto di illuminismo, infatti, viene da Foucault kantianamente inteso come capacità di autodeterminazione per uscire da uno stato di minorità, mentre l’attività critica viene definita come ‘prova di evenemenzializzazione’. Foucault arriva a questa caratterizzazione della critica secondo un movimento che è insieme di ampliamento e di ridefinizione dello spazio kantiano della critica. Egli, infatti, parte dalla nozione di ‘analisi delle condizioni di possibilità’34, ma poi fa della critica la ricerca delle condizioni di possibilità del sapere nei suoi rapporti col potere. E, in forza di questo movimento, Foucault automaticamente ridefinisce anche lo spazio entro cui esercitare la critica: egli non va alla ricerca delle condizioni trascendentali del sapere, delle strutture soggettive for101

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mali che avendo valore universale legittimano la conoscenza. Piuttosto, indaga sugli «insiemi di elementi in cui individuare, in via del tutto empirica e provvisoria, delle connessioni tra meccanismi di coercizione e contenuti di conoscenza»35. A partire da questa riflessione critica, che si realizza nella forma di indagine archeologica e genealogica su ciò che siamo attualmente, Foucault intravede la possibilità di una via di uscita dai gangli del potere. Secondo il filosofo francese, infatti, è solo attraverso una diagnosi attiva di sé, definibile come una critica permanente del nostro essere storico, che è possibile recuperare il senso di un esercizio filosofico che renda il soggetto capace non solo di autodeterminazione, ma anche, e soprattutto, di ‘autocostituzione’: l’uomo è oggi chiamato a mantenere costantemente attivo un atteggiamento critico verso la propria esistenza, per fare di sé un’opera d’arte, per costituirsi, cioè, in quanto soggetto libero e autonomo. Non solo: in uno dei suoi ultimi interventi pubblici Foucault, spiazzando gli interpreti, afferma che è proprio nell’assunzione di un tale atteggiamento che sopravvive il senso più autentico della ‘modernità’. «Essere moderno non significa accettare se stessi per quello che si è nel flusso dei momenti che passano; significa assumere se stessi come oggetto di un’elaborazione complessa e ostica: quel che Baudelaire chiama, secondo il vocabolario dell’epoca, il ‘dandysmo’. Non ricorderò […] le pagine sull’ascetismo del dandy, che fa del suo corpo, del suo comportamento, dei suoi sentimenti e delle sue passioni, della sua esistenza un’opera d’arte. L’uomo moderno, per Baudelaire, non è colui che parte alla scoperta di se stesso, dei suoi segreti e della sua verità nascosta; è colui che cerca di inventare se stesso. Questa modernità non libera l’uomo del suo essere proprio; essa gli impone il compito di elaborarsi da sé»36. Si tratta, credo, di una prospettiva che, al di là dell’urgenza etica, non sembra condividere molto con il progetto di Adorno, essendo quest’ultimo teso ad un rinnovamento nella forma di un nuovo equilibrio tra forze eterogenee.

NOTE 1 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt am Main 1966, trad. it. TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, Torino 2004, p. 34. 2 M. FOUCAULT, Les Mots et le choses, Paris 1969, trad. it. M. Foucault Le parole e

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le cose, Milano 1996, p. 353. 3 M. FOUCAULT, Wath is Enligthenment? In P. Rabinow (a c.), The Foucault Reader, New York 1984, trad. it. Che cos’è l’Illuminismo, in M. FOUCAULT, Archivio Foucault. Interventi, colloqui, interviste, 3. 1978-1985, Estetica dell’esistenza, etica, politica, (a cura di A. Pandolfi), Milano 1998, pp. 217-232; ID., Qu’est-ce que les Lumières?, in «Magazin littéraire», n. 207, maggio, 1984, trad. it, Che cos’è l’Illuminismo, in M. FOUCAULT, Archivio Foucault, 3. 1978-1985, cit., pp. 261-272; ID., La vie: l’expérience et la science, in «Revue de métaphysique et de moral», 1985, a. 90. n. 1, trad. it. La vita: l’esperienza, la scienza, in M. FOUCAULT, Archivio Foucault, 3. 1978-1985, cit., pp. 317-329. 4 M. FOUCAULT, Qu’est-ce que les Lumières?, trad. it. Che cos’è l’Illuminismo, in M. FOUCAULT, Archivio Foucault, 3. 1978-1985, cit., p. 261. 5 Foucault a titolo esemplificativo cita per ognuna di queste tre modalità di analisi del presente un autore, rispettivamente Platone, Agostino e Vico. (cfr. M. FOUCAULT, Wath is Enligthenment?, trad. it. Che cos’è l’Illuminismo, in M. FOUCAULT, Archivio Foucault, 3, cit., p. 218). 6 Ivi, p. 219. 7 M. FOUCAULT, Qu’est-ce que les Lumières?, trad. it. Che cos’è l’Illuminismo?, in M. FOUCAULT, Archivio Foucault, 3, cit., p. 255. 8 M. FOUCAULT, Wath is Enligthenment?, trad. it. Che cos’è l’Illuminismo, in M. FOUCAULT, Archivio Foucault, 3, cit., p. 217. 9 Ivi, p. 219. 10 M. FOUCAULT, Illuminismo e critica, cit., p. 47. 11 M. FOUCAULT, Illuminismo e critica, cit., p. 45. Per un chiarimento dell’interpretazione foucaultiana in merito alle diverse posizioni assunte dalla filosofia francese e tedesca relativamente al modo d’essere del soggetto in rapporto al potere, cfr. M. FOUCAULT, La vita: l’esperienza, la scienza, in A. PANDOLFI, Archivio Foucault, Interventi, colloqui, interviste, 3. 1978-1985, cit., pp. 317-329. 12 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, cit., p. 79. 13 Ibid., p. 157. 14 È celebre l’incipit del § Concetto di Illuminismo della Dialettica dell’Illuminismo: «L’Illuminismo, nel senso più ampio di pensiero in continuo progresso, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e di renderli padroni. Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura». Secondo la lettura adorniana, infatti, il pensiero è ormai sottoposto al movimento automatico e irriflesso della ragione strumentale che è divenuta essa stessa mito. L’unico possibile futuro per l’Illuminismo, originariamente inteso come processo di emancipazione dell’uomo dal mito, è quindi accogliere in sé la coscienza del momento regressivo, e mobilitare nuovamente i rapporti dialettici tra mito e Illuminismo. (M. HORKEIMER, TH. W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung, New York, 1944, trad. it. Dialettica dell’illuminismo, Torino 2000, p. 11). 15 T. W. ADORNO, Dialettica negativa, cit., p. 167. 16 Ivi, p. 163. 17 Ivi, p. 168. 18 Ivi, p. 166. 19 Ivi, p. 155. 20 Ivi, p. 157. 21 Ivi, p. 163. 22 Ivi, p. 147 (corsivo mio). 23 TH. W. ADORNO, Stichworte. Kritische Modelle, Frankfurt am Main 1969, trad. it. Parole chiave. Modelli critici, Milano 1974, Su soggetto e oggetto, p. 214. Altrettanto

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significativo sembra essere il richiamo all’utopia che Adorno fa in Dialettica negativa: «Oltre l’identità e la contraddizione l’utopia sarebbe la coesistenza del diverso. In vista di essa l’identificazione si riflette alla maniera in cui il linguaggio usa questa parola al di fuori della logica, dove si parla d’identificazione non di un oggetto, ma di identificazione con uomini e cose» (TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, cit. p. 136). 24 Ivi, p. 134. 25 Ivi, p. 135. 26 M. FOUCAULT, Why study Power: The Question of the Subject, in H. DREYFUS, P. RABINOW, Michel Foucault. Beyond Structuralism and Hermeneutics, Chicago 1983, pp. 206-216, trad. it. Perché studiare il potere: la questione del soggetto, in «Aut-Aut», 205, 1985, p. 2. 27 Ibid., p. 2. 28 Sulla nozione di a-priori storico cfr. M. FOUCAULT, L’archéologie du savoir, Paris 1969, trad. it. L’archeologia del sapere, Milano 1998, L’archivio e l’enunciato, § V, L’a priori storico e l’archivio, pp. 169-178. 29 M. FOUCAULT, Nietzsche, la généalogie, l’histoire, in S. Bachelard (a c.), Hommage à Jean Hyppolite, Paris 1971, pp. 145-172, trad. it. Nietzsche, la genealogie, la storia, in «Il verri», n. 39-40, 1972, pp. 96-97. 30 Che la ricerca delle ‘condizioni’ sia l’interesse prioritario di Foucault, Deleuze lo sottolinea a più riprese nel suo acuto e penetrante saggio sull’opera foucaultiana, pubblicato a distanza di due anni dalla morte di Foucault. «Foucault» scrive Deleuze, «è comunque interessato alle condizioni […] la sua non è una storia della mentalità, ma delle condizioni in cui si manifesta tutto ciò che ha un’esistenza mentale; gli enunciati e i regimi di linguaggio. Non una storia dei comportamenti ma delle condizioni in cui si manifesta tutto ciò che ha un’esistenza visibile, in un regime di luce. Non una storia delle istituzioni ma delle condizioni in cui esse integrano rapporti differenziali di forze nell’orizzonte di un campo sociale. Non una storia della vita privata ma delle condizioni in cui il rapporto a sé costituisce una vita priva. Non del soggetto, ma delle condizioni di soggettivazione». (G. DELEUZE, Foucault, Paris 1986, trad. it. P. A. Rovatti e F. Sossi, Foucault, Milano 1987, p. 117). 31 A. HONNETH, Foucault e Adorno. Due forme di critica della modernità, in Riccio F., Vaccaro S. (a c.), Adorno e Foucault. Congiunzione disgiuntiva, Bari 1990, p. 111. 32 Ivi, p. 112. 33 M. HORKEIMER, T. W. ADORNO, Dialettica dell’Illuminismo, cit., p. 261. 34 È Deleuze che collega la ricerca foucaultiana delle condizioni di possibilità ad una prospettiva kantiana, con «delle differenze fondamentali rispetto a Kant: le condizioni sono quelle dell’esperienza reale, e non quelle di ogni esperienza possibile (gli enunciati per esempio, presuppongono un corpus determinato); stanno dal lato dell’‘oggetto’, dal lato della formazione storica, e non di un soggetto universale (lo stesso a priori è storico); sono, le une come le altre, formazioni di esteriorità». Come dire che Foucault, kantiano, supera la prospettiva trascendentale per collocare l’esercizio critico in un’ottica evenemenziale. Con notevole finezza critica, Deleuze inoltre mette in risalto un alto aspetto del neokantismo focuaultiano. Egli, infatti, nella sua analisi dei rapporti tra visibile ed enunciabile in Foucault sottolinea come l’aspetto ricettivo della visibilità e quello spontaneo dell’enunciabilità si rapportano in modo analogo alle dinamiche esistenti tra l’io penso e l’intuizione in Kant. (G. DELEUZE, Foucault, op. cit., p. 67, § Gli stati o formazioni storiche: il visibile e l’enunciahile (sapere), pagg. 55-74). 35 M. FOUCAULT, Illuminismo e critica, cit., pag. 53. 36 M. FOUCAULT, Che cos’è l’Illuminismo, in M. FOUCAULT, Archivio Foucault, 3. cit., p. 225.

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Adorno: l’intreccio di libertà e natura Lucio Cortella

Il tema della libertà occupa un posto di rilievo all’interno della Dialettica negativa. Com’è noto esso viene affrontato nel primo dei tre «modelli» in cui si articola la terza e ultima parte dell’opera. In essi Adorno intende mettere alla prova il metodo dialettico-negativo, illustrato in dettaglio nella seconda parte, applicandolo a tre specifici problemi filosofici. Ovviamente i tre temi non sono scelti a caso ma vengono ad assumere quasi un valore paradigmatico. Da alcuni interpreti è stato fatto notare che questi tre modelli corrispondono alle tre idee della ragione esposte da Kant nella Critica della ragion pura1. In effetti è facile associare la trattazione adorniana della libertà all’idea kantiana di anima, quella sulla filosofia della storia e sul Weltgeist all’idea kantiana del mondo e le meditazioni conclusive sulla metafisica all’idea kantiana di Dio. Proprio questo confronto con Kant rende, a mio avviso, esplicita l’intenzione adorniana: muoversi in controcorrente rispetto a Kant mostrando come la filosofia non debba rimanere rinchiusa all’interno dei dati fenomenici ma possa affrontare con coraggio e con diritto di parola i grandi problemi metafisici. La Dialettica negativa evidenzia qui tutta la sua ambizione. Essa vuole dimostrare di avere gli strumenti concettuali adatti a trattare, se non a risolvere, i problemi della libertà, della filosofia della storia e della metafisica. La lezione adorniana sviluppata nella parte centrale dell’opera va proprio in questa direzione. La dialettica ha questo di proprio, di non arrestarsi di fronte alle contraddizioni dei concetti, di andare oltre i limiti di quel pensiero identificante – cui soggiace alla fine anche Kant – che vietano di conoscere là dove si manifestano contraddizioni. Nel capitolo sulla libertà il confronto con Kant si fa esplicito e diretto. Non a caso il sottotitolo recita «Per la metacritica della ragion pratica». Il metodo seguito da Adorno è quello, rigorosamente dialettico, della negazione determinata. Alla teoria kantiana Adorno non contrappone una sua teoria, contrapposta a quella, ma ne segue fino in fondo le tesi fondamentali. Come vedremo, sarà proprio dall’interno di Kant e dalla coerenza estrema con quel pensiero che emergeranno le critiche e in conclusione l’alternativa concettuale adorniana. 107

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1. Adorno in prima battuta sembra dunque condividere per un lungo tratto le tesi kantiane sulla libertà fino al punto da convenire con lui nell’attribuirle il carattere intelligibile. Anche per Adorno ha senso parlare di libertà solo se si è in grado di individuare una dimensione «altra» rispetto a quella della necessità naturale, «altra» rispetto a quella della costrizione e della coattività: «Eppure non vi è niente di più prezioso tra gli uomini che quel carattere; la possibilità di essere altro da come si è, mentre invece tutti sono carcerati nel proprio Sé e perciò anche esclusi dal proprio Sé»2. L’intelligibilità non è qui intesa come l’elevazione a una dimensione sovrasensibile bensì come la possibilità di trascendere i meri dati di fatto, di contrastare la coattività naturale e sociale, di essere diversamente da come si è. E la libertà contiene proprio questo trascendimento nel suo significato principale. Essa consente di aprire un ambito che per la rivendicazione della sua intelligibilità contiene al proprio interno un elemento utopico e un potenziale critico. Il difetto eclatante della dottrina kantiana, l’inafferrabilità, l’astrattezza del carattere intelligibile somiglia anche un po’ alla verità di quel divieto delle immagini che la filosofia post-kantiana, Marx incluso, ha esteso a tutti i concetti del positivo.3

Attribuire il carattere intelligibile alla libertà significa renderla irrappresentabile, sottrarla al potere identificante del concetto, evitare che essa si trasformi in una morta positività. Viene qui ripreso da Adorno uno dei suoi grandi temi, quello del Bilderverbot e del Namensverbot, il divieto biblico di farsi immagini di Dio e di pronunciarne il nome, proprio per preservarne l’alterità irriducibile a qualsiasi rappresentazione umana, a qualsiasi idolo4. E la libertà appartiene a pieno diritto a questa sfera che ci è vietato rappresentare: non può esser conosciuta positivamente ma solo attraverso la negazione determinata delle sue false rappresentazioni. Queste considerazioni spiegano anche la sostanziale apertura di credito adorniana nei confronti della cosa in sé. Com’è noto, per Kant, essa non può mai diventare oggetto di conoscenza concettuale e dunque rappresenta per Adorno quell’al-di-là del concetto che resiste al suo potere inclusivo. Con la sua dottrina della cosa in sé Kant si è avvicinato all’intuizione del non-identico, di ciò che non è riducibile ad alcun concetto, di ciò che si sottrae per definizione al pensiero identificante. 108

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Il più contestabile teorema di Kant, la distinzione tra cosa in sé trascendente ed oggetto costituito, conserva una sua verità. Perché l’oggetto sarebbe finalmente il non-identico, liberato dalla tirannide soggettiva ed afferrabile attraverso la sua autocritica.5

Il riferimento all’autocritica del soggetto come condizione dell’afferrabilità del non-identico riconferma qui l’approccio dialettico da parte di Adorno al problema della cosa in sé: proprio perché inconoscibile concettualmente essa si fa presente nelle contraddizioni del concetto stesso. La contraddizione non è mai intesa da Adorno semplicemente come una negazione logica dell’identità bensì come esperienza positiva dell’oggetto, come possibilità di conoscenza nei confronti di ciò che sta al di là del concetto. 2. L’adesione di Adorno alla concezione kantiana della libertà non va però oltre questa iniziale consonanza. In quella concezione si cela infatti un pensiero che si muove nella direzione contraria, un pensiero ancora dominato dalla necessità e dalla illibertà. Com’è noto, Kant concepisce la libertà in termini di autonomia e indipendenza dalla natura, cioè come autodeterminazione della ragion pura che in quanto pura sa farsi pratica, cioè sa darsi la legge senza dipendere da moventi esterni, senza cadere in eteronomia. Solo se la ragione sa trovare in se stessa il movente delle proprie azioni, senza essere determinata da pulsioni sensibili, può porsi come libera. La libertà consiste perciò nell’identità della ragione con se stessa, nella sua autodeterminazione e autotrasparenza. Per essere libera la ragione deve risultare priva di qualunque influenza esterna, anche e soprattutto di quelle inconsapevoli e al di fuori del suo controllo. Perciò dev’essere del tutto cosciente dei suoi moventi pratici e trasparente a se stessa. L’esperienza personale del momento di libertà è collegata alla coscienza; il soggetto si sa libero solo nella misura in cui la sua azione gli appare identica con se stesso, e questo avviene soltanto quando le azioni sono coscienti.6

Ma una libertà intesa come identità del soggetto con se stesso non è libertà bensì coazione. Solo apparentemente essa sfugge alla costrizione naturale. In realtà, soccombendo alla logica dell’identità, non fa che dipendere dall’istinto di autoconservazione e autoaffermazione, ovvero da quell’istinto che sostanzia il bisogno di identità. In 109

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altri termini: la libertà kantiana non è libertà ma è natura, natura che nel farsi coscienza non smette mai di obbedire alla sua legge fondamentale. Nel presentarsi come coscienza e ragione la natura cambia tuttavia il suo modo di essere. La natura che si ripropone come ratio e che si presenta sotto i panni dell’illuminismo non è più la natura degli esseri viventi, la prima natura, ma è la natura che si è fatta spirito, si è fatta civiltà, cultura, pratiche sociali. Hegel usava un termine specifico per caratterizzare questa dimensione naturale e spirituale al tempo stesso: il concetto di seconda natura. Esso si riferiva sostanzialmente all’intera sfera dello spirito oggettivo, di quello spirito che ha acquisito la dimensione dell’oggettività all’interno della storia, che si è fatto istituzioni e leggi e che rappresenta per l’individuo l’ambito «naturale» all’interno del quale nascere, crescere e vivere7. Secondo Hegel questa sfera non si presenta di fronte all’uomo con i caratteri dell’ambiente estraneo e ostile ma al contrario con i tratti dell’ambiente familiare, «naturale» appunto, cioè non imposto. Per questo motivo quel prolungarsi della natura all’interno dello spirito non viene da lui inteso come una naturalizzazione dell’umano. Della natura esso mantiene solo l’elemento dell’oggettività perché la sua sostanza vera è rappresentata dallo spirituale ed è questo tratto quello che consente all’individuo, allo spirito soggettivo, di trovarsi qui «a casa propria». Per Hegel la seconda natura è addirittura superiore alla prima perché all’elemento del sussistere oggettivo essa aggiunge quello della spiritualità, dell’autoconsapevolezza, dell’essere presso di sé. Dunque lungi dal costituire oggetto di critica la seconda natura rappresenta per lui un grado ancora superiore nel cammino di autorealizzazione dello spirito. Con Adorno (ma il processo comincia già a partire da Lukács) le cose stanno in maniera radicalmente diversa. L’imporsi di una seconda natura non è per lui l’affermarsi della libertà dello spirito nella sfera dell’esteriorità ma è il prolungamento della necessità naturale anche all’interno della sfera spirituale, il rinnovarsi della dipendenza dalla coattività biologica. Invece che rappresentare un progresso sulla via dell’emancipazione il costituirsi di una seconda natura significa un degrado rispetto alle stesse condizioni naturali perché ciò che si impone è la «natura inconciliata ed estraniata a se stessa»8. Adorno dunque capovolge Hegel: proprio perché la libertà è diventata seconda natura essa si rovescia in illibertà e coazione. 110

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Lo spirito come seconda natura è la negazione dello spirito, e lo è tanto più, quanto più la sua autocoscienza non si accorge della sua cattiva naturalità. Ciò si compie tramite Hegel. Il suo spirito universale è l’ideologia della storia naturale. Egli la chiama spirito universale grazie alla sua violenza. Il dominio diventa assoluto, viene proiettato anche sull’essere che qui sarebbe spirito.9

Adorno svela come utopistica e ideologica la pretesa idealistica hegeliana di una sovranità dello spirito sulla natura. Nella seconda natura non è lo spirito ad imporsi: esso non può candidamente affermare di trovarsi a casa propria. In realtà è a casa d’altri, è controllato da altro, è dominato dalle forze naturali che si sono trasformate in ragione, società e storia. 3. In questo contesto si tratta di ripensare daccapo l’idea di libertà. Soprattutto bisogna evitare di pensarla come contrapposta alla natura: si ripeterebbe l’errore dell’illuminismo che, per sfuggire alla naturalità, finisce per riproporre coazione e dominio, cioè nuovamente naturalità. Il cammino opposto è quello che invece di contrapporsi alla natura cerca di scoprire la naturalità immanente alla stessa libertà, che ne mostra le radici corporee e sensibili. Non si tratta di un’alternativa astratta a Kant ma di un suo completamento. La sua idea di libertà va integrata con quello che Adorno chiama «l’elemento aggiuntivo» (das Hinzutretende). La prassi vera, modello di quelle azioni che potrebbero soddisfare l’idea di libertà, ha certo bisogno della piena coscienza teorica. (…) Ma la prassi ha bisogno anche d’altro che non si esaurisca nella coscienza, del corporeo che è razionalmente mediato e qualitativamente diverso dalla ragione. I due fenomeni non vengono affatto esperiti separatamente.10

Kant ha intuito tutto ciò. Egli ha infatti introdotto il concetto di spontaneità per cercare di spiegare il fenomeno della libertà e per mostrare come quest’ultima possa sottrarsi alla predeterminazione. E tuttavia egli ha immediatamente occultato la sua scoperta depotenziandone la portata e riconducendo daccapo quella spontaneità a una prestazione della coscienza, a qualcosa di spirituale. Contro Kant Adorno tiene invece fermo il momento corporeo, somatico, biologico della libertà. Se tutto fosse ridotto a razionalità categoriale non ci sarebbe libertà ma solo necessità logica. Proprio il radicamento della libertà nella natura è invece la garanzia dell’irri111

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ducibilità della libertà al concetto e al pensiero d’identità. La natura, lungi dal costituire l’antitesi della libertà e il suo limite inoltrepassabile, costituisce invece per essa una sorta di riparo, la migliore garanzia dall’intromissione del concetto, la condizione perché essa possa esplicarsi libera dalla coazione identitaria. Adorno introduce qui un concetto di natura diverso rispetto a quello che era sotto gli occhi di Kant. Per lui la natura non è quella delle scienze fisico-matematiche, quella regolamentata da leggi universali e dalla necessità logica, ma piuttosto ciò che è indisponibile al dominio del concetto, ciò che si sottrae all’identità. È in questa naturalità e corporeità che vive e si propone un pezzo di non-identità. Noi dobbiamo la nostra libertà alla resistenza che il non-identico oppone nei confronti del carattere coattivo della nostra stessa soggettività. Siamo tanto più liberi quanto più sappiamo resistere a quella logica identitaria che si propone di colonizzare la natura interna e di reprimere la nostra libertà naturale. In altri termini: la nostra corporeità naturale è la migliore garanzia per la realizzazione della nostra libertà. Ciò spiega le celebri parole con cui Adorno conclude la sua trattazione della libertà: Nel frattempo al singolo non resta altra moralità che ciò che la teoria morale kantiana, che ha per gli animali inclinazione ma non rispetto, non fa che disprezzare: cercare di vivere in modo da poter credere di essere stato un buon animale.11

Quali siano le implicazioni di questo radicamento della libertà nella natura lo vedremo in conclusione. 4. Adorno è ben attento a non cadere nell’estremo opposto dell’esaltazione della corporeità o della spontaneità naturale degli istinti. Il suo concetto di libertà non si ispira né all’idea di una liberazione incontrollata delle pulsioni né a quella di un azionismo cieco che cancella nella prassi ogni momento di riflessione razionale. «Il decisionismo, che cancella la ragione passando all’azione, la consegna all’automatismo del dominio: la libertà irriflessa, che il decisionismo si arroga, diventa schiava dell’illibertà totale»12. La rivalutazione del lato naturale, corporeo, spontaneo non significa la riduzione della libertà ad una sorta di spontaneismo inconsapevole. Si tratta allora di riconoscere due lati della libertà ammettendo la necessità di entrambi. Essa non può essere assegnata semplice112

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mente né alla non-identità della natura indistinta né all’identità della coscienza. Solo qualora uno si comporti come un io, non solo reattivamente, il suo comportamento può dirsi in certo modo libero. Eppure sarebbe altrettanto libero il non domato dall’io quale principio di ogni determinazione, ciò che all’io, come nella filosofia morale kantiana, sembra non libero, e che fino a oggi effettivamente è stato tale.13

Pensare la libertà significa esser posti di fronte a un’antinomia, a una dialettica nella quale la verità della cosa viene assegnata a due momenti che sembrano escludersi l’uno con l’altro e nella quale la posizione dell’uno si contrappone radicalmente alla posizione dell’altro. La libertà si presenta come lacerata da una contraddizione che la costituisce e dalla quale sembra non poter uscire. La parola torna allora di nuovo a Kant, il quale aveva perfettamente intuito il carattere antinomico del pensiero della libertà, mostrando la coesistenza contraddittoria di libertà e determinismo per qualunque pensiero che voglia stabilire l’essenza ultima del mondo: noi siamo liberi e necessitati, sensibili e intelligibili, naturali e al di là della natura. La contraddizione di libertà e determinismo non è una delle tante posizioni teoriche dogmatiche e scettiche, come vorrebbe l’autocomprensione della critica della ragione, bensì una contraddizione dell’esperienza personale dei soggetti, ora liberi, ora non liberi.14

Ma la posizione kantiana sulle antinomie della ragione può essere letta in due modi. Per un verso Kant insiste sulla inevitabilità della contraddizione: la dialettica trascendentale «sviluppa sia la tesi che l’antitesi rispettivamente senza contraddizioni interne. Pertanto non liquida comodamente l’antitetica, bensì intende dimostrarne l’inevitabilità».15 Seguendo Kant in questa prima versione la posizione dell’antitetica dovrebbe essere assunta in tutta la sua inevitabilità e dunque necessariamente nella sua inconfutabile verità. Per un altro verso Kant ritiene però che quella contraddizione sia solo l’esito di un errore metodologico, l’uso improprio delle categorie al di fuori dell’esperienza sensibile: «Kant insiste sulla necessità della contraddizione e al contempo tura la falla, facendo sparire quella necessità che proviene dalla natura della ragione, a maggior onore di essa, spiegandola semplicemente con un uso fallace, ma 113

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correggibile dei concetti».16 In questo contesto la contraddizione non apparterrebbe alla natura dell’oggetto ma semplicemente al modo errato della nostra rappresentazione. Quell’oggetto è semplicemente non rappresentabile, non è un oggetto di conoscenza e ogni pretesa di determinazione teoretica della libertà finisce per riprodurre quell’antitetica. La dialettica trascendentale è l’esito inevitabile di ogni conoscenza che pretenda di stabilire concettualmente l’essenza libera o necessaria del mondo. Di fronte ad essa il pensiero deve arretrare e limitarsi al terreno sicuro dell’esperienza sensibile dove non sorgono contraddizioni. Adorno non può seguire Kant in questa conclusione adialettica. Il «blocco» kantiano nei confronti della conoscenza metafisica manifesta quello che egli ritiene «il lato repressivo del criticismo»17, una sorta di proibizione «terroristica» che «porta al divieto di pensare in assoluto»18. Perciò, dopo aver riconsegnato la parola a Kant, Adorno torna nuovamente a criticarne gli esiti facendo propria la posizione di Hegel. Com’è noto la dialettica trascendentale è uno di quegli aspetti della filosofia kantiana che Hegel ha sempre salutato come geniali e innovativi19. E il motivo sta proprio nel riconoscimento della inevitabilità e necessità di quel contraddirsi. Lungi dal seguire Kant nel rifiuto di un uso non-empirico delle categorie Hegel non ritiene che quelle contraddizioni siano la conseguenza di un cattivo impiego dell’intelletto ma appartengano alla natura del pensare, che dunque non deve arretrare di fronte al manifestarsi della contraddizione. Pensare l’assoluto significa infatti determinarlo, ricondurlo all’interno di categorie, cioè limitarlo e finitizzarlo. Ma ciò comporta inevitabilmente il contraddirsi di quei pensieri data l’inadeguatezza della categoria finita di fronte all’incondizionato e all’infinito. L’assoluto può (e deve) essere pensato nella contraddizione: questa la trasformazione hegeliana della dialettica trascendentale. Un assoluto privo di contraddizioni sarebbe un assolutamente indeterminato, un astratto, e dunque, daccapo, un finito, un limitato. La contraddizione anche qui assolve perfettamente al suo duplice compito: quello di confutare la finitezza e inadeguatezza delle categorie logiche e al tempo stesso quello di mostrare la necessaria essenza contraddittoria del vero. Proprio perché l’assoluto è unità di finito e infinito, unità di categorie intellettuali e incondizionatezza, esso non può che mostrarsi nella contraddizione e il suo non può che essere un necessario determinarsi contraddittorio. Adorno concorda con Hegel su questo punto ritenendo che la 114

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contraddizione non possa più essere ritenuta semplicemente un errore soggettivo: «Da Hegel in poi ciò non è più sostenibile. La contraddizione potrebbe risiedere nella cosa, non è da imputare sin dall’inizio al metodo»20. Ciò rimette in gioco l’antitetica della libertà, conferendole lo status più adeguato, quella di essere l’unico pensiero in grado di dischiuderne la verità. La libertà è sia identità sia non-identità, così come i soggetti sono liberi sia in quanto consapevolmente identici con se stessi sia in quanto naturalisticamente sottratti agli imperativi dell’identità. La libertà e il carattere intelligibile sono affini sia all’identità che alla nonidentità, senza lasciarsi registrare clare et distincte dall’una o dall’altra parte. I soggetti sono liberi secondo il modello kantiano nella misura in cui sono coscienti di sé, identici con sé; e in questa identità sono di nuovo anche non liberi nella misura in cui sottostanno alla sua coazione e la perpetuano. Essi sono non liberi in quanto natura diffusa, non identica, e tuttavia in quanto tale sono liberi, perché nelle pulsioni che li sopraffanno – e cos’altro è la non-identità del soggetto con sé? – si liberano anche del carattere coattivo dell’identità.21

Kant assegna la libertà all’identità del soggetto con sé e la non-libertà alla non-identità, al suo esser sottoposto alla natura e alle pulsioni. In realtà nell’identità con sé si nasconde anche l’illibertà, la sottomissione alla coattività, mentre nella non-identità, nell’esser sopraffatti dalle emozioni si mostra parimenti l’emancipazione dal carattere coatto dell’identità. L’approccio kantiano al concetto di libertà sviluppato nella Critica della ragion pratica, che aggirando la determinazione teoretica di quel concetto lo riproponeva sotto forma di esperienza pratica, non consente – secondo Adorno – di evitare l’antinomia. Questa si ripropone non più come conseguenza di un falso uso dell’intelletto bensì come necessaria esperienza dialettica della libertà. 5. La questione della libertà va inquadrata nel contesto complessivo della dialettica trascendentale kantiana e del valore da attribuire alle antinomie che la caratterizzano. Nel conflitto fra Kant e Hegel intorno al significato della contraddizione sembra che Adorno intenda collocarsi dalla parte di Hegel rivendicando la natura oggettiva (e non meramente soggettiva) della contraddizione. In realtà la sua posizione è più articolata e complessa e riguarda più in generale la collocazione della sua dialettica negativa nei confronti di quella hegeliana. 115

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Kant ha chiamato la dialettica trascendentale una logica dell’apparenza (Logik des Scheins): la dottrina delle contraddizioni in cui s’impiglia necessariamente (zwangsläufig) ogni trattazione del trascendente come positivamente conoscibile. Il suo verdetto non è superato dallo sforzo di Hegel di rivendicare la logica dell’apparenza come quella della verità22.

Se Adorno condivide con Hegel il carattere oggettivo della contraddizione non è però disposto ad attribuire ad essa il carattere della verità. Resta fermo infatti quello che aveva dichiarato Kant, anche se in un modo più attenuato, vale a dire che nella contraddizione permane un elemento di apparenza (Schein)23. Per Adorno la contraddizione rimane sempre qualcosa di falso e non può mai essere ritenuta hegelianamente come la verità ultima della cosa: «La contraddizione non è ciò in cui l’idealismo assoluto di Hegel dovette inevitabilmente trasfigurarla: un essenziale eracliteo. Essa è index della non verità dell’identità, del non assorbimento del concettualizzato nel concetto»24. La dialettica è pur sempre il risultato del pensiero identificante e a quello rimane inevitabilmente legata: «pertanto resta anch’essa falsa, logico-identitaria, lo stesso contro cui viene pensata»25. E tuttavia «apparenza» non significa per Adorno inganno. Essa ha infatti il senso del rinviare ad altro, di mostrare ciò che sta al di là di essa e di cui è appunto l’apparenza. Si caratterizza perciò come una sorta di manifestazione, per quanto inadeguata e apparente, del vero. Non c’è luce sugli uomini e le cose che non sia un riverbero della trascendenza. È incancellabile dalla resistenza al mondo funzionale dello scambio quella dell’occhio, che non vuole che i colori del mondo sbiadiscano. Nell’apparenza (Schein) è promesso il senza apparenza (das Scheinlose)26.

Nelle contraddizioni dell’identico non c’è solo l’attestazione della falsità del pensiero identificante ma si mostra – come in filigrana – la verità del non-identico. Il corso del mondo non è assolutamente chiuso, nemmeno è l’assoluta disperazione; lo è piuttosto la sua chiusura. Per quanto sia caduca in esso ogni traccia dell’Altro; per quanto ogni felicità sia sfigurata dalla sua revocabilità, l’ente viene però permeato in quelle fratture che smentiscono l’identità dalle promesse mai mantenute di quell’Altro.27

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Certo le promesse dell’Altro non sono mantenute. Ma ciò non significa che esse siano false, meramente «parventi». Quello che viene meno è la loro realizzazione (sarebbe il compiersi dell’utopia) non la loro verità. Questa si manifesta in ogni pezzo di dialettica, in ogni frattura che smentisce l’identità, in ogni contraddizione della ratio. Ciò vale anche per la dialettica della libertà. Da un lato essa è la contraddizione in cui ogni definizione della libertà finisce inevitabilmente per risolversi, è cioè la confutazione di ogni presunta concettualità definita e conclusiva sulla natura della libertà. Dall’altro lato in essa traspare una verità più profonda, ovvero quella solidarietà di libertà e natura che paradossalmente radica nella materialità del corpo l’anima intelligibile della libertà. 6. Nel suo intervento alla Adorno-Konferenz del 2003 a Francoforte, J. Habermas ha introdotto un ulteriore approfondimento di questa connessione adorniana fra libertà e natura. Essa indicherebbe non solo l’intreccio con gli elementi somatici ma con l’insieme di tutto ciò che caratterizza l’individualità: il carattere, i piani di vita, gli ideali etici, la propria biografia. Ma chi è veramente il Sé a cui si riferisce l’autoattribuzione delle azioni di cui mi sento autore? A questa domanda Adorno risponde mettendo in discussione il concetto kantiano di libertà intelligibile e facendo del mio corpo vivente e della mia storia-di-vita il comune «punto di riferimento» delle azioni a me attribuite.28

La propria identità non è riducibile alla coscienza ma è tutt’uno col proprio corpo, con la propria storia, con i propri progetti di vita29. Ne deriva che la libertà dell’individuo è la capacità di essere se stesso, con tutti quegli elementi che lo accompagnano. Il processo di identificazione con se stesso è costituito infatti da una progressiva assunzione come propri di quegli elementi naturali e sociali che l’individuo si trova casualmente assegnati e che egli rielabora come costituivi della sua identità e individualità insostituibile. L’aver a che fare con un corpo naturale, con un carattere individuale e con una storia personale non creati dalla propria volontà non è dunque un limite per la propria libertà. La consapevolezza della mia libertà è indisgiungibile dalla mia identificazione con tutto ciò. In altri termini: la natura non è un impedimento ma una condizione per la coscienza della libertà individuale. Essa non può essere 117

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esclusa da ciò che costituisce la mia libertà ma ne fa parte a tutti gli effetti. Astrarne significherebbe non essere più se stessi e quindi mettere in discussione il sentimento della propria autonomia e insostituibilità. Io sono libero perché sento che dipendo dalla mia natura interna: le sue pulsioni, i suoi istinti, le sue reazioni sono le mie e di nessun altro. La dipendenza dal mio corpo non compromette la consapevolezza della mia libertà, che invece sarebbe messa in discussione dalla intromissione di una volontà esterna su questa stessa natura. Altrettanto poco egli si sente dipendere dalla propria natura soggettiva, dal momento che, nella spontaneità del suo agire, egli si percepisce identico ad essa, ossia identico al corpo vivente ch’egli effettivamente è. Facendo tutt’uno con questo corpo, la struttura condizionante della natura interna viene da lui percepita come l’insieme delle condizioni che rendono possibile la sua libertà30.

Ciò ha una conseguenza decisiva per ogni teoria critica della società, una conseguenza che riconferma il profondo radicarsi della libertà nella natura. Condizione della propria libertà è l’indisponibilità del proprio corpo, il suo sottrarsi a qualunque volontà che pretenda di determinarlo, di costruirlo, di manipolarlo contro la volontà e il consenso di quello specifico individuo. La sottomissione della natura alla volontà d’altri finisce per compromettere proprio quella libertà che in quella natura ha il suo radicamento.31 Libertà e dominio non hanno a che vedere esclusivamente con le relazioni intersoggettive ma hanno una stretta dipendenza nei confronti delle radici naturali della nostra individualità. L’intervento sulla natura, in particolare la manipolazione della natura interna, finisce per intaccare la base della libertà individuale, di quella libera accettazione di noi stessi che è all’origine della nostra identità. Ne deriva che l’indisponibilità della natura è condizione per il mantenimento e il realizzarsi della libertà. Torna vera, sessant’anni dopo, l’analisi della Dialettica dell’illuminismo e la sua diagnosi sulla reciproca implicazione di dominio sulla natura e dominio sull’uomo. Torna vera in un senso nuovo e imprevisto, ma certamente adeguato alle ultime sfide del nostro tempo.

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NOTE 1 Il riferimento più preciso e diretto è quello esposto da F. JAMESON in Late Marxism. Adorno, or the Persistence of the Dialectic, London 1990, trad. it. Tardo marxismo. Adorno, il postmoderno e la dialettica, Roma 1994. A dire il vero Jameson non propone la corrispondenza più plausibile, quella che riconduce il modello «libertà» all’idea dell’anima, il modello «spirito del mondo» all’idea kantiana di mondo e il modello «metafisica» all’idea di Dio ma fa corrispondere la libertà all’idea del mondo, la trattazione del Weltgeist all’idea di Dio e le meditazioni sulla metafisica all’idea dell’anima. 2 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt am Main 1966-67, poi in TH. W. ADORNO, Gesammelte Schriften, Band 6, Frankfurt am Main 1973, p. 293, trad. it. Dialettica negativa, Torino 2004, p. 266 (i riferimenti sono alla nuova traduzione italiana di P. Lauro, anche se spesso ce ne siamo discostati, modificandola o preferendo talvolta le soluzioni adottate dalla vecchia traduzione di C.A. Donolo, uscita presso Einaudi nel 1970). 3 Ibid. 4 Fin dalla Dialettica dell’Illuminismo il tema è messo in evidenza da Horkheimer e Adorno che ne fanno una sorta di anticipazione del metodo della negazione determinata, della concezione secondo cui la verità non può essere affermata positivamente ma solo attraverso la negazione di ogni pretesa verità: «La religione ebraica non ammette parola che possa dare conforto alla disperazione di tutto ciò che è mortale. Essa annette una speranza solo al divieto di invocare il falso come Dio (das Falsche als Gott), il finito come l’infinito, la menzogna come verità. Pegno di salvezza è l’astenersi da ogni fede che si sostituisca ad essa; la conoscenza è la denuncia dell’illusione» (M. HORKHEIMER, TH. W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung, Amsterdam 1947, poi in TH. W. ADORNO, Gesammelte Schriften, Band 3, Frankfurt am Main 1981, p. 40, trad. it. Dialettica dell’illuminismo, Torino 1966, p. 32). L’unica possibilità di preservare Dio nella sua alterità è quella che proibisce di scambiarlo con i nostri nomi e le nostre immagini. Possiamo ancora sperare proprio perché ci è proibito farci un’immagine positiva della speranza, ci è vietato falsificarla usando le nostre categorie. 5 TH. W. ADORNO, Stichworte. Kritische Modelle II, Frankfurt am Main 1969, ora in Gesammelte Schriften, Band 10/2, Frankfurt am Main 1977, p. 752, trad. it. Parole chiave. Modelli critici, Milano 1970, p. 225. In una nota nella Dialettica negativa Adorno ammette la plausibilità della critica idealistica alla cosa in sé secondo cui «con un concetto del quale non si può dire assolutamente nulla non si dovrebbe operare, esso sarebbe uguale al nulla, il nulla sarebbe anche il suo contenuto». E tuttavia «ci sarebbe qualcosa da ridire contro la plausibile critica antikantiana di Fichte e di Hegel» perché in quel «presunto errore» sopravvivrebbe in Kant «la memoria del momento ostico alla logica deduttiva, la non identità». Quella logica che pensava di far fuori la cosa in sé non potrebbe sussistere senza un momento a essa irriducibile. Per questo motivo Kant «che certo non ignorava la coerenza dei suoi critici» ha fatto valere contro la presunzione della logica deduttiva quel momento che di essa era condizione e «ha preferito farsi passare per dogmatico, anziché assolutizzare l’identità, dal cui senso proprio, come Hegel comprese ben presto, è inalienabile la relazione a un non identico». Perciò Adorno conclude: «La costruzione della cosa in sé e del carattere intelligibile è quella di un non identico quale condizione della possibilità d’identificazione, ma anche quella di ciò che sfugge all’identificazione categoriale» (TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 286 nota, trad. it. p. 259). 6 Ivi, p. 226, trad. it. p. 203. 7 «Il sistema del diritto è il regno della libertà realizzata, il mondo dello spirito

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prodotto movendo dallo spirito stesso, come una seconda natura» (G.W.F. HEGEL, Grundlinien der Philosophie des Rechts, hrg. von J. Hoffmeister, Hamburg 1955, § 4, trad. it. Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini, Roma-Bari 1999, p. 27). 8 M. HORKHEIMER, TH. W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung, cit. p. 56, trad. it. p. 47. 9 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 350, trad. it. p. 320. 10 Ivi, p. 228, trad. it. p. 205. 11 Ivi, p. 294, trad. it. p. 267. 12 Ivi, p. 228, trad. it. p. 205. 13 Ivi, p. 222, trad. it. p. 199. 14 Ivi, p. 294, trad. it. p. 266. 15 Ivi, p. 238, trad. it. p. 214. 16 Ivi, p. 244, trad. it. p. 220. 17 Ivi, p. 376, trad. it. p. 344. Poco oltre Adorno qualifica il sistema kantiano come «un sistema di segnali di stop» (ivi, p. 380, trad. it. p. 348). 18 Ivi, p. 381, trad. it. p. 349. 19 «Kant pose la dialettica più in alto, ed è questo uno dei suoi maggiori meriti. Egli le tolse quell’apparenza di arbitrio che ha secondo l’ordinario modo di rappresentarsela, e la mostrò come un’opera necessaria della ragione. (…) Le esposizioni dialettiche di Kant nelle antinomie della ragion pura non meritano per vero dire gran lode, a considerarle in particolare, come più ampiamente si farà nel seguito di quest’opera; ma l’idea generale, che Kant pose per base e fece valere, è l’oggettività dell’apparenza, e la necessità della contraddizione appartenente alla natura delle determinazioni del pensiero» (G.W.F. HEGEL, Wissenschaft der Logik. Erster Band. Die Lehre vom Sein [1832], in Gesammelte Werke, Band 21, a cura di F. Hogemann e W. Jaeschke, Hamburg 1984, p. 40, trad. it. Scienza della logica, Bari 1925 (1968), vol. I, p. 38). 20 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 238, trad. it. p. 214. 21 Ivi, p. 294, trad. it. pp. 266-267, 22 Ivi, pp. 385-386, trad. it. p. 353. 23 Seguiamo qui la scelta dei traduttori della Dialettica negativa di rendere Schein con «apparenza» anche se le edizioni più recenti della Critica della ragion pura preferiscono tradurre più correttamente lo Schein kantiano con «parvenza». Come vedremo tra poco Adorno intende conferire un significato positivo al concetto di Schein (un’apparenza da cui traspare una verità che sta al di là di essa) che mi sembra andar perduto nella parola italiana «parvenza» e che invece permane nel concetto di «apparenza». 24 Ivi, p. 17, trad. it. p. 7. 25 Ivi, p. 150, trad. it. p. 134. 26 Ivi, pp. 396-397, trad. it. pp. 362-363. 27 Ivi, p. 396, trad. it. p. 362. 28 J. HABERMAS, «Ich selber bin ja ein Stück Natur». – Adorno über die Naturverflochtenheit der Vernunft. Überlegungen zum Verhältnis von Freiheit und Unverfügbarkeit, in A. Honneth (a cura), Dialektik der Freiheit. Frankfurter AdornoKonferenz 2003, Frankfurt am Main 2005, p. 18, trad. it. «Anch’io sono un pezzo di natura». – Adorno sull’intreccio di ragione e natura. Riflessioni sul rapporto tra libertà e indisponibilità, in M. FERRARI, A. VENTURELLI (a cura), Th. W. Adorno. La ricezione di un maestro discusso, Firenze 2005, p. 232. 29 «Ai fini di quell’autoriferimento riflessivo che mi individua per l’autore delle mie azioni, l’assumere quale centro della mia esistenza l’esperienza del mio corpo vivente rappresenta una condizione necessaria ma non ancora sufficiente. Il corpo organico rappresenta certamente il sostrato organico nella vita di una persona che fisicamente non

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può essere rappresentata (unvertretbar) da nessun’altra, una persona tuttavia che solo nello sviluppo della sua storia-di-vita acquista i tratti di un individuo che non può essere confuso con nessun altro (unverwechselbar)» (ivi, p. 19, trad. it. p. 233). 30 Ivi, p. 21, trad. it. p. 235. 31 Si vedano le tesi sviluppate da J. HABERMAS nel suo Die Zukunft der menschlichen Natur. Auf dem Wege zu einer liberalen Eugenik?, Frankfurt am Main 2001, trad. it. Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, a cura di L. Ceppa, Torino 2002.

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“Essere altro da come si è” Libertà riflessiva e pratiche di libertà nel pensiero di Theodor W. Adorno

Vincenzo Rosito

LIBERTÀ E FILOSOFIA MORALE Nell’ultimo paragrafo della sezione di Dialettica negativa intitolata “La libertà. Per la metacritica della ragion pratica”, Adorno annuncia aforisticamente: «Non vi è niente di più prezioso tra gli uomini che la possibilità di essere altro da come si è»1. Questa formula potrebbe sintetizzare il compito della filosofia morale secondo Adorno, essa indica un valore oggettivo, non sostanziale, impostato come azione critica. Se per Adorno non si può parlare di uno o più termini fondanti la filosofia morale, è possibile invece individuarne i compiti e gli specifici campi di indagine. In tal senso, la possibilità di essere altro da come si è indica una dimensione dell’agire umano connotata da una specifica valenza morale. Essa denota una tipologia precisa di esperienza della moralità in quanto dialettica e vivente (lebendig)2. In termini generali si potrebbe dire che il campo dell’esperienza morale è quello della consapevolezza fattuale della critica ovvero lo spazio in cui i soggetti particolari assumono, in maniera vivente, la complessità del reale che li costituisce, e ne avvertono tutta la spinta alla trasformazione. Ciò che manca alla condizione umana oggettiva rappresenta l’autentico interesse della filosofia morale, esso indica quel “non-identico” che il soggetto sperimenta nella riflessione sulla costituzione della propria soggettività e che avverte, nell’ambito dell’agire morale, come ciò che è irrealizzato e non ancora esperito. In che senso si può parlare, secondo Adorno, di uno statuto autonomo della Moralphilosophie? Nel suo pensiero è rintracciabile un unico oggetto, o interesse, della filosofia, sia essa riflessione teoretica, morale o estetica. Esso consiste nella riflessione sull’aconcettuale, sull’individuale e sul particolare, più precisamente nel rapporto che questi termini hanno con i corrispettivi opposti ovvero con il concettuale, l’universale e il generale. 123

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Benché, questo sia il cuore del sapere filosofico, Adorno imposta i suoi scritti e le sue lezioni riguardanti la Moralphilosophie come variazioni su un unico tema: la libertà. Una giustificazione di tale scelta è rintracciabile nel passaggio di una lezione del corso: Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit tenuto all’università di Francoforte nel semestre invernale 1964-65. Dice Adorno: «La libertà infatti è nient’altro che la quintessenza della resistenza proprio contro quel bando (Bann)»3. In tono quasi programmatico egli prosegue: «Se alla fine sarò veramente entrato nella dialettica del carattere intellegibile e della libertà della volontà, io spero, e prometto di dimostrarvi che il senso positivo della libertà sta proprio nella potenzialità, nella possibilità di infrangere il bando o di sfuggirgli»4. Introducendo il concetto di libertà, Adorno lo associa all’idea di resistenza (Widerstand), termine che suggerisce letteralmente qualcosa che sta contro. L’essenza della libertà quindi consiste nello stare contro il bando, ovvero contro l’anatema gettato sul particolare da parte del soggetto razionale identificante. La sola esperienza di libertà possibile è dunque indissolubilmente legata alla presa di coscienza, da parte dei singoli soggetti, di essere Gebannten ovvero coloro che stanno sotto il bando. La libertà si rivela dialetticamente, sin dall’inizio, come ciò che si pone contro, negazione determinata dell’umanità messa al bando, negazione determinata dell’illibertà degli individui. Secondo la dialettica adorniana, la libertà si costituisce come negazione del non vero, essa non è mai assolutizzabile poiché è definita attraverso ciò cui oppone resistenza. La libertà si rivela quindi un termine necessario all’interno di qualunque procedimento dialettico negativo, essa non è semplicemente un elemento esterno alla dialettica identitaria, non ha funzione strumentale rispetto alla giustificazione della resistenza, poiché essa stessa è opposizione e negazione. La libertà quindi non è strumento abilitante la conoscenza e l’azione ma di per sé conoscenza e azione. Nelle pagine che seguiranno cercherò di dimostrare che la dialettica della libertà rappresenta l’interesse primario della riflessione filosofica adorniana e che nell’ambito ristretto della filosofia morale essa non occupa soltanto un ruolo funzionale e strumentale rispetto alla possibilità dell’agire morale. L’articolazione dell’illlibertà è il solo compito che spetta alla Moralphilosophie e che la costituisce in quanto sapere filosofico. Prenderò pertanto in considerazione dapprima le critiche di Adorno al modello kantiano della libertà esaminando i concetti di libertà positiva, volontà e carattere intellegibile. 124

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Successivamente cercherò di ricostruire il paradigma adorniano della mimesi in quanto uno dei possibili esempi di come l’analisi filosofico-concettuale coincida con una pratica riflessa di libertà capace di azione pratico-critica. LIBERTÀ POSITIVA Per quanto riguarda le questioni di filosofia morale, Kant rappresenta l’interlocutore principale di Adorno. Il rapporto con la morale kantiana è dominato da una continua tensione critica e polemica rintracciabile soprattutto nella sezione di Dialettica Negativa dedicata alla Metacritica della ragion pratica. Per Adorno non è di primaria importanza criticare le tesi di Kant al fine di negarne la tenuta concettuale e pratica, egli si concentra invece sul tentativo di riformulare un paradigma nel quale sia ancora possibile pensare filosoficamente la libertà. «Se la libertà viene posta positivamente, come un dato o un inevitabile all’interno del dato, diventa immediatamente il non libero»5. In questa frase Adorno riassume una delle sue critiche al concetto kantiano di libertà positivamente inteso. Il paradosso consiste nel fatto che la libertà vista in positivo, ovvero scissa da ogni legame dialettico con il suo contrario, assume tratti repressivi e ossessivi tipici dell’illibertà stessa: «L’enfasi sociale sulla libertà come esistente si coalizza con la repressione non attenuata»6. Quanto più si delimita una sfera autonoma e assolutizzata per definire sostanzialmente la libertà, tanto più si deve far ricorso a concetti propri della sfera legislativo-coercitiva (legge, rispetto, dovere) tipici di una logica deterministica e necessitante. Per Kant l’assunto di una libertà positiva è finalizzato principalmente alla dimostrazione che il soggetto razionale è di per sé libero nell’agire pratico, ovvero la sua stessa volontà può essere considerata intrinsecamente libera in quanto egli non sottostà che alle leggi dell’agire razionale puro di per sé pratico. Agli occhi di Adorno, invece, positivizzare kantianamente il concetto di libertà non significa giustificare o garantire l’agire libero dei soggetti empirici, per questi infatti «la libertà è concepibile soltanto nella negazione determinata della corrispondente figura concreta dell’illibertà»7. Per i soggetti empiricamente considerati vedere in positivo la libertà significa immaginarsela come una finzione, assumerla ipoteticamente come se avesse delle 125

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caratteristiche diverse dai tratti concreti dell’illibertà del reale. Concepire quindi una libertà positiva significa ignorare le prerogative del soggetto esistente per il quale il reale non-libero è l’unico dato esperibile da cui, attraverso la negazione determinata di esso, si possa trarre un qualche concetto di libertà. La prima critica che Adorno muove a Kant è riassumibile nel fatto che la libertà positiva si coalizza con la repressione ignorando i tratti sfigurati di una realtà che si sperimenta solo come articolazione dell’illibertà. Un’ulteriore critica polemizza invece contro la visione kantiana della libertà ridotta esclusivamente all’accezione di volontà libera. Quest’ultima si comprime nella volontà autonoma del soggetto razionale che diventa capace di produrre liberamente gli oggetti della sua volontà. Se nella prima critica l’oggetto della polemica è la libertà assolutizzata (nell’accezione etimologica del termine: ab-soluta, sciolta e svincolata da ogni legame col suo contrario), nella seconda Adorno si scaglia contro una libertà interiorizzata, polemizzando con il processo di interiorizzazione (Verinnerlichung) rinvenibile nel passaggio dal paradigma della libertà di volere (Willensfreiheit) a quello kantiano della volontà libera. La libertà, positivamente intesa, deve comunque essere definita tramite un elemento costitutivo evidente che ne riveli il valore, deve cioè essere espressa da una proposizione che la identifichi con qualcosa e che la definisca nella sua sostanza. Adorno sostiene che Kant è sfuggito all’evidente debolezza filosofica di questa operazione tramite l’istanza di formalismo, dominante nel suo pensiero. Se Kant però evita giustamente di identificare con un certo e preciso oggetto la libertà, secondo Adorno egli la riduce alla sfera della volontà libera. Kant non ha quindi mostrato una concezione di libertà attraverso un valore positivo ed evidente ma nello stesso tempo l’ha definita, circoscrivendone i limiti nel campo della razionalità pura di per sé pratica: «per Kant la libertà sfocia nell’invariante uguaglianza a se stessa della ragione anche nella sfera pratica»8. L’origine di questo processo riduttivo viene ricondotto da Adorno non solo alla kantiana razionalità pura di per sé pratica, ma soprattutto al processo che, nell’intera storia della filosofia occidentale, ha portato ad essa. V’è dunque un percorso che conduce al paradigma kantiano della libertà intesa come coincidenza riflessiva della ragione con se stessa. Le articolazioni storiche di tale sviluppo sono parti del processo di interiorizzazione su cui Adorno concentra maggiormente il suo interesse. Se in un primo momento al con126

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cetto di libertà positiva si contestava l’idea di una libertà a-dialettica coincidente col regno autonomo della ragion pratica kantiana, ora Adorno sembra interessarsi all’inevitabile storia filosofica dell’interiorizzazione che ha condotto ad essa. Questa ricostruzione storico- concettuale non descrive soltanto una semplice regressione nella sfera di una soggettività chiusa in se stessa e autonomamente capace di limitare al proprio regno interiore la sfera e gli oggetti dell’agire morale. L’azione interiorizzante del pensiero dischiude anche la sua intima verità dialettica, ossia la reciproca definizione del momento interno tramite quello esterno. Secondo Adorno questo rapporto di assoluta interdipendenza è alla base di ogni teoria filosofica sulla libertà di volere. Nella storia del pensiero occidentale si è affermato uno sbilanciamento nell’equilibrio tra determinazione interna della volontà e determinazione da parte di elementi o pressioni esterne all’agire, la prima ha infatti assunto il ruolo di indiscussa superiorità e necessità ai fini della definizione dell’azione morale. VOLONTÀ E CAUSALITÀ Nell’esame delle critiche adorniane al concetto kantiano di libertà, quelle incentrate sull’idea di causalità rappresentano un elemento imprescindibile del discorso filosofico sulla libertà di volere. Adorno fornisce innanzitutto una chiara ed esauriente delucidazione terminologica del concetto di volontà in ambito filosofico-morale. Ancora una volta egli mette in guardia da un procedere identificante e adialettico nella precisazione del lessico dal quale si sviluppa l’articolazione del pensiero. La definizione filosofica della volontà è esposta al rischio di non fornirne una determinazione dialettica, e tale rischio si concretizza nel pericolo di una doppia deriva per ciò che il termine volontà indica: da un lato il mito della buona volontà, dall’altro quello dal volontarismo irrazionalistico. Il primo conduce all’identificazione reciproca di volontà e razionalità, facendo scaturire l’istanza etica da una volontà intrinsecamente razionale. La buona volontà è interiormente arricchita della sola determinazione razionale a produrre gli oggetti del proprio agire morale, questa soltanto ha valore morale oggettivo ed è essa stessa garanzia di eticità. Nel caso del puro volontarismo invece, la volontà viene «strappata dalla ragione e dichiarata fine a se stessa […] il momen127

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to irrazionale della volontà condanna ogni moralità per principio alla fallibilità»9. Per Adorno esiste dunque una sola concezione della volontà che abbia giustificazione o garanzia morale, questa consiste nel concetto di una volontà dialetticamente determinata. La volontà non è né un fatto ovvio per la ragione, in quanto naturale emanazione di essa, né un assoluto impulso irrazionale capace di rivelare all’uomo l’ebbrezza di un affrancamento liberante dalla ragione stessa, «Non c’è volontà senza impulsi corporei che indeboliti sopravvivono nell’immaginazione; al contempo però essa s’instaura come unità accentratrice degli impulsi, come quell’istanza che li doma e potenzialmente li nega. Ciò rende necessaria la sua determinazione dialettica»10. Il tema della volontà fornisce ad Adorno la possibilità di entrare nel cuore della sua Metacritica della ragion pratica. Secondo il paradigma kantiano l’esperienza della libertà si riduce alla possibilità di una volontà libera o determinata necessariamente, Adorno intende affrontare tale questione al fine di dimostrare i limiti problematici di questa impostazione. Considerare la libertà della volontà come la posta in gioco nella secolare diatriba tra libertà e determinismo significa sfuggire all’intrinseca determinazione dialettica del concetto di volontà. È necessario quindi attuare un cambiamento di paradigma nella trattazione filosofica della volontà: non più impostarla nei termini antinomici di libertà, da un lato, e di necessità naturale dall’altro, ma spingere l’oggettività, comunque evidente, dell’antinomia kantiana fin dentro il concetto stesso di volontà. Adorno non nega alla logica antinomica il suo valore nella storia del pensiero critico ma tenta di portare ai limiti estremi il potenziale dialettico non sviluppato nella terza antinomia. In tal senso egli non critica in toto l’impostazione kantiana del dilemma etico tra liberà e determinismo ma ne riconosce l’intrinseca intuizione al fine di pensare, oltre Kant, una logica della contraddizione capace di spingersi nel cuore stesso della volontà umana per mostrarne tutta la drammaticità. L’interpretazione adorniana della terza antinomia potrebbe essere così riassunta: la natura stessa della ragione conduce necessariamente all’affermazione della contraddizione antinomica, ovvero, da un lato (tesi) a postulare l’idea di una libertà assoluta o di una causalità esterna a quella secondo le leggi della natura, dall’altro (antitesi) a credere che l’unica forma di causalità pensabile sia quella del mondo naturale e delle sue leggi. Kant stesso si rifiuta di considerare l’antinomia come «un errore evitabile dell’uso della ragione»11, l’idealismo 128

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trascendentale espresso nella gnoseologia della Critica della ragion pura vieterebbe di per sé la possibilità di porre l’identità assoluta della causalità mediante libertà espressa nella tesi. Nonostante ciò Kant indugia sulla necessità della contraddizione e dell’antitetica in quanto provenienti dalla natura stessa della ragione capace di pensare insieme tesi e antitesi, e quindi dalla capacità del soggetto di percepirsi come libero e non libero. In questo punto dell’argomentazione Adorno muove la sua critica principale: Kant tenta di sciogliere l’antinomia ricorrendo alla logica identificante della non-contraddizione. Si potrebbe dire che l’antitesi tra una causalità mediante libertà e una causalità secondo leggi di natura si risolve in una reductio ad hominem dello stesso concetto generale di causalità. Da un lato l’essere razionale considererebbe le proprie azioni dal punto di vista delle leggi naturali, ossia determinate dal mondo sensibile a cui appartiene, dall’altro agirebbe secondo le leggi della ragione in quanto essere intelligibile, generando pertanto azioni positivamente morali. Con questa operazione la volontà viene identificata sostanzialmente con la stessa ragion pura pratica, la causalità sorgerebbe soltanto nella «costrizione soggettiva del pensiero»12. Il problema di Adorno non è dunque verificare se il soggetto morale sia libero o naturalmente determinato nel suo agire pratico ma ricercare disperatamente un concetto di causalità che rifletta in se stesso la complessità del reale socializzato e fondato sulla «dipendenza universale di tutti i momenti da tutti»13. La causalità kantiana è in crisi innanzitutto perché è sterile nei suoi fini pratici, perché non dischiude «oggi alcun regno della libertà»14. Il cardine dell’argomentazione adorniana è rappresentato dal fatto che la causalità, avvertita dal soggetto come intima spontaneità, non è nient’altro che l’idea stessa di causa da esso trovata nella natura e da esso prolungata come dominio sulla natura. La causalità è, «oggettivamente e soggettivamente, il bando della natura dominata»15, ciò significa che l’idea di una spontaneità causale nel principio soggettivo del pensiero sfocia in mitologia ossia non si accorge della sua affinità con la natura reificata alla quale essa si contrappone separandosene. La causalità irriflessa del soggetto trascendentale riproduce quella della natura messa al bando, solo la coscienza riflessa di questa affinità la giustifica moralmente. Adorno, attraverso le sue critiche a Kant, vuole additare una concezione della causalità capace di fornire una giustificazione etica non solo del reale ma soprattutto di se stessa di fronte al reale, più precisamente, di se stessa immersa nel reale ovvero parte integrante di esso. 129

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Adorno propone dunque il passaggio dal binomio libertàdeterminismo al binomio differenza-affinità, ossia causalità irriflessa -causalità riflessa. Potremmo dire che la causalità viene riflessa nel momento in cui il pensiero che la genera attraverso schemi identificanti, scopre di non essere scisso dagli oggetti. La soggettività non vuol sentire parlare di affinità, se ne ritrae perché viene negata dall’affinità, questa negazione però è ciò che essa stessa ha attuato nei confronti degli oggetti che ha dovuto identificare. Solo attraverso la consapevolezza di questo processo, il soggetto morale si scopre simpateticamente affine ad essi. IL CARATTERE INTELLIGIBILE Adorno dedica gli ultimi tre paragrafi della sezione sulla libertà di Dialettica negativa al tema del carattere intelligibile in Kant. Nell’uso corrente del termine, la personalità è stata svuotata di ogni contenuto o riferimento materiale esterno all’autocontrollo del soggetto su se stesso. La personalità diventa così sinonimo di un Io forte, designa connotazioni formali della soggettività come determinatezza, costanza, fortezza; attributi che Adorno non indugia a identificare come valori portanti dell’ethos borghese. Attraverso queste precisazioni, solo in apparenza lessicali, egli fornisce una prima chiave di lettura critica del carattere intelligibile kantiano, in esso infatti si ritrovano le qualità di un Io capace di controllare razionalmente tutti i suoi impulsi, interiormente irrigidito in un’identità personale autonoma e produttiva. Nel carattere intelligibile kantiano non ha più ragion d’essere la scissione tra impulso esterno e spinta interna, la sua qualità principale è infatti l’indistinzione degli impulsi, esso riproduce al suo interno la stessa causalità lineare riscontrata nella natura. Quanto più il carattere intelligibile tenta di liberarsi dalle pulsioni esterne assoggettandole, tanto più ne avverte il bisogno appropriandosene e facendone la struttura intima e immobile della sua stessa natura. In tal senso l’idea di personalità rivela al soggetto stesso che l’antagonismo libertà-illibertà non si struttura solo nel suo rapporto con la realtà esterna ma nella sua stessa articolazione interna, qualora tenti di ridurre la sua essenza ad una specifica personalità. Potremmo ricostruire così l’argomentazione di Adorno: il carattere intelligibile kantiano tenta di garantire, al soggetto trascendentale, la sua libertà rispetto alla necessità naturale, tale libertà coincide 130

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con l’assoluto esser-così del soggetto, con «quel puro essere in sé dell’uomo, privo di ogni contenuto empirico, che viene cercato solo nella propria razionalità»16. La robustezza del carattere intelligibile rivela presto la sua inconsistenza in quanto l’unità personale del puro essere in sé (la ragion pura), su cui esso si costruisce, si scopre in divenire e quindi condizionata. Il carattere intelligibile, nel momento in cui diviene riflettente, ripete in se stesso la dialettica di libertà-illibertà dalla quale cercava di affrancarsi. Esso, nell’atto stesso di eliminare da sé le pulsioni esterne, in quanto altro da sé, non può fare a meno di queste. Il carattere intelligibile riproduce quindi, a livello concettuale, il complesso intreccio dialettico tra libertà e illibertà reale che costituisce lo scenario dell’agire umano nella società. Il carattere intelligibile kantiano rappresenta il momento in cui il soggetto sperimenterebbe la sua libertà nella misura in cui le cose sono fatte solo da lui, esso coincide con la possibilità stessa del soggetto autonomo. Kant continua a dipingerlo come la possibilità di essere ciò che si è, ossia come l’essenza stessa della libertà umana, Adorno ne parla invece partendo dal presupposto che il soggetto è solo immagine sfigurata dell’individuo appartenente alla seconda natura: ciò che il soggetto è, è la sua stessa illibertà. «Che cosa ne è stato di noi»17 sembra sospirare Adorno riecheggiando le parole di Karl Kraus (Was hat die Welt aus mir gemacht). La riflessione filosofica sulla libertà non può non scaturire da un dato negativo ossia da ciò che gli uomini sono diventati nella loro esistenza, dal fatto reale della loro mutilazione. L’essenza dalla quale muove la dialettica negativa adorniana è una realtà capovolta in cui il soggetto non è ancora e il Sé coincide con ciò che di esso ne è stato fatto. Attraverso le sue critiche Adorno vuole proporre un discorso filosofico-pratico sulla libertà che tenga innanzitutto conto di un fatto imprescindibile: il Sé fondante lo stesso ragionamento etico può essere percepito solo come negativo, come un dato sfigurato, carente e limitato. Sostenendo che «il Sé è l’inumano»18, Adorno si scaglia contro un pensiero che sanziona lo stato pervertito della soggettività invece di articolare un processo che indichi nell’essere altro da come si è l’unico valore dell’umano. Secondo questo principio, il carattere intelligibile kantiano cade in errore sanzionando ed elevando un dato positivo a verità statuita della ragione. L’antitesi tra libertà e determinismo non può essere pensata come una dialettica che dà già per scontata una più o meno chiara costituzione del Sé. L’atto autofondante della soggettività è esso stes131

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so dialettica di libertà e illibertà, il Sé instaurantesi come soggetto fonda la libertà e la nega19. UN ESEMPIO DI «PRATICA RIFLESSA DELLA LIBERTÀ»20: IL CONCETTO DI MIMESI Per Adorno la filosofia stessa coincide con una pratica di libertà ossia con un’azione riflessiva e liberante di se stessi e del reale. L’atto del pensiero è dunque un gesto di liberazione da ciò che esso è e di ciò che ha a sé sottomesso. Un tale procedere non permette di distinguere il momento teoretico da quello pratico in quanto l’uso che la filosofia fa del concetto è certo sempre cognitivo ma anche sempre moralmente responsabile verso ciò che non è concetto. L’idea adorniana di libertà può essere quindi considerata una categoria gnoseologica del pensiero, essa infatti non è mai semplice presupposto all’azione autonoma ma consapevolezza e figurazione di ciò che ancora manca ovvero di ciò che è stato privato di qualcosa e che quindi non è libero. Potremmo chiamare dispositivi esperienziali quei modelli formali in cui Adorno intravede le possibili vie d’accesso ad un processo di esperienza e coscienza della libertà negativamente intesa. Essi vanno interpretati come articolazioni strutturali e strutturanti la riflessione stessa, in altre parole, figure di una razionalità riflessa e non esclusivamente identificante. Tra i diversi dispositivi rintracciabili nei testi adorniani mi soffermerò brevemente su quello dell’agire mimetico. La caratteristica che fa della mimesi un concetto tipicamente adorniano è la sua ambivalenza, o meglio la sua struttura dialetticamente duplice. È possibile definire l’azione mimetica come un processo creativo e distruttivo al tempo stesso. Considerando inoltre la sezione di Dialettica dell’illuminismo dedicata agli elementi dell’antisemitismo, è possibile analizzare il concetto adorniano di mimesi leggendolo come uno strumento interpretativo della storia e della realtà. In queste pagine Adorno si addentra nella possibilità di innescare attraverso l’espressione mimetica un atteggiamento conoscitivo e pratico non finalizzato al dominio, ossia capace di anestetizzare le movenze della ragione strumentale e del pensiero identificante. Nel testo appena citato Adorno, tracciando una Urgeschichte der Subjektivität, prende le mosse dalle prime forme di irrigidimento della nascente soggettività. Gli schemi arcaici dell’autoconservazione sono forme di mimesi in quanto strutturano e differenziano il 132

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soggetto adeguandolo e assimilandolo all’immobile natura-ambiente. Ma ciò che è ancora più importante in questo processo è l’incapacità dell’io di controllare le azioni mimetiche della preistoria biologica. Il soggetto si ritrae terrificato dall’indisponibilità sulle sue azioni primordiali e dall’impossibilità di controllarle e governarle. In esse pulsa l’ambivalente vertigine dell’adesione e fusione organica con la natura immobile verso cui il soggetto pur tende. V’è dunque una situazione originaria, non precisamente storica, in cui azioni ubbidienti a stimoli biologici elementari si sottraevano al controllo del soggetto. «L’io che si apprende in queste reazioni, come nell’accapponarsi della pelle, nell’irrigidirsi dei muscoli e degli arti, non è, tuttavia, interamente padrone di esse. Per qualche istante realizzano l’adeguazione all’immobile natura ambiente»21. Questa forma primordiale di irrigidimento è mimetismo. Il processo di civilizzazione e socializzazione non è altro che «anelito verso quella situazione, nella quale c’erano ancora reazioni come l’irrigidimento. Anelito di mimetismo [Sehnsucht nach Mimikry]»22. Questa nostalgia assume però una forma idiosincratica e patologica, la civiltà non è altro che anelito dell’irrigidimento mimetico irriflesso esplicatosi esclusivamente nella forma della sua rimozione nevrotica. Dalla sua prima assimilazione alla natura attraverso il rituale magico fino alla produzione in serie e alla scienza intesa come ripetizione elevata a regolarità accertata e conservata in stereotipi, l’umanità non ha fatto altro che sottostare alla legge della prestazione conservativa, non è mai uscita dalla «costellazione del terrore». La prestazione mimetica, nella sua forma incontrollata, come in quella riflessa e reificata, non ha mai rappresentato un’alternativa alla strutturale precarietà del soggetto ma solo ed esclusivamente uno strumento sempre differenziato e finalizzato a sopportarne il carico. «La mimesi ha la funzione di distanziare il soggetto dalla sua debolezza, mettendo in scena la sua debolezza»23. Il tratto più originale ed efficace del concetto adorniano di mimesi risiede nella capacità dialettica di definire il suo contrario ossia l’idea di autenticità del soggetto. L’autopercezione del Sé infatti, non è mai riducibile allo stagliarsi di una definita autenticità soggettiva in nome della filosofia dell’interiorità e della rivendicazione della priorità del Sé. L’insistenza di Adorno sul concetto di mimesi rappresenta innanzitutto una critica serrata all’idea del soggetto autentico, l’intero aforisma 99 dei Minima moralia può avvalorare questa linea interpretativa: 133

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L’autenticità non è che l’ostinato e caparbio attaccamento alla forma monadica che l’oppressione sociale imprime sugli uomini. Tutto ciò che non vuole inaridire, preferisce assumere su di sé lo stigma dell’inautentico, e consumare l’eredità mimetica. L’umano è nell’imitazione: un uomo diventa uomo solo imitando altri uomini. In questo atteggiamento, che è la forma elementare dell’amore, i sacerdoti dell’autenticità fiutano le tracce dell’utopia che potrebbe scuotere il sistema del dominio24.

La mimesi quindi oppone resistenza e fluidifica l’ossificazione della soggettività nel mito della sua autenticità. Il processo mimetico ha certamente i tratti di un meccanismo condizionante l’azione del soggetto ma nello stesso tempo ne dispiega la genesi, ne racconta la storia mettendo sulla scena un Sé che si autopercepisce solo come frattura e s-naturamento. In virtù della commistione dialettica tra imitazione e autenticità, il soggetto non nasce senza emanciparsi da un mimetismo ingenuo, d’altro canto la mimesi opera solo attraverso la rivelazione continua dell’inautenticità del soggetto. Non c’è dunque un primato ontologico tra imitazione e autenticità, il solo atteggiamento rispettoso di questa dialettica è quello di un soggetto capace di autoriflessione. Questa azione si concretizza nel gesto di autoconsapevolezza di un soggetto socialmente mediato e capace di riflessione che non oltrepassa, rimuovendole, la sua debolezza e illibertà ma oltrepassa la sua debolezza e illibertà riproducendole, ovvero portandole a raffigurazione (Nachahmung), quindi esprimendole e rappresentandole. Queste azioni rientrano tutte nell’idea di una mimesi che rivela dialetticamente la sua azione non nella semplice adesione-fusione (Imitation) con l’altro ma nella garanzia di uno spazio tra differenziazione e adesione in cui è ravvisabile quella forma elementare dell’amore cui può essere legata la fine di ogni sistema del dominio.

NOTE 1 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, in TH. W. ADORNO, Gesammelte Schriften, in zwanzig Bände, hrsg von. Rolf Tiedemann, Frnkfurt am Main 1970 sgg., Bd. VI, trad. it. Dialettica negativa, a cura di S. Petrucciani, traduzione di P. Lauro, Torino 2004, p. 266. 2 TH. W. ADORNO, Probleme der Moralphilosophie, Frankfurt am Main 1997, p. 35. 3 TH. W. ADORNO, Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit, Frankfurt am Main 2001, p. 243.

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Ibidem. TH. W. ADORNO, Dialettica negativa cit., p. 207. 6 Ibidem. 7 Ivi, p. 207. 8 Ivi, p. 212. 9 Ivi, p. 217. 10 Ivi, p. 216. 11 Ivi, p. 220. 12 Ivi, p. 221. 13 Ivi, p. 239 14 Ivi, p. 240. 15 Ivi, p. 241. 16 Ivi, p. 263. 17 Ivi, p. 265. 18 Ivi, p. 266. 19 Con lucidità e chiarezza così si esprime su questo aspetto Cortella: «Kant assegna la libertà all’identità del soggetto con sé e la non-libertà alla non-identità, all’essere sottoposto alla natura e alle pulsioni. In realtà nell’identità con sé si nasconde anche l’illibertà, la sottomissione alla coattività, mentre nella non-identità, nell’essere sopraffatti dalle emozioni si mostra parimenti l’emancipazione dal carattere coatto dell’identità. Questi due lati sono veri entrambi e una comprensione della libertà all’altezza dell’oggetto deve cercare di pensarli assieme», (L. CORTELLA, Una dialettica nella finitezza. Adorno e il programma di una dialettica negativa, Roma 2006, pp. 100-101). 20 Cfr. M. FOUCAULT, L’éthique du souci de soi comme pratique de la liberté, (intervista di H. Becker, R. Fornet-Bétancourt e A. Gomez-Müller, 20 gennaio 1984), in “Concordia. Revista internacional de filosofia”, n. 6, luglio-dicembre 1984, p. 104; trad. it., L’etica della cura di sé come pratica della libertà, in ID., Archivio Foucault 3. 1978-1985. Estetica dell’esistenza, etica, politica, a cura di A. Pandolfi, trad. it. S. Loriga, Milano 1998, p. 276. 21 M. HORKHEIMER, TH. W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, in TH. W. ADORNO, Gesammelte Schriften, in zwanzig Bände, hrsg. von. Rolf Tiedemann, Frankfurt am Main, 1981 sgg., Bd. III, trad. it. Dialettica dell’illuminismo, traduzione di R. Solmi, introduzione di C. Galli, Torino 1997, p. 194. 22 M. HORKHEIMER, TH. W. ADORNO, Diskussionen zu den “Elementen des Antisemitismus” der Dialektik der Aufklärung – 1943, in M. HORKHEIMER, Gesammelte Schriften, vol. XII, Frankfurt am Main 1985, pp. 587-592, trad. it. a cura di S. Mele, Discussioni sugli “Elementi dell’antisemitismo” della Dialettica dell’illuminismo [1943], in, «Nuova corrente», 1998, n. 121-122, p. 262. 23 Ivi, p. 264. 24 TH. W. ADORNO Minima Moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, in TH. W. ADORNO, Gesammelte Schriften, in zwanzig Bände, hrsg. von. Rolf Tiedemann, Frankfurt am Main, 1980 sgg., Bd. IV, trad.it. Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, traduzione di R. Solmi, introduzione di L. Ceppa, Torino 1994, p. 182. 5

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CONTESTI

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Dialettica negativa e antropologia negativa. Adorno-Anders Micaela Latini

Un titolo quale Dialettica negativa e antropologia negativa sembrerebbe preannunciare un lavoro di confronto tra Th. W. Adorno e Ulrich Sonnemann, sulla scia di una indicazione mutuata dalla «Introduzione» di Dialettica negativa (1966)1. E invece, disattendendo una simile aspettativa, la Negative Anthropologie cui ci si riferisce in questo saggio è quella di Günther Stern/Anders. L’idea di un confronto tra le due prospettive nasce dalla curiosità di capire la corrispondenza tra la «dialettica negativa» e l’«antropologia negativa», laddove con il secondo sintagma si intende la concezione andersiana di un’umanità inadeguata al mondo. Che poi non si tratti di una stranezza ma di un interrogativo legittimo lo conferma, indirettamente, lo stesso Adorno, che in una nota contenuta nella sezione della Dialettica negativa dedicata alla lettura del pensiero di Heidegger, chiama in causa proprio la lezione di Anders2. Non è difficile riconoscere come il movimento di pensiero andersiano si attesti su una posizione molto vicina a quella di Adorno. Per Anders in una realtà nella quale il tutto si rivela essere una mera giustapposizione delle parti, destinata a restare opaca e incompresa nel suo insieme, l’unica forma di filosofia possibile è il saggio filosofico, o l’aforisma, ossia forme che recalcitrano di fronte alla chiusura del sistema3. È sulla base di questa convinzione che Anders, sulla scia di Goethe, definisce la sua riflessione una «filosofia d’occasione», e lo fa proprio con l’intento di contrapporla all’idea di una sistematicità filosofica (di Heidegger, così come di altri autori a lui sicuramente più vicini, tra i quali ad esempio Ernst Bloch). Con la coniazione lessicale di impronta goethiana Gelegenheitsphilosophie4 egli intende un pensiero critico che prenda le mosse da «qualcosa di determinato» («squarci caratteristici del nostro mondo d’oggi», dalla natura opaca e inquietante) e che assuma tale occasione «negativa» come spinta propulsiva al suo procedere. Si tratta quindi di una modalità di riflessione che non si appaga della contingenza così come non si acquieta in una forma di pacificazione conciliatoria – sono queste anzi derive che Anders intende 139

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scongiurare. Siamo piuttosto di fronte a uno sforzo di pensiero che, occasionandosi dai fatti empirici, «si innalza in decollo verticale verso il cielo»5. Va da sé allora che la «filosofia d’occasione» si muove senza alcuna garanzia di coerenza proveniente dall’esterno, e anzi in piena consapevolezza del fatto che non sussiste alcun punto di fuga dal mondo da cui poter stabilire la coerenza del tutto6. Poco male se quest’assenza di stelle nel firmamento andersiano comporta anche il pericolo di incappare in giri paradossali. Anders è ben cosciente del rischio del paradosso, e anzi affida alla sua Gelegenheitsphilosophie l’arduo compito di trarre coerenza da se stessa, non evitando le contraddizioni (che la innervano), ma piuttosto pensandole «fino in fondo» e radicalizzandole7. In qualche misura si può vedere su questo punto una stretta affinità con le posizioni su cui si attesta il «pensare in contraddizioni» di Adorno, inteso come atto di denuncia nei confronti dell’assolutismo teoretico. Come noto, il paradosso costituisce il cuore pulsante della concezione adorniana della filosofia, per quel tanto che la riflessione deve darsi come portatrice di un giudizio critico sui propri presupposti e sulle proprie possibilità8. È quanto ritroviamo in un importante passo di Dialettica negativa nel quale si legge: «Se la dialettica negativa richiede l’autoriflessione del pensiero, questo implica tangibilmente che il pensiero per esser vero debba pensare, almeno oggi, anche contro se stesso»9. Le pagine adorniane sono innervate di una simile convinzione, ossia di argomentazioni teoretiche che si muovono contro il bisogno di sistema, contro una filosofia che si picca di approdare a una «verità intangibile e definitiva», imprigionando l’essenza. È per questo motivo che Adorno sostiene la necessità di addentrarsi nei meandri della tradizione speculativa, e rivelarne le più intime contraddizioni, le cesure, le frantumazioni interiori. La battaglia ingaggiata in Dialettica negativa è duplice: da un lato è tesa a svelare la logica di dominio, il principio della coattività che ha improntato di sé il sistema filosofico tradizionale, e dall’altro muove contro il nichilismo o contro una filosofia che si appaga dei disiecta membra del pensiero. In altre parole per Adorno il pensiero non deve lasciarsi invischiare nello specchio per allodole dell’esperienza determinata, ma neanche può illudersi di dominare la totalità in modo astratto. Da questo sfondo problematico prende le mosse la critica alla storia della filosofia, una critica che non si declina affatto nella rinuncia al pensiero filosofico, ma piuttosto nella consapevo140

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lezza della necessità di un approccio capace di confrontarsi con il caotico, con l’informe, con il contingente10. In questi stessi termini si traduce, secondo Adorno, il pensiero dialettico che, riconoscendosi intessuto di contraddizione, tenta di dispiegare la contraddizione stessa, di produrre tensioni piuttosto che conformarsi alla prospettiva di una conciliazione facilmente raggiunta. È in gioco pertanto una riflessione che si è affrancata dalla ‘malia identitaria’, e che ha rifiutato l’idea di incasellare il reale entro schemi rigidi e dati una volta per tutte. Adorno non ha dubbi al riguardo: la forma pacificatoria si è ormai fatta antiquata, nella sua pretesa di subordinare la determinazione particolare all’ordine della sua artificiosa misura. Il non-identico infatti non manca di rivendicare la sua presenza, di far sentire la sua voce come materiale resistente alla ‘malia identitaria’. La scommessa della dialettica negativa è allora quella di «immergersi nell’eterogeneo, senza ridurlo a categorie prefabbricate»11, anche al costo di fare esperienza delle vertigini che «lo choc della contingenza» può provocare12. La sensazione è quella che si prova quando il terreno sotto i piedi sta franando, facendo crollare i «castelli di cartapesta» della tradizione filosofica, o per dirla con Dialettica negativa, gli edifici concettuali prefabbricati che pretendevano di alloggiare il sistema13. Il punto è che dallo smottamento del suolo, dalle fratture e dalla crepe, emergono orizzonti nuovi e inattesi, che si confrontano con la negatività, con il non-identico, insomma con una dimensione di opacità non riducibile a mero oggetto di riflessione. È su questo terreno dissestato che si calano tanto il pensiero di Adorno quanto quello di Anders, volti ad aprirsi un sentiero tra le macerie e le rovine del presente. L’orizzonte comune è allora quello di una «filosofia della discrepanza», volta contro il pensiero della totalità e contro la sua valenza totalitaria, perché consapevole del fatto che una qualche unità può essere raggiunta non «malgrado» le fratture ma solo «attraverso» di esse14, e cioè vivendo l’esperienza in tutto il suo non-senso. Cogliere tale Diskrepanz, l’alterità in tutta la sua non-identità, è un’operazione tutt’altro che pacifica. Adorno sa bene che se si vuole liberare la dialettica dall’essenza affermativa, senza rinunciare alla determinatezza, occorre restituire al concetto la sua valenza critica e recuperare così il momento della differenza15. In definitiva è abbandonando ogni pretesa di conciliazione, che si fa rilucere una tensione e di conseguenza si rimette in questione la relazione tra soggetto e mondo. Per questa ragione in Adorno il pensiero si presenta come 141

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una costellazione, nella quale i concetti, ben lungi dal pietrificarsi in una rigida identità, s’incontrano e si scontrano. Entriamo ora nel vivo della nota in cui Adorno chiama in causa la riflessione di Anders. Gli studi andersiani cui questa annotazione rimanda sono On the Pseudo-Concreteness of Heidegger’s Philosophy (1948)16, e alcune pagine del primo volume dell’Uomo è antiquato (1961). Se il primo scritto rappresenta la punta di diamante della critica che Anders muove a Heidegger17, nel secondo caso le pagine cui Adorno fa riferimento si incentrano su una lettura del teatro di Beckett, e quindi sembrerebbero a un primo sguardo estranee al contesto della «resa dei conti» nei riguardi della lezione heideggeriana. Eppure le cose non stanno così. Vale anzi la pena segnalare fin da subito che tali riflessioni, portate avanti nella forma della «farsa ontologica», rientrano a pieno titolo nel solco della critica andersiana alla filosofia di Heidegger. A segnalarlo è già il titolo scelto da Anders per il saggio dell’Uomo è antiquato, che suona «Sein ohne Zeit» come contraltare rispetto al Sein und Zeit heideggeriano. Torno più tardi sul motivo dell’«essere senza tempo», che costituisce il fulcro dell’antropologia negativa andersiana. Mi preme ora soffermarmi sul contributo On the Pseudo Concreteness of Heidegger’s Philosophy, datato 1948. Come emerge dal carteggio, è solo in una lettera del 6 settembre 1962 che Adorno (da Francoforte) chiede ad Anders (a Vienna), delucidazioni su questo suo saggio giovanile: Caro Anders, per puro caso ho saputo che Lei ha lavorato sulla pseudoconcretezza di Heidegger. Al momento sto scrivendo un testo su quello che ho chiamato il «gergo dell’autenticità» ed è evidente che in questo lavoro la pseudo-concretezza è una categoria essenziale. Chiaramente vorrei citarLa, e al di là delle buone consuetudini, sarebbe per me importante conoscere il Suo testo quanto prima. Le sarei molto grato se volesse indicarmi il titolo esatto e il riferimento bibliografico18.

Anders si dichiara subito disposto a spedirgli il testo, ma non manca di sottolineare come il suo contenuto sia ormai datato19. È allora sull’occasione dell’interesse mostrato da Adorno nei riguardi dell’articolo andersiano che prende avvio una corrispondenza che a breve giro di posta si fa incandescente e affonda la lama in vecchi «malentendus» e incomprensioni20. Tramite un fitto scambio di missive, i due riescono a riprendere in mano le fila del loro rapporto, iniziato a Francoforte in tempi lon142

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tani da questo carteggio21. Vengono così dissotterrate quelle che Anders in una lettera del 30 giugno 1963 definisce le «hot potatoes». Scottante è stata per Anders la stroncatura mossa da Adorno e Horkheimer alla sua tesi di abilitazione negli anni Trenta dal titolo Philosophische Untersuchungen zu musikalischen Situationen22, una ostilità che sembra aver segnato negativamente la prosecuzione della sua carriera23. Ciò che qui mi interessa sottolineare è la motivazione addotta da Adorno circa la sua rigida opposizione a quel lavoro. Al di là di una disapprovazione più strettamente contenutistica, lo scritto musicologico andersiano si configurava ai suoi occhi come heideggeriano tanto nel linguaggio quanto nella struttura d’insieme24. Ecco allora che affiora un motivo particolarmente interessante: Adorno accetta il confronto con Anders solo quando questi dimostra di essersi emancipato dalla sudditanza filosofica nei confronti del maestro, di essersi affrancato da quel «gergo dell’inautenticità» che permeava i suoi scritti musicologici giovanili25. Anders riconosce come un suo «peccato di gioventù» la fascinazione nei confronti di Heidegger, e anzi nella lettera di risposta, datata 06.12.63, si dichiara al «100% d’accordo» con l’osservazione di Adorno26. 3. Cifra della svolta andersiana è il testo On the PseudoConcreteness of Heidegger’s Philosophy (1948), con il quale Anders recide il cordone ombelicale che lo legava al maestro e, al contempo, traccia una cesura rispetto al suo pensiero precedente. Lo scritto andersiano s’impernia su una critica materialistica all’ontologia esistenziale, così come viene profilata in Essere e tempo. L’analitica esistenziale di Heidegger si configura ora agli occhi di Anders come la punta d’iceberg di un’«antropologia delle radici (WurzelAnthropologie)» che pretende di definire l’essenza umana, quando invece il linguaggio della filosofia è come un mazzo di chiavi che apre serrature che non esistono più. È questo l’errore di Heidegger che, nella sua volontà di definire l’uomo, è sbarcato in una «terra di nessuno», battezzato poi con il nome di Dasein. Dipanando un lungo filo di ragionamenti, Anders cerca di mostrare la «pseudoconcretezza» dell’analitica esistenziale di Essere e tempo. Il nodo della questione sta nel fatto che il Dasein heideggeriano non ha nulla a che fare con l’essere concreto. E lo dimostra il fatto che se Heidegger per un verso nega all’uomo qualità divine, per l’altro non analizza le vere «condizioni di necessità», che spingono gli uomini ad affannarsi giorno e notte e a stabilire un commercio con il 143

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mondo. La posizione di Anders è netta: ciò che definisce la finitezza dell’essere è la fame, ed è sempre la fame a costituire il perno della cura. Heidegger invece gira intorno a questa questione, la sorvola in silenzio e così se la fa facile. Allo stesso modo le pagine di Essere e Tempo esulano dal riferirsi esplicitamente agli strumenti che caratterizzano la Sorge di oggi – sistemi economici, industria, macchine. Ma c’è di più. Là dove Heidegger vorrebbe essere concreto, calando la struttura dell’intenzionalità nell’orizzonte della praxis, si rivela obsoleto; e così là dove tenta di introdurre una concretezza pragmatica resta prigioniero della sua stessa operazione27. È quanto sottolinea Anders in questo suo scritto polemico: «La provincia della concretezza di Heidegger comincia alle spalle della fame e finisce prima dell’economia e della macchina: in mezzo sta l’esserci, che martella sul suo strumento e in tal modo rivela la “cura” e la “rinascita dell’ontologia”»28. Il limite della pseudo-concretezza emerge dal suo gergo. Per tratteggiare la fisionomia del Dasein, Heidegger non fa ricorso a categorie formali dell’oggetto, ma a categorie completamente nuove e con un linguaggio coniato ex-novo: «Heidegger sembra prefiggersi un programma nuovo – un piano che richiede un nuovo approccio, un nuovo vocabolario, categorie nuove»29. Niente è più lontano dalla tesi di Anders, per il quale l’uomo è inevitabilmente da intendersi come un essere indefinibile. Su questo assunto si fonda la tematica dell’Antiquiertheit di ogni antropologia30, ovvero il suo inevitabile declinarsi in un’«antropologia negativa». Con questa espressione egli intende la situazione dell’«uomo senza mondo», ossia di un’umanità espropriata del suo essere, del suo tempo, delle sue azioni, e persino della possibilità di uccidersi. Che l’essere non sia rigorosamente concettualizzabile, pena il rischio di cadere nella metafisica: è questa una tesi che Adorno sembra sottoscrivere pienamente. Se l’impulso della filosofia è quello di esprimere l’inesprimibile, il suo movimento di pensiero non può che essere oscillatorio, e tale fluttuazione a stento può essere restituita verbalmente31. Ciò che di Heidegger suscita la vis polemica adorniana è il suo bisogno di parole originarie, nelle quali l’espressione non ammette oscillazioni. La parola non è per Adorno qualcosa di originario, mentre Heidegger propone un superamento della metafisica attraverso il rammemorare l’essere medesimo. Di qui la critica di Adorno al registro heideggeriano, che giunge a tematizzare direttamente l’inesprimibile e a compattarlo nella parola essere. Nella sua pretesa di dire l’indicibile, Heidegger finisce per stravolgerlo, e tra144

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mutarlo in un oggetto di conoscenza32. A essere così privilegiata è la dimensione identitaria dell’essere. In altre parole la posta in gioco nel pensiero di Heidegger è la pretesa di delineare una mappa definitiva dell’essere, senza tenere conto delle sfumature cromatiche al suo interno, smarrendo quindi il senso della differenza. Come si legge in Dialettica negativa, l’ontologia heideggeriana consola il soggetto della perdita della sostanzialità con la rassicurazione che l’essere, paragonato inarticolatamente a quella sostanzialità, sopravvive al contesto funzionale33. Così Heidegger fa approdare l’ontologia in una terra di nessuno, in una forma di indistinzione ancestrale tra soggetto e oggetto. Di qui la critica alla terminologia heideggeriana, che si avvale di espressioni impersonali come «esserci» ed «esistenza» e così legittima il ritorno della «supremazia statolatrica, tedescoidealista dell’identità sul suo portatore, sul soggetto»34. Adorno non nutre alcun dubbio a riguardo: che l’esistenza dell’uomo sia impersonale non è un fatto cui si perviene linguisticamente, come fa Heidegger (che si mantiene nell’ambiguità tra un superumano e un meno-umano), ma scaturisce dall’analisi dei soggetti mondani esistenti, espropriati della loro stessa esistenza35. Tale mutilazione è stata ignorata dal pensiero heideggeriano, che per un verso si è rifiutato di intorbidare le acque della prima philosophia con la contingenza del materiale, e per altro verso non ha voluto/saputo rinunziare alla concrezione originariamente promessa dalla parola esistenza36. In questo senso il pensiero di Heidegger si caratterizza in tutta la sua Pseudo-Concreteness. Passiamo ora ad analizzare il secondo riferimento di Adorno ad Anders, che concerne lo studio del gennaio 1954, dedicato alla pièce En attendant Godot di Samuel Beckett37. In questa sede la critica di Anders a Heidegger viene sviluppata non tanto nei termini del pensiero filosofico, quanto in quello della «farsa ontologica» (variante di una filosofia d’occasione). Se il teatro beckettiano restituisce la cifra di una «farsa ontologica» è perché presenta un’opera tragica proprio per il fatto che non le è data neanche la possibilità di contemplare la tragedia. L’universo andersiano di «uomini senza mondo» è popolato sia dagli antieroi di Döblin, sia dagli esistenti avulsi di Kafka, ma ad «affollarlo» sono soprattutto i «clowns pigri e paralizzati» beckettiani. Il ruolo di primissimo piano che Anders affida a Beckett è ben presto spiegato: se Döblin e Kafka raccontano una vita informe, il 145

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teatro beckettiano va ben oltre, perché rappresenta l’assenza di forma in quanto tale38. Per Anders l’uomo di Beckett è il primo e l’unico a sbarcare in un non-mondo. In realtà lo scenario che ci viene profilato nelle sue opere è spopolato e impercorribile, dal momento che saltano i nessi che legano il soggetto all’orizzonte di azione. Ecco allora che inevitabilmente i personaggi beckettiani (ciechi, paralitici, uomini-giara) avanzano in esso solo a tastoni. Siamo davanti a un’«antropologia negativa» che traccia la parabola dell’uomo senza essenza: un’umanità sradicata, avulsa, che è in vita e non più nel mondo39. Beckett ci presenta infatti «esseri estromessi dal disegno del mondo (cioè dallo schema della società borghese), che non hanno più nulla da fare perché non hanno più nulla a che fare con il mondo»40. Questa impotenza caratterizza le figure di Beckett, impossibilitate a compiere i movimenti più banali. Ma si dà il caso – denuncia Anders – che è qui ravvisabile la situazione dell’uomo nella società capitalistica, dove non si fa, ma «si è fatti fare», cioè si lavora senza proporsi da sé lo scopo del lavoro e senza nemmeno capirlo. Siamo agli antipodi dell’uomo di Heidegger. Anders ne è fermamente convinto, e scrive questo saggio proprio con l’intento di contrapporre la sua tesi a quella di alcuni commentatori francesi che hanno assimilato la situazione beckettiana alla Geworfenheit di heideggeriana memoria. Seguiamo l’argomentazione di Anders: la gettatezza sta per la casualità dell’esistenza, ossia per una totale mancanza di libertà, data dal fatto che ci si trova gettati in un corpo, in una famiglia, in uno stato, in una origine che non si è affatto scelta. Ma Heidegger risolve questa mancanza primordiale (il complesso dell’origine) facendo dell’esserci il padre di se stesso, con un gioco di parole che si snoda tra la Geworfenheit e l’Entwurf. In altri termini l’uomo di Heidegger s’impadronisce del caso e lo tramuta in progetto. Per questo viene da Anders paragonato a un self-made man che aspira a tirarsi fuori dal fango del «Si», come il barone di Münchhausen si afferra per i capelli. Su tutt’altro versante si muovono i clochards di Beckett, che non interpretano la loro esistenza come qualcosa di contingente, e non pensano di tramutarlo in un progetto positivo41. Semplicemente non hanno alcuna coscienza della loro tragicità e se continuano a vivere è perché ormai si trovano in vita, e non riesce loro di darsi una direzione diversa (neanche la soluzione del suicidio). Basta pensare al fatto che le figure di Beckett non riescono neanche a soffrire del loro Ursprung-Komplex perché non ricordano l’origine, non avendo più alcuna concezione 146

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temporale. L’assenza di tempo pregiudica la possibilità di concetti quali il progetto e la speranza: il tempo dell’uomo è al più «tempo di sopravvivenza». E questo ‘resto di tempo’ che rimane loro a disposizione viene impiegato non per procacciarsi un senso (come vorrebbe Heidegger), ma semmai per tentare di darsi scacco matto, un tentativo destinato anch’esso al fallimento. Beckett mette in opera uomini che lottano per procurarsi un’attività fittizia, così come nella vita reale il lavoro meccanico ha reso alienante l’azione umana. È questo un motivo saliente: si vive nel non-senso, ma non si è in grado di rinunciare al concetto di senso, così come non si può abbandonare la speranza. Tale impossibilità marca la distanza tra il teatro beckettiano e il pensiero nichilista. Anders lo esprime a chiare lettere: con le sue figure di «ideologi ingenui e falsamente ottimisti», Beckett mette in scena non il nichilismo, ma «l’incapacità dell’uomo di essere un nichilista persino in una situazione che non potrebbe essere più senza speranza di così»42. Le creature beckettiane non sono all’altezza della situazione perché continuano ad aspettare, e quindi – conclude Anders – non sono «nichilisti». Ma c’è di più: è loro tolta la possibilità di dire il Nulla, perché dirlo equivarrebbe a dare il senso, laddove invece Godot (il senso, o God) non arriva, ma costantemente annuncia il suo «essere a venire». Anders sottolinea questo aspetto: nell’opera di Beckett Dio non è scomparso, ma piuttosto si è ritirato fuori dal mondo, e di qui non può presentarsi come il senso finale. Se si è costretti alla penultima parola è perché mettere un punto significherebbe la chiusura del sistema in una totalità compiuta, il che è quanto di più lontano da una simile prospettiva. Molti sono i punti di contatto tra la lettura di Anders e il ben più noto studio adorniano, dal titolo Tentativo di capire il ‘Finale di partita’ (1958)43. In linea con le osservazioni andersiane, anche Adorno considera il registro filosofico, in primis quello esistenzialista, come antiquato di fronte al teatro di Beckett, uno scarto di magazzino44. È questa la ragione che ne fa una «parodia della filosofia vomitata fuori dai suoi dialoghi»45. Se quella di Beckett può essere a giusto titolo definita come un’opera di fuga, è perché condanna ogni approccio teoretico a essere un Versuch – come recita il titolo del saggio adorniano – che recalcitra di fronte alla forma-parola: «Ogni tentativo di interpretazione rimane arretrato rispetto a Beckett: eppure il suo teatro proprio perché si limita a una realtà empirica infranta guizza oltre questa, e rimanda a una interpretazione proprio per la sua natura enigmatica»46. In questi termini ne parla 147

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Adorno. Là dove Heidegger vuole accedere all’indicibile, con la parola Essere, Beckett mantiene tale indicibile nebulosa, ritrae la violenza dell’indicibile47. Nella stessa opacità è cinto il non-senso che domina l’opera beckettiana: nessuna dichiarazione di insensatezza, perché sarebbe l’equivalente di donargli senso, un’operazione impossibile per chi vive nel ‘non-senso’ e neanche arriva a prenderne consapevolezza. Così i drammi beckettiani sono assurdi, e questo non a causa dell’assenza di senso, ma perché – come afferma Adorno in Teoria estetica, schierandosi esplicitamente dalla parte di Anders – «dibattono il senso. Ne svolgono la storia!»48. Vale a dire che ad essere rappresentato in Beckett non è il ‘non-senso’, bensì le condizioni del sottrarsi del senso. Nessun senso (e non-senso), ma anche nessun tempo, nessuna memoria, nessuna speranza, e soprattutto nessuna coscienza di tale assenza. Emblematico è quanto si legge in Tentativo di capire il ‘Finale di Partita’: «La storia è lasciata in bianco perché ha prosciugato la forza che la coscienza ha di pensare la storia, la forza del ricordo»49. Insomma, in sintonia con le posizioni di Anders, anche per Adorno l’uomo beckettiano è emblema del Mensch ohne Welt, cui è rimasta solo la vita, ma una vita vuota perché prosciugata di senso. Di qui si comprende l’effetto di opacità presente in Finale di partita, dove il mondo diventa ombra, opaco come alito sul vetro: l’orizzonte è grigio, le onde piombo, l’interiorità svuotata50. Si profila allora una «specie» di antropologia negativa assimilabile a un «nero cielo senza stelle», ossia senza speranza51. Qui l’uomo è deprivato di tutto, persino di se stesso. È quanto scrive Adorno: «Il nome generale della specie ‘uomo’ non si adatta al paesaggio linguistico beckettiano: per lui l’uomo è ormai solo quello che è diventato»52. Il fatto è che le catastrofi storiche cui si ispira Finale di Partita hanno reso antiquata l’idea di una sostanzialità e assolutezza dell’individuo53. Beckett porta sulla scena, «una coscienza bombardata»54 quell’io disgregato che si è sostituito al soggetto assoluto e autonomo: «Dopo la seconda guerra mondiale tutto è distrutto senza saperlo, anche la cultura risorta; l’umanità continua a strisciare dopo che sono accadute cose a cui in verità non possono sopravvivere nemmeno i sopravvissuti, e su un mucchio di macerie cui è negata anche la meditazione cosciente sulla propria frantumazione»55. Si capisce allora perché le figure di Beckett appaiono spesso mutilate come se fosse avvenuta la catastrofe, come mosche spappolate: «la pura identità diventa identità dell’individuo annientato, identità di soggetto e oggetto nello stadio della piena alienazione»56. 148

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Con la disgregazione dell’elemento di coscienza, siamo ben oltre l’esistenzialismo, così come oltre il teatro dell’assurdo. E infatti, secondo Adorno, Beckett ha portato alle estreme conseguenze il concetto dell’assurdità, prendendolo in parola e rivelando così la sua Antiquiertheit: «Una volta demoliti i caratteri del senso dell’esserci, dall’assurdo non risulta un dato universale – ché in tal modo l’assurdo tornerebbe a costituire un’idea – ma risultano meste particolarità che si beffano del concetto e che sono come uno strato di utensili di un’abitazione di fortuna»57. Ciò che risulta inaccettabile agli occhi di Adorno è la pretesa di fare dell’esperienza individuale, nella sua ristrettezza e casualità, la sigla dell’essere, il suo carattere basilare. È in gioco con Heidegger un tentativo di redenzione, che si rivolge a un’anticaglia polverosa (ossia all’ipostasi della identità della persona) come a un «dato di certezza primaria»58. Niente di più sbagliato secondo Adorno. Per lui il teatro di Beckett è realista proprio nel suo tenere in considerazione il resto, «ciò che rimane del soggetto, dello spirito e dell’anima al cospetto della catastrofe immanente: dello spirito, scaturito dalla mimesi, rimane la ridicola imitazione; dell’anima, registra di se stessa la disumana sentimentalità; del soggetto la sua determinazione più astratta, cioè di esserci e per ciò stesso di essere in colpa»59. A far eco a questo passo è una frase di Dialettica negativa dove si legge: «Non è invece sbagliata la domanda meno culturale se dopo Auschwitz ci si possa lasciar vivere, se ciò in fondo sia lecito a chi è scampato per caso e di norma avrebbe dovuto essere ucciso. Per sopravvivere egli ha già bisogno di freddezza, il principio basilare della società borghese, senza il quale Auschwitz non sarebbe stato possibile: questa è la colpa drastica di chi è stato risparmiato»60. Di questa colpa pagano lo scotto i personaggi di Beckett, condannati a vivere l’assenza della vita o meglio a proseguire la loro non-vita.

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NOTE 1 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik (1966); trad. it. Dialettica negativa, Torino 20034, di P. Lauro, a cura di S. Petrucciani dove si legge: «Ulrich Sonnemann lavora a un libro che sarà intitolato Antropologia negativa. Né lui né l’autore sapevano niente di questa corrispondenza. Essa rinvia a una necessità oggettiva». 2 I luoghi cui qui mi riferisco sono la nota 13, in ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 70 e il passo in ivi, p. 77. 3 Per una riflessione su questo concetto e più in generale per una visione sinottica del pensiero di G. Anders si rimanda allo studio di P. P. PORTINARO, Il principio disperazione. Tre studi su Günther Anders, Torino 2003. 4 Per la prima volta questa espressione viene usata da G. ANDERS, Die Antiquiertheit des Menschen (1956); trad. it. di L. Dallapiccola: L’uomo è antiquato, Milano 1963, pp. 17 e sgg. 5 ID., Postfazione a Ketzereien (1981), Monaco 1996. Il volume è tuttora inedito in italiano, ma la Postfazione è stata recentemente tradotta; trad. it. di M. Latini, con introd. di S. Velotti: La natura eretica, in «MicroMega», 1 (2006), pp. 47-57. 6 Sulla connessione tra la Gelegenheitsphilosophie e la dimensione critica del pensiero si rimanda alle osservazioni di S. Velotti, nella sua Prefazione dal titolo Critica, esperimento e dottrina: note sull’estetica di Anders, a G. ANDERS, Mensch ohne Welt. Schriften zur Kunst und Literatur (1984); trad. it di A. Aranyossy e P. P. Portinaro, a cura di S. Velotti: Uomo senza mondo. Scritti sull’arte e la letteratura, Ferrara 1991, pp. 4-21. 7 È questo uno dei motivi centrali dello studio che E. TAVANI ha dedicato ad Adorno, L’apparenza da salvare, Milano 1994. 8 Il senso del paradosso all’interno della Dialettica negativa viene analizzato da Petrucciani, nella sua Introduzione ad Adorno, Dialettica negativa, op. cit., pp. XIXXVII. 9 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, cit., p. 328. 10 Cfr. su questo E. TAVANI, L’apparenza da salvare, op. cit. 11 ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 14. 12 Ivi, p. 32. 13 Ivi, p. 5. 14 Così si esprime Adorno nel suo studio su Mahler. TH. W. ADORNO, Versuch über Wagner-Mahler; trad. it. di M. Bortolotto e G. Manzoni: Wagner-Mahler. Due studi, Torino 1966, p. 167. 15 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 4. 16 G. ANDERS, On the Pseudo-Concreteness of Heidegger’s Philosophy (1948); trad. it. di N. Curcio: Heidegger esteta dell’inazione, in F. VOLPI (a cura di), Su Heidegger. Cinque voci ebraiche, Roma 1998, pp. 23-62. Già in «MicroMega», 2 (1996), pp. 187225. 17 I riferimenti polemici alla filosofia di Heidegger tagliano trasversalmente l’intera opera matura di Anders. Oltre al già citato Ketzereien, ricordiamo Nihilismus und Existenz, (1946); trad. it. di E. Grillo, con introd. di R. Esposito: Nichilismo ed esistenza, «MicroMega», 2 (1988), pp. 181-209, e una recensione al libro di ALOYS FISCHER, Die Existenzphilosophie Martin Heidegger (1935) pubblicata nella «Zeitschrift für Sozialforschung». Questi e altri scritti di Anders su Heidegger sono oggi raccolti nel volume Über Heidegger, a cura di Gerhard Oberschlick, München 2001. 18 Trad. mia. Riporto di seguito la versione originale: «Lieber Anders, neulich las ich durch puren Zufall, dass es eine Arbeit von Ihnen über die Pseudokonkretheit Heideggers gibt. Ich selbst bin in Augenblick mit einem Text über das befasst, was ich den

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Jargon der Eigentlichkeit gennant habe, und in dem, wie es die Sache mit sich bringt, Pseudokonkretheit eine wesentliche Kategorie ist». Lettera di Adorno ad Anders del 06.09.62, Österreichische Literaturarchiv der österreichische Nationalbibliothek, Wien, (d’ora in poi OLA), 237/04. Desidero ringraziare Bernhard Fetz e Konrad Paul Liessmann, che mi hanno reso disponibili i documenti del carteggio ancora inedito tra Adorno e Anders. 19 Così Anders nella lettera ad Adorno del 10.09.62, OLA, 237/04: «Ormai non ho la più pallida di che cosa ci sia scritto, e non so se ancora oggi lo sottoscriverei [Ich habe keine Ahnung mehr, was darin steht, und ob ich das Geschriebene heute noch unterschreiben wollte]». 20 Per una ricostruzione attenta e articolata dello scambio epistolare tra Adorno e Anders si rimanda a K. P. LIESSMANN, Hot Potatoes. Zum Briefwechsel zwischen Günther Anders und Theodor W. Adorno, «Zeitschrift für kritische Theorie» 6 (1998), pp. 29-38. 21 Nel 1930 un articolo uscito dalla sottile penna sterniana/andersiana e dal titolo Spuk im Radio, compare tra le pagine della rivista Anbruch diretta da Adorno. I due si incontrano di nuovo nel difficile periodo dell’esilio americano. Sono questi gli anni in cui Anders frequenta più assiduamente l’«Altra Germania»: abita a casa di Marcuse a Santa Monica e partecipa alle discussioni della scuola di Francoforte (come testimonia il testoprotocollo Tesi su «bisogni», «cultura», «bisogni culturali», «valori culturali», «valori» del 1942, ora in G. ANDERS, Saggi dall’esilio americano, trad. di S. Canevaghi e A. G. Saluzzi, Bari, Palomar, 2003, pp. 29-37). Ma il rapporto con Horkheimer e Adorno resta freddo. Pur denunciando il debito teoretico contratto nei confronti del loro pensiero, Anders non manca di sottolineare la sua radicale «estraneità» all’orizzonte teoretico sul quale si muove il circolo. Una distanza destinata a farsi ancora più marcata, nel corso del tempo. Gli anni dell’esilio americano sono caratterizzati per Anders dalla presa di coscienza che l’uomo è stato capace di costruire Auschwitz e distruggere Hiroschima. Due eventi storici che, in tutta la loro drammaticità, lo inducono a prendere le distanze dalla speculazione filosofica e soprattutto dall’attività accademica. Al rientro in Europa, Anders rifiuta ogni carica universitaria che gli viene offerta, e preferisce vivere in totale isolamento a Vienna. 22 Il dattiloscritto è ancora inedito, ma a fornire le coordinate dello studio musicologico portato avanti da Anders in questi anni è un saggio dal titolo Zur Phänomenologie des Zuhörens, (1927). trad. it. a cura di M. Latini, con introd. di E. Matassi: Sulla fenomenologia dell’ascolto in S. Vizzardelli (a cura di), La regressione dell’ascolto, Quodlibet, Macerata, 2002, pp. 175-199. 23 K.P. LIESSMANN, G. Anders zur Einführung, Hamburg 1993, p. 19. 24 Riporto di seguito il passo della lettera in questione: «Das eine war, dass mir der Text, nach Sprache und Gesamtverhalten, überaus Heideggerisch dünkte, viel mehr als es Ihnen heute, nach der Emancipation, in der Rückererinnerung erscheinen mag». Lettera di Adorno ad Anders del 31 ottobre 1963, OLA 237/04. 25 Vale forse la pena ricordare che, dopo aver discusso la tesi di dottorato con Husserl, nel 1924, Anders segue all’università di Marburgo le lezioni di Heidegger. Nel 1927 escono suoi scritti di fenomenologia dell’esperienza musicale. 26 Cfr. lettera del 6 dicembre 1963, OLA 237/04. 27 Cfr. Heidegger esteta dell’inazione, op. cit., p. 30. 28 Ivi, p. 35. 29 Ivi, p. 24. 30 È questa una delle tesi del secondo volume dell’Uomo è antiquato, e soprattutto del capitolo dal titolo «L’antropologia filosofica». Cfr. G. ANDERS, Die Antiquiertheit des Menschen II. Über die Zerstörung des Lebens im Zeitalter des dritten industriellen Revolution (1980); trad. it. di M. A. Mori: L’uomo è antiquato. Sulla distruzione della vita

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nell’epoca della terza rivoluzione industriale, Torino 2003, pp. 116-118. 31 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 99. 32 Ivi, p. 101. 33 Ivi, p. 61. 34 Ivi, p. 249. 35 Ivi, p. 250 e p. 265. 36 Ivi, p. 70. 37 Lo sfondo teoretico sul quale mi muovo è quello offerto da G. Di Giacomo, che nella sua riflessione su Beckett non manca di chiamare in causa Adorno e Anders. G. DI GIACOMO, Estetica e letteratura. Il grande romanzo tra Ottocento e Novecento, Roma-Bari 1999, pp. 218-227. Si veda anche G. DI GIACOMO, Arte e rappresentazione nella Teoria estetica di Adorno, in E. Matassi-E. Tavani (a cura di), Th. W. Adorno (1903-2003) L’estetica. L’etica, «Cultura tedesca», 26 (2004), pp. 103-122. 38 G. ANDERS, L’uomo è antiquato, op. cit., p. 218. 39 Cfr. a proposito K.P. LIESSMANN, «Mensch ohne Welt. Aspekte einer negativen Anthropologie», in ID., G. Anders zur Einführung, op. cit., pp. 25-39. 40 Ivi, p. 219. 41 I personaggi beckettiani così non sono più all’altezza di organizzarsi il tempo libero. I loro giochi sono come il loro «mettersi le scarpe e togliersi le scarpe» cioè un far finta di niente. ivi, p. 226-228. 42 Ivi, p. 222. 43 TH. W. ADORNO, Tentativo di capire il ‘Finale di partita’, in Note per la letteratura, Torino 1979, 2° vol., pp. 267-308. 44 Ivi, p. 267 e p. 269. 45 Ivi, p. 270. 46 Ibidem. 47 Ivi, p. 272. 48 TH. W. ADORNO, Ästhetische Theorie (1970). Trad. it. di E. De Angelis: Teoria estetica, Torino 1975, p. 219. 49 TH. W. ADORNO, Tentativo di capire il ‘Finale di partita’, op. cit., p. 274. 50 Cfr. ivi, p. 278. 51 Di qui si comprende il grigiore, lo schermo di opacità che non permette di distinguere tra interno ed esterno. Significativo in tal senso è un passo che Adorno riporta di Finale di partita: «Clov (sale su una scaletta, punta il cannocchiale verso l’esterno) Vediamo un po’… (guarda spostando il cannocchiale) Zero… (guarda)… zero (guarda)… e zero (abbassa il cannocchiale, si volta verso Hamm) Allora? Più tranquillo? Hamm: Niente si muove. Tutto è … Clov: Zero… Hamm (con violenza) Tutto è che cosa? Clov: Che cosa è tutto? In una parola? È questo che vuoi sapere? Un secondo (Punta il cannocchiale sull’esterno, guarda, abbassa il cannocchiale, si volta verso Hamm) Mortibus» (ivi, p. 271). 52 Ivi, p. 276. 53 Ibidem. 54 Ivi, p. 272. 55 Ivi, p. 279. 56 Ibidem. 57 Ibidem. 58 È quanto osserva Adorno: «Trascinate fuori dall’interiorità, le situazioni affettiva di Heidegger, le situazioni di Jaspers sono diventate materialistiche. In loro l’ipostasi dell’individuo e quella della situazione andavano d’accordo: la situazione era né più né meno l’esserci nel tempo, totalità di un singolo individuo vivente inteso come dato di

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certezza primaria. Esso presupponeva l’identità della persona». Ivi, pp. 279-280. 59 Ivi, p. 279. 60 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, op. cit., p. 326. Per Adorno dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché esso è stato possibile e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può immaginare un’arte serena. Ad Auschwitz il confine tra la vita e la morte si è reso permeabile al punto da rendere indistinguibili una morte che è avvenuta effettivamente e una morte che prosegue come conseguenza di una morte divenuta impossibile.

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METAFISICA

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L’eternità dell’annientamento Note di lettura a Dopo Auschwitz

Paolo Vinci

… il mondo di Kafka, spesso così sereno e popolato di angeli, è l’esatto complemento della sua epoca che si accinge a sopprimere grandi masse degli abitanti di questo pianeta. Non è escluso che l’esperienza che corrisponde a quella dell’uomo privato Kafka sarà fatta da grandi masse soltanto in occasione della loro eliminazione. Lettera di Walter Benjamin a Scholem del 12 giugno 1938

La prima delle Meditazioni sulla metafisica è uno dei luoghi in cui la filosofia di Adorno mostra in modo esemplare il legame immanente con la propria inconfondibile cifra stilistica1. Siamo davanti a una forma di espressione che assume tratti monadici, mostra una forza di concentrazione in sé che evidenzia l’assimilazione profonda e originale della scrittura di Walter Benjamin. Forma e contenuto si presentano in una connessione inscindibile, capace di incidere direttamente sugli strati di senso del discorso adorniano. Cominciamo la lettura: Che l’immutabile sia verità, che il mosso e il caduco siano apparenza, che il temporaneo e le idee eterne siano reciprocamente indifferenti sono cose che non si possono più affermare, neppure con il disperato rimedio hegeliano che l’esistenza temporale grazie all’annientamento inerente al suo concetto servirebbe all’eterno, che si presenterebbe nell’eternità dell’annientamento.

Nel prendere le mosse dalla più classica delle questioni metafisiche, dalla distinzione fra verità e apparenza, nel suo coincidere con quella fra l’eterna immutabilità e la caducità transeunte, Adorno ne denuncia immediatamente il rigido dualismo, responsabile di produrre la «reciproca indifferenza» di quiete e movimento, di eterno e transeunte, del piano dell’intelligibile rispetto a quello dell’accadere reale. In altri termini, il pensiero metafisico non sarebbe in grado di dare una giustificazione della realtà e nemmeno una sua comprensione, ma si limiterebbe a costituire un «mondo a sé», autosufficien157

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te e privo di legami con la storia effettiva. Ad Adorno preme immediatamente sottolineare che è accaduto qualcosa che non solo rende impossibile l’imperturbabilità metafisica, ma la sua stessa esistenza. La posizione di Hegel merita di venir presa in considerazione proprio perché mette in luce questa impossibilità; rispetto ad essa il suo pensiero verrebbe a presentarsi come una sorta di «rimedio disperato». Si tratta di capire, quindi, se è Hegel a proporre un pensiero disperato o non piuttosto lo stesso Adorno e se infine a noi, che in qualche modo siamo gli eredi di entrambi, non resti che ammettere di non poter uscire dal cerchio della disperazione. Adorno usa il termine «verwegen» il quale oltre a disperato può significare temerario, audace, dando così al «rimedio hegeliano» il carattere di un’audacia disperata. Così lo sforzo di Hegel di rimediare all’indifferenza fra vita e senso, in modo da offrire alla storia umana una fonte di comprensibilità, un principio stabile capace di fornirne una giustificazione ultima, risulta in ultima istanza destinato al fallimento. Importante è aver presente lo scenario delineato da Adorno: la filosofia si è venuta costituendo come una dimensione autoriferita, autosufficiente, la quale può trovare la propria coerenza solo in un ordine ideale di pensiero, immanente a se stesso, intrinseco e necessario. Fuori di essa troviamo tutto ciò che appare, accade, passa, senza che sia possibile in alcun modo fermare questo scorrere, il mero susseguirsi di avvenimenti casuali e insensati. Rispetto a tutto ciò il «rimedio» tentato da Hegel nei confronti della incommensurabilità di filosofia e mondo, del loro giacere indifferenti su due piani rigidamente separati, consisterebbe esattamente nella costante affermazione di un’unità intrinseca fra la ragione e la storia, fra l’infinito e il finito. Adorno non vi fa cenno, ma per avere un’idea della portata della questione basti ricordare quel passaggio decisivo ed emblematico in cui Hegel sostiene che il sapere assoluto, quale «inerte solitudine», vale a dire nella sua autocoincidenza e indifferenza, nel suo abbandonare qualsiasi relazionalità, assumendosi come eterno ed autosufficiente, non può non collassare e rovesciarsi nel suo opposto, nel semplice essere, in ciò che vi è di più astratto e indeterminato2. È tutta la filosofia della storia di Hegel a esprimere inoltre l’esigenza di un incontro fra l’ordine dei concetti e quello dei fatti e degli avvenimenti, mostrandoci che il tema posto da Adorno è in effetti il problema di Hegel, l’elemento decisivo della sua speculazione. 158

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Una volta individuato l’ambito tematico, Adorno ci suggerisce la modalità specifica della soluzione hegeliana, il suo caratterizzarsi essenzialmente nell’intendere l’esistenza temporale come posseduta da una legge che la conduce all’autoannientamento. Il finito e il temporale vengono meno per una negazione immanente, per un’interna autocontraddittorietà. Il punto che ad Adorno urge sottolineare è che questo venir meno, questa autocritica, questo necessario suicidarsi del finito, serve all’eterno, è al suo «servizio». Secondo l’interpretazione adorniana il finito, nella prospettiva hegeliana, resta succube dell’infinito, ne è completamente dipendente, in un’assenza di autonomia, che lo rende il servo di un padrone che lo domina, lo usa e non lo riconosce. Viene così meno ogni autentica cittadinanza del finito, del determinato, del differente, che risulta completamente inglobato in un assoluto, eterno ed identico a se stesso3. Quindi la Darstellung, l’esposizione-giustificazione della filosofia come scienza speculativa, non sarebbe che la celebrazione dell’«eternità dell’annientamento». Uno degli impulsi mistici secolarizzati nella dialettica fu la dottrina che il mondano, lo storico abbiano rilevanza per ciò che la metafisica tradizionale delineava come trascendenza o almeno, meno gnosticamente e meno radicalmente, per la posizione della coscienza rispetto ai problemi che il canone filosofico assegnava alla metafisica.

Se in altre occasioni Adorno si è soffermato sul «campo d’esperienza» della dialettica, ora, al contrario, la presenta come la secolarizzazione di un impulso mistico, come il tentativo debole, troppo debole, di dare un significato a ciò che è finito. Adorno sembra concedere che l’atteggiamento hegeliano non ricade nello gnosticismo, cioè in una visione rigidamente dualistica e volta alla radicalizzazione dell’opposizione fra la natura e lo spirito, fra il mondo e Dio. Nulla di più lontano da Hegel del vagheggiamento nostalgico del mito edenico, di una condizione originaria di autenticità e verità, dopo la quale si sarebbe prodotta una catastrofica caduta, che avrebbe segnato la condizione umana come allontanamento, alienazione, perdita della pienezza. Per gli gnostici il naturale è disvalore, è errore, ed essi rivendicano una scelta definitiva che ponga fine alla fatica e instauri la pace4. Siamo davanti a un acosmismo, alla perdita totale di consistenza del mondo, che è a più riprese stigmatizzato da Hegel. Egli, per limitarci alla Fenomenologia dello spirito, rivendica il fatto che lo spirito ha bisogno del tempo per realizzarsi, per diventare se stesso, 159

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per giungere alla propria autocomprensione e che ciò non può non passare per il suo riconoscersi nel mondo, nella nostra epoca, come risultato di un lungo lavoro e di un duro travaglio5. Adorno ci dà dunque la versione più dura della sua «ambiguità» nei confronti del pensiero dialettico hegeliano, assumendo però – non possiamo non notarlo – una particolare prospettiva. Essa finisce col riprodurre uno dei moduli critici maggiormente ricorrenti nella filosofia di Hegel e in particolare nella Fenomenologia, un testo che appare chiamato in causa dallo stesso Adorno quando si riferisce alla posizione della coscienza e quindi della finitezza nei confronti del soprasensibile. Il discorso adorniano, tuttavia, non concede a Hegel il pur minimo sconto e si concentra esclusivamente nel proposito di metterci davanti a una non risolta oscillazione hegeliana fra il ruolo della coscienza-finitezza e il dominio dello spirito assoluto. Si ammette che nella visione hegeliana i problemi mondani e storici hanno «rilevanza», ma si finisce col presentarci la dialettica hegeliana come un pendolo che oscilla fra questa rilevanza e la negazione di ogni intrinseco valore del determinato e del finito, producendo e sanzionando un inesorabile venir meno della sua differenza e autonomia. Nella denuncia del «misticismo» hegeliano Adorno riprende il giovane Marx, la sua critica alla «filosofica decomposizione e restaurazione dell’empiria esistente», il suo affermare che Hegel enuncia la realtà come razionale, ma ciò perché «il fatto empirico ha, nella sua empirica esistenza, un significato altro da se stesso. Il fatto, da cui si parte non è inteso come tale, ma come risultato mistico», così che qui «è depositato tutto il mistero (…) della filosofia hegeliana in generale»6. Questa polemica marxiana ha avuto molta fortuna, ma è discutibile che essa sia adeguata al significato profondo dell’unità hegeliana di reale e razionale, a proposito della quale Hegel sottolinea con chiarezza che il reale non è da intendere come il Dasein, vale a dire come ciò che è essente, i meri fatti empirici, ma come quella parte di essi che può offrirsi in un’adeguazione nei confronti della ragione7. Adorno, tuttavia, ritiene implicitamente che – se anche si assumesse questa versione del reale-razionale hegeliano, un’accezione certamente meno schiacciata sulla giustificazione dell’esistente – il modo hegeliano di intendere l’unità conoscitiva prodotta dal sapere filosofico non sembrerebbe comunque in grado di garantire una qualche forma di cittadinanza per il nonidentico. Essa finirebbe per dare per scontato il prodursi di uno 160

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scarto, di qualcosa di irrilevante, che deve essere lasciato cadere affinchè il concetto possa costituirsi come un orizzonte unitario, una totalità compiuta. A giudizio di Adorno, il pensiero filosofico, anche quello hegeliano, getta e nasconde tutti gli orrori del decorso storico, in una sorta di «pattumiera della storia» e solo così può presentare come progresso e cammino trionfale dello spirito ciò che invece sarebbe molto più opportuno intendere, nel segno di Benjamin, come «catastrofe»8. Potremmo dire che il sapere assoluto provoca la fuga dell’angelo della storia, impedisce che fra le rovine si apra uno spazio, che permetta di ammettere fino in fondo la distruttività di ciò che accade, un riconoscimento possibile solo nell’abbandono di ogni pretesa di esorcizzare il male, di trasfigurarlo e volgerlo verso il meglio9. È in nome dunque di una istanza benjaminiana che Adorno accusa di «cinismo» Hegel, il quale prospettando un movimento di crescita progressiva che conduce allo spirito e alla ragione, mette il travaglio della storia al servizio di un fine superiore, non assumendolo così nella sua reale portata. LA COLLERA INSORGE Adorno erompe, in un eccesso nietzscheano più che giustificato, nel momento in cui rivolge il pensiero a qualcosa che, sebbene accada molto tempo dopo la filosofia di Hegel, non può non diventare il banco di prova dal suo reale significato. Leggendo il passo adorniano è come se sentissimo il suono inumano del Nach Auschwitz, in cui il nach è come il cupo rintocco di una campana a morte, l’ultima nota di quella musica che a volte nei campi copriva le urla delle vittime. La collera implica che ci sia una sofferenza estrema da lasciare intatta in se stessa: ogni tentativo di mitigarla è un’ingiustizia verso di essa, giacché qualsiasi barlume di umanità rende il dolore ancora più forte. Il «dopo» siamo dunque noi, quella campana suona per la nostra coscienza e la nostra memoria. Non possiamo, allora, in nessun modo dirci hegeliani, non ci è concesso seguire il tentativo del Marx maturo di rivitalizzare Hegel, ormai diventato un «cane morto», meglio tornare alla critica radicale del giovane Marx, al suo furore verso il tentativo di sostituire ai fatti reali «la santa casa della logica»10. 161

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La collera che insorge contro ogni affermazione di positività dell’esistenza in quanto bigottismo, ingiustizia nei confronti delle vittime, contro il fatto che si estragga un senso sia pur assai sbiadito dal loro destino, ha il suo momento oggettivo, dopo che sono accadute cose che fanno oltraggio alla costruzione di un senso immanente irradiato da una trascendenza posta affermativamente.

Si allude ancora al provvidenzialismo hegeliano, al suo presunto ottimismo, alla pretesa della sua filosofia di redimere il male, di volgere il negativo in positivo, un tentativo che per Adorno viene reso possibile assumendo lo spirito assoluto come presupposto e, su questa base, attribuendo un senso a ciò che appare nell’immanenza, nell’esistenza11. È da notare come per Adorno Hegel non riesca a liberarsi di una forma di dualismo metafisico, in quanto la sua nozione di spirito, nonostante venga dichiarato a più riprese il contrario, si presenta comunque come un piano separato rispetto a ciò che accade. Di fronte a tutto ciò la collera non si configura soltanto come uno sfogo soggettivo, ma si fa oggettiva, qualcosa di necessario e condiviso. Una costruzione del genere confermerebbe la negatività assoluta e sosterrebbe ideologicamente una sua persistenza, che comunque è riposta realmente nel principio della società che sussiste fino alla sua autodistruzione.

Il proposito di volgere il negativo in positivo, attuato unicamente nel «cielo della filosofia» si presenta come una rimozione dell’effettiva negatività e, quindi, come una sua sanzione, venendo a dar vita a una posizione filosofica che risulta cieca sul tratto essenziale del configurarsi della nostra società, sul suo strutturale occultare il proprio principio formatore, risultando così disarmata nei suoi confronti e condannata all’impotenza rispetto alla sua immanente distruttività. Il terremoto di Lisbona bastò a guarire Voltaire dalla teodicea leibniziana, e la catastrofe palese dela prima natura era trascurabile al confronto della seconda, sociale, che si sottrae all’umana immaginazione, avendo essa scatenato l’inferno reale dalla malvagità umana.

La visione di Benjamin della storia come catastrofe emerge dunque a questo punto chiaramente come il metro per la rappresentabilità di un evento, Auschwitz, altrimenti condannato a restare fuori dal nostro orizzonte di coscienza. Il negativo assoluto mostra come 162

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qualsiasi tentativo di coprire la negatività, di produrre un senso che in qualche modo valga per essa, sia una fuga dalla realtà del male, quella realtà che l’immaginazione, intesa in senso tradizionale, non coglie e per la quale non resta forse che la benjaminiana immagine dialettica12. Solo la forza di interruzione e l’emotività legata al suo rifiuto di quanto accaduto, il suo lavoro «nel rovescio del nulla, nella sua fodera» possono aiutarci a fare i conti con la portata della catastrofe del mondo storico-sociale, a non volgere le spalle, in nome di un futuro luminoso, alla autodistruzione che è in atto, a qualcosa, che se tutto sarà lasciato come prima, non potrà non compiersi definitivamente. La facoltà metafisica è paralizzata, perché quel che è accaduto ha spezzato al pensiero metafisico speculativo la base della sua compatibilità con l’esperienza.

Se «quel che è accaduto» è Auschwitz la metafisica è finita. Non può essere più concesso, sulla base di un’idea di verità, cercarne una conferma nel mondo e nella storia; viene dunque meno l’architrave del procedere speculativo hegeliano, il circolo presupposto-posto. Si dissolve quella visione dello spirito che permette, nonostante gli orrori della storia, di ritrovare in essa un senso, uno scopo, un esito che costituisca un ideale compimento, il raggiungimento del fondamento della conoscenza filosofica, qualcosa che per Hegel è possibile solo se viene simultaneamente a conquistarsi, come risultato storico, l’affermazione della libertà di tutti e di ciascuno. L’idea portante della Fenomenologia, cioè che lo spirito possa riconoscersi nel mondo, conciliarsi con esso, nel momento che, dopo la rivoluzione francese e i risultati della filosofia pratica post-kantiana, viene a maturazione la possibilità di un pieno riconoscimento fra le autocoscienze, appare ad Adorno un affronto verso le vittime della storia, un postulato meramente ideale. La grandiosa visione hegeliana per cui nel riconoscimento fra l’autocoscienza giudicante e quella agente viene a realizzarsi pienamente la figura del Sé e, in questa conquista di un soggetto individuale libero e uguale, lo spirito a sua volta arriva a riconoscere se stesso, ad essere presso di sé nel proprio altro, così da assumere quella forma adeguata che costituisce il principio della scienza filosofica, questa che è la prospettiva dell’intera Fenomenologia, appare radicalmente e irreversibilmente smentita da «quel che è accaduto»13. 163

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Ancora una volta trionfa, indicibilmente, il motivo dialettico del capovolgimento della quantità in qualità. Con l’omicidio amministrato di milioni di persone la morte è diventata così temibile come mai prima era stata. Non vi è più alcuna possibilità che essa entri nella vita vissuta dei singoli concordando in qualche modo con il suo decorso. L’individuo viene espropriato della cosa ultima e più misera rimastagli. Che nei campi di concentramento non fu più l’individuo a morire, ma l’esemplare, modifica necessariamente anche il morire degli scampati al provvedimento.

Pur all’interno di una visione antihegeliana, Auschwitz è comunque interpretato da Adorno come un evento dialettico, in esso si produce, per un aspetto essenziale come la morte, una trasformazione della quantità in qualità. Nel campo abbiamo la forma più radicale di totalizzazione, una situazione in cui viene completamente persa la possibilità della morte «propria», nel venir meno di quella unicità per cui «nessuno può morire al nostro posto». Al di là di ogni suo significato eroico o sacrificale alla morte viene tolto anche il carattere di evento individuativo. Accade così la forma di estraneazione ultima dell’individuo, che viene annientato non per sé, ma per la sua razza. L’estraneazione del giovane Marx, l’alienazione dell’uomo come «ente naturale generico», subisce una distorsione tanto macabra quanto grottesca: l’individuo non viene privato della sua Gattung, ma ucciso in suo nome, sterminato proprio a causa di una mostrusa interpretazione «dell’appartenenza alla specie». Il genocidio è l’integrazione assoluta, che si prepara ovunque gli uomini vengono omologati, come si dice in gergo militare, «scafati», finché essi, variazioni del concetto della loro completa nullità, vengono letteralmente eliminati.

L’integrazione, l’omologazione assoluta consistono nell’annullamento dell’individualità, se l’universale è tutto e il particolare nulla, ogni individuo non è che una forma del nulla, non ha consistenza in se stesso, questo che per Adorno è il segreto della modernità, trova nel genocidio il suo gesto esemplare. Hegel che celebra l’affermarsi dell’universale come spirito e Marx che vede nell’alienazione la perdita del lato «generico» dell’uomo, della sua universalità, appaiono muti di fronte al cortocircuito di una sussunzione completa dell’individualità sotto la universalità, di una perdita radicale di ogni differenza individuale. Auschwitz conferma il filosofema che la pura identità è la morte.

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Vorrei far notare che in questa denuncia Adorno si mostra molto vicino all’aborrito Heidegger e mi sembra possibile affermare che entrambi finiscano per assimilare Hegel a Schelling, a quello Schelling che però – non bisognerebbe dimenticarlo – è proprio il principale accusato della Fenomenologia14. Hegel, come è noto, denuncia con forza la schellinghiana filosofia dell’identità, il suo formalismo monocromatico per il quale si può dire che «tutte le vacche sono nere» e riconosce la mera negatività di un pensiero autoriferito. Recuperare la critica di Schelling verso Hegel in nome di una filosofia positiva, comporta quanto meno una grave perdita della complessità del rapporto fra i due grandi pensatori dell’idealismo tedesco. Hegel ricadrebbe nell’identità, in quanto l’assoluto, lo spirito si presenterebbe come una forma di identità, di unità di soggetto e oggetto, di totalizzazione. Si perde così completamente lo sforzo hegeliano di non separare l’identità dalla differenza e la rivendicazione della necessità di «salire» dal distinto, dal determinato verso l’assoluto, in modo tale che soltanto dopo aver compiuto tale «lavoro», l’assoluto possa pienamente affermarsi15. Il detto più arrischiato nel Finale di partita di Beckett, che non potrebbe esserci niente di più temibile, reagisce a una prassi che nei Lager fece la sua prima prova, e nel cui concetto, un tempo onorabile, è già in agguato teleologicamente l’annientamento del non identico.

Se Hegel è stato ricondotto a un tentativo disperato di dare un senso al negativo è forse a Beckett che bisogna rivolgersi, almeno per guardare in faccia e non esorcizzare l’orrore. Ritorna il tema della conferenza su Beckett, in cui Adorno denunciava come, dopo la seconda guerra mondiale, si fosse prodotta una distruzione capace di ricondurre a sé anche la «cultura risorta», così che «l’umanità continua a vegetare strisciando dopo che sono accadute cose a cui in verità non possono sopravvivere nemmeno i sopravvissuti»16. Il Beckett adorniano sembra far venir meno, alla fine, la stessa «debole forza messianica» benjaminiana. Nemmeno la memoria può salvare il passato, redimere la storia come «mucchio di macerie», dare coscienza della «frammentazione». In Beckett «la storia è lasciata in bianco poiché ha prosciugato la forza che la coscienza ha di pensare la storia, la forza del ricordo»17. Beckett è oltre ogni esistenzialismo, il quale concedeva in qualche modo alle vittime la libertà di accettare o di negare interiormente il martirio, nei suoi scritti il singolo diventa fino in 165

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fondo un dato transitorio. Finale di partita si svolge in una zona di equivalenza assoluta, di indifferenza (Indifferenz) tra interno ed esterno, in un vuoto in cui l’assenza di insetti conferma che la forma finale di dominio sulla natura venga ormai a coincidere con qualcosa di misero e di letale come l’insetticida. L’immagine vacua della morte è l’immagine per cui si annulla la differenza fra il dominio assoluto e la condizione messianica, si perde la distinzione fra un inferno, dove ogni mutamento è interdetto e il tempo si spazializza, e la dimensione della giustizia. Non è più possibile discernere fra la quiete del nulla e quella della conciliazione, la definitività in Beckett assume il carattere di una catastrofe senza fine. Hamm dà alla domanda di Amleto la tautologicità del «crepare» coincidente solo con se stesso e senza alternative. Auschwiz toglie ogni possibilità di cesura, di interruzione, di speranza anche se solo per i morti, viene meno ogni immagine capace di porre fine a un tormento che si perpetua nella forma monotona del sempre uguale18. La negatività assoluta è prevedibile, non sorprende più nessuno. La paura era legata al principium individuationis dell’autoconservazione, che coerentemente si abolisce. Quel che i sadici nei Lager annunciavano alle loro vittime: «domani volerai in cielo come fumo da questo camino» denota quell’indifferenza della vita di ogni singolo verso cui la storia si muove: già nella sua libertà formale egli è fungibile e sostituibile, come poi sotto i calci dei liquidatori. Ma poiché il singolo in questo mondo, dove regna universalmente il vantaggio individuale, non ha altro che questo suo Sé diventato indifferente, l’attuazione della tendenza ben nota è al tempo stesso la cosa più terrificante; da essa non si esce come dal recinto elettrificato dei Lager.

Adorno compie un estremo avvicinamento fra la forma che ha assunto la modernità e il Lager. Assistiamo all’abolirsi della paura legata all’autoconservazione individuale. Canetti attribuiva a Hobbes il merito di non mascherare il potere, di guardarlo in faccia nella sua posizione centrale in ogni comportamento umano e di far questo per la consapevolezza della natura della paura. Hobbes guarda alla paura della morte dal punto di vista del suo opposto complementare: il conatus sese praeservandi, l’istinto di conservazione19. Speranza e paura sono simultanee, non c’è spazio di tempo che, per quanto breve, non possa contenere il loro alternarsi, ed è la paura a costituire l’origine della politica. Tutto ciò di fronte a una negatività assoluta inesorabile si abolisce. La vicinanza della nostra società individualistica al Lager sta nell’indifferenza della vita di ogni singo166

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lo, qualcosa che già si annuncia in una visione della libertà esclusivamente formale che rende tutti intercambiabili. L’individualismo afferma così un Sé che ha perso specificità, unicità e che si muove in un orizzonte chiuso e totalizzante. La sofferenza incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stata un errore la frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie.

Nel farsi immagine della smisurata sofferenza reale si imprime una ferita al pudore nei confronti delle vittime. È giusto chiedersi se la potenzialità di produrre godimento propria di ogni configurazione artistica non sia un oltraggio al nudo dolore fisico. Ritorna in ciò, anche nella forma attenuata di questi accenti, la diffidenza adorniana verso il principio estetico di stilizzazione, in cui l’orrore viene trasfigurato, e quindi non assunto fino in fondo in quanto tale20. Ancora una volta la vicinanza-lontananza con Benjamin è palese: Adorno, in particolare condivide la benjaminiana presa di distanza dalla bella apparenza e l’individuare in Kafka un necessario fallimento del tentativo di dare una forma di scrittura alla deformazione del moderno21. I SADICI DI AUSCHWITZ Vorrei finire commentando questo accenno al sadismo. Vi è in proposito in Adorno qualcosa che ricorda l’atteggiamento di Lacan, il quale conclude un seminario citando l’olocausto e sostenendo che l’hegelismo e il marxismo non permettono di pensare il dramma della contemporaneità22. Lacan riprende un suo saggio Kant e Sade influenzato da Foucault e dalla Dialettica dell’illuminismo23. La tesi di Lacan è l’equivalenza fra il male, Sade, e il bene, Kant, sulla base della constatazione che in entrambi c’è una sottomissione alla legge. L’obbligo del godimento, in Sade, fa sì che il desiderio sia assoggettato alla legge di una pura volontà, in un «tu devi godere» che non lascia spazio a scarti, a slittamenti, ad alternative. In Kant la legge morale è una messa a morte del desiderio, in un «tu devi» che comanda il liberarsi dagli oggetti patologici. Sade ci chiarisce che la teoria di Kant non deriva, come ritiene la sua autocomprensione, da un’idea di libertà, ma dal desiderio, il cui oggetto è rimosso. Lacan 167

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riprende Spinoza, l’uomo non è libero che nel suo desiderio di libertà. Oggi viviamo in una dimensione in cui il bene e il male si dispongono entro uno stesso imperativo. L’eccesso di Sade permette di pensare l’evento dell’orrore assoluto. Auschwitz non è né un castigo di Dio per l’iniziativa tutta umana degli ebrei, né la definitiva morte di Dio, non costituisce un’abolizione sacrificale dell’uomo, e tantomeno un evento insensato che abolisce l’ordine divino. Si tratta piuttosto di un cedimento sul desiderio, che ha un carattere oggettivo e storico. La legge assoluta che lo elimina si impone inesorabile e totalizzante. La democrazia opulenta è l’altra faccia di Auschwitz perché costituisce l’autonegazione dell’individuo. In conclusione, Dopo Auschwitz mi è apparso un ennesimo corpo a corpo di Adorno con Hegel. Adorno riprende il motivo marxiano che il legame sociale, a partire da individui isolati e indifferenti, domina come un astratto, come un che di oggettivo e naturalistico. Viene rivolta a Hegel la sua critica al pensiero intellettualistico che separa universale e particolare, la filosofia hegeliana si mostra inadeguata a farci comprendere come il mondo sia diventato una «connessione di costrizioni», come si sia imposta una forma di dominio totalizzante che schiaccia gli individui e li espropria del loro corpo e delle loro più intime possibilità24. È dunque il negativo a costituire la posta in gioco del contrasto fra Adorno ed Hegel. Il negativo che per Hegel va certo «guardato in faccia», ma non va assolutizzato, così che confrontarsi con la devastazione è tutt’uno con il considerarla redimibile nel sapere filosofico. Il pensiero speculativo deve avere la capacità di cogliere l’antinomia della libertà, il sue essere la fonte del male, ma anche del suo superamento. Al contrario per Adorno il male ha assunto la forma della negatività assoluta, un tratto decisivo che rende inoperante, inefficace il pensiero e altamente problematica la stessa espressione artistica. Ciò che Adorno non può riconoscere alla filosofia hegeliana è la sua pretesa, proprio nell’accompagnare il finito nel suo venir meno, di costituirne una salvaguardia. Il pensiero hegeliano segue con lo sguardo quel che finisce e vede nella perdita della sua unilateratà, della pretesa di una sua sussistenza indipendente, l’origine della propria capacità di conferire senso. Hegel però nel far questo stabilisce un legame immanente fra i due piani dell’infinito e del finito, dell’eterno e del transeunte, ammettendo una reciproca dipendenza che implica che lo spirito possa trarre i propri contenuti, la 168

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propria estensione e la propria ricchezza solo dal finito, da cui, quindi, non può mai prescindere. Se Adorno, a mio parere, non rende giustizia a questo aspetto così significativo della speculazione hegeliana, ci aiuta però a mettere a fuoco un elemento a cui essa senz’altro non rivolge la dovuta attenzione. Certo, Hegel si propone di ferire l’identità e di connetterla alla non-identità e ciò significa per l’individuo uscire dalla reificazione e dalla distruttività attraverso il riconoscimento dell’altro. Adorno, tuttavia, ci fa notare che questo altro non può essere solo l’altro individuo, ma un altro in noi, che è costituito essenzialmente dalla corporeità, dalla natura interna, dalla capacità di desiderare. È questo «quel meglio che c’è già sempre sfuggito», dal quale una dialettica negativa, un pensiero che pensa contro se stesso deve essere capace di farsi riguardare.

NOTE 1 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, trad. it. Torino 2004, pp. 315-320; ID., Negative Dialektik, Frankfurt a.M. 1973, pp. 354-358. 2 G.W.F. HEGEL, Scienza della logica, trad. it. Bari 1968, pp. 54-55. 3 Per le implicazione di questa critica a Hegel cfr. TH. W. ADORNO, Tre studi su Hegel, Bologna 1971; ID., Drei Studien zu Hegel, Frankfurt a.M. 1963. 4 H. JONAS, Lo gnosticismo, trad. it. Torino 1973. 5 Hegel tematizza questo nesso tra la propria filosofia e l’epoca presente in particolare nella Prefazione e nel Sapere assoluto si veda G.W.F. HEGEL, Fenomenologia dello spirito, trad. it. Firenze 1972. 6 K. MARX, Manoscritti economico-filosofici del ’44, in ID., Opere filosofiche giovanili, trad. it. Roma 1963, p. 262 e Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in ivi, p. 19. 7 Si veda per un’argomentazione molto chiara in proposito: G.W.F. HEGEL, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. it. Torino 1981, par. 6, pp. 128129. 8 W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, trad. it. Torino 1997. In particolare si veda la Tesi IX, pp. 35-36. 9 Molto significativo è quanto viene detto in un breve testo del 1931: W. BENJAMIN, Sul carattere distruttivo, in Opere complete, trad. it. Torino 2002, pp. 521-522. 10 Marx allude alla santa casa di Loreto, al carcere dell’inquisizione a Madrid, per stigmatizzare la violenza hegeliana verso il finito, K. MARX, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in ID., Opere filosofiche giovanili, cit., p. 25. 11 Troviamo questa critica a Hegel in TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, cit., Lo spirito universale e la storia naturale. Excursus su Hegel, pp. 268-324, ID., Negative Dialektik, cit., Weltgeist und Naturgeschichte, pp. 295-353.

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12 L’immagine dialettica e il risultato di quella forma di memoria che Benjamin definisce involontaria e che costituisce un’irruzione, un’interruzione del continuum, un «lampo sulle macerie», per cui la redenzione del negativo non consisterà nel trasfigurarlo in qualcos’altro, ma nel concentrarlo in sé, nel lasciarlo essere nella sua immanente negatività, in una costellazione carica di tensione che ne libera le potenzialità inespresse; W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, cit.. 13 Per un’interpretazione del riconoscimento nella Fenomenologia, mi sia concesso rimandare a: P. VINCI, «Coscienza infelice» e «anima bella». Commentario alla Fenomenologia dello spirito di Hegel, Milano 1999, pp. 497-561. 14 Sono nella Prefazione e nel Sapere assoluto i luoghi in cui la polemica con Schelling viene esplicitamente sviluppata. 15 La necessità di «salire» dal distinto, dai contenuti determinati è nel Sapere assoluto così sottolineata: «il sapere consiste piuttosto in questa apparente inerzia la quale soltanto contempla come il distinto si muove in lui stesso e ritorna nella sua unità», G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito II, cit., p. 302. 16 TH. W. ADORNO, Tentativo di capire il Finale di partita, in ID., Note per la letteratura 1943- 1961, trad. it. Torino 1979, p. 271. 17 Ivi, p. 274. 18 La redenzione del passato e una «scintilla di speranza» vengono indicate in W. BENJAMIN, Sul concetto di storia, cit., tesi II e VI. 19 Questa tematica è presente in E. CANETTI, La provincia dell’uomo, trad. it. Milano 1978; citato in R. ESPOSITO, Communitas, Torino 1998, pp. 3 sgg. 20 TH. W. ADORNO, Impegno in ID., Note per la letteratura 1961-1968, trad. it. Torino 1979, pp. 89-110. 21 W. BENJAMIN, Franz Kafka in ID., Angelus Novus, trad. it. Torino 1974, pp. 275305. 22 E. RUDINESCO, Jaques Lacan, trad. it. Milano 1995, pp. 334-344. 23 J. LACAN, Kant e Sade in ID., Scritti II, trad. it. Torino 1974, pp. 765-794. 24 Per un commento di questa argomentazione di Adorno nei confronti di Hegel vorrei rimandare a P. VINCI, Libertà, destino e storia naturale. Adorno critico di Hegel in «Cultura tedesca» n. 26, agosto 2004, pp. 61-71.

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La meditazione sulla «metafisica» nella Dialettica negativa e nelle lezioni Stefano Petrucciani

Da quando si è avviata, da parte dell’Archivio-Adorno, la pubblicazione dei corsi universitari tenuti dal filosofo nell’ateneo francofortese, gli studiosi possono disporre di un sussidio importante per meglio interpretare il pensiero, talvolta oscuro, di questo grande maestro della scuola di Francoforte. Le lezioni, infatti, consentono di penetrare in modo più diretto la complessa tessitura del filosofare adorniano, che nei testi a stampa è talvolta resa meno evidente dallo stile complesso e stringato che caratterizza la scrittura adorniana. Perciò esse costituiscono uno strumento ermeneutico di grande valore, soprattutto quando possono essere lette quasi in parallelo e messe a confronto con l’opera pubblicata. Questa circostanza peculiare si verifica nel caso del testamento filosofico di Adorno, la Dialettica negativa, perché ai temi che in essa si dipanano Adorno ha dedicato ben quattro corsi di lezioni, che negli ultimi anni sono stati pubblicati e messi a disposizione degli studiosi1. I corsi corrispondono in modo piuttosto preciso alle diverse parti del testo del 1966, e possono essere letti a riscontro di esso. Quello del 1960-61 sul tema «Ontologia e dialettica» tratta le questioni che saranno poi oggetto della prima parte della Dialettica negativa, relativa al confronto con Heidegger; quello del 1964-65 affronta i nodi della storia e della libertà, e quindi svolge le tematiche che saranno oggetto dei primi due «Modelli» che si trovano nella Terza parte della Dialettica, e che concernono rispettivamente la filosofia della storia hegeliana e il problema della libertà nella filosofia morale di Kant. Nel semestre estivo del 1965 Adorno tiene un corso dedicato alla «Metafisica», che, nell’ultima parte, tratta i temi del terzo «Modello», quello che nel libro del 1966 reca il titolo «Meditazioni sulla metafisica». L’ultimo corso di questa serie, quello del 1965-66 dedicato proprio alla «dialettica negativa», discute questioni che si ritrovano in gran parte nell’ampia introduzione all’opera, ed è anche quello che si è conservato in modo più incompleto, e che quindi, almeno a mio giudizio, non aggiunge molto alla nostra comprensione della riflessione adorniana. 171

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Ma veniamo al corso sulla «Metafisica», al quale farò riferimento in queste mie riflessioni. L’ultima parte di esso anticipa ciò che si può leggere anche nel capitolo corrispondente della Dialettica; anzi, per la precisione, si collega alle prime cinque delle «Meditazioni sulla metafisica» con cui si conclude la Dialettica negativa. Per questa sezione del corso, come ci informa il curatore dell’edizione Rolf Tiedemann, Adorno si serviva di un «canovaccio» che costituiva una sorta di indice dei temi che sarebbero poi confluiti nell’ultima parte della Dialettica. I primi due terzi del corso, invece, introducono tematiche meno familiari ai lettori di Adorno, in quanto, dopo tre lezioni introduttive, il pensatore francofortese si dedica a un attento confronto con la Metafisica di Aristotele; il corso costituisce quindi (e questo è comunque un grande motivo di interesse), uno dei pochissimi luoghi in cui il pensatore francofortese si misura in modo ampio e dettagliato con un passaggio canonico del pensiero antico. Notevole e molto significativa è innanzitutto, in queste lezioni2, la definizione del concetto di «metafisica» che Adorno propone (tanto più significativa in quanto, come è noto, egli da buon hegeliano nutriva assai poca fiducia nella utilità per il pensiero di definizioni precise). Il primo pensatore propriamente «metafisico», per Adorno, non è né Parmenide né Platone, ma Aristotele. Adorno insiste nel sottolineare, di fronte ai suoi studenti, il carattere alquanto singolare ed «eccentrico» di questa tesi, a partire dalla quale però egli svolge e precisa il primo senso in cui, a suo avviso, il concetto di «metafisica» dev’essere innanzitutto definito. La «metafisica» – per il pensatore francofortese – non si identifica con il postulare, come accade in Platone, un mondo invariante e sottratto al divenire che si collochi al di là di quello corruttibile dell’esperienza sensibile. Il carattere peculiare e specifico del pensiero metafisico, che in buona misura coincide con la grande tradizione della filosofia occidentale, consiste piuttosto nel tentativo di pensare in modo organico il nesso, la mediazione, tra le due sfere che ancora in Platone restavano radicalmente separate, e cioè da un lato la dimensione delle strutture invarianti, apriori, sottratte al divenire, e dall’altro quella dell’esperienza cangiante e corruttibile. La metafisica occidentale comincia dunque con Aristotele perché lo stagirita non considera più il molteplice e il diveniente come un «non ente», ma pone tematicamente come questione fondamentale del suo pensiero quella di articolare il rapporto tra il permanente e il diveniente, l’immobile e ciò che si trasforma. 172

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In un secondo senso, invece, metafisica, o meglio ancora «esperienza metafisica», sta a indicare uno strato che appartiene allo stesso pensiero dialettico-negativo adorniano, il momento in cui il pensiero si spinge ai suoi limiti più estremi, si affaccia sulle «questioni ultime», e quindi si addentra esso stesso nella problematica «metafisica» in un modo però che Adorno definirebbe «non affermativo», irriducibile a quello della tradizione e anzi, in un certo senso, contrapposto ad esso. Se questo è vero, si deve allora trarne la conseguenza che il pensiero di Adorno non è propriamente un pensiero postmetafisico (come quello di Habermas, che invece qualificherà esplicitamente il suo come nachmetaphysisches Denken3), ma, per dirla con le parole di Adorno stesso, un pensiero che è solidale con la metafisica proprio nel momento della sua caduta, o, per esprimersi in altri termini, è un pensiero che recupera la questione metafisica proprio nel momento in cui essa non può più venir affrontata nei modi che furono propri della tradizione dominante della metafisica occidentale. Ricapitolando questo punto, potremmo dire che, nel corso ad essa dedicato da Adorno, la «metafisica» si dice in due modi diversi: in un primo senso essa designa la grande tradizione della filosofia occidentale, con il suo tentativo di pensare la mediazione tra l’eterno e il tempo, l’immobile e il cangiante, la struttura e l’evento. In un secondo senso, invece, «esperienza metafisica» designa, per Adorno, il puntolimite dove l’esperienza o il pensiero inviano le loro sonde oltre la realtà data e positivamente determinabile: il confine dove questa s’incrina o si sospende. Tra i due sensi, peraltro, vi è un nesso ben chiaro, ma nel segno della discontinuità; mentre la metafisica è una costruzione affermativa che in quanto tale conferisce senso al mondo e lo «salva», proprio in quanto pone in rapporto ciò che è diveniente e corruttibile con ciò che è stabile e immutabile, l’esperienza metafisica si situa quasi al polo opposto: assume il non esserci di un qualsivoglia senso del mondo che sia positivamente dato, ma proprio da questo non, da questa negatività e mancanza, trae paradossalmente il motivo per lasciare aperto lo spiraglio della speranza o dell’utopia. È proprio a partire da riflessioni come queste che si può porre il tema di quella «esperienza metafisica» intorno a cui si interrogano sia la Dialettica negativa che l’ultima parte del corso adorniano del 1965. Mentre la metafisica idealistica metteva capo a una rappresentazione del mondo come cosmo pieno di senso, dopo Auschwitz ogni visione di questo genere non è più proponibile. 173

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Nella parte delle lezioni che introduce il tema dell’esperienza metafisica Adorno esordisce perciò sottolineando la rilevanza dell’intratemporale anche per la speculazione filosofica: «chi continua a coltivare la metafisica di vecchio stile senza preoccuparsene e considera ciò che è successo, al pari di tutto ciò che è semplicemente terrestre e umano, come qualcosa che sta al di sotto della dignità della metafisica, e quindi lo allontana da sé, costui si rivela un non-uomo»4. «Dopo Auschwitz è impossibile sollecitare la positività di un senso dell’essere. È divenuto impossibile quel carattere affermativo della metafisica che essa ha avuto per la prima volta nella dottrina aristotelica e già in quella platonica. L’affermazione di un’esistenza o di un essere, concepito come in sé dotato di senso e ordinato al principio divino, sarebbe, come tutti i principi del vero, del bello e del buono che i filosofi hanno concepito, soltanto un puro scherno rispetto alle vittime e all’immensità del loro supplizio»5. Adorno naturalmente non è ingenuo: capisce benissimo che la coscienza filosofica, come quella degli studenti suoi ascoltatori, resiste all’idea che un fatto empirico possa condizionare in modo determinante la riflessione sulle questioni ultime della filosofia, sulla verità, sul senso. Ma replica che ciò che il Novecento ha sperimentato (lo sterminio nazista di massa, la bomba atomica, – riferimento che è presente nelle lezioni ma, se non m’inganno, è assente nella Dialettica negativa – l’uso sistematico della tortura) configura una trasformazione della quantità in qualità: se la metafisica e la teologia hanno sempre avuto il problema di spiegare il male e il negativo (fino al dibattito sul terremoto di Lisbona e al Candido di Voltaire) di fronte al salto qualitativo del Novecento le risposte già insufficienti diventano qualcosa di diverso, oltraggiose e ridicole. Certo, apparentemente, dice Adorno nelle lezioni, rimarrebbe aperta la strada di una teologia del totalmente altro, del Dio indeterminabile e incomprensibile; ma a ben guardare essa non fa altro che confermare la tesi che appunto Adorno sostiene, e cioè l’impossibilità di render conto del fenomeno storico dentro un qualsiasi pensabile orizzonte metafisico di senso. Il pensiero, perciò, deve fare i conti con l’impossibilità di ricondurre a un disegno sensato un orizzonte storico dove sembra caduto ogni limite che si potesse porre al male, all’orrore, all’insignificanza della vita umana. Il tema portante delle Meditazioni sulla metafisica è proprio questo: se sia pensabile una qualche forma di redenzione o di riscatto dalla sofferenza e dalla morte, se e in che misura queste costi174

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tuiscano un fatto ultimo e irredimibile, o se invece non si possa in qualche modo pensare diversamente, aprire una qualche prospettiva di salvezza o di speranza, o addirittura di trascendenza rispetto alla condizione data per natura dell’esistenza umana. Il tema di Auschwitz, che sgombra il campo da ogni facile recupero del senso, conduce dunque a quello della morte. Adorno lo affronta innanzitutto in polemica con Heidegger, la cui riflessione, secondo l’autore della Dialettica negativa, tenta fallacemente di conferire un senso alla morte superandone la non integrabilità e la non pensabilità, incorporandola in un tutto dell’esserci che sarebbe in qualche modo dotato di senso. In questo modo la ribellione della coscienza alla morte è solo apparentemente superata, e in ultima analisi le tesi di Heidegger finiscono per essere, secondo Adorno, antiumanisticamente acquiescenti alla possibilità di trovare comunque alla morte un senso. Contro Heidegger, Adorno insiste invece su due punti: la non assimilabilità della morte nella concreta esperienza dell’essere umano e la fallacia di trattare la morte come se fosse un dato della condizione umana astorico e permanente. Per Adorno, invece, anche il morire è, come ogni altro aspetto dell’umano, storicamente e socialmente mediato: non a caso, polemicamente, la terza meditazione sulla metafisica si intitola «Morire oggi». Nelle lezioni Adorno discute insieme il tema della storicità del morire e quello della sua inassimilabilità, che nella Dialettica negativa sono trattati rispettivamente nella terza e nella nona delle Meditazioni sulla metafisica. Soffermiamoci dunque brevemente su questi due aspetti della sua riflessione. In che senso la morte è inassimilabile? Nel senso, ci sembra di capire, che la coscienza non è in grado di metabolizzare realmente in se stessa il fatto del dover morire, e quindi deve procedere in qualche misura a «neutralizzarlo». Con spirito indubbiamente polemico, Adorno ricorda che certamente Heidegger, in Essere e Tempo, ha colto questo punto, ma non ha detto nulla di nuovo o di originale, perché già Schopenhauer cento anni prima, nel Mondo come volontà e rappresentazione, aveva detto a questo proposito tutto quello che c’era da dire: «il pensiero della morte certa e mai lontana non turba in modo rilevante alcun uomo, come se dovesse vivere eternamente; cosa che arriva al punto da potersi dire che nessuno ha una convinzione davvero viva della certezza della propria morte, perché altrimenti non potrebbe esserci una differenza tanto grande tra il suo stato d’animo 175

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e quello del malfattore condannato a morte; piuttosto l’uomo, pur riconoscendo questa certezza in abstracto e teoricamente, la mette da parte come altre verità teoriche, che però non sono applicabili alla prassi, senza accoglierla affatto nella sua coscienza vivente»6. Al di là della straordinaria lucidità dell’osservazione schopenhaueriana, Adorno però muove un rilievo che colpisce parimenti tanto Schopenhauer quanto Heidegger: entrambi vedono la neutralizzazione, o meglio la rimozione della morte come una caratteristica dell’essere umano in quanto tale, non la attribuiscono invece agli uomini in quanto «prodotti storici»7. Ma quale sia su questo preciso punto la posizione di Adorno non è molto facile da capire. Per un verso egli afferma, nella pagina che stiamo commentando, che la «coscienza aperta» che distingue l’uomo dall’animale implica al tempo stesso che egli abbia, a differenza dell’animale, la dolorosa o angosciante consapevolezza della propria necessaria morte. Per altro verso fa l’ipotesi che il permanere dell’eredità animale e la forza dell’impulso di autoconservazione costringano a depotenziare o a neutralizzare quella coscienza. La posizione di Adorno su questo tema ci appare quindi, per sua stessa ammissione, in una certa misura oscillante. Nelle lezioni, dove l’obbligo di chiarezza prevale, Adorno si esprime così: «Ciò che intendo è […] che evidentemente l’esperienza degli uomini non ce la fa a sostenere la coscienza della morte». Ma subito dopo aggiunge: «Io esito, non so se si tratti realmente di una sorta di fatto biologico, che risale quindi alla nostra storia umana cosciente, o se si tratti di qualcosa di storico»8. E poco dopo continua: «mi sembra che noi stessi, che in questo sapere, se volete, ci siamo elevati al di sopra della natura potendo riflettere in questo punto decisivo la nostra conformità alla natura, siamo d’altra parte proprio in questo punto così naturali, cioè tanto prigionieri del nostro interesse all’autoconservazione, all’autoperpetuazione, che siamo in grado di fare questa esperienza solo in un modo stranamente astratto»9. E infine: «Evidentemente la nostra coscienza è semplicemente rimasta troppo debole per sostenere l’esperienza della morte»10, ma si tratta di una debolezza che forse può essere storicamente spiegata. Su questo punto Adorno, nelle lezioni, si spinge più oltre di quanto non faccia nel testo a stampa: la difficoltà di assumere la coscienza della propria mortalità si connette al modo in cui, anche nella filosofia, la coscienza intende se stessa: «Poiché la coscienza si crede eterna nelle sue forme, quindi nelle forme del pensiero puro, si 176

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irrigidisce di fronte a tutto ciò che le potrebbe ricordare il proprio terreno vacillante, la propria caducità»11. Significativa è anche un’altra riflessione che Adorno introduce a questo punto, e che non si trova nel testo a stampa: prendendo le mosse da un pensiero di Ernst Bloch, Adorno riprende quello che giudica essere uno dei motivi più importanti (accanto a quello dell’utopia) nel pensiero blochiano: «nel mondo in cui siamo nessuna vita umana, la vita di nessun singolo uomo, raggiunge ciò che ognuno di noi potrebbe essere. Un’idea che del resto è antica, che nell’illuminismo è stata espressa da Helvetius, ma che in lui si presentava ancora carica di illusione, come se bastasse solo l’educazione per cambiare questa realtà e per elevarci, se così posso dire, alla nostra possibilità, per raggiungere un’identità tra la nostra potenza e il nostro atto»12. Adorno riprende questo concetto portandolo al di là di quella che egli giudica come l’ingenuità illuministica: «solo se noi fossimo noi stessi, se quindi in una vita, cioè radicalmente nella vita di ogni singolo uomo, si realizzasse l’infinita possibilità che c’è realmente nella vita di ogni singolo uomo […] solo se si raggiungesse una simile condizione in cui fossimo realmente identici a ciò che non siamo e di cui nell’intimo sappiamo, se vogliamo dirla tutta, che potremmo esserlo e divenirlo, solo allora esisterebbe forse la possibilità di morire conciliati […] solo allora forse – conclude Adorno – saremmo padroni dell’esperienza della morte»13. Riepilogando, il senso delle considerazioni fin qui riportate: l’impossibilità di integrare pienamente nella nostra coscienza la condizione della mortalità è per Adorno, in ultima istanza, e al di là di tutti i dubbi che egli stesso solleva, una situazione storica. Questo punto è espresso con chiarezza in un passaggio della terza meditazione: «nella società socializzata, nel tessuto fitto e senza uscite dell’immanenza, gli uomini sentono la morte solo più come esteriore a loro ed estranea, senza l’illusione della sua commensurabilità con la loro vita. Essi non possono incorporarsi il dover morire»14. Per spiegare questa impossibilità non basta sostenere che l’Io, in quanto principio di autoconservazione, è costitutivamente incapace di integrare la sua negazione: bisogna entrare nella costellazione storica concreta e vedere ciò che ne è stato, in essa, della vita umana. «Quanto meno i soggetti ormai vivono, tanto più è improvvisa, terribile la morte». «La morte e la storia, in particolare quella collettiva della categoria di individuo, formano una costellazione». Con il crollo dell’individuo nell’attuale costituzione postborghese della società, anche la morte assume un segno diverso e storicamente specifico: «viene annientata una nullità in sé e forse 177

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anche già per sé. Da qui il panico permanente davanti alla morte. Non lo si può più placare se non con la rimozione di essa»15. La mortalità non è un fenomeno originario o una condizione sempre uguale a se stessa, ma è inscindibile dall’intreccio storico. Se la vita fosse diversa, come Adorno ha detto nelle lezioni, si potrebbe forse persino pensare alla possibilità di «morire conciliati»; e una diversa coscienza, forse, non avrebbe neanche bisogno di proteggersi così tanto dalla consapevolezza della propria mortalità, cosa che è sempre accaduta sia con la rimozione (messa in risalto prima da Schopenhauer e poi da Heidegger) sia con i sistemi protettivi mitico-religiosi che, scrive Adorno, «avevano promesso di togliere il pungolo alla morte»16 ma nel frattempo hanno perso buona parte della loro credibilità. Comunque, se la morte sta sempre in una costellazione storica, anche l’idea che la coscienza abbia comunque bisogno di rimuoverla o di nasconderla attraverso sistemi protettivi non ha un valore assoluto, è più l’indice di una esperienza storica che non di una condizione antropologica. Questo punto è ribadito nella nona meditazione di Dialettica negativa: «Non bisogna farsi sviare – dice Adorno – da speculazioni antropologiche» che giungerebbero alla conclusione che l’attaccamento animale all’autoconservazione renderebbe all’uomo inaccessibile la piena coscienza della propria mortalità. «Sarebbe una sconsolante prospettiva – continua – se l’ottusità di ogni ideologia risalisse, per così dire biologicamente, a una necessità dell’autoconservazione, e non dovesse affatto sparire con una giusta organizzazione della società, mentre invece solo nella società potrebbe schiudersi la possibilità di una vita giusta»17. Che la coscienza umana sia condannata a una sorta di intrascendibile stato di minorità è qualcosa che Adorno, l’illuminista e il teorico critico, non può accettare. E non da ultimo perché, se così fosse, l’ideologia avrebbe l’ultima parola, il cieco bisogno di rimozione e di rassicurazione prevarrebbe sulla coscienza lucida, forse pregiudicando anche il suo arduo cammino di autoemancipazione. Tuttavia, nel rifiuto della coscienza di integrarsi la morte c’è anche, mi sembra, qualcosa che non può essere lasciato cadere. «A ciò si appiglia – dice Adorno – un brandello traverso, disseminato di speranza»18. Vi è una certa, debole «capacità di resistenza dell’idea di immortalità»19 dalla quale neppure la dialettica negativa vuole congedarsi fino in fondo. Questo lato della riflessione di Adorno, che non viene sviluppato nelle lezioni, è delineato in formulazioni molto nitide nell’ultima 178

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parte della terza meditazione. In questo passaggio, Adorno si esprime come segue: Ciò nonostante il pensiero che la morte sia l'assolutamente ultimo non può essere pensato fino in fondo. I tentativi del linguaggio di esprimere la morte sono vani sin nella logica; chi sarebbe il soggetto di cui qui si predica, che è morto qui e ora? La caducità non guasta solo il piacere che, secondo il detto illuminato di Nietzsche, vuole l’eternità. Se la morte fosse quell’assoluto che la filosofia ha invano evocato positivamente, allora tutto sarebbe assolutamente niente, anche ogni pensiero sarebbe pensato a vuoto, nessuno si lascerebbe in qualche modo pensare. Infatti è un momento della verità che essa duri insieme al suo nucleo temporale: senza durata non ve ne potrebbe essere alcuna, la morte assoluta avvinghierebbe pure l’ultima traccia di essa. L’idea di morte assoluta si prende gioco del pensiero non meno di quella d’immortalità. Ma ciò che nella morte non si può pensare fino in fondo non rende il pensiero immune dall’inaffidabilità di ogni esperienza metafisica20.

Queste riflessioni, che meriterebbero un lungo commento, si devono leggere insieme a un brano della Ricerca del tempo perduto di Marcel Proust (che Adorno ricorda a lezione e nella Dialettica, e che ha commentato in un breve scritto raccolto nelle Note per la letteratura) dove questi riflette sulla morte dello scrittore Bergotte, dietro cui si cela Anatole France: «Nelle condizioni della nostra vita su questa terra, non c’è ragione per cui ci sentiamo obbligati a fare il bene, a essere delicati, e persino cortesi […]. Tutti questi obblighi, i quali non trovano sanzione nella vita presente, sembra appartengano a un altro mondo, fondato sulla bontà, lo scrupolo, lo spirito di sacrificio, un mondo interamente diverso dal nostro e di dove usciamo per nascere a questo, e nel quale ritorneremo forse a vivere sotto l’imperio di quelle leggi ignote cui abbiamo obbedito perché ne rechiamo in noi l’insegnamento, senza sapere chi le abbia formulate: quelle leggi cui ci ravvicina qualsiasi lavoro profondo d’intelligenza e che rimangono invisibili soltanto (e non soltanto) agli sciocchi. Perciò, l’idea che Bergotte non fosse morto per sempre non è del tutto inverosimile»21. «La riflessione che conduce a ciò – commenta Adorno – è quella secondo cui la forza morale del poeta per il quale egli [Proust] scrive l’epitaffio appartiene a un ordinamento diverso da quello naturale e perciò promette che questo non è l’ultimo»22. Nella Dialettica negativa Adorno, prima di far riferimento al passo di Proust, svolge una considerazione che va nello stesso senso: «Parlare di pienezza della vita, un lucus a non lucendo anche là dove riluce, è vano di fronte alla sua smisurata 179

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sproporzione con la morte. Se essa è irrevocabile, è ideologica anche l’affermazione di un senso che appare nello splendore di un’esperienza frammentaria, seppur genuina»23. Quale sia il punto d’approdo cui queste riflessioni mettono capo (se di punto d’approdo si può parlare, cosa ovviamente molto dubbia) non è semplice da dire. La linea da seguire, però, ce la offrono, nella loro franchezza disarmata, proprio le ultime parole con le quali si chiude il corso adorniano sulla metafisica: «non si può sentire come vivo nulla che non prometta al contempo una realtà che trascende la vita. Questo trascendente quindi è e al tempo stesso non è, – e molto difficilmente si può pensare, forse non lo si può affatto, oltre questa contraddizione»24. Proviamo a sciogliere un po’ la secchezza lapidaria di questa affermazione, che ritroviamo anche nella quarta meditazione della Dialettica. Cosa vuol dire che, come si legge nella Dialettica, «il trascendente c’è e non c’è»?25: questa affermazione paradossale significa, in buona sostanza, che non reggono né la negazione nichilistica del trascendente, né la sua affermazione metafisica. La prima fallisce perché naufraga sulla sua stessa impensabilità logica: l’idea della verità non avrebbe senso se non implicasse, come Adorno ha scritto, permanenza; essa quindi trascende il tempo e la caducità. E come è autocontraddittorio negare la verità, così è pragmaticamente insensata l’affermazione che la vita non ha senso. Si obietterebbe: «e allora perché tu vivi?»26. Il trascendente sembra quindi, un po’ come nella «Dialettica trascendentale» di Kant, una apparenza necessaria27. D’altra parte ogni tentativo di prenderne positivamente possesso, di determinare concettualmente e positivamente il trascendente, si involge a sua volta in contraddizioni. Perciò «il concetto della regione intelligibile sarebbe quello di qualcosa che non c’è, e però non solo non c’è»28. Il pensiero finito, anche per pensarsi come tale, non può fare a meno di pensare ciò che non sarebbe finito. Perciò la trascendenza è tanto poco positivamente posta quanto poco può essere positivamente sbarrata. In sostanza si tratta quindi, per Adorno, di cercare una via di comprensione che non sia né quella della metafisica né quella del nichilismo: se la prima è sbarrata, la seconda non lo è di meno, anzi, è ancora più palesemente autocontraddittoria. Se c’è una via d’uscita, essa dev’essere perciò trovata proseguendo e radicalizzando il pensiero nella sua propria natura dialettica. L’insegnamento che si può trarre dalla dialettica come Adorno la intende è che nessuna determinazione positiva può essere bloccata, 180

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assolutizzata, nessuna è sottratta al processo in divenire delle sue molteplici mediazioni. Ma se è così ne deriva dunque, in modo pienamente conseguente, che non solo non si deve dar troppo credito alla persistenza granitica dei rapporti sociali esistenti, che sono anch’essi divenuti e caduchi, ma non può essere neppure assolutizzata, su un piano per così dire «metafisico», la mancanza di senso, la dolorosità e la caducità della vita umana di cui facciamo quotidianamente esperienza, l’insuperabilità della morte. L'affermazione metafisica di un mondo «pieno di senso», dopo Auschwitz, è divenuta una bestemmia, e non può più essere presa per buona. Ma neppure l'affermazione del non senso, della irredimibilità della vita e della storia dal dolore, dalla violenza e dalla morte può essere posta come intrascendibile o come assoluta. Porre il senso come positivamente già dato è blasfemia o idolatria; ma alla posizione della morte come assoluto si oppone non solo la modestia di un pensiero che non riconosce più assoluti, ma una sorta di forza di resistenza quasi «logica», che inopinatamente apre un varco anche alla speranza più audace. Il pensiero che resta fedele alla dialettica, quindi (questo ci sembra il vero punto d’approdo della riflessione adorniana) è quello che, opponendosi a una forza di gravità quasi irresistibile, riesce a non disperare delle sue prestazioni ma al tempo stesso a non assolutizzarle, a soffermarsi presso l’irrisolto, il paradossale e il contraddittorio, e proprio per questo a mantenersi aperto: «Wo Sinn ist, ist er beim Offenen, nicht in sich Verschlossenen» («Se c’è senso è nell’apertura, non nella chiusura in sé»)29. Solo qui rimane non preclusa la via verso un impercettibile varco della speranza, che è negata invece dal pensiero che si arroga ingenuamente di possedere positivamente il senso, e fallisce. Adorno segue una strada opposta: quella che, senza rinunciare alla stringenza e al rigore del pensare, si mantiene però anche consapevole della sua condizionatezza e dei suoi limiti. Ma allora è proprio in questa debolezza che, paradossalmente, il pensiero trova la sua forza più grande: restando negativo, prendendo coscienza della sua caducità, il pensiero lascia aperta la prospettiva utopica che anche questa sia a sua volta caduca, che il dato non abbia l’ultima parola.

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NOTE 1 I corsi che Adorno dedicò ai temi poi confluiti nella Dialettica negativa sono i seguenti: Ontologie und Dialektik (1960-61), hrsg. von R. Tiedemann, Frankfurt a. M. 2002; Zur Lehre von der Geschichte und von der Freiheit (1964-65), hrsg. von R. Tiedemann, Frankfurt a. M. 2001, Metaphysik. Begriff und Probleme (1965), hrsg. von R. Tiedemann, Frankfurt a. M. 1998 (ed. it. a cura di Stefano Petrucciani, trad. it. di Luigi Garzone, Torino 2006); Vorlesung über negative Dialektik (1965-66), hrsg. von R. Tiedemann, Frankfurt a. M. 2003. 2 Per quanto riguarda la definizione del concetto di «metafisica» è da vedere anche la trentatreesima lezione del corso adorniano sulla Terminologia filosofica (a cura di R. Zur Lippe, Frankfurt a. M. 1973, trad. it. Torino 1975, nuova ed. 2007). 3 J. HABERMAS, Il pensiero postmetafisico, Roma-Bari 1991. 4 TH. W. ADORNO, Metafisica. Concetto e problemi, cit., p. 123. 5 Ibidem. 6 A. SCHOPENHAUER, Il mondo come volontà e rappresentazione, Bari 1979, vol. II, p. 374; citato in ADORNO, Dialettica negativa, Torino 2004, p. 355. 7 Ibidem. 8 TH. W. ADORNO, Metafisica, cit., pp. 159-160. 9 Ivi, p. 160. 10 Ibidem. 11 Ivi, pp. 160-161. 12 Ivi, p. 161. 13 Ibidem. 14 Dialettica negativa, ed. it. cit., p. 332. 15 Ivi, p. 333. 16 Ibidem. 17 Ivi, p. 355. 18 Ivi, p. 332. 19 Ivi, p. 333. 20 Ivi, p. 334. 21 M. PROUST, La prigioniera, Milano 1970, pp. 182-83. 22 TH. W. ADORNO, Note per la letteratura, vol. I, Torino 1979, p. 201. 23 TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, ed. it. cit., p. 340. 24 TH. W. ADORNO, Metafisica, trad. it. cit., p. 176. 25 Dialettica negativa, cit. p. 338. 26 Ivi, p. 339. 27 Ivi, p. 353. 28 Ivi, p. 352. 29 TH. W. ADORNO, Metaphysik; trad. it. cit., p. 177.

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«Possibilità dell’impossibile» Figure de ‘Le meditazioni sulla metafisica’ Dario Gentili

LA METAFISICA DOPO AUSCHWITZ Nell’ultimo capitolo di Negative Dialektik, Meditationen zur Metaphysik, dopo Kant, Adorno affronta la questione della metafisica e le condizioni della sua possibilità e pensabilità, in un senso nient’affatto anacronistico. Infatti, come evidenzia il titolo del primo paragrafo del capitolo, una sorta di promemoria, che deve accompagnare ogni successiva argomentazione, Le meditazioni sulla metafisica s’inscrivono all’interno dell’orizzonte del dopo Auschwitz. Dopo il criticismo kantiano e l’idealismo hegeliano, che per Adorno hanno ricondotto il non-identico all’identità posta dal soggetto, individuale o sociale che sia, e, seppur diversamente, hanno bandito la trascendenza dalla conoscenza; dopo Auschwitz, è ancora possibile un pensiero che rinunci a una metafisica, a pensare una trascendenza svincolata dalla proiezione identificante del soggetto? Per Adorno, a più livelli, Auschwitz è il risultato conseguente dell’immanentizzazione, della burocratizzazione amministrativa, della positivizzazione in termini scientifici del senso. Auschwitz è la «negatività assoluta» non più respinta al di fuori del pensiero, ma divenuta regola immanente, «principio della società che sussiste fino alla sua autodistruzione»1. Dopo Auschwitz, «La negatività assoluta è prevedibile, non sorprende più nessuno»2. Con Auschwitz, dunque, la negatività assoluta avrebbe finalmente trovato la propria collocazione all’interno del pensiero, che adesso sarebbe capace di comprendere l’«impossibile»? Non è proprio così. Si potrebbe sostenere che la «negatività assoluta» – che per Hegel è al di fuori della dialettica, la trascende – è stata assimilata nella dialettica dell’attuale sistema sociale, che la rende «negazione determinata» nel momento in cui coloro che sono scampati ad Auschwitz, per superare la loro condizione e integrarsi per sopravvivere, devono ricorrere alla «freddezza, il principio basilare della società borghese, senza cui Auschwitz non sarebbe stato possibile»3. «Pensare Auschwitz», per Adorno, signi183

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fica ricostruire nel pensiero una possibilità già compromessa con la realtà, piuttosto che con la sua impossibilità. Essendo stata possibile, Auschwitz non è più impossibile; Adorno lo afferma chiaramente nelle lezioni del 1965 relative a Le meditazioni sulla metafisica: «[…] il mondo dopo Auschwitz, cioè il mondo in cui Auschwitz fu possibile, non può più essere lo stesso di quello di prima. E se ci si osserva e analizza precisamente, credo che si trovi che fin nelle più segrete reazioni che si hanno, ha la sua importanza decisiva appunto la coscienza di vivere in un mondo in cui ciò è possibile – di nuovo possibile e anzitutto possibile»4. BANALITÀ Auschwitz diventa possibile nel momento in cui la «vita biologica» assurge a categoria di pensiero. La crisi del pensiero metafisico tradizionale, la riduzione della trascendenza a immanenza, ha prodotto il principio di autoconservazione per cui la vita biologica è divenuta il centro del pensiero filosofico e, quindi, sulla scorta di un pensiero votato a un positivismo che privilegia i mezzi rispetto ai fini, questa è divenuta disponibile per la ragione strumentale. Con la vita biologica anche la sua negazione assoluta è divenuta oggetto tra gli altri del pensiero. Dopo Auschwitz, nell’immanenza di un reale dove «tutto è possibile», Adorno non può sostenere un recupero della trascendenza nel senso di un aldilà del pensiero, né di un pensiero dell’impossibilità; ha già stigmatizzato come regressive le filosofie che positivizzano ciò che la ragione illuminista ha «bandito» dal pensiero e, anche in questo capitolo, la figura del «bando» torna più volte, sia nel senso delle filosofie irrazionaliste che si fondano sull’aldilà del pensiero (il «bandito» in quanto «fuori-legge», «fuori-legalità»), sia nel senso di quelle filosofie che fondano il presupposto del pensiero su quanto il pensiero ha esiliato, bandito dal suo ambito (sensibilità, corporeità, ecc.). Piuttosto, l’impossibilità è sempre e soltanto del pensiero; in quanto dialettica, la «dialettica negativa» impone di restare dentro il pensiero e la ragione: «Se la dialettica negativa richiede l’autoriflessione del pensiero, questo implica tangibilmente che il pensiero per essere vero debba pensare, almeno oggi, anche contro se stesso. Se non si adegua all’estremo, a ciò che sfugge al concetto, allora è sin dall’inizio del tipo di quella musica d’intratte184

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nimento, con la quale le SS amavano coprire gli urli delle loro vittime»5. La «dialettica negativa» deve contemplare nel pensiero quanto resiste alla concettualizzazione, quell’«estremo» che ogni volta mette in scacco il pensiero e la dialettica stessa. Per restare negativa, la dialettica deve fallire come dialettica hegeliana: la dialettica negativa non è una tipologia di dialettica tra le altre, non è nemmeno uno sviluppo di quella hegeliana, piuttosto è il metodo di pensiero che più s’approssima all’«estremo», ma al contempo se lo lascia sfuggire. Per farsi portatrice di un’«esperienza metafisica» ancora possibile, è proprio nell’identificazione di metafisica e logica della dialettica hegeliana, che la dialettica negativa deve fallire6: «Per questo è necessario che la dialettica, che è insieme l’impronta dell’universale contesto di accecamento e la sua critica, si rivolti in un ultimo movimento anche contro se stessa»7. Nel momento in cui Auschwitz è stata «possibile», per Adorno, al giorno d’oggi, neanche più l’autodistruzione e lo sterminio di massa rappresenterebbero l’«estremo»: Auschwitz ha fatto saltare quei «nessi logici» con cui la metafisica tradizionale assicurava al mondo la sua sensatezza, per evidenziare invece la superfluità e la superficialità della questione stessa del senso; nelle lezioni, Adorno scrive: «Penso quindi, in altre parole, che la tesi metafisica dell’esistenza di un senso del mondo o persino di un progetto cosmico che sta alla base di tutto ciò che accade nel mondo, vada in protesto nel momento in cui manca la costruzione di un nesso logico tra ciò che è accaduto e queste idee [metafisiche]»8. Ciò che resta di un pensiero che ha ormai rovesciato il principio di autoconservazione in distruzione indiscriminata non è la sua «illogicità» o «insensatezza», che si potrebbero ancora considerare «posizioni» di una metafisica del senso, bensì la sua banalità. Nel livellamento generalizzato della ragione strumentale e della società borghese, la ricerca delle ragioni di Auschwitz incontra la definizione arendtiana della «banalità del male»: «Allora, quale possa essere il giudizio sulle opere di Hannah Arendt, e il mio è molto critico – ad ogni modo però ella ha ragione nell’identificare il male con il banale. Solo che lo volgerei altrimenti; non direi che il male è banale, bensì che il banale è il male – cioè la forma della coscienza e dello spirito, che si adegua al mondo come è, che ubbidisce al principio d’inerzia»9. In Le meditazioni sulla metafisica, per Adorno, con il «bandire» l’impossibilità, secondo la sua etimologia, questo stesso «bando» costringe il pensiero alla «banalità», a quanto è più superficiale e in superficie: «[La filosofia] viene qui shockata dal fatto che 185

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quanto più a fondo, con quanta più forza essa scava, tanto più le viene detto che si starebbe allontanando da come stanno le cose; le intuizioni più superficiali e più triviali potrebbero, non appena fosse stata svelata l’essenza, avere ragione di quelle che mirano all’essenza»10. Nonostante le remore di Adorno, in effetti, è in termini non troppo dissimili che Hannah Arendt spiega, in una nota lettera, la «banalità del male» a Gershom Scholem: «Hai completamente ragione: ho cambiato idea e non parlo più di “male radicale”. […] Quel che ora penso veramente è che il male non è mai “radicale”, ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso “sfida”, come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua “banalità”»11. SPERANZA Soltanto come reale impossibilità la possibilità resta possibile. Dopo Auschwitz, allora, per il pensiero, cosa resta ancora della «possibilità dell’impossibile»? Adorno utilizza quest’espressione a proposito di Benjamin, in Charakteristik Walter Benjamins: «[Benjamin] obbliga il concetto a operare esso stesso ad ogni istante ciò che altrimenti è riservato all’esperire aconcettuale. Il pensiero deve raggiungere lo spessore dell’esperienza e tuttavia non rinunciare a nulla del suo rigore. L’utopia della conoscenza ha però l’utopia come contenuto. Benjamin la chiamava l’“irrealtà della disperazione”. La filosofia si ispessisce a esperienza affinché le si dischiuda la speranza. Questa appare tuttavia unicamente come rifratta. Se Benjamin sovraespone deliberatamente i suoi oggetti per farne risaltare i contorni nascosti che un giorno dovranno palesarsi nello stadio della conciliazione, al tempo stesso si spalanca, inaccessibile, il baratro tra questo e l’esistenza. […] Nel paradosso della possibilità dell’impossibile, per un’ultima volta si sono ritrovati insieme in lui misticismo e illuminismo. Egli si è liberato del sogno senza tradirlo e senza farsi complice di ciò in cui i filosofi sempre si sono trovati d’accordo: che questa unione non è possibile»12. La «possibilità dell’impossibile» corrisponde a una forma di conoscenza alternativa a quella fondata sull’adaequatio rei atque cogitationis della ragione 186

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strumentale; detto altrimenti: una forma di conoscenza paradossale, che consiste nel conoscere il sogno in quanto sogno, senza tradirlo riducendolo a realtà; conoscere l’utopia in quanto u-topia, senza darle «luogo»; conoscere sogno e utopia in quanto possibilità di una conciliazione, di una redenzione impossibile per l’esistente, che lo rivela anzi nella sua inconciliabilità e irredimibilità, nelle sue «fratture e crepe», «deformato e manchevole». Conoscere il sogno e l’utopia significa marcare e sigillare la loro differenza rispetto al reale. L’aforisma conclusivo dei Minima moralia, Zum Ende, scritto negli stessi anni di Charakteristik Walter Benjamins, gli corrisponde quasi alla lettera: «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. […] Si tratta di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica. È la cosa più semplice di tutte, poiché lo stato attuale invoca irresistibilmente questa conoscenza, anzi, perché la perfetta negatività, non appena fissata in volto, si converte nella cifra del suo opposto. Ma è anche l’assolutamente impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure di un soffio, al cerchio magico dell’esistenza, mentre ogni possibile conoscenza, non soltanto dev’essere prima strappata a ciò che è per riuscire vincolante, ma, appunto per ciò, è colpita dalla stessa deformazione e manchevolezza a cui si propone di sfuggire. […] Anche la propria [del pensiero] impossibilità esso deve comprendere per amore della possibilità. Ma rispetto all’esigenza che così gli si pone, la stessa questione della realtà o irrealtà della redenzione diventa pressoché indifferente»13. La possibilità di una conoscenza che accetti esplicitamente l’impossibilità della sua compiuta realizzazione, che accetti la propria «deformazione» e «manchevolezza», è la «dialettica negativa»; la «dialettica negativa» è «possibilità dell’impossibile»: è la possibilità per il pensiero di concettualizzare quanto è impossibile da apprendere per concetti e rendere oggettivo nella conoscenza, è il pensiero che pensa la propria impotenza. Si tratta di una trascendenza che dall’interno del pensiero ne scardina l’immanenza. Con un’altra terminologia, che Adorno utilizza frequentemente in Dialettica negativa: la «legalità» del pensiero non corrisponde affatto a una sua «autolegittimazione» – che, nella prospettiva dell’identità di pensiero e realtà e di metafisica e logica del secondo Hegel, equivale a una legittimazione della legalità del reale, 187

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dello status quo –, ma un pensiero davvero rispettoso della propria «legalità» apre piuttosto un incolmabile «vuoto di legittimità». Infatti, nel suo scacco, il pensiero resta aperto. Come a proposito della «possibilità dell’impossibile», questa apertura Adorno la nomina a più riprese in Le meditazioni sulla metafisica: la speranza. La «speranza» è la dialettica negativa in quanto fallimento della dialettica stessa: «È insito nella determinazione della dialettica negativa che essa non si acquieti in se stessa, come se fosse totale; questa è la sua figura di speranza»14. Si tratta di una speranza in quanto utopia senza topos: una speranza indeterminabile, che emerge esclusivamente come crepa, scarto, differenza del pensiero in se stesso: «anche solo pensare la speranza la dissacra e la sabota»15. «Pensare la speranza» come «oltrepassamento» dello stato attuale non garantisce dalla sussunzione dell’aldilà al principio soggettivo d’identità: «Gli oltrepassamenti, anche quello del nichilismo, incluso quello nietzscheano, che la pensava diversamente e tuttavia fornì slogan ai nazisti, sono sempre peggiori dell’oltrepassato. […] Coloro per i quali la disperazione non è solo una parola potrebbero domandare se non fosse meglio che ci sia il nulla, anziché qualcosa»16. Meglio la disperazione allora, che l’ipostatizzazione di una speranza. Al fondo di un nichilismo radicalmente conseguente, nella sua disperazione, nel rovescio di un pensiero spinto fino alla semplice constatazione che anche a cospetto del nulla comunque si «tira avanti», si apre una speranza incontrollata e incontrollabile. Una speranza che non apre sulla determinazione di un mondo finalmente giusto, ma sulla disperazione della condizione attuale. Una speranza impossibile per il pensiero, ma tale disperazione del pensiero è l’unica forma di «riflessione» che non lo chiude su se stesso, che insanabilmente lo crepa: «Come unica speranza balugina che non ci sia più nulla. Anch’essa viene respinta. Dalla crepa dell’incoerenza, così formatasi, affiora l’immaginario del nulla come un qualcosa che la sua [di Beckett] poesia trattiene. Ciò che resta dell’azione, il tirare avanti apparentemente stoico, grida però in silenzio che deve andare diversamente. Questo nichilismo implica il contrario dell’identificazione con il nulla»17. La speranza non deve diventare un concetto della filosofia tra gli altri, ma il marchio di quanto in essa è non-identico e «irragionevole». Per aprire alla speranza la filosofia deve accettare la propria disperazione e presso questa assestarsi: la benjaminiana «irrealtà della disperazione» è «la possibilità della speranza» e «la possibilità della speranza» è l’«irrealtà della disperazione». Nulla di più è 188

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possibile affermare della speranza; ecco perché Adorno non può trovare delle convergenze con il «principio-speranza» di Ernst Bloch: «La speranza non è un principio»18, scrive esplicitamente in Blochs Spuren del 1960. La «disperazione mondana» del presente non rimanda simbolicamente oltre di sé all’altro da sé, non c’è ipoteca intenzionale sul futuro; bisogna pur attendere, bisogna pur sempre «attendere Godot», ma con la sobria consapevolezza di «attendere invano»: «Tuttavia nessuna innervazione del genere, niente di ciò che Bloch chiamava intenzione simbolica, è immune dalla mescolanza con la semplice vita. L’attendere invano non garantisce ciò che è atteso, ma riflette una condizione che ha il suo metro nella frustrazione»19. LE IDEE TRASCENDENTALI DOPO AUSCHWITZ Sulla scorta della determinazione della «possibilità dell’impossibile» in quanto speranza, da Le meditazioni sulla metafisica abbiamo tratto una serie di «idee» emblematiche. Il riferimento filosofico per tale concezione sono naturalmente le «idee trascendentali» di Kant, in particolare l’«idea d’immortalità», e della medesima tipologia, oltre a un «certo nichilismo» a cui abbiamo già accennato, sono anche: la «morte fisica» e, soprattutto, la «resurrezione della carne». Rispetto a queste «idee trascendentali» del dopo Auschwitz – dopo che con Auschwitz ciò che era impossibile è divenuto reale e, quindi, di nuovo possibile – la filosofia in quanto «scienza del concetto» si può approssimare soltanto per negazione (di sé). Non nel «sapere assoluto» che estingue l’apparenza, ma è nell’apparenza stessa che si promette il senza apparenza. Per Adorno, nonostante l’intenzione kantiana sia «sinceramente» gnoseologica, interessata alla limitazione, al «blocco» dell’esperienza possibile all’ambito delle scienze naturali e della ragione positivista e strumentale, il mundus intellegibilis delle idee trascendentali resta un modello di riferimento per ripensare la metafisica. Il segreto kantiano della «impossibilità della disperazione» corrisponde esattamente alla benjaminiana «irrealtà della disperazione»: «Che la bramosia kantiana di salvare non sia solo il pio desiderio di stringere nelle mani un po’ delle idee tradizionali nell’epoca del nominalismo e contro di esso, lo testimonia la costruzione dell’immortalità come un postulato della ragion pratica. Esso condanna l’insopporta189

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bilità del sussistente e rafforza lo spirito che la riconosce. Che nessun miglioramento mondano basti a rendere giustizia ai morti, che non ci sia niente che possa qualcosa contro l’ingiustizia della morte, induce la ragione kantiana a sperare irragionevolmente. Il segreto della sua filosofia è l’impossibilità della disperazione»20. E nonostante l’idealismo hegeliano abbia forzato il «blocco» kantiano superando i limiti della conoscenza imposti da Kant, in quanto ancora fondato sull’identità di soggettività e universalità, non ne rappresenta un superamento, anzi: «La sua dottrina antidealista del limite assoluto e quella idealista del sapere assoluto non sono affatto così reciprocamente avverse come ritenevano; anche questa arriva, in base al percorso di pensiero della fenomenologia hegeliana, alla conclusione che anche il sapere assoluto non sarebbe nient’altro che il percorso di pensiero della fenomenologia; e dunque non sarebbe affatto trascendente»21. Se il «blocco» kantiano interviene sul mondo intelligibile separando forma e contenuto, cristallizzando la trascendenza delle forme nell’aldilà della conoscenza e lasciando il contenuto reale a disposizione della ragione strumentale, insieme alla distinzione tra forma e contenuto, Hegel toglie anche la trascendenza e così legittima in modo ancor più soffocante lo status quo. Il tentativo di Adorno consiste invece nel tenere insieme la separazione e l’identità di forma e contenuto in un movimento – e non in un processo come in Hegel – senza acquietamento né direzione di senso: «Ma le forme non sono quella cosa ultima come Kant le descrisse. Grazie alla reciprocità tra esse e il contenuto esistente, si sviluppano a loro volta. Questo però è incompatibile con la concezione del blocco invalicabile. Non appena le forme divengono momenti di una dinamica […] non si può stipulare né la loro figura positiva per ogni conoscenza futura, né alcuno dei suoi contenuti, senza cui esse non sono e con i quali si trasformano»22. Dunque, se ancora di idee trascendentali si può parlare, queste certo non possono essere forme pure senza contenuto come in Kant, ma neanche contenuti reali una volta per tutte legittimati da una forma come in Hegel, piuttosto l’unica condizione che Adorno pone è che siano apparenze, ogni volta diverse, caduche e contingenti. Ogni volta vere in quanto non-vere, soltanto apparenza: il tradizionale «verdetto sull’apparenza» deve comunque essere pronunciato, non tuttavia nel senso di un suo superamento nel «sapere assoluto», che per Adorno altro non è che l’elevazione di un’apparenza a essenza, bensì come passaggio non interdetto a una nuova e diversa forma di apparenza. Da ciò proviene la necessità di 190

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leggere la contemporanea Teoria estetica per comprendere appieno Dialettica negativa: «Ma con il verdetto sull’apparenza la riflessione non s’interrompe. Divenuta riflessiva l’apparenza non è più quella di prima. Ciò che gli esseri finiti dicono della trascendenza è la sua apparenza, tuttavia, come Kant ben vedeva, una necessaria. Perciò la salvazione dell’apparenza, oggetto dell’estetica, ha la sua incomparabile rilevanza metafisica»23. Pertanto, è nell’esposizione della non-verità dell’apparenza, è nell’esemplarità dell’arte che Adorno scorge la possibilità di un’impossibile metafisica dopo Auschwitz: «Certo la metafisica non può risorgere – il concetto di resurrezione attiene alle creature, non alle creazioni ed è per le opere spirituali index della loro non verità – forse però sorge, se solo viene realizzato ciò che è pensato nel suo segno. L’arte ne anticipa qualcosa»24. Dunque, le figure emblematiche della «possibilità dell’impossibile» a cui abbiamo accennato, in quanto «apparenze» della speranza, non possono essere fondate ontologicamente, ma restano soltanto «riverbero»25 di una trascendenza che non si dà a conoscere in modo immediato e positivo. «Apparenze» che potrebbero benissimo essere altre, poiché la metafisica adorniana, anche perché «micrologica» e pensata per «costellazioni», non presuppone alcuna gerarchia di valore tra le apparenze: «questo è il motivo critico-conoscitivo e di filosofia della storia del perché la metafisica si trasferisca nella micrologia. Questo è il luogo della metafisica come rifugio da quella totale. Nessun assoluto è esprimibile se non nei materiali e nelle categorie dell’immanenza, mentre invece non sono divinizzabili né questa nella sua condizionatezza, né la sua somma totale»26. RESURREZIONE DELLA CARNE Per concludere, ci soffermiamo sulle figure della concezione adorniana della metafisica; figure della speranza, ognuna a modo suo sotto il segno di un’apparenza che sia soltanto apparenza, un’apparenza possibile da concettualizzare soltanto se il risultato ne è l’impossibilità, soltanto se dal fallimento della concettualizzazione resta pur sempre l’apparenza in quanto non-verità. Figure di una metafisica che deve comprendere la propria impossibilità in quanto «possibilità di un riscatto nell’ente»: «A chi reifica la trascendenza si ha motivo di rimproverare, come ha fatto Karl Kraus, mancanza di fantasia, antispiritualità e quindi tradimento della trascendenza. Se 191

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invece la sia pur remota e flebile possibilità di un suo riscatto nell’ente venisse del tutto recisa, lo spirito diverrebbe illusione; il soggetto finito, condizionato, meramente esistente sarebbe alla fine divinizzato come portatore di spirito»27. Per pensare la trascendenza metafisica insieme al «riscatto nell’ente», una figura della «possibilità dell’impossibilità» della metafisica è la morte, a condizione che, in contrapposizione all’heideggeriano essere-per-la-morte, della morte sia riscattabile il suo aspetto ontico, il cadavere, quanto nella morte ancora appare di singolare e particolare: «L’integrazione della morte fisica nella cultura sarebbe teoricamente revocabile, ma non in favore dell’essenza ontologicamente pura della morte, bensì in vista di quel che il lezzo del cadavere esprime e che è nascosto dalla sua trasfigurazione in salma»28. La possibilità dell’impossibilità di pensare metafisicamente la morte nella sua più cruda carnalità ci conduce direttamente a quell’«idea» della resurrezione della carne, che, considerando la trascendenza insieme alla «possibilità di un riscatto nell’ente», decreta l’impossibilità della metafisica tradizionale e, con essa, di criticismo kantiano e idealismo hegeliano, che ne rappresentano una liquidazione nel senso inverso a quello che Adorno, dopo Auschwitz, propone. Figura già presente nei Minima moralia29, la resurrezione della carne è la versione materialistica che Adorno fornisce della kantiana «idea d’immortalità»; una figura che porta alle più estreme conseguenze la concezione della metafisica radicalmente anti-idealistica di Adorno: «Proprio se non ci si attiene, come insegna l’idealismo, alla tesi dell’identità di soggetto e oggetto e tutto viene ridotto al soggetto; quindi, se posso esprimerlo così, proprio se il soggetto, lo spirito, riflettendo criticamente su se stesso, non assimila a sé e non «divora» tutto ciò che esiste – proprio allora forse nasce nello spirito, che è divenuto così non-identico al mondo e il mondo non-identico a lui, anche un momento di autonomia, un piccolo momento del nonessere-inghiottito-nel-cieco-contesto; se volete quindi: una forma sommamente paradossale di speranza. E a ciò è forse dovuta la forza di resistenza, molto singolare, dell’idea d’immortalità […]»30. Nell’idea d’immortalità che promette la resurrezione della carne, il pensiero «spera irragionevolmente»; spera a partire dalla disperazione che ogni «miglioramento mondano» non può che arrestarsi di fronte al «lezzo del cadavere», rivelando così quell’ingiustizia che nessuna trasfigurazione della morte può riscattare. «Questo è tutto?»: ecco la domanda disperata che risuona di fronte alla gelida 192

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materialità del cadavere, ecco l’espressione della consapevolezza di aver «atteso invano»31. Eppure, soltanto così l’ingiustizia si rivela impossibile da sostenere e apre alla possibilità della speranza; soltanto della sua disperazione il pensiero può sperare: «Questo relegherebbe l’immortalità tra quella degli spiriti e le conferirebbe un aspetto spettrale e irreale che schernisce il suo concetto. Quella dogmatica cristiana per la quale il risveglio delle anime era inconcepibile senza la resurrezione della carne era metafisicamente più conseguente o, se si vuole, più illuminata della metafisica speculativa; allo stesso modo la speranza mira alla resurrezione dei corpi e si sa privata della cosa migliore con la spiritualizzazione di essa»32. Non soltanto Le meditazioni sulla metafisica, ma Dialettica negativa tutta è intrisa di questa speranza paradossale, dell’utopia senza luogo della «resurrezione dei corpi»: «Quest’assenza d’immagini converge con il divieto teologico delle immagini. Il materialismo lo ha secolarizzato, non permettendo di dipingere positivamente l’utopia; questo è il contenuto della sua negatività. Il materialismo concorda con la teologia là dove è materialista al massimo. La sua brama potrebbe essere la resurrezione della carne, all’idealismo, regno dello spirito assoluto, essa è del tutto estranea»33.

NOTE 1 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, in ID., Gesammelte Schriften, 6, hrsg. von R. Tiedemann unter Mitw. Von G. Adorno, S. Buck-Morss und K. Schultz, Frankfurt a. M. 1970 sgg., p. 354 (trad. it. TH. W. ADORNO, Dialettica negativa, intr. e cura di S. Petrucciani, trad. di P. Lauro, Torino 2004, p. 325). 2 Ivi, cit., p. 355 (trad. it. cit., p. 326). 3 Ivi, cit., p. 356 (trad. it. cit., p. 326). 4 TH. W. ADORNO, Metaphysik. Begriff und Probleme, in ID., Nachgelassene Schriften, 14, hrsg. von Adorno Archiv, Frankfurt a. M. 1993 sgg., p. 162 (trad. it. TH. W. ADORNO, Metafisica. Concetto e problemi, ed. it. a cura di S. Petrucciani, trad. di L. Garzone, Torino 2006, p. 125).

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TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 358 (trad. it. cit., p. 328). «La fallibilità, direi, è la condizione della possibilità di una simile esperienza metafisica» [TH. W. ADORNO, Metaphysik, cit., p. 220 (trad. it. cit., p. 172). 7 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 397 (trad. it. cit., p. 363). 8 TH. W. ADORNO, Metaphysik, cit., p. 189 (trad. it. cit., p. 146). 9 Ivi, cit., p. 180 (trad. it. cit., p. 139). 10 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 357 (trad. it. cit., p. 328). 11 H. ARENDT, Eichmann in Jerusalem, in ID., Encounter, 1964, p. 56 (trad. it. H. ARENDT, Eichmann a Gerusalemme, in ID., Ebraismo e modernità, a cura di G. Bettini, Milano 1993, p. 227). 12 TH. W. ADORNO, Charakteristik Walter Benjamins, in ID., Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, in ID., Gesammelte Schriften, 10/1, cit., p. 252 (trad. it. TH. W. ADORNO, Profilo di Walter Benjamin, in ID. Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Einaudi, Torino 1971, p. 247). 13 TH. W. ADORNO, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben, in ID. Gesammelte Schriften, 4, cit., p. 281 (trad. it. TH. W. ADORNO, Minima moralia. Meditazioni della vita offesa, Torino 2003, p. 304). 14 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 398 (trad. it. cit., p. 364). 15 Ivi, cit., p. 394 (trad. it. cit., p. 360). 16 Ivi, cit., p. 373 (trad. it. cit., p. 342). 17 Ibidem. 18 TH. W. ADORNO, Blochs Spuren, in ID., Noten zur Literatur, in ID., Gesammelte Schriften, 11, cit., pp. 247-248 (trad. it. TH. W. ADORNO, Le «Tracce» di Bloch, in ID. Note per la letteratura. 1943-1961, vol. I, Torino 1979, p. 234). 19 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 368 (trad. it. cit., p. 337). 20 Ivi, cit., p. 378 (trad. it. cit., p. 346). 21 Ivi, cit., p. 379 (trad. it. cit., p. 347). 22 Ivi, cit., p. 378-379 (trad. it. cit., p. 346-347). 23 Ivi, cit., p. 386 (trad. it. cit., p. 353). 24 Ivi, cit., p. 396 (trad. it. cit., p. 362). 25 Ibidem. 26 Ivi, cit., p. 399 (trad. it. cit., p. 365). 27 Ivi, cit., p. 392 (trad. it. cit., p. 359). 28 Ivi, cit., p. 329 (trad. it. cit., p. 359). 29 Cfr. TH. W. ADORNO, Minima moralia, cit., p. 275 (trad. it. cit., p. 297). 30 TH. W. ADORNO, Metaphysik, cit., p. 211 (trad. it. cit., p. 164). 31 Cfr. TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 368 (trad. it. cit., p. 337) e TH. W. ADORNO, Metaphysik, cit., p. 224 (trad. it. cit., p. 175). 32 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, cit., p. 393 (trad. it. cit., p. 360). 33 Ivi, cit., p. 207, (trad. it. cit., p. 186). 6

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Adorno: arte ed estetica dopo Auschwitz Giuseppe Di Giacomo

Nell’ultimo capitolo della Dialettica negativa, Adorno riprende il tema di cosa significhi fare filosofia e fare arte dopo Auschwitz. Già in precedenza infatti aveva affermato che «scrivere poesie dopo Auschwitz è un atto di barbarie»1. A distanza di anni il tema viene ripreso sia nella Dialettica negativa che nella Teoria estetica. E proprio nell’ultimo capitolo della Dialettica negativa – intitolato Le meditazioni sulla metafisica – Adorno, nel negare la possibilità dopo Auschwitz di attribuire a qualcosa un valore assoluto, scrive che oggi non si può più condividere l’idea che la verità sia l’immutabile, l’eterno, il necessario e l’assoluto e che si possa ancora parlare di una contrapposizione tra il temporaneo, il caduco e il contingente da una parte, e le idee eterne dall’altra2. Ora, secondo Adorno, una metafisica che voglia differenziarsi dalla metafisica speculativa tradizionale, è propriamente il tentativo di pensare la mediazione tra il mondo concettuale, assoluto ed eterno, e quello fattuale, contingente e temporale. Tale metafisica è così quel pensiero che, pur differenziando il fenomeno dall’essenza, pone tuttavia il problema della necessaria mediazione tra questi due momenti. Da questo punto di vista Adorno mette in evidenza come l’assoluto non si possa dare senza il contingente, né la forma senza la materia. In questo senso la dialettica adorniana esprime la consapevolezza dell’impossibilità di isolare, e dunque di assolutizzare, un solo elemento indipendentemente dall’altro. Di qui quella dialettica negativa nella quale viene rifiutata la possibilità di concepire la conciliazione come realizzata in un solo elemento e una volta per tutte. In definitiva, contrariamente a quanto ha sostenuto la metafisica tradizionale, il pensiero non si dà come assoluto, dal momento che lo stesso pensiero richiede necessariamente il rinvio a qualcosa di determinato; così il pensiero, anziché essere fuori dal tempo, si dà nel tempo, e di conseguenza la verità ha un nucleo temporale3. In questo senso, e proprio in riferimento ad Auschwitz, nulla può e deve essere assolutizzato, né il senso né l’assenza di senso: il mondo 195

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non è totalmente sensato ma neanche totalmente insensato. Per questo, continua Adorno, «È insito nella determinazione della dialettica negativa che essa non si acquieti in se stessa, come se fosse totale; questa è la sua figura di speranza»4. E se nessuna idea può oggi darsi come assoluta e disincarnata, allora è proprio la nozione di ‘verità’, in quanto connessa al suo nucleo temporale, a rendere manifesto che «Il totum è il totem»5. Più in generale, dopo Auschwitz è da rifiutare ogni affermazione di positività dell’esistenza, dal momento che questo apparirebbe come un’ingiustizia nei confronti delle vittime, come anche è da rifiutare ogni tentativo di trarre un senso dal loro destino. Tale rifiuto è la conseguenza della consapevolezza che «sono accadute cose che fanno oltraggio alla costruzione di un senso immanente irradiato da una trascendenza posta affermativamente»6. Del resto proprio Auschwitz, nel sottrarsi all’umana immaginazione, rappresenta ciò che ha reso possibile alla malvagità umana di realizzare l’inferno7. Di qui la paralisi di quel pensiero metafisico-speculativo che pretendeva di dare senso all’esperienza. Il fatto è che, con l’omicidio amministrato di milioni di persone, l’individuo viene espropriato anche dell’ultima cosa rimastagli, la morte. Nei campi di concentramento infatti – scrive Adorno – non era l’individuo a morire ma l’esemplare: Con l’omicidio amministrato di milioni di persone la morte è diventata così temibile come mai prima era stata. […] L’individuo viene espropriato della cosa ultima e più misera rimastagli. Ché nei campi di concentramento non fu più l’individuo a morire, ma l’esemplare […] Il genocidio è l’integrazione assoluta che si prepara ovunque gli uomini vengano omologati […] Auschwitz conferma il filosofema che la pura identità è la morte […] La negatività assoluta è prevedibile, non sorprende più nessuno8.

Insomma, nei Lager è stata espropriata e distrutta la differenza individuale, cioè tutto quello che fa sì che un individuo sia più del semplice esemplare della specie. Adorno sostiene non solo che, nel perseguire in modo sistematico l’annientamento del non-identico, «Auschwitz ha dimostrato inconfutabilmente il fallimento della cultura», ma anche che «tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa l’urgente critica a essa, è spazzatura»9. E tuttavia, a differenza di quanto aveva affermato precedentemente, ora scrive: «La sofferenza incessante ha tanto diritto di esprimersi quanto il martirizzato di urlare; perciò sarà stata un errore la frase che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie»10. Tale affermazione è vicina a quel196

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la contenuta nel saggio È serena l’arte?: «Il dire che dopo Auschwitz non si possono più scrivere poesie non ha validità assoluta, è però certo che dopo Auschwitz, poiché è stato possibile e resta possibile per un tempo imprevedibile, non ci si può più immaginare un’arte serena»11. Ma proprio questo è il problema. C’è da chiedersi infatti quale arte sia possibile dopo Auschwitz. Intanto appare chiaramente che, per quella che Adorno definisce ‘arte moderna’, non è più accettabile il punto di vista in base al quale il contingente, lo storico, acquista valore in quanto luogo di manifestazione dell’eterno e dell’assoluto. È questa dimensione ‘epifanica’ dell’arte che Adorno giudica oggi superata, dal momento che è finita quella concezione della rappresentazione che a essa era sottesa: si tratta del rapporto, nella rappresentazione, tra il rappresentabile e l’irrappresentabile. In luogo di questo rapporto si è venuta sostituendo, nell’arte moderna, una nozione di ‘rappresentazione’ in quanto ‘testimonianza’. Prima di affrontare questo tema assolutamente centrale, vorrei accennare a due problemi ai quali Adorno fa riferimento nelle ultime pagine della Dialettica negativa: quello del rapporto tra il senso e il non-senso, e quello del rapporto tra l’apparenza e il senza apparenza. Così, se il problema relativo al senso della vita si pone perché la vita non ha senso, tuttavia è sempre possibile, sostiene Adorno, cercare il senso, invece che nella vita in genere, negli ‘attimi di appagamento’: è a questa seduzione che si è affidato Proust ed è a quegli attimi che ha richiesto la felicità; ma nel corso della Recherche è emerso sempre più chiaramente che quella pienezza, presente nell’«attimo salvato dalla rimemorazione»12, non è tale. Di fatto, parlare di pienezza della vita si mostra cosa vana se paragonata alla morte. Scrive Adorno a questo proposito «A causa dei mutamenti sociali è venuto a mancare agli uomini ciò che un tempo avrebbe reso loro sopportabile la morte: la sensazione della sua unità epica con il corso della vita»13. Auschwitz ha rotto nel modo più radicale questa unità. Non è vera infatti, continua Adorno, la proposizione che la morte sarebbe sempre la stessa, giacché nei Lager la morte ha un nuovo orrore: «Dopo Auschwitz temere la morte significa temere qualcosa di peggio della morte»14. Già in Proust si manifesta comunque la consapevolezza che, di fronte all’irrevocabilità della morte, si mostra «ideologica anche l’affermazione di un senso che appare nello splendore di un’esperienza frammentaria, seppur genuina»15. È quanto emerge nell’episodio della morte di Bergotte. Quest’ultimo muore davanti al quadro di 197

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Vermeer Veduta di Delft – quadro giudicato di una bellezza assoluta – come a dimostrare che la bellezza non è in grado di redimere la contingenza temporale del particolare, dal momento che proprio il tempo si impone in tutta la sua drammaticità, con la morte appunto. È con questo episodio che Proust, scrive Adorno, «ha cercato di portare a incerta espressione la speranza nella resurrezione»16. Ma è proprio questa speranza, sempre secondo Adorno, che Beckett rifiuta, anche nella forma della speranza che non ci sia più nulla. L’esistenza è per Beckett come il campo di concentramento che egli non nomina, come se incombesse su di esso il «divieto delle immagini»17, e tuttavia proprio e soltanto quel nulla, che la sua poesia trattiene, «grida però in silenzio che deve andare diversamente»18. È questa l’unica speranza a essere accettata da Beckett e da Adorno; ma essa non può neppure essere esplicitata, poiché «anche solo pensare la speranza la dissacra e la sabota»19. Ciò vale pure per le immagini, dal momento che il loro divieto implicherebbe l’esistenza di qualcosa – il Senso, Dio – che sarebbe indicibile e irrappresentabile. Ma il senso, come anche il non-senso, non è né rappresentabile né irrappresentabile. Questo tema della rappresentabilità Adorno lo connette a quello dell’apparenza, affermando che l’arte è, sì, apparenza, ma questa apparenza essa la riceve dal senza apparenza e che, nello stesso tempo, è nell’apparenza che si promette il senza apparenza20. In definitiva, l’arte non può non essere rappresentazione, ma tale rappresentazione non è il risultato del rapporto tra un rappresentabile e un irrappresentabile, non è cioè un luogo epifanico, bensì è la rappresentazione di ciò che si ritrae alla rappresentazione, è la rappresentazione di questo ritrarsi, è dunque rappresentazione in quanto testimonianza. E proprio nel suo essere testimonianza, è ciò che ‘resta’ tra quanto è rappresentabile e quanto non è rappresentabile, tra quanto è dicibile e narrabile e quanto non è dicibile né narrabile. Così, in quella che Adorno chiama ‘arte moderna’ la dimensione estetica è connessa alla dimensione etica. Ed è questo che in particolare caratterizza la produzione artistica e la riflessione estetica dopo Auschwitz. Indubbiamente la Shoah è un evento che rappresenta una cesura storica, il cui significato però, a differenza di altre cesure, non è quello di essere una tappa nel processo di civilizzazione ma piuttosto quello di essere una rottura di civiltà. Di fronte all’opinione allora dominante, che presentava il nazismo come una ricaduta della 198

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civiltà nella barbarie, Horkheimer e Adorno nella Dialettica dell’Illuminismo (1947) vedevano nel nazismo il risultato di quel razionalismo occidentale che aveva trasformato la ragione da strumento emancipatore in strumento di dominio. In questo senso, secondo Horkheimer e Adorno, noi continuiamo a vivere in un mondo in cui Auschwitz rimane un orizzonte di possibilità, benché possa prendere oggi altre forme e dirigersi contro altre vittime. A differenza del Doktor Faustus di Thomas Mann, nella Dialettica dell’Illuminismo essi riportano il nazismo non alla storia politica e spirituale della Germania ma a un processo di auto-distruzione della ragione, rovesciando così la rappresentazione che l’Occidente fa di se stesso, sia nella versione illuministica che in quella hegeliana, entrambe basate sull’idea del progresso e del raggiungimento di un fine che è il senso stesso della storia dell’umanità. Del resto, affermare che la ragione si realizza come ragione strumentale, significa rifiutare la credenza illuminista nel progresso. La conseguenza è la negazione del superamento del mito da parte della ragione e l’affermazione invece del loro intreccio: «il mito è già illuminismo, e l’illuminismo torna a rovesciarsi in mito»21. Il nazismo non costituisce dunque una deviazione all’interno del processo generale della civilizzazione occidentale; al contrario, la Dialettica dell’Illuminismo suggerisce che nel nazismo si realizza il vero significato del processo di civilizzazione. E se sembra che tutto il dicibile su Auschwitz sia stato detto, tanto che il continuare a parlarne si espone al rischio di degenerare in «vuoto chiacchiericcio»22, tuttavia tale rischio non toglie nulla alla necessità di continuare a parlarne: se è vero che Auschwitz è il nome di una cesura, è anche vero che tale cesura deve essere detta. È quanto mostra l’opera di Celan, grazie alla quale tutto quello che Auschwitz significa può essere detto poeticamente. Resta comunque il fatto che, se il sapere storico è la ricostruzione del passato, la Shoah non è un oggetto storico, dal momento che, pur potendo essere descritta, non si apre alla comprensione. Proprio perché sfugge al sapere storico la Shoah, nell’interrompere la continuità storica delle connessioni causali, implica una dimensione di oblio, che è non esterna bensì interna alla memoria stessa. È questa dimensione di oblio che deve essere pensabile, in quanto parte costitutiva della memoria. Non a caso Benjamin, a proposito della ‘memoria involontaria’ di Proust, ha sottolineato la stretta connessione e interdipendenza di memoria e oblio. In questo 199

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senso l’oblio è una lacuna necessaria nella e della memoria, e come tale non può essere annullato dalla memoria stessa. Il problema è allora quello di ascoltare questa lacuna, ovvero il non-detto che è nel dicibile. Troviamo qui il tema della testimonianza, tema questo che fa tutt’uno con la rappresentabilità o meno di Auschwitz. Come ha mostrato Agamben23, chi si assume l’onere di testimoniare per i ‘sommersi’, i ‘musulmani’, per coloro cioè che non hanno ‘storia’, né ‘volto’, né tantomeno ‘pensiero’, sa di dover testimoniare per l’impossibilità di testimoniare. Ora, se ogni parola, ogni lingua nasce come testimonianza, allora ciò di cui testimonia non può essere già lingua: la lacuna è questa non-lingua nella quale nasce la lingua. Così quest’ultima, per testimoniare, deve mostrare l’impossibilità di testimoniare. Si tratta non di qualcosa che non può essere detta, bensì di qualcuno che non può dire. Il musulmano è questa impossibilità di dire, conoscere e vedere, e per questo si è trasformato in non-uomo. È proprio questa non umana impossibilità che interpella l’umano, ed è per tale impossibilità che l’umano deve testimoniare. Questo significa che nella testimonianza è il non-uomo a testimoniare nell’uomo, e quest’ultimo è solo colui che presta a quello la voce. Insomma, colui che è senza parole fa parlare il parlante e colui che parla porta nella sua stessa parola l’impossibilità di parlare, in modo che nella testimonianza l’uomo e il non-uomo restano indistinti e nello stesso tempo distinti. Nella testimonianza troviamo dunque una indisgiungibile connessione tra una possibilità e una impossibilità di dire: è questo che impedisce di fare di Auschwitz una realtà assolutamente indicibile, cioè separata dal linguaggio, a meno di ripetere il gesto dei nazisti, per i quali appunto nessuno avrebbe potuto credere a quello che un eventuale sopravvissuto ai Lager avrebbe tentato di raccontare. Insomma, se il testimone parla «unicamente» in nome di un non poter dire, allora c’è testimonianza solo dove c’è un’impossibilità di dire. Ora, è questa nozione di ‘testimonianza’ a caratterizzare l’arte che Adorno definisce ‘moderna’, nella quale con la dimensione epifanica è venuta meno quella della stessa rappresentazione e dunque dell’irrappresentabile. Il fatto è che dalla fine dell’Ottocento in poi si assiste alla progressiva dissoluzione del sistema della rappresentazione, fondato sulla concezione del segno che rinvia a un referente esterno. È quanto troviamo in campo pittorico con Cézanne, che voleva dipingere un’opera d’arte assoluta, cioè priva di ogni valore referenziale, e in campo letterario con Flaubert, che sognava di scri200

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vere un libro sul ‘niente’. A questa dissoluzione del valore referenziale fanno ecco le avanguardie storiche, che hanno provocato un’esplosione dell’esperienza estetica fuori dai suoi tradizionali confini, oltre a una messa in questione dello statuto dell’opera e al rifiuto dell’identificazione fra arte e bellezza. La conseguenza è, come mostra il surrealismo, il rifiuto della separazione di arte e vita. Il superamento iniziale del sistema della rappresentazione come rinvio, e quindi come riproduzione, in un’autorappresentazione dell’opera d’arte, porta alla ripresa della concezione kantiana del sublime che, per Lyotard, è un’estetica basata sulla presentazione che c’è dell’irrappresentabile24. In questo senso il sublime presenta la sproporzione del presentabile rispetto all’irrappresentabile. Ciò che caratterizza il sublime, a differenza del bello, è l’impossibilità di rappresentare in forme quello che non può essere visto. Il che vuol dire che il sublime implica l’informe, l’assenza di forma, e questo diventa così un possibile indizio dell’irrappresentabile. Si tratta appunto di quella dimensione epifanica dell’arte in base alla quale l’opera, oltre a mostrare che c’è dell’irrappresentabile, è caratterizzata da un’incompiutezza formale, come mostrano in modo esemplare le opere di Proust e Joyce. Le avanguardie pittoriche radicalizzano questa tendenza, cercando di alludere all’irrappresentabile attraverso presentazioni sensibili, e facendo di queste ultime un’occasione per mostrare che c’è dell’irrappresentabile, occasione comunque dalla quale non si può in alcun modo prescindere, per quanto proprio tale occasione – vale a dire gli elementi materiali-formali: linee e colori – sia ridotta al minimo. Si tratta dunque di mostrare nel sensibile che qualcosa eccede il sensibile. È quello che per Benjamin è il sensibile al tempo della frammentarietà allegorica. Negli ultimi anni, la ricorrenza del tema relativo alla ‘fine dell’arte’ e di quello relativo alla dissoluzione dell’estetica spinge a prendere sempre più in considerazione l’opera di Adorno. Già nella Dialettica dell’Illuminismo, Horkheimer e Adorno si interrogano sul divenire delle arti e della cultura in generale nella società moderna. Come s’è detto, il problema di fondo di quest’opera è relativo al fatto che la Ragione, in nome della quale la filosofia dei Lumi ha elaborato le più grandi idee dell’umanità – diritti dell’uomo, libertà, giustizia e uguaglianza –, può capovolgersi in uno strumento di dominio. Insomma, per Horkheimer e Adorno la ragione è dialettica: essa libera l’uomo dalle sue schiavitù e dall’oscurantismo, ma genera anche una coscienza tecnocratica al servizio della classe dominante. Ora, la 201

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Seconda Guerra Mondiale, la bomba atomica e Auschwitz hanno mostrato questa capacità della ragione di distruggere se stessa. Si tratta di chiedersi allora quali possano essere le conseguenze di tutto questo sul piano artistico e culturale. Negli Stati Uniti Horkheimer e Adorno assistono al prodigioso sviluppo dei ‘media’; di qui l’elaborazione di quella nozione di ‘industria culturale’ con la quale si vuole designare l’apparizione di una cultura standardizzata e commercializzata sul modello dei beni di consumo; tale nozione inoltre fa pensare alle tesi di Benjamin sulla perdita dell’aura. La denuncia dell’industria culturale è soggiacente alla Teoria estetica e, insieme al riferimento ad Auschwitz, costituisce, più o meno esplicitamente, uno degli elementi determinanti della riflessione di Adorno sull’arte moderna. In particolare, nel saggio La posizione del narratore nel romanzo contemporaneo25, il problema posto da Adorno è il seguente: cosa significa raccontare dopo Auschwitz e nell’epoca dell’industria culturale? La posizione del narratore è oggi caratterizzata da un paradosso: «Non si può raccontare, mentre la forma del romanzo esige la narrazione». Il paradosso può essere così riformulato: si deve narrare proprio perché non tutto può essere narrato e, dunque, si deve narrare la stessa impossibilità di narrare. E l’opera deve mostrare di ‘sapere’ questo. La conseguenza è che il romanzo è ancora possibile solo se la sua forma è connessa alla riflessione, il che equivale a dire che il romanzo non può essere altro che una riflessione sulla stessa possibilità del romanzo. Non a caso, la preoccupazione fondamentale di Adorno riguarda lo statuto dell’arte nella società moderna, data l’incompatibilità irrimediabile tra la forma artistica e una realtà che non si lascia ‘mettere in forma’, vale a dire che non si lascia rappresentare. Così Adorno, quando si decide a scrivere su Auschwitz, precisa subito che si prova una specie di vergogna nei confronti della forma, come se questa fosse un oltraggio alla sofferenza, riducendola impietosamente allo stato di semplice materiale. Nello stesso tempo sottolinea il pericolo di questa presa di posizione, dal momento che con la rinuncia alla forma l’opera cede alla regressione generale, diventando così un prodotto dell’industria culturale. Di fatto questo dilemma è al centro di buona parte dell’arte contemporanea. In definitiva, Adorno sottolinea la paradossalità dell’arte dopo Auschwitz: l’arte può continuare a sussistere solo rifiutando quella forma senza la quale tuttavia non potrebbe sopravvivere in quanto arte; questo significa che l’arte, per continuare a essere tale, deve 202

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disdire quanto non può non dire per poterlo appunto disdire. Da questo punto di vista l’arte moderna, nell’accezione di Adorno, deve rinunciare a quei valori che hanno sempre caratterizzato l’arte tradizionalmente intesa, quali l’eternità e la bellezza, vedendo nell’opera qualcosa di caduco e di privo appunto di bellezza. Si tratta allora di un’arte che si offre alla contingenza del mondo e alla temporalità, facendosi essa stessa res tra res e che tuttavia, se non vuole reificarsi, deve salvaguardare l’autonomia della sua forma, perché solo così può sfuggire a quel livellamento dell’industria culturale che fa dell’arte una semplice conferma dell’esistente. Non solo, ma l’arte moderna modifica anche la nozione di ‘rappresentazione’. È indubbio che è stato il rapporto nella rappresentazione di rappresentabile e irrappresentabile che ha portato alla negazione di un’arte semplicemente riproduttiva; ed è sempre indubbio che proprio grazie a quel rapporto le opere d’arte tradizionali si sono configurate in modo molteplice, producendo significati sempre nuovi. Di fatto è la dimensione dell’irrappresentabile a essersi trasformata nell’arte moderna. Ancora una volta il caso di Auschwitz è esemplare. Se a proposito di Auschwitz si è a volte parlato di irrappresentabilità, questo è accaduto perché si è pensato che una sua rappresentazione avrebbe fatto correre il rischio di dare senso a ciò che non può avere senso. A ben vedere però, Auschwitz richiede non di essere identificata con l’irrappresentabile, bensì di essere ‘testimoniata’. Il punto di vista strettamente estetico, proprio dell’arte tradizionale, secondo il quale l’irrappresentabile si mostra attraverso il rappresentabile, nell’arte moderna viene connesso a quello etico della testimonianza: testimoniare è raccontare quello che è impossibile raccontare del tutto, e nello stesso tempo è parlare in nome di quanti non hanno più, o non hanno mai avuto, la possibilità di parlare. Questo significa che dopo Auschwitz ci possono ancora essere opere d’arte, a condizione però che esse siano in grado di dare forma alla stessa messa in crisi della forma tradizionale. Se l’arte tradizionale fondava se stessa sull’autonomia e sui connessi valori di assolutezza ed eternità, e di conseguenza sulla sua separazione dal mondo e dalla vita, e se la produzione artistica contemporanea – per intenderci quella degli ultimi decenni – si caratterizza per la totale rinuncia all’autonomia, assolutizzando la propria caducità e offrendosi come res tra res, l’arte che Adorno definisce ‘moderna’ è intrinsecamente paradossale: è autonoma in quanto 203

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insieme non-autonoma; vale a dire che, nella sua autonomia dalla società, l’arte comunica con essa. Di qui il continuo rischio dell’arte: che l’‘altro’ – la società, il mondo – che l’arte deve mantenere in sé per salvaguardare il suo essere portatrice di un contenuto di verità, venga non negato, come è richiesto da questo stesso contenuto di verità che si esplicita appunto in una negazione determinata, ma assimilato, sì che l’altro dall’arte diventi l’alienazione stessa dell’arte. È dunque solo offrendosi, sì, come apparenza, ma apparenza necessaria, che l’arte può evitare questa sua identificazione con l’altro. Tuttavia la paradossalità dell’arte moderna sta non solo nel fatto che essa è nello stesso tempo autonoma e non-autonoma, ma anche nel fatto che, proprio perché non-autonoma, essa ha un contenuto di verità. Ora, se il manifestarsi di questo contenuto di verità rischia di distruggere il fondamento stesso della forma artistica, vale a dire l’apparenza in quanto finzione, tuttavia è proprio l’apparenza a mostrarsi necessaria, perché è su di essa che si fonda la differenza delle opere rispetto alla realtà empirica e insieme la loro negatività costitutiva in rapporto al reale. Il problema dell’apparenza è il problema stesso della forma, sì che difendere l’autonomia dell’arte è difendere l’autonomia della forma, dal momento che è mediante quest’ultima che l’arte si oppone all’empiricamente esistente. La nozione di forma assume dunque una rilevanza fondamentale, giacché è proprio tale nozione a fare di un determinato prodotto un’opera d’arte. Se Adorno vuole ‘salvare’ la forma artistica, è perché teme che la forma, e con essa tutto ciò che nell’opera d’arte dipende dall’apparenza e dunque dalla finzione, sia liquidata in nome della forza del vigente e trascini nella sua caduta quella ‘promessa’ utopica che deve essere contenuta nell’arte. Solo non rinunciando alla forma, e dunque all’apparenza, in quanto garanzia dell’esigenza utopica non-realizzata, le opere della modernità possono smontare dall’interno le categorie tradizionali dell’arte. È quanto mostra appunto l’opera di Beckett. Una parte dell’arte contemporanea è invece caratterizzata dal rifiuto dell’apparenza, della forma intesa come ‘bella forma’, manifestando in questo rifiuto una rivolta contro la falsa conciliazione tra l’arte e la vita, tra appunto la bella forma e una realtà che non cessa di denunciare come menzogne le sue ‘promesse di felicità’ di stendhaliana memoria. Anche per Adorno non si dà né si deve dare alcuna conciliazione tra l’arte e la vita, a meno di ridurre l’arte a pura e semplice menzogna. È mediante l’autonomia della forma, dunque, che l’arte si oppone all’empiri204

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camente esistente ed è appunto l’arte moderna che denuncia la menzogna di una ri-conciliazione tra l’arte e la vita proprio col salvare la forma, poiché solo così può impedire quella identificazione di arte e realtà della quale spesso molte produzioni artistiche contemporanee restano vittime, mostrando una regressione a pura cosalità. Più in generale, per quanto riguarda la pittura, Adorno mira a denunciare indirettamente tutte le tendenze che cercano, secondo lui, di distruggere la nozione stessa di opera, quali l’action painting, l’arte concettuale, gli happenings o l’art brut. Inoltre, l’integrazione inevitabile dell’arte nel sistema del mercato rende necessaria, sempre secondo Adorno, la difesa di quelle opere moderne che resistono al livellamento operato dall’industria culturale e mantengono la loro capacità critica nei confronti della società. In questo senso, quello che occorre fare è analizzare in profondità le opere, per mettere in evidenza il loro carattere critico. Questa ‘analisi immanente’ è volta in particolare agli elementi formali e ai procedimenti tecnici, poiché è grazie alla forma che le opere d’arte si distinguono dagli altri prodotti e che dunque l’opera – l’arte – si distingue dalla realtà. Così, i dialoghi incoerenti del teatro di Beckett, le ripetizioni delle parole, i silenzi tra le repliche, non descrivono un mondo insensato ma lo mettono in scena; si potrebbe dire: lo presentano senza rappresentarlo, senza cioè rinviare a qualcosa di esterno. È questa una delle idee centrali dell’estetica di Adorno: le opere d’arte non criticano la realtà, raffigurandola in modo naturalistico, ma riescono a mettere in causa il reale grazie alla loro forma non ovvia, forma destrutturata, smembrata, cioè ‘lavorata’. Di qui il rifiuto delle opere che pretendono di esprimere un contenuto politico determinato e cadono nella propaganda. Invece, Guernica di Picasso è il contrario di una fotografia naturalista che rappresenta una scena del massacro; e tuttavia la sua denuncia del regime franchista non è meno violenta. Tutto ciò significa per Adorno che la distinzione tra la forma e il contenuto non ha alcuna validità; al contrario, la forma è «contenuto sedimentato»26. Forse è sempre stato così. Tuttavia, altre volte in passato la forma era costitutiva della ‘bella apparenza’: essa trasfigurava le scene più atroci in nome della bellezza dell’arte e aveva un ruolo di riconciliazione tra il pubblico e il mondo, un ruolo che la stessa forma abbandona in un momento della storia in cui la vita è, come scrive Adorno, ‘mutilata’. Così le forme dell’arte moderna, esse pure mutilate e destrutturate, ‘dicono’ quella che è la verità del mondo e 205

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della società oggi, cioè la loro inautenticità e falsità. Esse hanno un ‘contenuto di verità’ che permette di resistere al loro assorbimento puro e semplice da parte della società. È grazie a tale contenuto di verità che l’arte, concepita malgrado tutto da Adorno come una promessa di felicità, non può esprimere che negativamente la prospettiva allontanata di una riconciliazione tra l’individuo e il mondo. L’estetica di Adorno appare così come un’estetica ‘negativa’, fin nel rifiuto del filosofo di abbozzare il profilo di una società ‘altra’, senza dominio, non repressiva e senza violenza. Insomma, l’arte non può avere un senso che nella negazione del mondo presente. Auschwitz e la Shoah hanno dimostrato, secondo Adorno, l’inutilità della cultura occidentale, impotente a prevenire l’innominabile, e incapace di porvi rimedio. È possibile scrivere una poesia dopo la barbarie? Adorno prima lo nega, poi ci ripensa: rinunciare alla poesia, all’arte, significherebbe rinunciare all’unica possibilità di configurare, sia pur soltanto negativamente, un’alternativa a questa barbarie. Soprattutto vorrebbe dire che l’arte cesserebbe di essere la testimonianza delle sofferenze accumulate nel corso della storia. Così, se l’estetica di Adorno rappresenta uno dei pochi tentativi di comprendere il significato delle rivoluzioni formali dell’arte moderna, ciò è dovuto alla consapevolezza che proprio e solo attraverso il lavoro sulla forma l’opera d’arte si fa testimonianza.

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NOTE 1 TH. W. ADORNO, Prismen. Kulturkritik und Gesellschaft, Frankfurt am Main 1955; trad. it. Prismi. Saggi sulla critica della cultura, Torino 1972, p. 22. 2 TH. W. ADORNO, Negative Dialektik, Frankfurt am Main 1966 (1973); ed. it. a cura di S. Petrucciani, trad. it. di P. Lauro, Dialettica negativa, Torino 2004, p. 325. 3 TH. W. ADORNO, Metafisica, ed. it. a cura di S. Petrucciani, Torino 2006, p. 54. 4 Ibidem. 5 Ivi, p. 339. 6 Ivi, p. 325. 7 Ibidem. 8 Ivi, pp. 325-326. 9 Ivi, p. 330. 10 Ivi, p. 326. 11 TH. W. ADORNO, Noten zur Literatur, vol. IV, Frankfurt am Main 1974; trad. it. a cura di A. Frioli rivista da E. DE ANGELIS, Note per la letteratura, 1961-1968, Torino 1979, p. 277. 12 Dialettica negativa, cit., p. 340. 13 Ivi, p. 332. 14 Ivi, p. 334. 15 Ivi, p. 340. 16 Ibidem. 17 Ivi, p.342. 18 Ibidem. 19 Ivi, p. 360. 20 Ivi, pp. 362-363. 21 TH. W. ADORNO, Dialektik der Aufklärung. Philosophische Fragmente, New York 1944, nuova edizione, Frankfurt am Main, 1969; trad. it. di R. Solmi, con introduzione di C. GALLI, Dialettica dell’Illuminismo, Torino 1966 (1997), p. 8. 22 TH. W. ADORNO, Prismi, cit., p. 22. 23 Cfr. G. AGAMBEN, Quel che resta di Auschwitz. L’archivio e il testimone (Homo sacer III), Torino 1998. 24 J.-F. LYOTARD, Anima minima. Sul bello e il sublime, ed. it. a cura di F. Sossi, Parma 1995. 25 In TH. W. ADORNO, Noten zur Literatur, vol. I, Frankfurt am Main 1958; trad. it. a cura di A. Frioli rivista da E. DE ANGELIS, Note per la letteratura. 1943-1961, Torino 1979. 26 TH. W. ADORNO, Ästhetische Teorie, Frankfurt am Main 1970; ed. it. a cura di E. De Angelis, Teoria estetica, Torino 1975, p. 9.

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finito di stampare per conto della m anifestolibri-roma nel mese di gennaio 2008 dalla grafica artigiana - via luca valerio roma