Coscienza di classe e storia. Codismo e dialettica

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Georg Lukâcs

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Con questo testo presentiamo un saggio ine­ dito in Italia, e di cui sino a poco tem po fa non si era più avuta alcuna traccia, tanto che 10 stesso Lukacs pensava che fosse andato distrutto. Un gruppo di ricercatori lo ha re­ centemente ritrovato grazie all’apertura degli archivi del Pcus a Mosca. Questa è dunque la prima traduzione in lingua italiana di Chvostimus und Dialektik (Codismo e dialet­ tica, titolo dell’edizione originale), redatto da Georg Lukacs nella metà degli anni Venti. 11 libro ripercorre criticamente i temi centrali di Storia e coscienza di classe, l’opera maggio­ re del filosofo ungherese, scritta e pubblicata pochi anni prima. In una serrata autodifesa, il testo approfondisce il problema del senso e del significato del metodo dialettico, con­ trapponendolo al meccanicismo e al deter­ minismo dei suoi critici. Questa è la prima opera della nuova colla­ na Marxiana, in cui pubblicherem o testi dei classici del pensiero marxista, inediti, intro­ vabili o poco conosciuti, accompagnati da nuove e ampie introduzioni critiche.

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;A le g Per favorire la libera circolazione della cultura, è consentita la riproduzione di questo volume, parziale o totale, ad uso personale dei lettori purché non a scopo commerciale.

© Aron Verlag, Budapest 1996 Si ringrazia il Georg-Lukacs-Archivche ha messo a nostra disposizione il testo tedesco. Il manoscritto originale è stato rinvenuto negli archivi del Komintern da Laszló lllés, che ne ha successivamente curato la pubblicazione. Per la postfazione di Slavoj Zizek, © Slavoj Zizek. 2007 ^Edizioni Aiegre -Soc. cooperativa giornalistica via Cupra, 23 -00157 Roma e-mail: [email protected] sito: www.edizionialegre.it

coscienza dì classe e storia codismo e dialettica

di Georg Lukàcs

postfazione di Slavoj Zizek traduzione dal tedesco e dall'inglese di Marco M aurizi

indice introduzione di Marco Maurizi

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- un bolscevico hegeliano - il dibattito attorno a Storia e coscienza di classe - un Lukàcs inedito

codismo e dialettica

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1. problemi della coscienza di classe - soggettivismo

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- imputazione - i contadini come classe

II. dialettica della Natura - il ricambio organico con la natura

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- categorie semplici e superiori nella dialettica - ancora sul ricambio organico con la natura - per noi e per sé

postfazione di Slavoj Zizek Georg Lukacs - filosofo del leninismo

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cronologia e opere a cura di Marco Maurizi

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introduzione

1. Un bolscevico hegeliano Quando Lukàcs, nel 1923, dà alle stampe Storia e coscienza di classe, si è già fatto la fama di essere un comunista di sinistra e un “estremista”. Partito da posizioni weberiane e kantiane prima della guerra, si era progressivamente avvicinato al marxismo e, nel 1918, era diventato membro del Partito comunista ungherese. Nel 1919 aveva preso parte alla rivoluzione dei consigli, era stato commissario del popolo per l’istruzione e addirittura commissario politico di una divisione dell’esercito rivoluzionario. Dopo la disfatta del governo di Béla Kun si era rifugiato a Vienna ed era divenuto uno degli ispi­ ratori teorici della rivista Kommunismus, legata all’“ultrasinistra” e pericolosamente vicina al comuniSmo “olandese”. In tale veste ebbe l’onore di essere criticato da Lenin in persona.1 La pubblicazione di Storia e coscienza di classe non fece che peggiorare la reputazione del suo autore, associando alle accuse strettamente politiche di deviazione dal bolscevismo, quelle, non meno gravi, di soggettivismo teorico, di idealismo ecc. La questio­ ne appare tanto più tragica se si pensa che Lukàcs voleva con tutto se stesso essere un bolscevico e che, a tale scopo, non solo aveva già compiuto una radicale autocritica politica, ma aveva scritto un libro che, nelle sue intenzioni, doveva rappresentare la traduzione in termini filosofici del bolscevismo stesso, ovvero del leninismo. In tal senso si differenziava radicalmente da Pannekoek e dal co­ muniSmo di sinistra cui invece veniva ripetutamente associato nel­ la pubblicistica dell’Intemazionale comunista. ' Vladimir I. Lenin, Kommunismus (1920), in Opere, voi. 31, Editori Riuniti, Roma 1967, p . 134.

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introduzione

In che senso Lukäcs si considerava un bolscevico? Nel senso che era convinto di aver colto l’essenza filosofica o, come si espri­ meva spesso, metodologica di esso.2 Ciò necessita un chiarimento, poiché parlare dell’essenza filosofica del bolscevismo non può che suonare, a prima vista, come una contraddizione in termini. Si sa­ rebbe tentati di interpretare la metodologia lukacsiana in senso “for­ male”, come una ricaduta sulle posizioni kantiane del suo periodo di apprendistato filosofico presso Heinrich Rikert e Max Weber.3 Ma Lukäcs si era oramai distaccato da questo passato. Avendo ap­ profondito Hegel - in sostanziale accordo con la famosa afferma­ zione leniniana sulla necessità di rileggere la Scienza della logica per capire Marx - considerava la dialettica (la legge dell’identità mediata di soggetto e oggetto, forma e contenuto, essere e divenire ecc.) l’unica forma razionale di pensiero filosofico e la rivoluzione proletaria l’unica forma di esistenza possibile della filosofia tout court. Tutta la storia dell’umanità si compendiava nella missione storica del superamento del capitalismo: per Lukäcs, in sostanza, è il proletariato e non lo Spirito hegeliano, il motore della dialettica. Esprimendo tale processo storico-dialettico nei termini hegeliani dell’identità di soggetto e oggetto, Lukäcs tentava di riattivare il contenuto filosofico del pensiero di Marx in un’epoca in cui i Ma­ noscritti economico-fìlosofìci del 1844 erano ancora sconosciuti. 2. Il dibattito attorno a Storia e coscienza di classe La storia della ricezione di Storia e coscienza di classe è strettamente intrecciata alla degenerazione burocratica del Comintem e alla nascita dello stalinismo. Il libro ottenne in prima

2 II saggio di apertura di Storia e coscienza di classe - Cos’è il marxismo ortodosso? ~ definisce l ’essenza del marxismo nei termini di un metodo (Georg Lukäcs, Storia e coscienza di classe, tr. it. Giovanni Piana, SugarCo, Milano 1991, p. 2) e l’opera si chiude con delle Considerazioni metodologiche stilla questione dell’organizzazione (ibid., pp. 363 e ssgg.). Si tratta, come vedremo, di due aspetti del pensiero marxista fra loro strettamente legati (quello teorico e quello politico), non a caso posti da Lukäcs all’inizio e alla fine del libro. 3Prima della sua definitiva conversione al marxismo, Lukâcs ci presenta effettivamente un pensiero ancorato all’idea di una possibile universalizzazione a priori dei principi e dei concetti tanto ne V anima e le forme (1910) che nella Teoria del romanzo (1916).

battuta una serie di recensioni favorevoli e di importanti apprez­ zamenti: József Révai, un compagno di partito di Lukacs, ne fece una recensione profonda e positiva, sottolineando l’importanza della riscoperta dell’eredità hegeliana nel pensiero di Marx; Karl Korsch nella postfazione al suo II marxismo e la filosofìa si ralle­ grò del libro di Lukâcs, dichiarandosi in sostanziale accordo con esso, così come più tardi fece Bloch; impressioni favorevoli ne ebbero anche Karl Wittfogel e Bela Forgarasi.4 Le prime voci critiche, tuttavia, si sollevarono già all’indomani dell’uscita del libro: Dunker, un membro del Kpd, ne criticò aspramente l’idealismo e il linguaggio oscuro.5 E nel 1924, però, che inizia un vero e proprio fuoco di sbarramento attorno al l’opera e, più in generale, alla figura di Lukacs. In rapida sequenza giungo­ no le stroncature impietose e feroci di Storia e coscienza di classe da parte di Abraham Deborin6 e di Laszló Rudas,7 quindi la scomu­ nica ufficiale al V Congresso del Comintem suggellata dal sarcasmo di Zinoviev contro il «revisionismo teorico» dei «professori».8 Ben peggiore degli argomenti usati nella polemica,9 furono le manovre

4 John Rees, introduzione a Georg Lukacs, A Defence o f History and Class Consciousness. Tailism and thè Dialectic, Verso, Londra/New York 2000, p. 18. 5Laura Boella, Reificazione e rivoluzione: la Lukàcs-Debatte dal 1923 al 1933 in Laura Boella (a cura di), Intellettuali e coscienza di classe. Il dibattito sa Lukâcs 1923-24, Feltrinelli, Milano 1977, pp. 16-17. 6 Abraham Deborin, Lukâcs e la sua crìtica del marxismo, in Intellettuali e coscienza di classe, cit., pp. 125-147. 7 Laszló Rudas, Marxismo ortodosso?, ibid., pp. 53-74; Làszló Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukâcs, ibid., pp. 75-124. 8 «Non possiamo lasciar passare impunemente il revisionismo teorico. Né tollereremo che il nostro compagno ungherese Lukacs faccia lo stesso nel campo della filosofia e della sociologia. Ho ricevuto una lettera dal compagno Rudas [...] dice che intendeva opporsi a Lukacs ma la frazione gli ha impedito dì farlo; perciò ha lasciato la frazione perché non sopportava di veder annacquato il marxismo. Ben fatto, Rudas! Abbiamo una tendenza simile nel partito tedesco. 11 compagno Oraziani è un professore. Korsch è un professore. (Interruzione dalla platea: anche Lukâcs è un professore!). Se qualcun altro di questi professori comincia a far circolare le sue teorie marxiste saremo perduti. Non possiamo tollerare tale revisionismo teorico nella nostra Internazionale comuni­ sta», cit. in John Rees, cit., p. 25. 9 Dove non ci si peritava di calunniare Lukacs adducendo a motivo delle sue “devia­ zioni” frequentazioni filosofiche ambigue: si chiamò in causa non solo, come era pre­ vedibile, la giovanile formazione neokantiana ma, addirittura, una vicinanza all’austromarxismo, con cui Lukacs non aveva mai avuto nulla a che fare. cfr. Laura Boella, Reificazione e rivoluzione, cit., p. 16.

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politiche che l’accompagnarono. Se Deborin, allievo di Plechanov, era un ex-menscevico «ora impegnato nella propria lotta burocrati­ ca per affermarsi nella nascente accademia sovietica»,10 Rudas era un compagno di partito di Lukacs con il quale aveva condiviso bat­ taglie politiche di frazione, prima di capitolare di fronte agli intrighi moscoviti del leader del Peu Béla Kun.11 I punti cardinali attorno a cui ruota tutta la controversia sono essenzialmente due: la critica di Lukacs alla “dialettica della natu­ ra” engelsiana e il concetto lukàcsiano di “coscienza imputata”. In una nota di Storia e coscienza di classe, Lukacs aveva scritto che il metodo dialettico doveva essere limitato alla cono­ scenza della realtà storico-sociale, poiché nella conoscenza della natura «non sono presenti le determinazioni decisive della dialetti­ ca: l’interazione tra soggetto e oggetto, l’unità di teoria e praxis, la modificazione storica del sostrato delle categorie come base della loro modificazione nel pensiero ecc.».12 Sia Deborin che Rudas interpretano questa e altre analoghe affermazioni di Lukacs nel senso di una negazione della dialettica nella natura, come se la natura procedesse secondo leggi che nulla hanno a che fare con la storia umana. Da qui le accuse di dualismo che vengono rivol­ te contro Lukacs, benché Lukacs parlasse esplicitamente di una differenza fondamentale nella conoscenza e non m W oggetto e si fosse semplicemente limitato a dire che la dialettica assume nella storia e nella natura due form e diverse. II secondo motivo di polemica è la teoria della “coscienza im­ putata”: con questa espressione Lukacs definisce il livello di co­ scienza che il proletariato può oggettivamente raggiungere in un dato momento storico, ma che non sempre di fatto raggiunge. E compito (e responsabilità) dell’avanguardia far sì che la classe si elevi quanto più possibile al livello di coscienza storicamente rag­ giungibile. Rudas in particolare criticherà questa tesi lukàcsiana, sostenendo che essa sostituisce alla coscienza di classe reale (cioè empiricamente, statisticamente data) una costruzione astratta e mi­

10 John Rees, cit., p. 19. 11 Ibid. per la ricostruzione dei presupposti politici del dibattito cfr. Laura Boella, Reifi­ cazione e rivoluzione, cit., pp. 7 e ssgg. 12 Georg Lukacs, Storia e coscienza dì classe, cit., p. 6.

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tologica cui non corrisponde nulla di concreto, senza comprendere che la mediazione tra la coscienza di classe “data” e quella “possi­ bile” non è operata hegelianamente, come egli scriveva sarcastica­ mente, dalla “Signora Storia”, bensì dal partito rivoluzionario. E questo, come ora vedremo, il vero nodo della controversia che non venne compreso dai critici di Storia e coscienza di classe e che rese ancora più amara e grottesca la sentenza che si abbatté su Lukacs. 3. Un Lukacs inedito Politicamente sconfitto ma teoreticamente non ancora ridot­ to al silenzio e all’abiura, Lukacs si impegnò a rispondere in modo puntuale alle obiezioni, benché la sua risposta non venne mai pubblicata, né egli vi fece mai riferimento negli anni a seguire. Il testo di Lukäcs, trovato negli archivi di Mosca e pubblicato nel 1996, costituisce una grandiosa sintesi dei temi centrali di Storia e coscienza di classe. Scritto dopo il V Congresso, probabilmente tra 1925 e il 1926, esso rappresenta una risposta, polemica ma teoreticamente impeccabile, alle critiche che il libro aveva susci­ tato. Il manoscritto, intitolato da Lukacs Chvostismus und dialektik,n è una vera e propria “sintesi” teorica, poiché non offre una mera ripetizione di concetti già espressi nell’opera del ’23, bensì li riprende e approfondisce dal punto di vista delle critiche e dei fraintendimenti che avevano suscitato. Codismo e dialettica ruo­ ta sì attorno al problema del rapporto tra “coscienza di classe” e “storia”, ma aggiusta il tiro, nel senso di chiarire il significato politico della teoria lukacsiana: il contenuto di Storia e coscienza di classe, scrive con incredibile acume e lungimiranza Lukacs, non poteva infatti che essere frainteso da chi ha una concezione

13 [Il termine “codismo” (Chvostismus) fu stato usato da Lenin nel Che fare? per indi­ care le tendenze spontaneiste del movimento russo che non riconoscevano il ruolo del­ l'avanguardia cosciente della classe operaia e la necessità di un partito rivoluzionario: «la funzione della socialdemocrazia non è di trascinarsi alla coda del movimento: cosa che nel migliore dei casi è inutile, e, nel peggiore, estremamente nociva per il movi­ mento stesso. Il Raboceie Dielo, da parte sua, non si limita a seguire questa “tatticaprocesso”, ma la erige a principio, sicché la sua tendenza deve essere definita non tanto opportunismo quanto (dalla parola: coda) codismo». Vladimir Ilic Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma s.d., (N.d.T.)]

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introduzione

oggettivisto-natiiralistica della storia e quindi del ruolo del par­ tito nel movimento (cioè dai teorici della II Intemazionale e da coloro che di lì a poco avrebbero forgiato la dottrina ufficiale del marxismo sovietico - il diamat); Lukàcs si contrappone qui ad un «evoluzionismo, per il quale la realizzazione del socialismo era la naturale conclusione di un processo ineluttabile».14 Una teoria og­ gettivista di questo tipo, infatti, non lascia spazio d 'azione al sog­ getto rivoluzionario e, dunque, censura ogni concezione filosofica del rapporto tra storia e coscienza che ponga l’accento su di essa. Solo tenendo fermo questo punto è possibile comprendere in che senso Storia e coscienza di classe aspiri ad essere la formulazione filosoficamente coerente della prassi rivoluzionaria leninista. Non si trattava, come affermavano malignamente i critici, di rivestire il leninismo di un “gergo filosofico” incomprensibile alle masse. Per Lukàcs, infatti, non è il leninismo ad aver bisogno della filosofia, ma il contrario. La filosofia militante di Lukàcs è una critica di tutti quei concetti (filosofici, scientifici, finanche marxisti) che non sono stati ancora attraversati e internamente modificati dalla lezione leninista. Su ciò mette bene l’accento il saggio di Zizek che qui pre­ sentiamo. Come accadde a molti altri intellettuali dell’epoca, dopo l’ottobre 1917 tutto il pensiero di Lukàcs subisce una sorta di rio­ rientamento gestaltico, si ristruttura cioè attorno all’evento della Rivoluzione russa.15 L’adesione di Lukàcs al bolscevismo è tota­ le: la Rivoluzione d’ottobre si pone come l’esempio più lampante della nuova fase in cui è entrata la lotta di classe internazionale e, con essa, V intera storia dell’umanità. Essa non può essere giudicata con le vecchie categorie teoriche e politiche poiché è la rivoluzione stessa a ridefinime i contorni e il senso. Se, dunque, è possibile par­ lare di “concetti universali” (“storia”, “coscienza” ecc.) o anche di “metodo” dopo la Rivoluzione d’ottobre, è possibile farlo solo nei termini che la rivoluzione stessa ha ormai imposto alla coscienza storica: se esistono concetti adeguati alla nuova fase, essi sono i

14 Paolo Manganaro, introduzione a Georg Lukàcs, Scrìtti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972, p. XVIII. 15 Slavoj Zizek, Georg Lukàcs as thè philosopher o f Leninism, postfazione a Georg Lukàcs, A Defence o f Misto ry and Class Consciousness, cit., p. 153.

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concetti che hanno reso possibile la Rivoluzione russa e che rendo­ no possibile la ripetizione del gesto rivoluzionario nei vari sistemi capitalistici. Il pensiero non può che orientarsi attorno a ciò che ha permesso a Lenin di rovesciare il vecchio regime e instaurare la dit­ tatura del proletariato: qui si capisce finalmente come in Lukàcs il “metodo” non è qualcosa di formale e preliminare ma si identifichi col bolscevismo, ovvero con l’unità di teoria e prassi che afferra la fase suprema del capitalismo e agisce conseguentemente e risolu­ tamente a partire da questa coscienza. Il marxismo stesso non può oramai che esistere nella forma del bolscevismo.16 Ci si chiederà fino a che punto abbiamo qui a che fare con un Lukacs inedito. E intendiamo “inedito” non solo nel senso ovvio e, certo fondamentale, di un testo che vede ora la luce in italiano per la prima volta, quanto proprio di un Lukacs che non conosceva­ mo prima. Certo, sarebbe eccessivo affermare questo. Rimane però saldo un punto: i chiarimenti qui fomiti sulla dialettica tra Natura, Storia e Coscienza, la messa a punto della critica alla Dialektik der Natur engelsiana in senso antigradualistico e antioggettivistico ecc. non si limitano a soccorrere il lettore di Storia e coscienza di classe, fornendogli una mappa, una griglia di lettura a posteriori davvero formidabile. C’è qualcosa di più. Il Lukacs inedito e smarrito nel­ le pieghe oscure della storia rende anche giustizia a quello edito e ufficiale, facendo piazza pulita di interpretazioni distorcenti che si sono sedimentate sull’opera del secondo, interpretazioni che lo stesso Lukacs fu costretto ad avvallare al tempo della sua abiura e della sua resa allo stalinismo. Queste pagine sono preziose perché ci restituiscono un Lukàcs che non assomiglia al passivo burocrate della cultura di Stato, ma al rivoluzionario che di fronte alla rivolta ungherese del ’56 si schiera ancora una volta dalla parte del sogget­ to che non rinuncia a fare coscientemente la propria storia. Marco Maurizi

16 «L’attualità storica della rivoluzione [...] è la base oggettiva dell’intera epoca e in­ sieme il necessario punto di vista per la sua comprensione; essa rappresenta perciò il nucleo della dottrina di Marx [...]. Su questo punto Lenin ha ristabilito la dottrina di Marx nella sua purezza». Georg Lukàcs, Lenin, Einaudi, Torino 1970, pp. 14-15.

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Sono apparse alcune critiche del mio libro Storia e coscien­ za di classe (di L. Rudas e A. Deborin sui numeri IX, X e XII di Arbeiterliteratur)l che io non posso assolutamente lasciare senza risposta. In sé e per sé non potrei che accogliere con simpatia le critiche più dure. D ’altronde, io stesso nella prefazione al libro2 l’ho caratterizzato espressamente come un libro per la discus­ sione. Penso che alcuni aspetti di esso necessitino di essere cor­ retti; molte cose le formulerei oggi in modo del tutto diverso. Sono del tutto lontano dall’idea di difendere il libro stesso. Sarei fin troppo contento se potessi considerarlo superato, se potes­ si constatare che il suo scopo è stato completamente raggiunto. Lo scopo: mostrare metodologicamente come l’organizzazione e la tattica del bolscevismo costituiscano l’unica possibile con­ seguenza del marxismo; provare che, a partire dal metodo della dialettica materialista - così come essa è stata usata dai suoi fon­ datori - i problemi del bolscevismo seguano in modo logicamen­ te necessario (ovviamente nel senso della logica dialettica). Se una discussione del mio libro non avesse lasciato pietra su pietra ma, sotto questo aspetto, avesse segnato un progresso, mi sarei silenziosamente rallegrato di tale progresso e non avrei difeso una sola tesi del mio libro. I miei critici si muovo tuttavia nella direzione opposta. Usa­ no questa polemica per contrabbandare elementi menscevichi nel marxismo e nel leninismo. Contro di ciò mi devo difendere. Perciò non sto difendendo il mio libro. Attacco lo scoperto menscevismo 1 [Abraham Deborin, Lukàcs e la sua critica del marxismo, in Laura Boella (a cura di), Intellettuali e coscienza di classe. Il dibattito su Lukàcs 1923-24, Milano 1977, pp. 125147; Laszló Rudas, Marxismo ortodosso?, ibid., pp. 53-74; Laszló Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, ibid., pp. 75-124] 2 Georg Lukàcs, Storia e coscienza di classe, tr. it. Giovanni Piana, SugarCo, Milano 1991, pp. VII-XIV.

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di Deborin e il codismo3 di Rudas. Deborin è coerente: è sempre stato menscevico. Il compagno Rudas, però, è un bolscevico. Lo conosco dal lungo lavoro svolto insieme nel partito. Ma proprio perciò non sono nella condizione, rispetto alla sua attività, di con­ traccambiare il riconoscimento che egli mi tributa («...senza mai esitare, è sempre stato un nemico dichiarato di ogni opportuni­ smo»).4 Poiché le questioni che riguardano lo sviluppo del Pc un­ gherese non appartengono a questo dibattito, dedurrò la costante tendenza del compagno Rudas al codismo dai suoi argomenti filo­ sofici, citando il suo recente articolo politico - che egli ha scritto «dopo due anni di studio presso il Pc russo»5 - solo come illu­ strazione del suo modo di vedere. Non mi lamento affatto, come ipotizza il compagno Rudas, di “fraintendimenti”.6No. Sono d’ac­ cordo con lui che «i fraintendimenti non sono di natura logica». Ma proprio per questo trovo del tutto comprensibile che egli non mi capisca: giacché non comprende il ruolo del partito nella ri­ voluzione, egli non ha potuto rendersi conto che tutto il mio libro ruota attorno a questa questione. Ciò non è strano nel caso del menscevico Deborin. Sarebbe stato sorprendente il contrario.

3 Sul significato del termine “codismo” (Chvostismus) vedi nota 13 p. 11 di questo libro. 4 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 53. 5 L. Rudas, Genosse Trotsky über di ungarische Proletarierrevolution [11 compagno Trotsky sulla rivoluzione proletaria ungherese], Inprekorr IV, p. 162. 6 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 116.

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I. problemi della coscienza di classe 1. Soggettivismo Ogni volta che si conduce un attacco opportunistico alla dia­ lettica rivoluzionaria, ciò accade in nome dello slogan: “contro il soggettivismo” (Bernstein contro Marx, Kautsky contro Lenin). Sotto i vari “ismi”, che Deborin e Rudas mi ascrivono (idealismo, agnosticismo, eclettismo etc.) il soggettivismo sta in prima fila. Nelle riflessioni che seguono mostrerò che con ciò si sta già par­ lando della questione del ruolo del partito nella rivoluzione e che quando Deborin e Rudas immaginano di combattere il mio “sog­ gettivismo”, in realtà stanno combattendo contro il bolscevismo. In primo luogo: cosa bisogna intendere qui per soggetto? In secondo luogo - e questa domanda è inseparabile dalla prima e in realtà permette di rispondere correttamente ad essa -: qual è la funzione del soggetto nel processo di sviluppo storico? Rudas e Deborin si pongono qui in parte dal punto di vista vol­ gare della vita quotidiana borghese e della sua scienza; separano rigi­ damente e meccanicamente soggetto e oggetto; concepiscono come oggetto della scienza solo ciò che è libero da ogni attività del soggetto e protestano con un tono di estrema indignazione scientifica se viene attribuito un ruolo attivo e positivo al momento soggettivo nella sto­ ria. Ciò detto, è del tutto coerente che Deborin mi attribuisca7la teoria dell’identità di pensiero ed essere, di soggetto e oggetto, mentre nel mio libro si dice espressamente: «la loro identità consiste piuttosto nel loro essere momenti di uno e di uno stesso processo dialettico storico-reale».8 Il volontario o involontario rovesciamento del mio pensiero nel suo opposto diventa comprensibile, se teniamo a mente il modo in cui Deborin stesso pensa il soggetto e l’oggetto. Egli affer­ ma «che l ’unico (!) significato materialistico di questa “interazione” può essere il suo intedimento come processo lavorativo, processo della produzione, come attività, lotta della società con la natura».9

7 A. Deborin, Lukàcs e la sua critica del marxismo, cit., p. 138 * G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 269. () A. Deborin, Lukàcs e la sua critica del marxismo, cit., p. 145 [primo e ultimo corsivo sono di Lukàcs, (N.d.T.)].

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Per Deborin, quindi, non c’è alcuna lotta di classe. «La so­ cietà lotta con la natura» e bastai10 Ciò che si gioca all’interno della società, è solo apparenza, soggettivismo. Molto coerentemente, quindi, per lui: Soggetto = Individuo e Oggetto = Natura, oppure Soggetto = Società e Ogget­ to = Natura.11 Deborin ignora che all’interno della società si svol­ ge un processo storico che pone il rapporto tra soggetto e oggetto in modo diverso. In tal modo si opera un revisionismo anche del materialismo storico che viene ricondotto, a voler essere clementi, a Comte o Herbert Spencer. Il compagno Rudas non arriva a questo punto. Egli concede che esistono le classi e la lotta di classe, troviamo addirittura passi in cui egli cita l’esistenza e l’importanza dell’azione proletaria, il ruolo del partito. Ciò resta però sempre solo un omaggio formale alla teoria leniniana della rivoluzione. In generale, invece, egli di­ fende in modo coerente il punto di vista opposto. Ma ascoltiamo lui stesso: «cos’è una “situazione storica”? Una situazione che, come ogni altra, si svolge indipendentemente dalla coscienza che gli uomini ne hanno - sebbene attraverso di essa».12 Oppure: «Gli uomini hanno idee, sentimenti, si pongono persino taluni scopi e giungono a immaginarsi che tali idee e sentimenti abbiano un molo importante e autonomo nella storia; che tali scopi siano i medesimi che vengono realizzati nella storia».13 Qui bisogna innanzitutto sottolineare che il compagno Ru­ das parla continuamente “della” Storia, “dell’uomo” e “dimen­ tica” - ciò che coerentemente consegue dalla sua concezione di fondo - che qui non ci occupiamo “dell’uomo” ma del proleta­ riato e del partito che lo guida; che non ci interessiamo “della” Storia ma dell’epoca della rivoluzione proletaria. “Dimentica” che il punto di partenza delle mie formulazioni - che egli cerca di combattere - è che il rapporto tra coscienza ed essere per il proletariato è posto in modo diverso da quello di ogni classe ap­ parsa precedentemente nella storia, che la funzione attiva della

10 [In italiano nel testo, (N.d.T.)] 11 A. Deborin, Lukacs e la sua critica del marxismo, cit., ibid. 12 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 84 (corsivo mio). 13 Ibid., p. 80 etc.

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coscienza di classe proletaria nell’epoca della rivoluzione bor­ ghese assume un significato nuovo. Questo fa parte dell’Abc del marxismo e in particolare dell’Abc del leninismo. Si è purtroppo costretti a ripetere questo Abc, di fronte ai rinnovati tentativi del menscevismo di trasformare il marxismo in una sociologia borghese, con leggi formali, sovrastoriche che escludono ogni “attività umana”. E secondo Rudas, ciò che è caratteristico del compito storico è che esso «si svolge in modo indipendente dalla coscienza umana». Vediamo come Lenin descrive l’essenza del compito storico: «il regime borghese attraversa in tutto il mondo una profondis­ sima crisi rivoluzionaria. E adesso bisogna “dimostrare” con la pratica dei partiti rivoluzionari che questi partiti sono abbastan­ za coscienti, organizzati, collegati con le masse sfruttate, risoluti, abili per sfruttare questa crisi ai fini di una rivoluzione riuscita, di una rivoluzione vittoriosa».14 E, dopo aver descritto i presupposti oggetti vi di una situazione rivoluzionaria «che sono indipendenti non solo dalla volontà di singoli gruppi e partiti ma anche da quel­ la di singole classi», parla del perché pur in presenza di tali condi­ zioni non scoppi sempre una rivoluzione: «perché la rivoluzione non nasce da tutte le situazioni rivoluzionarie, ma solo da quelle situazioni nelle quali, alle trasformazioni obiettive sopra indicate, si aggiunge una trasformazione soggettiva, cioè la capacità della classe rivoluzionaria di compiere azioni rivoluzionarie di massa, che siano sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno in­ crinare) il vecchio governo, il quale, in un periodo di crisi, non “cadrà” mai se non lo si farà “cadere”».15 Il compagno Rudas non è di questo avviso. Ha compietamente ritrattato il suo “peccato giovanile”, cioè il fatto che la rivoluzione proletaria ungherese del 1919 sia fallita innanzitutto e principalmente per l’assenza di questo momento soggettivo: il Partito Comunista. Nessuno, nemmeno Rudas nel suo periodo “soggettivista”, ha mai espresso l’opinione che essa sia fallita

14 V. I. Lenin, Sulla situazione internazionale e sui compiti fondamentale delVl.C., in Id., L ’internazionale comunista, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 270. 15 V. I. Lenin, Il fallimento della Seconda Internazionale, in Id., La guerra imperialista, Hditori Riuniti, Roma 1972, p. 65.

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proprio per questo motivo. Nel passato, come nel presente, Rudas si dimostra essere un fedele kantiano: sia che sottovaluti o sopravvaluti il “momento soggettivo”, egli lo separa sempre ac­ curatamente da quello “oggettivo” e si guarda bene dal cogliere la loro interazione dialettica [dialektischen Wechselwirkung]. Adesso vuole mostrare che la dittatura ungherese dei consigli è fallita per ostacoli “oggettivi”. Tra questi cita: l’estensione limitata del territorio che non dava alcuna possibilità alla ritirata militare, il tradimento degli uf­ ficiali, l’embargo. Tutti e tre sono fatti. Tutti e tre hanno giocato un ruolo importante nell’affossamento della dittatura ungherese. Tuttavia - e questo punto di vista metodologico è centrale per la nostra controversia - se vogliamo davvero rimanere dei dialettici rivoluzionari, dei leninisti, nessuno di questi momenti può esse­ re preso in considerazione, nella sua semplice fatticità, indipen­ dentemente dalla questione dell’esistenza o meno di un Partito Comunista. Il blocco, la fame! Sì, certo, ma come il compagno Rudas ammetterà, la fame, la mancanza di merci etc., non sono state nemmeno lontanamente paragonabili alla privazione del proletariato russo e il tenore di vita dei nostri operai non scese mai nemmeno al livello di quello viennese. Ciò che ha reso fatale l’embargo per la dittatura dei consigli è stata la demagogia so­ cialdemocratica, ovvero l’idea che un ritorno alla “democrazia” avrebbe significato il superamento dell’embargo, un innalzamento del tenore di vita per gli operai etc. Fatale è stato il fatto che gli operai abbiano prestato fede a questa demagogia - e ciò accadde proprio perché non c’era un Partito Comunista. Tradimento de­ gli ufficiali! Ma proprio il compagno Rudas dovrebbe sapere che, ovunque, laddove tra i ranghi dell’esercito si trovavano comuni­ sti capaci, i loro reparti rimasero affidabili e pronti a combattere fino alla fine. Era davvero “oggettivamente” impossibile per le nostre otto divisioni (e i corrispettivi reggimenti etc.) trovare dei comandanti o dei commissari comunisti? Era impossibile, sì, ma perché non c’era nessun Partito Comunista a prendere le decisio­ ni, a imporre le nomine, a determinare il giusto corso della tatti­ ca etc. L’estensione limitata del territorio! Il compagno Rudas si appoggia all’autorità di Trotsky. Se volessi essere cattivo, trarrei dalle sue formulazioni la seguente conseguenza “oggettivo-socio22

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logica”: in un paese che non abbia le possibilità di ritirata russe - in presenza di paesi confinanti imperialisti - non è possibile alcuna dittatura (ma questo vale allora per ogni paese europeo). Voglio solo ricordare a Rudas che la caduta della dittatura non è stata una questione puramente militare. Il primo agosto l’Armata Rossa si trovava in un situazione molto promettente, impegnata in una riuscita controffensiva (riconquista di Szolnok), mentre a Budapest la Repubblica dei Consigli abdicava, proprio perché non c’era un Partito Comunista. Naturalmente, il fatto che in Ungheria durante la Repubbli­ ca dei Consigli non ci fosse un Partito Comunista ha delle cause oggettive. Tuttavia, da un lato, queste cause oggettive sono sta­ te precedentemente, almeno in parte, cause soggettive (momenti della storia del movimento operaio). Dall’altro lato, il significato del momento soggettivo può essere negato solo dal kantiano, che separa rigidamente e adialetticamente soggetto e oggetto, e che fonda su cause oggettive l’apparire del soggetto, la possibilità che esso produca effetti e abbia un significato decisivo. Al contrario, proprio in questo intreccio si mostra quel reciproco rapporto dia­ lettico di cui mi ero occupato nel mio libro e la cui esistenza viene negata - in modo più o meno esplicito - da Deborin e da Rudas. Se volessimo formulare la cosa in modo generale e filosofico (cioè, in questo caso, in modo falso), quell’azione reciproca si­ gnificherebbe che il rispecchiamento soggettivo del processo og­ gettivo è un momento effettivo in senso reale del processo stesso (non solo, quindi, qualcosa di immaginario). Tali rispecchiamenti soggettivi non costituiscono perciò solo un collegamento tra due momenti oggettivi, collegamento che potrebbe essere tralasciato in caso di una considerazione “oggettiva” delle cose - poiché ciò non sarebbe “oggettivamente” rilevante; essi mostrano, piuttosto, che gli uomini fanno la loro stessa storia realmente e non solo neirimmaginazione. Abbiamo detto: formulare la cosa in modo generale e filosofico significa, in questo caso, formularla in modo falso. Perché? Poiché questo stato di fatto si dà in modo reale e storico solo con l ’apparire del proletariato, in quanto il proleta­ riato è il primo e finora unico soggetto nel corso della storia per cui sia valida questa concezione. Tutti i pensatori che hanno attri­ buito tale effetto del soggetto sulla realtà, sul corso della storia, 23

a un soggetto reale o fantastico (grandi uomini, spiriti dei popoli etc.) sono necessariamente finiti nell’idealismo, dal punto di vista del metodo, mentre nei risultati dovevano produrre false costru­ zioni e mitologie della storia. Naturalmente la scienza borghese e il menscevismo, che si trova interamente sotto l’influsso di quella, negano anche al prole­ tariato quella possibilità di influire sulla realtà, oppure la concedo­ no solo in una forma fantastica e mitologica. In entrambe le forme si tratta però della medesima concezione astorica del reale. Così come l’ideologia feudale del medioevo aveva espresso in forma poetica un rapporto sovratemporale tra l’uomo e dio, allo stesso modo l’ideologia borghese e menscevica costruisce una “socio­ logia” sovratemporale, in cui le forme di esistenza che sono alla base della società borghese appaiono (in forma più o meno distorta e ideologica) come forme di esistenza del passato e del futuro, del comuniSmo primitivo e della rivoluzione sociale. Di contro, per la scienza del proletariato, è una questione vitale liberarsi da questo modo di vedere: essa deve mettere in chiaro il ruolo concreto che spetta al proletariato in quanto fattore soggettivo della storia e la funzione che la sua (e solo la sua) coscienza di classe occupa nel processo storico. Il compagno Rudas si pone infatti nella lista di coloro che negano questa possibilità e si involge nelle più grandi contraddi­ zioni. Con l’aiuto di un riassunto di citazioni estrapolate dal loro contesto mi attribuisce l’idea secondo cui il momento decisivo in ogni lotta di classe sarebbe la capacità della classe di com­ prendere in modo adeguato la totalità della società. Eppure io sottolineo abbastanza esplicitamente nel mio libro che la classe destinata a dominare e quella che vacilla, destinata alla sconfitta, si distinguono proprio per questo, ovvero se dal proprio punto di vista di classe «la totalità della società attuale non è in gene­ rale percepibile»,16 oppure se essa è capace «di organizzare la totalità sociale sulla base dei propri interessi».17 A proposito di questa totalità sociale viene detto che occorre cercare, per ogni

16 G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 68 (corsivo aggiunto ora). 17 Ibid. [trad. modificata, (N.d.T.)]

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classe, «quale momento del processo complessivo di produzione tocchi più immediatamente e nel modo più vitale gli interessi delle singole classi. In secondo luogo, fino a che punto le classi in questione, in forza della stessa natura dei loro interessi, pos­ sano oltrepassare questa immediatezza, cogliere il momento che ha per esse un’importanza immediata come mero momento del­ l’intero, giungendo così al suo superamento».18 Con ciò diviene possibile distinguere una dal l’altra le diverse forme della “falsa coscienza”. A partire da questo ho affermato esplicitamente che nelle società precapitalistiche tutte le classi possono avere solo una “falsa coscienza”, dal momento che l’analisi di classe nella società borghese raggiunge nella coscienza di classe proletaria forma e funzioni specifiche, mai esistite prima nella storia (ov­ vero: la comprensione adeguata della totalità sociale e un’in­ fluenza reale e cosciente sul processo storico). Ignorando sia la gradualità storica delle questioni che riguardano la coscienza di classe, sia il significato specifico che queste questioni assumono per il proletariato, Rudas si oppone in modo trionfante al mio “idealismo” e “soggettivismo”. Ora, io sono perfettamente d’ac­ cordo con lui che le incomprensioni non sono di natura logica e chiedo: perché in Rudas sorge questa incomprensione, quale ne è l’origine e qual è il suo fine politico? E qui le sue conclusioni ci mostrano in modo inequivocabile la propria origine: il codi­ smo fatalista di Rudas. Questo fatalismo si mostra in modo estremo laddove egli rivolge gli strali più forti contro la mia cosiddetta “teoria del momento” [Augenblickstheorie]}9 Non voglio occuparmi del curioso “fraintendimento” che lo porta a credere che io qui mi occupi del ruolo delle grandi personalità. Il compagno Rudas “fraintende” per non dover avere davanti agli occhi un principio

ls Ibid., p. 70. [Ove possibile, ho tradotto il verbo aufheben con la classica perifrasi italiana “togliere e conservare”. Poiché però per il sostantivo Aufhebung e altre forme come aufgehobene etc. non esistono validi sostituti, accolgo la scelta di Piana di tra­ durre Aufhebung con “superamento”; anche se imprecisa, tale scelta presenta notevoli vantaggi in termini di chiarezza espressiva: la già ricca prosa di Lukàcs non poteva, infatti, essere qui ulteriormente appesantita da espressioni come “toglimento”, “la tolta c conservata immediatezza” e simili. (N.d.T.)] lv L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 113.

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elementare del bolscevismo. Usando un tipico trucco del codi­ smo, egli contrappone questa teoria del “momento” al processo, che io, secondo lui, dimenticherei totalmente.20 Non intendo ci­ tare gli innumerevoli passi del mio libro da cui appare chiaro come il sole che non è questo il caso. Il compagno Rudas ha però ragione a parlare di “processo” contrapponendolo al “momento” nella misura in cui il suo concetto codista e fatalista di proces­ so effettivamente esclude il momento della decisione. Si facilità però un po’ troppo il compito e tradisce con ciò un po’ troppo le sue intime convinzioni: per lui non c ’è alcun momento della decisione, il suo “processo” è una evoluzione che conduce in modo meccanico-fatalista da uno stadio di sviluppo della società ad un altro. Certo, questo non viene mai detto in modo esplicito. Il compagno Rudas è troppo prudente (come tutti i codisti di oggi) per lasciar cadere il riferimento a Lenin, eppure proprio il modo in cui egli contrappone “processo” e “momento” mostra inequivocabilmente la sua concezione. Cos’è un “momento”? Una situazione, la cui lunghezza può essere più o meno lunga, che si solleva tuttavia al di sopra del processo che ha condotto fino ad esso in quanto in esso si concentrano le tendenze essenziali del processo e perché in esso deve essere presa una decisione sulla direzione futura del pro­ cesso. Ciò significa: le tendenze raggiungono una sorta di picco e dopo “il momento”, a seconda di come si è agito nella situazio­ ne data, il processo prende un’altra direzione. Lo sviluppo, cioè, non segue pedissequamente una linea retta ascendente, cosicché, ad es., dopodomani dovrà esserci una situazione più favorevo­ le al proletariato rispetto a domani ecc.; accade piuttosto che a un determinato punto la situazione spinge ad una decisione tale che dopodomani potrebbe essere già troppo tardi per essa. Il compagno Rudas può fare riferimento all’articolo di Lenin sul “compromesso”, dove, secondo Lenin, diversi giorni di ritardo resero l’offerta di compromesso ai menscevichi e ai socialisti rivoluzionari inutile, e dove si dice che «tutte le speranze di uno sviluppo pacifico della rivoluzione russa sono definitivamente

20 Ibid., p. 116.

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sparite»;21 oppure alla preoccupazione di Lenin che durante i giorni dell’Ottobre i bolscevichi potessero perdere il momento propizio per la presa del potere: «la storia non perdonerebbe il temporeggiamento ai rivoluzionari che possono vincere oggi (e vinceranno certamente oggi), ma rischierebbero di perdere mol­ to, di perdere tutto domani».22 Il compagno Rudas protesterà e negherà che il suo punto di vista si trovi in fondamentale contrapposizione rispetto agli assun­ ti fondamentali di Lenin. Egli si prepara cautamente contro questa accusa; da un lato, contrappone il “momento” al “processo”, come se il processo fosse costituito da una lunga serie di momenti, di cui alcuni superano gli altri per il loro significato qualitativo, così che questo si rovesci in quantità;23 dall’altro lato, mi accusa di soggettivismo idealistico. Tuttavia, continuo a sottolineare - e non vedo il minimo motivo per dover qui ritirare qualcosa delle mie posizioni o ammorbidirle in qualche modo - che in tali momenti tutto dipende dalla coscienza di classe, dalla volontà cosciente del proletariato e che solo lì troviamo il momento della decisione. L’interazione dialettica di soggetto e oggetto nel processo storico consiste in ciò, che il momento soggettivo - che è, come è ovvio ed io ho ripetuto diverse volte, un prodotto, un momento del processo oggettivo - in determinate situazioni storiche, la cui comparsa è a sua volta richiesta dal processo oggettivo, impone una direzione al processo stesso. Questa azione è possibile solo nella prassi, solo nel presente (per questo ho utilizzato - per sot­ tolineare questo carattere pratico-presente - la parola momento). Quando l’azione è compiuta, il momento soggettivo si ritira di nuovo nella serie dei momenti oggettivi. Perciò, per ogni partito, il suo proprio sviluppo ideologico - il proudhonismo in Francia,

21 V. I. Lenin, La situazione politica, in Id., Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1967, voi. 25, p. 168. 22 V. I. Lenin, lettera ai membri del Comitato Centrale, 24 ottobre (6 novembre) 1917, in La rivoluzione d ’Ottobre, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 314. 23 Cfr. Georgij V. Plechanov, Bedeutung der Knotenlinie der Mass Verhältnisse [Il si­ gnificato della linea nodale delle relazioni di misura], in Die Neue Zeit, X, I, p. 230 [Il titolo di Plechanov fa riferimento ad un passaggio della Logica di Hegel relativo alla Misura (Maß); con la trattazione della Misura termina la Dottrina dell’Essere e inizia quella dell’Essenza, (N.d.T.)].

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il lassallismo in Germania - costituisce un fattore oggettivo, di cui ogni politico marxista deve tenere conto come di un fatto oggettivo. La summenzionata interazione dialettica sorge perciò “esclusivamente” nella prassi. Solo per il pensiero separato dalla prassi, soggetto e oggetto si trovano rigidamente separati l’uno dall’altro; e ogni pensiero che ascriva questo modo d’essere del­ la prassi alla teoria finisce nella mitologia del concetto, diventa idealistico (Fichte). Ma proprio per questo tale pensiero - ed è il caso di Rudas - giunge al fatalismo: perché esso misconosce la natura specifica della prassi proletaria (la sua prassi rivoluzio­ naria), perché vuole trasportare la rigida opposizione di soggetto e oggetto dalla “pura” teoria alla prassi. Con ciò sopprime la prassi. Diviene una teoria del codismo. Il “momento” non va in alcun modo separato dal “proces­ so”, il soggetto non si contrappone affatto in modo rigido e im­ mediato all’oggetto. Il metodo dialettico non significa né un’in­ differenziata unità, né una netta separazione dei momenti. Al contrario, esso implica piuttosto Γininterrotto autonomizzarsi dei momenti e l’ininterrotto superamento di questa autonomia. Ho chiarito nel mio libro come si mostra in concreto questa intera­ zione dialettica dei momenti del processo e il superamento della loro autonomia. Qui si tratta di comprendere che quest’autonomia del momento soggettivo nello stadio attuale del processo storico (che è un’autonomia dialettica e perciò sempre di nuovo dialetti­ camente superata) è un segno decisivo della situazione generale nel periodo della rivoluzione proletaria. Tra leninisti, si dovrebbe presupporre che questa concezione sia un luogo comune. Come è infatti anche solo immaginabile il pensiero fondamentale di Le­ nin sulla preparazione e organizzazione della rivoluzione senza un analogo ruolo attivo e cosciente del momento soggettivo? E come ci si potrebbe immaginare la concezione di Lenin del mo­ mento decisivo della rivoluzione - che c’è già in Marx, ma che viene da Lenin concretizzato nella teoria dell’insurrezione come arte - senza questa funzione del momento soggettivo? E tutte le obiezioni che sono state sollevate contro Lenin (dalla stessa Rosa Luxemburg) non erano determinate dal fatto che si vedeva la ri­ voluzione come un prodotto delle forze economiche e, dunque, in un certo modo, come qualcosa che si faceva “da sé” o, detto 28

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altrimenti, in modo “spontaneo”, “elementare”, senza un ruolo decisivo dell’elemento soggettivo-coscientel Nei passi decisivi in cui si esprime sull’insurrezione come arte, il compagno Lenin distingue in primo luogo il concetto di insurrezione marxista da quello blanquista.24 Egli sottolinea, con ciò, come affinché l’insurrezione possa avere successo, lo svilup­ po oggettivo della rivoluzione debba spingere all’insurrezione (guerra, fame, movimento dei contadini, debolezza delle classi dominanti, sviluppo rivoluzionario del proletariato); sottolinea quindi l’influsso che questo sviluppo ha sul comportamento della classe operaia (in luglio gli operai e i soldati non avrebbero «po­ tuto lottare, morire per la presa di Pietroburgo»). Se, tuttavia, la situazione oggettiva rende preparati all’insurrezione, se il “mo­ mento” dell’insurrezione è a portata di mano, allora il momento cosciente, soggettivo del processo rivoluzionario si impone come attività autonoma. Lenin contrappone molto chiaramente la sem­ plice ed elementare insorgenza delle masse a questo intervento attivo e decisivo dell’avanguardia più cosciente. Ecco ciò che scri­ ve, in autunno, della situazione di quei mesi: «ma, dall’altra parte, occorre la cupa disperazione delle masse, le quali sentono che le mezze misure non possono ormai più salvare niente, che è im­ possibile “influenzare” il governo, che gli affamati “spezzeranno tutto, schiacceranno tutto, anche anarchicamente”, se i bolscevichi non sapranno dirigerli nella lotta decisiva».25 Se noi ora osserviamo più da vicino dal punto di vista me­ todologico che qui ci viene offerto le sue annotazioni sull’insur­ rezione stessa - che si riallacciano ad alcuni passi di Rivoluzione e controrivoluzione in Germania - esse suggeriscono, da un lato, i momenti che vengono fatti coscientemente, ovvero dal lato del soggetto che agisce in modo cosciente (raggruppamento delle for­ ze, attacchi a sorpresa etc.); dall’altro, esse sottolineano in modo molto netto anche l’importanza dei momenti puramente soggettivi (risolutezza, superiorità morale etc.). L’insurrezione come arte è

’4 V. I. Lenin, Il marxismo e l ’insurrezione, in Id., La rivoluzione dOttobre, cit., pp. 203-208; cfr. anche la Lettera ai compagni, ibid., p. 301. " Ibid., p. 467.

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quindi un momento del processo rivoluzionario dove il momento soggettivo ha una preponderanza decisiva. E superfluo ripetere che la stessa possibilità di questa preponderanza, la situazione og­ gettiva favorevole all’insurrezione, l’esistenza di un tale sogget­ to, di un Partito Comunista, sono prodotti dello sviluppo sociale ed economico, benché naturalmente non si tratti di semplici pro­ dotti di uno sviluppo sociale spontaneo. Il momento soggettivo raggiunge in questo “momento” il suo significato preponderante proprio perché e nella misura in cui esso è stato cosciente e attivo già nello sviluppo precedente (un buon controesempio è rappre­ sentato dall’Ottobre tedesco con Thalheimer nella veste di teorico del codismo spontaneo). Ma nel “momento” la decisione e, con essa, il destino della rivoluzione proletaria (e, conseguentemen­ te, dell’umanità) dipende dal momento soggettivo. È impossibile comprendere correttamente il concetto leninista di processo rivo­ luzionario senza capire il significato centrale dell’insurrezione come arte; Lenin diceva che nel momento presente (ma ciò fa ri­ ferimento a tutte le situazioni rivoluzionarie) «non si può rimanere fedeli al marxismo e alla rivoluzione senza considerare Vinsurre­ zione come un 'arte>>.26 E vero: il compagno Lenin si è opposto duramente ad ogni soggettivismo “di sinistra” (e in tale occasione mi sono meritato anche io una critica da parte sua a causa di un articolo sul parla­ mentarismo uscito in Kommunismus nel 1920). Tuttavia, proprio questa lotta mostra nel modo più evidente che Lenin non ha com­ battuto il riconoscimento del momento soggettivo, quanto sem­ plicemente il suo uso sbagliato. Da un lato, ha combattuto ogni errata valutazione della situazione oggettiva; quindi le concezioni che in modo troppo sbrigativo hanno visto un “momento” decisi­ vo anche quando esso oggettivamente non c’era. Dall’altro, quel­ le concezioni che generalizzavano il ruolo decisivo che spetta al momento soggettivo che agisce in modo cosciente, attribuendolo meccanicamente all’intero processo, immaginandosi che un tale effetto fosse possibile in ogni epoca e in ogni circostanza, e non semplicemente in circostanze concretamente determinate. Ciò si­

26 V. I. Lenin, Il marxismo e l ’insurrezione, cit., p. 208.

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gnifica, quindi, che Lenin si è espresso contro coloro che trasfor­ mano la verità concreta degli “istanti” storici particolari e concreti nella falsità astratta che ritiene sempre possibile un influsso deci­ sivo sul processo (contrariamente al compagno Rudas che dissol­ ve il “momento” nel “processo” e giunge così - ad essere generosi - ad uno spontaneismo luxemburghiano). Questa versione “di si­ nistra” della teoria del momento ignora precisamente il momento del rovesciamento dialettico, l’essenza concreta e rivoluzionaria del “momento”. L’insurrezione come arte si trasforma nell’insur­ rezione come gioco: l’attivo e legittimo ruolo del soggetto si tra­ sforma in fraseologia soggettivista. Con il dominio del proletariato, tuttavia, entra in scena una trasformazione quantitativa così significativa che essa assume un carattere qualitativo. Se la dittatura del proletariato viene esercitata da un vero Partito Comunista (quindi non come è ac­ caduto in Ungheria), questa funzione del momento soggettivo acquista una certa consistenza, benché dialetticamente limitata. Non che ora il Partito possa modificare arbitrariamente la strut­ tura economica del paese, tuttavia, nella lotta delle diverse ten­ denze economico-sociali, che, ovviamente, continuano ad agire in modo spontaneo, il Partito (e attraverso di esso l’apparato sta­ tale, così come le masse degli operai) è in condizione di agire in modo cosciente e attivo sullo sviluppo di queste tendenze. Lenin ha sicuramente combattuto duramente in ogni occasione i com­ pagni “di sinistra” che sopravvalutavano il significato, la forza e la capacità di tenuta di questo momento, e tuttavia non in linea di principio, bensì perché le loro problematiche erano astratte, perché questa astrazione falsificava il momento dialettico del­ la situazione concreta. Lenin non ha combattuto meno coloro che misconoscevano il significato del momento soggettivo e che capitolavano in modo fatalistico di fronte alle tendenze spon­ tanee che sorgono necessariamente dall’economia. Cito solo la seguente frase da un discorso all’XI Giornata del Partito: «Il ca­ pitalismo di Stato è quel capitalismo che noi riusciremo a contenere entro certi limiti; questo capitalismo di Stato è legato allo Stato, e lo Stato sono gli operai, è la parte più progressiva degli operai, è l’avanguardia, siamo noi. Il capitalismo di Stato è quel capitalismo che dobbiamo circoscrivere entro limiti determinati, 31

cosa che finora non siamo riusciti a fare. Ecco il punto. E sta a noi decidere cosa deve essere questo capitalismo di Stato».27 «Sta a noi» dice quindi Lenin. Naturalmente non in ogni caso, e non ovunque allo stesso modo. È tuttavia una falsificazio­ ne della teoria di Lenin, la sua trasformazione nel codismo e nel menscevismo, pensare che secondo Lenin «un enorme salto in avanti nello sviluppo delle forze produttive» sia necessario alla rivoluzione.28 Così come è una falsificazione del mio punto di vista pensare che “solo” la coscienza di classe del proletariato sia la forza trainante della rivoluzione. Essa è effettivamente il momento decisivo solo in situazioni determinate (da qui la termi­ nologia: momento). Lo stesso compagno Rudas ammetterà che nel corso della rivoluzione non sono stati sfruttati momenti molto propizi. Non è però da bolschevichi, non è leninista, affermare post festum che il proletariato tentennava, non era “maturo” per l’azione, oppure addirittura che lo sviluppo delle forze produttive “ancora” non rendeva possibile il passaggio alla rivoluzione. Che noi viviamo nel periodo della rivoluzione riposa sul fatto - og­ gettivo da un punto di vista economico - che le forze produttive hanno già raggiunto questo stadio di sviluppo. Se, infatti, il prole­ tariato è soggettivamente immaturo per la rivoluzione proprio nei paesi decisivi allora evidentemente ciò ha cause oggettive, socia­ li, nella cui serie, tuttavia, giocano un enorme ruolo quei momen­ ti soggettivi che sono divenuti oggettivi (ad esempio il fatto che il primo grande movimento rivoluzionario dei lavoratori inglesi, il cartismo, sia collassato proprio all’epoca del grande boom ca­ pitalista e prima delPinizio delle vittoriose battaglie economiche e sindacali; in Francia, le tradizioni della grande rivoluzione bor­ ghese, il proudhonismo-sindacalismo; in Germania, la rivoluzio­ ne dall’“alto” come fondamento dell’unità nazionale e dello Stato borghese imperialista - da un punto di vista economico - etc.). Se però lo sviluppo economico scuote le fondamenta sociali di un tale Stato, allora dipende interamente dalla coscienza di classe

27 V. I. Lenin, Fine della ritirata, in Id., La costruzione del socialismo, Editori Riuniti, Roma 1972, p. 250. 28 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukâcs, cit., p. 120.

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del proletariato se la crisi sarà mortale per la borghesia o supe­ rabile. «Soltanto quando gli “strati inferiori ” non vogliono più il passato e quando gli “strati superiori ” non possono fare come per il passato, soltanto allora la rivoluzione può vincere».29 Il compagno Rudas crede che questo “volere” in Lenin sia solo una frase decorativa? (Allo stesso modo, egli cita iro­ nicamente “il regno della libertà” in diversi passi,30 apparente­ mente assumendo ciò da Marx ed Engels). E che Lenin non ha immaginato questo volere in un senso spontaneo ed elementa­ re dovrebbe essere un luogo comune per un comunista. Questi dovrebbe sapere che la debolezza o la risolutezza delle masse dipende in ampia misura da quanto Patteggiamento cosciente e l’avanguardia attiva del Partito Comunista siano intelligenti e risoluti, oppure codardi, codisti e fatalisti: ovvero dalla «figura della coscienza di classe proletaria».31 Anche qui dovrebbe ba­ stare un’affermazione di Lenin: «si dimentica naturalmente “alPoccasione” che la linea ferma del partito, la sua risolutezza in­ flessibile è proprio un fattore determinante dell’umore generale, in particolare nei momenti rivoluzionari più acuti. Alcune volte è molto conveniente dimenticare che i capi responsabili attraverso le loro debolezze e la loro tendenza a dimenticare tutto ciò che hanno offerto il giorno prima comportino degli ondeggiamenti indecenti in certi strati delle masse». Ci sono dunque fasi del processo (“momenti”) dove la de­ cisione dipende “solo” dalla coscienza di classe del proletariato, lì chiaro da tutto ciò che si è detto finora che questi momenti non ondeggiano liberi nell’aria, non possono essere prodotti a piace­ re, sono bensì prodotti del processo oggettivo e perciò non isolabili da questo. E, secondo il mio punto di vista, essi si lasciano così poco isolare dal processo che il loro apparire nel corso del processo appartiene piuttosto essenzialmente al profilo del pro­ cesso e che con ciò la concezione bolscevistico-rivoluzionaria (e

V. I. Lenin, L festremismo, malattia infantile del comuniSmo, in L ’internazionale co­ munista, cit., p. 186. *" I Mancano nel testo. Probabilmente Lukàcs fa riferimento ai seguenti passi: L. Rudas, In teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., pp. 110-111, (N.d.T.)]. " ( ì. I Aikacs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 410 [tr. modificata, (N.d.T.)\.

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non codista) del processo stesso è determinata dalla conoscenza di tale rapporto. Mentre, infatti, i menscevichi concepiscono an­ che i momenti decisivi, dove entra in scena Γ influenza attiva del momento soggettivo, secondo lo schema di uno “sviluppo gra­ duale”, i bolscevichi devono scoprire nel processo stesso il sum­ menzionato carattere di tali momenti. Ciò significa che essi sco­ priranno in ogni momento - apparentemente - tranquillo questo carattere della struttura del processo che si svolge non in modo evoluzionistico, organico, bensì attraverso delle contrapposizio­ ni, in avanzate e ritirate. «Non c ’è alcun momento», dicono le tesi organizzative del III congresso, «in cui un Partito Comunista non possa essere attivo». Perché? Perché non ci può essere alcun mo­ mento dove questo carattere del processo, il germe, la possibilità di un’influenza attiva del momento soggettivo, possa mancare completamente. «Forse che, per esempio, uno sciopero qualsia­ si non è una piccola crisi della società capitalistica? Forse non aveva ragione il ministro prussiano degli affari interni, il signor Von Puttkamer, quando pronunciò il detto memorabile: “in ogni sciopero è nascosta l’idra della rivoluzione!”?».32 Certo, qui la quantità si rovescia in qualità, ma chi chiude gli occhi sulla que­ stione fondamentale non sarà mai in grado di comprendere ade­ guatamente questo lato del processo e degli eventi, quelli in larga così come quelli in piccola scala; chi, come Rudas, per la paura codistica di cadere nel “soggettivismo”, nega questi momenti in generale, in tali momenti reagirà necessariamente in modo fatali­ stico e codista (come i compagni ungheresi che hanno collabora­ to con il compagno Rudas così spesso hanno potuto constatare). È chiaro che tale prospettiva codista è inconciliabile con la preparazione della rivoluzione, uno dei fondamenti del leninismo. Il compagno Rudas mette in opera del tutto inconsciamente una revisione di Lenin laddove egli, ogni qual volta è spinto verso questo concetto, lo fa scivolare verso quello di “previsione”. «Il proletariato è talvolta immaturo per la sua liberazione. La sua maturazione dipende da molte circostanze, tra le quali anche la

32 V. I. Lenin, Rapporto sulla rivoluzione del 1905, in Id., La rivoluzione del 1905, Editori Riuniti, Roma 1972, vol. I, p. 21.

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coscienza di classe ha un ruolo determinato, anzi probabilmente rilevante. Ma ciò non impedisce di prevedere che il proletariato maturerà, che verrà il tempo in cui adempirà alla sua missione, di­ ventandone consapevole».33 Non è solo il caso di uno slittamento stilistico casuale. Lo mostra non solo il ripetersi di quest’espres­ sione ma anche il fatto che il compagno Rudas, come più terribile conseguenza del mio “soggettivismo”, mi accusa con tono trion­ fante di pensare che «hanno ragione i socialdemocratici quando sostengono che il proletariato deve essere educato, formato, prima di poter iniziare la rivoluzione! Hanno dunque ragione loro con la loro “politica” che limita ogni attività al “lavoro educativo”!».34 Il compagno Rudas pensa ovviamente che l’influsso ideologico sia possibile solo sulla strada dell’educazione dei lavoratori; un altro influsso può aver luogo soltanto nel senso di un ripercuotersi delΓeconomia nelle teste (automaticamente, senza un agire attivo o meno che mai cosciente). Il compagno Rudas non nota quanto egli sia qui un kantiano, quanto egli concepisca i problemi dell’ideo­ logia in senso kantiano-soggettivistico, secondo lo schema di una esatta divisione della ragione “pura” dalla “pratica”. Io sono effet­ tivamente abbastanza “soggettivista” per non sottovalutare anche il lavoro educativo e penso che sarebbe estremamente proficuo che i compagni come Rudas si immergessero negli scritti di Lenin sull’organizzazione prima di lasciarsi andare ad un discorso quasi bemsteiniano contro il “soggettivismo” in nome del leninismo. 2. Imputazione Con ciò però ci troviamo già di nuovo di fronte ad uno dei peccati capitali teorici che io, secondo il compagno Rudas, avrei commesso. Voglio dire la cosiddetta coscienza di classe “attribui­ ta”, “imputata” [zugerechnete]. Prima che io entri nel problema vero e proprio, il lettore mi permetta di fare alcune osservazioni introduttive. Anzitutto: come per ogni problema che io ho trattato nel mio libro non do al

" I.. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 100. " Ibid., p. 121.

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termine “imputazione” [Zurechnung] nessun peso particolare. Se si dovesse dimostrare che ciò che io ho inteso con questa espres­ sione e che io nell’essenziale ancora oggi considero giusto - e che continuerò a difendere in ciò che segue - può essere espresso in altro modo, meglio, con minori fraintendimenti, allora io sa­ crificherei senza una lacrima Γ“imputazione”. Se l’espressione è sbagliata, che possa scomparire. Non seguirò quindi Rudas nelle sue ampie considerazioni sul significato e l’origine della parola “imputazione” (e mi occuperò quindi solo della cosa stessa). Devo tuttavia notare che egli - per ignoranza dei fatti o inten­ zionalmente - semplifica eccessivamente la questione. Egli espo­ ne la cosa come se “imputazione” significasse una indipendenza funzionale, come se fosse un termine matematico, il cui compito sarebbe di sostituire la causalità.35 Ciò è fattualmente inesatto. “Imputazione” è un vecchio termine giuridico. Se mi ricordo bene si trova già in Aristotele. Il significato che io attribuisco alla parola è comunque divenuto corrente solo nella tarda giurispru­ denza. Esso proviene certamente da una tendenza oggettivistica, e dovrebbe aiutare a chiarire qual è il rapporto decisivo da un punto di vista oggettivo e causale rispetto all’intrico di rapporti superficiali e di condizioni psicologiche soggettive. Ad esempio, un oggetto cade da una finestra e colpisce una passante sulla stra­ da. Chi è responsabile - giuridicamente - della morte e di cosa è colpevole? Non interessa in prima istanza ciò che l’imputato ha pensato o ritenuto, quanto piuttosto se egli avrebbe potuto e dovuto sapere che la sua azione o la sua omissione doveva portare in condizioni normali a queste conseguenze. Per non rimanere imprigionato in ciò che - per questo dibattito - è un dettaglio marginale, farò riferimento a una definizione come quella di diligenspaterfam ilias del diritto romano. È chiaro a che cosa mirano queste definizioni. Esse intendono aiutare a ricostruire, a partire dai fatti, gli elementi oggettivamente essenziali di una situazione legale e permettere così di elaborare gli elementi oggettivamente tipici in un tale caso. (Questi elementi oggettivi e tipici posso­ no non coincidere in nessun modo con ciò che è statisticamente

35 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukacs, cit., pp. 76 e ssgg.

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nella media benché sotto normali circostanze essi evidentemente si muovano in questa direzione; è però, ad esempio, certamente possibile che in occasione di una congiuntura straordinaria la me­ dia degli speculatori non si comporti in accordo con la pratica dei mercanti “normali” e tuttavia essa possa ancora, nonostante ciò, restare normativa per l’imputazione giuridica). Ora, nelle scienze storiche questo metodo viene usato - co­ scientemente o incoscientemente -, si compie cioè il tentativo di costruire la situazione oggettiva a partire dai fatti che ci si offrono e i momenti “soggettivi” vengono spiegati a partire da questa (e non il contrario). Lasciando cadere i dettagli inessenziali di una situazione oggettiva, si può discemere ciò che gli uomini erano in grado di fare o di lasciar correre agendo in base alla conoscenza normale e corretta della loro situazione e, basandosi su ciò, si pos­ sono misurare i loro errori, le loro giuste intuizioni etc. Porterò ad esempio la Storia della guerra di Delbrück poiché qui forse il com­ pagno Rudas può accertarsi del giudizio di Mehring secondo cui imparare qualcosa da essa non significa macchiare la sua purezza marxista. Ma egli può trovare un metodo simile leggendo l’arti­ colo di Engels sulla guerra del 1870-71, ad esempio nella critica della campagna di Bourbaki.36 Non va diversamente con la critica politica. La critica che Marx ed Engels esercitarono contro i partiti borghesi nel 1848-49 consistette - metodologicamente - in ciò, mostrare quello che essi avrebbero potuto e dovuto fare in base alla situazione oggettiva* economica e politica e che tuttavia non fecero. Si pensi alla critica di Marx alla politica della Montagna e al Partito dell’Ordine nel 18 Brumaio. L’analisi della situazione oggettiva mostra non solo una impossibilità puramente oggettiva del passo decisivo o della sua conseguenza (l’impossibilità del­ la vittoria proletaria nella battaglia di giugno); essa mostra bensì anche, in alcuni passaggi, l’incapacità soggettiva della classe, dei partiti e dei loro dirigenti di trarre le possibili conseguenze del­ la situazione data e agire di conseguenza. Così, ad esempio, nel­ l’analisi della lotta tra il ministero non parlamentare di Bonaparte

1(1( 'fr. ad es. F. Engels, Note sulla guerra franco-prussiana 1870-1871, Edizioni Lotta ( omunista, Milano 1996.

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e il Partito dell’Ordine, quando il Ministro degli Interni parlò della minaccia alla pace. «Bastò» spiega Marx «che un semplice Vaisse evocasse lo spettro rosso perché il Partito dell’ordine respingesse senza discussione una proposta che avrebbe dato all’assemblea nazionale una popolarità immensa e avrebbe nuovamente gettato Bonaparte nelle sue braccia. Invece di lasciarsi intimidire dal po­ tere esecutivo con la prospettiva di nuovi disordini, l’assemblea avrebbe dovuto dare un po’ di campo libero alla lotta di classe, per mantenere il potere esecutivo alle sue dipendenze».37 Fino a che tuttavia si parla di classi le quali - in conseguenza della loro situazione economica - agiscono necessariamente con falsa coscienza, è sufficiente, nella maggioranza dei casi, con­ trapporre semplicemente la falsa coscienza alla realtà oggettiva della vita economica per comprendere correttamente la situazio­ ne storica, il corso del processo storico. Ma già l’esempio fatto ci può insegnare che la semplice contrapposizione non sempre è sufficiente. Poiché anche la “falsa coscienza” è falsa in un senso dialettico e meccanico e ciò vuol dire: ci sono rapporti oggettivi che è impossibile per una tale classe non vedere (a misura della sua posizione di classe); d’altro canto, ci sono all’interno degli stessi rapporti situazioni che possono essere conosciute, situa­ zioni in cui è possibile (per la classe) agire in modo corretto, in senso cosciente o incosciente, in modo adeguato alla situazione oggettiva. Tuttavia, i pensieri effettivi su tale situazione (da par­ te della classe, dei partiti, dei dirigenti) non sempre corrispon­ dono a ciò che è giusto, non sempre corrispondono a ciò che sarebbe stato loro possibile dal punto di vista della classe. Tra la coscienza che essi effettivamente hanno della propria situazione e la coscienza che essi - in base alla loro posizione di classe - potrebbero avere, c ’è uno scarto che è compito proprio del partito e dei suoi dirigenti superare. (Ripeto, il secondo corno del nostro dilemma non coincide con la conoscenza oggettivamente e scientificamente giusta della situazione storica; ciò è possibile solo sulla base del materialismo storico).

37 K. Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, in K. Marx e F. Engels, Opere, Editori Riuniti, Roma 1982, vol. XI, pp. 169-170.

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Il proletariato si trova in un’altra situazione: il proletariato può - in base alla sua posizione di classe - avere una coscien­ za giusta del processo storico e delle sue singole tappe. Ma esso possiede questa conoscenza in ogni caso? Niente affatto. E una volta che questo scarto venga riconosciuto come un fatto è do­ vere di ogni marxista riflettere seriamente sulle cause di questo scarto e - cosa ancora più importante - sui mezzi per il suo su­ peramento. Tale questione è il nocciolo sostanziale della mia di­ vergenza dal compagno Rudas per ciò che riguarda il problema dell’“imputazione”, laddove per coscienza di classe “imputata” si intende la coscienza che il proletariato potrebbe raggiungere di volta in volta rispetto alla sua condizione oggettivo-economica. Ho usato l’espressione “imputazione” per esprimere nel modo più chiaro questo scarto e ripeto che sono disposto volentieri a lasciar cadere tale espressione, se essa genera malintesi, così come non sono disposto ad indietreggiare di un passo sulle questioni essen­ ziali della concezione bolscevica della lotta di classe di fronte ad obiezioni meccaniciste e codiste. Come i lettori di questa polemica sapranno bene, le mie ri­ flessioni derivano dal detto marxiano: «ciò che conta non è che cosa questo o quel proletario, o anche tutto il proletariato si rap­ presenta temporaneamente come fine. Ciò che conta è che cosa esso è e che cosa esso sarà costretto storicamente a fare in confor­ mità a questo suo essere»?* Il compagno Rudas conduce in modo troppo sbrigativo la sua polemica contro la mia interpretazione di questa frase. Io ritengo che in essa lo stato dei fatti sopra descritto c allo stesso tempo il compito del partito proletario consista nel superare lo scarto tra essere e coscienza o più precisamente: tra la coscienza che corrisponde oggettivamente all’esistenza economi­ ca del proletariato e una coscienza il cui carattere di classe resta dietro questa esistenza. Secondo la concezione di Rudas infatti, Marx intende dire: «gli scrittori socialisti attribuiscono al proleta­ riato un certo ruolo storico-universale. Perché e come ciò avvie­ ne? Poiché la società attuale è soggetta a determinate legalità che ne prescrivono in maniera necessaria il corso futuro, nella stessa

,HK. Marx e F. Engels, La Sacra Famiglia, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 44.

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misura in cui il corso futuro di una pietra scagliata è prescritto dalla legge di gravità. La pietra non sa nulla del fatto che la sua ca­ duta è prescritta necessariamente da forze naturali: altrettanto può accadere al proletariato che può talvolta non avere alcuna idea del suo ruolo. Solo talvolta dice tuttavia Marx. Infatti, non essendo i proletari pietre, bensì uomini dotati di coscienza, essi possono di­ ventare consapevoli del loro ruolo storico. Gli inglesi e i francesi iniziarono ad acquistare coscienza del compito storico che gli altri seguiranno. Ma da dove posso dedurlo? Dal fatto che - risponde Marx - in quanto materialista, so che la coscienza dipende dal­ l’essere sociale, ne è un prodotto, nonché dalla sua configurazione in modo che il proletariato attraverso la miseria è costretto neces­ sariamente a un agire di tal specie e col tempo anche al ridestarsi della propria coscienza».39 E il compito dei “marxisti”, secondo lui, si riassume in quell’espressione che abbiamo già citato in pre­ cedenza: prevedere questo sviluppo.40 Ora, io credo che Marx non sarebbe stato per nulla soddisfat­ to di questo compito “marxista” di “prevedere” che il proletariato riuscirà secondo una necessità naturale ad essere col tempo ideo­ logicamente preparato. Anche su questo si è espresso in alcuni passi in modo difficilmente fraintendibile. Cito qui solo qualche parola dai suoi Rapporti confidenziali: «gli inglesi posseggono tutte le premesse materiali necessarie per la rivoluzione sociale. Ciò che loro manca è lo spirito della generalizzazione e la passio­ ne rivoluzionaria. Solo il Consiglio Generale può colmare questa lacuna, esso solo è in grado di accelerare un movimento veramen­ te rivoluzionario in questo paese e in conseguenza ovunque».41 Due osservazioni sono qui per noi di grande importanza. In primo luogo, che per Marx era possibile - e ciò non solo non contraddiceva affatto la sua concezione del materialismo storico ma ne era piuttosto una conseguenza - che la rivoluzione potesse essere oggettivamente a portata di mano e che la coscienza del proletariato potesse restare indietro rispetto allo sviluppo ogget­

39 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 99. 40 Ibid, p. 100 (corsivo di Rudas). 41 K. Marx, Comunicazione confidenziale, in Id., Lettere a Kugelmann, Edizioni Rina­ scita, Roma 1950, p. 117.

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tivo-economìco. In secondo luogo, che il compito dell’Intemazio­ nale, del partito proletario intemazionale, è quello di intervenire attivamente in questo processo di sviluppo della coscienza di clas­ se proletaria, portandola dal suo stato attuale alla condizione più elevata possibile da un punto di vista oggettivo. Non si può mai sottolineare abbastanza il fatto che per la questione di cui si discute qui, cioè una questione fondamentale da un punto di vista metodologico del materialismo storico, è del tutto indifferente se Marx si sia o meno sbagliato sulla situazione inglese di allora. Gli opportunisti di tutte le tendenze parleranno sempre delle valutazioni “errate” della situazione, del fatto che Marx ed Engels abbiano «sopravvalutato la maturità rivoluziona­ ria della situazione». Senza procedere oltre in questa discussione, bisogna brevemente sottolineare che il semplice fatto che una ri­ voluzione non abbia avuto luogo non è in alcun modo prova che le condizioni oggettive della rivoluzione mancassero nella realtà; si veda la citazione di Lenin riportata sopra. Qui dobbiamo tuttavia tenere fermo il nocciolo metodolo­ gico dell’affermazione di Marx. Il compagno Rudas ammette la differenza di livello della coscienza di classe del proletariato come un fatto, lo abbiamo visto. Ed egli non solo ci impone la formu­ la “puramente marxista” secondo cui dovremmo “prevedere” che questi fatti cambieranno necessariamente col tempo, ma egli fon­ da anche in un altro passo del suo saggio questa concezione: «Il latto che i proletari possano non avere alcuna o scarsa “coscienza di classe” o possano essere persino ostili alla classe, significa che la loro situazione nel processo economico non è puramente tipica. 0 non sono occupati in grandi imprese o appartengono al pro­ letariato piccolo-borghese».42 Le classi sono perciò delle forme lluide, dice correttamente il compagno Rudas; ma dal contesto delle sue affermazioni si deduce la concezione molto falsa e molto adialettica secondo cui questo fluire potrebbe “fluire” da sé se­ condo una necessità naturale fino alla comprensione corretta della posizione di classe, senza azione cosciente del Partito Comunista. ( )ppure, per non offendere la serietà materialista ed economica del

v I . Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 97 [tr. mod., (N.d.T.)]

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compagno Rudas: queste differenze scompariranno nel momento in cui la posizione del soggetto nel processo economico diventa puramente tipica: quando, ad esempio, gli operai americani trove­ ranno impiego in grandi fabbriche, poiché, come sappiamo, l’arre­ tratezza tecnica dell’organizzazione americana dell’economia è la ragione decisiva della loro coscienza di classe sottosviluppata. Tuttavia, scherzi a parte, il mio compito non è chiaramente quello di minimizzare l’importanza di questo fattore.43 Se si con­ sidera lo sviluppo complessivo del proletariato in una prospetti­ va ampia che abbraccia epoche intere, questa concezione è giu­ sta; e tuttavia con modificazioni importanti di cui presto diremo qualcosa più da vicino. Per la politica pratica - e spero che anche il compagno Rudas ammetta che essa è una parte importante del­ la teoria marxiana - essa non è però affatto giusta. Se comin­ ciamo dagli inizi dell’emergere indipendente del proletariato in Germania, quando proprio gli operai delle fabbriche più grandi e meglio organizzate da un punto di vista tecnico (Borsig etc.) si aggrappavano tenacemente all’unità organizzativa con partiti borghesi e piccolo-borghesi, mentre gli operai deH’industria del tabacco, i calzolai, i sarti etc. si univano ai ranghi del movimento rivoluzionario molto più celermente,44 fino agli operai del Zen­ trum del distretto della Ruhr che non erano davvero impiegati in piccole fabbriche o il movimento ungherese, dove il compagno Rudas può aver avuto testimonianza di simili raggruppamenti, dappertutto vediamo la stessa immagine: la chiarezza e il cando­ re dell’autocoscienza proletaria non corrisponde esclusivamente, e a volte per nulla, al fatto di essere integrati in grandi o piccole fabbriche. E la coscienza di classe degli operai che lavorano nel­ le stesse fabbriche, (persino se provengono dallo stesso milieu sociale - se non sono contadini che si sono mossi di recente nelle città o figli di operai) è spesso molto differenziata. Il nostro modo di considerare gli strati della coscienza nel proletariato non può appoggiarsi a questa ovvia, e certo molto plausibile,

43 Cfr. su questo G. Lukacs, Storia e coscienza di classe, cit., pp. 396 e ssgg. 44 Cfr. ad esempio F. Mehring, Storia della socialdemocrazia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1961.

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formulazione. Poiché essa da sola condurrebbe necessariamente al fatalismo (vedi il compagno Rudas). Il compagno Rudas allude, nel passo citato sopra, all’aristo­ crazia operaia, senza notare che così contraddice la propria teo­ ria, giacché l’aristocrazia operaia si recluta - in genere - proprio tra quegli strati della classe operaia che, secondo il suo punto di vista, dovrebbero appartenere al “tipo più puro”: dallo strato degli operai più alfabetizzati dei centri industriali più grandi e tecnologicamente avanzati. E anche la teoria e la prassi socialdemocratica dell’anteguerra muovevano da una visione simile a quella del compagno Rudas: essa identificava, ignorando gli av­ vertimenti di Marx ed Engels, la coscienza di classe dell’aristo­ crazia operaia con la coscienza di classe del proletariato e con­ cepiva, in caso di conflitto, gli interessi di questo strato come gli interessi determinanti dell’intera classe, la sua coscienza come la coscienza determinante dell’intera classe. E tutto ciò deriva in modo del tutto conseguente dall’aver concepito la coscienza di classe come il prodotto meccanico della condizione economica immediata dell’operaio, senza prendere in considerazione la to­ talità dei rapporti sociali. Per comprendere la funzione di ostacolo che l’aristocrazia operaia pone al processo rivoluzionario complessivo occorre ab­ bandonare l ’immediatezza, occorre conoscere le reali forze dia­ lettiche che producono questa immediatezza e assegnare loro la propria funzione nel contesto totale. Lenin e i suoi allievi hanno qui ricostruito e concretizzato la teoria di Marx ed Engels. Han­ no riconosciuto il pericolo per il movimento operaio rivoluzio­ nario di identificare gli interessi e la coscienza di questo strato del lavoro con gli interessi e la coscienza di classe del proleta­ riato. Cito solo alcuni dei molti passi possibili. Lenin definisce l’opportunismo come «il sacrificio degli interessi fondamentali delle masse in favore dell’interesse temporaneo di un ristretto numero di operai». Allo stesso modo si esprime Zinoviev: «i ristretti interessi corporativi di questa minoranza rappresentata dnll’aristocrazia operaia privilegiata sono quelli che i socialsciovinisti scambiano con quelli della classe operaia. Questo scambio diventa comprensibile se si pensa al fatto che i dirigenti sindacali e del partito socialdemocratico ufficiale provengono,

per la maggior parte, dai ranghi dell’aristocrazia operaia. L’ari­ stocrazia operaia e la burocrazia operaia sono sorelle. Quando i socialsciovinisti parlano dell’interesse della classe operaia han­ no di fronte agli occhi - spesso del tutto inconsciamente - gli interessi dell’aristocrazia operaia. Ma anche qui non si tratta, in realtà, di veri interessi nel senso più ampio del termine, quanto di un vantaggio immediatamente materiale. E queste due cose non coincidono assolutamente».45 Per noi, tuttavia, che intendiamo qui chiarire il lato meto­ dologico del problema, la questione si pone nei termini seguenti: con che diritto il compagno Zinoviev dice che i veri interessi della classe operaia e il vantaggio materiale non sono la stessa cosa? Con che diritto parla in generale di “veri” interessi della classe operaia, senza stabilire cioè semplicemente una differenza “socio­ logica” e riconducendola alla sua radice economica, bensì ponen­ do allo stesso tempo un interesse come giusto (e, così, la coscienza che ad esso corrisponde) e l’altro come sbagliato e pericoloso? (Qui il compagno Rudas, se avesse trovato il passo nel mio libro, avrebbe senz’altro cominciato a lamentarsi indignato dei “giudizi di valore”, del rickertismo etc.). La risposta è semplice: perché una coscienza esprime la situazione economica e sociale comples­ siva della classe, mentre l’altra rimane fissata all’immediatezza dell’interesse particolare e temporaneo. Qui c’è, tuttavia, solo l’inizio del problema. In primo luo­ go, infatti, si tratta qui già di una comprensione teoreticamente corretta della condizione di classe oggettiva, laddove il punto di partenza è la correttezza oggettiva dell’analisi teorica. In sé e per sé, le due concezioni sono prodotti causali dell’essere sociale nelle teste degli uomini, che sotto questo aspetto non si distinguono una dall’altra. La loro differenza è quella tra un’analisi profonda o superficiale, dialettica o meccanicista, pratico-critica o feticistico-ideologica dell’essere sociale-oggettivo, di cui sono entrambe, immediatamente e allo stesso modo, un prodotto. La loro differen­ za appare solo nel momento in cui si esce da questa immediatezza

45 Grigori Zinoviev, Der Krieg und die Krise des Sozialismus [La guerra e la crisi del socialismo], s.e., p. 546.

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e in cui vengono comprese le forme oggettive di mediazione che restano nascoste alla coscienza intrappolata nell’immediatezza. In conseguenza di ciò, la teoria vera non solo può contraddire quel­ la falsa, ma è anche in grado, allo stesso tempo, di indicare quei momenti dell’essere sociale che l’hanno prodotta e che i difensori della teoria falsa non sono riusciti ad analizzare e hanno, perciò, accettato e erroneamente universalizzato nella loro immediatezza. (In tal modo i bolscevichi hanno potuto chiarire la storia socia­ le che sta dietro la comparsa del menscevismo, mentre dall’altra parte si ripeteva la fraseologia contro il putchismo, il settarismo etc.; così, il compagno Lenin nella sua polemica sul diritto all’au­ todeterminazione ha scoperto le radici sociali dell’errore in cui cadevano i “radicali di sinistra” polacchi e olandesi nel momento stesso in cui ne confutava le false teorie). In secondo luogo, l’analisi puramente teorica della situazio­ ne economica oggettiva, per quanto giusta, non basta ancora. Da questa analisi devono essere ancora sviluppate le giuste linee gui­ da per l ’azione. Se, comunque, la situazione economica oggettiva non appare immediatamente nella sua forma oggettivamente giu­ sta, allora le linee guida e gli slogan che da quella derivano devono essere prima trovati. Essi non nascono affatto “spontaneamente” e anche il modo in cui la spontaneità agisce tra gli operai non è in alcun modo un criterio della loro giustezza. (Il compagno Lenin ricorda come, sotto determinate circostanze, falsi slogan “di sini­ stra” possano esercitare un influsso immediato più forte, rispetto a quelli giusti, veramente comunisti; «e, tuttavia», aggiunge, «ciò non costituisce affatto una prova della giustezza della tattica che esse esprimono»). Proprio la ripetuta necessità di nuotare “contro la corrente” - tanto in Marx, quanto in Lenin - prova Γinsoste­ nibilità e la natura oggettivamente non rivoluzionaria di una tale “teoria della spontaneità”. Quali sono però gli slogan giusti, se essi non sono sempli­ cemente i pensieri, i sentimenti della maggioranza, o anche della media, degli operai? Essi sono precisamente «quelle idee, senti­ menti etc., che gli uomini avrebbero avuto in una determinata si­ tuazione di vita, se fossero stati in grado di cogliere pienamente questa situazione e gli interessi da essa emergenti, sia in rapporto alPagire immediato, sia in rapporto alla struttura - conforme a 45

questi interessi - dell’intera società».46 E così siamo giunti for­ tunatamente alla coscienza di classe “imputata”. Poiché è questo - niente di più, niente di meno - che è necessario dire, a prescin­ dere dal fatto che la si chiami “imputazione” o altro. Sicuramente il compagno Rudas potrebbe obiettare: con che diritto chiamo proprio questa coscienza, coscienza di classe? Egli afferma, infatti, che «la coscienza del proletariato non è tale per il fatto che rispecchia in maniera giusta o falsa la sua situazione, bensì perché, con tutte le sue particolarità, è limitata solo al prole­ tariato».47 La seconda parte di questa affermazione non ha nulla a che fare con la questione che stiamo trattando qui. E ovvio: tanto la vera, quanto la falsa coscienza sono limitate in questo caso al proletariato. Ma qualsiasi agitatore o propagandista potrebbe in­ segnare qualcosa al compagno Rudas sulla prima parte della sua affermazione. Egli chiederebbe al compagno Rudas se potrebbe parlare di operai che hanno coscienza di classe in opposizione a quelli che non l’hanno (che sono operai allo stesso modo e il cui pensiero è ugualmente determinato dal loro essere proletari). Chiederebbe al compagno Rudas se avrebbe il diritto di mettere in discussione la coscienza proletaria di un crumiro o anche di un operaio che tentenna. E, affrontando la coscienza di classe degli operai attraverso un analisi della situazione oggettiva e appellan­ dosi agli slogan che da quella derivano, avrebbe il diritto di risve­ gliare o incrementare la coscienza di classe? Si limiterebbe forse a constatare che lo sviluppo economico ha prodotto nell’operaio medio solo un determinato livello della coscienza di classe e che egli - come marxista - “prevede” che questo sviluppo porterà gra­ dualmente ad uno sviluppo più alto anche la coscienza di classe? In tal modo ci ritroveremmo nel pantano della teoria kautskiana, dove il “livello delle forze produttive” prende il posto del fato e che il compagno Stalin ha giustamente definito una falsificazione del marxismo. Se non accade nulla, è «perché dato il “livello del­ le forze produttive” esistente in quel momento, non era possibile fare niente di diverso. La “colpa” è delle “forze produttive” [...].

46 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., pp. 65-66. 47 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 94.

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E chi non crede a questa “teoria” non è marxista. La funzione dei partiti? La loro importanza nel movimento? Ma che può mai fare il partito contro un fattore così decisivo come il “livello delle forze produttive”?».48 Il compagno Rudas potrebbe forse obiettarmi (benché ciò contraddica la sua concezione spontaneista e codista): è possibile che sotto determinate circostanze gli operai non comprendano la teoria oggettivamente corretta e i corretti slogan che da essa deri­ vano. Ci troveremmo di fronte, comunque, al più puro idealismo se ascrivessimo a questa conoscenza corretta (“una conoscenza”: apage satanas/) un ruolo decisivo nella lotta di classe reale, nella storia attuale. Ho già risposto a quest’argomento quando ho trat­ tato la cosiddetta teoria “del momento” e ho analizzato il concetto marxiano-leniniano di “insurrezione come arte”, motivo per cui basterà qui citare solo alcune rilevanti frasi dalla lunga lista di formulazioni simili che è possibile trovare in Lenin. Α1ΓXI Congresso del Per, Lenin disse: «nella massa del po­ polo noi siamo ancora una goccia nel mare, e possiamo esercitare il potere soltanto quando sappiamo esprimere giustamente ciò di cui il popolo ha coscienza».49 E nell’Estremismo, quando riassume le esperienze del Per a benefìcio dei comunisti non russi, comin­ cia a rispondere alla domanda circa le condizioni fondamentali che hanno permesso il successo dei bolscevichi, sottolineando il bisogno di una teoria giusta.50 Tutto questo appartiene all’Abc del marxismo e del leninismo, ed è al tempo stesso triste e ridicolo che io debba spiegarlo così dettagliatamente. Era tuttavia necessario, perché siamo così giunti alla questione del partito che è la pie­ tra dello scandalo per ogni - consapevole o inconsapevole - so­ stenitore dello spontaneismo. (Rimando di nuovo allo scritto del compagno Rudas sulla dittatura ungherese). Dico assieme a Marx: la coscienza di classe non è «ciò che questo o quel proletario o l’intero proletariato stesso si pone come meta», essa non è né un problema psicologico, non è questione che riguardi la psicologia

INStalin, Questioni dei leninismo, Società Editrice “L’Unità”, Roma 1945, p. 28. v>V. I. Lenin, Fine della ritirata, cit., p. 272. 11V. I. Lenin, L ’estremismo, malattia infantile del comuniSmo, cit., p. 127.

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di massa; ma ecco che il compagno Rudas interviene indignato: «a questo punto si potrebbe pensare che il compagno Lukacs ha sco­ perto un terzo luogo in cui si realizza la coscienza di classe. Forse la testa di un dio o di molti dei, forse la testa della signora storia, o qualcosa di simile»;51 io farei cioè della coscienza un demone sto­ rico, un «demiurgo del reale, della storia»,52 sarei un hegeliano di destra etc. Ora, posso tranquillizzare il compagno Rudas (o, me­ glio, il suo codismo): questo “terzo luogo” è per ogni comunista qualcosa di abbastanza facile da trovare: è il Partito Comunista. Noi tutti conosciamo la definizione dei comunisti che viene data dal Manifesto e che il II Congresso del Comintem ha ripreso quasi letteralmente nelle sue tesi. Conseguentemente, è divenuto un luogo comune vedere nel Partito Comunista l’organizzazione degli elementi più coscienti del proletariato. Frasi che vengono ripetute spesso - anche in casi come questo, in cui non contengo­ no se non la pura verità - corrono il rischio di venire accettate e ripetute senza ulteriore riflessione; nel momento, tuttavia, in cui esse vengono ripetute in modo non letterale, il loro reale significa­ to viene ignorato e si arriva a dire esattamente l’opposto di quanto in esse è contenuto. È quello che è successo qui al compagno Ru­ das. Egli, facendo riferimento a un passo incriminato del mio libro («proprio questa scissione offre tuttavia il mezzo per comprendere che - come viene sottolineato nella citazione che appare in testa a questo saggio - la coscienza di classe non è la coscienza psico­ logica di singoli proletari, oppure la coscienza (intesa in termini di psicologia di massa) della loro totalità, ma il senso, divenuto cosciente, della situazione storica della classe»),53 mi accusa con nobile indignazione di confondere la coscienza con il contenuto della coscienza.54 Comprendo pienamente l’indignazione del com­ pagno Rudas: il suo kantismo, malamente represso, cerca di tanto in tanto di venire alla luce e di ribellarsi contro l’intreccio pratico di forma e contenuto. Appartiene infatti all’essenza del kantismo separare precisamente, rigidamente e in modo meccanico forma e

51 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukâcs, cit., p. 86. 52 Ibid., p. 92. 53 G. Lukâcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 96. 54 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukâcs, cit., p. 87.

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contenuto, ciò che, nel caso che stiamo discutendo, lo porta a dire: «è chiaro che, qualunque sia il contenuto della coscienza, mutano pure continuamente le idee, i sentimenti, degli uomini - in ogni periodo di tempo dato, essi hanno un complesso di queste cose in testa e lo chiamano, appunto, “coscienza”. La quale può realiz­ zarsi soltanto come psicologia dei singoli o come psicologia di massa. È cioè una scienza, una scienza della natura, la psicologia (o la psicologia di massa) che decide il significato di questo “rea­ lizzarsi nella psicologia o nella psicologia di massa”».55 Ciò signi­ fica semplicemente: il contenuto della coscienza è una “questione sociologica”, la coscienza stessa è una questione “psicologica”; le due questioni si rapportano tra loro solo in modo vago, da lontano e in modo complesso, poiché appartengono a “scienze diverse”. Il compagno Rudas dice: «nella seconda parte della sua pro­ posizione Lukacs definisce con maggiore chiarezza soltanto ciò che diviene cosciente per gli uomini, quindi unicamente il conte­ nuto della coscienza: si tratta del “senso della situazione storica”. Ma è una questione completamente diversa, con rispetto parlando! Ciò che di volta in volta costituisce il contenuto della coscienza degli uomini, nonché la sua eventuale corrispondenza alla realtà, rappresenta un problema a sé, che non ha nulla a che fare con la questione se la coscienza sia psicologica in senso individuale o di massa! Poco importa, cioè, che il contenuto sia vero o falso, esprima oppure no “il senso della situazione storica”, poiché la coscienza che alberga tale contenuto o è coscienza psicologica dei singoli o è coscienza psicologica di massa!».56 Sarebbe comunque una questione «estremamente interessante», prosegue il compa­ gno Rudas, chiarire il rapporto tra “la psicologia” e il marxismo; certo, per come egli pone la questione è davvero difficile immagi­ narsi che possa venirne fuori qualcosa di razionale. Se tentassimo di affrontare la questione liberandola dal modo kantiano-schematico in cui l’ha posta Rudas, dovremmo chiedere: la coscienza di classe (poiché qui si parla di coscienza di classe e non di coscienza in generale!) è un problema che si può trattare in

" Ibid. [tr. mod., (N .dT )\ v’ Ibid., pp. 86-87.

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modo separato rispetto a quello del contenuto di tale coscienza? Già quello che siamo venuti dicendo finora ha mostrato che ciò è impossibile. Se noi, per tornare all’esempio di prima, neghiamo che un crumiro abbia coscienza di classe, non neghiamo certo che egli sia un operaio per quanto riguarda il suo essere sociale, né che in lui (nella sua testa di operaio, compagno Rudas!) si giochi un processo di coscienza (possiamo dire, addirittura, un processo di coscienza causalmente necessario), che lo ha condotto a inter­ rompere lo sciopero. Noi neghiamo soltanto che il contenuto della sua coscienza esprima la sua oggettiva posizione di classe. Per un dialettico, quindi, il concetto di coscienza di classe è neces­ sariamente inscindibile da quello di contenuto ed è più concreto, mentre il kantiano - per quanto possa darsi da fare per mascherar­ si da materialista - cercherà una definizione universale, formale (e qui, nel caso del compagno Rudas essa è la psicologia) che possa essere messa in rapporto con un contenuto qualsiasi, la cui indagine viene poi attribuita «ad un’altra scienza». La sua nobile indignazione diventa allora facilmente comprensibile (da un pun­ to di vista psicologico o, se il compagno Rudas lo preferisce, di psicologia di massa), poiché egli in questo modo non riesce asso­ lutamente a immaginare l’interazione dialettica di forma e conte­ nuto, l’essere determinato della forma attraverso il contenuto, il fatto, cioè, che la forma muti dialetticamente in corrispondenza del contenuto. Dal suo modo di pensare dualistico e meccanico consegue necessariamente che questo “terzo luogo” in cui la co­ scienza di classe si realizza, possa essere solo un “demone” o un “dio”; per il pensiero che procede in modo meccanico e dualistico, questo “terzo luogo” non può che rimanere trascendente. E il suo reale fondamento sociale è il codismo, per cui il partito è sempre qualcosa di trascendente. Se tuttavia non si rimane schiavi della divisione kantiana di forma e contenuto come il compagno Rudas, la questione è semplicissima. Ripetiamo: il concetto di coscienza di classe è un concetto pieno di contenuto e concreto e il famoso “terzo luogo” dove questo concetto si realizza è - / 'organizzazione del Parti­ to Comunista. Il compagno Lenin ha sottolineato molto chiara­ mente fin dall’inizio questo compito del partito e l ’ha difeso dai sostenitori codisti dello spontaneismo. Dice, ad esempio: «per 50

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essere veramente un interprete cosciente, il partito deve saper creare legami organizzativi che assicurino un certo grado di coscienza e lo elevino sistematicamente».57 Ovviamente questo processo si rispecchia nelle teste dei membri del partito. Questo, tuttavia, non può in alcun modo decidere la questione; poiché anche le concezioni e le forme organizzative opportunistiche si rispecchiano nelle teste degli opportunisti, come quelle rivolu­ zionarie in quelle dei rivoluzionari: da un punto di vista form a­ le, cioè nel senso della psicologia, entrambe le concezioni sono ugualmente o ugualmente poco “coscienti”. Per questo Rosa Luxemburg, come sostenitrice dello spontaneismo, ha potuto coerentemente dire (e si è trattato di una coerenza nell’errore): «proprio perché il movimento socialdemocratico è un movimen­ to di massa e gli scogli che lo minacciano non scaturiscono dal cervello degli uomini, ma dalle condizioni sociali, le deviazioni opportunistiche non possono essere prevenute [...]. Considera­ to da questo angolo visuale, l’opportunismo appare anche come un prodotto dello stesso movimento operaio, un momento ine­ vitabile del suo sviluppo storico».58 La cosa decisiva è piuttosto come è possibile, da un lato, innalzare la giusta conoscenza della posizione di classe del proletariato (ciò che Lenin definisce: «il livello della coscienza»; ed io: «il senso della situazione storica della classe») in modo da farla essere sempre più giusta da un punto di vista contenutistico, da fargli, cioè, esprimere in modo sempre più adeguato la situazione reale; dall’altro, come questa conoscenza possa essere resa cosciente presso una parte sempre più vasta della classe (ciò che Lenin definisce: assicurare e au­ mentare il livello). Questo rapporto, in quanto rapporto di momenti in continuo movimento, va ovviamente pensato come processo. (Spero che il significato dialettico della parola “processo” si sia nel frattempo già chiarito, di modo che non ci sia più spazio per le oscurità codistiche). Ciò significa che l’essere economico e, assieme ad

V. I. Lenin, Un passo avanti e due indietro, in Opere scelte, vol. I, cit., p. 502. ',HRosa Luxemburg, Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, in Id., Scritti politici, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 235.

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esso, la coscienza di classe proletaria e le sue forme organizza­ tive, si trovano in una trasformazione continua, in cui le deter­ minazioni che abbiamo schizzato qui sono valide per ogni mo­ mento del processo trasformativo e sono in ogni fase, al tempo stesso, prodotti e cause determinanti della fase successiva. In tal modo, determinazioni come “livello della coscienza di classe”, “senso della posizione di classe” non sono concetti formali, fis­ sati una volta per tutte, bensì esprimono rapporti concreti in con­ crete situazioni storiche. «Il divenire autonomo, il trasformarsi in forma della coscienza di classe proletaria può avere senso solo se esso incarna effettivamente in ogni momento per il proleta­ riato il senso rivoluzionario proprio di quel momento».59 Questo sviluppo, l’innalzamento del livello della coscienza di classe non è perciò un progresso infinito (o finito), non è un’approssimarsi permanente verso una meta posta una volta per tutte, bensì ap­ punto un processo dialettico. Esso non solo si realizza attraverso un’ininterrotta azione reciproca con lo sviluppo dell’intera realtà sociale (ad esempio: un’azione fallita del proletariato causata da una debolezza o da un basso livello dell’avanguardia, può mo­ dificare la situazione oggettiva in modo che l’ulteriore sviluppo sia posto - per così dire - ad un livello più basso), ma, proprio perciò, non segue una traiettoria unilineare e progressiva. Ciò appare nel modo più chiaro proprio nell’autocritica bol­ scevica che ha avuto un significato difficilmente sottovalutabile per lo sviluppo dei partiti e, attraverso questi, dell’intero proleta­ riato. Infatti, qual è il significato - metodologico - dell’autocriti­ ca? La consapevolezza del fatto che l’azione del partito in un dato momento non era al livello in cui era oggettivamente possibile che fosse in quel dato momento. Qualora si indaghino le cause di questa differenza di livello tra azione effettiva e la possibilità oggettiva e concreta di azione, non ci si può arrestare alla sempli­ ce comprensione delle cause oggettive, poiché un tale “oggetti­ vismo” assomiglia molto al fatalismo, come dice giustamente il compagno Zinoviev. La ricerca della cause di un errore, al contra­ rio, è diretta all’eliminazione di queste cause. Ecco perché è pos­

59 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 410 [tr. m od, (N.d.T.)].

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sibile che errori, adeguatamente riconosciuti e, in conseguenza di ciò, completamente corretti, possano rafforzare lo sviluppo della coscienza di classe meglio di un’azione in parte giusta ma sorta in modo del tutto spontaneo. Perché ciò possa avvenire, sono necessarie, secondo Lenin, delle form e organizzative. Esse non sono affatto, come pensava la compagna Rosa Luxemburg, delle inutili “garanzie” fissate sulla carta, bensì al contrario un momento decisivo per la nascita e l’ulteriore sviluppo della coscienza di classe proletaria. Le forme organizzative del proletariato, in primo luogo il partito, sono le forme di mediazione reale in cui e attraverso cui la coscienza di classe che corrisponde ad un dato essere sociale del proletariato si sviluppa e viene sviluppata. Le forme organizzative del proleta­ riato sorgono in parte in modo spontaneo, elementare, dalla lotta di classe, in parte vengono però create in modo cosciente (sia con vera che con falsa coscienza). Se però la modalità spontanea ed elementare in cui esse sorgono viene ritenuta l’unica possibile o l’unica giusta, sorge il pericolo di ignorare la funzione mediatrice dell’organizzazione. Da un lato, l’organizzazione viene sottova­ lutata e ci si aspetta la salvezza esclusivamente dai movimenti di massa che creerebbero così anche l’organizzazione,60 mentre l’or­ ganizzazione viene considerata il “momento conservativo”, inibi­ tore;61 dall’altro lato, un’organizzazione così intesa e così diretta, sviluppa effettivamente in sé dei momenti conservativi, rigidi, separati dal mutevole essere storico. I due lati della questione sono saldamente legati tra di loro. Quando la sociologia borghe­ se, ad es. quella di Michels, portano alla luce questo “momento conservativo” della “sociologia dei partiti”, essa si pone, in modo del tutto coerente, dal punto di vista borghese; in modo altrettan­ to coerente, essa si lascia sfuggire la specificità delPorganizza­ zione di classe proletaria. E il compagno Rudas, che privilegia un dualismo kantiano di forma e contenuto nella questione della coscienza di classe proletaria, cioè nella questione dell’organiz­ zazione, e che vorrebbe risolvere la questione della coscienza di

"" R. Luxemburg, Problemi di organizzazione della Socialdemocrazia russa, cit., p. 218. M Ibid., pp. 232.

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classe “in generale” in modo psicologico o sociologico, è egli stesso pienamente coerente ad adottare ovunque un punto di vista semplicemente riflessivo e contemplativo nei confronti della sto­ ria, ponendosi così - certo, senza ammetterlo, o forse addirittura senza esserne consapevole - sul terreno dello spontaneismo. Poi­ ché lo spontaneismo, considerato da un punto di vista metodolo­ gico, non è nient’altro che lo sguardo rivolto sulla lotta di classe del proletariato e che si pone (a suo dire) dal punto di vista del proletariato; tuttavia, esso è ancora uno sguardo contemplativo e borghese, ovvero dualistico e adialettico. Che significa ora per il nostro problema il fatto che io abbia definito l’organizzazione una forma di mediazione reale? Appar­ tiene di nuovo all’Abc del marxismo, ma purtroppo occorre di nuovo ripeterlo, l’idea che il giusto rapporto tra i fenomeni sociali non è dato in modo immediato. Le forme fenomeniche immediate dell’essere sociale non sono però fantasmi soggettivi prodotti dal cervello, bensì momenti delle forme dell’esserci reale, condizioni di esistenza della società capitalistica. Conseguentemente, per gli uomini che vivono nella società capitalista è molto facile, appare addirittura “naturale”, arrestarsi a queste forme e non prendere in considerazione quei rapporti nascosti (gradini intermedi, media­ zioni) attraverso cui questi fenomeni si rapportano realmente e conoscendo i quali soltanto questi possono essere conosciuti nel giusto rapporto. Poiché il compagno Rudas62 concepisce il marxismo solo come scienza empirica, cade vittima - per dirla in modo lieve - di un’unilateralità borghese quando contrappone kantianamente il modo di vedere empirico e quello aprioristico in modo rigido e dua­ listico. È vero, Marx sottolinea, di contro alla filosofia della storia costruttiva il carattere empirico del materialismo storico. E, tuttavia, obietta all’empirismo economico, ad esempio, che «non vi sarebbe più alcun bisogno di scienza se il fondamento delle cose e la loro forma fenomenica coincidessero direttamente»63 e sottolinea come l’errore principale di Ricardo consiste nella «mancanza di forza

62 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 88. 63 K. Marx, Il capitale, Newton & co., Roma 1991, p. 1466.

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d’astrazione».64 Ora, come noto, tali giuste astrazioni non crescono immediatamente nella realtà empirica, come le more, i luoghi co­ muni e gli asini che il compagno Rudas abbraccia fraternamente.65 Tali astrazioni non sono nemmeno indipendenti dal punto di vista della teoria, come il compagno Rudas suppone.66 Certo, la loro co­ noscibilità non dipende in alcun modo dal “fine della conoscenza” in senso borghese; e tuttavia esso dipende dal punto di vista di clas­ se e dai “fini della conoscenza” da questo condizionati. Si legga, nella critica di Marx a Smith e Ricardo, quale ruolo giochi nella loro concezione della realtà - per molti versi empiricamente giusta - il loro punto di vista di classe e gli scopi conoscitivi che da tale punto di vista sono condizionati (qui non parlo deliberatamente degli apologeti). Se ora, per contro, unica­ mente il materialismo storico è in grado di offrire una conoscen­ za oggettiva e giusta della società capitalista, ciò gli è possibile non indipendentemente dal punto di vista di classe del proleta­ riato, bensì piuttosto proprio a partire da questo punto di vista. Chi non vede questo rapporto e scinde il materialismo storico dal punto di vista di classe del proletariato, o è un dualista adialet­ tico (scinde teoria e prassi à la Hilferding), oppure un idealista (come Lassalle). Il compagno Rudas sembra appartenere alter­ nativamente ad entrambi i gruppi. Ci occuperemo più tardi di quali siano le conseguenze dell’intreccio idealistico e adialettico tra punto di vista di classe e materialismo storico. È stato Lenin - e ciò appartiene al suo immortale lascito teo­ rico - ad elaborare le possibilità della prassi proletaria in modo davvero concreto, attraverso la scoperta dei passaggi reali di me­ diazione tra la posizione di classe e la prassi correttamente co­ sciente (mentre, ad es., Rosa Luxemburg è rimasta legata ad un punto di vista immediato e mitologico). La coscienza di classe del

M K. Marx, Storia dell 'economia politica. Teorie sul plusvalore, Editori Riuniti, Roma I993, 3 voli, II, p. 196 [d’ora in poi quest’edizione verrà citata come Teorie sulplusva­ lore, (N.d.T)]. ΓΛI Ru d a s , La teoria della coscienza di classe di Lukâcs, cit., p. 106. Nella sua eccita­ zione per la fratellanza con l’asino, il compagno Rudas non si avvede del lato cattoliciz/nnte, francescano, stile-Biedermeir delP“anima materialista” di F. Jammes. Ibid., pp. 88 e ssgg.

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proletariato, infatti, non è data immediatamente né dal punto di vista del contenuto, né nella sua genesi e nel suo sviluppo. Essa si sviluppa in modo spontaneo ed elementare finché i passaggi reali della sua crescita rimangono sconosciuti e, perciò, non sfruttati nella prassi. (L’effettualità delle forze sociali e reali non conosciu­ te assume come forma di coscienza il carattere della spontaneità). Per il superamento di tale spontaneità non basta affatto conoscere le forme di esistenza sociali in modo universale e dal punto di vista economico, e nemmeno analizzarle economicamente in tutti i particolari; si devono invece conoscere quelle forme di media­ zione reale specifiche che sono destinate a promuovere o bloccare proprio questo processo - ovviamente ponendovi a fondamento e assumendo come contesto il processo generale di sviluppo econo­ mico. Marx non è solo l’autore del Capitale, ma, al tempo stesso, anche il fondatore della Lega dei Comunisti e della Prima Intema­ zionale. E Lenin è proprio sotto questo aspetto il suo più grande discepolo, l’unico che possa competere con lui; è il fondatore del Per, della Terza Intemazionale; e certo non solo come semplice “indirizzo teorico”, ma proprio come forma organizzativa. Le forme di organizzazione teorizzate e messe in pratica da Lenin furono fin dall’inizio, e lo sono ancora oggi, combattute da tutti gli opportunisti come costruzioni “artificiose”. È facile capire perché: è lo stesso motivo che fa andare fuori da gangheri il codista Rudas di fronte alla mia definizione di coscienza di classe. Queste forme organizzative non sono, infatti, delle semplici elaborazio­ ni mentali del livello di coscienza immediato dell’operaio medio (anche quando questo è “puramente tipico”), non sorgono, cioè, «né dalla psicologia, né dalla psicologia di massa». Esse vogliono piuttosto elaborare quelle misure pratiche per mezzo delle quali, da un lato, è possibile, a partire da una giusta conoscenza del processo sociale totale (cioè dalla totalità dei suoi momenti economici, po­ litici, ideologici etc.), innalzare una parte del proletariato al livello di coscienza giusto, che corrisponda alla situazione generale ogget­ tiva; dall’altro, esse permettono di condurre in modo giusto nella loro lotta le vaste masse degli operai e degli altri sfruttati. A questo proposito occorre sottolineare: solo una parte de­ gli operai può venire innalzato a questo livello. Lenin sottolinea ripetutamente: «[...] sarebbe manilovismo e “codismo” pensare 56

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che col capitalismo quasi tutta la classe o tutta la classe sia capace di elevarsi alla coscienza e all’attività del proprio reparto d ’avan­ guardia».67 Ma anche in questa parte della classe operaia la co­ scienza di classe non solo non sorge “da sé”, ma non è nemmeno una conseguenza immanente della situazione economica imme­ diata e della lotta di classe che si sviluppa necessariamente da questa in modo spontaneo. Così si esprime Lenin nel Che fare?: «la coscienza di classe giusta» (qui dice: la coscienza socialdemo­ cratica) può essere introdotta «solo dall’esterno. La storia di tutti i paesi attesta che la classe operaia colle sue sole forze è in gra­ do di elaborare soltanto una coscienza tradunionista, cioè la con­ vinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta contro i padroni, di reclamare dal governo questa o quella legge necessaria agli operai etc.».68 Comunque, questo è un processo storico e l’elemento spontaneo è la forma germinale dell’azione consapevole dei propri scopi.69 Questo passaggio, tuttavia, non può compiersi in modo spontaneo. Ad ogni modo, tra questo “dall’esterno” e la classe operaia sussiste certo un’interazione. Poiché, se è certo che Marx ed En­ gels provenivano dalla classe borghese, lo sviluppo della loro teo­ ria è, tuttavia, un prodotto - ovviamente non immediato - dello sviluppo della classe operaia. E non solo la teoria in quanto tale: già i suoi elementi costitutivi (Ricardo, Hegel, gli storici e i socia­ listi francesi) riassumono nel pensiero, in forma ora più ora meno cosciente, quell’essere sociale a partire da cui sorse il proletariato e di cui il proletariato è parte. Nei precursori di Marx ed Engels è solo la condizione sociale oggettiva che lega teoria e lotta di clas­ se, cosicché queste appaiono - a prima vista - procedere in modo indipendente l’una dall’altra, fino a che la teoria diviene uno stru­ mento cosciente del movimento storico70 e, perciò, rivoluzionaria. Ma anche questa teoria - secondo la giusta e profonda concezione di Lenin - influenza il proletariato dall’esterno. E anche se lo svi­ luppo economico della società rende possibile sulla base di questa

1,1 V. I. Lenin, Un passo avanti e due indietro, cit., p. 492. "HV. I. Lenin, Che fare?, in Opere scelte, cit., vol. 1, p. 268. Ibid.

K. Marx, Miseria della filosofia. Editori Riuniti, Roma 1993, p. 82.

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teoria un partito proletario, il suo influsso sul movimento spontaneo delle masse giungerà sempre “dall’esterno” - benché qui si tratte­ rà, ovviamente, di un influsso già dialetticamente mediato in modo decisivo. Sarebbe, infatti, un modo di pensare non marxista ritenere che, finché sussiste il capitalismo (così come per un periodo di tem­ po successivo alla sua caduta), l’intera classe operaia possa raggiun­ gere “spontaneamente” il livello di coscienza corrispondente alla sua oggettiva situazione economica. Lo sviluppo consiste infatti in ciò, che questo “dall’esterno” viene condotto sempre più all’interno e da vicino alla classe, che esso perde sempre più il proprio carattere di esteriorità, senza che - dato l’attuale stadio di sviluppo - il rap­ porto dialettico chiarito da Lenin possa essere superato. L’essere sociale del proletariato, infatti, si pone in modo immediato esclusivamente nel rapporto di lotta con i capitalisti, mentre la coscienza di classe proletaria si trasforma in coscienza di classe solo in quanto conoscenza della totalità della società borghese. In un altro passo dello stesso scritto, Lenin esprime questo pensiero così: «la coscienza politica di classe può esse­ re portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi».71 E oltre a questo speci­ fica: «la lotta spontanea del proletariato diventerà una vera “lotta di classe” solo quando sarà diretta da una forte organizzazione di rivoluzionari».72 E tale organizzazione viene formata da uo­ mini che sono giunti a conoscere questa situazione e che hanno voluto mettersi attivamente all’opera in questo senso, ovvero dei rivoluzionari di professione: «per questa caratteristica comune ai membri dell’organizzazione nessuna distinzione deve asso­ lutamente esistere tra operai e intellettuali, e a maggior ragione nessuna distinzione sulla base del m estiere».73 Per questo, il so-

71 V. I. Lenin, Che fare?, cit., p. 307. 72 Ibid., p. 350. 73 Ibid., p. 332.

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cialdemocratico rivoluzionario è, per Lenin, «il giacobino, lega­ to indissolubilmente a \Yorganizzazione del proletariato, consa­ pevole dei propri interessi di classe».74 E quindi? Quindi questo misterioso “terzo luogo”, questo “demone storico”, il Partito Comunista - anche solo la possibilità di parlarne non poteva venire in mente al codista Rudas - ha la peculiare caratteristica di essere un contenuto necessariamente in­ trecciato al divenire della coscienza. Ciò significa, da un lato, che dipende dal contenuto divenuto cosciente il fatto che la coscienza che pensa il partito, possa essere riconosciuta come cosciente (nel senso della coscienza di classe); d’altro lato, e allo stesso tempo, il contenuto deve divenire cosciente per realizzarsi, ovvero eser­ citare un effetto nelle teste degli uomini. Le forme organizzati­ ve sono là per questo, per realizzare, accelerare questo processo; per rendere cosciente quel contenuto nella classe operaia (in una parte della classe operaia): si tratta, infatti, di quel contenuto che esprime Γoggettiva situazione della classe nel modo più adeguato (possibile) e il cui divenire cosciente rende gli operai degli operai con una coscienza di classe. Con ciò si mostra come quella “sem­ plice contraddizione”, che il compagno Rudas75 trova in questa definizione di coscienza di classe, sia un fatto dialettico, ovvero: si qualifica come contraddittorio - nel senso della contraddizione dialettica - solo nella misura in cui la realtà che gli sta a fonda­ mento è essa stessa dialettica, contraddittoria. E “l’idealismo” di cui mi accusa,76 si mostra come la forma organizzativa bolscevica del proletariato cosciente. La distinzione tra il “processo” e il suo “senso”77 non è affatto, come mi viene attribuito dal compagno Rudas, la distinzione del contesto causale e del suo “scopo”, bensì la differenza tra la realtà della classe operaia immediatamente ed empiricamente data (che lascia sorgere, come mostra il compa­ gno Lenin, una semplice coscienza tradunionistica) e la totalità concretamente sviluppata di tutte le determinazioni sociali, che producono tale realtà immediata.

74 V. I. Lenin, Un passo avanti e due indietro, cit., p. 519. 75 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 86. 76 Ibid., p. 115. 77 Ibid., p. 84 e ssgg.

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Ciò che viene inteso con questa differenza il compagno Ru­ das avrebbe potuto capirlo facilmente se fosse stato in grado di leggere i passi del mio libro senza pregiudizi codisti: dairanalisi dei rapporti tra interessi immediati e interessi di classe che con­ seguentemente ne segue e che culmina nella distinzione marxiana tra le lotte tradunionistiche e l’emancipazione reale del proletaria­ to. Il termine “senso” ha qui, per ogni lettore spassionato, nessun altro significato che questo: da un lato, serve a sottolineare que­ sta differenza; dall’altro, e allo stesso tempo, esso indica che tale differenza si riferisce alle forme di mediazione dell’agire, della prassi, ovvero della coscienza di classe reale. La “contraddizione” che dovrebbe essere qui contenuta esiste esclusivamente per chi non pensa in modo dialettico; per chi ritiene che Γ“oggettività” di questa coscienza di classe (il fatto che il suo contenuto, le sue forme di mediazione reale, non vengono determinate dal pensiero) e la sua “soggettività” (il fatto che il contenuto deve divenire co­ sciente, prendere cioè la forma della coscienza per divenire reale) formano una contraddizione. È ovvio che se forma e contenuto vengono scisse meccanicamente una dall’altro al modo kantiano, il loro reciproco rapporto dialettico apparirà incomprensibile. Poiché la coscienza, scissa in questo modo dal suo con­ tenuto, può essere solo una specie di canale in cui il processo oggettivo scorre in modo spontaneo, il compagno Rudas non può evidentemente che ritenere assurdo il fatto che io consideri il sorgere della coscienza di classe proletaria una questione deci­ siva, anzi, sotto determinate circostanze, addirittura la questio­ ne decisiva. «Nessuno ha finora chiamato la lotta di classe del proletariato una lotta per la coscienza».78 Non voglio ammuc­ chiare citazioni a caso, per cui mi limiterò a un’affermazione del compagno Zinoviev: «l’avanguardia comunista della classe operaia lotta contro la socialdemocrazia (aristocrazia operaia, i compagni di viaggio piccolo-borghesi) per la classe operaia. La classe operaia, alla cui testa sta il Partito Comunista, lotta con la borghesia per i contadini».19 Il compagno Rudas vuol forse ne­

78 Ibid., p. 116. 79 G. Zinoviev, Proletariat und Bauerschaft [Proletari e contadini], Inprekorr V, n. 5.

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gare che questa lotta sia una lotta per la coscienza? Il compagno Lenin e i suoi discepoli si rifiutano, ove possibile, di adottare mi­ sure coercitive nei confronti dei contadini: vogliono convincere i contadini della necessità e utilità dell’alleanza col proletariato e sarebbe utile capire se anche qui la coscienza è solo un canale e da dove e verso dove scorra spontaneamente il “processo”. L’er­ rore del compagno Rudas diventa comprensibile se si rammenta che egli concepisce l’azione sulla coscienza solo come “lavoro pedagogico” (e, per di più, nel senso socialdemocratico). Una concezione che non si trova né in Marx, né in Lenin, né in me. Ogni bolscevico sa bene che la “lotta per la coscienza” abbrac­ cia l’intera attività del partito, che la sua lotta contro i nemici di classe è inseparabile dalla lotta per la coscienza di classe del proletariato e per il divenire coscienti delle alleanze con gli strati semiproletari (per questi strati, quanto per il proletariato stesso). Poiché la coscienza delle masse ad ogni dato momento non si sviluppa indipendentemente dalla politica del Partito, cioè dalla coscienza di classe incorporata in esso. «Che le singole azioni effettive della classe vengano ampiamente determinate da questa media, è ovvio. Ma poiché essa non è qualcosa che possa essere determinato in modo statico-statistico, ma è anzi essa stessa la conseguenza del processo rivoluzionario, è altrettanto ovvio che se ci si appoggia organizzativamente sulla media già esistente, si rallenterà indubbiamente il suo sviluppo, si abbasserà anzi il suo livello. La chiara elaborazione della massima possibilità che è data oggettivamente in un momento dato, quindi l ’autonomia organizzativa dell’avanguardia cosciente, è invece essa stessa un mezzo per riportare in equilibrio la tensione tra questa possibilità oggettiva e lo stato medio effettivo di coscienza, in modo tale da far avanzare la rivoluzione».80 E Lenin, proprio in un momento decisivo, riconduce al comportamento del Partito l’eventuale de­ bolezza nell’umore delle masse (della loro coscienza psicologica in senso individuale o di massa); si confronti l’esempio citato sopra dalla Lettera ai compagni.

m ( ί. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 402 [tr. mod., (N.d. T.)].

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3 . 1 contadini come classe Tutto quello che si è detto finora si riferisce, ovviamente, solo alla coscienza di classe del proletariato. E questo è di nuovo un punto che suscita la nobile indignazione del compagno Ru­ das: la sua anima “scientifico-naturalistica” esige che la coscienza (la forma della coscienza separata nettamente dal suo contenuto) venga analizzata in un laboratorio psicologico, mentre il contenu­ to deve essere evidentemente lasciato ad una “sociologia” altret­ tanto “scientifica”. Ma per questa sociologia - ovviamente! - la coscienza di classe è appunto la coscienza di tutte le classi e di tutti i tempi; una forma della coscienza prodotta dalla situazione economica. Nella notte, tutte le vacche sono nere. Rudas osserva «solo di passaggio»81 che io ritengo discutibi­ le che i contadini possano in generale essere definiti una classe in un senso strettamente marxista. Questa osservazione si riferisce a un passo del mio libro82 e il compagno Rudas “dimentica” di citare la pagina che lo precede. Lì, infatti, si citava il 18 Brumaio: «Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi e la loro cultura da quelli di altre classi e li contrappongono ad esse in modo ostile, esse formano una classe. Ma nella misura in cui tra i conta­ dini piccoli proprietari esistono soltanto legami locali e l’identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe».83 Questa è, anche oggi, la concezione dei comunisti. Nelle sue tesi sulla questione contadina (accettate nell’ultima seduta del Comitato Esecutivo allargato dell5Intema­ zionale Comunista),84 il compagno Bucharin formula la posizione di classe dei contadini interamente nel senso del passo appena ci­ tato: «i contadini, che in passato erano la classe fondamentale del dominio feudale, nella società capitalistica non costituiscono una classe nel senso proprio del termine. [...] Perciò, considerati come

81 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 95. 82 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 78. 83 K. Marx, Il diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte, cit., pp. 195-196. 84 Nicolaj Bucharin in Inprekorr V, n. 77.

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totalità, i contadini non sono una classe della società capitalista. Laddove però abbiamo a che fare con una società che passa da rapporti di carattere feudale a rapporti di produzione a carattere capitalistico, i contadini si trovano come totalità in una situazione contraddittoria: di fronte al proprietario terriero feudale essi for­ mano una classe ma, nella misura in cui vengono presi e trasfor­ mati dai rapporti capitalistici, cessano di essere una classe». Corrisponde esattamente all’essenza dell’analisi economi­ ca di Marx concepire la borghesia e il proletariato come le uni­ che vere, tipiche classi della società capitalista, il cui sviluppo mostra la tendenza a ridurre l’intera società a queste classi. Coe­ rentemente con questa teoria, Marx analizza l’essere sociale del contadino: «[...] in quanto possessore dei mezzi di produzione, egli è capitalista, in quanto lavoratore egli è il salariato di se stesso».85 E mentre indaga tutte le contraddizioni che a partire da qui si producono, egli mostra la contraddizione fondamentale nell’essere sociale del contadino. Nella società capitalista, ad ogni modo, ogni essere sociale poggia su una contraddizione. Ci si comporterebbe in modo non marxista, seguendo il metodo astratto della “sociologia” formale borghese, se si restasse al semplice concetto astratto di contraddi­ zione. La contraddizione non è sempre semplicemente contrad­ dizione e tutte le vacche sono nere solo nella notte del pensiero borghese. La contraddizione nella base economica di esistenza delle due classi tipiche della società borghese, significa che questa base economica si muove in contraddizioni, che il suo sviluppo è un dispiegamento sempre più ampio e profondo, una riproduzio­ ne sempre più ampia della contraddizione immanente di questa base (crisi). Ciò non significa affatto che tale base economica che si muove in contraddizioni sia divisa in parti eterogenee; signi­ fica che le contraddizioni dialettiche dell’ordine di produzione borghese si mostrano nell’essere sociale (e, conseguentemente, nella coscienza) della borghesia e del proletariato, ma non come contraddizione tra due diversi ordini di produzione, come per i contadini. Le contraddizioni dell’essere sociale dei contadini non

KS K. Marx, Teorie sul plusvalore, cit., I, p. 439.

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sono perciò immediatamente dialettiche, come le contraddizioni della produzione capitalista stessa; solo attraverso la dialettica di sviluppo complessivo della società capitalista esse vengono me­ diate dialetticamente. Per tale motivo, è possibile comprenderne la natura dialettica e portarla a coscienza solo da un punto di vi­ sta di classe che sia in grado - in conseguenza dell’essere sociale che gli sta a fondamento - di comprendere lo sviluppo generale del capitalismo come processo dialettico. Quindi: dal punto di vi­ sta del proletariato. Il punto di vista di classe della borghesia non può arrivare a conoscere questo movimento complessivo (ovvero il necessario sviluppo del capitalismo dalle forme di produzione precapitalistiche, la necessità del sussistere di queste forme di produzione accanto al capitalismo, la necessità del passaggio al socialismo di questa struttura complessiva di forme di produzio­ ne etc.). Se la borghesia si mostra, a volte, capace di una prassi - economica e politica - corretta dal punto di vista di classe, essa agisce con “falsa coscienza”. Marx dice: «ignorano ciò che fanno, ma lo fanno».86 E i contadini? Guardiamo più da vicino questo essere so­ ciale dal punto di vista della teoria marxiana. Immediatamente prima del passo citato sopra, Marx dice: «essi (i contadini) non appartengono perciò né alla categoria dei lavoratori produttivi né a quella dei lavoratori improduttivi, benché essi siano produttori di merci. Ma la loro produzione non è sussunta sotto il modo di produzione capitalistico».87 E, in un altro passo, concretizza que­ sto stato di fatto: «innanzi tutto le leggi generali del credito non possono applicarsi al contadino, in quanto esse presuppongono che i produttori siano capitalisti».88 Dopo di ciò, Marx ci offre un ampia panoramica su questa situazione, di cui mi limiterò a citare le frasi principali: «questo sviluppo, del resto, si attua solo dove il modo di produzione capitalistico si sviluppa in maniera ristretta e non si manifesta in tutte le proprie caratteristiche; esso infatti si basa sulla circostanza che l’agricoltura non è più, oppure non lo

86 K. Marx, Il capitale, cit., p. 78 [tr. mod., (N.d.T.)\. 87 K. Marx, Teorie sul plusvalore, cit., I, p. 438. 88 K. Marx, Il capitale, cit., p. 1461.

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è ancora, soggetta al modo di produzione capitalistico, ma a un modo di produzione residuo di forme sociali ormai scomparse. Gli inconvenienti del modo di produzione capitalistico, per cui il produttore deve dipendere dal prezzo monetario del proprio pro­ dotto, corrispondono qui agli inconvenienti dovuti alP incompleto sviluppo del modo di produzione stesso. Il contadino si trasforma in commerciante e industriale senza che esistano le condizioni per cui egli può produrre il prodotto come merce».89 E, concludendo, dice del piccolo proprietario terriero che esso «genera una classe di barbari che per metà sono estranei alla società».90 Cosa ne consegue? In nessun modo, come mi viene impu­ tato dal compagno Rudas, che i contadini in generale non siano affatto una classe. Certamente, però, un rapporto concreto tra il loro essere sociale e la loro coscienza che è essenzialmente diver­ so da quello delle altre classi. Tutto ciò si basa sul presupposto che noi non agiamo da bravi kantiani - come il compagno Rudas - e non ci fermiamo ad un livello semplicemente formale, affer­ mando (in generale) che l’essere sociale (in generale) determina la coscienza (in generale), bensì cerchiamo di comprendere questo venir determinato a partire dalle qualità concrete di uno specifico essere sociale. Ho tentato di caratterizzare questa qualità nel modo seguente: troviamo qui una opposizione contraddittoria91 [kontra­ diktorischen Widerspruch], invece della contraddizione dialettica tra coscienza di classe e interesse di classe che abbiamo nel caso della borghesia. Non devo qui ripetere ciò che ho già detto sulla coscienza di classe (tuttavia, per stare sicuri, rinvio di nuovo al “nella misura in cui” di Marx sui contadini come classe, alle tesi di Bucharin e alle affermazioni di Lenin su quando la lotta economi­ ca immediata del proletariato possa essere definita lotta di classe). Gli immediati interessi quotidiani della classe operaia sorgono dal suo essere sociale in un modo tale che essi possono venir collegati con giusta coscienza agli interessi generali più ampi della classe, benché abbiamo visto che, secondo Lenin, questo collegamento non nasce certo da sé. Per la borghesia, un collegamento adeguato Ηυ Ibid., p. 1462. '0 Ibid., p. 1463. 1,1 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 80.

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di questo tipo è possibile solo con “falsa coscienza” (benché debba qui espressamente richiamare il carattere dialettico di questa “fal­ sa coscienza”). Nel caso dei contadini, un tale collegamento - dal punto di vista della propria classe - è, in generale, impossibile. Rudas introduce contro la mia tesi (così come egli la intende) diverse affermazioni del compagno Lenin.92 Chi studi con atten­ zione queste frasi troverà che esse parlano a mio favore e contro Rudas. Il compagno Lenin ricorda, infatti, - così come Marx nel passo citato prima - che il contadino «è per metà un operaio e per metà un affarista». Qual è la conseguenza di ciò per la prassi del contadino? Lo ammette lo stesso Rudas: «è chiaro che i contadini si atteggiano ora a capitalisti, ora a proletari».93 E, tuttavia, que­ sto ondeggiamento esprime davvero l’interesse di classe divenu­ to loro cosciente oppure, piuttosto, in questo ondeggiamento si rispecchia il fatto che i contadini sono certo dei “realisti”, degli empiristi estremi - in rapporto al proprio interesse del momento - , e che, però, rispetto alla propria posizione di classe, rimangono esclusivamente degli empirici, incapaci, cioè, di avere chiaramen­ te davanti agli occhi l’interesse generale della propria classe? Che, insomma, la loro coscienza di classe rimanga al massimo al livello che il compagno Lenin, nel caso del proletariato e in opposizione alla coscienza di classe, definisce tradunionistico? Ciò che ho voluto dire era proprio questo: i contadini non posso avere una coscienza di classe che possa corrispondere al livello di quella dei proletari. Essi sono, in conseguenza della pro­ pria posizione di classe, oggettivamente incapaci di condurre e or­ ganizzare Γ intera società sulla base e a misura dei propri interessi di classe. La contraddizione del loro essere sociale {metà operai, metà affaristi) si rispecchia nella loro coscienza. «Nella misura in cui tra i contadini piccoli proprietari esistono soltanto legami loca­ li e la identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politi­ ca, essi non costituiscono una classe». Si pensi all’esposizione che Engels ha fatto della strategia della guerra contadina - per rifiu­

92 L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 95. 93 Ibid., p. 96.

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tare, di passaggio, un’altra accusa di Rudas. Io ho detto: «Proprio quando è in questione la violenza, nelle situazioni in cui una clas­ se conduce contro un’altra classe una nuda lotta per l’esistenza, il problema della coscienza di classe si rivela come il momento in ultima analisi decisivo».94 Il compagno Rudas afferma che questa tesi si trovi in contrasto con l’Engels teorico della guerra.95 Do­ vrebbe leggersi con attenzione almeno una volta la Guerra dei contadini in Germania di Engels. Engels dice, a proposito della decisione militare (e solo di questo si sta parlando): «l’astuzia di Truchess lo ha salvato da sicura fine. Se egli non fosse riuscito a raggirare questi contadini deboli, di vedute limitate, in gran parte già demoralizzati, e i loro capi per lo più inetti, pavidi e corrutti­ bili, con la sua piccola annata sarebbe rimasto chiuso tra quattro colonne forti complessivamente di almeno 25 o 30.000 uomini e sicuramente si sarebbe perduto. Ma la ristrettezza mentale dei

suoi nemici, quella ristrettezza mentale che è sempre compagna inseparabile delle masse contadine, gli rese possibile liberarsi di loro proprio nel momento in cui essi avrebbero potuto con un sol colpo metter fine alla guerra, almeno per la Svevia e la Franconia».% Per avere un esempio recente di una situazione simile, si pensi alla leadership di Stambolinski, esempio interessante per due ragioni: perché, da un lato, mostra in modo drastico l’incapa­ cità dei contadini alla conduzione e, dall’altro, proprio grazie agli errori commessi del Partito Comunista, mostra che solo il proleta­ riato può e deve mostrare al contadino la sua strada. Non si dica: anche il proletariato non si è comportato in modo adeguato in molte situazioni. Concesso. Per il proletario è però oggettivamente possibile svilupparsi ulteriormente, e con le sue proprie forze , verso una coscienza di classe reale, non più sem­ plicemente tradunionistica. I contadini devono essere condotti. È ovvio che questa conduzione non possa procedere in modo violen­ to e che si giochi inoltre un’ininterrotta interazione tra la trasfor­ mazione dell’essere sociale e quella della coscienza dei contadini.

'MG. Lukacs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 68. ,,s L. Rudas, La teoria della coscienza di classe di Lukâcs, cit., p. 114. F. Engels, La guerra dei contadini in Germania, in K. Marx-F. Engels, Opere, cit., vol. X, pp. 466-467 (corsivo mio).

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E tuttavia: le contraddizioni dialettiche dello sviluppo generale divengono coscienti nel proletariato (cioè nel Pc) e il proletariato media per i contadini quei gradi intermedi dello sviluppo ulteriore che corrisponde all’essere sociale e al corrispettivo sviluppo di coscienza del contadino e che però non sarebbe raggiungibile se si muovesse solo da questa coscienza. A queste classi si riferisce la frase: «le masse sono spinte da impulsi del tutto diversi ed agi­ scono per conseguire fini differenti - e la teoria rappresenta per i loro movimenti un contenuto puramente accidentale, una forma nella quale esse portano alla coscienza il loro agire socialmente necessario e accidentale, senza che questa presa di coscienza sia realmente ed essenzialmente connessa con l’agire stesso».97 E da questa frase, tra altre, che il compagno Rudas crede di poter mo­ strare il mio idealismo.98 Egli dimentica così che, per il metodo dialettico - e, in gene­ rale, solo per esso - “casuale” non significa qualcosa di non neces­ sario in senso causale. Al contrario: il caso è la forma fenomenica di un dato modo di determinatezza causale. Anche se il compagno Rudas non conosce Hegel, potrebbe averne letto qualcosa in En­ gels. Il caso, secondo Engels, «non è che uno degli estremi di un insieme il cui altro estremo ha nome necessità».99 Che, quindi, la coscienza dei contadini corrispondente all’essere sociale venga trovata dal proletariato e attraverso questo venga mediata ai con­ tadini e resa effettiva in essi; che i contadini debbano venir con­ dotti dal proletariato; che essi da soli possono agire solo in modo “spontaneo”, solo in modo “casuale”: tutto questo non significa affatto che i contadini non abbiano una coscienza che corrisponda necessariamente al proprio essere sociale. Tutto ciò significa solo che questa coscienza non è una coscienza di classe nel senso in cui solo il proletariato può avere. E così, i punti in cui il proletariato si collega allo sviluppo dei contadini non debbono essere neces­ sariamente, sotto ogni circostanza, i momenti oggettivamente più

97 G. Lukàcs, Storia e coscienza eli classe, cit., p. 3. 98 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 64. 99 F. Engels, Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Editori Riu­ niti, Roma 2006, p. 207. Cfr. anche la lettera di Marx a Kugelmann del 17 aprile 1871, pp. 87-88.

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opportuni dello sviluppo, da un punto di vista economico. Al con­ trario. L’errore dottrinario dei giovani partiti comunisti (ad es., di quello ungherese durante la dittatura) è consistito precisamente in ciò, che il loro punto di partenza è stata Γ oggettiva superiorità economica dell’industria agricola moderna amministrata su larga scala, ignorando totalmente che i contadini possono essere con­ dotti a comprendere il vantaggio che l’industria agricola comporta economicamente (per i contadini!) solo dopo un lungo periodo di insegnamenti rivoluzionari. Noi abbiamo sottovalutato - in modo dottrinario - le specifiche forme di sviluppo, le specifiche forme di mediazione della coscienza contadina. Il compagno Lenin ha ripetutamente e con forza fatto riferi­ mento a tale questione: «in loro [nei contadini, (N.d.T)] è rimasta fino a oggi una prevenzione contro la grande azienda. Il contadi­ no pensa: “se vi sono grandi aziende, vuol dire che sono di nuovo servo”. Egli ha torno naturalmente. Ma nel contadino l’idea della grande azienda si connette al sentimento di odio, ai ricordi dell’op­ pressione che i grandi proprietari fondiari esercitavano contro il popolo. Questo sentimento persiste, non è ancora morto».100 Tut­ tavia, seguire questa politica, che nel caso dei contadini è la sola corretta, anche nei confronti del proletariato, sarebbe lo stesso che fare concessioni alle tendenze sindacalistiche immediate di ampi settori operai e quindi metterne a rischio il livello di coscienza, ciò che Lenin vede giustamente come una caratteristica essenziale del­ l’opportunismo. Riconoscere questa differenza significa però, da un punto di vista metodologico, nient’altro che questo: riconoscere che il rapporto tra l’essere sociale e la coscienza di classe presso il proletariato e presso i contadini è strutturalmente diverso. La nostra teoria ha trattato le diverse forme di coscienza delle diverse classi in modo concretamente e storicamente dialettico e non secondo i dettami di una sociologia o di una psicologia formali. Con questo spero di aver sufficientemente chiarito l’uso che ho fatto del termine “imputazione”. Non mi occuperò degli annes­ si e connessi, della salsa con cui il compagno Rudas condisce il

11)0V. I. Lenin, Rapporto sul lavoro nelle campagne, in Opere, cit., vol. 29, p. 189 (cor­ sivo mio).

suo piatto codista. Egli sa bene che ho rotto definitivamente con il mio passato, non solo socialmente, ma anche filosoficamente; che io considero ciò che ho scritto prima del mio ingresso nel Partito Comunista Ungherese, sotto ogni rispetto, errato e falso. (Ciò non significa, ovviamente, che io consideri tutto ciò che ho scritto dopo il 1918 come vero. La scelta da me operata nel 1922 per Storia e coscienza di classe, rappresenta, al tempo stesso, una critica degli scritti precedenti). Il compagno Rudas sa inoltre mol­ to bene che io, ad es., non ho mai accettato il concetto di coscienza umana in generale ed egli conosce la mia posizione nei confronti di Max Adler101 etc. etc. Se egli, nonostante tutto questo continua a sostenere il contrario, lo fa solo per oscurare il punto decisivo del dibattito: la concezione bolscevica del partito rispetto al codismo; per questo si è occupato di tutto nelle sue lunghe critiche - tranne che del saggio principale del mio libro ( Considerazioni metodolo­

giche sulla questione dell’organizzazione).

101 Cfr. le mie critiche in Wjestnik der Sozialistischen Akademie, 1923, fascicolo 3 e Inprekorr, IV, n. 148.

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II. dialettica della natura Nelle considerazioni svolte finora ci siamo continuamente im­ battuti nel problema della mediazione. Abbiamo potuto vedere come il compagno Rudas confonda scelleratamente tutte le questioni, come egli venga spinto ininterrottamente a conclusioni opportunistiche, poiché misconosce questo momento centrale del metodo dialettico. Questa incomprensione - lo ripeto: su questo punto sono totalmente d’accordo con lui - non è in alcun modo di natura logica. La comprensione delle mediazioni e, ancor di più, delle forme di mediazione reali, attraverso cui si producono le forme fenome­ niche immediate della società, presuppone una presa di posizione pratico-critica, dialettico-critica rispetto alla realtà sociale: il pun­ to di vista pratico-critico del proletariato rivoluzionario. La classe borghese, persino nei suoi più significativi difensori scientifici è costretta a rimanere all’immediatezza delle proprie forme sociali e non è in grado di conoscere dialetticamente questa società nella sua totalità e nel suo divenire, ovvero da un punto di vista che è al tempo stesso teorico e storico. Le tendenze opportunistiche del movimento operaio hanno percepito con un infallibile istinto il perché è ne­ cessario dirigere i propri attacchi contro la dialettica: solo lascian­ dosi alle spalle la dialettica è stato loro possibile far dimenticare che il materialismo storico trascende Γ immediatezza della società borghese; solo così è possibile portare a compimento la capitola­ zione ideologica di fronte alla borghesia. La questione filosofica del superamento dell’immediatezza corrisponde in molti punti alla questione precedentemente sviluppata da Lenin della differenza tra coscienza tradunionistica e coscienza di classe. Poiché dal punto di vista dell’immediatezza (ancora non trascesa) della società bor­ ghese, le conseguenze che corrispondono alla posizione ai classe della borghesia si mostrano da sé: esse non sono altro che ciò che consegue logicamente (in gran parte, certo, nel senso della logica formale) dall’accettazione acritica, non trascesa, immediata di que­ sto stato di fatto dello sviluppo capitalistico. Naturalmente, i confini qui sono, come sempre, a loro volta fluidi e, a partire dal materialismo storico fino alle forme di espres­ sione teorica della sfera della circolazione più superficiale e imme­ 71

diata (ad es., la teoria dell’utilità marginale), si danno una serie in­ finita di gradini intermedi. Ed è a sua volta un problema dialettico, concretamente storico, capire quali forme di mediazione reale sono già oggettivamente presenti o conoscibili ad uno stadio di sviluppo determinato. Tralasciare le forme di mediazione conduce necessa­ riamente a un crollo del metodo conoscitivo coerente: esso conduce all’idealismo, all’agnosticismo, al soggettivismo etc. Perciò Engels (e, dopo di lui, Plechanov) sottolinea con forza come il vecchio materialismo in questa sfera doveva ricadere incoerentemente nel­ l’idealismo nella misura in cui accoglieva le forme fenomeniche sociali in modo immediato: «il vecchio materialismo vien meno a se stesso, perché prende per cause prime le forze motrici ideali che agiscono nella storia, invece di cercare che cosa si nasconde dietro di esse, quali sono le forze motrici di queste forze motrici. L’in­ conseguenza non consiste nel fatto che si riconoscano delle forze motrici ideali, ma nel fatto che non si risale da queste alle loro cause determinanti».102 In questo tipo di idealismo è caduto il compagno Rudas nella sua polemica contro il mio idealismo. Dopo aver introdotto la bella e profonda frase di Marx - di cui io sottoscrivo ogni parola ~ cir­ ca l’unicità della scienza: la scienza della storia, improvvisamente dice: «se gli scienziati della natura non hanno finora trattato sto­ ricamente le scienze naturali, oggi ciò avviene sempre meno. Per loro si profila anche la comprensione: la dialettica viene loro “cac­ ciata in testa” dalla scienza. Ma natura e scienziati naturali sono, all’infuori di ciò, due cose diverse».103Affronterò in seguito l’ultima frase che è molto importante per comprendere la nostra diversità di opinioni su questa questione. Per il momento voglio solo limitarmi ad osservare: il compagno Rudas crede a uno sviluppo immanente delle scienze della natura. È lo sviluppo della scienza che ficca la dialettica in testa agli scienziati. Se si osserva la cosa per come essa si mostra immediatamente, è senz ’altro così. La dissoluzione del­ la dialettica idealistica in Germania, così come quella della scuola

102 F. Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 64-65. 103 L. Rudas, La teorìa della coscienza di classe di Lukàcs, cit., p. 107.

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ricardiana in Inghilterra e in Francia avvenne - a prima vista e ap­ parentemente - in questo modo. È molto importante seguire lo svi­ luppo e il succedersi dei problemi e delle soluzioni. Marx stesso, ad es., lo fa magistralmente nel III libro delle Teorie sul plusvalore; ma non si accontenta affatto di ciò, bensì rinvia ogni volta a quel reale processo storico di trasformazione della società che produsse tanto la problematica interna di Ricardo, quanto la crisi della sua scuola. Se si seguisse questo sviluppo in modo immanente - da un punto di vista filosofico o economico - si cadrebbe in un atteggia­ mento idealistico. Perché solo in rarissimi casi la dialettica viene ficcata in testa in modo immediato dalla trasformazione delle forze produttive materiali; piuttosto questo “ficcare in testa” appare nella forma di contraddizioni scientifiche, di problemi che si cerca di ri­ solvere o riformulare in modo scientifico etc. Solo il dialettico mate­ rialista è, tuttavia, in grado di conoscere le “pulsioni delle pulsioni”, di giungere alle fonti materiali d’origine delle contraddizioni, dei problemi, degli errori, dei germi di soluzioni corrette etc.; ed egli è in grado di fare ciò nella misura in cui dimostra la loro necessità a partire dalla trasformazione della struttura economica della società rispetto alla posizione di classe del pensatore di volta in volta preso in considerazione, ovvero nella misura in cui mostra l’immediatez­ za di cui sono prigionieri i pensatori come prodotto dello sviluppo sociale e, in tal modo, ne supera l’immediatezza. Marx dice: «l’in­ sieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura eco­ nomica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza».104 Ora, le forme di pensiero in cui gli uomini esprimono i loro rapporti con la natura costituiscono un’eccezione? Detto altrimenti: gli uomini stanno in un rapporto immediato con la natura o il loro

104 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979, p. 5 (corsivo mio).

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scambio con la natura è storicamente mediato? È questo il nocciolo materiale della mia controversia con i compagni Deborin e Rudas e cercherò in quanto segue di chiarire brevemente gli elementi essen­ ziali da un punto di vista metodologico di questa contrapposizione, senza far loro il favore di difendere punti di vista che a loro farebbe molto piacere che io difendessi e che io, tuttavia, non ho mai difeso e che, al contrario, rifiuto con decisione. Con questo tomo alla frase dello scritto del compagno Rudas che ho citato sopra: «Ma la natura e chi fa scienza della natura sono due cose diverse». Molto giusto. Se però si fosse dato la pena di leggere con attenzione i passi del libro che attacca, avrebbe scoperto che là si parla (due volte!) non di natura, quanto di conoscenza della natura}05 1. Il ricambio organico con la natura Se intendiamo porre questa questione marxisticamente, pos­ siamo solo partire dalla domanda: come è costituito il fondamento materiale della nostra conoscenza della natura? Marx si è espres­ so molto chiaramente su questo punto nella sua esposizione critica della filosofia di Feuerbach: «egli non si è accorto che questo mon­ do sensibile non è una cosa già data dall’eternità, bensì il prodotto di generazioni, di cui ognuna poggia sulle spalle della precedente. Poiché la sua visione teorica del mondo sensibile si limitava alla semplice intuizione e alla semplice percezione, egli è rimasto al­ ic o r n o ” astratto; non gli riesce di giungere all’uomo attivo e ri­ conosce gli uomini reali e viventi solo nella sfera della percezione, l’amore e l’amicizia sono gli unici rapporti umani che egli scopre e gli sfugge totalmente che lafamosa unità dell9uomo con la natura è sorta nellattività produttiva umana».106 Dobbiamo quindi indagare l’attività produttiva umana. Questo “ricambio organico con la natura” appare a prima vi­ sta come “perenne condizione naturale dell’umano esistere”. Marx spiega: «il processo lavorativo, quale l’abbiamo analizzato nei suoi 105 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 6n. 106 Poiché il testo originale mi è inaccessibile sono costretto a citare gli estratti à&WEn­ gels di Gustav Mayers, vol. 1, p. 247 (corsivo mio).

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semplici ed astratti movimenti, è l’attività che ha per fine la produ­ zione di valori d’uso, adattamento degli elementi della natura ai bi­ sogni dell’uomo, perenne condizione naturale dell’umano esistere; perciò non dipende da una particolare forma di vita, ma al contrario è comune a tutte le forme di società dell’umano esistere».107 Tuttavia, per comprendere questa affermazione in modo cor­ retto, cioè concretamente dialettico e non astrattamente formale, oc­ corre aggiungere quanto segue. In primo luogo, qui Marx parla del processo di lavoro nei suoi momenti semplici e astratti, di modo che non gli è necessario considerare «il lavoratore in rapporto ad altri lavoratori».108 Egli, perciò, astrae da tutti i momenti sociali del pro­ cesso lavorativo, per chiarire meglio quei momenti che sono comuni a tutti i processi lavorativi. Come egli si esprime altrove a proposito della produzione, qui si tratta di «un’astrazione che ha un senso, in quanto mette effettivamente in rilievo l’elemento comune, lo fissa e ci risparmia una ripetizione».109Mette però subito in guardia dal fatto che «l’essenziale diversità venga dimenticata in favore dell’unità» e mostra come proprio questa dimenticanza costituisca «la saggezza della moderna economia», la fonte teorica dell’apologetica del capi­ talismo, visto come “forma eterna” della produzione.110 Immediata­ mente prima del passo citato sopra,111 ad es., Marx sottolinea espres­ samente come la definizione che ha appena dato non sia affatto suf­ ficiente nel caso del processo di produzione capitalistico. Quanto qui abbiamo a che fare con una “astrazione sensata” lo mostra il fatto che l’unità è intesa nel senso che l’umanità è soggetto e la natura oggetto, mentre secondo il punto di vista concreto sostenuto da Marx conside­ rare la società (un soggetto già più concreto dell’umanità) «come un soggetto singolo, è considerarla in modo falso, speculativo».112 Il compagno Rudas si spinge molto oltre il passo citato nel non prendere in considerazione il mutamento sociale. Per lui «la co­ scienza umana è un prodotto naturale come l’istinto degli animali»

107 K. Marx, Il capitale, cit., p. 151. 108 Ibid. 109 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 173. 110 Ibid. 111 K. Marx, Il capitale, cit., p. 149, nota 7. 112 K. Marx, Per la critica dell'economia politica, cit., p. 182.

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(corsivo mio). Ovviamente, non posso obiettare nulla soggettiva­ mente al compagno Rudas se egli si sente di stringere ogni asino al petto come un suo fratello e non avrei nulla da obiettare nemmeno oggettivamente se egli si limitasse a dire che la coscienza umana è, per parte sua, un prodotto naturale. Ovviamente è un prodotto naturale. Tuttavia, si tratta di un prodotto naturale del tutto unico. Nelle considerazioni sul processo lavorativo che abbiamo citato so­ pra Marx mostra che il fondamento materiale della coscienza che qui sorge è fondamentalmente diverso da quella degli animali e che quindi il “come” del compagno Rudas non è marxista (a voler esse­ re clementi). Poiché già la considerazione del processo lavorativo nei suoi momenti più semplici e astratti sottintende «il lavoro in una forma appartenente esclusivamente airuomo».113 E la differenza essenziale consiste - horribile dictu - proprio nella coscienza del fatto che il risultato del processo lavorativo si trova nella testa del lavoratore prima del processo. In secondo luogo, questo processo di lavoro viene definito più precisamente come “attività per la produzione di valori d’uso”. E Marx vede effettivamente nel valore d’uso «la relazione naturale tra le cose e gli uomini», «l’esistenza delle cose per gli uomini», mentre il valore di scambio - che sorge più tardi - costituisce «l’esi­ stenza sociale delle cose».114 Ora, tra marxisti, si spera di non dover spiegare in dettaglio che valore d’uso e valore di scambio stanno in un rapporto di interazione dialettica. In questo rapporto le forme reali di mediazione che intervengono tra uomo e natura appaiono in modo sempre più molteplice e decisivo. Il consumo, in cui ciò che conta è il puro carattere di valore d’uso delle cose, è mediato e determinato nei modi più vari dalle forme di produzione. Perciò Marx dice: «l’oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo ancora una volta mediato dalla produzione stessa. La fame è la fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. La produzione non pro­

113 K. Marx, II capitale, cit., p. 146. 114 K. Marx, Teorie sul plusvalore, cit., Ili, p. 315.

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duce perciò solo l’oggetto del consumo ma anche il modo di consu­ mo. [...] Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale - e l’attardarsi in questa fase sarebbe il risultato di una produzione ancora imprigionata nella rozzezza naturale - esso stesso come impulso è mediato dall’oggetto».115 E lo sviluppo va in una direzione che accentua in modo sempre più forte la preponderanza del momento sociale. «In tutte le forme in cui domina la proprietà fondiaria il rapporto con la natura è ancora predominante. In quelle, invece, dove domina il capitale, prevale l’elemento sociale, prodotto storicamente».116 Diamo un’occhiata alla concezione marxiana del rapporto tra uomo e natura, la cui modalità essenziale oggettiva determina la loro coscienza, ovvero la loro conoscenza, della natura. Citerò qui solo alcuni passi: Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e il loro rapporto con la natura, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali.117 Ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell’individuo entro e mediante una determinata forma della società.118 Dalla forma determinata della produzione materiale risulta in primo luogo una determinata articolazione della società, in secondo luogo un deter­ minato rapporto degli uomini con la natura.119 E, non appena cessa il primo stato animale, la proprietà (deH’uomo) sulla natura è sempre già mediata dalla sua esistenza come membro di una comunità, famiglia, tribù etc., da un rapporto con gli altri uomini che condi­ ziona il suo rapporto con la natura}10

Credo che questi passi si esprimano in modo inequivocabile. Essi affermano nient’altro che la tesi fondamentale del materia­ lismo storico: «non è la coscienza degli uomini che determina il

113 K. Marx, Per la critica dell'economìa polìtica, cit., p. 180 [tr. modificata, (N.d.T.)]. 116 Ibid., p. 195. 117 K. Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 21 (corsivo mio). 118 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 175. 119 K. Marx, Teorie sul plusvalore, cit., I, p. 294 (corsivo mio). 120 Ibid., Ili, p. 402 (corsivo mio).

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loro essere, quanto, al contrario, il loro essere sociale che deter­ mina la loro coscienza». La nostra coscienza della natura, cioè la nostra conoscenza della natura, è determinata dal nostro essere sociale. Questo è tutto ciò che ho detto nelle poche annotazioni dedicate a questo proble­ ma; niente di meno, ma neanche niente di più. Vediamo ora più da vicino se da ciò consegue tutto ciò che i miei critici pensano di poter derivare o se non piuttosto il contrario. Il compagno Rudas riassume le proprie rimostranze in tre punti: (1) da ciò sorge un dualismo (Natura: adialettica; società: dialettica);121 (2) La dialettica è un prodotto dell’uomo;122 (3) la dialettica non è «una legge oggettiva, indipendente dall’uomo, bensì una sua legge soggettiva».123 La teoria qui difesa da Rudas contiene, secondo me, un sog­ gettivismo molto pericoloso (che sta in rapporto con il kantismo nascosto e non sufficientemente superato di Rudas). Gli sembra sempre, infatti, che in ogni circostanza - come per il compagno Deborin nel passo citato all’inizio - il Soggetto sia = l’Uomo (So­ cietà) e l’Oggetto sia = Natura. Da cui, ovviamente, consegue, che tutto ciò che è prodotto “degli uomini” (cioè dei processi di sviluppo storico-sociali) cada dalla parte del soggetto ed è possi­ bile attribuire una oggettività reale solo a quelle cose o rapporti che esistono non semplicemente in modo indipendente dall’uomo (cioè dal soggetto della conoscenza) - e questa sarebbe la giusta concezione marxista - bensì anche a quelle cose che sono indipen­ denti dal processo di sviluppo storico della società. Mi occuperò tra poco del problema: in che senso, secondo la mia concezione, la dialettica sia un prodotto dell’uomo; ora devo ribadire con forza che in questo modo Rudas (e Deborin che su questo sarà evidente­ mente d’accordo con lui) concepisce rigidamente e non dialetticamente l’opposizione Soggetto/Oggetto; che per entrambi - come per Kant e tutti i kantiani - il soggetto sta da una parte e l’oggetto dall’altra e ci può essere oggettività solo in ciò che è puro da ogni contatto con il soggetto. Questa concezione si differenzia solo nel­ 121 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 61. 122 Ibid., p. 62. 123 Ibid., p. 63.

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la formulazione da quella dei neokantiani, come ad. es. Rickert, per i quali soggetto è ciò che non può mai diventare oggetto.124 La concezione di Rudas è non solo molto vicina a quella kantiana nel suo fondamento adialettico, ma procede da un contesto di proble­ mi similmente “gnoseologico”: essa non pone infatti la questione dell’oggettività nel rapporto reciproco reale-storico dei momenti oggettivi e soggettivi dello sviluppo, analizzando qui la loro in­ terazione vivente, bensì indaga fin dall’inizio (apriori, atempo­ ralmente, gnoseologicamente) Γ“oggettività” depurata da “ogni aggiunta soggettiva”. Né Rudas, né Deborin traggono le estreme conseguenze della propria posizione. Dovrebbero altrimenti porre tutte le forme fenomeniche sociali dal lato della soggettività e ne­ gare che il criterio dell’oggettività - l’esistenza indipendente del­ l’oggetto dal soggetto conoscente, percipiente etc. - si trovi nella società. Da tali conseguenze, che contraddicono l’Abc del marxi­ smo, si ritraggono infatti inorriditi. Chi però pensi fino in fondo le loro posizioni come esse appaiono dalle citazioni qui riportate, deve giungere alla conseguenza: ciò che è “opera dell’uomo” è “soggettivo”. Poiché, come noto, sono gli uomini a fare la loro storia - la storia diventa il regno del soggettivismo. Naturalmente, tutto ciò è una sciocchezza. Poniamo pure che io dica (mostrerò tra poco che è vero il contrario) che la dialettica è un prodotto dello sviluppo storico: anche in questo caso essa non sarebbe nulla di “soggettivo”. Rendita fondiaria, capitale, profitto etc. non sono altro che prodotti di questo sviluppo: chi potrebbe ri­ tenerli tuttavia qualcosa di meramente soggettivo? Chi è preda delle vedute immediate proprie della società borghese e tenta però di li­ berarsene, chi, cioè, conosce il momento “soggettivo” delle datità sociali ma è incapace di riconoscere in esse l’interazione dialettica di soggettività e oggettività, non è in condizione di comprendere il modo e il fondamento della loro oggettività. (Cfr. la critica di Marx ai discepoli radicali di Ricardo che cominciarono a intravedere il ca­ rattere di feticcio della merce, riconoscendovi però esclusivamente qualcosa di soggettivo). Il compagno Rudas che qui - dove affronta

124 Heinrich Rickert, Gegenstand der Erkentniss [L’oggetto della conoscenza], terza ed., pp. 46 e ssgg.

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la cosa da un punto di vista “gnoseologico” - è spinto verso queste conseguenze, nelle sue analisi storiche si muove con comprensibile paura nella direzione direttamente e meccanicamente opposta. Con­ cepisce, come abbiamo visto, lo sviluppo sociale come un processo depurato di “ogni aggiunta soggettiva”: ha, cioè, una concezione meccanico-kantiana della realtà oggettiva. La dialettica, quindi, non sarebbe nulla di soggettivo anche se fosse un prodotto dello sviluppo economico e sociale dell’umanità. (A dire il vero, il compagno Rudas sembra concepire l’oggettivo come l’opposto di ciò che è socialmente condizionato. Per questo parla di “processo di produzione oggettivo” in contrappo­ sizione al suo “involucro capitalista” che, perciò, rappresenta per Rudas qualcosa di evidentemente soggettivo).125 Ma anche per me essa Ovviamente non lo è. Le vexatae quaestiones poste dal compagno Rudas sono in realtà molto facili da risolvere. È ovvio che la società sia sorta dalla natura. È ovvio che la natura e le sue leggi sono esistite prima della società (cioè prima dell’uomo). È ovvio che la dialettica non po­ trebbe essere effettivamente un principio di sviluppo oggettivo della società se essa non funzionasse già come principio di sviluppo della natura prima della società e non esistesse già oggettivamente. Ma da ciò non segue né che lo sviluppo storico non possa produrre nuove e, a loro volta, oggettive forme di movimento, ovvero dei momen­ ti dialettici, né che i momenti dialettici dello sviluppo della natura sarebbero conoscibili senza la mediazione di queste nuove forme dialettiche storiche. Poiché evidentemente noi possiamo parlare solo di quei momenti della dialettica che già abbiamo conosciuto o che siamo in procinto di conoscere. La teoria dialettica della cono­ scenza come processo include non solo la possibilità di conoscere nel corso della storia nuovi contenuti, nuovi oggetti, che finora non conoscevamo, ma anche il fatto che sorgano nuovi contenuti, i qua­ li possono essere conosciuti solo per mezzo di principi conoscitivi a loro volta nuovi. Noi sappiamo che finora abbiamo conosciuto solo una parte della realtà infinitamente oggettiva (e anche questa sicuramente solo in parte in modo giusto), ma nel momento in cui

125 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 73.

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concepiamo il processo conoscitivo dialetticamente come processo, dobbiamo anche intendere questo processo al tempo stesso come parte del processo di sviluppo sociale oggettivo. Ciò significa che dobbiamo capire che il cosa, il come, il fino a che punto etc. della nostra conoscenza sono determinati dagli stadi di sviluppo del pro­ cesso di sviluppo oggettivo della società. Comprendere il carattere dialettico della conoscenza significa comprenderla al tempo stes­ so come processo storico. In quanto processo storico, tuttavia, la conoscenza è solo una parte, solo la parte cosciente (vera o falsa che sia) di quel processo di sviluppo sociale, di quell’ininterrotta trasformazione dell’essere sociale che si completa a sua volta in un’ininterrotta azione reciproca con la natura (ricambio organico della società con la natura). Questo ricambio organico con la natura non può realizzarsi - persino nelle fasi più primitive - senza che si possieda un cer­ to grado di conoscenza oggettivamente giusta sui processi naturali (che esistono prima degli uomini e che si svolgono indipendente­ mente da loro). Il villaggio negro più primitivo non potrebbe esiste­ re un solo giorno se i suoi abitanti non osservassero, prevedessero etc. i fenomeni naturali cruciali per la loro vita con un certo grado di esattezza (ciò significa: nella loro oggettività così come essa si pone indipendentemente dagli uomini). Ovviamente, queste osservazioni sono ristrette ad un piccolo ambito di fenomeni naturali; ovviamen­ te, le “teorie” in cui il contesto dei fenomeni diviene qui cosciente è ingenuo, falso o persino una forma consapevole di inganno. Tut­ tavia, anche qui è data, assieme alla necessità di esistere nella realtà oggettiva, la necessità di conoscere quest’ultima - fin dove è possi­ bile - nella sua oggettività e verità. Il modo e il livello di questa co­ noscenza dipendono dalla struttura economica della società. Perché il modo e il livello del ricambio organico tra società e natura - cioè del fondamento materiale della conoscenza - dipendono dagli stadi di sviluppo della struttura economica della società. Marx ha sottolineato con forza in innumerevoli passi che la conoscenza umana è determinata, per quanto concerne la sua ori­ gine e i problemi con cui essa si confronta e che deve risolvere sot­ to la minaccia di declino della relativa società, dalle condizioni di vita economiche della società, dal cui terreno sorge di volta in volta la conoscenza. Vorrei qui ricordare solo l’esempio dei periodi di 81

spostamento del Nilo come l’origine dell’astronomia egizia.126 Ci si chiede ora: anche le categorie in cui, di volta in volta, la realtà og­ gettiva viene riassunta per la conoscenza umana sono determinate dalla struttura economica, dall’essere sociale? Mi sembra fuori di dubbio che solo questa possa essere stata l’opinione di Marx. Pro­ babilmente, nessuno lo negherà a proposito delle concezioni della natura delle società precapitalistiche; che Marx pensasse lo stesso della conoscenza della natura del suo tempo lo mostra il passo del­ la sua lettera su Darwin, che lui teneva in grande considerazione e la cui teoria giudicava fondamentale. Ecco quello che scrive ad Engels: «È notevole il fatto che, nelle bestie e nelle piante, Darwin riconosce la sua società inglese con la sua divisione del lavoro, la concorrenza, l’apertura di nuovi mercati, le “invenzioni” e la mal­ tusiana “lotta per l’esistenza”. E il bellum omnium contra omnes di Hobbes e fa ricordare Hegel nella Fenomenologia, dove raffigura la società borghese quale “il regno animale ideale”, mentre per Darwin il regno animale è raffigurato quale società borghese».127 Sembrerebbe abbastanza ovvio accusare questa teoria di rela­ tivismo o agnosticismo. E, tuttavia, con che diritto lo si farebbe? Il relativismo sorgerebbe se si concepisse la condizionatezzza soda­ le-storica del pensiero umano in modo borghese e non dialettico, cioè, o astratto-formale o ateoretico-storicistico (ad es. à la Ranke); sarebbe relativismo se si dicesse: la concezione della natura del vil­ laggio negro e quella della società capitalista sono entrambi deter­ minati dalla struttura economica del loro essere sociale e dunque sono entrambe ugualmente vicine (ciò significa: ugualmente lonta­ ne) dalla verità oggettiva. Ma per i marxisti il fondamento materiale della conoscenza (qui: il ricambio organico della società con la na­ tura) è un processo concreto e oggettivo e, certamente, un processo storico conoscibile in sede teorica. Da ciò consegue che in questo processo si possono osservare determinate direzioni, determinate successioni di stadi etc. di modo però che i suoi stadi, in rapporto alla conoscenza oggettiva di volta in volta raggiungibile, non siano

126 K. Marx, II capitale, cit., p. 376, nota 5. 127 K. Marx, lettera ad Engels, 18 giugno 1862, in K. Marx e F. Engels, Opere, cit., vol. XLI, p. 279.

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né equivalenti (come per lo storicismo), né disposti in modo tale che quelli temporalmente successivi debbano essere, incondiziona­ tamente e sotto ogni rispetto, anche quelli più alti, come se lo svi­ luppo dovesse procedere in senso ascendente e secondo una linea retta (evoluzionismo). Ne consegue, perciò, che ranalisi concreta della struttura economica della società determina gli stadi di svilup­ po del ricambio organico della società con la natura e che da ciò si producono gli stadi di sviluppo (altezza, intensità, modo etc.) della conoscenza della natura. Ogni conoscenza raggiungibile data è per­ ciò relativa, nella misura in cui può essere modificata o falsificata da uno sviluppo maggiore della struttura economica della società (e un corrispettivo allargamento, intensificazione etc. del ricambio organico della società con la natura). Tuttavia, nella misura in cui corrisponde alla realtà oggettiva dell’essere sociale e della natura che attraverso essa è mediata, essa è verità oggettiva, assoluta, che vede cambiata da una conoscenza più ampia e giusta che la “tolga e conservi”, solo la propria collocazione e la propria spiegazione teorica. (In tal senso, ad es., le giuste osservazioni dell’astronomia tolemaica o di quelladi Tycho Brache, vengono “tolte e conservate” nell’astronomia copèmicana e rimangono verità oggettive, benché le teorie escogitate per spiegarle si sono rivelate sbagliate). Il materialismo dialettico incorpora perciò il “relativismo” solo nella misura in cui il dialettico deve essere consapevole che le categorie attraverso cui comprende la realtà oggettiva (società e natura), sono determinate dall’essere sociale del suo presente, che sono soltanto forme mentali di questa realtà oggettiva (le categorie sono “fonne e condizioni di esistenza” - Marx). Il materialismo storico si solleva al di sopra dei metodi visti prima perché, da un lato, pensa l’intera realtà coerentemente come un processo storico e, dall’altro, è in grado di comprendere il punto di approdo cui di volta in volta la conoscènza giunge e la conoscenza stessa come un prodotto del processo sociale oggettivo, non è cioè costretto ad assolutizzare (come ancora doveva fare Hegel) né la conoscenza stes­ sa, né la realtà storica attuale che determina concretamente fonile e contenuti della conoscenza. Se si desidera chiamare relativismo o agnosticismo questa chiarezza dei fondamenti e delle concrete de­ terminazioni della conoscenza, lo si faccia pure - ma si tratta di un abuso borghese della terminologia. 83

Infatti, ciò che i miei critici definiscono nei miei scritti “agno­ sticismo”, non consiste in altro che questo: io nego che nello stadio presente dello sviluppo sociale - mi rifiuto, ovviamente, di discute­ re di possibilità utopiche nel futuro - si dia un rapporto socialmente non mediato, cioè quindi immediato, tra uomo e natura; sono cioè convinto che le nostre conoscenze della natura siano socialmente mediate, poiché il loro fondamento materiale è socialmente media­ to; insomma, io rimango fedele alla formulazione marxiana del me­ todo del materialismo storico: «È Tessere sociale che determina la coscienza». Come da questa concezione possa nascere un dualismo (dualismo di natura e società) è per me incomprensibile. Al contra­ rio. Se si tiene ferma la possibilità di un rapporto immediato con la natura - come evidentemente fanno Deborin e Rudas - la conoscen­ za della natura e quella della società si sviluppano, secondo que­ sto punto di vista, una accanto all’altra, indipendentemente l’una dall’altra, in modo dualistico. Laddove ci si pone al di là di questo dualismo, accade che le categorie specificamente socio-storiche si dissolvano e vengano ammesse per la conoscenza della società solo quelle categorie che sono ammesse nella scienza della natura. Dove conduca tutto questo lo abbiamo già potuto vedere nella teoria codista della coscienza di classe di Rudas e potremo apprezzarlo in quanto segue anche nel caso di Deborin. Se, in tal modo, la trasformazione delle nostre conoscenze naturali non vie­ ne cercata nella trasformazione dell’essere sociale (che modifica già modo, grado etc. del ricambio organico con la natura), allora o sorge un puro idealismo - come nel caso del compagno Rudas col suo sviluppo dialettico-immanente della scienza - oppure bisogna affermare che tutte le trasformazioni fondamentali delle scienze naturali sono state rispecchiamenti di trasformazioni della natura (ad es: il sole prima girava attorno alla terra e ora il loro rapporto si è invertito - con ciò si spiega Copernico; ma non vogliamo an­ dare oltre con simili assurdità). Quanto il compagno Rudas sia lontano qui anche solo dal ve­ dere il problema, quanto egli cerchi di coprire il proprio punto di vi­ sta non dialettico con grida isteriche contro l’idealismo, il dualismo etc., lo mostra il seguente passo del suo scritto polemico. Carattere decisivo del metodo dialettico è, secondo me, «la modificazione sto­ rica del sostrato delle categorie come base della loro modificazione 84

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nel pensiero».128 Il compagno Rudas dice: «il significato di questo gergo filosofico è per noi completamente secondario, poiché basta decifrare che si tratta di una “modificazione nel pensiero”. Soltan­ to gli uomini possono pensare. E ai nostri fini ciò è sufficiente».129 Sembra che il solo parlare di “modificazione nel pensiero” basti a risvegliare la nobile indignazione del compagno Rudas e nella sua nobile indignazione egli non si accorge neppure che la “modifica­ zione nel pensiero” - che egli ritiene tabù - è qui intesa come un effetto e, ovviamente, effetto di una realtà oggettiva (il sostrato delle categorie) esistente al di fuori del pensiero. La frase significa quindi che deve aver luogo una trasformazione nella materia (sostrato del pensiero) perché possa conseguirne una modificazione nel pensiero. Per il compagno Rudas - che vorrebbe eliminare il processo di pen­ siero umano dal pensiero, cosi come ha eliminato l’attività umana dalla politica - può certo essere spiacevole il fatto che al pensiero siano necessari uomini nelle cui teste la realtà assume una forma cosciente, ma questo non si può certo cambiare. Nella mia frase si afferma proprio che è esistita ed esiste una dialettica oggettiva nella realtà indipendentemente dall’uomo e prima della comparsa dell’uo­ mo; ma che per pensare la dialettica, che per la dialettica come co­ noscenza (di questo e solo di questo si parlava in quella nota) siano necessari degli uomini pensanti lo metterà in dubbio forse soltanto il compagno Rudas, nel cui pensiero eclettico affiorano reminiscenze bolzano-husserliane a proposito della “proposizione in sé” e di una verità che è indipendente dall’essere pensata e che trasforma Γogget­ tività dialettica del pensiero in un oggettivismo borghese e logicista. Il dualismo della mia teoria appare dunque abbastanza dubbio. Proprio nella mia - e solo nella mia - interpretazione del marxismo la nostra intera conoscenza ha una fonte unitaria: lo sviluppo della società e il ricambio organico con la natura che si sviluppa appunto in esso. Al contrario, ogni teoria che presupponga un rapporto im­ mediato, cioè indipendente dall’essere sociale, dell’uomo con la na­ tura (come sorgente della conoscenza naturale), deve rappresentarsi questi due ambiti conoscitivi come indipendenti, nel loro sviluppo,

128 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., p. 17n. 129 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 62 [tr. mod., (N.d.T.)].

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l’uno dall’altro; e quindi in modo dualistico; e se, tuttavia, si trova il principio comune, bisognerà assumere la dialettica come un sem­ plice principio della conoscenza, ovvero come una specie superiore di logica: e quindi in modo idealistico. 2. Categorie semplici e superiori nella dialettica Tale rapporto non significa certo una dipendenza meccanica tra loro delle due sfere conoscitive. Poiché il loro fondamento ma­ teriale è un processo dialettico, poiché struttura oggettiva della so­ cietà e scambio della società con la natura si trovano costantemen­ te in un rapporto di interazione dialettica reciproca, anche il loro rapporto oggettivo è dialettico. Già all’interno dei fenomeni sociali questi rapporti assumono forme non semplici ma si trasformano nel corso dello sviluppo storico. E lo fanno in modo che i fenomeni non mutano solo dal punto di vista del contenuto - tali trasformazioni sono riconosciute anche dalla storiografia borghese - bensì, in con­ seguenza della trasformazione dei materiali reali, si trasforma anche la struttura dei rapporti. Marx fa riferimento ripetutamente a tale «rapporto inegua­

le dello sviluppo della produzione materiale con lo sviluppo, ad es., artistico».130 Le seguenti riflessioni mostrano, però, che l’ar­ te era solo un esempio e che anche tra diritto e produzione pos­ sono sorgere sviluppi ineguali. Con ciò può sorgere un problema irrisolvibile solo per il pensiero meccanicista borghese, il quale rimane prigioniero dell’antinomia feticistica tra “leggi eterne e ferree” e “l’individuo irripetibile”. Nel materialismo dialettico il problema strutturale viene risolto storicamente (cioè mostran­ do la genesi concreta, reale e storica della struttura data), e il problema storico viene risolto teoreticamente (cioè mostrando la legge che ha prodotto il contenuto concreto dato). Ecco perché Marx, a proposito del susseguirsi delle categorie economiche, scrive: «la loro successione è determinata dalla relazione in cui esse si trovano l’una con l’altra nella moderna società borghese, e questo è esattamente l’inverso di quello che sembra essere il

130 K. Marx, Per la critica dell’economia politica, cit., p. 197.

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loro ordine naturale o di ciò che corrisponde alla successione dello sviluppo storico».131 Da ciò comunque, cioè dal fatto che il processo oggettivamen­ te reale è esso stesso dialettico e che l’origine reale e l’intreccio della conoscenza che gli corrisponde adeguatamente siano essi stes­ si dialettici, non segue affatto che ogni conoscenza debba apparire nella /orma di conoscenza del metodo dialettico. L’affermazione del giovane Marx: «la ragione è sempre esistita ma non sempre in for­ ma razionale»132vale anche per la dialettica. Dipende dalla struttura economica della società e dalla posizione di classe che il conoscente assume in essa, se e fino a che punto un rapporto oggettivamen­ te dialettico assuma forma dialettica nel pensiero, se e fino a che punto gli uomini possano diventare coscienti del carattere dialettico del rapporto dato. In determinate circostanze può accadere che esso non appaia affatto dal punto di vista del pensiero conoscitivo; op­ pure può apparire sotto forma di contraddizione irrisolvibile, come antinomia; può essere compreso adeguatamente sotto certi aspetti, senza che possa essere determinato correttamente il suo giusto po­ sto nello sviluppo complessivo etc. Da quanto abbiamo detto finora è chiaro che tali conoscenze possano comunque essere, almeno in parte, oggettivamente giuste. Ma solo quando lo sviluppo storico della società è progredito fino al punto che i problemi reali che stan­ no alla base di queste contraddizioni etc. sono storicamente risolti, oppure che la loro soluzione non è lontana, solo allora può essere trovata la conoscenza teoreticamente giusta e dialettica. In altri termini: la soluzione, il superamento di una contrad­ dizione dialettica viene prodotta dalla realtà nel processo storico reale. Il pensiero può, a certe condizioni determinate, anticipare mentalmente questi processi, ma solo quando il loro superamento esiste oggettivamente nel processo storico effettivo come una reale tendenza di sviluppo (anche se magari come tendenza ancora im­ matura dal punto di vista della prassi). E se questo rapporto con il processo storico reale non è divenuto pienamente cosciente, se quel problema dialettico non viene ricondotto al suo fondamento 131 Ibid., p. 196. 132 K. Marx, lettera ad Arnold Ruge, settembre 1843 (dai Deutsch-Französische Jahr­ bücher), in K. Marx e F. Engels, Opere, cit., vol. Ili, p. 155.

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concreto e materiale, l’anticipazione mentale deve necessariamente rimanere incastrata nell’astrazione e nell’idealismo (Hegel). A partire da qui si può apprezzare la più seria obiezione contro la mia concezione della dialettica, mossa da Deborin, secondo cui 10 ignorerei le categorie semplici della dialettica in favore di quel­ le superiori. Deborin dice: «possiamo solo osservare che Hegel ha sempre preso in considerazione il processo di sviluppo in tutti i suoi momenti e, raggiungendo il vertice dell’idea assoluta, ha mostrato al tempo stesso che l’intero processo di sviluppo ne costituisce il contenuto. Il movimento in avanti ha inizio dai concetti o categorie semplici e astratti, passando quindi ai concetti più vicini, sempre più ricchi e più concreti».133 Questa, come descrizione del modo di esporre di Hegel è - in generale - corretta ed è possibile che He­ gel, in quanto idealista, fosse spesso prigioniero dell’illusione, che questo modo di esporre le categorie dialettiche corrispondesse sia al loro rapporto reale e oggettivo, così come al processo reale della loro conoscibilità. Per Marx, cui Deborin attribuisce “sostanzial­ mente”134 questo punto di vista, certamente no. Marx è stato completamente chiaro sul fatto che ciò che si tro­ va ad un livello inferiore (il più semplice, il più astratto) può essere conosciuto solo a partire da ciò che si trova a un livello superiore (più complesso, più concreto). E dice: «l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia. Invece, ciò che nelle specie animali inferiori accenna a qualcosa di superiore può essere compre­ so solo se la forma superiore è già conosciuta. L’economia borghese fornisce così la chiave per l’economia antica, etc.».135 Le categorie semplici sono perciò per Marx il punto di approdo dell’esposizione (merce, lavoro, denaro etc.). La sua dialettica materialista, il suo materialismo storico lo preserva però dall’errore di perdere di vista 11 carattere storico (in determinate circostanze anche storicamente tardo, derivato) delle categorie semplici. Lo dice proprio a propo­ sito del lavoro: «Il lavoro sembra una categoria del tutto semplice. Anche la rappresentazione del lavoro in questa generalità - come

133A. Deborin, Lukàcs e la sua critica del marxismo, cit., p. 143. 134 Ibid. 135 Marx, Per la critica deH’economiapolitica, cit., p. 193.

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lavoro in generale - è molto antica. E tuttavia, considerato in questa semplicità dal punto di vista economico, il “lavoro” è una categoria tanto moderna quanto lo sono i rapporti che producono questa sem­ plice astrazione [...]. Così l’astrazione più semplice che l’economia moderna pone al vertice e che esprime una relazione antichissima e valida per tutte le forme di società, appare tuttavia praticamente vera in questa astrazione solo come categoria della società più mo­ derna».136 Conseguentemente, «il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo produce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso».137 Quando identifica “sostanzialmente” il metodo di Hegel con quello di Marx, Deborin cade vittima dell’illusione di Hegel, «di concepire il reale come risultato del pensiero automoventesi, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso».138 Non sa­ rebbe troppo difficile derivare questo metodo da tutte le spiegazioni concrete date successivamente da Marx; mostrare che egli si rifiuta di comprendere la totalità concreta come se questa fosse costituita realmente dai suoi elementi semplici e astratti, benché egli (molto giustamente) abbia usato spesso questa costruzione nell’esposizio­ ne. Cito solo un passo sulle crisi: «non può esistere crisi senza che compra e vendita si separino l’una dall’altra ed entrino in contrad­ dizione o che le contraddizioni contenute nel denaro come mezzo di pagamento si manifestino, senza che quindi la crisi emerga con­ temporaneamente nella forma semplice - nella contraddizione di compra e vendita, nella contraddizione del denaro come mezzo di pagamento. Queste, però, sono anche semplici forme - possibilità generali della crisi, quindi anche forme, forme astratte della crisi reale. In esse l’esistenza della crisi appare come nelle sue forme più semplici e nel suo contenuto più semplice, in quanto questa forma stessa è il suo contenuto più semplice. Ma non è ancora un contenu­ to fondato. La circolazione semplice del denaro e anche la circola­ zione del denaro come mezzo di pagamento - ambedue compaiono molto prima della produzione capitalistica, senza che compaiano 136 Ibid., pp. 191-193. 137 Ibid., p. 189. 138 Ivi.

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crisi - sono possibili e reali senza crisi. Perché dunque queste for­ me mettano in mostra il loro lato critico, perché la contraddizione in esse contenuta potentia si manifesti actu come tale, non si può spiegare con queste forme soltanto».139 Da tutto questo il rapporto tra categorie “semplici” e “superio­ ri” in Marx appare in modo chiaro. Le categorie superiori devono essere prodotte in modo reale dallo sviluppo storico ed essere cono­ sciute in modo adeguato nei loro rapporti dialettici, cosicché le cate­ gorie semplici che vi corrispondono possano essere conosciute nel­ le loro funzioni storiche e sistematiche. Immaginarsi il processo nel senso opposto è un’illusione idealistica e conduce - nelle sue con­ seguenze - all’apologia dell’esistente, in cui le categorie semplici figurano come elemento fondamentale, come Marx mostra in modo convincente nella citazione che precede a proposito della teoria bor­ ghese della crisi. Vorrei solo notare di passaggio che le più volte menzionate “contraddizioni” tra il primo e il terzo libro del Capitale - l’incapacità dell’economia borghese di comprendere che le deter­ minazioni più concrete e modificate del terzo libro dovevano essere note a Marx prima della stesura del primo libro - vanno ricondotte ad un analogo atteggiamento metodologico. La chiarezza su questo aspetto del metodo marxiano è perciò di grande importanza per la comprensione della dialettica materialista. Chiarezza sul fatto che le cosiddette categorie semplici non sono elementi sovrastorici del sistema, bensì proprio prodotti dello sviluppo storico, come le tota­ lità concrete a cui appartengono e che perciò le categorie semplici vengono comprese adeguatamente a partire da quelle superiori, più complesse e concrete: solo la comprensione della totalità concreta cui appartengono le categorie semplici rende possibile la conoscen­ za di queste ultime e non il contrario, anche se - come già è stato spiegato - l’esposizione debba prender la via opposta. Tutto ciò costituisce una risposta alla domanda di Rudas: perché io caratterizzi come categorie dialettiche decisive proprio l’interazione di soggetto e oggetto, l’unità di teoria e prassi, la tra­ sformazione delle categorie come effetto della trasformazione della materia (del sostrato delle categorie) e non il rovesciamento della

139 K. Marx, Teorie sul Plusvalore, cit., II, p. 561.

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quantità in qualità etc. - scelta sui cui motivi egli non «azzarda il­ lazioni».140 Ciò si spiega, compagno Rudas, col fatto che in queste categorie giunge ad espressione nel pensiero ciò che di specifico e nuovo c’è nella fase di sviluppo sociale in cui il proletariato compa­ re come classe autonoma e prende in carico la trasformazione della società. Contraddirebbe l’essenza del materialismo storico se noi non concepissimo la comparsa del metodo dialettico come essa stes­ sa parte del processo storico reale e vedessimo, sia nella dialettica idealistica di Hegel, quanto nel suo rovesciamento operato da Marx (riessere messo sui piedi”), un puro sviluppo scientifico. Dovrem­ mo piuttosto avere di fronte agli occhi sempre quei momenti storici reali, economici e condizionati dalle classi che hanno reso possibile e prodotto questo sviluppo nella sfera del pensiero. Allora diverrà chiaro come mai, da un lato, le categorie che, secondo Hegel stesso, costituivano l’apice del sistema nella parte più astratta e idealistica della sua Logica (la “Logica del Concetto”), divengono momenti reali, concreti e pratici della lotte di classe proletaria; d’altro lato, apparirà chiaro come le categorie “semplici”, la cui definizione e conoscibilità dipende in entrambi i casi da quelle “superiori”, per­ dano in Marx il loro carattere idealistico, siano messe sui piedi, e appaiano astrazioni prodotte dal processo di sviluppo storico. Qualsiasi categoria “semplice” si prenda, si troverà sempre in Marx che esse possono venir comprese adeguatamente solo a par­ tire da questo contesto. Chiunque escluda dal sistema le categorie “decisive” citate sopra - e tutti gli opportunisti lo fanno - eterne­ rà anzitutto le categorie “semplici” nella forma dell’immediatezza borghese, facendo così perdere loro gradualmente ogni funzione dialettica; infine, una economia “marxista” di questo tipo si trasfor­ ma improvvisamente in una forma di economia volgare borghese (Kautsky, Hilferding etc.). Di categorie “dialettiche” separate da questo contesto può far uso persino un ricercatore borghese; non si vede perché egli non potrebbe utilizzare quando lo ritiene utile il passaggio della quantità in qualità. Ma le categorie divengono realmente dialettiche solo nel contesto della totalità dialettica che può essere raggiunto - nel pensiero - solo attraverso la mediazione

140 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 62.

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dialettica delle categorie “semplici” con quelle “superiori” concre­ te. E ciò può accadere solo in questo contesto perché solo questo contesto offre l’effettiva ed adeguata riproduzione nel pensiero del processo storico reale. E, cioè, l’essere sociale degli uomini che determina la loro coscienza. 3. Ancora sul ricambio organico con la natura Anche la loro coscienza della natura. Pensare il contrario costituirebbe non solo un modo di vedere ristretto e rigido ma, al tempo stesso, dualistico, poiché non considererebbe il nostro rap­ porto reale con la natura - la base materiale della nostra conoscenza della natura. Occorre invece partire dal nostro ricambio organico con essa, considerando questo ricambio organico con la natura nella sua doppia determinazione: un rapporto di interazione con la natura - che esiste indipendentemente dagli esseri umani - che è, al tempo stesso, determinato dalla struttura economica della società. Ripeto: se si parlasse delPastronomia egizia o della fisica di Aristotele ogni marxista assumerebbe con sicuro istinto questo punto di vista. E le moderne scienze della natura? Assumono forse una posizione parti­ colare tale che per esse quella doppia determinazione dialettica non vale più? Certo, se rispondiamo di no a questa domanda, dobbiamo far­ lo in modo dialettico. Ciò significa che dobbiamo sempre chiarire che le moderne scienze della natura occupano effettivamente una posizione particolare nella storia della conoscenza umana della na­ tura, che non si tratta affatto - sarebbe, anzi, una forma di falso relativismo - di considerarle meccanicamente alla stregua delle conoscenze naturali di epoche passate (e questo è l’errore, ad es., di Duhau).141 E tuttavia: forse che la società capitalista e il ricam­ bio organico con la natura che costituisce la base materiale della moderna scienza della natura non occupa una posizione particolare nel processo di sviluppo storico? Il suo posto come ultima società di classe si definisce in termini puramente quantitativi, posizionali,

141 [Forse il riferimento è a Pierre Duhem (1861-1916) scienziato ed epistemologo fran­ cese che difendeva una concezione “convenzionalista” della scienza, (N.d.T.)]

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come se fosse “la più recente” in rapporto alle società di classe pre­ cedenti? Certamente no. Qui, effettivamente, la quantità si rovescia in qualità: la società di classe più sviluppata produce le condizioni materiali, economiche e sociali del socialismo, prepara la fine della preistoria umana. La società socialista è, ad es., l’erede di tutti i tremendi risultati che il capitalismo ha raggiunto nel campo della tecnologia. E questa eredità si differenzia in modo essenziale da ciò che l’eredità medievale ha significato a suo tempo. Poiché gli elementi della tecnica che il capitalismo ai suoi albori prese dal feudalesimo in dissoluzione, non costituivano affatto tra di loro un contesto unitario paragonabile a quello che caratterizza la tecnica della nostra epoca; solo per il fatto di essere assunti nella produ­ zione capitalistica essi si legano realmente l’un con l’altro, mentre il socialismo, anche se esso porterà tale eredità tecnica non solo ad uno stadio superiore (ad es. rivoluzionando la divisione del lavoro capitalistica), ma la trasformerà anche internamente, sarà comun­ que costretto ad operare, in prima istanza e forse per un lungo pe­ riodo di transizione, coi risultati tecnici del capitalismo. Solo con lo sviluppo del capitalismo appaiono quelle determinazioni reali ed economiche che permettono di comprendere la struttura economica della società e delle forze che veramente ne muovono la storia (an­ che per i periodi precapitalistici). Quegli elementi della conoscenza, quelle categorie “semplici” dell’economia, che rendono possibile la conoscenza scientifica di società e storia, sono, in quanto “forme e condizioni di esistenza”, in parte, prodotti dello sviluppo capitalistico (il “lavoro” in sé), in par­ te assumono solo nel capitalismo quella funzione nell’insieme del­ l’economia, attraverso cui essi possono essere compresi come ele­ menti del sistema generale (denaro). La società capitalistica, perciò, non è semplicemente una fase storica determinata dello sviluppo dell’umanità, piuttosto è quella fase in cui le forze moventi di que­ sto sviluppo appaiono chiaramente nella loro conoscibilità adeguata - certamente però solo quando compare chiaramente anche la loro autocritica che si completa nella teoria e nella prassi del proletariato (cfr. Per la critica dell’economia politica). Questo sviluppo dei rapporti di produzione, che presuppon­ gono un corrispettivo sviluppo delle forze produttive, deve andare di pari passo con il corrispettivo sviluppo del ricambio organico tra 93

società e natura. Lo sviluppo capitalista produce le condizioni ma­ teriali del socialismo (tecnica, macchine etc. vedi Lenin sull’elettrificazione). Il dominio delle forze naturali raggiunge, e in misu­ ra sempre crescente, una intensità e sistematicità molto vaste, che sarebbero state impensabili nelle società precedenti; le conoscenze della natura si sviluppano in un’interazione ininterrotta con questo processo: sorgono sul terreno di questo essere sociale, ne sono il prodotto, ma, al tempo stesso, sono uno dei più efficaci veicoli per Γaccrescimento di tale processo. (Poiché posso far poco conto sulla capacità dei compagni Rudas e Deborin di comprendere i rapporti dialettici, sottolineo nuovamente: il fatto che le scienze della natura siano un prodotto dello sviluppo capitalistico non significa che esse siano qualcosa di “soggettivo”. Poiché, in primo luogo, la socie­ tà capitalista stessa è qualcosa di “oggettivo” e, in secondo luogo, essa rende possibile un sapere sulla natura adeguato, oggettivo e sistematico - cosa difficilmente immaginabile prima di essa; un tale sapere quanto più possibile adeguato, oggettivo e sistematico rap­ presenta addirittura per il capitalismo una condizione vitale, in una misura e su di un campo più vasti, di quanto accadesse per le forme sociali precedenti; il capitalismo non rende solo possibile questo sapere, piuttosto esso lo rende possibile perché gli è necessario). Il fatto, quindi, che la moderna scienza della natura sia un prodotto della società capitalistica non toglie nulla alla sua oggettività; anzi, solo un’analisi precisa e concreta dei rapporti che questa scienza intrattiene con la sua base materiale - con il ricambio organico della società capitalista con la natura - potrebbe mostrare perché le mo­ dalità conoscitive delle società precedenti, caratterizzate da forme mitologiche, dovevano essere liquidate e perché una scienza della natura oggettiva in una misura qualitativamente superiore poteva sorgere solo sul terreno del capitalismo. Qui sorgono immediatamente due questioni - strettamente intrecciate tra di loro e con questa controversia. In primo luogo: che la conoscenza della natura sia determinata dall’essere sociale del capitalismo significa solo che essa viene prodotta da questo e che altrimenti (nella sua struttura, nelle sue categorie, nel suo me­ todo etc.) essa è totalmente indipendente da questo essere sociale? In secondo luogo: Γoggettività di una conoscenza significa, in ogni circostanza, che essa deve essere anche dialettica? 94

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Alla prima domanda abbiamo già risposto. Rispondere di sì significherebbe ammettere - contro Marx - un rapporto con la natura non mediato dalla società; significherebbe ammettere che lo scienziato, quando esercita la pura scienza della natura, stia al di fuori della società, che le categorie dello sviluppo sociale (fonile e condizioni di esistenza!) non esercitano alcuna influen­ za sul processo conoscitivo che avviene nella sua testa. Con ciò, tuttavia, ricadremmo in quella concezione adialettica, rozzamente e meccanicamente causale, con cui la scienza borghese è solita criticare il materialismo storico: quest’ultimo conoscerebbe solo r “economia” come “sfera” particolare che determinerebbe in modo immediatamente causale le altre “sfere” (diritto, arte etc.). E questo rapporto causale da essa stessa inventato che la scienza borghese rifiuta indignata. Se però, con Marx, si concepisce l’eco­ nomia come “anatomia della società borghese”, si deve dire: non c’è alcuna manifestazione vitale all’interno della società borghese che possa esistere senza rapporto con questa anatomia; che pos­ sa, dunque, essere conosciuta indipendentemente da essa; che non possa e debba essere spiegata attraverso questa anatomia, sia dal lato del soggetto (categorie come forme di esistenza del soggetto in ogni manifestazione di vita), sia da quella dell’oggetto (condi­ zioni sociali del ricambio organico della società con la natura). Qui, però, la concretizzazione del problema si contrappone ad un ostacolo storico-fattuale, che probabilmente ben si presta a chia­ rire più da vicino l’aspetto metodologico della questione. Abbiamo già fatto riferimento, in precedenza, all’affermazione marxiana che la conoscenza storica dipende dall’autocritica di una società, dalla sua capacità di vedere il fondamento materiale della sua esistenza e delle conoscenze che crescono sul suo terreno. Ora, rispetto a questa capacità di vedere occorre distinguere con forza la transizione dalle fonile sociali precapitalistiche al capitalismo, dalla transizione dal capitalismo al socialismo. Là la transizione era immediata, costitui­ va prevalentemente e in larga parte una trasformazione del ricambio organico tra società e natura, tanto che essa divenne cosciente come trasformazione delle diverse conoscenze della natura prima che della società. (La lotta attorno all’astronomia copernicana è senza dubbio, allo stesso tempo, la forma ideologica di una lotta di classe). Di contro, nel passaggio dal capitalismo al socialismo il ricambio 95

organico con la natura non sembra, in primo luogo, modificarsi, sembra anzi addirittura che la linea di sviluppo che esso ha seguito fino a quel punto debba conoscere un’accelerazione. Solo il secondo stadio del comuniSmo (rovesciamento della divisione capitalistica del lavoro, superamento della differenza tra lavoro spirituale e fi­ sico, trasformazione dei rapporti tra città e campagna) fornisce una prospettiva di rovesciamento anche in questo campo. Ovviamente, qui come altrove, la transizione è qualcosa di fluido, si può parlare solo del predominio di uno dei due momenti, non dell’esclusione di uno o dell’altro; è perciò possibile che la presente crisi delle scienze della natura sia già un segno dell’inizio di quel rovesciamento della base materiale e non semplicemente un riflesso della crisi ideologi­ ca generale del capitalismo morente. Fino a che, tuttavia, non siamo in grado di mostrare in senso storico-genetico l’origine delle nostre conoscenze a partire dalla loro base materiale concreta - cioè non solo il fatto “che” esse siano, ma anche “cosa” e “come” - come Marx fece per le no­ stre conoscenze storico-sociali, la nostra visuale sarà manchevole di un importante e oggettivo momento della dialettica: la storia. Ribadisco che non mi passa affatto per la testa di negare che le scienze della natura comprendano elementi della visione storica, che in essi ci sono gli inizi (Kant-Laplace, Darwin etc.) di quella “scienza unitaria della storia” richiesta da Marx. Anche la cono­ scenza sociale premarxista conteneva elementi storici (Steuart, Hegel, gli storici francesi etc.). ma una conoscenza realmente e storicamente dialettica la si trova solo in Marx ed è sorta solo come conoscenza dialettica del presente in quanto momento del processo complessivo. Nessuno vorrà però sostenere che questi elementi storici si tro­ vino al centro delle problematiche delle moderne scienze della natu­ ra o che proprio le scienze naturali più sviluppate e che fanno da mo­ dello metodologico per le altre si occupino coscientemente di queste problematiche. Viste tali questioni, sarebbe necessario, da un lato, chiarire per quali epoche o periodi valgono determinate conoscenze, poiché esse colgono col pensiero i loro rapporti specifici, storici, oggettivi e reali; dall’altro, comprendere dialetticamente la genesi necessaria delle conoscenze a partire dallo stesso processo storico oggettivo e reale. (Per quanto concerne le conoscenze economiche

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si esprime chiaramente Engels).142In che misura le conoscenze della natura possano essere trasformate in conoscenze storiche, ovvero, se si diano fatti materiali in natura che non mutano mai la loro strut­ tura, oppure soltanto in periodi di tempo così lunghi che essi non possono essere percepiti come mutamenti dalla conoscenza umana, non è questione che possa essere trattata qui, poiché anche laddove ci sembra che sviluppi storici sono avvenuti, il loro carattere storico può ora essere afferrato solo in misura molto limitata. Ciò significa che noi siamo spinti fino a conoscere che la storia deH’umanità deve essere stata preceduta da uno sviluppo storico oggettivo che copre un infinto lasso temporale, ma le fasi di passaggio tra questa storia e la nostra ci sono tuttavia note solo in piccola parte o, addirittura, per nulla. E ciò non avviene perché materiali a disposizione oggi siano ancora insufficienti o a causa del temporaneo sottosviluppo dei nostri metodi di ricerca (molte scienze della natura surclassano le scienze della storia per quanto concerne la precisione); ciò avviene perché la capacità di scoprire i fondamenti materiali della conoscenza e di derivare dialetticamente quest’ultima dalla sua base materiale, non è stata ancora prodotta dallo sviluppo oggettivo e reale. Gli scienziati migliori si trovano perciò dogmaticamente prigionieri della natu­ ra, come, ad es., Ricardo rispetto alla società capitalista (i peggiori sono divorati dallo scetticismo e possono essere qui considerati solo come sintomo di una crisi). Ciò non impedisce loro affatto - come mostra l’esempio di Ricardo - di raggiungere conoscenze oggetti­ vamente valide, lo stesso Riccardo ne ebbe in alcuni campi. Ciò che è loro impossibile è di chiarire le contraddizioni che sorgono dal materiale concreto e mostrarle come contraddizioni dialettiche, di mostrare i momenti singoli come momenti di un processo storico unitario e, come è stato indicato prima, di ordinarli al tempo stesso teoreticamente e storicamente in un contesto complessivo. Una tale storicizzazione delle scienze della natura, una crescente penetrazio­ ne nella loro origine (ad es., la consapevolezza del loro carattere geocentrico) le renderebbe tanto poco ς‘relativiste” quanto lo sono diventate le scienze sociali come risultato della penetrazione marxi­ sta nella genesi reale della loro conoscenze. Tutto l’opposto.

142 F. Engels, lettera a F.A. Lange, 29 marzo 1865, in Opere, cit., vol. XLII, p. 511.

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4. Per noi e per sé Così siamo giunti al punto decisivo delle mie obiezioni con­ tro singole affermazioni di Friedrich Engels. (Anche qui non ho affatto intenzione di rispondere alla menzognera demagogia di Deborin e Rudas secondo cui io contrapporrei in generale Marx ad Engels. Intendo ciò che ho detto e lo affermo in modo chiaro così da non poter essere accusato di fare della “diplomazia”). Si tratta del famoso passo sulla “cosa in sé” che troviamo nel Feurbach. Il compagno Rudas mi accusa di «esattezza pedantesca, filologica, scolastica»,143perché critico la contrapposizione tra in-sé e per-noi che troviamo in Engels sulla base del fatto che questi due concetti non sono contrari, quanto piuttosto correlativi e che il contrario dialettico delFin-sé è il per-sé.144 Ad ogni modo, Rudas si correg­ ge quasi subito: il fatto che io chiarisca questa opposizione non sarebbe un semplice caso di pedanteria, quanto piuttosto la dimo­ strazione della mia ortodossia hegeliana. Povero Hegel! Diventa colpevole di tutto ciò che il “marxismo” distorto di Rudas - cioè il suo neokantismo “represso” - non riesce a capire: prima fonda un dualismo tra natura e storia, poi vuole che l’alizarina raggiunga lo stato dell’essere-per-sé e si riconosca come oggetto. Si potreb­ be ripetere quello che Marx diceva di Dietzgen (che altrimenti non meriterebbe questo paragone con Rudas): è un peccato per il compagno Rudas «che non abbia studiato Hegel». Né per Hegel, né per gli “hegeliani ortodossi” si tratta del fatto che l’alizarina si conosca come oggetto, che raggiunga lo stato dell’essere-persé, piuttosto, proprio la differenza delle nostre conoscenze sulla natura e sulla storia (che, come abbiamo visto, viene sottolineata con forza proprio da Deborin) poggia sul fatto che qui l’oggetto, la materia stessa, spinga verso l’essere-per-sé (e, perciò, renda possi­ bile una conoscenza nella forma del per-sé), mentre la conoscenza della natura si svolge nella forma del correlativo in-sé - per-noi. Il limite di Hegel, che lo spinse talvolta, nonostante il suo reali­ smo grandioso, verso un idealismo mitologico, consiste proprio nel

143 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 67. 144 G. Lukàcs, Storia e coscienza di classe, cit., pp. 173.

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fatto che egli non si curò di dimostrare questo per-sé, questo oggetto che si riconosce nella sua concretezza materiale, nel suo divenire storico e nel suo essere-divenuto, e ciò perché... - perché in quel tempo non esisteva ancora realmente, perché Tessere sociale degli uomini determina effettivamente la loro coscienza! Non possiamo qui addentrarci sul problema della costruzione del sistema in Hegel, dobbiamo però, da un lato, mettere in conto a Rudas la sciocchezza immaginaria che egli attribuisce a Hegel e, dall’altro, ricordare che l’in-sé, il per-noi e il per-sé indicano delle mediazioni del reale, non meno che del pensiero e che il per-noi significa qualcosa di diverso rispetto a un sistema dove mancano queste mediazioni. Rimando qui a quanto detto sul rapporto tra categorie semplici e superiori e tomo al passo engelsiano. Engels dice: «La confutazione più decisiva di questa ubbia filosofica, come del resto di tutte le altre, è data dalla pratica, parti­ colarmente dall’esperimento e dall’industria».145 Attraverso l’espe­ rimento e l’industria si farebbe della cosa-in-sé una cosa-per-noi. L’ultima cosa è indubbiamente giusta e non è stata da me mai messa in dubbio. Ciò che metto in dubbio è semplicemente che le ubbie fi­ losofiche siano state così effettivamente confutate. Senza addentrar­ mi troppo nella questione di fino a che punto Engels qui fraintenda Kant, devo comunque premettere qualche osservazione. Non basta dire che la filosofia kantiana sia in generale una forma di agnosti­ cismo, occorre invece chiedersi, dove e in che senso essa sia agno­ stica e, in secondo luogo (e proprio tale questione è strettamente connessa con ciò che qui stiamo discutendo), in che senso l’agnosti­ cismo kantiano possa essere confutato dall’argomento di Engels. Se in Kant si trattasse solo della conoscibilità del mondo esterno o del carattere di apparenza soggettiva della conoscenza (come per i sofi­ sti greci, ad es. Gorgia, o per gli idealisti soggettivi come Berkeley), allora la confutazione sarebbe realmente convincente. Ma, come ha già riconosciuto Franz Mehring, non è questo il caso di Kant. Proprio a proposito di questo passo Mehring spiega: «È tuttavia ne­ cessario dire che Engels qui commette un’ingiustizia nei confronti della gnoseologia kantiana nella misura in cui cerca di metterla al

145 F. Engels, Ludwig Feuerbach, cit., p. 33

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tappeto come una “ubbia filosofica”. Kant dice certamente che noi non conosciamo le cose come esse sono, bensì come esse appaiono ai nostri sensi, ma proprio perciò egli non vedeva affatto nel mondo dei fenomeni una semplice parvenza, bensì un mondo di esperienza pratica, cosicché egli stesso avrebbe sottoscritto il passo con cui Engels cerca di confutarlo, ovvero che la prova del pudding sta nel fatto che lo mangiamo».146 Il compagno Rudas sente la debolezza della propria posizio­ ne quando ammette «Kant ha asserito la completa conoscibilità del mondo dei fenomeni. Ma appunto perciò Kant fu un sew/-materia­ li sta».147 Su ciò si rendono necessarie due osservazioni. In primo luogo, il fatto che “fenomeno”, per Kant, significa qualcosa di og­ gettivo», non una parvenza.148 Proprio da questo punto di vista egli è stato un precursore di Hegel, seppure un precursore molto imper­ fetto, poiché non è stato in grado di comprendere dialetticamente la contraddizione che sottostà all’oggettività del “fenomeno”, ciò che solo Hegel (nella “Logica dell’Essenza”) ha elaborato chiaramente. In secondo luogo, il fatto che questo “semi-materialismo” di Kant, la limitazione della conoscenza umana ai “fenomeni”, quindi Γ in­ conoscibilità della cosa-in-sé, è stato condiviso anche dai materia­ listi del XVIII secolo. Mi richiamo a qualcuno così poco sospetto di idealismo come Plechanov. Egli cita Holbach: «Non è data agli uomini la capacità di conoscere tutto, di penetrare l’essenza delle cose, né di giungere ai primi principi».149 E, in un passo polemico contro Lange, che - a proposito della inconoscibilità della cosain-sé - vede in Robinet un precursore di Kant, dice: «Ma Robinet dice della cosa-in-sé ciò che anche Holbach e Helvétius dicono»150 etc. Ovviamente, in tutte queste prese di posizioni è contenuta una contraddizione; ovviamente, tutti questi pensatori quando si spin­ gono al di là di questo limite devono abbandonare il punto di vista

146 Franz Mehring, in Die Neue Zeit, XXVIII, I, p. 176. 147 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 69. 148 Cfr. la polemica contro Berkeley in I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura, Rusconi, Milano 1995, prima parte, III osservazione, pp. 98-105. 149 G. V. Plechanov, Beiträge zur Geschichte des Materialimsus [Contributi alla storia del materialismo] , p. 9. 150 Ibid., p. 72.

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materialista o semi-materialista della loro filosofia e cadere vittime deiridealismo e dell’agnosticismo (o di entrambi, come Kant). Il punto dirimente è, perciò, da un lato, fino a che punto il mondo dei “fenomeni” è oggettivo e quanto soggettivo; dall’altro, cosa significa l’inconoscibilità della cosa-in-sé per l’oggettività del­ la conoscenza. Abbiamo già osservato che Kant rifiuta il soggetti­ vismo coerente di Berkeley, definendolo addirittura uno “scandalo della ragione”; abbiamo però, al tempo stesso, osservato come egli assuma una posizione filosofica contraddittoria. Poiché, da un lato, deve pensare le forme del “mondo fenomenico” come soggettive, come prodotte dal soggetto (benché, in Kant, ciò non significhi il soggetto conoscente individuale). Dall’altro, il contenuto, la mate­ ria di questa conoscenza, che Kant chiama sensibilità, è totalmente indipendente dal soggetto; essa viene causata dall’“affezione” del soggetto attraverso alla cosa-in-sé. La conoscenza, perciò, è pos­ sibile solo in conseguenza di questa affezione tramite la cosa-in-sé (Kant rigetta la possibilità di una conoscenza la cui materia non sia la sensibilità), benché la cosa-in-sé sia per la conoscenza umana totalmente irraggiungibile, trascendente.151 Questa contraddizione non viene superata in modo immedia­ to, diretto, dall’ampliamento concreto delle nostre conoscenze con­ crete. Abbiamo visto come Kant lavori proprio con una correlazione - certo rigidamente non dialettica - tra in-sé e per-noi (dove la par­ tecipazione della cosa-in-sé all’origine e all’oggettività del per-noi spinge ad una mitologia contraddittoria) ed egli indubbiamente non vedrebbe nell’alzarina engelsiana nulla di nuovo, in linea di prin­ cipio, rispetto all’astronomia newtoniana o alle sue proprie teorie astronomiche. Dal suo punto di vista, infatti, la totalità, cioè il cam­ po infinitamente ampliabile della conoscenza concreta, è un mondo di oggettività che rimane affetto dal marchio della soggettività solo in rapporto all’invisibile cosa-in-sé, a ciò che sta a fondamento di quel mondo e che si trova al di fuori della conoscenza e del suo concreto allargamento. I successori di Kant, che fanno della cosain-sé un concetto limite della gnoseologia, si comportano in modo

151 Su questa contraddizione aveva già infatti richiamato l’attenzione Plechanov, vedi Die Neue Zeit, XVII, I, pp. 135 e sgg.

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del tutto coerente. Essi falsificano però Kant nella misura in cui annullano semplicemente il suo problema, e non pongono più la questione di una realtà oggettiva, indipendente da noi; si trasfor­ mano, così, in agnostici dogmatici. È però sempre possibile essere agnostici rispetto alla realtà in senso filosofico, senza portare questo atteggiamento nei confronti del mondo nelle ricerche e nelle posi­ zioni scientifiche particolari. Anche Engels ha spiegato chiaramente questo scarto: «ad ogni modo - dice - il nostro agnostico, dopo aver fatto queste riserve mentali di pura forma, parla e agisce come il più convinto materialista, poiché tale, in fondo, egli è».152 Qui, Engels stesso sembra ammettere che l’agnostico produce allegramente l’alizarina e può tuttavia rimanere - teoreticamente, filosoficamente - un agnostico. Questi deve dunque essere confu­ tato filosoficamente. Engels rimanda alla confutazione filosofica delle contraddizioni di Kant offerta da Hegel: «se conoscete tutte le qualità di una cosa, conoscete anche la cosa in sé; non resta altro che il fatto che la cosa stessa esiste fuori di voi».153 Questa confuta­ zione filosofica è, in Hegel, parte della sua Dialettica deH’Essenza, la grandiosa dimostrazione dell’oggettività del fenomeno. Natural­ mente, qui non possiamo ripetere l’esposizione hegeliana, nemme­ no in forma abbreviata. Dobbiamo limitarci ai momenti essenziali. Il presupposto di questa confutazione filosofica e la soluzione delle antinomie della cosa-in-sé è che il rapporto soggetto-oggetto non viene concepito in modo metafisicamente rigido (come in Kant), bensì come reciproco rapporto dialettico. La relativizzazione dia­ lettica di Essere e Divenire, a cui va ricondotta l’argomentazione hegeliana, presuppone metodologicamente la relativizzazione dia­ lettica di soggetto e sostanza (Fenomenologia dello Spirito). Su ciò poggia il nocciolo della critica di Hegel alla cosa-in-sé. Hegel si oppone soprattutto all’idea che le proprietà delle cose siano qualcosa di meramente soggettivo: «Una cosa ha delle proprietà. Queste sono in primo luogo le sue determinate relazioni ad altro; la proprietà si ha soltanto come una maniera di condursi reciproca;

152 F. Engels, L ’evoluzione del socialismo da ll’utopia alla scienza, Ed. Laboratorio Po­ litico, p. 24. 153 Ibid., p. 23 [tr. mod., (N.dT.)}

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essa è quindi la riflessione estrinseca, e il lato dell’esser posto della cosa. Ma in secondo luogo, in quanto esser posto la cosa è in sé ; si mantiene, nella relazione ad altro; non è dunque a ogni modo che una superficie, quella con cui l’esistenza si abbandona al divenire dell’essere e al mutamento; la proprietà non vi si perde. Una cosa ha la proprietà di produrre in altro questo o quello, e di estrinsecarsi nella sua relazione in una maniera sua particolare. Mostra questa proprietà solo a condizione di una corrispondente costituzione del­ l’altra cosa, ma essa le è in pari tempo peculiare, e costituisce la sua con sé identica base, epperò tal qualità riflessa si chiama pro­ prietà» .l54 In questo modo, il problema kantiano viene interamente rovesciato: proprio la cosa-in-sé (nella sua versione kantiana) ap­ pare come momento soggettivo, prodotto della riflessione astratta­ la cosa-in-sé «come tale non è altro che la vuota astrazione da ogni determinazione, mentre di essa non si può saper nulla, appunto perché dev’esser l’astrazione da ogni determinazione».155 Questa interrelazione dialettica è un momento del Divenire. Solo quando il Divenire viene compreso come momento più ampio e concreto, la rigida contrapposizione di soggetto e oggetto può essere dialetti­ camente risolta; per questo Hegel osserva nel passo citato all’inizio che qui «l’esistenza si abbandona al divenire dell’Essere». Né Kant, né i suoi contemporanei riuscirono a comprendere ciò. Plechanov mostra giustamente come il Divenire sia il punto in cui i materialisti del XVII secolo si «trovarono ad affrontare il problema per loro insolubile della cosa-in-sé». Lo si può vedere chiaramente già nel passo prima citato. Plechanov mostra tuttavia benissimo come questo limite della gnoseologia del materialismo si colleghi strettamente al limite della loro teoria della storia (la “teoria delle catastrofi” di Holbach)156 e al limite della loro teo­ ria della società (il dilemma del rapporto tra “opinione pubblica” - cioè: il fattore soggettivo - e milieu sociale - cioè: fattore oggetti­ vo).157 Hegel confuta Kant non semplicemente scoprendo la natura

154 G. W. F. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Bari 1968, p. 546. 155 Ibid., p. 547. 156 Cfr. G. V. Plechanov, cit., p. 51. 157 Ibid., p. 58.

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contraddittoria della sua teoria, bensì mostrando - geneticamente - quest’ultima come una struttura di sapere che sorge necessaria­ mente a uno stadio determinato di sviluppo della conoscenza umana del mondo. Solo mostrando questa dialettica della cosa-in-sé - che Kant non conobbe mai e di cui non ebbe coscienza - potevano sciogliersi le contraddizioni che a Kant dovevano apparire come antinomie in linea di principio irrisolvibili. Questa confutazione genetico-dialettica di Kant attraverso Hegel rimane però in Hegel stesso sempre puramente logica. Ciò significa che essa mostra la concezione kantiana della realtà come una delle tipiche, possibili e necessarie posizioni nei confronti della realtà. Tuttavia - nonostante molte giuste intuizioni - essa non fornisce alcuna concreta genesi di questa filosofia, ovvero: nessuna genesi storica. Solo il materia­ lismo storico, la dialettica messa sui piedi, è in grado di fare ciò. Solo esso permette di concretizzare storicamente ciò che c’è di giu­ sto nell’esposizione di Hegel e di mostrare la concezione kantiana della realtà non solo come una posizione possibile e tipica rispetto all’oggettività, bensì come concreta conseguenza di una concreta posizione di classe. Gli agnostici, quindi, non vengono confutati dall’esperimento e dall’industria, bensì dal chiarirsi della dialettica che si trova nel “fenomeno”. E questo chiarirsi è esso stesso un prodotto della tra­ sformazione dell’essere sociale, che deve la propria esistenza tanto all’esperimento quanto all’industria, e che nella coscienza di classe del proletariato - essa stessa un prodotto di questo sviluppo - di­ viene cosciente nella forma del per-sé. Quindi: non è l’alizarina che deve essere condotta a coscienza di sé, come sembra credere il com­ pagno Rudas; piuttosto, nella misura in cui il proletariato giunge a coscienza di sé, il rapporto in-sé/per-noi guadagna la propria giusta posizione metodologica attraverso la mediazione di quelle catego­ rie che la coscienza del proletariato espande fino ad abbracciare la coscienza dialettica della totalità sociale nel suo rapporto con il proprio fondamento naturale; in tal modo, il rapporto in-sé/per-noi perde anche quel carattere agnostico che aveva presso Kant e presso i vecchi materialisti. L’esperimento e l’industria devono perciò confutare attraver­ so la trasformazione dell’in-sé nel per-noi le ubbie filosofiche del­ l’agnosticismo. Supponiamo che sia così: per chi lo fanno? Si do­ 104

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vrebbe coerentemente dire: innanzitutto per lo sperimentatore stesso (non parlerò ora affatto dell’industria) che, producendo l’alizarina, dovrebbe essere immune a tutte le ubbie filosofiche dell’agnostici­ smo. In realtà, tuttavia, non è questo il caso, come noto. Poiché per Engels, evidentemente, il problema della cosa-in-sé è stato risolto e sbrigato dal materialismo storico, per lui l’esperimento poteva rap­ presentare anche un esempio di concezione dialettica della realtà. Per lo sperimentatore, tuttavia, ciò non è vero senz’altro - a meno che egli non sia casualmente un sostenitore del materialismo stori­ co. Poiché l’esperimento in cui la cosa-in-sé diviene cosa-per-noi è dialettico solo in-sé, per mostrare il suo carattere dialettico per-noi, deve aggiungersi qualcos’altro, qualcosa di nuovo - appunto: il ma­ terialismo storico. Il ricercatore naturale può fare molti e brillanti esperimenti e, nonostante tutto, tenere fermo alla inconoscibilità della cosa-in-sé, o addirittura essere un seguace di Mach o uno schopenhaueriano. Le­ nin lo sapeva molto bene: «.Neppure una parola di nemmeno uno di questi professori - capaci di produrre le opere più preziose in campi particolari della chimica, della storia, della fisica - può essere cre­ duta quando si passa alla filosofia».158 Perché? Perché lo sperimen­ tatore è certamente in grado di conoscere in modo oggettivamente valido un contesto parziale oggettivo di realtà, tuttavia - in quanto semplice sperimentatore - non è nemmeno lontanamente in grado di esprimersi dialetticamente sulla realtà di quel “mondo fenomeni­ co” di cui egli indaga adeguatamente una parte. Questo limite, che risiede nell’essenza dell’esperimento, l’ho caratterizzato afferman­ do che esso non è una prassi “in senso dialettico-filosofico”, bensì un atteggiamento contemplativo e, perciò, finché rimane meramen­ te contemplativo, incapace di uscire da questa limitatezza. Questo intrappolamento nei limiti dell’immediatezza e del­ le sue forme di pensiero si intensifica se l’esperimento è usato come categoria della conoscenza della società e della storia. E ciò è comprensibile, perché va persa, da un lato, l’acutezza metodologica, che l’esperimento aveva avuto nelle scienze della natura (rigido isolamento degli oggetti di ricerca, esclusione dei fattori

158V. I. Lenin, Materialismo ed empirio-criticismo, Editori Riuniti, Roma 1978, p. 336.

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di disturbo, ripetibilità sotto “identiche” condizioni etc.); dall’altro, il carattere puramente speculativo appare in modo più chiaro, con l’aggiunta della posizione sociale - che rimane inconscia. È noto come la terminologia della burocrazia sindacale dipingesse la Rivo­ luzione Russa come “esperimento”. Data la preferenza di Deborin per la terminologia “esatta”, è ora ovvio che egli la assuma e la usi, che trovi nella mancanza di precondizioni metodologiche per l’esperimento addirittura la ragione per il suo utilizzo. Egli dice: «La società può in determinate condizioni divenire oggetto del­ l’esperimento. La natura ci si pone sulla via come qualcosa di estra­ neo. Qui sono possibili esperimenti solo entro ristretti limiti. Nella vita sociale i rapporti sono diversi. Qui, siamo noi uomini in prima linea gli stessi lavoratori e creatori. Poiché la storia viene fatta dagli uomini, mentre la natura no. Lenin è il grande, geniale sperimenta­ tore. Egli ha sottoposto a prova pratica ogni caso teorico».159 Qui fa il suo ingresso nella nostra letteratura - maschera­ ta da entusiasmo per Lenin - l’ideologia dei burocrati sindacali ossificati, che non osano rinnegare apertamente la Rivoluzione Russa. Essi hanno, infatti, sempre inteso la Rivoluzione Russa come un “esperimento” - e, dal loro punto di vista, in modo del tutto coerente. È ovvio, poiché questo li libera da ogni forma di azione. Si deve “attendere” e vedere se l’esperimento riesce. E se esso “fallisce”, allora si ritorna allo stadio precedente: un coniglio muore nonostante l’inoculazione di un’anti-tossina? Si cercherà, se necessario, un altro coniglio, per poter “osservare” (ma solo osservare) su di lui gli effetti dell’antitossina sociale. I limiti del­ l’atteggiamento contemplativo nelle moderne scienze della natura sono gli stessi che Marx sottolinea esplicitamente nella sua critica a Feuerbach e al suo materialismo contemplativo.160 Non posso qui inoltrarmi in tutti i momenti di questa critica. Cito solo l’ot­ tavo aforisma: «La vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di

!59A. Deborin, Lenin, der kämpfende Materialist [Lenin, il materialista militante], p. 10. 160 [Il testo presenta qui un inciso nel quale manca una parola e che non risulta perciò comprensibile: «ma senza presupporre la geniale [...] del metodo che Deborin prende dalla sociologia borghese». (N.d.T.)]

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questa prassi».161 Con la sua usuale e completa chiarezza, Marx sottolinea qui che la comprensione di questa prassi è appunto il presupposto della soluzione di quel mistero, che per il pensiero contemplativo è presente ovunque.162 Da questo stato di cose non segue, naturalmente, né la tesi, attribuitami dal compagno Rudas, secondo cui «non è l’esperi­ mento che espande la nostra conoscenza, quanto piuttosto le idee che ci guidano neH’esperimento»,163 né che io, in conseguenza di questo porsi al di là dei limiti del semplice sperimentatore, pro­ muova una fisica, una chimica etc. proletari. Proprio Lenin nel passo citato in precedenza sottolinea in modo egregio la differenza tra le scienze particolari e la filosofia. E qui si parla solo della que­ stione filosofica, poiché Engels vuole confutare proprio le ubbie filosofiche attraverso l’esperimento e ciò che io metto in dubbio è appunto la correttezza di questa confutazione filosofica. È, infat­ ti, chiaro (lo ammette anche Rudas)164 che Kant non ha messo in dubbio l’ampliamento concreto delle nostre conoscenze e non si capisce perché lui, il sostenitore di Newton, avrebbe dovuto met­ tere in dubbio questo ampliamento tramite esperimenti. (Si pensi qui a Helmholtz che era - tutto sommato - un kantiano). Se Kant, perciò, nonostante tutto nega la conoscibilità della cosa-in-sé, egli può essere confutato solo filosoficamente e non attraverso l’espe­ rimento. La sua confutazione comincia, come abbiamo mostra­ to, con Hegel e viene portata a compimento da Marx ed Engels, che chiariscono filosoficamente cosa significhino concretamente, realmente, storicamente “fenomeno”, “in-sé”, “per-noi” etc. (Fino a che punto questa confutazione tolga e conservi la filosofia stessa non appartiene al tema che stiamo affrontando). La confutazione filosofica di tutte le ubbie filosofiche avvie­ ne, come mostra Marx nella sua critica a Feuerbach, attraverso la prassi trasformatrice. Ci si chiede perciò: la prassi che viene intesa

161 K. Marx, Tesi su Feuerbach, in Opere, cit., vol. V, p. 5. 162 II passaggio è chiarito ottimamente dalla critica al concetto di “genere” [Gattung­ sbegriff] feuerbachiano «come universalità interna, muta (corsivo mio), che lega molti individui naturalmente» e negli aforismi X e XI. 163 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 71 [tr. mod., (N.d.T)]. 164 Ibid., p. 69.

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qui è la prassi dell’esperimento (e dell’industria) oppure - come mi sono espresso - si tratta della prassi in senso dialettico-filosofico? Il compagno Rudas pensa di potermi confutare con la domanda: «dove esiste una prassi in cui non si osservi?».165 Giusto. Ma con questa domanda Rudas dimostra ancora una volta di non capire nul­ la della dialettica e che, da fedele kantiano, pone in contrasto l’atti­ vità contemplativa e quella pratica secondo lo schema che vede un dualismo tra ragione pura e ragione pratica. Secondo questa conce­ zione, tuttavia, ogni cosa è allora una prassi trasformativa, anche la caccia al canguro dell’aborigeno australiano, poiché nella notte del pensiero rudasiano tutte le vacche sono, appunto, nere. Ma allora non si capisce più affatto perché Marx abbia posto l’accento su una tale “prassi trasformativa”, che è sempre esistita, definendola qual­ cosa di nuovo e contrapponendola all’atteggiamento contemplativo della società finora più sviluppata: quella borghese.166 Nella sua filosofia della natura, Feuerbach si pone realmente sul terreno di un coerente materialismo: allora perché Marx sottoli­ nea contro di lui il fatto che egli si appella all’intuizione sensibile, e «non concepisce la sensibil ità come atti vitk pratica umana-sensibile»?167 Si tratta allora di capire se è questa la prassi - che secondo le chiare affermazioni di Marx è sconosciuta a Feuerbach e a tutto il materialismo contemplativo - che troviamo nell’esperimento (e nell’industria), cioè se il “più primitivo lavoratore”, che il compa­ gno Rudas mi contrappone con la già vista nobile indignazione, che «osserva l’effetto di ciò che egli fa»,168 adotti un atteggiamen­ to pratico in questo senso, ovvero nel senso dell’aforisma di Marx su Feuerbach. Il compagno Rudas è ovviamente dell’avviso che se l’attività del lavoratore è “pratica”, lo sarà a maggior ragione quel­ la dell’operaio specializzato e del ricercatore. Ora, a me pare che Marx non avrebbe affatto inteso l’attività “osservante” del lavora­ tore primitivo come prassi trasformativa. Poiché quando egli, nel passo sopra citato, parla di prassi, sottolinea come la soluzione ra­ zionale dei misteri si trovi «nella prassi umana e nella comprensione

165 Ibid., p. 70. 166 K. Marx, Tesi su Feuerbach, cit., aforismi ΙΧ-Χ. 167 Ibid., aforisma V, p. 4. 168 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 70.

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di questa prassi».169 E non penso che Marx avrebbe inteso l’attività contemplativa del lavoratore, ad es. quando spacca le pietre, come ad una comprensione della sua prassi. Egli avrebbe piuttosto inteso questa comprensione come conoscenza del processo storico-socia­ le nella sua totalità, nel materialismo storico. Perciò, Marx mostra dapprima,170 come la divisione capitalistica del lavoro automatizzi il processo lavorativo, come l’attività dell’operaio sia spinta verso la mera sorveglianza della macchina; poi rammenta al Dott. Ure, il Pindaro della fabbrica automatizzata, che nell’uso capitalistico della macchina nelle fabbriche più grandi, e, quindi, più moderne «l’automatismo è invece il soggetto e gli operai quali organi con­ sapevoli sono semplicemente coordinati ai suoi organi incoscienti, insieme ai quali sono subordinati alla forza motrice centrale».171 E semplicemente ridicolo credere che Marx potesse immaginare que­ sta attività (senza un concetto della prassi stessa) come una prassi trasformatrice, come un andare oltre Feuerbach. Ovviamente, la prassi trasformativa cresce sul terreno di un essere sociale che produce questa attività. Ma non in modo elemen­ tare, spontaneo, bensì proprio per il fatto che gli operai divengono coscienti dei presupposti sociali e storici della loro attività, delle tendenze oggettive dello sviluppo economico che hanno prodotto questa attività e che spingono oltre queste forme dell’essere sociale, incrementando così tale coscienza (comprensione della prassi: la coscienza di classe) e conducendola verso una prassi trasformativa. Allo sperimentatore manca questa coscienza dei fondamenti della sua attività; ciò significa: egli può averla, se “per caso” è marxista (per caso, poiché la sua posizione di classe non contiene nessuna costrizione sociale oggettiva). Egli osserva un contesto parziale di realtà oggettiva e, nella misura in cui l’ha osservata correttamente, è in grado di fornire dei risultati scientifici corretti, così come l’ope­ raio, qualora serva correttamente la macchina di cui è parte, permet­ te di realizzare compiutamente la divisione del lavoro prescritta. Il sostrato materiale dei due processi è dialettico: è il momento di un processo dialettico oggettivo. La dialettica del processo lavorativo 169 K. Marx, Tesi su Feuerbach, cit., p. 5 (corsivo mio). 170 K. Marx, Il capitale, cit., pp. 263 e ssgg. 171 Ibid., p. 310.

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capitalistico, della tecnica capitalistica etc. è diventata addirittura - nel materialismo storico - conoscenza dialettica. Entrambi i pro­ cessi sono però dialettici solo in sé. E questo essere-in-sé non viene affatto superato per il fatto di ricevere una forma immediatamente cosciente. Lo sperimentatore trasforma nel suo contesto parziale l’in-sé in un per-noi, senza che gli divenga cosciente il carattere dialettico del contesto complessivo, a cui appartengono l’oggetto della sua attività, la sua attività e le categorie. Anche là, dove si dà un contesto complessivo, la forma immediata del suo divenire-co­ sciente non coincide con la sua struttura interna reale. Marx parla, ad es., in una lettera a Lassalle del sistema che Eraclito ed Epicuro hanno avuto “solo in sé” e sottolinea che persino in filosofi come Spinoza, il cui pensiero assume una forma sistematica, «la struttura interna reale del suo sistema è totalmente diversa dalla forma, in cui egli lo espone consapevolmente».172 La trasformazione dialet­ tica deH’in-sé in un per-noi richiede molto più che un’immediata trasposizione nelle forme della coscienza. Al semplice ricercatore naturale manca la coscienza del fon­ damento materiale della propria attività. E la sua attività da sola non può dargli questa coscienza, ancora meno, di quanto faccia il sem­ plice processo di lavoro per l’operaio e di quanto la lotta, sponta­ nea ed elementare, contro Γ imprenditore possa dare una coscienza di classe, benché entrambi siano - oggettivamente - momenti del processo dialettico, il cui prodotto è la coscienza di classe. Certo: ancora meno possono dare coscienza di classe qualche filosofia o gnoseologia, che invece spesso conducono i ricercatori - che altri­ menti nel loro campo specifico hanno prodotto risultati molto buoni - alle conseguenze più avventate e assurde. Questa coscienza la può dare solo il materialismo storico. Perché il ricercatore è egli stesso un prodotto del suo essere sociale come ogni comune mortale. Non parlerò dei suoi pregiudizi personali e classisti, che influenzano il suo pensiero, particolarmente quando abbandona il suo campo spe­ cifico e inizia a filosofare, cosa che non gli impedisce molto spesso di produrre conoscenze oggettivamente giuste nel suo campo speci­ fico e di trasformare l’in-sé in un per-noi. Intendo, piuttosto, il fatto

112 K. Marx, lettera a Lassalle, 31 maggio 1858, in Opere, cit., vol. XL, p. 588.

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che anche al sua coscienza è determinata dal suo essere sociale; che egli, benché ritenga di porsi di fronte alla realtà oggettiva e alla natura senza presupposti, in modo imparziale, rimanga preda, nel modo più ampio possibile, delle forme immediatamente date del suo essere sociale - che gli rimane nascosto - come i più illustri difensori dell’economia classica inglese nella loro epoca. Che sia ancora possibile per la ricerca specifica nelle scienze della natura offrire risultati imparziali e perciò oggettivi, giusti, ha il suo fondamento in quel rapporto tra ricambio organico di so­ cietà e natura e il processo di trasformazione della società nel no­ stro periodo di transizione, cui ho accennato in precedenza. Solo il materialismo storico, in cui la coscienza sociale del proletariato giunge ad espressione come conoscenza per-sé, rende possibile la chiarezza necessaria. Solo il materialismo storico permette di scoprire l’origine reale e perciò le modalità concrete delle cate­ gorie del nostro essere e della nostra coscienza, di fare chiarezza sul fatto che le forme di pensiero che vengono colte nella loro immediatezza come naturali ed eterne, sono in realtà prodotti del processo di sviluppo sociale e storico. È una questione che attiene alla ricerca specialistica chiarire quanto profondamente il proces­ so capitalistico di ricambio organico con la natura - processo che si modifica storicamente e che è, dunque, storicamente transito­ rio - determini l’attuale conoscenza della natura e dove inizia­ no invece quelle categorie che definiscono il ricambio organico con la natura di ogni società; tale ricerca dovrà scrupolosamente mostrare come storiche alcune categorie che oggi appaiono “eter­ ne”, immediatamente derivate dalla natura (ad es. il lavoro nella fisica), mostrare cioè come tali categorie siano determinate dallo specifico ricambio organico con la natura della società capitalisti­ ca. Marx vedeva nella teoria dell’animale-macchina di Cartesio un riflesso del periodo della manifattura173 e riteneva la visione dell’uomo di Lamettrie una diretta prosecuzione di questa tradi­ zione cartesiana.174 Anche Kautsky, quando era ancora marxista, riteneva «che, finché la borghesia era rivoluzionaria, nelle scienze

173 K. Marx, Il capitale, cit., p. 290, nota 111. 174 K. Marx-F. Engels, Sacra famiglia, cit., p. 165 ep . 171.

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della natura predominavano le teorie delle catastrofi. Esse furo­ no sostituite dalle teorie dello sviluppo graduale nel momento in cui la borghesia assunse posizioni conservatrici. Questo rapporto non sorprenderà chi sappia quanto i bisogni e i sentimenti sociali influenzino non solo le teorie sociali, ma anche le scienze della natura, quindi l’intera immagine del mondo».175 Solo attraverso una tale conoscenza dei fondamenti materiali delle scienze della natura e, con esse, dell’esperimento (tale cono­ scenza, lo ribadisco, può essere fornita solo dal materialismo sto­ rico), il rapporto dialettico che sta a fondamento di una scoperta particolare o di un intero campo di ricerca diventa un rapporto dia­ lettico anche per-noi. Perché ciò accada, però, la categoria “supe­ riore” del per-sé, la coscienza di classe del proletariato, rappresenta un presupposto indispensabile. Quella trasformazione dell’in-sé nel per-noi, tuttavia, portata a compimento dall’esperimento e dall’in­ dustria, costituisce, insieme a queste, la materia, l’oggetto della con­ futazione pratica delle ubbie filosofiche: così come Marx nella sua dissoluzione dialettica dell’economia borghese mostrava sempre la dialettica che in essa era contenuta - seppure solo in-sé - e trattava sempre le teorie vere e false nel contesto del loro sostrato mate­ riale, mostrando geneticamente perché Tessere sociale permetteva all’uno di scoprire un rapporto in modo corretto mentre impediva all’altro o di vedere affatto la contraddizione oppure di divenire co­ sciente del suo carattere dialettico. Questi argomenti ci risparmieranno di dover affrontare in modo analitico la questione dell’industria come prassi trasforma­ tiva. Il compagno Rudas mi attribuisce un quid pro quo, perché nella mia polemica contro il passo engelsiano io identifico l’indu­ stria col capitalista (lo ammetto: “industria capitalista” sarebbe sta­ ta un’espressione più accurata). Egli sostiene: in questo caso è del tutto indifferente se l’industria è un’industria capitalista o meno, poiché «un'industria comunista, una capitalista o qualsiasi altra procederanno esattamente nel senso indicato da Engels [...]. Poi­ ché, in questo senso, l’industria è un processo naturale eterno tra uomo e natura, in cui l’uomo media il suo ricambio organico con

175 K. Kautsky, in Die Neue Zeit, XXIII, II, p. 134.

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la natura».176 Innanzitutto, il riferimento a Marx è sbagliato. Marx dice: «Per la ragione che la produzione di valori d ’uso o beni, vien fatta per il capitalista e sotto la sua vigilanza, essa non muta la pro­ pria natura generale. Per questo in un primo momento si deve con­ siderare il processo lavorativo indipendentemente da ogni deter­ minata forma sociale».177 Si tratta qui per Marx di una “astrazione sensata”, con cui egli inizia la sua ricerca per motivi metodologici per poter poi sviluppare dettagliatamente le specifiche determina­ zioni che riproducono la realtà sociale. Il passo engelsiano non può però assolutamente riferirsi ad una tale astrazione metodologica. Se la prassi dell’industria deve confutare le ubbie filosofiche, ciò può essere fatto solo dall ’industria reale e non dal concetto astratto di produzione di valori d’uso; e non vedo perché dovrebbe costituire un fraintendimento identificare in questo rapporto concreto l’indu­ stria reale con l’industria capitalistica. Ogni volta che Marx parla concretamente di industria, parla chiaramente e in modo inequivocabile dell’industria capitalistica. Lascerò da parte i passi fondamentali sulla divisione del lavoro e farò solo brevemente riferimento al modo in cui tratta la questione delle macchine, poiché là sembra molto facile pensare che si tratti di una condizione di esistenza - se non proprio sovrastorica - almeno valida allo stesso modo per il capitalismo e per il socialismo; anche il socialismo, infatti, dovrà lavorare con le macchine. Citerò solo alcuni passi importanti: «la stessa semplicità del lavoro si converte in un mezzo di tortura, in quanto la macchina, invece di liberare l’operaio dal lavoro, toglie a quest’ultimo un proprio contenuto. E comune ad ogni produzione capitalistica, che sia processo di va­ lorizzazione?, del capitale oltre che processo lavorativo, che non è l’operaio a far uso della condizione del lavoro, ma al contrario è la condizione del lavoro che fa uso delFopeario; ma questa inver­ sione non si evidenzia tecnicamente che con l’introduzione delle macchine. Il mezzo di lavoro, divenuto macchina automatica, si presenta dinanzi all’operaio nello stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto che domina e smunge fino all’estremo

176 L. Rudas, Marxismo ortodosso?, cit., p. 73. 177 K. Marx, Il capitale, cit., p. 146 (corsivo mio).

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la viva forza lavorativa. Come già avemmo occasione di notare, è nella grande industria organizzatasi sul fondamento delle macchine che si verifica la separazione del potere mentale del processo di produzione dal lavoro manuale, e la trasformazione di quel potere in domìnio del capitale sul lavoro».m E: «Questo è il culmine del­ l’apologetica degli economisti! Le contraddizioni e gli antagonismi

necessariamente connessi alVuso che delle macchine fa il capitale non esistono in quanto non derivano dalle macchine stesse, bensì dal loro uso capitalistico! Quindi, dato che le macchine prese in se stesse accorciano il tempo di lavoro mentre nell’uso capitalistico allungano la giornata lavorativa, dato che le macchine in sé allegge­ riscono il lavoro mentre nel loro impiego capitalistico ne accresco­ no l’intensità, dato che considerate in se stesse rappresentano una vittoria dell’uomo sopra la forza della natura e adoperate capitali­ sticamente assoggettano l’uomo tramite la forza della natura, dato che in sé accrescono la ricchezza del produttore e impiegate dal capitale l’impoveriscono, etc., l’economista borghese afferma con semplicità che il considerare le macchine in se stesse ci fa vedere con assoluta esattezza come tutte quelle evidenti contraddizioni sia­ no una mera apparenza della comune realtà, ma che in sé, e perciò pure nella teoria, non esistano affatto».179 Questi passi mostrano che Marx ha sempre tenuto scrupolo­ samente davanti agli occhi l’“involucro capitalistico” delle forze produttive, osservandone la forma concreta. E chiaro che questo involucro capitalistico è semplicemente un involucro, che “dietro” di esso (meglio: in esso) sono attive quelle forze sociali oggettive che hanno prodotto il capitalismo e che lo condurranno al tramonto; ciò può essere fonte di confusione solo per coloro che determinano da questo fatto la natura “soggettiva” dell’involucro, il suo carattere di parvenza: quindi, solo per i neokantiani come il compagno Ru­ das. Il dialettico materialista sa che l’involucro capitalista è, appun­ to, una parte della realtà oggettiva (come per Hegel il fenomeno è un momento dell’essenza), che solo la conoscenza dialetticamente adeguata della totalità in tutte le sue concrete determinazioni è in

178 ibid., p. 313. 179 Ibid., p. 326.

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grado di afferrare nel pensiero il modo, il grado etc. di oggettività e di realtà dei singoli momenti. Attraverso una tale conoscenza ade­ guata e dialettica dell’involucro capitalistico esso viene riconosciu­ to nella realtà come involucro. Ciò significa: diventa chiaro che la conoscenza della sua determinatezza sociale non lo trasforma in una mera illusione (qualcosa di soggettivo), che la conoscenza della sua transitorietà non cambia il fatto che è una concreta forma di indu­ stria della nostra epoca e che Γ industria attuale può essere separata da quest’involucro solo concettualmente. L’esistenza di tale involucro, infatti, è intrecciata inscindibil­ mente alle forme di esistenza essenziale del nostro essere sociale attuale. (Macchine e divisione del lavoro in fabbrica, divisione del lavoro in fabbrica e divisione del lavoro sociale etc.). Con l’aiuto del materialismo storico potremmo avere una prospettiva sulle epoche dove queste forme di esistenza sono realmente tolte e conservate (la fase superiore della società comunista nella Cri­ tica del programma di Gotha), ma non anticipare questo sviluppo concretamente nel pensiero. La scomparsa reale dell’involucro ca­ pitalistico avviene nel processo storico reale: ciò significa che per fare in modo che l’involucro capitalistico scompaia realmente e concretamente, devono venir rivoluzionate quelle categorie reali dell’essere sociale (divisione capitalistica del lavoro, contrappo­ sizione tra città e campagna, tra lavoro fisico e spirituale) il cui rivoluzionamento dovrà trasformare ovviamente anche la forma concreta deH’industria e perfino la tecnica (problema del rapporto tra tecnica e divisione capitalistica del lavoro). Per entrambe le epoche rimarrà uguale solo il concetto di industria nazionale, di industria come “astrazione sensata”. L’obiezione del compagno Rudas, il fatto che egli ignori la dialettica dell’involucro capitalistico, mostra in modo evidente la sua “intenzione inconscia”, il motivo - illogico e non scientifico —dei suoi fraintendimenti: il suo codismo si rovescia in apologia. Gli sforzi del compagno Rudas mirano appunto a mostrare Γiden­ tità essenziale della società capitalistica e di quella comunista, nella misura in cui egli tratta l’involucro capitalistico come mera apparenza, che si tratta semplicemente di togliere, come un velo, in modo da vedere concretamente “l’industria” come un “proces­ so oggettivo di produzione”, “eterno ricambio organico tra uomo e 115

natura”. E, certo, in modo che questa fonila concreta sia la mede­ sima nel capitalismo e nel socialismo. Rudas si immagina di aver fornito un’intuizione particolarmente materialistica nel processo di sviluppo sociale, mentre in realtà - come tutti gli apologeti non prende in considerazione le determinazioni specifiche e stori­ che del capitalismo. Da un punto di vista teorico, è lo stesso errore che le burocrazie sindacali opportunistiche commisero quando, nell’anno 1918, affermavano di trovarsi “nel bel mezzo del socia­ lismo”. Evidentemente, per Rudas, come per Deborin, l’attività, la prassi, non è altro che la «lotta della società con la natura».180 Egli non può e non vuole immaginarsi un’altra forma di processo di sviluppo sociale, rispetto a quello fatalistico, spontaneo, del ca­ pitalismo. Non intende abbandonare il suo nobile posto scientifico di “osservatore” del regolare corso della storia, dal quale egli può “prevedere” gli sviluppi rivoluzionari. La trasformazione reale, nella misura in cui gli è data, sarà procurata automaticamente dal­ lo sviluppo elementare stesso. C’è solo una cosa che infastidisce il codista Rudas: l’idealismo, l’agnosticismo, il dualismo etc. Nelle mie note sul passo di Engels ho fatto riferimento (con una citazione di Engels stesso) proprio a questo carattere spon­ taneo dell’industria capitalista. Con ciò non ho certo inteso la sciocchezza, che il compagno Rudas mi attribuisce per i motivi che sono stati ora chiariti, di negare l’espansione delle nostre co­ noscenze attraverso l’industria capitalista. Devo però tornare a ciò che ho detto in precedenza a proposito dell’esperimento: questa espansione delle nostre conoscenze significa forse una confuta­ zione filosofica delle ubbie filosofiche di Kant e di altri pensatori? Ripeto anche qui: sì, per chi si trova sul terreno del materialismo storico, per chi quindi - a differenza del compagno Rudas che confonde il concetto astratto di industria con la sua forma storico­ reale - comprende lo sviluppo dell’industria capitalista nei suoi opposti dialettici. Poiché qui la questione che è stata sollevata in precedenza ha un valore ancora maggiore: perché lo sviluppo del­ l’industria non confuta le ubbie filosofiche dell’agnosticismo in primo luogo presso coloro che “fanno” l’industria? Perché costoro

180 A. Deborin, Lukàcs e la sua critica del marxismo, cit., p. 146.

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- non certo solo i capitalisti, bensì anche i reali dirigenti dell’industria, i capitani d’industria, gli ingegneri etc. - cadono in misura crescente con lo sviluppo del capitalismo nelle ubbie filosofiche dell’agnosticismo? Possiamo solo ripetere la risposta già data in precedenza: perché per essi è in misura crescente impossibile, da un punto di vista oggettivo e di classe, divenire coscienti del fon­ damento materiale della propria esistenza; perché l’agnosticismo con tutte le sue ubbie filosofiche è la forma necessaria del loro compromesso di classe con i loro predecessori feudali; perché essi sono portatori di questo sviluppo «senza averne volontà e senza opporvi resistenza»: sono, cioè, oggetti della dialettica trasformatrice e reale, non suoi soggetti . La loro prassi appare perciò inscin­ dibile dal suo involucro capitalistico. Tutto ciò, lo si ammetterà giustamente, Friedrich Engels lo sapeva meglio dell’autore di queste modeste note. Ma proprio per questo, nel suddetto passo del mio libro, ho citato l’opera giovanile di Engels contro la teoria che ho qui analizzato. Poiché mi sembra che il tardo Engels quando metteva alla prova il metodo dialettico nella conoscenza della natura, dava per nota e scontata la strada che lo aveva condotto a padroneggiare la dialettica e lo faceva, ritengo, per poterla meglio elaborare a modo proprio. Dice, ad es., della dia­ lettica: «sono precisamente le opposizioni diametrali, rappresenta­ te come irriconciliabili ed insolubili, le linee di demarcazione e le differenze tra le classi fissate violentemente quelle che hanno dato alla moderna scienza teorica della natura il suo ristretto carattere metafisico. Il riconoscimento che queste opposizioni e queste diffe­ renze in verità sono presenti nella natura, ma con una validità solo relativa, e che invece quella rigidità e quell’assoluta validità con cui sono presentate viene introdotta nella natura solo dalla nostra riflessione; questo riconoscimento costituisce il punto centrale della concezione dialettica della natura».181 Ora, la questione trattata qui - il cui carattere sociale, come si vede, viene sottolineato chiara­ mente da Engels - costituisce proprio la parte decisiva della logica dialettica di Hegel, sta a fondamento della Logica dell’Essenza, che Engels - nella sopraccitata lettera a Lange - caratterizza come la

181 F. Engels, Antidiihring, Editori Riuniti, Roma 1971, p. 13.

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Naturphilosophie di Hegel. Ma essa non è soltanto la sua vera Na­ turphilosophie, bensì anche la sua autentica filosofia sociale. Non a caso lo “Spirito Oggettivo”, che costituisce l’apice della conoscen­ za della società borghese, occupa nel Sistema il posto mediano tra la Natura e lo “Spirito Assoluto”, come la Logica dell’Essenza occupa il posto di mezzo tra la Logica dell’Essere e quella del Concetto. E ciò accade perché - certo ad insaputa di Hegel - proprio qui le leggi di movimento reali dell’essere sociale della società borghese si ris­ pecchiano concettualmente nella “Logica dell’Essenza”. Se Marx, rovesciando la filosofia hegeliana ne salvava, al tempo stesso, il nocciolo reale, ciò che egli ha salvato proveniva in gran parte dal­ la Logica dell’Essenza (che ha certo anche demitologizzato). Qui, infatti, molte cose esprimono in forma di puro pensiero, in forma mitologica e mistificata, un rispecchiamento dell’essere sociale del­ la società borghese. (Spero un giorno di poter esporre più dettaglia­ tamente il rapporto di Marx con la logica hegeliana). Per Engels, dunque, l’aver parzialmente omesso le media­ zioni che gli hanno reso possibile la sua conoscenza dialettica e che appartengono oggettivamente a questa conoscenza, costitui­ sce semplicemente un episodio. E se si trattasse solo di Engels, si potrebbe tranquillamente lasciare cadere la questione, oppure essa potrebbe essere una questione inessenziale da trattare in modo storico-filologico. Poiché però queste lacune vengono ampliate entusiasticamente ed erette a Sistema del Marxismo allo scopo di liquidare la dialettica, allora bisogna sottolineare con forza questi aspetti. La tendenza di Deborin e Rudas è evidente: essi voglio­ no - usando le parole di Marx ed Engels - fare del materialismo storico una “scienza” nel senso borghese, poiché essi non possono rinunciare a ciò che tiene in vita la società borghese e la sua con­ cezione della storia, né al carattere puramente spontaneo dell’ac­ cadere storico, perché essi 182

182 [Mancano alcune pagine del manoscritto, (N.d.T.)\

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postfazione

Georg Lukàcs filosofo del leninismo di Slavoj Zizek

Storia e coscienza di classe (1923) di Georg Lukàcs è uno dei pochi autentici eventi nella storia del marxismo. Oggi il libro non può che apparirci un insolito ricordo del tempo che fu - è difficile persino immaginarsi adeguatamente l’impatto traumatico che la sua comparsa ebbe su generazioni di marxisti, incluso il tardo Lukàcs stesso che, nella sua fase termidoriana - cioè a partire dai primi anni Trenta - ten­ tò disperatamente di prenderne le distanze, di confinarlo come docu­ mento di interesse meramente storico e permise di ristamparlo solo nel 1967, accompagnato da una nuova, lunga, introduzione autocritica. Fino alla sua ristampa “ufficiale”, il libro condusse la sotterranea esi­ stenza spettrale di un’entità “non morta”, circolando in edizioni pirata presso gli studenti tedeschi negli anni Sessanta, disponibile in qualche rara traduzione (come la leggendaria traduzione francese del 1959). Nel mio paese, l’oramai deiunta Jugoslavia, fare riferimento a Storia e coscienza di classe costituiva il signe de reconnaissance rituale di tutto il circolo di marxisti critici della rivista Praxis - il suo attacco alla nozione engelsiana di “dialettica della natura” fu cruciale per chi rifiu­ tava criticamente la teoria gnoseologica del “rispecchiamento”, visto come il dogma centrale del “materialismo dialettico”. Questo impatto non fu però affatto limitato ai soli circoli marxisti: persino Heidegger fu evidentemente influenzato da Storia e coscienza di classe, poiché ci sono un paio di inequivocabili riferimenti ad esso in Essere e tempo: proprio nell’ultimó paragrafo, ad esempio, Heidegger, reagendo evi­ dentemente alla critica di Lukàcs alla reificazione, pone la domanda: «è stato già chiarito da tempo [...] che esiste il pericolo di “reificare la coscienza”. Ma che significa “reificazione”? Quale ne è la causa? [...] Per uno svolgimento originario della problematica ontologica sarà sufficiente la “distinzione” tra “coscienza” e “cosa”?».1

1Martin Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano 1976, p. 519.

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1 In che modo, dunque, Storia e coscienza di classe si guada­ gnò questo culto di un libro mitico e quasi dimenticato, parago­ nabile solo, forse, al non meno traumatico impatto di Pour Marx, scritto da Louis Althusser, il successivo antipode anti-hegeliano di Lukacs?2 La risposta che viene spontanea è, ovviamente, che stiamo trattando del testo fondativo dell’intera tradizione dell’hegelo-marxismo occidentale, che abbiamo a che fare con un libro che combina una posizione impegnata da un punto di vista 2 Mi si permetta di rievocare qui la mia esperienza personale: si potrebbe dire, approssi­ mativamente, che negli ultimi due decenni del regime comunista dominavano due orienta­ menti filosofici nella vita intellettuale della Slovenia: Theideggerismo presso l ’opposizio­ ne e il marxismo francofortese presso i circoli “ufficiali” del Partito. Ci si sarebbe perciò attesi che la principale lotta teorica si svolgesse tra questi due orientamenti, con il terzo blocco - noi, lacaniani e althusseriani - nel molo di innocenti osservatori. Tuttavia, non appena la polemica esplose, entrambi gli orientamenti principali attaccarono ferocemente 10 stesso terzo autore, Althusser. Negli anni Settanta Althusser funzionava effettivamente come una specie di punto sintomatico, un nome à propos del quale tutti coloro che “uffi­ ci al mente” erano avversari - heideggeriani e marxisti francofortesi in Slovenia, filosofi della prassi e ideologi del comitato centrale a Zagabria e Belgrado - improvvisamente cominciavano a parlare lo stesso linguaggio, a pronunciare le stesse accuse. Fin dall’ini­ zio, il punto di partenza dei lacaniani sloveni fu osservare come il nome “Althusser” innescasse un enigmatico fastidio in tutti i campi. Si è persino tentati di suggerire che lo sfortunato evento nella vita privata di Althusser (l’aver strangolato la moglie) giocò il ruo­ lo di un pretesto ben accetto, di un “piccolo pezzo di realtà” che permise ai suoi avversari teorici di reprimere il trauma reale rappresentato dalla sua teoria («come si può prendere sul serio la teoria di uno che ha strangolato la moglie?»). La resistenza verso Althusser, 11 cui stesso carattere eccessivo, “irrazionale”, era profondamente sintomatico, mostrò come fosse precisamente la teoria althusseriana - accusata di essere proto-stalinista - a servire da strumento teorico “spontaneo” di effettiva messa in crisi dei regimi comunisti “totalitari” : la sua teoria degli Apparati Ideologici di Stato assegnava un ruolo cruciale nella riproduzione di un’ideologia ai rituali e alle pratiche “esterne”; rispetto a questi, il credo e le convinzioni “interiori” erano strettamente secondarie. Ed è necessario richia­ mare l’attenzione sul ruolo centrale di tali rituali nel “socialismo reale”? Ciò che contava in esso era l’obbedienza esterna, non la “convinzione intema” - l’obbedienza coincideva con la sembianza di obbedienza, che è il motivo per cui l’unico modo di essere veramente “sovversivi” era di agire in modo “spontaneo”, fare in modo che il sistema “ingoiasse le proprie parole”, ovvero mettere in crisi l’apparenza della sua coerenza ideologica. Paradossalmente, dalla prospettiva di entrambi questi marxisti, Althusser e Lukacs, l’al­ tro appare come la quintessenza dello stalinista: per Althusser e i post-althusseriani, il concetto lukacsiano di Partito comunista come Soggetto quasi-hegeliano legittima lo stalinismo; per i seguaci di Lukacs, “Γanti-umanismo teorico” strutturalista di Althus­ ser, il suo rifiuto dell’intera problematica dell’alienazione e della reificazione, rende il gioco facile al disinteresse stalinista per la libertà umana. Benché questo non sia il

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rivoluzionario con temi che furono più tardi sviluppati da diverse tendenze della cosiddetta teoria critica, fino ai cultural studies di oggi (la nozione di “feticismo della merce” come portato struttu­ rale dell’intera vita sociale, della “reificazione” e della “ragione strumentale” ecc.). Comunque, a uno sguardo più attento, le cose appaiono in una luce leggermente diversa: c’è una rottura radicale tra Storia e coscienza di classe - più precisamente: tra gli scritti di Lukàcs che possiamo approssimativamente datare tra il 1915 e il 1930, una serie di brevi testi di questo periodo non inclusi in Storia e coscienza di classe e pubblicati negli anni Sessanta sotto il titolo Tattica ed etica, così come il manoscritto del presente vo­ lume Codismo e dialettica, la risposta di Lukàcs ai suoi critici del Comintern - e la successiva tradizione del marxismo occidentale. Il paradosso (dalla nostra prospettiva occidentale “post-politica”) di Storia e coscienza di classe è quello di un libro estremamen­ te sofisticato da un punto di vista filosofico - un libro che può competere con i più grandi risultati del pensiero non marxista del suo tempo - e che tuttavia è interamente impegnato nella lotta politica in corso, una riflessione suH’esperienza politica radical­ mente leninista del suo autore (tra le altre cose, nel 1919 Lukàcs fu Ministro degli affari culturali nel breve governo comunista un­ gherese di Bela Kun).3 Il paradosso consiste in ciò, che rispetto al marxismo occidentale tipico della Scuola di Francoforte, Storia e coscienza di classe è al tempo stesso molto più apertamente im­ pegnato politicamente e ha, filosoficamente, un carattere molto più hegeliano-speculativo (vedi la nozione di proletariato come soggetto-oggetto della Storia, una nozione verso cui i membri

luogo per intraprendere un confronto dettagliato, basti qui sottolineare come ognuno dei due marxisti articoli una problematica cruciale che è esclusa dall’orizzonte dell’altro: in Althusser, è la nozione di Apparti Ideologici di Stato come esistenza materiale del­ l ’ideologia e, in Lukàcs, la nozione di atto storico. E, come è ovvio, non è facile operare una “sintesi” tra questi approcci reciprocamente esclusivi - forse il modo di procedere potrebbe essere quello di fare riferimento ad Antonio Gramsci, l’altra grande figura fondativa del marxismo occidentale. 3 Storia e coscienza di classe segna così anche una rottura radicale rispetto allo stesso primo Lukàcs pre-marxista, la cui opera principale, La teoria del romanzo, appartiene alla tradizione della critica socio-culturale weberiana - non sorprende che, in questo libro, egli si firmasse Georg von Lukàcs!

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della Scuola di Francoforte hanno sempre mantenuto una certa distanza imbarazzata) - se c’è mai stato un filosofo del leninismo, del partito leninista, è il primo Lukacs marxista, che si spinse fino agli estremi limiti in questa direzione, fino a difendere gli aspetti “non democratici” del primo anno di potere sovietico contro la famosa critica di Rosa Luxemburg, accusandola di “feticizzare” la democrazia formale, invece di trattarla come una delle possibili strategie che possono essere intraprese o rifiutate a seconda delle esigenze di una concreta situazione rivoluzionaria.4 E ciò che si dovrebbe evitare oggi è precisamente dimenticare questo aspetto, riducendo con ciò Lukacs a un raffinato e depoliticizzato critico della cultura, che mette in guardia contro la “reificazione” e la “ragione strumentale”, motivi da lunga pezza appropriati persino dai critici conservatori della “società dei consumi”.

4 Certo, se si accetta di giocare il gioco delle storie alternative, si potrebbe tranquilla­ mente dire che se Lenin avesse letto Storia e coscienza di classe ne avrebbe rifiutato le premesse filosofiche come “soggettiviste” e contrarie al “materialismo dialettico” con la sua gnoseologia del “rispecchiamento” (è significativo il fatto che, per mantene­ re le proprie credenziali leniniste, Lukacs dovette virtualmente ignorare Materialismo ed empirio-criticismo di Lenin). D ’altro lato, nell’intera opera di Lenin, Lukacs viene menzionato solo una volta: nel 1921, in una breve nota a proposito del giornale Kom­ munismus, l’organo del Comintem dell’Europa sud-orientale, Lenin interviene in un dibattito tra Lukacs e Bela Kun, attaccando ferocemente il testo di Lukacs, definendolo «molto di sinistra e molto cattivo. 11 marxismo è in esso puramente verbale» (Vladimir I. Lenin, Kommunismus, in Id., Opere complete, Editori Riuniti, Roma 1967, voi. 31, p. 135). Comunque, ciò non mette in alcun modo in crisi l’affermazione che Lukacs è il filosofo del leninismo per eccellenza: è stato piuttosto Lenin stesso che non era pienamente consapevole della posizione filosofica che egli “praticava” nella sua ope­ ra rivoluzionaria e che solo gradualmente (leggendo Hegel durante la Prima guerra mondiale) ne divenne consapevole. L’altra questione centrale, naturalmente, è: questo misconoscimento della propria vera posizione filosofica era necessario al proprio im­ pegno politico? In altre parole, la regola stabilita da Lucien Goldman nel suo classi­ co The Hidden God [Il dio nascosto] à propos di Pascal e dei giansenisti (che erano inaccettabili per i circoli cattolici dominanti), secondo cui l’ideologia dominante rifiuta necessariamente le proprie vere premesse fondamentali, si applica anche al leninismo? Se la risposta è “sì”, se il misconoscimento leninista delle proprie premesse filosofiche è strutturalmente necessario, allora il leninismo è solo un’altra ideologia e la versione che ne dà Lukacs, anche se vera, è insufficiente: riesce a penetrare le vere premesse filosofiche del leninismo, ma non può spiegare la distanza reale tra verità e apparenza, cioè il necessario rifiuto della verità nella falsa auto-coscienza leninista (oggettivista, ontologica, “materialista dialettica”) - come Lukacs stesso sa bene (e questa è una delle grandi tesi hegeliane di Storia e coscienza di classe), l’apparenza non è mai mera appa­ renza, bensì, precisamente come apparenza, è essenziale.

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Quindi, proprio in quanto testo seminale del marxismo oc­ cidentale, Storia e coscienza di classe occupa una posizione di eccezione, riconfermando la concezione di Schelling secondo cui «l’inizio è la negazione di ciò che comincia con esso».5 Su cosa si fonda questo stato di eccezione? Alla metà degli anni Venti ciò che Alain Badiou chiama «l’Evento del 1917» iniziò ad esaurire il proprio potenziale e il processo prese una svolta termidoriana. Questo termine non va inteso solo nel modo trotskista usuale (tra­ dimento della rivoluzione da parte di una nuova classe burocra­ tica), ma anche nel senso ristretto elaborato da Badiou:6 come la cessazione dell’Evento, come tradimento non di un determinato gruppo sociale e/o dei suoi interessi, ma della fedeltà all’Evento (rivoluzionario) stesso. Nella percezione termidoriana, l’Evento e le sue conseguenze divennero illeggibili, “irrazionali”, liquidate come un brutto sogno, un tuffo collettivo nella follia - «fummo tutti catturati in uno strano vortice distruttivo...». Ciò che accadde con la saturazione della «sequenza rivolu­ zionaria del 1917» (Badiou) è che l’impegno direttamente teori­ co-politico come quello di Lukàcs in Storia e coscienza di classe divenne impossibile. Il movimento socialista si scisse definitiva­ mente in riformismo socialdemocratico parlamentare e nella nuo­ va ortodossia stalinista, mentre il marxismo occidentale, che si asteneva dal supportare apertamente uno dei due poli, abbandonò una posizione di impegno politico diretto e si trasformò in una parte della macchina accademica del sistema, la cui tradizione va dalla prima Scuola di Francoforte ai cultural studies di oggi - qui risiede la differenza chiave che lo separa dal Lukàcs degli anni Venti. D ’altro lato, la filosofia sovietica assunse gradualmente la forma del “materialismo dialettico” come ideologia legittimante del “socialismo reale” - uno dei segni dell’affermazione graduale del termidoro sovietico nella filosofia è precisamente la serie di volgari attacchi a Lukàcs e al suo collega teorico Karl Korsch, il cui Marxismo efilosofia fa coppia con Storia e coscienza di classe e fu addirittura pubblicato lo stesso anno (1923). Lo spartiacque di 5 Friedrich W. Schelling, Sämtliche Werke, 1856-61, vol. VIII, p. 600 [citazione non individuata, N.d.T.] 6 Cfr. Alain Badiou, Metapolitica, Cronopio, Napoli 2001, capitolo 9.

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questo sviluppo fu il V Congresso del Comintem del 1924, il pri­ mo congresso dopo la morte di Lenin e, al tempo stesso, il primo in cui apparve chiaro che l’epoca dell’agitazione rivoluzionaria in Europa era finita e che il socialismo sarebbe dovuto sopravvivere in Russia con le sue sole forze.7 Nel suo famoso intervento a que­ sto Congresso, Zinoviev si permise un’arringa anti-intellettualistica contro le deviazioni “ultrasinistre” di Lukacs, Korsch e altri “professori” (come li chiamava sprezzantemente), appoggiando la critica che Laszló Rudas rivolgeva al “revisionismo” di Lukacs - suo compagno nel Partito comunista ungherese. In seguito, la critica principale a Lukacs e Korsch fu condotta da Abram Debo­ rin e dalla sua scuola filosofica, al tempo predominante in Unione sovietica (benché più tardi egli stesso fu vittima delle purghe in quanto “idealista hegeliano”), che fu il primo a sviluppare siste­ maticamente la filosofia marxista nel senso di un metodo dialet­ tico universale, elaborando leggi generali che potessero essere applicate sia ai fenomeni naturali che a quelli sociali. La dialetti­ ca marxista veniva così privata del suo atteggiamento impegnato direttamente in senso pratico-rivoluzionario e trasformata in una epistemologia generale che trattava delle leggi universali della co­ noscenza scientifica. Come già Korsch notò nel momento di più alta tensione di questi dibattiti, la loro caratteristica principale era che le critiche che provenivano dal Comintem e dai circoli “revisionisti” socialdemocratici, che ufficialmente erano nemici giurati, ripetevano

7 Casualmente, la lezione di questi primi anni della Rivoluzione d’ottobre è, in defi­ nitiva, la stessa della Cina post-maoista di oggi: contrariamente a quanto sostengono gli ideologi liberali, si deve ammettere che non c’è alcun collegamento necessario tra democrazia e mercato. Democrazia e mercato vanno insieme solo con stabili rapporti di proprietà: il momento in cui questi vengono turbati, abbiamo o la dittatura come nel Cile di Pinochet, oppure un’esplosione rivoluzionaria. 11 paradosso che va sottolineato è che nei duri anni del “comuniSmo di guerra” prima dell’applicazione della Nuova politica economica (Nep) che fece di nuovo spazio alla “liberalizzazione” del mercato, nella Russia sovietica c ’era molta più democrazia che non negli anni della Nep. La liberalizzazione del mercato durante la Nep va di pari passo con raffermarsi di un forte partito di apparatchiks che assume il controllo sulla società: questo partito sorse preci­ samente come una reazione all’autonomia della società civile di mercato, dal bisogno di stabilire una forte struttura di potere in grado di controllare quelle forze che erano state nuovamente scatenate.

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fondamentalmente gli stessi contro-argomenti: infastiditi dalle stesse tesi che trovavano in Lukacs e Korsch, entrambi ne denun­ ciavano il “soggettivismo” (il carattere pratico-impegnato della teoria marxista ecc.). Una tale posizione non era più ammissibile in un’epoca in cui il marxismo si stava trasformando in ideologia di stato la cui definitiva raison d ’être era di legittimare a poste­ riori delle decisioni pragmatiche prese dal partito sotto forma di leggi sovrastoriche (“universali”) della dialettica. Sintomatica fu qui l’improvvisa riabilitazione della nozione di materialismo dia­ lettico come “visione del mondo ( Weltanschauung) della classe operaia”: per Lukacs e Korsch, così come per Marx, una “visione del mondo” designa, per definizione, la posizione “contemplati­ va” che è compito della teoria marxista, impegnata in senso rivo­ luzionario, spezzare. Evert Van der Zweerde ha sviluppato in dettaglio il fun­ zionamento ideologico della filosofia sovietica del materialismo dialettico come «visione del mondo scientifica della classe ope­ raia»:8 benché si auto-proclamasse un’ideologia, la cosa inte­ ressante è che essa non era l’ideologia che affermava di essere - non motivava, quanto piuttosto legittimava degli atti politici; non doveva essere creduta, quanto piuttosto messa in atto ritualisticamente; il motivo per cui affermava di essere una “ideo­ logia scientifica” e perciò il “corretto rispecchiamento” delle circostanze sociali era che in tal modo si impediva la possibilità che nella società sovietica potesse esserci ancora una ideologia “normale” che “rispecchiasse” la realtà sociale in modo “errato”, e così via. Manchiamo perciò completamente il bersaglio se trat­ tiamo l’infame “diamat” come un sistema genuinamente filoso­ fico: era uno strumento di legittimazione del potere che doveva essere messo in pratica ritualisticamente e, in quanto tale, deve essere collocato nel contesto della spessa tela delle relazioni di potere. Emblematici qui sono i diversi destini di 1. Ilyenkov e P. Losev, due prototipi della filosofia russa sotto il socialismo. Losev fu l ’autore dell’ultimo libro pubblicato in Urss (nel 1929)

8 Cfr, Evert Van der Zweerde, Soviet Historiography ofPhiìosophy [Storiografia sovie­ tica della filosofia], Kluwer, Dordrecht 1997.

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che rifiutava apertamente il marxismo (esso criticava il materia­ lismo dialettico come un “ovvio nonsenso”); comunque, dopo un breve periodo di detenzione, gli fu permesso di seguire la pro­ pria carriera accademica e, durante la Seconda guerra mondiale, riprese addirittura l’insegnamento - la “formula” che gli permise la sopravvivenza fu che si ritirò nella storia della filosofia (este­ tica), come disciplina scientifica specialistica, concentrandosi su autori dell’antica Grecia e di Roma. Limitandosi apparentemen­ te a citare o interpretare pensatori del passato, specialmente Pio­ tino e i neoplatonici, fu così in grado di contrabbandare le pro­ prie tesi mistiche e spiritualiste mentre, nelle introduzioni ai suoi libri, rendeva formale omaggio all’ideologia ufficiale con una o due citazioni da Khrushchev o Brezhnev. In tal modo, Losev so­ pravvisse a tutte le vicissitudini del socialismo, visse abbastanza per vedere la fine del comuniSmo ed essere riconosciuto come il grande vecchio dell’autentica eredità spiritualista russa! Contra­ riamente a Losev, il problema di Ilyenkov, un dialettico grandio­ so ed esperto di Hegel, fu che egli era una figura inquietante di marxista-leninista sincero; per tale ragione (cioè perché scrisse in modo impegnato e personale, mirando a elaborare il marxi­ smo come una filosofia seria, piuttosto che un insieme di formu­ le ritualistiche di legittimazione) fu gradualmente scomunicato e alla fine spinto al suicidio - c ’è mai stata lezione migliore su come funziona effettivamente un’ideologia?9 Con un gesto di termidoro personale, lo stesso Lukàcs nei primi anni Trenta si ritirò, volgendosi alle aree più specialistiche dell’estetica marxista e della teoria letteraria, giustificando il suo appoggio pubblico alla politica stalinista in termini di una criti­ ca hegeliana dell’anima bella: l ’Unione sovietica, inclusi tutti i sui inattesi travagli, era il risultato della Rivoluzione d’ottobre;

9 Paradigmatica qui è la storia leggendaria della mancata partecipazione di Ilyenkov a un congresso mondiale di filosofia negli Usa verso la metà degli anni Sessanta: Ilyenkov era già stato fornito di visa e avrebbe dovuto prendere un aereo, quando il suo viaggio fu cancellato perché l’intervento scritto -D a lp u n to di vista leninista ~ che aveva dovuto presentare in anteprima agli ideologi del Partito, non era loro piaciuto. Non a causa del suo contenuto (interamente accettabile), ma semplicemente a causa del suo stile, del modo impegnato in cui era scritto; già la frase di apertura («la tesi che personalmente sostengo è ...») era infelice.

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perciò, invece di condannarla dalla comoda posizione dell’anima bella che non vuole sporcarsi le mani, si doveva coraggiosamente “riconoscere il cuore nella croce del presente” (la formula di He­ gel per la riconciliazione post-rivoluzionaria). Adorno aveva tutte le ragioni di definire sarcasticamente Lukàcs uno che fraintende il rumore delle sue catene per la marcia trionfale dello Spirito del Mondo, costretto così a sostenere la «conciliazione forzata» tra individuo e società nei paesi comunisti dell’Est Europeo.10 Il Il destino di Lukàcs, non di meno, ci pone di fronte il diffici­ le problema della nascita dello stalinismo: è troppo facile contrap­ porre l 'élan rivoluzionario autentico dell’“Evento 1917” con il suo successivo termidoro stalinista - il vero problema è “come siamo arrivati da qui a lì?”. Come Alain Badiou ha sottolineato, il grande compito, oggi, è pensare la necessità del passaggio dal leninismo allo stalinismo senza negare il grandioso potenziale emancipativo dell’Evento-Ottobre, cioè senza cadere nella vecchia stupidaggi­ ne liberale che vede un potenziale “totalitario” nelle politiche di emancipazione radicale: l’idea secondo cui ogni rivoluzione è fi­ nita in una repressione peggiore del vecchio ordine sociale da essa rovesciato. La sfida che dobbiamo affrontare qui è la seguente: mentre ammettiamo che la nascita dello stalinismo è il risultato immanente della logica rivoluzionaria leninista (non il risultato di qualche particolare influenza esterna che ne avrebbe corrotto la purezza, come “l’arretratezza russa” o la posizione ideologica “asiatica” nei confronti delle proprie masse), dovremmo nondime­ no aderire ad un’analisi concreta della logica del processo politico ed evitare, ad ogni costo, di ricorrere a qualche nozione immediata e generale di tipo quasi-antropologico o filosofico, come quella di “ragione strumentale”. Nel momento in cui perseguissimo un tale gesto, lo stalinismo perderebbe la propria specificità, la propria specifica dinamica politica, trasformandosi in un altro esempio

10 Cfr. Theodor W. Adorno, Conciliazione forzata, in Id., Note per la letteratura 19431961, Einaudi, Torino 1979, p. 265.

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della nozione generale stessa (il gesto esemplificato dalla famosa osservazione di Heidegger nella sua Introduzione alla metafìsica, secondo cui, da un punto di vista epocale-storico, il comuniSmo russo e l’americanismo erano “metafisicamente la stessa cosa”). All’interno del marxismo occidentale, naturalmente, fu la Dialettica deir illuminismo di Adorno e Horkheimer, così come i successivi numerosi saggi di Horkheimer sulla “critica della ragione strumentale”, che compirono questo fatale spostamento dalla concreta analisi socio-politica alla generalizzazione fìlosofìco-antropologica; spostamento in grazia del quale la “ragione strumentale” reificante non è più fondata in rapporti sociali capi­ talisti concreti, ma diventa essa stessa quasi impercettibilmente il loro “principio” o “fondamento” quasi-trascendentale. Strettamente connesso a questo spostamento è la quasi totale assenza di un confronto teorico con lo stalinismo nella tradizione della Scuola di Francoforte, in chiaro contrasto con la sua permanente ossessione per Γantisemitismo fascista. Le sole eccezioni a questa regola sono rivelatrici: Behemoth di Franz Neumann, uno studio sul socialismo nazionale che, seguendo una moda tipica dei tardi anni Trenta e Quaranta, suggerisce che i tre grandi sistemi mon­ diali - il New deal emergente, il fascismo e lo stalinismo - tende­ vano verso la stessa società “amministrata”, burocratica e organiz­ zata in modo globale; Soviet marxism di Herbert Marcuse, il meno appassionato e probabilmente peggiore dei suoi libri, un’analisi curiosamente neutrale dell’ideologia sovietica senza alcuna chia­ ra presa di posizione; e, infine, i tentativi di alcuni habermasiani che, riflettendo sui fenomeni dissidenti emergenti, miravano ad elaborare il concetto di società civile come un luogo di resistenza al regime comunista - interessante politicamente, ma lontano dall’offrire una teoria globale soddisfacente della specificità del “to­ talitarismo” stalinista.11 La giustificazione che solitamente si dà di questo fatto - ovvero che gli autori classici della Scuola di Fran­ coforte non volevano opporsi troppo apertamente al comuniSmo, poiché, facendo ciò, avrebbero fatto il gioco dei falchi pro-capita-

11 Come esempio rappresentativo, cfr. Andrew Arato e Jean L. Cohen, Civil Society and Politicai Theory, MIT Press, Cambridge 1994.

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listi che si trovavano in casa - è ovviamente insufficiente: il fatto è che questa paura di essere messi al servizio deiranticomunismo ufficiale non prova che essi fossero segretamente in favore del co­ muniSmo, quanto piuttosto l’opposto, poiché se avessero dovuto realmente scegliere per chi stare durante Guerra fredda, avrebbero scelto le democrazie liberali occidentali (come Horkheimer fece esplicitamente in alcuni dei suoi tardi scritti). Era questa solidarie­ tà definitiva con il sistema occidentale quando esso era realmente minacciato che essi si vergognavano in qualche modo di ammet­ tere pubblicamente, in chiara simmetria con l’“opposizione critica democratica socialista” della Germania est, i cui membri critica­ vano il dominio del partito ma, nei momenti in cui la situazione diveniva veramente seria e il sistema socialista era seriamente mi­ nacciato, supportavano pubblicamente il sistema (Brecht à propos delle manifestazioni operaie a Berlino est nel 1953, Christa Wolf à propos della Primavera di Praga nel 1968). Lo “stalinismo” (il socialismo reale) era perciò, per la Scuola di Francoforte, il tema traumatico al cui riguardo essa doveva tacere - questo silenzio era il solo modo per essa di mantenere la propria incoerente posizione di tacita solidarietà con la democrazia liberale occidentale, senza perdere la maschera ufficiale di una critica di sinistra “radicale”. Rinoscere apertamente questa solidarietà avrebbe privato i teorici della Scuola di Francoforte della propria “aura” radicale, trasfor­ mandoli in un’altra versione dei liberali di sinistra anticomunisti della Guerra fredda; d’altro canto, mostrare troppa simpatia per il “socialismo reale” li avrebbe costretti a tradire il proprio impegno fondamentale non riconosciuto. E difficile non essere sorpresi dal carattere poco convincen­ te, “insipido” delle comuni spiegazioni anticomuniste dello stali­ nismo, con i loro riferimenti al carattere “totalitario” della politica di emancipazione radicale ecc. - oggi più che mai, occorre in­ sistere che solo una spiegazione marxista, dialettico-materialista può effettivamente spiegare la nascita dello stalinismo. Mentre, ovviamente, questo compito va ben oltre lo scopo di questo sag­ gio, si è tentati di rischiare qualche breve nota preliminare. Ogni marxista ricorda l’affermazione di Lenin, dai Quaderni filosofici, secondo cui chi non ha letto e studiato in dettaglio l’intera Scien­ za della logica di Hegel non può capire il Capitale di Marx - si 131

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è tentati di aggiungere: chi non ha letto e studiato in dettaglio i capitoli del giudizio e del sillogismo della Logica di Hegel non può comprendere la nascita dello stalinismo. Ciò significa che la logica di questa nascita può forse essere meglio compresa come successione delle tre forme della mediazione sillogistica che si adatta vagamente alla triade Marxismo-Leninismo-Stalinismo. I tre termini mediati (Universale, Particolare e Singolare) sono la Storia (il movimento storico globale), il Proletariato (la classe particolare che ha un rapporto privilegiato con l’universale) e il Partito comunista (l’agente singolare). Nella prima forma della loro mediazione, quella del marxismo classico, il Partito media tra la Storia e il Proletariato: la sua azione mette la classe operaia “empirica” in grado di divenire cosciente della missione storica iscritta nella sua stessa posizione sociale e di agire conseguen­ temente, cioè di divenire soggetto rivoluzionario. L’accento qui è sulla posizione rivoluzionaria “spontanea” del proletariato: il Partito svolge soltanto un ruolo maieutico, quello cioè di rende­ re possibile la conversione puramente formale del proletariato da classe-in-sé a classe-per-sé. Ad ogni modo, come sempre in Hegel, la “verità” di questa mediazione è che, nel corso del suo movimento, il suo punto di partenza - la presupposta identità - è falsificata. Nella prima for­ ma, tale presupposta identità è quella tra il Proletariato e la Storia, cioè l’idea secondo cui la missione rivoluzionaria di liberazio­ ne universale è iscritta nella stessa condizione sociale oggettiva del proletariato come “classe universale”, come la classe il cui vero interesse particolare si sovrappone agli interessi universali dell’umanità - il terzo termine, il Partito, è solo l’operatore che attualizza questo potenziale universale del particolare. Ciò che diventa evidente nel corso di questa mediazione è che il proleta­ riato “spontaneamente” può giungere solo ad una coscienza tradu­ nionista e riformista; arriviamo così alla (supposta) conclusione leninista: la costituzione del soggetto rivoluzionario è possibile solo quando (quelli che diverranno) gli intellettuali di partito com­ prendono la logica interna del processo storico ed “educano” con­ seguentemente il proletariato. In questa seconda forma, il Prole­ tariato è così svilito al ruolo di mediatore tra la Storia (il processo storico globale) e la conoscenza scientifica di essa incorporata nel 132

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Partito: dopo aver compreso la logica del processo storico, il Par­ tito “educa” i lavoratori ad essere lo strumento consapevole del­ la realizzazione del fine storico. L’identità presupposta in questa seconda forma è quella tra l’Universale e il Singolare, tra Storia e Partito, ovvero l’idea secondo cui il Partito come “intellettuale collettivo” possiede la conoscenza oggettiva del processo storico. Questo presupposto è reso più chiaro dalla sovrapposizione del­ l’aspetto “soggettivo” e di quello “oggettivo”: il concetto di Sto­ ria come processo storico determinato da leggi necessarie è stret­ tamente connesso con il concetto di intellettuali di partito come Soggetto la cui conoscenza privilegiata e comprensione interna di tale processo, fa sì che esso possa intervenire e dirigerlo. E, come ci si potrebbe aspettare, è questo presupposto che è falsificato nel corso della seconda mediazione, conducendoci alla terza forma di mediazione, quella “stalinista”, che costituisce la “verità” dell’in­ tero movimento e in cui l’Universale (la Storia stessa) media tra il Proletariato e il Partito: per semplificare, il Partito fa meramente riferimento alla Storia - ovvero la sua dottrina, il “materialismo storico e dialettico”, che incorpora il suo accesso privilegiato alla “inesorabile necessità del progresso storico” - per legittimare il suo dominio reale e il suo sfruttamento della classe operaia, cioè, per fornire alle decisioni pragmaticamente opportunistiche del Partito una sorta di “copertura ontologica”.12 Per dirla nei termini della coincidenza speculativa degli op­ posti, o del “giudizio infinito”, in cui il più alto coincide col più basso, il fatto che gli operai sovietici si svegliassero presto al mat­ tino al suono dei primi accordi dell’Internazionale che risuonava

12 Ciò che rende problematica e “totalitaria” la famosa frase di Fidel Castro «dentro la rivoluzione, tutto. Fuori di essa, nulla!» è il modo in cui la sua radicalità copre la pro­ pria totale indeterminatezza: ciò che essa lascia non detto è chi, e in base a quali criteri, deciderà se una particolare opera d’arte (la frase fu formulata per fornire la linea guida nel trattare la questione della libertà artistica) serve effettivamente la rivoluzione o la minaccia. In tal modo, permette alla nomenklatura di rafforzare le proprie decisioni ar­ bitrarie. (È comunque possibile un’altra lettura che permette di redimere questo slogan: la rivoluzione non è un processo che segua “leggi” predestinate, per cui non ci sono criteri a priori che possono permettere di tracciare una linea di demarcazione tra la rivo­ luzione e il suo tradimento - la fedeltà alla rivoluzione non risiede semplicemente nel seguire e applicare una serie di norme e scopi dati in precedenza, ma nella lotta continua di incessante ridefinizione di quella linea di demarcazione).

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dagli amplificatori e le cui parole sono «Sorgete, prigionieri del lavoro!» acquista un significato profondamente ironico: la “veri­ tà” ultima deH’originale significato patetico di quelle parole («re­ sistete, spezzate le catene che vi opprimono e cercate la libertà!») si rivela essere il suo significato letterale, la richiesta agli stanchi lavoratori: “svegliatevi, schiavi, e cominciate a lavorare per noi, la nomenklatura di partito!”. I li Torniamo alla tripla mediazione sillogistica della Storia, del Proletariato e del Partito: se ogni forma di mediazione è la “veri­ tà” della precedente (il Partito che strumentalizza la classe ope­ raia come mezzo per realizzare il proprio fine fondato nella com­ prensione della logica del progresso storico è la “verità” dell’idea secondo cui il Partito si limita a mettere in grado il Proletariato di divenire cosciente della propria missione storica, di scoprire il proprio “vero interesse”; il Partito che sfrutta spietatamente le classi lavoratrici è la “verità” dell’idea secondo la quale il Partito si limita a realizzare attraverso di esse la propria profonda com­ prensione della logica della Storia), ciò significa forse che questo movimento è inesorabile, che abbiamo a che fare con una logi­ ca ferrea, di modo che una volta che abbiamo accettato il punto d ’inizio - la premessa che il Proletariato è, per quanto concerne la propria posizione sociale, potenzialmente la “classe universa­ le” - una forza diabolica ci rende ostaggi di un processo alla fine del quale sta il Gulag? Se questo fosse il caso, Storia e coscienza dì classe, nonostante sia (o, piuttosto, proprio perché è) un libro brillante dal punto di vista intellettuale, sarebbe il testo fondativo dello stalinismo; ciò giustificherebbe anche la consueta liquida­ zione postmoderna del libro come manifestazione definitiva del­ l’essenzialismo hegeliano, cosi come la definizione althusseriana dell’hegelismo come cuore filosofico segreto dello stalinismo - la necessità teleologica del progresso dell’intera storia verso la ri­ voluzione proletaria intesa come suo grandioso punto di svolta, in cui il Proletariato come Soggetto-Oggetto storico, la “classe universale” illuminata dal Partito circa la propria missione iscritta nella sua stessa posizione sociale oggettiva, realizza l’atto di libe­ 134

Georg Lukäcs - filosofo del leninismo

razione, la totale trasparenza a se stessa. La violenta reazione dei partigiani del “materialismo dialettico” contro Storia e coscienza di classe, sarebbe di nuovo un esempio della regola - suggerita da Lucien Goldmann - in base a cui l’ideologia dominante deve ne­ cessariamente ripudiare le proprie stesse premesse fondamentali: in questa prospettiva, la megalomane teoria hegeliana di Lukàcs del partito leninista come spirito storico incorporato, come “in­ tellettuale collettivo” del Proletariato in quanto Soggetto-Oggetto della Storia, sarebbe la “verità” segreta dell’apparentemente più modesta teoria stalinista e “oggettivista” dell’attività rivoluzio­ naria fondata in un processo ontologico globale dominato dalle leggi universali della dialettica. E, ovviamente, sarebbe facile gio­ care contro questa concezione hegeliana del Soggetto-Oggetto la premessa fondamentale decostruzionista secondo cui il soggetto emerge precisamente nello/come spazio nella Sostanza (l’ordine oggettivo delle cose), che c’è soggettività solo nella misura in cui c’è una “fessura nell’edificio dell’Essere”, solo nella misura in cui l’universo è in certo modo “deragliato”, “sfasato”, in breve, nella misura in cui non solo la piena attualizzazione del soggetto fallisce sempre, ma che ciò che Lukàcs avrebbe bollato come un modo “difettivo” della soggettività, come il soggetto contrastato, è effettivamente il soggetto stesso. La visione “oggettivista” e stalinista sarebbe così la “verità” di Storia e coscienza di classe anche per ragioni strettamente e immanentemente filosofiche: giacché il soggetto fallisce per defi­ nizione, la sua piena attualizzazione in quanto Soggetto-Oggetto della Storia contiene necessariamente la sua auto-cancellazione, la sua auto-oggettivazione come strumento della Storia. E, inoltre, sarebbe facile affermare, contro questo punto morto hegelianostalinista, l’affermazione laclauiana postmoderna della contingen­ za radicale come il terreno reale della soggettività (politica): gli universali politici sono “vuoti”, il collegamento tra loro e il con­ tenuto particolare che li egemonizza è ciò che è in ballo nella lot­ ta ideologica, la quale è interamente contingente, in altre parole, nessun soggetto politico ha la propria missione universale scritta nella propria condizione sociale “oggettiva”. E però davvero questo il caso di Storia e coscienza di clas­ se ? Si può liquidare Lukàcs come avvocato di tale affermazione 135

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pseudo-hegeliana del Proletariato come Soggetto-Oggetto asso­ luto della Storia? Torniamo al concreto background politico di Storia e coscienza di classe, in cui Lukàcs parla ancora come rivoluzionario a tempo pieno. Per dirla in forma un po’ rozza e semplificata, le forze rivoluzionarie nella Russia del 1917, nella difficile situazione in cui la borghesia non era in grado di portare a compimento la rivoluzione democratica, avevano di fronte la seguente scelta. Da un lato, la posizione menscevica di obbedienza alla logica degli “stadi oggettivi di sviluppo”: prima la rivoluzione democratica, poi la rivoluzione proletaria. Nel vortice del 1917 invece di capitalizzare la graduale disintegrazione degli apparati di stato e agire a partire dal malcontento popolare diffuso e dalla resistenza contro il governo provvisorio, tutti i partiti radicali dovevano resistere alla tentazione di spingersi troppo oltre e uni­ re piuttosto le forze con gli elementi democratico-borghesi per raggiungere prima la rivoluzione borghese, aspettando pazientemente la situazione rivoluzionaria “matura”. Da questo punto di vista, una vittoria socialista nel 1917, quando la situazione non era ancora “matura”, avrebbe scatenato una regressione al terro­ re primitivo (benché tale paura delle catastrofiche conseguenze terroristiche di un’insurrezione “prematura” sembri vaticinare l’ombra dello stalinismo, l’ideologia dello stalinismo segna ef­ fettivamente un ritorno a questa logica “oggettivista” degli stadi necessari di sviluppo).13 D ’altro lato, la posizione leninista era decisa a compiere un salto, gettarsi nel paradosso della situazione, cogliere l’opportu­ nità e intervenire, persino se la situazione era “prematura”; essa scommetteva che proprio questo intervento “prematuro” avrebbe cambiato radicalmente il rapporto “oggettivo” delle forze stesse, al cui interno la situazione iniziale appariva “prematura”: essa

13 Non ci dimentichiamo, inoltre, che nelle settimane prima della Rivoluzione d ’Ottobre, quando il dibattito tra i bolscevichi montava, Stalin si schierò contro la proposta di Lenin per la presa immediata del potere da parte bolscevica, argomentando, insieme al modo menscevico, che la situazione non era ancora “matura” e che, invece di simili pericolosi “avventurismi”, si sarebbe dovuto sostenere una larga coalizione di tutte le forze antizariste!

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avrebbe cioè messo in questione gli stessi criteri cui si ricorreva per giudicare “prematura” la situazione. Bisogna stare attenti, qui, a non lasciarsi sfuggire il nocciolo della questione: non è che, contrariamente ai menscevichi e agli scettici tra gli stessi bolscevichi, Lenin pensasse che la complessa situazione del 1917 - ovvero la crescente insoddisfazione delle grandi masse per la debole politica del governo provvisorio - of­ frisse un’occasione unica di “saltare” una fase (la rivoluzione de­ mocratica borghese) o di “condensare” due fasi necessariamente consecutive (la rivoluzione democratica borghese e la rivoluzione proletaria) in una sola. Una tale idea accetta ancora, in fondo, una soggiacente logica reificata e oggettivista degli “stadi necessari di sviluppo”; essa si limita a riconoscere, in circostanze concrete diverse, un ritmo diverso nel processo (in altre parole, essa affer­ ma che in alcuni paesi il secondo stadio può seguire immediata­ mente il primo). La posizione di Lenin è, al contrario, molto più radicale: in definitiva, non c’è alcuna logica degli “stadi necessari di sviluppo”, poiché le “complicazioni” che sorgono dal tessuto delle situazioni concrete e/o dai risultati imprevisti degli inter­ venti “soggettivi” fanno sempre deragliare il corso lineare delle cose. Come Lenin aveva acutamente compreso, il colonialismo e le masse super sfruttate in Asia, Africa e in America Latina in­ fluenzano radicalmente e “spostano” la lotta di classe “lineare” nei paesi a capitalismo sviluppato - parlare di “lotta di classe” senza tener conto del colonialismo è una vuota astrazione che, tradotta in politica pratica, può risultare solo in un avvallo del ruo­ lo “civilizzatore” del colonialismo e, così, subordinando la lotta anti-coloniale delle masse asiatiche alla “vera” lotta di classe negli stati occidentali sviluppati, lascia de facto che sia la borghesia a definire i termini della lotta di classe.14 Si è tentati di ricorrere qui al linguaggio lacaniano: ciò che è in ballo in questa alternativa è l’(in)esistenza del “grande Altro”: i menscevichi si appoggia­ vano alla fondazione onnicomprensiva della logica positiva dello

14Anche qui si può riconoscere l’inattesa prossimità al concetto althusseriano di “surdeterminazione”: non c’è alcuna regola definitiva che permetta di misurare le “eccezioni” con­ tro di essa - nella storia reale, in un certo senso, non ci sono nient’altro che eccezioni.

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sviluppo storico, mentre i bolscevichi (o, almeno, Lenin) erano consci che “il grande Altro non esiste” - un intervento politico adeguato non avviene dentro le coordinate di una qualche matrice globale soggiacente, poiché ciò che esso raggiunge è precisamen­ te il “rimescolamento” di questa stessa matrice globale. Ecco allora la ragione per cui Lukàcs ebbe una tale ammi­ razione per Lenin: il suo Lenin era uno che, à propos della di­ sputa nella socialdemocrazia russa tra bolscevichi e menscevichi (quando le due fazioni combattevano una precisa formulazione sulla questione di chi potesse essere un membro del partito nei termini del programma di partito) scriveva: «talvolta, il destino del movimento operaio per molti anni a venire può essere deciso da una parola o due nel programma di partito». Oppure il Lenin che, quando vide l’occasione per la presa rivoluzionaria del potere nel tardo 1917 disse: «la storia non ci perdonerà mai se perdiamo questa opportunità!». A un livello più generale, la storia del capi­ talismo è una lunga storia di come il contesto ideologico-politico predominante è stato in grado di accogliere i - e di smussare le punte sovversive dei - movimenti e le richieste che sembravano metterne a repentaglio la sopravvivenza. Ad esempio, per un lun­ go periodo, il libertarismo sessuale ha ritenuto che la repressione sessuale monogamica fosse necessaria alla sopravvivenza del ca­ pitalismo - ora noi sappiamo che il capitalismo può non solo tol­ lerare, ma addirittura incoraggiare e sfruttare attivamente forme di sessualità “perversa”, per non parlare dell’indulgenza promiscua nei piaceri sessuali. Comunque, la conclusione che si deve trarre da questo non è che il capitalismo possiede l’abilità infinita di integrare e così ta­ gliare le punte sovversive di tutte le richieste particolari - ciò che è cruciale qui è la questione del tempo, il “cogliere l’attimo”. Una certa richiesta particolare possiede, in uno specifico momento, un potere di detonazione globale; funziona come un sostituto metafo­ rico della rivoluzione globale: se insistiamo incondizionatamen­ te su di esso, il sistema esploderà; se, però, aspettiamo troppo, il cortocircuito metaforico tra questa richiesta particolare e il rove­ sciamento globale si dissolve e il sistema, con ghignante e ipocri­ ta soddisfazione, può rispondere: “volevate questo? Eccovelo!”, senza che accada nulla di veramente radicale. L’arte di ciò che 138

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Lukacs chiamava Augenblick - Listante in cui, per un breve lasso di tempo, c’è un’apertura che permette a un atto di intervenire in una situazione - è l’arte di cogliere il momento giusto, di aggra­ vare il conflitto prima che il sistema possa riassestarsi sulla nostra richiesta. Così qui abbiamo un Lukacs che è molto più “gram­ sciano” e congiunturalista/contingentista di quanto normalmente si creda - VAugenblick lukâcsiano è inaspettatamente vicino a ciò che oggi Alain Badiou cerca di formulare come Evento: un inter­ vento che non può essere definito nei termini delle sue “condizio­ ni oggettive” pre-esistenti. Il cuore dell’argomento di Lukacs è il rifiuto di ridurre l’atto alle sue “circostanze storiche”: non ci sono “condizioni oggettive” neutre, o, detto in termini hegeliani, tutti i presupposti sono già posti in modo minimale. Esemplare è qui, proprio all’inizio di questo libro, l’anali­ si che Lukacs fa della lista “oggettivista” di cause del fallimen­ to della dittatura rivoluzionaria dei consigli ungherese nel 1919: il tradimento degli ufficiali dell’esercito, l’embargo esterno che causò la fame, ecc. Benché questi siano indubitabilmente fatti che giocarono un ruolo cruciale nella disfatta rivoluzionaria, è nondi­ meno metodologicamente sbagliato evocarli come crudi fatti, sen­ za tenere da conto il modo in cui furono “mediati” dalla specifica costellazione delle forze politiche “soggettive”. Prendiamo l’embargo: come mai, a fronte di un embargo molto più duro, la Russia sovietica non cadde vittima dell’assalto imperialista e controrivoluzionario? Perché in Russia il Partito bolscevico aveva reso le masse consapevoli del fatto che l’em­ bargo era il risultato delle forze controrivoluzionarie in patria e all’estero, mentre, in Ungheria, il partito non fu abbastanza forte ideologicamente e così le masse caddero vittima della propagan­ da anticomunista che affermava che l’embargo era il risultato del­ la natura “antidemocratica” del regime - la logica del “torniamo alla ‘democrazia’ e gli aiuti esteri cominceranno ad arrivare”. Il tradimento degli ufficiali? Sì, ma perché lo stesso tipo di tradi­ mento non ebbe le stesse conseguenze catastrofiche nella Russia sovietica? E, quando i traditori furono scoperti, perché non fu possibile sostituirli con altri militari affidabili? Perché il Partito comunista non era abbastanza forte e attivo, mentre il Partito bol­ scevico russo mobilitò adeguatamente i soldati che erano pronti 139

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a combattere fino alla fine per difendere la rivoluzione. Natural­ mente, si può affermare che la debolezza del Partito Comunista è ancora una componente “oggettiva” della situazione sociale; comunque, dietro questo “fatto”, ci sono ancora altre decisioni e atti soggettivi, così non si raggiunge mai il livello zero di uno stato di fatto puramente “oggettivo” - il punto definitivo non è l’oggettività, ma la “totalità” sociale come processo globale di “media­ zione” tra gli aspetti soggettivi e oggettivi. In altre parole, l’atto non può mai essere ridotto a un prodotto di condizioni oggettive. Prendiamo un esempio da un campo differente: il modo in cui l’ideologia implica la “posizione dei propri presupposti” può essere mostrato facilmente nella (pseudo)spiegazione che solita­ mente si dà dell’affermazione crescente dell’ideologia nazista in Germania negli anni Venti. Essa recita che i nazisti manipolarono abilmente le paure e le ansie prodotte nelle classi medie dalla crisi economica e dai veloci cambiamenti sociali. Il problema di questa spiegazione è che essa non vede la circolarità autoreferenziale che qui è all’opera: sì, i nazisti manipolarono certamente con abilità le paure e le ansie - tali paure e ansie, comunque, lungi dall’essere semplicemente fatti pre-ideologici, erano già il prodotto di una certa prospettiva ideologica. In altre parole, l’ideologia nazista stessa (co)generava “ansie e paure” rispetto a qualcosa, di cui si proponeva come soluzione. IV

Possiamo ora tornare al nostro triplo “sillogismo” e determi­ nare in cosa consiste, precisamente, il suo errore: nella stessa op­ posizione tra le sue due prime forme. Lukàcs, ovviamente, si op­ pone all’ideologia “spontaneista” che chiede l’autorganizzazione popolare delle masse lavoratrici contro la “dittatura” dei burocrati di partito imposta dalFesterno, così come all’idea pseudo-lenini­ sta (in realtà kautskiana) che la classe operaia “empirica”, lasciata a se stessa, possa raggiungere solo un livello riformista e tradunio­ nista; secondo tale concezione, il solo modo che essa avrebbe di diventare soggetto rivoluzionario è che degli intellettuali indipen­ denti riescano ad avere un’intuizione neutrale e “scientifica” nella necessità “oggettiva” del passaggio dal capitalismo al socialismo, 140

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per poi importare questa conoscenza nella classe operaia empirica, “educandola” circa la missione iscritta nella loro stessa posizione sociale oggettiva. E qui che incontriamo l’obbrobriosa e dialettica “identità de­ gli opposti” nella sua forma più pura: il problema con questi oppo­ sti non è che i due poli sono opposti in modo troppo brutale e che la verità si trovi in qualche modo nel mezzo, nella loro “media­ zione dialettica” (la coscienza di classe emerge dalla “interazio­ ne” tra l’autocoscienza spontanea della classe operaia e l’attività educativa del Partito); il problema è piuttosto che la stessa idea che la classe operaia abbia il potenziale interno di raggiungere una coscienza di classe rivoluzionaria (e, conseguentemente, che il partito gioca il ruolo modesto, auto-cancellante e maieutico di rendere i lavoratori empirici in grado di attualizzare tale poten­ ziale) legittima l’esercizio della pressione dittatoriale del partito sugli operai “empirici” e attualmente esistenti e sulla loro autoco­ scienza confusa e opportunistica, in nome dei loro veri potenziali interni e/o dei “veri interessi a lungo termine” (secondo la corretta concezione che ne ha il Partito). In breve, Lukacs starebbe qui semplicemente applicando alla falsa opposizione tra “spontanei­ smo” e dominio esterno del partito l’identificazione speculativa hegeliana tra la “potenzialità interna” dell’individuo e la pressione esterna esercitata su di esso dai suoi educatori: dire che un in­ dividuo possiede una “potenzialità interna” di essere un grande musicista equivale, in senso stretto, al fatto che questo potenziale deve essere già presente nell’educatore, il quale, attraverso una pressione esterna, costringe l’individuo ad attualizzarla. Quindi, il paradosso è che più insistiamo su come la posi­ zione rivoluzionaria traduce direttamente la vera “natura interna” della classe operaia, più siamo costretti a esercitare una pressione esterna sulla classe operaia “empirica” per attualizzare questa pos­ sibilità interna. In altre parole, la “verità” di questa identità imme­ diata degli opposti, delle prime due forme, è, come abbiamo visto, la terza forma, la mediazione stalinista - perché? Perché questa identità immediata esclude ogni spazio per Vatto in senso proprio; se la coscienza di classe sorge “spontaneamente”, come attualizzazione della potenzialità interna iscritta nella stessa condizione oggettiva della classe operaia, allora non c’è alcun atto reale, ma 141

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solo la conversione puramente formale dalfin-sé al per-sé, il gesto di portare alla luce ciò che è già-sempre stato; se la vera coscien­ za di classe rivoluzionaria deve essere “importata” attraverso il Partito, allora abbiamo, da un lato, degli intellettuali “neutrali” che raggiungono la conoscenza “oggettiva” della necessità sto­ rica (senza impegnarsi in un intervento in essa), e, quindi, quello che, in ultima analisi, è il loro uso strumentale-manipolatorio del­ la classe operaia come mezzo di attualizzazione della necessità già iscritta nella situazione - di nuovo: non c’è alcuno spazio per un 'atto in senso proprio. Questa teoria dell’atto ci permette inoltre di affrontare quell’aspetto che sembra pienamente giustificare la liquidazio­ ne critica di Lukàcs come un determinista marxista “hegeliano”: la sua famigerata distinzione tra coscienza di classe empirica, fattuale (un fenomeno della psicologia collettiva oggetto della ricerca sociologica empirica) e la coscienza di classe attribuita/ ascritta/imputata {zugerechnete) (la coscienza che è “oggettiva­ mente possibile” per una certa classe raggiungere se essa mo­ bilita interamente le proprie risorse soggettive). Come Lukàcs sottolinea, questa opposizione non coincide con quella tra verità e falsità: contrariamente a tutte le altre classi, è “oggettivamen­ te possibile” per il proletariato raggiungere l’autocoscienza che gli permette di comprendere correttamente la vera logica della totalità storica - dipende dalla mobilitazione del suo potenziale soggettivo da parte del Partito in che misura la classe operaia fat­ tuale raggiungerà il livello di questa coscienza di classe “ascrit­ ta”. A differenza del proletariato, la coscienza “imputata” di tutte le altre classi, benché vada oltre la loro coscienza fattuale, non è ancora la vera comprensione della totalità storica, bensì rimane una distorsione ideologica (Lukàcs fa riferimento qui alla ben nota analisi di Marx della Rivoluzione francese del 1848 in cui ciò che causò il “ 18 Brumaio” di Napoleone III fu il fatto che la borghesia radicale non riuscì a rendere effettivo nemmeno il proprio potenziale politico progressivo). L’obiezione si impone qui quasi automaticamente: non è Lukàcs stesso a regredire implicitamente a un’opposizione kan­ tiana tra possibilità ideale formale e uno stato di fatto empirica­ mente fattuale che rimane sempre indietro rispetto a tale ideale? 142

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E non è questo ritardo implicito la giustificazione del dominio del Partito sulla classe operaia: il Partito è in definitiva precisamente il mediatore tra la coscienza “imputata” e quella fattuale - esso conosce il potenziale ideale della coscienza e tenta di “educare” la classe operaia empirica a raggiungere questo livello? Se fosse tutto qui ciò che Lukàcs intende con “mediazione soggettiva”, con atto e decisione, allora, ovviamente, rimarremmo all’interno dei confini della fiducia “reificata” negli “stadi oggettivi di sviluppo”: esiste un limite ideal-tipico prescritto di ciò che è “oggettivamente possibile”, il limite della coscienza “imputata” determinato dalla posizione sociale oggettiva di una classe e tutto lo spazio di ma­ novra che gli agenti storici hanno a disposizione è lo spazio tra questo massimo “oggettivamente possibile” e la misura in cui essi effettivamente si avvicinano a questo massimo. Resta comunque aperta un’altra possibilità: leggere l’inter­ vallo tra la coscienza di classe fattuale e quella “imputata” non come la classica opposizione tra il tipo ideale e la sua attualiz­ zazione fattuale imperfetta, bensì come l ’interna auto-divisione [self-fìssuré] (ο “Γessere-fuori-sesto” [out-of-jointness]) del sog­ getto storico. Per essere più precisi, quando si parla del proletaria­ to come “classe universale” si dovrebbe tenere a mente il concetto strettamente dialettico dell’universalità che diventa attuale, “per sé”, solo nella forma del proprio opposto: in un agente che è fuori-posto in qualsiasi particolare posizione all’interno dell’ordine globale esistente e che perciò intrattiene con esso un rapporto ne­ gativo - mi si lasci citare qui la pertinente formulazione di Ernesto Laclau (interamente hegeliana, nonostante il dichiarato anti-hegelismo di Laclau): L’universale è parte della m ia identità nella m isura in cui sono pene­ trato da una m ancanza costitutiva - cioè, nella misura in cui la m ia identi­ tà differenziale ha fallito il proprio processo di costituzione. L’universale emerge dal particolare non come un principio ad esso soggiacente o che lo spieghi, ma come un orizzonte incompleto di saturazione di u n ’identità particolare dislocata.15

15 Ernesto Laclau, Universalism, Particularism, and thè Question o f Identity, in October, 61, p. 89.

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In questo senso preciso, «l’universale è il simbolo di una pienezza mancante»:16 posso relazionarmi all’Universale come tale solo nella misura in cui la mia identità particolare è impedi­ ta, “dislocata”; solo nella misura in cui qualche impedimento mi impedisce di “diventare ciò che già sono” (rispetto alla mia posi­ zione sociale particolare). L’affermazione che il proletariato è la “classe universale” è perciò, in definitiva, equivalente all’afferma­ zione che, all’interno dell’ordine globale esistente, il proletariato è la classe che è radicalmente dislocata (o, come direbbe Badiou, quella che occupa lo spazio di una “torsione sintomale”) rispetto al corpo sociale: mentre le altre classi possono sostenere ancora l’illusione che “la società esiste” e che essi hanno il proprio posto specifico all’interno del corpo sociale globale, la stessa esistenza del proletariato rifiuta l’affermazione che “la società esiste”. In al­ tre parole, la sovrapposizione dell’Universale e del Particolare nel proletariato non coincide con la loro identità immediata (nel senso che gli interessi particolari del proletariato sono allo stesso tempo gli interessi universali dell’umanità, cosicché la liberazione prole­ taria equivarrà alla liberazione dell’intera umanità): il potenziale universale rivoluzionario è piuttosto “iscritto nell’essere stesso del proletariato” come sua scissione [split] radicale intrinseca. Questa scissione, di nuovo, non è la scissione immediata tra interessi/posizioni particolari del proletariato e la sua missione storico-universale - la “missione universale” del proletariato sor­ ge dal modo in cui la stessa esistenza particolare del proletariato è “sbarrata”, impedita, dal modo in cui il proletariato non è in grado a priori (“nel suo stesso concetto”, per dirla con linguaggio hege­ liano) di realizzare la propria stessa identità sociale particolare. La scissione è perciò la scissione tra l’identità particolare positiva e la barriera, il blocco intrinseco, che impedisce ai proletari di attualizzare questa stessa forma di identità positiva (il loro “posto nella società”) - solo se concepiamo la scissione in questo modo, c’è spazio per un atto in senso proprio, e non solo per azioni che seguono “principi” o “regole” universali date in precedenza e che perciò forniscono la “copertura ontologica” per la nostra attività.

16Ibid.

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Qui risiede la differenza definitiva tra, da un lato, l’au­ tentico partito leninista, e, dall’altro, il partito kautskista-stalinista, come partito che incorpora una “conoscenza oggettiva” non impegnata nell’azione che deve essere impartita alla classe operaia non educata: il partito kautskista-stalinista si rivolge al proletariato da una posizione di conoscenza “oggettiva” intesa a perfezionare nel proletariato P(auto)esperienza soggettiva della sofferenza e dello sfruttamento: ciò significa che qui la scissio­ ne è tra Γ autoesperienza proletaria soggettiva e “spontanea” e la conoscenza oggettiva della propria posizione sociale, mentre nell’autentico partito leninista, la scissione è interamente sog­ gettiva, cioè, il partito si rivolge al proletariato da una posizione radicalmente soggettiva e impegnata nell’azione, la cui man­ canza impedisce ai proletari di raggiungere il loro “spazio pro­ prio” nell’edificio sociale.17 Inoltre, è questa differenza cruciale che spiega perché il corpo sublime stalinista del Leader (con il mausoleo e tutto il baraccone che l’accompagna) è impensabile aH’interno dell’orizzonte strettamente leninista: il Leader può essere elevato a figura di Sublime Bellezza solo quando il “po­ polo” che egli rappresenta non è più il proletariato internamente dislocato, ma l’entità sostanziale positivamente esistente, ovve­ ro le “masse lavoratrici”. Per coloro che diranno che ciò che stiamo descrivendo qui è una distinzione filosofica di lana caprina che non ha alcuna utili­ tà per chi è impegnato nella lotta, rimandiamo ad una esperienza analoga nella filosofia pratica di Kant: non è forse vero che le proposizioni apparentemente “difficili” di Kant sulla pura forma della legge come unico motivo legittimo di un’azione etica ecc. diventano improvvisamente chiare se le riferiamo direttamen­ te alla nostra esperienza etica immediata? E lo stesso vale per la

17 Forse potrebbe essere d’aiuto fare riferimento a Kierkegaard: questa differenza è la stessa che passa tra l’Essere positivo delPUniversale (la “muta universalità” di una specie definita da ciò che tutti i membri della specie hanno in comune) e ciò che Kie­ rkegaard chiamava “Universale-in-divenire”, l’Universale come potere di negazione che mette in questione la fissità di ogni costellazione particolare. Per un’elaborazione più dettagliata di questa distinzione, cfr. Slavoj Zizek, Il soggetto scabroso: trattato di ontologia politica, Cortina, Milano 2003, capitolo 2.

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distinzione summenzionata: lo spazio che separa l’affidarsi alla “logica oggettiva” dal rischio di un’azione autentica è noto “intui­ tivamente” a chiunque è impegnato in una lotta. V Occorre chiarire un ulteriore possibile fraintendimento: la po­ sizione di Lukàcs non è, come potrebbe apparire ad un lettore su­ perficiale, che tutta la storia è stata finora dominata da una necessi­ tà oggettiva “reificata” e che soltanto con la tarda crisi capitalistica e il concomitante rafforzamento del proletariato rivoluzionario sor­ ga la “possibilità oggettiva” di spezzare la catena onniavvolgente della necessità. Tutta la storia umana è caratterizzata dalla tensione e dalla interdipendenza dialettica tra necessità e contingenza; ciò che si dovrebbe fare è distinguere accuratamente le diverse for­ me storiche di questa interdipendenza. Nella società premodema, non solo era ovviamente possibile, anzi, accadeva effettivamente di continuo che contingenze totalmente insignificanti (la pazzia o qualche particolarità psicologica del monarca) potessero portare a conseguenze globali catastrofiche (come la totale distruzione delle città arabe ricche e altamente civilizzate da parte dei mongoli); ad ogni modo, le idiosincrasie psicologiche potevano avere tali conse­ guenze solo all’interno di certe ben definite relazioni di potere e di produzione, in cui il leader è effettivamente investito di un’autorità cosi ampia. Nella moderna società capitalista, la contingenza regna sotto la forma dell’ “imprevedibile” gioco di forze del mercato, gioco che può, “per nessuna ragione apparente”, rovinare istanta­ neamente individui che hanno lavorato duro tutta la vita: come già dicevano Marx ed Engels, il Mercato è la moderna reincarnazione del vecchio Fato capriccioso; in altre parole, questa “contingenza” è la forma di manifestazione della sua controparte dialettica, l’im­ penetrabile, cieca necessità del sistema capitalistico. Nel processo rivoluzionario si apre finalmente lo spazio non per un “atto” fondazionale metafisico, ma per un intervento contingente, strettamente “congiunturale” che può spezzare la stessa catena della Necessità che ha dominato la storia fino a quel punto. Esemplare è qui la critica di Lukàcs di quell’atteggiamento scettico-liberale verso la Rivoluzione d ’ottobre che considera que­ 146

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st’ultima un “esperimento politico” importante, si, ma rischioso: la posizione di chi dice “aspettiamo e osserviamo pazientemente il suo risultato finale”. Lukacs è pienamente giustificato nel rispondere che tale atteggiamento traspone la posizione sperimentai e/osservativa delle scienze naturali nella storia umana; si tratta del caso esem­ plare di chi osserva un processo da una distanza di sicurezza, esen­ tandosi da esso; non della posizione impegnata di chi vi interviene - in quanto già-da-sempre preso, incastonato in una situazione. Certo, Γargomento di Lukacs è che qui non abbiamo a che fare con una semplice opposizione tra la posizione di osservazio­ ne passiva e quella di intervento pratico (“basta con le parole e le teorie vuote, facciamo finalmente qualcosa!”): Lukacs crede nell’unità/mediazione dialettica di teoria e prassi, per cui anche la posizione più contemplativa possibile è eminentemente “pratica” (nel senso di essere incastonata in una totalità di (ri)produzione sociale e, perciò, di esprimere un certo atteggiamento “pratico” su come sopravvivere in questa totalità), e, d’altra parte, persino la posizione più “pratica” implica una certa struttura “teorica”: essa materializza una serie di proposizioni ideologiche implicite. Ad esempio, la rassegnata posizione “melanconica” che cerca il sen­ so della vita in una ritirata saggezza contemplativa è chiaramente incastonata nella totalità storica di una società in declino, in cui lo spazio pubblico non offre più sbocco per Γ autoaffermazione crea­ tiva; oppure la posizione dell’osservatore esterno che tratta la vita sociale come un oggetto in cui si “interviene” in modo strumentale-manipolatorio e si “fanno esperimenti”, è la stessa posizione richiesta a chi partecipa ad una società di mercato. D ’altra par­ te, la posizione totalmente individualistica di edonismo radicale “mette in pratica” la nozione di soggetto come essere edonistico, nel senso che, come avrebbe detto Hegel, una persona non è mai direttamente edonista, piuttosto si rapporta a se stessa come tale. Nei termini del marxismo classico, non solo la coscienza sociale è una parte costitutiva dell’essere sociale (del processo attuale18

18 [Qui, come anche sotto, Zizek usa l’aggettivo actual che significa “reale”, “effettivo”; in questo contesto esso va inteso più precisamente come “prodotto di un atto”, risultato di un’azione (act). N.d.T.].

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di (ri)produzione sociale), ma questo “essere” stesso (il processo attuale di (ri)produzione sociale) può realizzare il proprio corso soltanto se mediato/sostenuto dalla forma di “coscienza” adat­ ta: se, ad esempio, in una società capitalista, gli individui, nelle loro vite pratiche quotidiane, non sono preda del “feticismo della merce”, lo stesso processo “reale” di (ri)produzione capitalista è disturbato. Qui appare in scena il concetto hegeliano di (auto)coscienza, che designa l’ottenimento della consapevolezza di sé come un atto pratico intrinseco, opposto al concetto contemplativo di una “conoscenza corretta” in termini scientifici: l’autocoscienza è una conoscenza che “cambia il proprio oggetto” direttamente, che in­ teressa il suo stesso status sociale - quando il proletariato diviene cosciente del proprio potenziale rivoluzionario, questa stessa “in­ tuizione” lo trasforma in un soggetto rivoluzionario attuale. Nella misura in cui F(auto)coscienza designa il modo in cui le cose appaiono ad un soggetto, questa identità di pensiero ed essere nell’atto pratico di auto-coscienza può essere anche formu­ lata come identità dialettica dell’Essenza e della sua Apparenza [Appearence]}9 Lukacs si appoggia qui all’analisi hegeliana della “essenzialità” dell’apparenza: l’apparenza non è mai mera “ap­ parenza”, ma appartiene all’essenza stessa. Ciò significa che la coscienza (l’apparenza ideologica) è anche un fatto sociale “og­ gettivo” con una effettualità sua propria: come abbiamo già detto, la coscienza borghese “feticista” non è semplicemente una “illu­ sione” che maschera un processo sociale attuale, bensì un modo di organizzazione dello stesso essere sociale, fondamentale per il processo attuale di (ri)produzione sociale.20

19 [Nel senso hegeliano di “ciò che appare”, “ciò che si manifesta di un’essenza”, ΝΛΤ.}. 20 Se avessimo modo qui di scendere nei dettagli, si dovrebbe elaborare questo con­ cetto centrale hegeliano dell’essenzialità dell’apparenza. L’argomento di Hegel non è la consueta banalità secondo cui “l’essenza deve apparire”, il fatto che essa sia tanto più profonda quanto più è ampia-espressa-estemalizzata ecc., ma è molto più preciso: l’essenza è, in un certo senso, la sua propria apparenza, essa appare come essenza nel dominio dell’apparenza; l ’essenza, cioè, non è altro che apparenza dell’essenza, l’appa­ renza che ci sia qualcosa dietro: questa è Γ Essenza.

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Qui Lukàcs può essere visto come parte del grande “cam­ biamento di paradigma” che coinvolge anche la fisica quantistica e la cui caratteristica principale non è la dissoluzione della “real­ tà oggettiva”, la sua riduzione a “costruzione soggettiva”, ma, al contrario, l’inaudita affermazione dello status “oggettivo” dell’ap­ parenza stessa. Non è sufficiente opporre il modo in cui le cose “sono oggettivamente” al modo in cui “meramente ci appaiono”: il modo in cui appaiano (all’osservatore) riguarda anche il loro stesso “essere oggettivo”. Questo è ciò che c ’è di rivoluzionario nella fisica quantistica: l’idea che l’orizzonte limitato dell’osser­ vatore (o del macchinario che registra ciò che accade) determini ciò che accade effettivamente. Non possiamo dire che l’autoco­ scienza (o il colore, o la densità materiale o ...) designi meramente il modo in cui facciamo esperienza della realtà, mentre “oggettiva­ mente” esistono solo particelle subatomiche e le loro fluttuazioni: queste “apparenze” devono essere tenute da conto se vogliamo spiegare ciò che “effettivamente accade”. In modo omologo, il punto centrale del concetto lukacsiano di coscienza di classe è che il modo in cui la classe operaia “appare a se stessa” determina il suo essere “oggettivo”.21 È di cruciale importanza non fraintendere le tesi di Lukàcs come un’ulteriore versione della famosa opposizione ermeneutica tra Erklären (il procedimento di spiegazione delle scienze natura­ li) e Verstehen (la modalità di comprensione propria delle scienze umane): quando Lukàcs oppone l’atto dell’autocoscienza di un

21Anche qui sarebbe interessante fare un raffronto tra Lukàcs e Badiou, per cui Γ “appa­ renza” è il dominio della consistenza della “dura realtà” positiva, mentre l’ordine dell’Essere è intrinsecamente fragile, inconsistente, sfuggente, accessibile solo attraverso matematiche che si occupano di moltitudini pure (cfr. Alain Badiou, Breve trattato di ontologia transitoria, Mimesis, Milano 2006, capitolo 14). Benché Lukàcs e Badiou siano ben lontani dallo sviluppare la medesima nozione di apparenza, ciò che essi hanno effettivamente in comune è il modo in cui aggirano la consueta opposizione ontologica tra Apparenza ed Essere, in cui l’apparenza sarebbe transitoria, a differenza della dura positività dell’Essere - con Lukàcs, “apparenza” significa realtà oggettiva “reificata”, mentre la vera “attualità” è quella del movimento transitorio della mediazione soggetti­ va. L’omologia con la fisica quantistica si impone, di nuovo, da sé: in quest’ultima, ciò di cui noi facciamo esperienza come “realtà” è anche l’ordine di “apparenza” coerente che emerge attraverso il collasso della fluttuazione quantica, mentre l’ordine dell’Essere è quello delle fluttuazioni quantiche, transitorie e insostanziali.

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soggetto storico alla “visione corretta” delle scienze naturali, il suo argomento non cerca di stabilire una distinzione epistemolo­ gica tra due diverse procedure metodologiche, bensì precisamente di spezzare lo stesso punto di vista della “metodologia” formale e affermare che la conoscenza stessa è parte della realtà sociale. Tutta la conoscenza, della natura, così come della società, è un processo sociale, mediato dalla società, una parte “attuale” della struttura sociale; in conseguenza di questa inclusione autorefe­ renziale di tutta la conoscenza nel suo oggetto proprio, una teo­ ria rivoluzionaria è, in definitiva, (anche) la propria meta-teoria. Benché Lukàcs fosse risolutamente contrario alla psicanalisi, la vicinanza con Freud qui è notevole: allo stesso modo in cui la psicanalisi interpreta la resistenza contro di essa come il risultato dei processi inconsci che sono il suo oggetto, così il marxismo interpreta la resistenza contro le sue intuizioni come il “risultato della lotta di classe nella teoria”, come affermato dal suo stesso oggetto - in entrambi i casi, la teoria è presa in una circolarità au­ toreferenziale; essa è, in un certo modo, la teoria della resistenza contro se stessa. Comunque, un ulteriore, anche più fatale fraintendimento, sarebbe quello di leggere la tesi della mediazione sociale di ogni forma di conoscenza come la semplice affermazione storicista che ogni forma di conoscenza è un fenomeno sociale, “un figlio della sua epoca”, che perciò dipende dalle condizioni sociali della pro­ pria comparsa e ne é espressione. L’intenzione di Lukàcs è inve­ ce precisamente quella di mettere in crisi la falsa alternativa tra relativismo storicista (non c’è nessuna conoscenza neutrale della “realtà oggettiva”, poiché ogni conoscenza è parziale, incastonata in uno specifico “contesto sociale”) e la distinzione tra condizioni socio-storiche e valore-di-verità intrinseco di un corpo di cono­ scenze (anche se una certa teoria è emersa all’interno di uno spe­ cifico contesto storico, questo contesto fornisce solo le condizioni esterne, che non diminuiscono, né minano in alcun modo la “verità oggettiva” delle sue proposizioni - ad esempio, benché, come tutti sanno, Darwin elaborò la sua teoria evoluzionista sotto lo stimolo dell’economia malthusiana, il darwinismo è tuttora considerato vero, mentre Malthus è, giustamente, semi-dimenticato). Come scrive in Storia e coscienza di classe, il problema con lo storicismo 150

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è che non è abbastanza “storicistico”: esso presuppone ancora il punto vuoto di un osservatore esterno per cui e da cui tutto ciò che accade viene relativizzato storicamente. Lukàcs supera questa relativizzazione storicistica portandola a compimento, ovvero inclu­ dendo nel processo storico il soggetto osservante stesso, mettendo così in crisi l’unità di misura sottratta al processo storico in base a cui ogni cosa viene relativizzata: il raggiungimento dell’autoco­ scienza di un soggetto rivoluzionario non è la comprensione del modo in cui la sua stessa posizione è relativizzata, condizionata da specifiche circostanze storiche, ma un atto pratico di intervento in queste “circostanze”.22 La teoria marxista descrive la società dal punto di vista impegnato nell’azione del suo cambiamento rivo­ luzionario e, perciò, trasforma il proprio oggetto (la classe ope­ raia) in un soggetto rivoluzionario - la descrizione neutrale della società è formalmente “falsa”, poiché essa implica l’accettazione dell’ordine esistente. Invece di “relativizzare” la verità della cono­ scenza, la coscienza del suo incastonamento in una costellazione concreta - e, perciò, del suo carattere impegnato, parziale - è la condizione positiva della sua verità. E qui sta il grande risultato del presente manoscritto: in Chvostismus und Dialektik, Lukàcs si muove su un registro che tenta di contrapporsi ai possibili fraintendimenti delle sue tesi fondamentali, nel modo in cui erano state esposte in Storia e coscienza di classe; non solo contro il suo obiettivo più ovvio, l’emergente ortodossia sovietica pseudo-leninista che fu in seguito santificata nella forma del “marxismo-leninismo” stalinista, ma - cosa ancor più importante per noi oggi - esso si volge contro la già menzio­ nata ricezione, predominante in Occidente, di Storia e coscienza di classe come di un testo basato sul tema oggi di moda della

22 La stessa critica potrebbe essere mossa a proposito della teoria di Richard Rorty, in base alla quale non c’è alcuna verità oggettiva, ma solo una moltitudine di (più o meno efficaci) storie che ci riguardano e che noi narriamo a noi stessi: il problema con que­ sta teoria non è che essa è troppo relativistica, ma che non lo è abbastanza in modo tipicamente liberale, Rorty continua a presupporre una cornice neutrale di regole non relative (rispetto per la sofferenza altrui etc.) che ognuno dovrebbe rispettare quando si impegna nel proprio idiosincratico stile di vita, una cornice che garantisce la tollerabile co-esistenza di questi stili di vita.

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“reificazione”. Quando, in Chvostismus, Lukacs elabora in detta­ glio le note critiche che aveva rivolto di passaggio alla concezione engelsiana della “dialettica della natura” in Storia e coscienza di classe, chiarisce che la sua critica della “dialettica della natura” è parte della sua più fondamentale critica alla teoria del processo rivoluzionario come processo determinato da leggi e stadi “ogget­ tivi” di sviluppo storico. La polemica di Lukacs contro la “dia­ lettica della natura” non è perciò una polemica kantiana condotta da un punto di vista astratto-epistemologico (il fatto che l’idea di “dialettica della natura” non riconosca la “mediazione soggettiva” di ciò che appare come realtà naturale - cioè, della costituzione soggettiva di ciò che noi percepiamo come “realtà”), ma è, in ul­ tima istanza, una polemica politica: la “dialettica della natura” è problematica perché legittima la posizione che vede il processo rivoluzionario come qualcosa che obbedisce a “leggi oggetti ve”, non lasciando alcuno spazio per la contingenza radicale Aq\YAu­ genblick, per Yatto come intervento pratico irriducibile alla sue “condizioni oggettive”. E oggi, nell’era del trionfo mondiale della democrazia, quando (con alcune notevoli eccezioni come Alain Badiou) nes­ suno a sinistra osa mettere in dubbio le premesse della politica democratica, è più che mai urgente tenere a mente l’ammoni­ mento di Lukacs nella sua polemica contro la critica di Rosa Luxemburg a Lenin: la posizione autenticamente rivoluziona­ ria che si affida alla contingenza radicale del YAugenblick non deve fare affidamento sulla usuale opposizione tra “democrazia” e “dittatura” o “terrore”. Il primo passo da fare, se vogliamo lasciarci alle spalle l’opposizione tra universalismo liberaldemocratico e fondamentalismo etnico/religioso, su cui si concentra­ no anche i mass media di oggi, è di riconoscere l’esistenza di ciò che si è tentati di chiamare “fondamentalismo democratico”: l’ontologizzazione della democrazia in una struttura universale depoliticizzata che non può essere essa stessa (ri)messa in di­ scussione in quanto risultato di lotte egemoniche politico-ideo­ logiche. Lukacs è ben conscio che la definizione di “dittatura del proletariato” come “regola democratica della maggioranza della classe operaia, diretta contro la cerchia ristretta delle ex classi dominanti” è un gioco di prestigio che semplifica la realtà: 152

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i bolscevichi, naturalmente, hanno spesso rotto le “regole del gioco” democratico, abbiamo effettivamente fatto esperienza del “terrore rosso” bolscevico. La democrazia come forma della politica di stato è intrin­ secamente “popperiana”: il criterio definitivo per definire la de­ mocrazia è la “falsificabilità” del regime, ovvero, il fatto che una procedura pubblica chiaramente definita (il voto popolare) possa stabilire che il regime non è più legittimato e deve essere rim­ piazzato da un’altra forza politica. Il problema non è se questa procedura sia “giusta”, quanto piuttosto che tutti i partiti coin­ volti si trovino preliminarmente e senza ambiguità d’accordo su di essa, a prescindere dal fatto che essa sia “giusta” o meno. Nel­ le loro consuete procedure di ricatto ideologico, i difensori della democrazia di stato affermano che il momento in cui abbando­ nassimo questa caratteristica, entreremmo nella sfera “totalita­ ria” in cui il regime è “non-falsificabile”, cioè, esso impedirebbe per sempre la situazione in cui possa aver luogo una sua eviden­ te “falsificazione”: qualsiasi cosa accada, anche se a migliaia manifestano contro il regime, il regime continua a sostenere di essere legittimo, che esso serve i veri interessi del popolo, che il popolo “vero” lo sostiene, ecc. Ora, noi dobbiamo rifiutare que­ sto ricatto (come fa Lukacs à propos di Rosa Luxemburg): non ci sono “regole (procedurali) democratiche” che è a priori proibito violare. La politica rivoluzionaria non è questione di “opinioni”, ma della verità in nome della quale si è spesso costretti a non tener conto della “opinione della maggioranza” e di imporre la volontà rivoluzionaria contro di essa. Ai tempi difficili dell’intervento straniero e della guerra ci­ vile dopo la Rivoluzione d’ottobre, Trotsky ammise apertamen­ te che il governo bolscevico era a volte pronto ad agire contro l’opinione fattuale della maggioranza - non in nome del possesso privilegiato della “comprensione della verità oggettiva”, ma in nome della stessa tensione “soggettiva” tra la fedeltà all’Evento Rivoluzionario e la ritirata opportunistica da esso, tensione che è intrinseca al processo rivoluzionario stesso. (E significativo il fatto che benché lo stalinismo fosse, da un punto di vista fattuale, una dittatura molto più violenta, esso non avrebbe mai ammesso di agire apertamente contro l’opinione della maggioranza - esso 153

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si aggrappava al feticcio del Popolo di cui il Leader esprime la vera Volontà). L’eredità politica di Lukàcs è perciò l’affermazione della volontà rivoluzionaria incondizionata, spietata, pronta ad “anda­ re fino in fondo”, a prendere effettivamente il potere e mettere in crisi la totalità esistente; la sua scommessa è che l’alternati­ va tra ribellione autentica e la sua successiva “ossificazione” in un nuovo ordine non dice tutto; in altri termini, essa afferma che l’entusiasmo rivoluzionario dovrebbe correre il rischio di tradurre il proprio scoppio in un nuovo ordine. Lenin aveva ragione: dopo la rivoluzione, la disgregazione anarchica della costrizione disci­ plinante della produzione deve essere sostituita da una disciplina ancora più forte. Una tale affermazione è interamente opposta alla celebrazione “postmoderna” della “rivolta” buona contrapposta alla “rivoluzione” cattiva o, in termini oggi più di moda, dell’en­ tusiasmo della moltitudine dei “siti di resistenza” marginali contro ogni tentativo reale di attaccare la totalità stessa (vedi l’appropria­ zione depoliticizzante operata dai mass media rispetto agli eventi del Maggio Sessantotto visti come “un’esplosione di creatività spontanea giovanile contro la società di massa burocratizzata”).23 Come Alain Badiou sottolinea ripetutamente, un Evento è cosa fragile e rara - così, invece di concentrasi meramente su “come è stato possibile che la Rivoluzione d’ottobre si trasfor­ masse nel termidoro stalinista”, dovremmo forse rovesciare la questione: il rinnegamento termidoriano dell’Evento, la passiva successione nel corso delle cose, è ciò che appare “naturale” al­ l’animale umano? La grande domanda è piuttosto quella opposta:

23 Cfr., come esemplificative di questa posizione, le affermazioni della Kristeva: «oggi la parola “rivolta” è stata assimilata a “rivoluzione”, all’azione politica. Gli eventi del XX secolo, comunque, ci hanno mostrato che le “rivolte” politiche - le rivoluzioni - alla fine hanno tradito la rivolta, specialmente il senso psichico del termine. Perché? Perché la rivolta, per come la intendo io - la rivolta psichica, la rivolta analitica, la rivol­ ta artistica - si riferisce a uno stato di permanente messa in discussione, trasformazione, cambiamento, di infinita messa alla prova delle apparenze. Se guardiamo la storia delle rivolte politiche, vediamo che il processo di messa in discussione è cessato [...] nel caso della Rivoluzione russa, una rivoluzione che divenne incredibilmente dogmatica quando cessò di mettere in discussione i propri ideali finché alla fine non degenerò nel totalitarismo» (Julia Kristeva, The Necessity o f Revolt, in Trans, 5, 1998, p. 125).

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come è possibile che, qualche volta, abbia luogo il miracolo im­ possibile dell’Evento e lasci tracce nel lavoro paziente di coloro che gli rimangono fedeli? Perciò il punto non è di “sviluppare ulteriormente” Lukacs in accordo con le “domande dei tempi nuovi” (il gran motto di tutto l’opportunismo revisionista, fino al New Labour), ma di ripetere Γ Evento sotto nuove condizioni. Siamo noi stessi ancora in grado di immaginare un momento storico in cui termini come “tradito­ re revisionista” non erano ancora parte del mantra stalinista ma esprimevano una visione autenticamente impegnata nell’azione? In altre parole, la domanda da porre à propos di quell’Evento uni­ co costituito dal primo Lukacs marxista non è “in che rapporto sta la sua opera con la costellazione attuale? È ancora viva?” ma, per parafrasare il noto rovesciamento che Adorno fece della paterna­ listica domanda storicistica di Croce: «cosa è vivo e cosa è morto della dialettica di Hegel» (il titolo della sua opera principale):24 in che rapporto siamo noi oggi rispetto a - agli occhi di - Lukacs? Siamo ancora in grado di porre adeguatamente in essere Vatto, come descritto da Lukacs? Quale agente sociale, in base alla pro­ pria dislocazione radicale, è in grado oggi di realizzarlo?

Slavoj Zizek

24 Cfr. Theodor W. Adorno, Tre studi su Hegel, Il Mulino, Bologna, 1971, p. 29.

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cronologia e opere

cronologia e opere a cura di Marco Maurizi

Breve nota bibliografica L’edizione critica delle opere originali di Lukàcs è la seguente: Lukàcs, Georg. Werke, Neuwied; Berlin: Luchterhand. Di seguito, le opere di Lukàcs in traduzione italiana: Marxismo, filosofìa, politica

Cultura e rivoluzione: saggi 1919-1921, Newton Compton, Roma 1975. La distruzione della ragione, Einaudi, Torino 1959. Esistenzialismo o marxismo?, Acquaviva 1995. Il giovane Marx, Editori Riuniti, Roma 1978. Kommunismus, 1920-1921, Marsilio, Padova 1972. Intellettuali e irrazionalismo, ETS, Pisa 1984. ^ Lenin: unità e coerenza del suo pensiero, Einaudi, Torino 1970. La lotta fra progresso e reazione nella cultura d'oggi, Feltrinelli, Milano 1957. Marxismo e politica culturale, Il saggiatore, Milano 1972. Il marxismo nella coesistenza, Editori riuniti, Roma 1968. Ontologia dell’essere sociale, Editori Riuniti, Roma 1976. Scritti politici giovanili 1919-1928, Laterza, Bari 1972. Storia e coscienza di classe, SugarCo, Milano 1991. La responsabilita sociale del filosofo , Maria Pacini Fazzi editore, Lucca 1989. L ’uomo e la democrazia, Lucarini, Roma 1987. Scritti premarxisti

L'anima e le forme , SugarCo, Milano 1963. 159

■cronologia e opere

Estetica di Heidelberg (1916-1918% SugarCo, Milano 1971. Filosofìa dell’arte (1912-1914), SugarCo, Milano 1971. Teoria del romanzo, SugarCo, Milano 1962. Estetica

Arte e società: scritti scelti di estetica, Editori riuniti, Roma 1972. Arte, filosofia, polìtica , antologia a cura di Elio Matassi, Le Monnier, Firenze 1982. Breve storia della letteratura tedesca: dal Settecento a oggi, Ei­ naudi, Torino 1956. Contributi alla storia dell’estetica, Feltrinelli, Milano 1957. Cultura estetica, Newton compton, Roma 1977. Dostoevskij, SE, 2000. Il dramma moderno, SugarCo, Milano 1976. Estetica, Einaudi, Torino 1970. La genesi della tragedia borghese da Lessing a Ibsen, SugarCo, Milano 1977. Goethe e il suo tempo, Mondadori, Milano 1949. La letteratura sovietica, Editori riuniti, Roma 1955. Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino 1953. Prolegomeni a un ’estetica marxista: sulla categoria della parti­ colarità, Editori Riuniti, Roma 1971. Realisti tedeschi del XIX secolo, Feltrinelli, Milano 1963. Il romanzo storico, Einaudi, Torino 1965. Saggi sul realismo, Einaudi, Torino 1950. Scritti di sociologia della letteratura, SugarCo, Milano 1964. Studi sul Faust, SE, 2006. Scritti sul romance, Aesthetica, Palermo 1995. Il significato attuale del realismo critico, Einaudi, Torino 1957. Thomas Mann e la tragedia dell’arte moderna, Feltrinelli, Milano 1956. Interviste, diari, opere a carattere autobiografico

Conversazioni con Hans Heinz Holz, Leo Kofler, Wolfgang Abendroth, De Donato, Bari 1968. 160

Diario (1910-1911), Adelphi, Milano 1983. Epistolario 1902-1917, Editori riuniti, Roma 1984. Pensiero vissuto. Autobiografìa in forma di dialogo, Editori riu­ niti, Roma 1983. Alcune opere di orientamento al pensiero di Lukacs Amodio Luciano, Commentario al primo Lukàcs, Quattro venti, Urbino 1980. Bedeschi Giuseppe, Introduzione a Lukàcs, Laterza, Bari 1970. Boella Laura, Il giovane Lukàcs. La formazione intellettuale e la filosofìa politica 1907-1929, De Donato, Bari 1977. Bourdet Yvon, Lukàcs, il gesuita della rivoluzione, SugarCo, Mi­ lano 1979. Cases Cesare, Su Lukàcs: vicende di un ’interpretazione. Einaudi, Torino 1985. Gianazza Giampiero, Fecondità di Lukàcs, Sedizioni, Milano 2004. Lichtheim George, Guida a Lukàcs, Rizzoli, Milano 1978. Matassi Elio, Il giovane Lukàcs. Saggio e sistema, Guida, Napoli 1979. Oldrini Guido (a cura di), Il marxismo della maturità di Lukàcs, Prismi, Napoli 1983. Pastore Federico, Crisi della borghesia: marxismo occidentale e marxismo sovietico nel pensiero filosofico di G. Lukàcs, Marzo­ rati, Milano 1978. Pastore Federico, La conoscenza come azione. Saggi su Lukàcs, Milano 1980. Periini Tito, Utopia e prospettiva in Georg Lukàcs, Dedalo Libri, Bari 1968. Thibor Szabo, Georg Lukacs filosofo autonomo, La Città del Sole, Napoli 2006. Vacatello Marzio, Lukàcs da Storia e coscienza di classe al giudi­ zio sulla cultura borghese, La Nuova Italia, Firenze 1968.

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■cronologia e opere

Cronologìa della vita e delle opere 1885, il 13 aprile nasce a Budapest da una ricca famiglia ebrea Löwinger Georg Bernât. Il padre è il banchiere József Löwinger, la madre è Adele Wertheimer. Compie i primi studi e frequenta l’università di Budapest. È membro di diversi gruppi socialisti, fa la conoscenza deiranarcosindacalista Ervin Szabó e legge le opere di Georges Sorel. 1904, mostra interesse per il teatro. Si associa ad un gruppo teatrale che mette in scena opere di Ibsen, Strindberg e Hauptmann. Assie­ me a S. Hevesi e L. Banoczy darà vita nel 1908 a un teatro libero. 1906, si laurea a Budapest. 1909, è a Berlino, dove conosce Georg Simmel. 1910, scrive la sua prima raccolta di saggi: L ’anima e le forme. 1911, scrive Storia dello sviluppo del dramma moderno, scritto premiato l’anno successivo. 1913, si trasferisce ad Heidelberg dove viene influenzato dal neocriticismo e dallo storicismo. Segue le lezioni di Rickert. Diviene amico di M. Weber, E. Bloch, F. Gundolf e S. George. Continua ad occuparsi di filosofia dell’arte; le riflessioni di questo periodo (la cosiddetta “estetica di Heidelberg”) verranno pubblicate postume (Heidelberger Philosophie der Kunst (1912-14) - Heidelberger Ästhetik (1916-18), Darmstadt-Neuwied 1974/75. tr. it. Filosofia delVarte (1912-14) - Estetica di Heidelberg (1916-18), Milano 1973/74). 1915, ritorna a Budapest e diviene centro di attrazione di un cir­ colo culturale, chiamato Circolo della domenica o, anche, Circolo Lukacs, cui partecipano, tra gli altri, Karl Mannheim, Béla Bartók, Béla Balàzs e Karl Polanyi. 1916, sulla Zeitschrift für Ästhetik und allgemeine Kunstwissen162

schaft esce La teoria del romanzo, pubblicata in volume a Berlino nel 1920. 1918, la crisi ideale suscitata dalla prima guerra mondiale culmina nell’avvicinamento al marxismo e nell’iscrizione al Partito comu­ nista ungherese. 1919, partecipa alla Repubblica ungherese dei consigli come com­ missario del popolo per l’istruzione e commissario politico della V Divisione dell’Armata rossa ungherese. Dopo la caduta della Repubblica fu una delle vittime designate del terrore bianco. Con­ dannato a morte dal dittatore Horthy, fu costretto a rifugiarsi a Vienna e poi a Berlino. Arrestato, viene salvato grazie all’inter­ vento di un gruppo di scrittori tra cui Heinrich e Thomas Mann. Diventa redattore della rivista Kommunismus, l’organo della cor­ rente ultrasinistra della III Intemazionale. Tra gli interventi di que­ sto periodo: Tattica ed etica e La questione del parlamentarismo che venne fortemente criticato da Lenin. 1921, si schiera con la tendenza di Eugen Landler, entrando in aperto dissidio con la direzione di Béla Kun. 1923, pubblica Storia e coscienza di classe. Dopo una prima acco­ glienza favorevole, il libro riceve severe stroncature su Arbeiterli­ teratur da Abraham Deborin e Laszló Rudas. 1924, pubblica il breve saggio su Lenin. In luglio, durante il V Congresso del Comintem, viene violentemente attaccato (assieme a Karl Korsch e altri) da Zinoviev e ufficialmente scomunicato. 1925, scrive una recensione molto critica del Manuale popolare di sociologia marxista di Nikolai Bukharin. 1926, a Lipsia esce il suo Moses Hess e il propìema della dialetti­ ca idealistica. Il Partito comunista ungherese con capo a Béla Kun mostra una totale sottomissione alle direttive di Mosca. Lukàcs si schiera con l’ala sinistra ma non si unisce all’opposizione di Trotsky, forse anche per il sodalizio che questi ha ora stretto con Zinoviev. 163

■cronologia e opere

1928, alla morte di Landler è nominato per breve tempo segretario del partito. Pubblica le cosiddette “Tesi di Blum” in cui formula il concetto di “dittatura democratica” per rovesciare il regime di Horthy. Lukacs sostiene la necessità di un’alleanza con le forze socialiste in funzione antifascista e come fase di transizione verso la dittatura del proletariato. Le tesi - in aperto dissidio con la re­ torica allora imperante della lotta al “socialfascismo” - vengono rigettate e Lukacs, per non essere espulso dal Partito, pubblica una severa autocritica. 1929, si reca a Berlino. 1930-31, collabora con l’istituto Marx-Engels di Mosca. 1932-33, toma a Berlino per dare il proprio contributo agli sfor­ zi degli intellettuali antifascisti contro l’avanza inarrestabile del nazismo. All’avvento al potere di Hitler è costretto a riparare a Mosca. Inizia un periodo di avvicinamento allo stalinismo, visto come unica praticabile via per uscire dalla crisi intemazionale. 1945, toma a Budapest e prende attivamente parte alla vita politi­ ca e intellettuale del suo Paese. Diviene membro dell’Accademia ungherese delle scienze. Pubblica Balzac, Stendhal, Zola e La let­

teratura tedesca durante Γimperialismo. 1946, diviene membro del parlamento. Pubblica Goethe e il suo tempo e Nietzsche e ilfascismo. In questo periodo comincia la sua carriera di critico “ufficiale” delle posizioni non-comuniste, collaborando alla rimozione dall’incarico di intellettuali come Béla Hamvas, Istvan Bibó, Lajos Prohaszka e Kàroly Kerényi. 1947, pubblica II romanzo storico, Thomas Mann e lo scritto po­ lemico Existentialisme ou marxisme? 1948, è professore di Estetica e Filosofia della Cultura all’Università di Budapest. Pubblica II giovane Hegel e i problemi della società capitalistica e Karl Marx e Friedrich Engels come storici della letteratura (tr. it. Il marxismo e la critica letteraria). 164

1949, le posizioni non totalmente integrate di Lukàcs in favore della “tolleranza culturale” in seno al partito e nella vita intellettuale gli val­ gono una nuova scomunica, questa volta da parte di Màtyàs Rakosi. 1951, pubblica Realisti tedeschi del XIX secolo. 1952, pubblica Balzac e il realismo francese. 1953, pubblica gli Schizzi di una storia della letteratura tedesca moderna (tr. it. Breve storia della letteratura tedesca dal Settecen­ to a oggi), Il realismo russo nella letteratura mondiale e i Contri­ buti alla storia dell ’estetica. 1954, appare La distruzione della ragione che suscita vaste pole­ miche per il modo in cui descrive l’involuzione della filosofia bor­ ghese a partire dal 1848 e i suoi legami ideologici con il nazismo. Sulla Deutsche Zeitschrift fü r Philosophie appare il primo di una serie di contributi intitolati Sulla categoria della particolarità. 1955, reintegrato nella vita di partito, la sua figura viene strumen­ talizzata in occasione delle purghe in seno all’Associazione degli Scrittori nel 1955/56. Sembra, tuttavia, che la posizione di Lukàcs contro tali provvedimenti fosse fortemente polemica. 1956, ricopre la carica di ministro della cultura nel governo Imre Nagy e diviene figura di primo piano nella rivolta ungherese che si oppone all’Urss. Lukàcs sostiene la necessità di una coalizione di governo con i socialisti, presenzia i dibattiti anti-partito del gruppo comunista rivoluzionario Petöfi e partecipa alla rifondazione del Partito comunista ungherese. La fine dell’esperienza ungherese mette a repentaglio la vita di Lukàcs: Jànos Kàdàr lo fa deportare in Romania assieme al resto del governo Nagy. 1957, termina il confino politico. Tornato a Budapest, Lukàcs si ritrova totalmente isolato, privo di potere e appoggio politico: abiura pubblicamente le posizioni del ’56 e toma ad occuparsi di critica letteraria. Esce in anteprima in italiano II significato attuale

del realismo critico. 165

■cronologia e opere

1961, pubblica la raccolta: Scritti per la sociologia della lettera­ tura. 1963, pubblica l’opera monumentale Estetica. 1965, esce II giovane Marx. 1967, pubblica la raccolta Scritti su ideologia e politica. 1968, durante la rivolta in Cecoslovacchia Lukàcs critica FUrss e il Partito comunista ungherese. 1969, Pubblica i Problemi di Estetica. 1970, Pubblica la raccolta Marxismo e stalinismo e il saggio Solschenizyn. 1971, muore a Budapest il 4 giugno. Postuma esce l’importante Ontologia dell’essere sociale.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2007 da Spedalgraf Stampa, Roma

Georg Lukacs nacque in Ungheria nel 1885 e morì nel 1971. Tra i pensatori marxisti piìi fa­ mosi a livello m ondiale, è stato descritto come “il filosofo della Rivoluzione d’O tto b re”. La sua opera più celebre, Storia e coscienza di clas­

se (1923) è considerata com unem ente come il testo di fondazione della tradizione detta del “marxismo occidentale”, che include le opere di T heodor W. A dorno, W alter Benjamin, Ernst Bloch, Max H orkheim er e H erbert Marcuse.

Slavoj Zizek è un filosofo di origine slovena conosciuto a livello internazionale. L p ro ­ fessore all’U niversità di Ljubljana. Ira le sue opere trad o tte in italiano: Benvenuti ne! de­

serto del reale. Cinque saggi su ll! 1 settembre e date simili (M eltem i, R om a 2 002), tredi­ ci volte Lenin. Per sovvertire il falli mento de! presente (Feltrinelli, M ilano 2003), Il soletto scabroso. Trattato di ontologia politica ( IvaI faello C o rtin a, M ilano 2 003), ( '.antro / diritti umani (Il Saggiatore, M ilano 2000). Marco Maurizi è assegnista di rk v n a in l i losofia presso ΓUniversità di Bergamo. Si